Sei sulla pagina 1di 178

Raniero Cantalamessa

L'anima di ogni
sacerdozio

1
Collana Le Àncore
Immagine di copertina: La lavanda dei
piedi, (Salterio del Capitolo di Parigi, 1225
ca)

© 2010 Àncora S.r.l.


Àncora Editrice
Via G.B. Niccolini, 8 - 20154 Milano
editrice@ancoralibri.it
www.ancoralibri.it
ISBN 978-88-514-1431-3
Prima edizione digitale: giugno 2014

2
Premessa

Il volumetto raccoglie le meditazioni


tenute alla Casa Pontificia, in presenza del
papa Benedetto XVI, nell’Avvento del 2009
e nella Quaresima del 2010, in occasione
dell’anno sacerdotale indetto dallo stesso
pontefice per il 150° anniversario della
morte del Santo Curato d’Ars. Ad esse si
aggiunge, alla fine, il discorso tenuto in San
Pietro nel Venerdì Santo del 2010, sul tema
di Cristo Sommo Sacerdote.
L’anno sacerdotale è caduto, come si sa,
in un momento in cui il clero cattolico è
nell’occhio del ciclone per gli scandali della
pedofilia. Seguendo la linea indicata dal
papa nella Lettera di indizione dell’anno
sacerdotale del 16 giugno 2009, non ho
cercato tanto di far leva su un “puntiglioso
rilevamento” delle deficienze del clero,
quanto di aiutare a riscoprire la bellezza

3
della vocazione sacerdotale, “l’anima di
ogni sacerdozio”, e favorire così un
profondo rinnovamento del sacerdozio
“nello Spirito Santo”.
Ho ripreso qua e là delle idee espresse in
precedenti miei libri, in particolare La vita
in Cristo e, per l’ultimo capitolo, Maria,
uno specchio per la Chiesa, applicandole in
particolare ai sacerdoti.
Il libro però non è destinato soltanto ai
membri del clero, sacerdoti e vescovi, ma a
tutti i battezzati. Per due motivi: primo,
perché anch’essi devono conoscere chi è il
sacerdote e cosa rappresenta per loro,
secondo l’ammonimento che l’Apostolo
rivolgeva ai corinzi: «Ognuno deve sapere
chi siamo: servitori di Cristo e
amministratori dei misteri di Dio» (cf 1 Cor
4, 1); secondo, perché il sacerdozio
ministeriale è a servizio del sacerdozio
universale di tutti i credenti, tutti e due
partecipano, in modo diverso, del
sacerdozio unico di Cristo e si illuminano
l’uno con l’altro.
Sacerdoti e laici – gli uni in

4
rappresentanza di Cristo, gli altri in unione
con Cristo – sono chiamati a dire, anche a
nome proprio, rivolto ai fratelli, le parole
della consacrazione: «Prendete, mangiate,
questo è il mio corpo. Prendete, bevete,
questo è il sangue».

5
I
«Servi e amici di Gesù Cristo»

1. Alla sorgente di ogni sacerdozio


Il concilio Vaticano II ha dedicato al tema
del sacerdozio un intero documento, il
decreto Presbyterorum ordinis; Giovanni
Paolo II, nel 1992, ha indirizzato a tutta la
Chiesa l’esortazione post-sinodale Pastores
dabo vobis, sulla formazione dei sacerdoti
nelle circostanze attuali; papa Benedetto
XVI, nell’indire l’anno sacerdotale, ha
tracciato un breve ma intenso profilo del
sacerdote alla luce della vita del Santo
Curato d’Ars. Non si contano gli interventi
di singoli vescovi su questo tema, per non
parlare dei libri scritti sulla figura e la
missione del sacerdote nel secolo da poco
terminato, alcuni dei quali opere letterarie
di prima grandezza.

6
Che cosa si può aggiungere a tutto ciò?
Mi incoraggia il detto con cui, ricordo, un
predicatore iniziava il suo corso di esercizi:
«Non nova ut sciatis, sed vetera ut
faciatis»: l’importante non è conoscere cose
nuove, ma mettere in pratica quelle
conosciute. Rinuncio dunque a ogni
tentativo di sintesi dottrinale, di
presentazioni globali o profili ideali sul
sacerdote (non ne avrei né il tempo, né la
capacità) e cerco, se possibile, di far vibrare
il nostro cuore sacerdotale, al contatto con
qualche parola di Dio.
La parola della Scrittura che ci servirà da
filo conduttore è 1 Corinzi 4, 1 che molti di
noi ricordano nella traduzione latina della
Volgata: «Sic nos existimet homo ut
ministros Christi et dispensatores
mysteriorum Dei»: «Così ognuno ci
consideri: servitori di Cristo e
amministratori dei misteri di Dio». Ad essa
possiamo affiancare, per certi aspetti, la
definizione della Lettera agli Ebrei: «Ogni
sommo sacerdote, preso tra gli uomini, è
costituito per il bene degli uomini nelle

7
cose che riguardano Dio» (Eb 5, 1).
Queste frasi hanno il vantaggio di
riportarci alla radice comune di ogni
sacerdozio, cioè a quello stadio della
rivelazione quando il ministero apostolico
non si è ancora diversificato, dando luogo ai
tre gradi canonici di vescovi, presbiteri e
diaconi, che, almeno per quanto riguarda le
rispettive funzioni, diventeranno chiari solo
con sant’Ignazio d’Antiochia, all’inizio del
II secolo. Questa radice comune è messa in
luce dal Catechismo della Chiesa Cattolica
che definisce l’Ordine sacro
«il sacramento grazie al quale la missione affidata
da Cristo ai suoi apostoli continua ad essere
esercitata nella Chiesa sino alla fine dei tempi: è
dunque il sacramento del ministero apostolico» (n.
1536).
È a questo stadio iniziale che ci riferiremo
il più possibile nelle nostre riflessioni, allo
scopo di cogliere l’essenza del ministero
sacerdotale. In questo primo capitolo,
prenderemo in considerazione solo la prima
parte della frase dell’Apostolo: “Servitori di
Cristo”. Proseguiremo poi la riflessione,

8
meditando su cosa significa essere
“amministratore dei misteri di Dio” e quali
sono i misteri che il sacerdote deve
amministrare.
“Servi di Cristo!” (con il punto
esclamativo a indicare la grandezza, dignità
e bellezza di questo titolo): ecco la parola
che dovrebbe toccare il nostro cuore nella
presente meditazione e farlo vibrare di
santo orgoglio. Qui non parliamo dei servizi
pratici o ministeriali, come amministrare la
parola e i sacramenti (di questo, dicevo,
parleremo in seguito); non parliamo, in altre
parole, del servizio come atto, ma del
servizio come stato, come vocazione
fondamentale e come identità del sacerdote
e ne parliamo nello stesso senso e con lo
stesso spirito di Paolo che all’inizio delle
sue lettere si presenta sempre così: «Paolo,
servo di Cristo Gesù, apostolo per
vocazione».
Sul passaporto invisibile del sacerdote,
quello con cui si presenta ogni giorno al
cospetto di Dio e del suo popolo, alla voce
“professione”, si dovrebbe poter leggere:

9
“Servo di Gesù Cristo”. Tutti i cristiani
sono naturalmente servi di Cristo, ma il
sacerdote lo è a un titolo e in un senso tutto
particolare, come tutti i battezzati sono
sacerdoti, ma il ministro ordinato lo è a un
titolo e in un senso diverso e superiore.

2. Continuatori dell’opera di Cristo


Il servizio essenziale che il sacerdote è
chiamato a rendere a Cristo è continuare la
sua opera nel mondo: «Come il Padre ha
mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,
21). Il papa san Clemente, nella sua famosa
Lettera ai Corinzi, commenta: «Cristo è
mandato da Dio e gli Apostoli da Cristo…
Essi, predicando dappertutto in campagna
ed in città, nominarono i loro primi
successori, essendo stati messi alla prova
dallo Spirito, per essere vescovi e diaconi».
Cristo è mandato dal Padre, gli apostoli da
Cristo, i vescovi dagli apostoli: è la prima
enunciazione chiara del principio della
successione apostolica.
Ma quella parola di Gesù non ha solo un

10
significato giuridico e formale. Non fonda,
in altre parole, solo il diritto dei ministri
ordinati di parlare come “mandati” da
Cristo; indica anche il motivo e il contenuto
di questo mandato che è lo stesso per cui il
Padre ha mandato il Figlio nel mondo. E
perché Dio ha mandato il Figlio suo nel
mondo? Anche qui rinunciamo a risposte
globali, esaustive, per le quali bisognerebbe
leggere tutto il Vangelo; solo qualche
dichiarazione programmatica di Gesù.
Davanti a Pilato egli afferma
solennemente: «Per questo sono venuto nel
mondo: per testimoniare della verità» (Gv
18, 37). Continuare l’opera di Cristo
comporta dunque per il sacerdote un
rendere testimonianza alla verità, far
brillare la luce del vero. Solo bisogna tener
conto del duplice significato della parola
verità, aletheia, in Giovanni. Esso oscilla
tra la realtà divina e la conoscenza della
realtà divina, tra un significato ontologico o
oggettivo e uno gnoseologico o soggettivo.
Verità è «la realtà eterna in quanto rivelata
agli uomini, riferibile sia alla realtà stessa

11
che alla sua rivelazione»1.
L’interpretazione tradizionale ha inteso
“verità” soprattutto nel senso di rivelazione
e conoscenza della verità; in altre parole,
come verità dogmatica. Questo è un
compito certamente essenziale. La Chiesa,
nel suo insieme, lo assolve per mezzo del
magistero, dei concili, dei teologi, e il
singolo sacerdote predicando al popolo la
“sana dottrina”.
Non bisogna però dimenticare l’altro
significato giovanneo di verità: quello di
realtà conosciuta, più che conoscenza della
realtà. In questa luce, il compito della
Chiesa e del singolo sacerdote non si limita
a proclamare le verità della fede, ma deve
aiutare a farne l’esperienza, a entrare in un
contatto intimo e personale con la realtà di
Dio, mediante lo Spirito Santo.
«La fede», ha scritto san Tommaso
d’Aquino, «non termina all’enunciato, ma
alla cosa»2. Parimenti, i maestri della fede
non possono accontentarsi di insegnare le
cosiddette verità di fede, devono aiutare le
persone ad attingere la “cosa”, a non avere

12
soltanto una idea di Dio, ma a fare
l’esperienza di lui, secondo il senso biblico
di conoscere, diverso, come è noto, da
quello greco e filosofico.
Altra dichiarazione programmatica di
intenti è quella che Gesù pronuncia davanti
a Nicodemo: «Dio non ha mandato suo
Figlio nel mondo per giudicare il mondo,
ma perché il mondo sia salvato per mezzo
di lui» (Gv 3, 17). Questa frase va letta alla
luce di quella che la precede
immediatamente: «Dio ha tanto amato il
mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio,
affinché chiunque crede in lui non perisca,
ma abbia vita eterna» (Gv 3, 16). Gesù è
venuto a rivelare agli uomini la volontà
salvifica e l’amore misericordioso del
Padre. Tutta la sua predicazione è riassunta
nella parola che rivolge ai discepoli
nell’ultima cena: «Il Padre vi ama!» (Gv 16,
27).
Essere continuatore nel mondo dell’opera
di Cristo significa fare proprio questo
atteggiamento di fondo nei confronti della
gente, anche dei più lontani. Non giudicare,

13
ma salvare.
Non dovrebbe passare inosservato il tratto
umano sul quale la Lettera agli Ebrei
maggiormente insiste nel delineare la figura
di Cristo sommo sacerdote e di ogni
sacerdote: la simpatia, il senso di
solidarietà, la compassione nei confronti del
popolo.
Di Cristo è detto:
«Non abbiamo un sommo sacerdote che non possa
simpatizzare con noi nelle nostre debolezze,
poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa,
senza commettere peccato». Del sacerdote umano
si afferma che «preso tra gli uomini, è costituito
per il bene degli uomini nelle cose che riguardano
Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati; così
può avere compassione verso gli ignoranti e gli
erranti, perché anch’egli è soggetto a debolezza;
ed è a motivo di questa che egli è obbligato a
offrire dei sacrifici per i peccati, tanto per se stesso
quanto per il popolo» (Eb 4, 15 – 5, 3).
È vero che Gesù, nei vangeli, si mostra
anche severo, giudica e condanna, ma con
chi lo fa? Non con la gente semplice, che lo
seguiva e veniva ad ascoltarlo, ma con gli
ipocriti, gli autosufficienti, i maestri e le

14
guide del popolo. Gesù non era davvero,
come si dice di certi uomini politici : “forte
con i deboli e debole con i forti”. Tutto il
contrario!

3. Continuatori, non successori


Ma in che senso possiamo parlare dei
sacerdoti come continuatori dell’opera di
Cristo? In ogni istituzione umana, come era
a quel tempo l’impero romano e come sono
oggi gli ordini religiosi e tutte le imprese
mondane, i successori continuano l’opera,
ma non la persona del fondatore. Questi a
volte viene corretto, superato e perfino
sconfessato. Non così la Chiesa. Gesù non
ha successori perché non è morto, ma vivo;
«risorto da morte, la morte non ha più
potere su di lui» (Rm 6, 9). Quale sarà
allora il compito dei suoi ministri? Quello
di rappresentarlo, cioè di renderlo presente,
di dare forma visibile alla sua presenza
invisibile. In questo consiste la dimensione
profetica del sacerdozio.
Prima di Cristo la profezia consisteva

15
essenzialmente nell’annunciare una
salvezza futura, “negli ultimi giorni”, dopo
di lui consiste nel rivelare al mondo la
presenza nascosta di Cristo, nel gridare
come Giovanni Battista: «In mezzo a voi
c’è uno che voi non conoscete» (Gv 1, 26).
Un giorno alcuni greci si rivolsero
all’apostolo Filippo con la domanda:
«Vorremmo vedere Gesù!» (Gv 12, 21); la
stessa domanda, più o meno esplicita, ha
nel cuore chi si avvicina oggi al sacerdote.
San Gregorio Nisseno ha coniato
un’espressione famosa, che viene di solito
applicata all’esperienza dei mistici:
«sentimento di presenza»3. Il sentimento di
presenza è più che la semplice fede nella
presenza di Cristo; è avere il sentimento
vivo, la percezione quasi fisica, della sua
presenza di Risorto. Se questo è proprio
della mistica, allora ogni sacerdote deve
essere un mistico, o almeno un
“mistagogo”, uno che introduce le persone
al mistero di Dio e di Cristo, come
tenendole per mano.
Il compito del sacerdote non è diverso,

16
anche se subordinato, rispetto a quello che
Benedetto XVI additava come priorità
assoluta del Successore di Pietro e della
Chiesa intera nella lettera indirizzata ai
Vescovi il 10 marzo 2009:
«Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra
la fede è nel pericolo di spegnersi come una
fiamma che non trova più nutrimento, la priorità
che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio
presente in questo mondo e di aprire agli uomini
l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a
quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui
volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine
(cf Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e
risorto… Condurre gli uomini verso Dio, verso il
Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità
suprema e fondamentale della Chiesa e del
Successore di Pietro in questo tempo».

4. Servi e amici
Ma ora dobbiamo fare un passo avanti
nella nostra riflessione. “Servi di Gesù
Cristo!”: questo titolo non dovrebbe mai
stare da solo; ad esso si deve affiancare
sempre, almeno, nel fondo del proprio
cuore, un altro titolo: quello di amici!

17
La radice comune di tutti i ministeri
ordinati che si delineeranno in seguito è la
scelta che Gesù fece un giorno dei Dodici;
questo è ciò che, dell’istituzione
sacerdotale, risale al Gesù storico. La
liturgia colloca, è vero, l’istituzione del
sacerdozio il Giovedì Santo, a causa della
parola che Gesù pronunciò dopo
l’istituzione dell’Eucaristia: «Fate questo in
memoria di me». Ma anche questa parola
presuppone la scelta dei Dodici, senza
contare che, presa da sola, giustificherebbe
il ruolo di sacrificatore e liturgo del
sacerdote, ma non quello, altrettanto
fondamentale, di annunciatore del Vangelo.
Ora, che cosa disse in quella circostanza
Gesù? Perché scelse i Dodici, dopo aver
pregato tutta la notte? «Ne costituì dodici
per tenerli con sé e per mandarli a
predicare» (Mc 3, 14-15). Stare con Gesù e
andare a predicare: stare e andare, ricevere
e dare: c’è in poche parole l’essenziale del
compito dei collaboratori di Cristo.
Stare “con” Gesù non significa
evidentemente solo una vicinanza fisica; c’è

18
già, in nuce, tutta la ricchezza che Paolo
racchiuderà nella formula pregnante “in
Cristo” o “con Cristo”. Significa
condividere tutto di Gesù: la sua vita
itinerante, certo, ma anche i suoi pensieri,
gli scopi, lo spirito. La parola “compagno”
viene dal latino medievale e significa colui
che ha in comune (con-) il pane (panis), che
mangia lo stesso pane.
Nei discorsi di addio, Gesù fa un passo
avanti, completando il titolo di compagni
con quello di amici:
«Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa
quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati
amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose
che ho udite dal Padre mio» (Gv 15, 15).
C’è qualcosa di commovente in questa
dichiarazione d’amore di Gesù. Ricorderò
sempre il momento in cui fu dato anche a
me, per un istante, di conoscere qualcosa di
questa commozione. In un incontro di
preghiera qualcuno aveva aperto la Bibbia e
aveva letto quel brano di Giovanni. La
parola “amici” mi raggiunse a una
profondità mai sperimentata; smosse

19
qualcosa nel profondo di me, tanto che per
tutto il resto della giornata andavo ripetendo
tra me, pieno di stupore e di incredulità: Mi
ha chiamato amico! Gesù di Nazareth, il
Signore, il mio Dio! Mi ha chiamato amico!
Io sono suo amico! E mi pareva che si
potesse volare sui tetti della città e
attraversare anche il fuoco, con quella
certezza.
Quando parla dell’amore di Gesù Cristo
san Paolo appare sempre “commosso”:
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?»
(Rm 8, 35), «Mi ha amato e ha dato se
stesso per me!» (Gal 2, 20). Noi siamo
portati a diffidare della commozione e
perfino a vergognarcene. Non sappiamo di
quale ricchezza ci priviamo. Gesù «si
commosse profondamente» e pianse davanti
alla vedova di Nain (cf Lc 7, 13) e alle
sorelle di Lazzaro (cf Gv 11, 33.35). Un
sacerdote capace di commuoversi quando
parla dell’amore di Dio e della sofferenza di
Cristo o raccoglie la confidenza di un
grande dolore, convince meglio che con
infiniti ragionamenti. Commuoversi non

20
significa necessariamente mettersi a
piangere; è qualcosa che si avverte negli
occhi, nella voce. La Bibbia è piena del
pathos, cioè della commozione, di Dio.

5. L’anima di ogni sacerdozio


Un rapporto personale, pieno di
confidenza e di amicizia con la persona di
Gesù è l’anima di ogni sacerdozio. In vista
dell’anno sacerdotale mi sono riletto il libro
di Dom Chautard L’anima di ogni
apostolato, che fece tanto bene e scosse
tante coscienze negli anni anteriori al
concilio4. In un momento in cui c’era
grande entusiasmo per le “opere
parrocchiali”: cinema, ricreatori, iniziative
sociali, circoli culturali, l’autore riportava
bruscamente il discorso al cuore del
problema, denunciando il pericolo di un
attivismo vuoto. «Dio», scriveva, «vuole
che Gesù sia la vita delle opere».
Non riduceva l’importanza delle attività
pastorali, tutt’altro, affermava però che
senza una vita di unione con Cristo, esse

21
non erano che “stampelle”, o, come le
definiva san Bernardo, «maledette
5
occupazioni» . Gesù disse a Pietro:
«Simone mi ami? Pasci le mie pecore».
L’azione pastorale di ogni ministro della
Chiesa, dal papa all’ultimo sacerdote, non è
che l’espressione concreta dell’amore per
Cristo. Mi ami? Allora pasci! L’amore per
Gesù è quello che fa la differenza tra il
sacerdote funzionario e manager e il
sacerdote servo di Cristo e dispensatore dei
misteri di Dio.
Il libro di Dom Chautard avrebbe potuto
benissimo intitolarsi L’anima di ogni
sacerdozio, perché è di lui che si parla, in
pratica, in tutta l’opera, come agente e
responsabile in prima linea della pastorale
della Chiesa. A quel tempo, il pericolo a cui
si intendeva reagire era il cosiddetto
“americanismo”. L’Abate si rifà spesso,
infatti, alla lettera di Leone XIII Testem
benevolentiae che aveva condannato tale
“eresia”.
Oggi questa eresia, se di eresia si può
parlare, non è più solo “americana”, ma una

22
minaccia che, anche a causa del diminuito
numero dei sacerdoti, insidia il clero di tutta
la Chiesa: si chiama attivismo frenetico.
(Molte delle istanze, del resto, che
provenivano in quel tempo dai cristiani
degli Stati Uniti, e in particolare dal
movimento creato dal servo di Dio Isaac
Hecker, fondatore dei Paulist Fathers,
bollate con il termine “americanismo”, per
esempio la libertà di coscienza e la
necessità di un dialogo con il mondo
moderno, non erano eresie, ma istanze
profetiche che il Concilio Vaticano II, in
parte, farà proprie!).
Il primo passo, per fare di Gesù l’anima
del proprio sacerdozio, è passare dal Gesù
personaggio al Gesù persona. Il
personaggio è uno del quale si può parlare a
piacimento, ma al quale e con il quale
nessuno si sogna di parlare. Si può parlare
di Alessandro Magno, Giulio Cesare,
Napoleone finché si vuole, ma se uno
dicesse di parlare con qualcuno di essi, lo
manderebbero subito da uno psichiatra. La
persona, al contrario, è uno con il quale e al

23
quale si può parlare. Finché Gesù rimane un
insieme di notizie, di dogmi o di eresie,
qualcuno che si colloca istintivamente nel
passato, una memoria, non una presenza, è
un personaggio. Bisogna convincersi che
egli è vivo e presente, e più importante che
parlare di lui, è parlare con lui.
Uno dei tratti più belli della figura del
Don Camillo di Guareschi, naturalmente
tenendo conto del genere letterario adottato,
è il suo parlare ad alta voce con il
Crocifisso di tutte le cose che succedono
nella parrocchia. Se prendessimo
l’abitudine di farlo, così spontaneamente,
con parole proprie, quante cose
cambierebbero nella nostra vita sacerdotale!
Ci accorgeremmo che non parliamo mai a
vuoto, ma a qualcuno che è presente,
ascolta e risponde, magari non ad alta voce
come a Don Camillo.

6. Mettere al sicuro “le grosse pietre”


Come in Dio tutta l’opera esterna della
creazione sgorga dalla sua vita intima,

24
“dall’incessante flusso del suo amore”, e
come tutta l’attività di Cristo sgorga dal suo
dialogo ininterrotto con il Padre, così tutte
le opere del sacerdote devono essere il
prolungamento della sua unione con Cristo.
«Come il Padre ha mandato me, così io
mando voi», significa anche questo: Io sono
venuto nel mondo senza separarmi dal
Padre, voi andate nel mondo senza
separarvi da me.
Quando questo contatto si interrompe, è
come quando in una casa cade la corrente
elettrica e tutto si ferma e rimane al buio, o,
se si tratta del rifornimento idrico, i
rubinetti non danno più acqua. Si sente dire
talvolta: come starsene tranquilli a pregare
quando tanti bisogni reclamano la nostra
presenza? Come non correre, quando la
casa brucia? È vero, ma immaginiamo cosa
succederebbe a una squadra di pompieri che
accorresse, a sirene spiegate, per spegnere
un incendio e poi, giunta sul posto, si
accorgesse di non avere con sé, nei serbatoi,
neppure una goccia d’acqua. Così siamo
noi, quando corriamo a predicare o ad altro

25
ministero vuoti di preghiera e di Spirito
Santo.
Ho letto da qualche parte una storia che
mi sembra si applichi in modo esemplare ai
sacerdoti. Un giorno, un vecchio professore
fu chiamato come esperto a parlare sulla
pianificazione più efficace del proprio
tempo ai quadri superiori di alcune grosse
compagnie nordamericane. Decise allora di
tentare un esperimento. In piedi, tirò fuori
da sotto il tavolo un grosso vaso di vetro
vuoto. Insieme prese anche una dozzina di
pietre grosse quanto palle da tennis che
depose delicatamente una a una nel vaso
fino a riempirlo. Quando non si poteva
aggiungere più altri sassi, chiese agli
allievi: «Vi sembra che il vaso sia pieno?» e
tutti risposero «Sì!».
Si chinò di nuovo e tirò fuori da sotto il
tavolo una scatola piena di breccia che
versò sopra le grosse pietre, movendo il
vaso perché la breccia potesse infiltrarsi tra
le pietre grosse fino al fondo. «È pieno
questa volta il vaso?» chiese. Divenuti più
prudenti, gli allievi cominciarono a capire e

26
risposero: «Forse non ancora». Il vecchio
professore si chinò di nuovo e tirò fuori
questa volta un sacchetto di sabbia che
versò nel vaso. La sabbia riempì gli spazi
tra i sassi e la breccia. Quindi chiese di
nuovo: «È pieno ora il vaso?». E tutti, senza
esitare, risposero: «No!». Infatti il vecchio
prese la caraffa che era sul tavolo e versò
l’acqua nel vaso fino all’orlo.
A questo punto domandò: «Quale grande
verità ci mostra questo esperimento?». Il
più audace rispose: «Questo dimostra che
anche quando la nostra agenda è
completamente piena, con un po’ di buona
volontà, si può sempre aggiungervi qualche
impegno in più, qualche altra cosa da fare».
«No» rispose il professore. «Quello che
l’esperimento dimostra è che se non si
mettono per prime le grosse pietre nel vaso,
non si riuscirà mai a farvele entrare in
seguito. Quali sono le grosse pietre, le
priorità, nella vostra vita? La cosa
importante è mettere queste grosse pietre
per prime nella vostra agenda».
San Pietro ha indicato, una volta per tutte,

27
quali sono le grosse pietre, le priorità
assolute, degli apostoli e dei loro
successori, vescovi e sacerdoti: «Quanto a
noi, ci dedicheremo alla preghiera e al
ministero della Parola» (At 6, 4).
Noi sacerdoti, più che chiunque altro,
siamo esposti al pericolo di sacrificare
l’importante per l’urgente. La preghiera, la
preparazione dell’omelia o alla Messa, lo
studio e la formazione, sono tutte cose
importanti, ma non urgenti; se si
rimandano, apparentemente, non casca il
mondo, mentre ci sono tante piccole cose –
un incontro, una telefonata, un lavoretto
materiale – che sono urgenti. Così si finisce
per rimandare sistematicamente le cose
importanti a un “dopo” che non arriva mai.
Per un sacerdote, mettere per prime nel
vaso le pietre grosse, può significare, molto
concretamente, iniziare la giornata con un
tempo di preghiera e di dialogo con Dio, in
modo che le attività e gli impegni vari non
finiscano per occupare tutto lo spazio.
Termino con una preghiera dell’abate
Chautard: «O Dio, date alla Chiesa tanti

28
apostoli, ma ravvivate nel loro cuore una
sete ardente di intimità con Voi e insieme
un desiderio di lavorare per il bene del
prossimo. Date a tutti un’attività
contemplativa e una contemplazione
operosa». Così sia!

Note
1 H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo,
Paideia, Brescia 1974, p. 227.
2 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II, q. 1, a.
2, ad 2.
3 Gregorio Nisseno, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44,
1001): «aisthesis parousias».
4 J.-B.G. Chautard, L’âme de tout apostolat, Lyon-
Paris 1934 (trad. ital. L’anima di ogni apostolato,
San Paolo, Cinisello Balsamo 2007).
5 Bernardo di Chiaravalle, De consideratione, I, 2 s.

29
II
Il servizio dello Spirito

1. Il servizio dello Spirito


Nella meditazione precedente abbiamo
commentato la definizione che Paolo dà dei
sacerdoti come “servitori di Cristo”. Nella
Seconda Lettera ai Corinzi troviamo
un’affermazione apparentemente diversa:
«Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di un
nuovo patto, non di lettera, ma di Spirito; perché
la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il
ministero della morte, scolpito in lettere su pietre,
fu glorioso, al punto che i figli d’Israele non
potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a
motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di
lui, quanto più sarà glorioso il ministero dello
Spirito?» (2 Cor 3, 6-8).
Paolo definisce se stesso e i suoi
collaboratori “ministri dello Spirito” e il
ministero apostolico un “servizio dello

30
Spirito”. Il confronto con Mosè e il culto
dell’antica alleanza non lascia dubbio infatti
che in questo passo, come in molti altri
della stessa Lettera, egli parli del ruolo delle
guide nella comunità cristiana, cioè degli
apostoli e dei loro collaboratori.
Chi conosce il rapporto che c’è per Paolo
tra Cristo e lo Spirito sa che non c’è
contraddizione tra l’essere servitori di
Cristo e l’essere ministri dello Spirito, ma
continuità perfetta. Lo Spirito di cui si parla
qui è infatti lo Spirito di Cristo. Gesù stesso
spiega il ruolo del Paraclito nei suoi
confronti, quando dice agli apostoli: egli
prenderà del mio e ve lo annunzierà, egli vi
farà ricordare ciò che vi ho detto, egli mi
darà testimonianza…
La definizione completa del ministero
apostolico e sacerdotale è: servitori di
Cristo nello Spirito Santo. Lo Spirito indica
la qualità o la natura del nostro servizio, che
è un servizio “spirituale” nel senso forte del
termine; non solo cioè nel senso che ha per
oggetto lo spirito dell’uomo, la sua anima,
ma anche nel senso che ha per soggetto, o

31
per “agente principale”, come diceva Paolo
VI nella Evangelii nuntiandi, lo Spirito
Santo. Sant’Ireneo dice che lo Spirito Santo
è «la nostra stessa comunione con Cristo»6.
Poco sopra, nella stessa Seconda Lettera
ai Corinzi, l’Apostolo aveva illustrato
l’azione dello Spirito Santo nei ministri
della nuova alleanza con il simbolo
dell’unzione: «Or colui che con voi ci
fortifica in Cristo e che ci ha unti, è Dio;
egli ci ha pure segnati con il proprio sigillo
e ha messo la caparra dello Spirito nei
nostri cuori» (2 Cor 1, 21 s).
Sant’Atanasio commenta così questo
testo: «Lo Spirito è chiamato ed è unzione e
sigillo… L’unzione è il soffio del Figlio, di
modo che colui che possiede lo Spirito
possa dire: “Noi siamo il profumo di
Cristo”. Il sigillo rappresenta il Cristo,
cosicché colui che è segnato dal sigillo
possa avere la forma di Cristo»7. In quanto
unzione, lo Spirito Santo ci trasmette il
profumo di Cristo; in quanto sigillo, la sua
forma, o immagine. Nessuna dicotomia
perciò tra servizio di Cristo e servizio dello

32
Spirito, ma unità profonda.
Tutti i cristiani sono “unti”; il loro stesso
nome non significa altro che questo: “unti”,
a somiglianza di Cristo, che è l’Unto per
eccellenza (cf 1 Gv 2, 20.27). Paolo però,
nel testo citato della Seconda Lettera ai
Corinzi, sta parlando dell’opera sua e di
Timoteo (“noi”) nei confronti della
comunità (“voi”); è evidente perciò che si
riferisce in particolare all’unzione e al
sigillo dello Spirito ricevuti al momento di
essere consacrati al ministero apostolico,
per Timoteo mediante l’imposizione delle
mani dell’Apostolo (cf 2 Tm 1, 6).
Dobbiamo assolutamente riscoprire
l’importanza dell’unzione dello Spirito
perché in essa, sono convinto, è racchiuso il
segreto dell’efficacia del ministero
episcopale e presbiterale. I sacerdoti sono
essenzialmente dei consacrati, cioè degli
unti.
«Nostro Signore Gesù», si legge nella
Presbyterorum ordinis, «che il Padre
santificò e inviò nel mondo (Gv 10, 36), ha
reso partecipe tutto il suo corpo mistico di

33
quella unzione dello Spirito che egli ha
ricevuto». Lo stesso decreto conciliare si
premura però di mettere subito in luce la
specificità dell’unzione conferita dal
sacramento dell’Ordine. Per esso, dice, «i
sacerdoti, in virtù dell’unzione dello Spirito
Santo, sono marcati da uno speciale
carattere che li configura a Cristo
Sacerdote, in modo da poter agire in nome
di Cristo Capo» (PO 2).

2. L’unzione: figura, evento e sacramento


L’unzione, come l’Eucaristia e la Pasqua,
è una di quelle realtà che sono presenti in
tutte e tre le fasi della storia della salvezza.
È presente infatti nell’Antico Testamento
come figura, nel Nuovo Testamento come
evento e nel tempo della Chiesa come
sacramento. Nel nostro caso, la figura è
data dalle varie unzioni praticate
nell’Antico Testamento; l’evento è
costituito dall’unzione di Cristo, il Messia,
l’Unto, a cui tutte le figure tendevano come
al loro compimento; il sacramento è

34
rappresentato da quell’insieme di segni
sacramentali che prevedono un’unzione
come rito principale o complementare.
Nell’Antico Testamento si parla di tre tipi
di unzione: regale, sacerdotale e profetica e
cioè unzione dei re, dei sacerdoti e dei
profeti, anche se nel caso dei profeti si tratta
in genere di un’unzione spirituale e
metaforica, senza cioè un olio materiale. In
ognuna di queste tre unzioni si delinea un
orizzonte messianico, cioè l’attesa di un re,
di un sacerdote e di un profeta che sarà
l’Unto per antonomasia, il Messia.
Insieme con l’investitura ufficiale e
giuridica, per cui il re diventa l’Unto del
Signore, l’unzione conferisce anche,
secondo la Bibbia, un reale potere interiore,
comporta una trasformazione che viene da
Dio e questo potere, questa realtà vengono
sempre più chiaramente identificati con lo
Spirito Santo.
Nell’ungere Saul come re Samuele dice:
«Ecco: il Signore ti ha unto capo sopra
Israele suo popolo. Tu avrai potere sul
popolo… Lo Spirito del Signore investirà

35
anche te e ti metterai a fare il profeta e sarai
trasformato in un altro uomo» (1 Sam 10,
1.6).
Il legame tra l’unzione e lo Spirito è
soprattutto messo in luce nel noto testo di
Isaia: «Lo Spirito del Signore è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con
l’unzione» (Is 61, 1).
Il Nuovo Testamento non ha esitazioni nel
presentare Gesù come l’Unto di Dio, nel
quale tutte le unzioni antiche hanno trovato
il loro compimento. Il titolo di Messia, o
Cristo – che significa, appunto, Unto – è la
prova più chiara di ciò.
Il momento o l’evento storico a cui si fa
risalire questo compimento è il battesimo di
Gesù nel Giordano. L’effetto di questa
unzione è lo Spirito Santo: «Dio ha unto di
Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth»
(At 10, 38); Gesù stesso, subito dopo il suo
battesimo, nella sinagoga di Nazareth
dichiarerà: «Lo Spirito del Signore è su di
me; mi ha consacrato con l’unzione» (Lc 4,
18). Gesù era certamente pieno di Spirito
Santo fin dal momento dell’incarnazione,

36
ma si trattava di una grazia personale,
legata all’unione ipostatica, e perciò
incomunicabile. Ora, nell’unzione, riceve
quella pienezza di Spirito Santo che, come
capo, potrà trasmettere al suo corpo. La
Chiesa vive di questa grazia capitale (gratia
capitis).
Gli effetti della triplice unzione – regale,
profetica e sacerdotale – sono grandiosi e
immediati nel ministero di Gesù. In forza
dell’unzione regale, egli abbatte il regno di
satana e instaura il regno di Dio: «Se è con
l’aiuto dello Spirito di Dio che io scaccio i
demòni, è dunque giunto fino a voi il regno
di Dio» (Mt 12, 28); in forza dell’unzione
profetica, egli “annuncia la buona novella ai
poveri”; in forza dell’unzione sacerdotale,
offre preghiere e lacrime durante la sua vita
terrena e alla fine offre se stesso sulla croce.
Dopo essere stata presente nell’Antico
Testamento come figura e nel Nuovo
Testamento come evento, l’unzione è
presente ora nella Chiesa come sacramento.
Il sacramento prende dalla figura il segno e
dall’evento il significato; prende dalle

37
unzioni dell’Antico Testamento l’elemento
– l’olio, il crisma o unguento profumato – e
da Cristo l’efficacia salvifica. Cristo non è
stato mai unto con olio fisico (a parte
l’unzione di Betania), né mai ha unto
alcuno con olio fisico. In lui il simbolo è
stato sostituito dalla realtà, dall’“olio di
letizia” che dona lo Spirito Santo.
Più che un sacramento unico, l’unzione è
presente nella Chiesa come un insieme di
riti sacramentali. Come sacramenti a se
stanti, abbiamo la cresima (che attraverso
tutte le trasformazioni subite, risale, come
attesta il nome, all’antico rito dell’unzione
con il crisma) e l’unzione degli infermi;
come parte di altri sacramenti abbiamo
l’unzione battesimale e l’unzione nel
sacramento dell’ordine. Nell’unzione
crismale che segue il battesimo, si fa
riferimento esplicito alla triplice unzione di
Cristo: «Egli stesso vi consacra con il
crisma di salvezza; inseriti in Cristo
sacerdote, re e profeta, siate sempre
membra del suo corpo per la vita eterna».
Di tutte queste unzioni, a noi interessa in

38
questo momento quella che accompagna il
conferimento dell’Ordine sacro. Nel
momento in cui unge con il sacro crisma le
palme di ciascun ordinato inginocchiato
davanti a lui, il vescovo pronuncia queste
parole: «Il Signore Gesù Cristo, che il Padre
ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti
custodisca per la santificazione del suo
popolo e per l’offerta del sacrificio».
Ancora più esplicito il riferimento
all’unzione di Cristo nella consacrazione
episcopale. Ungendo di olio profumato il
capo del nuovo vescovo, il vescovo
ordinante dice: «Dio, che ti ha fatto
partecipe del sommo sacerdozio di Cristo,
effonda su di te la sua mistica unzione e con
l’abbondanza della sua benedizione dia
fecondità al tuo ministero».

3. L’unzione spirituale
C’è un rischio, comune a tutti i
sacramenti: quello di fermarsi all’aspetto
rituale e canonico dell’ordinazione, alla sua
validità e liceità, e non dare abbastanza

39
importanza alla “res sacramenti”,
all’effetto spirituale, alla grazia propria del
sacramento, in questo caso al frutto
dell’unzione nella vita del sacerdote.
L’unzione sacramentale ci abilita a
compiere certe azioni sacre, come
governare, predicare, istruire; ci dà, per così
dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non
necessariamente l’autorità nel farle;
assicura la successione apostolica, non
necessariamente il successo apostolico!
L’unzione sacramentale, con il carattere
indelebile (il “sigillo”!) che imprime nel
sacerdote, è una risorsa dalla quale
possiamo attingere ogni volta che ne
sentiamo il bisogno, che possiamo, per così
dire, attivare in ogni momento del nostro
ministero. Si attua anche qui quella che in
teologia si chiama la “reviviscenza” del
sacramento. Il sacramento, ricevuto in
passato, “reviviscit”, torna a rivivere e a
sprigionare la sua grazia: nei casi estremi
perché viene tolto l’ostacolo del peccato
(l’obex), in altri casi perché viene rimossa
la patina dell’abitudine e si intensifica la

40
fede nel sacramento. Succede come con un
flacone di profumo. Noi possiamo tenerlo
in tasca o stringerlo nella mano finché
vogliamo, ma se non lo apriamo il profumo
non si effonde, è come se non ci fosse.
Come è nata questa idea di una unzione
attuale? Una tappa importante è costituita,
ancora una volta, da Agostino. Egli
interpreta il testo della Prima Lettera di
Giovanni: «Voi avete ricevuto l’unzione…»
(1 Gv 2, 27), nel senso di un’unzione
continua, grazie alla quale lo Spirito Santo,
maestro interiore, ci permette di
comprendere dentro ciò che ascoltiamo
all’esterno. A lui risale l’espressione
“unzione spirituale”, spiritalis unctio,
accolta nell’inno Veni creator8. San
Gregorio Magno, come in molte altre cose,
contribuì a rendere popolare, per tutto il
medio evo, l’intuizione agostiniana9.
Una nuova fase nello sviluppo del tema
dell’unzione si apre con san Bernardo e san
Bonaventura. Con essi si afferma la nuova
accezione, spirituale e moderna di unzione,
non legata tanto al tema della conoscenza

41
della verità, quanto a quello dell’esperienza
della realtà divina. Iniziando a commentare
il Cantico dei cantici, san Bernardo dice:
«Un siffatto cantico, solo l’unzione lo
insegna, solo l’esperienza lo fa
10
comprendere» . San Bonaventura identifica
l’unzione con la devozione, concepita da lui
come «un sentimento soave d’amore verso
Dio suscitato dal ricordo dei benefici di
Cristo»11. Essa non dipende dalla natura, né
dalla scienza, né dalle parole o dai libri, ma
«dal dono di Dio che è lo Spirito Santo»12.
Ai nostri giorni, si usano sempre più
spesso i termini unto e unzione per
descrivere l’agire di una persona, la qualità
di un discorso, di una predica, ma con una
differenza di accento. Nel linguaggio
tradizionale, l’unzione suggerisce, come si
è visto, soprattutto l’idea di soavità e
dolcezza, tanto da dar luogo, nell’uso
profano, all’accezione negativa di “eloquio
o atteggiamento mellifluo e insinuante,
spesso ipocrita”, e all’aggettivo “untuoso”,
nel senso di “persona o atteggiamento
sgradevolmente cerimonioso e servile”.

42
Nell’uso attuale, più vicino a quello biblico,
essa suggerisce piuttosto l’idea di potere e
forza di persuasione. Una predica piena di
unzione è una predica in cui si percepisce,
per così dire, il fremito dello Spirito; un
annuncio che scuote, che convince di
peccato, che arriva al cuore della gente. Si
tratta di una componente squisitamente
biblica del termine, presente, per esempio,
nel testo degli Atti, in cui si dice che Gesù
«fu unto in Spirito e potenza» (At 10, 38).
L’unzione, in questa accezione, appare più
un atto che uno stato. È qualcosa che la
persona non possiede stabilmente, ma che
sopraggiunge su di essa, la “investe” sul
momento, nell’esercizio di un certo
ministero o nella preghiera.
Se l’unzione è data dalla presenza dello
Spirito ed è dono suo, che possiamo fare
noi per averla? Anzitutto pregare. C’è una
promessa esplicita di Gesù: «Il Padre
celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che
glielo chiedono!» (Lc 11, 13). Poi rompere
anche noi il vaso di alabastro come la
peccatrice in casa di Simone. Il vaso è il

43
nostro io, talvolta il nostro arido
intellettualismo. Romperlo, significa
rinnegare se stessi, cedere a Dio, con un
atto esplicito, le redini della nostra vita. Dio
non può consegnare il suo Spirito a chi non
si consegna interamente a lui.
Applichiamo alla vita del sacerdote
questo ricchissimo contenuto biblico e
teologico legato al tema dell’unzione. San
Basilio dice che lo Spirito Santo «fu sempre
presente nella vita del Signore, divenendone
l’unzione e il compagno inseparabile», così
che «tutta l’attività di Cristo si svolse nello
Spirito»13. Avere l’unzione significa,
dunque, avere lo Spirito Santo come
“compagno inseparabile” nella vita, fare
tutto “nello Spirito”, alla sua presenza, con
la sua guida. Essa comporta una certa
passività, un essere agiti, mossi, o, come
dice Paolo, un «lasciarsi guidare dallo
Spirito» (cf Gal 5, 18).
Tutto questo si traduce, all’esterno, ora in
soavità, calma, pace, dolcezza, devozione,
commozione, ora in autorità, forza, potere,
autorevolezza, a seconda delle circostanze,

44
del carattere di ognuno e anche dell’ufficio
che ricopre. L’esempio vivente è Gesù che,
mosso dallo Spirito, si manifesta come
dolce e umile di cuore, ma anche,
all’occorrenza, pieno di soprannaturale
autorità. È una condizione caratterizzata da
una certa luminosità e scioltezza interiore
che dà facilità e padronanza nel fare le cose.
Un po’ come è la “forma” per l’atleta e
l’ispirazione per il poeta: uno stato in cui si
riesce a dare il meglio di sé.
Noi sacerdoti dovremmo abituarci a
chiedere l’unzione dello Spirito prima di
accingerci a un’azione importante a servizio
del Regno: una decisione da prendere, una
nomina da fare, un documento da scrivere,
una commissione da presiedere, una predica
da preparare. Io l’ho appreso a mie spese.
Mi sono trovato a volte a dover parlare a un
vasto uditorio, in una lingua straniera,
magari appena arrivato da un lungo viaggio.
Buio totale. La lingua in cui dovevo parlare
mi sembrava di non averla mai conosciuta,
incapacità di concentrarmi su uno schema,
un tema. E il canto iniziale stava per

45
finire… Allora mi sono ricordato
dell’unzione e in fretta ho fatto una breve
preghiera: «Padre, nel nome di Cristo, ti
chiedo l’unzione dello Spirito!».
A volte, l’effetto è immediato. Si
sperimenta quasi fisicamente la venuta su di
sé dell’unzione. Una certa commozione
attraversa il corpo, chiarezza nella mente,
serenità nell’anima; scompare la
stanchezza, il nervosismo, ogni paura e ogni
timidezza; si sperimenta qualcosa della
calma e dell’autorità stessa di Dio.
Molte mie preghiere, come, penso, quelle
di ogni cristiano, sono rimaste inascoltate,
quasi mai però questa per l’unzione. Pare
che davanti a Dio abbiamo una specie di
diritto di reclamarla. In seguito ho speculato
anche un po’ su questa possibilità. Per
esempio, se devo parlare di Gesù Cristo
faccio un’alleanza segreta con Dio Padre,
senza farlo sapere a Gesù, e dico: «Padre,
devo parlare del tuo Figlio Gesù che ami
tanto: dammi l’unzione del tuo Spirito per
arrivare al cuore della gente». Se devo
parlare di Dio Padre, il contrario: faccio

46
un’intesa segreta con Gesù… La dottrina
della Trinità è meravigliosa anche per
questo.

4. Unti per diffondere nel mondo il buon


odore di Cristo
Nello stesso contesto della Seconda
Lettera ai Corinzi, l’Apostolo, sempre
riferendosi al ministero apostolico, sviluppa
la metafora dell’unzione con quella del
profumo che ne è l’effetto; scrive:
«Siano rese grazie a Dio che sempre ci fa trionfare
in Cristo e che per mezzo nostro spande
dappertutto il profumo della sua conoscenza. Noi
siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo»
(2 Cor 2, 14-15).
Questo dovrebbe essere il sacerdote: il
buon profumo di Cristo nel mondo! Ma
l’Apostolo ci mette sull’avviso,
aggiungendo subito dopo: «Abbiamo questo
tesoro in vasi di terra» (2 Cor 4, 7).
Sappiamo fin troppo bene, dalla dolorosa e
umiliante esperienza recente, cosa tutto
questo significa. Gesù diceva agli apostoli:

47
«Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa
insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a
nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli
uomini» (Mt 5, 13).
La verità di questa parola di Cristo è
dolorosamente sotto i nostri occhi. Anche
l’unguento, se perde l’odore e si guasta, si
trasforma nel suo contrario, in lezzo, e
anziché attirare a Cristo, allontana da lui.
Anche per rispondere a questa situazione
papa Benedetto XVI ha indetto l’anno
sacerdotale. Lo dice apertamente nella
Lettera di indizione del 16 giugno 2009:
«Ci sono purtroppo anche situazioni, mai
abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a
soffrire per l’infedeltà di alcuni suoi ministri. È il
mondo a trarre allora motivo di scandalo e di
rifiuto».
La lettera del papa non si ferma a questa
costatazione; aggiunge infatti:
«Ciò che massimamente può giovare in tali casi
alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione
delle debolezze dei suoi ministri, quanto una
rinnovata e lieta coscienza della grandezza del
dono di Dio, concretizzato in splendide figure di
generosi pastori, di religiosi, ardenti di amore per

48
Dio e per le anime».
La rilevazione delle debolezze va fatta
anch’essa, per rendere giustizia alle vittime
e la Chiesa ora lo riconosce e la attua come
meglio può, ma va fatta in altra sede e, in
ogni caso, non è da essa che verrà lo slancio
per un rinnovamento del ministero
sacerdotale.
Io ho pensato a questo ciclo di
meditazioni sul sacerdozio proprio come un
piccolo contributo nel senso auspicato.
Vorrei, al posto mio, far parlare il mio
Serafico Padre Francesco d’Assisi. In un
tempo in cui la situazione morale del clero
era senza confronto più triste di quella di
oggi, egli, nel suo Testamento, scrive:
«Il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei
sacerdoti che vivono secondo la forma della santa
Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi
dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E
se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe
Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli
di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano,
non voglio predicare contro la loro volontà. E
questi e tutti gli altri voglio temere, amare e
onorare come miei signori, e non voglio in loro

49
considerare il peccato, poiché in essi io vedo il
Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo
perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io
vedo corporalmente, in questo mondo, se non il
santissimo corpo e il sangue suo che essi soli
consacrano ed essi soli amministrano agli altri».
Nel testo citato all’inizio, Paolo parla
della “gloria” dei ministri della Nuova
Alleanza dello Spirito, immensamente più
alta di quella antica. Questa gloria non
viene dagli uomini e non può essere
distrutta dagli uomini. Il Santo Curato
diffondeva certamente intorno a sé il buon
odore di Cristo ed era per questo che le
folle accorrevano ad Ars; più vicino a noi,
Padre Pio da Pietrelcina diffondeva il
profumo di Cristo, a volte anche un
profumo fisico, come è attestato da
innumerevoli persone degne di fede. Tanti
sacerdoti, ignorati dal mondo, sono nel loro
ambiente il buon odore di Cristo e del
Vangelo. Il “Curato di campagna” di
Bernanos ha innumerevoli compagni diffusi
per il mondo, in città non meno che in
“campagna”.

50
Padre Lacordaire ha tracciato un profilo
del sacerdote cattolico, che può apparire
oggi un po’ troppo ottimistico e idealizzato,
ma ritrovare l’ideale e l’entusiasmo per il
ministero sacerdotale è proprio la cosa che
ci occorre in questo momento e perciò lo
riascoltiamo a conclusione della presente
meditazione:
«Vivere in mezzo al mondo senza alcun desiderio
per i suoi piaceri; essere membro di ogni famiglia,
senza appartenere ad alcuna di esse; condividere
ogni sofferenza, essere messo a parte di ogni
segreto, guarire ogni ferita; andare ogni giorno
dagli uomini a Dio per offrirgli la loro devozione e
le loro preghiere, e tornare da Dio agli uomini per
portare a essi il suo perdono e la sua speranza;
avere un cuore di acciaio per la castità e un cuore
di carne per la carità; insegnare e perdonare,
consolare e benedire ed essere benedetto per
sempre. O Dio, che genere di vita è mai questo? È
la tua vita, o sacerdote di Gesù Cristo!»14.

Note
6 Ireneo, Adv. Haer., III, 24, 1.
7 Atanasio, Lettere a Serapione, III, 3 (PG 26, 628
s).
8 Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3, 5 (PL

51
35, 2000); cf 3, 12 (PL 35, 2004).
9 Cf Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3, 13
(PL 35, 2004 s); cf Gregorio Magno, Omelie sui
Vangeli 30, 3 (PL 76, 1222).
10 Bernardo di Chiaravalle, Sul Cantico, I, 6, 11 (ed.
Cistercense, I, Roma 1957, p. 7).
11 Bonaventura, IV, d.23, a.1, q.1 (ed. Quaracchi, IV,
p. 589); Sermone III su S. Maria Maddalena (ed.
Quaracchi, IX, p. 561).
12 Ibidem, VII, 5.
13 Basilio di Cesarea, Sullo Spirito Santo, XVI, 39
(PG 32, 140C).
14 H. Lacordaire, cit. da D. Rice, Shattered Vows,
The Blackstaff Press, Belfast 1990, p. 137.

52
III
Ministri di una alleanza nuova

1. I “misteri” di Dio
La parola di Dio che ci guida in queste
riflessioni è 1 Corinzi 4, 1:
«Quello che ognuno deve pensare di noi è che
siamo ministri di Cristo e dispensatori dei misteri
di Dio».
Abbiamo meditato la prima parte di
questa definizione: il sacerdote come
servitore di Cristo, nel potere e nell’unzione
dello Spirito Santo. Ci resta da riflettere
sulla seconda parte: il sacerdote come
dispensatore dei misteri di Dio.
Naturalmente quello che diciamo del
sacerdote, vale a maggior ragione per il
vescovo, che possiede la pienezza del
sacerdozio.
Il termine “misteri” ha due significati

53
fondamentali: il primo è quello di verità
nascoste e rivelate da Dio, i divini propositi
annunciati velatamente nell’Antico
Testamento e rivelati agli uomini nella
pienezza dei tempi; il secondo è quello di
“segni concreti della grazia”, in pratica i
sacramenti. La Lettera agli Ebrei riunisce i
due significati nell’espressione: “le cose
che riguardano Dio”; accentua anzi proprio
il significato rituale e sacramentale, dicendo
che il compito del sacerdote (l’autore parla
però qui del sacerdozio in genere,
dell’Antico e del Nuovo Testamento) è
quello di «offrire doni e sacrifici per i
peccati» (Eb 5, 1).
Questo secondo significato si afferma
soprattutto nella tradizione della Chiesa.
Sacramentum è il termine con cui, nel latino
ecclesiastico, viene tradotta la parola
mysterion. Sant’Ambrogio scrive due
trattati sui riti dell’iniziazione cristiana,
visti come compimento di figure e profezie
dell’Antico Testamento; uno lo intitola De
sacramentis e l’altro De mysteriis, anche se
trattano in pratica lo stesso argomento.

54
Ritornando alla parola dell’Apostolo, il
primo di questi due significati mette in luce
il ruolo del sacerdote nei confronti della
parola di Dio, il secondo il suo ruolo nei
confronti dei sacramenti. Insieme delineano
la fisionomia del sacerdote come testimone
della verità di Dio e come ministro della
grazia di Cristo, come annunciatore e come
sacrificatore.
Per molti secoli la funzione del sacerdote
è stata ridotta quasi esclusivamente al suo
ruolo di liturgo e di sacrificatore: “offrire
sacrifici e perdonare i peccati”. È stato il
concilio Vaticano II a rimettere in evidenza,
accanto alla funzione cultuale, quella di
evangelizzatore. In linea con quello che la
costituzione Lumen gentium aveva detto
della funzione dei vescovi di “insegnare” e
“santificare”, il decreto Presbyterorum
ordinis afferma:
«Dato che i presbiteri hanno una loro
partecipazione nella funzione degli apostoli, ad
essi è concessa da Dio la grazia per poter essere
ministri di Cristo Gesù fra le nazioni mediante il
sacro ministero del Vangelo, affinché le nazioni

55
diventino un’offerta gradita, santificata nello
Spirito Santo (Rm 15, 16). È infatti proprio per
mezzo dell’annuncio apostolico del Vangelo che il
popolo di Dio viene convocato e adunato… Il loro
servizio, che comincia con l’annuncio del
Vangelo, deriva la propria forza e la propria
efficacia dal sacrificio di Cristo» (PO 2).
Dedicheremo una meditazione al tema del
sacerdote come ministro della parola di
Dio, una al sacerdote come ministro dei
sacramenti e una, più esistenziale, al
rinnovamento del sacerdozio mediante la
conversione al Signore.

2. La lettera e lo Spirito
A partire dal III secolo si nota una
tendenza a modellare – nei requisiti, nei riti,
nei titoli, nelle vesti – il sacerdozio cristiano
su quello levitico dell’Antico Testamento15;
una tendenza che si riflette in documenti
canonici come le Costituzioni apostoliche,
la Didascalia siriaca e altre fonti simili.
Proprio questa assimilazione esterna fa
sentire più urgente il bisogno di riscoprire la
novità e alterità sostanziale del ministero

56
della nuova alleanza rispetto a quello
dell’antica. È l’energica affermazione
paolina che vorrei mettere al centro della
presente meditazione:
«La nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha anche
resi idonei a essere ministri di una nuova alleanza,
non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera
uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il ministero
della morte, scolpito in lettere su pietre, fu
glorioso, al punto che i figli d’Israele non
potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a
motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di
lui, quanto più sarà glorioso il ministero dello
Spirito?» (2 Cor 3, 5-8).
Che cosa l’Apostolo intende con
l’opposizione lettera-Spirito, lo si deduce da
quello che ha scritto poco sopra, parlando
della comunità del Nuovo Testamento:
«È noto che voi siete una lettera di Cristo, scritta
mediante il nostro servizio, scritta non con
inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente; non
su tavole di pietra, ma su tavole che sono cuori di
carne» (2 Cor 3, 3).
La lettera è dunque la legge mosaica
scritta su tavole di pietra e, per estensione,
ogni legge positiva esteriore all’uomo; lo

57
Spirito è la legge interiore, scritta sui cuori,
quella che altrove l’Apostolo definisce «la
legge dello Spirito che dà la vita in Cristo
Gesù e che libera dalla legge del peccato e
della morte» (cf Rm 8, 2).
Sant’Agostino ha scritto un trattato sul
nostro testo, Lo Spirito e la lettera, che è
una pietra miliare nella storia del pensiero
cristiano. La novità della nuova alleanza
rispetto all’antica, egli spiega, è che Dio
non si limita più a comandare all’uomo di
fare o non fare, ma fa egli stesso, con lui e
in lui, le cose che gli comanda.
«Dove la legge delle opere impera minacciando, la
legge della fede impetra credendo… Con la legge
delle opere Dio dice all’uomo: “Fa’ quello che ti
comando”, con la legge della fede l’uomo dice a
Dio: “Da’ quello che mi comandi”»16.
La legge nuova che è lo Spirito è ben più
che una “indicazione” di volontà; è una
“azione”, un principio vivo e attivo. La
legge nuova è la vita nuova. L’opposizione
lettera-Spirito equivale in san Paolo
all’opposizione legge-grazia: «Non siete più
sotto la legge, ma sotto la grazia» (Rm 6,

58
14).
Anche nell’antica alleanza è presente
l’idea di grazia, nel senso di benevolenza,
favore e perdono di Dio (la hesed): «Farò
grazia a chi vorrò far grazia» (Es 33, 19); i
Salmi sono pieni di questo concetto. Ma ora
la parola grazia, charis, ha acquistato un
significato nuovo, storico: è la grazia che
viene dalla morte e risurrezione di Cristo e
che giustifica il peccatore. Non è più solo
una benevola disposizione, ma una realtà,
uno “stato”:
«Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con
Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,
mediante il quale abbiamo anche avuto, per la
fede, l’accesso a questa grazia nella quale stiamo
fermi» (Rm 5, 1-2).
Giovanni descrive il rapporto tra antica e
nuova alleanza allo stesso modo di Paolo:
«La legge è stata data per mezzo di Mosè; la
grazia e la verità sono venute per mezzo di Gesù
Cristo» (Gv 1, 17).
Da ciò si deduce che la legge nuova, o
dello Spirito, non è, in senso stretto, quella

59
promulgata da Gesù sul monte delle
beatitudini, ma quella da lui incisa nei cuori
a Pentecoste. I precetti evangelici sono
certo più elevati e perfetti di quelli mosaici;
tuttavia, da soli, anch’essi sarebbero rimasti
inefficaci. Se fosse bastato proclamare la
nuova volontà di Dio attraverso il Vangelo,
non si spiegherebbe che bisogno c’era che
Gesù morisse e che venisse lo Spirito
Santo; non si spiega perché il Gesù di
Giovanni fa dipendere tutto dalla sua
“elevazione”, cioè dalla sua morte di croce
(cf Gv 7, 39; 16, 7-15).
Gli apostoli sono la prova vivente di ciò.
Essi avevano ascoltato dalla viva voce di
Cristo tutti i precetti evangelici, per
esempio che «chi vuol essere il primo deve
farsi l’ultimo e il servo di tutti» (Mc 9, 35),
ma fino alla fine li vediamo preoccupati di
stabilire chi fosse il più grande fra di loro.
Solo dopo la venuta dello Spirito su di loro
li vediamo completamente dimentichi di sé
e intenti solo a proclamare «le grandi opere
di Dio» (cf At 2, 11).
Senza la grazia interiore dello Spirito,

60
anche il Vangelo, dunque, anche il
comandamento nuovo, sarebbe rimasto
legge vecchia, lettera. Riprendendo un
pensiero ardito di sant’Agostino, san
Tommaso d’Aquino scrive:
«Per lettera si intende ogni legge scritta che resta
al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali
contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del
Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse,
dentro, la grazia della fede che sana»17.
Ancora più esplicito è ciò che scrive un
po’ prima:
«La legge nuova è principalmente la stessa grazia
dello Spirito Santo che è data ai credenti»18.

3. Non per costrizione, ma per attrazione


Ma come agisce, in concreto, questa legge
nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso
l’amore! La legge nuova altro non è se non
quello che Gesù chiama il “comandamento
nuovo”. Lo Spirito Santo ha scritto la legge
nuova nei nostri cuori, infondendo in essi
l’amore (cf Rm 5, 5). Questo amore è
l’amore con cui Dio ama noi e con cui,

61
contemporaneamente, fa sì che noi amiamo
lui e il prossimo. È una capacità nuova di
amare.
Non è un controsenso parlare dell’amore
come di una “legge”? A questa domanda si
deve rispondere che vi sono due modi
secondo cui l’uomo può essere indotto a
fare, o a non fare, una certa cosa: o per
costrizione o per attrazione. La legge
esterna ve lo induce nel primo modo, per
costrizione, con la minaccia del castigo;
l’amore ve lo induce nel secondo modo, per
attrazione. Ciascuno infatti è attratto da ciò
che ama, senza che subisca alcuna
costrizione dall’esterno. L’amore è come un
“peso” dell’anima che attira verso l’oggetto
del proprio piacere, in cui sa di trovare il
proprio riposo19. La vita cristiana va vissuta
per attrazione, non per costrizione.
L’amore dunque è una legge, “la legge
dello Spirito”, nel senso che crea nel
cristiano un dinamismo che lo spinge a fare
tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente,
perché ha fatto propria la volontà di Dio e
ama tutto ciò che Dio ama.

62
Che posto ha, ci domandiamo, in questa
economia dello Spirito, l’osservanza dei
comandamenti? Anche dopo la venuta di
Cristo sussiste infatti la legge scritta: ci
sono i comandamenti di Dio, il decalogo, ci
sono i precetti evangelici; a essi si sono
aggiunte, in seguito, le leggi ecclesiastiche.
Che senso hanno il Codice di diritto
canonico, le regole monastiche, i voti
religiosi, tutto ciò, insomma, che indica una
volontà oggettivata, che mi si impone
dall’esterno? Sono, tali cose, come dei corpi
estranei nell’organismo cristiano?
Ci sono stati, nel corso della storia della
Chiesa, dei movimenti che hanno pensato
così e hanno rifiutato, in nome della libertà
dello Spirito, ogni legge, tanto da
chiamarsi, appunto, movimenti “anomisti”,
ma essi sono stati sempre sconfessati
dall’autorità della Chiesa e dalla stessa
coscienza cristiana. La risposta cristiana a
questo problema ci viene dal Vangelo. Gesù
dice di non essere venuto ad «abolire la
legge», ma a «darle compimento» (cf Mt 5,
17). E qual è il “compimento” della legge?

63
«Pieno compimento della legge», risponde
l’Apostolo, «è l’amore!» (Rm 13, 10). Dal
comandamento dell’amore, dice Gesù,
dipendono tutta la legge e i profeti (cf Mt
22, 40).
L’obbedienza diventa così la prova che si
vive sotto la grazia. «Se mi amate,
osservate i miei comandamenti» (Gv 14,
15). L’amore, allora, non sostituisce la
legge, ma la osserva, la “compie”.
Nella profezia di Ezechiele si attribuiva
precisamente al dono futuro dello Spirito e
del cuore nuovo la possibilità di osservare
la legge di Dio: «Porrò il mio Spirito dentro
di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti
e vi farò mettere in pratica le mie leggi” (Ez
36, 27). «È stata data la legge», scrive
lapidariamente Agostino, «perché si
cercasse la grazia ed è stata data la grazia
perché si osservasse la legge»20.

4. Attualità del messaggio della grazia


Fin qui le conseguenze che il messaggio
paolino sulla nuova alleanza può avere sul

64
modo di concepire e vivere la vita cristiana.
In questa occasione vorrei però mettere in
evidenza soprattutto la luce che esso getta
sul problema dell’evangelizzazione nel
mondo attuale e del dialogo interreligioso e,
di conseguenza, sul ruolo del sacerdote
come ministro della verità di Dio.
Agostino scrisse il suo trattato su Lo
Spirito e la lettera per combattere la tesi
pelagiana secondo cui per salvarsi è
sufficiente che Dio ci abbia creati, dotati del
libero arbitrio e dato una legge che ci indica
la sua volontà. In pratica, la tesi che l’uomo
può salvarsi da solo e che la venuta di
Cristo è, certo, un aiuto straordinario, ma
non indispensabile per la salvezza.
Si può discutere – e oggi si discute tra gli
studiosi – se il Dottore di Ippona abbia
interpretato correttamente il pensiero del
monaco Pelagio. Ma questo non dovrebbe
sorprenderci. I Padri che si sono trovati a
combattere delle eresie hanno spesso
esplicitato quelle che (dal loro punto di
vista!) erano le implicazioni logiche di una
certa tesi, senza tener conto sempre del

65
punto di vista e del linguaggio diverso
dell’avversario. Erano più preoccupati della
dottrina che delle persone, della verità
dogmatica più che di quella storica.
Agostino, anzi, si mostra assai più
rispettoso e cortese nei riguardi di Pelagio
di quanto non lo fosse, per esempio, Cirillo
d’Alessandria nei confronti di Nestorio.
La rivalutazione moderna di autori come
Pelagio o Nestorio non significa dunque
minimamente rivalutazione del
pelagianesimo o del nestorianesimo. Questa
distinzione ha contribuito, in tempi recenti,
al ristabilimento della comunione con le
chiese cosiddette nestoriane o monofisite
d’oriente.
Tutto questo, però, ci interessa
relativamente. La cosa importante da
ritenere è che Agostino ha ragione sul
problema principale: per salvarsi non basta
la natura, il libero arbitrio e la guida della
legge, occorre la grazia, cioè occorre Cristo.
Pensare diversamente significherebbe
rendere superflua la sua venuta e con essa la
sua morte e la redenzione; significherebbe

66
considerare Cristo un esempio di vita, non
«causa di salvezza eterna per chiunque
crede» (Eb 5, 9).
È su questo punto che il pensiero di
Agostino – e prima di lui quello di Paolo –
si rivela di una straordinaria attualità.
Quello che, secondo l’Apostolo, distingue
la nuova dall’antica alleanza, lo Spirito
dalla lettera, la grazia dalla legge, fatte le
debite distinzioni, è esattamente ciò che
distingue oggi il cristianesimo da ogni altra
religione. Le forme sono cambiate, ma la
sostanza è la stessa. “Opera della legge”, o
opera dell’uomo, è ogni pratica umana,
quando da essa si fa dipendere la propria
salvezza, sia, questa, concepita come
comunione con Dio, o come comunione con
se stessi e sintonia con le energie
dell’universo. Il presupposto è lo stesso:
Dio non si dona, lo si conquista!
Possiamo illustrare la differenza così.
Ogni religione umana o filosofia religiosa
comincia con il dire all’uomo quello che
deve fare per salvarsi: i doveri, le opere,
siano esse opere ascetiche esteriori o

67
cammini speculativi verso il proprio io
interiore, il Tutto o il Nulla. Il cristianesimo
non comincia dicendo all’uomo quello che
deve fare, ma quello che Dio ha fatto per
lui! Gesù non cominciò a predicare
dicendo: «Convertitevi e credete al Vangelo
affinché il Regno venga a voi»; cominciò
dicendo: «Il regno di Dio è venuto tra voi:
convertitevi e credete al Vangelo». Non
prima la conversione, poi la salvezza, ma
prima la salvezza e poi la conversione.
Anche nel cristianesimo – lo abbiamo già
ricordato – esistono i doveri e i
comandamenti, ma il piano dei
comandamenti, compreso il più grande di
tutti che è amare Dio e il prossimo, non è il
primo piano, ma il secondo; sopra di esso,
c’è il piano del dono, della grazia. «Noi
amiamo perché egli ci ha amati per primo»
(1 Gv 4, 19). Dal dono scaturisce il dovere,
non viceversa.
Noi cristiani non entreremo certo in
dialogo con altre fedi affermando la
differenza o la superiorità della nostra
religione; questo sarebbe la negazione

68
stessa del dialogo. Insisteremo piuttosto su
ciò che ci unisce, gli obiettivi comuni,
riconoscendo agli altri lo stesso diritto
(almeno soggettivo) di considerare la loro
fede la più perfetta e la definitiva. Senza
dimenticare, del resto, che chi vive con
coerenza e in buona fede una religione delle
opere e della legge è migliore e più gradito
a Dio di chi appartiene alla religione della
grazia, ma trascura completamente sia di
credere nella grazia che di compiere le
opere della fede. Tutto questo non deve
però indurci a mettere tra parentesi la nostra
fede nella novità e unicità di Cristo. Non si
tratta neppure di affermare la superiorità di
una religione sulle altre, ma di riconoscere
la specificità di ognuna, di sapere chi siamo
e cosa crediamo.
Non è difficile spiegare il perché della
difficoltà ad ammettere l’idea di grazia e
dell’istintivo rifiuto di essa da parte
dell’uomo moderno. Salvarsi “per grazia”
significa riconoscere la dipendenza da
qualcuno e questo risulta la cosa più
difficile. È nota l’affermazione di Marx:

69
«Un essere non si presenta indipendente se non in
quanto è signore di se stesso, e non è signore di se
stesso se non in quanto deve a se stesso la sua
esistenza. Un uomo che vive per la “grazia” di un
altro si considera un essere dipendente… Ma io
vivrei completamente per la grazia di un altro, se
egli avesse creato la mia vita, se egli fosse la
sorgente della mia vita e questa non fosse mia
propria creazione»21.
Il motivo per cui si rifiuta un Dio creatore
è anche quello per cui si rifiuta un Dio
salvatore.
È la spiegazione che san Bernardo dà del
peccato di Satana: egli preferì essere la più
infelice delle creature per merito proprio,
anziché la più felice per grazia altrui;
preferì essere «infelice ma sovrano, anziché
felice ma dipendente»22.
Il rifiuto del cristianesimo, in atto a certi
livelli della nostra cultura occidentale,
quando non è rifiuto della Chiesa e dei
cristiani, è rifiuto della grazia.

5. Il compito dei ministri della nuova


alleanza
Qual è, in questo campo, il compito dei

70
sacerdoti in quanto amministratori dei
misteri di Dio e maestri della fede? Quello
di aiutare i fratelli a vivere la novità della
grazia. Il passaggio dall’Antico al Nuovo
Testamento, storicamente, è avvenuto una
volta per sempre, duemila anni fa, con la
venuta di Gesù Cristo, e sacramentalmente
nel battesimo, ma esistenzialmente e
spiritualmente deve avvenire sempre di
nuovo. Origene diceva:
«Non pensare che basti il rinnovamento della vita
avvenuto una volta per tutte, all’inizio;
continuamente, ogni giorno, bisogna rinnovare la
stessa novità»23.
Il nostro compito nei confronti della
parola di Dio è soprattutto quello di essere
annunciatori della grazia di Dio. Alla fine
della vita l’Apostolo esclamava:
«Non faccio nessun conto della mia vita, come se
mi fosse preziosa, pur di condurre a termine la mia
corsa e il servizio affidatomi dal Signore Gesù,
cioè di testimoniare del vangelo della grazia di
Dio» (At 20, 24).
Per Paolo, “l’essenza del cristianesimo”
non è il messaggio sociale dell’amore del

71
prossimo, cioè qualcosa che l’uomo deve
fare, come pensava Adolf Harnack nel
clima della teologia liberale; è l’annuncio
della grazia di Dio, cioè qualcosa che Dio
ha fatto.
È necessario mettere sempre di nuovo al
centro della predicazione cristiana
l’annuncio della grazia. Da tempo si va
affermando un nuovo modo di fare la storia
della Chiesa. Consiste nel non fermarsi alle
vicende esteriori, alle istituzioni, o ai grandi
avvenimenti e personaggi, ma nello
scendere al “vissuto” del popolo cristiano,
cercando di ricostruire la qualità religiosa
della vita di una porzione della Chiesa, in
un dato momento della sua storia.
Esaminando, per esempio in base a
ricerche di archivio, la predicazione di un
parroco, durante l’intero periodo della sua
permanenza in una parrocchia, si vede con
chiarezza quale religione e quale idea di
Dio veniva inculcata ai fedeli. Molto spesso
la conclusione di queste ricerche è che la
religiosità proposta al popolo era una
religione fatta quasi esclusivamente di

72
doveri e di castighi, una religione della
legge o “della paura”, come l’ha definita
uno di questi storici, il Delumeau24.
Il popolo di Ippona, all’inizio del V
secolo, era semplice e illetterato, ma
conosceva perfettamente la differenza tra la
legge e la grazia, tra il timore e l’amore, al
punto di mettersi spontaneamente ad
applaudire appena il loro vescovo Agostino
accennava a questi temi. Egli non esitava a
rivolgersi a loro con queste parole che
possiamo ascoltare come rivolte ora anche a
noi:
«Spogliatevi di quanto in voi è vecchio: avete
conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, nuovo
Testamento, nuovo cantico. Il cantico nuovo non
compete a uomini vecchi: lo apprendono solo gli
uomini nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo
della grazia, che già appartengono al Nuovo
Testamento, che è il Regno dei cieli»25.

Note
15 Cf J.-M. Tillard, “Sacerdoce”, in Dictionnaire de
spiritualité, 14, col. 12.
16 Agostino, De Spiritu et littera, 13, 22.
17 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q.

73
106, a. 2.
18 Ibidem, q. 106, a. 1; cf Agostino, De Spiritu et
littera, 21, 36.
19 Cf Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni,
26, 4-5: CCL 36, 261; Confessioni, XIII, 9.
20 Agostino, De Spiritu et littera, 19, 34.
21 K. Marx, Manoscritti del 1844, in
Gesamtausgabe, III, Berlino 1932, p. 124, e Critica
della filosofia del diritto di Hegel, in
Gesamtausgabe, I, 1, Francoforte sul M. 1927, p.
614 s.
22 Bernardo di Chiaravalle, De gradibus humilitatis,
X, 36 (PL 182, 962): «misere praeesse, quam
feliciter subesse».
23 Origene, Commento alla Lettera ai Romani, 5, 8
(PG 14, 1042): «Ipsa novitas innovanda est».
24 Cf J. Delumeau, Storia vissuta del popolo
cristiano, SEI, Torino 1985.
25 Agostino, Enarrationes in Psalmos 32, 8 (CCL
38, p. 253); Commento al Vangelo di Giovanni, 65, 1
(CCL 36, p. 491).

74
IV
«Noi predichiamo Cristo Gesù
Signore»

1. Cosa predicare
Nella Liturgia delle ore di lingua tedesca,
c’è un inno che mi è divenuto caro fin dal
primo momento che l’ho recitato. Comincia
così: «Verbo eterno, Dio vivo e vero, facci
penetrare nel tuo mistero»26. È la preghiera
con cui vorrei iniziare questa meditazione,
il cui scopo è proprio di farci desiderare di
esplorare questo mistero per meglio
trasmetterlo agli altri. L’espressione “il
mistero di Cristo” è la più comprensiva di
tutte: racchiude il suo essere e il suo agire,
la sua umanità e la sua divinità, la sua
preesistenza e la sua incarnazione.
Con questo sentimento nell’anima,
continuiamo ora la nostra meditazione sul

75
sacerdote come dispensatore dei “misteri di
Dio”, intendendo per “misteri” le parole o
le verità rivelate, in pratica il ruolo di
annunciatore del sacerdote.
Gesù nel Vangelo usa l’espressione “i
misteri del Regno dei cieli” per indicare
tutto il suo insegnamento e, in particolare,
ciò che riguarda la sua persona (cf Mt 13,
11). Altrove racchiude questo stesso
contenuto nell’espressione “queste cose”:
«Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai
dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11, 25).
Dopo la Pasqua si passa sempre più
spesso dal plurale al singolare, dai misteri al
mistero: tutti i misteri di Dio si riassumono
ormai nel mistero che è Cristo. San Paolo
parla del «mistero di Dio, cioè Cristo, nel
quale tutti i tesori della sapienza e della
conoscenza sono nascosti» (Col 2, 2-3). Ci
invita a pensare a Cristo come a un palazzo,
addentrandosi nel quale si passa di
meraviglia in meraviglia.
L’universo materiale, con tutte le sue
bellezze e la sua incalcolabile estensione, è
l’unica immagine adeguata dell’universo

76
spirituale che è Cristo. Non per nulla esso è
stato fatto «per mezzo di lui e in vista di
lui» (Col 1, 16). Dante parla dell’amore di
Dio che «per tutto l’universo si squaderna»,
come fosse un immenso poema di cui ogni
creatura è una pagina. Lo stesso si deve dire
del Verbo di Dio.
L’Apostolo ha individuato con più
chiarezza di tutti il centro e il cuore
dell’annuncio cristiano e lo ha espresso in
maniera programmatica, a modo di
manifesto: «Noi predichiamo Cristo
crocifisso» (1 Cor 1, 23) e ancora: «Noi non
predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù
Signore» (2 Cor 4, 5). Tali parole
giustificano in pieno l’affermazione
secondo cui il cristianesimo non è una
dottrina ma una persona.
Nei secoli passati, quando la società
occidentale, pur con tutti i suoi limiti e
incoerenze, era impregnata di una cultura
cristiana e nessuno metteva in questione la
persona di Cristo, si poteva fare di una
dottrina particolare (per esempio la
giustificazione gratuita per fede) l’articolo

77
“stantis et cadentis Ecclesiae”, cioè la
questione con cui la Chiesa sta o cade. Ora
non più; ora l’articolo “stantis et cadentis
Ecclesiae” è tornato ad essere, come al
tempo di Paolo, la persona di Cristo.
Ma cosa significa, nella pratica, predicare
“Cristo crocifisso”, o “Cristo Gesù
Signore”? Non significa parlare sempre e
solo del Cristo del kerygma o del Cristo del
dogma, cioè trasformare le prediche in
lezioni di cristologia. Significa piuttosto
«ricapitolare tutto in Cristo» (Ef 1, 10),
fondare su di lui ogni dovere, far servire
ogni cosa allo scopo di portare gli uomini
alla «sublime conoscenza di Cristo Gesù
Signore» (Fil 3, 8).
Gesù, nella sua predicazione terrena,
faceva derivare tutto dall’affermazione: «Il
regno di Dio è venuto tra voi!». Il regno di
Dio è giunto in mezzo a voi, perciò amate i
vostri nemici; il regno di Dio è in mezzo a
voi, perciò se la tua mano ti scandalizza
tagliala; il regno di Dio è in mezzo a voi,
perciò non preoccupatevi della vostra vita,
ma cercate anzitutto il regno di Dio27. Allo

78
stesso modo, dopo la Pasqua gli apostoli
fanno derivare tutto dall’affermazione:
«Gesù è il Signore!».
Gesù deve essere l’oggetto formale – non
necessariamente e sempre l’oggetto
materiale – della predicazione, quello che la
“informa”, che fa da fondamento e da
autorità a ogni annuncio, anche quando
questo ha per oggetto l’agire morale o le
virtù cristiane. Una volta si fondavano le
virtù cristiane sul principio aristotelico della
“retta ragione”; oggi ci rendiamo conto che
questo principio spesso non è sufficiente e
che è molto più sicuro fondarle sulla
imitazione di Cristo.
Prendiamo l’esempio cruciale
dell’obbedienza. Secondo Aristotele essa si
fonda sul principio di ragione secondo cui
“l’inferiore deve obbedire al superiore”; ma
in una cultura che ha fatto della libertà ed
uguaglianza tra le persone la propria
bandiera, diventa difficile far leva su questo
principio. «Perché l’inferiore deve obbedire
al superiore? Chi è l’inferiore, chi il
superiore?». Il cristiano ha un motivo per

79
obbedire che è valido oggi come ieri:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che
furono in Cristo Gesù… Egli si è fatto
obbediente fino alla morte» (Fil 2, 5-8).
Un altro esempio, ancora più chiaro.
Come fondare sulla “retta ragione” il valore
del servizio così centrale nella vita
cristiana? L’unico fondamento valido è
l’esempio di Cristo, per questo, all’invito a
farsi il servo di tutti, Gesù fa seguire subito
la motivazione: «Come il Figlio dell’uomo
che non è venuto per farsi servire, ma per
servire» (Mt 20, 27-28).
La persona di Cristo deve essere dunque
l’anima e la luce dell’annuncio cristiano,
l’orizzonte dentro cui si colloca. Esclama
san Bernardo, parlando di Gesù:
«Arido è ogni cibo dell’anima se non è condito
con questo olio; insipido se non è condito con
questo sale. Ciò che scrivi non ha sapore (non
sapit mihi) se non vi palpita dentro il cuore di
Gesù (nisi sonuerit ibi Cor Jesu)»28.

2. Perché predicare
Non basta però annunciare Cristo;

80
bisogna vedere “perché” lo si annuncia.
Alcuni, scrive san Paolo ai Filippesi,
«predicano Cristo anche per invidia e per rivalità;
ma ce ne sono anche altri che lo predicano di buon
animo. Questi lo fanno per amore, sapendo che
sono incaricato della difesa del vangelo; ma quelli
annunciano Cristo con spirito di rivalità, non
sinceramente, pensando di provocarmi qualche
afflizione nelle mie catene. Che importa?
Comunque sia, con ipocrisia o con sincerità,
Cristo è annunciato; di questo mi rallegro, e mi
rallegrerò ancora» (Fil 1, 15-18).
Si può dunque annunciare Cristo per
motivi spuri, polemici o di parte. Allora la
rivalità era tra singoli predicatori, oggi la
rivalità è spesso tra chiesa e chiesa, tra una
denominazione cristiana e l’altra. Il
movimento ecumenico e i dialoghi bilaterali
tra le chiese da tempo si sforzano di
eliminare questo scandalo. Sono stato per
oltre dieci anni membro della delegazione
cattolica per il dialogo con le chiese
pentecostali. Uno dei frutti più significativi
di quel dialogo fu proprio la pubblicazione
di un documento comune contro il
proselitismo, anche se in alcuni ambienti

81
ancora stenta ad essere messo in pratica.
L’Apostolo in quel testo ci dice qualcosa
che dobbiamo tener presente anche mentre
perdura il problema della divisione dei
cristiani: rallegrarci che Cristo sia
annunciato, anche se in modo e per motivi
diversi dai nostri. Conoscere Cristo, anche
se in modo imperfetto e parziale, è meglio
che non conoscerlo affatto. È una
condizione, questa, per la collaborazione
ecumenica, specie nell’ambito
dell’evangelizzazione.
Non si tratta sempre e solo di rivalità o
concorrenza. L’intenzione nel predicare
Cristo può essere inquinata da altre
mancanze. Tra esse la principale è la
mancanza d’amore. San Paolo dice:
«Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli
angeli, ma non avessi la carità, sono come un
bronzo che risuona o come un cembalo che
tintinna» (1 Cor 13, 1).
L’esperienza mi ha fatto scoprire una
cosa: che si può annunciare Gesù Cristo per
motivi che hanno poco o nulla a vedere con
l’amore. Si può annunciare Cristo per

82
dovere o per mestiere, per trovare
nell’aumento del numero degli adepti una
legittimazione alla propria piccola chiesa o
setta, specie se di propria, o di recente,
fondazione. Si può annunciare – come in
certi ambienti segnati da una forte attesa
escatologica – per portare il Vangelo fino ai
confini della terra, riempire presto il
numero degli eletti, e così affrettare il
ritorno del Signore.
Alcuni di questi motivi non sono da
riprovare, ma da soli non bastano. Manca
quel genuino amore e compassione per gli
uomini che è l’anima del Vangelo. Perché
Dio mandò il primo missionario nel mondo,
il Figlio suo Gesù? Per nient’altro che per
amore: «Dio infatti ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3, 16).
Perché Gesù predicava il regno?
Unicamente per amore, per compassione.
«Ho compassione di queste folle», diceva,
«perché sono come pecore senza pastore»
(cf Mt 9, 36; 15, 32).
Il Vangelo non si trasmette che sull’onda
dell’amore. Se non amiamo le persone che

83
abbiamo davanti, le parole si trasformano
facilmente in pietre che feriscono.
Giona era andato a predicare a Ninive, ma
non amava i niniviti. Egli è visibilmente più
contento quando può gridare: «Ancora
quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!»,
che non quando deve annunciare il perdono
di Dio e la salvezza di Ninive. «Tu ti dai
pena», dice Dio a Giona, «per quella pianta
di ricino… e io non dovrei avere pietà di
Ninive, quella grande città, nella quale sono
più di centoventimila persone, che non
sanno distinguere fra la mano destra e la
sinistra?» (Gio 4, 10-11). Dio dovette
faticare di più per convertire il predicatore
che non tutti gli ascoltatori.
Questo ci deve far riflettere. Guai a
ridurre l’omelia domenicale, come avviene
purtroppo in certe parrocchie, a
un’occasione per sfogare il proprio
disappunto e amarezza sulla gente, a far
rilevare tutto ciò che non va. La gente esce
irritata, anziché sollevata dalla Messa.

3. Chi è il predicatore

84
Parlando della preghiera, sant’Agostino
dice che si devono distinguere due cose:
“quid ores” e “qualis ores”29, quali sono le
cose da chiedere e come deve essere colui
che le chiede, l’oggetto e il soggetto della
preghiera. Lo stesso si deve dire della
predicazione. Non basta sapere che cosa
predicare, e cioè la persona di Cristo e il
suo mistero pasquale; è vitale conoscere
anche come si deve essere per predicare. A
questo riguardo, l’evangelista Giovanni, nel
solenne inizio della sua Prima Lettera,
aggiunge una dimensione esistenziale a
quello che ci ha detto fin qui l’apostolo
Paolo:
«Quel che era dal principio, quel che abbiamo
udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi,
quel che abbiamo contemplato e che le nostre
mani hanno toccato della parola della vita (poiché
la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e
ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la
vita eterna che era presso il Padre e che ci fu
manifestata), quel che abbiamo visto e udito, noi
lo annunziamo anche a voi» (1 Gv 1, 1-3).
L’annunciatore deve essere uno che ha
veduto, udito, contemplato, toccato con

85
mano ciò che annuncia agli altri, o almeno
che si sforza di farlo. Uno che ha Cristo nel
cuore, prima che sulle labbra, che parla per
esperienza. «La predicazione cristiana», è
stato detto a ragione, «non è tanto
comunicazione di dottrina, quanto di
esistenza»30.
La bocca, dice Gesù, parla di quello che
abbonda nel cuore (cf Mt 12, 34). Bisogna
avere Cristo nel cuore perché si manifesti
sulle nostre labbra. Le primitive
Costituzioni del mio ordine, i Frati Minori
Cappuccini, scritte nel 1536, hanno una
frase che si è conservata attraverso tutte le
successive revisioni e ha ispirato la
predicazione cappuccina nei suoi momenti
migliori:
«Si sforzino i frati di imprimere nel loro cuore il
benedetto figlio di Dio, Gesù Cristo, e di dargli se
stessi in dominio totale, così che, per
sovrabbondanza di amore, sia lui quello che li fa
parlare».
La Scrittura usa un’immagine
efficacissima per esprimere questa esigenza,
il rotolo mangiato e digerito:

86
«Io guardai ed ecco, una mano tesa verso di me
teneva un rotolo. Lo spiegò davanti a me; era
scritto all’interno e all’esterno e vi erano scritti
lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell’uomo,
mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa
d’Israele”. Io aprii la bocca ed egli mi fece
mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio
dell’uomo, nutrisci il ventre e riempi le viscere
con questo rotolo che ti porgo. Io lo mangiai e fu
per la mia bocca dolce come il miele» (Ez 2, 9 – 3,
3).
Solo dopo aver mangiato e assimilato il
rotolo il profeta si sente dire da Dio: «Figlio
d’uomo, va’, recati alla casa d’Israele, e
riferisci loro le mie parole» (Ez 3, 4). Le
“parole” di Ezechiele sono diventate ormai
“la Parola”, quello che Giovanni chiama “il
Verbo della vita”. Quello che si fa, nella
comunione eucaristica, con il corpo di
Cristo è quello che si dovrebbe fare anche,
nella predicazione, con la parola di Cristo:
mangiarla, inghiottirla, riempire di essa le
viscere dell’anima.
C’è una differenza enorme tra il libro
semplicemente letto o studiato e il libro
ingoiato. Nel secondo caso, la parola

87
diventa davvero, come diceva
sant’Ambrogio, «la sostanza della nostra
anima»31, quello che informa i pensieri,
plasma il linguaggio, determina le azioni,
crea l’uomo “spirituale”. Il processo che
porta all’annuncio è lo stesso che, secondo
Paolo, porta alla fede. La parola deve prima
arrivare all’orecchio (fides ex auditu), da
qui scendere nel cuore (corde creditur) e dal
cuore risalire alla bocca per l’annuncio (ore
fit professio) (cf Rm 10, 10.17).
Bisogna imitare quello che Dio fa nella
Scrittura. Egli parla sempre “al cuore” del
suo popolo; «parlerò al suo cuore», dice in
Osea della sposa e «parlate al cuore di
Gerusalemme», raccomanda ai suoi profeti
(Is 40, 2). Al cuore della gente arriva solo
quello che viene dal cuore del predicatore.
La causa più comune della sterilità
dell’annuncio è che si parla troppo alla
mente e troppo poco al cuore delle persone.
La mente rappresenta l’oggettività, il
cuore la soggettività. Se la predicazione
cristiana è comunicazione di esistenza, più
che di dottrina, si capisce l’importanza della

88
soggettività, della convinzione e perfino
della commozione personale. La
comunicazione religiosa somiglia più a
quella artistica che a quella della storia e
della cronaca. Nella comunicazione di
notizie, la cosa più importante (che manca
spesso nei media) è l’obiettività, il distacco
e la neutralità; nella comunicazione
religiosa, al contrario, non si può essere
distaccati, neutrali, senza smentire quello
che si dice.
Ho accennato alla commozione. Quando è
sincera e sale dal cuore, essa è la risposta
più eloquente e più degna dell’uomo
davanti alla rivelazione di un grande amore,
o di un grande dolore, quella, in ogni caso,
che fa più bene a chi la riceve. Gesù non
nascose la propria commozione: «si
commosse profondamente» davanti alla
vedova di Nain (cf Lc 7, 13) e alle sorelle di
Lazzaro (cf Gv 11, 33.35). Il suo grido:
«Gerusalemme, Gerusalemme!» (cf Lc 13,
34), è un parlare commosso. La
commozione è come l’aratura che precede
la semina: apre il cuore e vi scava un solco

89
perché il seme non cada come su strada
asfaltata, su un cuore di pietra.
Una massima dell’oratoria antica dice: «Si
vis me flere, flendum est tibi primum»32: se
vuoi che mi commuova, devi essere
commosso tu per primo. Non si tratta
naturalmente di piangere materialmente
mentre si parla. L’intima partecipazione del
predicatore ha tanti modi di esprimersi, più
contenuti o più aperti, a seconda del
carattere di ognuno: un fremito nella voce,
un’alzata di tono, un pathos e una luce negli
occhi. Paolo VI diceva che la Chiesa «ha
bisogno di fuoco nel cuore, di parola sulle
labbra, di profezia nello sguardo»33.
Accanto alla mancanza di sentimento,
l’altra cosa che impedisce di arrivare al
cuore degli ascoltatori è l’astrattezza. Il
linguaggio astratto, fatto solo di concetti,
parla alla mente, ma non al cuore. Esso può
essere giustificato e necessario in una
lezione universitaria o in una conferenza,
non nella predicazione al popolo,
soprattutto quando questa si serve dei mezzi
di comunicazione sociale.

90
Nella predicazione anche i concetti
astratti devono essere rivestiti di immagini,
simboli, metafore, parabole, storie vissute,
riferimenti concreti alla vita e agli interessi
della gente. È quello che caratterizza il
linguaggio della Bibbia in generale e
risplende in grado sommo nel parlare di
Gesù nel Vangelo. L’esperienza dimostra
che quello che il fedele ricorda di una
predica non è, il più delle volte, un’idea, ma
un esempio, un’immagine, ed è grazie ad
essi che ricorda l’idea.
Sant’Agostino ha spiegato magistralmente
in che cosa consiste la forza dell’immagine
e della metafora:
«Tutto ciò che è suggerito mediante simboli
colpisce ed infiamma il cuore molto più vivamente
di quanto potrebbe fare la verità stessa, se ci fosse
presentata senza i misteriosi rivestimenti delle
immagini… La nostra sensibilità è tarda ad
infiammarsi finché resta legata alle realtà
puramente concrete, ma se viene orientata verso
simboli tratti dal mondo corporeo e di là
trasportata sul piano di realtà spirituali significate
da tali simboli, essa acquista vivacità, già dal solo
fatto di questo passaggio, e si infiamma
maggiormente come una torcia in movimento»34.

91
4. L’amore di Cristo ci spinge
Ho parlato sopra di quanto sia importante
che il predicatore ami coloro ai quali deve
annunciare la Parola; ancora più importante
però è che l’annunciatore ami colui che
deve annunciare, Gesù Cristo. «L’amore di
Cristo ci possiede, al pensiero che uno è
morto per tutti», esclama Paolo (2 Cor 5,
14). È questo lo scopo primario e il segreto
ultimo dell’efficacia della predicazione
cristiana: un amore e una ammirazione
senza limiti per la persona di Cristo.
Ha scritto ancora Kierkegaard:
«Quel Dio che ha creato l’uomo e la donna, così
ha formato l’eroe e il poeta o l’oratore. Questo non
può fare ciò che fa quello; egli può soltanto
ammirare, amare, rallegrarsi con l’eroe. Tuttavia
anch’egli è felice, non meno di quello. Infatti
l’eroe è la sua migliore essenza, ciò di cui è
innamorato, felice di non esserlo lui stesso. Così
che il suo amore può manifestarsi con
l’ammirazione. Egli è il genio del ricordo… e
quando ha trovato ciò che cerca, allora va di porta
in porta con i suoi canti e i suoi discorsi,
proclamando che tutti devono ammirare l’eroe
come fa lui, essere fieri dell’eroe come lo è lui».

92
Noi credenti abbiamo trovato l’Eroe,
l’unico veramente degno di questo nome:
dobbiamo essere “il genio
dell’ammirazione”, i suoi poeti. I poeti sono
quelli che anche quando parlano cantano,
che parlano con gli occhi, prima che con la
bocca. Altri eroi hanno affrontato la morte,
ma Gesù ha fatto di più: l’ha vinta. I nostri
contemporanei si appassionano per eroi
immaginari ed epopee fantastiche su altri
mondi che non hanno nulla di verosimile e
di umano. Noi cristiani siamo a conoscenza
del più grande Eroe e della più meravigliosa
epopea della storia. Non siamo timidi e
freddi nel farla conoscere al mondo. È di
essa, non di “Avatar”, che il mondo ha
bisogno.

Note
26 Stundengebet: «Göttliches Wort, der Gottheit
Schrein, füre uns in dein Geheimnis ein».
27 Cf C.H. Dodd, History and the Gospel, IV,
London 1964 (trad. ital. Storia ed Evangelo, Paideia,
Brescia 1976, p. 99).
28 Bernardo di Chiaravalle, Sermones super

93
Canticum, XV, 6 (Ed. Cistercense, Roma 1957, p.
86).
29 Agostino, Epistola 130, 4, 9; 13, 24 (CCL 44, p.
67).
30 S. Kierkegaard, Diario, IX A, 207.
31 Ambrogio, Exp. Ps. 118, 7, 7 (PL 15, 1350).
32 Orazio, Ars poetica, 102.
33 Discorso all’udienza generale del 29 novembre
1972 (Insegnamenti di Paolo VI, Tipografia
Poliglotta Vaticana, X, pp. 1210 s).
34 Agostino, Ep. 55, 11, 21.

94
V
«Cristo offrì se stesso a Dio»

1. La novità del sacerdozio di Cristo


In questa meditazione vogliamo riflettere
sul sacerdote come amministratore dei
misteri di Dio, intendendo, questa volta, per
“misteri” i segni concreti della grazia, i
sacramenti. Non possiamo soffermarci su
tutti i sacramenti, ci limitiamo al
sacramento per eccellenza che è
l’Eucaristia. Così fa anche il decreto
Presbyterorum ordinis che, dopo aver
parlato dei presbiteri come evangelizzatori,
prosegue dicendo che
«il loro servizio, che comincia con l’annuncio del
Vangelo, deriva la propria forza e la propria
efficacia dal sacrificio di Cristo, che essi
rinnovano misticamente sull’altare» (PO 2).
Questi due compiti del sacerdote sono

95
quelli che anche gli apostoli riservarono a
se stessi: «Quanto a noi», dichiara Pietro
negli Atti, «continueremo a dedicarci alla
preghiera e al ministero della Parola» (At 6,
4). La preghiera di cui si parla non è la
preghiera privata; è la preghiera liturgica
comunitaria che ha al suo centro la frazione
del pane.
La Didaché permette di vedere come
l’Eucaristia, nei primi giorni della Chiesa,
veniva offerta proprio nel contesto della
preghiera della comunità, come parte di
essa e suo culmine35.
Come il sacrificio della Messa non si
concepisce se non in dipendenza dal
sacrificio della croce, così il sacerdozio
cristiano non si spiega se non in dipendenza
e come partecipazione sacramentale al
sacerdozio di Cristo. È da qui che dobbiamo
partire per scoprire cosa si richiede dal
sacerdote in quanto ministro dell’Eucaristia.
La novità del sacerdozio di Cristo rispetto
a quello dell’antica alleanza e, come oggi
sappiamo, rispetto a ogni altra istituzione
sacerdotale anche fuori della Bibbia, è

96
messa in rilievo nella Lettera agli Ebrei da
diversi punti di vista: Cristo non ha avuto
bisogno di offrire vittime anzitutto per i
propri peccati, come ogni sacerdote (7, 27);
non ha bisogno di ripetere più volte il
sacrificio, ma «una volta sola, alla pienezza
dei tempi, è apparso per annullare il peccato
mediante il sacrificio di se stesso» (9, 26).
Ma la differenza fondamentale è un’altra.
Sentiamo come essa viene descritta:
«Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri… è
entrato una volta per sempre nel luogo santissimo,
non con sangue di capri e di vitelli, ma con il
proprio sangue. Così ci ha acquistato una
redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di
tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli
che sono contaminati, li santificano, in modo da
procurare la purezza della carne, quanto più il
sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno
offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà
la nostra coscienza dalle opere morte per servire il
Dio vivente!» (Eb 9, 11-14).
Ogni altro sacerdote offre qualcosa fuori
di sé, Cristo ha offerto se stesso; ogni altro
sacerdote offre delle vittime, Cristo si è
offerto vittima! Sant’Agostino ha racchiuso

97
in una formula celebre questo nuovo genere
di sacerdozio, in cui sacerdote e vittima
sono la stessa cosa: «Ideo victor, quia
victima, et ideo sacerdos, quia sacrificium»:
vincitore perché vittima, sacerdote perché
vittima36.
Nel passaggio dai sacrifici antichi al
sacrificio di Cristo si osserva la stessa
novità che nel passaggio dalla legge alla
grazia, dal dovere al dono, illustrata in una
meditazione precedente. Da opera
dell’uomo per placare la divinità e
riconciliarla a sé, il sacrificio passa ad
essere dono di Dio per placare l’uomo, farlo
desistere dalla sua violenza e riconciliarlo a
sé (cf Col 1, 20). Anche nel suo sacrificio,
come in tutto il resto, Cristo è “totalmente
altro”.

2. «Imitate ciò che compite»


La conseguenza di tutto ciò è chiara: per
essere sacerdote “secondo l’ordine di Gesù
Cristo”, il presbitero deve, come lui, offrire
se stesso. Sull’altare, egli non rappresenta

98
soltanto il Gesù “sommo sacerdote”, ma
anche il Gesù “somma vittima”, essendo
ormai le due cose inseparabili. In altre
parole non può accontentarsi di offrire
Cristo al Padre nei segni sacramentali del
pane e del vino, deve anche offrire se stesso
con Cristo al Padre.
Raccogliendo un pensiero di
sant’Agostino, l’istruzione della
Congregazione dei Riti Eucharisticum
mysterium afferma:
«La Chiesa, sposa e ministra di Cristo,
adempiendo con lui all’ufficio di sacerdote e
vittima, lo offre al Padre e, insieme, offre tutta se
stessa con lui»37.
Quello che qui si dice della Chiesa intera,
si applica in modo tutto speciale al
celebrante. Al momento dell’ordinazione, il
vescovo rivolge agli ordinandi
l’esortazione: «Agnoscite quod agitis,
imitamini quod tractatis»: renditi conto di
ciò che fai, imita ciò che celebri. In altre
parole: fai anche tu ciò che fa Cristo nella
Messa, cioè offri te stesso a Dio in

99
sacrificio vivente. Scrive san Gregorio
Nazianzeno:
«Sapendo che nessuno è degno della grandezza di
Dio, della Vittima e del Sacerdote, se non si è
prima offerto lui stesso come sacrificio vivente e
santo, se non si è presentato come oblazione
ragionevole e gradita (cf Rm 12, 1) e se non ha
offerto a Dio un sacrificio di lode e uno spirito
contrito – l’unico sacrificio di cui l’autore di ogni
dono domanda l’offerta –, come oserò offrirgli
l’offerta esteriore sull’altare, quella che è la
rappresentazione dei grandi misteri?»38.
Mi permetto di dire come io stesso ho
scoperto questa dimensione del mio
sacerdozio perché può forse aiutare a capire
meglio. Dopo la mia ordinazione, ecco
come io vivevo il momento della
consacrazione: chiudevo gli occhi, chinavo
il capo, cercavo di estraniarmi da tutto ciò
che mi circondava per immedesimarmi in
Gesù che, nel cenacolo, pronunciò per la
prima volta quelle parole: «Accipite et
manducate…», «Prendete, mangiate…».
La liturgia stessa favoriva questo
atteggiamento, facendo pronunciare le
parole della consacrazione a voce bassa e in

100
latino, chinati sulle specie, rivolti all’altare
e non al popolo. Poi, un giorno, ho capito
che tale atteggiamento, da solo, non
esprimeva tutto il significato della mia
partecipazione alla consacrazione. Chi
presiede invisibilmente a ogni Messa è il
Gesù risorto e vivo, il Gesù, per essere
esatti, che era morto, ma ora vive per
sempre (cf Ap 1, 18). Ma questo Gesù è il
“Cristo totale”, Capo e corpo
inscindibilmente uniti. Dunque, se è questo
Cristo totale che pronuncia le parole della
consacrazione, anch’io le pronuncio con lui.
Dentro l’“Io” grande del Capo, c’è nascosto
il piccolo “io” del corpo che è la Chiesa, c’è
anche il mio piccolissimo “io”.
Da allora, mentre, come sacerdote
ordinato dalla Chiesa, pronuncio le parole
della consacrazione “in persona Christi”,
credendo che, grazie allo Spirito Santo, esse
hanno il potere di cambiare il pane nel
corpo di Cristo e il vino nel suo sangue, allo
stesso tempo, come membro del corpo di
Cristo, non chiudo più gli occhi, ma guardo
i fratelli che ho davanti o, se celebro da

101
solo, penso a coloro che devo servire
durante il giorno e, rivolto a essi, dico
mentalmente, insieme con Gesù: «Fratelli e
sorelle, prendete, mangiate: questo è il mio
corpo; prendete, bevete, questo è il mio
sangue».
In seguito ho trovato una singolare
conferma negli scritti della venerabile
Concepciòn Cabrera de Armida, detta
Conchita, la mistica messicana, fondatrice
di tre ordini religiosi, di cui è in corso il
processo di beatificazione. Al suo figlio
gesuita, in procinto di essere ordinato
sacerdote, ella scriveva:
«Ricordati, figlio mio, quando terrai in mano
l’Ostia Santa, tu non dirai: “Ecco il corpo di Gesù,
ecco il suo sangue”, ma dirai: “Questo è il mio
corpo, questo è il mio sangue”: cioè deve operarsi
in te una trasformazione totale, devi perderti in lui,
essere un altro Gesù»39.
L’offerta del sacerdote e di tutta la Chiesa,
senza quella di Gesù, non sarebbe né santa,
né gradita a Dio, perché siamo solo creature
peccatrici, ma l’offerta di Gesù, senza
quella del suo corpo che è la Chiesa,

102
sarebbe anch’essa incompleta e
insufficiente: non, s’intende, per procurare
la salvezza, ma perché noi la riceviamo e ce
ne appropriamo. È in questo senso che la
Chiesa può dire con san Paolo: «Completo
nella mia carne ciò che manca alla passione
di Cristo» (cf Col 1, 24).
Possiamo illustrare con un esempio ciò
che avviene ad ogni Messa. Immaginiamo
che in una famiglia c’è uno dei figli, il
primogenito, affezionatissimo al padre. Per
il suo compleanno vuole fargli un regalo.
Prima però di presentarglielo chiede, in
segreto, a tutti i fratelli e le sorelle di
apporre la loro firma sul dono. Questo
arriva dunque nelle mani del padre come
l’omaggio indistinto di tutti i suoi figli e
come un segno della gratitudine e
dell’amore di tutti loro, ma, in realtà, uno
solo ha pagato il prezzo di esso. E ora
l’applicazione. Gesù ammira ed ama
sconfinatamente il Padre celeste. A lui vuol
fare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il
dono più prezioso che si possa pensare,
quello della sua stessa vita. Nella Messa

103
egli invita tutti i suoi “fratelli”, che siamo
noi, ad apporre la loro firma sul dono, di
modo che esso giunge a Dio Padre come il
dono indistinto di tutti i suoi figli, “il mio e
vostro sacrificio”, lo chiama il sacerdote
nell’Orate fratres. Ma, in realtà, sappiamo
che uno solo ha pagato il prezzo di tale
dono. E quale prezzo!

3. Il corpo e il sangue
Per capire le conseguenze pratiche che
derivano per il sacerdote da tutto questo, è
necessario tener conto del significato della
parola “corpo” e della parola “sangue”. Nel
linguaggio biblico, la parola “corpo”, come
la parola “carne”, non indica, come per noi
oggi, una terza parte della persona come
nella tricotomia greca (corpo, anima, nous);
indica tutta la persona, in quanto vive in
una dimensione corporea. («Il Verbo si fece
carne» significa si fece uomo, non ossa,
muscoli, nervi!). A sua volta, “sangue” non
indica una parte di una parte dell’uomo. Il
sangue è sede della vita, perciò l’effusione

104
del sangue è segno della morte.
Con la parola “corpo” Gesù ci ha donato
la sua vita, con la parola “sangue” ci ha
donato la sua morte. Applicato a noi, offrire
il corpo significa offrire il tempo, le risorse
fisiche, mentali, un sorriso che è tipico di
uno spirito che vive in un corpo; offrire il
sangue significa offrire la morte. Non
soltanto il momento finale della vita, ma
tutto ciò che già fin da ora anticipa la
morte: le mortificazioni, le malattie, le
passività, tutto il negativo della vita.
Proviamo a immaginare la vita
sacerdotale vissuta con questa
consapevolezza. Tutta la giornata, non solo
il momento della celebrazione, è una
eucaristia: insegnare, governare, confessare,
visitare i malati, anche il riposo, anche lo
svago, tutto. Un maestro spirituale, il
gesuita francese Pierre Olivaint, diceva: «Le
matin, moi prêtre, Lui victime; le long du
jour Lui prêtre, moi victime»: il mattino (a
quel tempo la Messa si celebrava solo di
mattina) io sacerdote, Lui (Cristo) vittima;
lungo la giornata, Lui sacerdote, io vittima.

105
«Come fa bene un prete», diceva il Santo
Curato d’Ars, «a offrirsi a Dio in sacrificio
tutte le mattine»40.
Grazie all’Eucaristia, anche la vita del
sacerdote anziano, malato, e ridotto
all’immobilità, è preziosissima per la
Chiesa. Lui offre il “sangue”. Feci visita
una volta a un sacerdote malato di tumore.
Si stava preparando per celebrare una delle
sue ultime Messe con l’aiuto di un
sacerdote giovane. Aveva anche una
malattia agli occhi per cui lacrimava in
continuazione. Mi disse: «Non avevo mai
capito l’importanza di dire anche a nome
mio nella Messa: “Prendete, mangiate;
prendete bevete…”. Adesso l’ho capito. È
tutto quello che mi resta e lo dico in
continuazione pensando ai miei
parrocchiani. Ho capito cosa vuol dire
essere “pane spezzato” per gli altri».

4. A servizio del sacerdozio universale dei


fedeli
Una volta scoperta questa dimensione

106
esistenziale dell’Eucaristia, è compito
pastorale del sacerdote aiutare a viverla
anche al resto del popolo di Dio.
Presbyterorum ordinis afferma chiaramente
che il sacerdozio ministeriale è a servizio
del sacerdozio universale di tutti i
battezzati, affinché essi «possano offrire se
stessi come ostia viva, santa, accettabile da
Dio (Rm 12, 1)». E continua:
«È attraverso il ministero dei presbiteri che il
sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto
nell’unione al sacrificio di Cristo, unico
mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei
presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene
offerto nell’eucaristia in modo incruento e
sacramentale, fino al giorno della venuta del
Signore» (PO 2).
La costituzione Lumen gentium, parlando
del “sacerdozio comune” di tutti i fedeli,
afferma:
«I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio,
concorrono all’oblazione dell’Eucaristia…
Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e
culmine di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la
Vittima divina e se stessi con Essa; così tutti, sia
con la oblazione che con la santa comunione,

107
compiono la propria parte nell’azione liturgica,
non però ugualmente, ma chi in un modo e chi in
un altro (LG 10-11)».
L’Eucaristia è dunque l’atto di tutto il
popolo di Dio, non solo nel senso passivo,
che ridonda a beneficio di tutti, ma anche
attivamente, nel senso che è compiuto con
la partecipazione di tutti. Il fondamento
biblico più chiaro di questa dottrina è
Romani 12, 1: «Vi esorto, fratelli, per la
misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi
come sacrificio vivente santo e gradito a
Dio, è questo il vostro culto spirituale».
Queste parole sembrano ricalcare
volutamente quelle di Gesù nell’ultima
cena: «Prendete, mangiate, questo è il mio
corpo offerto in sacrificio per voi».
Commentando le parole di Paolo, san
Pietro Crisologo, diceva:
«L’Apostolo vede così innalzati tutti gli uomini
alla dignità sacerdotale per offrire i propri corpi
come sacrificio vivente. O immensa dignità del
sacerdozio cristiano! L’uomo è divenuto vittima e
sacerdote per se stesso. Non cerca più fuori di sé
ciò che deve immolare a Dio, ma porta con sé e in
sé ciò che sacrifica a Dio per sé… Fratelli, questo

108
sacrificio è modellato su quello di Cristo… Sii
dunque, o uomo, sii sacrificio e sacerdote di
Dio»41.
Proviamo a vedere come il modo di
vivere la consacrazione che ho illustrato
potrebbe aiutare anche i laici a unirsi
all’offerta del sacerdote. Anche il laico è
chiamato, abbiamo visto, a offrirsi a Cristo,
nella Messa. Può farlo usando le stesse
parole di Cristo: «Prendete, mangiate,
questo è il mio corpo»? Penso che nulla si
opponga a ciò. Non facciamo la stessa cosa
quando, per esprimere il nostro abbandono
alla volontà di Dio, usiamo le parole di
Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani
affido il mio spirito», o quando, nelle nostre
prove, ripetiamo: «Passi da me questo
calice», o altre parole del Salvatore? Usare
le parole di Gesù aiuta ad unirsi ai suoi
sentimenti.
La mistica messicana, ricordata sopra,
sentiva rivolte anche a sé, non solo al figlio
sacerdote, le parole di Cristo:
«Voglio che, trasformato in me per la sofferenza,
per l’amore e per la pratica di tutte le virtù, salga

109
verso il cielo questo grido della tua anima in
unione con me: Questo è il mio corpo, questo è il
mio sangue»42.
Il fedele laico deve solo essere
consapevole che queste parole dette da lui,
nella Messa o durante il giorno, non hanno
il potere di rendere presente il corpo e il
sangue di Cristo sull’altare. Egli non agisce
in persona Christi; non rappresenta Cristo,
come fa il sacerdote ordinato, ma solo si
unisce a Cristo. Perciò, non dirà le parole
della consacrazione a voce alta, come il
sacerdote, ma nel proprio cuore,
pensandole, più che pronunziandole.
Proviamo a immaginare cosa avverrebbe
se anche i laici, al momento della
consacrazione, dicessero silenziosamente:
«Prendete, mangiate: questo è il mio corpo.
Prendete, bevete: questo è il mio sangue».
Una mamma di famiglia celebra così la sua
Messa, poi va a casa e comincia la sua
giornata fatta di mille piccole cose. La sua
vita è letteralmente sbriciolata;
apparentemente non lascia traccia alcuna
nella storia. Ma non è cosa da niente quello

110
che fa: è un’eucaristia insieme con Gesù!
Una suora dice anche lei, nel suo cuore, al
momento della consacrazione: «Prendete,
mangiate…»; poi va al suo lavoro
giornaliero: bambini, malati, anziani.
L’Eucaristia “invade” la sua giornata che
diventa come un prolungamento
dell’Eucaristia.
Ma vorrei soffermarmi in particolare su
due categorie di persone: i lavoratori e i
giovani. Il pane eucaristico, “frutto della
terra e del lavoro dell’uomo”, ha qualcosa
di importante da dire sul lavoro umano, e
non solo su quello agricolo. Nel processo
che porta dal chicco seminato in terra al
pane sulla mensa, interviene l’industria con
le sue macchine, il commercio, i trasporti e
un’infinità di altre attività, in pratica tutto il
lavoro umano. Insegniamo al lavoratore
cristiano a offrire, nella Messa, il suo corpo
e il suo sangue, cioè il tempo, il sudore, la
fatica. Il lavoro non sarà più alienante come
nella visione marxista in cui esso finisce nel
prodotto che viene venduto, ma
santificante.

111
E cosa ha da dire l’Eucaristia ai giovani?
Basta che pensiamo una cosa: cosa vuole il
mondo dai giovani e dalle ragazze, oggi? Il
corpo, nient’altro che il corpo! Il corpo,
nella mentalità del mondo, è essenzialmente
uno strumento di piacere e di sfruttamento.
Qualcosa da vendere, da spremere finché è
giovane e attraente, e poi da buttare via,
insieme con la persona, quando non serve
più a questi scopi. Specialmente il corpo
della donna è divenuto una merce di
consumo.
Insegniamo ai giovani e alle ragazze
cristiane a dire, al momento della
consacrazione: «Prendete, mangiate, questo
è il mio corpo, offerto per voi». Il corpo
viene così consacrato, diventa cosa sacra,
non si può più “dare in pasto” alla
concupiscenza propria ed altrui, non si può
più vendere, perché si è donato. È diventato
eucaristia con Cristo. L’apostolo Paolo
scriveva ai primi cristiani: «Il corpo non è
per l’impudicizia, ma per il Signore…
Glorificate dunque Dio con il vostro corpo»
(1 Cor 6, 13.20). E spiegava subito i due

112
modi in cui si può glorificare Dio con il
proprio corpo: o con il matrimonio o con la
verginità, a secondo del carisma e della
vocazione di ognuno (cf 1 Cor 7, 1 ss).

5. Con l’opera dello Spirito Santo


Dove trovare la forza, sacerdoti e laici,
per fare questa offerta totale di sé a Dio, per
prendersi e sollevarsi, per così dire, da terra
con le proprie mani? La risposta è: lo
Spirito Santo! Cristo offrì se stesso al Padre
in sacrificio «nello Spirito eterno» (Eb 9,
14), cioè grazie allo Spirito Santo. Fu lo
Spirito Santo che, come suscitava nel cuore
umano di Cristo l’impulso alla preghiera (cf
Lc 10, 21), così suscitò in lui l’impulso e
anzi il desiderio di offrirsi al Padre in
sacrificio per l’umanità.
Papa Leone XIII, nella sua enciclica sullo
Spirito Santo, dice che «Cristo ha compiuto
ogni sua opera, e specialmente il suo
sacrificio, con l’intervento dello Spirito
Santo (praesente Spiritu)»43 e nella Messa,
prima della comunione, il sacerdote prega

113
dicendo: «Signore Gesù Cristo, Figlio del
Dio vivo, che per volontà del Padre e con
l’opera dello Spirito Santo (cooperante
Spiritu Sancto), morendo hai dato la vita al
mondo…». Questo spiega perché nella
Messa ci sono due “epiclesi”, cioè due
invocazioni dello Spirito Santo: una, prima
della consacrazione, sul pane e sul vino, e
una, dopo la consacrazione, sull’intero
corpo mistico.
Con le parole di una di queste epiclesi
(Preghiera eucaristica III), chiediamo al
Padre il dono del suo Spirito per essere a
ogni Messa, come Gesù, sacerdoti e insieme
sacrificio:
«Egli (lo Spirito Santo) faccia di noi un sacrificio
perenne a te gradito, perché possiamo ottenere il
regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la
beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con i tuoi
santi apostoli, i gloriosi martiri e tutti i santi nostri
intercessori presso di te».

Note
35 Didaché, 9-10.
36 Agostino, Confessioni, 10, 43.

114
37 Eucharisticum mysterium, 3; cf Agostino, De
civitate Dei, X, 6 (CCL 47, 279).
38 Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, 95 (PG 35, 497).
39 Citato in Diario spirituale di una madre di
famiglia, a cura di M.-M. Philipon, Città Nuova,
Roma 1985, p. 117.
40 Citato da Benedetto XVI nella Lettera di
indizione dell’anno sacerdotale del 16 giugno 2009.
41 Pietro Crisologo, Sermo 108 (PL 52, 499 s).
42 Diario, cit., p. 199.
43 Leone XIII, enc. Divinum illud munus, n. 6.

115
VI
«Se tornerai a me…»

1. La crisi del sacerdote


Nella Scrittura troviamo la descrizione
della crisi interiore di un sacerdote nella
quale molti pastori di oggi, sono sicuro, si
riconoscerebbero. È quella di Geremia che,
prima di essere un profeta, fu un sacerdote,
«uno dei sacerdoti che risiedevano in
Anatot» (Ger 1, 1).
«Ti ho servito come meglio potevo, mi sono
rivolto a te con preghiere per il mio nemico… Io
non mi sono seduto assieme a quelli che ridono, e
non mi sono rallegrato… Tu sei diventato per me
un torrente infido, dalle acque incostanti» (Ger 15,
11-18).
In un altro momento la crisi esplode in
maniera ancor più aperta:
«Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato

116
sedurre… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non
parlerò più nel suo nome!”» (Ger 20, 7-9).
Qual è la risposta di Dio al profeta e
sacerdote in crisi? Non un «Poverino, hai
ragione, come sei infelice!».
«Allora, il Signore mi rispose: “Se tornerai, io ti
farò tornare e starai alla mia presenza; se saprai
distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile,
sarai come la mia bocca”» (Ger 15, 19).
In altre parole: conversione!
Parlando della novità del ministero della
nuova alleanza, abbiamo visto che essa
consiste nella grazia, cioè nel fatto che il
dono precede il dovere e che il dovere
scaturisce proprio dal dono. Applichiamo
ora questo principio fondamentale al
ministero sacerdotale. Quello che abbiamo
considerato finora costituiva la grazia
sacerdotale, il dono ricevuto: ministri di
Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non
possiamo concludere le nostre riflessioni
senza mettere in luce anche il dovere e
l’appello che scaturisce da esso. Tale
appello è lo stesso che Dio rivolse a
Geremia: conversione!

117
L’appello alla conversione risuona nei
momenti cruciali del Nuovo Testamento:
all’inizio della predicazione di Gesù:
«Convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,
15); all’inizio della predicazione apostolica,
il giorno di Pentecoste: «“Che dobbiamo
fare, fratelli?” E Pietro rispose:
“Convertitevi e fatevi battezzare e
riceverete lo Spirito Santo!”» (At 2, 37-38).
Ma non sono questi i contesti che
riguardano più direttamente noi sacerdoti.
Noi abbiamo creduto al vangelo, siamo stati
battezzati e abbiamo ricevuto lo Spirito
Santo. C’è un altro “convertitevi!” che ci
riguarda da vicino, quello che risuona
all’interno di ognuna delle sette lettere alle
chiese dell’Apocalisse. Esso non è rivolto a
non credenti o neofiti, ma a persone che
vivono da tempo nella comunità cristiana.
Un dato rende queste lettere
particolarmente significative per noi: esse
sono rivolte al pastore e al responsabile di
ognuna delle sette chiese. «All’angelo della
chiesa che è in Efeso scrivi»: non si spiega
il titolo angelo se non in riferimento, diretto

118
o indiretto, al pastore della comunità. Non
si può pensare che lo Spirito Santo
attribuisca a degli angeli reali la
responsabilità delle colpe e delle deviazioni
che vi sono nelle diverse chiese e che
l’invito alla conversione sia rivolto ad essi.

2. «Sii fedele fino alla fine»


Rileggiamo alcune di queste lettere,
cercando di cogliere in esse gli elementi di
una autentica conversione del clero,
diaconi, sacerdoti e vescovi. Iniziamo dalla
prima lettera, quella alla chiesa di Efeso.
Notiamo anzitutto una cosa. Il Risorto non
comincia il suo discorso dicendo ciò che
non va nella comunità. Questa lettera, come
quasi tutte le altre, inizia mettendo in rilievo
il positivo, il bene che si fa nella chiesa:
«Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua
perseveranza… Sei perseverante e hai molto
sopportato per il mio nome, senza stancarti» (Ap
2, 2-3).
Solo a questo punto interviene l’appello
alla conversione:

119
«Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il
tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei
caduto, convertiti (metanoeson) e compi le opere
di prima» (Ap 2, 4-5).
L’appello alla conversione prende
l’aspetto di un ritorno al primitivo fervore e
amore per Cristo. Chi di noi sacerdoti non
ricorda con commozione il momento in cui
ci rendemmo conto di essere chiamati da
Dio al suo servizio, il momento della
professione per i religiosi, l’entusiasmo dei
primi anni di ministero per i sacerdoti? È
vero che lì c’era anche il fattore dell’età, la
gioventù. Ma in questo caso non si tratta di
natura: grazia era allora e grazia può essere
oggi.
«Ti ricordo», scriveva l’Apostolo al
discepolo Timoteo, «di ravvivare il dono di
Dio che è in te mediante l’imposizione delle
mie mani» (2 Tm 1, 6). Il termine greco che
viene tradotto con “ravvivare” suggerisce
l’idea di soffiare sul fuoco perché torni ad
ardere, riaccendere la fiamma. In una delle
meditazioni precedenti, abbiamo visto come
l’unzione sacramentale, ricevuta

120
nell’ordinazione, può tornare ad essere
attiva e operante mediante la preghiera e un
soprassalto di fede. Anche l’autore della
Lettera agli Ebrei ammoniva i primi
cristiani a ricordare il loro iniziale
entusiasmo: «Ricordatevi di quei primi
giorni…» (Eb 10, 32). Della lettera alla
chiesa di Efeso riteniamo dunque il
pressante invito a ritrovare l’amore e il
fervore di un tempo.
Un’altra componente della conversione
sacerdotale la troviamo nella lettera alla
chiesa di Smirne. Anche qui, il Risorto
mette anzitutto in luce il positivo: «Conosco
la tua tribolazione, la tua povertà…», ma
segue subito l’appello: «Sii fedele fino alla
morte e ti darò la corona della vita».
Fedeltà! Benedetto XVI ha messo questa
parola come titolo e programma all’anno
sacerdotale: “Fedeltà di Cristo e fedeltà del
sacerdote”.
La parola “fedeltà” ha due significati
fondamentali. Il primo è quello di costanza
e di perseveranza; il secondo, è quello di
lealtà, correttezza, l’opposto insomma di

121
infedeltà, inganno e tradimento. Il primo
significato è quello presente nelle parole del
Risorto alla chiesa di Smirne, il secondo è
quello inteso da Paolo nel testo che
abbiamo scelto come guida delle nostre
riflessioni: «Ognuno ci consideri servitori
di Cristo e amministratori dei misteri di
Dio. Ora, quel che si richiede agli
amministratori è che ciascuno sia trovato
fedele» (1 Cor 4, 1-2).
Questa parola richiama, forse
volutamente, quella di Gesù nel Vangelo di
Luca: «Chi è l’amministratore fidato e
prudente, che il padrone metterà a capo
della sua servitù per dare la razione di cibo
a tempo debito?» (Lc 12, 42). Il contrario di
questa fedeltà è quello che fa, nella
parabola, l’amministratore infedele (Lc 16,
1 ss).
A questa fedeltà si oppone il tradimento
della fiducia di Cristo e della Chiesa, la
doppia vita, il venir meno ai doveri del
proprio stato, soprattutto per quanto
riguarda il celibato e la castità. Sappiamo
per dolorosa esperienza quale immenso

122
danno può venire alla Chiesa e alle anime
da questo tipo di infedeltà. È la prova forse
più dura che la Chiesa sta attraversando in
questo momento.

3. «Alla chiesa di Laodicea scrivi…»


La lettera che deve farci riflettere più di
tutte è quella all’angelo della chiesa di
Laodicea. Ne conosciamo il tono severo:
«Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né
caldo… Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo
né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca… Sii
zelante e convertiti» (Ap 3, 15 ss).
La tiepidezza di una parte del clero, la
mancanza di zelo e l’inerzia apostolica: io
credo che sia questo a indebolire la Chiesa,
più ancora degli scandali occasionali di
alcuni sacerdoti che fanno più chiasso e
contro i quali è più facile correre ai ripari.
«La grande sventura per noi parroci»,
diceva il Santo Curato d’Ars, «è che
l’anima si intorpidisce»44. Lui non era
certamente nel numero di questi parroci, ma
questa sua frase fa pensare.

123
Non si deve generalizzare (la Chiesa è
ricca di sacerdoti santi che compiono
silenziosamente il loro dovere), ma guai
anche a tacere. Un laico impegnato mi
diceva con tristezza: «La popolazione del
nostro paese negli ultimi vent’anni è
cresciuta di oltre tre milioni di abitanti, ma
noi cattolici siamo fermi al numero di
prima. Qualcosa non va nella nostra
chiesa». E conoscendo quel clero, sapevo
cosa non andava: la preoccupazione di
molti di loro non erano le anime, ma i soldi
e le comodità.
Vi sono luoghi dove la Chiesa è viva ed
evangelizza quasi solo per l’impegno e lo
zelo di alcuni fedeli laici e aggregazioni
laicali, che per altro vengono a volte
ostacolati e guardati con sospetto. Sono essi
spesso che spingono i propri sacerdoti,
pagando loro viaggio e soggiorno, a
partecipare a un ritiro o a esercizi spirituali
che diversamente non farebbero mai.
A volte sono proprio coloro che meno
fanno per il regno di Dio quelli che più ne
reclamano i vantaggi. San Pietro e san

124
Paolo, entrambi, hanno sentito il bisogno di
mettere in guardia dalla tentazione di
atteggiarsi a padroni della fede: «Non
spadroneggiate sulle persone a voi affidate,
ma fatevi modelli del gregge» (cf 1 Pt 5, 3),
scrive il primo; «Noi non vogliamo farla da
padroni sulla vostra fede, ma essere
collaboratori della vostra gioia», scrive il
secondo (2 Cor 1, 24). Ci si atteggia a
padroni della fede, per esempio, quando si
considerano tutti gli spazi e i locali della
parrocchia come cose proprie da concedere
a chi si vuole, anziché come beni di tutta la
comunità, dei quali si è custodi, non
proprietari.
Trovandomi a predicare in un paese
europeo che era stato in passato una fucina
di sacerdoti e di missionari e che ora
attraversava una crisi profonda, chiesi a un
sacerdote del posto qual era secondo lui la
causa di ciò. «In questo paese», mi rispose,
«i sacerdoti, dal pulpito e dal confessionale,
decidevano tutto, perfino chi uno doveva
sposare e quanti figli doveva avere.
Quando, dopo il concilio Vaticano II, si è

125
diffuso anche nella Chiesa il senso e
l’esigenza della libertà individuale, la gente
si è ribellata e ha voltato del tutto le spalle
alla Chiesa». Il clero si sentiva “padrone
della fede”, più che collaboratore della
gioia della gente.
Le parole rivolte dal Risorto alla chiesa di
Laodicea: «Tu dici: Sono ricco, mi sono
arricchito, non ho bisogno di nulla, ma non
sai di essere un infelice, un miserabile, un
povero, cieco e nudo» (Ap 3, 17), fanno
pensare a un’altra grande tentazione del
clero quando viene meno la passione per le
anime, e cioè la brama del denaro. Già san
Paolo lamentava amaramente: «Tutti
cercano il proprio interesse, non quello di
Cristo» (Fil 2, 21). Tra le raccomandazioni
più insistenti agli anziani, nelle Lettere
pastorali, c’è quella di non essere attaccati
al denaro (1 Tm 3, 3).
Nel suo lungo discorso sui pastori45,
sant’Agostino proponeva a suo tempo, per
un salutare esame di coscienza, l’apostrofe
di Ezechiele contro i pastori negligenti. Non
è male riascoltarla, almeno per sapere cosa

126
si deve evitare nel ministero sacerdotale:
«Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro
che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello
che i pastori debbono pascere? Voi mangiate il
latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è
ingrassato, ma non pascete il gregge. Voi non
avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito
la malata, non avete fasciato quella che era ferita,
non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato
la perduta, ma avete dominato su di loro con
violenza e con asprezza» (Ez 34, 2-4).

4. «Ecco, io sto alla porta e busso»


Ma anche la severa lettera alla chiesa di
Laodicea, come tutte le altre, è una lettera
d’amore: «Io», dice il Risorto, «tutti quelli
che amo, li rimprovero e li educo». Essa
termina con una delle immagini in assoluto
più toccanti della Bibbia: «Ecco: io sto alla
porta e busso…».
In noi sacerdoti Cristo non bussa per
entrare, ma per uscire. Quando si tratta
della prima conversione, dall’incredulità
alla fede, o dal peccato alla grazia, Cristo è
fuori e bussa alle pareti del cuore per
entrare; quando si tratta di successive

127
conversioni, da uno stato di grazia a uno più
alto, dalla tiepidezza al fervore, avviene il
contrario: Cristo è dentro e bussa alle pareti
del cuore per uscire!
Spiego in che senso. Nel battesimo
abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo; esso
rimane in noi come nel suo tempio (1 Cor 3,
16), finché non ne viene scacciato dal
peccato mortale. Ma può succedere che
questo Spirito finisca per essere come
imprigionato e murato dal cuore di pietra
che gli si forma intorno. Non ha la
possibilità di espandersi e permeare di sé le
facoltà, le azioni e i sentimenti della
persona. Quando leggiamo la frase di
Cristo: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap
3, 20), dovremmo capire che egli non bussa
dall’esterno, ma dall’interno; non vuole
entrare, ma uscire.
L’Apostolo dice che Cristo deve essere
“formato” in noi (cf Gal 4, 19), cioè
svilupparsi e ricevere la sua piena forma; è
questo sviluppo che è impedito dalla
tiepidezza e dal cuore di pietra. A volte si
vedono ai lati delle strade grossi alberi (a

128
Roma sono in genere pini) le cui radici,
imprigionate dall’asfalto, lottano per
espandersi, sollevando a tratti lo stesso
cemento. Così dobbiamo immaginare che è
il regno di Dio nel cuore dell’uomo: un
seme destinato a diventare un albero
maestoso su cui si posano gli uccelli del
cielo, ma che fa fatica a svilupparsi se viene
soffocato da preoccupazioni terrene.
Vi sono ovviamente gradi diversi in
questa situazione. Nella maggioranza delle
anime impegnate in un cammino spirituale
Cristo non è imprigionato dentro una
corazza, ma per così dire in libertà vigilata.
È libero di muoversi, ma dentro limiti ben
precisi. Questo avviene quando tacitamente
gli si fa capire cosa può chiederci e cosa
non può chiederci. Preghiera sì, ma non da
compromettere il sonno, il riposo, la sana
informazione; obbedienza sì, ma che non si
abusi della nostra disponibilità; castità sì,
ma non fino al punto da privarci di qualche
spettacolo distensivo, anche se spinto…
Insomma l’uso di mezze misure.
Nella storia della santità l’esempio più

129
famoso della prima conversione, quella dal
peccato alla grazia, è sant’Agostino;
l’esempio più istruttivo della seconda
conversione, quella dalla tiepidezza al
fervore, è santa Teresa d’Avila. Quello che
ella dice di sé nella Vita è probabilmente
esagerato e dettato dalla delicatezza della
sua coscienza, ma può servire a tutti noi per
un utile esame di coscienza.
«Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità,
di occasione in occasione, cominciai a mettere di
nuovo in pericolo la mia anima… Le cose di Dio
mi davano piacere e non sapevo svincolarmi da
quelle del mondo. Volevo conciliare questi due
nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito
con i gusti e i passatempi dei sensi».
Il risultato di questo stato era una
profonda infelicità:
«Cadevo e mi rialzavo, e mi rialzavo così male
che ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di
perfezione che non facevo quasi più conto dei
peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei
dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso
dire che la mia vita era delle più penose che si
possano immaginare, perché non godevo di Dio,
né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei
passatempi mondani, il pensiero di quello che

130
dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e
quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli
affetti del mondo»46.
Molti sacerdoti potrebbero scoprire in
questa analisi il motivo di fondo della
propria insoddisfazione e scontentezza.
Fu la contemplazione del Cristo della
passione a dare a Teresa la spinta decisiva
al cambiamento che fece di lei la santa e la
mistica che conosciamo47.

5. «Voglio sperare!»
Torniamo, per finire, alla risposta di Dio
ai lamenti di Geremia. Dio fa al suo profeta
convertito delle promesse che acquistano un
significato particolare se lette come rivolte
a noi sacerdoti della Chiesa cattolica
nell’attuale momento di grave disagio che
stiamo attraversando: «Se saprai distinguere
ciò che è prezioso da ciò che è vile»: cioè,
se saprai distinguere ciò che è essenziale da
ciò che è secondario nella tua vita, se
preferirai la mia approvazione a quella degli
uomini; «tu sarai come la mia bocca». «Essi

131
devono tornare a te, non tu a loro»: sarà il
mondo a cercare il tuo favore, non tu quello
del mondo. «Io ti renderò come un muro
durissimo di bronzo; combatteranno contro
di te, ma non potranno prevalere, perché io
sarò con te» (Ger 15, 19-20).
Quello che occorre in questo momento è
un sussulto di speranza. La Scrittura ci
presenta diversi esempi di sussulti di
speranza, ma uno mi pare particolarmente
istruttivo e vicino alla situazione attuale: la
Terza Lamentazione di Geremia. Comincia
in tono sconsolato:
«Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione sotto la
verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha
fatto camminare nelle tenebre e non nella luce…
Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo,
la sua canzone di tutto il giorno. Io ho detto: “È
sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel
Signore!”» (Lam III, 1-2.14.18).
Ma a questo punto è come se il profeta
avesse un improvviso ripensamento; dice a
se stesso:
«È una grazia del Signore che non siamo stati
completamente distrutti; le sue compassioni infatti

132
non sono esaurite; si rinnovano ogni mattina.
Grande è la tua fedeltà! Il Signore è la mia parte,
perciò spererò in lui» (Lam III, 22-24).
E dal momento che prende la decisione
«Voglio sperare!», il tono cambia e da cupa
lamentazione diventa fiduciosa attesa di
restaurazione:
«Il Signore è buono con quelli che sperano in lui,
con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la
salvezza del Signore. Porga la guancia a chi lo
percuote, si sazi pure di offese! Il Signore infatti
non respinge per sempre; ma, se affligge, ha pure
compassione, secondo la sua immensa bontà;
poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i
figli dell’uomo» (Lam III, 25-26.30-33).
Mi sono trovato a predicare un ritiro al
clero di una diocesi americana scosso dalla
reazione indiscriminata dell’opinione
pubblica di fronte agli scandali di alcuni dei
loro membri. Si era all’indomani del crollo
delle Torri Gemelle e le macerie materiali
sembravano il simbolo di altre macerie.
Questo testo della Scrittura contribuì
visibilmente a ridare fiducia e speranza a
molti.
Cristo soffre più di noi per l’umiliazione

133
dei suoi sacerdoti e l’afflizione della sua
Chiesa; se la permette, è perché conosce il
bene che da essa può scaturire, in vista di
una maggiore purezza della sua Chiesa. Se
ci sarà umiltà, la Chiesa uscirà più
splendente che mai da questa guerra!
L’accanimento dei media – lo vediamo
anche in altri casi – a lungo andare ottiene
l’effetto contrario a quello da essi
desiderato.
L’invito di Cristo: «Venite a me, voi tutti
che siete affaticati e oppressi e io vi
ristorerò», era rivolto, in primo luogo, a
coloro che aveva intorno a sé e oggi ai suoi
sacerdoti. «Venite a me e troverete ristoro»:
il frutto più bello della conversione del
clero sarà un ritorno a Cristo, un
rinnovamento della nostra amicizia con lui.
Nel suo amore, il sacerdote troverà tutto
quello di cui si è privato umanamente e
“cento volte di più”, secondo la sua
promessa.
Cambiamo dunque la iniziale protesta di
Geremia in ringraziamento: «Grazie
Signore, che un giorno ci hai sedotto, grazie

134
che ci siamo lasciati sedurre, grazie che ci
dai la possibilità di ritornare a te e ci
riprendi dopo ogni tentativo di fuga. Grazie
che affidi a noi “la custodia dei tuoi atri”
(Zc 3, 7) e fai di noi “la tua bocca”. Grazie
per il nostro sacerdozio!».

Note
44 Citato nella Lettera di indizione dell’anno
sacerdotale di Benedetto XVI.
45 Cf Agostino, Sermo 46 (CCL 41, pp. 529 ss).
46 Teresa d’Avila, Vita, cc. 7-8.
47 Ibidem, 9, 1-3

135
VII
Maria, madre e modello del
sacerdote

Nella lettera a tutti i sacerdoti in


occasione del Giovedì Santo del 1979, la
prima della serie del suo pontificato,
Giovanni Paolo II scriveva: «C’è, nel nostro
sacerdozio ministeriale la dimensione
stupenda e penetrante della vicinanza della
madre di Cristo». In questa meditazione,
vorremmo riflettere proprio su questa
vicinanza tra Maria e il sacerdote.
Di Maria non si parla molto spesso nel
Nuovo Testamento. Tuttavia, se ci facciamo
caso, notiamo che ella non è assente in
nessuno dei tre momenti costitutivi del
mistero cristiano che sono: l’Incarnazione,
il Mistero pasquale, la Pentecoste. Maria fu
presente nell’Incarnazione perché essa è

136
avvenuta in lei; fu presente nel Mistero
pasquale, perché è scritto che «presso la
croce di Gesù stava Maria sua madre» (cf
Gv 19, 25); fu presente nella Pentecoste,
perché è scritto che gli apostoli erano
«assidui e concordi nella preghiera con
alcune donne e con Maria, la madre di
Gesù» (At 1, 14).
Ognuna di queste tre presenze ci rivela
qualcosa della misteriosa vicinanza tra
Maria e il sacerdote, ma vorrei limitarmi
alla prima di esse, a quello che Maria dice
del sacerdote e al sacerdote nel mistero
dell’Incarnazione.

1. Quale rapporto tra Maria e il


sacerdote?
Vorrei anzitutto accennare alla questione
del titolo di “sacerdote” attribuito alla
Vergine nella tradizione. Uno scrittore della
fine del V secolo chiama Maria «Vergine e
allo stesso tempo sacerdote e altare che ci
ha dato Cristo pane del cielo per la
remissione dei peccati»48. Dopo di lui, sono

137
frequenti i riferimenti al tema di Maria
sacerdote, che però divenne oggetto di
sviluppi teologici solo nel secolo XVII,
nella scuola francese di San Sulpizio. In
essa il sacerdozio di Maria non viene messo
tanto in rapporto con il sacerdozio
ministeriale quanto con quello di Cristo.
Alla fine del secolo XIX si diffuse una
vera e propria devozione alla Vergine con il
titolo di sacerdote e san Pio X accordò
anche una indulgenza alla relativa pratica.
Quando però si intravide il pericolo di
confondere il sacerdozio di Maria con
quello ministeriale, il magistero della
Chiesa divenne reticente e due interventi
del Santo Ufficio posero praticamente fine a
tale devozione49.
Dopo il Vaticano II si continua a parlare
del sacerdozio di Maria, collegandolo però
non al sacerdozio ministeriale, e neppure a
quello supremo di Cristo, ma al sacerdozio
universale dei fedeli: ella possederebbe a
titolo personale, come figura e primizia
della Chiesa, quel «sacerdozio regale» (1 Pt
2, 9) che tutti i battezzati posseggono a

138
titolo collettivo.
Che cosa possiamo ritenere di questa
lunga tradizione che associa Maria al
sacerdote e che senso dare alla “vicinanza”
tra essi di cui parlava Giovanni Paolo II?
Resta, a me pare, l’analogia o la
corrispondenza dei piani, all’interno del
mistero della salvezza. Quello che Maria è
stata sul piano fisico e della realtà storica,
una volta per tutte, il sacerdote lo è ogni
volta di nuovo sul piano della realtà
sacramentale.
Così si possono intendere le parole di
Paolo VI:
«Quali relazioni e quali distinzioni vi sono fra la
maternità di Maria, resa universale dalla dignità e
dalla carità della posizione assegnatale da Dio nel
piano della Redenzione, e il sacerdozio apostolico,
costituito dal Signore per essere strumento di
comunicazione salvifica fra Dio e gli uomini?
Maria dà Cristo all’umanità; e anche il Sacerdozio
dà Cristo all’umanità, ma in modo diverso, com’è
chiaro; Maria mediante l’Incarnazione e mediante
l’effusione della grazia, di cui Dio l’ha riempita; il
Sacerdozio mediante i poteri dell’ordine sacro»50.
L’analogia tra Maria e il sacerdote si può

139
esprimere così. Maria, per opera dello
Spirito Santo, ha concepito Cristo e, dopo
averlo nutrito e portato nel suo seno, lo ha
dato alla luce a Betlemme; il sacerdote,
unto e consacrato di Spirito Santo
nell’ordinazione, è chiamato anche lui a
riempirsi di Cristo per poi darlo alla luce e
farlo nascere nelle anime mediante
l’annuncio della parola e l’amministrazione
dei sacramenti.
In questo senso, il rapporto tra Maria e il
sacerdote ha una lunga tradizione dietro di
sé, molto più autorevole di quella di Maria
sacerdote. Riprendendo un pensiero di
Agostino51, il concilio Vaticano II scrive:
«La Chiesa… diventa essa pure madre, poiché con
la predicazione e il battesimo genera a una vita
nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera
dello Spirito Santo e nati da Dio» (LG 64).
Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in
cui la Chiesa dà alla luce i suoi figli e la
parola di Dio è il latte puro con cui li nutre:
«O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno
anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è
anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine

140
Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come
vergine, amabile come madre, chiamando a
raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte
che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf
1 Pt 2, 2)»52.
Isacco della Stella sintetizza questa
tradizione:
«Maria e la Chiesa sono una madre e più madri;
una vergine e più vergini. L’una e l’altra madre,
l’una e l’altra vergine. L’una e l’altra concepisce
senza concupiscenza dallo stesso Spirito; l’una e
l’altra dà a Dio Padre una prole senza peccato.
Quella, senza alcun peccato, partorì al corpo il
Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati,
partorisce il corpo al Capo»53.
Quello che in questi testi si dice della
Chiesa nel suo insieme, come sacramento di
salvezza, va applicato in modo speciale ai
sacerdoti, perché, ministerialmente, sono
essi che, in concreto, generano Cristo nelle
anime mediante la parola e i sacramenti.

2. Maria credette
Fin qui l’analogia tra Maria e il sacerdote
sul piano, per così dire, oggettivo o della

141
grazia. Esiste però un’analogia anche sul
piano soggettivo, cioè tra il contributo
personale che la Vergine ha dato alla grazia
dell’elezione e il contributo che il sacerdote
è chiamato a dare alla grazia
dell’ordinazione. Nessuno dei due è un
canale inerte che lascia passare la grazia,
senza nulla apportarvi di proprio.
Tertulliano parla di una versione del
docetismo gnostico, secondo cui Gesù era
nato, sì, da Maria, ma non concepito in lei e
da lei; il corpo di Cristo, venuto dal cielo,
sarebbe passato attraverso la Vergine, ma
non generato in lei e da lei; Maria sarebbe
stata per Gesù una via, non una madre, e
Gesù per Maria un ospite, non un figlio54.
Per non ripetere questa forma di
docetismo nella sua vita, il sacerdote non
può limitarsi a trasmette agli altri un Cristo
imparato dai libri che non è diventato prima
carne della sua carne e sangue del suo
sangue. Come Maria (l’immagine è di san
Bernardo) egli deve essere un serbatoio che
fa traboccare al di fuori ciò di cui è pieno
dentro, non un canale che si limita a far

142
passare l’acqua senza nulla trattenerne.
L’apporto personale, comune a Maria e al
sacerdote, si riassume nella fede. Maria,
scrive Agostino, «per fede concepì e per
fede partorì»55; anche il sacerdote per fede
porta Cristo nel suo cuore e mediante la
fede lo comunica agli altri. Sarà il centro
della meditazione di oggi: cosa il sacerdote
può imparare dalla fede di Maria.
Quando Maria giunse da Elisabetta,
questa l’accolse con grande gioia e, «piena
di Spirito Santo», esclamò: «Beata colei che
ha creduto nell’adempimento delle parole
del Signore» (Lc 1, 45). Non c’è dubbio che
questo aver creduto si riferisce alla risposta
di Maria all’angelo: «Eccomi, sono la serva
del Signore, avvenga di me quello che hai
detto» (Lc 1, 38).
A prima vista, quello di Maria fu un atto
di fede facile e perfino scontato. Diventare
madre di un re che avrebbe regnato in
eterno sulla casa di Giacobbe, madre del
Messia! Non era quello che ogni fanciulla
ebrea sognava di essere? Ma questo è un
modo di ragionare assai umano e carnale.

143
Maria viene a trovarsi in una totale
solitudine. A chi può spiegare ciò che è
avvenuto in lei? Chi le crederà quando dirà
che il bimbo che porta nel grembo è “opera
dello Spirito Santo”? Questa cosa non è
avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai
dopo di lei.
Maria conosceva certamente ciò che era
scritto nel libro della Legge e cioè che se la
fanciulla, al momento delle nozze, non
fosse stata trovata in stato di verginità,
doveva essere fatta uscire all’ingresso della
casa del padre e lapidata dalla gente del
villaggio (cf Dt 22, 20 s). Noi parliamo
volentieri oggigiorno del rischio della fede,
intendendo, in genere, con ciò, il rischio
intellettuale; ma per Maria si trattò di un
rischio reale!
Carlo Carretto, nel suo libretto sulla
Madonna, narra come giunse a scoprire la
fede di Maria. Quando viveva nel deserto,
aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg
che una ragazza dell’accampamento era
stata promessa sposa a un giovane, ma che
non era andata ad abitare con lui, essendo

144
troppo giovane. Aveva collegato questo
fatto con quello che Luca dice di Maria.
Perciò ripassando, dopo due anni, in quello
stesso accampamento, chiese notizie della
ragazza. Notò un certo imbarazzo tra i suoi
interlocutori e più tardi uno di loro,
avvicinandosi con grande segretezza, fece
un segno: passò una mano sulla gola con il
gesto caratteristico degli arabi quando
vogliono dire: «È stata sgozzata». Si era
scoperta incinta prima del matrimonio e
l’onore della famiglia esigeva quella fine.
Allora ripensò a Maria, agli sguardi
impietosi della gente di Nazareth, agli
ammiccamenti, capì la solitudine di Maria,
e quella notte stessa la scelse come
compagna di viaggio e maestra della sua
fede56.
Dio non strappa mai alle creature dei
consensi, nascondendo loro le conseguenze,
ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in
tutte le grandi chiamate di Dio. A Geremia
preannuncia: «Ti muoveranno guerra» (Ger
1, 19) e di Saulo, dice ad Anania: «Io gli
mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio

145
nome» (At 9, 16). Solo con Maria, per una
missione come la sua, avrebbe agito
diversamente? Nella luce dello Spirito
Santo, che accompagna la chiamata di Dio,
ella ha certamente intravisto che anche il
suo cammino non sarebbe stato diverso da
quello di tutti gli altri chiamati. Del resto,
Simeone, ben presto, darà espressione a
questo presentimento, quando le dirà che
una spada le avrebbe trapassato l’anima.
Uno scrittore moderno, Erri De Luca, ha
descritto in modo poetico questo
presentimento di Maria al momento della
nascita di Gesù. Ella è sola nella grotta,
Giuseppe veglia all’esterno (per legge
nessun uomo può assistere al parto); ha
appena dato alla luce il figlio, quando delle
strane associazioni le balenano nella mente:
«Perché, figlio mio, nasci proprio qui a Bet-
Lehem, Casa del Pane? E perché dobbiamo
chiamarti Ieshu?…Fa’ che questo brivido
salito sulla mia schiena, questo freddo
venuto dal futuro sia lontano da lui». La
madre presagisce che quel figlio le sarà
tolto, allora ripete tra sé: «Fino alla prima

146
luce Ieshu è solamente mio. Voglio cantare
una canzone con queste tre parole e basta.
Stanotte qui a Bet-Lehem è solamente
mio». E, così dicendo, se lo porta al seno
per allattarlo57.
Maria è l’unica ad aver creduto “in
situazione di contemporaneità”, cioè mentre
la cosa accadeva, prima di ogni conferma e
di ogni convalida da parte degli eventi e
della storia. Gesù disse a Tommaso:
«Perché mi hai veduto, hai creduto: beati
quelli che pur non avendo visto
crederanno!» (Gv 20, 29): Maria è la prima
di coloro che hanno creduto senza aver
ancora visto.
San Paolo dice che Dio ama chi dona con
gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il
suo “sì” con gioia. Il verbo con cui Maria
esprime il suo consenso, e che è tradotto
con “fiat” o con “si faccia”, nell’originale,
è all’ottativo (génoito), un modo verbale
che in greco si usa per esprimere desiderio e
perfino gioiosa impazienza che una certa
cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse:
«Desidero anch’io, con tutto il mio essere,

147
quello che Dio desidera; si compia presto
ciò che egli vuole». Davvero, come diceva
sant’Agostino, prima ancora che nel suo
corpo ella concepì Cristo nel suo cuore!
Ma Maria non disse “fiat”, perché non
parlava latino, e non disse neppure
“génoito”, che è parola greca. Che cosa
disse allora? Qual è la parola che, nella
lingua parlata da Maria, corrisponde più da
vicino a questa espressione? Quando voleva
dire a Dio “sì, così sia”, un ebreo diceva:
«Amen!». Se è lecito cercare di risalire, con
pia riflessione, alla ipsissima vox, alla
parola esatta, uscita dalla bocca di Maria –
o almeno alla parola che c’era, a questo
punto, nella fonte giudaica utilizzata da
Luca –, questa deve essere stata proprio la
parola “amen”. Ricordiamo i Salmi che
nella Volgata latina terminavano con
l’espressione: “fiat, fiat”?; nel testo greco
dei LXX, a quel punto, c’è “génoito,
génoito” e nell’originale ebraico conosciuto
da Maria c’è “amen, amen”.
Amen è parola ebraica, la cui radice
significa solidità, certezza; era usata nella

148
liturgia come risposta di fede alla parola di
Dio. Con l’“amen” si riconosce quel che è
stato detto come parola ferma, stabile,
valida e vincolante. La sua traduzione
esatta, quando è risposta alla parola di Dio,
è questa: “Così è e così sia”. Indica fede e
obbedienza insieme; riconosce che quel che
Dio dice è vero e vi si sottomette. È dire
“sì” a Dio. In questo senso, lo troviamo
sulla bocca stessa di Gesù: «Sì, amen,
Padre, perché così è piaciuto a te…» (cf Mt
11, 26). Egli anzi è l’Amen personificato:
«Così parla l’Amen…» (Ap 3, 14) ed è per
mezzo di lui che ogni altro “amen” di fede
pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf
2 Cor 1, 20). Anche Maria, dopo il Figlio, è
l’amen a Dio fatto persona.
La fede di Maria è dunque un atto
d’amore e di docilità, libero anche se
suscitato da Dio, misterioso come
misterioso è ogni volta l’incontro tra la
grazia e la libertà. È questa la vera
grandezza personale di Maria, la sua
beatitudine confermata da Cristo stesso.
«Beato il ventre che ti ha portato e il seno

149
da cui hai preso il latte» (Lc 11, 27), dice
una donna nel Vangelo. La donna proclama
Maria beata perché ha portato Gesù;
Elisabetta la proclama beata perché ha
creduto; la donna proclama beato il portare
Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il
portarlo nel cuore: «Beati piuttosto coloro
che ascoltano la parola di Dio e la
osservano». Egli aiuta, in tal modo, quella
donna e tutti noi, a capire dove risiede la
grandezza personale di sua Madre. Chi è
infatti che “custodiva” le parole di Dio più
di Maria, della quale è detto due volte, dalla
stessa Scrittura, che «custodiva tutte le
parole nel suo cuore»? (cf Lc 2, 19.51).
Non dovremmo concludere il nostro
sguardo alla fede di Maria con
l’impressione che Maria abbia creduto una
volta e poi basta nella sua vita; che ci sia
stato un solo grande atto di fede nella vita
della Madonna. Quante volte, in seguito
all’Annunciazione, Maria sarà stata
martirizzata dall’apparente contrasto della
sua situazione con tutto ciò che era scritto e
conosciuto, circa la volontà di Dio,

150
nell’Antico Testamento e circa la figura
stessa del Messia! Il concilio Vaticano II ci
ha fatto un grande dono, affermando che
anche Maria ha camminato nella fede, anzi
che ha “progredito” nella fede, cioè è
cresciuta e si è perfezionata in essa (cf LG
58).

3. Crediamo anche noi!


Passiamo ora da Maria al sacerdote.
Sant’Agostino ha scritto: «Maria credette e
in lei quel che credette si avverò. Crediamo
anche noi, perché quel che si avverò in lei
possa giovare anche a noi»58. Crediamo
anche noi! La contemplazione della fede di
Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il
nostro personale atto di fede e di abbandono
a Dio.
Tutti devono e possono imitare Maria
nella sua fede, ma in modo tutto speciale
deve farlo il sacerdote. «Il mio giusto – dice
Dio – vivrà di fede» (cf Ab 2, 4; Rm 1, 17):
questo vale, a un titolo speciale, per il
sacerdote. Egli è l’uomo della fede. La fede

151
è ciò che determina, per così dire, il suo
“peso specifico” e l’efficacia del suo
ministero.
Ciò che i fedeli colgono immediatamente
in un sacerdote e in un pastore, è se “ci
crede”, se crede in ciò che dice e in ciò che
celebra. Chi dal sacerdote cerca anzitutto
Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da
lui Dio, può essere facilmente tratto in
inganno e indurre in inganno lo stesso
sacerdote, facendolo sentire importante,
brillante, al passo coi tempi, mentre, in
realtà, è “un bronzo che tintinna e un
cembalo squillante”.
Perfino il non credente che si accosta al
sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce
subito la differenza. Quello che lo
provocherà e che potrà metterlo
salutarmente in crisi, non sono in genere le
più dotte discussioni della fede, ma trovarsi
davanti a uno che crede veramente con tutto
se stesso. La fede è contagiosa. Come non
si contrae contagio, sentendo solo parlare di
un virus o studiandolo, ma venendone a
contatto, così è con la fede.

152
A volte si soffre e magari ci si lamenta
con Dio, perché la gente abbandona la
Chiesa, non lascia il peccato, perché
parliamo parliamo, e non succede niente.
Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare
il demonio da un povero ragazzo, ma senza
riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui,
lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono
a Gesù in disparte e gli chiesero: «Perché
noi non abbiamo potuto scacciarlo?». E
Gesù rispose: «Per la vostra poca fede» (Mt
17, 19-20).
San Bonaventura racconta come un
giorno, mentre era sul monte della Verna,
gli tornò in mente ciò che dicono i santi
Padri e cioè che l’anima devota, per grazia
dello Spirito Santo e la potenza
dell’Altissimo, può spiritualmente
concepire per fede il benedetto Verbo del
Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e
adorarlo con i Magi e infine presentarlo
felicemente a Dio Padre nel suo tempio.
Scrisse allora un opuscolo intitolato Le
cinque feste di Gesù bambino, per mostrare
come il cristiano può rivivere in sé ognuno

153
di questi cinque momenti della vita di Gesù.
Mi limito a ciò che san Bonaventura dice
delle due prime feste, la concezione e la
nascita, applicandolo in particolare al
sacerdote.
Il sacerdote concepisce Gesù quando,
scontento della vita che conduce, stimolato
da sante ispirazioni e accendendosi di santo
ardore, infine staccandosi risolutamente
dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come
fecondato spiritualmente dalla grazia dello
Spirito Santo e concepisce il proposito di
una vita nuova. Una volta concepito, il
benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore del
sacerdote, allorché, dopo aver fatto un sano
discernimento, chiesto opportuno consiglio,
invocato l’aiuto di Dio, mette
immediatamente in opera il suo santo
proposito, cominciando a realizzare quello
che da tempo andava maturando, ma che
aveva sempre rimandato per paura di non
esserne capace. Questo proposito di vita
nuova deve, però, tradursi subito, senza
rinvii, in qualcosa di concreto, in un
cambiamento, possibilmente anche esterno

154
e visibile, nella nostra vita e nelle nostre
abitudini. Se il proposito non è messo in
atto, Gesù è concepito, ma non è partorito.
Sarà uno dei tanti aborti spirituali di cui è
pieno purtroppo il mondo delle anime.
Ci sono due brevissime parole che Maria
pronunciò al momento dell’Annunciazione
e il sacerdote pronuncia nel momento della
sua ordinazione: «Eccomi!» e «Amen», o
«Sì». Ricordo il momento in cui ero davanti
all’altare per l’ordinazione con una decina
di miei compagni. A un certo punto venne
pronunciato il mio nome e io risposi
emozionatissimo: «Eccomi!». Nel corso del
rito, ci furono rivolte alcune domande:
«Vuoi esercitare il ministero sacerdotale per
tutta la vita?», «Vuoi adempiere
degnamente e fedelmente il ministero della
parola nella predicazione?», «Vuoi
celebrare con devozione e fedeltà i misteri
di Cristo?». Ad ogni domanda
rispondemmo: «Sì, lo voglio!».
Il rinnovamento spirituale del sacerdozio
cattolico sarà proporzionato allo slancio con
cui ognuno di noi, sacerdoti o vescovi della

155
Chiesa, saremo capaci di pronunciare di
nuovo un gioioso: «Eccomi!» e «Sì, lo
voglio!», facendo rivivere l’unzione
ricevuta nell’ordinazione. Gesù entrò nel
mondo dicendo: «Ecco, io vengo, per fare,
o Dio, la tua volontà!» (Eb 10, 7). Noi lo
accogliamo con le stesse parole: «Ecco, io
vengo, Signore Gesù, a fare la tua
volontà!».

Note
48 Ps. Epifanio, Omelia in lode della Vergine (PG
43, 497).
49 Cf su tutta la questione, R. Laurentin, Maria.
Ecclesia. Sacerdotium, Nouvelles Editions Latines,
Parigi 1952; art. “Sacerdoti”, in Nuovo Dizionario
di Mariologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1985,
1231-1242.
50 Paolo VI, Udienza generale del 7 ottobre 1964.
51 Agostino, Discorsi 72 A, 8 (Misc. Agost. I, p.
164).
52 Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 6.
53 Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863).
54 Tertulliano, De carne Christi, 20-21 (CCL 2, 910
ss).
55 Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38, 1074): «fide
concepit, fide peperit».

156
56 C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed.
Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 9 ss.
57 E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli,
Milano 2006, pp. 66 ss.
58 Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38, 1074).

157
VIII
«Abbiamo un grande Sommo
Sacerdote»59

«Abbiamo un grande Sommo Sacerdote


che ha attraversato i cieli, Gesù, il Figlio di
Dio»: così inizia il brano della Lettera agli
Ebrei che abbiamo ascoltato nella seconda
lettura (Eb 4, 14-16; 5, 7-9). Nell’anno
sacerdotale, la liturgia del Venerdì Santo ci
permette di risalire alla sorgente storica del
sacerdozio cristiano.
Essa è la fonte di entrambe le
realizzazioni del sacerdozio: quella
ministeriale, dei vescovi e dei presbiteri, e
quella universale di tutti i fedeli. Anche
questa infatti si fonda sul sacrificio di
Cristo. Egli, dice l’Apocalisse, «ci ama, e ci
ha liberati dai nostri peccati con il suo
sangue e ha fatto di noi un regno e dei

158
sacerdoti del Dio e Padre suo» (Ap 1, 5-6).
È di vitale importanza perciò capire la
natura del sacrificio e del sacerdozio di
Cristo perché è di essi che sacerdoti e laici,
in modo diverso, dobbiamo recare
l’impronta e cercare di vivere le esigenze.
La Lettera agli Ebrei spiega in che cosa
consiste la novità e l’unicità del sacerdozio
di Cristo, non solo rispetto al sacerdozio
dell’antica alleanza, ma rispetto a ogni
istituzione sacerdotale anche fuori della
Bibbia.
«Cristo, sommo sacerdote dei beni futuri… è
entrato una volta per sempre nel luogo santissimo,
non con sangue di capri e di vitelli, ma con il
proprio sangue. Così ci ha acquistato una
redenzione eterna. Infatti, se il sangue di capri, di
tori e la cenere di una giovenca sparsa su quelli
che sono contaminati, li santificano, in modo da
procurare la purezza della carne, quanto più il
sangue di Cristo, che mediante lo Spirito eterno
offrì se stesso puro di ogni colpa a Dio, purificherà
la nostra coscienza dalle opere morte per servire il
Dio vivente!» (Eb 9, 11-14).
La novità è questa. Ogni altro sacerdote
offre qualcosa fuori di sé, Cristo ha offerto

159
se stesso; ogni altro sacerdote offre delle
vittime, Cristo si è offerto vittima!
Sant’Agostino ha racchiuso in una formula
celebre questo nuovo genere di sacrificio in
cui sacerdote e vittima sono la stessa cosa:
«Ideo sacerdos, quia sacrificium»:
60
sacerdote perché vittima .
***
Nel 1972 un noto pensatore francese
lanciava la tesi secondo cui «la violenza è il
cuore e l’anima segreta del sacro»61.
All’origine infatti e al centro di ogni
religione c’è il sacrificio, il rito del capro
espiatorio che comporta sempre distruzione
e morte. Il giornale Le Monde salutava tale
affermazione, dicendo che essa faceva di
quell’anno «un anno da segnare con
asterisco negli annali dell’umanità». Già
prima però di questa data, quello studioso si
era riavvicinato al cristianesimo e nella
Pasqua del 1959 aveva reso pubblica la sua
“conversione”, dichiarandosi credente e
tornando alla Chiesa.
Questo gli permise di non fermarsi, negli

160
studi successivi, all’analisi del meccanismo
della violenza, ma di additare anche come
uscire da esso. Molti, purtroppo, continuano
a citare René Girard come colui che ha
denunciato l’alleanza tra il sacro e la
violenza, ma non fanno parola del Girard
che ha additato nel mistero pasquale di
Cristo la rottura totale e definitiva di tale
alleanza.
Secondo lui, Gesù smaschera e spezza il
meccanismo che sacralizza la violenza,
facendo di se stesso il volontario “capro
espiatorio” dell’umanità, la vittima
innocente di tutta la violenza. Cristo non è
venuto con sangue altrui, ma con il proprio.
Non ha messo i propri peccati sulle spalle
degli altri – uomini o animali –; ha messo i
peccati degli altri sulle proprie spalle: «Egli
portò i nostri peccati nel suo corpo sul
legno della croce» (1 Pt 2, 24).
Il processo che porta alla nascita della
religione è rovesciato, rispetto alla
spiegazione che ne aveva dato Freud. In
Cristo, è Dio che si fa vittima, non la
vittima (in Freud, il padre primordiale) che,

161
una volta sacrificata, viene successivamente
elevata a dignità divina (il Padre dei cieli).
Non è più l’uomo che offre sacrifici a Dio,
ma Dio che si “sacrifica” per l’uomo,
consegnando alla morte per lui il suo Figlio
unigenito (cf Gv 3, 16). Il sacrificio non
serve più a “placare” la divinità, ma
piuttosto a placare l’uomo e farlo desistere
dalla sua ostilità nei confronti di Dio e del
prossimo.
Si può, allora, continuare a parlare di
sacrificio, a proposito della morte di Cristo
e quindi della Messa? Per molto tempo lo
studioso citato ha rifiutato questo concetto,
ritenendolo troppo segnato dall’idea di
violenza, ma poi ha finito per ammetterne la
possibilità con tutta la tradizione cristiana, a
patto di vedere, in quello di Cristo, un
genere nuovo di sacrificio, e di vedere in
questo cambiamento di significato “il fatto
centrale nella storia religiosa dell’umanità”.
***
Visto in questa luce, il sacrificio di Cristo
contiene un messaggio formidabile per il

162
mondo d’oggi. Grida al mondo che la
violenza è un residuo arcaico, una
regressione a stadi primitivi e superati della
storia umana e – quando si tratta di credenti
– è un ritardo colpevole e scandaloso nella
presa di coscienza del salto di qualità
operato da Cristo.
Ricorda anche che la violenza è perdente.
In quasi tutti i miti antichi la vittima è lo
sconfitto e il carnefice il vincitore62. Gesù
ha cambiato segno alla vittoria. Ha
inaugurato un nuovo genere di vittoria che
non consiste nel fare vittime, ma nel farsi
vittima. «Victor quia victima!», vincitore
perché vittima, così Agostino definisce il
Gesù della croce63.
Il valore moderno della difesa delle
vittime, dei deboli e della vita minacciata è
nato sul terreno del cristianesimo, è un
frutto tardivo della rivoluzione operata da
Cristo. Ne abbiamo la controprova. Appena
si abbandona (come ha fatto Nietzsche) la
visione cristiana per riportare in vita quella
pagana, si smarrisce questa conquista e si
torna ad esaltare il forte, il potente, fino al

163
suo punto più eccelso, il “superuomo”, e si
definisce quella cristiana “una morale da
schiavi”, frutto del risentimento impotente
dei deboli contro i forti.
Purtroppo, però, la stessa cultura odierna
che condanna la violenza, per altro verso, la
favorisce e la esalta. Ci si straccia le vesti di
fronte a certi fatti di sangue, ma non ci si
accorge che si prepara ad essi il terreno con
quello che si reclamizza nella pagina
accanto del giornale o nel palinsesto
successivo della rete televisiva. Il gusto con
cui si indugia nella descrizione della
violenza e la gara a chi è il primo e il più
crudo nel descriverla non fanno che
favorirla. Il risultato non è una catarsi del
male, ma un incitamento ad esso. È
inquietante che la violenza e il sangue siano
diventati uno degli ingredienti di maggior
richiamo nei film e nei videogiochi, che si
sia attirati da essa e ci si diverta a guardarla.
Lo stesso studioso ricordato sopra ha
messo a nudo la matrice da cui prende
avvio il meccanismo della violenza: il
mimetismo, quella connaturata inclinazione

164
umana a considerare desiderabili le cose
che desiderano gli altri e, quindi, a ripetere
le cose che vedono fare gli altri. La
psicologia del “branco” è quella che porta
alla scelta del “capro espiatorio” per
trovare, nella lotta contro un nemico
comune – in genere, l’elemento più debole,
il diverso –, una propria artificiale e
momentanea coesione.
Ne abbiamo un esempio nella ricorrente
violenza dei giovani allo stadio, nel
bullismo delle scuole e in certe
manifestazioni di piazza che lasciano dietro
di sé distruzione e macerie. Una
generazione di giovani che hanno avuto il
rarissimo privilegio di non conoscere una
vera guerra e di non essere stati mai
richiamati sotto le armi, si divertono
(perché si tratta di un gioco, anche se
stupido e a volte tragico) a inventare delle
piccole guerre, spinti dallo stesso istinto che
muoveva l’orda primordiale.
***
Ma c’è una violenza ancora più grave e

165
diffusa di quella dei giovani negli stadi e
nelle piazze. Non parlo qui della violenza
sui bambini, di cui si sono macchiati
sciaguratamente non pochi elementi del
clero; di essa si parla già abbastanza fuori di
qui. Parlo della violenza sulle donne.
Questa è una occasione per far comprendere
alle persone e alle istituzioni che lottano
contro di essa che Cristo è il loro migliore
alleato.
Si tratta di una violenza tanto più grave in
quanto si svolge spesso al riparo delle mura
domestiche, all’insaputa di tutti, quando
addirittura essa non viene giustificata con
pregiudizi pseudo-religiosi e culturali. Le
vittime si ritrovano disperatamente sole e
indifese. Solo oggi, grazie al sostegno e
all’incoraggiamento di tante associazioni e
istituzioni, alcune trovano la forza di uscire
allo scoperto e denunciare i colpevoli.
Molta di questa violenza è a sfondo
sessuale. È il maschio che crede di
dimostrare la sua virilità infierendo contro
la donna, senza rendersi conto che sta
dimostrando solo la sua insicurezza e

166
vigliaccheria. Anche nei confronti della
donna che ha sbagliato, che contrasto tra
l’agire di Cristo e quello ancora in atto in
certi ambienti! Il fanatismo invoca la
lapidazione; Cristo, agli uomini che gli
hanno presentato un’adultera, risponde:
«Chi di voi è senza peccato, getti per primo
la pietra con di lei» (Gv 8, 7). L’adulterio è
un peccato che si commette sempre in due,
ma per il quale uno solo è stato sempre (e,
in alcune parti del mondo, è tuttora) punito.
La violenza contro la donna non è mai
così odiosa come quando si annida là dove
dovrebbe regnare il reciproco rispetto e
l’amore, nel rapporto tra marito e moglie. È
vero che la violenza non è sempre e tutta da
una parte sola, che si può essere violenti
anche con la lingua, non solo con le mani,
ma nessuno può negare che nella stragrande
maggioranza dei casi la vittima è la donna.
Ci sono famiglie dove ancora l’uomo si
ritiene autorizzato ad alzare la voce e le
mani sulle donne di casa. Moglie e figli
vivono a volte sotto la costante minaccia
dell’“ira di papà”. A questi tali

167
bisognerebbe dire amabilmente: «Cari
colleghi uomini, creandoci maschi, Dio non
ha inteso darci il diritto di arrabbiarci e
pestare i pugni sul tavolo per ogni minima
cosa. La parola rivolta a Eva dopo la colpa:
“Egli (l’uomo) ti dominerà” (Gen 3, 16),
era una amara previsione, non una
autorizzazione».
Giovanni Paolo II ha inaugurato la pratica
delle richieste di perdono per torti collettivi.
Una di esse, tra le più giuste e necessarie, è
il perdono che una metà dell’umanità deve
chiedere all’altra metà, gli uomini alle
donne. Essa non deve rimanere generica e
astratta. Deve portare, specie chi si professa
cristiano, a concreti gesti di conversione, a
parole di scusa e di riconciliazione
all’interno delle famiglie e della società.
***
Il brano della Lettera agli Ebrei che
abbiamo ascoltato continua dicendo: «Nei
giorni della sua carne, con alte grida e con
lacrime egli offrì preghiere e suppliche a
colui che poteva salvarlo dalla morte» (Eb

168
5, 7). Gesù ha conosciuto in tutta la sua
crudezza la situazione delle vittime, le grida
soffocate e le lacrime silenziose. Davvero,
«non abbiamo un sommo sacerdote che non
possa patire con noi nelle nostre debolezze»
(Eb 4, 15). In ogni vittima della violenza
Cristo rivive misteriosamente la sua
esperienza terrena. Anche a proposito di
ognuna di esse egli dice: «L’avete fatto a
me» (Mt 25, 40).
Per una rara coincidenza, quest’anno la
nostra Pasqua cade nelle stessa settimana
della Pasqua ebraica che ne è l’antenata e la
matrice dentro cui si è formata. Questo ci
spinge a rivolgere un pensiero ai fratelli
ebrei. Essi sanno per esperienza cosa
significa essere vittime della violenza
collettiva e anche per questo sono pronti a
riconoscerne i sintomi ricorrenti.
Auguriamo ai fratelli ebrei buona Pasqua.
Lo facciamo con le parole del loro antico
maestro Gamaliele, entrate nel Seder
pasquale ebraico e da qui passate nella più
antica liturgia cristiana (le abbiamo recitate
nell’Ufficio delle letture di ieri, dall’omelia

169
pasquale di Melitone di Sardi):
«Egli ci ha fatti passare
dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione.
Perciò davanti a lui diciamo: Alleluia»64.

Note
59 Predica del Venerdì Santo 2010 nella Basilica di
San Pietro.
60 Agostino, Confessioni, 10, 43.
61 Cf R. Girard, La violence et le sacré, Grasset,
Parigi 1972 (trad. ital. La violenza e il sacro,
Adelphi, Milano 19927).
62 Cf R. Girard, Il sacrificio, Adelphi, Milano 2004,
pp. 73 s.
63 Agostino, Confessioni, 10, 43.
64 Pesachim, X, 5 e Melitone di Sardi, Omelia
pasquale, 68 (SCh 123, p. 98).

170
L'AUTORE

Padre Raniero Cantalamessa, francescano


cappuccino, è originario della provincia di
Ascoli Piceno. Laureato in Teologia e in
Lettere classiche, già professore ordinario
di Storia delle origini cristiane presso
l’Università Cattolica di Milano, membro
della Commissione Teologica
Internazionale fino al 1981, nel 1979 ha
lasciato l’insegnamento accademico per
dedicarsi interamente alla predicazione in
varie nazioni del mondo, con spiccata

171
sensibilità ecumenica. Dal 1980 è
Predicatore della Casa Pontificia. Ha
condotto per 14 anni, su RAI 1, il
programma di cultura religiosa ‘Le ragioni
della speranza’. Con Àncora ha pubblicato
molti libri di successo, tradotti in tutto il
mondo.

172
Indice
Premessa
I. «Servi e amici di Gesù Cristo»
1. Alla sorgente di ogni sacerdozio
2. Continuatori dell’opera di Cristo
3. Continuatori, non successori
4. Servi e amici
5. L’anima di ogni sacerdozio
6. Mettere al sicuro “le grosse pietre”
II. Il servizio dello Spirito
1. Il servizio dello Spirito
2. L’unzione: figura, evento e sacramento
3. L’unzione spirituale
4. Unti per diffondere nel mondo il buon
odore di Cristo
III. Ministri di una alleanza nuova
1. I “misteri” di Dio
2. La lettera e lo Spirito
3. Non per costrizione, ma per attrazione
4. Attualità del messaggio della grazia
5. Il compito dei ministri della nuova
alleanza

173
IV. «Noi predichiamo Cristo Gesù Signore»
1. Cosa predicare
2. Perché predicare
3. Chi è il predicatore
4. L’amore di Cristo ci spinge
V. «Cristo offrì se stesso a Dio»
1. La novità del sacerdozio di Cristo
2. «Imitate ciò che compite»
3. Il corpo e il sangue
4. A servizio del sacerdozio universale dei
fedeli
5. Con l’opera dello Spirito Santo
VI. «Se tornerai a me…»
1. La crisi del sacerdote
2. «Sii fedele fino alla fine»
3. «Alla chiesa di Laodicea scrivi…»
4. «Ecco, io sto alla porta e busso»
5. «Voglio sperare!»
VII. Maria, madre e modello del sacerdote
1. Quale rapporto tra Maria e il sacerdote?
2. Maria credette
3. Crediamo anche noi!
VIII. «Abbiamo un grande Sommo
Sacerdote
Autore

174
Indice
Premessa 3
Indice 173
I. «Servi e amici di Gesù
6
Cristo»
1. Alla sorgente di ogni sacerdozio 6
2. Continuatori dell’opera di Cristo 10
3. Continuatori, non successori 15
4. Servi e amici 17
5. L’anima di ogni sacerdozio 21
6. Mettere al sicuro “le grosse
24
pietre”
II. Il servizio dello Spirito 30
1. Il servizio dello Spirito 30
2. L’unzione: figura, evento e
34
sacramento
3. L’unzione spirituale 39
4. Unti per diffondere nel mondo il
47
buon odore di Cristo
III. Ministri di una alleanza 53

175
nuova
1. I “misteri” di Dio 53
2. La lettera e lo Spirito 56
3. Non per costrizione, ma per
61
attrazione
4. Attualità del messaggio della
64
grazia
5. Il compito dei ministri della
70
nuova alleanza
IV. «Noi predichiamo Cristo
75
Gesù Signore»
1. Cosa predicare 75
2. Perché predicare 80
3. Chi è il predicatore 84
4. L’amore di Cristo ci spinge 92
V. «Cristo offrì se stesso a Dio» 95
1. La novità del sacerdozio di
95
Cristo
2. «Imitate ciò che compite» 98
3. Il corpo e il sangue 104
4. A servizio del sacerdozio
106
universale dei fedeli

176
5. Con l’opera dello Spirito Santo 113
VI. «Se tornerai a me…» 116
1. La crisi del sacerdote 116
2. «Sii fedele fino alla fine» 119
3. «Alla chiesa di Laodicea
123
scrivi…»
4. «Ecco, io sto alla porta e busso» 127
5. «Voglio sperare!» 131
VII. Maria, madre e modello
136
del sacerdote
1. Quale rapporto tra Maria e il
137
sacerdote?
2. Maria credette 141
3. Crediamo anche noi! 151
VIII. «Abbiamo un grande
158
Sommo Sacerdote
Autore 171

177

Potrebbero piacerti anche