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Studio teologico interdiocesano

Modena-Nonantola * Reggio Emilia-Guastalla * Carpi * Parma

Anno accademico 2021-2022

Corso

TEOLOGIA DOGMATICA:

SACRAMENTARIA
GENERALE

Appunti delle lezioni, ad uso degli studenti

Pro manuscripto

Insegnante: don Edoardo Ruina

Guastalla, 7 ottobre 2019


Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

1. L'ECONOMIA SACRAMENTALE NELL'ANTICO TESTAMENTO

1. 1. Sacramenti nell'Antico Testamento? (1)

I padri e la teologia sacramentaria classica hanno cercato la presenza di


"sacramenti naturali" e di "sacramenti dell'antica alleanza" nella storia
dell'umanità che ha preceduto Cristo. Soprattutto ci si domandò se alcuni riti del
popolo di Israele avevano delle analogie con i sacramenti della Chiesa.
Per esempio, secondo Agostino, "non bisogna pensare che i servi di Dio, prima che
venisse data loro la circoncisione, non abbiano aiutato i loro bambini con nessun
sacramento anche se la scrittura [...] ha voluto che questo rimanesse nascosto (2);
inoltre, secondo Agostino, la circoncisione era per il popolo di Israele ciò che il
battesimo è per noi: un segno della fede e della purificazione dal peccato originale.
Anche Tommaso d'Aquino cita un certo numero di sacramenti veterotestamentari,
dando molto spazio soprattutto alla circoncisione (3). I concili di Firenze e di Trento
parlano espressamente dell'esistenza di sacramenti dell'Antico Testamento (4).
Pertanto si pensava che, nell'economia di salvezza che precedette la venuta di
Cristo, vi fossero stati dei veri segni della grazia; questi avrebbero perso la loro
efficacia con l'entrata in vigore della nuova alleanza.
Non è questa l'impostazione che noi daremo alla nostra ricerca: non ci
domanderemo se siano esistiti dei sacramenti nell'Antico Testamento.
Partiremo anzitutto dal presupposto che esista una continuità tra Antico e Nuovo
Testamento e ci domanderemo quale contributo può dare il primo all'elaborazione
di una visione di Dio, dell'uomo, della natura, della storia che possa fondare e
motivare l'esistenza dei sacramenti.
Inoltre analizzeremo alcune istituzioni religiose dell'Antico Testamento, sulle quali
il Nuovo costruisce una parte rilevante della cristologia attribuendo loro, con una

(1) NICOLAU, Teologia, p. 114-119.


(2) Contra Iulianum, 5,11,45. Citato in: NICOLAU, Teologia, p. 119.
(3) "...per fides passionis Christi iustificabantur antiqui patres, sicut et nos. Sacramenta autem
veteris legis erant quaedam illius fidei protestationes, inquantum significabant passionem Christi et
effectus eius" Summa theologiae, III, q. 62, a. 6. Vedi anche: Summa theologiae, III, q. 70.
(4) Il concilio di Trento afferma: "Si quis dixerit ea ipsa novae legis sacramenta a sacramentis
antiquae legis non differre nisi quia caeremoniae sunt aliae at alii ritus externi: anathema sit";
Canones de sacramentis (D.S. 1602).

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lettura tipologica, il compito di anticipare Cristo.

1. 2. Contributi teologici

1. 2. 1. L'essere umano, immagine di Dio (5)

Secondo il libro della Genesi, l'uomo e la donna sono creati a “immagine e


somiglianza” (selem - dhemuth) di Dio (Gen 1,26-27; 5,1). I due termini vogliono
probabilmente dire la stessa cosa. L’autore biblico non pensa soltanto all’aspetto
spirituale dell’essere umano, né certamente all’aspetto esteriore. Non ha senso
cercare nell'essere umano un attributo particolare che lo rende simile a Dio. L'uomo
e la donna come tali, con tutte le loro caratteristiche, sono immagine di Dio; essi
somigliano a Lui, come un figlio somiglia al padre.
Secondo alcuni commentatori si tratta di un’analogia con una concezione presente
in molte religioni antiche, ove la statua della divinità, pur non essendo la divinità,
la rappresentava ed era portatrice della sua forza; così questo brano vorrebbe
sottolineare che l’essere umano è come una statua vivente di Dio, un segno
privilegiato della sua presenza. Secondo altri, invece, il racconto della creazione
sottolinea che la somiglianza divina dell'essere umano ha come fine il dominio del
mondo e delle creature che Dio ha posto in esso (6); pertanto l’essere umano
sarebbe chiamato a governare il creato, facendo le veci di Dio e a procreare altri
esseri umani, fatti anch’essi a immagine del creatore.
E’ da notare che questa somiglianza con Dio è talmente costitutiva dell’essere
umano che il testo biblico non dirà che egli la perde dopo avere commesso il peccato;
certamente la macchia, la sfigura, ma non arriva mai a distruggerla.
In base a questa somiglianza, la Bibbia fa capire che è possibile incontrare Dio
incontrando l'uomo, amare Dio amando l'uomo, onorare Dio onorando l'uomo.
L'essere umano è capace di diventare parola di Dio e questa capacità trova il suo
compimento nell'incarnazione (7). Questo tema è stato recentemente sviluppato
dall'ebreo E. Levinas che intende l'altra persona come una via di accesso alla

(5) Vedi: VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 20-22.


(6) VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento, 175-176.
(7) Per esempio VON BALTHASAR (citato in: VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 22).

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trascendenza, e l'esperienza di Dio come ricerca delle tracce di lui sul volto
dell'altro.
E’ probabilmente per questo motivo che l'Antico Testamento, quando parla di Dio,
utilizza spesso degli antropomorfismi (per esempio: Ez 1,26; Es 33,23; Dt 8,3; Sam
15,19) e antropopatismi (per esempio Os 11,8; Gdc 2,18; Ger 15,14). D’altra parte i
testi biblici sono molto chiari nel respingere una concezione antropomorfica di Dio e
a sottolinearne la trascendenza. Secondo Von Rad, anziché dare luogo a una
concezione antropomorfica di Dio, essi indirizzano verso una concezione teomorfica
dell'uomo (8).

1. 2. 2. Il creato, testimonianza del Creatore (9)

Dalle cose visibili l'uomo può giungere a conoscere il creatore di tutto (Sap 13,1ss.;
Sir 42,15-25; 43). La maestà dei fenomeni naturali dovrebbe ispirare all'uomo
pensieri di umiltà di fronte al creatore (Gb 36,22-37; Gb 38-41; Is 40,12; Am 4,13;
5,8).
Dio è spesso lodato per la bellezza del mondo creato (Sal 8; 19; 88; 96; 103).
Il vocabolo ebraico "dabar" indica sia la parola, sia l'azione nel suo compiersi, sia
l'azione già compiuta. L'agire di Dio viene sempre concepito anche come "parola",
come "discorso"; viceversa, la parola di Dio è sempre anche un agire e un operare.
Con la sua parola Dio crea il mondo. Pertanto il mondo creato è parola di Dio, suo
discorso. Per la Bibbia nulla esiste per una sua necessità intrinseca e nemmeno per
una necessità intrinseca a Dio. Ogni cosa è frutto della volontà libera del Creatore.
Dio non parla (e crea) per il gusto di parlare, ma parla (e crea) in vista di qualcuno
che sia in grado di recepire il suo messaggio.
L'essere creato non ha soltanto la propria origine in Dio, ma presenta una continua
dipendenza da lui, finché continua ad esistere.

(8) VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento, 175-176.


(9) Vedi: SCHULTE, I singoli sacramenti, in Mysterium salutis, 8, p. 139-150.

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1. 2. 3. La storia, ambito della rivelazione di Dio (10)

Secondo la mentalità biblica, la rivelazione di Dio si attua in modo "sacramentale"


in alcuni eventi della storia (esempio: l'esodo). E tale rivelazione non è tanto
comunicazione informativa di alcune verità, bensì auto-comunicazione di Dio
stesso. Perciò vi è un continuo intreccio tra eventi storici e manifestazione di un Dio
che trascende la storia.
Per questo la struttura della fede biblica è opposta a quella del mito. Nel mito si ha
una de-storicizzazione dell'umano: le esperienze universali dell'uomo sono
presentate attraverso eventi che sono al di fuori della storia. Invece nella Bibbia si
ha una storicizzazione del divino: Dio si comunica all'uomo attraverso eventi
concreti, storicamente percepibili.
La prima esperienza del tempo che fa l'essere umano, è di carattere ciclico (giorno-
notte; fasi lunari; inverno-estate). Perciò, istintivamente, l'uomo vede la storia non
come una linea ma come un cerchio: essa non ha un fine, né una fine; non vi sono
eventi veramente nuovi, ma tutto ritorna. Questa concezione la troviamo, ad
esempio, nel pensiero greco dell'antichità. Esso è, in genere, a-storico: la storia è
vista in chiave negativa; il divenire è corruzione; l'essere perfetto non è nel tempo,
ma fuori dal tempo. Anche le religioni della Persia dell'India e della Cina (ancora
oggi) hanno una concezione ciclica del tempo e sono concentrate più su una
sapienza che su una vicenda storica.
E' chiaro che, in queste culture, manca l'idea di progresso, per cui la salvezza
consiste nella possibilità di staccarsi dal mondo e di uscire dal flusso della storia,
vista come degradazione (per esempio il buddismo). I miti e i riti servono proprio a
questo scopo.
Alla visione ciclica, la Bibbia contrappone una concezione lineare del tempo. La
storia è il luogo della epifania di Dio. Nella storia si attua un piano divino di
salvezza. Il senso della storia si scopre guardando al futuro, alle promesse di Dio.
Occorre quindi guardare con estremo sospetto a delle concezioni teologiche
individualistiche e a-storiche come quella di Bultmann. Egli concentra l'attenzione
sull'atto di fede del singolo credente; la storia della salvezza è solo un "pretesto" per
chiamare l'individuo alla conversione e alla fede. Ma, in questo modo, non ci si
allontana pericolosamente dalla mentalità biblica, per ricadere nel "mito"?

(10) Vedi: SCHNEIDER, Segni della vicinanza di Dio, p. 23-24; BERGAMINI, Cristo, festa della
Chiesa, p. 24-31.

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1. 2. 4. La Parola di Dio (11)

La Parola di Dio è nutrimento e vita (Dt 8,3; Pr 9,5); è un dono straordinario, che
illumina, guida, ammonisce, consola, dà gioia e rende sapienti (Sal 19; 118); essa si
identifica con la Sapienza creatrice e ordinatrice dell'universo (Sir 24).
La Parola di Dio è stata definita come il "sacramento" fondamentale" del popolo di
Israele, la cui vita è generata, sostenuta e guidata da essa.
Dio vuole dialogare con gli esseri umani. A motivo della fondamentale differenza
tra Lui e loro, il dialogo non può essere diretto. Per questo la Parola di Dio passa
attraverso la mediazione di persone che hanno una particolare missione (Dt 5,24s.;
Is 6,8-9; Ger 1,7). Col passare del tempo la Parola di Dio diventa "libro" (1Mac 3,48;
12,9; 2Mac 2,13-14; 8,23); in particolare abbiamo il libro della "legge di Mosè" (Dt
28,58; Gs 8,31; 2Re 23,2.24; Ne 13,1) e delle parole dei profeti (Ger 32,2; 51,60; Bar
1,1; Na 1,1).

1. 2. 5. Il divieto di raffigurare Dio (12)

Nell'Antico Testamento non abbiamo soltanto il divieto di fare delle immagini delle
divinità straniere per adorarle (Es 20), ma anche il divieto di fare delle immagini di
Jahvè (Dt 27,15).
Muovendo da una contrapposizione molto ingenua tra visibile e invisibile,
oggettuale e spirituale, taluni studiosi hanno creduto di dover interpretare questo
divieto come una manifestazione di una speciale spiritualità del culto di Jahvè. In
realtà, il fatto che il visibile debba rimandare all'invisibile è una verità abbastanza
ovvia e non esclusiva della teologia di Israele.
Il testo biblico non fornisce molte spiegazioni di questo divieto; soltanto afferma che
il rapporto di Israele con Dio è legato all'ascolto, più che alle immagini (Dt 4,9-20).
Forse il divieto voleva esprimere una concezione del mondo diversa da quella del
paganesimo. Le divinità delle religioni orientali erano potenze personificate del

(11) Vedi: NERI, L'economia sacramentale, p. 36-37; 50-52.


(12) Vedi: VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, p. 247-254.

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cielo, della terra e dell'abisso; invece Jahvè era il padrone del mondo, ma
trascendeva il mondo. Inoltre il rifiuto delle immagini voleva sottrarre Israele alla
tentazione magica di disporre di Dio, di acquistare poteri su di Lui.

1. 3. Anticipazioni tipologiche del mistero di Cristo

Per interpretare gli atti e le parole di Gesù, occorre rifarsi ad alcune istituzioni
religiose dell'Antico Testamento: è il Nuovo Testamento che ci insegna ad agire
così.

1. 3. 1. Il culto di Israele (13)

Come tutti i popoli, di tutti i tempi, l'antico Israele celebrava una liturgia, compiva
dei riti, riconosceva dei luoghi e dei tempi dedicati al culto, ed era convinto che
tutto ciò creasse vicinanza con Dio. Potremmo affermare che Israele si concepisce
essenzialmente come una comunità cultuale. Nella Bibbia, i testi che regolano il
culto occupano uno spazio notevole e sono collocati tra le leggi che Dio dà a Mosè,
quando viene stipulata l'alleanza (Es 35ss.; Lv; Nm). Pertanto l'alleanza poggia su
due fondamenti: un decalogo morale (Es 20,2,17; Dt 5,6-21) e un decalogo rituale
(Es 34,14-26; 24,8; 34,27). Quindi non c'è etica che non parta da Dio e non c'è culto
di Dio senza etica (Lv 19,2). Il rito con cui viene stipulata l'alleanza (Es 24) mostra
che si crea, tra Dio e il popolo, una relazione di consanguineità che non è un dato
naturale ma il frutto della libera accettazione e della fedele osservanza dei
comandamenti.
In lingua ebraica il culto è detto abodâ, cioè “servizio”, ma anche mispât, cioè
diritto, inteso come diritto di Dio.
Fa parte della mentalità del popolo di Israele l’idea che Dio sia presente ove una
comunità è radunata in preghiera, per cui la Mishna può affermare che "quando
due siedono accanto, e le parole della torah sono tra loro, allora la shekinah dimora
in mezzo ad essi" (14).

(13) Vedi: MAZZA, L'interpretazione del culto, p. 235-236.


(14) Citato in: VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 39. A questo proposito, il Vaticano II
afferma che: "la Chiesa [...] già prefigurata sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata

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Per questo il culto è sempre riferito all'alleanza che unisce Dio e il popolo di Israele.
A questo proposito troviamo due accentuazioni. La prima sottolinea la gratuità
dell'impegno di Dio (promessa); la seconda invece sottolinea pure l'impegno
dell'uomo, che risponde all'iniziativa divina osservando le norme che Dio ha dato
(patto). Nel primo caso i riti servono soprattutto per ricordare all'uomo la storia
degli interventi divini e per ricordare a Dio le sue promesse (memoria = presenza).
Nel secondo caso invece il culto serve anche perché il popolo si ricordi dell'impegno
preso e delle norme da osservare.
Dopo l'esilio nascerà l'idea di un patto nuovo ed eterno, che non potrà più essere
infranto (Ez 16,60-61; 20,43; 23,27).

1. 3. 2. La mediazione dei sacerdoti e Israele come "popolo sacerdotale" (15)

Come per la gran parte dei popoli e delle religioni, in Israele vi sono degli uomini
che hanno ricevuto da Dio il mandato di svolgere una funzione sacerdotale, cioè di
fungere da mediatori tra Dio e gli altri esseri umani, occupandosi del culto. Il
sacerdozio, nell’economia salvifica dell’Antico Testamento, è ritenuta una funzione
ereditaria. Si ritiene che la tribù di Levi sia stata scelta per essere consacrata al
servizio del tempio; inoltre si ritiene che una particolare famiglia di questa tribù sia
incaricata di esercitare la funzione sacerdotale vera e propria (Es 28; Lv 8-10; Nm
3,40-51; 8,5-22).
I compiti dei sacerdoti (in ebraico: kohen; in greco: hiereus; in latino sacerdos)
dell’antico Israele erano ampi. Non dobbiamo però paragonarli ai compiti che oggi
svolgono i ministri della Chiesa (vescovi e presbiteri), poiché si trattava di un
servizio soltanto cultuale, che escludeva quelle funzioni che oggi, nella Chiesa,
chiamiamo “pastorali”, e anche le funzioni di predicazione della parola di Dio, che
casomai facevano parte del compito profetico. I sacerdoti di Israele erano dei meri
tecnici del culto; senza alcun dubbio il compito più importante che svolgevano era
quello di compiere, nel tempio di Gerusalemme, gli atti di culto, tra i quali i
sacrifici erano ritenuti i più importanti e significativi (Dt 33,10; Sir 45,16). Vi erano
però anche dei compiti minori che i sacerdoti esercitavano; per esempio essi

nella storia del popolo di Israele e nell'antica alleanza e istituita negli ‘ultimi tempi’ è stata
manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli" (Lumen
Gentium, 2).
(15) Vedi: VANHOYE, Sacerdoti antichi, p. 23-36.

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avevano una funzione oracolare, usando gli urim e tummim, per trasmettere la
volontà di Dio (Dt 31,9-16; 33,8; Sir 45,17; ma a un certo punto non si parla più di
questa funzione, che probabilmente cadde in disuso); inoltre erano i custodi del
santuario (Nm 3,38); vigilavano affinché nessuno partecipasse al culto senza essere
in stato di purità rituale (Lv 15,31) (16); infine pronunziavano le formule di
benedizione (Nm 6,27; Sir 45,15).
Alla base del sacerdozio di Israele (come di quello di ogni religione) vi erano due
esigenze: da una parte il desiderio profondo degli esseri umani di entrare in
comunione con Dio; dall'altra la coscienza del fatto che Dio è trascendente, in un
qualche modo inaccessibile, per cui si avverte la necessità che qualcuno eserciti una
funzione di mediazione. Queste due esigenze sono anche il motivo per cui, secondo
la religione di Israele, si può accedere al tempio, luogo della presenza di Dio e del
culto, solo compiendo una serie di riti di separazione, che rendono "santi", "puri",
nel senso di "separati dal profano" e "atti ad avvicinarsi a Dio".
Quando il Dio di Israele, a poco a poco, verrà percepito come il Dio che governa
tutto l'universo (Dt 10,14-15) Israele inizierà a concepire se stesso come un popolo
sacerdotale (Es 19,6; Is 61,6; 62,12), non perché tutto il popolo sia dedito al
ministero del culto e al servizio del tempio, ma perché si ha la consapevolezza e
l’orgoglio di essere un popolo scelto tra tutti gli altri per conoscere e adorare il vero
Dio e per fungere da tramite tra lo stesso Dio e gli altri popoli della terra (17). La
definizione di Israele come popolo sacerdotale, talvolta è vista in una prospettiva
futura (Is 61,6).

EXCURSUS. Il sacerdozio nell’antico Israele (18)


Nella Bibbia sono rimaste delle tracce del fatto che, in epoche antiche, le funzioni
sacerdotale (benedire e offrire sacrifici a Dio) erano esercitate dal capo della famiglia.
Durante la monarchia, pur esistendo un sacerdozio legato ai templi, anche il re esercita
funzioni sacerdotali, come presso molti popoli vicini (vedi il salmo 109 [110] che era un inno
legato all’intronizzazione del re). Riguardo all’epoca che precede la monarchia, per esempio,
vengono citate due famiglie sacerdotali: quella che si esercita a Dan (Gd 18,30) cha viene
fatta risalire a Mosé, e quella di Eli, a Silo (2Sam 8,17), che poi si sposterà a Gerusalemme.
Sotto il regno di Davide, compare una nuova famiglia, cioè quella di Sadoc, che viene fatta
discendere da Eleazaro, il figlio più anziano di Aronne. Questa famiglia sacerdotale
acquisterà la completa preminenza nel servizio al tempio di Gerusalemme, ove però è

(16) Per esempio pronunziavano la diagnosi nei casi di lebbra (Lv 13-14), poiché i lebbrosi, ritenuti
“impuri”, non potevano entrare nel tempio.
(17) Vedi: RENCKENS, La religione dell’Antico Testamento, p. 166-170; 198-199.
(18) Si possono trovare queste e altre più abbondanti informazioni su qualsiasi Dizionario Biblico.

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testimoniata anche la presenza di numerosi inservienti di rango inferiore. La riforma


promossa dal re Giosia nell’anno 621 a. C., eliminò tutti i santuari, centralizzando il culto
in uno solo, quello di Gerusalemme, e però riconobbe ai sacerdoti dei vari santuari il diritto
di prestare servizio a Gerusalemme, sia pure con un rango inferiore ai sacerdoti della
famiglia di Sadoc (2Re 23,5.9), preludendo alla distinzione tra sacerdoti e leviti che diverrà
più rigida dopo l’esilio (Ez 44,10-31). Sempre dopo l’esilio, la figura del sommo sacerdote (in
ebraico hakkohen haggadol; in greco o iereùs o mègas oppure arkiereus) acquista
un’importanza sempre maggiore: il re non c’è più per cui egli viene percepito come la guida
morale del popolo di Israele e il rappresentante della nazione di fronte a Dio. Egli veste dei
paramenti che lo caratterizzano e viene consacrato mediante un rito di unzione. L’ultimo
sacerdote discendente di Sadoc, Onia III viene assassinato nel 172 a. C. Da quel momento i
suoi successori sono designati al di fuori della famiglia tradizionale, in generale dalle
autorità politiche (i sovrani ellenistici di Siria; poi i sovrani della famiglia di Erode; poi i
romani); per questo saranno visti con antipatia dai farisei e da una parte del clero, più
tradizionale e saranno addirittura rifiutati dai membri della setta di Qumran. Con la
distruzione del tempio, nel 70 dopo Cristo, il sacerdozio termina la sua funzione, in quanto
cessano i sacrifici. Il sacerdozio era ereditario. Quando il figlio maschio di un sacerdote
raggiungeva l’età prevista acquistava il diritto di compiere i sacrifici. Durante il sacrificio i
sacerdoti portavano un vestimento proprio; inoltre dovevano astenersi da quei cibi o
contatti che, secondo l’Antico Testamento, rendevano “impuri”, cioè inadatti a presentarsi a
Dio

1. 3. 3. Il tempio (19): luogo della presenza di Dio (20)

In epoche remote, esisteva in Israele una pluralità di luoghi di culto. Per esempio,
Abramo erige un altare a Sichem (Gen 12,6-7), e Isacco a Bersabea (Gen 26,23-
25). Esiste un luogo di culto a Dan (Gdc 18) e un tempio a Silo (1Sam 1-3) ove
soggiorna Samuele; ma Samuele sacrifica anche a Mispa (1Sam 7,6-12), a Rama
(1Sam 7,17; 9,12), a Betlemme (1Sam 16,1-5), e vi sono luoghi di culto pure a
Betel (1Sam 10,3) e a Galgala (1Sam 11,15).
Davide fece portare l'arca a Gerusalemme, nuova capitale del suo regno, ma non vi
costruì un tempio (21); fu invece Salomone a promuovere la costruzione di un
tempio (1Re 5-6) che divenne il santuario di stato, ma questo non comportò la
chiusura degli altri luoghi di culto. Infatti la Bibbia narra che, quando il regno
d'Israele (Nord) e il regno di Giuda (Sud) si separarono, Geroboamo I diede impulso

(19) La parola “tempio” in ebraico si dice “bajit”, cioè “casa”: essendo la casa di Dio, è la casa per
eccellenza; in greco si dice “naos”; in latino “templum”.
(20) Vedi: MAZZA, L'interpretazione del culto, p. 229-242.
(21) E' significativa l'opposizione del profeta Natan al progetto di Davide di erigere un tempio a Dio.
Probabilmente Natan si fa portatore di una di una tradizione antichissima (la "tenda dell'incontro"
2Sam 7,4-8), per cui il culto di Dio non avrebbe bisogno di edifici.

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a due santuari preesistenti, a Betel e a Dan (1Re 12,26), per il regno di Israele ove
senza dubbio si celebrava il culto di Jahvè, con dei sacerdoti diversi da quelli che
celebravano il culto a Gerusalemme (1Re 2,26). Nei testi della Bibbia attuale
troviamo una condanna tardiva e piuttosto partigiana di questi templi, che invece
probabilmente nell’epoca in cui esistevano, erano accettai da tutti. Non possiamo
escludere che, sia nei templi di Israele (nord) che in quelli di Giuda (sud), vi siano
stati dei periodi di sincretismo, in cui, accanto al culto di Jahvé, vi erano anche
culti a divinità pagane (per esempio a Baal, dio dei cananei e, più tardi, per motivi
di opportunità politica, a divinità assire come Istar (Astarte); vedi 2Re 23,4 e Ez
8,7). Più tardi, Giosia, re di Giuda (2Re 23), approfittando della debolezza dello
stato assiro, cercò di ricostruire l'impero di Davide, rioccupando il territorio del
regno del nord. Nell'ambito di questo programma di restaurazione (che in realtà
finì per creare qualcosa di nuovo) vi fu anche la nascita del principio dell'unicità del
tempio. Giosia fece profanare tutti i santuari e i luoghi di culto, all'infuori del
tempio di Gerusalemme, che divenne l'unico (622 a. C. circa). La motivazione era
duplice: dal punto di vista politico l'unico santuario rafforzava il potere regale, in
uno stato da poco ricostruito; dal punto di vista religioso, Giosia voleva lottare
contro il sincretismo, per cui l'unicità del tempio permetteva un maggiore controllo
sul culto (22). Pochi anni dopo, nel 587, Nabucodonosor, occupata Gerusalemme,
incendiò e distrusse il tempio. E' probabilmente in questa occasione che fu distrutta
l'arca dell'alleanza; altri arredi preziosi, invece, erano già stati portati a Babilonia
in un precedente saccheggio, nel 598. Il tempio venne ricostruito e riconsacrato
(Esd 6,15) nell'anno 515. Ciò originò la inimicizia tra ebrei e samaritani: a
quell’epoca, infatti, la Giudea era un territorio amministrato da un governatore
residente a Samaria. Pertanto i samaritani ritenevano di avere diritto di avere la
sede del culto di Jahvè (Esd 4,1) a Samaria e non a Gerusalemme (23). D’altra
parte il nuovo tempio di Gerusalemme non aveva certo lo splendore di quello
precedente, ma era comunque un segno della ripresa del culto. Nel 167 il re Antioco
Epifane, nell'ambito di un tentativo di ellenizzazione, pose nel tempio una statua di
Zeus, suscitando una violenta reazione da parte degli Israeliti che, dopo tre anni,
conclusa una guerra vittoriosa, purificarono e consacrarono di nuovo il tempio
(1Mac 4). Infine, intorno al 19 a.C. Erode il grande, divenuto re con l'aiuto di Roma,
fece demolire e ricostruire il tempio, in modo grandioso. I lavori continuavano

(22) NOTH, Storia d'Israele, p. 335-340.


(23) VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, p. 110-111.

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ancora all'epoca della predicazione di Gesù e furono ultimati poco prima della
distruzione romana del 70 d.C. Fino a quell’epoca, il tempio di Gerusalemme
rimase (salvo alcune eccezioni, non accettate) l'unico luogo dove si offrivano
legittimamente i sacrifici.

EXCURSUS. Il tempio di Gerusalemme (24)


In epoche più antiche vi sono due segni della presenza di Dio in mezzo al suo popolo, che
poi saranno sostituiti dal tempio: la tenda (Es 33,7-11; Nm 11,16.24-26; 12,4; Dt 31,14s.) e
l'arca. Alla prima è collegata una teologia dell'apparizione; alla seconda, una teologia della
presenza. Probabilmente, quando Natan si oppone al progetto di Davide che vuole costruire
un tempio ove Jahvè possa dimorare, si fa portatore di una teologia diversa e più antica di
quella seguita da Davide. La tenda, nella tradizione sacerdotale, è descritta come una
impalcatura quadrangolare di travi dorate, a cui sono appesi dei tappeti. Essa è detta
“dimora” (misekan) o “tabernacolo/tenda” (ohel); “tabernacolo della testimonianza” (edhoth)
si riferisce alle tavole dei comandamenti (Es 31,18); “tabernacolo del convegno” (moed)
indica invece l'uso di radunarsi per l'incontro con Dio (Es 29,42; 25,21; 30,6; Nm 10,3; 17,4).
Molto più ricca la tradizione riguardante l'arca (Es 25,10s.; Nm 10,35; Gs 3-6; Sam 1-6),
che, infine, sarà posta nel tempio di Salomone. L'unica descrizione che abbiamo, nel
Deuteronomio, la vede come una cassa di legno che contiene le tavole dell'alleanza (25).
Attorno al tempio vi era uno spazio riservato a coloro che erano puri; all’epoca di Gesù,
questo spazio era circondato da portici. In mezzo a questo spazio, in un punto elevato vi era
l'altare degli olocausti. Ai quattro angoli dell'altare vi erano i corni, protesi verso l'alto.
Venivano spruzzati o cosparsi del sangue degli animali sacrificati (Es 29,12; Lv 4,25.30.34).
Sempre all’esterno c'era un bacino per le abluzioni. All'interno del tempio vi erano due
locali; il primo di essi, il più ampio, era detto il "santo"; nel tempio di Salomone era detto
l'“atrio regale” (hekhal). Al centro vi era l'altare per le offerte di incenso. A sinistra era
posta la lampada (più il candelabro a sette braccia). A desta, invece, c’era il tavolo con i
pani della proposizione (cioè “della presentazione”; letteralmente, in ebraico, erano
chiamati i “pani della pila” o “pani del volto”) (Dn 14,24; Dt 32,38; Ger 7,14; 44,17-19); si
trattava di due pile di sei focacce ciascuna (in totale 12 focacce) con sopra dell'incenso (Lv
24,5-9; 1Sam 21,6), che erano sostituite ogni settimana; l'incenso veniva bruciato e le
focacce mangiate dai sacerdoti. Ciò rifletteva l'uso antico e diffuso in diverse religioni di
mettere del cibo davanti al volto del simulacro della divinità, affinché se ne nutrisse; ma
per Israele era diventato il segno continuo della sua fedeltà all'alleanza. Il secondo spazio
interno, più piccolo, era il “santo dei santi” (debhir), cioè il luogo santissimo; si riteneva
che fosse il luogo della presenza di Dio; corrispondeva alla cella ove, nei santuari pagani, si
trovava l'immagine della divinità. Nel tempio di Gerusalemme, invece, fino alla conquista
babilonese, vi era l'arca dell’alleanza, che era ritenuta il trono di Jahvè e lo sgabello dei
suoi piedi. Pertanto, quando si entrava nella parte più interna del tempio, si stava davanti
al volto di Jahvè (1Sam 1,12.15.19.22; 2Re 19,14; Dt 16,16; Is 1,12; Sal 41,3). Le tavole

(24) Si possono trovare queste e altre più abbondanti informazioni su qualsiasi Dizionario Biblico.
Vedi anche: Vedi: RENCKENS, La religione dell’Antico Testamento, p. 136-140.
(25) VON RAD, Teologia dell’Antico Testamento, p. 273-275.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

dell'alleanza erano poste all’interno dell'arca (Es 25,16-21) così come in tutto il medio
oriente venivano posti importanti documenti ai piedi del simulacro della divinità, per
significare la sanzione divina su quanto era stabilito.

Nel testo biblico che è arrivato a noi, confluiscono brani di epoche molto diverse,
portatori di visioni del tempio differenti tra loro. Ciò rende difficoltosa una sintesi
teologica. La maggioranza dei brani che leggiamo esprime una coscienza molto forte
della presenza di Dio nel tempio. Dio abita in Sion (Sal 67,17; 73,2; 75,3; 131,13-14;
134,21; da Gerusalemme e dal santuario, Dio parla, ascolta le preghiere (Sal 5,8;
17,7), manda la sua potenza e soccorre (Sal 29,3; 133,3). Secondo questa teologia,
quindi, il tempio è il luogo ove cielo e terra si incontrano e Dio si rende presente e
vicino. Invece altri testi esprimono una concezione altrettanto forte della distanza
che c'è tra Dio e gli esseri umani (1Re 8,27): il luogo della sua dimora è il cielo; là si
trova il vero tempio (Os 5,15; Is 18,4; 33,5; Dt 26,15). Pertanto egli è nascosto,
infinitamente santo e separato, elevato al di sopra degli uomini; non si può vederlo
e continuare a vivere (Es 3,6; 33,20; Gdc 6,22; 13,22). Rimane dunque una tensione
non eliminabile tra la trascendenza e l'immanenza di Dio. Per mantenere questa
tensione si utilizzano alcune ipostatizzazioni di Dio: nel tempio è presente il
“nome” di Dio (Dt 12,11; Ger 34,15), la sua “gloria” (kabod e, più tardi: sekinah)
(Ez 8-11; 40-48), il suo “volto” (Dn 9,17). Questi concetti rappresentano Dio e,
quindi, rendendo più sfumata l'affermazione della sua presenza. In tal modo si
salva la trascendenza di Dio. Dio trascende il tempio ma, nel contempo, abita nel
tempio.

1. 3. 4. Il sacrificio: atto simbolico di dipendenza (26)

Il sacrificio è un'istituzione comune a Israele e agli altri popoli dell'antichità (in


ebraico: qorbàn = offerta, oppure: zèbah = sacrificio animale; greco: thysia, oppure:
hieron, da: hieros = sacro). La materia del sacrificio includeva tutto ciò che l'uomo
mangiava e beveva. Il sacrificio di animali era detto “sacrificio cruento”, e la
vittima era uccisa prima del rito; quello di vegetali o bevande era detto “sacrificio
incruento”, ma era molto raro: di solito i vegetali o le bevande erano offerti con
animali. Gli animali, dopo essere stati uccisi dal sacerdote, erano accuratamente
dissanguati (27).

(26) VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento, p. 288-301.


(27) Anche nei casi di macellazione di animali, al di fuori del sacrificio, il sangue era versato sul

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

La Bibbia dà per scontato che la divinità si onori mediante sacrifici; per questo
indica, con dovizia di particolari, come si compie un sacrificio a Jahvé (Lv 1-7; 14;
17; 22; 27; Nm 18-19; 28-29); invece non si pone il problema di spiegare perché si
debbano fare i sacrifici: il sacrificio è comunemente accettato come un dato di fatto,
una cosa da fare bene, non un atto su cui teorizzare. La teologia del sacrificio nasce
dopo che per lungo tempo esso è stato accettato e celebrato. Sembra pertanto che si
debba ipotizzare un grande conservatorismo riguardo ai riti sacrificali e alla loro
teologia. Per esempio, nella Bibbia vi sono tracce di una concezione antropomorfica di
Dio: una parte dell’animale dovrà essere arsa come cibo per Jahvè (Lv 3.11.16);
sembra che Dio si nutra del sacrificio (Lv 21,6.8.17; 22; 25); anche la dizione "sacrificio
di soave odore" tradisce questa concezione antropomorfica. Inoltre è da notare che il
libro del Levitico, a differenza dei profeti, sembra attribuire poco rilievo alla
componente personale di quanti partecipano al sacrificio. Comunque, alla base del
sacrificio, vi sono sostanzialmente tre concetti: l'offerta (l’essere umano si prova di
qualcosa per fare un dono a Dio), la comunione (Dio è visto come commensale e il
cibarsi delle carni dell’animale sacrificato è strumento di comunione con lui) e
l'espiazione (probabilmente l'animale sacrificato è visto come sostitutivo
dell'offerente). I tre concetti non sono sempre nettamente separati e distinti; spesso
sono presenti insieme e si intersecano. Il concetto di offerta è presente anche riguardo
alle offerte di prodotti della natura, di primizie: tutto appartiene a Dio e l'offerta è il
segno di questa signoria di Dio su tutto e della riconoscenza dell'uomo. Il concetto di
comunione (Dio commensale dell'uomo) lo troviamo, per esempio, nella narrazione del
banchetto che conclude l'alleanza sul Sinai (Es 24,9-11), ma anche nei sacrifici dei
casati (1Sam 20,6.29), e nei sacrifici dopo il trasporto dell'arca (2Sam 6,12; 1Re 8,63).
Lo scopo del sacrificio era comunque quello di rendere l'offerente "gradito" a Dio (Lv
1,3; 7,18; 19,5; 22,19...). Era il sacerdote a pronunciare una sorta di sentenza "è
gradito..." che faceva sì che l'esecuzione materiale diventasse un avvenimento
salvifico tra Jahvè e il popolo.
Un'interpretazione interessante del sacrificio è data da Vergote (28). Il sacrificio
nasce dal riconoscimento del fatto che Dio ha un diritto totale sull'essere umano.

suolo e ricoperto di terra, perché lasciato scoperto avrebbe gridato vendetta al cielo (Is 26,21; Ez
24,7; Gb 16,18).
(28) Sacerdote belga, considerato il caposcuola europeo della psicologia della religione (1921-2013).
Vedi: VERGOTE, Dimensioni antropologiche dell’eucaristia, p. 33-51. Una parte del testo citato
verrà riportata come lettura, alle pag. 12-16 della dispensa. L’idea, molto simile, secondo la quale il
valore delle cose viene loro attribuito dal fatto di essere donate, la troviamo in: FRANKL, Homo
patiens, p. 104-105; anche questo testo è riportato come lettura, a p. 16-17 della dispensa.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Apparentemente nel sacrificio c'è una doppia contraddizione: l'uomo dà a Dio ciò
che ha ricevuto da Lui e gli fa un dono inutile. In realtà l'offerta non è per l'utilità
di Dio. Piuttosto, offrire è riconoscere che tutto è concesso all'uomo, ma che nulla gli
appartiene, perché il Creatore è il primo proprietario di ogni cosa. L'offerta non
serve a trasferire una proprietà, ma a creare un legame con la divinità. In tal modo
il sacrificio fa sì che Dio sia riconosciuto come Dio. Ciò che viene sacrificato è
separato dall'uso comune: l'offerente deve superare il suo bisogno di dominio e di
possesso, deve acconsentire di perdere ciò che vorrebbe conservare. E' una sorta di
accettazione della morte. In un certo qual modo, in ogni sacrificio ciascuno immola
se stesso: si tratta di un suicidio simbolico, per riconoscere che la vita è un dono di
Dio e non un possesso. Il sacrificio può degenerare, quando è visto come uno
stratagemma difensivo: l'uomo crede di pagare il suo debito. Invece il vero sacrificio
consiste nel riconoscere un debito illimitato. Più che il pagamento di un debito, il
sacrificio è la morte simbolica della pretesa di colmare il debito tra noi e Dio e di
raggiungere l'autonomia.
Alla luce di questa interpretazione, si può leggere il comando del riposo sabbatico
come analogo a quello sacrificale: è l’offerta a Dio delle primizie del tempo (29).
Imporre agli israeliti un giorno di assoluto riposo, in pratica un giorno “sprecato”, è
come chiedere di sprecare, cioè di sottrarre all’uso, un animale del gregge. Non a caso
il sabato diventa tanto importante per Israele quando, a causa dell’esilio, non si può
più praticare il culto del tempio e i sacrifici.
Possiamo inoltre collegare la pratica del sacrificio del primo nato di ogni animale
domestico con il comando di riscattare i figli maschi primogeniti (Es 13,1-2.11-16;
Es 22,28-29; Es 34,19-20 e //) (30). Il riscatto dei primogeniti è legato a una pratica
molto diffusa presso altri popoli orientali: l'uccisione dei figli, soprattutto dei
primogeniti, in onore della divinità. Nella Bibbia ci sono numerose tracce di questa
usanza (Gdc 11,30-31; 1Re 16,34; 2Re 3,27; 16,3; 21,6; Ger 7,31); i figli vengono
immolati a Moloc (2Re 23,10; Ger 32,35), a Baal (Ger 19,4-5), e perfino a Jahvè (Ez
20,26). Anche l'episodio del sacrificio di Isacco (Gn 22) pare implicare una condanna
del sacrificio dei fanciulli, da sostituirsi con il sacrificio di animali. L’usanza è
proibita più volte (Lv 18,21; 20,1-5; Dt 12,31; 18,9-10; Mi 6,7), segno che gli Israeliti
ne subivano la tentazione; nella religione di Israele il figlio primogenito non deve
essere ucciso, ma al suo posto viene sacrificato un capo di bestiame. Si riscatta il
primo nato per affermare la signoria di Dio su ogni nascita, su ogni vita.

(29) VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento, p. 108.


(30) Vedi: RENCKENS, La religione di Israele, p. 149-151.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Anche la separazione dei membri della tribù di Levi (leviti), destinati al servizio di
Dio nel tempio, viene vista alla stregua di una sorta di sacrificio del primogenito
(Nm 3,12-13.40-51; Nm 8,15-19).
Infine è significativo che alcuni brani definiscano pure il popolo di Israele come il
primogenito tra i popoli (Es 4,22; Sir 36,11; Ger 31,9).

LETTURA
VERGOTE A., Dimensioni antropologiche dell'eucaristia, in VERGOTE - DESCAMPS -
HOUSSIAU, L'eucaristia simbolo e realtà, Bologna, Dehoniane, 1973 (Fede e annuncio, 1), p.
33-51.
Vorremmo dimostrare che il sacrificio-comunione è l’atto rituale che realizza
eminentemente la presenza simbolica di Dio in un patto.
[…]
Ci si farebbe un’idea sbagliata del sacrificio religioso se lo si giudicasse secondo l’attuale
significato del termine «sacrificio». Questo non richiama forse, prima di tutto, l’idea
negativa di rinuncia e di privazione? Si sacrificano la propria volontà, i propri interessi, si
fa il sacrificio delle proprie gioie. La parola è come l’emblema di un atteggiamento negativo
di fronte alla vita. Conserva a stento il ricordo del sacro che fa parte della sua etimologia.
La sua pesante carica negativa deriva probabilmente dalla sua associazione con l’idea di
peccato e di espiazione.
[…]
Il sacrificio è prima di tutto oblazione. dono, offerta; attraverso il gesto, esso attualizza il
simbolo religioso. Nel varco che il simbolo crea nel cuore del mondo umano, l’oblazione
realizza la presenza divina.
Ad alcuni autori […] il rituale dell’offerta a Dio appare come un gesto assurdo. Per una
curiosa aberrazione, l’uomo pretenderebbe di nutrire il suo Dio, mentre è compito di Dio
nutrire gli uomini.
[…]
Si incontrano certamente degli spiriti razionalisti al massimo, per i quali l’opposizione fra
reale e simbolico toglie all’offerta religiosa ogni significato. Secondo loro, c’è una doppia
contraddizione a viziare l’offerta: l’uomo dà ciò che ha ricevuto, e questo dono, non essendo
reale, non è di alcun’utilità all’Altro. Non sarebbe più semplice e più vero ringraziare con
una parola di riconoscenza?
[…]
L’offerta non è un dono reale utile all’Altro, e essa dona ciò che è stato ricevuto. Queste
contraddizioni che offendono lo spirito razionalista o realista, per l’uomo religioso si
risolvono proprio perché l’offerta è un rito negativo. Non che questo sia un rito da sfuggire,
come si fa nei riguardi di certi tabù che si evita di toccare. Offrire è separare dall’uso
comune ed utilitarista. Ciò che nel rito vi è di negativo viene determinato: esso riguarda
l’uso profano. Non per questo viene abolito dall’idea di un autentico scambio tra l’uomo e
Dio. E la rinuncia non ha il carattere di una diminuzione di valore. Al contrario, poiché
valorizza i beni che abbandona, l’uomo può riconoscere ad essi un valore più grande.
Quando in determinati giorni i «cacciatori» (nel senso cultuale del termine) rinunciano ad
uccidere l’animale catturato, lo offrono, con un semplice gesto negativo. Vogliono significare
con questo che tutti gli animali sono loro concessi, ma che all’origine essi non appartengono

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

loro di diritto. Così pure presso gli agricoltori le primizie che questi mettono da parte
testimoniano il diritto riconosciuto del Creatore, primo proprietario di ogni cosa.
[…]
Nella religione monoteista purificata, l’offerta-dono riceve sicuramente integro il suo
significato simbolico: rifiutando di tenere per sé ciò che possiede come bene proprio, l’uomo
vuol esprimere che egli stesso e tutto ciò che possiede hanno la loro origine nell’Altro: Iddio
Padre.
Il simbolo, come abbiamo visto, è una ripresentazione, un rendere presente nell’assenza. Il
momento negativo gli è essenziale, perché esso trasforma l’immediato della vita e del dato
dell’esperienza in qualcosa che significhi il rappresentato. E’ proprio qui l’efficacia
dell’offerta: il momento negativo del separare fa della terra e della vita il simbolo di Dio,
sorgente di ogni esistenza. In tal modo non c’è religione senza sacrificio il quale fa si che
Dio sia Dio, e lo manifesta come tale. […]
Nel senso stretto del termine, il sacrificio si distingue dall’offerta per la distruzione o la
uccisione di ciò che viene offerto. Senza necessità e come elemento superfluo rispetto
all’offerta, il sacrificio manifesta il carattere radicale della separazione: gli oggetti distrutti,
gli animali o gli uomini stessi messi a morte sono ormai definitivamente sottratti all’uso
comune e ai rapporti profani.
L’annientamento, e quindi l’idea di morte, sono costitutivi di ogni ordine simbolico. L’idea è
l’assassinio della cosa, diceva già Hegel. E questa espressione non ha niente di esoterico: il
potere di nominare una cosa comporta che ci si allontani dalla sua utilizzazione immediata
e che ci si riferisca ad essa a distanza. […] Finché l’uomo aderisce alle cose per la sua
soddisfazione immediata, senza una rinuncia e senza una certa lontananza da esse, queste
rimarranno per lui come cose opache. Se esiste una vera libertà e una possibilità di trarre
dalle cose il loro senso, ciò non può avvenire che nel superamento delle cose così come esse
si offrono all’immediatezza della vita. Non è forse la caratteristica della pittura quella di
presentarci il mondo e gli oggetti nella loro verità e nel loro intimo splendore, al di là della
loro utilizzabilità? Nel regno delle necessità vitali l’arte crea uno spazio di vuoto, e in esso
lascia che le cose si svelino nella loro essenza manifesta e nominabile. L’arte è
manifestazione, e la sua efficacia sta nel dar vita alla realtà simbolica.
Per accedere al simbolico l’uomo deve rinunciare all’immediato, al suo bisogno ed al suo
gusto per il dominio ed il possesso. Ogni rinuncia è in qualche maniera una morte. L’uomo
non oltrepassa ciò che in lui vi è di naturale se non attraverso l’accettazione di una morte.
La psicanalisi ha dimostrato che l’uomo si umanizza, e assume la sua sessualità come
umana, solo se accetta una morte ad ogni momento cruciale del suo divenire. Non è questo
il vero significato della necessaria castrazione simbolica? Se l’uomo vuoi conservare la sua
vita deve acconsentire a perderla. L’adagio esprime una verità universale, reale in
antropologia non meno che nel cristianesimo. E non vi è in questo principio ombra di
disprezzo o di odio per la vita; l’accettazione della morte simbolica non equivale ad un
complesso masochista, poiché determina il assaggio dal bisogno al desiderio, e dall’impulso
alla parola.
La distruzione del sacrificio è quindi un’offerta secondaria che radicalizza l’atto simbolico
dell’alleanza religiosa. […] Il dono sottratto ad ogni consumo o utilizzazione, manifesta
esplicitamente che conta solo il gesto che instaura il rapporto di solidarietà, cioè lo scambio
o il patto.
Generalmente l’uomo, con il sacrificio, dichiara l’esistenza di una realtà superiore,
trascendente, dimostrando di non fermarsi alla cosa donata. Il vero beneficio che l’uomo
ricava dall’offerta-sacrificio, è quello di unirsi a Dio, e non di ottenere un dono particolare
in cambio della cosa offerta. Unito alla sorgente e alla sicurezza della sua esistenza, messo

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

alla presenza di Dio nello spazio aperto del simbolo, l’essere umano si dilata e supera se
stesso. Il suo desiderio si pacifica, e per di più il suo senso di sicurezza si rinsalda; poiché
radicato in Dio, si ancora ad un principio di stabilità superiore. Lo scambio risulta quindi
reale e benefico con effettuazione stessa del patto, prima di qualsiasi manifestazione di una
particolare benevolenza divina.
La natura cruenta di certi sacrifici manifesta la loro efficacia con una bivalenza simbolica.
L’animale o l’uomo che vengono uccisi rappresentano l’umanità. Perché in ogni sacrificio
ciascuno immola se stesso. Si può anche dire che ogni sacrificio è un suicidio. Tuttavia, il
vero suicidio sacrificale non raggiungerebbe il suo scopo; distruggerebbe quanto deve venir
significato, e cioè: che l’esistenza è un bene, un dono ricevuto per la felicità dell’uomo, e che
questo dono offerto nel simbolo realizza il bene di uno scambio supremo. Il suicidio
simbolico espresso metaforicamente con la sostituzione di un oggetto o di un animale,
conserva il dono della vita, e lo supera attraverso un legame con quel Dio che soddisfa
pienamente senza sopprimere, che valorizza all’infinito pur rispettando le leggi
dell’esistenza finita. Nel paradosso del patto sacrificale conserviamo il principio che ci
permetterà di chiarire il rapporto dialettico fra sacro e profano.
Il più delle volte, il sangue del sacrificio riceve anche il secondo significato simbolico, quello
di farci comunicare con il principio di vita. Il sangue, infatti, rappresenta l’umore vitale. E
l’aspersione con il sangue, o la comunione al sangue, uniscono in un patto per la vita e per
la morte. Non c’è vincolo più forte di quello della consanguineità. E con quale simbolo
l’uomo può dare maggior peso al suo impegno che scrivendo la propria promessa con il suo
stesso sangue? Comunicando attraverso il sangue della vittima sacrificale, Dio e l’uomo si
uniscono in un patto alleanza: in questa maniera, il sacrificio dell’oblazione ci conduce alla
comunione, in cui lo scambio si esprime concretamente con il gesto dell’appropriazione.
Nella maggior parte delle religioni, il sacrificio si completa con una partecipazione alla
vittima sacrificata. Ciò che caratterizza e definisce la comunione attraverso tutte le sue
forme, è il fatto che coloro che vi partecipano si uniscono dipendendo da un medesimo
principio sacro.
La comunione realizza la partecipazione su due piani: verticale e orizzontale. Prima di
tutto essa è partecipazione a Dio, ripresentato in ciò che è stato offerto. Comunicandosi,
l’uomo non fa che perfezionare il vincolo instaurato con Dio, già significato e operato
dall’offerta. Che il comunicarsi completi il gesto oblativo e sacrificale, è del tutto naturale.
Mangiare e bere, difatti, rimangono i gesti simbolici fondamentali dell’appropriazione e
dell’interiorizzazione. […]
Oltre al vincolo verticale, la comunione instaura anche una nuova comunità fra gli uomini.
[…] La comunità non esiste innanzi tutto per una comune volontà di vivere come fratelli,
ma in ragione di un fondamento comune: il principio divino che unisce gli uomini tra di loro
perché essi sono uniti a Dio. […]
Si può limitare il sacrificio all’espressione del rispetto dovuto a Dio. Ma, nel suo giuridismo
antropomorfico, questa formula tradisce l’intenzione religiosa, e non permette più di
comprendere la tensione che l’abita e di cui i credenti sono testimoni. Dio non è il
proprietario a cui l’uomo paga regolarmente i suoi canoni! Se si concepisse il sacrificio in
questi termini, si ridurrebbe il rapporto religioso ad un debito localizzato. Stando al
giudizio della psicopatologia, si tratterebbe così di uno stratagemma di difesa contro un
debito fondamentale ed illimitato. Il vero sacrificio consiste nell’assumersi questo debito
fondamentale. […]
Abbiamo già scartato il significato limitato e quasi mercantile del debito. Rimane il fatto
che, a causa della nostra dipendenza di esseri creati, dobbiamo a Dio la nostra gratitudine
e il nostro culto. Nel suo momento negativo, il sacrificio significa il nostro assenso al

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Creatore, sorgente di tutti i nostri beni. Esso è riconoscimento del nostro debito
fondamentale.
Proprio per questo, e prima di ogni peccato effettivo, esso ci libera da una colpevolezza
religiosa che ci minaccia sempre: quella di erigerci nella superbia della nostra autonomia,
di chiuderci nella dimenticanza del Creatore. E’ una tentazione inerente alla natura
umana; la tendenza dell’uomo è proprio quella di eliminare Dio e di sostituirsi a lui, così
come il figlio dell’uomo è per natura un essere ribelle, che desidera sostituirsi al padre.
Secondo la psicanalisi, questo conflitto non è né accidentale, né accessorio, ma costituisce
una dinamica nel cuore stesso del divenire umano. La religione è sempre un superamento
di questa rivolta di natura strutturale, come il processo di umanizzazione del bambino
passa proprio attraverso il conflitto con il padre. Sotto questo primo aspetto, il sacrificio,
morte simbolica dell’onnipotenza del desiderio è il riscatto che previene la rivolta effettiva e
l’oblio deliberato.
Non è questo il luogo per approfondire quell’elemento così estremamente complesso che è la
colpevolezza. Ci teniamo però a sottolineare che al di 1à di ogni chiara Coscienza di
colpevolezza per determinate colpe l’uomo sa di essere oscuramente travagliato dal
desiderio di trasgredire e di spezzare i legami con gli altri e con l’Altro. Diversi
comportamenti simbolici e rituali gli permettono di mantenere e di restaurare il vincolo
minacciato dai suoi desideri. Né questa colpevolezza né questi riti sono patologici; al
contrario, il misconoscere il loro significato può provocare nell’uomo la caduta in un
sentimento morboso di colpa. […]
Travagliato nel fondo oscuro del suo essere dal desiderio prometeico di conquistare la piena
autonomia e di cancellare la propria origine, l’uomo ha sempre cercato di ristabilire il
legame religioso attraverso un sacrificio simbolico. Prima di essere espiazione per una
colpa determinata, il sacrificio è il momento sacro che previene la colpa e ristabilisce il
fragile equilibrio fra il desiderato dominio e la riconosciuta dipendenza, fra il godimento
sufficiente e l’apertura alla salvezza che viene dall’Altro. Restituendo all’espressione il suo
giusto senso, noi dobbiamo dire che il sacrificio libera dalla colpa, ridonando l’innocenza
minacciata da1 desiderio di infrangere il proprio limite e di sostituirsi a Dio. Il sacrificio è
riconoscimento del debito originario. Il senso di dover pagare un debito è solo una forma
deteriore dell’atto religioso. Offrire il sacrificio significa celebrare i doni di cui si gode e
celebrare Colui che ne è la sorgente e il termine.
La psicologia riallaccia la funzione equilibrante del sacrificio al processo di compensazione.
Questo ha la sua dignità e non sarebbe giusto abbassarlo al livello di una strategia di
cattiva lega. Perché l’uomo raggiunga la sua giusta misura, all’interno dei suoi moti
contraddittori, occorre che la tendenza al dominio sia compensata dall’atto di
sottomissione, e quella al godimento dal gesto di rinuncia.

LETTURA
FRANKL E. VIKTOR, Homo patiens. Soffrire con dignità, Brescia, Queriniana, 1998
(Biblioteca di cultura, 17), p.106-107
Le cose sono dunque relative, ma in modo ben diverso da quello indicato dal relativismo:
esse sono in relazione con ciò che è irrelazionabile. Il sistema referenziale dei valori è Dio.
Ne consegue che Dio non può essere una grandezza di qualsiasi ordine, né una grandezza
infinita, ma è lo stesso ordine di grandezza.
[…]

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Le cose possiedono senso e valore nella misura in cui li trasmettono ad un altro, a qualcosa
di superiore, nella misura in cui li sacrificano ‘per amore di qualcuno’. Questa è la vera
relatività dei valori.
In una parola, sebbene sembri paradossale, le cose valgono per essere sacrificate. Il senso
sacrificale costituisce il loro vero valore. Ciò che in fondo determina il prezzo di una cosa è
la possibilità di essere offerta a qualcosa di superiore, di supremo, ‘per la maggior gloria di
Dio’. Se Mefistofele nel Faust afferma che «tutto ciò che esiste, merita di andare in rovina»,
basta solo una semplice variazione per dire che il valore di ciò che esiste sta nel poter
essere sacrificato per amore di un essere superiore, anche a costo di andare in rovina.
Questo è il senso ultimo dell’oblazione: è l’offerente a conferire senso a ciò che viene offerto,
a dargli un valore, un prezzo; dare senso è donare gratuitamente, rinunciare. Non è ciò che
io conservo che ritiene un valore; è ciò che io offro a riceverlo.
L’uomo può anche rifiutare di dare alle cose il senso sacrificale e impedir loro di «tenere il
posto» per qualcosa di superiore o di supremo, «tenere il posto al Signore» […]. L’uomo può
rifiutare alle cose di offrirsi in sacrificio, può ricusare l’atto di rinuncia. In questo rifiuto
stanno il fondamento e la radice di ogni disperazione. Il linguaggio stesso, nella sua
profonda saggezza, ha anticipato un tale tema: l’uomo viene ‘spinto’ alla disperazione, ma
fa ‘atto’ di rinuncia! Ciò che sottostà alla disperazione è la bramosia a non lasciare che le
cose facciano ciò che devono fare: tenere il posto, ma al contrario lasciarle al loro posto,
rinchiudendosi in esse. L’orientamento verso i valori, ad esempio verso i valori di
atteggiamento, caratteristica di un atto di rinuncia, è molto lontano da questo ‘essere
spinto’ alla disperazione. E si potrebbe ben dire che l’uomo disperato, rivela di aver
idolatrato qualcosa, di aver assolutizzato qualcosa che possiede solo un valore condizionato,
relativo.
Cosa fa, al contrario, colui che si offre in sacrificio? Egli riconosce che c’è qualcosa di
superiore, di estremamente ricco di valore rispetto a ciò che offre. Egli riconosce l’ordine
gerarchico dell’universo. Cosa realizza, invece, colui che priva le cose del loro senso
oblativo, non rinunciando e non sacrificando? Egli spezza l’ordine gerarchico dei valori e
rende indipendente un solo valore. Non accettando la perdita di qualcosa o non affrontando
la sconfitta, egli si dispera perché non vuo1 confessare di aver perso ciò che, in fondo, non
faceva altro che «tenere il posto» a qualcosa di superiore o al valore supremo, ad una
persona sommamente ricca di valore, «al Signore».

LETTURA
GUARDINI ROMANO, Il testamento di Gesù, Milano, Vita e pensiero, 20053 (Sestante, 5),
p. 62
L’immagine della mensa sacra alla quale siede non solo l’uomo, ma anche la divinità è
comune a tutte le religioni. Presso tutti i popoli il fedele depone doni sull’altare. Essi non
appartengono più all’uomo, ma a Dio: per questo vengono distrutti o sottratti all’uso da
parte dell’uomo, la vittima sacrificale viene bruciata o dissanguata, a simboleggiare la
realtà operata dalla morte: il passaggio nello spazio divino. Spesso tuttavia non si sacrifica
l’intera vittima, ma se ne conserva una parte – o meglio se ne trattiene una parte perché
quanto si distrugge simboleggia il tutto – che viene mangiata dai sacrificanti: la divinità e
l’uomo siedono alla stessa mensa e gustano lo stesso cibo. Il dono simboleggia l’uomo che lo
reca, l’offerta e il sacrificio di sé. E nello stesso tempo simboleggia Dio, sicché il vero cibo è
la vita divina. […] Nell’Antico Testamento […] l’uomo può disporre delle cose solo se Dio
glielo concede. L’animale può essere immolato solo davanti all’altare non perché Dio ha
bisogno di sangue, ma perché ogni vita gli appartiene.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

1. 3. 5. I profeti e la critica della degenerazione del culto

Un atteggiamento che, di frequente, troviamo nelle pagine dei profeti è la critica a


coloro che compiono atti di culto cui non corrisponde una vita fedele a Dio e
l'osservanza dei suoi comandamenti (esempi: Is 1,11-17; 66,1-4; Ger 6,20; 7,1-14.21-
24; Am 5,21-25; Mi 6,6-8; Os 6,6; Sir 34,18-26; 35,11-20). Le trasgressioni che
rendono l'atto di culto "non gradito" a Dio sono i peccati contro di Lui (idolatria,
sincretismo) ma anche i peccati contro il prossimo (violenze, prevaricazioni,
disonestà, mancanza di solidarietà sociale verso le categorie meno abbienti). La
misericordia, la giustizia e la carità verso il prossimo sono naturalmente collegate
con il culto di Dio; viceversa, l'ingiustizia e la violenza sono una profanazione.
Inoltre i profeti ricordano che l'atto di culto deve essere espressione di auto-
dedizione a Dio; quando invece diventa la sostituzione di una vita donata a Dio,
genera delle false sicurezze, perché la benevolenza di Dio non la si può comprare
con atti di culto.
Alcuni testi di profeti e di salmi arrivano ad affermare che, quando il culto non può
essere celebrato, l'amore di Dio e l'osservanza dei comandamenti lo possono
sostituire (Dn 3,38-40; Sal 39,7-8; 49; 50,18-19; Sal 68,31-32; Sir 4,14; 35,1-3). Per
questo, qualche studioso ha creduto che i profeti partissero da una concezione
interiorizzata di rapporto con Dio, che escludeva il culto esterno, i sacrifici, il
tempio. In realtà l'intento dei profeti era la purificazione del culto, non la sua
abolizione. Infatti essi mostrano un'alta considerazione per il culto, quando è
celebrato con rettitudine: abbiamo visioni di un Israele ideale, escatologico, che
descrivono un culto sincero e gradito a Dio nel tempio restaurato (Is 2,2-3; 60,13;
Ger 33,11.18; Ez 10,18-22; 10,22-23; 40-46). Anche riguardo agli oggetti sacri, se da
una parte i profeti ammoniscono continuamente contro la tentazione di legarsi
troppo ad essi (Ger 3,16 afferma che l'arca dell'alleanza non sarà più ricordata né
rimpianta) dall'altra parte nel nuovo tempio, descritto da Ezechiele, la funzione
simbolica degli oggetti sacri viene mantenuta e ci sono cose sante che non si osa
sconsacrare (Ez 44,8). E' singolare anche l'atteggiamento del libro di Malachia. Si
tratta di un testo scritto alcuni decenni dopo la ricostruzione del tempio, avvenuta
al ritorno dall'esilio. Scopo del libro sembra essere quello di denunziare alcune
inadempienze cultuali. Si rimproverano i sacerdoti (1,6-2,9) e anche i fedeli (3,6-12),
perché il culto è celebrato con indolenza e con avarizia e si chiede un culto che sia
degno dell'onore e del rispetto dovuti a Dio.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

2. L'ECONOMIA SACRAMENTALE NEL NUOVO TESTAMENTO

2. 1. Gesù e il culto (31)

Nei confronti del culto, Gesù assume un atteggiamento molto simile a quello dei
profeti. Spesso, per rafforzare le sue affermazioni, egli cita dei brani di scritti
profetici (per esempio: Mt 9,13 cita Os 6,6; Mt 15,7-9 cita Is 29,13; Mt 21,13 cita Is
56,7). Questo non significa che egli intenda abolire il culto del popolo di Israele:
infatti partecipa regolarmente alla vita religiosa del suo popolo (feste,
pellegrinaggi, preghiera comune, riunione sinagogale del sabato, frequenza al
tempio, celebrazione pasquale...). Piuttosto la sua contestazione, come quella dei
profeti, mira a far sì che l'atteggiamento interiore di chi compie i riti sia conforme a
ciò che viene celebrato. Lo scopo di Gesù non è quindi l’abolizione, ma la
purificazione delle pratiche cultuali, in vista di una loro maggiore autenticità.

2. 2. La tipologia: le prefigurazioni e il compimento (32)

Il filosofo greco Platone aveva elaborato la dottrina della partecipazione per


stabilire un rapporto tra il sensibile (ciò che può essere oggetto dei sensi, cioè le
cose) e l'intelligibile (ciò che invece può essere colto solo attraverso l'intelletto, cioè
le idee). Egli affermava che tra i due piani c'è un rapporto di mimesi (=imitazione),
o di metessi (=partecipazione), o di koinonia (=comunanza), o di parousia
(=presenza). Ciò significa che il sensibile si realizza quando partecipa
dell'intelligibile, anche se non riesce mai ad uguagliarne la pienezza. Secondo
Platone l'idea di "partecipazione" assicura un autentico legame ontologico tra due
realtà; tuttavia rimane sempre tra loro una differenza di importanza.
Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, utilizza la dottrina platonica per
commentare la Bibbia ed elabora l'idea che il Logos sia l'archetipo, cioè il modello
esemplare, della creazione. Anche il culto è interpretato in questa chiave: Dio ha
ordinato a Mosè di fare il santuario terreno a immagine di quello celeste (Es 25,40),

(31) Vedi: AA.VV., Anamnesis, 2, p. 13-16.


(32) Vedi: MAZZA, L'interpretazione del culto, p. 242-249.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

per cui Filone vede ogni elemento del culto terreno come raffigurazione simbolica
che rimanda a un archetipo celeste.
Il Nuovo Testamento conosce questo metodo, che chiameremo "tipologia", e ne fa
largo uso per leggere l'Antico. Cristo è colui che porta a compimento l'antica
alleanza (Mt 5,17). I personaggi e le istituzioni dell'Antico Testamento sono figure e
anticipazioni della realtà piena, dell'"archetipo", che è Cristo. Così, Gesù è il nuovo
Adamo (Rm 5,15); il nuovo Mosè (Mt 5,1ss e Gv 6,14); il nuovo Elia (Lc 7,11-17//1Re
17,17 ss. e Lc 9,61//1Re 19,20). Nell'opera di Giovanni, Gesù è il nuovo tempio (Gv
1,14; 2,19-21; 4,21; 7,37-39), il vero agnello pasquale (Gv 1,29; 19,14; 19,36//Es
12,46; Ap 7,17 e 17,14), la vera vite (Gv 15,1ss.//Is 5 e Ger 2,21) e la croce è messa
in rapporto col serpente dell'esodo (Gv 3,14//Sap 16,6-13). Lo stesso criterio è
applicato nelle Epistole: l'arca di Noè è figura del battesimo (1Pt 3,21); gli eventi
dell'esodo sono figura della salvezza in Cristo (1Cor 10-1-6); i riti dell'ultima cena
sono il compimento dell'alleanza (1Cor 11,25); la morte di Cristo è compimento
della pasqua (1Cor 5,7); il passaggio del Mar Rosso e la colonna di nube che
accompagnava il popolo nell'esodo sono l'immagine del battesimo, mentre la manna
e l'acqua scaturita dalla roccia sono riferimenti all'eucaristia (1 Cor 10,1-5).
Il metodo tipologico consente di salvare sia il valore dell'Antico Testamento, sia
l'idea che Cristo è l'unico salvatore. Ciò avviene considerando gli eventi di salvezza
della storia di Israele come prefigurazioni di Cristo, che è la salvezza piena.

2. 2. 1. Gesù è il vero tempio, secondo il vangelo di Giovanni (33)

L'evangelo più ricco di spunti sacramentali è quello di Giovanni. In particolare: Gv


3 (battesimo), Gv 6 (eucaristia), Gv 20,22 (dono dello Spirito Santo per il perdono
dei peccati).
Il tema del "tempio" percorre tutto il vangelo di Giovanni. L'evangelista sembra
voler affermare che, se il tempio era il luogo della presenza di Dio e dell'incontro
con Lui, Gesù è il vero tempio poiché, in lui, tale presenza e tale incontro si
realizzano in modo perfetto.
Già nel prologo (Gv 1,14), con il verbo "accamparsi", si allude alla tenda
dell'incontro, piena della gloria di Dio, che ha accompagnato il cammino del popolo
di Israele durante l'esodo (Es 25,8; 40,34-38) (34).

(33) Vedi: AA.VV., Anamnesis, 1, p. 114-115; AA.VV., Anamnesis, 2, p. 17.


(34) BROWN, Giovanni, p. 42-49.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Nel discorso che Gesù fa, dopo la purificazione del tempio (Gv 2,14-22), Gesù
afferma: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19) e
l’evangelista commenta affermando che “… egli parlava del tempio del suo corpo”.
Si vuole pertanto affermare che il vero tempio di Dio, cioè il luogo della sua
presenza in mezzo a noi, è il corpo stesso di Gesù, la sua persona. I sacrifici di
animali che si facevano nel tempio erano la prefigurazione di una realtà piena, che
è l'offerta della propria esistenza al Padre; tale offerta si compie in modo perfetto
nel "corpo", cioè nell'esistenza umana di Cristo. La risurrezione del corpo di Gesù,
che i suoi nemici volevano distruggere, sarà il segno del superamento della
prefigurazione, cioè del tempio di pietre, e l'abolizione dell'antico ordine cultuale.
Nel dialogo con la donna samaritana (Gv 4,21-24), Gesù, interrogato sulla diatriba
che divideva Giudei e Samaritani sul luogo di culto, che per i Giudei era il tempio di
Gerusalemme, mentre per i Samaritani era il tempio che avevano costruito sul
monte Garizim, annuncia la venuta di un tempo in cui si potrà adorare il Padre "in
spirito e verità". Ciò non significa preconizzare una spiritualizzazione del culto, che
escluda ogni manifestazione esteriore: la frase non si riferisce allo spirito dell'uomo,
ma allo Spirito di Dio, che genera la comunione con Cristo, che è la verità di Dio. Il
culto del "vero adoratore" deve passare attraverso Cristo (la Verità, secondo il
vangelo di Giovanni), che è l'unica via di accesso al Padre e, quindi, è il luogo vero
del culto e il vero tempio spirituale. Ciò è possibile solo grazie allo Spirito Santo che
genera la vera adorazione, giacché fa ricordare e comprendere Cristo e, in tal modo,
inserisce gli uomini in lui. Così l'uomo, unito a Cristo grazie all'opera dello Spirito,
diventa figlio di Dio e lo può adorare e chiamare “Padre”.
Gesù, mentre insegna nel tempio (Gv 7,37-39), afferma indirettamente di essere il
vero tempio, citando una profezia di Ezechiele (Ez 47), secondo la quale dall’interno
del tempio sarebbe sgorgato un fiume di acqua viva (e, già all’epoca di Gesù,
quest’acqua viva veniva interpretata come un rifermento al dono dello Spirito
santo). Il tema riapparirà al momento della croce quando, dal costato di Gesù,
trafitto dalla lancia, insieme al sangue, uscirà dell’acqua (Gv 19,33-35).
Conformemente a questa interpretazione di Gesù come vero tempio, il libro
dell’Apocalisse affermerà che nella Gerusalemme celeste non vi è alcun tempio
“perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22).

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

2. 2. 2. Gesù, vero sacerdote, compie il vero sacrificio, secondo la lettera agli Ebrei
(35)

Nella lettera agli Ebrei non c'è alcuna descrizione del culto cristiano (eccezion fatta,
forse, per Eb 13,10). Troviamo invece un'ampia riflessione sul parallelismo
tipologico tra la morte di Cristo e i sacrifici dell'Antico Testamento.
Il problema centrale della lettera è il problema dell’accesso a Dio. Come entrare
in relazione con Dio e vivere in comunione con Lui? La risposta che dà la Lettera è
questa: affinché il culto sia autentico, occorre un sacerdote autentico: questo
sacerdote è Gesù. L'esistenza di Cristo e, soprattutto, la sua morte e risurrezione
realizzano il vero culto. Egli infatti vive ciò di cui i riti sacrificali del tempio di
Gerusalemme erano espressione: una vita totalmente consegnata alla volontà del
Padre (Eb 10,1-10). I riti di Israele erano celebrazioni imperfette dell'alleanza. In
Cristo, invece, la comunione con Dio è piena e perfetta; egli è l'alleanza in persona,
per cui tutte le istanze cultuali dell'Antico Testamento trovano compimento in lui.
Anzitutto Gesù, pur non appartenendo alla tribù di Levi, è vero sacerdote. La
Lettera agli Ebrei è l’unico tra gli scritti del Nuovo Testamento che attribuisce a
Gesù questo titolo. Infatti, nella religione ebraica, egli non poteva essere sacerdote
poiché non apparteneva alla tribù di Levi né a una famiglia sacerdotale (a
differenza di Giovanni il Battista) (Eb 7,14); inoltre non risulta che Gesù abbia mai
cercato di assumere un ruolo sacerdotale che non gli sarebbe toccato. Ecco allora
come argomenta la Lettera. Anzitutto per essere sacerdoti è necessario essere
graditi a Dio e poter stare alla sua presenza; Gesù, intronizzato alla destra di Dio e
proclamato suo Figlio ha questa caratteristica (Eb 1,3; 4,14; 7,26-28). E’ inoltre
necessaria una reale solidarietà con coloro che il sacerdote rappresenta, altrimenti
il ruolo di mediazione non può realizzarsi; e poiché Gesù si è fatto nostro fratello
fino a morire sulla croce, egli realizza pure questa seconda condizione (Eb 2,11;
4,15). Infine, per essere sacerdoti, occorre appartenere alla tribù di Levi, e Gesù
apparteneva a quella di Giuda. A proposito di questo, la Lettera cita il salmo 109.
E’ un salmo creato, probabilmente per l’incoronazione del re di Giuda, che allude al
fatto che il sovrano, nell’atto della sua intronizzazione, sedeva alla destra dell’arca,
a indicare la sua funzione di vicario di Dio. All’epoca di Gesù, questo salmo veniva
però attribuito al futuro Messia e Gesù stesso aveva attribuito a se stesso questo
testo, rispondendo ai suoi giudici, durante il processo (Mt 26,64; Mc 14,62; Lc

(35) GRELOT, Introduzione al Nuovo Testamento, p. 152 ss.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

22,69). Per giustificare il fatto che il sovrano aveva anche funzioni cultuali, il
salmo fa riferimento all’antico re di Salem, Melchisedek (Gen 14,17-20). Quindi,
argomenta l’autore di Ebrei, se Gesù è il Messia, secondo le parole del salmo egli è
pure sacerdote, come Melchisedek, (Eb 5,5-6). Pertanto egli possiede un sacerdozio
che è ben superiore a quello dei discendenti di Levi, poiché Abramo, antenato di
Levi, lo riconosce come sacerdote, lo incarica di celebrare un sacrificio, gli paga le
decime e da lui riceve la benedizione (Eb 7,1-10). Per questo l’autore di Ebrei
rilegge il brano della Genesi che concerne Melchisedek (Gen 14,17-20) come una
prefigurazione di Cristo.
Inoltre Cristo compie il vero sacrificio (gr. thysia), quello "di se stesso". Anche qui
la lettera agli Ebrei si trova di fronte a un ostacolo: la morte di Gesù è
un’esecuzione capitale di un uomo condannato ingiustamente, non è tecnicamente
un sacrificio. Allora l’autore prende le mosse dal salmo 39, che afferma che fare la
volontà di Dio è più importante dei sacrifici, poiché il sacrificio è il rimedio del
peccato, cioè del rifiuto della volontà di Dio. Nella traduzione dei 70, sembra
addirittura che il salmo alluda a una sorta di dono del proprio corpo, e questo serve
all’autore della Lettera per mostrare come l’atteggiamento con cui Gesù ha
affrontato la morte equivale a un auto-sacrificio (Eb 10,5-10). Tutto il culto
sacrificale si basa sull'idea di sostituzione: la vittima viene offerta al posto
dell'offerente; in quanto peccatore, l’uomo non può offrire se stesso a Dio per i
propri peccati per cui il sacerdote cerca un animale che sia perfetto, per offrirlo. Ma
ogni essere umano è insostituibile e non può offrire nulla in cambio della sua anima
(Mc 8,37); solo il suo "si" a Dio può essere vera adorazione. Per questo l'esistenza di
Cristo, e soprattutto la sua morte e risurrezione, realizza il culto perfetto. Egli,
annulla la distinzione tra offerente e offerta: periò egli può portare nel santuario
del cielo la totalità della sua esistenza, offerta per amore. Mentre il sommo
sacerdote entrava nel santuario con il sangue di animali (Eb 9,12.25), Cristo entra
nel santuario del cielo con il suo stesso sangue (Eb 9,11-14). E’ da notare che la
morte di un essere umano, secondo la Bibbia, non era mai un fatto positivo, perché
accentua la separazione dell’uomo da Dio (Sal 6,6; Is 38,18); Cristo però ha
trasformato la sua morte in un’offerta, non per il fatto che è morto ma per
l’atteggiamento di amore con cui ha affrontato la morte.
Infine è da notare che il sacrificio di Cristo raggiunge la sua efficacia solo con il suo
ingresso nel cielo; egli è infatti entrato "nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora
al cospetto di Dio in nostro favore" (Eb 9,24). Il tempio di Gerusalemme e il culto
che vi si celebra sono "una copia e un'ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

detto da Dio a Mosè: guarda di fare ogni cosa secondo il modello (typos) che ti è
stato mostrato sul monte" (Eb 8,5 che cita Es 25,40). Il modello del tempio terreno è
il santuario celeste, una "tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di
uomo, cioè non appartenente a questa creazione" (Eb 9,11). Pertanto, il "santuario
fatto da mani d'uomo" è "figura (antitypos) di quello vero" (Eb 9,25). Nel giorno del
perdono, il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi cioè nella parte più
recondita del tempio, portando il sangue delle vittime che offriva per i suoi peccati e
per quelli di tutto il popolo. Cristo, invece, è entrato nel cielo stesso, presentandosi
al cospetto di Dio, cioè in quella realtà di cui il tempio di Gerusalemme è una
immagine e una raffigurazione, "non con sangue di capri e di vitelli, ma con il
proprio sangue" (Eb 9,11-12).
Infine, per la lettera agli Ebrei ci sono tre atti cultuali che sono prefigurazione del
ruolo sacerdotale di Cristo. Il primo (Eb 7) è l'offerta del pane e del vino, fatta da
Melchisedek (Gen 14,17-20). Il secondo (Eb 9,19-21) è il rito mediante il quale il
popolo di Israele aveva stipulato l'alleanza, sul monte Sinai: con il sangue delle
vittime, Mosè aveva asperso il popolo e bagnato l'altare (Es 24,6-8); allo stesso
modo, il sangue di Cristo inaugura una nuova alleanza. La terza prefigurazione è
costituita dal rito del giorno del perdono, durante il quale il sommo sacerdote
entrava nel santo dei santi, portando il sangue delle vittime che egli offriva per i
suoi peccati e per quelli di tutto il popolo (Eb 9,8); allo stesso modo, Cristo è entrato
nel santuario del cielo con il proprio sangue.

Anche se non in modo così esplicito come nella lettera agli Ebrei, il tema del
sacrificio, riferito alla morte in croce di Gesù, è utilizzato anche in altri libri del Nuovo
Testamento: ciò dimostra che si trattava di un’idea comune della Chiesa apostolica.
In tutto il vangelo di Giovanni, Gesù è visto come il vero agnello pasquale; il racconto
della crocifissione sottolinea la concomitanza con l’immolazione degli agnelli nel
tempio e le analogie tra Gesù e l’agnello (per esempio il fatto che le ossa di Gesù non
vengono spezzate).
Nella lettra agli Efesini, la morte di Cristo è definita un “sacrificio di soave odore” (Ef
5,2).
Anche la Prima lettera di Giovanni afferma che: “Gesù Cristo è vittima di espiazione
per i nostri peccati” (1Gv 2,2).

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

2. 2. 3. La vita dei cristiani come "sacrificio spirituale", nell’opera di Paolo (36)

Paolo usa spesso un linguaggio liturgico quando parla di cose profane. Per esempio:
la colletta in favore dei giudeo-cristiani è detta leitourgias (2Cor 9,12) e leitourgesai
(Rm 15,27); di essa, Paolo parla come di “offerta”, con un linguaggio che pare alludere
a quello sacrificale (2Cor 8,1-6; 9,5); la colletta dei filippesi a favore di Paolo è detta
leitourgia (Fil 2,25); il martirio è visto come una libazione (che era l’atto di versare
il calice, durante i sacrifici) (2Tim 4,6; Fil 2,17); la fede è un sacrificio (Fil 2,17);
l'annuncio del vangelo è un atto di culto che Paolo compie affinché i pagani
diventino un sacrificio (Rm 15,16). Tutto ciò si spiega col fatto che, secondo Paolo,
tutta la vita del battezzato diventa culto a Dio.
Nella lettera ai Romani (Rm 12,1-4), egli esorta a fare della vita intera un atto di
culto. "Corpo" significa la persona; perciò offrire i propri corpi non è compiere un
rito, ma vivere alla presenza del Padre. "Santo" e "gradito a Dio" sono termini
tecnici, usati per le vittime dei sacrifici cultuali. Pertanto "culto spirituale" significa
diventare offerta vivente in Cristo, grazie allo Spirito Santo.
Ulteriori sviluppi dell’idea per cui tutta la vita del cristiano, vissuta in comunione
con Cristo, è un autentico sacrificio, offerto al Padre, li troviamo nella Prima lettera
di Pietro (1Pt 2,5:"… per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio") e nel libro
dell’Apocalisse, ove le centoquarantaquattromila persone che recano scritto sulla
fronte il nome dell’Agnello e il nome del Padre sono definite “primizie per Dio e per
l’Agnello”, con un termine che potrebbe alludere ai sacrifici (Ap 14,5).

2. 2. 4. La comunità cristiana come tempio vivo e popolo sacerdotale, nella Prima


lettera di Pietro e in altri scritti del Nuovo Testamento (37)

Nella prima lettera di Pietro, viene attribuito a tutta la comunità dei credenti, in
quanto uniti a Cristo, la qualifica di “tempio” e di “popolo sacerdotale”.
L'affermazione sul sacerdozio ritorna due volte nello stesso brano (1Pt 2,4-5 e 2,9-
10), che richiama esplicitamente il libro dell'Esodo (Es 19,6). Pietro proclama la
piena realizzazione della promessa, in virtù dell'adesione a Cristo. Ecco perché
l'affermazione non si riferisce più soltanto agli israeliti, ma anche ai pagani che

(36) Vedi: AA.VV., Anamnesis, 1, p. 39-41.


(37) VANHOYE, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, p. 189-214.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

aderiscono a Cristo.
Implicitamente, per l'autore della lettera di Pietro, come per quello della lettera
agli Ebrei, solo Cristo possiede in pienezza il sacerdozio. Per esprimere l'adesione a
Cristo e al suo sacerdozio, la lettera usa il verbo "stringersi", che implica
un'adesione di fede. La comunità cristiana unita a Cristo è paragonata a un
"edificio spirituale". E' da notare che l'Antico Testamento ordinariamente definiva
il tempio di Gerusalemme "la casa di Iahvè" o semplicemente "la casa". L'autore si
riallaccia quindi a quel filone di teologia che vede in Cristo, e nella comunità
cristiana unita a lui, il vero tempio di Dio (vedi: Ef 2,22). Scopo di tutto ciò è "offrire
sacrifici spirituali graditi a Dio".
Infine è molto chiaro che il testo non si riferisce ai singoli cristiani, individualmente
presi, ma alla comunità in quanto tale. L'idea di un sacerdozio esercitato da
ciascuno in modo autonomo non rientra nella prospettiva dell’autore della lettera.
Nell'Apocalisse (38), Cristo non è definito "sacerdote", ma associa i suoi alla sua
vittoria (3,21). I fedeli invece sono definiti per tre volte come un "regno" di
"sacerdoti" (Ap 1,6; 5,10; 20,6). Anche qui è chiaro il riferimento all'Esodo (Es 19,6);
come nella lettera di Pietro, non si tratta di una promessa, ma di una cosa già
realizzata. Proprio quando i cristiani sono perseguitati, l’autore di Apocalisse li
invita a riconoscere con orgoglio che essi sono sacerdoti e re, e quindi hanno una
relazione privilegiata con Dio. Pertanto questa dignità merita gli sforzi più grandi:
anche la partecipazione stretta alla passione di Cristo, perché è la sofferenza che
conduce alla gloria.
Anche negli scritti di Paolo, ricorre spesso il tema del “tempio”, applicato alla
comunità cristiana e, talvolta, anche ai singoli membri di essa. Ciò avviene nelle
lettere ai Corinzi (1Cor 3,16; 16,17; 2Cor 6,16) e in quella agli Efesini (Ef 2,21-22).

2. 2. 5. Conclusioni

Le istanze cultuali che, nell’Antico Testamento, erano espresse dal tempio, dal
sacerdozio levitico e dai sacrifici, secondo il Nuovo Testamento trovano il loro pieno
compimento nella persona di Gesù, nella sua vita, nella sua morte in croce e nella
sua risurrezione. Quindi Gesù è il vero tempio in cui la terra e il cielo si incontrano.
Egli è inoltre l’unico sacerdote e mediatore tra l’umanità e Dio; l’atteggiamento di

(38) VANHOYE, Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, p. 215-236.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

dedizione con cui è andato incontro alla morte di croce è il vero sacrificio; si tratta
di un sacerdozio e di un sacrificio che non sono più primariamente rituali, ma
esistenziali, cioè realizzati in ogni atto della sua vita e, principalmente, nel mistero
pasquale.
Ma poiché la comunità cristiana, intimamente unita a lui, partecipa di tutto ciò che
egli è (in primis del suo essere figlio di Dio), essa partecipa anche della sua
qualifica sacerdotale (ed è un regno di sacerdoti, come già il popolo della Prima
Alleanza), del suo essere tempio di Dio, della sua vita offerta come sacrificio gradito
a Dio. Su questa partecipazione della Chiesa alle caratteristiche del Signore, si
fonda tutta la liturgia che essa celebra e i sacramenti che le sono donati.

EXCURSUS

Celebrazione della liturgia e dei sacramenti nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento è testimoniata una pratica liturgica ampiamente articolata.


D'altronde, per i riti che noi chiamiamo "sacramenti", non c'è una denominazione comune
né una teologia comune.
Nel tempo più prossimo alla risurrezione, i discepoli continuavano a partecipare alle più
importanti manifestazioni della vita religiosa del popolo di Israele. Per esempio pregavano
nel tempio di Gerusalemme (At 2,46; 3,1; 21,23-26) (39). Inoltre frequentavano le
sinagoghe; la liturgia sinagogale, con le sue letture e la sua possibilità di intervento, era
spesso occasione di annuncio cristiano (At 16,13; 17,2-4). Ben presto però alcune peculiarità
del culto cristiano, spinsero i fedeli a radunarsi più spesso in case private (At 2,46; 12,12) e
l'ostilità delle autorità giudaiche li portò a disertare sempre più il tempio e la sinagoga
(40).
Era viva la coscienza che le riunioni dei credenti, che avvenivano in case private, erano
delle assemblee cultuali. Infatti la prima lettera ai Corinzi (1Cor 11,18) dice:
synerchomenon hymon en ekklesia ("vi radunate in assemblea"); è chiaro che ekklesia ha
qui un significato tecnico e rimanda all'assemblea del popolo di Israele (qahal), riunita per
la preghiera e il servizio di Dio (At 7,38) (41).
Sappiamo poco sullo svolgimento di tali riunioni. E' chiaro che le case private potevano
accogliere un numero non molto alto di fedeli, per cui nelle grandi città occorrevano più
riunioni. Nel libro degli Atti degli Apostoli (per esempio At 20,7-12) si afferma che

(39) Tuttavia la maggior parte degli studiosi ritiene che essi non partecipassero alle offerte di
sacrifici.
(40) Il distacco definitivo avvenne verso la fine del I secolo, quando i giudei inserirono nella
preghiera quotidiana una maledizione contro i "minim" (= settari), con probabile riferimento ai
cristiani.
(41) GRELOT, Introduzione al Nuovo Testamento, p. 20-43.

30
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

l'assemblea si svolgeva il primo giorno della settimana; è chiaro il riferimento al giorno


della manifestazione del risorto (i giudei si radunavano di sabato). Non essendo la
domenica un giorno festivo, né per i giudeo-cristiani né per i pagano-cristiani, molto
probabilmente l'assemblea si svolgeva il sabato, dopo il tramonto. Ciò che è scritto in At
20,7-12 lascia intuire una lunga liturgia della parola, nella quale è inserita la "frazione del
pane" (termine tecnico). La prima lettera ai Corinzi (1Cor 11-12 e 1Cor 14,1-40) ci lascia
immaginare delle assemblee piuttosto tumultuose, che resero necessario l'intervento scritto
di Paolo.
L'assemblea era certamente il luogo ove si leggevano scritti dell'Antico Testamento,
interpretandoli in chiave cristologica. Proiettando all'indietro il testo di Giustino (per le
caratteristiche di conservazione, tipiche della liturgia) possiamo pensare che si leggessero
anche gli scritti riferentesi alla vita di Gesù. All'inizio ci si basava sulla memoria viva dei
testimoni oculari o di chi aveva assistito ai loro racconti. Poi divenne necessario fissare le
tradizioni per iscritto. Secondo diversi studiosi, i vangeli nacquero per un uso liturgico (42).
L'assemblea era anche il luogo in cui si leggevano le comunicazioni scritte, inviate dagli
apostoli; esse venivano probabilmente conservate accuratamente e passavano da una
comunità all'altra, tanto che la seconda lettera di Pietro (2Pt 3,15-16) ci fa intuire
l'esistenza di un corpo di lettere paoline già assimilate alle altre "scritture".
Un altro elemento di queste assemblee era probabilmente la raccolta di fondi per le opere
di carità. Ciò corrisponde a un'usanza diffusa nelle assemblee sinagogali. In questo
contesto si comprende la colletta organizzata da Paolo a favore dei cristiani di
Gerusalemme (1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Rm 15,26-28; 16,1-2).
Abbiamo poi una serie di segni, presi dalla tradizione ebraica, ma fortemente caratterizzati
in senso cristiano, di cui parleremo più diffusamente trattando dei singoli sacramenti. Tra
questi, oltre alla cena del Signore o "frazione del pane", noteremo il battesimo,
l'imposizione delle mani, l'unzione dei malati, la riconciliazione dei peccatori e il
matrimonio tra battezzati.

EXCURSUS

Liturgia celeste e liturgia terrena nell'Apocalisse

L'Apocalisse sembra essere il libro del Nuovo Testamento che contiene le più numerose
allusioni e indizi sulla liturgia cristiana (43).
La scena si svolge su tre piani: il cielo, la terra e l'abisso. Molte scene si svolgono nel
tempio celeste. E' sottesa al libro
l'idea che la liturgia celeste sia il prototipo a cui la liturgia terrestre si deve ispirare. Il
culto è partecipazione all'adorazione dell'universo intero (Ap 4-5). Esso introduce chi lo
compie già ora in cielo, ove la liturgia è celebrata davanti al trono di Dio; permette un
anticipo dei beni celesti, riservati agli eletti.
Inoltre la vicenda si sviluppa all'interno di un contesto liturgico. Qualcuno ritiene che le
liturgie descritte nel libro siano direttamente ispirate ai culti delle chiese a cui l'autore si
rivolge; da queste allusioni il lettore comprenderebbe che la liturgia che egli celebra lo

(42) GRELOT, Introduzione al Nuovo Testamento, p. 33.


(43) GRELOT, Introduzione al Nuovo Testamento, p. 158-177.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

rimanda alla liturgia del cielo (44). All'inizio si parla di un lettore (1,3); Ap 1,4-8 sembra
essere un responsorio e così la conclusione (22,14-21) e molte parti all'interno. Inoltre
l'autore scrive "nel giorno del Signore" (1,10).
Il tema principale del libro è la venuta di Cristo: sia la sua venuta alla fine dei tempi che
quella che attraversa la storia.
Ci sono diversi inni che occupano una posizione strutturale perché scandiscono gli sviluppi
essenziali del libro. Sono spesso una risposta corale agli annunci del giudizio divino. Vi
sono anche numerose acclamazioni.
I sacramenti non sono menzionati direttamente, ma ci sono parecchie allusioni alla pratica
sacramentale, soprattutto nelle lettere alle sette chiese. Infatti le promesse fatte al
"vincitore" non si riferiscono solo ai beni escatologici, ma anche ai sacramenti che ne sono
pegno.
La promessa di un "nome nuovo" (Ap 2,17) forse è un richiamo al battesimo, che i cristiani
ricevono "nel nome di Cristo" o della trinità. Invece è detto che i seguaci della bestia sono
marchiati con il nome di essa (14,11) o col numero del suo nome (13,17).
Al vincitore è promessa "la corona della vita" (2,10), cioè la partecipazione alla regalità di
Cristo. Forse è un'allusione alla liturgia battesimale; infatti, anche in epoche successive,
nella liturgia siriaca, al momento del battesimo il neofita riceveva una corona.
Al vincitore è data una veste bianca (3,5; vedi anche 6,11); in Paolo rivestirsi di Cristo è un
tema tipicamente battesimale. Ancora, si parla di lavare le vesti (22,14). Altro tema
battesimale è quello del "sigillo" (sphragis), che troviamo al capitolo 7 (vedi 2Cor 1,22; Ef
1,13 e 4,30).
In Ap 7,14 l'efficacia del battesimo è legata al sangue di Cristo.
Altro tema battesimale potrebbe essere la traversata del mare di cristallo e il cantico di
Mosè e dell'agnello (Ap 15,1-4).
All'eucaristia allude probabilmente la promessa della "manna nascosta" (2,17; confronta
Gv 6,31 ss.), e quella di mangiare dell'albero della vita (2,7).
Soprattutto però, pare un'allusione eucaristica Ap 3,20 ("ecco sto alla porta... cenerò..."); la
reciprocità ricorda Gv 6,55.
Infine si può sottolineare l'esclamazione "Beati gli invitati al banchetto di nozze
dell'agnello" (19,9).

LETTURA
Benedetto XVI - Catechesi dell'udienza generale di Mercoledì 7 Gennaio 2009 su San Paolo
(17) dal titolo: “Il culto spirituale”.

L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci offre anche san Paolo. Proseguendo le
catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del
suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a esercitare. In
passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto anti-cultuale dell’Apostolo, di una
“spiritualizzazione” dell’idea del culto. Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella
croce di Cristo una svolta storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto.
Ci sono soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa nuova visione
del culto.

(44) Vedi: GRELOT, Introduzione al Nuovo Testamento, p. 168.

32
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

1. In Rm 3,25, dopo aver parlato della “redenzione realizzata da Cristo Gesù”, Paolo
continua con una formula per noi misteriosa e dice così: Dio lo “ha prestabilito a servire
come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue”. Con questa
espressione per noi piuttosto strana – “strumento di espiazione” – san Paolo accenna al
cosiddetto “propiziatorio” dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza, che era
pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa presenza di Lui nel
mondo degli uomini. Questo “propiziatorio”, nel grande giorno della riconciliazione – “yom
kippur” – veniva asperso col sangue di animali sacrificati – sangue che simbolicamente
portava i peccati dell’anno trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso
della bontà divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita
cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito era espressione del desiderio che si
potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così
farle scomparire. Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario
un contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto luogo
nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in se tutta la
nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel
suo cuore si scioglie la massa triste del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con la croce di Cristo – l’atto supremo
dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel
tempio di Gerusalemme è finito. Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso
sostituito dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla sua completezza
nella morte sulla croce. Quindi non è questa una spiritualizzazione di un culto reale, ma al
contrario il culto reale, il vero amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e
provvisorio. La croce di Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale,
corrispondendo alla realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del
tempio per Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta
consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed annunciato
un altro tempio “non fatto da mani d’uomo” – il tempio del suo corpo resuscitato (cfr Mc
14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12
della Lettera ai Romani. Lo abbiamo ascoltato e lo ripeto ancora: “Vi esorto dunque,
fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e
gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale”. In queste parole si verifica un apparente
paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della vittima, Paolo ne parla invece
in rapporto alla vita del cristiano. L'espressione “presentare i vostri corpi”, stante il
successivo concetto di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di “dare in oblazione,
offrire”. L’esortazione a “offrire i corpi” si riferisce all’intera persona; infatti, in Rm 6, 13
egli invita a “presentare voi stessi”. Del resto, l’esplicito riferimento alla dimensione fisica
del cristiano coincide con l’invito a “glorificare Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20): si tratta
cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di visibilità relazionale e
percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo qualificato come “sacrificio vivente, santo,
gradito a Dio”. È qui che incontriamo appunto il vocabolo “sacrificio”. Nell'uso corrente
questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo sgozzamento di un
animale, di cui una parte può essere bruciata in onore degli dèi e un'altra parte essere
consumata dagli offerenti in un banchetto. Paolo lo applica invece alla vita del cristiano.
Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di tre aggettivi. Il primo – “vivente” –
esprime una vitalità. Il secondo – “santo” – ricorda l'idea paolina di una santità legata non

33
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

a luoghi o ad oggetti, ma alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – “gradito a Dio” –
richiama forse la frequente espressione biblica del sacrificio “in odore di soavità” (cfr Lev
1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo di vivere: questo è “il vostro culto
spirituale”. I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tēn logikēn
latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce: “rationabile obsequium”. La
stessa parola “rationabile” appare nella prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in
esso si prega che Dio accetti questa offerta come “rationabile”. La consueta traduzione
italiana “culto spirituale” non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di quello
latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o addirittura solo metaforico, ma
di un culto più concreto e realistico – un culto nel quale l’uomo stesso nella sua totalità di
un essere dotato di ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella Preghiera eucaristica romana, è frutto di un
lungo sviluppo dell’esperienza religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si
incontrano sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei
mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo. I Profeti e molti Salmi criticano
fortemente i sacrifici cruenti del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che
parla: “Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò forse la
carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un sacrificio di lode…” (vv 12–14).
Nello stesso senso dice il Salmo seguente, 51 (50): “..non gradisci il sacrificio e, se offro
olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato,
Dio, tu non disprezzi” (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della nuova distruzione del
tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.) troviamo un nuovo passo nella stessa
direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così:
“Ora non abbiamo più né principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né
oblazione, né incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo
essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di montoni e di
tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia gradito …” (Dan 3,38ss). Nella
distruzione del santuario e del culto, in questa situazione di privazione di ogni segno della
presenza di Dio, il credente offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di
Dio.
Vediamo uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una spiritualizzazione,
una moralizzazione del culto: il culto diventa solo cosa del cuore, dello spirito. Ma manca il
corpo, manca la comunità. Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di
Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei sacrifici. Ma si
tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una sintesi che ancora non era
prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi sviluppi, del desiderio del vero culto, nel
quale l’uomo stesso diventi gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In
questo senso egli dice ai Romani: “Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è questo il
vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto aveva già indicato nel capitolo 3:
Il tempo dei sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del vero
culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso: si potrebbe facilmente interpretare
questo nuovo culto in un senso moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero
culto. In questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo: l’uomo
stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente non era l’intenzione
di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque interpretare questo “culto
spirituale, ragionevole”? Paolo suppone sempre che noi siamo divenuti “uno in Cristo Gesù”
(Gal 3,28), che siamo morti nel battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Cristo, in Cristo. In questa unione – e solo così – possiamo divenire in Lui e con Lui
“sacrificio vivente”, offrire il “culto vero”. Gli animali sacrificati avrebbero dovuto sostituire
l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella sua donazione al Padre e
a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé l’essere umano, le nostre colpe ed il
nostro desiderio; ci rappresenta realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo,
realizzata nella fede e nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze,
sacrificio vivente: si realizza il “culto vero”.
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui si prega affinché questa offerta
diventi “rationabile” – che si realizzi il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima
Eucaristia l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa
prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia trasformata; prega
perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con le nostre forze: offerta
“rationabile” che piace a Dio. Così la Preghiera eucaristica interpreta in modo giusto le
parole di san Paolo. Sant’Agostino ha chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10°
libro della sua Città di Dio. Cito solo due frasi. “Questo è il sacrificio dei cristiani: pur
essendo molti siamo un solo corpo in Cristo”… “Tutta la comunità (civitas) redenta, cioè la
congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante il Sommo Sacerdote che ha
donato se stesso” (10,6: CCL 47, 27 ss).
3. Alla fine ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani
concernente il nuovo culto. San Paolo dice così nel cap. 15: “La grazia che mi è stata
concessa da parte di Dio di essere “liturgo” di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote
(hierourgein) del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita,
santificata nello Spirito Santo” (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti di questo testo
meraviglioso e quanto alla terminologia unica nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo
interpreta la sua azione missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa
universale come azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella
comunione del Cristo risorto è una azione “sacerdotale”. L’apostolo del Vangelo è un vero
sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio: prepara il vero sacrificio. E poi il secondo
aspetto: la meta dell’azione missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i
popoli uniti in Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, “oblazione gradita,
santificata nello Spirito Santo”. Qui appare l’aspetto dinamico, l’aspetto della speranza nel
concetto paolino del culto: l’autodonazione di Cristo implica la tendenza di attirare tutti
alla comunione del suo Corpo, di unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo
esemplare, uno con Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio
dell’amore divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo
dinamismo deve ispirare e formare la nostra vita.
In conclusione, è molto chiara, nel Nuovo Testamento, l’idea che il sacrificio sia costituito
dalla dimensione obbedienziale, di cui quella rituale è soltanto un simbolo. Si tratta di
un’intuizione che troviamo già nell’Antico Testamento, soprattutto negli scritti dei profeti,
ma che nel Nuovo raggiunge il suo massimo sviluppo, grazie alla riflessione sulla vita e
sulla morte di Gesù. All’amore di Dio, che si manifesta, l’essere umano può rispondere
degnamente soltanto con l’amore e la fiducia, che portano a fare della propria vita un dono;
è questo il vero sacrificio, di cui tutti i credenti sono i sacerdoti. I riti hanno il compito di
manifestare ‘e comunicare l’amore di Dio che ci viene incontro e di alimentare e di
esprimere la risposta dell’uomo.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

3. STORIA DEL CONCETTO DI "SACRAMENTO" E DELLA TEOLOGIA DEI


SACRAMENTI

3. 1. Da "mysterion", a "sacramentum": storia di un termine

Nella Sacra Scrittura troviamo le testimonianze di una pratica liturgica molto viva
e i fondamenti per una teologia dei sacramenti; non troviamo invece né il termine
"sacramento", né un altro termine con analogo significato. Soltanto in un’epoca
successiva a quella dei primi cristiani, nacque il concetto di sacramento e il termine
che noi usiamo, per indicare una serie di riti che la Chiesa aveva celebrati fin dalle
origini e che avevano caratteristiche comuni.
Il termine che viene utilizzato ancora oggi dalla Chiesa orientale per indicare i
sacramenti è il vocabolo greco “mysterion” (plurale mysteria”). Il termine è già
testimoniato nella traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei “Settanta”. In
Gdt 2,2 significa il piano di guerra del re. Invece, in campo religioso, significa il
disegno creatore di Dio e il fine che egli stabilisce per il mondo, rivelandolo ai suoi
fedeli (Sap 2,2 e Dan 2,27-45). Nel Nuovo Testamento il termine è utilizzato
raramente; solitamente indica il piano salvifico di Dio, che egli ha manifestato e
realizzato nella storia e la cui piena attuazione si è avuta nella vita e nella pasqua di
Cristo (Ef 1,9 ss.; Ef 2,11-3,13; Col 1,20.26 ss.; Col 2,2; Rm 16,25 ss.). Per l'autore di
Ef 3 e di Col 1, la Chiesa è la forma nella quale questo piano salvifico viene
ulteriormente realizzato e reso manifesto. Fine ultimo di questo piano salvifico è il
regno di Dio, cioè la creazione di una umanità riconciliata in se stessa e con Dio.
Mentre all’inizio del cristianesimo il termine non serviva ad indicare i sacramenti, nei
primi secoli dell’epoca patristica esso cominciò a indicare non solo il piano di salvezza
nel suo insieme, ma anche i singoli momenti che ne fanno parte. Anzitutto si cominciò
a chiamare “mysteria” i vari momenti della vita di Cristo; poi si applicò il termine
“mysterion” al battesimo e all’eucaristia, creando così un’analogia con i riti pagani di
iniziazione che venivano indicati proprio utilizzando quel termine; invece non si
utilizzò mai questo termine per indicare la Chiesa.
Il termine “mysterion”, nelle bibbie latine, viene tradotto sia con “mysterium”, sia con
“sacramentum”; i due termini nei padri latini convivono come sinonimi. In genere
però, in occidente, si preferirà usare il termine “sacramentum” per indicare i riti e il
termine “mysterium” per indicare il progetto di Dio e la sua rivelazione. Anche oggi il
termine è usato nel vocabolario teologico occidentale, ove non ha lo stesso

36
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

significato che ha nel vocabolario quotidiano. In quest’ultimo la parola “mistero”


significa qualcosa di oscuro, di segreto, di incomprensibile. Nel vocabolario
cristiano, invece, significa qualcosa che è pienamente percepibile, ma che rende
presente una realtà divina che sta al di là di esso.

“Sacramentum” deriva da “sacrare”, che deriva a sua volta da “sacrum” (45).


“Sacrare” significa portare una persona o una cosa nell'ambito del sacrum,
separandola da ciò che è profano, affinché appartenga a una sfera dove è più forte il
legame con la divinità. Nel diritto romano, il termine “sacramentum” aveva due
accezioni: nell’ambito forense indicava la somma di danaro che le due parti di un
processo deponevano nel tempio, come cauzione per testimoniare la verità delle loro
affermazioni, con l'impegno che la quota del perdente sarebbe rimasta all'erario del
tempio stesso; invece nell’ambito militare era il giuramento solenne con cui una
recluta si impegnava a combattere sotto le insegne di un condottiero (imperator)
(46) e ad essere fedele anche a costo della vita. Pare che sia proprio questo secondo
significato (sacramentum militiae), all’origine dell’uso cristiano (47).
Paradossalmente il primo a utilizzare la parola “sacramentum” per indicare un rito
cristiano è stato un pagano, cioè Plinio il giovane, in una lettera che egli scrive,
mentre era governatore della Bitinia, all’imperatore Traiano; in essa egli chiede
istruzioni riguardo alle persecuzioni ai cristiani. Egli afferma che essi si legano con
un giuramento di tipo militare (“sacramento ... obstringere”) a un impegno di vita
che è il contrario di ogni comportamento delittuoso (“non in scelus aliquod”). Se ci
chiediamo quando e come i cristiani assumono questi impegni, è evidente che la
risposta è nel battesimo, un rito che Plinio descrive a grandi linee ma in modo
accurato, assieme all’eucaristia (48). Non è difficile individuare in questa

(45) La desinenza latina "...mentum" esprime quella cosa o operazione che produce l'effetto descritto dal
verbo transitivo. Esempi: monere = monimentum (o monumentum); ligare = ligamentum; medicare =
medicamentum...
(46) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 63.
(47) Un soldato, o uno che aveva il comando, proclamava davanti a ogni legione la formula del
giuramento (praejuratio). Tutti i soldati rispondevano alla praejuratio: “Idem in me”, facendo propria la
frase del giuramento e invocando contro di sé la punizione degli dei, nel caso infrangessero il patto.
Tutto ciò non era un fatto puramente giuridico, ma anche un fatto religioso che generava un profondo
legame interiore. A causa del giuramento l’imperator era impegnato a provvedere ai suoi soldati, e
questi erano impegnati alla fedeltà verso di lui, ossia a seguirlo fino alla morte; gli dei avrebbero punito,
i trasgressori. Il termine sacramentum designa l’intero processo nel suo insieme: la praejuratio, la
risposta del soldato, l’obbligo di fedeltà all’imperatore. Questo giuramento era considerato un’azione
verbale, tanto che diversi autori usano la locuzione “sacramentum dicere”.
(48) “Stato die ante lucem conuenire, carmenque Christo quasi deo dicere seque sacramento non in scelus

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

descrizione i dati della liturgia cristiana: la locuzione “stato die” indica la domenica,
o forse la Pasqua; “ad capiendum cibum” indica il rito eucaristico; “sacramento ...
obstringere” indica le promesse battesimali. Per Plinio quindi il battesimo è un rito
che vincola all’impegno di fare il bene e di evitare i peccati. Nel linguaggio odierno
diremmo che Plinio identifica il battesimo con un “progetto di vita”, al quale ci si
lega con un giuramento. Nella sua mentalità di funzionario dello stato romano,
tutto ciò gli ricorda il “sacramentum militiae” perché anch’esso è un impegno di vita
che non può essere tradito e che vincola a seguire un imperator anche a costo della
morte. Un altro elemento comune sta nel fatto che il sacramentum è un giuramento
di tipo religioso. Visto da un pagano, il carattere di ‘patto’ del battesimo cristiano è
sufficiente perché questo rito possa essere descritto come sacramentum, e messo
sullo stesso piano del giuramento militare. E’ da escludere che Plinio ricavi il
termine “sacramentum” dall’uso cristiano, come se fosse un termine tecnico già
utilizzato, poiché prima di lui non ci sono testimonianze sull’utilizzo del termine
“sacramentum” per indicare un rito cristiano. Inoltre, anche gli altri riti cristiani,
citati nella lettera, non sono chiamati non con i termini tecnici propri del
cristianesimo, ma descritti con circonlocuzioni. E’ logico pensare che, nella loro
corrispondenza, Plinio e l’imperatore usino i termini secondo il significato
dell’amministrazione romana, per cui il termine “sacramentum” è usato secondo il
significato militare.
La lettera di Plinio è nota a Tertulliano (+ dopo il 220) che la cita esplicitamente.
Egli è il primo autore cristiano a chiamare “sacramentum” la promessa battesimale;
inoltre estende, per analogia, l’uso del termine anche all'eucaristia.
In seguito il termine sarà utilizzato pure da Cipriano (+258) e Agostino (+430).
Sono detti “sacramentum”: la realizzazione del piano di salvezza, Gesù Cristo,
l'incarnazione, la Chiesa (49), la fede e la professione di fede. Come abbiamo visto,
sarà usato pure nelle prime bibbie latine, come traduzione di “mysterion”.
Peraltro, come vedremo, occorrerà arrivare al medio evo per trovare un'applicazione
sistematica di questo vocabolo ai sette riti che oggi chiamiamo “sacramenti”.

aliquod obstringere, sed ne furta ne latrocinia ne adulteria committerent, ne fidem fallerent, ne


depositum adpellati abnegarent. Quibus peractis morem sibi discedendi fuisse rursusque coeundi ad
capiendum cibum, promiscuum tamen et innoxium”. PLINIO IL GIOVANE, Lettera 10,96-97.
(49) In Cipriano, la Chiesa è detta: "sacramentum unitatis". Vedi: VORGRIMLER, Teologia dei
sacramenti, p. 64.

38
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

3. 2. I padri della Chiesa e l'interpretazione tipologica dei sacramenti

Gli scrittori cristiani dei primi secoli (i cosiddetti "padri della Chiesa") utilizzarono
il metodo tipologico per collegare eventi accaduti in epoche storiche differenti, che
presentano una omogeneità di significato: gli eventi della vita di Cristo con eventi
precedenti (fatti o personaggi dell'Antico Testamento) o eventi successivi (i
sacramenti). Quando il metodo è applicato al rapporto tra Cristo e l'Antico
Testamento, di solito è chiamato "tipologia". Quando invece si applica al rapporto
tra Cristo e i sacramenti della Chiesa, di solito è chiamato "mistagogia". Infatti i
sacramenti, secondo i padri, hanno un rapporto di partecipazione con gli eventi
della vita di Cristo, per cui ci permettono di accedere alla salvezza.
Dunque, per i padri c'è una sola salvezza: Cristo. Nel tempo che ha preceduto la sua
venuta nel mondo, si accedeva a lui mediante eventi prefigurativi; nel tempo della
Chiesa si accede a lui mediante riti post-figurativi.
Le grandi omilie mistagogiche dei padri della Chiesa hanno lo scopo di spiegare ai
neòfiti il significato dei riti di iniziazione cristiana, cui hanno partecipato (50). Esse
si collocano verso la fine dei IV secolo. Passata quest'epoca, però, gli autori cristiani
abbandonano a poco a poco la tipologia, perché spinti dal bisogno di un maggiore
realismo. Ci sono, anche all'interno delle catechesi mistagogiche, delle opzioni
teologiche differenti a seconda degli autori. Alcuni, per esempio, identificano il
sacramento con la realtà salvifica a cui esso fa partecipare; altri non ne sentono il
bisogno. Tuttavia il desiderio di un forte realismo sacramentale fa sì che i concetti
di "similitudine" e di "imitazione" siano a poco a poco abbandonati perché ritenuti
troppo sfumati, mentre il concetto di "presenza" diventa l'unico usato per
interpretare i sacramenti. Così la teologia tenderà a sottolineare sempre più
l'immanenza dell'evento rispetto al rito, piuttosto che la sua trascendenza. A questo
punto l'evento si trasformerà nel rito: per esempio si affermerà che il corpo e il
sangue di Cristo sono dentro al pane e al vino; lo Spirito Santo è dentro all'acqua
del battesimo e all'olio dell'unzione (51).
Per comprendere ciò, occorre ricordare che il metodo tipologico si basa sul pensiero
di Platone. Secondo Platone, l'idea di "partecipazione" assicura un autentico legame
ontologico tra due realtà, benché rimanga tra loro una differenza di dimensione. La
crisi della tipologia corrisponde probabilmente a un cambiamento culturale che

(50) MAZZA, La mistagogia, p. 14-15.


(51) MAZZA, La mistagogia, p. 186-188. Una parte del testo citato viene riportata come lettura, dopo
questo paragrafo.

39
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

porta a non comprendere più in modo autentico la dottrina platonica.


Per questo la reale partecipazione del sacramento all'evento di salvezza, verrà
descritta con un linguaggio che darà luogo ad un vero e proprio "fisicismo"
sacramentale e ad una teologia della duplicazione dell'evento salvifico. Invece il
concetto di "imitazione" verrà utilizzato non a definire il fondamento ontologico del
sacramento, bensì ad indicare il criterio dell'azione rituale, che diventerà una sorta
di "sacra rappresentazione" della morte e risurrezione di Cristo. Così, a poco a poco,
la mistagogia diverrà allegoria: un procedimento didattico, privo di spessore
ontologico, che lascerà libero spazio alla fantasia. Si può quindi affermare che
l'allegoria causò la morte della tipologia quale metodo teologico (52).

LETTURA
MAZZA E., La mistagogia. Una teologia della liturgia in epoca patristica, Roma, Edizioni
C.L.V., 1988 (Studi di liturgia - Nuova serie, 17), p. 188-194

Un problema culturale e filosofico?


Nelle omelie che abbiamo considerato, il discorso del realismo sacramentale veniva fatto a
partire dalla constatazione che, nel sacramento, ciò che si vede è diverso da ciò che si
crede: «aliud uidetur, aliud intelligitur». Per passare dall’apparenza, oggetto dei sensi,
alla vera realtà, oggetto della fede, occorre rendere ragione del rapporto che esiste tra i due
piani. La dottrina della sacramentalità ha proprio questo scopo: rispondere alla domanda
sul nesso che c’è tra quei due piani dell’essere che corrispondono ai due piani della
conoscenza: il veduto e il creduto.
Se prendiamo in esame Cirillo, ci accorgiamo che tutto il vocabolario tecnico che, con
grande precisione, egli usa a questo proposito, è già tutto presente nel Fedone di Platone. Il
problema di Platone non è la sacramentalità, ossia il nesso tra il veduto e il creduto, ma il
rapporto fra l’uno e il molteplice e, quindi, il nesso tra il sensibile e l’intelligibile. In effetti,
Platone nei suoi scritti presenta differenti prospettive al riguardo, affermando che tra
sensibile e intelligibile c’è (a) un rapporto di mimesi o di imitazione, (b) oppure di metessi o
di partecipazione, (c) oppure di koinonia o di comunanza, (d) oppure di parousia o di
presenza. E ancora: il sensibile è mimesi dell’intellegibile perché lo imita, pur senza mai
riuscire ad eguagliarlo. Il sensibile, nella misura in cui realizza la propria essenza,
partecipa, cioè ha parte dell’intelligibile (e, in particolare, proprio per questo suo aver
parte dell’Idea, esso è, ed è conoscibile). La distinzione dei due piani della realtà,
intelligibile e sensibile, costituisce veramente la via maestra di tutto il pensiero platonico e
quindi non fa stupore se i Padri della Chiesa, che avevano appunto un problema analogo a
proposito del valore ontologico dei sacramenti, si siano serviti dei concetti già elaborati da
Platone e dal platonismo. L’elaborazione della teoria dell’Iperuranio serve a Platone per
spiegare, con un principio superiore e unificante (l’Idea), le varie cose sensibili; l’Idea
spiega, in senso ontologico, le cose sensibili che da essa dipendono. Analogamente, l’evento
storico-salvifico spiega, in senso ontologico, il sacramento che di esso partecipa. […]

(52) MAZZA, La mistagogia, p. 14; 26; 193-194.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Se quel certo platonismo di cui erano portatori i Padri fa talvolta dubitare sulla sufficienza
della loro impostazione teoretica in ordine alla garanzia del realismo sacramentale,
dobbiamo ricordare che la prima funzione cui devono adempiere l’Idea e l’Iperuranio è
ontologica: l’Idea ha una funzione nella struttura ontologica degli enti che di essa
partecipano. […]
La realtà che deriva dai Princìpi è concepita da Platone non già in dimensione orizzontale,
ma è intesa come una struttura verticale, secondo una serie successiva di piani, l’uno
subordinato rispetto agli altri, e tutti quanti dipendenti in modo analogo dai due Princìpi
supremi. Se ci collochiamo in questa prospettiva, è perfettamente logico pensare che il
sacramento è analogo, ma non identico, al principio, ossia all’evento storico-salvifico che
lo fonda in senso ontologico e lo misura.
Un problema che abbiamo sempre sottolineato nell’analisi delle omelie mistagogiche è stato
quello della piena identità o analogia del sacramento con l’oggetto di cui è sacramento.
Ecco come il problema è visto nell’ontologia di Platone: A causa del predominare di un
principio oppure dell’altro, una cosa può essere «uguale» o «diseguale», ma in quanto è un
determinato essere, partecipa di ambedue i princìpi. Del resto, la stessa distinzione nel
grado di mescolanza dei due princìpi sta a base anche del rapporto tra il mondo intelligibile
e quello sensibile. Platone segue quindi la massima secondo la quale il fondamento o il
principio ultimo può essere solo ciò che è affine nell’essenza al principiato e non ciò che è
uguale nell’essenza al principiato, e che quindi tra principio e principiato è necessario che
vi sia differenza di dimensione. […]
Se ben vediamo, in molti passi delle omelie patristiche che abbiamo esaminato c’è questo
stesso itinerario: a) si parte dall’affermazione della partecipazione, mimesi,
similitudine, tipo come spiegazione del rapporto di identità tra evento e sacramento, b)
per terminare poi, cambiando rotta, alla dottrina sull’evento che è divenuto sacramento.
Ciò che è oggetto del sacramento si identifica con il sacramento stesso nel senso che è stato
immanentizzato ed è, ormai, all’interno di esso. […]

Un’ultima questione
Ma i Padri erano consapevoli di tutto questo? No, certamente. Ma dobbiamo esserne
consapevoli noi, altrimenti non riusciremo a renderci ben conto della istanza ontologica
sottesa a questo pensiero patristico; essa infatti, molto spesso, emerge con chiarezza solo
quando si ricorre al retrostante pensiero platonico e lo si utilizza come criterio
ermeneutico. Se noi saremo consapevoli di tutto questo, riusciremo anche a renderci conto
del perché i Padri, non possedendo pienamente l’ontologia che è propria della «seconda
navigazione» e delle «Dottrine non scritte», hanno finito per abbandonare la tipologia come
dottrina dei sacramenti, spinti dal bisogno di un maggior realismo sacramentale. […]
I Padri erano uomini del loro tempo ed erano portatori della cultura e degli orizzonti
filosofici del loro tempo: essi non erano, primariamente, dei filosofi di professione. Essi
erano portatori di un platonismo generico, non organizzato e sistematico, che consentiva
loro solamente di attingere alle opere del grande maestro quanto poteva servire per le loro
necessità teologiche e pastorali. Infatti essi erano dei pastori che non avevano un interesse
principalmente sistematico o speculativo, come emerge con estrema chiarezza nelle omelie
mistagogiche.
In conclusione, dobbiamo dire che, quando leggiamo dei passi della mistagogia che hanno
un qualche aggancio con espressioni platoniche, dobbiamo essere consapevoli che in
Platone esiste una precisa dimensione ontologica, anche se questa non è stata pienamente
capita dalla tipologia dei Padri.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Da un lato, infatti, dobbiamo ammettere che i Padri sono consapevoli che esiste una certa
implicazione ontologica quando applicano la tipologia. […]
D’altra parte, si deve ammettere che i Padri non sono pienamente consapevoli di questa
dimensione ontologica; spesso, infatti, essi pongono l’imitazione non alla base della
struttura intima della realtà, ma alla base dell’azione rituale in quanto esternamente
visibile e percepibile; questa, di conseguenza, si presenta come una esteriore
rappresentazione, quasi un’azione scenica, della morte e risurrezione di Cristo. Anche
Ambrogio, portatore di una precisa concezione ontologica di similitudine (in contesto
eucaristico), cessa di ricorrere a questo genere di categorie tipologiche quando deve dare
una più stringente spiegazione del realismo sacramentale dell’eucaristia.
I Padri che abbiamo esaminato mostrano di avere le loro difficoltà nell’uso della tipologia
biblica, fino ad abbandonarla, proprio quando si richiede che essa sia portatrice del dato
ontologico della sacramentalità. In questa prospettiva l’evento resta troppo staccato dalla
celebrazione che lo dovrebbe contenere: l’evento resta «trascendente» il rito. […]
Da questa imperfetta consapevolezza del valore ontologico delle categorie usate nascono
due conseguenze, già in epoca patristica e proprio negli autori esaminati. Da un lato, il
realismo sacramentale (che si impone per motivi di fede) cessa di avere la miglior
espressione nelle categorie della tipologia e comincia a venire trattato con il linguaggio
comune. Ciò dà piena enfasi ad un vero e proprio «fisicismo» sacramentale che sfocia nelle
affermazioni della nuova morte e nuova risurrezione di Cristo nell’atto liturgico. Questa è
una situazione che vorrei definire come «realismo ingenuo» o anche «realismo esagerato».
Dall’altro lato, l’antica concezione mistagogica continua ad influire nell’interpretazione dei
sacramenti sia con il proprio vocabolario che con la propria teologia e il proprio metodo: la
tipologia biblica. Tuttavia, persa la prospettiva ontologica della tipologia, tutto questo
metodo ermeneutico viene visto come insufficiente ad esprimere il realismo sacramentale,
ed ecco che nasce il suo valore rappresentativo puramente formale, simbolico ed esteriore,
di tipo allegorico, atto a creare la funzione di segno didattico, evocatore di alcuni contenuti
della liturgia.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

3. 3. Evoluzione della teologia dei sacramenti nel medio evo

3. 3. 1. Da Agostino alla scolastica

Agostino elabora la teologia sacramentaria partendo soprattutto dal battesimo e


dall'eucaristia. Egli definisce i sacramenti come "segni visibili" che permettono di
risalire a qualcos'altro al di là di essi, così come il fumo permette di risalire al fuoco.
Questo "qualcos'altro" è una realtà invisibile, definita "res". Secondo la concezione
agostiniana, infatti, tutta la realtà materiale è segno di quella spirituale. Questo
ordine delle cose è stato pervertito da Adamo; i sacramenti fanno parte di un ri-
ordinamento della realtà che Dio opera attraverso Cristo.
Nei sacramenti l'elemento esteriore è simile al loro contenuto sacro. Oltre al segno
esteriore, però, è indispensabile una parola che lo spieghi; così il sacramento può
essere detto "visibile verbum".
Colui che opera, nei sacramenti, è il "Cristus totus", cioè l'intero Cristo, capo e
membra; per questo la realtà di un sacramento non può essere compromessa da un
ministro indegno (53).

Nel Medio Evo, è molto forte l'influsso di Agostino. Teologi prescolastici definiscono
il sacramento "invisibilis gratiae visibilis forma" ovvero forma visibile della grazia
invisibile.
Ugo da S. Vittore (+1141) ritiene che il sacramento sia un elemento materiale di cui
si fa un uso esteriore, il quale realizza, significa e contiene, in forza dell'istituzione
di Gesù Cristo, una grazia spirituale con cui ha una certa somiglianza. E' una
teologia che non dice nulla, partendo dal sacramento, sulla grazia che esso contiene
né sul "come" possa essere contenuta nell'elemento materiale, ma risolve i problemi
attribuendo grande importanza all'istituzione da parte di Gesù Cristo. E' anche una
teologia che stacca il sacramento dalla liturgia, dalla preghiera e dalla vita
cristiana (54).
Pietro Lombardo (+1160) definisce il sacramento come segno della grazia invisibile
di Dio e, insieme, immagine e causa di questa grazia. E' il primo che usa il concetto
di "causa", che avrà un grande peso nella scolastica.

(53) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 70-71.


(54) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 65.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

3. 3. 2. Tendenze della teologia del medio-evo

Abbiamo visto che, dopo il V secolo, diventa sempre più difficile la comprensione
della mentalità tipologica. Già in Ambrogio si intravvedono i primi sintomi di un
cambiamento di mentalità.
A poco a poco, termini come "simbolo", "sacramento", "figura" e "immagine",
diventano il contrario di "realtà" e "verità". Ciò che, nei padri, era costitutivo del
valore ontologico dei sacramenti ora diventa un ostacolo. Questo porta a una forte
svalutazione dell'aspetto celebrativo. Piuttosto si va alla ricerca di quella parte del
rito che serve ad ottenere l'effetto desiderato. Tutto il resto non ha più un
significato ontologico ma solo allegorico. Nasce la distinzione tra ciò che è
costitutivo e indispensabile nel sacramento (essentia) o per istituzione di Cristo
(substantia), o per decisione della Chiesa (determinatio ecclesiae) e ciò che non
è indispensabile per ottenere l'effetto (caerimoniae).
Inoltre si passa da una visione "storica" a una visione "statica" della salvezza.
Quindi la teologia dei sacramenti non è più una teologia della storia della salvezza,
ma piuttosto una teologia dell'ente. Perciò il Cristo della storia si distacca
completamente dal Cristo dei sacramenti.
I sacramenti sono visti come degli atti che servono a consacrare delle cose. Perciò
l'attenzione si concentra sull'elemento "consacratorio", sulle cose consacrate e sulla
loro eventuale distribuzione.
Così la liturgia si clericalizza: diventa l'opera di coloro che hanno il "potere" di
consacrare. I fedeli laici vengono esclusi, a poco a poco, dalla celebrazione e la loro
partecipazione si sposta nell'area dell'impegno morale: le disposizioni per ricevere il
sacramento e i frutti di esso. In questa trasformazione ci sono già i germi della
riforma protestante e della mentalità attuale che svaluta la celebrazione dei
sacramenti, che ci fanno vivere in Cristo, a favore dell'etica.
L'alta scolastica recupera una visione più ampia; tuttavia l'elemento giuridico e
cosificante rimane sempre importante.

3. 3. 3. Alcuni concetti della teologia sacramentaria scolastica

Quanti e quali sono i sacramenti?


Dapprima il numero dei sacramenti individuati dai teologi è più ampio di quanto
non lo sia oggi. San Pier Damiani (+1072) ne cita dodici, tra cui la consacrazione del

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

re, delle monache e degli eremiti. Qualcuno ne enumera addirittura trenta.


Per l'influsso di Pietro Lombardo, nel secolo XII si afferma il numero settenario e i
sacramenti del Nuovo Testamento vengono distinti da quelli dell'Antico, da quelli
naturali e dalle semplici benedizioni (55). Egli ha dato una definizione chiara dei
sacramenti: “E’ detto sacramento in senso proprio ciò che è segno della grazia di Dio
e forma visibile della grazia invisibile, in modo tale da portarne l’immagine ed
esserne causa” Il Lombardo, inoltre, chiarì che solo i sacramenti trasmettono
oggettivamente la grazia divina e che sono sette: il Battesimo, la Confermazione,
l’Eucaristia, la Penitenza, l’Unzione degli Infermi, l’Ordine e il Matrimonio. Questa
restrizione del numero dei sacramenti è uno dei meriti della teologia medioevale. Si
misero in risalto i riti salvifici più importanti, pur non rifiutando gli altri, ma
mettendoli in secondo piano e definendoli “sacramentali”.

Elemento materiale e parola.


Nel secolo XIII si assiste al recupero della filosofia di Aristotele. Secondo la teoria
ilemorfica, ogni realtà è costituita dall'unione di un elemento mutevole (hyle =
materia) e di un principio che determina questo elemento (morphè = forma). Per
esempio, in un tavolo, la forma è quell'elemento per cui il tavolo può essere definito
“tavolo” e non in un altro modo; materia è ciò che, prima di essere tavolo, era allo
stato indeterminato e poteva diventare anche qualcos'altro.
Applicando questa teoria ai sacramenti, si vede nelle parole pronunciate dal
ministro la forma e nell'elemento sensibile e visibile la materia. Il Catechismo
Romano (n. 157) aggiunge che la materia può essere chiamata “elemento” e la forma
può essere chiamata “parola”. Entrambe le cose sono essenziali per una
celebrazione completa e valida dei sacramenti: la materia è la realtà con la quale il
Signore ci tocca visibilmente e la forma è parola che dà ad essa il significato
spirituale. Nel Battesimo, ad esempio, secondo questa teoria, l’elemento materiale è
l’acqua che si versa sul capo del bambino e l’elemento formale sono le parole “Io ti
battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questo spinge però a concentrare l'attenzione su pochi atti, ritenuti essenziali per
l'esistenza del sacramento, perdendo la capacità di valorizzare la celebrazione
liturgica in tutti i suoi aspetti.

Il rito esteriore e i suoi effetti.

(55) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 74.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Analoga alla precedente, diventa importante la triplice distinzione tra


sacramentum, res sacramenti e res et sacramentum.
Dicesi sacramentum tantum il mero segno esteriore, risultante di materia e
forma, separato dal suo effetto di grazia; in altre parole è ciò che, nel sacramento,
significa e causa gli effetti; oggi diremmo il rito liturgico.
E’ invece detta res sacramenti tantum la grazia di Dio, effetto del sacramento,
separata dal segno sacramentale esteriore; in altre parole, diremmo che la res è
l’amicizia con Dio, apportatrice di salvezza.
La res et sacramentum è l'insieme dei due elementi, per cui comprende un
elemento sensibile e un elemento invisibile di grazia, ad esso collegato (56). In un
sacramento celebrato bene e ricevuto con le dovute disposizioni abbiamo appunto
l’unione di sacramentum (il rito) e di res (la crescita nell’amore di Dio dei soggetti
che vi partecipano).

Come nascono i sacramenti? L’istituzione.


Tommaso d'Aquino e gli altri teologi dell'alta scolastica sono consapevoli di un
problema: legando la celebrazione del sacramento al dono della grazia, si rischia di
affermare che l'uomo può disporre della grazia di Dio mediante le sue azioni.
Si risolve il problema partendo dall'idea di "istituzione": un comando di Cristo che
attribuisce a un segno sensibile il potere di conferire una grazia. Allora è Dio che,
attraverso Cristo, ha garantito l'efficacia dei sacramenti; perciò Dio, e non il
ministro o l’atto sacramentale, è la causa principale della grazia.
Una grossa disputa sull’istituzione fu aperta da Lutero nello scritto La cattività
babilonese della Chiesa (1520). Egli rilegge la teologia sacramentaria alla luce della
sola scriptura e, pertanto, restringe a due il numero dei sacramenti, trovando nella
scrittura un comando esplicito soltanto per il battesimo e per l’eucaristia. Respinge la
dottrina medievale tomista, ritenendola troppo debitrice verso la filosofia di
Aristotele. Considera elementi essenziali dei sacramenti, oltre all'istituzione esplicita
da parte di Gesù, la promessa di grazia contenuta nel segno materiale, il mandato di
ripetere il gesto e la fede di colui che lo riceve. Gesù, quindi, ha istituito i due
sacramenti del battesimo e dell’eucaristia – e nessun altro – come forma sensibile e
visibile della predicazione.

(56) Per esempio, nel battesimo di desiderio ("votum") avremmo la "res", ma non il "sacramentum". Nel
sacramento recepito senza le condizioni adeguate (per esempio la penitenza celebrata senza il
pentimento o la comunione ricevuta senza fede), avremmo invece il "sacramentum", ma non la "res".

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Il concilio di Trento ritenne necessario rispondere ai problemi sollevati da Lutero, ma


non fece oggetto di una particolareggiata discussione la questione dell’istituzione;
Nell’introduzione al decreto sui sacramenti si afferma, in forma molto breve, che tutti
i sacramenti sono istituiti da Cristo (“Si quis dixerit, sacramenta novae legis non
fuisse omnia a Jesu Christo Domino nostro instituta, aut esse plura vel pauciora quam
septem, vide licet …, aut etia aliquad horum septem non esse vere et proprie
sacramentum: anathema sit” (DH 1601). La frase non va intesa nel senso che il
Concilio ritenga che si possa trovare un comando istitutivo esplicito di Cristo per
ognuno dei sette sacramenti; la cosa sarebbe evidentemente non dimostrabile. Infatti,
con molta onestà e molto senso storico, il concilio ammette che molti elementi della
celebrazione dei sacramenti sono frutto delle scelte della Chiesa; infatti afferma che
“la Chiesa ha sempre avuto il potere di stabilire e modificare nell’amministrazione dei
sacramenti, fatta salva la loro sostanza (salva illorum substantia), quegli elementi
che ritenesse più utili per chi li riceve o per la venerazione degli stessi sacramenti”
(DH 1728). In secondo luogo il concilio riconosce che, tra i sacramenti, vi è una
gerarchia di importanza, condannando chi afferma il contrario (“Si quis dixerit, haec
septem sacramenta ita esse inter se paria, ut nulla ratione aliud sit alio dignius:
anathema sit” (DH 1603) e accettando così l’idea che l’eucaristia e il battesimo siano
più importanti, anche perché la loro istituzione è esplicitamente testimoniata nel
Vangelo. Infine, il concilio riconosce che, nel caso del matrimonio, vi è una istituzione
solo indiretta, affermando che ad esso “accenna” (innuit) Paolo in Efesini 5 (DH 1799)
e pertanto “giustamente i nostri santi padri, i concili, e la tradizione della Chiesa
universale hanno sempre insegnato ad annoverarlo tra i sacramenti della nuova
legge” (DH 1800). Non si può quindi affermare che i padri tridentini avessero
l’intenzione di fare affermazioni sulla genesi storica di ciascun sacramento, ma solo di
riaffermare come elemento essenziale della fede della Chiesa un legame, diverso caso
per caso, tra la celebrazione dei sacramenti e la vicenda di Cristo (57).
Nel periodo post-tridentino si discusse su due questioni che Trento non aveva definito.
La prima questione è se Gesù ha istituito i sacramenti in modo diretto (istituzione
immediata) o indiretto (istituzione mediata). Nel primo caso ci sarebbe un
comando istitutivo preciso di Gesù; nel secondo caso, egli avrebbe lasciato agli apostoli
o alla Chiesa il potere di determinare il numero e il modo di celebrazione dei
sacramenti.

(57) COURTH, I sacramenti, p. 442.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

La seconda questione, che sorge se la risposta alla prima è quella di un’istituzione


diretta, è se Gesù li ha istituiti in genere, cioè solo nel loro significato generale,
lasciando alla Chiesa il compito di determinare la materia e la forma (nel qual caso si
parlerebbe di determinazione generica) o in specie, cioè fissando la materia e la
forma di ciascun sacramento (nel qual caso si parlerebbe di determinazione
specifica o nei particolari).
Come abbiamo visto, la teoria della istituzione immediata poneva un grosso
problema: non si trova un preciso comando istitutivo per almeno quattro sacramenti.
Si cercò una soluzione attribuendo l'istituzione a parole pronunciate da Gesù dopo la
Pasqua e non trasmesse nei Vangeli. Si trattava però di un sistema discutibile; anche
perché, nei primi secoli della vita della Chiesa, non ci sono riferimenti a queste
affermazioni post-pasquali. Pertanto molti autori propendevano per ipotesi
articolate, differenziando l’istituzione dei vari sacramenti. Vi era però anche chi
seguiva le due ipotesi più estreme: quella secondo cui Gesù ha istituito direttamente
tutti e sette i sacramenti, indicando per ciascuno la materia e la forma e quella
secondo cui Gesù ha istituito i sacramenti istituendo la Chiesa e affidandole il
compito di articolare la grazia sacramentale; quest’ultima è la teoria che, in tempi più
recenti, come vedremo nella parte dogmatica, Rahner e Schillebeeckx hanno seguito.

Come agiscono i sacramenti? L’ex opere operato.


"Opus operatum", alla lettera significa "ciò che viene fatto" (58). E' un concetto
che troviamo già in Agostino, ma che fu usato correntemente dal secolo XII per
indicare l'efficacia oggettiva del sacramento, garantita dall'intervento di Dio e non
dall' “opus operantis”, cioè dai meriti di colui che amministra il sacramento. Il
concetto vuole affermare che l’opera che Dio ha compiuto in Cristo è l’origine e la
causa della grazia, a prescindere da colui che celebra il sacramento, che è solo un
tramite. Rimane invece la necessità delle buone disposizioni di colui che riceve il
sacramento come condizione affinché la grazia possa essere accolta e possa agire in

(58) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 74-75. Vedi pure: ANGENENDT, Liturgia e storia, p.
141-161.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

lui (59). Se queste disposizioni non ci sono, abbiamo l’obex gratiae, cioè l’ostacolo
che impedisce alla grazia, frutto di un sacramento celebrato validamente, di agire;
in termini più relazionali, oggi diremmo che il sacramento costituisce un’offerta di
amore da parte di Dio, che crea una relazione se l’essere umano non pone ostacoli
all’amore che gli viene donato. Il problema che portò a elaborare questo concetto era
soprattutto la possibilità che il sacramento fosse celebrato da un ministro indegno.
Si volle così affermare che né il ministro che celebra né il soggetto che riceve il
sacramento sono causa della grazia, ma solo Dio; in altre parole, Dio dona il suo
amore non perché costretto o indotto dai meriti umani, ma a causa di una sua
libera volontà di salvare, che nasce dalla misericordia.
Il concetto però deve essere inteso in modo corretto; altrimenti c’è il rischio di una
deriva verso un aberrante magismo, tanto da ritenere che non è l'amore di Dio,
unito alla risposta dell'uomo, ad assicurare il dono della grazia, ma soltanto il rito
celebrato. Non sono mancati, nella storia della Chiesa, rischi di questo tipo. Infatti,
mentre molte religioni antiche, tra cui quella romana, attribuivano un valore
automatico, quasi magico, al rito compiuto secondo le prescrizioni e alle formule
recitate con esattezza, nel Vangelo non troviamo nulla di tutto questo e nel
cristianesimo antico si nota una singolare libertà rituale, rispetto alle altre religioni
del tempo. Anche nell’epoca patristica era assodato che occorresse l’incontro tra il
sacramento celebrato e la disposizione umana, per entrare in comunione vera con Dio.
Agostino si oppose alla concezione secondo cui sarebbero sicuri di salvarsi quanti
hanno ricevuto il battesimo e si nutrono del corpo e del sangue di Cristo, ma sono
eretici o scismatici o conducono una vita di peccato; costoro “possono accostarsi a
questo stesso sacramento senza che esso possa loro giovare, ed anzi addirittura può
essere dannoso, per ricevere una condanna più severa” (60). E’ chiaro, per Agostino,
che la liturgia ha un valore salvifico, ma la salvezza può essere ottenuta soltanto da
chi la accoglie. C’è un equilibrio tra il valore della liturgia e il coinvolgimento della
soggettività umana: “Ogni uomo che è battezzato in Cristo riceve lo Spirito Santo; ma

(59) Ecco alcuni esempi che si utilizzavano, riguardo al fatto che la grazia viene donata da Dio
attraverso i sacramenti, ma accolta grazie alle buone disposizioni del soggetto. Affinché ci sia un
fuoco, occorre che ci sia del legno secco, ma il legno secco non è la causa del fuoco; così affinché
l’uomo accolga la grazia di Dio, occorre che sia ben disposto, ma la grazia di Dio non è prodotta dalle
buone diposizioni dell’uomo. Affinché l’immagine di un sigillo venga impressa sulla cera, occorre che
la cera sia molle, ma la cera molle non produce da sola l’immagine, bensì la accoglie. Affinché la luce
del sole entri in una stanza, occorre che la finestra sia aperta, ma non è la finestra a causare la luce,
benché possa ostacolarne completamente il percorso.
(60) AGOSTINO, La città di Dio, XXI, 25.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

se ne ricolma a seconda di quanto è grande il vaso della sua fede” (61). Tuttavia nel
primo medio evo la mentalità cambiò e si andò verso un ritualismo tipico delle
religioni che precedevano il cristianesimo; ne è segno il passaggio a una liturgia
redatta interamente per iscritto e rigidamente codificata. Si diffuse, nel popolo
cristiano, l’idea chi riti, se compiuti in modo corretto e legittimo, avessero un’efficacia
automatica e quasi costringessero Dio a fare ciò che l’uomo voleva. Invece sia il
magistero della Chiesa, sia la teologia scolastica non mancarono mai di ricordare che
l’elemento soggettivo è indispensabile e di insistere sull’importanza della fede e delle
buone disposizioni del soggetto che riceve il sacramento, necessarie per accogliere la
grazia che Dio dona attraverso il sacramento. Ma questa interpretazione distorta
dell’efficacia automatica dei riti si diffuse nella mentalità comune dei cristiani, con
effetti negativi che si vedono ancora oggi. Così, mentre per Agostino l’opus operatum
voleva garantire la possibilità dell’incontro con Dio al cristiano fedele che incontrava
un ministro indegno, a volte venne applicato per esonerare il fedele dalla fede stessa.

Che cosa si richiede al ministro? L’intenzione.


La dottrina dell'"intenzione" (62) afferma che una delle condizioni che danno la
sicurezza che il sacramento è stato celebrato validamente, è l'intenzione del
ministro di fare ciò che fa la Chiesa.

Quando abbiamo un vero sacramento? La validità.


La dottrina della "validità" nasce dalla ricerca delle condizioni minime perché si
possa avere un sacramento e dal desiderio di distinguere ciò che è sacramento da
ciò che non lo è, stabilendolo attraverso delle leggi ben chiare. L'attenzione alla
"validità", utile quando ci si trova di fronte a casi straordinari, non può essere il
criterio principale con cui ordinariamente si celebra un sacramento: ciò porterebbe
a una scarsa cura della liturgia.

Perché alcuni sacramenti si fanno una volta sola? Il carattere e la reviviscenza.


La dottrina del "carattere sacramentale" (character indelebilis), nasce
osservando che alcuni sacramenti non sono reiterabili perché creano nella persona
una situazione stabile, i cui effetti sono duraturi e incancellabili: si tratta del

(61) AGOSTINO, Trattati su Giovanni, XXXII, 7.


(62)VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 74-75.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

battesimo, della confermazione e dell'ordine (63); in modo analogo, anche il


sacramento del matrimonio, secondo alcuni teologi, conferisce un quasi-carattere,
naturalmente finché il coniuge rimane in vita.
Legata alla dottrina del carattere, è quella della reviviscenza dei sacramenti: un
sacramento che è stato amministrato validamente, può non produrre frutti di
grazia, a causa di una mancanza di disposizioni nel soggetto (per esempio, la
cresima ricevuta senza fede adeguata). In tal caso, se si tratta di un sacramento che
imprime un carattere, esso inizia a produrre effetti nel momento in cui sarà
rimosso l’obex, cioè l’impedimento che lo bloccava, senza bisogno di essere ripetuto.

3. 4. La teologia dei sacramenti dei riformatori (64)

La teologia dei riformatori attribuisce una grande importanza alla parola di Dio. I
sacramenti sono interpretati come "verbum visibile", cioè parola annunciata
mediante segni.
La parola ha il compito di suscitare la fede; il sacramento invece quello di
rafforzare la fede già esistente. Il sacramento è destinato a chi è debole nella fede:
non si deve disprezzarlo, ma si può farne a meno.
Nelle opere di Lutero non c'è una teologia sacramentaria generale, ma una teologia
riguardante singoli sacramenti, soprattutto il battesimo e la cena del Signore.
Egli pone al centro Cristo, come unico sacramento testimoniato nella Bibbia. Poi è
importante la parola di Dio che l'uomo riceve, alla quale egli deve rispondere con la
fede; il sacramento è l'espressione di questa fede; è necessario a motivo della
volontà di Dio.
I sacramenti sono dei segni reali della grazia (non solo professioni di fede) a motivo
dell'istituzione, attuata da Dio attraverso Gesù Cristo. Occorre infatti che ci sia un
comando di Cristo, legato a una promessa. Lutero vede un comando sicuro soltanto
per il battesimo e per la cena del Signore; uno probabile per l'assoluzione; per gli
altri sacramenti non vede un fondamento solido.
Lutero non accetta la dottrina dell'opus operatum, perché la intende come
un'esaltazione delle opere meritorie dell'uomo. Il sacramento dà con certezza la
grazia divina se il ricevente ha fede e confida nella promessa di Dio.

(63) Agostino, per illustrare la permanenza degli effetti del battesimo negli eretici, aveva usato il
paragone del "character", il marchio a fuoco dei legionari romani.
(64) Vedi: VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 78-81.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Calvino considera il sacramento come un segno visibile o simbolo che indica un


dono di grazia; le due cose, però, non sono confuse. Ciò che lega il segno alla grazia
è l'istituzione divina.
Per Calvino esistono solo due sacramenti: battesimo e cena del Signore.
Fedele alla dottrina della predestinazione, Calvino afferma che i sacramenti danno
la grazia solo a chi è già predestinato alla salvezza.

3. 5. Definizioni ufficiali della Chiesa cattolica: i concili

3. 5. 1. Il Concilio di Firenze (65)

Troviamo la prima esposizione approfondita della teologia sacramentaria cattolica


nel Concilio di Firenze (22 novembre 1439) che tentò la riunificazione dei cattolici e
degli orientali (armeni e copti) e, a questo scopo, espose la dottrina sacramentaria
secondo il modo di pensare dei cattolici.
E' interessante il decreto per gli armeni derivato da un'opera di Tommaso d'Aquino.
Afferma che i sacramenti della nuova alleanza (distinti da quelli dell'antica) sono
sette.
I primi cinque hanno come scopo il perfezionamento spirituale di ogni uomo,
mentre gli ultimi due (ordine e matrimonio) hanno come scopo la guida e
l'accrescimento della Chiesa. Tre cose sono essenziali nel sacramento e non
debbono mancare: la materia (elemento concreto), la forma (parole), il ministro
che abbia l'intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. Tre sacramenti imprimono in
chi li riceve un'impronta indelebile, per cui non possono essere reiterati.

3. 5. 2. Il concilio di Trento (66)

Il decreto sui sacramenti, promulgato dal Concilio di Trento (3 marzo 1547), è il


seguito del decreto sulla giustificazione. Non offre una presentazione articolata della

(65) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 82.


(66) VORGRIMLER, Teologia dei sacramenti, p. 83-86.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

teologia dei sacramenti della Chiesa cattolica, come invece faceva il decreto sulla
giustificazione riguardo al tema da esso trattato, ma si limita a una serie di
proposizioni che condannano li errori dei protestanti. Si afferma infatti nel proemio
che la sua intenzione è quella di eliminare gli errori ed estirpare le eresie (ad errores
eliminandos ed extirpandas haereses) (DH 1600); ha quindi un taglio polemico e non
sistematico. Naturalmente fa riferimento alla teologia comunemente insegnata e
accettata nella Chiesa cattolica.
Anzitutto, come abbiamo visto, afferma che i sacramenti sono stati istituiti tutti da
Cristo, che sono sette e li elenca (can. 1 – DH 1601), per contrastare le teorie che
sostenevano che solo riguardo al Battesimo e all’Eucaristia si può trovare un comando
istitutivo e quindi soltanto questi sono veri sacramenti. Condanna però chi affermasse
che i sette sacramenti sono uguali e che nessuno è più degno di un altro (ita esse inter
se paria, ut nulla ratione aliud sit alio dignius) (Can. 3 – DH 1603), lasciando la
possibilità di stabilire una gerarchia di importanza tra i sacramenti stessi, che vede
naturalmente l’eucaristia come sacramento principale, seguita dal battesimo.
In secondo luogo dichiara che i sacramenti della nuova legge differiscono da quelli
dell'antica alleanza, non solo nelle cerimonie e nei riti esteriori (can. 2 – DH 1602).
Negando le affermazioni dei protestanti, condanna chi afferma che i sacramenti non
sono necessari per la salvezza e che gli uomini con la sola fede ottengono da Dio la
grazia della giustificazione (non esse ad salutem necessaria sed superflua, et sine eis
aut eorum voto per solam fidem homines a Deo gratia iustificationis adipisci) (can. 4 –
DH 1604), benché non a tutti gli uomini sia necessario ricevere tutti i sacramenti.
Ugualmente condanna l’idea che essi siano un mero nutrimento della fede (propter
solam fidem nutriendam instituta fuisse") (can. 5 – DH 1605). Di conseguenza il
concilio nega che i sacramenti siano segni puramente esteriori di una grazia e di una
giustizia già ricevute a causa della fede e, quindi, indipendentemente da essi, o che
essi siano semplici note distintive dell’essere cristiani (signa tantum externa...
acceptae per fidem gratiae vel iustitiae, et notae quaedam cristianae professionis).
Afferma, al contrario, che i sacramenti contengono la grazia che significano; pertanto
sono dei segni e per capire quale grazia essi donano, occorre partire dal significato di
questi segni.
Poi il concilio afferma che, in quanto segni, i sacramenti danno la grazia a chiunque
non ponga ostacoli (non ponentibus obicem) (can. 6 – DH 1606). E’ interessante e
molto più moderna di quella dei protestanti questa concezione, secondo cui il rito,
come tutti i simboli posti all’interno di una relazione, coinvolge coloro che vi
partecipano, purché essi non rifiutino di lasciarsi coinvolgere. Collegando questo

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

discorso con quello sulla giustificazione, si deduce che la collaborazione dell'uomo non
può essere puramente passiva.
Per condannare la teoria della predestinazione che affermava che Dio dona la grazia
solo agli eletti, si nega che i sacramenti donino la grazia non sempre e non a tutti (non
… semper et omnibus) ma solo talvolta ad alcuni (sed aliquando et aliquibus);
ovviamente, se il dono è sempre presente e offerto da parte di Dio (quantum est ex
parte Dei) l’uomo è chiamato a riceverlo nei dovuti modi (rite) (can. 7 – DH 1607);
quindi un’eventuale differenza nel frutto dei sacramenti non dipende dalla
predestinazione divina, ma dalle disposizioni con cui l’uomo li riceve.
Si afferma che la grazia conferita dal sacramento deriva dal rito che si celebra (ex
opere operato) e non solo dalla fede nelle promesse divine (solam fidem divinae
promissionis ad gratiam consequendam sufficere) (can. 8 – DH 1608); nel secondo caso
infatti la celebrazione del sacramento non servirebbe a nulla o conserverebbe un ruolo
puramente decorativo perché la fede del soggetto, al di là del sacramento, sarebbe
sufficiente per l’incontro con Dio.
Vi è poi un’affermazione sul carattere che viene impresso coi sacramenti del
battesimo, della cresima e dell’ordine, che li rende non reiterabili (can. 9 – DH 1609).
La questione dei ministri è trattata negando che i semplici cristiani possano avere il
potere di amministrare tutti i sacramenti (can. 10 – DH 1610) e affermando, secondo
la dottrina tradizionale, che il ministro può celebrare il sacramento anche quando si
trova in peccato mortale (can. 12 – DH 1612). Il ministro però, quando celebra un
sacramento, deve avere l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa (intentionem saltem
faciendi quod facit ecclesia) (can. 11 – DH 1611).
Infine, reagendo alle numerose modifiche che i protestanti avevano fatto alla liturgia
tradizionale, si condanna l’idea che i riti ricevuti e approvati dalla Chiesa cattolica e
abitualmente usati possano essere disprezzati o tralasciati a piacere dai ministri, cosa
che li porterebbe a peccare (aut contemni aut sine peccato a ministris pro libito omitti),
oppure che qualsiasi pastore li possa modificare, introducendone di nuovi (aut in
novos alios per quemcumque ecclesiarum pastorem mutari posse) (Can. 13 – DH
1613).
Più avanti, nel Decreto sul sacramento dell’eucaristia, il Concilio Tridentino definisce
i sacramenti secondo la scuola agostiniana: essi sono detti “simbolo di una cosa sacra
e segno visibile della grazia invisibile (symbolum … rei sacrae et invisibilis gratiae
forma visibilem” (DH 1639).

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Leggendo il decreto Tridentino sui sacramenti, notiamo la sua brevità; esso non si
pone lo scopo di definire la natura dei sacramenti o di dare contributi nuovi alla
ricerca teologica, ma semplicemente correggere e condannare gli errori più gravi,
diffusi nell’ambito della riforma, come affermato nel proemio (DH 1600). Le
affermazioni del concilio riprendono la dottrina tradizionale e lasciano aperte molte
questioni (come ad esempio quella della istituzione), sulle quali i teologi cattolici dei
secoli successivi avranno modo di discutere.
Le affermazioni dei riformatori sono respinte in blocco: il concilio non fa alcuno sforzo
di mediazione. D’altra parte, nemmeno i riformatori si diedero molto la pena di
comprendere le ragioni della Chiesa cattolica; le dichiarazioni tridentine furono intese
male dalla riforma, che ci vide una conferma, da parte dei cattolici, della concezione
magica dei sacramenti e dell’idea che la Chiesa si attribuisse il potere di inventare dei
sacramenti che Cristo non aveva istituito.
Il grosso pregio del concilio di Trento è quello di avere posto, in modo chiaro, dei punti
fermi di dottrina, da cui la teologia potrà partire, nei secoli successivi, per discutere le
varie questioni implicate come la celebrazione sacramentaria.
Il limite dei padri conciliari è invece quello di essere condizionati dalla visione
teologica della loro epoca, che è la stessa che aveva provocato le incomprensioni e gli
errori dei riformatori. Per esempio sono assenti dal decreto tridentino, come erano
assenti dalle riflessioni dei teologi, diverse questioni come il legame tra i sacramenti e
il piano salvifico, l’importanza della realtà simbolica e l’aspetto relazionale della
grazia. Soprattutto si attribuisce una scarsa importanza all'aspetto liturgico dei
sacramenti. Si ha l'impressione che, mentre i protestanti svalutano i sacramenti
perché non sono più in grado di cogliere il valore della liturgia, i cattolici difendano i
sacramenti, ma anch'essi non sono in grado di coglierne pienamente la portata, dal
punto di vista celebrativo (67).
Certamente dobbiamo essere grati alla posizione cattolica, che ha conservato la
ricchezza celebrativa ricevuta dalla tradizione e ha permesso nei secoli successivi una
grande fioritura di studi liturgici, molto di più della diffidenza verso i riti, propria del
mondo protestante. E’ anche vero però che alcune questioni poste in modo talvolta
provocatorio ed esasperato dalla riforma, passata l’epoca della contrapposizione
polemica, saranno di stimolo anche per i cattolici a purificare alcune esagerazioni
della loro teoria e della loro prassi sacramentale.

(67) Vedi: GERKEN, Teologia, p. 156. 163-164.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

4. PERCHE' CELEBRARE I SACRAMENTI? ALCUNE RISPOSTE DELLA


TEOLOGIA CONTEMPORANEA

La fede cristiana passa attraverso i sensi e si alimenta e si esprime attraverso gesti


simbolici. Questo crea difficoltà all'uomo di oggi che sembra più portato per una
religione chiusa entro i limiti della razionalità e dell'etica.
Nei sacramenti abbiamo un aspetto umano-psicologico e uno divino; i due aspetti
non sono semplicemente accostati. Infatti la grazia sacramentale, se non è iscritta
in una realtà umana significativa, diventa magia. I segni esterni non sono meri ed
arbitrari supporti della grazia. Dio non lega la sua grazia a dei segni insignificanti;
al contrario, il dono della grazia è strettamente legato all'efficacia simbolica dei
sacramenti.
Scopo di questo capitolo sarà mostrare che la natura umana in quanto tale e le
leggi fondamentali della comunicazione e della relazione interpersonale rendono
quanto mai opportuna la via sacramentale, come strada privilegiata attraverso cui
costruire una relazione tra Dio e l’essere umano.

4. 1. Segno, simbolo e rito nell'esperienza umana (68)

4. 1. 1. Il segno e il simbolo

Nell’accezione comune, il segno è un oggetto che sta al posto di un altro oggetto e lo


rappresenta; pertanto esso è composto da un elemento (significante) che rimanda
a un altro elemento (significato). Tramite il segno si stabilisce una relazione tra
l’ordine delle cose sensibili (significante) e quello delle cose intelligibili (significato).
Un esempio è il segno linguistico: un'immagine acustica che rappresenta un
concetto (per esempio la parola “pietra” è il significante, mentre la cosa indicata da
questa parola è il significato); un altro esempio è dato dai numeri (il segno “3” è il
significante, mentre il significato è III oppure xxx); un altro esempio è quello dei
segnali stradali (un cerchio rosso con una riga bianca all’interno significa che non si

(68) Il paragrafo fa riferimento a due opere. La prima è: VERGOTE A., Dimensioni antropologiche
dell'eucaristia, in VERGOTE - DESCAMPS - HOUSSIAU, L'eucaristia simbolo e realtà, Bologna,
Dehoniane, 1973 (Fede e annuncio, 1), p. 9-52. La seconda è: LEBON J., Per vivere la liturgia, Roma,
Borla, 1988. Questo autore, a sua volta, propone la sua opera come riassunto di: CHAUVET L.-M.,
Linguaggio e simbolo. Saggio sui sacramenti, Leumann-Torino, Elle Di Ci, 1982 (Liturgia e vita, 2).

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

può sostare; un semaforo rosso significa che non si può passare).


In certi casi abbiamo un significante che rimanda ad un altro significante (per
esempio un mazzo di fiori donato a una persona non è soltanto un segno, ma
rimanda ad altre cose come amicizia, gratitudine, amore…); il primo significante è
visibile e percepibile (il mazzo di fiori), mentre il secondo significante (l’amore) è
invisibile, immateriale. In questo caso più che il termine “segno” possiamo
utilizzare in modo più appropriato il termine “simbolo”.
Segno e simbolo sono due polarità complementari del linguaggio umano. Il segno ha
la funzione di significare qualcosa, definendolo in modo chiaro e univoco; il simbolo
ha la funzione di esprimere qualcosa, anche se in modo più sfumato. Nel segno, il
legame tra significante e significato è quasi sempre arbitrario e convenzionale (il
rosso e il verde del semaforo non hanno legame con ciò che indicano); invece, nel
simbolo, il legame a volte è motivato: c'è un'analogia tra il significante visibile e il
significante invisibile ad esso associato (per dire amore regalo una cosa bella come
dei fiori, piuttosto che del fieno). Generalmente il segno serve a qualcosa (informa,
comunica, definisce); il simbolo è gratuito, apparentemente inutile, anche se in
realtà crea delle relazioni, molto più del segno. Affinché una cosa acquisti un valore
simbolico, occorre spesso distaccarla dal contesto delle cose abituali e quotidiane (di
fiori ce ne sono tanti, ma perché diventino un simbolo bisogna comporli in un
mazzo; perché un essere umano sia riconosciuto come il re o il papa, occorre vestirlo
in modo non comune). I segni possono essere usati anche dagli animali più evoluti
(un cane abbaia per avvertire che qualcuno si avvicina alla casa); i simboli non lo
sono. Due o più simboli possono essere accostati tra loro, per rafforzare ciò che
vogliono esprimere (esempio mettere dei fiori su un monumento; oppure un re può
avere una corona, un manto, uno scettro e un trono).
Il segno tende a essere preciso, univoco, ma è più limitato, chiuso; il simbolo è più
fluttuante, allusivo, ha un significato più sfumato. Infatti i simboli servono per dire
qualcosa che i segni (per esempio le parole o i numeri) non riescono ad esprimere
pienamente. Per questo, qualcuno definisce il simbolo come “il traboccare del
linguaggio”.
In pratica però, la distinzione tra segno e simbolo non è sempre netta. Anzitutto,
anche il simbolo rientra nella categoria dei segni (cioè dei significanti). Inoltre
talvolta un segno è anche un simbolo (per esempio, ogni discorso è,
contemporaneamente, sia un mezzo per informare e trasmettere dati che per
comunicare e creare una relazione). Altre volte un simbolo è anche un segno (per
esempio l’abito di un prete, dà un’informazione a chi lo vede, sulla natura del

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

soggetto, ma rimanda anche a dei significati ulteriori, come fede, Chiesa …).
La parola simbolo deriva dal verbo greco “sym-ballo”, che significa: “metto insieme,
congiungo, riunisco” e dal sostantivo “simbolo” che significava un segno di
riconoscimento o una parola d’ordine. Infatti, mentre lo scopo del segno è far
conoscere, lo scopo del simbolo è far riconoscere, far incontrare; il simbolo, nel senso
proprio del termine, lega i soggetti a un patto. Mentre il segno trasmette e accresce
la conoscenza, il simbolo crea riconoscimento e incontro: è uno strumento per
identificarsi ed essere identificati e per entrare in relazione. Ogni simbolo è in
rapporto con tutti gli altri; insieme costituiscono un universo articolato, che è
significativo solo perché è riconosciuto e accettato da una comunità. Il simbolismo
presuppone che determinati soggetti facciano parte di una comunità, con delle
regole al suo interno, e rafforza la coesione di questa comunità.
Il simbolo non cerca soltanto di mandare un messaggio, ma anche di coinvolgere, e
lo fa rendendo presente la realtà significata (per esempio, un gesto di amicizia
esprime la cosa significata e mira a coinvolgere chi lo riceve, rafforzando l’amicizia
che esprime). In tal modo il simbolo agisce sulle persone, mira a trasformarle. Nello
stesso tempo, esso non lede la libertà: propone, ma lascia liberi di accettare o di
rifiutare.

4. 1. 2. Il rito

Il rito è un'azione o un insieme di azioni simboliche, ripetute spesso, in circostanze


analoghe e secondo regole stabilite. Ogni nostra giornata è piena di riti (per
esempio. il saluto, il comportamento a tavola, gli auguri di compleanno …); si può
dire che l'uomo è un animale rituale. Il rito è una prassi sociale che mostra e
garantisce l'appartenenza a un gruppo.
I riti sono indispensabili e, se non ci fossero, ci sarebbe angoscia e impossibilità di
comunicare. La ripetizione dei riti è fonte di sicurezza, di identità, di fiducia tra le
persone: facilita le relazioni (se tutti i giorni inventassimo un modo diverso di
salutare, le persone che incontriamo non capirebbero mai che cosa stiamo facendo).
La nostra creatività può esercitarsi solo all'interno di un sistema di riti già
codificati. Inoltre, poiché il simbolo non è sempre facile da capire, il rito permette di
appropriarsene in modo progressivo e crescente.
Il rito è legato alla tradizione, cioè viene dal passato e dura nel tempo. Ogni gruppo

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

istituisce dei riti (il modo di salutare che abbiamo in Italia è diverso da quello che si
usa in Amazzonia). La natura umana è piuttosto conservativa, in ordine alla
ritualità: quando un rito funziona, non ama mutarlo. Tuttavia può accadere, per
vari motivi, che si senta il bisogno di modificare i riti o di inventarne di nuovi (il
modo di salutare di oggi è diverso da quello dell’antica Roma).
Il rito, proprio perché è fatto di gesti ripetuti, è soggetto ad alcuni pericoli. Il primo
è l'usura: un gesto può diventare tanto abitudinario che lo si compie
meccanicamente, senza alcuna partecipazione interiore. Può accadere quindi che
l'osservanza meticolosa dei riti prenda il sopravvento su ciò per cui essi sono nati e
su ciò che essi vogliono esprimere; in tal caso, il rito viene meno alla sua funzione
originaria di creare legami.

4. 1. 3. I simboli e i riti nella liturgia cristiana

La liturgia, sia nell'ambito cristiano, come in tutte le religioni di tutti i tempi, è un


insieme di simboli e di riti. Infatti la comunicazione simbolica è quella più
appropriata per raggiungere Dio, che è invisibile e non si può raggiungere in altro
modo. Pertanto, tutto ciò che abbiamo detto riguardo ai simboli e ai riti, lo si può
applicare ai sacramenti e alla liturgia cristiana.
Quando celebriamo, talvolta usiamo dei segni (diamo informazioni e
comunicazioni), ma soprattutto dei simboli, che uniscono due significanti (per
esempio: acqua = vita; cero = luce…), dei quali uno è visibile e percepibile e l’altro e
invisibile.
Spesso il legame tra i due significanti non è arbitrario, ma motivato: c'è un'analogia
tra i due (per esempio: acqua = purificazione o rinascita; pane = alimento e vita;
vino = festa e gioia; anello = legame…). Ciò è possibile perché Dio si manifesta
attraverso la creazione e l'incarnazione. Tuttavia il simbolo cristiano non si può
chiamare “naturale”, in senso stretto, perché è interpretato dalla parola di Dio che
rimanda (almeno per i sacramenti) a degli atti compiuti da Cristo (per esempio
nell’eucaristia usiamo il pane e il vino non solo perché significano rispettivamente
vita e gioia, ma perché Gesù li ha usati nell’ultima cena).
Occorre aggiungere che, nella liturgia, più che di simboli dobbiamo parlare di
azioni simboliche: infatti si usano delle cose, ma sempre in funzione di azioni che
vengono compiute (l’acqua per immergere o aspergere; il pane per mangiarlo, l’olio

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

per ungere…). Queste azioni si ripetono, diventando riti, con tutti i vantaggi e i
rischi che abbiamo notato nel paragrafo precedente, in ordine alla ritualità umana.
Anche nella liturgia cristiana i riti sono un fortissimo elemento di identità
collettiva e creano una comunità (la Messa domenicale fa in modo che ci si senta
parte della Chiesa e anche di una determinata parrocchia; il fatto di pregare
insieme crea un’identità di gruppo).
Talvolta, nel linguaggio comune, il termine “simbolo” viene usato in opposizione a
“realtà”; sicché il termine “reale” viene usato in senso materialista. Al contrario, il
simbolo ci mette realmente in contatto con ciò che esso rappresenta, poiché crea
una presenza e una relazione effettiva, benché mediata (una lettera di una persona
molto amata può rafforzare una relazione, molto di più della vicinanza fisica di una
persona che non si conosce e con cui non c’è interazione). Pertanto usare la parola
“simbolo” per parlare della presenza di Cristo nei sacramenti e nella liturgia non
significa sminuirne l’importanza o ritenere che essa sia meno “reale”: invece il
simbolismo permette di comprendere come vi possa essere una presenza reale ed
efficace, insieme all'assenza fisica (se Cristo fosse presente fisicamente, come
durante la sua vita terrena, non occorrerebbe celebrare l’eucaristia o gli altri
sacramenti).
Perché cercare un contatto con Dio attraverso il rito, se egli è presente ovunque?
Non è sufficiente credere interiormente a questa presenza? A queste domande si
potrebbe rispondere che il rito è la modalità ordinaria con cui l’essere umano entra
in relazione con qualunque essere altro da sé. Infatti ciascuno di noi comunica con
gli altri attraverso dei gesti simbolici che vengono ripetuti e diventano riti. Per
questo il rito è anche la modalità ordinaria della nostra relazione con Dio, che
avviene in modo conforme allo stile umano di comunicare

4. 2. La creazione come "dialogo" e il corpo come espressione simbolica dell'uomo (K.


Rahner) (69)

Anzitutto Rahner distingue tra il simbolo in senso pieno (che chiama simbolo
reale) e il semplice segnale (che chiama simbolo rappresentativo). Nel primo
caso, si ha la rappresentazione di una realtà attraverso un'altra, per cui l'una rende

(69) Il paragrafo fa riferimento a: RAHNER K., Sulla teologia del simbolo, in Saggi sui sacramenti e
sulla escatologia, Roma, Paoline, 1965 (Biblioteca di cultura religiosa, 65), p. 51-107.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

attuale e presente l'altra. Nel secondo caso ci si trova di fronte a un modo derivato
di intendere il simbolismo: due realtà, convergono mediante qualcosa che è
presente in loro e che dà a una di loro la possibilità di richiamare l'altra (70).
Pare di poter affermare che, se pure con alcune differenti sottolineature, Rahner
chiami simbolo reale quello che nel paragrafo precedente abbiamo chiamato
simbolo; chiami invece simbolo rappresentativo quello che abbiamo chiamato
segno.
Comunque Rahner ritiene che, per comprendere il concetto di "simbolo reale",
occorra partire dal fatto che ogni realtà finita non è "semplice", ma porta in se
stessa una vera pluralità. Non è detto che la pluralità dell'ente sia segno di
finitezza e di limite. La trinità di Dio, che è suprema perfezione, è pluralità di
persone; è unità nella pluralità. Quindi la pluralità di ogni ente creato potrebbe
essere una traccia della pluralità divina e non tanto una conseguenza del suo limite
(71).

Da: RAHNER K., Sulla teologia del simbolo.


Al lettore attento ed esperto in teologia non sarà sfuggito che sullo sfondo delle riflessioni
ontologiche c’era sempre il pensiero del mistero della Trinità. Nella nostra libertà di
metodo, ci siamo già richiamati esplicitamente a questo mistero, nella misura in cui
l’abbiamo addotto quale prova del fatto che una pluralità in un ente non può venire
considerata sempre e dovunque come un indice della finitezza e dell’imperfezione, che
quindi un’ontologia generale (che voglia parlare dell’ente, strettamente come tale) può
benissimo prender le mosse dal fatto che ogni ente porta in sé un’intima pluralità
nonostante la sua (eventualmente suprema) unità e perfezione, proprio come perfezione
della sua unità. […] Per il nostro scopo è sufficiente accennare molto semplicemente al
fatto che la teologia del Logos è veramente una, anzi la suprema teologia del simbolo, se noi
accordiamo a questo termine il senso a cui siamo arrivati e non poniamo alla sua base dei
significati derivati, quali li conosce il linguaggio comune. Il Logos è la «parola» del Padre,
la sua perfetta «immagine», il suo «carattere», il suo riflesso, la sua autoespressione. […] Il
Logos (come realtà della vita divina immanente) è «generato» dal Padre come sua
immagine e sua espressione, e questo processo è un processo dato necessariamente con la
divina conoscenza di sé, senza il quale l’atto assoluto del divino autopossesso conoscitivo
non può essere. Se però ci si attiene a questi due dati della teologia tradizionale (per non
usare una nota teologica ancor più vincolante) si può, anzi si deve dire senza paura: il
Padre è se stesso, in quanto pone di fronte a sé l’immagine a lui consustanziale come il
distinto di sé, e in tal guisa si possiede. E questo vuoi dire: il Logos è il «simbolo» del Padre,
e precisamente proprio in quel senso che abbiamo dato alla parola: il simbolo immanente e
tuttavia distinto dalla realtà simbolizzata e da questa stessa posto, nel quale la realtà
simbolizzata esprime se stessa e in tal modo possiede se stessa.

(70) RAHNER, Sulla teologia, p. 57-59.


(71) RAHNER, Sulla teologia, p. 59-60.

61
Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Gli elementi della pluralità di un ente non stanno semplicemente l'uno accanto
all'altro, perché ciò sarebbe una negazione dell'unità dell'ente; piuttosto debbono
essere in sintonia tra di loro. Come la pluralità di elementi in sintonia tra di loro
non è una diminuzione della perfezione di Dio, così può non essere una diminuzione
della perfezione degli enti creati (72).
Ne consegue che l'ente è, di per se stesso, necessariamente simbolico, perché si
"esprime" per trovare la propria essenza. Infatti ciascun ente pone, per il proprio
perfezionamento, qualcosa che è distinto da sé e, nel contempo, uno con sé. Ciò che
è stato posto, possiede una sintonia con la sua origine; perciò ha carattere di
simbolo rispetto ad essa (per esempio: la parola umana) (73). Perciò l'ente è
simbolico in quanto ha la necessità di esprimersi: trova se stesso quando si esprime.
L'ente è fatto per uscire da sé; il simbolo è l'espressione dell'ente, che esce da sé per
ritrovare se stesso. Qualunque ente è conoscibile e conosciuto in quanto si esprime
attraverso qualcosa di altro, distinto da sé (74).
Secondo Rahner, la teologia del Logos è una teologia simbolica. Infatti il Logos è
simbolo del Padre, perché è la sua perfetta auto-espressione (75). L'umanità del
Verbo incarnato non è solo il "mezzo" della manifestazione di Dio, qualcosa di
estraneo a lui. Piuttosto il Logos è, nella sua umanità, un simbolo rivelatore che
rende presente il Padre. Ne deriva una teologia delle realtà create: l'incarnazione
ha infinitamente dilatato la profondità della realtà simbolica di tutte le cose. Già
indipendentemente dall'incarnazione, ogni realtà creata rendeva presente l'insieme
delle realtà e parlava di Dio come causa di tutto. Dopo l'incarnazione, però, la
trascendenza simbolica delle realtà create viene dilatata: esse non ci indirizzano
solo a Dio come alla loro causa, ma sono anche determinazione sostanziale e
ambiente del Logos (76).

Da: RAHNER K., Sulla teologia del simbolo.


Da quanto ivi vien detto, risulta che il Logos come Figlio del Padre è, nella sua umanità
in quanto tale, in assoluta verità, il simbolo rivelatore, che rende presente la stessa
realtà rivelata e nel quale il Padre, in questo suo Figlio, dice se stesso al mondo. Ma con
ciò una teologia del simbolo elaborata dalla dottrina dell’Incarnazione sarebbe appena
all’inizio, non alla fine. Partendo da qui, infatti, bisognerebbe considerare che la

(72) RAHNER, Sulla teologia, p. 61-62.


(73) RAHNER, Sulla teologia, p. 63-64.
(74) RAHNER, Sulla teologia, p. 66-67.
(75) RAHNER, Sulla teologia, p. 77.
(76) RAHNER, Sulla teologia, p. 85.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

profondità naturale della realtà simbolica (immanente al mondo o anche naturalmente


trascendente verso Dio) di tutte le cose, è stata infinitamente dilatata in senso
ontologico-reale, per il fatto che è divenuta determinazione del Logos stesso o del suo
ambiente. Ogni realtà scaturita da Dio, quando è autentica e intatta e non è degradata a
semplice mezzo utilitaristico umano, non dice solo se stessa, ma riecheggia sempre (nella
guisa sua particolare) l’insieme della realtà. Ma se questa singola realtà, nel render
presente il tutto, parla anche di Dio (mediante il richiamo trascendentale a lui come
causa esemplare, efficiente e finale), questa trascendenza acquista una radicalità ancor
maggiore (anche se comprensibile soltanto per mezzo della fede) per il fatto che ora in
Cristo queste realtà non ci indirizzano più a Dio solo come a causa, ma a quel Dio al
quale esse appartengono come sua determinazione sostanziale o come suo ambiente. Il
Verbo incarnato tutto fa sussistere in sé (Col 1,17) e perciò tutto, anche nella sua
simbolicità, ha una profondità imperscrutabile, che soltanto la fede può scandagliare.
Ciò che abbiamo detto in maniera così astratta, dovrebbe ora venir illustrato
applicandolo alle singole realtà (acqua, pane, mano, occhio, sonno, fame e mille altre cose
dell’uomo e del suo ambiente, che lo sostengono e a lui si riferiscono). […] Quando
affermiamo che la Chiesa è la presenza continuata del Verbo incarnato nello spazio e nel
tempo, diciamo nello stesso tempo che essa continua nel mondo questa funzione
simbolica del Logos.

L'azione salvifica di Dio nei confronti dell'uomo avviene sempre in modo simbolico.
La salvezza (cioè Dio stesso che si auto-comunica) è donata all'uomo e da lui
accettata nel simbolo. Il simbolo non sostituisce la realtà divina, come se essa
fosse assente, ma la rende presente: è il modo in cui Dio è presente all'uomo (77).
Anche l'accettazione del dono di Dio da parte dell'uomo è un atto pienamente
umano e, pertanto, si realizza sempre in maniera simbolica.
San Tommaso d'Aquino affermava che l'anima è la forma sostanziale della materia
prima. Pertanto l'uomo non è composto da un'anima e da un corpo, come due realtà
separate, ma dall'anima e dalla materia prima; quest'ultima è il substrato
attraverso cui l'anima realizza se stessa. Il corpo è l'anima che si attua nella
materia prima: perciò è la sua espressione, il suo simbolo. Nel corpo, l'anima
diviene presente a se stessa e si manifesta (78). La visione tomista assicura
l'assoluta unità dell'uomo. L'anima è vista non come un frammento dell'uomo ma
come l'unica origine che lo fa scaturire (79). Inoltre le singole parti del corpo non
sono solo delle porzioni sommate quantitativamente; ciascuna di esse comprende in

(77) RAHNER, Sulla teologia, p. 94-95.


(78) RAHNER, Sulla teologia, p. 97-98.
(79) Confronta: RAHNER, Spirito nel mondo, opera citata in: SCHNEIDER, Segni della vicinanza di
Dio, p. 16. Si tratta di un'esposizione del pensiero tomista, secondo cui il nostro spirito e il nostro corpo
si possono attuare solo in forma corporea; "anima est unica forma corporis". Rifiutando ogni dualismo,
Tommaso afferma che nell'uomo esiste un solo principio di realtà (forma) ed è l'anima spirituale. Essa si
attua nella materia, in modo tale che ciò che ne risulta è l'unico uomo integrale.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

sé anche l'insieme. Infatti, in ogni espressione dell'uomo è presente, in un certo


senso, tutto l'uomo.

Da: RAHNER K., Sulla teologia del simbolo.


Che il corpo si possa e si debba considerare come simbolo reale dell’uomo, risulta
senz’altro dall’insegnamento tomista che l’anima è la forma sostanziale della materia
prima. Se non presupponiamo soltanto una qualsiasi dottrina scolastica del rapporto tra
anima e corpo […], ma proprio quella tomista, la proposizione menzionata è evidente. Se
infatti alla corporeità dell’uomo venisse attribuita una consistenza ontologica attuale, un
contenuto positivo precostituito alla realtà dell’anima, non si capirebbe perché questa
consistenza ontologica della corporeità possa venir considerata come espressione e
pertanto come simbolo dell’anima. Espressione potrebbe venir qualificato tutt’al più
quello che l’anima, mediante la sua «informazione», ottiene da questo ente già esistente e
perseverante nella sua realtà precedente. Qualcosa del corpo quindi potrebbe ancora
essere, nel migliore dei casi, simbolo dell’anima, ma non il corpo intero come tale. Se però
l’uomo, in quanto tale, in una genuina concezione tomista, non è composto da un’anima e
da un corpo, ma da un’anima e dalla materia prima, la quale va concepita come un
substrato di per sé potenziale dell’autorealizzazione sostanziale dell’«anima», […] allora
quello che noi chiamiamo corpo altro non è se non l’attualità dell’anima stessa
nell’«altro» della materia prima, l’auto-effettuazione nell’altro dell’anima stessa, la sua
espressione quindi, e il suo simbolo nel senso che abbiamo dato alla parola simbolo reale.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

4. 3. Sacramentalità naturale e sacramenti della fede cristiana (J. Ratzinger) (80)

Il capitolo riassume un’opera giovanile di Ratzinger, più volte riedita. Si tratta di:
RATZINGER J., Il fondamento sacramentale della esistenza cristiana, Brescia,
Queriniana, 1971 (Meditazioni teologiche, 48).

4. 3. 1. Riflessione preliminare

Oggi i sacramenti non sono capiti, né praticati da molti cristiani, perché la


sacramentalità fa problema, cioè è compresa con difficoltà. L'idea sacramentale
presuppone una comprensione simbolica del mondo, mentre l'attuale comprensione
del mondo è funzionalistica. Per l’uomo contemporaneo, le cose sono soltanto cose; la
realtà è vista soltanto come materia e la materia come materiale, funzionale al lavoro
dell'uomo.
Come fare, affinché i sacramenti non rimangano soltanto come un residuo del passato
o un abbellimento estetico dell'esperienza credente, ma siano nella vita ciò che sono
secondo il pensiero teologico: una realtà fondante dell'esperienza cristiana?

4. 3. 2. I “sacramenti della creazione” nell’esistenza umana

Nella storia dell'umanità si possono individuare dei sacramenti originari o


“sacramenti della creazione”. Sono i quattro punti nodali dell'esistenza umana:
nascita, morte, comunione sessuale, pasto. Si tratta di realtà biologiche che, a
prima vista, non differenziano l'uomo dagli altri viventi ma esprimono i dati
fondamentali della sua esistenza a livello biologico. Essi però consentono di fare
esperienza del fatto che l'uomo è sottoposto a un potere che non è lui a determinare.
Inoltre la spiritualità umana dona a questi nodi biologici un nuovo significato e una
nuova profondità e li trasforma in esperienze umane. Per esempio, l’essere umano è
l’unico animale che si nutre in compagnia e che rielabora il cibo che trova in natura,
cucinandolo; il banchetto è segno di riconoscenza verso la terra, ma anche segno di

(80) Il paragrafo fa riferimento a: RATZINGER J., Il fondamento sacramentale della esistenza


cristiana, Brescia, Queriniana, 20052 (Meditazioni, 186).

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

comunione con gli altri; l'uomo sperimenta se stesso come frutto di un dono e come
essere in comunione con altri, che condividono con lui lo stesso cibo.
Questi punti nodali dell’esistenza, che abbiamo chiamato “sacramenti della
creazione”, non si rifanno, perciò, a eventi religiosi, ma sono quei momenti in cui, se
scava in profondità, l’essere umano fa esperienza della trasparenza del mondo
materiale in direzione del mondo spirituale ed eterno. Ciò fa pensare che lo stesso
essere umano sia il fondamento originario di ciò che intendiamo per "sacramento".
Egli infatti è colui che sperimenta la trasparenza del sensibile per lo spirituale, cioè
sperimenta che le cose sono più che cose: sono segni. Infatti ogni entità creata è, allo
stesso tempo, opera di Dio e discorso su Dio. Le cose create da Dio parlano di lui; per
questo dicono sempre qualcosa in più di ciò che sono in sé e per sé. Inoltre l’essere
umano sperimenta di non poter incontrare il divino se non attraverso la mediazione
della sua corporeità e del suo essere insieme agli altri. Allora la crisi attuale della
concezione sacramentale nasce da una visione riduttiva dell’uomo e anche del mondo
in cui esso vive.
Esistono inoltre, secondo Ratzinger, altre espressioni sacramentali “naturali” che
sono meno legate all'esperienza biologica dell'uomo e che derivano invece dalla sua
esperienza sociale: l'esperienza della colpa, cioè del fatto che la vita sociale
necessita di leggi e di sanzioni per chi non le osserva e l'ufficio dei sacerdoti e dei
re, cioè la necessità che ogni società abbia delle guide nel campo sociale e in quello
religioso. Ambedue le esperienze ricordano all'uomo che egli non è autore di se stesso,
e quindi sperimenta il suo essere sottoposto a qualcuno che è più grande di lui e a dei
principi e delle regole che gli sono già dati e che lo obbligano 81.

4. 3. 3. I sacramenti cristiani e la storia della salvezza

Da quanto abbiamo detto risulta chiaro che non condividiamo le posizioni di chi, come
ad esempio il teologo protestane Barth, vede una stretta opposizione tra religione e
fede, per cui la fede è possibile solo come qualcosa di completamente nuovo e diverso,
rispetto a ciò che è umano. Se così fosse, parlare di sacramenti naturali non avrebbe
senso, perché nel mondo e nella natura umana non si potrebbe trovare nulla che ci
aiuta ad entrare in rapporto con Dio. Al contrario, alla base del discorso fatto, sono
impliciti alcuni presupposti. In primo luogo la convinzione che le cose possano essere

81Dal dì che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d'altrui.
(FOSCOLO, I sepolcri)

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

segni che rimandano al di là di sé; inoltre la convinzione che l'uomo sia un essere
capace di accogliere Dio e che la chiamata di Dio rende veramente umano l'uomo.
Quindi è sottintesa una comprensione simbolica del mondo, dell'essere umano e della
sua vita personale e sociale.
Se è vero che la natura umana stessa presuppone implicitamente l’idea di sacra
mentalità, ci chiediamo qual è la specificità dei sacramenti cristiani? Essi non si
rifanno solo alla creazione, ma in primo luogo alla storia della salvezza che ha in
Cristo il suo vertice: in questa sta la novità specifica del cristianesimo
Ma questo concetto di storia della salvezza è, per l'uomo di oggi, una difficoltà ancora
maggiore di quanto detto abbiamo detto fino ad ora. In realtà l’essere umano è
profondamente inserito nella storia. L'uomo di oggi è sempre plasmato dall'uomo di
ieri e gli atti che egli compie oggi avvengono per restare come costitutivi del futuro.
Pertanto non ha senso vederlo come un io autonomo e sufficiente a se stesso: l'uomo
non può saltare la storia in cui è inserito. Anche il rapporto con Dio avviene in questo
contesto storico; e poiché la nostra storia ci rende membri di una comunità, e noi
siamo esseri profondamente comunitari, Dio sta di fronte a una comunità. Non
possiamo comprendere l specificità dei sacramenti cristiani senza tenere presente che
essi ci mettono a contatto con la storia degli interventi di Dio, che ha operato la nostra
salvezza, principalmente attraverso la vicenda di Gesù Cristo.

4. 3. 4. Equivoci sulla natura umana e visione dei sacramenti

La difficoltà e il rifiuto dell’uomo contemporaneo nei confronti dei sacramenti, è


causato da grossi equivoci antropologici.
Anzitutto abbiamo la filosofia idealista del 1800, culminata nel pensiero di Fichte.
Costui considera l'essere umano come uno spirito autonomo, che si costruisce tutto
sulle proprie decisioni, ponendosi così sullo stesso piano di Dio, come fosse come
nient'altro che volontà e libertà spirituale (82). L'uomo è così posto sullo stesso piano di
Dio e scambiato con lui. Questa concezione è una palese assurdità; per capirlo basta

(82)Il fondamento della filosofia di Fichte è il principio di identità Io = IO. All'io si contrappone il Non-io,
come ostacolo che l'io incontra di fronte a sé e che lo costringe ad agire, a superare delle difficoltà e a
trovare un dovere. Il non-io sussiste in funzione dell'io, per dargli modo di esercitare la sua libertà.
L'azione della volontà libera è quella di assoggettare il non-io all'io. In questo modo, negando il non-io,
l'io finito tende a diventare infinito. Secondo Fichte, Dio non è una realtà esistente, è l'ordine morale del
mondo; o meglio il compito che gli uomini hanno il dovere di realizzare.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

essere uomini. E’ però un'assurdità molto diffusa nella mentalità europea. Quando il
teologo Bultmann dice che lo spirito non può essere cibato materialmente e quindi il
principio del sacramento dell’eucaristia non ha senso, è figlio di questa concezione.
Bisogna però ammettere che la filosofia cristiana dei secoli passati, seguendo
un'antropologia che aveva una forte dose di idealismo greco, ha un po’ preparato e
facilitato questo equivoco. Perciò i sacramenti erano percepiti come l'incontro della
singola anima con il suo Dio, ignorando la corporeità, la storia della salvezza e
l'inserimento nella comunità ecclesiale. A causa di ciò, però, non si era più in grado
di spiegare, se non ricorrendo ad artifici, quale necessità ci fosse di una comunità
che celebrava i sacramenti e come mai Dio, in maniera molto più semplice, non si
incontrasse in modo totalmente spirituale con lo spirito dell'individuo. L'errore sta
nel trasformare l'uomo in un puro spirito che sta di fronte a Dio; ma l'uomo così, non
esiste. Se invece il rapporto dell'uomo con Dio è sempre corporale, storico e
comunitario, allora i sacramenti hanno senso.
L'altro equivoco è costituito dalle tracce del materialismo marxista (83).. Il
materialismo non consiste solo nell'interpretare l'uomo come materia, ma nel ridurre
la materia a materiale di lavoro. E' l'idea dell'"homo faber" che considera se stesso
come un funzionario, un produttore e le cose come funzioni del suo lavoro. mentre
l'attuale comprensione del mondo è funzionalista: le cose sono soltanto "beni",
"materie prime" e il lavoro dell'uomo serve soltanto a produrre qualcosa. Con ciò,
l'attività umana viene confinata nel mondo dell'utile e sparisce sia la bellezza che la
ricerca di un senso.
I sacramenti sul principio dell’incarnazione: Dio, che è immateriale e invisibile,
sceglie di utilizzare le cose materiali per incontrare l'uomo. Ciò è avvenuto attraverso
Gesù di Nazaret e avviene durante tutta la storia della sua Chiesa: l'uomo può
incontrare Dio solo in maniera umana, nella corporeità, nella storia, all'interno di una
comunità.

LETTURA

RATZINGER J., Il fondamento sacramentale della esistenza cristiana, Brescia, Queriniana,


20052 (Meditazioni, 186).
Nell’attuale situazione spirituale, chi si pone a riflettere sul fondamento sacramentale
dell’esistenza cristiana s’imbatterà subito in uno strano paradosso della vita spirituale

(83) La visione materialistica della realtà sopravvive anche dopo il crollo dei regimi che si ispiravano
all’ideologia marxista, per cui ciò che Ratzinger affermava, rimane tuttora valido, anche in un mondo
dominato dalla logica del profitto.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

odierna: da una parte la nostra epoca è stata denominata il secolo della Chiesa; la si
potrebbe chiamare quindi con altrettanta ragione il secolo del movimento liturgico e
sacramentale, in quanto la riscoperta della Chiesa, avvenuta tra le due guerre, si basa a
sua volta sulla riscoperta della ricchezza spirituale della liturgia della Chiesa antica e del
principio sacramentale. […]
Ciò non costituisce tuttavia che una faccia della realtà. Infatti il secolo del movimento
liturgico e del rinnovamento della teologia sacramentaria, sta sperimentando nello stesso
tempo una crisi della dimensione sacramentale, un’estraneità di fronte alla realtà del
sacramento tale quale, con questa asprezza ed esasperazione, non era ancora dato di
vedere all’interno del cristianesimo. In un tempo nel quale ci si è abituati a vedere nella
realtà delle cose solo il materiale del lavoro umano, nel quale, per dirla in breve, il mondo
viene inteso come materia e la materia come materiale, non rimane più spazio alcuno per
quella trasparenza simbolica della realtà verso l’eterno, sulla quale si poggia il principio
sacramentale. In maniera un po’ sbrigativa e grossolana si potrebbe dire che l’idea
sacramentale presuppone una comprensione simbolica del mondo, mentre l’attuale
comprensione del mondo è funzionalistica: le cose sono viste soltanto come cose, come
funzione del lavoro e dell’opera dell’uomo. A partire da una tale prospettiva, risulta ormai
incomprensibile come una cosa possa trasformarsi in ‘sacramento’: l’uomo moderno è
fortemente interessato al problema di Dio; anche il problema di Cristo lo interessa; ma i
sacramenti sanno troppo di Chiesa, appaiono troppo legati ad uno stadio sorpassato della
fede perché egli possa scorgere l’utilità di parlare ancora di essi. […]
Tutto ciò viene a trovare infine la sua condensazione irrecusabile nella questione sul senso
del culto cristiano. Perché per incontrare Dio occorre proprio andare in Chiesa? Dio è forse
legato ad un rito e ad un luogo? Lo spirituale può essere mediato, o addirittura legato,
materialmente e ritualmente? Sia pure concesso ciò a chi vuole vivere in questo stadio
esistenziale o a chi ne ha forse bisogno: questo afferma l’uomo d’oggi, consapevole
dell’altezza assoluta della coscienza umana e pienamente cosciente nello stesso tempo che
ancora oggi vi sono degli uomini che si trovano ad uno stadio di coscienza medievale, se non
addirittura antica o primitiva. Ma egli non si vorrà legare a determinati stadi della
coscienza, i quali, egli ne é convinto, costituiscono relitti del passato e saranno
progressivamente eliminati dal futuro anche se questo futuro non eliminerà mai del tutto
le correnti sotterranee del primitivo, cosicché l’umanità praticamente consisterà sempre
della coesistenza di diversi stadi di coscienza.
Cosa dobbiamo dunque dire? E’ il perdurare dei sacramenti nel nostro tempo qualcosa di
più di una concessione al passato, alla primitività insuperabile di una parte dell’umanità?
Si tratta di un abbellimento estetico nello spirito di un mondo passato, tollerabile con un
po’ di coscienza critica anche all’uomo d’oggi o di un’esigenza permanente, di una realtà
fondante dell’esistenza cristiana ancora oggi? Un rinnovamento liturgico che non si
ponesse queste questioni fondamentali rimarrebbe in superficie e potrebbe difficilmente
sfuggire a sua volta al pericolo di trasformarsi in una faccenda puramente estetica. Per
pervenire ad una risposta alla questione sui rapporto tra sacramento ed esistenza
cristiana, bisognerebbe porre due questioni, che emergono già dai due poli della nostra
trattazione: cos’è un sacramento? cos’è l’esistenza umana? Ambedue le questioni si
compenetrano tuttavia così intimamente che può bastare l’analisi della questione sul
sacramento, per sentire annunciarsi sempre in essa anche la questione su1l’esistenza
umana e pervenire quindi alla risposta ad ambedue le questioni.
L’idea sacramentale nella storia dell’umanità
[…] Per quanto riguarda in primo luogo la storia dell’umanità, si può costatare come in
essa esistono come dei sacramenti originari che, con una specie di necessità interna,

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

affiorano sempre laddove degli uomini vivono assieme ed i quali, con alcune trasformazioni,
perdurano persino nel mondo desacramentalizzato della tecnica. Essi potrebbero essere
chiamati sacramenti della creazione, che emergono ai punti nodali dell’esistenza umana
e lasciano così riconoscere un’immagine dell’essere dell’uomo e del modo del suo rapporto
con Dio. Siffatti punti nodali sono costituiti dalla nascita e dalla morte, dal pasto e dalla
comunione sessuale. Si tratta, come si vede, di realtà che propriamente non sono
originate dall’essere spirituale dell’uomo, bensì dalla sua natura biologica. Sono cioè i punti
nodali del suo esserci biologico che realizza continuamente se stesso e si rinnova nella
ricezione del cibo e nella comunione sessuale, ma nella nascita e nella morte sperimenta
misteriosamente i suoi limiti, il suo poggiare su qualcosa che gli sfugge, più grande e
diverso, dal quale emerge sempre nuovamente, ma che sembra anche sempre nuovamente
ingoiarlo. Queste realtà biologiche, attualizzazioni proprie della corrente della vita alla
quale l’uomo partecipa, ricevono però in lui, in quanto essere che trascende il biologico, una
nuova dimensione; esse diventano, per dirla con Schleiermacher, le fessure attraverso le
quali l’eterno illumina l’uniformità della quotidianità umana. Proprio perché si tratta di
eventi biologici e non già spirituali, l’uomo sperimenta in essi lo strapotere di una potenza
che egli non può invocare o costringere, e la quale lo circonda e lo porta anteriormente già
alle sue decisioni. Con ciò però si è già accennato a qualcosa di ulteriore: la dimensione
biologica riceve nell’uomo, in quanto esistenza spirituale, un nuovo significato ed una
nuova profondità. Il mangiare dell’uomo è qualcosa di diverso che la ricezione del cibo
nell’animale: il mangiare perviene alla sua forma umana diventando banchetto. Nel
banchetto l’uomo sperimenta la squisitezza delle cose nelle quali gli viene donata la
feconda potenza della terra e, in questa ricezione della preziosità della terra, sperimenta
anche il co-essere con altri uomini: la mensa crea comunione e il mangiare solo allora è
completo quando avviene in comune, mentre l’essere assieme raggiunge la sua pienezza
nella comunione della mensa che unisce tutti nella comunanza della ricezione dei doni
della terra. La mensa diventa allora interpretazione profonda dell’essere umano,
dell’esistenza dell’uomo alla quale noi, con la questione sui sacramenti, volevamo nello
stesso tempo tener attento lo sguardo. Nella mensa l’uomo sperimenta che egli non fonda
da sé il proprio essere, ma che piuttosto vive nel ricevere. Egli sperimenta se stesso come
donato, vivente del dono immeritato di una fecondità che per così dire sembra che sempre
lo attenda. E ancora di più: egli sperimenta che la sua esistenza è radicata nella comunione
con il mondo, nella cui corrente vitale egli è immerso, e che questa esistenza si fonda sulla
comunione e con gli altri uomini, senza la quale il suo essere umano perderebbe il terreno
sotto i piedi. Non è l’uomo che fonda se stesso, ma è un doppio ‘con’ che lo fonda: essere
‘con’ le cose ed essere ‘con’ gli uomini; l’uomo per così dire può esistere solo al plurale.
In questo duplice ‘con’ si nasconde però un terzo, non meno fondamentale: il suo spirito
esiste soltanto nella comunione con il corpo, come d’altra parte anche il suo corpo
perdura nell’essere solo a partire dallo spirito. La comunione dello spirito con il corpo
implica però l’essere immersi nell’unità della corrente della vita cosmica e manifesta quindi
un fondamentale essere concatenati degli esseri che possono essere denominati uomini: si
tratta del punto di partenza di quella profonda comunione a cui accenna la Bibbia quando
chiama tutta l’umanità come un unico Adamo. Certamente nel legame vicendevole creato
dal bios comune, poggia nello stesso tempo il fondamento per una profonda separazione
dell’uomo dagli altri suoi simili e dalla quale in ultima analisi egli viene impedito di vivere
come spirito in spirito e di pervenire quindi alla comunione piena. […]
Il fenomeno della mensa ci ha portato improvvisamente al primo abbozzo di una risposta
alla questione «che cos’è l’uomo», anche se noi abbiamo esaminato il fenomeno per
comprendere uno dei sacramenti originari della storia delle religioni. Ma ambedue le cose

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

si compenetrano vicendevolmente e l’interpretazione dell’uomo che ci si è imposta


costituisce quell’interpretazione su cui poggia l’idea sacramentale. Così noi possiamo dire
in un primo approccio che nella trasformazione del mangiare in mensa avviene nello stesso
tempo la creazione originaria della dimensione sacramentale: il mangiare diventato mensa
porta già dei tratti sacramentali. L’uomo che nel pasto non intraprende soltanto l’atto
biologico, estraneo allo spirito, della ricezione del cibo, ma che compie spiritualmente il
biologico; l’uomo quindi per il quale la dimensione umana è indivisibile e quindi anche il
biologico è umano, quest’uomo sperimenta nella mensa la trasparenza del sensibile per lo
spirituale, sperimenta quella compenetrazione di bios e spirito che contrassegna la sua
natura più propria. Egli sperimenta che le cose sono più che cose: che esse sono segni il
cui significato trascende la loro forza sensibile immediata. E se nella mensa sperimenta la
fondazione della sua esistenza allora egli sa che le cose gli danno più di quanto esse hanno
o sono. La mensa diventa allora per lui segno del divino e dell’eterno che sostiene lui, le
cose e gli altri uomini e che è quindi il fondamento più autentico della sua esistenza. Ma
egli sa nello stesso tempo che a lui lo spirito è solo in quanto corpo e che il corpo è solo a
partire dallo spirito e che quindi non può incontrare il divino se non nello spazio nel quale
egli ha il suo essere umano: attraverso la mediazione della corporalità e dell’essere assieme
con gli altri, senza cui egli cesserebbe di essere uomo. Il sacramento nella sua forma
universale storico-religiosa è quindi in primo luogo espressione della esperienza che Dio
incontra l’uomo in maniera umana: nei segni della comunione umana e nella
trasformazione di ciò che è puramente biologico in qualcosa di umano che, nell’atto
religioso, sperimenta ancora la sua trasformazione in una terza dimensione, la garanzia
del divino nell’umano.
[…]
Nel corso della storia però anche la sfera specificamente umana e spirituale sviluppa i suoi
punti nodali sacramentali, dei quali ne vanno considerati qui soprattutto due. Un primo si
ha dalla esperienza originaria della colpa. L’uomo che non costruisce da se stesso la
sua esistenza, ma vive dell’essere donato, sperimenta nello stesso tempo il suo essere
obbligato, il suo stare sotto una forma che gli è stata già data in antecedenza, e la cui
violazione lo rende colpevole. A partire da qui si dà però come un sacramento della
penitenza fin dai tempi primitivi della storia umana e S. Bonaventura, il grande teologo
francescano del medioevo, non aveva completamente torto quando pensava che due
sacramenti siano stati istituiti già all’inizio della storia e che siano tanto antichi quanto
l’uomo stesso: il sacramento del matrimonio e quello della penitenza. Nelle religioni dei
popoli questo aspetto è scivolato nelle esteriorità più strane. […]
Una seconda creazione della struttura simile a quella del sacramento è costituita
dall’ufficio dei preti e dei re: (84).i servizi decisivi nella comunità rimandano a loro
volta al fondamento stesso dell’umano, non si esauriscono nella loro funzione sociale, ma
sono espressione della trasparenza dell’umano al divino e nello stesso tempo della
consapevolezza che la comunione umana solo allora è assicurata solidamente, quando non
poggia soltanto su di se stessa, ma in colui che è più grande di essa. Qui bisogna tuttavia
aggiungere un’altra osservazione che conduce già nella problematica cristiana. Mentre il
primo gruppo delle formazioni sacramentali nelle quali ci siamo incontrati si fonda nella
relazione tra bios e spirito ed a partire da qui fa che la perpetuità della connessione tra
uomo e cosmo diventi segno della connessione tra il divino e l’umano, il secondo gruppo

(84) Probabilmente sarebbe più esatto tradurre “l’ufficio dei sacerdoti e dei re”, in quanto, nella
lingua italiana, “sacerdote” è un termine generico, che può indicare l’uomo di Dio in qualunque forma
religiosa, mentre “prete” è un termine che indica solo il ministro della chiesa cristiana.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

prende le mosse da ciò che nell’uomo è specificamente umano e da cui emerge la sua storia
individuale e collettiva la quale rappresenta ciò che egli ha di proprio e particolare nei
confronti della perpetua identità del morire e del divenire cosmico. Per ciò stesso sarebbe
potuto nascere qui un diverso tipo fondamentale di sacramento di quello che abbiamo
prima osservato, un tipo cioè che avrebbe potuto intendere la storia come fondatrice
dell’esistenza dell’uomo e che avrebbe potuto sperimentare nella storia la mediazione
dell’eterno. Ciò tuttavia, complessivamente considerato, non è avvenuto al di fuori della
sfera cristiana. Piuttosto la comunione storica viene percepita a sua volta come
trasposizione della comunione cosmica e la mediazione del divino ivi presente viene ridotta
ultima mente all’idea cosmico-naturale.

I sacramenti cristiani
Adesso possiamo finalmente sollevare la questione che si impone necessariamente a partire
dalle riflessioni precedenti: cosa costituisce lo specifico cristiano? Dove sta la sua
particolarità in un mondo che una volta era per ogni parte segnato dall’idea sacramentale?
Per anticipare le nostre conclusioni diciamo subito che né è giustificato il grido di protesta
di Karl Barth che vede una stretta opposizione tra religione e fede, cosicché la fede
verrebbe ad essere solo il completamente diverso, in assoluta discontinuità con tutta la
storia religiosa dell’umanità, né sono nel giusto le semplificazioni operate dall’idea del
cristianesimo anonimo, secondo cui improvvisamente tutto il mondo dovrebbe già sempre
essere dichiarato cristiano anonimamente. La realtà è ben più complessa di quanto non
vorrebbero dare a intendere queste semplificazioni.
Cos’è un sacramento cristiano? Come abbiamo già notato all’inizio, questo termine non ha
avuto fin da principio il significato chiaramente delimitato che oggi gli attribuiamo. Nella
Chiesa antica venivano considerati sacramenti, eventi della storia, parole della sacra
scrittura, realtà del culto cristiano, che possiedono una trasparenza all’azione salvifica di
Cristo e lasciano quindi che l’eterno faccia la sua apparizione nel tempo o lo presentano
come la realtà che sostiene realmente. […]
Sarà possibile stabilire alcuni elementi comuni con la idea universale umana del
sacramento, ma nello stesso tempo cogliere anche chiaramente le tracce della differenza, la
quale s’impone già semplicemente con necessità intrinseca nella chiarificazione stessa del
concetto di Dio: non rimane più oscuro chi sia Dio; egli non appare più come il mistero
abissale del cosmo in generale, bensì come il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe; ancora
meglio: come il Dio di Gesù Cristo, come il Dio che è presente qui per l’uomo e che si lascia
definire proprio mediante questa sua comunione con gli uomini. In una parola: egli appare
come il Dio personale, che è conoscenza ed amore e che perciò è parola ed amore rivolti a
noi. Parola che ci chiama e amore che unisce. Presupposto ciò, acquistano in questa novità
vero valore le nostre riflessioni precedenti: se avvenimenti della storia, parole della
scrittura, realtà del culto, possono ricevere l’appellativo di sacramenti, questo sta a
significare che, nell’antico concetto cristiano di sacramento, è implicita una concezione del
mondo, dell’uomo e di Dio, basata sulla convinzione che le cose non sono semplicemente
cose o materiali del nostro lavoro, ma nello stesso tempo segni, rimandanti al di là di se
stessi, dell’amore divino del quale, per colui che vede, sono una trasparenza. ‘Acqua’ non è
soltanto, una struttura chimica che in maniera appropriata può essere trasformata in
strutture differenti ed impiegata per i fini più disparati. Nell’acqua della sorgente, nella
quale s’imbatte l’assetato viandante del deserto, diventa visibile qualcosa del mistero del
ristoro che, nella disperazione, ricrea una vita nuova; nelle acque impetuose della corrente,
nella cresta delle cui onde si rifrange lo splendore del sole, si riflette qualcosa della potenza
e della magnificenza dell’amore divino, ma anche dell’ira mortale nella quale si può

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

imbattere l’uomo che si oppone ad esso; nella maestà del mare brilla qualcosa del mistero
che noi tentiamo di descrivere mediante il concetto di ‘eternità’. Questo è solo un esempio
che dovrebbe aiutare a comprendere cosa intendiamo quando diciamo che le cose sono più
che cose. Esse non sono ancore conosciute completamente per il fatto che si è conosciuta la
loro costituzione chimica e fisica, giacché così sfuggirebbe ancora tutta una dimensione
della loro realtà: la loro trasparenza alla potenza creatrice di Dio, dalla quale hanno
origine e alla quale vogliono condurre. L’idea sacramentale della Chiesa antica costituisce
la espressione di una comprensione simbolica del mondo che non nega affatto la realtà
terrena delle cose, ma che nello stesso tempo rimanda ad un contenuto che rimane
inaccessibile all’analisi chimica e che tuttavia non cessa di essere reale, alla dimensione
dell’eterno che si rende visibile e presente attraverso ciò che è nel tempo.
Risulta anche chiaro come con ciò viene detto anche qualcosa di decisivo sull’uomo: così
come le cose non sono soltanto cose, materiale del lavoro umano, così anche l’uomo non è
solo un funzionario che tratta le cose; solo nella penetrazione del mondo tesa al suo
fondamento originario ed eterno, l’uomo sperimenta ciò che veramente è: chiamato da Dio e
a Dio. Solo la chiamata dell’Eterno costituisce l’uomo come uomo. Lo si potrebbe definire
esattamente come l’essere capace di Dio.
Ciò che la teologia tenta di descrivere con il concetto di anima, non è altro che la realtà che
l’uomo è conosciuto e amato da Dio in maniera diversa da tutti gli altri esseri i lui
sottoposti — conosciuto per conoscere a sua volta, amato per riamare. Questo modo di
essere presente nella memoria di Dio, è ciò che fa vivere l’uomo in eterno — perché la
memoria di Dio non finisce mai; è essa che fa dell’uomo un uomo e lo distingue dalle bestie;
qualora la si cancellasse al posto dell’uomo non rimarrebbe che un animale altamente
sviluppato. Così dovrebbe essere diventato ulteriormente chiaro in che senso si può parlare
del fondamento sacramentale dell’esistenza umana: se l’essere chiamati da Dio non
soltanto produce, ma costituisce l’essere umano dell’uomo, allora la trasparenza del mondo
all’eterno, che rappresenta la base del principio sacramentale, diventa fondamento della
sua esistenza; allora la comunicazione sacramentale coll’eterno fonda l’uomo stesso.
Occorre operare però un passo ulteriore. I sacramenti cristiani infatti non stanno soltanto a
significare un inserimento nel mondo penetrato da Dio — ciò potrebbe essere detto in un
certo senso, come abbiamo visto anche dello stadio precristiano —, essi stanno nello stesso
tempo a significare l’inserimento nella storia originata da Cristo. Quest’aggiunta della
dimensione storica rappresenta anzi la novità specificamente cristiana dell’idea
sacramentale, novità che soltanto conferisce al simbolo naturale la sua obbligatorietà e la
sua pretesa concreta, lo purifica dalle sue ambiguità e lo trasforma in garanzia sicura per
la vicinanza dell’unico vero Dio, che non è soltanto la profondità misteriosa del cosmo,
bensì il suo creatore e signore.
Questo aspetto specificamente cristiano da noi ritrovato costituisce però nello stesso tempo
proprio lo scandalo dell’uomo di oggi il quale sarebbe forse disposto ad attribuire al cosmo
un mistero divino, ma non è in grado di intendere come la provvisorietà di una linea storica
possa contenere la decisione del suo destino umano. E tuttavia questo non dovrebbe essere
impossibile a comprendersi. L’uomo è infatti storicamente determinato nella radice del suo
essere, la sua natura e proprio quella di essere storico: non si può contrapporre un essere
atemporale al mutamento e alla provvisorietà della storia, senza operare un malinteso
radicale sull’uomo, in quanto il suo essere e la storia sono compenetrati vicendevolmente e
l’uno non è reale senza l’altra. In termini più concreti: il mio essere umano si realizza nella
parola, nel linguaggio che determina i miei pensieri e mi radica nella comunione umana
che segna il mio stesso essere. Il linguaggio, che possiamo qualificare come mediazione
essenziale per la realizzazione umana dell’esistenza, non è però creato da me stesso; esso

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

assolve il suo compito proprio per il fatto che mi unisce con gli uomini attorno a me e prima
di me; il linguaggio rappresenta la continuità dello spirito umano nello sviluppo storico del
suo essere. Diventa allora evidente che l’essere umano esclude ogni autonomia del puro io
che vorrebbe essere sufficiente a se stesso: il mio essere umano riceve in primo tempo la
sua fondazione e lo spazio delle sue possibilità e dei suoi compimenti dalla storia, dalla
quale e nella quale soltanto esso può essere. Ciò che costituisce l’apparente provvisorietà
della storia è per l’uomo essenziale (per ripeterci ancora una volta); certamente egli può
imprimere, in misura più o meno forte, i suoi lineamenti personali nel modello collettivo
nel quale gli è dato di entrare, ed essere così salvato o diventare colpevole, ma non gli è
dato di abbandonare la storia in un sedicente essere puro, che è un’utopia nella quale egli
disconosce se stesso.
Adesso possiamo ritornare nuovamente ai sacramenti cristiani il cui senso non è se non
quello di inserirci nel contesto storico originato da Cristo. Ricevere i sacramenti cristiani
significa: entrare, nella fede, nella storia inaugurata da Cristo, in quanto questa è quella
storia salvatrice che apre all’uomo quell’insieme di nessi storici nei quali l’uomo può
veramente vivere e pervenire alla sua autenticità propria, nell’unità con Dio che costituisce
il suo futuro eterno. […]

Il senso dei sacramenti oggi


[…] Io credo che l’atteggiamento contrario ai sacramenti che predomina oggi nella
mentalità media, poggia su un duplice equivoco antropologico, penetrato profondamente
nella coscienza universale a partire da alcuni fattori del nostro tempo (cioè della forma
della storia data già a noi in precedenza). Esercita qui il suo influsso il disconoscimento
idealistico dell’essere umano, arrivato al suo apogeo con Fichte, quasi che l’uomo possa
essere uno spirito autonomo che si costruisce tutto sulle proprie decisioni, prodotto
esclusivo di esse nient’altro che volontà e libertà intollerante di tutto ciò che non è
spirituale, prendente forma totalmente in se stesso. L’io creativo di Fichte riposa, per
esprimerci in termini blandi, su uno scambio dell’uomo con Dio, e la posizione dei due sullo
stesso piano, che egli di fatto opera, è l’espressione assolutamente conseguente del suo
punto di vista ma nello stesso tempo la categorica condanna di questo, perché l’uomo non è
Dio: per sapere questo è sufficiente in fondo di essere solo un uomo. Per quanto assurda
questa forma di idealismo possa apparire, tuttavia essa è profondamente radicata nella
coscienza europea (almeno in quella tedesca). Quando Bultmann dice che lo spirito non può
essere cibato materialmente e crede quindi così superato il principio sacramentale, in
ultima analisi si tratta sempre della rappresentazione ingenua della autonomia spirituale
dell’uomo.
Fa effettivamente una strana impressione che, nell’epoca nella quale si crede di riscoprire
la corporalità dell’uomo e si pensa che lo spirito può essere solo nel modo della corporalità,
possa ancora continuare ad operare, o addirittura pervenire al suo pieno sviluppo, una
metafisica dello spirito che si poggia sulla negazione di questi rapporti. Per essere giusti
dobbiamo riconoscere che, molto tempo prima di Fichte, la metafisica cristiana aveva
assunto una forte dose di idealismo greco e aveva quindi preparato in maniera notevole
questo equivoco. Anche essa considerava le anime umane fortemente atomizzate,
edificantesi in libertà astorica; essa quindi era a stento capace di dare una spiegazione alle
affermazioni così storicamente determinate della fede cristiana sul peccato originale e sulla
redenzione; i sacramenti, che sono l’espressione della tessitura storica dell’uomo, divennero
il nutrimento per l’anima di uno spirito che riposava in se stesso. A partire da qui ci si
potrebbe realmente chiedere perché Dio non sceglie una via più semplice per incontrarsi
come spirito con lo spirito dell’uomo e comunicargli la sua grazia. Se si trattasse solo del

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

fatto che le singole anime in quanto singole sono interpellate dal loro Dio e da lui ricevono
la grazia, allora non si vedrebbe come, in questo processo del tutto interiore e spirituale,
potrebbe avere un significato il ruolo della Chiesa e dei mezzi materiali sacramentali. Se
però non esiste l’autonomia dello spirito umano, se questo non è un atomo spirituale senza
relazione alcuna, ma in quanto uomo vive solo corporalmente, nella comunione con gli altri
uomini e con la storia, allora la questione si pone in termini radicalmente diversi. Allora il
suo rapporto con Dio, se deve essere un rapporto umano, deve essere conforme alla sua
natura: corporale, storico, interumano. Altrimenti esso non si dà. L’errore dell’idealismo
antisacramentale consiste nel fatto che esso vuoi fare dell’uomo un puro spirito davanti a
Dio. Al posto dell’uomo non rimane qui che uno spettro inesistente. E una religiosità
costruita su siffatti fondamenti è costruita di fatto su sabbia illusoria.
Con l’eresia idealista (se la vogliamo chiamare così), si unisce oggi in maniera tutta propria
quella marxista, di cui Heidegger ha detto in maniera intelligente che il materialismo non
consiste nel fatto di interpretare ogni essere come materia, ma nel ridurre tutta la materia
a semplice materiale del lavoro umano. In realtà è soltanto qui, nel prolungamento
antropologico della prospettiva ontologica, il centro vero dell’eresia: nella riduzione
dell’uomo ad homo faber che non ha a che fare con le cose in sé, ma le considera soltanto
come funzioni del proprio lavoro di cui egli stesso è diventato il funzionario. Con ciò viene a
cadere la prospettiva del simbolismo e la capacità dell’uomo di intravedere l’eterno. L’uomo
viene confinato nel mondo del suo lavoro e la sua unica speranza è che le successive
generazioni possano trovare condizioni di lavoro più agevoli grazie alla sua fatica per la
creazione di siffatte condizioni. Una consolazione davvero meschina per un’esistenza
miseramente ridotta!
Con queste prospettive siamo senza volerlo ritornati al punto di partenza delle nostre
riflessioni. Adesso ci possiamo chiedere ancora una volta: cosa fa realmente l’uomo che
celebra il culto della Chiesa, i sacramenti di Gesù Cristo?
[…] Egli fa questo perché sa che in quanto uomo, può incontrarsi con Dio solo in maniera
umana; in maniera umana sta però a significare: nella forma della comunione umana, della
corporalità, della storicità. Ed egli fa questo perché sa che in quanto uomo non può disporre
da se stesso quando e come Dio gli si deve mostrare, bensì che è colui che riceve, che è
rimandato alla potenza già data, non producibile con le proprie forze, che rappresenta il
segno della libertà sovrana di Dio che determina da se stesso il modo della sua presenza.
Nessun dubbio: la nostra pietà è stata spesso a tal proposito un po’ superficiale e ha dato
luogo a diversi equivoci. Sotto tal punto di vista la coscienza moderna, con le sue domande
critiche, costituisce un’esigenza di purificazione salutare per l’autocomprensione della fede.
[...] Affermazioni come «qui abita Dio» e un colloquio, ugualmente motivato, con Dio
localmente inteso, tradiscono una disconoscenza sia del mistero cristologico che del
concetto di Dio, disconoscenza che urta necessariamente l’uomo consapevole
dell’onnipresenza divina. Se si volesse motivare l’andare in Chiesa con la ragione che si
vuole visitare Dio che ivi abita, ci troveremmo di fronte ad una motivazione che non ha
alcun significato e a ragione viene respinta dall’uomo moderno. […]
E questo è in ultima analisi il senso del nostro andare in Chiesa: l’inserimento di noi stessi
nella storia di Dio con l’uomo, nella quale soltanto io in quanto uomo ho la mia esistenza
umana autentica e la quale soltanto mi apre lo spazio vero per l’incontro con il Dio
dell’eterno amore. Questo amore, infatti non ricerca uno spirito isolato che (come abbiamo
già detto) sarebbe soltanto uno spettro in rapporto alla realtà dell’uomo, ma l’uomo nella
sua totalità, nel corpo della sua storicità. Quest’amore dona all’uomo, nei sacri segni dei

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sacramenti, la garanzia della risposta divina, nella quale perviene al suo scopo, e al suo
adempimento la questione aperta dell’essere umano.

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4. 4. L'esperienza liturgica come “epifania” (R. Guardini) (85)

Nel pensiero di Guardini la liturgia si innesta nell'orizzonte più ampio


dell'esperienza religiosa. La Lettera ai Romani (1,19-21) afferma che il Dio
invisibile può essere visto attraverso le realtà create. Secondo Guardini, l'occhio
vede delle “realtà formate”: ciascuna di esse è qualcosa di più delle singole parti che
la compongono. L'uomo che guarda, dietro ai dati, può afferrare qualcosa di
ultimamente autentico. Le cose rivelano qualcosa di ulteriore ad esse, sono dei
plusvalori. Ognuna dice più di quello che è; allude a qualcosa che essa non è, ma
che appartiene e partecipa della sua realtà, come sua origine, egresso, senso ultimo.
Questo originario e universale Autentico che sta dietro ad ogni singola autenticità è
la realtà religiosa; è l'energia creatrice di Dio, la realtà che deriva dal fatto che le
cose sono create. Secondo Guardini, la creaturalità di ogni cosa si può vedere e non
solo dedurre o accettare per fede. Tuttavia il vedere è sempre condizionato dalle
nostre scelte; l'uomo non vede ciò che non vuole vedere. Egli vede la creaturalità del
mondo solo se ha un cuore pronto ad amare Dio e a obbedirgli (86).
Nella storia sacra è presente il concetto di "epifania" che è l'apparire del divino in
forma sensibile. Noi spostiamo molto l'attenzione sull'aspetto dottrinale o morale
della rivelazione; in realtà essa ha alla base qualcosa di più elementare: la vivente
azione di Dio. Com'è possibile che Dio, che è al di là di tutto ciò che è mondo,
"venga", "abiti", "operi", non è cosa facile da spiegare; forse è proprio qui lo
"scandalo" della rivelazione.
Nell’Antico Testamento gli uomini hanno una coscienza straordinaria della
presenza di Dio, che opera, guida, soccorre, giudica. Nel Nuovo Testamento
l'epifania raggiunge la sua pienezza in Gesù Cristo. Gesù afferma: "chi vede me,
vede il Padre" (Gv 14,9) e gli apostoli: "noi abbiamo veduto la sua gloria" (Gv 1,14;
vedi: 1Gv 1,1-3). Non sono metafore, ma realtà. Gesù è epifania di Dio Padre, in
tutto ciò che compie: nelle parole e nelle azioni.

(85) Il paragrafo fa riferimento a: GUARDINI, L'occhio e la conoscenza religiosa e L'esperienza liturgica


e l'epifania, in Scritti filosofici, 2, p. 141-155 e 157-177.
(86)Le affermazioni di Guardini corrispondono a quanto afferma il concilio Vaticano I (1870) nella
costituzione Dei Filius, che afferma che “Dio, principio e fine di ogni cosa, può essere conosciuto con
certezza mediante la luce naturale della ragione umana a partire dalle cose create […] ma tuttavia è
piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare se stesso al genere umano, nonché gli eterni decreti della sua
volontà per altra via, questa volta soprannaturale” (n° 2). Vedi: DENZINGER Enchiridion
Symbolorum, p. 1047-1048.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

L'elemento epifanico è basilare per l'esistenza nella fede, come Dio l'ha progettata;
pertanto esso deve esistere anche dopo l’ascensione. Per questo Gesù ha detto: "Chi
ascolta voi, ascolta me" (Lc 10,16) e Paolo può affermare: "Non sono più io che vivo,
ma Cristo vive in me" (Gal 2,20); così il martirio di Stefano è vissuto in un rapporto
tipologico con quello di Cristo (At 6,15); e le parole di Pietro, dopo la Pentecoste,
partecipano della potenza delle parole di Gesù (At 2,37). Per grazia, può verificarsi
che, nell'annuncio del messaggio cristiano, si possa udire l'eco del Cristo che parla,
come negli atti del cristiano e della comunità si possa vedere l'irradiare del volto di
Cristo.
Se noi leggiamo la storia di conversioni di singoli e di popoli, restiamo colpiti da
fatto che la commozione religiosa che stimola il mutamento interiore si diffonde
soprattutto dalle celebrazioni liturgiche. Ciò può avvenire perché nella liturgia
abbiamo l'irradiare, il vibrare, il farsi tangibile della realtà divina.
L'uomo, oggi, ha bisogno di una verità che non sia solo concettuale, ma esistenziale:
una realtà illuminata. Il mondo diviene salvo solo quando appare nella sua verità,
cioè appare come volto, lineamento, parola, in cui Dio si manifesta (Sal 28: "I cieli
narrano..."). Nella liturgia l'uomo deve poter trovare l'epifania, l'apparire luminoso
della realtà sacra, l'apparire sonoro dell'eterna parola, la presenza dello Spirito
nella corporeità. Quando nei documenti del magistero si parla di "presenza" di
Cristo nell'azione liturgica, non si tratta solo di una presenza che viene accettata
per pura fede, ma di una presenza che deve diventare anche esperienza.
Condizione di questa esperienza è: "l'aprirsi verso il procedimento liturgico; il
penetrare nelle sue intenzioni; il lasciarsi condurre dalla sua logica immaginosa e
dinamica; il comprendere che cosa vuole, esso stesso, non la sua teoria, e prendere
così ciò che irradia da esso". Come nell'espressione del corpo si rende visibile
l'anima, nell'espressione delle cose, la loro condizione di creature, così nel simbolo
liturgico si rende visibile la gloria di Dio.
Si è persa la capacità di percepire ciò? Compito pratico della liturgia: restituire
l'uomo a se stesso e curare le malattie della civiltà contemporanea; sanare l'occhio,
in modo da renderlo capace di vedere la gloria di Dio; sanare l'orecchio perché possa
percepire la sua voce. La liturgia non è fatta di norme o dottrine astratte; è realtà
contemplabile, percettibile, udibile; è azione in cui si entra agendo. E' epifanica
perché in essa le cose, le parole e le azioni non hanno scopi utilitaristici, "non
servono a nulla, ma rivelano significati". Pertanto è lontana da una mentalità come
quella odierna, ove tutto deve avere uno scopo, dove prevale un fare senza
immagini, perché alle immagini si sono sostituiti i concetti astratti e al posto delle

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

cose, i congegni meccanici. Su questa via, però, l'uomo si ammala, perché non può
vivere solo di concetti e di congegni. La psicologia ci dice che le immagini, i simboli,
sono costitutivi del suo inconscio.
Secondo Guardini, c’è il rischio che il fedele, nella liturgia, non guardi, non
contempli, ma osservi e constati; non ascolti, ma prenda informazioni, non oda, ma
legga. C'è il rischio che la liturgia diventi solo mezzo di istruzione e di edificazione.
Occorre invece che esso entri con l'anima e col corpo nell'azione liturgica, s'imbeva
del suo significato. Spesso però anche l'azione sacra non è compiuta in modo che
possa esercitare la sua potenza sul credente e rivelare il suo significato. Le parole e
i segni devono essere comprensibili; ciò non avviene quando i segni sono troppo
contratti. Per questo, afferma Guardini è importante un'opera costante di riforma e
di formazione liturgia.

LETTURA

GUARDINI R., L'occhio e la conoscenza religiosa, in Scritti filosofici, 2, F.lli Fabbri, 1964,
p. 141-155.

L’occhio e la conoscenza religiosa . Considerazioni filosofiche intorno a Rm 1,19-21.


Nel primo capitolo della Lettera ai Romani Paolo dice: «Ciò che infatti è conoscibile di Dio è
in essi [gli uomini] manifesto, perché Dio lo ha loro manifestato. Giacché l’invisibile di Lui
è dalla creazione del mondo veduto nelle sue opere dall’ [occhio dell’] intelligenza, la sua
eterna potenza cioè e la sua divinità, così che essi sono inescusabili: perché appunto essi
hanno conosciuto Dio, ma non hanno reso a Lui né gloria, né riconoscenza come a Dio, ma
sono diventati vani nei loro pensieri e il loro cuore inintelligente si è oscurato» (Rm 19-21).
[…]
[…] Jacob Burckhardt viene a parlare a un certo punto della religione e si domanda come
sia nata. Egli espone varie teorie e conclude con il risultato che la sua origine si basa sulle
esigenze metafisiche dell’uomo. Il modo come la questione è posta, è caratteristico di tutto
il pensiero moderno, poiché questo presuppone senz’altro che la religione sia «sorta», vale a
dire, che si possa risolvere in funzioni e spiegare con delle cause. La questione poi viene
risolta con la scienza delle religioni in maniere diverse. Si dice, per esempio, che la
religione nasce dalla paura; più esattamente dalla particolare paura degli uomini primitivi
che si trovavano a guardare un mondo ignoto e non dominato. […] Un’altra risposta parte
dal contrasto fra l’istinto e la volontà dell’individuo e la volontà dell’ambiente. Alla volontà
di vita del bambino si para di fronte quella dei genitori che rappresentano per lui il no
assoluto. […] Tutti questi no di opposizione con la loro potenza incompresa quanto
ineliminabile assumono il carattere d’una misteriosa assolutezza, che si trasforma in
divinità. […] Esistono varie altre risposte di questo genere, psicologiche, sociologiche e
storiche. Ma se si esamina bene il modo delle varie domande e risposte, si vede che le più
diverse possibilità vengono prese in considerazione, e soltanto una no: che la religione, cioè,
sia “sorta” dal fatto che Dio esista: che il comportamento religioso dell’uomo risponda a una
realtà, alla realtà di Dio e formi con essa una relazione primordiale che sia simpliciter
data, essenziale e necessaria. L’età moderna si comporta come uno il quale alla domanda in

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che cosa si fondi la vista, risponde che essa sorge dall’obiettivizzazione di certe sensazioni o
dal desiderio dell’individuo di superare la propria solitudine o da tante altre cause
consimili, ma omette di considerare una unica possibilità, quella cioè che il vedere sia la
risposta alla realtà di fatto che c’è qualcosa da vedere; che le cose e l’occhio, la realtà e la
sua apprensione compongono insieme una delle relazioni elementari in cui consiste
l’esistenza.
L’esempio dell’occhio non è stato citato a caso […]. In verità io vedo fin dal primo istante
“realtà formate”, in cui ogni elemento si regge su tutti gli altri elementi, ed il tutto è
altrettanto fondamentale che la somma delle singole parti. Questa realtà formata poi non è
soltanto corporea. Essa importa leggi di proporzione, nessi funzionali, forme evolutive,
immagini essenziali, schemi di valore, e tutto questo è altrettanto spirituale che materiale.
La cosa puramente materiale non esiste affatto, e il corpo è già fin dal principio
spiritualmente determinato. E quest’elemento spirituale non viene aggiunto poi, per
esempio, da successivi atti intellettuali, alla conoscenza delle cose viste, ma è afferrato
subito per quanto imperfettamente e imprecisamente. “Vedere” - forse è meglio dire
“scorgere” - significa anzitutto e fondamentalmente venir colpiti dall’apparire significativo
dell’oggetto e sollecitati alla comprensione del suo contenuto. […]
Egualmente l’occhio vede la vitalità dell’animale prima di percepire i singoli elementi
componenti. Esso non dice: questo è una realtà corporea, come lo è il cristallo, benché con
altre forme e variazioni, a cui poi l’intelletto aggiunga le determinazioni più immediate
dell’animale, del quadrupede, del cavallo; ma vede fin dal primo istante un cavallo, anzi
questo cavallo: per quanto ciò inizialmente succeda in forma indistinta e solo a poco a poco
tutto si chiarisca attraverso esami, confronti e distinzioni. La vitalità (in senso ontologico)
dell’animale, del cavallo, la individuale vitalità di questo particolare cavallo è la prima cosa
che l’occhio vede, e vede ogni altro singolo elemento soltanto in rapporto ad essa.
E che cosa vedo quando m’imbatto in un essere umano? […] Quando io guardo nel mobile
viso d’una creatura umana, vi vedo l’intelligenza o la bontà o la collera. Non percepisco
solamente increspature epidermiche o movimenti muscolari per poi verificare dietro di loro,
con il mio pensiero, i corrispettivi fenomeni spirituali, ma afferro un’espressione in atto.
Ora “espressione” significa che l’essenziale delle cose, invisibile di per sé, giunge alla
visibilità; che l’autentico delle cose viene non soltanto segnalato, ma tradotto nei dati
immediati e può essere allora, appunto, veduto. La stessa cosa vale per la figura, la
fisionomia, l’azione. Ovunque io guardo un essere umano, vedo più o meno chiara, più o
meno piena, la sua anima. E se appena ciò non avviene, io non vedo più - in grado
esattamente proporzionale - un essere umano, ma qualcosa d’utile o di godibile, un
congegno tecnico o un organismo. Anzi a me sembra che quando guardo un uomo, vedo la
sua anima addirittura prima, per lo meno secondo una priorità normativa, del suo corpo.
Vedo il suo corpo, fin dal principio, soltanto nella sua anima, dall’anima illuminato,
dominato, caratterizzato. Quando uno mi viene incontro con amabilità o con ira, cosa
decisiva, che subito noto, è il suo sentimento e soltanto in esso io afferro poi il resto. Le
singole parti del suo volto, le mani, i passi, tutta la sua mobile struttura corporea, il suo
vestire e le altre cose che porta con sé: tutto questo io vedo nel suo amore o nel suo odio.
L’occhio è dunque molto di più di ciò che una mentalità meccanico-biologica gli consente
d’essere. “Vedere” è incontro con la realtà […]. L’atto essenziale dell’occhio consiste
nell’afferrare l’autentico che appare nei dati immediati. Se all’occhio non si concede tutta
questa estensione, esso non è che un apparecchio fotografico, del quale per di più non ci si
può neppure ben fidare, dato che, come ha dimostrato la psicologia, in esso si riscontrano di
continuo errori che una macchina fotografica non commette. E sono errori derivanti

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appunto dal fatto che l’occhio non è soltanto una macchina; dal fatto che esso è dominato da
una interiorità le cui tensioni influiscono immediatamente nelle funzioni visive.
C’è dunque nel vedere, fin dal principio, una decisione: lo faccio per affermare me stesso o
per conoscere la verità? Voglio “dominare” il mio vedere, ossia violentare l’essere che vedo,
oppure servirlo, ossia obbedire al significato comandato dall’essere? […] O io assumo
l’esistente soltanto come materiale per la mia caparbia volontà e come ambiente per la mia
autoaffermazione. Oppure io miro alla “giustizia”; riconosco che il vedere ha per suo
significato quello di scoprire la verità; concedo alla verità per se stessa, magari contro il
mio interesse, libero spazio: allora l’essenza delle cose può affacciarsi al mio sguardo
com’essa è. […] Il significato di tutto l’insieme sarà diverso a seconda dell’esito di quella
decisione, e da essa dipenderà anche la maniera come tutto quell’insieme si svolgerà e
verrà valutato. […]
L’“apparire” delle cose rende non soltanto chiara la loro essenza, ma chiaro dietro ad essa
qualcosa d’altro, qualcosa d’ultimamente autentico; dietro ad ogni esprimibile qualcosa di
arcano e insieme di profondamente intimo; qualcosa che si distingue da tutte le cose e che
tuttavia soltanto può donare ad esse il loro definitivo peso d’esistenza. È sempre identico in
ogni cosa, ma viene in ognuna all’espressione in un modo a ciascuna proprio. Misurate
secondo il loro essere immediato, tutte le cose sono, per così dire, dei plusvalori ognuna dice
più di quello che è. Ognuna allude qualcosa che essa stessa non è, ma che appartiene e
partecipa alla realtà della cosa come sua origine, egresso, senso ultimo, e senza di cui la
cosa sarebbe come sminuita, irrilevante, insignificante, deprezzabile. Questo originario ed
universale Autentico che sta dietro ogni singola autenticità è la realtà religiosa. E’ Dio.
Detto più precisamente: l’energia creatrice di Dio. Ancor più precisamente: la realtà di
fatto che le cose sono create. Ed ecco allora la nostra ipotesi: anche questa realtà di fatto si
può “vedere”. […]
Noi la vediamo veramente. Di ciò parla il versetto della Lettera ai Romani: «Ciò che è
infatti conoscibile di Dio è in essi [gli uomini] manifesto, perché Dio lo ha loro manifestato.
Giacché l’invisibile di Lui è dalla creazione del mondo veduto nelle sue opere dall’occhio
dell’intelligenza, la sua eterna potenza cioè e la sua divinità» (Rm 1,19-20). Dinanzi a
questo fatto si sentono, mi pare. imbarazzati sia il razionalismo, sia un’angusta religiosità.
Quello perché vuole confinare la religione nella sfera neutra della “pura fede”; questa
perché ha paura di attirare Dio nel mondo. Ma ciò che Paolo dice è verità. Il mondo è più
che solo “mondo”; ed ogni cosa più che solo “una cosa”; e l’occhio umano più che un puro
organo fisio-psicologico.
La fede dice che le cose e la loro unità, il mondo, sono create da Dio: come si esperisce
questa loro condizione di creature? La consueta risposta suona: da una parte per mezzo del
pensiero, il quale da certi dati obiettivi e significativi, soprattutto dalla finitezza di tutta la
realtà data, conclude che il mondo non può sussistere per se stesso; dall’altra parte per
mezzo della fede, nella quale Dio si rivela a noi come creatore e proclama il suo dominio sul
mondo. Questa risposta è naturalmente giusta; ma ci si domanda se include tutto ciò che si
può dire al riguardo. Non si deve inoltre dire che la creaturalità del mondo - la “eterna
potenza e la divinità” del passo paolino - si vede? La risposta suona forse insolita; però la
novità non è un’obiezione soprattutto quando sia possibile mostrare da dove l’obiezione ha
origine. Essa ha origine nell’intellettualismo moderno, il quale forma l’altra parte del
moderno materialismo. L’uno e l’altro hanno svuotato il significato di tutti i concetti
davvero vitali, in particolare il concetto dell’essere e dell’operare umano.
[…] La cosa d’arte esiste diversamente da una cosa di natura. L’oggetto d’arte dipende
dall’uomo, […] come da un essere che conosce la verità e in base alle conosciute possibilità
organizza il proprio operare. Per stabilire questa diversità fra le forme d’esistenza io non

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ho bisogno di “pensare”, ma la vedo. Essa testifica di se stessa con il proprio esserci, con il
proprio atteggiarsi, con il suo proprio funzionare. […]
Non è, forse vero che io semplicemente vedo che le cose, nella loro totalità, non possono
stare in se stesse, allo stesso modo che l’arnese non può stare in se stesso? Che io vedo
ch’esse sono create? E se io vedo la loro creaturalità, non vedo con questo anche la loro
relazione col Creatore? Tale relazione non si esprime immediatamente nelle cose da Dio
create? [...] Le cose si attestano come “opere”: e precisamente come opere di sacra potenza.
Non solo come formate, ma come create. In un’opera d’uomo - un arnese, un’organizzazione,
una scultura - io vedo che è vincolata al suo autore. […] Analogamente ogni esistente pende
da qualcosa che è al di là di esso. Esiste in un rapporto qualitativo. Non è «natura»,
autointelligibilità in sé stante, ma “opera”. E ciò in senso radicale, assoluto: “creaturalità”.
[...] L’occhio non può vedere Dio in Sé: sibbene la realtà di fatto che Egli ha creata questa
cosa, questa unità delle cose, il mondo. […]
Si obietterà che, se ciò fosse vero, l’uomo non potrebbe fare a meno di conoscere Dio. Il che
non si può assolutamente dire, e dunque l’opinione suesposta non coglie nel segno. Ma
l’obiezione non regge. Se quanto è stato più sopra detto circa le condizioni dell’umano
conoscere coglie nel segno, esso deve avere una importanza massima proprio qui circa la
conoscenza di Dio. Perché se c’è una cosa che tocca da vicino l’uomo, è la realtà di Dio.
Tutta la sua vita cambia, se egli conosce e riconosce Dio; o se seriamente giudica che Dio
non è; o se elude la decisione al riguardo; o lascia che il problema muoia. Tutto ciò ha nei
riguardi del suo comportamento verso il manifesto carattere d’opera di Dio delle cose la
incidenza massima; fa sì che egli veda o non veda o rimanga annebbiato.
Ma è possibile che ci sia qualcosa davanti agli occhi e non si veda? L’esperienza d’ogni
giorno dimostra quanto facilmente e sovente ciò si verifichi. E la psicologia degli “errori” ha
indicato in un modo da far arrossire l’orgoglio quanto il vedere sottostia all’impero
dell’interiore volontà.
Anche quando si tratta proprio di Dio? Di quell’essere perfetto la cui azione fonda e porta
tutte le cose? Appunto perché Dio è perfetto, e possibile. Appunto perché l’operare di Dio è
la condizione per cui ogni esistente sussiste, può passare inavvertito: la perfezione non
sorprende. Gli strimpelloni rompono i timpani; le cose perfettamente fatte si rendono ovvie
e proprio perciò inavvertite.
Nel Discorso della Montagna sta scritto: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt
5,8). Secondo il loro senso primario, queste parole si riferiscono chiaramente a quella
situazione interiore che si avvererebbe, se il Regno di Dio bandito da Gesù si realizzasse
immediatamente; poi alla situazione in genere dell’uomo salvato e perfetto. Ma siamo bene
autorizzati a riferirle, in coincidenza con la Lettera ai Romani (Rm 1,19-20), anche
semplicemente alla capacità conoscitiva religiosa dell’uomo e ad interpretarle come
dichiarazione dei presupposti d’un vedere Dio nella vita terrena.
Le radici dell’occhio sono nel cuore; nella intimissima presa di posizione verso le altre
persone come verso la totalità dell’esistenza: una decisione che passa attraverso il centro
personale dell’uomo. In ultimo, l’occhio vede dal cuore. Questo intendeva dire Agostino,
quando diceva che soltanto l’amore è capace di vedere. Ora il “cuore puro” è il giusto amore
del cuore. Quest’amore non comincia con il desiderio ma con il rispetto. Il suo primo atto
non è un protendersi, ma un ritrarsi. Esso rinuncia cioè a fare dell’amato un frammento del
suo proprio mondo; concede libero spazio alla sua esistenza ed è pronto ad andargli
incontro e ad accoglierlo nel proprio spazio esistenziale. […] La stessa cosa avviene, e in
forma decisiva, anche qui. La creaturalità può essere veduta nelle cose del mondo. Dal
modo come esse esistono si rende chiara l’operazione creatrice. Tuttavia l’uomo può non
avvertirla se il suo cuore non è “puro”, ossia non è pronto ad amare e ad obbedire. La

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disobbedienza contro Dio comincia col fatto che l’occhio non vede più ciò ch’è di Dio. […]
Che la creaturalità, in dipendenza della «eterna potenza e divinità», non sia la prima cosa
che l’uomo vede nel mondo? Presupponendo naturalmente che egli abbia un «cuore puro»
pronto ad amare e ad obbedire? […]
L’anima, la forma fondamentale psico-fisica, è la cosa prima e autentica; nonostante ciò
l’uomo può totalmente assorbirsi nel pratico, nell’utile e nel realistico da non vederla più e
da non vedere negli altri uomini che dati economici o biologici o che altro. Egualmente un
prolungato rifiuto del volere, un rigurgito sempre nuovo d’impurità del cuore, una colpa che
diventa catena sempre più lunga nella storia possono avere per effetto che la cosa più
svelata e più certa, cioè l’autoattestazione di Dio nella realtà del mondo, diviene discutibile
per l’uomo. È quanto lo stesso Paolo afferma subito dopo il passo già citato della Lettera ai
Romani: «La collera di Dio si rivela dal cielo contro ogni irreligiosità e ogni ingiustizia degli
uomini che opprimono la verità nell’ingiustizia». Perché essi «non hanno reso a Lui né
gloria, né riconoscenza come a Dio, ma sono diventati vani nei loro pensieri e il loro cuore
inintelligente si è oscurato» (Rm 1,18-21 ss.).
Noi crediamo che lo stato del nostro attuale conoscere sia quello naturale ed essenziale. Ma
il nostro conoscere, sia detto un’altra volta, è il nostro vivere. In esso noi esistiamo. Esso ha
perciò una storia, e questa storia si annida in ogni attuale situazione conoscitiva. Ma alla
storia del conoscere umano appartiene anche quella disobbedienza, a causa della quale
l’uomo ha sempre di nuovo chiuso, dal suo cuore, il suo occhio verso Dio. Ciò che per lunghe
epoche era stato la volontà e il fatto di molti uomini singoli, è diventato a poco a poco
condizione generale: d’una tale condizione parla la Lettera ai Romani. Le sue parole sono
Rivelazione che dev’essere accettata sul serio. Noi dobbiamo vedere nella nostra situazione
conoscitiva il risultato d’una vicenda storica che è piena di colpa e che domanda
resipiscenza. Noi dobbiamo cambiare questa situazione facendola finita con i suoi
presupposti. La «metànoia» che domandano le prime parole di Cristo (Mt 4,7) si riferisce
non solo ai nostri costumi, ma anche alla nostra conoscenza. La critica cristiana della
conoscenza è non solo teoretica, ma anche pratica. […]

LETTURA

GUARDINI R., L'esperienza liturgica e l'epifania, in Scritti filosofici, 2, F.lli Fabbri, 1964,
p. 157-177.

L’epifania nell’Antico Testamento.


Nella storia sacra esiste un fenomeno, il cui significato in ordine alla vita cristiana - a mio
vedere - è rimasto a lungo inosservato, ma che ora sembra affiorare con maggior chiarezza:
ed è l’epifania. […] In queste nostre considerazioni […] assumiamo il termine […] come
l’apparire del divino in forma sensibile.
Noi siamo inclini per antica abitudine a porre nella dottrina e nell’ordine morale il centro
di gravità della Rivelazione. Dottrina e moralità sono naturalmente di fondamentale
importanza; ma ci si domanda se esse da sole possano esprimere la pienezza di ciò che si
chiama “rivelazione”. Soprattutto nell’Antico Testamento - ma a ben guardare anche nel
Nuovo - non è difficile vedere che l’una e l’altra sono sorrette da qualcosa di più
elementare, cioè dalla vivente azione di Dio. […] “Rivelazione” significa che Dio entra in
questo mondo; che viene incontro all’uomo, abita presso di lui, gli parla, opera insieme con

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lui e in tal modo si manifesta a lui. Ciò avviene fondamentalmente con il patto del Sinai,
unitamente a tutto ciò che l’ha preparato. Avviene inoltre quando Dio guida e regge il suo
popolo attraverso il deserto; quando sceglie Gerusalemme per sua città, il tempio per sua
abitazione e il popolo per suo regno. Non si tratta di allegorie, ma di realtà. Come possa
succedere che l’Essere sovraspaziale, ovunque presente, che porta e penetra ogni cosa,
“venga”, “abiti” e “operi”, non è certo esprimibile per concetti; ma che ciò succeda, è quanto
caratterizza la Rivelazione e la distingue dalla religiosità naturale e dalla pura filosofia.
[…] Se possiamo servirci d’un paragone metafisico, Dio in sé sta al di là di tutto ciò che è
“mondo”. Anche se Egli lo compenetra abitandovi e operandovi, è tuttavia sempre
“dall’altra parte”, nella ritiratezza della sua sovranità. Ora Egli “viene dall’alto”. Ciò
avviene in forma progressiva attraverso i secoli della Rivelazione vecchio-testamentaria e
tocca la pienezza nell’Incarnazione. [...] Il Dio fatto uomo è ora, nella più estrema serietà,
“presso di noi”. Senza aver cessato di essere l’eterno figlio del Padre, Egli è nostro fratello e
appartiene d’ora in poi a noi. Prende il nostro destino per suo destino. Prende la nostra
colpa per sua colpa. Ciò che Egli vive, lo dona a noi.
Una più attenta familiarità con il Vecchio Testamento ci fa capire chiaramente che tutto
ciò forma il cuore della religiosità vecchio-testamentaria: quegli uomini devono aver avuta
una straordinaria coscienza della presenza dì Dio. Con questo non s’intende la
presenzialità che consegue dall’assolutezza di Dio, ma una presenza particolare che nasce
da una particolare decisione di Dio. [...]
Questa realtà si manifesta. E non soltanto per mezzo d’insegnamenti - se con il termine
s’intende l’esposizione d’un rapporto concettuale, il Vecchio Testamento “insegna” in genere
poche cose - ma come concreta realtà. A tutti gli organi dell’uomo essa si manifesta:
attraverso le forme luminose all’occhio; attraverso la parola all’orecchio; attraverso
comandi d’azione alle mani; attraverso la potenza della presenza al sentimento del reale.
Tutto questo è “Epifania”. “Epifania” significa dunque l’irradiare della luce divina e in se
inaccessibile (1Tim 6,16) nella realtà terrena in modo che l’occhio umano la possa vedere.
Significa pure il risonare della voce divina, in sé non udibile umanamente, in modo che
l’orecchio umano la possa percepire. […]
Le epifanie ora descritte erano di tale straordinaria natura che si verificavano solo nei
momenti importanti della storia sacra. Ma ne esistono anche di idonee alla vita d’ogni
giorno; non sarebbe altrimenti comprensibile la religiosità vecchiotestamentaria. […]
In questo contesto i Salmi acquistano veramente significato. I loro motivi conduttori, le loro
immagini e inoltre l’intero loro atteggiamento si fanno chiari, quando si veda che essi si
riferiscono a Colui che non è solo onnipresente e onnioperante, ma agente espressamente
in ogni punto particolare come fattore di storia. E questo Dio rende l’uomo certo di tale sua
presenza non solo con dottrine, ma anche con questa continua sua autotestimonianza.
Sempre e ovunque, nell’insegnamento come nel culto, nei grandi adempimenti storici come
nella guida dei destini individuali - da non dimenticare gli aspetti e i fenomeni della natura
nella loro varietà - Dio si rende al credente manifesto: ai suoi occhi, orecchi. mani, alla sua
intera sensitiva umanità. Chi non suppone, quanto ai Salmi, esperienze di tal genere,
vedrà, nei concetti, nelle immagini e negli atteggiamenti, ivi intesi del tutto concretamente,
delle pure forme espressive di fantasia orientale, e i Salmi perderanno così ai suoi occhi il
loro particolare carattere. Perderanno soprattutto quella viva loro concretezza che ne ha
fatto gli inni dell’antico culto biblico e la sostanza del tessuto testuale dell’attuale liturgia.

L’epifania nel Nuovo Testamento.


Quanto andiamo dicendo raggiunge la sua pienezza in Cristo. […] Egli è la vera e propria
epifania. Nel Prologo del suo Vangelo Giovanni dice: «Noi abbiamo veduta la sua gloria

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come quella dell’Unigenito del Padre» (Gv 1,14). E sul principio della sua prima lettera
ripete la stessa cosa con una precisione e un accento che non gli sembrano mai abbastanza
grandi: «Ciò che era dal principio, che noi abbiamo udito, che abbiamo visto con i nostri
occhi, che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato del verbo della vita, la
vita stessa è diventata manifesta, e noi abbiamo visto e testimoniamo e annunciamo a voi
la vita eterna che era presso il Padre e che si è manifestata a noi; ciò che noi abbiamo visto
e udito, annunciamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi» (1Gv 1,1-
3). E Gesù stesso ha dichiarato in un’ora solenne: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv
14,9).
E queste non sono, ripetiamolo, metafore, ma realtà. E’ l’esperienza apostolica specifica e
fondamentale, espressa da Giovanni verso la fine della propria vita e nella pienissima
coscienza della sua importanza. I concetti vengono soltanto dopo ed elaborano,
interpretano, chiariscono quanto prima aveva valore di purissimo dato. Quando la grazia di
Dio lo donava, e “il cuore era puro” (Mt 5,8) e la volontà “buona” (Lc 2,14), l’uomo poteva
guardare, percepire, toccare con le mani in Gesù di Nazareth la realtà vivente del Figlio di
Dio.
Ciò che in Gesù stesso era concreta manifestazione si attuava in tutto ciò che egli faceva. E
prima di tutto nella sua parola che «aveva potenza, non come quella degli scribi» (Mt 7,28),
e dunque non soltanto attraverso il contenuto obiettivo-concettuale, ma in forza del fatto
che in essa veniva percepito Colui stesso che parlava. Colui che era appunto la “Parola”
essenziale. E si attuava nelle sue azioni; e non soltanto in quanto esse erano “miracoli” e
come tali conducevano lo spirito pensante al di là delle possibilità della natura, ma anche
in quanto erano “segni” e in essi Dio rendeva nota la sua presenza.
Che cosa succede dell’elemento epifanico dopoché il Signore è “salito al cielo”? Se quanto è
stato detto è giusto, esso non significa certo qualcosa che si è verificato una volta per tutte,
ma si tratta d’un evento basilare per tutta l’esistenza nella fede come Dio l’ha voluta.
L’elemento epifanico deve dunque ripetersi sempre di nuovo in forme corrispondenti alle
esigenze e alle possibilità della vita quotidiana. Ma dove mai può verificarsi, dove “appare”
nell’esistenza cristiana quella realtà che è venuta fra noi nella Rivelazione e nella
Redenzione, e della quale il Signore ha detto che «essa resta con noi fino alla fine dei
tempi», e che «lo Spirito Santo prende e dona a noi»? (Mt 28,20; Gv 16,14).
Quando Stefano si trova dinanzi ai suoi giudici e grida che «vede il Signore nella sua gloria
seduto alla destra del Padre», lo scrittore sacro nota che «essi vedevano la sua faccia come
la faccia d’un angelo» (At 6,15). Il contenuto di questo splendore d’angelo è Cristo sulla
croce, le cui parole «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24) si
cambiano in bocca al discepolo così: «Signore. non imputare loro questo peccato» (At 7,60),
come pure nelle parole: «Signore Gesù, prendi il mio spirito» (At 7,59) risuonano le parole
di Cristo: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito» (Lc 23,46). Qui si verifica
epifania, irradiazione, risonanza della realtà di quel Cristo che, come l’erede di Stefano
dirà, vive nei suoi, in modo che ognuno di questi «vive, ma non lui vive, bensì Cristo in lui»
(Gal 2,20).
Quando, subito dopo la discesa dello Spirito Santo, Pietro s’avanza e parla, le sue parole
scuotono a tal punto gli uditori che questi si chiedono: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»
(At 2,37). Anche questo è epifania, perché quanto qui ha tanta forza di commozione, non è
il contenuto concettuale delle parole che convince con la sua verità e afferra con le sue
grandi promesse, ma ciò che risuona attraverso le parole e le idee, “la parola di Cristo in
potenza”. Come era il volto di Cristo quello che appariva nel volto di Stefano, così è la
parola di Cristo quella che risuona nella parola degli Apostoli. La frase: «Chi ascolta voi

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ascolta me» (Lc 10,16) ha un significato molto più concreto di quello d’una semplice
incombenza.
Non è con tutto ciò già scontato il fatto che nell’annuncio del messaggio cristiano ritorna
sempre a verificarsi l’eco del Cristo che parla - diciamo più cautamente: può tornare a
verificarsi? E in modo che il corpo sonoro della lingua con il significato ivi incorporato, e
dunque la parola vivente, diventa il mezzo espressivo della parola di Colui che solo
propriamente parla? Non necessariamente, ma per grazia: quando il Signore della parola lo
voglia e colui che ascolta sia preparato?
L’irradiare del volto di Cristo in quello di Stefano non dovrebbe, egualmente, di continuo
rinnovarsi attraverso la storia - detto anche qui più cautamente: potersi rinnovare? Ciò che
Paolo insegna circa l’uomo “nuovo”, che cioè è «trasformato dalla gloria del Signore
nell’immagine di Cristo, di gloria in gloria, come dal Signore che è [lui pure] Spirito» (2Cor
2,18), riguarda anzitutto il futuro escatologico. La piena e autentica epifania di Cristo
nell’uomo da lui salvato – come nel resto della creazione - è il compimento assoluto e avrà
luogo soltanto alla fine di tutto, negli “escata”. Ma ciò che là si compie, comincia già ora; lo
stesso Paolo ce lo ridice di continuo. L’immagine di Cristo può dunque brillare già ora, se il
Signore lo vuole, in colui che crede, nella espressione del volto, nell’atteggiamento e nei
modi d’agire. Non è, forse, questo ciò che si manifesta nel santo? E ciò che, in genere, si
mostra nell’essenza d’un cristiano, provocando in altri o l’amore o l’odio? […] Ed ora
sembra che anche la liturgia possa, anzi debba, essere organo d’un simile messaggio.

Il significato epifanico della liturgia.


Se noi leggiamo la storia delle conversioni dei popoli, si resta sorpresi dal fatto che la
commozione religiosa, in base alla quale avviene poi il mutamento interiore, si diffonde
soprattutto celebrazioni liturgiche. E se andiamo a interrogare che cosa abbia, per la prima
volta, colpito coloro che poi si sono convertiti e in che modo è incominciata la loro simpatia
per la Chiesa, troveremo spesso - se non quasi sempre - che e stato l’incontro con la
liturgia.
Ciò che là opera sono certo anche i concetti religiosi che si esprimono nel culto, come pure i
presentimenti di santa vita che vi nascono; ma oltre a ciò, e in modo tutto speciale,
l’irradiare, il vibrare, il farsi tangibile della divina realtà.
A questo punto dobbiamo renderci chiaro un fatto importante: la concezione moderna
dell’uomo non s’accorda con tutto ciò. Essa è in pari tempo spiritualistica e sensualistica;
l’una e l’altra cosa tradiscono la realtà di fatto che l’autentico umano-vivente vi manca. Da
una parte c’è e un intelletto che lavora astrattamente a mezzo di concetti; dall’altra il
sistema sensitivo-fisiologico che afferra sensazioni. Frammezzo, stranamente scentrato, un
sentire puramente emozionale. Ma l’uomo non è questo. Il suo spirito è incorporato e il suo
corpo spiritualizzato. L’uomo non è una “composizione”, ma un’unità vivente; ed è
quest’ultima che incontra le cose, gli altri uomini e Dio stesso.
L’antica filosofia ha detto: “Non c’è nulla nell’intelletto che prima non sia nei sensi”.
L’espressione aveva originariamente un assai ricco significato, che corrispondeva alla
maniera come l’uomo esperiva e pensava il suo proprio essere; ma poi piano piano quel
significato si è rattrappito in modo che i sensi ora sarebbero quelli che apprendono le
qualità materiali e l’intelletto quello che le elabora in concetti. Ma, con questo, il significato
genuino di quell’aforisma viene impoverito, perché i sensi, a cui esso si riferisce, sono quelli
pieni, quelli umani.
Questi sensi possono afferrare molto più che dati puramente materiali; essi afferrano
anche lo spirito vivente. Non il puro spirito finché esso e per sé, sibbene quello incarnato in
quanto esso si esprime. Espressione è il modo secondo cui qualcosa, che i sensi per se stessi

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non possono raggiungere, si manifesta nella realtà corporea. Tutto intero il corpo umano è
espressione. Aspetto del volto, atteggiamento, parola, tratto, tutto rivela l’intimità, la
mentalità, lo spirito. I sensi dell’altro possono, se sono vigili, afferrare ciò che vi si esprime.
[…] La contemplazione di ciò che irradia dalla realtà nascosta; la percezione di ciò che
risuona dall’eterno silenzio; la ricezione tattile fino alla intensità del mangiare e del bere,
sono fatti operanti anche nella liturgia.
L’uomo cerca sempre la verità. La ricerca di verità dell’uomo moderno ha però, se non erro,
un carattere particolare. Ciò verso cui egli tende non è tanto verità concettuale, ma
esistente; diciamo più precisamente: realtà illuminata. […]
Ma questo vuol dire che l’uomo cerca nella liturgia, consapevolmente o meno, l’epifania,
l’apparire luminoso della realtà sacra nell’azione liturgica; l’apparire sonoro dell’eterna
parola nel discorso e nel canto; la presenza d’un sacro Spirito nella corporeità delle cose
tangibili.
Non intendiamo dire con ciò nulla di fantastico, d’eccentrico o di miracolistico, ma anzi
qualcosa di affatto “normale”: normale ben si intende nell’ordine della grazia che è però
l’ordine dell’Incarnazione.
Uno dei modi fondamentali con cui la grazia agisce è proprio quello dell’epifania. Essa si è
adempiuta in forma straordinaria, quando il Signore era sulla terra e si poteva
«contemplare la sua gloria come quella dello Unigenito del Padre» (Gv. 1,14). Essa si
adempie sempre di nuovo nella quotidiana vita cristiana, nella diffusione della buona
novella, nei fatti della Provvidenza, nel volto dei figli di Dio e nella edificazione dell’ “opus
Dei”. Essa viene appresa con gli occhi, gli orecchi e le mani del credente, il quale è un
battezzato e nel quale quindi l’uomo nuovo è cominciato. Ciò significa anzitutto che la forza
espressiva della parola, degli atti e delle cose è efficiente in senso religioso. Che essa
dunque entra non soltanto intellettualmente nella mente o esteticamente
nell’immaginazione e nel sentimento, ma che va ad illuminare la conoscenza della fede, ad
avvivare ed educare la pietà religiosa del cuore, a suscitare la coscienza d’un mondo sacro e
divino. […]
Quando alla lettura del Vangelo, il diacono canta: «Lectio sancti Evangelii secundum...». e il
popolo risponde: «Gloria tibi, Domine», si intende apertamente che colui che parla in quel
Vangelo è il Signore. [...] Quando poi la lettura è finita, si dice: «Laus tibi, Christe». Dunque
il Signore stesso è là e parla. E questa presenza ed eloquenza non dovrebbe in qualche
modo toccare la coscienza del cristiano, nel quale l’uomo nuovo è cominciato? Con tutto ciò
noi non facciamo della teologia fantastica, perché la struttura stessa del processo liturgico
sollecita questi interrogativi. Ma noi moderni abbiamo disimparato a leggere i fenomeni.
Certo ci si fa la domanda: che cosa significa ciò? Noi verifichiamo un contenuto di realtà e
lo vogliamo interpretare. Ma ciò di cui si tratta è un’altra cosa: è l’aprirsi verso il
procedimento liturgico; il penetrare nelle sue intenzioni; il lasciarsi condurre dalla sua
logica immaginosa e dinamica; il comprendere che cosa vuole, esso stesso, non la sua
teoria, e prendere così ciò che irradia da esso. Il che francamente presuppone ch’esso venga
compiuto in modo che qualcosa vi possa irradiare. […]
Con tutto ciò non si vuole affermare alcuna falsa immediatezza con Dio. Ora come sempre
resta valido che Egli è invisibile, e quanto qui si va dicendo intende lasciare intatta simile
verità. Ma si vuole richiamare di nuovo alla coscienza un fatto fondamentale della nostra
vita, largamente dimenticato: che appunto questa nostra vita si effettua nella forma
dell’espressione eseguita e concepita. Nell’espressione del corpo si rende visibile l’anima;
nell’espressione delle cose la loro condizione di creature. E così anche “il Signore della
gloria”, quando la sua grazia lo voglia, può far sì che si renda visibile questa “gloria” nel
simbolo liturgico, in modo che noi «veniamo illuminati dalla conoscenza della gloria di Dio

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sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). Ciò può avvenire e qualcosa di ciò anche avviene di fatto
sempre. Non possiamo dire nulla di più, ma questo poco lo vogliamo sottolineare come
qualcosa di importante e di fondamentale. […]
Si vorrà forse obiettare che questi sono fenomeni carismatici e, come tali, stanno al di fuori
d’ogni spiegazione. Davvero? […]
Il carisma è un effetto dello Spirito Santo. Ma questo Spirito non è stato donato alla
Chiesa? Gli Atti e le Lettere di Paolo non ci narrano la storia iniziale dei carismi? E dove
sta scritto che questi sono stati riservati agli inizi? La cura d’evitare i malintesi e gli abusi
non ci ha fatto, forse, dimenticare la conoscenza e l’uso? Non sono, forse, i carismi uno degli
elementi costitutivi essenziali dell’esistenza cristiana […]? E la vita cristiana non è stata,
forse, resa così ragionevole, così ordinata, così in ogni suo senso normalizzata che c’è ormai
su di essa quel pericolo di cui per lo più elencando i pericoli ci si dimentica, ossia la
monotonia? […]
Una simile capacità [di pregare e pensare, guardando e contemplando], con l’avanzare della
storia è andata per gran parte perduta. Dal guardare si è passati ad un osservare e
constatare, in cui poi si innesta ordinando ed elaborando il lavoro dell’intelletto astratto.
Ma in tal modo non si adempiva affatto tutta l’essenza della liturgia e questa fu la causa
della decadenza della vita liturgica.
Ma quella capacità non può né deve andar perduta per sempre. L’uomo resta sempre uomo.
Il suo occhio è un occhio d’uomo, donato dal “Padre dei lumi” e destinato ad essere
trasformato un giorno nell’occhio che vede le realtà celesti. Al suo orecchio arriva la
chiamata della buona novella e alla sua bocca è destinato il Pane celeste. Gli organi ci sono;
devono soltanto essere riconosciuti, curati, adoperati. Ciò dal laico credente, ma anche dal
liturgo stesso. E la profonda aspirazione del tempo vuole che ciò avvenga, perché l’uomo
vuole uscire una buona volta dall’esistenza frantumata. […]

L’immagine liturgica e l’epifania


La relazione speciale che unisce la liturgia all’elemento epifanico sta nella sua natura
plastica e formale. La liturgia non è composta di norme o di dottrine astratte, ma tutto in
essa è contemplabile forma; percepibile parola e realtà tattile; azione in cui si entra
agendo. […]
Dappertutto vi troviamo cose che non servono a nulla, ma che rivelano significati: i simboli.
Circa poi le azioni che si compiono in Chiesa, basta semplicemente confrontarle, per
coglierne l’essenza, con ciò che succede in una fabbrica o in una scuola. Qui si tratta di
scopi che devono essere perseguiti, là invece si tratta di vita sacra in atto. Ma con ciò noi
urtiamo contro un penoso problema del nostro tempo. Uno dei suoi poeti l’ha definito
dicendo che tutto ciò che fa è «un fare senza immagine». Nell’avanzare dell’età moderna le
«immagini» sono via via scomparse sempre più, e al loro posto si sono inseriti concetti
astratti, forme organizzative, impianti tecnico-meccanici. […]
Noi non viviamo più nelle immagini. Al posto delle visibili immagini si sono istallati- i
concetti; al posto delle immagini incarnate i congegni; al posto dei ritmi vivi meccaniche
suddivisioni del tempo, e via dicendo. Che significato ha tutto ciò? Che conseguenze già per
la vita naturale?
Gli ottimisti dell’intelligenza e della tecnica dichiarano: tutto diventa migliore. Chi vede
più profondo, sa quale sciocchezza è questa. In realtà su questa via l’uomo s’ammala,
perché il suo essere intimo non può vivere di concetti e di congegni, ma soltanto di
immagini. […]
Anche nella Chiesa il contemplare vivente è stato per gran parte represso dal pensare
concettuale, il concreto rapporto con il Dio provvidente ed operante, dall’ordine “astratto”.

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Teologia dogmatica: SACRAMENTARIA GENERALE - Dispensa per gli studenti

Nulla è più lungi da me dell’intenzione di degradare l’intelletto e il suo lavoro. [...] La mia
convinzione è che il giusto rapporto delle diverse forze dell’anima si è squilibrato; che il
pensiero astratto e la volontà finalistica hanno invaso tutto il campo, e quegli atti di cui
l’uomo nel profondo vive, cioè il vivente guardare, il concreto incontrare, l’intimo penetrare
nella certezza, si sono su vasta scala inariditi. E così anche la liturgia vivente è diventata
per gran parte un puro mezzo di istruzione e di edificazione, o un’espressione di religiosa
solennità. Essa ha quasi cessato d’essere quello spazio, quell’ordine vitale, quel contenuto
di eventi in cui l’uomo redento, guardando, ascoltando. movendosi vive in sacre immagini.
Se si esamina attentamente la psicologia del comportamento liturgico, si noterà che il
fedele dei nostri giorni, per gran parte, realmente non guarda più, non apprende
guardando, non contempla, ma fissa lo sguardo, osserva, constata. Che egli non ascolta più
veramente, ma prende informazioni; o non ode in genere neppure, ma legge. E quanto
all’agire, al vivo comune compimento dell’azione sacra, è stata appunto una delle prime
constatazioni del movimento liturgico quella d’una comunità che da compartecipante era
diventata puramente spettatrice. Ma ciò vale analogamente anche per l’officiante liturgico.
O si può davvero affermare in tutta lealtà che egli non solo sa che cosa significa ed opera
l’azione sacra, ma che inoltre entra con l’anima e col corpo nella sua struttura, s’imbeve
della sua intenzione e la compie come una cosa viva dal suo centro significante? E non
soltanto questo o quello, in questa o quella occasione, ma normalmente e di regola? Non c’è
dubbio che la perdita verificatasi ai nostri tempi nella capacità umana di immagine e di
visione ha compromesso anche la realtà e la natura della liturgia. […]

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