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ENTRARE NEI MISTERI DI CRISTO

MISTAGOGIA
DELLA LITURGIA EUCARISTICA
Piano dell’opera
volume i
Entrare nei misteri di Cristo.
Mistagogia della liturgia eucaristica
attraverso i testi dei padri greci e bizantini
volume ii
Un solo corpo.
Mistagogia della liturgia eucaristica
attraverso i testi dei padri latini

CURATORE: Luigi d’Ayala Valva


TITOLO: Entrare nei misteri di Cristo
SOTTOTITOLO: Mistagogia della liturgia eucaristica attraverso i testi dei padri greci e bizan-
tini
FORMATO: 21 cm
PAGINE: 654
PREFAZIONE: Enzo Bianchi, priore di Bose
TRADUZIONE: dalle lingue originali a cura di Luigi d’Ayala Valva, monaco di Bose
IN COPERTINA: Comunione degli apostoli, miniatura (vi secolo), Codex purpureus ros-
sanensis, Museo diocesano, Rossano

Prima edizione digitale: 2018

ß 2012, 2018 EDIZIONI QIQAJON


COMUNITÀ DI BOSE
13887 MAGNANO (BI)
Tel. 015.679.264 isbn 978-88-8227-756-7
ENTRARE
NEI MISTERI
DI CRISTO
Mistagogia della liturgia eucaristica
attraverso i testi dei padri greci e bizantini
Introduzione, scelta e traduzione dalle lingue originali
a cura di Luigi d’Ayala Valva, monaco di Bose

Prefazione di Enzo Bianchi, priore di Bose

EDIZIONI QIQAJON
COMUNITÀ DI BOSE
TĴ ĕn CristĴ ăgaphtĴ
p. ’IakẃbJ,
eı̆j prógeusin toû koinoû pothrı́ou
PREFAZIONE

“Capite quello che ho fatto per voi?” (Gv 13,12). Con questa
domanda rivolta ai discepoli Gesù chiude il gesto della lavanda dei
piedi compiuto durante la cena pasquale nella notte in cui fu tra-
dito. Un gesto talmente forte ed emblematico, che l’evangelista
Giovanni – presente a quel pasto di veglia pasquale – lo narra al
posto delle parole pronunciate da Gesù sul pane e sul vino e dive-
nute fondanti per il sacramento dell’eucarestia. Ma proprio per la
sua emblematicità il gesto va “capito” in profondità, letto e inter-
pretato alla luce della parola di Dio e di tutto l’agire di Gesù, pa-
rola fatta carne. Così è Gesù stesso che, per spiegarlo, lo traduce in
azioni che non più lui ma i suoi discepoli devono compiere: “Se io,
il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete la-
vare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché
anche voi facciate come io ho fatto a voi. In verità, in verità io vi
dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato è più
grande di chi lo ha mandato”. (Gv 13,13-16). Sì, perché il “sapere”,
il capire è inscindibilmente legato con l’agire di conseguenza: “Sa-
pendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17).
In questo racconto evangelico abbiamo come il prototipo della
mistagogia cristiana, di quell’arte catechetica che spiega ai fedeli i
gesti compiuti nella liturgia, che pone in relazione la liturgia con la
parola di Dio e questa con la vita del singolo credente e dell’intera
comunità cristiana. Per i padri della chiesa la celebrazione del “mi-
stero” dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Signore
non deve infatti avere nulla di “misterioso”, nulla di magico: la ce-

7
Prefazione

lebrazione eucaristica non alimenta il “fascino dell’arcano”, quel-


l’attrazione per il numinoso e tremendo proprio al “sacro” di ogni
religione, bensì alimenta la fede e ispira le opere dei cristiani, a co-
minciare dai più semplici, che sono anche i più attenti a cogliere la
portata dei gesti e i più solleciti a tradurli in azioni concrete nel pro-
prio quotidiano. La preoccupazione dei pastori è che i fedeli possa-
no penetrare nel significato di ciò che celebrano, farlo proprio, così
da poterlo tradurre in gesti concreti: è così che l’assemblea convo-
cata per partecipare alla tavola della Parola e del pane eucaristico
diventa quel “corpo del Signore” di cui si nutre e di cui dà testimo-
nianza nella compagnia degli uomini.
Convinti dell’importanza di questa comprensione della liturgia
eucaristica, assieme a fratel Luigi d’Ayala Valva – cui va la mia
profonda gratitudine per il suo sapiente e meticoloso lavoro – ho
progettato quest’opera di ampio respiro (al presente volume, infat-
ti, ne seguirà un secondo dedicato ai commenti dei padri d’occiden-
te alla liturgia eucaristica latina), allo scopo di fornire ai cristiani
di oggi le chiavi di lettura fondamentali per entrare nel mistero eu-
caristico al cuore della fede cristiana. Soprattutto in una stagione
che richiede nuovo slancio nell’attuazione della riforma liturgica del
concilio Vaticano II, vissuto come una “novella pentecoste” cin-
quant’anni or sono, questa faticosa e originale ricerca vuole offrire
in una traduzione fedele e insieme comprensibilissima i testi della
grande tradizione e favorire un sapiente ritorno alle fonti.
In quest’ottica, nel volume sono analizzate una a una le parole
che il celebrante rivolge ai fedeli, così come le loro risposte e i gesti
che insieme vengono posti durante la celebrazione eucaristica: pa-
role e gesti di cui i commenti patristici evidenziano il radicamento
biblico assieme alle esigenze etiche e alle potenzialità esistenziali
che suscitano. Davvero, attraverso questi scritti mistagogici siamo
ricondotti a quell’unità interiore fondamentale per vivere degna-
mente i santi misteri: mens concordet voci, chiedeva Benedetto nel-
la sua Regola per i monaci a proposito del canto dell’opus Dei.
“La mente si accordi alla voce”, cioè le nostre facoltà interiori sia-

8
Prefazione

no consapevoli di cosa le labbra pronunciano e vi si adeguino: non


sono infatti parole da ripetere meccanicamente, ma insegnamenti che
riceviamo dalla grande tradizione della chiesa, che a sua volta le ha
attinte alla sacra Scrittura e le ha rivestite del “vissuto” di Cristo.
La liturgia diventa allora fonte della vita spirituale dei credenti:
non ripetizione di formule ma celebrazione del mistero di Cristo
annunciato dalle Scritture. Vivere la liturgia con piena consapevo-
lezza – “sapendo queste cose” – introduce il fedele a un incontro
d’amore con il Signore presente nell’eucarestia, lo fa sentire mem-
bro di un corpo vivo e lo invia nel mondo come testimone credibi-
le dell’Amore più forte della morte.

Enzo Bianchi
priore di Bose

Bose, 26 febbraio 2012


I domenica di Quaresima

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INTRODUZIONE

Gustate e vedete
com’è buono il Signore!
Sal 33,9a

Il versetto salmico che poniamo in esergo della presente rac-


colta di testi patristici sulla liturgia eucaristica, interpretato e
applicato in senso eucaristico1, ci sembra costituire nella sua
brevità una sintesi efficace dell’approccio mistagogico dei pa-
dri ai misteri sacramentali, e in particolare all’eucaristia: “mi-
stagogia” infatti vuol dire innanzitutto essere condotti a pene-
trare e gustare l’esperienza liturgica (“gustate”), e a partire da
essa contemplare con gli occhi della fede (“vedete”) il senso più
vero e profondo del mistero dell’amore e della bontà del Signo-
re (“com’è buono il Signore!”). E ciò non attraverso specula-
zioni teoriche ma grazie a una conoscenza spirituale che trae ali-

1 Secondo la testimonianza convergente di numerose fonti patristiche, sia orientali

che occidentali (cf. ad esempio Atanasio di Alessandria, Esposizioni sui Salmi 33,9;
Teodoreto di Cirro, Commento ai Salmi 33,9; Ambrogio di Milano, Sui misteri 9,58), il
primo emistichio di Sal 33,9 (lxx) è stato interpretato dai padri in chiave eucaristica
almeno a partire dalla fine del iv secolo (cf. I Padri commentano il Salterio della Tradi-
zione, a cura di J.-C. Nesmy, Gribaudi, Torino 1993, p. 149) e in alcuni casi è stato in-
tegrato nei rituali liturgici come canto di comunione (cf. R. F. Taft, A History of the
Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites, Pio, Roma 2000, pp. 275-276,
e infra, c. XIII,α.17).

11
Introduzione

mento proprio dalla parola di Dio contenuta nelle sante Scrit-


ture (in questo caso i Salmi), considerate come un grande tesoro
di immagini e di profezie di ciò che si realizza nella nuova al-
leanza, alla pienezza dei tempi. “Gustare”– fa notare Basilio
commentando questo versetto2 – non vuol dire “saziarsi”: l’e-
sperienza e la comprensione che possiamo avere del mistero di
Dio in questa vita è sempre parziale, e non può che rimandare
a una pienezza che appartiene solo al tempo futuro. In questo
senso anche l’esperienza liturgica – e la mistagogia che secondo
i padri ne è il necessario complemento – non può mai risolver-
si in una conoscenza statica e “possessiva” del mistero, ma, quan-
do è autentica, mantiene sempre viva nei credenti la speranza
e l’attesa di un “oltre”, dell’incontro definitivo con il Signore,
quando lo vedranno non più “come attraverso uno specchio e
in modo enigmatico, ma faccia a faccia” (1Cor 13,12).

Mistagogia: iniziazione ai “misteri” e catechesi

In uno spazio di tempo tutto sommato piuttosto breve e cir-


coscrivibile, a grandi linee, tra gli ultimi decenni del iv e i pri-
mi del v secolo, fa la sua fugace apparizione nel panorama let-
terario e teologico del cristianesimo un nuovo genere letterario:
quello della catechesi mistagogica. Questo genere, che è “lette-
rario” solo in modo riflesso, poiché è legato innanzitutto alla
concreta attività pastorale che in questo tempo vedeva i respon-
sabili delle chiese impegnati nell’iniziazione cristiana di un nu-
mero sempre crescente di persone, non nasce dal nulla, ma af-
fonda le sue radici nella teologia e nella spiritualità dei padri pre-
cedenti. Né si può certo dire che la sua rapida scomparsa come

2 Cf. Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi 33,6.

12
Introduzione

genere letterario3 – dovuta più a fattori contingenti che all’e-


saurimento delle sue multiformi potenzialità – abbia privato to-
talmente il cristianesimo successivo delle acquisizioni di cui es-
so dotò la teologia e la predicazione, sia sul piano del metodo in-
terpretativo che dell’approccio globale ai misteri sacramentali.
Se da una parte dunque si deve parlare in senso proprio e
preciso di catechesi mistagogiche, definite con le caratteristiche
che esamineremo tra breve, solo in riferimento a un numero ri-
stretto di testi (le celebri serie di catechesi attribuite a Cirillo
di Gerusalemme, Ambrogio di Milano, Giovanni Crisostomo,
Teodoro di Mopsuestia e alcuni sermoni pasquali sparsi di Ago-
stino, Gregorio di Nissa e di pochi altri autori), dall’altra è pos-
sibile, ci sembra, discernere la presenza, a livello germinale e
diffuso, di elementi mistagogici e anche di un approccio mistago-
gico sia in testi patristici anteriori al iv-v secolo (da Ignazio di
Antiochia fino ai padri cappadoci), sia in testi coevi e successi-
vi, che a rigor di termini sono estranei al genere mistagogico
propriamente detto, ma che appartengono a generi letterari af-
fini (omelie liturgiche, trattati catechetici, catechesi monastiche)
o anche molto diversi (commentari biblici, opere ascetico-mo-
nastiche, testi agiografici, epistole spirituali, inni, trattati teolo-
gici, opere eresiologiche eccetera).
Inoltre, l’eredità delle catechesi mistagogiche viene raccolta,
seppur con qualche evidente elemento di discontinuità, dai com-
menti bizantini alla divina liturgia, che si estendono per un pe-
riodo di tempo molto lungo, dal vii secolo circa, con Massimo
il Confessore, fino al xiv-xv secolo, con Nicola Cabasilas e Si-
meone di Tessalonica4.

3 Tale scomparsa è comunque pur sempre progressiva, perché, come nota V. Saxer,

si possono trovare catechesi o omelie sparse assimilabili al genere mistagogico fino al-
meno al vi secolo (cf. V. Saxer, “Introduzione”, in Cirillo e Giovanni di Gerusalem-
me, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, Paoline, Milano 1994, p. 46).
4 Sulla continuità e l’evoluzione tra mistagogia antica e commenti bizantini alla di-

vina liturgia, cf. lo studio classico di R. Bornert, Les commentaires byzantins de la divi-
ne liturgie du VIIe au XVe siècle, Institut Français d’Études Byzantines, Paris 1966, pp.

13
Introduzione

È a tutti questi testi, considerati in senso lato come “testi


mistagogici”, che si è orientata la scelta dei commenti dei padri
greci e bizantini alla liturgia eucaristica raccolti in questo libro,
nella convinzione che l’approccio mistagogico, nella varietà del-
le sue declinazioni ed espressioni, sia da considerare sostanzial-
mente come coestensivo all’approccio patristico alla liturgia e
all’evento celebrativo5. Si tratta di un approccio integrale, che
– in forza del legame tra liturgia e Scrittura che ne è la matrice
fondamentale6 – interpreta le azioni sacramentali alla luce del-
l’intera economia salvifica, sottolinea la coerenza dell’insieme
dell’azione celebrativa evitando di isolarne i singoli elementi, e
infine sfocia in un’etica direttamente radicata nei misteri della
salvezza celebrati nella liturgia.

Per definire la funzione e i caratteri delle catechesi mistago-


giche antiche, e quindi dell’approccio mistagogico alla liturgia di
cui esse rappresentano il modello e l’espressione più completa,
occorre innanzitutto collocarle nel contesto liturgico della tarda
antichità e fornire una breve presentazione di quel complesso
itinerario di riti, di insegnamenti, di pratiche ascetico-peniten-
ziali e di preghiere che costituiva il cammino di iniziazione alla
fede cristiana tra iv e v secolo e che proprio in questo periodo
trovò la sua più articolata definizione, prima del lento decadimen-
to e della scomparsa del catecumenato nel corso del vi secolo7.

47-82; 267-268; H.-J. Schulz, Η Βυζαντιν" Λειτουργα. Μαρτυρα πστεως κα


συμβολικ" &κφραση, Ekdoseis Akritas, Athina 1998, pp. 49 e ss. Sul tema più recen-
temente cf. Th. I. Koumarianos, “Η ρμηνε
α τ ς Θε
ας Λειτουργ
ας κατ τ
βυζαντιν ρμηνευτικ πομνματα”, in Aa.Vv., Τ μυστ"ριο τ)ς Θεας Ε/χαριστας.
Πρακτικ2 Γ’ Πανελληνου Λειτουργικο Συμποσου Στελεχν Iερν Μητροπλεων,
14-17 Οκτωβρου 2001, Iερ2 Μητρπολις Νεαπλεως κα Σταυρουπλεως (Θεσσα-
λονκη), Apostoliki Diakonia, Athina 2004, pp. 179-210.
5 Questa è la conclusione che ci sembra di poter trarre anche dalla lettura del bello

studio di F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la liturgie. Un esprit, une expé-


rience. De Constantin à Justinien, Ddb, Paris 2009.
6 Cf. G. Boselli, Il senso spirituale della liturgia, Qiqajon, Bose 2011, pp. 21-27.
7 Per un’analisi approfondita delle tappe e dei vari riti dell’iniziazione cristiana nel-

l’antichità a partire dalle fonti antiche, si vedano J. Daniélou, Bibbia e liturgia. La teo-

14
Introduzione

Se fino al iii secolo vi era una sola categoria di candidati al


battesimo, chiamati abitualmente “catecumeni” (kathechoúme-
noi), che, dopo un cammino esigente di preparazione e di con-
versione (in genere tre anni), si disponevano ad accogliere il bat-
tesimo con alcuni giorni di intensa preparazione spirituale8, a
partire dalla metà del iv secolo, con la cosiddetta pace costan-
tiniana, la preparazione al battesimo venne ad articolarsi in due
tappe: una preparazione remota, nella quale ai candidati veni-
va dato il nome di “catecumeni” o “uditori” (akroataí ), e una
preparazione prossima, che coincideva generalmente con la qua-
resima precedente alla veglia pasquale nella quale i candidati –
chiamati “illuminandi” ( photizómenoi) in oriente e “competen-
ti” o “eletti” in occidente – erano destinati a ricevere i sacra-
menti dell’iniziazione. Questa evoluzione, che coincise con la
crescita esponenziale del numero dei catecumeni in seguito al-
l’affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale dell’im-
pero, ebbe di fatto come risultato di ridurre la vera e propria
preparazione al battesimo ai giorni quaresimali, mentre la pri-
ma tappa, quella del catecumenato, finalizzata a un’iniziale co-
noscenza del messaggio cristiano, perdeva gradualmente il ca-
rattere di autentico ed esigente cammino di conversione che
aveva avuto in origine9. La formazione dei catecumeni in que-
sta prima fase consisteva essenzialmente nella loro partecipa-

logia biblica dei sacramenti e delle feste secondo i padri della chiesa, Vita e Pensiero, Mi-
lano 1958 (ancora fondamentale per quanto datato); V. Saxer, Les rites de l’initiation
chrétienne du IIe au Ve siècle. Esquisse historique et signification d’après leurs principaux té-
moins, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 19922; G. Cavallotto, Ca-
tecumenato cristiano. Diventare cristiani secondo i padri, Edb, Bologna 1996. Sul tema
cf. anche il volume antologico L’iniziazione cristiana. Testi patristici, a cura di A. Ham-
man, Marietti, Casale Monferrato 1982.
8 Nei primi secoli il battesimo poteva essere amministrato in qualunque momento

dell’anno: solo a partire dal iv secolo si affermò la preferenza per la festa della Pasqua,
anche se nella chiesa di Costantinopoli rimase viva la tradizione di celebrare i battesi-
mi in occasione della festa dell’Epifania del 6 gennaio, nella quale si faceva memoria
del battesimo di Cristo.
9 Ad accrescere il disimpegno dei catecumeni si aggiunse in questo periodo l’abitu-

dine diffusa di prolungare sine die il catecumenato, procrastinando il battesimo fino ri-

15
Introduzione

zione alla prima parte della sinassi eucaristica, da cui venivano


congedati al termine della liturgia della Parola, dopo aver ascol-
tato la lettura delle Scritture e l’omelia.
I catecumeni che desideravano ricevere il battesimo a Pa-
squa dovevano farne esplicita domanda all’inizio del periodo qua-
resimale, essere sottoposti in alcuni casi a un esame di ammis-
sione da parte del vescovo – era determinante però soprattutto
il giudizio dei padrini, che si facevano garanti della loro condot-
ta morale e della serietà delle loro motivazioni – e poi essere
iscritti nei registri dei battezzandi. Da quel momento erano uf-
ficialmente designati come “illuminandi”, cioè persone che do-
vevano ricevere l’illuminazione battesimale, e occupavano un
posto particolare nelle sinassi.
Tutti i padri che ne parlano descrivono questo periodo di
preparazione come un tempo di rigorosa conversione e di in-
tensa crescita spirituale: i candidati partecipavano a catechesi
specifiche tenute dal vescovo o da un suo delegato, che a secon-
da delle chiese locali potevano essere tenute quotidianamente
o più di rado. I contenuti di queste catechesi prebattesimali ri-
guardavano gli aspetti essenziali della dottrina cristiana: l’e-
sposizione dei grandi eventi della storia della salvezza, la spie-
gazione del simbolo di fede e il commento del Padre nostro,
con particolare accentuazione, in alcuni casi, dell’insegnamen-
to morale – quest’ultimo aspetto è particolarmente evidente
nelle catechesi di Giovanni Crisostomo –. Il loro scopo era di
fornire ai candidati una solida e organica conoscenza del mes-
saggio cristiano – Cirillo di Gerusalemme paragona le cateche-
si a un edificio dalle solide fondamenta – in grado di suscitare
un’adesione del cuore e una profonda conversione di vita. Ta-

ceverlo in punto di morte, un’abitudine aspramente criticata dai padri cappadoci e da


Giovanni Crisostomo, i quali non cessarono mai di esortare i cristiani ad accostarsi al
battesimo non come a una garanzia di salvezza, ma come a una sorgente di vita rinno-
vata e di conversione.

16
Introduzione

le preparazione teorica doveva essere affiancata da un’ugual-


mente intensa preparazione ascetico-penitenziale, che richie-
deva ai candidati la pratica del digiuno, delle veglie, della pre-
ghiera, della confessione dei peccati, dell’elemosina e della
carità verso i poveri, o altre simili pratiche penitenziali, che di-
ventavano altrettanti mezzi di conversione e di rinnovamento
interiore. Il cammino di preparazione era poi completato, secon-
do la testimonianza di numerosi padri, dalla celebrazione quo-
tidiana degli esorcismi sui battezzandi, che a volte erano parti-
colarmente solenni e comportavano una certa drammatizzazio-
ne, come riferiscono ad esempio Teodoro di Mopsuestia e
Agostino: erano riti di purificazione che esprimevano la lotta
contro Satana che il candidato, con il sostegno della chiesa,
era chiamato a combattere prima di esserne liberato attraverso
la grazia battesimale.
Nelle ultime settimane della quaresima, al termine dell’espo-
sizione delle verità di fede, vi era la cosiddetta “consegna” del
simbolo di fede (traditio symboli), ovvero la sua recitazione
pubblica davanti ai canditati, cui seguiva la domenica successi-
va la sua “riconsegna” orale (redditio symboli) da parte degli
stessi candidati, davanti al vescovo e alla comunità ecclesiale.
Lo stesso procedimento veniva seguito per il Padre nostro, con
una “consegna” seguita la domenica successiva da una “ricon-
segna”.
Culmine e compimento dell’intero cammino di iniziazione era
la veglia pasquale, durante la quale il catecumeno diventava cri-
stiano a pieno titolo, ricevendo il battesimo, la cresima e l’eu-
caristia. Attraverso i riti della rinuncia a Satana e dell’adesione
a Cristo, dell’unzione prebattesimale, della triplice immersione
nella vasca battesimale, dell’unzione crismale, della vestizione
e infine con la partecipazione all’eucaristia insieme a tutta la co-
munità, i candidati ricevevano la piena iniziazione ai misteri di
Cristo, diventavano “iniziati” (memyeménoi) ed erano piena-
mente integrati nel “corpo di Cristo”. Il fatto che la celebrazio-

17
Introduzione

ne di questi “misteri” fosse inserita nel quadro della veglia pa-


squale contribuiva a metterne in luce in modo chiaro la dimen-
sione cristologica: attraverso di essi i neofiti entravano in una
reale e intima comunione con il mistero della morte e resurre-
zione di Cristo.
La “mistagogia”, ovvero l’iniziazione ai “misteri” di Cristo,
era perciò compiuta innanzitutto nella celebrazione dei misteri
sacramentali – questo il significato primario, e unico in alcuni
autori, del termine greco mystagoghía10 – e solo secondariamen-
te completata attraverso le catechesi postbattesimali, dette ap-
punto “mistagogiche”, che venivano tenute dal vescovo duran-
te la settimana pasquale ed erano finalizzate a introdurre i neo-
fiti ai significati nascosti dei misteri celebrati11.

10 Sui vari significati del termine mystagoghía, del verbo corrispondente mystago-

ghéo e degli altri termini connessi alla stessa etimologia, cf. R. Bornert, Les commen-
taires byzantins, pp. 29-31, n. 1; Ph. de Roten, Baptême et mystagogie. Enquête sur l’i-
nitiation chrétienne selon s. Jean Chrysostome, Aschendorff, Münster 2005, pp. 47-69,
che nota come “vi sia stata la tendenza a credere che il vocabolario ‘mistagogico’ de-
signasse principalmente un ‘discorso’ sui misteri, senza rendersi conto della comples-
sità di questo termine in quest’epoca” (p. 48) e aggiunge, in riferimento ai padri del iv
secolo, che “se la catechesi può essere chiamata all’occorrenza mistagogia, essa non è
la mistagogia, ma è ciò che fa riconoscere nel battesimo e nell’eucaristia la mistagogia
per eccellenza” (p. 62). In proposito occorre tener presente che, se è pur vero che nel-
la seconda metà del iv secolo il termine “misteri” (mystéria) comincia ormai a essere
utilizzato non soltanto per i misteri dell’economia della salvezza in generale, ma anche
in senso liturgico-rituale per designare i “misteri sacramentali”, il primo significato
resta comunque primario (almeno dal punto di vista dell’assiologia teologica): i sacra-
menti, e soprattutto l’eucaristia, possono essere designati come misteri proprio in
quanto sono la celebrazione dei misteri di Cristo. Questo permette di comprendere
che quando i padri parlano di “mistagogia”, ossia di “introduzione ai misteri”, essi
pensano innanzitutto a un’azione che introduce ai misteri dell’economia di salvezza; e
la catechesi è “mistagogica” proprio in quanto introduce ai misteri salvifici attraverso
i misteri sacramentali, che già di per sé realizzano questa stessa azione. Del resto, che
la catechesi mistagogica non fosse una semplice introduzione ai misteri sacramentali è
evidente dal semplice fatto che essa ordinariamente non precedeva ma seguiva l’azio-
ne sacramentale.
11 In alcuni casi le catechesi sui riti battesimali potevano essere anticipate (come te-

stimoniano Teodoro di Mopsuestia e Giovanni Crisostomo), ma quelle sui riti eucari-


stici seguivano sempre la veglia pasquale. Questa prassi diversificata, forse dovuta a
opportunità di tipo pastorale, non muta però il senso generale della catechesi mistago-
gica, essenzialmente diverso da quella della catechesi prebattesimale, e fa emergere
semmai la catechesi eucaristica come la catechesi mistagogica per eccellenza.

18
Introduzione

Nell’ultima delle sue catechesi prebattesimali Cirillo di Ge-


rusalemme annuncia le catechesi mistagogiche postbattesimali
in questi termini:

Dopo il santo e salutare giorno di Pasqua, cominciando subi-


to dal secondo giorno dopo il sabato, ogni giorno della setti-
mana seguente, subito dopo la sinassi, entrerete nel luogo san-
to dell’Anastasis12 per ascoltare, se Dio lo concede, altre cate-
chesi. In esse sarete di nuovo istruiti sui motivi che riguardano
ciascuno dei riti che sono stati compiuti e ne riceverete le pro-
ve a partire dall’Antico e dal Nuovo Testamento. In primo
luogo [sarete istruiti] su quelli immediatamente precedenti il
battesimo; in secondo luogo su come siete stati purificati dai
peccati da parte del Signore mediante il lavacro dell’acqua
con una parola; quindi su come, alla maniera dei sacerdoti,
siete stati resi partecipi del nome di Cristo e vi è stato dato il
sigillo della comunione con lo Spirito santo; poi anche sui mi-
steri della nuova alleanza celebrati sull’altare, che di qui han-
no preso inizio: [apprenderete] che cosa hanno trasmesso di
essi le divine Scritture, quale sia la loro potenza, e in che mo-
do accostarvi a essi, e quando e come si devono ricevere. A
conclusione di tutto, infine, vi dirò come dovrete comportar-
vi per il tempo a venire, in parole e in opere, in modo degno
della grazia, perché tutti voi possiate godere della vita eter-
na. Anche questo, se Dio lo vuole, vi sarà insegnato13.

La catechesi mistagogica si differenzia dunque da quella pre-


battesimale, in quanto la sua prospettiva è essenzialmente diver-
sa14. Come l’omelia, che segue la proclamazione liturgica delle
sante Scritture, la catechesi mistagogica è una parola per così

12 Il riferimento è alla basilica dell’Anastasis a Gerusalemme, dove l’autore era ve-

scovo.
13 Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali 18,33.
14 Quest’aspetto è ben sottolineato da T. Federici, “La mistagogia nella chiesa”, in

Mistagogia e direzione spirituale, a cura di E. Ancilli, Teresianum-Or, Roma-Milano


1985, pp. 162-245.

19
Introduzione

dire post eventum, un’eco dell’evento liturgico: i neofiti a diffe-


renza dei canditati al battesimo hanno già fatto esperienza dei
misteri sacramentali (hanno già “gustato”, per usare le parole
del salmo 33), ma devono essere aiutati a penetrarli in profon-
dità, a vedere e riconoscere in essi i misteri dell’economia di sal-
vezza, che si riassumono nell’unico mistero di Cristo. Non si
tratta dunque di introdurre a una corretta celebrazione e acco-
glienza dei riti sacramentali, né di soddisfare solo una curiosi-
tà intellettuale degli ascoltatori, quanto piuttosto di svelare il si-
gnificato misterico di quei riti “a partire dall’Antico e dal Nuo-
vo Testamento”. Si tratta di “dare nome” all’esperienza già
vissuta, di mostrare che, attraverso i riti ai quali si è partecipa-
to, è l’unica storia di salvezza che prosegue e si realizza conti-
nuamente, e che ogni iniziato la fa propria partecipando alla vi-
ta divina che si è manifestata nella storia dell’Antico e del
Nuovo Testamento.

Nulla infatti – è stato giustamente affermato – si oppone al-


la fede ebraico-cristiana, una fede nelle azioni compiute da
Dio nella storia, quanto la perdita della sua storicità … I pa-
dri mostrano ai cristiani che in ogni azione liturgica vi sono
gli eventi di salvezza narrati dall’Antico e dal Nuovo Testa-
mento. Ancor di più, dietro a ogni rito liturgico vi sta ciò che
di più storico possa esserci: tutto il mistero dell’esistenza ter-
rena di un uomo, Gesù Cristo, la sua morte in croce e la sua
resurrezione, tutta la sua vita15.

Ogni gesto e parola della liturgia vengono così interpretati


in relazione a ciò che Dio/Cristo ha operato nella sua economia
di salvezza e a ciò che il cristiano, conformato a Cristo, è chia-
mato a essere e a vivere.

15 G. Boselli, Il senso spirituale della liturgia, pp. 28-29.

20
Introduzione

Il catecheta mistagogo si basa sui riti dell’iniziazione, de-


scritti innanzitutto nella loro materialità e visibilità, per appro-
fondire la fede dei suoi neofiti; si basa sull’esperienza concreta
che essi ne hanno acquisito per “condurli per mano” verso una
fede più illuminata e più consapevole, spiegando loro il senso e
il contenuto di quei gesti e di quelle parole:

Desideravo già da tempo, o figli genuini e desideratissimi del-


la chiesa, parlarvi di questi misteri spirituali e celesti. Ma poi-
ché sapevo bene che ci si fida più della vista che dell’udito,
aspettavo l’occasione presente per trovarvi meglio disposti, a
partire da questa sera, nei confronti di ciò che vi verrà detto,
e per condurvi per mano16 nel prato luminoso e profumato di
questo paradiso. Tanto più che siete stati messi in grado di
ricevere i misteri più divini, il divino e vivificante battesimo.
Poiché dunque bisogna oramai apparecchiare la mensa degli
insegnamenti più perfetti, vi istruiremo con cura, affinché co-
nosciate il senso di ciò che è avvenuto per voi in quella sera
del battesimo17.

Il catecheta si muove dunque con la discrezione propria di


chi è consapevole di svolgere unicamente un ruolo sussidiario,
dopo la vera “mistagogia” già realizzata nei riti sacramentali a
opera dell’unico vero “mistagogo”, Gesù Cristo18, che è presen-
te e parla con le parole e con i gesti liturgici: i padri sanno be-
ne che tali gesti e parole “sono di per se stessi la ‘spiegazione’
che apre l’iniziato all’intelligenza del mistero”19 e che “il rito

16 Il verbo cheiragogheîn, “condurre per mano”, evoca chiaramente l’azione “mista-

gogica” espressa dal verbo mystagogheîn.


17 Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 1,1. Sulla vexata quae-

stio dell’attribuzione delle Catechesi mistagogiche, cf. da ultimo J. W. Drijvers, Cyril of


Jerusalem: Bishop and City, Brill, Leiden-Boston 2004, pp. 59-61 (con bibliografia re-
cente).
18 Per l’immagine di Cristo mistagogo, cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, p. 58.
19 Ibid., p. 59.

21
Introduzione

parla già da se stesso e non bisogna fare cortocircuiti né sotto-


valutare la sua eloquenza propria, poiché il rito ha decisamente
una grazia particolare che la parola della catechesi deve servi-
re, non soppiantare”20.
L’intento ultimo del catecheta, in fin dei conti, è che i riti sa-
cramentali arrivino a parlare da sé, e che i fedeli imparino ad
ascoltare, vedere e accogliere da soli ciò che quei riti dicono e
realizzano attraverso il linguaggio mistagogico primario che è già
loro proprio21. Vale dunque per la catechesi mistagogica in rap-
porto ai misteri sacramentali ciò che Giovanni Crisostomo di-
ce per l’omelia in rapporto alla parola di Dio, che cioè essa di-
venterebbe superflua se solo i fedeli fossero capaci di ascoltare
in modo maturo ciò che le Scritture dicono già da sole 22. Nella
misura in cui ciò non avviene (o non avviene ancora), sia a cau-
sa dell’opacità del segno sia a causa dell’immaturità dei fedeli, la
catechesi mistagogica, come l’omelia, rivela tutta la sua perti-

20 F. Cassingena-Trévedy, “La catéchèse mystagogique chez les Pères de l’Église.

Genèse et éléments d’un genre”, in Lumen vitae 59/3 (2004), p. 262.


21 Si ricordi che il contesto storico-spirituale che ha dato origine alle catechesi mi-

stagogiche è lo stesso che ha generato i testi liturgici, e in particolare le anafore, le qua-


li sono per così dire mistagogie innestate nello stesso atto celebrativo e penetrate dal-
la stessa comprensione integrale del mistero di salvezza che si ritrova nelle catechesi
mistagogiche; e non è un caso che i nomi di alcuni grandi padri “dottori” e “mistago-
ghi” siano legati proprio alla genesi di questi stessi rituali liturgici (ad esempio quelli di
Basilio e di Crisostomo). È interessante notare poi come sulla parete dell’abside delle
chiese bizantine, secondo un programma iconografico affermatosi definitivamente a
partire dal xii secolo, vengano sempre rappresentati i tre “gerarchi” (Basilio di Cesa-
rea, Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzo) insieme ad altri santi vescovi (Ata-
nasio di Alessandria, Nicola di Myra, Cirillo di Alessandria o altri) nell’atto di conce-
lebrare attorno all’altare, a dimostrazione dello stretto e intimo legame tra liturgia e
“padri”, visti allo stesso tempo come le colonne della fede della chiesa e come gli ispi-
ratori e i garanti della sua stessa prassi liturgico-mistagogica. Sul tema cf. H.-J. Schulz,
Η Βυζαντιν" Λειτουργα, Akritas, Athina 1998, pp. 162 e ss.; Ch. Walter, Art and
Ritual of the Byzantine Church, Variorum Publications, London 1982, pp. 200-214; S.
E. J. Gerstel, Beholding the Sacred Mysteries. Programs of the Byzantine Sanctuary, Col-
lege Art Association-University of Washington Press, Seattle-London 1999, pp. 15-46;
e da ultimo Ch. Konstantinidis, Ο μελισμς. Οι συλλειτουργο9ντες ιερ2ρχες και οι
2γγελοι-δι2κονοι μπροστ2 στην Αγα Τρ2πεζα με τα τμια δρα η τον ευχαριστιακ
Χριστ, Ekdotikos Organismos P. Kyriakidi, Thessaloniki 2008.
22 Cf. infra, c. II,9.

22
Introduzione

nenza e il suo essere complemento necessario e parte integran-


te della stessa esperienza liturgica.
Lo afferma ad esempio Teodoro di Mopsuestia in una delle
sue Omelie catechetiche rivolte ai neofiti:

Ogni mistero è l’indicazione, attraverso segni e simboli, di


realtà invisibili e ineffabili. Una rivelazione e una spiegazio-
ne su tali realtà sono certamente necessarie, se chi si presen-
ta deve conoscere la forza di questi misteri. Se queste cose
avvenissero [solo] come fatti concreti, la spiegazione sarebbe
superflua, perché basterebbe la vista a mostrarci le cose che si
verificano. Ma poiché nel mistero vi sono i segni di ciò che av-
verrà o di ciò che è già avvenuto, è necessario un discorso che
spieghi il senso dei segni e dei misteri23.

Questo è dunque il quadro concreto in cui nasce, si sviluppa


e prende senso il linguaggio della catechesi mistagogica: ci è sem-
brato necessario illuminarlo perché ciò può aiutare a compren-
dere meglio il significato e la portata che tale linguaggio assu-
me anche al di là del contesto iniziatico originario. Si può in-
fatti affermare, con un certo grado di approssimazione, che,
anche quando viene utilizzato al di fuori delle catechesi propria-
mente mistagogiche, esso presuppone sempre idealmente la si-
tuazione di un fedele che, come il neofita, ha ricevuto (e conti-
nua a ricevere abitualmente) i sacramenti e ha bisogno di pene-
trarne sempre di nuovo in profondità il significato misterico24.
In un autore così importante e influente per tutta la successiva
tradizione bizantina come Giovanni Crisostomo, ad esempio, il
linguaggio mistagogico è pienamente integrato all’interno della

23 Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 12,2.


24 Si può ricordare in questo senso il frequente appello a “coloro che sono stati ini-
ziati ai misteri” che Giovanni Crisostomo fa nelle sue omelie ordinarie, non riferendo-
si necessariamente ai neofiti, ma genericamente ai fedeli che possono partecipare ai
misteri sacramentali (cf. infra, cc. V,23; IX,16; X,7; XI,7-8; 18; XIII,31; XIV,4).

23
Introduzione

predicazione ordinaria – i suoi testi mistagogici più belli si tro-


vano disseminati all’interno delle sue omelie sui testi biblici –,
e ciò precisamente allo scopo di condurre i fedeli a un continuo
approfondimento e a un’assunzione sempre più consapevole dei
misteri cui sono stati iniziati una volta per tutte, contro il ri-
schio dell’abitudine e dell’indolenza spirituale che si annida sem-
pre in ogni pratica religiosa ripetuta.

Le dimensioni della mistagogia eucaristica

Come si è già accennato parlando della mistagogia in genera-


le, l’approccio dei padri ai misteri sacramentali è un approccio
integrale, in quanto tende a leggerli e a interpretarli alla luce
dell’intera economia salvifica e tenendo conto di tutte le di-
mensioni del mistero cristiano. Questo vale in misura eminen-
te quando il discorso si concentra sull’eucaristia: essa viene in-
tegrata nell’insieme del dogma cristiano, senza mai essere con-
siderata come una realtà statica o autonoma; è presentata “come
un sacramento della fede nel Cristo e nella sua opera di salvez-
za, come il segno per eccellenza della fede pasquale”25.
Senza pretendere di elaborare uno schema da applicare rigi-
damente a tutti i testi mistagogici, né di esaurire tutte le tema-
tiche affrontate, ritengo opportuno passare in rassegna qui di
seguito le dimensioni principali dell’approccio mistagogico ap-
plicato all’eucaristia26. Il tratto generale che le accomuna, e che

25 A. G. Hamman, “La messe et sa catéchèse chez les Pères de l’Église”, in Id., Étu-

des patristiques. Méthodologie-liturgie, histoire-théologie, Beauchesne, Paris 1991, p.


124. Cf. anche Hieromonk Gregorios, The Divine Liturgy. A Commentary in the Light
of the Fathers, Cell of St. John the Theologian-Koutloumousiou Monastery, Mount
Athos 2009, pp. 15-19.
26 Riguardo alla catechesi mistagogica si è parlato “di un particolare metodo con il

quale essa elabora l’intelligenza del mistero” (E. Mazza, La mistagogia. Una teologia

24
Introduzione

mi sembra la caratteristica essenziale dell’approccio mistagogi-


co (in senso lato), è proprio la tendenza a considerare l’eucari-
stia alla luce dell’integralità del mistero cristiano e dell’econo-
mia salvifica.

Dimensione sensibile: gesti, parole e immagini

Nel commentare il rituale eucaristico, i padri si soffermano


innanzitutto a descrivere i gesti e i riti visibili. Come la lettera
delle Scritture, così anche il rito nella sua esteriorità ha un suo
valore, che deve essere adeguatamente valorizzato e apprezza-
to. Il carattere visibile dei riti non è mai negato, ma diventa sti-
molo per un approfondimento e una contemplazione del loro si-
gnificato spirituale, e se pure con una certa tensione, a volte si
arriva “a riconoscere una continuità tra le due forme di visio-
ne”27. Il rito materiale è presentato come il segno della condi-
scendenza di Dio che si fa piccolo per venire incontro ai biso-
gni dell’uomo, incapace di cogliere le realtà spirituali in modo
immediato28.
A loro volta i padri – e Cirillo di Gerusalemme e Giovanni
Crisostomo in questo sono i maestri insuperati –, più che sop-
primere rapidamente lo spettacolo delle realtà materiali per ele-

della liturgia in epoca patristica, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 1988, p. 15; cf. anche
D. Sartore, s. v. “Mistagogia”, in Liturgia, a cura di D. Sartore, A. M. Triacca e C. Ci-
bien, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 1209-1210), un metodo essenzialmente
basato sulla tipologia biblica applicata alla liturgia. In questa sede, anche in ragione
dell’estensione del concetto di “testi mistagogici” da noi adottato, preferiamo parlare
in modo meno rigido di varie dimensioni dell’approccio mistagogico, tra le quali la ti-
pologia biblica occupa uno spazio certo rilevante, ma non esclusivo.
27 G. Frank, “L’eucharistie et la mémoire sensorielle selon Jean Chrysostome”, in

Pratiques de l’eucharistie dans les Églises d’Orient et d’Occident (Antiquité et Moyen Âge),
I. L’institution, a cura di N. Bériou, B. Caseau e D. Rigaux, Institut d’Études Augu-
stiniennes, Paris 2009, p. 772.
28 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,4: “Se tu fossi incorporeo, ti

avrebbe consegnato i doni incorporei senza alcun rivestimento materiale, ma poiché la


tua anima è legata al corpo, egli ti consegna i beni spirituali in realtà sensibili” (cf. in-
fra, c. VIII,13).

25
Introduzione

vare subito i loro ascoltatori a quelle spirituali, preferiscono


spesso evocare e illuminare queste ultime attraverso un impres-
sionante dispiegamento di immagini prese da tutta la gamma
dell’esperienza umana e naturale29, che affiancate ai gesti litur-
gici hanno lo scopo di far “percepire” l’incontro con il Signore
che avviene nella liturgia come una realtà viva e palpabile, sep-
pur di ordine diverso rispetto a quella della vita ordinaria. Il
frequente appello all’immaginazione degli ascoltatori (“Imma-
ginate…”, “Fate conto di essere…”) contenuta in molte ome-
lie e catechesi non è dunque soltanto un abile strumento reto-
rico per catturare la loro attenzione, ma è determinato anche
dalla coscienza che si tratti di una dimensione importante del-
l’essere umano da integrare nel processo di comprensione mi-
stagogica30.
Alla dimensione sensibile e concreta dei riti liturgici è diret-
tamente legata la necessità – ripetutamente ricordata dai padri –
di prestarvi attenzione, con la vista e l’udito ancor prima che
con la mente, e di assumere un contegno adeguato durante la
partecipazione alla liturgia. Introducendo i testi avremo più vol-
te occasione di notare come i padri definiscano e promuovano
un vero e proprio ethos liturgico, una disciplina del corpo indi-
viduale e comunitario che sia capace di sostenere e di accoglie-
re la presenza del Signore, favorendo l’adesione del cuore ai ge-
sti compiuti e alle parole ascoltate e pronunciate.

29 Cf. A. Paulin, Saint Cyrille de Jérusalem catéchète, Cerf, Paris 1959, pp. 205 ss. Si

considerino ad esempio le numerose immagini applicate all’eucaristia: banchetto, far-


maco, fuoco, sorgente d’acqua, corteo trionfale del re… (cf. infra, “Indice tematico”,
s. v. “Immagini dell’eucaristia”, p. 634).
30 Questa dimensione “visiva” e “affettiva” dell’approccio mistagogico è un elemen-

to che si incontra anche nei commenti più tardi: è tipica soprattutto dello stile di Ni-
cola Cabasilas, anche in questo degno erede dei grandi mistagoghi del iv-v secolo (cf. ad
esempio Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 1,12-14).

26
Introduzione

Dimensione storico-salvifica: fra tipologia e mimesi

Uno dei modi più frequenti utilizzati dai padri per interpre-
tare i riti eucaristici è il ricorso alla cosiddetta tipologia bibli-
ca, cioè a quel metodo che, già impiegato dagli autori del Nuo-
vo Testamento per interpretare le antiche Scritture di Israe-
le, permette di vedere nelle realtà dell’antica alleanza i “tipi”
o “prefigurazioni” dei misteri della nuova. Vediamo così i pa-
dri fare riferimento di volta in volta all’offerta di Melkisedek,
alla manna del deserto, ai pani della proposizione, all’agnello pas-
quale, all’oblazione pura del profeta Malachia, al carbone ar-
dente del profeta Isaia o al banchetto della Sapienza, come a
realtà che preannunciano profeticamente l’eucaristia e che ri-
cevono piena luce da essa31. Uno spazio del tutto speciale occu-
pa il libro dei salmi, grazie soprattutto ad alcuni versetti che di-
ventano particolarmente cari ai padri per la loro capacità di evo-
care in modo sintetico la realtà del mistero eucaristico, come ad
esempio il salmo 22,5: “Davanti a me tu prepari una mensa…”
o il già citato salmo 33,9: “Gustate e vedete com’è buono il Si-
gnore”. Ma i riferimenti biblici utilizzati dai padri per inter-
pretare l’eucaristia non si limitano alle Scritture dell’Antico Te-
stamento: vi sono anche prefigurazioni eucaristiche individua-
te nel Nuovo Testamento (ad esempio la moltiplicazione dei
pani, il sangue e l’acqua che escono dal costato di Cristo)32 e
spesso i singoli riti che costituiscono la celebrazione eucaristi-
ca vengono intesi come immagini e imitazioni di eventi o di azio-
ni della vita storica di Cristo, con particolare predilezione, co-
me è facile intuire, per gli eventi della sua passione, morte e re-
surrezione.

31 Sul tema cf. J. Daniélou, Bibbia e liturgia, pp. 189-214 (“Le figure dell’eucari-

stia”); e più in generale M. Dulaey, “Des forêts de symboles”. L’initiation chrétienne et


la Bible (Ier-VIe siècles), Librairie générale française, Paris 2001.
32 Il lettore potrà agevolmente rendersi conto della misura impressionante di questo

ricorso alle Scritture per comprendere, interpretare e commentare i gesti sacramenta-

27
Introduzione

Questo complesso sistema di riferimenti a eventi e persone


della storia della salvezza, sebbene abbia ricevuto sviluppi diver-
sificati a seconda degli autori, delle scuole e delle epoche stori-
che – sviluppi talora discutibili e non sempre felicemente a ser-
vizio dell’intelligenza del mistero33 –, ha valore nella misura in
cui pone in relazione l’eucaristia con gli eventi della storia del-
la salvezza e ne rivela l’intimo legame con la parola di Dio con-
tenuta nelle Scritture. “Tutte queste interpretazioni della litur-
gia – è stato giustamente scritto – riposano, in ultima analisi,
sulla convinzione, ispirata dalla fede, che il mistero liturgico è
identico al mistero scritturistico. Si tratta, in definitiva, dello
stesso mistero di Cristo che fu annunciato dalle Scritture ed è
celebrato nella liturgia. Questa identità di struttura giustifica
l’applicazione di uno stesso metodo all’interpretazione della
Scrittura e all’iniziazione sacramentale”34.

Dimensione cristologico-sacramentale

I padri sono consapevoli come il linguaggio della tipologia e


della mimesi, pur efficace ed eloquente per una comprensione e
un’assunzione nella fede del mistero eucaristico, non sia però ca-

li, e anche di quali sono i passi più frequentemente citati, consultando l’“Indice bibli-
co” collocato al termine del volume (cf. infra, pp. 595-607).
33 La tendenza propriamente allegorica nell’interpretazione dell’eucaristia affonda

le sue radici in Origene: nei commenti bizantini alla divina liturgia essa viene per lo
più riletta alla luce dei principi dell’esegesi antiochena e, seguendo la traccia già aper-
ta da Teodoro di Mopsuestia, collegata agli eventi storici della vita di Cristo (ad esem-
pio Germano di Costantinopoli e Nicola Cabasilas). Per l’impostazione dei singoli au-
tori rimandiamo alle sintesi contenute nelle “Notizie sugli autori e i testi” in coda al
volume (cf. infra, pp. 569-593), e più in generale al libro già spesso citato di R. Bornert,
Les commentaires byzantins. Sul difficile equilibrio tra allegorismo e realismo sacramen-
tale nell’interpretazione della liturgia eucaristica, cf. G. Wagner, “Réalisme et symboli-
sme dans l’explication de la Liturgie”, in Id., La liturgie, expérience de l’Églises. Études
liturgiques, Presses Saint-Serge-Institut de théologie orthodoxe, Paris 2003, pp. 181-190.
34 R. Bornert, Les commentaires byzantins, p. 269. Per una valutazione del significa-

to e delle potenzialità spirituali del metodo allegorico applicato alla liturgia, cf. anche
R. F. Taft, Liturgia. Modello di preghiera, icona di vita, Lipa, Roma 2009, pp. 86-102.

28
Introduzione

pace di esprimerne adeguatamente tutta la realtà. Al cuore del-


l’interpretazione mistagogica rimane quindi centrale la convin-
zione che, al di là dei simboli e delle figure, nella liturgia euca-
ristica vi sia la reale presenza di Cristo e che attraverso di essa
i fedeli partecipino realmente al suo mistero di salvezza e alla
sua vita divina. I padri sviluppano a questo scopo un linguaggio
della sacramentalità, che, inizialmente rudimentale, diventa sem-
pre più adeguato e coerente, senza però finire mai per reificare
il sacramento eucaristico isolandolo dall’intero contesto cele-
brativo e dal legame intimo e dinamico con il più ampio orizzon-
te dell’economia salvifica. Ciò che permette di preservare que-
sto legame, oltre a un apofatismo di fondo tipico di tutta la teo-
logia patristica, che evita di far violenza al mistero
esaminandolo o definendolo in maniera troppo precisa, è pro-
prio il continuo riferimento alle parole della Scrittura (in parti-
colare alle epistole paoline), che fanno emergere la dimensione
cristologica dei segni sacramentali, alle parole stesse di Cristo
che, accolte nella fede, ne garantiscono la verità e l’efficacia, e
infine all’azione dello Spirito vivificante, che assicura l’identità
sostanziale tra il mistero che si compie nell’eucaristia e i miste-
ri della salvezza.

Dimensione ecclesiologica

L’eucaristia non è mai considerata dai padri come un fatto


individuale, ma è per eccellenza la “sinassi”, il sacramento del-
la “comunione” (koinonía) di tutti i credenti con Dio e dei cre-
denti tra di loro: essa fonda e manifesta la realtà della chiesa
quale corpo di Cristo. È costante preoccupazione dei padri che
tale dimensione ecclesiale, manifestata dalle parole e dai gesti
della liturgia, si rifletta da una parte in un contegno liturgico
adeguato, improntato al “buon ordine” (eutaxía) e al rispetto dei
diversi carismi dei membri del corpo di Cristo riuniti in sinas-

29
Introduzione

si, e dall’altra si traduca in una costante attenzione agli altri, in


una reale carità fraterna all’interno della comunità cristiana.

Dimensione anagogico-escatologica

Un’applicazione particolare del metodo della tipologia alla li-


turgia eucaristica è quella che tende a interpretarla in modo ana-
gogico come “icona” della liturgia celeste e come anticipazione
delle realtà escatologiche. Il mistero che si compie nella liturgia
anticipa attraverso figure e simboli il mistero che sarà compiu-
tamente rivelato nel secolo futuro. È questa una dimensione
particolarmente presente nei padri che si pongono sulla linea del-
la tradizione origeniana (Pseudo-Dionigi, Massimo il Confes-
sore), ma che occupa un certo spazio anche in autori di diversa
tendenza (ad esempio Teodoro di Mopsuestia) ed è comunque
ampiamente riflessa dagli stessi testi liturgici antichi, nei quali
è centrale l’idea che la liturgia terrena è immagine della liturgia
celeste e anticipazione del regno di Dio.

Dimensione ascetica e mistico-spirituale

Non ultimo fra gli scopi del discorso mistagogico è quello di


introdurre ciascuno dei fedeli a una reale esperienza spirituale
già nell’oggi, a un incontro intimo con il Signore presente nel-
la liturgia, incontro che i padri descrivono spesso in termini nu-
ziali, soprattutto parlando della comunione eucaristica, che tra-
sforma i fedeli e la chiesa intera in “carne della carne” del Signo-
re35. I fedeli vengono perciò costantemente esortati a prestare
attenzione, a vigilare e a elevare il cuore, per far corrispondere
ai gesti e alle parole un’attitudine interiore in grado di accoglie-

35 Per l’uso di quest’immagine, tratta da Gen 2,23, cf. infra, cc. XII,22; XIII,38.42.

30
Introduzione

re la presenza del Signore, per vedere nei riti celebrati la possi-


bilità di partecipare realmente alla sua vita divina. La parteci-
pazione alla vita divina e la comunione con Dio sono certo un
puro dono, che non dipende dall’uomo, ma a lui è richiesta la
preparazione e la consapevolezza spirituale, la disponibilità a ri-
conoscere e accogliere il dono “nella fede, nel timore e nell’a-
more”. In questo senso la dimensione mistico-spirituale presup-
pone ed è strettamente connessa alla dimensione “ascetica” (e
non solo nei testi monastici o propriamente ascetici), intenden-
do l’ascesi nella profondità e nell’ampiezza di significato con cui
la comprendono i padri: non un puro sforzo volontaristico, né
una negazione della dimensione terrena della vita dell’uomo, ma
piuttosto il tentativo di assecondare attraverso tutte le dimen-
sioni dell’umano (corpo, anima e spirito) il movimento suscita-
to dalla grazia, che fa rinascere la persona dalla “morte” del pec-
cato alla vita dello Spirito36. Senza queste condizioni l’incontro
con il Signore non può avvenire, o meglio resta inefficace.

Dimensione morale

La liturgia, e in particolare l’eucaristia, deve diventare anche


la fonte di una vita rinnovata: l’azione liturgica cui i fedeli so-
no resi degni di partecipare plasma, purifica e rinnova le azio-
ni della vita quotidiana, sia individuale che sociale. È costante
preoccupazione dei padri far percepire le ricadute etiche di tut-
to ciò che si compie in chiesa durante la liturgia eucaristica e a

36 Correttamente intesa e non assolutizzata, dunque, la “spiritualità ascetica” non

è da contrapporre né di fatto è contrapposta alla “spiritualità eucaristica”, come si può


vedere in autori quali Giovanni Crisostomo e Nicola Cabasilas, rappresentativi del pe-
riodo antico e di quello più recente. Sul tema dell’ascesi e su quello dell’attenzione-vi-
gilanza spirituale nei padri, soprattutto in riferimento alle fonti monastiche, cf. Il cam-
mino del monaco. La vita monastica secondo la tradizione dei padri, a cura di L. d’Ayala
Valva, Qiqajon, Bose 2009, pp. 501-537; 599-628.

31
Introduzione

cui i fedeli partecipano con gesti e parole. Talora i gesti o le pa-


role sono così eloquenti che si tratta solo di prestarvi attenzio-
ne per sentirsi coinvolti e spinti alla conversione. L’insistenza
principale dei padri è sulla carità (agápe) e sulla misericordia
(éleos): in quanto sacramento dell’amore e della misericordia del
Signore, l’eucaristia infatti non può lasciare indifferenti “colo-
ro che sono iniziati” al suo mistero, ma deve spingerli a manife-
stare nei confronti dei fratelli la stessa carità e misericordia. Per
i padri infatti – e Giovanni Crisostomo tra tutti è certamente
il caso più emblematico – “vi è una continuità profonda e vita-
le tra il mistero di Dio, i misteri eucaristici e la vita del battez-
zato. Quest’ultima acquista una dimensione misterica, diventa
ugualmente mistero nella misura in cui manifesta la misericor-
dia di Dio. Detto altrimenti, la misericordia che Dio dispiega
nella sua ‘economia’, che è celebrata nell’eucaristia, trova il suo
compimento soltanto nel credente che conduce una vita degna
dei misteri che gli sono affidati”37.
La dimensione morale è dunque parte integrante del signifi-
cato del sacramento eucaristico, non un elemento a esso aggiun-
to, e si può giustamente parlare di un “ethos eucaristico”38: non
agire secondo la logica profonda che si manifesta nell’eucaristia
vuol dire non solo neutralizzarne l’efficacia, ma anche in fin dei
conti non accoglierla e non comprenderla nella sua verità.

L’itinerario proposto e i criteri della raccolta

La presente raccolta di testi intende essere una presentazio-


ne globale e sintetica del modo in cui i padri greci e gli autori

37 Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, p. 95.


38 I. Zizioulas, Eucaristia e regno di Dio, Qiqajon, Bose 1996, p. 80.

32
Introduzione

bizantini (che dei primi sono gli eredi diretti)39 hanno compre-
so il sacramento dell’eucaristia, in tutti i suoi molteplici aspetti
– liturgico, teologico, spirituale, morale –, facendo uso di quel-
lo che abbiamo chiamato approccio mistagogico. A tale scopo ab-
biamo scelto di organizzare la materia in quattordici capitoli te-
matici dedicati ai vari momenti della celebrazione eucaristica,
seguendo come schema di riferimento sia l’ordo della cosiddet-
ta “Liturgia clementina” del libro viii delle Costituzioni aposto-
liche – il più antico ordo completo della celebrazione eucaristi-
ca, in cui sono già presenti molti caratteri della liturgia bizan-
tina successiva – sia quello delle liturgie bizantine di Giovanni
Crisostomo e di Basilio, secondo la recensione più antica (fine
viii-inizio ix secolo), che rappresentano la norma celebrativa per
tutto il periodo bizantino40.
In ogni capitolo si citano innanzitutto le parole della liturgia
che si riferiscono al momento o al gesto liturgico preso in esa-
me e poi, di seguito, si riportano i testi che commentano lo stes-

39 Del resto, come è stato giustamente notato, la chiesa ortodossa di tradizione bi-

zantina “non conosce una fine dell’era dei padri” (B. Petrà, La chiesa dei padri. Breve
introduzione all’Ortodossia, Edb, Bologna 20072, p. 29) paragonabile a quella avvenu-
ta e poi teorizzata in occidente: anche autori posteriori a quello che è considerato
“l’ultimo dei padri greci”, Giovanni di Damasco, possono essere (e sono stati di fatto)
considerati come padri a pieno titolo. Nello stesso senso si è espresso più di recente il
patriarca Bartolomeo I in Ecumenical Patriarch Bartholomew, Encountering the Mystery.
Understanding Orthodox Christianity Today, Doubleday, New York 2008, pp. 38-40.
40 Fino al x secolo il rituale eucaristico più utilizzato nella “grande chiesa” di Co-

stantinopoli era quello della Liturgia di Basilio, ma a partire dagli inizi dell’xi secolo,
forse in concomitanza con la diffusione della celebrazione eucaristica quotidiana ini-
ziata nei monasteri della capitale imperiale, la Liturgia di Giovanni Crisostomo diventò
la più celebrata, mentre la prima, più lunga e solenne, fu riservata alle domeniche di
quaresima e ad alcune feste dell’anno, prassi che rimane tuttora vigente nelle chiese
ortodosse: cf. sul tema S. Parenti, A oriente e occidente di Costantinopoli. Temi e proble-
mi liturgici di ieri e di oggi, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2010, pp. 27-47.
In generale sulla storia, sull’evoluzione e sulla composizione delle varie parti della li-
turgia eucaristica bizantina rimandiamo a H. Wybrew, The Orthodox Liturgy. The De-
velopment of the Eucharistic Liturgy in the Byzantine Rite, St Vladimir’s Seminary Press,
Crestwood Ny 1990; R. F. Taft, Oltre l’oriente e l’occidente. Per una tradizione liturgi-
ca viva, Lipa, Roma 1991, pp. 219-251; S. Rosso, La celebrazione della storia della sal-
vezza nel rito bizantino. Misteri sacramentali, feste e tempi liturgici, Libreria editrice vati-
cana, Città del Vaticano 2010, pp. 139 ss. (con ampia bibliografia recente).

33
Introduzione

so momento o gesto liturgico, con riferimento più o meno diret-


to (a seconda degli autori) alle formule liturgiche citate. In que-
sto modo intendiamo non solo far emergere echi e consonanze
tra testi liturgici e testi mistagogici, ma anche mostrare come
le formule dei testi liturgici siano in certo modo esse stesse del-
le “mistagogie implicite”, che commentano i gesti e i momenti
della liturgia nell’atto stesso della loro celebrazione41.

Il percorso proposto si apre con un capitolo che ha per tema


la necessità, il senso e la forma di realizzazione della “sinassi”
(c. I)42: i testi che vi sono raccolti, pur non riferendosi a un pre-
ciso momento liturgico, costituiscono un buon commento del-
l’atto stesso del convenire insieme dei fedeli, che si ripete all’i-
nizio di ogni celebrazione eucaristica.
Il primo momento della celebrazione eucaristica su cui si tro-
vano ampi commenti patristici è quello della liturgia della Pa-
rola (c. II). I padri sono ben consapevoli dello stretto legame
tra “mensa della Parola” e “mensa dell’eucaristia”: l’una e l’al-
tra permettono di fare anamnesi della venuta del Signore nella
carne e della sua opera di salvezza, e ne garantiscono la presen-

41 Citiamo costantemente il testo della liturgia delle Costituzioni apostoliche e della

Liturgia di Giovanni Crisostomo – quando non vi siano lacune nei formulari –, mentre
aggiungiamo quello della Liturgia di Basilio solo quando ci sembri fornire varianti o ag-
giunte significative rispetto alla Liturgia di Giovanni Crisostomo. Nel caso di lacune nei
formulari della recensione più antica della Liturgia di Giovanni Crisostomo (conservata
dall’Eucologio Barberini della fine dell’viii secolo), ricorriamo al testo più recente (b),
quello ancora utilizzato nelle celebrazioni odierne.
42 Tra i momenti e i riti liturgici abbiamo generalmente selezionato quelli che le

fonti indicano come più significativi e per i quali è stato possibile raccogliere un nume-
ro abbastanza vasto di commenti: sono stati trattati insieme quelli con significato simi-
le (ad esempio la preghiera dei fedeli e le intercessioni anaforiche), mentre si è scelto
di tralasciare sia le parti più recenti della liturgia commentate solo dagli autori tardi
(ad esempio il rito della próthesis o presentazione dei doni, introdotto verso il vii-viii
secolo) sia i momenti e i gesti liturgici che, anche se molto antichi e significativi in sé
hanno ricevuto scarsa attenzione da parte delle fonti. Entro questi limiti, uno spazio
particolare è stato dato a quei momenti o riti che trovano un parallelo stretto nella li-
turgia occidentale (ad esempio le varie parti dell’anafora). Attraverso l’indice tematico
posto alla fine al volume il lettore potrà reperire in modo trasversale i temi cui non è
stato possibile o non si è giudicato opportuno dedicare un capitolo specifico.

34
Introduzione

za viva e continua in mezzo alla sua chiesa. Per questo negli at-
teggiamenti richiesti dai padri per ascoltare la proclamazione del-
la Scrittura abbiamo già un abbozzo del contegno che i fedeli
devono tenere in tutto il corso della liturgia eucaristica.
Al termine della liturgia della Parola, inizia la celebrazione
eucaristica propriamente detta. Il primo rito su cui i padri ci
hanno lasciato commenti significativi è la presentazione dei do-
ni sull’altare da parte del ministro celebrante (c. III), gesto che
viene interpretato come l’offerta a Dio delle primizie della crea-
zione, un atto che per ciascuno dei credenti deve essere accom-
pagnato dalla condivisione dei beni con i poveri e concretizzar-
si quotidianamente nell’offerta totale della propria vita a Dio.
Segue il gesto dello scambio della pace (c. IV), che nelle litur-
gie orientali fa parte dei riti preparatori ed è collocato all’inizio
della liturgia eucaristica, e non prima della comunione come in
occidente. I padri sottolineano il valore profondo del bacio di pa-
ce, che deve unire le anime più che i corpi, e ricordano come la
pace e la riconciliazione siano condizione imprescindibile per la
celebrazione dell’eucaristia da parte della comunità cristiana.
I commenti mistagogici si fanno più puntuali a partire dall’i-
nizio dell’anafora eucaristica (c. V). Il dialogo che la apre, tra il
celebrante e l’assemblea, fornisce ai padri ampia materia d’inter-
pretazione: in queste brevi parole essi colgono l’invito a pren-
dere consapevolezza della presenza del Signore, ad assumere
un contegno adeguato e a innalzare il cuore a Dio distogliendo-
lo da ogni altro pensiero.
L’anafora prosegue con la preghiera di ringraziamento e di
lode pronunciata dal ministro celebrante a nome di tutta l’as-
semblea (c. VI): è l’eucharistía propriamente detta, che dà il no-
me all’intera celebrazione e che dai padri è presentata come il
coronamento e la sintesi di un’azione di grazie che deve perva-
dere l’intera vita del cristiano. Questa preghiera rivolta a Dio
Padre culmina nell’inno del “triplice santo” (c. VII), in cui l’as-
semblea imitando i cori celesti acclama la santità di Dio: per i

35
Introduzione

padri questo è il segno che la liturgia celebrata dalla chiesa sul-


la terra si unisce a quella celebrata incessantemente in cielo ed
è allo stesso tempo anticipazione della liturgia escatologica.
A questo punto l’azione di grazie, dopo aver lodato Dio per
l’opera della creazione, si apre all’anamnesi della sua opera di
salvezza, culminata nel dono del Figlio per la vita del mondo.
Acquistano un valore particolare in questo contesto le parole
pronunciate da Cristo per istituire l’eucaristia nell’imminenza
della sua passione (c. VIII): al di là della questione della loro ef-
ficacia – affermata solo da alcuni autori e soprattutto dalla tra-
dizione occidentale –, per tutti i padri esse costituiscono il fon-
damento di verità del sacramento, che poi trova il suo pieno
“compimento” al momento dell’epiclesi (c. IX), quando sul pa-
ne e sul vino viene invocato lo Spirito santo. È lo Spirito, che
la chiesa può sempre invocare nella fede ma mai possedere, a
sigillare il sacramento e a garantirne l’efficacia. L’eucaristia è
in questo senso il frutto di una preghiera sempre esaudita.
L’anafora si conclude con le preghiere d’intercessione (c. X)
che il celebrante, a nome dell’assemblea, eleva in favore di tut-
ti gli uomini, in attesa che l’unità del “corpo di Cristo” si rea-
lizzi in pienezza nel regno di Dio: per i padri la chiesa traduce
così in responsabilità nei confronti di tutti la consapevolezza
di trovarsi realmente alla presenza del Signore.
Terminata l’anafora, l’assemblea recita il Padre nostro (c. XI):
privilegio esclusivo dei battezzati e compendio di tutto l’evan-
gelo, questa preghiera appare il coronamento dell’anafora (inte-
ramente rivolta al Padre) e insieme la preparazione alla comu-
nione. I padri sottolineano come la recitazione del Padre nostro
richieda al fedele la “franchezza” (parrhesía) e il rendimento di
grazie per essere stato reso figlio di Dio, e allo stesso tempo lo
inviti all’esame della propria coscienza e al “timore” di fronte
alla sublimità di tale vocazione. Franchezza e timore di Dio: due
sentimenti apparentemente contraddittori, che però il creden-
te, secondo l’insegnamento dei padri, deve accogliere insieme

36
Introduzione

nel proprio cuore, senza lasciarsi esaltare dal primo né paraliz-


zare dal secondo, soprattutto nel momento in cui sta per acco-
starsi al corpo di Cristo. E poiché la misericordia ricevuta e do-
nata è ciò che più di ogni altra cosa rende i credenti figli di Dio,
il Padre nostro è anche l’ultima occasione prima della comunio-
ne per chiedere perdono a Dio e per ricordarsi di perdonare il
fratello.
Un momento di particolare solennità nell’ordo delle liturgie
eucaristiche bizantine è quando il celebrante, terminate le pre-
ghiere, eleva il corpo e il sangue di Cristo e, mostrandoli all’as-
semblea, proclama: “Le cose sante ai santi!” (c. XII). La santi-
tà di cui qui si parla è anzitutto quella del battesimo, ma dove-
re di ogni battezzato è conformare la propria vita al “dono” già
ricevuto e rendersi degno di quello da ricevere (l’eucaristia), pur
nella coscienza che non ne sarà mai pienamente degno. L’uni-
co vero santo, che santifica tutti, è infatti Gesù Cristo. I padri
mostrano di avere piena consapevolezza di come l’eucaristia non
sia solo il nutrimento dei santi, ma anche e sempre la medicina
dei peccatori.
Con tali sentimenti nel cuore, i fedeli presenti possono acco-
starsi alla comunione al corpo e al sangue del Signore (c. XIII).
I padri dedicano lunghe e belle pagine delle loro opere a spie-
gare il senso profondo di questo dono ricevuto umilmente “tra
le mani”: se da una parte esso rappresenta il limite estremo rag-
giunto dalla condiscendenza di Dio e dalla sua radicale volontà
di comunione con l’uomo, dall’altra è un “farmaco d’immorta-
lità” che trasforma e assimila i credenti alla natura divina ren-
dendoli con-corporei di Cristo. In questo senso per i padri la
chiesa nell’eucaristia è significata, definita e confermata come
“corpo di Cristo”: la celebrazione del mistero eucaristico è la sor-
gente che rinnova la sua comunione con Dio e tra i suoi membri.
La celebrazione eucaristica si conclude con il congedo dell’as-
semblea da parte del celebrante e con l’uscita dei fedeli dalla
chiesa e il loro ritorno a casa propria (c. XIV). A ben vedere, più

37
Introduzione

che di una conclusione si tratta di un nuovo inizio: i padri mo-


strano infatti come i credenti siano invitati a passare dalla litur-
gia della chiesa alla liturgia della vita; dal memoriale dell’offer-
ta di Cristo, all’offerta della propria stessa vita; dalla misericor-
dia, dalla pace e dalla carità ricevute gratuitamente da Dio, alla
misericordia, alla pace e alla carità offerte in modo altrettanto
gratuito nei confronti dei loro fratelli in umanità.
Da tutto questo percorso, tracciato a partire dai testi della
liturgia e dei padri, emerge come per l’autentica tradizione cri-
stiana la liturgia eucaristica sia necessariamente da concepire
in stretto legame con la vita umana, in nessun modo come un at-
to di culto separato: essa è modello, scuola e comunicazione di
vita, perché l’uomo impari a essere veramente uomo, e sia con-
tinuamente riplasmato a immagine di colui che lo ha creato e
redento43. In questo senso essa è “culto” dell’uomo, laboratorio
di vera umanità, non meno di quanto sia culto di Dio, se è vero,
come dice Ireneo di Lione, che “la gloria di Dio è l’uomo viven-
te e la vita dell’uomo è la visione di Dio”44.

Un’ultima parola sui criteri che ci hanno guidato nella sele-


zione dei testi. Un’esigenza di uniformità di linguaggio e di co-
erenza di contenuti, unita alla necessità di limitare l’ampiezza
della materia, ci ha indotto innanzitutto, come già accennato,
a restringere la scelta dei testi alla sola tradizione greco-bizan-
tina. Si sono perciò tralasciati sia i testi delle altre tradizioni ec-
clesiastiche orientali non bizantine, che pure avrebbero potuto
fornire un materiale abbondante e relativamente coerente con
quello qui raccolto, sia soprattutto quelli della tradizione latina
occidentale, che si è ritenuto più opportuno e prudente tratta-

43 Cf. I. Zizioulas, Il creato come eucaristia. Approccio teologico al problema dell’eco-

logia, Qiqajon, Bose 1994, pp. 81-82.


44 Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,20,7.

38
Introduzione

re in modo separato45. Senza negare infatti che vi siano ampie


analogie e convergenze tra i testi “mistagogici” della tradizio-
ne greca e quelli della tradizione latina, soprattutto per i primi
secoli, è tuttavia innegabile che la differenziazione di queste due
tradizioni si sia ben presto concretizzata in due forme di espres-
sione liturgica estremamente diverse, irriducibili e per molti ver-
si complementari46.
I testi sono stati dunque scelti da un ampio spettro di auto-
ri che, iniziando dai padri apostolici e apologeti del i-ii secolo
(Ignazio di Antiochia, Didaché, Clemente di Roma, Ireneo di
Lione, Giustino), comprende, tra gli altri, i “didascali” alessan-
drini del ii-iii secolo (Clemente di Alessandria e Origene), i gran-
di dottori e pastori del iv-v secolo (Eusebio di Cesarea, Atana-
sio di Alessandria, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo,
Gregorio di Nissa, Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisosto-
mo, Teodoro di Mopsuestia, Teofilo e Cirillo di Alessandria),
quel “meteorite” apparso nel cielo di Bisanzio agli inizi del vi
secolo che è l’autore del Corpus Areopagyticum, gli autori delle
grandi sintesi teologiche del vii-viii secolo (Massimo il Confesso-
re, Anastasio il Sinaita, Giovanni di Damasco), e giunge fino
agli ultimi commentatori bizantini della divina liturgia nel xiv-xv
secolo (Nicola Cabasilas e Simeone di Tessalonica), senza di-
menticare in tutto questo arco di tempo gli esponenti della tra-
dizione monastica, come i Padri del deserto, lo Pseudo-Maca-
rio, i padri di Gaza, Cirillo di Scitopoli, Teodoro Studita, Si-
meone il Nuovo Teologo e Gregorio Palamas. In questo modo,
raccogliendo testi che si collocano nell’arco di più di un millen-
nio, è stato possibile far emergere la continuità di una tradizio-
ne liturgica, quella bizantina, che, affondando le proprie radici
nella tradizione della chiesa primitiva, arriva a una sua prima de-

45 Il presente volume è stato concepito in parallelo con un altro volume di impian-

to simile dedicato alla tradizione occidentale latina.


46 Cf. R. F. Taft, A partire dalla liturgia. Perché è la liturgia che fa la chiesa, Lipa, Ro-

ma 2004, pp. 332 ss.

39
Introduzione

finizione tra il iv e il v secolo, per raggiungere la sua forma fi-


nale e completa, rimasta sostanzialmente immutata fino a oggi,
proprio nel xiv-xv secolo.
Questo lavoro, che si è cercato di condurre con rigore scien-
tifico e di corredare con un apparato di note che documentasse
in modo essenziale la situazione degli studi sulle varie temati-
che connesse alle fonti citate, non è però destinato ai soli specia-
listi di storia della liturgia né ha un intento primariamente stori-
co-filologico, ma intende essere soprattutto uno strumento teo-
logico-spirituale offerto a ogni credente che desideri acquisire
una comprensione più profonda ed “ecclesiale” dell’eucaristia
facendo tesoro della grande tradizione – e ciò per adottarne il
metodo e l’approccio globale più che le singole interpretazioni –.
I testi sono stati perciò scelti, tradotti, annotati e raccolti al-
la luce del criterio della massima intelligibilità, al fine di com-
porre una sorta di “commento” della celebrazione eucaristica
che ne permettesse realmente una comprensione mistagogica.
Lo spazio principale viene dato alle grandi mistagogie del iv-v
secolo e la fedeltà all’approccio da esse adottato, che mantiene
sempre un sapiente equilibrio tra realismo sacramentale e inter-
pretazioni simboliche, è stato anche il criterio che ci ha guida-
to nella scelta dei testi del periodo successivo (abbiamo dato per-
ciò minor spazio a quei testi nei quali la lettura simbolico-alle-
gorica dei vari momenti dell’eucaristia tende a essere prevalente
o addirittura esclusiva). Nelle introduzioni a ogni capitolo ab-
biamo cercato di contestualizzare, spiegare ed esplicitare ciò che
talora nei brani scelti viene detto in modo oscuro o troppo sin-
tetico47. D’altra parte siamo stati indotti a volte a tralasciare te-

47 In questo senso, oltre che alla letteratura specialistica sulla materia, si è fatto vo-

lentieri riferimento a opere di teologi e di autori spirituali greci, e più in generale or-
todossi, per documentare la tradizione e l’interpretazione vivente della liturgia bizan-
tina, quale è ancora compresa oggi da coloro che la celebrano e la vivono. Si è avuto
tuttavia sempre cura di distinguere tra il significato originario dei testi e dei riti e gli
eventuali sviluppi delle interpretazioni successive.

40
Introduzione

sti troppo singolari o che, a causa del linguaggio impiegato, pre-


sentavano eccessive difficoltà interpretative e per i quali sareb-
be stato necessario un apparato di commenti e di note superiore
a quello tollerabile in un’antologia.
Entro questi limiti, dunque, si è cercato di includere tutto
l’essenziale per non tradire la comprensione globale che la tra-
dizione greco-bizantina ha avuto e ha tuttora della liturgia eu-
caristica e per offrirne un’immagine il più possibile completa.
Al lettore il compito di giudicare, con benevolenza, se siamo ri-
usciti nell’intento. A noi resta solo di formulare il voto che
quest’umile lavoro possa contribuire a diffondere tra i cristiani
d’occidente la conoscenza e l’amore dei tesori liturgici delle chie-
se d’oriente e ad alimentare in loro il desiderio di vedere il gior-
no, noto solo a Dio, in cui tutti insieme potremo partecipare al
calice comune. “Per la pace del mondo intero, per la prosperi-
tà delle sante chiese di Dio e per l’unione di tutti preghiamo il
Signore: Kyrie, eleison!”.

41
NOTA EDITORIALE

Per esigenza di uniformità di stile e di linguaggio i brani dei padri


greci e degli autori bizantini qui raccolti sono stati tutti tradotti nuo-
vamente dal curatore a partire dal testo originale greco, anche se di una
buona parte esistevano già delle traduzioni, cui talvolta ci siamo ispi-
rati (le segnaliamo per l’utilità del lettore nella bibliografia al termine
del volume). Per alcune opere il cui testo originale greco è andato per-
duto la traduzione è stata realizzata a partire dalle antiche versioni
conservate, in latino (ad esempio Ireneo di Lione, Origene) o in siria-
co (Teodoro di Mopsuestia). Per la traduzione dei brani di quest’ulti-
mo autore ci siamo avvalsi dell’aiuto di Sabino Chialà, monaco di Bose.
Di tutti i testi abbiamo tenuto presenti le edizioni più valide che ci
è stato possibile reperire: le indichiamo nell’indice delle fonti in fon-
do al volume. Di esse abbiamo sempre seguito la suddivisione del testo
in capitoli e paragrafi, quando esisteva; quando invece tale suddivisio-
ne era assente, nell’indicazione delle citazioni ci siamo riferiti alle pa-
gine (o anche alle colonne, alle righe o ai versi) dell’edizione adottata.
Le citazioni e allusioni bibliche segnalate nei brani antologizzati
sono da riferire quasi sempre al testo greco dell’Antico Testamento
(la cosiddetta versione dei lxx), spesso divergente dal testo ebraico
da cui sono tratte le moderne traduzioni della Bibbia, e al testo gre-
co del Nuovo Testamento. A volte però si tratta di citazioni libere o
ad sensum che si allontanano non poco dalla lettera del testo di riferi-
mento. Nelle citazioni dei passi paralleli degli evangeli sinottici di re-
gola segnaliamo soltanto il riferimento all’Evangelo secondo Matteo.
Per il libro dei Salmi seguiamo la numerazione dei lxx (che differi-
sce generalmente di un’unità rispetto alla numerazione ebraica),
mentre per le titolature e le abbreviazioni dei singoli libri seguiamo

43
Nota editoriale

quelle adottate dall’edizione italiana della Bibbia di Gerusalemme


(Edb, Bologna 2009).
Poiché i quattordici capitoli in cui è suddiviso il volume non esau-
riscono i temi presenti nella liturgia bizantina e nei testi patristici che
la commentano, l’indice tematico in fondo al volume potrà servire a
reperire in modo trasversale i temi che non ricevono alcuna trattazio-
ne specifica o quelli che ricorrono in più capitoli e in contesti diver-
si. In tale indice indichiamo entro parentesi, ove lo riteniamo signifi-
cativo, i termini greci corrispondenti ai vari lemmi. I singoli lemmi pe-
rò non rappresentano sempre uno o più termini precisi, ma a volte
esprimono semplicemente un concetto generale.

44
È necessario imparare a conoscere il miracolo dei misteri:
in cosa consiste, perché ci è stato dato
e qual è la sua utilità.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Giovanni 46,2
Capitolo I
RIUNITI NEL NOME DI CRISTO

Prima ancora di implicare la dimensione verticale della preghie-


ra di lode e di supplica rivolta a Dio, la liturgia coinvolge innanzi-
tutto la comunità cristiana in un movimento orizzontale di raduno
in “sinassi” (sØnaxis), di raccolta “nello stesso luogo” (epì tò autó)1,
in quell’unità di fede e di carità attorno al Cristo che la costituisce
quale “chiesa” (ekklesía), assemblea dei credenti convocata dall’u-
nico Signore 2, “popolo di Dio” (laòs toû Theoû) radunato per ascol-
tare la sua Parola.
Per introdurre l’intera raccolta abbiamo perciò ritenuto oppor-
tuno presentare in questo capitolo alcuni testi sul senso e sull’im-
portanza della partecipazione assidua alle sinassi, alle riunioni di
preghiera, domenicali o quotidiane, nelle quali la celebrazione eu-
caristica, insieme all’ascolto della Parola, rappresenta da sempre per
la chiesa il momento e il nucleo principale di unità 3.

1 L’uso tecnico di questa espressione in riferimento alla comunità dei credenti rac-

colta “in unità” (non solo locale, ma anche spirituale) è di derivazione biblica (cf. Sal
132,1; At 1,15; 2,1.44.47; 1Cor 7,5; 11,20; 14,23) ed è largamente attestato nella let-
teratura patristica (cf. ad esempio Giustino, Apologia prima 67,3; Clemente di Roma,
Prima lettera ai Corinti 34,7; Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 5,2; Id., Lettera
ai Magnesii 7,1; Origene, Sulla preghiera 31,5).
2 Cf. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi prebattesimali 18,24: “Giustamente viene

chiamata ‘chiesa’ (ekklesía) poiché essa ‘chiama a sé’ (ekkaleîsthai) tutti e li raduna in-
sieme”.
3 Il termine greco sØnaxis, usato in oriente tra il iv e il vi secolo circa, ha sia un’ac-

cezione generica, in riferimento a tutte le celebrazioni comuni, sia un’accezione speci-


fica in relazione alla liturgia eucaristica, e trova un parallelo nel termine latino collec-

47
Capitolo I

La chiesa non è un organismo puramente spirituale: è un “cor-


po”, secondo l’immagine paolina che i padri fanno propria, un cor-
po concreto che vive grazie all’armonia tra le sue membra, le qua-
li sono chiamate a tendere insieme verso Cristo, per essere così, cia-
scuna e tutte insieme, trasformate e riunite nell’unica vita di Cristo
(cf. §§ 1-4). La vita “in Cristo” (en Christô) è infatti lo scopo cui
tende non solo ogni battezzato singolarmente, ma l’intera chiesa
nel suo insieme, appunto perché, secondo l’autentica tradizione cri-
stiana espressa negli autori del Nuovo Testamento e nei padri, “non
si può essere ‘in Cristo’ senza essere del suo corpo, dunque essen-
zialmente legati alle membra di quest’ultimo”4. La sinassi, e in
modo eminente quella eucaristica, è così agli occhi dei padri anzi-
tutto un’epifania della chiesa, perché ne manifesta visibilmente la
realtà di “corpo di Cristo”. Ciascuno dei cristiani è tenuto a parte-
ciparvi, non anzitutto per adempiere a un dovere religioso persona-
le, ma per non rendere “monco” il corpo di cui è membro vivo e
non privare della sua presenza i fratelli di cui è responsabile come
delle sue stesse membra (cf. § 5). In tale prospettiva, disertare le si-
nassi, soprattutto se in modo ripetuto e prolungato, manifesta la pro-
pria volontà di esclusione dalla comunione ecclesiale e dalla vita
del corpo di Cristo (cf. § 2).
La comunità convocata attorno al vescovo per spezzare l’unico
pane e condividere l’unico calice (cf. §§ 3-4) realizza, secondo i pa-
dri, la katholikè ekklesía5, cioè la chiesa nella sua pienezza onto-

ta, che ne è un calco (cf. ad esempio Giovanni Cassiano, Istituzioni cenobitiche II,10,1;
III,11). Su questo termine cf. V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dal-
la storia alla teologia, alla pastorale pratica, Clv-Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. 24.
4 J.-M. Tillard, Carne della chiesa, carne di Cristo. Alle sorgenti dell’ecclesiologia di

comunione, Qiqajon, Bose 2006, p. 46.


5 L’aggettivo greco katholiké, sconosciuto al Nuovo Testamento ma largamente uti-

lizzato nella filosofia antica, deriva dall’espressione avverbiale kathólou, “nell’insieme,


interamente, in generale”. L’attestazione più antica dell’espressione katholikè ekkle-
sía, in Ignazio di Antiochia, Lettera agli Smirnesi 8,2 (“Dove si mostra il vescovo, là sia
il popolo, così come dove c’è Gesù Cristo, là c’è la chiesa cattolica”), non sembra rife-
rirsi alla “chiesa universale” in opposizione alla “chiesa locale”, secondo l’accezione che
si imporrà soprattutto a partire dal iv secolo, ma piuttosto alla chiesa “completa” in

48
Riuniti nel nome di Cristo

logica, ove la presenza di tutti i ministeri (vescovo, collegio dei pre-


sbiteri, diaconi e laici) e il superamento di ogni divisione etnica, so-
ciale e naturale – in Cristo non c’è più né giudeo né greco, né ric-
co né povero, né uomo né donna, né giovane né anziano, ma ognu-
no è invitato a partecipare allo stesso titolo all’unico banchetto di
comunione (cf. § 6) e a condividere la stessa vita e lo stesso nome
di Cristo (cf. § 7) – permette di pregustare in modo anticipato, an-
che se ancora parziale, il raduno escatologico nel regno di Dio6,
quando, secondo l’espressione del profeta, “il lupo e l’agnello pa-
scoleranno insieme” (Is 65,25). L’assemblea ecclesiale riunita per
la liturgia è così la primizia e il sacramento dell’umanità rinnova-
ta e radunata in Cristo, vero “Ecclesiaste” – come dice Gregorio di
Nissa – “che raccoglie in unità ciò che è deviato e disperso e che fa
di tutte le cose un’unica chiesa e un solo gregge” 7.
Due linee apparentemente in tensione, ma in realtà complemen-
tari, emergono con chiarezza dai testi che qui presentiamo: se da
una parte i padri esortano i credenti a frequentare con assiduità la
chiesa e le assemblee liturgiche soprattutto nel giorno del Signore,
la domenica, e nei giorni festivi (cf. §§ 8-13), offrendo così una pri-
mizia del proprio tempo a Dio, allo scopo di lodarlo, di ascoltare e
conoscere la sua Parola, e di affermare il suo primato su ogni altra
attività quotidiana, dall’altra, con altrettanta forza, ricordano che
la preghiera liturgica del cristiano non può essere in alcun modo li-
mitata ai giorni di festa (cf. §§ 14-16), né ancor meno può esaurir-
si nell’assolvimento di un dovere o nella pratica di un’azione ri-

quanto comunità eucaristica riunita attorno al vescovo che rappresenta Cristo (cf. I.
Zizioulas, L’essere ecclesiale, Qiqajon, Bose 2007, p. 158; e nello stesso senso H. de
Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1978, p. 23). L’e-
spressione katholikè ekklesía è attestata nei primi secoli anche per designare il luogo di
culto, la chiesa episcopale o la parrocchia principale, dove la comunità cristiana si ra-
dunava per celebrare l’eucaristia, in contrapposizione alle chiese o cappelle di impor-
tanza secondaria: cf. M. Giorda, Monachesimo e istituzioni ecclesiastiche in Egitto. Al-
cuni casi di interazione e di integrazione, Edb, Bologna 2010, pp. 37-38.
6 Cf. I. Zizioulas, Eucaristia e regno di Dio, pp. 23-25, 74.
7 Gregorio di Nissa, Omelie sull’Ecclesiaste 2,1.

49
Capitolo I

tuale che occupi solo in modo parziale e saltuario il tempo della vi-
ta. L’autentica liturgia cristiana è incessante e, come più volte emer-
gerà dalla lettura dei testi raccolti in questo libro, coinvolge l’offer-
ta dell’intera vita: Dio non ha alcun bisogno del culto dell’uomo,
ma è l’uomo che ha continuamente bisogno di attingere alla paro-
la divina e di celebrare il mistero della salvezza per essere intima-
mente trasformato dalla vita e dall’amore di Dio; ed è così che, se-
condo i padri, egli può realizzare la sua autentica umanità (cf. § 9).
Non è la celebrazione della domenica in sostituzione del sabato
ebraico a costituire il proprium del culto cristiano, ma il “vivere
secondo la domenica”, secondo la felice espressione di Ignazio di
Antiochia8, cioè il vivere in conformità al mistero celebrato nel gior-
no della resurrezione del Signore. Anche ai cristiani praticanti che
presumono di essere nel giusto i padri ricordano, contro ogni illu-
sione ritualistica, che la loro partecipazione alle sinassi comunita-
rie per essere autentica deve diventare un’occasione di crescita spi-
rituale e produrre frutti concreti e visibili nella vita quotidiana, al-
trimenti rischia di essere del tutto vana (cf. § 17), perché, come dice
il Signore nell’evangelo: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore,
entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che
è nei cieli” (Mt 7,21).
In questi testi, infine, i padri insistono sulla grazia e sui benefici
particolari legati al carattere propriamente comunitario della pre-
ghiera cristiana (cf. §§ 18-24). Contro la troppo facile obiezione
avanzata per giustificare la propria assenza alle sinassi – “Posso
pregare anche a casa mia!” (§ 22) – i padri ricordano che, se pure
la preghiera solitaria, nel nascondimento e nell’intimità con Dio,
rimane essenziale nella vita di ogni cristiano, secondo l’insegnamen-
to e l’esempio di Cristo stesso, essa non è però sufficiente né può
sostituire la partecipazione all’assemblea dell’intera comunità. Ol-
tre a essere fonte di gioia, di consolazione e di sostegno reciproco,

8 Cf. Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 9,1.

50
Riuniti nel nome di Cristo

grazie alla presenza delle varie membra del corpo di Cristo dotate
di carismi diversi (laici e ministri ordinati), la preghiera compiuta
nella sinassi garantisce ai cristiani in modo sicuro la presenza di
Dio, degli angeli e dei santi del cielo e della terra (cf. §§ 2; 18; 24).
Solo così dunque, radunandosi in sinassi, la comunità cristiana
può nascere, vivere e crescere quale “chiesa” del Signore. Ha scritto
in modo eloquente uno dei massimi teologi ortodossi contempora-
nei, il cui pensiero è profondamente radicato in quello dei padri
della chiesa: “Che cos’è la chiesa? È lo spazio del superamento del-
l’individualismo, lo spazio della nostra unione con l’altro, lo spa-
zio dell’unione di tutti. Questo è esattamente anche il regno di Dio,
ma anche la divina eucaristia. Tra tutte le caratteristiche della divi-
na liturgia, la più importante dal punto di vista esistenziale è il fat-
to che è ‘sinassi’. Possiamo credere come individui, ma altra cosa è
che confessiamo la nostra fede in sinassi. Possiamo pregare nella
nostra ‘camera’, ma nella liturgia la nostra preghiera si unisce a
quella dei nostri fratelli e a quella del grande Sommo sacerdote. È
lui che prega con noi e per noi, offrendo se stesso nella divina euca-
ristia. Possiamo bagnare il nostro giaciglio con lacrime di pentimen-
to nella nostra cella, ma soltanto nella sinassi dell’eucaristia il Si-
gnore precede le nostre lacrime e ci offre il perdono come vita eter-
na. Tutto al di fuori dell’eucaristia è individuale. Tutto in essa è
comunione. Tutto si può trovare anche fuori della chiesa, anche in
altre religioni: tutte le virtù, l’ascesi e la nostra spiritualità. La sola co-
sa che non si trova al di fuori della chiesa è la divina eucaristia” 9.

α. Il sacerdote: (a voce sommessa) O tu che ci hai fatto grazia


di queste preghiere comuni e concordi, e che hai promesso di
esaudire le richieste quando due o tre si accordano nel tuo
nome (cf. Mt 18,19), adempi anche ora le richieste dei tuoi

9 I. Zizioulas, “Θεα Εχαριστα κα Εκκλησα”, in Aa.Vv., Τ μυστριο τ ς Θεας

Εχαριστας, Apostoliki Diakonia, Athina 2004, pp. 46-47.

51
Capitolo I

servi per il loro bene, donandoci nel secolo presente la cono-


scenza della tua verità e in quello futuro la vita eterna10.
Liturgia di Basilio, pp. 311-312

La sinassi eucaristica, epifania della chiesa

1. Cercate di riunirvi più di frequente per rendere grazie a


Dio e dargli gloria. Se infatti vi radunate spesso in uno stesso
luogo, le potenze di Satana vengono abbattute e il suo potere
distruttore è sconfitto grazie alla concordia della vostra fede.
Non c’è nulla di più eccellente della pace, con la quale ogni
guerra provocata da esseri celesti e terrestri è annientata11!
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 13,1

2. Nessuno si inganni: se uno non è dentro il santuario12, si


priva del pane di Dio (cf. Gv 6,33)! Se infatti la preghiera di
due persone insieme ha una tale forza (cf. Mt 18,19-20), quan-
to più quella del vescovo e di tutta la chiesa! Chi dunque non
viene alla riunione comune, già così mostra di essere superbo e
ha separato se stesso13. Sta scritto infatti: Dio resiste ai superbi
(Pr 3,34). Cerchiamo dunque di non resistere al vescovo, per
restare sottomessi a Dio.
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 5,2

10 È la preghiera colletta della “terza antifona”, che conclude la parte introduttiva

della divina liturgia bizantina (nella forma che ha assunto almeno a partire dal vii-viii
secolo) e precede immediatamente la “piccola entrata”. Fu successivamente inclusa an-
che nella Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 367.
11 Cf. anche i testi dello stesso autore citati infra, c. IV,1-4.
12 Il “santuario” (thysiastérion) qui è il luogo dove si celebra il sacrificio, cioè la chie-

sa, ma l’autore sembra alludere qui metaforicamente anche alla comunione ecclesiale.
13 Sottinteso: dalla comunione del corpo di Cristo e dall’unità della chiesa.

52
Riuniti nel nome di Cristo

3. Se Gesù Cristo me ne renderà degno grazie alla vostra pre-


ghiera, e se sarà [sua] volontà, nel secondo libretto che voglio
scrivervi vi spiegherò l’economia [di salvezza] di cui ho comin-
ciato a parlarvi, riguardo all’uomo nuovo, Gesù Cristo, [che
consiste] nella sua fede e nel suo amore, nella sua passione e re-
surrezione. E ciò soprattutto se il Signore mi rivelerà che cia-
scuno e tutti insieme, nella grazia che viene dal suo nome, vi
riunite in un’unica fede e in Gesù Cristo, della stirpe di David
secondo la carne (Rm 1,3), Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, per
obbedire al vescovo e al presbiterio con animo indiviso, spez-
zando un unico pane che è farmaco di immortalità, antidoto per
non morire, ma per vivere sempre in Gesù Cristo.
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 20,1-2

4. Cercate dunque di avere un’unica eucaristia14. Una sola


infatti è la carne del Signore nostro Gesù Cristo e uno solo il
calice che ci unisce nel suo sangue, uno solo è l’altare, come uno
solo il vescovo, insieme al presbiterio e ai diaconi, miei compa-
gni di servizio. Così, tutto ciò che farete, lo farete secondo Dio.
Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfesi 4,1

5. Quando insegni, o vescovo, ordina e raccomanda al popo-


lo di venire assiduamente in chiesa ogni giorno, di mattino e di
sera, a non mancare per alcun motivo, ma a partecipare assidua-
mente alle riunioni, e a evitare di mutilare la chiesa sottraendo
se stessi e privare il corpo di Cristo di una delle membra. Infat-
ti, non è stato detto solo per i sacerdoti15, ma ciascuno dei laici

14 Si veda la pericope precedente dello stesso testo riportata infra, c. IV,2.


15 Come è noto, nei libri del Nuovo Testamento il temine “sacerdote” (hiereús) non
è mai impiegato per designare la persona che svolge un ministero ordinato all’interno
della comunità cristiana: nell’economia della nuova alleanza l’unico e ultimo sacerdo-
te, anzi “sommo sacerdote” (archiereús), è Gesù Cristo, il quale ha offerto se stesso sul-
la croce in sacrificio vivente per annullare il peccato (cf. in particolare Eb 2,17; 3,1 ec-
cetera) e ha reso tutti i cristiani un “popolo sacerdotale” (1Pt 2,5.9; Ap 5,10). Per
quanto riguarda i ministeri ordinati, nei testi neotestamentari si parla soltanto di ve-

53
Capitolo I

deve ascoltare pensando a se stesso ciò che è stato detto dal Si-
gnore: Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me
disperde (Mt 12,30)16. Dal momento che siete membra di Cristo
(cf. Ef 5,30), dunque, non disperdete voi stessi disertando le
riunioni; poiché avete come capo Cristo (cf. Ef 4,15; 5,23) che,
secondo la sua promessa, è insieme e in comunione con voi (cf.
Mt 18,20), non trascurate voi stessi, non private il Salvatore
delle proprie membra, non dividete il suo corpo, non disperde-
te le sue membra, non preferite alla sua Parola le occupazioni
mondane, ma ogni giorno riunitevi, di mattino e di sera, per can-
tare salmi e pregare nelle case del Signore, recitando al matti-
no il salmo 62 e alla sera il salmo 140.
Specialmente poi nel giorno di sabato e nel giorno della re-
surrezione del Signore, ovvero la domenica, riunitevi con zelo
ancor maggiore, elevando una lode a Dio che ha creato tutte le
cose per mezzo di Gesù e che lo ha inviato a noi permettendo
che soffrisse e poi risuscitandolo dai morti. Infatti, quale giu-
stificazione può avere davanti a Dio chi in questo giorno non

scovi, di presbiteri e di diaconi. A partire però dalla fine del ii secolo, e in maniera più
generalizzata e consapevole dal iv secolo (con la riflessione teologica di Gregorio di
Nazianzo e di Giovanni Crisostomo), si cominciò ad applicare il vocabolario cultuale
dell’Antico Testamento al culto neotestamentario, finendo inevitabilmente per carica-
re il ministero cristiano di un contenuto sacrale e cultuale che, almeno in parte, gli era
originariamente estraneo. Con i termini hiereús e sacerdos si cominciò così a designare
innanzitutto il vescovo (cui più tardi sarà riservato il titolo di archiereús), e poi anche
il presbitero che ne condivideva le funzioni, mentre i diaconi furono paragonati ai le-
viti e spesso designati come tali. Si può tuttavia affermare che i padri erano pienamen-
te coscienti che la categoria sacerdotale, applicata al culto della nuova alleanza, assu-
meva dei caratteri del tutto nuovi in relazione a Cristo e alla sua economia di salvezza:
per questo, assumendo stabilmente tale linguaggio, essi non ritenevano di tradire l’e-
vangelo. Su questo tema, cf. J.-M. Tillard, s. v. “Sacerdoce”, in DS XIV, Beauchesne,
Paris 1990, coll. 1-37; E. Cattaneo, “Introduzione generale”, in I ministeri nella chiesa
antica. Testi patristici dei primi tre secoli, Paoline, Milano 1997, pp. 145-158 (“I mini-
stri della chiesa sono sacerdoti?”, con amplia bibliografia); A. Hussiau, “Il vescovo,
primo liturgo dell’eucaristia”, in Eucharistia. Enciclopedia dell’eucaristia, a cura di M.
Brouard, Edb, Bologna 2004, pp. 578-582.
16 Nell’applicazione liturgica che ne fa l’autore questo passo significa: chi non “rac-

coglie” se stesso insieme ai fratelli partecipando alla sinassi (il participio synágon ri-
chiama il sostantivo sØnaxis) e unendosi al corpo ecclesiale, che è il corpo di Cristo, si
divide da Cristo stesso e dissipa l’unità del suo corpo.

54
Riuniti nel nome di Cristo

viene alla riunione, per ascoltare la parola salutare sulla resur-


rezione? Nello stesso giorno facciamo tre preghiere, stando in
piedi, in memoria di colui che in tre giorni è resuscitato; e vi
sono anche letture dai profeti, la proclamazione degli evangeli,
l’offerta del sacrificio e il dono del sacro cibo.
Costituzioni apostoliche II,59,1-4

*
6. Nessun povero sia triste a causa della sua povertà, perché
questa è una festa spirituale17! Nessun ricco si inorgoglisca del-
la sua ricchezza, perché nessuno dei suoi beni può contribuire
al piacere della festa! È vero: nelle feste mondane che si cele-
brano là fuori, dove scorre molto vino, dove la mensa è ricolma
di cibi e si mangia con ingordigia, dove regna l’indecenza e il
riso, e ogni altra manifestazione di opulenza satanica, giusta-
mente il povero è triste e il ricco è nella gioia. E perché? Per-
ché mentre il ricco può imbandire una mensa sontuosa e gode-
re di piaceri ancor maggiori, il povero a causa della sua pover-
tà non può far sfoggio di altrettanta sontuosità. Qui però non
avviene niente di simile! Vi è una sola mensa per il ricco e per
il povero: se anche uno è ricco, non può aggiungere nulla a que-
sta mensa; e se anche è povero, non riceverà in misura minore
i doni della comunione a causa della sua povertà: la grazia in-
fatti è divina, e perché ti meravigli se è offerta sia al ricco che
al povero?
Per il re stesso che è cinto del diadema, che è rivestito della
porpora e al quale è stato affidato il potere sull’intero mondo
abitato, e per il povero che è seduto a chiedere l’elemosina è
preparata una sola mensa. Tali sono i doni del Signore: non de-
terminano la comunione in base alle differenze di rango, ma in
base all’intenzione e alla disposizione interiore!

17 L’omelia è stata pronunciata nel giorno di Pasqua.

55
Capitolo I

Quando perciò vedi in chiesa un povero che sta accanto a un


ricco, un potente accanto a un privato cittadino, un semplice
accanto a un uomo altolocato, del cui potere fuori avrebbe pau-
ra, ma al quale qui dentro non ha timore di stare accanto, pen-
sa che cosa significa: Allora il lupo pascolerà con gli agnelli (cf.
Is 11,6; 65,25). La Scrittura dunque chiama lupo il ricco, e
agnello il povero …
Nella chiesa dunque non esiste lo schiavo e il libero (cf. Gal
3,28), ma la Scrittura conosce come schiavo solo chi è asservi-
to al peccato: chi infatti commette il peccato – dice – è schiavo
del peccato (Gv 8,34); e conosce come libero solo chi è stato li-
berato dalla grazia divina (cf. Rm 6,18; Gal 5,1). Il re e il pove-
ro vengono a questa mensa con la stessa franchezza, con la stes-
sa dignità, anzi il povero spesso lo fa con una dignità maggiore18.
Giovanni Crisostomo, Omelia contro gli ebbri e sulla resurrezione 3

7. [Come Dio raccoglie e tiene unite a sé e tra loro tutte le


sue creature], così apparirà chiaro che anche la santa chiesa di
Dio19, come un’immagine rispetto all’archetipo, opera verso di
noi allo stesso modo di Dio. Pur essendo infatti molti e di nu-
mero quasi infinito coloro che vengono in chiesa e che da essa
sono rigenerati e ricreati nello Spirito, sia uomini, sia donne,
sia bambini, e pur essendo diversi tra loro e assai differenti per
nascita e per aspetto, per nazionalità e per lingua, per forme di
vita e per età, per inclinazioni e per abilità professionali, per
comportamenti, abitudini e occupazioni, per conoscenze e per
condizioni sociali, per destini, per caratteri e per capacità, a
tutti in modo uguale essa dona e concede per grazia una sola
forma di esistenza e una sola denominazione divina, permetten-

18 Nel seguito del brano l’autore spiega che il povero con la sua vita più semplice è

meno esposto alle tentazioni e al peccato.


19 L’autore intende la chiesa sia nella sua realtà materiale di edificio dove ha luogo

la sinassi eucaristica sia nella sua realtà spirituale di comunità dei credenti.

56
Riuniti nel nome di Cristo

do loro di ricevere l’essere e il nome da Cristo; e inoltre, in vir-


tù della fede, dona un’unica condizione, semplice, indivisa e
indivisibile, che non permette neppure di riconoscere le molte
e innumerevoli differenze che vi sono tra ciascuno, perché es-
sa raccoglie e concilia ogni cosa nella sua universalità, e così
nessuno per se stesso è separato in nulla da ciò che è comune,
poiché tutti sono vicendevolmente congiunti e uniti in virtù
dell’unica, semplice e indivisibile grazia e potenza della fede.
Dice infatti [la Scrittura]: Uno solo era il cuore e l’anima di tut-
ti (cf. At 4,32), così che erano e apparivano, da diverse mem-
bra, un corpo solo e veramente degno di Cristo stesso, il nostro
vero capo (cf. Ef 1,22; 4,15; 5,23), nel quale, dice il divino
Apostolo: Non c’è maschio né femmina, né giudeo né greco, né cir-
concisione né incirconcisione, né barbaro né scita, né schiavo né li-
bero, ma egli stesso è tutto in tutti (cf. Gal 3,28; Col 3,11): è lui
che, in virtù dell’unica semplice forza della sua bontà, infinita-
mente sapiente, tiene strette a sé tutte le cose, come fa il cen-
tro con le rette che da lui si dipartono20, e che in virtù di una
semplice e unica causa e potenza non permette che i principi
degli esseri siano in disaccordo con i loro termini, ma circoscri-
ve in cerchio le loro evoluzioni e riconduce a sé le distinzioni
delle cose che sono e da lui sono nate; e ciò affinché le opere e
le creature dell’unico Dio non siano del tutto estranee e nemi-
che fra loro, se mancano di un punto intorno al quale e nel qua-
le possano dimostrarsi la loro reciproca amicizia, pace e identi-
tà, e così corrano il rischio che il loro stesso essere, separato da
Dio, cada nel non essere.
La santa chiesa è dunque immagine di Dio, come è stato det-
to, perché, allo stesso modo di Dio, essa opera nei fedeli l’uni-
tà, anche se coloro che si trovano riuniti in essa in virtù della

20 Per un’immagine simile nei padri – un cerchio con un centro da cui si dipartono

i raggi – per descrivere i rapporti tra Dio e gli uomini, cf. Doroteo di Gaza, Insegna-
menti spirituali 6,78.

57
Capitolo I

fede sono diversi per caratteri individuali, luoghi di origine e


comportamenti; ed è la stessa unità senza confusione21 che Dio
stesso opera per natura tra le essenze delle cose che esistono,
mitigando e identificando le loro differenze con l’attirarle e l’u-
nirle a sé, in quanto causa, principio e fine [di tutto], come è sta-
to già dimostrato.
Massimo il Confessore, Mistagogia 1

Dare il proprio tempo a Dio

8. Che cosa vi impedisce di trascorrere qui22 il vostro tem-


po? Certamente mi dirai che è la povertà l’ostacolo che t’impe-
disce di venire a questa magnifica riunione. Ma non è una buona
giustificazione! La settimana ha sette giorni: questi sette giorni
Dio li ha spartiti con noi, e non ha riservato a se stesso la par-
te più grande, lasciando a noi quella minore; anzi non li ha di-
visi neppure in parti uguali: non ha preso tre giorni, dandone tre
a noi, ma ti ha assegnato sei giorni, riservandone a se stesso so-
lo uno. Eppure tu non tolleri neppure di astenerti dalle attività
materiali per l’intera durata di questo giorno, ma, come quelli
che saccheggiano i tesori dei santuari, anche tu hai l’ardire di
comportarti così in questo giorno e, nonostante esso sia santo e
consacrato all’ascolto delle parole spirituali, tu ne fai razzia e lo
usi abusivamente per le occupazioni della vita materiale!

21 L’espressione fa chiaramente eco alla formula del concilio di Calcedonia sull’u-

nione ipostatica delle due nature in Cristo (cf. sul tema J.-C. Larchet, “La symbolique
spirituelle de l’Église selon la Mystagogie de saint Maxime le Confesseur”, in L’espa-
ce liturgique: ses éléments constitutifs et leur sens. Conférences Saint-Serge, LII e Semaine
d’études liturgiques, Paris, 27-30 juin 2005, a cura di C. Braga, Clv-Edizioni liturgiche,
Roma 2006, p. 58).
22 In chiesa.

58
Riuniti nel nome di Cristo

Ma perché parlo di un’intera giornata? Ciò che ha fatto la


vedova con la sua elemosina, fallo anche tu con il tempo della
giornata! Come quella versò due spiccioli e fu molto gradita a
Dio (cf. Mc 12,42-44), così anche tu presta a Dio due ore, e ri-
porterai a casa tua il guadagno di una moltitudine di giorni. Ma
se non hai la pazienza di farlo, sta’ attento che, rifiutando di di-
staccarti dai guadagni terreni per la minima parte di un giorno,
tu non perda il frutto delle fatiche di tutti gli anni passati! …
Se vieni qui solo una o due volte all’anno, che cosa potremo
insegnarti di ciò che è necessario, sull’anima, sul corpo, sull’im-
mortalità, sul regno dei cieli, sul castigo, sulla geenna, sulla mi-
sericordia di Dio, sul perdono, sulla penitenza, sul battesimo,
sulla remissione dei peccati, sulle creature celesti e terrestri, sul-
la natura degli uomini, sugli angeli, sulla malvagità dei demoni,
sulle astuzie del diavolo, sulla buona condotta, sui dogmi, sul-
la retta fede, e sulle eresie che ne sono la corruzione? Queste
cose, infatti, e molto di più di queste, il cristiano deve saperle,
per poter rispondere su ciascuna di esse a chiunque lo interro-
ga (cf. 1Pt 3,15). Ma voi non potrete conoscerne neppure la
minima parte se partecipate a questa sinassi solo una volta ogni
tanto, e anche allora in modo superficiale e per la consuetudi-
ne della festa più che per vera devozione spirituale. È già infat-
ti un buon risultato se uno riesce a imparare con precisione tut-
te queste cose venendo qui a ogni sinassi23.
Molti di voi che siete qui presenti avete servi nati in casa e
figli. Ebbene: quando state per affidarli ai maestri dei mestieri
che avete scelto per loro, vietate loro solennemente di entrare
in casa vostra e, dopo averli riforniti di vestiti, di cibi e di tut-
to ciò di cui hanno bisogno, li mandate ad abitare insieme a
quei maestri, non permettendo loro di rientrare in casa vostra,
affinché la permanenza continua in quel luogo renda l’insegna-

23 Cioè non solo in quelle festive e domenicali, ma anche in quelle celebrate nei

giorni feriali.

59
Capitolo I

mento più efficace e nessun’altra preoccupazione li distragga


dallo studio. Ora, dunque, che non si tratta di imparare un’ar-
te qualunque, ma quella più importante di tutte, come cioè pia-
cere a Dio e raggiungere i beni celesti, pensate di poter realiz-
zare ciò in modo superficiale? Che follia! Perché tu ti convin-
ca che questo è un insegnamento che richiede molta attenzione,
ascolta che cosa dice il Signore: Imparate da me, che sono mite e
umile di cuore (Mt 11,29); e ancora il profeta dice: Venite, figli,
ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore (Sal 33,12). E di nuo-
vo: Prendetevi del tempo e conoscete che io sono Dio (Sal 45,11)24.
È necessaria dunque una lunga applicazione a chi vuole acqui-
sire questa sapienza di vita.
Giovanni Crisostomo, Omelia sul battesimo di Cristo 1

9. È forse sopportabile questa situazione? È forse tollerabi-


le? Ogni giorno la partecipazione alla nostra sinassi diminui-
sce: la città è piena, mentre la chiesa è vuota di uomini! È pie-
na la piazza del mercato, i teatri, il viale del passeggio, ma la
casa di Dio è deserta; o piuttosto, se proprio bisogna dire la ve-
rità, la città è deserta di uomini, mentre la chiesa è piena di uo-
mini. Non bisogna infatti chiamare uomini quelli che sono in
piazza, ma voi che siete in chiesa; non quelle persone oziose, ma
voi che siete pieni di zelo; non quelli che stanno a bocca aper-
ta di fronte alle realtà mondane, ma voi che alle realtà monda-
ne avete preferito quelle spirituali! Non è perché uno ha un cor-
po e una voce di uomo che egli è un uomo, ma lo è se ha un’a-
nima di uomo, e una determinata disposizione dell’anima. E non
c’è prova così evidente di un’anima umana come il fatto di ama-
re le parole divine, come non c’è indizio e segno così chiaro di
un’anima bestiale e priva di ragione come il fatto di disprezzarle.
Giovanni Crisostomo, Omelia sul cambiamento di nomi 1,1

24 Il verbo che traduciamo con “prendersi del tempo” (scholázein) designa la condi-

zione di colui che rimane libero dalle occupazioni. Da questo versetto salmico – che i

60
Riuniti nel nome di Cristo

10. Come può non essere nemico di Dio chi si occupa notte
e giorno delle realtà temporali, ma trascura quelle eterne (cf.
2Cor 4,18) e chi ogni giorno si dà da fare per i bagni e per il ci-
bo passeggero, ma non si volge alle realtà che rimangono per
sempre? A chi si comporta così il Signore non dirà forse anche
ora: “I pagani sono apparsi più giusti di voi!”, come disse an-
che rimproverando Gerusalemme: “Sodoma, in confronto a te,
è apparsa giusta!” (cf. Ez 16,48-52)?
I pagani, infatti, alzandosi ogni giorno dal sonno, corrono
verso gli idoli per rendere loro culto: prima di ogni opera e di
ogni attività innanzitutto li pregano, e in occasione delle loro
feste e solennità non si sottraggono, ma vi dedicano il loro tem-
po, non solo quelli del luogo, ma anche quelli che abitano lon-
tano; inoltre si riuniscono tutti nei loro teatri, come in assem-
blea. Ugualmente anche coloro che invano si dicono giudei (cf.
Ap 2,9; 3,9), riposandosi ogni sei giorni, nel settimo giorno si
riuniscono nella loro sinagoga, senza mai tralasciare o trascura-
re né il riposo né la riunione … Se dunque costoro, che non
hanno parte alla salvezza, sono così assidui a pratiche che non
procurano loro alcuna utilità, tu quale giustificazione potrai ave-
re davanti al Signore Dio, tu che diserti la sua chiesa e non imi-
ti neanche i pagani, anzi disertando diventi un pigro, un apo-
stata o un malfattore?
Se poi qualcuno, adducendo il pretesto del proprio lavoro, è
negligente cercando scuse ai propri peccati (cf. Sal 140,4), sap-
pia che le professioni dei credenti sono attività supplementari,
ma il vero lavoro è il culto di Dio. Praticate dunque le vostre pro-
fessioni come un’attività secondaria, per il vostro mantenimen-

padri interpretano: “Consacrate il vostro tempo allo studio, alla preghiera, a voi stes-
si, e la conseguenza di questa lodevole scholé sarà la conoscenza di Dio” – è stata pro-
babilmente coniata l’espressione scholázein tô Theô (ricalcata dal latino vacare Deo) ca-
ra alla tradizione monastica. Le feste e le celebrazioni liturgiche sono le occasioni pro-
prizie offerte a tutti i cristiani (anche a quelli che non possono come i monaci vivere in
una continua scholé) per dedicarsi a Dio e alle cose di Dio.

61
Capitolo I

to, ma come lavoro esercitate il culto di Dio25, come diceva an-


che il Signore: Lavorate non per il cibo che perisce, ma per quel-
lo che rimane per la vita eterna (Gv 6,27); e ancora: Questa è l’o-
pera di Dio: che crediate in colui che egli ha inviato (Gv 6,29).
Costituzioni apostoliche II,60,1-4.6-7

11. Voi, dunque, dedicatevi alle leggi di Dio e stimatele più


preziose degli affari mondani, e riservando ad esse un rispetto
maggiore, accorrete tutti insieme alla chiesa di Dio che egli si è
acquistata con il sangue di Cristo (cf. At 20,28), l’Amato, il pri-
mogenito di ogni creatura (Col 1,15). È lei infatti la figlia del-
l’Altissimo che vi ha partorito per mezzo della parola della gra-
zia (cf. At 20,32) e ha dato forma a Cristo in voi (cf. Gal 4,19),
del quale siete divenuti partecipi (cf. Eb 3,14) e ora siete le
membra sacre ed elette, senza macchia né ruga né alcunché di si-
mile (Ef 5,27), anzi, quali santi e immacolati (Ef 1,4), voi siete
condotti alla perfezione in lui, a immagine di colui che vi ha crea-
to (cf. Col 3,10).
Costituzioni apostoliche II,61,4-5

12. La settimana ha sette giorni: Dio ci ha dato sei giorni per


lavorare, ma uno ce lo ha dato per la preghiera, il riposo e la li-
berazione dai mali, affinché, se nei sei giorni abbiamo commes-
so peccati, otteniamo il perdono di Dio per essi nel giorno di
domenica. Di buon mattino, dunque, rècati nella chiesa di Dio,
accòstati al Signore, confessagli i tuoi peccati, fa’ penitenza con
la preghiera e un cuore contrito (cf. Sal 50,19), assisti alla divi-
na e santa liturgia, adempi la tua preghiera, senza uscire per al-
cun motivo prima del congedo … Per nessun altro motivo os-

25 La contrapposizione tra la preghiera come “lavoro” (érgon) e il lavoro materiale

come “lavoro secondario” ( párergon) è frequente nei padri, soprattutto nelle opere mo-
nastiche. Si noti tuttavia come il compilatore dell’opera è altrettanto severo nei con-
fronti di coloro che rimangono oziosi senza lavorare (cf. Costituzioni apostoliche
II,63,1-6).

62
Riuniti nel nome di Cristo

serviamo il giorno del Signore, se non per astenerci dal lavoro


e dedicarci alla preghiera. Se però tu ti astieni dal lavoro, ma
non ti rechi in chiesa, non ne ricavi alcun guadagno, anzi pro-
curi a te stesso un danno non da poco. Molti attendono la do-
menica, ma non tutti per lo stesso motivo. Coloro che hanno ti-
more del Signore attendono la domenica per rivolgere a Dio la
loro preghiera e per ricevere il prezioso corpo e sangue [del Si-
gnore]; ma le persone pigre e i negligenti attendono la domeni-
ca per astenersi dal lavoro e potersi dedicare alle opere malva-
gie. I fatti stessi attestano che non mento. Esci nel centro della
città un altro giorno, e non troverai nessuno. Esci di domeni-
ca, e troverai alcuni che suonano la cetra, altri che battono le
mani e ballano, altri che se ne stanno seduti e canzonano e in-
sultano il prossimo, altri che lottano, altri che litigano tra loro,
altri che fanno cenno per invitare al male, e ovunque vi siano
cetra e danze, là corrono tutti. L’araldo invita in chiesa, e tut-
ti trovano il modo per indugiare e dire che non possono andar-
vi. Ma appena si sente il suono della cetra o del flauto, o il tra-
mestio dei passi di danza, tutti, come se avessero le ali, accor-
rono là in anticipo!
Eusebio di Alessandria, Sermoni 16,2

13. Il continuo impegno e l’assiduità alla preghiera26 e alle


divine Scritture è la madre di tutte le virtù. È attraverso la pre-
ghiera infatti che noi riceviamo da Dio tutto ciò che chiediamo
e ogni suo dono. Nelle assemblee, è detto, benedite il Signore
(Sal 67,27), e: Ti loderò in mezzo all’assemblea (Sal 21,23)27. Per
questo il profeta, come per bocca di Dio, ci presenta la neces-
sità dell’impegno continuo e dell’assiduità con Dio, dicendo:

26 Qui l’autore si riferisce in particolare alla preghiera comune fatta durante la si-

nassi in chiesa.
27 In entrambi questi salmi, il termine “assemblea” traduce il termine greco ekkle-

sía, “chiesa”.

63
Capitolo I

Prendetevi del tempo e conoscete che io sono Dio (Sal 45,11). Sen-
za l’assiduità e l’impegno continuo nelle preghiere e nelle lettu-
re delle divine Scritture non è possibile, infatti, né ottenere
quanto si chiede, né conoscere veramente Dio. Se spesso, infat-
ti, nell’ambito delle realtà temporali, trascorrendo molti anni nel-
le scuole dei mestieri, a stento si può riuscire ad apprendere un
mestiere, quanto più colui che vuole raggiungere la retta cono-
scenza di Dio e arrivare a piacergli, deve dedicare a Dio il suo
tempo e, con fervore e ardore, mantenere la propria anima ele-
vata verso di lui, quasi avesse le ali, fino al termine della vita?
Anastasio il Sinaita, Omelia sulla santa sinassi, PG 89,826A-828A

Non solo nei giorni festivi, ma sempre

14. Se non vieni ogni giorno ai pozzi28, se non attingi acqua


ogni giorno non solo non potrai dar da bere agli altri, ma sof-
frirai anche tu la sete della parola di Dio. Ascolta anche il Si-
gnore che dice nell’evangelo: Chi ha sete venga e beva (Gv 7,37).
Ma tu, a quanto vedo, non hai fame né sete di giustizia (cf. Mt
5,6), e allora come potrai dire: Come un cervo anela alle fonti
delle acque, così la mia anima anela a te, o Dio. L’anima mia ha
sete del Dio vivente: quando verrò e comparirò davanti al suo vol-
to (Sal 41,2-3)? Prego voi, che assistete sempre all’ascolto del-
la parola, di aver pazienza mentre ammoniamo per un po’ i ne-
gligenti e i pigri … È del resto necessario che noi castighiamo
un po’, con pazienza, coloro che trascurano la sinassi, che non
desiderano il pane di vita né l’acqua viva (cf. Gv 6,35.48), che

28 L’autore sta commentando l’episodio di Rebecca al pozzo (cf. Gen 24,15-25) ed

esorta i suoi ascoltatori a recarsi ogni giorno in chiesa per ascoltare la parola di Dio.

64
Riuniti nel nome di Cristo

non escono dall’accampamento né vengono fuori dalle loro ca-


se di fango (cf. Gb 4,19) a raccogliere per sé la manna, che non
vengono alla roccia, per bere dalla roccia spirituale: la roccia in-
fatti è Cristo, come dice l’Apostolo (cf. 1Cor 10,4) … Ditemi,
voi che venite in chiesa soltanto nei giorni festivi: gli altri gior-
ni non sono festivi? Non sono giorni del Signore? È tipico dei
giudei osservare determinati giorni, di tanto in tanto, come fe-
stivi; e proprio per questo il Signore dice loro: I vostri noviluni,
i sabati e il giorno solenne non li sopporto. La mia anima odia il
digiuno, le feste e i vostri giorni festivi (Is 1,13-14). Dio dunque
odia coloro che pensano che il giorno festivo del Signore sia li-
mitato a un solo giorno. I cristiani mangiano ogni giorno le car-
ni dell’agnello, cioè si cibano ogni giorno delle carni della Paro-
la. Cristo nostra Pasqua, infatti, è stato immolato (1Cor 5,7)! E
poiché la norma della Pasqua prescrive che si mangi a sera (cf.
Es 12,8), per questo il Signore ha patito alla sera del mondo,
affinché tu mangi sempre delle carni della parola, tu che sem-
pre ti trovi a sera, finché non venga il mattino (cf. 2Pt 1,19)29.
Origene, Omelie sulla Genesi 10,3

15. Di nuovo una festa, di nuovo una solennità30, e di nuovo


la chiesa è adorna della moltitudine dei suoi figli, lei, questa
madre feconda che ama i suoi figli! Ma a che giova l’amore dei
figli, quando essa vede i volti amati dei suoi bambini soltanto

29 Una tale relativizzazione della celebrazione domenicale in favore di un culto in-

cessante che il cristiano deve rendere al Signore “in spirito” è tipico dell’insegnamen-
to di Origene (cf. anche Contro Celso 8,21-23: “La vita vissuta sempre in accordo con
la parola divina è una festa integrale ininterrotta”) e di Clemente di Alessandria (cf.
Stromati VII,35,5). Il tema della “festa incessante” era però già presente nella lettera-
tura classica e, adattato all’ethos cristiano, avrà una larga fortuna nella tradizione pa-
tristica e monastica. Su questo cf. E. Follieri, “La vita somiglia a una ‘panegyris’: sto-
ria di una similitudine dall’antichità al medioevo”, in Ead., Byzantina et italograeca.
Studi di filologia e paleografia, Ed. di storia e letteratura, Roma 1997, pp. 487-495; F.
Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la liturgie, pp. 216-218.
30 L’autore si riferisce alla solennità della Pentecoste in occasione della quale l’ome-

lia è stata pronunciata.

65
Capitolo I

nelle feste e non continuamente, come se uno, avendo un bel


vestito, non avesse il permesso di usarlo sempre? Il vestito del-
la chiesa infatti è la moltitudine di coloro che assistono [alle li-
turgie], come disse anche una volta il profeta parlando alla chie-
sa: Ti cingerai di tutti loro come di un ornamento di sposo, come
di un vestito da sposa (Is 49,18). Come dunque una donna casta
e di condizione libera31 quando indossa una tunica che le arriva
fino alle caviglie appare più decorosa e più bella, così anche la
chiesa oggi si mostra più splendente, cinta com’è della moltitu-
dine dei vostri corpi e vestita di un abito che le arriva fino a ter-
ra. Oggi infatti non si vede alcuna parte di lei che sia nuda, come
nei giorni passati; ma di tale nudità sono responsabili coloro
che oggi sono presenti, ma non sempre rivestono la loro madre.
Se vogliamo una prova del fatto che non è un pericolo da po-
co trascurare la propria madre lasciandola nuda, richiamiamo
alla mente una storia antica. Rammentiamoci di colui che vide
il proprio padre nudo e fu punito per questa visione (cf. Gen
9,20-25)32: sebbene, per la verità, quell’uomo non avesse reso
nudo suo padre, ma lo avesse soltanto visto nudo, ciò nonostan-
te non sfuggì al castigo, per il semplice fatto di averlo visto. Ma
coloro che oggi sono presenti e prima d’ora non c’erano, non
vedono nuda la loro madre, ma la rendono nuda. Se dunque co-
lui che vide la nudità non sfuggì il castigo, coloro che sono la
causa di tale nudità, quale perdono mai potrebbero ottenere?
Non dico questo per impressionarvi, ma perché sfuggiamo il
castigo, sfuggiamo la maledizione di Cam, perché imitiamo la
benevolenza di Sem e di Iafet e anche noi rivestiamo sempre la
nostra madre.
Appartiene alla mentalità giudaica il fatto di presentarsi da-
vanti al Signore solo tre volte all’anno; ad essi è stato detto: Tre

31 Cioè non schiava: gli schiavi erano identificati anche da un particolare modo di

vestire.
32 Il riferimento è a Cam che vide la nudità del padre Noè ubriaco di vino, e per

questo fu da lui maledetto.

66
Riuniti nel nome di Cristo

volte all’anno comparirai davanti al Signore tuo Dio (Es 23,17).


Quanto a noi, il Signore vuole che ci presentiamo davanti a lui
continuamente. Per quelli, infatti, la distanza dei luoghi aveva
fatto sì che le riunioni [di preghiera] fossero solo tre, perché al-
lora il culto era circoscritto a un solo luogo, e per questo erano
rare le occasioni in cui dovevano radunarsi ed era richiesta la
loro presenza: era necessario infatti adorare [Dio] a Gerusalem-
me (cf. Gv 4,20) e in nessun altro luogo. Per questo fu ordina-
to loro di presentarsi davanti a Dio tre volte all’anno, e la lun-
ghezza del viaggio forniva loro una giustificazione; noi invece
non avremo alcun tipo di giustificazione. Mentre quelli erano
disseminati in ogni luogo della terra – sta scritto infatti: Si tro-
vavano a Gerusalemme giudei osservanti di ogni nazione che è sot-
to il cielo (At 2,5) –, noi invece abitiamo tutti in una sola città,
ci troviamo al riparo delle stesse mura, e in molti casi non sia-
mo separati dalla chiesa neanche da uno stretto vicolo: eppure,
proprio come se vi fossimo separati da oceani infiniti, veniamo
a questa sacra riunione così di rado!
A quelli Dio ordinò di celebrare una festa solo in tre momen-
ti particolari, mentre a noi ha ordinato di farlo sempre, perché
per noi è sempre festa. E perché vi rendiate conto che è sem-
pre festa, voglio dire i motivi delle varie feste, e così saprete che
ogni giorno è festa. Per noi dunque la prima festa è quella del-
la Teofania33. E qual è il motivo della festa? Che Dio apparve
sulla terra e visse con gli uomini (Bar 3,38), che il Figlio unigeni-
to di Dio, che è Dio, è stato con noi. Ma questo vale sempre!
Egli dice infatti: Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla con-
sumazione del tempo (Mt 28,20); perciò tutti i giorni è possibi-
le celebrare l’Epifania.
E la festa di Pasqua che significato ha? Qual è il motivo del-
la festa? Noi annunciamo allora la morte del Signore: in questo

33 Il nome “Teofania” o meglio “Teofanie” (tà Theophánia) poteva indicare sia la

festa del Natale celebrata il 25 dicembre, sia la festa dell’Epifania celebrata il 6 gen-
naio. Non è del tutto chiaro a quale delle due solennità l’autore si riferisca.

67
Capitolo I

consiste la Pasqua, ma neanche questo lo facciamo solo in un


tempo determinato. Paolo infatti volendo liberarci dal vincolo
dei tempi e mostrandoci che è sempre possibile celebrare la Pa-
squa, dice: Ogni volta che mangiate questo pane e bevete questo
calice, voi annunciate la morte del Signore (1Cor 11,26). Poiché
dunque possiamo annunciare sempre la morte del Signore, pos-
siamo sempre celebrare la Pasqua34.
Volete sapere che anche la festa di oggi può essere celebrata
ogni giorno, o piuttosto si compie ogni giorno? Vediamo qual
è il motivo della presente festa e perché la celebriamo. Lo Spi-
rito santo è disceso su di noi: come infatti l’unigenito Figlio di
Dio è insieme agli uomini credenti, così anche lo Spirito di
Dio. Da dove risulta? Chi mi ama – dice – osserverà i miei co-
mandamenti, e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro conso-
latore 35, perché rimanga con voi per sempre: lo Spirito di verità (Gv
14,15-17). Come dunque Cristo ha detto di se stesso: Ecco io
sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione del tempo (Mt
28,20), e noi possiamo sempre celebrare l’Epifania, così dello
Spirito ha detto: “Sarà con voi per sempre”, e noi possiamo
sempre celebrare la Pentecoste.
E affinché comprendiate che ci è sempre possibile celebrare
la festa, e non c’è un tempo determinato, né siamo necessaria-
mente limitati dal vincolo temporale, ascoltate che cosa dice Pao-
lo: Celebriamo dunque la festa (1Cor 5,8). Eppure non era allo-
ra tempo di festa, quando scrisse queste parole: non era Pas-
qua, non era l’Epifania, non era la Pentecoste. Ma l’ha detto
per mostrare che non è il tempo che fa la festa, ma la coscien-
za pura. La festa infatti non è nient’altro se non la gioia; e ciò
che produce gioia spirituale e interiore non è nient’altro che la
coscienza delle proprie buone azioni; e chi ha una buona co-
scienza e azioni altrettanto buone, può sempre celebrare la fe-

34 L’autore si riferisce evidentemente alla celebrazione eucaristica.


35 In greco: parákletos.

68
Riuniti nel nome di Cristo

sta. Per mostrare questo dunque Paolo diceva: Celebriamo dun-


que la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di
perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità (1Cor 5,8). Vedi
che non ti ha legato al vincolo dei tempi, ma ti raccomanda di
avere una buona coscienza?
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Pentecoste 1,1

16. Se anche la Pentecoste è passata, la festa però non è pas-


sata, perché ogni riunione è una festa. E da dove risulta ciò?
Dalle parole stesse di Cristo, che ha detto: Dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, là io sono in mezzo a loro (Mt 18,20). E
quando Cristo è in mezzo a coloro che sono riuniti, quale altra
prova cerchi più grande di questa, che dimostri che si tratta di
una festa? Dove si trovano insegnamento e preghiere, dove vi
sono benedizioni da parte dei padri36 e ascolto delle leggi divi-
ne, dove vi è una riunione di fratelli e un vincolo di autentica
carità, dove vi è il colloquio con Dio e la parola di Dio rivolta
agli uomini, come potrebbe non esserci una festa e una solen-
nità? Di solito, infatti, non è il numero, ma la virtù di coloro
che sono radunati a fare le feste; non lo sfarzo delle vesti, ma il
decoro della pietà; non la ricchezza della mensa, ma la cura del-
l’anima. Una coscienza buona, infatti, è una festa grandissima!
Come nelle feste mondane chi non ha un abito elegante di
cui rivestirsi, né può godere di una mensa più ricca, ma vive
nella povertà e nella fame e nelle sofferenze estreme, non si ac-
corge del tempo della festa, anche se vede danzare l’intera cit-
tà, anzi tanto più soffre ed è morso dal dolore, quanto più ve-
de gli altri nei piaceri e se stesso privo di ogni cosa; e come
d’altra parte chi vive nella ricchezza e nel lusso, e ogni giorno
ha vesti da cambiare e gode di grande prosperità, ritiene di ce-
lebrare una festa anche quando non è tempo di festa: allo stes-

36 Cioè: dei padri spirituali, i pastori delle chiese.

69
Capitolo I

so modo, anche nell’ambito delle realtà spirituali, chi vive nel-


la giustizia e pratica le virtù, anche quando non è tempo di fe-
ste, celebra una festa, traendo un piacere puro dalla sua buona
coscienza; e chi invece si nutre di peccato e di malvagità e ha
sulla propria coscienza molti mali, anche in tempo di festa è
quanto mai incapace di essere in festa.
Perciò, se vogliamo, abbiamo la possibilità di celebrare una
festa ogni giorno, se ci dedichiamo alla virtù e purifichiamo la
nostra coscienza. Per che cosa, del resto, la sinassi appena pas-
sata è superiore a quella che celebriamo adesso? Non forse sol-
tanto per il rumore e la confusione e per nient’altro? Dal mo-
mento infatti che la partecipazione ai santi misteri e agli altri
doni spirituali, come la preghiera, l’ascolto [della parola], le be-
nedizioni, la carità e tutto il resto, è la stessa anche oggi, que-
sto giorno non è per niente da meno di quello, né per voi, né
per me che parlo. Quelli tra di noi che allora hanno ascoltato,
ascolteranno anche ora, e quelli che adesso non sono presenti,
non erano presenti neppure allora, anche se parevano presenti
con il corpo: ora non ascoltano, ma neanche allora ascoltavano;
anzi, non solo non ascoltavano, ma disturbavano coloro che
ascoltavano, facendo rumore e confusione. Perciò lo spettacolo
per me è lo stesso adesso e allora, e anche l’assemblea degli
ascoltatori è lo stessa, e non è per niente minore di quella. An-
zi, se devo dire qualcosa di ammirabile, questa ha qualcosa in
più di quella, in quanto ora si può parlare senza essere distur-
bati, si può insegnare senza rumori e si può ascoltare con mag-
giore comprensione, poiché non c’è alcun rumore che disturbi
l’ascolto.
Giovanni Crisostomo, Discorsi su Anna 5,1

70
Riuniti nel nome di Cristo

Occasione di crescita spirituale, non abitudine

17. Che dici? Abbiamo le chiese, le proprietà e tutto il re-


sto, le sinassi vengono celebrate e il popolo viene ad assistere
ogni giorno, e così ci illudiamo di essere a posto? Ma la chiesa
non si giudica in base a questo! “E in base a che cosa, allora?”,
chiederà qualcuno. Se c’è devozione, se ogni giorno ritorniamo
a casa con qualche guadagno, con qualche frutto grande o pic-
colo, se non ci limitiamo ad adempiere una legge e a rispettare
un dovere. Chi di noi, partecipando per un mese intero a que-
ste riunioni, è diventato migliore? Questo è ciò che dobbiamo
chiederci, perché anche ciò che appare un buon risultato, in
realtà non lo è, quando, una volta compiuti tali atti, non avvie-
ne alcun miglioramento. Anzi, magari non avvenisse soltanto
alcun miglioramento! Adesso addirittura si diventa peggiori.
Quale frutto ricavate dalle sinassi? Se davvero ne aveste trat-
to qualche beneficio, già da tempo avreste dovuto tutti condur-
re una vita sapiente, dal momento che così tanti profeti vi ri-
volgono la parola due volte alla settimana, così tanti apostoli,
così tanti evangelisti, che vi espongono tutti le dottrine della
salvezza e vi presentano insegnamenti che sono in grado di re-
golare con estrema precisione la vostra condotta! Il soldato che
va alle esercitazioni diventa più abile nelle tattiche militari; l’at-
leta che va in palestra diventa più esperto nella lotta; il medico
che segue le lezioni del maestro diventa più accorto, sa e impa-
ra sempre più cose. Ma tu, che cosa hai guadagnato?
Non parlo a chi frequenta da un anno, ma a chi partecipa al-
le sinassi dalla tenera infanzia. Credete forse che il fervore spi-
rituale consista nel semplice fatto di venire continuamente alla
sinassi? Questo non conta nulla, se non ne ricaviamo qualche
frutto: se non raccogliamo nulla, è meglio rimanere a casa! I no-
stri antenati infatti hanno costruito le nostre chiese, non per
radunarci qui dalle nostre case e metterci in mostra gli uni di

71
Capitolo I

fronte agli altri – questo sarebbe stato possibile farlo anche sul-
la piazza pubblica, alle terme o in una processione –, ma lo han-
no fatto per raccogliere insieme discepoli e maestri, e così po-
ter rendere migliori gli uni grazie agli altri. Ma per noi ciò è di-
ventato il semplice adempimento di una legge: ormai la cosa è
diventata un’abitudine!
Arriva la Pasqua, e c’è molto rumore, grande fracasso – non
direi molti uomini, perché questo non è un comportamento da
uomini –; poi passa la festa, cessa il rumore e torna di nuovo la
sterile quiete. Quante veglie celebriamo? Quanti inni di lode a
Dio cantiamo? Ne ricaviamo qualche frutto? Anzi, piuttosto
un danno: molti fanno questo per vanagloria! Quanto pensate
che ne sia addolorato, vedendo che tutto va perduto come in
una botte forata?
Ma certo voi mi direte: “Noi conosciamo le Scritture!”. E
questo che cosa vuol dire? Se dimostrate di conoscerle attraver-
so le vostre opere, ecco il guadagno e l’utilità che ne traete! La
chiesa è una tintoria: se ve ne andate sempre senza aver ricevu-
to la benché minima tintura, a che vi serve venire qui continua-
mente? Anzi, il danno è maggiore! … Perché mi tormento in-
vano e parlo inutilmente, se voi dovete restare ancorati alle vo-
stre abitudini, se le sinassi non producono in voi niente di buono?
“Eppure – dirà qualcuno – noi preghiamo!”. E questo che
cosa significa, se è senza le opere? Ascolta Cristo che dice:
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli,
ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7,21).
Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 29,3-4

72
Riuniti nel nome di Cristo

Grazia e benefici della preghiera in assemblea

18. Ha una grazia e un vantaggio particolare come luogo di


preghiera quello dove i credenti si radunano insieme37 e dove,
come è verosimile, assistono alle riunioni dei credenti anche le
potenze angeliche, la potenza dello stesso Signore e Salvatore
nostro, e perfino gli spiriti dei santi – credo anche dei santi già
morti, ma certo di quelli che sono ancora in vita –, benché non
sia facile dire come.
Riguardo agli angeli, bisogna considerare la questione in
questo modo: se l’angelo del Signore si accampa intorno a quelli
che lo temono e li libera (Sal 33,8), e se Giacobbe, quando dice:
L’angelo che mi libera da ogni male (Gen 48,16), dice la verità
non solo riguardo a se stesso, ma anche riguardo a tutti coloro
che si dedicano a Dio che li ascolta, è verosimile che, quando
molti sono riuniti insieme veramente a gloria di Cristo, l’ange-
lo di ciascuno, che sta intorno a ciascuno di coloro che lo temo-
no, prenda posto al fianco di quell’uomo di cui gli è stata affi-
data la custodia e la protezione; e così, quando i santi sono ra-
dunati insieme, vi è una duplice chiesa38, quella degli uomini e
quella degli angeli. E se [l’angelo] Raffaele disse di aver presen-
tato [a Dio], quale memoriale, la preghiera del solo Tobi e poi
quella di Sara (cf. Tb 12,12), che sarebbe diventata sua nuora
sposando Tobia, che dire allora quando molti sono radunati in-
sieme in un solo pensiero e in una sola volontà e formano un
solo corpo in Cristo?
Quanto poi alla potenza del Signore che è presente con la
chiesa radunata, Paolo dice: Quando siete radunati insieme, voi e
il mio spirito, con la potenza del Signore Gesù (1Cor 5,4), poiché
la potenza del Signore Gesù lo univa non solo agli efesini, ma

37 In greco: epì tò autó.


38 Ovvero una duplice assemblea, secondo il significato proprio della parola ekklesía.

73
Capitolo I

anche ai corinti. E se Paolo che era ancora rivestito del corpo


ritenne di poter assistere con il suo spirito quelli che abitavano
a Corinto, non bisogna disperare che anche i beati defunti pos-
sano assistere in spirito alle assemblee, forse meglio di chi è an-
cora nel corpo. Perciò non bisogna trascurare le preghiere che
si fanno nelle assemblee, perché hanno un’efficacia particolare
per chi vi prende parte in modo autentico.
Origene, Sulla preghiera 31,5

19. Se il mare è bello e degno di lode agli occhi di Dio, non


è forse più bella una così grande assemblea riunita insieme, nel-
la quale un suono commisto di voci, di uomini, donne e bambi-
ni, come quello di flutti che si frangono sulla riva, si innalza du-
rante le preghiere che rivolgiamo a Dio? Una calma profonda
la conserva imperturbata, perché gli spiriti del male sono impo-
tenti a turbarla con le dottrine eretiche. Siate dunque degni del-
l’approvazione del Signore, custodendo nel modo più decoroso
possibile tale armonia, in Cristo Gesù Signore nostro, al quale
appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli! Amen.
Basilio di Cesarea, Omelie sull’Esamerone 4,7

20. Io non ti dico: astieniti dal lavoro per sette giorni, né per
dieci giorni, ma ti dico: prestami due ore della tua giornata, e
tieni le altre per te39; ma tu non mi concedi neanche questo bre-
ve spazio di tempo! O meglio: non prestarle a me queste due
ore, ma a te stesso, per ricevere una qualche consolazione dal-
la preghiera dei padri, per ritornare a casa pieno di benedizioni,
per andartene completamente sicuro e, ricevute le armi spiri-
tuali, diventare invincibile e inafferrabile da parte del diavolo.
Che cosa c’è di più piacevole, dimmi, del tempo trascorso
qui? Se anche dovessimo passare qui l’intero giorno, cosa c’è

39 L’autore si rivolge ai suoi uditori parlando ex parte Dei, in quanto, come ministro

ordinato annuncia la Parola a nome di Dio e dispensa i suoi misteri.

74
Riuniti nel nome di Cristo

di più splendido? Cosa c’è di più sicuro, dove ci sono così tan-
ti fratelli, dove c’è lo Spirito santo, dove Gesù è in mezzo a noi
insieme al Padre suo? Quale altra simile riunione di persone vai
cercando? Quale altro raduno? Quale altra assemblea? Vi so-
no così grandi beni sulla mensa, nell’ascolto [delle letture], nel-
le benedizioni, nelle preghiere, nello stare insieme, e tu volgi lo
sguardo verso altre occupazioni? E quale scusa puoi avere? Non
dico queste cose perché le ascoltiate voi: voi infatti non ave-
te bisogno di queste medicine, voi che con le vostre azioni di-
mostrate la salute, cioè l’obbedienza, voi che con il vostro zelo
manifestate il vostro amore; ma vi ho detto queste cose perché
gli assenti le ascoltino per mezzo vostro. Non dite loro semplice-
mente che ho rimproverato quelli che non sono venuti, ma rac-
contate loro l’intera storia dall’inizio. Rammentate loro i giu-
dei40, rammentate loro le occupazioni quotidiane: dite loro quan-
to è più bella questa sinassi, dite loro quanto zelo dimostrano
nelle occupazioni mondane, dite loro quanto è grande la ricom-
pensa che è riservata a coloro che si radunano qui!
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’inizio degli Atti degli apostoli 1,2

21. Non c’è niente che possa rendere la nostra condotta per-
fetta e la nostra vita pura come l’assidua frequentazione di que-
sto luogo41 e l’ascolto attento [della parola di Dio]. Ciò che è il
cibo per il corpo, infatti, l’insegnamento delle divine parole lo
è per l’anima. Non di solo pane infatti vivrà l’uomo – è detto –,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3; Mt 4,4).
Per questo il fatto di non partecipare a una tale mensa può pro-
durre anche fame. Ascolta Dio che minaccia proprio questo e,
come una punizione e un castigo, fa balenare questa prospetti-
va, dicendo: Darò loro non fame di pane, né sete di acqua, ma fa-
me di ascoltare la parola di Dio (Am 8,11). Non è forse assurdo,

40 Cioè lo zelo che i giudei hanno nell’osservanza della legge e del riposo sabbatico.
41 La chiesa.

75
Capitolo I

dunque, fare e tentare di tutto per respingere la fame del cor-


po, e procurarsi volontariamente la fame dell’anima, che pure
è molto più grave, quanto più grandi sono gli [alimenti] di cui
ci si priva? No, vi prego e vi supplico, non siamo così sconside-
rati nei confronti di noi stessi! La frequentazione di questo
luogo sia preferita a ogni altra occupazione e preoccupazione.
Qual è mai il guadagno così grande che ricavi, dimmi, diser-
tando la sinassi, quanto è il danno che procuri a te stesso e a
tutta la tua famiglia? Anche se trovassi un intero tesoro pieno
d’oro, e per questo ti assentassi, ne avresti un danno maggiore,
tanto più grande, quanto più grande è il valore dei beni spiri-
tuali rispetto a quelli materiali. Questi ultimi, infatti, quand’an-
che siano molti, quand’anche affluiscano da ogni dove, tutta-
via non emigrano con noi verso la vita di lassù, non si trasferi-
scono con noi in cielo, né si presentano davanti al tribunale [di
Cristo] che incute timore, anzi spesso anche prima della nostra
morte ci abbandonano e se ne vanno; e se anche rimangono fi-
no alla fine, ci vengono in ogni caso sottratti dalla morte. Il te-
soro spirituale invece è un bene che nessuno ci potrà sottrarre,
ci segue ovunque andiamo e ovunque ci trasferiamo e ci dà gran-
de franchezza davanti a quel tribunale.
Ma se il profitto che ricaviamo dalle altre sinassi è così gran-
de, quello che ricaviamo da quelle che si tengono qui è doppio.
Non otteniamo come frutto, infatti, soltanto di irrigare la no-
stra anima con le parole divine, ma ricopriamo i nemici42 di gran-
de vergogna e procuriamo grande consolazione ai nostri fratel-
li. È appunto questo il guadagno di un esercito schierato, se
può affrettarsi verso la parte più difficile della battaglia, quel-
la che comporta maggior pericolo. Perciò dobbiamo accorrere
qui tutti insieme e respingere i nemici che ci assalgono.
Non sei capace di tenere un lungo discorso e non possiedi il
carisma dell’insegnamento? Lìmitati ad assistere e hai fatto già

42 Bisogna intendere: i nemici spirituali, le forze del male.

76
Riuniti nel nome di Cristo

tutto. La presenza del tuo corpo infatti accresce le dimensioni


del gregge, dà grande entusiasmo ai tuoi fratelli e ricopre i tuoi
nemici di vergogna. Se uno infatti, varcata la soglia di questo
sacro luogo, vede solo poche persone qui radunate, perde an-
che l’entusiasmo che ha, ne resta intorpidito, esita, diventa più
pigro e poi se ne va; e così, a poco a poco, l’intera nostra as-
semblea diventerebbe più fiacca e più pigra. Se invece uno ve-
de persone che accorrono, che si affrettano, che convergono da
ogni luogo, la solerzia degli altri dà fervore anche alla persona
più pigra e più fiacca. Se infatti una pietra sfregata contro un’al-
tra pietra spesso può emettere scintille e, sebbene non vi sia
niente di più freddo di una pietra e di più caldo del fuoco, tut-
tavia l’azione ripetuta vince la natura: se dunque ciò accade in
un pietra, a maggior ragione può accadere per anime che si sfre-
gano a vicenda e si riscaldano con il fuoco dello Spirito!
Non avete sentito dire che al tempo dei nostri antenati tut-
ti i credenti erano centoventi (cf. At 1,15), o meglio, prima di
essere centoventi, erano solo dodici, e neppure questi rimasero
tutti, ma uno di loro, Giuda, perì, e dunque tutti insieme era-
no undici (cf. At 1,13-14)? E tuttavia da undici divennero cen-
toventi, da centoventi tremila (cf. At 2,41), poi cinquemila (cf.
At 4,4), e poi riempirono tutto il mondo abitato della conoscen-
za di Dio. Il motivo è appunto che non trascuravano mai di ra-
dunarsi, ma stavano sempre insieme nel tempio, dedicandosi al-
le preghiere e alle letture (cf. Lc 24,53; At 5,42). Per questo ac-
cesero un grande fuoco, per questo non persero mai le forze, ma
attirarono a sé tutto il mondo! Anche noi, dunque, imitiamoli.
Non è forse assurdo che non si dimostri nei confronti di que-
sta nostra chiesa neppure una cura paragonabile a quella che le
donne hanno nei confronti delle loro vicine? Quando infatti
quelle si accorgono che c’è una vergine povera e priva di ogni
sostegno, le offrono tutte del loro, facendo le veci dei parenti.
Quando poi quella vergine si sposa, si vede un gran trambusto
e una grande folla; e alcune spesso le offrono dei beni, mentre

77
Capitolo I

altre la semplice presenza del loro corpo, e anche questa non è


cosa da poco: il loro zelo diventa infatti un velo della miseria e
con il loro fervore nascondono la povertà. Questo dunque fate
anche voi per questa chiesa! Accorriamo tutti da ogni luogo e
copriamo insieme la sua povertà, o meglio estinguiamo la sua po-
vertà venendo qui continuamente. Il marito è capo della moglie
(Ef 5,23) e la moglie è un aiuto per il marito. Il capo dunque
non sopporti di varcare queste sante soglie senza il corpo, né il
corpo si mostri senza il capo, ma entri qui la persona intera, e
abbiano anche i bambini insieme a loro …
Accorriamo dunque in questo luogo a ogni sinassi! Anche se
sei in preda agli ardori della concupiscenza, puoi estinguerla fa-
cilmente, solo al vedere questa casa; se sei in preda all’ira, am-
mansirai la belva senza difficoltà; e se anche ti assedia qualche
altra passione, potrai placare qualunque tempesta e procurare
all’anima una grande calma e una grande pace: di essa potessi-
mo godere tutti, per la grazia e la bontà del Signore nostro Ge-
sù Cristo, al quale appartiene la gloria, insieme al Padre e allo
Spirito santo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen.
Giovanni Crisostomo, Omelia contro gli anomei 3-4

22. Qual è l’insulsa giustificazione43 addotta dai più? “Posso


pregare anche a casa mia – dice –, mentre a casa non è possibi-
le ascoltare omelie e insegnamenti!”. Inganni te stesso, o uomo!
Se è pur vero che puoi pregare anche a casa, non puoi però pre-
gare come in chiesa, ove si trova un così gran numero di padri44,
dove un grido viene innalzato verso Dio in modo concorde. Il
Signore, quando lo preghi per conto tuo, non ti ascolta così tan-
to, come quando sei insieme ai fratelli. Qui infatti c’è qualcosa

43 L’autore rimprovera i cristiani che vengono in chiesa soltanto per ascoltare l’o-

melia e poi se ne vanno subito dopo senza partecipare all’eucaristia e alla preghiera co-
munitaria.
44 Cf. supra, p. 69, n. 36.

78
Riuniti nel nome di Cristo

di più, ovvero la concordia degli animi e delle voci, il vincolo


della carità e le preghiere dei sacerdoti. Proprio per questo in-
fatti i sacerdoti hanno la presidenza: affinché le preghiere del
popolo, che sono più deboli, unendosi alle loro, che sono più for-
ti, possano elevarsi insieme verso il cielo45.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio 3,380-393

23. Che cosa vedono coloro che vanno in chiesa? Te lo dico


io: il Signore Cristo che giace sulla sacra mensa, l’inno del tripli-
ce “Santo” dei serafini (cf. Is 6,3), che viene cantato46, la pre-
senza e la discesa dello Spirito santo, il canto del profeta e re
David, il benedetto Apostolo che fa riecheggiare il suo insegna-
mento nelle orecchie di tutti, l’inno degli angeli, l’Alleluja in-
cessante, le parole evangeliche, i comandi del Signore, l’ammo-
nimento e l’esortazione dei santi vescovi e presbiteri, tutte cose
spirituali, tutte cose celesti, tutte cose che procurano la salvezza
e il Regno. Ecco cosa sente, ecco cosa vede chi entra in chiesa!
Eusebio di Alessandria, Sermoni 16,3

24. Il beato anziano47 riteneva – e su questo non cessava mai


di esortare ogni cristiano – che sia un dovere frequentare la san-
ta chiesa di Dio e non allontanarsi dalla santa sinassi48 che vi si
celebra, per il fatto che in essa sono presenti i santi angeli, che
prendono nota ogni volta di coloro che entrano, li mostrano a
Dio e fanno suppliche in loro favore, e a motivo della grazia
dello Spirito santo, che è sempre invisibilmente presente, ma in
particolare nel momento della santa sinassi; e tale grazia trasfor-
ma e muta ciascuno di coloro che vi si trovano, lo riplasma ve-

45 Cf. anche infra, c. X,7.


46 L’autore fa evidentemente riferimento al Sanctus della preghiera eucaristica.
47 Si tratta dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, di cui l’autore riprende l’insegna-

mento.
48 Nell’opera dello Pseudo-Dionigi e di Massimo il Confessore il termine “sinassi”

(sØnaxis) è riferito esclusivamente alla sinassi eucaristica.

79
Capitolo I

ramente in modo più divino, secondo la misura delle sue possi-


bilità, e lo conduce verso ciò che è rivelato per mezzo dei miste-
ri che sono celebrati; e ciò anche quando egli non se ne accorge,
se è ancora tra i neonati in Cristo e incapace di volgere lo sguar-
do verso la profondità di ciò che si compie e di contemplare la
grazia rivelata in ciascuno dei simboli divini49 che vengono ce-
lebrati, la quale agisce in lui, procedendo in successione ordi-
nata dalle cose più vicine fino al termine di ogni cosa.
Massimo il Confessore, Mistagogia 24

49 Cioè degli atti sacramentali.

80
Capitolo II
“SAPIENZA! STIAMO ATTENTI!”

Fin da un’età molto antica (II secolo) – anche se in modo stabi-


le e definitivo a partire soltanto dal IV-V secolo1 – la prima parte
della sinassi eucaristica, dopo i riti di introduzione, è costituita dal-
la lettura della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture. A
questa parte della sinassi, chiaramente derivata dalla liturgia sina-
gogale, sono sempre stati ammessi fin dall’antichità anche i catecu-
meni (cf. § 5), coloro cioè che vengono ancora istruiti sui fonda-
menti della fede cristiana, prima di poter ricevere il battesimo ed
essere così accolti a pieno titolo nell’assemblea dei fedeli, che soli
possono accedere all’eucaristia. Ciò tuttavia non significa affatto,
per i padri della chiesa, sminuire il valore della liturgia della Paro-
la in rapporto a quella eucaristica: esse sono in realtà intimamente
legate – l’una e l’altra sono designate con la parola “tavola” o “men-
sa”, come poi ripeterà anche il concilio Vaticano II 2 – poiché in
modo diverso comunicano lo stesso “mistero”, quello del Verbo che
si è fatto carne 3 (cf. §§ 6-7), e richiedono dunque da parte di tutti

1 Fino a tale epoca, a quanto risulta dai testi a noi giunti, la sinassi eucaristica po-

teva all’occorrenza essere celebrata anche senza la liturgia della Parola, ad esempio di
seguito alla celebrazione del battesimo o dell’ordinazione episcopale o presbiterale.
Sul tema si veda il classico studio di G. Dix, The Shape of the Liturgy, A&C Black,
London 19452, pp. 473-476.
2 Cf. Concilio Vaticano II, Dei Verbum 21.
3 Si veda la dottrina eucaristica di Origene, che, pur nella sua peculiarità, esprime

in modo chiarissimo e paradigmatico la reciproca implicazione di Parola ed eucaristia


nell’unico mistero del Verbo che si comunica all’uomo, propria di tutta la teologia pa-
tristica (cf. infra, p. 293, n. 40).

81
Capitolo II

i partecipanti, in modo adeguato alle loro capacità, le stesse dispo-


sizioni corporee e spirituali. Significativamente, nell’uno e nell’al-
tro caso, per la proclamazione della Parola come per la comunione
al corpo e al sangue di Cristo, ritroviamo nei testi le stesse espres-
sioni di estasiata ammirazione così tipiche del linguaggio dei padri
di fronte al mistero della kenosi del Verbo: “Oh, incomparabile
amore di Dio per gli uomini! Oh, bontà indescrivibile! Lui stesso,
l’invisibile, l’incomprensibile … ci parla non attraverso un angelo,
o attraverso i serafini o qualche altro suo ministro, ma lui stesso di
persona” (§ 10; cf. infra, c. XIII, 20; 28; 32).
Accanto alla Legge e ai Profeti dell’Antico Testamento, letti co-
me profezie dell’avvento di Cristo, ben presto nella chiesa si co-
minciano a leggere le “memorie degli apostoli” (§ 2), cioè gli scrit-
ti risalenti alla predicazione apostolica, costituiti da una parte dai
racconti della vita del Signore Gesù, che contengono anche i suoi
insegnamenti (evangeli), e dall’altra dagli scritti propriamente apo-
stolici, in forma storico-narrativa (Atti degli apostoli) o parenetica
(epistole). Così, a ogni sinassi, davanti all’assemblea liturgica che si
prepara ad accogliere la presenza di Cristo, che viene e si offre a lei
nel pane e nel vino eucaristici, è squadernata in modo sintetico, per
così dire, l’intera storia della salvezza (cf. §§ 6; 8; 10), affinché i fe-
deli siano consapevoli del senso di quella venuta e di quell’offerta
di salvezza, ormai compiuta una volta per tutte, e imparino anche
a conoscere le loro responsabilità e i loro doveri di fronte ad essa
(cf. § 11).
Il numero delle letture indicato dai testi è variabile, a seconda
delle epoche e delle aree geografiche – alcuni, ad esempio, fanno ri-
ferimento a più letture dell’Antico Testamento (cf. §§ 1; 6; 8), al-
tre a una sola (cf. § 10), mentre da una certa epoca in poi non è più
testimoniata la lettura dell’Antico Testamento, e restano solo quelle
dell’Apostolo e dell’evangelo (cf. § 13), precedute e intercalate da
versetti salmici –, ma il dato costante è che alla lettura dell’evan-
gelo viene sempre assegnata l’ultima posizione, a coronamento del-
l’intera liturgia della Parola, nella consapevolezza che esso rappre-

82
“Sapienza! Stiamo attenti!”

senta il culmine dell’intera storia di salvezza e della rivelazione bi-


blica, iniziata con la Legge, proseguita con i Profeti e con i libri sa-
pienziali, e giunta finalmente al suo pieno compimento in Cristo
(cf. § 8). Anche la predicazione apostolica non ha aggiunto nulla
alla rivelazione portata da Cristo, e per questo la liturgia ha scelto
di leggere prima dell’evangelo anche gli scritti apostolici, che pure
si riferiscono a un momento storico successivo, perché – come spie-
ga Nicola Cabasilas – “far conoscere ciò che ha detto il Signore
stesso è segno di una manifestazione più piena del far conoscere ciò
che hanno detto gli apostoli” (§ 13).
Se è pur vero che in tutta la Scrittura è sempre Dio che parla al-
l’uomo, e la comunità dei credenti può quindi ascoltare la Parola
proclamata come rivolta a se stessa in un “oggi” sempre rinnovato in
ogni assemblea liturgica (cf. §§ 3-5) – come dice Giovanni Criso-
stomo: “Ogni giorno qui si leggono lettere giunte dal cielo!” (§ 9) –,
in modo particolarissimo però Dio parla attraverso la parola uma-
na di Cristo trasmessa dall’evangelo: “L’evangelo è la presenza di
Dio, nella quale egli si è reso visibile a noi” (§ 12), dice in modo
sintetico ed eloquente Germano di Costantinopoli.
La liturgia invita ad assumere la consapevolezza di tale presen-
za, “coscienti che l’evangelo rappresenta Cristo” (§ 13), e ad acco-
glierla, attraverso azioni, parole e gesti particolari: il canto gioioso
dell’Alleluja, la solenne incensazione da parte del diacono, l’ele-
vazione dell’evangeliario sull’ambone, l’invito pressante a “stare at-
tenti” (cf. §§ 9-10; 12; 17) e soprattutto la posizione eretta del cor-
po di tutti i membri dell’assemblea (cf. §§ 8; 10).
“Sapienza! In piedi!”, proclama il presbitero nell’imminenza
della lettura dell’evangelo (cf. § β). È la stessa posizione che, come
vedremo, verrà richiesta all’assemblea al momento della preghiera
eucaristica (cf. infra, c. V, 12), ed è anche, secondo la tradizione bi-
blico-patristica, la posizione per eccellenza degli oranti, di coloro
che si pongono alla presenza del Signore, con un senso di attesa, che
fonde in sé timore reverenziale, rispetto e desiderio, ma anche consa-
pevolezza della propria dignità di figli di Dio chiamati ad accoglie-

83
Capitolo II

re la sua Parola (cf. Ne 8,5-7) e ad appartenere al nuovo popolo dei


redenti (cf. Ap 7, 9)4.
Ma, insieme al corpo – dicono i padri in modo unanime – ogni
credente che prende parte alla sinassi è chiamato a elevare anche i
propri pensieri (cf. § 10) e a compiere una vera operazione di “con-
versione” (cf. § 14), distogliendo la mente e il cuore dalle chiac-
chiere profane e dalle preoccupazioni materiali, e concentrandoli
con grande cura sull’ascolto delle parole divine che vengono procla-
mate (cf. §§ 20-21), per non lasciarne cadere a vuoto neppure una
sola, come il profeta Samuele (cf. 1Sam 3, 19). Come, al momento
della comunione, quando riceve tra le mani il pane dell’eucaristia,
il fedele presta la massima attenzione e cautela perché non gli ac-
cada di lasciarne cadere la minima briciola, nella consapevolezza di
trovarsi veramente di fronte al corpo del Signore, con altrettanta fe-
de e venerazione è chiamato ad ascoltare anche la sua Parola (cf. §
15): è infatti lo stesso e unico Signore che qui si presenta a noi e chie-
de di essere accolto. Anche se la Parola è proclamata nell’assem-
blea – e c’è una dimensione propriamente comunitaria e fraterna
dell’ascolto (cf. § 23) –, non bisogna però rimanere immersi e con-
fusi “tra la folla” (§ 14), ma occorre arrivare a comprendere che la
parola di Dio “interpella ciascuno di noi” (§ 15) in modo persona-
le e diretto. Solo così questa Parola potrà rivelare la sua verità e il
suo mistero profondo al cuore del credente, e produrre in esso frut-
ti genuini e duraturi (cf. § 22).
Di fronte alle proteste annoiate di qualche fedele un po’ tiepido
che, per giustificare la propria indolenza spirituale, si lamenta che

4 Si ricordi che il concilio di Nicea I (325), Canoni 20, confermato dall’abbondan-

te legislazione canonica successiva, vieta ai fedeli di piegare le ginocchia nel giorno del
Signore e durante tutto il tempo pasquale, e che per i padri e per tutta la tradizione
della chiesa antica, “la posizione eretta durante la divina liturgia è preferibile in quan-
to immagine del secolo futuro e simbolo di resurrezione” (P. I. Skaltsis, “Στμεν
καλς: Η στση τν πιστν στ Θεα Λειτουργα”, in Aa.Vv., Τ μυστριο τ ς Θεας
Εχαριστας, p. 289); cf. anche in generale sullo “stare in piedi” in preghiera, G. Bun-
ge, Vasi di argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei padri, Qiqa-
jon, Bose 1996, pp. 151-159.

84
“Sapienza! Stiamo attenti!”

in chiesa si sentano proclamare sempre le stesse letture – “Ogni gior-


no si sentono le stesse cose!” (§ 18, cf. § 17) –, Giovanni Crisoto-
mo ricorda che, come gli alimenti che sostengono il nostro corpo so-
no sempre gli stessi, e ciò nonostante esso, quando è in salute, ne
prova una fame naturale, così è anche per l’anima sana nei confron-
ti delle parole divine (cf. §§ 18-19), che sono il suo cibo naturale;
e se veramente si presta attenzione alla parola delle Scritture, si sco-
pre che in realtà il loro senso è inesauribile (cf. § 17).
La liturgia della Parola, infine, dopo i due momenti simultanei
della proclamazione e dell’ascolto, si conclude con un terzo mo-
mento, quello della predicazione, in cui “colui che presiede l’as-
semblea” (§ 2) – e al tempo dei padri della chiesa erano i vescovi i
primi incaricati di questo ministero (cf. §§ 28-29; 34) – rivolge al
popolo un’omelia, in cui “spezza il pane” della Parola letta e ascol-
tata, perché tutti arrivino a esserne nutriti (cf. § 26) e la compren-
dano nell’unità di tutta la rivelazione dell’Antico e del Nuovo Te-
stamento (cf. § 29).
I padri riconoscono che questo ministero è un dovere assoluto
per chi presiede una comunità cristiana (cf. §§ 29-36): egli non può
tacere, ma deve continuamente annunciare la volontà di Dio con-
tenuta nelle sante Scritture, sia che venga ascoltato, sia che non ven-
ga ascoltato (cf. §§ 31-32).
Questa predicazione però, per essere autentica, deve sottostare a
precise condizioni: chi predica deve essere innanzitutto ben istruito
nelle Scritture (cf. §§ 28-29; 34) e deve rimanere sempre sottomes-
so e a servizio della parola di Dio, senza aggiungere né togliere nul-
la (cf. §§ 25; 33), consapevole che ciò che resta essenziale è il con-
tenuto autentico del suo annuncio più che la forma, povera o ele-
gante, in cui può esprimerlo (cf. § 25); il predicatore dovrà poi
preoccuparsi che la sua predicazione sia in accordo con la sua vita
(cf. §§ 24; 28) e nasca da un’esperienza viva, intima e personale
della parola di Dio che predica: solo lo Spirito santo può infiamma-
re il suo cuore e, attraverso la sua bocca, anche quello dei suoi ascol-
tatori (cf. § 27).

85
Capitolo II

Non di rado i padri manifestano un certo fastidio nei confronti


di un entusiasmo smisurato ed esclusivo da parte dell’assemblea
nei confronti della loro predicazione: ciò che è essenziale ai loro
occhi non sono le loro parole, ma quella di Dio, che essi si limita-
no a indicare, ripetere e trasmettere. Se i credenti potessero com-
prendere da soli ciò che la Scrittura ha espresso in modo già molto
chiaro – fa intendere Giovanni Crisostomo – l’omelia diventereb-
be inutile (cf. § 9).

α. Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, delle nostre episto-


le, degli Atti e degli evangeli, il [ministro] ordinato rivolga il
saluto all’assemblea dicendo: La grazia del Signore nostro Ge-
sù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito san-
to siano con tutti voi (2Cor 13,13). E tutti rispondano: E con
il tuo spirito! Poi, dopo il saluto, egli rivolgerà parole di esor-
tazione al popolo.
Costituzioni apostoliche VIII,5,11-12

β. Il diacono (stando in piedi davanti alle porte sante): Stiamo


attenti!
Il lettore (legge il versetto introduttivo 5 all’Apostolo)
Il diacono: Sapienza!
Il lettore: Dalla Lettera dell’apostolo Paolo…
Il diacono: Stiamo attenti!
Il lettore (legge la pericope fissata dell’Apostolo).
Il sacerdote (al termine della lettura): Pace a te che hai letto.
Il lettore (canta l’Alleluja, mentre il diacono compie l’in-
censazione).
Il sacerdote (a voce sommessa): Fa’ risplendere nei nostri
cuori, o Signore amico degli uomini, la luce incontaminata

5 Il prokeímenon è un versetto (o una serie di versetti) di un salmo che ha la funzio-

ne di antifona di introduzione alla pericope dell’Apostolo. Deriva dal salmo responso-


riale recitato tra la lettura dell’Antico Testamento e quella dell’Apostolo.

86
“Sapienza! Stiamo attenti!”

della tua divina conoscenza e apri gli occhi della nostra intel-
ligenza alla comprensione del tuo annuncio evangelico. Poni
in noi il timore dei tuoi beati comandamenti, affinché, calpe-
stati i desideri carnali, trascorriamo una vita spirituale pen-
sando e facendo tutto ciò che è a te gradito. Tu sei infatti la
luce delle nostre anime e dei nostri corpi, Cristo Dio, e a te
rendiamo gloria insieme al Padre tuo, che è senza principio,
e al tuo Spirito santissimo, buono e vivificante, ora e sempre
e nei secoli dei secoli. Amen.
Il diacono (dopo aver ricevuto l’evangeliario dalle mani del sa-
cerdote): Benedici, signore, l’annunciatore del santo apostolo
ed evangelista N.
Il sacerdote ( facendo su di lui il segno della croce): Dio, per
l’intercessione del santo e glorioso apostolo ed evangelista N.,
conceda una parola di grande potenza a te che annunci, per
compiere la proclamazione dell’evangelo del suo amato Figlio
e Signore nostro Gesù Cristo.
Il diacono: Amen!
Il sacerdote: Sapienza! In piedi! Ascoltiamo il santo evan-
gelo! Pace a tutti!
Il diacono: Lettura del santo Evangelo secondo N.
Il sacerdote: Stiamo attenti!
Il diacono: In quel tempo… (legge la pericope fissata dell’e-
vangelo)
Il sacerdote (al termine dell’evangelo): Pace a te che hai an-
nunciato l’evangelo (e ricevendo dal diacono l’evangeliario lo
bacia e lo ripone sull’altare)6.
Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), pp. 371-372

6 Citiamo il testo più recente (con apporti posteriori al ix secolo) della Liturgia di

Giovanni Crisostomo, perché quello più antico, attestato dall’Eucologio Barberini, non
riporta formule estese per la liturgia della Parola. Si noti l’assenza ormai della lettura
profetica dall’Antico Testamento, che è ancora attestata a Costantinopoli fino alla se-
conda metà del vii secolo, come testimonia ancora Massimo il Confessore, in Mistago-
gia 23, ma è già scomparsa negli anni del patriarcato di Germano I di Costantinopoli
(715-730): cf. sul tema J. Mateos, La célébration de la Parole dans la liturgie byzanti-
ne. É́tude historique, Pio, Roma 1971, pp. 130-131. Anche l’omelia dopo le letture bi-
bliche, che fin dai primi secoli era stata un elemento essenziale della celebrazione eu-

87
Capitolo II

La parola di Dio proclamata nell’assemblea liturgica

1. Abbiate cura di consolidarvi negli insegnamenti del Signo-


re e degli apostoli, affinché tutto ciò che fate riesca bene (cf.
Sal 1,3), nella carne e nello spirito, nella fede e nell’amore, nel
Figlio e nel Padre e nello Spirito, nel principio e nella fine, in-
sieme al vostro degnissimo vescovo, alla preziosa corona spiri-
tuale del vostro presbiterio e ai diaconi conformi a Dio7.
Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 13,1

2. Nel giorno chiamato “giorno del sole”8 tutti coloro che


abitano nelle città o nelle campagne si riuniscono in uno stesso
luogo e si leggono le memorie degli apostoli9 o gli scritti dei
profeti, finché il tempo lo permette. Poi, quando il lettore ha
finito di leggere, colui che presiede [l’assemblea] prende la pa-
rola per ammonire ed esortare all’imitazione di quei begli esem-
pi. Poi ci alziamo in piedi tutti insieme e rivolgiamo [a Dio]
preghiere10.
Giustino, Apologia prima 67,3-5

caristica (cf. ad esempio infra, § 2) cessò gradualmente di essere percepita come tale e
divenne sempre più rara nelle celebrazioni ordinarie della chiesa bizantina a partire dal
vii secolo (cf. Concilio in Trullo, Canoni 19, che tenta di arrestare un declino ormai
inesorabile: “È necessario che coloro che presiedono le chiese, ogni giorno, e special-
mente la domenica, istruiscano tutto il clero e il popolo sulle parole della fede, racco-
gliendo dalla divina Scrittura i pensieri e i giudizi della verità”): né Massimo il Confes-
sore (vii secolo) né Nicola Cabasilas (xiv secolo) vi fanno riferimento nella loro descri-
zione mistagogica della liturgia eucaristica.
7 Mi sembra verosimile cogliere in questa esortazione, rivolta all’intera comunità, a

consolidarsi “negli insegnamenti del Signore e degli apostoli” (en toîs dógmasi toû
Kyríou kaì tôn apostólon) un’allusione alla lettura degli scritti evangelici e apostolici in
un’assemblea liturgica, come lascia pensare anche il riferimento ai tre ordini della ge-
rarchia (vescovo, presbiteri, diaconi).
8 Così era chiamata dai pagani la “domenica” o “giorno del Signore”.
9 Con l’espressione “memorie degli apostoli” bisogna forse intendere genericamen-

te gli scritti del Nuovo Testamento, frutto della predicazione apostolica.


10 Il testo continua parlando della celebrazione dell’eucaristia.Cf. infra, c. VI,14.

88
“Sapienza! Stiamo attenti!”

3. Nella nostra domenica il Signore fa piovere sempre la


manna dal cielo (cf. Es 16,4)11. Ma io dico che anche oggi il Si-
gnore fa piovere la manna dal cielo12, perché sono celesti questi
oracoli che ci sono stati letti, e sono discese da Dio queste pa-
role che ci sono state recitate! Perciò questa manna che abbia-
mo ricevuto ci viene sempre data dal cielo … Del resto, anche
il significato della parola indica proprio questo, perché “man-
na” significa: “Che cos’è questo?” (cf. Es 16,15). Guarda un
po’ se proprio il significato della parola non ti solleciti a impa-
rare, in modo che, quando senti recitare la legge di Dio, tu chie-
da e domandi sempre, dicendo ai maestri13: “Che cos’è que-
sto?”. Proprio questo, infatti, significa la manna. Se dunque
vuoi mangiare la manna, cioè se desideri accogliere la parola di
Dio, sappi che essa è minuta e molto sottile, come il seme del
coriandolo (cf. Es 16,31): ha infatti in sé qualcosa della verdu-
ra, per nutrire e rianimare gli infermi, giacché chi è infermo
mangia verdura (Rm 14,2). Ha anche qualcosa di rigido, e per
questo è come la brina (cf. Es 16,14). Ha poi candore e dolcez-
za in abbondanza: che cosa c’è, infatti, di più candido, che co-
sa di più spendente dell’insegnamento divino? Che cosa di più
dolce, che cosa di più soave delle parole del Signore, che lo so-
no più del miele e del favo (Sal 18,11)?
Origene, Omelie sull’Esodo 7,5

4. Quando leggi: Gesù insegnava nelle loro sinagoghe ed era og-


getto di lode da parte di tutti (Lc 4,15), guardati dal ritenere bea-
ti soltanto quegli uomini, pensando di essere privo del suo in-
segnamento! Se ciò che sta scritto è vero, il Signore non ha

11 La manna era stata donata nel primo giorno della settimana ebraica, corrispon-

dente alla domenica cristiana: l’autore si serve di questo dato per attualizzare il testo
in senso cristiano.
12 L’omelia fu evidentemente pronunciate nel corso di una celebrazione non dome-

nicale.
13 A coloro che spiegano la parola di Dio all’assemblea.

89
Capitolo II

parlato soltanto allora nelle sinagoghe dei giudei, ma parla an-


che ora in questa nostra riunione; e non solo in questa, ma an-
che in altre riunioni e nel mondo intero Gesù insegna e cerca
strumenti attraverso i quali trasmettere il suo insegnamento. Pre-
gate perché trovi anche me ben disposto e adatto a cantarlo!
Origene, Omelie su Luca 32,2

5. [Sta scritto:] Quando Gesù ebbe letto queste parole, av-


volse il rotolo, lo diede all’inserviente e sedette, e gli occhi di tutti
nella sinagoga erano fissi su di lui (Lc 4,20). Anche ora, se vole-
te, in questa sinagoga, ovvero in questa assemblea, i vostri oc-
chi possono essere fissi sul Salvatore. Quando infatti dirigi lo
sguardo più profondo del tuo cuore verso la sapienza e la veri-
tà e verso la contemplazione del Figlio unigenito di Dio14, i
tuoi occhi guardano Gesù. Beata quell’assemblea di cui la Scrit-
tura testimonia che gli occhi di tutti erano fissi su di lui! Come
vorrei che questa nostra assemblea potesse ricevere una simile
testimonianza, che tutti, catecumeni e fedeli, donne, uomini e
bambini, avessero gli occhi fissi, non quelli del corpo ma quel-
li dell’anima, a contemplare Gesù! Quando voi lo contemple-
rete, grazie alla sua luce e a quella visione i vostri volti diven-
teranno più luminosi e potrete dire: È stata impressa su di noi la
luce del tuo volto, Signore (Sal 4,7), al quale appartiene la gloria e
la potenza nei secoli dei secoli. Amen (1Pt 4,11).
Origene, Omelie su Luca 32,6

6. Poiché ogni scriba istruito come discepolo per il regno dei cie-
li è simile a un uomo, padrone di casa, che estrae dal suo tesoro co-
se nuove e cose antiche (Mt 13,52), è anche evidente, in base a
quella che si chiama inversione della proposizione, che chiun-
que non estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche, non è

14 L’autore allude all’ascolto e alla comprensione della parola di Dio proclamata in

un’assemblea liturgica.

90
“Sapienza! Stiamo attenti!”

uno scriba istruito nel regno dei cieli. Bisogna cercare dunque
di raccogliere in ogni modo nel nostro cuore, prestando atten-
zione alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento (1Tm 4,13) e
meditando la legge del Signore giorno e notte (Sal 1,2), non solo le
cose nuove degli evangeli e degli apostoli e le parole della loro
rivelazione, ma anche le cose antiche della Legge, che possiede
l’ombra dei beni futuri (cf. Eb 10,1), e dei profeti che hanno
profetato in conformità ad essi … E riguardo a queste cose an-
tiche e nuove, bisogna anche ascoltare la legge spirituale15 che
dice nel Levitico: Mangerete cose antiche e cose più antiche delle
antiche, e farete scomparire le antiche di fronte alle nuove. E io sta-
bilirò la mia tenda in mezzo a voi (Lv 26,9-11). Durante l’euca-
ristia, infatti, noi mangiamo le cose antiche, cioè le parole pro-
fetiche, le cose più antiche di queste, cioè le parole della Legge,
e una volta giunte le realtà nuove ed evangeliche, conducendo
una vita conforme all’evangelo, facciamo scomparire le realtà
antiche della lettera (cf. Rm 7,6) davanti a quelle nuove, e [Dio]
stabilisce la sua tenda in mezzo a noi (cf. Gv 1,14), adempien-
do la sua promessa: Dimorerò e camminerò in mezzo a loro (Lv
26,12)16.
Origene, Commento a Matteo 10,15

7. Ci dicano dunque qual è quel popolo che ha l’abitudine di


bere del sangue17! Fu proprio ascoltando parole come queste
che nell’evangelo coloro che tra i giudei seguivano il Signore si
scandalizzarono e dissero: “Chi può mangiare le carni e bere il
sangue?” (cf. Gv 6,52-53). Ma il popolo cristiano, il popolo fe-

15 Cioè la Legge da intendere in senso spirituale.


16 Dato il contesto, c’è forse qui un’allusione specifica al sacramento dell’eucaristia,
in cui il Signore “prende dimora” nei fedeli, dopo che essi hanno accolto la sua Parola
trasmessa dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
17 L’autore sta facendo l’esegesi di Nm 23,24: “Ecco, un popolo si leverà come un

leoncello e salterà come un leone; non si addormenterà finché non avrà divorato la
preda e bevuto il sangue dei feriti” e polemizza con coloro che vorrebbero fermarsi al
senso letterale del testo.

91
Capitolo II

dele ascolta queste parole, le accoglie e segue colui che dice: Se


non avrete mangiato la mia carne e bevuto il mio sangue, non avre-
te la vita in voi stessi, perché la mia carne è vero cibo e la mia car-
ne vera bevanda (Gv 6,53.55)! … Si vuol dire però che noi be-
viamo il sangue non solo durante la celebrazione dei misteri18,
ma anche quando riceviamo le sue parole, nelle quali risiede la
vita, come egli stesso afferma: Le parole che io vi ho detto sono
spirito e vita (Gv 6,63). È lui dunque il “ferito” di cui noi be-
viamo il sangue (cf. Nm 23,24), ricevendo cioè le parole del
suo insegnamento. Ma non meno di lui sono stati feriti anche
coloro che ci hanno predicato la sua Parola, e quando noi leg-
giamo le loro parole, cioè quelle dei suoi apostoli, e attraverso
di esse conseguiamo la vita, noi beviamo il sangue dei feriti.
Origene, Omelie su Numeri XVI,9,2

8. Stando nel mezzo, in piedi su un punto elevato19, il letto-


20
re legga le storie di Mosè, quelle di Giosuè figlio di Nun,

18Cioè durante la celebrazione dell’eucaristia.


19Questo luogo nei documenti antichi è chiamato “tribuna dei lettori” (bêma tôn
anagnostôn) o “ambone” (ámbon), che significa appunto “luogo elevato” (da anabaínein,
“salire”). L’ambone delle chiese antiche, collocato nella navata della chiesa al centro
dell’asse che dal nartece conduceva all’altare e all’abside, era generalmente costituito
da una tribuna sopraelevata di forma cilindrica e dotata di leggio alla quale si accede-
va attraverso due rampe di scale orientate verso oriente e occidente (così l’ambone di
Santa Sofia [562 ca] eretto dall’imperatore Giustiniano e descritto da Paolo Silenzia-
rio, Descrizione dell’ambone, in particolare vv. 50-75). Sul tema, cf. C. Valenziano,
“L’ambone: aspetti storici”, in L’ambone. Tavola della parola di Dio. Atti del III Conve-
gno liturgico internazionale, Bose, 2-4 giugno 2005, a cura di G. Boselli, Qiqajon, Bose
2006, pp. 87-99; J. Getcha, “Les divers lieux de la proclamation de la parole de Dieu
dans le rite byzantin”, in L’espace liturgique, pp. 208-211.
20 Sul ministero del lettore, cf. Costituzioni apostoliche VIII,22,2-4, dove è riporta-

ta la preghiera per la sua ordinazione: “Istituisci il lettore imponendo la mano su di lui


e, pregando Dio, di’: Dio eterno, ricco nella misericordia e nella compassione (cf. Sal
102,4) che attraverso le tue opere hai reso visibile la struttura del mondo e in tutto il
mondo preservi il numero dei tuoi eletti, tu stesso volgi ora il tuo sguardo sul tuo ser-
vo, che viene incaricato di leggere al tuo popolo le tue sante Scritture e dagli lo Spiri-
to santo, lo spirito profetico. Tu che hai istruito Esdra, tuo servo, per leggere le tue
leggi al tuo popolo (cf. Ne 8,1-17), anche ora, accogliendo la nostra preghiera, istruisci
il tuo servo e concedigli di compiere in modo irreprensibile il compito a lui affidato e
di dimostrarsi degno di un grado superiore, per mezzo di Cristo, per mezzo del quale
a te è la gloria e l’onore, nello Spirito santo, per i secoli dei secoli. Amen”.

92
“Sapienza! Stiamo attenti!”

quelle dei Giudici e dei Re, quelle dei Paralipomeni21; inoltre i


libri di Giobbe, di Salomone e dei Sedici profeti. Poi, termina-
te due letture, un altro canti i salmi di David e il popolo rispon-
da ripetendo il ritornello. Dopo questo, si leggano i nostri At-
ti22, le epistole di Paolo nostro collaboratore, che egli inviò alle
chiese per indicazione dello Spirito santo; e dopo questo, un
presbitero o un diacono legga gli evangeli: quelli che io, Mat-
teo, e Giovanni vi abbiamo trasmesso e quelli che i collabora-
tori di Paolo, Luca e Marco, hanno ricevuto e vi hanno lascia-
to. Mentre viene letto l’evangelo, tutti i presbiteri e i diaconi e
tutto il popolo stiano in piedi con grande silenzio, poiché sta
scritto: Fa’ silenzio e ascolta, Israele (Dt 27,9), e ancora: Tu sta’
qui in piedi e ascolta (cf. Dt 5,31).
Costituzioni apostoliche II,57,5-8

9. Dimmi, se uno arriva presso l’ambulatorio di un medico e


non chiede grazia al medico, ma pensa di poter donare lui qual-
cosa al medico, e se, tralasciando di chiedere una medicina per
la sua ferita, si occupa dei vestiti, forse questo tale potrebbe ri-
partire di là dopo aver ricavato qualche frutto? Non credo pro-
prio. Se volete, vi dirò il motivo di tutti questi preamboli: [al-
cuni] sono convinti di venire da noi, quando entrano qui; sono
convinti di ascoltare da noi ciò che ascoltano; non prestano at-
tenzione, non riflettono che si stanno accostando a Dio, e che
è lui stesso che parla a loro.
Quando infatti il lettore, alzatosi in piedi, dice: Così dice il
Signore! (Is 3,16)23, e il diacono in piedi chiude la bocca a tutti24,
non dice questo per far onore a colui che legge, ma a colui che
per mezzo di lui parla a tutti. Se sapessero che è Dio a dire

21 Nome dei libri delle Cronache secondo la versione dei lxx.


22 Il testo si presenta come pronunciato dagli apostoli.
23 È l’inizio di molti testi profetici che venivano proclamati durante le celebrazioni

eucaristiche.
24 Attraverso l’esortazione: “Stiamo attenti!”.

93
Capitolo II

queste parole per mezzo del profeta, getterebbero via tutto il lo-
ro orgoglio. Se infatti quando parlano loro delle autorità, non
sopportano di distogliere l’attenzione, a maggior ragione [do-
vrebbero farlo] quando parla Dio! Noi, miei cari, siamo dei ser-
vitori, non diciamo parole nostre, ma quelle di Dio: ogni giorno
qui si leggono lettere giunte dal cielo!
Su, dimmi, ti prego, se proprio ora, mentre siamo ancora tut-
ti qui, entrasse un uomo con la cintura d’oro e, con aria altez-
zosa e fiera, dicesse di essere stato mandato dall’imperatore,
quello di questa terra, e di recare con sé una lettera rivolta a
tutta la città riguardo ad alcune questioni urgenti, forse non vi
raccogliereste tutti? Forse non fareste grande silenzio anche
senza l’esortazione del diacono? Io credo di sì. Infatti ho già
sentito leggere qui delle lettere degli imperatori. Quindi, se uno
viene da parte dell’imperatore, state tutti attenti; ora invece
che il profeta viene da parte di Dio e pronuncia parole ispirate
dal cielo, nessuno gli presta attenzione? Oppure non credete
che queste parole vengano da Dio? Queste sono lettere manda-
te da Dio! Entriamo dunque nelle chiese con il dovuto rispet-
to e ascoltiamo con timore le parole che ci vengono rivolte!
“Perché devo entrarci – dice qualcuno – se non sento nessu-
no che tiene l’omelia?”. È proprio questo che ha rovinato e gua-
stato tutto! Che bisogno c’è di uno che tenga l’omelia? Questo
bisogno è sorto a causa della vostra indolenza25! Che bisogno
c’è, infatti, di un’omelia? Tutto è chiaro e immediato nelle di-
vine Scritture! Tutto l’indispensabile è evidente. Ma poiché vi
dilettate ad ascoltare, cercate anche questo genere di cose. Dim-
mi, Paolo faceva forse sfoggio di eloquenza nel parlare? No, ep-
pure convertì il mondo intero. E che dire di Pietro, che era un
illetterato?
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Tessalonicesi 3,4

25 In greco: rhathymía. Su questo concetto, cf. infra, p. 351, n. 2.

94
“Sapienza! Stiamo attenti!”

10. Chi ama il Signore con tutto il cuore (Dt 6,5; Mt 22,37)
e ne custodisce la memoria costante, appena sente l’araldo che
invita a quella terribile immolazione di Dio che ci dà la vita26,
in gran fretta si alza in piedi, e prima di tutto riflette se ha
qualcosa contro qualcuno, o se un altro ha qualcosa contro di
lui (cf. Mt 5,23), e quando ha superato questo ostacolo della
salvezza e si è liberato e sciolto da questo gravoso vincolo, cor-
re all’ascolto delle parole divine: come una cerva che corre ver-
so le fonti delle acque (Sal 41,2), così, correndo con fede e desi-
derio, raggiunge il porto spirituale di Dio.
Una volta che si è concentrato, ha raccolto la sua mente e ha
rigettato ogni preoccupazione mondana, prepara gli orecchi al-
l’ascolto della melodia angelica27, e poi del sacro cantore, Da-
vid28, che grida: Venite e vedete le opere di Dio (Sal 65,5a). Veni-
te, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore (Sal 33,12),
l’esultanza, il sacrificio di giustizia e l’offerta (Sal 50,21). Venite,
vedete sull’altare il vitello grasso (cf. Sal 50,21; Lc 15,23), l’a-
gnello di Dio immolato, ma non ucciso! Magnificate il Signore,
ed esaltiamo insieme il suo nome (Sal 33,4). Gustate e vedete che
il Signore è buono (Sal 33,9)!
Poi Isaia, la rondine della chiesa, grida a gran voce: Come
pecora fu condotto al macello (Is 53,7). Esultate, o cieli, e gioisca
la terra, perché il Signore ha avuto pietà del suo popolo (Is 49,13).

26 Il riferimento è alla monizione del diacono che invita l’assemblea a prestare at-

tenzione. Il lungo testo che segue, sebbene di difficile datazione (v-viii secolo?) è di
grande interesse per la storia della liturgia perché descrive in modo completo e detta-
gliato la liturgia della Parola che precede la liturgia eucaristica, con la proclamazione
successiva delle varie letture: Antico Testamento, salmi, Apostolo ed evangelo.
27 Allusione al Trisághion, inno attestato fin dalla metà del v secolo, formato da una

triplice acclamazione: “Dio santo, santo forte, santo immortale, abbi pietà di noi”.
Non deve essere confuso con il triplice Sanctus della preghiera eucaristica, designato
anch’esso con il nome di Trisághion, al quale lo accomuna il modello del canto dei se-
rafini (cf. Is 6,3).
28 L’allusione è ai versetti salmici proclamati prima dell’Antico Testamento e tra una

lettura e l’altra. Di essi la Liturgia di Giovanni Crisostomo (b) ha conservato traccia nel-
l’antifona salmica (o prokeímenon) che precede la lettura dell’Apostolo (cf. supra, β).

95
Capitolo II

Avanza, popolo mio (Is 26,20) verso il luogo dell’ascolto. Ascol-


tate che cosa ordina il Signore attraverso la mia bocca, dite:
“Fratelli!” a coloro che vi odiano e vi respingono, affinché il nome
del Signore sia glorificato (Is 66,5).
Poi Paolo, il successore di Isaia, la lira dello Spirito santo, la
cicala della chiesa, la dimora di Cristo, elevato sull’ambone, gri-
da a gran voce con franchezza: Cristo, nostra Pasqua, è stato im-
molato per noi (1Cor 5,7), lui che per opera di Dio è diventato per
noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (1Cor 1,30). At-
traverso il suo sangue abbiamo ricevuto la remissione dei peccati
(cf. Ef 1,7). Ma ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e
beva del calice (1Cor 11,28) …
Presta ascolto ancora a Giovanni che grida: Figlioli, questa è
l’ultima ora e viene l’anticristo, e adesso sono apparsi molti anti-
cristi (1Gv 2,18), ma: Non prestate fede a ogni ispirazione, poiché
molti impostori sono comparsi nel mondo (1Gv 4,1).
Successivamente, Giacomo, il fratello di Dio, venuto più
avanti, afferma: Considerate perfetta letizia, fratelli, quando sub-
ite ogni sorta di prove (Gc 1,2). Beato l’uomo che sopporta la pro-
va, perché quando l’avrà superata riceverà la corona della vita che
non appassisce, che il Signore ha preparato per coloro che lo ama-
no (Gc 1,12).
Dopo costoro, il sublime Pietro, accorrendo, esclama: La fi-
ne di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per de-
dicarvi alle preghiere (1Pt 4,7). Deposta dunque ogni malizia e ogni
frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza, come bambini appe-
na nati bramate il puro latte spirituale (1Pt 2,1-2).
Poi, alle letture succede la voce celeste degli angeli, la lode
di Dio, il canto solenne delle potenze dell’alto, come il beato
Giovanni ha visto e scritto, dicendo: Ho udito le potenze del-
l’alto, come una voce di folle numerose e come un rombo di tuoni
possenti, che gridavano: Alleluja! (Ap 19,6).
Dopo ciò, quando tutto ormai è stato preannunciato, e i pre-
cursori e i ministri cessano di proclamare e annunciare l’ascesa

96
“Sapienza! Stiamo attenti!”

del Signore sull’ambone29, quando i sacerdoti sono ancora se-


duti e i ministri in silenzio, quando è giunta l’ora in cui il Do-
minatore insaziabile e Signore della gloria si manifesti su un
luogo elevato, il popolo prepara gli orecchi all’ascolto delle pa-
role ispirate da Dio e vivificanti, e tutti si spingono e si avvici-
nano all’ambone, e quando si è fatto grande silenzio e non è più
permesso a nessuno restare seduto, né a un vescovo, né a un
sacerdote, né a un re, a causa della gloria immensa di colui che
sta per manifestarsi, coloro che hanno il ruolo di angeli30 grida-
no con forza, dicendo a tutti, piccoli e grandi: “In piedi, ascol-
tiamo tutti che cosa dirà il Signore Dio (Sal 84,9)! Diritti in pie-
di, ascoltiamo che cosa ordinerà e che cosa vorrà il Re dei re!
Diritti in piedi, ascoltiamo parole e comandi di vita eterna (cf. Gv
6,68), perché il suo comandamento è vita eterna (Gv 12,50)”.
Ma l’espressione “diritti in piedi”31 che cosa significa e come
va interpretata? So infatti che molti la riferiscono esclusiva-
mente all’atto di alzarsi dai propri seggi, ma io ho il sospetto
che la parola abbia qui un senso più profondo e non indichi sol-
tanto l’atto di alzarsi dai propri seggi, ma si riferisca a un signi-
ficato più spirituale32. Cioè: diritti nella fede, diritti nel cuore,
diritti nei pensieri, nella carità e nella confessione di fede, di-
ritti per adempiere ogni comandamento del Signore, diritti in
alto verso il cielo. Come esseri dotati di ragione, pensate alle co-
se di lassù (Col 3,2), senza restare piegati verso il basso come le
bestie!
Poi, quando tutti si sono alzati e stanno in piedi con timore
per ascoltare che cosa ci narrerà il Signore nella Scrittura (Sal
86,6), come ha predetto il profeta David, che cosa ordinerà, che

29 Il riferimento è all’evangeliario portato solennemente sull’ambone dal diacono

per essere letto.


30 Cioè i diaconi, spesso assimilati agli angeli nei testi patristici.
31 L’aggettivo orthós, in senso concreto “ritto in piedi”, significa anche “retto”,

“giusto”.
32 Lett.: “mistico”.

97
Capitolo II

cosa comanderà, che cosa vorrà colui che è terribile nelle sue vo-
lontà (Sal 65,5b), viene elevata la perla preziosa33 (cf. Mt 13,46),
l’attesa di tutte le genti, la luce che illumina il mondo (cf. Gv
8,12), la grazia effusa dalle labbra del nostro Salvatore e Dio
(cf. Sal 44,3), il sollievo degli afflitti, la liberazione dei prigio-
nieri, la redenzione dei peccati, il sollevamento dei caduti, il
luogo di cura dei malati, la speranza dei disperati, l’aiuto degli
oppressi, la gioia dei penitenti, il rifugio dei perseguitati, la
legge della libertà (cf. Gc 2,12) per i sottomessi al dominio al-
trui, la rete che non uccide (cf. Mt 13,47), ma che vivifica co-
loro che sono immersi nel mare salato del mondo, le sorgenti del-
le acque, i fondamenti del mondo (Sal 17,16), i quattro fiumi che
sgorgano dal paradiso (cf. Gen 2,10-14), cioè dalla santa bocca
di Cristo.
Quando poi i divini, santi e immacolati evangeli sono stati
aperti, gli angeli terrestri – intendo i sacerdoti – gridano di nuo-
vo al popolo: “Stiamo attenti!”, cioè: sia qui la mente di cia-
scuno, qui i cuori di tutti, nessuno si distragga, nessuno diva-
ghi con lo sguardo, nessuno bisbigli! Stiamo attenti: è Dio che
parla; stiamo attenti: ci rivolge la parola il Re del cielo, della ter-
ra e di tutta la creazione; stiamo attenti: il grande Pastore di-
stribuisce un cibo di vita per le anime; stiamo attenti: colui che
ha ucciso la morte e ha vinto il mondo (cf. Gv 16,33) promette
a noi indegni una gioia che non sazia mai e un Regno che non
avrà mai fine (cf. Lc 1,33)!
Oh, incomparabile amore di Dio per gli uomini! Oh, bontà
indescrivibile! Lui stesso, l’invisibile, l’incomprensibile, il Crea-
tore e Signore dell’universo, di fronte al quale tremano il cielo,
la terra e il mare, e davanti al quale si piega ogni ginocchio in
cielo, in terra e negli inferi (cf. Fil 2,10), ci parla non attraver-
so un angelo, o attraverso i serafini o qualche altro suo ministro,

33 Il riferimento è ancora al libro che contiene l’evangelo, figura di Cristo.

98
“Sapienza! Stiamo attenti!”

ma lui stesso di persona, a noi che ne siamo indegni, adempien-


do così la profezia del profeta Isaia che dice: Non un inviato, non
un angelo, ma il Signore stesso verrà e ci salverà (Is 63,9; 35,4).
Allo stesso modo anche David preannunciò questo evento, di-
cendo: Il Signore stesso narrerà nella Scrittura dei popoli (Sal
86,6). Per questo il santo Apostolo rimproverandoci, in modo
da incutere maggior soggezione, ha scritto: Per questo dobbia-
mo stare molto più attenti (Eb 2,1), a causa del Signore che ci
parla. Se infatti la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è di-
mostrata salda, e ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto una
giusta punizione, come potremo noi sottrarci al castigo se trascuria-
mo una salvezza così grande? Essa infatti, dopo essere stata promul-
gata all’inizio dal Signore, è stata confermata in mezzo a noi da co-
loro che l’avevano udita (Eb 2,2-3). Per questo dobbiamo stare
molto più attenti: – Perché, dunque, dimmi, Paolo? – Appunto
perché egli non ci parla attraverso gli angeli, né attraverso altre
potenze, come fece con gli antichi, ma egli stesso, il Signore de-
gli angeli e di ogni soffio di vita, parla, racconta e spiega il co-
mandamento del Padre, proprio come un povero. Chi non tre-
merà, chi non resterà ammirato, chi non sarà preso da compun-
zione di fronte a tale bontà e condiscendenza di colui che è
amico degli uomini34?
Pseudo-Crisostomo, Sulla penitenza 1,2

34 La “condiscendenza” (synkatábasis) e la “filantropia” o “amicizia degli uomini”

( philanthropía) sono due delle nozioni centrali della teologia patristica, come è partico-
larmente evidente nell’insegnamento omiletico di Giovanni Crisostomo (cf. le note di
L. Brottier, in Jean Chrysostome, Sermons sur la Genèse, SC 433, Cerf, Paris 1998, pp.
376-378, con ampi riferimenti bibliografici). La prima esprime il modo in cui Dio, per
rivelarsi agli uomini e venire in loro aiuto, nel corso di tutta la storia della salvezza si
adatta alla debolezza umana, “svuotandosi” della sua trascendenza divina, fino a co-
municare se stesso attraverso le parole della Scrittura e i sacramenti; la seconda espri-
me il suo desiderio profondo di comunione con l’uomo, che definisce la sua stessa es-
senza: egli è il Dio “filantropo”. Entrambe le nozioni trovano il loro senso pieno in re-
lazione al mistero dell’incarnazione e dell’economia salvifica del Figlio di Dio, in cui
l’immagine di Dio è stata rivelata pienamente.

99
Capitolo II

11. Il maestro35 diceva che le divine letture dei libri sacri in-
dicano le divine e beate volontà di Dio, per mezzo delle quali
ciascuno di noi riceve, in proporzione alla propria capacità, i pre-
cetti di ciò che deve fare e impara a conoscere le leggi delle di-
vine e beate lotte: combattendo tali lotte secondo le regole (2Tm
2,5) siamo resi degni delle vittoriose corone del regno di Cristo.
Massimo il Confessore, Mistagogia 10

12. L’evangelo è la presenza36 di Dio, nella quale egli si è re-


so visibile a noi, non più parlando attraverso nubi e figure sim-
boliche, come un tempo parlò a Mosè sul monte attraverso tuo-
ni e lampi, con suono di trombe, oscurità e fuoco (cf. Es 19,16;
Eb 12,18-19), o ai profeti attraverso i sogni, ma è apparso chia-
ramente e si è reso visibile a noi come un uomo vero, il Re mi-
te e pacifico, prima disceso in silenzio come sulla lana (cf. Sal
71,6); e noi abbiamo visto la sua gloria, gloria come di unigenito
pieno di grazia e di verità (Gv 1,14); per mezzo di lui Dio Padre
ci ha parlato bocca a bocca e non più per mezzo di figure sim-
boliche; di lui il Padre rende testimonianza dal cielo e dice:
Questo è il mio figlio amato (Mt 3,17; 17,5), la Sapienza, la Pa-
rola e la Potenza: lui che ci era stato annunciato per mezzo dei
profeti, è stato manifestato negli evangeli, affinché tutti coloro
che lo accolgono e credono nel suo nome ricevano il potere di
diventare figli di Dio (cf. Gv 1,12). Colui che abbiamo udito e
veduto con i nostri occhi (cf. 1Gv 1,1) crediamo che è la Sapien-
za e la Parola di Dio, gridando: “Gloria a te, Signore!”. E a
sua volta lo Spirito santo, che un tempo lo adombrò con una
nube luminosa (cf. Mt 17,5), adesso per mezzo di un uomo gri-
da: “State attenti!”, cioè ascoltatelo (Mt 17,5)37.
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 31

35 Si tratta dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita, di cui l’autore riprende l’insegna-

mento (cf. Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Gerarchia ecclesiatica III,3,5).


36 O anche “venuta” (in greco: parousía).
37 Allusione alla monizione prima della lettura dell’evangelo.

100
“Sapienza! Stiamo attenti!”

13. Dopo l’inno Trisághion38, si legge il libro dell’Apostolo, e


poi l’evangelo stesso: prima però viene cantato dalla chiesa un
inno di lode a Dio39. Ma perché lodiamo Dio prima delle lettu-
re delle sacre Scritture? Perché bisogna farlo sempre, per tutti
i beni che egli continua a donarci in ogni occasione, e in parti-
colare quando riceviamo un grande bene, quale appunto è l’a-
scolto delle sue parole divine. Ma mentre per l’Apostolo la lo-
de è accompagnata da un supplica – si aggiunge infatti la formu-
la: “Abbi pietà!” –, al momento dell’evangelo noi trasformiamo
interamente la supplica in un inno di lode, per essere coscienti
che l’evangelo rappresenta Cristo e, una volta trovato lui, ab-
biamo ormai tutto ciò che cerchiamo. Lo Sposo infatti è là den-
tro40, e non c’è bisogno di supplicare più per nulla, poiché ab-
biamo tutto, allo stesso modo in cui non è bene che gli invitati
alle nozze facciano digiuno fintanto che lo Sposo è con loro (cf.
Mt 9,15); ma questo soltanto bisogna fare: onorarlo e lodarlo.
Del resto, anche l’inno di lode degli angeli, quale ce lo hanno
insegnato i profeti (cf. Is 6,3)41, per lo stesso motivo è soltanto
un inno di lode, senz’alcuna supplica.
Ma che scopo ha, a questo punto [della liturgia], la lettura
delle sacre Scritture? Se vuoi conoscerne l’utilità pratica, ne
abbiamo parlato42: esse ci preparano e ci purificano in anticipo
prima della grande santificazione dei misteri43. Se invece ne ri-
cerchi il significato, dirò che esse indicano la manifestazione
del Signore, con la quale si manifestò a poco a poco dopo la sua

38 Cf. supra, p. 95, n. 27.


39 L’autore, come spiega nel seguito del testo, si riferisce a un inno (forse un salmo)
cantato prima della lettura dell’Apostolo e intercalato dal ritornello “abbi pietà!” e al
canto dell’Alleluja che precedeva la lettura dell’evangelo.
40 Cioè nell’evangelo.
41 Il triplice “Santo” dei serafini cantato dall’assemblea durante la preghiera euca-

ristica.
42 L’autore ne ha parlato in Spiegazione della divina liturgia 1,9.
43 Cioè la consacrazione delle specie eucaristiche in corpo e sangue di Cristo, che a

loro volta santificano i comunicanti.

101
Capitolo II

prima apparizione [in mezzo agli uomini]. In un primo momen-


to, infatti, l’evangelo viene mostrato chiuso44, a significare la
manifestazione del Signore nella quale il Padre lo indicava [co-
me suo Figlio] mentre egli restava in silenzio (cf. Mt 3,17): pro-
prio perché allora non pronunciava alcuna parola, aveva bisogno
della voce di qualcuno che lo annunciasse. Queste letture inve-
ce indicano la sua manifestazione più completa, nella quale egli
parlava pubblicamente a tutti e dava insegnamenti riguardo alla
sua persona, non solo attraverso le parole che diceva lui stesso,
ma anche attraverso quelle che insegnava agli apostoli a dire,
inviandoli alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 10,6). Per
questo si leggono sia gli scritti apostolici, sia l’evangelo stesso.
Ma perché non si legge prima l’evangelo? Perché far cono-
scere ciò che ha detto il Signore stesso è segno di una manife-
stazione più piena del far conoscere ciò che hanno detto gli
apostoli. Il Signore, infatti, non si è manifestato agli uomini in
una sola volta così com’era, in tutta la sua potenza e in tutta la
sua bontà – ciò infatti è riservato alla sua seconda venuta –, ma
procedendo gradualmente, passava da ciò che era più oscuro a
ciò che era più chiaro. Per questo, se vogliamo indicare la sua
manifestazione avvenuta a poco a poco, è bene leggere gli scrit-
ti apostolici prima degli evangeli. Per questo anche i [riti] che
indicano la sua piena manifestazione vengono riservati alla fi-
ne, come mostreremo nel seguito del discorso45.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 22,1-5

44 Si allude alla “piccola entrata” durante la quale l’evangeliario viene portato chiu-

so in processione e deposto sull’altare.


45 Allusione alle parti della liturgia propriamente eucaristiche che mostrano in pie-

nezza l’incarnazione di Cristo e la rivelazione della sua economia di salvezza.

102
“Sapienza! Stiamo attenti!”

Ascoltare con attenzione la lettura delle Scritture

14. Anche ora, come dice l’Apostolo, è steso un velo sulla let-
tura dell’Antico Testamento (2Cor 3,14)46: anche ora Mosè par-
la con il volto glorificato, ma la gloria che brilla su quel volto,
noi siamo incapaci di contemplarla! Ne siamo incapaci perché
siamo ancora tra la folla e non abbiamo maggiore impegno o
virtù del resto della gente … Questa affermazione dell’illustre
Apostolo ci toglierebbe ogni speranza di poter comprendere, se
egli non avesse aggiunto: Quando però uno si sarà convertito al
Signore, il velo sarà tolto (2Cor 3,16). Afferma dunque che ciò
che può togliere il velo è la nostra conversione al Signore. Da
questo possiamo intuire che, fino a quando leggendo le divine
Scritture il significato ce ne resta nascosto, fino a quando ciò
che è stato scritto ci rimane oscuro e coperto, non ci siamo an-
cora convertiti al Signore, perché se ci fossimo converti al Si-
gnore, certamente il velo sarebbe stato tolto.
Ma vediamo in cosa consista propriamente questo “conver-
tirsi al Signore”. E per poter comprendere in modo più chiaro
che cosa voglia dire essere convertiti, dobbiamo prima dire che
cosa sia non esserlo47. Chiunque, mentre vengono recitate le
parole della Legge, si occupa di discorsi profani, non è conver-
tito. Chiunque quando si legge Mosè, si dedica ad affari monda-
ni, al denaro e ai guadagni, non è convertito. Chiunque è stret-
to dalle preoccupazioni delle proprietà ed è tormentato dalla
brama delle ricchezze, chi aspira alla gloria e agli onori monda-
ni, non è convertito. Ma anche chi sembra estraneo a tutto ciò,

46 L’autore sta commentando l’episodio del volto glorificato di Mosè (cf. Es 34,29-35).

Attraverso la citazione paolina l’autore ne attualizza il significato a beneficio dei suoi


ascoltatori: per essi la Scrittura che viene proclamata rimane “velata” per la loro inca-
pacità di ascolto e attenzione.
47 Così rendo il participio passato aversus (lett.: “distratto”, “distolto”), che l’auto-

re contrappone a conversus (“convertito”).

103
Capitolo II

e assiste e ascolta le parole della Legge con il volto e gli occhi


attenti, ma divaga con il cuore e i pensieri, non è convertito.
Che cosa vuol dire dunque convertirsi? Se volgiamo le spal-
le a tutti questi comportamenti e ci applichiamo alla parola di
Dio con il nostro zelo, i nostri atti, la nostra mente e la nostra
sollecitudine, se meditiamo la sua Legge giorno e notte (cf. Sal
1,2), se, lasciato tutto da parte, ci dedichiamo solo a Dio e me-
ditiamo sulle sue testimonianze (cf. Sal 118,24), questo vuol di-
re essere convertiti al Signore …
Chi mai cerca di apprendere le lettere divine con lo stesso
zelo e impegno che ha messo nell’apprendere quelle umane? Per-
ché allora ci lamentiamo di non sapere ciò che non abbiamo im-
parato? Alcuni tra di voi, appena hanno ascoltato la lettura del
testo proposto, subito se ne vanno: non si fanno la minima do-
manda su ciò che è stato letto, non c’è alcun confronto, e nessu-
no richiama alla memoria il precetto con cui la Legge divina ci
ammonisce: Interroga i tuoi padri e te lo diranno, i tuoi anziani e te
lo annunceranno (Dt 32,7). Altri non hanno neanche la pazien-
za di aspettare finché in chiesa sia terminata la proclamazione
delle letture. Altri poi non sanno neppure se si stiano procla-
mando le letture, ma nei luoghi più appartati della casa del Si-
gnore si occupano di discorsi mondani! Riguardo a costoro oso
dire che, mentre si legge Mosè, non un velo, ma addirittura una
parete e un muro sono posti sul loro cuore (cf. 2Cor 3,15)! Se
infatti colui che è presente, ascolta, è attento, riesamina e con-
sidera le cose che ascolta, fa domande su ciò che non ha capito e
lo apprende, a stento può giungere alla libertà della conoscen-
za48, chi invece si copre le orecchie per non ascoltare e volge le
spalle al lettore, come si può dire che ha un velo sul proprio cuo-
re, lui che non è stato raggiunto neppure dal velo della lettera,
cioè dal suono della voce, sotto il quale si nasconde il senso?
Origene, Omelie sull’Esodo 12,1-2

48 Cioè alla libertà che proviene dalla conoscenza della verità (cf. Gv 8,32).

104
“Sapienza! Stiamo attenti!”

15. Ciascuno – dice [la Scrittura] – offra primizie al Signore se-


condo quanto ha concepito nel cuore (Es 35,5). Poiché ha parla-
to di primizie, mi chiedo quali siano le primizie dell’oro e del-
l’argento. E come si possono raccogliere le primizie dello scar-
latto, della porpora e del bisso? In che modo uno offre secondo
quanto ha concepito nel cuore? Questo detto interpella ciascu-
no di noi! Vediamo dunque insieme in che modo abbiamo con-
cepito nel cuore, quanti siamo ora qui presenti mentre ci viene
amministrata la parola di Dio49. Vi sono di quelli che concepi-
scono nel cuore ciò che è stato letto; vi sono poi di quelli che
non concepiscono affatto ciò che viene detto, ma la loro men-
te e il loro cuore sono immersi negli affari, nelle faccende mon-
dane o nei calcoli del guadagno; e soprattutto le donne, come
si può pensare che concepiscano nel cuore, se chiacchierano co-
sì tanto e fanno così tanto chiasso con le loro sciocchezze da
non permettere che vi sia silenzio? Cosa potrei dire della loro
mente e del loro cuore, se hanno il pensiero rivolto ai loro bam-
bini, alla lana e alle necessità domestiche? … Uno non può
“concepire nel cuore”, se il suo cuore non è sgombro, se non ha
la mente libera e attenta; se non vigila nel proprio cuore, non
può concepire nel cuore e offrire doni a Dio … State attenti a
concepire nel cuore, state attenti a trattenere, perché le parole
che vengono dette non scorrano via e vadano perdute!
Voglio ammonirvi con esempi tratti dalla pratica religiosa.
Sapete bene, voi tutti che avete l’abitudine di partecipare ai
divini misteri, in che modo, quando ricevete il corpo del Signo-
re, lo custodite con ogni precauzione e venerazione, perché non
ne cada il minimo frammento e nulla vada perduto di quel dono
consacrato50. Vi credereste infatti colpevoli – e giustamente –
se per vostra disattenzione ne cadesse qualcosa. Se dunque usa-

49
L’autore si rivolge evidentemente all’assemblea presente in chiesa.
50
La prassi corrente nella chiesa antica era di ricevere l’eucaristia nell’incavo della
mano (cf. i testi raccolti infra, c. XIII,16-24).

105
Capitolo II

te tanta cautela nel custodire il suo corpo, come potete credere


che sia una colpa minore aver trascurato la parola di Dio, inve-
ce del suo corpo?
Origene, Omelie sull’Esodo 13,3

16. Vi sono uomini, poveri loro, che lasciano le proprie case


e accorrono al tempio, quasi pensando di guadagnare qualcosa
per se stessi, ma non prestano ascolto alle parole di Dio. Costo-
ro non prendono coscienza della propria natura, non si addolo-
rano di essere in preda al peccato, non si affliggono nel fare
memoria dei propri peccati, non hanno paura del giudizio, ma
ridendo e stringendosi l’un l’altro la destra, fanno della casa di
preghiera un luogo di chiacchiere (cf. Is 56,7; Mt 21,13), non
prestando ascolto al salmo che ammonisce e dice: Nel tempio di
Dio ognuno dice “gloria” (Sal 28,9)! Ma tu non solo non dici “glo-
ria”, ma sei anche di impedimento agli altri attirando su di te
la loro attenzione e con le tue rumorose chiacchiere emetti un
suono più forte dell’insegnamento dello Spirito. Bada che inve-
ce di ricevere la ricompensa per aver celebrato la sua gloria tu
non finisca per essere condannato insieme a coloro che bestem-
miano il nome di Dio! Hai il salmo, hai la profezia, hai i pre-
cetti evangelici, hai la predicazione degli apostoli51: la tua lingua
canti, la tua mente mediti sul significato delle parole pronun-
ciate, perché tu possa cantare con lo spirito, ma anche con la
bocca (cf. 1Cor 14,15). Dio infatti non ha bisogno di gloria, ma
vuole che tu sia degno di ricevere gloria.
Basilio di Cesarea, Omelie sui Salmi 28,7

17. La bocca attraverso la quale Dio parla è la bocca di Dio.


Come infatti questa nostra bocca appartiene alla nostra anima,
sebbene l’anima non abbia bocca, così anche la bocca dei pro-

51 Sono le varie parti della Scrittura che venivano lette o cantate durante la celebra-

zione eucaristica.

106
“Sapienza! Stiamo attenti!”

feti è la bocca di Dio. Ascoltate e fremete! Il diacono, quale co-


mune servitore di tutti, sta in piedi e grida forte dicendo: “Stia-
mo attenti!”, e questo ripetutamente. Quella che egli emette è
la voce comune della chiesa, e non c’è nessuno che vi presti at-
tenzione. Dopo di lui, il lettore dà inizio alla profezia di Isaia,
e neppure così c’è qualcuno che stia attento, sebbene la profe-
zia non abbia niente di umano. Poi per invitare all’ascolto pro-
clama: Così dice il Signore! (cf. Is 3,16)52, e neppure così c’è
qualcuno che stia attento. Che dico? Riferisce cose terribili e
tremende, eppure neanche così c’è qualcuno che gli presti at-
tenzione.
Ma qual è il motivo addotto dai più? “Si leggono sempre le
stesse cose!”, dice qualcuno. Questo vi rende ancor più colpe-
voli. Se poi davvero conosceste queste cose, certamente nean-
che in quel caso dovreste trascurarle, perché anche nei teatri si
rappresentano sempre le stesse cose, eppure non ne avete mai
sazietà! Come osi dire che sono sempre le stesse cose, tu che
non conosci neppure i nomi dei profeti? Non ti vergogni di di-
re che è per questo che non ascolti, perché si leggono sempre le
stesse cose, e poi non sai neppure i nomi di coloro che vengo-
no letti, nonostante tu ascolti le stesse cose? …
Dimmi, non ammonisci forse tuo figlio? Se egli ti dicesse:
“Sono sempre le stesse cose!”, non lo considereresti un affron-
to? Sarebbe possibile non dire le stesse cose, se noi le cono-
scessimo e lo dimostrassimo attraverso le nostre opere. Comun-
que, neppure in quel caso la lettura sarebbe stata inutile. Chi è
pari a Timoteo? Eppure, nello scrivergli, Paolo diceva anche a
lui: Presta attenzione alla lettura, all’esortazione (1Tm 4,13). Il
senso delle Scritture infatti non si può mai esaurire: è una fon-
te che non ha mai fine!
Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 19,5

52 Cf. supra, p. 93, n. 23.

107
Capitolo II

18. “Non capisco i discorsi contenuti nelle divine Scritture!”,


dice qualcuno. E perché non li capisci? Sono forse in ebraico?
Sono forse in latino o in un’altra lingua straniera? Non sono
forse espressi in greco? “Ma sono espressi – dice – in modo
non chiaro”. Cosa c’è di non chiaro, dimmi? Non sono forse
storie? Le cose chiare le capisci, in modo da poter far doman-
de su ciò che non è chiaro. Nelle Scritture vi sono innumerevo-
li storie: dimmene una. Ma non me la dirai. Questi sono solo
pretesti e parole!
“Ogni giorno – dice – si sentono le stesse cose!”. Ma come?
Dimmi: nei teatri non senti sempre le stesse cose? Alle corse
dei cavalli non vedi sempre le stesse cose? Ogni cosa non è for-
se sempre la stessa? Non sorge sempre lo stesso sole? Non
prendiamo sempre gli stessi cibi? Vorrei chiederti, dal momen-
to che dici di sentire ogni giorno le stesse cose: dimmi, di qua-
le profeta è il passo che abbiamo letto? Di quale apostolo? E di
quale lettera? Ma non sei in grado di dirmelo, anzi ti sembra di
udire cose insolite. Quando dunque vuoi startene nell’inerzia,
dici che sono sempre le stesse cose; ma quando vieni interroga-
to, è come se tu non le avessi mai udite! Se sono sempre le stes-
se cose, dovresti saperle, ma tu le ignori. Tutta questa situazio-
ne è degna di pianto, di pianto e di lamento, perché invano co-
nia monete il coniatore di monete (Ger 6,29)!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Tessalonicesi 3,4

19. Al vedere, miei cari, come vi radunate qui ogni giorno con
fervore, ne ricavo un gran piacere e non cesso di glorificare il
nostro Dio amico degli uomini per il vostro progresso. Come in-
fatti l’aver fame è segno di una buona condizione fisica, così
anche il fatto di applicarsi con fervore all’ascolto delle parole di-
vine si può considerare un grandissimo indizio di salute dell’a-
nima. Perciò anche il nostro Signore Gesù Cristo nelle celebri
beatitudini pronunciate sul monte diceva: Beati coloro che han-
no fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6). Chi

108
“Sapienza! Stiamo attenti!”

dunque potrebbe lodarvi in modo degno, voi che, una volta per
tutte, avete ricevuto quella beatitudine da parte del Signore
dell’universo e che attendete da lui beni innumerevoli? Così
infatti si comporta il nostro Signore: quando vede un’anima che
si accosta alle cose spirituali con molto desiderio e intenso fer-
vore, gli offre la sua grazia in abbondanza e gli elargisce i suoi
ricchi doni.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 4,1

20. Quale perdono potremo mai meritare, dopo tanta solle-


citudine [da parte di Dio], se mostriamo un tale odio per i fo-
restieri e se chiudiamo le porte ai bisognosi e, prima ancora del-
le porte, le orecchie, e anzi non solo ai poveri, ma anche agli
stessi apostoli? Proprio per questo le chiudiamo ai poveri, per-
ché le chiudiamo agli apostoli! Se infatti, mentre si legge Pao-
lo, tu non stai attento, mentre predica Giovanni, tu non ascol-
ti, quando potrai accogliere un povero, se non accogli un apo-
stolo? Affinché dunque siano continuamente aperte le case, agli
uni, e le orecchie, agli altri, rimuoviamo la sporcizia dalle orec-
chie dell’anima! Come infatti la sporcizia e il fango ostruisco-
no le orecchie del corpo, così i canti osceni, i discorsi mondani,
quelli su debiti, interessi e prestiti ostruiscono l’udito interiore
più gravemente di ogni sporcizia; anzi non solo lo ostruiscono,
ma lo rendono anche impuro.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 37,5

21. Trattieni almeno una piccola parola nel tuo cuore tra quel-
le divine parole che vengono lette? E se non conosci queste co-
se, perché allora, dimmi, vieni in chiesa insieme agli altri? Non
ti affretti forse a venirci per ascoltare queste parole ed esserne
edificato? Se davvero ci vieni per questo, il tuo zelo è degno di
lode e si adempiono in te le parole del Signore: Le mie pecore
ascoltano la mia voce (Gv 10,27). So infatti che molti non si ra-
dunano in chiesa per Dio né per ascoltare le sue sante parole.

109
Capitolo II

Vedo infatti alcuni che sonnecchiano, altri che divagano qua e


là con lo sguardo, altri che parlano agli amici; e mentre il no-
stro Signore ci parla con voce misericordiosa dicendo: Voi sie-
te miei amici (Gv 15,14), noi lo abbandoniamo mentre ancora
sta parlando e riteniamo i nostri amici degni di maggior onore!
Vedo altri che si agitano disordinatamente, e osano farlo men-
tre Dio sta ancora parlando!
Oh, profonda stoltezza! Oh, inguaribile impudenza! Oh,
grave delirio! Un re sottomesso alle nostre stesse passioni53 spes-
so parla al popolo, e tutti rimangono muti come colonne inani-
mate, finché colui che parla non abbia finito. E non solo que-
sto, ma spesso vengono lette anche le sue lettere, e nel luogo si
crea grande silenzio tra gli ascoltatori presenti d’intorno, al
punto che sembra non esservi nessuno all’infuori di colui che
legge le lettere del re. Qui invece parlano profeti, apostoli, pa-
triarchi, che sono ben più importanti di qualunque re, e dicono
che cosa vuole Dio, come lo si deve onorare e in che modo
dobbiamo attraversare il difficile mare della vita, e noi ritenia-
mo chiacchiere queste parole e, dedicandoci piuttosto a parole
oziose, le consideriamo un riposo! È forse così che si onora Dio,
il quale ha detto ai santi che ci parlano: Voi siete la luce del mon-
do (Mt 5,14)?
Ma perché parlo di ministri e di servi? Quando lo stesso Si-
gnore dell’universo e Re della gloria, che l’intera creazione te-
me e al quale ogni soffio di vita rivolge la lode, ci parla per mez-
zo dei santi evangeli, ci corregge, ci minaccia, ci esorta, ci chia-
ma, ci dona il suo regno che non sazia né mai si corrompe, noi
gli prestiamo la stessa attenzione che abbiamo quando ci parla
un infermo o un povero, e non lo degniamo neppure dell’atten-
zione che diamo a un amico. Veramente vani sono i figli degli uo-
mini (Sal 61,10)! A chi si comporta così è veramente opportu-
no dire: Stolti, quando rinsavirete? (Sal 93,8).

53 Cioè l’imperatore.

110
“Sapienza! Stiamo attenti!”

A costoro si adatta bene anche un altro versetto del profeta


che dice: Si dileguarono nella vanità i loro giorni (Sal 77,33).
Avendo respinto infatti l’inno degli angeli e le parole divine,
essi hanno preso sonno; e il loro sonno non è tanto questo son-
no [del corpo], ma l’indolenza, il grave sonno dell’anima, che
danneggia le persone più fatue, la cecità del cuore, che depre-
da i tesori dello Spirito. Riguardo a tale sonno il profeta prega-
va Dio dicendo: Illumina i miei occhi, perché io non cada nel son-
no della morte (Sal 12,4) e Salomone, con parole che inducono
ancor più alla vergogna, ha scritto: Quando ti scuoterai dal son-
no? (Pr 6,9).
Pseudo-Crisostomo, Sulla penitenza 1,1

22. Fratelli e padri, tutti noi uomini abbiamo orecchi e oc-


chi, ma non a tutti è dato di vedere e di ascoltare, ma soltanto
a coloro che hanno un orecchio capace di ascoltare e un occhio
capace di vedere. Per questo il Signore ha detto negli evangeli:
Chi ha orecchi per ascoltare ascolti (Mt 11,15; 13,9)! Riguardo a
coloro che sono duri d’udito il profeta dice: Dio ha dato loro
uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non ascol-
tare (Rm 11,8; cf. Is 29,10; 6,9-10). Perciò ascoltiamo le lettu-
re che vengono proclamate per noi con attenzione, non con su-
perficialità o come capita, per non cadere sotto la minaccia, ma
per poter dire piuttosto, come sta scritto: L’insegnamento del Si-
gnore mi ha aperto gli orecchi (Is 50,5). Colui che ascolta in que-
sto modo, apre il suo orecchio, prova compunzione, è purifica-
to, è illuminato, è reso splendente ed esulta, secondo le parole
del salmo di David: Esultate giusti nel Signore (Sal 32,1). Tutte
le cose di quaggiù costui le considera un’ombra che passa, tut-
to considera spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (cf. Fil
3,8). Lo ascolta, per esempio, quando dice ai suoi discepoli: Non
vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non
mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete
(Gv 14,18-19). E ancora: Io sono la vite vera, voi i tralci (Gv

111
Capitolo II

15,1.5). E ancora: Voi siete miei amici se fate ciò che vi coman-
do. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il
suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udi-
to dal Padre l’ho fatto conoscere a voi (Gv 15,14-15). E ancora:
Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io
preparo per voi un testamento eterno, perché possiate mangiare e
bere alla mia mensa nel mio regno (Lc 22,28-30). Chi dunque ama
Dio, quando ascolta tali parole, non solo gioisce, ma decide di
morire ogni giorno per Cristo (cf. 1Cor 15,31). Ed è così che
hanno vissuto tutti i santi, e con tali propositi hanno manife-
stato il loro desiderio di Dio.
Teodoro Studita, Piccole catechesi 78

23. Durante le divine letture [proclamate] nel corso delle si-


nassi, non trascurate di incitarvi a vicenda all’ascolto. Come
infatti alla mensa materiale sollecitiamo ed esortiamo i nostri
vicini a mangiare, e quelli che amiamo di più li forziamo a man-
giare, così anche a questa mensa che nutre l’anima dobbiamo
stare attenti ai nostri vicini ed esortarli, perché non ci avvenga
di essere condannati come persone che non si amano a vicenda
e di perdere la nostra condizione di discepoli di Cristo. Egli di-
ce infatti: Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se vi
amate gli uni gli altri (Gv 13,35). Chi dunque alla mensa mate-
riale non ha forzato il proprio amico a mangiare, spesso gli ha
procurato il più grande beneficio; ma chi alla mensa spirituale,
cioè al momento dell’ascolto delle parole divine, si comporta al-
lo stesso modo, procura un danno non da poco ai suoi vicini …
Ciascuno dunque stia attento alla lettura (cf. 1Tm 4,13). Le pa-
role dei santi, infatti, sono parole di Dio e non di uomini. Cia-
scuno le riponga sul proprio cuore e le custodisca saldamente,
poiché le parole di Dio sono parole di vita (cf. Gv 6,68) e colui
che le possiede in se stesso e le custodisce ha la vita eterna (cf.
Gv 5,24). Quando infatti siete seduti a una tavola sontuosa, co-
me spesso vi capita, non credo che nessuno di voi se ne stia ozio-

112
“Sapienza! Stiamo attenti!”

so e si addormenti, o che prenda soltanto ciò che gli basta, an-


dandosene via senza aver raccolto con zelo qualcosa per il gior-
no dopo, con il desiderio di condividerlo con alcuni amici o
con i poveri. E qui, dove ci vengono offerte parole di vita che
rendono immortali coloro che se ne nutrono, è forse possibile
che qualcuno dorma, dimmi, o stia in ozio o si addormenti e rus-
si, come un morto che respira? Oh, che danno! Oh, che insen-
sibilità e indolenza! Chi è seduto a mensa e non prova appeti-
to per ciò che gli viene offerto è chiaramente privo della salute
naturale. Così anche chi ascolta una lettura divina e con piace-
re ineffabile e appetito immateriale non si delizia nell’animo,
in modo immateriale, di quelle parole immateriali e divine, e
non riempie spiritualmente tutti i propri sensi della loro dol-
cezza, costui è debole nella fede (cf. Rm 4,19) e del tutto privo
del gusto dei doni spirituali, lui che in mezzo a così tanti beni si
lascia consumare dalla fame e dalla sete. Come un morto, lavato
con acqua, resta insensibile, così anche costui, pur irrigato dal-
le acque vivificanti e divine della Parola, non percepisce nulla.
Tutti voi dunque che avete in voi stessi la Parola di vita (cf.
Fil 2,16), tutti voi che siete venuti qui per nutrirvi di questo
pane della Parola, tutti voi che non siete morti, ma da morti sie-
te diventati viventi (cf. Rm 6,13), avete gustato la vera vita e
avete ricevuto viscere di misericordia (cf. Col 3,12) nei confron-
ti del prossimo da parte del Dio misericordioso, non cessate mai,
se è possibile, di risvegliare, esortare e correggere i vostri vici-
ni e tutti gli uomini, ma considerandoli come vostre proprie
membra, anzi come membra di Cristo e come figli di Dio, sfor-
zatevi di istruirli, di rimproverarli e ammonirli, non certo per
contristarli, ma per liberarli dall’ira e dallo sdegno del Padre,
né per danneggiarli, ma per procurar loro i più grandi benefici,
rendendoli capaci di compiere le volontà del loro Dio e Padre.
Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi 11, ll. 131-188

113
Capitolo II

Spezzare il pane della Parola: il ministero della predicazione

24. È meglio tacere ed essere, che parlare senza essere. È


bello insegnare, se colui che parla agisce. C’è dunque un unico
maestro (cf. Mt 23,8), che parlò, e avvenne (cf. Sal 32,9; 148,5);
e anche le cose che ha fatto tacendo sono degne del Padre.
Chi possiede veramente la parola di Gesù è capace di udire
anche il suo silenzio, per essere perfetto, così da agire attraver-
so la sua Parola ed essere conosciuto attraverso il suo silenzio.
Niente è nascosto al Signore, ma anche i nostri segreti sono a
lui vicini.
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 15,1-2

25. La chiesa, avendo ricevuto questa predicazione e questa


fede [dagli apostoli], come si è già detto, pur trovandosi disse-
minata nel mondo intero, le custodisce con cura come se abi-
tasse in una sola casa: crede a queste cose allo stesso modo, pro-
prio come se avesse una sola anima e un solo cuore (cf. At 4,32),
e le predica, le insegna e le trasmette in modo unanime, come
se avesse una sola bocca.
Infatti, sebbene le lingue diffuse nel mondo siano diverse, il
contenuto della tradizione è uno e identico, e né le chiese fon-
date in Germania credono o trasmettono cose diverse, né quel-
le che sono tra gli iberi, né quelle che sono tra i celti, né quel-
le in oriente, né quelle in Egitto, né quelle in Libia, né quelle
che sorgono al centro del mondo; ma come il sole, che è una
creatura di Dio, è in tutto il mondo unico e identico, così an-
che la luce, ovvero la predicazione della verità, risplende ovun-
que e illumina tutti gli uomini (cf. Gv 1,9) che vogliono giun-
gere alla conoscenza della verità (cf. 1Tm 2,4). E né colui che
è più esperto nell’eloquenza, tra coloro che presiedono le chie-
se, predicherà cose diverse da queste – nessuno infatti è al di so-
pra del maestro (cf. Mt 10,24) – né colui che è inesperto nel par-

114
“Sapienza! Stiamo attenti!”

lare menomerà questa tradizione, poiché, essendo una e identi-


ca la fede, né colui che può parlarne molto la ingrandisce, né
colui che ne parla poco la diminuisce.
Ireneo di Lione, Contro le eresie I,10,2

26. Considera che il Signore negli evangeli spezza pochi pa-


ni, ma quante migliaia di persone ristora e quanti canestri di
avanzi restano (cf. Mt 14,13-21)! Finché i pani restano inte-
gri, nessuno viene saziato, nessuno viene ristorato, né i pani
stessi sembrano crescere. Considera ora come anche noi spez-
ziamo pochi pani: prendiamo poche parole delle divine Scrittu-
re e quante migliaia di persone vengono saziate! Se però questi
pani non fossero stati prima spezzati, se non fossero stati ri-
dotti in pezzi dai discepoli, se cioè la lettera [delle Scritture]
non fosse stata minutamente esaminata e spezzata, il suo signi-
ficato non potrebbe giungere a tutti. Quando invece avremo
cominciato a considerare a fondo e a esaminare le singole que-
stioni, una a una, allora anche le folle, per quanto ne saranno
capaci, ne prenderanno. Ciò che non avranno potuto prendere,
dovrà essere raccolto e conservato, affinché nulla vada perduto
(Gv 6,12).
Origene, Omelie sulla Genesi 12,5

27. Consideriamo un altro detto di quel giusto54, che dob-


biamo sforzarci di imitare con grande zelo: Nella mia medita-
zione divamperà un fuoco (Sal 38,4). Anch’io medito le parole
del Signore e spesso mi applico a esse, ma non so se lo faccio in
modo tale che nelle mia meditazione da ciascuna parola di Dio
nasca un fuoco, e accenda il mio cuore e infiammi la mia anima
per farmi osservare le cose che medito. E ora io annuncio le pa-
role di Dio, ma vorrei che, prima nel mio cuore, e poi anche

54 David, considerato l’autore dei salmi.

115
Capitolo II

nelle menti di quelli che mi ascoltano, esse prendessero fuoco,


come facevano le parole che pronunciava Gesù, di cui coloro che
le avevano ascoltate dicevano: Non ardeva forse il cuore dentro di
noi, mentre lungo il cammino ci spiegava le Scritture? (Lc 24,32).
Oh, magari si infiammasse anche il nostro cuore dentro di noi
mentre spieghiamo le Scritture, e magari divampasse un fuoco
nella nostra meditazione e fossimo spinti a mettere in pratica
ciò che udiamo e leggiamo! Tali erano anche le parole di Gere-
mia, secondo quanto è stato scritto: Ecco, ho fatto delle mie pa-
role come un fuoco sulla tua bocca (Ger 5,14). Perché un fuoco?
Perché le parole che diceva infiammavano gli ascoltatori e
niente di tiepido o di freddo rimaneva dentro di loro; ma come
il fuoco consuma e distrugge ogni materia e non accoglie in sé
alcunché di impuro o di contaminato, così anche coloro il cui
cuore è stato infiammato dal fuoco della parola divina, non sop-
porteranno più di essere contaminati dalle sozzure materiali e
mondane, non accetteranno in se stessi niente di tiepido o che
sia degno di essere vomitato (cf. Ap 3,16), né accetteranno che
a causa del dilagare in loro dell’iniquità la carità si raffreddi (cf.
Mt 24,12), ma le loro lampade resteranno sempre accese e le
loro lucerne ardenti, ed essi stessi saranno pronti come servi che
aspettono il loro padrone che torna dalle nozze (cf. Lc 12,35-36).
Non era forse questo il fuoco di cui parlava anche il nostro
Salvatore dicendo: Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e
cos’altro voglio, se non che si accenda? (Lc 12,49). Questo senza
dubbio è il fuoco che mette in fuga il freddo del peccato e riac-
cende il calore dello Spirito! Questo certamente è anche quel
fuoco di cui si parla negli Atti degli apostoli, quando si dice che
apparvero loro lingue divise come di fuoco e si posarono sopra gli
apostoli (cf. At 2,3), evidentemente perché, per predicare la
parola dell’evangelo, dovevano essere fortificati dalla grazia di
un’energia infuocata, perché le anime di coloro che li avrebbero
ascoltati prendessero fuoco attraverso la mediazione della loro
parola.

116
“Sapienza! Stiamo attenti!”

Ma come potrà venire nel mio cuore una lingua di fuoco, co-
sì che possa parlare anch’io con una lingua di fuoco e da me,
attraverso le mie parole, si accenda rapido un fuoco nel cuore
di chi mi ascolta e rimproveri chi ha peccato, e le mie parole di-
ventino in lui un supplizio, al punto che, bruciato e infiamma-
to da esse, giunga a un pentimento, che produce una salvezza
sicura, grazie a una tristezza che è secondo Dio (cf. 2Cor 7,10)?
Oh, se solo potessi infiammare a tal punto l’anima di ogni ascol-
tatore, che chiunque abbia coscienza del proprio peccato, non
sopportando l’incendio della mia parola, anzi infiammandosi in-
teriormente in tutte le sue viscere, consumi al più presto le soz-
zure dei vizi nascoste nel suo intimo! Così, dopo aver distrutto
tutto ciò che appartiene ed è associato alla carne e alla materia
più vile, quel fuoco potrebbe diventare una luce e una lampada
ardente, da porre non sotto il moggio, ma sopra il candelabro, per
illuminare tutti coloro che sono nella casa (Mt 5,15).
Origene, Omelie sui Salmi 38,1,7

28. Chi è colui che, confrontandosi ai canoni e alle regole che


Paolo ha fissato per i vescovi e i presbiteri55 – cioè di essere so-
bri, casti, non dediti al vino, non violenti, capaci di insegnare,
irreprensibili in tutto e non toccati dal male (cf. 1Tm 3,2-3;
Tt 1,7.9) – non scoprirà di essere assai lontano dalla scrupolosa
osservanza di tali canoni? E che dire poi delle prescrizioni che
Gesù dà ai discepoli quando li invia a predicare (cf. Mt 10,9-
10)? L’essenza di tali prescrizioni, per non enumerarle una a
una, è che i discepoli siano così ricolmi di virtù, così pieni di
decoro e di temperanza, e per dirla in breve, così celesti, che l’e-
vangelo si diffonda grazie alla loro condotta non meno che alla
loro parola.

55 Cioè di coloro che hanno ricevuto dalla comunità ecclesiale il ministero della pre-

dicazione della parola di Dio.

117
Capitolo II

Mi spaventano poi i rimproveri mossi ai farisei e le accuse ri-


volte agli scribi: che vergogna sarebbe se, mentre dovremmo
superarli di molto nella virtù, come ci è stato ordinato di fare
se davvero desideriamo il regno dei cieli (cf. Mt 5,20), apparis-
simo peggiori di loro nella malvagità, tanto da essere giustamen-
te chiamati serpenti e razza di vipere (Mt 23,33), guide cieche che
filtrano il moscerino e ingoiano il cammello (Mt 23,24), sepolcri
putridi all’interno ma di bell’aspetto all’esterno (cf. Mt 23,27),
piatti puliti solo in apparenza (cf. Mt 23,25), e tutti gli altri ap-
pellativi che definiscono quegli uomini e che essi si sentono ri-
volgere! … Bisogna prima essere purificati, e poi purificare; es-
sere istruiti, e solo così istruire; diventare luce, e così illumina-
re; avvicinarsi a Dio, e così condurvi gli altri; essere santificati,
e così santificare, condurre per mano e consigliare con intelli-
genza.
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 2,69-71

29. [Il vescovo] sia indulgente e paziente nelle sue ammoni-


zioni, molto esperto nell’istruire, esercitato e preparato nei li-
bri del Signore, assiduo alle letture, per essere capace di inter-
pretare accuratamente le Scritture, interpretando l’evangelo in
accordo con i Profeti e la Legge; e ugualmente accordando al-
l’evangelo le sue interpretazioni della Legge e dei Profeti. Il Si-
gnore Gesù infatti ha detto: Scrutate le Scritture, perché sono es-
se che mi rendono testimonianza (Gv 5,39). E ancora: È di me,
infatti, che Mosè ha scritto (Gv 5,46). Innanzitutto egli sia esper-
to nel distinguere, separando la Legge dalle aggiunte seconda-
rie, e mostrando che cos’è legge per i credenti e che cosa cate-
na per i non credenti, affinché nessuno si lasci sottomettere a
tali catene.
Abbi dunque cura della Parola, o vescovo, in modo che, se ti
è possibile, tu riesca a interpretare ogni cosa parola per parola
e così, con un insegnamento abbondante, tu nutra e disseti lau-
tamente il tuo popolo attraverso l’illuminazione della Legge. Dio

118
“Sapienza! Stiamo attenti!”

dice infatti: Illuminatevi con la luce della conoscenza (Os 10,12),


finché c’è ancora tempo.
Costituzioni apostoliche II,5,4-7

30. Avrai venerazione per chi ti annuncia la parola di Dio


(cf. Eb 13,7), ti ricorderai di lui giorno e notte, e lo onorerai,
non come l’autore della tua nascita, ma come colui che ti ha
procurato il benessere: dove infatti c’è l’insegnamento su Dio,
là Dio è presente. Ricercherai ogni giorno la compagnia dei san-
ti, per trovare pace nelle loro parole.
Costituzioni apostoliche VII,9,1-2

31. Magari potesse venire qualche frutto dalle nostre paro-


le! Se però essi56 perseverano negli stessi comportamenti anche
dopo le nostre ammonizioni, non per questo noi cesseremo di
dar loro dei consigli. L’acqua delle fonti, infatti, anche se nes-
suno viene a prenderla, continua a defluire, e le sorgenti, anche
se nessuno vi attinge, continuano a zampillare, e i fiumi, anche
se nessuno beve, continuano a scorrere. Perciò anche colui che
parla, anche se nessuno gli presta attenzione, deve adempiere
tutto ciò che è in suo potere. Per noi, infatti, che abbiamo ri-
cevuto il ministero della parola da parte di Dio, amico degli uo-
mini, è stabilita una legge: di non tralasciare mai nulla di ciò
che è in nostro potere e di non tacere, sia che qualcuno ascolti,
sia che qualcuno trascuri le nostre parole.
Geremia, ad esempio, poiché, pur rivolgendo molte minacce
ai giudei e preannunciando le sventure imminenti, veniva sbef-
feggiato dai suoi ascoltatori e deriso tutto il giorno, una volta
decise di abbandonare quel ministero di profeta, vinto da un
sentimento umano e non sopportando più gli scherni e gli in-
sulti. Ma ascoltalo mentre lo rivela lui stesso con le sue parole:

56 I fedeli che si abbandonano ai vizi senza far tesoro delle raccomandazioni del

predicatore.

119
Capitolo II

Sono diventato oggetto di derisione tutto il giorno (Ger 20,7). Mi


sono detto: “Non parlerò più, non pronuncerò più il nome del Si-
gnore”; ma in me si accese come un fuoco ardente, che infiammava
le mie ossa: mi volgevo da ogni parte, ma non riuscivo a sostenerlo
(Ger 20,9). Ecco ciò che dice: “Avevo deciso di abbandonare
la profezia, poiché i giudei non mi ascoltavano; ma appena eb-
bi preso questa decisione, l’energia dello Spirito invase la mia
anima come un fuoco e incendiò tutto il mio intimo, consuman-
do le mie ossa e divorandomi a tal punto che non riuscivo più
a sostenere quell’incendio”. Se dunque quell’uomo, che pure era
deriso, schernito e insultato ogni giorno, subì una tale punizio-
ne per aver deciso di tacere, quale perdono potremo meritare
noi, se, senza aver ancora sofferto niente del genere, ci scorag-
giamo a causa della negligenza di alcuni e smettiamo di rivolge-
re loro l’insegnamento, tanto più quando sono così numerosi
coloro che prestano attenzione?
Giovanni Crisostomo, Omelie su Lazzaro 1,1

32. Non sono nostre le parole che diciamo, né è con la nostra


lingua che parliamo, qualunque cosa diciamo, ma siamo guida-
ti dalla bontà del Signore, per la vostra utilità e l’edificazione
della chiesa di Dio! Non guardare dunque a me che parlo, mio
caro, né alla mia povera persona, ma considera che io trasmet-
to quanto [ho ricevuto] dal Signore, e tenendo la mente fissa su
di lui che mi ha mandato, accogli con vigilanza quanto ti viene
detto. Succede così, del resto, anche tra gli uomini: quando l’im-
peratore, che è cinto del diadema, invia una lettera, chi la por-
ta non merita di per sé alcuna attenzione, ma è un uomo privo
d’importanza, che spesso non ha neanche antenati da esibire,
ma è un anonimo figlio di anonimi: coloro però ai quali la let-
tera è destinata non fissano la loro attenzione su di lui, ma, a
motivo della lettera dell’imperatore, riservano anche a lui un
grande onore e accolgono la lettera con molto timore reveren-
ziale e grande silenzio. Se dunque colui che reca la lettera di un

120
“Sapienza! Stiamo attenti!”

uomo, che porta con sé semplicemente un foglio, viene accolto


da tutti, a maggior ragione voi fareste bene ad accogliere con
molta attenzione le parole che vi sono state inviate dallo Spiri-
to attraverso di noi, in modo da ricevere una ricompensa ab-
bondante per la vostra riconoscenza! Se infatti il Signore di
tutti vedrà il fervore della vostra anima, procurerà a noi una
più generosa abbondanza di mezzi per la vostra edificazione e
a voi concederà una maggiore intelligenza, così da poter com-
prendere ciò che viene detto. La grazia dello Spirito infatti è
generosa e, mentre si diffonde a tutti, non sopporta divisione,
ma attraverso la sua distribuzione aumenta ancor di più, e quan-
ti più numerosi sono coloro che vi partecipano, tanto più si
estendono anche i suoi benefici.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 44,1

33. Come un messaggero pubblico57 proclama il suo messag-


gio nel teatro alla presenza di tutti, così anche noi predichia-
mo, senza aggiungere nulla, ma dicendo ciò che abbiamo udito.
La virtù del messaggero infatti consiste nell’annunciare a tutti
l’evento accaduto, non nell’aggiungere o nel togliere qualcosa.
Se dunque bisogna predicare, bisogna farlo con franchezza, al-
trimenti non è predicare. Per questo Cristo non ha detto: “Di-
telo sui tetti!”, ma: Predicatelo sui tetti (Mt 10,27), descriven-
do l’azione sia attraverso il luogo che attraverso il modo.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Tito 1,2

34. Ascolta che cosa dice l’Apostolo scrivendo al suo disce-


polo: Applicati alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento (1Tm
4,13). E aggiunge il frutto che ne deriva dicendo: Così facendo,
salverai te stesso e coloro che ti ascoltano (1Tm 4,16). E ancora:

57 Il sostantivo kéryx e il verbo kerØsso, che in ambito profano designavano il ban-

ditore pubblico e l’atto di proclamare un messaggio, furono assunti nel lessico cristia-
no come termini tecnici per indicare il predicatore e l’atto del predicare.

121
Capitolo II

Un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, ca-
pace di insegnare, paziente nelle offese subite (2Tm 2,24). E pro-
seguendo dice: Tu però rimani saldo in ciò che hai imparato e in
cui sei stato confermato, sapendo da chi lo hai appreso e che fin
dall’infanzia conosci le sacre Scritture, che sono in grado di darti
sapienza (2Tm 3,14). E ancora: Tutta la Scrittura è ispirata da Dio
e utile, dice, per insegnare, riprendere, correggere ed educare alla
giustizia, affinché l’uomo di Dio sia ben preparato (2Tm 3,16).
Ascolta anche ciò che aggiunge parlando a Tito riguardo alla
nomina dei vescovi: Bisogna che il vescovo, dice, sia fedele alla
parola degna di fede che gli è stata insegnata, perché sia in grado di
confutare coloro che lo contraddicono (Tt 1,9).
In che modo, dunque, chi è ignorante – come essi dicono58 –
potrà confutare coloro che lo contraddicono e chiuder loro la
bocca? Che bisogno c’è di applicarsi alla lettura e alle Scrittu-
re, se poi bisogna amare questa ignoranza? Ma queste sono so-
lo scuse e pretesti, a copertura della negligenza e della pigrizia!
“Ma tutte queste cose – dice qualcuno – sono state ordinate
ai sacerdoti!”. È appunto dei sacerdoti che adesso stiamo par-
lando. Ma che esse siano valide anche per i semplici fedeli,
ascolta che cosa [l’Apostolo] raccomanda ad altri in un’altra
lettera: La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente con ogni
sapienza (Col 3,16). E ancora: La vostra parola sia sempre piena
di grazia, condita di sale, in modo da sapere come rispondere a cia-
scuno (Col 4,6). La raccomandazione di essere pronti a dare
una risposta è data a tutti (cf. 1Pt 3,15), e scrivendo ai tessalo-
nicesi dice: Edificatevi gli uni gli altri, come già fate (1Ts 5,11).
Quando invece parla ai sacerdoti dice: I presbiteri che esercitano
bene la presidenza siano trattati con doppio onore, soprattutto se si
affaticano nella predicazione e nell’insegnamento (1Tm 5,17). È

58 Sono coloro che vorrebbero giustificare la propria incapacità oratoria sulla base

di un’espressione usata da Paolo in 2Cor 11,6: “Anche se sono ignorante nell’arte del-
la parola, non lo sono però nella dottrina”.

122
“Sapienza! Stiamo attenti!”

questa infatti la forma più perfetta d’insegnamento, quando si


inducono i propri discepoli alla vita beata prescritta da Cristo
sia con ciò che si fa che con ciò che si dice, perché non basta fa-
re per insegnare. E non sono io a dirlo, ma il Salvatore. Egli in-
fatti dice: Chiunque avrà fatto e insegnato, costui sarà chiamato
grande (Mt 5,19). Se il fare fosse insegnare, la seconda espres-
sione sarebbe superflua, perché sarebbe bastato dire soltanto:
Chi avrà fatto. Ma con la distinzione tra le due espressioni mo-
stra che la prima appartiene alle azioni, l’altra alla parola, e che
entrambe le cose hanno bisogno l’una dell’altra per un’edifica-
zione perfetta. Non senti poi cosa dice quel vaso eletto di Cri-
sto (cf. At 9,15) ai presbiteri di Efeso? Perciò vigilate, ricordan-
do che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare tra
le lacrime ciascuno di voi (At 20,31). Che bisogno c’era di lacri-
me e di esortazione con parole, dal momento che la sua vita
apostolica era così splendente?
Giovanni Crisostomo, Sul sacerdozio 4,8

35. Fratelli e padri, noi siamo tenuti a parlare e non possia-


mo tacere a lungo: il silenzio infatti addormenta l’anima, e il
sonno porta alla morte; ed è proprio questo che il santo David
cercava di scongiurare dicendo: Illumina i miei occhi, perché non
cada nel sonno della morte (Sal 12,4). La Parola, se è meditata
nel cuore, è una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna
(Gv 4,14): cosa c’è di più utile? Ne era consapevole, per parte
sua, il beato Apostolo, quando diceva: La parola di Cristo dimo-
ri tra voi abbondantemente: ammaestratevi e ammonitevi a vicen-
da con ogni sapienza (Col 3,16). Non vedi come ci esorta ad am-
maestrarci e correggerci a vicenda, senza accontentarci delle rac-
comandazioni che ci facciamo da noi stessi?
Teodoro Studita, Piccole catechesi 14

36. Fratelli e padri, non è senza fatica che vi dico queste po-
che e semplici parole, ma poiché è compito di colui che presie-

123
Capitolo II

de59 affaticarsi nella predicazione e nell’insegnamento (1Tm 5,17),


secondo l’espressione dell’Apostolo, è necessario che io mi sob-
barchi un po’ di fatica per il bene comune e che lo faccia con
gioia: anche il pastore infatti si affatica, mentre pasce il suo greg-
ge, e nonostante ciò si rallegra perché nutre la speranza della
ricompensa, e poi perché così può rendersi gradito al supremo
Pastore (cf. 1Pt 5,4). E le parole non sono certo inutili, anche
se forse alcuni credono di non trarne alcun vantaggio. Come
potrebbe, infatti, non trarne vantaggio chi è pieno di zelo, sen-
tendo che sarà incoronato in cambio del suo zelo nella virtù, o
chi è negligente, sentendo che sarà preso da vergogna per la
sua negligenza nel bene? Ma, vi prego, se siamo pieni di zelo
continuiamo a esserlo, e se siamo negligenti rialziamoci, poiché
è il momento favorevole, è il momento della salvezza (cf. 2Cor
6,2), e se lo perderemo non lo potremo ritrovare mai più!
Teodoro Studita, Piccole catechesi 90

59 In greco: proestós. È il termine basiliano per indicare il responsabile della comunità.

124
Capitolo III
“ACCOGLI, SIGNORE, I NOSTRI DONI”

Una volta conclusa la liturgia della Parola, avviene il congedo


dei catecumeni e di tutti coloro che per vari motivi non sono con-
siderati membri di pieno diritto della chiesa, e poi la preghiera dei
fedeli1, che segue immediatamente, fa da ponte verso la liturgia eu-
caristica propriamente detta, la quale si apre con la deposizione dei
doni sull’altare e la loro presentazione a Dio da parte del ministro
che presiede a nome di tutta l’assemblea. Questo atto, in origine as-
sai semplice e del tutto funzionale – si trattava unicamente per i
ministri di trasferire sull’altare le offerte del pane e del vino che i
fedeli avevano portato dalle loro case, in modo da poter procedere
alla preghiera di azione di grazie (cf. infra, c. VI,13-14) – assunse
con il tempo, nell’evoluzione della liturgia bizantina, una solenni-
tà sempre maggiore, segnata dalla processione del “grande ingresso”
e dall’“inno cherubico” cantato dal coro2, solennità che non venne

1 Questa preghiera è largamente testimoniata nelle fonti antiche, ma in molti testi

che vi fanno riferimento in modo generico, soprattutto a partire dal v secolo, è spesso
difficile distinguerla dalle intercessioni anaforiche. Per questo nel c. X raccogliamo i
testi che si riferiscono a entrambe queste serie di intercessioni.
2 Cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), pp. 377-379: “Noi che rappresentiamo

misticamente i cherubini e cantiamo l’inno del triplice ‘Santo’ alla Trinità vivificante,
deponiamo ogni preoccupazione mondana, per ricevere il Re dell’universo invisibil-
mente scortato dalle schiere angeliche. Alleluja. Alleluja. Alleluja!”. L’inno anticipa
nel tema il dialogo che apre l’anafora e più che avere una funzione offertoriale intro-
duce l’intera liturgia eucaristica e prepara i fedeli a ricevere Cristo nella comunione
(cf. R. F. Taft, The Great Entrance. A History of the Transfer of Gifts and other Preana-
phoral Rites of the Liturgy of St. John Chrysostom, Pio, Roma 19782, pp. 62 ss.).

125
Capitolo III

meno neppure quando il rito “offertoriale” propriamente detto fu


scorporato dalla sinassi eucaristica e diventò un rito preparatorio
riservato ai soli ministri 3.
Ma, al di là delle forme rituali da essa assunte, è necessario di-
scernere in che senso questa “presentazione” o “offerta” (proskomi-
dé, prosphorá) dei doni sull’altare sia stata compresa nell’esperien-
za liturgica e nella teologia della chiesa antica. Dal momento in-
fatti che, secondo la grande tradizione della chiesa indivisa, definita
in modo chiaro almeno a partire dal IV secolo, la vera offerta si com-
pie durante e attraverso l’anafora, come memoriale dell’unica of-
ferta di Cristo sulla croce, in che senso si può parlare di un’offerta
da parte dei fedeli prima di quel momento? E, ancor più radical-
mente e più in generale, in che senso nell’eucaristia l’uomo offre
qualcosa a Dio?
I padri della chiesa, pur del tutto consapevoli che l’unico vero
attore nella liturgia eucaristica, come in genere nella liturgia cristia-
na, è il Signore – è lui “che offre e che viene offerto”, e l’offerta è
“ciò che è suo, preso da ciò che è suo” 4 (cf. §§ 4; 6; 10) –, e che la
nuova alleanza, a differenza di quella antica e dei culti pagani (cf.
§§ 1-2), non ammette “un’offerta che sia solo opera dell’uomo” 5,
non mancano tuttavia di riconoscere, soprattutto da una certa epo-
ca in poi, un ruolo attivo anche all’uomo6 – “Non comparirai da-
vanti al Signore tuo Dio a mani vuote!”, ripetono con Dt 16,16 (cf.
§§ 3; 16; 18) – in concomitanza e in associazione con l’opera rea-
lizzata da Dio. A partire dai testi qui raccolti si può infatti consta-
tare come i padri comprendano e parlino dell’offerta compiuta du-
rante e nell’eucaristia dall’uomo – ovvero dal ministro, dalla chie-

3 È il rito cosiddetto della próthesis, su cui cf. infra, p. 139, n. 20.


4 Per le due espressioni, cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 318, ll. 34-35; p.
329, l. 6 (cf. infra, c. VIII,β).
5 Lettera di Barnaba 2,6.
6 Cf. J. A. Jungmann, Missarum sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Mes-

sa romana, I. La Messa nel corso dei secoli. La Messa e la comunità della Chiesa. La Messa
didattica, Marietti, Casale Monferrato 19632 (rist. anast.: Àncora, Milano 2004), pp.
24-25; ibid., II. La Messa sacrificale, pp. 7-8.

126
“Accogli, Signore …”

sa nel suo insieme e dai singoli fedeli – almeno in tre sensi. Innan-
zitutto, vi è la presentazione dei doni che serviranno come materia
dell’eucaristia: il pane e il vino. Ripetendo il gesto compiuto da Cri-
sto nell’ultima cena, e obbedendo così al suo comando (cf. §§ 2; 5;
8), l’uomo, nella persona del ministro celebrante, offre a Dio le pri-
mizie della creazione e della vita umana (cf. §§ 2-4; 9) – questo il
significato proprio del pane e del vino –, e ciò non perché Dio ne
abbia minimamente bisogno, ma “per ringraziarlo dei suoi doni e
santificare la creazione” (§ 4), e perché questa offerta giova al-
l’uomo stesso che la compie legandolo più strettamente a Dio e
procurandogli la sua amicizia (cf. §§ 2-4). Offrendo i doni della vi-
ta naturale trasformati dal lavoro umano e ricevendo in cambio la
vita eterna comunicata nel corpo e nel sangue di Cristo, la chiesa
proclama “la comunione e l’unione della carne e dello Spirito” (§ 4)
e entra in un mirabile “scambio di vita” con il Creatore, in virtù del-
la sua stessa condiscendenza (cf. § 10): il dono della grazia e della
vita divina, assolutamente gratuito e indeducibile da alcuno sforzo
umano e da alcun germe di vita della creazione, non annulla infat-
ti il valore di tutto ciò che, accolto e posto davanti al volto di Dio
“con intenzione pura”, resta “molto buono” (Gen 1,31) e a lui gra-
dito, come in principio. La dignità dell’uomo, e della chiesa in quan-
to primizia della nuova umanità, sta appunto nell’adempimento di
questa funzione sacerdotale davanti a Dio, in virtù della quale, par-
tecipando e collaborando all’opera di santificazione dell’intera crea-
zione, egli restituisce al Creatore, nell’azione di grazie, i doni da lui
stesso ricevuti 7.
La vera novità e il valore di tale offerta in rapporto ai sacrifici
dell’Antico Testamento non consiste, secondo i padri, nel suo esse-
re “incruenta” (anaímaktos), ovvero nel fatto che si offrono pane e

7 Per un approfondimento teologico di questo tema, sviluppato a partire dalle fon-

ti patristiche, rimandiamo a I. Zizioulas, Il creato come eucaristia, pp. 62 ss.; A. Kesse-


lopoulos, Ανθρωπος κα φυσικ περιβλλον. Σπουδ στν "γιο Συμε$ν τ Ν&ο
Θεολγο, Domos, Athina 19922, pp. 207-216; e a E. Theokritoff, Living in God’s Crea-
tion. Orthodox Perspectives on Ecology, St Vladimir’s Seminary Press, Crestwood Ny
2009, pp. 33-91.

127
Capitolo III

vino invece di agnelli o di capri sgozzati – anche nell’antica legge


vi erano offerte in tutto simili a queste (cf. §§ 1; 5; 7) –, ma nella
forma e nell’intenzione dell’offerta, ovvero nella piena sincerità, pu-
rezza, dedizione, libertà e carità con cui è richiesto di presentarla al
Signore, in unione e sull’esempio dell’offerta di Cristo (cf. §§ 1-4).
Al di là dell’offerta dei doni che saranno consacrati nell’eucaristia,
si tratta, più in generale, di porre “tutte le proprie sostanze a dispo-
sizione del Signore” (§ 3), in piena libertà, come la vedova che al
tempio offrì “tutto ciò che aveva per vivere” (Mc 12,44). Ecco per-
ché per i padri l’autenticità dell’offerta e della partecipazione del
cristiano al culto si misura dalla sua capacità di condivisione e di mi-
sericordia nei confronti dei poveri e dei bisognosi (cf. §§ 11-21).
Non a caso la chiesa antica ha associato nell’ambito della stessa ce-
lebrazione le offerte per l’eucaristia e le offerte destinate ai bisogni
della chiesa e ai poveri: esse venivano presentate e deposte insieme,
quasi con un unico atto di culto, davanti al responsabile della co-
munità che presiedeva la celebrazione (cf. §§ 11; 17-18). Tale col-
legamento fu evidentemente facilitato dal fatto che in origine la ce-
lebrazione eucaristica era strettamente associata all’agape, ovvero
al pasto fraterno della comunità (cf. § 12), ma anche dall’abitudi-
ne già testimoniata negli scritti apostolici di considerare come un’of-
ferta fatta a Dio i doni destinati ai poveri (cf. 2Cor 9,12; Fil 4, 17).
Del resto, al di là del collegamento stretto delle due forme di offer-
ta nell’ambito dello stesso gesto rituale, ciò che qui è importante co-
gliere è proprio l’autentico valore cultuale che agli occhi dei padri
hanno l’elemosina e la condivisione con i poveri (cf. §§ 12-21). At-
traverso l’elemosina e gli atti di misericordia nei confronti del pros-
simo ogni fedele può esercitare un autentico sacerdozio spirituale,
esistenziale, il cui altare è il corpo stesso del povero nel quale Cri-
sto si identifica: “Quando dunque vedi un povero credente – con-
clude Giovanni Crisostomo – fa’ conto di vedere un altare” (§ 14;
cf. anche § 19). Non serve a nulla adornare con doni sfarzosi l’al-
tare sul quale si immola il corpo di Cristo nell’eucaristia, se il cor-
po stesso di Cristo, ovvero il corpo del povero, rimane nudo e di-

128
“Accogli, Signore …”

sprezzato – perché “colui che ha detto: Questo è il mio corpo … è


lo stesso che ha detto: Mi avete visto affamato e non mi avete nu-
trito” (§ 15) –, né giova a nulla recarsi in chiesa per chiedere a Dio
misericordia se non si ha prima di tutto misericordia dei fratelli:
“Non è sufficiente – dice ancora Crisostomo – tendere le mani per
essere esauditi: tendi le mani non verso il cielo, ma verso le mani
dei poveri!” (§ 16). È questo l’autentico “sacrificio di lode” (§ 14),
l’autentica preghiera gradita al Signore, il quale, come a Israele, con-
tinua a ripetere alla chiesa e a ogni cristiano di volere “la misericor-
dia e non il sacrificio” (cf. §§ 13; 21).
Vi è infine una terza fondamentale dimensione dell’offerta del
cristiano che emerge con chiarezza dai testi dei padri e che rappre-
senta un’estensione e una radicalizzazione della dimensione esisten-
ziale già implicata dall’offerta dei propri beni ai poveri, anch’essa
richiesta dalla logica stessa dell’offerta di Cristo celebrata nell’eu-
caristia (cf. §§ 25; 28-29; 32). Il discepolo di Cristo infatti non può
limitarsi a offrire qualcosa di proprio, un bene esterno, fossero pu-
re tutte le sue ricchezze, ma deve portare in offerta a Dio se stesso,
“il bene più prezioso per Dio e a lui più simile” (§ 27) – come di-
ce Gregorio di Nazianzo e come hanno ben compreso soprattutto i
padri monastici (cf. §§ 31; 33)8 –: è questo infatti il “sacrificio vi-
vente, gradito a Dio” (cf. §§ 23-26; 28; 31; 33) di cui parla l’apo-
stolo Paolo e del quale il sacrificio di Cristo è, oltre che il modello
supremo, il “mistero” che lo rende possibile (cf. §§ 25; 27; 32).
È proprio perché Cristo ha offerto la sua vita, è morto ed è risor-
to, che il cristiano, conformato a lui, può “morire a se stesso” e vi-
vere con lui e per lui (cf. §§ 26-27; 32-33)9. Anche in questo sen-

8 Il rischio che si intravede in certa letteratura monastica antica è però che questa of-

ferta della propria intera vita a Dio sia concepita e vissuta in modo autonomo rispetto alla
liturgia della chiesa, diventando quasi alternativa a essa (cf. sul tema R. F. Taft, A Hi-
story of the Liturgy of St. John Chrysostom, VI. The Communion, Thanksgiving, and Con-
cluding Rites, Pio, Roma 2008, pp. 350-353). Sull’eucaristia nelle fonti monastiche cf.
anche Il cammino del monaco, pp. 387-388; 409-412.
9 Questa offerta totale della vita, “in Cristo” e “a imitazione di Cristo”, trova il

suo culmine nel martirio. Il martire, come mostrano bene gli esempi di Ignazio di An-

129
Capitolo III

so vi è un sacerdozio comune che riguarda tutti i battezzati senza


distinzioni: ogni cristiano è consacrato “sacerdote del proprio cor-
po” (cf. §§ 30-31). Questo secondo i padri è il “vero sacerdozio” (§
26), che lo stesso sacerdozio ministeriale presuppone e al quale è or-
dinato (cf. §§ 28-29), e quando viene concretamente esercitato, es-
so rende conformi a Cristo, sommo sacerdote, e dona libero acces-
so a Dio (cf. § 26), restituendo ciascuno alla sua autentica dignità
di uomo creato a sua immagine e somiglianza (cf. § 27).
Ecco dunque in che senso e con quale profondità i padri hanno
inteso l’offerta dei fedeli e la loro partecipazione all’offerta dell’eu-
caristia. Tra queste tre dimensioni dell’offerta messe in luce dai pa-
dri – offerta dei beni della creazione, offerta dei propri beni ai po-
veri, offerta di se stessi –, tutte essenziali ai fini di una comprensio-
ne mistagogica ed esistenziale dell’eucaristia, quella forse più decisiva
è l’ultima: portando infatti le loro offerte all’altare e accostandosi
alla celebrazione dell’eucaristia i fedeli non possono in alcun mo-
do limitarsi a compiere un atto esterno, per celebrare e accogliere il
mistero del sacrificio di Cristo, ma in senso più vero e profondo de-
vono confessare di essere disposti a offrire con esso la propria stessa
vita, per farne un dono a Dio e ai fratelli ogni giorno.

α. Signore, Dio onnipotente, tu che solo sei santo e accetti il sa-


crificio di lode (Sal 49,14; Eb 13,15) da parte di coloro che
t’invocano con tutto il cuore, accogli anche la preghiera di
noi peccatori, presentala al tuo santo altare e rendici capaci
di offrirti doni e sacrifici spirituali per i nostri peccati (cf.
Eb 5,1; 1Pt 2,5) e per le mancanze involontarie del popolo (Eb
9,7). Rendici degni di trovare grazia (cf. Eb 4,16) davanti a

tiochia e di Policarpo di Smirne (cf. Martirio di Policarpo 14,1-3), presenta il proprio


corpo come materia di un’offerta “eucaristica”, affinché sia trasformato nel corpo
stesso di Cristo: cf. L. de Bellescize, “L’Eucharistie chez Ignace d’Antioche et Poly-
carpe de Smyrne”, in Nouvelle Revue Théologique 132/2 (2010), pp. 197-216, in parti-
colare pp. 207-213.

130
“Accogli, Signore …”

te, affinché il nostro sacrificio ti sia gradito (cf. Rm 15,16) e


lo Spirito buono della tua grazia (cf. Sal 142,10; Eb 10,29)
scenda su di noi, su questi doni che ti presentiamo e su tutto
il tuo popolo.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 319

β. Signore, Dio nostro, che ci hai creato e condotto a questa vi-


ta, che ci hai mostrato vie di salvezza e ci hai donato la rive-
lazione dei misteri celesti, sei tu che ci hai posti in questo
ministero (cf. 1Tm 1,12) con la potenza del tuo Spirito santo
(Rm 15,13): degnati dunque, Signore, di fare di noi i ministri
della tua nuova alleanza (cf. 2Cor 3,6), i celebranti dei tuoi
santi misteri; accoglici mentre ci accostiamo al tuo santo al-
tare, nell’abbondanza della tua misericordia (Sal 50,3), perché
siamo resi degni di offrirti questo sacrificio spirituale10 e in-
cruento per i nostri peccati e per le mancanze involontarie del
popolo (Eb 9,7): accogliendolo sul tuo santo altare celeste e
spirituale, come profumo gradito (Ef 5,2), mandaci in cambio
la grazia del tuo santo Spirito. Volgi a noi il tuo sguardo, o
Dio, guarda questo nostro culto e accoglilo come hai accolto
i doni di Abele (cf. Gen 4,4), i sacrifici di Noè (cf. Gen 8,20),
gli olocausti di Abramo (cf. Gen 22,13), il servizio sacerdo-
tale di Mosè e di Aronne, le oblazioni di pace di Samuele (cf.
1Sam 11,15). Come hai accolto dai tuoi santi apostoli questo
vero culto, così, nella tua bontà, Signore (cf. Sal 118,68), ac-
cetta anche dalle mani di noi peccatori questi doni, affinché,
resi degni di servire in modo irreprensibile al tuo santo alta-
re, otteniamo la ricompensa degli amministratori fedeli e sa-

10 In greco: loghiké thysía (lett.: “sacrificio razionale” o “secondo ragione”). Riguar-

do al senso dell’aggettivo loghiké, che qui come in altri passi simili ha sempre posto
problemi a interpreti e traduttori, concordiamo con quanto dice Bobrinskoy: “Esso è
relativo al Logos, al Verbo di Dio, alla Parola, sia alla parola di Dio rivelata e vissuta
nell’eucaristia, nella liturgia, che alla parola degli uomini, attraverso la quale questa
parola di Dio è accolta, è incarnata, è prolungata e annunciata nell’eucaristia; ha poi il
senso di spirituale, ossia è teologicamente molto vicino a pneumatikós, che è relativo
allo Spirito santo”(B. Bobrinskoy, Communion du Saint-Esprit, Abbaye de Bellefontai-
ne, Bégrolles-en-Mauges 1992, pp. 442-443).

131
Capitolo III

pienti (cf. Lc 12,42) nel giorno della tua giusta retribuzione


(cf. Os 9,7).
Liturgia di Basilio, pp. 319-320

L’offerta della chiesa: pane e vino, primizie della vita

1. Fu a causa dei peccati del vostro popolo e delle sue idola-


trie e non perché avesse bisogno di tali offerte, che Dio pre-
scrisse di fare anche queste11. Ascoltate come parla al riguardo
per bocca di Amos, uno dei dodici profeti, gridando: Guai a
voi che desiderate il giorno del Signore! Per cosa verrà a voi il gior-
no del Signore? Esso è tenebre e non luce … Io detesto, respingo le
vostre feste, e possa non respirare l’odore delle vostre assemblee so-
lenni! Poiché, se mi offrite i vostri olocausti e i vostri sacrifici, io
non li accetterò, e le vostre splendide offerte di riconciliazione, io
non le guarderò (Am 5,18-22).
Quanto all’offerta di fior di farina, o uomini, che fu coman-
dato di presentare per coloro che si erano purificati dalla leb-
bra (cf. Lv 14,10), essa era figura del pane dell’eucaristia che il
Signore Gesù ci ha comandato di fare in memoria della passio-
ne che egli ha sofferto per gli uomini purificandoli nell’anima
da ogni malizia, affinché allo stesso tempo rendessimo grazie a
Dio per aver creato il mondo e tutto ciò che contiene a causa
dell’uomo12, per averci liberato dal male in cui ci trovavamo e
per aver distrutto definitivamente principati e potestà (cf. Col
2,15) per mezzo di colui che ha patito secondo il suo volere.

11 L’autore parla a Trifone, il suo interlocutore ebreo, riguardo ai sacrifici e alle of-

ferte prescritte dalla legge mosaica.


12 Già in questo testo di Giustino, come più chiaramente in quello di Ireneo, il pa-

ne è assunto come simbolo e primizia dell’intera creazione posta a servizio dell’uomo


e consegnata alle sue cure.

132
“Accogli, Signore …”

Per questo, riguardo ai sacrifici che voi gli offrivate un tempo,


Dio, come ho già riferito, dice per bocca di Malachia, uno dei
dodici profeti: Non mi compiaccio di voi, dice il Signore onnipo-
tente, e non accetterò il sacrificio dalle vostre mani! Poiché dal sor-
gere del sole fino al tramonto il mio nome è glorificato tra le gen-
ti, e in ogni luogo viene offerto incenso al mio nome e un sacrificio
puro, perché grande è il mio nome tra le genti, dice il Signore onni-
potente; e voi l’avete profanato (Ml 1,10-12). E proprio riferen-
dosi ai sacrifici che noi, i pagani, gli offriamo in ogni luogo,
cioè il pane e il calice dell’eucaristia, disse allora profeticamen-
te che noi glorifichiamo il suo nome, mentre voi lo profanate.
Giustino, Dialogo con Trifone 22,1-3; 41,1-3

2. Che Dio non abbia prescritto [ai giudei] le osservanze


contenute nella Legge perché avesse bisogno del loro culto, ma
per il loro stesso bene, i profeti lo indicano in modo esaurien-
te; e ancora, che Dio non abbia bisogno dell’offerta degli uo-
mini, ma [che la richieda] per il bene dell’uomo stesso che la
presenta, lo ha insegnato con chiarezza il Signore13, come di-
mostreremo.
Ogniqualvolta infatti Samuele vedeva che i giudei trascura-
vano la giustizia e si allontanavano dall’amore di Dio, e ciò
nonostante pensavano di garantirsi il favore di Dio attraverso i
sacrifici e le altre osservanze – che erano semplici figure –, di-
ceva loro: Il Signore non vuole gli olocausti e i sacrifici, ma che si
ascolti la sua voce. Ecco, l’obbedienza è meglio del sacrificio, e
l’ascolto più del grasso degli arieti (1Sam 15,22). David dal can-
to suo disse: Non hai voluto né sacrificio né offerta, ma mi hai
formato degli orecchi; non hai chiesto olocausti per il peccato (Sal
39,7), insegnando loro con queste parole che Dio preferisce
l’obbedienza, che salva, ai sacrifici e agli olocausti, che non so-

13 Cioè Cristo.

133
Capitolo III

no di alcun profitto per la giustizia, e allo stesso tempo profe-


tizzava una nuova alleanza. In modo ancor più chiaro ne parla
nel salmo cinquanta: Se avessi voluto un sacrificio, te l’avrei of-
ferto, ma tu non gradirai gli olocausti. Sacrificio a Dio è uno spiri-
to contrito; un cuore contrito e umiliato Dio non lo disprezzerà (Sal
50,18-19) …
Da tutte queste testimonianze14 appare chiaro che Dio non
chiedeva loro sacrifici e olocausti, ma la fede, l’obbedienza e la
giustizia, per la loro salvezza. Ad esempio, nel profeta Osea, in-
segnando loro la sua volontà Dio diceva: Misericordia io voglio
e non sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti (Os 6,6).
Ma anche il nostro Signore dava loro gli stessi ammonimenti,
dicendo: Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io vo-
glio e non sacrificio, non avreste condannato persone innocenti (Mt
12,7). Così attestava che i profeti predicavano la verità, mentre
accusava quelli di essere privi di conoscenza per propria colpa.
Anche quando consigliò ai suoi discepoli di offrire a Dio le
primizie delle sue stesse creature – non perché ne avesse biso-
gno, ma perché essi non fossero né sterili né ingrati – prese il pa-
ne che proviene dalla creazione e rese grazie dicendo: Questo è
il mio corpo (Mt 26,26); e in modo simile il calice, che provie-
ne dalla creazione cui apparteniamo, lo dichiarò suo sangue e
insegnò che era la nuova offerta della nuova alleanza (cf. Mt
26,28), offerta che la chiesa ha ricevuto dagli apostoli e che in
tutto il mondo offre a Dio che ci dona il nutrimento, quale pri-
mizia dei suoi doni nella nuova alleanza. Di essa aveva profe-
tizzato Malachia, uno dei dodici profeti, in questi termini: Non
mi compiaccio di voi, dice il Signore onnipotente, e non accetterò
il sacrificio dalle vostre mani! Poiché dal sorgere del sole fino al tra-
monto il mio nome è glorificato tra le genti, e in ogni luogo viene
offerto incenso al mio nome e un sacrificio puro, perché grande il

14 Nella parte di testo che non abbiamo riportato l’autore cita altre testimonianze

simili dai salmi e dai profeti.

134
“Accogli, Signore …”

mio nome tra le genti. Dice il Signore onnipotente (Ml 1,10-11).


Con queste parole indicava in modo chiarissimo che il primo
popolo avrebbe cessato di offrire a Dio, mentre in ogni luogo gli
sarebbe stato offerto un sacrificio, un sacrificio puro, e il suo
nome sarebbe stato glorificato tra le genti.
Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,17,1.4-5

3. L’offerta della chiesa, dunque, che il Signore ha insegna-


to a offrire in tutto il mondo, è ritenuta un sacrificio puro
presso Dio e gli è gradita, non perché egli abbia bisogno del
nostro sacrificio, ma perché colui che offre è lui stesso glorifi-
cato in ciò che offre se il suo dono è benaccetto. Per mezzo del
dono infatti si mostrano l’onore e la pietà che abbiamo per il
Re; e volendo che noi offriamo tale dono in tutta semplicità e
innocenza, il Signore dice: Se offri il tuo dono sull’altare e ti ri-
cordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono
davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello, e poi
vieni a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). Bisogna dunque offrire
a Dio le primizie delle sue stesse creature, come dice anche Mo-
sè: Non comparirai davanti al Signore tuo Dio a mani vuote (Dt
16,16), affinché l’uomo, dimostrandogli la propria gratitudine
in quelle stesse cose nelle quali è stato gratificato, possa riceve-
re l’onore che proviene da lui.
Le offerte in quanto tali non sono state annullate, poiché c’e-
rano offerte allora e ci sono offerte anche adesso, c’erano sacri-
fici nel popolo [di Israele] e ci sono sacrifici anche nella chiesa,
ma è cambiata soltanto la forma, poiché non si tratta più di of-
ferte presentate da servi, ma da uomini liberi. Se è vero infat-
ti che c’è un solo e medesimo Signore, c’è però un carattere pro-
prio dell’offerta dei servi, e uno proprio di quella degli uomini
liberi, affinché anche attraverso le offerte si mostri il segno di-
stintivo della libertà; infatti non c’è niente di inutile e insigni-
ficante presso di lui. Ecco perché quelli dovevano consacrare le
decime dei propri beni (cf. Lv 27,30-32; Dt 14,22-29), mentre

135
Capitolo III

coloro che hanno ricevuto la libertà mettono tutte le proprie


sostanze a disposizione del Signore, donando gioiosamente e
liberamente i beni più piccoli, in quanto hanno la speranza dei
beni più grandi, come quella donna vedova e povera che getta
tutto ciò che ha per vivere nel tesoro di Dio (cf. Mc 12,44)15.
Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,1-2

4. Fin da principio Dio ha guardato ai doni di Abele, perché


offriva con semplicità e giustizia, ma non ha guardato il sacri-
ficio di Caino (cf. Gen 4,4-5), perché con la gelosia e la malizia
che nutriva nei confronti del fratello, aveva la divisione nel pro-
prio cuore … Non sono dunque i sacrifici che santificano l’uo-
mo, poiché Dio non ha bisogno di alcun sacrificio, ma è l’inten-
zione di colui che offre, se è sincera, che santifica il sacrificio e
obbliga Dio ad accettarlo come da un amico. Ma il peccatore –
dice – che mi sacrifica un giovenco, è come se uccidesse un cane
(Is 66,3).
Poiché dunque la chiesa offre con semplicità, giustamente il
suo dono è ritenuto un sacrificio puro davanti a Dio (cf. Ml
1,11), come dice anche Paolo ai Filippesi: Sono ricolmo, adesso
che ho ricevuto da Epafrodito i vostri doni, profumo soave, sacrifi-
cio benaccetto e gradito a Dio (Fil 4,18). Dobbiamo infatti pre-
sentare a Dio un’offerta e dimostrarci grati in ogni cosa al Crea-
tore, offrendogli le primizie delle sue stesse creature con un’in-
tenzione pura e una fede schietta (cf. 1Tm 1,5; 2Tm 1,5), una
speranza salda, una carità fervente. E la chiesa è la sola a offri-
re al Creatore questa offerta in modo puro, offrendogli con azio-

15 L’esempio evangelico scelto dall’autore non è evidentemente casuale: la vedova è

presa a modello di un’offerta che non concerne solo una parte dei beni materiali, ma
implica l’offerta totale di tutto ciò che si ha per vivere, e dunque l’offerta della propria
stessa vita. L’offerta cui l’autore allude qui è quella che i cristiani presentano durante
l’eucaristia, per mezzo di elargizioni in denaro o doni di altro tipo, in segno della pro-
pria partecipazione vitale all’offerta eucaristica realizzata da Cristo una volta per tut-
te. Nell’intero brano l’autore associa strettamente l’offerta dell’eucaristia e quella fat-
ta spontaneamente dai singoli cristiani.

136
“Accogli, Signore …”

ne di grazie ciò che proviene dalla sua creazione … Come pos-


sono [gli eretici]16 essere sicuri che questo pane, sul quale è sta-
to pronunciata l’azione di grazie17, è il corpo del Signore e che
il calice è il suo sangue, se essi non dicono che egli è il Figlio
del Creatore del mondo, cioè il suo Verbo, per mezzo del qua-
le il legno fruttifica, le sorgenti fluiscono e la terra produce spon-
taneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella
spiga (Mc 4,28)? Inoltre, come possono dire che la carne è de-
stinata alla corruzione e non partecipa alla vita, essa che è ali-
mentata dal corpo e dal sangue del Signore? Cambino dunque
il loro modo di pensare, o si astengano dal fare le offerte delle
quali abbiamo parlato! Quanto a noi, il nostro modo di pensa-
re è in accordo con l’eucaristia, e la stessa eucaristia conferma
il nostro modo di pensare. Noi offriamo a Dio ciò che è suo18,
proclamando la comunione e l’unione della carne e dello Spiri-
to; poiché come il pane che proviene dalla terra, dopo aver ri-
cevuto l’invocazione di Dio, non è più pane comune, ma euca-
ristia, costituita di due realtà, una terrestre e l’altra celeste, co-
sì anche i nostri corpi che partecipano all’eucaristia non sono
più corruttibili, perché hanno la speranza della resurrezione.
Noi infatti gli presentiamo offerte non come se ne avesse bi-
sogno, ma per ringraziarlo dei suoi doni e santificare la creazio-
ne. Se è vero infatti che Dio non ha bisogno dei nostri doni, è
vero anche che noi abbiamo bisogno di offrirgli qualcosa, come
dice Salomone: Colui che ha misericordia del povero, fa un presti-
to al Signore (Pr 19,17). Dio, infatti, che pure non ha bisogno
di nulla, accetta le nostre buone azioni proprio per poterci do-
nare in cambio i suoi beni, come ha detto il Signore nostro:
Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno prepa-
rato per voi, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho

16 L’autore si riferisce agli gnostici che consideravano il Dio creatore dell’Antico

Testamento come un dio diverso dal Padre di Gesù Cristo.


17 Lett.: “pane eucaristizzato”. Per questa espressione cf. infra, p. 230, n. 5.
18 Questa espressione ha lasciato traccia nella liturgia (cf. infra, c. VIII,β).

137
Capitolo III

avuto sete e mi avete dato da bere, sono stato forestiero e mi avete


accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in car-
cere e siete venuti a trovarmi (Mt 25,34-36). Come dunque, pur
non avendo bisogno di queste cose, vuole che le facciamo per il
nostro bene, affinché non rimaniamo sterili, così lo stesso Ver-
bo ordinò al popolo [di Israele] di compiere offerte, sebbene
non ne avesse bisogno, perché imparasse a servire Dio, e vuole
che anche noi offriamo continuamente il nostro dono all’alta-
re. C’è dunque un altare nei cieli – è la che salgono infatti le no-
stre preghiere e le nostre offerte – e un tempio, come dice Gio-
vanni nell’Apocalisse. E fu aperto il tempio di Dio (Ap 11,19), e
anche un tabernacolo, poiché dice: Ecco il tabernacolo di Dio,
nel quale abiterà con gli uomini (Ap 21,3).
Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,3-6

5. La realizzazione della profezia [di David]19 apparirà mira-


bile a chi consideri come il nostro Salvatore Gesù, il Cristo di
Dio, eserciti fino ad oggi per mezzo dei suoi ministri gli uffici
del proprio sacerdozio tra gli uomini, al modo di Melkisedek.
Come infatti quello, essendo sacerdote dei pagani, non risulta
aver mai offerto sacrifici materiali, ma solo pane e vino, allor-
ché benedisse Abramo, allo stesso modo anche il Salvatore no-
stro Signore, per primo, e poi tutti i sacerdoti che dopo di lui
celebrano il sacrificio spirituale secondo le norme della chiesa,
con il vino e con il pane indicano i misteri del suo corpo e del
suo sangue. Questo è appunto ciò che aveva preannunciato
Melkisedek attraverso lo Spirito divino servendosi di immagi-
ni di realtà future, come testimonia la Scrittura di Mosè dicen-
do: E Melkisedek, re di Salem, portò pane e vino: era infatti sacer-
dote del Dio altissimo, e benedisse Abramo (Gen 14,18-19).
Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica V,3,18-19

19 Il riferimento è alle parole del Sal 109,4: “Tu sei sacerdote in eterno, secondo

l’ordine di Melkisedek”.

138
“Accogli, Signore …”

6. Nelle sante chiese, negli oratori e nei santuari dei martiri,


come in altrettanti cieli, Dio ha messo a disposizione i suoi be-
ni inesauribili; e da quei medesimi doni che egli stesso, il Re
dei re e Signore dei signori (1Tm 6,15), ha elargito e ogni giorno
elargisce a ciascuno, riceve un sacrificio incruento, offerto con
riverenza e santità, e ottiene tutti i doni che gli vengono offer-
ti dagli uomini.
Didimo il Cieco (?), Sulla Trinità 2,8
(PG 39,589C)

7. Con pane e vino Melkisedek accolse Abramo, che ritorna-


va dopo aver sconfitto gli stranieri (cf. Gen 14,17-18), lui che
era sacerdote del Dio altissimo. Quella mensa era un’immagine
anticipata di questa mensa mistica, allo stesso modo in cui quel
sacerdote era figura e immagine del vero Sommo sacerdote,
Cristo. Sta scritto infatti: Tu sei sacerdote per sempre secondo
l’ordine di Melkisedek (Sal 109,4; Eb 5,6). Erano immagini di
questo pane anche i pani dell’offerta (cf. Es 40,23; Lv 24,5-8).
Questo infatti è il sacrificio puro, e certamente anche incruen-
to, che il Signore per bocca del profeta disse che gli veniva of-
ferto dal sorgere del sole fino al tramonto (cf. Ml 1,11).
Giovanni di Damasco, La fede ortodossa 86, ll. 135-142

8. Cominciamo con il considerare i riti e le formule della pró-


thesis20, e in particolare quelli della stessa presentazione e del-
l’offerta dei doni. Perché [gli elementi] non sono portati subi-
to all’altare e offerti in sacrificio, ma sono innanzitutto dedica-

20 Nella liturgia bizantina, nella fase del suo pieno sviluppo descritta dall’autore, il

rito della próthesis o proskomidé (“presentazione dei doni”), celebrato prima dell’inizio
della liturgia eucaristica propriamente detta in una cappella laterale della chiesa (detta
appunto próthesis), rappresenta il vero momento dell’offertorio o presentazione dei do-
ni del pane e del vino. All’interno della liturgia eucaristica resta un breve momento
“offertoriale” dopo il rito della “grande entrata”. Per queste due presentazioni dei do-
ni, cf. Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 46,5. Sul rito della próthesis, in-
trodotto nel vii-viii secolo e sviluppatosi gradualmente fino al xiv secolo, si veda R. F.
Taft, The Great Entrance, pp. 11-34; 257-275; 350-373.

139
Capitolo III

ti a Dio come doni? Perché gli antichi, oltre a offrire sacrifici


immolando animali privi di ragione e versandone il sangue, of-
frivano anche doni, come vasi d’argento e d’oro. Ora, il corpo
di Cristo realizza in modo evidente entrambe le cose. Egli, in-
fatti, da un parte divenne vittima sacrificale, quando alla fine
fu immolato per la gloria del Padre, ma fin dall’inizio egli era
stato dedicato a Dio ed era per lui un dono prezioso, sia perché
era stato preso come primizia del genere umano, sia a motivo
della Legge, in quanto era primogenito. Ecco perché i doni pre-
sentati, e che significano il corpo di Cristo, non vengono subito
portati all’altare e offerti in sacrificio – questo avviene più tar-
di –, ma vengono prima dedicati, e diventano e sono chiamati
“doni preziosi” fatti a Dio.
Allo stesso modo ha fatto Cristo. Dopo aver preso infatti pa-
ne e vino nelle mani, li presentò a Dio Padre portandoglieli co-
me doni e glieli presentò come offerta. E come lo sappiamo? Dal
fatto che [la chiesa] fa così, e dal fatto che li chiama “doni”.
Non lo farebbe se non sapesse che Cristo l’ha fatto. Essa infat-
ti ha ascoltato il suo comando: Fate questo in memoria di me (Lc
22,19; 1Cor 11,24), e agendo in maniera diversa non avrebbe
potuto imitarlo.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 2,1-6

9. Perché i doni assumono questa particolare forma? Gli an-


tichi presentavano le primizie dei frutti, delle greggi, delle man-
drie e di altri beni. Noi offriamo a Dio questi doni come primi-
zie della nostra vita, poiché essi sono un alimento umano attra-
verso il quale la vita del corpo è sostenuta; o meglio, la vita
non è soltanto sostenuta attraverso questo alimento, ma ne è
anche simboleggiata. Gli apostoli infatti parlando di Cristo di-
cevano: Abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la resurrezione
(At 10,41), per indicare che lo avevano visto vivo. E il Signo-
re stesso ordinò di dar da mangiare al morto che aveva resusci-
tato, per dimostrarne la vita attraverso il cibo (cf. Lc 8,55).

140
“Accogli, Signore …”

Dunque non è strano pensare che chi offre le primizie del cibo
offre le primizie della vita stessa.
Ma forse qualcuno potrebbe dire che anche quasi tutte le of-
ferte che gli antichi presentavano a Dio potevano servire da ali-
mento per l’uomo: erano infatti frutti per i quali i contadini ave-
vano lavorato e animali commestibili. Che dire dunque? Tutte
quelle offerte erano primizie della vita umana? No, perché nien-
te di tutte queste cose era propriamente alimento umano, essen-
do comune a tutti gli altri animali: alcune cose erano proprie dei
volatili e degli erbivori, altre dei carnivori. Chiamiamo infatti
“umano” ciò che appartiene solo all’uomo. Ora, il fatto di aver
bisogno di confezionare il pane per mangiare e di preparare il
vino per bere è proprio soltanto dell’uomo. Ecco dunque per-
ché questa offerta di doni assume tale forma.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 3,1-5

10. Qual è la causa e il motivo per cui bisognava presentare


a Dio questi doni come primizie della vita? Perché Dio ci dona
la vita in cambio di questi doni, ed era ragionevole che il dono
da presentare non fosse completamente senza rapporto con quel-
lo da ricevere in cambio, ma ci fosse qualche affinità tra i due,
ed essendo quest’ultimo vita, anche il primo in qualche modo
doveva essere vita, tanto più che colui che stabilisce la legge del
dono da offrire è lo stesso che dispensa il dono da ricevere in
cambio, lui che giudica con giustizia e dispone ogni cosa con pe-
so e misura (cf. Is 28,17; 40,12; Sap 11,20). Lui ha ordinato di
presentare pane e vino, lui stesso in cambio di essi ci dà pane
vivo e calice di vita eterna. Dunque, come agli apostoli donò
pesca in cambio di pesca, offrendo in cambio di quella dei pesci
quella di uomini (cf. Mt 4,19), e al ricco che lo aveva interro-
gato sul Regno promise la ricchezza celeste in cambio di quella
terrena (cf. Mt 19,16-20), così, in modo corrispondente, avvie-
ne qui: a coloro ai quali doveva donare la vita eterna – intendo
il suo corpo e il suo sangue vivificanti – ordinò di offrire in anti-

141
Capitolo III

cipo cibi che sostengono questa vita passeggera, affinché in cam-


bio di vita ricevessimo vita, in cambio di quella passeggera quel-
la eterna, e la grazia così apparisse come una ricompensa, l’infi-
nita misericordia avesse qualche apparenza di giustizia, e si com-
pisse quella parola: Porrò la mia misericordia su bilance (Is 28,17).
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 4,1-2

Culto di Dio e condivisione: le offerte per i poveri

11. Dopo questi fatti21, ne facciamo sempre memoria tra di


noi; e quelli tra noi che hanno [proprietà] soccorrono i bisognosi
e restiamo sempre uniti gli uni agli altri. Per tutte le cose di cui
ci nutriamo benediciamo il Creatore dell’universo mediante il
suo Figlio Gesù Cristo e mediante lo Spirito santo … Quelli che
hanno mezzi e che lo desiderano offrono ciascuno liberamente
quello che vogliono, e ciò che si raccoglie viene depositato da-
vanti a chi presiede22, ed è lui che soccorre gli orfani, le vedo-
ve e chi è indigente per malattia o per qualche altro motivo, i
carcerati e gli stranieri che sono di passaggio, e protegge in-
somma tutti coloro che sono nel bisogno.
Giustino, Apologia prima 67,1.6

12. Io non ho bisogno dei vostri sacrifici e libagioni23,


né dell’empio fumo, né del sangue ripugnante:

21 Riferimento all’istituzione dell’eucaristia connessa con gli eventi salvifici della

passione. La condivisione dei beni e la raccolta delle offerte è connessa chiaramente


con l’anamnesi del sacrificio di Cristo.
22 Si tratta del capo della comunità, che presiede la celebrazione eucaristica dome-

nicale (cf. supra, c. II,2): la colletta a favore dei bisognosi è parte integrante di ogni si-
nassi domenicale.
23 Il testo si presenta come un oracolo in cui Dio parla in prima persona.

142
“Accogli, Signore …”

facciano pure queste offerte in ricordo di re e tiranni,


per gli spiriti dei morti, come se fossero celesti,
compiendo un rito empio e nocivo!
Chiamano dèi le loro immagini, atei come sono,
e, abbandonando il Creatore, ripongono in esse
ogni speranza e vita,
ma fedeli a idoli sordi e muti, per la propria rovina,
non conoscono una fine felice …
È l’uomo la mia immagine, dotata di retta ragione:
preparagli una mensa pura e incruenta,
colmandola di beni, e da’ il pane all’affamato,
una bevanda all’assetato e vestiti al corpo nudo (cf. Mt 25,31-46),
provvedendovi attraverso le tue stesse fatiche,
con mani pure.
Abbi cura dell’afflitto e assisti l’infermo
e presenta un’offerta viva a me, il Vivente (cf. Rm 12,1),
seminando ora nell’acqua, perché un giorno ti doni anch’io
frutti immortali e tu riceva la luce eterna
e vita imperitura, quando proverò tutti con il fuoco.
Oracoli sibillini 8,390-398; 402-411

13. Se volete obbedirmi, o servi di Cristo, fratelli e coeredi,


finché c’è tempo visitiamo Cristo, curiamo Cristo, nutriamo Cri-
sto, vestiamo Cristo, accogliamo Cristo, onoriamo Cristo (cf.
Mt 25,31-46), non solo con una mensa, come fecero alcuni (cf.
Lc 7,36), né solo con unguenti, come Maria (cf. Gv 12,3), né
solo con un sepolcro, come Nicodemo, che amava Cristo solo a
metà (cf. Gv 19,38), non solo con oro, incenso e mirra, come
fecero i magi (cf. Mt 2,11), prima degli altri di cui ho parlato,
ma, poiché il Signore dell’universo vuole misericordia e non sa-
crificio (Os 6,6; Mt 9,13) e la compassione vale più di migliaia
di agnelli (cf. Dn 3,39), offriamogliela nella persona dei biso-
gnosi e di coloro che oggi giacciono abbandonati a terra, affin-
ché, quando ce ne andremo di quaggiù, ci accolgano nelle di-

143
Capitolo III

more eterne (cf. Lc 16,9), nello stesso Cristo Signore nostro, al


quale appartiene la gloria nei secoli. Amen.
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 14,40

14. Il disprezzo delle ricchezze manifesta i veri credenti, co-


me ha detto lo stesso Apostolo (cf. 1Cor 11,19), fa in modo che
Dio sia glorificato, rende fervente la carità, allarga gli animi,
consacra dei sacerdoti, dotati di un sacerdozio che porta con sé
una grande ricompensa24! Chi pratica l’elemosina25, infatti, non
indossa un manto (cf. Es 28,31) né porta in giro sonagli (cf. Es
28,33-34), né si cinge il capo di una corona (cf. Es 28,36-37),
ma è rivestito della tunica dell’amore per gli uomini, più santa
di una veste sacra; ha ricevuto l’unzione (cf. Es 28,41), non
con olio composto di materia sensibile, ma prodotto dallo Spi-
rito; e ha la corona che è frutto della compassione, poiché sta
scritto: Ti incorona con misericordia e compassione (Sal 102,4).
Invece di portare [sulla fronte] una lamina con il nome di Dio
(cf. Es 28,36), egli stesso diventa uguale a Dio26. Non sta forse
scritto infatti: Diventerete simili al Padre vostro che è nei cieli
(cf. Mt 5,45)?

24 Come chiarirà il seguito del testo, non si tratta qui del sacerdozio ministeriale ma

di un sacerdozio spirituale esercitato da ogni credente attraverso i suoi atti di miseri-


cordia nei confronti del prossimo. Commentando questo testo, Hamman nota che qui
“l’elemosina non ha soltanto un valore sacro, ma conferisce al cristiano una specie di
sacerdozio, che grazie alla carità lo rende simile al sommo sacerdote Cristo. Da una
parte e dall’altra – nell’eucaristia, nell’elemosina – è il medesimo amore a trovare
espressione. L’offerta all’altare, l’offerta eucaristica acquistano il loro pieno significa-
to solo se la carità, resa sacramento e alimentata dal sacrificio di Cristo, viene realmen-
te in soccorso dei poveri, che sono anch’essi altare di Dio e corpo di Cristo” (A. Ham-
man, Vita liturgica e vita sociale, Jaca Book, Milano 1968, p. 375).
25 In greco: eleemosØne significa sia “misericordia” che “elemosina”. Per Giovanni

Crisostomo l’eleemosØne è ben più di un semplice aiuto materiale: è anzitutto una di-
sponibilità amorosa nei confronti del prossimo che può esprimersi in una varietà di at-
ti di misericordia, è imitazione dell’agire di Dio, “è una forza che conduce Dio all’uo-
mo e l’uomo a Dio” (R. Brändle, Jean Chrysostome “saint Jean bouche d’or” (349-407).
Christianisme et politique au IV e siècle, Cerf, Paris 2003, p. 67).
26 Sono qui citati i vari elementi dell’abito sacerdotale di Aronne.

144
“Accogli, Signore …”

Vuoi vedere anche il suo altare? Non è stato Besalèl27 a co-


struirlo (cf. Es 35,30), né un altro, ma Dio stesso, e non con pie-
tre, ma con un materiale più splendente del cielo: anime dota-
te di ragione28.
“Ma – mi dirai – il sacerdote entra nel Santo dei santi!”. A
te però è permesso entrare in un luogo ancor più sacro29, quan-
do offri questo sacrificio, dove nessuno è presente se non il Pa-
dre tuo che ti vede nel segreto, dove nessun altro vede (cf. Mt
6,4). “E come si può non vedere, se l’altare è davanti a tutti?”.
Ciò che suscita meraviglia è proprio questo: che allora erano i
veli e le cortine a produrre la solitudine [attorno al sacerdote],
mentre adesso è possibile offrire un sacrificio davanti a tutti
come se lo si facesse nel Santo dei santi, in un’atmosfera ancor
più sacra. Quando infatti non agisci per essere visto dagli uo-
mini, anche se il mondo intero ti vedesse, non ti ha visto nessu-
no, appunto perché tu agisci in questo modo. Il Signore infatti
non ha detto semplicemente: Non agite davanti agli uomini, ma
ha aggiunto: per essere da loro ammirati (Mt 6,1). Questo altare
è costituito dalle stesse membra di Cristo, e il corpo del Signo-
re30 diventa per te un altare. Guarda di averne rispetto: immo-
li la vittima nella stessa carne del Signore! È un altare addirit-
tura più sacro di questo nostro altare, non solo di quello antico31.
Ma non turbatevi: questo nostro altare è certamente degno di
ammirazione, a causa della vittima che vi viene deposta sopra,
ma l’altare di colui che pratica l’elemosina non lo è soltanto per
questo, ma anche perché è costituito dalla stessa vittima offer-

27 È l’architetto della “tenda del convegno”, il santuario che Mosè riceve l’ordine

di costruire durante la permanenza di Israele nel deserto.


28 È l’altare – in senso metaforico – formato dal corpo dei poveri nei confronti dei

quali si fanno le offerte.


29 Lett.: “che incute maggior timore” ( phrikodéstera). È l’aggettivo che l’autore usa

abitualmente per caratterizzare le realtà più sante, in particolare quelle che hanno at-
tinenza con i misteri celebrati nell’eucaristia.
30 Cioè il corpo dei poveri in cui il Cristo è presente.
31 È addirittura più sacro, cioè, dell’altare su cui si celebra l’eucaristia, non solo di

quello dei sacrifici dell’antica alleanza.

145
Capitolo III

ta in sacrificio. Inoltre, questo nostro altare è degno di ammi-


razione perché, pur essendo per natura di pietra, diventa santo
accogliendo il corpo di Cristo; quell’altare, invece, perché è il
corpo stesso di Cristo. Perciò l’altare davanti al quale stai, tu
che sei laico, è più sacro di questo32! …
Ma tu onori questo altare che accoglie il corpo di Cristo, e
maltratti quello che è il corpo stesso di Cristo, trascurandolo
mentre va in rovina! Quell’altare puoi vederlo dappertutto, nei
vicoli e nelle piazze, e in ogni momento puoi offrire su di esso
un sacrificio: anche là infatti si celebra un sacrificio. E come il
sacerdote sta in piedi [davanti a questo nostro altare] invocan-
do lo Spirito, allo stesso modo anche tu invochi lo Spirito: non
però con la voce, ma con le opere. Non c’è niente infatti che at-
tiri e accenda il fuoco dello Spirito come questo olio versato in
abbondanza33 … Anche se stai in silenzio, la tua opera grida e
diventa sacrificio di lode (Sal 49,14): qui non vi è alcuna gioven-
ca immolata, né pelle bruciata, ma è un’anima spirituale a of-
frire i propri doni. Un tale sacrificio ha maggior valore di ogni
altro atto di umanità. Quando dunque vedi un povero creden-
te, fa’ conto di vedere un altare; quando vedi un mendicante,
non solo non usargli violenza, ma guardalo con rispetto; e se
qualcun altro lo maltratta, non permetterglielo, ma intervieni in
sua difesa. Così infatti potrai procurarti la misericordia di Dio

32 In proposito è stato giustamente affermato che Giovanni Crisostomo “ha opera-

to un vero e proprio trasferimento del sacro, in virtù del quale quest’ultimo non risiede
più nella pompa, nel mobilio, negli accessori della liturgia, ma nei membri più disere-
dati dell’assemblea liturgica che sono in realtà, a titolo eminente, membra del Cristo
stesso. Considerata la sua pertinenza teologica, questo esatto posizionamento del sacro
secondo la prospettiva cristiana è da contare tra i meriti più considerevoli di Giovan-
ni Crisostomo e rappresenta, da parte sua, riteniamo, un contributo maggiore al pen-
siero liturgico globale dei padri” (F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la litur-
gie, pp. 325-326). Sulla stessa linea si legga il testo seguente, cf. infra, § 15.
33 In greco élaion (“olio”) richiama per assonanza éleos (“misericordia”), tenendo

conto che il dittongo “ai” al tempo dell’autore si pronunciava già “e”; per questo mo-
tivo l’olio nei testi dei padri è spesso simbolo della misericordia (e quindi qui dell’ele-
mosina). Su questo tema cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 350-352 e n. 110.

146
“Accogli, Signore …”

e ottenere i beni promessi, che tutti ci auguriamo di ottenere


per la grazia e la bontà del Signore nostro Gesù Cristo.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 20,2-3

15. Nessun Giuda si accosti a questa mensa, nessun Simone34:


entrambi infatti perirono a causa della loro avidità di denaro.
Fuggiamo dunque questo precipizio e non crediamo che ci ba-
sti per la salvezza se, dopo aver spogliato vedove e orfani, offria-
mo un calice dorato e tempestato di pietre preziose! Se vuoi
onorare la vittima, offri la tua anima, a causa della quale essa è
stata offerta in sacrificio: rendila dorata! Ma se questa rimane
peggiore del piombo e del coccio, mentre quel vaso è dorato, che
guadagno c’è? Non badiamo dunque a offrire soltanto vasi d’o-
ro, ma che [tali offerte] siano frutto di giuste fatiche! La chie-
sa infatti non è un’oreficeria né una zecca35, ma una festa di an-
geli! Per questo c’è bisogno di anime, perché se Dio accetta que-
sti oggetti è proprio a motivo delle anime. Allora36 quella mensa
non era d’argento, né era d’oro il calice dal quale Cristo diede il
proprio sangue ai discepoli, ma tutti quegli oggetti erano prezio-
si e tali da incutere timore37 perché erano ricolmi dello Spirito.
Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando è
nudo, e guardati dall’onorarlo qui dentro con vesti di seta e poi
dal trascuralo fuori mentre è ucciso dal freddo e dalla nudità.
Colui infatti che ha detto: Questo è il mio corpo (Mt 26,26) e
ha garantito il fatto con la parola38, è lo stesso che ha detto: Mi
avete visto affamato e non mi avete nutrito (cf. Mt 25,42), e: Tut-
to ciò che non avete fatto a uno di questi più piccoli, non l’avete

34 Simon Mago, di cui si parla in At 8,9-13.18-24.


35 L’autore polemizza qui contro lo sfarzo dei paramenti e degli arredi liturgici, of-
ferti in dono alla chiesa.
36 Nell’ultima cena.
37 Sul linguaggio del timore sacro, cf. infra, p. 198, n. 3.
38 Sul valore delle parole dell’istituzione per Giovanni Crisostomo, cf. infra, c.

VIII,13; 20-22.

147
Capitolo III

fatto a me (Mt 25,45). Questo [corpo]39 non ha bisogno di ve-


sti, ma di un’anima pura; quello40 invece ha bisogno di molta
cura. Impariamo dunque a essere sapienti e a onorare Cristo
come egli lo vuole! Per chi è onorato infatti l’onore più gradito
è quello che egli stesso vuole, non quello che pensiamo noi. An-
che Pietro era convinto di onorarlo impedendogli di lavare i
suoi piedi, ma questo non era onore, anzi proprio il contrario
(cf. Gv 13,8)! Così anche tu onoralo con l’onore che egli stes-
so ha comandato di dargli, spendendo le tue ricchezze per i po-
veri. Dio infatti non ha bisogno di vasi d’oro, ma di anime d’o-
ro! E questo lo dico non certo per impedire che si faccia questo
genere di offerte votive, ma per chiedere che insieme a esse, e
prima di esse, si faccia l’elemosina. [Dio] certamente accetta an-
che queste, ma molto di più le altre. In questo caso infatti ne
trae vantaggio soltanto chi le offre, nell’altro anche chi le rice-
ve. In questo caso l’offerta può anche essere un’occasione di
ostentazione, nell’altro invece c’è solo misericordia41 e amore per
gli uomini.
A che giova che la sua mensa sia ricolma di calici d’oro, men-
tre lui stesso è ucciso dalla fame? Prima sazialo quando è affa-
mato, e poi con ciò che avanza adorna anche la sua mensa! Fai
un calice d’oro e non dai un bicchiere d’acqua fresca (cf. Mt
10,42)? Ma a che cosa serve? Prepari paramenti ricamati d’o-
ro per la mensa, e a lui stesso poi non procuri neppure il neces-
sario per coprirsi? E quale guadagno può ricavarne? Dimmi: se
tu vedessi un uomo privo del nutrimento necessario e, senza cu-
rarti di eliminare la sua fame, rivestissi solo la mensa di argen-
to, ti sarebbe forse grato, o non ne sarebbe piuttosto irritato?
E se poi tu lo vedessi coperto di stracci e intirizzito dal freddo e,
senza preoccuparti di dargli un mantello, costruissi colonne do-
rate dicendo di farlo in suo onore, non direbbe forse che ti stai

39 L’eucaristia, che è corpo di Cristo.


40 Il corpo dei poveri e sofferenti ai quali Cristo si identifica.
41 In greco: eleemosØne.

148
“Accogli, Signore …”

prendendo gioco di lui e non penserebbe che questo sia un af-


fronto, e il più grave che potresti fargli? Considera questo anche
nei riguardi di Cristo, quando, ramingo e forestiero, se ne va in
giro bisognoso di un tetto: tu, invece di accoglierlo, adorni il pa-
vimento, i muri e i capitelli delle colonne; e attacchi alle lampa-
de catene d’argento, mentre lui che è incatenato in carcere, non
lo vuoi neppure vedere42!
Dico questo non per impedirvi di essere generosi in queste co-
se, ma per esortarvi a fare queste insieme a quelle, anzi quelle
prima di queste. Nessuno infatti è stato mai accusato per non
aver fatto queste cose, mentre per non aver fatto quelle è stata
minacciata la geenna, il fuoco inestinguibile e la punizione in-
sieme ai demoni (cf. Mt 25,41). Mentre dunque adorni la casa,
non trascurare il fratello che è nella tribolazione, perché que-
st’ultimo è un tempio più importante di quello! Tutti questi be-
ni potranno anche essere sottratti da re infedeli, da tiranni e da
briganti, ma tutto ciò che avrai fatto per il fratello affamato, fo-
restiero e nudo, neppure il diavolo potrà depredarlo, ma rimar-
rà al sicuro come in un tesoro inviolabile (cf. Mt 6,19-20).
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 50,3-4

16. Al tempo degli apostoli, in segno di amore fraterno si met-


tevano tutte le proprietà in comune (cf. At 4,32-37). Io non vi
ordino di mettere tutto in comune, ma una parte. Ciascuno – di-
ce l’Apostolo – stabilisca ciò che può risparmiare ogni primo gior-
no della settimana (1Cor 16,2)43, come se versasse e pagasse una

42 È verosimile che sullo sfondo di questo discorso di Giovanni Crisostomo, che

contrappone l’uso di adornare le chiese e gli altari con preziosi arredi sacri al dovere
primario per un cristiano di rivestire e servire i poveri nei quali è presente lo stesso
Cristo, vi sia il ricordo di ciò che avvenne circa trent’anni prima a Gerusalemme,
quando il vescovo Cirillo, per sovvenire ai bisogni dei poveri durante una carestia,
vendette le suppellettili sacre e le tende della sua chiesa, un fatto che fornì al suo av-
versario Acacio il pretesto per farlo deporre nel 357 e che verosimilmente ebbe una
certa eco nelle chiese dell’oriente (cf. Sozomeno, Storia ecclesiastica III,25,3-4).
43 L’autore cita questo passo per l’aggancio liturgico che esso può fornirgli: il “pri-

mo giorno della settimana” (mía tôn sabbáton) corrisponde alla domenica, il giorno del-

149
Capitolo III

sorta di tributo per i sette giorni della settimana, e così dia in


elemosina una somma più o meno grande. Non comparirai – sta
scritto – davanti al Signore a mani vuote (Dt 16,16)! Queste pa-
role erano rivolte ai giudei: non valgono molto di più per noi?
Appunto per questo i poveri stanno davanti alle porte [delle
chiese]44: perché nessuno entri dentro a mani vuote, ma vi en-
tri pieno di misericordia45. Se entri per ricevere misericordia, ab-
bi tu stesso misericordia prima di tutto … Non è sufficiente
tendere le mani46 per essere esauditi: tendi le mani non verso il
cielo, ma verso le mani dei poveri! Se tendi la mano verso le ma-
ni dei poveri, tocchi la sommità del cielo, perché è proprio co-
lui che è seduto lassù a ricevere la tua elemosina; ma se tendi
verso l’alto mani infruttuose, non ne ricavi nulla.
Dimmi: se l’imperatore si avvicinasse a te e ti chiedesse qual-
cosa rivestito della porpora, non gli daresti di buon animo tut-
to ciò che hai? Ma ora che non è l’imperatore, il re terreno, a
implorarti, ma il Re celeste, nella persona dei poveri, tu resti là
in piedi sdegnoso ed esiti a dare l’offerta? Di quale castigo non
saresti degno? L’essere esauditi infatti non dipende dal tende-
re le mani, né dalla gran quantità di parole, ma dalle opere.
Ascolta il profeta che dice: Quando tendete le vostre mani, io di-
stolgo i miei occhi da voi, e se moltiplicate le preghiere, non vi ascol-
terò (Is 1,15). Mentre dovrebbe restare in silenzio e non alzare
neppure lo sguardo verso il cielo, come uno che ha bisogno di
ricevere misericordia, nella sua sfrontatezza moltiplica anche le
parole. Ma cosa dice il Signore? Rendete giustizia all’orfano e al
povero, difendete la causa della vedova, e imparate a fare il bene

la sinassi eucaristica in cui la comunità cristiana si raduna in chiesa. L’elemosina viene


così associata alla liturgia e assume essa stessa una valenza liturgica, come già in Paolo
(cf. soprattutto 2Cor 9,12).
44 L’autore evoca spesso nelle sue omelie la presenza dei mendicanti davanti alle

chiese: dar loro l’elemosina è per lui un modo migliore di purificarsi le mani che lavar-
sele con l’acqua (cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, p. 231, n. 74).
45 Sulla parola eleemosØne, cf. supra, p. 144, n. 25.
46 È il gesto della preghiera di supplica.

150
“Accogli, Signore …”

(cf. Is 1,17). Così potremo essere esauditi, anche se teniamo le


mani in basso, anche se non diciamo né chiediamo nulla! Ecco
dunque ciò in cui dobbiamo impegnarci, per ottenere i beni
che ci sono stati promessi.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera a Timoteo 1,4

17. Anche voi47, fratelli, dovete offrire i vostri sacrifici – ov-


vero le vostre offerte – al vescovo, come al sommo sacerdote, o
direttamente, o per mano dei diaconi. Oltre a ciò, portategli
anche le primizie, le decime e le offerte volontarie (cf. Dt 12,6):
egli sa con precisione, infatti, chi sono i sofferenti e dà a ciascu-
no ciò che è conveniente, perché nessuno riceva due volte lo
stesso giorno o la stessa settimana, mentre un altro non riceva
affatto; è giusto infatti soccorrere coloro che sono veramente sof-
ferenti, piuttosto che coloro che danno l’apparenza di esserlo.
Costituzioni apostoliche II,27,6

18. Ama il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18; Mt 19,19):


condividi le tue sostanze con i bisognosi.
Non comparire di fronte ai sacerdoti a mani vuote (cf. Dt
16,16) e offri continuamente le tue offerte volontarie al Signo-
re; non disertare la chiesa di Cristo, ma presentati in essa di
buon mattino, prima di ogni lavoro, e di nuovo ritornaci alla
sera, per rendere grazie a Dio dei doni che ti ha fatto nella vi-
ta. Lavora attivamente, persevera, fatica, offri al Signore le
tue offerte volontarie, perché è detto: Onora il Signore con le tue
giuste fatiche (Pr 3,9). Gettando nella cassa delle offerte ciò che
puoi, condividi con gli stranieri, dando uno, due o cinque spic-
cioli: assicurati la ricchezza celeste, che né tignola né ladri pos-
sono danneggiare (cf. Mt 6,20).
Costituzioni apostoliche II,36,4.6-8

47 Sottinteso: come gli ebrei.

151
Capitolo III

19. Colui che, per la sua giovane età e la sua condizione di


orfano, per la debolezza della sua vecchiaia, per il sopraggiun-
gere di una malattia, o per la necessità di nutrire una prole nu-
merosa, riceve un aiuto48, non solo non sarà biasimato, ma rice-
verà addirittura una lode: considerato come altare di Dio, sarà
onorato da Dio se senza indugio pregherà continuamente per i
suoi benefattori, non ricevendo oziosamente, ma ricambiando il
dono ricevuto, per quanto può, attraverso la sua preghiera. Chi
si comporta così sarà dichiarato beato da Dio nella vita eterna.
Costituzioni apostoliche IV,3,3

20. Preghiamo per coloro che portano offerte nella santa chie-
sa e fanno elemosine ai poveri, e preghiamo per coloro che of-
frono al Signore nostro sacrifici e primizie: che il Signore, nel-
la sua grande bontà, li ricompensi con i suoi doni celesti e dia
loro nel tempo presente il centuplo e in quello futuro la vita
eterna (cf. Mc 10,30), e conceda loro in cambio dei beni pas-
seggeri quelli eterni (cf. 2Cor 4,18), in cambio di quelli terreni
quelli celesti.
Costituzioni apostoliche VIII,10,12

21. Voi tutti santificate le vostre mani49: il vostro lavoro sa-


le al cielo come un sacrificio e un’offerta. Non dico forse la ve-
rità? Non nutrite forse i bambini che accogliamo ogni giorno?
Non saziate forse di cibo i vecchi? Non fornite forse gli ospiti
di pane, di legumi, di bevande fresche, di vino puro di qualità
diversa rispetto a quella che si berrebbe in monastero? Non ac-
cogliete forse i vostri amici di passaggio? Non fate vivere an-
che noi stessi? Non ci nutrite? E cos’è dunque tutto ciò, se non

48 Cioè un sostegno finanziario o di altro tipo da parte della comunità che se ne fa

carico.
49 L’autore si rivolge ai monaci della sua comunità, che risiedeva nella capitale del-

l’impero, a Costantinopoli.

152
“Accogli, Signore …”

un’offerta a Dio? Misericordia infatti io voglio, e non sacrificio!


(Os 6,6; Mt 9,13), come sta scritto.
Teodoro Studita, Grandi catechesi I,55,9-12

Offrire se stessi in sacrificio vivente

22. [Attraverso il profeta] Dio preannuncia ciò che sarebbe


avvenuto ai nostri giorni, dicendo: Dall’oriente all’occidente il
mio nome è glorificato tra le genti e in ogni luogo si offre incenso
al mio nome e un sacrificio puro (Ml 1,11). Noi dunque offria-
mo a Dio che è dappertutto un sacrificio di lode (Sal 49,14), of-
friamo in modo nuovo, secondo la nuova alleanza, il sacrificio
puro. Sacrificio a Dio – è stato detto – è uno spirito contrito: un
cuore contrito e umiliato Dio dunque non lo disprezzerà (Sal
50,19). Bruciamo inoltre l’incenso di cui parla il profeta, pre-
sentandogli in ogni luogo il frutto profumato dell’autentica co-
noscenza di Dio, offrendoglielo attraverso le preghiere che gli
rivolgiamo. Questo ce lo insegna anche un altro profeta, che di-
ce: La mia preghiera sia come incenso davanti a te (Sal 140,2).
Noi dunque sacrifichiamo e bruciamo incenso, ora celebran-
do la memoria del grande sacrificio nei misteri che lui stesso ci
ha consegnato50, e offrendo a Dio l’azione di grazie per la nostra
salvezza tramite inni e preghiere colme di riverenza, ora consa-
crando interamente noi stessi a lui e dedicandoci in corpo e ani-
ma al suo Sommo sacerdote, che è il Verbo stesso. Per questo
ci sforziamo di custodire il nostro corpo puro e incontaminato,
al riparo da ogni atto osceno, gli presentiamo la mente purifica-
ta da ogni passione e da ogni macchia proveniente da vizio, lo

50 Cioè nell’eucaristia.

153
Capitolo III

onoriamo con pensieri senza errori, sentimenti sinceri, convin-


zioni di verità. Ci è stato infatti insegnato che queste cose gli
sono gradite più di una moltitudine di sacrifici offerti con san-
gue, fumo e grasso di vittime (cf. Is 1,11).
Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica I,10,35-39

23. Domanda: Che cos’è il culto e che cos’è il culto secondo


ragione 51 (Rm 12,1)?
Risposta: Il culto, secondo il mio pensiero, è quel servizio
intenso, incessante e senza distrazioni che si presta a colui che
riceve tale culto. Quanto poi alla differenza tra il culto secon-
do ragione e quello che non lo è, ce lo indica l’Apostolo, quan-
do dice: Sapete che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascina-
re verso gli idoli muti secondo l’impulso del momento (1Cor 12,2),
e ancora: Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gra-
dito a Dio: questo è il vostro culto secondo ragione (Rm 12,1). Chi
infatti si lascia trascinare secondo l’impulso del momento, pre-
sta un culto che non è secondo ragione, perché non è guidato
dalla ragione e non agisce di propria iniziativa né per propria de-
cisione, ma si lascia trascinare alla mercé di chi lo guida, ovun-
que venga condotto e contro la propria volontà. Chi invece,
mosso da sana ragione e da un buon proposito, ha di mira e
realizza sempre e dovunque con grande cura ciò che è gradito a
Dio, costui adempie il precetto relativo al culto secondo ragio-
ne, sull’esempio di colui che ha detto: Lampada per i miei piedi
è la tua Legge, e luce sui miei sentieri (Sal 118,105); e: Il mio con-
siglio sono i tuoi decreti (Sal 118,24).
Basilio di Cesarea, Regole brevi 230

24. Domanda: È stato detto: Se offri il tuo dono sull’altare e


ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo

51 In greco: loghikè latreía. Il contesto di questo brano richiede questa traduzione.

Altre volte la stessa espressione è resa con “culto spirituale” (cf. supra, p. 131, n. 10, § β).

154
“Accogli, Signore …”

dono davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratel-


lo, e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). Queste parole
sono state dette soltanto per i sacerdoti o anche per tutti? E in
che modo ciascuno di noi può offrire un dono sull’altare?
Risposta: Sembrerebbe giusto riferire queste parole in mo-
do speciale e primario ai sacerdoti, poiché sta scritto: Voi sare-
te chiamati sacerdoti del Signore, ministri di Dio, voi tutti (Is
61,6), e: Un sacrificio di lode mi darà gloria (Sal 49,23), e anco-
ra: Sacrificio a Dio è uno spirito contrito (Sal 50,19). E l’Aposto-
lo, da parte sua, dice: Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente,
santo e gradito a Dio: questo è il vostro culto spirituale (Rm 12,1).
Ciascuna di queste cose, però, è comune a tutti: è dunque ne-
cessario che ciascuno di noi compia tale offerta.
Basilio di Cesarea, Regole brevi 265

25. “Che cosa me ne faccio della moltitudine dei vostri sacrifi-


ci?”, dice il Signore (Is 1,11) … I sacrifici degli empi sono un abo-
minio per il Signore (Pr 15,8). In che modo sperate di trovare
un riscatto per le vostre anime attraverso sacrifici offerti in gran
numero senza un’adeguata penitenza? Dio, infatti, non concede
la sua misericordia con il sangue degli animali, né con le vitti-
me immolate sugli altari (cf. Eb 10,4), ma grazie a un cuore con-
trito. Sacrificio a Dio, infatti, è uno spirito contrito (Sal 50,19).
Le stesse parole potrebbero essere giustamente rivolte a coloro
che sono generosi nelle spese52, ma non fanno penitenza con le
loro opere. Perciò la Parola non intende respingere i sacrifici in
generale, ma soltanto quelli giudaici. Che cosa me ne faccio, di-
ce, della moltitudine dei vostri sacrifici? Rifiuta appunto la mol-
titudine, ma richiede un solo sacrificio. Ciascuno doni se stes-
so a Dio, offrendosi in sacrificio vivente, gradito a Dio, offrendo
a Dio, per mezzo del culto spirituale (cf. Rm 12,1), un sacrificio

52 Si deve intendere: nelle spese per il culto.

155
Capitolo III

di lode (Sal 49,14). Poiché d’altra parte, la moltitudine dei sa-


crifici offerti secondo la Legge è stata respinta come inutile, un
solo sacrificio è stato ammesso, offerto negli ultimi tempi per
cancellare i peccati: l’Agnello di Dio, infatti, ha tolto il peccato
del mondo (cf. Gv 1,29) offrendo se stesso in oblazione e sacri-
ficio di soave odore (Ef 5,2)53.
Basilio di Cesarea, Commento a Isaia 24

26. In che modo ascolti il Crocifisso, tu che sei ancora viven-


54
te ? Come ascolti colui che è morto al peccato (cf. Rm 6,10),
tu che sei ancora vivo e vegeto nel peccato? Come ascolti colui
che ti comanda di seguirlo (cf. Mt 10,38), mentre porta la cro-
ce sul proprio corpo come un trofeo contro l’avversario, tu che
non sei crocifisso a questo mondo (cf. Gal 6,14) e non accetti
la mortificazione della carne (cf. 2Cor 4,10)? In che modo ob-
bedisci a Paolo che ti comanda di offrire il tuo corpo come sa-
crificio vivente santo e gradito a Dio (Rm 12,1), tu che ti confor-
mi al mondo presente e non ti lasci trasformare rinnovando il
tuo modo di pensare (cf. Rm 12,2), né cammini secondo la no-
vità di questa vita (cf. Rm 6,4), ma continui a seguire la vita del-
l’uomo vecchio (cf. Rm 6,6)? In che modo eserciti la tua fun-
zione sacerdotale davanti a Dio, tu che hai ricevuto l’unzione55
proprio per offrire a Dio un dono (cf. Eb 8,3), e non un dono
che sia del tutto estraneo, né preso come surrogato dai beni che
ti appartengono dall’esterno, ma il dono veramente tuo, cioè il
tuo uomo interiore (cf. 2Cor 4,16; Ef 3,16), che, in base alla leg-
ge dell’agnello, deve essere perfetto e senza macchia, immune
da ogni difetto e infermità (cf. Es 12,5)?

53 Come a dire che l’offerta che il cristiano fa della propria vita a Dio è valida nel-

la misura in cui si unisce all’unico sacrificio, quello di Cristo, celebrato nell’eucaristia.


54 Cioè: che vivi ancora in modo puramente mondano.
55 Cioè l’unzione del crisma che, conformando il battezzato al Cristo, lo rende par-

tecipe del suo sacerdozio (cf. nello stesso senso Origene, Omelie sul Levitico 9,9).

156
“Accogli, Signore …”

Come potrai dunque offrire a Dio queste cose, tu che non


ascolti la Legge che vieta all’impuro di essere sacerdote (cf. Lv
21,16-23)? E se desideri anche che Dio si manifesti a te, per-
ché non ascolti Mosè che ordina al popolo di mantenersi puro
astenendosi dalle relazioni coniugali (cf. Es 19,15), per essere
capace di ricevere la manifestazione di Dio? Ma se queste ti
sembrano cose da poco – essere crocifisso insieme a Cristo (cf.
Gal 2,19), offrire te stesso a Dio in sacrificio vivente (cf. Rm
12,1), diventare sacerdote del Dio altissimo (cf. Gen 14,18) ed
essere ritenuto degno della grande manifestazione di Dio –, co-
sa mai potremo escogitare di più sublime per te, se perfino le
conseguenze di tutto ciò ti sembreranno poca cosa? Dall’esse-
re crocifissi insieme a lui, infatti, deriva il vivere, l’essere glori-
ficati e il regnare insieme a lui (cf. 2Tm 2,19; Rm 8,17). Con
l’offrire se stessi a Dio si ottiene di passare dalla natura e dalla
dignità umana a quella angelica; così infatti dice Daniele: Mille
migliaia lo assistevano (Dn 7,10). Chi poi ha ricevuto il vero sa-
cerdozio56 e si è reso conforme al grande Sommo sacerdote (cf.
Eb 4,14), rimane certamente anche lui sacerdote per sempre, sen-
za che la morte gli impedisca di rimanere tale in eterno (cf. Eb
7,21.23). Quanto poi al fatto di essere stati ritenuti degni di ve-
dere Dio, il suo frutto altro non è che il fatto stesso di essere
stati ritenuti degni di vederlo; questo infatti è il vertice di ogni
speranza, il compimento di ogni desiderio, il termine e il coro-
namento di ogni benedizione di Dio, di ogni sua promessa e di
tutti i beni ineffabili che, come crediamo, sono al di là di ogni
percezione e conoscenza: anche Mosè desiderò intensamente ve-
derlo (cf. Es 33,18) e così molti profeti e re (Lc 10,24), ma ne so-
no degni soltanto i puri di cuore, che proprio per questo sono ve-
ramente beati, e così sono chiamati, perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Gregorio di Nissa, Sulla verginità 23,7

56 Cioè il sacerdozio inteso in senso spirituale ed esistenziale in riferimento all’of-

ferta della propria vita a Dio.

157
Capitolo III

27. Ieri ero crocifisso con Cristo, oggi con lui sono glorifica-
57
to ; ieri morivo con lui, oggi con lui torno a vivere; ieri ero se-
polto con lui, oggi con lui risorgo. Portiamo dunque offerte a
colui che per noi ha sofferto ed è risorto (cf. Rm 7,4)! Forse
crederete che vi parli di oro, di argento, di tessuti, di pietre tra-
sparenti e preziose, di questa materia terrestre che passa e rima-
ne quaggiù, che per lo più è in mano a uomini malvagi e schia-
vi delle cose di quaggiù e del signore di questo mondo. Portia-
mo in offerta noi stessi, il bene più prezioso per Dio e a lui più
simile58. Rendiamo all’immagine la sua qualità d’immagine (cf.
Gen 1,26)59, riconosciamo la nostra dignità, onoriamo il model-
lo, comprendiamo la potenza del mistero e per chi Cristo è mor-
to (cf. Rm 5,6.8)!
Diventiamo come Cristo, poiché Cristo è diventato come noi;
diventiamo dèi a causa sua, poiché egli è diventato uomo a cau-
sa nostra60. Egli ha assunto ciò che è peggiore, per donare ciò
che è migliore; si è fatto povero, perché noi diventassimo ric-
chi per mezzo della sua povertà (cf. 2Cor 8,9); ha preso forma di
schiavo (Fil 2,7), perché noi riottenessimo la libertà (cf. Gal 5,1);
si è abbassato, perché noi fossimo innalzati; ha subito la tenta-
zione, perché noi avessimo la vittoria; è stato umiliato, perché
noi fossimo glorificati; è morto, per salvarci; è asceso in alto, per
attrarci a sé, poiché giacevamo in basso a causa della caduta del
peccato. Tutto si doni, tutto si offra a colui che ha donato se
stesso in riscatto per noi e la sua vita al posto nostro! Non si po-
trà donare niente di così grande come se stessi, purché si com-

57 Il discorso è stato pronunciato in occasione della festa di Pasqua.


58 Cf. anche Gregorio di Nazianzo, Orazioni 40,40: “Offriamoci a Dio tutti interi,
diventiamo olocausti spirituali, vittime perfette … diamoci tutti interi, per riceverci
in cambio tutti interi, perché ricevere in modo puro significa darsi a Dio e celebrare
come un sacrificio la nostra stessa salvezza”.
59 L’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, ovvero di Cristo, è chiamato a

ritrovare in lui la sua vera natura e quindi la sua piena comunione con Dio.
60 Cf. Massimo il Confessore, Libro ascetico 43, che fa eco al nostro testo. Come

per Atanasio di Alessandria, anche per Gregorio di Nazianzo, lo scopo fondamentale

158
“Accogli, Signore …”

prenda il mistero e si diventi a causa sua tutto ciò che egli è di-
ventato a causa nostra.
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 1,4-5

28. Sapendo che nessuno è degno del grande Dio (Tt 2,13), a
un tempo vittima e sommo sacerdote, se non ha prima offerto
se stesso a Dio come sacrificio vivente e santo, se non gli ha pre-
stato il culto spirituale e a lui gradito (cf. Rm 12,1), se non ha
offerto a Dio un sacrificio di lode (Sal 49,14) e uno spirito contri-
to (Sal 50,19), unico sacrificio che ci richiede colui che tutto ci
ha donato, come potevo osare presentargli il sacrificio esterio-
re, che è raffigurazione dei grandi misteri61? O come rivestirmi
dell’abito e del nome di sacerdote prima di aver consacrato le
mie mani con opere sante?
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 2,95

29. Uno sia il compito del sacerdote, e solo questo,


purificare le anime con la vita e la parola,
guidandole in alto con gesti ispirati da Dio,
sereno e con mente elevata, raffigurando in sé soltanto
le sembianze divine62, in modo puro,
come uno specchio che in sé riceve una figura,
e presentare offerte pure per i propri figli63,
finché non li renda essi stessi un’offerta.
Si lasci il resto a chi ne è più adatto.
Così potremo trascorrere una vita sicura.
Gregorio di Nazianzo, Poesie II,1,12, vv. 751-760

della vita cristiana è raggiungere la “divinizzazione” (théosis): essa è stata resa possibi-
le dall’umanizzazione di Dio in Cristo, ma all’uomo spetta un compito attivo per acco-
gliere il dono (cf. N. Russell, The Doctrine of Deification in the Greek Patristic Tradi-
tion, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 213-224).
61 L’autore cerca di giustificare la sua iniziale resistenza ad accettare l’ordinazione

presbiterale. Per il termine “raffigurazione” (antítypon), cf. infra, p. 296, n. 45.


62 Cioè quelle di Cristo, del quale celebra i misteri.
63 Ovvero per i propri figli spirituali: i cristiani per i quali il presbitero celebra l’eu-

caristia.

159
Capitolo III

30. Che cos’è il culto spirituale (Rm 12,1)? È il ministero spi-


rituale, la vita secondo Cristo. Come chi nella casa di Dio svol-
ge il ministero di diacono o di sacerdote, qualunque sia il suo
temperamento, in quel momento si raccoglie e assume un con-
tegno più decoroso, anche noi dobbiamo trovarci in tali dispo-
sizioni per l’intera durata della vita, come persone che presta-
no un culto e svolgono un ministero sacerdotale. E ciò può av-
venire se ogni giorno offri sacrifici a Dio e diventi sacerdote del
tuo stesso corpo e della virtù della tua anima: ad esempio quan-
do offri la tua castità, quando offri l’elemosina, quando offri mi-
tezza e pazienza. Quando fai tutte queste cose, infatti, offri un
culto spirituale, che non ha niente di corporeo, niente di grosso-
lano, niente di sensibile.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani 20,2

31. Offrite i vostri corpi in sacrificio vivente, santo e gradito a


Dio, il vostro culto spirituale (Rm 12,1). [L’Apostolo] non ha scrit-
to queste raccomandazioni soltanto per i sacerdoti, come credi,
ma per tutta la chiesa. Egli ordina che, in questo ambito, ciascu-
no sia sacerdote di se stesso … Come infatti nell’antica allean-
za non era permesso svolgere funzioni sacerdotali, se non ai so-
li sacerdoti, e tuttavia nel tempo di Pasqua tutti in un certo
modo erano onorati del sacerdozio – poiché ciascuno immolava
un agnello (cf. Es 12,1-14) –, così anche nella nuova e definiti-
va alleanza, se da una parte, la celebrazione del sacrificio in-
cruento64 è riservato in modo esclusivo a coloro ai quali è stato
concesso di offrire tale sacrificio, dall’altra però ciascuno è sta-
to consacrato sacerdote del proprio corpo, non certo perché egli
si arroghi l’autorità sui fedeli senza aver ricevuto l’ordinazione,
ma perché, dominando sul vizio, faccia del proprio corpo un
tempio o santuario della purezza.
Isidoro di Pelusio, Lettere 3,75

64 Cioè dell’eucaristia.

160
“Accogli, Signore …”

32. E saranno persone che offrono al Signore un sacrificio secon-


do giustizia. E sarà gradito al Signore il sacrificio di Giuda e di Ge-
rusalemme, come nei giorni antichi, come negli anni passati (Ml
3,3-4). Saranno consacrati a Dio, vuol dire [il profeta]65. Que-
sto significa infatti: E saranno persone che offrono al Signore. E
noi ci consacriamo a Dio quando non viviamo più per noi stes-
si, ma aderiamo totalmente all’amore verso di lui e scegliamo
con tutte le nostre forze di compiere le sue divine volontà. Ha
detto qualcosa di simile anche il divino Paolo parlando di Cri-
sto, il Salvatore di tutti noi: Uno solo è morto per tutti, affinché
coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è
morto e risorto per loro (2Cor 5,14-15). Descrivendoci poi in qual-
che modo la bellezza della propria condotta di vita e manife-
stando la potenza del mistero di Cristo, ha detto di nuovo: So-
no stato crocifisso con Cristo, e vivo, ma non più io: vive in me Cri-
sto. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio
di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. Non annullo la
grazia di Dio (Gal 2,19-21) …
Noi che siamo stati chiamati in Cristo, non ammettiamo più
i sacrifici con effusione di sangue e fumo, e tantomeno offria-
mo a Dio agnelli o capretti, ma in chiesa piuttosto compiamo il
sacrificio santo e spirituale, offerto in nome di Cristo; e men-
tre lo presentiamo, per la santificazione e la partecipazione al-
la vita eterna, offriamo i profumi delle nostre opere buone co-
me un incenso di qualità eccellente (cf. Ef 5,2). E offrendogli
in sacrificio la giustizia, siamo sicuri di essergli graditi, perché
sta scritto: Onora il Signore con le tue giuste fatiche e offrigli le
primizie dei tue frutti di giustizia (Pr 3,9). Il Dio dell’universo,
infatti, non si compiace, io credo, di altri sacrifici all’infuori di
questi. Per questo [il profeta] ha detto che coloro che sarebbero
stati chiamati in Cristo a offrire un sacrificio, sarebbero stati
migliori dei primi, perché non avrebbero sacrificato pecore co-

65 L’autore intende la profezia di Malachia come riferita ai cristiani.

161
Capitolo III

me quelli, né profanato l’altare offrendovi pani contaminati, ma


avrebbero offerto a Dio, a mo’ di incenso, la giustizia e la bellez-
za spirituale della vita evangelica.
Cirillo di Alessandria, Commento a Malachia 35

33. Oggi è la Pasqua del Signore, giorno di festa splendente,


giorno della resurrezione di Cristo, il quale ha crocifisso il pec-
cato, è morto per noi ed è risorto66! Offriamo anche noi doni al
Signore, sacrifici e olocausti, ma non di animali privi di ragio-
ne, che Cristo non vuole, perché [sta scritto]: Non hai voluto né
sacrificio né offerta di animali, e non hai gradito olocausti di vi-
telli e di pecore (cf. Sal 39,7; Eb 10,5-6). E Isaia dice: “Che co-
sa me ne faccio della moltitudine dei vostri sacrifici?”, dice il Signo-
re (Is 1,11), con ciò che segue. Ma poiché l’Agnello di Dio è sta-
to immolato per noi, come dice l’Apostolo: Cristo, nostra Pasqua,
è stato immolato per noi (1Cor 5,7), per togliere il peccato del
mondo (cf. Gv 1,29), ed è diventato maledizione per noi, come
sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, per riscattarci dalla ma-
ledizione della Legge (cf. Gal 3,13) e perché ricevessimo l’adozio-
ne a figli (Gal 4,5), dobbiamo anche noi offrirgli un nostro do-
no che gli sia gradito. Ma quale dono o quale offerta dobbiamo
offrire a Cristo nel giorno della resurrezione, perché gli sia gra-
dita, dal momento non vuole sacrifici di animali privi di ragio-
ne? È ancora lo stesso santo a insegnarcelo. Dopo aver detto
infatti: “Giorno di resurrezione”67, ha aggiunto: “Portiamo in
offerta noi stessi!”, come dice anche l’Apostolo: Offrite i vostri
corpi in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: questo è il vostro
culto spirituale (Rm 12,1).
In che modo dunque dobbiamo offrire i nostri corpi in sacri-
ficio vivente, santo e gradito a Dio? Così: non facendo più le

66 L’autore in questo brano commenta un tropario per la festa di Pasqua, a sua vol-

ta ispirato a Gregorio di Nazianzo (cf. supra, § 27).


67 Gregorio di Nazianzo, Orazioni 1,1.

162
“Accogli, Signore …”

volontà della carne e dei nostri pensieri (Ef 2,3), ma camminan-


do secondo lo Spirito senza compiere il desiderio della carne (cf.
Gal 5,16). Questo infatti vuol dire mortificare le membra che
sono sulla terra (cf. Col 3,5), e questo è il sacrificio vivente, san-
to e gradito a Dio (Rm 12,1).
Ma perché si chiama sacrificio vivente? Perché l’animale pri-
vo di ragione condotto al sacrificio viene immolato e muore nel-
lo stesso istante, mentre i santi portando in offerta a Dio se stes-
si, si sacrificano viventi ogni giorno, come dice David: A causa
tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore
da macello (Sal 43,23; Rm 8,36). Questo appunto è ciò che di-
ce il santo Gregorio: “Portiamo in offerta noi stessi!”, cioè sa-
crifichiamo noi stessi, mettiamoci a morte tutto il giorno, come
hanno fatto tutti i santi a causa di Cristo nostro Dio, a causa di
colui che è morto per noi.
Ma in che modo i santi “hanno messo a morte se stessi”?
L’hanno fatto non amando il mondo né le cose che sono nel mon-
do (1Gv 2,15), come si dice nelle lettere cattoliche, ma rinun-
ciando alla concupiscenza della carne, alla concupiscenza degli oc-
chi e alla superbia della vita (cf. 1Gv 2,16), cioè all’amore del
piacere, all’amore del denaro e alla vanagloria, e inoltre pren-
dendo la croce e seguendo Cristo (cf. Mt 16,24) e crocifiggen-
do il mondo per se stessi e se stessi per il mondo (cf. Gal 6,14).
In proposito l’Apostolo dice: Quelli che sono di Cristo Gesù han-
no crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (Gal
5,24). Ecco in che modo i santi hanno messo a morte se stessi.
Ma in che modo “hanno portato se stessi in offerta”? L’han-
no fatto non vivendo per se stessi, ma sottomettendosi ai co-
mandamenti di Dio e abbandonando le proprie volontà per il
comandamento e per l’amore di Dio e del prossimo (cf. Mt
22,37-39), come ha detto san Pietro: Ecco noi abbiamo lasciato
tutto e ti abbiamo seguito (Mt 19,27). Che cosa mai aveva la-
sciato? Egli non possedeva né beni, né proprietà, né oro, né ar-
gento. Possedeva soltanto la rete da pesca, e anche quella era

163
Capitolo III

usurata – come ha detto il santo Giovanni Crisostomo68 –, eppu-


re abbandonò tutte le proprie volontà69, ogni attaccamento pas-
sionale di questo mondo, tanto che è evidente che, se avesse
avuto ricchezze o abbondanza di beni, avrebbe disprezzato an-
che quelle; inoltre, presa la croce, seguì Cristo (cf. Mt 16,24),
secondo quella parola: Vivo, ma non più io: vive in me Cristo (Gal
2,20). Ecco in che modo i santi hanno portato se stessi in offer-
ta mortificando se stessi, come abbiamo detto, rispetto a ogni
attaccamento passionale e volontà propria e vivendo solo per
Cristo e per i suoi comandamenti. Allo stesso modo, dunque,
anche noi “portiamo in offerta noi stessi”, come insegna il san-
to Gregorio. Egli vuole infatti che noi siamo “il bene più pre-
zioso per Dio”.
Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali 16,167-170

68 Cf. Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani 7,8.


69 Nella letteratura patristica, in particolare monastica, l’espressione “volontà pro-
pria” (oikeîon o ídion thélema) è un termine tecnico, che non indica tanto la libera de-
terminazione dell’uomo, quanto piuttosto la sua volontà “malata”, schiava delle pas-
sioni che lo abitano, la quale impedisce all’uomo di compiere la volontà di Dio e lo ren-
de prigioniero dell’amore di sé (philautía). Sul tema, cf. Il cammino del monaco, pp. 200;
233-237.

164
Capitolo IV
“PACE A TUTTI”

Dopo aver deposto i doni sull’altare e aver recitato la preghiera


con la quale li presenta a Dio, chiedendo allo stesso tempo di esse-
re reso degno di celebrare i santi misteri, il ministro che presiede la
celebrazione (vescovo o presbitero) proclama a tutti l’augurio di pa-
ce (“Pace a tutti!”); quindi, dopo la consueta risposta dell’assem-
blea (“E al tuo spirito!”), il diacono esorta tutti i partecipanti, chie-
rici e laici – secondo la prassi antica in vigore almeno fino al IX-X
secolo –, a scambiarsi un saluto di pace in segno di riconciliazione
e di amore fraterno1.
Ma prima di prendere in considerazione i testi che si riferiscono
specificamente al rito della pace, è anzitutto necessario cogliere l’im-
portanza che la pace, continuamente evocata nelle parole della li-
turgia, riveste all’interno del pensiero dei padri della chiesa, i qua-
li ne fanno una delle condizioni essenziali e imprescindibili per la
celebrazione dell’eucaristia e quindi per l’accesso della comunità
cristiana alla comunione al corpo e sangue di Cristo (cf. §§ 14; 19
e supra, c. I,1). Ma cosa intendono i padri quando parlano di “pa-

1 La liturgia romana con intento simile colloca lo scambio della pace dopo il Padre

nostro, per sancire il perdono reciproco immediatamente prima della comunione dei
fedeli (cf. J. A. Jungmann, Missarum sollemnia II, pp. 244-245). La sua collocazione al-
l’inizio della liturgia eucaristica, comune a tutte le liturgie orientali, ha però il pregio
di sottolineare che tale liturgia nella sua interezza – dall’inizio dell’offertorio fino alla
comunione – è un atto che riguarda e coinvolge tutta l’assemblea, alla quale vengono
fin da subito richieste le adeguate disposizioni per parteciparvi, come del resto è espli-
citamente affermato dal dialogo che introduce l’anafora.

165
Capitolo IV

ce” (eiréne)? In che senso comprendono l’augurio di pace rivolto


dal presidente a tutta l’assemblea?
Innanzitutto – ed è il senso più immediato ed evidente – si trat-
ta della pace che deve regnare tra i membri della comunità cristia-
na e che essi sono invitati a costruire e a ristabilire continuamente:
in questo senso essa è strettamente connessa alla concordia, all’uni-
tà e alla carità (cf. §§ 1-6) 2. È una pace fondata nella fede in Cristo
e radicata nell’unione dei cuori (cf. §§ 3-4): per celebrare l’unico
sacrificio e formare un unico corpo, infatti, non è sufficiente con-
venire “in uno stesso luogo” (epì tò autó), ma è necessaria una con-
cordia interiore “in uno stesso spirito” (homothymadón), che fa sì
che tutti i membri presenti alla sinassi – senza dimenticare gli assen-
ti – abbiano “una sola anima e un solo cuore” (§ 8), come i mem-
bri della comunità primitiva di Gerusalemme (cf. At 1,14; 4,32).
In questo senso la pace è compresa come il dono di Dio per ec-
cellenza, lasciato in eredità da Cristo alla sua comunità e da lui
continuamente rinnovato (cf. §§ 6-7; 12): la comunità cristiana,
mentre si sforza da parte sua di custodire e ristabilire la pace, la in-
voca essa stessa da Dio (cf. § 14). Le parole “Pace a tutti!” e “Pace
a voi!” pronunciate dal presidente dell’assemblea, in questo e in
molti altri momenti della celebrazione liturgica, prima ancora di
essere un invito e un’esortazione rivolti alla comunità, sono com-
prese come un’invocazione, o meglio una proclamazione che il mi-
nistro ordinato compie in persona Christi – “È Cristo che si degna
di rivolgervi la parola attraverso di me!” (§ 7), dice Giovanni Cri-
sostomo – e assicurano ai membri della chiesa che ciò che essi so-

2 Nelle chiese antiche questa concordia, unità e comunione fraterna trovavano

un’efficace rappresentazione architettonica nel sØnthronon absidale – l’insieme costi-


tuito dalla cattedra episcopale e dai seggi dei concelebranti – nel quale il vescovo, “che
presiede al posto di Dio” (§ 3), sedeva circondato dal suo presbiterio. Significativa-
mente, proprio al momento di salire sul sØnthronon, prima delle letture bibliche, il ve-
scovo rivolgeva un saluto di pace all’assemblea radunata (cf. infra, §§ 7; 9; c. IX,16),
come faceva di nuovo prima del bacio di pace. Cf. A. Lossky, “Le synthronon byzan-
tin, une disposition architecturale exprimant une ecclésiologie”, in L’espace liturgique,
pp. 167-174.

166
“Pace a tutti”

no chiamati a realizzare è già stato realizzato da Dio in Cristo, il


quale lo comunica a loro come un dono di grazia (cf. § 11). Acco-
gliere la pace che viene da Dio come un dono, prendendo coscienza
che “Cristo è la nostra pace” (§ 15), secondo le parole dell’Aposto-
lo, è il primo passo e la condizione per realizzare e custodire la pace.
Tale pace è intesa dai padri non solo come la concordia fraterna
tra i membri della comunità, ma anche come la pace di ciascuno
con se stesso e con Dio (cf. §§ 10; 13-14), poiché la divisione non
insidia solo le relazioni fraterne ma, più in profondità, il cuore di
ogni uomo, che si trova continuamente esposto alla guerra contro
le proprie passioni – che, come afferma Massimo il Confessore, so-
no tutte metamorfosi di un’unica passione: quella che i padri chia-
mano philautía, ovvero l’amore egoistico di sé 3 –, passioni che lo
separano, oltre che da Dio e dagli altri, dalla sua autentica umani-
tà, creata e rigenerata in Cristo.
Tra tutte le passioni, quella che più di ogni altra, una volta infil-
tratasi nel cuore di un uomo, è in grado di turbarlo impedendogli
di pregare e di entrare in comunione con Dio è proprio quella del
rancore nei confronti dei fratelli: per questo i padri della chiesa, fa-
cendo tesoro della parole di Cristo (cf. Mt 5, 23-24: “Se offri il tuo
dono all’altare e là ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro
di te …”), raccomandano unanimemente ai fedeli la riconciliazio-
ne fraterna prima dell’eucaristia. L’eucaristia, infatti, secondo la
profezia di Malachia, è il “sacrificio puro” (§ 16), che celebra l’im-
molazione di Cristo in favore dei peccatori, da lui perdonati in mo-
do gratuito e senza condizioni (cf. §§ 18-19). Occorre dunque ri-
spettare “il senso profondo di questa offerta” (§ 19): nessuno può
far memoria e partecipare di questa offerta senza offrire e cercare
lui stesso la riconciliazione e il perdono nei confronti dei suoi fra-
telli: “Fa’ prima dunque ciò per cui si offre il sacrificio – racco-
manda Giovanni Crisostomo –, intendo la pace, e allora potrai go-
derne i benefici” (§ 19).

3 Cf. I. Hausherr, Philautía. Dall’amore di sé alla carità, Qiqajon, Bose 1999.

167
Capitolo IV

In questa luce, lo scambio della pace – che nei primi secoli del-
l’antichità cristiana consisteva non in un semplice abbraccio o in
una fugace stretta di mano, ma in un vero bacio (aspasmós o phí-
lema) in tutta la sua concretissima corporeità 4, che la successiva
normalizzazione ecclesiastica si sarebbe immancabilmente incari-
cata di castigare e di stilizzare – acquista il suo pieno spessore e si-
gnificato. È chiaro però che anche i gesti più belli, senza la forza
della carità che li ha generati, possono diventare a lungo andare
vuote formalità o essere completamente stravolti nel loro significa-
to. Contro ogni possibile equivoco, i padri raccomandano innanzi-
tutto che tale bacio sia “santo” (cf. §§ 22-25; 28-29), secondo il
comando dell’Apostolo: “Salutatevi gli uni gli altri con il bacio
santo!” (Rm 16,16 e par.). “Non pensare che questo bacio assomi-
gli a quelli che si scambiano in piazza tra amici comuni!” (§ 24),
avverte Cirillo di Gerusalemme. Esso deve essere “puro” e “casto”
(cf. §§ 22-23), non sensuale né sfacciato, né tantomeno falso come
quello con il quale Giuda tradì Cristo (cf. §§ 23; 28-29), ma deve
corrispondere ai sentimenti interiori di carità e di pace di colui che
lo dona: deve cioè essere “un bacio che viene dall’anima” (§ 27), un
segno “che le anime si sono unite e scacciano ogni rancore” (§ 24),
che tutti sono uniti in un solo corpo in virtù del battesimo (cf. § 29)
e riconoscono vicendevolmente la presenza di Cristo gli uni negli al-
tri, in quanto sono stati resi “templi di Cristo” dallo Spirito santo (cf.
§§ 25; 28).
Il bacio di pace, dunque, quando viene compiuto con tali dispo-
sizioni, è presentato dai padri come un atto rivestito di una reale e
piena dignità sacramentale 5 – pur se ancillare rispetto al sacramen-

4 Cf. M. Penn, “Performing Family: Ritual Kissing and the Construction of Early

Christian Kinship”, in Journal of Early Christian Studies 10/2 (2002), pp. 151-174, che
collega l’adozione del rito del bacio (un gesto per lo più limitato alla sfera dell’intimi-
tà familiare) alla volontà dei cristiani di costruire la comunità come una nuova famiglia
non fondata sui legami di sangue.
5 Cf. il libro di A. Schmemann, L’eucaristia, sacramento del regno, Qiqajon, Bose

2005, p. 185.

168
“Pace a tutti”

to del battesimo, che esso presuppone6, e a quello dell’eucaristia,


cui dà accesso7 – ed è perciò detto bacio “mistico” (mystikón) (§ 22),
in quanto rende partecipi del “mistero” (mystérion) di Cristo, il cui
amore rende possibile il nostro amore, e bacio “spirituale” (§ 32),
in quanto manifesta ciò che lo Spirito santo realizza segretamente
nei corpi e nelle anime dei credenti radunati in unità (cf. §§ 25; 30).
È appunto così che, “uniti strettamente gli uni agli altri” (§ 25)
con il vincolo della carità, i membri dell’assemblea cristiana posso-
no confessare insieme l’unica fede 8 e accostarsi ai santi misteri dan-
do inizio alla liturgia eucaristica propriamente detta. “Questo ba-
cio dimostra che coloro che vanno a comunicare accettano di ritro-
vare la loro situazione battesimale e quindi di essere al di là di tutto
ciò che in questo mondo è occasione di opposizione e di divisione,
accettano in particolare di essere riconciliati tra loro come lo sono
e perché lo sono con Dio: essi sono passati dalla morte alla vita, cioè
si amano” 9. Ma poiché tutto ciò che si realizza in questa vita terre-
na è inevitabilmente segnato dal limite e dall’imperfezione, attra-
verso questo gesto essi proclamano anche in modo profetico – co-
me sottolineano alcuni testi – l’unione escatologica tra tutti gli uo-
mini che si realizzerà in pienezza solo nel regno di Dio (cf. § 32),
quando si renderà manifesto che Cristo “è la pace e l’unità di tut-
ti … che unisce tutti ed è unito a tutti” (§ 34).

6 In Tradizione apostolica 18 si vieta il bacio di pace a quanti non hano ancora rice-

vuto il battesimo, “perché il loro bacio non è ancora santo”.


7 Nella prassi sacramentale antica il bacio di pace veniva dato al neobattezzato do-

po la sua uscita dalla vasca battesimale, anche se non è chiaro in quale momento preci-
so, ma comunque prima che egli accedesse alla mensa dell’eucaristia (cf. Ph. de Roten,
Baptême et mystagogie, p. 316).
8 L’uso di recitare il simbolo di fede (il Credo niceno-costantinopolitano) prima del-

la preghiera eucaristica fu adottato ad Antiochia dal patriarca Pietro il Fullone, nel


473, e poi a Costantinopoli dal patriarca Timoteo (512-518), diffondendosi successiva-
mente nelle altre chiese. Sebbene relativamente tarda e motivata da esigenze extrali-
turgiche (la comprensibile necessità di affermare l’ortodossia contro le dottrine ereti-
che), quest’inserzione si rivela però quanto mai adeguata al contesto celebrativo: fede
e carità costituiscono infatti in modo inscindibile secondo i padri la sorgente e il fon-
damento di quell’unità della chiesa che nell’eucaristia viene manifestata e celebrata
(cf. §§ 1-3 e supra, c. I,1).
9 J. J. von Allmen, Saggio sulla Cena del Signore, Ave, Roma 1968, pp. 118-119.

169
Capitolo IV

α. Dopo ciò10 il diacono dica: Facciamo attenzione! E il vesco-


vo saluti l’assemblea e dica: La pace di Dio sia con tutti voi!
E il popolo risponda: E con il tuo spirito! E il diacono dica a
tutti: Salutatevi l’un l’altro con il bacio santo (Rm 16,16 e
par.). I membri del clero allora bacino il vescovo, gli uomini
laici i laici, e le donne le donne.
Costituzioni apostoliche VIII,11,7-9

β. Il sacerdote: Pace a tutti!


Il popolo: E al tuo spirito!
Il diacono: Amiamoci gli uni gli altri11!
Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 320

Pace e concordia, dono di Dio e opera dell’uomo

1. È necessario che vi accordiate al pensiero del [vostro] ve-


scovo, come del resto già fate. Il vostro presbiterio, infatti, de-
gno della fama di cui gode e degno di Dio, è così in accordo
con il vescovo, come le corde con una cetra. Per questo, la vo-
stra concordia e l’armonia della vostra carità cantano Gesù Cri-
sto; e voi, ciascuno per la sua parte, diventate un coro, affinché,
armoniosi nella concordia, dopo aver ricevuto la tonalità di Dio
nell’unità, possiate cantare a una sola voce al Padre per mezzo
di Gesù Cristo, e così egli vi ascolti e riconosca, attraverso il be-
ne che operate, che siete membra di suo Figlio. È dunque van-

10 Al termine delle preghiere d’intercessione recitate dal vescovo a nome di tutti i

fedeli.
11 Queste parole introducevano il bacio di pace fra tutti i partecipanti alla liturgia

almeno fino al ix-x secolo; successivamente il gesto fu limitato ai soli ministri ordina-
ti, come avviene ancora oggi nelle chiese di tradizione bizantina. L’attuale Liturgia di
Giovanni Crisostomo (b), p. 382, l. 22, collega queste parole alla recitazione del simbo-
lo di fede, aggiungendo: “Per confessare [la fede] nella concordia”.

170
“Pace a tutti”

taggioso per voi trovarvi in un’unità irreprensibile, per essere


sempre partecipi di Dio.
Se io, infatti, in breve tempo ho raggiunto con il vostro ve-
scovo un’intimità tale, che non può essere umana ma spiritua-
le, a maggior ragione non devo forse chiamare beati voi, che sie-
te così intimamente uniti a lui, come la chiesa a Gesù Cristo, e
come Gesù Cristo al Padre, affinché tutto sia armonioso nel-
l’unità?
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 4,1-2; 5,1

2. Quali figli della luce di verità, fuggite la divisione e i cat-


tivi insegnamenti: dov’è il pastore, là seguitelo come pecore!
Molti lupi infatti che [appaiono] degni di fede si compiacciono
perfidamente di rendere prigionieri coloro che camminano sul-
le vie di Dio; ma nella vostra unità non troveranno spazio. Te-
netevi lontani dalle erbe cattive, che Gesù Cristo non coltiva,
perché non sono piantagione del Padre (cf. Mt 15,13)!
Non che io abbia trovato in voi divisione, ma piuttosto sepa-
razione da ogni impurità. Quanti infatti sono di Dio e di Gesù
Cristo, stanno con il vescovo; e quanti si convertono e vengo-
no all’unità della chiesa, saranno anch’essi di Dio, per vivere se-
condo Gesù Cristo. Non ingannatevi, fratelli miei: se qualcuno
segue chi è causa di divisione non erediterà il regno di Dio (cf.
1Cor 6,9-10); se qualcuno cammina secondo un pensiero estra-
neo, costui non si accorda alla passione [di Cristo]!
Ignazio di Antiochia, Lettera ai Filadelfesi 2,1-2; 3,1-3

3. Sforzatevi, vi prego, di fare tutto nella concordia di Dio,


con il vescovo che presiede al posto di Dio12, con i presbiteri
che sono al posto del collegio degli apostoli, con i diaconi, a me
così cari, ai quali è stato affidato il servizio di Gesù Cristo, che

12 Cioè di Cristo.

171
Capitolo IV

era prima dei secoli presso il Padre e si è manifestato alla fine.


Tutti, dunque, conformandovi al comportamento di Dio, rispet-
tatevi gli uni gli altri, e nessuno guardi al suo prossimo in modo
carnale13, ma amatevi sempre gli uni gli altri in Gesù Cristo.
Non vi sia nulla tra voi che possa dividervi, ma unitevi al vesco-
vo e a quelli che presiedono [la comunità], così da essere imma-
gine e insegnamento di incorruttibilità.
Come dunque il Signore non fece nulla senza il Padre al qua-
le è unito, né da se stesso né mediante gli apostoli, così anche
voi non fate nulla senza il vescovo e i presbiteri. E non cercate
di far apparire come ragionevole qualcosa [che fate] di vostra
iniziativa, ma [fate tutto] in comune: una sola preghiera, una so-
la supplica, un solo pensiero, una sola speranza nella carità, nel-
la gioia irreprensibile che è Gesù Cristo, cui nulla è preferibile.
Tutti insieme accorrete, come verso un unico tempio di Dio,
come attorno a un unico altare14, a un unico Gesù Cristo, il qua-
le uscì dall’unico Padre e che nell’Unico era ed è ritornato!
Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 6,1-2; 7,1-2

4. Restate saldi nella concordia di Dio, possedendo quello


spirito indiviso che è Gesù Cristo15!
Ignazio di Antiochia, Lettera ai Magnesii 15

5. Oh, pace amata, dolce realtà e dolce nome, che io proprio


ora ho donato al popolo e ho ricevuto in cambio16! Non so se
da parte di tutti siano state parole sincere e degne dello Spiri-
to, piuttosto che convenzioni sociali di cui Dio rifiuta di esse-
re testimone e che aggravano la nostra condanna.

13 Cioè secondo un punto di vista puramente umano e materiale.


14 Sul legame tra unità e partecipazione a un’unica sinassi eucaristica, cf. i testi del-
lo stesso autore citati supra, c. I,1-4.
15 Cioè l’unanimità che si radica nella fede e nell’unione con Cristo.
16 L’autore allude evidentemente alla formula “Pace a tutti!” rivolta dal ministro

all’assemblea, che risponde: “E al tuo spirito” (cf. supra, § β).

172
“Pace a tutti”

Oh, pace amata, oggetto delle mie cure e mio vanto! Di es-
sa sentiamo dire che appartiene a Dio e che Dio è il suo Dio,
anzi che è in se stessa Dio, come quando udiamo: La pace di Dio
(Fil 4,7), e: Il Dio della pace (2Cor 13,11), e: Egli stesso è la no-
stra pace (Ef 2,14); e nonostante ciò non ne abbiamo rispetto!
Oh, pace amata, bene lodato da tutti, ma da pochi custodi-
to, dove ci abbandonasti un giorno, dal quale è passato già tan-
to tempo, e quando ritornerai a noi? Come sento la tua mancan-
za e quanto ti amo, in maniera ben diversa dagli altri uomini!
Come ti circondo di rispetto quando sei presente, e ti invoco
quanto sei assente, con molti gemiti e lacrime, come neppure il
patriarca Giacobbe fece per il famoso Giuseppe, che era stato
venduto dai fratelli, ma che egli credeva caduto in preda a una
bestia feroce (cf. Gen 37,12-35), e come neppure David fece per
il suo amico Gionata, vittima della guerra (cf. 2Sam 1,11-27),
o in seguito per il figlio Assalonne (cf. 2Sam 19,1-9)! …
Se uno ci chiedesse: “Cos’è che voi onorate e adorate?”, sa-
rebbe facile rispondere: “La carità!”, perché il nostro Dio è ca-
rità (1Gv 4,8.16). Sono parole dello Spirito santo, e che Dio si
compiace di ascoltare più di ogni altra cosa. Qual è il punto ca-
pitale della Legge e dei Profeti? L’evangelista non ci permette-
rà di rispondere nient’altro che questo (cf. Mt 22,36-40). Per-
ché allora noi, i discepoli della carità, nutriamo e suscitiamo co-
sì tanto odio? Perché noi, i discepoli della pace, perseguiamo
guerre senza tregua e senza riconciliazione? Perché noi, i disce-
poli della Pietra angolare (cf. Ef 2,20), ci separiamo? Perché noi,
i discepoli della Roccia (cf. Mt 7,24-25; 16,18), ci lasciamo scuo-
tere? Perché noi, i discepoli della Luce (cf. Gv 8,12), siamo av-
volti nelle tenebre? Perché noi, i discepoli della Parola17 (cf. Gv
1,1), siamo così pieni di mutismo, di follia, di demenza, e non
so che cos’altro dire?
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 22,1.4

17 Il termine lógos in greco significa “parola” e “ragione”.

173
Capitolo IV

6. È assurdo ritenere che nell’ambito privato la concordia sia


il bene migliore, ma che nella vita pubblica non sia altrettanto
vantaggioso, che una casa e una città siano amministrate nel mi-
gliore dei modi quando non hanno divisioni al proprio interno,
o ne hanno poche, o quando, anche se accade loro di esserne
vittime, subito ritrovano la calma e vi pongono rimedio, ma che
per l’insieme della chiesa vi sia qualcos’altro di meglio e di più
conveniente! È assurdo che ciascuno si sforzi di vivere in pace
con se stesso – e certo la pace è la cosa preferibile per ciascuno
e implica il pieno dominio delle passioni –, ma che poi si mostri
diverso nei rapporti con gli altri, anzi arrivi a ritenere come
sua gloria personale la distruzione del vicino! È assurdo che,
mentre Dio ci comanda di perdonare non solo sette volte, ma
molte volte tanto a coloro che hanno peccato contro di noi (cf.
Mt 18,22) – in quanto il fatto di perdonare ci procura il perdo-
no (cf. Mt 6,14; 18,35) – noi offendiamo anche quelli che non
ci hanno fatto il minimo torto, e lo facciamo addirittura più vo-
lentieri di quanto riceviamo benefici dagli altri! È assurdo che,
mentre sappiamo che agli operatori di pace è riservata una così
grande beatitudine, al punto che essi sono i soli nell’ordine dei
salvati a esser chiamati figli di Dio (cf. Mt 5,9), noi però amia-
mo l’inimicizia, e per giunta siamo convinti di agire in modo gra-
dito a Dio, lui che ha sofferto per noi per stabilirci nella pace
con lui (cf. Rm 5,10; Col 1,20) e distruggere la guerra che è tra
noi. No, amici e fratelli miei, non è così che dobbiamo pensare!
Rispettiamo il dono del Pacifico, la pace, che egli ci ha lascia-
to allontanandosi da questo mondo, come un altro messaggio
di addio (cf. Gv 14,27)! Dobbiamo conoscere un’unica guerra,
quella contro la potenza dell’avversario. Diciamo “fratelli!” an-
che a quelli che ci odiano (cf. Is 66,5), se lo accettano. Faccia-
mo qualche piccola concessione, per ottenere in cambio un be-
ne più grande, cioè la concordia! Lasciamoci sopraffare, per
ottenere la vittoria! Osservate le regole della lotta e i combat-
timenti degli atleti, i quali spesso riescono a vincere quelli che

174
“Pace a tutti”

sono a loro superiori proprio stando distesi a terra! Sono que-


sti che dobbiamo imitare, non i più insaziabili tra i commensa-
li o tra i commercianti, i quali, rimpinzandosi senza misura dei
cibi loro imbanditi, o sovraccaricando la loro nave, scoppiano e
affondano ancor prima di poter trarre un qualche vantaggio dal-
la loro avidità insaziabile, subendo così grandi perdite per un
piccolo guadagno!
Gregorio di Nazianzo, Orazioni 22,15-16

7. Noi chiediamo la pace in ogni momento: niente infatti sta


alla pari di essa. È la pace che chiediamo nelle assemblee, nelle
preghiere, nelle suppliche, nelle formule di saluto, e colui che
presiede l’assemblea la dà una, due, tre e molte volte, dicendo:
“Pace a voi!”. Ma perché? Perché la pace è la madre di tutti i
beni, ed è proprio questo il fondamento della gioia. Ecco per-
ché anche Cristo ordinò agli apostoli, quando entravano nelle
case, di dire subito questa parola, come un simbolo di tutti i
beni: Quando entrate nelle case – dice infatti – dite: Pace a voi!
(cf. Mt 10,12), perché senza la pace tutto è superfluo. E di nuo-
vo ai discepoli diceva: Vi lascio la pace, vi do la mia pace (Gv
14,27).
È la pace che prepara la via alla carità. Colui che presiede l’as-
semblea non dice soltanto: “Pace a voi!”, ma “Pace a tutti!”.
Se infatti siamo in pace con uno e in guerra con l’altro, quale
vantaggio possiamo trarne? Quale guadagno? Neppure in un
corpo, infatti, se alcune delle membra sono in pace e altre sono
in discordia tra loro, è possibile che vi sia la salute. Essa è piut-
tosto il frutto del buon ordine, dell’armonia e della pace che
regna tra tutte le membra, e se tutto non è in pace e non rima-
ne nei propri limiti, tutto sarà sconvolto. Così nel nostro ani-
mo, se tutti i pensieri non sono tranquilli, non potrà esservi la
pace. La pace è un bene così grande, che coloro che la pratica-
no e la creano sono chiamati figli di Dio (Mt 5,9), e giustamen-
te, perché il Figlio di Dio è venuto proprio per questo, per rap-

175
Capitolo IV

pacificare le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli (Col
1,20) …
Quando colui che presiede l’assemblea entra, subito dice:
“Pace a voi!”18, quando tiene l’omelia: “Pace a voi!”, quando
benedice: “Pace a voi!”, quando ordina di scambiare il saluto [di
pace]: “Pace a voi!”, quando il sacrificio è compiuto: “Pace a
tutti!”. E nel frattempo di nuovo: “Grazia a voi e pace!”. Non
è forse assurdo che, mentre ascoltiamo così tante volte la rac-
comandazione di custodire la pace, restiamo in guerra gli uni
con gli altri, e mentre riceviamo e diamo a nostra volta la pace
facciamo guerra proprio a colui che ce la dà? Tu gli dici: “E al
tuo spirito!”, e fuori lo calunni? Ohimè! Le venerabili parole
della chiesa sono diventate pura apparenza senza alcuna veri-
tà! Ohimè! Quelle che dovrebbero essere le nostre insegne ri-
mangono soltanto parole! Così ignorate addirittura perché si
dice: “Pace a tutti!”.
Ma ascoltate che cosa dice Cristo: In qualunque città o villag-
gio entriate, entrando in una casa, rivolgetele il saluto [di pace]. E
se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma
se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi (Mt 10,11-13). Per
questo non capiamo, perché siamo convinti che queste siano
semplici formule verbali e non vi aderiamo con la mente. Sono
forse io a darvi la pace? È Cristo che si degna di rivolgervi la
parola attraverso di me! Se anche per tutto il resto del tempo
siamo privi della grazia, per il vostro bene adesso non lo siamo.
Se la grazia di Dio infatti ha operato in un’asina e in un indo-
vino per la salvezza e il bene dei figli di Israele (cf. Nm 22,22-
35), è chiaro che non si rifiuterà di operare attraverso di noi,
ma per il bene nostro accetterà anche questo.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Colossesi 3,4

18 Allusione al saluto di pace rivolto dal presidente all’assemblea subito dopo l’in-

gresso in chiesa, prima di salire sul sØnthronon e dare inizio alla liturgia della Parola.

176
“Pace a tutti”

8. Un tempo19 tutti si riunivano insieme e cantavano insieme


i salmi in forma responsoriale. Questo anche noi lo facciamo, ma
allora vi era in tutti una sola anima e un solo cuore (cf. At 4,32),
ora invece non si potrebbe trovare quella concordia neanche in
una sola anima, ma ovunque c’è grande guerra! Anche ora co-
lui che presiede la chiesa invoca per tutti la pace, come chi en-
tra nella casa paterna, ma di questa pace si pronuncia molto spes-
so il nome, senza però realizzarla mai! Allora anche le case era-
no chiese, ora invece anche la chiesa è una casa20, anzi peggio di
qualunque casa, perché in una casa si può trovare molto ordi-
ne! … Qui invece c’è molto rumore, molta confusione, e non
c’è alcuna differenza tra questo luogo e una bottega: c’è tanto
riso e tanto trambusto come ai bagni pubblici e come sulle piaz-
ze del mercato, dove tutti gridano e fanno rumore!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 36,5

9. Cristo ha manifestato com’è grande la pace quando ha


detto: Vi lascio la pace, vi do la mia pace (Gv 14,27). E bisogna
fare di tutto per godere di essa sia in casa sia in chiesa. Anche
in chiesa infatti chi presiede [l’assemblea] dà la pace. Questa
pace è figura di quella [di Cristo], e bisogna accogliere il cele-
brante con pieno fervore, con la stessa disposizione che si ha di
fronte alla mensa21. Se infatti è sconveniente non partecipare
alla mensa, non è forse ancor più sconveniente respingere chi ci
parla? Per te siede il presbitero, per te sta in piedi il predicato-
re22, con grande fatica e impegno! Quale scusa potrai avere dun-
que se non gli offri neppure l’accoglienza che deriva dall’ascolto?

19 Come si evince dal contesto, l’autore pensa ai tempi della chiesa apostolica.
20 La stessa lamentela ricorre spesso nelle omelie dello stesso autore (cf. ad esempio
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 32,7).
21 Cioè alla tavola dell’eucaristia.
22 I predicatori antichi ordinariamente tenevano l’omelia stando seduti – ciò valeva

soprattutto nel caso dei vescovi, che sedevano sulla cattedra episcopale –, ma poteva-
no ugualmente stare in piedi, davanti all’altare o sull’ambone, mentre l’assemblea li
ascoltava in piedi nella navata della chiesa (cf. A. Olivar, La predicación cristiana anti-
gua, Herder, Barcelona 1991, pp. 735 ss.).

177
Capitolo IV

La chiesa è la casa comune di tutti e, dopo che voi ci avete


preceduti, entriamo noi, seguendo l’esempio degli apostoli. Per
questo, appena entrati, proclamiamo la pace a tutti23, secondo
quel comando [dato dal Signore] (cf. Mt 10,12-13) … E quan-
do dico: “Pace a voi” e voi rispondete: “E al tuo spirito”, non
ditelo soltanto con la voce, ma anche con l’animo, non solo con
la bocca, ma anche con il pensiero! Se invece qui dici: “Pace
anche al tuo spirito”, ma poi fuori mi fai guerra disprezzando-
mi e sparlando di me, ricoprendomi di nascosto di innumere-
voli improperi, che pace è mai questa? Io certo, per quanto tu
possa sparlare di me, ti do la pace con cuore puro, con animo
sincero, e non posso mai dir niente di cattivo nei tuoi confron-
ti, perché ho i sentimenti di un padre; e se anche talvolta ti rim-
provero, lo faccio perché mi preoccupo per te. Se però mi mor-
di di nascosto e non mi accogli nella casa del Signore, temo che
ciò accresca ancor di più la mia angoscia, non tanto perché mi
insulti e mi respingi, ma perché rifiuti la pace e attiri su di te
quel severo castigo. Anche se io infatti non scuoto la polvere
(cf. Mt 10,14) e anche se non mi volgo altrove, quelle parole di
minaccia restano immutate24.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 32,6

10. Se coloro che entrano nella casa di qualcuno devono pri-


ma di tutto dire: Pace a questa casa (Lc 10,5), quali figli della pa-
ce che offrono la pace a chi ne è degno, come sta scritto: A chi
è vicino e a chi è lontano (Ef 2,17), a quelli che il Signore sa che
sono suoi (cf. Nm 16,5; 2Tm 2,19), a maggior ragione coloro
che entrano nella casa di Dio25 devono prima di tutto invocare

23 Cf. supra, p. 176, n. 18.


24 Sono le parole di giudizio pronunciate dal Signore in Mt 10,14-15: “Se qualcuno
non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa e scuotete
la polvere dai vostri piedi. In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sodoma
e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città”.
25 Il riferimento è ai vescovi che si accostano all’altare per presiedere la liturgia eu-

caristica.

178
“Pace a tutti”

la pace di Dio per il popolo. Ma se uno la invoca per gli altri, a


maggior ragione deve lui stesso dimorare in essa come figlio del-
la luce (cf. Gv 12,36), perché chi non possiede la pace in se
stesso non è degno di offrirla agli altri26. È necessario innanzi-
tutto perciò che egli sia in pace in se stesso. Chi infatti non è
in conflitto con se stesso, non muoverà guerra neppure agli al-
tri, ma sarà pacifico, amabile, capace di raccogliere le [pecore]
del Signore e di farsi suo collaboratore così da moltiplicare per
lui, nella concordia, coloro che sono salvati.
Costituzioni apostoliche II,54,2-4

11. Quando tutti i presenti hanno detto questa parola27, il sa-


cerdote28 invoca che la pace sia con loro. È sempre bene comin-
ciare con tale [invocazione], qualunque cosa si compia in una
riunione di chiesa, ma soprattutto quando si sta per celebrare
questa liturgia che incute timore, poiché anche il beato Paolo
all’inizio di ogni sua lettera scrive: La grazia e la pace siano con
voi (cf. Rm 1,7 e par.), invocando per noi quella realtà di cui ci
è stato concesso di godere grazie all’economia di Cristo nostro
Signore. Attraverso la sua venuta egli infatti ha posto fine a ogni
guerra, ha sradicato totalmente ogni odio e lotta contro di noi:
la morte, la corruzione, il peccato, le passioni, il tormento dei
demoni, e tutto ciò che poteva essere per noi motivo di tristez-
za; attraverso la sua resurrezione egli ci ha liberato da queste
cose, ci ha reso perfettamente immortali e incorruttibili, ci ha
fatto salire in cielo, ci ha donato di stare davanti a lui con gran-

26 Sulla stessa linea Origene lascia intendere che i pastori delle chiese, che sono

chiamati ad annunciare la pace agli altri cristiani, dovrebbero essere i primi ad acco-
glierne personalmente l’annuncio da Dio: per questo la pace fu annunciata dagli ange-
li innanzitutto agli umili pastori di Betlemme, che di quelli erano la prefigurazione (cf.
Origene, Frammenti sull’Evangelo di Luca 38).
27 Si tratta dell’Amen che conclude le preghiere offertoriali.
28 Il termine “sacerdote” (kāhnā nella versione siriaca, corrispondente al greco hie-

reús) indica nelle Omelie catechetiche di Teodoro di Mopsuestia il ministro che presie-
de la celebrazione eucaristica, che può essere un vescovo o un presbitero (cf. supra, p.
53, n. 15).

179
Capitolo IV

de franchezza, ci ha preparati a essere in grande amicizia e co-


munione con le potenze invisibili e fedeli a Dio. Per questo il
beato Paolo, in ogni sua lettera, prima della parola “pace” pro-
nuncia la parola “grazia”, perché non siamo noi ad aver iniziato,
né ad essere stati causa di qualcosa, da noi stessi, così da rice-
vere un dono come questo, ma è Dio che ce lo dona attraverso
la sua grazia … Il sacerdote dunque invoca: “Pace a tutti”, e
questo è l’annuncio dei grandi beni di cui questa divina liturgia
è il segno e la figura: essa è il memoriale della morte del nostro
Signore, per mezzo della quale ci sono stati promessi questi gran-
di beni e altri simili. A queste parole poi i presenti rispondono:
“E al tuo spirito!”.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,34-35

12. [Il Signore risorto] rivolge un saluto affettuoso ai suoi san-


ti discepoli. Dice: Pace a voi! (Gv 20,19), intendendo dire che
egli stesso è la pace. Chiunque infatti ha Cristo con sé, certa-
mente potrà anche rimanere privo di turbamenti nel proprio spi-
rito. Ed è appunto questo il dono che anche Paolo invocava da
parte di Dio per i credenti in lui: La pace di Cristo, che supera
ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri (Fil 4,7).
E quando dice la pace di Cristo che è al di là di ogni intelligenza,
non intende altro che il suo stesso Spirito, partecipando al qua-
le chiunque sarà ripieno di ogni bene …
[Il Signore] poi rivolge loro di nuovo il saluto, ripetendo quel-
le parole consuete, cioè: Pace a voi! (Gv 20,21), quasi fissando
una legge anche in questo per i figli della chiesa. Proprio per
questo anche noi, specialmente nelle sante riunioni, ossia nelle
sinassi, verso gli inizi del mistero29 diciamo gli uni agli altri que-
ste stesse parole. L’essere in pace gli uni con gli altri e con Dio
deve infatti essere considerato come la sorgente e l’origine di
ogni bene. Per questo Paolo, quando invoca i beni più grandi

29 Cioè all’inizio della liturgia eucaristica propriamente detta.

180
“Pace a tutti”

per coloro che sono stati chiamati alla fede, dice: Grazia a voi e
pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo (Rm 1,7); quan-
do invece esorta alla pace con Dio coloro che non hanno anco-
ra creduto, dice: Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo, come
se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo, in nome di Cri-
sto: lasciatevi riconciliare con Dio! (2Cor 5,20). Ci incita allo
stesso modo anche il profeta Isaia, gridando: Facciamo pace con
lui, facciamo pace! (Is 27,5). Il valore di questo saluto si addice
dunque a colui che è l’arbitro della pace, o meglio la pace di tut-
ti, cioè il Cristo. È lui infatti la nostra pace (Ef 2,14), secondo le
Scritture.
Cirillo di Alessandria, Commento a Giovanni XII
(PG 74,705D-708C)

13. Fratelli e padri, la domenica, giorno del Signore, è gior-


no di pace: in essa, infatti, il Signore, dopo aver spogliato il
Nemico, disse ai suoi discepoli: Pace a voi! (Gv 20,19). Con que-
ste parole non ha lasciato in eredità la pace solo a costoro, né
solo per un giorno, ma a tutti e per sempre egli annuncia la stes-
sa pace, come anche a noi miseri. Conserviamo, dunque, que-
sta pace e viviamo nella pace tra di noi (cf. 1Ts 5,13)! Ciò si-
gnifica, prima di tutto, per quanto riguarda l’uomo esteriore,
non nutrire odio verso nessuno dei fratelli, ma piuttosto dispor-
si verso tutti con amore: Da questo infatti – dice – tutti sapran-
no che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri (Gv
13,35). Ma ciò significa anche, per quanto riguarda l’uomo in-
teriore (cf. 2Cor 4,16; Ef 3,16), vivere nella pace e nella quie-
te, lontano dalle passioni funeste. Così infatti possiamo dire
con l’Apostolo: Noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore
nostro Gesù Cristo: per mezzo suo abbiamo anche ottenuto, me-
diante la fede, di accedere a questa grazia, nella quale ci troviamo e
ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio (Rm 5,1-2). Ma, poi-
ché siamo di natura mutevole e ci può sempre capitare qualche
spiacevole vacillamento – come di fatto capita –, in questo ca-
so ritorniamo subito alla nostra disposizione precedente, per

181
Capitolo IV

essere in pace con Dio: È lui infatti la nostra pace, lui che ha fat-
to dei due una cosa sola, e ha abbattuto il muro di separazione che
era frammezzo, l’inimicizia, per mezzo della propria carne, annul-
lando la Legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare
tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, ucci-
dendo in se stesso l’inimicizia (Ef 2,14-16). Queste sono le parole
dell’Apostolo, e questa è l’opera che il Signore ha compiuto,
come egli stesso dice al Padre suo: Ho compiuto l’opera che mi
hai dato da fare (Gv 17,4). Egli, cioè, ha portato la pace tra la
terra e il cielo, rendendoci figli della pace e dell’amore!
Teodoro Studita, Piccole catechesi 11

14. Bisogna prima di tutto esercitarsi alla pace che è possibi-


le agli uomini, e poi chiedere a Dio la sua pace, come avviene
per ogni virtù. Vi è ad esempio una castità che si raggiunge at-
traverso l’esercizio ascetico, e vi è una castità donata all’anima
da Dio, e così per la carità, la preghiera, la sapienza, e allo stes-
so modo per le altre virtù. Ecco perché il sacerdote ci parla in-
nanzitutto di quella pace che dipende da noi e che da noi è rea-
lizzata, ed è con questa pace che ci comanda di rivolgere a Dio
le nostre preghiere30; poi parla della pace che è donata da Dio e
ci esorta a pregare Dio per ottenerla, dicendo: “Preghiamo per
la pace che viene dall’alto”31. E dicendo pace, non intende sol-
tanto quella che abbiamo gli uni con gli altri, quando non nu-
triamo rancore verso nessuno, ma anche quella che abbiamo con
noi stessi, quando il nostro cuore non ci condanna (1Gv 3,21).
Grande è l’utilità della pace! Anzi per noi questa virtù è una
necessità assoluta, perché quando la mente è agitata non può
in alcun modo unirsi a Dio, innanzitutto a causa della natura

30 L’autore si riferisce alle parole “In pace preghiamo il Signore” che introducono la

lunga preghiera litanica dialogata (megále synapté) tra il diacono e l’assemblea, chiama-
ta anche eireniká (“invocazioni di pace”). Cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 362.
31 Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 362, ll. 33-34.

182
“Pace a tutti”

stessa di tale agitazione – come infatti la pace rende molti co-


me uno solo, così l’agitazione fa di uno solo una moltitudine:
come potrebbe dunque costui unirsi a Dio, il quale è uno e sem-
plice? –; inoltre chi prega senza pace non può pregare bene, né
ottenere qualche buon frutto dalla sua preghiera. Se infatti l’i-
ra turba l’uomo e il rancore ha scacciato la pace dalla sua anima,
egli non potrà ottenere il perdono delle colpe con la sua preghie-
ra, e tantomeno potrà ricevere qualche altra grazia. Se poi qual-
che altro peccato gli rimorde la coscienza, se il suo cuore lo ac-
cusa ed egli è preda di tale agitazione interiore, resta privo di
qualunque franchezza nei confronti di Dio, secondo il detto:
“Anche quando prega, prega senza franchezza”32, ovvero senza
fede. Ma chi prega senza fede, prega invano e senz’alcuna uti-
lità. Ecco dunque perché ci viene ordinato di pregare Dio con
pace e di chiedere la pace che viene dall’alto.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 12,8-9

15. Poiché Cristo è la nostra pace, colui che ha fatto dei due
una cosa sola e ha abbattuto il muro di separazione che era fram-
mezzo, l’inimicizia, per mezzo della propria carne (Ef 2,14), e poi-
ché da lui tutto è stato pensato in vista della pace, che cosa può
esservi di più importante della pace per coloro che hanno fatto
di ciò che lo concerne la meditazione della propria anima e la
cura della propria mente? Essi perseguiranno la pace, come or-
dina Paolo (cf. Eb 12,14), più di ogni altra cosa, daranno l’e-
sempio agli altri in questo, distruggeranno l’odio inutile, faran-
no cessare la guerra di coloro che litigano senza motivo, sapendo
che la pace è così preziosa, che Dio stesso, venuto sulla terra
per acquistarla agli uomini, pur essendo ricco e Signore dell’u-
niverso, non trovò niente che fosse degno di quel bene, ma la
pagò con il proprio stesso sangue. Poiché infatti tra le cose già
create ed esistenti non vedeva nulla che potesse valere quanto

32 Citazione non identificata.

183
Capitolo IV

la pace e la riconciliazione di cui andava in cerca, creò un’altra


nuova creatura (cf. 2Cor 5,17): il proprio stesso sangue; e do-
po averlo offerto, subito divenne riconciliatore e principe della
pace (Is 9,5). Perciò, coloro che adorano quel sangue, cos’altro
mai potrebbero pensare di fare nel proprio interesse, se non di
essere artefici di riconciliazione e di pace tra gli uomini?
Nicola Cabasilas, La vita in Cristo 6,82-83

Necessità della riconciliazione fraterna prima dell’eucaristia

16. Riuniti nel giorno del Signore, spezzate il pane e rende-


te grazie, dopo aver prima confessato i vostri peccati, affinché
il vostro sacrificio sia puro. Ma chi è in lite con il suo compa-
gno non si riunisca con voi, finché non si siano riconciliati, af-
finché il vostro sacrificio non sia profanato. Questo infatti è il
sacrificio di cui ha parlato il Signore: In ogni luogo e tempo mi
viene offerto un sacrificio puro, poiché sono un re grande, dice il
Signore, e il mio nome è illustre tra le genti (Ml 1,11.14).
Didaché 14,1-3

17. Siate giudici giusti33, che favoriscono la pace, non irasci-


bili, perché chiunque si adira contro il suo fratello senza motivo
verrà sottoposto a giudizio (Mt 5,22)34. Ma se anche capita che
per effetto di qualche circostanza vi adiriate contro qualcuno,
il sole non tramonti sopra la vostra ira (Ef 4,26). Dice infatti Da-
vid: Adiratevi e non peccate (Sal 4,5), cioè: riconciliatevi in fret-
ta, perché l’ira persistente non divenga rancore e non produca

33 La raccomandazione è rivolta ai vescovi.


34 Le parole “senza motivo” (eikê) sono attestate in numerosi manoscritti antichi
come una glossa aggiunta al testo originale (cf. la testimonianza di Giovanni Cassiano,
Istituzioni cenobitiche VIII,21).

184
“Pace a tutti”

peccato. Dice infatti Salomone: Le anime dei rancorosi vanno


alla morte (cf. Pr 12,28). E anche il Signore nostro e Salvatore
Gesù Cristo, da parte sua, dice negli evangeli: Se offri il tuo do-
no all’altare e là ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di
te, lascia lì il tuo dono, davanti all’altare, e va’ prima a riconciliar-
ti con tuo fratello, poi vieni a offrire il tuo dono davanti all’altare
(Mt 5,23-24). Dono offerto a Dio è la preghiera e l’azione di
grazie di ciascuno: se dunque hai qualcosa contro tuo fratello o
lui ha qualcosa contro di te, né le tue preghiere saranno ascol-
tate, né le tue azioni di grazie saranno accolte, a motivo dell’i-
ra che è latente.
Per questo, o vescovi, quando state per presentarvi per la pre-
ghiera35, dopo la lettura, la salmodia e l’insegnamento sulle Scrit-
ture, il diacono, stando in piedi accanto a voi, dica a voce alta:
“Nessuno [abbia qualcosa] contro qualcuno, nessuno [si com-
porti] in modo ipocrita!”, affinché, se alcuni si scoprono in con-
flitto tra loro, colpiti nella loro coscienza, supplichino Dio e si
riconcilino con i fratelli.
Costituzioni apostoliche II,53,1-4; 54,1

18. Ecco, lo proclamo, lo affermo e lo grido a voce ben chia-


ra: nessuno di coloro che hanno un nemico si accosti alla sacra
mensa e riceva il corpo del Signore! Nessuno mentre si accosta
abbia un nemico. Hai un nemico? Non ti accostare. Vuoi acco-
starti? Riconcìliati, e allora vieni e tocca ciò che è sacro. Non so-
no io però che dico queste cose, ma il Signore stesso che è sta-
to crocifisso per noi. Per riconciliarti con il Padre egli non ha
rifiutato di lasciarsi immolare, né di versare il proprio sangue.
E tu, per riconciliarti con chi è servo come te36 non vuoi nep-
pure spendere una parola, né correre da lui per primo? Ascolta

35 L’autore si riferisce alla preghiera eucaristica pronunciata dal vescovo a nome di

tutta l’assemblea.
36 Lett.: “conservo”.

185
Capitolo IV

che cosa dice a proposito di chi si comporta così: Se offri il tuo


dono all’altare e là ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro
di te (Mt 5,23). Non ha detto: “Aspetta che lui venga da te”,
oppure: “Prega un altro [di farlo]”, ma: “Corri tu stesso da lui!”.
Va’ prima – dice infatti – a riconciliarti con il tuo fratello (Mt
5,24). Oh dismisura! Egli, se il dono viene abbandonato, non
lo ritiene un segno di disprezzo37, e tu ritieni un’offesa andare
per primo [dal tuo fratello] e riconciliarti? Come potrai ottene-
re il perdono per questi comportamenti, dimmi? Se vedi un tuo
membro amputato, non fai forse di tutto per riunirlo al corpo?
Fa’ lo stesso anche con i tuoi fratelli! Quando li vedi amputati
dalla tua amicizia, affrettati a circondarli di cure, non aspetta-
re che siano loro a venire per primi, ma affrettati tu stesso per
primo a ricevere il premio!
Giovanni Crisostomo, Omelie al popolo antiocheno 20,5

19. Nessuno custodisca dentro di sé pensieri maligni, ma pu-


rifichiamo la nostra mente! Ci stiamo accostando infatti a un
sacrificio puro38 (cf. Ml 1,11): rendiamo santa la nostra anima!
È possibile farlo anche in un giorno solo. Come e in che modo?
Se hai qualcosa contro il tuo nemico, elimina l’ira, cura la feri-
ta, cancella l’inimicizia, per poter ricevere guarigione da que-
sta mensa. Ti accosti infatti a un sacrificio tremendo e santo39!
Rispetta il senso profondo di questa offerta: Cristo giace immo-
lato. E a che scopo fu immolato e perché? Per rappacificare le

37 Espressioni simili si trovano anche in Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo

16,9: “Oh che bontà, oh che smisurata generosità! Non tiene conto dell’onore che gli
viene reso in favore dell’amore verso il prossimo … Con queste parole, a mio parere,
vuol far intendere e stabilire due cose: innanzitutto, come ho detto, intende mostrare
che tiene in grande onore la carità e la considera il più grande sacrificio, senza il quale
non accetta neppure l’altro; e poi stabilisce la necessità imprescindibile della riconcilia-
zione. Chi infatti ha ricevuto l’ordine di non presentare la sua offerta prima di essersi
riconciliato, anche se non per amore del prossimo, almeno perché il sacrificio non ri-
manga incompiuto, si affretterà a correre dall’offeso e a porre termine all’inimicizia”.
38 Cioè all’eucaristia.
39 Sul linguaggio del timore sacro applicato all’eucaristia cf. infra, p. 198, n. 3.

186
“Pace a tutti”

realtà che sono sulla terra e quelle nei cieli (cf. Col 1,20), per
farti amico degli angeli, per riconciliarti con il Dio dell’univer-
so, per renderti suo amico, da nemico e avversario quale sei. Egli
ha dato la sua vita per coloro che lo odiavano, e tu continui a
nutrire rancore per chi è servo come te? E come potrai accostar-
ti alla mensa della pace? Egli non si è rifiutato neppure di mo-
rire per te, e tu invece, per il tuo stesso bene, non accetti di de-
porre l’ira nei riguardi di chi è servo come te? Quale perdono
potrai mai ottenere con questo comportamento?
“Mi ha maltrattato – dice – e mi ha arrecato un grandissimo
danno!”. E con questo? Il danno è stato certamente in denaro,
poiché non ti ha ancora ferito come Giuda fece con Cristo: eppu-
re egli offrì lo stesso sangue, che effuse proprio in favore di co-
loro che lo versavano! Che cosa hai da dire che regga il confron-
to? Se non hai perdonato al tuo nemico, non è a lui che hai reca-
to danno, ma a te stesso. A lui infatti hai fatto spesso torto in
questa vita, ma è te stesso che hai reso indegno del perdono per
quando dovrai difenderti in quel giorno futuro. Non c’è niente
infatti che Dio odi così tanto, come un uomo che conserva ranco-
re, come un cuore gonfio d’ira o un animo pieno di risentimento!
Ascolta dunque che cosa dice il Signore: Se offri il tuo dono
sull’altare e l ì ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te,
lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con
il tuo fratello; e poi vieni a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). “Che
dici? Dovrei lasciare là il dono, cioè il sacrificio?”. Sì – dice –,
perché questo stesso sacrificio è avvenuto perché tu sia in pace
con il tuo fratello. Se dunque il sacrificio è avvenuto allo scopo
che tu abbia pace con il tuo fratello, ma tu non operi la pace,
partecipi inutilmente al sacrificio, perché la sua realizzazione non
ti procura alcun vantaggio. Fa’ prima dunque quello per cui si
offre il sacrificio, intendo la pace, e allora potrai goderne i be-
nefici. Proprio per questo il Figlio di Dio è disceso: per ricon-
ciliare la nostra natura con il suo Signore; per questo non solo è
venuto lui stesso, ma ha voluto renderci partecipi del proprio no-

187
Capitolo IV

me, se ci comportiamo allo stesso modo. Beati – dice infatti –


gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt
5,9). Ciò che ha fatto l’unigenito Figlio di Dio, fallo anche tu,
secondo le tue possibilità umane, diventando un dispensatore
di pace per te stesso e per gli altri! Per questo egli ti chiama
“figlio di Dio”, se operi la pace. Per questo, anche nel momen-
to del sacrificio, non ha ricordato nessun altro comandamento,
ma soltanto quello della riconciliazione con il fratello, mostran-
do che ciò vale più di tutto.
Giovanni Crisostomo, Omelie sul tradimento di Giuda 1,6

20. Il nostro Signore, dopo aver prescritto che non vi sia al-
cuna collera ingiustificata, ha dato questo rimedio ai peccatori,
in qualunque modo essi lo siano: Se offri – dice – la tua offerta 40
sull’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te,
lascia la tua offerta davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con
il tuo fratello, e poi vieni a offrire la tua offerta (Mt 5,23-24). Or-
dina al peccatore di riconciliarsi il più presto possibile con co-
lui che ha offeso e di non osare di offrire l’offerta prima di aver
portato rimedio a colui che ha irritato, ma di riconciliarsi con
lui con tutta la sua forza. Per mano del sacerdote, infatti, sia-
mo noi tutti che offriamo l’offerta … È necessario dunque che
l’offensore, con tutta la sua forza, porti rimedio a colui verso il
quale è stata compiuta l’offesa e si riconcili con lui. Se colui
verso il quale è stata compiuta l’offesa è presente, egli operi con-
cretamente tale riconciliazione; se invece non è presente, deci-
da nel suo pensiero che, in ogni maniera, lo farà al momento
opportuno. E allora, dopo di ciò, si avvicini per partecipare al-
l’offerta. L’offeso, da parte sua, deve accettare senza negligen-
za l’[offerta] di riconciliazione dell’offensore, poiché ciò che
l’offensore deve fare con la massima premura, anche l’offeso lo

40 Il termine siriaco qūrbānā (“offerta”, “oblazione”) corrisponde al greco anaphorá

(o prosphorá) e indica l’offerta eucaristica durante e dopo la consacrazione.

188
“Pace a tutti”

deve fare: scacciare dal suo pensiero tutte le offese commesse


contro di lui, ricordandosi di questa [parola del Signore]: Se voi
non perdonate agli uomini le loro offese, neppure il Padre vostro
che è nei cieli perdonerà a voi le vostre offese (Mt 6,15).
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,40-41

Il “bacio santo” della pace

21. Quando le preghiere [di intercessione] sono terminate, ci


salutiamo l’un l’altro con un bacio.
Giustino, Apologia prima 65,2

22. Se siamo stati chiamati al regno di Dio, comportiamoci


in modo degno di questo Regno amando Dio e il prossimo. Ora,
l’amore non si giudica da un bacio, ma da una buona disposi-
zione d’animo. Questi tali invece fanno risuonare le chiese sol-
tanto del rumore dei loro baci, ma nel loro intimo non hanno
la carità autentica! Per di più questo uso smodato del bacio ha
suscitato sospetti e calunnie, mentre esso dovrebbe essere qual-
cosa di spirituale41 – l’Apostolo lo chiama santo (cf. Rm 16,16
e par.) –, in modo che l’anima manifesti la sua buona disposi-
zione attraverso una bocca casta e ben serrata: è proprio da ciò
che si mostra un carattere beneducato. C’è infatti anche un al-
tro tipo di bacio, impuro, pieno di veleno, che simula la santi-
tà. O non sapete che le tarantole solo toccando le labbra causa-
no agli uomini dolori terribili, e che spesso i baci inoculano un
veleno di dissolutezza? È dunque evidente per noi che l’amore
non consiste nel bacio. L’amore infatti è di Dio (cf. 1Gv 4,6).

41 Lett.: “mistico” (mystikón), cioè qualcosa che rimanda a un “mistero” al di là del-

la sua apparenza.

189
Capitolo IV

Questo è l’amore di Dio – dice Giovanni –: che osserviamo i co-


mandamenti, non che ci lusinghiamo a vicenda con la bocca, e i
suoi comandamenti non sono gravosi (1Gv 5,3).
Clemente di Alessandria, Il pedagogo III,11,81

23. Salutatevi a vicenda con il bacio santo! (Rm 16,16). Da


questo passo e da altri simili è nata nelle chiese la tradizione che,
dopo le preghiere, i fratelli si accolgano a vicenda con un ba-
cio. Questo bacio però l’Apostolo lo chiama santo. Con questa
parola vuole insegnare innanzitutto che i baci che si danno in
chiesa devono essere casti, e poi che non devono essere simula-
ti, come fu quello di Giuda, che mentre dava un bacio sulle lab-
bra, nel cuore meditava il tradimento (cf. Mt 26,49). Il bacio
del fedele dunque sia anzitutto casto, come abbiamo detto, e poi
porti in sé la pace e la semplicità con una carità non falsa.
Origene, Commento alla Lettera ai Romani 10,33

24. Il diacono esclama: “Accoglietevi gli uni gli altri e scam-


biatevi il saluto [di pace]!”. Non pensare che questo bacio as-
somigli a quelli che si scambiano in piazza tra amici comuni!
Non è nulla del genere, ma questo bacio unisce tra loro le ani-
me e le induce a dimenticare ogni offesa. Il bacio qui è segno
che le anime si sono unite e scacciano ogni rancore. Per questo
il Cristo ha detto: Se offri il tuo dono sull’altare e l ì ti ricordi che
il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia l ì il tuo dono sopra
l’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello. E poi vieni a
offrire il tuo dono (Mt 5,23-24). Il bacio dunque è riconciliazio-
ne e per questo è santo, come proclama il beato Paolo dicendo:
Salutatevi l’un l’altro con il bacio santo (Rm 16,16 e par.). E Pie-
tro: Salutatevi l’un altro con il bacio di carità (1Pt 5,14).
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,3

25. Quando stiamo per accostarci alla santa mensa, ci viene


ordinato di amarci gli uni gli altri e di salutarci con un bacio

190
“Pace a tutti”

santo (cf. 2Cor 13,12). Per quale ragione? Dato che restiamo
divisi nei nostri corpi, noi, in quel particolare momento, unia-
mo le nostre anime con un bacio, in modo che la nostra assem-
blea diventi simile a quella degli apostoli, quando i credenti ave-
vano un cuore e un’anima sola (At 4,32). È così che bisogna ac-
costarsi ai santi misteri, uniti strettamente gli uni agli altri!
Ascolta cosa dice Cristo: Se offri il tuo dono sull’altare e lì ti ri-
cordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo do-
no davanti all’altare e va,’ riconciliati prima con il tuo fratello e
poi offri il tuo dono (Mt 5,23-24). Non ha detto: “Offri prima”,
ma: Riconciliati prima e poi offri. Ecco perché anche noi, quando
l’offerta è già davanti ai nostri occhi, ci riconciliamo prima gli
uni con gli altri e poi ci accostiamo al sacrificio.
C’è anche una seconda ragione, mistica, di questo bacio. Lo
Spirito santo ha fatto di noi i templi di Cristo (cf. 1Cor 3,16;
6,19). Baciandoci dunque gli uni gli altri sulla bocca, noi bacia-
mo affettuosamente la porta d’ingresso del tempio. Perciò, nes-
suno compia questo gesto con cattiva coscienza, con animo fal-
so, perché questo bacio è santo: Salutatevi – dice infatti – gli
uni gli altri con il bacio santo (2Cor 13,12).
Giovanni Crisostomo, Tre catechesi battesimali 3,10

26. Ricordiamoci sempre di queste parole42, carissimi, dei san-


ti baci e di quel tremendo saluto [di pace] che ci scambiamo gli
uni gli altri. Questo gesto infatti congiunge i nostri animi e ci fa
diventare tutti insieme un corpo solo, poiché tutti partecipia-
mo a un solo corpo. Uniamoci dunque in un solo corpo, non tan-
to fondendo i nostri corpi, ma congiungendo le nostre anime le
une con le altre per mezzo del vincolo della carità (cf. Col 3,14)!
Così potremo godere con franchezza della mensa che ci sta da-
vanti. Se anche infatti avessimo [da esibire] mille opere di giusti-

42 Sono le esortazioni alla pace fatte dallo stesso autore nella parte precedente del-

l’omelia (cf. supra, § 19).

191
Capitolo IV

zia, ma conservassimo rancore, tutto sarebbe inutile e vano, e


non potremmo ricavare alcun frutto utile per la nostra salvezza.
Giovanni Crisostomo, Omelie sul tradimento di Giuda 1,6

27. [Il Signore] ordina di lasciare il dono sull’altare e di ri-


conciliarsi prima con il fratello (cf. Mt 5,23-24), affinché sap-
piamo che se in quel momento non bisogna rimandare la ricon-
ciliazione, a maggior ragione non bisogna farlo negli altri mo-
menti. Quanto a noi, restiamo sì fedeli ai segni esteriori di tale
pratica, ma ne abbiamo abbandonato la verità autentica, poi-
ché al momento di offrire il dono ci scambiamo sì il saluto [di pa-
ce] gli uni gli altri, ma per lo più lo facciamo soltanto con le lab-
bra e con la bocca. Il Signore però non vuole questo, ma che noi
diamo al prossimo un bacio che viene dall’anima, un saluto [di
pace] che viene dal cuore! È questo infatti il vero saluto [di pa-
ce]; quello invece è pura scena e simulazione, e chi bacia così ri-
schia di irritare Dio più che compiere un atto di riconciliazione!
Giovanni Crisostomo, A Demetrio, sulla compunzione 3

28. Salutatevi a vicenda con il bacio santo! (2Cor 13,12). Che


cosa vuol dire “santo”? Non falso, non subdolo, come quello
con cui Giuda ha baciato Cristo (cf. Mt 26,49). Il bacio infat-
ti è stato concesso proprio per questo: perché fosse uno stimo-
lo per riattizzare il fuoco della carità, per riaccendere i sentimen-
ti, perché così ci amassimo gli uni gli altri: come i fratelli ama-
no i fratelli, come i figli i padri, come i padri i figli, o piuttosto
molto di più di così, perché quelli sono rapporti propri della na-
tura, questi della grazia. Così le anime si legano le une alle al-
tre. Per questo, anche quando ritorniamo da un viaggio, ci ba-
ciamo gli uni gli altri, mentre le nostre anime si riconoscono, in
vista dell’unione reciproca.
Ma su questo bacio santo c’è da dire anche un’altra cosa. Di
che cosa si tratta? Noi siamo tempio di Cristo (cf. 1Cor 3,16;
6,19): baciandoci gli uni gli altri baciamo dunque le porte e l’in-

192
“Pace a tutti”

gresso del tempio. O non vedete quanti baciano le porte di que-


sto tempio43, alcuni facendo un inchino, altri afferrandole con
la mano e portando la mano alla bocca? È proprio attraverso
questi battenti e queste porte che è entrato ed entra in noi Cri-
sto allorché comunichiamo! Voi che prendete parte ai misteri
sapete ciò che dico. Non è infatti un onore da poco quello ac-
cordato alla nostra bocca quando accoglie il corpo del Signore.
Per questo ci baciamo proprio qui. Ascoltino quelli che dicono
turpitudini, quelli che proferiscono ingiurie, e temano di disono-
rare una tale bocca!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 30,1-2

29. Dopo la benedizione del sacerdote sui presenti e di costo-


ro su di lui, il sacerdote comincia a dare la pace, mentre l’aral-
do della chiesa – che è il diacono – ordina a voce alta che tutti
si scambino la pace, in modo da fare ciò che fa il sacerdote. Tut-
ti si scambiano la pace gli uni gli altri e con questo bacio fanno
come una professione riguardo all’unità e alla carità che vi so-
no tra loro. Anche se infatti ciascuno di noi dà la pace soltanto
al proprio vicino immediato, tutti virtualmente ci diamo la pa-
ce gli uni gli altri, poiché in questo atto vi è come una profes-
sione che noi tutti, che siamo diventati l’unico corpo di Cristo
nostro Signore, dobbiamo avere tra noi l’armonia che c’è tra le
membra di un corpo, amarci ugualmente gli uni gli altri, soste-
nerci e aiutarci gli uni gli altri, considerare le vicende degli uni
e degli altri come della comunità, partecipare alle sofferenze gli
uni degli altri e rallegrarci delle gioie gli uni degli altri.
Attraverso il battesimo abbiamo ricevuto una nuova nascita,
unica, poiché attraverso di essa siamo stati riuniti in un unico
vincolo naturale. Noi tutti ormai riceviamo lo stesso cibo, lo stes-
so corpo e lo stesso sangue, noi che siamo stati riuniti con il vin-

43 Il riferimento è alle porte della chiesa.

193
Capitolo IV

colo del battesimo, come ha detto il beato Paolo: Tutti noi pren-
diamo un solo pane: poiché dunque il pane è uno, noi siamo uno,
[pur essendo] molti corpi (1Cor 10,17). È necessario dunque,
prima di accostarci ai misteri e alla liturgia, adempiere la legge
di darci la pace, con cui tutti facciamo professione della nostra
mutua unione e carità. A coloro che formano un solo corpo ec-
clesiale infatti non si addice ritenere odioso un fratello nella fe-
de, che attraverso la stessa nascita è diventato membro di un uni-
co corpo. Crediamo che egli sia ugualmente membro dello stesso
Cristo nostro Signore e che egli si nutra anche dello stesso cibo
[preso] alla mensa spirituale. Per questo lo stesso nostro Signo-
re ha detto: Chiunque si adira contro il proprio fratello senza mo-
tivo, sarà sottoposto a giudizio (Mt 5,22). Pertanto questo gesto
[di pace] non è solo una professione di carità, ma è anche un in-
vito a sbarazzarci di ogni immonda inimicizia, se ci sembra che
non sia per un giusto motivo che abbiamo qualcosa contro un
nostro fratello nella fede …
Dobbiamo così considerare questa pace come la professione
e il ricordo di tutto ciò, se davvero ci diamo la pace gli uni gli al-
tri come dice il beato Paolo, con un bacio santo (Rm 16,16 e
par.), e non ci baciamo soltanto con la bocca come Giuda (cf. Mt
26,49), mentre ci applichiamo a mostrare odio e malizia contro
i nostri fratelli nella fede.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,39-41

30. Un anziano diceva: “Spesso quando il diacono diceva:


‘Scambiatevi il bacio [di pace]!’ ho visto lo Spirito santo sulla
bocca dei fratelli”.
Detti dei padri, Serie anonima N 87

31. Dopo che è stato santamente celebrato l’amore di Dio per


gli uomini44, vengono posti innanzi, tutti coperti, il pane divino

44 L’allusione, secondo alcuni interpreti, è alla recitazione del simbolo di fede.

194
“Pace a tutti”

e il calice della benedizione (1Cor 10,16), e poi si compie il rito


del santissimo bacio e si fa la recitazione mistica e oltremondana
dei nomi scritti sulle tavolette45. Non è possibile infatti che sia-
no radunati nell’Uno e partecipino alla pacifica unità dell’Uno
coloro che sono divisi l’uno dall’altro. Se, infatti, illuminati dal-
la contemplazione e dalla conoscenza dell’Uno, ci uniamo in que-
sta uniforme e divino raduno, noi non ci lasceremo mai trasci-
nare alle passioni che dividono, in seguito alle quali si produco-
no quelle inimicizie materiali e passionali fra coloro che hanno
in comune la stessa natura. Il sacro rito della pace sancisce, cre-
do, questa vita unitaria e indivisa avvicinando il simile al simile
e separando le visioni divine e unitarie da tutto ciò che divide.
Pseudo-Dionigi Areopagita, Gerarchia ecclesiastica III,3,8

32. Di cosa è simbolo il santo bacio? Il bacio spirituale pro-


clamato a tutti raffigura e descrive in anticipo la concordia, l’u-
nità di sentire e l’identità razionale46 di tutti fra di loro, secondo
la fede e la carità, che ci saranno nel tempo della rivelazione de-
gli ineffabili beni futuri: in virtù di esse coloro che ne sono de-
gni ricevono la familiarità con la Parola che è Dio. La bocca è in-
fatti simbolo della parola47, ed è proprio grazie a essa che tutti
coloro che partecipano della parola in quanto esseri razionali, si
uniscono a tutti e alla prima e unica Parola, causa di ogni parola.
Massimo il Confessore, Mistagogia 17

33. Per mezzo del santo bacio [Dionigi l’Areopagita48 vede-


va significata] l’identità di concordia, di unità di sentire e di ca-
rità di tutti con tutti e di ciascuno con se stesso e con Dio.
Massimo il Confessore, Mistagogia 24

45 Sono i nomi dei santi e dei defunti scritti nei dittici.


46 L’aggettivo loghiké, che in mancanza di traduzione migliore rendiamo con “ra-
zionale”, richiama il Logos (“parola”, “ragione”, “Verbo”). Cf. supra, p. 131, n. 10.
47 In greco: lógos.
48 L’autore commenta il passo riportato supra, § 31.

195
Capitolo IV

34. Dopo che è stata proclamata la confessione ed è stato ap-


provato da parte di tutti il simbolo della fede49, attraverso il ba-
cio [della pace] si realizzano e si manifestano la carità e l’unio-
ne degli angeli e degli uomini, poiché allora vi sarà concordia e
tutti saranno amici e amati. E Gesù, la gloriosa vittima, sarà in
mezzo a tutti i suoi santi (cf. 1Ts 3,13), lui che è la pace e l’u-
nità di tutti, sacerdote e vittima offerta in sacrificio, che uni-
sce tutti ed è unito a tutti. Questo però in modo proporzionato
a ciascuno: non tutti infatti parteciperanno di lui in modo im-
mediato, ma alcuni in modo puro e senza veli saranno più vicini,
quali sacerdoti che toccano le realtà più perfette.
Simeone di Tessalonica, La sacra liturgia 98

49 La confessione di fede in realtà, secondo la prassi della chiesa di Costantinopoli

dal vi secolo in poi, non precedeva ma seguiva il bacio di pace.

196
Capitolo V
“IN ALTO I CUORI”

Dopo lo scambio della pace e l’unanime proclamazione della fe-


de trinitaria, la comunità radunata è ormai pronta a elevare a una
sola voce la propria azione di grazie al Padre per l’opera di creazio-
ne e di salvezza manifestata dall’inizio dei tempi e ora compiuta in
Cristo. Ma prima ancora dell’inizio dell’azione di grazie propria-
mente detta, il dialogo tra il ministro e l’assemblea – che è uno de-
gli elementi più arcaici del rituale e si ritrova quasi identico in tut-
te le tradizioni liturgiche d’oriente e d’occidente1 – sottolinea la
solennità del momento con uno stacco nel ritmo celebrativo. Esso
costituisce, per così dire, la “soglia del santuario”sulla quale i fede-
li, prima della lunga preghiera pronunciata a nome di tutti dal pre-
sidente, sono chiamati per un attimo a sostare con attenzione, allo
scopo di assumere le adeguate disposizioni esteriori e interiori che
permetteranno loro di entrare e di partecipare pienamente all’azio-
ne celebrativa.
Il diacono, innanzitutto, esorta l’assemblea a mettersi alla presen-
za del Signore stando in piedi “in modo ben composto”(stômen
kalôs), con atteggiamento di timore e di riverenza (cf. § β). Intro-
ducendo i testi che parlano della liturgia della Parola, ci siamo già

1 Cf. J. A. Jungmann, Missarum sollemnia I, pp. 15-16; R. F. Taft, “The Dialogue

before the Anafora in the Byzantine Eucharistic Liturgy, I: The Opening Greeting”,
in Orientalia Christiana Periodica 52/2 (1986), pp. 299-324. Tra le più antiche testimo-
nianze vi è quella di Tradizione apostolica 4 (ii-iii secolo).

197
Capitolo V

soffermati sul significato dello stare in piedi durante l’azione liturgi-


ca2: tale posizione esprime allo stesso tempo il rispetto e la dignità
del fedele che “sta”alla presenza di Dio. È infatti questione di con-
sapevolezza: sta in piedi e ben composto chi ha l’intimo “sentimen-
to”(aísthesis) di trovarsi “alla presenza di Dio”(§ 10). Sebbene i pa-
dri insistano spesso sul senso di sacralità della liturgia, “che incute
timore”3, soprattutto nell’imminenza della celebrazione dei miste-
ri, essi sono del tutto coscienti che la presenza di Dio non si impo-
ne in modo evidente e clamoroso, ma per essere percepita, ricono-
sciuta e accolta nel modo giusto richiede un’adeguata disposizione
e preparazione, sia interiore che esteriore (cf. § 14). L’unità psico-
somatica che costituisce la persona umana, infatti, fa sì che i com-
portamenti e le condizioni del corpo influiscano profondamente su-
gli atteggiamenti e le disposizioni dell’anima: “Ci vogliono molta
pace e molta quiete, non confusione, collera e strepito, perché que-
ste cose rendono impura l’anima di colui che si accosta!”(§ 4).

2 Cf. supra, p. 84 e n. 4.
3 Il linguaggio del timore sacro e reverenziale (phríke, phóbos, trómos, thámbos), co-
sì lontano dall’approccio liturgico familiare all’uomo moderno, eppure fondato e mo-
dellato almeno in parte sul linguaggio biblico, entra in modo massiccio nei testi litur-
gici e nel discorso dei padri della chiesa sulla liturgia a partire dalla fine del iv secolo:
tutto in chiesa e nella liturgia deve essere compiuto “con timore e tremore” (metà phó-
bou kaì trómou) per la coscienza di trovarsi alla presenza di Dio, soprattutto durante la
celebrazione dei misteri eucaristici, chiamati misteri “tremendi” (phriktá), “temibili”
(phoberá), “che incutono grandissimo timore” (phrikodéstata). L’emergere di un tale
linguaggio è probabilmente legato anche a quello di un realismo sacramentale sempre
più marcato in questo periodo (cf. F. Cassingena-Trévedy, Les Pères de l’Église et la li-
turgie, p. 128). L’opera di Giovanni Crisostomo è in questo senso l’esempio più emble-
matico, in ragione soprattutto della sua influenza senza paragoni sulla tradizione suc-
cessiva; tuttavia, come è stato giustamente notato in un’indagine specifica sul tema,
“l’uso frequente di questa terminologia non è, in Giovanni Crisostomo, il segno di una
deviazione del sentimento religioso … si tratta del timore rispettoso che l’uomo deve
alla santità di Dio, e in modo pari al timore, questa terminologia significa il fervore
con il quale l’uomo è chiamato a entrare nell’intimità vitale che Dio, nella sua filantro-
pia e condiscendenza, cerca di condividere con lui. L’amore intenso di Dio per noi, at-
testato da tanti suoi benefici, deve risvegliare in noi un tenero amore” (Ph. de Roten,
Baptême et mystagogie, p. 123). Cf. sul tema l’introduzione di J. Daniélou, in Jean
Chrysostome, Sur l’incompréhensibilité de Dieu, SC 28 bis, Cerf, Paris 19702, pp. 30-39,
e le indicazioni di R. F. Taft, A History of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The
Precommunion Rites, p. 130, n. 7.

198
“In alto i cuori”

Da molti dei testi che qui presentiamo emerge come anche le as-
semblee delle chiese antiche, in modo non diverso da quelle odier-
ne, fossero popolate, oltre che da fedeli attenti, da molta gente che
aveva una consapevolezza assai scarsa, per non dire inesistente, del
luogo in cui si trovava e dell’azione cui prendeva parte (cf. §§ 1-9).
Per molti passare dalla piazza del mercato, dal teatro, dalle terme o
dal circo all’interno della chiesa non comportava apparentemente
alcun cambiamento rilevante di contegno e di atteggiamento; anche
qui si ritrovavano risa, chiacchiere, litigi, discorsi mondani, gesti vio-
lenti e sguaiati, tanto che Giovanni Crisostomo è costretto ad am-
mettere con amarezza: “Stiamo nella chiesa di Dio come se ci tro-
vassimo a teatro o alle terme … ingannando noi stessi e illudendo-
ci di essere in chiesa!” (§ 9)4.
Per questo i padri, nell’intento pedagogico di far comprendere ai
fedeli la differenza profonda del contegno da tenere in chiesa duran-
te la liturgia, e rischiando finanche di presentare in modo troppo ter-
reno il senso autentico del “timor di Dio”richiesto ai cristiani, ricor-
rono spesso all’immagine dei sudditi che compaiono alla presenza
del re, immagine evidentemente familiare ad ascoltatori abituati al-
la solennità del cerimoniale imperiale: “Non vedete coloro che stan-
no alla presenza di questo re sensibile? … come stanno immobili,
senza parlare, senza agitarsi, senza voltare gli occhi di qua e di là, ma
restando seri, con gli occhi bassi e tutti pieni di timore?” (§ 5). La
posizione eretta e ben ferma del corpo, unita alla moderazione dei
gesti e della voce, deve esprimere la tensione dell’intera persona che,
con timore e riverenza, si presenta al cospetto del proprio Signore
(cf. § 12): è un “culto secondo ragione” (loghikè latreía) che il cri-
stiano è chiamato a rendergli, non una qualunque forma di devo-
zione entusiastica (cf. supra, c. III, 23). È dunque una vera ascesi
– nel senso di “esercizio”, “lavoro su di sé”– che qui viene richiesta:
ogni atteggiamento e gesto del corpo improntato a disordine, confu-
sione, dissipazione, eccesso, violenza, esibizionismo, rilassatezza, fal-

4 Sul tema, cf. R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp. 29-31.

199
Capitolo V

sa spontaneità, sfrontatezza e volgarità deve essere accuratamente


corretto e temperato per far regnare in tutto l’ordine e la pace.
Al contegno del corpo deve evidentemente corrispondere un’ade-
guata disposizione dell’anima. “Stare ben composti”, per Giovanni
Crisostomo, non si riferisce soltanto alla posizione del corpo ma an-
che e soprattutto alla disposizione dell’anima: vuol dire “stare così
come è conveniente che un uomo stia alla presenza di Dio” (§ 6),
assumendo un atteggiamento di compunzione e di riverenza, e rac-
cogliendo ed elevando i pensieri a Dio. Tale operazione, sempre ne-
cessaria ogni volta che ci si dispone a pregare Dio (cf. §§ 13-17), lo
è tanto più durante la celebrazione eucaristica in cui il Signore stes-
so si rende presente in modo del tutto particolare (cf. § 8).
Nello stesso senso i padri interpretano l’esortazione del ministro
rivolta a tutta l’assemblea: “Teniamo in alto i cuori!”(Áno schômen
tàs kardías), corrispondente al Sursum corda della liturgia latina.
Si tratta appunto di lottare contro tutto ciò che appesantisce il cuore
– pensieri, preoccupazioni, distrazioni, passioni – e lo tiene legato
alle realtà terrene e mondane impedendogli di partecipare ai miste-
ri celebrati e di elevarsi in piena libertà verso il Signore. La preghie-
ra eucaristica è detta anche “anafora” 5, ovvero “offerta”, “trasferi-
mento verso l’alto”(cf. § 9), e implica dunque come esigenza essen-
ziale6, al pari di tutta la liturgia, l’elevazione al Signore del proprio
“cuore”– ossia del centro vitale della persona, secondo l’antropolo-
gia biblico-patristica –: solo così è possibile partecipare realmente
ed esistenzialmente al sacrificio di Cristo (cf. §§ 18; 26) e presenta-
re l’offerta della nostra vita insieme alla sua offerta, per accogliere

5 Su questo termine, che in origine designava esclusivamente l’offerta dei doni del

sacrificio eucaristico, e che poi a partire dalla fine del iv secolo passò a indicare anche
l’intera preghiera eucaristica, cf. P. Skaltsis, “Questioni ermeneutiche dell’anafora eu-
caristica”, in L’Eucaristia nella tradizione orientale e occidentale con speciale riferimento
al dialogo ecumenico. Atti del IX Simposio intercristiano (Assisi 4-7 settembre 2005), a cu-
ra di L. Bianchi, Provincia veneta dei frati cappuccini minori, Venezia-Mestre 2007,
pp. 106-107.
6 Su questo aspetto dell’insegnamento dei padri, cf. F. Cassingena-Trévedy, Les

Pères de l’Église et la liturgie, pp. 260-273.

200
“In alto i cuori”

la sua grazia, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito santo,


doni che la solenne formula di benedizione invoca per tutti i fede-
li (cf. §§ 24; 27).
“Questa tavola appartiene alle aquile!” (§ 21), dice ancora Gio-
vanni Cristomo della mensa eucaristica, poiché essa richiede di “re-
stare in alto”e di “mantenere ben aguzzo lo sguardo della mente”. I
padri si sforzano di far comprendere ai fedeli che la loro liturgia non
è un evento soltanto terreno, ma anche celeste, anzi, in senso più ve-
ro e pieno, essa non si compie sulla terra ma in cielo (§§ 22; 24),
“dove Cristo è seduto alla destra di Dio” (Col 3,1), dove fin da ora
i cristiani hanno la loro vera dimora e cittadinanza (cf. Fil 3,20) e
dove la loro vita “è nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). Ciò che
qui è richiesto non è perciò una titanica quanto vana elevazione gui-
data da un vago sentimento del divino, ma di orientare il cuore a
Cristo, l’uomo-Dio, che, disceso tra di noi, è asceso in cielo come
primizia dell’intera umanità (cf. § 28). Come sempre nel cristiane-
simo, si tratta meno di realizzare qualcosa con le proprie forze, quan-
to di riconoscere e di accogliere nella fede ciò che già è stato dona-
to. “Se possiamo levare ‘in alto’ il nostro cuore – è stato scritto – è
perché questa altezza, questo cielo, si trova in noi e tra di noi come
la nostra patria autentica e anelata, dove ritorniamo dopo un lace-
rante esilio, patria verso la quale la creazione sospira con angoscia,
della quale prova una sete inestinguibile e non vive che nel ricordo
di essa”7.
Secondo i padri l’esortazione del ministro “Teniamo in alto i cuo-
ri!”e ancor di più la risposta dell’assemblea “Li teniamo rivolti al
Signore”, oltre a essere un invito e un impegno, diventano un giudi-
zio per chiunque le ascolta e le pronuncia (cf. §§ 25-26). Ognuno
è invitato a chiedersi se il proprio cuore è davvero rivolto al Signo-
re, se il suo tesoro è in cielo (cf. Mt 6, 21), in Dio, oppure altrove.
Come può ripetere queste parole chi con il suo cuore e la sua inte-
ra vita non è orientato verso il Signore? Mai come qui è essenziale

7 A. Schmemann, L’eucaristia, p. 228.

201
Capitolo V

che mens concordet voci, che la mente sia in accordo con la voce,
come dice la Regola di Benedetto8, o, in caso contrario, mai come
qui è cruciale il giudizio e clamorosa la contraddizione tra le paro-
le pronunciate e l’intenzione interiore del cuore9. “Non temi e non
ti vergogni di essere trovato bugiardo proprio in quest’ora terribi-
le?”, chiede severamente Giovanni Crisostomo a chi lo ascolta, e
Anastasio il Sinaita, facendogli eco, aggiunge: “Sta’ attento, ti pre-
go, a non avere il cuore rivolto al diavolo, invece di tenerlo in alto
rivolto a Dio!”(§ 26)10.
I padri vedono infine significata in questo dialogo che apre l’a-
nafora, così come nel solenne “Amen!”che la conclude, l’unità del
corpo di Cristo: l’eucaristia è infatti celebrata in comune dall’inte-
ra assemblea dei fedeli, che, secondo le parole dell’apostolo Pietro,
è “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo
che Dio si è acquistato per annunciare le sue opere meravigliose”
(1Pt 2,9). Il ministro non fa che presiedere la preghiera a nome di
tutti: la benedizione e le esortazioni che egli rivolge all’assemblea
sono altrettante richieste di assenso da parte del popolo e, solo do-
po aver ricevuto l’assicurazione che tutto il popolo concorda piena-
mente con lui negli stessi sentimenti e partecipa alla sua preghiera
– “È cosa degna e giusta!”–, egli può dare finalmente inizio al lun-
go rendimento di grazie (cf. §§ 25; 29).

8 Cf. Regola di Benedetto 19,7.


9 Sulla stessa linea Agostino di Ippona, commentando queste parole del prefazio in
Discorsi 229,3, ammonisce i fedeli: “Non avvenga che la lingua parli e la coscienza ne-
ghi” (non lingua sonet et coscientia neget).
10 Se, come sostiene R. F. Taft, “The Dialogue before the Anafora in the Byzanti-

ne Eucharistic Liturgy, II: The ‘Sursum corda’”, in Orientalia Christiana Periodica


54/1 (1988), pp. 74-75, il comando “In alto i cuori” e la risposta dell’assemblea “Li te-
niamo rivolti al Signore” implicano necessariamente una particolare disposizione del
corpo da parte degli oranti – oltre allo stare in piedi e al tenere le mani levate in alto,
anche l’orientamento fisico verso oriente, simbolo di Cristo, orientamento del resto
normale nelle chiese antiche costruite con l’abside rivolta ad est –, il senso di queste
parole acquista una pregnanza ancora maggiore: l’assemblea si impegna a far corri-
spondere un’intima disposizione del cuore all’orientamento già assunto dall’intero cor-
po. Cf. sul tema anche U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera li-
turgica, Cantagalli, Siena 2006, pp. 38-39.

202
“In alto i cuori”

α. Io, Giacomo, fratello di Giovanni, figlio di Zebedeo, prescri-


vo che il diacono proclami subito: Più nessuno dei catecume-
ni, nessuno degli uditori, nessuno degli infedeli, nessuno de-
gli eterodossi [resti qui]! Voi che avete compiuto la preghiera
precedente, fatevi avanti. Voi madri, prendete con voi i vostri
bambini. Nessuno [abbia qualcosa] contro qualcuno, nessuno
sia ipocrita. Ritti davanti al Signore, stiamo in piedi con ti-
more e tremore (Fil 2,12) per compiere l’offerta! …
Il vescovo allora, insieme ai sacerdoti, preghi per proprio con-
to, poi indossato uno splendido paramento e stando in pie-
di davanti all’altare, faccia con la mano il segno della croce
sulla fronte e dica: La grazia di Dio onnipotente, l’amore del
nostro Signore Gesù Cristo e la comunione dello Spirito san-
to siano con tutti voi (cf. 2Cor 13,13).
E tutti rispondano a una sola voce: E con il tuo spirito.
E il vescovo: In alto la mente11!
E tutti: La teniamo rivolta al Signore!
E il vescovo: Rendiamo grazie al Signore!
E tutti: È cosa degna e giusta.
Costituzioni apostoliche VIII,12,1-5

β. Il diacono: Stiamo in piedi ben composti, [stiamo in piedi


con timore, prestiamo attenzione alla santa offerta, per of-
frirla in pace]12!

11 Cf. Liturgia di san Giacomo, p. 84, l. 15: “Teniamo in alto la mente e i cuori”.
12 Completiamo qui il testo dell’Eucologio Barberini gr. 336 sulla base del confronto
con testimonianze letterarie contemporanee (ad esempio Germano di Costantinopoli,
Anastasio il Sinaita) che già riportano il testo lungo; è abbastanza comune che i mano-
scritti liturgici riportino solo l’incipit di tali ammonizioni, ma ciò non significa che il
testo completo non fosse presupposto. La più recente Liturgia di Giovanni Crisostomo
(b), p. 383, riporta il testo in una forma non priva di problemi di interpretazione: “Il
diacono: Stiamo in piedi ben composti, stiamo in piedi con timore, stiamo attenti ad
offrire in pace la santa offerta [oppure: anafora]. Il coro: Misericordia di pace, sacri-
ficio di lode”. Sulla valutazione delle varianti, la ricostruzione del testo originale e la
sua interpretazione rimandiamo a R. F. Taft, “Textual Problems in the Diaconal Ad-
monition before the Anaphora in the Byzantine Tradition”, in Orientalia Christiana Pe-
riodica 49/2 (1983), pp. 340-365.

203
Capitolo V

Il popolo: Misericordia, pace, [sacrificio di lode (cf. Sal


49,14)]13.
Il sacerdote: La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’a-
more di Dio Padre e la comunione dello Spirito santo siano con
tutti voi (2Cor 13,13)!
Il popolo: E con il tuo spirito.
Il sacerdote: Teniamo in alto i cuori!
Il popolo: Li teniamo rivolti al Signore.
Il sacerdote: Rendiamo grazie al Signore!
Il popolo: È cosa degna e giusta.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 321

Stare alla presenza del Signore con timore e riverenza

1. Abbi misericordia di me, o Dio! (Sal 50,3) – dici – e intan-


to mostri un comportamento contrario alla misericordia. Salva-
mi! (Sal 6,5) – gridi – e intanto adotti un atteggiamento estra-
neo alla salvezza! Che contributo danno alla supplica le mani
sollevate continuamente in aria e agitate disordinatamente, o
le grida violente che per la spinta eccessiva del fiato diventano
addirittura incomprensibili? Non sono questi forse i modi di
fare delle donne che si prostituiscono lungo i trivi, o di coloro
che recitano nei teatri? Come osi dunque mescolare quelle pa-
gliacciate degne dei demoni con questo inno di lode degli ange-
li14? Come fai a non vergognarti delle parole che pronunci,
quando dici: Servite il Signore con timore ed esultate in lui con

13 Questa risposta intende esprimere il significato che ha per l’assemblea l’offerta

compiuta dal ministro durante l’anafora: essa è segno della misericordia di Dio accor-
data agli uomini nel sacrificio di Cristo, è segno della pace che Cristo ha donato, è sa-
crificio di lode offerto a Dio. Cf. R. F. Taft, “Textual Problems”, p. 364.
14 Allusione al triplice “Santo” dei serafini recitato dall’assemblea durante la pre-

ghiera eucaristica.

204
“In alto i cuori”

tremore (Sal 2,11)? Forse che servirlo con timore significa assu-
mere un contegno rilassato, oppure intensificare così tanto lo
sforzo da non saper neppure cosa si sta dicendo per il rimbom-
bo confuso della voce? Questo è segno di disprezzo e non di ti-
more, di presunzione e non di umiltà! È un comportamento
che si addice ai saltimbanchi più che a quelli che elevano un in-
no di lode.
In cosa consiste dunque il “servire il Signore con timore”?
Nell’adempiere ogni precetto agendo con timore e con un con-
tegno riservato, e nel presentare le proprie suppliche con un
cuore contrito e una mente colma di umiltà (cf. Sal 50,19).
Ma lo Spirito santo per bocca del profeta ci esorta non solo
a servire con timore, ma anche a esultare con tremore. Poiché
infatti l’adempimento del precetto produce solitamente la gioia
in chi pratica la virtù, conviene che lo si faccia – dice – con tre-
more e timore, perché, lasciandoci prendere dall’eccitazione,
non finiamo per perdere il frutto delle nostre fatiche e irritia-
mo Dio.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,2

2. Ma qualcuno potrebbe dirmi: il profeta ci esorta a eleva-


re l’inno di lode con un’acclamazione, poiché [dice]: Acclama-
te al Signore, terre tutte (Sal 65,1)!
Neanche noi però vogliamo impedire una tale acclamazione,
ma il clamore confuso. Non la voce di lode, ma la voce di schia-
mazzo, i bisticci reciproci, le mani levate in aria a caso e senza
motivo, i piedi che si muovono come zampe di cavallo, i com-
portamenti scomposti e rilassati, che sono tutte pagliacciate
degne di coloro che passano il tempo nei teatri e negli ippodro-
mi! È appunto di là che ci vengono questi insegnamenti fune-
sti, di là queste grida irriverenti e volgari, di là le gesticolazio-
ni scomposte delle mani, le rivalità, i litigi, i comportamenti di-
sordinati!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,3

205
Capitolo V

3. Ecco la disciplina15 che ci è richiesta: innanzitutto dob-


biamo accostarci a Dio con un cuore contrito (Sal 50,19), poi
manifestare i sentimenti del nostro cuore attraverso il conte-
gno esteriore, con la posizione eretta, con la compostezza delle
mani, con una voce misurata e contenuta. Ciò è facile e possi-
bile per chiunque lo voglia. In che modo dunque potrà realizzar-
si in tutti? Fissiamo una legge a noi stessi e diciamo che questo
precetto è stato stabilito nell’interesse comune e che tutti noi
dobbiamo condividere tale interesse. Facciamo perciò tacere le
voci scomposte, moderiamo i gesti delle mani, presentandole a
Dio giunte e non sollevate in gesticolazioni disordinate16. Egli
odia infatti un tale comportamento e lo respinge con disgusto,
mentre ama e attira a sé chi è composto. Su chi volgerò lo sguar-
do – dice infatti – se non su chi è mite, quieto e trema alle mie pa-
role? (Is 66,2). Diciamoci gli uni gli altri che Dio, quando con-
versiamo con lui, non vuole che parliamo tra di noi, né che ab-
bandoniamo il colloquio con lui per avviare discussioni sugli
avvenimenti presenti e così mescolare le perle al fango (cf. Mt
7,6). Egli considera un simile atteggiamento un affronto perso-
nale e non una lode!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,6

4. Se un re vi invitasse a banchetto, voi certo vi mettereste


a tavola con timore, e con riverenza e silenzio prendereste dei
cibi che vi sono imbanditi, ma se è Dio a invitarvi alla sua men-

15 In greco: eutaxía (lett.: “buon ordine”). Il termine indica qui un contegno com-

posto e decoroso del corpo e una buona disposizione del cuore, ed è spesso impiegato
per designare la disciplina e il buon ordine che devono regnare tra i membri dell’assem-
blea liturgica. Più in generale, al di là dell’ambito liturgico, eutaxía o táxis è uno dei
concetti più tipici della mentalità greco-bizantina, che esprime l’aspirazione a instau-
rare nella sfera privata come nelle relazioni e nelle istituzioni sociali e politiche un or-
dine visibile capace di riflettere l’armonia divina e cosmica (cf. C. Mango, La civiltà
bizantina, Laterza, Bari 1991, pp. 314-315).
16 Considerazioni assai simili a queste, che richiamano a un contegno liturgico umi-

le e composto, si trovano in alcuni testi della tradizione monastica del deserto (cf. ad
esempio Il cammino del monaco, p. 413).

206
“In alto i cuori”

sa, offrendovi il suo stesso Figlio, mentre le potenze angeliche


vi assistono con timore e tremore (Fil 2,12), i cherubini si copro-
no la faccia, e i serafini acclamano con tremore: Santo, santo, san-
to, il Signore (Is 6,3), tu invece schiamazzi – rispondimi! – e fai
confusione davanti a questo banchetto spirituale? Non sai che
in quel momento l’anima dev’essere colma di tranquillità? Ci
vogliono molta pace e molta quiete, non confusione, collera e
strepito, perché queste cose rendono impura l’anima di colui che
si accosta! …
È breve il tempo presente, miei cari, siamo sobri, vigiliamo
(cf. 1Pt 5,8), concentriamoci, mostriamo a tutti uno zelo since-
ro in ogni cosa, dimostriamoci riverenti in tutto: se bisogna
ascoltare le parole divine, o pregare, accostarsi [alla comunio-
ne], o fare un’altra cosa, ciò sia fatto con timore e tremore (Fil
2,12), per non attirarci una maledizione con la nostra indolen-
za, poiché dice [la Scrittura]: Maledetto chiunque compie fiacca-
mente l’opera del Signore! (Ger 48,10). Lo schiamazzo e l’ira so-
no un’offesa alla vittima posta dinanzi a noi. È segno di estremo
disprezzo che uno offra se stesso a Dio quando è contaminato.
Ascolta che cosa dice l’Apostolo riguardo a chi si comporta così:
Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui! (1Cor 3,17).
Non attiriamoci dunque l’ira di Dio invece della riconciliazio-
ne, ma dimostrando una piena diligenza, un contegno perfetto
e un’anima tranquilla, accostiamoci con atteggiamento di pre-
ghiera e un cuore contrito (Sal 50,19), per attirarci anche così la
benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo e così ottenere i
beni a noi promessi, per grazia e bontà dello stesso nostro Si-
gnore Gesù Cristo.
Giovanni Crisostomo, Omelia per la Natività di Gesù Cristo 7

5. Or dunque, fratelli, non disertiamo le chiese e tantomeno,


quando ci siamo, occupiamoci in conversazioni, ma restiamo in
piedi tutti pieni di timore e di tremore, volgendo gli occhi verso
il basso e l’anima verso l’alto; gemendo silenziosamente acclamia-

207
Capitolo V

mo nel cuore con grida di giubilo. Non vedete coloro che stanno
alla presenza di questo re17 sensibile, sottomesso alla corruzione,
temporaneo e terreno? Non vedete come stanno immobili, sen-
za parlare, senza agitarsi, senza voltare gli occhi di qua e di là,
ma restando seri, con gli occhi bassi e tutti pieni di timore? Da
loro làsciati convincere, o uomo! Vi prego appunto di presentar-
vi così davanti a Dio, come se vi trovaste a comparire alla presen-
za di un re terreno: a maggior ragione dovete stare alla presen-
za del Re celeste con timore! Non cesserò di ripetere continua-
mente queste cose, finché non avrò visto che vi siete corretti.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla penitenza 9

6. Non c’è niente di così efficace per bloccare l’assalto del ma-
ligno contro di noi come la preghiera e la supplica insistente. E
infatti la stessa formula di esortazione che il diacono rivolge a
tutti dicendo: “Stiamo ritti in piedi, ben composti!” non è sta-
ta stabilita senza motivo e a caso, ma perché raddrizziamo i no-
stri pensieri che sono trascinati verso terra, in modo che, scac-
ciando il torpore procuratoci dagli affari mondani, possiamo ri-
alzare la nostra anima dritta davanti a Dio. E a riprova che ciò
è vero e che questa formula non allude al corpo, ma all’anima,
ordinando di raddrizzarla, ascoltiamo Paolo che utilizza questa
espressione nello stesso senso. Scrivendo infatti a uomini abbat-
tuti, che di fronte all’incalzare dei mali venivano meno, diceva:
Raddrizzate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti (Eb 12,12).
Che diremo? Che sta parlando delle mani e delle ginocchia del
corpo? Niente affatto. Non sta parlando infatti a dei corridori
né a dei pugili, ma con queste parole ha esortato a risollevare la
forza interiore dei pensieri che era stata precedentemente ab-
battuta sotto il peso delle prove. Rifletti vicino a chi stai, in-
sieme a chi stai per invocare Dio: insieme ai cherubini! … Ec-
co perché in questo momento ci viene comandato di stare ben

17 L’imperatore romano.

208
“In alto i cuori”

composti. “Stare ben composti”, infatti, non significa altro che


stare così come è conveniente che un uomo stia alla presenza di
Dio, con terrore e tremore (cf. Fil 2,12), con un’anima sobria e
ben sveglia. Che infatti questa espressione riguardi l’anima, lo
dimostra ancora Paolo, laddove dice: State così nel Signore, miei
amati (Fil 4,1).
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio 4,388-409; 421-428

7. Nell’ora in cui presenti la tua offerta [al Signore] resisti ai


tuoi pensieri, tenendo saldi i tuoi sensi nel timore di Dio, per
essere ritenuto degno dei misteri, e così il Signore ti guarirà.
Abba Isaia, Discorsi ascetici 3,4

8. Grande è la nostra cecità, grande la pigrizia, grande la ne-


gligenza! Non c’è tra di noi compunzione, non c’è timore di
Dio, né correzione, né pentimento, ma tutta la nostra mente è
rivolta a malvagità, piaceri e ubriachezza! E spesso occupiamo
l’intera giornata negli spettacoli teatrali, nei discorsi osceni e
nelle altre opere del diavolo, senza provarne il minimo fastidio,
anzi per questo trascuriamo addirittura cibo, casa e altri impe-
gni indispensabili. Nella chiesa di Dio, invece, non siamo di-
sposti a stare alla presenza di Dio neppure un’ora sola, nella pre-
ghiera e nella lettura, ma abbiamo fretta di uscire dalla chiesa
di Dio come se fuggissimo da un fuoco! Se, al momento del di-
vino evangelo, viene letta una pericope un po’ più lunga, ne sia-
mo indignati e cominciamo a girarci attorno; se il sacerdote che
recita le preghiere, le prolunga un po’, ce ne crucciamo e allen-
tiamo la tensione; e se colui che offre il sacrificio incruento18 si
attarda un po’ di più, ne siamo infastiditi e irritati, sbadigliamo
e siamo impazienti di allontanarci quanto prima dal luogo del-
la preghiera, come da un tribunale, mentre il diavolo ci spinge a

18 Cioè il sacrificio eucaristico. Sono qui descritti tre momenti della celebrazione

eucaristica: lettura della parola di Dio, preghiera dei fedeli e consacrazione.

209
Capitolo V

raggiungere le vane occupazioni e le dissolutezze. Grande è la


nostra miseria, miei cari!
Eppure in ogni preghiera e supplica la nostra mente dovreb-
be essere fervente e ben concentrata, ma soprattutto nella di-
vina celebrazione dei misteri immacolati, poiché in tale sinassi
siamo tenuti a metterci alla presenza del Signore con timore e
tremore (Fil 2,12). Ma neppure questa celebrazione noi l’offria-
mo alla sua presenza con una preghiera sincera e un animo con-
trito e umiliato (Sal 50,19) e anche durante tali sinassi conti-
nuiamo ad occuparci delle nostre cause giudiziarie e dell’ammi-
nistrazione delle nostre numerose e vane faccende!
Alcuni non si preoccupano con quale purezza e pentimento
si accostano alla sacra mensa, ma con quali abiti possano met-
tersi in mostra. Alcuni poi, dopo essere entrati, non si degnano
di rimanere fino alla fine, ma tramite altri domandano che co-
sa si sta celebrando nella sinassi e se è arrivato il momento del-
la comunione; allora balzando dentro di corsa come cani, arraf-
fano il mistico pane e poi se ne vanno.
Altri, da quando arrivano nel tempio di Dio, non se ne stan-
no tranquilli una sola ora, ma chiacchierano tra loro, applican-
dosi più alle loro vane ciance che alle preghiere. Altri, abbando-
nata la celebrazione dei misteri19 della divina liturgia, si danno
ai piaceri della carne. Altri non si preoccupano e non prestano
attenzione alla propria coscienza purificandola dalla sozzura dei
peccati attraverso la confessione, ma accumulando per sé un
carico di peccati ancor più grande osservano le bellezze e le for-
me delle donne, trasformando la chiesa di Dio con la loro folle
concupiscenza in un bordello20. Altri prendono accordi tra loro
parlando di affari e proprietà, trasformando quel luogo, nell’o-

19 In greco: mystagoghía.
20 Nelle chiese antiche uomini e donne assistevano alla liturgia in luoghi separati
(cf. ad esempio l’esplicita prescrizione di Costituzioni apostoliche II,57,4), ma, come
testimonia l’autore, in alcuni casi ciò non impediva la possibilità di sguardi reciproci.

210
“In alto i cuori”

ra più tremenda di tutte, in un mercato e in una piazza. Altri


durante la sinassi perdono il tempo a sparlare gli uni degli altri,
o perfino degli stessi ministri che offrono il sacrificio. Non si
distinguono da costoro alcune donne che sono schiave del dia-
volo e che sostano nella chiesa di Dio non tanto per prega-
re, quanto per mettersi in mostra e sedurre molti dei più sprov-
veduti!
Anastasio il Sinaita, Omelia sulla santa sinassi, PG 89,829A-832A

9. Non vedi come coloro che stanno alla presenza del re di


questa terra, che spesso è anche empio, vi stanno con ogni rive-
renza, volgendo lo sguardo verso di lui con un brivido di terro-
re, senza aprire bocca, senza muoversi, senza agitarsi, ma rima-
nendo davanti a lui in silenzio e con timore? Noi invece stiamo
nella chiesa di Dio come se ci trovassimo a teatro o alle terme,
ridendo, chiacchierando, dicendo sciocchezze, ingannando noi
stessi e illudendoci di essere in chiesa!
Non sai che la chiesa di Dio è un ospedale e un porto? Se
dunque in ospedale rimani con la tua malattia senza farti cura-
re, quando mai potrai guarire? E se in porto sei sballottato dal-
le onde, dove troverai pace? State in piedi, vi supplico, con ri-
verenza! State in piedi con timore in quell’ora terribile dell’a-
nafora21: ciascuno di voi infatti viene innalzato al cospetto del
Signore con la disposizione e con il pensiero con cui vi assiste in
quell’ora! L’anafora trae il suo nome dall’elevarsi a Dio. Sta’
dunque alla presenza di Dio nella quiete e nella compunzione.
Anastasio il Sinaita, Omelia sulla santa sinassi, PG 89,833A-C

21 Il termine greco anaphorá indica sia l’“oblazione” o “offerta eucaristica”, sia la

preghiera eucaristica che il sacerdote fa in quel momento. Secondo il significato lette-


rale, che qui viene chiaramente presupposto, anaphorá (dal verbo anaphéro, “portare in
alto”, “offrire elevando”) significa “elevazione”, “trasferimento verso l’alto”. Per
un’interpretazione simile di questo termine cf. Nicola e Teodoro di Andida, Simboli e
misteri della divina liturgia 19, che vi scorgono un invito a elevare la mente per contem-
plare il significato mistico dei riti celebrati.

211
Capitolo V

10. Chi pensa, con profondo sentimento del cuore, di tro-


varsi alla presenza di Dio mentre è in preghiera, resterà immo-
bile come una colonna, e nessuno dei demoni22 potrà prendersi
gioco di lui.
Giovanni Climaco, La scala 18,4

11. Per la balaustra 23


Mentre contempli davanti al tuo volto la mensa divina,
onorane la santità e sta’ in piedi tutto pieno di timore.
Teodoro Studita, Epigrammi 43

12. Anche l’invito “In piedi!”24 contiene un’esortazione. Di


quale esortazione si tratta? Chiede che, mentre ci apprestiamo
a incontrare Dio e ad assistere ai misteri, stiamo ben tesi e du-
rante questo incontro non ci comportiamo con negligenza ma
con fervore, sia che si tratti di vedere, di dire o di ascoltare qual-
cuno dei sacri riti. E come primo segno di tale fervore e di ta-
le riverenza ci chiede di mostrare questo: la posizione eretta del
corpo, il fatto cioè di compiere questo atto non seduti ma stan-
do in piedi. Questo infatti è l’atteggiamento dei supplici, questo
l’atteggiamento dei servi, che tengono la mente interamente fis-
sa al minimo cenno dei loro padroni, per poter subito correre
prontamente a compiere il loro servizio appena abbiano carpi-
to un comando. Noi, del resto, siamo supplici al cospetto di Dio
per le cose più importanti e suoi servi in ogni genere di servizio.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 21,5

22 Secondo la terminologia propria dei testi monastici fissata da Evagrio Pontico, si

tratta dei “pensieri cattivi” (loghismoí ) che distolgono l’orante dalla preghiera.
23 È la balaustra di marmo che separava il santuario dalla navata della chiesa. Più

tardi, quando fu completamente adornata di icone, verrà chiamata “iconostasi”.


24 L’autore sta commentando la formula pronunciata dal diacono all’inizio della li-

turgia della Parola (“Sapienza! In piedi!”), ma la interpreta come un invito a un con-


tegno adeguato alla celebrazione dei misteri da tenere in tutta la liturgia eucaristica.

212
“In alto i cuori”

Disporsi alla preghiera

13. Non sarà fuori luogo citare qui le parole del profeta Da-
vid, affinché siano resi manifesti i grandissimi vantaggi che com-
portano, anche da sole, la disposizione interiore e la prepara-
zione alla preghiera per chi si dedica a Dio. Egli dice: Ho ele-
vato i miei occhi a te che abiti nel cielo (Sal 122,1), e: A te ho
elevato l’anima mia, o Dio (Sal 24,1). Quando infatti gli occhi
della mente si elevano, in modo da distaccarsi dalle cose terre-
ne e non essere più ingombrati dalle immagini delle realtà ma-
teriali, e si innalzano fino al punto da spingersi oltre l’orizzon-
te degli esseri creati, da rivolgersi alla pura contemplazione di
Dio e parlare, a lui che ascolta, con riverenza e decoro, come
può tutto ciò non procurare grandissimi vantaggi agli stessi oc-
chi che, a viso scoperto, riflettono come in uno specchio la gloria
del Signore e vengono trasformati in quella stessa immagine, di glo-
ria in gloria (2Cor 3,18)? Allora infatti essi ricevono l’effluvio
di un’energia spirituale più divina, come è evidente dal versetto:
È stata impressa su di noi la luce del tuo volto, Signore (Sal 4,7).
E così, quando l’anima si solleva e, separandosi dal corpo, se-
gue lo Spirito – e non solo segue lo Spirito, ma si stabilisce in
lui, come è chiaro dalle parole: A te ho elevato l’anima mia (Sal
24,1) – come può non diventare spirituale, cessando di essere
una semplice anima?
Origene, Sulla preghiera 9,2

14. Mi sembra che chi sta per mettersi a pregare, se per un


po’ si impegna e si prepara, può essere più pronto e fervente per
l’intera durata della preghiera. Se avrà respinto ogni tentazio-
ne e turbamento proveniente dai pensieri, si sarà ricordato, per
quanto possibile, della grandezza di colui al quale si accosta, e
che è un’empietà accostarsi a lui in modo svogliato e trascura-
to, quasi con atteggiamento sprezzante, e se avrà lasciato da par-

213
Capitolo V

te tutto ciò che è estraneo, potrà così mettersi a pregare: in


questo modo egli avrà, per così dire, proteso l’anima ancor pri-
ma delle mani, rivolto a Dio la mente ancor prima degli occhi,
e, ancor prima di essersi alzato in piedi, avrà sollevato da terra
il suo pensiero e lo avrà stabilito alla presenza del Signore del-
l’universo ... Non c’è dubbio infatti che, pur essendo innume-
revoli le posizioni del corpo, sia da preferire tra tutte la posizio-
ne con le mani tese e gli occhi rivolti verso l’alto, poiché essa
quasi riproduce anche nel corpo un’immagine degli atteggia-
menti che l’anima deve assumere al momento della preghiera.
Origene, Sulla preghiera 31,2

15. Nelle nostre preghiere possiamo essere vigilanti se pen-


siamo a chi ci rivolgiamo, se consideriamo che stiamo offrendo
un sacrificio … Considera che anche Abramo, quando offriva
il suo sacrificio, non ammise la presenza né della sua sposa, né
del servo, né di nessun altro. Anche tu dunque non lasciarti ac-
compagnare da nessuna delle passioni servili e indegne di un
uomo libero, ma sali da solo sul monte dove egli è salito e sul
quale non può salire nessun altro! E se alcuni di quei pensieri
cercano di salire insieme a te, tu ordina loro con autorità: Fer-
matevi qui! Io e il ragazzo ci prostreremo in adorazione e poi ritor-
neremo (Gen 22,5). Lascia giù l’asina, i servi e tutto ciò che è
irragionevole e inutile, ma se hai qualcosa di ragionevole, sali
predendolo con te, come Abramo fece con Isacco. Costruisci un
altare25 proprio come lui, come uno che non ha più niente di
umano, ma è ormai al di fuori della natura. Del resto, se Abra-
mo non fosse stato al di fuori della natura non avrebbe mai po-
tuto immolare il figlio. Niente in quel momento ti disturbi, ma
elèvati al di sopra dei cieli stessi!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 5,3-4

25 Cioè un altare spirituale, per celebrare la liturgia nel cuore, un tema frequente

nella letteratura monastica.

214
“In alto i cuori”

16. Lotta per elevare il tuo pensiero, o piuttosto per concen-


trarlo nelle parole della tua preghiera; e anche se si stanca e ca-
de – dal momento che è ancora bambino –, tu riconducilo di
nuovo in esse. L’instabilità, infatti, è propria della mente, ma
Dio può rendere stabile ogni cosa!
Se sostieni questa lotta incessantemente, verrà ad abitare an-
che in te colui che stabilisce i confini al mare della mente, e du-
rante la tua preghiera gli dirà: Fin qui giungerai e non oltre (Gb
38,11)!
È impossibile incatenare lo spirito, ma laddove è presente il
Creatore dello spirito, tutto gli si sottomette.
Giovanni Climaco, La scala 28,16-18

17. Ecco quali sono le disposizioni con le quali è necessario


accostarsi ai sacri [misteri] e senza le quali anche il semplice fat-
to di guardarli sarebbe assolutamente blasfemo: riverenza, fe-
de e un amore verso Dio pieno di fervore … Per essere in tali
disposizioni in quel momento26, infatti, non basta aver appreso
una volta le cose che riguardano Cristo e possederne la cono-
scenza, ma è necessario, anche in quel preciso momento, avere
l’occhio della mente fisso là e contemplare quelle cose, scaccian-
do con forza ogni altro pensiero, se davvero vogliamo rendere
l’anima adatta, come ho detto, a quella santificazione. Se infatti
custodiamo sì il contenuto della nostra fede, così da poter ri-
spondere correttamente a chi interroghi, ma poi al momento in
cui dobbiamo partecipare ai misteri non contempliamo ogni co-
sa in modo adeguato, anzi rivolgiamo l’attenzione della mente
ad altre cose, non ricaviamo alcun profitto da tale conoscenza,
perché essa non è in grado di infondere in noi alcuno dei senti-
menti di cui si è detto. Le nostre disposizioni interiori infatti cor-

26 Al momento della liturgia, e in particolare al momento della consacrazione du-

rante la preghiera eucaristica.

215
Capitolo V

rispondono ai pensieri che ci tengono occupati in quel momen-


to e proviamo i sentimenti che essi sono in grado di produrre.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 1,11.13

Tenere “in alto” la mente e il cuore

18. È cosa buona stare ai piani superiori, è cosa buona stare


sui tetti e ovunque trovarsi in alto27! Anche gli ammirevoli apo-
stoli, come sta scritto nei loro Atti, quando erano riuniti insieme
per attendere alle preghiere e alla parola di Dio, stavano al pia-
no superiore (At 1,13), e dal momento che erano al piano supe-
riore, non erano in basso, ed è per questo che apparvero loro
lingue come di fuoco che si dividevano (At 2,3). Anche Pietro,
da parte sua, quando si accingeva a rivolgere la sua preghiera a
Dio, salì sul tetto (At 10,9), e se egli non fosse salito sul tetto,
non avrebbe visto un oggetto che scendeva dal cielo, come una to-
vaglia calata dal cielo per i quattro capi (cf. At 10,11). E anche
quella donna che faceva elemosine, Tabità, nome che significa
“Gazzella” (At 9,36), non era in basso, ma al piano superiore (At
9,37), e fu là che Pietro salì quando la risuscitò dai morti (cf. At
9,39-41).
Anche Gesù, quando stava per celebrare insieme ai discepo-
li questa festa di cui noi compiamo il segno [sacramentale]28,
poiché costoro gli domandavano: Dove vuoi che prepariamo per
te la Pasqua? (Mt 26,17), disse: Mentre sarete in cammino, vi

27 L’autore intende queste indicazioni di luogo in senso spirituale, come è evidente

dal testo, ed è assai probabile un diretto e intenzionale riecheggiamento della formula


liturgica “In alto i cuori!”.
28 Lett.: “il simbolo” (sØmbolon), termine che qui è da intendere in senso forte co-

me sinonimo di mystérion (cf. infra, p. 296, n. 45). L’allusione è evidentemente alla ce-
lebrazione eucaristica, più che alla pasqua cristiana.

216
“In alto i cuori”

verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo, ed egli


vi mostrerà una camera alta, spaziosa, adorna di tappeti, ben spaz-
zata e già pronta: là preparate la Pasqua (Mc 14,13.15).
Nessuno dunque che celebra la Pasqua come Gesù vuole che
lo si faccia, sta in basso rispetto alla camera alta, ma se uno ce-
lebra questa festa insieme a Gesù sta in alto, nella camera alta
spaziosa, nella camera alta ben spazzata, nella camera alta ad-
dobbata e preparata. E se tu vi sali insieme a lui per celebrare
la festa di Pasqua, egli ti dà il calice della nuova alleanza, ti dà il
pane della benedizione (cf. 1Cor 10,16), ti fa grazia del suo cor-
po e del suo sangue. Proprio per questo vi esortiamo: salite ver-
so l’alto, levate verso l’alto i vostri occhi (cf. Is 37,23)!
Origene, Omelie su Geremia 19,13

19. Dopo questo29 il sacerdote proclama: “In alto i cuori!”.


Veramente infatti in quell’ora tremenda bisogna tenere in alto
il cuore, rivolto a Dio, e non in basso, verso la terra e gli affari
terreni. Con forza dunque il sacerdote ordina di lasciare da par-
te in quell’ora tutti i pensieri mondani, le preoccupazioni di ca-
sa propria, e di tenere il cuore in cielo, rivolto a Dio amico degli
uomini. Allora voi rispondete: “Li teniamo rivolti al Signore!”,
esprimendo il vostro assenso con le parole stesse che proclama-
te. Non ci sia però nessuno qui che con la bocca dice: “Li te-
niamo rivolti al Signore!”, ma dentro di sé ha la mente rivolta
ai pensieri mondani. In ogni momento, certo, bisognerebbe ri-
cordarsi di Dio, ma se questo è impossibile a causa della debo-
lezza umana, bisogna applicarsi a questo soprattutto in quell’ora.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,4

20. Che fai, o uomo? Quando il sacerdote ha detto: “Tenia-


mo in alto la mente e i cuori”30, tu non gli hai forse fatto una

29Dopo il bacio di pace.


30È la formula che si trova nell’antica Liturgia di san Giacomo in uso a Gerusalem-
me (cf. supra, p. 203, n. 11).

217
Capitolo V

promessa, rispondendo: “Li teniamo rivolti al Signore”? Non


temi e non ti vergogni di essere trovato bugiardo proprio in que-
st’ora terribile? Oh meraviglia! La mensa mistica è già apparec-
chiata, l’Agnello di Dio è immolato per te, il sacerdote combat-
te per te, un fuoco spirituale erompe dalla mensa immacolata
(cf. 1Re 18,38), i cherubini assistono, i serafini volano attorno,
esseri dalle sei ali che si coprono la faccia (cf. Is 6,2), tutte le
potenze angeliche insieme al sacerdote intercedono per te, men-
tre scende il fuoco spirituale31, dal costato immacolato il san-
gue viene effuso nel calice per la tua purificazione, e tu non te-
mi, non ti vergogni di essere trovato bugiardo perfino in que-
st’ora terribile? La settimana ha centosessantotto ore, e una sola
Dio l’ha riservata per sé, e tu la sprechi in occupazioni monda-
ne, in cose ridicole e in conversazioni? Con quale audacia pre-
sumi poi di accostarti ai misteri? Come puoi farlo con la coscien-
za così contaminata? Se tu avessi tra le mani degli escrementi
oseresti forse toccare l’orlo di un re della terra? Certamente no!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla penitenza 9

21. Dove c’è il cadavere – dice [la Scrittura] – là vi sono an-


che le aquile (cf. Mt 24,28). Chiama cadavere il corpo32 a causa
della morte, perché se egli non fosse diventato cadavere, noi non
saremmo risorti. Parla poi di aquile, volendo mostrare che chi
si accosta a questo corpo deve restare in alto e non avere nulla
in comune con la terra, non deve lasciarsi trascinare giù e stri-
sciare in basso, ma deve continuamente volare in alto, guarda-
re il Sole di giustizia 33 (Ml 3,20) e aguzzare bene l’occhio della
mente, perché questa mensa appartiene alle aquile e non ai corvi!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 24,3

31 Lo Spirito santo.
32 Cioè il corpo di Cristo al quale ci si accosta nell’eucaristia.
33 Cioè Cristo, secondo l’interpretazione patristica corrente.

218
“In alto i cuori”

22. La chiesa non è la bottega di un barbiere, non è un nego-


zio di profumi, né un’altra delle botteghe che ci sono al merca-
to, ma un luogo di angeli, luogo di arcangeli, regno di Dio, il cie-
lo stesso! Se uno ti aprisse il cielo e ti introducesse lassù, anche
se là tu vedessi tuo padre, o vedessi tuo fratello, non oseresti
proferir parola: così anche qui non bisognerebbe proferire alcu-
n’altra parola se non quelle spirituali, perché anche qui siamo
in cielo! Se non ci credi, guarda questa mensa34, richiama alla
memoria lo scopo e il motivo per cui è stata eretta, pensa chi è
colui che viene avanti in questo luogo, trema ancor prima che
sia il momento35! Quando infatti uno vede anche solo il trono
del re, si eleva nella propria anima, attendendo l’arrivo del re.
Anche tu, dunque, trema ancor prima di quel momento tremen-
do, elèvati, e ancor prima di vedere le tende levate in alto e il
coro degli angeli che avanza, ascendi verso il cielo stesso36!
Ma chi non è iniziato ai misteri ignora queste cose. È dun-
que necessario rivolgersi anche a lui con altre parole. Neppure
con lui infatti ci mancheranno le parole che possano elevarlo e
convincerlo a spiccare il volo. Tu dunque, che ignori queste co-
se, quando ascolti il profeta che dice: Così dice il Signore … (Is
3,16)37, allontanati dalla terra, ascendi anche tu in cielo, pensa
chi è che ti parla attraverso queste parole!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 36,5

23. Le mie mani – sta scritto – si levano come offerta della se-
ra (Sal 140,2). Insieme alle mani eleviamo anche la mente. Voi

34 L’altare.
35 Cioè prima della consacrazione delle offerte.
36 Le parole “ascendi verso il cielo stesso” sono forse un’allusione al dialogo inizia-

le dell’anafora. Nelle chiese antiochene le tende (parapetásmata) dividevano il santua-


rio dalla navata della chiesa e venivano probabilmente chiuse all’inizio dell’anafora e
ritirate di nuovo prima dell’epiclesi: la loro apertura al momento della consacrazione
evocava l’apertura dei cieli e la discesa del Signore circondato dalla corte celeste (cf.
Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 238-239).
37 Cf. supra, p. 93, n. 23.

219
Capitolo V

che siete iniziati ai misteri sapete ciò che dico, e forse ricono-
scete anche le parole e capite a cosa alludo38. Innalziamo la men-
te verso l’alto. Conosco molti uomini che vivono quasi sospesi
al di sopra della terra, stendono le loro mani al di là di ogni mi-
sura e sono tristi perché non riescono a sollevarsi, e così prega-
no con zelo. Così voglio che voi siate sempre. Se non sempre,
almeno spesso; e se non spesso, almeno qualche volta, almeno
nelle preghiere del mattino e della sera. Dimmi, non sei capace
di stendere le mani? Tendi la tua intenzione quanto vuoi. Ten-
dila fino al cielo stesso. Anche se vuoi toccare la sommità stes-
sa [del cielo], se vuoi elevarti e muoverti perfino al di sopra di
essa, ciò ti è permesso. La nostra mente infatti è più leggera e
vola più in alto di qualunque essere alato. Quando poi riceve an-
che la grazia dello Spirito, oh, com’è veloce, com’è penetrante,
come ispeziona tutto senza lasciarsi trascinare né cadere verso
terra! Sono queste le ali che dobbiamo procurarci! Con esse po-
tremo volare al di sopra del mare tempestoso della vita presente.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Ebrei 22,3

24. Non appena il diacono ha detto: “Guardate verso l’of-


ferta!”39 e lo sguardo di tutti, in obbedienza a questa sua pro-
clamazione, è attento a ciò che si sta compiendo, da quel mo-
mento il sacerdote comincia a offrire l’offerta e, prima di tut-
to, benedice il popolo con queste parole: La grazia del nostro
Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello
Spirito santo siano con tutti voi (2Cor 13,13). Ritiene che all’ini-
zio di questa liturgia, più che prima di ogni altra circostanza,
sia opportuno benedire il popolo con questa parola tanto subli-
me dell’Apostolo. La pronuncia per prima a motivo del suo ca-
rattere venerabile, e anche perché è conforme alla Scrittura:

38 Cf. supra, § α.
39Questa monizione diaconale è simile a quella che si ritrova nella Liturgia di Gio-
vanni Crisostomo (cf. supra, § β) e nella Liturgia di san Giacomo, p. 82, l. 20.

220
“In alto i cuori”

Dio infatti ha così tanto amato il mondo, secondo la parola dell’e-


vangelo, da dare per lui il proprio Figlio unigenito, affinché chiun-
que crede in lui non vada in perdizione, ma abbia la vita eterna (Gv
3,16) … Per questo anche il beato Paolo nelle sue lettere ha
chiesto la stessa cosa per i fedeli, perché si mostrassero degni
di questo amore che Dio nella sua grazia ha mostrato a tutto il
genere umano e in virtù del quale ha concesso a tutti noi la gra-
zia dello Spirito santo, per donarci, attraverso questo dono, la
comunione con lui. Perciò anche il sacerdote, quando è sul pun-
to di celebrare questa liturgia così grandiosa, per mezzo della
quale siamo condotti verso tali speranze, giustamente benedice
prima di tutto il popolo con questa parola. … Dopo questa be-
nedizione il sacerdote prepara il popolo dicendo: “In alto le vo-
stre menti!”, per mostrare che, anche se è sulla terra che noi
crediamo di celebrare questa liturgia terribile e ineffabile, tut-
tavia dobbiamo guardare lassù, in cielo, e dirigere lo sguardo
della nostra anima verso Dio, perché stiamo facendo il memoria-
le del sacrificio e della morte di Cristo nostro Signore, che per
noi ha sofferto, è risorto, è unito alla natura divina, siede alla
destra di Dio e dimora in cielo. È necessario dunque che anche
noi dirigiamo là lo sguardo della nostra anima e, grazie a questo
memoriale, trasferiamo là il nostro pensiero. Poi il popolo ri-
sponde: “A te Signore!”. Con queste loro parole essi dichiara-
no che si stanno impegnando a farlo.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,2-3

25. [Eutimio] ogni giorno faceva questa solenne ammonizio-


ne ai fratelli, dicendo: “Fate attenzione a voi stessi, fratelli e pa-
dri, e ciascuno di voi esamini se stesso, e poi mangi di questo pane
e beva di questo calice, come dice l’Apostolo, perché chi lo fa in
modo indegno, mangia e beve la propria condanna (1Cor 11,28-29).
Per questo anche il sacerdote, quando offre a Dio il sacrificio
incruento, prima di cominciare, ammonisce solennemente e co-
manda a tutti dicendo: “Teniamo in alto la mente e i cuori!”,

221
Capitolo V

e solo dopo aver ricevuto la promessa del popolo, allora osa of-
frire a Dio l’anafora”40.
Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio 29

26. Ascoltate l’ammonizione che vi rivolge il diacono, dicen-


do: “Stiamo in piedi ben composti, stiamo in piedi con timore!
Facciamo attenzione alla santa offerta!”. Chiniamo il capo, te-
niamo a freno i pensieri, teniamo a freno la lingua, diamo ali al-
la mente, saliamo in cielo. Teniamo in alto la mente e i cuori,
eleviamo a Dio lo sguardo della nostra anima, oltrepassiamo il
cielo, oltrepassiamo gli angeli, oltrepassiamo i cherubini e accor-
riamo al trono stesso del Signore, abbracciamo i piedi stessi im-
macolati di Cristo, piangiamo, facciamo violenza alla sua mise-
ricordia, confessiamo [i nostri peccati] davanti al suo santo alta-
re, celeste e spirituale. Ecco, sono le ammonizioni che vi rivolge
il sacerdote, quando dice: “Teniamo in alto i cuori!”. E noi co-
sa rispondiamo? “Li teniamo rivolti al Signore!”. Che dici? Che
fai? La tua mente si distrae dietro a cose caduche ed effimere,
si occupa di abiti, ricchezze, piaceri, liti giudiziarie, e tu dici:
“Tengo il cuore rivolto al Signore”? Sta’ attento, ti prego, a non
avere il cuore rivolto al diavolo, invece di tenerlo in alto rivol-
to a Dio! Che fai, o uomo? Il sacerdote offre al Signore per te
il sacrificio incruento, e tu lo disprezzi? Il sacerdote combatte
per te: stando davanti all’altare come davanti a un tribunale che
incute timore prega e supplica con insistenza che scenda dal-
l’alto su di te il dono dello Spirito santo41, e tu non ti preoccu-
pi della tua salvezza? No, ti prego! Abbandona questa cattiva
e vana abitudine, unisci il tuo grido a quello del sacerdote che
combatte per te, unisci i tuoi sforzi a quelli del sacerdote che
prega per te!
Anastasio il Sinaita, Omelia sulla santa sinassi, PG 89,836D-837B

40 Per il seguito di questo testo cf. infra, c. XII,17.


41 Allusione all’epiclesi sui fedeli.

222
“In alto i cuori”

27. [Dopo la recitazione del simbolo di fede] il sacerdote42


dice: “Stiamo ben composti, stiamo con timore!”. Stiamo sal-
di cioè – intende dire – in questa confessione di fede, senza la-
sciarci scuotere dalle speciose dottrine degli eretici. Stiamo
con timore, perché è grande il pericolo per coloro che hanno
accolto nell’anima una qualunque esitazione riguardo a questa
fede. E mentre così stiamo saldi nella fede, la presentazione
dei nostri doni a Dio sia fatta come si deve. Che significa: co-
me si deve? Significa “nella pace”. “Stiamo attenti – dice – a
offrire in pace la santa offerta”. Ricordatevi infatti delle paro-
le del Signore: Se offri il tuo dono sull’altare e ti ricordi che qual-
cuno ha qualcosa contro di te, prima riconciliati, poi vieni a offri-
re il tuo dono (Mt 5,23-24). I fedeli rispondono: “Non solo la
offriamo nella pace, ma è la stessa pace che noi offriamo al pari
di un dono e di un altro sacrificio. Offriamo infatti la misericor-
dia a colui che ha detto: Misericordia io voglio e non sacrificio
(Os 6,6; Mt 9,13), e la misericordia è frutto della salda e auten-
tica pace, perché quando l’anima non è turbata da alcuna passio-
ne, non c’è niente che le impedisca di essere ricolma di miseri-
cordia; ma offriamo anche un sacrificio di lode (Sal 49,14)”43.
Dopo queste parole, il sacerdote invoca per loro i doni più
divini e più grandi di tutti: “La grazia del Signore nostro Gesù Cri-
sto, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito santo siano
con tutti voi! (2Cor 13,13)”. Ed essi formulando la stessa pre-
ghiera in favore del sacerdote, gli rispondono: “E con il tuo
spirito!”, in conformità al precetto che ordina di pregare gli uni
per gli altri (cf. Gc 5,16). Questa preghiera è presa dalle lette-
re del beato Paolo e ci procura i benefici della santa Trinità,
ogni dono perfetto (Gc 1,17), designandoli con un termine par-

42 In realtà queste parole, dalle liturgie più antiche fino a oggi, appartengono al dia-

cono e non al presbitero celebrante.


43 Queste parole sono una parafrasi esplicativa della risposta dell’assemblea alla mo-

nizione diaconale (cf. supra, § β).

223
Capitolo V

ticolare a seconda di ciascuna delle persone divine che ne è l’o-


rigine: dal Figlio invoca la grazia, dal Padre l’amore, dallo Spi-
rito santo la comunione. Il Figlio infatti si è donato a noi come
Salvatore, quando non solo non gli avevamo offerto niente, ma
avevamo anche nei suoi confronti un debito di giustizia, perché
sta scritto: Quando eravamo ancora empi, Cristo è morto per noi
(Rm 5,6), e quindi la sua sollecitudine nei nostri riguardi è gra-
zia. Il Padre attraverso le sofferenze del Figlio si è riconciliato
con il genere umano e ha amato i suoi nemici, e per questo i
suoi benefici nei nostri riguardi sono chiamati amore. Infine,
poiché colui che è ricco di misericordia (Ef 2,4) doveva comuni-
care i propri beni a coloro che da nemici erano stati resi amici,
questa è l’opera dello Spirito santo disceso sugli apostoli (cf.
At 2,2-4), e per questo la sua benevolenza verso gli uomini è
detta comunione … Dopo averli dunque gratificati con un si-
mile augurio e aver così distaccato le nostre anime dalla terra,
[il sacerdote] eleva gli animi e dice: “Teniamo in alto i cuori!”,
ovvero: Pensiamo alle cose di lassù e non a quelle della terra! (Col
3,2). Ed essi esprimono la loro adesione dichiarando di avere i
cuori là dove è il nostro tesoro (cf. Mt 6,21), dove Cristo è sedu-
to alla destra di Dio (Col 3,1): “Li teniamo rivolti al Signore!”.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 26,1-4.6

28. Quando arriva il giorno salutare più di tutti gli altri44, do-
vete astenervi anche dalle opere e parole non biasimevoli, e so-
stare con pazienza nella chiesa di Dio, porgere orecchi e mente
alla lettura e all’insegnamento, e attendere con contrizione alla
supplica, alle preghiere e agli inni che si innalzano a Dio. Così
infatti adempirete anche voi il sabato, vivendo secondo l’evan-
gelo dell’amore di Dio, elevando gli occhi della vostra mente a
colui che abita al di sopra delle volte celesti insieme al Padre e
allo Spirito: Cristo, che ci ha resi figli di Dio, non soltanto di

44 La domenica.

224
“In alto i cuori”

nome, ma nella comunione dello Spirito divino (cf. 2Cor 13,13),


attraverso la sua carne e il suo sangue, rendendoci familiari di
Dio (Ef 2,19) e gli uni degli altri.
Custodiamo dunque attraverso un amore indissolubile que-
sta unità fra di noi; guardiamo sempre verso colui che lassù ci
ha generati! Non siamo più, infatti, uomini terrestri tratti dal-
la terra, come il primo uomo, ma siamo come il secondo uomo,
il Signore che viene dal cielo. Quale è l’uomo terrestre, così quel-
li terrestri; quale l’uomo celeste, così anche i celesti. Come dunque
abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, portiamo anche
l’immagine dell’uomo celeste (cf. 1Cor 15,48-49) e, tenendo in
alto il nostro cuore rivolto a lui, contempliamo questa grandio-
sa visione, la nostra natura che dimora in eterno con il fuoco
immateriale della divinità45; e deponendo le tuniche di pelle che
abbiamo indossato dal tempo della trasgressione (cf. Gen
3,21)46, stiamo in piedi sulla terra santa (cf. Es 3,5), mostrando
ciascuno la sua terra santa attraverso la propria virtù e il pro-
prio essere proteso verso Dio senza deviazioni.
Gregorio Palamas, Omelie 21,16-17

Una preghiera comune elevata dall’intera chiesa

29. Ci sono momenti in cui non vi è alcuna differenza tra il


sacerdote e chi fa parte del popolo47, come quando bisogna par-

45 L’autore allude al corpo glorioso di Cristo elevato in cielo attraverso l’ascensio-

ne, che è la festa a cui è dedicata la sua omelia.


46 Per la tradizione patristica le “tuniche di pelle” di cui furono rivestiti Adamo ed

Eva al momento della cacciata dal paradiso, oltre a essere segno della condiscendenza
e filantropia divine, sono anche simbolo della condizione dell’uomo decaduto dalla co-
munione con Dio, condizione segnata dalla debolezza della carne e dalla morte. Qui
sono di fatto identificate con i sandali che Dio ordina a Mosè di togliersi davanti al ro-
veto, spesso interpretati dai padri nello stesso modo.
47 Lett.: “chi è sottoposto al (suo) governo” (ho archómenos).

225
Capitolo V

tecipare ai tremendi misteri48: tutti vi siamo ammessi allo stes-


so titolo. Non è come nell’antica alleanza, quando alcune cose
le mangiava il sacerdote, altre chi non lo era, e al popolo non
era permesso di prendere parte a ciò che era riservato al sacer-
dote. Ora però non è così, ma a tutti viene offerto un solo cor-
po e un solo calice. E anche nelle preghiere si può constatare il
grande contributo dato dal popolo … Negli stessi tremendi mi-
steri, il sacerdote prega sì per il popolo, ma anche il popolo
prega per il sacerdote. Le parole “E con il tuo spirito!”non si-
gnificano altro che questo. Perfino la preghiera eucaristica è co-
mune, perché non è il sacerdote a rendere grazie da solo, ma lo
fa l’intero popolo. Dopo che il sacerdote, infatti, ha preso la pa-
rola per primo, il popolo esprime il suo assenso dicendo che è
cosa degna e giusta, e solo allora egli comincia a rendere grazie.
Del resto perché meravigliarsi se il popolo dialoga con il sacer-
dote, quando si unisce addirittura agli stessi cherubini e alle po-
tenze celesti per elevare con loro quei sacri inni?
Vi dico queste cose affinché ciascuno, anche dei semplici fe-
deli, resti vigilante, perché comprendiamo che siamo tutti un
solo corpo e che non c’è tra di noi altra differenza che quella tra
un membro e un altro membro, e perché non rimettiamo tutto
alla cura dei sacerdoti, ma anche noi ci preoccupiamo di tutta la
chiesa, come di un corpo comune. Questo infatti ci procura mag-
giore sicurezza e un maggiore aumento di virtù.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 18,3

48 Cioè all’eucaristia.

226
Capitolo VI
“RENDIAMO GRAZIE AL SIGNORE”

Postasi alla presenza del Signore con il corpo composto e il cuo-


re fervente, l’assemblea è ormai pronta a varcare la soglia del “san-
tuario” e a contemplare, attraverso le parole di ringraziamento e di
lode pronunciate dal ministro celebrante, la bontà e l’opera del suo
Creatore e Salvatore. La conoscenza di Dio e della sua opera di sal-
vezza si apre così all’azione di grazie, diventa essa stessa azione di
grazie, che dischiude agli uomini l’ordine e la bellezza della crea-
zione e il senso della storia in cui vivono. Questa preghiera eucari-
stica, che, al di là dei frazionamenti cui è stata spesso sottoposta nei
secoli1, costituisce un’unica grande preghiera rivolta interamente a
Dio Padre 2, che dal prefazio giunge fino alle soglie del Padre nostro,
è così centrale ed essenziale che ha finito per dare il nome di “eu-
caristia” all’intera celebrazione.
Ma la centralità dell’azione di grazie per la chiesa non si limita
alla sola celebrazione eucaristica. L’eucaristia non è un atto isola-

1 In oriente tale frazionamento della preghiera eucaristica fu determinato soprat-

tutto dall’abitudine di distinguere tra le parti pronunciate dal celebrante “a voce som-
messa” (mystikôs) e tra quelle pronunciate “a voce alta” (ekphónos), abitudine sorta in
Siria nel v secolo e poi gradualmente affermatasi anche nei territori dell’impero bizan-
tino, nonostante l’opposizione ufficiale dello stesso imperatore Giustiniano (565): cf.
G. N. Filias, Ο τρπος
ναγνσεως τν εχν στ λατρεα τς ρθοδξου
Εκκλησας κατ# τ# χειργραφα εχολγια Η’-IΔ’ α(νων, Grigori, Athina 1997, pp.
47-59.
2 In questo senso la preghiera eucaristica, come il Padre nostro, si conforma alla re-

gola dell’autentica preghiera cristiana, che, come dice Origene, è sempre rivolta al Pa-
dre per mezzo del Figlio (cf. Origene, Sulla preghiera 15).

227
Capitolo VI

to nella vita dei discepoli di Cristo: i testi dei padri ci permettono


di comprendere come essa sia soltanto il vertice, l’emergenza sacra-
mentale di un’azione di grazie che in realtà deve essere incessante e
onnipresente per ogni fedele, e che costituisce l’essenza stessa della
presenza, della vita e della funzione della chiesa nel mondo. Tutti i
cristiani, come comunità e singolarmente, “in qualunque circostan-
za e in qualunque forma di vita” (§ 2), sono chiamati a “essere ri-
conoscenti” e a “rendere grazie in tutto”, secondo l’esortazione ri-
corrente nelle lettere dell’apostolo Paolo (§ 9; cf. §§ 3-5), nella co-
scienza che l’azione di grazie, unita all’accoglienza e alla fruizione
dei beni della creazione, è l’unico onore degno di Dio, il “sacrificio
di lode” che sostituisce ogni altro sacrificio, di cui Dio non ha al-
cun bisogno (cf. § 1).
Quale popolo sacerdotale, i cristiani anche in questo non fanno
che assumere un compito che appartiene all’intera umanità: l’uo-
mo, infatti, in quanto essere loghikós, dotato di lógos, è chiamato a
farsi voce dell’intera creazione, visibile e invisibile, animata e ina-
nimata, riconoscendo e restituendo a Dio i suoi doni e le sue crea-
ture, e solo così può diventare signore e re della creazione, secondo
la vocazione ricevuta fin da principio (cf. Gen 1, 28; 2,19-20). Non
è Dio che esige o ha bisogno del ringraziamento dell’uomo, ma è
l’uomo stesso che per essere autenticamente uomo ha bisogno di con-
fessare il vincolo di riconoscenza che lo lega a Dio (cf. § 25). L’uo-
mo vero, manifestato definitivamente in Cristo, il nuovo Adamo, è
un uomo “eucaristico”: ritrovando la sua natura originaria, egli ri-
conosce in Dio il suo “centro” e la sorgente della sua vita3. “Il ren-
dimento di grazie – dice Giovanni Crisostomo – non aggiunge nul-
la a lui, ma rende più stretto il legame di affetto che abbiamo con
lui” (§ 3); esso “intercede per la nostra impotenza davanti al Signo-
re” (§ 6).

3 Si è parlato giustamente, a proposito di questa visione antropologica dei padri, di

“umanesimo teocentrico” (cf. J. Meyendorff, La teologia bizantina. Sviluppi storici e te-


mi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 169-171).

228
“Rendiamo grazie al Signore”

Rendere grazie a Dio, però, nella situazione di peccato in cui l’uo-


mo si trova non è “naturale”: esige una vera ascesi, una lotta contro
i motivi di tristezza che lo circondano (cf. §§ 2; 7-9), contro l’oblio
e l’incoscienza che gli nascondono i doni di Dio già presenti (cf. §§
2; 5) e contro la tendenza radicata nel cuore di ciascuno di vedere
tutto esclusivamente in relazione a se stessi e alla propria utilità (cf.
§ 4). Rendere grazie esige in qualche modo un’uscita da se stessi, per
riconoscere, insieme a ciò che Dio ha compiuto e continua a com-
piere in ogni momento “per noi”, anche i benefici comuni e quelli
che egli realizza per gli altri (cf. §§ 4; 25) e ciò che ha realizzato in
favore di tutta l’umanità nell’economia salvifica di suo Figlio (cf.
§ 2). Il rendimento di grazie e la lode del cristiano, quando sono au-
tentici, non sono mai isolati né privati, ma tendono a coinvolgere
anche altri – potenzialmente tutti – e a loro volta si lasciano coin-
volgere dalle vicende degli altri: il loro scopo in ultima analisi è di
rendere grazie “per l’intero mondo abitato” (§ 4) e di far “conosce-
re a tutti i benefici di Dio”, per aumentare la schiera di coloro che
rendono grazie davanti a lui; e tutto ciò restando coscienti che “non
arriveremo mai a ringraziarlo in modo degno” (§ 10).
L’azione di grazie dei cristiani tende per sua natura all’azione di
grazie comunitaria elevata al cuore della sinassi eucaristica, in par-
ticolare quella domenicale (cf. § 24). È qui che la comunità, nor-
malmente dispersa nello spazio e nel tempo, ritrova la sua unità e
raccoglie le preghiere di tutti i suoi membri in un’unica lode e azio-
ne di grazie, associandola all’azione di grazie del Signore stesso, men-
tre fa memoria del suo sacrificio (cf. § 22).
È l’azione di grazie che dà il “tono” e l’orientamento decisivo
all’intera preghiera della sinassi, tanto che per le fonti più antiche è
proprio questa l’azione liturgica fondamentale del corpo di Cristo
radunato, in grado di “realizzare” da sola l’eucaristia. È del resto si-
gnificativo che il termine eucharistía sia stato ben presto attribui-
to, oltre che alla preghiera eucaristica come tale (cf. §§ 12-13; 16)
– in origine limitata sostanzialmente all’azione di grazie, senza
l’aggiunta di altre formule e preghiere, se non una breve invocazio-

229
Capitolo VI

ne4 –, anche al pane e al vino “eucaristizzati”5, ossia consacrati con


l’azione di grazie (cf. § 23; infra, cc. IX,1; XII, 1), e all’intera litur-
gia eucaristica, in quanto interamente orientata alla lode e alla glo-
rificazione di Dio Padre (cf. §§ 21; 26-27; infra, c. I, 4).
Nella preghiera eucaristica colui che presiede la celebrazione “co-
me la lingua comune della chiesa” (§ 17) eleva le lodi a Dio Padre,
seguendo il comando e l’esempio di Gesù (cf. §§ 19; 26-27), e gli
rende grazie per tutti i suoi doni. Per avere e prima di avere una fun-
zione “consacratoria” – funzione che le viene riconosciuta nelle fon-
ti più antiche, ma che sarà a poco a poco monopolizzata da alcune
sue singole parti: in oriente dall’epiclesi, in occidente dalle parole
dell’istituzione – la preghiera eucaristica ha valore innanzitutto in
quanto “azione di grazie” rivolta a Dio: è proprio nella lode e nel
ringraziamento che l’assemblea, mentre fa memoria del sacrificio di
Cristo, offre e consacra il proprio “sacrificio” (cf. §§ 16; 18; 24) –
in questo senso la tradizione ha chiamato la preghiera eucaristica
“anafora”, ovvero “offerta”6 –, ed è solo rendendo grazie che essa
può assumere i sentimenti adeguati per accostarsi e accogliere i san-
ti misteri che le sono donati nel momento stesso in cui eleva l’azio-
ne di grazie (cf. § 17).
L’azione di grazie dell’anafora, oltre a esprimere e a dar voce con
accenti dossologici alla gratitudine dei partecipanti – si è parlato in
proposito di “un inno della teologia apofatica” e di “un’esplosione
apofatica” 7 –, è destinata anche a suscitarla e ad alimentarla rivelan-

4 La più antica anafora eucaristica a noi pervenuta, quella della Didaché (cf. § 12) è

una semplice azione di grazie sul vino e sul pane, conclusa da una breve invocazione
per il raduno escatologico della chiesa: non vi troviamo ancora né il Sanctus, né le pa-
role dell’istituzione, né l’epiclesi, né le altre preghiere contenute nelle anafore più tar-
de. Sulla funzione “consacratoria” dell’azione di grazie come tale, cf. V. Raffa, Litur-
gia eucaristica, pp. 1061-1071.
5 Le prime attestazioni di questo neologismo si trovano in Giustino (cf. infra, cc.

VIII,9; XIII,16), Ireneo di Lione (cf. supra, c. III,4) e Tradizione apostolica 21 (in tra-
duzione latina). Cf. P.-M. Gy, La liturgie dans l’histoire, Saint Paul-Cerf, Paris 1990,
pp. 42-45.
6 Cf. supra, p. 200.
7 Basilio di Iviron, Canto d’ingresso. Il mistero dell’unità nell’esperienza liturgica del-

la chiesa ortodossa, Cens-Interlogos, Milano-Schio 1992, p. 69.

230
“Rendiamo grazie al Signore”

do ogni volta di nuovo l’amorosa provvidenza di Dio nei confron-


ti dell’uomo (cf. § 25), dalla creazione fino alla redenzione attua-
ta nel Figlio unigenito: “Tu dal nulla ci hai tratti all’esistenza – di-
ce l’anafora attribuita a Giovanni Crisostomo – e, una volta caduti,
ci hai risollevati; e non hai cessato di fare tutto ciò che era necessa-
rio, finché non ci hai ricondotti in cielo e ci hai donato il regno fu-
turo” (§ β). Il mistero del Figlio fatto uomo per amore dell’umani-
tà è certamente il motivo principale dell’azione di grazie dell’assem-
blea e ne costituisce il culmine e il centro attorno al quale trova
sintesi ogni altro motivo di ringraziamento: “Ti offriamo ciò che è
tuo, preso da ciò che è tuo. In tutto e per tutto ti lodiamo, ti bene-
diciamo, ti rendiamo grazie, Signore, e ti preghiamo, Dio nostro!”
(§ 20; infra, VIII, β).
Nell’eucaristia il cristiano è dunque invitato a riconoscersi debito-
re di tutto nei confronti di Dio, a ringraziarlo e a dargli gloria per tut-
to, sia per ciò che conosce, sia per ciò che spera e intravede solo con
lo sguardo della fede (cf. § 27). Tutto ciò deve disporlo a rendergli
grazie in ogni momento e in ogni occasione della vita (cf. § 25). Su-
scitata dal ringraziamento della vita quotidiana, l’eucaristia rimanda
a quello stesso ringraziamento, dopo averlo innestato “in Cristo”.

α. Poi il vescovo [dica]: Rendiamo grazie al Signore! E tutti: È


cosa degna e giusta. E il vescovo dica: È cosa veramente de-
gna e giusta prima di ogni cosa celebrare te, che sei veramen-
te Dio, che sei prima di tutte le creature, dal quale ogni pater-
nità nei cieli e sulla terra prende nome (Ef 3,15), il solo ingene-
rato e senza principio, senza re e senza padrone, senza bisogni,
dispensatore d’ogni bene, superiore a ogni causa e a ogni ori-
gine, che sempre e in tutto resti lo stesso, dal quale, come da
una sorgente, ogni cosa è venuta all’esistenza. Tu infatti sei
la conoscenza senza principio, la visione eterna, l’ascolto in-
generato, la sapienza innata, il primo per natura, il solo per
l’essere, al di sopra di ogni numero; tu che dal nulla hai trat-

231
Capitolo VI

to ogni cosa all’esistenza per mezzo del tuo unigenito Figlio,


che hai generato prima di tutti i secoli, per tua volontà, po-
tenza e bontà, senza alcun intermediario, lui Figlio unigeni-
to, Parola di Dio, Sapienza vivente, primo nato di tutta la crea-
zione (Col 1,15), Angelo del tuo gran consiglio (cf. Is 9,5), tuo
Sommo sacerdote e degno Adoratore, Re e Signore di tutta la
natura intellegibile e sensibile, che è prima di tutte le cose e
per mezzo del quale tutto esiste (cf. Col 1,17; 1Cor 8,6). …
Non solo hai creato il mondo, ma in esso hai fatto anche
l’uomo come cittadino del mondo, manifestandolo come mon-
do del mondo8; hai detto infatti alla tua Sapienza: Facciamo
l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e dominino sui pesci del
mare e sugli uccelli del cielo (Gen 1,26) … Tu, infatti, o Dio
onnipotente, per mezzo di Cristo hai piantato un giardino in
Eden ad oriente (Gen 2,8), adornandolo di ogni pianta com-
mestibile, e vi hai introdotto l’uomo come in una casa sontuo-
sa, e nel crearlo gli hai dato una legge innata, affinché in se
stesso e da se stesso avesse i germi della conoscenza divina …
Sei tu che hai liberato Abramo dall’empietà dei suoi antena-
ti, lo hai reso erede del mondo (cf. Gen 12,1-3) e gli hai ma-
nifestato il tuo Cristo (cf. Gv 8,56). Tu hai stabilito Melki-
sedek come sommo sacerdote del tuo culto (cf. Gen 14,18);
hai reso Giobbe, tuo servitore, dopo molte sofferenze, vinci-
tore del serpente che è origine del male; hai fatto Isacco fi-
glio della promessa (cf. Gen 17,19; Gal 4,28); hai moltiplica-
to Giacobbe padre di dodici figli e i suoi discendenti, e li hai
fatti entrare in Egitto in numero di settantacinque anime (cf.
Gen 46,27) … Poiché però gli uomini avevano corrotto la
legge naturale, talora considerando la creazione come fattasi
da sé, talora onorandola più di quanto bisogna e mettendola
al pari di te, Dio di tutte le cose, tu non li hai lasciati vagare
nell’errore, ma hai manifestato il tuo santo servo Mosè, per
mezzo di lui hai dato la legge scritta come aiuto di quella na-

8 In greco: kósmou kósmon. Si intende che l’uomo è un microcosmo che riflette in

sé l’intero universo creato: è questo un tema molto frequente nei padri della chiesa dei
primi secoli. Altra traduzione possibile, tenendo conto del duplice significato di kó-
smos: “ornamento del mondo”.

232
“Rendiamo grazie al Signore”

turale e hai mostrato che la creazione è opera tua, eliminan-


do l’errore politeista; hai glorificato Aronne e i suoi discen-
denti con la dignità sacerdotale, hai castigato gli ebrei quan-
do peccavano, li hai accolti quando si convertivano … Per
tutte queste cose a te va la gloria, Signore onnipotente, a te
che sei adorato da tutto il santo ordine degli incorporei, che
sei adorato dal Paraclito, ma prima di tutti dal tuo santo ser-
vo Gesù Cristo, Signore e Dio nostro, tuo Messaggero e su-
premo Comandante della tua potenza (Gs 5,14), Sommo sacer-
dote eterno e immortale.
Costituzioni apostoliche VIII,12,6-7.16.18.23.25.27

β. Il sacerdote: Rendiamo grazie al Signore!


Il popolo: È cosa degna e giusta.
Il sacerdote: (a voce sommessa): È cosa degna e giusta ce-
lebrarti, renderti grazie, adorarti in ogni luogo del tuo domi-
nio (Sal 102,22). Tu infatti sei il Dio ineffabile, inconcepibi-
le, invisibile, incomprensibile, sempre esistente e sempre lo
stesso, tu e il tuo unigenito Figlio e il tuo Spirito santo. Tu
dal nulla ci hai tratti all’esistenza e, una volta caduti, ci hai
risollevati; e non hai cessato di fare tutto [ciò che era neces-
sario] finché non ci hai ricondotti in cielo e ci hai donato il
regno futuro. Per tutte queste cose rendiamo grazie a te, al-
l’unigenito tuo Figlio e al tuo Spirito santo, per tutti i bene-
fici a noi fatti, per quelli che conosciamo e quelli che non co-
nosciamo, per quelli manifesti e per quelli nascosti. Ti ren-
diamo grazie anche per questa liturgia che ti sei degnato di
ricevere dalle nostre mani.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 321-322

γ. Il sacerdote: Rendiamo grazie al Signore!


Il popolo: È cosa degna e giusta.
Il sacerdote: (a voce sommessa): O tu che sei (cf. Es 3,14),
Sovrano, Signore, Dio, Padre onnipotente adorabile, è vera-
mente cosa degna, giusta e conveniente alla magnificenza del-
la tua santità (Sal 144,5), lodare, celebrare, benedire, adora-
re, ringraziare, e glorificare te, il solo che veramente sei Dio,

233
Capitolo VI

ed offrirti con cuore contrito e spirito di umiltà (Dn 3,39; Sal


50,19) questo nostro culto spirituale 9 (Rm 12,1) poiché sei tu
che ci hai donato la piena conoscenza della tua verità (Eb
10,26). Ma chi è in grado di parlare dei tuoi prodigi, di far
udire tutte le tue lodi (cf. Sal 105,2) o di narrare tutte le tue
meraviglie in ogni tempo (Sal 25,7; 33,2)? O Sovrano, padro-
ne di tutte le cose, Signore del cielo e della terra (Mt 11,25) e
di tutta la creazione visibile ed invisibile, tu che siedi sul tro-
no della gloria e che scruti gli abissi (cf. Dn 3,54-55), tu sen-
za principio, invisibile, incomprensibile, incircoscrivibile,
immutabile, Padre del Signore nostro Gesù Cristo (2Cor 1,3),
Dio grande e Salvatore della nostra speranza (Tt 2,13; 1Tm 1,1),
il quale è immagine della tua bontà (Sap 7,26), sigillo di forma
uguale, che in se stesso rivela te, il Padre (cf. Gv 14,9). Egli
è Parola vivente, Dio vero (1Gv 5,20), sapienza che è prima
dei secoli, vita, santificazione (cf. 1Cor 1,30), potenza, luce
vera (Gv 1,9). Da lui rifulse lo Spirito santo, lo Spirito di ve-
rità (Gv 14,17), il dono dell’adozione filiale, la caparra dell’e-
redità (Ef 1,14) futura, la primizia dei beni eterni, la potenza
vivificante, la sorgente della santificazione, da cui ogni crea-
tura razionale e intellegibile è resa capace di renderti culto e
di elevare a te l’eterno canto di gloria, poiché tutto l’universo
è al tuo servizio (Sal 118,91).
Liturgia di Basilio, pp. 321-323

Rendere grazie a Dio in tutto

1. Quale persona ragionevole non riconoscerebbe che noi [cri-


stiani] non siamo atei10, noi che veneriamo il Creatore di que-

9 In greco: loghikè latreía.


10 Come è noto l’accusa di “ateismo”, motivata dal fatto che i cristiani rifiutavano
gli dèi e i culti tradizionali, era tra le accuse più frequenti che essi subivano da parte
pagana (cf. ad esempio Martirio di Policarpo 3,2; 9,2).

234
“Rendiamo grazie al Signore”

sto universo, affermando – come ci è stato insegnato – che egli


non ha alcun bisogno di sangue, di libagioni e di incensi (cf. Is
1,11-14), e lodandolo, per quanto possiamo, con parole di pre-
ghiera e di rendimento di grazie per tutte le cose di cui ci nu-
triamo11? Abbiamo imparato infatti che il solo onore degno di
lui consiste non nel consumare nel fuoco ciò che egli ha creato
per il nutrimento, ma nell’usarlo per noi stessi e per i bisogno-
si, e nel rivolgergli pieni di gratitudine, attraverso la parola, lo-
di e inni per il fatto che esistiamo, per tutte le risorse che sosten-
gono la nostra vita, per la qualità delle specie e la varietà delle
stagioni, elevandogli preghiere per vivere di nuovo nell’incor-
ruttibilità grazie alla fede in lui.
Giustino, Apologia prima 13,1-2

2. In qualunque circostanza e in qualunque forma di vita è


possibile a chi è riconoscente rendere grazie al Benefattore per
le cose presenti. Ora però i più si comportano come persone
sempre scontente: disprezzano ciò che è presente mentre desi-
derano le cose assenti! …
Quanto a noi, lasciando da parte i motivi di tristezza per le
cose che non abbiamo, impariamo a rendere grazie per le cose
presenti. Nelle circostanze più tristi della vita diciamo al Me-
dico sapiente12: In una piccola tribolazione c’è la tua correzione
per noi (Is 26,16). Diciamo: Bene per me che tu mi abbia umilia-
to (Sal 118,71). Diciamo: Le sofferenze del tempo presente non so-
no paragonabili alla gloria che sarà rivelata in noi (Rm 8,18). Po-
co siamo stati fustigati per quanto abbiamo peccato (cf. Gb
15,11). Supplichiamo il Signore: Correggici, Signore, ma con giu-
stizia, non con furore (Ger 10,24). Quando siamo messi alla pro-
va dal Signore, veniamo corretti, per non essere condannati insieme

11 Cf. Giustino, Apologia prima 67,2: “Per tutto ciò di cui ci nutriamo benediciamo

il Creatore dell’universo per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo e dello Spirito santo”.
12 Sul titolo di “medico” attribuito a Dio, e in particolare a Cristo, cf. infra, p. 438,

n. 55.

235
Capitolo VI

al mondo (1Cor 11,32). Quando invece la vita trascorre più se-


rena, ripetiamo quelle parole di David: Che cosa renderò al Si-
gnore per tutto ciò che mi ha dato? (Sal 115,3). Egli dal non esse-
re ci ha tratti all’esistenza, ci ha onorati della ragione, ci ha do-
nato le arti come aiuto per la vita, fa crescere alimenti dalla
terra, pone al nostro servizio gli animali da pascolo. Per noi so-
no le piogge, per noi il sole, per noi sono state disposte monta-
gna e pianura, perché ci fornissero rifugi lontano dalle cime dei
monti. Per noi scorrono i fiumi, per noi zampillano le sorgenti;
per noi il mare si apre al commercio; per noi sono le ricchezze
dalle miniere, per noi i benefici da ogni parte, poiché l’intera
creazione ci colma dei suoi doni, a causa della grazia ricca e ab-
bondante del nostro Benefattore!
Ma perché parlare delle piccole cose? Per noi Dio è venuto
tra gli uomini: a causa della corruzione della carne il Verbo si è
fatto carne e ha posto la sua dimora fra di noi (Gv 1,14). Ha di-
morato fra gli ingrati il Benefattore, presso coloro che giaceva-
no nelle tenebre (cf. Lc 1,79) il Sole di giustizia (Ml 3,20), sulla
croce colui che non conosceva sofferenza, nella morte la Vita,
nell’inferno la Luce; per i caduti ecco la resurrezione, lo Spiri-
to di adozione, la distribuzione dei carismi, la promessa delle
corone, e tutti gli altri doni che non è neppure facile enumera-
re e per ciascuno dei quali sono adatte quelle parole del profe-
ta: Che cosa renderò al Signore per tutto ciò che mi ha dato in cam-
bio? (Sal 115,3). E addirittura non si dice che quel generoso
[benefattore] ha dato in dono, ma che ha dato in cambio, quasi
che egli non avesse concesso per primo la sua grazia, ma l’aves-
se data in cambio a persone che per prime [gli avessero fatto dei
doni]: la riconoscenza di chi riceve egli la considera a titolo di
merito, lui che, pur donandoti le ricchezze, richiede da te l’ele-
mosina per mano dei poveri; e anche se riprende ciò che è suo,
ti ricolma della sua grazia senza condizioni, come se tu gli aves-
si dato del tuo.
Basilio di Cesarea, Omelia per la martire Giulitta 6-7

236
“Rendiamo grazie al Signore”

3. Sforziamoci di rendere grazie a Dio in ogni momento. Sa-


rebbe assurdo infatti che, mentre ogni giorno godiamo nei fat-
ti dei suoi benefici, non manifestassimo la nostra riconoscenza
neppure a parole, tanto più pensando che tale manifestazione
di riconoscenza torna a nostro vantaggio. Non è lui infatti che
ha bisogno di qualcosa di nostro, ma siamo noi che abbiamo bi-
sogno di tutti i suoi beni. Il rendimento di grazie infatti non ag-
giunge nulla a lui, ma rende più stretto il legame di affetto che
abbiamo con lui. Se infatti richiamando alla memoria i benefi-
ci ricevuti dagli uomini, ci infiammiamo maggiormente di amo-
re per loro, a maggior ragione, ricordandoci continuamente del-
le opere compiute da Dio in nostro favore, saremo più zelanti
nell’osservare i suoi comandamenti. È per questo che Paolo di-
ceva: Siate riconoscenti! (Col 3,15).
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 25,3

4. Dobbiamo imparare a rendere grazie con maggior zelo.


Quelli infatti che rendono grazie per i [benefici] altrui, a mag-
gior ragione lo fanno per i propri. È ciò che appunto faceva an-
che David quando diceva: Magnificate con me il Signore ed esal-
tiamo tutti insieme il suo nome! (Sal 33,4); è ciò che anche l’Apo-
stolo chiede continuamente; ed è ciò che anche noi dobbiamo
fare, facendo conoscere a tutti i benefici di Dio, per far loro con-
dividere la nostra lode. Se infatti, quando riceviamo un bene-
ficio da parte degli uomini e lo proclamiamo, li rendiamo più ze-
lanti nei nostri confronti, a maggior ragione, se proclamiamo i
benefici di Dio, ci attireremo ancor più la sua benevolenza. E
se, quando riceviamo un beneficio da parte degli uomini, solle-
citiamo anche altri a partecipare al rendimento di grazie, tanto
più dobbiamo portare innanzi a Dio molti che rendano grazie
per noi. Se infatti lo faceva Paolo, che pure aveva una tale fran-
chezza con Dio, a maggior ragione dobbiamo farlo noi.
Preghiamo dunque i santi perché rendano grazie per noi, e fac-
ciamolo noi stessi gli uni per gli altri! Ciò è compito soprattut-

237
Capitolo VI

to dei sacerdoti, poiché si tratta di un bene grandissimo. Quan-


do infatti ci presentiamo davanti [a Dio]13 innanzitutto rendia-
mo grazie per il mondo intero e per i beni comuni. Anche se
infatti i benefici di Dio sono comuni, tu hai ricevuto la salvez-
za insieme a tutti. Perciò sei debitore di un ringraziamento co-
mune per il tuo beneficio personale, ed è anche giusto che tu
offra una lode personale per il beneficio comune. Dio infatti
ha fatto splendere il sole non solo per te, ma anche per tutti; e
tuttavia nella tua parte tu possiedi il tutto, poiché esso è stato
creato così per tutti, e tu da solo lo vedi tale quale possono ve-
derlo tutti gli uomini. Perciò devi rendere grazie quanto tutti;
e sarebbe giusto che tu rendessi grazie sia per i benefici comu-
ni che per le virtù degli altri.
Spesso del resto riceviamo benefici anche grazie agli altri: se
infatti a Sodoma si fossero trovati dieci giusti, [i suoi abitanti]
non avrebbero subito le sventure che invece subirono (cf. Gen
19,32). Appunto per questo dobbiamo rendere grazie anche per
la franchezza che altri possiedono [davanti a Dio]. È questa
un’antica consuetudine radicata nella chiesa fin dagli inizi: è co-
sì che anche Paolo rende grazie per i romani (cf. Rm 1,8), per i
corinti (cf. 1Cor 1,4) e per l’intero mondo abitato. E non veni-
re a dirmi: “Non è compito mio”, perché anche se non è cosa
tua, devi comunque ringraziare così, poiché quel tuo membro
ti appartiene14. Del resto attraverso la lode tu lo rendi tuo, par-
tecipi alle sue corone e ricevi tu stesso la sua grazia.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 2,4-5

5. Perseverate nella preghiera e vegliate in essa nel rendimento di


grazie (Col 4,2). Questa sia la vostra opera, intende dire [l’Apo-
stolo]: rendere grazie con preghiere per i doni manifesti e per
quelli non manifesti, per i benefici che Dio ci ha concesso secon-

13 Allusione alla sinassi eucaristica.


14 Nella chiesa i credenti sono membra dello stesso corpo.

238
“Rendiamo grazie al Signore”

do la nostra volontà e per quelli che ci ha concesso contro la no-


stra volontà, per il Regno e per la geenna, per l’afflizione e per
il riposo. Così infatti hanno l’abitudine di pregare i santi, ren-
dendo grazie per tutti i benefici comuni.
Conosco un uomo santo che pregava appunto così. Prima di
questo non diceva nient’altro. “Ti rendiamo grazie per tutti i
tuoi benefici che dal primo giorno fino a quello presente hai mo-
strato a noi che siamo indegni: per quelli che conosciamo e per
quelli che non conosciamo, per quelli manifesti e per quelli non
manifesti, per quelli che hai operato in opera e in parola, per
quelli che hai fatto secondo la nostra volontà e contro la nostra
volontà, per tutti i doni fatti a noi indegni, per le occasioni di
afflizione, per quelle di riposo, per la geenna, per il castigo, per
il regno dei cieli.
Ti preghiamo di custodire la nostra anima, perché abbia una
coscienza pura, una fine degna del tuo amore per noi uomini.
Tu che ci hai amati fino a dare il tuo Unigenito per noi (cf. Gv
3,16), concedici di essere degni del tuo amore; donaci sapienza
con la tua Parola e nel tuo timore, o Cristo unigenito, infondi
in noi la forza che viene da te. Tu che hai dato l’Unigenito per
noi e hai inviato il tuo Spirito santo per il perdono dei nostri
peccati, se in qualcosa abbiamo peccato, volontariamente o in-
volontariamente, perdonaci e non tenerne conto; ricordati di
tutti coloro che invocano il tuo nome in verità; ricordati di tut-
ti coloro che ci vogliono bene e di quelli che ci vogliono male:
tutti infatti siamo uomini!”. Poi, dopo aver aggiunto la pre-
ghiera dei fedeli, terminava qui, facendo di questa preghiera co-
me un coronamento e un vincolo per tutti. Sono molti infatti i
benefici che Dio ci concede senza che noi lo vogliamo, molti
senza che noi lo sappiamo, e ancor più grandi; quando infatti
chiediamo nella preghiera cose contrarie [a ciò che è bene per
noi] egli ci accorda il contrario, ed è chiaro che ci fa del bene
anche se noi non lo sappiamo.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Colossesi 10,2-3

239
Capitolo VI

6. Un anziano disse: “Il rendimento di grazie intercede per


la nostra impotenza davanti al Signore”.
Detti dei padri, Serie sistematica 21,48

7. Abba Sisoes disse a un fratello: “Come stai?”. E quello ri-


spose: “Perdo le giornate, padre”. Gli disse l’anziano: “Io, an-
che quando ho perso una giornata, rendo grazie”.
Detti dei padri, Serie alfabetica, Sisoes S 3

8. Dobbiamo sempre volgere il nostro sguardo verso l’alto,


soprattutto quando siamo circondati da motivi di tristezza, e ren-
dere grazie a Dio che ci mette alla prova. Anche il beato David,
infatti, dice: Benedirò il Signore in ogni tempo (Sal 33,1); e il san-
to Isaia, dando voce a noi tutti, gridava: Ti benedirò e ti darò lo-
de, o Signore, perché ti sei adirato con me e hai allontanato da me
il tuo volto, ma dopo hai avuto misericordia di me, mi hai aiuta-
to e mi hai dato consolazione (cf. Is 12,1).
Nilo di Ancira, Lettere 3,173

9. Il nostro Maestro ha sopportato per noi ogni genere di sof-


ferenze, e come mai noi, ricordandoci di esse, non vogliamo sop-
portarle a nostra volta, per avere comunione con lui? Guarda
che abbiamo ricevuto il comandamento di rendere grazie in tut-
to (cf. 1Ts 5,18)! Il Nemico del bene non ci trascini all’ingrati-
tudine, così da rovinare tutto.
Barsanufio e Giovanni di Gaza, Lettere 96

10. Domanda. Come si può rendere grazie in modo degno?


Risposta. Se gli uomini, che non sono nulla, concedono a un
altro anche la minima cosa, oppure lo traggono fuori da terribi-
li tribolazioni, costui esprime la sua gratitudine e annuncia a
tutti tale beneficio. Quanto più noi, che veniamo costantemen-
te beneficati da Dio, possiamo rendergli grazie con tutta la no-
stra voce, prima di tutto perché ci ha creati, poi perché ci ha da-

240
“Rendiamo grazie al Signore”

to aiuto contro gli avversari, intelligenza del cuore, salute del


corpo, luce degli occhi, soffio di vita e, cosa più grande di tut-
te, occasione di far penitenza e di ricevere il suo corpo e il suo
sangue in remissione dei peccati (cf. Mt 26,28) e per il rafforza-
mento del cuore. Il pane – sta scritto infatti – rafforza il cuore
dell’uomo (Sal 103,15). E se qualcuno pensa che ciò sia stato
detto riguardo al pane materiale, come mai lo stesso Spirito di-
ce ancora: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che
esce dalla bocca di Dio (Dt 8,3)? Se per le cose materiali e cor-
ruttibili gli uomini fanno scambi e si rivolgono ringraziamenti,
quale dono possiamo dare in cambio a colui che è stato crocifis-
so per noi, se vogliamo anche noi dargli qualcosa in cambio?
Dobbiamo sopportare [tutto] fino alla morte per amor suo.
Non affaticarti dunque a voler comprendere qual è il ringra-
ziamento dovuto a Dio da parte degli uomini, tanto più pecca-
tori, perché egli è morto per loro (cf. Rm 5,6-8). Se un uomo fos-
se messo in prigione a causa tua, tu vorresti addirittura ringra-
ziarlo più di quanto le tue forze te lo consentirebbero. Non vale
forse a maggior ragione per chi è morto per te? Sappi questo:
che non arriveremo mai a ringraziarlo in modo degno. Tuttavia,
secondo le nostre forze, rendiamogli grazie con la bocca e con
il cuore, ed egli, che è così buono verso noi uomini, ci conterà
e ci annovererà insieme a quella vedova che offrì due spiccioli
(cf. Mc 12,42). Questo sia detto riguardo ai peccatori, poiché i
giusti, da parte loro, quando sono fatti a pezzi e messi a morte
(cf. Rm 8,36), rendono grazie ancor di più, secondo la parola di
san Paolo che dice: Rendete grazie! (1Ts 5,18) – evidentemente
a Dio –. A lui la gloria nei secoli. Amen.
Barsanufio e Giovanni di Gaza, Lettere 404

11. Fratelli e padri, Dio ci ha dato molti modi per consegui-


re la nostra salvezza. Uno di questi, e il più importante, è il ren-
dere grazie. Dice infatti l’Apostolo: Anzitutto rendo grazie al mio
Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama

241
Capitolo VI

della vostra fede si espande in tutto il mondo (Rm 1,8); e in ogni


momento mostra di rendere grazie. Anche nella Scala, poi, si di-
ce che il rendimento di grazie deve precedere la preghiera15.
Rendiamo dunque grazie a Dio, prima di tutto perché dal nul-
la ci ha condotti all’esistenza16, creandoci in vista delle opere buo-
ne che ha predisposto perché noi le praticassimo (Ef 2,10). Ren-
diamogli grazie perché ci ha condotti alla condizione di figli
adottivi attraverso il santo battesimo. A quanti infatti lo hanno
accolto – dice [la Scrittura] –, ha dato potere di diventare figli di
Dio, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di
uomo, ma da Dio sono stati generati (Gv 1,12-13). Rendiamogli
grazie perché ci ha condotti alla perfezione monastica; dice in-
fatti: Se vuoi essere perfetto, vendi quello che possiedi, dallo ai po-
veri e prendi la tua croce, poi vieni e seguimi (Mt 19,21).
Teodoro Studita, Piccole catechesi 29

Le lodi di Dio nella preghiera eucaristica

12. Riguardo all’eucaristia, rendete grazie così. Prima per il


calice: “Ti rendiamo grazie, Padre nostro, per la santa vite del
tuo servo David, che tu ci hai rivelato attraverso il tuo servo Ge-
sù: a te la gloria nei secoli!”. Poi per il pane spezzato: “Ti ren-
diamo grazie, Padre nostro, per la vita e la conoscenza che tu ci
hai rivelato attraverso il tuo servo Gesù: a te la gloria nei seco-
li! Come questo pane spezzato era sparso sui colli e poi, raccol-

15 Cf. Giovanni Climaco, La scala 28,6: “Sul rotolo della nostra supplica, dobbiamo

collocare prima di tutto un sincero rendimento di grazie; poi, al secondo posto, la con-
fessione dei peccati e un’autentica contrizione dell’anima; quindi presentiamo la no-
stra petizione al Re dell’universo. Questo è il modo migliore di pregare, come è stato
rivelato da un angelo a uno dei fratelli”.
16 Cf. supra, § β.

242
“Rendiamo grazie al Signore”

to, è diventato una cosa sola, così sia raccolta la tua chiesa da-
gli estremi confini della terra nel tuo regno, poiché tua è la glo-
ria e la potenza nei secoli!”.
Didaché 9,1-4

13. Poi, [dopo le intercessioni e il bacio di pace,] a colui che


presiede i fratelli vengono portati un pane, una coppa d’acqua
e del vino mescolato ad acqua. Egli li prende e innalza lode e
gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito
santo e fa un lungo rendimento di grazie17 per essere stati da
lui resi degni di questi doni. Quando egli ha terminato le pre-
ghiere e il rendimento di grazie, tutto il popolo presente dà il
proprio assenso dicendo: “Amen!”. La parola “Amen” in lingua
ebraica significa “Così sia”.
Giustino, Apologia prima 65,3-4

14. Terminate le preghiere, come abbiamo già detto, vengono


portati pane, vino ed acqua, e colui che presiede, innalza allo
stesso modo preghiere e rendimenti di grazie, per quanto ne ha
capacità18, e poi il popolo dà il proprio assenso dicendo l’Amen19.
Giustino, Apologia prima 67,5

15. Poi il sacerdote dice: “Rendiamo grazie al Signore!”. Real-


mente infatti dobbiamo rendere grazie, perché pur essendo in-
degni egli ci ha chiamati a una grazia tanto grande, perché pur
essendo nemici ci ha riconciliati (cf. Rm 5,10-11), perché ci ha
resi degni dello Spirito di adozione (cf. Rm 8,15). Poi voi dite:
“È cosa degna e giusta!”. Rendendo grazie, infatti, noi compia-

17 In greco: eucharistía.
18 In quest’epoca non esistevano ancora preghiere eucaristiche fisse e ogni celebran-
te improvvisava il rendimento di grazie sulla base di uno schema generale più o meno
prefissato, secondo la sua ispirazione (cf. Didaché 10,7).
19 In questo passo l’autore descrive una liturgia domenicale, mentre il precedente si

riferisce all’eucaristia celebrata in occasione di una liturgia battesimale.

243
Capitolo VI

mo un’azione degna e giusta, mentre lui compiendo non solo una


cosa giusta, ma che supera la giustizia, ci ha beneficati e resi de-
gni di beni così grandi.
Dopo questo facciamo memoria del cielo, della terra, del ma-
re, del sole e della luna, degli astri, di tutte le creature raziona-
li e irrazionali, visibili e invisibili, degli angeli, degli arcangeli,
delle potenze, delle signorie, dei principati, delle potestà, dei
troni, dei cherubini dalle molte facce e diciamo con forza le pa-
role di David: Magnificate con me il Signore! (Sal 33,4).
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,5-6

16. [Il Signore], nel modo in cui sa e come egli stesso ha vo-
luto, sperimentò la morte nella carne, e rimase immortale, con-
tinuando anche allora a dispensare a tutti la vita … Perché mai
gli offriremmo il nostro rendimento di grazie come al [Dio] prov-
vidente, che detiene la suprema e unica autorità, se egli avesse
patito per noi contro la propria volontà e [per esservi stato co-
stretto] in qualche modo dalla violenza, alla maniera di coloro
che sono soggetti al potere altrui? O perché celebriamo con fe-
de, pieni di timore, quella Pasqua tanto desiderata e che richie-
de grandissima cautela, ogni anno, anzi ogni giorno, o per me-
glio dire ogni ora, ricevendo il suo corpo e il suo sangue? Colo-
ro che sono stati resi degni di questo supremo ed eterno mistero,
sanno bene ciò che dico: si deve infatti onore e rendimento di
grazie a colui che di propria volontà e senza alcun pentimento
ha offerto ciò che era un suo bene proprio.
Didimo il Cieco (?), Sulla Trinità 3,21
(PG 39,905B-D)

17. Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse


comunione con il sangue di Cristo? (1Cor 10,16). Che cosa dici,
o beato Paolo? Forse è perché vuoi far vergognare il tuo ascol-
tatore che, ricordando i tremendi misteri, chiami calice della be-
nedizione quel calice temibile e tremendo? “Sì – dice –, perché

244
“Rendiamo grazie al Signore”

non è cosa da poco ciò di cui si parla. Quando infatti dico be-
nedizione intendo mostrare tutto il tesoro della magnanimità di
Dio e far memoria di quei grandi doni”. Anche noi infatti so-
pra il calice ripetiamo gli ineffabili benefici di Dio e tutti i be-
ni di cui godiamo: è con tali sentimenti che lo offriamo e co-
munichiamo [ad esso], rendendo grazie perché egli ha liberato
dall’errore il genere umano, perché ha reso vicini coloro che era-
no lontani (cf. Ef 2,13), perché ha costituito suoi fratelli ed ere-
di quelli che nel mondo erano senza speranza e senza Dio (cf.
Ef 2,12). Rendendo grazie per tutti questi benefici e altri simi-
li, con tali sentimenti ci accostiamo [ai misteri] … [L’Apostolo]
lo ha chiamato appunto calice della benedizione perché, mentre
lo teniamo tra le mani, ammirati e stupefatti per il dono inef-
fabile, noi lodiamo Dio benedicendolo per aver effuso questo
stesso [sangue] perché non rimanessimo nell’errore; e non solo
lo ha effuso, ma ha fatto partecipare ad esso ciascuno di noi.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 24,1

18. Quando poi il sacerdote ha preparato e disposto così le


anime e i pensieri dei presenti20, dice: “Rendiamo grazie al Signo-
re!”. È infatti per tutte queste cose che sono state compiute per
noi, e di cui stiamo per celebrare il memoriale in questa liturgia,
che dobbiamo prima di tutto rendere grazie a Dio. Lui è la cau-
sa di tutti questi beni, per i quali il popolo risponde: “È cosa de-
gna e giusta!”. [Con queste parole] confessa che è giusto far que-
sto, sia a causa della grandezza di Dio che ci ha concesso que-
sti doni, sia perché è giusto che coloro che hanno ricevuto dei
benefici non siano ingrati verso il loro benefattore.
Allora, mentre tutti stanno in piedi, custodendo il silenzio con
grande timore, il sacerdote comincia a offrire l’offerta e immo-
la il sacrificio della comunità. Un timore generale coglie l’ani-

20 Attraverso il dialogo che introduce all’anafora.

245
Capitolo VI

ma del [sacerdote] e tutti noi a causa di ciò che è avvenuto: che


il nostro Signore abbia accettato la morte, il cui memoriale sta
per essere compiuto in questo sacrificio. Poiché in questo mo-
mento il sacerdote è la lingua comune della chiesa, adopera in
questa grandiosa liturgia le parole più convenienti – che sono
le lodi di Dio –, confessando che a Dio si addicono tutte le lo-
di e tutte le glorificazioni, a lui l’adorazione e la liturgia da par-
te di noi tutti e, prima di tutte le altre, questa [liturgia], che è
memoriale di quella grazia che ci fu [fatta] e di cui nessuna crea-
tura può comprendere il racconto. E poiché siamo istruiti e bat-
tezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo e da
essi attendiamo il compimento del [mistero] che viene celebra-
to, il [sacerdote] dice: “Grandezza del Padre”, e aggiunge: “E
del Figlio”, perché egli è verso il Padre come in verità e realmen-
te deve essere un figlio: gli è simile, possiede la stessa essenza
e non è in nulla inferiore a lui; menziona inoltre lo Spirito san-
to, confessando così necessariamente che anche lo Spirito è di
essenza divina. Proclama che a questa natura divina, che esiste
da tutta l’eternità, l’intera creazione, e soprattutto le potenze
invisibili, presentano incessantemente lodi e glorificazioni.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,4-6

19. Una volta stabiliti in tali buone e sante disposizioni21, che


cosa resta da fare se non passare a rendere grazie a Dio, il di-
spensatore di ogni bene? In questo modo, del resto, [il celebran-
te] imita il primo Sacerdote22, che prima di istituire il mistero
della comunione rese grazie a Dio Padre (cf. Mt 26,27). Anch’e-
gli dunque, prima della preghiera consacratoria23, durante la qua-

21 Le disposizioni del cuore cui il diacono e il presbitero hanno esortato l’assemblea

nel dialogo di introduzione dell’anafora.


22 Cioè Cristo.
23 In greco: telestiké euché. Si tratta della preghiera eucaristica e in senso stretto

dell’epiclesi, che secondo l’autore realizza propriamente la consacrazione delle offerte


in corpo e sangue di Cristo.

246
“Rendiamo grazie al Signore”

le consacra i santi [doni], rivolge a Dio Padre del Signore no-


stro Gesù Cristo questo rendimento di grazie: “Rendiamo gra-
zie a Dio!”. E quando tutti hanno espresso la loro adesione e
hanno risposto: “È cosa degna e giusta!”, allora egli offre per-
sonalmente a Dio il proprio rendimento di grazie24: lo glorifica,
lo loda insieme agli angeli e gli rende grazie per tutti i beni ri-
cevuti da lui dagli inizi del tempo, e da ultimo fa menzione del-
l’economia del Salvatore, attuata in modo ineffabile e al di là
di ogni comprensione.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 27

20. Imitando il Salvatore, la chiesa fa dell’offerta dei doni [a


Dio] non solo un atto di supplica, ma anche un atto di ringra-
ziamento. Ciò lo mostra anche in altro modo, ma soprattutto at-
traverso la preghiera che contiene l’intero scopo della sacra ce-
lebrazione25. Dopo aver narrato, infatti, tutti i doni accordatici
da Dio e aver reso grazie per ciascuno di essi, e dopo aver infi-
ne fatto menzione della venuta del Signore nella carne e dell’i-
stituzione di questo mistero e di come egli ci abbia comandato
di fare questo, aggiunge: “Facendo dunque memoria di questo
precetto salutare e di tutte le cose realizzate in nostro favore:
della croce…”; e dopo aver enumerato tutti gli altri misteri suc-
cessivi alla croce, dice: “Ti offriamo ciò che è tuo, preso da ciò
che è tuo. In tutto e per tutto ti lodiamo, ti benediciamo, ti ren-
diamo grazie, Signore, e ti preghiamo, Dio nostro!”26.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 49,24

24 Al tempo dell’autore questa parte dell’anafora era ormai pronunciata sotto voce

dal presbitero celebrante.


25 Lo “scopo” è per l’autore la consacrazione dei doni realizzata dalla preghiera eu-

caristica, e in particolare dall’epiclesi allo Spirito santo.


26 Cf. infra, c. VIII,β.

247
Capitolo VI

La sinassi eucaristica come azione di grazie

21. Cercate di riunirvi più di frequente per rendere grazie a


Dio e dargli gloria. Se infatti vi radunate spesso in uno stesso
luogo, le potenze di Satana vengono abbattute e il suo potere
distruttore è sconfitto grazie alla concordia della vostra fede.
Non c’è nulla di più eccellente della pace, con la quale ogni guer-
ra provocata da esseri celesti e terrestri viene annientata.
Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini 13,1

22. Tutti i sacrifici che Gesù Cristo ci ha comandato di com-


piere nel suo nome, ossia quelli che si celebrano attraverso l’eu-
caristia del pane e del vino, e che vengono offerti in ogni luo-
go da parte dei cristiani, Dio attesta in anticipo [per bocca del
profeta] che gli sono graditi, mentre rifiuta quelli offerti da voi
e per mezzo dei vostri sacerdoti27, dicendo: Non accetterò i sa-
crifici dalle vostre mani! Poiché dal sorgere del sole fino al tramon-
to il mio nome è glorificato tra le genti – dice – e voi l’avete pro-
fanato (cf. Ml 1,10-12)28.
Fino ad ora il vostro spirito di rivalità vi ha fatto dire che era-
no i sacrifici offerti a Gerusalemme da parte di coloro che allo-
ra vi abitavano, chiamati israeliti, che Dio non accettava, men-
tre affermava di accogliere le preghiere di quelli che di questa
stirpe si trovavano allora nella diaspora, chiamando sacrifici que-
ste preghiere. Per quanto mi riguarda, che le preghiere e le azio-
ni di grazie fatte da uomini degni siano i soli sacrifici perfetti e
graditi a Dio, lo affermo anch’io. Sono infatti soltanto questi i
sacrifici che anche i cristiani hanno ricevuto il comando di com-
piere, anche nella memoria che celebrano quando mangiano e
bevono ricordando la passione che ha sofferto per loro il Figlio

27 L’autore si rivolge a Trifone, il suo interlocutore ebreo.


28 Cf. supra, c. III,1.

248
“Rendiamo grazie al Signore”

di Dio … Non vi è infatti un solo popolo tra gli uomini, che sia
barbaro o greco, o chiamato con qualunque altro nome, di no-
madi o di senza casa o di quelli che allevano il bestiame abitan-
do nelle tende, presso il quale non si facciano preghiere e azio-
ni di grazie al Padre e Creatore dell’universo in nome di Gesù
crocifisso. Del resto, a quel tempo, quando il profeta Malachia
diceva queste parole, non eravate stati ancora dispersi in tutta
la terra, come siete ora, e ciò è dimostrato anche dalle Scritture.
Giustino, Dialogo con Trifone 117,1-3.5

23. Celso non vuole che noi siamo ingrati nei confronti dei
demoni di quaggiù29, poiché è convinto che noi siamo tenuti a
offrire loro dei sacrifici di ringraziamento. Ma noi, da parte no-
stra, illustrando la dottrina del rendimento di grazie, affermia-
mo di non commettere alcun atto di ingratitudine verso esseri
che non ci procurano alcun beneficio, e anzi ci sono nemici,
quando non offriamo loro sacrifici e tantomeno li adoriamo. Ci
guardiamo bene, invece, dall’essere ingrati nei confronti di
Dio, dei cui benefici siamo ripieni, poiché siamo sue creature e
soggetti alla sua provvidenza – qualunque sia il destino di cui
ci abbia giudicati degni – e attendiamo oltre la vita la realizza-
zione delle speranze che egli ci ispira. Abbiamo anche un segno30
del nostro rendimendo di grazie a Dio: un pane chiamato “eu-
caristia”.
Origene, Contro Celso 8,57

24. Nel giorno della resurrezione del Signore, cioè la dome-


nica, riunitevi assiduamente, per rendere grazie a Dio e procla-
mare i benefici che Dio vi ha accordato per mezzo di Cristo, li-

29 L’interlocutore, Celso, era un filosofo pagano che credeva all’esistenza dei demo-

ni, esseri semidivini, intermediari tra la divinità suprema e gli uomini: l’autore, senza
premurarsi di negare la loro esistenza, riconduce i demoni all’ambito diabolico.
30 Lett.: “simbolo” (sØmbolon), che qui vale “segno sacramentale” (cf. infra, p.

296, n. 45).

249
Capitolo VI

berandovi dall’ignoranza, dall’errore e dai vincoli31. Così il vo-


stro sacrificio sarà irreprensibile e gradito a Dio, il quale ha det-
to riguardo alla sua chiesa sparsa in tutto il mondo32: In ogni luo-
go mi sarà offerto incenso e un sacrificio puro, perché io sono un re
grande, dice il Signore onnipotente, e il mio nome è illustre tra le
genti (Ml 1,11.14).
Costituzioni apostoliche VII,30,1

25. Il modo migliore per custodire il beneficio è il ricordo del


beneficio e il continuo rendimento di grazie. Appunto per que-
sto anche i tremendi misteri, ricolmi della salvezza, che celebria-
mo in ogni sinassi, si chiamano “eucaristia”, ossia rendimento
di grazie, perché sono il memoriale33 di molti benefici, manife-
stano il culmine della provvidenza di Dio e ci dispongono a ren-
dergli grazie in ogni momento. Se il fatto che egli sia nato da
una vergine è un grande prodigio, e l’evangelista pieno di stupo-
re diceva: Tutto questo avvenne (Mt 1,22), come considereremo,
dimmi, il fatto che sia stato ucciso? Se solo il suo nascere vie-
ne chiamato tutto questo, il fatto che egli sia stato crocifisso,
abbia versato il sangue e abbia dato se stesso per noi come cibo
e banchetto spirituale, in che modo lo si potrebbe chiamare?
Rendiamogli continuamente grazie, dunque, e questo prece-
da ogni nostra parola e azione! Ma rendiamogli grazie non so-
lo per i nostri beni personali, ma anche per quelli altrui: in que-
sto modo riusciremo a eliminare l’invidia, a ravvivare la carità
e a renderla più autentica. Infatti non potrai più invidiare co-
loro per cui ringrazi il Signore. Proprio per questo il sacerdote,
nel momento in cui il sacrificio sta per essere offerto, ci esorta
a rendere grazie per il mondo intero, per gli uomini passati, per
quelli presenti, per quelli che sono già nati e per quelli che ver-

31 Cioè dai vincoli della schiavitù alla Legge.


32 Lett.: “ecumenica” (oikoumeniké ).
33 In greco: anámnesis.

250
“Rendiamo grazie al Signore”

ranno dopo. Questo infatti ci allontana dalla terra, ci trasferi-


sce in cielo e da uomini ci rende angeli. Anch’essi, infatti, for-
mando un coro rendono grazie a Dio per i beni che ci ha elar-
gito, dicendo: Gloria a Dio nel più alto dei cieli, sulla terra pace, tra
gli uomini la sua benevolenza (Lc 2,14)34. Ma in cosa possono ri-
guardarci costoro, che non sono sulla terra né sono uomini? Al
contrario ci riguardano da vicino, perché ci è stato insegnato ad
amare i nostri compagni di servitù al punto da ritenere nostri i
loro beni (cf. Mt 19,19; 23,39). Per questo anche Paolo ovun-
que nelle sue lettere rende grazie per i benefici operati [da Dio]
a favore del mondo intero. Anche noi dunque sforziamoci di
rendere grazie continuamente per i nostri beni personali e per
quelli altrui, per quelli piccoli e per quelli grandi. Infatti, anche
se il dono è piccolo, diventa grande per il fatto di essere elargi-
to da Dio; anzi nessuno dei suoi beni è piccolo, non solo per-
ché è lui a concederlo, ma per sua stessa natura. E, per trala-
sciare tutti gli altri benefici, che superano per quantità i granel-
li della sabbia del mare, che cosa potrebbe uguagliare l’economia
[di salvezza] realizzata in nostro favore? Ciò che infatti per
Dio era più prezioso, il Figlio unigenito, lo ha dato per noi suoi
nemici; e non solo lo ha dato, ma, dopo averlo dato, ce lo ha
anche imbandito come mensa, facendo tutto per noi, sia darlo,
sia renderci riconoscenti per questo dono. Poiché infatti l’uo-
mo è per lo più ingrato, Dio stesso prende su di sé e dispone in
ogni occasione ciò che è a nostro vantaggio. Come fece con i
Giudei, ricordando loro i suoi benefici per mezzo di luoghi, tem-
pi e feste, così ha fatto anche in questo caso, spingendoci attra-
verso la forma del sacrificio al ricordo di tale beneficio. Nessu-
no si è preoccupato di renderci buoni, virtuosi e riconoscenti
per tutto, come Dio stesso che ci ha creati. Per questo spesso ci
elargisce benefici anche al di là della nostra volontà … Che co-

34 L’autore segue un testo diverso da quello delle edizioni moderne del Nuovo Te-

stamento.

251
Capitolo VI

sa ci chiede mai di straordinario se ci ordina di essere ricono-


scenti in cambio di una sollecitudine così grande? Obbediamo-
gli dunque e custodiamo questo atteggiamento in ogni occasione!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 25,3-4

26. In definitiva, che cos’è che produce in noi l’azione di


grazie? Non è forse il fatto di chiedere qualcosa e di aver rice-
vuto ciò che chiediamo? È evidente a tutti. Ciò per cui rendia-
mo grazie non è dunque identico a ciò che chiediamo?
Che cosa chiede a Dio la chiesa? Ciò che le è stato ordinato
da lui stesso di chiedere, cioè il suo regno, affinché i fedeli lo
ricevano in eredità e diventino santi com’è santo colui che li ha
chiamati (cf. 1Pt 1,15). Se sono queste le cose per cui prega e
supplica Dio, è evidente che per queste stesse cose rende gra-
zie: essa prega che i fedeli siano resi perfetti nella santità e per
questo è necessario che esprima il suo ringraziamento per i san-
ti che sono già stati resi perfetti a colui che ha donato loro tale
perfezione. È proprio a causa di questa azione di grazie per i
santi che la celebrazione stessa è chiamata “eucaristia”, perché
se pure vi si fa menzione anche di molti altri beni, i santi rap-
presentano il compimento di tutto, ed è in vista di essi che
vengono richieste quelle cose. Perciò, quando la chiesa rende
grazie per tali cose, rende grazie per la perfezione dei santi.
Come infatti il Signore ha fatto tutto ciò che ha fatto per co-
stituire il coro dei santi, allo stesso modo la chiesa, in tutte le
lodi che gli rivolge per tutte quelle cose, lo fa con lo sguardo ri-
volto al coro dei santi. Appunto per questo, quando il Salvato-
re istituì questo mistero, lo istituì rendendo grazie al Padre,
perché attraverso di esso stava per aprirci il cielo e riunire las-
sù questa adunanza festosa dei primogeniti (cf. Eb 12,22-23).
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 49,23-24

27. Come mai la celebrazione si chiama unicamente eucari-


stia? Anche tale questione è degna di essere esaminata. Poiché

252
“Rendiamo grazie al Signore”

infatti la celebrazione è allo stesso tempo di ringraziamento e


di supplica, perché non riceve entrambi i nomi, ma viene chia-
mata soltanto “eucaristia”, cioè azione di grazie?
Il nome deriva dall’elemento più rilevante. I motivi di rin-
graziamento infatti sono più numerosi dei motivi di supplica,
perché i doni che abbiamo ricevuto sono più di quelli che chie-
diamo di ottenere. Questi ultimi, infatti, sono una parte, men-
tre gli altri sono tutto. Tutto infatti abbiamo ricevuto, dal mo-
mento che tutto risale a Dio e non vi è nulla che egli abbia omes-
so e che non ci abbia donato. Ma per alcune cose, non è ancora
venuto per noi il tempo di ottenerle, come l’incorruttibilità,
l’immortalità e il regno dei cieli. Altre cose, pur avendole rice-
vute, non le abbiamo custodite, come la remissione dei peccati
e tutti gli altri doni a noi concessi attraverso i misteri. Altre co-
se poi, le abbiamo perdute, poiché ne abbiamo fatto un cattivo
uso, come il riposo, la salute e la ricchezza; e ciò perché non di-
ventassimo peggiori, noi che ne abbiamo fatto occasione di pia-
cere e di cattiveria. Oppure è in vista di un beneficio più gran-
de che, come Giobbe, veniamo privati dei beni presenti.
È dunque evidente che Dio non aveva lasciato alcuno spazio
alla supplica, ma aveva offerto soltanto motivi di ringraziamen-
to; siamo noi che, procurandoci la mancanza attraverso la no-
stra stessa indolenza, abbiamo bisogno della supplica.
Vediamo qual è l’oggetto delle nostre suppliche. La remissio-
ne dei peccati? Ma anche questa l’abbiamo ricevuta in abbon-
danza e senza alcuno sforzo mediante il battesimo. Perché dun-
que la chiediamo di nuovo? Perché siamo diventati di nuovo
colpevoli per i nostri peccati. Ma qual è la causa di questa col-
pevolezza? Noi stessi. Siamo dunque causa anche della supplica.
Ancora: supplichiamo Dio per il regno dei cieli, per diven-
tarne eredi? Eppure tale eredità ci è già stata donata, perché
siamo diventati figli del Dio al quale per l’appunto appartiene
quel Regno. Chi infatti è erede se non il figlio? E quale dei be-
ni paterni può sfuggire all’erede? Nessuno. Come mai allora do-

253
Capitolo VI

mandiamo ciò che ci è già stato donato? È perché, dopo essere


stati generati da Dio ed essere stati elevati a una tale dignità,
abbiamo avuto l’ardire di commettere atti estranei all’adozio-
ne filiale: da figli siamo diventati schiavi cattivi; ed è per que-
sto che supplichiamo [per il Regno] come per qualcosa di estra-
neo e che non ci appartiene minimamente. Anche di questa sup-
plica, dunque, siamo noi la causa …
Vedi che tutto ciò che riceviamo da Dio ci porta soltanto al-
la lode e all’azione di grazie? Di queste suppliche e preghiere
invece siamo noi la causa. Per questo, quando facciamo men-
zione di tutti i beni del corpo e dell’anima rivolgendoci a Dio,
ne facciamo menzione per rendere grazie, sia che li possediamo
tutti, sia che non li possediamo. Egli infatti ci ha donato tutto,
una volta per tutte, e non ha lasciato nulla per sé. Sapendo ciò
il beato Apostolo ci ha comandato di rendere grazie per ogni
cosa, scrivendo: Siate sempre lieti, in ogni cosa rendete grazie (1Ts
5,16.18).
Per questo era giusto che il più perfetto e il più intimo dia-
logo con Dio, cioè la celebrazione della comunione, nella quale
facciamo memoria non di questa o di quella grazia, ma in gene-
rale di tutti i benefici che riceviamo da Dio, sia quelli che ci
appartengono attualmente, sia quelli che ci apparterranno in fu-
turo, fosse chiamata “eucaristia”: la chiamiamo così non per ciò
che chiediamo noi nella nostra miseria, ma per i benefici che
Dio stesso ci ha dato, non per la nostra povertà, ma per la ric-
chezza della sua bontà (Rm 2,4). Poiché se è vero che in essa al-
lo stesso tempo supplichiamo Dio e lo ringraziamo, tuttavia l’a-
zione di grazie è opera di Dio, come è stato detto, mentre la
supplica è frutto della debolezza umana. L’azione di grazie ri-
guarda un maggior numero di oggetti, mentre la supplica un
numero inferiore: l’una è per tutti i beni in generale, mentre l’al-
tra per alcuni soltanto. Perciò era necessario chiamarla con il
nome di “eucaristia”, ossia rendimento di grazie, a partire da ciò
che è più importante e più rilevante. Allo stesso modo anche

254
“Rendiamo grazie al Signore”

l’uomo viene detto “animale razionale”, pur partecipando an-


che di un elemento irrazionale, essendo chiamato così a partire
dalla sua parte più importante e più rilevante.
Una ragione ancor più importante è che colui che per primo
ci ha mostrato questo [rito], il Signore nostro Gesù Cristo, lo
ha compiuto e lo ha istituito non supplicando, ma soltanto ren-
dendo grazie al Padre (cf. Lc 22,17.19; 1Cor 11,24); ed è per
questo che la chiesa, avendolo ricevuto [da lui] come già esisten-
te, lo chiama con il nome di “eucaristia”. Su questo argomento
è stato detto abbastanza.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 52,1-12

255
Capitolo VII
“SANTO, SANTO, SANTO”

La preghiera di azione di grazie trova il suo culmine nel breve in-


no del “triplice santo” (Trisághion)1: appena infatti vengono evo-
cate le innumerevoli schiere angeliche, di cherubini e serafini, che
stanno attorno al trono della maestà di Dio cantando e gridando in-
cessantemente un inno di gloria, la voce solitaria del ministro pre-
sidente si interrompe e l’assemblea – che già in precedenza si è pre-
parata a “tenere in alto il cuore” e a elevarlo al Signore – intervie-
ne prontamente e fa risuonare a piena voce le parole: “Santo, santo,
santo, il Signore Sabaoth! Il cielo e la terra sono pieni della tua
gloria …”.
Questo inno, che al canto dei serafini udito da Isaia al momen-
to della sua vocazione profetica (cf. Is 6,3) unisce l’acclamazione
trionfale con cui il popolo di Gerusalemme accolse il Signore Ge-
sù che andava volontariamente verso la sua passione (cf. Mt 21, 9) 2,
con un’eco evidente anche del canto innalzato dai quattro esseri vi-
venti dell’Apocalisse davanti al trono di Dio (cf. Ap 4, 8), è in real-
tà nel contesto della liturgia – non diversamente dalle altre accla-
mazioni celesti diventate acclamazioni liturgiche, come il Gloria
(cf. Lc 2, 14), l’Amen (cf. Ap 5, 14) e l’Alleluja (cf. Ap 19, 1-4) –
molto di più di una semplice citazione drammatizzata. Questo
canto angelico, che erompe con potenza al cuore stesso dell’azione

1 Sulla denominazione Trisághion, cf. supra, p. 95, n. 27.


2 L’acclamazione è a sua volta una ripresa di Sal 117,25-26.

257
Capitolo VII

di grazie elevata dagli uomini 3, ha una vera funzione “apocalittica”,


in quanto rivela che la liturgia della chiesa è chiamata a trascende-
re non solo le realtà mondane, ma in qualche modo anche se stessa
come liturgia terrena, trovando compimento nella liturgia celeste:
se è pur vero, come si è visto nei capitoli precedenti, che essa assu-
me in sé tutta la creazione, la storia e la vita quotidiana degli uo-
mini, per presentarle e farne eucaristia davanti a Dio, è altrettanto
vero che essa introduce e prepara l’uomo a qualcosa di totalmente
nuovo – “i cieli nuovi e la terra nuova” di cui parla la Scrittura (cf.
Is 65, 17; 2Pt 3,13; Ap 21, 1) –, qualcosa che fa presentire alla
chiesa che vive in questo mondo il suo stesso superamento.
Tuttavia facendo proprio e cantando questo inno a una sola vo-
ce – la rubrica liturgica prescrive esplicitamente: “Tutto il popolo di-
ca insieme” (§ α) – la chiesa confessa con piena coscienza di cele-
brare fin da ora la sua liturgia, non solo a imitazione degli angeli e
“alla presenza degli angeli” (Sal 137,1), ma “insieme a queste bea-
te potenze” (§ β) che incessantemente glorificano il nome santo di
Dio. Il fatto stesso, del resto, che il canto dei serafini non sia sempli-
cemente ripreso alla lettera, ma sia qui adattato e ampliato in sen-
so cristologico (“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”),
manifesta la chiara consapevolezza che la chiesa ha, nella fede, del-
la propria funzione attiva di “concelebrante” a pari titolo delle schie-
re angeliche. In quanto assemblea convocata fin da ora “al banchet-
to delle nozze dell’Agnello” (Ap 19,9), Figlio di Dio e Figlio dell’uo-
mo, che con la sua vita e la sua morte ha rivelato la gloria del Dio
tre volte santo, “è asceso ai cieli, siede alla destra del Padre e di nuo-
vo verrà nella gloria”, come dice il simbolo di fede, essa ritiene di

3 Il Sanctus, pur non appartenendo alla struttura originaria della preghiera eucari-

stica – fu infatti aggiunto con ogni probabilità solo nel iii secolo nella chiesa di Ales-
sandria, per diffondersi successivamente nelle altre chiese –, non interrompe però il
clima e il tono unitario dell’anafora, che è interamente orientata alla glorificazione di
Dio, e l’azione di grazie, come è evidente soprattutto nella bizantina Liturgia di Basi-
lio, prosegue anche dopo l’intervento dell’assemblea, pur assumendo un carattere più
marcatamente anamnetico. Per la storia del Sanctus e la sua entrata nell’anafora, cf. R.
F. Taft, Il Sanctus nell’anafora. Un riesame della questione, Pio, Roma 1999.

258
“Santo, santo, santo”

avere una parola da aggiungere riguardo al mistero della santità di


Dio, quasi a voler suggerire che adesso, proprio grazie agli uomini,
anche gli angeli possono conoscerla e proclamarla in modo più com-
pleto e più vero4: Gesù Cristo è il “Santo” (Ap 3,7), il “Santo di Dio”
(Gv 6, 69) 5. In questa fiducia l’assemblea, come la folla di Gerusa-
lemme, acclama gioiosamente colui che è sempre “il Veniente” ( ho
Erchómenos), che, venuto nella carne, viene continuamente a visi-
tare la chiesa nel mistero del sacramento6 e verrà in modo definitivo
a instaurare il suo regno alla fine dei tempi.
Tutto ciò emerge – ci sembra – già dalla semplice lettura del testo
liturgico, così come è composto e strutturato, con i suoi rimandi
espliciti e impliciti al testo della Scrittura. I padri, da parte loro, ogni
volta che si trovano a far riferimento a questo “triplice santo” – che
assume naturalmente ai loro occhi un significato trinitario (cf. §§ 4;
7; 13) –, sono innanzitutto preoccupati di sottolineare la grande di-
gnità dei battezzati, che soli sono ammessi a cantarlo durante la li-
turgia (cf. § 2): cantare insieme agli angeli questa “mistica melo-
dia” (§ 10), entrare in comunione con loro (cf. § 3) e formare insie-
me a loro “un’unica assemblea festosa, un’unica azione di grazie,
un unico giubilo, un unico coro gioioso” (§ 7) presuppone infatti la
piena iniziazione e comunione al “mistero” di Cristo morto e ri-
sorto. Se i cristiani hanno l’ardire di servirsi delle stesse parole dei se-
rafini, essi non lo fanno con superficialità e di propria iniziativa, ma
unicamente perché coscienti che “Cristo nostro Signore, con l’eco-
nomia da lui realizzata, ci ha permesso di diventare immortali e in-
corruttibili e di partecipare al culto delle potenze invisibili” (§ 4);

4 Ciò del resto è in linea con quanto sta scritto in Ef 3,10: “Affinché ora per mez-

zo della chiesa la multiforme sapienza di Dio sia fatta conoscere nei cieli ai principati
e alle potestà”.
5 Questa interpretazione in chiave trinitaria e cristologica viene esplicitata e svilup-

pata nell’orazione Post Sanctus e in seguito l’assemblea affermerà esplicitamente che


Gesù Cristo “è santo” al momento dell’elevazione, in risposta alla formula “Le cose
sante ai santi”. Cf. infra, c. XII,α-β.
6 È significativo che, secondo il testo della liturgia bizantina più tarda, l’assemblea

riprenda le parole del salmo 117 proprio al momento in cui è invitata ad accedere alla
comunione eucaristica (cf. infra, c. XIII,γ).

259
Capitolo VII

egli infatti, nella sua “ineffabile condiscendenza” (§ 7), “ha abbat-


tuto il muro di separazione e ha messo pace tra ciò che è nei cieli e
ciò che è sulla terra, lui che ha fatto dei due una cosa sola” (§ 9).
Questo inno appare dunque come un dono che il Figlio di Dio ha
portato con sé dai cieli scendendo tra gli uomini – quasi nuovo Pro-
meteo –, una logica conseguenza della sua incarnazione (cf. § 9),
che, secondo l’intera tradizione dei padri, ebbe come unico scopo nel
disegno di Dio la divinizzazione dell’umanità: “Egli infatti si è fat-
to uomo perché noi fossimo resi dèi”7.
I fedeli sono perciò invitati ad aprire gli occhi del cuore e della
mente su questa loro straordinaria dignità – “Rifletti vicino a chi
stai, insieme a chi stai per invocare Dio” (§ 5), “Dio ti ha inserito in
quella schiera celeste, ti ha ammesso a quel coro” (§ 6), “Tu fai co-
ro insieme agli angeli, sei in comunione con gli arcangeli!” (§ 10),
ricorda con insistenza Giovanni Crisostomo – e quindi ad assume-
re il contegno celebrativo adeguato a una tale dignità. Come i sera-
fini, che colmi di timore e di gioia stanno in piedi presso il trono di
Dio coprendosi il volto con le ali e manifestando così, con tutto il
proprio essere, “l’insaziabile riverenza che nutrono verso il Creato-
re” (§ 8), anche i fedeli debbono custodire lo stesso timore, la stes-
sa riverenza, la stessa umiltà, lo stesso decoro, lo stesso ardore e la
stessa gioia spirituale, mentre stanno in piedi davanti all’altare sul
quale si presenta il sacrificio incruento (cf. §§ 4-10). Ritroviamo qui
ripetute le stesse esortazioni che i padri fanno commentando l’am-
monizione del diacono e il dialogo all’inizio dell’anafora, a ri-
prova della grande importanza che essi attribuiscono a una liturgia
vissuta e partecipata con tutto il proprio essere, al di là di ogni sciat-
ta abitudine o mero ritualismo.
Il canto dei serafini sulla bocca dei cristiani ha infine per i padri
un evidente valore escatologico: esso, come dice anche il testo della
liturgia attribuita a Giovanni Crisostomo, è un “inno di vittoria”

7 Atanasio di Alessandria, Sull’incarnazione 54. Cf. sul tema N. Russell, The Doc-

trine of Deification, pp. 166-188.

260
“Santo, santo, santo”

(epiníkios hØmnos), anticipa l’inno glorioso che gli uomini cante-


ranno insieme alle schiere celesti alla fine dei tempi al cospetto di
Cristo trionfante sulla morte e sul male (cf. §§ 11-12): i credenti
già sperimentano e celebrano le primizie di tale vittoria, ma essa sa-
rà rivelata pienamente solo nel tempo futuro (cf. § 13).

α. [Il vescovo continua l’anafora:] Davanti a te si prostrano le


innumerevoli schiere degli angeli, degli arcangeli, delle domi-
nazioni, dei troni, dei principati, delle autorità (cf. Col 1,16),
delle potenze, degli eserciti eterni; i cherubini e i serafini
dalle sei ali, che con due si coprono i piedi, con altre due la
testa e con altre due volano (cf. Is 6,2), e insieme a mille mi-
gliaia di arcangeli e a diecimila miriadi di angeli (cf. Dn 7,10)
gridano incessantemente e senza mai tacere.
E tutto il popolo dica insieme: Santo, santo, santo il Signore
Sabaoth! Il cielo e la terra sono pieni della sua gloria (Is 6,3). Be-
nedetto sei tu nei secoli! Amen (Rm 1,25).
Poi il vescovo dica di seguito: Sei veramente santo e intera-
mente santo, altissimo ed esaltato nei secoli. Santo è anche il
tuo Figlio unigenito, Il Signore nostro e Dio, Gesù Cristo.
Costituzioni apostoliche VIII,12,27-29

β. Il sacerdote: Ti rendiamo grazie anche per questa liturgia


che ti sei degnato di ricevere dalle nostre mani, sebbene di-
nanzi a te stiano migliaia di arcangeli, e miriadi di angeli (cf.
Dn 7,10), i cherubini e i serafini dalle sei ali, dai molti occhi,
sublimi, alati, che cantano l’inno di vittoria, acclamando,
gridando e dicendo:
Il popolo: Santo, santo, santo, il Signore Sabaoth! Il cielo e la
terra sono pieni della tua gloria (Is 6,3). Osanna nel più alto dei
cieli! Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna
nel più alto dei cieli! (cf. Sal 117,25-26; Mt 21,9).
Il sacerdote: Insieme a queste beate potenze anche noi, o
Signore, amico degli uomini, esclamiamo e diciamo: Sei san-

261
Capitolo VII

to, interamente santo, tu e il tuo Figlio unigenito e il tuo Spi-


rito santo. Sei santo, tutto santo e magnifica è la tua gloria.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 322-324

Un coro all’unisono di uomini e di angeli

1. [Il Signore] ci esorta a credere con tutto il cuore in lui e a


non essere oziosi né fiacchi in ogni opera buona. Il nostro van-
to e la nostra franchezza siano in lui; sottomettiamoci alla sua
volontà; consideriamo come l’intera moltitudine dei suoi ange-
li, stando attorno a lui, presta servizio alla sua volontà. Dice in-
fatti [la Scrittura]: Diecimila miriadi stavano attorno a lui e mil-
le migliaia lo servivano (Dn 7,10) e gridavano: Santo, santo, santo il
Signore Sabaoth, tutta la creazione è piena della sua gloria (Is 6,3).
Anche noi, dunque, riuniti in uno stesso luogo nella concor-
dia, con coscienza, come da una sola bocca, gridiamo insistente-
mente verso di lui perché ci renda partecipi delle sue grandi e
gloriose promesse. Dice infatti: Occhio non vide, orecchio non udì
e mai penetrarono nel cuore dell’uomo le cose che egli ha preparato
per quelli che lo attendono con pazienza (cf. 1Cor 2,9; Is 64,3)8.
Clemente di Roma, Prima lettera ai Corinti 34,4-8

2. Provo vergogna per te, perché, nonostante tu sia ormai in-


vecchiato, vieni ancora condotto fuori insieme ai catecumeni,
come un bambino privo di ragione e incapace di tenere a freno

8 Questo passo, pur non fornendo ancora un’esplicita testimonianza dell’uso del

Sanctus nella liturgia cristiana (come alcuni ritengono: cf. ad esempio G. Filias, “Η
εχαριστιακ ναφορ”, in Aa.Vv., Τ μυστριο τς Θεας Εχαριστας, p. 107), è in
ogni caso interessante per il parallelismo che istituisce tra la liturgia angelica e la litur-
gia dei cristiani riuniti “in uno stesso luogo nella concordia”, verosimilmente per cele-
brare la sinassi eucaristica.

262
“Santo, santo, santo”

la lingua, quando si deve proclamare il mistero9. Unisciti al po-


polo iniziato ai misteri e apprendi parole ineffabili (cf. 2Cor
12,4)! Proclama con noi quelle parole [dell’inno] che anche i se-
rafini dalle sei ali cantano insieme ai cristiani perfetti10! Aspira
a un cibo che rafforza l’anima, gusta una bevanda che rallegra
il cuore, innamòrati di un mistero che in modo invisibile resti-
tuisce i vecchi alla giovinezza!
Gregorio Nissa, Su coloro che rinviano il battesimo, p. 362

3. [Nella preghiera eucaristica] noi facciamo anche menzio-


ne dei serafini, che Isaia contemplò nello Spirito santo disposti
in cerchio attorno al trono di Dio, mentre si coprivano il volto
con due ali, con altre due i piedi e con altre due volavano, e di-
cevano: Santo, santo, santo, il Signore Sabaoth! (Is 6,3). Perciò pro-
clamiamo anche noi questo inno di glorificazione11, che ci è sta-
ta trasmessa dai serafini, affinché, attraverso la comunione di
questo inno, siamo associati alle schiere celesti.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,6

4. Dopo aver ricordato il Padre, il Figlio e lo Spirito santo,


il sacerdote prosegue, dicendo: “Lode e adorazione siano offer-
te da tutto il creato alla natura divina!”. Ricorda poi anche i
serafini, perché, secondo la divina Scrittura, essi cantano lo stes-
so inno di lode che noi tutti, i presenti, proclamiamo e diciamo
lodando Dio (cf. Is 6,3), quello che noi preghiamo insieme a tut-
te le potenze invisibili per rendere culto a Dio. Abbiamo la lo-
ro stessa intenzione e facciamo una confessione simile alla lo-
ro, perché Cristo nostro Signore, con l’economia di salvezza da
lui realizzata, ci ha permesso di diventare immortali e incorrut-
tibili e di partecipare al culto delle potenze invisibili, quando,

9 Cioè quando inizia la “liturgia dei fedeli”, la parte della celebrazione eucaristica

che comincia con l’offertorio e alla quale potevano prendere parte solo i battezzati.
10 Cioè coloro che sono stati pienamente iniziati ai misteri dell’eucaristia.
11 Lett.: “dossologia”.

263
Capitolo VII

secondo la parola dell’Apostolo, saremo rapiti sulle nubi per an-


dare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signo-
re (1Ts 4,17). Non mente infatti quella parola del nostro Signo-
re, che dice: Saranno come gli angeli di Dio, e sono figli di Dio,
essendo figli della resurrezione (Lc 20,36).
Quando Isaia, in una visione spirituale, udì quelle parole, cad-
de con la faccia a terra e disse: Guai a me, io sono perduto, sono
colpevole e sono un uomo; ho le labbra impure e abito in mezzo a
un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il
Re, il Signore Sabaoth! (Is 6,5) … Quanto a noi, poiché abbia-
mo riconosciuto la grandezza del dono, che era stata già mani-
festata in anticipo al profeta, e [sappiamo] che è già stato com-
piuto il sacrificio in nostro favore il cui memoriale ci è coman-
dato di compiere in questa liturgia, teniamo gli sguardi abbassati
e stiamo tutti con grande riverenza, tanto che non abbiamo
neanche l’ardire di guardare verso la maestà di questa liturgia.
Ma ci serviamo delle parole tremende delle potenze invisibili
per esprimere la grandezza della misericordia che si è riversata
su di noi, mentre noi non l’attendevamo. Il timore non abban-
dona il nostro pensiero, ma durante tutta la celebrazione, sia
prima di gridare “Santo!”, sia dopo, teniamo costantemente lo
sguardo abbassato a motivo della grandezza delle cose che si fan-
no: mostriamo un medesimo timore, come è conveniente. An-
che il sacerdote, da parte sua, unisce interamente la sua voce a
quella delle potenze invisibili e anche lui prega e glorifica la di-
vinità. È anche lui pieno di timore per [il mistero] che si com-
pie, perché è giusto che lo sia non meno di tutti gli altri; anzi il
suo timore e tremore davanti a ciò che si compie è maggiore di
quello di tutti gli altri, poiché è lui a celebrare a nome di tutti
questa liturgia così tremenda.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,7-9

5. Rifletti vicino a chi stai, insieme a chi stai per invocare


Dio: insieme ai cherubini! Considera i tuoi compagni di coro,

264
“Santo, santo, santo”

e ciò ti basterà per essere vigilante, se pensi che, pur rivestito co-
me sei di un corpo e legato alla carne, sei stato reso degno di
innalzare inni al comune Sovrano di tutti insieme alle potenze
incorporee. Nessuno dunque allenti il suo fervore quando par-
tecipa a quegli inni sacri e mistici! Nessuno in quel momento
abbia pensieri mondani, ma dopo aver scacciato dal suo animo
tutto ciò che è terreno e aver trasferito interamente il proprio
essere in cielo, come se stesse in piedi vicino al trono della glo-
ria e volasse in compagnia dei serafini, con tali sentimenti in-
nalzi questo santissimo inno al Dio della gloria e della maestà.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio 4,408-420

6. Rifletti in compagnia di chi stai al momento dei misteri12:


tu stai insieme ai cherubini e ai serafini! I serafini non lanciano
insulti, ma la loro bocca adempie un’unica funzione, quella di
lodare e di glorificare Dio. Come puoi dunque dire insieme a lo-
ro: Santo, santo, santo! (Is 6,3) dopo aver usato la tua bocca per
l’insulto? Poni il caso di un vaso regale, sempre ripieno di vivan-
de regali, e riservato appunto a questo uso: se qualcuno dei ser-
vi lo usasse per raccogliere dello sterco, oserà poi riporlo di nuo-
vo insieme agli altri vasi riservati all’uso nobile, pieno com’è di
sterco? Certamente no! Con la maldicenza avviene la stessa co-
sa, e così con l’insulto …
Non fare, non dire niente di ciò che è terreno. Dio ti ha inse-
rito in quella schiera celeste, ti ha ammesso a quel coro: perché
trascini te stesso in basso? Stai in piedi presso il trono regale, e
lanci insulti? Non temi che il re lo consideri un insulto per sé?
Se un servo davanti a noi colpisce un altro servo o lo insulta, an-
che se lo fa per un giusto motivo, subito noi lo puniamo, perché
consideriamo la cosa un insulto. Ma tu, che pure stai in piedi
insieme ai cherubini presso il trono del Re, insulti il fratello?

12 Cioè al momento della celebrazione eucaristica, e in particolare di quella parte

cui erano ammessi solo gli “iniziati”, i battezzati.

265
Capitolo VII

Non vedi questi santi vasi13? Non vengono forse utilizzati


sempre per un unico scopo? Forse qualcuno osa utilizzarli per
qualcosa di diverso? Tu sei più santo di questi vasi, e molto più
santo! Perché dunque insozzi e contamini te stesso? Stai nei
cieli, e lanci insulti? Vivi insieme agli angeli, e insulti gli altri?
Sei stato ritenuto degno del bacio del Signore14, e insulti? Dio
ha onorato la tua bocca con tutti questi inni angelici, con un
alimento non angelico, ma più che angelico, con il suo stesso ba-
cio, con i suoi stessi abbracci, e tu lanci insulti? No, ti prego!
Un comportamento del genere è causa di molti mali, non si ad-
dice a un’anima cristiana!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Efesini 14,4

7. Ecco qua il frutto delle mie fatiche, ecco le ricchezze te-


nute in serbo per la vostra carità15! Al vederle crescere in voi,
mi rallegro continuamente, perché non ho gettato invano le mie
sementi16, non ho sopportato fatiche inutili, anzi semino in una
terra fertile e ricca, adatta a produrre frutti. Ma da dove dedu-
co un tale guadagno? Da dove intuisco che le mie parole vengo-
no messe in pratica? Evidentemente dal presente concorso di
persone, dalla premura che mettete nel prendere posto in chie-
sa, la madre di noi tutti, da questo vostro continuo stare in pie-
di per tutta la notte, dal canto degli inni che imitando i cori an-
gelici offrite senza tregua al Creatore.
Oh mirabili doni di Cristo! Lassù le schiere angeliche glori-
ficano [Dio], quaggiù gli uomini, formando cori nelle chiese,
imitano il loro stesso canto di gloria. Lassù i serafini proclama-
no l’inno del triplice “Santo!” (cf. Is 6,3), quaggiù la moltitudi-

13 Le sacre suppellettili impiegate nella celebrazione eucaristica.


14 Più che un riferimento al bacio di pace, sembra un’allusione al bacio dato all’eu-
caristia al momento di riceverla (cf. infra, c. XIII,5; 18; 21), o forse meglio al “bacio”
che l’eucaristia stessa è per il comunicante che la riceve in bocca.
15 Titolo onorifico con il quale l’autore si riferisce al suo uditorio.
16 Cioè, fuor di metafora, le esortazioni date attraverso le precedenti predicazioni.

266
“Santo, santo, santo”

ne degli uomini innalza lo stesso canto: gli esseri celesti e quel-


li terrestri formano insieme un’unica assemblea festosa, un’uni-
ca azione di grazie, un unico giubilo, un unico coro gioioso. È
stata infatti l’ineffabile condiscendenza del Signore a formar-
lo, lo Spirito santo a dargli coesione, la benevolenza del Padre
ad accordarne in armonia le voci diverse, ed è dunque dall’alto
che trae l’armonia dei suoi canti e, ricevendo l’impulso dalla Tri-
nità, come da un plettro, fa risuonare questa melodia gradevo-
le e beata, questo cantico angelico, questa armonia incessante di
voci. Questo è il risultato dello zelo che mostrate quaggiù, que-
sto il frutto del vostro radunarvi insieme! Perciò mi rallegro con-
statando l’eccellente reputazione che vi procurate; mi rallegro
considerando la letizia che è nelle vostre anime, la vostra gioia
spirituale, la vostra esultanza secondo Dio.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,1

8. Se solo voi voleste ascoltare chi vi dà dei consigli e innal-


zare con riverenza il presente inno di glorificazione, non sare-
ste privati di una tale gioia17. Quel Signore infatti è lo stesso [al
quale voi rendete gloria], lui che è glorificato sia nei cieli che
sulla terra, poiché si dice: “Il cielo e la terra sono pieni della sua
gloria (Is 6,3)”. Com’è dunque che quelle creature, pur goden-
do di una tale felicità, la mescolano al timore? Com’è possibi-
le? … I serafini stavano in piedi – dice – intorno a lui (Is 6,2). Ma
che cosa facevano, dimmi, e che cosa dicevano? Quale franchez-
za avevano [di fronte a Dio]? Nessuna franchezza – dice – ma
erano pieni di timore e di sbigottimento e con il loro stesso
contegno mostravano il carattere ineffabile della loro paura.
Con due ali infatti si coprivano il volto (Is 6,2), per ripararsi
dal bagliore che emanava dal trono, dato che non riuscivano a
sopportare la sua gloria insostenibile, e allo stesso tempo per ma-

17 È la gioia continua e ineffabile che i serafini provano davanti a Dio innalzando a

lui il triplice “Santo”, l’inno di glorificazione a cui l’autore fa riferimento.

267
Capitolo VII

nifestare la riverenza che avevano nei confronti del Signore. Ta-


le è la gioia di cui gioiscono, tale la felicità di cui esultano18. Hai
visto come essi si coprono non solo il volto, ma anche i piedi.
Per quale motivo lo fanno? … Essi si sforzano di mostrare l’in-
saziabile riverenza che nutrono verso il Creatore, la grande tre-
pidazione che hanno, con il loro atteggiamento, con la voce, con
lo sguardo e con la loro stessa posizione. Poiché però anche in
questo modo non raggiungono lo scopo desiderato in modo con-
veniente, nascondono questa loro inadeguatezza coprendosi da
ogni parte.
Avete capito ciò che ho detto, oppure è bene riprenderlo di
nuovo? Ebbene, perché ciò diventi più chiaro, mi sforzerò di
renderlo evidente attraverso degli esempi che ci sono familiari.
Quando uno è alla presenza di un re di questa terra, si sforza con
ogni mezzo di mostrargli la riverenza che ha nei suoi confron-
ti, per attirarsi così una maggiore benevolenza da parte sua. Per
questo, attraverso la posizione della testa, il tono della voce, la
congiunzione delle mani, l’unione dei piedi e il raccoglimento
dell’intero corpo egli cerca di esprimere una tale riverenza. È ciò
che avviene anche nel caso di quelle potenze incorporee. Esse,
infatti, provando un grande desiderio di riverenza nei confron-
ti del Creatore e sforzandosi in ogni modo di manifestargliela,
ma non riuscendo poi a raggiungere il loro scopo, nascondono
con l’atto di coprirsi il loro desiderio insoddisfatto. Appunto
per questo si dice che esse si coprono gli occhi e i piedi, sebbene
sia stata formulata al riguardo anche un’altra interpretazione
più spirituale: il profeta infatti non fornisce queste indicazioni
perché ci mettiamo a proclamare che tali creature hanno piedi e
volto – sono infatti incorporee, come anche la divinità – ma per
mostrarci con queste parole come esse siano totalmente raccolte
in se stesse e rendano culto al Signore con timore e riverenza.

18 Cioè una gioia mista a timore.

268
“Santo, santo, santo”

È proprio questo il modo in cui anche noi dobbiamo stare al-


la sua presenza quando gli offriamo tale inno di glorificazione,
con timore e tremore (Fil 2,12), come se lo contemplassimo con
gli occhi della mente. Egli infatti è certamente qui presente,
anche se non è circoscritto in nessun luogo, e registra le voci di
tutti. Perciò, elevando la nostra lode con cuore contrito e umi-
liato (Sal 50,19), rendiamogliela bene accetta e innalziamola al
cielo come se fosse incenso profumato (cf. Sal 140,2). È detto
infatti: Un cuore contrito e umiliato Dio non lo disprezzerà (Sal
50,19).
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 1,3

9. E gridavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo! (Is 6,3), e il


loro grido è di nuovo per noi un segnale chiarissimo del loro stu-
pore, poiché essi non cantano solo l’inno, ma lo fanno gridan-
do forte, e non gridando semplicemente, ma in modo ininter-
rotto … E non solo gridano, ma lo fanno rivolti gli uni verso
gli altri, ciò che è segno di un intenso sbigottimento. Allo stes-
so modo anche noi, quando rimbomba un tuono o trema la ter-
ra, non solo abbiamo paura e sobbalziamo, ma gridiamo anche
gli uni agli altri. È ciò che facevano anche i serafini, e per que-
sto gridavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo! (Is 6,3).
Avete riconosciuto questa voce? È la nostra o quella dei se-
rafini? Sia la nostra, sia quella dei serafini, grazie a Cristo che
ha abbattuto il muro di separazione (Ef 2,14) e ha messo pace tra
ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra (cf. Col 1,20), lui che
ha fatto dei due una cosa sola (Ef 2,14). Prima infatti questo in-
no si cantava solo nei cieli; ma da quando il Signore si è degna-
to di scendere sulla terra, ci ha portato anche questo canto19.

19 Giovanni Crisostomo esprime spesso la convinzione che “l’incarnazione fa ormai

degli angeli e degli uomini un solo corpo, la cui testa è il Cristo” (L. Brottier, L’appel
des “demi-chrétiens” à la “vie angélique”. Jean Chrysostome predicateur: entre idéal mona-
stique et réalité mondaine, Cerf, Paris 2005, p. 377).

269
Capitolo VII

Perciò anche questo grande pontefice20, quando sta in piedi


presso questa santa mensa per offrire il culto spirituale (Rm 12,1)
e presentare il sacrificio incruento, non ci invita semplicemen-
te a questa lode, ma prima parla dei cherubini e menziona i se-
rafini, e allora ci esorta tutti a innalzare quella tremenda accla-
mazione, e attraverso questa menzione dei nostri compagni di
coro si sforza di elevare la nostra mente dalla terra al cielo, co-
me se gridasse a ciascuno di noi e dicesse: “Stai cantando insie-
me ai serafini: sta’ in piedi dunque con i serafini, con loro spie-
ga le ali della mente, con loro vola intorno al trono regale!”.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Ozia 6,2-3

10. Non vedi che anche nei palazzi dei re è bandito ogni fra-
stuono e dappertutto c’è un grande silenzio? Anche tu dunque,
come se entrassi in una reggia, non però in una reggia terrena,
ma in quella celeste, che incute molto maggior timore, mostra un
grande decoro. Tu infatti fai coro insieme agli angeli, sei in co-
munione con gli arcangeli e canti insieme ai serafini. Tutte que-
ste moltitudini mostrano un grande ordine, mentre con grande
timore cantano quella mistica melodia e i sacri inni a Dio, re
dell’universo. Quando preghi, dunque, unisciti anche tu a co-
storo e cerca di emulare il loro ordine mistico. La tua preghie-
ra infatti non è rivolta a uomini, ma a Dio, che è presente dap-
pertutto, che ci ascolta ancor prima che parliamo, lui che cono-
sce i segreti del nostro animo.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 19,3

20 Il vescovo che presiede la celebrazione eucaristica.

270
“Santo, santo, santo”

L’inno della vittoria escatologica

11. Quando, secondo la parola dell’Apostolo, sarà passata la


figura di questo mondo (cf. 1Cor 7,31) e Cristo si manifesterà a
tutti come Re e Dio … allora tutte le genti e tutti i popoli esisti-
ti fin dagli inizi del tempo, sottomettendosi, gli presteranno l’a-
dorazione senza più resistere, e vi sarà un mirabile concerto di
voci di glorificazione, perché mentre i santi canteranno inni di lo-
de, come hanno sempre fatto, gli empi saranno obbligati a eleva-
re suppliche. E allora sarà cantato veramente l’inno della vitto-
ria21, in modo concorde da parte di tutti, sia vinti che vincitori!
Gregorio Nissa, Discorso per la santa Pasqua, p. 246

12. [Il vertice supremo dei beni] è la lode di Dio che si rea-
lizza in tutti i santi, come indica l’ultimo salmo, dicendo: Lo-
date Dio nei suoi santi (Sal 150,1a)22, dove il firmamento della
sua potenza (Sal 150,1b) significa l’immutabile fermezza nel
bene e le dominazioni di Dio (cf. Sal 150,2a) alludono al fatto
che la natura non è più dominata dal male: allora23 infatti la ca-
pacità umana sarà in grado ormai di innalzargli la lode secondo
l’ampiezza della sua maestà (Sal 150,2b), non emettendo più de-
boli suoni, ma superando anche le trombe con la potenza della

21 L’espressione “inno di vittoria” (epiníkios hØmnos) nei testi liturgici e nei padri

designa per lo più il canto dei serafini, che anche i fedeli ripetono nel corso della pre-
ghiera eucaristica: sebbene qui, come nel testo successivo, l’identificazione non sia
esplicitata, il contesto la rende assai probabile. L’espressione del resto qui assume so-
prattutto una connotazione escatologica: è il canto della vittoria finale, in cui tutti or-
mai partecipano alle acclamazioni angeliche.
22 Così recita l’intero salmo 150 secondo i lxx: “Lodate Dio nei suoi santi, lodatelo

nel firmamento della sua potenza. Lodatelo nelle sue dominazioni, lodatelo secondo
l’ampiezza della sua maestà. Lodatelo al suono della tromba, lodatelo con l’arpa e la ce-
tra. Lodatelo con il timpano e la danza, lodatelo sulle corde e sul flauto. Lodatelo con
cembali sonori, lodatelo con cembali di acclamazione. Ogni spirito lodi il Signore”.
23 Cioè alla fine dei tempi, quando l’umanità e l’intera creazione raggiungeranno il

fine e la pienezza per cui sono state create. L’autore interpreta l’intero salmo in senso
escatologico.

271
Capitolo VII

sua voce. Dice infatti: Lodate il Signore al suono di tromba (Sal


150,3) … Da tutto ciò risulta quel bel concerto in cui il cemba-
lo si mescola alle corde, quando il suono dei cembali risveglia
l’ardore di entrare nel coro divino; e ciò mi sembra alludere
alla riunione della nostra natura con gli angeli, laddove dice:
Lodate il Signore con cembali sonori (Sal 150,5). Un tale radu-
no, infatti, intendo dire quello del mondo angelico con l’uma-
nità, quando la natura umana sarà stata riportata alla propria
destinazione originaria, produrrà, grazie all’incontro degli uni
con gli altri, quel dolce suono dell’azione di grazie; e attraver-
so la loro reciproca cooperazione e compagnia essi eleveranno
un incessante inno di ringraziamento a Dio per il suo amore
verso l’umanità. È questo ciò che indica la congiunzione di un
cembalo con un altro cembalo: un cembalo rappresenta la na-
tura oltremondana degli angeli, l’altro cembalo la creazione ra-
zionale degli uomini. Se il peccato ha separato questa da quel-
la, quando però l’amore di Dio per l’umanità le riunirà di nuo-
vo l’una con l’altra, allora entrambe, l’una con l’altra, faranno
risuonare quella lode, come dice anche il grande Apostolo:
Ogni lingua nei cieli, sulla terra e sotto terra confesserà che Gesù
Cristo è Signore a gloria di Dio Padre (Fil 2,11). A questo punto
il suono di questi cembali intonerà in un concerto comune un
inno di vittoria per la distruzione del Nemico. E quando que-
st’ultimo sarà stato completamente distrutto e ritornato al nul-
la, allora, incessantemente attraverso ogni essere che respira,
con pari onore, si compierà per sempre la lode rivolta a Dio.
Poiché infatti la lode non si addice in bocca al peccatore (Sir 15,9),
allora non ci sarà più alcun peccatore, dato che il peccato non
esisterà più, e ogni respiro loderà il Signore per tutta l’eternità
(cf. Sal 150,6).
Gregorio di Nissa, Sui titoli dei Salmi I,9,27

13. Che cosa significa l’inno di lode del triplice “Santo”? Il


triplice grido di santificazione dell’inno divino proclamato da

272
“Santo, santo, santo”

tutto il popolo credente indica l’unione e l’uguaglianza di ono-


re con le potenze incorporee e spirituali che sarà manifestata nel
tempo futuro: grazie a tale unione e a tale uguaglianza la natu-
ra degli uomini, in accordo con le potenze celesti, in virtù del-
l’identità del loro movimento immutabile ed eterno intorno a
Dio, imparerà a celebrare e a santificare la divinità una e trina
con una triplice proclamazione di santità.
Massimo il Confessore, Mistagogia 19

273
Capitolo VIII
“QUESTO È IL MIO CORPO …
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”

Dopo il “triplice santo”, l’azione di grazie rivolta a Dio Padre con-


tinua ricordando il suo disegno di amore e di salvezza in favore del-
l’uomo, al culmine del quale sta il dono del Figlio per la vita del
mondo: “Tu hai tanto amato il mondo, da dare il tuo Figlio unige-
nito…” (§ β). In questo contesto quasi in tutte le anafore antiche
giunte a noi in modo completo si fa memoria dell’istituzione del-
l’eucaristia da parte di Gesù “nella notte in cui consegnava se stes-
so per la vita del mondo” (§ γ) e si ricordano le parole con cui egli,
dopo aver reso grazie e aver pronunciato la benedizione, consegnò
ai discepoli il pane e il vino, dichiarando che erano il suo corpo e il
suo sangue, e ordinando loro di compiere lo stesso gesto “in sua me-
moria”1.
Per accogliere queste parole del Signore da sempre custodite dal-
la chiesa tra i suoi tesori più cari secondo la profondità della com-
prensione mistagogica dei padri, che gli stessi testi liturgici antichi
presuppongono, è necessario evitare di estrapolarle dal contesto “eu-
caristico” e “anamnetico” e dall’intera dinamica anaforica in cui so-

1 Per una ricostruzione verosimile del lento processo attraverso il quale il racconto

dell’istituzione fu gradualmente incluso nell’anafora come “luogo teologico scritturi-


stico”, fino a diventare uno dei suoi elementi fondamentali, rimandiamo a C. Girau-
do, In unum corpus. Trattato mistagogico sull’eucaristia, San Paolo, Cinisello Balsamo
20072, pp. 245-266. Oltre alla descrizione di Giustino (cf. infra, § 9), la prima anafo-
ra che ne attesta la presenza è quella di Tradizione apostolica 4.

275
Capitolo VIII

no state inserite, per non comprenderle in maniera riduttiva, pura-


mente funzionale alla “consacrazione” delle specie eucaristiche e
alla “presenza di Cristo” che – almeno secondo una parte della tra-
dizione antica – si ritiene che esse realizzino o quantomeno contri-
buiscano a realizzare 2. Da una tale deriva riduzionistica, come è no-
to, non è stata esente l’evoluzione della liturgia, soprattutto in oc-
cidente, dove per secoli e fino a tempi molto recenti si è fatto di
queste parole non solo l’unica parte essenziale dell’anafora, ma an-
che il centro dell’intera eucaristia, a prezzo di snaturarne e depau-
perarne profondamente la comprensione.
Innanzitutto i testi dei padri, come i testi liturgici, ci invitano a
ricollocare queste parole nel contesto vitale in cui furono storica-
mente pronunciate, l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli, e a
comprenderle in riferimento al mistero della sua passione e dell’of-
ferta della sua vita sulla croce per la salvezza del mondo (cf. §§ 1-8).
L’intimo legame tra l’ultima cena (e dunque l’eucaristia) e la pas-
sione e la morte di Gesù – esse stesse non disgiunte da una prospet-
tiva di resurrezione –, legame già evidente di per sé nei testi del
Nuovo Testamento, viene messo chiaramente in luce dai padri, per
i quali nell’ultima cena Gesù nell’imminenza della sua passione e
morte manifestò e celebrò la “nuova Pasqua” (§ 2), “la Pasqua per
eccellenza” (§ 4), portando a compimento quella antica che ne era
solo il “tipo”, la prefigurazione profetica (cf. §§ 2; 7) 3: comprenden-
do la propria passione e morte come l’atto messianico per eccellen-
za, come il sacrificio ultimo che avrebbe “vinto la morte con la mor-
te” (cf. § 1), Gesù “secondo la propria autorità sovrana” (§ 3) e “con
grande sapienza” (§ 7) istituì il memoriale anticipato di tale sacrifi-
cio, non solo indicando nel pane il suo corpo “spezzato” e nel vino

2 Per l’occidente latino il primo testimone sicuro di questa comprensione delle parole

istituzionali è Ambrogio († 397): cf. Ambrogio di Milano, Sui sacramenti IV,4,14-16;


5,21-23 e Id., Sui misteri 9,52.54.
3 Sull’interpretazione “pasquale” dell’eucaristia nei padri, rimando alla sintesi di

Anàmnesis, III/2. La Liturgia, eucaristia: teologia e storia della celebrazione, a cura di S.


Marsili, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 35-44.

276
“Questo è il mio corpo …”

il suo sangue “versato”, ma “mescolando se stesso al segno sacra-


mentale” (cf. § 8), ovvero realmente “offrendo se stesso quale cibo
di vita” (§ 7) nei segni del pane e del vino, “in oblazione e sacrifi-
cio, lui che era allo stesso tempo sacerdote e agnello di Dio che to-
glie il peccato del mondo” (§ 3). Tale atto compiuto da Gesù “in
modo mistico” (§ 8), che egli ordinò di ripetere “in sua memoria”
(§ 4), fu l’espressione del suo amore per gli uomini (cf. § 6), del suo
desiderio salvifico di “patire la Pasqua” per noi (cf. §§ 1-2; 8), per
mostrare ai discepoli e a tutti coloro che dopo di loro avrebbero ce-
lebrato questo mistero che la sua passione e la sua morte furono del
tutto volontarie, non una necessità o un incidente inatteso (cf. §§
3; 6) e perché, mangiando il suo corpo e bevendo il suo sangue, tut-
ti gli uomini potessero celebrare la sua Pasqua e così prendere par-
te alla salvezza (§§ 2; 4; 7).
Le parole istituzionali, quindi, oltre che come suprema testimo-
nianza della piena e libera volontà del Signore di offrire la propria
vita in sacrificio, sono comprese dai padri come garanzia e promes-
sa autorevole che tutti coloro che, in sua memoria e secondo il suo
comando, ripeteranno lo stesso gesto da lui compiuto, parteciperan-
no realmente al suo corpo e al suo sangue, ovvero alla sua vita di-
vina (cf. §§ 9-18). I padri in generale, ma tra loro soprattutto quelli
orientali dei primi secoli – ed è questo uno dei tratti più caratteri-
stici che distingue il loro approccio “apofatico” da quello scolasti-
co o controversistico degli autori più tardi –, non sono particolar-
mente preoccupati di comprendere o anche solo di porre la questio-
ne del “come” si realizzi esattamente la conversione (metabolé) del
pane e del vino in corpo e sangue di Cristo4, o di quale presenza di

4 È interessante notare come non esista nel lessico dei padri greci una terminologia

uniforme per esprimere la conversione eucaristica. Accanto al più frequente metabál-


lein (lett.: “trasmutare”, “trasformare”), cui corrisponde il sostantivo metabolé, sono
molti i verbi utilizzati nei padri greci per esprimere lo stesso concetto: metapoieîn
(“cambiare nella fattura”), metaskeuázein (“cambiare nella forma”), metarrhythmízein
(“cambiare nella struttura”), metastoicheioûn (“cambiare nella natura elementare”),
anadeiknØnai (“dimostrare”, “manifestare” o “far diventare”), apophaínein (“manife-
stare”), haghiázein (“santificare”), insieme ai verbi più generali: poieîn (“fare”, “crea-

277
Capitolo VIII

Cristo vi sia nel pane e nel vino consacrati. Ciò che per loro è im-
portante è soprattutto confessare nella fede che “quel cibo sul qua-
le è stata pronunciata l’azione di grazie … è carne e sangue di quel-
lo stesso Gesù che si è incarnato” (§ 9), e questo perché lui stesso,
il Signore, lo ha solennemente dichiarato (cf. § 12), e la sua Parola
è assolutamente infallibile e degna di fede (cf. §§ 12-13; 15). La
presenza di Cristo nell’eucaristia resta dunque un mistero che i fe-
deli devono accogliere con piena fiducia, senza dubitare e senza fis-
sare l’attenzione sul semplice aspetto materiale e sensibile delle spe-
cie eucaristiche (cf. §§ 9; 11-14; 16): guardando il pane e il vino
“con occhi spirituali” e “aderendo alle parole del Signore” (§ 13),
“parole con le quali egli intese esprimere il mistero” (§ 18), essi so-
no invitati a credere che “anche in realtà che sono sensibili tutto è
spirituale” (§ 13) e che “per mezzo di un’azione ineffabile di Dio
che può tutto le offerte sono veramente trasformate nel corpo e nel
sangue di Cristo” (§ 15).
Accanto a questo valore di garanzia autorevole attribuito a que-
ste parole dall’intera tradizione dei padri, una parte della tradizio-
ne, come si è già accennato, ne riconosce anche un altro, che pre-
suppone e rafforza il primo: si ritiene cioè che queste parole, in quan-
to parole che provengono dal Signore (cf. §§ 9; 23), in quanto
“parola di Dio” (cf. §§ 19; 21; 25), ossia “parola viva ed efficace”
(§§ 25-26), capace di realizzare ciò che esprime – secondo la Scrit-
tura parola e azione in Dio coincidono: egli compie ciò che dice e
rivela (cf. §§ 20; 25) –, abbiano un’efficacia reale quando vengo-
no ripetute dal ministro durante la celebrazione dell’eucaristia5. In

re”) e ghínesthai (“diventare”). Questi verbi, che, come si vede dagli usi paralleli, ri-
mandano quasi tutti all’azione di Dio creatore che può agire con pieno potere su ciò
che è opera delle sue mani, esprimono senza apprezzabili differenze la stessa convin-
zione di fede: il pane e il vino eucaristici per opera di Dio diventano realmente corpo
e sangue di Cristo.
5 Di una tale convinzione sembra conservare traccia la Liturgia di Giovanni Crisosto-

mo, anche nella redazione più antica giunta a noi (fine viii secolo), che, pur contenen-
do un’epiclesi chiaramente consacratoria, fa seguire alle parole dell’istituzione un so-
lenne “Amen” da parte dell’assemblea (cf. § β).

278
“Questo è il mio corpo …”

questo senso esse non soltanto garantiscono la credibilità della pre-


senza di Cristo nell’eucaristia – poiché lui lo dice, ciò è possibile –,
ma in qualche modo la realizzano – poiché lui lo dice, ciò avviene –,
perché è Cristo stesso che attraverso il ministro pronuncia quelle
parole in modo autorevole (cf. §§ 20-24): come esse hanno espres-
so e realizzato la verità del mistero nell’ultima cena, così continua-
no a farlo sempre (cf. §§ 20-21; 27). Ciò però non significa affatto
attribuire a queste parole un valore “magico” o automatico perché
esse, nella visione dei padri greci (e non solo), non vengono mai se-
parate dall’intimo legame con il resto dell’eucologia e della cele-
brazione eucaristica – accanto alla “parola” viene spesso esplicita-
mente menzionata la “preghiera” (cf. §§ 9; 18; 19; 24; 27) – e per-
ché, come vedremo anche nel capitolo seguente, l’azione dello Spirito
santo, anche quando non viene menzionata in modo esplicito, è per
lo più presupposta (cf. §§ 13; 18-19; 26).
Del resto, fino a quando le controversie teologiche tra la chiesa
d’oriente e quella d’occidente non impedirono un dialogo sano e
fecondo6, e fino a quando le differenti spiegazioni non diventarono
altrettante “teorie” univoche, viziate in partenza dalla volontà di
contrapposizione ideologica, anche autori che sottolineavano il va-
lore efficace delle parole istituzionali pronunciate dal ministro in
persona Christi – Giovanni Crisostomo è ancora una volta il caso
più emblematico – erano altrettanto risoluti nell’affermare il ruolo e
l’azione dello Spirito nel mistero eucaristico (cf. infra, IX,13-17),
con riferimento più o meno esplicito all’epiclesi 7. Questo, ci pa-

6 La Spiegazione della divina liturgia di Nicola Cabasilas è il primo documento lette-

rario che attesta l’esistenza di una controversia tra greci e latini riguardo al valore del-
le parole istituzionali e dell’epiclesi, con toni già apertamente polemici. Su questa po-
lemica, cf. bibliografia citata infra, p. 307, n. 78.
7 Lo stesso discorso può valere per alcuni padri occidentali, come ad esempio Ago-

stino, che, pur affermando il valore della parola del Signore (cf. Agostino di Ippona,
Discorsi 227,1; 229,3; 229/A,1), riconosce in modo altrettanto chiaro “l’intervento in-
visibile dello Spirito di Dio” nella santificazione dei doni eucaristici (cf. Id., Sulla
Trinità III,4,10). Per un confronto tra Giovanni Crisostomo e Agostino riguardo al
ruolo dello Spirito nella celebrazione eucaristica, cf. B. Bobrinskoy, Communion du
Saint-Esprit, pp. 279-311.

279
Capitolo VIII

re, non è tanto (o non solo) dovuto a una mancata o incompleta ar-
monizzazione, in questi autori, di idee teologiche di segno e di ori-
gine diversa8, ma forse ancora una volta al consapevole e volonta-
rio rifiuto di determinare in modo netto e preciso il “come” e il “che
cosa” realizza il mistero dell’eucaristia, scegliendo in modo esclu-
sivo tra la Parola e lo Spirito, nella convinzione che “i due vi ope-
rano inseparabilmente durante tutta l’anafora” 9, come in tutta la
storia di salvezza. È infatti l’intera anafora, l’intera celebrazione eu-
caristica, costituita dal rapporto armonico e complementare tra pa-
rola del Signore, parola di preghiera dell’uomo e azione dello Spi-
rito, a garantire in definitiva, secondo l’impostazione dei padri, la
presenza viva del Signore con il suo corpo e il suo sangue, a benefi-
cio e salvezza di coloro che vi partecipano. “La questione – è stato
giustamente affermato – se fosse al momento del racconto dell’isti-
tuzione o al momento dell’epiclesi che le offerte erano trasformate
sembra essere stata estranea al modo di pensare patristico” 10.
Infine, una piena comprensione del valore del racconto istituzio-
nale richiede di collocarlo – come fanno i testi liturgici e al loro se-
guito i padri – nel quadro dell’“anamnesi” o ”memoriale” (anám-
nesis) dell’economia di salvezza operata da Cristo, di cui viene fat-
ta esplicita menzione nell’anafora subito dopo le parole del Signore,

8 Così ritiene G. Dix, The Shape of Liturgy, p. 282, riguardo a Giovanni Crisostomo.
9 J.-M. R. Tillard, “Teologia. Voce cattolica. La comunione alla Pasqua del Signo-
re”, in Eucharistia, p. 465. Una conclusione simile, dal punto di vista ortodosso, a par-
tire da una lettura equilibrata dell’intera tradizione patristica, è quella di P. N. Trem-
belas, Δογματικ τς Ορθοδξου Καθολικς Εκκλησας, Sotir, Athinai 19792, vol.
III, p. 163: “Non bisogna trascurare che le parole dell’istituzione da una parte e l’epi-
clesi dall’altra costituiscono i due elementi principali di tutta l’anafora, e che senza le
parole dell’istituzione rischiamo di non avere ciò che il Cristo ha trasmesso, come sen-
za l’epiclesi rischiamo di non avere la consacrazione e la trasformazione delle specie”.
È questa ormai anche la posizione ufficiale della dottrina cattolica, maturata grazie al-
la riflessione teologica e al dialogo ecumenico (cf. Catechismo della chiesa cattolica, Li-
breria editrice vaticana, Città del Vaticano 19992, p. 393, nr. 1375).
10 J. H. McKenna, The Eucharistic Epiclesis. A Detailed History from the Patristic to

the Modern Era, Hillenbrand Books, Chicago 20092, p. 70. Un primo tentativo di “iso-
lare” un momento consacratorio puntuale si riscontra in Giovanni di Damasco (cf. in-
fra, § 17).

280
“Questo è il mio corpo …”

le quali si concludono appunto con il comando “fate questo in mia


memoria” (eis tèn emèn anámnesin). L’“anamnesi” o “memoria-
le”, come gli studi biblici ci hanno ormai reso pienamente coscien-
ti, non è un semplice ricordo soggettivo di un avvenimento passato,
ma è un’azione liturgica, in gesti e parole, che ha la capacità di da-
re una reale presenza a ciò di cui si fa memoria e che rende i cele-
branti contemporanei dell’avvenimento che la celebrazione comme-
mora11. Anche i padri sono ben consapevoli di questo, come mo-
strano alcuni testi particolarmente eloquenti, nei quali celebrare il
“memoriale della passione” del Signore significa entrare “in intima
unione e comunione con il Verbo che ancora oggi discende verso
di noi” (§ 30), avere “la presenza di colui che ci ha salvati” (§ 38)
e “attingere dal suo costato una forza capace di far crescere tutti co-
loro che sono stati edificati in lui” (§ 30): poiché il sacrificio di Cri-
sto è avvenuto una volta per tutte, la chiesa fino alla sua venuta of-
fre “sempre la stessa vittima” (cf. §§ 32; 36).
Ma se il “memoriale” eucaristico rimanda innanzitutto alla mor-
te del Signore, come afferma l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 11, 26) e al
suo seguito i padri (cf. §§ 30-34; 39-41), perché è proprio in essa
che “si è realizzata la completa vittoria contro il maligno” (§ 40) ed
è questo il sacrificio pasquale che la chiesa offre e al quale è chia-
mata a partecipare – “Se infatti il Signore non è morto, si chiede
Giovanni Crisostomo, di cosa sono simbolo i misteri che vengono
celebrati?” (§ 33) –, tuttavia il Signore di cui si fa memoria è il Si-
gnore risorto12, asceso al cielo, seduto alla destra di Dio, e già con-
templato nel suo ritorno nella gloria (cf. §§ 36-37): nel celebrare il
“memoriale” della morte del Signore la chiesa nutre la sua speran-
za e ravviva la sua tensione verso il compimento del mistero di cui
partecipa (cf. §§ 29; 35). Proprio in questo senso nella formula li-

11 Cf. Anàmnesis III/2, pp. 151-152.


12 Significativamente la Liturgia di Basilio (cf. § γ), che attribuisce al Signore anche
le parole dell’Apostolo (cf. 1Cor 11,26), inserisce accanto all’annuncio della morte del
Signore la confessione della sua resurrezione.

281
Capitolo VIII

turgica dell’anamnesi (“Facendo dunque memoria…”) le antiche


anafore hanno aggiunto, dopo la memoria della passione, croce e
morte del Signore, quella della sua resurrezione, della sua ascensio-
ne, del suo sedere alla destra del Padre e della sua seconda venuta
gloriosa, come se tutti questi eventi fossero già compiuti, a dimostra-
zione che la celebrazione del mistero di Cristo da parte della chie-
sa, pur saldamente radicata nel passato della storia, trascende la di-
mensione puramente storica e lineare del tempo, per attingere quel-
la escatologica, in cui passato, presente e futuro sono ricapitolati in
unità. Rimane vero tuttavia che la chiesa vive ancora in questo mon-
do e, mentre essa fa memoria degli eventi della sua salvezza, li “pone
innanzi a Dio” (cf. § 28), e il suo memoriale diventa “epiclesi” per-
ché anche lui li “ricordi” e porti a compimento quel che ha iniziato.

α. [Il vescovo proseguendo la preghiera dica:] Facendo memoria


di ciò che egli ha sofferto per noi, ti rendiamo grazie, Dio on-
nipotente – non quanto avremmo il dovere di fare, ma quan-
to possiamo – e adempiamo il suo comando. Nella notte in
cui veniva consegnato, infatti, prese del pane nelle sue mani
sante e immacolate e, alzati gli occhi a te, suo Dio e Padre, lo
spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Questo è il mi-
stero della nuova alleanza: prendetene, mangiate, questo è il mio
corpo (Mt 26,26) spezzato per voi, in remissione dei peccati.
Allo stesso modo, riempito il calice di vino e d’acqua, lo san-
tificò e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, questo è il mio
sangue versato per molti in remissione dei peccati (Mt 26,27-28).
Fate questo in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25). Ogni
volta infatti che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi
annunciate la mia morte, finché io venga (1Cor 11,26).
Facendo dunque memoria della sua passione, della sua mor-
te, della sua resurrezione dai morti, del suo ritorno ai cieli e
della sua futura seconda venuta, nella quale verrà con gloria e
potenza a giudicare i vivi e i morti e rendere a ciascuno secon-

282
“Questo è il mio corpo …”

do le sue azioni, offriamo a te, Re e Dio, secondo il suo co-


mando, questo pane e questo calice, rendendoti grazie per
mezzo di lui perché ci hai resi degni di stare alla tua presen-
za e di prestarti il servizio sacerdotale.
Costituzioni apostoliche VIII,12,35-38

β. Il sacerdote (a voce sommessa): … Tu hai tanto amato il


mondo, da dare il tuo Figlio unigenito, perché chiunque cre-
de in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (cf. Gv 3,16).
Egli, dopo esser venuto e aver compiuto tutta l’economia [di
salvezza] a nostro favore, nella notte in cui consegnava se stes-
so13, prese il pane nelle sue mani sante, pure e immacolate e,
dopo aver reso grazie, lo benedisse, lo santificò, lo spezzò e
lo diede ai suoi santi discepoli e apostoli dicendo (a voce alta):
Prendete, mangiate, questo è il mio corpo (Mt 26,26) spezzato
per voi in remissione dei peccati. (a voce sommessa) In modo
simile [fece] anche con il calice, dopo aver cenato, dicendo: (a
voce alta) Bevetene tutti! Questo è mio sangue, quello della nuo-
va alleanza, versato per voi e per molti in remissione dei peccati
(Mt 26,27-28).
Il popolo: Amen14!
Il sacerdote: Facendo dunque memoria di questo coman-
do salutare e di tutte le cose realizzate in nostro favore, del-
la croce, della sepoltura, della resurrezione al terzo giorno,
dell’ascensione ai cieli, del suo sedersi alla destra [del Padre]
e della sua nuova gloriosa venuta, ti offriamo ciò che è tuo,
preso da ciò che è tuo, in tutto e per tutto.
Il popolo: Ti lodiamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie,
Signore, e ti preghiamo, Dio nostro!
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 324-329

13 In Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 385, ll. 23-25 si legge: “Nella notte in

cui veniva consegnato, o piuttosto consegnava se stesso per la vita del mondo (Gv 6,51)”.
14 In Liturgia di Giovanni Crisostomo (b), p. 385, l. 32 e p. 386, l. 11, l’acclamazio-

ne “Amen!” da parte dell’assemblea è ripetuta dopo ciascuna delle due parole istitu-
zionali sul pane e sul vino.

283
Capitolo VIII

γ. Il sacerdote (a voce sommessa): Come memoriale della sua


passione salvifica egli ci ha lasciato questi [segni] che ora ti
abbiamo presentato secondo il suo comando. Quando infatti
stava per avviarsi verso la sua morte volontaria, gloriosa e vi-
vificante, nella notte in cui consegnava se stesso per la vita del
mondo (Gv 6,51), preso il pane con le sue mani sante ed im-
macolate e presentatolo a te, Dio Padre, rese grazie, lo bene-
disse, lo santificò, lo spezzò e lo diede ai suoi santi discepoli
e apostoli, dicendo (a voce alta): Prendete, mangiate: questo è
il mio corpo (Mt 26,26) spezzato per voi in remissione dei
peccati. (a voce sommessa) In modo simile prese anche il cali-
ce del frutto della vite e, dopo averlo temperato con dell’ac-
qua, rese grazie, lo benedisse, lo santificò e lo diede ai suoi
santi discepoli e apostoli, dicendo (a voce alta): Bevetene tut-
ti: questo è il mio sangue, quello della nuova alleanza, versato per
voi e per molti in remissione dei peccati (Mt 26,27-28). Fate que-
sto in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25). Ogni volta in-
fatti che mangiate questo pane e bevete questo calice, voi annun-
ciate la mia morte e confessate la mia resurrezione (cf. 1Cor
11,26)15. Facendo dunque anche noi memoria, o Signore, del-
le sue sofferenze salvifiche, della croce vivificante, della se-
poltura per tre giorni, della resurrezione dai morti, dell’ascen-
sione ai cieli, del suo sedersi alla tua destra, o Dio Padre, e
della sua seconda gloriosa e temibile venuta, ti offriamo ciò
che è tuo, preso da ciò che è tuo, in tutto e per tutto.
Il popolo: Ti lodiamo, ti benediciamo, ti rendiamo grazie,
Signore, e ti preghiamo, Dio nostro!
Liturgia di Basilio, pp. 327-329

15 Cf. Liturgia di san Giacomo, p. 88, ll. 23-24: “Ogni volta che mangiate questo pa-

ne e bevete questo calice, voi annunciate la morte del Figlio dell’uomo e confessate la sua
resurrezione, finché egli venga (cf. 1Cor 11,26)”.

284
“Questo è il mio corpo …”

La cena del Signore e la nuova Pasqua

1. Questa era la Pasqua che Gesù desiderò patire16 per noi


(cf. Lc 22,15): con la passione ci ha liberati dalla passione e
con la morte ha vinto la morte, e attraverso il cibo visibile ci ha
donato la sua vita immortale. Questo era il desiderio salvifico
di Gesù, questa la sua brama tutta spirituale, mostrare cioè le
figure come figure17 e consegnare al loro posto ai suoi discepoli
il suo sacro corpo: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo (Mt
26,26). Prendete, bevete, questo è il mio sangue, la nuova allean-
za, versato per molti in remissione dei peccati (cf. Mt 26,27-28;
Lc 22,20)”. Per questo non desidera tanto mangiare, quanto
patire [la Pasqua], per liberarci dalla passione in cui siamo incor-
si mangiando18.
Pseudo-Ippolito, Sulla santa Pasqua 49

2. Il Salvatore non celebrò la Pasqua insieme ai giudei nel


tempo della sua passione. Egli infatti con i suoi discepoli non
celebrò la propria Pasqua nello stesso momento in cui i giudei
immolavano l’agnello: fu infatti nel giorno della preparazione,
quando il Salvatore subì la passione (cf. Gv 19,14), che costo-
ro compirono questo [rito], e per questo non entrarono neppu-
re nel pretorio, ma fu Pilato a uscire verso di loro (cf. Gv
18,28-29)19; ma egli si mise a tavola insieme ai discepoli esatta-
mente un giorno prima, il quinto della settimana, e mentre man-

16 Come altri padri (cf. Gregorio di Nazianzo, Orazioni 45,10), l’autore gioca sul-

l’assonanza tra il nome Páscha (“Pasqua”, dall’ebraico pesach, “passaggio”) e il verbo


páscho (“patire”), come se tra queste due parole vi fosse un legame etimologico, per
sottolineare il nuovo significato della Pasqua inaugurata da Cristo.
17 Cioè mostrare che i riti della Pasqua dell’antica alleanza erano semplici prefigu-

razioni della nuova Pasqua compiuta attraverso la sua morte e resurrezione.


18 Riferimento al peccato commesso da Adamo mangiando il frutto proibito.
19 L’autore sfrutta abilmente le discordanze tra la cronologia degli evangeli sinotti-

ci e quella del quarto evangelo per affermare che la cena pasquale che Gesù mangiò

285
Capitolo VIII

giava con loro disse: Ho desiderato ardentemente mangiare con voi


questa Pasqua (Lc 22,15). Vedi come il Salvatore non ha man-
giato la Pasqua con i giudei. Poiché infatti questa Pasqua era
nuova ed estranea alle consuetudini e ai riti giudaici, egli si vi-
de costretto ad affermare: Ho desiderato ardentemente mangiare
con voi questa Pasqua prima della mia passione (Lc 22,15). I riti
antichi e ormai invecchiati, che egli appunto celebrava insieme
ai giudei, non erano oggetto del suo desiderio, ma egli deside-
rava il nuovo mistero della sua nuova alleanza, che egli trasmi-
se ai suoi discepoli, e questo giustamente, perché molti profeti e
giusti prima di lui avevano desiderato vedere (Mt 13,17) i miste-
ri della nuova alleanza; e proprio lui, il Verbo, che sempre ave-
va sete della comune salvezza consegnava un mistero con il qua-
le tutti gli uomini avrebbero celebrato la festa, dichiarando aper-
tamente che ciò era cosa per lui desiderabile. Mentre la Pasqua
di Mosè non si adattava a tutte le genti di allora – come avreb-
be potuto esserlo, dal momento che la Legge prescriveva che es-
sa fosse celebrata in un solo luogo, a Gerusalemme? – e per que-
sto non era oggetto del suo desiderio, il mistero salvifico della
nuova alleanza, invece, poiché era adatto a tutti gli uomini, giu-
stamente era cosa per lui desiderabile.
Eusebio di Cesarea, Sulla festa di Pasqua 9

3. Colui che tutto dispone secondo la propria autorità sovra-


na20 non attese la necessità del tradimento [di Giuda], né l’as-
salto dei giudei, degno di una banda di pirati, né l’iniqua sen-
tenza di Pilato, per fare in modo che la malizia di costoro diven-
tasse origine e causa della salvezza comune degli uomini, ma con
la sua provvidenza prevenne il loro attacco nella forma miste-

con i discepoli e durante la quale istituì l’eucaristia non fu da lui celebrata alla data di
Pasqua dei giudei, ma intenzionalmente il giorno precedente, e così distinguere netta-
mente Pasqua ebraica e Pasqua cristiana.
20 Cioè Cristo.

286
“Questo è il mio corpo …”

riosa21 di un rito sacro22, e in modo invisibile agli uomini offrì se


stesso per noi in oblazione e sacrificio (Ef 5,2), lui che era allo
stesso tempo sacerdote e agnello di Dio che toglie il peccato del
mondo (Gv 1,29).
E quando avvenne ciò? Quando diede il proprio corpo da
mangiare e il proprio sangue da bere ai [discepoli] riuniti insie-
me, mostrando chiaramente in questo modo che il sacrificio del-
l’agnello era già stato pienamente realizzato. Il corpo della vit-
tima infatti non sarebbe stato adatto da mangiare se fosse stato
ancora vivo. Quando perciò egli offrì il proprio corpo da man-
giare e il proprio sangue da bere, quel corpo era già stato segre-
tamente immolato, in forza dell’autorità di colui che aveva di-
sposto quel mistero in modo ineffabile e invisibile.
Gregorio di Nissa, Sui tre giorni prima della resurrezione, pp. 287-288

4. Poiché l’Unigenito è stato immolato una volta per tutte e


ciò è bastato per l’economia [di salvezza], non si immola più l’a-
gnello, ma il Salvatore, giunto alla passione, ci ha donato un pa-
ne e un calice come imitazione del sacrificio per eccellenza, fa-
cendoli diventare con epiclesi ineffabili l’uno il proprio corpo e
l’altro il proprio sangue e ordinando di fare la Pasqua per mez-
zo di queste figure23 … Manifestando la Pasqua per eccellenza,
il Salvatore l’ha presentata come una salvaguardia contro i ma-
li che ci minacciano, contro i demoni, contro l’idolatria e ogni
sozzura, e ha reso libera la nostra natura perché possa recupe-
rare la beatitudine.
Poiché dunque egli, giunto ai tempi [stabiliti] e alla sua pas-
sione, ha ordinato anche a noi di fare la Pasqua imitandolo con
i segni24 che egli ci ha dato, e ha detto: Fate questo in memoria di

21 Lett.: “ineffabile” (apórretos).


22 In greco: hierourghía.
23 Sul termine “figura” (tØpos) applicato all’eucaristia, cf. infra, p. 296, n. 45.
24 Lett.: “simboli”. Cf. infra, p. 296, n. 45.

287
Capitolo VIII

me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25), giustamente ogni anno, in sua


memoria, giunti dopo l’equinozio, a salvezza di noi tutti, per al-
lontanare i mali che ci assalgono e partecipare alle grazie cele-
sti, noi compiamo la Pasqua imitando il Salvatore nel più splen-
dente fulgore dell’universo.
Omelia anatoliana sulla data di Pasqua 39

5. Mentre essi mangiavano, prese il pane e lo spezzò (Mt 26,26).


Perché mai celebrava questo mistero25 proprio allora, nel tempo
di Pasqua? Perché tu conoscessi in ogni modo che egli è il le-
gislatore anche dell’antica [alleanza] e ciò che in essa era stato
adombrato lo era stato proprio in vista di questi eventi. Perciò
dov’era la figura26, egli aggiunge la verità. La sera era segno del-
la pienezza dei tempi e del fatto che gli eventi erano giunti or-
mai al loro compimento. Rende grazie, per insegnarci come ce-
lebrare questo mistero, per mostrare che non è contro la sua vo-
lontà che va verso passione, per educarci a sopportare con azione
di grazie ciò che soffriamo, e suscitare anche così buone spe-
ranze.
Se infatti la figura è stata una liberazione da una così gran-
de schiavitù27, a maggior ragione la verità avrebbe liberato il
mondo intero e sarebbe stata consegnata a beneficio della no-
stra natura. Appunto per questo non istituì questo mistero pri-
ma di questo momento, ma soltanto quando le prescrizioni le-
gali erano ormai destinate a cessare. Abolisce la principale delle
loro feste, facendoli passare a un’altra mensa che incute gran-
dissimo timore, e dice: Prendete, mangiate, questo è il mio corpo
spezzato per molti (cf. Mt 26,26).
Ma com’è che non furono turbati all’udire ciò? Perché già in
precedenza aveva parlato a lungo e in modo solenne di questo

25 L’eucaristia.
26 La Pasqua antica era figura (tØpos), ovvero prefigurazione, della nuova Pasqua
compiuta da Gesù.
27 Quella degli ebrei in Egitto.

288
“Questo è il mio corpo …”

argomento. Perciò non lo sviluppa più, perché avevano udito ab-


bastanza, ma dice il motivo della passione, l’eliminazione dei
peccati; e parla di un sangue della nuova alleanza (Mt 26,28), cioè
della nuova promessa, del nuovo annuncio, della nuova legge.
Lo aveva già promesso un tempo, ed è questo il punto chiave
della nuova alleanza. E come l’antica aveva pecore e vitelli, co-
sì la nuova ha il sangue del Signore (cf. Eb 9,12). Anche di qui
mostra che sta per morire; perciò menziona l’alleanza e richiama
alla memoria quella precedente, perché anch’essa era stata inau-
gurata per mezzo del sangue (cf. Eb 9,18).
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,1

6. Poiché dallo stadio spirituale28 siamo ormai giunti al coro-


namento dei misteri vivificanti e, quale viatico di immortalità,
ci vengono offerti dal Signore i doni che superano ogni parola,
orsù, voi tutti che vi deliziate delle ricchezze ineffabili e siete
partecipi della vocazione celeste (Eb 3,1) dopo esservi rivestiti
con grande zelo di una fede pura, come di un abito nuziale (cf.
Mt 22,11), accorrete insieme con me alla mistica cena29!
Cristo oggi ci invita a un banchetto, Cristo oggi ci serve (cf.
Lc 22,27), Cristo ci dà riposo (cf. Mt 11,28), lui che è l’amico
degli uomini! Terribili sono le parole pronunciate, terribili gli
atti compiuti! Il vitello grasso viene sgozzato (cf. Lc 15,23), l’a-
gnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29) viene im-
molato! Il Padre si rallegra, il Figlio si offre volontariamente in
sacrificio, non immolato oggi dai nemici di Dio, ma di propria
spontanea volontà, per mostrare che la sua passione salvifica è
volontaria.
Teofilo di Alessandria, Omelia sulla mistica cena, PG 77,1016D-1017A

28 Cioè dalla Quaresima, periodo di ascesi e di esercizi spirituali in preparazione al-

la festa di Pasqua, in occasione della quale l’omelia è stata pronunciata.


29 L’omileta, prima di celebrare l’eucaristia in occasione della festa pasquale, invita

il suo uditorio a immaginare di dover partecipare all’ultima cena con Cristo e i suoi di-
scepoli.

289
Capitolo VIII

7. Su, rechiamoci insieme alla famosissima Sion e contemplia-


mo, con la mente rivolta a quella città alta, come colui che tie-
ne nella sua mano tutti i confini della terra si preparava alla mi-
stica cena, come colui che siede sui cherubini (Dn 3,55) stava se-
duto a mensa, come colui che in figura era stato mangiato in
Egitto (cf. Es 12,11)30 là sacrificò volontariamente se stesso e,
dopo aver mangiato la figura, lui che portava a compimento tut-
to ciò che era figura, svelò la verità offrendo subito se stesso qua-
le cibo di vita, e come, facendo coincidere il compimento delle
sue profezie con l’inizio dei [misteri] da lui istituiti con grande
sapienza, offrì i doni divini della sua bontà estendendoli per
sempre all’intero genere umano in forma comune.
Ma ecco la narrazione di questi eventi contenuta nei divini
evangeli: Mentre essi mangiavano, sta scritto, Gesù prese il pane,
lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete, mangiate:
questo è il mio corpo. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo
diede loro dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue del-
la nuova alleanza, versato per molti in remissione dei peccati (Mt
26,26-28). Oh che spettacolo mirabile! Oh che sacro rito! Oh
che divina celebrazione dei misteri! Guidò con la lettera e por-
tò a compimento con lo Spirito (cf. Rm 2,29; 7,6), istruì con le
figure e donò la grazia con le opere, in Sion adempì la legge del-
la lettera e in Sion proclamò la legge della grazia!
Teofilo di Alessandria, Omelia sulla mistica cena, PG 77,1024A-B

8. La terza cena31 è quella “mistica”, riguardo alla quale [il


Signore] dice in Luca: Ho desiderato ardentemente mangiare con
voi questa Pasqua (Lc 22,15). Prima di subire la passione, dun-
que, mangiò la Pasqua, evidentemente in modo mistico32, per-

30 L’agnello pasquale mangiato in Egitto dai figli di Israele anche qui è figura (tØ-

pos) di Cristo.
31 L’autore, combinando i dati dei quattro evangelisti, elenca tre cene consumate

dal Signore a Gerusalemme insieme ai suoi discepoli prima della sua passione.
32 Cioè sacramentale.

290
“Questo è il mio corpo …”

ché senza la passione non potrebbe essere chiamata Pasqua33. In


modo mistico, dunque, immolò se stesso quando, dopo aver ce-
nato, prese tra le proprie mani il pane, rese grazie, lo presentò,
lo spezzò, mescolando se stesso alla raffigurazione [sacramenta-
le]34. Allo stesso modo anche per il calice del frutto della vite, do-
po averlo temperato con dell’acqua, rese grazie e lo presentò a
Dio Padre. E disse: Prendete, mangiate, e: Prendete, bevete. Que-
sto è il mio corpo, e: Questo è il mio sangue (cf. Mt 26,26-28).
Ciascuno dunque riceve tutto intero il santo corpo e il prezio-
so sangue del Signore, anche se ne riceve solo una parte: viene
infatti diviso tra tutti, ma in modo indivisibile, in virtù del fat-
to che egli si è mescolato [al pane e al vino].
Eutichio di Costantinopoli, Sulla Pasqua e la santa eucaristia 2

Le parole di Cristo sono vere e degne di fede

9. Noi [cristiani] non prendiamo questi [cibi]35 come se fos-


sero pane comune o comune bevanda; ma al modo in cui Gesù
Cristo nostro Salvatore, fattosi carne per mezzo della parola di
Dio, ha assunto carne e sangue per la nostra salvezza, così an-
che quel cibo, divenuto eucaristia per mezzo della preghiera for-
mata dalla parola che viene da lui36 – cibo dal quale il nostro

33 Cf. supra, p. 285, n. 16.


34 In greco: antítypon (cf. infra, p. 296, n. 45). Qui il termine indica il pane prima
della consacrazione.
35 Quelli dell’eucaristia (cf. infra, c. XII,1).
36 Lett.: “eucaristizzato per mezzo della preghiera della parola che è da lui” (di’ eu-

chês lógou toû par’autoû eucharistetheîsan). Il senso di questa espressione oscura e sin-
tetica è assai discusso: secondo l’interpretazione qui adottata, l’autore sembra allude-
re a una preghiera eucaristica che include le parole dell’istituzione, citate poco oltre, la
cui efficacia non è però disgiunta dal contesto della preghiera in cui sono inserite (cf.
ad esempio J. A. Jungmann, in Prex eucaristica. Textus e variis liturgiis antiquoribus se-
lecti, a cura di A. Hänggi e I. Pahl, Éd. universitaires, Fribourg 19983, p. 69; J.-J. von

291
Capitolo VIII

sangue e le nostre carni sono nutrite mediante una trasformazio-


ne37 –, abbiamo imparato che è carne e sangue di quello stesso
Gesù che si è incarnato. Gli apostoli infatti nelle memorie da
loro composte, che sono chiamate “evangeli”, ci hanno traman-
dato che così fu loro comandato: che Gesù, dopo aver preso del
pane e aver reso grazie su di esso, disse: Fate questo in memoria
di me (Lc 22,19), Questo è il mio corpo (Mt 26,26); e allo stesso
modo, preso il calice, rese grazie e disse: Questo è il mio sangue
(Mt 26,28), e ne distribuì a loro soli …
È appunto questo che i demoni malvagi hanno imitato, tra-
smettendone la prassi nei misteri di Mitra38: in quelle celebrazio-
ni di iniziazione, infatti, come sapete bene o come potete appren-
dere, vengono presentati del pane e un calice d’acqua con alcu-
ne formule. Quanto a noi, dopo questi fatti, ne facciamo sempre
memoria tra di noi; e quelli che tra noi hanno [proprietà] soc-
corrono i bisognosi e restiamo sempre uniti gli uni agli altri.
Giustino, Apologia prima 66,2-3; 67,1

10. Se davvero la carne non viene salvata39, allora certamen-


te neanche il Signore ci ha redenti con il suo sangue (cf. Col

Allmen, Saggio sulla cena del Signore, p. 63, n. 16; R. F. Taft, A partire dalla liturgia, p.
342; Ch. Munier, Justin Martyr, Apologie pour les chrétiens. Introduction, traduction et
commentaire, Cerf, Paris 2006, p. 285). Altri interpreti, ritenendo che all’epoca del-
l’autore le parole dell’istituzione non fossero ancora entrate nell’anafora, interpretano
il lógos come la Parola stessa di Dio (il Verbo, il Logos), invocata con la preghiera per-
ché trasformi le specie (cf. ad esempio J. Quasten, Monumenta eucharistica et liturgica
vetustissima, Hanstein, Bonn 1935, vol. I, p. 18, n. 1; A. Verheul, “La valeur consé-
cratoire de la prière eucharistique”, in Questions liturgiques 62/2-3 [1981], p. 136 e più
di recente M. Heintz, “Δι’ εχς λγου το παρ’ ατο [ Justin, Apology 1.66.2]: Cu-
ming and Gelston Revisited”, in Studia liturgica 33/1 [2003], pp. 33-36), un’idea che si
ritrova anche in altri autori antichi (cf. infra, c. IX,1-2; 4). Quest’ultima interpretazio-
ne, sebbene forse preferibile dal punto di vista storico-teologico, ci sembra più diffici-
le dal punto di vista filologico-grammaticale. Per una sintesi delle varie possibili inter-
pretazioni di questo passo rimandiamo a J. H. McKenna, The Eucharistic Epiclesis, pp.
43-46, che evita di esprimersi chiaramente in favore di una di esse.
37 Si tratta della trasformazione cui vengono sottoposti i corpi dei fedeli nell’atto

stesso di nutrirsi dell’eucaristia.


38 Culti misterici molto diffusi in epoca ellenistica.
39 Come sostenevano gli gnostici, che negavano la resurrezione dei corpi.

292
“Questo è il mio corpo …”

1,14), né il calice dell’eucaristia è comunione con il suo sangue,


né il pane che spezziamo comunione con il suo corpo (cf. 1Cor
10,16). Il sangue infatti non proviene se non dalle vene, dalle
carni e dal resto della sostanza umana, e appunto perché è di-
ventato veramente tutto questo il Verbo di Dio ci ha redenti
con il suo sangue, come dice anche il suo Apostolo: In lui ab-
biamo la redenzione attraverso il suo sangue, la remissione dei pec-
cati (Col 1,14). E poiché siamo sue membra e siamo nutriti at-
traverso la creazione – egli stesso ci procura la creazione, facen-
do sorgere il suo sole e facendo piovere come vuole (cf. Mt 5,45)
– ha dichiarato che quel calice che proviene dalla creazione è il
suo sangue, con il quale fortifica il nostro sangue, e ha assicu-
rato che quel pane che proviene dalla creazione è il suo corpo,
con il quale fortifica i nostri corpi (cf. Mt 26,26-28).
Ireneo di Lione, Contro le eresie V,2,2

11. [La parola di Dio] insegnò agli antichi come si doveva ce-
lebrare il rito della propiziazione per gli uomini che si faceva a
Dio (cf. Lv 16,13-14). Ma tu che sei venuto al Cristo, vero Som-
mo sacerdote, che con il suo sangue ti ha reso propizio Dio e ti
ha riconciliato con il Padre (cf. Rm 5,10), non fermarti al san-
gue della carne, ma impara piuttosto a conoscere il sangue del
Verbo e ascoltalo mentre ti dice: Questo è il mio sangue che sa-
rà sparso per voi in remissione dei peccati (Mt 26,28). Colui che è
stato iniziato ai misteri conosce la carne e il sangue del Verbo
di Dio! Non fermiamoci dunque a quelle cose che sono già no-
te agli iniziati e che non possono essere rivelate agli ignoranti40.
Origene, Omelie sul Levitico 9,10

40 Nella chiesa antica il mistero dell’eucaristia era circondato dalla cosiddetta “di-

sciplina dell’arcano”: poteva essere rivelato solo ai battezzati. L’autore, che non nega
qui la “presenza” di Cristo nell’eucaristia (cf. Origene, Commento a Matteo 11,14), ri-
tiene però che tale presenza, da accogliere nella fede, vada ben al di là della semplice
presenza materiale del suo corpo e del suo sangue intesi in senso puramente fisico. Le
parole di Cristo, per chi è in grado di intenderle in senso profondo, indicano soprat-

293
Capitolo VIII

12. [Dice l’Apostolo:] Io ho ricevuto dal Signore quello che a


mia volta vi ho trasmesso (1Cor 11,23). Anche questo insegna-
mento del beato Apostolo è sufficiente per darvi piena certez-
za dei misteri divini dei quali siete stati giudicati degni, dive-
nendo così partecipi del corpo e del sangue di Cristo. Lo stes-
so Apostolo, infatti, poco prima proclamava: Nella notte in cui
fu tradito, il Signore nostro Gesù Cristo, dopo aver preso il pane e
reso grazie, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prende-
te, mangiate, questo è il mio corpo. Poi, preso il calice, rese gra-
zie e disse: Prendete, bevete, questo è il mio sangue (cf. 1Cor
11,23-25). Poiché dunque egli stesso ha dichiarato e detto: Que-
sto è il mio corpo (Mt 26,26), chi ormai oserà dubitarne? E poi-
ché lui stesso ha affermato con certezza e detto: Questo è il mio
sangue (Mt 26,28), chi mai resterà nel dubbio dicendo che non
è il suo sangue?
Una volta, per suo volere, egli cambiò l’acqua in vino a Ca-
na di Galilea (cf. Gv 2,1-11), e non è degno di fede quando ha
cambiato il vino in sangue? Invitato a delle nozze corporee, rea-
lizzò questo miracolo straordinario, e ora che ha concesso agli
invitati alle nozze (cf. Mt 9,15) di fruire del suo corpo e del
suo sangue, non sarà ancor di più riconosciuto [come degno di

tutto una presenza della Parola di Dio, del Verbo, ovvero della sua vita divina comu-
nicata agli uomini (cf. Origene, Commento a Giovanni 32,310: “Coloro che sono più
semplici intendano pure il pane e il calice secondo l’accezione più comune, come rife-
riti cioè all’eucaristia, ma coloro che hanno appreso a ricercare un senso più profondo
li intendano in senso più divino riferiti alla promessa della parola di verità che nutre”;
Id., Serie di commenti a Matteo 85: “Il pane che il Dio Verbo riconosce essere il suo
corpo è la parola che nutre le anime, parola che procede dal Dio Verbo e pane che pro-
cede dal pane celeste … Il Dio Verbo non diceva suo corpo quel pane visibile che te-
neva nelle mani, bensì la parola nel cui mistero quel pane sarebbe stato spezzato. Né
diceva suo sangue quella bevanda visibile, bensì la parola nel cui mistero quella bevan-
da sarebbe stata versata. Infatti che cos’altro può essere il corpo del Dio Verbo o il suo
sangue, se non la parola che nutre e la parola che fa gioire il cuore?”). La concezione
origeniana dell’eucaristia è complessa e ha suscitato numerosi studi; per una sintesi
sull’argomento rimandiamo a L. De Lorenzi, “L’eucaristia in Origene”, in Parola, Spi-
rito e Vita 7 (1983), pp. 189-204; P. A. Gramaglia, s. v. “Eucaristia”, in Origene. Di-
zionario: la cultura, il pensiero, le opere, a cura di A. Monaci Castagno, Città Nuova,
Roma 2000, pp. 150-154.

294
“Questo è il mio corpo …”

fede]? … Non fissare dunque la tua attenzione sul pane e sul


vino nel loro semplice aspetto materiale: sono infatti corpo e
sangue, secondo la dichiarazione del Signore! Anche se i tuoi
sensi ti suggeriscono ciò, la tua fede però ti rassicuri. Non giu-
dicare la cosa dal gusto, ma dalla fede abbi una piena e indubi-
tabile certezza, poiché sei stato giudicato degno del corpo e del
sangue di Cristo41.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 4,1-2.6

13. Obbediamo a Dio in ogni occasione e non contraddicia-


molo in nulla, anche se ciò che dice sembra contrario ai nostri
pensieri e a ciò che vediamo con i nostri occhi; ma la sua Paro-
la sia più autorevole dei nostri pensieri42 e della nostra vista!
Così dobbiamo fare anche nei misteri, non guardando soltanto
a ciò che ci sta davanti43, ma aderendo alle Parole del Signore.
La sua Parola infatti è infallibile, mentre i nostri sensi si ingan-
nano facilmente: essa non ha mai fallito, mentre questi vacilla-
no assai spesso. Poiché dunque la sua Parola dice: Questo è il mio
corpo (Mt 26,26), obbediamo, crediamo e guardiamo ad esso con
occhi spirituali44! Cristo non ci ha consegnato nulla di sensibi-
le, ma anche in realtà che sono sensibili tutto è spirituale. Co-
sì nel battesimo, attraverso la realtà sensibile avviene il dono
dell’acqua, ma ciò che si realizza, la nascita e il rinnovamento,
è spirituale. Se tu fossi incorporeo, ti avrebbe consegnato i do-
ni incorporei senza alcun rivestimento materiale, ma poiché la
tua anima è legata al corpo, egli ti consegna i beni spirituali in
realtà sensibili. Quanti sono coloro che ora dicono: “Vorrei ve-

41 Cf. anche infra, c. XIII,17; 27.


42 Il termine “pensieri” (loghismoí ), che abitualmente nella letteratura monastico-
patristica indica i “pensieri cattivi”, designa qui una conoscenza razionale puramente
terrena (“carnale”, per usare la categoria paolina), dei “ragionamenti” incapaci di ele-
varsi alle realtà spirituali e di fede (cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 99,
105-106).
43 Cioè alle specie eucaristiche poste sull’altare.
44 Lett.: “intellegibili”, “della mente” (noetoîs).

295
Capitolo VIII

dere il suo aspetto, la sua figura, le sue vesti, i suoi calzari”! Ec-
co, lo vedi, lo tocchi, lo mangi. Tu desideri vedere le sue vesti,
e lui ti dà se stesso, non solo da vedere, ma anche da toccare, da
mangiare e da ricevere interiormente!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,4

14. È giusto che [il Signore] consegnando il pane non abbia


detto: “Questa è la figura45 del mio corpo”, ma: Questo è il mio
corpo (Mt 26,26), e ugualmente del calice non: “Questa è la fi-
gura del mio sangue”, ma: Questo è il mio sangue (Mt 26,28),
perché ha voluto che non guardassimo più questi [elementi],
dopo che hanno ricevuto la grazia e la venuta dello Spirito san-
to, nella loro natura [di elementi comuni], ma che li prendessi-
mo come il corpo e il sangue del nostro Signore46. Anche il cor-

45 I termini che traduciamo con “figura” (tØpos) e “raffigurazione” (antítypon, che

potrebbe essere tradotto anche con “copia”, “replica”, “riproduzione”, o più letteral-
mente “controfigura”), usati dal Nuovo Testamento e dai padri in ambito esegetico e
poi assunti in ambito mistagogico, con significato distinto o come sinonimi, in origine
non implicavano affatto, alla pari del termine “segno” o “simbolo” (sØmbolon), la ne-
gazione della presenza reale del sangue e del corpo di Cristo nel pane e nel vino euca-
ristici (cf. ad esempio infra, § 35 e c. XIII,17 e la prima attestazione “liturgica” di an-
títypon in Tradizione apostolica 21; 38), ma ne sottolineavano la realtà eminentemente
sacramentale, che esigeva dunque il superamento del livello puramente sensibile; furo-
no però ben presto (iv-v secolo) visti con sospetto e considerati termini ambigui, a sup-
porto di una concezione puramente “simbolica” dell’eucaristia: condanne analoghe a
quelle del brano citato si trovano in Teodoro di Eraclea, Macario di Magnesia, Cirillo
di Alessandria, Scenute di Atripe e più tardi in Anastasio il Sinaita, Giovanni di Da-
masco e Nicola Cabasilas (cf. infra, §§ 15; 17; c. IX,25). L’autore stesso del brano ci-
tato, in altri passi, usa il termine “figura” (tØpos) in senso sacramentale (cf. ad esempio
infra, cc. VIII,35; XIV,27). Sull’uso di questi termini nel quadro della teologia eucari-
stica dei padri rimandiamo alla sintesi di V. Raffa, Liturgia eucaristica, pp. 1113-1134,
e sulla polemica relativa ad essi a M.-O. Boulnois, “L’eucharistie, figure ou réalité?
Une controverse théologique d’Origène à la querelle iconoclaste”, in Pratiques de l’eu-
charistie I, pp. 273-289. Sul significato tecnico di antítypon in ambito mistagogico, cf.
L. F. Pizzolato, “L’antitipo: un concetto tra esegesi e mistagogia”, in Annali di storia
dell’esegesi 17/1 (2000), pp. 193-202.
46 Il passo ha un parallelo molto simile in Teodoro di Mopsuestia, Commenti a Mat-

teo (catene), fr. 106: “Giustamente non ha detto questo è il segno (sØmbolon) del mio
corpo e questo lo è del mio sangue, ma questo è il mio corpo e il mio sangue, insegnan-
doci a guardare non alla natura delle offerte presentate, ma a credere che in virtù del-
l’azione di grazie compiuta su di loro esse siano proprio le realtà di cui adempiono il
segno (sØmbolon)”.

296
“Questo è il mio corpo …”

po47 del nostro Signore, infatti, non ottenne l’immortalità e il


[potere] di trasmetterla in virtù della propria natura, ma grazie
al dono dello Spirito santo, e fu per la resurrezione dai morti
che ricevette l’unione con la natura divina, divenne immortale e
principio di immortalità per gli altri.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,10

15. [Il Signore] disse in forma dimostrativa48: Questo è il mio


corpo, e: Questo è il mio sangue (Mt 26,26.28), affinché tu non
pensassi che ciò che appare sia solo una figura, ma che per mez-
zo di una [azione] ineffabile di Dio che può tutto le offerte so-
no veramente trasformate nel corpo e nel sangue di Cristo; e
noi, partecipando a essi, riceviamo la potenza vivificante e san-
tificatrice di Cristo. Bisognava infatti che egli, per mezzo del-
lo Spirito santo in noi, si mescolasse in qualche modo ai nostri
corpi con la sua santa carne e il suo prezioso sangue; ed è ciò che
appunto abbiamo ricevuto come benedizione vivificante sotto
le specie del pane e del vino, affinché non fossimo atterriti ve-
dendo carne e sangue offerti sulle sante mense delle chiese49. Ac-
condiscendendo infatti alle nostre infermità, Dio infonde nelle
offerte una potenza di vita e comunica loro l’efficacia della sua
stessa vita; e non dubitare che ciò sia vero, perché egli stesso ha
detto chiaramente: Questo è il mio corpo, e: Questo è il mio san-
gue. Accogli piuttosto con fede la parola del Salvatore. Essendo
la verità (cf. Gv 14,6), egli non mente.
Cirillo di Alessandria, Commento a Matteo (catene), fr. 289

47 Cioè il corpo umano naturale.


48 Cioè per spiegare e indicare una realtà già presente: per l’autore le parole dell’i-
stituzione certificano ciò che Gesù ha già realizzato nella preghiera di azione di grazie
rivolta al Padre.
49 Lo stesso argomento si trova utilizzato in Detti dei padri, Serie alfabetica, Danie-

le 7, dove è narrato un miracolo eucaristico che convince del suo errore un monaco che
per ignoranza affermava che il pane eucaristico era solo una rappresentazione simboli-
ca (antítypon) del corpo di Cristo; e il racconto si conclude con la sentenza degli anzia-
ni monaci: “Dio sapeva che la natura umana non può mangiare carne cruda, per que-

297
Capitolo VIII

16. Ortodosso. Sai che Dio ha chiamato il proprio corpo pa-


ne (cf. Mt 26,26)?
Mendicante50. Lo so.
Ortodosso. E che in un altro passo ha chiamato grano la sua
carne (cf. Gv 12,24)?
Mendicante. So anche questo. L’ho udito dire infatti: È giun-
ta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo (Gv 12,23), e: Se il
chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece
muore, porta molto frutto (Gv 12,24).
Ortodosso. E nell’istituzione dei misteri, appunto, ha chia-
mato “corpo” il pane e “sangue” il vino mescolato all’acqua (cf.
Mt 26,26-28).
Mendicante. Sì, li ha chiamati così.
Ortodosso. Secondo natura però, il corpo dovrebbe essere
chiamato corpo e il sangue sangue.
Mendicante. È evidente.
Ortodosso. Il nostro Salvatore però ha scambiato i nomi, e
al corpo ha assegnato il nome del segno51, e al segno il nome del
corpo. Così ha chiamato se stesso “vite” (cf. Gv 15,1), ma ha
chiamato il segno “sangue”.
Mendicante. Hai detto bene. Vorrei però conoscere il mo-
tivo di questo scambio di nomi.
Ortodosso. Lo scopo è evidente per coloro che sono inizia-
ti ai divini misteri. Ha voluto infatti che coloro che partecipa-
no ai divini misteri non pongano l’attenzione sulla natura di ciò
che appare, ma, mediante lo scambio dei nomi, credano alla tra-
sformazione operata dalla grazia. Colui che infatti ha chiamato
“grano” e “pane” ciò che per natura era un corpo, e che di nuo-

sto ha trasformato il suo corpo in pane e il suo sangue in vino, per coloro che lo rice-
vono con fede” (cf. anche Detti dei padri, Serie sistematica 18,48).
50 Dietro questa finzione letteraria l’autore rappresenta un interlocutore che pro-

fessa dottrine di stampo monofisita e che l’ortodosso cerca di convertire alla sua dot-
trina di impianto antiocheno, con tendenza a distinguere tra natura umana e natura di-
vina di Cristo.
51 Cioè del segno sacramentale. Cf. supra, p. 296, n. 45.

298
“Questo è il mio corpo …”

vo ha attribuito a se stesso il nome di “vite”, ha onorato i se-


gni visibili con il nome di corpo e di sangue, senza modificarne
la natura, ma sovrapponendo la grazia alla natura52.
Mendicante. Le realtà mistiche sono state spiegate in mo-
do mistico53, e quelle non note a tutti sono state manifestate in
modo chiaro.
Teodoreto di Cirro, Il mendicante 1, pp. 78-79

17. Il pane e il vino non sono figura del corpo e sangue di Cri-
sto – non sia mai! –, ma sono lo stesso corpo divinizzato del
Signore, poiché proprio il Signore ha detto: Questo è il mio cor-
po (Mt 26,26), non “figura54 del corpo”, e neppure “figura del
sangue”, ma il sangue stesso; e prima di questo aveva detto ai
giudei: Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo, non avrete
la vita eterna. La mia carne infatti è vero cibo e il mio sangue vera
bevanda (Gv 6,53.55), e di nuovo: Chi mangia di me, vivrà (Gv
6,57) … Anche se alcuni hanno chiamato il pane e il vino “raf-
figurazioni”55 del corpo e del sangue del Signore, come Basilio
il Teoforo, non l’hanno detto dopo il momento della santifica-
zione, ma prima di esso, chiamando così l’offerta stessa56.
Giovanni di Damasco, La fede ortodossa 86, ll. 114-120; 163-166

52 È evidente l’impostazione “duofisita” di matrice antiochena dell’interlocutore

“ortodosso”: per lui la grazia opera sì una trasformazione della realtà naturale, ma non
la assorbe in sé, piuttosto si “sovrappone” a essa, come nel caso di Cristo, così anche
in quello dell’eucaristia; con “natura” però qui si intende essenzialmente la realtà visi-
bile e materiale e non tanto la “sostanza” del pane.
53 Cf. supra, p. 290, n. 32.
54 In greco: tØpos.
55 In greco: antítypa.
56 Cf. cf. infra, c. IX,γ. Per l’autore la santificazione delle offerte è completa soltan-

to al termine dell’epiclesi, mentre il testo dell’anafora di Basilio che egli interpreta non
sembra conoscere ancora una definizione così chiara del “momento della santificazio-
ne” (là il termine antítypa ha il significato di “segni sacramentali”, perché l’intera pre-
ghiera eucaristica veniva considerata consacratoria). Per l’interpretazione del brano ri-
mando a R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp. 303-306; J. H. McKenna, The Eucharistic
Epiclesis, pp. 67-68. Il termine antítypon (al pari di tØpos) è qui considerato inade-
guato a esprimere la realtà del mistero eucaristico, come nel contemporaneo Anastasio
il Sinaita, La guida XXIII,1,55-56: “[Cristo] non ha detto: “Questa è la raffigurazio-
ne (antítypon) del mio corpo e del mio sangue”.

299
Capitolo VIII

18. [Il sacerdote] poi57 consacra i preziosi doni, e così il sa-


crificio è interamente compiuto. In che modo? Narra di quella
cena tremenda e di come [il Cristo] prima della passione conse-
gnò ai suoi santi discepoli questo [mistero], prese il calice e il
pane, e dopo aver reso grazie li santificò e pronunciò quelle pa-
role con le quali intese esprimere il mistero58; e quando [il sa-
cerdote] ha ripetuto a voce alta le stesse parole, si prostra, pre-
ga e supplica che quelle divine parole del Salvatore, l’unigenito
Figlio di Dio, si applichino anche ai doni posti [sulla mensa] e
che essi accogliendo il suo Spirito santissimo e onnipotente ven-
gano trasformati, il pane nel suo stesso prezioso e santo corpo,
e il vino nel suo stesso immacolato e santo sangue59.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 27

L’efficacia della parola di Cristo

19. Come per noi – come già più volte si è detto60 – chi vede
il pane vede in un certo senso il corpo umano, perché il pane,

57 Dopo l’azione di grazie.


58 Le parole dell’istituzione.
59 Allusione all’epiclesi. Si noti come per l’autore le parole con cui Cristo ha istitui-
to l’eucaristia siano sì garanzia e fondamento del fatto che il pane e il vino santificati
sono veramente il corpo e il sangue di Cristo – e appunto per questo vengono ripetute
– ma non siano considerate sufficienti a realizzare da sole tale trasformazione, che av-
viene soltanto per opera dello Spirito.
60 L’autore si richiama a quanto ha già detto più volte nel corso del c. 37 di quest’o-

pera. Nel tentativo di giustificare la scelta del pane come materia dell’eucaristia, egli
parte da una semplice constatazione: ogni essere vivente assimila il cibo che mangia; il
suo cibo diventa materia perciò del suo corpo, e il suo corpo diventa in qualche modo
quel cibo. Ora, l’uomo si nutre fondamentalmente di pane, e dunque il pane può esse-
re visto come materia potenziale del corpo umano, e il corpo umano come pane tra-
sformato in carne. Per questo il pane offerto nell’eucaristia può fare le veci del corpo
umano, e di qui l’autore parte per istituire un parallelismo stretto tra l’incarnazione
della Parola di Dio nel corpo umano di Cristo e la trasformazione del pane dell’eucari-
stia nel corpo stesso di Cristo.

300
“Questo è il mio corpo …”

una volta entrato nel corpo, diventa corpo, così anche là61 il cor-
po che portava in sé Dio, nutrito di pane, in un certo senso era
identico al pane, perché, come si è detto, il nutrimento si tra-
sforma nella natura del corpo stesso. Si è ammesso infatti an-
che per quella carne ciò che è proprio di tutti [gli uomini], poi-
ché anche quel corpo si manteneva grazie al pane. Tale corpo,
però, per effetto dell’inabitazione della Parola che è Dio62 fu tra-
sformato ed elevato alla dignità divina. Giustamente dunque
anche ora crediamo che il pane santificato dalla parola di Dio
si trasformi nel corpo della Parola che è Dio.
Quel corpo, infatti, che era pane in potenza, fu santificato
per effetto dell’inabitazione della Parola che venne ad abitare
nella carne (cf. Gv 1,14). Perciò, come [allora] il pane, trasfor-
mato in quel corpo, fu elevato alla potenza divina, anche ades-
so avviene lo stesso. Là infatti la grazia della Parola rendeva
santo il corpo che traeva la propria sussistenza dal pane, e che
in un certo senso era pane esso stesso, e ugualmente qui il pane
viene santificato per mezzo della parola di Dio e della preghiera
(1Tm 4,5)63, come dice l’Apostolo: non arriva però a diventare
il corpo della Parola per mezzo dell’atto del mangiare, ma vie-
ne trasformato direttamente nel suo corpo per mezzo della pa-
rola, come è stato detto dalla Parola: Questo è il mio corpo (Mt
26,26) … Tutto ciò egli lo concede trasformando nel suo cor-

61 Nell’incarnazione di Cristo.
62 Traduco qui lógos con “parola”, sia che esso designi il Verbo (la “Parola che è
Dio”), sia che indichi la “parola di Dio” da cui viene santificato il pane dell’eucaristia.
Le ultime righe lasciano intendere che l’autore identifichi tale “parola di Dio” che san-
tifica il pane con le parole pronunciate da Gesù nell’istituzione; ma alla santificazione
del pane concorre anche la potenza della preghiera. Pur istituendo un paragone con
l’incarnazione, come Giustino (cf. supra, § 9), l’autore non fa cenno all’azione dello
Spirito santo: la stessa prospettiva si ritrova in alcuni testi alessandrini, che attribuisco-
no la santificazione delle specie eucaristiche al solo Verbo di Dio (cf. infra, c. IX,2; 4).
63 L’autore interpreta questo passo paolino in senso eucaristico, come in Origene,

Commento a Matteo 11,14 e Pseudo-Macario, Omelie (Coll. I) XII,12,10; XXVI,4.


L’intero brano, del resto, con il collegamento tra pane e lógos si ispira chiaramente al
pensiero del teologo alessandrino.

301
Capitolo VIII

po, per effetto della potenza della benedizione64, la natura di


ciò che è visibile.
Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico 37,9-10.12

20. È giunto ormai il momento di accostarci a questa mensa


tremenda. Accostiamoci dunque tutti con la dovuta circospezio-
ne e vigilanza: non vi sia più nessun Giuda [tra di noi], nessun
malvagio, nessuno che abbia in sé il veleno, nessuno che abbia
sulle labbra parole diverse da quelle che ha nell’animo! Cristo è
presente: lui che preparò quella mensa, adesso è lo stesso che
prepara anche questa. Non è un uomo infatti che fa diventare le
offerte corpo e sangue di Cristo, ma Cristo stesso, che fu croci-
fisso per noi. Il sacerdote è qui a svolgere una [semplice] funzio-
ne65, quando pronuncia quelle parole, ma la forza e la grazia so-
no di Dio. Questo è il mio corpo (Mt 26,26), dice. Queste parole
trasformano66 le offerte. E come quella voce che dice: Crescete
e moltiplicatevi e riempite la terra! (Gen 1,28), pur proferita una
sola volta, infonde concretamente nella nostra natura la forza
di procreare per tutto il tempo della storia, così anche questa vo-
ce, pronunciata una sola volta, realizza in modo perfetto il sacri-
ficio su ogni mensa, in tutte le chiese, da quel tempo fino a oggi
e fino alla sua venuta67.
Giovanni Crisostomo, Omelie sul tradimento di Giuda 1,6

64 Cioè la santificazione operata dalla parola di Dio unita alla preghiera.


65 In greco: schêma (lett.: “figura”, “apparenza”, “abito”), termine che può essere
impiegato per indicare il “ruolo” o la “parte” di un attore in una rappresentazione tea-
trale (cf. Platone, Repubblica 576A). Per un’espressione simile, cf. infra, c. IX,15.
66 Lo stesso verbo metarrhythmízein (lett.: “cambiare di struttura”, “rimodellare”) è

più volte usato dall’autore per indicare la potenza che Dio ha di ricreare e riplasmare
tutte le cose secondo la sua volontà (cf. ad esempio Giovanni Crisostomo, Omelie sul-
la Genesi 25,5; Id., Otto catechesi battesimali 4,14).
67 Celebre brano di Giovanni Crisostomo spesso utilizzato nelle controversie tra

greci e latini sul valore delle parole dell’istituzione e dell’epiclesi. Alle ultime sessioni
del concilio di Firenze (1439) e dopo l’unione i greci unionisti, guidati da Bessarione,
vi si richiamarono ripetutamente per dare fondamento patristico alla posizione latina
e renderla accettabile agli occhi dei greci (cf. Dichiarazione dei greci al concilio di Firen-
ze, ll. 19-23 e Bessarione Cardinale, Sul sacramento dell’eucaristia 10,1-6).

302
“Questo è il mio corpo …”

21. Voglio dirvi qualcosa di paradossale, ma non meraviglia-


tevi e non turbatevi. Di cosa si tratta? Intendo dire che l’offer-
ta68 è sempre la stessa, chiunque la offra, sia egli Paolo o Pietro:
è la stessa che Cristo diede ai discepoli, e che adesso sono i sa-
cerdoti a compiere. Questa non è inferiore a quella, poiché an-
che questa non sono gli uomini a santificarla, ma lo stesso [Cri-
sto], che ha santificato anche quella. Come infatti le parole che
Dio ha pronunciato sono le stesse che anche ora dice il sacerdo-
te, così l’offerta è la stessa, e così il battesimo che egli ha dona-
to. Tutto è frutto della fede … E dunque sia questo che quello
sono corpo [di Cristo]: chi invece ritiene che questo sia inferio-
re a quello, non sa che Cristo è presente anche ora, e anche ora
continua a operare.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera a Timoteo 2,4

22. Ciò che abbiamo davanti non è opera della potenza uma-
na. Colui che ha compiuto questi [misteri] in quella cena, li ope-
ra anche ora69. Noi adempiamo il ruolo di servitori, ma è lui che
santifica e trasforma i doni posti sulla mensa! Non vi sia dun-
que nessun Giuda, nessuna persona avida di denaro. Se qualcu-
no non è discepolo, si ritiri: questa mensa non accoglie persone
simili!
Egli infatti dice: Voglio fare la Pasqua insieme ai miei discepo-
li (Mt 26,18). Questa è quella mensa e non ha niente di meno!
Non è Cristo a realizzare quella e un uomo questa, ma egli stes-
so realizza anche questa. Questa è quella sala al piano superio-
re (cf. Mc 14,15), dove allora si trovavano: di là uscirono verso
il Monte degli ulivi. Andiamo anche noi verso le mani dei pove-
ri, perché è questo luogo il Monte degli ulivi!
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,5

68 Cioè il sacrificio eucaristico.


69 In virtù delle parole dell’istituzione pronunciate dal sacerdote, come si evince da-
gli altri passi.

303
Capitolo VIII

23. La santificazione del mistico sacrificio e il suo trasferi-


mento ovvero mutamento dalla condizione di cose sensibili a
quella di cose spirituali70 devono essere attribuiti a colui che è
il vero sacerdote, cioè Cristo. Ciò significa che il miracolo di que-
ste cose va riconosciuto a lui e a lui bisogna ascriverlo, poiché
è in virtù della sua potenza e della parola pronunciata da lui71
che le cose che si vedono vengono santificate, e allo stesso tem-
po superano ogni capacità di conoscenza sensibile.
Esichio di Gerusalemme, Commento al Levitico 6,22
(PG 93, 1071D-1072A)

24. E la mia lingua mediterà la tua giustizia, tutto il giorno la tua


lode (Sal 34,28): lingua di Cristo sono i sacerdoti. Perciò nel mo-
mento dei misteri essi pronunciano le parole dell’eucaristia a no-
me di Cristo72. Costoro proclamano assiduamente la giustizia e
la lode del Padre, narrando come egli salvò il genere umano, in-
segnando come è lodato dalla creazione invisibile73. Per giusti-
zia del Padre intenderai il Figlio; e per lode, lo Spirito. Nessuno
infatti può lodarlo senza lo Spirito. E ogni giorno i sacerdoti non
cessano di glorificare il Cristo e lo Spirito insieme al Padre.
Esichio di Gerusalemme, Scolio al salmo 34,28

25. Quando stava per ricevere per noi la morte volontaria,


nella notte in cui fu tradito, [il Signore Gesù Cristo] stabilì per
i suoi santi discepoli e apostoli e, attraverso di loro per tutti co-
loro che credono in lui, una nuova alleanza. Nell’abitazione al

70 Lett.: “intellegibili”.
71 Allusione alle parole dell’istituzione.
72 Allusione alle parole dell’istituzione. La formula ek prosópou toû Christoû, che
corrisponde al latino ex/in persona Christi è raramente utilizzata dai padri greci in rife-
rimento alle parole dell’eucaristia; essa è attestata più spesso nei commenti biblici ai
profeti e ai salmi per attribuire a Cristo le parole profetiche pronunciate dall’autore
ispirato. Per altri esempi cf. C. Giraudo, “‘In persona Christi’, ‘In persona Ecclesiae’.
Formule eucaristiche alla luce della ‘lex orandi’”, in Rassegna di teologia 51/2 (2010),
pp. 181-195.
73 Allusione all’inizio della preghiera eucaristica e al Sanctus.

304
“Questo è il mio corpo …”

piano superiore della santa e gloriosa Sion, dopo aver mangiato


l’antica Pasqua insieme ai suoi discepoli e aver adempiuto l’an-
tica alleanza, lavò i piedi dei suoi discepoli (cf. Gv 13,1-11). Poi,
spezzato il pane, lo diede loro dicendo: Prendete, mangiate, que-
sto è il mio corpo (Mt 26,26) spezzato per voi in remissione dei
peccati. In modo simile, preso un calice di vino e acqua, lo di-
stribuì loro dicendo: Bevetene tutti: questo è il sangue della nuo-
va alleanza versato per voi in remissione dei peccati (Mt 26,28;
Lc 22,20). Fate questo in memoria di me. Ogni volta che mangiate
questo pane e bevete questo calice, annunciate la morte del Figlio
dell’uomo e confessate la sua resurrezione, finché egli venga
(cf. 1Cor 11,25-26)74.
Se dunque la parola di Dio è viva ed efficace (Eb 4,12) e tutto
ciò che vuole il Signore lo compie (Sal 134,6); se egli disse: “Sia la
luce”, e così avvenne (Gen 1,3), “Sia il firmamento” (Gen 1,6), e
così avvenne; se dalla parola del Signore furono fissati i cieli e dal
soffio della sua bocca ogni loro potenza (Sal 32,6); se il cielo, la
terra, l’acqua, il fuoco, l’aria e tutto il mondo da essi formato
sono stati portati a compimento dalla parola del Signore, e quin-
di anche questo tanto celebrato essere vivente che è l’uomo; se
la Parola stessa di Dio, per sua volontà, si fece uomo e senza se-
me si formò una carne dal sangue puro e immacolato della san-
ta Vergine, non può forse fare del pane il suo corpo e del vino
e dell’acqua il suo sangue? In principio disse: La terra produca
germogli di erba (Gen 1,11), e fino a ora quando viene la piog-
gia essa produce i suoi germogli, avendone ricevuto l’impulso e
il potere dal comando divino. Dio disse: Questo è il mio corpo
(Mt 26,26) e: Questo è il mio sangue (Mt 26,28) e: Fate questo (Lc
22,19; 1Cor 11,24) e, in forza del suo comando onnipotente, co-

74 L’autore dipende dal testo della Liturgia di san Giacomo (cf. supra, p. 284, n. 15),

che, come la Liturgia di Basilio, non solo attribuisce a Gesù anche le parole che in realtà
fanno parte della parenesi dell’Apostolo (“Ogni volta …”), ma aggiunge anche il rife-
rimento alla confessione della resurrezione di Cristo, oltre all’annuncio della sua morte.

305
Capitolo VIII

sì avviene, finché egli venga (1Cor 11,26). Proprio così infatti


disse: Finché egli venga75.
Giovanni di Damasco, La fede ortodossa 86, ll. 45-74

26. [Disse l’anziano Barlaam al discepolo Joasaf:]76 “Accetta


anche la partecipazione agli immacolati misteri di Cristo, cre-
dendo in verità che essi sono il corpo e il sangue di Cristo, no-
stro Dio, che egli diede ai fedeli in remissione dei peccati. Nel-
la notte in cui fu tradito egli stabilì una nuova alleanza per i suoi
santi discepoli e apostoli, e attraverso di loro per tutti coloro che
credono in lui, dicendo: Prendete, mangiate, questo è il mio cor-
po (Mt 26,26) spezzato per voi in remissione dei peccati. In mo-
do simile, preso il calice, lo diede loro dicendo: Bevetene tutti:
questo è il sangue della nuova alleanza versato per voi in remissio-
ne dei peccati (Mt 26,28; Lc 22,20). Fate questo in memoria di me
(1Cor 11,25).
La Parola stessa di Dio, dunque, vivente ed efficace (Eb 4,12)
che fa tutto con la sua potenza, attraverso l’energia divina ren-
de e trasforma il pane e il vino dell’offerta nel suo corpo e nel
suo sangue, grazie alla discesa dello Spirito santo, per la santi-
ficazione e l’illuminazione di coloro che vi partecipano con de-
siderio”77.
Vita di Barlaam e Joasaf 19

27. Alcuni latini se la prendono con i nostri riguardo a que-


sto punto. Affermano infatti che dopo la parola del Signore:

75 Come si può vedere dal seguito del testo, riportato nel capitolo seguente (cf. in-

fra, c. IX,21), l’autore non separa l’efficacia delle parole di Cristo dall’azione dello
Spirito invocato nell’epiclesi. Il ragionamento si ispira manifestamente a Giovanni
Crisostomo (cf. supra, § 20).
76 Il contesto è chiaramente mistagogico: si descrive l’iniziazione del giovane Joa-

saf, che si è da poco convertito alla fede cristiana e ha ricevuto il battesimo da parte
dell’anziano monaco Barlaam.
77 Il testo si ispira chiaramente a quello precedente di Giovanni di Damasco, al qua-

le per altro per secoli è stato attribuito. Anche qui l’efficacia delle parole del Signore è
legata all’azione dello Spirito santo.

306
“Questo è il mio corpo …”

Prendete, mangiate (Mt 26,26), con ciò che segue, non c’è più bi-
sogno di nessuna preghiera per santificare i doni, poiché l’effet-
to è compiuto dalla parola del Signore. Perciò – dicono – colo-
ro che dopo aver ripetuto queste parole chiamano ancora [i do-
ni] pane e vino e pregano per la loro santificazione come se non
fossero già santificati, oltre ad essere malati di incredulità fanno
qualcosa di inutile e di superfluo. E che sia questa parola a con-
sacrare i doni – dicono – lo attesta il beato Crisostomo dicendo
che, come la parola creatrice: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28)
è stata detta una volta per tutte da Dio, ma opera sempre, così
anche questa parola, detta una volta dal Salvatore, opera con-
tinuamente78 … Non è difficile demolire tutte queste argomen-
tazioni. E [cominciamo] prima di tutto dalle parole del divino
Giovanni [Crisostomo] su cui essi si basano. Esaminiamo infatti
se anche questa parola [del Signore] ha la stessa potenza della
parola creatrice.
Dio ha detto: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). E allora?
Forse che dopo quella parola non abbiamo più bisogno di nien-
te a tale scopo e non ci è necessario più nulla per il nostro accre-
scimento? Non c’è forse bisogno del matrimonio, dell’unione co-
niugale e di tutte le altre cure, e senza tutto ciò non è possibi-
le che il genere umano sussista e si propaghi? Come dunque là,

78 Anche qui il riferimento è chiaramente al passo di Giovanni Crisostomo citato

sopra (cf. supra, § 20). Per l’autore le parole di Cristo sono sempre efficaci perché, pro-
nunciate in modo efficace e veritiero una volte per tutte dal Signore, sono manifesta-
te tali in ogni eucaristia in virtù dell’azione dello Spirito santo, non semplicemente
perché vengono ripetute dal ministro in persona Christi: concretamente la loro efficacia
consacratoria viene subordinata all’epiclesi (cf. supra, § 18; infra, c. IX,25-26). L’inter-
pretazione data da Nicola Cabasilas del passo crisostomico sarà ripresa dagli antiunio-
nisti al concilio di Firenze (cf. Marco di Efeso, Libello sulla consacrazione eucaristica 5-
7). Sull’intera controversia eucaristica presupposta da questi testi, cf. R. Bornert, Les
commentaires byzantins, pp. 233-237; S. Salaville, “Notes complémentaires”, in Nico-
las Cabasilas, Explication de la divine liturgie, SC 4bis, Cerf, Paris 1967, pp. 312-324;
Y. M.-J. Congar, Credo nello Spirito santo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 669-689; M.-
H. Congourdeau, “L’eucaristia a Bisanzio dall’xi al xv secolo”, in Eucharistia, pp.
166-168; C. Giraudo, In unum corpus, pp. 545-547; J. H. McKenna, The Eucharistic
Epiclesis, pp. 70 ss.

307
Capitolo VIII

per la procreazione dei figli, riteniamo necessario il matrimonio


e, dopo il matrimonio, preghiamo ancora per questa intenzione
senza aver l’aria di disprezzare la parola creatrice, sapendo che
essa è sì la causa della generazione, ma precisamente per mezzo
del matrimonio, del cibo e delle altre cose, così anche qui credia-
mo che è la parola stessa del Signore a realizzare il mistero, ma
che ciò avviene attraverso la mediazione del sacerdote, per mez-
zo della sua intercessione e preghiera. Questa parola infatti non
agisce sempre e comunque, ma sono richieste molte condizioni,
senza le quali non produce i suoi effetti …
Del resto, che la parola detta dal Signore riguardo ai misteri,
e pronunciata in forma narrativa [dal sacerdote], sia sufficiente
a santificare i doni, è chiaro che nessuno degli apostoli e dei dot-
tori lo ha mai affermato. Che però, una volta detta dal Signore,
essa agisca sempre proprio per il fatto di essere stata detta da lui,
lo afferma anche il beato Giovanni [Crisostomo]. Ma che essa,
mentre adesso viene pronunciata dal sacerdote, abbia questa ef-
ficacia per il fatto di essere pronunciata da lui, ciò non ci viene
insegnato da nessuna parte, poiché neppure la parola creatrice
agisce per il semplice fatto di essere ripetuta da un uomo, ma so-
lo perché è stata pronunciata una volta per tutte da Dio.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 29,1-4.22

Memoriale dell’economia salvifica fino alla venuta di Cristo

28. Vediamo ciò che sta scritto riguardo ai pani della propo-
sizione: Prenderete fior di farina e ne farete dodici pani, e ogni pa-
ne sarà di dodici decimi. Li disporrete su due pile, sei per pila, sul-
la mensa pura davanti al Signore. Poi metterete incenso puro e sale,
e saranno dei pani offerti al Signore come memoriale: ogni giorno di
sabato verranno disposti perennemente davanti al Signore dai figli

308
“Questo è il mio corpo …”

di Israele: è un’alleanza eterna (Lv 24,5-8) … In base alla lettera


del testo, risulta che attraverso i dodici pani viene fatto un me-
moriale davanti al Signore per le dodici tribù di Israele e si dà
un precetto perché questi dodici pani siano disposti ininterrot-
tamente al cospetto del Signore, perché egli si ricordi sempre
delle dodici tribù, come se attraverso di essi fosse elevata una
preghiera e una supplica per ciascuna delle tribù. Ma una tale
intercessione è assai debole e di poco valore … Riferendo però
queste parole alla profondità del mistero, scoprirai che questo
memoriale ha un immenso valore propiziatorio. Se ritorni [con
la mente] a quel pane che discende dal cielo e dà la vita al mondo
(Gv 6,33), a quel “pane della proposizione”, che Dio ha posto
innanzi come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo
sangue (Rm 3,25), e se consideri quel memoriale di cui parla il
Signore: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25),
scoprirai che questo memoriale è il solo che renda Dio propizio
agli uomini. Ricordando dunque in modo più attento i misteri
della chiesa, scoprirai nelle prescrizioni della Legge un’immagi-
ne anticipata della verità futura (cf. Eb 10,1).
Origene, Omelie sul Levitico 13,3

29. Mentre coloro che celebrano con lui la festa sono a men-
79
sa , Gesù incessantemente prende del pane dal Padre, rende gra-
zie, lo spezza e lo dà ai suoi discepoli, nella misura in cui ciascu-
no di loro è capace di riceverne; e lo dà dicendo: Prendete e man-
giate (Mt 26,26), e mostra così, mentre li nutre con questo pane,
che si tratta del suo stesso corpo, poiché è lui stesso il Verbo, di
cui abbiamo bisogno non solo ora, ma anche quando esso si sa-
rà realizzato nel regno di Dio. Adesso certo non è ancora piena-
mente realizzato80, ma allora lo sarà, quando anche noi saremo

79
L’autore sembra riferirsi alla celebrazione dell’eucaristia nel tempo della chiesa.
80Ciò che non è pienamente realizzato è la parola di Dio, che si identifica con il
Verbo.

309
Capitolo VIII

pronti ad accogliere la Pasqua in pienezza, Pasqua che è venu-


to a compiere colui che non è venuto per abolire la Legge, ma
per adempierla; adesso certo egli la compie come in uno specchio,
realizzandola in maniera confusa, ma allora la compirà faccia a
faccia (cf. 1Cor 13,12), quando verrà ciò che è perfetto (cf.
1Cor 13,10).
Origene, Serie di commenti a Matteo 86

30. Si può concordare assolutamente sul fatto che la chiesa è


nata dalle sue ossa e dalla sua carne (cf. Gen 2,23; Ef 5,30)81: è
appunto per lei che il Verbo, lasciato il Padre che è nei cieli, di-
scese quaggiù, per unirsi alla sua sposa, e si addormentò nell’e-
stasi della sua passione (cf. Gen 2,21)82 morendo volontariamen-
te per lei, per far comparire innanzi a sé la chiesa ripiena di gloria
(Ef 5,27) e immacolata, dopo averla purificata per mezzo del la-
vacro (Ef 5,26), perché potesse ricevere il seme intellegibile e
beato che egli stesso semina in lei, facendone risuonare l’eco e
facendolo crescere nel profondo della mente; e la chiesa, al pa-
ri di una donna, lo riceve e gli dà forma, per generare e nutrire
la virtù. Così infatti si adempiono in modo conveniente le paro-
le: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28), perché la chiesa cresce
ogni giorno in grandezza, bellezza e quantità grazie all’intima
unione e comunione con il Verbo che ancora oggi discende ver-
so di noi e “cade in estasi” durante il memoriale della sua passio-
ne (cf. 1Cor 11,24-26). La chiesa infatti non potrebbe altrimen-
ti portare in grembo i credenti e rigenerarli attraverso il lavacro

81 Cioè dalle ossa e dalla carne di Cristo. Una variante antica e ben attestata di Ef

2,30, qui chiaramente presupposta, recita: “Poiché siamo membra del suo corpo, [trat-
ti] dalla sua carne e dalle sue ossa”. L’autore legge l’intera economia di salvezza alla lu-
ce di un paragone tra Adamo e Cristo e tra Eva e la chiesa.
82 Il testo dei lxx recita letteralmente: “Dio fece cadere un’estasi su Adamo, ed

egli si addormentò”. Lo stesso collegamento tipologico tra l’estasi del sonno di Ada-
mo, dal cui fianco viene tratta Eva, e la passione di Cristo dal cui fianco sgorgano l’ac-
qua del battesimo e il sangue dell’eucaristia, che danno origine alla chiesa, si ritrova in
Giovanni Crisostomo, Otto catechesi battesimali 3,18.

310
“Questo è il mio corpo …”

di rigenerazione (Tt 3,5), se il Cristo, svuotando se stesso (cf. Fil


2,7) perché lo si possa ricevere durante la ricapitolazione della
sua passione, come ho detto, non morisse di nuovo scendendo
dai cieli83 e, unendosi alla sua sposa, la chiesa, non le permettes-
se di attingere dal suo costato (cf. Gv 19,34) una forza capace
di far crescere tutti coloro che sono stati edificati in lui e che
grazie a quel lavacro sono nati dalle sue ossa e dalla sua carne (cf.
Gen 2,23; Ef 5,30), cioè hanno ricevuto parte della sua santità
e della sua gloria.
Metodio di Olimpo, Simposio 3,8

31. [Il Figlio], essendo da sempre la Parola unica di Dio pre-


cedente al mondo e Sommo sacerdote di tutta la creazione in-
tellegibile e spirituale, scelse dal gregge degli uomini, quale peco-
ra e agnello, colui che era sottoposto alla nostra stessa condizio-
ne84, a lui ascrisse i peccati di tutti noi e addossò la maledizione
comminata dalla Legge di Mosè, dato che Mosè aveva detto:
Maledetto chiunque pende dal legno (Dt 21,23); e ciò egli soffrì
per noi, divenendo maledizione in nostro favore (Gal 3,13). An-
zi lo ha reso peccato per noi, poiché [sta scritto]: Colui che non
aveva conosciuto peccato, egli lo rese peccato per noi (2Cor 5,21),
assegnando a lui in nostro favore tutte le punizioni che pende-
vano sul nostro capo – catene, infamie, violenze, frustate e col-
pi terribili – e soprattutto il trofeo della maledizione85. Alla fi-
ne, lo immolò nel modo gradito al Padre, quale sacrificio mira-
bile e vittima eletta, e lo offrì per la salvezza di tutti noi, dopo
aver trasmesso anche a noi il compito di offrire incessantemen-
te a Dio un memoriale al posto del sacrificio … Ora dunque che

83 Attraverso questa espressione ardita l’autore non nega l’unicità della passione e

morte di Cristo, avvenuta una volta per tutte, ma vuole affermare il continuo rinnova-
mento dei suoi effetti a favore dei credenti attraverso il sacrificio eucaristico.
84 L’autore, in modo coerente con la sua teologia, distingue in Cristo la sua natura

divina, in virtù della quale è la Parola eterna di Dio, e la sua natura umana, da lui as-
sunta nella persona storica di Gesù per la salvezza degli uomini.
85 Cioè la croce.

311
Capitolo VIII

abbiamo ricevuto il compito di celebrare sulla mensa il memoria-


le di questo sacrificio, tramite i segni del suo corpo e del suo san-
gue salvifico, secondo le norme della nuova alleanza, impariamo
di nuovo dal profeta David a dire: Hai preparato davanti a me una
mensa, di fronte ai miei oppressori; hai cosparso di olio il mio capo
e il tuo calice mi inebria in modo incomparabile (Sal 22,5). In mo-
do chiaro, dunque, in queste parole sono indicati il mistico cri-
sma e i venerabili sacrifici della mensa di Cristo, nei quali, im-
molando le vittime incruente e spirituali a lui gradite, le offria-
mo al Dio dell’universo durante tutta la vita, per mezzo di quel
suo Sommo sacerdote superiore a ogni altro, nel modo in cui ci
è stato insegnato.
Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica I,10,23-29

32. Unico è questo sacrificio, sta scritto, mentre quelli [del-


l’antica alleanza] erano molti (cf. Eb 9,25-26): appunto perciò
non erano efficaci, perché erano molti. Che bisogno c’era infat-
ti di molti sacrifici, dimmi, se uno fosse bastato? Così, il fatto
che fossero molti e che fossero offerti continuamente mostra che
costoro86 non ne erano mai purificati. Come un farmaco, infat-
ti, se è valido ed efficace per riacquistare la salute e per allonta-
nare completamente la malattia, somministrato una volta sola,
produce interamente il suo effetto – e se esso, applicato una so-
la volta, produce interamente il suo effetto, mostra la sua for-
za proprio con il fatto di non essere più applicato, mentre se
viene applicato continuamente, ciò è un segno evidente che
non ha alcuna forza, perché la virtù di una medicina è di esse-
re applicato una sola volta e non molte –, così anche qui: come
mai costoro ricorrono sempre agli stessi sacrifici? Se davvero
fossero ormai liberi dai peccati, non verrebbero ogni giorno of-
ferti sacrifici [per loro] … Appunto per questo, dice [l’Aposto-
lo], Dio ordinò che venissero presentate offerte continuamen-

86 Gli ebrei.

312
“Questo è il mio corpo …”

te: a causa della loro debolezza e per far memoria dei peccati
(cf. Eb 7,27-28).
Ma come? Non presentiamo forse noi stessi offerte ogni gior-
no87? Certo, ma lo facciamo in memoria della sua morte (cf. Lc
22,19; 1Cor 11,26), e si tratta di un’unica offerta, non di mol-
te. Come mai una sola e non molte? Perché è stata offerta una
volta per tutte, come quella che si offriva nel Santo dei santi (cf.
Eb 9,7). Ciò infatti è figura di quest’offerta, e questa di quel-
la. Noi infatti offriamo sempre lo stesso [Cristo], non oggi un
agnello e domani un altro, ma sempre lo stesso, così che il sacri-
ficio è uno solo. Per il fatto che viene offerto in molti luoghi, ne
consegue forse che vi siano molti Cristi? No di certo, perché dap-
pertutto Cristo è uno solo, interamente qui, e interamente là: un
solo corpo. Come dunque, pur essendo offerto in molti luoghi,
è un solo corpo e non molti, così c’è anche un solo sacrificio. Il
nostro Sommo sacerdote è colui che ha offerto il sacrificio che
ci purifica. Noi lo offriamo anche ora, lo stesso che fu offerto
allora e che non si consumerà mai. Questo lo si fa in memoria di
ciò che è avvenuto allora: Fate questo, dice, in memoria di me (Lc
22,19; 1Cor 11,24-25). Non compiamo un altro sacrificio, come
un tempo faceva il sommo sacerdote, ma sempre lo stesso sacri-
ficio, o piuttosto facciamo memoria di quel sacrificio.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Ebrei 17,3

33. [Il Signore] dice: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19;


1Cor 11,24-25). Vedi come li allontana e li distoglie dalle con-
suetudini giudaiche? Come facevate quel [rito], intende dire, in
ricordo dei prodigi avvenuti in Egitto, così anche questo fate-

87 Su questo passo cf. F. van de Paverd, Zur Geschichte der Meβliturgie in Antiocheia

und Kostantinopel gegen Ende des vierten Jahrhunderts. Analyse der Quellen bei Johannes
Chrysostomos, Pio, Roma 1970, p. 424 e R. F. Taft, A History of the Liturgy of St. John
Chrysostom, VI. The Communion, p. 347, che ritengono l’affermazione un’esagerazione
retorica: in realtà al tempo dell’autore la liturgia eucaristica era ancora per lo più celebra-
ta due volte alla settimana, il sabato e la domenica.

313
Capitolo VIII

lo in memoria di me. Quel sangue fu versato per la salvezza dei


primogeniti, questo per la remissione dei peccati del mondo in-
tero. Questo è il mio sangue, dice, versato in remissione dei peccati
(Mt 26,28). Lo diceva per mostrare così che la passione e la cro-
ce sono un mistero, e allo stesso tempo per confortare di nuovo
i discepoli in questo modo. E come Mosè dice: Questo per voi è
un memoriale eterno (Es 12,14), così anch’egli dice: In memoria
di me, fino alla mia venuta (cf. 1Cor 11,26). Per questo dice: Ho
desiderato ardentemente mangiare questa Pasqua (Lc 22,15), cioè
consegnarvi le nuove realtà e darvi una Pasqua in virtù della
quale vi renderò spirituali … Ebbene, qualcuno potrebbe dire,
si deve compiere anche il [rito] antico? No di certo, perché ap-
punto per questo ha detto: Fate questo, per allontanarli da quel-
lo. Se infatti questo opera la remissione dei peccati, come real-
mente la opera, quello è ormai inutile. Come dunque al tempo
dei giudei, così anche qui ha legato al mistero il memoriale del
beneficio, chiudendo anche in questo modo la bocca agli ereti-
ci88. Quando dicono: “Da dove risulta che Cristo è stato immo-
lato?”, possiamo tappare loro la bocca tra le altre cose anche con
i misteri. Se infatti Gesù non è morto, di cosa sono segno i [mi-
steri] che vengono celebrati?
Vedi quanto grande è stata la sua sollecitudine, per fare in mo-
do che ci ricordassimo sempre che egli è morto per noi? Poiché
sarebbero venuti i seguaci di Marcione, di Valentino e di Mani,
che avrebbero negato tale economia [di salvezza], egli richiama
continuamente alla memoria la sua passione anche attraverso i
misteri, in modo che nessuno venga ingannato, e attraverso quel-
la sacra mensa salva e istruisce allo stesso tempo. E questo è il
principale di tutti i beni.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 82,1-2

88 L’autore si riferisce genericamente alle eresie gnostiche, che negavano la realtà

dell’incarnazione e della morte del Signore.

314
“Questo è il mio corpo …”

34. Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi
ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito prese del
pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Prendete, mangiate:
questo è il mio corpo spezzato per voi. Fate questo in memoria di
me (1Cor 11,23-24) …
Ma come può dire89 che ha ricevuto [questi misteri] dal Signo-
re? Egli allora non era presente, ma era dalla parte dei persecu-
tori. L’ha detto però perché tu comprenda che quella mensa non
ha niente di più di quella [preparata] dopo90. Colui che opera e
trasmette tutte queste cose, infatti, è lo stesso anche oggi come
allora … Poi, dopo aver parlato di quella cena, [l’Apostolo] uni-
sce gli eventi presenti a quelli di allora, affinché anche ora [i
cristiani] abbiano gli stessi sentimenti, come se fossero presen-
ti quella stessa sera, stesi sullo stesso pagliericcio91, e ricevesse-
ro questo sacrificio da Cristo stesso, e dice: Ogni volta che man-
giate questo pane e bevete questo calice, annunciate la morte del Si-
gnore finché egli venga (1Cor 11,26). Come infatti Cristo disse:
Fate questo in memoria di me (1Cor 11,24-25), sia sul pane che
sul vino, svelando la causa per cui ci donava questo mistero e
suggerendo che anch’essa, insieme alle altre, era sufficiente a su-
scitare la nostra riverenza – perché se tu pensi che cosa ha sof-
ferto il tuo Signore per te, sarai più assennato –, così anche qui
Paolo dice: Ogni volta che voi mangiate, annunciate la morte del Si-
gnore – questa cena è quella cena! – e poi, per mostrare che es-
sa rimane fino alla consumazione [del tempo] (Mt 28,20), aggiun-
ge: Finché egli venga.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 27,3-4

35. Il nostro Signore nel consegnarci questi misteri disse: Pren-


dete, mangiate, questo è il mio corpo spezzato per voi in remissio-

89 Il soggetto è Paolo.
90 Cioè il sacramento istituito da Gesù nell’ultima cena si realizza pienamente ogni
volta che l’eucaristia viene celebrata.
91 Nell’antichità si mangiava distesi, su divani o su tappeti.

315
Capitolo VIII

ne dei peccati, e: Prendete, bevete, questo è il mio sangue versato


per voi in remissione dei peccati (cf. Mt 26,26-28; 1Cor 11,24-25).
Ecco ciò che vuol dire: che per mezzo della sua morte egli ci da-
rà il mondo futuro in cui verranno rimessi tutti i peccati. A noi
spetta, dunque, mentre prendiamo parte a questo mistero, com-
memorare in figura92 la sua passione, attraverso la quale otterre-
mo il possesso dei beni futuri, insieme alla remissione dei pec-
cati. Tale è la forza che viene dal nutrirsi di questi santi miste-
ri, cibo che è in rapporto con la nascita [spirituale]93 di coloro
che se ne nutrono: in questo mondo infatti noi ci nutriamo, in
segni e figure, di un cibo spirituale.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,7

36. [I sacerdoti dell’antica alleanza] avevano ricevuto l’ordi-


ne di offrire a Dio vittime numerose e varie: tori, capre e peco-
re; e in ogni momento offrivano nuove vittime, perché, quando
le prime erano immolate, morte e completamente consumate, ne
venivano offerte altre in ogni momento, al posto di quelle che
erano già state immolate. Al contrario, tutti i sacerdoti della nuo-
va alleanza offrono continuamente lo stesso sacrificio, in ogni
luogo e in ogni tempo, perché unico è anche il sacrificio che è
stato offerto per tutti, quello del Cristo, nostro Signore, che per
noi accettò la morte e che attraverso l’offerta di questo sacrifi-
cio ci procurò la perfezione, come dice il beato Paolo: Attraver-
so un’unica offerta – dice – egli ha reso perfetti per sempre quelli
che vengono santificati (Eb 10,14).
Noi tutti, dunque, in ogni luogo, in ogni tempo e continua-
mente, compiamo il memoriale di questo stesso sacrificio, per-
ché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di que-

92 Nella versione siriaca vi è un calco del termine greco tØpos del testo originale, che

qui ha valore pieno e sacramentale. Cf. supra, p. 296, n. 45.


93 Allusione alla nascita sacramentale che avviene con il battesimo, nel quale i cre-

denti partecipano alla morte e alla resurrezione di Cristo. Sul rapporto tra eucaristia e
battesimo cf. infra, c. XII,13.

316
“Questo è il mio corpo …”

sto calice, noi facciamo memoria della morte del Signore, finché
egli venga (1Cor 11,26). Ogni volta dunque che si compie que-
sto tremendo sacrificio … dobbiamo figurarci nel nostro pensie-
ro, come attraverso immagini, di essere nella condizione di chi
è in cielo: attraverso la fede rappresentiamo nella nostra men-
te la visione delle realtà celesti, considerando che è lo stesso
Cristo, che è in cielo, il quale per noi è morto, è resuscitato ed
è salito al cielo, che ancora adesso viene immolato per mezzo di
queste figure94, in modo che, considerando attraverso la fede
questi ricordi che ora si compiono, possiamo essere condotti a
vedere ancora che egli muore, risuscita e sale al cielo – ciò che
avvenne un tempo per noi –.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,19-20

37. Noi confessiamo che lo stesso Figlio unigenito nato da Dio


Padre, e anch’egli Dio, pur essendo per natura impassibile, ha
patito nella carne per noi, secondo le Scritture, e nel corpo cro-
cifisso ha fatto proprie le sofferenze della sua carne in modo
impassibile; per grazia di Dio e a vantaggio di tutti egli gustò la
morte (cf. Eb 2,9) consegnando a essa il proprio stesso corpo,
pur essendo lui stesso per natura la vita e la resurrezione (cf. Gv
11,25). Per poter diventare infatti il primo nato dai morti (Col
1,18) e la primizia di coloro che sono morti (1Cor 15,20), dopo
aver calpestato per primo la morte nella propria stessa carne, con
potenza ineffabile, e per poter aprire alla natura umana la stra-
da del ritorno all’incorruttibilità, egli per grazia di Dio – come
abbiamo appena detto – gustò la morte a vantaggio di tutti, e al
terzo giorno ritornò in vita, spogliando l’inferno della sua pre-
da … Ma è necessario che aggiungiamo anche questo: proprio
annunciando la morte secondo la carne dell’unigenito Figlio di
Dio, cioè di Gesù Cristo, e confessando la sua resurrezione dai
morti e la sua ascensione ai cieli, noi nelle chiese celebriamo il

94 Gli elementi e i riti eucaristici.

317
Capitolo VIII

sacrificio incruento, e allo stesso modo ci accostiamo ai mistici


[doni di] benedizione95 e ne siamo santificati, diventando par-
tecipi della santa carne e del prezioso sangue di Cristo Salvato-
re di tutti.
Cirillo di Alessandria, Lettere 3,17

38. Dopo che Giuda fu uscito [dal cenacolo] il Salvatore con-


segnò ai dodici il mistero salutare. Poiché infatti poco dopo sa-
rebbe risorto con la propria carne e sarebbe ritornato al Padre,
affinché avessimo la presenza di colui che ci ha salvati – senza
la presenza di Cristo infatti è impossibile per l’uomo essere sal-
vato ed essere liberato dalla morte e dal peccato, poiché non è
con noi la vita –, egli ci ha donato il proprio corpo e il proprio
sangue, affinché attraverso di essi la potenza della corruzione
fosse distrutta, egli potesse abitare nelle nostre anime per mez-
zo dello Spirito santo, e noi diventassimo partecipi della santi-
ficazione e fossimo resi uomini celesti e spirituali.
Cirillo di Alessandria, Commento a Matteo (catene), fr. 290

39. Dopo aver celebrato interamente il mistero96, il Signore


aggiunse queste parole: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19;
1Cor 11,24-25). Ma in cosa consiste tale memoria? In che mo-
do dobbiamo fare memoria del Signore nella liturgia? Di quale
sua azione, di quale sua condizione ci ricorderemo? Intendo di-
re: che cosa considereremo di lui, che cosa racconteremo? For-
se che risuscitò i morti, che diede la vista ai ciechi, che sgridò
i venti, che nutrì migliaia di persone fino alla sazietà con pochi
pani, cose tutte che lo mostrarono come Dio e come capace di
fare tutto? No, ma si tratta piuttosto di ciò che sembra indica-
re debolezza: la croce, la passione, la morte. Sono queste le co-
se per le quali ci ha comandato di fare memoria di lui. E da do-

95 Cioè all’eucaristia.
96 Cioè il sacramento dell’eucaristia.

318
“Questo è il mio corpo …”

ve risulta ciò? Così ha compreso Paolo, che ben conosceva le co-


se di Cristo.
Scrivendo ai corinti riguardo al mistero, dopo aver racconta-
to che il Signore ha detto: Fate questo in memoria di me, ha ag-
giunto: Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete que-
sto calice, voi annunciate la sua morte (1Cor 11,26). Ed è ciò che
anche lo stesso Signore ha indicato mentre consegnava quel mi-
stero. Dopo aver detto infatti: Questo è il mio corpo, e: Questo
è il mio sangue (Mt 26,26-28), non menzionò loro i miracoli, di-
cendo ad esempio di aver resuscitato i morti o guarito i lebbro-
si, ma che cosa? Soltanto la passione e la morte: il corpo spezza-
to per voi, il sangue versato per voi.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 7,2-4

40. Ma come mai [il Signore] ha ordinato tutto ciò e a quale


scopo ci ha domandato di fare questa memoria? Perché non fos-
simo ingrati. Il fatto di far memoria dei benefattori e delle lo-
ro opere, infatti, per quanti hanno ricevuto i loro benefici, è un
modo di ricambiarli; e gli uomini hanno escogitato varie occa-
sioni per tale memoria: monumenti funebri, statue, stele, feste,
fiere, gare. Tutto ciò produce un unico risultato: di non lascia-
re che gli uomini di valore vengano sommersi dall’oblio.
Così ha fatto anche il Salvatore. Altri – sembra dire – cerca-
no questo o quel rimedio contro l’oblio, per custodire la memo-
ria di quelli che hanno fatto loro del bene, ma voi fate questo in
memoria di me (Lc 22,19; 1Cor 11,24-25). E come le città iscri-
vono sulle stele degli uomini di valore le vittorie grazie alle qua-
li sono state salvate o hanno accresciuto la loro prosperità, co-
sì anche noi scriviamo su questi doni la morte del Signore, nella
quale si è realizzata la completa vittoria contro il maligno97. Ma

97 Allusione evidente al sigillo a forma di croce impresso sulla parte superiore della

“prosfora” (il pane offerto sull’altare), in corrispondenza della parte centrale destinata
a essere consacrata, detta “agnello” (amnós), che reca la frase abbreviata IΣ ΧΣ ΝIΚΑ,
“Gesù Cristo vince”.

319
Capitolo VIII

mentre le città attraverso quelle rappresentazioni preservano


soltanto la forma del corpo, noi attraverso questa offerta non
abbiamo soltanto la forma del corpo, ma il corpo stesso del no-
stro uomo di valore.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 9,1-4

41. Il sacrificio98 annuncia la morte di Cristo (cf. 1Cor 11,26),


la sua resurrezione e la sua ascensione99, al momento in cui tra-
sforma i doni preziosi nel corpo stesso del Signore, che è risor-
to ed è asceso al cielo. Ciò che invece precede il sacrificio [an-
nuncia] gli eventi precedenti alla sua morte, cioè la sua venuta,
la sua vita pubblica e la sua piena manifestazione; e ciò che se-
gue il sacrificio, la promessa del Padre (Lc 24,49), come egli stes-
so ha detto, cioè la discesa dello Spirito sugli apostoli, la con-
versione delle genti pagane a Dio avvenuta per opera loro e la
loro comunione con lui.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 16,3-4

98 Cioè il sacrificio eucaristico, che l’autore identifica con il momento della consa-

crazione.
99 Anche qui, in conformità alla Liturgia di Basilio (cf. supra, § γ), il sacrificio euca-

ristico non annuncia solo la morte del Signore, ma anche la resurrezione, cui è stretta-
mente legata l’ascensione.

320
Capitolo IX
“FA’ SCENDERE IL TUO SPIRITO SANTO”

Nella tradizione liturgica dell’oriente bizantino, condensata nel-


le liturgie attribuite a Basilio il Grande e a Giovanni Crisostomo,
la preghiera eucaristica, dopo aver celebrato l’opera del Padre nel-
la prima parte (azione di grazie) e fatto memoria dell’opera del Fi-
glio nella seconda (racconto dell’istituzione e anamnesi), giunge con
l’epiclesi a invocare l’opera dello Spirito santo: pur essendo in mo-
do integrale e unitario rivolta a Dio Padre e a sua gloria, la preghie-
ra della chiesa assume così una chiara struttura trinitaria, in cui a
ciascuna delle persone divine è riconosciuto un ruolo particolare, in
accordo con la retta fede proclamata nel simbolo niceno-costanti-
nopolitano. In questo quadro l’epiclesi ha una funzione di “compi-
mento” (teleíosis), giacché è appunto questa la nozione che i padri
hanno tradizionalmente associato alla realtà e all’azione dello Spi-
rito santo, concepita quale “forza di rivelazione e di compimento”,
che accompagna la parola di Dio e rende manifesta la sua efficacia1.
Abbiamo del resto già anticipato nell’introduzione al capitolo pre-
cedente come la tradizione bizantina affermi, in modo sostanzial-
mente unanime a partire dalla fine del IV secolo, l’importanza del-
l’epiclesi per il ruolo centrale che vi è riservato allo Spirito santo: si

1 Cf. Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo 16,38: “Puoi comprendere queste tre

realtà: Il Signore che ordina, la Parola che crea, lo Spirito che consolida. Ma che co-
s’altro significa consolidare se non portare a compimento nella santità?”. Sul tema, cf.
G. Wagner, “Le Saint-Esprit, force de révelation et d’accomplissement”, in Id., La li-
turgie, expérience de l’Église, pp. 57-66.

321
Capitolo IX

ritiene cioè che solo con essa giunga a pienezza il “mistero”, ossia la
trasformazione dei doni eucaristici nel corpo e nel sangue di Cristo.
È del resto antica e radicata convinzione nella coscienza della
chiesa – ancor prima che un’epiclesi consacratoria, insieme alla teo-
logia che essa presuppone, ricevesse una precisa ed esplicita formula-
zione – che il sacramento dell’eucaristia istituito da Cristo e da lui
consegnato alla chiesa non sia da essa “posseduto” una volta per
tutte, ma debba essere sempre, in certo modo, invocato e ricevuto
di nuovo come un dono. Se infatti la semplice ripetizione delle pa-
role istituzionali recitate da parte del celebrante in persona Christi
rischierebbe da sola di annullare – o quantomeno di offuscare – la
coscienza della distanza che pur rimane, anche nell’atto sacramen-
tale, tra la chiesa e Cristo, e tra la chiesa e il mistero che le è sta-
to consegnato, l’inserimento di quelle parole in un contesto di pre-
ghiera e di supplica 2 sottolinea più chiaramente, contro ogni rischio
di confusione e di automatismo, come il mistero eucaristico riman-
ga “indisponibile” per l’uomo e sia sempre un’azione compiuta da
Dio 3. Qui sta appunto l’origine e l’importanza dell’epiclesi, anche
quando essa appare nella forma di una semplice preghiera rivolta a
Dio non altrimenti esplicitata, e anche quando il ruolo dello Spiri-
to non vi è chiaramente espresso.
Ireneo di Lione, ad esempio, parla semplicemente dell’invoca-
zione di Dio fatta sul pane, che lo rende eucaristia (cf. § 1); Clemen-
te, Origene e Atanasio di Alessandria parlano più genericamente di
preghiere e di suppliche che “santificano” i doni (cf. §§ 2-4) – il
primo e il terzo, fedeli ancora a una teologia arcaica, sottolineano

2 Cf. ad esempio la testimonianza di Giustino, supra, c. VIII,9, secondo l’interpre-

tazione che ne abbiamo dato.


3 L’evoluzione delle concezioni eucaristiche (e in particolare della consacrazione) è

legata evidentemente a quella delle concezioni ecclesiologiche e del ministero: in occi-


dente, ad esempio, una concezione dell’eucaristia sempre più centrata in modo esclu-
sivo sulle parole istituzionali sarà parallela a una concezione sempre meno “carismati-
ca” e “mistica” e sempre più “giuridica” dell’autorità dei ministri ordinati, per evoca-
re le nozioni utilizzate in Y. M.-J. Congar, Servizio e povertà nella chiesa, Borla, Torino
1964, pp. 45-76.

322
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

che esse sono rivolte alla persona del Figlio di Dio, il Verbo, piut-
tosto che allo Spirito –; Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Teo-
doreto di Cirro da parte loro parlano semplicemente di “epiclesi”
senza ulteriori specificazioni, rilevandone chiaramente l’importan-
za e l’efficacia (cf. §§ 5-6; 9); e ancora Cirillo di Alessandria parla
di una “supplica” fatta con insistenza, a imitazione della preghiera
rivolta da Cristo al Padre, perché i doni siano trasformati in bene-
dizione spirituale, ma essa non risulta nettamente distinta dal resto
della preghiera eucaristica (cf. § 7-8)4.
Un’epiclesi espressamente “consacratoria” 5, che invoca cioè in
modo esplicito la discesa dello Spirito santo per la trasformazione
del pane e del vino in corpo e sangue di Cristo, sembra attestata per
la prima volta nelle Catechesi mistagogiche attribuite a Cirillo di
Gerusalemme, il quale però a sua volta quasi certamente si fa eco
della liturgia celebrata al suo tempo nella città santa. In questo te-
sto, molto vicino alle epiclesi che diventeranno canoniche nella chie-
sa bizantina, si invoca Dio di mandare dall’alto il suo Spirito san-
to sui doni posti sull’altare perché li trasformi in corpo e sangue di
Cristo, nella certezza – si aggiunge – “che tutto ciò che lo Spirito
santo tocca è santificato e trasformato” (§ 10).
Da questo momento in poi sono molti gli autori che in oriente
sottolineano con forza l’azione dello Spirito santo invocato duran-
te la preghiera eucaristica (cf. §§ 11-27), ma significativamente
nella maggior parte dei testi liturgici, così come nei testi dei padri, il
suo ruolo non si limita alla semplice santificazione delle offerte, ma

4 Cf. Y. M.-J. Congar, Credo nello Spirito santo, p. 238.


5 Tra i più antichi esempi di epiclesi eucaristica, senza entrare nel merito della loro
precisa datazione, si possono citare senz’altro quella dell’anafora contenuta in Tradi-
zione apostolica 4 (iii secolo ca) e quella dell’anafora siriaca degli apostoli Addai e Ma-
ri (ii-iii secolo): entrambe, più stringata la prima, più sviluppata la seconda, non espli-
citano ancora che l’azione santificatrice dello Spirito è diretta alla trasformazione dei
doni in corpo e sangue di Cristo. È stato ragionevolmente suggerito da parte di molti
studiosi che l’emergere di un’epiclesi espressamente consacratoria verso la fine del iv
secolo sia da mettere in relazione con il contemporaneo sviluppo della teologia dello
Spirito santo che trova il suo coronamento nel concilio di Costantinopoli (381). Cf.
H.-J. Schulz, Η Βυζαντιν Λειτουργα, pp. 47-49.

323
Capitolo IX

si estende alla santificazione dell’intero corpo ecclesiale che è


presente alla liturgia, perché esso sia raccolto in unità (cf. §§ γ; 13)
e, attraverso la partecipazione al corpo e al sangue del Signore, sia
colmato dei suoi doni spirituali (cf. §§ β; 7-8; 11-12; 16; 20; 22; 23).
Fedeli al loro apofatismo di fondo, i padri comprendono e cerca-
no di far comprendere – nella fede – l’azione compiuta dallo Spi-
rito santo nell’eucaristia unicamente collegandola e mettendola a
confronto con eventi narrati nella storia di salvezza (cf. § 14) e in
particolare con quelli in cui lo stesso Spirito è intervenuto e ha ope-
rato con potenza. È infatti “grazie all’energia dello Spirito santo”,
come conferma la testimonianza delle Scritture, che si è realizzato
il mistero dell’incarnazione del Verbo manifestato nell’annuncio del-
l’arcangelo Gabriele alla vergine Maria (cf. § 21; supra, c. VIII, 9;
19; 25); è per mezzo della potenza dello Spirito santo, secondo le
stesse Scritture, che Gesù è stato resuscitato da Dio (cf. § 13); e an-
cora, è proprio lo Spirito santo disceso a Pentecoste che ha generato
la chiesa, l’ha riempita di carismi e la sostiene incessantemente con
la sua potenza (cf. §§ 16-17; 27). I padri sono del resto ben consa-
pevoli come questi siano ben più di semplici paragoni, perché l’a-
zione vivificante dello Spirito è sempre la stessa, sia nei “misteri” del-
la storia della salvezza, sia nei “misteri” celebrati nell’eucaristia.
Quest’ultima ricapitola e rende realmente presenti ogni volta gli even-
ti unici della salvezza: è una nuova incarnazione, una nuova resur-
rezione, una nuova e continua Pentecoste (cf. supra, c. I,15). È inu-
tile indagare troppo sul “come” ciò sia possibile, perché appartiene
alla fede credere alla parola del Signore, che assicura la sua presen-
za nello Spirito “fino alla consumazione del tempo” (cf. §§ 12; 26)
e afferma che lo Spirito vivifica ogni cosa (cf. §§ 13; 23): “Se poi ri-
cerchi il modo, come ciò avvenga – conclude Giovanni di Dama-
sco – ti basti sapere che ciò avviene per mezzo dello Spirito santo …
e non sappiamo nient’altro, se non che la parola di Dio è vera ed ef-
ficace e onnipotente, ma il modo non è investigabile” (§ 21).
Quanto all’epiclesi in se stessa, per i padri non è che una sempli-
ce preghiera, seppur solenne e fatta con insistenza (cf. § 14). Nella

324
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

preghiera l’uomo non fa che domandare, non fa che porre “sotto gli
occhi di Dio” la sua richiesta (§ 7), ma “è Dio che opera tutto” (§
15) attraverso il dono del suo Spirito: il ministro “adempie unica-
mente la funzione di segno” (§ 15) e la sua preghiera non è una for-
mula che costringe Dio a intervenire in modo automatico6, perché
in essa, ancora una volta, “tutto avviene in virtù della fede” (infra,
c. X,3; cf. supra, c. VIII,21), come dice Giovanni Crisostomo. “Noi
– chiarisce Nicola Cabasilas – affidiamo la santificazione dei miste-
ri alla preghiera del sacerdote, non perché confidiamo in una poten-
za umana, ma su quella di Dio” (§ 27): essa non è incerta, perché
il credente sa che il Signore, il quale ha consegnato l’eucaristia e ha
promesso di essere sempre presente in mezzo a coloro che lo invo-
cano (cf. § 6), resta fedele e concede sempre il suo Spirito santo (cf.
Lc 11,13), e questo, aggiunge ancora Cabasilas, “non perché l’uo-
mo ha supplicato, ma perché la Verità ha promesso di farci tale do-
no” (§ 27).
L’unica certezza che la chiesa ha e può avere è quella della fede:
questa è a un tempo la sua grandezza e la sua debolezza. Né l’euca-
ristia, né il battesimo, né altri sacramenti e nessun’altra delle sue
istituzioni potrebbe sussistere all’infuori di questa “attitudine epi-
cletica” 7, di questa dinamica di continua richiesta e di continua ac-
coglienza, nella fede, dello Spirito santo (cf. § 17). La chiesa stessa,
che nell’eucaristia si vede significata e riceve se stessa quale “corpo
di Cristo” (cf. § 13), non potrebbe esistere senza lo Spirito (cf. §
16), che, pur disceso una volta per tutte e sempre presente, sempre
discende di nuovo e la vivifica (cf. § 23): lo Spirito, e dunque l’eu-

6 Il rischio è evidentemente di intendere in modo riduttivo anche l’epiclesi come

una formula consacratoria tout court, senza cogliere in tutta la sua profondità la di-
mensione “epicletica” da essa implicata, e di farne una semplice alternativa alle parole
dell’istituzione (intese in modo altrettanto riduttivo), rischio non sempre evitato nella
tradizione orientale ortodossa, proprio per effetto della contrapposizione con quella
occidentale cattolica (cf. A. Schmemann, L’eucaristia, pp. 292-293).
7 La felice espressione è di J.-J. von Allmen, Saggio sulla cena del Signore, p. 70. Cf.

anche Y. J.-M. Congar, Credo nello Spirito santo, pp. 709-716 (“La vita della chiesa è
tutta quanta epicletica”).

325
Capitolo IX

caristia, non è un possesso né una preda, ma il frutto di una preghie-


ra continuamente esaudita.
In conclusione, la presenza nelle antiche liturgie orientali di un’e-
piclesi allo Spirito santo dopo l’anamnesi e la grande importanza ad
essa assegnata da molti padri, almeno a partire dalla fine del IV se-
colo, contestano senz’altro che, secondo questa tradizione, la sempli-
ce recitazione delle parole dell’istituzione possa da sola “compiere
il mistero”; e tuttavia, come si è già detto, fu solo con l’acuirsi del-
la polemica teologica e con la rottura della comunione canonica tra
oriente e occidente che l’efficacia attribuita alla parola di Cristo fi-
nì per apparire incompatibile con l’azione altrettanto efficace invo-
cata nell’epiclesi da parte dello Spirito santo, due idee che nei padri
potevano, se non trovare armonica composizione, almeno coesiste-
re l’una accanto all’altra 8, nella convinzione che, come dice bene
Cirillo di Alessandria esprimendo il pensiero dell’autentica tradizio-
ne, “ogni grazia e ogni dono perfetto viene a noi dal Padre, per mez-
zo del Figlio, nello Spirito santo” (§ 8).

α. [Il vescovo dica:] Ti preghiamo di volgere benevolmente il


tuo sguardo su questi doni che presentiamo davanti al tuo vol-
to, o Dio che non hai bisogno di nulla, e di gradirli in onore
del tuo Cristo e di far scendere sopra questo sacrificio il tuo
Spirito santo, testimone delle sofferenze (1Pt 5,1) del Signore
Gesù, perché manifesti9 [in] questo pane il corpo del tuo Cri-
sto, e [in] questo calice il sangue del tuo Cristo, affinché co-
loro che ne partecipano siano confermati nella fede, ottenga-
no la remissione dei peccati, siano liberati dal diavolo e dal
suo errore, siano colmati dello Spirito santo, diventino degni

8 Sul tema rimandiamo alle osservazioni di R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp.

328 e ss.
9 In greco: apophéne, che altri preferiscono tradurre più liberamente: “renda”.

326
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

del tuo Cristo e ottengano la vita eterna, quando tu ti sarai ri-


conciliato con loro, Signore onnipotente.
Costituzioni apostoliche VIII,12,39

β. Il sacerdote (a voce sommessa): Ancora ti offriamo questo


culto spirituale 10 (Rm 12,1) e incruento e ti invochiamo, pre-
ghiamo e supplichiamo: fa’ scendere il tuo Spirito santo su di
noi e su questi doni che ti presentiamo. (Levandosi fa il segno
di croce e dice a voce sommessa) E fa’ di questo pane il pre-
zioso corpo del tuo Cristo trasformandolo con il tuo Spirito
santo. Amen. E di quanto è in questo calice il sangue prezio-
so del tuo Cristo trasformandolo con il tuo Spirito santo.
Amen11. In modo che siano per coloro che ne partecipano so-
brietà dell’anima, remissione dei peccati, comunione con il
tuo santo Spirito, pienezza del regno dei cieli, franchezza da-
vanti a te, e non motivo di giudizio o di condanna.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 329-330

γ. Il sacerdote (a voce sommessa): Per questo, Signore santis-


simo, anche noi peccatori e indegni tuoi servi, che siamo sta-
ti resi degni di servire al tuo santo altare, non certo per le no-
stre azioni di giustizia, poiché non abbiamo fatto niente di
buono sulla terra, ma a causa della tua misericordia e della tua
compassione che hai effuso su di noi con abbondanza (cf. Tt
3,5-6), ci accostiamo con fiducia al tuo santo altare e, presen-
tando le raffigurazioni [sacramentali]12 del santo corpo e san-
gue del tuo Cristo, ti preghiamo e ti supplichiamo, o Santo
dei santi, che, con il beneplacito della tua bontà, venga il tuo
Spirito santo su di noi e sopra questi doni qui presenti, li be-
nedica, li santifichi e manifesti13 questo pane [come] lo stes-

10 Per il senso dell’aggettivo loghiké, cf. supra, p. 131, n. 45.


11 La più recente Liturgia di Giovanni Crisostomo (b) – p. 387 – scandisce, invece, le
formule epicletiche sul pane e sul vino con due “Amen” pronunciati dal diacono e sigil-
la l’intera consacrazione con un triplice “Amen” su entrambi i doni, ancora da parte del
diacono.
12 In greco: antítypa. Sul termine antítypon cf. supra, p. 296, n. 45; p. 299, n. 56.
13 In greco: anadeîxai, che altri traducono con “renda”.

327
Capitolo IX

so prezioso corpo del Signore, Dio e Salvatore nostro Gesù


Cristo. Amen. E questo calice lo stesso prezioso sangue del Si-
gnore, Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, versato per la vi-
ta e la salvezza del mondo. Amen. E noi tutti che partecipia-
mo a un solo pane e a un solo calice, uniscici gli uni con gli
altri nella comunione di un solo Spirito e fa’ che nessuno di
noi partecipi al santo corpo e sangue di Cristo per un giudizio
o una condanna.
Liturgia di Basilio, pp. 329-330

L’epiclesi: invocazione rivolta a Dio sul pane e sul vino

1. Come il pane che proviene dalla terra una volta che ha ri-
cevuto su di sé l’invocazione di Dio14 non è più pane comune,
ma eucaristia costituita da due elementi, uno terrestre e uno ce-
leste, così anche i nostri corpi comunicando all’eucaristia non so-
no più corruttibili e hanno la speranza della resurrezione eterna.
Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,18,5

2. Il pane e l’olio15 sono santificati attraverso la potenza del


nome di Dio16: nell’aspetto esteriore restano gli stessi come quan-

14 In greco: epíklesin toû Theoû. Mentre in questo passo la santificazione delle of-

ferte è operata da una parola di preghiera rivolta a Dio, altrove essa è frutto della pa-
rola (lógos) di Dio che agisce al cuore stesso della preghiera eucaristica, laddove l’auto-
re afferma che il calice del vino e il pane “ricevono la parola di Dio e diventano euca-
ristia” (cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie V,2,3, con la nota di A. Rousseau, in
Irénée de Lyon, Contre les hérésies. Livre V, a cura di A. Rousseau e L. Doutreleau, SC
152, Cerf, Paris 1969, vol. I, pp. 212-213), un’affermazione che si può accostare a
quella di Giustino (cf. supra, c. VIII,9).
15 Il pane dell’eucaristia e il crisma, o l’olio del battesimo.
16 Il nome di Dio, secondo il linguaggio dell’autore, è quello del Figlio unigenito

(cf. Clemente di Alessandria, Estratti da Teodoto 26,1). Data la concisione del testo,
non è chiaro a quale formula liturgica l’autore alluda, ma si tratta pur sempre di invo-
care il nome del Signore, non semplicemente di pronunciarlo.

328
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

do sono stati presi, ma [in realtà] attraverso quella potenza so-


no trasformati in potenza spirituale. Così anche l’acqua, quando
diventa “acqua esorcizzata”17 e battesimo, non soltanto separa
l’elemento inferiore, ma acquisisce anche la santificazione.
Clemente di Alessandria, Estratti a Teodoto 82,1-2

3. Celso, dal momento che ignora Dio, offra pure ai demoni le


sue azioni di grazie! Quanto a noi, rendendo grazie al Creatore
dell’universo, mangiamo i pani che vengono offerti per mezzo
dell’azione di grazie e della preghiera [pronunciata] sui doni rice-
vuti, pani che in virtù della preghiera sono diventati un corpo san-
to18, e che santifica quanti partecipano a esso con sana intenzione.
Origene, Contro Celso 8,33

4. Vedrai i leviti19 portare i pani e il calice di vino e deporli sul-


la mensa. Finché non sono state fatte suppliche e preghiere, il
pane e il calice sono [pane e calice] ordinari; quando però sono
state compiute quelle grandi e mirabili preghiere, allora il pane
diventa corpo e il calice sangue del Signore nostro Gesù Cristo.
Di nuovo: veniamo alla consacrazione20 dei misteri. Questo
pane e questo calice, finché non siano state fatte preghiere e
suppliche sono semplici [pane e vino]; quando però sono state
innalzate le grandi preghiere e le sante suppliche, allora il Ver-
bo discende nel pane e nel calice, e diventano suo corpo21.
Atanasio di Alessandria, Altri frammenti 22 7

17 Acqua cioè purificata attraverso preghiere che allontanano gli spiriti maligni.
18 Cf. Origene, Commento a Matteo 11,14, dove interpretando in senso eucaristico
1Tm 4,5, l’autore afferma che il pane “viene santificato per mezzo della parola di Dio
e della preghiera”.
19 Cioè i diaconi.
20 In greco: teleíosis.
21 Cf. l’anafora dell’Eucologio di Serapione 13,15, che conserva un’epiclesi rivolta al

Verbo e non allo Spirito santo: “Venga, Dio di verità, il tuo santo Verbo su questo pa-
ne, perché il pane sia corpo del Verbo, e su questo calice, perché il calice sia sangue di
verità”.
22 Frammenti di un’omelia ai battezzati perduta, citati da Eutichio di Costantino-

poli, Sulla Pasqua e la santa eucaristia 8.

329
Capitolo IX

5. Tra le credenze e le dottrine pubbliche custodite nella chie-


sa23, queste ultime le ricaviamo dall’insegnamento scritto, men-
tre quelle le abbiamo ricevute in modo segreto dalla tradizione
degli apostoli: entrambe hanno però lo stesso valore per la vita
di fede; e nessuno oserà contraddirle per poco che abbia un po’
di esperienza delle istituzioni ecclesiastiche. Se infatti cercassi-
mo di annullare le consuetudini non scritte, come se esse non
avessero grande importanza, pregiudicheremmo senza accorger-
cene gli stessi punti essenziali dell’evangelo; anzi ridurremmo la
proclamazione a un nome vuoto. Ad esempio … le parole dell’e-
piclesi al momento della trasformazione24 del pane dell’eucari-
stia e del vino della benedizione (cf. 1Cor 10,16), chi mai tra i
santi ce le ha lasciate scritte? Noi infatti non ci accontentiamo
di [ripetere] le parole ricordate dall’Apostolo e dall’evangelo25,
ma prima e dopo di esse ne pronunciamo altre, che hanno una
grande efficacia per il mistero, e che abbiamo ricevuto dall’inse-
gnamento non scritto.
Basilio di Cesarea, Sullo Spirito santo 27,66

6. Alcuni cercano una prova del fatto che Dio si rende pre-
sente quando viene invocato per la santificazione degli atti da
noi compiuti26. Ma chi cerca una tale prova rilegga ciò che ab-
biamo esaminato in precedenza27. L’argomentazione infatti con
cui abbiamo provato che la potenza che si è manifestata a noi

23 Basilio distingue tra “credenze” (dógmata) e “dottrine pubbliche” (kerØgmata): le

prime sono le tradizioni trasmesse oralmente e che vengono rivelate solo agli iniziati,
le altre quelle trasmesse per iscritto e insegnate pubblicamente.
24 Cioè della consacrazione. In greco anádeixis (lett.: “manifestazione”, “presenta-

zione”), dal verbo anadeíknymi, che si trova proprio nell’epiclesi dell’anafora di Basi-
lio (cf. supra, § γ).
25 Allusione evidente alle parole dell’istituzione trasmesse dagli evangeli sinottici e

da Paolo.
26 L’autore sta parlando del battesimo, ma qui il suo ragionamento si estende a tut-

ti gli atti sacramentali nei quali Dio viene invocato come potenza di santificazione,
compresa quindi l’eucaristia.
27 Cf. Gregorio di Nissa, Discorso catechetico 11 e ss., dove l’autore tratta dell’in-

carnazione.

330
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

nella carne è veramente divina fornisce argomenti anche in fa-


vore del presente discorso. Una volta dimostrato infatti che è
Dio colui che si è manifestato nella carne, e che ha rivelato la
propria natura attraverso i miracoli compiuti nella sua vita, si è
dimostrato allo stesso tempo che egli è presente negli atti da noi
compiuti ogni volta che lo invochiamo28. Perché, se è vero che
ogni essere ha una sua proprietà particolare che ne manifesta la
natura, ciò che è proprio della natura divina è la verità. Ebbene,
egli ha promesso che sarà sempre presente tra coloro che lo in-
vocano e in mezzo ai credenti (cf. Mt 18,20; 28,20), che rimar-
rà in tutti e insieme a ciascuno (cf. Gv 15,4-10): non dovremmo
dunque aver bisogno di altra prova per dimostrare che Dio è
presente in ciò che compiamo, dal momento che grazie ai mira-
coli stessi abbiamo creduto che egli è Dio, sappiamo che è pro-
prio della divinità di essere esente da ogni menzogna e, in base
alla sua promessa che non mente, non dubitiamo che sia presen-
te quanto ci è stato promesso.
Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico 34,1-2

7. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicen-
do: Bevetene tutti (Mt 26,27). Il Signore prendendo il calice ren-
de grazie, cioè parla a Dio Padre in forma di preghiera, manife-
standolo partecipe quanto lui e concorde nell’approvare la be-
nedizione vivificante che ci sarebbe stata donata29, e allo stesso
tempo fornendoci il modello30 per rendere grazie, e così spezza-
re il pane e distribuirlo. Perciò anche noi, ponendo sotto gli oc-
chi di Dio questi elementi appena menzionati, preghiamo con

28 Lett.: “in ogni occasione di epiclesi” (katà pánta kairòn epikléseos).


29 Cioè l’eucaristia.
30 Qui il termine tØpos, altre volte tradotto “figura”, non va inteso né in senso sa-

cramentale né in senso tipologico, come nell’esegesi patristica, ma con semplice valore


“esemplaristico”, come giustamente ritiene V. Raffa, Liturgia eucaristica, p. 1131, che
esplicita il comando di Cristo “Fate questo” con: “Vi ho mostrato l’esemplare, ripete-
telo tale e quale”.

331
Capitolo IX

insistenza31 che siano trasformati per noi in benedizione spiritua-


le, affinché, partecipando ad essi, siamo santificati nel corpo e
nello spirito.
Cirillo di Alessandria, Commento a Matteo (catene), fr. 289

8. E preso del pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e lo diede lo-
ro, dicendo: Questo è il mio corpo (Lc 22,19). Rende grazie, cioè
parla a Dio Padre in forma di preghiera, manifestandolo parte-
cipe quanto lui e concorde nell’approvare la benedizione vivifi-
cante che ci sarebbe stata donata. Ogni grazia infatti e ogni do-
no perfetto viene a noi dal Padre per mezzo del Figlio nello Spi-
rito santo (cf. Gc 1,17). Quest’atto era inoltre un modello per
noi di quella supplica che avremmo dovuto elevare ogni volta
che avremmo presentato la grazia di questa offerta di doni mi-
stica e vivificante, ciò che del resto abbiamo l’abitudine di fare.
Elevando infatti azioni di grazie e glorificando insieme a Dio Pa-
dre anche il Figlio e lo Spirito santo, ci accostiamo così alle san-
te mense, credendo di essere vivificati e benedetti sia nel corpo
che nello spirito. Accogliamo infatti in noi colui che per noi si
è fatto uomo, la Parola di Dio Padre, che è vita e che vivifica.
Cirillo di Alessandria, Commento a Luca 22,19

9. Ortodosso. Dimmi: i segni mistici offerti a Dio dai sacer-


doti di che cosa sono segno32?
Mendicante. Del corpo e del sangue del Signore.
Ortodosso. Del corpo reale o non reale?
Mendicante. Di quello reale! …
Ortodosso. Se dunque i divini misteri sono raffigurazioni
[sacramentali]33 del suo corpo reale, ancora adesso il corpo del

31 Questa preghiera insistente (in greco: deómetha ektenôs), così come la “supplica”

(lité ) del brano seguente, sembra riferirsi all’epiclesi, anche se essa non invoca esplici-
tamente lo Spirito santo sui doni, né è chiaramente distinta dal resto della preghiera
eucaristica.
32 Lett.: “simboli” (sØmbola). Su questa espressione, cf. supra, p. 296, n. 45.
33 In greco: antítypa. Cf. supra, p. 296, n. 45.

332
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

Signore è corpo, non trasformato nella natura divina, ma ripie-


no della gloria divina34.
Mendicante. Hai fatto proprio bene a introdurre il discor-
so sui divini misteri, perché di qui ti mostrerò che il corpo del
Signore si trasforma in un’altra natura. Rispondi dunque alle
mie domande.
Ortodosso. Risponderò.
Mendicante. Come chiami il dono che viene offerto prima
dell’epiclesi del sacerdote?
Ortodosso. Non bisogna dirlo apertamente: forse sono pre-
senti alcuni non iniziati35.
Mendicante. Rispondi in modo enigmatico.
Ortodosso. Quell’alimento fatto con tali semi.
Mendicante . E l’altro segno, come lo chiamiamo?
Ortodosso. Anche questo è un nome comune, che indica un
tipo di bevanda.
Mendicante. Dopo la santificazione, come chiami queste
cose?
Ortodosso. Corpo di Cristo e sangue di Cristo.
Mendicante. E credi proprio di partecipare al corpo e al san-
gue di Cristo?
Ortodosso. Così credo.
Mendicante. Come dunque i segni del corpo e del sangue del
Signore sono una cosa prima dell’epiclesi e dopo l’epiclesi sono
trasformati e diventano un’altra cosa, così il corpo del Signore
dopo l’ascensione è stato trasformato nella sostanza divina.
Ortodosso. Sei caduto nelle reti che hai teso tu stesso! I se-
gni mistici non perdono infatti la loro natura neppure dopo la
santificazione. Essi conservano la sostanza, l’aspetto e la for-

34 L’ortodosso, attraverso il riferimento analogico all’eucaristia, cerca di contrasta-

re l’opinione dell’interlocutore secondo la quale il corpo di Cristo risorto dopo la sua


ascensione al cielo è stato assorbito dalla natura divina perdendo completamente la sua
natura di corpo umano.
35 Nella chiesa antica si custodiva rigorosamente la disciplina dell’arcano nei con-

fronti dei cristiani non ancora iniziati ai misteri.

333
Capitolo IX

ma precedenti, e possono essere visti e toccati come prima; so-


no però ritenuti ciò che sono diventati, e sono creduti e adora-
ti per ciò che realmente si crede che sono.
Teodoreto di Cirro, Il mendicante 2, pp. 151-152

La discesa e l’azione dello Spirito santo nell’epiclesi

10. Dopo aver santificato noi stessi per mezzo di questi inni
spirituali36 preghiamo il Dio amico degli uomini di mandare dal-
l’alto lo Spirito santo sui doni che presentiamo37, affinché ren-
da il pane corpo di Cristo e il vino sangue di Cristo: certamen-
te infatti tutto ciò che lo Spirito santo tocca è santificato e tra-
sformato38.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,7

11. Lo Spirito soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da


dove viene e dove va (Gv 3,8). Benedice il corpo che viene bat-
tezzato e l’acqua che battezza. Perciò non disprezzare il divino
lavacro e non tenerlo in poco conto come se fosse qualcosa di
ordinario a motivo dell’uso che si fa dell’acqua, poiché ciò che
è all’opera è grande e mirabili sono gli effetti da esso realizzati.
Anche questo santo altare davanti al quale stiamo in piedi per
natura è una semplice pietra in nulla differente dalle altre lastre
che adornano i nostri muri e decorano i pavimenti, ma dal mo-

36 Quelli contenuti nella prima parte della preghiera eucaristica.


37 Cf. Liturgia di san Giacomo, p. 90, ll. 22-23; p. 92, ll. 6-7.
38 Altrove lo stesso autore, parla di “epiclesi” riferendosi all’insieme della preghie-

ra eucaristica: cf. Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 1,7: “Il


pane e il vino dell’eucaristia, prima della santa epiclesi dell’adorabile Trinità, erano
semplice pane e vino, ma una volta fatta l’epiclesi, il pane diventa corpo di Cristo, e il
vino sangue di Cristo”.

334
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

mento in cui è stato consacrato per il culto di Dio e ha ricevu-


to la benedizione è una mensa santa, un altare che non può es-
sere più toccato da tutti, ma soltanto dai sacerdoti, e anche da
loro con riverenza. A sua volta anche il pane fino a quel momen-
to è pane comune, ma quando il mistero lo consacra, è detto e
diventa corpo di Cristo. Così è anche per l’olio mistico39 e per il
vino: pur essendo cose degne di scarsa considerazione prima del-
la benedizione, dopo la santificazione realizzata dallo Spirito cia-
scuna di esse opera in modo eccellente40.
Gregorio di Nissa, Discorso per il giorno delle luci, p. 225

12. Per questo Dio donò il suo Spirito santo alla sua chiesa
santa e cattolica e stabilì che esso fosse unito al santo altare e al-
l’acqua del santo battesimo, e per questo il Salvatore donò lo Spi-
rito paraclito attraverso gli apostoli: perché si riversasse e si co-
municasse a tutta la liturgia della santa chiesa di Dio, secondo
la parola detta dal Signore stesso: Ed ecco io sono con voi tutti i
giorni fino alla consumazione del tempo (Mt 28,20), affinché gra-
zie al battesimo, all’altare, all’eucaristia del pane e a tutto il cul-
to mistico41 compiuto nella chiesa i cuori fedeli potessero riceve-
re l’azione dello Spirito santo con ogni potenza e in vista delle
virtù dei frutti celesti, e così, rinnovati e riplasmati dalla poten-
za della grazia, cominciassero a vivere la vera vita secondo il sen-
tire celeste, dopo essersi spogliati del sentire materiale e terre-
no per mezzo della potenza dello Spirito42.
Pseudo-Macario, Omelie (Coll. I) LII,1,4

39 Cioè l’olio del sacramento del crisma.


40 Lo stesso parallelismo tra l’epiclesi eucaristica e l’epiclesi sull’olio del santo cri-
sma si ritrova in Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 3,3.
41 Cioè l’intera economia sacramentale.
42 Dal seguito del brano si comprende come per l’autore la potenza dello Spirito

santo operi, attraverso i carismi, soltanto nei cuori dei fedeli che ne sono degni, men-
tre rimane inefficace negli indegni, proprio come nell’antica alleanza l’arca accoglieva
veramente la presenza dello Spirito di Dio, ma ciò non produceva alcun effetto visibi-
le a causa dei peccati del popolo.

335
Capitolo IX

13. Commemorando ciò che avvenne43, il sacerdote ci prepa-


ra a vedere per mezzo di queste offerte il dono stesso di Cristo
nostro Signore. Ma da quel momento è necessario che per la for-
za di queste azioni [liturgiche] Cristo nostro Signore resusciti
dai morti e spanda la sua grazia su tutti noi, cosa che non può
avvenire se non per mezzo della discesa dello Spirito santo. Fu
appunto grazie a essa che un tempo [Dio] lo resuscitò, come ci
ha insegnato il beato Paolo che in un passo dice: E fu conosciu-
to il Figlio di Dio in potenza e Spirito santo, attraverso la resurrezio-
ne dai morti di Gesù Cristo nostro Signore (Rm 1,4); e da un’altra
parte: Se lo Spirito di colui che ha resuscitato Gesù Cristo dai mor-
ti abita in voi, colui che ha resuscitato Cristo dai morti vivificherà
i vostri corpi mortali, a causa del suo Spirito che abita in voi (Rm
8,11). Così dice anche il nostro Signore: È lo Spirito che vivifi-
ca, la carne non giova a nulla (Gv 6,63).
È dunque necessario che il sacerdote, secondo la legge del sa-
cerdozio, presenti una domanda e una supplica a Dio perché ci
sia la venuta dello Spirito santo e la grazia venga da lassù sul pa-
ne e sul vino presentati, affinché appaia veramente che sono il
corpo e il sangue del nostro Signore44, che è il memoriale dell’im-
mortalità. Poiché anche il corpo del nostro Signore Gesù Cristo
che appartiene alla nostra natura era prima mortale per natura,
ma per mezzo della resurrezione passò a una natura immortale
e immutabile.
Quando dunque il sacerdote dice che questo [pane e questo
vino] sono il corpo e il sangue di Cristo rivela chiaramente che
lo sono diventati attraverso la venuta dello Spirito santo, e che
attraverso di lui sono diventati immortali; poiché anche il cor-
po del nostro Signore, quando fu unto e ricevette lo Spirito, si
mostrò chiaramente così. Allo stesso modo anche ora, alla venu-
ta dello Spirito santo, noi crediamo che il pane e il vino presen-

43 Ciò che avvenne nell’ultima cena e nella passione del Signore.


44 Per un’espressione simile cf. supra, §§ α; γ.

336
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

tati ricevano una specie di unzione della grazia che viene sopra
di loro; e da quel momento li crediamo essere il corpo e il sangue
di Cristo, immortali, incorruttibili, impassibili e immutabili per
natura, come avvenne per il corpo del nostro Signore per mez-
zo della resurrezione.
Ma il sacerdote domanda anche che la grazia dello Spirito
santo venga su tutti coloro che sono radunati, affinché, come at-
traverso la nuova nascita45 sono stati resi un solo corpo, siano an-
che ora rinsaldati come in un solo corpo per mezzo della comu-
nione al corpo del Signore, e che nella concordia, nella pace e
nella pratica del bene, diventino una cosa sola (cf. Gv 17,21-22);
affinché tutti noi, guardando così verso Dio, con un pensiero in-
tegro, non riceviamo la partecipazione allo Spirito santo per il
nostro castigo, essendo divisi nelle nostre comprensioni e incli-
ni a discussioni e dispute, a invidia, a gelosia, disprezzando i
buoni comportamenti, ma ci mostriamo degni di riceverlo pro-
prio perché nella concordia, nella pace, nella pratica del bene e
con un pensiero integro teniamo l’occhio della nostra anima ri-
volto verso Dio. E così ci uniremo nella comunione ai santi mi-
steri, e, attraverso di essa, saremo congiunti al nostro capo, il
Cristo nostro Signore (cf. Col 1,18), del quale noi, come credia-
mo, siamo il corpo, e attraverso il quale otteniamo la comunio-
ne con la natura divina (cf. 2Pt 1,4).
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,11-13

14. Vuoi vedere da un altro prodigio la superiorità di questa


santificazione46? Raffigùrati davanti agli occhi Elia e la folla in-
torno a lui, la vittima sacrificale già posta sulle pietre e tutti gli
altri nella quiete e in un profondo silenzio, e solo il profeta in-
tento a pregare; poi a un tratto ecco la fiamma scagliata dai cie-
li sulla vittima (cf. 1Re 18,30-38): eventi mirabili questi e che

45 Il battesimo.
46 La santificazione delle offerte realizzata nel sacramento eucaristico.

337
Capitolo IX

riempiono di stupore! Ora passa dunque da quegli eventi a quel-


li che si compiono adesso, e vedrai non solo cose mirabili ma an-
che superiori a ogni stupore. Il sacerdote infatti è qui non per far
scendere un fuoco, ma lo Spirito santo, e prolunga la supplica
non perché una fiamma lanciata dall’alto consumi i doni che so-
no presentati, ma perché la grazia discendendo sulla vittima ac-
cenda per mezzo di essa le anime di tutti e le renda più splen-
denti dell’argento purificato nel fuoco (cf. Sal 11,7)47. Chi dun-
que, a meno che non sia pazzo o fuori di sé, potrà disprezzare
questo rito che incute grandissimo timore? O ignori forse che
l’anima umana non potrebbe mai sopportare quel fuoco del sa-
crificio, ma tutti ne sarebbero completamente annientati, se non
vi fosse il grande aiuto della grazia di Dio?
Giovanni Crisostomo, Sul sacerdozio 3,4

15. È forse la vita del sacerdote, è forse la sua virtù a compie-


re un’opera così grande48? No. I benefici di cui Dio ci fa grazia
non sono tali da poter essere realizzati dalla virtù di un sacer-
dote: tutto è frutto della grazia! A costui spetta soltanto di apri-
re la bocca, ma è Dio che opera tutto. Egli adempie unicamen-
te la funzione di segno49. Pensa alla grande differenza che c’è
tra Giovanni e Gesù. Ascolta infatti Giovanni che dice: Io ho
bisogno di essere battezzato da te (Mt 3,14), e ancora: Non sono
degno di sciogliere il legaccio del [suo] sandalo (Gv 1,27). E tutta-
via, malgrado tale grande differenza, lo Spirito – che Giovan-
ni non aveva – discese, poiché è detto: È dalla sua pienezza che

47 Qui e nei passi seguenti è lo Spirito santo invocato nell’epiclesi l’unico attore del-

la santificazione delle offerte, a differenza di altri passi dello stesso autore (cf. supra,
c. VIII,20-22) dove viene piuttosto sottolineato il ruolo svolto da Cristo per mezzo
della sua Parola. L’autore non si è preoccupato di elaborare una teoria che conciliasse
armonicamente le due prospettive, anche se probabilmente esse non erano per lui in
contraddizione tra loro.
48 L’autore allude alla celebrazione dei sacramenti, e in particolare di quello eucari-

stico.
49 Lett.: “simbolo” (sØmbolon), cioè di segno sacramentale. Cf. supra, c. VIII,20.

338
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

tutti noi [lo] abbiamo ricevuto (Gv 1,16)50. Non discese però pri-
ma del battesimo, né fu Giovanni a farlo discendere. Perché
dunque avviene questo? Perché tu sappia che il sacerdote adem-
pie la funzione di segno. Non c’è uomo tanto diverso da un al-
tro, quanto Giovanni da Gesù, e tuttavia lo Spirito discese su
di lui, affinché tu sappia che è Dio che opera tutto, è Dio che
fa tutto51.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera a Timoteo 2,4

16. Quando vedi lo Spirito santo discendere con abbondan-


za, non dubitare più della nostra riconciliazione [con Dio]. Ma
dov’è ora, qualcuno potrebbe dire, lo Spirito santo? Va bene un
tempo, quando avvenivano segni, i morti resuscitavano e tutti
i lebbrosi erano purificati. Ma ora, come possiamo mostrare che
lo Spirito santo è presente tra di noi? Non temete: vi dimostro
che anche ora lo Spirito santo è presente tra di noi. Come? Se
lo Spirito santo non è tra di noi, in che modo questi uomini che
in questa santa notte sono stati illuminati52 sono stati liberati
dai peccati? Senza l’azione dello Spirito santo infatti non è nep-
pure possibile essere liberati dai peccati …
Se non vi fosse lo Spirito santo non vi sarebbe nella chiesa
parola di sapienza e di scienza, perché a uno viene data per mez-
zo dello Spirito una parola di sapienza, a un altro una parola di scien-
za (1Cor 12,8). Se non vi fosse lo Spirito santo, non ci sarebbe-
ro nella chiesa pastori e maestri … Se non vi fosse lo Spirito san-
to in questo nostro comune padre e maestro53, quando poco fa

50 Interpreto il versetto in modo coerente con il contesto.


51 Nel seguito del testo riportato nel capitolo precedente (cf. supra, c. VIII,21) l’au-
tore parla dell’efficacia delle parole di Cristo, ma da quanto precede si deduce che que-
sta efficacia dipende da Dio stesso che, per mezzo del suo Spirito, continua ad opera-
re anche ora.
52 Cioè battezzati. Uno dei nomi del battesimo era “illuminazione” (phótisma o pho-

tismós), in base a Eb 6,4; 10,32.


53 L’autore si riferisce al vescovo Flaviano di Antiochia che ha presieduto la cele-

brazione eucaristica.

339
Capitolo IX

è salito su questa santa tribuna54 e ha dato la pace a voi tutti, voi


non gli avreste risposto tutti insieme: “E con il tuo Spirito!”55.
Per questo gli rispondete con questa formula non soltanto quan-
do sale, né solo quando vi parla e prega per voi, ma anche quan-
do sta in piedi davanti a questa sacra mensa e sta per offrire quel
tremendo sacrificio. Ciò che dico lo capiscono coloro che sono
iniziati: egli non tocca i doni presentati [sulla mensa] finché non
ha chiesto al Signore la grazia per voi, e finché voi non gli ave-
te risposto: “E con il tuo Spirito!”. Con questa risposta ricor-
date a voi stessi che non è lui, qui presente, a fare alcunché e che
i doni presentati non sono opera della natura umana, ma che è
la grazia dello Spirito, che è presente e si libra su ogni cosa56, a
realizzare quel mistico sacrificio. Anche se infatti chi è qui pre-
sente è un uomo, tuttavia è Dio che opera per mezzo di lui. Non
fermare perciò l’attenzione alla natura di colui che vedi, ma con-
sidera la grazia che è invisibile. In tutto ciò che si compie su que-
sta santa tribuna non vi è nulla di umano! Se non fosse presen-
te lo Spirito santo, non esisterebbe la chiesa; se però la chiesa
esiste, è evidente che lo Spirito è presente57.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Pentecoste 1,3-4

17. Se anche ora non vi fosse la caparra dello Spirito (cf. 2Cor
1,22), non potrebbe esistere il battesimo, non ci sarebbe remis-

54 In greco: bêma. Si tratta del “santuario”, lo spazio leggermente rialzato sotto-

stante l’abside, sul quale si trovavano l’altare e la cattedra episcopale (spesso collocata
al centro del sØnthronon). Cf. Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 234-236.
55 Qui l’autore interpreta la formula come un riferimento allo Spirito santo presen-

te nel ministro ordinato. Il riferimento è al saluto iniziale dato all’assemblea dal presi-
dente subito dopo la sua entrata e prima della sua salita sul sØnthronon collocato al fon-
do dell’abside (cf. supra, p. 166, n. 2).
56 C’è un’allusione evidente allo Spirito di Dio che “si librava sulle acque” (Gen

1,2) all’inizio dell’opera della creazione.


57 Cf. Pentecostario, Domenica di Pentecoste, p. 200: “Tutto dispensa lo Spirito

santo: fa scaturire le profezie, ordina i sacerdoti, ha insegnato la sapienza agli illette-


rati, ha reso teologi i pescatori, tiene saldo tutto l’armonico ordinamento della chiesa”
(cf. Cantare la gloria del Signore. Preghiere della liturgia bizantina, a cura di M. B. Artio-
li, Qiqajon, Bose 2007, p. 167).

340
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

sione dei peccati, non ci sarebbero giustizia e santificazione (cf.


1Cor 1,30), non avremmo ricevuto l’adozione a figli (cf. Rm
8,15; Gal 4,5), non potremmo godere dei [santi] misteri – il cor-
po e il sangue mistico, infatti, non avrebbero mai potuto esser-
ci senza la grazia dello Spirito – e non avremmo sacerdoti, poi-
ché neppure queste ordinazioni per imposizione delle mani sa-
rebbero potute avvenire senza quella discesa. E si potrebbero
citare anche molti altri segni della grazia dello Spirito.
Giovanni Crisostomo, Omelia sulla resurrezione dai morti 8

18. Che cosa fai, o uomo? Quando il sacerdote sta davanti al-
la mensa, tendendo le mani al cielo, invocando lo Spirito santo,
perché venga e tocchi le offerte, c’è molta calma e molto silen-
zio; e quando lo Spirito ha donato la sua grazia, quando è di-
sceso, quando ha toccato le offerte, quando ormai vedi l’agnello
immolato e perfetto, proprio allora fai rumore e confusione, li-
tighi e offendi? E come potrai trarre giovamento da questo sacri-
ficio, se ti accosti a questa mensa facendo tutto questo chiasso?
Giovanni Crisostomo, Omelia sul cimitero e sulla croce 3

19. [Origene] afferma che l’azione dello Spirito santo non ri-
guarda gli esseri inanimati e che non raggiunge quelli privi di
ragione. Ma asserendo ciò non pensa che le acque mistiche del
battesimo sono consacrate dalla discesa dello Spirito santo e che
il pane del Signore, nel quale si manifesta il corpo del Salvato-
re e che noi spezziamo per la nostra santificazione, come pure
il sacro calice – che sono posti sulla mensa della chiesa e che so-
no entrambi realtà inanimate – sono santificati per mezzo del-
l’invocazione e della venuta dello Spirito santo. Ma se la virtù
dello Spirito santo non si estende agli esseri privi di ragione e
inanimati, perché allora David canta: Dove andrò lontano dal tuo
Spirito (Sal 138,7)? Così dicendo dimostra che lo Spirito santo
contiene tutte le cose e che la sua maestà le circonda.
Teofilo di Alessandria, Lettera festale XVII 13

341
Capitolo IX

20. Un foglio, fatto con il papiro e la colla, è chiamato sem-


plicemente foglio, ma una volta che ha ricevuto la firma dell’im-
peratore tutti sanno che è chiamato “cosa sacra”58. Allo stesso
modo comprendi anche i divini misteri: prima della supplica del
sacerdote e della discesa dello Spirito santo i doni presentati
sono semplice pane e vino comune, ma dopo quelle epiclesi che
incutono timore e dopo la venuta dello Spirito adorabile, vivi-
ficante e buono le offerte poste sopra la santa mensa non sono
più semplice pane e vino comune, ma il corpo e il sangue prezio-
so e immacolato di Cristo, Dio di tutti, che purifica da ogni mac-
chia coloro che vi partecipano con grande timore e desiderio.
Nilo di Ancira, Lettere 1,44

21. Per mezzo dell’epiclesi la potenza dello Spirito santo di-


venta pioggia per questa nuova coltivazione coprendola con la
sua ombra59. Come infatti tutto ciò che Dio ha fatto, l’ha fatto
grazie all’energia dello Spirito santo, così anche ora l’energia
dello Spirito realizza cose superiori alla natura, che non è pos-
sibile comprendere se non con la sola fede. Come mi avverrà que-
sto – disse la santa Vergine – dal momento che non conosco uo-
mo? (Lc 1,34). L’arcangelo Gabriele rispose: Lo Spirito santo
scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua om-
bra (Lc 1,35). E ora tu chiedi: “Come può il pane diventare cor-
po di Cristo e il vino e l’acqua sangue di Cristo?”. Anch’io ti
dico: viene lo Spirito santo e compie queste cose che sono supe-
riori alla parola e al pensiero …
È un corpo veramente unito alla divinità60, il corpo stesso na-
to dalla santa Vergine, non perché quel corpo che fu assunto in

58 Il termine “sacra” indicava un rescritto imperiale.


59 Il testo è la prosecuzione di quello riportato nel capitolo precedente (cf. supra, c.
VIII,25). La “nuova coltivazione” sono qui il pane e il vino dell’eucaristia, primizia
della creazione e dei frutti della terra, che Dio benedisse al principio con il comando:
“La terra produca germogli di erba” (Gen 1,11).
60 Cioè il pane eucaristico diventato corpo di Cristo.

342
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

cielo ora discenda dal cielo, ma perché il pane e il vino stessi so-
no trasformati nel corpo e nel sangue di Dio.
Se poi ricerchi il modo, cioè come avvenga, ti basti sapere che
ciò avviene per mezzo dello Spirito santo, così come per mezzo
dello Spirito dalla santa Vergine il Signore formò a se stesso e
in se stesso una carne; e non sappiamo nient’altro, se non che la
parola di Dio è vera ed efficace (cf. Eb 4,12) e onnipotente, ma
il modo non è investigabile. Tuttavia non è male dire anche
questo, e cioè che, come il pane attraverso l’atto del mangiare e
il vino e l’acqua attraverso l’atto del bere si trasformano in mo-
do naturale nel corpo e nel sangue di colui che mangia e beve, e
non diventano un altro corpo diverso dal suo corpo precedente,
così per mezzo dell’epiclesi e della venuta dello Spirito santo il
pane dell’offerta insieme al vino e all’acqua vengono trasforma-
ti in modo soprannaturale nel corpo e nel sangue di Cristo, e non
sono due, ma un’unica e medesima realtà.
Giovanni di Damasco, Sulla fede ortodossa 86, ll. 74-84; 94-107

22. [Il sacerdote] invoca di nuovo Dio di portare a compimen-


to il mistero di suo Figlio, e che esso si realizzi, ovvero che il
pane e il vino siano trasformati nel corpo e nel sangue di Cristo
e Dio, e si compia la parola: Io oggi ti ho generato (Sal 2,7). E co-
sì lo Spirito santo invisibilmente presente per il beneplacito e
la volontà del Padre manifesta l’energia divina e per mezzo del-
la mano del sacerdote conferma e sigilla e consacra i santi doni
che sono presentati [trasformandoli] nel corpo e nel sangue del
nostro Signore Gesù Cristo, che ha detto: Per loro io santifico
me stesso, affinché siano anch’essi santificati (Gv 17,19), come an-
che: Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in
me e io in lui (Gv 6,56).
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 41

23. Per non farci credere che tutto si riduce al pane visibile,
[Cristo] ha detto più volte: Io sono il pane che discende dal cie-

343
Capitolo IX

lo (Gv 6,51). E non ha detto: “Il pane che è disceso”61, perché


questo significherebbe che è disceso una sola volta. Ma che co-
sa? Quello che discende – dice –, ossia che sempre e in ogni mo-
mento discende e anche adesso a ogni ora si rende presente in
coloro che ne sono degni62… E per chiarire ciò, ancora meglio
dice: Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al
mondo (Gv 6,33). Dice di nuovo: Colui che discende, e di nuo-
vo: Che dà la vita. E perché questo? Perché tu non sospetti nien-
te di corporeo e non concepisca niente di terrestre, ma anche
perché tu veda con gli occhi della mente che questo piccolo pa-
ne, questa minuscola porzione è trasformata in Dio e diventa tut-
ta intera uguale al pane che discende dal cielo e che è vero Dio,
pane e bevanda di vita immortale …
La carne non giova a nulla, è lo Spirito che vivifica (Gv 6,63).
Sì, è realmente lo Spirito il vero cibo e la vera bevanda (cf. Gv
6,55), è lo Spirito che trasforma il pane in corpo del Signore, è
realmente lo Spirito che ci purifica e ci fa comunicare in modo
degno al corpo del Signore. Coloro che infatti comunicano a
esso in modo indegno, come dice l’Apostolo, mangiano e bevo-
no la propria condanna, non discernendo il corpo del Signore (1Cor
11,29).
Simeone il Nuovo Teologo, Trattati etici 3, ll. 512-553

24. Ovunque il pane viene deposto e il vino versato


in nome della tua carne e del tuo sangue, o Verbo,
là tu stesso sei presente, mio Dio e Verbo,
e questi diventano veramente il tuo corpo e il tuo sangue
per la venuta dello Spirito e la potenza dell’Altissimo (Lc 1,35);
e noi con audacia tocchiamo Dio, l’Inaccessibile,
o piuttosto colui che abita
in una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16)

61 L’autore, che cita a memoria, fa confusione tra i versetti paralleli Gv 6,33 e

6,51; il secondo ha infatti: “che è disceso”, non “che discende”.


62 L’autore qui si ispira ad Anastasio il Sinaita, Sull’Esamerone 12 (1068C).

344
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

non solo per la nostra umana natura corruttibile,


ma anche per tutte le schiere spirituali degli angeli.
Simeone il Nuovo Teologo, Inni 14, vv. 55-63

25. Quando [il sacerdote] ha ripetuto a voce alta le stesse pa-


role [del Signore]63, si prostra, prega e supplica che quelle divi-
ne parole del Salvatore, l’unigenito Figlio di Dio, si applichino
anche ai doni posti [sulla mensa] e che essi, accogliendo il suo
Spirito santissimo e onnipotente, vengano trasformati: il pane
nel suo stesso prezioso e santo corpo e il vino nel suo stesso im-
macolato e santo sangue.
Dopo queste preghiere e parole, l’intero rito sacro è compiu-
to e terminato, i doni sono santificati, il sacrificio è completato
e la grande vittima e offerta sacrificale, immolata per il mon-
do, è ormai visibile là sopra la mensa. Il pane infatti non è più
figura del corpo del Signore64 né una semplice offerta che reca
in sé l’immagine della vera offerta o che contiene una semplice
rappresentazione delle salutari sofferenze [di Cristo], come in
un quadro, ma è la stessa autentica offerta, lo stesso santissimo
corpo del Signore che ha ricevuto veramente tutti quegli oltrag-
gi, le violenze, i segni delle percosse, è stato crocifisso, immola-
to, ha reso la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato (1Tm
6,13), è stato schiaffeggiato e torturato, ha sopportato gli sputi
e gustato il fiele (cf. Mt 26,67; 27,30.34). Allo stesso modo an-
che il vino [è diventato] quello stesso sangue sgorgato dal suo
corpo immolato. Questo è il corpo, questo il sangue concepito
per opera dello Spirito santo, nato dalla beata Vergine, sepolto,
risorto il terzo giorno, asceso ai cieli e seduto alla destra di Dio
Padre65.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 27

63 Cioè le parole dell’istituzione.


64 Cf. supra, c. VIII,17.
65 Queste frasi, che fanno evidentemente eco alle formule del simbolo niceno-co-
stantinopolitano, pur senza cadere negli eccessi iper-realistici tutt’altro che sconosciu-

345
Capitolo IX

26. Su cosa si basa la nostra fede? Egli stesso ha detto: Que-


sto è il mio corpo e: Questo è il mio sangue (Mt 26,26.28). Egli
stesso ha ordinato agli apostoli e attraverso di loro a tutta la
chiesa di fare questo: Fate questo – dice infatti – in memoria di
me (Lc 22,19), e non avrebbe ordinato di fare questo se non fos-
se stato pronto a infondere la potenza necessaria per farlo.
E qual è questa potenza? Lo Spirito santo, la potenza che dal-
l’alto ha armato gli apostoli, secondo ciò che fu detto loro dal
Signore: Quanto a voi, restate nella città di Gerusalemme, finché
non siate rivestiti di potenza dall’alto (Lc 24,49). Questa è l’ope-
ra di quella discesa. Disceso una volta per tutte, infatti, non ci
ha poi abbandonato, ma è con noi e lo sarà per sempre. Per que-
sto infatti il Salvatore ce lo ha mandato, perché rimanga con noi
per sempre, lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere, poi-
ché non lo vede né lo conosce, ma voi lo conoscete, poiché dimora
presso di voi e sarà in voi (Gv 14,16-17). È questo [Spirito] che
opera i misteri attraverso la mano e la lingua dei sacerdoti. Ma
il Signore non ci ha soltanto mandato lo Spirito santo perché ri-
manga con noi, ma anche lui stesso ha promesso di rimanere con
noi fino alla consumazione del tempo (Mt 28,20). Se però il Para-
clito è presente in modo invisibile, poiché non ha rivestito un
corpo, il Signore invece si lascia vedere e toccare attraverso i te-
mibili e santi misteri, poiché egli ha accolto in sé la nostra na-
tura e la porta con sé per sempre.
Questa è la potenza del sacerdozio, questo il sacerdote. Do-
po essersi offerto e immolato una volta per tutte, infatti, [il Si-
gnore] non ha cessato il proprio sacerdozio, ma esercita continua-
mente per noi questa liturgia, in virtù della quale egli è per noi
un “paraclito”66 presso Dio per sempre. Proprio per questo a

ti a Bisanzio, sono tuttavia una testimonianza di “realismo eucaristico” in tutto para-


gonabile a quello che Pascasio Radberto propugnò in occidente qualche secolo prima
(cf. M.-H. Congourdeau, “L’enfant immolé. Hyper-réalisme et symbolique sacrificiel-
le à Byzance”, in Pratiques de l’eucharistie I, pp. 293-307).
66 Il titolo, generalmente riferito allo Spirito santo, è qui attribuito al Cristo glorio-

so che, secondo 1Gv 2,1, intercede presso Dio Padre quale “avvocato”.

346
“Fa’ scendere il tuo Spirito santo”

lui è stato detto: Tu sei sacerdote per sempre (Sal 109,4; Eb 7,17).
Ecco perché i fedeli non debbono avere alcun dubbio riguardo
alla santificazione dei doni, né riguardo agli altri riti, a condi-
zione che siano compiuti secondo l’intenzione e attraverso le
preghiere dei sacerdoti. Su questo argomento abbiamo detto a
sufficienza.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 28,1-5

27. Noi affidiamo la santificazione dei misteri alla preghiera


del sacerdote67, non perché confidiamo in una potenza umana,
ma su quella di Dio. Infatti [crediamo che ciò si realizzi] non in
virtù della preghiera dell’uomo, ma di Dio che la esaudisce, non
perché l’uomo ha supplicato, ma perché la Verità ha promesso
di farci tale dono.
Del resto, che il Cristo abbia manifestato di volerci accorda-
re sempre tale grazia, non c’è neppure bisogno di dirlo. È per
questo infatti che egli venne sulla terra, fu immolato e morì. Per
questo [furono istituiti] altari e sacerdoti, per questo ogni gene-
re di purificazione, di precetti, di insegnamenti e di esortazio-
ni: perché fosse imbandita per noi questa mensa. Se [il Signore]
diceva di desiderare quella Pasqua (cf. Lc 22,15), fu proprio per-
ché allora stava per consegnare ai discepoli la vera Pasqua, che è
questa. Se comandò loro: Fate questo in memoria di me (Lc 22,19),
fu proprio perché egli voleva che questo sacro rito fosse da noi
celebrato sempre.
Quale incertezza potrebbe dunque sussistere per coloro che
pregano, riguardo a ciò che chiedono, se [è evidente che] essi ri-
ceveranno ciò che domandano di ricevere, e che colui che può
donare desidera donare? Coloro dunque che affidano la santi-
ficazione dei doni alla preghiera non intendono certo disprez-
zare le parole del Salvatore68, né tantomeno confidare in se stes-

67 Cioè alla preghiera dell’epiclesi.


68 Evidente riferimento alla polemica con i teologi latini che affermavano l’efficacia
delle parole dell’istituzione per la santificazione dei doni (cf. supra, c. VIII,27).

347
Capitolo IX

si, né fanno dipendere il mistero69 da una cosa incerta, cioè dal-


la preghiera umana, come in modo infondato ci rimproverano i
latini …
Che infatti Dio esaudisca coloro che lo pregano (cf. Mt 7,7-11),
conceda lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono (cf. Lc 7,13)
e che nulla sia impossibile a coloro che lo supplicano con fede
(cf. Mt 17,20), è Dio stesso che l’ha affermato ed è impossibile
che queste sue parole non siano vere. Ma che un effetto simi-
le sia assicurato a chiunque reciti questa o quella formula, non
è detto da nessuna parte.
Il fatto poi di celebrare i misteri con la preghiera ce lo han-
no tramandato i padri, che hanno ricevuto questo insegnamen-
to dagli apostoli e dai loro successori; e ciò vale sia per tutti gli
altri misteri, come ho già detto, sia per la santa eucaristia [come
affermano] insieme a molti altri Basilio il Grande e Giovanni
Crisostomo70, i grandi dottori della chiesa. E chi li contraddice
non merita alcuna considerazione da parte di coloro che voglio-
no custodire la retta fede.
Nicola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 29,7-10.20-21

69Cioè il sacramento dell’eucaristia.


70Riferimento alle anafore attribuite a Basilio e a Giovanni Crisostomo, che con-
tengono entrambe epiclesi consacratorie (cf. supra, §§ α; β).

348
Capitolo X
“TI PREGHIAMO, SIGNORE, PER …”

Nella maggior parte delle anafore conservateci dalla tradizione,


l’epiclesi sfocia in modo naturale, senza quasi soluzione di continui-
tà, nella supplica di intercessione. L’assemblea, attraverso la voce del
ministro, dopo aver invocato solennemente lo Spirito santo sui do-
ni presentati e su se stessa, cosciente di essere già radunata in unità
come “corpo di Cristo” (cf. § 7), ma che questa unità è ancora na-
scosta nel mistero del sacramento e attende di compiersi in pienez-
za nel Regno (cf. supra, c. IX, 13), comincia a elevare preghiere e
suppliche per tutti coloro che, non essendo fisicamente presenti alla
stessa celebrazione, sono tuttavia sentiti come parte dello stesso “cor-
po” (cf. § 4): in questo modo la chiesa fa propria la preghiera di inter-
cessione elevata da Cristo nell’ultima cena (cf. Gv 17,1-26) e quel-
la che egli non cessa mai di rivolgere al Padre in favore di tutti gli
uomini.
I testi dei padri che qui presentiamo1 sottolineano con forza l’inti-
mo legame tra il memoriale del sacrificio di Cristo, che ha offerto
la sua vita “per tutti”, e la memoria dei fratelli, secondo le più di-
verse categorie di persone e di situazioni a cui essa può estendersi:
viventi e defunti, giusti e peccatori, potenti e deboli, amici e nemi-
ci, sani e malati… (cf. §§ α; 4). Ancor prima di esser motivata dal
desiderio di intercedere in loro favore, essa è prima di tutto la sem-

1 Alcuni di questi testi possono riferirsi alla “preghiera dei fedeli” che segue la li-

turgia della Parola più che alle intercessioni anaforiche.

349
Capitolo X

plice e genuina espressione del desiderio dell’assemblea radunata di


stringersi attorno al Cristo insieme a tutti coloro che gli appartengo-
no o sono potenzialmente chiamati ad appartenergli, allo stesso mo-
do in cui all’inizio della preghiera eucaristica l’assemblea si era uni-
ta al coro festoso degli angeli del cielo: in questo modo essa prende
coscienza di essere parte della “santa chiesa cattolica e apostolica”
diffusa in tutto il mondo abitato (cf. § α; β; 8; 9), e che quest’ulti-
ma a sua volta non è che una piccola parte dell’unica famiglia uma-
na di tutti i tempi e di tutte le regioni della terra (cf. §§ 4-8; 10),
chiamata anch’essa secondo il disegno di Dio a essere riunita in Cri-
sto. È questa del resto la preghiera che chiude l’anafora eucaristica
più antica che ci sia stata conservata, quella della Didaché: “Come
questo pane spezzato era sparso sui colli e poi, raccolto, è diventato
una cosa sola, così sia raccolta la tua chiesa dagli estremi confini del-
la terra nel tuo regno” (supra, c. VI,12).
I padri invitano i fedeli a prendere piena consapevolezza del mo-
mento prezioso che vivono durante l’anafora eucaristica – si tratta
di un vero kairós, di un’occasione favorevole (cf. §§ 2-6) –: essi si
trovano ammessi tutti insieme davanti al Signore che è presente sul-
l’altare con il suo corpo il suo sangue. Questo li abilita a una fidu-
cia e a una franchezza (parrhesía) maggiori di quella che potrebbe-
ro avere in altri momenti se pregassero a casa propria o da soli (cf. §§
6-7): la loro preghiera acquista una forza e un’efficacia incompara-
bili, innanzitutto perché è sostenuta da quella di tanti fratelli (cf.
§§ 5-7), e poi perché, di fronte alla “vittima” posta sull’altare, essi
sono costituiti tutti insieme come popolo di sacerdoti (cf. § 5). Fa-
re memoria dei fratelli, in particolare di quelli defunti, proprio in
questo “momento” (kairós) significa confessare che nella morte del
Signore “la morte è stata messa a morte” (§ 3) e che tutti vivono in
lui (cf. § 1; 10); significa esprimere il proprio amore e intercedere
per chi ha peccato (cf. §§ 2-5; 12), nella coscienza che ogni perdo-
no, ogni salvezza e ogni beneficio trova origine e fondamento pre-
cisamente in quel sacrificio in cui “Dio ha dato se stesso per il mon-
do intero” (§ 3). Celebrando di fronte a Dio il memoriale del sacri-

350
“Ti preghiamo, Signore, per …”

ficio di Cristo è come se la chiesa gli “ricordasse” sempre di nuovo,


oltre a ricordarlo a se stessa, il motivo per cui quell’offerta è stata
compiuta una volta per tutte (cf. §§ 2; 6; 10): è questo che genera
in lei franchezza e fiducia nelle sue domande (cf. § 13).
Ecco perché per i padri non è affatto indifferente né senza moti-
vo la tradizione, che essi ritengono di origine apostolica (cf. §§ 5;
12), di far memoria e di pregare per sé e per gli altri proprio durante
la celebrazione eucaristica, più che in altri momenti. Non è certo
Dio a esigerlo o a sentirne il bisogno – egli non è legato né ai tempi
né ai luoghi, e i padri ne sono ben coscienti – ma è piuttosto la di-
mensione terrena, spazio-temporale, della vita umana, cui l’economia
sacramentale si adatta con condiscendenza, a richiedere dei momen-
ti precisi in cui l’uomo, con maggior libertà e franchezza, possa pren-
dere coscienza del “mistero” che sostiene la sua vita e quella degli
altri uomini. Rifiutarsi di riconoscere questa dimensione propria del-
la liturgia cristiana negando valore al kairós sacramentale – maga-
ri in nome di una concezione più spirituale di Dio – significa in de-
finitiva non riconoscere che Dio ha scelto di entrare nella nostra sto-
ria, per manifestare la sua misericordia in un tempo e in un luogo
precisi: questa indifferenza, oltre che essere espressione di quel tipi-
co atteggiamento di indolenza venata di disincanto e di fatalismo,
che i padri chiamano rhathymía2 e che tante volte stigmatizzano,
tradisce in definitiva, mascherata dietro a speciose quanto inconsi-
stenti giustificazioni, una profonda mancanza di fede (cf. § 3).
La preghiera elevata a una sola voce dall’intero “corpo della chie-
sa” (§ 7), “mentre il Signore è presente” (§ 3), è dunque riconosci-

2 In proposito è stato scritto: “Si traduce generalmente questa parola con ‘pigrizia’,

‘indifferenza’ o ‘negligenza’; la si potrebbe tradurre anche con ‘lasciar fare’, poiché es-
sa designa l’atteggiamento di coloro che si lasciano condurre dalle forze esteriori degli
astri o dalle forze interiori del desiderio. La rhathymía è il contrario della vigilanza,
dell’attenzione che il credente deve incessantemente mantenere per le cose della fede,
e in particolare durante le celebrazioni liturgiche … Si tratta di una tendenza inscrit-
ta nella natura umana che dipende dalla volontà dell’uomo seguire o no, di cui Giovan-
ni Crisostomo dice una volta che è la radice della disperazione e contro la quale mette
spesso in guardia i suoi ascoltatori, in particolare i neofiti” (Ph. de Roten, Baptême et

351
Capitolo X

mento della propria povertà, ancora segnata dalla divisione, dal pec-
cato, dalla morte, dal male, ma insieme riconoscimento della poten-
za del mistero celebrato: la comunità cristiana impara ad accogliere
il pro vobis proclamato in modo solenne e incondizionato dalle pa-
role del Signore (“questo è il mio corpo spezzato per voi”) solo nel-
la misura in cui, nella supplica, lo riconosce come pro nobis e pro
omnibus. È solo nella supplica che essa diventa pienamente consa-
pevole del dono prima celebrato nella lode e nel rendimento di gra-
zie, e può tradurre questa consapevolezza in responsabilità3.
Un ultimo elemento, nella sua apparente singolarità, può aiutar-
ci a definire meglio il carattere proprio di questa intercessione euca-
ristica nella visione dei padri. Oltre infatti a far memoria dei defun-
ti, di tutti coloro che hanno peccato, dei vivi che si trovano in dif-
ficoltà di vario genere, di coloro che svolgono i diversi ministeri nelle
chiese e di quelli che sono alla guida dei popoli, l’assemblea ri-
corda davanti a Dio anche chi apparentemente non ha alcun bisogno
di essere sostenuto dalla sua preghiera: i santi. Essi godono già del-
la comunione con Dio e la chiesa sa di poter contare sulla loro in-
tercessione (cf. §§ 4; 16-17) e spera di poter essere associata alla
loro condizione gloriosa (cf. § γ). Quale senso attribuire allora al-
la preghiera “per” (hypér) i santi patriarchi, profeti, apostoli, evan-
gelisti, martiri, e per tutta la schiera dei santi, tra i quali spicca in mo-
do eminente la Madre di Dio? Il testo delle anafore delle Costitu-
zioni apostoliche (cf. § α) e della Liturgia di Giovanni Crisostomo
(cf. § β) è sufficientemente esplicito, e i tentativi di interpretarlo in
modo diverso da ciò che palesemente significa non sembrano con-
vincenti. In realtà, come è stato notato, una tale preghiera diventa
comprensibile solo nella prospettiva dell’attesa escatologica del re-
gno di Dio pienamente realizzato, attesa che è condivisa dalla chie-

mystagogie, p. 31). Su questa nozione, che somiglia per certi versi a quella che le fonti
monastiche chiamano “acedia” (akedía), cf. anche la nota di L. Brottier, in Jean Chryso-
stome, Sermons sur la Genèse, p. 376.
3 Lo stessa cosa si può dire della “preghiera dei fedeli” che segue immediatamente

il dono della parola di Dio.

352
“Ti preghiamo, Signore, per …”

sa del cielo e della terra. Secondo una tale prospettiva, che è ben pre-
sente ai padri più antichi (cf. § 1; 3; 4) – ma non più, a quanto pa-
re, allo Pseudo-Dionigi (cf. § 14) e a Nicola Cabasilas (cf. § 17) 4 –,
anche i santi del cielo attendono la piena redenzione e gridano in-
sieme alla chiesa che lotta ancora sulla terra: “Fino a quando?” (Ap
6,10); anche loro si uniscono all’invocazione incessante dei creden-
ti: “Maranathà!” (1Cor 16,22), “Vieni Signore Gesù!” (Ap 22, 20).
Solo Cristo si separa dalla schiera di tutti i santi del cielo e della
terra, poiché “non può essere equiparato a nessuno degli uomini”
(§ 1). Egli non attende, ma è la pienezza attesa: è lui che, morto per
tutti, intercede per tutti alla destra di Dio quale “Pontefice” (§ 15).
In questo senso “la celebrazione dell’eucaristia è precisamente l’anti-
cipo sacramentale del compimento ultimo, un evento che ‘ricorda’
a Dio il compimento escatologico della salvezza che dovrà essere rea-
lizzata. Di conseguenza, essa ha luogo ‘per’ i santi, poiché i santi nel
cielo attendono, anch’essi, l’avvento del regno futuro” 5.
Secondo la testimonianza della liturgia e dei padri, dunque, la
chiesa nella sua intercessione prega per tutti indistintamente, esten-
dendo a tutti la domanda fondamentale dell’epiclesi: la trasformazio-
ne e l’unità di tutti in un solo “corpo”, quello escatologico di Cristo6.

α. [Il vescovo dica:] Ti preghiamo ancora, Signore, per la tua


santa chiesa [diffusa] da un confine all’altro, che ti sei acqui-
stato con il sangue prezioso del tuo Cristo (cf. At 20,28; 1Pt
1,19), affinché tu la custodisca salda e al riparo dalle tempe-

4 L’escatologia di questi due autori sembra difettare, in questo punto, di una pro-

spettiva ecclesiale e universale per ridursi a una prospettiva individuale: per loro i san-
ti defunti, nella misura in cui si sono assimilati a Cristo, hanno già raggiunto personal-
mente il regno dei cieli e non hanno da attendere altro; possono essere solo motivo di
lode e ringraziamento per la chiesa, non di preghiera. Ma questa non era la prospetti-
va antica.
5 G. Wagner, “La commémoration de saints dans la prière eucharistique”, in Id.,

La liturgie, p. 42.
6 Cf. C. Giraudo, In unum corpus, pp. 325-329 (a proposito dell’anafora di Basilio).

353
Capitolo X

ste fino alla consumazione del tempo (Mt 28,20); e ancora per
tutto l’episcopato che dispensa rettamente la parola di verità
(cf. 2Tm 2,15).
Ti supplichiamo ancora per l’indegnità di me che ti presento
questa offerta, per tutto il presbiterio, per i diaconi e per tut-
to il clero, affinché tu conceda a tutti la sapienza e li ricolmi
dello Spirito santo.
Ti supplichiamo ancora, Signore, per il re, per coloro che sono
al potere (1Tm 2,2) e per tutto l’esercito, affinché possiamo
godere della pace e, trascorrendo nella calma e nella concordia
ogni tempo della nostra vita, possiamo glorificarti attraverso
Cristo, nostra speranza.
Ti presentiamo ancora questa offerta anche per tutti i santi
che fin dalle origini ti furono graditi: patriarchi, profeti, giu-
sti, apostoli, martiri, confessori, vescovi, presbiteri, diaconi,
suddiaconi, lettori, cantori, vergini, vedove, laici e tutti colo-
ro dei quali tu stesso conosci i nomi.
Ti presentiamo ancora questa offerta per questo popolo, af-
finché tu lo renda, a lode del tuo Cristo, sacerdozio regale e na-
zione santa (1Pt 2,9); per coloro che vivono in verginità e casti-
tà, per le vedove della chiesa, per coloro che vivono santamen-
te il matrimonio e generano figli, per i bambini del tuo popolo,
perché tu non rigetti nessuno di noi.
Ti imploriamo ancora per questa città e per coloro che la abi-
tano, per quelli che sono nella malattia, per quelli che sono
sottomessi a dura schiavitù, per coloro che si trovano in esilio,
per coloro cui sono stati confiscati i beni, per i naviganti e per
i viaggiatori, affinché di tutti tu sia soccorritore, difensore e
protettore (Sal 118,114).
Ti supplichiamo ancora per coloro che ci odiano e ci persegui-
tano a motivo del tuo nome (cf. Mt 5,44; 10,22), per coloro
che sono fuori e vagano nell’errore, affinché tu li riconduca al
bene e tu plachi la loro collera.
Ti supplichiamo ancora per i catecumeni della chiesa, per quel-
li che sono tormentati dall’avversario e per i nostri fratelli che
sono nella penitenza, affinché gli uni tu li renda perfetti nel-
la fede, gli altri tu li purifichi dall’opera del maligno e degli ul-

354
“Ti preghiamo, Signore, per …”

timi tu accolga la penitenza, concedendo a loro e a noi il per-


dono dei peccati.
Ti presentiamo ancora questa offerta per la clemenza del
tempo e l’abbondanza dei raccolti, affinché, godendo costan-
temente dei beni che riceviamo da te, possiamo lodare inces-
santemente te che doni il nutrimento a ogni carne (Sal
135,25).
Ti supplichiamo ancora anche per quelli che sono assenti per
un giusto motivo, affinché tu custodisca tutti noi nella pietà,
radunandoci insieme nel regno del tuo Cristo, Dio di ogni
natura sensibile e spirituale e nostro Re, [e mantenendoci] al
riparo dalle deviazioni, irreprensibili ed esenti da ogni accu-
sa. Perché a te attraverso di lui va ogni gloria, onore e azio-
ne di grazie; e a lui, per te e dopo di te, onore e adorazione
nello Spirito santo, ora e sempre, per i secoli dei secoli, in-
cessanti e senza fine.
E tutto il popolo dica: Amen7!
Costituzioni apostoliche VIII,12,40-51

β. Il sacerdote: (a voce sommessa) Ti offriamo ancora questo


culto spirituale (Rm 12,1) per quelli che si sono addormenta-
ti nella fede: progenitori, padri, patriarchi, profeti, apostoli,
predicatori, evangelisti, martiri, confessori, vergini, e per ogni
spirito giusto reso perfetto nella fede. (ad alta voce) In modo
particolare per la tutta santa, immacolata, più che benedetta,
gloriosa Signora nostra, Madre di Dio e sempre Vergine Ma-
ria. Per il santo profeta Giovanni, Precursore e Battista, per
i santi gloriosi e celebrati apostoli, per il santo N. di cui cele-
briamo la memoria, e per tutti i tuoi santi: per le loro preghie-
re visitaci o Dio; e ricordati di tutti coloro che si sono addor-
mentati nella speranza della resurrezione per la vita eterna e

7 A questa preghiera di intercessione il testo ne fa seguire un’altra di uguale teno-

re, pronunciata dal diacono e conclusa dal vescovo, nella quale il vescovo prega anco-
ra per l’assemblea, per tutti i ministri e i membri della chiesa, per i governanti, per i
santi martiri, per i defunti (non menzionati nella prima preghiera) e i neobattezzati
(cf. Costituzioni apostoliche VIII,13,1-10).

355
Capitolo X

fa’ che riposino, o Dio nostro, dove splende la luce del tuo vol-
to (Sal 4,7). Ancora ti supplichiamo: ricordati, Signore, di tut-
to l’episcopato degli ortodossi che dispensa rettamente la pa-
rola della tua verità (cf. 2Tm 2,15), di tutto il presbiterio, del-
l’insieme dei diaconi che servono in Cristo e di ogni grado
dell’ordine sacerdotale. Ti presentiamo ancora questo culto spi-
rituale (Rm 12,1) per il mondo intero, per la santa chiesa cat-
tolica e apostolica8… E concedici di glorificare e di lodare con
una sola bocca (cf. Rm 15,6) e un solo cuore il tuo venerabi-
lissimo e magnifico nome, del Padre, del Figlio e dello Spiri-
to santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli.
Il popolo: Amen!
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 331-332; 337

γ. Il sacerdote: (a voce sommessa) … e fa’ che nessuno di noi


partecipi al santo corpo e sangue di Cristo per un giudizio o
una condanna, ma che possiamo trovare misericordia e gra-
zia insieme a tutti i santi che fin dal principio ti furono gra-
diti: progenitori, padri, patriarchi, profeti, apostoli, annuncia-
tori, evangelisti, martiri, confessori, dottori e tutti gli spiriti
giusti resi perfetti nella fede. (ad alta voce) In modo partico-
lare insieme alla tutta santa, immacolata, più che benedetta,
gloriosa Signora nostra, Madre di Dio9…
Liturgia di Basilio, pp. 330-331

8 La preghiera continua, in modo analogo a quella delle Costituzioni apostoliche,

enumerando varie altre categorie di persone.


9 Anche qui la preghiera procede lungamente elencando le varie categorie di perso-

ne per le quali si intercede. Si noti come in questo testo si chiede a Dio “grazia e mi-
sericordia insieme ai santi” e non “per i santi”, come nella Liturgia di Giovanni Crisosto-
mo e nelle Costituzioni apostoliche. Su questo punto, che nei secoli è stato a lungo og-
getto di discussioni tra gli interpreti, cf. §§ 1; 3; 14-17 e la bibliografia citata infra, p.
376, n. 58.

356
“Ti preghiamo, Signore, per …”

Far memoria e intercedere per tutti,


per diventare “un solo corpo”

1. Quanto all’uso di recitare i nomi dei defunti, cosa potreb-


be esservi di più utile10? Cosa di più opportuno o di più lode-
vole? Innanzitutto perché coloro che sono in questa vita posso-
no credere che quelli che se ne sono andati vivono ancora e non
sono ridotti al nulla, ma esistono e vivono presso il Signore; e
poi perché così viene espressa quella convinzione di fede degna
di assoluto rispetto, secondo la quale c’è una speranza per colo-
ro che pregano per i fratelli, come se fossero partiti in viaggio.
Inoltre la preghiera che facciamo per loro è utile perché, anche
se non riesce ad estinguere tutte le loro colpe, nonostante tut-
to, proprio a causa del fatto che noi, finché siamo nel mondo,
commettiamo molti errori sia volontari che involontari, serve a
indicare ciò che è più perfetto11. Noi infatti facciamo memoria
sia dei giusti che dei peccatori: dei peccatori, implorando per
loro la misericordia di Dio; dei giusti, ossia dei padri, dei pa-
triarchi, dei profeti, dei apostoli, degli evangelisti, dei martiri,
dei confessori, dei vescovi, degli anacoreti, e di tutta la loro
schiera, per separare il Signore Gesù Cristo dalla schiera degli
uomini, grazie all’onore che gli riserviamo, e dimostrargli così
la dovuta venerazione, nella coscienza che il Signore non può
essere equiparato a nessuno degli uomini, anche se ciascuno di
essi avesse compiuto diecimila e più atti di giustizia. Come po-
trebbe essere possibile farlo, dal momento che l’uno è Dio e l’al-
tro uomo? L’uno è in cielo, e l’altro sulla terra, poiché i suoi resti

10 L’autore difende il valore della tradizione ecclesiastica di ricordare i nomi dei de-

funti contro le critiche di Aerio (300-375), esponente di dottrine eretiche, da ricon-


durre all’ambito del monachesimo eustaziano.
11 Come risulta chiaro dal seguito, con l’espressione “ciò che è più perfetto” l’auto-

re si riferisce alla santità e alla giustizia di Cristo, e così difende la legittimità di una
preghiera di intercessione per tutti i defunti, compresi i santi.

357
Capitolo X

mortali sono in terra, a parte coloro che sono risorti e che sono
entrati con lui nella sala delle nozze, come dice il santo evange-
lo: Molti corpi di santi risuscitarono ed entrarono con lui nella cit-
tà santa (Mt 27,52-53) … Inoltre, per riprendere il filo del discor-
so, voglio aggiungere che è necessario che la chiesa compia tale
[rito], in quanto le è stato tramandato dai padri. E chi potrebbe
abolire l’insegnamento di una madre o la legge di un padre? Co-
me è detto nel libro di Salomone: Ascolta, figlio, le parole di tuo
padre e non rifiutare gli insegnamenti di tua madre (Pr 1,8).
Epifanio di Salamina, Panarion 75,7-8

2. Dopo che è stato compiuto il sacrificio spirituale12, il cul-


to incruento, sopra quella stessa vittima di espiazione (cf. 1Gv
2,2) noi invochiamo Dio per la pace comune delle chiese, per la
tranquillità del mondo, per gli imperatori, per gli eserciti e gli al-
leati, per gli ammalati, per gli afflitti, e in breve offriamo que-
sto sacrificio pregando tutti insieme per tutti coloro che hanno
bisogno di aiuto.
Poi facciamo memoria anche di coloro che si sono addormen-
tati13: innanzitutto dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli, dei
martiri, affinché Dio grazie alle loro preghiere e intercessioni ac-
colga la nostra supplica. Poi [preghiamo] anche per i santi padri
e vescovi defunti e in breve per tutti coloro che si sono addor-
mentati prima di noi, perché crediamo che le anime per le qua-
li questa supplica viene offerta proprio mentre è presente la san-
ta e tremenda vittima ricevano un grande profitto.
Voglio ancora convincervi con un esempio. So infatti che mol-
ti dicono: “Che vantaggio può avere un’anima quando si allon-
tana da questo mondo con dei peccati, o anche senza peccati, se

12 Cioè la consacrazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo conclusasi

con la solenne epiclesi.


13 Cioè per i defunti, così chiamati anche in Mt 27,52; 1Ts 4,14. Il verbo “addor-

mentarsi” (koimáomai) implica la fede nella resurrezione dai morti, concepita come
“risveglio” (éghersis).

358
“Ti preghiamo, Signore, per …”

viene ricordata al momento dell’offerta?”. Se per esempio un


re avesse mandato in esilio alcuni che lo hanno offeso e poi i lo-
ro congiunti, intrecciata una corona, gliela offrissero in favore
dei condannati, forse egli non concederebbe loro il condono del-
le pene?
Allo stesso modo anche noi, quando presentiamo a Dio le no-
stre suppliche in favore di coloro che si sono addormentati, an-
che se peccatori, non intrecciamo una corona, ma offriamo Cri-
sto, che è stato immolato per i nostri peccati, assicurando così
a loro e a noi la misericordia di Dio, l’amico degli uomini.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,8-10

3. Non senza motivo si fanno offerte per i defunti, né senza


motivo suppliche ed elemosine: tutte queste cose le ha stabili-
te lo Spirito, volendo che traessimo vantaggio gli uni dagli al-
tri. Rifletti bene, infatti: quello14 ne trae vantaggio grazie a te,
e tu ne trai vantaggio grazie a lui. Hai disprezzato le ricchezze
e sei stato indotto a compiere qualcosa di nobile: sei stato per
lui causa di salvezza, è vero, ma anche lui ti ha fornito l’occasio-
ne per l’elemosina. Non dubitare: egli certamente ne trarrà qual-
che beneficio. Non è invano che il diacono esclama: “Per quel-
li che si sono addormentati in Cristo e per quelli che fanno me-
moria di loro!”. Non è il diacono a emettere questa voce, ma lo
Spirito santo, intendo dire il carisma [che viene da lui].
Che ne dici? L’offerta del sacrificio è già tra le mani e tutto
è pronto: sono presenti gli angeli e gli arcangeli; è presente il Fi-
glio di Dio; tutti stanno in piedi con grande timore reverenzia-
le; gli uni assistono gridando, mentre gli altri stanno tutti in silen-
zio, e tu ritieni che tutto ciò avvenga inutilmente? Sono forse
inutili allora anche tutte le altre [preghiere] offerte per la chie-
sa, quelle per i sacerdoti e quelle per tutto l’insieme [dei creden-
ti]? Non sia mai! Ma tutto avviene in virtù della fede.

14 Il defunto.

359
Capitolo X

Che cosa pensi riguardo al fatto che si offrono [preghiere] per


i martiri e che essi vengono nominati proprio in quel momento15?
Anche se sono martiri, anche se si prega per essi, è un grande
onore [per loro] essere nominati mentre il Signore è presente,
mentre si celebra quella morte, quel tremendo sacrificio, quegli
ineffabili misteri! Come infatti, finché il re è seduto [sul trono],
tutto ciò che uno vuole lo ottiene, ma quando il re si è alzato,
tutto ciò che uno dice lo dice inutilmente; così anche allora, fin-
ché i misteri sono presenti, è per tutti un grandissimo onore es-
sere ritenuti degni di menzione.
Rifletti bene infatti: allora viene annunciato il tremendo mi-
stero, che Dio cioè ha dato se stesso per il mondo intero16, e pro-
prio mentre si celebra quell’evento straordinario è il momento
opportuno per ricordargli coloro che hanno peccato. Come, infat-
ti, quando si celebrano i trionfi dei re, vengono acclamati anche
tutti coloro che hanno partecipato alla vittoria, mentre vengono
rilasciati quanti si trovano in catene, a motivo dell’occasione [fe-
stiva], ma una volta passato il momento, chi non ha ottenuto nul-
la, non può ricevere altri benefici, allo stesso modo avviene an-
che qui, poiché questo è il momento del trionfo. È detto infat-
ti: Ogni volta che mangiate questo pane, voi annunciate la morte del
Signore (1Cor 11,26). Non accostiamoci perciò con superficiali-
tà, e non pensiamo che queste cose avvengano senza un preciso
motivo. Del resto se noi commemoriamo i martiri, lo facciamo
nella fede che il Signore non è morto; ed è proprio questo il se-
gno che la morte è stata messa a morte, che essa è morta.
Sapendo queste cose, consideriamo quante consolazioni pos-
siamo dare ai defunti invece di lacrime, lamenti e monumenti fu-
nebri, in elemosine, preghiere e offerte, affinché con loro anche
noi possiamo conseguire i beni promessi, per la grazia e la bon-

15 Cioè al momento dell’anafora, e in particolare all’interno delle intercessioni ana-

foriche.
16 Cf. supra, c. VIII,β.

360
“Ti preghiamo, Signore, per …”

tà dell’unigenito Figlio, al quale, insieme al Padre e allo Spirito


santo, si addice la gloria, la potenza e l’onore, ora e sempre, e
nei secoli dei secoli. Amen.
Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 21,5

4. Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma io non so dove è andato!”17.


Perché non lo sai? Dimmi: sia che abbia vissuto da uomo retto,
sia che no, è chiaro dove andrà. “Ma è proprio per questo che
piango – dice – perché se n’è andato da peccatore!”. Queste so-
no solo scuse e pretesti, perché se veramente lo piangessi per
questo dopo la sua morte, avresti dovuto farlo ravvedere e cor-
reggerlo mentre era ancora in vita. Ma tu badi solo ai tuoi in-
teressi, non ai suoi! Comunque, anche se n’è andato da pecca-
tore, bisogna rallegrarsi anche per questo, perché ha smesso di
peccare e non può aggiungere nient’altro al suo male, e ora per
quanto è possibile devi aiutarlo, non con il pianto, ma con pre-
ghiere, suppliche, elemosine e offerte. Non è invano infatti che
sono state pensate tutte queste cose, né è senza motivo che noi
facciamo memoria dei defunti durante i divini misteri e ci ac-
costiamo [ad essi] in loro favore, pregando l’Agnello che giace
[sull’altare] e che ha preso su di sé il peccato del mondo (cf. Gv
1,29), ma lo facciamo affinché essi possano riceverne qualche
conforto. Non è invano che colui che sta in piedi presso l’alta-
re18 mentre si celebrano i tremendi misteri esclama: “Per tutti
quelli che si sono addormentati in Cristo e per quelli che fanno
memoria di loro!”. Se infatti non si celebrassero tali commemo-
razioni per loro, queste parole non sarebbero state dette. Ciò
che facciamo infatti non è pura scena – non sia mai! –, perché
queste cose avvengono per ordine dello Spirito!
Veniamo dunque in loro aiuto e facciamo per essi una comme-
morazione. Se infatti nel caso dei figli di Giobbe il sacrificio del

17 Si parla di un defunto.
18 Il diacono.

361
Capitolo X

padre riuscì a purificarli (cf. Gb 1,5), perché mai dubiti che i


defunti possano ricevere conforto se anche noi presentiamo of-
ferte per loro? Dio infatti ha l’abitudine di concedere le sue
grazie ad alcuni in favore di altri. È appunto ciò che ha mostra-
to Paolo, quando dice: Affinché per la grazia ottenutaci da molte
persone siano rese grazie per noi da parte di molti (2Cor 1,11).
Non stanchiamoci dunque di recare loro aiuto e di offrire pre-
ghiere per loro, poiché davanti a noi c’è la vittima comune che
purifica il mondo intero! È per questo che in quel momento19
noi preghiamo con fiducia per il mondo intero e nominiamo i
defunti insieme ai martiri, ai confessori e ai sacerdoti. Tutti in-
fatti siamo un solo corpo (cf. Rm 12,5; 1Cor 10,17), anche se ci
sono membra più gloriose di altre, ed è possibile procurare loro
il perdono con ogni mezzo: con le preghiere, con le offerte che
facciamo in loro favore e con [l’intercessione di] quelli che ven-
gono nominati insieme a loro. Perché dunque ti tormenti, per-
ché piangi, quando puoi procurare a chi se ne è andato un così
grande perdono?
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Prima lettera ai Corinti 41,4-5

5. Piangiamo coloro [che sono morti nei peccati], cerchiamo


di soccorrerli secondo le nostre possibilità, escogitiamo per lo-
ro un aiuto, che, per quanto piccolo, possa aiutarli! Come e in
che modo? Pregando noi stessi e supplicando altri di fare pre-
ghiere per loro, dando continuamente offerte ai poveri in loro
favore. Tutto ciò procura un certo conforto. Ascolta infatti Dio
che dice: Proteggerò questa città per amore di me e di David, mio
servo (2Re 20,6). Se il semplice ricordo di un giusto ebbe una ta-
le efficacia, quando si compiono anche delle opere in favore di
colui [che è morto], come possono essere inefficaci? Ciò non è
stato stabilito senza motivo da parte degli apostoli: che cioè du-

19 Durante la preghiera eucaristica.

362
“Ti preghiamo, Signore, per …”

rante i divini misteri si faccia memoria dei defunti. Sapevano in-


fatti che ciò sarebbe stato per loro di grande vantaggio e utilità.
Quando infatti un intero popolo sta in piedi con le braccia
tese20, un intero corpo sacerdotale21, e la vittima tremenda è
qui davanti a noi, come potremmo non supplicare Dio in loro
favore con le nostre preghiere? Questo, certo, riguarda coloro
che sono morti nella fede22. I catecumeni invece non sono sti-
mati degni neppure di ricevere tale consolazione23, ma sono pri-
vati di ogni aiuto a eccezione di uno. E quale? È possibile cioè
fare offerte ai poveri in loro favore. Questo procura loro un
certo sollievo, perché Dio vuole che riceviamo aiuto gli uni da-
gli altri.
Perché mai infatti ci ha ordinato di pregare per la pace e per
la tranquillità del mondo? Perché per tutti gli uomini (cf. 1Tm
2,1)? Tra questi “tutti” certo vi sono anche briganti, violatori di
sepolcri, ladri e persone ripiene di mali innumerevoli, e tuttavia
preghiamo per tutti. Chissà infatti che qualcuno di loro possa
convertirsi. Come dunque preghiamo per i vivi che non differi-
scono in nulla dai morti24, allo stesso modo possiamo pregare an-
che per quelli.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Filippesi 3,4

20 In conformità all’uso biblico, nei padri la parola laós (“popolo”) indica l’insieme

dei credenti che costituiscono il “popolo di Dio”, non genericamente l’insieme degli
abitanti di un paese, o la semplice folla. Il tenere le braccia tese è uno dei principali ge-
sti di preghiera raccomandati dai padri (cf. Origene, Sulla preghiera 31,2; G. Bunge,
Vasi di argilla, pp. 161-167).
21 L’espressione pléroma hieratikón, secondo l’interpretazione generalmente adotta-

ta, indica la totalità del clero (cf. s.v. “πλρωμα” in G. W. H. Lampe, A Patristic
Greek Lexicon, Clarendon Press, Oxford 1961, p. 1094 [A.9.d]); ma non si può esclu-
dere, dato il contesto, che sia da interpretare come apposizione dell’espressione prece-
dente e che quindi indichi lo stesso popolo credente in quanto depositario del sacerdo-
zio comune dei battezzati.
22 Per la stessa specificazione, cf. supra, § β.
23 I catecumeni defunti, lascia intendere l’autore, non possono essere ricordati no-

minalmente durante l’anafora eucaristica perché non sono stati integrati a pieno titolo
nella chiesa; dopo poco però aggiunge che si deve pregare “per tutti”.
24 In quanto, pur essendo vivi, sono spiritualmente morti.

363
Capitolo X

6. Se la preghiera di una sola persona ha così grande effica-


cia, quanto più efficace è quella che si fa insieme a una moltitu-
dine di persone! L’intensità e la franchezza di quest’ultima, in-
fatti, sono molto superiori a quelle della preghiera che si fa a ca-
sa e per proprio conto. Da dove lo sappiamo? Ascolta Paolo che
dice: Da una tale morte egli ci ha liberato e ci libera, anzi nutria-
mo la speranza che ci libererà ancora, grazie alla vostra cooperazio-
ne nella preghiera per noi, affinché per la grazia ottenutaci da mol-
te persone, siano rese grazie per noi da parte di molti (2Cor 1,10-11).
Allo stesso modo anche Pietro riuscì a fuggire dalla prigione, per-
ché una preghiera incessante veniva offerta a Dio per lui dalla chie-
sa (At 12,5).
Ma se la preghiera della chiesa soccorse Pietro e lo fece usci-
re dalla prigione, lui quella colonna (cf. Gal 2,9), come fai tu a
disprezzare la sua potenza, dimmi, e quale scusa puoi avere?
Ascolta Dio stesso che dice di commuoversi davanti a una mol-
titudine di persone che lo pregano con amore. Rispondendo al-
le accuse di Giona, riguardo alla pianta di zucca25, dice infatti:
Tu hai avuto pietà di questa pianta di zucca, per la quale non hai
fatto alcuna fatica e che tu non hai fatto crescere; e io non dovrei
aver pietà di Ninive, la grande città, nella quale abitano più di cen-
toventimila uomini? (Gn 4,10-11). Non è senza motivo che met-
te in evidenza il numero degli abitanti, ma perché tu impari che
la preghiera fatta con l’accordo di molti ha una grande potenza …
Ebbene, quando volete placare l’ira di un re di questa terra,
voi accorrete tutti, insieme ai vostri figli e alle vostre mogli, ma
quando dovete conciliarvi la benevolenza del Re dei cieli e strap-
pare alla sua collera non una sola persona, né due o tre o cento,
ma tutti i peccatori del mondo, e liberare dal laccio del diavolo
gli indemoniati, allora ve ne state seduti fuori26, invece di accor-

25 La zucca (kolokØnthe) è la pianta che, secondo il testo greco dei lxx, Dio fece

crescere sul capo di Giona (Gn 4,6), laddove le traduzione moderne dall’ebraico han-
no: “pianta di ricino” (qîqâjôn).
26 Cioè fuori della chiesa.

364
“Ti preghiamo, Signore, per …”

rere tutti insieme, affinché Dio, commosso dall’accordo delle


vostre voci, risparmi a loro il castigo e a voi perdoni i peccati?
Sia che in quel momento tu ti trovi in piazza, a casa tua, o oc-
cupato in affari indispensabili, non dovresti forse rompere ogni
vincolo, con più violenza di un leone, e fuggir via, per unirti al-
la supplica comune? Quale speranza di salvezza potrai avere,
dimmi, mio caro, in quel momento? Non solo [allora] gli uomi-
ni elevano quel grido che incute grandissimo timore27, ma anche
gli angeli si gettano ai piedi del Signore e gli arcangeli lo sup-
plicano: hanno l’occasione favorevole dalla loro parte, perché
l’offerta28 è là per aiutarli! E come gli uomini, tagliando rami di
ulivo, li agitano davanti ai re per richiamarli alla misericordia e
alla bontà per mezzo di questa pianta29, così anche gli angeli in
quel momento, presentando invece di rami di ulivo il corpo stes-
so del Signore, invocano il Signore per la natura umana, dicen-
do pressoché così: “Per questi ti preghiamo, che tu stesso ti sei
degnato di prevenire con il tuo amore, al punto da donare la tua
stessa vita; per questi effondiamo le nostre suppliche, perché tu
stesso hai effuso per loro il tuo sangue; per questi t’invochiamo,
perché per loro hai offerto in sacrificio questo corpo!” … Pen-
sando a tutto ciò, dunque, accorriamo [in chiesa] in quel mo-
mento per attirare la misericordia e trovare grazia e assistenza
opportuna.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio 3,404-474

7. Se la preghiera di una moltitudine di persone liberò Pao-


lo dai pericoli (cf. 2Cor 1,11), non dobbiamo forse anche noi
attenderci di trarre grandi profitti da questa protezione? Men-
tre infatti pregando da soli siamo deboli, quando però ci radu-

27 Probabile allusione all’acclamazione del triplice “Santo” durante l’anafora euca-

ristica.
28 Cioè il corpo di Cristo.
29 Nella letteratura cristiana antica l’ulivo (in greco: élaios), per un gioco di asso-

nanza, diventa simbolo di misericordia (éleos). Cf. supra, p. 146, n. 33.

365
Capitolo X

niamo insieme diventiamo più forti, riusciamo a commuovere


Dio grazie al numero e al nostro reciproco sostegno. Allo stesso
modo è successo spesso che anche un imperatore, dopo aver con-
dannato a morte qualcuno, non abbia ceduto alle suppliche di un
solo uomo in favore di quel condannato, ma che si sia lasciato
commuovere dalle preghiere di un’intera città e a motivo del nu-
mero di coloro che lo supplicavano abbia strappato alla condan-
na colui che già veniva portato al supplizio e lo abbia ricondot-
to alla vita. Tale è la forza della supplica di una moltitudine di
persone! Per questo anche qui ci raduniamo tutti insieme, per
muovere Dio a pietà in modo più efficace. Mentre infatti, come
ho appena detto, quando preghiamo da soli siamo deboli, grazie
al vincolo della carità (cf. Col 3,14) riusciamo a commuovere
Dio, perché ci conceda le cose che gli chiediamo.
Tutto ciò non lo dico certo a caso, né soltanto per me, ma per-
ché vi affrettiate a venire alle sinassi e non diciate: “Non posso
forse pregare a casa mia?”. Certo che puoi pregare anche là, ma
la preghiera non ha così grande forza, come quando viene fatta
insieme alle proprie stesse membra, come quando l’intero corpo
della chiesa eleva in modo unanime la sua supplica a una sola vo-
ce, alla presenza dei sacerdoti che presentano [a Dio] le preghie-
re di tutta l’assemblea30.
Vuoi sapere quanto è grande la potenza della preghiera fatta
insieme in chiesa? Pietro una volta era stato imprigionato in car-
cere ed era cinto da molte catene, ma una preghiera incessante ve-
niva offerta per lui dalla chiesa (At 12,5), e subito Dio lo liberò
dal carcere. Cosa potrebbe esservi dunque di più potente di que-
sta preghiera, che soccorse anche le colonne e le torri della chie-
sa? Paolo e Pietro erano infatti le torri e le colonne della chiesa
(cf. Gal 2,9); eppure fu [questa preghiera] a sciogliere le catene
dell’uno e ad aprire la bocca dell’altro (cf. Ef 6,19). Ma affin-

30 Il riferimento qui più che alle intercessioni anaforiche è alla “preghiera dei fede-

li” che precede l’anafora.

366
“Ti preghiamo, Signore, per …”

ché non soltanto attraverso ciò che accadde allora, ma anche at-
traverso ciò che si celebra ogni giorno dimostriamo la sua du-
plice forza, vogliamo richiamarvi alla memoria la stessa preghie-
ra che viene fatta dal popolo.
Certamente, se uno tra di voi dell’assemblea vi ordinasse di
pregare, ognuno per conto suo, per la salvezza del vescovo, cia-
scuno si rifiuterebbe di farlo, ritenendolo un fardello troppo
grande per le sue forze; quando però tutti insieme sentite il dia-
cono che ordina questo e dice: “Preghiamo per il vescovo, per
la sua vecchiaia e la sua protezione31, perché dispensi rettamen-
te la parola della verità (cf. 2Tm 2,15), per coloro che si trova-
no qui e per quelli che sono in ogni luogo”32, voi in quel caso non
vi rifiutate di adempiere l’ordine, ma offrite la vostra preghie-
ra con grande sollecitudine, sapendo bene quale forza abbia la
vostra assemblea.
Quelli che tra voi sono iniziati ai misteri sanno bene ciò che
sto dicendo! Alla preghiera dei catecumeni, infatti, questo non
è ancora permesso, perché non sono ancora giunti ad avere una
tale franchezza [davanti a Dio]; ma a voi il diacono che intro-
duce le preghiere ordina addirittura di elevare suppliche per il
mondo intero, per la chiesa estesa fino ai confini della terra e per
tutti i vescovi che la governano, e voi obbedite con fervore, te-
stimoniando con i fatti che è grande la potenza della preghiera
che viene offerta in modo concorde dall’intero popolo [riunito
insieme] in chiesa.
Giovanni Crisostomo, Omelie sull’oscurità delle profezie 2,4-5

8. Come deve essere colui che intercede per un’intera città33


– ma perché dico per una città? –, piuttosto per l’intero mondo
abitato, e che supplica Dio di aver misericordia dei peccati di

31 L’editore ritiene che il testo tradito in questo punto sia difettoso.


32 Nella Liturgia di Giovanni Crisostomo è presente una preghiera simile (cf. supra, § β).
33 L’autore si riferisce al ministro che presiede l’eucaristia.

367
Capitolo X

tutti, non solo dei vivi, ma anche dei morti? A elevare una tale
supplica ritengo che non sia più sufficiente la franchezza di Mo-
sè e quella di Elia (cf. Es 32,32; 1Re 18,36-37). Egli, infatti,
come uno al quale è stato affidato il mondo intero e che è lui
stesso padre di tutti, si accosta così a Dio, supplicandolo di far
cessare le guerre ovunque siano, di sedare le rivolte, chiedendo
pace, prosperità e una rapida liberazione dai mali, sia privati che
pubblici, che incombono su ciascuno. Egli deve essere perciò in
ogni cosa tanto superiore a tutti coloro per i quali prega, quanto
è giusto che lo sia colui che guida e difende rispetto a coloro che
sono da lui difesi34.
Giovanni Crisostomo, Sul sacerdozio 6,4

9. [Il martire Eustazio] aveva imparato in modo eccellente


dalla grazia di Dio che chi presiede una chiesa non deve pren-
dersi cura soltanto di quella chiesa che è stata messa nelle sue
mani dallo Spirito santo, ma dell’intera chiesa sparsa nel mondo;
e questo lo aveva appreso dalle sante preghiere. “Se infatti – di-
ceva – bisogna fare preghiere per la chiesa cattolica che si esten-
de da un’estremità all’altra del mondo abitato, a maggior ragio-
ne bisogna mostrare sollecitudine per l’intera chiesa, e prender-
si cura e preoccuparsi allo stesso modo di tutte le chiese!”.
Giovanni Crisostomo, Omelia per il martire Eustazio 3

10. Tutti si alzano in piedi al segnale dato dal diacono e guar-


dano lo svolgimento [della liturgia]. Poi vengono letti dalle ta-
volette della chiesa i nomi dei vivi e dei morti35 che si sono ad-

34 In questo brano l’autore, nell’intento di esaltare la dignità del sacerdozio di cui

si dichiara indegno, gli attribuisce in modo esclusivo il compito di intercedere in favo-


re di tutti, che in altri passi è presentato come un dovere dell’intero popolo radunato
in preghiera.
35 Si tratta dei cosiddetti “dittici” (ta díptycha), due tavolette congiunte insieme a

mo’ di libro, sulle quali venivano incisi i nomi dei vivi e dei morti che dovevano esse-
re commemorati durante la liturgia. La lettura dei dittici, fatta originariamente dal
diacono dopo il bacio della pace e prima dell’anafora, è da distinguere dalle commemo-

368
“Ti preghiamo, Signore, per …”

dormentati nella fede in Cristo: è evidente che attraverso quel


piccolo numero [di persone] che adesso viene ricordato, sono vir-
tualmente ricordati tutti i vivi e i morti, per indicare che cosa
ha operato l’economia di Cristo nostro Signore, di cui questa li-
turgia è il memoriale. Tale liturgia viene in aiuto di tutti, sia vi-
vi che morti allo stesso modo, poiché i vivi guardano alla speran-
za futura e i morti ormai non sono più nella morte, ma, immer-
si nel sonno, rimangono in quella speranza per cui nostro Signore
accettò la morte, della quale noi facciamo memoria attraverso
questo mistero.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 15,43

11. Poi il sacerdote conclude la divina liturgia presentando


una supplica per tutti coloro dei quali, secondo la regola, faccia-
mo in ogni tempo memoria in chiesa, e poi passa alla memoria
dei morti: questo sacrificio, infatti, ci concede di essere protet-
ti anche in questo mondo e, dopo la morte, dona a coloro che
si sono addormentati nella fede quella speranza ineffabile che
desiderano e verso la quale tendono tutti i figli del mistero di
Cristo.
Teodoro di Mopsuestia, Omelie catechetiche 16,14

12. È cosa che allieta e rallegra il Signore compassionevole il


fatto che ciascuno si sforzi di recare un aiuto al suo prossimo.
Questo vuole e desidera il Misericordioso: che tutti riceviamo
benefici gli uni dagli altri, sia mentre viviamo che dopo la mor-
te. Non ci avrebbe infatti dato occasione di fare memoria dei

razioni anaforiche fatte dal presbitero. L’evoluzione della liturgia ha finito però per
associare strettamente tra loro questi due atti liturgici: a partire almeno dalla fine del-
l’viii secolo la lettura dei dittici fu spostata dalla sua collocazione originaria al termine
dell’anafora. Nel testo di Teodoro di Mopsuestia, come in quello dello Pseudo-Dioni-
gi (cf. infra, § 14), la distinzione è ancora chiara: i dittici vengono letti prima dell’ana-
fora, mentre le commemorazioni e le intercessioni sono fatte da colui che presiede la
celebrazione durante l’anafora.

369
Capitolo X

defunti durante il sacrificio incruento36, e di nuovo di celebra-


re memorie e celebrazioni al terzo, nono e quarantesimo giorno
e anche ogni anno – cose tutte che in modo unanime la sua chie-
sa cattolica e apostolica e il religiosissimo popolo riunito da Dio
custodisce in modo incrollabile e irreprensibile –, se ciò non fos-
se stato giusto ai suoi occhi. Se infatti ciò fosse stata cosa de-
gna di riso, senza frutto e inutile, con il gran numero di santi
teofori, patriarchi, padri e dottori che sono esistiti, certamente
egli avrebbe ispirato a qualcuno di loro di porre fine all’errore;
eppure nessuno tra costoro ha mai giudicato opportuno di abo-
lire questo uso, anzi ciascuno lo ha confermato, così che ogni
giorno esso cresce e diventa più consistente grazie alle memorie
che continuamente si aggiungono.
Giovanni di Damasco, Orazione su coloro che si sono addormentati nella fede 15

13. Una volta compiuto il sacrificio37, il sacerdote, vedendo


innanzi a sé il pegno dell’amore di Dio per gli uomini, il suo
Agnello, prendendolo ormai quale mediatore e avendolo con sé
come proprio avvocato, espone a Dio le sue richieste ed effon-
de la sua supplica con buona e sicura speranza; e le intenzioni
che ha commemorato al momento di presentare il pane38, per le
quali ha fatto le preghiere di introduzione e offerto i doni sup-
plicando che venissero accolti, adesso che questi doni sono sta-
ti accolti, prega che si traducano in opera. Ma di cosa si tratta?
È qualcosa di comune ai vivi e ai defunti, ossia che Dio, che ha
accolto questi doni, conceda in cambio di essi la sua grazia: in
particolare ai defunti il riposo dell’anima e l’eredità del Regno
insieme ai santi divenuti ormai perfetti; ai vivi invece la parte-
cipazione alla santa mensa e la santificazione – e che nessuno
di loro vi partecipi “per il proprio giudizio o per la propria con-

36 Cioè l’eucaristia.
37 La consacrazione delle offerte in corpo e sangue di Cristo.
38 Cioè nel rito della próthesis, prima dell’inizio della liturgia propriamente detta.

370
“Ti preghiamo, Signore, per …”

danna”39 –, la remissione dei peccati, la pace, la prosperità, l’ab-


bondanza dei mezzi necessari e infine di apparire degni del re-
gno [dei cieli] davanti a Dio.
Nicola Cabasilas, Spiegazione delle divina liturgia 33,1-3

La chiesa commemora i santi o prega anche per loro?

14. La solenne lettura delle sacre tavolette che segue il gesto


della pace40 proclama coloro che sono vissuti in modo santo e
sono giunti in modo stabile alla perfezione della vita virtuosa:
essa, da una parte, ci esorta e ci induce a raggiungere, in modo
simile a loro, una condizione beata e una sorte conforme a quel-
la di Dio, dall’altra li proclama viventi e non morti – come di-
ce la divina Scrittura –, ma passati dalla morte a una vita piena-
mente divina (cf. Gv 5,24; 11,25-26).
Considera però che [i nomi dei santi] sono stati scritti nei sa-
cri memoriali41, non tanto perché la memoria di Dio si manife-
sti alla maniera umana nella facoltà immaginativa propria del-
l’atto di ricordare, ma piuttosto, come potrebbe dire qualcuno
in maniera degna di Dio, in quella conoscenza preziosa e immu-
tabile che vi è in Dio di coloro che sono diventati perfetti assi-
milandosi a lui. Egli conosce – dicono infatti le parole ispirate –
coloro che sono suoi (Nm 16,5; 2Tm 2,19), e ancora: È preziosa
davanti al Signore la morte dei suoi santi (Sal 115,6), dicendo “la
morte dei santi” nel senso della perfezione nella santità.
Ma considera anche questo in modo conforme alla sacralità
[del rito]: una volta che sono stati deposti sul divino altare i ve-

39 Cf. supra, c. IX,β.


40 Anche questo autore colloca la lettura dei dittici, con il ricordo dei santi defun-
ti, prima dell’anafora (cf. supra, § 10).
41 Cioè nei dittici.

371
Capitolo X

nerandi segni42, attraverso i quali Cristo si manifesta e si comu-


nica, immediatamente si fa l’elenco dei santi, per manifestare
così il loro vincolo inseparabile, quello cioè che essi hanno rag-
giunto attraverso l’unione trascendente e santa con lui.
Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Gerarchia ecclesiastica III,3,9

15. La preghiera che segue la trasformazione dei doni divini43


riveste anch’essa un duplice significato secondo l’intenzione del
grande Basilio e di quella del famoso Giovanni dalla bocca più
preziosa di ogni oro44, come appare evidente a chiunque scruti
[i loro testi] nel modo migliore.
Il divino Basilio infatti introduce la memoria dei santi dicen-
do pressoché in questi termini: “Affinché troviamo misericordia
e grazia insieme a tutti i santi padri, i progenitori e tutti i giusti
venuti dopo di loro”45. Invece il Crisostomo, secondo quanto
sta scritto, ritiene giusto che si offra il sacrificio anche “per lo-
ro”46; e ciò a buon diritto, perché il buon Pastore (cf. Gv 10,11)
non ha effuso il proprio sangue soltanto per i peccatori offren-
dosi in sacrificio al Padre per la loro riconciliazione, ma anche
per gli stessi giusti. Non esiste nessuno, infatti, proprio nessuno,
che possa vivere senza commettere peccato, neppure se la sua vi-
ta fosse di un solo giorno; ma poiché siamo tutti colpevoli, egli
è morto per tutti. Anche tutti gli uomini esistiti prima della cro-
ce, infatti, erano colpevoli e prigionieri della morte a causa della
trasgressione del nostro progenitore e a causa degli altri pecca-
ti sopraggiunti in seguito (cf. Rm 5,12-21), e neppure la Legge
di Mosè rese perfetto nessuno di loro (cf. Rm 3,20). Uno solo
dunque è morto per tutti (2Cor 5,15), e noi confessiamo di con-

42 Lett.: “simboli”. Cf. supra, p. 296, n. 45.


43 Cioè la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore.
44 L’autore si riferisce al testo dell’anafora delle due liturgie più diffuse al suo tem-

po, quella di Basilio e quella di Giovanni Crisostomo (“Bocca d’oro”), di cui coglie le
differenze, che attribuisce a un’intenzione diversa dei due autori.
45 Cf. supra, § γ.
46 Cf. supra, § β.

372
“Ti preghiamo, Signore, per …”

templare la sua stessa morte e resurrezione attraverso i misteri:


è chiaro perciò che si compie anche ora, per coloro che offrono
[questo sacrificio] in modo degno, tutto ciò che avvenne allora.
Nessuno poi dica: “Com’è possibile che i vescovi47 interce-
dano per tali santi?”. Ciò non è impossibile, poiché essi ne so-
no assolutamente degni, in quanto rappresentano la persona
del grande Pontefice48… Quando dunque senti il vescovo sus-
surrare sommessamente le parole: “Ti offriamo ancora questo
culto spirituale (Rm 12,1)”, nominando le varie categorie di san-
ti, e poi esclamare a voce più chiara: “In modo particolare per la
santissima, immacolata, più che benedetta nostra Signora Ma-
dre di Dio”49, chi credi mai che dica tutto ciò? A me sembra che
ciò sia detto a nome del Signore, poiché [lo stesso sacerdote] di-
ce in un’altra preghiera: “Tu stesso sei colui che offre e che vie-
ne offerto, colui che accoglie e colui distribuisce”50, affinché ap-
paia chiaro che solo lui, il Signore Dio-uomo, è senza peccato e
che egli ha dato se stesso per tutti, senza distinzioni, e che tut-
to ciò che fu operato allora, la passione, la sepoltura, la resurre-
zione, si realizza anche adesso per i credenti attraverso i sim-
boli, e ciò dai maestri ispirati da Dio è stato stabilito che sia ce-
lebrato in tal modo … Ma perché hanno unito insieme tutti i
santi dell’antica e della nuova alleanza? Innanzitutto per tutto
ciò che abbiamo appena detto; poi per mostrare che esiste un so-
lo Dio degli uni e degli altri, il quale ha voluto compiere questo
mistero prima di tutti i secoli, che tutti noi siamo stati guariti dal-
le sue piaghe (1Pt 2,24) e che il suo sangue è stato effuso per tutti.
Poi, quando il diacono recita sommessamente i dittici dei de-
funti, il vescovo51 elenca di nuovo i santi della nuova alleanza,

47 Cioè coloro cui spetta presiedere l’eucaristia. L’autore sta descrivendo una litur-

gia pontificale.
48 Cioè Cristo.
49 Cf. supra, § β.
50 Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 318, ll. 34-35.
51 Lett.: “sommo sacerdote”.

373
Capitolo X

mettendo al primo posto Giovanni il Precursore, come gli evan-


gelisti, che lo hanno collocato prima della venuta del Salvato-
re, in quanto primo messaggero e annunciatore dell’avvento di
Cristo, e per confermare anche le parole di Cristo: Tra i nati di
donna non è sorto uno più grande di questo (Mt 11,11); poi [nomi-
na] gli apostoli e i santi di cui si celebra la memoria.
Nicola e Teodoro di Andida, Simboli e misteri della divina liturgia 27-30.33

16. Poiché l’offerta del sacrificio52 non è soltanto di supplica


ma anche di ringraziamento, come nei riti di introduzione alla
liturgia, quando il sacerdote presenta in dono a Dio le offerte,
esprime insieme l’azione di grazie e la supplica, così anche ora,
dopo che i doni sono stati offerti in sacrificio e consacrati, attra-
verso di essi rende grazie a Dio e allo stesso tempo presenta una
supplica, esponendo da una parte i motivi del ringraziamento e
formulando dall’altra gli oggetti della supplica. E quali sono i mo-
tivi di ringraziamento? I santi, come è stato detto anche pri-
ma53. In essi infatti la chiesa ha già trovato ciò che cerca e ha
ottenuto l’esaudimento della preghiera, ossia il regno dei cieli.
Quali sono invece gli oggetti della supplica? Sono coloro che non
hanno ancora raggiunto la perfezione e che hanno bisogno di
preghiera.
Per i santi [il sacerdote] dice ancora: “Ti presentiamo questo
culto spirituale (Rm 12,1) per coloro che si sono addormentati
nella fede: progenitori, padri, patriarchi, apostoli, predicatori,
profeti, evangelisti, martiri, confessori, continenti, e per ogni
spirito reso perfetto nella fede (cf. Eb 12,23), e in particolare
per la santissima, immacolata, più che benedetta, gloriosa Si-
gnora nostra, Madre di Dio e sempre vergine Maria”54 e di se-
guito l’assemblea di tutti i santi. Sono questi per la chiesa i mo-

52 Cioè il sacrificio eucaristico.


53 L’autore ha accennato a questo tema nel commento del rito della próthesis (cf. Ni-
cola Cabasilas, Spiegazione della divina liturgia 10,10).
54 Cf. supra, § β.

374
“Ti preghiamo, Signore, per …”

tivi di ringraziamento a Dio. Per questi presenta questo culto


spirituale come atto di ringraziamento a Dio; e in modo specia-
le rispetto a tutti gli altri motivi, per la beata Madre di Dio, poi-
ché è superiore a ogni altra santità. Per questo il sacerdote non
fa alcuna preghiera per loro, ma è lui piuttosto che ha bisogno
di essere aiutato da loro nelle sue preghiere: proprio perché, co-
me si è detto, la presentazione dei doni che viene fatta per loro
non è di supplica, ma di ringraziamento.
Ma dopo ciò [il sacerdote] espone la sua supplica ed enume-
ra coloro per i quali supplica, e invoca per tutti la salvezza e ogni
bene conveniente e adatto a ciascuno, dicendo tra le altre cose:
“Ti presentiamo ancora questo culto spirituale per il mondo in-
tero, per la santa chiesa cattolica e apostolica, per coloro che
conducono una vita di castità, per i nostri imperatori fedelissi-
mi e amici di Cristo”55.
Queste dunque sono le preghiere. E così il beato Giovanni
[Crisostomo], mostrando il duplice aspetto di questo sacro cul-
to, sia di ringraziamento che di supplica, colloca da una parte co-
loro per i quali rende grazie e dall’altra coloro per i quali rivol-
ge la supplica.
Il divino Basilio, da parte sua, mescola azione di grazie e sup-
plica; lo fa del resto in ogni punto della liturgia, e quasi tutte le
preghiere che vi troviamo hanno questo duplice valore. Egli ri-
corda i santi menzionati da san Giovanni, ed esattamente allo
stesso punto della liturgia, ma non allo stesso modo. Dopo aver
pregato che tutti siano resi degni della comunione ai misteri “non
per il loro giudizio o per la loro condanna”, aggiunge: “Ma che
noi troviamo grazia insieme a tutti i santi che fin dal principio ti
furono graditi: progenitori, padri, patriarchi”56, con ciò che se-
gue, e poi: “in particolare insieme alla Santissima”57. Anche que-

55 Cf. ibid.
56 Cf. supra, § γ.
57 Cf. ibid.

375
Capitolo X

ste parole, contengono sì una supplica, ma esprimono anche un


ringraziamento e proclamano Dio benefattore del genere uma-
no, e tra i suoi benefici ricordano gli uomini da lui resi perfet-
ti e santi, come se dicessero: “Donaci la grazia che hai già con-
cesso ai santi, santificaci come hai già santificato altri membri
della nostra stessa razza”. Su questo argomento è sufficiente
quanto già detto.
Nicola Cabasilas, Spiegazione delle divina liturgia 33,4-10

17. [I santi doni dell’altare] santificano sempre tutte le ani-


me dei cristiani, vivi e morti, che sono ancora imperfette e bi-
sognose di santificazione. I santi infatti che hanno già raggiun-
to la perfezione, che stanno insieme agli angeli e appartengono
ormai alla gerarchia celeste, non hanno più alcun bisogno della
gerarchia terrestre … Ma se questi santi doni da una parte so-
no offerti a Dio, e dall’altra santificano coloro che hanno biso-
gno di santificazione, perché crediamo di poter onorare con la
loro offerta coloro che sono già santificati e perfetti in tutto?
E perché, mentre li invochiamo in nostro soccorso per chiede-
re qualcosa, promettiamo loro l’offerta di questi doni, come se
dovessimo offrirli a loro o per loro, perché diventino migliori?
Ciò è perché, come ho già detto in precedenza, vi è un’altra mo-
dalità di offerta, secondo la quale questi doni sono destinati an-
che ai santi: quando cioè sono presentati a Dio in ringraziamen-
to per la gloria con cui li ha glorificati e per la perfezione con
cui li ha resi perfetti. Questi doni infatti sono destinati a Dio,
in quanto sono offerti a lui; sono poi destinati ai fedeli bisogno-
si di soccorso, a titolo di aiuto; sono infine destinati anche ai
santi, in quanto sono offerti a Dio in riconoscenza per loro …
Ma su questo punto alcuni si sono ingannati58, ritenendo che

58 Qui e nel seguito dello stesso capitolo l’autore polemizza con chi prima di lui, co-

me Nicola e Teodoro di Andida, aveva interpretato l’espressione “offrire per” (hypér)


della Liturgia di Giovanni Crisostomo secondo il suo senso letterale, anche quando rife-

376
“Ti preghiamo, Signore, per …”

la commemorazione dei santi non fosse un’azione di grazie,


ma una supplica rivolta a Dio per loro, e non so da dove ab-
biano tratto occasione per tali pensieri. Né infatti la realtà
stessa delle cose, né le formule contenute in questo punto del-
la liturgia autorizzano a credere così.
Nicola Cabasilas, Spiegazione delle divina liturgia 47,10; 48,2-3; 49,1

rita ai santi. Sulla questione cf. il già citato G. Wagner, “La commémoration des saints”;
B. Bobrinskoy, “Intercession eucharistique ‘pour’ ou ‘avec’ les saints”, in Θυσα
ανσεως. Mélanges liturgiques offerts à la mémoire de l’archevêque Georges Wagner
(1930-1993), Presses Saint-Serge-Institut de Théologie Orthodoxe, Paris 2005, pp.
41-44; R. F. Taft, A partire dalla liturgia, pp. 214-221.

377
Capitolo XI
“PADRE NOSTRO, CHE SEI NEI CIELI”

Insegnato dal Signore ai suoi discepoli come un modello per la


loro preghiera e ben presto considerato dalla tradizione della chiesa
come un “compendio di tutto l’evangelo”1, il Padre nostro, come
tanti altri testi e orazioni di origine biblica, ebbe una propria vita au-
tonoma nella prassi della preghiera cristiana dei primi secoli 2, ma
con la sua introduzione nella liturgia – quasi certamente non ante-
riore alla seconda metà del IV secolo 3 – divenne uno degli elemen-
ti costitutivi e più caratteristici della sinassi eucaristica, perfetta-
mente armonizzato e funzionale al momento liturgico in cui fu col-
locato. Nelle liturgie bizantine questa preghiera si trova quasi
immediatamente dopo la conclusione dell’anafora 4 – da cui la se-

1 Tertulliano, La preghiera 1,6 (“breviarum totius evangelii”).


2 La Didaché 8,2-3 ne consiglia già la recitazione (probabilmente personale) tre vol-
te al giorno.
3 Nell’ordo della liturgia eucaristica descritto nell’Apologia prima di Giustino (150

ca), così come in quello della Tradizione apostolica (inizio iii secolo), dell’VIII libro del-
le Costituzioni apostoliche e di molte altre fonti del iv secolo, non vi è traccia del Padre
nostro all’interno dell’eucaristia: esso è attestato con sicurezza per la prima volta nel-
le Catechesi attribuite a Cirillo di Gerusalemme (380 ca) e poi in diverse omelie di Gio-
vanni Crisostomo datate agli ultimi anni novanta del iv secolo. Cf. R. F. Taft, A Hi-
story of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites, pp. 137-139; E.
Mazza, “Le ‘Notre Père’ entre dans les rites de communion de la messe: une hypothè-
se”, in Rites de communion. Conférences Saint-Serge, LV e Semaine d’Études Liturgiques.
Paris, 23-26 juin 2008, a cura di A. Lossky e M. Sodi, Libreria editrice vaticana, Città
del Vaticano 2010, pp. 131-148.
4 Nella descrizione di Cirillo (cf. infra, § 1) non vi è addirittura alcuno stacco tra le

intercessioni anaforiche e la preghiera del Padre nostro. Anche Agostino, Lettere


149,16, in modo assai significativo si riferisce all’anafora come a “quella supplica che

379
Capitolo XI

para solo una breve serie di suppliche – e insieme alle orazioni che
la accompagnano fa da transizione verso i riti di comunione.
Questa collocazione, a coronamento dell’anafora e come intro-
duzione alla comunione, fu probabilmente favorita dal fatto che il
Padre nostro, anche nei suoi contenuti, si adatta bene a svolgere en-
trambe le funzioni. Nella sua prima parte, infatti, appare in un cer-
to senso come una sintesi delle idee principali contenute nell’anafo-
ra: come quest’ultima è una preghiera interamente rivolta al Padre;
come il “triplice santo” esprime la lode di Dio attraverso la santifi-
cazione del suo nome; come l’epiclesi invoca la venuta del Regno 5;
ripropone il collegamento tra cielo e terra che costituisce la dinami-
ca fondamentale di tutta l’anafora, in quanto offerta di lode che uni-
sce l’assemblea terrena a quella celeste; dispone inoltre gli oranti a
un’obbedienza totale alla volontà divina, la stessa mostrata dal Fi-
glio al Padre nel sacrificio della sua vita; e infine, essendo espressa al
plurale, è una preghiera comune di tutta l’assemblea (cf. §§ 15-16),
cui per altro spetta il compito di pronunciarla, come indicano chia-
ramente anche le rubriche delle principali liturgie orientali. È co-
me se attraverso tale preghiera, dunque, la comunità radunata faces-
se propria e confermasse di nuovo la preghiera eucaristica elevata a
suo nome dal ministro celebrante, pur dopo averla già sigillata con
il solenne “Amen”.
Allo stesso tempo, nella sua seconda parte, questa preghiera di-
spone i fedeli all’accoglienza della comunione con la richiesta del
pane “quotidiano” (epioúsios) – che numerosi padri commentano
riferendola al pane eucaristico (cf. §§ 1-2) – e con l’implorazione
di perdono da parte di Dio e l’impegno di ciascuno a perdonare i fra-

quasi ogni chiesa conclude con la preghiera del Signore” (“quam totam petitionem fe-
re omnis ecclesia dominica oratione concludit”).
5 È significativo che alcuni codici minuscoli del Vangelo di Luca, insieme ad alcuni

autori cristiani (Marcione, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore), sostituiscano la


domanda della venuta del Regno con un’epiclesi allo Spirito santo: “Venga il tuo Spi-
rito santo su di noi e ci purifichi!”, per la quale si può ragionevolmente ipotizzare un’o-
rigine liturgica. Cf. B. M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testa-
ment, United Bible Societies, Stuttgart 19752, p. 156.

380
“Padre nostro …”

telli. Inoltre, nelle orazioni che precedono immediatamente il Padre


nostro (cf. § α), la “franchezza” (parrhesía) che si invoca da Dio per
accogliere degnamente la comunione è la stessa che viene richiesta
per rivolgere a Dio Padre la preghiera insegnata da suo Figlio.
Ma per comprendere a pieno qual è, secondo l’insegnamento dei
padri, la funzione propria svolta dal Padre nostro nel contesto del-
la liturgia eucaristica, è opportuno innanzitutto considerare che, se-
condo la tradizione della chiesa antica, sancita probabilmente da
una precisa norma canonica (cf. § 6), questa preghiera – che Gio-
vanni Crisostomo chiama “preghiera ufficiale” (§ 7) e “preghiera mi-
stica” (mystiké: § 8), cioè attinente all’ambito dei “misteri” – era
un privilegio esclusivo dei battezzati (cf. §§ 3-11). Essa al pari dei
misteri eucaristici era coperta dalla cosiddetta disciplina dell’arca-
no e veniva recitata per la prima volta dal neofita di fronte agli al-
tri fedeli all’uscita dalla vasca battesimale6: “È proprio questa la pri-
ma voce che abbiamo emesso dopo quelle mirabili doglie del parto
e quella nuova e paradossale forma di nascita” (§ 8), dice ancora
Giovanni Crisostomo. Insieme all’abbraccio di pace era questo il se-
gno concreto della sua aggregazione alla comunità dei credenti. Nel-
lo spiegare questo uso i padri sottolineano che solo chi è stato “un-
to”, “illuminato” e “rigenerato” dalla grazia dello Spirito santo e,
conformato al Figlio, è diventato “figlio di Dio” per adozione (cf.
§§ 3-4), può rivolgersi a Dio con piena franchezza e dignità filiale
chiamandolo con il nome di “Padre”: avendo ricevuto la remissio-
ne dei peccati e deposto la vergogna di Adamo, è ormai in grado di
stare “in piedi davanti al trono regale di Dio” (§ 10), guardandolo
a testa alta e “a volto scoperto” (2Cor 3,18)7. Questa franchezza

6 Questo è quanto si può arguire da Costituzioni apostoliche VII,45,1 e Giovanni

Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Colossesi 6,4 e da altri testi simili (cf. J.-P. Cattenoz,
Le Baptême mystère nuptial. Théologie de saint Jean Chrysostome, Éd. du Carmel, Venas-
que 1993, p. 314; Ph. de Roten, Baptême et mystagogie, pp. 321-323).
7 Questi sono gli atteggiamenti propri del battezzato secondo la descrizione di Ci-

rillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 3,4. Sul tema cf. R. G. Co-
quin, “Le thème de la παρρησ α et ses expressions symboliques dans les rites d’initia-
tion, à Antioche”, in Proch-Orient Chrétien 20 (1970), pp. 3-19.

381
Capitolo XI

manca ancora ai catecumeni, che sono ancora estranei al “corpo di


Cristo” e per questo sono esclusi dai “sacri recinti” mentre questa
preghiera viene recitata (cf. § 7): sono i fedeli a farsi carico di loro
nella preghiera di fronte al Padre celeste.
È infatti solo in forza dello Spirito santo e non di propria inizia-
tiva che è possibile rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre” (cf. §§ 5-8):
i cristiani non devono mai dimenticarlo e, pur essendone stati resi de-
gni attraverso il battesimo, devono rimanere coscienti della gratuità
di questo dono da parte di Dio, rinnovandogli ogni volta la propria
umile richiesta: “Rendici degni, Signore, di osare invocarti come Pa-
dre” (cf. § α; 10). Ancora una volta possiamo discernere l’imposta-
zione tipicamente “epicletica” della liturgia orientale: come nella
consacrazione del pane e del vino eucaristici, anche qui non ci si ac-
contenta semplicemente di ripetere le parole del Signore afferman-
do che “osiamo” farlo perché il Signore stesso ce lo ha insegnato, ma
ogni volta si chiede di essere resi degni di ripeterla. Come tutti i do-
ni di Dio, anche la dignità filiale non è infatti un possesso acquisi-
to una volta per tutte, ma deve essere ricevuta e rinnovata continua-
mente in una relazione di fede vissuta ogni giorno. Del resto – fa
notare giustamente Massimo il Confessore – sarà solo alla fine dei
tempi, nel regno di Dio pienamente realizzato, che i santi “verran-
no chiamati e saranno realmente figli di Dio” (§ 11): solo allora l’in-
vocazione del Padre sulla loro bocca acquisterà il suo pieno e defi-
nitivo valore.
In questa luce è possibile comprendere l’apparente contraddizio-
ne tra la “franchezza” e il “timore”, due nozioni che sono costante-
mente associate nelle esortazioni e nei commenti patristici sul Pa-
dre nostro, così come nelle orazioni liturgiche che lo accompagna-
no. Da una parte vi è un evidente sentimento di stupore che vibra
nelle parole dei padri per la grandezza di questa preghiera e per il
dono generoso che essa rappresenta da parte di Dio (cf. § 1): l’uo-
mo fatto “di polvere e di fango” può avere l’ardire di accostarsi al-
la maestà di Dio come un figlio al padre (cf. § 14). Si tratta però,
come altre volte, di una grazia a caro prezzo: il Padre nostro è quan-

382
“Padre nostro …”

to mai esigente. Il discepolo, reso degno per grazia di chiamare Dio


“Padre”, dovrà sempre vigilare che la sua vita rimanga conforme al-
la dignità che gli è stata donata e temere costantemente di non es-
serne all’altezza. Il Padre nostro è in questo senso per i padri “una
continua catechesi, uno specchio di vita cristiana donatoci nel bat-
tesimo, e un ricordo costante dell’impegno preso in quel momento”8.
Questa preghiera ripetuta dal fedele deve essere la regola del suo vi-
vere: si potrebbe dire, parafrasando un antico adagio, che la lex oran-
di deve diventare per lui lex vivendi, affinché le disposizioni e i
sentimenti che abitano il suo cuore arrivino a essere il più possibi-
le conformi a quelli che egli esprime con le labbra. Il Signore – di-
ce Gregorio di Nissa –“vuole che mentre chiamiamo Padre nostro …
il Giusto e il Buono, dimostriamo nella vita l’autenticità di questa
parentela” (§ 13): “Quelle parole infatti – aggiunge Crisostomo – non
sono solo un insegnamento per la preghiera, ma un’educazione alla
vita perfetta” (§ 14). Per i padri la franchezza filiale dell’orante non
è dunque soltanto il frutto della pura grazia battesimale, quasi che
questa potesse agire in modo automatico, ma è anche il risultato di
un attivo e continuo sforzo per assimilare la propria condotta di vi-
ta a quella di colui che si invoca come Padre. Senza tale intima e
vitale partecipazione, la preghiera più sublime rischia di diventare la
più grande menzogna e bestemmia (cf. § 13). Meglio sarebbe sceglie-
re un’altra preghiera (cf. § 12) o non pregare affatto.
Uno dei principali aspetti dell’impegno di vita che il Padre no-
stro esige dai cristiani, e in particolare da coloro che prendono par-
te alla sinassi eucaristica, è indubbiamente quello della riconcilia-
zione e del perdono dei fratelli, fondati sul perdono continuamen-
te ricevuto da parte di Dio: “Rimetti a noi i nostri debiti, come
anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. La preghiera del Padre
nostro, nel contesto della sua collocazione eucaristica, ha infatti

8 R. F. Taft, A History of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion

Rites, p. 147. Sul tema cf. R. Scognamiglio, Il “Padre nostro” nell’esegesi dei Padri. Bre-
viarium Evangelii, Edizioni S. Lorenzo, Reggio Emilia 1993, pp. 29-31.

383
Capitolo XI

per i padri soprattutto un valore penitenziale (cf. ad esempio § 6;


8), per invocare e ottenere da parte di Dio il perdono dei peccati
e accostarsi così alla comunione con la coscienza purificata; ma
per essere autentica ed efficace essa implica in modo simultaneo il
perdono che i singoli fedeli si impegnano a donare agli altri. Già il
momento dello scambio della pace prima dell’inizio dell’anafora
avrebbe dovuto sancire la riconciliazione tra i fratelli (cf. § 21), ma
adesso, nell’imminenza della comunione, il Padre nostro viene a ri-
cordare quell’esigenza in extremis ancora una volta. Nessuno infat-
ti può invocare Dio come “Padre nostro” a meno di riconoscere le
persone che gli stanno accanto come suoi fratelli, figli dell’unico
Padre (cf. §§ 15-16), così come nessuno può recitare questa preghie-
ra “con franchezza e senza condanna” (§ α) a meno di aver perdo-
nato sinceramente le offese ricevute dagli altri (cf. §§ 17-22): ciò
che rende ciascuno “figlio di Dio” è proprio la misericordia incon-
dizionata ricevuta da Dio ed esercitata in modo altrettanto incon-
dizionato nei confronti degli altri uomini (cf. § 17).
Il Padre nostro nel contesto della liturgia eucaristica è dunque
per i padri un giudizio sintetico e globale sulla qualità evangelica
della vita dei fedeli pronunciato dalle loro stesse labbra: chi mentre
lo recita non si vede condannato dal tribunale della propria coscien-
za, può accostarsi “con franchezza” a ricevere il corpo e il sangue del
Signore.

α. Il sacerdote: (a voce sommessa) A te affidiamo tutta la no-


stra vita e la nostra speranza, o Signore amico degli uomini,
e ti invochiamo, ti preghiamo e ti supplichiamo: rendici de-
gni di partecipare ai tuoi celesti e tremendi misteri di questa
sacra mensa spirituale con coscienza pura, per la remissione
dei peccati, il perdono delle colpe, la comunione dello Spirito
santo (2Cor 13,13), l’eredità del regno dei cieli, la franchez-
za davanti a te e non per il giudizio e la condanna … (a voce
alta) E rendici degni, Signore, di osare, con franchezza e sen-

384
“Padre nostro …”

za condanna, invocarti come Padre (cf. 1Pt 1,17), Dio cele-


ste, e dire:
Il popolo: Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo no-
me, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo co-
sì in terra; dacci oggi il nostro pane quotidiano9 e rimetti a noi i
nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e
non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal maligno (Mt 6,9-13).
Il sacerdote: Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria, del
Padre, del Figlio e dello Spirito santo, ora e sempre, nei se-
coli dei secoli.
Il popolo: Amen10!
Liturgia di Giovanni Crisostomo, pp. 338-340

La preghiera del Signore, sintesi della preghiera della chiesa

1. Poi, dopo queste preghiere11, reciti la preghiera che il Sal-


vatore ha consegnato ai suoi discepoli, attribuendo a Dio con
coscienza pura il nome di Padre, e dicendo: Padre nostro, che sei
nei cieli (Mt 6,9). Oh, grandissimo amore di Dio per gli uomi-
ni! A coloro che l’avevano abbandonato ed erano caduti nei ma-
li estremi egli a tal punto ha concesso il perdono dei peccati e
la partecipazione alla grazia, da lasciarsi perfino invocare come
Padre. Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6,9), e qui i cieli potreb-
bero essere anche coloro che portano l’immagine del Celeste (cf.

9 Il termine greco epioúsios, raro e di difficile traduzione, ha ricevuto diverse inter-

pretazioni fin dall’antichità. Frequente nei padri è l’interpretazione eucaristica, favo-


rita da una delle etimologie cui si fa risalire il termine (epí-ousía): “sostanziale” o “so-
vrasostanziale” è così il pane dell’eucaristia, in cui risiede la vera “sostanza”, superio-
re a quella di ogni cibo materiale; altri intendono: “pane per la nostra sussistenza” (o
“adatto alla nostra natura”), “pane per il giorno presente” (o “quotidiano”), “pane per
il giorno che viene” (o “per il futuro”). Cf. s.v. “ πιοσιος”, in G. W. H. Lampe, A
Patristic Greek Lexicon, p. 529.
10 Queste formule sono comuni anche alla Liturgia di Basilio.
11 Sono le commemorazioni dei santi e dei defunti.

385
Capitolo XI

1Cor 15,49), nei quali Dio dimora e cammina (cf. Ez 37,27;


2Cor 6,16).
Sia santificato il tuo nome (Mt 6,9). Il nome di Dio è santo per
natura, sia che lo diciamo, sia che non lo diciamo. Ma poiché
accade talvolta che in coloro che peccano esso sia profanato, se-
condo le parole: A causa vostra il mio nome è bestemmiato conti-
nuamente tra le genti (Is 52,5), preghiamo che il nome di Dio sia
santificato in noi, non perché esso, senza esserlo in precedenza,
arrivi a essere santo, ma perché diviene santo in noi, quando
siamo santificati e facciamo cose degne della santificazione.
Venga il tuo regno (Mt 6,10). È proprio di un’anima pura po-
ter dire con franchezza: Venga il tuo regno. Chi infatti ha udito
Paolo dire: Non regni il peccato nel vostro corpo mortale (Rm 6,12)
e ha purificato se stesso in azione, pensiero e parola, potrà di-
re a Dio: Venga il tuo regno.
Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra (Mt 6,10). I
divini e beati angeli di Dio fanno la volontà di Dio, come dice-
va David nel salmo: Benedite il Signore, voi tutti suoi angeli, po-
tenti nella forza, che eseguite la sua Parola (Sal 102,20). Pregando
dunque con forza [con queste parole] intendi dire: “Come negli
angeli si compie la tua volontà, così si compia in me sulla terra,
Signore!”.
Dacci oggi il nostro pane sostanziale (Mt 6,11). Il pane ordina-
rio non è sostanziale, ma il pane santo12 sì è sostanziale, come a
dire che è destinato alla sussistenza dell’anima. Questo pane non
va a finire nel ventre, per poi essere espulso nella fogna (Mt 15,17),
ma viene assimilato in ogni parte di cui si compone il tuo essere,
per il bene dell’anima e del corpo. La parola oggi sta per “ogni
giorno”, come dice anche Paolo: Finché si dice: oggi (Eb 3,13).
E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai
nostri debitori (Mt 6,12). Abbiamo molti peccati, perché cadia-

12 Cioè santificato: il riferimento è al pane eucaristico. Seguo l’interpretazione del-

l’autore nella traduzione del termine epioúsios (cf. supra, p. 385, n. 9).

386
“Padre nostro …”

mo in errore sia con la parola che con il pensiero, e facciamo mol-


tissime cose degne di condanna. E se diciamo che siamo senza
peccato, mentiamo (1Gv 1,6.8), come dice Giovanni. E così sta-
biliamo un patto con Dio, pregandolo di perdonarci i peccati,
come anche noi [rimettiamo] i debiti a coloro che ci stanno ac-
canto. Pensando dunque a che cosa riceviamo, e a che cosa dia-
mo in cambio, perdoniamoci gli uni gli altri, senza indugiare né
rinviare. Le colpe commesse nei nostri confronti infatti sono pic-
cole, leggere e facili da cancellare, mentre quelle che noi stessi
commettiamo nei confronti di Dio sono grandi, e non abbiamo
altra risorsa che il suo amore verso noi uomini. Fa’ dunque at-
tenzione che, per delle colpe piccole e leggere, tu non ti preclu-
da il perdono da parte di Dio dei tuoi gravissimi peccati.
E non ci far entrare in tentazione (Mt 6,13), Signore. Forse che
il Signore ci insegna a pregare di non essere tentati affatto? Co-
me mai allora altrove si dice: “Un uomo non tentato non è pro-
vato”13. E ancora: Considerate perfetta letizia, fratelli miei, quan-
do subite ogni sorta di tentazione (Gc 1,2). Ma forse qui l’entra-
re in tentazione significa essere sommersi dalla tentazione. La
tentazione infatti somiglia a un torrente difficile da attraversa-
re. Alcuni dunque, nelle tentazioni, le attraversano senza lasciar-
si sommergere, comportandosi da eccellenti nuotatori che non
si lasciano minimamente trascinare dal torrente. Altri invece,
non altrettanto abili, appena vi entrano ne vengono sommersi,
come ad esempio Giuda, che, entrato nella tentazione dell’ava-
rizia, non riuscì a compiere la traversata a nuoto, ma, sommerso
sia fisicamente che spiritualmente, morì affogato (cf. Mt 27,3-5).
Pietro entrò nella tentazione del rinnegamento, ma nuotò con
coraggio e riuscì a salvarsi dalla tentazione (cf. Mt 26,69-75).
Ascolta ancora, in un altro passo, un coro di santi rimasti inco-

13 È un ágraphon attestato in molti testi patristici (cf. Eusebio di Cesarea, Commen-

to ai Salmi 65,10; Giovanni Crisostomo, Omelie sugli Atti degli apostoli 35,2; Costitu-
zioni apostoliche II,8,2). Quanto al senso, cf. Sir 34,9-10.

387
Capitolo XI

lumi, che ringrazia di essere scampato alla tentazione: Ci hai


messi alla prova, o Dio, ci hai provati al fuoco, come si prova l’ar-
gento; ci hai fatti cadere nel laccio, hai posto tribolazioni sulle no-
stre spalle, hai fatto passare uomini sulla nostra testa. Siamo passa-
ti per il fuoco e per l’acqua, ma poi ci hai tratto fuori verso il refri-
gerio (Sal 65,10-12). Vedi come parlano con franchezza di aver
compiuto la traversata e di non essere sprofondati. Ci hai trat-
to fuori verso il refrigerio: entrare nel refrigerio significa essere
liberati dalla tentazione.
Ma liberaci dal maligno (Mt 6,13). Se l’espressione: Non far-
ci entrare in tentazione significasse non essere tentati affatto, non
avrebbe detto: Ma liberaci dal maligno. E il maligno è il demo-
nio avversario, dal quale preghiamo si essere liberati.
Poi, alla conclusione della preghiera, dici: “Amen!”, sigillan-
do con questo “Amen”, che significa “Così sia!”, tutto ciò che
è contenuto nella preghiera insegnataci da Dio.
Cirillo e Giovanni di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche 5,11-18

2. Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (Mt
6,9): il “nome” è quello del Figlio di Dio. Dicendo: Padre, ti mo-
stra di quali beni sei stato reso degno, ora che sei diventato fi-
glio di Dio. Dicendo poi: Nei cieli ti ha indicato la patria e la ca-
sa di tuo Padre; se infatti vuoi avere Dio come padre, guarda al
cielo e non alla terra. Tu però non dici: “Padre mio”, ma: Padre
nostro, perché tutti sono per te fratelli di un unico Padre.
Sia santificato il tuo nome, cioè: “Rendici santi, affinché tu
sia glorificato a causa nostra”. Infatti, come Dio è bestemmia-
to attraverso di me, così egli è glorificato a causa tua.
Venga il tuo regno (Mt 6,10), cioè la seconda venuta14: chi in-
fatti ha una buona coscienza prega con franchezza che venga la
resurrezione e il giudizio.

14 Cioè il ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi.

388
“Padre nostro …”

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra (Mt 6,10):
“Come gli angeli – intende dire – compiono la tua volontà, co-
sì concedi anche a noi di compierla”.
Dacci oggi il nostro pane sostanziale (Mt 6,11): chiama “sostan-
ziale” il pane che basta a darci sostanza e consistenza; ed elimi-
na la preoccupazione per il domani (cf. Mt 6,34). Ma il “pane
sostanziale” è anche il corpo di Cristo, al quale preghiamo di po-
ter partecipare senza condanna.
E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai
nostri debitori (Mt 6,12): poiché noi pecchiamo anche dopo il
battesimo, supplichiamo che egli ci rimetta i nostri debiti se non
conserviamo rancore per le offese ricevute. Dio infatti mi pren-
de a esempio, e ciò che io faccio all’altro, lo fa a me.
E non ci indurre in tentazione (Mt 6,13): noi uomini siamo de-
boli, e perciò non dobbiamo gettarci da soli in una tentazione,
ma pregare Dio di non essere sopraffatti dalla tentazione. Chi
infatti è stato sopraffatto e vinto, è proprio chi è stato intro-
dotto nell’abisso della tentazione; ma [che dire di] chi vi è cadu-
to, ma ha vinto?
Ma liberaci dal maligno (Mt 6,13). Non ha detto: “Dagli uo-
mini maligni”, perché non sono loro a recarci danno, ma il ma-
ligno.
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 42

La preghiera dei battezzati resi figli di Dio

3. Colui che riceve il battesimo sia estraneo a ogni empietà,


non più disposto al peccato, amico di Dio, nemico del diavolo,
erede del Padre, coerede del suo Figlio, avendo rinunciato a Sa-
tana, ai demoni e a suoi inganni; sia casto, puro, santo, amante
di Dio, figlio di Dio, che prega come un figlio suo padre e di-

389
Capitolo XI

ce, come [è detto] dalla comune assemblea dei fedeli15, così: Pa-
dre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo
regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci og-
gi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi
li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione, ma
liberaci dal maligno. Poiché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei
secoli. Amen (Mt 6,9-13)16.
Costituzioni apostoliche III,18,1-2

4. Se è vero, come già molte volte è stato detto, che tutta la


salvezza ci è stata donata dalla santa Trinità nel suo insieme, il
Padre, da parte sua, ci ha chiamati all’adozione filiale (cf. Ef
1,5); il Figlio unigenito, autentico e legittimo, ci ha attribuito il
nome di fratelli (cf. Mt 12,49; 25,40; 28,10; Gv 20,17) e ci ha
concesso di invocare Dio come nostro Padre (cf. Mt 6,9); e lo
Spirito santo è venuto ad abitare in noi (cf. Rm 8,11; 2Tm 1,14),
ha fatto risuonare in noi la sua voce e ci ha ammaestrato, dicen-
do: Abbà! (Gal 4,6). Egli stesso – sta scritto – vi insegnerà (Gv
14,26) e: Vi guiderà a tutta la verità (Gv 16,13). Inoltre ci ha ri-
generato, ci ha liberato dal peccato e dalla morte, ci ha santifi-
cato e nella sua bontà ci ha resi figli di Dio. Per questo, prima
di essere stati da lui rigenerati attraverso l’illuminazione [del
battesimo] non è conveniente dire: Padre nostro che sei nei cieli
(Mt 6,9).
Didimo il Cieco (?), Sulla Trinità 3,39
(PG 39,980B-C)

5. Se non ci fosse lo Spirito santo non potremmo dire “Ge-


sù è Signore”, perché nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non
in forza dello Spirito santo (1Cor 12,3). Se non ci fosse lo Spiri-

15 Il riferimento è a una sinassi di preghiera, ma non necessariamente alla sinassi

eucaristica.
16 La dossologia finale è riportata da numerosi manoscritti antichi e potrebbe esse-

re parte del testo originale.

390
“Padre nostro …”

to santo noi fedeli17 non potremmo pregare Dio; diciamo infat-


ti: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6,9). Come dunque non po-
tremmo chiamare [Gesù] “Signore”, così non potremmo chia-
mare Dio “Padre”. Da dove risulta questo? Da ciò che dice lo
stesso apostolo Paolo: Poiché voi siete figli, Dio ha mandato nei
vostri cuori lo Spirito di suo Figlio, che grida: “Abbà, Padre!” (Gal
4,6). Quindi, quando invochi il Padre, ricordati che sei stato re-
so degno di chiamarlo così perché è lo Spirito a muovere la tua
anima!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Pentecoste 1,4

6. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli (Mt
6,9). Vedi come subito [il Signore] abbia elevato chi ascolta, ri-
cordando con le sue prime parole ogni beneficio. Chi infatti ha
chiamato Dio “Padre” per mezzo di quest’unico appellativo ha
confessato la remissione dei peccati, l’eliminazione del castigo,
la giustificazione, la santificazione, la redenzione, l’adozione fi-
liale, l’eredità, la fratellanza con l’Unigenito e il dono dello Spi-
rito. Non è possibile infatti chiamare Dio “Padre” senza aver
conseguito tutti questi beni18. In duplice modo quindi innalza il
loro animo, con la dignità sublime di colui che viene invocato
e con la grandezza dei benefici di cui ha goduto. Quando poi di-
ce: Nei cieli, non lo dice per racchiudere Dio lassù, ma per al-
lontanare chi prega dalla terra, fissarlo nei luoghi elevati e nel-
le dimore celesti …
Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri de-
bitori (Mt 6,12). Vedi l’eccesso del suo amore per gli uomini?
Dopo aver eliminato così tanti mali e averci donato un indici-
bile cumulo di beni degna di nuovo del perdono coloro che han-
no peccato. Del resto, che questa preghiera sia riservata ai fede-
li, lo insegnano anche le leggi della chiesa e l’inizio della preghie-

17 Ovvero: noi che siamo battezzati.


18 Sono appunto i beni trasmessi attraverso il battesimo.

391
Capitolo XI

ra stessa. Chi infatti non è stato iniziato ai misteri non potrebbe


chiamare Dio “Padre”. Se dunque tale preghiera è riservata ai
fedeli, e costoro pregano chiedendo che siano loro rimessi i pec-
cati, è chiaro che neppure dopo il lavacro battesimale è elimi-
nata l’opportunità della penitenza. Se infatti non avesse voluto
indicare questo, non avrebbe comandato di pregare così.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 19,4-5

7. Quando il diacono dice: “Preghiamo con fervore per i ca-


tecumeni”19, non fa altro che invitare tutto il popolo dei fedeli
a dire preghiere per loro. Eppure i catecumeni sono ancora de-
gli estranei, perché non fanno ancora parte del corpo di Cristo,
né hanno comunicato ai misteri, ma sono ancora separati dal
gregge spirituale. … Appunto per questo dice: “Preghiamo con
fervore”, perché tu non li respinga come estranei e non li igno-
ri come stranieri. Non hanno ancora infatti [la possibilità di ri-
volgere a Dio] la preghiera ufficiale20, quella introdotta da Cri-
sto, non possiedono ancora la franchezza di parola, ma hanno
bisogno dell’aiuto degli altri che sono già stati iniziati ai miste-
ri. Essi infatti stanno fuori delle aule regali, lontano dai sacri re-
cinti. Per questo vengono anche allontanati quando si elevano
quelle preghiere tremende21.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Seconda lettera ai Corinti 2,5

8. Nel caso dei giudei l’adozione filiale era un semplice tito-


lo di onore, ma nel nostro [alle parole] sono seguiti i fatti: la pu-
rificazione attraverso il battesimo, il dono dello Spirito, l’elar-

19 Preghiera fatta al congedo dei catecumeni, poco prima dell’inizio della “liturgia

dei fedeli”.
20 In greco: nenomisméne (lett.: “che è in uso”). La stessa espressione viene utiliz-

zata per una moneta “che ha corso legale”. Il riferimento è ancora una volta al Padre
nostro.
21 L’anafora e le preghiere che la seguono riservate ai soli fedeli. L’aggettivo “tre-

mendo” (phriktós) è ordinariamente impiegato da Giovanni Crisostomo per tutto ciò


che ha attinenza con i misteri del corpo e del sangue di Cristo.

392
“Padre nostro …”

gizione degli altri beni; e si potrebbero dire molte altre cose che
mostrano la nobiltà della nostra condizione e la loro miseria. Do-
po aver suggerito in modo allusivo tutte queste cose parlando
dello Spirito, del timore, dell’adozione filiale, [l’Apostolo] for-
nisce un’altra prova del fatto che abbiamo in noi uno spirito di
figli adottivi. E quale? Per mezzo di esso gridiamo: “Abbà, Padre!”
(Rm 8,15). Quanto ciò sia importante, lo sanno bene gli inizia-
ti22, i quali nella preghiera mistica23 sono invitati a dire innan-
zitutto questa parola.
“Ma come? – dirà qualcuno – Non chiamavano forse Dio
‘Padre’ anche i giudei? Non senti Mosè che dice: Hai abbando-
nato Dio che ti ha generato (Dt 32,18)? Non senti Malachia che
rimprovera e dice: Un solo Dio ci ha creati e uno solo è Padre di
tutti noi (Ml 2,10)?”. Ma nonostante queste e molte altre paro-
le, non troviamo da nessuna parte che essi abbiano chiamato
Dio con questo nome, né che abbiano pregato così. Noi tutti,
invece, sacerdoti e semplici fedeli, governanti e sottomessi, ab-
biamo ricevuto l’ordine di pregare così, ed è proprio questa la
prima voce che abbiamo emesso dopo quelle mirabili doglie del
parto e quella nuova e paradossale forma di nascita24! Del resto,
se mai anche quegli uomini chiamarono Dio così, lo fecero di
propria volontà, ma coloro che vivono al tempo della grazia, lo
fanno perché mossi dall’azione dello Spirito.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera ai Romani 14,2-3

9. Quando [il Signore] donò ai discepoli un modello di pre-


ghiera, ordinò loro di dire: Rimetti a noi i nostri debiti, come an-
che noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12); e questa preghie-

22 In greco: mØstai, termine meno frequente del sinonimo memyeménoi.


23 Il riferimento è alla preghiera del Padre nostro, detta “mistica” appunto perché
riservata a coloro che sono stati iniziati ai “misteri” di Cristo: battesimo ed eucaristia.
24 Riferimento al rito del battesimo, in cui i credenti sono generati alla vita in Cri-

sto: all’uscita dalla vasca battesimale era prevista la recitazione del Padre nostro da
parte del neofita.

393
Capitolo XI

ra noi non la insegniamo ai non iniziati, ma a coloro che sono


stati introdotti ai misteri25. Nessuno dei non iniziati infatti osa
dire: Padre nostro che sei nei cieli (Mt 6,9), non avendo ancora
ricevuto il carisma dell’adozione filiale. Ma colui che ha ottenu-
to il dono del battesimo, chiama Dio “Padre” perché ormai ap-
partiene ai figli della grazia. È a costoro dunque che è stato or-
dinato di dire: Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li ri-
mettiamo ai nostri debitori 26.
Teodoreto di Cirro, Compendio delle menzogne degli eretici 5,28

10. Giunti ormai all’unità della fede (cf. Ef 4,13) e alla co-
munione dello Spirito (cf. Fil 2,1) grazie all’economia di salvez-
za di colui che è morto per noi e si è seduto alla destra del Pa-
dre, noi non siamo più sulla terra, ma stiamo in piedi davanti al
trono regale di Dio, nel cielo, dove si trova Cristo (cf. Col 3,1),
come egli stesso dice: Padre giusto, santifica nel tuo nome colo-
ro che mi hai dato, affinché dove sono io, siano anch’essi insieme a
me (cf. Gv 17,11.17.24). Perciò, ricevuta l’adozione a figli e di-
ventati coeredi di Cristo attraverso la sua grazia e non con le
opere (cf. Rm 8,15-17), abbiamo lo Spirito del Figlio di Dio (cf.
Gal 4,6). Contemplando l’azione e la grazia di tale Spirito il sa-
cerdote grida dicendo: “Abba, Padre celeste, rendici degni di
osare dire con franchezza e senza condanna: [Padre nostro …]”.
Germano di Costantinopoli, Interpretazione della divina liturgia 41

*
11. La santissima e venerabile invocazione del grande e bea-
to Dio e Padre è simbolo di quell’adozione a figli, sostanziale
ed effettiva27, che sarà concessa per dono e per grazia dello Spi-

25 L’autore si riferisce soprattutto al battesimo, ma nella chiesa antica esso veniva

amministrato insieme all’eucaristia: è possibile dunque che l’autore pensi al Padre no-
stro recitato dai battezzati durante la liturgia eucaristica.
26 Cf. supra, § 6.
27 L’autore intende qui l’adozione a figli in senso escatologico.

394
“Padre nostro …”

rito santo, quando, superata e nascosta con la venuta della gra-


zia ogni particolarità umana, tutti i santi, tutti quelli cioè che
fin da ora, attraverso le virtù, hanno splendidamente e glorio-
samente illuminato se stessi con la divina bellezza della bontà,
verranno chiamati e saranno realmente figli di Dio.
Massimo il Confessore, Mistagogia 20

“Lex orandi, lex vivendi”

12. Gli apostoli del nostro Salvatore, che si erano ormai ele-
vati al di sopra delle preghiere dell’Antico Testamento, si acco-
starono a lui e gli chiesero di insegnare loro a pregare. Ed egli
lo fece consegnando una preghiera adeguata a loro soltanto e a
chi è simile a loro. Perciò disse loro: Voi dunque pregate così: Pa-
dre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome (Mt 6,9), con
ciò che segue. Ciascuno dunque esamini se stesso (1Cor 11,28),
per vedere se è degno, come chi è diventato figlio di Dio, di in-
vocare il Padre che è nei cieli e dire: Padre nostro, che sei nei cie-
li, e ciò che segue. Se però non è così, abbia cura di scegliersi
una preghiera adatta alla propria condizione dal libro dei Salmi
e dalle parole dei profeti.
Eusebio di Cesarea, Commento ai Salmi 85,1

13. Quando il Signore ci insegna a dire a Dio “Padre” nella


preghiera, mi sembra che non voglia altro che prescrivere una
vita sublime ed elevata. Lui che è la verità, infatti, non ci inse-
gna a mentire, così da dire ciò che non siamo e chiamarci con un
nome che non ci spetta per natura; ma egli vuole che, mentre
chiamiamo Padre nostro (Mt 6,9) l’Incorruttibile, il Giusto e il
Buono, dimostriamo nella vita l’autenticità di questa parentela.
Vedi quanta preparazione, quale condotta di vita, quanta e qua-

395
Capitolo XI

le sollecitudine sono richieste, perché, quando finalmente la no-


stra coscienza sarà stata innalzata alla misura della franchezza,
possiamo osare dire a Dio: “Padre”? Se infatti il tuo sguardo è
rivolto alle ricchezze, se sei tutto preso dalle illusioni di questa
vita, se cerchi la gloria degli uomini, se sei schiavo dei desideri
passionali, e poi pronunci con la bocca tale preghiera, che cosa
credi che dirà colui che guarda alla tua vita e ascolta la tua pre-
ghiera? Io m’immagino di ascoltare parole come queste, che Dio
potrebbe dire a chi si comporta così: “Chiami ‘padre’, proprio
tu che hai una vita corrotta, il Padre dell’incorruttibilità? Per-
ché contamini con la tua voce immonda il nome incontaminato?
Perché usi questa parola in modo bugiardo? Perché rechi oltrag-
gio alla natura immacolata? Se tu fossi figlio mio, la tua vita do-
vrebbe essere certamente contraddistinta dai miei beni; io non
riconosco in te l’immagine della mia natura: questi sono i segni
degli avversari! Quale comunione può esserci tra la luce e le tene-
bre (2Cor 6,14)? Quale affinità tra la vita e la morte? Quale fa-
miliarità tra la purezza naturale e l’impurità? Grande è la di-
stanza tra il benefattore e l’avido. Irriducibile il contrasto tra il
misericordioso e il crudele. Un altro è il padre dei mali che sono
in te, poiché i miei figli sono adorni dei beni del loro padre: fi-
glio del misericordioso è il misericordioso, e figlio del puro, il
puro; la corruzione è estranea all’incorruttibilità. In breve: dal
buono viene il buono, e dal giusto il giusto. Ma voi, non so di do-
ve siete (Lc 13,27)!”.
È dunque pericoloso, prima di essersi purificati nella propria
condotta di vita, aver l’audacia di pronunciare questa preghie-
ra e di chiamare Dio proprio “Padre” … Comandandoti dun-
que di chiamare Dio come tuo padre nella preghiera, non fa al-
tro che ordinarti di assimilarti al Padre celeste attraverso una
condotta degna di Dio, come del resto comanda in modo ancor
più esplicito anche altrove, dicendo: Diventate perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). Se dunque abbiamo ca-
pito il senso di una tale preghiera, sarebbe tempo di preparare le

396
“Padre nostro …”

nostre anime, in modo da poter osare una buona volta pronun-


ciare queste parole con la nostra bocca, e dire con franchezza:
Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6,9)! Come infatti sono eviden-
ti i tratti distintivi che ci rendono simili a Dio – A quelli che
l’hanno accolto, è detto, diede il potere di diventare figli di Dio
(Gv 1,12), e accoglie Dio in sé chiunque accoglie la perfezione
nel bene – , allo stesso modo vi sono dei segni caratteristici del
maligno, e colui che li possiede non può essere figlio di Dio, per-
ché porta in sé l’immagine della natura contraria … Quando
dunque ci accostiamo a Dio, esaminiamo prima la nostra vita,
per vedere se portiamo in noi qualcosa che sia degno della paren-
tela con Dio, e allora, con tali disposizioni, pronunciamo quel-
la parola. Chi infatti ha comandato di dire: Padre, non permet-
te di pronunciare la menzogna. Chiunque perciò conduce una vi-
ta degna della nobile parentela divina, giustamente costui guarda
verso la città celeste e chiama “Padre” il Re dei cieli, chiaman-
do propria patria la beatitudine celeste … Se tale è la tua condot-
ta, abbi l’audacia di invocare Dio con questa parola familiare e
di chiamare come tuo padre il Signore dell’universo. Egli ti guar-
derà con occhi paterni, ti cingerà della veste divina, ti adorne-
rà dell’anello, munirà i tuoi piedi dei calzari dell’evangelo (cf. Lc
15,22) per compiere il cammino verso l’alto e ti ristabilirà nel-
la patria celeste, nel Cristo Gesù nostro Signore, al quale appar-
tengono la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli. Amen.
Gregorio di Nissa, Omelie sulla preghiera del Signore 2

14. [Il Signore] ci insegna che cosa bisogna dire nella preghie-
ra e in poche parole ci istruisce in tutta la virtù: quelle parole
infatti non sono solo un insegnamento per la preghiera, ma un’e-
ducazione alla vita perfetta. Ma esaminiamo con molta attenzio-
ne quali sono queste parole e che significato hanno e osservia-
mole fermamente come leggi divine. Padre nostro, che sei nei cieli
(Mt 6,9). Oh, quanto è smisurato il suo amore per gli uomini!
Quanto eccellente la sua generosità! Quale parola basterà per

397
Capitolo XI

rendere grazie a colui che, come una sorgente, fa zampillare per


noi così tanti beni? Osserva, mio caro, la miseria della tua e del-
la mia natura, considera la tua origine: la terra, la polvere, il fan-
go, il mattone28, la cenere; plasmati infatti dalla terra (cf. Gen
2,7), ritorniamo di nuovo alla terra (cf. Gen 3,19).
Riflettendo dunque su queste cose, lasciati prendere dallo stu-
pore per l’imperscrutabile ricchezza della grande bontà di Dio
per noi, poiché hai ricevuto l’ordine di rivolgergli il nome di Pa-
dre: tu il terrestre al Celeste, tu il mortale all’Immortale, tu il
corruttibile all’Incorruttibile, tu l’effimero all’Eterno, tu che ie-
ri e poco fa eri fango a colui che da prima dei secoli è Dio.
Non invano però ti è stato insegnato a proferire queste paro-
le, ma perché, rispettando il nome pronunciato dalla tua lingua,
tu possa imitare la sua bontà, come dice anche altrove: Diven-
tate simili al Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli
ingiusti (Mt 5,45). Non può infatti chiamare “Padre” il Dio
amico degli uomini chi ha un animo feroce e disumano, perché
non conserva in sé i caratteri della bontà che è nel Padre cele-
ste, ma ha trasformato se stesso assimilandosi a una bestia fe-
roce ed è decaduto dalla nobiltà della condizione divina, come
è stato detto da David: L’uomo che era in onore non comprese,
si rese come le bestie insensate e si fece simile a loro (Sal 48,21).
Quando infatti uno scalpita come un toro, tira calci come un asi-
no, serba rancore come un cammello, è ingordo come un orso,
è rapace come un lupo, morde come uno scorpione, è falso co-
me una volpe, freme per le donne come uno stallone infuriato,
come può questo tale pronunciare la parola che si addice solo a
un figlio e chiamare Dio suo padre?
Pseudo-Crisostomo, Omelia sulla porta stretta e sulla preghiera del Signore 3

28 Nell’interpretazione patristica la fabbricazione di mattoni, di cui si parla in Es

1,14, diventa simbolo della miseria e della bassezza della vita umana.

398
“Padre nostro …”

La preghiera comune dei fratelli

15. [Il Signore] insegna anche a fare una preghiera comune


per i fratelli, perché non dice: “Padre mio, che sei nei cieli”,
ma: Padre nostro, elevando le suppliche per il corpo comune [del-
la chiesa], senza mirare al proprio interesse, ma sempre a quel-
lo del prossimo. In questo modo poi elimina l’inimicizia, frena
l’arroganza, scaccia l’invidia, incoraggia la carità, che è madre
di tutti i beni, bandisce la disuguaglianza tra le diverse condi-
zioni degli uomini e mostra come vi sia per lo più parità di ono-
re tra il re e il povero, se è vero che tutti abbiamo in comune le
cose più grandi e necessarie. Che danno possiamo trarre dalla
nostra origine terrena, quando secondo quella celeste siamo tut-
ti uniti e nessuno ha niente più dell’altro, non il ricco rispetto
al povero, non il padrone rispetto allo schiavo, non il capo ri-
spetto al suddito, non il re rispetto al soldato, non il filosofo ri-
spetto al barbaro, non il sapiente rispetto all’ignorante? A tut-
ti infatti ha fatto grazia della stessa nobiltà di nascita, degnan-
dosi di essere chiamato Padre di tutti allo stesso modo.
Giovanni Crisostomo, Omelie su Matteo 19,4

16. La sua lode nella chiesa dei santi (Sal 149,1). Anche qui in-
segna un’altra cosa. Mostra che bisogna elevare [al Signore] gli
inni di lode attraverso l’unione concorde di tutte le voci. La
parola “chiesa” infatti designa un complesso e un’assemblea di
persone29… Lodino il suo nome in coro (Sal 149,3). Ecco che di
nuovo si dà risalto alla stessa unione concorde delle voci! Pro-
prio per questo infatti esistono i cori, perché tutti insieme in
modo unanime elevino gli inni di lode. Lo mostra anche Paolo,
laddove dice: Non disertando le nostre assemblee (Eb 10,25), e lo

29 Cf. supra, p. 63, n. 27.

399
Capitolo XI

suggerisce anche quella preghiera che viene innalzata insieme


dall’intera assemblea: Padre nostro, che sei nei cieli, e: Rimetti a
noi i nostri debiti, e: Non ci indurre in tentazione, e: Liberaci dal
maligno (Mt 6,9.12-13), usando sempre il plurale. Allo stesso
modo anche nei tempi antichi si veniva educati a salmodiare e
cantare a Dio attraverso l’unione delle voci, per essere incorag-
giati in ogni modo alla carità e alla concordia.
Giovanni Crisostomo, Commento ai Salmi 149,1

17. Non contristate lo Spirito santo – sta scritto – con il cui si-
gillo siete stati segnati (Ef 4,30). Questo contrassegno rimanga
sulla tua bocca, non romperne i sigilli! … Hai una bocca spiri-
tuale? Pensa a qual è la prima parola che hai detto, a qual è la
dignità della tua bocca. Chiami Dio “Padre”, e subito dopo in-
sulti il fratello? Pensa che cosa ti permette di chiamare Dio “Pa-
dre”. La natura? No. La virtù? Neanche questo. Che cosa al-
lora? Soltanto l’amore verso gli uomini, la compassione e la mi-
sericordia abbondante. Quando dunque chiami Dio “Padre”,
non pensare solo che insultando gli altri fai ciò che è indegno
della tua nobiltà, ma che tu possiedi tale nobiltà proprio grazie
all’amore verso gli uomini30. Non disonorarla, dunque, avendo-
la ricevuta grazie a tale amore, e poi usando durezza contro i
fratelli. Chiami Dio “Padre” e insulti? Non è questo che si ad-
dice a un figlio di Dio! Il dovere del figlio di Dio è perdonare ai
nemici, pregare per coloro che lo crocifiggono, versare il sangue
per coloro che lo odiano. Ecco ciò che è degno del figlio di Dio:
trasformare i nemici, gli ingrati, i ladri, gli impudenti e coloro
che lo insidiano in fratelli, non insultare come schiavi coloro che
sono diventati suoi fratelli!

30 Si può intendere la frase sia nel senso che la condizione filiale che il cristiano pos-

siede è frutto dell’amore di Dio per gli uomini, sia nel senso che tale amore è ciò che
manifesta la realtà effettiva di tale condizione, perché, se Dio ama gli uomini, chi di-
ce di essere suo figlio può farlo solo a condizione di amare anche lui i suoi fratelli.

400
“Padre nostro …”

Pensa attentamente quali parole hai pronunciato con la tua


bocca e di quale mensa31 esse sono degne, quali cibi hai toccato,
quali hai gustato, di quale alimento hai goduto! Non credi di far
nulla di male accusando il fratello? Com’è che dunque lo chia-
mi fratello? Se non è tuo fratello, come puoi dire: Padre nostro
(Mt 6,9)? La parola “nostro” infatti indica molte persone... Pa-
dre nostro. E allora? Solo questo? Ascolta anche il seguito: Che
sei nei cieli. Appena hai detto Padre nostro, che sei nei cieli, que-
ste parole ti hanno subito elevato, hanno dato ali alla tua men-
te, ti hanno mostrato che hai un Padre nei cieli. Non fare nulla,
non dire nulla di ciò che è sulla terra!
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera agli Efesini 14,3-4

18. Considera, mio caro, quale sia la grandezza di questa


virtù32 dai premi che il Dio dell’universo ha promesso a coloro
che la praticano. Dopo aver detto infatti: Amate i vostri nemici,
benedite coloro che vi perseguitano, pregate per coloro che vi mal-
trattano (Mt 5,44), poiché questi comandi erano grandi e attin-
gevano il vertice della perfezione, dice: Affinché siate simili al
Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il suo sole sopra i malva-
gi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (Mt
5,45). Hai visto a chi diventa simile, nei limiti delle capacità
umane, colui che non solo non si vendica di coloro che lo afflig-
gono, ma che si sforza addirittura di pregare per loro?
Guardiamo dunque di non privarci, per nostra indolenza, di
doni così grandi e di premi che superano ogni parola, ma piutto-
sto sforziamoci in ogni modo di praticare questa virtù e facen-
do violenza al nostro pensiero insegniamogli ad obbedire al co-
mandamento di Dio. Per questo anch’io ora vi ho fatto questa
esortazione, ho esposto questa parabola33 e mostrato la grandez-

31 La mensa eucaristica, a cui i fedeli si accostano dopo aver recitato la preghiera

del Padre nostro.


32 La misericordia.
33 La parabola del debitore spietato (cf. Mt 18,23-35) commentata dall’autore nel-

la parte precedente dell’omelia.

401
Capitolo XI

za di quest’opera di virtù e il guadagno che ne ricaviamo, affin-


ché ciascuno di noi se ha qualcuno che nutre inimicizie nei suoi
confronti si sforzi con molta cura di riconciliarsi con lui, finché
c’è ancora tempo34. E nessuno venga a dirmi: “L’ho esortato una
e due volte, ma lui non ha accolto il mio invito!”. Se facciamo
questo con intenzione sincera, non smettiamo finché, a forza di
pregarlo, non lo avremo vinto e attirato a noi, allontanandolo
dall’odio che nutre per noi. È forse a lui infatti che concediamo
una grazia? Il beneficio viene a nostro vantaggio, ci attiriamo la
benevolenza di Dio, ci assicuriamo in anticipo il perdono dei
peccati e in questo modo otteniamo molta franchezza davanti
al Signore.
Se facciamo questo, potremo accostarci con una coscienza pu-
ra a questa mensa sacra e tremenda35 e pronunciare a voce alta
con franchezza quelle parole contenute nella preghiera [del Si-
gnore]36. Coloro che sono iniziati ai misteri sanno bene cosa di-
co. Per questo lascio alla coscienza di ciascuno di sapere come,
dopo aver messo in pratica il comandamento, potremo pronun-
ciare queste parole in quel momento terribile. Ma se trascuriamo
di farlo, come potrà non diventare per noi causa di condanna il
fatto di osare rivolgere [a Dio] le parole di questa preghiera in
modo superficiale e senza convinzione, proprio mentre faccia-
mo il contrario di quello che dicono? Così prepariamo per noi un
fuoco ancor più grande e provochiamo l’indignazione del Signo-
re! Gioisco e mi rallegro vedendo che ascoltate ciò che dico con

34 L’espressione, come lascia pensare il seguito del discorso, va probabilmente in-

terpretata in relazione al contesto liturgico in cui l’omelia è stata pronunciata, per di-
re: finché c’è tempo prima del solenne “momento” (kairós), quello dei divini misteri,
in cui si dovrà dare l’abbraccio di pace ai fratelli, recitare la preghiera del Signore e co-
municare al corpo del Signore.
35 La mensa eucaristica.
36 Il passo è riprodotto in modo simile in Giovanni Crisostomo, Omelia sui diecimi-

la talenti, PG 64,449D-452A: “Se facciamo ciò, potremo pronunciare con coscienza


pura le parole della preghiera [del Signore] al momento dei tremendi misteri: E rimetti
a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12)”.

402
“Padre nostro …”

piacere e manifestate con i vostri applausi37 che vi sforzate di es-


sere pronti e di mettere in pratica l’esortazione del Signore. È
proprio questo infatti il modo in cui potete curare le vostre ani-
me, questo il farmaco per le vostre ferite, questa la via migliore
per piacere a Dio, questo il segno più evidente di un’anima che
lo ama: accettare ogni cosa a motivo della legge del Signore, sen-
za lasciarvi travolgere dai pensieri che vi suggeriscono la vostra
debolezza, ma piuttosto diventando superiori alle passioni, pen-
sando ai benefici che riceviamo da Dio ogni giorno.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Genesi 27,8

19. Quale scusa avremo, dimmi, nelle cose che appaiono dif-
ficili, se anche ciò che è facile e comporta tanto guadagno e tan-
to beneficio, senza la minima fatica, non lo facciamo? Non puoi
disprezzare le ricchezze? Non riesci a spendere le tue sostanze
per i bisognosi? Non sei capace di volere qualcosa di buono?
Non riesci neppure a perdonare a chi ti ha offeso? Se infatti tu
non avessi così tanti debiti verso di lui, ma Dio ti chiedesse so-
lo di perdonare, non dovresti farlo? E ora che sei carico di de-
biti, non perdoni, pur sapendo che ti verrà richiesto ciò che hai
ricevuto da lui? … Qui non c’è bisogno di forza fisica, né di
ricchezza, né di beni, né di potere, né di amicizia, né di nien-
t’altro, ma basta solo volere e tutto è compiuto. Quel tale ti ha
contristato, insultato e deriso? Ma pensa che hai fatto anche
tu lo stesso molte volte ad altri e allo stesso Signore, e allora sii
indulgente e perdona. Pensa che dici: Rimetti a noi i nostri de-
biti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12). Pen-
sa che se tu non perdoni, non potrai dire queste parole con fran-
chezza. Se invece perdoni, puoi reclamare questo come un de-
bito, non per la natura della cosa in sé, ma per la benevolenza

37 Le omelie di Giovanni Crisostomo sono state fedelmente trascritte dalla viva vo-

ce dell’autore, e spesso si fa riferimento a manifestazioni di approvazione da parte de-


gli ascoltatori mentre l’autore parla.

403
Capitolo XI

di colui che ci ha concesso questo. Del resto, dov’è la propor-


zione, se un servo che perdona ai suoi compagni riceve il per-
dono per i peccati che ha commesso verso il padrone (cf. Mt
18,23-35)? E tuttavia noi troviamo una così grande benevolen-
za, poiché egli è ricco nella misericordia e nella compassione (Sal
102,4).
Giovanni Crisostomo, Omelie sulla Lettera a Filemone 2,3

20. Nessuno tenga dentro di sé pensieri maligni, vi prego,


ma purifichiamo il nostro cuore! Siamo infatti tempio di Dio,
se ci manteniamo puri. Rendiamo pura la nostra anima: è pos-
sibile farlo infatti in un giorno solo. Come e in che modo? Se
hai qualcosa contro un nemico, allontana l’ira, cancella l’inimi-
cizia, per poter ricevere dalla mensa38 la medicina del perdono.
Ti accosti a una vittima tremenda e santa: Cristo giace immo-
lato! … Cristo ha dato la sua vita per te, e tu rimani nemico di
chi è un servo come te? E come potrai accedere alla mensa del-
la pace? Il tuo Signore non ha rifiutato di sopportare ogni cosa
per te, e tu non tolleri neppure di lasciar perdere l’ira? Perché,
dimmi? La carità è radice, sorgente e madre di tutti i beni.
“Ma mi ha arrecato grandissime offese – dice – infinite ingiu-
stizie, mi ha addirittura messo in pericolo di vita!”. E con que-
sto? Non ti ha messo in croce come i giudei hanno fatto con il
Signore! Se tu non perdoni al tuo prossimo l’ingiustizia che hai
ricevuto, neppure il tuo Padre celeste perdonerà i tuoi peccati.
E poi, con quale coscienza potrai dire: Padre nostro, che sei nei
cieli, sia santificato il tuo nome (Mt 6,9) e ciò che segue?
Giovanni Crisostomo, Omelie sul tradimento di Giuda 2,6

21. Che cos’hai da dire, o uomo? Perché agisci in modo ar-


rogante contro Dio come un ragazzo insolente? Conservi ran-
core contro tuo fratello, affilando la tua spada, preparando in-

38 Cioè dalla mensa eucaristica.

404
“Padre nostro …”

sidie contro di lui e portando il veleno maligno nel tuo cuore,


proprio mentre gridi a Dio: “Rimettimi i debiti, come io li ho
rimessi al mio debitore!” (cf. Mt 6,12)? Sei venuto per prega-
re nella chiesa di Dio o per mentire? Per ricevere grazia o per
attirarti l’ira? Per procurarti il perdono dei peccati o per accre-
scerli? Non vedi che è proprio per questo che ci scambiamo il
saluto [di pace] in quell’ora terribile, cioè per rimuovere ogni
vincolo d’ingiustizia (Is 58,6) e di durezza di cuore e accostarci
a Dio con cuore puro? … Come fai a non essere percorso da un
brivido e a non cadere a terra quando dici a colui che conosce
i segreti del cuore: “Rimetti a me, come io ho rimesso a mio
fratello”? Che differenza c’è tra questa tua preghiera e una ma-
ledizione? Ecco ciò che dici, dichiarandolo contro di te: “Se io
rimetto, rimetti anche tu. Se io perdono, perdona anche tu. Se
provo compassione, prova anche tu compassione. Se conservo
rancore contro il mio compagno di schiavitù, conservalo anche
tu. Se mi adiro, adirati. Con la misura con la quale misuro, sia
misurato anch’io. Se perdono in modo simulato, riceva anch’io
misericordia in modo simulato. Io stesso faccio ricadere la sen-
tenza contro di me, Signore. Ho udito infatti la tua voce terri-
bile dire: Con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi (Mt
7,2), e: Se non perdonate agli uomini i loro peccati, neppure il Pa-
dre vostro celeste perdonerà a voi (Mt 6,15). Convinto dalle di-
chiarazioni di queste tue parole non menzognere, ho rimesso e
perdonato a coloro che mi hanno offeso: rimetti dunque, Si-
gnore39, come anch’io ho rimesso agli altri servi come me!”.
Queste siano le nostre parole, proprio queste, mentre preghia-
mo ogni giorno assistendo al momento della terribile e tremen-
da sinassi!
Anastasio il Sinaita, Sulla santa sinassi, PG 89,840A-841A

39 Lett.: “Padrone” (déspota).

405
Capitolo XI

22. Poiché il grande Giovanni40 venne a sapere che un uomo


illustre custodiva rancore nei confronti di un’altra persona au-
torevole, lo ammonì spesso e lo esortò a riconciliarsi, ma non
riuscì a convincerlo alla pace. Un giorno allora il santo lo man-
dò a chiamare e lo fece venire presso di sé, come se dovessero
trattare di qualche questione pubblica, e si mise a celebrare l’eu-
caristia nel proprio oratorio, non avendo con sé nessuno se non
il proprio servitore.
Dopo aver benedetto i santi doni, il patriarca iniziò la pre-
ghiera del Signore, e così, loro tre soli, cominciarono a recitare
il Padre nostro. Quando poi giunse alle parole: Rimetti a noi i no-
stri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12),
il patriarca fece segno al domestico di tacere e lui stesso tacque,
e così quell’uomo rimase solo a recitare il versetto: Rimetti a noi,
come anche noi li rimettiamo. Poi il santo si volse subito verso
di lui e gli disse con voce mite: “Vedi che cosa stai dicendo in
un’ora così terribile: ‘Come io rimetto, così anche tu rimetti a
me’!”. Come se improvvisamente fosse sottoposto al supplizio
del fuoco, quell’uomo autorevole cadde con la faccia a terra ai
piedi del santo, dicendo: “Qualunque cosa tu ordini, signore, il
tuo servo la farà!”. E da quel momento si riconciliò con il suo
nemico in tutta sincerità41.
Leonzio di Neapolis, Vita di Giovanni il Misericordioso 38

40 Santo cipriota, vissuto tra la metà del vi e gli inizi del vii secolo. Nato da fami-

glia agiata e rimasto vedovo, dopo un breve periodo di vita coniugale, abbandonò i
propri suoi beni e si consacrò totalmente al servizio di Dio e alle opere di carità, che
gli meritarono il titolo di “Misericordioso”(Eleémon). Fu patriarca melchita della città
di Alessandria.
41 Per un caso simile di esortazione al perdono attraverso la semplice recitazione

delle parole del Padre nostro, cf. Detti dei padri, Serie anonima N 557.

406
Capitolo XII
“LE COSE SANTE AI SANTI”

Nelle liturgie bizantine, dopo la recitazione del Padre nostro, il


celebrante si rivolge verso l’assemblea e le impartisce la benedizio-
ne attraverso una preghiera; mentre poi il diacono richiama l’atten-
zione di tutti sull’importanza del momento (cf. §§ α-β: “Stiamo at-
tenti!”), egli eleva il pane consacrato mostrandolo all’assemblea (cf.
§§ α; 17; 18; 20; 22)1 e accompagnando il gesto con le parole solen-
ni: “Le cose sante ai santi!”. A tale esortazione, che come vedremo
è insieme un invito e un’ammonizione, i fedeli rispondono tutti in-
sieme: “Uno solo è Santo, uno solo il Signore, Gesù Cristo, a gloria
di Dio Padre” (cf. §§ α-β) 2.
Le parole pronunciate dal celebrante sollevano però un proble-
ma di interpretazione. Insieme a quelle del dialogo anaforico, sono
di fatto tra le formule liturgiche più citate e commentate dai padri
greci e dagli autori bizantini, e si sono prestate a interpretazioni di-
verse, che la tradizione ha poi accolto insieme, assumendole come
complementari. Se è evidente infatti che cosa si intenda con “le co-
se sante” (ta hághia) – l’espressione è con ogni probabilità deriva-
ta dal Levitico (22, 14-16) o dall’Evangelo di Matteo (7, 6) e si ri-

1 Il rito dell’elevazione del pane è chiaramente attestato nelle liturgie eucaristiche

orientali derivate dal rito gerosolimitano-antiocheno a partire dal vi-vii secolo (cf. R.
F. Taft, A History of the Liturgy of St. John Chrysostom, V. The Precommunion Rites,
pp. 209 ss.).
2 In alcune fonti, a partire da Teodoro di Mopsuestia (cf. infra, § 13), la formula

cristologica originaria è trasformata in formula trinitaria per affermare senza possibile


ambiguità la dottrina nicena dell’assoluta uguaglianza delle tre persone divine.

407
Capitolo XII

ferisce alle offerte consacrate nel corso della preghiera eucaristica e


trasformate nel corpo e nel sangue di Cristo –, non è altrettanto chia-
ro invece chi siano qui “i santi” (hoi hághioi).
La prima interpretazione, certamente la più antica, è collegata al
significato originario dell’espressione “santi”, utilizzata fin dai pri-
mi scritti del Nuovo Testamento per indicare i membri della chie-
sa (cf. § 22) 3, santificati attraverso lo Spirito santo ricevuto nell’im-
mersione battesimale. I “santi” sono in questo senso i fedeli battez-
zati come tali, che, nella misura in cui appartengono ormai a Dio,
al Santo, sono distinti e “separati” da tutti coloro che non sono an-
cora stati introdotti ai suoi “misteri”, o perché completamente estra-
nei alla dottrina di Cristo e alla chiesa, o perché appartenenti anco-
ra alle file dei catecumeni. Solo i “santi”, perciò, possono accedere
a ciò che è santo, a ciò che appartiene a Dio perché è stato santifi-
cato dalla grazia dello Spirito santo (cf. §§ 7-9; 12-13). Intesa in
questo senso, la formula può essere parafrasata: “Le cose di Dio so-
no per il popolo di Dio”4. La santità di cui si parla non è dunque
di natura morale, né attiene alla purità rituale come nell’economia
veterotestamentaria, ma è squisitamente sacramentale e teologica,
ovvero riguarda soltanto ciò che Dio, attraverso il suo Spirito, ope-
ra sia nell’eucaristia che nei battezzati; riguarda la verità del “miste-
ro” di Cristo presente nell’una come negli altri. Può ricevere il cor-
po e il sangue di Cristo solo chi è stato prima adeguatamente “pre-
parato”, conformato e incorporato a Cristo. L’eucaristia non fa che
dare compimento al battesimo ed è strettamente legata alla grazia
battesimale: la sua funzione essenziale è di alimentare e dare soste-
gno e continuità a quel dono iniziale, che ha bisogno di un’intera
esistenza per crescere, essere assunto e manifestarsi pienamente (cf.
§ 13; infra, c. XIII,28). Molti testi antichi, anche senza far riferimen-
to alla formula liturgica, sottolineano questo elemento essenziale
della teologia sacramentale assunto ben presto dalla chiesa come

3 Tra i numerosi passi paolini cf. ad esempio Rm 1,7; 8,27; 1Cor 1,2; 6,1; 2Cor

1,1; Ef 3,8; Fil 4,22; Col 1,2.


4 Così G. Dix, The Shape of the Liturgy, pp. 134-135.

408
“Le cose sante ai santi”

norma canonica: solo i battezzati possono accedere alla comunione,


perché nei sacramenti dell’iniziazione cristiana esiste un preciso or-
dine che non può essere alterato se non a prezzo di snaturarne e pro-
fanarne il significato profondo (cf. §§ 1-10) 5.
A questa interpretazione puramente sacramentale se ne aggiunse
presto un’altra – almeno a partire dalla fine del IV secolo6 – mag-
giormente preoccupata di sottolinearne l’aspetto morale, di fronte al
rischio che, in una chiesa sempre più di massa, protetta ormai dal
potere imperiale e radicata nella società, venisse meno il rispetto per
la dignità dell’eucaristia e finissero per accostarsi ad essa “in modo
sconsiderato e superficiale” (§ 14) anche coloro che conducevano
una vita indegna del battesimo che avevano ricevuto. Si osserva qui
esattamente la stessa dinamica emersa dai testi presentati nel capi-
tolo precedente: come là si affermava che la preghiera del Padre no-
stro è sì un dono gratuito concesso ai soli battezzati, in quanto resi
figli di Dio, ma che essi debbono sforzarsi di vivere in modo con-
forme alla dignità che è stata loro donata, così qui alcuni padri – e
primo fra tutti Giovanni Crisostomo (cf. § 14) – non mancano di
richiamare i fedeli che vogliono accostarsi alle “cose sante” a esa-
minare se la loro vita è realmente quella di persone “sante”, quali
sono stati chiamati ad essere, se è realmente conforme alle esigenze
evangeliche7. Accanto alla “santità” sacramentale che si riceve per
grazia con il battesimo il fedele deve dunque manifestare concreta-
mente anche una santità di comportamento, una “purezza” (cf. §§
15-17) adeguata alla propria dignità di membro del corpo di Cristo
e tempio dello Spirito santo: “Per essere santo – dice Crisostomo –

5 Da questo principio di conformità sacramentale, associato a quello dell’unità del-

la fede, la chiesa ha fatto ben presto derivare un corollario gravido di conseguenze per
la storia delle divisioni cristiane: solo i battezzati “ortodossi” possono accedere alle co-
se sante, mentre ne sono esclusi gli “eretici” (cf. ad esempio Giovanni di Damasco, La
fede ortodossa 86, ll. 173-176).
6 L’idea è però già presente nella Didaché (cf. infra, § 11), che pur tiene conto an-

che della prospettiva sacramentale (cf. infra, § 1).


7 Diversi tra gli autori che intendono la santità soprattutto come grazia battesima-

le non mancano però di sottolineare anche il dovere morale di custodirla e di manife-


starla “portando a compimento la propria santificazione” (cf. §§ 2-4; 6; 12-13; 16; 21).

409
Capitolo XII

non basta astenersi dai peccati, ma ci vogliono la presenza dello Spi-


rito e la ricchezza di buone opere” (§ 14). In questo senso l’esorta-
zione del celebrante più che come un semplice invito ad accostarsi
alla comunione – quale era in origine8 – viene intesa come un se-
vero monito, come una messa in guardia contro il rischio di parte-
ciparvi “in modo indegno” (cf. §§ 14; 17-20; 22), perché ciascuno dei
presenti si sottoponga ancora una volta a un accurato esame e fac-
cia discernimento sulla propria condotta di vita, per vedere se essa
è degna di accogliere “questo fuoco divino e immacolato” (§ 17).
Altrimenti è meglio astenersene finché non ci si è purificati con
un’adeguata penitenza (cf. §§ 11; 17).
Ma i padri nonostante tutto rimangono coscienti, come del resto
afferma l’acclamazione liturgica pronunciata dall’assemblea, che
“uno solo è Santo”, Gesù Cristo, e che “nessuno ha da sé la santità,
né essa è frutto della virtù umana, ma tutti la ricevono da lui e gra-
zie a lui” (§ 22). Davanti a lui il credente, qualunque sia la sua con-
dotta, rimane sempre debole e peccatore: l’importante è che lo rico-
nosca con onestà e offra gratuitamente il suo perdono ai fratelli per
riceverlo a sua volta da Dio (cf. § 18). Ciò che gli è richiesto per ac-
costarsi alla comunione in modo degno non è l’impeccabilità, né
la perfezione nella virtù, che solo pochi possono raggiungere, ma di
sforzarsi continuamente nella sua vita di tendere verso quella san-
tità, sapendo che la comunione stessa al corpo e al sangue di Cristo
lo santifica più di ogni altra cosa (cf. §§ 22-23). L’eucaristia è sì un
dono che incute timore, un “fuoco divino e immacolato”, ma è an-
che un “carbone che purifica”, come il carbone ardente con cui il se-
rafino purificò il profeta Isaia (cf. §§ 18; 24), è “un sostegno nella
lotta per coloro che combattono” (§ 31) e un “farmaco” che guari-
sce le malattie dell’anima (cf. §§ 26-27; 32; c. XIII, 6)9. Il Signore

8 Questo significato della formula è ancora esplicito in Teodoro di Mopsuestia (cf.

infra, § 13).
9 Un’ottima sintesi della dottrina patristica su questa funzione dell’eucaristia è an-

cora quella di J.-M. Tillard, “L’Eucharistie, purification de l’Église pérégrinante”, in


Nouvelle Revue Théologique 84/5 (1962), pp. 458-459.

410
“Le cose sante ai santi”

stesso del resto, come riferiscono gli autori del Nuovo Testamento
e ricordano anche i padri, l’ha consegnata alla chiesa proprio “per la
remissione dei peccati” (cf. §§ 19; 24; 28; 30). Sono molti i testi nei
quali, con o senza riferimento alla formula “le cose sante ai santi”,
si sottolinea che la comunione al corpo e al sangue di Cristo resta
un dono assolutamente gratuito e concede a tutti la remissione dei
peccati, a condizione evidentemente che uno si sia sforzato per quan-
to possibile di compiere il bene (cf. §§ 24; 27) e non si sia macchia-
to di uno dei peccati “che conducono alla morte” e che, contraddi-
cendo radicalmente l’evangelo, separano il fedele dal corpo di Cristo
(cf. §§ 22; 32). Chi però, nonostante i suoi peccati, vive nel penti-
mento e nella conversione “è assolutamente degno di prendere parte
a quei divini misteri” (§ 29). Uno scrupolo eccessivo nell’accostar-
si alla comunione può anzi, secondo i padri, risultare addirittura
nocivo (cf. §§ 27; 32), perché priva l’uomo dell’unico vero soste-
gno nel compiere il bene e può diventare un’occasione per perseve-
rare nel peccato; inoltre insinua in lui l’illusione che gli sia possibi-
le raggiungere un momento in cui, in base alla sua condotta di vita,
possa dirsi degno di quel dono10. “Ma quando mai ne sarai degno?”
(§ 27), chiede Cirillo di Alessandria. Tutti i fedeli piuttosto, consi-
glia Giovanni di Gaza, dovrebbero considerarsi sempre indegni di
partecipare ai santi misteri e accostarsi a essi come “malati e feriti”
bisognosi di misericordia (cf. § 28), perché, come dice il Signore
nell’evangelo, “non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati”
(Lc 5,31).

α. Dopo che tutti avranno detto: “Amen!”, il diacono dica: “Stia-


mo attenti!”. Poi il vescovo faccia questa proclamazione al
popolo: “Le cose sante ai santi!”. E il popolo risponda: “Uno

10 Idee simili si ritrovano anche in ambito latino: cf. ad esempio Giovanni Cassia-

no, Conferenze XXIII,21,1-2.

411
Capitolo XII

solo è santo, uno solo il Signore, Gesù Cristo, a gloria di Dio


Padre, nello Spirito santo. Tu sei benedetto nei secoli. Amen.
Gloria a Dio nel più alto dei cieli, sulla terra pace, tra gli uomi-
ni la sua benevolenza (Lc 2,14). Osanna al figlio di David! Be-
nedetto colui che viene nel nome del Signore, il Signore è Dio, e
si è manifestato a noi. Osanna nel più alto dei cieli! (Mt 21,9; Sal
117,26-27)”.
Costituzioni apostoliche VIII,13,11-13

β. Il diacono: Stiamo attenti!


Il sacerdote (eleva il pane santo): Le cose sante ai santi!
Il popolo: Uno solo è santo, uno solo il Signore, Gesù Cri-
sto, a gloria di Dio Padre.
Il sacerdote ( prende delle particole del santo corpo e le mette
nei santi calici): Nella pienezza dello Spirito santo.
Liturgia di Giovanni Crisostomo, p. 341

Un dono riservato a chi è santo per il battesimo

1. Nessuno mangi né beva della vostra eucaristia, se non co-


loro che sono stati battezzati nel nome del Signore11. Riguardo
a ciò infatti il Signore ha detto: Non date ciò che è santo ai cani
(Mt 7,6).
Didaché 9,5

2. Questo cibo è chiamato tra noi “eucaristia” e non è lecito


a nessuno prenderne parte se non crede che le dottrine da noi
insegnate siano vere, se non è stato purificato con il lavacro
[battesimale] per la remissione dei peccati e la rigenerazione, e
se non vive così come Cristo ha comandato.
Giustino, Apologia prima 66,1

11 Cf. Tradizione apostolica 37.

412
“Le cose sante ai santi”

3. Il Signore disse a Mosè: Scendi, rendi testimonianza al popo-


lo, purificalo oggi e domani; lavino le loro vesti e si tengano pron-
ti per il terzo giorno (Es 19,10-11). Se uno viene ad ascoltare la
parola di Dio, ascolti che cosa ha comandato Dio: deve essere
santificato per venire ad ascoltare la parola, deve lavare le sue
vesti. Se infatti vieni con le vesti sporche, anche tu ti sentirai
dire: Amico, come hai potuto entrare qui senza la veste nuziale?
(Mt 22,12). Nessuno perciò può ascoltare la parola di Dio, se
prima non è stato santificato, se cioè non è diventato santo nel
corpo e nello spirito (1Cor 7,34), se non ha lavato le sue vesti.
Fra poco infatti entrerà alla cena nuziale, mangerà le carni del-
l’Agnello, berrà il calice della salvezza12. Nessuno entri a que-
sta cena con le vesti sporche! Anche la Sapienza infatti, in un
altro passo, comanda la stessa cosa, dicendo: In ogni tempo le
tue vesti siano pure (Qo 9,8). Le tue vesti infatti sono state la-
vate una volta per tutte: quando sei venuto alla grazia del bat-
tesimo, sei stato purificato da ogni contaminazione della carne
e dello spirito (cf. 2Cor 7,1). Ciò che Dio ha purificato, dunque,
non renderlo immondo (At 10,15; 11,9).