MISTAGOGIA
DELLA LITURGIA EUCARISTICA
Piano dell’opera
volume i
Entrare nei misteri di Cristo.
Mistagogia della liturgia eucaristica
attraverso i testi dei padri greci e bizantini
volume ii
Un solo corpo.
Mistagogia della liturgia eucaristica
attraverso i testi dei padri latini
EDIZIONI QIQAJON
COMUNITÀ DI BOSE
TĴ ĕn CristĴ ăgaphtĴ
p. ’IakẃbJ,
eı̆j prógeusin toû koinoû pothrı́ou
PREFAZIONE
“Capite quello che ho fatto per voi?” (Gv 13,12). Con questa
domanda rivolta ai discepoli Gesù chiude il gesto della lavanda dei
piedi compiuto durante la cena pasquale nella notte in cui fu tra-
dito. Un gesto talmente forte ed emblematico, che l’evangelista
Giovanni – presente a quel pasto di veglia pasquale – lo narra al
posto delle parole pronunciate da Gesù sul pane e sul vino e dive-
nute fondanti per il sacramento dell’eucarestia. Ma proprio per la
sua emblematicità il gesto va “capito” in profondità, letto e inter-
pretato alla luce della parola di Dio e di tutto l’agire di Gesù, pa-
rola fatta carne. Così è Gesù stesso che, per spiegarlo, lo traduce in
azioni che non più lui ma i suoi discepoli devono compiere: “Se io,
il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete la-
vare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché
anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi
dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più
grande di chi lo ha mandato”. (Gv 13,13-16). Sì, perché il “sapere”,
il capire è inscindibilmente legato con l’agire di conseguenza: “Sa-
pendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17).
In questo racconto evangelico abbiamo come il prototipo della
mistagogia cristiana, di quell’arte catechetica che spiega ai fedeli i
gesti compiuti nella liturgia, che pone in relazione la liturgia con la
parola di Dio e questa con la vita del singolo credente e dell’intera
comunità cristiana. Per i padri della chiesa la celebrazione del “mi-
stero” dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Signore
non deve infatti avere nulla di “misterioso”, nulla di magico: la ce-
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Prefazione
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Prefazione
Enzo Bianchi
priore di Bose
9
INTRODUZIONE
Gustate e vedete
com’è buono il Signore!
Sal 33,9a
che occidentali (cf. ad esempio Atanasio di Alessandria, Esposizioni sui Salmi 33,9;
Teodoreto di Cirro, Commento ai Salmi 33,9; Ambrogio di Milano, Sui misteri 9,58), il
primo emistichio di Sal 33,9 (lxx) è stato interpretato dai padri in chiave eucaristica
almeno a partire dalla fine del iv secolo (cf. I Padri commentano il Salterio della Tradi-
zione, a cura di J.-C. Nesmy, Gribaudi, Torino 1993, p. 149) e in alcuni casi è stato in-
tegrato nei rituali liturgici come canto di comunione (cf. R. F. Taft, A History of the
Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites, Pio, Roma 2000, pp. 275-276,
e infra, c. XIII,α.17).
11
Introduzione
12
Introduzione
3 Tale scomparsa è comunque pur sempre progressiva, perché, come nota V. Saxer,
si possono trovare catechesi o omelie sparse assimilabili al genere mistagogico fino al-
meno al vi secolo (cf. V. Saxer, “Introduzione”, in Cirillo e Giovanni di Gerusalem-
me, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, Paoline, Milano 1994, p. 46).
4 Sulla continuità e l’evoluzione tra mistagogia antica e commenti bizantini alla di-
vina liturgia, cf. lo studio classico di R. Bornert, Les commentaires byzantins de la divi-
ne liturgie du VIIe au XVe siècle, Institut Français d’Études Byzantines, Paris 1966, pp.
13
Introduzione
l’antichità a partire dalle fonti antiche, si vedano J. Daniélou, Bibbia e liturgia. La teo-
14
Introduzione
logia biblica dei sacramenti e delle feste secondo i padri della chiesa, Vita e Pensiero, Mi-
lano 1958 (ancora fondamentale per quanto datato); V. Saxer, Les rites de l’initiation
chrétienne du IIe au Ve siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux té-
moins, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 19922; G. Cavallotto, Ca-
tecumenato cristiano. Diventare cristiani secondo i padri, Edb, Bologna 1996. Sul tema
cf. anche il volume antologico L’iniziazione cristiana. Testi patristici, a cura di A. Ham-
man, Marietti, Casale Monferrato 1982.
8 Nei primi secoli il battesimo poteva essere amministrato in qualunque momento
dell’anno: solo a partire dal iv secolo si affermò la preferenza per la festa della Pasqua,
anche se nella chiesa di Costantinopoli rimase viva la tradizione di celebrare i battesi-
mi in occasione della festa dell’Epifania del 6 gennaio, nella quale si faceva memoria
del battesimo di Cristo.
9 Ad accrescere il disimpegno dei catecumeni si aggiunse in questo periodo l’abitu-
dine diffusa di prolungare sine die il catecumenato, procrastinando il battesimo fino ri-
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
10 Sui vari significati del termine mystagoghía, del verbo corrispondente mystago-
ghéo e degli altri termini connessi alla stessa etimologia, cf. R. Bornert, Les commen-
taires byzantins, pp. 29-31, n. 1; Ph. de Roten, Baptême et mystagogie. Enquête sur l’i-
nitiation chrétienne selon s. Jean Chrysostome, Aschendorff, Münster 2005, pp. 47-69,
che nota come “vi sia stata la tendenza a credere che il vocabolario ‘mistagogico’ de-
signasse principalmente un ‘discorso’ sui misteri, senza rendersi conto della comples-
sità di questo termine in quest’epoca” (p. 48) e aggiunge, in riferimento ai padri del iv
secolo, che “se la catechesi può essere chiamata all’occorrenza mistagogia, essa non è
la mistagogia, ma è ciò che fa riconoscere nel battesimo e nell’eucaristia la mistagogia
per eccellenza” (p. 62). In proposito occorre tener presente che, se è pur vero che nel-
la seconda metà del iv secolo il termine “misteri” (mystéria) comincia ormai a essere
utilizzato non soltanto per i misteri dell’economia della salvezza in generale, ma anche
in senso liturgico-rituale per designare i “misteri sacramentali”, il primo significato
resta comunque primario (almeno dal punto di vista dell’assiologia teologica): i sacra-
menti, e soprattutto l’eucaristia, possono essere designati come misteri proprio in
quanto sono la celebrazione dei misteri di Cristo. Questo permette di comprendere
che quando i padri parlano di “mistagogia”, ossia di “introduzione ai misteri”, essi
pensano innanzitutto a un’azione che introduce ai misteri dell’economia di salvezza; e
la catechesi è “mistagogica” proprio in quanto introduce ai misteri salvifici attraverso
i misteri sacramentali, che già di per sé realizzano questa stessa azione. Del resto, che
la catechesi mistagogica non fosse una semplice introduzione ai misteri sacramentali è
evidente dal semplice fatto che essa ordinariamente non precedeva ma seguiva l’azio-
ne sacramentale.
11 In alcuni casi le catechesi sui riti battesimali potevano essere anticipate (come te-
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Introduzione
scovo.
13 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali 18,33.
14 Quest’aspetto è ben sottolineato da T. Federici, “La mistagogia nella chiesa”, in
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25 A. G. Hamman, “La messe et sa catéchèse chez les Pères de l’Église”, in Id., Étu-
quale essa elabora l’intelligenza del mistero” (E. Mazza, La mistagogia. Una teologia
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Introduzione
della liturgia in epoca patristica, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 1988, p. 15; cf. anche
D. Sartore, s. v. “Mistagogia”, in Liturgia, a cura di D. Sartore, A. M. Triacca e C. Ci-
bien, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 1209-1210), un metodo essenzialmente
basato sulla tipologia biblica applicata alla liturgia. In questa sede, anche in ragione
dell’estensione del concetto di “testi mistagogici” da noi adottato, preferiamo parlare
in modo meno rigido di varie dimensioni dell’approccio mistagogico, tra le quali la ti-
pologia biblica occupa uno spazio certo rilevante, ma non esclusivo.
27 G. Frank, “L’eucharistie et la mémoire sensorielle selon Jean Chrysostome”, in
Pratiques de l’eucharistie dans les Églises d’Orient et d’Occident (Antiquité et Moyen Âge),
I. L’institution, a cura di N. Bériou, B. Caseau e D. Rigaux, Institut d’Études Augu-
stiniennes, Paris 2009, p. 772.
28 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,4: “Se tu fossi incorporeo, ti
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Introduzione
29 Cf. A. Paulin, Saint Cyrille de Jérusalem catéchète, Cerf, Paris 1959, pp. 205 ss. Si
to che si incontra anche nei commenti più tardi: è tipica soprattutto dello stile di Ni-
cola Cabasilas, anche in questo degno erede dei grandi mistagoghi del iv-v secolo (cf. ad
esempio Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 1,12-14).
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Introduzione
Uno dei modi più frequenti utilizzati dai padri per interpre-
tare i riti eucaristici è il ricorso alla cosiddetta tipologia bibli-
ca, cioè a quel metodo che, già impiegato dagli autori del Nuo-
vo Testamento per interpretare le antiche Scritture di Israe-
le, permette di vedere nelle realtà dell’antica alleanza i “tipi”
o “prefigurazioni” dei misteri della nuova. Vediamo così i pa-
dri fare riferimento di volta in volta all’offerta di Melkisedek,
alla manna del deserto, ai pani della proposizione, all’agnello pas-
quale, all’oblazione pura del profeta Malachia, al carbone ar-
dente del profeta Isaia o al banchetto della Sapienza, come a
realtà che preannunciano profeticamente l’eucaristia e che ri-
cevono piena luce da essa31. Uno spazio del tutto speciale occu-
pa il libro dei salmi, grazie soprattutto ad alcuni versetti che di-
ventano particolarmente cari ai padri per la loro capacità di evo-
care in modo sintetico la realtà del mistero eucaristico, come ad
esempio il salmo 22,5: “Davanti a me tu prepari una mensa…”
o il già citato salmo 33,9: “Gustate e vedete com’è buono il Si-
gnore”. Ma i riferimenti biblici utilizzati dai padri per inter-
pretare l’eucaristia non si limitano alle Scritture dell’Antico Te-
stamento: vi sono anche prefigurazioni eucaristiche individua-
te nel Nuovo Testamento (ad esempio la moltiplicazione dei
pani, il sangue e l’acqua che escono dal costato di Cristo)32 e
spesso i singoli riti che costituiscono la celebrazione eucaristi-
ca vengono intesi come immagini e imitazioni di eventi o di azio-
ni della vita storica di Cristo, con particolare predilezione, co-
me è facile intuire, per gli eventi della sua passione, morte e re-
surrezione.
31 Sul tema cf. J. Daniélou, Bibbia e liturgia, pp. 189-214 (“Le figure dell’eucari-
27
Introduzione
Dimensione cristologico-sacramentale
li, e anche di quali sono i passi più frequentemente citati, consultando l’“Indice bibli-
co” collocato al termine del volume (cf. infra, pp. 595-607).
33 La tendenza propriamente allegorica nell’interpretazione dell’eucaristia affonda
le sue radici in Origene: nei commenti bizantini alla divina liturgia essa viene per lo
più riletta alla luce dei principi dell’esegesi antiochena e, seguendo la traccia già aper-
ta da Teodoro di Mopsuestia, collegata agli eventi storici della vita di Cristo (ad esem-
pio Germano di Costantinopoli e Nicola Cabasilas). Per l’impostazione dei singoli au-
tori rimandiamo alle sintesi contenute nelle “Notizie sugli autori e i testi” in coda al
volume (cf. infra, pp. 569-593), e più in generale al libro già spesso citato di R. Bornert,
Les commentaires byzantins. Sul difficile equilibrio tra allegorismo e realismo sacramen-
tale nell’interpretazione della liturgia eucaristica, cf. G. Wagner, “Réalisme et symboli-
sme dans l’explication de la Liturgie”, in Id., La liturgie, expérience de l’Églises. Études
liturgiques, Presses Saint-Serge-Institut de théologie orthodoxe, Paris 2003, pp. 181-190.
34 R. Bornert, Les commentaires byzantins, p. 269. Per una valutazione del significa-
to e delle potenzialità spirituali del metodo allegorico applicato alla liturgia, cf. anche
R. F. Taft, Liturgia. Modello di preghiera, icona di vita, Lipa, Roma 2009, pp. 86-102.
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Introduzione
Dimensione ecclesiologica
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Introduzione
Dimensione anagogico-escatologica
35 Per l’uso di quest’immagine, tratta da Gen 2,23, cf. infra, cc. XII,22; XIII,38.42.
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Introduzione
Dimensione morale
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Introduzione
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Introduzione
bizantini (che dei primi sono gli eredi diretti)39 hanno compre-
so il sacramento dell’eucaristia, in tutti i suoi molteplici aspetti
– liturgico, teologico, spirituale, morale –, facendo uso di quel-
lo che abbiamo chiamato approccio mistagogico. A tale scopo ab-
biamo scelto di organizzare la materia in quattordici capitoli te-
matici dedicati ai vari momenti della celebrazione eucaristica,
seguendo come schema di riferimento sia l’ordo della cosiddet-
ta “Liturgia clementina” del libro viii delle Costituzioni aposto-
liche – il più antico ordo completo della celebrazione eucaristi-
ca, in cui sono già presenti molti caratteri della liturgia bizan-
tina successiva – sia quello delle liturgie bizantine di Giovanni
Crisostomo e di Basilio, secondo la recensione più antica (fine
viii-inizio ix secolo), che rappresentano la norma celebrativa per
tutto il periodo bizantino40.
In ogni capitolo si citano innanzitutto le parole della liturgia
che si riferiscono al momento o al gesto liturgico preso in esa-
me e poi, di seguito, si riportano i testi che commentano lo stes-
39 Del resto, come è stato giustamente notato, la chiesa ortodossa di tradizione bi-
zantina “non conosce una fine dell’era dei padri” (B. Petrà, La chiesa dei padri. Breve
introduzione all’Ortodossia, Edb, Bologna 20072, p. 29) paragonabile a quella avvenu-
ta e poi teorizzata in occidente: anche autori posteriori a quello che è considerato
“l’ultimo dei padri greci”, Giovanni di Damasco, possono essere (e sono stati di fatto)
considerati come padri a pieno titolo. Nello stesso senso si è espresso più di recente il
patriarca Bartolomeo I in Ecumenical Patriarch Bartholomew, Encountering the Mystery.
Understanding Orthodox Christianity Today, Doubleday, New York 2008, pp. 38-40.
40 Fino al x secolo il rituale eucaristico più utilizzato nella “grande chiesa” di Co-
stantinopoli era quello della Liturgia di Basilio, ma a partire dagli inizi dell’xi secolo,
forse in concomitanza con la diffusione della celebrazione eucaristica quotidiana ini-
ziata nei monasteri della capitale imperiale, la Liturgia di Giovanni Crisostomo diventò
la più celebrata, mentre la prima, più lunga e solenne, fu riservata alle domeniche di
quaresima e ad alcune feste dell’anno, prassi che rimane tuttora vigente nelle chiese
ortodosse: cf. sul tema S. Parenti, A oriente e occidente di Costantinopoli. Temi e proble-
mi liturgici di ieri e di oggi, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 27-47.
In generale sulla storia, sull’evoluzione e sulla composizione delle varie parti della li-
turgia eucaristica bizantina rimandiamo a H. Wybrew, The Orthodox Liturgy. The De-
velopment of the Eucharistic Liturgy in the Byzantine Rite, St Vladimir’s Seminary Press,
Crestwood Ny 1990; R. F. Taft, Oltre l’oriente e l’occidente. Per una tradizione liturgi-
ca viva, Lipa, Roma 1991, pp. 219-251; S. Rosso, La celebrazione della storia della sal-
vezza nel rito bizantino. Misteri sacramentali, feste e tempi liturgici, Libreria editrice vati-
cana, Città del Vaticano 2010, pp. 139 ss. (con ampia bibliografia recente).
33
Introduzione
Liturgia di Giovanni Crisostomo – quando non vi siano lacune nei formulari –, mentre
aggiungiamo quello della Liturgia di Basilio solo quando ci sembri fornire varianti o ag-
giunte significative rispetto alla Liturgia di Giovanni Crisostomo. Nel caso di lacune nei
formulari della recensione più antica della Liturgia di Giovanni Crisostomo (conservata
dall’Eucologio Barberini della fine dell’viii secolo), ricorriamo al testo più recente (b),
quello ancora utilizzato nelle celebrazioni odierne.
42 Tra i momenti e i riti liturgici abbiamo generalmente selezionato quelli che le
fonti indicano come più significativi e per i quali è stato possibile raccogliere un nume-
ro abbastanza vasto di commenti: sono stati trattati insieme quelli con significato simi-
le (ad esempio la preghiera dei fedeli e le intercessioni anaforiche), mentre si è scelto
di tralasciare sia le parti più recenti della liturgia commentate solo dagli autori tardi
(ad esempio il rito della próthesis o presentazione dei doni, introdotto verso il vii-viii
secolo) sia i momenti e i gesti liturgici che, anche se molto antichi e significativi in sé
hanno ricevuto scarsa attenzione da parte delle fonti. Entro questi limiti, uno spazio
particolare è stato dato a quei momenti o riti che trovano un parallelo stretto nella li-
turgia occidentale (ad esempio le varie parti dell’anafora). Attraverso l’indice tematico
posto alla fine al volume il lettore potrà reperire in modo trasversale i temi cui non è
stato possibile o non si è giudicato opportuno dedicare un capitolo specifico.
34
Introduzione
za viva e continua in mezzo alla sua chiesa. Per questo negli at-
teggiamenti richiesti dai padri per ascoltare la proclamazione del-
la Scrittura abbiamo già un abbozzo del contegno che i fedeli
devono tenere in tutto il corso della liturgia eucaristica.
Al termine della liturgia della Parola, inizia la celebrazione
eucaristica propriamente detta. Il primo rito su cui i padri ci
hanno lasciato commenti significativi è la presentazione dei do-
ni sull’altare da parte del ministro celebrante (c. III), gesto che
viene interpretato come l’offerta a Dio delle primizie della crea-
zione, un atto che per ciascuno dei credenti deve essere accom-
pagnato dalla condivisione dei beni con i poveri e concretizzar-
si quotidianamente nell’offerta totale della propria vita a Dio.
Segue il gesto dello scambio della pace (c. IV), che nelle litur-
gie orientali fa parte dei riti preparatori ed è collocato all’inizio
della liturgia eucaristica, e non prima della comunione come in
occidente. I padri sottolineano il valore profondo del bacio di pa-
ce, che deve unire le anime più che i corpi, e ricordano come la
pace e la riconciliazione siano condizione imprescindibile per la
celebrazione dell’eucaristia da parte della comunità cristiana.
I commenti mistagogici si fanno più puntuali a partire dall’i-
nizio dell’anafora eucaristica (c. V). Il dialogo che la apre, tra il
celebrante e l’assemblea, fornisce ai padri ampia materia d’inter-
pretazione: in queste brevi parole essi colgono l’invito a pren-
dere consapevolezza della presenza del Signore, ad assumere
un contegno adeguato e a innalzare il cuore a Dio distogliendo-
lo da ogni altro pensiero.
L’anafora prosegue con la preghiera di ringraziamento e di
lode pronunciata dal ministro celebrante a nome di tutta l’as-
semblea (c. VI): è l’eucharistía propriamente detta, che dà il no-
me all’intera celebrazione e che dai padri è presentata come il
coronamento e la sintesi di un’azione di grazie che deve perva-
dere l’intera vita del cristiano. Questa preghiera rivolta a Dio
Padre culmina nell’inno del “triplice santo” (c. VII), in cui l’as-
semblea imitando i cori celesti acclama la santità di Dio: per i
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
47 In questo senso, oltre che alla letteratura specialistica sulla materia, si è fatto vo-
lentieri riferimento a opere di teologi e di autori spirituali greci, e più in generale or-
todossi, per documentare la tradizione e l’interpretazione vivente della liturgia bizan-
tina, quale è ancora compresa oggi da coloro che la celebrano e la vivono. Si è avuto
tuttavia sempre cura di distinguere tra il significato originario dei testi e dei riti e gli
eventuali sviluppi delle interpretazioni successive.
40
Introduzione
41
NOTA EDITORIALE
43
Nota editoriale
44
È necessario imparare a conoscere il miracolo dei misteri:
in cosa consiste, perché ci è stato dato
e qual è la sua utilità.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni 46,2
Capitolo I
RIUNITI NEL NOME DI CRISTO
1 L’uso tecnico di questa espressione in riferimento alla comunità dei credenti rac-
colta “in unità” (non solo locale, ma anche spirituale) è di derivazione biblica (cf. Sal
132,1; At 1,15; 2,1.44.47; 1Cor 7,5; 11,20; 14,23) ed è largamente attestato nella let-
teratura patristica (cf. ad esempio Giustino, Apologia prima 67,3; Clemente di Roma,
Prima lettera ai Corinti 34,7; Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 5,2; Id., Lettera
ai Magnesii 7,1; Origene, Sulla preghiera 31,5).
2 Cf. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali 18,24: “Giustamente viene
chiamata ‘chiesa’ (ekklesía) poiché essa ‘chiama a sé’ (ekkaleîsthai) tutti e li raduna in-
sieme”.
3 Il termine greco sØnaxis, usato in oriente tra il iv e il vi secolo circa, ha sia un’ac-
47
Capitolo I
ta, che ne è un calco (cf. ad esempio Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche II,10,1;
III,11). Su questo termine cf. V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dal-
la storia alla teologia, alla pastorale pratica, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. 24.
4 J.-M. Tillard, Carne della chiesa, carne di Cristo. Alle sorgenti dell’ecclesiologia di
48
Riuniti nel nome di Cristo
quanto comunità eucaristica riunita attorno al vescovo che rappresenta Cristo (cf. I.
Zizioulas, L’essere ecclesiale, Qiqajon, Bose 2007, p. 158; e nello stesso senso H. de
Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1978, p. 23). L’e-
spressione katholikè ekklesía è attestata nei primi secoli anche per designare il luogo di
culto, la chiesa episcopale o la parrocchia principale, dove la comunità cristiana si ra-
dunava per celebrare l’eucaristia, in contrapposizione alle chiese o cappelle di impor-
tanza secondaria: cf. M. Giorda, Monachesimo e istituzioni ecclesiastiche in Egitto. Al-
cuni casi di interazione e di integrazione, Edb, Bologna 2010, pp. 37-38.
6 Cf. I. Zizioulas, Eucaristia e regno di Dio, pp. 23-25, 74.
7 Gregorio di Nissa, Omelie sull’Ecclesiaste 2,1.
49
Capitolo I
tuale che occupi solo in modo parziale e saltuario il tempo della vi-
ta. L’autentica liturgia cristiana è incessante e, come più volte emer-
gerà dalla lettura dei testi raccolti in questo libro, coinvolge l’offer-
ta dell’intera vita: Dio non ha alcun bisogno del culto dell’uomo,
ma è l’uomo che ha continuamente bisogno di attingere alla paro-
la divina e di celebrare il mistero della salvezza per essere intima-
mente trasformato dalla vita e dall’amore di Dio; ed è così che, se-
condo i padri, egli può realizzare la sua autentica umanità (cf. § 9).
Non è la celebrazione della domenica in sostituzione del sabato
ebraico a costituire il proprium del culto cristiano, ma il “vivere
secondo la domenica”, secondo la felice espressione di Ignazio di
Antiochia8, cioè il vivere in conformità al mistero celebrato nel gior-
no della resurrezione del Signore. Anche ai cristiani praticanti che
presumono di essere nel giusto i padri ricordano, contro ogni illu-
sione ritualistica, che la loro partecipazione alle sinassi comunita-
rie per essere autentica deve diventare un’occasione di crescita spi-
rituale e produrre frutti concreti e visibili nella vita quotidiana, al-
trimenti rischia di essere del tutto vana (cf. § 17), perché, come dice
il Signore nell’evangelo: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore,
entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che
è nei cieli” (Mt 7,21).
In questi testi, infine, i padri insistono sulla grazia e sui benefici
particolari legati al carattere propriamente comunitario della pre-
ghiera cristiana (cf. §§ 18-24). Contro la troppo facile obiezione
avanzata per giustificare la propria assenza alle sinassi – “Posso
pregare anche a casa mia!” (§ 22) – i padri ricordano che, se pure
la preghiera solitaria, nel nascondimento e nell’intimità con Dio,
rimane essenziale nella vita di ogni cristiano, secondo l’insegnamen-
to e l’esempio di Cristo stesso, essa non è però sufficiente né può
sostituire la partecipazione all’assemblea dell’intera comunità. Ol-
tre a essere fonte di gioia, di consolazione e di sostegno reciproco,
50
Riuniti nel nome di Cristo
grazie alla presenza delle varie membra del corpo di Cristo dotate
di carismi diversi (laici e ministri ordinati), la preghiera compiuta
nella sinassi garantisce ai cristiani in modo sicuro la presenza di
Dio, degli angeli e dei santi del cielo e della terra (cf. §§ 2; 18; 24).
Solo così dunque, radunandosi in sinassi, la comunità cristiana
può nascere, vivere e crescere quale “chiesa” del Signore. Ha scritto
in modo eloquente uno dei massimi teologi ortodossi contempora-
nei, il cui pensiero è profondamente radicato in quello dei padri
della chiesa: “Che cos’è la chiesa? È lo spazio del superamento del-
l’individualismo, lo spazio della nostra unione con l’altro, lo spa-
zio dell’unione di tutti. Questo è esattamente anche il regno di Dio,
ma anche la divina eucaristia. Tra tutte le caratteristiche della divi-
na liturgia, la più importante dal punto di vista esistenziale è il fat-
to che è ‘sinassi’. Possiamo credere come individui, ma altra cosa è
che confessiamo la nostra fede in sinassi. Possiamo pregare nella
nostra ‘camera’, ma nella liturgia la nostra preghiera si unisce a
quella dei nostri fratelli e a quella del grande Sommo sacerdote. È
lui che prega con noi e per noi, offrendo se stesso nella divina euca-
ristia. Possiamo bagnare il nostro giaciglio con lacrime di pentimen-
to nella nostra cella, ma soltanto nella sinassi dell’eucaristia il Si-
gnore precede le nostre lacrime e ci offre il perdono come vita eter-
na. Tutto al di fuori dell’eucaristia è individuale. Tutto in essa è
comunione. Tutto si può trovare anche fuori della chiesa, anche in
altre religioni: tutte le virtù, l’ascesi e la nostra spiritualità. La sola co-
sa che non si trova al di fuori della chiesa è la divina eucaristia” 9.
51
Capitolo I
della divina liturgia bizantina (nella forma che ha assunto almeno a partire dal vii-viii
secolo) e precede immediatamente la “piccola entrata”. Fu successivamente inclusa an-
che nella Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 367.
11 Cf. anche i testi dello stesso autore citati infra, c. IV,1-4.
12 Il “santuario” (thysiastérion) qui è il luogo dove si celebra il sacrificio, cioè la chie-
sa, ma l’autore sembra alludere qui metaforicamente anche alla comunione ecclesiale.
13 Sottinteso: dalla comunione del corpo di Cristo e dall’unità della chiesa.
52
Riuniti nel nome di Cristo
53
Capitolo I
deve ascoltare pensando a se stesso ciò che è stato detto dal Si-
gnore: Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me
disperde (Mt 12,30)16. Dal momento che siete membra di Cristo
(cf. Ef 5,30), dunque, non disperdete voi stessi disertando le
riunioni; poiché avete come capo Cristo (cf. Ef 4,15; 5,23) che,
secondo la sua promessa, è insieme e in comunione con voi (cf.
Mt 18,20), non trascurate voi stessi, non private il Salvatore
delle proprie membra, non dividete il suo corpo, non disperde-
te le sue membra, non preferite alla sua Parola le occupazioni
mondane, ma ogni giorno riunitevi, di mattino e di sera, per can-
tare salmi e pregare nelle case del Signore, recitando al matti-
no il salmo 62 e alla sera il salmo 140.
Specialmente poi nel giorno di sabato e nel giorno della re-
surrezione del Signore, ovvero la domenica, riunitevi con zelo
ancor maggiore, elevando una lode a Dio che ha creato tutte le
cose per mezzo di Gesù e che lo ha inviato a noi permettendo
che soffrisse e poi risuscitandolo dai morti. Infatti, quale giu-
stificazione può avere davanti a Dio chi in questo giorno non
scovi, di presbiteri e di diaconi. A partire però dalla fine del ii secolo, e in maniera più
generalizzata e consapevole dal iv secolo (con la riflessione teologica di Gregorio di
Nazianzo e di Giovanni Crisostomo), si cominciò ad applicare il vocabolario cultuale
dell’Antico Testamento al culto neotestamentario, finendo inevitabilmente per carica-
re il ministero cristiano di un contenuto sacrale e cultuale che, almeno in parte, gli era
originariamente estraneo. Con i termini hiereús e sacerdos si cominciò così a designare
innanzitutto il vescovo (cui più tardi sarà riservato il titolo di archiereús), e poi anche
il presbitero che ne condivideva le funzioni, mentre i diaconi furono paragonati ai le-
viti e spesso designati come tali. Si può tuttavia affermare che i padri erano pienamen-
te coscienti che la categoria sacerdotale, applicata al culto della nuova alleanza, assu-
meva dei caratteri del tutto nuovi in relazione a Cristo e alla sua economia di salvezza:
per questo, assumendo stabilmente tale linguaggio, essi non ritenevano di tradire l’e-
vangelo. Su questo tema, cf. J.-M. Tillard, s. v. “Sacerdoce”, in DS XIV, Beauchesne,
Paris 1990, coll. 1-37; E. Cattaneo, “Introduzione generale”, in I ministeri nella chiesa
antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Paoline, Milano 1997, pp. 145-158 (“I mini-
stri della chiesa sono sacerdoti?”, con amplia bibliografia); A. Hussiau, “Il vescovo,
primo liturgo dell’eucaristia”, in Eucharistia. Enciclopedia dell’eucaristia, a cura di M.
Brouard, Edb, Bologna 2004, pp. 578-582.
16 Nell’applicazione liturgica che ne fa l’autore questo passo significa: chi non “rac-
coglie” se stesso insieme ai fratelli partecipando alla sinassi (il participio synágon ri-
chiama il sostantivo sØnaxis) e unendosi al corpo ecclesiale, che è il corpo di Cristo, si
divide da Cristo stesso e dissipa l’unità del suo corpo.
54
Riuniti nel nome di Cristo
*
6. Nessun povero sia triste a causa della sua povertà, perché
questa è una festa spirituale17! Nessun ricco si inorgoglisca del-
la sua ricchezza, perché nessuno dei suoi beni può contribuire
al piacere della festa! È vero: nelle feste mondane che si cele-
brano là fuori, dove scorre molto vino, dove la mensa è ricolma
di cibi e si mangia con ingordigia, dove regna l’indecenza e il
riso, e ogni altra manifestazione di opulenza satanica, giusta-
mente il povero è triste e il ricco è nella gioia. E perché? Per-
ché mentre il ricco può imbandire una mensa sontuosa e gode-
re di piaceri ancor maggiori, il povero a causa della sua pover-
tà non può far sfoggio di altrettanta sontuosità. Qui però non
avviene niente di simile! Vi è una sola mensa per il ricco e per
il povero: se anche uno è ricco, non può aggiungere nulla a que-
sta mensa; e se anche è povero, non riceverà in misura minore
i doni della comunione a causa della sua povertà: la grazia in-
fatti è divina, e perché ti meravigli se è offerta sia al ricco che
al povero?
Per il re stesso che è cinto del diadema, che è rivestito della
porpora e al quale è stato affidato il potere sull’intero mondo
abitato, e per il povero che è seduto a chiedere l’elemosina è
preparata una sola mensa. Tali sono i doni del Signore: non de-
terminano la comunione in base alle differenze di rango, ma in
base all’intenzione e alla disposizione interiore!
55
Capitolo I
18 Nel seguito del brano l’autore spiega che il povero con la sua vita più semplice è
la sinassi eucaristica sia nella sua realtà spirituale di comunità dei credenti.
56
Riuniti nel nome di Cristo
20 Per un’immagine simile nei padri – un cerchio con un centro da cui si dipartono
i raggi – per descrivere i rapporti tra Dio e gli uomini, cf. Doroteo di Gaza, Insegna-
menti spirituali 6,78.
57
Capitolo I
nione ipostatica delle due nature in Cristo (cf. sul tema J.-C. Larchet, “La symbolique
spirituelle de l’Église selon la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur”, in L’espa-
ce liturgique: ses éléments constitutifs et leur sens. Conférences Saint-Serge, LII e Semaine
d’études liturgiques, Paris, 27-30 juin 2005, a cura di C. Braga, Clv-Edizioni liturgiche,
Roma 2006, p. 58).
22 In chiesa.
58
Riuniti nel nome di Cristo
23 Cioè non solo in quelle festive e domenicali, ma anche in quelle celebrate nei
giorni feriali.
59
Capitolo I
24 Il verbo che traduciamo con “prendersi del tempo” (scholázein) designa la condi-
zione di colui che rimane libero dalle occupazioni. Da questo versetto salmico – che i
60
Riuniti nel nome di Cristo
10. Come può non essere nemico di Dio chi si occupa notte
e giorno delle realtà temporali, ma trascura quelle eterne (cf.
2Cor 4,18) e chi ogni giorno si dà da fare per i bagni e per il ci-
bo passeggero, ma non si volge alle realtà che rimangono per
sempre? A chi si comporta così il Signore non dirà forse anche
ora: “I pagani sono apparsi più giusti di voi!”, come disse an-
che rimproverando Gerusalemme: “Sodoma, in confronto a te,
è apparsa giusta!” (cf. Ez 16,48-52)?
I pagani, infatti, alzandosi ogni giorno dal sonno, corrono
verso gli idoli per rendere loro culto: prima di ogni opera e di
ogni attività innanzitutto li pregano, e in occasione delle loro
feste e solennità non si sottraggono, ma vi dedicano il loro tem-
po, non solo quelli del luogo, ma anche quelli che abitano lon-
tano; inoltre si riuniscono tutti nei loro teatri, come in assem-
blea. Ugualmente anche coloro che invano si dicono giudei (cf.
Ap 2,9; 3,9), riposandosi ogni sei giorni, nel settimo giorno si
riuniscono nella loro sinagoga, senza mai tralasciare o trascura-
re né il riposo né la riunione … Se dunque costoro, che non
hanno parte alla salvezza, sono così assidui a pratiche che non
procurano loro alcuna utilità, tu quale giustificazione potrai ave-
re davanti al Signore Dio, tu che diserti la sua chiesa e non imi-
ti neanche i pagani, anzi disertando diventi un pigro, un apo-
stata o un malfattore?
Se poi qualcuno, adducendo il pretesto del proprio lavoro, è
negligente cercando scuse ai propri peccati (cf. Sal 140,4), sap-
pia che le professioni dei credenti sono attività supplementari,
ma il vero lavoro è il culto di Dio. Praticate dunque le vostre pro-
fessioni come un’attività secondaria, per il vostro mantenimen-
padri interpretano: “Consacrate il vostro tempo allo studio, alla preghiera, a voi stes-
si, e la conseguenza di questa lodevole scholé sarà la conoscenza di Dio” – è stata pro-
babilmente coniata l’espressione scholázein tô Theô (ricalcata dal latino vacare Deo) ca-
ra alla tradizione monastica. Le feste e le celebrazioni liturgiche sono le occasioni pro-
prizie offerte a tutti i cristiani (anche a quelli che non possono come i monaci vivere in
una continua scholé) per dedicarsi a Dio e alle cose di Dio.
61
Capitolo I
come “lavoro secondario” ( párergon) è frequente nei padri, soprattutto nelle opere mo-
nastiche. Si noti tuttavia come il compilatore dell’opera è altrettanto severo nei con-
fronti di coloro che rimangono oziosi senza lavorare (cf. Costituzioni apostoliche
II,63,1-6).
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Riuniti nel nome di Cristo
26 Qui l’autore si riferisce in particolare alla preghiera comune fatta durante la si-
nassi in chiesa.
27 In entrambi questi salmi, il termine “assemblea” traduce il termine greco ekkle-
sía, “chiesa”.
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Capitolo I
Prendetevi del tempo e conoscete che io sono Dio (Sal 45,11). Sen-
za l’assiduità e l’impegno continuo nelle preghiere e nelle lettu-
re delle divine Scritture non è possibile, infatti, né ottenere
quanto si chiede, né conoscere veramente Dio. Se spesso, infat-
ti, nell’ambito delle realtà temporali, trascorrendo molti anni nel-
le scuole dei mestieri, a stento si può riuscire ad apprendere un
mestiere, quanto più colui che vuole raggiungere la retta cono-
scenza di Dio e arrivare a piacergli, deve dedicare a Dio il suo
tempo e, con fervore e ardore, mantenere la propria anima ele-
vata verso di lui, quasi avesse le ali, fino al termine della vita?
Anastasio il Sinaita, Omelia sulla santa sinassi, PG 89,826A-828A
esorta i suoi ascoltatori a recarsi ogni giorno in chiesa per ascoltare la parola di Dio.
64
Riuniti nel nome di Cristo
cessante che il cristiano deve rendere al Signore “in spirito” è tipico dell’insegnamen-
to di Origene (cf. anche Contro Celso 8,21-23: “La vita vissuta sempre in accordo con
la parola divina è una festa integrale ininterrotta”) e di Clemente di Alessandria (cf.
Stromati VII,35,5). Il tema della “festa incessante” era però già presente nella lettera-
tura classica e, adattato all’ethos cristiano, avrà una larga fortuna nella tradizione pa-
tristica e monastica. Su questo cf. E. Follieri, “La vita somiglia a una ‘panegyris’: sto-
ria di una similitudine dall’antichità al medioevo”, in Ead., Byzantina et italograeca.
Studi di filologia e paleografia, Ed. di storia e letteratura, Roma 1997, pp. 487-495; F.
Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la liturgie, pp. 216-218.
30 L’autore si riferisce alla solennità della Pentecoste in occasione della quale l’ome-
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Capitolo I
31 Cioè non schiava: gli schiavi erano identificati anche da un particolare modo di
vestire.
32 Il riferimento è a Cam che vide la nudità del padre Noè ubriaco di vino, e per
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Riuniti nel nome di Cristo
festa del Natale celebrata il 25 dicembre, sia la festa dell’Epifania celebrata il 6 gen-
naio. Non è del tutto chiaro a quale delle due solennità l’autore si riferisca.
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Capitolo I
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Capitolo I
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Capitolo I
fronte agli altri – questo sarebbe stato possibile farlo anche sul-
la piazza pubblica, alle terme o in una processione –, ma lo han-
no fatto per raccogliere insieme discepoli e maestri, e così po-
ter rendere migliori gli uni grazie agli altri. Ma per noi ciò è di-
ventato il semplice adempimento di una legge: ormai la cosa è
diventata un’abitudine!
Arriva la Pasqua, e c’è molto rumore, grande fracasso – non
direi molti uomini, perché questo non è un comportamento da
uomini –; poi passa la festa, cessa il rumore e torna di nuovo la
sterile quiete. Quante veglie celebriamo? Quanti inni di lode a
Dio cantiamo? Ne ricaviamo qualche frutto? Anzi, piuttosto
un danno: molti fanno questo per vanagloria! Quanto pensate
che ne sia addolorato, vedendo che tutto va perduto come in
una botte forata?
Ma certo voi mi direte: “Noi conosciamo le Scritture!”. E
questo che cosa vuol dire? Se dimostrate di conoscerle attraver-
so le vostre opere, ecco il guadagno e l’utilità che ne traete! La
chiesa è una tintoria: se ve ne andate sempre senza aver ricevu-
to la benché minima tintura, a che vi serve venire qui continua-
mente? Anzi, il danno è maggiore! … Perché mi tormento in-
vano e parlo inutilmente, se voi dovete restare ancorati alle vo-
stre abitudini, se le sinassi non producono in voi niente di buono?
“Eppure – dirà qualcuno – noi preghiamo!”. E questo che
cosa significa, se è senza le opere? Ascolta Cristo che dice:
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli,
ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7,21).
Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 29,3-4
72
Riuniti nel nome di Cristo
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Capitolo I
20. Io non ti dico: astieniti dal lavoro per sette giorni, né per
dieci giorni, ma ti dico: prestami due ore della tua giornata, e
tieni le altre per te39; ma tu non mi concedi neanche questo bre-
ve spazio di tempo! O meglio: non prestarle a me queste due
ore, ma a te stesso, per ricevere una qualche consolazione dal-
la preghiera dei padri, per ritornare a casa pieno di benedizioni,
per andartene completamente sicuro e, ricevute le armi spiri-
tuali, diventare invincibile e inafferrabile da parte del diavolo.
Che cosa c’è di più piacevole, dimmi, del tempo trascorso
qui? Se anche dovessimo passare qui l’intero giorno, cosa c’è
39 L’autore si rivolge ai suoi uditori parlando ex parte Dei, in quanto, come ministro
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Riuniti nel nome di Cristo
di più splendido? Cosa c’è di più sicuro, dove ci sono così tan-
ti fratelli, dove c’è lo Spirito santo, dove Gesù è in mezzo a noi
insieme al Padre suo? Quale altra simile riunione di persone vai
cercando? Quale altro raduno? Quale altra assemblea? Vi so-
no così grandi beni sulla mensa, nell’ascolto [delle letture], nel-
le benedizioni, nelle preghiere, nello stare insieme, e tu volgi lo
sguardo verso altre occupazioni? E quale scusa puoi avere? Non
dico queste cose perché le ascoltiate voi: voi infatti non ave-
te bisogno di queste medicine, voi che con le vostre azioni di-
mostrate la salute, cioè l’obbedienza, voi che con il vostro zelo
manifestate il vostro amore; ma vi ho detto queste cose perché
gli assenti le ascoltino per mezzo vostro. Non dite loro semplice-
mente che ho rimproverato quelli che non sono venuti, ma rac-
contate loro l’intera storia dall’inizio. Rammentate loro i giu-
dei40, rammentate loro le occupazioni quotidiane: dite loro quan-
to è più bella questa sinassi, dite loro quanto zelo dimostrano
nelle occupazioni mondane, dite loro quanto è grande la ricom-
pensa che è riservata a coloro che si radunano qui!
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’inizio degli Atti degli apostoli 1,2
21. Non c’è niente che possa rendere la nostra condotta per-
fetta e la nostra vita pura come l’assidua frequentazione di que-
sto luogo41 e l’ascolto attento [della parola di Dio]. Ciò che è il
cibo per il corpo, infatti, l’insegnamento delle divine parole lo
è per l’anima. Non di solo pane infatti vivrà l’uomo – è detto –,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3; Mt 4,4).
Per questo il fatto di non partecipare a una tale mensa può pro-
durre anche fame. Ascolta Dio che minaccia proprio questo e,
come una punizione e un castigo, fa balenare questa prospetti-
va, dicendo: Darò loro non fame di pane, né sete di acqua, ma fa-
me di ascoltare la parola di Dio (Am 8,11). Non è forse assurdo,
40 Cioè lo zelo che i giudei hanno nell’osservanza della legge e del riposo sabbatico.
41 La chiesa.
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Capitolo I
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Capitolo I
43 L’autore rimprovera i cristiani che vengono in chiesa soltanto per ascoltare l’o-
melia e poi se ne vanno subito dopo senza partecipare all’eucaristia e alla preghiera co-
munitaria.
44 Cf. supra, p. 69, n. 36.
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Riuniti nel nome di Cristo
mento.
48 Nell’opera dello Pseudo-Dionigi e di Massimo il Confessore il termine “sinassi”
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Capitolo I
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Capitolo II
“SAPIENZA! STIAMO ATTENTI!”
1 Fino a tale epoca, a quanto risulta dai testi a noi giunti, la sinassi eucaristica po-
teva all’occorrenza essere celebrata anche senza la liturgia della Parola, ad esempio di
seguito alla celebrazione del battesimo o dell’ordinazione episcopale o presbiterale.
Sul tema si veda il classico studio di G. Dix, The Shape of the Liturgy, A&C Black,
London 19452, pp. 473-476.
2 Cf. Concilio Vaticano II, Dei Verbum 21.
3 Si veda la dottrina eucaristica di Origene, che, pur nella sua peculiarità, esprime
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
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Capitolo II
te legislazione canonica successiva, vieta ai fedeli di piegare le ginocchia nel giorno del
Signore e durante tutto il tempo pasquale, e che per i padri e per tutta la tradizione
della chiesa antica, “la posizione eretta durante la divina liturgia è preferibile in quan-
to immagine del secolo futuro e simbolo di resurrezione” (P. I. Skaltsis, “Στμεν
καλς: Η στση τν πιστν στ Θεα Λειτουργα”, in Aa.Vv., Τ μυστριο τς Θεας
Εχαριστας, p. 289); cf. anche in generale sullo “stare in piedi” in preghiera, G. Bun-
ge, Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei padri, Qiqa-
jon, Bose 1996, pp. 151-159.
84
“Sapienza! Stiamo attenti!”
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
della tua divina conoscenza e apri gli occhi della nostra intel-
ligenza alla comprensione del tuo annuncio evangelico. Poni
in noi il timore dei tuoi beati comandamenti, affinché, calpe-
stati i desideri carnali, trascorriamo una vita spirituale pen-
sando e facendo tutto ciò che è a te gradito. Tu sei infatti la
luce delle nostre anime e dei nostri corpi, Cristo Dio, e a te
rendiamo gloria insieme al Padre tuo, che è senza principio,
e al tuo Spirito santissimo, buono e vivificante, ora e sempre
e nei secoli dei secoli. Amen.
Il diacono (dopo aver ricevuto l’evangeliario dalle mani del sa-
cerdote): Benedici, signore, l’annunciatore del santo apostolo
ed evangelista N.
Il sacerdote ( facendo su di lui il segno della croce): Dio, per
l’intercessione del santo e glorioso apostolo ed evangelista N.,
conceda una parola di grande potenza a te che annunci, per
compiere la proclamazione dell’evangelo del suo amato Figlio
e Signore nostro Gesù Cristo.
Il diacono: Amen!
Il sacerdote: Sapienza! In piedi! Ascoltiamo il santo evan-
gelo! Pace a tutti!
Il diacono: Lettura del santo Evangelo secondo N.
Il sacerdote: Stiamo attenti!
Il diacono: In quel tempo… (legge la pericope fissata dell’e-
vangelo)
Il sacerdote (al termine dell’evangelo): Pace a te che hai an-
nunciato l’evangelo (e ricevendo dal diacono l’evangeliario lo
bacia e lo ripone sull’altare)6.
Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), pp. 371-372
6 Citiamo il testo più recente (con apporti posteriori al ix secolo) della Liturgia di
Giovanni Crisostomo, perché quello più antico, attestato dall’Eucologio Barberini, non
riporta formule estese per la liturgia della Parola. Si noti l’assenza ormai della lettura
profetica dall’Antico Testamento, che è ancora attestata a Costantinopoli fino alla se-
conda metà del vii secolo, come testimonia ancora Massimo il Confessore, in Mistago-
gia 23, ma è già scomparsa negli anni del patriarcato di Germano I di Costantinopoli
(715-730): cf. sul tema J. Mateos, La célébration de la Parole dans la liturgie byzanti-
ne. É́tude historique, Pio, Roma 1971, pp. 130-131. Anche l’omelia dopo le letture bi-
bliche, che fin dai primi secoli era stata un elemento essenziale della celebrazione eu-
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Capitolo II
caristica (cf. ad esempio infra, § 2) cessò gradualmente di essere percepita come tale e
divenne sempre più rara nelle celebrazioni ordinarie della chiesa bizantina a partire dal
vii secolo (cf. Concilio in Trullo, Canoni 19, che tenta di arrestare un declino ormai
inesorabile: “È necessario che coloro che presiedono le chiese, ogni giorno, e special-
mente la domenica, istruiscano tutto il clero e il popolo sulle parole della fede, racco-
gliendo dalla divina Scrittura i pensieri e i giudizi della verità”): né Massimo il Confes-
sore (vii secolo) né Nicola Cabasilas (xiv secolo) vi fanno riferimento nella loro descri-
zione mistagogica della liturgia eucaristica.
7 Mi sembra verosimile cogliere in questa esortazione, rivolta all’intera comunità, a
consolidarsi “negli insegnamenti del Signore e degli apostoli” (en toîs dógmasi toû
Kyríou kaì tôn apostólon) un’allusione alla lettura degli scritti evangelici e apostolici in
un’assemblea liturgica, come lascia pensare anche il riferimento ai tre ordini della ge-
rarchia (vescovo, presbiteri, diaconi).
8 Così era chiamata dai pagani la “domenica” o “giorno del Signore”.
9 Con l’espressione “memorie degli apostoli” bisogna forse intendere genericamen-
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
11 La manna era stata donata nel primo giorno della settimana ebraica, corrispon-
dente alla domenica cristiana: l’autore si serve di questo dato per attualizzare il testo
in senso cristiano.
12 L’omelia fu evidentemente pronunciate nel corso di una celebrazione non dome-
nicale.
13 A coloro che spiegano la parola di Dio all’assemblea.
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Capitolo II
6. Poiché ogni scriba istruito come discepolo per il regno dei cie-
li è simile a un uomo, padrone di casa, che estrae dal suo tesoro co-
se nuove e cose antiche (Mt 13,52), è anche evidente, in base a
quella che si chiama inversione della proposizione, che chiun-
que non estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, non è
un’assemblea liturgica.
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
uno scriba istruito nel regno dei cieli. Bisogna cercare dunque
di raccogliere in ogni modo nel nostro cuore, prestando atten-
zione alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento (1Tm 4,13) e
meditando la legge del Signore giorno e notte (Sal 1,2), non solo le
cose nuove degli evangeli e degli apostoli e le parole della loro
rivelazione, ma anche le cose antiche della Legge, che possiede
l’ombra dei beni futuri (cf. Eb 10,1), e dei profeti che hanno
profetato in conformità ad essi … E riguardo a queste cose an-
tiche e nuove, bisogna anche ascoltare la legge spirituale15 che
dice nel Levitico: Mangerete cose antiche e cose più antiche delle
antiche, e farete scomparire le antiche di fronte alle nuove. E io sta-
bilirò la mia tenda in mezzo a voi (Lv 26,9-11). Durante l’euca-
ristia, infatti, noi mangiamo le cose antiche, cioè le parole pro-
fetiche, le cose più antiche di queste, cioè le parole della Legge,
e una volta giunte le realtà nuove ed evangeliche, conducendo
una vita conforme all’evangelo, facciamo scomparire le realtà
antiche della lettera (cf. Rm 7,6) davanti a quelle nuove, e [Dio]
stabilisce la sua tenda in mezzo a noi (cf. Gv 1,14), adempien-
do la sua promessa: Dimorerò e camminerò in mezzo a loro (Lv
26,12)16.
Origene, Commento a Matteo 10,15
leoncello e salterà come un leone; non si addormenterà finché non avrà divorato la
preda e bevuto il sangue dei feriti” e polemizza con coloro che vorrebbero fermarsi al
senso letterale del testo.
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
eucaristiche.
24 Attraverso l’esortazione: “Stiamo attenti!”.
93
Capitolo II
queste parole per mezzo del profeta, getterebbero via tutto il lo-
ro orgoglio. Se infatti quando parlano loro delle autorità, non
sopportano di distogliere l’attenzione, a maggior ragione [do-
vrebbero farlo] quando parla Dio! Noi, miei cari, siamo dei ser-
vitori, non diciamo parole nostre, ma quelle di Dio: ogni giorno
qui si leggono lettere giunte dal cielo!
Su, dimmi, ti prego, se proprio ora, mentre siamo ancora tut-
ti qui, entrasse un uomo con la cintura d’oro e, con aria altez-
zosa e fiera, dicesse di essere stato mandato dall’imperatore,
quello di questa terra, e di recare con sé una lettera rivolta a
tutta la città riguardo ad alcune questioni urgenti, forse non vi
raccogliereste tutti? Forse non fareste grande silenzio anche
senza l’esortazione del diacono? Io credo di sì. Infatti ho già
sentito leggere qui delle lettere degli imperatori. Quindi, se uno
viene da parte dell’imperatore, state tutti attenti; ora invece
che il profeta viene da parte di Dio e pronuncia parole ispirate
dal cielo, nessuno gli presta attenzione? Oppure non credete
che queste parole vengano da Dio? Queste sono lettere manda-
te da Dio! Entriamo dunque nelle chiese con il dovuto rispet-
to e ascoltiamo con timore le parole che ci vengono rivolte!
“Perché devo entrarci – dice qualcuno – se non sento nessu-
no che tiene l’omelia?”. È proprio questo che ha rovinato e gua-
stato tutto! Che bisogno c’è di uno che tenga l’omelia? Questo
bisogno è sorto a causa della vostra indolenza25! Che bisogno
c’è, infatti, di un’omelia? Tutto è chiaro e immediato nelle di-
vine Scritture! Tutto l’indispensabile è evidente. Ma poiché vi
dilettate ad ascoltare, cercate anche questo genere di cose. Dim-
mi, Paolo faceva forse sfoggio di eloquenza nel parlare? No, ep-
pure convertì il mondo intero. E che dire di Pietro, che era un
illetterato?
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Tessalonicesi 3,4
94
“Sapienza! Stiamo attenti!”
10. Chi ama il Signore con tutto il cuore (Dt 6,5; Mt 22,37)
e ne custodisce la memoria costante, appena sente l’araldo che
invita a quella terribile immolazione di Dio che ci dà la vita26,
in gran fretta si alza in piedi, e prima di tutto riflette se ha
qualcosa contro qualcuno, o se un altro ha qualcosa contro di
lui (cf. Mt 5,23), e quando ha superato questo ostacolo della
salvezza e si è liberato e sciolto da questo gravoso vincolo, cor-
re all’ascolto delle parole divine: come una cerva che corre ver-
so le fonti delle acque (Sal 41,2), così, correndo con fede e desi-
derio, raggiunge il porto spirituale di Dio.
Una volta che si è concentrato, ha raccolto la sua mente e ha
rigettato ogni preoccupazione mondana, prepara gli orecchi al-
l’ascolto della melodia angelica27, e poi del sacro cantore, Da-
vid28, che grida: Venite e vedete le opere di Dio (Sal 65,5a). Veni-
te, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore (Sal 33,12),
l’esultanza, il sacrificio di giustizia e l’offerta (Sal 50,21). Venite,
vedete sull’altare il vitello grasso (cf. Sal 50,21; Lc 15,23), l’a-
gnello di Dio immolato, ma non ucciso! Magnificate il Signore,
ed esaltiamo insieme il suo nome (Sal 33,4). Gustate e vedete che
il Signore è buono (Sal 33,9)!
Poi Isaia, la rondine della chiesa, grida a gran voce: Come
pecora fu condotto al macello (Is 53,7). Esultate, o cieli, e gioisca
la terra, perché il Signore ha avuto pietà del suo popolo (Is 49,13).
26 Il riferimento è alla monizione del diacono che invita l’assemblea a prestare at-
tenzione. Il lungo testo che segue, sebbene di difficile datazione (v-viii secolo?) è di
grande interesse per la storia della liturgia perché descrive in modo completo e detta-
gliato la liturgia della Parola che precede la liturgia eucaristica, con la proclamazione
successiva delle varie letture: Antico Testamento, salmi, Apostolo ed evangelo.
27 Allusione al Trisághion, inno attestato fin dalla metà del v secolo, formato da una
triplice acclamazione: “Dio santo, santo forte, santo immortale, abbi pietà di noi”.
Non deve essere confuso con il triplice Sanctus della preghiera eucaristica, designato
anch’esso con il nome di Trisághion, al quale lo accomuna il modello del canto dei se-
rafini (cf. Is 6,3).
28 L’allusione è ai versetti salmici proclamati prima dell’Antico Testamento e tra una
lettura e l’altra. Di essi la Liturgia di Giovanni Crisostomo (b) ha conservato traccia nel-
l’antifona salmica (o prokeímenon) che precede la lettura dell’Apostolo (cf. supra, β).
95
Capitolo II
96
“Sapienza! Stiamo attenti!”
“giusto”.
32 Lett.: “mistico”.
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Capitolo II
cosa comanderà, che cosa vorrà colui che è terribile nelle sue vo-
lontà (Sal 65,5b), viene elevata la perla preziosa33 (cf. Mt 13,46),
l’attesa di tutte le genti, la luce che illumina il mondo (cf. Gv
8,12), la grazia effusa dalle labbra del nostro Salvatore e Dio
(cf. Sal 44,3), il sollievo degli afflitti, la liberazione dei prigio-
nieri, la redenzione dei peccati, il sollevamento dei caduti, il
luogo di cura dei malati, la speranza dei disperati, l’aiuto degli
oppressi, la gioia dei penitenti, il rifugio dei perseguitati, la
legge della libertà (cf. Gc 2,12) per i sottomessi al dominio al-
trui, la rete che non uccide (cf. Mt 13,47), ma che vivifica co-
loro che sono immersi nel mare salato del mondo, le sorgenti del-
le acque, i fondamenti del mondo (Sal 17,16), i quattro fiumi che
sgorgano dal paradiso (cf. Gen 2,10-14), cioè dalla santa bocca
di Cristo.
Quando poi i divini, santi e immacolati evangeli sono stati
aperti, gli angeli terrestri – intendo i sacerdoti – gridano di nuo-
vo al popolo: “Stiamo attenti!”, cioè: sia qui la mente di cia-
scuno, qui i cuori di tutti, nessuno si distragga, nessuno diva-
ghi con lo sguardo, nessuno bisbigli! Stiamo attenti: è Dio che
parla; stiamo attenti: ci rivolge la parola il Re del cielo, della ter-
ra e di tutta la creazione; stiamo attenti: il grande Pastore di-
stribuisce un cibo di vita per le anime; stiamo attenti: colui che
ha ucciso la morte e ha vinto il mondo (cf. Gv 16,33) promette
a noi indegni una gioia che non sazia mai e un Regno che non
avrà mai fine (cf. Lc 1,33)!
Oh, incomparabile amore di Dio per gli uomini! Oh, bontà
indescrivibile! Lui stesso, l’invisibile, l’incomprensibile, il Crea-
tore e Signore dell’universo, di fronte al quale tremano il cielo,
la terra e il mare, e davanti al quale si piega ogni ginocchio in
cielo, in terra e negli inferi (cf. Fil 2,10), ci parla non attraver-
so un angelo, o attraverso i serafini o qualche altro suo ministro,
98
“Sapienza! Stiamo attenti!”
( philanthropía) sono due delle nozioni centrali della teologia patristica, come è partico-
larmente evidente nell’insegnamento omiletico di Giovanni Crisostomo (cf. le note di
L. Brottier, in Jean Chrysostome, Sermons sur la Genèse, SC 433, Cerf, Paris 1998, pp.
376-378, con ampi riferimenti bibliografici). La prima esprime il modo in cui Dio, per
rivelarsi agli uomini e venire in loro aiuto, nel corso di tutta la storia della salvezza si
adatta alla debolezza umana, “svuotandosi” della sua trascendenza divina, fino a co-
municare se stesso attraverso le parole della Scrittura e i sacramenti; la seconda espri-
me il suo desiderio profondo di comunione con l’uomo, che definisce la sua stessa es-
senza: egli è il Dio “filantropo”. Entrambe le nozioni trovano il loro senso pieno in re-
lazione al mistero dell’incarnazione e dell’economia salvifica del Figlio di Dio, in cui
l’immagine di Dio è stata rivelata pienamente.
99
Capitolo II
11. Il maestro35 diceva che le divine letture dei libri sacri in-
dicano le divine e beate volontà di Dio, per mezzo delle quali
ciascuno di noi riceve, in proporzione alla propria capacità, i pre-
cetti di ciò che deve fare e impara a conoscere le leggi delle di-
vine e beate lotte: combattendo tali lotte secondo le regole (2Tm
2,5) siamo resi degni delle vittoriose corone del regno di Cristo.
Massimo il Confessore, Mistagogia 10
100
“Sapienza! Stiamo attenti!”
ristica.
42 L’autore ne ha parlato in Spiegazione della divina liturgia 1,9.
43 Cioè la consacrazione delle specie eucaristiche in corpo e sangue di Cristo, che a
101
Capitolo II
44 Si allude alla “piccola entrata” durante la quale l’evangeliario viene portato chiu-
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
14. Anche ora, come dice l’Apostolo, è steso un velo sulla let-
tura dell’Antico Testamento (2Cor 3,14)46: anche ora Mosè par-
la con il volto glorificato, ma la gloria che brilla su quel volto,
noi siamo incapaci di contemplarla! Ne siamo incapaci perché
siamo ancora tra la folla e non abbiamo maggiore impegno o
virtù del resto della gente … Questa affermazione dell’illustre
Apostolo ci toglierebbe ogni speranza di poter comprendere, se
egli non avesse aggiunto: Quando però uno si sarà convertito al
Signore, il velo sarà tolto (2Cor 3,16). Afferma dunque che ciò
che può togliere il velo è la nostra conversione al Signore. Da
questo possiamo intuire che, fino a quando leggendo le divine
Scritture il significato ce ne resta nascosto, fino a quando ciò
che è stato scritto ci rimane oscuro e coperto, non ci siamo an-
cora convertiti al Signore, perché se ci fossimo converti al Si-
gnore, certamente il velo sarebbe stato tolto.
Ma vediamo in cosa consista propriamente questo “conver-
tirsi al Signore”. E per poter comprendere in modo più chiaro
che cosa voglia dire essere convertiti, dobbiamo prima dire che
cosa sia non esserlo47. Chiunque, mentre vengono recitate le
parole della Legge, si occupa di discorsi profani, non è conver-
tito. Chiunque quando si legge Mosè, si dedica ad affari monda-
ni, al denaro e ai guadagni, non è convertito. Chiunque è stret-
to dalle preoccupazioni delle proprietà ed è tormentato dalla
brama delle ricchezze, chi aspira alla gloria e agli onori monda-
ni, non è convertito. Ma anche chi sembra estraneo a tutto ciò,
46 L’autore sta commentando l’episodio del volto glorificato di Mosè (cf. Es 34,29-35).
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Capitolo II
48 Cioè alla libertà che proviene dalla conoscenza della verità (cf. Gv 8,32).
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
49
L’autore si rivolge evidentemente all’assemblea presente in chiesa.
50
La prassi corrente nella chiesa antica era di ricevere l’eucaristia nell’incavo della
mano (cf. i testi raccolti infra, c. XIII,16-24).
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Capitolo II
51 Sono le varie parti della Scrittura che venivano lette o cantate durante la celebra-
zione eucaristica.
106
“Sapienza! Stiamo attenti!”
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Capitolo II
19. Al vedere, miei cari, come vi radunate qui ogni giorno con
fervore, ne ricavo un gran piacere e non cesso di glorificare il
nostro Dio amico degli uomini per il vostro progresso. Come in-
fatti l’aver fame è segno di una buona condizione fisica, così
anche il fatto di applicarsi con fervore all’ascolto delle parole di-
vine si può considerare un grandissimo indizio di salute dell’a-
nima. Perciò anche il nostro Signore Gesù Cristo nelle celebri
beatitudini pronunciate sul monte diceva: Beati coloro che han-
no fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6). Chi
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
dunque potrebbe lodarvi in modo degno, voi che, una volta per
tutte, avete ricevuto quella beatitudine da parte del Signore
dell’universo e che attendete da lui beni innumerevoli? Così
infatti si comporta il nostro Signore: quando vede un’anima che
si accosta alle cose spirituali con molto desiderio e intenso fer-
vore, gli offre la sua grazia in abbondanza e gli elargisce i suoi
ricchi doni.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 4,1
21. Trattieni almeno una piccola parola nel tuo cuore tra quel-
le divine parole che vengono lette? E se non conosci queste co-
se, perché allora, dimmi, vieni in chiesa insieme agli altri? Non
ti affretti forse a venirci per ascoltare queste parole ed esserne
edificato? Se davvero ci vieni per questo, il tuo zelo è degno di
lode e si adempiono in te le parole del Signore: Le mie pecore
ascoltano la mia voce (Gv 10,27). So infatti che molti non si ra-
dunano in chiesa per Dio né per ascoltare le sue sante parole.
109
Capitolo II
53 Cioè l’imperatore.
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
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Capitolo II
15,1.5). E ancora: Voi siete miei amici se fate ciò che vi coman-
do. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il
suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udi-
to dal Padre l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,14-15). E ancora:
Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io
preparo per voi un testamento eterno, perché possiate mangiare e
bere alla mia mensa nel mio regno (Lc 22,28-30). Chi dunque ama
Dio, quando ascolta tali parole, non solo gioisce, ma decide di
morire ogni giorno per Cristo (cf. 1Cor 15,31). Ed è così che
hanno vissuto tutti i santi, e con tali propositi hanno manife-
stato il loro desiderio di Dio.
Teodoro Studita, Piccole catechesi 78
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
Ma come potrà venire nel mio cuore una lingua di fuoco, co-
sì che possa parlare anch’io con una lingua di fuoco e da me,
attraverso le mie parole, si accenda rapido un fuoco nel cuore
di chi mi ascolta e rimproveri chi ha peccato, e le mie parole di-
ventino in lui un supplizio, al punto che, bruciato e infiamma-
to da esse, giunga a un pentimento, che produce una salvezza
sicura, grazie a una tristezza che è secondo Dio (cf. 2Cor 7,10)?
Oh, se solo potessi infiammare a tal punto l’anima di ogni ascol-
tatore, che chiunque abbia coscienza del proprio peccato, non
sopportando l’incendio della mia parola, anzi infiammandosi in-
teriormente in tutte le sue viscere, consumi al più presto le soz-
zure dei vizi nascoste nel suo intimo! Così, dopo aver distrutto
tutto ciò che appartiene ed è associato alla carne e alla materia
più vile, quel fuoco potrebbe diventare una luce e una lampada
ardente, da porre non sotto il moggio, ma sopra il candelabro, per
illuminare tutti coloro che sono nella casa (Mt 5,15).
Origene, Omelie sui Salmi 38,1,7
55 Cioè di coloro che hanno ricevuto dalla comunità ecclesiale il ministero della pre-
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
56 I fedeli che si abbandonano ai vizi senza far tesoro delle raccomandazioni del
predicatore.
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Capitolo II
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“Sapienza! Stiamo attenti!”
ditore pubblico e l’atto di proclamare un messaggio, furono assunti nel lessico cristia-
no come termini tecnici per indicare il predicatore e l’atto del predicare.
121
Capitolo II
Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, ca-
pace di insegnare, paziente nelle offese subite (2Tm 2,24). E pro-
seguendo dice: Tu però rimani saldo in ciò che hai imparato e in
cui sei stato confermato, sapendo da chi lo hai appreso e che fin
dall’infanzia conosci le sacre Scritture, che sono in grado di darti
sapienza (2Tm 3,14). E ancora: Tutta la Scrittura è ispirata da Dio
e utile, dice, per insegnare, riprendere, correggere ed educare alla
giustizia, affinché l’uomo di Dio sia ben preparato (2Tm 3,16).
Ascolta anche ciò che aggiunge parlando a Tito riguardo alla
nomina dei vescovi: Bisogna che il vescovo, dice, sia fedele alla
parola degna di fede che gli è stata insegnata, perché sia in grado di
confutare coloro che lo contraddicono (Tt 1,9).
In che modo, dunque, chi è ignorante – come essi dicono58 –
potrà confutare coloro che lo contraddicono e chiuder loro la
bocca? Che bisogno c’è di applicarsi alla lettura e alle Scrittu-
re, se poi bisogna amare questa ignoranza? Ma queste sono so-
lo scuse e pretesti, a copertura della negligenza e della pigrizia!
“Ma tutte queste cose – dice qualcuno – sono state ordinate
ai sacerdoti!”. È appunto dei sacerdoti che adesso stiamo par-
lando. Ma che esse siano valide anche per i semplici fedeli,
ascolta che cosa [l’Apostolo] raccomanda ad altri in un’altra
lettera: La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente con ogni
sapienza (Col 3,16). E ancora: La vostra parola sia sempre piena
di grazia, condita di sale, in modo da sapere come rispondere a cia-
scuno (Col 4,6). La raccomandazione di essere pronti a dare
una risposta è data a tutti (cf. 1Pt 3,15), e scrivendo ai tessalo-
nicesi dice: Edificatevi gli uni gli altri, come già fate (1Ts 5,11).
Quando invece parla ai sacerdoti dice: I presbiteri che esercitano
bene la presidenza siano trattati con doppio onore, soprattutto se si
affaticano nella predicazione e nell’insegnamento (1Tm 5,17). È
58 Sono coloro che vorrebbero giustificare la propria incapacità oratoria sulla base
di un’espressione usata da Paolo in 2Cor 11,6: “Anche se sono ignorante nell’arte del-
la parola, non lo sono però nella dottrina”.
122
“Sapienza! Stiamo attenti!”
36. Fratelli e padri, non è senza fatica che vi dico queste po-
che e semplici parole, ma poiché è compito di colui che presie-
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Capitolo II
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Capitolo III
“ACCOGLI, SIGNORE, I NOSTRI DONI”
che vi fanno riferimento in modo generico, soprattutto a partire dal v secolo, è spesso
difficile distinguerla dalle intercessioni anaforiche. Per questo nel c. X raccogliamo i
testi che si riferiscono a entrambe queste serie di intercessioni.
2 Cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), pp. 377-379: “Noi che rappresentiamo
misticamente i cherubini e cantiamo l’inno del triplice ‘Santo’ alla Trinità vivificante,
deponiamo ogni preoccupazione mondana, per ricevere il Re dell’universo invisibil-
mente scortato dalle schiere angeliche. Alleluja. Alleluja. Alleluja!”. L’inno anticipa
nel tema il dialogo che apre l’anafora e più che avere una funzione offertoriale intro-
duce l’intera liturgia eucaristica e prepara i fedeli a ricevere Cristo nella comunione
(cf. R. F. Taft, The Great Entrance. A History of the Transfer of Gifts and other Preana-
phoral Rites of the Liturgy of St. John Chrysostom, Pio, Roma 19782, pp. 62 ss.).
125
Capitolo III
sa romana, I. La Messa nel corso dei secoli. La Messa e la comunità della Chiesa. La Messa
didattica, Marietti, Casale Monferrato 19632 (rist. anast.: Àncora, Milano 2004), pp.
24-25; ibid., II. La Messa sacrificale, pp. 7-8.
126
“Accogli, Signore …”
sa nel suo insieme e dai singoli fedeli – almeno in tre sensi. Innan-
zitutto, vi è la presentazione dei doni che serviranno come materia
dell’eucaristia: il pane e il vino. Ripetendo il gesto compiuto da Cri-
sto nell’ultima cena, e obbedendo così al suo comando (cf. §§ 2; 5;
8), l’uomo, nella persona del ministro celebrante, offre a Dio le pri-
mizie della creazione e della vita umana (cf. §§ 2-4; 9) – questo il
significato proprio del pane e del vino –, e ciò non perché Dio ne
abbia minimamente bisogno, ma “per ringraziarlo dei suoi doni e
santificare la creazione” (§ 4), e perché questa offerta giova al-
l’uomo stesso che la compie legandolo più strettamente a Dio e
procurandogli la sua amicizia (cf. §§ 2-4). Offrendo i doni della vi-
ta naturale trasformati dal lavoro umano e ricevendo in cambio la
vita eterna comunicata nel corpo e nel sangue di Cristo, la chiesa
proclama “la comunione e l’unione della carne e dello Spirito” (§ 4)
e entra in un mirabile “scambio di vita” con il Creatore, in virtù del-
la sua stessa condiscendenza (cf. § 10): il dono della grazia e della
vita divina, assolutamente gratuito e indeducibile da alcuno sforzo
umano e da alcun germe di vita della creazione, non annulla infat-
ti il valore di tutto ciò che, accolto e posto davanti al volto di Dio
“con intenzione pura”, resta “molto buono” (Gen 1,31) e a lui gra-
dito, come in principio. La dignità dell’uomo, e della chiesa in quan-
to primizia della nuova umanità, sta appunto nell’adempimento di
questa funzione sacerdotale davanti a Dio, in virtù della quale, par-
tecipando e collaborando all’opera di santificazione dell’intera crea-
zione, egli restituisce al Creatore, nell’azione di grazie, i doni da lui
stesso ricevuti 7.
La vera novità e il valore di tale offerta in rapporto ai sacrifici
dell’Antico Testamento non consiste, secondo i padri, nel suo esse-
re “incruenta” (anaímaktos), ovvero nel fatto che si offrono pane e
127
Capitolo III
128
“Accogli, Signore …”
8 Il rischio che si intravede in certa letteratura monastica antica è però che questa of-
ferta della propria intera vita a Dio sia concepita e vissuta in modo autonomo rispetto alla
liturgia della chiesa, diventando quasi alternativa a essa (cf. sul tema R. F. Taft, A Hi-
story of the Liturgy of St. John Chrysostom, VI. The Communion, Thanksgiving, and Con-
cluding Rites, Pio, Roma 2008, pp. 350-353). Sull’eucaristia nelle fonti monastiche cf.
anche Il cammino del monaco, pp. 387-388; 409-412.
9 Questa offerta totale della vita, “in Cristo” e “a imitazione di Cristo”, trova il
suo culmine nel martirio. Il martire, come mostrano bene gli esempi di Ignazio di An-
129
Capitolo III
130
“Accogli, Signore …”
do al senso dell’aggettivo loghiké, che qui come in altri passi simili ha sempre posto
problemi a interpreti e traduttori, concordiamo con quanto dice Bobrinskoy: “Esso è
relativo al Logos, al Verbo di Dio, alla Parola, sia alla parola di Dio rivelata e vissuta
nell’eucaristia, nella liturgia, che alla parola degli uomini, attraverso la quale questa
parola di Dio è accolta, è incarnata, è prolungata e annunciata nell’eucaristia; ha poi il
senso di spirituale, ossia è teologicamente molto vicino a pneumatikós, che è relativo
allo Spirito santo”(B. Bobrinskoy, Communion du Saint-Esprit, Abbaye de Bellefontai-
ne, Bégrolles-en-Mauges 1992, pp. 442-443).
131
Capitolo III
11 L’autore parla a Trifone, il suo interlocutore ebreo, riguardo ai sacrifici e alle of-
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“Accogli, Signore …”
13 Cioè Cristo.
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Capitolo III
14 Nella parte di testo che non abbiamo riportato l’autore cita altre testimonianze
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“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
presa a modello di un’offerta che non concerne solo una parte dei beni materiali, ma
implica l’offerta totale di tutto ciò che si ha per vivere, e dunque l’offerta della propria
stessa vita. L’offerta cui l’autore allude qui è quella che i cristiani presentano durante
l’eucaristia, per mezzo di elargizioni in denaro o doni di altro tipo, in segno della pro-
pria partecipazione vitale all’offerta eucaristica realizzata da Cristo una volta per tut-
te. Nell’intero brano l’autore associa strettamente l’offerta dell’eucaristia e quella fat-
ta spontaneamente dai singoli cristiani.
136
“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
19 Il riferimento è alle parole del Sal 109,4: “Tu sei sacerdote in eterno, secondo
l’ordine di Melkisedek”.
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“Accogli, Signore …”
20 Nella liturgia bizantina, nella fase del suo pieno sviluppo descritta dall’autore, il
rito della próthesis o proskomidé (“presentazione dei doni”), celebrato prima dell’inizio
della liturgia eucaristica propriamente detta in una cappella laterale della chiesa (detta
appunto próthesis), rappresenta il vero momento dell’offertorio o presentazione dei do-
ni del pane e del vino. All’interno della liturgia eucaristica resta un breve momento
“offertoriale” dopo il rito della “grande entrata”. Per queste due presentazioni dei do-
ni, cf. Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 46,5. Sul rito della próthesis, in-
trodotto nel vii-viii secolo e sviluppatosi gradualmente fino al xiv secolo, si veda R. F.
Taft, The Great Entrance, pp. 11-34; 257-275; 350-373.
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Capitolo III
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“Accogli, Signore …”
Dunque non è strano pensare che chi offre le primizie del cibo
offre le primizie della vita stessa.
Ma forse qualcuno potrebbe dire che anche quasi tutte le of-
ferte che gli antichi presentavano a Dio potevano servire da ali-
mento per l’uomo: erano infatti frutti per i quali i contadini ave-
vano lavorato e animali commestibili. Che dire dunque? Tutte
quelle offerte erano primizie della vita umana? No, perché nien-
te di tutte queste cose era propriamente alimento umano, essen-
do comune a tutti gli altri animali: alcune cose erano proprie dei
volatili e degli erbivori, altre dei carnivori. Chiamiamo infatti
“umano” ciò che appartiene solo all’uomo. Ora, il fatto di aver
bisogno di confezionare il pane per mangiare e di preparare il
vino per bere è proprio soltanto dell’uomo. Ecco dunque per-
ché questa offerta di doni assume tale forma.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 3,1-5
141
Capitolo III
nicale (cf. supra, c. II,2): la colletta a favore dei bisognosi è parte integrante di ogni si-
nassi domenicale.
23 Il testo si presenta come un oracolo in cui Dio parla in prima persona.
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“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
24 Come chiarirà il seguito del testo, non si tratta qui del sacerdozio ministeriale ma
Crisostomo l’eleemosØne è ben più di un semplice aiuto materiale: è anzitutto una di-
sponibilità amorosa nei confronti del prossimo che può esprimersi in una varietà di at-
ti di misericordia, è imitazione dell’agire di Dio, “è una forza che conduce Dio all’uo-
mo e l’uomo a Dio” (R. Brändle, Jean Chrysostome “saint Jean bouche d’or” (349-407).
Christianisme et politique au IV e siècle, Cerf, Paris 2003, p. 67).
26 Sono qui citati i vari elementi dell’abito sacerdotale di Aronne.
144
“Accogli, Signore …”
27 È l’architetto della “tenda del convegno”, il santuario che Mosè riceve l’ordine
abitualmente per caratterizzare le realtà più sante, in particolare quelle che hanno at-
tinenza con i misteri celebrati nell’eucaristia.
30 Cioè il corpo dei poveri in cui il Cristo è presente.
31 È addirittura più sacro, cioè, dell’altare su cui si celebra l’eucaristia, non solo di
145
Capitolo III
to un vero e proprio trasferimento del sacro, in virtù del quale quest’ultimo non risiede
più nella pompa, nel mobilio, negli accessori della liturgia, ma nei membri più disere-
dati dell’assemblea liturgica che sono in realtà, a titolo eminente, membra del Cristo
stesso. Considerata la sua pertinenza teologica, questo esatto posizionamento del sacro
secondo la prospettiva cristiana è da contare tra i meriti più considerevoli di Giovan-
ni Crisostomo e rappresenta, da parte sua, riteniamo, un contributo maggiore al pen-
siero liturgico globale dei padri” (F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la litur-
gie, pp. 325-326). Sulla stessa linea si legga il testo seguente, cf. infra, § 15.
33 In greco élaion (“olio”) richiama per assonanza éleos (“misericordia”), tenendo
conto che il dittongo “ai” al tempo dell’autore si pronunciava già “e”; per questo mo-
tivo l’olio nei testi dei padri è spesso simbolo della misericordia (e quindi qui dell’ele-
mosina). Su questo tema cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 350-352 e n. 110.
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“Accogli, Signore …”
VIII,13; 20-22.
147
Capitolo III
148
“Accogli, Signore …”
contrappone l’uso di adornare le chiese e gli altari con preziosi arredi sacri al dovere
primario per un cristiano di rivestire e servire i poveri nei quali è presente lo stesso
Cristo, vi sia il ricordo di ciò che avvenne circa trent’anni prima a Gerusalemme,
quando il vescovo Cirillo, per sovvenire ai bisogni dei poveri durante una carestia,
vendette le suppellettili sacre e le tende della sua chiesa, un fatto che fornì al suo av-
versario Acacio il pretesto per farlo deporre nel 357 e che verosimilmente ebbe una
certa eco nelle chiese dell’oriente (cf. Sozomeno, Storia ecclesiastica III,25,3-4).
43 L’autore cita questo passo per l’aggancio liturgico che esso può fornirgli: il “pri-
mo giorno della settimana” (mía tôn sabbáton) corrisponde alla domenica, il giorno del-
149
Capitolo III
chiese: dar loro l’elemosina è per lui un modo migliore di purificarsi le mani che lavar-
sele con l’acqua (cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, p. 231, n. 74).
45 Sulla parola eleemosØne, cf. supra, p. 144, n. 25.
46 È il gesto della preghiera di supplica.
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“Accogli, Signore …”
151
Capitolo III
20. Preghiamo per coloro che portano offerte nella santa chie-
sa e fanno elemosine ai poveri, e preghiamo per coloro che of-
frono al Signore nostro sacrifici e primizie: che il Signore, nel-
la sua grande bontà, li ricompensi con i suoi doni celesti e dia
loro nel tempo presente il centuplo e in quello futuro la vita
eterna (cf. Mc 10,30), e conceda loro in cambio dei beni pas-
seggeri quelli eterni (cf. 2Cor 4,18), in cambio di quelli terreni
quelli celesti.
Costituzioni apostoliche VIII,10,12
carico.
49 L’autore si rivolge ai monaci della sua comunità, che risiedeva nella capitale del-
l’impero, a Costantinopoli.
152
“Accogli, Signore …”
50 Cioè nell’eucaristia.
153
Capitolo III
Altre volte la stessa espressione è resa con “culto spirituale” (cf. supra, p. 131, n. 10, § β).
154
“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
53 Come a dire che l’offerta che il cristiano fa della propria vita a Dio è valida nel-
tecipe del suo sacerdozio (cf. nello stesso senso Origene, Omelie sul Levitico 9,9).
156
“Accogli, Signore …”
157
Capitolo III
27. Ieri ero crocifisso con Cristo, oggi con lui sono glorifica-
57
to ; ieri morivo con lui, oggi con lui torno a vivere; ieri ero se-
polto con lui, oggi con lui risorgo. Portiamo dunque offerte a
colui che per noi ha sofferto ed è risorto (cf. Rm 7,4)! Forse
crederete che vi parli di oro, di argento, di tessuti, di pietre tra-
sparenti e preziose, di questa materia terrestre che passa e rima-
ne quaggiù, che per lo più è in mano a uomini malvagi e schia-
vi delle cose di quaggiù e del signore di questo mondo. Portia-
mo in offerta noi stessi, il bene più prezioso per Dio e a lui più
simile58. Rendiamo all’immagine la sua qualità d’immagine (cf.
Gen 1,26)59, riconosciamo la nostra dignità, onoriamo il model-
lo, comprendiamo la potenza del mistero e per chi Cristo è mor-
to (cf. Rm 5,6.8)!
Diventiamo come Cristo, poiché Cristo è diventato come noi;
diventiamo dèi a causa sua, poiché egli è diventato uomo a cau-
sa nostra60. Egli ha assunto ciò che è peggiore, per donare ciò
che è migliore; si è fatto povero, perché noi diventassimo ric-
chi per mezzo della sua povertà (cf. 2Cor 8,9); ha preso forma di
schiavo (Fil 2,7), perché noi riottenessimo la libertà (cf. Gal 5,1);
si è abbassato, perché noi fossimo innalzati; ha subito la tenta-
zione, perché noi avessimo la vittoria; è stato umiliato, perché
noi fossimo glorificati; è morto, per salvarci; è asceso in alto, per
attrarci a sé, poiché giacevamo in basso a causa della caduta del
peccato. Tutto si doni, tutto si offra a colui che ha donato se
stesso in riscatto per noi e la sua vita al posto nostro! Non si po-
trà donare niente di così grande come se stessi, purché si com-
ritrovare in lui la sua vera natura e quindi la sua piena comunione con Dio.
60 Cf. Massimo il Confessore, Libro ascetico 43, che fa eco al nostro testo. Come
158
“Accogli, Signore …”
prenda il mistero e si diventi a causa sua tutto ciò che egli è di-
ventato a causa nostra.
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 1,4-5
28. Sapendo che nessuno è degno del grande Dio (Tt 2,13), a
un tempo vittima e sommo sacerdote, se non ha prima offerto
se stesso a Dio come sacrificio vivente e santo, se non gli ha pre-
stato il culto spirituale e a lui gradito (cf. Rm 12,1), se non ha
offerto a Dio un sacrificio di lode (Sal 49,14) e uno spirito contri-
to (Sal 50,19), unico sacrificio che ci richiede colui che tutto ci
ha donato, come potevo osare presentargli il sacrificio esterio-
re, che è raffigurazione dei grandi misteri61? O come rivestirmi
dell’abito e del nome di sacerdote prima di aver consacrato le
mie mani con opere sante?
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 2,95
della vita cristiana è raggiungere la “divinizzazione” (théosis): essa è stata resa possibi-
le dall’umanizzazione di Dio in Cristo, ma all’uomo spetta un compito attivo per acco-
gliere il dono (cf. N. Russell, The Doctrine of Deification in the Greek Patristic Tradi-
tion, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 213-224).
61 L’autore cerca di giustificare la sua iniziale resistenza ad accettare l’ordinazione
caristia.
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Capitolo III
64 Cioè dell’eucaristia.
160
“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
66 L’autore in questo brano commenta un tropario per la festa di Pasqua, a sua vol-
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“Accogli, Signore …”
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Capitolo III
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Capitolo IV
“PACE A TUTTI”
1 La liturgia romana con intento simile colloca lo scambio della pace dopo il Padre
nostro, per sancire il perdono reciproco immediatamente prima della comunione dei
fedeli (cf. J. A. Jungmann, Missarum sollemnia II, pp. 244-245). La sua collocazione al-
l’inizio della liturgia eucaristica, comune a tutte le liturgie orientali, ha però il pregio
di sottolineare che tale liturgia nella sua interezza – dall’inizio dell’offertorio fino alla
comunione – è un atto che riguarda e coinvolge tutta l’assemblea, alla quale vengono
fin da subito richieste le adeguate disposizioni per parteciparvi, come del resto è espli-
citamente affermato dal dialogo che introduce l’anafora.
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Capitolo IV
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“Pace a tutti”
167
Capitolo IV
In questa luce, lo scambio della pace – che nei primi secoli del-
l’antichità cristiana consisteva non in un semplice abbraccio o in
una fugace stretta di mano, ma in un vero bacio (aspasmós o phí-
lema) in tutta la sua concretissima corporeità 4, che la successiva
normalizzazione ecclesiastica si sarebbe immancabilmente incari-
cata di castigare e di stilizzare – acquista il suo pieno spessore e si-
gnificato. È chiaro però che anche i gesti più belli, senza la forza
della carità che li ha generati, possono diventare a lungo andare
vuote formalità o essere completamente stravolti nel loro significa-
to. Contro ogni possibile equivoco, i padri raccomandano innanzi-
tutto che tale bacio sia “santo” (cf. §§ 22-25; 28-29), secondo il
comando dell’Apostolo: “Salutatevi gli uni gli altri con il bacio
santo!” (Rm 16,16 e par.). “Non pensare che questo bacio assomi-
gli a quelli che si scambiano in piazza tra amici comuni!” (§ 24),
avverte Cirillo di Gerusalemme. Esso deve essere “puro” e “casto”
(cf. §§ 22-23), non sensuale né sfacciato, né tantomeno falso come
quello con il quale Giuda tradì Cristo (cf. §§ 23; 28-29), ma deve
corrispondere ai sentimenti interiori di carità e di pace di colui che
lo dona: deve cioè essere “un bacio che viene dall’anima” (§ 27), un
segno “che le anime si sono unite e scacciano ogni rancore” (§ 24),
che tutti sono uniti in un solo corpo in virtù del battesimo (cf. § 29)
e riconoscono vicendevolmente la presenza di Cristo gli uni negli al-
tri, in quanto sono stati resi “templi di Cristo” dallo Spirito santo (cf.
§§ 25; 28).
Il bacio di pace, dunque, quando viene compiuto con tali dispo-
sizioni, è presentato dai padri come un atto rivestito di una reale e
piena dignità sacramentale 5 – pur se ancillare rispetto al sacramen-
4 Cf. M. Penn, “Performing Family: Ritual Kissing and the Construction of Early
Christian Kinship”, in Journal of Early Christian Studies 10/2 (2002), pp. 151-174, che
collega l’adozione del rito del bacio (un gesto per lo più limitato alla sfera dell’intimi-
tà familiare) alla volontà dei cristiani di costruire la comunità come una nuova famiglia
non fondata sui legami di sangue.
5 Cf. il libro di A. Schmemann, L’eucaristia, sacramento del regno, Qiqajon, Bose
2005, p. 185.
168
“Pace a tutti”
6 In Tradizione apostolica 18 si vieta il bacio di pace a quanti non hano ancora rice-
po la sua uscita dalla vasca battesimale, anche se non è chiaro in quale momento preci-
so, ma comunque prima che egli accedesse alla mensa dell’eucaristia (cf. Ph. de Roten,
Baptême et mystagogie, p. 316).
8 L’uso di recitare il simbolo di fede (il Credo niceno-costantinopolitano) prima del-
169
Capitolo IV
fedeli.
11 Queste parole introducevano il bacio di pace fra tutti i partecipanti alla liturgia
almeno fino al ix-x secolo; successivamente il gesto fu limitato ai soli ministri ordina-
ti, come avviene ancora oggi nelle chiese di tradizione bizantina. L’attuale Liturgia di
Giovanni Crisostomo (b), p. 382, l. 22, collega queste parole alla recitazione del simbo-
lo di fede, aggiungendo: “Per confessare [la fede] nella concordia”.
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“Pace a tutti”
12 Cioè di Cristo.
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Capitolo IV
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“Pace a tutti”
Oh, pace amata, oggetto delle mie cure e mio vanto! Di es-
sa sentiamo dire che appartiene a Dio e che Dio è il suo Dio,
anzi che è in se stessa Dio, come quando udiamo: La pace di Dio
(Fil 4,7), e: Il Dio della pace (2Cor 13,11), e: Egli stesso è la no-
stra pace (Ef 2,14); e nonostante ciò non ne abbiamo rispetto!
Oh, pace amata, bene lodato da tutti, ma da pochi custodi-
to, dove ci abbandonasti un giorno, dal quale è passato già tan-
to tempo, e quando ritornerai a noi? Come sento la tua mancan-
za e quanto ti amo, in maniera ben diversa dagli altri uomini!
Come ti circondo di rispetto quando sei presente, e ti invoco
quanto sei assente, con molti gemiti e lacrime, come neppure il
patriarca Giacobbe fece per il famoso Giuseppe, che era stato
venduto dai fratelli, ma che egli credeva caduto in preda a una
bestia feroce (cf. Gen 37,12-35), e come neppure David fece per
il suo amico Gionata, vittima della guerra (cf. 2Sam 1,11-27),
o in seguito per il figlio Assalonne (cf. 2Sam 19,1-9)! …
Se uno ci chiedesse: “Cos’è che voi onorate e adorate?”, sa-
rebbe facile rispondere: “La carità!”, perché il nostro Dio è ca-
rità (1Gv 4,8.16). Sono parole dello Spirito santo, e che Dio si
compiace di ascoltare più di ogni altra cosa. Qual è il punto ca-
pitale della Legge e dei Profeti? L’evangelista non ci permette-
rà di rispondere nient’altro che questo (cf. Mt 22,36-40). Per-
ché allora noi, i discepoli della carità, nutriamo e suscitiamo co-
sì tanto odio? Perché noi, i discepoli della pace, perseguiamo
guerre senza tregua e senza riconciliazione? Perché noi, i disce-
poli della Pietra angolare (cf. Ef 2,20), ci separiamo? Perché noi,
i discepoli della Roccia (cf. Mt 7,24-25; 16,18), ci lasciamo scuo-
tere? Perché noi, i discepoli della Luce (cf. Gv 8,12), siamo av-
volti nelle tenebre? Perché noi, i discepoli della Parola17 (cf. Gv
1,1), siamo così pieni di mutismo, di follia, di demenza, e non
so che cos’altro dire?
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 22,1.4
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Capitolo IV
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“Pace a tutti”
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Capitolo IV
pacificare le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Col
1,20) …
Quando colui che presiede l’assemblea entra, subito dice:
“Pace a voi!”18, quando tiene l’omelia: “Pace a voi!”, quando
benedice: “Pace a voi!”, quando ordina di scambiare il saluto [di
pace]: “Pace a voi!”, quando il sacrificio è compiuto: “Pace a
tutti!”. E nel frattempo di nuovo: “Grazia a voi e pace!”. Non
è forse assurdo che, mentre ascoltiamo così tante volte la rac-
comandazione di custodire la pace, restiamo in guerra gli uni
con gli altri, e mentre riceviamo e diamo a nostra volta la pace
facciamo guerra proprio a colui che ce la dà? Tu gli dici: “E al
tuo spirito!”, e fuori lo calunni? Ohimè! Le venerabili parole
della chiesa sono diventate pura apparenza senza alcuna veri-
tà! Ohimè! Quelle che dovrebbero essere le nostre insegne ri-
mangono soltanto parole! Così ignorate addirittura perché si
dice: “Pace a tutti!”.
Ma ascoltate che cosa dice Cristo: In qualunque città o villag-
gio entriate, entrando in una casa, rivolgetele il saluto [di pace]. E
se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma
se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi (Mt 10,11-13). Per
questo non capiamo, perché siamo convinti che queste siano
semplici formule verbali e non vi aderiamo con la mente. Sono
forse io a darvi la pace? È Cristo che si degna di rivolgervi la
parola attraverso di me! Se anche per tutto il resto del tempo
siamo privi della grazia, per il vostro bene adesso non lo siamo.
Se la grazia di Dio infatti ha operato in un’asina e in un indo-
vino per la salvezza e il bene dei figli di Israele (cf. Nm 22,22-
35), è chiaro che non si rifiuterà di operare attraverso di noi,
ma per il bene nostro accetterà anche questo.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Colossesi 3,4
18 Allusione al saluto di pace rivolto dal presidente all’assemblea subito dopo l’in-
gresso in chiesa, prima di salire sul sØnthronon e dare inizio alla liturgia della Parola.
176
“Pace a tutti”
19 Come si evince dal contesto, l’autore pensa ai tempi della chiesa apostolica.
20 La stessa lamentela ricorre spesso nelle omelie dello stesso autore (cf. ad esempio
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 32,7).
21 Cioè alla tavola dell’eucaristia.
22 I predicatori antichi ordinariamente tenevano l’omelia stando seduti – ciò valeva
soprattutto nel caso dei vescovi, che sedevano sulla cattedra episcopale –, ma poteva-
no ugualmente stare in piedi, davanti all’altare o sull’ambone, mentre l’assemblea li
ascoltava in piedi nella navata della chiesa (cf. A. Olivar, La predicación cristiana anti-
gua, Herder, Barcelona 1991, pp. 735 ss.).
177
Capitolo IV
caristica.
178
“Pace a tutti”
26 Sulla stessa linea Origene lascia intendere che i pastori delle chiese, che sono
chiamati ad annunciare la pace agli altri cristiani, dovrebbero essere i primi ad acco-
glierne personalmente l’annuncio da Dio: per questo la pace fu annunciata dagli ange-
li innanzitutto agli umili pastori di Betlemme, che di quelli erano la prefigurazione (cf.
Origene, Frammenti sull’Evangelo di Luca 38).
27 Si tratta dell’Amen che conclude le preghiere offertoriali.
28 Il termine “sacerdote” (kāhnā nella versione siriaca, corrispondente al greco hie-
reús) indica nelle Omelie catechetiche di Teodoro di Mopsuestia il ministro che presie-
de la celebrazione eucaristica, che può essere un vescovo o un presbitero (cf. supra, p.
53, n. 15).
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Capitolo IV
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“Pace a tutti”
per coloro che sono stati chiamati alla fede, dice: Grazia a voi e
pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo (Rm 1,7); quan-
do invece esorta alla pace con Dio coloro che non hanno anco-
ra creduto, dice: Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come
se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo, in nome di Cri-
sto: lasciatevi riconciliare con Dio! (2Cor 5,20). Ci incita allo
stesso modo anche il profeta Isaia, gridando: Facciamo pace con
lui, facciamo pace! (Is 27,5). Il valore di questo saluto si addice
dunque a colui che è l’arbitro della pace, o meglio la pace di tut-
ti, cioè il Cristo. È lui infatti la nostra pace (Ef 2,14), secondo le
Scritture.
Cirillo di Alessandria, Commento a Giovanni XII
(PG 74,705D-708C)
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Capitolo IV
essere in pace con Dio: È lui infatti la nostra pace, lui che ha fat-
to dei due una cosa sola, e ha abbattuto il muro di separazione che
era frammezzo, l’inimicizia, per mezzo della propria carne, annul-
lando la Legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare
tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, ucci-
dendo in se stesso l’inimicizia (Ef 2,14-16). Queste sono le parole
dell’Apostolo, e questa è l’opera che il Signore ha compiuto,
come egli stesso dice al Padre suo: Ho compiuto l’opera che mi
hai dato da fare (Gv 17,4). Egli, cioè, ha portato la pace tra la
terra e il cielo, rendendoci figli della pace e dell’amore!
Teodoro Studita, Piccole catechesi 11
30 L’autore si riferisce alle parole “In pace preghiamo il Signore” che introducono la
lunga preghiera litanica dialogata (megále synapté) tra il diacono e l’assemblea, chiama-
ta anche eireniká (“invocazioni di pace”). Cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 362.
31 Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 362, ll. 33-34.
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“Pace a tutti”
15. Poiché Cristo è la nostra pace, colui che ha fatto dei due
una cosa sola e ha abbattuto il muro di separazione che era fram-
mezzo, l’inimicizia, per mezzo della propria carne (Ef 2,14), e poi-
ché da lui tutto è stato pensato in vista della pace, che cosa può
esservi di più importante della pace per coloro che hanno fatto
di ciò che lo concerne la meditazione della propria anima e la
cura della propria mente? Essi perseguiranno la pace, come or-
dina Paolo (cf. Eb 12,14), più di ogni altra cosa, daranno l’e-
sempio agli altri in questo, distruggeranno l’odio inutile, faran-
no cessare la guerra di coloro che litigano senza motivo, sapendo
che la pace è così preziosa, che Dio stesso, venuto sulla terra
per acquistarla agli uomini, pur essendo ricco e Signore dell’u-
niverso, non trovò niente che fosse degno di quel bene, ma la
pagò con il proprio stesso sangue. Poiché infatti tra le cose già
create ed esistenti non vedeva nulla che potesse valere quanto
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Capitolo IV
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“Pace a tutti”
tutta l’assemblea.
36 Lett.: “conservo”.
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Capitolo IV
16,9: “Oh che bontà, oh che smisurata generosità! Non tiene conto dell’onore che gli
viene reso in favore dell’amore verso il prossimo … Con queste parole, a mio parere,
vuol far intendere e stabilire due cose: innanzitutto, come ho detto, intende mostrare
che tiene in grande onore la carità e la considera il più grande sacrificio, senza il quale
non accetta neppure l’altro; e poi stabilisce la necessità imprescindibile della riconcilia-
zione. Chi infatti ha ricevuto l’ordine di non presentare la sua offerta prima di essersi
riconciliato, anche se non per amore del prossimo, almeno perché il sacrificio non ri-
manga incompiuto, si affretterà a correre dall’offeso e a porre termine all’inimicizia”.
38 Cioè all’eucaristia.
39 Sul linguaggio del timore sacro applicato all’eucaristia cf. infra, p. 198, n. 3.
186
“Pace a tutti”
realtà che sono sulla terra e quelle nei cieli (cf. Col 1,20), per
farti amico degli angeli, per riconciliarti con il Dio dell’univer-
so, per renderti suo amico, da nemico e avversario quale sei. Egli
ha dato la sua vita per coloro che lo odiavano, e tu continui a
nutrire rancore per chi è servo come te? E come potrai accostar-
ti alla mensa della pace? Egli non si è rifiutato neppure di mo-
rire per te, e tu invece, per il tuo stesso bene, non accetti di de-
porre l’ira nei riguardi di chi è servo come te? Quale perdono
potrai mai ottenere con questo comportamento?
“Mi ha maltrattato – dice – e mi ha arrecato un grandissimo
danno!”. E con questo? Il danno è stato certamente in denaro,
poiché non ti ha ancora ferito come Giuda fece con Cristo: eppu-
re egli offrì lo stesso sangue, che effuse proprio in favore di co-
loro che lo versavano! Che cosa hai da dire che regga il confron-
to? Se non hai perdonato al tuo nemico, non è a lui che hai reca-
to danno, ma a te stesso. A lui infatti hai fatto spesso torto in
questa vita, ma è te stesso che hai reso indegno del perdono per
quando dovrai difenderti in quel giorno futuro. Non c’è niente
infatti che Dio odi così tanto, come un uomo che conserva ranco-
re, come un cuore gonfio d’ira o un animo pieno di risentimento!
Ascolta dunque che cosa dice il Signore: Se offri il tuo dono
sull’altare e l ì ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te,
lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con
il tuo fratello; e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). “Che
dici? Dovrei lasciare là il dono, cioè il sacrificio?”. Sì – dice –,
perché questo stesso sacrificio è avvenuto perché tu sia in pace
con il tuo fratello. Se dunque il sacrificio è avvenuto allo scopo
che tu abbia pace con il tuo fratello, ma tu non operi la pace,
partecipi inutilmente al sacrificio, perché la sua realizzazione non
ti procura alcun vantaggio. Fa’ prima dunque quello per cui si
offre il sacrificio, intendo la pace, e allora potrai goderne i be-
nefici. Proprio per questo il Figlio di Dio è disceso: per ricon-
ciliare la nostra natura con il suo Signore; per questo non solo è
venuto lui stesso, ma ha voluto renderci partecipi del proprio no-
187
Capitolo IV
20. Il nostro Signore, dopo aver prescritto che non vi sia al-
cuna collera ingiustificata, ha dato questo rimedio ai peccatori,
in qualunque modo essi lo siano: Se offri – dice – la tua offerta 40
sull’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te,
lascia la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con
il tuo fratello, e poi vieni a offrire la tua offerta (Mt 5,23-24). Or-
dina al peccatore di riconciliarsi il più presto possibile con co-
lui che ha offeso e di non osare di offrire l’offerta prima di aver
portato rimedio a colui che ha irritato, ma di riconciliarsi con
lui con tutta la sua forza. Per mano del sacerdote, infatti, sia-
mo noi tutti che offriamo l’offerta … È necessario dunque che
l’offensore, con tutta la sua forza, porti rimedio a colui verso il
quale è stata compiuta l’offesa e si riconcili con lui. Se colui
verso il quale è stata compiuta l’offesa è presente, egli operi con-
cretamente tale riconciliazione; se invece non è presente, deci-
da nel suo pensiero che, in ogni maniera, lo farà al momento
opportuno. E allora, dopo di ciò, si avvicini per partecipare al-
l’offerta. L’offeso, da parte sua, deve accettare senza negligen-
za l’[offerta] di riconciliazione dell’offensore, poiché ciò che
l’offensore deve fare con la massima premura, anche l’offeso lo
188
“Pace a tutti”
la sua apparenza.
189
Capitolo IV
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“Pace a tutti”
santo (cf. 2Cor 13,12). Per quale ragione? Dato che restiamo
divisi nei nostri corpi, noi, in quel particolare momento, unia-
mo le nostre anime con un bacio, in modo che la nostra assem-
blea diventi simile a quella degli apostoli, quando i credenti ave-
vano un cuore e un’anima sola (At 4,32). È così che bisogna ac-
costarsi ai santi misteri, uniti strettamente gli uni agli altri!
Ascolta cosa dice Cristo: Se offri il tuo dono sull’altare e lì ti ri-
cordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo do-
no davanti all’altare e va,’ riconciliati prima con il tuo fratello e
poi offri il tuo dono (Mt 5,23-24). Non ha detto: “Offri prima”,
ma: Riconciliati prima e poi offri. Ecco perché anche noi, quando
l’offerta è già davanti ai nostri occhi, ci riconciliamo prima gli
uni con gli altri e poi ci accostiamo al sacrificio.
C’è anche una seconda ragione, mistica, di questo bacio. Lo
Spirito santo ha fatto di noi i templi di Cristo (cf. 1Cor 3,16;
6,19). Baciandoci dunque gli uni gli altri sulla bocca, noi bacia-
mo affettuosamente la porta d’ingresso del tempio. Perciò, nes-
suno compia questo gesto con cattiva coscienza, con animo fal-
so, perché questo bacio è santo: Salutatevi – dice infatti – gli
uni gli altri con il bacio santo (2Cor 13,12).
Giovanni Crisostomo, Tre catechesi battesimali 3,10
42 Sono le esortazioni alla pace fatte dallo stesso autore nella parte precedente del-
191
Capitolo IV
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“Pace a tutti”
193
Capitolo IV
colo del battesimo, come ha detto il beato Paolo: Tutti noi pren-
diamo un solo pane: poiché dunque il pane è uno, noi siamo uno,
[pur essendo] molti corpi (1Cor 10,17). È necessario dunque,
prima di accostarci ai misteri e alla liturgia, adempiere la legge
di darci la pace, con cui tutti facciamo professione della nostra
mutua unione e carità. A coloro che formano un solo corpo ec-
clesiale infatti non si addice ritenere odioso un fratello nella fe-
de, che attraverso la stessa nascita è diventato membro di un uni-
co corpo. Crediamo che egli sia ugualmente membro dello stesso
Cristo nostro Signore e che egli si nutra anche dello stesso cibo
[preso] alla mensa spirituale. Per questo lo stesso nostro Signo-
re ha detto: Chiunque si adira contro il proprio fratello senza mo-
tivo, sarà sottoposto a giudizio (Mt 5,22). Pertanto questo gesto
[di pace] non è solo una professione di carità, ma è anche un in-
vito a sbarazzarci di ogni immonda inimicizia, se ci sembra che
non sia per un giusto motivo che abbiamo qualcosa contro un
nostro fratello nella fede …
Dobbiamo così considerare questa pace come la professione
e il ricordo di tutto ciò, se davvero ci diamo la pace gli uni gli al-
tri come dice il beato Paolo, con un bacio santo (Rm 16,16 e
par.), e non ci baciamo soltanto con la bocca come Giuda (cf. Mt
26,49), mentre ci applichiamo a mostrare odio e malizia contro
i nostri fratelli nella fede.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,39-41
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“Pace a tutti”
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Capitolo IV
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Capitolo V
“IN ALTO I CUORI”
before the Anafora in the Byzantine Eucharistic Liturgy, I: The Opening Greeting”,
in Orientalia Christiana Periodica 52/2 (1986), pp. 299-324. Tra le più antiche testimo-
nianze vi è quella di Tradizione apostolica 4 (ii-iii secolo).
197
Capitolo V
2 Cf. supra, p. 84 e n. 4.
3 Il linguaggio del timore sacro e reverenziale (phríke, phóbos, trómos, thámbos), co-
sì lontano dall’approccio liturgico familiare all’uomo moderno, eppure fondato e mo-
dellato almeno in parte sul linguaggio biblico, entra in modo massiccio nei testi litur-
gici e nel discorso dei padri della chiesa sulla liturgia a partire dalla fine del iv secolo:
tutto in chiesa e nella liturgia deve essere compiuto “con timore e tremore” (metà phó-
bou kaì trómou) per la coscienza di trovarsi alla presenza di Dio, soprattutto durante la
celebrazione dei misteri eucaristici, chiamati misteri “tremendi” (phriktá), “temibili”
(phoberá), “che incutono grandissimo timore” (phrikodéstata). L’emergere di un tale
linguaggio è probabilmente legato anche a quello di un realismo sacramentale sempre
più marcato in questo periodo (cf. F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la li-
turgie, p. 128). L’opera di Giovanni Crisostomo è in questo senso l’esempio più emble-
matico, in ragione soprattutto della sua influenza senza paragoni sulla tradizione suc-
cessiva; tuttavia, come è stato giustamente notato in un’indagine specifica sul tema,
“l’uso frequente di questa terminologia non è, in Giovanni Crisostomo, il segno di una
deviazione del sentimento religioso … si tratta del timore rispettoso che l’uomo deve
alla santità di Dio, e in modo pari al timore, questa terminologia significa il fervore
con il quale l’uomo è chiamato a entrare nell’intimità vitale che Dio, nella sua filantro-
pia e condiscendenza, cerca di condividere con lui. L’amore intenso di Dio per noi, at-
testato da tanti suoi benefici, deve risvegliare in noi un tenero amore” (Ph. de Roten,
Baptême et mystagogie, p. 123). Cf. sul tema l’introduzione di J. Daniélou, in Jean
Chrysostome, Sur l’incompréhensibilité de Dieu, SC 28 bis, Cerf, Paris 19702, pp. 30-39,
e le indicazioni di R. F. Taft, A History of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The
Precommunion Rites, p. 130, n. 7.
198
“In alto i cuori”
Da molti dei testi che qui presentiamo emerge come anche le as-
semblee delle chiese antiche, in modo non diverso da quelle odier-
ne, fossero popolate, oltre che da fedeli attenti, da molta gente che
aveva una consapevolezza assai scarsa, per non dire inesistente, del
luogo in cui si trovava e dell’azione cui prendeva parte (cf. §§ 1-9).
Per molti passare dalla piazza del mercato, dal teatro, dalle terme o
dal circo all’interno della chiesa non comportava apparentemente
alcun cambiamento rilevante di contegno e di atteggiamento; anche
qui si ritrovavano risa, chiacchiere, litigi, discorsi mondani, gesti vio-
lenti e sguaiati, tanto che Giovanni Crisostomo è costretto ad am-
mettere con amarezza: “Stiamo nella chiesa di Dio come se ci tro-
vassimo a teatro o alle terme … ingannando noi stessi e illudendo-
ci di essere in chiesa!” (§ 9)4.
Per questo i padri, nell’intento pedagogico di far comprendere ai
fedeli la differenza profonda del contegno da tenere in chiesa duran-
te la liturgia, e rischiando finanche di presentare in modo troppo ter-
reno il senso autentico del “timor di Dio”richiesto ai cristiani, ricor-
rono spesso all’immagine dei sudditi che compaiono alla presenza
del re, immagine evidentemente familiare ad ascoltatori abituati al-
la solennità del cerimoniale imperiale: “Non vedete coloro che stan-
no alla presenza di questo re sensibile? … come stanno immobili,
senza parlare, senza agitarsi, senza voltare gli occhi di qua e di là, ma
restando seri, con gli occhi bassi e tutti pieni di timore?” (§ 5). La
posizione eretta e ben ferma del corpo, unita alla moderazione dei
gesti e della voce, deve esprimere la tensione dell’intera persona che,
con timore e riverenza, si presenta al cospetto del proprio Signore
(cf. § 12): è un “culto secondo ragione” (loghikè latreía) che il cri-
stiano è chiamato a rendergli, non una qualunque forma di devo-
zione entusiastica (cf. supra, c. III, 23). È dunque una vera ascesi
– nel senso di “esercizio”, “lavoro su di sé”– che qui viene richiesta:
ogni atteggiamento e gesto del corpo improntato a disordine, confu-
sione, dissipazione, eccesso, violenza, esibizionismo, rilassatezza, fal-
199
Capitolo V
5 Su questo termine, che in origine designava esclusivamente l’offerta dei doni del
sacrificio eucaristico, e che poi a partire dalla fine del iv secolo passò a indicare anche
l’intera preghiera eucaristica, cf. P. Skaltsis, “Questioni ermeneutiche dell’anafora eu-
caristica”, in L’Eucaristia nella tradizione orientale e occidentale con speciale riferimento
al dialogo ecumenico. Atti del IX Simposio intercristiano (Assisi 4-7 settembre 2005), a cu-
ra di L. Bianchi, Provincia veneta dei frati cappuccini minori, Venezia-Mestre 2007,
pp. 106-107.
6 Su questo aspetto dell’insegnamento dei padri, cf. F. Cassingena-Trévedy, Les
200
“In alto i cuori”
201
Capitolo V
che mens concordet voci, che la mente sia in accordo con la voce,
come dice la Regola di Benedetto8, o, in caso contrario, mai come
qui è cruciale il giudizio e clamorosa la contraddizione tra le paro-
le pronunciate e l’intenzione interiore del cuore9. “Non temi e non
ti vergogni di essere trovato bugiardo proprio in quest’ora terribi-
le?”, chiede severamente Giovanni Crisostomo a chi lo ascolta, e
Anastasio il Sinaita, facendogli eco, aggiunge: “Sta’ attento, ti pre-
go, a non avere il cuore rivolto al diavolo, invece di tenerlo in alto
rivolto a Dio!”(§ 26)10.
I padri vedono infine significata in questo dialogo che apre l’a-
nafora, così come nel solenne “Amen!”che la conclude, l’unità del
corpo di Cristo: l’eucaristia è infatti celebrata in comune dall’inte-
ra assemblea dei fedeli, che, secondo le parole dell’apostolo Pietro,
è “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo
che Dio si è acquistato per annunciare le sue opere meravigliose”
(1Pt 2,9). Il ministro non fa che presiedere la preghiera a nome di
tutti: la benedizione e le esortazioni che egli rivolge all’assemblea
sono altrettante richieste di assenso da parte del popolo e, solo do-
po aver ricevuto l’assicurazione che tutto il popolo concorda piena-
mente con lui negli stessi sentimenti e partecipa alla sua preghiera
– “È cosa degna e giusta!”–, egli può dare finalmente inizio al lun-
go rendimento di grazie (cf. §§ 25; 29).
202
“In alto i cuori”
11 Cf. Liturgia di san Giacomo, p. 84, l. 15: “Teniamo in alto la mente e i cuori”.
12 Completiamo qui il testo dell’Eucologio Barberini gr. 336 sulla base del confronto
con testimonianze letterarie contemporanee (ad esempio Germano di Costantinopoli,
Anastasio il Sinaita) che già riportano il testo lungo; è abbastanza comune che i mano-
scritti liturgici riportino solo l’incipit di tali ammonizioni, ma ciò non significa che il
testo completo non fosse presupposto. La più recente Liturgia di Giovanni Crisostomo
(b), p. 383, riporta il testo in una forma non priva di problemi di interpretazione: “Il
diacono: Stiamo in piedi ben composti, stiamo in piedi con timore, stiamo attenti ad
offrire in pace la santa offerta [oppure: anafora]. Il coro: Misericordia di pace, sacri-
ficio di lode”. Sulla valutazione delle varianti, la ricostruzione del testo originale e la
sua interpretazione rimandiamo a R. F. Taft, “Textual Problems in the Diaconal Ad-
monition before the Anaphora in the Byzantine Tradition”, in Orientalia Christiana Pe-
riodica 49/2 (1983), pp. 340-365.
203
Capitolo V
compiuta dal ministro durante l’anafora: essa è segno della misericordia di Dio accor-
data agli uomini nel sacrificio di Cristo, è segno della pace che Cristo ha donato, è sa-
crificio di lode offerto a Dio. Cf. R. F. Taft, “Textual Problems”, p. 364.
14 Allusione al triplice “Santo” dei serafini recitato dall’assemblea durante la pre-
ghiera eucaristica.
204
“In alto i cuori”
tremore (Sal 2,11)? Forse che servirlo con timore significa assu-
mere un contegno rilassato, oppure intensificare così tanto lo
sforzo da non saper neppure cosa si sta dicendo per il rimbom-
bo confuso della voce? Questo è segno di disprezzo e non di ti-
more, di presunzione e non di umiltà! È un comportamento
che si addice ai saltimbanchi più che a quelli che elevano un in-
no di lode.
In cosa consiste dunque il “servire il Signore con timore”?
Nell’adempiere ogni precetto agendo con timore e con un con-
tegno riservato, e nel presentare le proprie suppliche con un
cuore contrito e una mente colma di umiltà (cf. Sal 50,19).
Ma lo Spirito santo per bocca del profeta ci esorta non solo
a servire con timore, ma anche a esultare con tremore. Poiché
infatti l’adempimento del precetto produce solitamente la gioia
in chi pratica la virtù, conviene che lo si faccia – dice – con tre-
more e timore, perché, lasciandoci prendere dall’eccitazione,
non finiamo per perdere il frutto delle nostre fatiche e irritia-
mo Dio.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,2
205
Capitolo V
15 In greco: eutaxía (lett.: “buon ordine”). Il termine indica qui un contegno com-
posto e decoroso del corpo e una buona disposizione del cuore, ed è spesso impiegato
per designare la disciplina e il buon ordine che devono regnare tra i membri dell’assem-
blea liturgica. Più in generale, al di là dell’ambito liturgico, eutaxía o táxis è uno dei
concetti più tipici della mentalità greco-bizantina, che esprime l’aspirazione a instau-
rare nella sfera privata come nelle relazioni e nelle istituzioni sociali e politiche un or-
dine visibile capace di riflettere l’armonia divina e cosmica (cf. C. Mango, La civiltà
bizantina, Laterza, Bari 1991, pp. 314-315).
16 Considerazioni assai simili a queste, che richiamano a un contegno liturgico umi-
le e composto, si trovano in alcuni testi della tradizione monastica del deserto (cf. ad
esempio Il cammino del monaco, p. 413).
206
“In alto i cuori”
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Capitolo V
mo nel cuore con grida di giubilo. Non vedete coloro che stanno
alla presenza di questo re17 sensibile, sottomesso alla corruzione,
temporaneo e terreno? Non vedete come stanno immobili, sen-
za parlare, senza agitarsi, senza voltare gli occhi di qua e di là,
ma restando seri, con gli occhi bassi e tutti pieni di timore? Da
loro làsciati convincere, o uomo! Vi prego appunto di presentar-
vi così davanti a Dio, come se vi trovaste a comparire alla presen-
za di un re terreno: a maggior ragione dovete stare alla presen-
za del Re celeste con timore! Non cesserò di ripetere continua-
mente queste cose, finché non avrò visto che vi siete corretti.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla penitenza 9
6. Non c’è niente di così efficace per bloccare l’assalto del ma-
ligno contro di noi come la preghiera e la supplica insistente. E
infatti la stessa formula di esortazione che il diacono rivolge a
tutti dicendo: “Stiamo ritti in piedi, ben composti!” non è sta-
ta stabilita senza motivo e a caso, ma perché raddrizziamo i no-
stri pensieri che sono trascinati verso terra, in modo che, scac-
ciando il torpore procuratoci dagli affari mondani, possiamo ri-
alzare la nostra anima dritta davanti a Dio. E a riprova che ciò
è vero e che questa formula non allude al corpo, ma all’anima,
ordinando di raddrizzarla, ascoltiamo Paolo che utilizza questa
espressione nello stesso senso. Scrivendo infatti a uomini abbat-
tuti, che di fronte all’incalzare dei mali venivano meno, diceva:
Raddrizzate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti (Eb 12,12).
Che diremo? Che sta parlando delle mani e delle ginocchia del
corpo? Niente affatto. Non sta parlando infatti a dei corridori
né a dei pugili, ma con queste parole ha esortato a risollevare la
forza interiore dei pensieri che era stata precedentemente ab-
battuta sotto il peso delle prove. Rifletti vicino a chi stai, in-
sieme a chi stai per invocare Dio: insieme ai cherubini! … Ec-
co perché in questo momento ci viene comandato di stare ben
17 L’imperatore romano.
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“In alto i cuori”
18 Cioè il sacrificio eucaristico. Sono qui descritti tre momenti della celebrazione
209
Capitolo V
19 In greco: mystagoghía.
20 Nelle chiese antiche uomini e donne assistevano alla liturgia in luoghi separati
(cf. ad esempio l’esplicita prescrizione di Costituzioni apostoliche II,57,4), ma, come
testimonia l’autore, in alcuni casi ciò non impediva la possibilità di sguardi reciproci.
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“In alto i cuori”
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Capitolo V
tratta dei “pensieri cattivi” (loghismoí ) che distolgono l’orante dalla preghiera.
23 È la balaustra di marmo che separava il santuario dalla navata della chiesa. Più
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“In alto i cuori”
13. Non sarà fuori luogo citare qui le parole del profeta Da-
vid, affinché siano resi manifesti i grandissimi vantaggi che com-
portano, anche da sole, la disposizione interiore e la prepara-
zione alla preghiera per chi si dedica a Dio. Egli dice: Ho ele-
vato i miei occhi a te che abiti nel cielo (Sal 122,1), e: A te ho
elevato l’anima mia, o Dio (Sal 24,1). Quando infatti gli occhi
della mente si elevano, in modo da distaccarsi dalle cose terre-
ne e non essere più ingombrati dalle immagini delle realtà ma-
teriali, e si innalzano fino al punto da spingersi oltre l’orizzon-
te degli esseri creati, da rivolgersi alla pura contemplazione di
Dio e parlare, a lui che ascolta, con riverenza e decoro, come
può tutto ciò non procurare grandissimi vantaggi agli stessi oc-
chi che, a viso scoperto, riflettono come in uno specchio la gloria
del Signore e vengono trasformati in quella stessa immagine, di glo-
ria in gloria (2Cor 3,18)? Allora infatti essi ricevono l’effluvio
di un’energia spirituale più divina, come è evidente dal versetto:
È stata impressa su di noi la luce del tuo volto, Signore (Sal 4,7).
E così, quando l’anima si solleva e, separandosi dal corpo, se-
gue lo Spirito – e non solo segue lo Spirito, ma si stabilisce in
lui, come è chiaro dalle parole: A te ho elevato l’anima mia (Sal
24,1) – come può non diventare spirituale, cessando di essere
una semplice anima?
Origene, Sulla preghiera 9,2
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Capitolo V
25 Cioè un altare spirituale, per celebrare la liturgia nel cuore, un tema frequente
214
“In alto i cuori”
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Capitolo V
me sinonimo di mystérion (cf. infra, p. 296, n. 45). L’allusione è evidentemente alla ce-
lebrazione eucaristica, più che alla pasqua cristiana.
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“In alto i cuori”
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Capitolo V
31 Lo Spirito santo.
32 Cioè il corpo di Cristo al quale ci si accosta nell’eucaristia.
33 Cioè Cristo, secondo l’interpretazione patristica corrente.
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“In alto i cuori”
23. Le mie mani – sta scritto – si levano come offerta della se-
ra (Sal 140,2). Insieme alle mani eleviamo anche la mente. Voi
34 L’altare.
35 Cioè prima della consacrazione delle offerte.
36 Le parole “ascendi verso il cielo stesso” sono forse un’allusione al dialogo inizia-
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Capitolo V
che siete iniziati ai misteri sapete ciò che dico, e forse ricono-
scete anche le parole e capite a cosa alludo38. Innalziamo la men-
te verso l’alto. Conosco molti uomini che vivono quasi sospesi
al di sopra della terra, stendono le loro mani al di là di ogni mi-
sura e sono tristi perché non riescono a sollevarsi, e così prega-
no con zelo. Così voglio che voi siate sempre. Se non sempre,
almeno spesso; e se non spesso, almeno qualche volta, almeno
nelle preghiere del mattino e della sera. Dimmi, non sei capace
di stendere le mani? Tendi la tua intenzione quanto vuoi. Ten-
dila fino al cielo stesso. Anche se vuoi toccare la sommità stes-
sa [del cielo], se vuoi elevarti e muoverti perfino al di sopra di
essa, ciò ti è permesso. La nostra mente infatti è più leggera e
vola più in alto di qualunque essere alato. Quando poi riceve an-
che la grazia dello Spirito, oh, com’è veloce, com’è penetrante,
come ispeziona tutto senza lasciarsi trascinare né cadere verso
terra! Sono queste le ali che dobbiamo procurarci! Con esse po-
tremo volare al di sopra del mare tempestoso della vita presente.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Ebrei 22,3
38 Cf. supra, § α.
39Questa monizione diaconale è simile a quella che si ritrova nella Liturgia di Gio-
vanni Crisostomo (cf. supra, § β) e nella Liturgia di san Giacomo, p. 82, l. 20.
220
“In alto i cuori”
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Capitolo V
e solo dopo aver ricevuto la promessa del popolo, allora osa of-
frire a Dio l’anafora”40.
Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio 29
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“In alto i cuori”
42 In realtà queste parole, dalle liturgie più antiche fino a oggi, appartengono al dia-
223
Capitolo V
28. Quando arriva il giorno salutare più di tutti gli altri44, do-
vete astenervi anche dalle opere e parole non biasimevoli, e so-
stare con pazienza nella chiesa di Dio, porgere orecchi e mente
alla lettura e all’insegnamento, e attendere con contrizione alla
supplica, alle preghiere e agli inni che si innalzano a Dio. Così
infatti adempirete anche voi il sabato, vivendo secondo l’evan-
gelo dell’amore di Dio, elevando gli occhi della vostra mente a
colui che abita al di sopra delle volte celesti insieme al Padre e
allo Spirito: Cristo, che ci ha resi figli di Dio, non soltanto di
44 La domenica.
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“In alto i cuori”
Eva al momento della cacciata dal paradiso, oltre a essere segno della condiscendenza
e filantropia divine, sono anche simbolo della condizione dell’uomo decaduto dalla co-
munione con Dio, condizione segnata dalla debolezza della carne e dalla morte. Qui
sono di fatto identificate con i sandali che Dio ordina a Mosè di togliersi davanti al ro-
veto, spesso interpretati dai padri nello stesso modo.
47 Lett.: “chi è sottoposto al (suo) governo” (ho archómenos).
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Capitolo V
48 Cioè all’eucaristia.
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Capitolo VI
“RENDIAMO GRAZIE AL SIGNORE”
tutto dall’abitudine di distinguere tra le parti pronunciate dal celebrante “a voce som-
messa” (mystikôs) e tra quelle pronunciate “a voce alta” (ekphónos), abitudine sorta in
Siria nel v secolo e poi gradualmente affermatasi anche nei territori dell’impero bizan-
tino, nonostante l’opposizione ufficiale dello stesso imperatore Giustiniano (565): cf.
G. N. Filias, Ο τρπος
ναγνσεως τν εχν στ λατρεα τς ρθοδξου
Εκκλησας κατ# τ# χειργραφα εχολγια Η’-IΔ’ α(νων, Grigori, Athina 1997, pp.
47-59.
2 In questo senso la preghiera eucaristica, come il Padre nostro, si conforma alla re-
gola dell’autentica preghiera cristiana, che, come dice Origene, è sempre rivolta al Pa-
dre per mezzo del Figlio (cf. Origene, Sulla preghiera 15).
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Capitolo VI
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“Rendiamo grazie al Signore”
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Capitolo VI
4 La più antica anafora eucaristica a noi pervenuta, quella della Didaché (cf. § 12) è
una semplice azione di grazie sul vino e sul pane, conclusa da una breve invocazione
per il raduno escatologico della chiesa: non vi troviamo ancora né il Sanctus, né le pa-
role dell’istituzione, né l’epiclesi, né le altre preghiere contenute nelle anafore più tar-
de. Sulla funzione “consacratoria” dell’azione di grazie come tale, cf. V. Raffa, Litur-
gia eucaristica, pp. 1061-1071.
5 Le prime attestazioni di questo neologismo si trovano in Giustino (cf. infra, cc.
VIII,9; XIII,16), Ireneo di Lione (cf. supra, c. III,4) e Tradizione apostolica 21 (in tra-
duzione latina). Cf. P.-M. Gy, La liturgie dans l’histoire, Saint Paul-Cerf, Paris 1990,
pp. 42-45.
6 Cf. supra, p. 200.
7 Basilio di Iviron, Canto d’ingresso. Il mistero dell’unità nell’esperienza liturgica del-
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“Rendiamo grazie al Signore”
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Capitolo VI
sé l’intero universo creato: è questo un tema molto frequente nei padri della chiesa dei
primi secoli. Altra traduzione possibile, tenendo conto del duplice significato di kó-
smos: “ornamento del mondo”.
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“Rendiamo grazie al Signore”
11 Cf. Giustino, Apologia prima 67,2: “Per tutto ciò di cui ci nutriamo benediciamo
il Creatore dell’universo per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo e dello Spirito santo”.
12 Sul titolo di “medico” attribuito a Dio, e in particolare a Cristo, cf. infra, p. 438,
n. 55.
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Capitolo VI
15 Cf. Giovanni Climaco, La scala 28,6: “Sul rotolo della nostra supplica, dobbiamo
collocare prima di tutto un sincero rendimento di grazie; poi, al secondo posto, la con-
fessione dei peccati e un’autentica contrizione dell’anima; quindi presentiamo la no-
stra petizione al Re dell’universo. Questo è il modo migliore di pregare, come è stato
rivelato da un angelo a uno dei fratelli”.
16 Cf. supra, § β.
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“Rendiamo grazie al Signore”
to, è diventato una cosa sola, così sia raccolta la tua chiesa da-
gli estremi confini della terra nel tuo regno, poiché tua è la glo-
ria e la potenza nei secoli!”.
Didaché 9,1-4
17 In greco: eucharistía.
18 In quest’epoca non esistevano ancora preghiere eucaristiche fisse e ogni celebran-
te improvvisava il rendimento di grazie sulla base di uno schema generale più o meno
prefissato, secondo la sua ispirazione (cf. Didaché 10,7).
19 In questo passo l’autore descrive una liturgia domenicale, mentre il precedente si
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Capitolo VI
16. [Il Signore], nel modo in cui sa e come egli stesso ha vo-
luto, sperimentò la morte nella carne, e rimase immortale, con-
tinuando anche allora a dispensare a tutti la vita … Perché mai
gli offriremmo il nostro rendimento di grazie come al [Dio] prov-
vidente, che detiene la suprema e unica autorità, se egli avesse
patito per noi contro la propria volontà e [per esservi stato co-
stretto] in qualche modo dalla violenza, alla maniera di coloro
che sono soggetti al potere altrui? O perché celebriamo con fe-
de, pieni di timore, quella Pasqua tanto desiderata e che richie-
de grandissima cautela, ogni anno, anzi ogni giorno, o per me-
glio dire ogni ora, ricevendo il suo corpo e il suo sangue? Colo-
ro che sono stati resi degni di questo supremo ed eterno mistero,
sanno bene ciò che dico: si deve infatti onore e rendimento di
grazie a colui che di propria volontà e senza alcun pentimento
ha offerto ciò che era un suo bene proprio.
Didimo il Cieco (?), Sulla Trinità 3,21
(PG 39,905B-D)
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“Rendiamo grazie al Signore”
non è cosa da poco ciò di cui si parla. Quando infatti dico be-
nedizione intendo mostrare tutto il tesoro della magnanimità di
Dio e far memoria di quei grandi doni”. Anche noi infatti so-
pra il calice ripetiamo gli ineffabili benefici di Dio e tutti i be-
ni di cui godiamo: è con tali sentimenti che lo offriamo e co-
munichiamo [ad esso], rendendo grazie perché egli ha liberato
dall’errore il genere umano, perché ha reso vicini coloro che era-
no lontani (cf. Ef 2,13), perché ha costituito suoi fratelli ed ere-
di quelli che nel mondo erano senza speranza e senza Dio (cf.
Ef 2,12). Rendendo grazie per tutti questi benefici e altri simi-
li, con tali sentimenti ci accostiamo [ai misteri] … [L’Apostolo]
lo ha chiamato appunto calice della benedizione perché, mentre
lo teniamo tra le mani, ammirati e stupefatti per il dono inef-
fabile, noi lodiamo Dio benedicendolo per aver effuso questo
stesso [sangue] perché non rimanessimo nell’errore; e non solo
lo ha effuso, ma ha fatto partecipare ad esso ciascuno di noi.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 24,1
245
Capitolo VI
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“Rendiamo grazie al Signore”
24 Al tempo dell’autore questa parte dell’anafora era ormai pronunciata sotto voce
247
Capitolo VI
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“Rendiamo grazie al Signore”
di Dio … Non vi è infatti un solo popolo tra gli uomini, che sia
barbaro o greco, o chiamato con qualunque altro nome, di no-
madi o di senza casa o di quelli che allevano il bestiame abitan-
do nelle tende, presso il quale non si facciano preghiere e azio-
ni di grazie al Padre e Creatore dell’universo in nome di Gesù
crocifisso. Del resto, a quel tempo, quando il profeta Malachia
diceva queste parole, non eravate stati ancora dispersi in tutta
la terra, come siete ora, e ciò è dimostrato anche dalle Scritture.
Giustino, Dialogo con Trifone 117,1-3.5
23. Celso non vuole che noi siamo ingrati nei confronti dei
demoni di quaggiù29, poiché è convinto che noi siamo tenuti a
offrire loro dei sacrifici di ringraziamento. Ma noi, da parte no-
stra, illustrando la dottrina del rendimento di grazie, affermia-
mo di non commettere alcun atto di ingratitudine verso esseri
che non ci procurano alcun beneficio, e anzi ci sono nemici,
quando non offriamo loro sacrifici e tantomeno li adoriamo. Ci
guardiamo bene, invece, dall’essere ingrati nei confronti di
Dio, dei cui benefici siamo ripieni, poiché siamo sue creature e
soggetti alla sua provvidenza – qualunque sia il destino di cui
ci abbia giudicati degni – e attendiamo oltre la vita la realizza-
zione delle speranze che egli ci ispira. Abbiamo anche un segno30
del nostro rendimendo di grazie a Dio: un pane chiamato “eu-
caristia”.
Origene, Contro Celso 8,57
29 L’interlocutore, Celso, era un filosofo pagano che credeva all’esistenza dei demo-
ni, esseri semidivini, intermediari tra la divinità suprema e gli uomini: l’autore, senza
premurarsi di negare la loro esistenza, riconduce i demoni all’ambito diabolico.
30 Lett.: “simbolo” (sØmbolon), che qui vale “segno sacramentale” (cf. infra, p.
296, n. 45).
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Capitolo VI
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“Rendiamo grazie al Signore”
34 L’autore segue un testo diverso da quello delle edizioni moderne del Nuovo Te-
stamento.
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Capitolo VI
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“Rendiamo grazie al Signore”
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Capitolo VII
“SANTO, SANTO, SANTO”
257
Capitolo VII
3 Il Sanctus, pur non appartenendo alla struttura originaria della preghiera eucari-
stica – fu infatti aggiunto con ogni probabilità solo nel iii secolo nella chiesa di Ales-
sandria, per diffondersi successivamente nelle altre chiese –, non interrompe però il
clima e il tono unitario dell’anafora, che è interamente orientata alla glorificazione di
Dio, e l’azione di grazie, come è evidente soprattutto nella bizantina Liturgia di Basi-
lio, prosegue anche dopo l’intervento dell’assemblea, pur assumendo un carattere più
marcatamente anamnetico. Per la storia del Sanctus e la sua entrata nell’anafora, cf. R.
F. Taft, Il Sanctus nell’anafora. Un riesame della questione, Pio, Roma 1999.
258
“Santo, santo, santo”
4 Ciò del resto è in linea con quanto sta scritto in Ef 3,10: “Affinché ora per mez-
zo della chiesa la multiforme sapienza di Dio sia fatta conoscere nei cieli ai principati
e alle potestà”.
5 Questa interpretazione in chiave trinitaria e cristologica viene esplicitata e svilup-
riprenda le parole del salmo 117 proprio al momento in cui è invitata ad accedere alla
comunione eucaristica (cf. infra, c. XIII,γ).
259
Capitolo VII
7 Atanasio di Alessandria, Sull’incarnazione 54. Cf. sul tema N. Russell, The Doc-
260
“Santo, santo, santo”
261
Capitolo VII
8 Questo passo, pur non fornendo ancora un’esplicita testimonianza dell’uso del
Sanctus nella liturgia cristiana (come alcuni ritengono: cf. ad esempio G. Filias, “Η
εχαριστιακ ναφορ”, in Aa.Vv., Τ μυστριο τς Θεας Εχαριστας, p. 107), è in
ogni caso interessante per il parallelismo che istituisce tra la liturgia angelica e la litur-
gia dei cristiani riuniti “in uno stesso luogo nella concordia”, verosimilmente per cele-
brare la sinassi eucaristica.
262
“Santo, santo, santo”
9 Cioè quando inizia la “liturgia dei fedeli”, la parte della celebrazione eucaristica
che comincia con l’offertorio e alla quale potevano prendere parte solo i battezzati.
10 Cioè coloro che sono stati pienamente iniziati ai misteri dell’eucaristia.
11 Lett.: “dossologia”.
263
Capitolo VII
264
“Santo, santo, santo”
e ciò ti basterà per essere vigilante, se pensi che, pur rivestito co-
me sei di un corpo e legato alla carne, sei stato reso degno di
innalzare inni al comune Sovrano di tutti insieme alle potenze
incorporee. Nessuno dunque allenti il suo fervore quando par-
tecipa a quegli inni sacri e mistici! Nessuno in quel momento
abbia pensieri mondani, ma dopo aver scacciato dal suo animo
tutto ciò che è terreno e aver trasferito interamente il proprio
essere in cielo, come se stesse in piedi vicino al trono della glo-
ria e volasse in compagnia dei serafini, con tali sentimenti in-
nalzi questo santissimo inno al Dio della gloria e della maestà.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio 4,408-420
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Capitolo VII
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“Santo, santo, santo”
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Capitolo VII
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“Santo, santo, santo”
degli angeli e degli uomini un solo corpo, la cui testa è il Cristo” (L. Brottier, L’appel
des “demi-chrétiens” à la “vie angélique”. Jean Chrysostome predicateur: entre idéal mona-
stique et réalité mondaine, Cerf, Paris 2005, p. 377).
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Capitolo VII
10. Non vedi che anche nei palazzi dei re è bandito ogni fra-
stuono e dappertutto c’è un grande silenzio? Anche tu dunque,
come se entrassi in una reggia, non però in una reggia terrena,
ma in quella celeste, che incute molto maggior timore, mostra un
grande decoro. Tu infatti fai coro insieme agli angeli, sei in co-
munione con gli arcangeli e canti insieme ai serafini. Tutte que-
ste moltitudini mostrano un grande ordine, mentre con grande
timore cantano quella mistica melodia e i sacri inni a Dio, re
dell’universo. Quando preghi, dunque, unisciti anche tu a co-
storo e cerca di emulare il loro ordine mistico. La tua preghie-
ra infatti non è rivolta a uomini, ma a Dio, che è presente dap-
pertutto, che ci ascolta ancor prima che parliamo, lui che cono-
sce i segreti del nostro animo.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 19,3
270
“Santo, santo, santo”
12. [Il vertice supremo dei beni] è la lode di Dio che si rea-
lizza in tutti i santi, come indica l’ultimo salmo, dicendo: Lo-
date Dio nei suoi santi (Sal 150,1a)22, dove il firmamento della
sua potenza (Sal 150,1b) significa l’immutabile fermezza nel
bene e le dominazioni di Dio (cf. Sal 150,2a) alludono al fatto
che la natura non è più dominata dal male: allora23 infatti la ca-
pacità umana sarà in grado ormai di innalzargli la lode secondo
l’ampiezza della sua maestà (Sal 150,2b), non emettendo più de-
boli suoni, ma superando anche le trombe con la potenza della
21 L’espressione “inno di vittoria” (epiníkios hØmnos) nei testi liturgici e nei padri
designa per lo più il canto dei serafini, che anche i fedeli ripetono nel corso della pre-
ghiera eucaristica: sebbene qui, come nel testo successivo, l’identificazione non sia
esplicitata, il contesto la rende assai probabile. L’espressione del resto qui assume so-
prattutto una connotazione escatologica: è il canto della vittoria finale, in cui tutti or-
mai partecipano alle acclamazioni angeliche.
22 Così recita l’intero salmo 150 secondo i lxx: “Lodate Dio nei suoi santi, lodatelo
nel firmamento della sua potenza. Lodatelo nelle sue dominazioni, lodatelo secondo
l’ampiezza della sua maestà. Lodatelo al suono della tromba, lodatelo con l’arpa e la ce-
tra. Lodatelo con il timpano e la danza, lodatelo sulle corde e sul flauto. Lodatelo con
cembali sonori, lodatelo con cembali di acclamazione. Ogni spirito lodi il Signore”.
23 Cioè alla fine dei tempi, quando l’umanità e l’intera creazione raggiungeranno il
fine e la pienezza per cui sono state create. L’autore interpreta l’intero salmo in senso
escatologico.
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Capitolo VII
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“Santo, santo, santo”
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Capitolo VIII
“QUESTO È IL MIO CORPO …
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”
1 Per una ricostruzione verosimile del lento processo attraverso il quale il racconto
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Capitolo VIII
2 Per l’occidente latino il primo testimone sicuro di questa comprensione delle parole
276
“Questo è il mio corpo …”
4 È interessante notare come non esista nel lessico dei padri greci una terminologia
277
Capitolo VIII
Cristo vi sia nel pane e nel vino consacrati. Ciò che per loro è im-
portante è soprattutto confessare nella fede che “quel cibo sul qua-
le è stata pronunciata l’azione di grazie … è carne e sangue di quel-
lo stesso Gesù che si è incarnato” (§ 9), e questo perché lui stesso,
il Signore, lo ha solennemente dichiarato (cf. § 12), e la sua Parola
è assolutamente infallibile e degna di fede (cf. §§ 12-13; 15). La
presenza di Cristo nell’eucaristia resta dunque un mistero che i fe-
deli devono accogliere con piena fiducia, senza dubitare e senza fis-
sare l’attenzione sul semplice aspetto materiale e sensibile delle spe-
cie eucaristiche (cf. §§ 9; 11-14; 16): guardando il pane e il vino
“con occhi spirituali” e “aderendo alle parole del Signore” (§ 13),
“parole con le quali egli intese esprimere il mistero” (§ 18), essi so-
no invitati a credere che “anche in realtà che sono sensibili tutto è
spirituale” (§ 13) e che “per mezzo di un’azione ineffabile di Dio
che può tutto le offerte sono veramente trasformate nel corpo e nel
sangue di Cristo” (§ 15).
Accanto a questo valore di garanzia autorevole attribuito a que-
ste parole dall’intera tradizione dei padri, una parte della tradizio-
ne, come si è già accennato, ne riconosce anche un altro, che pre-
suppone e rafforza il primo: si ritiene cioè che queste parole, in quan-
to parole che provengono dal Signore (cf. §§ 9; 23), in quanto
“parola di Dio” (cf. §§ 19; 21; 25), ossia “parola viva ed efficace”
(§§ 25-26), capace di realizzare ciò che esprime – secondo la Scrit-
tura parola e azione in Dio coincidono: egli compie ciò che dice e
rivela (cf. §§ 20; 25) –, abbiano un’efficacia reale quando vengo-
no ripetute dal ministro durante la celebrazione dell’eucaristia5. In
re”) e ghínesthai (“diventare”). Questi verbi, che, come si vede dagli usi paralleli, ri-
mandano quasi tutti all’azione di Dio creatore che può agire con pieno potere su ciò
che è opera delle sue mani, esprimono senza apprezzabili differenze la stessa convin-
zione di fede: il pane e il vino eucaristici per opera di Dio diventano realmente corpo
e sangue di Cristo.
5 Di una tale convinzione sembra conservare traccia la Liturgia di Giovanni Crisosto-
mo, anche nella redazione più antica giunta a noi (fine viii secolo), che, pur contenen-
do un’epiclesi chiaramente consacratoria, fa seguire alle parole dell’istituzione un so-
lenne “Amen” da parte dell’assemblea (cf. § β).
278
“Questo è il mio corpo …”
rario che attesta l’esistenza di una controversia tra greci e latini riguardo al valore del-
le parole istituzionali e dell’epiclesi, con toni già apertamente polemici. Su questa po-
lemica, cf. bibliografia citata infra, p. 307, n. 78.
7 Lo stesso discorso può valere per alcuni padri occidentali, come ad esempio Ago-
stino, che, pur affermando il valore della parola del Signore (cf. Agostino di Ippona,
Discorsi 227,1; 229,3; 229/A,1), riconosce in modo altrettanto chiaro “l’intervento in-
visibile dello Spirito di Dio” nella santificazione dei doni eucaristici (cf. Id., Sulla
Trinità III,4,10). Per un confronto tra Giovanni Crisostomo e Agostino riguardo al
ruolo dello Spirito nella celebrazione eucaristica, cf. B. Bobrinskoy, Communion du
Saint-Esprit, pp. 279-311.
279
Capitolo VIII
re, non è tanto (o non solo) dovuto a una mancata o incompleta ar-
monizzazione, in questi autori, di idee teologiche di segno e di ori-
gine diversa8, ma forse ancora una volta al consapevole e volonta-
rio rifiuto di determinare in modo netto e preciso il “come” e il “che
cosa” realizza il mistero dell’eucaristia, scegliendo in modo esclu-
sivo tra la Parola e lo Spirito, nella convinzione che “i due vi ope-
rano inseparabilmente durante tutta l’anafora” 9, come in tutta la
storia di salvezza. È infatti l’intera anafora, l’intera celebrazione eu-
caristica, costituita dal rapporto armonico e complementare tra pa-
rola del Signore, parola di preghiera dell’uomo e azione dello Spi-
rito, a garantire in definitiva, secondo l’impostazione dei padri, la
presenza viva del Signore con il suo corpo e il suo sangue, a benefi-
cio e salvezza di coloro che vi partecipano. “La questione – è stato
giustamente affermato – se fosse al momento del racconto dell’isti-
tuzione o al momento dell’epiclesi che le offerte erano trasformate
sembra essere stata estranea al modo di pensare patristico” 10.
Infine, una piena comprensione del valore del racconto istituzio-
nale richiede di collocarlo – come fanno i testi liturgici e al loro se-
guito i padri – nel quadro dell’“anamnesi” o ”memoriale” (anám-
nesis) dell’economia di salvezza operata da Cristo, di cui viene fat-
ta esplicita menzione nell’anafora subito dopo le parole del Signore,
8 Così ritiene G. Dix, The Shape of Liturgy, p. 282, riguardo a Giovanni Crisostomo.
9 J.-M. R. Tillard, “Teologia. Voce cattolica. La comunione alla Pasqua del Signo-
re”, in Eucharistia, p. 465. Una conclusione simile, dal punto di vista ortodosso, a par-
tire da una lettura equilibrata dell’intera tradizione patristica, è quella di P. N. Trem-
belas, Δογματικ τς Ορθοδξου Καθολικς Εκκλησας, Sotir, Athinai 19792, vol.
III, p. 163: “Non bisogna trascurare che le parole dell’istituzione da una parte e l’epi-
clesi dall’altra costituiscono i due elementi principali di tutta l’anafora, e che senza le
parole dell’istituzione rischiamo di non avere ciò che il Cristo ha trasmesso, come sen-
za l’epiclesi rischiamo di non avere la consacrazione e la trasformazione delle specie”.
È questa ormai anche la posizione ufficiale della dottrina cattolica, maturata grazie al-
la riflessione teologica e al dialogo ecumenico (cf. Catechismo della chiesa cattolica, Li-
breria editrice vaticana, Città del Vaticano 19992, p. 393, nr. 1375).
10 J. H. McKenna, The Eucharistic Epiclesis. A Detailed History from the Patristic to
the Modern Era, Hillenbrand Books, Chicago 20092, p. 70. Un primo tentativo di “iso-
lare” un momento consacratorio puntuale si riscontra in Giovanni di Damasco (cf. in-
fra, § 17).
280
“Questo è il mio corpo …”
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Capitolo VIII
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“Questo è il mio corpo …”
13 In Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 385, ll. 23-25 si legge: “Nella notte in
cui veniva consegnato, o piuttosto consegnava se stesso per la vita del mondo (Gv 6,51)”.
14 In Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 385, l. 32 e p. 386, l. 11, l’acclamazio-
ne “Amen!” da parte dell’assemblea è ripetuta dopo ciascuna delle due parole istitu-
zionali sul pane e sul vino.
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Capitolo VIII
15 Cf. Liturgia di san Giacomo, p. 88, ll. 23-24: “Ogni volta che mangiate questo pa-
ne e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Figlio dell’uomo e confessate la sua
resurrezione, finché egli venga (cf. 1Cor 11,26)”.
284
“Questo è il mio corpo …”
16 Come altri padri (cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 45,10), l’autore gioca sul-
ci e quella del quarto evangelo per affermare che la cena pasquale che Gesù mangiò
285
Capitolo VIII
con i discepoli e durante la quale istituì l’eucaristia non fu da lui celebrata alla data di
Pasqua dei giudei, ma intenzionalmente il giorno precedente, e così distinguere netta-
mente Pasqua ebraica e Pasqua cristiana.
20 Cioè Cristo.
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“Questo è il mio corpo …”
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Capitolo VIII
25 L’eucaristia.
26 La Pasqua antica era figura (tØpos), ovvero prefigurazione, della nuova Pasqua
compiuta da Gesù.
27 Quella degli ebrei in Egitto.
288
“Questo è il mio corpo …”
il suo uditorio a immaginare di dover partecipare all’ultima cena con Cristo e i suoi di-
scepoli.
289
Capitolo VIII
30 L’agnello pasquale mangiato in Egitto dai figli di Israele anche qui è figura (tØ-
pos) di Cristo.
31 L’autore, combinando i dati dei quattro evangelisti, elenca tre cene consumate
dal Signore a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli prima della sua passione.
32 Cioè sacramentale.
290
“Questo è il mio corpo …”
chês lógou toû par’autoû eucharistetheîsan). Il senso di questa espressione oscura e sin-
tetica è assai discusso: secondo l’interpretazione qui adottata, l’autore sembra allude-
re a una preghiera eucaristica che include le parole dell’istituzione, citate poco oltre, la
cui efficacia non è però disgiunta dal contesto della preghiera in cui sono inserite (cf.
ad esempio J. A. Jungmann, in Prex eucaristica. Textus e variis liturgiis antiquoribus se-
lecti, a cura di A. Hänggi e I. Pahl, Éd. universitaires, Fribourg 19983, p. 69; J.-J. von
291
Capitolo VIII
Allmen, Saggio sulla cena del Signore, p. 63, n. 16; R. F. Taft, A partire dalla liturgia, p.
342; Ch. Munier, Justin Martyr, Apologie pour les chrétiens. Introduction, traduction et
commentaire, Cerf, Paris 2006, p. 285). Altri interpreti, ritenendo che all’epoca del-
l’autore le parole dell’istituzione non fossero ancora entrate nell’anafora, interpretano
il lógos come la Parola stessa di Dio (il Verbo, il Logos), invocata con la preghiera per-
ché trasformi le specie (cf. ad esempio J. Quasten, Monumenta eucharistica et liturgica
vetustissima, Hanstein, Bonn 1935, vol. I, p. 18, n. 1; A. Verheul, “La valeur consé-
cratoire de la prière eucharistique”, in Questions liturgiques 62/2-3 [1981], p. 136 e più
di recente M. Heintz, “Δι’ εχς λγου το παρ’ ατο [ Justin, Apology 1.66.2]: Cu-
ming and Gelston Revisited”, in Studia liturgica 33/1 [2003], pp. 33-36), un’idea che si
ritrova anche in altri autori antichi (cf. infra, c. IX,1-2; 4). Quest’ultima interpretazio-
ne, sebbene forse preferibile dal punto di vista storico-teologico, ci sembra più diffici-
le dal punto di vista filologico-grammaticale. Per una sintesi delle varie possibili inter-
pretazioni di questo passo rimandiamo a J. H. McKenna, The Eucharistic Epiclesis, pp.
43-46, che evita di esprimersi chiaramente in favore di una di esse.
37 Si tratta della trasformazione cui vengono sottoposti i corpi dei fedeli nell’atto
292
“Questo è il mio corpo …”
11. [La parola di Dio] insegnò agli antichi come si doveva ce-
lebrare il rito della propiziazione per gli uomini che si faceva a
Dio (cf. Lv 16,13-14). Ma tu che sei venuto al Cristo, vero Som-
mo sacerdote, che con il suo sangue ti ha reso propizio Dio e ti
ha riconciliato con il Padre (cf. Rm 5,10), non fermarti al san-
gue della carne, ma impara piuttosto a conoscere il sangue del
Verbo e ascoltalo mentre ti dice: Questo è il mio sangue che sa-
rà sparso per voi in remissione dei peccati (Mt 26,28). Colui che è
stato iniziato ai misteri conosce la carne e il sangue del Verbo
di Dio! Non fermiamoci dunque a quelle cose che sono già no-
te agli iniziati e che non possono essere rivelate agli ignoranti40.
Origene, Omelie sul Levitico 9,10
40 Nella chiesa antica il mistero dell’eucaristia era circondato dalla cosiddetta “di-
sciplina dell’arcano”: poteva essere rivelato solo ai battezzati. L’autore, che non nega
qui la “presenza” di Cristo nell’eucaristia (cf. Origene, Commento a Matteo 11,14), ri-
tiene però che tale presenza, da accogliere nella fede, vada ben al di là della semplice
presenza materiale del suo corpo e del suo sangue intesi in senso puramente fisico. Le
parole di Cristo, per chi è in grado di intenderle in senso profondo, indicano soprat-
293
Capitolo VIII
tutto una presenza della Parola di Dio, del Verbo, ovvero della sua vita divina comu-
nicata agli uomini (cf. Origene, Commento a Giovanni 32,310: “Coloro che sono più
semplici intendano pure il pane e il calice secondo l’accezione più comune, come rife-
riti cioè all’eucaristia, ma coloro che hanno appreso a ricercare un senso più profondo
li intendano in senso più divino riferiti alla promessa della parola di verità che nutre”;
Id., Serie di commenti a Matteo 85: “Il pane che il Dio Verbo riconosce essere il suo
corpo è la parola che nutre le anime, parola che procede dal Dio Verbo e pane che pro-
cede dal pane celeste … Il Dio Verbo non diceva suo corpo quel pane visibile che te-
neva nelle mani, bensì la parola nel cui mistero quel pane sarebbe stato spezzato. Né
diceva suo sangue quella bevanda visibile, bensì la parola nel cui mistero quella bevan-
da sarebbe stata versata. Infatti che cos’altro può essere il corpo del Dio Verbo o il suo
sangue, se non la parola che nutre e la parola che fa gioire il cuore?”). La concezione
origeniana dell’eucaristia è complessa e ha suscitato numerosi studi; per una sintesi
sull’argomento rimandiamo a L. De Lorenzi, “L’eucaristia in Origene”, in Parola, Spi-
rito e Vita 7 (1983), pp. 189-204; P. A. Gramaglia, s. v. “Eucaristia”, in Origene. Di-
zionario: la cultura, il pensiero, le opere, a cura di A. Monaci Castagno, Città Nuova,
Roma 2000, pp. 150-154.
294
“Questo è il mio corpo …”
295
Capitolo VIII
dere il suo aspetto, la sua figura, le sue vesti, i suoi calzari”! Ec-
co, lo vedi, lo tocchi, lo mangi. Tu desideri vedere le sue vesti,
e lui ti dà se stesso, non solo da vedere, ma anche da toccare, da
mangiare e da ricevere interiormente!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,4
potrebbe essere tradotto anche con “copia”, “replica”, “riproduzione”, o più letteral-
mente “controfigura”), usati dal Nuovo Testamento e dai padri in ambito esegetico e
poi assunti in ambito mistagogico, con significato distinto o come sinonimi, in origine
non implicavano affatto, alla pari del termine “segno” o “simbolo” (sØmbolon), la ne-
gazione della presenza reale del sangue e del corpo di Cristo nel pane e nel vino euca-
ristici (cf. ad esempio infra, § 35 e c. XIII,17 e la prima attestazione “liturgica” di an-
títypon in Tradizione apostolica 21; 38), ma ne sottolineavano la realtà eminentemente
sacramentale, che esigeva dunque il superamento del livello puramente sensibile; furo-
no però ben presto (iv-v secolo) visti con sospetto e considerati termini ambigui, a sup-
porto di una concezione puramente “simbolica” dell’eucaristia: condanne analoghe a
quelle del brano citato si trovano in Teodoro di Eraclea, Macario di Magnesia, Cirillo
di Alessandria, Scenute di Atripe e più tardi in Anastasio il Sinaita, Giovanni di Da-
masco e Nicola Cabasilas (cf. infra, §§ 15; 17; c. IX,25). L’autore stesso del brano ci-
tato, in altri passi, usa il termine “figura” (tØpos) in senso sacramentale (cf. ad esempio
infra, cc. VIII,35; XIV,27). Sull’uso di questi termini nel quadro della teologia eucari-
stica dei padri rimandiamo alla sintesi di V. Raffa, Liturgia eucaristica, pp. 1113-1134,
e sulla polemica relativa ad essi a M.-O. Boulnois, “L’eucharistie, figure ou réalité?
Une controverse théologique d’Origène à la querelle iconoclaste”, in Pratiques de l’eu-
charistie I, pp. 273-289. Sul significato tecnico di antítypon in ambito mistagogico, cf.
L. F. Pizzolato, “L’antitipo: un concetto tra esegesi e mistagogia”, in Annali di storia
dell’esegesi 17/1 (2000), pp. 193-202.
46 Il passo ha un parallelo molto simile in Teodoro di Mopsuestia, Commenti a Mat-
teo (catene), fr. 106: “Giustamente non ha detto questo è il segno (sØmbolon) del mio
corpo e questo lo è del mio sangue, ma questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnan-
doci a guardare non alla natura delle offerte presentate, ma a credere che in virtù del-
l’azione di grazie compiuta su di loro esse siano proprio le realtà di cui adempiono il
segno (sØmbolon)”.
296
“Questo è il mio corpo …”
le 7, dove è narrato un miracolo eucaristico che convince del suo errore un monaco che
per ignoranza affermava che il pane eucaristico era solo una rappresentazione simboli-
ca (antítypon) del corpo di Cristo; e il racconto si conclude con la sentenza degli anzia-
ni monaci: “Dio sapeva che la natura umana non può mangiare carne cruda, per que-
297
Capitolo VIII
sto ha trasformato il suo corpo in pane e il suo sangue in vino, per coloro che lo rice-
vono con fede” (cf. anche Detti dei padri, Serie sistematica 18,48).
50 Dietro questa finzione letteraria l’autore rappresenta un interlocutore che pro-
fessa dottrine di stampo monofisita e che l’ortodosso cerca di convertire alla sua dot-
trina di impianto antiocheno, con tendenza a distinguere tra natura umana e natura di-
vina di Cristo.
51 Cioè del segno sacramentale. Cf. supra, p. 296, n. 45.
298
“Questo è il mio corpo …”
17. Il pane e il vino non sono figura del corpo e sangue di Cri-
sto – non sia mai! –, ma sono lo stesso corpo divinizzato del
Signore, poiché proprio il Signore ha detto: Questo è il mio cor-
po (Mt 26,26), non “figura54 del corpo”, e neppure “figura del
sangue”, ma il sangue stesso; e prima di questo aveva detto ai
giudei: Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo, non avrete
la vita eterna. La mia carne infatti è vero cibo e il mio sangue vera
bevanda (Gv 6,53.55), e di nuovo: Chi mangia di me, vivrà (Gv
6,57) … Anche se alcuni hanno chiamato il pane e il vino “raf-
figurazioni”55 del corpo e del sangue del Signore, come Basilio
il Teoforo, non l’hanno detto dopo il momento della santifica-
zione, ma prima di esso, chiamando così l’offerta stessa56.
Giovanni di Damasco, La fede ortodossa 86, ll. 114-120; 163-166
“ortodosso”: per lui la grazia opera sì una trasformazione della realtà naturale, ma non
la assorbe in sé, piuttosto si “sovrappone” a essa, come nel caso di Cristo, così anche
in quello dell’eucaristia; con “natura” però qui si intende essenzialmente la realtà visi-
bile e materiale e non tanto la “sostanza” del pane.
53 Cf. supra, p. 290, n. 32.
54 In greco: tØpos.
55 In greco: antítypa.
56 Cf. cf. infra, c. IX,γ. Per l’autore la santificazione delle offerte è completa soltan-
to al termine dell’epiclesi, mentre il testo dell’anafora di Basilio che egli interpreta non
sembra conoscere ancora una definizione così chiara del “momento della santificazio-
ne” (là il termine antítypa ha il significato di “segni sacramentali”, perché l’intera pre-
ghiera eucaristica veniva considerata consacratoria). Per l’interpretazione del brano ri-
mando a R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp. 303-306; J. H. McKenna, The Eucharistic
Epiclesis, pp. 67-68. Il termine antítypon (al pari di tØpos) è qui considerato inade-
guato a esprimere la realtà del mistero eucaristico, come nel contemporaneo Anastasio
il Sinaita, La guida XXIII,1,55-56: “[Cristo] non ha detto: “Questa è la raffigurazio-
ne (antítypon) del mio corpo e del mio sangue”.
299
Capitolo VIII
19. Come per noi – come già più volte si è detto60 – chi vede
il pane vede in un certo senso il corpo umano, perché il pane,
pera. Nel tentativo di giustificare la scelta del pane come materia dell’eucaristia, egli
parte da una semplice constatazione: ogni essere vivente assimila il cibo che mangia; il
suo cibo diventa materia perciò del suo corpo, e il suo corpo diventa in qualche modo
quel cibo. Ora, l’uomo si nutre fondamentalmente di pane, e dunque il pane può esse-
re visto come materia potenziale del corpo umano, e il corpo umano come pane tra-
sformato in carne. Per questo il pane offerto nell’eucaristia può fare le veci del corpo
umano, e di qui l’autore parte per istituire un parallelismo stretto tra l’incarnazione
della Parola di Dio nel corpo umano di Cristo e la trasformazione del pane dell’eucari-
stia nel corpo stesso di Cristo.
300
“Questo è il mio corpo …”
una volta entrato nel corpo, diventa corpo, così anche là61 il cor-
po che portava in sé Dio, nutrito di pane, in un certo senso era
identico al pane, perché, come si è detto, il nutrimento si tra-
sforma nella natura del corpo stesso. Si è ammesso infatti an-
che per quella carne ciò che è proprio di tutti [gli uomini], poi-
ché anche quel corpo si manteneva grazie al pane. Tale corpo,
però, per effetto dell’inabitazione della Parola che è Dio62 fu tra-
sformato ed elevato alla dignità divina. Giustamente dunque
anche ora crediamo che il pane santificato dalla parola di Dio
si trasformi nel corpo della Parola che è Dio.
Quel corpo, infatti, che era pane in potenza, fu santificato
per effetto dell’inabitazione della Parola che venne ad abitare
nella carne (cf. Gv 1,14). Perciò, come [allora] il pane, trasfor-
mato in quel corpo, fu elevato alla potenza divina, anche ades-
so avviene lo stesso. Là infatti la grazia della Parola rendeva
santo il corpo che traeva la propria sussistenza dal pane, e che
in un certo senso era pane esso stesso, e ugualmente qui il pane
viene santificato per mezzo della parola di Dio e della preghiera
(1Tm 4,5)63, come dice l’Apostolo: non arriva però a diventare
il corpo della Parola per mezzo dell’atto del mangiare, ma vie-
ne trasformato direttamente nel suo corpo per mezzo della pa-
rola, come è stato detto dalla Parola: Questo è il mio corpo (Mt
26,26) … Tutto ciò egli lo concede trasformando nel suo cor-
61 Nell’incarnazione di Cristo.
62 Traduco qui lógos con “parola”, sia che esso designi il Verbo (la “Parola che è
Dio”), sia che indichi la “parola di Dio” da cui viene santificato il pane dell’eucaristia.
Le ultime righe lasciano intendere che l’autore identifichi tale “parola di Dio” che san-
tifica il pane con le parole pronunciate da Gesù nell’istituzione; ma alla santificazione
del pane concorre anche la potenza della preghiera. Pur istituendo un paragone con
l’incarnazione, come Giustino (cf. supra, § 9), l’autore non fa cenno all’azione dello
Spirito santo: la stessa prospettiva si ritrova in alcuni testi alessandrini, che attribuisco-
no la santificazione delle specie eucaristiche al solo Verbo di Dio (cf. infra, c. IX,2; 4).
63 L’autore interpreta questo passo paolino in senso eucaristico, come in Origene,
301
Capitolo VIII
più volte usato dall’autore per indicare la potenza che Dio ha di ricreare e riplasmare
tutte le cose secondo la sua volontà (cf. ad esempio Giovanni Crisostomo, Omelie sul-
la Genesi 25,5; Id., Otto catechesi battesimali 4,14).
67 Celebre brano di Giovanni Crisostomo spesso utilizzato nelle controversie tra
greci e latini sul valore delle parole dell’istituzione e dell’epiclesi. Alle ultime sessioni
del concilio di Firenze (1439) e dopo l’unione i greci unionisti, guidati da Bessarione,
vi si richiamarono ripetutamente per dare fondamento patristico alla posizione latina
e renderla accettabile agli occhi dei greci (cf. Dichiarazione dei greci al concilio di Firen-
ze, ll. 19-23 e Bessarione Cardinale, Sul sacramento dell’eucaristia 10,1-6).
302
“Questo è il mio corpo …”
22. Ciò che abbiamo davanti non è opera della potenza uma-
na. Colui che ha compiuto questi [misteri] in quella cena, li ope-
ra anche ora69. Noi adempiamo il ruolo di servitori, ma è lui che
santifica e trasforma i doni posti sulla mensa! Non vi sia dun-
que nessun Giuda, nessuna persona avida di denaro. Se qualcu-
no non è discepolo, si ritiri: questa mensa non accoglie persone
simili!
Egli infatti dice: Voglio fare la Pasqua insieme ai miei discepo-
li (Mt 26,18). Questa è quella mensa e non ha niente di meno!
Non è Cristo a realizzare quella e un uomo questa, ma egli stes-
so realizza anche questa. Questa è quella sala al piano superio-
re (cf. Mc 14,15), dove allora si trovavano: di là uscirono verso
il Monte degli ulivi. Andiamo anche noi verso le mani dei pove-
ri, perché è questo luogo il Monte degli ulivi!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,5
303
Capitolo VIII
70 Lett.: “intellegibili”.
71 Allusione alle parole dell’istituzione.
72 Allusione alle parole dell’istituzione. La formula ek prosópou toû Christoû, che
corrisponde al latino ex/in persona Christi è raramente utilizzata dai padri greci in rife-
rimento alle parole dell’eucaristia; essa è attestata più spesso nei commenti biblici ai
profeti e ai salmi per attribuire a Cristo le parole profetiche pronunciate dall’autore
ispirato. Per altri esempi cf. C. Giraudo, “‘In persona Christi’, ‘In persona Ecclesiae’.
Formule eucaristiche alla luce della ‘lex orandi’”, in Rassegna di teologia 51/2 (2010),
pp. 181-195.
73 Allusione all’inizio della preghiera eucaristica e al Sanctus.
304
“Questo è il mio corpo …”
74 L’autore dipende dal testo della Liturgia di san Giacomo (cf. supra, p. 284, n. 15),
che, come la Liturgia di Basilio, non solo attribuisce a Gesù anche le parole che in realtà
fanno parte della parenesi dell’Apostolo (“Ogni volta …”), ma aggiunge anche il rife-
rimento alla confessione della resurrezione di Cristo, oltre all’annuncio della sua morte.
305
Capitolo VIII
75 Come si può vedere dal seguito del testo, riportato nel capitolo seguente (cf. in-
fra, c. IX,21), l’autore non separa l’efficacia delle parole di Cristo dall’azione dello
Spirito invocato nell’epiclesi. Il ragionamento si ispira manifestamente a Giovanni
Crisostomo (cf. supra, § 20).
76 Il contesto è chiaramente mistagogico: si descrive l’iniziazione del giovane Joa-
saf, che si è da poco convertito alla fede cristiana e ha ricevuto il battesimo da parte
dell’anziano monaco Barlaam.
77 Il testo si ispira chiaramente a quello precedente di Giovanni di Damasco, al qua-
le per altro per secoli è stato attribuito. Anche qui l’efficacia delle parole del Signore è
legata all’azione dello Spirito santo.
306
“Questo è il mio corpo …”
Prendete, mangiate (Mt 26,26), con ciò che segue, non c’è più bi-
sogno di nessuna preghiera per santificare i doni, poiché l’effet-
to è compiuto dalla parola del Signore. Perciò – dicono – colo-
ro che dopo aver ripetuto queste parole chiamano ancora [i do-
ni] pane e vino e pregano per la loro santificazione come se non
fossero già santificati, oltre ad essere malati di incredulità fanno
qualcosa di inutile e di superfluo. E che sia questa parola a con-
sacrare i doni – dicono – lo attesta il beato Crisostomo dicendo
che, come la parola creatrice: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28)
è stata detta una volta per tutte da Dio, ma opera sempre, così
anche questa parola, detta una volta dal Salvatore, opera con-
tinuamente78 … Non è difficile demolire tutte queste argomen-
tazioni. E [cominciamo] prima di tutto dalle parole del divino
Giovanni [Crisostomo] su cui essi si basano. Esaminiamo infatti
se anche questa parola [del Signore] ha la stessa potenza della
parola creatrice.
Dio ha detto: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). E allora?
Forse che dopo quella parola non abbiamo più bisogno di nien-
te a tale scopo e non ci è necessario più nulla per il nostro accre-
scimento? Non c’è forse bisogno del matrimonio, dell’unione co-
niugale e di tutte le altre cure, e senza tutto ciò non è possibi-
le che il genere umano sussista e si propaghi? Come dunque là,
sopra (cf. supra, § 20). Per l’autore le parole di Cristo sono sempre efficaci perché, pro-
nunciate in modo efficace e veritiero una volte per tutte dal Signore, sono manifesta-
te tali in ogni eucaristia in virtù dell’azione dello Spirito santo, non semplicemente
perché vengono ripetute dal ministro in persona Christi: concretamente la loro efficacia
consacratoria viene subordinata all’epiclesi (cf. supra, § 18; infra, c. IX,25-26). L’inter-
pretazione data da Nicola Cabasilas del passo crisostomico sarà ripresa dagli antiunio-
nisti al concilio di Firenze (cf. Marco di Efeso, Libello sulla consacrazione eucaristica 5-
7). Sull’intera controversia eucaristica presupposta da questi testi, cf. R. Bornert, Les
commentaires byzantins, pp. 233-237; S. Salaville, “Notes complémentaires”, in Nico-
las Cabasilas, Explication de la divine liturgie, SC 4bis, Cerf, Paris 1967, pp. 312-324;
Y. M.-J. Congar, Credo nello Spirito santo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 669-689; M.-
H. Congourdeau, “L’eucaristia a Bisanzio dall’xi al xv secolo”, in Eucharistia, pp.
166-168; C. Giraudo, In unum corpus, pp. 545-547; J. H. McKenna, The Eucharistic
Epiclesis, pp. 70 ss.
307
Capitolo VIII
28. Vediamo ciò che sta scritto riguardo ai pani della propo-
sizione: Prenderete fior di farina e ne farete dodici pani, e ogni pa-
ne sarà di dodici decimi. Li disporrete su due pile, sei per pila, sul-
la mensa pura davanti al Signore. Poi metterete incenso puro e sale,
e saranno dei pani offerti al Signore come memoriale: ogni giorno di
sabato verranno disposti perennemente davanti al Signore dai figli
308
“Questo è il mio corpo …”
29. Mentre coloro che celebrano con lui la festa sono a men-
79
sa , Gesù incessantemente prende del pane dal Padre, rende gra-
zie, lo spezza e lo dà ai suoi discepoli, nella misura in cui ciascu-
no di loro è capace di riceverne; e lo dà dicendo: Prendete e man-
giate (Mt 26,26), e mostra così, mentre li nutre con questo pane,
che si tratta del suo stesso corpo, poiché è lui stesso il Verbo, di
cui abbiamo bisogno non solo ora, ma anche quando esso si sa-
rà realizzato nel regno di Dio. Adesso certo non è ancora piena-
mente realizzato80, ma allora lo sarà, quando anche noi saremo
79
L’autore sembra riferirsi alla celebrazione dell’eucaristia nel tempo della chiesa.
80Ciò che non è pienamente realizzato è la parola di Dio, che si identifica con il
Verbo.
309
Capitolo VIII
81 Cioè dalle ossa e dalla carne di Cristo. Una variante antica e ben attestata di Ef
2,30, qui chiaramente presupposta, recita: “Poiché siamo membra del suo corpo, [trat-
ti] dalla sua carne e dalle sue ossa”. L’autore legge l’intera economia di salvezza alla lu-
ce di un paragone tra Adamo e Cristo e tra Eva e la chiesa.
82 Il testo dei lxx recita letteralmente: “Dio fece cadere un’estasi su Adamo, ed
egli si addormentò”. Lo stesso collegamento tipologico tra l’estasi del sonno di Ada-
mo, dal cui fianco viene tratta Eva, e la passione di Cristo dal cui fianco sgorgano l’ac-
qua del battesimo e il sangue dell’eucaristia, che danno origine alla chiesa, si ritrova in
Giovanni Crisostomo, Otto catechesi battesimali 3,18.
310
“Questo è il mio corpo …”
83 Attraverso questa espressione ardita l’autore non nega l’unicità della passione e
morte di Cristo, avvenuta una volta per tutte, ma vuole affermare il continuo rinnova-
mento dei suoi effetti a favore dei credenti attraverso il sacrificio eucaristico.
84 L’autore, in modo coerente con la sua teologia, distingue in Cristo la sua natura
divina, in virtù della quale è la Parola eterna di Dio, e la sua natura umana, da lui as-
sunta nella persona storica di Gesù per la salvezza degli uomini.
85 Cioè la croce.
311
Capitolo VIII
86 Gli ebrei.
312
“Questo è il mio corpo …”
te: a causa della loro debolezza e per far memoria dei peccati
(cf. Eb 7,27-28).
Ma come? Non presentiamo forse noi stessi offerte ogni gior-
no87? Certo, ma lo facciamo in memoria della sua morte (cf. Lc
22,19; 1Cor 11,26), e si tratta di un’unica offerta, non di mol-
te. Come mai una sola e non molte? Perché è stata offerta una
volta per tutte, come quella che si offriva nel Santo dei santi (cf.
Eb 9,7). Ciò infatti è figura di quest’offerta, e questa di quel-
la. Noi infatti offriamo sempre lo stesso [Cristo], non oggi un
agnello e domani un altro, ma sempre lo stesso, così che il sacri-
ficio è uno solo. Per il fatto che viene offerto in molti luoghi, ne
consegue forse che vi siano molti Cristi? No di certo, perché dap-
pertutto Cristo è uno solo, interamente qui, e interamente là: un
solo corpo. Come dunque, pur essendo offerto in molti luoghi,
è un solo corpo e non molti, così c’è anche un solo sacrificio. Il
nostro Sommo sacerdote è colui che ha offerto il sacrificio che
ci purifica. Noi lo offriamo anche ora, lo stesso che fu offerto
allora e che non si consumerà mai. Questo lo si fa in memoria di
ciò che è avvenuto allora: Fate questo, dice, in memoria di me (Lc
22,19; 1Cor 11,24-25). Non compiamo un altro sacrificio, come
un tempo faceva il sommo sacerdote, ma sempre lo stesso sacri-
ficio, o piuttosto facciamo memoria di quel sacrificio.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Ebrei 17,3
87 Su questo passo cf. F. van de Paverd, Zur Geschichte der Meβliturgie in Antiocheia
und Kostantinopel gegen Ende des vierten Jahrhunderts. Analyse der Quellen bei Johannes
Chrysostomos, Pio, Roma 1970, p. 424 e R. F. Taft, A History of the Liturgy of St. John
Chrysostom, VI. The Communion, p. 347, che ritengono l’affermazione un’esagerazione
retorica: in realtà al tempo dell’autore la liturgia eucaristica era ancora per lo più celebra-
ta due volte alla settimana, il sabato e la domenica.
313
Capitolo VIII
314
“Questo è il mio corpo …”
34. Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi
ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito prese del
pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Prendete, mangiate:
questo è il mio corpo spezzato per voi. Fate questo in memoria di
me (1Cor 11,23-24) …
Ma come può dire89 che ha ricevuto [questi misteri] dal Signo-
re? Egli allora non era presente, ma era dalla parte dei persecu-
tori. L’ha detto però perché tu comprenda che quella mensa non
ha niente di più di quella [preparata] dopo90. Colui che opera e
trasmette tutte queste cose, infatti, è lo stesso anche oggi come
allora … Poi, dopo aver parlato di quella cena, [l’Apostolo] uni-
sce gli eventi presenti a quelli di allora, affinché anche ora [i
cristiani] abbiano gli stessi sentimenti, come se fossero presen-
ti quella stessa sera, stesi sullo stesso pagliericcio91, e ricevesse-
ro questo sacrificio da Cristo stesso, e dice: Ogni volta che man-
giate questo pane e bevete questo calice, annunciate la morte del Si-
gnore finché egli venga (1Cor 11,26). Come infatti Cristo disse:
Fate questo in memoria di me (1Cor 11,24-25), sia sul pane che
sul vino, svelando la causa per cui ci donava questo mistero e
suggerendo che anch’essa, insieme alle altre, era sufficiente a su-
scitare la nostra riverenza – perché se tu pensi che cosa ha sof-
ferto il tuo Signore per te, sarai più assennato –, così anche qui
Paolo dice: Ogni volta che voi mangiate, annunciate la morte del Si-
gnore – questa cena è quella cena! – e poi, per mostrare che es-
sa rimane fino alla consumazione [del tempo] (Mt 28,20), aggiun-
ge: Finché egli venga.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 27,3-4
89 Il soggetto è Paolo.
90 Cioè il sacramento istituito da Gesù nell’ultima cena si realizza pienamente ogni
volta che l’eucaristia viene celebrata.
91 Nell’antichità si mangiava distesi, su divani o su tappeti.
315
Capitolo VIII
92 Nella versione siriaca vi è un calco del termine greco tØpos del testo originale, che
denti partecipano alla morte e alla resurrezione di Cristo. Sul rapporto tra eucaristia e
battesimo cf. infra, c. XII,13.
316
“Questo è il mio corpo …”
sto calice, noi facciamo memoria della morte del Signore, finché
egli venga (1Cor 11,26). Ogni volta dunque che si compie que-
sto tremendo sacrificio … dobbiamo figurarci nel nostro pensie-
ro, come attraverso immagini, di essere nella condizione di chi
è in cielo: attraverso la fede rappresentiamo nella nostra men-
te la visione delle realtà celesti, considerando che è lo stesso
Cristo, che è in cielo, il quale per noi è morto, è resuscitato ed
è salito al cielo, che ancora adesso viene immolato per mezzo di
queste figure94, in modo che, considerando attraverso la fede
questi ricordi che ora si compiono, possiamo essere condotti a
vedere ancora che egli muore, risuscita e sale al cielo – ciò che
avvenne un tempo per noi –.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,19-20
317
Capitolo VIII
95 Cioè all’eucaristia.
96 Cioè il sacramento dell’eucaristia.
318
“Questo è il mio corpo …”
97 Allusione evidente al sigillo a forma di croce impresso sulla parte superiore della
“prosfora” (il pane offerto sull’altare), in corrispondenza della parte centrale destinata
a essere consacrata, detta “agnello” (amnós), che reca la frase abbreviata IΣ ΧΣ ΝIΚΑ,
“Gesù Cristo vince”.
319
Capitolo VIII
98 Cioè il sacrificio eucaristico, che l’autore identifica con il momento della consa-
crazione.
99 Anche qui, in conformità alla Liturgia di Basilio (cf. supra, § γ), il sacrificio euca-
ristico non annuncia solo la morte del Signore, ma anche la resurrezione, cui è stretta-
mente legata l’ascensione.
320
Capitolo IX
“FA’ SCENDERE IL TUO SPIRITO SANTO”
1 Cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo 16,38: “Puoi comprendere queste tre
realtà: Il Signore che ordina, la Parola che crea, lo Spirito che consolida. Ma che co-
s’altro significa consolidare se non portare a compimento nella santità?”. Sul tema, cf.
G. Wagner, “Le Saint-Esprit, force de révelation et d’accomplissement”, in Id., La li-
turgie, expérience de l’Église, pp. 57-66.
321
Capitolo IX
ritiene cioè che solo con essa giunga a pienezza il “mistero”, ossia la
trasformazione dei doni eucaristici nel corpo e nel sangue di Cristo.
È del resto antica e radicata convinzione nella coscienza della
chiesa – ancor prima che un’epiclesi consacratoria, insieme alla teo-
logia che essa presuppone, ricevesse una precisa ed esplicita formula-
zione – che il sacramento dell’eucaristia istituito da Cristo e da lui
consegnato alla chiesa non sia da essa “posseduto” una volta per
tutte, ma debba essere sempre, in certo modo, invocato e ricevuto
di nuovo come un dono. Se infatti la semplice ripetizione delle pa-
role istituzionali recitate da parte del celebrante in persona Christi
rischierebbe da sola di annullare – o quantomeno di offuscare – la
coscienza della distanza che pur rimane, anche nell’atto sacramen-
tale, tra la chiesa e Cristo, e tra la chiesa e il mistero che le è sta-
to consegnato, l’inserimento di quelle parole in un contesto di pre-
ghiera e di supplica 2 sottolinea più chiaramente, contro ogni rischio
di confusione e di automatismo, come il mistero eucaristico riman-
ga “indisponibile” per l’uomo e sia sempre un’azione compiuta da
Dio 3. Qui sta appunto l’origine e l’importanza dell’epiclesi, anche
quando essa appare nella forma di una semplice preghiera rivolta a
Dio non altrimenti esplicitata, e anche quando il ruolo dello Spiri-
to non vi è chiaramente espresso.
Ireneo di Lione, ad esempio, parla semplicemente dell’invoca-
zione di Dio fatta sul pane, che lo rende eucaristia (cf. § 1); Clemen-
te, Origene e Atanasio di Alessandria parlano più genericamente di
preghiere e di suppliche che “santificano” i doni (cf. §§ 2-4) – il
primo e il terzo, fedeli ancora a una teologia arcaica, sottolineano
322
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
che esse sono rivolte alla persona del Figlio di Dio, il Verbo, piut-
tosto che allo Spirito –; Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Teo-
doreto di Cirro da parte loro parlano semplicemente di “epiclesi”
senza ulteriori specificazioni, rilevandone chiaramente l’importan-
za e l’efficacia (cf. §§ 5-6; 9); e ancora Cirillo di Alessandria parla
di una “supplica” fatta con insistenza, a imitazione della preghiera
rivolta da Cristo al Padre, perché i doni siano trasformati in bene-
dizione spirituale, ma essa non risulta nettamente distinta dal resto
della preghiera eucaristica (cf. § 7-8)4.
Un’epiclesi espressamente “consacratoria” 5, che invoca cioè in
modo esplicito la discesa dello Spirito santo per la trasformazione
del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo, sembra attestata per
la prima volta nelle Catechesi mistagogiche attribuite a Cirillo di
Gerusalemme, il quale però a sua volta quasi certamente si fa eco
della liturgia celebrata al suo tempo nella città santa. In questo te-
sto, molto vicino alle epiclesi che diventeranno canoniche nella chie-
sa bizantina, si invoca Dio di mandare dall’alto il suo Spirito san-
to sui doni posti sull’altare perché li trasformi in corpo e sangue di
Cristo, nella certezza – si aggiunge – “che tutto ciò che lo Spirito
santo tocca è santificato e trasformato” (§ 10).
Da questo momento in poi sono molti gli autori che in oriente
sottolineano con forza l’azione dello Spirito santo invocato duran-
te la preghiera eucaristica (cf. §§ 11-27), ma significativamente
nella maggior parte dei testi liturgici, così come nei testi dei padri, il
suo ruolo non si limita alla semplice santificazione delle offerte, ma
323
Capitolo IX
324
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
preghiera l’uomo non fa che domandare, non fa che porre “sotto gli
occhi di Dio” la sua richiesta (§ 7), ma “è Dio che opera tutto” (§
15) attraverso il dono del suo Spirito: il ministro “adempie unica-
mente la funzione di segno” (§ 15) e la sua preghiera non è una for-
mula che costringe Dio a intervenire in modo automatico6, perché
in essa, ancora una volta, “tutto avviene in virtù della fede” (infra,
c. X,3; cf. supra, c. VIII,21), come dice Giovanni Crisostomo. “Noi
– chiarisce Nicola Cabasilas – affidiamo la santificazione dei miste-
ri alla preghiera del sacerdote, non perché confidiamo in una poten-
za umana, ma su quella di Dio” (§ 27): essa non è incerta, perché
il credente sa che il Signore, il quale ha consegnato l’eucaristia e ha
promesso di essere sempre presente in mezzo a coloro che lo invo-
cano (cf. § 6), resta fedele e concede sempre il suo Spirito santo (cf.
Lc 11,13), e questo, aggiunge ancora Cabasilas, “non perché l’uo-
mo ha supplicato, ma perché la Verità ha promesso di farci tale do-
no” (§ 27).
L’unica certezza che la chiesa ha e può avere è quella della fede:
questa è a un tempo la sua grandezza e la sua debolezza. Né l’euca-
ristia, né il battesimo, né altri sacramenti e nessun’altra delle sue
istituzioni potrebbe sussistere all’infuori di questa “attitudine epi-
cletica” 7, di questa dinamica di continua richiesta e di continua ac-
coglienza, nella fede, dello Spirito santo (cf. § 17). La chiesa stessa,
che nell’eucaristia si vede significata e riceve se stessa quale “corpo
di Cristo” (cf. § 13), non potrebbe esistere senza lo Spirito (cf. §
16), che, pur disceso una volta per tutte e sempre presente, sempre
discende di nuovo e la vivifica (cf. § 23): lo Spirito, e dunque l’eu-
una formula consacratoria tout court, senza cogliere in tutta la sua profondità la di-
mensione “epicletica” da essa implicata, e di farne una semplice alternativa alle parole
dell’istituzione (intese in modo altrettanto riduttivo), rischio non sempre evitato nella
tradizione orientale ortodossa, proprio per effetto della contrapposizione con quella
occidentale cattolica (cf. A. Schmemann, L’eucaristia, pp. 292-293).
7 La felice espressione è di J.-J. von Allmen, Saggio sulla cena del Signore, p. 70. Cf.
anche Y. J.-M. Congar, Credo nello Spirito santo, pp. 709-716 (“La vita della chiesa è
tutta quanta epicletica”).
325
Capitolo IX
8 Sul tema rimandiamo alle osservazioni di R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp.
328 e ss.
9 In greco: apophéne, che altri preferiscono tradurre più liberamente: “renda”.
326
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
327
Capitolo IX
1. Come il pane che proviene dalla terra una volta che ha ri-
cevuto su di sé l’invocazione di Dio14 non è più pane comune,
ma eucaristia costituita da due elementi, uno terrestre e uno ce-
leste, così anche i nostri corpi comunicando all’eucaristia non so-
no più corruttibili e hanno la speranza della resurrezione eterna.
Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,5
14 In greco: epíklesin toû Theoû. Mentre in questo passo la santificazione delle of-
ferte è operata da una parola di preghiera rivolta a Dio, altrove essa è frutto della pa-
rola (lógos) di Dio che agisce al cuore stesso della preghiera eucaristica, laddove l’auto-
re afferma che il calice del vino e il pane “ricevono la parola di Dio e diventano euca-
ristia” (cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie V,2,3, con la nota di A. Rousseau, in
Irénée de Lyon, Contre les hérésies. Livre V, a cura di A. Rousseau e L. Doutreleau, SC
152, Cerf, Paris 1969, vol. I, pp. 212-213), un’affermazione che si può accostare a
quella di Giustino (cf. supra, c. VIII,9).
15 Il pane dell’eucaristia e il crisma, o l’olio del battesimo.
16 Il nome di Dio, secondo il linguaggio dell’autore, è quello del Figlio unigenito
(cf. Clemente di Alessandria, Estratti da Teodoto 26,1). Data la concisione del testo,
non è chiaro a quale formula liturgica l’autore alluda, ma si tratta pur sempre di invo-
care il nome del Signore, non semplicemente di pronunciarlo.
328
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
17 Acqua cioè purificata attraverso preghiere che allontanano gli spiriti maligni.
18 Cf. Origene, Commento a Matteo 11,14, dove interpretando in senso eucaristico
1Tm 4,5, l’autore afferma che il pane “viene santificato per mezzo della parola di Dio
e della preghiera”.
19 Cioè i diaconi.
20 In greco: teleíosis.
21 Cf. l’anafora dell’Eucologio di Serapione 13,15, che conserva un’epiclesi rivolta al
Verbo e non allo Spirito santo: “Venga, Dio di verità, il tuo santo Verbo su questo pa-
ne, perché il pane sia corpo del Verbo, e su questo calice, perché il calice sia sangue di
verità”.
22 Frammenti di un’omelia ai battezzati perduta, citati da Eutichio di Costantino-
329
Capitolo IX
6. Alcuni cercano una prova del fatto che Dio si rende pre-
sente quando viene invocato per la santificazione degli atti da
noi compiuti26. Ma chi cerca una tale prova rilegga ciò che ab-
biamo esaminato in precedenza27. L’argomentazione infatti con
cui abbiamo provato che la potenza che si è manifestata a noi
prime sono le tradizioni trasmesse oralmente e che vengono rivelate solo agli iniziati,
le altre quelle trasmesse per iscritto e insegnate pubblicamente.
24 Cioè della consacrazione. In greco anádeixis (lett.: “manifestazione”, “presenta-
zione”), dal verbo anadeíknymi, che si trova proprio nell’epiclesi dell’anafora di Basi-
lio (cf. supra, § γ).
25 Allusione evidente alle parole dell’istituzione trasmesse dagli evangeli sinottici e
da Paolo.
26 L’autore sta parlando del battesimo, ma qui il suo ragionamento si estende a tut-
ti gli atti sacramentali nei quali Dio viene invocato come potenza di santificazione,
compresa quindi l’eucaristia.
27 Cf. Gregorio di Nissa, Discorso catechetico 11 e ss., dove l’autore tratta dell’in-
carnazione.
330
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
7. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicen-
do: Bevetene tutti (Mt 26,27). Il Signore prendendo il calice ren-
de grazie, cioè parla a Dio Padre in forma di preghiera, manife-
standolo partecipe quanto lui e concorde nell’approvare la be-
nedizione vivificante che ci sarebbe stata donata29, e allo stesso
tempo fornendoci il modello30 per rendere grazie, e così spezza-
re il pane e distribuirlo. Perciò anche noi, ponendo sotto gli oc-
chi di Dio questi elementi appena menzionati, preghiamo con
331
Capitolo IX
8. E preso del pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e lo diede lo-
ro, dicendo: Questo è il mio corpo (Lc 22,19). Rende grazie, cioè
parla a Dio Padre in forma di preghiera, manifestandolo parte-
cipe quanto lui e concorde nell’approvare la benedizione vivifi-
cante che ci sarebbe stata donata. Ogni grazia infatti e ogni do-
no perfetto viene a noi dal Padre per mezzo del Figlio nello Spi-
rito santo (cf. Gc 1,17). Quest’atto era inoltre un modello per
noi di quella supplica che avremmo dovuto elevare ogni volta
che avremmo presentato la grazia di questa offerta di doni mi-
stica e vivificante, ciò che del resto abbiamo l’abitudine di fare.
Elevando infatti azioni di grazie e glorificando insieme a Dio Pa-
dre anche il Figlio e lo Spirito santo, ci accostiamo così alle san-
te mense, credendo di essere vivificati e benedetti sia nel corpo
che nello spirito. Accogliamo infatti in noi colui che per noi si
è fatto uomo, la Parola di Dio Padre, che è vita e che vivifica.
Cirillo di Alessandria, Commento a Luca 22,19
31 Questa preghiera insistente (in greco: deómetha ektenôs), così come la “supplica”
(lité ) del brano seguente, sembra riferirsi all’epiclesi, anche se essa non invoca esplici-
tamente lo Spirito santo sui doni, né è chiaramente distinta dal resto della preghiera
eucaristica.
32 Lett.: “simboli” (sØmbola). Su questa espressione, cf. supra, p. 296, n. 45.
33 In greco: antítypa. Cf. supra, p. 296, n. 45.
332
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
333
Capitolo IX
10. Dopo aver santificato noi stessi per mezzo di questi inni
spirituali36 preghiamo il Dio amico degli uomini di mandare dal-
l’alto lo Spirito santo sui doni che presentiamo37, affinché ren-
da il pane corpo di Cristo e il vino sangue di Cristo: certamen-
te infatti tutto ciò che lo Spirito santo tocca è santificato e tra-
sformato38.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,7
334
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
12. Per questo Dio donò il suo Spirito santo alla sua chiesa
santa e cattolica e stabilì che esso fosse unito al santo altare e al-
l’acqua del santo battesimo, e per questo il Salvatore donò lo Spi-
rito paraclito attraverso gli apostoli: perché si riversasse e si co-
municasse a tutta la liturgia della santa chiesa di Dio, secondo
la parola detta dal Signore stesso: Ed ecco io sono con voi tutti i
giorni fino alla consumazione del tempo (Mt 28,20), affinché gra-
zie al battesimo, all’altare, all’eucaristia del pane e a tutto il cul-
to mistico41 compiuto nella chiesa i cuori fedeli potessero riceve-
re l’azione dello Spirito santo con ogni potenza e in vista delle
virtù dei frutti celesti, e così, rinnovati e riplasmati dalla poten-
za della grazia, cominciassero a vivere la vera vita secondo il sen-
tire celeste, dopo essersi spogliati del sentire materiale e terre-
no per mezzo della potenza dello Spirito42.
Pseudo-Macario, Omelie (Coll. I) LII,1,4
santo operi, attraverso i carismi, soltanto nei cuori dei fedeli che ne sono degni, men-
tre rimane inefficace negli indegni, proprio come nell’antica alleanza l’arca accoglieva
veramente la presenza dello Spirito di Dio, ma ciò non produceva alcun effetto visibi-
le a causa dei peccati del popolo.
335
Capitolo IX
336
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
tati ricevano una specie di unzione della grazia che viene sopra
di loro; e da quel momento li crediamo essere il corpo e il sangue
di Cristo, immortali, incorruttibili, impassibili e immutabili per
natura, come avvenne per il corpo del nostro Signore per mez-
zo della resurrezione.
Ma il sacerdote domanda anche che la grazia dello Spirito
santo venga su tutti coloro che sono radunati, affinché, come at-
traverso la nuova nascita45 sono stati resi un solo corpo, siano an-
che ora rinsaldati come in un solo corpo per mezzo della comu-
nione al corpo del Signore, e che nella concordia, nella pace e
nella pratica del bene, diventino una cosa sola (cf. Gv 17,21-22);
affinché tutti noi, guardando così verso Dio, con un pensiero in-
tegro, non riceviamo la partecipazione allo Spirito santo per il
nostro castigo, essendo divisi nelle nostre comprensioni e incli-
ni a discussioni e dispute, a invidia, a gelosia, disprezzando i
buoni comportamenti, ma ci mostriamo degni di riceverlo pro-
prio perché nella concordia, nella pace, nella pratica del bene e
con un pensiero integro teniamo l’occhio della nostra anima ri-
volto verso Dio. E così ci uniremo nella comunione ai santi mi-
steri, e, attraverso di essa, saremo congiunti al nostro capo, il
Cristo nostro Signore (cf. Col 1,18), del quale noi, come credia-
mo, siamo il corpo, e attraverso il quale otteniamo la comunio-
ne con la natura divina (cf. 2Pt 1,4).
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,11-13
45 Il battesimo.
46 La santificazione delle offerte realizzata nel sacramento eucaristico.
337
Capitolo IX
47 Qui e nei passi seguenti è lo Spirito santo invocato nell’epiclesi l’unico attore del-
la santificazione delle offerte, a differenza di altri passi dello stesso autore (cf. supra,
c. VIII,20-22) dove viene piuttosto sottolineato il ruolo svolto da Cristo per mezzo
della sua Parola. L’autore non si è preoccupato di elaborare una teoria che conciliasse
armonicamente le due prospettive, anche se probabilmente esse non erano per lui in
contraddizione tra loro.
48 L’autore allude alla celebrazione dei sacramenti, e in particolare di quello eucari-
stico.
49 Lett.: “simbolo” (sØmbolon), cioè di segno sacramentale. Cf. supra, c. VIII,20.
338
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
tutti noi [lo] abbiamo ricevuto (Gv 1,16)50. Non discese però pri-
ma del battesimo, né fu Giovanni a farlo discendere. Perché
dunque avviene questo? Perché tu sappia che il sacerdote adem-
pie la funzione di segno. Non c’è uomo tanto diverso da un al-
tro, quanto Giovanni da Gesù, e tuttavia lo Spirito discese su
di lui, affinché tu sappia che è Dio che opera tutto, è Dio che
fa tutto51.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera a Timoteo 2,4
brazione eucaristica.
339
Capitolo IX
17. Se anche ora non vi fosse la caparra dello Spirito (cf. 2Cor
1,22), non potrebbe esistere il battesimo, non ci sarebbe remis-
stante l’abside, sul quale si trovavano l’altare e la cattedra episcopale (spesso collocata
al centro del sØnthronon). Cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 234-236.
55 Qui l’autore interpreta la formula come un riferimento allo Spirito santo presen-
te nel ministro ordinato. Il riferimento è al saluto iniziale dato all’assemblea dal presi-
dente subito dopo la sua entrata e prima della sua salita sul sØnthronon collocato al fon-
do dell’abside (cf. supra, p. 166, n. 2).
56 C’è un’allusione evidente allo Spirito di Dio che “si librava sulle acque” (Gen
340
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
18. Che cosa fai, o uomo? Quando il sacerdote sta davanti al-
la mensa, tendendo le mani al cielo, invocando lo Spirito santo,
perché venga e tocchi le offerte, c’è molta calma e molto silen-
zio; e quando lo Spirito ha donato la sua grazia, quando è di-
sceso, quando ha toccato le offerte, quando ormai vedi l’agnello
immolato e perfetto, proprio allora fai rumore e confusione, li-
tighi e offendi? E come potrai trarre giovamento da questo sacri-
ficio, se ti accosti a questa mensa facendo tutto questo chiasso?
Giovanni Crisostomo, Omelia sul cimitero e sulla croce 3
19. [Origene] afferma che l’azione dello Spirito santo non ri-
guarda gli esseri inanimati e che non raggiunge quelli privi di
ragione. Ma asserendo ciò non pensa che le acque mistiche del
battesimo sono consacrate dalla discesa dello Spirito santo e che
il pane del Signore, nel quale si manifesta il corpo del Salvato-
re e che noi spezziamo per la nostra santificazione, come pure
il sacro calice – che sono posti sulla mensa della chiesa e che so-
no entrambi realtà inanimate – sono santificati per mezzo del-
l’invocazione e della venuta dello Spirito santo. Ma se la virtù
dello Spirito santo non si estende agli esseri privi di ragione e
inanimati, perché allora David canta: Dove andrò lontano dal tuo
Spirito (Sal 138,7)? Così dicendo dimostra che lo Spirito santo
contiene tutte le cose e che la sua maestà le circonda.
Teofilo di Alessandria, Lettera festale XVII 13
341
Capitolo IX
342
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
cielo ora discenda dal cielo, ma perché il pane e il vino stessi so-
no trasformati nel corpo e nel sangue di Dio.
Se poi ricerchi il modo, cioè come avvenga, ti basti sapere che
ciò avviene per mezzo dello Spirito santo, così come per mezzo
dello Spirito dalla santa Vergine il Signore formò a se stesso e
in se stesso una carne; e non sappiamo nient’altro, se non che la
parola di Dio è vera ed efficace (cf. Eb 4,12) e onnipotente, ma
il modo non è investigabile. Tuttavia non è male dire anche
questo, e cioè che, come il pane attraverso l’atto del mangiare e
il vino e l’acqua attraverso l’atto del bere si trasformano in mo-
do naturale nel corpo e nel sangue di colui che mangia e beve, e
non diventano un altro corpo diverso dal suo corpo precedente,
così per mezzo dell’epiclesi e della venuta dello Spirito santo il
pane dell’offerta insieme al vino e all’acqua vengono trasforma-
ti in modo soprannaturale nel corpo e nel sangue di Cristo, e non
sono due, ma un’unica e medesima realtà.
Giovanni di Damasco, Sulla fede ortodossa 86, ll. 74-84; 94-107
23. Per non farci credere che tutto si riduce al pane visibile,
[Cristo] ha detto più volte: Io sono il pane che discende dal cie-
343
Capitolo IX
344
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
345
Capitolo IX
so che, secondo 1Gv 2,1, intercede presso Dio Padre quale “avvocato”.
346
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”
lui è stato detto: Tu sei sacerdote per sempre (Sal 109,4; Eb 7,17).
Ecco perché i fedeli non debbono avere alcun dubbio riguardo
alla santificazione dei doni, né riguardo agli altri riti, a condi-
zione che siano compiuti secondo l’intenzione e attraverso le
preghiere dei sacerdoti. Su questo argomento abbiamo detto a
sufficienza.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 28,1-5
347
Capitolo IX
348
Capitolo X
“TI PREGHIAMO, SIGNORE, PER …”
1 Alcuni di questi testi possono riferirsi alla “preghiera dei fedeli” che segue la li-
349
Capitolo X
350
“Ti preghiamo, Signore, per …”
2 In proposito è stato scritto: “Si traduce generalmente questa parola con ‘pigrizia’,
‘indifferenza’ o ‘negligenza’; la si potrebbe tradurre anche con ‘lasciar fare’, poiché es-
sa designa l’atteggiamento di coloro che si lasciano condurre dalle forze esteriori degli
astri o dalle forze interiori del desiderio. La rhathymía è il contrario della vigilanza,
dell’attenzione che il credente deve incessantemente mantenere per le cose della fede,
e in particolare durante le celebrazioni liturgiche … Si tratta di una tendenza inscrit-
ta nella natura umana che dipende dalla volontà dell’uomo seguire o no, di cui Giovan-
ni Crisostomo dice una volta che è la radice della disperazione e contro la quale mette
spesso in guardia i suoi ascoltatori, in particolare i neofiti” (Ph. de Roten, Baptême et
351
Capitolo X
mento della propria povertà, ancora segnata dalla divisione, dal pec-
cato, dalla morte, dal male, ma insieme riconoscimento della poten-
za del mistero celebrato: la comunità cristiana impara ad accogliere
il pro vobis proclamato in modo solenne e incondizionato dalle pa-
role del Signore (“questo è il mio corpo spezzato per voi”) solo nel-
la misura in cui, nella supplica, lo riconosce come pro nobis e pro
omnibus. È solo nella supplica che essa diventa pienamente consa-
pevole del dono prima celebrato nella lode e nel rendimento di gra-
zie, e può tradurre questa consapevolezza in responsabilità3.
Un ultimo elemento, nella sua apparente singolarità, può aiutar-
ci a definire meglio il carattere proprio di questa intercessione euca-
ristica nella visione dei padri. Oltre infatti a far memoria dei defun-
ti, di tutti coloro che hanno peccato, dei vivi che si trovano in dif-
ficoltà di vario genere, di coloro che svolgono i diversi ministeri nelle
chiese e di quelli che sono alla guida dei popoli, l’assemblea ri-
corda davanti a Dio anche chi apparentemente non ha alcun bisogno
di essere sostenuto dalla sua preghiera: i santi. Essi godono già del-
la comunione con Dio e la chiesa sa di poter contare sulla loro in-
tercessione (cf. §§ 4; 16-17) e spera di poter essere associata alla
loro condizione gloriosa (cf. § γ). Quale senso attribuire allora al-
la preghiera “per” (hypér) i santi patriarchi, profeti, apostoli, evan-
gelisti, martiri, e per tutta la schiera dei santi, tra i quali spicca in mo-
do eminente la Madre di Dio? Il testo delle anafore delle Costitu-
zioni apostoliche (cf. § α) e della Liturgia di Giovanni Crisostomo
(cf. § β) è sufficientemente esplicito, e i tentativi di interpretarlo in
modo diverso da ciò che palesemente significa non sembrano con-
vincenti. In realtà, come è stato notato, una tale preghiera diventa
comprensibile solo nella prospettiva dell’attesa escatologica del re-
gno di Dio pienamente realizzato, attesa che è condivisa dalla chie-
mystagogie, p. 31). Su questa nozione, che somiglia per certi versi a quella che le fonti
monastiche chiamano “acedia” (akedía), cf. anche la nota di L. Brottier, in Jean Chryso-
stome, Sermons sur la Genèse, p. 376.
3 Lo stessa cosa si può dire della “preghiera dei fedeli” che segue immediatamente
352
“Ti preghiamo, Signore, per …”
sa del cielo e della terra. Secondo una tale prospettiva, che è ben pre-
sente ai padri più antichi (cf. § 1; 3; 4) – ma non più, a quanto pa-
re, allo Pseudo-Dionigi (cf. § 14) e a Nicola Cabasilas (cf. § 17) 4 –,
anche i santi del cielo attendono la piena redenzione e gridano in-
sieme alla chiesa che lotta ancora sulla terra: “Fino a quando?” (Ap
6,10); anche loro si uniscono all’invocazione incessante dei creden-
ti: “Maranathà!” (1Cor 16,22), “Vieni Signore Gesù!” (Ap 22, 20).
Solo Cristo si separa dalla schiera di tutti i santi del cielo e della
terra, poiché “non può essere equiparato a nessuno degli uomini”
(§ 1). Egli non attende, ma è la pienezza attesa: è lui che, morto per
tutti, intercede per tutti alla destra di Dio quale “Pontefice” (§ 15).
In questo senso “la celebrazione dell’eucaristia è precisamente l’anti-
cipo sacramentale del compimento ultimo, un evento che ‘ricorda’
a Dio il compimento escatologico della salvezza che dovrà essere rea-
lizzata. Di conseguenza, essa ha luogo ‘per’ i santi, poiché i santi nel
cielo attendono, anch’essi, l’avvento del regno futuro” 5.
Secondo la testimonianza della liturgia e dei padri, dunque, la
chiesa nella sua intercessione prega per tutti indistintamente, esten-
dendo a tutti la domanda fondamentale dell’epiclesi: la trasformazio-
ne e l’unità di tutti in un solo “corpo”, quello escatologico di Cristo6.
4 L’escatologia di questi due autori sembra difettare, in questo punto, di una pro-
spettiva ecclesiale e universale per ridursi a una prospettiva individuale: per loro i san-
ti defunti, nella misura in cui si sono assimilati a Cristo, hanno già raggiunto personal-
mente il regno dei cieli e non hanno da attendere altro; possono essere solo motivo di
lode e ringraziamento per la chiesa, non di preghiera. Ma questa non era la prospetti-
va antica.
5 G. Wagner, “La commémoration de saints dans la prière eucharistique”, in Id.,
La liturgie, p. 42.
6 Cf. C. Giraudo, In unum corpus, pp. 325-329 (a proposito dell’anafora di Basilio).
353
Capitolo X
ste fino alla consumazione del tempo (Mt 28,20); e ancora per
tutto l’episcopato che dispensa rettamente la parola di verità
(cf. 2Tm 2,15).
Ti supplichiamo ancora per l’indegnità di me che ti presento
questa offerta, per tutto il presbiterio, per i diaconi e per tut-
to il clero, affinché tu conceda a tutti la sapienza e li ricolmi
dello Spirito santo.
Ti supplichiamo ancora, Signore, per il re, per coloro che sono
al potere (1Tm 2,2) e per tutto l’esercito, affinché possiamo
godere della pace e, trascorrendo nella calma e nella concordia
ogni tempo della nostra vita, possiamo glorificarti attraverso
Cristo, nostra speranza.
Ti presentiamo ancora questa offerta anche per tutti i santi
che fin dalle origini ti furono graditi: patriarchi, profeti, giu-
sti, apostoli, martiri, confessori, vescovi, presbiteri, diaconi,
suddiaconi, lettori, cantori, vergini, vedove, laici e tutti colo-
ro dei quali tu stesso conosci i nomi.
Ti presentiamo ancora questa offerta per questo popolo, af-
finché tu lo renda, a lode del tuo Cristo, sacerdozio regale e na-
zione santa (1Pt 2,9); per coloro che vivono in verginità e casti-
tà, per le vedove della chiesa, per coloro che vivono santamen-
te il matrimonio e generano figli, per i bambini del tuo popolo,
perché tu non rigetti nessuno di noi.
Ti imploriamo ancora per questa città e per coloro che la abi-
tano, per quelli che sono nella malattia, per quelli che sono
sottomessi a dura schiavitù, per coloro che si trovano in esilio,
per coloro cui sono stati confiscati i beni, per i naviganti e per
i viaggiatori, affinché di tutti tu sia soccorritore, difensore e
protettore (Sal 118,114).
Ti supplichiamo ancora per coloro che ci odiano e ci persegui-
tano a motivo del tuo nome (cf. Mt 5,44; 10,22), per coloro
che sono fuori e vagano nell’errore, affinché tu li riconduca al
bene e tu plachi la loro collera.
Ti supplichiamo ancora per i catecumeni della chiesa, per quel-
li che sono tormentati dall’avversario e per i nostri fratelli che
sono nella penitenza, affinché gli uni tu li renda perfetti nel-
la fede, gli altri tu li purifichi dall’opera del maligno e degli ul-
354
“Ti preghiamo, Signore, per …”
re, pronunciata dal diacono e conclusa dal vescovo, nella quale il vescovo prega anco-
ra per l’assemblea, per tutti i ministri e i membri della chiesa, per i governanti, per i
santi martiri, per i defunti (non menzionati nella prima preghiera) e i neobattezzati
(cf. Costituzioni apostoliche VIII,13,1-10).
355
Capitolo X
fa’ che riposino, o Dio nostro, dove splende la luce del tuo vol-
to (Sal 4,7). Ancora ti supplichiamo: ricordati, Signore, di tut-
to l’episcopato degli ortodossi che dispensa rettamente la pa-
rola della tua verità (cf. 2Tm 2,15), di tutto il presbiterio, del-
l’insieme dei diaconi che servono in Cristo e di ogni grado
dell’ordine sacerdotale. Ti presentiamo ancora questo culto spi-
rituale (Rm 12,1) per il mondo intero, per la santa chiesa cat-
tolica e apostolica8… E concedici di glorificare e di lodare con
una sola bocca (cf. Rm 15,6) e un solo cuore il tuo venerabi-
lissimo e magnifico nome, del Padre, del Figlio e dello Spiri-
to santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Il popolo: Amen!
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 331-332; 337
ne per le quali si intercede. Si noti come in questo testo si chiede a Dio “grazia e mi-
sericordia insieme ai santi” e non “per i santi”, come nella Liturgia di Giovanni Crisosto-
mo e nelle Costituzioni apostoliche. Su questo punto, che nei secoli è stato a lungo og-
getto di discussioni tra gli interpreti, cf. §§ 1; 3; 14-17 e la bibliografia citata infra, p.
376, n. 58.
356
“Ti preghiamo, Signore, per …”
10 L’autore difende il valore della tradizione ecclesiastica di ricordare i nomi dei de-
re si riferisce alla santità e alla giustizia di Cristo, e così difende la legittimità di una
preghiera di intercessione per tutti i defunti, compresi i santi.
357
Capitolo X
mortali sono in terra, a parte coloro che sono risorti e che sono
entrati con lui nella sala delle nozze, come dice il santo evange-
lo: Molti corpi di santi risuscitarono ed entrarono con lui nella cit-
tà santa (Mt 27,52-53) … Inoltre, per riprendere il filo del discor-
so, voglio aggiungere che è necessario che la chiesa compia tale
[rito], in quanto le è stato tramandato dai padri. E chi potrebbe
abolire l’insegnamento di una madre o la legge di un padre? Co-
me è detto nel libro di Salomone: Ascolta, figlio, le parole di tuo
padre e non rifiutare gli insegnamenti di tua madre (Pr 1,8).
Epifanio di Salamina, Panarion 75,7-8
12 Cioè la consacrazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo conclusasi
mentarsi” (koimáomai) implica la fede nella resurrezione dai morti, concepita come
“risveglio” (éghersis).
358
“Ti preghiamo, Signore, per …”
14 Il defunto.
359
Capitolo X
foriche.
16 Cf. supra, c. VIII,β.
360
“Ti preghiamo, Signore, per …”
17 Si parla di un defunto.
18 Il diacono.
361
Capitolo X
362
“Ti preghiamo, Signore, per …”
20 In conformità all’uso biblico, nei padri la parola laós (“popolo”) indica l’insieme
dei credenti che costituiscono il “popolo di Dio”, non genericamente l’insieme degli
abitanti di un paese, o la semplice folla. Il tenere le braccia tese è uno dei principali ge-
sti di preghiera raccomandati dai padri (cf. Origene, Sulla preghiera 31,2; G. Bunge,
Vasi di argilla, pp. 161-167).
21 L’espressione pléroma hieratikón, secondo l’interpretazione generalmente adotta-
ta, indica la totalità del clero (cf. s.v. “πλρωμα” in G. W. H. Lampe, A Patristic
Greek Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1961, p. 1094 [A.9.d]); ma non si può esclu-
dere, dato il contesto, che sia da interpretare come apposizione dell’espressione prece-
dente e che quindi indichi lo stesso popolo credente in quanto depositario del sacerdo-
zio comune dei battezzati.
22 Per la stessa specificazione, cf. supra, § β.
23 I catecumeni defunti, lascia intendere l’autore, non possono essere ricordati no-
minalmente durante l’anafora eucaristica perché non sono stati integrati a pieno titolo
nella chiesa; dopo poco però aggiunge che si deve pregare “per tutti”.
24 In quanto, pur essendo vivi, sono spiritualmente morti.
363
Capitolo X
25 La zucca (kolokØnthe) è la pianta che, secondo il testo greco dei lxx, Dio fece
crescere sul capo di Giona (Gn 4,6), laddove le traduzione moderne dall’ebraico han-
no: “pianta di ricino” (qîqâjôn).
26 Cioè fuori della chiesa.
364
“Ti preghiamo, Signore, per …”
ristica.
28 Cioè il corpo di Cristo.
29 Nella letteratura cristiana antica l’ulivo (in greco: élaios), per un gioco di asso-
365
Capitolo X
30 Il riferimento qui più che alle intercessioni anaforiche è alla “preghiera dei fede-
366
“Ti preghiamo, Signore, per …”
ché non soltanto attraverso ciò che accadde allora, ma anche at-
traverso ciò che si celebra ogni giorno dimostriamo la sua du-
plice forza, vogliamo richiamarvi alla memoria la stessa preghie-
ra che viene fatta dal popolo.
Certamente, se uno tra di voi dell’assemblea vi ordinasse di
pregare, ognuno per conto suo, per la salvezza del vescovo, cia-
scuno si rifiuterebbe di farlo, ritenendolo un fardello troppo
grande per le sue forze; quando però tutti insieme sentite il dia-
cono che ordina questo e dice: “Preghiamo per il vescovo, per
la sua vecchiaia e la sua protezione31, perché dispensi rettamen-
te la parola della verità (cf. 2Tm 2,15), per coloro che si trova-
no qui e per quelli che sono in ogni luogo”32, voi in quel caso non
vi rifiutate di adempiere l’ordine, ma offrite la vostra preghie-
ra con grande sollecitudine, sapendo bene quale forza abbia la
vostra assemblea.
Quelli che tra voi sono iniziati ai misteri sanno bene ciò che
sto dicendo! Alla preghiera dei catecumeni, infatti, questo non
è ancora permesso, perché non sono ancora giunti ad avere una
tale franchezza [davanti a Dio]; ma a voi il diacono che intro-
duce le preghiere ordina addirittura di elevare suppliche per il
mondo intero, per la chiesa estesa fino ai confini della terra e per
tutti i vescovi che la governano, e voi obbedite con fervore, te-
stimoniando con i fatti che è grande la potenza della preghiera
che viene offerta in modo concorde dall’intero popolo [riunito
insieme] in chiesa.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’oscurità delle profezie 2,4-5
367
Capitolo X
tutti, non solo dei vivi, ma anche dei morti? A elevare una tale
supplica ritengo che non sia più sufficiente la franchezza di Mo-
sè e quella di Elia (cf. Es 32,32; 1Re 18,36-37). Egli, infatti,
come uno al quale è stato affidato il mondo intero e che è lui
stesso padre di tutti, si accosta così a Dio, supplicandolo di far
cessare le guerre ovunque siano, di sedare le rivolte, chiedendo
pace, prosperità e una rapida liberazione dai mali, sia privati che
pubblici, che incombono su ciascuno. Egli deve essere perciò in
ogni cosa tanto superiore a tutti coloro per i quali prega, quanto
è giusto che lo sia colui che guida e difende rispetto a coloro che
sono da lui difesi34.
Giovanni Crisostomo, Sul sacerdozio 6,4
mo’ di libro, sulle quali venivano incisi i nomi dei vivi e dei morti che dovevano esse-
re commemorati durante la liturgia. La lettura dei dittici, fatta originariamente dal
diacono dopo il bacio della pace e prima dell’anafora, è da distinguere dalle commemo-
368
“Ti preghiamo, Signore, per …”
razioni anaforiche fatte dal presbitero. L’evoluzione della liturgia ha finito però per
associare strettamente tra loro questi due atti liturgici: a partire almeno dalla fine del-
l’viii secolo la lettura dei dittici fu spostata dalla sua collocazione originaria al termine
dell’anafora. Nel testo di Teodoro di Mopsuestia, come in quello dello Pseudo-Dioni-
gi (cf. infra, § 14), la distinzione è ancora chiara: i dittici vengono letti prima dell’ana-
fora, mentre le commemorazioni e le intercessioni sono fatte da colui che presiede la
celebrazione durante l’anafora.
369
Capitolo X
36 Cioè l’eucaristia.
37 La consacrazione delle offerte in corpo e sangue di Cristo.
38 Cioè nel rito della próthesis, prima dell’inizio della liturgia propriamente detta.
370
“Ti preghiamo, Signore, per …”
371
Capitolo X
po, quella di Basilio e quella di Giovanni Crisostomo (“Bocca d’oro”), di cui coglie le
differenze, che attribuisce a un’intenzione diversa dei due autori.
45 Cf. supra, § γ.
46 Cf. supra, § β.
372
“Ti preghiamo, Signore, per …”
47 Cioè coloro cui spetta presiedere l’eucaristia. L’autore sta descrivendo una litur-
gia pontificale.
48 Cioè Cristo.
49 Cf. supra, § β.
50 Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 318, ll. 34-35.
51 Lett.: “sommo sacerdote”.
373
Capitolo X
374
“Ti preghiamo, Signore, per …”
55 Cf. ibid.
56 Cf. supra, § γ.
57 Cf. ibid.
375
Capitolo X
58 Qui e nel seguito dello stesso capitolo l’autore polemizza con chi prima di lui, co-
376
“Ti preghiamo, Signore, per …”
rita ai santi. Sulla questione cf. il già citato G. Wagner, “La commémoration des saints”;
B. Bobrinskoy, “Intercession eucharistique ‘pour’ ou ‘avec’ les saints”, in Θυσα
ανσεως. Mélanges liturgiques offerts à la mémoire de l’archevêque Georges Wagner
(1930-1993), Presses Saint-Serge-Institut de Théologie Orthodoxe, Paris 2005, pp.
41-44; R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp. 214-221.
377
Capitolo XI
“PADRE NOSTRO, CHE SEI NEI CIELI”
ca), così come in quello della Tradizione apostolica (inizio iii secolo), dell’VIII libro del-
le Costituzioni apostoliche e di molte altre fonti del iv secolo, non vi è traccia del Padre
nostro all’interno dell’eucaristia: esso è attestato con sicurezza per la prima volta nel-
le Catechesi attribuite a Cirillo di Gerusalemme (380 ca) e poi in diverse omelie di Gio-
vanni Crisostomo datate agli ultimi anni novanta del iv secolo. Cf. R. F. Taft, A Hi-
story of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites, pp. 137-139; E.
Mazza, “Le ‘Notre Père’ entre dans les rites de communion de la messe: une hypothè-
se”, in Rites de communion. Conférences Saint-Serge, LV e Semaine d’Études Liturgiques.
Paris, 23-26 juin 2008, a cura di A. Lossky e M. Sodi, Libreria editrice vaticana, Città
del Vaticano 2010, pp. 131-148.
4 Nella descrizione di Cirillo (cf. infra, § 1) non vi è addirittura alcuno stacco tra le
379
Capitolo XI
para solo una breve serie di suppliche – e insieme alle orazioni che
la accompagnano fa da transizione verso i riti di comunione.
Questa collocazione, a coronamento dell’anafora e come intro-
duzione alla comunione, fu probabilmente favorita dal fatto che il
Padre nostro, anche nei suoi contenuti, si adatta bene a svolgere en-
trambe le funzioni. Nella sua prima parte, infatti, appare in un cer-
to senso come una sintesi delle idee principali contenute nell’anafo-
ra: come quest’ultima è una preghiera interamente rivolta al Padre;
come il “triplice santo” esprime la lode di Dio attraverso la santifi-
cazione del suo nome; come l’epiclesi invoca la venuta del Regno 5;
ripropone il collegamento tra cielo e terra che costituisce la dinami-
ca fondamentale di tutta l’anafora, in quanto offerta di lode che uni-
sce l’assemblea terrena a quella celeste; dispone inoltre gli oranti a
un’obbedienza totale alla volontà divina, la stessa mostrata dal Fi-
glio al Padre nel sacrificio della sua vita; e infine, essendo espressa al
plurale, è una preghiera comune di tutta l’assemblea (cf. §§ 15-16),
cui per altro spetta il compito di pronunciarla, come indicano chia-
ramente anche le rubriche delle principali liturgie orientali. È co-
me se attraverso tale preghiera, dunque, la comunità radunata faces-
se propria e confermasse di nuovo la preghiera eucaristica elevata a
suo nome dal ministro celebrante, pur dopo averla già sigillata con
il solenne “Amen”.
Allo stesso tempo, nella sua seconda parte, questa preghiera di-
spone i fedeli all’accoglienza della comunione con la richiesta del
pane “quotidiano” (epioúsios) – che numerosi padri commentano
riferendola al pane eucaristico (cf. §§ 1-2) – e con l’implorazione
di perdono da parte di Dio e l’impegno di ciascuno a perdonare i fra-
quasi ogni chiesa conclude con la preghiera del Signore” (“quam totam petitionem fe-
re omnis ecclesia dominica oratione concludit”).
5 È significativo che alcuni codici minuscoli del Vangelo di Luca, insieme ad alcuni
380
“Padre nostro …”
Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Colossesi 6,4 e da altri testi simili (cf. J.-P. Cattenoz,
Le Baptême mystère nuptial. Théologie de saint Jean Chrysostome, Éd. du Carmel, Venas-
que 1993, p. 314; Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 321-323).
7 Questi sono gli atteggiamenti propri del battezzato secondo la descrizione di Ci-
rillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 3,4. Sul tema cf. R. G. Co-
quin, “Le thème de la παρρησα et ses expressions symboliques dans les rites d’initia-
tion, à Antioche”, in Proch-Orient Chrétien 20 (1970), pp. 3-19.
381
Capitolo XI
382
“Padre nostro …”
Rites, p. 147. Sul tema cf. R. Scognamiglio, Il “Padre nostro” nell’esegesi dei Padri. Bre-
viarium Evangelii, Edizioni S. Lorenzo, Reggio Emilia 1993, pp. 29-31.
383
Capitolo XI
384
“Padre nostro …”
385
Capitolo XI
l’autore nella traduzione del termine epioúsios (cf. supra, p. 385, n. 9).
386
“Padre nostro …”
to ai Salmi 65,10; Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 35,2; Costitu-
zioni apostoliche II,8,2). Quanto al senso, cf. Sir 34,9-10.
387
Capitolo XI
2. Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (Mt
6,9): il “nome” è quello del Figlio di Dio. Dicendo: Padre, ti mo-
stra di quali beni sei stato reso degno, ora che sei diventato fi-
glio di Dio. Dicendo poi: Nei cieli ti ha indicato la patria e la ca-
sa di tuo Padre; se infatti vuoi avere Dio come padre, guarda al
cielo e non alla terra. Tu però non dici: “Padre mio”, ma: Padre
nostro, perché tutti sono per te fratelli di un unico Padre.
Sia santificato il tuo nome, cioè: “Rendici santi, affinché tu
sia glorificato a causa nostra”. Infatti, come Dio è bestemmia-
to attraverso di me, così egli è glorificato a causa tua.
Venga il tuo regno (Mt 6,10), cioè la seconda venuta14: chi in-
fatti ha una buona coscienza prega con franchezza che venga la
resurrezione e il giudizio.
388
“Padre nostro …”
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra (Mt 6,10):
“Come gli angeli – intende dire – compiono la tua volontà, co-
sì concedi anche a noi di compierla”.
Dacci oggi il nostro pane sostanziale (Mt 6,11): chiama “sostan-
ziale” il pane che basta a darci sostanza e consistenza; ed elimi-
na la preoccupazione per il domani (cf. Mt 6,34). Ma il “pane
sostanziale” è anche il corpo di Cristo, al quale preghiamo di po-
ter partecipare senza condanna.
E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai
nostri debitori (Mt 6,12): poiché noi pecchiamo anche dopo il
battesimo, supplichiamo che egli ci rimetta i nostri debiti se non
conserviamo rancore per le offese ricevute. Dio infatti mi pren-
de a esempio, e ciò che io faccio all’altro, lo fa a me.
E non ci indurre in tentazione (Mt 6,13): noi uomini siamo de-
boli, e perciò non dobbiamo gettarci da soli in una tentazione,
ma pregare Dio di non essere sopraffatti dalla tentazione. Chi
infatti è stato sopraffatto e vinto, è proprio chi è stato intro-
dotto nell’abisso della tentazione; ma [che dire di] chi vi è cadu-
to, ma ha vinto?
Ma liberaci dal maligno (Mt 6,13). Non ha detto: “Dagli uo-
mini maligni”, perché non sono loro a recarci danno, ma il ma-
ligno.
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 42
389
Capitolo XI
ce, come [è detto] dalla comune assemblea dei fedeli15, così: Pa-
dre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo
regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci og-
gi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi
li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione, ma
liberaci dal maligno. Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei
secoli. Amen (Mt 6,9-13)16.
Costituzioni apostoliche III,18,1-2
eucaristica.
16 La dossologia finale è riportata da numerosi manoscritti antichi e potrebbe esse-
390
“Padre nostro …”
6. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli (Mt
6,9). Vedi come subito [il Signore] abbia elevato chi ascolta, ri-
cordando con le sue prime parole ogni beneficio. Chi infatti ha
chiamato Dio “Padre” per mezzo di quest’unico appellativo ha
confessato la remissione dei peccati, l’eliminazione del castigo,
la giustificazione, la santificazione, la redenzione, l’adozione fi-
liale, l’eredità, la fratellanza con l’Unigenito e il dono dello Spi-
rito. Non è possibile infatti chiamare Dio “Padre” senza aver
conseguito tutti questi beni18. In duplice modo quindi innalza il
loro animo, con la dignità sublime di colui che viene invocato
e con la grandezza dei benefici di cui ha goduto. Quando poi di-
ce: Nei cieli, non lo dice per racchiudere Dio lassù, ma per al-
lontanare chi prega dalla terra, fissarlo nei luoghi elevati e nel-
le dimore celesti …
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri de-
bitori (Mt 6,12). Vedi l’eccesso del suo amore per gli uomini?
Dopo aver eliminato così tanti mali e averci donato un indici-
bile cumulo di beni degna di nuovo del perdono coloro che han-
no peccato. Del resto, che questa preghiera sia riservata ai fede-
li, lo insegnano anche le leggi della chiesa e l’inizio della preghie-
391
Capitolo XI
19 Preghiera fatta al congedo dei catecumeni, poco prima dell’inizio della “liturgia
dei fedeli”.
20 In greco: nenomisméne (lett.: “che è in uso”). La stessa espressione viene utiliz-
zata per una moneta “che ha corso legale”. Il riferimento è ancora una volta al Padre
nostro.
21 L’anafora e le preghiere che la seguono riservate ai soli fedeli. L’aggettivo “tre-
392
“Padre nostro …”
gizione degli altri beni; e si potrebbero dire molte altre cose che
mostrano la nobiltà della nostra condizione e la loro miseria. Do-
po aver suggerito in modo allusivo tutte queste cose parlando
dello Spirito, del timore, dell’adozione filiale, [l’Apostolo] for-
nisce un’altra prova del fatto che abbiamo in noi uno spirito di
figli adottivi. E quale? Per mezzo di esso gridiamo: “Abbà, Padre!”
(Rm 8,15). Quanto ciò sia importante, lo sanno bene gli inizia-
ti22, i quali nella preghiera mistica23 sono invitati a dire innan-
zitutto questa parola.
“Ma come? – dirà qualcuno – Non chiamavano forse Dio
‘Padre’ anche i giudei? Non senti Mosè che dice: Hai abbando-
nato Dio che ti ha generato (Dt 32,18)? Non senti Malachia che
rimprovera e dice: Un solo Dio ci ha creati e uno solo è Padre di
tutti noi (Ml 2,10)?”. Ma nonostante queste e molte altre paro-
le, non troviamo da nessuna parte che essi abbiano chiamato
Dio con questo nome, né che abbiano pregato così. Noi tutti,
invece, sacerdoti e semplici fedeli, governanti e sottomessi, ab-
biamo ricevuto l’ordine di pregare così, ed è proprio questa la
prima voce che abbiamo emesso dopo quelle mirabili doglie del
parto e quella nuova e paradossale forma di nascita24! Del resto,
se mai anche quegli uomini chiamarono Dio così, lo fecero di
propria volontà, ma coloro che vivono al tempo della grazia, lo
fanno perché mossi dall’azione dello Spirito.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani 14,2-3
sto: all’uscita dalla vasca battesimale era prevista la recitazione del Padre nostro da
parte del neofita.
393
Capitolo XI
10. Giunti ormai all’unità della fede (cf. Ef 4,13) e alla co-
munione dello Spirito (cf. Fil 2,1) grazie all’economia di salvez-
za di colui che è morto per noi e si è seduto alla destra del Pa-
dre, noi non siamo più sulla terra, ma stiamo in piedi davanti al
trono regale di Dio, nel cielo, dove si trova Cristo (cf. Col 3,1),
come egli stesso dice: Padre giusto, santifica nel tuo nome colo-
ro che mi hai dato, affinché dove sono io, siano anch’essi insieme a
me (cf. Gv 17,11.17.24). Perciò, ricevuta l’adozione a figli e di-
ventati coeredi di Cristo attraverso la sua grazia e non con le
opere (cf. Rm 8,15-17), abbiamo lo Spirito del Figlio di Dio (cf.
Gal 4,6). Contemplando l’azione e la grazia di tale Spirito il sa-
cerdote grida dicendo: “Abba, Padre celeste, rendici degni di
osare dire con franchezza e senza condanna: [Padre nostro …]”.
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 41
*
11. La santissima e venerabile invocazione del grande e bea-
to Dio e Padre è simbolo di quell’adozione a figli, sostanziale
ed effettiva27, che sarà concessa per dono e per grazia dello Spi-
amministrato insieme all’eucaristia: è possibile dunque che l’autore pensi al Padre no-
stro recitato dai battezzati durante la liturgia eucaristica.
26 Cf. supra, § 6.
27 L’autore intende qui l’adozione a figli in senso escatologico.
394
“Padre nostro …”
12. Gli apostoli del nostro Salvatore, che si erano ormai ele-
vati al di sopra delle preghiere dell’Antico Testamento, si acco-
starono a lui e gli chiesero di insegnare loro a pregare. Ed egli
lo fece consegnando una preghiera adeguata a loro soltanto e a
chi è simile a loro. Perciò disse loro: Voi dunque pregate così: Pa-
dre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (Mt 6,9), con
ciò che segue. Ciascuno dunque esamini se stesso (1Cor 11,28),
per vedere se è degno, come chi è diventato figlio di Dio, di in-
vocare il Padre che è nei cieli e dire: Padre nostro, che sei nei cie-
li, e ciò che segue. Se però non è così, abbia cura di scegliersi
una preghiera adatta alla propria condizione dal libro dei Salmi
e dalle parole dei profeti.
Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi 85,1
395
Capitolo XI
396
“Padre nostro …”
14. [Il Signore] ci insegna che cosa bisogna dire nella preghie-
ra e in poche parole ci istruisce in tutta la virtù: quelle parole
infatti non sono solo un insegnamento per la preghiera, ma un’e-
ducazione alla vita perfetta. Ma esaminiamo con molta attenzio-
ne quali sono queste parole e che significato hanno e osservia-
mole fermamente come leggi divine. Padre nostro, che sei nei cieli
(Mt 6,9). Oh, quanto è smisurato il suo amore per gli uomini!
Quanto eccellente la sua generosità! Quale parola basterà per
397
Capitolo XI
1,14, diventa simbolo della miseria e della bassezza della vita umana.
398
“Padre nostro …”
16. La sua lode nella chiesa dei santi (Sal 149,1). Anche qui in-
segna un’altra cosa. Mostra che bisogna elevare [al Signore] gli
inni di lode attraverso l’unione concorde di tutte le voci. La
parola “chiesa” infatti designa un complesso e un’assemblea di
persone29… Lodino il suo nome in coro (Sal 149,3). Ecco che di
nuovo si dà risalto alla stessa unione concorde delle voci! Pro-
prio per questo infatti esistono i cori, perché tutti insieme in
modo unanime elevino gli inni di lode. Lo mostra anche Paolo,
laddove dice: Non disertando le nostre assemblee (Eb 10,25), e lo
399
Capitolo XI
17. Non contristate lo Spirito santo – sta scritto – con il cui si-
gillo siete stati segnati (Ef 4,30). Questo contrassegno rimanga
sulla tua bocca, non romperne i sigilli! … Hai una bocca spiri-
tuale? Pensa a qual è la prima parola che hai detto, a qual è la
dignità della tua bocca. Chiami Dio “Padre”, e subito dopo in-
sulti il fratello? Pensa che cosa ti permette di chiamare Dio “Pa-
dre”. La natura? No. La virtù? Neanche questo. Che cosa al-
lora? Soltanto l’amore verso gli uomini, la compassione e la mi-
sericordia abbondante. Quando dunque chiami Dio “Padre”,
non pensare solo che insultando gli altri fai ciò che è indegno
della tua nobiltà, ma che tu possiedi tale nobiltà proprio grazie
all’amore verso gli uomini30. Non disonorarla, dunque, avendo-
la ricevuta grazie a tale amore, e poi usando durezza contro i
fratelli. Chiami Dio “Padre” e insulti? Non è questo che si ad-
dice a un figlio di Dio! Il dovere del figlio di Dio è perdonare ai
nemici, pregare per coloro che lo crocifiggono, versare il sangue
per coloro che lo odiano. Ecco ciò che è degno del figlio di Dio:
trasformare i nemici, gli ingrati, i ladri, gli impudenti e coloro
che lo insidiano in fratelli, non insultare come schiavi coloro che
sono diventati suoi fratelli!
30 Si può intendere la frase sia nel senso che la condizione filiale che il cristiano pos-
siede è frutto dell’amore di Dio per gli uomini, sia nel senso che tale amore è ciò che
manifesta la realtà effettiva di tale condizione, perché, se Dio ama gli uomini, chi di-
ce di essere suo figlio può farlo solo a condizione di amare anche lui i suoi fratelli.
400
“Padre nostro …”
401
Capitolo XI
terpretata in relazione al contesto liturgico in cui l’omelia è stata pronunciata, per di-
re: finché c’è tempo prima del solenne “momento” (kairós), quello dei divini misteri,
in cui si dovrà dare l’abbraccio di pace ai fratelli, recitare la preghiera del Signore e co-
municare al corpo del Signore.
35 La mensa eucaristica.
36 Il passo è riprodotto in modo simile in Giovanni Crisostomo, Omelia sui diecimi-
402
“Padre nostro …”
19. Quale scusa avremo, dimmi, nelle cose che appaiono dif-
ficili, se anche ciò che è facile e comporta tanto guadagno e tan-
to beneficio, senza la minima fatica, non lo facciamo? Non puoi
disprezzare le ricchezze? Non riesci a spendere le tue sostanze
per i bisognosi? Non sei capace di volere qualcosa di buono?
Non riesci neppure a perdonare a chi ti ha offeso? Se infatti tu
non avessi così tanti debiti verso di lui, ma Dio ti chiedesse so-
lo di perdonare, non dovresti farlo? E ora che sei carico di de-
biti, non perdoni, pur sapendo che ti verrà richiesto ciò che hai
ricevuto da lui? … Qui non c’è bisogno di forza fisica, né di
ricchezza, né di beni, né di potere, né di amicizia, né di nien-
t’altro, ma basta solo volere e tutto è compiuto. Quel tale ti ha
contristato, insultato e deriso? Ma pensa che hai fatto anche
tu lo stesso molte volte ad altri e allo stesso Signore, e allora sii
indulgente e perdona. Pensa che dici: Rimetti a noi i nostri de-
biti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12). Pen-
sa che se tu non perdoni, non potrai dire queste parole con fran-
chezza. Se invece perdoni, puoi reclamare questo come un de-
bito, non per la natura della cosa in sé, ma per la benevolenza
37 Le omelie di Giovanni Crisostomo sono state fedelmente trascritte dalla viva vo-
403
Capitolo XI
404
“Padre nostro …”
405
Capitolo XI
40 Santo cipriota, vissuto tra la metà del vi e gli inizi del vii secolo. Nato da fami-
glia agiata e rimasto vedovo, dopo un breve periodo di vita coniugale, abbandonò i
propri suoi beni e si consacrò totalmente al servizio di Dio e alle opere di carità, che
gli meritarono il titolo di “Misericordioso”(Eleémon). Fu patriarca melchita della città
di Alessandria.
41 Per un caso simile di esortazione al perdono attraverso la semplice recitazione
delle parole del Padre nostro, cf. Detti dei padri, Serie anonima N 557.
406
Capitolo XII
“LE COSE SANTE AI SANTI”
orientali derivate dal rito gerosolimitano-antiocheno a partire dal vi-vii secolo (cf. R.
F. Taft, A History of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites,
pp. 209 ss.).
2 In alcune fonti, a partire da Teodoro di Mopsuestia (cf. infra, § 13), la formula
407
Capitolo XII
3 Tra i numerosi passi paolini cf. ad esempio Rm 1,7; 8,27; 1Cor 1,2; 6,1; 2Cor
408
“Le cose sante ai santi”
la fede, la chiesa ha fatto ben presto derivare un corollario gravido di conseguenze per
la storia delle divisioni cristiane: solo i battezzati “ortodossi” possono accedere alle co-
se sante, mentre ne sono esclusi gli “eretici” (cf. ad esempio Giovanni di Damasco, La
fede ortodossa 86, ll. 173-176).
6 L’idea è però già presente nella Didaché (cf. infra, § 11), che pur tiene conto an-
409
Capitolo XII
infra, § 13).
9 Un’ottima sintesi della dottrina patristica su questa funzione dell’eucaristia è an-
410
“Le cose sante ai santi”
stesso del resto, come riferiscono gli autori del Nuovo Testamento
e ricordano anche i padri, l’ha consegnata alla chiesa proprio “per la
remissione dei peccati” (cf. §§ 19; 24; 28; 30). Sono molti i testi nei
quali, con o senza riferimento alla formula “le cose sante ai santi”,
si sottolinea che la comunione al corpo e al sangue di Cristo resta
un dono assolutamente gratuito e concede a tutti la remissione dei
peccati, a condizione evidentemente che uno si sia sforzato per quan-
to possibile di compiere il bene (cf. §§ 24; 27) e non si sia macchia-
to di uno dei peccati “che conducono alla morte” e che, contraddi-
cendo radicalmente l’evangelo, separano il fedele dal corpo di Cristo
(cf. §§ 22; 32). Chi però, nonostante i suoi peccati, vive nel penti-
mento e nella conversione “è assolutamente degno di prendere parte
a quei divini misteri” (§ 29). Uno scrupolo eccessivo nell’accostar-
si alla comunione può anzi, secondo i padri, risultare addirittura
nocivo (cf. §§ 27; 32), perché priva l’uomo dell’unico vero soste-
gno nel compiere il bene e può diventare un’occasione per perseve-
rare nel peccato; inoltre insinua in lui l’illusione che gli sia possibi-
le raggiungere un momento in cui, in base alla sua condotta di vita,
possa dirsi degno di quel dono10. “Ma quando mai ne sarai degno?”
(§ 27), chiede Cirillo di Alessandria. Tutti i fedeli piuttosto, consi-
glia Giovanni di Gaza, dovrebbero considerarsi sempre indegni di
partecipare ai santi misteri e accostarsi a essi come “malati e feriti”
bisognosi di misericordia (cf. § 28), perché, come dice il Signore
nell’evangelo, “non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati”
(Lc 5,31).
10 Idee simili si ritrovano anche in ambito latino: cf. ad esempio Giovanni Cassia-
411
Capitolo XII
412
“Le cose sante ai santi”