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Questo agile volume si articola in due parti, differenti nel genere espositivo, ma
tra loro intimamente collegate riguardo all’interrogativo che ci proponiamo.
Nella prima parte – più teologica, dottrinale, e anche più breve – ci
confronteremo soprattutto con i nostri Padri, ma anche con alcuni documenti
importanti del Magistero, riguardo a due temi decisivi della formazione sacerdotale:
precisamente la consacrazione e la missione del ministro ordinato.
Nella seconda parte – più narrativa, biografica, e con qualche spunto per la
revisione di vita – illustreremo alcune storie di vocazione sacerdotale, inseguendo
idealmente (anche se non sempre in modo esplicito) lo schema biblico delle storie di
vocazione. Come è noto, esso prevede cinque punti di riferimento fondamentali: la
chiamata-elezione di Dio, la risposta del chiamato, la missione, i dubbi e le resistenze
del chiamato, la conferma rassicurante del Signore.
Le due parti giungeranno a rispondere (in modo più o meno adeguato) alla
domanda ambiziosa che ci siamo proposti: Chi è il ministro ordinato nella Chiesa?
Roma, 9 aprile,
Giovedì santo 2020
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PRIMA PARTE
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CAPITOLO PRIMO
Dalla Pastores dabo vobis alla Presbyterorum Ordinis, fino a sant’Agostino
Il primo riferimento, che riguarda l’Oriente, andrà alle “scuole teologiche” più
famose dell’antichità cristiana, cioè alla “scuola antiochena” e alla “scuola
alessandrina”. Chiaramente il termine “scuola” in questo caso non va inteso in senso
stretto, bensì come un orientamento esegetico e dottrinale che muove dalle medesime
premesse antropologiche e culturali, ma che non è strettamente vincolante.
Sono ben noti gli orientamenti delle antiche tradizioni di Antiochia e di
Alessandria.
Alessandria sembra accogliere due istanze complementari rispetto ad Antiochia,
vale a dire l'allegoria in esegesi e la valorizzazione della divinità del Verbo in
cristologia. Più in generale, Alessandria è ben distante dal cosiddetto “materialismo”
o “realismo” antiocheno, assai più attento alla lettera nell’esegesi e all’umanità di Gesù
nella cristologia. Questo stesso “realismo” appare evidente anche in ambito
ecclesiologico e, in particolare, nella dottrina del ministero ordinato.
Naturalmente si tratta di accentuazioni, non di insegnamenti unilaterali ed
esclusivi, come dimostra per esempio il fatto che Origene, maestro dell’allegoria e
dell’interpretazione spirituale della Bibbia, è studioso quant’altri mai attento della
lettera del testo sacro.
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CAPITOLO SECONDO
La “scuola antiochena”: da Ignazio a Giovanni Crisostomo
E' invalso l'uso di considerare Luciano, maestro di Ario, come il capostipite della
“scuola” di Antiochia.
Ma già Ignazio nei primi anni del II secolo ne anticipava alcuni tratti
caratteristici, soprattutto nello spiccato realismo dei suoi riferimenti all'umanità di
Cristo. Egli “è realmente dalla stirpe di Davide”, scrive Ignazio agli Smirnesi,
“realmente è nato da una vergine..., realmente fu inchiodato per noi” (1,1).
“E' bene per voi”, scrive l’Antiocheno ai cristiani di Efeso, “procedere insieme,
d'accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei
presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo,
come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico
Gesù Cristo è cantato. E così anche voi, a uno ad uno, diventate coro, affinché nella
sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell'unità, cantiate a una sola
voce” (4,1-2).
E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere nulla di ciò che
riguarda la Chiesa senza il vescovo” (8,1), confida a Policarpo, vescovo di Smirne: “Io
offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi.
Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate
insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come
amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a colui, per il quale
militate, e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro
battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia,
la pazienza come un'armatura” (6,1-2).
In questa stessa prospettiva può essere letto anche il famoso Dialogo con Basilio,
composto ad Antiochia intorno al 390, là dove Giovanni Crisostomo parla dell’esempio
e dellaPparola come dei “farmaci”, che il presbitero ha a sua disposizione: “Quelli che
curano i corpi degli uomini”, scrive, “hanno a disposizione una quantità di farmaci...
Nel nostro caso, oltre all'esempio, non c'è altro strumento o altro metodo di cura, al di
fuori dell'insegnamento che si attua con la Parola” (Dialogo sul sacerdozio 4,3,5-13).
Nel medesimo Dialogo il Crisostomo parla del sacerdozio come di “una vita
fatta di coraggio e dedizione” (così infatti va tradotta la locuzione ghennáia psyché di
2,4,51-64), perché il ministero del (vero) pastore non conosce i confini angusti del
tornaconto personale, ma ridonda a vantaggio di tutto il gregge.
Per il Crisostomo, la cura del gregge è il “segno dell'amore”, è la prova concreta
che il ministro ama veramente il Signore: “Se mi ami, pasci le mie pecore...” (cfr.
Giovanni 21,17).
In quell'occasione, osserva il Crisostomo, il Maestro chiese al discepolo se lo
amava, non per saperlo lui stesso: perché mai avrebbe dovuto farlo, lui che scruta e
conosce il cuore di tutti? Neppure “intendeva dimostrare a noi quanto Pietro lo amasse:
questo ci era già noto da molti altri fatti; ma voleva dimostrare quanto lui (il Signore)
amasse la sua Chiesa, e insegnare a Pietro e a tutti noi quanta cura dovessimo
profondere in quest'opera” (2,1,35-40).
Proprio qui risiede l'incolmabile differenza tra il mercenario e il pastore: “Il
buon Pastore dà la propria vita per le sue pecore” (Giovanni 10,11).
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3. Conclusioni sulla “scuola di Antiochia”
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CAPITOLO TERZO
La scuola di Alessandria: Origene
1. La tradizione alessandrina
Prendiamo adesso in considerazione la cosiddetta “tradizione alessandrina”.
Abbiamo già notato che Alessandria sembra accogliere alcune istanze
complementari rispetto alla tradizione antiochena. Questo – lo ripetiamo – vale anche
in ambito ecclesiologico e, in particolare, nella concezione del ministero ordinato.
Per illustrare gli orientamenti alessandrini sul tema della formazione sacerdotale,
mi limito a un solo esempio, peraltro molto rappresentativo: mi riferisco a Origene (+
254), e soprattutto alle sue Omelie sul Levitico, pronunciate a Cesarea di Palestina tra
il 239 e il 242. Siamo ormai a qualche anno dalla grave crisi che – a causa
dell'ordinazione sacerdotale, conferitagli intorno al 231 dal vescovo di Cesarea,
all'insaputa di quello di Alessandria – oppose Origene e il suo ordinario, il vescovo
Demetrio.
La crisi restò aperta, e causò appunto il trasferimento di Origene a Cesarea.
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A maggior ragione lo sono, evidentemente, per l'esercizio del sacerdozio
ministeriale: potremmo dire anzi che nel pensiero origeniano esse costituiscono le
“pietre miliari” della formazione presbiterale.
Ma su questo discorso torneremo nelle conclusioni.
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Ezechiele. “Infatti siamo chiamati ‘stirpe eletta e regale sacerdozio, nazione santa,
popolo che Dio si è acquistato’” (Omelia su Ezechiele 12,3).
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nell'ultima Omelia citata – che il riferimento alla Parola di Dio è indispensabile per
l'esercizio del “regale sacerdozio” comune a tutti i fedeli.
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preoccupazioni profane, e non domandino altro che trascorrere la vita presente
“pensando agli affari del mondo, ai guadagni temporali e al buon cibo” (Omelia su
Ezechiele 3,7). E aggiunge, in altro contesto: “Tra noi ecclesiastici si troverà chi fa di
tutto per soddisfare il suo ventre, per essere onorato e per ricevere a suo vantaggio le
offerte destinate alla Chiesa. Ecco qui quelli che non parlano d'altro che del ventre, e
che ricavano da lì tutte le loro parole (Omelia su Isaia 7,3).
Altri peccati dei preti sono, secondo Origene, il disprezzo – o almeno una minore
considerazione – degli umili e dei poveri, e nei rapporti con i fedeli una specie di
altalena tra un'eccessiva severità e una non meno eccessiva indulgenza.
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fuoco; ha “anche l'olocausto, e dal suo olocausto accende l'altare, perché arda sempre.
Io, se rinuncio a tutto ciò che possiedo e prendo la mia croce e seguo Cristo, offro il
mio olocausto sull'altare di Dio; e se consegnerò il mio corpo perché arda, avendo la
carità, e conseguirò la gloria del martirio, offro il mio olocausto sull'altare di Dio”
(Omelia sul Levitico 9,9).
Sono espressioni che rivelano tutta la nostalgia di Origene per il battesimo di
sangue. Nella settima Omelia sui Giudici – che risale forse agli anni di Filippo l'Arabo
(244-249), quando sembrava ormai sfumata l'eventualità di una testimonianza cruenta
– egli esclama: “Se Dio mi concedesse di essere lavato nel mio proprio sangue, così da
ricevere il secondo battesimo avendo accettato la morte per Cristo, mi allontanerei
sicuro da questo mondo... Ma sono beati coloro che meritano queste cose” (Omelia sui
Giudici 7,2).
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In definitiva la tradizione alessandrina – per una via forse inattesa, perché più
“spirituale”, e per alcuni aspetti “rigorista” –, arricchisce di concretezza l'immagine del
pastore e le relative istanze di formazione, che avevamo già colto in Ignazio di
Antiochia e in Giovanni Crisostomo.
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CAPITOLO QUARTO
Agostino
1. Una ventina d’anni dopo il Dialogo sul sacerdozio del Crisostomo, Agostino
commenta a Ippona il Vangelo di Giovanni. Il suo Commento si compone di 124
omelie, in parte pronunciate, in parte dettate.
Così anche Agostino si riferisce alla triplice domanda di Gesù a Pietro: “Simone,
figlio di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21,15-17).
A questo riguardo, il vescovo di Ippona riporta sul sacerdozio ordinato la stessa
dottrina del Crisostomo, ma con maggiore insistenza. E’ una dottrina che può essere
efficacemente riassunta nella sentenza che abbiamo riportato all’inizio: Sit amoris
officium pascere Dominicum gregem.
Queste parole, citate dal Concilio in PO 14, vennero riprese anche da san Paolo
VI nel suo primo messaggio al mondo, il 22 giugno 1963: di fatto, esse intendevano
esprimere il programma del suo pontificato.
2. In altro contesto, nel Sermone 137, Agostino osserva che il Signore, prima di
affidare il suo gregge a Pietro, gli chiese una professione di amore. Secondo Agostino,
il Risorto intendeva chiedere a Pietro: “Che cosa mi darai, che cosa mi offrirai, per il
fatto che mi ami? Ma che cosa avrebbe potuto dare Pietro al Signore, che era risorto e
ormai prossimo ad ascendere in cielo e a sedere alla destra del Padre?”. Ebbene,
risponde Gesù Cristo stesso, secondo Agostino: “Ecco ciò che mi darai; questa prova
mi offrirai, dato che mi ami: pascerai le mie pecore” (137,4,4).
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CONCLUSIONE DELLA PRIMA PARTE
Dall’altra parte, il Pastore è Uno totalmente donato: la sua è una “vita per”,
regalata, buttata per le pecore fino allo scandalo della croce. Gesù Cristo, il buon
Pastore, non abbandona mai le sue pecore, neanche quando le affida a Pietro e agli altri
pastori dopo di lui. I pastori, infatti, sono una cosa sola con lui: proprio per questo
anche loro, come lui, sono totalmente “buttati” nella missione. Solo la piena dedizione
al gregge dimostra la loro perfetta unità con Gesù Cristo, buon Pastore.
In tale prospettiva – non altra – va affrontata la questione del celibato dei preti,
oggi più che mai discussa.
Non è questo il luogo per approfondire l’argomento.
Ci basta aggiungere, al riguardo, una parola decisiva del Papa Francesco: “Sono
convinto che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Giovanni
Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a
una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa Cattolica latina. Lo ripeto: è una grazia,
non un limite” (San Giovanni Paolo Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo
2020, p. 75).
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SECONDA PARTE
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CAPITOLO QUINTO
Sant’Ambrogio (337/9-397)
1. La morte di Ambrogio
Ambrogio morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l'alba del
sabato santo.
Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso
sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne triduo
pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. “Noi vedevamo muoversi le sue
labbra”, attesta Paolino, il fedele segretario che per ordine di Agostino ne scrisse la
Vita, “ma non udivamo la sua voce”.
A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, vescovo di Vercelli, che si
trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato dalla voce
di una persona che gli ripeteva: “Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...”.
Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – “e gli porse il santo Corpo del
Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon
viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia
degli angeli, secondo la cui vita egli visse in terra, e della compagnia di Elia: infatti,
alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti della terra, come
lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Ambrogio non era vecchio, quando morì (non aveva neppure sessant'anni,
essendo nato verso il 339), ma era ben preparato alla morte: ne aveva parlato spesso ai
suoi fedeli, qualche volta con il cuore straziato dal dolore, come quando aveva
celebrato le esequie dell'amato fratello Satiro.
Ma forse le parole che descrivono meglio l'atteggiamento di Ambrogio di fronte
alla morte si trovano nel suo Commento al Salmo 36, che svela l'intima partecipazione
del vescovo di Milano alla morte del Signore: “Cristo è apparso nella carne”, scrive
Ambrogio. “E' lui la nostra vita in tutto. La sua morte è vita, la sua ferita è vita, il suo
sangue è vita, la sua risurrezione è vita di tutti. E' lui il chicco che si è dissolto, è morto
nel suo corpo per noi, per produrre in noi una messe abbondante. Quello dunque che è
stato fatto in lui è vita. Carne è stata fatta in lui: è vita. Morte è stata fatta in lui: è vita...
Risurrezione è stata fatta in lui: è vita” (Commento a dodici Salmi. Salmo 36, 36-37).
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In quel venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente
segnavano la sua mistica partecipazione alla croce e alla risurrezione del Signore.
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Come si vede, i rapporti tra la Chiesa di Milano e quella di Vercelli nella seconda
metà del IV secolo sono storicamente documentati, e giustificano la presenza del
vescovo Onorato al capezzale di Ambrogio.
1.2. L'altro dettaglio che conviene riprendere dal racconto della morte di
Ambrogio è il riferimento al profeta Elia. L'anima del nostro vescovo, scrive Paolino,
gode ora della presenza di Elia. “Infatti, alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di
parlare ai re e ai potenti della terra come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Dal punto di vista del nostro tema – cioè dell’identità del ministro consacrato,
della sua consacrazione e della sua missione – questo riferimento a Elia è decisivo.
Sant'Ambrogio parla frequentemente di Elia: si può dire che quasi in ogni sua
opera egli ne faccia menzione.
Sappiamo che nel leggere le scritture, come nell'accostarne i vari personaggi,
Ambrogio usava il metodo allegorico-spirituale, che in fondo presiede alla lectio divina
tradizionale. Infatti la lettura spirituale della Bibbia – così come la intendevano i Padri
alessandrini, anzitutto Clemente e Origene, e come Ambrogio imparò a praticarla –
implica l'attenzione all'esegesi letterale e storica, ma nello stesso tempo l’esigenza
inderogabile di andare oltre il velo della lettera.
Ambrogio è persuaso che sia necessaria una meticolosa opera di
“imbrigliamento” di ogni singola espressione verbale per fermare la parola e
“spremerne” tutte le potenzialità nascoste: e questo deve essere fatto, perché già nella
singola parola si attua il miracolo della presenza divina, e quindi il lavorio esegetico
deve partire dai termini, che sono dimora del Verbo ed eventi dell'economia di
salvezza.
Qualche volta può sembrare che questo desiderio di “spremere” le potenzialità
della parola, fino a trascenderla, giunga a forzare il senso del testo.
Sono questi i momenti in cui l'esegesi dei Padri ci sembra lontana e difficilmente
proponibile.
Per esempio nella Fuga dal mondo Ambrogio commenta così l'avventura di Elia
nel deserto: “Elia fuggì una donna, Gezabele, cioè la vanità senza limiti, e fuggì sul
monte Oreb, che significa "essiccamento", perché si essiccasse in lui il flusso della
vanità carnale ed egli potesse conoscere Dio con maggiore pienezza... Certamente un
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così grande profeta non fuggiva una donna, ma il mondo, e non temeva la morte, lui
che si era presentato a chi lo cercava e diceva al Signore: ‘Accogli l'anima mia’, preso
dal disgusto, non dal desiderio di questa vita; ma fuggiva le attrattive mondane, il
contagio di una convivenza peccaminosa e i sacrilegi di un popolo empio e
prevaricatore” (La fuga dal mondo 6,34).
Osserva al riguardo il cardinale Carlo M. Martini che la difesa di Elia, fatta da
Ambrogio, non soddisfa, “perché il testo biblico dice: ‘Elia, impaurito, si alzò e se ne
andò per salvarsi’" (Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato-
Milano 1990, p. 87).
Eppure, cogliendo l'anima del commento ambrosiano (cioè l'itinerario ascetico
della fuga mundi), possiamo ricavarne alcune indicazioni molto utili per la preghiera e
per la vita.
Già un'altra volta Elia aveva dovuto fuggire, quando, sollecitato dalla Parola del
Signore, era andato a nascondersi “presso il torrente Cherit, che è a oriente del
Giordano” (1 Re 17,3).
A questo proposito Ambrogio osserva, sempre nella Fuga dal mondo, che Elia
“stava presso il torrente Corrad” (Ambrogio usa questo tipo di vocalizzazione), “che
significa conoscenza, per attingervi copiosamente la conoscenza di Dio che in esso
scorreva, fuggendo il mondo a tal punto da non cercare altro alimento per il corpo se
non quello recatogli dagli uccelli che lo servivano, quantunque il suo cibo per lo più
non fosse terreno. Di conseguenza, per l'energia infusa a lui dal cibo ricevuto, camminò
per quaranta giorni” (La fuga dal mondo 6,34).
Secondo l'intuizione di Ambrogio la fuga verso il Cherit e il nascondiglio di Elia
negli anfratti sovrastanti il torrente conducono il profeta a una più profonda conoscenza
di Dio, e in definitiva alla sapienza del cuore.
Possiamo vedere nella caverna del Cherit la preghiera nascosta, la preghiera
contemplativa profonda, sconosciuta agli occhi del mondo, per la quale è necessario
camminare a lungo nella desolazione, nell'aridità, nel deserto, ma che nutre
abbondantemente lo spirito: una preghiera nascosta agli occhi del mondo –
“nNasconditi presso il torrente Cherit” (1 Re 17,2) –, e anche, non di rado, ai nostri
stessi occhi. Preghiera impalpabile, misteriosa, così come è dura, faticosa e buia la pista
che conduce nel fondo del burrone, dove scorre il torrente: preghiera arida, e tuttavia
feconda nello spirito, forse più ancora dei cosiddetti “momenti gratificanti”.
Secondo Ambrogio, infatti, la preghiera di Elia al Cherit promuove
efficacemente il cammino di conversione del profeta, fino a spalancargli la strada
dell'Oreb.
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E qui guadagniamo un punto d'arrivo del magistero pastorale di sant'Ambrogio.
Si tratta di una delle indicazioni più precise per superare le difficoltà nell'itinerario
della fede e della preghiera: parlo della necessaria continuità tra la preghiera e la vita.
Proprio questo itinerario ascetico di continuità tra la preghiera e la vita (cioè
tra la preghiera del Cherit e il cammino di spoliazione nel deserto, fino all'Oreb)
costituisce per ogni cristiano, e soprattutto per il ministro ordinato, il cartello
segnaletico della fuga mundi, nel senso positivo che Elia e Ambrogio ci insegnano.
In altri termini, è proprio questa la corsia preferenziale da percorrere per superare
compromessi borghesi e superficialità spirituali. La vera contemplazione (considerata
dai nostri Padri il punto d'arrivo della lectio divina) è il «confronto vitale» con Dio-
Amore, un confronto che deve giungere a trasformare in amore tutta la nostra vita (cfr.
Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 40).
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E' una visuale pratica: Ambrogio – alla scuola dei maestri alessandrini – non
intende il presbitero come “una creatura angelicata”, irreale, ma come un cristiano in
possesso di solide virtù umane, secondo lo stampo ciceroniano della morale antica,
elevata e cristianizzata dalla pratica del Vangelo.
E', infine, una visuale dinamica: il sacerdote deve santificarsi mediante
l'esercizio, ricco di zelo, dei munera che la Chiesa gli ha affidato attraverso il vescovo,
cioè anzitutto attraverso la celebrazione dell'Eucaristia e della Parola di Dio.
Come è divorato da Cristo, così il presbitero è divorato dalle anime: la cura
pastorale assorbe tutto il suo tempo, le sue intere risorse fisiche, intellettuali, spirituali
ed anche economiche, senza lasciarlo pensare troppo alle proprie necessità. Le
occupazioni pastorali non si limitano peraltro alla sola sfera cultuale e rituale, ma
impegnano la formazione del presbitero nella costante pratica della carità,
richiedendogli una vita sobria, povera, disinteressata.
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4. Ambrogio e Agostino: un ministro della Chiesa “in azione”
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4.2. Milano: Ambrogio e Agostino
Da poco giunto a Milano – siamo ormai nell'autunno del 384 –, il giovane
cattedratico dello Studio Pubblico si reca in visita alle varie autorità cittadine, e
incontra pure il vescovo Ambrogio. La nostra fonte narra che questi lo accolse satis
episcopaliter (Confessioni 5,3). E' un avverbio un po' misterioso: che cosa intendeva
dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un
vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco.
E' certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che
un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui
problemi fondamentali della ricerca della verità, veniva di giorno in giorno differito,
tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti
di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione.
Eppure Ambrogio e Agostino s'incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il
discorso sulle generali, limitandosi per esempio a tessere gli elogi di Monica, e
congratulandosi con il figlio per una simile madre.
Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava
regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità
egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di
pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o alimentava lo spirito con
letture.
E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le scritture a
bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era
strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava
la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli
occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di
conoscenza e di comprensione delle scritture.
Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osservare Ambrogio; poi,
non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. “Così”, conclude Agostino, “non mi era
mai possibile interpellare l'animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili
rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibile a lungo
per potersi riversare su di lui; ma non succedeva mai” (Confessioni 6,4).
Sono parole molto gravi: tanto che verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine
pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone.
Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di
Agostino fosse un'autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di
Ambrogio pastore e formatore.
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Ambrogio è certo al corrente della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto
perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Tuttavia il vescovo non
ritiene opportuno di impegnarsi con lui in un contraddittorio dialettico, dal quale lui,
Ambrogio, avrebbe anche potuto uscire perdente. Ambrogio, evidentemente, si era
incontrato spesso con persone di questo genere, e aveva collaudato un suo metodo. In
questi casi, evidentemente, egli preferiva sospendere le parole e lasciar parlare i fatti,
e con la sua prassi affermava il primato dell'essere sul dire del pastore.
Quali sono questi fatti?
In primo luogo la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e
di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato,
perché Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei
fedeli. La preghiera e la carità, testimoniate da questo eccezionale formatore,
subentrano alle parole e ai ragionamenti umani.
L'altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una
Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui
Ambrogio è l'animatore e il maestro, grazie anche agli inni da lui stesso composti; una
Chiesa capace di resistere alle pretese dell'imperatore Valentiniano e di sua madre
Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un
luogo di culto per le cerimonie degli ariani. Stando alle parole di Paolino, che abbiamo
letto all'inizio, “Ambrogio, alla pari di Elia, non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti
della terra, come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, il popolo devoto
vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. “Anche noi”, e questa testimonianza
delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi
nell'intimo di Agostino, “pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi
dell'eccitazione di tutto il popolo” (Confessioni 9,7).
Agostino insomma, pur non riuscendo a dialogare come avrebbe voluto con il
vescovo Ambrogio, resta positivamente contagiato dalla sua vita, dal suo spirito di
preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta
uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell'animazione delle liturgie, ne coglie il progetto
coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura.
In questo modo Agostino trova nella testimonianza del vescovo Ambrogio un
vero ministro della Chiesa, che lo riscatta dall'angoscia e dalla disperazione.
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Vogliamo ascoltarne alcuni, tratti dai celebri Commenti ai Salmi, per lo più delle
omelie, che Agostino tenne soprattutto a Cartagine.
“Che cosa c'è qui sulla terra?”, si domanda per esempio Agostino nel Commento
al Salmo 48; e risponde: “Fatica, oppressione tribolazione, tentazione: non puoi sperare
nient'altro. E la gioia dov'è? Nella speranza futura. Dice dunque l'apostolo: ‘Sempre
lieti’ (2 Corinzi 6,10). In mezzo a tutte queste tribolazioni, sempre lieti e sempre afflitti.
Sempre lieti, perché egli stesso dice: ‘Come se afflitti, ma sempre lieti’. La nostra
afflizione ha un come se, la nostra gioia non ha come se, perché nella speranza è certa”.
Lo stesso discorso prosegue nel Commento al Salmo 123, dove si legge a
proposito dei cristiani: “Che cosa cantano dunque costoro? Che cosa cantano queste
membra di Cristo? Sono persone che amano, e cantano d'amore, cantano di desiderio.
A volte cantano sotto il peso della tribolazione, a volte invece pieni di esultanza, perché
cantano nella speranza. La nostra tribolazione, infatti, è qui in questo mondo, mentre
la nostra speranza riguarda il mondo a venire, e se nella tribolazione che ci accompagna
in questo mondo non ci consolasse la speranza della vita futura, saremmo finiti. La
nostra gioia, fratelli, non è dunque ancora una realtà di fatto, ma è una gioia nella
speranza. Tuttavia la nostra speranza è così certa, che è come se fosse già diventata
realtà”.
“Come Gesù Cristo è diventato la nostra speranza?”, si chiede infine Agostino.
“Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra speranza. In lui
puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua
ricompensa nella resurrezione. E’ così che è diventato la nostra speranza. Perché noi
abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l'altra è quella in cui speriamo. Quella in
cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta... Con le sue fatiche, le
tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la
risurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l'uomo nasce
e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo è diventato la nostra
speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la
speranza” (Commento al Salmo 60, 4).
5. Conclusione
5.1. Eusebio, Ambrogio e Agostino sono anzitutto ministri della Parola. Ciò che
impressionò salutarmente il giovane Agostino, e finì per riscattarlo dalla sua
disperazione, fu proprio la familiarità del vescovo di Milano con la Parola del Signore,
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l'intimità profonda che si svelava in quella sua lettura a fior di labbra. Ma in questo
amore per le scritture e per la preghiera Ambrogio giocava una nobile gara con il
vescovo di Vercelli. Per Eusebio – come per Ambrogio – la Bibbia era l'anima della
preghiera quotidiana, il segreto della sua intensa vita pastorale.
E' facile l'attualizzazione del discorso. Ne scaturisce un esame di coscienza
necessario per chi vuole ritrovarsi nella testimonianza di Eusebio, di Ambrogio e di
Agostino. Anche oggi, di fronte alla sfida di certa cultura nichilista e atea, si può
vincere solo con un “di più” di preghiera, nutrita sistematicamente dalla lectio divina,
cioè dall'ascolto orante e ubbidiente della Parola di Dio: una lectio, è appena il caso di
dirlo, che non sia fine a sé stessa, ma che conduca piuttosto alla conversione della vita.
“Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi abbiamo
trattato ogni giorno di morale”, diceva Ambrogio ai destinatari delle sue catechesi,
“affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a
seguire il cammino dell'obbedienza ai precetti divini” (I misteri 1,1).
5.2. E così, oltre che ministri della Parola, Eusebio, Ambrogio e Agostino si
rivelano ministri della Chiesa al servizio della carità. Tornano alla mente alcuni gesti
profetici di Ambrogio e di Agostino, come quello di fondere i vasi sacri per il riscatto
dei prigionieri, e rivediamo, come in un flashback, lo sguardo ammirato di Agostino,
che contemplava Ambrogio assediato da catervae di poveri. Ma già prima di Ambrogio
la vita della Chiesa eusebiana era piena di fioretti della carità cristiana e ricca di
iniziative lungimiranti per la salvezza di tutti.
Di nuovo dovremmo interrogarci con coraggio se come ministri ordinati ci
muoviamo sulla strada di Eusebio, di Ambrogio e di Agostino.
Certo, non è facile praticare la carità nel contesto sociale di oggi. Anzitutto la
lista dei bisogni si è fatta più lunga che mai, e in secondo luogo, volendo fare del bene
agli ultimi, si rischia talvolta di soccorrere il malvivente piuttosto che l'uomo ferito e
derubato.
Come al solito, il ricorso al Vangelo e ai Padri non offre delle risposte
confezionate per i singoli problemi della vita, né pretende di sostituirsi alla coscienza
responsabile dei fedeli.
Ma – nonostante le difficoltà sopra indicate, e tante altre che si potrebbero
aggiungere – l'interrogativo fondamentale (“Tu, da che parte stai? Sei uno dal ‘cuore
duro’, o hai le ‘viscere di misericordia’ del nostro Dio?”) continua a risuonare con tutta
la sua forza, insieme al pressante invito a riconoscere nel volto del povero il volto di
Cristo. Dovrai discernere e mediare caso per caso le modalità dei tuoi interventi. Ma
alla fine le tue azioni devono esprimere con chiarezza l'orientamento di fondo della tua
vita: e queste azioni sono anzitutto le opere della carità. Esse devono risplendere
“davanti agli uomini”: su di esse sarai giudicato nell'ultimo giorno.
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In definitiva, la storia della vocazione di sant’Ambrogio, vescovo di Milano, si
delinea con molta chiarezza.
Essa si fonda su una sintesi efficace, personalmente realizzata e testimoniata, tra
la preghiera e la vita, tra l'ascolto della Parola e l'esercizio della carità. Non si riduce
affatto a una serie di concetti astratti o di norme disincarnate.
Inoltre (e di conseguenza) Ambrogio si colloca al centro di una «cordata di
testimonianza», che idealmente lega tra loro Eusebio, lo stesso Ambrogio e Agostino.
Dovremmo chiederci a questo punto se anche noi ci ritroviamo nella stessa
“cordata”. A noi, cristiani del Duemila, Eusebio, Ambrogio e Agostino affidano il
testimone che è passato tra le loro mani, perché la fede, la speranza e l'amore possano
vincere il mondo.
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CAPITOLO SESTO
San Giovanni Leonardi (1541-1609)
Come già abbiamo accennato, nella Bibbia le storie di vocazione – dai Patriarchi
ai Profeti, da Maria santissima agli Apostoli – sono accomunate da uno schema
letterario, che prevede almeno tre tappe: la chiamata-elezione, la risposta, la missione.
Di norma vi si aggiungono poi i dubbi e le resistenze del chiamato, e – infine –
la conferma rassicurante di Dio.
Proprio in questo modo vogliamo confrontarci con la storia della vocazione di
san Giovanni Leonardi. In questo caso, tuttavia, ci limiteremo ai primi tre momenti dei
racconti biblici.
1. La chiamata-elezione
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cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, egli volle rileggere con
sguardo di fede la storia della propria vocazione.
La lettura del profeta Isaia, citata da Gesù stesso nel suo discorso programmatico
nella sinagoga di Nazaret, ce ne dà conto: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione” (Isaia 61,1).
A questo proposito, possiamo ricordare un momento preciso della vita di san
Giovanni Leonardi, quando – subito dopo la morte del padre – egli aveva ormai deciso
di dedicarsi alla professione di speziale, o di farmacista. Siamo nel 1568. Giovanni si
recava a Lucca, per comperare i vasi e gli altri strumenti necessari per il suo lavoro.
Ma lungo la strada lo sorprese una voce interiore: “Giovanni, dove vai? Hai chiesto il
consiglio al tuo confessore?”, gli chiese la voce. E quando il giovane, ubbidendo alla
voce di Dio, si confrontò con il padre spirituale, la risposta fu netta: “Figliuolo,
fermatevi un poco. Io non voglio che facciate più lo speziale…”.
Ecco l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio. E’ lui che chiama. Il vero
protagonista di ogni storia di vocazione è soltanto lui.
Al chiamato spetta la responsabilità umile di una risposta fedele.
2. La risposta
Trascorriamo così al secondo atto della nostra storia: la risposta alla chiamata
del Signore.
Due verbi presiedono di norma a questa tappa dei racconti biblici di vocazione:
“lasciare” e “seguire”, cioè l’“esodo” per la “sequela”. Valga per tutte la storia della
vocazione di Abramo: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”,
gli ordina il Signore, “e va’ verso il paese che io ti indicherò...” (Genesi 12,1).
L’esodo personale di Giovanni Leonardi fu assai travagliato, e spesso
incompreso: da Lucca a Roma; dalla fondazione dei Preti Riformati a quella dei
Chierici Regolari della Madre di Dio…
Comunque, proprio attraverso le difficoltà e le incomprensioni si snoda la
risposta fedele del Leonardi al suo Signore: la sua è la risposta propria dei
“ministri/schiavi di Cristo” e degli “amministratori dei misteri di Dio”: ad ognuno di
questi amministratori, ammonisce Paolo, si richiede che risulti fedele (1 Corinzi 4,1).
In effetti, quella di san Giovanni Leonardi fu una risposta senza riserve alla
volontà di Dio. E’ proprio questa una linea caratteristica della sua spiritualità: la matura
consapevolezza della volontà divina, a cui lui – come il “servo biblico” – non poteva
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in alcun modo sottrarsi. Di fatto, la certezza di essere uno strumento nelle mani del
Signore l’accompagnò sempre, dall’inizio alla fine della sua storia di vocazione
sacerdotale.
3. La missione
Lungo gli anni della sua vita, le giornate divennero per lui come tanti sì d’amore
ripetuti a Dio, che l’aveva chiamato al servizio della Chiesa, del prossimo, dei ragazzi
da educare e da istruire.
Ecco la missione di san Giovanni Leonardi, mirabilmente riassunta in un passo
famoso delle Costituzioni del 1584: “Il Signore”, vi scrisse il santo, “ci ha chiamati non
solo perché potessimo attendere a noi stessi, ma perché cercassimo con ogni diligenza
la salvezza del nostro prossimo. E tutti noi fratelli” (cioè i Chierici da lui fondati) “con
animo acceso ci sforzeremo di compiere questa volontà di Dio, attendendo
all’amministrazione dei santissimi sacramenti senza perdonare fatica e disagio. Si
predichi e si legga la Divina Scrittura in Chiesa nostra ogni giorno di festa comandata
e insieme si insegni la Dottrina Cristiana ai bambini”.
E davvero i Chierici del Leonardi si mossero così per la missione, proprio come
i settantadue discepoli, di cui parla il Vangelo. Il Signore “li inviò a due a due avanti a
sé in ogni città e in ogni luogo dove stava per recarsi”: ed essi avvicinavano al mondo
il Regno di Dio (Luca 10,1-9).
4. La storia è finita…
La storia è finita, e in un certo senso ci dispiace, perché era proprio una bella
storia.
Ma la cosa più bella di tutte è questa: la storia, in verità, non è finita.
La storia di vocazione alla santità di Giovanni Leonardi, infatti, è una solenne
consegna per ciascun fedele, e soprattutto per ogni ministro ordinato: che sulla stessa
strada di fede, di speranza e di carità ci troviamo a camminare anche noi, ciascuno con
la sua irripetibile storia di vocazione, ma sempre con tutta la fede e la passione di cui
siamo capaci.
Anch’io sono chiamato da Dio, ogni giorno della mia vita.
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Anch’io devo rispondere a lui, in modo coerente e fedele.
Anche a me è affidata una missione, che nessun altro può compiere al mio posto.
Basta che ci fidiamo di Dio, il vero protagonista della nostra storia di vocazione.
E allora, voltandoci indietro a guardare la nostra vita, anche a noi – come ai santi
– sembrerà finalmente di comprendere tutto: che la grazia di Dio ci accompagna, e che
il suo amore misericordioso dura per sempre.
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CAPITOLO SETTIMO
San Giovanni Maria Vianney (1786-1859)
Da parte mia, mi limiterò a richiamare semplicemente cinque tratti della vita del
santo curato, basandomi soprattutto sull’eccellente biografia di F. Trochu, Le curé
d’Ars Saint Jean-Marie Baptiste Vianney d’après toutes les pièces du Procès de
Canonisation et de nombreux documents inédits (mi riferisco qui all’edizione Résiac,
Montsûrs 2004).
L’esempio dei sacerdoti santi scalda il nostro cuore, e rappresenta una delle
lezioni più efficaci della Chiesa sulla vocazione al ministero ordinato.
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Eppure, il giovane Jean-Marie poté ricevere una formazione eccellente a contatto
con un sacerdote colto, pio, e profondamente dedito alle cure del ministero. Era il
curato di Écully, l’abbé Charles Balley, che aveva istituito una scuola di formazione
sacerdotale nella sua canonica. Era un testimone esemplare, se il curato d’Ars ebbe a
dire di lui: “Ho conosciuto molte anime belle, ma nessuna come la sua”. E aveva
ragione: l’abbé Balley intuì, come ogni autentico educatore, il valore di quel giovane
– timido, e persino un po’ goffo – che si era messo alla sua scuola. Seppe incoraggiarlo,
e ottenne dal Vicario generale, Monsignor Courbon, che il giovane Jean-Marie fosse
dispensato dall’uso della lingua latina nell’esame di ammissione agli Ordini sacri.
Il curato d’Ars imparò poi ad esercitare la cura d’anime “sul campo”, avendo
sempre come maestro l’abbé Balley. Nella sua parrocchia, infatti, esercitò il ministero
per tre anni, dall’ordinazione sacerdotale, fino a quando – nel 1818 – fu destinato ad
Ars.
Dal suo maestro il curato apprese le coordinate fondamentali della santità
sacerdotale, vale a dire la consacrazione e la missione: una vita interiore robusta, fatta
di preghiera e di penitenza, e una dedizione totale alle anime.
Cari confratelli sacerdoti!
Vi invito a rileggere con sguardo di fede la storia della vostra vocazione, per
rendere più generosa e coerente la nostra risposta al Signore.
Forse sono passati molti anni, ma ritorniamo con il ricordo orante al tempo della
nostra formazione sacerdotale: lasciamoci stupire dalla Provvidenza di Dio, che con
mirabile sapienza e amore ha disposto gli incontri e le tappe decisive della nostra vita;
ringraziamo il Signore per i sacerdoti, che con il loro insegnamento e il loro esempio
hanno contribuito a plasmare il nostro sacerdozio...
Ripensiamo a ciò che abbiamo appreso da loro, e magnifichiamo il Signore, che
ha guidato gli anni della formazione e i primi passi del nostro ministero.
Ci accompagna in questo esercizio la testimonianza del Papa emerito, Benedetto
XVI.
Nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale (16 giugno 2009), ritornando
con animo grato agli inizi del suo sacerdozio, egli scrive: “Porto ancora nel cuore il
ricordo del primo parroco, accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete:
egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al suo servizio pastorale, fino a
trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il Viatico a un malato grave”.
Ecco la risposta autentica del sacerdote, davanti alla sua missione pastorale!
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2. Passiamo ora al secondo tratto biografico.
Pochi anni dopo l’inizio del ministero parrocchiale ad Ars, il santo curato avviò
un’iniziativa, in cui profuse tutto l’entusiasmo e lo zelo di cui era capace: l’istituzione
di un orfanotrofio e di una scuola femminile, la Providence.
Per più di vent’anni, la Providence fu, in un certo senso, la sua casa. Vi si recava
non solo per i doveri del ministero, ma anche per prendere i pasti e per intrattenersi
amabilmente con le piccole orfane. Alla preghiera di queste innocenti attribuiva
un’efficacia speciale.
Nel 1848 la direzione della Providence venne affidata a una Congregazione
religiosa femminile, che vi impresse un nuovo orientamento educativo. Anche il
Vescovo aveva sollecitato questo cambio: si temeva, infatti, che l’istituzione non
sarebbe sopravvissuta alla scomparsa del fondatore.
È innegabile che per questo motivo il nostro curato soffrì molto, al punto di
affermare: “Monsignore, il Vescovo, vede in questa decisione la volontà di Dio, ma
io… io no!” (Trochu, p. 416). Eppure accettò tutto, senza alcuna recriminazione,
collaborando cordialmente con le Religiose di san Giuseppe, che subentravano alle
prime educatrici. Quando questo avvenne, egli aveva già 62 anni.
Cogliamo in questo episodio una grande libertà interiore, persino da ciò che noi
oggi definiremmo i nostri “progetti pastorali”. Come sacerdoti, infatti, tutti abbiamo i
nostri piani pastorali, diamo vita a iniziative, entriamo in contatto con persone, che
diventano collaboratori e amici. Umanamente ci affezioniamo a tutto questo. Talvolta
sembra che il successo ottenuto ci renda quasi indispensabili. Non poche volte, però,
l’obbedienza ai superiori, le circostanze della vita, il cambio delle situazioni ci
chiedono un distacco.
Come reagiamo?
In questi casi, sappiamo assumere con coraggio quello “sguardo di fede”,
quell’“ispirazione”, che il santo vescovo Francesco di Sales definiva “un raggio
celeste, che porta nei nostri cuori una luce calda, per mezzo della quale ci fa vedere il
bene, e ci riscalda per farcelo perseguire” (Trattato dell’Amor di Dio 10)?
Se amiamo Dio sopra ogni altra cosa, un cambio di ufficio, un trasferimento, la
conclusione di un’attività a cui tenevamo molto, non ci risparmieranno forse da una
certa sofferenza interiore, ma questo non ci turberà, e non ci toglierà quella pace e
quella gioia, che Jean-Marie Vianney conservò di fatto, anche quando dovette lasciare
ad altri la sua Providence.
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3. Questa libertà interiore, che lo rese fedele nell’adempimento della missione,
emerge pure da un altro episodio della storia di vocazione del santo curato, il terzo che
ricordiamo.
Benché totalmente dedito all’azione pastorale, egli avvertiva sempre
un’irresistibile attrazione per la vita contemplativa.
Ci furono due memorabili tentativi di “fuga”: il primo nel 1843, dopo una grave
malattia; il secondo dieci anni più tardi, quando, con l’arrivo del nuovo vicario
parrocchiale, Jean-Marie credette di potersi ritirare.
Ecco la testimonianza di Mademoiselle des Garets, appartenente alla famiglia
dei nobili di Ars: “Sperava di rifugiarsi nella solitudine della Trappa, o in qualche altro
luogo nascosto, per prepararsi alla morte e piangere sulla propria vita”.
In una maniera quasi rocambolesca, e tuttavia molto toccante, i suoi penitenti gli
impedirono di partire, inginocchiandosi davanti a lui. Fecero suonare le campane a
martello, e convocarono tutti i parrocchiani, che si accalcarono attorno a lui, fino a
rendergli impossibile il passaggio. Anche questa volta il santo – vinto dall’affetto
devoto della gente, e totalmente abbandonato alla volontà di Dio – rinunciò al suo
progetto.
Ma il “sogno” della preghiera e della penitenza solitaria non cessò mai di abitare
nel cuore di questo parroco, “prigioniero delle anime” e divorato dallo zelo pastorale.
Eppure, non fu certo un sogno inutile, a prescindere dalla sua mancata
realizzazione. Al contrario, rese il curato d’Ars ancora più contemplativo nell’azione,
trasfigurandolo progressivamente nell’immagine e nell’amore di quel Dio, che egli
testimoniava e irradiava.
Ebbene, non capita qualcosa di analogo nella vita di molti di noi?
Forse anche noi, ripensando alla storia della nostra vocazione, vediamo che
c’erano nel nostro cuore desideri puri e nobili, dei progetti a cui tenevamo molto: ma
poi la vita ha preso una direzione diversa, e abbiamo fatto altro.
Non per questo dobbiamo coltivare sterili rimpianti. Siamo contenti ugualmente.
Il solo fatto che quei “sogni” siano stati ospitati nel nostro cuore è già un dono di Dio.
La nostra vocazione, poi, è riuscita per un’altra strada.
Non tutti i fiori che splendono sui rami a primavera sono destinati a dare frutto:
molti di essi sono creati solo per la loro bellezza, che muore all'urto del vento.
I desideri buoni hanno anche un valore in sé. Possono allargare l'animo. Possono
essere offerti a Dio con freschezza e amore.
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4. Trascorro ora al quarto episodio.
Accennavo prima al fatto che nel 1853 ci fu ad Ars un avvicendamento dei vicari
parrocchiali: l’abbé Toccanier prese il posto di colui che – per otto anni – era stato il
più stretto collaboratore di san Jean-Marie.
Questo sacerdote era l’abbé Raymond. Tra il curato e lui i rapporti non furono
certo facili. Tutt’altro. Dalle testimonianze del processo di canonizzazione
apprendiamo che questo sacerdote, di vent’anni più giovane del curato, si considerava
una specie di “tutore” del parroco. Lo trattava con durezza, senza esitare a contraddirlo
pubblicamente. Privo di ogni tatto e delicatezza, incurante dell’età e dalla fama di
santità che già circondava Jean-Marie Vianney, più volte ne feriva la delicata
sensibilità. Voleva diventare lui il parroco di Ars. Consultando i registri parrocchiali
di quegli anni, vediamo con sorpresa che l’abbé Raymond si firmava “curé de la
paroisse”.
Tutto ciò doveva amareggiare non poco il nostro santo, che del suo vicario era
stato benefattore: gli aveva pagato perfino la retta nel seminario!
Sappiamo bene che cosa accade in queste circostanze: molta gente, indignata,
riferiva tutto al parroco. Si lamentava con lui del comportamento del suo “vice”, e
chiedeva insistentemente che se ne informasse il Vescovo, perché l’abbé Raymond
fosse trasferito altrove.
I sacerdoti santi, però, non acconsentono a questo modo di fare troppo umano.
Reagiscono in altro modo. Jean-Marie difendeva il suo vicario, dicendo così alla gente:
“Oh, egli mi dice solo la verità; quanto gli sono riconoscente! Se qualcuno lo farà
partire, io me ne andrò insieme a lui”. Alcune voci giunsero alle orecchie del Vescovo,
grande amico del curato d’Ars. Allora Jean-Marie gli scrisse: “Non ho nulla di speciale
da riferire a Vostra Grandezza circa Monsieur Raymond, eccetto che egli merita un
posto d’onore nel vostro cuore, in cambio di tutti i gesti di bontà che egli ha per me”
(Trochu, p. 527).
E’ proprio questo ciò che si dice “vincere il male con il bene” (cfr. Romani
12,21)!
Sicuramente qualche episodio del genere è capitato anche a noi, nella nostra vita
sacerdotale: a volte – per quel poco di invidia e di gelosia, le cui radici non si estirpano
mai del tutto – alcuni confratelli ci hanno amareggiato, e forse ancor oggi sono causa
di sofferenza per noi.
Guardiamo dunque alla santità del curato d’Ars!
È santo per il grado eroico delle virtù che ha praticato. Perché è veramente eroico
non lamentarsi di chi – stando accanto a noi e, magari, “gerarchicamente sottoposto” a
noi – mormora e ci ostacola pesantemente.
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Il modo di comportarsi del parroco di Ars nei confronti del suo vicario dimostra
che esiste anche un’altra “gerarchia”, che conta più di ogni altra: è la gerarchia di quella
carità, “che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Corinzi 13,7).
È veramente eroico trasformare queste situazioni nella partecipazione alla croce
di Cristo.
Una volta, anche il nostro curato sembrava non farcela più. Chiese al suo
sagrestano, frère Athanase – un fidatissimo e devoto amico –, di preparargli una bozza
di lettera da mandare al Vescovo. Appena la ebbe letta, la strappò e dichiarò: “Ci ho
pensato bene. Nostro Signore ha portato la croce. Anch’io posso fare come ha fatto lui”
(Trochu, p. 521).
Alla fine, questa strategia si mostra vincente. Non soltanto cresciamo noi stessi
nella santità, ma tocchiamo il cuore di chi ci tratta male. Il prezzo da pagare è alto,
perché a volte il cuore sanguina. Nel processo canonico, l’abbé Raymond – che
intraprese anche il progetto di una biografia del suo ex-parroco, rimasta però solo in
frammenti – confessò: “Non ho che un rimpianto, quello di non avere sufficientemente
approfittato dei suoi esempi; tuttavia conto sull’affetto tenero e paterno, che egli mi ha
testimoniato” (Trochu, pp. 526-527).
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CAPITOLO OTTAVO
Il curato di campagna di Bernanos
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1. Gesù Cristo e Paolo di Tarso
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In effetti, si tratta in tutti e due i casi del Servo sofferente, dell’apostolo che dona
la propria vita, nonostante l’abbandono dei suoi. “Quanto a me”, Paolo lo aveva appena
scritto, “il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di
sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa…” (2
Timoteo 4,6-7).
2. Il curato di Ambricourt
E’ stato osservato che tutto il cammino del curato di Ambricourt ripercorre una
“imitazione di Cristo”, spesso particolarmente evidente, altre volte più nascosta e
simbolica, ma che in ogni caso va considerata come la “struttura profonda” delle
confessioni del curato.
Gesù Cristo è per lui il modello di vita, ma anche un compagno, il solo Amico
con il quale parlare a cuore aperto, a cui confidare anche le righe cancellate del diario,
le pieghe più scabrose del proprio intimo segreto...
Di fatto, il curato sperimenta Gesù come un meraviglioso Amico vivente, che
soffre delle nostre pene, si commuove delle nostre gioie, che condividerà la nostra
agonia, che ci accoglierà nelle sue braccia, sopra il suo cuore.
Se il cammino umano di Gesù è un cammino che culmina nella croce, quello del
curato è segnato dal medesimo silenzio e dalla stessa notte.
Questo silenzio tenebroso, drammatico, è uno dei temi preferiti di Bernanos.
E’ il tema del silenzio di Dio. “Ho scritto questo”, confessa ad esempio il curato,
in fondo a una pagina del suo diario: le righe sono cancellate parecchie volte, ma ancora
decifrabili, annota Bernanos; “ho scritto questo in una profonda e completa angoscia
di cuore e di sensi. Tumulto di idee, immagini, parole. L’anima tace. Dio tace. Silenzio”
(mi riferisco alla traduzione italiana edita negli Oscar Mondadori, Cles TN 2009: p.
105).
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E’ la notte dell’agonia, la notte spaventosa; l’esperienza del vuoto, dell’angoscia
del curato di Ambricourt, “apostolo abbandonato”.
Egli sperimenta drammaticamente il silenzio di Dio, ma insieme – come Gesù
nel Getsemani – percepisce la sua presenza, in una maniera misteriosissima e mai
provata prima.
Superata questa prova, la notte spaventosa si apre alla luce divina. Il curato
assume tutti i limiti della sua umanità, compresa la diagnosi del cancro che ha ormai
divorato il suo organismo, e accetta una “morte piccola”, a sua misura.
Il paesaggio, strettamente in simbiosi con il cammino interiore del protagonista
– il paesaggio piovoso e scuro, il paesaggio inzuppato di pioggia e di nebbia –, si
schiarisce teneramente nei colori di un’alba in cui il curato, sul letto di morte, confessa
il “tutto è grazia” di santa Teresa di Lisieux.
Anche qui, come abbiamo già fatto con il racconto della passione secondo
Marco, propongo di osservare soprattutto due scene.
La prima scena si riferisce al singolare incontro del curato con Serafita, una delle
bambine del catechismo parrocchiale, nella quale lo spirito dell’infanzia si alterna con
la malizia del mondo.
Il curato rinviene faticosamente, nel buio della notte, al bordo di un campo
bagnato dalla pioggia. Ha avuto una terribile emorragia.
“Ha vomitato”, gli spiega Serafita che l’ha scoperto per caso, mentre pascolava
le mucche. “E’ sporco in faccia come se avesse mangiato le more”. E “senza smettere
di parlare”, scrive il curato, la ragazzina mi passava uno straccio bagnato “sulla fronte,
le guance. L’acqua fresca mi faceva bene, mi sono alzato, ma tremavo ancora forte.
Finalmente il tremore è cessato. La mia piccola Samaritana sollevava la lanterna
all’altezza del mio mento: per meglio giudicare la sua opera, immagino…” (p. 178).
Chi non legge, nella filigrana di questo racconto, un’immagine tanto cara alla
tradizione cristiana, l’immagine della Veronica, che deterge il volto insanguinato e
sofferente di Gesù?
Siamo nel cuore della via crucis – quella di Gesù, come quella del curato di
Ambricourt –. L’imitatio Christi è palese. La solitudine scandalosa del condannato a
morte è consolata dal gesto misericordioso di una donna. Intanto, il cammino della
croce continua.
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La seconda scena che propongo è quella conclusiva. Narra l’agonia e la morte
del curato, un po’ a immagine dell’agonia di Gesù.
Siamo nell’ultima pagina del romanzo, scritta “fuori testo”.
Il diario è ormai finito, e chi scrive è un ex-prete. Nella sua casa, a Lilla, il curato
di Ambricourt si è rifugiato per trascorrere la notte, dopo aver appreso la propria
condanna a morte: un medico morfinomane gli ha appena svelato, brutalmente, lo
stadio irreversibile del suo tumore. “Verso le quattro”, annota l’ex-prete, “non
riuscendo a prendere sonno, sono andato in punta di piedi alla porta della sua camera
e ho trovato il mio povero compagno riverso per terra, privo di sensi… Mentre
aspettavo il medico, il nostro povero amico ha ripreso conoscenza. Ma non parlava.
Aveva i goccioloni di sudore in fronte, sulle guance, e il suo sguardo, che si intravedeva
appena tra le palpebre socchiuse, sembrava esprimere una grande angoscia… Dato che
il prete non arrivava, ho creduto di dover dire al mio sfortunato compagno quanto mi
rincrescesse quel ritardo, che rischiava di privarlo delle consolazioni riservate dalla
Chiesa ai moribondi. Non sembrava avermi udito. Ma poco dopo ha posato la mano
sulla mia, mentre con lo sguardo mi faceva chiaramente intendere di avvicinare
l’orecchio alla sua bocca. Allora ha pronunciato in modo distinto, benché molto
lentamente, queste parole, che sono certo di riferire con esattezza: ‘Che cosa importa?
Tutto è grazia’.
Penso che sia morto di lì a pochi istanti” (p. 240).
Come è noto, sono queste le parole che chiudono il romanzo. Una conclusione
di grande effetto, senza dubbio. Una conclusione che riporta al centro i due grandi temi
che qui interessano: la solitudine dell’apostolo e l’imitazione di Cristo.
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3. Conclusione: Hans Urs von Balthasar
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sorprendente’ e della ‘tristezza verginale’ di Colei che ‘era l’innocenza’, la Madre di
Dio, ‘nata senza peccato’...” (p. 474).
Ancora una volta, la solitudine dell’apostolo è consacrata come via di salvezza.
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CAPITOLO NONO
San Giovanni Bosco (1815-1888)
Come in ogni storia di vocazione (della Bibbia, ma non solo), anche nella storia di don
Bosco è possibile rintracciare almeno tre momenti tipici: la chiamata-elezione, la risposta, la
missione.
1.1. La chiamata
Dobbiamo riconoscere che lo Spirito Santo ha suscitato, con l'intervento materno di
Maria, san Giovanni Bosco. Qui l'accento, come si conviene al primo atto di ogni storia di
vocazione, va sull'iniziativa gratuita di Dio. Il sogno dei nove anni, che ricorderemo tra poco,
lo mostra nel modo più chiaro.
1.2. La risposta
La qualità della risposta di don Bosco è ben sintetizzata da alcune, poche parole, che
esprimono il suo sì incondizionato alla chiamata. Don Bosco diceva: “Ho promesso a Dio che
fin l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”. Di qui traspaiono l'amore
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profondo e paterno di don Bosco ai giovani, e la sua totale dedizione alla chiamata del
Signore.
1,3, La missione
Don Bosco, e tutti coloro che in qualunque modo ne condividono la chiamata, sono
mandati per essere nella Chiesa segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani, specialmente
ai più poveri.
Mi limito a richiamare due episodi di questa splendida storia, che è la vita di don
Bosco.
Un episodio si trova all'inizio, l'altro alla fine della sua vita. Da essi scaturisce un
appello irresistibile a seguire questo Padre e Maestro sulla via della santità.
“A nove anni” – ecco il primo episodio, raccontato da don Bosco stesso nelle sue
Memorie dell’Oratorio – “a nove anni ho fatto un sogno. Mi pareva di essere vicino a casa,
in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri
giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro.
Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso,
vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così
luminosa che non riuscivo a fissarla. Il Signore mi chiamò per nome, e mi ordinò di mettermi
a capo di quei ragazzi...”.
A partire da questa visione si snoda – come il nastro di un film – tutta la storia della
vocazione di don Bosco.
Non sto qui a raccontarla di nuovo. Richiamo solo una celebre scena, molto felice, di
uno dei film su don Bosco. Si vede Giovannino, che per divertire i suoi piccoli compagni dei
Becchi, fa il funambolo, e cammina in equilibrio sulla corda, a piedi scalzi, da un albero
all'altro. E una voce fuori campo, la voce di don Bosco adulto, commenta: “Nella mia vita ho
sempre dovuto camminare così: guardando avanti e in alto. Diversamente sarei caduto giù...”.
Don Bosco sa che, a partire da quel primo sogno, la sua vita è tutta guidata dall'alto;
tutto scorre come se fosse stato pensato prima, per un misterioso disegno d'amore.
E' proprio questa consapevolezza intensissima, convalidata dai numerosi segni che don
Bosco esperimenta lungo il suo cammino, la causa del lungo pianto, il 15 maggio 1887, pochi
mesi prima della morte, nella Basilica del Sacro Cuore a Roma.
E' il secondo episodio che voglio ricordare. Don Bosco ha appena portato a termine la
costruzione della chiesa, tra infinite difficoltà e fatiche, per obbedire a un preciso invito del
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santo Padre, Leone XIII. Sostenuto da don Rua e da don Viglietti, il fedele segretario, scende
nella chiesa per celebrare la Messa all'altare di Maria Ausiliatrice. La folla si accalca attorno
all'altare. Ed ecco, appena cominciata la Messa, don Bosco scoppia a piangere. Un pianto
lungo, irrefrenabile, che accompagna quasi tutta la Messa. Don Rua e don Viglietti sono
impressionati. Tra la gente c'è un silenzio teso, che quasi si tocca. Alla fine della Messa, don
Bosco dev'essere portato di peso in sacrestia. Don Viglietti gli sussurra: “Don Bosco, ma
perché?...”. E lui: «Avevo davanti agli occhi, viva, la scena del mio primo sogno, a nove
anni».
In quel lontano sogno, gli era stato detto: “A suo tempo, tutto comprenderai”. Ora,
guardando indietro nella vita, gli pareva proprio di comprendere tutto.
Ritorniamo ora da don Bosco a noi: la sua storia di vocazione è anche un po' la nostra
storia di vocazione, se lo vogliamo Chi condivide la passione educativa di don Bosco è
impegnato – in qualche modo – a rimodellare in se stesso la sua esperienza di vita.
Confrontiamoci dunque con ciascuno dei tre momenti della storia di don Bosco.
a) Con riferimento al primo tratto della sua storia di vocazione, la gratuita chiamata-
elezione da parte di Dio, diremo che, come don Bosco, ognuno di noi è chiamato ad essere
uomo del gratuito, in docile ascolto dello Spirito, in costante unione con Dio, proprio per
poter dare spazio in massimo grado alla chiamata del Signore. Questo significa che ciascuno
di noi è chiamato a maturare e a sviluppare un'autentica dimensione contemplativa, proprio
come fece don Bosco.
b) Quanto al secondo atto, la risposta, diciamo che, come don Bosco, ognuno di noi è
chiamato a maturare una risposta generosa e coerente. Il suo esempio è per noi un invito alla
fermezza del nostro impegno, all'unificazione dei nostri pensieri, delle nostre forze, di tutta
la nostra persona in una medesima direzione. Anche noi puntiamo alla qualità di una risposta,
che sveli un accordo (nel caso si don Bosco era uno splendido accordo!) di natura e di grazia.
c) Come don Bosco, compiamo anche noi la nostra missione, ben sapendo che la piena
fecondità dell'apostolato passa attraverso la croce.
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3. Conclusione: per il discernimento spirituale
a) La chiamata
Riconosco l’assoluto primato di Dio e della sua grazia nella mia storia di vocazione?
Interpreto il mio impegno morale come risposta a un amore che mi precede, e che garantisce
(solo che io lo voglia) la mia risposta? So accettare l’imprevisto di Dio, il suo modo di fare
nella mia vita? So riconoscerlo nelle modalità in cui egli si svela, senza imporgli le mie? Per
dilatare la mia disponibilità, curo con diligenza e amore la dimensione contemplativa della
vita?
b) La risposta
Posso rispondere come Maria, come i discepoli, come don Bosco, oppure come il
giovane ricco. Posso seguire Gesù, e lasciare tutto, oppure seguire i miei egoismi e lasciare
Gesù. Di fronte a questo dilemma, qual è la mia risposta reale, quella di ogni giorno? Qual è
l’angolo buio della mia vita, nel quale la mia risposta al Signore è meno generosa? Che cosa
devo ancora lasciare, per seguire veramente Gesù?
c) La missione
Ogni chiamata, ogni risposta sono per una missione. Sono intimamente persuaso che
la missione che mi è affidata non è un parto della mia fantasia o un gioco del caso? Sono
attento ai segni del Signore? Riconosco e coltivo come già operante in me quel messaggio di
salvezza che sono mandato ad annunciare e a testimoniare? Per essere fedele alla missione,
devo entrare nella logica della grazia: allora il mio impegno di fedeltà non sarà più quello
dell’impiegato o del burocrate, ma quello del missionario dell’amore e della grazia di Dio.
Sento la missione come peso da portare, o come grazia ricevuta? Curo l’atteggiamento
fondamentale, cioè – ancora una volta – la dimensione contemplativa, per interpretare la
missione ricevuta come una grazia?
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CAPITOLO DECIMO
Il Venerabile Servo di Dio don Giuseppe Quadrio (1921-1963)
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Per descrivere questa storia esemplare di vocazione sacerdotale disponiamo di
un’ottima fonte: è il ricco epistolario di don Quadrio stesso. In effetti, proprio dalle sue
Lettere (mi riferisco al volume edito dalla LAS, Roma 1991) traspare l'altissima
concezione che egli aveva del ministero sacerdotale come “vivente epifania di Cristo”.
Nello stesso tempo, affiora dalle medesime Lettere quell’“autoritratto” – certo non
voluto e non previsto –, che il Venerabile stesso ci ha lasciato, parlando del sacerdozio.
Prima di tutto, don Quadrio rimane sempre consapevole che il prete – come
attesta la Lettera agli Ebrei – è "uno scelto fra gli uomini".
L'umanità è per lui una componente essenziale del sacerdozio.
Purtroppo – così egli si rammarica con gli ex-allievi del 1960, nel terzo
anniversario della loro ordinazione – "ci può essere un sacerdozio disincarnato, in cui
il divino non è riuscito ad assumere una vera e completa umanità (docetismo). Abbiamo
allora dei preti che non sono uomini autentici, ma larve di umanità; dei 'marziani'
piovuti dal cielo, disumani ed estranei, incapaci di capire e di farsi capire dagli uomini
del proprio tempo e del proprio ambiente. Dimenticano che Cristo, per salvare gli
uomini, 'discese... si incarnò... si fece uomo', 'volle diventare in tutto simile a loro,
fuorché nel peccato'. Se siamo il ponte fra gli uomini e Dio, bisogna che la testata del
ponte sia solidamente poggiata sulla sponda dell'umanità, accessibile per tutti quelli
per cui fu costruito" (p. 326).
Agli stessi sacerdoti don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Il Verbo si è
fatto vero e perfetto uomo, per essere Salvatore. Anche il vostro sacerdozio non salverà
alcuno, se non attraverso questa genuina incarnazione. Gli uomini, che vi avvicinano
o che vi fuggono, sono tutti indistintamente affamati di bontà, di comprensione, di
solidarietà, di amore: muoiono del bisogno di Cristo, senza saperlo. A ciascuno di voi
essi rivolgono una preghiera disperata: Volumus Iesum videre (Giovanni 12,21). Non
deludete l'attesa della povera gente. Sappiate capire, sentire, cercare, compatire,
scusare, amare. Non temete: tutti aspettano soltanto questo! Prima che con i dotti
discorsi, predicate il Vangelo con la bontà semplice, accogliente, con l'amicizia serena,
con l'interessamento cordiale, con l'aiuto disinteressato, adottando il metodo
dell'evangelizzazione 'feriale', capillare, dell'un per uno, a tu per tu. Entrate attraverso
la finestra dell'uomo, per uscire attraverso la porta di Dio. Gettate ad ognuno il ponte
dell'amicizia, per farci passare sopra la luce e la grazia di Cristo" (pp. 286 s.). In verità,
don Quadrio era un ardente sostenitore della missione “porta a porta”, opportune e
importune.
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Da simili convinzioni scaturisce la pressante raccomandazione di don Quadrio,
perché i sacerdoti coltivino con cura la loro formazione umana: le qualità naturali non
sono per nulla vanificate dai doni della grazia. Al contrario! La “base umana” resta
sempre importante.
Al nipote Valerio, che si incamminava sulla via del sacerdozio, don Quadrio
confida: "Sei presente ogni giorno nella mia Messa e nelle mie preghiere, perché sono
troppo interessato alla tua formazione sacerdotale. Non sai infatti quanto mi stia a cuore
la maturazione definitiva del tuo carattere in quelle virtù umane e naturali, che ti
renderanno un uomo autentico, completo, conquistatore. Queste virtù umane sono
generalmente molto modeste e dimesse, ma basilari: la sincerità, la lealtà, l'amabilità,
l'accondiscendenza, la generosità, la padronanza assoluta di sé, l'alacrità nell'azione, la
calma imperturbabile nei contrattempi, la fiducia incrollabile, la costanza nei propositi,
la forza di volontà, che sa volere con chiarezza e pacata irremovibilità" (p. 144).
Qualche anno più tardi, don Quadrio scriverà ancora allo stesso Valerio (don
Valerio Modenesi, della Diocesi di Como): "Penso che noi sacerdoti dovremmo saper
gettare verso tutti il ponte di un'amabile, cortese, calda e serena personalità, generosa
e semplice, ricca di umanità e di comprensione, accogliente e servizievole. Solo su
queste arcate potranno correre il Vangelo e la Grazia!" (p. 258).
Si intravedono, dietro a queste raccomandazioni, il volto buono e accogliente di
don Quadrio, la sua squisita gentilezza, la sua amorevolezza semplice e schietta, il suo
rispetto profondo per le persone…
Insomma, il ricco corredo di doti umane, che don Quadrio aveva coltivato con
grande cura, faceva di lui il testimone vivente di quello che andava consigliando ai
sacerdoti.
A questa luce si possono considerare alcuni tratti caratteristici delle Lettere,
come l'attenzione fedele ad alcune ricorrenze (onomastici, anniversari, auguri,
condoglianze…); la capacità di esprimere riconoscenza; la sapiente alternanza tra l'uso
del Lei e l'uso del tu; la fantasia nell'attenzione alle persone.
Si può leggere, a quest’ultimo riguardo, una letterina scherzosa scritta a Gesù
Bambino nel Natale del 1961, quando don Giuseppe – ormai colpito dalla malattia –
doveva trattenersi a lungo in ospedale, per le cure del caso.
Cercando di imitare la grafia larga e incerta di un bambino, e costellando la
pagina di tipici errori infantili, don Quadrio formula una simpaticissima preghiera per
suor Maria Ignazia, appunto una suora del suo ospedale, "tanto brava, che corre sempre
e mi fa la pappa tuti i ciorni" (p. 284).
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2. ..."costituito nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per
i peccati"... (Ebrei 5,1)
Il prete, uomo "preso fra gli uomini", è consacrato da Dio per il bene dei suoi
fratelli. Nella persona del sacerdote si attua un misterioso incontro di grazia e di
salvezza tra l'umano e il divino.
A questo proposito, don Quadrio ammonisce i suoi ex-allievi a guardarsi da "un
sacerdozio mondanizzato, in cui l'umano ha diluito o soffocato il divino".
E aggiunge: "Abbiamo allora lo spettacolo lacrimevole di preti che saranno forse
buoni professori e organizzatori, ma che non sono più 'uomini di Dio', né viventi
epifanie di Cristo. Sono come certe chiese trasformate in musei profani. C'è un
termometro infallibile per misurare la consistenza del proprio sacerdozio: la preghiera.
E' la prima ed essenziale occupazione di un prete, anche se è direttore… o incaricato
dell'Oratorio. Tutto il resto sarà importante, ma viene dopo. Diversamente siamo un
ponte, a cui è crollata l'ultima arcata: quella che tocca Dio" (pp. 326 s.)
Proprio qui si radica la sollecitudine costante di don Quadrio per la "dimensione
contemplativa" del sacerdote.
E' significativo che dei suoi famosi "cinque consigli" a un prete novello, i primi
tre riguardino – nell'ordine rispettivo – la Messa ("celebra ogni giorno la tua Messa
come se fosse la prima, l'ultima, l'unica della tua vita… Un sacerdote che ogni giorno
celebra santamente la sua Messa, non commetterà mai delle sciocchezze"), il Breviario
("ordinariamente è il primo ad essere massacrato dal prete tiepido... Sii certo che col
tuo Breviario puoi cambiare il mondo, più che con le dotte tue conferenze o lezioni")
e la Confessione ("ricordati che, nei pericoli immancabili della tua vita sacerdotale, la
tua salvezza sarà l'avere un uomo che sappia tutto di te, che con mano ferma possa
guidarti, e sostenerti con cuore paterno": pp. 288 s.).
Si tratta in sostanza dei medesimi consigli che due anni prima don Quadrio aveva
dato a un altro ex-allievo sacerdote: "Prepari accuratamente", gli scriveva, "viva
intensamente e prolunghi nella giornata la Sua Messa... Tutta la Sua giornata diventi
una Messa. Viva, ami e gusti il Suo Breviario. Non dimentichi che con esso Lei
impersona tutta la Chiesa e prolunga Cristo orante. Sia fedele alla Confessione
settimanale e all'esame quotidiano" (p. 236).
Ai "carissimi amici del IV Corso" di Teologia, che saranno ordinati sacerdoti
l'11 febbraio 1961, scrive: "Non temete: la preghiera può tutto! Un prete che prega
bene non farà mai delle sciocchezze" (p. 243). A un sacerdote novello raccomanda: "Si
offra e si abbandoni a Cristo senza riserve. Non tema: è Lui che fa... Si innamori della
Sua Messa: là è il segreto di tutto!" (p. 260). Al nipote Valerio: "Preghiamo insieme:
meditando, amando e gustando gli inesauribili tesori del nostro Breviario. Amare e
godere questo nostro divino ufficio, che ci colloca ogni giorno nel cuore della Chiesa,
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sul vertice del mondo, a tu per tu con la miseria umana e con la Maestà divina, come
Mediatori tra Dio e il mondo" (p. 303).
Allo stesso don Valerio, qualche settimana dopo, chiede: "A proposito di
Vangelo, non ti sembra sacrilega la nostra ignoranza e trascuratezza verso di esso? Un
prete dovrebbe far voto di leggerne almeno una pagina ogni giorno. Insieme
all'Eucarestia, non c'è nulla di più santificante e nutriente che il Verbo di Dio incarnato
nel suo Vangelo" (p. 305).
Secondo don Quadrio, infine, le due componenti del sacerdozio – quella umana
e quella divina, su cui ci siamo intrattenuti finora – non possono rimanere
semplicemente giustapposte, ma devono trovare nel prete una sintesi profonda e
armoniosa.
Nella lettera già ricordata, scritta il 3 gennaio 1963 ai sacerdoti ex-allievi del
1960, dopo aver accennato – come abbiamo letto – al pericolo del docetismo
sacerdotale o del sacerdozio disincarnato, don Quadrio aggiunge: ma "ci può essere
anche la deformazione del nestorianesimo sacerdotale: un sacerdozio lacerato, in cui
il divino e l'umano coesistono senza armonizzarsi. Preti all'altare, ma laici sulla
cattedra, in cortile, tra gli uomini. Sono un ponte dalle due testate estreme intatte:
manca l'arcata centrale, che dovrebbe congiungerle. Vero e autentico Prete è colui nel
quale l'uomo è tutto e sempre e solo Sacerdote, pur rimanendo uomo perfetto, senza
esclusione di campi e di settori. L'uomo e il prete devono coestendersi e coincidersi
perfettamente in una sintesi armonica... Anche le occupazioni più profane devono
essere animate da una coscienza sacerdotale acuta e senza eclissi" (p. 327).
In altri termini, il sacerdote è chiamato ad essere l'incarnazione di Cristo – vero
uomo e vero Dio –, in mezzo alla gente a cui è mandato.
Agli stessi destinatari don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Siate sempre,
dovunque e con tutti, un'incarnazione vivente e sensibile della bontà misericordiosa di
Gesù... Siate realmente e praticamente il Christus hodie del vostro ambiente; un Cristo
autentico, in cui il divino e l'umano sono integri e armoniosamente uniti. Il divino e
l'eterno, che è nel vostro sacerdozio, si incarni (senza diluirsi) in una umanità ricca e
completa come quella di Gesù, la quale abbia lo stile, il volto e la sensibilità del vostro
ambiente e del vostro tempo" (p. 286).
A un altro sacerdote ex-allievo egli confida: "Penso spesso a Lei, cioè al 'Cristo
di Cuorgné'. Deve essere per i Suoi Confratelli e bimbi il Sacramento vivo e visibile
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della Bontà di Gesù" (p. 264). A un altro raccomanda: "Sia davvero ‘il Cristo’ dei suoi
ragazzi!" (p. 314). A molti altri sacerdoti ripete il medesimo concetto, con le variazioni
del caso: "Non ti spaventi il pensiero che devi essere il Cristo di Arese, il Cristo Buono,
Paziente, Crocifisso, Agonizzante, Morto e Risorto dei tuoi ragazzi" (p. 265); oppure:
"Non La atterrisca il pensiero che Lei deve essere il Cristo di Torre Annunziata… " (p.
266).
Negli ultimi anni di vita, segnati dalla malattia e dalla sofferenza, don Quadrio
afferra esistenzialmente che l'umano e il divino del sacerdote giungono a fondersi in
pienezza solo nel sacrificio della croce, suprema epifania del Figlio dell'uomo e del
Figlio di Dio.
Una cattedra nuova – che è il letto del dolore – gli impone un insegnamento per
alcuni aspetti inedito.
Allora, nella prima domenica di Passione del 1962, scrive al nipote Valerio:
"Dovrei finalmente convincermi sul serio che un prete deve santificare la propria
sofferenza e quella degli altri. Non è soffrire che importa, ma soffrire come Lui. Anche
il tuo sacerdozio, Valerio, è un mistero di croce e di sangue... La Croce è veramente la
spes unica del nostro sacerdozio: non faremo nulla, se non mediante la Croce. Auguro
a te e a me, Valerio, di saper comprendere e vivere il mistero della Croce, e di saper
fare del nostro sacerdozio una Croce vivente, a cui appendere la nostra vita per la
salvezza delle anime" (p. 294).
Solo così il prete – uomo preso fra gli uomini, e per loro consacrato nelle cose
di Dio – può diventare "Sacramento evidente della Passione e Morte" di Gesù (p. 265).
$. Conclusione
E' questo il ritratto più vivo e veritiero del Venerabile Servo di Dio don Giuseppe
Quadrio, quello che egli stesso non sapeva di dipingere, mentre parlava ai suoi allievi
del sacro mistero dell'Ordine sacerdotale.
Davvero "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano 'sue': quello che
diceva era la sua vita!" (p. 350).
Nella sua vita egli è stato un "Sacramento tangibile della Bontà" del Signore, e
nel tragico epilogo degli ultimi anni il "Sacramento evidente della Passione e della
Morte" di Cristo per la salvezza del mondo: chi lo ha avvicinato – sull'altare o in cortile,
in cattedra o sul letto del dolore – sa di aver incontrato un testimone di Cristo; un
"vicario del Suo amore" (si noti che don Quadrio scelse questa espressione per
63
l’immaginetta-ricordo della prima Messa); un sacerdote, infine, in cui "si è rivelata la
bontà e l'umanità del nostro Salvatore Gesù Cristo" (p. 286).
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CAPITOLO UNDICESIMO
San Giovanni Paolo II
Cito subito un passo di Dono e Mistero, che illustra al meglio il legame di tra il
ministro ordinato e la Madre di Gesù, tra l’apostolo e Maria santissima.
E’ un tema che non abbiamo ancora avuto l’occasione di affrontare in questo
volume, ma che comunque è essenziale per definire l’identità, la consacrazione e la
missione del ministro ordinato, fin dalla sua prima formazione.
“Pensando alle origini della mia vocazione”, scrive Giovanni Paolo II, “non
posso dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di Dio nella sua forma
tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di Wadowice…
Quando poi mi trovai a Cracovia, entrai nel gruppo del ‘Rosario vivo’, nella
parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo particolare Maria Ausiliatrice…
Ero già convinto che Maria ci conduce a Cristo, ma in quel periodo – nel quale
andava configurandosi la mia vocazione sacerdotale – cominciai a capire che anche
Cristo ci conduce a sua Madre. Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in
discussione il mio culto per Maria, ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente,
finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo.
Mi venne allora in aiuto il libro di san Luigi Maria Grignion de Monfort, che
porta il titolo Trattato della vera devozione alla Santa Vergine… Compresi allora
perché la Chiesa reciti l’Angelus tre volte al giorno. Capii quanto cruciali siano le
parole di questa preghiera: ‘L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria, ed ella
concepì per opera dello Spirito Santo… Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di
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me secondo la tua parola… E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a
noi…’. Parole davvero decisive! Esprimono il nucleo dell’evento più grande che abbia
avuto luogo nella storia dell’umanità, e radicano la devozione a Maria nel Mistero
trinitario e nella verità dell’Incarnazione del Verbo di Dio.
Ed ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L’espressione deriva da san
Luigi Maria Grignion de Monfort. E’ l’abbreviazione della forma più completa
dell’affidamento alla Madre di Dio, che suona così: Totus Tuus ego sum, et omnia mea
Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria” (pp. 37-39).
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proseguire gli studi. Fui ordinato da solo, nella cappella privata degli Arcivescovi di
Cracovia”.
“Mi rivedo, così, in quella cappella”, prosegue don Karol un po' più avanti,
“durante il canto del Veni, Creator Spiritus e delle Litanie dei Santi, mentre, steso per
terra in forma di croce, aspettavo il momento dell'imposizione delle mani” (pp. 51 s.).
1. La chiamata-elezione
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alcuni fatti e alcune esperienze, rileggendole spesso alla luce del “poi”, e svelando in
questo modo la trama di una storia nascosta.
Ricorda il suo primo incontro con il principe Sapieha, Arcivescovo Metropolita
di Cracovia; gli studi di Filologia polacca, iniziati nell'Università Jaghellonica e subito
interrotti, di necessità, allo scoppio della seconda guerra mondiale; la dura esperienza
di operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay; le recite
teatrali e i primi lavori letterari...
Ma riguardo agli inizi della sua vocazione sacerdotale, il Papa deve ammettere
che “le parole umane non sono in grado di reggere il mistero”.
Di fatto, l’autobiografia comincia proprio con queste parole: “Agli inizi… il
mistero! La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio. Nel
suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che
supera infinitamente l’uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in
tutta la sua vita. Di fronte alla grandezza di questo dono, sentiamo quanto ad esso siamo
inadeguati… Contemporaneamente, ci rendiamo conto che le parole umane non sono
in grado di reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in sé” (pp. 9 s.).
2. La risposta
Passiamo ora al secondo atto della nostra storia: la risposta alla chiamata del
Signore.
Quella di Giovanni Paolo II fu certamente una risposta generosa, senza riserve.
Nell'autunno del 1942 il giovane Karol prende la decisione definitiva di entrare
nel seminario di Cracovia, che funzionava clandestinamente.
E’ una risposta che impegna il giovane seminarista in un cammino incessante:
la chiamata infatti – l’abbiamo già detto più volte – comporta un faticoso esodo per la
sequela.
Bisogna lasciare la propria terra, come Abramo; oppure, come gli Apostoli,
occorre lasciare le reti; oppure lasciare il maestro di prima, come Andrea e il
“discepolo amato”; o meglio lasciare tutto, come Levi/Matteo, per seguire Gesù.
Anche Karol esperimenta dolorosamente il distacco. “Lo scoppio della guerra”,
egli scrive, mi aveva già allontanato “dagli studi e dall'ambiente universitario. In quel
periodo persi mio padre, l'ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari.
Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti
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precedenti; in qualche modo, era come venire sradicato dal suolo, sul quale fino a quel
momento era cresciuta la mia umanità”.
Ma il Signore non fa mancare i “segni” della sua grazia a chi si affida a lui. “Non
si trattava”, prosegue infatti il Papa, “di un processo soltanto negativo. Alla mia
coscienza si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote.
Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un'illuminazione interiore, che
portava in sé la gioia e la sicurezza di un'altra vocazione. E questa consapevolezza mi
riempì di una grande pace interiore” (p. 44).
3. La missione
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prima dell'Ordinazione, accogliendo nella propria vita – come Pietro – la croce di
Cristo e facendosi con l'Apostolo ‘pavimento’ per i fratelli, sta il senso più profondo di
ogni spiritualità sacerdotale” (pp. 53 s.).
4. Il turbamento
6. Conclusione
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continua a mostrarti Madre per tutti,
veglia sul nostro cammino,
fa’ che pieni di gioia vediamo il tuo Figlio nel Cielo.
Amen!”.
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CONCLUSIONE DELLA SECONDA PARTE
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CONCLUSIONE GENERALE
Lectio di Atti 6, 1-6
C’è forse un “rischio” – ci domandiamo – per chi, come ogni ministro ordinato,
esercita il servizio della carità?
Potrebbe sembrare questa una domanda fuori luogo, quando ci si ricorda,
insieme con l’apostolo Paolo, che, di tutte le cose, più grande è la carità.
Eppure, vogliamo conservare sullo sfondo questo interrogativo un po’
inquietante, mentre procediamo nella lectio del nostro brano.
1. Lettura
“In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca
mormoravano contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana,
venivano trascurate le loro vedove.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: ‘Non è giusto che
noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate
fra voi sette uomini di buona reputazione (martyrouménous), pieni di Spirito e di
sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla
preghiera e al servizio della Parola’.
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Piacque questa proposta a tutto il gruppo. e scelsero Stefano, uomo pieno di fede
e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosélito
di Antiochia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani”
(Atti 6,1-6).
2. Meditazione
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2.2. Trascorriamo adesso alla seconda sottolineatura, che riguarda l’identikit del
diacono, cioè di colui che viene ordinato per servire nella Chiesa.
Stando al racconto degli Atti, i sette devono avere alcune caratteristiche precise.
Anzitutto saranno uomini “di buona reputazione” – o meglio, traduciamo noi,
“di provata testimonianza” –. In effetti, il participio usato da Luca si collega con il
termine “martire”. Potremmo dire che chi viene ordinato per servire nella Chiesa deve
comunque essere un “martire”, nel senso che la testimonianza della sua diaconia non
deve mai arretrare, a costo, se necessario, della vita stessa.
Non a caso il primo dei sette – Stefano – è anche il primo martire.
In secondo luogo, il diacono deve essere “pieno di Spirito e di sapienza”. Si tratta
appunto della sophía, la sapienza che viene da Dio: è la “sapienza dello Spirito”, che
chiede profonda intimità con il Signore.
Di fatto, Stefano viene definito come un “uomo pieno di fede e di Spirito Santo”.
Dunque, il servizio della carità – il cosiddetto “servizio delle mense”, per il quale
i sette vengono ordinati – presuppone il primato della dimensione contemplativa nella
loro vita.
E' un primato che risulta a chiare lettere dal fatto che i Dodici, al vertice della
gerarchia ecclesiastica, si riservano appunto la preghiera e il servizio della Parola. Ma
questa scelta non segna tanto una spartizione esclusiva, bensì un primato.
Leggiamo infatti che Pietro continua a visitare e a guarire i malati (9,32-34),
mentre Filippo, uno dei sette, converte il funzionario della regina di Etiopia esercitando
il servizio della Parola (8,27-39).
Non si tratta, dunque, di una spartizione esclusiva.
Piuttosto, il “servizio delle mense” – cioè il servizio della carità – viene
chiaramente subordinato alla preghiera e al “servizio della Parola”.
In definitiva, i Dodici hanno compreso che, senza la preghiera e la diaconia della
Parola, non ci può essere un servizio autentico della carità. L'impegno del
discernimento per realizzare vere opere di carità deve essere sostenuto dall'intimità con
il Signore, dalla confidenza e dall'amicizia profonda con lui.
Il missionario della carità, scriveva Giovanni Paolo II, è anzitutto “un testimone
dell'esperienza di Dio”, è “un contemplativo in azione”. Egli “trova risposta ai
problemi nella luce della Parola di Dio e nella preghiera”. “Se non è un contemplativo,
non può annunziare Cristo in modo credibile” (Redemptoris missio, n. 91).
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2.3. Infine – ed è questa l’ultima sottolineatura – i sette vengono fatti avanzare
davanti agli apostoli. E' il rito dell'ordinazione. Questi uomini, consapevoli della loro
identità e della loro missione, fanno un passo in avanti, come se dicessero: “Sono
presente, eccomi!”.
Allora gli apostoli, dopo aver pregato, impongono loro le mani e li consacrano
per la missione.
Passiamo ora all’altro movimento della lectio divina – cioè alla preghiera e alla
conversione della vita –, riproponendoci quell’interrogativo, che abbiamo lasciato sullo
sfondo all’inizio di questa lectio.
Quale può essere il rischio di chi, come il ministro ordinato, serve nella Chiesa?
E' il rischio di Marta, di cui parla Luca nel capitolo decimo del suo Vangelo.
E’ il rischio di chi si lascia prendere dai “molti servizi” (pollè diakonía, scrive
Luca; ovvero frequens ministerium: 10,40), fino al punto di smarrire la giusta scala dei
valori.
Ma l'episodio narrato da Luca stabilisce anche l'antidoto, il farmaco salutare
all'agitazione di Marta, e suggerisce a chi serve nella carità il metodo per superare il
“rischio del servizio”. Questo farmaco è l'ascolto della Parola, definito come “la parte
migliore”.
C'è dunque un primato da salvare a tutti costi, il primato dell'ascolto, pena il non
senso e la degenerazione dell'agire.
Nella vita e nell'esperienza di chi serve nella carità rimane pur sempre l'impegno
di realizzare una sintesi matura tra “il servizio delle mense”, da una parte, e “la
preghiera e il servizio della Parola”, dall’altra; cioè tra le mille esigenze della carità e
la contemplazione di Dio.
A volte dobbiamo vivere, di necessità, nella molteplicità dei servizi, e ne
usciamo un po' tesi e stanchi.
Ma ciò che più conta è avere il giusto senso dei valori; è capire che il servizio
fondamentale è quello della preghiera e della Parola, e che il punto di partenza di ogni
diaconia autentica della carità è il cuore di Gesù Cristo, ricco di misericordia: e che con
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questo cuore dobbiamo metterci in sintonia, ascoltando docilmente la Parola del
Maestro, per conformare il nostro cuore al suo.
Alla fine di tutto, la grazia che il Signore suggerisce di chiedere ai suoi ministri
(proprio come suggerì una notte a Salomone: “Chiedimi ciò che vuoi…”), è quella di
continuare a servire il santo popolo di Dio – secondo le modalità e gli impegni
caratteristici della vocazione di ciascuno – con fede e amore, con premura e umiltà,
senza mai cedere alle tentazioni del ripiegamento su noi stessi, dell’accaparramento e
della strumentalizzazione, e appunto per questo rispettando il primato della
contemplazione, della preghiera e dell'ascolto della Parola.
L'esperienza ci dice che le necessità del “servizio della mensa” sono molteplici
e pressanti.
Ma proprio per questo motivo sarà sempre importante una valutazione ordinata,
una “sapienza del cuore”, che nasce dalla contemplazione e dalla sintonia profonda con
il cuore di Gesù, origine e fonte di ogni autentica diaconia della carità.
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