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MARIAGE ET CÉLIBAT
dans le servìce pastoral de Téglise
MATRIMONIO E CELIBATO
NEL SERVIZIO PASTORALE
DELLA CHIESA
Storia e orientamenti
JEAN-PAUL AUDET
QUERINIANA - BRESCIA
VIA PIAMARTA, 6
Titolo originale:
Manage et célibat dans le Service pastoral de l'Église. '
' Histoire et orientations Gerusalemme 1965
61BÙ0TECAJ:
Imprimatur:
f Aloisius Morstabilini
Brixiae,. 22.6.1967
© 1966 by IDÓ-C (Roma) © 1966 by
Editrice Queriniana (Brescia)
io I T. Goffi, Editoriale
tentico? E se, all'inizio, esso fosse stato giustificato in modo
erroneo, rimarrà inquinato e contaminato per sempre?
In vero, è sufficiente che il celibato sacerdotale abbia di fatto
palesato la sua bontà nell'esperienza plurisecolare della vita
ecclesiale. E il concilio Vaticano II ha potuto testimoniare: «Esso
è segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, e fonte
speciale di fecondità spirituale nel mondo» (Decr. Presbyterorum
Ordinis, 16). '
Oggi, poi, gli antichi pregiudizi sulla sessualità, che avevano
favorito l'introduzione della legge del celibato ecclesiastico, sono
stati definitivamente riprovati (cf : Cost. Gau-dium et Spes, 49;
Decr. Optatam totius, io). La maturità sessuale viene ormai
presentata qual capacità altamente lodevole di dialogo
interpersonale e d'amore oblativo. Lo stesso sacerdote celibe è
invitato a raggiungere la maturità sessuale, impregnandola di
spirito apostolico caritativo (cfr.: Decr. Verfectae Caritatis, 12;
Decr. Optatam totius, 11).
La raggiunta rettificazione sulle motivazioni giustificanti il
celibato ecclesiastico ha grande importanza: serve a schiarire il
significato teologale del celibato stesso, a suggerire i motivi che
devono reggere lo spirito ecclesiastico, a facilitare l'evolversi di
un costume sacerdotale e a orientare in senso più appropriato la
legislazione canonica.
In conclusione, la presente opera dell'Audet, invitando a
rileggere in modo intelligente e responsabile la storia del celibato
ecclesiastico, può servire a rendere questo maggiormente amabile
dal lato umano e cristiano. La continenza sacerdotale viene
ricondotta fra le vicissitudini terrestri del servizio pastorale; viene
ripensata, arricchita e rivissuta con tutti gli apporti della vita
psichica personale e secondo le esigenze ecclesiah.
2/ Il significato del celibato ecclesiastico
14 I T. Goffi, Editoriale
nella propria esistenza sacerdotale la carità pasquale, che poi
comunicherà al popolo di Dio.
Il celibato ecclesiastico ha pure un carattere escatologico (cf.
Mei2,25;Apoc. 14,4). In vero, questo carattere appartiene innanzi
tutto al martirio (mistero della morte e risurrezione vissuto in un
credente), alla vita religiosa (celebrazione di questo mistero per
tutta la vita di un cristiano), al sacerdozio (attualizzazione di
questo mistero attraverso il ministero sacramentale), al
matrimonio cristiano (segno e simbolo dell'amore di Cristo per la
sua Chiesa, annuncio degli ultimi tempi che saranno il regno della
pace e dell'amore). Tutto l'ordine cristiano è escatologico, e le
differenti vocazioni ne presentano gli aspetti complementari.
L'ordine escatologico non sarebbe significato pienamente quaggiù
se lo stato religioso o matrimoniale non annunciassero insieme la
realtà ultima e definitiva. Non è quindi il celibato che conferisce il
senso escatologico al sacerdozio, giacché tale è già per se stesso,
come lo sono, in se stessi e in modo complementare, tutti gli altri
stati o vocazioni cristiane. Unicamente il celibato ecclesiastico è
armonizzato sul senso escatologico sacerdotale; anzi, sotto certi
aspetti, lo potenzia ulteriormente. I sacerdoti «inoltre diventano
segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la
fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono
in matrimonio» (Decr.Presbyterorum Ordinis, 16).
Ecco perché il concilio Vaticano II vede nel celibato eccle
siastico un carisma che lo Spirito offre alla Chiesa peregrinante.
Esso svolge la missione ecclesiale di indicare con più chiarezza
una fìanzione di servizio pastorale, una fìanzione di testimonianza
pasquale e una funzione escatologica. Tutta la comunità cristiana
è invitata a supplicare dallo Spirito, con umiltà e insistenza,
questo grande dono per il sacerdozio cattolico (Decr.
Presbyterorum Ordinis, 16).
3/ L'insegnamento di Paolo VI
NeH'enciclica Sacerdotalis Caelibatus (a. 1967), Paolo vi
presenta il celibato entro la visione di fede, qual caratteri
stica espressione del mistero cristiano.
Nella luce soprannaturale la vita sacerdotale è chiamata
ad esprimersi in carità. «Perciò la scelta del sacro celibato è
sempre stata considerata dalla Chiesa 'quale segno e stimolo
della carità': segno di un amore senza riserve, stimolo di una
carità aperta a tutti».
La stessa educazione sacerdotale si raccoglie nel compito
di nobilitare il chierico verso una capacità adulta d'amore
abitualmente oblativo. La vita sacerdotale non viene sco
lorita e immiserita nella vacuità d'affetto; è impegno gene
roso di un cuore che si lascia permeare dalla carità del
Signore in servizio del regno di Dio. «Il sacerdote, per il suo
celibato, è un uomo solo; ma la sua solitudine non è il
vuoto, perché riempita da Dio e dall'esuberante ricchezza
del suo regno... Segregato dal mondo, il sacerdote, non è
separato dal popolo di Dio, perché è costituito a vantaggio
degli uomini, consacrato interamente alla carità e all'opera
per la quale lo ha assunto il Signore».
Paolo vi, dalla sua alta cattedra, richiama la stessa ge
rarchia ecclesiastica a continuamente ricordarsi come i sa
cerdoti siano chiamati a vivere (per la stessa vocazione del
loro celibato) entro una viva carità ecclesiale. Invita i ve
scovi a incoraggiare, in tutti i modi, i propri sacerdoti ad
aprirsi con essi in un'amicizia personale e a un'apertura
confidente, «che non sopprima, ma superi nella carità pa
storale il rapporto d'obbedienza giuridica».
L'insegnamento di Paolo vi appare la traduzione eccle
siale odierna del compito essenziale dell'amore caritativo,
che stava alla base della 'Chiesa domestica' e che l'Audet ha
cosi bene descritto in quest'opera.
Storia e orientamenti
2-12
Professore all'École Biblique (Gerusalemme) e all'École
Archéologique Fran^aise (Gerusalemme). Citiamo le sue
opere principali: La Dìdachè. Instructions des apótres.
Texte critique, traduction fran^aise, introduction et
commentaire. Coll. 'Études bibliques', Paris 1958;
Admiration religieuse et désìr de savoir. Réflexions sur la
condition du théologìen, Montréal-Paris 1962; Notre
catéchèse est-elle entrée dans une impasse?, Coll. 'Cahiers
de Communauté chrétienne', 1, Montréal 1963; Bàtir la
demeure humaine. Essai sur la participation chrétienne à
l'aménagement de l'espérance sur la 'terre des hommes',
Montréal 1967.
È autore inoltre di numerosi articoli apparsi in Journal o f
Theological Studies; Études et recherches; Vie spirituelle,
Supplément; Revue Biblique; Nouvelle Revue
Théologique; Scripture; Sciences ecclésiastiques; Studia
evangelica; Communauté Chrétienne; Ephemerides litur-
gicae.
Il suo saggio più recente è Poi et expression cultuelle, in
La liturgie après Vatican II, coll. 'Unam Sanctam', Paris
1967.
INTRODUZIONE
21
momento che ci si metteva in cammino per un qualsiasi ser
vizio del Vangelo, si doveva anzitutto poter 'lasciare': il che
significava immediatamente che si doveva essere pronti ad
accettare l'allentamento, se non la rottura, di parecchi lega
mi, tra i quali, per molti certamente, occorreva contare lo
stesso vincolo coniugale.
Tale situazione, tuttavia, mutò abbastanza presto. Il ser
vizio itinerante della parola, di cui l'apostolato era stato il
prototipo, cedette rapidamente la maggior parte della sua
preminenza originaria a vantaggio del servizio permanente
dell'assemblea nato dalla stessa accoglienza che era stata fatta
al messaggio evangelico. E dunque nel quadro del servizio
dell'assemblea che, alla fine, si è posto per noi il problema
delle origini della legge del celibato ecclesiastico. Già lo si
sa: tutto è cominciato con la legge della continenza coniugale
e, per quanto riguarda il servizio dell'assemblea, sono state
prima le usanze, poi le regolamentazioni relative alla
continenza coniugale che hanno aperto la via alla legge del
celibato dei chierici con gli ordini maggiori.
E, del resto, estremamente interessante notare che le ra
gioni che allora hanno ispirato tale movimento sono state
mutuate in primo luogo dal servizio del'eucaristia più che
dal servizio della parola, ancorché, naturalmente, per pro
muovere l'ideale nuovo, non si sia mancato di fare appello
agli esempi dati in antico dal servizio itinerante della parola.
A nostro parere qui sta l'essenziale. Si tratta dunque d'illu
minare questo punto: questa è stata la nostra maggiore
preoccupazione.
Infatti, un solo fattore ci sembra essere statò veramente
decisivo nell'evoluzione che ha progressivamente portato gli
usi, le costumanze, le regolamentazioni al livello di una leg
ge propriamente detta, imposta dall'alto e obbligatoria per
tutti. Questo fattore derivava in definitiva dalla secolare e
irriducibile antinomia dell'impuro e del sacro. Esso comin
ciò ad esercitare la sua azione in maniera sensibile a partire
dal momento in cui la sacralizzazione del servizio pastorale
della Chiesa accumulò nella coscienza cristiana delle energie
abbastanza potenti per sostenere il conflitto latente che la
percezione di un'impurità inerente alla sessualità in quanto
tale, conteneva già in germe. In maniera del tutto caratteri
stica, questo momento coincise peraltro, nella riflessione pa
storale, con una tendenza sempre più netta a definire il ser
vizio pastorale della Chiesa essenzialmente in funzione del
sacro, rappresentato in primo luogo, invariabilmente, ^asal-
tare su cui si celebrava l'eucaristia, mentre la tendenza spon
tanea della tradizione primitiva era stata, invece, di definire
il servizio pastorale anzitutto in funzione dei bisogni più
mutevoli deU'assemblea, come ne fa fede, tra l'altro, lo stesso
uso di immagini 'pastorali'.
Vorremmo dire, infine, che lungo tutta la nostra ricerca,
abbiamo avuto coscienza di occuparci di una vera tradizione
pastorale, e non solo di cose che sono esistite per caso nel
lontano passato della Chiesa. La storia non è stata per noi
che lo strumento appropriato di un'indagine il cui oggetto
proprio superava di gran lunga il semplice fatto storico. Cer
to, non lo dimentichiamo, la storia è cambiata. Per cui, abi
tuati per professione a questo genere d'indagine, pensiamo
meno di qualsiasi altro a ricondurre di forza nel presente ciò
che noi sappiamo essere stato abolito per sempre dal corso
irreversibile del tempo.
Ma, al di là del fatto storico, c'è qui, pensiamo, la tradi
zione pastorale della Chiesa. Ora, se c'è tradizione, e se que
sta tradizione rimane per noi autenticamente viva, come vi
va essa deve rimanere, solo questo noi possiamo ammettere:
cioè, che la tradizione pastorale della Chiesa, per quanto lon
tana nel passato, incide sulla situazione attuale e penetra co
me un fermento di creazione e di rinnovamento fino in questo
presente al quale apparteniamo con tutte le fibre del nostro essere,
e che, in ogni caso, prepara la speranza del Vangelo per le
generazioni fìature. In realtà, questa continuità viva s'impone a noi
con tanta maggior forza dal momento che, in ultima analisi, ciò
che la storia ci permette di raggiungere nel passato altro non è
che una delle componenti essenziali della stessa tradizione
apostolica.
Certo, lo sappiamo, è difficile giudicare una lunga tradizione,
particolarmente complessa per il fatto stesso di essere lunga,
come è difficile sceverare in essa l'effimero e il durevole, i valori
più o meno caduchi e quelli che restano sempre ricchi di
possibilità creative. Non abbiamo creduto, tuttavia, di poterci
sottrarre alle nostre responsabilità. È dunque in questa prospettiva
e in questo spirito che abbiamo affrontato, per finire, il problema
per noi capitale di ciò che abbiamo chiamato la 'comunità di
base'. L'abbiamo fatto nella persuasione profonda e già da tempo
acquisita che il problema del celibato dei chierici è strettamente
legato, in definitiva, al problema molto più ampio delle strutture
stesse del servizio pastorale, e, più da vicino, al problema parti
colare delle strutture del servizio pastorale proprio della 'co
munità di base'.
Ci si capisca bene: non sottovalutiamo per nulla le ini-
quietudini legittime e le riflessioni di coloro che pensano an
zitutto alle 'difficoltà' del celibato dei chierici. Abbiamo assistito
a molte tragedie, angosciose e distruggitrici come tutte le
tragedie, e per di più lesive e sterili. Crediamo, tuttavia, che nel
momento attuale sarebbe un grave errore da parte nostra limitare
a questo unico punto di vista il problema posto dalla legge del
celibato pastorale. Al di là delle 'difficoltà' personali incontrate
nel celibato da un certo numero di chierici, c'è soprattutto il
problema connesso delle strutture
del servizio pastorale della 'comunità di base'. Ora, a nostro
parere, è da quest'ultimo problema che dipende l'altro. Il che
significa che i due problemi o saranno risolti insieme, o non
saranno risolti autenticamente né l'uno né l'altro.
Abbiamo cercato di esprimerci con rispetto quanto con
fi-anchezza. Non siamo ciechi. Crediamo anche noi di cono
scere un po' tutta l'efiìcacia e la grandezza che il servizio pa
storale della Chiesa deve al celibato. Ma rimane conveniente,
nello stesso tempo, rifiettere su certe esigenze pastorali della
situazione presente. Alla lunga, gli accomodamenti parziali
saranno di poco giovamento. Per avere una guida, abbiamo
bisogno di una rifiessione in profondità sulle strutture. Desi
deriamo che sia condotta con coraggio e lucidità, ma anche
senza quella passione obnubilante che ci impedirebbe di ve
dere pure ciò che balza evidente agli occhi. Del resto, non
abbiamo proposto qui che dei suggerimenti. Ma saremmo fe
lici se potessero servire ad avviare ulteriori ricerche che svi
luppassero ciò che merita di esserlo, correggessero ciò che è
meno esatto e dimenticassero semplicemente ciò che è inutile.
Pensiamo, tuttavia, che il tempo stringe. In fondo non sia
mo noi a porre il problema del celibato e del matrimonio nel
servizio pastorale della Chiesa: è il problema stesso che s'im
pone a noi. Per larga parte esso nasce da due fenomeni gran
diosi della nostra epoca che sfuggono al controllo dell'azione
pastorale: l'aumento demografico e l'urbanizzazione genera
le. Questi due fenomeni si sviluppano sotto i nostri occhi con
una forza e una rapidità tali che non possiamo più indugiare
a lungo. Ci resta forse in realtà una generazione per trovare
una soluzione conveniente ai problemi di cui ci occupiamo in
questo libro. Dopo, l'immensità del compito non potrà che
moltiplicare grandemente le difficoltà. I pastori che raggiun
geranno l'età matura nel 2000 cominciano oggi ad andare a
scuola. Il loro ricordo non ci ha mai lasciato, mentre scrive
vamo questo libro. Ci sia permesso di dedicarlo a loro, come
un modesto contributo a quel servizio permanente della spe
ranza del Vangelo di cui essi condivideranno a loro volta la
responsabilità.
Infine abbiamo creduto desiderabile che una rifiessione
sul matrimonio e il celibato nel servizio pastorale della Chie
sa fosse proposta non soltanto agli stessi chierici, ma anche
a tutti i cristiani preoccupati dei bisogni e delle speranze
dell'ora presente. Noi siamo indissolubilmente solidali. La
coscienza di questa solidarietà, resa ancor più viva dall'ami
cizia e da preoccupazioni per gran parte comuni, finisce di
definire per noi l'orizzonte di quest'opera.
J.-P. A.
Gerusalemme, 1965
Parte prima
La casa e il matrimonio
nel servizio pastorale
della Chiesa primitiva
CAPITOLO PRIMO
SEGUENDO LA STORIA
10
O rigene , Omelie sul Levitico, VI, 6.
Dottrina degli apostoli, 4; trad. Connolly, p. 32; trad. Nau, T" ed.,
p. 41. In tutta la questione non si devono perdere di vista alcuni dati
concreti. La Didascalia richiede che, salvo in particolari circostanze, il
vescovo abbia almeno cinquantanni (/oc. cit). Questa regola deve ri
flettere usi antichi e probabilmente molto diffusi nella Chiesa. Siccome,
d'altra parte, in quest'epoca, le diverse funzioni del servizio pastorale
erano molto più aperte di quello che sono diventate in seguito, è evi-
colo, è dunque il matrimonio, più che la continenza o il
celibato, che sembra essere stato un po' dovunque, per lo
stile di vita, la realtà dominante nel servizio pastorale della
Chiesa. È da questa situazione che noi dobbiamo partire.
Qualunque cosa sia stata detta, non ci sembra che la storia
possa prestarsi, nel suo insieme, ad un'interpretazione
diversa.
Infatti, ad eccezione dei circoli gnostici, encratiti o mon-
tanisti, tutti impregnati del dualismo di fondo dell'ambiente
extra-ecclesiale, è soltanto all'inizio del III secolo che i pri
mi segni, ancora sporadici, di una certa tensione tra matri
monio e celibato dei chierici cominciano ad apparire nei
documenti, in particolare in Tertulliano che, attorno agli
anni 208-209, doveva passare apertamente al montanismo.
Si avverte, verso quest'epoca, a seguire certi temi di para
goni, e anche certe evocazioni insistenti dei modelli antichi,
adattati ai gusti del giorno, che una trasformazione profonda
sta operandosi negli spiriti. Una simile fermentazione si os
serva del resto, nel medesimo tempo, circa il matrimonio dei
fedeli. Nasce allora tutta una letteratura i cui tratti caratte
ristici sono l'elogio entusiasta della verginità, l'esortazione a
un certo stile di 'castità' e la discussione appassionata dei
meriti della vedovanza. Per molti suoi aspetti, inoltre, tale
produzione è una vera letteratura di battaglia.
È in questa atmosfera generale che si sono svolti i primi
episodi della 'lotta' per la 'castità perfetta' dei chierici. Del
' Me. 6,25; M/. 3,1; Ley,20, ecc., lòànnes bo baptistès; Aie. 1,4 ecc.,
lóànnès ho baptizan.
quadro cultuale e sacrale che ne è allora risultata, è sempre
rimasta in lui occasionale e, in definitiva, secondaria. La 'pa
rola' di Gesù non dava affatto l'impressione di essere fuori
posto quando si faceva sentire in una casa, sulle rive del la
go di Tiberiade, sui declivi delle colline di Galilea, nelle vie
e sulle piazze pubbliche, nei campi, lungo le strade o sul bor
do del pozzo di Giacobbe. Poiché tale 'parola' aveva tutto in
se stessa, si trovava a suo agio in ogni luogo e in ogni circo
stanza. Si muoveva, del resto, con uguale libertà nella mag
gior parte delle forme letterarie allora vive nell'ambiente.
Gesù si è assicurato fin dall'inizio, - e in parte per questa
stessa ragione - una fiessibilità e una mobilità che l'azione di
Giovanni non sembra aver mai conosciuto.^
Queste cose sono forse evidenti. Ma noi le dimentichiamo
spesso, benché esse non abbiano soltanto un valore transito
rio, indissociabile dal passato. In ogni caso conta tenerle in
mente quando si cerca di rappresentarsi lo stile originario
dell'azione di Gesù. Quale fu questo stile?
^ Vedere, nello stesso senso, ma con minor chiarezza nella linea ge
nerale, Mt. 4,17,23-25; la redazione di Le. 4,14 resta del rutto implicita
e non la si capisce bene se non si è capito prima il racconto di Marco.
mandato a portare la buona novella ai poveri, ad annunciare
la liberazione ai prigionieri ed ai ciechi il ritorno alla vista, a
ridare la libertà agli oppressi ed a proclamare un anno di gra
zia del Signore»."^
La tradizione evangelica non si dilunga su questo punto,
perché, in quel tempo e in quell'ambiente, queste cose non
avevano bisogno di essere dette. Ma, dal nostro punto di vi
sta, è necessario che sia chiara una cosa: ed è che, da parte di
Gesù, adottare fin dall'inizio, per la sua 'parola', la forma del
'messaggio' significava per ciò stesso adottare non soltanto
un certo stile d'azione, ma anche un certo stile di vita.
Ora, in quei tempi, due tratti della persona dell'araldo
simboleggiavano nello stesso tempo la fiinzione e il genere
d'esistenza adatto a questa fianzione: la 'voce' e il 'piede'.^
L'araldo è una 'voce' al servizio di colui che l'ha mandato:
questo è l'essenza della fianzione. Ma egli è anche due 'piedi',
agili, disponibili, svelti, pronti a portare il messaggio in ogni
luogo; questo è più particolarmente lo stile di vita adatto alla
fiinzione e inscindibile da essa. L'araldo è mobile. E questo è
la sua stessa esistenza. In qualsiasi momento deve essere
pronto ad abbandonare tutto: casa, padre, madre, fi-atelli,
sorelle, moglie, figli, per compiere la sua missione. Sulle stra
de niente deve trattenerio, niente deve ostacolario fimo a che
abbia compiuto la sua 'corsa'.L a semplicità del vestito si
Le. 4,18-19; notare che Luca, a differenza diMe. 6,1-6 e diMf. 13,
53-58, riallaccia questo episodio agli inizi dell'azione di Gesù; nel pen
siero del narratore, la lettura di Is. 61,1-2, nella sinagoga di Nazareth,
prendeva evidentemente un valore di esempio, peraltro polivalente.
^ Is. 40,3 «Una voce grida: preparate nel deserto...»; 52,7 «Come
sono belh sulle colline i piedi di colui che porta buone notizie, che an
nuncia la pace, che porta la felicità, che annuncia la salvezza, che dice
a Sion: il tuo Dio regna»; citato parzialmente mRom. 10,15; notare
il richiamo esplicito del simbolo, Ef. 6,\5 «Abbiate per sandali la
prontezza a diffondere la buona novella della pace».
® Cfr. i sentimenti di Paolo: «La vita, ai miei occhi, non vale la pe-
offre qui come un altro simbolo della funzione e del genere
di vita che l'accompagna {Ef. 6,15). Una certa spogliazione è
la condizione normale della vita dell'araldo.
È dunque in questa linea che possiamo rappresentarci me
glio gli inizi dell'azione di Gesù in Galilea. Nel Vicino e Me
dio Oriente dei tempi antichi come nella Grecia e nella Ro
ma classica, la funzione dell'araldo è un servizio perfettamen
te strutturato nell'opinione e negli usi. Questo servizio sta
alla società antica come il giornale, la radio, la televisione
stanno alla nostra. Fu per lunghi secoli uno degli organi es
senziali della comunicazione sociale a tutti i livelli, in tutta
la sua estensione.
Quando, in Israele, i profeti della grande tradizione di
Isaia, in modo particolare, s'impadronirono del personaggio
sociale dell'araldo per dare un'espressione concreta ai loro
rapporti con Jahvè, da una parte, e col popolo, dall'altra, al
tro non fecero dunque che appoggiarsi ad un prototipo socio
logico già da molto tempo familiare all'ambiente. Del resto,
la funzione aveva del prestigio. Gli araldi di Jahvè non ave
vano dunque alcun interesse a deformarne l'immagine. Pote
vano, invece, trovare un vantaggio sicuro a conservarne i
tratti per quanto lo permetteva la trasposizione del prototipo
nella sfera dell'azione religiosa.
Ora, tutto suggerisce che Gesù stesso non tenne altra con
dotta quando venne per lui il momento di compiere la sua
missione. Modellando la sua azione iniziale su quella dei pro
na che se ne paiii, purché io termini la mia corsa, tòn drómon mu, e
porti a compimento la missione, tèn diakonian (letteralmente: il servi
zio), che ho ricevuto dal Signore Gesù, di rendere testimonianza alla
buona novella, tò euangélion, della grazia (benevolenza, favore, amore)
di Dio», Atti 20,24; anche 13,25 «Al termine della sua corsa, tòn dró
mon», parlando di Giovanni Battista, che Paolo si raffigura sotto i tratti
del messaggero e dell'araldo; 2 Tini. 4,7 «Ho combattuto la buona
battagha, ho finito la mia corsa, tòn dròmon».
feti araldi di Jahvè, egli si trovava perciò stesso a modellarla
indirettamente su quella dell'antico araldo, la cui immagine
poteva, peraltro, rimanere attiva sul suo pensiero, indi
pendentemente dal modello profetico/
La prima azione di Gesù in Galilea venne dunque a pren
dere, in maniera deliberata, la forma del 'messaggio'. Questo
messaggio non era un discorso: era una parola concisa, rac
colta in una sola formula incisiva, destinata a essere ripetuta,
tale quale, ovunque se ne presentasse l'occasione. L'intenzione
di questa parola di choc sembra essere stata quella di operare
una prima breccia nella speranza del popolo, per cui il
disegno di Dio potesse passare in seguito nella sua totalità.
Certo, da solo il 'messaggio' non poteva compiere tutto: il
suo scopo era quello di inaugurare. Altri mezzi sarebbero
venuti, al loro momento, a portare più lontano il compimento
del piano di Dio, fino a che tutto fosse compiuto {Gv. 17, 1-
26; 19,30). Ma, in ragione della sua stessa forma, il 'mes
saggio' aveva questo di prezioso, che permetteva di raggiun
gere un gran numero fin dall'inizio.
Del resto, alla brevità e alla forza del 'messaggio' corri
spondevano la mobilità e la sveltezza dell'araldo. Niente lo
tratteneva. In qualche settimana forse, più verosimilmente in
qualche mese, Gesù sembra aver 'percorso' cosi 'tutta la
Galilea'(Mi. 4,23). La sua 'fama' si diffuse ancor più lontano
(Mt. 4,24; Ze. 4,14).
Ma, in questo stile d'azione, quale poteva essere, in con
creto, questa 'fama' se non quella di un 'profeta' nuovo? Il
'messaggio' di Gesù, con i 'segni' che l'accompagnavano, non
testimoniava forse, agli occhi di tutti, che 'i tempi' della gran
de speranza, già annunciati dai profeti antichi, 'erano com-
" Senso generale del battesimo di Gesù nel Giordano; notare spe
cialmente Le. 4,14: «Gesù ritornò allora in Galilea con la potenza dello
Spirito».
sto si conserveranno liberi, non lasciandosi arrestare né dalla
buona né dalla cattiva accoglienza che potrà loro essere fatta.
Vivranno dell'ospitalità che verrà loro offerta, cosi come si
presenterà, alla sola condizione che sia 'onorevole' (Mt.
10,11 ). Per il vestito e le altre necessità del viaggio non pren
deranno che il minimo indispensabile. Cosi niente rallenterà
la loro corsa: saranno senza impedimenti, saranno liberi. Co
si presenteranno a tutti l'immagine del vero araldo di Dio,
portatore della 'buona novella' della speranza, come Gesù
stesso, senza dubbio, ne aveva prima dato l'esempio agli inizi
della sua azione in Galilea. Il 'maestro' non deve aver rac
comandato ai suoi 'discepoli' uno stile di vita molto diverso
da quello che lui stesso aveva adottato in circostanze del tut-
to simili. 12
Attraverso la prima missione dei Dodici possiamo dunque
retrospettivamente farci un'idea abbastanza precisa degli ini
zi dell'azione di Gesù in Galilea. Essenzialmente egli si pre
sentò allora come un 'profeta', araldo di Jahvè, «potente in
opere e in parole» (Le. 24,19). Di città in città, di villaggio
in villaggio, di casa in casa e di sinagoga in sinagoga, egli dif
fondeva ovunque questo messaggio: «I tempi sono compiuti
e il regno di Dio è vicino: pentitevi e credete a (questa)
buona novella» {Me. 1,15). Era un'azione rapida, destinata a
creare un primo sbocciare della speranza.
Tuttavia, introdotto cosi nella coscienza di uditori occa
sionali, il 'messaggio' aveva i suoi limiti, che Gesù meno di
qualsiasi altro poteva nascondersi. Nell'ordine dell'azione il
'messaggio' richiedeva un complemento, che, per ciò stesso,
doveva essere di un altro stile. Fu 1' 'istruzione' {dìdaché).
” Mi. II, I «Quando Gesù ebbe finito di dare tali direttive ai suoi
dodici discepoli», - si tratta della prima missione dei Dodici, - «...egli
se ne andò a portare le sue istruzioni e il suo messaggio, didàskein
kài kèryssein, attraverso le loro città», cfi. Me. 6,6 didàskon soltanto;
Le. 8,1 «Egli camminava attraverso città e villaggi, proclamando e an
nunciando la buona novella del regno di Dio»: o meglio, forse, «an
nunciando la buona novella alla maniera degli araldi», kèryssón kài
euangelizómenos.
Mi. 4,23-25, dopo la chiamata dei primi 'discepoli'; Le. 4,15.
i. Fermiamoci anzitutto all'episodio del 'giovane ricco' [Mt.
19,16-22; Me. 10,17-22; Le. 18,18-23). Marco, nella sua pre
sentazione, dice semplicemente 'qualcuno'. Luca parla di un
'notabile', dunque, di un uomo che ha già una certa età e che
porta delle responsabilità. Matteo segue anzitutto Marco nella
sua presentazione, ma alla fine precisa che si tratta di un
'giovane'. Tuttavia non lasciamoci ingannare dalla traduzio
ne. Poiché, in greco, questo 'giovane' è un nean'iskos, e un
neanìskos non è un adolescente (meiràkion), e neanche ne
cessariamente un uomo molto giovane: è qualcuno che può
avere vent'anni, ma che può anche averne trenta, e anche di
più, e che, in ogni caso, può essere già legato da obblighi e
responsabilità diverse.
Un 'giovane' si presenta dunque a Gesù e, salutandolo con
deferenza con il suo titolo di 'maestro', gli domanda cosa deve
«fare di buono per possedere la vita eterna». Gesù gli ri
sponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamen
ti». «Li ho osservati — risponde il giovane — che cosa mi
manca ancora?». «Se vuoi essere perfetto — gli dice Gesù
— va', vendi quello che hai, dallo ai poveri, e avrai un
tesoro nei cieli; poi vieni, seguimi. Avendo udito questa
parola, il giovane se ne andò triste, perché aveva grandi beni
(Mt. 19,16-22).
Non intendo analizzare dettagliatamente tutto il racconto.
Per quello che ci interessa ora, due cose soltanto meritano la
nostra attenzione: da una parte il «se vuoi essere perfet-
^^Atti 7)8: al tempo del martirio di Stefano, cioè poco prima della sua
conversione. Paolo è detto da Luca manias: con lo stesso significato.
Diremo tra parentesi che non è dunque molto indicato fare del 'giovane'
ricco di Matteo il tipo dell'adolescente che rifiuta la 'vocazione^ per
procurarsi i vantaggi di una carriera bella e, forse, lucrativa! È un
rovinare gratuitamente il ricordo di un uomo generoso, e inoltre un
ingarbugliare un bel po' di cose, che sarebbero megho servite dalla
chiarezza e dall'onestà.
to» (proprio a Mt.) e dall'altra il «vieni, seguimi». Le due frasi
sono del resto legate tra loro. E quello che importa è l'intendere
esattamente tale legame.
Nell'interpretazione esegetica e pastorale esiste una certa
tendenza a stabilire un rapporto diretto tra la chiamata alla
'perfezione' e la rinuncia alle ricchezze. È questo il pensiero di
Gesù?
Si può convenire, suppongo, che l'accénto principale nella
risposta del 'maestro' è sul «vieni, seguimi». Ora, nelle cir
costanze in cui è situato il racconto, 'seguire' Gesù nella sua
qualità di 'maestro' significa, anzitutto, unirsi a lui per raccogliere
il suo insegnamento, o, se si preferisce, nel linguaggio della
tradizione evangelica, le sue 'istruzioni'. Ma d'altra parte, siccome
l'invito caratterizzato dal «se vuoi essere perfetto» è proprio a
Matteo, non c'è metodo più sicuro che cercare la spiegazione in
Matteo stesso.
In realtà, non è necessaria una lunga ricerca per scoprire, in
Matteo, le 'istruzioni' di Gesù relative alla 'perfezione' dei
comandamenti, e in una maniera più generale, alla 'perfezione'
della legge. Si trovano nella grande raccolta del Sermone della
montagna, dove si presentano espressamente come tali: «Non
crediate che sia venuto ad abolire la Legge o i profeti: non sono
venuto ad abolire, ma a perfezionare {pi èro sai)... Avete udito ciò
che fu detto agli antichi: Non ucciderai... Ebbene! io vi dico:
chiunque si adira contro il fratello ne risponderà in tribunale... Voi
dunque sarete perfetti (téteioi) come il vostro Padre celeste è
perfetto».^” Ecco dunque come, impegnandosi a 'seguire' Gesù, si
può cercare, al di là degli stessi comandamenti, una nuova 'perfe-
5 ■ 12
zione'. Questa è essenzialmente una imitazione del Padre,
ed è r 'istruzione' di Gesù che ne traccia le grandi linee per
quelli che diventano suoi 'discepoli'.
Esiste, allora, un legame diretto tra l'invito alla 'perfezio
ne' che Gesù rivolge al 'giovane' e l'invito a 'seguirlo' che gli
rivolge nello stesso tempo. Il legame si realizza nelT 'istru
zione' del 'maestro' che propone, appunto, una 'perfezione'
nuova rispetto a quei comandamenti che il 'giovane' dichiara
di aver osservato «fin dalla giovinezza».
Di conseguenza è altrettanto chiaro che l'abbandono delle
ricchezze diventa una condizione preliminare di libertà per
'seguire' Gesù e ricevere il suo insegnamento. Per contro non
è, in rapporto diretto, una condizione della 'perfezione'. Non
si diventa 'perfetti' per il solo fatto di abbandonare le proprie
ricchezze per distribuirle ai poveri (cfr. i Cor 13,3). Lo si
diventa mettendosi alla scuola di un 'maestro' la cui
'istruzione' insegna soprattutto la misericordia e l'amore.^^
Ma, per 'seguire' Gesù e diventare cosi pienamente suoi 'di
scepoli', bisogna anzitutto essere liberi o essersi resi liberi.
Nel caso, tale libertà potrà anche richiedere che si rinunci ai
propri beni e li si distribuisca ai poveri. Peraltro, chi arriverà
fino a questo limite, potrà sostenere la sua speranza sapendo
che un 'tesoro' è preparato per lui nei cieli.
Ma, d'altra parte, ci sono anche certe situazioni che con
viene rispettare. Il 'giovane' incontrato da Gesù possedeva
grandi beni. Messo all'improwiso davanti a un invito a 'se
guirlo', credette senza dubbio di non essere libero di farlo.
Parti 'triste'. Certamente non tradiremo l'amore con cui
1/ 'Ministero' e 'servizio'
' 1 Cor. 1,12; 3,5 «Cos'è Apollo? E cos'è Paolo? Dei servitori, fdia-
konoi) grazie ai quali voi avete accolto la fede; e ciascuno nella carica
assegnatagli dal Signore»; cfr. anche 3,22.
fossero distolti dal loro servizio specifico da compiti che mi
nacciavano di assorbirli {Attì6,ì-6). Ma non vediamo presto
Stefano e Filippo partecipare, ciascuno alla sua maniera, al
«servizio della parola»? Stefano entra frequentemente in
'discussione' con diversi gruppi di Giudei ellenizzati di Ge
rusalemme {Atti 6,9-10).
Filippo s'allontana e si mette in cammino, dopo la tempe
sta che aveva fatto àparire il suo compagno. Molti altri era
no stati costretti a fare come lui. Questa dispersione fu fecon
da. Approfittando dell'occasione, alcuni dei dispersi si de
dicarono, in effetti, a diffondere la «parola della buona novel
la» durante i loro spostamenti. Avvenne cosi, in particolare,
che una città di Samaria ricevette Filippo, che sembra
essersi fermato là per un bel po' di tempo. Il 'diacono' di
Gerusalemme vi «annunciava (ekéryssen) il Cristo», e dei
segni vennero a confermare il suo messaggio.
In seguito, dopo questi dispersi diventati per le circostan
ze araldi della 'buona novella', vediamo apparire profeti e
dottori, che, con modalità diverse, si mettono a loro volta al
«servizio della parola».^ Tra loro vi sono degli itineranti e
dei sedentari. Ci furono degli uomini, certamente, ma non
dimentichiamo forse un po' troppo che ci furono anche delle
donne?
Frattanto, il 'diacono' Filippo s'era dunque stabilito a Ce
sarea, dove ormai esercitava una funzione di 'evangelista'
(cfr. 2 Tim. 4,5; Ef. 4,11). Ora, nota Luca di passaggio, le
sue quattro figlie, non sposate e rimaste con lui, erano 'pro
fetesse' {Atti 21,8-9). Dalla stessa fonte sappiamo che a Efe
so Apollo completò la sua istruzione sotto la guida degli
sposi Prisca e Aquila che in quel tempo risiedevano nella
* Cfr. Atti 20,31 «Per tre anni, di notte come di giorno, non ho ces
sato d'istruire con lacrime ciascuno di voi»; vedi anche 1 Tess. 2,11-12.
®Atti 13,14-15; 14,1; 17,2.17 ecc.; cfr. 16,12-15.
la casa poteva offrire, per via dell'ospitalità, nell'ordine delle
relazioni sociali e dei contatti umani, sembrano essere state
notate, dall'inizio, sia da chi riceveva che da chi era ricevuto.
L'episodio del battesimo del centurione Cornelio è, a questo
proposito, estremamente significativo. Nei giorni che precedono
l'arrivo di Pietro, Cornelio si prende cura d' 'invitare', o di 'riunire'
{sunkalesàmenos), per l'occasione, i «suoi parenti e i suoi amici
intimi» (tùs sungenéis autu kài tùs anankàìus philus). Nel
momento in cui.Pietro si presenta, con i suoi compagni e con la
scorta che Cornelio gli aveva mandato, egli non trova dunque
soltanto il centurione disposto ad ascoltarlo, ma anche «tutta la
sua casa» p a s ho óikós su), il che significa, non solo la famiglia
immediata (Atti 11,15), alla quale bisogna certamente aggiungere
i servi, ma anche i 'parenti' e gli 'amici' che ne fanno parte per la
circostanza {Atti 10,1-48). Dopo che tutti ebbero ricevuto il
battesimo, Pietro fu invitato a passare qualche giorno in mezzo a
loro. Anche questo era nei migliori usi dell'ospitalità dell'epoca.
Così si moltiplicavano le occasioni dell' 'istruzione' e del
'messaggio'.
Si coglie qui, mi sembra, in un esempio meravigliosamente
dettagliato e concreto, la maniera in cui dovette formarsi alle
origini il primo nucleo di molte ekklestai cristiane. Si vede,
immediatamente, il punto preciso su cui si articola, in questo
insieme, il «servizio della parola» nell'età apostolica. Benché non
vi pensassimo quasi più, non c'è alcun dubbio che la 'casa' abbia
svolto, a questo proposito, una Sanzione d'importanza capitale.'”
“ Cfr. nello stesso senso il racconto più breve del battesimo di Lidia,
la venditrice di porpora di Tiatira: «Il Signore le apri il cuore, racconta
Luca, così che aderì alla parola dì Paolo. Dopo essere stata battezzata
insieme alla gente della sua casa, kài ho óikos autès, ella ci
* De monogamia, 8.
De renuntiatione saeculij.
primo a indovinare, all'inizio, la qualità messianica di Gesù
(Me. 8,27-30 e par.). Ed è anche necessario aggiungere che
l'idea di fare dell' 'apostolo vergine' il simbolo cristiano della
'funzione' contemplativa è altrettanto fragile. In realtà, circa
il celibato o il matrimonio di Giovanni, non sappiamo nulla.
Nell'uno come nell'altro caso ci troviamo irrimediabilmente
chiusi nel campo del solo possibile. La saggezza raccomanda
di non costruire niente di troppo elevato su un tale
fondamento.
Siamo informati, d'altra parte, della situazione di Paolo
da due piccole frasi dell'apostolo stesso. La prima è in rap
porto ai cristiani già sposati ai quali ha appena fatto delle
raccomandazioni relative alla loro vita coniugale. «Ciò che
dico qui — aggiunge — è una concessione, non un ordine»,
cioè: voi dovete tuttavia comprendere che vi ho parlato
tenendo conto della vostra situazione nella quale non vi
avrei imposto di mettervi. Poiché «preferirei che tutti fos
sero come me; ma, (a dire il vero), ciascuno riceve da Dio il
suo dono particolare, uno questo, l'altro quello». Paolo
prevede in seguito il caso dei non sposati e delle vedove:
«Dico peraltro ai non sposati (tais agàmois) e alle vedove
che è bene per loro rimanere come me. Ma se non possono
contenersi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare» (1
Cor. 7,6-9).
Dall'insieme di questo passo, la maggior parte degli in
terpreti, antichi e moderni, ha concluso, a ragione, mi sem
bra, che Paolo non si sposò mai. Ci sono, tuttavia, delle voci
discordanti. Il problema sta nel fatto che àgamos non si può
tradurre semplicemente con 'celibe'. A stretto rigore di ter
mini, Yagamos, è il 'non-sposato', il che comprende, nell'uso
della lingua, sia il 'vedovo' e il congiunto 'separato' o divor
ziato che il 'c e lib e '.C iò che sembrava chiarissimo a prima
vista, diventa dunque un po' meno chiaro quando si guarda
no le cose da vicino.
E peraltro inutile stupirsi a priori di fronte all'ipotesi di
un matrimonio precedente di Paolo, come alcuni, natural
mente, non mancano di fare. I fatti sono fatti. Ciò che oc
corre riconoscere è che questo testo non ha alcun bisogno di
essere torturato cosi da intendere che Paolo sarebbe stato
'vedovo' nel momento in cui' scriveva la sua lettera ai Corinti.
La sola cosa certa è, dunque, che egli allora era libero da
obblighi coniugali (senso generale di àgamos). E si deve ag
giungere che P 'istruzione' dell'apostolo, come la leggiamo in
i Cor. 7, si capisce meglio se si presuppone che Paolo non
sia mai stato sposato. Infine, quello che sappiamo di lui pare
testimoniare nello stesso senso. Questo è tutto ciò che la
storia sembra autorizzata a dire. E conviene fermarci a
questo.
LA CASA E IL MATRIMONIO
NEL SERVIZIO DELLASSEMBLEA
^Atti 20,28-29; Ef. 4,11; 1 Pi. 5,2-3; cfr. tuttavia Gv. 10,1-16; 21, 16;
Ebr. 13,20.
letteralmente carico di associazioni sociologiche. Già questo
ci dice che presbyteros aveva all'origine molto più sostanza
umana, direi, del termine concorrente di episkopos. Cosi
sembra che sia presbyteros ad aver avuto all'inizio più favo
re nella lingua dei cristiani.
Più tardi, è vero, episkopos fini per avere la meglio nella
designazione della più alta responsabilità pastorale. Col tem
po e con l'evoluzione generale delle istituzioni fii questo ter
mine che prese piede. Ma quello che constatiamo, a questo
proposito, nel secondo secolo, non deve essere proiettato re
trospettivamente sul periodo apostolico senza prima essere
stato sfìamato. All'inizio episkopos è un titolo strettamente
inerente alla Sanzione. E fatto su misura per designare, in
generale, una carica di 'sorveglianza', o meglio forse, di 'so
vrintendenza'. In un primo momento almeno, tale 'sovrin
tendenza' sembra essere stata semplicemente intesa in rela
zione alVekklèsia stessa. Fu solo in seguito che essa fu in
tesa anche in relazione ai presbiteri, tra i quali allora essa
designò un certo primato di responsabilità nel servizio
pastorale.
Inoltre, né presbyteros, ne episkopos furono all'origine ti
toli specifici dell'organizzazione interna delVekklèsia cristia
na. I termini esistevano già prima, sia nel mondo giudaico
che in quello greco. L'uno e l'altro furono dunque semplice-
mente adattati alle realtà nuove deU'ekklèsia. Dobbiamo sta
re attenti, tuttavia, al fatto che, in questo adattamento, pre
sbyteros e episkopos non portavano più lo stesso capitale di
evocazione nell'ordine delle realtà umane.
Da questo punto di vista, l'abbiamo già detto, presbyteros
era un termine di un'incomparabile ricchezza. Prima di ogni
impiego religioso del termine, il presbyteros è, in effetti, un
'anziano'. Collettivamente, i presbyteroi sono dunque 'gli an
ziani', parola che va intesa in primo luogo in opposizione ai
neótetoì e ai neanìskoi, che sono i 'giovani' della generazio
ne nuova. Con una sfumatura sociologica più ristretta, i pre-
sbyteroi sono anche dei notabili, e per questo essi possono
diventare titolari di funzioni determinate aH'intemo del
gruppo. Di colpo siamo dunque introdotti, in ambedue i ca
si, in una piena realtà sociale: quella del rapporto tra gene
razioni successive.
Ma c'è di più. Nella rappresentazione che ci facciamo del
servizio pastorale primitivo, dimentichiamo troppo spesso,
in effetti, che la qualità e la funzione del 'presbitero' aveva
allora una potentissima radice sociologica nella stessa fami
glia. Ciò a cui non diamo sufficiente attenzione è il fatto che,
nell'insieme del gruppo, i 'presbiteri' délVekklésìa, non me
no degli 'anziani' della sinagoga, appartenevano, diremmo,
alla generazione dei 'padri'.
Ora, senza dubbio, questo solo fatto fissava già un'imma
gine comune, creava un clima di pensiero per quel che ri
guarda le qualificazioni personali e sociali del 'presbitero'.
Di regola generale, si può dire che questa immagine comune
e questo clima di pensiero portavano a vedere naturalmente
nel 'presbitero' un 'padre' che aveva prima dato prova delle
sue qualità umane e sociali nel governo della sua 'casa'.
A questo proposito, l'osservazione di Paolo sembra molto
significativa. Bisogna, scrive a Timoteo, che «l'episcopo, - e
dunque anche il 'presbitero' {Tito 1,5-9), - sappia dirigere
bene la propria casa e tenere i suoi figli sottomessi in manie
ra del tutto degna. Che se uno non sa dirigere la propria ca
sa, come potrà prendersi cura della Chiesa di T)\oly>{iTmi.
3.4-5)-
Alla base, la qualità di 'anziano', che conduceva eventual
mente alla funzione di 'presbitero', si presenta dunque nello
stesso tempo come un'età cronologica e un'età sociale. È an
zitutto il tempo della vita in cui, nell'opinione comune, per
il fatto stesso di un lungo esercizio delle responsabilità dome
stiche si ha il vantaggio deH'esperienza e della saggezza in
rapporto alla generazione nuova. Ma è anche il momento del
l'integrazione sociale in cui si può prendere la parola nei
consigli, in cui si può essere chiamati a partecipare al gover
no di un gruppo extra-familiare, come era, di fatto, Vekklè-
sia nata dal messaggio evangelico.
Da tutto questo si vede' in che modo, all'origine, il matri
monio si è trovato integrato al servizio pastorale àtVì'ekklè-
sia. Possiamo dire senz'altro che nessuno allora pensò ad
un'alternativa astratta del tipo celibato-matrimonio, valutata
rispettivamente in rapporto a una gerarchia della perfezione
relativa a degli 'stati di vita'.
In realtà, ciò che si considerò, nel presbitero-episcopo, co
me del resto, nel diacono, fu lo stile di vita. E questo poteva
essere valutato nei fatti. E lo si poteva vedere abbastanza
bene, in particolare, nella maniera in cui il futuro servitore
dell'assemblea governava la propria casa. Il passaggio dalla
prima prospettiva alla seconda, era del resto tanto più facile
in quanto era la casa stessa che formava il quadro abituale
dell'assemblea. Si poteva sperare che chi aveva saputo
governare la propria famiglia, avrebbe saputo anche pren
dersi cura della 'Chiesa di Dio'. Era una speranza ragionevo
le. Cosa si poteva esigere di più? E in nome di che cosa?
La casa stessa, da parte sua, offriva au’ekklesia un quadro
perfettamente naturale e, inoltre, straordinariamente fecon
do, nel quale questa poteva dispiegare a suo agio tutte le ric
chezze della sua vita propria: servizio della parola, servizio
dell'eucaristia, servizio della comunione fraterna. Indiretta
mente, la casa offriva ancora la maniera di assicurare la con
tinuità, la dignità e l'efficacia dell'insieme del servizio pa
storale. Per un motivo come per l'altro, i vantaggi apparvero
senza dubbio sostanziali agli apostoli stessi, che con il mes
saggio e l'istruzione stavano allora gettando i fondamenti sui
quali dovevano un po' dovunque edificarsi le Chiese.
Ed erano realmente sostanziali tali vantaggi, come l'espe
rienza del progresso del Vangelo potè ben presto mostrare.
Cosi è con una completa tranquillità e una gioiosa gratitudi
ne, non come una semplice concessione alla 'debolezza uma
na' e alle necessitsà dei primi momenti, che la casa e il ma
trimonio si trovarono integrati, l'una e l'altro, e con un solo
movimento, nella vita profonda della Chiesa apostolica. I
documenti che sono ancora per noi testimoni delle idee e dei
sentimenti dell'epoca non si prestano, pare, a nessun'altra
interpretazione.
8 - 1?
to ad andare a cercar lontano il pensiero di Paolo, in qualche
parte nei supposti meandri della sconvenienza di seconde
nozze possibili, o forse già fatte, per quanto riguardava i can
didati al servizio pastorale dell'assemblea. Il vero senso del
la formula paolina deve trovarsi molto più vicino.
Checché se ne sia pensato, la fattura letteraria dell'espres
sione non mette forse questo significato più a portata di ma
no? Se dico di qualcuno che è «l'uomo di un solo libro»,
nessuno pensa di prendere l'espressione alla lettera. Tutti
sanno, invece, che si tratta di un comportamento, di un at
teggiamento, e per niente di una proprietà. Se dico di un uo
mo d'azione che per tutta la sua vita fu <d'uomo di una sola
idea», o se dico di un amico su cui posso contare senza ri
serva: «è un uomo che non ha che una parola», si capisce
subito che si tratta, nel primo caso, di una vita tutta centrata
sulla realizzazione di un grande progetto di gioventù, e, nel
secondo, di una fedeltà che niente distoglie da ciò che è stato
una volta promesso.
Per analogia, non è troppo difficile, in questa linea, scor
gere dietro l'espressione «marito di una sola donna», mias
gynaìkòs anér, il marito «dedicato completamente alla sua
sposa». Ora, questo è, di fatto, il senso che sembra, e di gran
lunga, il meglio comprensibile nel contesto. Se ci si lascia
guidare dal pensiero generale dell'istruzione di Paolo, si sco
pre presto, in effetti, che qui deve trattarsi non di un avveni
mento che appartiene al passato dell'individuo e che rifluisce
di colpo sul presente per mettere un ostacolo inatteso al ser
vizio dell'assemblea (le seconde nozze), ma piuttosto di un
comportamento presente che deve entrare in maniera natu
rale nell'insieme delle qualifiche richieste per il servizio pa
storale deU'ekklésìa.
E non è forse questo, esattamente, ciò che vuol dire la no
stra formula se la si comprende applicata al marito «dedica
to completamente alla sua sposa»? Insomma, ciò che Paolo
vuol dire qui dei servi dell'assemblea, è che essi offrano anzi
tutto la testimonianza di una vita matrimoniale armoniosa e
stabile. Che tale matrimonio sia il primo o il secondo, importa
poco. Non è questo l'essenziale. Nella stessa linea di pensiero,
vediamo, di fatto. Paolo che in seguito domanda che i servi
delVekklèsìa abbiano anzitutto dato prova di saper governare
la propria casa. Nell'un caso come nell'altro, ciò che si vuole
è dunque un'assicurazione di dignità e di efficacia per il
servizio pastorale stesso. E una maniera d'interpretare
semplice, realista, e fondata.*"
Se ce ne fosse bisogno, del resto, tale interpretazione po
trebbe essere ulteriormente confermata dal parallelismo di
monandrós (latino: univira), «donna di un solo marito» e di
mias gynaikòs anér, «marito di una sola donna». Di regola
generale, nelle iscrizioni giudaiche e pagane dell'epoca, mon
andrós e univira sono degli elogi. Ora, in tutta ipotesi, la
sposa defunta che è lodata per essere stata monandrós, o uni
vira, non è certamente elogiata per non aver mai contratto
seconde nozze, come è particolarmente chiaro nel caso in cui
l'elogio è fatto dal marito sopravvissuto, ma piuttosto, secon
do ogni verosimiglianza, per essersi dedicata interamente al
suo sposo.^ È la sola interpretazione possibile.
Dev'essere anche il senso della formula paolina: mias gy-
naikós anér, «sposo d'una sola moglie», intendiamo «dedi
cato interamente alla sua sposa». Ma se questo è il senso del
la formula, la considerazione speciale delle seconde nozze di
venta semplicemente fuori di proposito. Ciò che Paolo po
teva dire al riguardo dev'essere cercato altrove.
®Rom. 16,3; Prisca e Aquila; 1 Cor. 16,19: gli stessi; Col. 4,15:
Ninfa; Fileni. 2: Filemone e Appia.
pastorale rivestiva per ciò stesso un grandissimo valore 'apo
stolico'. DaH'intemo dell'assemblea essa preparava le vie al
lo, stesso messaggio. Per una parte certamente considerevole
è, infatti, proprio grazie all'accoglienza pastorale occasiona
ta: dall'assemblea che il Vangelo penetrò in maniera straor
dinariamente rapida nella massa delle popolazioni urbane
del tempo.
Noi siamo lontani, lontanissimi. Alla distanza a cui siamo,
la maggior parte di noi sospetta appena l'esistenza di tali
cose. Esse sono esistite, comunque, e per il progresso della
speranza del Vangelo, esse sono state di un valore eccezio
nale, forse insostituibile.
- Abbiamo ancora sotto gli occhi i testi che testimoniano la
loro grandezza e vitalità, ma non riusciamo più molto bene -
a renderci conto dei loro contorni. Ogni sorta d'immagini^
più o meno stereotipate, più o meno anacronistiche, s'in
terpongono tra la realtà presente e il servizio pastorale pri
mitivo. I piani si confondono. I suggerimenti di una tradi
zione che potrebbe essere ancora creatrice si disperdono per
strada.
.Cosi, è vero che noi leggiamo che Paolo desiderava vedere
alla testa àsU'ekklèsìa uomini 'ospitali', cioè dotati di tutte
quelle qualità che rendono autentica l'ospitalità (z Tim. 3,2-
3; Tito 1,7-9), comprendiamo bene quello che leggiamo?
Vediamo che si tratta di ospitalità, e subito pensiamo ai
viaggiatori. Il legame diretto che univa questa 'ospitalità' al
quadro domestico originale dell'assemblea come all'esercizio
concreto dell'insieme del servizio pastorale primitivo, ci
sfugge, e noi parliamo di un'altra cosa. ...::E tuttavia questo
stile pastorale non solo è esistito, ma è durato per un po' di
tempo. Possiamo dire senza timore di un grave errore che
esso ha fatto sentire la sua azione per più di due secoli senza
subire alterazioni sostanziali. Per
terminare questa lunga analisi, in cui i documenti primitivi
hanno presentato sovente alla nostra considerazione il ma
trimonio e la casa, non saprei far meglio che offrire qui una
ultima testimonianza dell'antica ospitalità pastorale.
Il documento può essere collocato verso la metà del III
secolo. Il suo orizzonte immediato è verosimilmente quello
della Siria. Per l'essenziale, le usanze pastorali di cui testi
monia risalgono tuttavia molto più indietro del tempo di
composizione dell'opera. Possono anche, nelle loro grandi
linee, riflettere abbastanza fedelmente lo stato di cose dei
primi tempi. Si può credere, anche, che le usanze della Siria
erano strettamente apparentate, allora, con quello che ha
dovuto essere la pratica ordinaria di tutta la Chiesa.
Nel III secolo, è vero, il luogo dell'assemblea non è più, di
regola generale, la casa di questo o quell'altro membro
lelYekklèsia. Non è più dunque, propriamente parlando, una
casa di famiglia. Nella maggior parte dei casi si tratta di
un'antica abitazione già più o meno adattata, trasformata, e
spesso ingrandita in vista dei bisogni specifici dell'assemblea
cristiana. Di conseguenza, la 'Chiesa', come s'incominciò a
dire allora, pur conservando la fisionomia generale di una
vera domus ecclesìae, o óikos ekklèsias, è diventata, di fatto,
un luogo fìsso d'incontro e, almeno per principio, costan
temente disponibile, non richiedendo quindi più, per sé, le
molteplici attenzioni personali che avevano costituito l'ospi
talità pastorale primitiva. Non è peraltro senza interesse no
tare che, oltre allo spazio previsto per l'assemblea, la 'Chie
sa' di quel tempo tende sempre più a inglobare diversi locali
dove può abitare una parte più o meno considerevole dei
responsabili del servizio pastorale: vescovo, preti e diaconi.
Generalmente, lettori e altri aiutanti continuano, tuttavia, a
vivere tra la massa della popolazione.
Ora, malgrado tante trasformazioni avvenute nel quadro
esteriore deH'assemblea, è ancor più significativo osservare
fino a qual punto l'ospitalità pastorale era allora rimasta vi
vace nella coscienza e negli usi della Chiesa. L'autore ano
nimo della Didascalia degli apostoli vi consacra un lungo
passo nelle istruzioni rivolte ai vescovi del suo tempo. Senza
dubbio, per la natura stessa del genere letterario, il quadro
che ci dipinge in questa occasione è idealizzato. E un pro
gramma che ci vien messo sotto gli occhi. Ma, per conservare
le sue possibilità di efficacia concreta, tale programma doveva
naturalmente proporre un comportamento pastorale ancora
possibile alla maggior parte. Attraverso l'ideale ricercato
dall'autore, possiamo dunque intrawedere dei fatti che
dovevano essere abbastanza familiari a molti dei suoi con
temporanei. Mi si permetterà di citare qui quasi per intero
questo documento, per la ricchezza dei suoi particolari, per
la sua potenza suggestiva, e anche per la sua autentica e
semplice bellezza.
«Voi dunque, o vescovi, — scrive il nostro autore, proba
bilmente vescovo lui stesso, — non siate duri, né crudeli, né
irrascibili, né troppo severi nei riguardi del popolo di Dio
che è affidato alle vostre cure. Non distruggete la casa del
Signore e non disperdete il suo popolo. Cercate piuttosto di
ricondurre ciascuno, cosi da poter essere dei (veri) coopera
tori di Dio. Radunate i fedeli con grande umiltà, con indul
genza e pazientemente, senza collera, con l'istruzione e l'e
sortazione, come dei servi del regno eterno.
Nelle riunioni delle vostre sante Chiese, disponete le vo
stre assemblee con la più grande attenzione, assegnando il
loro posto ai fratelli con cura e discernimento. Che i pre
sbiteri (anziani: consiglieri del vescovo) abbiano il loro po
sto al centro della parte orientale della casa; che la cattedra
{thrónos: cathedra) del vescovo sia posta in mezzo a loro, e
che i presbiteri siedano con lui. Poi, che gli uomini nello
stato laico abbiano il loro posto in un'altra parte della casa,
ill'est. Dev'essere cosi: i presbiteri siederanno con il vesco
vo, poi gli uomini nello stato laico, infine le donne, in ma
niera che, al momento di alzarsi per pregare, i capi dell'as
semblea si alzino per primi, poi gli uomini, infine le donne.
Voi dovete, in effetti, pregare in direzione di levante, cono
scendo ciò che è scritto: 'lodate Dio che cavalca nel più alto
dei cieli, verso l'oriente' (Sai. 68,34).
Quanto ai diaconi, che uno di loro si tenga costantemente
vicino ai doni deH'eucaristia, un altro si tenga fuori, vicino
alla porta, e osservi quelli che entrano. Ma poi, al momento
dell'oblazione, essi facciano insieme il loro servizio nella
Chiesa.
Se qualcuno (nell'assemblea) non si trova al suo posto, il
diacono che si trova all'interno lo avverta, lo faccia alzare e
lo mandi a sedersi al luogo che gli spetta. (La natura stessa
ci dà l'esempio dell'ordine). Cosi bisogna che nella chiesa i
giovani siano a parte, seduti, se c'è posto, altrimenti in piedi.
Quelli che sono più avanzati in età si siederanno a parte, di
fianco, in modo che i loro padri e le loro madri li prendano
con sé, e che essi restino in piedi. Anche le giovani saranno a
parte, e, se manca il posto, esse staranno in piedi dietro alle
donne. Le giovani spose che hanno dei bambini si terranno a
parte, le donne anziane e le vedove saranno pure a parte,
sedute.
Il diacono (che sta alla porta) starà attento a che ciascuno,
entrando, vada al suo posto e non si sieda altrove. Il diacono
starà anche attento a che nessuno chiacchieri, dorma, rida o
faccia dei segni. Poiché bisogna che ciascuno stia attento in
Chiesa, con compostezza e dignità, e che non abbia orecchie
che per la parola del Signore.
Se arriva un fratello o una sorella di un'altra assemblea,
che il diacono (la) interroghi per sapere se è sposata, o se è
una vedova credente, se è una figlia della Chiesa, o se per
caso essa appartiene all'eresia; poi la guidi e le assegni un
posto conveniente. Se si presenta un presbitero che viene da
un'altra assemblea, tocca a voi, presbiteri, riceverlo, dando
gli un posto tra voi. Se è un vescovo (che arriva), sieda col
vescovo, e che questi lo tratti con l'onore dovuto al suo
rango, come un altro se stesso. L'inviterai, o vescovo, a par
lare al tuo popolo, perché l'esortazione e il rimprovero dei
forestieri è molto utile, poiché sta scritto: 'non c'è profeta
che sia ben accolto nella sua patria'. Poi, al momento di of
frire l'eucaristia, egli prenda la parola (per pronunciare l'a
nafora). Ma se è un riservato, se ti lascia questo onore e non
vuole offrire, prenda almeno la parola per il calice.
Se capita, d'altra parte, che voi siete seduti e qualcuno si
presenta, uomo o donna, che abbia degli onori nella società,
- sia del posto o di un'altra assemblea, - allora tu, o vescovo,
se stai proclamando la parola di Dio, se stai ascoltando o se
stai facendo la lettura, non abbandonarti al favoritismo, non
lasciare il servizio della parola per trovare tu stesso a loro un
posto; resta tranquillamente là dove sei e non interrompere il
tuo discorso: siano i fratelli a riceverli. Se non c'è più posto,
uno dei fratelli che è pieno di carità e di affetto fraterno, e
che è disposto a fare questo onore, si alzi e gli ceda il posto.
E lui stia in piedi. Se i giovani e le giovani restano seduti,
mentre un uomo o una donna anziana si dispongono a cedere
il loro posto, allora guarda, o diacono, tra quelli che sono
seduti per vedere chi è più giovane degli altri; chiedigli di
alzarsi e di far sedere la persona che si era alzata per offrire
il suo posto; poi prendi quello che hai fatto alzare e mettilo
in piedi dietro il gruppo affinché gli altri ne abbiano una
lezione e imparino a cedere il loro posto a persone più
degne.
«Ma se arriva un povero, uomo o donna, della stessa as-
9 - 12
mento delle strutture dell'istituto familiare nel quale s'intrc-
duceva, - il che sarebbe stato, in ogni caso, una politica ab
bastanza strana! - cercò invece, in maniera evidente, di ap
poggiarsi su quelle stesse strutture e ciò che esse potevano
offrirgli di più solido e di più continuo.
A questo proposito, le raccomandazioni paoline relative
alla scelta degli episcopi, presbiteri e diaconi, non danno luo
go, crediamo, ad alcun equivoco. Esse significano che, agli
occhi dell'apostolo, il quadro domestico, con la sua rete vi
vacissima di relazioni umane, con le usanze particolarmente
ricche e fisse della sua ospitalità, con il matrimonio che ne
costituiva la realtà essenziale e permanente, vera scuola di
governo e di servizio dei piccoli gruppi, rappresentava allora
la sola possibilità concreta e tangibile per Yekklèsia, e per il
servizio locale della parola, e per il servizio frequente
dell'eucaristia, e per il servizio costante dell'aiuto vicendevole
sotto le sue molteplici modalità.
' Atti del martirio di Giustino, Roma, verso il 165: «Il prefetto
domandò in quale luogo si riunissero i cristiani. Ciascuno va, rispose
Giustino, al luogo di una scelta, secondo le possibilità», 2; cfr. I p p o l i t o ,
Tradizione apostolica, verso il 215: «Fin dal risveglio, quando si alzano,
i fedeli, prima di attendere alle loro occupazioni, preghino Dio e poi si
diano al loro lavoro. Ma se c'è (servizio della) parola con istruzione, gli
si dia la preferenza: si vada ad ascoltare la parola di Dio per rafforzare la
propria anima. Ci si affretti ad andare aR’ekklèsia dove abbonda lo
Spirito», 31-35; «Che i diaconi e i preti si riuniscano ogni giorno nel
luogo che il vescovo avrà loro designato. I diaconi, in modo particolare,
non trascurino di riunirsi ogni giorno, a meno che la malattia sia loro
d'impedimento. Poi, quando avranno tenuto tutti insieme la loro
riunione, istruiscano - o: vadano ad istruire, - quelli (dei fedeh) che sono
aU'ekklésia. E dopo aver pregato, ciascuno vada per i suoi affari», 33-
39; ed. Dix, pp. 57-58; 60; ed. Botte, 1963, pp. 83,87.
diventava possibile una più grande regolarità nelle riunioni;
la sistemazione dei luoghi permetteva di aumentare l'impor
tanza dei gruppi; l'allontanamento, già più o meno marcato,
dal quadro domestico originario annunciava un dissolversi,
lento ma sicuro, delle antiche usanze dell'ospitalità pastorale,
e la loro eventuale sostituzione con altre forme
d'accoglienza, più ridotte, più impersonali, più vicine anche
a ciò che si praticava di solito nei luoghi di adunanze pubbli
che. D'altra parte, una volta fissato nello spazio, il luogo del
l'assemblea poteva attirare a sé, nella coscienza dei fedeli e
dei pastori, la qualità estremamente prestigiosa che andava
unita in generale ai luoghi di culto: il carattere sacro.
Era già una cosa enorme. Ma non si fermavano qui le pos
sibilità di trasformazione che la fissazione del luogo dell'as
semblea portava con sé. Tale fissazione invitava subito a rag
gruppare tutti i principali responsabili dél'ekklesia nelle
vicinanze immediate del luogo in cui si tenevano le assem
blee. Di colpo veniva a presentarsi una possibilità concreta
al progressivo stabilirsi di un più alto grado d'organizzazio
ne del servizio pastorale. Per intanto era la gerarchizzazione
delle funzioni e dei poteri locali che trovava un'occasione fa
vorevole per affermarsi. L'abbiamo già notato, la domus ec-
clesiae del III secolo cessa a poco a poco di essere un sem
plice complesso di sale destinate al culto, per diventare un
insieme nel contempo cultuale e domiciliare, dove i princi
pali responsabili leU'ekklèsia vivono vicini gli uni agli altri,
e tutti relativamente vicini al luogo del loro servizio. Là
dove, un po' più tardi, la basilica subentrerà al posto della
domus ecclesiae, la stessa tendenza al raggruppamento pasto
rale sarà, del resto, generalmente conservata.
N e l m o m e n to in cui l'id e a le d ello 'stato ' di p e rfe z io n e n a
to, essen zialm en te, d all'ascetism o e dal m onacheS im o c o m in
ciò a in tro d u rsi nel serv iz io deH'ekklèsta, esiste v a n o d u n q u e
delle condizioni pronte a servirlo nella disposizione stessa dei
luoghi e nel desiderio di raggruppamento pastorale che vi
aveva già messo radice. Un passo in più, e si avrà un ideale
esplicito di 'vita comune' (vita communis), che informa dal
l'interno il servizio pastorale stesso. Basterà qui ricordare,
per l'Occidente, gli esempi di un Eusebio di Vercelli in Ita
lia, di un Martino di Tours in Gallia, e soprattutto di un
Agostino d'Ippona in Africa.
Per quanto importante possa essere stato, il duplice fatto
re della formazione dell'ideale monastico e del desiderio di
raggruppamento pastorale non basta, tuttavia, a spiegare co
me all'inizio del IV secolo, una regolamentazione come quella
di Elvira abbia potuto fare della continenza coniugale un
obbligo rigorosamente imposto a tutti i vescovi, preti e dia
coni a partire dal momento in cui essi accedevano alle rispet
tive funzioni nel servizio deU'ekklèsia. L'ideale monastico
restava, in effetti, una scelta personale. Da parte sua, il rag
gruppamento pastorale attorno al luogo dell'assemblea non
implicava, per sé, né la 'vita comune' propriamente detta, né
tanto meno la continenza coniugale obbligatoria. Ci fu
dunque un altro fattore che entrò in gioco. E, in verità, fu
quello decisivo.
Tale fattore, lo sappiamo già, fu l'incontro all'interno
stesso della coscienza pastorale, della duplice percezione del
l'impuro e del sacro: il primo si presentava, oscuramente,
sotto le specie dell'esercizio della sessualità, e il secondo, in
piena luce, sotto le specie del servizio dei sacramenta. Ora,
è chiaro che un tale incontro era, fin dall'inizio, essenzial
mente un incontro di conflitto. Il desiderio pastorale di ono
rare i sacramenta arrivò dunque un giorno a un punto in cui
non poteva più ispirare che una cosa: l'esclusione totale del
l'esercizio di quella sessualità in cui non si vedeva più troppo
chiaramente come potesse non esserci la vergogna di una
certa contaminazione. Una vera legge di continenza coniu
gale, imposta a tutti i chierici impegnati nel servizio diretto
dei sacramenta, sembrò dunque offrire una disposizione con
veniente. È la regolamentazione di Elvira.
Ma, a partire da questo punto, sarà più utile riprendere le
cose sotto un altro aspetto
LA SACRALIZZAZIONE
DEL SERVIZIO PASTORALE
E LE ORIGINI DELLA LEGGE
DEL CELIBATO ECCLESIASTICO
1/ Servizio e sacerdozio
Cfr. Gv. 4,21-24 «Credimi, donna, l'ora verrà in cui voi non ado
rerete il Padre né su questa montagna né a Gerusalemme...». Si penserà
anche, nello stesso senso, all'importantissima idea primitiva del
'sacrificio di lode', vero centro del culto cristiano (Ebr. 13,15; Dida-ché,
14,3).
in maniera sorprendente, quello che Paolo aveva già usato
nella questione più generale dei rapporti tra la legge e la giu
stificazione gratuita che il 'Vangelo di Dio' offre a tutti in
distintamente nella fede in Gesù, morto e risuscitato. Cristo
e Signore. La legge c'è, è vero, spiega Paolo, ma, prima della
stessa legge, Dio ci aveva dato, nella persona di Abramo il
modello annunciatore di un'altra giustizia, migliore di quella
che possiamo ottenere con la nostra fedeltà alla legge:
giustizia gratuita attraverso la fede nel Cristo Gesù.
Certo, osserva da parte sua l'autore della Lettera agli
Ebrei, ci sono il santuario, il sacerdozio nato da Aronne e i
sacrifici, ma, aggiunge in sostanza l'autore, Dio non ci ha
forse dato, nella persona di Melchisedech, il modello annun
ciatore di un altro sacerdozio, più elevato e più perfetto di
quello di cui il Tempio offriva l'esempio? In realtà, Gesù,
Cristo e Signore, ha ricevuto nella sua morte e nella sua ri
surrezione un sacerdozio migliore di quello d'una volta: «san
to, immacolato, separato dai peccatori», liberato dalla neces
sità di un rinnovamento quotidiano del sacrificio, poiché in
lui, il nostro sacrificio è stato offerto «una volta per tutte»,
ed è stato gradito a Dio {Ehr. 7,1-28). Gesù è 'sacerdote'
(hieréus), il nostro unico 'sommo sacerdote' (archieréus) per
l'eternità «secondo l'ordine di Melchisedech».
Se si aggiunge a questo la grande idea che la Chiesa tutta
intera, nata daH'avvenimento dell'annuncio evangelico, for
ma un «nuovo sacerdozio regale... per proclamare le grandez
ze di colui che ci ha chiamato» (1 Pt. 2,9), si avrà l'essenzia
le della nostra più antica tradizione per quel che riguarda il
'sacerdozio' cristiano.
Si può misurare, d'altra parte, la distanza che separa il
nuovo 'sacerdozio', estremamente semplificato e 'spiritualiz
zato', dall'apparato sacrale in cui si muoveva ancora il sa
cerdozio aronitico. In fondo, si potrebbe dire che la sempli
ficazione del 'sacerdozio' nuovo era uguale a quella del nuo
vo 'sacrificio': fin dall'inizio s'era stabilito un equilibrio tra
l'uno e l'altro, e in maniera, in qualche modo, naturale e ne
cessaria. Cosi avvenne che la Chiesa ebbe all'origine molti
'servizi'. Questi 'servizi' non costituivano tuttavia, propria
mente pariando, una 'gerarchia sacerdotale', analoga alla ge
rarchia levitica, in cui i responsabili dei 'servizi' sarebbero
stati rivestiti, in maniera permanente e indissociabile, del ca
rattere sacro.
^Tradizione apostolica, II-III; ed. Dix, pp. 2-6; ed. Botte (1963), pp.
5-11. Gli editori parlano bellamente di 'consacrazione' del vescovo:
vanno troppo in fretta. Le cose sono lontane dall'essere cosi chiare.
4/ La sacralizzazione progressiva
del servizio pastorale
«Tu sei dunque stato scelto nella folla dei figli d'Israele, sei sta
to considerato come il primogenito tra i frutti sacri...» si tratta del
diacono! {De officiis ministrorum, I, 50 (250).
A m b r o g i o , Exhortatio virginìtatìs: «Óra (che Adamo ha peccato
ed Èva è stata punta dal serpente con il veleno della lubricità), anche
se il matrimonio è buono, esso comporta tuttavia tali cose da far ar
rossire tra loro gli stessi sposi» (VI, 36).
Tra gli altri, l'importante lettera (decretale) di Siricio a Imero di
Tarragona (385): «Veniamo ora agli ordini sacratissimi dei chierici {ad
sacratissimos ordines clerkorum)... Abbiamo saputo che un gran nume
ro di preti e diaconi, molto tempo dopo la loro consacrazione {post
Era tuttavia necessario sottolineare qui un punto che sem
bra essere stato generalmente trascurato nella storia delle ori
gini del celibato ecclesiastico. In ogni caso, non vorrei in al
cuna maniera suggerire l'idea che la sacralizzazione progres
siva del servizio pastorale della Chiesa, dalla fine del II seco
lo, e l'incontro di questo fenomeno generale di sacralizzazio
ne con l'ambivalenza fondamentale della percezione di una
'impurità' praticamente indissociabile da ogni manifestazio-
SERVIZIO PASTORALE,
COMUNITÀ DI BASE E
ASSEMBLEA LITURGICA
4/ Alcuni suggerimenti
Il nostro compito qui non è che quello di suggerire: non
abbiamo voluto far altro. Tenuta presente questa premessa,
che è modesta, forse, ci sia tuttavia consentito di essere
espliciti.
In primo luogo, l'abbiamo già detto, ciò che sembra ne
cessario è una riconsiderazione, lucida e coraggiosa, delle
dimensioni e delle strutture della nostra 'comunità di base'.
Abbiamo conosciuto, per parecchi secoli, qualcosa di diver
so da quello che abbiamo oggi. Ci sembra, dunque, a questo
proposito, particolarmente augurabile che si tomi a ispirarsi
all'antica domus ecclesiae, per liberarci, se è necessario, dai
condizionamenti e dalle pesantezze della storia. E non si
tratta qui di risuscitare un passato ormai finito: si tratta di
domandare alla nostra tradizione, riscoperta con una mag
giore pienezza, dei suggerimenti liberatori per l'avvenire.
Non si voglia ritenere, d'altra parte, che, ricordando il
modello della domus ecclesìae, io pensi a chiudere le nostre
grandi chiese, lontane eredi delle creazioni del IV e V se
colo. Quello a cui penso è la creazione di un' 'assemblea'
{ekklèsìa) intermediaria tra la famiglia e la 'grande assem
blea' come la conosciamo oggi. Il principio che presiedereb
be alla formazione di questa ekklèsìa sarebbe l'antico uso della
coincidenza virtuale tra 1' 'assemblea liturgica' e la 'comunità
di base'.
Una tale 'assemblea' intermediaria, inoltre, potrebbe essere
considerata come la nostra vera 'comunità di base', flessibile,
mobile, diversificata, vicina alle realtà umane. Il suo
appoggio sociologico dovrebbe essere quello formato dai
gruppi naturali costituiti dalla famiglia e dalle relazioni im
mediate che questa ha per la parentela, la vicinanza, l'ami
cizia, il servizio, il divertimento e il lavoro. Dal punto di
vista del numero, una tale 'assemblea' dovrebbe essere sulla
misura dell'abitazione comune, qualunque ne sia il tipo
concreto.
Potremmo tornare all'antica usanza che adattava 1' 'assem
blea' alle possibilità interne dei segni cultuali, piuttosto che
adattare i segni cultuali all' 'assemblea'. Formati da lunghe
abitudini fissate nelle rubriche e nei monumenti, dimenti
chiamo troppo spesso che i segni del nostro culto, in partico
lare quelli che costituiscono e accompagnano l'eucaristia, so
no nati, per gran parte, nel quadro ristretto dell'universo
domestico. Gesù ha celebrato la sua ultima pasqua in una
'camera alta' seguendo le usanze dell'ospitalità.^ E dimenti-
® Cfr. i Tini. 3,2 e Tito i,8 a proposito delle qualità d"ospitalità'
àùYepìskopos.
chiamo anche, troppo spesso, che i più importanti segni del
nostro culto, in ragione della loro origine e della loro stessa
natura, non sono estensibili aH'infmito, né, di conseguenza,
indifferentemente adatti a qualsiasi assemblea, di qualsiasi
estensione e di qualsiasi struttura.
Dire questo significa per ciò stesso dire che la nuova 'co
munità di base' dovrebbe avere una sua propria liturgia. A
questo proposito, sarebbe del tutto insufficiente pensare, per
esempio, a una semplice 'riduzione' dell'attuale liturgia della
'grande assemblea'. La nostra tradizione pastorale, meglio
compresa, dovrebbe permetterci di creare forme liturgiche
adatte all'universo cultuale a cui pensiamo.
In una tale liturgia, 1' 'accoglienza' pastorale, cosi impor
tante sia per l'amore fraterno che per la formazione del-
T'assemblea', dovrebbe diventare nuovamente e pienamente
possibile. Oggi sappiamo quanto tale 'accoglienza' pastorale
sia resa difficile nelle nostre grandi Chiese. Ora, forse è
proprio qui che si crea attorno al prete un certo isolamento e
cosi si scava un fossato tra lui e quelli di cui ha la respon
sabilità pastorale. Abbiamo il coraggio di riconoscerlo: senza
che se ne abbia coscienza e contro le loro intenzioni, sono
proprio le forme liturgiche che, per una parte, fanno nascere
e mantengono tra noi la separazione.
Dotata di una liturgia propria, Yekklèsia di base dovrebbe
naturalmente avere anche un servizio pastorale particolare.
Va da sé che un tale servizio verrebbe ad essere molto este
so, e magari può strutturarsi in modo differente dal servizio
pastorale esistente nelle grandi assemblee delle nostre Chie
se. Per gli incaricati del servizio pastorale àQWekklésìa di
base sarebbe richiesto un ritorno alla libertà primitiva. Non
si tratta di chiederci quello che sarebbe meglio in sé: si trat
ta di sapere se siamo in grado di rispondere alle presentì ne
cessità della Chiesa. Nonostante ammirevoli e ancora im
mense riserve d'invenzione e di generosità, bisogna ricono
scere che siamo travolti da tutte le parti. E tutto quello che
possiamo prevedere è che le necessità pastorali saranno an
cora più grandi domani. Queste necessità stanno in primo
piano: esse devono illuminare le nostre ricerche, anche se le
decisioni rimangono dell'autorità competente. Dopo tutto,
non sembra che lo stesso Gesù abbia pensato diversamente
quando si è circondato di discepoli e ha unito a sé i Dodici.
Per finire, diverse modalità di coordinazione potrebbero
essére previste nei rapporti della nuova 'comunità di base'
con la 'grande assemblea', sia per quel che riguarda la litur
gia che per quel che riguarda la ripartizione delle responsa
bilità pastorali. Questa ridistribuzione deH'infi-astruttura ec
clesiale potrebbe peraltro operarsi, pare, senza mettere tutto
sottosopra. Cosi si potrebbero conservare, in particolare, i
valori specifici e autentici della 'grande assemblea'.
A questo proposito disponiamo, inoltre, di un esempio
storico nella nostra stessa tradizione pastorale. Tutti sanno,
infatti, che la parrocchia attuale risulta da un lungo trasfe
rimento di responsabilità di cui si è poco a poco liberata la
chiesa cattedrale del vescovo, sotto la spinta, appunto, di
necessità nuove. Ciò che si vorrebbe suggerire qui a favore
della nuova 'comunità di base' è un trasferimento di respon
sabilità pastorali analogo a quello che abbiamo conosciuto,
di fatto, nel passato. Soltanto, questa volta, non bisognereb
be che il cambiamento ci occupasse per un altro intero mil
lennio. Per un gran numero di uomini e di donne ai quali si
offre, da parte di Dio, la buona novella di una speranza di
vita, potrebbe essere già tardi adesso. Il tempo stringe.
L'amore dei nostri fratelli uomini non dovrebbe spingere
anche noi, e nella stessa direzione?
CONCLUSIONE
• INDICE
Introduzione..................................................................... 19
PARTE PRIMA
LA CASA E IL MATRIMONIO NEL SERVIZIO
PASTORALE DELLA CHIESA PRIMITIVA
I. Seguendo la storia.
1 /Secoli 11 e in ............................................................................. 33
2/ Dal secolo iv al medioevo......................................................... 40
3/ Riflessioni sul concilio di Elvira (sec. iv) ............................. 43
PARIEffiOCNDAIERI,
OGGI, DOMANI
Questo volume
QUERINIANA