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Jean-Paul Audet

MARIAGE ET CÉLIBAT
dans le servìce pastoral de Téglise
MATRIMONIO E CELIBATO
NEL SERVIZIO PASTORALE
DELLA CHIESA
Storia e orientamenti

Editoriale di T ullo G offi Traduzione


dal francese di D omenico P ezzini

JEAN-PAUL AUDET

QUERINIANA - BRESCIA
VIA PIAMARTA, 6
Titolo originale:
Manage et célibat dans le Service pastoral de l'Église. '
' Histoire et orientations Gerusalemme 1965

61BÙ0TECAJ:

Nihil obstat: sac.


Luigi Fossati
Brixiae, 21.4.1967

Imprimatur:
f Aloisius Morstabilini
Brixiae,. 22.6.1967
© 1966 by IDÓ-C (Roma) © 1966 by
Editrice Queriniana (Brescia)

Stampato nella Tipografia Queriniana di Brescia, nel luglio 1967


Tulio Goffi
Editoriale
è nato a Prevalle (Brescia) nel 1916. Laureato in utro-que
iure alla pontificia Università Lateranense, insegna
teologia morale e spiritualità al Seminario teologico di
Brescia, ed è incaricato di corsi alla Facoltà teologica di
Milano.
Tra le sue opere ricordiamo: L'animo scrupoloso, Ed. Vita
Spirituale, Roma 1958; Morale familiare, Morcelliana,
Brescia 1958, 1962^; Laicità politica e Chiesa, Paoline,
Roma 1961^; Amore e sessualità. La Scuola, Brescia 1965^;
Obbedienza e autonomia personale. Àncora, Milano 1967^;
Spiritualità familiare, Sales, Roma 1966 ; L ’interazione
affettiva del sacerdote, Queriniana, Brescia 1967 ; ha di­
retto L'enciclopedia del matrimonio, Queriniana, Brescia
1965^. È inoltre presidente dell'Associazione moralisti
italiani.
Il presente studio, attuato dall'Audét in servizio dei Padri
riuniti in Concilio, è risultato una pregevole ricerca critica
sul celibato ecclesiastico, e conserva valore al di fuori 'iella
circostanza per cui è stato scritto.

1/ Significato dello studio dell’A udet

L'Audet tratteggia, con vivacità amabile, il dinamismo pa­


storale dei primi tempi cristiani: un servizio ecclesiale ap­
propriato alla 'Chiesa domestica', radicato sulla stessa affet­
tività dei rapporti familiari, e capace di sviluppare nell'as­
semblea cristiana un fascino di carità intima e profonda.
Entro questa visione pastorale, veramente incantevole, viene
ricercato il significato autentico del celibato ecclesiastico.
L'Audet giunge alla stessa conclusione ribadita dal con­
cilio Vaticano II: «Certamente la perfetta e perpetua conti­
nenza non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come
risulta evidente dalla prassi della Chiesa primitiva {i Tim.
3,2-5; Tit. 1,6)» (Deer. Presbyterorum Ordinis, 16). La pre­
sente conclusione induce forse a dover proclamare che il ce­
libato ecclesiastico è in opposizione con la carità pastorale
fiorente nel primitivo cristianesimo? Tale istituzione esige
di essere superata per poter rivivere oggi ancora lo spirito
profetico dei primi cristiani? L'imposizione ecclesiastica del
celibato ha contribuito ad adombrare la vitalità apostolica
ecclesiale d'allora?
Se è lodevole nutrire senso critico verso le attuali consuetudini
ecclesiastiche, così da confrontarle con i valori diffusi nella
comunità cristiana primitiva, non bisogna dimenticare che la
stessa Chiesa è chiamata a fiorire, nello scorrere dei secoli, in
modalità sociologiche nuove. I doni dello Spirito sono sempre
operanti nella comunità ecclesiale, e possono aprirla verso
istituzioni nuove, magari non vissute neppure nella comunità
cristiana primitiva. Una nuova istituzione, non avvalorata presso
la cristianità apostolica, può ugualmente essere un frutto della
carità autentica. Lo Spirito permane presente, in forma riccamente
innovatrice, nella sua Chiesa.
La Chiesa d'oggi non può racchiudersi entro l'ambito, sia pure
meraviglioso, della primitiva comunità ecclesiale. «È dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi, di
interpretarli alla luce del Vangelo» (Cost. Gauàìum et Spes,4), e
di uniformare la sua missione apostolica ad essi. E lo spirito
ecclesiale, presente nel concilio Vaticano II, interpretando i segni
dell'attuale cristianità, ha potuto testimoniare che la continenza
perfetta e perpetua «ha per molti aspetti un rapporto di
convenienza con il sacerdozio» (Decr. Presbyterorum Ordinis,
16).
L'Audet, con chiarezza, fa risaltare come all'inizio il celibato
ecclesiastico sia stato occasionato da una deprecabile confusione
esistente fra sessualità e impurità. La dimostrazione dell'Audet è
storicamente esatta. Il celibato ecclesiastico ha rappresentato la
ripulsa del sacro di fronte a qualcosa ritenuto impuro.
Ma per apparire pastoralmente valido, è necessario che il
celibato ecclesiastico sia stato introdotto per un motivo au-

io I T. Goffi, Editoriale
tentico? E se, all'inizio, esso fosse stato giustificato in modo
erroneo, rimarrà inquinato e contaminato per sempre?
In vero, è sufficiente che il celibato sacerdotale abbia di fatto
palesato la sua bontà nell'esperienza plurisecolare della vita
ecclesiale. E il concilio Vaticano II ha potuto testimoniare: «Esso
è segno e allo stesso tempo stimolo della carità pastorale, e fonte
speciale di fecondità spirituale nel mondo» (Decr. Presbyterorum
Ordinis, 16). '
Oggi, poi, gli antichi pregiudizi sulla sessualità, che avevano
favorito l'introduzione della legge del celibato ecclesiastico, sono
stati definitivamente riprovati (cf : Cost. Gau-dium et Spes, 49;
Decr. Optatam totius, io). La maturità sessuale viene ormai
presentata qual capacità altamente lodevole di dialogo
interpersonale e d'amore oblativo. Lo stesso sacerdote celibe è
invitato a raggiungere la maturità sessuale, impregnandola di
spirito apostolico caritativo (cfr.: Decr. Verfectae Caritatis, 12;
Decr. Optatam totius, 11).
La raggiunta rettificazione sulle motivazioni giustificanti il
celibato ecclesiastico ha grande importanza: serve a schiarire il
significato teologale del celibato stesso, a suggerire i motivi che
devono reggere lo spirito ecclesiastico, a facilitare l'evolversi di
un costume sacerdotale e a orientare in senso più appropriato la
legislazione canonica.
In conclusione, la presente opera dell'Audet, invitando a
rileggere in modo intelligente e responsabile la storia del celibato
ecclesiastico, può servire a rendere questo maggiormente amabile
dal lato umano e cristiano. La continenza sacerdotale viene
ricondotta fra le vicissitudini terrestri del servizio pastorale; viene
ripensata, arricchita e rivissuta con tutti gli apporti della vita
psichica personale e secondo le esigenze ecclesiah.
2/ Il significato del celibato ecclesiastico

Il celibato ecclesiastico come è giustificato dall'odiema co­


munità ecclesiale? Quale messaggio svolge esso presso la cri­
stianità d'oggi? Entro quale visione spirituale deve essere
vissuto dal sacerdote?
Il celibato ecclesiastico è un carisma {Mt 19,12), median­
te il quale il sacerdote è chiamato a vivere in modalità sin­
golare taluni valori, essenzialmente comuni a tutti i cristiani.
Ogni cristiano ha il dovere di amare Dio senza divisione
di cuore e senza coartazione di misura. Questo è fonda-
mentale all'esistenza cristiana in quanto tale; è la necessaria
corrispondenza all'amore con cui Dio in Cristo ci ama.
«Alcuni cristiani sono stati chiamati... perché più facil­
mente con cuore indiviso» (cfr.: 1 Cor. 7,32-34)» si consa­
crino solo a Dio nella verginità o nel celibato» (Cost. Lumen
Gentium, 42). Il celibato offre, quindi, una certa facilità per
realizzare la perfezione della carità, possibile e necessaria per
tutti i cristiani.
E perché il sacerdote è chiamato a esprimere questa mo­
dalità più facile d'amare Cristo con cuore indiviso? Per poter
realizzare pienamente il servizio pastorale, che è un donarsi
all'amore benefico verso Cristo e i fratelli. Il celibato
ecclesiastico non si qualifica cristianamente per il rifiuto dei
beni coniugali e familiari. Difatti lo stato di celibe, in se
stesso considerato, non è uno stato migliore spiritualmente;
anzi, esso potrebbe anche significare una forma di egoismo.
Il celibato ecclesiastico ha valore in quanto indica una mag­
giore disponibilità alle relazioni sacerdotali con Cristo; in
quanto esprime una particolare pienezza d'amore in rapporto
alla dedizione apostolica; in quanto è diaconia in favore
della comunità cristiana.
Ecco perché la rivelazione parla di un celibato «a causa

12 j T'. Goffi, Editoriale


del regno dei cieli» {Mi 19,12), a motivo della «cura delle
cose del Signore» (1 Cor. 7,32), «a causa di Cristo e a causa
del Vangelo» (Afe. 10,29). H celibato ecclesiastico è tutto
raccolto nella carità verso la persona del Cristo e verso l'at­
tuazione del regno dei cieli.
E, tuttavia, non è propriamente il celibato che costituisce
e fonda la relazione personale a Cristo e la disponibilità apo­
stolica: sono impegni già intrinseci al fatto dell'esistenza sia
cristiana che sacerdotale. Lo stato celibatario consente di par­
tecipare a questi valori unicamente in un modo più facile e
più particolare (cfr. Cost. Lumen Gentium, 44). «Col celibato
osservato per il regno dei cieli, i presbiteri si consacrano a
Cristo con un nuovo ed eccelso titolo, aderiscono più facil­
mente a lui con un cuore non diviso, si dedicano più libera­
mente in lui e per lui al servizio di Dio e degli uomini, ser­
vono con maggior efficacia il suo regno e la sua opera di ri-
generazione divina» (Cost. Presbyterorum Ordinis, 16). So­
prattutto il sacerdote, mediante lo stato celibatario, imita il
Signore, il quale è rimasto celibe per essere consacrato inte­
ramente al Padre e al regno; per unirsi verginalmente alla
Chiesa, sua sposa, in redenzione degli uomini (cf Ef. 5,32).
Questa maggior disponibilità alla diaconia ecclesiale, in
concreto, in quali valori sacerdotali si traduce?
Innanzi tutto i sacerdoti, in quanto celibi, «si dispongono
meglio a ricevere una più ampia paternità in Cristo» (Deer.
Presbyterorum Ordinis, 16). È noto come Dio susciti figli
adottivi mediante il battesimo, li conduca alla maturità con la
cresima, li nutrisca del pane di vita, offra a ciascuno i soccorsi
sacramentali per un'autentica vita in Cristo. Questa missione
patema di Dio viene esercitata dai preti, a nome e al posto di
Dio Padre invisibile e del Cristo risuscitato, sotto la condotta
dello Spirito santo. Questa paternità sacramentale è propria
del sacerdozio in quanto tale. Il celibato eccle­
siastico si limita a porre in risalto simile funzione presso la
comunità cristiana. Per apparire qual sacramento vivente di
paternità sacramentale, il sacerdote trascura la personale paternità
fisica; si rende unicamente disponibile verso la fecondità
spirituale della Chiesa. Fedeli e increduli gli chiedono di essere
un segno luminoso della carità verginale e feconda della Chiesa.
Il celibato è eloquente testimonianza della trascendente paternità
sacramentale, a condizione che esso sia vissuto nella pienezza
della carità ecclesiale.
Ogni cristiano ha il dovere di testimoniare Cristo. Lo sposato,
ad es., deve far apparire nel suo amore l'unione sponsale fra
Cristo e Chiesa. In modo del tutto proprio anche il sacerdote è
chiamato ad essere immagine di Cristo; a saper comunicare il
Signore attraverso il gesto sacramentale, mediante la
proclamazione della Parola; e, infine, col testimoniare nella
propria vita la presenza invisibile di Cristo, sposo della Chiesa.
«Per me, certo, la vita è il Cristo» (FU. 1,21).
Questo compito di testimoniare il Signore viene approfondito
nel sacerdote mediante la sua carità verginale. I sacerdoti
«proclamano di fronte agli uomini di volersi dedicare
esclusivamente alla missione di condurre i fedeli alle nozze con
un solo Sposo, e di presentarli a Cristo come vergine casta,
evocando così quell'arcano sposalizio istituito da Dio, e che si
manifesterà pienamente nel Saturo, per il quale la Chiesa ha come
suo unico Sposo Cristo» (Decr. Presbitero-rum Ordinis, 16).
Si potrebbe dire che il sacerdote è chiamato a vivere il mistero
pasquale in modo singolare: morire a certi valori terrestri per
risorgere in Cristo, e così svelarlo più facilmente ai fedeli. Il
prete, nel suo ministero, si presenta come il testimonio autentico
della risurrezione; nel suo apostolato egli deve offrire la grazia
dello Spirito e del risorto. Identify cato nel modo più intimo al
Cristo risorto, va assumendo

14 I T. Goffi, Editoriale
nella propria esistenza sacerdotale la carità pasquale, che poi
comunicherà al popolo di Dio.
Il celibato ecclesiastico ha pure un carattere escatologico (cf.
Mei2,25;Apoc. 14,4). In vero, questo carattere appartiene innanzi
tutto al martirio (mistero della morte e risurrezione vissuto in un
credente), alla vita religiosa (celebrazione di questo mistero per
tutta la vita di un cristiano), al sacerdozio (attualizzazione di
questo mistero attraverso il ministero sacramentale), al
matrimonio cristiano (segno e simbolo dell'amore di Cristo per la
sua Chiesa, annuncio degli ultimi tempi che saranno il regno della
pace e dell'amore). Tutto l'ordine cristiano è escatologico, e le
differenti vocazioni ne presentano gli aspetti complementari.
L'ordine escatologico non sarebbe significato pienamente quaggiù
se lo stato religioso o matrimoniale non annunciassero insieme la
realtà ultima e definitiva. Non è quindi il celibato che conferisce il
senso escatologico al sacerdozio, giacché tale è già per se stesso,
come lo sono, in se stessi e in modo complementare, tutti gli altri
stati o vocazioni cristiane. Unicamente il celibato ecclesiastico è
armonizzato sul senso escatologico sacerdotale; anzi, sotto certi
aspetti, lo potenzia ulteriormente. I sacerdoti «inoltre diventano
segno vivente di quel mondo futuro, presente già attraverso la
fede e la carità, nel quale i figli della risurrezione non si uniscono
in matrimonio» (Decr.Presbyterorum Ordinis, 16).
Ecco perché il concilio Vaticano II vede nel celibato eccle­
siastico un carisma che lo Spirito offre alla Chiesa peregrinante.
Esso svolge la missione ecclesiale di indicare con più chiarezza
una fìanzione di servizio pastorale, una fìanzione di testimonianza
pasquale e una funzione escatologica. Tutta la comunità cristiana
è invitata a supplicare dallo Spirito, con umiltà e insistenza,
questo grande dono per il sacerdozio cattolico (Decr.
Presbyterorum Ordinis, 16).
3/ L'insegnamento di Paolo VI
NeH'enciclica Sacerdotalis Caelibatus (a. 1967), Paolo vi
presenta il celibato entro la visione di fede, qual caratteri­
stica espressione del mistero cristiano.
Nella luce soprannaturale la vita sacerdotale è chiamata
ad esprimersi in carità. «Perciò la scelta del sacro celibato è
sempre stata considerata dalla Chiesa 'quale segno e stimolo
della carità': segno di un amore senza riserve, stimolo di una
carità aperta a tutti».
La stessa educazione sacerdotale si raccoglie nel compito
di nobilitare il chierico verso una capacità adulta d'amore
abitualmente oblativo. La vita sacerdotale non viene sco­
lorita e immiserita nella vacuità d'affetto; è impegno gene­
roso di un cuore che si lascia permeare dalla carità del
Signore in servizio del regno di Dio. «Il sacerdote, per il suo
celibato, è un uomo solo; ma la sua solitudine non è il
vuoto, perché riempita da Dio e dall'esuberante ricchezza
del suo regno... Segregato dal mondo, il sacerdote, non è
separato dal popolo di Dio, perché è costituito a vantaggio
degli uomini, consacrato interamente alla carità e all'opera
per la quale lo ha assunto il Signore».
Paolo vi, dalla sua alta cattedra, richiama la stessa ge­
rarchia ecclesiastica a continuamente ricordarsi come i sa­
cerdoti siano chiamati a vivere (per la stessa vocazione del
loro celibato) entro una viva carità ecclesiale. Invita i ve­
scovi a incoraggiare, in tutti i modi, i propri sacerdoti ad
aprirsi con essi in un'amicizia personale e a un'apertura
confidente, «che non sopprima, ma superi nella carità pa­
storale il rapporto d'obbedienza giuridica».
L'insegnamento di Paolo vi appare la traduzione eccle­
siale odierna del compito essenziale dell'amore caritativo,
che stava alla base della 'Chiesa domestica' e che l'Audet ha
cosi bene descritto in quest'opera.

161T. GoflB, Editoriale


Matrimonio e celibato
nel servizio pastorale della Chiesa

Storia e orientamenti

2-12
Professore all'École Biblique (Gerusalemme) e all'École
Archéologique Fran^aise (Gerusalemme). Citiamo le sue
opere principali: La Dìdachè. Instructions des apótres.
Texte critique, traduction fran^aise, introduction et
commentaire. Coll. 'Études bibliques', Paris 1958;
Admiration religieuse et désìr de savoir. Réflexions sur la
condition du théologìen, Montréal-Paris 1962; Notre
catéchèse est-elle entrée dans une impasse?, Coll. 'Cahiers
de Communauté chrétienne', 1, Montréal 1963; Bàtir la
demeure humaine. Essai sur la participation chrétienne à
l'aménagement de l'espérance sur la 'terre des hommes',
Montréal 1967.
È autore inoltre di numerosi articoli apparsi in Journal o f
Theological Studies; Études et recherches; Vie spirituelle,
Supplément; Revue Biblique; Nouvelle Revue
Théologique; Scripture; Sciences ecclésiastiques; Studia
evangelica; Communauté Chrétienne; Ephemerides litur-
gicae.
Il suo saggio più recente è Poi et expression cultuelle, in
La liturgie après Vatican II, coll. 'Unam Sanctam', Paris
1967.
INTRODUZIONE

Questo volumetto è nato dalle circostanze. Esso ha voluto


anzitutto rispondere a una consultazione privata. Di questa
sua prima intenzione conserva, soprattutto, il desiderio di
andare direttamente all'essenziale, senza tuttavia sacrificare né
la chiarezza né l'equilibrio alla preoccupazione della brevità.
E per questo motivo che, per quanto riguarda in modo
particolare l'apparato documentario, ci siamo accontentati di
citare le fonti antiche. Tra queste, peraltro, si imponeva una
scelta in più d'una circostanza. Quando ci è parso necessario
scegliere, nostro criterio è stato il punto di vista relativa­
mente ristretto adottato all'inizio e l'importanza relativa di
ogni testimone nell'insieme della situazione storica alla quale
si riallaccia. Riconosciamo volentieri che l'operazione com­
portava dei rischi. Ma la storia deve rinunciare a una certa
tranquillità, dal momento in cui essa accede all'interpretazio­
ne, per quanto discreta la si supponga. Detto questo, con­
serviamo in ogni caso la speranza di aver lasciato i fatti par­
lare largamente da se stessi.
Della sua destinazione originaria il volumetto conserva
pure, per una parte, i limiti del suo punto di vista. È il caso
di dirlo? Non si troverà qui tutto ciò che sarebbe opportuno
scrivere sull'argomento. Il nostro intento non era enci­
clopedico. Più modestamente abbiamo tentato di aprire una
via, in parte nuova, nel campo ristretto della nostra compe­
tenza, lasciando ad altri il compito di esplorare diversi aspetti
complementari del problema. Interessati da lunghi anni
ormai alle prime istituzioni cristiane, è anzitutto da questo
punto di vista che abbiamo affrontato il problema del matri­
monio e del celibato nel servizio pastorale della Chiesa.
Onde prevenire ogni equivoco, non sarà per niente super­
fluo precisare, inoltre, che non abbiamo voluto scrivere, pu­
ramente e semplicemente, una nuova «storia del celibato ec­
clesiastico». Ciò che in realtà è rimasto al primo posto nella
nostra attenzione, durante tutto questo studio, sono le strut­
ture del servizio pastorale della Chiesa. Ora, in questo ordi­
ne di strutture, due servizi dovevano interessarci più parti­
colarmente: la parola e l'eucaristia. In maniera costante, so­
no stati questi due servizi a contribuire più immediatamente,
fin dalle origini, a formare e sostenere la 'comunità di base'.
Fin dal principio una tale considerazione fissava, es­
senzialmente, la linea di sviluppo del nostro studio.
Essa ne determinava pure l'equilibrio. Poiché, nel nostro
pensiero, l'attenzione agli stili di vita — matrimonio e celi­
bato in particolare — è sempre rimasta subordinata all'atten­
zione prioritaria che ci sembrava toccare, per più ragioni,
alle strutture stesse del servizio pastorale. In definitiva, il
matrimonio e il celibato non sono entrati nella nostra con­
siderazione che nella misura in cui, richiesti in qualche modo
dalle strutture, partecipano l'tino e l'altro alla loro desti­
nazione comune: il servizio della speranza del Vangelo.
Questo punto di vista, ci è stato imposto anzitutto dalla
storia. A prendere le cose nel loro insieme, si può dire che la
tradizione pastorale della Chiesa, fin verso la metà del IV
secolo, si è preoccupata molto di più degli stessi servizi che
degli stili di vita che li accompagnavano. Ma a partire dal
momento in cui gli antichi stili di vita, retti dalla conve­
nienza e dall'uso, cominciarono a trasformarsi in veri stati di
vita, concepiti e valutati per se stessi, idealizzati, sottomessi
poi correlativamente a regolamentazioni e leggi sempre più
strette, tutto l'equilibrio primitivo della riflessione pasto­
rale venne a trovarsi esso stesso profondamente modificato.
Era, infatti, del tutto naturale che la preferenza andasse
ormai a ciò che era ritenuto il meglio in sé. Nessuno ignora,,
tuttavia, che ciò che sembra il meglio in sé possiede anche
tutte le possibilità di presentarsi allo spirito sotto il volto
prestigioso dell'immutabilità. Ma cosa diventava, in tutto
questo, l'umile attenzione alle necessità concrete, e sempre
più o meno mutevoli, di quel servizio della speranza del
Vangelo che è, in verità, l'obiettivo principale di ogni azio-j
ne pastorale? Il presente, sotto i nostri occhi, testimonia an­
cora di ciò che è accaduto in realtà. Alla fine non c'era più
per noi alcun dubbio: la storia si univa all'attuale situazione
per invitarci a rimettere in luce il punto di vista della tradi'
zione pastorale della Chiesa antica che ha anzitutto molto
spontaneamente portato il giudizio sugli stili di vita in funr
zione dei servizi.
L'antico primato delle strutture e dei servizi sugli stili di
vita spiega, d'altra parte, l'attenzione particolare da noi ac­
cordata alla casa e alle usanze dell'ospitalità domestica nella
pastorale dei primi secoli, a cominciare dallo stesso periodo
apostolico. È un terreno che non è stato gran che esplorato
finora. Nasconde tuttavia, crediamo, alcuni dati che sono tra
i più durevolmente fecondi nella tradizione pastorale della
Chiesa. Per cui, è nel quadro della casa, dove nei primi temr
pi si è riunita l'assemblea, che noi siamo stati condotti ad
analizzare la situazione riservata al matrimonio nelle strufr
ture del servizio pastorale della Chiesa antica.
D'altra parte, dal punto di vista delle strutture pastorali, è
il servizio itinerante della parola che introduce i primi al­
lentamenti nella rete dei legami domestici. Questi allenta­
menti, che riguardavano in primo luogo quelli che si davano
più integralmente al servizio del Vangelo, hanno peraltro rii
vestito all'inizio forme assai diverse. Ma in ogni caso, dal

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momento che ci si metteva in cammino per un qualsiasi ser­
vizio del Vangelo, si doveva anzitutto poter 'lasciare': il che
significava immediatamente che si doveva essere pronti ad
accettare l'allentamento, se non la rottura, di parecchi lega­
mi, tra i quali, per molti certamente, occorreva contare lo
stesso vincolo coniugale.
Tale situazione, tuttavia, mutò abbastanza presto. Il ser­
vizio itinerante della parola, di cui l'apostolato era stato il
prototipo, cedette rapidamente la maggior parte della sua
preminenza originaria a vantaggio del servizio permanente
dell'assemblea nato dalla stessa accoglienza che era stata fatta
al messaggio evangelico. E dunque nel quadro del servizio
dell'assemblea che, alla fine, si è posto per noi il problema
delle origini della legge del celibato ecclesiastico. Già lo si
sa: tutto è cominciato con la legge della continenza coniugale
e, per quanto riguarda il servizio dell'assemblea, sono state
prima le usanze, poi le regolamentazioni relative alla
continenza coniugale che hanno aperto la via alla legge del
celibato dei chierici con gli ordini maggiori.
E, del resto, estremamente interessante notare che le ra­
gioni che allora hanno ispirato tale movimento sono state
mutuate in primo luogo dal servizio del'eucaristia più che
dal servizio della parola, ancorché, naturalmente, per pro­
muovere l'ideale nuovo, non si sia mancato di fare appello
agli esempi dati in antico dal servizio itinerante della parola.
A nostro parere qui sta l'essenziale. Si tratta dunque d'illu­
minare questo punto: questa è stata la nostra maggiore
preoccupazione.
Infatti, un solo fattore ci sembra essere statò veramente
decisivo nell'evoluzione che ha progressivamente portato gli
usi, le costumanze, le regolamentazioni al livello di una leg­
ge propriamente detta, imposta dall'alto e obbligatoria per
tutti. Questo fattore derivava in definitiva dalla secolare e
irriducibile antinomia dell'impuro e del sacro. Esso comin­
ciò ad esercitare la sua azione in maniera sensibile a partire
dal momento in cui la sacralizzazione del servizio pastorale
della Chiesa accumulò nella coscienza cristiana delle energie
abbastanza potenti per sostenere il conflitto latente che la
percezione di un'impurità inerente alla sessualità in quanto
tale, conteneva già in germe. In maniera del tutto caratteri­
stica, questo momento coincise peraltro, nella riflessione pa­
storale, con una tendenza sempre più netta a definire il ser­
vizio pastorale della Chiesa essenzialmente in funzione del
sacro, rappresentato in primo luogo, invariabilmente, ^asal-
tare su cui si celebrava l'eucaristia, mentre la tendenza spon­
tanea della tradizione primitiva era stata, invece, di definire
il servizio pastorale anzitutto in funzione dei bisogni più
mutevoli deU'assemblea, come ne fa fede, tra l'altro, lo stesso
uso di immagini 'pastorali'.
Vorremmo dire, infine, che lungo tutta la nostra ricerca,
abbiamo avuto coscienza di occuparci di una vera tradizione
pastorale, e non solo di cose che sono esistite per caso nel
lontano passato della Chiesa. La storia non è stata per noi
che lo strumento appropriato di un'indagine il cui oggetto
proprio superava di gran lunga il semplice fatto storico. Cer­
to, non lo dimentichiamo, la storia è cambiata. Per cui, abi­
tuati per professione a questo genere d'indagine, pensiamo
meno di qualsiasi altro a ricondurre di forza nel presente ciò
che noi sappiamo essere stato abolito per sempre dal corso
irreversibile del tempo.
Ma, al di là del fatto storico, c'è qui, pensiamo, la tradi­
zione pastorale della Chiesa. Ora, se c'è tradizione, e se que­
sta tradizione rimane per noi autenticamente viva, come vi­
va essa deve rimanere, solo questo noi possiamo ammettere:
cioè, che la tradizione pastorale della Chiesa, per quanto lon­
tana nel passato, incide sulla situazione attuale e penetra co­
me un fermento di creazione e di rinnovamento fino in questo
presente al quale apparteniamo con tutte le fibre del nostro essere,
e che, in ogni caso, prepara la speranza del Vangelo per le
generazioni fìature. In realtà, questa continuità viva s'impone a noi
con tanta maggior forza dal momento che, in ultima analisi, ciò
che la storia ci permette di raggiungere nel passato altro non è
che una delle componenti essenziali della stessa tradizione
apostolica.
Certo, lo sappiamo, è difficile giudicare una lunga tradizione,
particolarmente complessa per il fatto stesso di essere lunga,
come è difficile sceverare in essa l'effimero e il durevole, i valori
più o meno caduchi e quelli che restano sempre ricchi di
possibilità creative. Non abbiamo creduto, tuttavia, di poterci
sottrarre alle nostre responsabilità. È dunque in questa prospettiva
e in questo spirito che abbiamo affrontato, per finire, il problema
per noi capitale di ciò che abbiamo chiamato la 'comunità di
base'. L'abbiamo fatto nella persuasione profonda e già da tempo
acquisita che il problema del celibato dei chierici è strettamente
legato, in definitiva, al problema molto più ampio delle strutture
stesse del servizio pastorale, e, più da vicino, al problema parti­
colare delle strutture del servizio pastorale proprio della 'co­
munità di base'.
Ci si capisca bene: non sottovalutiamo per nulla le ini-
quietudini legittime e le riflessioni di coloro che pensano an­
zitutto alle 'difficoltà' del celibato dei chierici. Abbiamo assistito
a molte tragedie, angosciose e distruggitrici come tutte le
tragedie, e per di più lesive e sterili. Crediamo, tuttavia, che nel
momento attuale sarebbe un grave errore da parte nostra limitare
a questo unico punto di vista il problema posto dalla legge del
celibato pastorale. Al di là delle 'difficoltà' personali incontrate
nel celibato da un certo numero di chierici, c'è soprattutto il
problema connesso delle strutture
del servizio pastorale della 'comunità di base'. Ora, a nostro
parere, è da quest'ultimo problema che dipende l'altro. Il che
significa che i due problemi o saranno risolti insieme, o non
saranno risolti autenticamente né l'uno né l'altro.
Abbiamo cercato di esprimerci con rispetto quanto con
fi-anchezza. Non siamo ciechi. Crediamo anche noi di cono­
scere un po' tutta l'efiìcacia e la grandezza che il servizio pa­
storale della Chiesa deve al celibato. Ma rimane conveniente,
nello stesso tempo, rifiettere su certe esigenze pastorali della
situazione presente. Alla lunga, gli accomodamenti parziali
saranno di poco giovamento. Per avere una guida, abbiamo
bisogno di una rifiessione in profondità sulle strutture. Desi­
deriamo che sia condotta con coraggio e lucidità, ma anche
senza quella passione obnubilante che ci impedirebbe di ve­
dere pure ciò che balza evidente agli occhi. Del resto, non
abbiamo proposto qui che dei suggerimenti. Ma saremmo fe­
lici se potessero servire ad avviare ulteriori ricerche che svi­
luppassero ciò che merita di esserlo, correggessero ciò che è
meno esatto e dimenticassero semplicemente ciò che è inutile.
Pensiamo, tuttavia, che il tempo stringe. In fondo non sia­
mo noi a porre il problema del celibato e del matrimonio nel
servizio pastorale della Chiesa: è il problema stesso che s'im­
pone a noi. Per larga parte esso nasce da due fenomeni gran­
diosi della nostra epoca che sfuggono al controllo dell'azione
pastorale: l'aumento demografico e l'urbanizzazione genera­
le. Questi due fenomeni si sviluppano sotto i nostri occhi con
una forza e una rapidità tali che non possiamo più indugiare
a lungo. Ci resta forse in realtà una generazione per trovare
una soluzione conveniente ai problemi di cui ci occupiamo in
questo libro. Dopo, l'immensità del compito non potrà che
moltiplicare grandemente le difficoltà. I pastori che raggiun­
geranno l'età matura nel 2000 cominciano oggi ad andare a
scuola. Il loro ricordo non ci ha mai lasciato, mentre scrive­
vamo questo libro. Ci sia permesso di dedicarlo a loro, come
un modesto contributo a quel servizio permanente della spe­
ranza del Vangelo di cui essi condivideranno a loro volta la
responsabilità.
Infine abbiamo creduto desiderabile che una rifiessione
sul matrimonio e il celibato nel servizio pastorale della Chie­
sa fosse proposta non soltanto agli stessi chierici, ma anche
a tutti i cristiani preoccupati dei bisogni e delle speranze
dell'ora presente. Noi siamo indissolubilmente solidali. La
coscienza di questa solidarietà, resa ancor più viva dall'ami­
cizia e da preoccupazioni per gran parte comuni, finisce di
definire per noi l'orizzonte di quest'opera.

La redazione di questo studio era già terminata da qualche


mese quando il decreto su «Il ministero e la vita dei sa­
cerdoti» (Presbyterorum ordinis) fia adottato dal concilio,
poi promulgato ufficialmente nella seduta del 7 dicembre
1965. Il paragrafo 16 di tale decreto dichiara che «La perfetta
e perpetua continenza per il regno dei cieli (Mt. 19,12)»,
senza essere «richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, co­
me risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primi­
tiva e alla tradizione delle Chiese orientali», conserva tutta­
via col sacerdozio molti rapporti di 'convenienza'. Tale pra­
tica, raccomandata da Gesù e tenuta in alta stima dalla Chiesa
universale, s'accorda infatti particolarmente bene con la
'missione del prete, che è di consacrarsi interamente al ser­
vizio dell' 'umanità nuova' con l'intenzione di aderire al Cri­
sto con un cuore non diviso, per un migliore servizio di Dio
e degli uomini; infine, con questa duplice testimonianza di
carità e di speranza che il suo stesso servizio porta in mezzo
alla comunità cristiana. E prosegue il decreto: «E dunque
per motivi fondati sul mistero di Cristo e sulla sua missione
che il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti,
in seguito è stato imposto per legge nella Chiesa latina a
tutti coloro che si avviano a ricevere gli Ordini sacri. Questo
sacrosanto Sinodo torna ad approvare e confermare tale
legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al
presbiterato»/
Riconosciamo con piacere la bellezza, la grandezza e, nel
suo ordine, l'esattezza profonda di questo insegnamento. Ac­
cogliamo con deferenza la regola disciplinare che su di esso
si fonda. Un concilio non è tuttavia un'assemblea di storici,
e, di conseguenza, non è.certo negli intenti del decreto, da
noi riassunto sul punto che ci interessa, risolvere in modo
definitivo la questione storica dello stabilirsi della legge del
celibato dei chierici nel servizio pastorale della Chiesa. Dopo
il concilio, coloro cui compete in modo specifico di indagare
tali cose, conservano la personale responsabilità di proseguire
le loro ricerche seguendo le solite regole della critica dei
documenti. Il miglior servizio alla comunità cristiana potrà
essere reso solo da questa libertà responsabile che è peraltro,
in linea di massima, riconosciuta da tutti. Per quel che ci
riguarda, abbiamo creduto di dover presentare le nostre
osservazioni e le nostre conclusioni come sono venute impo­
nendosi nella nostra ricerca già da lungo tempo.
È importante notare, d'altra parte, che, parlando del ce­
libato in un capitolo consacrato in generale alla «vita dei
presbiteri» (III), il decreto conciliare non ha per nulla inteso
affrontare direttamente il vasto e difficile problema di quelle
che noi abbiamo chiamato «le strutture della comunità di
base». E un terreno ancora molto scarsamente esplorato.
Saranno senza dubbio ancora necessarie lunghe ricerche,
condotte secondo le diverse discipline, prima che noi pos­
siamo arrivare ad una visione un po' organica dell'insieme.
Ora, a nostro parere, è proprio partendo dalle «strutture del-
' Presbyterorum ordinis, 16.
la comunità di base» più che dalla 'vita' dei pastori, che si
schiarirà, in maniera sempre più diffusa, in un prossimo
futuro, il problema della 'legge' del celibato dei chierici. Dal
momento che tutta la nostra ricerca era stata condotta
partendo da questo punto di vista relativamente nuovo, che
il decreto conciliare non poteva ancora avere presente e che
di fatto non ha inteso affrontare, ci è sembrato di una qual­
che utilità il presentare brevemente, già fin d'ora, i principali
risultati delle nostre indagini. Il nostro desiderio è che
questo volumetto serva in qualche modo alla comunità cri­
stiana, e che sia accolto con la grande speranza che ci ha so­
stenuto mentre lo scrivevamo.

J.-P. A.
Gerusalemme, 1965
Parte prima
La casa e il matrimonio
nel servizio pastorale
della Chiesa primitiva
CAPITOLO PRIMO

SEGUENDO LA STORIA

Il titolo generale della prima parte di questo studio potrà


forse sorprendere. Ci si aspettava forse, immagino, che met­
tessi avanti il celibato. Ma, da una parte, se è necessaria una
scusa, farò semplicemente osservare che il terreno è già stato
esplorato cento volte da questo punto di vista, che è, peral­
tro, molto limitato. D'altra parte, credo soprattutto che i la­
vori condotti sotto questo angolo di visuale, almeno presso
una certa letteratura divulgativa, appaiono per lo più anco­
rati, benché in gradi diversi, su un presupposto gratuito. Si
parte dal convincimento, che celibato e servizio pastorale
costituiscano, nell'ordine delle istituzioni, un'alleanza per­
fetta. Da qui a presupporre inoltre che la Chiesa si sia tro­
vata orientata fin dalle origini, e globalmente, verso la si­
tuazione ideale retta tra noi dalla legge del celibato eccle­
siastico, non c'è evidentemente che un passo, che, di solito,
è presto fatto.
Il risultato è che il matrimonio dei chierici nei primi se­
coli appare subito come un precedente 'residuo', che la Chie­
sa avrebbe ereditato all'inizio, contro il suo desiderio più
profondo, da una situazione antecedente mal definita, attri­
buibile grosso modo alla 'debolezza umana', alle necessità del
momento e alla sopravvivenza delle idee ricevute, su questo
punto, sia dal giudaismo che dal paganesimo greco-romano,
in attesa del contributo non meno sospetto del mondo
barbaro. Da qui, attraverso le fasi successive degli usi, delle
costumanze e delle regolamentazioni e della legge, la storia del
celibato ecclesiastico si presenta decisamente come una lunga e
gloriosa 'lotta' per eliminare progressivamente quel 'residuo'
indesiderabile lasciato in eredità dalle origini, e, nello stesso
tempo, per stabilire un regime di continenza totale, o, come si
preferisce dire abbastanza spesso - non senza ambiguità - di
'castità perfetta'. Questo modo di esprimersi è sotteso, pare, dal
presupposto che tale castità non possa esistere se non al di fuori
del matrimonio.
È lecito chiedersi, tuttavia, se questa maniera di vedere le cose
nella storia rende completamente giustizia ai fatti. In ogni caso,
qualche verifica dei presupposti più correnti sarebbe senza dubbio
gradita. Inoltre, non sembra che finora si sia fatto da noi un
grande sforzo per apprezzare i valori positivi che il matrimonio
ha potuto rappresentare per lo stesso servizio pastorale della
Chiesa antica. Col procedere della nostra analisi, avremo
l'occasione di scoprire quanto i valori positivi del matrimonio si
siano trovati legati, concretamente, nelle strutture del servizio
pastorale, ai valori ugualmente positivi della 'casa', che fornivano
allora il quadro più abituale e più normale al duplice servizio
della parola e dell'assemblea.
In ogni caso, questi valori positivi devono essere stati percepiti
abbastanza spontaneamente e chiaramente, almeno dalle prime
generazioni, poiché altrimenti non ci si spiegherebbe più la
perfetta tranquillità di spirito con cui quelle stesse generazioni
sembrano aver accettato in particolare il matrimonio dei diaconi,
dei presbiteri e dei vescovi. C'è qui, senza alcun dubbio, un
problema che reclama dallo storico un'attenzione seria.

32 I J.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


i! Secoli II e III

Verso il 190, Policrate di Efeso, portavoce dei vescovi


dell'Asia nella controversia della Pasqua, scriveva a papa
Vittore e alla Chiesa di Roma una lettera di giustificazione
conservataci in parte da Eusebio. Tra l'altro Policrate fa va­
lere le tradizioni della propria famiglia (sungènéis). A 65 anni
egli è l'ottavo di una discendenza episcopale che gli permette,
pare, di far risalire le proprie tradizioni liturgiche fino al
volgere del II secolo. Policrate sembra anche voler precisare,
di passaggio, che egli si riallaccia in linea diretta a qualche
vescovo di cui ha raccolto la successione (hais kài
parékolùthesa tistri autón). Tutto ciò è detto, in una lettera a
Roma, non solo senza la minima esitazione, ma anche col
fiero sentimento che in questa situazione c'era, per la grande
Chiesa di Efeso, un fattore importante di continuità e di
stabilità. ^
Alla fine del II secolo, a Roma la situazione su questo
punto non doveva peraltro differire molto da quella di Efeso
e, verosimilmente, dall'insieme delle Chiese dell'Asia Mi­
nore. Una trentina d'anni più tardi, veniamo a sapere inci­
dentalmente, dall'autore dei Philosophumena, che papa
Callisto(217-222) manteneva tranquillamente nelle loro fun­
zioni i chierici che contraevano matrimonio.^ Ippolito, si sa,
trascinava una vecchia disputa. Giudica severamente una
tale condotta, annettendovi perfino un'aria di novità scan­
dalosa. Ma è peraltro abbastanza evidente che Callisto dif­
ficilmente avrebbe agito in questo modo, se non fosse stato
appoggiato, di fatto, dal sentimento generale della comunità

' E usebio, Historia ecclesiastica, V, 24,6-7.


^ Ip p o lito , Philosophumena, IX, 12,22.
romana e dalle usanze ricevute nella tradizione della sua
Chiesa.
Verso il medesimo tempo, pare che una situazione analoga
prevalesse a Cartagine e ad Alessandria. Tertulliano conosce
senza dubbio un certo numero di chierici non sposati.
«Quanti uomini, esclama, e quante donne nei (diversi) or­
dini della Chiesa, appellandosi alla continenza, hanno pre­
ferito sposarsi a Dio...!».^ Quanti ìgitur et quàntaeì Questa
esclamazione è stata spesso interpretata, almeno tacitamen­
te, come se volesse evocare delle moltitudini, cosicché sem­
brava poi un utile punto di partenza per un'interpretazione
più generale secondo cui la maggioranza dei chierici di quel­
l'epoca sarebbe già vissuta nel celibato.
Né tale interpretazione, né l'indicazione che se ne ricava
per l'insieme della situazione sembrano, tuttavia, avere un
fondamento serio nella formula usata da Tertulliano. E una
questione di latino e una questione di stile. Nello stile ora­
torio, quantus evoca dei numeri più o meno importanti se­
condo i casi: un certo numero, un buon numero anche, se si
vuole, ma non significa mai la maggioranza, ancor meno la
quasi totalità delle persone o delle cose di cui si paria. «Se la
comunità dei nomi porta pregiudizio alla condizione delle
persone, scrive altrove lo stesso Tertulliano, (allora) quanti
pessimi schiavi {quanti nequam servi) fanno ingiuria ai no­
mi dei re Alessandro, Dario e Oloferne!»."^ Sarebbe eviden­
temente assurdo il pretendere, secondo questo esempio, che
la maggior parte degli schiavi malvagi attorno a Tertulliano
portassero i nomi di Alessandro, Dario e Oloferne, o, inver­
samente, che la maggior parte degli schiavi col nome di
Alessandro, Dario e Oloferne, fossero malvagi. Tutto ciò

4 T e r tu l l i a n o , D e exhortaticm castitatis, XIIL 4.


l^Kl\JL\JPi^,AdvermsMarcionem, 1,7,2; nello stesso senso ve
di De anima, 46,10.
che si richiede perché la frase abbia un senso è che non era
raro in quei tempi incontrare cattivi servitori ornati di quei
nomi illustri.
Ora, niente ci suggerisce di allontanarci da questo senso
naturale di quantus quando lo stesso autore scrive: «Quanti
uomini e quante donne, nei (diversi) ordini della Chiesa,
appellandosi alla continenza, hanno preferito sposarsi a
Dio...!». Si comprende immediatamente che gli esempi di
celibato, tra i chierici, non sono una rarità, che se ne trova
un certo numero, diciamo anche un buon numero. Ma sa­
rebbe incontestabilmente un forzare il testo voler vedere in
quanti la maggioranza, o anche la grande maggioranza dei
chierici del servizio pastorale.
Questa interpretazione mi sembra del resto implicitamente
confermata, in un altro luogo, dallo stesso Tertulliano. Nel
De exhortatione castitatis Tertulliano si sforza di persuadere
un suo amico, e il lettore, a rinunciare ad un secondo
matrimonio. Tra gli altri motivi, fa valere la situazione,
secondo lui più o meno scabrosa, che un secondo matrimonio
creerebbe certamente circa la preghiera e la partecipazione
aH'eucaristia. «Andrai dunque, scrive, a presentarti al
Signore con tante spose quante ne ricorderà la tua preghiera?
Andrai a fare l'oblazione per tutte e due e raccomanderai
l'una e l'altra attraverso l'intercessione di un vescovo che,
invece, è venuto da un unico matrimonio, o anche dalla
verginità {aut etiam de virginitate) all'ordinazione e alla
santificazione?».^ Il movimento di pensiero, sottoli-

^ T ertulliano , De exhortatione castitatis, IX, 2. Traduco qui sacer-


dos con Vescovo', come pare richiederlo l'uso ordinario di Tertulliano.
Ma quest'uso non è forse cosi rigoroso come è stato detto talvolta. In
certi passi è lecito esitare. Si noterà, del resto, {op. cit., VII, 2 e 6), che
Tertulliano estende esplicitamente a tutto 1' 'ordine sacerdotale', preti
compresi fpresbyteri), la regola della 'monogamia' alla quale il vescovo,
summits sacerdos, è soggetto in primo luogo (per questo ulti-
neato da aut etiam, impone, pare, di vedere qui nel vescovo
che si è sposato una sola volta la situazione più comune, e
nel vescovo celibe la situazione più o meno eccezionale,
anche se Tertulliano stima, come è chiaro, che questa è in sé
preferibile a quella.
Sappiamo, d'altra parte, grazie al diacono Ponzio, che il
presbitero Cecilio, che condusse Cipriano alla fede cristiana,
era sposato. Cosi fu al futuro vescovo di Cartagine, di cui si
era rapidamente acquistato l'amicizia e la venerazione, che
Cecilio affidò, prima di morire, la cura della moglie e dei fi-
gli.*" La corrispondenza personale di Cipriano, è vero, ricorda
un solo prete sposato, ed è il tristo Novato.^ Ma dal silenzio
abituale di Cipriano sul matrimonio dei chierici non si può
concludere che, verso la metà del III secolo, i chierici spo­
sati non fossero più che una rarissima eccezione nella Chie­
sa d'Africa. Una tale conclusione sarebbe certamente abusi­
va. In realtà, le condizioni generali non dovevano essere
molto cambiate, su questo punto, dal tempo di Tertulliano.
Si potrebbe peraltro ritorcere facilmente l'argomentazione,
dal momento che Cipriano non parla gran che della conti­
nenza o del celibato dei chierici.^ Ciò che si deve dire, piut­
tosto, è che, secondo ogni verosimiglianza, la situazione re­
stava pacificamente quale era da generazioni.
Anche per l'Egitto non abbiamo notizie precise. Ma la

mo titolo, De baptismo, XVII, i; cfr. Apolo ge ticum, XXXIX, % De co­


rona, 111,3).
« Vita Cypriam,4; Hartel, III, 2. pp.XCIV-XCV.
’ C ipriano , Lettere, III, 2,5. Si potrà anche vedere la lettera di
Caldonio dove è ricordato (XXIV, 1) un certo Felice che, in qualche
modo, 'assisteva' il presbyterium, e che era sposato. Felice e Vittoria,
sua moglie, dopo aver sacrificato una prima volta, subirono l'esilio e si
videro i beni confiscati per essere in seguito rimasti fedeli in un ritor
no della persecuzione. Questo Felice era un diacono {presbyterium sub-
ministrabat)} È stato proposto, ma l'ipotesi rimane dubbia.
* Un'allusione di passaggio a proposito del papa Comeho, IV, 8,3;
vedi anche De habitu virginum, 4.
tranquilla libertà e la larghezza di vedute con cui si esprime
un Clemente Alessandrino lasciano almeno intravedere che
egli non pensa a delle situazioni eccezionali. Clemente ha ap­
pena citato i Tim. 5,14-15, a proposito delle giovani vedove
alle quali Paolo raccomanda un nuovo matrimonio. Continua,
facendo suo il pensiero di Paolo: «Certo, (l'Apostolo)
ammette perfettamente (party apodéchetai)» - e come non
l'ammetteremmo noi con lui? — «l'uomo 'di una sola donna',
sia egli prete (presbyteros: probabilmente, in senso largo,
membro del collegio 'presbiterale', includendo in primo
luogo il vescovo che ne è il presidente), diacono o laico, se
usa onestamente del matrimonio: 'sarà salvato chiamando dei
figh alla vita' (j Tim. 2,15)».^
Letti attentamente, e nel loro quadro letterario, i testi di
Origene che vengono citati abitualmente, suggeriscono forse
opinioni diverse? Non lo penso. Origene distingue la 'fun­
zione' sacerdotale e il 'merito' di chi la compie, ed osserva
che se è facile trovare qualcuno per assumere la 'funzione',
pochi (pauci) invece sono quelli che vediamo 'ornati' di tutte
le qualità richieste per il suo esercizio. E in tale contesto che
egli dichiara di non essere personalmente (Sed ego) propenso
ad estendere ai «preti della Chiesa» la regola del sacerdozio
levitico che voleva che i preti si procurassero essi stessi nel
medesimo tempo una discendenza e una successio-

® C lemente A lessandrino , Stromati, III, 12; 90,1; vedi anche III,


18; 108,2. Come al solito le notizie sui casi particolari sono puramente
occasionali. Cosi per Cheremone, vescovo di Nicopoli, costretto dalla
persecuzione di Decio a fuggire con sua moglie sulle montagne dell'A­
rabia, dove pare che tutti e due abbiano trovato presto la morte; e per
Fileas, vescovo di Thmuis, che era stato un alto funzionario, molto
ricco, e che aveva sposato un'infedele, martirizzato ad Alessandria sotto
Massimino (E usebio , Storia ecclesiastica, VI, 42,3, che cita Dionigi
Alessandrino, e Vili, 9,7-8; vedi anche, per Fileas, R u inart , Acta
primorum martyrum sincera et selecta: Acta sanctorum Phileas et
Phileromi martyrum, 1-2, pp. 548-550).
ne. Egli stima che tale situazione non vada esente da una
certa 'indulgenza' in materia di castità. E Origene si rifiuta di
favorire tale 'indulgenza'. Le cose, continua, si presentano in
modo diverso tra noi. Poiché, se nella Chiesa i preti e i
dottori possono generare dei figli, ciò deve intendersi alla
maniera di colui che diceva: «Figliolini miei, che genero di
nuovo fino a che il Cristo sia formato in voi» (Gal. 4,i9).^° H
che è, in modo evidente, l'espressione di un ideale come
l'intende Origene, piuttosto che una dichiarazione di fatto
sugli usi in vigore nella Chiesa del suo tempo.
Per la Siria, non è il caso di dilungarsi sulla testimonianza
della Didascalia degli apostoli (seconda metà del III secolo)
che è perfettamente chiara e che, per quanto c'interessa par­
ticolarmente, suppone che il matrimonio faccia parte della
situazione normale del servizio dell'episcopato. «Ecco, scrive
l'autore, come deve essere il vescovo: Un uomo che ha
avuto una sola donna, che ha ben governato la casa sua. Co­
si, quando riceverà l'imposizione delle mani per assumere la
carica dell'episcopato, sia esaminato per vedere se è casto, se
sua moglie è credente e casta, se i suoi figli sono cresciuti
nel timore di Dio, se li ha corretti e istruiti, se i suoi servi lo
temono e lo rispettano, e se tutti gli obbediscono. Se infatti
gli resistono e non gli obbediscono i suoi, come potranno
essergli fedeli e sottomessi quelli che non appartengono alla
sua casa?».^^
Tirando le somme, fin verso le ultime decadi del III se-

10
O rigene , Omelie sul Levitico, VI, 6.
Dottrina degli apostoli, 4; trad. Connolly, p. 32; trad. Nau, T" ed.,
p. 41. In tutta la questione non si devono perdere di vista alcuni dati
concreti. La Didascalia richiede che, salvo in particolari circostanze, il
vescovo abbia almeno cinquantanni (/oc. cit). Questa regola deve ri
flettere usi antichi e probabilmente molto diffusi nella Chiesa. Siccome,
d'altra parte, in quest'epoca, le diverse funzioni del servizio pastorale
erano molto più aperte di quello che sono diventate in seguito, è evi-
colo, è dunque il matrimonio, più che la continenza o il
celibato, che sembra essere stato un po' dovunque, per lo
stile di vita, la realtà dominante nel servizio pastorale della
Chiesa. È da questa situazione che noi dobbiamo partire.
Qualunque cosa sia stata detta, non ci sembra che la storia
possa prestarsi, nel suo insieme, ad un'interpretazione
diversa.
Infatti, ad eccezione dei circoli gnostici, encratiti o mon-
tanisti, tutti impregnati del dualismo di fondo dell'ambiente
extra-ecclesiale, è soltanto all'inizio del III secolo che i pri­
mi segni, ancora sporadici, di una certa tensione tra matri­
monio e celibato dei chierici cominciano ad apparire nei
documenti, in particolare in Tertulliano che, attorno agli
anni 208-209, doveva passare apertamente al montanismo.
Si avverte, verso quest'epoca, a seguire certi temi di para­
goni, e anche certe evocazioni insistenti dei modelli antichi,
adattati ai gusti del giorno, che una trasformazione profonda
sta operandosi negli spiriti. Una simile fermentazione si os­
serva del resto, nel medesimo tempo, circa il matrimonio dei
fedeli. Nasce allora tutta una letteratura i cui tratti caratte­
ristici sono l'elogio entusiasta della verginità, l'esortazione a
un certo stile di 'castità' e la discussione appassionata dei
meriti della vedovanza. Per molti suoi aspetti, inoltre, tale
produzione è una vera letteratura di battaglia.
È in questa atmosfera generale che si sono svolti i primi
episodi della 'lotta' per la 'castità perfetta' dei chierici. Del

dente che un buon numero di vescovi, preti e anche di diaconi, acce­


devano allora alle rispettive cariche in un momento della loro vita in cui
il matrimonio non era più per essi oggetto di scelta. 11 matrimonio dei
chierici si presentava perciò come una situazione di fatto. Un fenomeno
simile si produsse più tardi, in senso inverso, quando s'incominciò a
imporre le mani sempre più frequentemente a dei celibi e a dei monaci
la cui scelta originaria dello stato di vita non era stata fatta in funzione
del sevizio pastorale.
resto, come tenteremo di spiegare più avanti, non è del
tutto casuale che questa 'lotta' per la 'castità perfetta' dei
chierici sia venuta a coincidere cronologicamente con l'appa­
rire, nel linguaggio cristiano, dei primi segni manifesti di un
processo di sacralizzazione del servizio pastorale della Chie­
sa. Era, in realtà, scritto nella natura delle cose che la per­
cezione del sacro dovesse di conseguenza attirare il 'puro'
nella sua orbita; Ora, agli occhi dei più, il 'puro' portava in
questo caso per eccellenza i nomi dell'astensione sessuale
sotto tutte le sue forme: 'verginità', 'continenza' e 'vedo­
vanza'. Tutto ciò è collegato.

2/ Dal secolo IV al medioevo

All'alba del IV secolo, il concilio di Elvira porta in ma­


teria la prima legge di cui la storia abbia conservato il ri­
cordo. Più che il celibato, nel senso stretto che il termine
doveva rivestire più tardi, questa prima regolamentazione
riguarda, se si vuole, lo stile di vita coniugale dei chierici
già sposati: vescovi, preti, diaconi; in breve, senza eccezio­
ne, «tutti i chierici impegnati nel ministero» {omnibus cle-
ricis positis in ministerio). A questi chierici già sposati il
concilio spagnolo ingiunge di 'astenersi' d'ora in avanti «dal­
le loro spose» {ahstinere se a coniugibus suis) e di non cer­
care più di darsi una discendenza {et non generare filios). Se
la situazione creata da tali proibizioni può sembrare a noi
abbastanza confusa, la sanzione almeno aveva il merito di
essere chiara e netta: chi non osserverà la legge sarà desti­
tuito dalle sue funzioni.

Cfr. in questo stesso volume: 'La sacralizzazione del servizio


pastorale e le origini della legge del celibato ecclesiastico' pagg. 139-
160.
Lo stesso IV secolo, e i secoli seguenti, avrebbero cono­
sciuto, in Occidente, una lunga serie di ordinanze analoghe
a quella che abbiamo ricordato, fino a che il primo e il se­
condo concilio del Later ano (i 123 e 1139) si decidono a risol­
vere decisamente la questione dichiarando la nullità, o l'an­
nullamento, del matrimonio per i chierici con gli ordini
maggiori/"^ Per la verità, tuttavia, la decisione romana non
faceva che portare alla sua conclusione normale,, senza ag­
giungervi molto, l'opera condotta dalla metà del secolo XI
da Leone IX e dai suoi successori. È dunque soltanto dai
secoli XI e XII che si può parlare, in senso proprio, di una
<degge del celibato ecclesiastico» per l'insieme della Chiesa
latina.
È inoltre importante osservare che la regolamentazione

239. Secondo Socrate , Storia ecclesiastica, 1,11, ’i vescovi' presenti al


concilio di Nicea (325) ebbero a un certo punto l'intenzione di legiferare
nello stesso senso, ma un patetico e vigoroso intervento dell'Egiziano
Pafnuzio li distolse dal progetto. Circa la situazione riservata alle spose
dal canone 33 di Elvira, vedi il canone 27 che proibisce a tutti i chierici,
episcopus vel quilibet alius clericus, di tenere presso di sé (nei locali
domiciliari uniti d'ecclesia?) donne che non siano la propria sorella o la
propria figha, e anche in questo caso, a condizione che queste abbiano
consacrato a Dio la loro verginità, virginitatem àicatam Deo. Ci si può
chiedere se, implicitamente, l'intenzione del conciho non sia stata, in
definitiva, quella di tener le stesse spose lontano dal domiciho dei
chierici. A ciò si potrà paragonare la soluzione più fiduciosa e moderata,
per non dire più realista, del papa Leone Magno, nel V secolo: «La legge
della continenza, lex continentiae, è la stessa per i ministri dell'altare,
ministris altaris, come per i vescovi e i preti. Fino a quando questi erano
laici, 0 lettori, essi erano in diritto di contrarre matrimonio e di avere dei
figli. Ma dal momento in cui accedono ai gradi sopra ricordati, ciò che
per essi era legittimo, comincia a non esserlo più. Di conseguenza,
facendo della loro unione carnale un matrimonio spirituale, bisogna che,
senza rimandare le loro mogh, essi le abbiano come se non le avessero,
in maniera che l'amore degh sposi sia salvo, e che cessi nel medesimo
tempo l'esercizio del diritto coniugale» (Lettera a Rustico di Narbona, 3;
P.L., 54,1204).
Canoni 7 e 21 per il Lateranense 1; H e f e l e -L e c l e r c q , Histoire des
conciles, V, 1, pp. 633 e 638; canone 7 per il Lateranense 11; ibid., pp. 116-111.
del Laterano è nata in un clima di rivendicazioni, di repres­
sioni e di sanzioni che le antiche regole non avevano cono­
sciuto, almeno sotto tale forma e a tal punto di tensione.
Infatti, il matrimonio dei chierici, - <d'eresia dei nicolaiti»,
come si prese l'abitudine di dire nella seconda metà del se­
colo XI - arrivava ad apparire come un male puro e sem­
plice che bisognava estirpare a tutti i costi. Contrario alle
regole antiche, o a ciò che ci si immaginava che fossero state,
senza conoscerie bene, e soprattutto senza averne assimilato
lo spirito, lo stato dei chierici sposati veniva ad essere consi­
derato, dalla maggior parte dei promotori della riforma, co­
me un puro e semplice effetto del vizio. In quanto tale, il
matrimonio dei chierici non meritava più altra considerazione
che quella della condanna e del castigo. La stretta e costante
associazione della simonia e del nicolaismo nei testi rifor­
matori dell'epoca dice molto, da sola, sui blocchi mentali e
sulle semplificazioni che, di conseguenza, si erano prodotti
nel pensiero pastorale.
Da una parte come dall'altra, la 'battaglia', - questa volta
era una sola! - fu peraltro condotta con i mezzi e nello stile
di quel tempo, che fu rude e oltranzista, pronto cosi alla
violenza come alle lacrime di devozione e di pentimento. Qua
e là, il meccanismo giuridico e sociale del feudalesimo e del
vassallaggio fu messo a servizio della causa. Per isolare chi
resisteva, si proibi ai fedeli di prender parte agli uffici
celebrati dai pastori concubinari o sposati.
Certo, a distanza, è facile per noi precisare e ripetere, in
teologia, che il celibato dei chierici è un' 'alta convenienza'
del loro 'ministero', e non è che questo. Ma la storia non può
nascondersi il fatto che questa 'alta convenienza' otten-

Concilio Lateranense, aprile 1059; Concilio di Roma, marzo 1074;


la proibizione fu in seguito rinnovata molte volte.
ne forza di 'legge' sotto gli auspici di una concezione pasto­
rale i cui metodi e mezzi d'azione non potevano far pensare
che a una cosa: l'inflessibile necessità, alla quale nessuno
sfugge.

3/ Riflessioni sul concilio di Elvira (sec. IV)

Paragonato alle ingiunzioni e alle messe a punto dei con­


cili dei secoli XI e XII, il canone 33 del concilio di Elvira,
per quanto sia rigido nella forma, dà l'impressione di un
porto di luce e di pace. Si può dire che sta, spiritualmente, a
metà strada tra l'età apostolica prolungata dal II secolo, e la
tumultuosa riforma medievale. Per brevità, sarà utile rag­
gruppare attorno a questo canone qualche osservazione com­
plementare, tenendo conto, nel caso, degli sviluppi poste­
riori più notevoli.
La regolamentazione di Elvira suppone anzitutto due si­
tuazioni, acquisite nello spirito come nei fatti.
La prima è quella della continenza volontaria. Essa serve
di base alla regola ed ha in suo favore, se non la maggio­
ranza dei chierici - ciò di cui non possiamo giudicare -
almeno la superiorità del prestigio. Incarna un ideale spiri­
tuale riconosciuto dal consenso della comunità.
Tuttavia, si noterà, questo ideale della continenza volon­
taria non si presenta allora legato, per sua natura, al servizio
pastorale dal momento che è condiviso, di fatto, non soltanto
da un certo numero di chierici, ma anche, da parte femmini­
le, dalle vergini e dalle vedove, e, da parte maschile, dagli
asceti. E dunque per un fenomeno di estensione che l'ideale
della continenza giunge ad interessare lo stile di vita dei chie­
rici del 'ministero' pastorale. Non parte da qui: al contrario,
vi arriva come portato dalla stessa comunità.
La seconda situazione è, naturalmente, quella del matri­
monio. L'abbiamo già notato. Il concilio domanda, a questo
proposito, che i vescovi, i preti, i diaconi «si astengano dalle
loro spose» dal momento del loro accedere alle funzioni
corrispondenti del 'ministero', sotto pena di vedersi desti­
tuire dalla loro carica {ab honore clerìcatus exterminetur).
Quello che c'interessa qui, in primo luogo, è il motivo che
ispira la regola. Il concilio non si dilunga su questo punto.
Si può supporre che non era necessario farlo. Era noto: tutti
potevano capire a un semplice accenno.
L'analisi, tuttavia, mostra anzitutto che è chiaro che l'in­
tenzione non era di liberare vescovo, prete e diacono, se era­
no sposati, dalle loro preoccupazioni familiari. Lo scopo non
era neanche, in primo luogo, di rendere i chierici con gli or­
dini maggiori più disponibili per il servizio della loro Chie­
sa. Tenuti alla continenza, questi rimanevano normalmente
responsabili del sostegno e del governo della loro casa. Sotto
questo punto di vista, la situazione dei chierici sposati non si
trovava dunque per nulla semplificata dall'obbligo della
continenza: spesso poteva perfino essere resa più onerosa
(canone 27, già citato).
Del resto, il canone 19 ci permette di scorgere un caso pre­
ciso in cui i vescovi, i preti e i diaconi continuavano a curare
personalmente i loro affari: è quello del commercio. A
questo proposito, per evitare assenze troppo prolungate, il
concilio domanda che i vescovi, i preti, e i diaconi, che si
trovassero impegnati nel commercio, non si allontanino dalla
loro 'provincia' sotto pretesto di andare a cercare lontano
delle transazioni più vantaggiose. Se devono trattare un affare
al di fuori dei limiti della 'provincia', mandino piuttosto uno
dei loro figli, o un liberto, o un domestico o un amico, o
qualcun altro. Si vede molto chiaramente, da questo esempio,
che in quell'epoca e per la Spagna, la regola della con­
tinenza coniugale non implicava per ciò stesso, per i chierici
con gli ordini maggiori, un allontanamento dai loro obblighi
professionali e familiari.
H vero motivo che ispirava la regolamentazione del con­
cilio deve dunque essere cercato altrove. In effetti, questo
motivo è dichiarato, in sostanza, nello stesso testo. Sta in
una sola parola, introdotta di passaggio in una clausola espli­
cativa: mìnìsterium. Questa è la parola-chiave. Nel latino
cristiano del tempo, quando si vuol parlare del servizio pa­
storale, il mìnìsterium è, in realtà, inteso come sacrum
mìnìsterìum!^
Ora, certamente, non è anzitutto né soprattutto per il fatto
che il vescovo, il prete e il diacono prendono parte, nella
celebrazione liturgica, a un 'servizio della parola', che le loro
rispettive funzioni sono intese come un mìnìsterium (sa­
crum). All'inizio del IV secolo anche il lettore compie una
funzione regolare nel 'servizio della parola'; tuttavia non è
annoverato tra coloro che, in senso proprio, sono impegnati
nel 'ministero', e, di conseguenza, nessuno pensa di sotto­
porlo alla regola della continenza coniugale quando è in età
di avere moglie e figli.
Ciò che costituisce il mìnìsterìum cristiano è dunque, di
fatto, il servizio dei sacramenta propriamente detti, e soprat­
tutto, va da sé, il servizio del sacramentum per eccellenza,
l'eucaristia. In definitiva, è dunque anche il servizio diretto
deH'eucaristia, inteso come sacramentum, che comanda la
regola della continenza coniugale per il vescovo, il prete e il
diacono già sposati, a partire dal momento in cui costoro ac­
cedono alle rispettive funzioni del loro 'ministero'.

Cfr. il greco leiturgia - hierurgia alla stessa epoca.


Nella Tradizione apostolica di Ippolito, il lettore entra in funzio
ne attraverso la semplice consegna del libro delle letture: il vescovo
non gli impone le mani; ed. Dix, 12, p. 21; ed. Botte, n(i963),3i.
In tali condizioni, diventa evidente, mi pare, che è una
percezione del 'sacro' che è qui all'origine dell'astensione ses­
suale aH'intemo del matrimonio. Ma allora, non è meno evi­
dente che la regola della continenza coniugale per i chierici
18
impegnati nel servizio diretto dei sacramenta s'appoggia
anch'essa, a sua volta, su un'altra percezione, già solidamente
radicata nella coscienza: quella che, distinguendo tra il
'puro' e r 'impuro' pone l'esercizio della sessualità, qualun­
que esso sia, tra le cose che conviene tener lontano dai sacraJ^
Non si riesce a vedere altrimenti per quale via uno stretto
obbligo di continenza abbia potuto, nel cristianesimo, intro­
dursi perfino nel matrimonio legittimo dei chierici chiamati
al servizio diretto dei sacramenta. Infatti la regolamentazio­
ne di Elvira non riguarda il matrimonio in quanto tale, dal
momento che esso, anche per i chierici del ministerium, è
tranquillamente conservato per il presente e l'avvenire; ri­
guarda invece l'esercizio della sessualità nel matrimonio, e
questo soltanto.
Ma, per arrivare a questo, bisogna che si sia visto prima
una sconvenienza in qualche modo irrimediabile sul piano
del possibile incontro dell'esercizio della sessualità con il ser­
vizio dei sacramenta. Ammesso ciò, cosa resta ancora da ca­
pire? Questo, mi sembra, e nient'altro: ci troviamo qui
esattamente davanti al gioco delle relazioni del 'puro' e del
'sacro'. Per il primato che gli è normalmente riconosciuto

Qui sacramentis divinis inserviunt, concilio di Cartagine del 16


giugno 390, canone 2; per quest'ultima formula e per la linea generale di
pensiero cfr. CiPRiANO, Lettere, LXXII, 2: «Bisogna che i preti e i
ministri che sono al servizio dell'altare e dei sacrifici, sacerdotes et mi-
nistros qui altari et sacrifiais deserviunt, siano senza difetti e senza
macchia», secondo la parola del Signore Dio che dice nel Levitico:
«L'uomo che ha una macchia e un difetto non s'awicinerà per fare a Dio
le oblazioni».
Nella lingua dei cristiani: sacramenta, verosimilmente per evitare
sacra, troppo legato ai culti del paganesimo.
nella scala dei valori, questo, in realtà, attira quello, ma esclu­
de perfino la possibilità della vicinanza dell' 'impuro' che è
il suo contrario.^*’
Ora, si sa benissimo che questa struttura di coscienza che
conduce a tracciare distanze convenienti tra 1' 'impuro' e il
'sacro' non ha, in sé, niente di specificamente cristiano. Ap­
partiene invece ai più antichi fondi religiosi dell'umanità e
la si incontra dovunque e in ogni epoca.
In quale momento della storia si è introdotta e impiantata
nella nostra tradizione pastorale? Si può senza fatica seguirne
la traccia lungo tutto il terzo secolo. La si riconosce meno
facilmente nel secondo. Quanto più si retrocede nel tempo,
un problema di continuità s'impone sempre più all'attenzione
dello storico.
Veniamo cosi ricondotti ad un nuovo esame delle nostre
origini. Cosa c'era all'inizio? E naturalmente l'azione e il pen­
siero di Gesù che occorre qui mettere in primo piano.

È sintomatico il fatto che la Didascalia degli apostoli, del III se­


colo, abbia ritenuto necessario combattere con vigore un'idea d' 'impu­
rità' sessuale del tutto simile a quella che sembra soggiacente al canone
33 di Elvira; vedi, specialmente, VI, 21-22; ed. Connolly, pp. 242-254.
Alla regolamentazione di Elvira si può paragonare anche, verso la metà
del IV secolo, il canone 44 del conciho di Laodicea che prescrive «che le
donne», - proprio in ragione della loro femminilità! - «non devono
penetrare nel santuario, thusiastérion», - o «avvicinarsi all'altare»;
H efele -L eclercq , Histoire des conciles, I, 2, p. 1020.
CAPITOLO SECONDO

L'AZIONE E IL PENSIERO DI GESÙ

Dal nostro punto di vista, non sarà inutile sottolineare an­


zitutto che in nessun momento della sua vita Gesù sembra
aver voluto integrare la sua azione nell'apparato sacrale del
giudaismo palestinese della sua epoca.
A questo proposito, la sua parola è in notevole contrasto
con quella del Precursore. Costui «proclamava un battesimo»
{Me. 1,4 e par.). Questo tipo di azione 'battesimale' nel figlio
di Zaccaria fìa cosi evidente agli occhi dei contemporanei che
la qualificazione di 'battista', o di 'battezzatore', sembra es­
sersi molto presto unita al nome di Giovanni.^ Uno stile d'a­
zione, ben caratterizzato, delineava cosi, nell'opinione della
gente, la figura del personaggio. Per il che, nella tradizione
cristiana primitiva, i ricordi relativi al Precursore sono ri­
masti principalmente legati al Giordano e alla regione vicino
al fiume: il 'deserto', Betania «al di là del Giordano», Ai-non
«vicino a Salim».
Facendo un confi-onto, e senza voler spingere troppo la
formula, si direbbe volentieri che l'azione di Gesù fii più pu­
ramente e più deliberatamente 'parola'. Senza dubbio Gesù
stesso ha portato spesso questa 'parola' fino nelle assemblee
sinagogali e nel recinto del Tempio. Ma l'associazione con il

' Me. 6,25; M/. 3,1; Ley,20, ecc., lòànnes bo baptistès; Aie. 1,4 ecc.,
lóànnès ho baptizan.
quadro cultuale e sacrale che ne è allora risultata, è sempre
rimasta in lui occasionale e, in definitiva, secondaria. La 'pa­
rola' di Gesù non dava affatto l'impressione di essere fuori
posto quando si faceva sentire in una casa, sulle rive del la­
go di Tiberiade, sui declivi delle colline di Galilea, nelle vie
e sulle piazze pubbliche, nei campi, lungo le strade o sul bor­
do del pozzo di Giacobbe. Poiché tale 'parola' aveva tutto in
se stessa, si trovava a suo agio in ogni luogo e in ogni circo­
stanza. Si muoveva, del resto, con uguale libertà nella mag­
gior parte delle forme letterarie allora vive nell'ambiente.
Gesù si è assicurato fin dall'inizio, - e in parte per questa
stessa ragione - una fiessibilità e una mobilità che l'azione di
Giovanni non sembra aver mai conosciuto.^
Queste cose sono forse evidenti. Ma noi le dimentichiamo
spesso, benché esse non abbiano soltanto un valore transito­
rio, indissociabile dal passato. In ogni caso conta tenerle in
mente quando si cerca di rappresentarsi lo stile originario
dell'azione di Gesù. Quale fu questo stile?

1/ L'azione di Gesù nella forma del 'messaggio'

L'abbiamo appena ricordato, l'azione di Gesù fu anzitutto


e soprattutto 'parola'. Considerata nell'insieme, questa 'parola'
ha rivestito due forme principali: fu 'messaggio' {ké-rygma),
e fu 'istruzione' {didaché). Ciò che occorre osservare, inoltre,
è che i diversi stili della 'parola', 'messaggio' e

^ Cfr. la parola di Paolo: «Il Cristo non mi ha mandato a battezzare,


ma ad annunciare l'evangelo, euangelizasthai», i Cor. 1,17; in un
significato simile, a proposito dello stesso Gesù, vedi Gv. 4,2, «...per la
verità, non era Gesù che battezzava, ma i suoi discepoli», che sembra
voler precisare la formula troppo generale di 3,22. Infatti, è solo più
tardi, dopo la risurrezione di Gesù, che il battesimo nuovo, «nello
Spirito Santo», Me. 1,8; Gv. 1,33, ecc. verrà ad inserirsi normalmente
nel servizio della 'parola',^/// 2,38;Me. 16,16]Mt. 28,19, ecc.

so I J.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


'istruzione', determinano due stili di vita proporzionalmente
distinti: quello del 'profeta' (prophètes) da una parte, e
quello del 'maestro' (didàskalos) dall'altra. Vorrei ora tenta­
re di precisare un po' questi dati, gli uni in rapporto agli al­
tri, a costo di semplificare talvolta il disegno nell'interesse
della chiarezza e della brevità.
La tradizione evangelica non si è sentita tenuta ad una
grande esattezza in materia di topografia e di cronologia. A
questo proposito, essa ci fornisce al più un canovaccio gene­
rale, e per i particolari, un certo numero di punti di riferi­
mento peraltro spesso difficilmente coordinabili. Pare, tut­
tavia, che la narrazione di Marco abbia conservato meglio
delle altre il ricordo degli inizi dell'azione di Gesù. «Dopo
che Giovanni fu imprigionato, scrive Marco, Gesù si recò in
Galilea. Là egli annunciava questa buona novella da parte di
Dio: I tempi sono compiuti e il regno di Dio è vicino:
pentitevi e credete alla buona novella» (1,14-15).
Ciò che abbiamo qui: «I tempi sono compiuti, ecc.», non
è evidentemente un 'discorso'. Non è neanche il tema 0 il
riassunto di un 'discorso' più lungo. E esattamente, e certo
senza grandi cambiamenti, il 'messaggio' (kèrygmd) iniziale
di Gesù. Come scrive lo stesso narratore, è una 'buona no­
vella', un euangélìon, un 'Vangelo', nel significato originario
del termine.
Questo fu dunque l'oggetto iniziale dell'azione di Gesù.
Ora, la riflessione scopre immediatamente che un 'messag­
gio' di tale natura, presentato sotto una forma cosi concisa,
poteva assicurarsi un significato concreto solo a condizione
di essere rapidamente portato a conoscenza di molti. Il che
significa che, per ottenere il suo scopo, un 'messaggio' di
questo tipo doveva essere abbondantemente ripetuto, non
davanti agli stessi uditori, s'intende, ma su una vasta distesa
di territorio.
Infatti, letto attentamente, il racconto di Marco suggerisce
precisamente questo. Come campo d'azione il narratore
indica la Galilea. Lo stile dell'azione, d'altra parte, è quello
dell'antico 'araldo' {kérysson), portatore di 'messaggi' e di
'notizie', la cui figura era allora tra le cose più abituali e fa­
miliari. Ma siccome si trattava, nel caso, di una 'buona no­
vella' destinata 'da parte di Dio' {euangèlion tu theù, geniti­
vo di provenienza), non a un individuo in particolare, ma a
tutto il popolo, per il quale, precisamente, 'i tempi' sono di­
chiarati 'compiuti', si comprende facilmente che Gesù abbia
voluto fin dall'inizio trasmettere rapidamente il suo messag­
gio al più gran numero possibile. Nella redazione di Marco
è, del resto, proprio questo ciò che sottolineano i tempi dei
verbi: «Gesù si recò in Galilea» (aoristo èlthen, per attirare
l'attenzione su un punto nel passato), e là, egli «annunciava
questa buona novella da parte di Dio» {kérysson, costruzio­
ne col participio per designare un'azione che si prolunga a
partire da un punto determinato nel passato).^
Se questa analisi è esatta, ciò che dobbiamo porre all'ini­
zio dell'azione pubblica di Gesù, è dunque un periodo di una
durata indeterminata, ma è sufficientemente ben differenzia­
to in se stesso, in cui Gesù modella la sua 'parola' su quella
dell'antico araldo, diciamo pure, con maggior precisione, su
quella degli antichi profeti che si erano presentati al popolo
come gli araldi di Jahvè.
A questo proposito, l'evocazione di li. 61,1-2, nell'episo­
dio della lettura sabbatica, cosi come è riferito da Luca, sem­
bra particolarmente significativa: «Lo Spirito del Signore è
sopra di me, perché mi ha consacrato con l'unzione. Mi ha

^ Vedere, nello stesso senso, ma con minor chiarezza nella linea ge­
nerale, Mt. 4,17,23-25; la redazione di Le. 4,14 resta del rutto implicita
e non la si capisce bene se non si è capito prima il racconto di Marco.
mandato a portare la buona novella ai poveri, ad annunciare
la liberazione ai prigionieri ed ai ciechi il ritorno alla vista, a
ridare la libertà agli oppressi ed a proclamare un anno di gra­
zia del Signore»."^
La tradizione evangelica non si dilunga su questo punto,
perché, in quel tempo e in quell'ambiente, queste cose non
avevano bisogno di essere dette. Ma, dal nostro punto di vi­
sta, è necessario che sia chiara una cosa: ed è che, da parte di
Gesù, adottare fin dall'inizio, per la sua 'parola', la forma del
'messaggio' significava per ciò stesso adottare non soltanto
un certo stile d'azione, ma anche un certo stile di vita.
Ora, in quei tempi, due tratti della persona dell'araldo
simboleggiavano nello stesso tempo la fiinzione e il genere
d'esistenza adatto a questa fianzione: la 'voce' e il 'piede'.^
L'araldo è una 'voce' al servizio di colui che l'ha mandato:
questo è l'essenza della fianzione. Ma egli è anche due 'piedi',
agili, disponibili, svelti, pronti a portare il messaggio in ogni
luogo; questo è più particolarmente lo stile di vita adatto alla
fiinzione e inscindibile da essa. L'araldo è mobile. E questo è
la sua stessa esistenza. In qualsiasi momento deve essere
pronto ad abbandonare tutto: casa, padre, madre, fi-atelli,
sorelle, moglie, figli, per compiere la sua missione. Sulle stra­
de niente deve trattenerio, niente deve ostacolario fimo a che
abbia compiuto la sua 'corsa'.L a semplicità del vestito si

Le. 4,18-19; notare che Luca, a differenza diMe. 6,1-6 e diMf. 13,
53-58, riallaccia questo episodio agli inizi dell'azione di Gesù; nel pen
siero del narratore, la lettura di Is. 61,1-2, nella sinagoga di Nazareth,
prendeva evidentemente un valore di esempio, peraltro polivalente.
^ Is. 40,3 «Una voce grida: preparate nel deserto...»; 52,7 «Come
sono belh sulle colline i piedi di colui che porta buone notizie, che an
nuncia la pace, che porta la felicità, che annuncia la salvezza, che dice
a Sion: il tuo Dio regna»; citato parzialmente mRom. 10,15; notare
il richiamo esplicito del simbolo, Ef. 6,\5 «Abbiate per sandali la
prontezza a diffondere la buona novella della pace».
® Cfr. i sentimenti di Paolo: «La vita, ai miei occhi, non vale la pe-
offre qui come un altro simbolo della funzione e del genere
di vita che l'accompagna {Ef. 6,15). Una certa spogliazione è
la condizione normale della vita dell'araldo.
È dunque in questa linea che possiamo rappresentarci me­
glio gli inizi dell'azione di Gesù in Galilea. Nel Vicino e Me­
dio Oriente dei tempi antichi come nella Grecia e nella Ro­
ma classica, la funzione dell'araldo è un servizio perfettamen­
te strutturato nell'opinione e negli usi. Questo servizio sta
alla società antica come il giornale, la radio, la televisione
stanno alla nostra. Fu per lunghi secoli uno degli organi es­
senziali della comunicazione sociale a tutti i livelli, in tutta
la sua estensione.
Quando, in Israele, i profeti della grande tradizione di
Isaia, in modo particolare, s'impadronirono del personaggio
sociale dell'araldo per dare un'espressione concreta ai loro
rapporti con Jahvè, da una parte, e col popolo, dall'altra, al­
tro non fecero dunque che appoggiarsi ad un prototipo socio­
logico già da molto tempo familiare all'ambiente. Del resto,
la funzione aveva del prestigio. Gli araldi di Jahvè non ave­
vano dunque alcun interesse a deformarne l'immagine. Pote­
vano, invece, trovare un vantaggio sicuro a conservarne i
tratti per quanto lo permetteva la trasposizione del prototipo
nella sfera dell'azione religiosa.
Ora, tutto suggerisce che Gesù stesso non tenne altra con­
dotta quando venne per lui il momento di compiere la sua
missione. Modellando la sua azione iniziale su quella dei pro­
na che se ne paiii, purché io termini la mia corsa, tòn drómon mu, e
porti a compimento la missione, tèn diakonian (letteralmente: il servi­
zio), che ho ricevuto dal Signore Gesù, di rendere testimonianza alla
buona novella, tò euangélion, della grazia (benevolenza, favore, amore)
di Dio», Atti 20,24; anche 13,25 «Al termine della sua corsa, tòn dró­
mon», parlando di Giovanni Battista, che Paolo si raffigura sotto i tratti
del messaggero e dell'araldo; 2 Tini. 4,7 «Ho combattuto la buona
battagha, ho finito la mia corsa, tòn dròmon».
feti araldi di Jahvè, egli si trovava perciò stesso a modellarla
indirettamente su quella dell'antico araldo, la cui immagine
poteva, peraltro, rimanere attiva sul suo pensiero, indi­
pendentemente dal modello profetico/
La prima azione di Gesù in Galilea venne dunque a pren
dere, in maniera deliberata, la forma del 'messaggio'. Questo
messaggio non era un discorso: era una parola concisa, rac­
colta in una sola formula incisiva, destinata a essere ripetuta,
tale quale, ovunque se ne presentasse l'occasione. L'intenzione
di questa parola di choc sembra essere stata quella di operare
una prima breccia nella speranza del popolo, per cui il
disegno di Dio potesse passare in seguito nella sua totalità.
Certo, da solo il 'messaggio' non poteva compiere tutto: il
suo scopo era quello di inaugurare. Altri mezzi sarebbero
venuti, al loro momento, a portare più lontano il compimento
del piano di Dio, fino a che tutto fosse compiuto {Gv. 17, 1-
26; 19,30). Ma, in ragione della sua stessa forma, il 'mes­
saggio' aveva questo di prezioso, che permetteva di raggiun­
gere un gran numero fin dall'inizio.
Del resto, alla brevità e alla forza del 'messaggio' corri­
spondevano la mobilità e la sveltezza dell'araldo. Niente lo
tratteneva. In qualche settimana forse, più verosimilmente in
qualche mese, Gesù sembra aver 'percorso' cosi 'tutta la
Galilea'(Mi. 4,23). La sua 'fama' si diffuse ancor più lontano
(Mt. 4,24; Ze. 4,14).
Ma, in questo stile d'azione, quale poteva essere, in con­
creto, questa 'fama' se non quella di un 'profeta' nuovo? Il
'messaggio' di Gesù, con i 'segni' che l'accompagnavano, non
testimoniava forse, agli occhi di tutti, che 'i tempi' della gran­
de speranza, già annunciati dai profeti antichi, 'erano com-

’ Cfr., prima di lui, l'esempio di Giovamii, al quale la citazione


espressa di li. 60,3-5 rimasta unita nella tradizione cristiana primitiva:
«Una voce grida nel deserto...».
piuti'? 8 La continuità era visibile. Un 'profeta' era tra loro. 5
Questa ricostruzione comporta, lo so, una parte di conget­
tura. Quale non ne comporta? Del resto, la parte di conget­
tura non è grande, e, soprattutto, non è tale da compromet­
tere fin dall'inizio l'insieme della rappresentazione.
Le nostre osservazioni ricevono, inoltre, una solida con­
ferma daH'estemo. Si può pensare, in effetti, che la prima
missione dei Dodici sia stata concepita da Gesù sul modello
della sua propria missione iniziale in Galilea, cosi come essa
si è presentata alla nostra analisi. E questa, di gran lunga,
l'ipotesi in sé più verosimile.
Ora, i fatti sono esattamente quali noi ce li possiamo aspet­
tare. La prima missione dei Dodici {Me. 6,6-13 e par.) è anzi­
tutto del tipo 'messaggio', non del tipo 'istruzione'. I Dodici
vanno ad 'annunciare' (ekéryxan) {Me. 6,12); «cammin fa­
cendo», essi «annunciano {kèryssete) che il regno dei Cieli è
vicino» (Mi. 10,7); Gesù li manda ad «annunciare {kérys-
seìn) il regno di Dio» (Le. 9,2.6). Il primo 'messaggio' dei
Dodici, come quello di Gesù, è dunque in rapporto con lo
stile di parola e d'azione caratteristico dell'araldo: parola
breve, azione rapida, destinate ambedue a coprire senza ri­
tardi un vasto territorio.
E si tratta anche di una 'missione' in senso proprio. L'aral­
do era 'mandato': è a questo titolo che esercitava la sua fun­
zione {diakonta). Pure i Dodici sono, dunque, 'mandati'.
Ed è esattamente in quanto 'mandati' che essi portano, tra i
'discepoli' {rnathétài), il nome distintivo di 'apostoli' {apó-
stoloi) e che è loro affidato il servizio diretto della 'buona

* Per questo significato cfi. Atti 2,16-35 'messaggio' apostolico.


® Vedere, in particolare. Le. 4,24, che, nel pensiero del narratore al
meno, può voler riportarci al periodo inaugurale.
“ Apostéllein, Afe. 6,7; M t 10,5; Le. 9,2; cfr. Is. 6,8; 61,1; Rom.
10,15.
novella' (Le. 9,6). Essi sono i 'mandati' da Gesù, come que­
sti si riconosce egli stesso 'mandato' dal Padre.
Inoltre, la prima missione dei Dodici sottolinea retrospet­
tivamente il legame che univa i 'segni' al 'messaggio' iniziale
di Gesù in Galilea. Nella formula di Luca, Gesù 'manda' i
Dodici, non solo ad «annunciare il regno di Dio», ma anche
a 'guarire'(9,2). In questa occasione, tutti i racconti insistono
sul fatto che gli apostoli ricevettero da Gesù «potenza e
autorità» a questo scopo (Le. 9,1; Me. 6,7.13; M/. 10,8).
Ora, nel giudaismo palestinese del tempo, una tale asso­
ciazione del 'messaggio' e della 'potenza' che permette di ope­
rare dei 'segni', non poteva evocare che un solo personaggio,
almeno in coloro che erano disposti a riconoscere l'autenticità
della missione: questo personaggio era quello del 'profeta'
(cfir. Le. 24,19). Come abbiamo già fatto notare, è anzitutto
per l'effetto congiunto del suo 'messaggio' e dei 'segni' che
l'accompagnavano che lo stesso Gesù si era fatto riconoscere
come 'profeta'. C'è forse un ricordo di questo aspetto
'profetico' della prima missione dei Dodici nella parola rife­
rita da Matteo in questa occasione: «Chi accoglie un profeta
in quanto profeta riceverà una ricompensa di profeta» (io, 41;
cfr. 5,12).
Infine, mentre affida loro il suo 'messaggio', Gesù fa ai Do­
dici un certo numero di raccomandazioni riguardanti la ma­
niera con cui dovranno compiere la loro missione, e lo stile
di vita che converrà adottare lungo il cammino. Andranno di
città in città, di villaggio in villaggio e di casa in casa. È cosi
'cammin facendo' {poreuómenoì: Mi. 10,7) che 'annun­
ceranno' la 'buona novella' della venuta del 'regno di Dio'. In
quanto araldi dovranno essere mobili, e proprio per que-

" Senso generale del battesimo di Gesù nel Giordano; notare spe­
cialmente Le. 4,14: «Gesù ritornò allora in Galilea con la potenza dello
Spirito».
sto si conserveranno liberi, non lasciandosi arrestare né dalla
buona né dalla cattiva accoglienza che potrà loro essere fatta.
Vivranno dell'ospitalità che verrà loro offerta, cosi come si
presenterà, alla sola condizione che sia 'onorevole' (Mt.
10,11 ). Per il vestito e le altre necessità del viaggio non pren­
deranno che il minimo indispensabile. Cosi niente rallenterà
la loro corsa: saranno senza impedimenti, saranno liberi. Co­
si presenteranno a tutti l'immagine del vero araldo di Dio,
portatore della 'buona novella' della speranza, come Gesù
stesso, senza dubbio, ne aveva prima dato l'esempio agli inizi
della sua azione in Galilea. Il 'maestro' non deve aver rac­
comandato ai suoi 'discepoli' uno stile di vita molto diverso
da quello che lui stesso aveva adottato in circostanze del tut-
to simili. 12
Attraverso la prima missione dei Dodici possiamo dunque
retrospettivamente farci un'idea abbastanza precisa degli ini­
zi dell'azione di Gesù in Galilea. Essenzialmente egli si pre­
sentò allora come un 'profeta', araldo di Jahvè, «potente in
opere e in parole» (Le. 24,19). Di città in città, di villaggio
in villaggio, di casa in casa e di sinagoga in sinagoga, egli dif­
fondeva ovunque questo messaggio: «I tempi sono compiuti
e il regno di Dio è vicino: pentitevi e credete a (questa)
buona novella» {Me. 1,15). Era un'azione rapida, destinata a
creare un primo sbocciare della speranza.
Tuttavia, introdotto cosi nella coscienza di uditori occa­
sionali, il 'messaggio' aveva i suoi limiti, che Gesù meno di
qualsiasi altro poteva nascondersi. Nell'ordine dell'azione il
'messaggio' richiedeva un complemento, che, per ciò stesso,
doveva essere di un altro stile. Fu 1' 'istruzione' {dìdaché).

'^Cfr. la missione dei settanta, o settantadue, discepoli, inZe. 10,1-


16, che, dal nostro punto divista, porta alle stesse conclusioni.
Ad un certo momento, che possiamo situare con verosimi­
glianza al termine di una lunga corsa attraverso la Galilea,
Gesù prese dunque la decisione di unirsi dei 'discepoli' {Me.
1,16-20 e par.). Alla qualifica di 'profeta' che gli era già rico­
nosciuta veniva ad aggiungersi cosi quella di 'maestro' {didà-
skalos; Le, epistdtès, sei volte). Ora, per Gesù, diventare
'maestro' significava in primo luogo dare una forma nuova
alla sua 'parola'. Ma ciò significava anche, fin dal principio,
accettare una modifica proporzionale nel ritmo dell'azione, e
perfino nello stile di vita.
Nell'ambiente palestinese dell'epoca, infatti, dare una
'istruzione' a dei 'discepoli', da parte di un 'maestro', non si­
gnificava per nulla sfornare un 'discorso', a getto continuo,
come potevano fare allora i conferenzieri e gli oratori. È un
errore totale, da parte nostra, immaginare, per esempio, che
le parabole di Gesù siano state semplicemente 'pronunciate',
alla maniera di un discorso, e che i 'discepoli' non abbiano
avuto da fare niente di meglio che ricostituire in seguito i
preziosi racconti servendosi di frammenti di ricordi radunati
nella loro memoria. Ed è uno sbaglio non meno totale, e non
meno serio, il rappresentarci, inoltre, il 'Sermone della
montagna' sul tipo del 'discorso' che ci è familiare, o di qua­
lificare lo stesso componimento, come lo leggiamo in Matteo,
come 'discorso inaugurale', o 'discorso-programma', o 'discor­
so evangelico'. In realtà, il 'Sermone della montagna' altro
non è che una raccolta di piccole 'istruzioni' ciascuna delle
quali, anche nella sua forma originale, non doveva superare
di molto, in media, la lunghezza delle Beatitudini {Mt. 5,3-
10.12) o del Pater {Mt. 6,j-x^), il che ci riconduce alle mo­
deste proporzioni letterarie della maggior parte delle parabole.
Riconosciamolo, queste cose sono ora molto lontante da
noi. Per comprendere il genere di azione condotta da Gesù nel­
la sua qualità di 'maestro' è necessario spiegarla brevemente.
L' 'istruzione' suppone anzitutto che il 'maestro' ne abbia
con cura, in precedenza, fissato il tema, lo sviluppo e spesso
anche la formulazione. Quando viene il momento di trasmet­
terla, r 'istruzione' possiede dunque già, di regola generale,
una forma definita. Il 'maestro' si siede e si circonda dei suoi
'discepoli'. Di solito questi non sono molto numerosi. Per
sua natura 1' 'istruzione' non è destinata a una grande folla.
Certamente, la 'folla' può esserci, come i nostri racconti sot­
tolineano spesso e volentieri, in parte senza dubbio per far
notare il favore di cui gode il 'maestro'. Ma, anche in presen­
za della 'folla', - di cui peraltro non bisogna esagerare l'im­
portanza numerica: c'è 'folla' in semplici case (Me. 3,32), -
non è meno chiaro, nell'insieme, che ciò che il 'maestro' cer­
ca in primo luogo è l'attenzione dei suoi 'discepoli' più vici­
ni, nel doppio significato dell'espressione. Propriamente par­
lando, è dunque a loro ch'egli trasmette la sua 'istruzione'.
Il 'maestro' lo fa ripetendo le sue formule, fino a che esse
si siano fissate nella mente dei 'discepoli'. Quando questo pri­
mo lavoro di memorizzazione è terminato, segue, se è il ca­
so, un periodo di spiegazione, a domande e risposte. Il 'mae­
stro' si assicura cosi che la sua 'istruzione' è stata non solo
ritenuta, ma capita.^"^ In breve, 1' 'istruzione' è un vero inse­
gnamento (didàskein), secondo il gusto dell'epoca e dell'am­
biente, e se è stato convenientemente ricevuto, tale insegna­
mento conduce a una certa 'intelligenza' e a un certo 'sapere'
[eìdénaì, ginóskein).

Me. 4,13-20 e par., a proposito della parabola del seminatore;


cfr. Le. 2,46, in cui Gesù, a dodici anni, ci è raffigurato «seduto in
mezzo ai dottori, ascoltandoli e interrogandoli».
Me. 4,13, «Voi non comprendete, ukóidate, questa parabola? Al
lora come comprenderete, gnósesthe, tutte le parabole?».
Per tutti i tratti della sua fisionomia, 1' 'istruzione' prati­
cata da Gesù si distingue dunque nettamente da un tipo di
'discorso' il cui primo scopo sarebbe la persuasione. Di con­
seguenza, per comprendere che le parabole, o le 'istruzioni'
raccolte nel Sermone della montagna, ci sono giunte nello
stato che noi conosciamo, non è affatto necessario supporre
che i primi uditori di Gesù abbiano avuto una memoria mi­
racolosa, né tanto menò che la tradizione evangelica abbia
potuto prodigiosamente ricostituire il passato. Basta che Gesù
sia stato un 'maestro' mirabilmente dotato nel suo genere,
come egli fu; e basta che i suoi uditori più fedeli siano stati
in realtà dei 'discepoli', come essi furono.
Ma quale differenza, allora, quando si paragona 1' 'istru­
zione' al 'messaggio'! Questo raggiungeva uditori d'occasio­
ne; quella si rivolge anzitutto a dei 'discepoli' che 'seguono'
il 'maestro' dovunque egli vada. Il 'messaggio' richiedeva, da
parte di Gesù, spostamenti rapidi e continui. L' 'istruzione',
invece, pur senza fissarlo in un posto come un maestro di
scuola, l'obbliga tuttavia a rallentare, e di molto, il ritmo della
sua azione.
Le differenze, comunque, non devono essere esagerate. Poi­
ché F 'istruzione', subordinata al 'messaggio', era nel contem­
po ad esso coordinata, come si può vedere, in modo partico­
lare, nelle parabole del regno. La breccia che il 'messaggio'
aveva immediatamente praticato nella speranza del popolo
di Galilea, doveva in qualche modo essere allargata dalla
'istruzione', lentamente, pazientemente, per dar via libera,
alla fine, alla pienezza della 'buona novella'. Pur non avendo
l'appoggio di alcun testo, tale ci sembra sia stata l'intenzione
di Gesù quando alla fine del suo primo viaggio in Galilea
egli si circondò di 'discepoli' e diede alla sua parola la forma
dell' 'istruzione'. Il pensiero del 'maestro' è qui iscritto nei
fatti, e la loro indicazione ci basta.
Si può pensare, d'altra parte, che la stretta parentela tra il
'messaggio' e 1' 'istruzione' permetteva, malgrado le inevita­
bili rotture, una larga e profonda continuità, sia nelle moda­
lità dell'azione che nello stile di vita. Certo, 1' 'istruzione' ri­
chiedeva per la sua stessa natura una certa stabilità/^ Ma è
altrettanto certo che Gesù era il più lontano possibile dallo
spirito di sistema. Anche dopo aver adottato la formula 'mae-
stro-discepoli', egli conservò sempre una grande libertà di
movimento. Forse niente è più significativo al riguardo di
quella risposta che diede un giorno allo sconosciuto che si
dichiarava disposto a 'seguirlo' dovunque andasse: «Le volpi
hanno delle tane e gli uccelli del cielo hanno dei nidi: il
Figlio dell'uomo invece non ha dove posare il capo».^*" C'è
qui senza dubbio un po' d'iperbole, ma almeno voleva dire
che il 'seguirlo' non era sempre un riposo.

3/ Analisi di alcune dichiarazioni di Gesù

Ho cercato di ricostruire la fisionomia dell'azione di Gesù


seguendo la linea di divisione delle principali forme lette­
rarie: il 'messaggio' e 1' 'istruzione'. Tali forme letterarie, in­
fatti, non sono entità astratte, prodotte casualmente dalle
contingenze storiche. Nel pensiero e sulle labbra di Gesù es­
se erano dei veri mezzi d'azione, scelti con riflessione e deli­
beratamente sviluppati, per un fine generale che poteva es­
sere definito come una inaugurazione decisiva del regno di
Dio.

Mf. 4,13 e 9,i, a proposito dello 'stabilirsi' a Cafarnao, la 'sua


città'.
Le. 9,57-58; Mt. 8,19-20 mette in scena uno scriba già simpatiz
zante.
A loro volta, i mezzi d'azione, com'era naturale, richie­
devano un certo stile di vita in colui che li metteva quotidia­
namente in opera. Nell'insieme, il contenuto del 'messaggio'
e dell' 'istruzione', il fine inteso, i mezzi impiegati, e un certo
stile di vita impresso di conseguenza agli atteggiamenti e ai
gesti di ogni giorno, vennero dunque a congiungersi cosi da
dare alla figura di Gesù dei tratti sufficientemente identifica­
bili fin dall'inizio: egli era 'profeta' e 'maestro', e poteva es­
sere l'uno senza cessare di essere l'altro/^ Più tardi, ma sol­
tanto più tardi, facendo un passo in più, si riconoscerà che
questo 'profeta' e questo 'maestro' possedeva anche la qua­
lità messianica.
La linea di divisione delle forme letterarie sulla quale ab­
biamo costruito la nostra analisi non era, dunque, una fron­
tiera, ancor meno un muro di separazione. La libertà con cui
la tradizione evangelica ci conduce da una parte e dall'altra è
perfino sconcertante.^^ Con la riflessione e l'attenzione ne­
cessarie, non è impossibile, tuttavia, vederci chiaro, e, tutto
sommato, il quadro che ne risulta è abbastanza ben disegnato
Ora, è sullo sfondo di tale quadro che un certo numero di
dichiarazioni di Gesù, molto importanti per la nostra conce­
zione dello stile di vita appropriato al servizio pastorale,
prendono il loro signiflcato primo e autentico. Vorrei dun­
que ora precisare tale significato in rapporto all'analisi che
precede.

” Mi. II, I «Quando Gesù ebbe finito di dare tali direttive ai suoi
dodici discepoli», - si tratta della prima missione dei Dodici, - «...egli
se ne andò a portare le sue istruzioni e il suo messaggio, didàskein
kài kèryssein, attraverso le loro città», cfi. Me. 6,6 didàskon soltanto;
Le. 8,1 «Egli camminava attraverso città e villaggi, proclamando e an
nunciando la buona novella del regno di Dio»: o meglio, forse, «an
nunciando la buona novella alla maniera degli araldi», kèryssón kài
euangelizómenos.
Mi. 4,23-25, dopo la chiamata dei primi 'discepoli'; Le. 4,15.
i. Fermiamoci anzitutto all'episodio del 'giovane ricco' [Mt.
19,16-22; Me. 10,17-22; Le. 18,18-23). Marco, nella sua pre­
sentazione, dice semplicemente 'qualcuno'. Luca parla di un
'notabile', dunque, di un uomo che ha già una certa età e che
porta delle responsabilità. Matteo segue anzitutto Marco nella
sua presentazione, ma alla fine precisa che si tratta di un
'giovane'. Tuttavia non lasciamoci ingannare dalla traduzio­
ne. Poiché, in greco, questo 'giovane' è un nean'iskos, e un
neanìskos non è un adolescente (meiràkion), e neanche ne­
cessariamente un uomo molto giovane: è qualcuno che può
avere vent'anni, ma che può anche averne trenta, e anche di
più, e che, in ogni caso, può essere già legato da obblighi e
responsabilità diverse.
Un 'giovane' si presenta dunque a Gesù e, salutandolo con
deferenza con il suo titolo di 'maestro', gli domanda cosa deve
«fare di buono per possedere la vita eterna». Gesù gli ri­
sponde: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamen­
ti». «Li ho osservati — risponde il giovane — che cosa mi
manca ancora?». «Se vuoi essere perfetto — gli dice Gesù
— va', vendi quello che hai, dallo ai poveri, e avrai un
tesoro nei cieli; poi vieni, seguimi. Avendo udito questa
parola, il giovane se ne andò triste, perché aveva grandi beni
(Mt. 19,16-22).
Non intendo analizzare dettagliatamente tutto il racconto.
Per quello che ci interessa ora, due cose soltanto meritano la
nostra attenzione: da una parte il «se vuoi essere perfet-

^^Atti 7)8: al tempo del martirio di Stefano, cioè poco prima della sua
conversione. Paolo è detto da Luca manias: con lo stesso significato.
Diremo tra parentesi che non è dunque molto indicato fare del 'giovane'
ricco di Matteo il tipo dell'adolescente che rifiuta la 'vocazione^ per
procurarsi i vantaggi di una carriera bella e, forse, lucrativa! È un
rovinare gratuitamente il ricordo di un uomo generoso, e inoltre un
ingarbugliare un bel po' di cose, che sarebbero megho servite dalla
chiarezza e dall'onestà.
to» (proprio a Mt.) e dall'altra il «vieni, seguimi». Le due frasi
sono del resto legate tra loro. E quello che importa è l'intendere
esattamente tale legame.
Nell'interpretazione esegetica e pastorale esiste una certa
tendenza a stabilire un rapporto diretto tra la chiamata alla
'perfezione' e la rinuncia alle ricchezze. È questo il pensiero di
Gesù?
Si può convenire, suppongo, che l'accénto principale nella
risposta del 'maestro' è sul «vieni, seguimi». Ora, nelle cir­
costanze in cui è situato il racconto, 'seguire' Gesù nella sua
qualità di 'maestro' significa, anzitutto, unirsi a lui per raccogliere
il suo insegnamento, o, se si preferisce, nel linguaggio della
tradizione evangelica, le sue 'istruzioni'. Ma d'altra parte, siccome
l'invito caratterizzato dal «se vuoi essere perfetto» è proprio a
Matteo, non c'è metodo più sicuro che cercare la spiegazione in
Matteo stesso.
In realtà, non è necessaria una lunga ricerca per scoprire, in
Matteo, le 'istruzioni' di Gesù relative alla 'perfezione' dei
comandamenti, e in una maniera più generale, alla 'perfezione'
della legge. Si trovano nella grande raccolta del Sermone della
montagna, dove si presentano espressamente come tali: «Non
crediate che sia venuto ad abolire la Legge o i profeti: non sono
venuto ad abolire, ma a perfezionare {pi èro sai)... Avete udito ciò
che fu detto agli antichi: Non ucciderai... Ebbene! io vi dico:
chiunque si adira contro il fratello ne risponderà in tribunale... Voi
dunque sarete perfetti (téteioi) come il vostro Padre celeste è
perfetto».^” Ecco dunque come, impegnandosi a 'seguire' Gesù, si
può cercare, al di là degli stessi comandamenti, una nuova 'perfe-

Mt. 17-48; notare che l'ordine dei comandamenti ricordati al


'giovane' in 19,18-19 è identico, tranne due aggiunte da una parte e una
dall'altra, a quello sottinteso dalle 'istruzioni' corrispondenti del
Sermone della montagna.

5 ■ 12
zione'. Questa è essenzialmente una imitazione del Padre,
ed è r 'istruzione' di Gesù che ne traccia le grandi linee per
quelli che diventano suoi 'discepoli'.
Esiste, allora, un legame diretto tra l'invito alla 'perfezio­
ne' che Gesù rivolge al 'giovane' e l'invito a 'seguirlo' che gli
rivolge nello stesso tempo. Il legame si realizza nelT 'istru­
zione' del 'maestro' che propone, appunto, una 'perfezione'
nuova rispetto a quei comandamenti che il 'giovane' dichiara
di aver osservato «fin dalla giovinezza».
Di conseguenza è altrettanto chiaro che l'abbandono delle
ricchezze diventa una condizione preliminare di libertà per
'seguire' Gesù e ricevere il suo insegnamento. Per contro non
è, in rapporto diretto, una condizione della 'perfezione'. Non
si diventa 'perfetti' per il solo fatto di abbandonare le proprie
ricchezze per distribuirle ai poveri (cfr. i Cor 13,3). Lo si
diventa mettendosi alla scuola di un 'maestro' la cui
'istruzione' insegna soprattutto la misericordia e l'amore.^^
Ma, per 'seguire' Gesù e diventare cosi pienamente suoi 'di­
scepoli', bisogna anzitutto essere liberi o essersi resi liberi.
Nel caso, tale libertà potrà anche richiedere che si rinunci ai
propri beni e li si distribuisca ai poveri. Peraltro, chi arriverà
fino a questo limite, potrà sostenere la sua speranza sapendo
che un 'tesoro' è preparato per lui nei cieli.
Ma, d'altra parte, ci sono anche certe situazioni che con­
viene rispettare. Il 'giovane' incontrato da Gesù possedeva
grandi beni. Messo all'improwiso davanti a un invito a 'se­
guirlo', credette senza dubbio di non essere libero di farlo.
Parti 'triste'. Certamente non tradiremo l'amore con cui

Me. 10,20; Ze. 18,21; circa l'invito alla'perfezione'di Mf. 19,21


cfr. in M e. e Le. la formula «una sola cosa», o «una cosa ancora ti
manca»: uguale significato, benché espresso meno chiaramente, nell'al
lusione all' 'istruzione' caratteristica di Gesù.
^ Le. 6,36 «Mostratevi misericordiosi, come il vostro Padre è mise
ricordioso».
Gesù stesso ha amato quello sconosciuto {Me. 10,21) se pen­
siamo che la sua decisione poggia su nobili motivi. Con qua­
le diritto possiamo attribuirgliene altri, e chi siamo noi per
farlo? I testi non dicono niente su tali motivi. E non dove­
vano neanche analizzarli. Si fermano perciò ad una sola con­
siderazione, che è quella delle ricchezze e degli ostacoli che
esse possono porre ad una speranza più alta. Ma, in definiti­
va, «tutto è possibile a Dio» {Mt. 19,26 e par.), e la speranza
stessa dei ricchi potrà un giorno essere esaudita.
Tanto più che le sfumature hanno qui una tale portata che
devono essere raccolte con la maggior cura possibile. Non
c'è, nel nostro racconto, propriamente parlando, un invito al
distacco dalle ricchezze: c'è - e questa è una cosa tutta diversa
- un invito a 'seguire' Gesù, invito che generalmente
presuppone larghe condizioni di libertà, se è vero che non si
può nello stesso tempo essere a casa, tra i propri familiari, a
dirigere i propri affari, e sulle strade, andando di città in
città, di villaggio in villaggio e di casa in casa, interamente
consacrati alla 'parola' che annuncia e inaugura il regno, por­
tando testimonianza, inoltre, con la propria presenza accanto
a Gesù, che il regno di Dio è effettivamente inaugurato. 'Se­
guire' Gesù, in quel tempo, non significa ancora ritirarsi nel
deserto, o, come noi diciamo, abbandonare il 'mondo' per
'praticare le virtù evangeliche'. Si tratta, al contrario, di ac­
cettare di essere, con Gesù, in mezzo alle città, in mezzo ai
villaggi, in mezzo alle case, in mezzo alle 'folle', per racco­
gliere la 'parola', lievito nella pasta {Mi. 13,33; Le. 13,20-
21), e, con un gesto concreto, testimoniare che la 'buona no­
vella' di una speranza illimitata è presente, attiva, riconosci­
bile, in mezzo agli uomini (Le. 17,21).
In fondo, ciò che comanda tutto il complesso insieme del­
le condizioni di libertà nel 'discepolo' della prima ora, è dun­
que, nel pensiero di Gesù, il 'servizio della parola', di quella
'parola' che è 'buona novella' della speranza racchiusa nel
nome del 'regno di Dio', di quella 'parola' che occorre non
solo accogliere, ma raccogliere, che occorre diffondere nel
caso,^^ e per la quale è necessario, in ogni modo, che una
testimonianza permanente e concreta di semplice presenza
sia resa fin dall'inizio. Un certo abbandono dei propri beni
doveva allora prender posto nell'insieme delle condizioni di
libertà richieste dal"servizio della parola'.
Come si vede dall'esempio dei Dodici e dello stesso Gesù,
tale abbandono poteva peraltro rivestire, e di fatto rivesti,
forme molteplici, secondo le circostanze. I Dodici avevano
«abbandonato tutto» (Mi. 19,27 e par.) per 'seguire' Gesù.
Ciò non toglie che noi troviamo più di una volta Simone e
Andrea, Giacomo e Giovanni, alle prese con le loro barche e
con delle preoccupazioni a loro ben note nella situazione pre­
cedente la chiamata. Sembra, d'altra parte, che Gesù, alme­
no per un po' di tempo, disponesse lui pure di una casa a
Cafarnao dove aveva deciso di stabilirsi provvisoriamente
(Mt. 4,13 e 9,1). Prima di morire lo vediamo affidare la cura
di sua madre al 'discepolo' che preferiva tra tutti: ora, «da
quel momento il discepolo la prese in casa sua» (Gv. 19,27).
La conclusione viene da sé.
Quale reale interesse poteva esserci a rompere la reahà
per farla entrare di forza nel quadro dei 'principi'? Non pare
che Gesù si sia mai lasciato sedurre da queste operazioni pe­
ricolose. L'abbandono dei beni era, tra le altre, una condizio­
ne del 'servizio della parola': non era una cosa in sé, davanti
alla quale, in ogni circostanza, ogni altra considerazione do­
veva cadere.

^ Prima missione temporanea dei Dodici, seguita, pare, da una mis­


sione molto più ampia, di cui tuttavia soltanto Luca sembra aver con­
servato il ricordo, 10,1-20.
2. U na seconda dichiarazione di Gesù, che la tradizione
evangelica riallaccia all'incontro del 'giovane' ricco ci conduce,
partendo da questo punto, nel cuore del problem a. Q uesta volta,
infatti, non si tratta soltanto dei beni, m a dei più intim i vincoli
familiari: padre, m adre, fratelli e sorelle, m oglie e figli.
Il 'giovane' è ripartito. G esù esprim e apertam ente la sua
inquietudine. Estendendo la prospettiva oltre la situazione
personale del 'giovane', egli vede le ricchezze come un m ucchio
di ostacoli che ostruiscono l'entrata del regno. «Sì, dice, ve lo
ripeto, è più facile per un cam m ello passare per la cruna di un ago
che per un ricco entrare nel regno dei cieli»]' L'im m agine era
forte: i discepoli restano m olto sorpresi. G esù li tranquillizza
facendo loro osservare che ciò che sem bra im possibile agli
uom ini non è im possibile a Dio.
È a questo punto che Pietro, senza dubbio desideroso di
conoscere la contropartita, butta là nella conversazione: «Ebbene!
N oi abbiam o lasciato tutto {aphéìaimen -patita) e ti abbiam o
seguito {ékoluthésam én soi), quale sarà la nostra parte? Gesù
disse loro: In verità vi dico, voi che mi avete seguito {huméis hoi
akoluthésantés moi), nella rigenerazione, quando il Figlio
dell'uom o siederà sul suo trono di gloria, voi pure siederete su
dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele (proprio a Ai/.).
E chiunque avrà lasciato (aphéken) case, (Luca aggiunge:
m oglie), fratelli, sorelle, padre, m adre, figli, o cam pi a causa del
m io nom e {Me: per causa m ia e per la buona novella; Le: a causa
del regno di Dio) riceverà il centuplo e avrà parte nella vita
eterna» {M t 19,23-29; Me 10,23-30; Ze. 18,24-30).
M i sono perm esso, ancora una volta, di citare il greco nella
traduzione. Leggendo certe parole, infatti, è facile che una
trasposizione più o m eno incosciente si operi nelle nostre m enti
ancor prim a di esserci ragionevolm ente assicurati di
aver cominciato a comprendere il testo. Certo, noi leggiamo
qui 'lasciare' e 'seguire'. Ma questi verbi concreti, che aveva­
no un senso grafico nella mente dei primi discepoli di Gesù,
perché traducevano per loro un'esperienza ancora viva, non
parlano più con lo stesso vigore alla nostra sensibilità e alla
nostra immaginazione. Noi leggiamo dunque 'lasciare' e 'se­
guire', ma noi intendiamo subito, o quasi, 'rinuncia' e 'distac­
co'. Questo, almeno, ci è familiare, ci sentiamo su un terreno
conosciuto e crediamo di aver capito. Tuttavia queste parole
non significano le stesse realtà umane, e una saggia diffidenza
di noi stessi ci renderebbe senza dubbio un eccellente servizio
in questo caso.
La sfumatura dei termini usati dai narratori evangelici
merita tanto più la nostra attenzione in quanto non si tratta
qui soltanto di case e di campi, ma di persone già legate tra
di loro sul piano più profondo, nella cerchia della famiglia.
Una cosa è, infatti, 'lasciare' un padre, una madre, dei fratelli,
delle sorelle, una moglie e dei figli, e altra cosa è 'distaccarsi'
da loro, e ancor più, s'intende, farsi di tale 'distacco' una
specie di ideale.
Certo, 'lasciare', nella prospettiva dei primi 'discepoli', si­
gnificava ratificare una scelta tra due ordini di valori, e, in
questo senso, significava staccarsi (cfr. Le. 14,25-27). Ma è
altrettanto chiaro che c'era un limite a questo 'distacco'. Non
si 'lasciava' perché era bene 'lasciare': si 'lasciava' perché,
nelle date circostanze, era meglio 'seguire' Gesù. Si 'lasciava'
perché la 'buona novella' del regno (Me.) richiedeva allora
tale gesto. In definitiva, tale gesto era dunque richiesto dal
'servizio della parola', ed è in rapporto a tale 'servizio' che
esso trovava il suo equilibrio.
È forse per un'attenzione particolare a tale equilibrio che
Marco e Matteo non hanno nominato la 'moglie' nella loro
enumerazione? Forse, anche se è sempre diffìcile interpreta­

vo IJ.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


re il silenzio. Per contro, nel fatto che Luca abbia incluso
la 'moglie' non si può assolutamente vedere una indicazione
relativa al celibato. Per arrivare a un'interpretazione del
genere, come recentemente si è tentato di fare, bisogna an­
zitutto passar sopra alle regole più certe della grammatica,
non solo, ma occorrerebbe soprattutto ignorare il contesto.
Infatti, quello che importa notare è che, in ogni caso, il
punto di vista della dichiarazione di Gesù non è quello della
sessualità come tale, ma quello dell'insieme delle relazioni
familiari. Ciò che si richiede, insomma, per il servizio della
'buona novella' del regno, sono delle condizioni generali di
libertà nelle quali si trova eventualmente compreso un al­
lontanamento dall'intimità coniugale.
Non c'è dunque alcuna indicazione secondo cui l'esercizio
della sessualità come tale potrebbe creare un qualsiasi
inconveniente nel «servizio della parola». Tutto è giudicato
dal punto di vista dello stile di vita preso nel suo insieme, e
questo è l'essenziale.
Arriviamo cosi, peraltro, a delle conclusioni precedente-
mente acquisite. Non si poteva, in quel tempo, 'seguire' Ge­
sù senza adottare nel medesimo tempo il suo stile di vita, ciò
che supponeva la prontezza a 'lasciare' molte persone e molte
cose.^^ Ma, ancora una volta, le modalità concrete di tale
gesto potevano essere molto più elastiche di quanto una
lettura meccanica dei nostri testi potrebbe far supporre. Dob­
biamo tener conto di una parte di stilizzazione. I Vangeli
non sono biografìe in cui noi potremmo sperare di trovare
gli equilibri minuziosi cari ai nostri storici.

3. Infìne, una terza dichiarazione di Gesù interessa ancora

Qualche manoscritto testimonia in senso contrario, ma senza se


rie possibilità di rappresentare la lezione originale.
^ Vedi la chiamata dei primi 'discepoli', Me. 1,16-20 e par.
direttamente la nostra ricerca. La si legge solo in Matteo, il che
indica, almeno, che essa ha interessato la tradizione meno di
quelle che abbiamo appena analizzato. La situazione letteraria che
Matteo le dà nel suo racconto non sembra peraltro assolutamente
fissa. Così pure le circostanze in cui la parola fu pronunciata ci
sfìaggono, e in fin dei conti l'interpretazione riceve poca luce dal
contesto.
Comunque prendiamo' le cose come ci si presentano. Per
mettere in imbarazzo Gesù alcuni farisei gli fanno una domanda
sul divorzio. La risposta del maestro sembra così esigente che
dopo i discepoli gli fanno osservare: «Se tale è la condizione
dell'uomo con la donna, non conviene sposarsi!». Secondo
Matteo è qui che Gesù avrebbe risposto, spostando la questione
su un altro terreno: «Non tutti comprendono un tale linguaggio,
ma soltanto quelli a cui è dato di comprendere. Ci sono, infatti,
degli eunuchi che sono nati così dal seno della loro madre, altri
che lo sono diventati per opera dell'uomo, altri ancora che si sono
resi tali loro stessi in vista del regno dei cieli {dia tèn basiléian
ton uranón). Chi può, comprenda» (Mt. 19,10-12).
L'immagine è in se stessa abbastanza chiara: si tratta della
continenza, e di una continenza liberamente scelta. Si tratta anche
di una situazione eccezionale: il valore di tale scelta lo capiscono
solo «quelli a cui è dato». Si capisce subito che sono rari, senza
tuttavia che sul fatto venga portato un giudizio di valore.
Poiché il verbo è al passato: «ci sono degli eunuchi che si sono
resi tali loro stessi», possiamo supporre inoltre che Gesù faceva
direttamente allusione a esempi già conosciuti. Gli interpreti
hanno spesso ricordato qui Giovanni Battista: il che è verosimile.
Ma, a partire da questa frase, è necessario seguire l'immagine
fino in fondo e credere che Gesù pensava, non solo

72 I J.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


a una continenza volontaria, ma anche a una continenza per­
petua? Sarebbe, in sé, naturale, ed è, in realtà, del tutto possibile.
Ma dobbiamo riconoscere che non abbiamo molti mezzi per
esserne certi. Se si preferisce limitarsi a un senso più generale, si
potrebbe dire che Gesù qui non fa altro che proporre, sotto una
forma nuova, ciò che abbiamo già letto sulle condizioni di libertà
necessarie per 'seguirlo' e mettersi così, «in vista del regno», al
«servizio della parola» (AU. 19,27-29 e par.).
Ma, facendo così, non si rischia forse di smussare la punta
della dichiarazione di Gesù che sembra appunto, sotto forma
d'immagine, avvolta da precauzioni, voler portare più lontano?
Tutto sommato, sembra preferibile ritenere che Gesù pensasse
effettivamente alla libera scelta di una continenza perpetua.
Detto questo, è chiaro, comunque, che tale continenza,
qualunque sia la modalità che le si attribuisce, s'incontra in un
medesimo fine con un gesto più largo di cui abbiamo già
analizzato la portata: quello di «lasciare case, fratelli, sorelle,
padre, madre, (moglie), figli, o campi», a causa di Gesù (Me,
'me'; Mt., 'mio nome'), a causa del 'regno di Dio' (Le.) e a causa
della 'buona novella' (Mt. 19,29 e par.). È evidentemente questo il
fondo delle cose.
A ciascuno il dono che gli è proprio. Non si deve respingere
alcun dono, non si deve disprezzare alcun dono. Ciò che è
permanente non porta ombra a ciò che è temporaneo, ciò che è
totale non rende inutile ciò che è parziale. In definitiva tutto è
ordinato al servizio della speranza del 'regno' (Mt. 19,12), le cui
strade sono infinite, se è vero che, in quest'ordine di cose, un
semplice bicchier d'acqua (Mt. 10,42; Aie. 9,41) conserva un
posto onorevole accanto alle più grandi fatiche.
CAPITOLO TERZO

LA CASA E IL MATRIMONIO NEL


SERVIZIO ITINERANTE DELLA PAROLA

1/ 'Ministero' e 'servizio'

Ho volutamente evitato di parlare di un 'ministero' di


Gesù. Non parlerò neanche di un 'ministero' apostolico. E
prego di credere che il rifiuto di un termine corrente non
significa che io ceda qui ad un semplice manierismo da filo­
logo né ad uno scrupolo passeggero di tecnico.
Nel nostro linguaggio teologico e pastorale, 'ministero' ha
preso un senso istituzionale molto marcato, in cui il rife­
rimento al culto sembra inoltre nettamente dominante. Ci
basta sentir nominare il 'ministero sacerdotale', il 'ministero
della predicazione', o il 'ministero dei sacramenti' perché
subito nella nostra mente appaiano gesti, atteggiamenti, com­
portamenti, stili e stati di vita le cui linee generali sono tutte
tracciate in anticipo, sia per i laici che per i chierici, da
un'istituzione ecclesiale onnipresente. Vediamo vocazioni e
missioni, regole spesso molto precise di preparazione e di
esecuzione, designazioni e direttive, condizioni di liceità e
di validità, senza dimenticare un importante regime
addizionale di sanzioni: insomma, tutta un'eredità, estrema-
mente ricca, di strutture diverse, grandi o piccole, universali
o locali, permanenti o transitorie, in cui l'azione e la vita di
ciascuno sono chiamate ad inserirsi.
Senza dubbio il quadro istituzionale del 'ministero', per quanto
sia attento a una certa 'regolarità' dei minimi gesti, lascia ancora
posto a molte iniziative e creazioni originali in cui i doni di
ciascuno e le risorse della comunità trovano modo di esplicarsi.
Diciamo anche che, almeno idealmente, il quadro istituzionale del
'ministero' esige tali creazioni e tali iniziative, senza di che
perderebbe in fretta ogni influsso sul mobile corso della vita
concreta. Per contro, sarebbe semplicemente contrario ai fatti
pretendere che siano tali creazioni ed iniziative a venire anzitutto
e soprattutto evocate nella nostra mente dalla parola 'ministero'.
Va da sé, d'altra parte, che non è stato così fin dall'inizio. Non
esitiamo a parlare, tuttavia, del 'ministero' profetico, del
'ministero' di Giovanni, del 'ministero' di Gesù, del 'ministero'
evangelico, del 'ministero' apostolico, e di non so quanti altri
'ministeri'. Questa maniera di esprimerci è certamente comoda
perché corrisponde all'uso che ci è più familiare. Ma si riesce
sempre, in storia, ad evitare l'anacronismo? Non credo. Senza
accorgerci, proiettiamo continuamente sul passato cose che sono
del nostro mondo, e solo del nostro mondo. L'anacronismo mi
sembra particolarmente flagrante quando parliamo del 'ministero'
della 'predicazione' di Gesù e dei suoi immediati discepoli. Il
risultato è che spesso cerchiamo nelle origini ciò che ci piace
trovarvi, e che forse non c'è, o, se c'è, non si presenta
necessariamente nella forma sotto cui noi vedremmo volentieri
che si trovasse. Per il che, ci priviamo inutilmente di una parte
considerevole delle ricchezze della tradizione primitiva, le cui
indicazioni creatrici, è il caso di dirlo?, sono ben lontane
dall'essere state esaurite.
Infatti, una lettura attenta non tarda a far vedere che la raccolta
degli scritti apostolici prende ben poco dal linguaggio
'ministeriale' per descrivere l'azione di Gesù e dei suoi di­
scepoli immediati. Ciò che, invece, si nota subito è l'estrema
elasticità e la grande varietà dei termini presi dal vocabola­
rio più corrente, e meno 'istituzionalizzato', dell' 'azione' e
del 'servizio'. Continueremo dunque ad attenerci a questo
vocabolario, al fine di assicurare, per quanto è possibile, una
esatta percezione dei valori originali del passato.

2/ Differenziazione delle persone nel


'servizio della parola'

E importante sottolineare fortemente, fin dall'inizio, un


fatto il cui significato ci apparirà in seguito poco a poco. Ed
è che il «servizio della parola», nell'età apostolica, fu straor­
dinariamente diversificato, sia riguardo alle persone che vi
si consacravano, sia per le forme letterarie che utilizzava,
sia infine per le condizioni generali nelle quali si svolgeva.
Per le persone, pensiamo naturalmente subito agli apo­
stoli, particolarmente ai Dodici, anche se lo stile e il campo
d'azione della maggior parte di loro rimangono praticamente
sconosciuti. Ma, in realtà, i Dodici non furono i soli a por­
tare il titolo ed a compiere la funzione di apostoli, fatto
questo che è già di per sé rivelatore dell'elasticità degli adat­
tamenti e degli sviluppi in corso. Paolo e Barnaba sono de­
gli esempi familiari. Ce ne sono altri, come si vede, special-
mente attraverso la Didaché (11,3-6). H servizio assunto da
Apollo, attorno all'anno 50, non è per noi ben definito, ma
esso pure era certamente molto vicino allo stile apostolico.^
I primi 'diaconi' di Gerusalemme erano stati istituiti per
un 'servizio' {diakonia) di beneficenza, perché i Dodici non

' 1 Cor. 1,12; 3,5 «Cos'è Apollo? E cos'è Paolo? Dei servitori, fdia-
konoi) grazie ai quali voi avete accolto la fede; e ciascuno nella carica
assegnatagli dal Signore»; cfr. anche 3,22.
fossero distolti dal loro servizio specifico da compiti che mi­
nacciavano di assorbirli {Attì6,ì-6). Ma non vediamo presto
Stefano e Filippo partecipare, ciascuno alla sua maniera, al
«servizio della parola»? Stefano entra frequentemente in
'discussione' con diversi gruppi di Giudei ellenizzati di Ge­
rusalemme {Atti 6,9-10).
Filippo s'allontana e si mette in cammino, dopo la tempe­
sta che aveva fatto àparire il suo compagno. Molti altri era­
no stati costretti a fare come lui. Questa dispersione fu fecon­
da. Approfittando dell'occasione, alcuni dei dispersi si de­
dicarono, in effetti, a diffondere la «parola della buona novel­
la» durante i loro spostamenti. Avvenne cosi, in particolare,
che una città di Samaria ricevette Filippo, che sembra
essersi fermato là per un bel po' di tempo. Il 'diacono' di
Gerusalemme vi «annunciava (ekéryssen) il Cristo», e dei
segni vennero a confermare il suo messaggio.
In seguito, dopo questi dispersi diventati per le circostan­
ze araldi della 'buona novella', vediamo apparire profeti e
dottori, che, con modalità diverse, si mettono a loro volta al
«servizio della parola».^ Tra loro vi sono degli itineranti e
dei sedentari. Ci furono degli uomini, certamente, ma non
dimentichiamo forse un po' troppo che ci furono anche delle
donne?
Frattanto, il 'diacono' Filippo s'era dunque stabilito a Ce­
sarea, dove ormai esercitava una funzione di 'evangelista'
(cfr. 2 Tim. 4,5; Ef. 4,11). Ora, nota Luca di passaggio, le
sue quattro figlie, non sposate e rimaste con lui, erano 'pro­
fetesse' {Atti 21,8-9). Dalla stessa fonte sappiamo che a Efe­
so Apollo completò la sua istruzione sotto la guida degli
sposi Prisca e Aquila che in quel tempo risiedevano nella

^ Atti 8,1.4-8; anche 11,19-21, nascita della Chiesa d'Antiochia nel


la stessa occasione e in condizioni analoghe.
^ Atti 11,27, P*"' Gerusalemme; 13,1-3, per Antiochia.
città {Atti 18,24-26). Per quanto sappiamo, né Prisca né suo
marito Aquila avevano un titolo definito nel «servizio della
parola». Ed è ancor più interessante, per il nostro punto di
vista, vederli 'esporre', data l'occasione, certi punti relativi
alla fede o alla vita cristiana a un uomo come Apollo.
Senza voler essere completi, non è forse però il caso di
fare qui un posto, inoltre, a quelli che furono i compagni di
viaggio e i collaboratori degli apostoli: Marco, Luca, Timo-'
teo, Tito, Epafra, Silvano, e quanti altri! Potremmo trala­
sciare di ricordare, d'altra parte, gli operai più oscuri che
prestarono aiuto nel «servizio della parola» con il loro lavoro,
la loro conoscenza delle lingue, ed anche, possiamo crederlo,
con le risorse del loro stile nella redazione delle lettere
apostoliche, come quel Terzio, che fu segretario di Paolo
quando questi preparava la sua grande lettera ai cristiani di
Roma {Rom. 16,22)? E curioso osservare, infine, che questa
stessa lettera, la più importante scritta da Paolo, fu senza
dubbio portata ai destinatari da una donna, quella Febe,
diaconessa di Cenere, che era già stata una 'protret-trice'
generosa ed efficace per molti cristiani e per lo stesso Paolo
{Rom. 16,1-2).

3/ Differenziazione delle forme letterarie


nel 'servizio della parola'

Ora, si possono constatare una diversificazione e una fies-


sibilità del tutto simili nelle forme della 'parola'. Non ci fu
agli inizi, fatto significativo, nessuna imitazione servile dei
generi letterari precedentemente usati da Gesù, e quindi
nessuna riproduzione meccanica dello stile d'azione che que­
sti stessi generi letterari avevano potuto rappresentare.
Certo, è facile riconoscere una filiazione dal 'messaggio'
iniziale di Gesù nel primo 'messaggio' apostolico, almeno
come ci è presentato da Luca negli Aiti,'* e come possiamo in­
travederlo, tra l'altro, nelle lettere di Paolo. Ma già le dif­
ferenze sono considerevoli, ed esse implicano cambiamenti
altrettanto notevoli nello stile dell'azione apostolica.
Si produce un'evoluzione in direzione del discorso: ciò
che non erano stati, in nessun modo, né il 'messaggio' ini­
ziale di Gesù {Me. 1,14-15), né il 'messaggio' della prima
missione dei Dodici, sostanzialmente identico, nella forma e
nel contenuto, a quello dello stesso Gesù {Me. 6,12; Mt. io,
7; Le. 9,2.6; cfr. 10,9). Il kérygma iniziale tende ormai, si
direbbe, verso il 'discorso kerygmatico'.^
Mutamenti analoghi si sono prodotti attorno all' 'istru­
zione'. Nessuno, nella generazione apostolica, sembra aver
continuato, per quanto riguarda il genere letterario, la 'pa­
rabola' di Gesù. Ci si è contentati di conservarne il ricordo.
La 'parabola' è rimasta cosi come il segno distintivo dell'
'istruzione' di Gesù. D'altra parte, 1' 'istruzione' apostolica
sembra essersi evoluta, in generale, verso uno stile sensibil­
mente più esortatorio, o parenetico, di quello del Maestro.
Gli esempi di questo genere d' 'istruzione' abbondano nella
raccolta delle lettere del Nuovo Testam ento.A sua volta, P
'istruzione' profetica viene ad aggiungere l'accentuazione
sua propria: rimprovero e incoraggiamento, come nelle let­
tere alle Chiese d'Asia Minore (Apoc. 2,1-3,22): visioni di
sciagure e di consolazione, come nel resto dellApocalisse di
Giovanni.^ Conosciamo molto meno P 'istruzione' dei dotto-

Particolarmente, 2,14-36 e 13,16-41.


^ Atti 10,34-43, dove comunque ci si trova in una semplice casa,
quella del centurione Cornelio, non giudeo, è vero.
®Rom. 12,1-15; 13, ecc.; tuttavia nota 1 Cor. 7,1-14,40 di un colo
re più 'disciplinare'.
Notare che l'autore, Gv. 1,4.9, si presenta come un 'profeta', non
come un apostolo, 22,9.18.
ri. Tuttavia, possiamo forse farcene una qualche idea attra­
verso la Lettera di Giacomo.
Inoltre, malgrado tutta l'importanza che diamo al 'mes­
saggio' e all' 'istruzione' apostolica, sarebbe un grave errore,
da parte nostra, pensare che queste due forme esaurissero il
campo d'azione nel servizio primitivo della parola. A questo
proposito, noi parliamo troppo facilmente della 'predicazio­
ne' degli apostoli, come peraltro di quella di Gesù- stesso.
Nella nostra mente, questo termine vago di 'predicazione' è
abitualmente inteso in maniera anacronistica. Di conseguen­
za esso presenta l'inconveniente molto serio di mascherarci
tutta una parte di realtà riguardo al servizio primitivo della
parola. Per il che, i modelli più autorevoli del nostro ser­
vizio pastorale vengono a trovarsi deformati e impoveriti.
In realtà le circostanze, in cui 'discorsi kerygmatici' del
tipo di quello di Pietro a Gerusalemme (Atti 2,14-36) o di
quello di Paolo ad Antiochia di Pisidia (Atti 13,16-43) po­
tevano sembrare naturali, dovettero essere relativamente rare.
Ciò che invece bisogna supporre, nel corso più ordinario
dell'azione apostolica, sia per il 'messaggio' che per 1' 'istru­
zione', sono forme letterarie che dovevano tendere molto più
verso la conversazione e la discussione che verso il discorso.
Ma qui sta il punto: i 'discorsi kerygmatici' potevano essere
ricostruiti nelle loro grandi linee e riferiti dal narratore degli
Atti. Le conversazioni e le discussioni, quando si svolgevano
attorno al 'messaggio', non potevano essere ricostruite.
Un'osservazione simile dev'essere fatta circa 1' 'istruzione'.
Gli esempi che abbiamo nella raccolta epistolare del Nuovo
Testamento rappresentano solo le forme più elevate di que­
sto genere letterario: quelle, appunto, che convenivano alle
assemblee e alle Chiese a cui erano indirizzate le lettere. Le
'istruzioni' individuali e le 'istruzioni' ai piccoli gruppi fa­
miliari sono perdute.
Sappiamo tuttavia nella maniera più certa che tali forme
ridotte del 'messaggio' e dell' 'istruzione', in quanto estre­
mamente elastiche e frequentemente usate, hanno svolto,
soprattutto all'interno del quadro domestico, una funzione di
primo piano nel servizio primitivo della parola.
Ho già ricordato l'esempio delle 'discussioni' del 'diacono'
Stefano con diversi gruppi di giudei ellenizzati del suo am­
biente. In maniera del tutto caratteristica. Luca mette un
lungo 'discorso' sulle labbra di Stefano quando costui appare
davanti ai giudici, ma ci lascia indovinare quali furono,
appunto, le 'discussioni' che condussero all'arresto del dia­
cono (Atti 6,8-53). Ricordiamo un altro esempio: quello del
battesimo dell'eunuco della regina d'Etiopia fatto dal 'dia­
cono' Filippo sulla strada da Gerusalemme a Gaza. È duran­
te una semplice conversazione che, in quel giorno, Filippo
'annuncia' al viaggiatore «la buona novella di Gesù» (Atti 8,
26-39). Abbiamo qui il 'messaggio' nella sua forma più fami­
liare: quella del dialogo.
E facile immaginarsi, partendo da questi esempi, numero­
se forme intermedie che, nella maggior parte dei casi, dove­
vano trovare il loro posto nel quadro domestico (implicita­
mente, Ef. 6,15). Non è necessario peraltro fare molte ipo­
tesi. Sappiamo, in effetti, dalla fonte migliore, che Paolo
trasmetteva abitualmente il suo 'messaggio' e dava la sua
'istruzione', non solo in pubblico [dèinosià(i)], cioè anzitutto
nelle assemblee dove Vekklésìa, si radunava, ma anche in
privato (kat'óikus), cioè «nella casa di ciascuno», — o «di
casa in casa», — secondo che se ne presentava l'occasione
(Atti 20,20-21). Le forme del 'servizio della parola' e lo stile
dell'azione apostolica erano dunque tali che in qualsiasi
momento, se la cosa pareva conveniente, il 'messaggio' e 1'
'istruzione' potevano raggiungere direttamente
l'individuo nel suo quadro di vita più costante e naturale:
la casa.^
Correlativamente, come già si vede, ci sbaglieremmo di
grosso sulle condizioni concrete nelle quali il 'servizio della
parola' fu svolto alle origini, se immaginassimo apostoli, pro­
feti e dottori in atteggiamenti oratori invariabili, richiesti da
assemblee più o meno imponenti e da circostanze più o me­
no solenni. In realtà, fu per cosi dire l'elasticità ad essere la
regola nella scelta delle condizioni in cui compiere il servizio
della parola.
Talvolta, a Gerusalemme, si utilizzarono i grandi raduni
nel Tempio (Atti 3,11-26). Molto più spesso si approfittò del­
le riunioni sabbatiche della sinagoga, seguendo, del restOj
l'esempio dello stesso Gesù.^ Va da sé che non furono tra­
scurate le assemblee cristiane {Atti 2,42; 20,7-12 ecc.). Ad
Atene vediamo Paolo 'intrattenersi' (dielégeto), non solo con
i giudei e i simpatizzanti che poteva incontrare alla sinago­
ga, ma anche, 'tutti i giorni', con i passanti di quel gran centro
d'attrazione che era l'agorà: il che lo condusse, come si sa, a
pronunciare il suo celebre, — e unico! — discorso davanti
all'Aeropago (.Ató 17,16-33; cfr. 14,13-18).
Ma non dimentichiamo che il Tempio e l'Aeropago erano,
ciascune» nel suo ordine, cose eccezionali. Né la sinagoga, lo
sappiamo, era sempre più accogliente. Quanto sOl'ekklèsia
cristiana, si può ben pensare che non poteva sempre riunirsi.
Dunque, in realtà, fu nel quadro domestico che il servizio
della parola, in tutte le sue forme, trovò, aH'origine, l'ap­
poggio più accessibile, più abituale e, senza dubbio, più
favorevole.
In particolare, com'era naturale, le inesauribili risorse che

* Cfr. Atti 20,31 «Per tre anni, di notte come di giorno, non ho ces
sato d'istruire con lacrime ciascuno di voi»; vedi anche 1 Tess. 2,11-12.
®Atti 13,14-15; 14,1; 17,2.17 ecc.; cfr. 16,12-15.
la casa poteva offrire, per via dell'ospitalità, nell'ordine delle
relazioni sociali e dei contatti umani, sembrano essere state
notate, dall'inizio, sia da chi riceveva che da chi era ricevuto.
L'episodio del battesimo del centurione Cornelio è, a questo
proposito, estremamente significativo. Nei giorni che precedono
l'arrivo di Pietro, Cornelio si prende cura d' 'invitare', o di 'riunire'
{sunkalesàmenos), per l'occasione, i «suoi parenti e i suoi amici
intimi» (tùs sungenéis autu kài tùs anankàìus philus). Nel
momento in cui.Pietro si presenta, con i suoi compagni e con la
scorta che Cornelio gli aveva mandato, egli non trova dunque
soltanto il centurione disposto ad ascoltarlo, ma anche «tutta la
sua casa» p a s ho óikós su), il che significa, non solo la famiglia
immediata (Atti 11,15), alla quale bisogna certamente aggiungere
i servi, ma anche i 'parenti' e gli 'amici' che ne fanno parte per la
circostanza {Atti 10,1-48). Dopo che tutti ebbero ricevuto il
battesimo, Pietro fu invitato a passare qualche giorno in mezzo a
loro. Anche questo era nei migliori usi dell'ospitalità dell'epoca.
Così si moltiplicavano le occasioni dell' 'istruzione' e del
'messaggio'.
Si coglie qui, mi sembra, in un esempio meravigliosamente
dettagliato e concreto, la maniera in cui dovette formarsi alle
origini il primo nucleo di molte ekklestai cristiane. Si vede,
immediatamente, il punto preciso su cui si articola, in questo
insieme, il «servizio della parola» nell'età apostolica. Benché non
vi pensassimo quasi più, non c'è alcun dubbio che la 'casa' abbia
svolto, a questo proposito, una Sanzione d'importanza capitale.'”

“ Cfr. nello stesso senso il racconto più breve del battesimo di Lidia,
la venditrice di porpora di Tiatira: «Il Signore le apri il cuore, racconta
Luca, così che aderì alla parola dì Paolo. Dopo essere stata battezzata
insieme alla gente della sua casa, kài ho óikos autès, ella ci

84 I J.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


4/ Differenziazione delle condizioni generali in
cui si svolgeva il 'servizio della parola'

Legato strettamente al quadro domestico, su cui contava


cosi largamente in vista della propria continuità ed efficacia,
nulla indica, d'altra parte, che il servizio itinerante della
parola, durante il periodo apostolico, si sia fatto nello stesso
tempo il promotore universale di un ideale di continenza e
di verginità tra i nuovi discepoli di Gesù. E come, since­
ramente, avrebbe potuto essere altrimenti?
In realtà, è solo in una comoda lontananza di molte gene­
razioni che gli scrittori di romanzi apostolici, nel II e III
secolo, hanno potuto immaginare il contrario (Atti di Gio­
vanni, di Paolo, di Pietro, di Andrea e di Tommaso). Ma
allora questa pia raccolta di cianfrusaglie fatte di prodigi gra­
tuiti e di ossessioni sessuali si divertiva ad urtare frontal­
mente contro le più elementari verosimiglianze. Non si può
domandare a tale raccolta una visione sulla realtà della sto­
ria, e neanche sulla realtà tout court, tranne la testimonianza
che senza volerlo dà del profondo tormento dualista
dell'epoca. Considerati nel loro insieme, i documenti au­
tentici, da parte loro, ci conducono piuttosto a pensare che i
discepoli immediati di Gesù non hanno oltrepassato, su
questo punto, i limiti estremamente discreti nei quali si era
tenuto il loro maestro.
Tuttavia, i «servi della parola», gli apostoli soprattutto, si
trovavano, a questo riguardo, in una situazione speciale.
Gesù aveva parlato, pare, di due forme di continenza nel

fece questo pressante invito: se mi considerate una fedele del Signore,


venire ad abitare nella mia casa. Ed ella ci obbligò ad andare», Atti
16,12-15; anche 16,29-34, la 'casa' del carceriere di Paolo e Sila a Fi­
lippi, in Macedonia; 18,18, la 'casa' di Crispo, capo della sinagoga a
Corinto; 1 Cor. 1,16, la 'casa' di Stefana, della stessa città.
quadro più generale di un servizio della 'buona novella'. Da
una parte si trattava allora, nel suo pensiero, della continen­
za coniugale di quelli che 'lasciavano' tutto per 'seguirlo', e,
d'altra parte, della continenza di quelli che avevano già ri­
nunciato al matrimonio stesso «in vista del regno» di Dio. In
definitiva, da una parte come dall'altra, la continenza si
presentava dunque come una condizione di servizio.
Concretamente, per quel che riguarda gli apostoli, princi­
pali responsabili del servizio itinerante della parola, come
avvennero le cose? E possibile saperlo?
Riconosciamo subito che agli occhi della generazione apo­
stolica un tale problema sarebbe senza dubbio parso indi­
screto. È già infatti sintomatico il fatto che la tradizione pri­
mitiva non si sia compiaciuta a far sapere a tutti ciò che gli
apostoli avevano potuto lasciare dietro a loro. A distanza,
tutto sommato, non possiamo che rendere omaggio a questa
perfetta riservatezza, che resta per noi il segno inequivoca­
bile di un giusto apprezzamento dei valori in causa.
D'altra parte, però, non possiamo dimenticare che l'esem­
pio apostolico ispira ancora, a buon diritto, tutto lo stile del
nostro servizio pastorale. Quale fu questo esempio? Non
sarà male, se possibile, delineame i contorni, non fosse altro
col modesto scopo di moderare la proliferazione dei press'a
poco. Noi arriviamo a concepire che un passato reale illumi­
ni ancora oggi il nostro servizio pastorale. Entro certi limiti,
imposti dall'irreversibilità della storia, c'è in questo qualcosa
di sano e di desiderabile. Non riusciamo a vedere, invece,
quali vantaggi potremmo cavare da questa o quella
esagerazione: per non dire, qua e là, dalla pura e semplice
leggenda.
Il problema non è nuovo. Oggi sembra addirittura un po'
futile. Ma, dal momento che certi miti ancora vi si attacca­
no, poniamoci pure la domanda: gli apostoli furono sposati?
Dal silenzio quasi totale della tradizione primitiva su que­
sto punto, Tertulliano pretese un giorno trarre questa audace
conclusione: ad eccezione di Pietro, la cui suocera sappiamo
fu guarita da Gesù, gli altri apostoli o restarono celibi o
vissero nella continenza. E vero che in quel momento
l'illustre Africano aveva una tesi ben fissa nella sua testa:
quella del montanismo/^ Da parte sua, Basilio, spirito mo­
derato, per nulla sospetto di faciloneria, ammetteva tran­
quillamente che tutti gli apostoli erano sposati. Li proponeva
addirittura come esempio ai cristiani del suo tempo a cui
non sorridevano le ardue vie dell'ascetismo.^^
La verità storica sta probabilmente tra questi due estremi.
Infatti, se una febbre casuale non avesse condotto Gesù al
letto della suocera di Pietro, la tradizione evangelica avreb­
be conservato il silenzio più completo sul matrimonio dei
primi discepoli. Potremmo da questo concludere che nessu­
no di loro era sposato? Certamente no. Ciò che resta da dire
è semplicemente questo: le idee e le usanze dell'ambiente
bastano a rendere probabile il fatto che la maggior parte
degli apostoli siano stati sposati; è anche possibile che lo
siano stati tutti, senza eccezione.
Mancando ogni seria informazione in senso contrario, non
è dunque il caso di speculare, in particolare, sulla 'verginità'
di Giovanni, come capita ancora che si faccia, quando si cer­
ca di spiegare con questo motivo non solo la preferenza che
Gesù gli fece tra i discepoli, ma anche quella profondità di
visione di cui testimonia il quarto Vangelo! Diciamolo fran­
camente: questi sono soltanto dei sogni, abbastanza strani,
che hanno del resto perduto molto della loro 'poesia'. In
realtà, è Pietro, e non Giovanni, che sembra essere stato il

* De monogamia, 8.
De renuntiatione saeculij.
primo a indovinare, all'inizio, la qualità messianica di Gesù
(Me. 8,27-30 e par.). Ed è anche necessario aggiungere che
l'idea di fare dell' 'apostolo vergine' il simbolo cristiano della
'funzione' contemplativa è altrettanto fragile. In realtà, circa
il celibato o il matrimonio di Giovanni, non sappiamo nulla.
Nell'uno come nell'altro caso ci troviamo irrimediabilmente
chiusi nel campo del solo possibile. La saggezza raccomanda
di non costruire niente di troppo elevato su un tale
fondamento.
Siamo informati, d'altra parte, della situazione di Paolo
da due piccole frasi dell'apostolo stesso. La prima è in rap­
porto ai cristiani già sposati ai quali ha appena fatto delle
raccomandazioni relative alla loro vita coniugale. «Ciò che
dico qui — aggiunge — è una concessione, non un ordine»,
cioè: voi dovete tuttavia comprendere che vi ho parlato
tenendo conto della vostra situazione nella quale non vi
avrei imposto di mettervi. Poiché «preferirei che tutti fos­
sero come me; ma, (a dire il vero), ciascuno riceve da Dio il
suo dono particolare, uno questo, l'altro quello». Paolo
prevede in seguito il caso dei non sposati e delle vedove:
«Dico peraltro ai non sposati (tais agàmois) e alle vedove
che è bene per loro rimanere come me. Ma se non possono
contenersi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare» (1
Cor. 7,6-9).
Dall'insieme di questo passo, la maggior parte degli in­
terpreti, antichi e moderni, ha concluso, a ragione, mi sem­
bra, che Paolo non si sposò mai. Ci sono, tuttavia, delle voci
discordanti. Il problema sta nel fatto che àgamos non si può
tradurre semplicemente con 'celibe'. A stretto rigore di ter­
mini, Yagamos, è il 'non-sposato', il che comprende, nell'uso
della lingua, sia il 'vedovo' e il congiunto 'separato' o divor­
ziato che il 'c e lib e '.C iò che sembrava chiarissimo a prima
vista, diventa dunque un po' meno chiaro quando si guarda­
no le cose da vicino.
E peraltro inutile stupirsi a priori di fronte all'ipotesi di
un matrimonio precedente di Paolo, come alcuni, natural­
mente, non mancano di fare. I fatti sono fatti. Ciò che oc­
corre riconoscere è che questo testo non ha alcun bisogno di
essere torturato cosi da intendere che Paolo sarebbe stato
'vedovo' nel momento in cui' scriveva la sua lettera ai Corinti.
La sola cosa certa è, dunque, che egli allora era libero da
obblighi coniugali (senso generale di àgamos). E si deve ag­
giungere che P 'istruzione' dell'apostolo, come la leggiamo in
i Cor. 7, si capisce meglio se si presuppone che Paolo non
sia mai stato sposato. Infine, quello che sappiamo di lui pare
testimoniare nello stesso senso. Questo è tutto ciò che la
storia sembra autorizzata a dire. E conviene fermarci a
questo.

Da un punto di vista che non è senza rapporto con quello


del matrimonio, non sarà inutile precisare, inoltre, qualche
dettaglio cronologico relativo alle 'partenze' degli apostoli.
Benché si sappia poco a questo proposito, e solo per via
indiretta, è difficile tuttavia pensare che i ritardi che hanno
contrassegnato le prime 'partenze' apostoliche siano sempre
stati estranei alla situazione familiare degli stessi apostoli.
Tali ritardi non hanno dunque un significato solo per la
storia delle origini della Chiesa: ne hanno anche uno per la
nostra maniera di rappresentare i primi modelli del nostro
servizio pastorale.
I Dodici, e lo stesso Paolo, hanno forse 'lasciato tutto':
case, proprietà, padre, madre, fratelli, sorelle, moglie e figli.

Cor. 7,11, dove àgamos qualifica appunto la situazione del con­


giunto 'separato'.
così, semplicemente, bmscamente, senza pensarci? Anche pri­
ma di ogni esame, è poco verosimile che le cose si siano
svolte in questa maniera. Forse che i documenti ci obbliga­
no a pensarlo?
Dobbiamo anzitutto stare in guardia contro una certa im­
maginazione semplificatrice. Quando leggiamo: «Andate nel
mondo intero, annunciate la buona novella...» (Me. 16,15;
Mt. 28,19), siamo forse invitati ad intendere che gli apostoli
si misero immediatamente a dividersi il mondo, disponendosi
subito a partire? Tale idea ebbe, come si sa, una lunga
fortuna. In questi ultimi tempi è stata molto corretta. Ma
non è certo, malgrado tutto, che essa non continui a domina­
re oscuramente molti spiriti.
In realtà, i racconti più particolareggiati di Luca, negli
Atti, ci conducono ad opinioni sfumate che, senza contrad­
dire nella sua intenzione ultima l'invito solenne che Marco e
Matteo mettono sulle labbra di Gesù, obbligano tuttavia a
ricollocarlo nel quadro dell'esperienza globale della Chiesa
primitiva.
Cosi, dopo la partenza di Gesù, vediamo i Dodici stabi­
lirsi anzitutto a Gerusalemme. Poco prima del 35, l'istitu­
zione dei Sette per un servizio di beneficenza subordinato al
servizio della parola implica logicamente, da parte degli
apostoli, una relativa sedentarietà (Atti 6,1-6). La 'violenta
persecuzione' che si scatenò sulla Chiesa-madre dopo il mar­
tirio di Stefano (verso il 36) portò alla dispersione di un
buon numero di credenti attraverso le campagne della Giu­
dea e della Samaria. Ma Luca nota espressamente che, in
tale occasione, gli apostoli restarono sul posto (Atti 8,1).
Dopo questa data, il quadro si oscura. Ci sono comunque
delle buone ragioni per pensare che fu attorno agli anni 40
che ebbe luogo l'allontanamento definitivo della maggior
parte degli apostoli. Ci furono tuttavia delle eccezioni. Gia-
corno, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo, si trovava
ancora a Gerusalemme sotto Agrippa I che lo fece perire di
spada nel 43 o 44 {Atti 12,1-2). Lo stesso Pietro abbandonò
la città per un'assenza prolungata solo verso la medesima data
{Atti 12,18). Ve lo ritroviamo, tuttavia, ancora una volta,
con Giovanni, attorno agli anni 50, al tempo della riunione
che doveva decidere circa le condizioni per accogliere i
gentih nella Chiesa {Atti 15,7'; Gal. 2,9).
Questa considerazione può distruggere alcune delle no­
stre immagini favorite, ma, in realtà, anche la 'partenza' di
Paolo presenta una fisionomia simile. L'episodio della stra­
da di Damasco si pone verosimilmente verso gli anni 36-37
{Atti 9,1-19). Dopo questo fatto Paolo annunciò per un po'
di tempo la 'buona novella' a Damasco {Atti 9,19-20), parti
per 1"Arabia' per ritornare poi ancora a Damasco {Atti 9,
23-25; Gal. 1,17). Sali allora a Gerusalemme per far visita a
Pietro, e rimase con lui quindici giorni {Gal. 1,18). 'Tre an­
ni' erano già passati dalla sua conversione. Se si contano que­
sti 'tre anni' come parte di un anno, un'annata completa e
un'altra parte di anno, secondo un uso corrente in quell'am­
biente, si arriva circa all'anno 39 per quanto riguarda il sog­
giorno di Paolo a Gerusalemme con Pietro.
Avendo la sua presenza sollevato subito inquietudini in
alcuni. Paolo parti per la sua città natale di Tarso, in Cilicia
(cfr. tuttavia Gal. 1,21). Vi rimase circa quattro anni, fino a
che Barnaba, che l'aveva conosciuto durante il suo passag­
gio a Gerusalemme, venne a cercarlo per unirlo al suo lavo­
ro nella Chiesa di Antiochia {Atti 11,25-26). Questo acca­
deva probabilmente nel 43. Eran già passati sei o sette anni
da che Paolo era stato battezzato da Anania (.Atò 9,10-19).
Un anno più tardi. Paolo parti finalmente con Barnaba per il
suo primo grande viaggio apostolico.
E chiaro: né la 'partenza' dei Dodici, né quella di Paolo
furono immediate. Ci furono dei ritardi, e lunghi anche, ispi­
rati, senza dubbio, da tutta una serie di considerazioni di
necessità e di utilità, ma anche, — perché no? — almeno
una volta o l'altra, da motivi di semplice convenienza. Ri­
troviamo dunque qui, una volta di più, quel carattere di
estrema flessibilità che abbiamo già incontrato in altri casi.
Ora, tra queste considerazioni di necessità e questi motivi di
convenienza, c'era senz'altro un posto per una giusta
attenzione a situazioni familiari già costituite. Tutto porta a
credere che, di fatto, una tale attenzione non sia stata assente.
I nostri testi non ne hanno parlato perché, in quell'epoca e in
quell'ambiente, ci si intendeva molto bene e, per cosi dire,
questa era una cosa che andava da sé. Ecco tutto.

Avremmo, tuttavia, un'informazione più diretta a questo


proposito se un'allusione fatta di passaggio in una lettera di
Paolo potesse essere intesa senza ambiguità.
Scrivendo alla sua Chiesa di Corinto, nella primavera del
57, Paolo, in risposta ai suoi detrattori, ricorda la linea di
condotta che egli ha sempre tenuto a seguire nel compiere la
sua missione (i Cor. 9,1-23). Araldo della 'buona novella',
egli osserva in sostanza, avevo anch'io il diritto di «vivere
della buona novella», come il Signore stesso aveva previsto.
Mi ritengo, tuttavia, troppo legato a questo servizio, che non
viene da me, ma da colui che me l'ha affidato, per consentire a
porvi degli ostacoli. Ecco perché ho voluto che il mio
servizio sia gratuito. «Libero di fronte a tutti, mi sono fatto
il servo di tutti, per conquistarne un maggior numero». Ma,
in verità, non abbiamo il diritto forse, quanto al mangiare e
al bere, di beneficiare dell'ospitalità delle Chiese? «Non
avremmo forse il diritto di prendere con noi una donna
sorella {adelphèn gynàika) come gli altri apostoli, e i fratelli
del Signore, e Cefa? Oppure, soltanto io e Barnaba
non dovremmo avere la facoltà di astenerci dal lavoro ma­
nuale» per provvedere alle nostre necessità? Se abbiamo ri­
nunciato ad avvalerci di tale diritto, è per evitare che il so­
spetto di interesse personale venga a rovinare i nostri rap­
porti con voi e che l'efficacia del nostro ministero venga
sminuita.
Sappiamo dunque, di passaggio, che attorno a quegli an­
ni, «gli altri apostoli (non necessariamente solo i Dodici!), e
i fratelli del Signore, e Cefa» prendevano di solito con loro
una adelphèn gynàìka, a cui le Chiese dovevano le attenzioni
normali dell'ospitalità. Paolo, notiamolo, non ha niente da
dire circa questa usanza degli 'altri apostoli'. Egli esprime
soltanto una preferenza personale, nata in lui da una coscien­
za vivissima delle necessità del suo servizio. Privandosi in
questo modo di un diritto riconosciuto, ha voluto evitare di
sembrare d'imporre un sovrappiù di obblighi a quelli a cui
portava la 'buona novella'.
Ma chi era questa adelphèn gynàìka? Una 'cristiana', sen­
za alcun dubbio. Ma poi, gynàìka: 'sposa' o 'assistente'? Le
opinioni restano divise, e non vale la pena addentrarci qui in
lunga discussione. Fuori contesto, il greco e l'uso Paolino
autorizzano ambedue i significati.
Per sé, comunque, pare semplicemente normale che un
apostolo sposato abbia voluto prendere con sé la propria 'mo­
glie'. Si vede meno bene, d'altra parte, come, di fatto, un apo­
stolo, che poteva sempre contare sull'ospitalità {Atti 10,48;
16,15; ®“ -) dovesse aver bisogno di un'assistente nelle neces­
sità di ogni giorno, tanto più che questa assistente avrebbe
dovuto essa pure essere prima ricevuta e assistita da qualcu­
no. In tali condizioni, il meno che si possa dire è che il lavo-

Adelphe: 'sorella' per la comunità di fede, Rom. 16,1; iCor.j, 15;


ecc.
ro apostolico era ben poco semplificato da una presenza fem­
minile regolata in questa maniera. Allora tanto valeva andare
diritto allo scopo e accettare la situazione chiara del matrimo­
nio, se esso esisteva già/^
In definitiva, credo sia molto più verosimile che la 'donna
sorella' sia qui, in realtà, la sposa cristiana, e che, di fatto, la
maggior parte degli apostoli, a partire dagli anni 50, abbia
trovato conveniente, in tutta semplicità, prendere con sé la
propria moglie quando vennero ad allontanarsi dal loro pri­
mo campo d'azione/*"
Questa interpretazione e questo uso mi sembrano, inoltre,
interamente conformi all'intenzione di Gesù per quanto
riguarda il servizio della parola. Quando diceva: 'lasciare',
non voleva dire: abbandonare, ancor meno abbandonare per
sempre. Cosi Paolo si è posto in un punto di vista tutto di­
verso per giustificare la sua preferenza personale. Non ha
parlato che della sua libertà d'azione. Su questo punto altri
potevano pensare in maniera diversa dalla sua: questo è da
lui supposto acquisito fin dall'inizio.

A prima vista si potrebbe essere tentati di portare qui la

Le. 8,1-3 parla di un gruppo: Gesù e i Dodici e, in più, un con


tributo materiale eflettivo: il che ci mette immediatamente in una si
tuazione diversa.
“ Poiché sono i fatti che decidono, e non le teorie, non si può tra
lasciare di ricordare qui, di passag^o, la coppia Andronico e Giunia,
’apostoh insigni' e cristiani della prima ora, (Rom. 16,7) che, partiti
certamente da Gerusalemme, forse verso il 35 come tanti altri (Atti 8,
1; 11,19-21), si trovavano a Roma attorno agh anni 57-58 (su 16,
7, C r i s o s t o m o , /« epist. ad Rom., 31,2; P.G. 60,670). Per evitare ciò
che essi credono essere una difficoltà, - un uomo e sua moglie ricono
scinti congiuntamente come ’apostoh'! - certuni, è vero, suggeriscono
di considerare lunias come un'abbreviazione di lunianus. L'ipotesi ha
tuttavia il torto di essere gratuita, dato che lunias non è attestato co
me nome proprio maschile. Fino a prova contraria, è meglio dunque
prendere il testo nel suo senso normale e considerare Giunia come la
sposa di Andronico.
nostra osservazione su un altro terreno facendo entrare in
gioco l'istruzione di Paolo sul matrimonio e la verginità (i
Cor. 7,1-40). Ma, in realtà, questa istruzione non riguarda di­
rettamente né il 'servizio della parola', né il 'servizio del­
l'assemblea'.
Essa si propone in primo luogo di rispondere a delle doman­
de poste precedentemente da alcuni destinatari. Ponendo i
loro problemi costoro non pare abbiano pensato alle condi­
zioni secondo loro più desiderabili in cui il servizio della pa­
rola e il servizio dell'assemblea potevano essere compiuti.
La risposta di Paolo peraltro non suppone niente di questo
genere. Quando lo sviluppo del suo pensiero conduce l'apo­
stolo a evocare, di passaggio, la sua situazione personale (7-
8), non lo fa dal punto di vista del suo servizio, come in 9,5,
ma dal punto di vista della sua condizione comune di uomo
e di cristiano.
È dunque del tutto gratuito suggerire, come si fa spesso,
che Paolo doveva pensare qui in primo luogo alla condizio­
ne in cui desiderava vedere il vescovo e il diacono, servi del­
l'assemblea. Di fatto, quando Paolo ha ritenuto utile dare
un'istruzione su questo ultimo punto, si è espresso in tutt'al-
tra maniera (iTim. 3,1-13; Tìt. 1,5-9). E dunque in questi
ultimi testi, piuttosto che nell'istruzione di 1 Cor., che oc­
corre cercare il suo vero pensiero su questa questione.

Specialmente in 7,1: «È bene per l'uomo, antbrÓpo(.i), astenersi


dalla donna»; anche 29-35.
CAPITOLO QUARTO

LA CASA E IL MATRIMONIO
NEL SERVIZIO DELLASSEMBLEA

Gli studi sulla nascita e i primi sviluppi della gerarchia


ecclesiale non si contano più: origini, strutture ed estensione
dell'apostolato primitivo, trasmissione delle responsabilità
apostoliche ai presidenti delle Chiese locali e ai loro consigli
di presbiteri, situazione originale dell'episcopato nel collegio
presbiterale, partecipazione dei diaconi al servizio immediato
dell'assemblea liturgica, e più recentemente, carattere col­
legiale della responsabilità apostolica anzitutto, episcopale
poi, - per non ricordare che i principali centri d'interesse. In
una maniera più o meno profonda, tutti gli studi condotti in
questa direzione sono in se stessi suscettibili di rivestire un
fecondissimo significato pastorale nei riguardi della nostra
situazione attuale, sia che si tratti dei mezzi concreti di
un'effettiva universalizzazione del Vangelo, sia che si tratti
della riunione dei cristiani in quella che sarebbe una vera
comunione evangelica. Cerano in questo campo, per la storia
e la teologia soprattutto, dei compiti urgenti, di cui non
sottovalutiamo per nulla l'altra portata rinnovatrice per vasti
settori della vita ecclesiale.
Resta tuttavia il fatto che la sensibilità 'gerarchica', già
molto viva in ragione dell'eredità caratteristica della tradizio­
ne romana, resa ancora più viva dalla presente congiuntura
storica, ha forse accaparrato indebitamente la nostra atten­
zione a danno di quella che chiamerei la 'micromorfologia'
del servizio pastorale della Chiesa primitiva. Ci siamo molto
preoccupati, al livello superiore, della divisione delle funzio­
ni, dei poteri e deH'autorità. Ci siamo molto meno preoccu­
pati di osservare da vicino le molteplici condizioni concrete
che sono all'origine, per gran parte dell'efficacia e della con­
tinuità del servizio pastorale della Chiesa antica.
Che attenzione seria abbiamo dato, per esempio, al qua­
dro domestico àeìVekklésia delle origini? Persi di vista certi
valori a causa del prestigio, vero o sopravvalutato, delle
istituzioni che la Chiesa si è data nei secoli seguenti, non ab­
biamo forse guardato sotto un punto di vista troppo spesso
negativo il matrimonio di tutti quei capi d' 'assemblea' a cui
peraltro ci appelliamo continuamente? Siamo giusti. Sarà
anche per noi una maniera di restare lucidi.
Facciamoci un'ultima domanda. Come mai capita, tra l'al­
tro, che elementi cosi decisivi come l'accoglienza deWekklè-
sia, e la stessa ospitalità pastorale, rimangano cosi poco in
evidenza quando ci volgiamo verso ciò che ha fatto la straor­
dinaria primavera delle nostre origini? E forse il caso di dire,
molto semplicemente, che non siamo più capaci di vedere?
O non sarà forse il fatto che certe sensibilizzazioni che tal­
volta sfuggono al nostro controllo ci suggeriscono di guardare
solo là dove pensiamo oscuramente di essere sicuri in an­
ticipo di trovare solo ciò che ci confermerà nelle nostre opzioni
attuali? Questa considerazione varrà a farci scusare se
tentiamo di colmare qui qualche lacuna.

1/ Elasticità del servizio del Vangelo

Un fatto di un grande valore pastorale s'impone subito al­


l'attenzione. Non è la rigidità, ma una certa elasticità, reali­
sta e feconda, che ha caratterizzato, agh inizi, tutta la 'mi­
cromorfologia' del servizio del Vangelo: servizio itinerante
della parola da una parte, servizio pastorale dell'assemblea
dall'altra, e, infine, un intersecarsi stretto e costante dell'un
servizio con l'altro, sotto forme variabili richieste dalle si­
tuazioni concrete.
Sarebbe un deformare la storia, infatti, il sottolineare uni­
lateralmente il carattere itinerante del servizio primitivo della
parola. Per rimanere all'essenziale, e anche a ciò che ci è più
noto, non sarà inutile ricordare anzitutto, a questo proposito,
che le prime partenze degli apostoli hanno tenuto conto
largamente delle indicazioni delle circostanze. Lo sappiamo
già: sarebbe semplicemente contrario ai fatti immaginare che
gli apostoli abbiano fin dal primo momento obbedito, in tutto
e per tutto, al principio secondo cui la 'buona novella' doveva
essere annunciata a tutti i popoli. La realtà fu più fiessibile,
più attenta a ciò che era immediatamente necessario e
immediatamente possibile. Né Gesù né i suoi discepoli
immediati hanno l'aria di essere stati dei teorici dell'azione.
In pastorale come in storia, sarebbe dunque pericoloso voler
sistematizzare a tutti i costi le loro parole e i loro gesti.
Neanche quando furono in cammino sembra siano stati
guidati da molti principi rigidi. Certo, essi sapevano dove
andavano, in tutti i sensi dell'espressione. Ma è facile vedere
nel medesimo tempo che essi seguivano una stella che non era
quella dell'astrazione. Cosa c'era, per esempio, di più so­
vranamente, di più 'spiritualmente' empirico dell'idea di fare
un cristiano di quel servo della regina d'Etiopia che Filippo
non doveva rivedere mai più dopo avergli fatto conoscere
Gesù e averlo battezzato lungo la strada da Gerusalemme a
Gaza? Questo esempio è estremo. Ma se ne potrebbe offrire
tutta una serie in cui gli orientamenti stabili si univano
diversamente ai dati delle circostanze.
Fu in questo modo, in particolare, che nel servizio itine­
rante della parola si operò una divisione progressiva tra l'ap­
poggio domandato alla sinagoga e quello domandato al qua­
dro domestico. Alla fine, per il rifiuto della sinagoga, fu la
casa a ereditare la totalità della vita dell'assemblea cristiana:
parola, battesimo, eucaristia, beneficenza, ecc.
Ma l'assemblea era la stessa ekklèsìa, invitata e ricevuta
nel quadro domestico {óikos ekklèsìas). A questa ekklèsìa la
casa offriva in primo luogo il sostegno attivo dell'ospitalità e
degli usi che regolavano tale ospitalità. Si trattava, di fatto,
di un contributo inestimabile. Infatti con l'ospitalità la casa
portava aU'ekklèsia l'assicurazione di una continuità nel
servizio locale della parola, mentre constituiva un centro d'ir­
radiazione per quelli, apostoli soprattutto, la cui missione
specifica era di portare la parola al di là dell'assemblea costi­
tuita. Il quadro domestico assicurava cosi au.’ekklèsia e al
servizio itinerante della parola non solo stabilità e sicurezza,
ma anche la flessibilità e la mobilità grazie alle quali il Van­
gelo poteva sostenere il proprio diffondersi.
Inoltre, per mezzo delle relazioni di parentela, d'amicizia
e di servizio, come vediamo nell'esempio cosi suggestivo del
battesimo del centurione Cornelio, per mezzo anche, senza
dubbio, delle relazioni naturali di lavoro e di vicinanza, il
quadro domestico offriva, fin dall'inizio, al servizio itineran­
te della parola e aWekklèsia, che da questo servizio usciva,
un'articolazione particolarmente forte e diversificata nell'am­
biente sociale. A questo proposito non è esagerato dire che,
nell'ordine delle istituzioni, è anzitutto il quadro domestico
che permise in quei tempi al Vangelo e aìl'ekklesia di essere
il fermento nella pasta.
Lo stato coniugale costituiva, tuttavia, un problema parti­
colare per i servi itineranti della parola. Era nell'apostolo,
del resto, che era sentita più forte l'urgenza di un tale pro­
blema. Nella sua forma più alta, in effetti, la parola era la
'buona novella'. Ora, questa doveva essere annunciata, poi­
ché, in verità, tutto il resto dipendeva dalla sua diffusione.
Ma come poteva essere annunciata la 'buona novella' se l'a­
raldo non era libero di partire? Precisiamo: come poteva la
'buona novella' essere annunciata in tutta l'ampiezza richie­
sta dal disegno universale di Dio se l'araldo non era anzitut­
to lui stesso nella situazione in cui poteva sentirsi relativa­
mente libero nei suoi movimenti? Alla radice, era dunque la
stessa 'buona novella' (kérygma), vista nel piano universale
di Dio, che faceva sentire all'araldo (kèryx) la misura di
libertà necessaria al suo servizio (diakonta)J
Fino a che punto, allora, tale libertà poteva conciliarsi con
lo stato coniugale? Al minimo bisognava poter partire. Cosa
diventa il servizio dell'araldo se egli non può mettersi in cam­
mino? Ma partire significa un'assenza, più o meno prolunga­
ta. Al limite c'è l'allontanamento definitivo. Gesù, lo sappia­
mo, aveva invitato i suoi discepoli più vicini a 'lasciare' tutto
per 'seguirlo': casa, padre, madre, fratelli, sorelle, moglie, fi­
gli, beni e occupazioni. Ora, anche questo, nonostante le ap­
parenze, lasciava posto a diverse modalità concrete di appli­
cazione, certamente meno rigide di quanto sembri, dato che
ritroviamo più d'una volta i Dodici nel quadro della loro vita
precedente, anche dopo che essi ebbero 'lasciato' tutto per
'seguire' Gesù.

' In tal senso, i Cor. 9,16-23; w ch sA tti 20,24; P'"' ™accostamen


to esplicito della duplice qualifica di araldo e di apostolo vedi 1 Tini.
1,1- 2 Tini. i,ll.
La guarigione della suocera di Pietro, «nella casa di Simone e
Andrea», alla presenza di Giacomo e Giovanni, Me. 1,29-31, e par.; il
convito in casa di Levi-Matteo, Me. 2,15-17 e par.; la tempesta sedata.
Me. 5,35-41 e par.; il camminare sulle acque. Me. 6,45-52 e par.; la sce
na della pesca sul lago dopo la risurrezione, Gv. 21,1-8.
In realtà, pare che, più tardi, abbia prevalso una linea di
condotta analoga sia tra i Dodici come tra quelli che, dietro
il loro esempio, in maniera diversa, si consacrarono al servi­
zio itinerante della parola. Cosi, in ogni caso, si può meglio
spiegare un'allusione di Paolo sulla quale ci siamo già ferma­
ti, e che ci mostra «gli altri apostoli», i «fratelli del Signo­
re», e lo stesso 'Cefa' accompagnati dalla loro 'moglie' in
campi d'azione più o meno lontani dal loro punto di parten­
za. Cosi si spiega pure come Filippo, diventato 'evangelista',
- dunque, qualunque sia il senso preciso di questo termine,
passato dal suo primitivo servizio di beneficienza a un servi­
zio diretto della 'buona novella', - si sia alla fine stabilito a
Cesarea con le sue quattro figlie {Atti 21,8-9). In questa oc­
casione, il racconto di Luca non parla, è vero, che delle figlie
di Filippo, perché c'era un interesse speciale a ricordare che
erano 'profetesse'. Ma è chiaro che 1' 'evangelista' Filippo
aveva dovuto prendere con sé a Cesarea tutta la sua famiglia.
Certo, abbiamo solo pochissime notizie di questo genere
per permetterci di giudicare dell'insieme della situazione. Ma
quelle che abbiamo bastano, pare, a farci comprendere che
ci furono, nei primi tempi, molte maniere diverse di 'lascia­
re' i propri cari per consacrarsi al servizio itinerante della
parola.
Lo stesso andare qua e là, del resto, non si riduceva affatto
ad un unico modello uguale per tutti, concepito in astratto
una volta per sempre. A questo proposito, se è vero che ci fu
un orientamento generale completamente fuori discussione,
— la 'buona novella', secondo la volontà di Gesù e il piano di
Dio, deve essere portata a quelli che sono lontani come a
quelli che sono vicini, — basta però leggere i documenti
primitivi con un po' d'attenzione per riconoscere che le
circostanze variabili delle persone, degli avvenimenti, dei
tempi e dei luoghi non hanno mancato d'influenzare con
un peso notevole l'attuazione pratica dell'intenzione genera­
le accettata da tutti.
Resta il fatto, tuttavia, che, in linea di massima, la 'buona
novella' poteva essere meglio servita da una più grande libertà
nell'araldo. E quello che Paolo ha intuito con una lucidità
particolare, rendendosi perfettamente conto, peraltro, che la
sua visione chiara delle cose gli creava una responsabilità
prima di dargli un titolo di onore (x Cor. 9,15-23).-Senza le­
gami coniugali, egli si diede interamente, venuto il momento,
al servizio del Vangelo. A modo suo, egli mise a profitto una
situazione già esistente e che, personalmente, riteneva buona
(x Cor. 7,1,7-8.26-35). Ma non è meno significativo il fatto
che non pare egli abbia pensato, nemmeno un momento, ad
imporre agli altri il suo stile di vita, magari sotto il velo di
una critica indiretta che avrebbe potuto rivolger loro (x Cor.
9,5). Cosi ciascuno poteva in tranquillità di coscienza,
portare il suo contributo all'opera comune. Paolo sapeva che
i doni di Dio sono molteplici e diversi (x Cor. 7,7). Egli li
rispettava, rendendo cosi omaggio alla libertà divina.
Del resto, il numero e la varietà dei collaboratori dell'apo­
stolo testimoniano per noi, con più forza di tutte le dichiara­
zioni, l'autenticità profonda di questo rispetto. Per tutti Paolo
non provava che affetto e gratitudine. Tra loro, non di­
mentichiamolo, c'erano i suoi ospiti, che l'avevano ricevuto
e protetto, che gli avevano offerto nella loro casa la base più
sicura, e in definitiva più efficace, della sua azione, e che, du­
rante i suoi soggiorni più lunghi, gli avevano perfino fornito
i mezzi per esercitare il mestiere di cui vivevano lui e i suoi
compagni. Cerano anche, certamente, tutti quelli che, in
molte maniere diverse, l'avevano assistito nello stesso servi­
zio della parola, gli uni per un breve periodo, altri per lunghi
anni, attraverso viaggi e difficoltà di ogni sorta.
In ogni caso, nelle persone più vicine a Paolo incontriamo
uomini e donne di cui ignoriamo molto spesso la situazione
e i legami familiari. Ma qua e là troviamo anche dei coniugi,
e non è che Paolo si senta verso questi ultimi meno debitore
nel servizio del Vangelo, né che riservi loro meno ammirazio­
ne: «Prisca e Aquila, scrive alla Chiesa di Roma, miei colla­
boratori nel Cristo, per salvarmi la vita hanno rischiato la
testa e non sono il solo ad essere in debito di gratitudine ver­
so di loro: tutte le Chiese della gentilità hanno il mio stesso
sentimento... Andronico e Giunia, miei parenti e compagni
di prigionia: sono degli apostoli insigni, che mi hanno pre­
ceduto nel Cristo».^

2/ Dal servizio itinerante della 'parola' al


servizio dell' 'assemblea'

Tuttavia, l'assemblea (ekklèsia) nata dall'accoglienza fatta


al messaggio richiedeva, per il servizio inerente alla sua vita,
condizioni che in più di un punto erano molto differenti da
quelle che abbiamo visto prevalere nel servizio itinerante
della parola.
Certo, per ambedue i tipi di servizio, il quadro domestico
rimaneva essenziale. E spesso l'assemblea si è ritrovata sem­
plicemente là dove il messaggio l'aveva riunita una prima
volta. Il centurione Cornelio, che aveva 'invitato' parenti e
amici intimi per la venuta di Pietro, non dovette certo essere
meno desideroso di ricevere i nuovi battezzati nella sua casa
dopo che l'apostolo fu partito (Atti, 10,24). Non c'era

^Rom. 16,3-4.7; “ generale 16,1-15; 1 Cor. 16,15: «Sapete che la casa


di Stefania è la primizia dell'Acaia, e che lei e i suoi si sono messi al
servizio dei santi: siate anche voi deferenti verso di loro e verso quanti
collaborano e s'affaticano» seguendo il loro esempio; anche Fi-lem. 1-2.
forse in questo caso tutto ciò che era necessario per creare il
nucleo solido di un'ekklèsìa: della «Chiesa che si sarebbe ra­
dunata nella casa di Cornelio»? Non sappiamo ciò che avven­
ne in realtà. Ma questo esempio sottolinea utilmente le con­
tinuità concrete che potevano unire il messaggio e l'assem­
blea nata da esso all'interno del quadro domestico.
Differenze molto notevoli apparivano, tuttavia, nelle con­
dizioni che regolavano rispettivamente il progresso'del mes­
saggio e la vita dell'assemblea. Il messaggio, in effetti, si
portava con tutto il suo peso oltre l'assemblea costituita, di
cui forzava continuamente i limiti, per dar origine a nuove
assemblee. Proprio in quanto messaggio la sua legge era di
.oltrepassare sempre le frontiere dell'acquisito appena che se
ne presentava la possibilità. Tale legge era iscritta in primo
luogo, s'intende, nel servizio proprio dell'apostolo, la cui
qualità di 'inviato' riassumeva nel contempo lo stile di vita e
lo scopo profondo. Cosi capitava di fatto che lo stesso mes­
saggio portasse nel cuore del servizio apostolico esigenze ca­
ratteristiche di mobilità e di libertà.
Ma Yekklèsìa che il messaggio si lasciava dietro scopriva
nella sua stessa natura di assemblea un'altra legge d'esisten­
za. Il suo scopo più profondo e più specifico stava, infatti,
nella crescita della comunione interna dei suoi membri attra­
verso lo scambio dell'amore fraterno e la comune speranza
nella vita in Gesù, Cristo e Signore. Cosi era verso tale co­
mune speranza e tale scambio d'amore, principali fonti di co­
munione per Yekklèsìa, che in definitiva si trovavano sponta­
neamente orientati l'aiuto vicendevole, il servizio locale della
parola e la celebrazione della 'cena del Signore'.
Come, dunque, era giusto dire, più sopra, che il messag­
gio, per la sua stessa qualità di buona 'novella', introduceva,
a partire dal servizio apostolico, un'esigenza di mobilità e di
libertà in tutti i tipi di servizio itinerante della parola, cosi
è necessario ora osservare, al contrario, che la comunione fra­
terna richiedeva, per tutto il servizio dell'assemblea, quelle
condizioni nuove di regolarità e di stabilità che dovevano
essere cosi tipiche della sollecitudine pastorale.
E principalmente attorno al servizio dell'assemblea, in ef­
fetti, e non attorno al messaggio apostolico, che si sono svi­
luppate aH'origine, in maniera stabile, le metafore del greg­
ge e del pastore."^ Queste immagini evocavano in primo luogo
una vicinanza, un'attenzione, una vigilanza, una cura di tutti
i giorni. Tale era, del resto, la qualità del servizio che
Vekklèsta poteva, e doveva, attendersi da quelli che ne erano
a capo per presiedere le assemblee della parola e dell'eu-
caristia, e, in maniera generale, per assicurarne la coesione e
il progresso nell'amore fraterno e nella speranza.
I 'pastori' (£/. 4,11) del 'gregge', tuttavia, portavano più
comunemente il nome di 'presbiteri' {Atti 11,30; 14,23;
ecc.), o di 'episcopi' (FU. 1,1; Atti 20,28 ecc.). Dei 'diaconi',
o servitori, normalmente più giovani di loro, potevano inol­
tre assistere i presbiteri-episcopi nel loro servizio (iTim. 3,
8-13). Ma, in definitiva, era su questi ultimi che ricadeva es­
senzialmente la cura ordinaria deU'ekklèsia.

3 /1primi 'pastori' della Chiesa

Chi erano dunque questi presbiteri-episcopi? Che imma­


gine possiamo ancora farci di questi primi 'pastori' della
Chiesa?
Dal nostro punto di vista, il titolo di presbitero riveste
un'importanza particolare. Presbyteros è, infatti, un termine

^Atti 20,28-29; Ef. 4,11; 1 Pi. 5,2-3; cfr. tuttavia Gv. 10,1-16; 21, 16;
Ebr. 13,20.
letteralmente carico di associazioni sociologiche. Già questo
ci dice che presbyteros aveva all'origine molto più sostanza
umana, direi, del termine concorrente di episkopos. Cosi
sembra che sia presbyteros ad aver avuto all'inizio più favo­
re nella lingua dei cristiani.
Più tardi, è vero, episkopos fini per avere la meglio nella
designazione della più alta responsabilità pastorale. Col tem­
po e con l'evoluzione generale delle istituzioni fii questo ter­
mine che prese piede. Ma quello che constatiamo, a questo
proposito, nel secondo secolo, non deve essere proiettato re­
trospettivamente sul periodo apostolico senza prima essere
stato sfìamato. All'inizio episkopos è un titolo strettamente
inerente alla Sanzione. E fatto su misura per designare, in
generale, una carica di 'sorveglianza', o meglio forse, di 'so­
vrintendenza'. In un primo momento almeno, tale 'sovrin­
tendenza' sembra essere stata semplicemente intesa in rela­
zione alVekklèsia stessa. Fu solo in seguito che essa fu in­
tesa anche in relazione ai presbiteri, tra i quali allora essa
designò un certo primato di responsabilità nel servizio
pastorale.
Inoltre, né presbyteros, ne episkopos furono all'origine ti­
toli specifici dell'organizzazione interna delVekklèsia cristia­
na. I termini esistevano già prima, sia nel mondo giudaico
che in quello greco. L'uno e l'altro furono dunque semplice-
mente adattati alle realtà nuove deU'ekklèsia. Dobbiamo sta­
re attenti, tuttavia, al fatto che, in questo adattamento, pre­
sbyteros e episkopos non portavano più lo stesso capitale di
evocazione nell'ordine delle realtà umane.
Da questo punto di vista, l'abbiamo già detto, presbyteros
era un termine di un'incomparabile ricchezza. Prima di ogni
impiego religioso del termine, il presbyteros è, in effetti, un
'anziano'. Collettivamente, i presbyteroi sono dunque 'gli an­
ziani', parola che va intesa in primo luogo in opposizione ai
neótetoì e ai neanìskoi, che sono i 'giovani' della generazio­
ne nuova. Con una sfumatura sociologica più ristretta, i pre-
sbyteroi sono anche dei notabili, e per questo essi possono
diventare titolari di funzioni determinate aH'intemo del
gruppo. Di colpo siamo dunque introdotti, in ambedue i ca­
si, in una piena realtà sociale: quella del rapporto tra gene­
razioni successive.
Ma c'è di più. Nella rappresentazione che ci facciamo del
servizio pastorale primitivo, dimentichiamo troppo spesso,
in effetti, che la qualità e la funzione del 'presbitero' aveva
allora una potentissima radice sociologica nella stessa fami­
glia. Ciò a cui non diamo sufficiente attenzione è il fatto che,
nell'insieme del gruppo, i 'presbiteri' délVekklésìa, non me­
no degli 'anziani' della sinagoga, appartenevano, diremmo,
alla generazione dei 'padri'.
Ora, senza dubbio, questo solo fatto fissava già un'imma­
gine comune, creava un clima di pensiero per quel che ri­
guarda le qualificazioni personali e sociali del 'presbitero'.
Di regola generale, si può dire che questa immagine comune
e questo clima di pensiero portavano a vedere naturalmente
nel 'presbitero' un 'padre' che aveva prima dato prova delle
sue qualità umane e sociali nel governo della sua 'casa'.
A questo proposito, l'osservazione di Paolo sembra molto
significativa. Bisogna, scrive a Timoteo, che «l'episcopo, - e
dunque anche il 'presbitero' {Tito 1,5-9), - sappia dirigere
bene la propria casa e tenere i suoi figli sottomessi in manie­
ra del tutto degna. Che se uno non sa dirigere la propria ca­
sa, come potrà prendersi cura della Chiesa di T)\oly>{iTmi.
3.4-5)-
Alla base, la qualità di 'anziano', che conduceva eventual­
mente alla funzione di 'presbitero', si presenta dunque nello
stesso tempo come un'età cronologica e un'età sociale. È an­
zitutto il tempo della vita in cui, nell'opinione comune, per
il fatto stesso di un lungo esercizio delle responsabilità dome­
stiche si ha il vantaggio deH'esperienza e della saggezza in
rapporto alla generazione nuova. Ma è anche il momento del­
l'integrazione sociale in cui si può prendere la parola nei
consigli, in cui si può essere chiamati a partecipare al gover­
no di un gruppo extra-familiare, come era, di fatto, Vekklè-
sia nata dal messaggio evangelico.
Da tutto questo si vede' in che modo, all'origine, il matri­
monio si è trovato integrato al servizio pastorale àtVì'ekklè-
sia. Possiamo dire senz'altro che nessuno allora pensò ad
un'alternativa astratta del tipo celibato-matrimonio, valutata
rispettivamente in rapporto a una gerarchia della perfezione
relativa a degli 'stati di vita'.
In realtà, ciò che si considerò, nel presbitero-episcopo, co­
me del resto, nel diacono, fu lo stile di vita. E questo poteva
essere valutato nei fatti. E lo si poteva vedere abbastanza
bene, in particolare, nella maniera in cui il futuro servitore
dell'assemblea governava la propria casa. Il passaggio dalla
prima prospettiva alla seconda, era del resto tanto più facile
in quanto era la casa stessa che formava il quadro abituale
dell'assemblea. Si poteva sperare che chi aveva saputo
governare la propria famiglia, avrebbe saputo anche pren­
dersi cura della 'Chiesa di Dio'. Era una speranza ragionevo­
le. Cosa si poteva esigere di più? E in nome di che cosa?
La casa stessa, da parte sua, offriva au’ekklesia un quadro
perfettamente naturale e, inoltre, straordinariamente fecon­
do, nel quale questa poteva dispiegare a suo agio tutte le ric­
chezze della sua vita propria: servizio della parola, servizio
dell'eucaristia, servizio della comunione fraterna. Indiretta­
mente, la casa offriva ancora la maniera di assicurare la con­
tinuità, la dignità e l'efficacia dell'insieme del servizio pa­
storale. Per un motivo come per l'altro, i vantaggi apparvero
senza dubbio sostanziali agli apostoli stessi, che con il mes­
saggio e l'istruzione stavano allora gettando i fondamenti sui
quali dovevano un po' dovunque edificarsi le Chiese.
Ed erano realmente sostanziali tali vantaggi, come l'espe­
rienza del progresso del Vangelo potè ben presto mostrare.
Cosi è con una completa tranquillità e una gioiosa gratitudi­
ne, non come una semplice concessione alla 'debolezza uma­
na' e alle necessitsà dei primi momenti, che la casa e il ma­
trimonio si trovarono integrati, l'una e l'altro, e con un solo
movimento, nella vita profonda della Chiesa apostolica. I
documenti che sono ancora per noi testimoni delle idee e dei
sentimenti dell'epoca non si prestano, pare, a nessun'altra
interpretazione.

4/ Interpretazione di una formula paolina

Tuttavia si è pensato, e si pensa ancora abbastanza gene­


ralmente, che Paolo abbia pronunciato un'esclusiva contro i
risposati nella questione della scelta dei presbiteri, episcopi
e diaconi. Ora, se il solo fatto di risposarsi bastasse a creare
l'incapacità pastorale non dobbiamo forse pensare che
l'ombra portata dall'esclusiva paolina abbia raggiunto alla
fine lo stesso matrimonio? Tra questi due valori la distanza
è breve, in realtà, e si sa, per l'esperienza della storia, che il
matrimonio non usci di solito esaltato da tutti quegli inviti a
fuggire le seconde nozze di cui incominciamo a sentire l'eco
a partire dalla metà del secondo secolo. Il pensiero di Paolo,
toccando lo stile di vita che gli sembrava più conveniente al
servizio pastorale dell'assemblea, non inclinava forse
segretamente verso questa idea?
Bisogna, scriveva a Timoteo, che «l'episcopo sia irrepren­
sibile, mias gynaikòs andrà, adatto all'istruzione (didaché)...
Allo stesso modo i diaconi siano dignitosi, sinceri nelle loro
parole (nei loro rapporti con gli altri), moderati nell'uso del
vino, nemici dei guadagni disonesti... Si comincerà col met­
terli alla prova, e poi, se trovati irreprensibili, siano ammes­
si al servizio... I diaconi devono essere mias gynaikòs àndres,
devono saper dirigere bene i loro figli e la loro casa» (i Tim.
3,2.8.10.12; eh.Tito 1,6-9).
Nell'insieme queste raccomandazioni sono abbastanza lim­
pide, nonostante la lontananza delle circostanze concrete che
le hanno ispirate. Dietro tante qualifiche, all'apparenza mol­
to generali, possiamo ancora discemere i bisogni più precisi
della vita deii'ekklésia: le molteplici decisioni da prendere
nell'interesse di tutti e di ciascuno; l'ospitalità che sola, in
quel tempo, rendeva possibile la riunione della stessa assem­
blea; F 'istruzione' che aveva per compito distintivo quello
di delineare per gli individui e il gruppo l'ideale di una vita
degna del Vangelo (Ef. 4,1); la moltitudine delle relazioni di
ogni sorta grazie alle quali Vekklèsta prende effettivamente
corpo nelle sue assemblee; l'organizzazione dei pasti co­
munitari, il servizio e lo sviluppo della beneficenza, ecc. In­
travediamo anche, da questo, gli incovenienti più o meno
seri che questo o quel difetto nell'episcopo o nel diacono po­
tevano avere per il servizio dell'assemblea.
È dunque un punto fermo, ed è decisivo nella questione
che ci sta occupando: si giudica non in sé, ma secondo l'uti­
lità, le convenienze, i bisogni, a cui devono corrispondere
nei responsabili del servizio pastorale certe qualità e certe
attitudini relativamente definite. Il pensiero è tutto concreto
e s'appoggia manifestamente su un'esperienza acquisita.
L'interpretazione esita ancora, tuttavia, sul senso che con­
viene dare a una delle qualifiche richieste ai candidati. Qua­
lunque sia la portata che le si dà, tale qualifica interessa par­
ticolarmente il nostro studio. Non possiamo dunque sottrar­
ci all'esame delle difficoltà, tanto più che, malgrado tutto, la
tradizione pastorale della Chiesa, dalla fine del II secolo al­
meno, ha trovato nella formula di Paolo uno degli orienta­
menti più chiari.
L'episcopo, il presbitero, il diacono, scrive Paolo, deve es­
sere mias gynaikòs anèr. Cosa significa? In sé, la traduzione
letterale di queste tre parole è quanto di più semplice ci sia:
«sposo di una sola donna». Ma, appunto, non è fi)rse troppo
semplice? e, di conseguenza, non si deve fi)rse cercare sotto
le parole un'allusione più nascosta?
A prima vista, prendendo le cose abbastanza da lontano,
si potrebbe pensare alla poligamia. Ma questa è in ogni mo­
do esclusa in anticipo da una comunità cristiana. Quindi, la
raccomandazione di Paolo perde qui tutto il suo mordente e
diventa completamente inutile.
Certi hanno allora pensato alla fedeltà coniugale. Paolo
vorrebbe dire in questo caso: che i candidati al servizio pa­
storale siano trovati fedeli alla loro sposa. Ma se è tutto qui
quello che l'apostolo voleva dire, perché, in tre occasioni di­
verse, non l'ha detto più chiaramente? La sua formula oltre­
tutto sarebbe un po' strana. Si pensa dunque ancora che si
tratti in realtà di un'altra cosa.
A questo punto una terza interpretazione, che ha l'appog­
gio della maggioranza, sembra presentarsi da sé. Paolo fa
allusione alle seconde nozze, e, a questo proposito, richiede
che l'episcopo, il presbitero e il diacono non siano stati 'spo­
sati' che ad una 'sola moglie'. Riconosciamo che questa solu­
zione ha anzitutto il merito incontestabile di voler render
piena giustizia al testo greco. Inoltre, almeno in un certo
clima di valutazione del matrimonio, un'esigenza formulata
cosi può, a prima vista, trovare naturalmente il suo posto
nell'insieme delle raccomandazioni di Paolo.
Tuttavia, a ben riflettere, ci si chiede se l'allusione alle se­
conde nozze, chiave di tale interpretazione, non incontri a
sua volta un ostacolo fatale nel contesto. Il quale si riferisce,
in effetti, solo a delle attitudini - o inettitudini - presenti.
Qui Paolo enumera qualità che sarebbero vantaggiose nel
servizio deU'ekklèsia, e difetti che potrebbero eventualmen­
te compromettere, in misura più o meno importante, questo
stesso servizio. Ma le seconde nozze non sono un'inettitudi­
ne, né tanto meno un difetto: sono un avvenimento domesti­
co il cui valore vien giudicato a seconda delle' circostanze ( i
Cor. 7 ,8 -9 .1 5 .3 9 /r™. 5,14).
A questo si risponderà forse che nel pensiero di Paolo so­
no proprio le seconde nozze che creano un'inettitudine. Ma,
in realtà, non è forse proprio questo che dovrebbe poter es­
sere dimostrato anzitutto? Non lo si potrà, e a ragione!
Tutto sommato, non si riesce a vedere che un uomo come
Paolo, di solida tradizione giudaica (1 Tim. 4,1-6), si dia a
delle disquisizioni sulla convenienza o sconvenienza circa
possibili seconde nozze anteriori degli episcopi, presbiteri e
diaconi deirekklèsìa.^ Ed è tanto più difficile immaginarlo in
questo atteggiamento se si pensa che, mentre si è preoccu­
pato della situazione delle vedove, non pare aver avuto la
stessa preoccupazione nei confronti della parte maschile, per
la buona ragione, evidentemente, che in quell'epoca e in quel­
l'ambiente, le condizioni concrete di una vedovanza prolun­
gata, o di eventuali seconde nozze, erano sotto tutti gli aspetti
molto diverse da una parte e dall'altra.
Il fatto, infine, che la clausola mias gynaikòs anèr si pre­
senta sempre senza la minima velleità di spiegazione percet­
tibile nel contesto, e che, due volte su tre, viene a trovarsi
accanto ad una cosa cosi familiare qual è l'attitudine al buon
governo domestico (1 Tim. 3,12; Tito 1,6), non ci invita cer-

^ Cfr. 1 Tim. 5,9, a proposito deH'iscrizione delle vedove, che ci porta


ad una osservazione simile.

8 - 1?
to ad andare a cercar lontano il pensiero di Paolo, in qualche
parte nei supposti meandri della sconvenienza di seconde
nozze possibili, o forse già fatte, per quanto riguardava i can­
didati al servizio pastorale dell'assemblea. Il vero senso del­
la formula paolina deve trovarsi molto più vicino.
Checché se ne sia pensato, la fattura letteraria dell'espres­
sione non mette forse questo significato più a portata di ma­
no? Se dico di qualcuno che è «l'uomo di un solo libro»,
nessuno pensa di prendere l'espressione alla lettera. Tutti
sanno, invece, che si tratta di un comportamento, di un at­
teggiamento, e per niente di una proprietà. Se dico di un uo­
mo d'azione che per tutta la sua vita fu <d'uomo di una sola
idea», o se dico di un amico su cui posso contare senza ri­
serva: «è un uomo che non ha che una parola», si capisce
subito che si tratta, nel primo caso, di una vita tutta centrata
sulla realizzazione di un grande progetto di gioventù, e, nel
secondo, di una fedeltà che niente distoglie da ciò che è stato
una volta promesso.
Per analogia, non è troppo difficile, in questa linea, scor­
gere dietro l'espressione «marito di una sola donna», mias
gynaìkòs anér, il marito «dedicato completamente alla sua
sposa». Ora, questo è, di fatto, il senso che sembra, e di gran
lunga, il meglio comprensibile nel contesto. Se ci si lascia
guidare dal pensiero generale dell'istruzione di Paolo, si sco­
pre presto, in effetti, che qui deve trattarsi non di un avveni­
mento che appartiene al passato dell'individuo e che rifluisce
di colpo sul presente per mettere un ostacolo inatteso al ser­
vizio dell'assemblea (le seconde nozze), ma piuttosto di un
comportamento presente che deve entrare in maniera natu­
rale nell'insieme delle qualifiche richieste per il servizio pa­
storale deU'ekklésìa.
E non è forse questo, esattamente, ciò che vuol dire la no­
stra formula se la si comprende applicata al marito «dedica­
to completamente alla sua sposa»? Insomma, ciò che Paolo
vuol dire qui dei servi dell'assemblea, è che essi offrano anzi­
tutto la testimonianza di una vita matrimoniale armoniosa e
stabile. Che tale matrimonio sia il primo o il secondo, importa
poco. Non è questo l'essenziale. Nella stessa linea di pensiero,
vediamo, di fatto. Paolo che in seguito domanda che i servi
delVekklèsìa abbiano anzitutto dato prova di saper governare
la propria casa. Nell'un caso come nell'altro, ciò che si vuole
è dunque un'assicurazione di dignità e di efficacia per il
servizio pastorale stesso. E una maniera d'interpretare
semplice, realista, e fondata.*"
Se ce ne fosse bisogno, del resto, tale interpretazione po­
trebbe essere ulteriormente confermata dal parallelismo di
monandrós (latino: univira), «donna di un solo marito» e di
mias gynaikòs anér, «marito di una sola donna». Di regola
generale, nelle iscrizioni giudaiche e pagane dell'epoca, mon­
andrós e univira sono degli elogi. Ora, in tutta ipotesi, la
sposa defunta che è lodata per essere stata monandrós, o uni­
vira, non è certamente elogiata per non aver mai contratto
seconde nozze, come è particolarmente chiaro nel caso in cui
l'elogio è fatto dal marito sopravvissuto, ma piuttosto, secon­
do ogni verosimiglianza, per essersi dedicata interamente al
suo sposo.^ È la sola interpretazione possibile.
Dev'essere anche il senso della formula paolina: mias gy-
naikós anér, «sposo d'una sola moglie», intendiamo «dedi­
cato interamente alla sua sposa». Ma se questo è il senso del­
la formula, la considerazione speciale delle seconde nozze di­
venta semplicemente fuori di proposito. Ciò che Paolo po­
teva dire al riguardo dev'essere cercato altrove.

® L'interpretazione proposta qui raggiunge in sostanza quella pre


ferita già da Teodoro di Mopsuestia {Commentari sulle lettere di Pao
lo: ifim.%2; ed. Swete,II, pp. 99-108).
Cfr. 1 Tim. 5,9 henòs andròs gyne: stesso senso.
Dopo aver richiesto che l'episcopo sia «irreprensibile, de­
dicato interamente alla sua sposa, sobrio, prudente, cortese».
Paolo domanda anche che sia ^phìlóxenos, ospitale' (i Tim.
3,2; la stessa raccomandazione per il presbitero, Tito,
1, 8).
Si è pensato di solito che tale ospitalità dovesse esercitarsi
soprattutto nei riguardi dei cristiani di passaggio, semplici
viaggiatori o incaricati di missioni particolari. E certo possia­
mo pensare che Paolo, organizzando il servizio dell'assem­
blea, non dimenticava questa preziosa testimonianza di co­
munione fraterna di cui l'ospitalità poteva essere l'occasione.
Attraverso tutti i buoni uffici prodigati ai loro ospiti di
passaggio, le Chiese riconoscevano, di fatto, in maniera tangi­
bile i legami che le univano vicendevolmente in una stessa
speranza e in uno stesso amore.
Non sembra, tuttavia, che questa ospitalità, nonostante
tutto occasionale, abbia occupato qui il primo posto nel pen­
siero di Paolo. E va anche detto che essa non era una respon­
sabilità propria degli episcopi o dei presbiteri: sappiamo che
incombeva, invece, a tutti i cristiani.^ In realtà, l'insieme delle
raccomandazioni di Paolo ci conduce piuttosto a ritenere che
lui stesso pensava qui in primo luogo aW'ospitalitàpastorale.
Aggiungiamo anche che una tale preoccupazione allora
s'imponeva, vista la struttura stessa del servizio pastorale
del'e kklè sia.
Non dobbiamo dimenticare, in effetti, che in quell'epoca,
l'assemblea in cui si ritrovava Vekklèsia era, alla lettera, in­
vitata e ricevuta nel quadro ordinario dell'ospitalità domesti­
ca. Questo voleva dire, da una parte, che questo o quel cri-

^Rom. Tim. 5,10; ^ r . 13,2; i P/. 4,9;yGv. 5-8.


stiano la cui casa si prestava allo scopo accettava di ricevere
in casa sua l'assemblea.^ Ma questo voleva dire anche, d'altia
parte, che era un compito proprio dei servi dell'assemblea:
episcopi, o presbiteri, e diaconi, accogliere effettivamente
Vekklésia là dove si era convenuto che essa dovesse riunirsi.
Tale accoglienza, calcata direttamente sull'ospitalità, di cui
adottava una parte di usanze, era, dopo l'invito e i preparati­
vi utili indicati dalle circostanze, il primo gesto pastorale de­
gli episcopi, o dei presbiteri, assistiti dai loro diaconi, nei ri­
guardi dell'assemblea.
Non possiamo dubitare che questa accoglienza pastorale
sia stata, oltretutto, una delle funzioni più importanti del
servizio deìVekklésìa. Era infatti tale accoglienza che con­
cretamente formava di nuovo Vekklésia ogni volta che essa
si riuniva per ascoltare la parola, o per rinnovare <da cena
del Signore», o per l'una e l'altra cosa insieme. Cosi, in larga
misura, era dalla qualità dell'accoglienza pastorale esercitata
nell'assemblea che dipendevano direttamente, di fatto,
l'ordine e la coesione interna dell'assemblea stessa. Per cui
era l'accoglienza pastorale che doveva in primo luogo rian­
nodare, in qualche modo, ad ogni incontro, i legami della
fraternità cristiana attorno alla parola e aH'eucaristia. All'i­
nizio era dunque l'accoglienza che faceva la 'comunione' del-
Vekklésia. Senza questo, tutto il resto era a breve scadenza
più o meno gravemente colpito da paralisi o da sterilità.
E ancora dall'accoglienza veniva uno dei contributi più
importanti all'allargamento délVekklésìa, perché era in buo­
na parte grazie all'accoglienza che Vekklésia poteva rimanere
costantemente aperta sul mondo esterno, attirarsi delle sim­
patie, guadagnare al Vangelo nuovi credenti. L'accoglienza

®Rom. 16,3; Prisca e Aquila; 1 Cor. 16,19: gli stessi; Col. 4,15:
Ninfa; Fileni. 2: Filemone e Appia.
pastorale rivestiva per ciò stesso un grandissimo valore 'apo­
stolico'. DaH'intemo dell'assemblea essa preparava le vie al­
lo, stesso messaggio. Per una parte certamente considerevole
è, infatti, proprio grazie all'accoglienza pastorale occasiona­
ta: dall'assemblea che il Vangelo penetrò in maniera straor­
dinariamente rapida nella massa delle popolazioni urbane
del tempo.
Noi siamo lontani, lontanissimi. Alla distanza a cui siamo,
la maggior parte di noi sospetta appena l'esistenza di tali
cose. Esse sono esistite, comunque, e per il progresso della
speranza del Vangelo, esse sono state di un valore eccezio­
nale, forse insostituibile.
- Abbiamo ancora sotto gli occhi i testi che testimoniano la
loro grandezza e vitalità, ma non riusciamo più molto bene -
a renderci conto dei loro contorni. Ogni sorta d'immagini^
più o meno stereotipate, più o meno anacronistiche, s'in­
terpongono tra la realtà presente e il servizio pastorale pri­
mitivo. I piani si confondono. I suggerimenti di una tradi­
zione che potrebbe essere ancora creatrice si disperdono per
strada.
.Cosi, è vero che noi leggiamo che Paolo desiderava vedere
alla testa àsU'ekklèsìa uomini 'ospitali', cioè dotati di tutte
quelle qualità che rendono autentica l'ospitalità (z Tim. 3,2-
3; Tito 1,7-9), comprendiamo bene quello che leggiamo?
Vediamo che si tratta di ospitalità, e subito pensiamo ai
viaggiatori. Il legame diretto che univa questa 'ospitalità' al
quadro domestico originale dell'assemblea come all'esercizio
concreto dell'insieme del servizio pastorale primitivo, ci
sfugge, e noi parliamo di un'altra cosa. ...::E tuttavia questo
stile pastorale non solo è esistito, ma è durato per un po' di
tempo. Possiamo dire senza timore di un grave errore che
esso ha fatto sentire la sua azione per più di due secoli senza
subire alterazioni sostanziali. Per
terminare questa lunga analisi, in cui i documenti primitivi
hanno presentato sovente alla nostra considerazione il ma­
trimonio e la casa, non saprei far meglio che offrire qui una
ultima testimonianza dell'antica ospitalità pastorale.
Il documento può essere collocato verso la metà del III
secolo. Il suo orizzonte immediato è verosimilmente quello
della Siria. Per l'essenziale, le usanze pastorali di cui testi­
monia risalgono tuttavia molto più indietro del tempo di
composizione dell'opera. Possono anche, nelle loro grandi
linee, riflettere abbastanza fedelmente lo stato di cose dei
primi tempi. Si può credere, anche, che le usanze della Siria
erano strettamente apparentate, allora, con quello che ha
dovuto essere la pratica ordinaria di tutta la Chiesa.
Nel III secolo, è vero, il luogo dell'assemblea non è più, di
regola generale, la casa di questo o quell'altro membro
lelYekklèsia. Non è più dunque, propriamente parlando, una
casa di famiglia. Nella maggior parte dei casi si tratta di
un'antica abitazione già più o meno adattata, trasformata, e
spesso ingrandita in vista dei bisogni specifici dell'assemblea
cristiana. Di conseguenza, la 'Chiesa', come s'incominciò a
dire allora, pur conservando la fisionomia generale di una
vera domus ecclesìae, o óikos ekklèsias, è diventata, di fatto,
un luogo fìsso d'incontro e, almeno per principio, costan­
temente disponibile, non richiedendo quindi più, per sé, le
molteplici attenzioni personali che avevano costituito l'ospi­
talità pastorale primitiva. Non è peraltro senza interesse no­
tare che, oltre allo spazio previsto per l'assemblea, la 'Chie­
sa' di quel tempo tende sempre più a inglobare diversi locali
dove può abitare una parte più o meno considerevole dei
responsabili del servizio pastorale: vescovo, preti e diaconi.
Generalmente, lettori e altri aiutanti continuano, tuttavia, a
vivere tra la massa della popolazione.
Ora, malgrado tante trasformazioni avvenute nel quadro
esteriore deH'assemblea, è ancor più significativo osservare
fino a qual punto l'ospitalità pastorale era allora rimasta vi­
vace nella coscienza e negli usi della Chiesa. L'autore ano­
nimo della Didascalia degli apostoli vi consacra un lungo
passo nelle istruzioni rivolte ai vescovi del suo tempo. Senza
dubbio, per la natura stessa del genere letterario, il quadro
che ci dipinge in questa occasione è idealizzato. E un pro­
gramma che ci vien messo sotto gli occhi. Ma, per conservare
le sue possibilità di efficacia concreta, tale programma doveva
naturalmente proporre un comportamento pastorale ancora
possibile alla maggior parte. Attraverso l'ideale ricercato
dall'autore, possiamo dunque intrawedere dei fatti che
dovevano essere abbastanza familiari a molti dei suoi con­
temporanei. Mi si permetterà di citare qui quasi per intero
questo documento, per la ricchezza dei suoi particolari, per
la sua potenza suggestiva, e anche per la sua autentica e
semplice bellezza.
«Voi dunque, o vescovi, — scrive il nostro autore, proba­
bilmente vescovo lui stesso, — non siate duri, né crudeli, né
irrascibili, né troppo severi nei riguardi del popolo di Dio
che è affidato alle vostre cure. Non distruggete la casa del
Signore e non disperdete il suo popolo. Cercate piuttosto di
ricondurre ciascuno, cosi da poter essere dei (veri) coopera­
tori di Dio. Radunate i fedeli con grande umiltà, con indul­
genza e pazientemente, senza collera, con l'istruzione e l'e­
sortazione, come dei servi del regno eterno.
Nelle riunioni delle vostre sante Chiese, disponete le vo­
stre assemblee con la più grande attenzione, assegnando il
loro posto ai fratelli con cura e discernimento. Che i pre­
sbiteri (anziani: consiglieri del vescovo) abbiano il loro po­
sto al centro della parte orientale della casa; che la cattedra
{thrónos: cathedra) del vescovo sia posta in mezzo a loro, e
che i presbiteri siedano con lui. Poi, che gli uomini nello
stato laico abbiano il loro posto in un'altra parte della casa,
ill'est. Dev'essere cosi: i presbiteri siederanno con il vesco­
vo, poi gli uomini nello stato laico, infine le donne, in ma­
niera che, al momento di alzarsi per pregare, i capi dell'as­
semblea si alzino per primi, poi gli uomini, infine le donne.
Voi dovete, in effetti, pregare in direzione di levante, cono­
scendo ciò che è scritto: 'lodate Dio che cavalca nel più alto
dei cieli, verso l'oriente' (Sai. 68,34).
Quanto ai diaconi, che uno di loro si tenga costantemente
vicino ai doni deH'eucaristia, un altro si tenga fuori, vicino
alla porta, e osservi quelli che entrano. Ma poi, al momento
dell'oblazione, essi facciano insieme il loro servizio nella
Chiesa.
Se qualcuno (nell'assemblea) non si trova al suo posto, il
diacono che si trova all'interno lo avverta, lo faccia alzare e
lo mandi a sedersi al luogo che gli spetta. (La natura stessa
ci dà l'esempio dell'ordine). Cosi bisogna che nella chiesa i
giovani siano a parte, seduti, se c'è posto, altrimenti in piedi.
Quelli che sono più avanzati in età si siederanno a parte, di
fianco, in modo che i loro padri e le loro madri li prendano
con sé, e che essi restino in piedi. Anche le giovani saranno a
parte, e, se manca il posto, esse staranno in piedi dietro alle
donne. Le giovani spose che hanno dei bambini si terranno a
parte, le donne anziane e le vedove saranno pure a parte,
sedute.
Il diacono (che sta alla porta) starà attento a che ciascuno,
entrando, vada al suo posto e non si sieda altrove. Il diacono
starà anche attento a che nessuno chiacchieri, dorma, rida o
faccia dei segni. Poiché bisogna che ciascuno stia attento in
Chiesa, con compostezza e dignità, e che non abbia orecchie
che per la parola del Signore.
Se arriva un fratello o una sorella di un'altra assemblea,
che il diacono (la) interroghi per sapere se è sposata, o se è
una vedova credente, se è una figlia della Chiesa, o se per
caso essa appartiene all'eresia; poi la guidi e le assegni un
posto conveniente. Se si presenta un presbitero che viene da
un'altra assemblea, tocca a voi, presbiteri, riceverlo, dando­
gli un posto tra voi. Se è un vescovo (che arriva), sieda col
vescovo, e che questi lo tratti con l'onore dovuto al suo
rango, come un altro se stesso. L'inviterai, o vescovo, a par­
lare al tuo popolo, perché l'esortazione e il rimprovero dei
forestieri è molto utile, poiché sta scritto: 'non c'è profeta
che sia ben accolto nella sua patria'. Poi, al momento di of­
frire l'eucaristia, egli prenda la parola (per pronunciare l'a­
nafora). Ma se è un riservato, se ti lascia questo onore e non
vuole offrire, prenda almeno la parola per il calice.
Se capita, d'altra parte, che voi siete seduti e qualcuno si
presenta, uomo o donna, che abbia degli onori nella società,
- sia del posto o di un'altra assemblea, - allora tu, o vescovo,
se stai proclamando la parola di Dio, se stai ascoltando o se
stai facendo la lettura, non abbandonarti al favoritismo, non
lasciare il servizio della parola per trovare tu stesso a loro un
posto; resta tranquillamente là dove sei e non interrompere il
tuo discorso: siano i fratelli a riceverli. Se non c'è più posto,
uno dei fratelli che è pieno di carità e di affetto fraterno, e
che è disposto a fare questo onore, si alzi e gli ceda il posto.
E lui stia in piedi. Se i giovani e le giovani restano seduti,
mentre un uomo o una donna anziana si dispongono a cedere
il loro posto, allora guarda, o diacono, tra quelli che sono
seduti per vedere chi è più giovane degli altri; chiedigli di
alzarsi e di far sedere la persona che si era alzata per offrire
il suo posto; poi prendi quello che hai fatto alzare e mettilo
in piedi dietro il gruppo affinché gli altri ne abbiano una
lezione e imparino a cedere il loro posto a persone più
degne.
«Ma se arriva un povero, uomo o donna, della stessa as-

I2a I J.-P. Audet, Matrimonio e celibato nel servizio pastorale


semblea o di un'altra assemblea, soprattutto se sono di età
avanzata, e se non si trova più posto per loro, tu stesso, o
vescovo, dà loro un posto, di gran cuore, anche se tu doves­
si sederti per terra; non sii come quelli che agiscono per fa­
voritismo, ma che il tuo servizio cerchi piuttosto di piacere
aD io»/°

Didascalia degli apostoli, 12; M. DUNLOP GiBSON, The Didascalia


apostolorum in Syriac, pp. 109-112; trad. Connolly, pp. 119-124; trad.
N au ,2 ed . pp. 112-115.
CONCLUSIONE DELLA PARTE PRIMA

Dopo aver esaminato, nell'analisi, i fatti nei loro partico­


lari, è necessario fare, alla fine, osservazioni più generali.
NeH'insieme esse riguardano la maniera in cui furono pen­
sati all'inizio il servizio della parola e il servizio dell'assem­
blea. Ci fu, in effetti, in Gesù e nei suoi immediati discepoli,
un angolo di visuale, ancora pienamente riconoscibile, che
sembra sia stato adottato da tutti.
A questo proposito, ciò che occorre anzitutto rilevare è
che ci si è orientati subito, senza esitazione, verso stili di
vita determinati nelle loro grandi linee dalle necessità speci­
fiche di ciascuna funzione, piuttosto che verso stati di vita,
comandati dall'alto, e fìssati una volta per tutte da una ge­
rarchia di gradi di perfezione nelle relazioni dell'uomo con
Dio e con il prossimo. Ci furono anche, si potrebbe dire,
tanti stili di vita quante furono le funzioni distinte, e ci fu­
rono tante funzioni distinte quanti furono i bisogni sentiti e i
doni per soddisfarvi, per quanto riguarda sia il servizio della
parola che quello deWekklèsza. In definitiva erano i bisogni
riconosciuti e i doni disponibili che portavano, ogni volta, lo
stile di vita alla misura della funzione e del servizio.
Queste condizioni generali hanno fatto nascere, com'era
naturale, una rapida e ricchissima diversificazione sia negli
stili d'azione che negli stili di vita aH'intemo del servizio co­
mune della speranza del Vangelo, che raccoglieva tutti nella
ricerca dello stesso fine. Ci si sentiva, e si era, di fatto, in
regime di flessibilità. Evidentemente tale flessibilità non era
ricercata per se stessa come fosse un regime ideale da favo­
rire in una teoria astratta dell'azione evangelica. Tale flessi­
bilità risultava piuttosto, in primo luogo, dalla sottomissione
comune alle situazioni concrete, e, in ultima analisi, dalla
persuasione spontanea che il piano di Dio era vasto, quanto
molteplici e diversi erano i suoi doni.
A questo riguardo, l'esempio di Gesù'era già decisivo in
se stesso. Il suo messaggio iniziale aveva rappresentato un
certo stile d'azione appoggiato, in maniera tutta naturale, da
uno stile di vita appropriato. Questo stile d'azione e questo
stile di vita s'ispiravano, peraltro liberamente, all'immagine
già antica del profeta, araldo di Jahvè, incaricato di diffon­
dere, largamente e rapidamente, da parte di Dio, la 'buona
novella' di una speranza vicina a realizzarsi in pienezza.
Ora, quei discepoli che furono i primi ad essere attirati
nell'intimità di Gesù, non potevano non scorgere le diffe­
renze profonde che l'ulteriore adozione dell'istruzione in­
troduceva nello stile d'azione e nello stile di vita della prima
ora. Queste differenze balzavano all'occhio. Dopo essersi
presentato come profeta, mandato da Dio al popolo per
annunciare la 'buona novella' del vicino compimento della
speranza anticamente promessa, Gesù diventava il maestro
che si siede, si circonda di discepoli assidui che lo 'seguono'
nei suoi spostamenti, accoglie similmente i gruppi più o me­
no occasionali di uditori che si formano attorno a lui, per
alzare, lentamente e pazientemente, il velo che aveva, per
forza di cose, oseremmo dire, ricoperto il primo messaggio.
Del resto, se ve ne fosse stato bisogno, la prima missione
dei discepoli, vivendo ancora Gesù, sarebbe ampiamente ba­
stata, da sola, a mettere in risalto le rispettive caratteristiche
dell'istruzione e del messaggio, sia dal punto di vista dello
stile di vita che da quello dello stile d'azione. In quel
momento, infatti, i discepoli 'seguivano' già da un po' di
tempo Gesù. Sapevano dunque perfettamente ciò che l'istm-
zione di Gesù significava nella sua vita di maestro, dedicato
al compito di svelare il senso e la portata del messaggio
iniziale.
Ora, ciò che la missione dava ai discepoli, in quell'occa­
sione, era l'esperienza vissuta della diffusione di un messag­
gio in tutti i punti simile a quello che era stato il messaggio
iniziale dello stesso Gesù. Di conseguenza, se, per caso, non
l'avessero ancora saputo, i discepoli conobbero almeno dopo
quell'esperienza qual era il genere d'azione rappresentato dal-
messaggio e qual era lo stile di vita ad esso normalmente
adatto. Sui due punti, la tradizione evangelica ha, del resto,
conservato per ricordarcelo, non soltanto la maniera in cui
Gesù concepì la missione dei discepoli, ma anche le princi­
pali raccomandazioni che egli ritenne utile dar loro per la
circostanza.
Come si poteva supporre, il periodo apostolico presenta
un quadro sensibilmente più complesso. Tuttavia l'evoluzio­
ne segue le linee di forza dell'azione e del pensiero di Gesù.
Cosi vediamo le due forme principali della parola, il mes­
saggio e l'istruzione, entrare allora in un lungo processo di
differenziazione interna sotto la spinta combinata dei doni
individuali e delle situazioni nuove che si fanno luce man
mano che il Vangelo progredisce. Il 'discorso kerygmatico',
che appare in quest'epoca, e di cui i racconti degli Atti ci
permettono di farci un'idea abbastanza buona, è già lontano,
dal punto di vista della forma, dal messaggio iniziale di Gesù.
I cambiamenti che si producono nelle forme letterarie
dell'istruzione non sono meno notevoli. Inoltre, nel mede­
simo tempo, forme nuove, sulle quali abbiamo delle notizie
disuguali, fanno la loro apparizione nel servizio della parola.
Queste forme nuove sono soprattutto legate per noi ai doni
particolari degli evangelisti, dei profeti e dei dottori.
Ora, i cambiamenti nella forma letteraria, significano ge­
neralmente qui modifiche relative nello stile dell'azione. A
sua volta lo stile d'azione modella lo stile di vita per ade­
guarlo alle necessità variabili delle situazioni concrete. A
questo proposito, possiamo parlare, per quel tempo, di un
servizio itinerante della parola. Ma tale qualifica globale non
deve farci illusione. Per quel che ne sappiamo, lo stile di vi­
ta degli itineranti rimase sempre molto lontano dall'unifor­
mità. Nel quadro generale di una certa libertà di movimento,
comune a tutti, condizioni d'esistenza talvolta molto diverse
furono ritenute semplicemente normali e legittime.
Quando le circostanze lo conducevano a delle soste pro­
lungate, Paolo riprendeva il lavoro per venire incontro ai
suoi bisogni. Ma, su questo punto, altri pensavano in un'altra
maniera e preferivano affidarsi più largamente all'ospitalità.
Malgrado la scarsezza delle nostre informazioni, pare, d'altra
parte, che una diversità dello stesso genere abbia prevalso
per quel che riguarda le situazioni familiari. Certo, ci piace
vedere un uomo del valore di Paolo mettere a profitto, per il
servizio del Vangelo, la libertà personale che le precedenti
circostanze della sua vita gli avevano dato. Dobbiamo stare
attenti, tuttavia, a non confondere i piani: quello del valore e
quello della libertà. Cosi, altri, che avevano senza dubbio
davanti a loro situazioni familiari meno semplici, o che,
anzitutto, vedevano lo stesso matrimonio in una luce più
favorevole, adottarono una linea di condotta diversa. Da
parte di questi ultimi, una tale linea di condotta non
implicava peraltro che, dopo aver 'lasciato tutto', essi
riprendessero qualche cosa, guardandosi indietro. Voleva
dire piuttosto che in definitiva essi giudicavano di queste co­
se, come lo stesso Gesù, secondo le convenienze e le neces­
sità concrete del loro servizio, tenendo conto di quanto già
esisteva, secondo le regole superiori della giustizia e del­
l'amore.
Dal nostro punto di vista, tuttavia, è il raffronto tra il
servizio itinerante della parola e il servizio déìrekklèsia che
rivela l'aspetto più significativo. Cerano qui, in effetti, due
situazioni, e due gruppi di condizionamenti del tutto distinti.
La parola richiedeva nel messaggero del Vangelo una
mobilità che,'per sé, tendeva ad allentare i vincoli familiari.
Se dunque ci fu, in quel tempo, un servizio che poteva, di
sua natura, suggerire il celibato a quelli che ne accettavano
la responsabilità, fu, senza dubbio, il servizio apostolico del
messaggio, forma importantissima nell'insieme del servizio
della parola.
Ora, quando la nascita deU'ekklèsia fece vedere la con­
venienza di darle un servizio proprio, non si pensò ad un
vago adattamento del servizio apostolico: si crearono sem­
plicemente delle funzioni nuove, le cui responsabilità speci­
fiche sarebbero state assunte da titolari distinti. Una volta di
più, si giudicava dunque la struttura interna del servizio
secondo le esigenze delle situazioni man mano che queste
rivelavano bisogni nuovi.
Cosi nacque il servizio 'pastorale'. L'immagine, molto
parlante in quell'ambiente, sottolineava l'intenzione profon­
da che stava all'origine della creazione del servizio. Contraria­
mente al messaggio, l’ekklèsia esigeva stabilità e regolarità.
Ma, nelle condizioni concrete in cui ci si trovava, dove si po­
teva sperare d'incontrare questa stabilità e questa regolarità
con il massimo di vantaggi riuniti se non aH'intemo del
quadro domestico, per quel che riguarda l'assemblea, da una
parte, e nel mantenimento, senza reticenze del vincolo fami­
liare, per quel che riguarda i responsabili deU’ekklèsia, dal­
l'altra? Cosi avvenne, di fatto, che il servizio originale del-
rekklésia, ben lungi dal suggerire fin dall'inizio un allenta-

9 - 12
mento delle strutture dell'istituto familiare nel quale s'intrc-
duceva, - il che sarebbe stato, in ogni caso, una politica ab­
bastanza strana! - cercò invece, in maniera evidente, di ap­
poggiarsi su quelle stesse strutture e ciò che esse potevano
offrirgli di più solido e di più continuo.
A questo proposito, le raccomandazioni paoline relative
alla scelta degli episcopi, presbiteri e diaconi, non danno luo­
go, crediamo, ad alcun equivoco. Esse significano che, agli
occhi dell'apostolo, il quadro domestico, con la sua rete vi­
vacissima di relazioni umane, con le usanze particolarmente
ricche e fisse della sua ospitalità, con il matrimonio che ne
costituiva la realtà essenziale e permanente, vera scuola di
governo e di servizio dei piccoli gruppi, rappresentava allora
la sola possibilità concreta e tangibile per Yekklèsia, e per il
servizio locale della parola, e per il servizio frequente
dell'eucaristia, e per il servizio costante dell'aiuto vicendevole
sotto le sue molteplici modalità.

Circa due secoli e mezzo più tardi, i documenti comin­


ciano ad attestare, tuttavia, in maniera non meno chiara, che
l'equilibrio primitivo stava per rovesciarsi, se non lo era già,
in tutte le direzioni del campo ecclesiale. Cos'era successo?
Molte cose, evidentemente, che, oltre le istituzioni pastorali,
toccavano spesso gli strati profondi della coscienza cristiana
stessa.
E a questo punto, mi sembra, che l'obbligo alla continen­
za coniugale consacrato nel canone 33 del concilio di Elvira,
analizzato all'inizio, prende il suo significato completo. Pos­
siamo peraltro limitarci, per il momento, a quest'unica testi­
monianza: contiene tutto l'essenziale di ciò che interessa più
direttamente il nostro studio.
Da una parte, infatti, la regolamentazione di Elvira consa­
cra implicitamente un fatto d'importanza capitale: ormai, e
da molto tempo per la verità, non è più il servizio della pa­
rola che, per la sua natura, e sotto la forma principale del
messaggio, invita a 'lasciare tutto': casa, padre, madre, fra­
telli, sorelle, moglie e figli, come avvenne nel periodo aposto­
lico, ma il servizio pastorale deU'ekklèsia stessa, o più pre­
cisamente, nel servizio pastorale déiì’ekklésia, il servizio par­
ticolare dei sacramenta, e dunque, per eccellenza, il servizio
{ministerium) dell'eucaristia. D'altra parte, la stessa regola­
mentazione di Elvira consacra implicitamente un secondo
fatto, direttamente legato al primo, e di questo non meno im­
portante: d'ora in avanti, la riflessione della Chiesa sulle
strutture del servizio pastorale passa sempre più da una con­
siderazione degli stili di vita, richiesti, secondo la realtà delle
cose, dalle mutevoli condizioni dei diversi servizi, a una
considerazione preferenziale degli stati di vita, richiesti dal­
le condizioni idealmente immutabili della perfezione cristia­
na. La storia ci istruisce abbondantemente sul resto. Questo
duplice spostamento di considerazioni, di cui possiamo ora
misurare tutta la novità in rapporto allo stato di cose che
aveva prevalso nella generazione apostolica, doveva avere
per secoli, e fino ai nostri giorni, conseguenze incalcolabili.
Non entreremo qui nei particolari di spiegazioni che po­
trebbero portarci molto lontano. Alcuni punti, tuttavia, me­
ritano da parte nostra una particolare attenzione.
Il primo riguarda l'influsso dell'ascetismo, e, più tardi, del
monacheSimo, sul servizio pastorale della Chiesa. Quest'in­
flusso, naturalmente, è preso in considerazione da tutti gli
storici. Grosso modo esso è, in effetti, evidente. Non è cer­
to, tuttavia, che il genere di riflessioni che ci è proposto ge­
neralmente su questo argomento vada al fondo delle cose. A
mio avviso, il più importante contributo dell'ascetismo e del
monacheSimo è stato, appunto, di far passare nella riflessio­
ne pastorale prima, e poi nelle strutture stesse del servizio
déì'ekklés'ta, l'idea caratteristica che si era in essi formata di
un certo 'stato' ideale della 'perfezione' cristiana. Nelle
circostanze storiche in cui si presentava, tale idea si trovò,
in effetti, rivestita, fin dall'inizio, di un prestigio spirituale
che poteva già bastare a procurargli un'immensa forza di pe­
netrazione. Poco a poco, essa è diventata cosi universalmen­
te presente in tutti i rami e dietro tutti gli aspetti del servizio
pastorale della Chiesa che non riusciamo più, se non a
fatica, a rappresentarci oggi uno stato di cose diverso. Ma
non fu cosi alle origini, e se, nell'ordine delle strutture del
servizio pastorale, una certa libertà di movimento e di orien­
tazione è stata perduta, il motivo è che noi abbiamo lasciato
che si perdesse.
Un secondo fattore, materiale questo, entrò pure in gioco,
e la sua azione si fece sentire poco a poco in profondità sia
sulla riflessione che sulle strutture del servizio pastorale.
Voglio pariare del luogo dell'assemblea liturgica. Infatti, a
partire dal momento in cui il luogo dell'assemblea cessò di
spostarsi secondo le circostanze,^ ogni sorta di trasformazioni
che colpivano lo stile degli incontri, le abitudini dei pastori
e perfino i sentimenti più nascosti della stessa comunità, si
trovavano davanti una via largamente aperta. Cosi,

' Atti del martirio di Giustino, Roma, verso il 165: «Il prefetto
domandò in quale luogo si riunissero i cristiani. Ciascuno va, rispose
Giustino, al luogo di una scelta, secondo le possibilità», 2; cfr. I p p o l i t o ,
Tradizione apostolica, verso il 215: «Fin dal risveglio, quando si alzano,
i fedeli, prima di attendere alle loro occupazioni, preghino Dio e poi si
diano al loro lavoro. Ma se c'è (servizio della) parola con istruzione, gli
si dia la preferenza: si vada ad ascoltare la parola di Dio per rafforzare la
propria anima. Ci si affretti ad andare aR’ekklèsia dove abbonda lo
Spirito», 31-35; «Che i diaconi e i preti si riuniscano ogni giorno nel
luogo che il vescovo avrà loro designato. I diaconi, in modo particolare,
non trascurino di riunirsi ogni giorno, a meno che la malattia sia loro
d'impedimento. Poi, quando avranno tenuto tutti insieme la loro
riunione, istruiscano - o: vadano ad istruire, - quelli (dei fedeh) che sono
aU'ekklésia. E dopo aver pregato, ciascuno vada per i suoi affari», 33-
39; ed. Dix, pp. 57-58; 60; ed. Botte, 1963, pp. 83,87.
diventava possibile una più grande regolarità nelle riunioni;
la sistemazione dei luoghi permetteva di aumentare l'impor­
tanza dei gruppi; l'allontanamento, già più o meno marcato,
dal quadro domestico originario annunciava un dissolversi,
lento ma sicuro, delle antiche usanze dell'ospitalità pastorale,
e la loro eventuale sostituzione con altre forme
d'accoglienza, più ridotte, più impersonali, più vicine anche
a ciò che si praticava di solito nei luoghi di adunanze pubbli­
che. D'altra parte, una volta fissato nello spazio, il luogo del­
l'assemblea poteva attirare a sé, nella coscienza dei fedeli e
dei pastori, la qualità estremamente prestigiosa che andava
unita in generale ai luoghi di culto: il carattere sacro.
Era già una cosa enorme. Ma non si fermavano qui le pos­
sibilità di trasformazione che la fissazione del luogo dell'as­
semblea portava con sé. Tale fissazione invitava subito a rag­
gruppare tutti i principali responsabili dél'ekklesia nelle
vicinanze immediate del luogo in cui si tenevano le assem­
blee. Di colpo veniva a presentarsi una possibilità concreta
al progressivo stabilirsi di un più alto grado d'organizzazio­
ne del servizio pastorale. Per intanto era la gerarchizzazione
delle funzioni e dei poteri locali che trovava un'occasione fa­
vorevole per affermarsi. L'abbiamo già notato, la domus ec-
clesiae del III secolo cessa a poco a poco di essere un sem­
plice complesso di sale destinate al culto, per diventare un
insieme nel contempo cultuale e domiciliare, dove i princi­
pali responsabili leU'ekklèsia vivono vicini gli uni agli altri,
e tutti relativamente vicini al luogo del loro servizio. Là
dove, un po' più tardi, la basilica subentrerà al posto della
domus ecclesiae, la stessa tendenza al raggruppamento pasto­
rale sarà, del resto, generalmente conservata.
N e l m o m e n to in cui l'id e a le d ello 'stato ' di p e rfe z io n e n a ­
to, essen zialm en te, d all'ascetism o e dal m onacheS im o c o m in ­
ciò a in tro d u rsi nel serv iz io deH'ekklèsta, esiste v a n o d u n q u e
delle condizioni pronte a servirlo nella disposizione stessa dei
luoghi e nel desiderio di raggruppamento pastorale che vi
aveva già messo radice. Un passo in più, e si avrà un ideale
esplicito di 'vita comune' (vita communis), che informa dal­
l'interno il servizio pastorale stesso. Basterà qui ricordare,
per l'Occidente, gli esempi di un Eusebio di Vercelli in Ita­
lia, di un Martino di Tours in Gallia, e soprattutto di un
Agostino d'Ippona in Africa.
Per quanto importante possa essere stato, il duplice fatto­
re della formazione dell'ideale monastico e del desiderio di
raggruppamento pastorale non basta, tuttavia, a spiegare co­
me all'inizio del IV secolo, una regolamentazione come quella
di Elvira abbia potuto fare della continenza coniugale un
obbligo rigorosamente imposto a tutti i vescovi, preti e dia­
coni a partire dal momento in cui essi accedevano alle rispet­
tive funzioni nel servizio deU'ekklèsia. L'ideale monastico
restava, in effetti, una scelta personale. Da parte sua, il rag­
gruppamento pastorale attorno al luogo dell'assemblea non
implicava, per sé, né la 'vita comune' propriamente detta, né
tanto meno la continenza coniugale obbligatoria. Ci fu
dunque un altro fattore che entrò in gioco. E, in verità, fu
quello decisivo.
Tale fattore, lo sappiamo già, fu l'incontro all'interno
stesso della coscienza pastorale, della duplice percezione del­
l'impuro e del sacro: il primo si presentava, oscuramente,
sotto le specie dell'esercizio della sessualità, e il secondo, in
piena luce, sotto le specie del servizio dei sacramenta. Ora,
è chiaro che un tale incontro era, fin dall'inizio, essenzial­
mente un incontro di conflitto. Il desiderio pastorale di ono­
rare i sacramenta arrivò dunque un giorno a un punto in cui
non poteva più ispirare che una cosa: l'esclusione totale del­
l'esercizio di quella sessualità in cui non si vedeva più troppo
chiaramente come potesse non esserci la vergogna di una
certa contaminazione. Una vera legge di continenza coniu­
gale, imposta a tutti i chierici impegnati nel servizio diretto
dei sacramenta, sembrò dunque offrire una disposizione con­
veniente. È la regolamentazione di Elvira.
Ma, a partire da questo punto, sarà più utile riprendere le
cose sotto un altro aspetto

^ M in u c io F e lic e , Ottavio: «Il desiderio dell'incesto è cosi lontano


dal nostro pensiero (nostro, di cristiani) che anche relazioni oneste
ispirano vergogna a più d'uno tra noi», 31,5; A m brogio, Exhortatio
virginitatis: «Ora, in effetti, (dopo che Adamo ha peccato ed Èva è stata
punta dal serpente col veleno della lubricità), anche se il matrimonio è
buono, comporta tuttavia tah cose che gli stessi sposi ne arrossiscono tra
loro», 6,36; G e ro la m o , Adversus lovinianum: «A confronto con (o in
presenza della) purezza del corpo di Cristo, ogni unione sessuale è
impura, omnis coitus immundus», 1,20. Il contesto immediato di
quest'ultima citazione evoca l'episodio di David e Ahime-lec, secondo 1
Sani. 21,2-7: incontro-tipo del puro e dell'impuro con il sacro, che
Gerolamo applica qui all'eucaristia. I pani d'oblazione erano come il
corpo di Cristo. Ora quelli che erano appena usciti dal letto della loro
sposa non potevano mangiarne. A più forte ragione, aggiunge lui,
dobbiamo pensare che è lo stesso ora per noi. Poiché «davanti alla
purezza del corpo di Cristo, ogni unione sessuale è impura».
Parte seconda

Ieri, oggi, domani


CAPITOLO PRIMO

LA SACRALIZZAZIONE
DEL SERVIZIO PASTORALE
E LE ORIGINI DELLA LEGGE
DEL CELIBATO ECCLESIASTICO

'Reclutamento sacerdotale', 'formazione sacerdotale', 'mi­


nistero sacerdotale', 'spiritualità sacerdotale', 'consacrazione
episcopale', 'gerarchia':, questa fraseologia, di cui sarebbe
facile moltiplicare gli esempi, ci è oggi estremamente fami­
liare. Cosi familiare che, veramente, senza di essa, quasi non
sapremmo parlare del servizio pastorale.
A questo proposito, capita perfino che degli storici, peral­
tro molto attenti, si lascino candidamente prendere dal vec­
chio tranello dell'anacronismo. Ci spiegheranno, per esem­
pio, senza alcuna precauzione, che Clemente di Roma ha vo­
luto mostrare nel 'sacerdozio antico' (cioè aronitico) una fi­
gura del 'sacerdozio cristiano': ma questo, in realtà, sempli­
fica, e soprattutto sposta notevolmente il pensiero dell'au­
tore.^ O ancora, citando Rom. 15,16, dove Paolo ricorda il

' C lemente di R om a , j Cor. 40-44 più particolarmente. Un'imma­


gine positiva dell'ordine levitico antico non implica per sé che l'autore
pensi al servizio pastorale della Chiesa come un nuovo 'sacerdozio'. Il
punto di vista della lettera è quello dell'equità, della riconciliazione,
della pace e, in maniera più generale, del buon ordinamento della vita
della comunità di Corinto. E dunque in questa linea che l'esortazione di
Clemente utilizza l'esempio dato nel passato dal sacerdozio aronitico. Se
le istituzioni antiche, spiega, avevano già previsto un ordinamento
cultuale ammirevole, a maggior ragione dobbiamo ora tendere a
osservare in ogni cosa le regole dell'ordine, che è la più sicura garanzia
della carità e della pace. Inoltre, come possiamo sperare di piacere a Dio
se lasciamo che si radichi tra noi un regime di divisioni
dono che gli è stato fatto, nella sua qualità di 'ministro', o di
«servitore (leiturgón) del Cristo Gesù tra i gentili»: dato che
la missione di annunciare «il Vangelo di Dio» gli è stata
affidata come una 'funzione sacra' {hierurgùnta), per fare dei
gentili «un'offerta (prosphorà) gradita» a Dio, «santificata
(hègiasméné) nello Spirito Santo», — tali storici passeranno
troppo in fretta dal piano della metafora occasionale a quello
della realtà totale.^ Saremo allora invitati a comprendere che
Paolo stesso ha concepito il «ministero apostolico della pre­
dicazione del Vangelo» come una 'funzione sacerdotale'. Ma
è chiaro che una tale interpretazione, presentata sotto questa
forma assoluta, supera di molto la portata originale del testo.
In realtà, ciò che occorre dire senza esitazioni e senza am­
biguità, è che la nostra fraseologia 'sacerdotale', forse molto

e d'ingiustizia? È necessario notare, del resto, che, sotto la penna di


Clemente, leiturgéin, leiturgia e leiturgós rivestono la loro sfumatura
cultuale e sacrale solo dove si parla di sacerdozio levitico (32,2; 40,5;
41,2; tranne forse 41,1). L'autore ritorna, infatti, al senso più generale di
un «servizio» della comunità ogni volta che si riferisce alle re­
sponsabilità dei presbiteri-episcopi nei riguardi del 'gregge', o alla 'fun­
zione' che tocca a ciascuno nel buon ordinamento dél’ekklèsia (8,1; 41,1;
44,2.3.6; cfr. 9,2.4; 20,10; 36,3; hieratéuein associato a leiturgéin, una
volta, 43,4, parlando del sacerdozio levitico). Nella stessa linea, si noterà
anche che Clemente non usa mai il termine sacrale bie-réis per designare
i presbiteri-episcopi. Hieréis indica una volta i 'preti' della religione
egiziana (25,5), e due volte i 'preti' del sacerdozio levitico (32,2; 40,5).
Quanto a archieréus, indica due volte il 'gran sacerdote' levitico (40,5;
41,2), e tre volte Gesù nella sua condizione gloriosa presso il Padre (36,-
; 61,3; 64). È d'altra parte significativo il fatto che il 'sacerdozio' di Gesù
sembra qui essere posto nella linea di un 'ordine di Aronne' piuttosto che
nel prolungamento di un 'ordine di Melchisedech' (costui non è
nominato; 32,2 cita Levi con una simpatia cosi evidente che sembra
avere la precedenza su Giuda; Clemente, inoltre, suppone forse una
discendenza levitica di Gesù; cfr. Ebr. 7,1-28).
^ L'accusativo tò euangélion tu theù, oggetto dell'azione indicata da
hierurgùnta, basta a indicare che quest'ultimo termine è usato in senso
metaforico. La metafora è richiamata qui, evidentemente, da un leggero
spostamento del senso generale di leiturgón nel membro-di frase
precedente (cfr. Rom. 1,9 «Dio che io servo, latréuo, nel mio spirito»
con la proclamazione del «Vangelo del suo Figlio»).
antica, non è tuttavia la fraseologia primitiva. Essa ha cono­
sciuto uno sviluppo e ha una storia. Soprattutto, questa sto­
ria ha un significato profondo per la nostra situazione e per
certe nostre difficoltà attuali. In particolare, essa tocca da
vicino la questione del 'celibato ecclesiastico'. Vorrei esami­
nare brevemente quest'ultimo punto. Non mi sembra che
esso abbia avuto finora l'attenzione che merita.

1/ Servizio e sacerdozio

È necessario notarlo fin dall'inizio: nessun termine di


quelli usati all'origine per indicare il 'servizio' del 'Vangelo'
o delYekklèsia è stato preso dall'universo sacrale del giudai­
smo: apostólos, euangelistès, didàskalos, prophètes, diàko-
nos, presbyteros, episkopos, per non ricordare qui che gli
elementi principali di questo vocabolario. E necessario ag­
giungere che nessuno di questi termini viene dall'universo
sacrale greco-romano? Infatti, tutti i termini che, negli scritti
apostolici, indicano il 'servizio' del 'Vangelo' e deìL'ekklé-sìa
vengono direttamente dalla lingua profana (il che non vuol
dire: lingua estranea all'universo 'religioso') checché ne sia,
per il momento, di un'analogia parziale e, a mio parere
accidentale, tra Yepiskopos cristiano e il mebaqqer di
Qumràn.
Ecco il fatto, massiccio, evidente, del resto, per poco che
ci si pensi. Questo fatto non può avere che un significato, non
meno globale: ed è che le persone che, all'origine, hanno ser­
vito il 'Vangelo' e Yekklèsia non si sono considerate, né sono
state considerate dalla comunità, come formanti, nell'insieme,
un 'personale sacro' del genere di quello rappresentato, per
esempio, dal sacerdozio levitico. Del resto, tutto ciò pare
ancor più significativo se si pensa che non era che mancas­
sero i modelli, sia nel giudaismo che nel mondo greco-roma-
no. I modelli erano, invece, ben visibili, sotto gli occhi di
tutti: non c'era che da scegliere e da prendere. Quanto al
sacerdozio levitico, in particolare, va da sé che un ebreo di­
ventato cristiano continuava, per cosi dire, ad averlo nel san­
gue... E tuttavia, i modelli sono rimasti bellamente inutiliz­
zati, almeno per un certo tempo. Una tale riserva non può
essere casuale. Il fatto ha dunque avuto, e ha ancora, un
senso.
Se i 'servi della parola' (Le. 1,2) e della comunità non so­
no stati visti aH'origine, né individualmente, né collettiva­
mente, come rivestiti di un carattere sacro, per ciò stesso
aderente in maniera stabile alle persone stesse, sarebbe tut­
tavia una grave esagerazione concludere, senz'altro, che le
prime comunità cristiane s'erano dissociate da tutto ciò che
poteva appartenere all'universo del sacro e che erano diven­
tate come estranee a questo universo. Ciò che invece biso­
gna dire, mi sembra, è che le prime generazioni sorte dal
Vangelo hanno perfettamente capito che gesti e riti sacri
continuavano a far parte della loro vita, senza per questo
estendere tale prospettiva fino a rivestire di un carattere sa­
crale, indissociabile e permanente, le persone stesse che com­
pivano quei gesti o presiedevano quei riti.
Lo stesso fenomeno di discrezione può essere osservato,
del resto, in ciò che riguarda i luoghi e il mobilio del culto.
Cosi, l'eucaristia è stata celebrata anzitutto in case che non
erano che le abitazioni di quelli che accoglievano Yekklésia:
Prisca e Aquila a Efeso e a Roma ( / Cor. 16,9; Rom. 16,5),
Ninfa a Laodicea (Col. 4,15), Filemone e Appia a Colossi
(Filem. 2). Si trovava dunque naturale e conveniente celebrare
l'eucaristia in pieno quadro profano, come Gesù stesso, del
resto, aveva mangiato la sua ultima pasqua in casa del­
l'anonimo di Gerusalemme. Sarebbe futile, d'altra parte,
supporre che le tavole, le coppe e altri elementi di servizio
usati nella celebrazione deH'eucaristia erano fin da quel mo­
mento visti come 'altari' e 'vasi sacri'. A questo proposito
bisogna evitare di lasciarsi prendere, senza discernimento,
da metafore, paragoni e analogie che s'incontrano qua e là
negli scritti apostolici.^
Considerata nel suo insieme, questa situazione, sia riguar­
do alle persone che alle necessità cultuali, supponeva un'e­
norme semplificazione nei confi-onti dell'universo sacrale del
giudaismo contemporaneo. Tale semplificazione è certamen­
te stata, inoltre, uno dei principali fattori che hanno permes­
so alla Chiesa primitiva di superare le frontiere del giudai­
smo per raggiungere nella sua realtà originale e mobile il va­
sto mondo dell'impero. L'alleggerimento del sacro assicurava
alle strutture della giovane Chiesa una grandissima flessibilità,
di cui è testimone la nascita di nuove funzioni e nuovi
servizi: apostoli, evangelisti, profeti e profetesse, presbiteri,
episcopi e diaconi. E nello stesso tempo assicurava anche
alle prime comunità cristiane una grandissima libertà di
azione, d'invenzione e d'adattamento.
Paolo ha sentito vivamente che questa flessibilità delle
strutture e questa libertà d'adattamento erano le condizioni
necessarie per la diffusione del Vangelo al di là del giudai­
smo originario. Ma non è stato certo il solo a veder le cose
da questo punto di vista, benché, lo sappiamo, ci fossero a

^ Specialmente, a proposito dell'altare, / Cor. $,iy, 10,18; Ebr. 13, io.


Ancora al volgere del in secolo, un Minucio Felice poteva spiegare ai
suoi interlocutori pagani le ragioni per cui dice: «non abbiamo né templi
né altari» (Ottavio 32). Nello stesso senso. C lemente d 'A lessandria ,
Stromati, VII, 6(31,8): «il nostro altare terrestre è l'assemblea di quelli
che si danno alla preghiera, fusi per cosi dire in una sola voce e in un
solo pensiero»; anche O rigene , Contro Celso, Vili, 17. Tuttavia, nella
stessa epoca, T ertulliano , Della preghiera, XIX, 3, dove si vede
apparire il senso concreto che sarebbe presto diventato familiare a tutta
la Chiesa.
questo proposito, molte riserve, molte resistenze, e anche, in
alcuni, una pura e semplice marcia indietro. Niente si spiega,
tuttavia, se il sentimento di Paolo su questo punto, non fosse
stato, grosso modo, il pensiero della maggioranza."^

2/ Il problema del sacerdozio nella Lettera


agli Ebrei

Dal nostro punto di vista, la Lettera agli Ebrei, tiene, in


una certa misura, un posto a parte. Essa affronta di petto una
questione delicata che, per la prima generazione, dovette
presentarsi alla mente di molti cristiani venuti dal giudaismo.
Il problema doveva preoccupare specialmente quelli che, per
la loro ascendenza sacerdotale (Atti 6,7) si volgevano più
verso il Tempio e la sua liturgia sacrificale. E 'notorio', in
effetti, scrive l'autore dell'epistola, «che nostro Signore è
disceso da Giuda». Ora, non era meno evidente per tutti che
la legge di Mosè non aveva attribuito niente alla tribù di
Giuda per quel che riguarda il 'servizio dell'altare' [Ebr.
7,13-14). In queste condizioni, quale poteva essere stato, o
quale poteva ancora essere, il senso del sacerdozio levitico
dal momento che la speranza della 'salvezza' era uscita, non
da Levi, ma da Giuda? Questi erano press'a poco i termini in
cui si poneva il problema.
La risposta offerta dall'autore dell'epistola mette avanti
parecchie considerazioni, ma una è per noi d'interesse più
diretto. Il modo di procedere dell'autore ricorda, del resto.

Cfr. Gv. 4,21-24 «Credimi, donna, l'ora verrà in cui voi non ado­
rerete il Padre né su questa montagna né a Gerusalemme...». Si penserà
anche, nello stesso senso, all'importantissima idea primitiva del
'sacrificio di lode', vero centro del culto cristiano (Ebr. 13,15; Dida-ché,
14,3).
in maniera sorprendente, quello che Paolo aveva già usato
nella questione più generale dei rapporti tra la legge e la giu­
stificazione gratuita che il 'Vangelo di Dio' offre a tutti in­
distintamente nella fede in Gesù, morto e risuscitato. Cristo
e Signore. La legge c'è, è vero, spiega Paolo, ma, prima della
stessa legge, Dio ci aveva dato, nella persona di Abramo il
modello annunciatore di un'altra giustizia, migliore di quella
che possiamo ottenere con la nostra fedeltà alla legge:
giustizia gratuita attraverso la fede nel Cristo Gesù.
Certo, osserva da parte sua l'autore della Lettera agli
Ebrei, ci sono il santuario, il sacerdozio nato da Aronne e i
sacrifici, ma, aggiunge in sostanza l'autore, Dio non ci ha
forse dato, nella persona di Melchisedech, il modello annun­
ciatore di un altro sacerdozio, più elevato e più perfetto di
quello di cui il Tempio offriva l'esempio? In realtà, Gesù,
Cristo e Signore, ha ricevuto nella sua morte e nella sua ri­
surrezione un sacerdozio migliore di quello d'una volta: «san­
to, immacolato, separato dai peccatori», liberato dalla neces­
sità di un rinnovamento quotidiano del sacrificio, poiché in
lui, il nostro sacrificio è stato offerto «una volta per tutte»,
ed è stato gradito a Dio {Ehr. 7,1-28). Gesù è 'sacerdote'
(hieréus), il nostro unico 'sommo sacerdote' (archieréus) per
l'eternità «secondo l'ordine di Melchisedech».
Se si aggiunge a questo la grande idea che la Chiesa tutta
intera, nata daH'avvenimento dell'annuncio evangelico, for­
ma un «nuovo sacerdozio regale... per proclamare le grandez­
ze di colui che ci ha chiamato» (1 Pt. 2,9), si avrà l'essenzia­
le della nostra più antica tradizione per quel che riguarda il
'sacerdozio' cristiano.
Si può misurare, d'altra parte, la distanza che separa il
nuovo 'sacerdozio', estremamente semplificato e 'spiritualiz­
zato', dall'apparato sacrale in cui si muoveva ancora il sa­
cerdozio aronitico. In fondo, si potrebbe dire che la sempli­
ficazione del 'sacerdozio' nuovo era uguale a quella del nuo­
vo 'sacrificio': fin dall'inizio s'era stabilito un equilibrio tra
l'uno e l'altro, e in maniera, in qualche modo, naturale e ne­
cessaria. Cosi avvenne che la Chiesa ebbe all'origine molti
'servizi'. Questi 'servizi' non costituivano tuttavia, propria­
mente pariando, una 'gerarchia sacerdotale', analoga alla ge­
rarchia levitica, in cui i responsabili dei 'servizi' sarebbero
stati rivestiti, in maniera permanente e indissociabile, del ca­
rattere sacro.

3/ L'inizio del processo di sacralizzazione del


servizio pastorale

Per parecchie generazioni la Chiesa ha vissuto della sua


eredità primitiva, senza sentire vivamente, pare, il bisogno
di estendere, nelle sue strutture pastorali, il campo del sacro.
Essa possedeva, nella sua eucaristia, un 'sacrificio di lode' che
era quello di tutta Vekklès'ta {1 Pi. 2,9, citato più sopra).
Soprattutto essa credeva di possedere in Gesù, passato
accanto al Padre in seguito alla sua morte e risurrezione, un
'sommo sacerdote', al quale nessun'altra mediazione poteva
e potrebbe mai essere paragonata.
Bisogna aspettare la fine del II secolo e l'inizio del III per
scorgere, nella vita della Chiesa, un cambiamento notevole
a questo proposito. Il fenomeno, non occorre dirio, è estre­
mamente complesso, e non è il caso di prenderlo in analisi
ora. È necessario tuttavia delinearlo brevemente e vederne il
significato.
Il vocabolario corrente è qui un buon indizio dei cambia­
menti più profondi che si operarono allora nella coscienza
della Chiesa per quel che riguarda il 'servizio' pastorale. È
nella prima metà del III secolo, in effetti, che la fraseologia
'sacerdotale' comincia a diffondersi nelle antiche designazio-,
ni dei diversi 'servizi' della Chiesa. Per quanto possiamo
giudicarne, l'uso di tale fraseologia si generalizza con una ra­
pidità stupefacente, dal momento che la si ritrova, verso la
stessa epoca, in Africa, in Italia, in Egitto e in Siria. Tra i
grandi testimoni di questo periodo, si potrebbero citare qui
Tertulliano, Cipriano, Origene, la Tradizione apostolica e la
Didascalia degli apostoli. Qui gli antichi 'servizi' dell'epf-
skopos e del presbyteros, in modo particolare, sono diven-.
tati, o sono intesi, come servizi 'sacerdotali'. Episkopos, pre­
sbyteros, hieréus, archieréus, e i loro corrispondenti latini, o
siriaci, scambiano liberamente i loro significati, non senza .
lasciar vedere, peraltro, che la percezione del sacro sotto­
stante ai titoli si allarga ormai, al di là delle persone, a tutto
ciò che ha direttamente a che fare con il loro 'servizio': luoghi
dell'assemblea, mobilio del culto, ecc.
Nell'evoluzione che allora si va delineando, è tuttavia Ci­
priano di Cartagine che sembra occupare la posizione di punta,
per la forza, l'abbondanza e la relativa novità delle formule.
Dalla lettera di Clemente di Roma alla Chiesa di Corinto è
passato circa un secolo e mezzo, appena cinque generazioni.
Ma quanto cammino è stato percorso! In Clemente, il servizio
pastorale, pur descritto volentieri come una letiurgia, si
definiva ancora, anzitutto, come un «servizio del gregge di
Cristo».^ Questo era stato, del resto, il punto di vista più
costante della generazione precedente: Vepiskopos hala 'cura'
della 'Chiesa di Dio' (i Tim. 3,5); nei riguardi di questa la sua
responsabilità può paragonarsi a quella del 'pa-

^ 1 Cor. 44,3 leiturgèsantas amémptós tó('i) poimnto(i) tu Christu,


parlando degli episcopi, o presbiteri, che i Corinti hanno ingiustamente
allontanato dal loro 'servizio', leiturgia. Nella frase precedente. Cle­
mente aveva usato lo stesso termine generale, leiturgia, per indicare il
'servizio' apostolico (44,2; cfr. la formula di Paolo, già citata: «servitore,
leiturgón, del Cristo Gesù tra i gentili, m tà éthnè», Rom. 15,16).
store' nei riguardi del suo 'gregge' (Atti 20,28); il presbiteros
è l'«intendente di Dio» neìl'ekklésìa (Tito 1,7).
S'intende che Cipriano non abbandona niente di questa
tradizione di attenzione e di sollecitudine, né nel suo pensie­
ro né nel suo esempio personale. Ma resta, malgrado tutto,
uh fatto molto notevole. Ed è che Cipriano non sembra esi­
tare a definire la sollecitudine pastorale anzitutto come un
«servizio dell'altare e dei sacrifici».*' Un tal modo di vedere,
ancora quasi nuovo alla metà del III secolo, segna, senza al­
cun dubbio, un cambiamento importante nella concezione del
servizio pastorale della Chiesa. Questo, infatti, è visto da Ci­
priano come una funzione sacra, un ministerium sacrum, il
cui primo centro di obblighi è un 'altare' dove è offerto un
'sacrificio'. Partendo da questo centro che è 1' 'altare di Dio',^o
il sacro si comunica poi all'insieme dell'universo pastorale,
non senza peraltro portare con sé, come sempre, una certa
sensibilizzazione caratteristica circa il puro e l'impuro.^ Al di
fuori ddYecclesia si stende dunque il vasto campo del 'pro­
fano', del 'secolare', della 'perversione', della 'contaminazio­
ne' e del 'sacrilegio', dove ci sono gli idolatri, i rinnegati, gli
scismatici e gli eretici, e dove non sussiste alcuna speranza
di salvezza. La speranza cristiana è cosi racchiusa tutta inte-

® Lettere, 1,1,1. La lettera biasima il gesto di Geminio Vittore che,


per disposizione testamentaria, ha designato come tutore dei suoi figli
il prete Geminio Faustino. Cipriano ricorda, a questo proposito, una
regola conciliare già fermamente stabilita: non si deve prendere né tu
tore né curatore tra «i chierici e i ministri di Dio», perché quelh che
sono stati «onorati con il divino sacerdozio» e che sono stati stabiliti
nel «ministero dei chierici» non devono accettare altro «servizio che
quello dell'altare e dei sacrifici» (non nisi altari et sacrifiais deservi
re... debent), per riservarsi interamente alla preghiera della Chiesa. For
mule simih appaiono nella stessa lettera: 1,2; 2,1; 2,2; anche XLlll,
5,2- LIX, 18,1; LXVll, 1,2; LXXll, 2,2.
Lettere, 1, 2,1.
Lettere, LXX, 1,3; 2,2.
9 Lettere, LXV,3,3; LXVll, 1,2; LXX, 2,2; LXXll, 2,2.
ra nell'ecclesìa, e questa ecclesia, a sua volta, è tutta immer­
sa nell'atmosfera purificante prodotta dal sacro.
Si comprende allora come il vescovo, epìscopus, sia cosi
volentieri descritto da Cipriano come un sacerdos Dei e che
i titolari subalterni del servizio pastorale siano correlativa­
mente designati come ministri Dei. In ogni caso la formula
traduce la percezione di un valore sacrale che s'accorda col
fatto che; nel pensiero di Cipriano, il vescovo e i suoi assi­
stenti sono anzitutto al «servizio dell'altare e dei sacrifici» e
che è per la mediazione di costoro, pare, che il servizio pasto­
rale ritrova ormai la sua destinazione prima nei riguardi del-
Yecclesia. Si pensa anche, d'altra parte, che i 'chierici' si tro­
vano per ciò stesso sottomessi alle esigenze caratteristiche
imposte di solito dalla vicinanza del sacro: esigenze che non
erano certo state conosciute sotto tale forma e in tale misura
nel tempo in cui il servizio pastorale si definiva, in primo
luogo e direttamente, come un servizio delVekklèsia. Infine,
non possiamo neanche stupirci se, all'occorrenza, la formu­
lazione delle esigenze caratteristiche del sacro si fondi so­
prattutto sull'Antico Testamento.
«Essendoci riuniti - scrive Cipriano - dopo il concilio del­
l'autunno del 254, abbiamo letto, fratelli carissimi, la lettera
che ci avete mandato per mezzo dei nostri co-episcopi Felice e
Sabino, lettera che testimonia l'integrità della vostra fede e il
timore di Dio che è in voi. Voi ci avete fatto conoscere che
Basilide e Marziale, che si sono macchiati {conma-culatos)
con i biglietti d'idolatria, e che hanno sulla coscienza delitti
abominevoli, non devono esercitare l'episcopato né compiere
le funzioni del sacerdozio di Dio (episcopatum gerere et
sacerdotium Dei administrare non oportere). Voi avete anche
espresso il desiderio che una risposta a questo proposito vi
fosse mandata e che il nostro parere vi portasse, nella vostra
giusta e necessaria inquietudine, un conforto e
un aiuto. Ma la vostra domanda ha già una risposta, meno
nei risultati delle nostre deliberazioni che nei precetti divini.
■■ Già da tempo la parola celeste e la legge di Dio determinano
quali devono essere quelli che possono prender parte al ser­
vizio dell'altare e celebrare i divini sacrifìci (deservire altari
et sacrificia divina celebrare). Nell'Esodo, in effetti, Dio,
■ rivolgendosi a Mosè, lo avverte in questi termini: 'che i pre­
ti che si avvicinano al Signore si purifichino (sanctificentur),
perché il Signore non li abbandoni' (19,22). E anche questo:
^quando s'avvicineranno all'altare del Santo per il servizio,
non avranno alcuna colpa in loro, per non morire' (30,20-
•21). Cosi, nel Levitico, il Signore dà questo comando: 'l'uomo
che ha una macchia e un difetto non s'avvicinerà per fare a
Dio le oblazioni' (2i,i7)».^° Spontaneamente, una profonda
sensibilizzazione ai due valori del sacro e del puro ristabilisce
qui la continuità tra le condizioni d'accesso al servizio
pastorale della Chiesa e alcune regole tra le più caratteri-

Lettere, LXVII, 1; trad. Bayard, ritoccata. Gli stessi testi, libera-:


mente citati, sono usati altrove parlando di preti e diaconi che hanno
ricevuto, al di fuori della 'Chiesa cattolica', una 'ordinazione profana'
{profana ordinatione promoti). «Bisogna, scrive Cipriano, che i preti e i
ministri impegnati nel servizio dell'altare e dei sacrifici siano senza tare e
senza macchia flntegros atque immaculatos)». Seguono le tre citazioni
che conosciamo già (Lettere, LXXII, 2). E importante notare, d'altra
parte, la stretta parentela di questi testi con altri due passi dell'Antico
Testamento che Cipriano usa per promuovere l'ideale della continenza:
«Così, nell'Eroso, avendo Dio comandato a Mosè di purificare (ut
sanctificaret) il popolo per tre giorni, Mosè lo purificò, aggiungendo:
Tenetevi pronti per dopodomani, non avvicinatevi alle
•donne (19,15). Così, nel primo libro dei Re: Il sacerdote (Ahimelec)
rispose a Davide e gh disse: Non ho alle mani pane profano, non c'è che
pane consacrato (sanctus). Se i tuoi uomini si sono astenuti dai rapporti
con la donna, potranno mangiarne (1 Sam. 21,5)» (Testimonia, 111,32;
Cipriano aggiunge Apoc. 14,4), A partire dal IV secolo questi due
esempi prenderanno un reale valore di archetipi: come tah con-
. tribuiranno in misura importante alla formulazione delle nuove esigenze
di continenza jconiugale prima, di celibato poi, per i chierici impegnati
nel servizio diretto dell'altare e dei sacramenta.
stiche che avevano retto anticamente l'esercizio del sacerdo­
zio levitico.
Si può dire, dunque, che nella prima metà del III secolo il
processo di sacralizzazione dei 'servizi' della Chiesa è soli­
damente iniziato. Va da sé, tuttavia, che tale processo è an­
cora lontano dall'aver raggiunto tutti i settori del 'servizio'
ecclesiale. Soprattutto è ancora lontano dall'aver prodotto
tutte le sue conseguenze. Cosi, per esempio, la Tradizione
apostolica parla si, a proposito del vescovo, di un primatus
sacerdotii {archieratéuein), fondendo le due idee di 'capo' e
di 'sacerdote', ma non dice ancora che dopo la sua 'elezione',
il vescovo è 'consacrato'. Dice soltanto che è 'ordinato'
(termine della lingua profana, almeno aH'origine). Né il ri­
tuale indica alcun gesto distintivo di 'consacrazione'. Questo
rituale prevede semplicemente, infatti, un'imposizione delle
mani da parte dei vescovi presenti, seguita prima da una pre­
ghiera silenziosa, fatta dall'assemblea, «per la discesa dello
Spirito santo», poi da una preghiera ad alta voce fatta da uno
dei vescovi presenti, che nel medesimo tempo impone di
nuovo la mano all' 'ordinato'. La preghiera ad alta voce ha
naturalmente lo stesso oggetto della preghiera silenziosa:
domanda soprattutto i doni dello 'Spirito' necessari al com­
pimento delle diverse funzioni. Non c'è che da leggere il te­
sto per rendersene conto: non c'è alcun indizio preciso di
un'intenzione di 'consacrare'. Si 'ordina', ecco tutto, e, in
quel tempo, non è ancora sottinteso che 'ordinare' significa
'consacrare'.

^Tradizione apostolica, II-III; ed. Dix, pp. 2-6; ed. Botte (1963), pp.
5-11. Gli editori parlano bellamente di 'consacrazione' del vescovo:
vanno troppo in fretta. Le cose sono lontane dall'essere cosi chiare.
4/ La sacralizzazione progressiva
del servizio pastorale

Un secolo dopo, tuttavia, l'idea di 'consacrazione' ha fatto


cosi bene la sua strada che sembra ormai una cosa evidente.
Un Eusebio di Cesarea, per esempio, può scrivere: «A quelli
che sono stati consacrati (hieromènois) e che hanno preso
l'impegno di servire Dio {tèn tu theù therapéian), conviene
astenersi dalle relazioni con la loro moglie». 12
Si noterà, inoltre, in quest'ultimo testo, l'appoggio che l'idea
di 'consacrazione' viene a dare alla 'convenienza' dell'astensione
coniugale. I servizi superiori della Chiesa costituiscono una
therapéia, un 'servizio sa cro '.Q u elli che s'impe- -gnanó nei
'servizi' superiori sono 'consacrati' a questo scopo: essi sono
hieroménoi (o hieratikói). Ora, è 'conveniente' (prosekei),
aggiunge il vescovo di Cesarea, che quelli che accettano la
'consacrazione' in vista di un tale 'servizio', s'astengano in seguito
dalle relazioni con la loro moglie.
Eusebio non era, del resto, il primo nella Chiesa a pro­
porre questa continenza di un genere particolare. Verso il
300, l'abbiamo visto, il concilio di Elvira ne faceva perfino
una regola per i vescovi, i preti, i diaconi, e, in generale, per
tutti i chierici impegnati nel 'ministero' (can. 33). Una regola
simile sarebbe stata proposta al concilio di Nicea (325),

Eusebio , Dimostrazione evangelica, 1,9. Lo stesso dice il can. 19


del concilio di Laodicea: «Solo ai ministri sacri (mónois tais hierati-
kóis) è permesso entrare nel santuario (thusiastèrion) e ricevervi la
comunione»; stesso uso assoluto di hieratikós nel can. 24 per designare
i chierici degli ordini maggiori, fino al diaconato incluso; per l'incon
tro della percezione del sacro con il mondo della sessualità, cfr. il can.
44 già citato: «Le donne non devono penetrare nel santuario (thusia
stèrion)»; Hefele -L eclercq , Histoire des conciles, 1,2, pp. 1010,1012,
1020. Lo stesso vocabolario in B a silio , Ze/tere, 104; Sozom ene, 5'tor/a
ecclesiastica, 1,23.
Più esplicitamente avanti nel testo: hierurgia.
ma per l'intervento del vescovo Pafnuzio (Alta Tebaide) non
sarebbe stata accettata. Tuttavia, molto più della questione
della precedenza cronologica, c'interessa qui il motivo messo
avanti dall'argomentazione delineata da Eusebio. Questo
argomento, che, sotto il velo della percezione del 'sacro', uti­
lizza in maniera surrettizia la distinzione arcaica di 'puro' e
'impuro', doveva infatti avere una lunga fortuna. Strada fa­
cendo, l'argomento lasciò vedere almeno alcune delle sue
fonti. Andò a cercarsi, in modo particolare, un appoggio
esplicito in un paragone tra l'antico e il nuovo 'sacerdozio'.
Verso la fine del secolo l'argomento si presenta cosi in
Ambrogio. Cito il passo più importante: «Voi che avete
ricevuto la grazia del sacro ministero {sacri minisiern gra-
tiam) con un corpo intatto, un pudore senza macchia {incor-
rupto pudore), voi che altrettanto bene rimanete estranei al­
l'intimità coniugale, voi sapete che dovete assicurare un mi­
nistero integro e immacolato {ìnofensum... et immaculatum),
che non deve essere profanato da alcuna relazione coniugale
(nec ullo coniugali coi tu violandum). Se non ho voluto che
queste cose passassero sotto silenzio, il motivo è che in molti
luoghi più lontani, dei chierici hanno avuto dei figli mentre
esercitavano il ministero {ministerium), e perfino l'episcopa­
to (sacerdotium). E quel che è peggio è che essi difendono
la loro condotta invocando l'usanza antica, quando il sacrifì­
cio non era offerto in continuazione. Per la verità, il popolo
stesso si purificava (castijicabatur) per due o tre giorni, per
arrivare puro {purus) al sacrificio, come leggiamo nell'Antico
Testamento {Es. 19,10). Ed essi lavavano i loro vestiti. Ma
se la pietà fu grande a tal punto nel tempo delle figure, quanto
dovrà esserlo nel tempo della verità? Sacerdote {sacerdos) e
levita, impara cosa vuol dire lavare i tuoi vestiti per pre­
sentare un corpo puro ai sacramenti che devi celebrare {ut
mundum corpus celebrandis exhiheas sacramentis). Se era
proibito al popolo (d'Israele) di prender parte all'offerta sen­
za aver fatto le abluzioni degli abiti, oseresti tu supplicare
per gli altri con uno spirito e un corpo macchiato?»/"^
S'intende, lo diciamo subito, che il vocabolario usato qui
da Ambrogio per parlare delle cose del 'servizio' pastorale
non è tipico del passo citato né esclusivo dell'autore. Ora,
importa qui notare ciò che, dal nostro punto di vista, ne è la
qualità dominante: è un vocabolario saerale da cima a fon­
do. Noto le principali espressioni, aggiungendo ciò che si
può raccogliere altrove nel contesto: mìnìster Domini, mi-
nisterium, sacrum ministerium, ministrare, sacerdos, sacer­
doti um, levita (diacono), officium levitarum.
Si vede, d'altra parte, qual è il fulcro del ragionamento di
Ambrogio. E il 'ministero', in quanto inteso come 'sacro', che
richiede in chi lo esercita un certo stile, se non proprio un
certo stato di vita. Il 'ministero' esclude, in modo particolare,
quel 'colpo' inferto al sacro che sarebbero le relazioni
coniugali e la procreazione dei figli. Interviene qui, in seconda
istanza, un esempio tolto dall'Antico Testamento e già usato
da Cipriano: per essere 'puro' al momento di partecipare al
'sacrificio', il popolo stesso osservava la continenza, 'si
purificava' per due o tre giorni, e lavava i vestiti. Ma se tale
fu il rigore della pietà e della disciplina al tempo della figura,
conclude Ambrogio, quale severità non dobbiamo avere ora
noi che siamo giunti al tempo della verità?
È chiaro, pare, che ciò che guida qui il pensiero di Ambro­
gio, è, in primo luogo, una certa percezione del sacro. In que­
sta percezione, pare che tutto avvenga come se, dai sacra­
menta, la qualità sacrale risalisse, attraverso il 'ministero'
{sacrum ministerium), fino alla persona stessa {tu... mente

A m brogio, De officiis ministrorumj, 50 (248).


parìter et corpore) di chi è stato 'scelto' per celebrarli/^
Ma sappiamo anche — perché è un'esperienza comune nel
fenomeno religioso stesso — che la percezione del sacro at­
trae generalmente il 'puro' nella sua orbita come una condi­
zione della sua esistenza ed efficacia. Ed ecco ciò che sembra
prodursi qui: la coscienza di essere in presenza dei sacramen­
ta della Chiesa, esercitando la sua attrazione sul 'puro', si
forma essa stessa un ideale di 'purezza' del corpo e dello spi­
rito che appare quindi come l'unica condizione normale della
sua esistenza. Del resto — e questo non è meno caratteristi­
co — poiché, d'altra parte, non si pensa che questa condizio­
ne di 'purezza' possa esistere aH'intemo del matrimonio (con­
cezione presupposta, fondamentalmente ambivalente, della
donna e della sessualità), non c'è veramente che una sola
conclusione: il 'ministero sacro' porta come conseguenza la
regola dell'astensione sessuale, cioè della continenza sotto
tutte le forme, compreso, eventualmente, il celibato. Il cer­
chio è chiuso.
Spero si creda che non m'avventuro in questa analisi per
il piacere sottile e indiscreto di spezzettare la coscienza reli­
giosa di un grande cristiano e di un grande vescovo. L'impor­
tanza del problema basta ora a guidarci. Anche il vescovo di
Milano non è in questo caso che un testimone tra una folla
d'altri, del suo tempo e dei secoli seguenti.

«Tu sei dunque stato scelto nella folla dei figli d'Israele, sei sta
to considerato come il primogenito tra i frutti sacri...» si tratta del
diacono! {De officiis ministrorum, I, 50 (250).
A m b r o g i o , Exhortatio virginìtatìs: «Óra (che Adamo ha peccato
ed Èva è stata punta dal serpente con il veleno della lubricità), anche
se il matrimonio è buono, esso comporta tuttavia tali cose da far ar
rossire tra loro gli stessi sposi» (VI, 36).
Tra gli altri, l'importante lettera (decretale) di Siricio a Imero di
Tarragona (385): «Veniamo ora agli ordini sacratissimi dei chierici {ad
sacratissimos ordines clerkorum)... Abbiamo saputo che un gran nume
ro di preti e diaconi, molto tempo dopo la loro consacrazione {post
Era tuttavia necessario sottolineare qui un punto che sem­
bra essere stato generalmente trascurato nella storia delle ori­
gini del celibato ecclesiastico. In ogni caso, non vorrei in al­
cuna maniera suggerire l'idea che la sacralizzazione progres­
siva del servizio pastorale della Chiesa, dalla fine del II seco­
lo, e l'incontro di questo fenomeno generale di sacralizzazio­
ne con l'ambivalenza fondamentale della percezione di una
'impurità' praticamente indissociabile da ogni manifestazio-

longa consecrationis suae tempora), si sono dati una discendenza, sia


con le loro spose, sia mediante un'unione vergognosa, e che essi difen­
dono il loro delitto con quella disposizione dell'Antico Testamento in cui
leggiamo che i preti e i ministri erano liberi di avere dei figh. Colui che
si è fatto discepolo della voluttà e maestro di vizio mi dica ora, se ritiene
che un po' dovunque nella legge di Mosè il Signore ha lasciato andare le
redini alla lussuria a favore degh ordini sacri (sacris ordinibus), come
mai invece a quelli che hanno responsabilità del Santo dei Santi è stato
dato questo avvertimento: siate santi, perché io sono santo, io, il Signore
vostro Dio (Lev. 19,2). Mi spieghi anche perché è stato comandato ai
sacerdoti di abitare nel Tempio, lontano dalle loro case, durante l'anno
del loro turno di servizio, se non per la ragione che essi non possano
avere intimità sessuale [carnale commer-cium) neanche con le loro
mogli. Cosi, nello splendore di una coscienza intatta, essi potevano
presentare a Dio un'offerta gradevole. Una volta finito il tempo del loro
servizio, tornava ad essere loro permesso l'uso delle loro mogli, per
l'unico scopo di assicurarsi una successione, dal momento che la legge
prevedeva che solo i discendenti di Levi potevano essere ammessi al
servizio di Dio. E il Signore Gesù, quando ci ebbe illuminati con la sua
venuta, proclamò nel Vangelo che egli non era venuto ad abolire la
legge, ma a perfezionarla. Ecco perché egh ha voluto che la Chiesa, sua
sposa, abbia ad irradiare lo splendore della castità, perché al giorno del
giudizio, al suo ritorno, egli possa ritrovarla senza macchia e senza
rughe, come insegna il suo apostolo. Tutti, preti e diaconi, siamo legati
dalla legge irrevocabile (indissolubili lege) di queste disposizioni, in
modo che, dal giorno della nostra ordinazione (a die ordinationis),
sottomettiamo i nostri cuori e i nostri corpi alla sobrietà e alla purezza
(pudicitiae), se vogliamo essere totalmente graditi a Dio in quei sacrifici
che offriamo ogni giorno. Ma quelli che sono nella carne, dice il Vaso
d'elezione, non possono piacere a Dio. Ora, adesso voi non siete più
nella carne, ma nello spirito, se lo Spirito di Dio abita in voi (Rom. 8,9).
E dove mai potrebbe abitare lo Spirito di Dio se non, come leggiamo, in
corpi santi?» (VII; P.L., LVI, 558-559). Nello stesso senso la lettera
(decretale) d'Innocenzo I a Vittricio di Rouen (404): «Ciò che è degno,
conforme al pu-
ne sessuale, abbiano costituito l'unico motivo dell'instaura­
zione del celibato ecclesiastico. Sono comunque persuaso che
questo è un fattore storico di prima importanza. E evidente,
inoltre, che tale fattore, quasi sempre sepolto nell'inconscio
della collettività, rimane estremamente attivo nell'ora attuale.
Ed è proprio la potente ripulsa del sacro nei confronti del­
l'impuro che sembra aver avuto qui il ruolo decisivo. A quel­
lo che era stato concepito, all'origine, anzitutto come una
condizione di libertà particolarmente utile al servizio della
parola, questa ripulsa ha fatto succedere una condizione di
'purezza' prima sentita, poi giustificata come necessaria per
il servizio dell'altare e dei sacramenta. La prima si era na­
turalmente espressa sotto forma d'invito, o era rimasta allo
stadio di semplice suggerimento implicitamente contenuto
nelle situazioni concrete. Era difficile, invece, che la seconda
non si esprimesse un giorno sotto forma di legge. La prima
era elastica: ammetteva, senza serie difficoltà, diverse moda­
lità di applicazione quando queste fossero sembrate feconde
e convenienti per il servizio del Vangelo. La seconda era de-

dore e all'onestà, la Chiesa deve assolutamente custodirlo. Cosi che i


preti e i diaconi non abbiano relazioni (sessuah) con le loro spose, per­
ché essi sono impegnati nelle necessità di un ministero quotidiano. E
scritto, infatti: Siate santi, perché io sono santo, io, il Signore vostro Dio
(Lev. 19,2)». 11 testo prosegue ricordando l'esempio già citato della
continenza temporanea imposta al sacerdozio levitico, per concludere: a
maggior ragione i sacerdoti e i diaconi della Chiesa devono conservare
la purezza dal giorno della loro ordinazione, poiché non passa giorno
senza che essi debbano attendere ai 'sacrifici divini' e al ministero
battesimale. Se Paolo, d'altra parte, comanda (praecipit) ai laici di
astenersi temporaneamente dalle loro spose per darsi alla preghiera,
quanto più i preti, il cui ministero permanente è quello della preghiera e
del sacrificio, devono astenersi per sempre da tah intimità! «Chi è stato
contaminato (contaminatus) dal desiderio sessuale (carnali
concupiscentia) quale vergogna proverà quando passerà al sacrificio?
Per quale intima persuasione, o per qual merito, potrà credere di esser
esaudito? poiché è scritto: Tutto è puro per i puri, ma per quelli che sono
macchiati e per quelh che non credono, niente è puro (Tito 1,15)»
(X;P.1.,LVI, 523-524).
ci sa una volta per tutte nei confronti di una situazione inva­
riabile; era rigida, e non poteva non esserlo, dal momento
che fissava l'attenzione sull'incompatibilità radicale dell'im­
puro e del sacro. In questa evoluzione, come abbiamo potuto
osservare, le regole di 'purezza' del sacerdozio levitico
offrivano un modello a cui pareva normale ispirarsi, modello
che, nel medesimo tempo, si riteneva dovesse essere
perfezionato. Cosi, quei legami che sembravano rotti agli
occhi delle prime generazioni cristiane, si trovavano alla fine
riannodati, in mezzo a gravi ambiguità, e grazie a equivoci
molteplici.

5/ Riflessioni sulla situazione presente

Sembra legittimo pensare, tuttavia che la situazione pre­


sente della Chiesa e del mondo richiederebbe, in tutto que­
sto, un po' di discernimento coraggioso e lucido.
Possiamo dire, anzitutto, con tutta sicurezza, che la perce­
zione e la valorizzazione religiosa del 'puro' e dell' 'impuro',
particolarmente nel campo sessuale, non hanno nulla di spe­
cificamente cristiano. Se si vuole insistere, portando l'esem­
pio del sacerdozio levitico, bisognerà semplicemente aggiun­
gere che una tale percezione e una tale valorizzazione non so­
no neanche in sé caratteristiche della religione d'Israele. In
realtà, la percezione di una 'purezza' e di un' 'impurità' ses­
suale, come le valorizzazioni assai variabili che tale percezio­
ne ha conosciuto attraverso la storia, appartengono al fondo
più arcaico della coscienza umana, dove sono legati alle strut­
ture più elementari del timore. E forse da augurarsi che noi
manteniamo indefinitamente queste strutture e che coltivia­
mo tale arcaismo? La legge del celibato dei chierici, pur con
le autentiche grandezze che ha suscitato, continuerà a servire
di cauzione a uno degli elementi regressivi tra i più evidenti
di tutta la tradizione umana? La sessualità, quella dei chierici
e quella dei laici, apparirà sempre meglio servita dalla giusti­
zia, dalla speranza e dall'amore, più che dalle esagerazioni
del 'puro' e dell' 'impuro' che, in realtà, non possono se non
paralizzarla, squilibrarla, avvilirla.
Possiamo dire inoltre che, nella nostra tradizione sacrale,
tutto non ha lo stesso valore, come non tutto è ugualmente
necessario né tutto ugualmente opportuno. Noi sceglieremo,
o il corso della storia sceglierà inevitabilmente per noi. A
considerare le cose nel loro insieme, ciò che sembra deside­
rabile è l'alleggerimento e la semplificazione: qualche cosa
di analogo forse alla spogliazione che le prime generazioni
cristiane hanno praticato nei confronti dell'eredità sacrale del
giudaismo, quando si è trattato di portare il Vangelo al mon­
do greco-romano.
Nelle scelte che la Chiesa potrà fare come nelle creazioni
che essa potrà nello stesso tempo offrire, molto dipenderà, in
definitiva, dal giudizio, implicito o esplicito, che noi avremo
portato sulla situazione religiosa del mondo d'oggi. E certo
che il nostro mondo scivola verso la scristianizzazione e
l'irreligione? Spesso ho l'impressione, personalmente, che
esso si allontana piuttosto da una moltitudine di forme sa­
crali venuteci dal passato. Ma il sacro non è il divino. E
quando pare identificarvisi, esso si contraffa, appunto, non
senza attrarre, allora, la stessa religione verso la magia. Il
cristianesimo non riconosce, in definitiva, che un solo media­
tore, ed è una persona: Gesù, Cristo e Signore, Figlio di Dio.
Forse, allora, ciò che rimarrà da comprendere nel futuro,
è che il nostro cristianesimo può, non solo sussistere, ma fio­
rire, per la speranza degli uomini, in un mondo che si rico­
noscerà profano, nella sua orientazione escatologica. Quando
avremo capito questo, saremo pronti, pare, a comprendere
anche che il servizio pastorale della Chiesa non ha un biso­
gno assoluto di tutto quel rivestimento sacrale che gli hanno
costruito i secoli passati. Saremo pronti a comprendere che
certe modalità tradizionali di sacralizzazione, per quel che
riguarda lo stile di vita dei chierici, non sono tutte di neces­
sità infrangibile, tali da dover continuare ad essere il fonda­
mento di tutte le speranze del domani.
CAPITOLO SEC0M)0

SERVIZIO PASTORALE,
COMUNITÀ DI BASE E
ASSEMBLEA LITURGICA

Il titolo evoca una rete di relazioni particolarmente com­


plesse. Benché non vi diamo sempre la dovuta attenzione,
c'è forse, in effetti, nelle strutture concrete della relazione
«comunità di base—assemblea liturgica» uno dei nodi della
situazione del nostro 'servizio pastorale' nel mondo attuale.
Del resto, il nodo sarà ancora più stretto e più soffocante nel
mondo di domani se, come prevedono i demografi, la popola­
zione del globo sarà circa sei miliardi verso l'anno 2000, e,
cosa ancor più importante dal nostro punto di vista, se, nel
medesimo tempo, la popolazione mondiale sarà allora, come
si pensa, una popolazione urbana per il 90%.
Già oggi, nelle città, e anche in molti distretti rurali -
tranne eccezioni, come, per esempio, nei paesi di missione e
nei territori delle giovani Chiese, - è da un po' di tempo che
la 'parrocchia' non coincide più con 1' 'assemblea liturgica'. E
non solo non c'è più di fatto coincidenza tra 'parrocchia' e
'assemblea liturgica', ma è anche puramente e semplicemente
impossibile che ci possa essere ancora in avvenire tale
coincidenza se non ci decidiamo a un autentico rifacimento
dell'infrastruttura ecclesiale, voglio dire della 'comunità di
base' in cui nasce, si sviluppa e si compie normalmente la
vita cristiana.
Si rifletta un po' su questi numeri. Sono, del resto, rela­
tivamente ben noti. I paesi in cui la popolazione media delle
'parrocchie' urbane non supera i 5000 sono, si può dire, dei
paesi fortunati. E penso sia all'Oriente che all'Occidente. Per
contro, ci sono dei paesi interi in cui questa media arriva
fino a parecchie decine di migliaia. Ora, solo una certa
abitudine, credo, acquisita nel corso dei secoli,^ - abitudine,
per la verità, solidamente appoggiata all'ordine stabilito, - ci
conduce a giudicare questa situazione come 'la' situazione
naturale e normale. Osiamo dire, invece, che tale situazione è
contro-natura e del tutto anormale nel cristianesimo.
Aggiungiamo subito, peraltro, che se c'è crisi nel servizio pa­
storale del nostro tempo, - crisi di reclutamento, crisi d'ef­
ficacia evangelica, crisi di perseveranza anche nel servizio ac­
cettato, - questa crisi è dovuta in gran parte, - non unica­
mente, s'intende, - alla situazione più sopra descritta, e che
concerne, bisogna ripeterlo, la struttura stessa della 'comu­
nità di base'.
Non dimentico, del resto, che durante questi ultimi decen­
ni, in certi paesi almeno, l'«azione diretta nell'ambiente di
vita» ha voluto portare un aiuto alla 'parrocchia'. In certa
misura, questa azione ha avuto successo. Essa ha formato dei
cristiani meravigliosi. Per mezzo loro essa ha portato la te­
stimonianza evangelica là dove il servizio pastorale della 'par­
rocchia' non arrivava più. Essa ha pure portato un sostegno
apprezzabile all'attuale rinnovamento della pastorale parroc­
chiale e della liturgia. Non ho quindi nessuna intenzione di
minimizzare l'apporto di questa «azione diretta negli am­
bienti di vita», né, tanto meno, di proporre che tale azione
venga ridotta. Tuttavia, fatta l'esperienza, possiamo ragione­
volmente sperare che l'«azione diretta nell'ambiente di vita»

' Dal IV secolo, in effetti, se si prendono le cose neH'insieme, in


Oriente e in Occidente.
riuscirà un giorno ad agire efficacemente là dove la pesantez­
za dell'istituzione parrocchiale è impotente e inefficace? Ahi­
mè! Pare proprio di no, anche se si suppone che essa possa
in un prossimo futuro coordinarsi meglio con una pastorale
parrocchiale rinnovata.
Infatti, concepita da una parte, da laici e da loro guidata,
r«azione diretta nell'ambiente di vita» lascia press'a poco
insoluto il problema capitale dell'inserzione e dell'integra­
zione del prete nell'istituzione parrocchiale, - che è un pro­
blema di un'altra natura. D'altra parte, non è del tutto certo,
fin d'ora, che ciò che si guadagnerà, dal punto di vista
cristiano, attraverso P«azione diretta nell'ambiente di vita»,
sarà ugualmente e automaticamente guadagnato dalla 'par­
rocchia' come tale. Dall' 'ambiente di vita' alla 'parrocchia'
c'è un passaggio, e, nella situazione odierna, nessuno può dire
che questo passaggio sia facile. Anzi! C'è dunque da temere
che, in definitiva, ci troviamo davanti ad un'«azione diretta
nell'ambiente di vita» la cui efficacia ultima sarà co­
stantemente messa in questione da un'istituzione parrocchiale
che riconosciamo essere inadatta e impotente davanti agli
stessi 'ambienti di vita'. Ci si può dunque chiedere se non ci
troviamo qui in una strada senza uscita, che ci obbligherà
sempre a girare su noi stessi.
Negli anni del dopoguerra, l'esperienza dei preti operai ha
rappresentato un altro tentativo per forzare in qualche modo
i limiti dell'istituzione parrocchiale, e raggiungere, attra­
verso una via nuova, certi particolari 'ambienti di vita'. Mi
guarderei bene anche solo dal sembrare di dare un giudizio
sommario su un'iniziativa che è stata ammirevole per molti
aspetti. Ma insomma, devo essere breve, e nello stesso tem­
po non posso sottrarmi dall'obbligo di dire onestamente ciò
che ne penso. Nonostante una profonda simpatia per il mo­
vimento, ho sempre ritenuto, per parte mia, che l'esperienza
dei preti operai passava in disparte al vero problema. O me­
glio, forse, direi che i preti operai portavano con loro nel
mondo del lavoro il problema, sempre insoluto, dell'istitu­
zione parrocchiale che si lasciavano dietro. Certamente essi
non avevano l'autorità necessaria per affrontare un tale pro­
blema, né la visione d'insieme, e la conoscenza della storia
che forse avrebbero permesso loro di affrontarlo. Ma questa
considerazione è solo una spiegazione, e non cambia niente
del fondo delle cose. Le difficoltà interne e esterne si molti­
plicarono per il movimento, e si può dire che, alla fine, la so­
spensione dell'esperienza ha significato un ritorno ai dati più
comuni che continuano a sostenere l'istituzione parrocchiale.

- ' 1/ Assemblea liturgica e comunità di base nei


primi secoli

Mi si permetterà, ancora una volta, di rivolgermi ora al


passato per valutare meglio l'attuale situazione?
A questo proposito, quello che vorrei dire anzitutto è che
all'origine, e per lunghi secoli, ci fu sempre una coincidenza
(virtuale) tra T'assemblea liturgica' da una parte, e la 'comu­
nità di base', cioè la 'Chiesa' locale, dall'altra. E facile osser­
vare, in effetti, che nel periodo apostolico, almeno nei paesi
di lingua greca è una stessa parola, ekklèsia, che indica nello
stesso tempo e 1' 'assemblea liturgica' e la 'Chiesa' locale. A
mio parere, ci sono anche buoni motivi per pensare che se la
'Chiesa' locale si è chiamata ekklèsia, è anzitutto perché
questa 'Chiesa' locale trovava la sua espressione prima e na­
turale in un' 'assemblea liturgica' che poteva chiamarsi, pro-

^ II cambiamento inizia, ma inizia soltanto, durante il IV secolo, con


la costruzione delle grandi chiese urbane di cui le basiliche costantiniane
davano ormai l'esempio.
priamente, vm'ekklèsza. Qualunque siano per il momento gli
altri significati possibili sovrapposti a questo, questa ekklè-
s'ta che era 1' 'assemblea liturgica' era realmente, alla lettera,
non soltanto 'convocata', o 'chiamata', ma anche 'invitata', e
quindi 'ricevuta', nel quadro generale degli usi o dei riti
dell'ospitalità domestica del tempo. Cosi, c'era allora non
solo coincidenza (virtuale) tra 'Chiesa' e 'assemblea liturgi­
ca', ma anche, ciò che non è meno importante da un punto di
vista sia sociologico che pastorale, tale coincidenza si iscri­
veva nel quadro domestico, avente già i suoi riti e le sue
usanze per quel che riguarda l'ospitalità.
Qui è nata la nostra 'Chiesa'. E qui, per un bel po' di tem­
po, essa ha vissuto ed è cresciuta. I nomi di alcuni di quelli
che in questo modo hanno 'ricevuto' la 'Chiesa' nella loro
casa, all'origine, ci sono noti attraverso le lettere di Paolo: a
Roma, Prisca e Aquila (Rom. 16,5); gli stessi a Efeso (x Cor.
16,19); ^ Laodicea, Ninfa [Col 4,1.5); Filemone e Ap-pia a
Colossi (Filem. 2). Tali fatti sono abbastanza familiari in
storia, anche se è vero che non sono sempre delineati con
sufficiente precisione. Soprattutto, non pare che si sia ge­
neralmente riflettuto abbastanza alla loro portata pastorale,
come alle indicazioni che potrebbero offrire in rapporto alla
presente situazione. Le note che seguono vogliono breve­
mente scoprire tale portata e tali indicazioni.

2/ IIpassaggio dalla ’domus ecclesìae'


alla basilica

Bisogna dire anzitutto qualcosa sulla questione del nume­


ro, che è cruciale per la nostra epoca, e che probabilmente
diventerà ancora più acuta in un prossimo futuro. Molti im­
maginano, credo, che le 'Chiese' del periodo apostolico fos­
sero numerose. Altri, su questo punto, si accontentano di re­
stare nel vago. Ma non è senza interesse il tentare almeno di
veder le cose un po' più da vicino.
Naturalmente, non sappiamo, e non lo sapremo mai, per
esempio, quale poteva essere, verso gli anni 60, il numero
totale dei cristiani della città di Efeso. Ma non è questo che
interessa. In compenso, lo stile e le dimensioni della casa
comune di quell'epoca, nel mondo greco-romano, ci sono ab­
bastanza note. Cosi possiamo farci un'idea approssimativa,
certo, ma abbastanza esatta déH'ekklèsìa che si riuniva per
la 'parola' e 1' 'eucaristia' nella casa di Prisca e Aquila ( 1 Cor.
16,19). Costoro erano degli artigiani; non disponevano certo
"di una villa aristocratica. Probabilmente, non saremmo
lontani dalla verità se avanzassimo la cifra di 50 per questa
ekklèsìa?
Questa cifra può essere indirettamente confermata in
un'altra maniera. Le associazioni religiose, nel paganesimo
dell'epoca, erano, se si vuole, l'analogo sociologico dell'e&-
klèsìa cristiana. Ora, queste 'fraternità': tiasi, eranoi, ecc.,
non erano mai numerose. E questa volta possediamo delle
cifre. Cosi, certi tiasi potevano contare solo io o 15 membri.
Altri, invece, potevano arrivare fino a 30, 40, 50, 60. La ci­
fra più alta che conosciamo, per l'Attica, è 93 (59 uomini e
34 donne; II secolo prima della nostra era). Al tempo di Pao­
lo, nelle città del bacino mediterraneo, si era dunque da molto
tempo abituati a questo tipo sociologico di 'assemblea'.
Infatti, prese nel loro insieme, le indicazioni che possiamo
raccogliere negli scritti del periodo apostolico suggeriscono
chiaramente che le prime 'assemblee liturgiche' cristiane (ek-
klèsìai) non superarono, in generale, le modeste proporzioni

^ Cit. Atti, 20,7-8, la 'camera alta' di Troade, dove Paolo presiede, di


passag^o, un' 'assemblea', nel «primo giorno della settimana», cioè di
domenica.
imposte non solo dal quadro domestico, ma anche, bisogne­
rebbe aggiungere, dalle forme dominanti della 'parola' ('mes­
saggio' e 'istruzione', kérygma e didaché), da una parte, e
dallo stesso simbolismo della 'cena del Signore' dall'altra,
per non parlare della 'frazione del pane' dove questa era pra­
ticata (Palestina e Siria?).
Del resto, non bisogna credere che questa situazione si sia
modificata rapidamente, alla fine del periodo apostolico,
man mano che il Vangelo raggiungeva frazioni più larghe del
mondo greco-romano. L'evoluzióne fu, invece, relativamente
lenta, e questo, in sé è già significativo. Per limitarmi qui a
qualche indicazione, la domas ecclesìae di Dura-Europos,"^
non era altro che una casa di tipo comune, ceduta alla Chiesa
locale, e progressivamente sistemata per soddisfare meglio
ai bisogni della comunità cristiana (prima metà del III seco­
lo). Ora, la sua sala più grande, dopo che fu abbattuto il
muro mediano (verso il 232), misurava m. 13 per 5,23, e
non poteva contenere molto di più di 60 persone: il che ci
riconduce a una situazione simile a quella delle origini, tranne
per le sistemazioni, e, di conseguenza, la fissazione del
luogo di riunione dell' 'assemblea'.
E vero. Dura non era certo una città che avesse una popo­
lazione importante, ed è prudente non esagerare il significato
della sua domus ecclesìae per quel che riguarda le nostre
osservazioni. Ma, verso lo stesso tempo, l'autore siriano del­
la Didascalia degli apostoli non conosceva ancora, pare, se
non dei vescovi che, per la maggior parte, si riservavano per­
sonalmente, o potevano riservarsi, la responsabilità diretta
della distribuzione dei soccorsi ai bisognosi delle loro Chiese.
Ci vien dato il motivo che ispira quest'uso, ed è tale motivo
che è rivelatore dal nostro punto di vista: ed è che «il ve-

Sulla frontiera orientale deU'impero: medio Eufrate.


scovo, in effetti, conosce perfettamente quelli che si trovano
in difficoltà».^ È chiaro, secondo questa testimonianza, che i
vescovi siriani del III secolo presiedevano ancora, in gene­
rale, ai destini delle piccole 'Chiese', di cui potevano perfino
conoscere facilmente per nome ogni membro.
L'abbiamo già sottolineato di passaggio, lo stesso IV secolo
non ha portato, su questo punto, cambiamenti cosi radicali e
cosi universali quali potrebbe suggerire, forse, l'idea un po'
convenzionale che ce ne facciamo abbastanza generalmente.
La cosa più notevole da segnalare, dal nostro punto di vista,
è naturalmente l'adozione sempre più frequente del piano
basilicale per la costruzione delle nuove chiese, soprattutto
urbane, s'intende, dal primo quarto del IV secolo. Questo
piano aveva dietro a sé un lungo passato nell'architettura
civile. Aveva anche un nome, e questo nome era glorioso.
'Regale', portava con sé idee di trionfo e di grandezza. Non
c'è dubbio, per fare un esempio, che la basilica del Santo Se­
polcro a Gerusalemme volle essere, nella pietra, l'espressione
di tali idee.*"
Ma il Santo Sepolcro, che commemorava la morte e la ri­
surrezione di Gesù sui luoghi stessi dell'awenimento, aveva
un posto a parte. Non è dunque il caso di credere che tutte le
basiliche che sono state costruite, per tutto l'Impero, nel IV e
V secolo, abbiano voluto imitarlo o rivaleggiare con esso. Ciò
non toglie che la stessa pianta basilicale, il cui prototipo era
preso dall'architettura civile, - malgrado l'esistenza di
'basiliche' private — introduceva nella 'comunità di base'
(vescovato, poi 'parrocchia') un germe che, sviluppandosi,

^ Didascalia degli apostoli, IX (25); ed. Connolly, p. 88.


® Lettera di Costantino a Macario, vescovo di Gerusalemme, in Eu
SEBIO, Vita Constantini, III, 30-31. Malgrado l'ampollosità del brano,
è interessante leggere anche il panegirico pronunciato dallo stesso Eu
sebio, vescovo di Cesarea, in occasione dell'inaugurazione della nuova
chiesa di Tiro, verso il 317, in Storia Ecclesiastica'^, A-
avrebbe portato insensibilmente a ciò che abbiamo sotto gli
occhi: la grande chiesa, non solo luogo di riunione, ma an­
che segno e simbolo della grande assemblea.
L'essenziale del fenomeno è che già ci si allontanava, e
che ci si sarebbe allontanati sempre più, dal prototipo primi­
tivo del luogo d'incontro deU'ekklèsia: l'abitazione comune.
Per ciò stesso la 'comunità di base' portava ormai in sé il
principio di trasformazioni molteplici e profonde, che avreb­
bero colpito, col tempo, sia i 'fedeli' che lo stesso servizio
pastorale. Il cambiamento introdotto nelle dimensioni e nel
numero determinava infatti una vera trasformazione perfino
nella qualità delle relazioni della 'comunità di base' all'inter­
no e con l'esterno. Si passava da un prototipo sociologico a
un altro: da un prototipo 'fraterno', che aveva avuto come
quadro naturale e simbolo nello stesso tempo l'abitazione
domestica, e più tardi la domus ecclesìae, a un prototipo 'fol­
la', che ebbe rapidamente nella basilica, un po' dappertutto
nell'Impero, il nuovo quadro e il nuovo simbolo. Le con­
seguenze di tale passaggio dovevano essere incalcolabili, da
una parte sulle strutture interne dell"assemblea liturgica',
dall'altra sulle diverse funzioni pastorali. Un nuovo stile di
vita ecclesiale stava nascendo, e nella stessa misura uno stile
pure nuovo di vita cristiana.
S'intende, queste conseguenze non furono percettibili im­
mediatamente, né tanto meno percepite chiaramente dagli
interessati. Inoltre, lungo tutto il IV o il V secolo, una parte
notevole dell'ordine delle cose rimaneva in piedi, mascheran­
do cosi le trasformazioni. La permanenza delle abitudini, de­
gli usi e delle regole servi pure a sfumare il passaggio e potè
far credere che tutto continuava come prima. A questo pro­
posito, del resto, è significativo che le 'Chiese' stesse che, nel
IV secolo, si costruirono una 'basilica', inserirono spesso la
nuova aula dell'assemblea nel complesso di 'case' che era sta­
to prima il centro vitale della domus ecclesìae. Anche qui il
cambiamento potè dunque prodursi senza far vedere subito
le sue conseguenze.
Il vocabolario è qui un buon testimone. Nel IV e V secolo
la 'chiesa' è non soltanto il grande edificio che è il luogo pro­
prio dell' 'assemblea' (eventualmente, la 'basilica'), ma anche
tutte le 'case' che continuano a dipenderne direttamente:
'casa del vescovo' (Agostino), case dei preti e di altri chieri­
ci, diaconi e suddiaconi impegnati nel servizio della 'chiesa',
secretarium, ecc. Abbastanza spesso, se non proprio per re­
gola generale, la nuova 'basilica' è dunque venuta semplice-
mente ad inserirsi nella domus ecclesìae preesistente, peral­
tro già più o meno adattata e sviluppata secondo i luoghi.
Qui ancora, dal nostro punto di vista, le cifi'e sono istrut­
tive. La basilica d'Ippona, recentemente messa in luce dagli
scavi,^ può essere considerata come un buon esempio delle
grandi chiese urbane dell'Afiica del IV e V secolo. È un
edificio di 20 metri di larghezza per 42 metri di lunghezza (49
con l'abside). Nei giorni delle grandi
o
celebrazioni la basilica
poteva contenere 2000 persone. Non si celebrava del resto
che una sola volta. Nei giorni ordinari, e anche di domenica,
è certo, inoltre, che le 'assemblee' potevano essere sensibil­
mente più ridotte. Quanto alle chiese rurali circostanti (bor­
ghi, villaggi o semplici poderi), esse non erano, lo si indovi­
na, che delle 'chiesuole' se paragonate alla basilica della città
episcopale. Ora, per il servizio della sua chiesa. Agostino
ebbe sempre a disposizione numerosi chierici di tutti gli or­
dini: nel 424, per esempio, 3 preti, 5/6 diaconi e parecchi
suddiaconi, senza pariare dei lettori e dei chierici minori per
i quali non abbiamo cifi'e precise: tre anni dopo la Chiesa

’ Probabilmente la stessa basilica di Agostino.


Popolazione totale della città: da 30 a 40.000 abitanti.
d'Ippona non aveva meno di 7 preti al suo servizio, formati
lentamente nella 'casa' stessa del vescovo.
Questa rapida evocazione basta a far sentire tutta la di­
stanza che, agli inizi del V secolo, separava ancora una Chiesa
come quella d'Ippona dalla 'parrocchia' urbana attuale. Ma, a
questo proposito, la Chiesa di Agostino non era eccezionale, e
una situazione analoga prevaleva sia in Oriente che in
Occidente. In realtà, ciò che si deve dire, è che la 'parrocchia'
attuale, e specialmente la grande 'parrocchia' urbana, - che
accusa talvolta fino alla più desolante caricatura gli aspetti
comuni a questo tipo di «comunità di base», -è,
considerando le cose nel loro insieme, un fenomeno rela­
tivamente recente nella storia della Chiesa. È dunque vano,
anacronistico, e, a mio parere, fallace ragionare oggi, espli­
citamente, e soprattutto implicitamente, nei riguardi della
'parrocchia', come se questa istituzione avesse in anticipo in
suo favore tutte le tradizioni pastorali della Chiesa, come se
godesse, essa sola, di un privilegio incontestabile d'intan­
gibilità e d'immutabilità.
La verità storica ci obbliga, invece, a dire che non è cosi.
In compenso, sono persuaso che la nostra tradizione pasto­
rale, compresa nelle sue rotture come nelle sue continuità
più autentiche, ci permetterebbe oggi di guardare con suffi­
ciente distacco al presente, e, se è necessario, di liberarci da
certi presupposti indiscutibili. Una tradizione viva deve sem­
pre preservare per il domani delle possibilità di creazione.
Altrimenti, sotto le apparenze della continuità e della fedel­
tà, non c'è al massimo, che una sclerosi onorevole e, per fi­
nire, forse una morte rispettabile.
2 ,1 1 due grandi periodi
della nostra tradizione pastorale

Se, dopo questo, fosse necessario caratterizzare brevemente


i due grandi periodi della nostra tradizione pastorale per
quel che riguarda la concezione fondamentale della «comuni­
tà di base» mi sembra che si potrebbero proporre le seguenti
osservazioni.
Tutto è avvenuto come se, a partire dal IV e V secolo, la
«comunità di base» della vita ecclesiale abbia a poco a poco
cessato di modellarsi sul prototipo sociologico della 'casa'
per adottare nello stesso tempo un altro modello: quello della
'folla'. Il simbolo storico che più evoca questo passaggio da
un prototipo sociologico a un altro ci è dato dall'architettura: è
il lento, e quasi universale, trionfo della pianta basilicale
(con tutti i suoi derivati minori) sulla do-mus ecclesiae
antica. Non è dunque senza significato che le nostre Chiese
attuali siano considerate, a tutti i fini pratici, come 'edifici
pubblici': esse hanno per prime inteso diventare tali con la
loro stessa architettura.
Tutto è avvenuto, inoltre, come se, correlativamente al­
l'adozione di un nuovo prototipo sociologico, a partire dal
IV e V secolo, la pastorale stessa sia passata da un regime
dove la coincidenza (virtuale) dell' 'assemblea liturgica' e
della 'comunità di base' era considerata come naturale e nor­
male, a un regime nel quale la stessa coincidenza diventava,
per forza di cose e per la legge del gran numero, sempre più
difficile, precaria, fino a dimostrarsi praticamente impossi­
bile. La territorialità preferenziale delle nostre 'parrocchie' e
la moltiplicazione obbligatoria delle stesse celebrazioni nelle
stesse chiese negli stessi giorni possono essere considerate
qui come altrettanti simboli particolarmente rivelatori del
cammino percorso in una certa direzione dopo l'inizio
del quarto secolo.
Infine, tutto è accaduto come se, a una regola pastorale
primitiva che sembra aver spontaneamente scelto di adattare
la dimensione e la struttura della 'comunità di base' alle
possibilità intrinseche delle forme della parola e del culto, sia
succeduto, a partire dalla stessa epoca, una regola pastorale
che ha cercato, sempre più inutilmente e sempre più
disperatamente, di adattare, al contrario, le forme della pa­
rola e del culto alle dimensioni sempre crescenti e alle
strutture sempre più complesse e confuse della 'comunità di
base'. I simboli storici sarebbero qui, nel campo della parola,
lo sviluppo della 'sacra eloquenza', per sostituire il 'mes­
saggio' e r 'istruzione' delle origini, e nel campo del culto
propriamente detto, la riduzione progressiva dei segni sa­
cramentali, in particolare quelli deH'eucaristia, vero centro
della pastorale e della liturgia cristiana.
Il 'messaggio' e 1' 'istruzione' apostolica erano in effetti
concepiti per raggiungere l'individuo in maniera personale
nel quadro di una 'comunità di base' misurato sul quadro
familiare dell'epoca. Il prototipo sociologico dell' 'istruzio­
ne', in modo particolare, era preso dal vecchio uso domesti­
co dell' 'istruzione' che il padre trasmetteva ai figli, man
mano che ciascuno di loro arrivava all'età della «conoscenza
del bene e del male» (adolescenza). Evocando espressamente
questa usanza dell'educazione domestica. Paolo scrive,
parlando della propria 'istruzione': «Come un padre fa per i
suoi figli, voi lo sapete, noi abbiamo esortato, incoraggiato,
scongiurato ciascuno di voi (héna hékaston humón) a
condurre una vita degna di Dio che vi chiama al suo regno e
alla sua gloria» (i Tess. 2,11-12; cfr. Atti 20,20-21).
Nelle nostre omelie possiamo si ricordare, per parte no­
stra, la 'tavola' e la 'cena del Signore' (1 Cor. 10,4; 11,20),
ma ogni pastore, ogni fedele sa che il sentire questa 'tavo-
la' e il gustare questa 'cena' nella speranza e nella fede e
nell'amore fraterno, è un'altra cosa. Ogni sorta di conside­
razioni e, in particolare, le dimensioni stesse e la struttura
della nostra 'comunità di base', ci hanno a poco a poco con­
dotti, od obbligati, a ridurre i nostri segni eucaristici. Par­
lando di queste cose ho spesso usato questo paragone. Se ri­
cevete un piccolo numero di parenti e di amici, li farete se­
dere alla, vostra tavola e li servirete voi stessi con ciò che di
meglio avete. Se ricevete venticinque persone a cui siete le­
gati in varia maniera, voi offrirete loro, suppongo, un piatto
freddo. Se ricevete cinquanta persone, a cui siete legati in
maniera ancora più varia, voi sposterete l'ora del ricevimento,
le inviterete, immagino, a un 'garden-party' e farete servire
loro dei 'rinfreschi'. Se ricevete duecento persone, voi offrirete
loro forse un pasto, ma ne affiderete la cura a un albergatore
di professione. Per parte vostra, vi accontenterete di salutare
personalmente alcuni degli invitati, e farete a tutti un
discorsetto di benvenuto... Tale paragone dice abbastanza
bene quello che voglio dire: forse lo dice in maniera troppo
brutale. Sono pronto a scusarmene. Ma, quello che voglio
sottolineare, è che il numero cambia per forza la forma e il
contenuto dei rapporti umani. E una legge dalla quale non
potremo mai sottrarci, soprattutto, forse, nella pastorale, cosi
delicata, della 'parola' e dei 'sacramenti'.
In definitiva, se queste osservazioni sono sostanzialmente
esatte, il vero problema per noi non è dunque anzitutto quel­
lo della eventuale revisione dei metodi di formazione e di
insegnamento oggi in vigore nei seminari, benché una tale
revisione sia pure desiderabile. Il vero problema non è nean­
che quello di un miglior adattamento dei metodi in uso nella
pastorale 'parrocchiale', benché, ora, sia forse l'unica cosa
che si possa fare. Il vero problema non è neanche quello di
un'intensificazione dell'«azione diretta negli ambienti di
vita» per supplire aH'insufficienza dell'istituzione parrocchia­
le, benché una tale intensificazione possa contribuire, senza
dubbio, in misura notevole, alla preparazione delle forme
ecclesiali del futuro.
Il vero problema che è per noi di primaria importanza ci
sembra essere, in realtà, quello che riguarda le dimensioni e
le strutture della 'comunità di base'. Poiché questa è la ra­
dice, e senza la radice niente può vivere. La forma e il con­
tenuto delle nostre relazioni pastorali dipenderanno sempre,
in larghissima misura, da quello che sarà questa 'comunità di
base'. Una cosa sembra certa, inoltre: ed è che l'anonimato,
l'indifferenza, l'insoddisfazione, e talvolta perfino la
disperazione che corrodono oggi molte delle nostre relazioni
pastorali, sia da parte dei laici che da parte del clero, non
saranno superate miracolosamente con esortazioni al fervore,
alla fedeltà, alla virtù e al disinteressamento. Ci vorrà più
audacia e più creatività. Dio voglia che noi siamo disposti a
questo lavoro.

4/ Alcuni suggerimenti
Il nostro compito qui non è che quello di suggerire: non
abbiamo voluto far altro. Tenuta presente questa premessa,
che è modesta, forse, ci sia tuttavia consentito di essere
espliciti.
In primo luogo, l'abbiamo già detto, ciò che sembra ne­
cessario è una riconsiderazione, lucida e coraggiosa, delle
dimensioni e delle strutture della nostra 'comunità di base'.
Abbiamo conosciuto, per parecchi secoli, qualcosa di diver­
so da quello che abbiamo oggi. Ci sembra, dunque, a questo
proposito, particolarmente augurabile che si tomi a ispirarsi
all'antica domus ecclesiae, per liberarci, se è necessario, dai
condizionamenti e dalle pesantezze della storia. E non si
tratta qui di risuscitare un passato ormai finito: si tratta di
domandare alla nostra tradizione, riscoperta con una mag­
giore pienezza, dei suggerimenti liberatori per l'avvenire.
Non si voglia ritenere, d'altra parte, che, ricordando il
modello della domus ecclesìae, io pensi a chiudere le nostre
grandi chiese, lontane eredi delle creazioni del IV e V se­
colo. Quello a cui penso è la creazione di un' 'assemblea'
{ekklèsìa) intermediaria tra la famiglia e la 'grande assem­
blea' come la conosciamo oggi. Il principio che presiedereb­
be alla formazione di questa ekklèsìa sarebbe l'antico uso della
coincidenza virtuale tra 1' 'assemblea liturgica' e la 'comunità
di base'.
Una tale 'assemblea' intermediaria, inoltre, potrebbe essere
considerata come la nostra vera 'comunità di base', flessibile,
mobile, diversificata, vicina alle realtà umane. Il suo
appoggio sociologico dovrebbe essere quello formato dai
gruppi naturali costituiti dalla famiglia e dalle relazioni im­
mediate che questa ha per la parentela, la vicinanza, l'ami­
cizia, il servizio, il divertimento e il lavoro. Dal punto di
vista del numero, una tale 'assemblea' dovrebbe essere sulla
misura dell'abitazione comune, qualunque ne sia il tipo
concreto.
Potremmo tornare all'antica usanza che adattava 1' 'assem­
blea' alle possibilità interne dei segni cultuali, piuttosto che
adattare i segni cultuali all' 'assemblea'. Formati da lunghe
abitudini fissate nelle rubriche e nei monumenti, dimenti­
chiamo troppo spesso che i segni del nostro culto, in partico­
lare quelli che costituiscono e accompagnano l'eucaristia, so­
no nati, per gran parte, nel quadro ristretto dell'universo
domestico. Gesù ha celebrato la sua ultima pasqua in una
'camera alta' seguendo le usanze dell'ospitalità.^ E dimenti-
® Cfr. i Tini. 3,2 e Tito i,8 a proposito delle qualità d"ospitalità'
àùYepìskopos.
chiamo anche, troppo spesso, che i più importanti segni del
nostro culto, in ragione della loro origine e della loro stessa
natura, non sono estensibili aH'infmito, né, di conseguenza,
indifferentemente adatti a qualsiasi assemblea, di qualsiasi
estensione e di qualsiasi struttura.
Dire questo significa per ciò stesso dire che la nuova 'co­
munità di base' dovrebbe avere una sua propria liturgia. A
questo proposito, sarebbe del tutto insufficiente pensare, per
esempio, a una semplice 'riduzione' dell'attuale liturgia della
'grande assemblea'. La nostra tradizione pastorale, meglio
compresa, dovrebbe permetterci di creare forme liturgiche
adatte all'universo cultuale a cui pensiamo.
In una tale liturgia, 1' 'accoglienza' pastorale, cosi impor­
tante sia per l'amore fraterno che per la formazione del-
T'assemblea', dovrebbe diventare nuovamente e pienamente
possibile. Oggi sappiamo quanto tale 'accoglienza' pastorale
sia resa difficile nelle nostre grandi Chiese. Ora, forse è
proprio qui che si crea attorno al prete un certo isolamento e
cosi si scava un fossato tra lui e quelli di cui ha la respon­
sabilità pastorale. Abbiamo il coraggio di riconoscerlo: senza
che se ne abbia coscienza e contro le loro intenzioni, sono
proprio le forme liturgiche che, per una parte, fanno nascere
e mantengono tra noi la separazione.
Dotata di una liturgia propria, Yekklèsia di base dovrebbe
naturalmente avere anche un servizio pastorale particolare.
Va da sé che un tale servizio verrebbe ad essere molto este­
so, e magari può strutturarsi in modo differente dal servizio
pastorale esistente nelle grandi assemblee delle nostre Chie­
se. Per gli incaricati del servizio pastorale àQWekklésìa di
base sarebbe richiesto un ritorno alla libertà primitiva. Non
si tratta di chiederci quello che sarebbe meglio in sé: si trat­
ta di sapere se siamo in grado di rispondere alle presentì ne­
cessità della Chiesa. Nonostante ammirevoli e ancora im­
mense riserve d'invenzione e di generosità, bisogna ricono­
scere che siamo travolti da tutte le parti. E tutto quello che
possiamo prevedere è che le necessità pastorali saranno an­
cora più grandi domani. Queste necessità stanno in primo
piano: esse devono illuminare le nostre ricerche, anche se le
decisioni rimangono dell'autorità competente. Dopo tutto,
non sembra che lo stesso Gesù abbia pensato diversamente
quando si è circondato di discepoli e ha unito a sé i Dodici.
Per finire, diverse modalità di coordinazione potrebbero
essére previste nei rapporti della nuova 'comunità di base'
con la 'grande assemblea', sia per quel che riguarda la litur­
gia che per quel che riguarda la ripartizione delle responsa­
bilità pastorali. Questa ridistribuzione deH'infi-astruttura ec­
clesiale potrebbe peraltro operarsi, pare, senza mettere tutto
sottosopra. Cosi si potrebbero conservare, in particolare, i
valori specifici e autentici della 'grande assemblea'.
A questo proposito disponiamo, inoltre, di un esempio
storico nella nostra stessa tradizione pastorale. Tutti sanno,
infatti, che la parrocchia attuale risulta da un lungo trasfe­
rimento di responsabilità di cui si è poco a poco liberata la
chiesa cattedrale del vescovo, sotto la spinta, appunto, di
necessità nuove. Ciò che si vorrebbe suggerire qui a favore
della nuova 'comunità di base' è un trasferimento di respon­
sabilità pastorali analogo a quello che abbiamo conosciuto,
di fatto, nel passato. Soltanto, questa volta, non bisognereb­
be che il cambiamento ci occupasse per un altro intero mil­
lennio. Per un gran numero di uomini e di donne ai quali si
offre, da parte di Dio, la buona novella di una speranza di
vita, potrebbe essere già tardi adesso. Il tempo stringe.
L'amore dei nostri fratelli uomini non dovrebbe spingere
anche noi, e nella stessa direzione?
CONCLUSIONE

Dobbiamo concludere? Pensando a quello che resta da


dire siamo piuttosto trattenuti dal farlo. Tuttavia ci sembra
di essere giunti a delle certezze utili. Nell'insieme, i risultati
delle nostre analisi sembrano eliminare decisamente l'idea
facile, espressa da qualcuno ma ritenuta certamente da mol­
ti, secondo cui le ragioni che nella Chiesa latina hanno giu­
stificato l'introduzione della legge del celibato dei chierici,
siano oggi ancora tutte valevoli a giustificare e a perpetuare
l'istituzione.
Un tale ottimismo non ci sembra autorizzato, né dai fatti
storici, né dalla realtà presente. Non potrebbe essere a lungo
condiviso da quelli che, prima di ogni esame, ritengono di
possedere una conoscenza innata della tradizione pastorale
della Chiesa, e che, in nome di questa conoscenza, guardano
dall'alto il cammino della storia. La buona volontà che si
tranquillizza troppo in fretta non è, in ogni caso, una scusa
buona. La probità e la modestia potranno verosimilmente
darci migliori consigli. Esse ci diranno anzitutto che, prima
di qualsiasi affermazione in materia, sarebbe prudente co­
minciare ad informarsi. E ci prepareranno in seguito a ri­
conoscere, se è il caso, i cambiamenti di prospettiva portati
dall'irreversibile cammino delle cose.
Infatti, noi, chierici e laici, per buona parte non siamo più
nello stato di coscienza che ci renderebbe sensibili alla
percezione di un' 'impurità' inerente alla sessualità. Cosa av­
verrà domani? Non è necessario avere uno sguardo profetico
per prevedere che l'umanità, nel suo insieme, si muove verso una
lenta, ma continua e inevitabile, eliminazione di questo arcaismo
spirituale.
Ora, se la nostra interpretazione dei fatti è sostanzialmente
esatta, non si può più mettere in dubbio che non sono state
soltanto delle 'ragioni' che hanno motivato in passato
l'instaurazione del celibato obbligatorio per i gradi superiori del
servizio pastorale della Chiesa. Forze più oscure sono state pure
ugualmente all'opera. Si può anche pensare, senza per questo
offendere la coscienza dell'antichità cristiana, che, in realtà, tali
forze sono state qui parzialmente determinanti, mentre le 'ragioni'
messe avanti per giustificare la regola del celibato ecclesiastico
sono similmente servite anche a mascherare un campo di
coscienza già lavorato da forze di tutt'altra natura, sorte
direttamente dalla vecchia percezione di un' 'impurità' sessuale.
È dunque, prima di tutto il resto, la stessa congiunzione di
queste forze e di queste 'ragioni' che alla coscienza con­
temporanea pone un grave problema per quel che riguarda i
motivi profondi della legge del celibato dei chierici. Tale
congiunzione estremamente ambigua porta in sé parecchi
elementi caduchi, alcuni dei quali già sembrano fin d'ora
irrecuperabilmente superati: in particolare i controsensi biblici e
la valorizzazione religiosa della percezione del 'puro' e dell'
'impuro' nel campo della sessualità. Del resto, il fatto che dopo
tanti secoli la congiunzione di cui parlo arrivi a noi più o meno
velata da motivi che le sono stati sovrapposti nel volger del
tempo, non necessariamente significa che essa abbia totalmente
cessato d'esistere: può sempre imporsi un'accurata revisione
critica e responsabile.
In maniera più precisa, è l'incontro della duplice percezione
del sacro, da una parte, del 'puro' e dell' 'impuro' dall'altra, ad
essere stato l'agente meno adatto nell'evoluzione
che doveva dar origine alla legge del celibato ecclesiastico.
Tutti gli altri fattori: regole del sacerdozio antico, testimo­
nianze ed esempi della tradizione cristiana primitiva, influs­
so più recente del monacheSimo, aspirazione tra gli stessi
chierici ad un ideale di 'vita comune', pure hanno influito
nell'insieme al sorgere e costituirsi di tale legge. Senza voler
pretendere di ricostruire la storia diversa da quella che è
stata, è diffìcile determinare se questi fattori, da soli, avreb­
bero in modo identico condotto a irrigidire un regime che
era facoltativo nella Chiesa dei primi tre secoli.
Ma si arrivò ad una vera legge. Ora, ancora una volta, è lo
stesso movente della legge, da noi criticato, che oggi pone un
problema, è questo problema è in primo luogo di ordine
pastorale. Infatti, permettendo al servizio pastorale di sacra­
lizzarsi fino all'ultimo limite, bisogna ammettere che ci sia­
mo privati, per ciò stesso, di una buona parte delle nostre
normali possibilità di adattamento alle circostanze mutevoli
dei tempi e dei luoghi, degli individui e delle società, della
cultura e delle civiltà. Non si può accettare di sacralizzare al
massimo limite e, nello stesso tempo, sperare di conservare
tutte le ragionevoli possibilità di adesione concreta al
movimento della storia. E la ragione è, evidentemente, che il
sacro cerca sempre di darsi delle condizioni massimali d'im­
mutabilità per assicurare meglio la sua funzione propria.
Di nuovo, i fatti ci mettono nella necessità di rifìettere.
Sarebbe semplicemente paradossale, dal punto di vista del­
l'esperienza storica, che noi pretendessimo di conservare sen­
za possibili ripensamenti un servizio pastorale sacralizzato
all'estremo, e che sperassimo nello stesso tempo di vedere il
Vangelo progredire secondo il ritmo generale della storia. Lo
sappiamo già abbastanza: il sacro, se conserva un peso
troppo stagnante, ci imporrà eterni ritardi. Malgrado tutti i
nostri sforzi, incontreremo gravi difficoltà. In ultima anali­
si, si tratta di rivedere e approfondire il problema dei motivi
autentici della legge del celibato dei chierici. La sacra­
lizzazione, che un tempo sembra aver favorito la legge del
celibato, oggi è ancora del tutto opportuna per offrire i mi­
gliori servizi agli interessi della speranza del Vangelo?
Non dimentichiamo, d'altra parte, che la legge del celi­
bato dei chierici oggi realmente possiede motivi diversi da
quelli che possono essere stati alla base del suo sorgere. Sen­
sibili, forse, a qualche difficoltà del genere di quelle da noi
più sopra ricordate, alcuni si sono messi alla ricerca anche di
un motivo 'assoluto', tale da togliere da solo ogni esitazione.
Cosi è stato messo avanti, in particolare fra gli altri l'esempio
di Gesù. Va da sé che per noi c'è qui, realmente, un valore
supremo di una perfetta consistenza, trascendente le
vicissitudini della storia. Anche, nel problema che c'interes­
sa, più il motivo è elevato, e più suscita difficoltà immagi­
narlo posto alla base di una legge giuridica. In realtà, Gesù
stesso si è guardato dal proporre una scelta: ha suggerito, ha
invitato, ma non ha imposto. La determinazione giuridica
rimane sempre opera suggerita dalla prudenza pastorale della
Chiesa.
In conclusione, ci auguriamo che il celibato ecclesiastico
venga studiato e meditato anche nella visione, particolar­
mente ricca, del servizio pastorale della Chiesa primitiva,
con la sua integrazione del matrimonio nel quadro domesti­
co àeWekklésìa. Vedremmo nascere, allora, un servizio pa­
storale la cui prima intenzione sarebbe, non di conformarsi a
un ideale sacrale fissato una volta per tutte, ma di provve­
dere, in una responsabilità illuminata e vigilante, alle neces­
sità concrete del Vangelo. Il lievito evangelico deve essere
sempre totalmente presente nella pasta.
GIORNALE DI TEOLOGIA / 12

• INDICE

E d ito ria le (T u l l o G o f f i ) ......................................................... 7


1/ Significato dello studio dell'Audet........................................... 9
2/11 significato del celibato ecclesiastico ................................... 12
3/ L'insegnamento di Paolo vi ................................................... 16

Introduzione..................................................................... 19

PARTE PRIMA
LA CASA E IL MATRIMONIO NEL SERVIZIO
PASTORALE DELLA CHIESA PRIMITIVA

I. Seguendo la storia.
1 /Secoli 11 e in ............................................................................. 33
2/ Dal secolo iv al medioevo......................................................... 40
3/ Riflessioni sul concilio di Elvira (sec. iv) ............................. 43

II. L'azione e il pensiero di Gesù.


1/ L'azione di Gesù nella forma del 'messaggio' ........................ 50
2/ L'azione di Gesù nella forma dell' 'istruzione' ...................... 59
3/ Analisi di alcune dichiarazioni di Gesù ................................. 62

III. La casa e il matrimonio nel servizio itinerante del


la parola.
1/ 'Ministero' e 'servizio' ............................................................. 75
2/ Differenziazione delle persone nel 'servizio della parola' 77
3/ Differenziazione della forme letterarie nel 'servizio della
parola' .................................................................................... 79
4/ Differenziazione delle condizioni generali in cui si svol
geva il 'servizio della parola'.................................................. 85
IV. La casa e il matrimonio nel servizio dell'assemblea.
1/ Elasticità del servizio del Vangelo ........................................ 98
2/ Dal servizio itinerante della 'parola' al servizio dell' 'as
semblea' ................................................................................... 104
3 / 1 primi 'pastori' della Chiesa .................................................. 106
4/ Interpretazione di una formula paolina................................. no

Conclusione della parte prima ....................................... 125

PARIEffiOCNDAIERI,
OGGI, DOMANI

I. La sacralizzazione del servizio pastorale e le origini


della legge del celibato ecclesiastico.
1 /Servizio e sacerdozio................................................................ 141
2/ Il problema del sacerdozio nella Lettera agli E brei.... 144
3/ L'inizio del processo di sacralizzazione del servizio pa
storale ........................................................................................ 146
4/ La sacralizzazione progressiva del servizio pastorale .... 152
5/ Riflessioni sulla situazione presente....................................... 158

IL Servizio pastorale, comunità di base e assemblea li­


turgica.
1/ Assemblea liturgica e comunità di base nei primi secoli 164
2/ Il passaggio dalla 'domus ecclesiae' alla basilica ................. 165
3/1 due grandi periodi della nostra tradizione pastorale .. 172
4 / Alcuni suggerimenti ............................................................. 175

Conclusione ................................................................. 179


Meditazioni
teologiche
PRIMA SERIE

Volumi già pubblicati:

1. LADISLAUS BOROS, Esistenza redenta


3 * edizione
pagg. 144 L. 900

2. HANS URS VON B althasar , Chi è il eristiano?


3° edizione
pagg. 136 L. 700

3. J ohannes B aptist M etz , Povertà nello spirito


2" edizione
pagg- 72 L. 500

4. JOHANNES BAPTIST METZ, Avvento di Dio


pagg. 48 L. 400

5. K a r l RAHNER, T u sei il silenzio


pagg. 92 L. 500

6. K arl RAHNER, Sul matrimonio


pagg. 36 L. 350

7. KARL RAHNER, Sul sacerdozio


pagg. 32 L. 350

EDITRICE QUERINIANA BRESCIA


VIA PIAMARTA, 6 - C.C.P. 17/11481
Questa collana

intende offrire al lettore,


in una serie di volumi
costituenti una
'Biblioteca di aggiornamento teologico'
un orientamento sui temi e problemi
della teologia contemporanea.

Questo volume

Il presente studio, steso daU'Audet in servizio dei Padri


riuniti in concilio, risulta una pregevole ricerca critica
sul celibato ecclesiastico.
Tale ricerca p u ò servire a rendere p iù chiaro il si­
gnificato teologico del celibato, a suggerire i motivi che
devono reggere lo spirito ecclesiastico, a facilitare
l'evolversi di un costum e sacerdotale e a d orientare in
senso p iù appropriato la legislazione canonica.

QUERINIANA

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