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CHI E’ IL MINISTRO ORDINATO?

Dalle origini all’oggi della Chiesa

Questo agile volume si articola in due parti, differenti nel genere espositivo, ma
tra loro intimamente collegate riguardo all’interrogativo che ci proponiamo.
Nella prima parte – più teologica, dottrinale, e anche più breve – ci
confronteremo soprattutto con i nostri Padri, ma anche con alcuni documenti
importanti del Magistero, riguardo a due temi decisivi della formazione sacerdotale:
precisamente la consacrazione e la missione del ministro ordinato.
Nella seconda parte – più narrativa, biografica, e con qualche spunto per la
revisione di vita – illustreremo alcune storie di vocazione sacerdotale, inseguendo
idealmente (anche se non sempre in modo esplicito) lo schema biblico delle storie di
vocazione. Come è noto, esso prevede cinque punti di riferimento fondamentali: la
chiamata-elezione di Dio, la risposta del chiamato, la missione, i dubbi e le resistenze
del chiamato, la conferma rassicurante del Signore.
Le due parti giungeranno a rispondere (in modo più o meno adeguato) alla
domanda ambiziosa che ci siamo proposti: Chi è il ministro ordinato nella Chiesa?

Dedico queste pagine ai tanti vescovi, sacerdoti, diaconi e chierici che ho


incontrato in cinquant’anni di insegnamento e in quaranta di ministero sacerdotale.
Assicuro inoltre un ricordo e una preghiera speciali ai diaconi e ai presbiteri che
ho ordinato in questi dieci anni di episcopato.

+ Enrico dal Covolo


Vescovo titolare di Eraclea
Assessore nel Pontificio Comitato di Scienze Storiche

Roma, 9 aprile,
Giovedì santo 2020
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PRIMA PARTE

In questi primi quattro capitoli seguiremo un percorso un po’ complesso, almeno


a prima vista.

1. Partendo dall’Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis sulla


formazione dei sacri ministri (= Pdv, del 25 marzo 1992: come è noto, si tratta del
documento magisteriale più importante del Postconcilio sulla formazione sacerdotale),
faremo un paziente cammino a ritroso. Incroceremo così la Presbyterorum Ordinis del
Concilio Vaticano II (= PO), e approderemo finalmente ai Padri della Chiesa. A
quest’ultimo livello, quello dei nostri Padri, svolgeremo un rapido anticipo su
sant’Agostino. per illuminare efficacemente il percorso successivo.
2. A questo punto prenderemo in considerazione la cosiddetta “scuola
antiochena” – in pratica, dovremo limitarci a Ignazio di Antiochia e a Giovanni
Crisostomo –.
3. Di seguito, ci occuperemo della “scuola alessandrina” (di fatto, potremo
intrattenerci solo su Origene, il grande maestro di questa scuola).
4. Torneremo infine in Occidente, ancora a sant’Agostino.

Il “filo rosso” di questo itinerario resta sempre la formazione sacerdotale, cioè


il progetto del ministero ordinato secondo il cuore della Chiesa, nei suoi due aspetti
irrinunciabili di consacrazione e di missione.

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CAPITOLO PRIMO
Dalla Pastores dabo vobis alla Presbyterorum Ordinis, fino a sant’Agostino

1. “La missione”, si legge nel n. 24 di Pdv, “non è un elemento esteriore e


giustapposto alla consacrazione, ma ne costituisce la destinazione intrinseca e vitale:
la consacrazione è per la missione. In questo modo, non solo la consacrazione, ma
anche la missione sta sotto il segno dello Spirito, sotto il suo influsso santificatore. Così
è stato di Gesù. Così è stato degli apostoli e dei loro successori. Così è dell’intera
Chiesa, e in essa dei presbiteri: tutti ricevono lo Spirito come dono e appello di
santificazione all’interno e attraverso il compimento della missione”.
Poco prima, la medesima Esortazione apostolica aveva indicato nella “carità
pastorale” la categoria – o la cifra caratteristica – della sintesi tra consacrazione e
missione. Nel n. 23, infatti, la “carità pastorale” è definita come “il principio interiore,
la virtù che anima e che guida la vita spirituale del presbitero, in quanto configurato a
Cristo Capo e Pastore”. Ancora di più, essa – la carità pastorale del presbitero – è
“partecipazione alla stessa carità pastorale di Gesù Cristo”.
Così l’espressione “carità pastorale” – che ricorre come un leitmotiv
nell’Esortazione di Giovanni Paolo II – richiama quella “grazia di unità” tra
consacrazione e missione, tra amore di Dio e amore del prossimo, che ogni presbitero
è chiamato a implorare e ad accogliere nella sua vita.

2. A questo proposito, conviene ricordare (e non poteva essere altrimenti) che


Pdv dipende direttamente dal magistero del Concilio Vaticano II.
Si pensi, in particolare, al n. 13 di PO, dove si legge: “I presbiteri raggiungeranno
la santità”, vale a dire il traguardo vero della consacrazione presbiterale, “se nello
Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni”, vale a dire la loro missione, “con
impegno sincero e instancabile”.

3. A sua volta, dietro il Vaticano II sta un’ininterrotta tradizione patristica, che


non si stanca di predicare questa sintesi vitale tra consacrazione e missione nella
formazione del ministro ordinato.
Per fare un esempio illustre, anticipo fin d’ora una massima lapidaria di
sant’Agostino, che si trova al termine del suo Commento al Vangelo di Giovanni: Sit
amoris officium pascere Dominicum gregem, ammonisce con vigore il vescovo di
Ippona (“Sia un dovere dell’amore pascere il gregge di Cristo”: 123,5).
L’amore per Cristo, la configurazione a lui – insomma, la consacrazione del
presbitero – trovano la loro conseguenza necessaria e coerente nell’esercizio della
missione pastorale.
Si noti che tale massima è citata in nota, nel n. 14 di PO, per illustrare che cosa
si debba intendere esattamente per “carità pastorale”.
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4. Come è ben noto, l’icastica espressione agostiniana si inserisce in una
riflessione complessiva dei Padri orientali e occidentali sul sacerdozio cristiano, sulla
sua identità e sulle sue istanze formative.
Come ho già anticipato, cercherò di documentare questa riflessione patristica
con due riferimenti esemplari.

Il primo riferimento, che riguarda l’Oriente, andrà alle “scuole teologiche” più
famose dell’antichità cristiana, cioè alla “scuola antiochena” e alla “scuola
alessandrina”. Chiaramente il termine “scuola” in questo caso non va inteso in senso
stretto, bensì come un orientamento esegetico e dottrinale che muove dalle medesime
premesse antropologiche e culturali, ma che non è strettamente vincolante.
Sono ben noti gli orientamenti delle antiche tradizioni di Antiochia e di
Alessandria.
Alessandria sembra accogliere due istanze complementari rispetto ad Antiochia,
vale a dire l'allegoria in esegesi e la valorizzazione della divinità del Verbo in
cristologia. Più in generale, Alessandria è ben distante dal cosiddetto “materialismo”
o “realismo” antiocheno, assai più attento alla lettera nell’esegesi e all’umanità di Gesù
nella cristologia. Questo stesso “realismo” appare evidente anche in ambito
ecclesiologico e, in particolare, nella dottrina del ministero ordinato.
Naturalmente si tratta di accentuazioni, non di insegnamenti unilaterali ed
esclusivi, come dimostra per esempio il fatto che Origene, maestro dell’allegoria e
dell’interpretazione spirituale della Bibbia, è studioso quant’altri mai attento della
lettera del testo sacro.

Il secondo riferimento, relativo all’Occidente, ci condurrà, dopo la lettura di


alcuni altri testi agostiniani, al celebre Sermone 46 del vescovo di Ippona, detto anche
il Discorso sui pastori.

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CAPITOLO SECONDO
La “scuola antiochena”: da Ignazio a Giovanni Crisostomo

1. Dalle Lettere di Ignazio (+ 107)

E' invalso l'uso di considerare Luciano, maestro di Ario, come il capostipite della
“scuola” di Antiochia.
Ma già Ignazio nei primi anni del II secolo ne anticipava alcuni tratti
caratteristici, soprattutto nello spiccato realismo dei suoi riferimenti all'umanità di
Cristo. Egli “è realmente dalla stirpe di Davide”, scrive Ignazio agli Smirnesi,
“realmente è nato da una vergine..., realmente fu inchiodato per noi” (1,1).

Ignazio impiega lo stesso realismo anche quando si riferisce alla Chiesa. In


particolare egli allude più volte alla gerarchia ecclesiastica, parlando dei vescovi, dei
presbiteri e dei diaconi.

“E' bene per voi”, scrive l’Antiocheno ai cristiani di Efeso, “procedere insieme,
d'accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate. Infatti il vostro collegio dei
presbiteri, giustamente famoso, degno di Dio, è così armonicamente unito al vescovo,
come le corde alla cetra. Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico
Gesù Cristo è cantato. E così anche voi, a uno ad uno, diventate coro, affinché nella
sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio nell'unità, cantiate a una sola
voce” (4,1-2).
E dopo aver raccomandato agli Smirnesi di non “intraprendere nulla di ciò che
riguarda la Chiesa senza il vescovo” (8,1), confida a Policarpo, vescovo di Smirne: “Io
offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi.
Possa io con loro avere parte con Dio. Lavorate insieme gli uni per gli altri, lottate
insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e vegliate insieme come
amministratori di Dio, suoi assessori e servi. Cercate di piacere a colui, per il quale
militate, e dal quale ricevete la mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro
battesimo rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia,
la pazienza come un'armatura” (6,1-2).

Complessivamente – osservava già il Papa Benedetto nella sua catechesi


dedicata a sant’Ignazio (14 marzo 2007) – si può cogliere nelle Lettere dell’Antiocheno
una sorta di dialettica costante e feconda tra due aspetti caratteristici della vita cristiana:
senz'altro la struttura gerarchica della comunità ecclesiale, di cui abbiamo fatto cenno;
ma anche l'unità fondamentale, che lega fra loro tutti i fedeli in Cristo.
Di conseguenza, non esiste la possibilità di un'opposizione dei ruoli.
Al contrario, l'insistenza sulla comunione e sulla reciprocità dei credenti,
continuamente riformulata attraverso immagini e analogie (la cetra, le corde,
l'intonazione, il concerto...), appare come il risvolto consapevole della comune identità
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dei fedeli, quasi a prescindere dal fatto che essi siano ministri ordinati o meno.
D'altra parte, però, è evidente la responsabilità peculiare dei diaconi, dei
presbiteri e dei vescovi nell'edificazione della comunità.
Vale anzitutto per loro l'invito all'amore e all'unità. “Siate una cosa sola”, scrive
Ignazio ai Magnesi riprendendo la preghiera di Gesù nell'ultima cena: “Un'unica
supplica, un'unica mente, un'unica speranza nell'amore... Accorrete tutti a Gesù Cristo
come all'unico tempio di Dio, come all'unico altare: egli è uno, e procedendo dall'unico
Padre, è rimasto a lui unito, e a lui è ritornato nell'unità” (7,1-2).

Certo, Ignazio non esplicita le istanze formative in rapporto ai ministri sacri, ma


esse non sono per questo meno evidenti. Si veda per esempio il passo della Lettera ai
Tralliani nel quale il vescovo, raccogliendo l'insegnamento di Atti 6 (su cui torneremo
nella conclusione del nostro volume), spiega con franchezza: “I diaconi, che sono al
servizio dei misteri di Gesù Cristo, devono cercare di piacere in ogni maniera a tutti.
Essi non sono (semplici) servi di cibi e di bevande, ma sono servitori (hyperétai:
letteralmente “rematori”, “galeotti incatenati ai remi della nave”) della Chiesa e di Dio.
Si guardino perciò da ogni biasimo, come dal fuoco” (2,3).
Dunque, i ministri ordinati non sono dei semplici “distributori” di cibi e di
bevande, ma sono al servizio dei misteri di Gesù e della Chiesa. Se un ministro non si
forma nella contemplazione dei santi misteri di Cristo, fino a raggiungere “l'unità” con
lui, non può esercitare il ministero autentico della carità, e non “rema”, cioè non
“spinge avanti” la Chiesa di Dio.

2. Giovanni Crisostomo (+ 407)

Trascorro ora a un altro Padre antiocheno, misticamente innamorato del


sacerdozio.
Vorrei richiamare la figura del Crisostomo come quella di un testimone, di un
pastore “colto sulla breccia” del ministero.

Per illustrare la personalità del Crisostomo si può partire da un aspetto


particolare della sua vita.
La storia della sua vocazione non sembra, a prima vista, del tutto lineare.
Sentendosi attratto dalla forma di vita monastica ed eremitica – che nella prima metà
del IV secolo aveva raccolto molti consensi in Oriente –, Giovanni abbandonò
Antiochia, dove esercitava il ministero del lettorato, e si ritirò nella zona del monte
Silpio, appena fuori dalla città. Aveva poco più di vent'anni.
Ma il ritiro in questa regione montuosa, ricca di grotte e di anfratti, non durò
molto tempo: sei anni dopo, nel 378, Giovanni rientrò a Antiochia.
Fu certamente una decisione sofferta, che a prima vista poté apparire una sorta
di tradimento rispetto al cammino intrapreso. Di fatto molti autori, antichi e moderni,
si sono interrogati sui motivi che condussero il giovane Crisostomo a ritornare sui suoi
passi. Per lo più si ritiene – sulla scorta di Palladio – che la costituzione fisica di
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Giovanni non abbia retto alla prova del deserto.

Da parte mia, ritengo più soddisfacente un’altra interpretazione.


A me pare infatti che la storia della vocazione di Giovanni scorra in perfetta
continuità con i sei anni di deserto: proprio nella lettura e nella contemplazione solitaria
della Parola di Dio, infatti, il Crisostomo dovette maturare l'irresistibile urgenza di
predicare quella medesima Parola per l'utilità e per la salvezza degli altri.
Lo dimostra il fatto che, appena rientrato a Antiochia, Giovanni riprese subito,
con assoluta dedizione, il suo servizio della Parola: venne reintegrato fra i lettori, fu
ordinato diacono, e finalmente nel 386 divenne sacerdote. Da allora in poi – in quella
predicazione che lo avrebbe reso giustamente famoso nella tradizione della Chiesa – il
santo vescovo non cesserà mai di sottolineare l'intimo rapporto tra il servizio del
prossimo e la Parola di Dio.
A suo parere, l'autentico testimone della carità deve proclamare sempre, con la
parola e con le opere, quello che attesta l'apostolo Giovanni: “Ciò che noi abbiamo
contemplato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi!” (cfr. 1 Giovanni 1, 1-
3).
In altri termini, per crescere nella carità autentica, i fedeli – e a maggior ragione
i ministri ordinati – devono conoscere Gesù Cristo, la Parola di Dio, cioè devono
entrare in profonda intimità con lui.
Ancora una volta, il discorso ritorna sulla “dimensione contemplativa” del
presbitero, e sulla qualità del suo incontro con il Signore nella Parola e nei Sacramenti.

In questa stessa prospettiva può essere letto anche il famoso Dialogo con Basilio,
composto ad Antiochia intorno al 390, là dove Giovanni Crisostomo parla dell’esempio
e dellaPparola come dei “farmaci”, che il presbitero ha a sua disposizione: “Quelli che
curano i corpi degli uomini”, scrive, “hanno a disposizione una quantità di farmaci...
Nel nostro caso, oltre all'esempio, non c'è altro strumento o altro metodo di cura, al di
fuori dell'insegnamento che si attua con la Parola” (Dialogo sul sacerdozio 4,3,5-13).
Nel medesimo Dialogo il Crisostomo parla del sacerdozio come di “una vita
fatta di coraggio e dedizione” (così infatti va tradotta la locuzione ghennáia psyché di
2,4,51-64), perché il ministero del (vero) pastore non conosce i confini angusti del
tornaconto personale, ma ridonda a vantaggio di tutto il gregge.
Per il Crisostomo, la cura del gregge è il “segno dell'amore”, è la prova concreta
che il ministro ama veramente il Signore: “Se mi ami, pasci le mie pecore...” (cfr.
Giovanni 21,17).
In quell'occasione, osserva il Crisostomo, il Maestro chiese al discepolo se lo
amava, non per saperlo lui stesso: perché mai avrebbe dovuto farlo, lui che scruta e
conosce il cuore di tutti? Neppure “intendeva dimostrare a noi quanto Pietro lo amasse:
questo ci era già noto da molti altri fatti; ma voleva dimostrare quanto lui (il Signore)
amasse la sua Chiesa, e insegnare a Pietro e a tutti noi quanta cura dovessimo
profondere in quest'opera” (2,1,35-40).
Proprio qui risiede l'incolmabile differenza tra il mercenario e il pastore: “Il
buon Pastore dà la propria vita per le sue pecore” (Giovanni 10,11).
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3. Conclusioni sulla “scuola di Antiochia”

In definitiva, si ha l'impressione che sia Ignazio di Antiochia sia Giovanni


Crisostomo insistano di più sull'identità del presbitero che non sull'itinerario della sua
formazione. Nella massima parte dei casi, infatti, le istanze formative restano solo
implicite.
In tutti e due i Padri, comunque, si può rilevare una forte sottolineatura sulla
necessaria unità dei presbiteri con Cristo.
Per entrambi gli Antiocheni, inoltre, unità perfetta con Cristo e dedizione totale
al gregge non appaiono semplicemente due caratteristiche costitutive del presbitero
(alle quali, di conseguenza, va costantemente orientato ogni itinerario di formazione
sacerdotale).
Esse costituiscono piuttosto un'unica realtà. Sono come le due facce di una stessa
medaglia. L'una invera l'altra, e non si dovrebbe dare il caso di un sacerdote che abbia
l'una senza l'altra. Per il presbitero la dedizione totale al gregge è il segno della sua
unità con Cristo; d'altra parte la piena dedizione al gregge lo impegna “ad accorrere”
continuamente “a Gesù Cristo come all'unico tempio di Dio, come all'unico altare”
(Ignazio, Lettera ai Magnesi 7,2).
Ecco che cosa si deve intendere esattamente per “carità pastorale”!

In ultima analisi, il “realismo” dei Padri antiocheni invita il presbitero a una


sintesi progressiva tra configurazione a Cristo (intimità, unione, piena configurazione
con lui) e dedizione pastorale (missione, servizio alla Chiesa e al mondo): sintesi tra
consacrazione e missione, insomma, fino a che attraverso una dimensione parli l'altra,
e i ministri non si riducano mai a “semplici distributori”, ma siano “autentici testimoni”
dei misteri di Cristo e della sua Chiesa, e sempre di più si trovino “nel possesso di
quello spirito di unità (adiákriton pnéuma), che è Gesù Cristo” (con queste parole
Ignazio chiude la medesima Lettera ai Magnesi).

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CAPITOLO TERZO
La scuola di Alessandria: Origene

1. La tradizione alessandrina
Prendiamo adesso in considerazione la cosiddetta “tradizione alessandrina”.
Abbiamo già notato che Alessandria sembra accogliere alcune istanze
complementari rispetto alla tradizione antiochena. Questo – lo ripetiamo – vale anche
in ambito ecclesiologico e, in particolare, nella concezione del ministero ordinato.
Per illustrare gli orientamenti alessandrini sul tema della formazione sacerdotale,
mi limito a un solo esempio, peraltro molto rappresentativo: mi riferisco a Origene (+
254), e soprattutto alle sue Omelie sul Levitico, pronunciate a Cesarea di Palestina tra
il 239 e il 242. Siamo ormai a qualche anno dalla grave crisi che – a causa
dell'ordinazione sacerdotale, conferitagli intorno al 231 dal vescovo di Cesarea,
all'insaputa di quello di Alessandria – oppose Origene e il suo ordinario, il vescovo
Demetrio.
La crisi restò aperta, e causò appunto il trasferimento di Origene a Cesarea.

Bisogna riconoscere anzitutto che Origene, da buon alessandrino, è più


interessato a contemplare la Chiesa nel suo aspetto spirituale, come mistico Corpo di
Cristo, che non nel suo aspetto visibile.
Così Origene è più attento alla cosiddetta “gerarchia della santità”, in rapporto a
un cammino incessante di perfezione proposto a ogni cristiano, che non alla “gerarchia
visibile”, ministeriale.
Di conseguenza, l'Alessandrino si riferisce più spesso al sacerdozio comune dei
fedeli e alle sue caratteristiche, che non al sacerdozio gerarchico.
In ogni caso, seguendo il discorso di Origene sull'uno e sull'altro argomento, non
sarà difficile ricavare alcune indicazioni sull'itinerario di formazione dei ministri
ordinati.

1.1. Sacerdozio dei fedeli e condizioni per il suo esercizio


Una lunga serie di testi origeniani – che nella maggior parte dei casi fanno
riferimento esplicito o implicito a 1 Pietro 2,9: “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio
regale...” – intende illustrare le condizioni richieste per l'esercizio del sacerdozio
comune.
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Nella nona Omelia sul Levitico Origene – riferendosi al divieto fatto ad Aronne,
dopo la morte dei suoi due figli, di entrare nel sancta sanctorum “in qualunque tempo”
(Levitico 16,2) – ammonisce: “Da ciò si dimostra che se uno entra a qualunque ora nel
santuario, senza la dovuta preparazione, non rivestito degli indumenti pontificali, senza
aver preparato le offerte prescritte ed essersi reso Dio propizio, morirà... Questo
discorso riguarda tutti noi: si riferisce a tutti, ciò che qui dice la legge. Ordina infatti
che sappiamo come accedere all'altare di Dio. O non sai che anche a te, cioè a tutta la
Chiesa di Dio e al popolo dei credenti, è stato conferito il sacerdozio? Ascolta come
Pietro parla dei fedeli: ‘Stirpe eletta’, dice, ‘regale, sacerdotale, nazione santa, popolo
che Dio si è acquistato’. Tu dunque hai il sacerdozio perché sei ‘stirpe sacerdotale’, e
perciò devi offrire a Dio il sacrificio della lode, sacrificio di orazioni, sacrificio di
misericordia, sacrificio di purezza, sacrificio di giustizia, sacrificio di santità. Ma
perché tu possa offrire degnamente queste cose, hai bisogno di indumenti puri e distinti
dagli indumenti comuni agli altri uomini, e ti è necessario il fuoco divino – non uno
estraneo a Dio, ma quello che da Dio è dato agli uomini –, del quale il Figlio di Dio
dice: ‘Sono venuto per mandare il fuoco sulla terra’” (Omelia sul Levitico 9,1).
Ancora nella quarta Omelia, prendendo lo spunto dalla legislazione levitica
secondo cui il fuoco per l'olocausto doveva ardere perennemente sull'altare (Levitico
6,8-13), Origene apostrofa così i suoi fedeli: “Ascolta: deve sempre esserci il fuoco
sull'altare. E tu, se vuoi essere sacerdote di Dio – come sta scritto: ‘Voi tutti sarete
sacerdoti del Signore’, e a te è detto: ‘Stirpe eletta, sacerdozio regale, popolo che Dio
si è acquistato’ –; se vuoi esercitare il sacerdozio della tua anima, non lasciare mai che
si allontani il fuoco dal tuo altare” (Omelia sul Levitico 4,6).
Come si vede, l'Alessandrino allude alle condizioni interiori che rendono il
fedele più o meno degno di esercitare il suo sacerdozio. Così infatti prosegue la stessa
Omelia: “Ciò significa quello che il Signore comanda nei vangeli, che ‘siano i vostri
fianchi cinti e le vostre lucerne accese’. Dunque sia sempre acceso per te il fuoco della
fede e la lucerna della scienza” (ivi).
Per comprendere la concezione origeniana dei “fianchi cinti” è utile citare un
passo del primo trattato Sulla Pasqua rinvenuto a Tura nel 1941, là dove l'Alessandrino
spiega il significato dei “fianchi cinti” per la cena pasquale (Esodo 12,11). “Ci è
ordinato”, commenta Origene, “di essere puri da incontri corporei, questo significando
il cingolo del fianco. [La Bibbia] ci insegna a porre un legame attorno al luogo
seminale, e ci ordina di frenare gli impulsi sessuali quando abbiamo parte alle carni del
Cristo”.
In definitiva, da una parte i “fianchi cinti” e gli “indumenti sacerdotali”, vale a
dire la purezza e l'onestà della vita, dall'altra la “lucerna sempre accesa”, cioè la fede e
la scienza delle scritture, si configurano precisamente come le condizioni
indispensabili per l'esercizio del sacerdozio comune.

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A maggior ragione lo sono, evidentemente, per l'esercizio del sacerdozio
ministeriale: potremmo dire anzi che nel pensiero origeniano esse costituiscono le
“pietre miliari” della formazione presbiterale.
Ma su questo discorso torneremo nelle conclusioni.

1.2. Sacerdozio dei fedeli e accoglienza della Parola


Ma piuttosto che sui “fianchi cinti”, Origene insiste maggiormente sulla “lucerna
accesa”, cioè sull'accoglienza e sullo studio della Parola di Dio.
“Gerico crolla sotto le trombe dei sacerdoti”, esordisce l'Alessandrino nella
settima Omelia su Giosuè; e commenta, poco oltre: “Tu hai in te Giosuè [= Gesù] come
guida grazie alla fede. Se sei sacerdote, costruisciti delle "trombe metalliche" (tubae
ductiles); o meglio, poiché sei sacerdote – infatti sei "stirpe regale", e di te è detto che
sei "sacerdozio santo" –, costruisciti "trombe metalliche" dalle sacre scritture, di qui
ricava (duc) i veri significati, di qui i tuoi discorsi; proprio per questo infatti esse si
chiamano tubae ductiles. In esse canta, cioè canta con salmi, inni e cantici spirituali,
canta con i simboli dei profeti, con i misteri della legge, con la dottrina degli apostoli”
(Omelia su Giosuè 7,2).
Stando alla terza Omelia sulla Genesi, il “popolo eletto che Dio si è acquistato”
deve accogliere nelle proprie orecchie la degna circoncisione della parola di Dio: “Voi,
popolo di Dio”, afferma Origene, “‘popolo scelto in possesso per narrare le virtù del
Signore’, accogliete la degna circoncisione del verbo di Dio nelle vostre orecchie e
sulle vostre labbra e nel cuore e sul prepuzio della vostra carne, e in generale in tutte
le vostre membra” (Omelia sulla Genesi 3,5).
“Tu, popolo di Dio”, aggiunge ancora Origene in altro contesto, “sei convocato
ad ascoltare la parola di Dio, e non come plebs, ma come rex. A te infatti è detto: ‘Stirpe
regale e sacerdotale, popolo che Dio si è scelto’” (Omelia sui Giudici 6,3). D'altra parte,
secondo Origene è sacerdote chiunque possiede la scienza della legge divina, et, ut
breviter explicem, qui legem et secundum spiritum et secundum litteram novit (Omelia
sul Levitico 6,3).
In definitiva, l'accoglienza delle scritture è decisiva per una piena partecipazione
alla “stirpe sacerdotale”.
Interpretando allegoricamente Ezechiele 17, Origene illustra ai suoi fedeli due
possibilità, fra loro contrapposte: l'alleanza con Nabucodonosor – segnata dalla
maledizione e dall'esilio, caratteristica di chi rifiuta la parola – ; oppure l'alleanza con
Dio, la cui tessera distintiva è precisamente l'accoglienza delle scritture. A questa
alleanza segue la benedizione e la promessa: così “noi tutti, che abbiamo accolto la
parola di Dio, siamo regium semen”, dichiara Origene nella dodicesima Omelia su

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Ezechiele. “Infatti siamo chiamati ‘stirpe eletta e regale sacerdozio, nazione santa,
popolo che Dio si è acquistato’” (Omelia su Ezechiele 12,3).

1.3. Sacerdozio dei fedeli e gerarchia della santità


Queste condizioni – di integra condotta di vita, ma soprattutto di accoglienza e
di studio della Parola – stabiliscono una vera e propria “gerarchia della santità” nel
comune sacerdozio dei cristiani.
Per esempio, Origene pensa chiaramente a una “gerarchia di meriti spirituali”,
assai più che a una “gerarchia visibile”, quando, concludendo nella quarta Omelia sui
Numeri la spiegazione del censimento e degli uffici liturgici dei leviti (Numeri 4),
afferma: “Poiché dunque è questo il modo con cui Dio dispensa i suoi misteri e regola
il servizio degli oggetti sacri, dobbiamo mostrarci tali, che siamo resi degni del rango
sacerdotale... Noi siamo infatti ‘nazione santa, sacerdozio regale, popolo di adozione’,
perché, rispondendo con i meriti della nostra vita alla grazia ricevuta, siamo ritenuti
degni del sacro ministero” (Omelia sui Numeri 5,3,1).
Nell'Omelia successiva, la quinta sui Numeri, avventurandosi in un'ardita
interpretazione del testo (Numeri 4,7-9), egli legge in modo allegorico i vari elementi
che costituiscono la “tenda del convegno”.
Vi si può cogliere ancora qualche allusione alla “gerarchia della santità” quando
l'omileta afferma che “ci sono in questa tenda”, cioè nella Chiesa del Dio vivente, “dei
personaggi più elevati in merito e superiori nella grazia”. In ogni caso, tutti i fedeli nel
loro insieme costituiscono il resto, cioè il popolo dei santi che gli angeli portano sulle
loro mani perché non inciampi nella pietra il loro piede, e possano entrare nel luogo
della promessa. Nonostante le severe precauzioni levitiche, a ognuno di loro è lecito
contemplare senza sacrilegio alcuni aspetti del mistero di Dio, perché tutti insieme sono
chiamati “stirpe e sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato”.
Sempre nelle Omelie sui Numeri si legge la celebre interpretazione origeniana
del pozzo di Beer, “di cui il Signore disse a Mosè: ‘Raduna il popolo, e io gli darò
dell'acqua’. Allora Israele cantò questo canto: ‘Sgorga. o pozzo: cantatelo! Pozzo che
i principi hanno scavato, che i re del popolo hanno perforato con lo scettro, con i loro
bastoni” (Numeri 21,16-18). Origene vede in questo pozzo Gesù Cristo stesso, la fonte
della Parola, e nell'accenno ai principi e ai re del popolo i diversi gradi di profondità
nella lettura e nell'interpretazione delle scritture. Se poi occorre distinguere tra principi
e re, Origene propone di vedere nei principi i profeti, nei re gli apostoli. “Quanto al
fatto che gli apostoli possano essere chiamati re”, spiega l'Alessandrino, “lo si può
facilmente ricavare da ciò che è detto di tutti i credenti: ‘Voi siete stirpe regale, sommo
sacerdozio, nazione santa’” (ivi 12,2,4).
Resta confermato in ogni caso che per Origene la gerarchia più vera è quella che
si fonda sui vari livelli di accoglienza delle scritture, mentre rimane implicito – almeno

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nell'ultima Omelia citata – che il riferimento alla Parola di Dio è indispensabile per
l'esercizio del “regale sacerdozio” comune a tutti i fedeli.

1.4. Gerarchia ministeriale


Nelle sue omelie Origene si riferisce espressamente ai vescovi, ai presbiteri e ai
diaconi. A suo parere, tale “gerarchia visibile” deve rappresentare agli occhi dei fedeli
la “gerarchia invisibile” della santità. In altri termini, nella dottrina di Origene
ordinazione ministeriale e santità devono procedere di pari passo.
Nella tredicesima Omelia sull'Esodo, illustrando il significato dell'ornamento
dell'omerale, “simbolo delle buone azioni”, Origene richiama i fedeli a un'intima
coerenza tra i loro discorsi e le loro azioni. “Questo ornamento”, conclude, “è cosa dei
prìncipi, che hanno progredito fino al punto di meritare di presiedere ai popoli” Omelia
sull'Esodo 13,7).
“I sacerdoti”, scrive ancora nella sesta Omelia sul Levitico, “devono guardarsi
nei precetti della legge divina come in uno specchio, e trarre da questo esame il grado
del loro merito: se si trovano rivestiti degli indumenti pontificali..., se risulta a loro di
essere all'altezza [della loro vocazione] nella scienza, negli atti, nella dottrina; allora
possono ritenere di aver conseguito il sommo grado del sacerdozio non solo di nome,
ma anche per il loro merito effettivo. Diversamente si considerino come a un grado
inferiore, anche se hanno ricevuto di nome il primo grado” (Omelia sul Levitico 6,6).
Come si vede, una stima altissima nei confronti del sacerdozio ordinato rende
Origene molto esigente, quasi radicale, nei confronti dei sacri ministri. Perciò egli
mette in guardia chiunque dal precipitarsi “su quelle dignità, che vengono da Dio, e
sulle presidenze e i ministeri della Chiesa” (Omelia su Isaia 6,1). E nella seconda
Omelia sui Numeri chiede con dolore: “Tu credi che quelli che hanno il titolo di
sacerdoti, che si gloriano di appartenere all'ordine sacerdotale, camminino secondo il
loro ordine, e facciano tutto quello che si conviene al loro ordine? Allo stesso modo,
tu credi che i diaconi camminino secondo l'ordine del loro ministero? E da dove viene
allora che si sente spesso la gente lamentarsi, e dire: ‘Guarda questo vescovo, questo
prete, questo diacono...’? Non si dice forse perché si vede il prete o il ministro di Dio
mancare ai doveri del suo ordine?” (Omelia sui Numeri 2,1,4).
Così nelle sue omelie egli non esita a rimproverare apertamente i difetti più
vistosi dei sacerdoti del suo tempo. Ne emerge per noi un efficace ritratto in negativo
sui pericoli da evitare nella formazione dei presbiteri.

Un punto debole dei preti è, a parere di Origene, la sete di danaro e di guadagni


temporali; insomma – diremmo noi – la tentazione dell'imborghesimento e
dell'orizzontalismo esasperato. Egli lamenta che i preti si lascino assorbire dalle

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preoccupazioni profane, e non domandino altro che trascorrere la vita presente
“pensando agli affari del mondo, ai guadagni temporali e al buon cibo” (Omelia su
Ezechiele 3,7). E aggiunge, in altro contesto: “Tra noi ecclesiastici si troverà chi fa di
tutto per soddisfare il suo ventre, per essere onorato e per ricevere a suo vantaggio le
offerte destinate alla Chiesa. Ecco qui quelli che non parlano d'altro che del ventre, e
che ricavano da lì tutte le loro parole (Omelia su Isaia 7,3).

Origene rimprovera ai sacerdoti anche il «carrierismo», l'arroganza e la superbia.


“Talvolta”, osserva nella terza Omelia sul libro dei Giudici, “si trovano fra noi – che
siamo posti come esempio di umiltà, e collocati intorno all'altare del Signore come
specchio per quelli che ci guardano – si trovano alcuni uomini dai quali esala il vizio
dell'arroganza. Così un odore ripugnante di orgoglio si espande dall'altare del Signore
(Omelia sul libro dei Giudici 3,2). E prosegue altrove: “Quanti preti ordinati hanno
dimenticato l'umiltà! Come se fossero stati ordinati proprio per cessare di essere umi-
li!... Ti hanno stabilito come capo: non esaltarti, ma sii tra i tuoi come uno di loro.
Bisogna che tu sia umile, bisogna che tu sia umiliato; bisogna fuggire la superbia,
vertice di tutti i mali” (Omelia su Ezechiele 9,2).

Altri peccati dei preti sono, secondo Origene, il disprezzo – o almeno una minore
considerazione – degli umili e dei poveri, e nei rapporti con i fedeli una specie di
altalena tra un'eccessiva severità e una non meno eccessiva indulgenza.

1.5. Conclusioni sulla “scuola di Alessandria”


Se raccogliamo le indicazioni che Origene fornisce sul sacerdozio comune e su
quello gerarchico, possiamo ricavare il seguente itinerario di formazione presbiterale.
La “tessera” per accedere a questo itinerario è la “lucerna accesa”, cioè
l'ascolto della parola. Altra condizione indispensabile sono “i fianchi cinti” e gli
“indumenti sacerdotali”, ossia una vita integra e pura: riguardo a questo, i ministri
ordinati dovranno guardarsi soprattutto dalle tentazioni dell'imborghesimento, della
superbia, della minor considerazione dei poveri, della severità eccessiva e del lassismo.
Ciò che è richiesto ai sacerdoti è dunque la radicale obbedienza al Signore e alla sua
parola, il distacco dallo spirito del mondo, la piena fraternità con il popolo, la dedizione
e il servizio. Il vertice del cammino di perfezione – cioè il punto d'arrivo dell'itinerario
di formazione sacerdotale, visto che “gerarchia della santità” e “gerarchia ministeriale”
devono identificarsi – è per Origene il martirio.
Nella nona Omelia sul Levitico – alludendo al “fuoco per l'olocausto”, cioè alla
fede e alla scienza delle scritture, che mai deve spegnersi sull'altare di chi esercita il
sacerdozio – l'Alessandrino aggiunge: “Ma ognuno di noi ha in sé” non soltanto il

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fuoco; ha “anche l'olocausto, e dal suo olocausto accende l'altare, perché arda sempre.
Io, se rinuncio a tutto ciò che possiedo e prendo la mia croce e seguo Cristo, offro il
mio olocausto sull'altare di Dio; e se consegnerò il mio corpo perché arda, avendo la
carità, e conseguirò la gloria del martirio, offro il mio olocausto sull'altare di Dio”
(Omelia sul Levitico 9,9).
Sono espressioni che rivelano tutta la nostalgia di Origene per il battesimo di
sangue. Nella settima Omelia sui Giudici – che risale forse agli anni di Filippo l'Arabo
(244-249), quando sembrava ormai sfumata l'eventualità di una testimonianza cruenta
– egli esclama: “Se Dio mi concedesse di essere lavato nel mio proprio sangue, così da
ricevere il secondo battesimo avendo accettato la morte per Cristo, mi allontanerei
sicuro da questo mondo... Ma sono beati coloro che meritano queste cose” (Omelia sui
Giudici 7,2).

Aggiungiamo ancora un'osservazione d'insieme sull'itinerario origeniano della


formazione sacerdotale.
Non si può sfuggire all'impressione che in questo, come in altri ambiti, la
posizione di Origene sia molto esigente, quando non radicale. Si tratta di una
“radicalità” che – anziché addolcirsi con il tempo – si carica di pessimismo e di critica
amara a mano a mano che Origene avanza nell'età, specialmente dopo il suo
trasferimento da Alessandria a Cesarea.
Indubbiamente la dottrina origeniana del sacerdozio – come del resto anche
quella di Clemente Alessandrino, che scrive nei suoi Stromati: “I gradi della Chiesa di
quaggiù, vescovi, presbiteri, diaconi, credo, sono un riflesso della gerarchia angelica e
di quell'economia che, come dicono le scritture, attende coloro che sulle orme degli
apostoli sono vissuti in perfetta giustizia secondo il vangelo” (6,13,107,2) – collega
radicalmente la “gerarchia ministeriale” con la “gerarchia della santità”.
Tale dottrina, tuttavia, non presenta mai il prete come una specie di angelo: lo
coglie piuttosto in un cammino molto concreto di ascesi quotidiana, in lotta con il
peccato e con il male.
Tanto per fare un esempio, il progressivo distacco dal mondo che deve
caratterizzare la formazione del sacerdote, non si traduce affatto nella ricerca affannosa
di un luogo separato dal mondo, perché, scrive Origene nella dodicesima Omelia sul
Levitico, “non è in un luogo che bisogna cercare il santuario, ma negli atti e nella vita
e nei costumi. Se essi sono secondo Dio, se si conformano ai comandi di Dio, poco
importa che tu sia in casa o in piazza; che dico ‘in piazza’? Poco importa perfino che
tu ti trovi a teatro: se stai servendo il Verbo di Dio tu sei nel santuario, non avere alcun
dubbio” (12,4).

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In definitiva la tradizione alessandrina – per una via forse inattesa, perché più
“spirituale”, e per alcuni aspetti “rigorista” –, arricchisce di concretezza l'immagine del
pastore e le relative istanze di formazione, che avevamo già colto in Ignazio di
Antiochia e in Giovanni Crisostomo.

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CAPITOLO QUARTO
Agostino

1. Una ventina d’anni dopo il Dialogo sul sacerdozio del Crisostomo, Agostino
commenta a Ippona il Vangelo di Giovanni. Il suo Commento si compone di 124
omelie, in parte pronunciate, in parte dettate.

Così anche Agostino si riferisce alla triplice domanda di Gesù a Pietro: “Simone,
figlio di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21,15-17).
A questo riguardo, il vescovo di Ippona riporta sul sacerdozio ordinato la stessa
dottrina del Crisostomo, ma con maggiore insistenza. E’ una dottrina che può essere
efficacemente riassunta nella sentenza che abbiamo riportato all’inizio: Sit amoris
officium pascere Dominicum gregem.
Queste parole, citate dal Concilio in PO 14, vennero riprese anche da san Paolo
VI nel suo primo messaggio al mondo, il 22 giugno 1963: di fatto, esse intendevano
esprimere il programma del suo pontificato.

2. In altro contesto, nel Sermone 137, Agostino osserva che il Signore, prima di
affidare il suo gregge a Pietro, gli chiese una professione di amore. Secondo Agostino,
il Risorto intendeva chiedere a Pietro: “Che cosa mi darai, che cosa mi offrirai, per il
fatto che mi ami? Ma che cosa avrebbe potuto dare Pietro al Signore, che era risorto e
ormai prossimo ad ascendere in cielo e a sedere alla destra del Padre?”. Ebbene,
risponde Gesù Cristo stesso, secondo Agostino: “Ecco ciò che mi darai; questa prova
mi offrirai, dato che mi ami: pascerai le mie pecore” (137,4,4).

3. E parlando di sé, nell’anniversario della propria consacrazione, il vescovo di


Ippona confida al suo popolo: “Sì, devo amare colui che mi ha redento, e so ciò che
egli ha detto a Pietro: Pietro, mi ami? Pasci le mie pecore. Questo per una volta, questo
per due volte e tre volte. Veniva chiesta la testimonianza dell’amore e veniva imposta
una fatica, perché quanto è maggiore l’amore, tanto minore è la fatica” (Sermone
340,1).

4. Approdiamo infine al Sermone 46.


Agostino lo tenne a Ippona (o forse a Cartagine) negli stessi anni del suo
Commento a Giovanni, cioè in una data tra il 406 e il 418. Questo Sermone 46, insieme
con il successivo Sermone 47, è un commento continuato a Ezechiele 34, ed è intitolato
anche Discorso sui pastori, in forte polemica con i pastori donatisti.
Ci fermeremo solo su quel passo, in cui il vescovo di Ippona ritorna – ancora una
volta – al dialogo di Gesù con Pietro sulle rive del mar di Galilea.
“Quando Cristo affidò le pecorelle a Pietro”, scrive Agostino, “certo gliele affidò
come fa uno che le dà a un altro, distinto da sé. Tuttavia lo volle rendere una cosa sola
con sé. Cristo capo affida le pecorelle a Pietro, come figura del corpo, cioè della Chiesa.
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In questa maniera si può affermare che Cristo e Pietro vennero a formare una cosa sola,
come lo sposo e la sposa. Perciò, per affidargli le pecore, non come ad altri che a sé,
che cosa gli chiede per prima cosa? Gli chiede: ‘Pietro, mi ami?’. Ed egli rispose: ‘Ti
amo’. E di nuovo: ‘Mi ami?’. E rispose: ‘Ti amo’. E per la terza volta: ‘Mi ami?’. E
rispose: ‘Ti amo’. Vuole renderne saldo l’amore, per consolidarlo nell’unità con se
stesso. Egli solo pertanto pascola nei pastori, ed essi pascolano in lui solo (Ipse ergo
pascit unus in his, et hi in uno)” (46,30).

19
CONCLUSIONE DELLA PRIMA PARTE

Come si vede, l’itinerario formativo di sintesi tra consacrazione e missione del


presbitero giunge con Agostino al vertice più elevato.

Da una parte, il ministro ordinato si identifica con Cristo, si impersona in Lui,


perché ogni pastore non è che una figura dell’unico Pastore, Gesù Cristo. Questa
consapevolezza matura è il massimo della comunione con lui, e rappresenta il punto
più alto della consacrazione sacerdotale.

Dall’altra parte, il Pastore è Uno totalmente donato: la sua è una “vita per”,
regalata, buttata per le pecore fino allo scandalo della croce. Gesù Cristo, il buon
Pastore, non abbandona mai le sue pecore, neanche quando le affida a Pietro e agli altri
pastori dopo di lui. I pastori, infatti, sono una cosa sola con lui: proprio per questo
anche loro, come lui, sono totalmente “buttati” nella missione. Solo la piena dedizione
al gregge dimostra la loro perfetta unità con Gesù Cristo, buon Pastore.

In tale prospettiva – non altra – va affrontata la questione del celibato dei preti,
oggi più che mai discussa.
Non è questo il luogo per approfondire l’argomento.
Ci basta aggiungere, al riguardo, una parola decisiva del Papa Francesco: “Sono
convinto che il celibato sia un dono, una grazia e, camminando nel solco di Giovanni
Paolo II e di Benedetto XVI, io sento con forza il dovere di pensare al celibato come a
una grazia decisiva che caratterizza la Chiesa Cattolica latina. Lo ripeto: è una grazia,
non un limite” (San Giovanni Paolo Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo
2020, p. 75).

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21
SECONDA PARTE

Abbiamo percorso fin qui un itinerario storico-teologico, rivisitando soprattutto


la dottrina di alcuni Padri sulla formazione, sull’identità, sulla consacrazione e la
missione dei ministri ordinati.
Ora ci chiediamo: come si sono inverate di fatto tali istanze, nell’ormai
bimillenaria tradizione della Chiesa?
E’ ciò che vorremmo verificare, contemplando le storie di vocazione di alcuni
sacerdoti esemplari.
L’antologia potrebbe essere lunghissima, ma – dentro al “gran nugolo di
testimoni” (Ebrei 12,1) – dovremo limitarci ad alcuni “medaglioni sacerdotali” più
rappresentativi.
Incontreremo così sant’Ambrogio di Milano, vescovo e dottore della Chiesa; san
Giovanni Leonardi, fondatore dei Chierici regolari della Madre di Dio; san Giovanni
Maria Vianney, speciale patrono dei sacerdoti in cura d’anime; il curato di Ambricourt,
a cui Georges Bernanos non ha “osato” dare un nome; san Giovanni Bosco, padre e
maestro dei giovani; il Venerabile Servo di Dio don Giuseppe Quadrio, professore e
decano di teologia; infine, san Giovanni Paolo II, la cui memoria vive ora in maniera
speciale nel centenario della nascita.
Exempla trahunt, dicevano i saggi latini.
L’intento che ci proponiamo è che questo confronto con alcune figure di
sacerdoti esemplari possa farci toccare con mano l’identità autentica del ministro
ordinato nella Chiesa, e che possa guidare efficacemente la loro formazione nella
consacrazione e nella missione.

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CAPITOLO QUINTO
Sant’Ambrogio (337/9-397)

1. La morte di Ambrogio

Ambrogio morì a Milano nella notte fra il 3 e il 4 aprile del 397. Era l'alba del
sabato santo.
Il giorno prima, verso le cinque del pomeriggio, si era messo a pregare, disteso
sul letto, con le braccia aperte in forma di croce. Partecipava così, nel solenne triduo
pasquale, alla morte e alla risurrezione del Signore. “Noi vedevamo muoversi le sue
labbra”, attesta Paolino, il fedele segretario che per ordine di Agostino ne scrisse la
Vita, “ma non udivamo la sua voce”.
A un tratto, la situazione parve precipitare. Onorato, vescovo di Vercelli, che si
trovava ad assistere Ambrogio e dormiva al piano superiore, venne svegliato dalla voce
di una persona che gli ripeteva: “Alzati, presto! Ambrogio sta per morire...”.
Onorato scese in fretta – prosegue Paolino – “e gli porse il santo Corpo del
Signore. Appena lo prese e deglutì, Ambrogio rese lo spirito, portando con sé il buon
viatico. Così la sua anima, rifocillata dalla virtù di quel cibo, gode ora della compagnia
degli angeli, secondo la cui vita egli visse in terra, e della compagnia di Elia: infatti,
alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti della terra, come
lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Ambrogio non era vecchio, quando morì (non aveva neppure sessant'anni,
essendo nato verso il 339), ma era ben preparato alla morte: ne aveva parlato spesso ai
suoi fedeli, qualche volta con il cuore straziato dal dolore, come quando aveva
celebrato le esequie dell'amato fratello Satiro.
Ma forse le parole che descrivono meglio l'atteggiamento di Ambrogio di fronte
alla morte si trovano nel suo Commento al Salmo 36, che svela l'intima partecipazione
del vescovo di Milano alla morte del Signore: “Cristo è apparso nella carne”, scrive
Ambrogio. “E' lui la nostra vita in tutto. La sua morte è vita, la sua ferita è vita, il suo
sangue è vita, la sua risurrezione è vita di tutti. E' lui il chicco che si è dissolto, è morto
nel suo corpo per noi, per produrre in noi una messe abbondante. Quello dunque che è
stato fatto in lui è vita. Carne è stata fatta in lui: è vita. Morte è stata fatta in lui: è vita...
Risurrezione è stata fatta in lui: è vita” (Commento a dodici Salmi. Salmo 36, 36-37).

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In quel venerdì santo del 397 le braccia spalancate di Ambrogio morente
segnavano la sua mistica partecipazione alla croce e alla risurrezione del Signore.

Vogliamo iontrodurci alla storia della vocazione sacerdotale di sant’Ambrogio


sottolineando due dettagli del racconto di Paolino.

1.1. Anzitutto, Paolino afferma che fu Onorato, vescovo di Vercelli, ad assistere


Ambrogio con gli estremi conforti della fede.
Ma perché Onorato?
Si può pensare che questi provenisse dal famoso monasterium clericorum
vercellese. In ogni caso, fu proprio Ambrogio a volerlo vescovo.
Queste vicende capitarono negli ultimi tre anni della vita di Ambrogio, a partire
dal 394.
La Chiesa di Vercelli attraversava un momento difficile: era divisa e senza
pastore. Così il vescovo di Milano scrisse ai vercellesi, rimproverandoli duramente.
Esitava a riconoscere in loro “la discendenza dei santi padri che approvarono Eusebio”,
il primo vescovo di Vercelli, “non appena l'ebbero visto, senza averlo mai conosciuto
prima di allora, dimenticando persino i propri concittadini” (Epistola 63).
Nella stessa Epistola Ambrogio attesta nel modo più chiaro la sua altissima stima
nei confronti del vescovo di Vercelli: “Un così grande uomo”, scrive in modo
perentorio, “ben meritò di essere stato eletto da tutta la Chiesa”.
Eusebio, morto nel 371, tre anni prima che Ambrogio salisse alla cattedra
episcopale di Milano, dovette essere un modello e un punto di riferimento sicuro per
quel giovane magistrato, che improvvisamente si trovò a capo della Chiesa milanese.
Di fatto, l'ammirazione di Ambrogio per Eusebio è evidente. In lui il vescovo di Milano
vide un pastore, che guidava la sua diocesi anzitutto con la testimonianza della propria
vita: “Con l'austerità del digiuno”, scrive Ambrogio ai vercellesi, Eusebio “governava
la sua Chiesa” (ivi).
Ambrogio – autore della Fuga dal mondo – è affascinato dall'ideale monastico
e dalla contemplazione di Dio. Gli è congeniale Elia, che percorre il deserto per
giungere fino all'Oreb, il monte di Dio. Gli è congeniale Eusebio, che per primo
raccoglie il proprio clero in vita communis, divenendo così il fondatore del più antico
monasterium clericorum, e che, sono le sue parole, “osservava le regole monastiche
pur vivendo in mezzo alla città” (ivi).

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Come si vede, i rapporti tra la Chiesa di Milano e quella di Vercelli nella seconda
metà del IV secolo sono storicamente documentati, e giustificano la presenza del
vescovo Onorato al capezzale di Ambrogio.

1.2. L'altro dettaglio che conviene riprendere dal racconto della morte di
Ambrogio è il riferimento al profeta Elia. L'anima del nostro vescovo, scrive Paolino,
gode ora della presenza di Elia. “Infatti, alla pari di Elia, Ambrogio non ebbe timore di
parlare ai re e ai potenti della terra come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Dal punto di vista del nostro tema – cioè dell’identità del ministro consacrato,
della sua consacrazione e della sua missione – questo riferimento a Elia è decisivo.

2. Ambrogio e il profeta Elia: l'itinerario spirituale della fuga mundi

Sant'Ambrogio parla frequentemente di Elia: si può dire che quasi in ogni sua
opera egli ne faccia menzione.
Sappiamo che nel leggere le scritture, come nell'accostarne i vari personaggi,
Ambrogio usava il metodo allegorico-spirituale, che in fondo presiede alla lectio divina
tradizionale. Infatti la lettura spirituale della Bibbia – così come la intendevano i Padri
alessandrini, anzitutto Clemente e Origene, e come Ambrogio imparò a praticarla –
implica l'attenzione all'esegesi letterale e storica, ma nello stesso tempo l’esigenza
inderogabile di andare oltre il velo della lettera.
Ambrogio è persuaso che sia necessaria una meticolosa opera di
“imbrigliamento” di ogni singola espressione verbale per fermare la parola e
“spremerne” tutte le potenzialità nascoste: e questo deve essere fatto, perché già nella
singola parola si attua il miracolo della presenza divina, e quindi il lavorio esegetico
deve partire dai termini, che sono dimora del Verbo ed eventi dell'economia di
salvezza.
Qualche volta può sembrare che questo desiderio di “spremere” le potenzialità
della parola, fino a trascenderla, giunga a forzare il senso del testo.
Sono questi i momenti in cui l'esegesi dei Padri ci sembra lontana e difficilmente
proponibile.
Per esempio nella Fuga dal mondo Ambrogio commenta così l'avventura di Elia
nel deserto: “Elia fuggì una donna, Gezabele, cioè la vanità senza limiti, e fuggì sul
monte Oreb, che significa "essiccamento", perché si essiccasse in lui il flusso della
vanità carnale ed egli potesse conoscere Dio con maggiore pienezza... Certamente un
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così grande profeta non fuggiva una donna, ma il mondo, e non temeva la morte, lui
che si era presentato a chi lo cercava e diceva al Signore: ‘Accogli l'anima mia’, preso
dal disgusto, non dal desiderio di questa vita; ma fuggiva le attrattive mondane, il
contagio di una convivenza peccaminosa e i sacrilegi di un popolo empio e
prevaricatore” (La fuga dal mondo 6,34).
Osserva al riguardo il cardinale Carlo M. Martini che la difesa di Elia, fatta da
Ambrogio, non soddisfa, “perché il testo biblico dice: ‘Elia, impaurito, si alzò e se ne
andò per salvarsi’" (Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato-
Milano 1990, p. 87).
Eppure, cogliendo l'anima del commento ambrosiano (cioè l'itinerario ascetico
della fuga mundi), possiamo ricavarne alcune indicazioni molto utili per la preghiera e
per la vita.

Già un'altra volta Elia aveva dovuto fuggire, quando, sollecitato dalla Parola del
Signore, era andato a nascondersi “presso il torrente Cherit, che è a oriente del
Giordano” (1 Re 17,3).
A questo proposito Ambrogio osserva, sempre nella Fuga dal mondo, che Elia
“stava presso il torrente Corrad” (Ambrogio usa questo tipo di vocalizzazione), “che
significa conoscenza, per attingervi copiosamente la conoscenza di Dio che in esso
scorreva, fuggendo il mondo a tal punto da non cercare altro alimento per il corpo se
non quello recatogli dagli uccelli che lo servivano, quantunque il suo cibo per lo più
non fosse terreno. Di conseguenza, per l'energia infusa a lui dal cibo ricevuto, camminò
per quaranta giorni” (La fuga dal mondo 6,34).
Secondo l'intuizione di Ambrogio la fuga verso il Cherit e il nascondiglio di Elia
negli anfratti sovrastanti il torrente conducono il profeta a una più profonda conoscenza
di Dio, e in definitiva alla sapienza del cuore.
Possiamo vedere nella caverna del Cherit la preghiera nascosta, la preghiera
contemplativa profonda, sconosciuta agli occhi del mondo, per la quale è necessario
camminare a lungo nella desolazione, nell'aridità, nel deserto, ma che nutre
abbondantemente lo spirito: una preghiera nascosta agli occhi del mondo –
“nNasconditi presso il torrente Cherit” (1 Re 17,2) –, e anche, non di rado, ai nostri
stessi occhi. Preghiera impalpabile, misteriosa, così come è dura, faticosa e buia la pista
che conduce nel fondo del burrone, dove scorre il torrente: preghiera arida, e tuttavia
feconda nello spirito, forse più ancora dei cosiddetti “momenti gratificanti”.
Secondo Ambrogio, infatti, la preghiera di Elia al Cherit promuove
efficacemente il cammino di conversione del profeta, fino a spalancargli la strada
dell'Oreb.

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E qui guadagniamo un punto d'arrivo del magistero pastorale di sant'Ambrogio.
Si tratta di una delle indicazioni più precise per superare le difficoltà nell'itinerario
della fede e della preghiera: parlo della necessaria continuità tra la preghiera e la vita.
Proprio questo itinerario ascetico di continuità tra la preghiera e la vita (cioè
tra la preghiera del Cherit e il cammino di spoliazione nel deserto, fino all'Oreb)
costituisce per ogni cristiano, e soprattutto per il ministro ordinato, il cartello
segnaletico della fuga mundi, nel senso positivo che Elia e Ambrogio ci insegnano.
In altri termini, è proprio questa la corsia preferenziale da percorrere per superare
compromessi borghesi e superficialità spirituali. La vera contemplazione (considerata
dai nostri Padri il punto d'arrivo della lectio divina) è il «confronto vitale» con Dio-
Amore, un confronto che deve giungere a trasformare in amore tutta la nostra vita (cfr.
Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 40).

3. Ambrogio, maestro di formazione sacerdotale

Un aspetto particolare del magistero di Ambrogio riguarda la formazione dei


ministri ordinati. Di fatto la sua vita e le sue opere svelano molte istanze della
formazione umana, spirituale e pastorale del presbitero.
Ne emerge una visuale del sacerdozio che presenta alcune caratteristiche precise.
E' anzitutto una visuale cristica, come è del resto l'orientamento di tutta l'opera
ambrosiana. Cristo è il vero levita, che comunica il proprio sacerdozio all'intera Chiesa,
e particolarmente ai presbiteri, i quali perciò devono vivere come “divorati” da lui,
amarlo, imitarlo, presentare la sua stessa immagine ai fedeli, donare la sua vita. Se il
Cristo è il verus levites, il presbitero è anch'egli un levita vero, impegnato in una lotta
senza quartiere contro se stesso e lo spirito del mondo, per essere – come Gesù Cristo
– totalmente di Dio.
E' una visuale totalitaria: l'intimità eucaristica, l'umiltà, l'obbedienza al vescovo,
la castità perfetta, l'oblazione di sé sono espressioni di questo amore per Cristo, che
non ammette compromessi o accomodamenti.
E' una visuale comunitaria, davvero sinodale: la formazione del presbitero ha
un respiro cosmico. ed è inserita nel mistero della Chiesa. La vita spirituale per
Ambrogio è apertura alle necessità del mondo, non ripiegamento su di sé: il sacerdote
è l'uomo per gli altri, non tiene nulla per sé, e quindi si santifica non solo per se stesso,
ma per l'arricchimento dell'intera comunità ecclesiale, a partire anzitutto dalla fraternità
con i ministri della Chiesa.

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E' una visuale pratica: Ambrogio – alla scuola dei maestri alessandrini – non
intende il presbitero come “una creatura angelicata”, irreale, ma come un cristiano in
possesso di solide virtù umane, secondo lo stampo ciceroniano della morale antica,
elevata e cristianizzata dalla pratica del Vangelo.
E', infine, una visuale dinamica: il sacerdote deve santificarsi mediante
l'esercizio, ricco di zelo, dei munera che la Chiesa gli ha affidato attraverso il vescovo,
cioè anzitutto attraverso la celebrazione dell'Eucaristia e della Parola di Dio.
Come è divorato da Cristo, così il presbitero è divorato dalle anime: la cura
pastorale assorbe tutto il suo tempo, le sue intere risorse fisiche, intellettuali, spirituali
ed anche economiche, senza lasciarlo pensare troppo alle proprie necessità. Le
occupazioni pastorali non si limitano peraltro alla sola sfera cultuale e rituale, ma
impegnano la formazione del presbitero nella costante pratica della carità,
richiedendogli una vita sobria, povera, disinteressata.

Possiamo aggiungere una riflessione complementare, che riguarda il tema della


verecundia o del “dignitoso comportamento” dei sacerdoti, confrontando tra loro il De
officiis di Cicerone e il De officiis [ministrorum] di sant'Ambrogio.
Sia Cicerone sia Agostino consideravano la verecundia come parte integrante
della formazione dei giovani, rispettivamente dei cittadini e dei chierici. In particolare,
il valore attribuito da sant'Ambrogio al decoro esterno è da mettere in relazione con la
sua concezione del comportamento cristiano, caratterizzato da verità e semplicità.
L'importante è essere “dal di dentro” uomo verace e leale, e questo si traduce di
conseguenza in un comportamento decoroso e naturale.
Le regole proposte dal vescovo di Milano non sono in funzione di un'apparenza
mondana, che mirerebbe a nascondere la vera realtà interiore per ingannare gli altri: al
contrario, esse contribuiscono a mettere in piena luce le intime ricchezze della persona.
Inoltre – se Ambrogio stabilisce per i suoi chierici un certo tipo di comportamento, per
cui assume le regole di condotta in uso nell'ambiente patrizio di tipo ciceroniano –,
bisogna però aggiungere che egli le intende animate da un autentico spirito evangelico.
E' l'anima, è lo spirito che stabiliscono la natura, l'indole di una regola di condotta.
Il decoro di cui tratta Cicerone, comprensivo delle virtù fondamentali della
prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, e la stessa sophrosyne dei Greci, seppure
sono alla base del trattato ambrosiano, ricevono dall'ispirazione biblica del santo
vescovo una particolare connotazione spirituale, che fa del comportamento dignitoso
un elemento importante nella formazione dei chierici e di tutti i fedeli.

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4. Ambrogio e Agostino: un ministro della Chiesa “in azione”

Queste riflessioni, necessarie per approfondire la storia della vocazione e il


magistero di Ambrogio, ci hanno condotto prevalentemente sul versante teorico,
dottrinale.
Ora vorrei andare alla prassi, e incontrare, per così dire, “il pastore sulla breccia”.
Come esercitava Ambrogio la sua “direzione spirituale”? In concreto, attraverso
quali scelte e strategie si realizzava il suo magistero pastorale?
Per rispondere a queste domande conviene ripercorrere – con un po' di pazienza
– la storia del celebre incontro tra Ambrogio e Agostino.

4.1. Agostino: da Cartagine a Roma


Tormentato da un'inquieta ricerca della verità, deluso dalle dottrine manichee,
frustrato nell'insegnamento dall'indisciplina degli allievi, Agostino decide di lasciare
Cartagine nel 383, quando Ambrogio è vescovo di Milano ormai da dieci anni.
Ha 29 anni, e si potrebbe dire che ha raggiunto una piena maturità di vita. In
realtà, perplesso e angosciato nel suo intimo, egli dispera ormai di poter conseguire
quella verità, cui anela con tutte le forze come al senso ultimo della sua esistenza.
Così la partenza di Agostino da Cartagine in quella notte del 383 sa molto di una
fuga. Monica si rende conto della fase critica che sta attraversando suo figlio, e non
vorrebbe assolutamente lasciarlo partire. Agostino deve imbarcarsi di nascosto,
lasciando sua madre a piangere e a pregare. In verità né Monica né Agostino se ne
rendono conto, ma la fuga da Cartagine costituisce l'inizio di quell'episodio
assolutamente centrale della vita di Agostino, che fu il suo incontro con Ambrogio,
culminato nella conversione e nel battesimo.
In un primo momento la destinazione di Agostino, esule da Cartagine, fu Roma.
Se non che l'impatto con l'ambiente romano fu un'altra grave delusione. Agostino si
era illuso che gli studenti romani fossero più disciplinati degli africani, e invece si
accorge che a Roma gli allievi sono solo più imbroglioni, e neppure pagano i loro
insegnanti.
Agostino sta facendo questa esperienza amara, quando al prefetto di Roma,
Simmaco, giunge una richiesta dalla corte imperiale, di stanza a Milano: si è resa
vacante la cattedra di eloquenza dello Studio Pubblico, e si vuole coprirla con un retore
di prestigio. Il titolare della cattedra di eloquenza a Milano, infatti, è in qualche modo
l'oratore ufficiale della corte imperiale. Simmaco pensa subito ad Agostino, e questi
accetta.

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4.2. Milano: Ambrogio e Agostino
Da poco giunto a Milano – siamo ormai nell'autunno del 384 –, il giovane
cattedratico dello Studio Pubblico si reca in visita alle varie autorità cittadine, e
incontra pure il vescovo Ambrogio. La nostra fonte narra che questi lo accolse satis
episcopaliter (Confessioni 5,3). E' un avverbio un po' misterioso: che cosa intendeva
dire Agostino? Probabilmente, che Ambrogio lo accolse con la dignità propria di un
vescovo, con paternità, ma insieme con qualche distacco.
E' certo che Agostino rimase affascinato da Ambrogio; ma è altrettanto certo che
un incontro a tu per tu su ciò che ad Agostino maggiormente interessava, e cioè sui
problemi fondamentali della ricerca della verità, veniva di giorno in giorno differito,
tanto che qualcuno ha potuto affermare che Ambrogio era molto freddo nei confronti
di Agostino, e che poco o nulla egli ebbe a che fare con la sua conversione.
Eppure Ambrogio e Agostino s'incontrarono più volte. Però Ambrogio teneva il
discorso sulle generali, limitandosi per esempio a tessere gli elogi di Monica, e
congratulandosi con il figlio per una simile madre.
Quando poi Agostino si recava appositamente da Ambrogio, lo trovava
regolarmente impegnato con catervae di persone piene di problemi, per le cui necessità
egli si prodigava; oppure, quando non era con loro (e questo accadeva per lo spazio di
pochissimo tempo), o ristorava il corpo con il necessario, o alimentava lo spirito con
letture.
E qui Agostino fa le sue meraviglie, perché Ambrogio leggeva le scritture a
bocca chiusa, solo con gli occhi. Di fatto, nei primi secoli cristiani la lettura era
strettamente concepita ai fini della proclamazione, e il leggere ad alta voce facilitava
la comprensione pure a chi leggeva: che Ambrogio potesse scorrere le pagine con gli
occhi soltanto, segnala ad Agostino ammirato una capacità assolutamente singolare di
conoscenza e di comprensione delle scritture.
Agostino siede spesso in disparte, con discrezione, ad osservare Ambrogio; poi,
non osando disturbarlo, se ne va in silenzio. “Così”, conclude Agostino, “non mi era
mai possibile interpellare l'animo di quel santo profeta, se non per questioni trattabili
rapidamente. Invece quei miei travagli interiori lo avrebbero voluto disponibile a lungo
per potersi riversare su di lui; ma non succedeva mai” (Confessioni 6,4).
Sono parole molto gravi: tanto che verrebbe da dubitare della stessa sollecitudine
pastorale di Ambrogio e della sua reale attenzione alle persone.
Personalmente, invece, sono convinto che quella di Ambrogio nei confronti di
Agostino fosse un'autentica strategia, e che essa rappresenti efficacemente la figura di
Ambrogio pastore e formatore.

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Ambrogio è certo al corrente della situazione spirituale di Agostino, oltre al resto
perché gode delle confidenze e della piena fiducia di Monica. Tuttavia il vescovo non
ritiene opportuno di impegnarsi con lui in un contraddittorio dialettico, dal quale lui,
Ambrogio, avrebbe anche potuto uscire perdente. Ambrogio, evidentemente, si era
incontrato spesso con persone di questo genere, e aveva collaudato un suo metodo. In
questi casi, evidentemente, egli preferiva sospendere le parole e lasciar parlare i fatti,
e con la sua prassi affermava il primato dell'essere sul dire del pastore.
Quali sono questi fatti?
In primo luogo la testimonianza della vita di Ambrogio, intessuta di preghiera e
di servizio nei confronti dei poveri. E Agostino rimane salutarmente impressionato,
perché Ambrogio si dimostra uomo di Dio e uomo totalmente donato al servizio dei
fedeli. La preghiera e la carità, testimoniate da questo eccezionale formatore,
subentrano alle parole e ai ragionamenti umani.
L'altro fatto che parla ad Agostino è la testimonianza della Chiesa milanese. Una
Chiesa forte nella fede, radunata come un corpo solo nelle sante assemblee, di cui
Ambrogio è l'animatore e il maestro, grazie anche agli inni da lui stesso composti; una
Chiesa capace di resistere alle pretese dell'imperatore Valentiniano e di sua madre
Giustina, che nei primi giorni del 386 erano tornati a pretendere la requisizione di un
luogo di culto per le cerimonie degli ariani. Stando alle parole di Paolino, che abbiamo
letto all'inizio, “Ambrogio, alla pari di Elia, non ebbe timore di parlare ai re e ai potenti
della terra, come lo ispirava il timore di Dio” (Vita 47).
Nella chiesa che doveva essere requisita, racconta Agostino, il popolo devoto
vegliava, pronto a morire con il proprio vescovo. “Anche noi”, e questa testimonianza
delle Confessioni è preziosa, perché segnala che qualcosa andava muovendosi
nell'intimo di Agostino, “pur ancora spiritualmente tiepidi, eravamo partecipi
dell'eccitazione di tutto il popolo” (Confessioni 9,7).
Agostino insomma, pur non riuscendo a dialogare come avrebbe voluto con il
vescovo Ambrogio, resta positivamente contagiato dalla sua vita, dal suo spirito di
preghiera, dalla sua carità verso il prossimo, e dal fatto che Ambrogio si manifesta
uomo di Chiesa: lo vede impegnato nell'animazione delle liturgie, ne coglie il progetto
coraggioso di edificare una Chiesa unita e matura.
In questo modo Agostino trova nella testimonianza del vescovo Ambrogio un
vero ministro della Chiesa, che lo riscatta dall'angoscia e dalla disperazione.

4.3. Agostino cantore della speranza


Alcuni anni più tardi, Agostino – ormai prete, e poi vescovo – scrive degli
splendidi passi sulla speranza, che lo aiutano a chiarire, ai pagani come ai cristiani, lo
“scandalo” di una realtà ancora fatta di pena e di dolore.

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Vogliamo ascoltarne alcuni, tratti dai celebri Commenti ai Salmi, per lo più delle
omelie, che Agostino tenne soprattutto a Cartagine.
“Che cosa c'è qui sulla terra?”, si domanda per esempio Agostino nel Commento
al Salmo 48; e risponde: “Fatica, oppressione tribolazione, tentazione: non puoi sperare
nient'altro. E la gioia dov'è? Nella speranza futura. Dice dunque l'apostolo: ‘Sempre
lieti’ (2 Corinzi 6,10). In mezzo a tutte queste tribolazioni, sempre lieti e sempre afflitti.
Sempre lieti, perché egli stesso dice: ‘Come se afflitti, ma sempre lieti’. La nostra
afflizione ha un come se, la nostra gioia non ha come se, perché nella speranza è certa”.
Lo stesso discorso prosegue nel Commento al Salmo 123, dove si legge a
proposito dei cristiani: “Che cosa cantano dunque costoro? Che cosa cantano queste
membra di Cristo? Sono persone che amano, e cantano d'amore, cantano di desiderio.
A volte cantano sotto il peso della tribolazione, a volte invece pieni di esultanza, perché
cantano nella speranza. La nostra tribolazione, infatti, è qui in questo mondo, mentre
la nostra speranza riguarda il mondo a venire, e se nella tribolazione che ci accompagna
in questo mondo non ci consolasse la speranza della vita futura, saremmo finiti. La
nostra gioia, fratelli, non è dunque ancora una realtà di fatto, ma è una gioia nella
speranza. Tuttavia la nostra speranza è così certa, che è come se fosse già diventata
realtà”.
“Come Gesù Cristo è diventato la nostra speranza?”, si chiede infine Agostino.
“Perché è stato tentato, ha patito ed è risorto. Così è diventato la nostra speranza. In lui
puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua
ricompensa nella resurrezione. E’ così che è diventato la nostra speranza. Perché noi
abbiamo due vite: una è quella in cui siamo, l'altra è quella in cui speriamo. Quella in
cui siamo ci è nota, quella in cui speriamo ci è sconosciuta... Con le sue fatiche, le
tentazioni, i patimenti, la morte, Cristo ti ha fatto vedere la vita in cui sei; con la
risurrezione ti ha fatto vedere la vita in cui sarai. Noi sapevamo solo che l'uomo nasce
e muore, ma non sapevamo che risorge e vive in eterno. Per questo è diventato la nostra
speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni, ed ora siamo in cammino verso la
speranza” (Commento al Salmo 60, 4).

4.4. Agostino cantore della misericordia


Ma – agli occhi di Agostino, “discepolo” di Ambrogio – la speranza teologica
non basta. Essa deve essere accompagnata e “inverata” dalla misericordia e dalle buone
opere della carità. E’ utile citare, a questo riguardo, un breve sermone intitolato Il
valore della misericordia. Non sappiamo dove, né quando, venne pronunciato. Per la
verità non siamo neppure certi della paternità agostiniana: tuttavia è eloquente
l’attribuzione pressoché concorde di questo scritto al vescovo di Ippona.
“O buoni fedeli” – così esordisce il Discorso – “desidero darvi qualche
avvertimento sul valore della misericordia. Per quanto io abbia sperimentato che voi
siete disponibili a ogni opera buona, tuttavia è necessario che su questo argomento
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tenga con voi un discorso di particolare impegno. Vediamo dunque: che cos’è la
misericordia? Non è altro se non caricarsi il cuore di un po’ di miseria altrui. La parola
‘misericordia’ deriva il suo nome dal dolore per il ‘misero’. Tutt’e due le parole sono
presenti in questo termine: miseria e cuore (de dolore miseri misericordia dicta est:
utrumque ibi sonat, et miseria et cor). Quando il tuo cuore è toccato, colpito dalla
miseria altrui, ecco, allora quella è misericordia. Fate attenzione pertanto, fratelli miei,
come tutte le buone opere che facciamo nella vita riguardano veramente la
misericordia. Ad esempio: tu dài del pane a chi ha fame; daglielo con la partecipazione
del cuore, non con noncuranza, per non trattare come un cane l’uomo a te simile.
Quando dunque compi un atto di misericordia, comportati così: se porgi un pane, cerca
di essere partecipe della pena di chi ha fame; se dài da bere, partecipa alla pena di chi
ha sete; se dài un vestito, condividi la pena di chi non ha vestiti; se dài ospitalità,
condividi la pena di chi è pellegrino; se visiti un infermo, condividi quella di chi ha
una malattia; se vai a un funerale, ti dispiaccia del morto; e se metti pace fra i litiganti,
pensa all’affanno di chi ha una contesa. Se amiamo Dio e il prossimo, non possiamo
fare queste cose senza una pena nel cuore” (Il valore della misericordia).

5. Conclusione

In definitiva, che cosa trasformò Agostino, da quell'uomo disperato che era, in


un tale cantore della speranza e della misericordia?
Un elemento decisivo fu certamente la singolare formazione spirituale ricevuta
dal vescovo Ambrogio, un'educazione basata sull'esempio e sulla testimonianza.
A questo riguardo mi sembra utile proporre due riflessioni, che legano tra loro –
come in una catena ininterrotta di testimonianze – i santi vescovi Eusebio, Ambrogio
e Agostino. Come ho già accennato, pare che Ambrogio abbia inteso mettersi, in
qualche modo, alla scuola di Eusebio. Lo attesta soprattutto l'Epistola 63, già citata,
che il vescovo di Milano scrisse intorno al 394 alla Chiesa di Vercelli.
Molti tratti accomunano i santi vescovi Eusebio, Ambrogio e Agostino, ma
vorrei ricordarne soprattutto due, assolutamente centrali nell’identità del ministro
consacrato.
Essi sono l'ascolto orante della Parola e l'esercizio della carità.

5.1. Eusebio, Ambrogio e Agostino sono anzitutto ministri della Parola. Ciò che
impressionò salutarmente il giovane Agostino, e finì per riscattarlo dalla sua
disperazione, fu proprio la familiarità del vescovo di Milano con la Parola del Signore,

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l'intimità profonda che si svelava in quella sua lettura a fior di labbra. Ma in questo
amore per le scritture e per la preghiera Ambrogio giocava una nobile gara con il
vescovo di Vercelli. Per Eusebio – come per Ambrogio – la Bibbia era l'anima della
preghiera quotidiana, il segreto della sua intensa vita pastorale.
E' facile l'attualizzazione del discorso. Ne scaturisce un esame di coscienza
necessario per chi vuole ritrovarsi nella testimonianza di Eusebio, di Ambrogio e di
Agostino. Anche oggi, di fronte alla sfida di certa cultura nichilista e atea, si può
vincere solo con un “di più” di preghiera, nutrita sistematicamente dalla lectio divina,
cioè dall'ascolto orante e ubbidiente della Parola di Dio: una lectio, è appena il caso di
dirlo, che non sia fine a sé stessa, ma che conduca piuttosto alla conversione della vita.
“Quando si leggevano le storie dei Patriarchi e le massime dei Proverbi abbiamo
trattato ogni giorno di morale”, diceva Ambrogio ai destinatari delle sue catechesi,
“affinché, formati e istruiti da essi, voi vi abituaste ad entrare nella via dei Padri e a
seguire il cammino dell'obbedienza ai precetti divini” (I misteri 1,1).

5.2. E così, oltre che ministri della Parola, Eusebio, Ambrogio e Agostino si
rivelano ministri della Chiesa al servizio della carità. Tornano alla mente alcuni gesti
profetici di Ambrogio e di Agostino, come quello di fondere i vasi sacri per il riscatto
dei prigionieri, e rivediamo, come in un flashback, lo sguardo ammirato di Agostino,
che contemplava Ambrogio assediato da catervae di poveri. Ma già prima di Ambrogio
la vita della Chiesa eusebiana era piena di fioretti della carità cristiana e ricca di
iniziative lungimiranti per la salvezza di tutti.
Di nuovo dovremmo interrogarci con coraggio se come ministri ordinati ci
muoviamo sulla strada di Eusebio, di Ambrogio e di Agostino.
Certo, non è facile praticare la carità nel contesto sociale di oggi. Anzitutto la
lista dei bisogni si è fatta più lunga che mai, e in secondo luogo, volendo fare del bene
agli ultimi, si rischia talvolta di soccorrere il malvivente piuttosto che l'uomo ferito e
derubato.
Come al solito, il ricorso al Vangelo e ai Padri non offre delle risposte
confezionate per i singoli problemi della vita, né pretende di sostituirsi alla coscienza
responsabile dei fedeli.
Ma – nonostante le difficoltà sopra indicate, e tante altre che si potrebbero
aggiungere – l'interrogativo fondamentale (“Tu, da che parte stai? Sei uno dal ‘cuore
duro’, o hai le ‘viscere di misericordia’ del nostro Dio?”) continua a risuonare con tutta
la sua forza, insieme al pressante invito a riconoscere nel volto del povero il volto di
Cristo. Dovrai discernere e mediare caso per caso le modalità dei tuoi interventi. Ma
alla fine le tue azioni devono esprimere con chiarezza l'orientamento di fondo della tua
vita: e queste azioni sono anzitutto le opere della carità. Esse devono risplendere
“davanti agli uomini”: su di esse sarai giudicato nell'ultimo giorno.

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In definitiva, la storia della vocazione di sant’Ambrogio, vescovo di Milano, si
delinea con molta chiarezza.
Essa si fonda su una sintesi efficace, personalmente realizzata e testimoniata, tra
la preghiera e la vita, tra l'ascolto della Parola e l'esercizio della carità. Non si riduce
affatto a una serie di concetti astratti o di norme disincarnate.
Inoltre (e di conseguenza) Ambrogio si colloca al centro di una «cordata di
testimonianza», che idealmente lega tra loro Eusebio, lo stesso Ambrogio e Agostino.
Dovremmo chiederci a questo punto se anche noi ci ritroviamo nella stessa
“cordata”. A noi, cristiani del Duemila, Eusebio, Ambrogio e Agostino affidano il
testimone che è passato tra le loro mani, perché la fede, la speranza e l'amore possano
vincere il mondo.

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CAPITOLO SESTO
San Giovanni Leonardi (1541-1609)

Facciamo memoria della storia di vocazione di san Giovanni Leonardi, sacerdote


e fondatore dei Chierici regolari della Madre di Dio. In questo caso utilizzeremo
esplicitamente lo schema narrativo delle storie bibliche di vocazione
Prima però conviene ricordare che il nostro santo – nato vicino a Lucca nel 1541
– visse a Roma i suoi anni più fecondi, godendo dell’amicizia spirituale di alcuni altri
santi sacerdoti, come san Filippo Neri, san Giuseppe Calasanzio e il cardinale Baronio.
Questo riferimento all’amicizia tra i santi (e soprattutto tra santi sacerdoti)
meriterebbe uno sviluppo adeguato. Qui mi limito semplicemente a segnalare il tema.
San Giovanni Leonardi morì a Roma nel 1609, e le sue spoglie mortali riposano
nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, sede generalizia dell’Ordine da lui fondato.

Come già abbiamo accennato, nella Bibbia le storie di vocazione – dai Patriarchi
ai Profeti, da Maria santissima agli Apostoli – sono accomunate da uno schema
letterario, che prevede almeno tre tappe: la chiamata-elezione, la risposta, la missione.
Di norma vi si aggiungono poi i dubbi e le resistenze del chiamato, e – infine –
la conferma rassicurante di Dio.
Proprio in questo modo vogliamo confrontarci con la storia della vocazione di
san Giovanni Leonardi. In questo caso, tuttavia, ci limiteremo ai primi tre momenti dei
racconti biblici.

1. La chiamata-elezione

Ecco dunque il primo atto di questa bella storia: la chiamata-elezione, l'iniziativa


assolutamente gratuita di Dio.
Anche la storia di vocazione di san Giovanni Leonardi, come del resto ogni
storia di vocazione, è anzitutto dono e mistero, per usare una suggestiva espressione –
su cui torneremo a suo tempo – del santo papa Giovanni Paolo II, quando, nel

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cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale, egli volle rileggere con
sguardo di fede la storia della propria vocazione.
La lettura del profeta Isaia, citata da Gesù stesso nel suo discorso programmatico
nella sinagoga di Nazaret, ce ne dà conto: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me,
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione” (Isaia 61,1).
A questo proposito, possiamo ricordare un momento preciso della vita di san
Giovanni Leonardi, quando – subito dopo la morte del padre – egli aveva ormai deciso
di dedicarsi alla professione di speziale, o di farmacista. Siamo nel 1568. Giovanni si
recava a Lucca, per comperare i vasi e gli altri strumenti necessari per il suo lavoro.
Ma lungo la strada lo sorprese una voce interiore: “Giovanni, dove vai? Hai chiesto il
consiglio al tuo confessore?”, gli chiese la voce. E quando il giovane, ubbidendo alla
voce di Dio, si confrontò con il padre spirituale, la risposta fu netta: “Figliuolo,
fermatevi un poco. Io non voglio che facciate più lo speziale…”.
Ecco l’iniziativa assolutamente gratuita di Dio. E’ lui che chiama. Il vero
protagonista di ogni storia di vocazione è soltanto lui.
Al chiamato spetta la responsabilità umile di una risposta fedele.

2. La risposta

Trascorriamo così al secondo atto della nostra storia: la risposta alla chiamata
del Signore.
Due verbi presiedono di norma a questa tappa dei racconti biblici di vocazione:
“lasciare” e “seguire”, cioè l’“esodo” per la “sequela”. Valga per tutte la storia della
vocazione di Abramo: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”,
gli ordina il Signore, “e va’ verso il paese che io ti indicherò...” (Genesi 12,1).
L’esodo personale di Giovanni Leonardi fu assai travagliato, e spesso
incompreso: da Lucca a Roma; dalla fondazione dei Preti Riformati a quella dei
Chierici Regolari della Madre di Dio…
Comunque, proprio attraverso le difficoltà e le incomprensioni si snoda la
risposta fedele del Leonardi al suo Signore: la sua è la risposta propria dei
“ministri/schiavi di Cristo” e degli “amministratori dei misteri di Dio”: ad ognuno di
questi amministratori, ammonisce Paolo, si richiede che risulti fedele (1 Corinzi 4,1).
In effetti, quella di san Giovanni Leonardi fu una risposta senza riserve alla
volontà di Dio. E’ proprio questa una linea caratteristica della sua spiritualità: la matura
consapevolezza della volontà divina, a cui lui – come il “servo biblico” – non poteva
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in alcun modo sottrarsi. Di fatto, la certezza di essere uno strumento nelle mani del
Signore l’accompagnò sempre, dall’inizio alla fine della sua storia di vocazione
sacerdotale.

3. La missione

Lungo gli anni della sua vita, le giornate divennero per lui come tanti sì d’amore
ripetuti a Dio, che l’aveva chiamato al servizio della Chiesa, del prossimo, dei ragazzi
da educare e da istruire.
Ecco la missione di san Giovanni Leonardi, mirabilmente riassunta in un passo
famoso delle Costituzioni del 1584: “Il Signore”, vi scrisse il santo, “ci ha chiamati non
solo perché potessimo attendere a noi stessi, ma perché cercassimo con ogni diligenza
la salvezza del nostro prossimo. E tutti noi fratelli” (cioè i Chierici da lui fondati) “con
animo acceso ci sforzeremo di compiere questa volontà di Dio, attendendo
all’amministrazione dei santissimi sacramenti senza perdonare fatica e disagio. Si
predichi e si legga la Divina Scrittura in Chiesa nostra ogni giorno di festa comandata
e insieme si insegni la Dottrina Cristiana ai bambini”.
E davvero i Chierici del Leonardi si mossero così per la missione, proprio come
i settantadue discepoli, di cui parla il Vangelo. Il Signore “li inviò a due a due avanti a
sé in ogni città e in ogni luogo dove stava per recarsi”: ed essi avvicinavano al mondo
il Regno di Dio (Luca 10,1-9).

4. La storia è finita…

La storia è finita, e in un certo senso ci dispiace, perché era proprio una bella
storia.
Ma la cosa più bella di tutte è questa: la storia, in verità, non è finita.
La storia di vocazione alla santità di Giovanni Leonardi, infatti, è una solenne
consegna per ciascun fedele, e soprattutto per ogni ministro ordinato: che sulla stessa
strada di fede, di speranza e di carità ci troviamo a camminare anche noi, ciascuno con
la sua irripetibile storia di vocazione, ma sempre con tutta la fede e la passione di cui
siamo capaci.
Anch’io sono chiamato da Dio, ogni giorno della mia vita.
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Anch’io devo rispondere a lui, in modo coerente e fedele.
Anche a me è affidata una missione, che nessun altro può compiere al mio posto.
Basta che ci fidiamo di Dio, il vero protagonista della nostra storia di vocazione.
E allora, voltandoci indietro a guardare la nostra vita, anche a noi – come ai santi
– sembrerà finalmente di comprendere tutto: che la grazia di Dio ci accompagna, e che
il suo amore misericordioso dura per sempre.

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CAPITOLO SETTIMO
San Giovanni Maria Vianney (1786-1859)

Quest’altro “medaglione sacerdotale” è dedicato a Jean-Marie Vianney, più noto


come “il santo curato d’Ars” (Dardilly, 8 maggio 1786 – Ars-sur-Formans, 4 agosto
1859).
Il “segreto” della sua invidiabile fecondità pastorale è svelato da Hans Urs von
Balthasar in una pagina impressionante, che ci permette di toccare con mano il realismo
dei santi.
“Quando si chiedeva a Jean-Marie Vianney quale fosse il suo metodo, che
convertiva anche i peccatori incalliti”, scrive il teologo svizzero, “egli rispondeva:
‘Ecco il mio segreto: do ai peccatori una piccola penitenza, e faccio io il resto, al loro
posto’. Ai preti, che si lamentavano della tiepidezza della loro parrocchia, il santo
chiedeva: ‘Ma voi, avete solo predicato, avete soltanto pregato? Non avete anche
digiunato, non avete dormito per terra? Non vi siete flagellato?’” (cfr. Cattolico, Jaca
Book, Milano 1976, p. 132).

Da parte mia, mi limiterò a richiamare semplicemente cinque tratti della vita del
santo curato, basandomi soprattutto sull’eccellente biografia di F. Trochu, Le curé
d’Ars Saint Jean-Marie Baptiste Vianney d’après toutes les pièces du Procès de
Canonisation et de nombreux documents inédits (mi riferisco qui all’edizione Résiac,
Montsûrs 2004).
L’esempio dei sacerdoti santi scalda il nostro cuore, e rappresenta una delle
lezioni più efficaci della Chiesa sulla vocazione al ministero ordinato.

1. Il primo tratto biografico che intendo ricordare riguarda la formazione del


santo curato.
Sappiamo bene che il ministero sacerdotale non si improvvisa. È richiesto un
percorso formativo serio e responsabile. Tuttavia Jean-Marie frequentò solo per due
anni il seminario, prima quello di Verrière, e poi quello di Saint-Irénée a Lyon, da dove
– per dirla in termini un po’ crudi – fu espulso dopo due mesi, perché debilissimus: era
considerato una nullità in latino, e totalmente inadatto allo studio.

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Eppure, il giovane Jean-Marie poté ricevere una formazione eccellente a contatto
con un sacerdote colto, pio, e profondamente dedito alle cure del ministero. Era il
curato di Écully, l’abbé Charles Balley, che aveva istituito una scuola di formazione
sacerdotale nella sua canonica. Era un testimone esemplare, se il curato d’Ars ebbe a
dire di lui: “Ho conosciuto molte anime belle, ma nessuna come la sua”. E aveva
ragione: l’abbé Balley intuì, come ogni autentico educatore, il valore di quel giovane
– timido, e persino un po’ goffo – che si era messo alla sua scuola. Seppe incoraggiarlo,
e ottenne dal Vicario generale, Monsignor Courbon, che il giovane Jean-Marie fosse
dispensato dall’uso della lingua latina nell’esame di ammissione agli Ordini sacri.
Il curato d’Ars imparò poi ad esercitare la cura d’anime “sul campo”, avendo
sempre come maestro l’abbé Balley. Nella sua parrocchia, infatti, esercitò il ministero
per tre anni, dall’ordinazione sacerdotale, fino a quando – nel 1818 – fu destinato ad
Ars.
Dal suo maestro il curato apprese le coordinate fondamentali della santità
sacerdotale, vale a dire la consacrazione e la missione: una vita interiore robusta, fatta
di preghiera e di penitenza, e una dedizione totale alle anime.
Cari confratelli sacerdoti!
Vi invito a rileggere con sguardo di fede la storia della vostra vocazione, per
rendere più generosa e coerente la nostra risposta al Signore.
Forse sono passati molti anni, ma ritorniamo con il ricordo orante al tempo della
nostra formazione sacerdotale: lasciamoci stupire dalla Provvidenza di Dio, che con
mirabile sapienza e amore ha disposto gli incontri e le tappe decisive della nostra vita;
ringraziamo il Signore per i sacerdoti, che con il loro insegnamento e il loro esempio
hanno contribuito a plasmare il nostro sacerdozio...
Ripensiamo a ciò che abbiamo appreso da loro, e magnifichiamo il Signore, che
ha guidato gli anni della formazione e i primi passi del nostro ministero.
Ci accompagna in questo esercizio la testimonianza del Papa emerito, Benedetto
XVI.
Nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale (16 giugno 2009), ritornando
con animo grato agli inizi del suo sacerdozio, egli scrive: “Porto ancora nel cuore il
ricordo del primo parroco, accanto al quale esercitai il mio ministero di giovane prete:
egli mi lasciò l’esempio di una dedizione senza riserve al suo servizio pastorale, fino a
trovare la morte nell’atto stesso in cui portava il Viatico a un malato grave”.
Ecco la risposta autentica del sacerdote, davanti alla sua missione pastorale!

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2. Passiamo ora al secondo tratto biografico.
Pochi anni dopo l’inizio del ministero parrocchiale ad Ars, il santo curato avviò
un’iniziativa, in cui profuse tutto l’entusiasmo e lo zelo di cui era capace: l’istituzione
di un orfanotrofio e di una scuola femminile, la Providence.
Per più di vent’anni, la Providence fu, in un certo senso, la sua casa. Vi si recava
non solo per i doveri del ministero, ma anche per prendere i pasti e per intrattenersi
amabilmente con le piccole orfane. Alla preghiera di queste innocenti attribuiva
un’efficacia speciale.
Nel 1848 la direzione della Providence venne affidata a una Congregazione
religiosa femminile, che vi impresse un nuovo orientamento educativo. Anche il
Vescovo aveva sollecitato questo cambio: si temeva, infatti, che l’istituzione non
sarebbe sopravvissuta alla scomparsa del fondatore.
È innegabile che per questo motivo il nostro curato soffrì molto, al punto di
affermare: “Monsignore, il Vescovo, vede in questa decisione la volontà di Dio, ma
io… io no!” (Trochu, p. 416). Eppure accettò tutto, senza alcuna recriminazione,
collaborando cordialmente con le Religiose di san Giuseppe, che subentravano alle
prime educatrici. Quando questo avvenne, egli aveva già 62 anni.
Cogliamo in questo episodio una grande libertà interiore, persino da ciò che noi
oggi definiremmo i nostri “progetti pastorali”. Come sacerdoti, infatti, tutti abbiamo i
nostri piani pastorali, diamo vita a iniziative, entriamo in contatto con persone, che
diventano collaboratori e amici. Umanamente ci affezioniamo a tutto questo. Talvolta
sembra che il successo ottenuto ci renda quasi indispensabili. Non poche volte, però,
l’obbedienza ai superiori, le circostanze della vita, il cambio delle situazioni ci
chiedono un distacco.
Come reagiamo?
In questi casi, sappiamo assumere con coraggio quello “sguardo di fede”,
quell’“ispirazione”, che il santo vescovo Francesco di Sales definiva “un raggio
celeste, che porta nei nostri cuori una luce calda, per mezzo della quale ci fa vedere il
bene, e ci riscalda per farcelo perseguire” (Trattato dell’Amor di Dio 10)?
Se amiamo Dio sopra ogni altra cosa, un cambio di ufficio, un trasferimento, la
conclusione di un’attività a cui tenevamo molto, non ci risparmieranno forse da una
certa sofferenza interiore, ma questo non ci turberà, e non ci toglierà quella pace e
quella gioia, che Jean-Marie Vianney conservò di fatto, anche quando dovette lasciare
ad altri la sua Providence.

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3. Questa libertà interiore, che lo rese fedele nell’adempimento della missione,
emerge pure da un altro episodio della storia di vocazione del santo curato, il terzo che
ricordiamo.
Benché totalmente dedito all’azione pastorale, egli avvertiva sempre
un’irresistibile attrazione per la vita contemplativa.
Ci furono due memorabili tentativi di “fuga”: il primo nel 1843, dopo una grave
malattia; il secondo dieci anni più tardi, quando, con l’arrivo del nuovo vicario
parrocchiale, Jean-Marie credette di potersi ritirare.
Ecco la testimonianza di Mademoiselle des Garets, appartenente alla famiglia
dei nobili di Ars: “Sperava di rifugiarsi nella solitudine della Trappa, o in qualche altro
luogo nascosto, per prepararsi alla morte e piangere sulla propria vita”.
In una maniera quasi rocambolesca, e tuttavia molto toccante, i suoi penitenti gli
impedirono di partire, inginocchiandosi davanti a lui. Fecero suonare le campane a
martello, e convocarono tutti i parrocchiani, che si accalcarono attorno a lui, fino a
rendergli impossibile il passaggio. Anche questa volta il santo – vinto dall’affetto
devoto della gente, e totalmente abbandonato alla volontà di Dio – rinunciò al suo
progetto.
Ma il “sogno” della preghiera e della penitenza solitaria non cessò mai di abitare
nel cuore di questo parroco, “prigioniero delle anime” e divorato dallo zelo pastorale.
Eppure, non fu certo un sogno inutile, a prescindere dalla sua mancata
realizzazione. Al contrario, rese il curato d’Ars ancora più contemplativo nell’azione,
trasfigurandolo progressivamente nell’immagine e nell’amore di quel Dio, che egli
testimoniava e irradiava.
Ebbene, non capita qualcosa di analogo nella vita di molti di noi?
Forse anche noi, ripensando alla storia della nostra vocazione, vediamo che
c’erano nel nostro cuore desideri puri e nobili, dei progetti a cui tenevamo molto: ma
poi la vita ha preso una direzione diversa, e abbiamo fatto altro.
Non per questo dobbiamo coltivare sterili rimpianti. Siamo contenti ugualmente.
Il solo fatto che quei “sogni” siano stati ospitati nel nostro cuore è già un dono di Dio.
La nostra vocazione, poi, è riuscita per un’altra strada.
Non tutti i fiori che splendono sui rami a primavera sono destinati a dare frutto:
molti di essi sono creati solo per la loro bellezza, che muore all'urto del vento.
I desideri buoni hanno anche un valore in sé. Possono allargare l'animo. Possono
essere offerti a Dio con freschezza e amore.

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4. Trascorro ora al quarto episodio.
Accennavo prima al fatto che nel 1853 ci fu ad Ars un avvicendamento dei vicari
parrocchiali: l’abbé Toccanier prese il posto di colui che – per otto anni – era stato il
più stretto collaboratore di san Jean-Marie.
Questo sacerdote era l’abbé Raymond. Tra il curato e lui i rapporti non furono
certo facili. Tutt’altro. Dalle testimonianze del processo di canonizzazione
apprendiamo che questo sacerdote, di vent’anni più giovane del curato, si considerava
una specie di “tutore” del parroco. Lo trattava con durezza, senza esitare a contraddirlo
pubblicamente. Privo di ogni tatto e delicatezza, incurante dell’età e dalla fama di
santità che già circondava Jean-Marie Vianney, più volte ne feriva la delicata
sensibilità. Voleva diventare lui il parroco di Ars. Consultando i registri parrocchiali
di quegli anni, vediamo con sorpresa che l’abbé Raymond si firmava “curé de la
paroisse”.
Tutto ciò doveva amareggiare non poco il nostro santo, che del suo vicario era
stato benefattore: gli aveva pagato perfino la retta nel seminario!
Sappiamo bene che cosa accade in queste circostanze: molta gente, indignata,
riferiva tutto al parroco. Si lamentava con lui del comportamento del suo “vice”, e
chiedeva insistentemente che se ne informasse il Vescovo, perché l’abbé Raymond
fosse trasferito altrove.
I sacerdoti santi, però, non acconsentono a questo modo di fare troppo umano.
Reagiscono in altro modo. Jean-Marie difendeva il suo vicario, dicendo così alla gente:
“Oh, egli mi dice solo la verità; quanto gli sono riconoscente! Se qualcuno lo farà
partire, io me ne andrò insieme a lui”. Alcune voci giunsero alle orecchie del Vescovo,
grande amico del curato d’Ars. Allora Jean-Marie gli scrisse: “Non ho nulla di speciale
da riferire a Vostra Grandezza circa Monsieur Raymond, eccetto che egli merita un
posto d’onore nel vostro cuore, in cambio di tutti i gesti di bontà che egli ha per me”
(Trochu, p. 527).
E’ proprio questo ciò che si dice “vincere il male con il bene” (cfr. Romani
12,21)!
Sicuramente qualche episodio del genere è capitato anche a noi, nella nostra vita
sacerdotale: a volte – per quel poco di invidia e di gelosia, le cui radici non si estirpano
mai del tutto – alcuni confratelli ci hanno amareggiato, e forse ancor oggi sono causa
di sofferenza per noi.
Guardiamo dunque alla santità del curato d’Ars!
È santo per il grado eroico delle virtù che ha praticato. Perché è veramente eroico
non lamentarsi di chi – stando accanto a noi e, magari, “gerarchicamente sottoposto” a
noi – mormora e ci ostacola pesantemente.

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Il modo di comportarsi del parroco di Ars nei confronti del suo vicario dimostra
che esiste anche un’altra “gerarchia”, che conta più di ogni altra: è la gerarchia di quella
carità, “che tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Corinzi 13,7).
È veramente eroico trasformare queste situazioni nella partecipazione alla croce
di Cristo.
Una volta, anche il nostro curato sembrava non farcela più. Chiese al suo
sagrestano, frère Athanase – un fidatissimo e devoto amico –, di preparargli una bozza
di lettera da mandare al Vescovo. Appena la ebbe letta, la strappò e dichiarò: “Ci ho
pensato bene. Nostro Signore ha portato la croce. Anch’io posso fare come ha fatto lui”
(Trochu, p. 521).
Alla fine, questa strategia si mostra vincente. Non soltanto cresciamo noi stessi
nella santità, ma tocchiamo il cuore di chi ci tratta male. Il prezzo da pagare è alto,
perché a volte il cuore sanguina. Nel processo canonico, l’abbé Raymond – che
intraprese anche il progetto di una biografia del suo ex-parroco, rimasta però solo in
frammenti – confessò: “Non ho che un rimpianto, quello di non avere sufficientemente
approfittato dei suoi esempi; tuttavia conto sull’affetto tenero e paterno, che egli mi ha
testimoniato” (Trochu, pp. 526-527).

5. Propongo infine un ultimo tratto della biografia del santo curato.


Quando Jean-Marie giunse nella sua parrocchia, la qualità della vita cristiana era
mediocre. C’era da scoraggiarsi: scarsa osservanza del precetto domenicale, ignoranza
religiosa, una certa immoralità, segnata dalla frequentazione assidua delle osterie e da
una disinvolta promiscuità nei balli pubblici.
Solo pochi anni dopo l’inizio del suo ministero, nel 1823, Jean-Marie scrisse a
Madame Fayot: “Mi trovo in una piccola parrocchia, piena di spirito religioso, che
serve il buon Dio con tutto il suo cuore” (Trochu, p. 256). Evidentemente gli abitanti
di Ars avevano già cambiato il loro modo di vivere, che andava ispirandosi sempre di
più al Vangelo predicato e testimoniato dal santo curato.
Come si può spiegare questo successo pastorale?
Certamente, esso va attribuito allo zelo di san Jean-Marie, che visitava le
famiglie, curava il decoro della sacra liturgia, organizzava l’associazionismo con
l’istituzione delle confraternite, predicava con fervore, sollecitava la collaborazione dei
fedeli più sensibili. Tuttavia, la scelta pastorale prioritaria del curato fu un’altra: egli si
inginocchiava spesso dinanzi all’Eucaristia, e dal dialogo con il Pastore dei pastori
ricavava l’energia interiore per compiere il suo ministero. Così, mentre attirava le
benedizioni di Dio sui fedeli, egli offriva un esempio personale di pietà, che toccava e
convertiva il cuore della gente.
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Il curato d’Ars è uno dei “santi eucaristici” menzionati dal Papa Benedetto XVI
a conclusione dell’Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (n. 94). Inoltre, nella
già citata Lettera di indizione dell’anno sacerdotale, il Papa emerito scriveva: “Dal suo
esempio i fedeli imparavano a pregare, sostando volentieri davanti al Tabernacolo per
una visita a Gesù Eucaristia... Tale educazione dei fedeli alla presenza eucaristica e alla
comunione acquistava un’efficacia particolarissima, quando i fedeli lo vedevano
celebrare il santo Sacrificio della Messa. Chi vi assisteva diceva che ‘non era possibile
trovare una figura che meglio esprimesse l’adorazione’”.
La vita di un prete cambia, se egli è adoratore assiduo del Santissimo
Sacramento, se si lascia invadere da quello “stupore eucaristico”, che con parole
veramente ispirate san Giovanni Paolo II ha voluto ridestare nella sua ultima Enciclica,
Ecclesia de Eucharistia.
In verità, tutta la vita e la missione del sacerdote devono essere inondate dalla
Grazia efficace di questa divina Presenza, adorata, accolta, comunicata.
Il rischio di un certo “pelagianesimo pastorale” è sempre in agguato: anche senza
volerlo, si può facilmente cadere nell’errore di ritenere che l’efficacia pastorale
dipenda dall’organizzazione e dall’attività. Da parte mia, non vorrei azzardare
valutazioni affrettate: ma non è forse vero che dove la Chiesa si è data un’impostazione
eccessivamente burocratica, qualcosa non ha più funzionato, e la gente si è allontanata?
Il curato d’Ars, inginocchiato in amorosa contemplazione di Gesù vivo nel
Santissimo Sacramento, ci ricorda che un prete deve partire dal Tabernacolo e tornare
sempre a questo incontro, per suscitare e accompagnare l’azione misteriosa della grazia
nelle anime dei fedeli. Solo così egli sarà per la gente il padre, il maestro, l’amico.
Mezzo secolo dopo il suo ingresso in parrocchia, uno dei suoi parrocchiani,
Guillaume Villier, rammentava ancora lo stupore e la convinzione della gente di Ars:
“Eravamo affascinati da un comportamento così poco comune, e ci dicevamo fin da
allora: ‘Il nostro curato non è come gli altri; lui è un santo…’”.
In fondo, è questo ciò che il curato d’Ars ci raccomanda, ed è proprio questo lo
scopo del nostro libro: rinnovare con fermo proposito – senza “ma”, e senza “se” – la
risoluzione di essere anche noi, come lui, dei ministri santi.

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CAPITOLO OTTAVO
Il curato di campagna di Bernanos

La storia di vocazione sacerdotale che mi accingo a esporre adesso è del tutto


singolare.
In verità, il sacerdote di cui parleremo non è mai esistito nella storia della Chiesa.
Mi riferisco infatti al protagonista del celebre romanzo, che Georges Bernanos ha
pubblicato nel 1936, il Journal d’un curé de campagne.
Come è noto, il Diario ha avuto una fortuna enorme. Fu tradotto in varie lingue,
e numerose ne furono le trascrizioni (o meglio le “riscrizioni”) teatrali e
cinematografiche.
Se ora ne trattiamo, è perché nella figura dolente del curato di campagna
troviamo enfatizzati in maniera tragica – eppure sommamente istruttiva – i dubbi, le
tentazioni e le cadute, che accompagnano la vocazione sacerdotale.
In modo speciale, mi propongo di illustrare il tema teologico della solitudine
dell’apostolo, trascorrendo attraverso tre personaggi: Gesù Cristo, Paolo di Tarso e il
curato di Ambricourt, al quale Bernanos non ha “osato” dare un nome.
In realtà la solitudine di Gesù e quella di Paolo le evocheremo appena, in forma
di introduzione. Resta il fatto che esse rappresentano il punto di riferimento
fondamentale per lo sviluppo del nostro tema.
E che dire della solitudine del sacerdote, oggi?
A questo riguardo, mi preme ripetere quello che afferma il Direttorio per il
ministero e la vita dei presbiteri (2013): la solitudine del sacerdote, “lungi da intendersi
come isolamento psicologico, può essere del tutto normale, e conseguente alla sincera
sequela evangelica, e costituire una dimensione preziosa della propria vita” (n. 115).
Proprio a questo tipo di solitudine il prete va educato: ed è il motivo per cui ne
parliamo adesso.

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1. Gesù Cristo e Paolo di Tarso

Il tema della solitudine di Gesù – che scorre “carsicamente” lungo i quattro


Vangeli – raggiunge la sua acme nel racconto della Passione, soprattutto nel Vangelo
più antico e più breve, quello di Marco.
Sono due le scene che ci interessano in modo speciale, quella del Getsemani
(14,32-42) e quella della morte in croce (15,33-39).
In tutt’e due le scene Gesù è tragicamente solo, fino al suo ultimo grido: “Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34).
Eppure – nella più profonda afflizione dello spirito e nel silenzio “scandaloso”
del Padre – Gesù continua a esprimere la certezza di essere Figlio, mentre il Padre
rivela, misteriosamente, il suo volto paterno.
“Abbà, Padre mio!…”: così, con il più tenero affetto, si rivolge a lui Gesù,
proprio nel momento supremo della sua solitudine (Marco 14,36).

Che cosa vuol dire tutto questo per noi?


Significa che l’apostolo non raggiunge il vero volto di Dio senza passare
attraverso l’agonia del proprio intimo. La notte dolorosa dello spirito e la spoliazione
radicale di sé sono tappe obbligate nell’itinerario della missione. Non per caso il
termine greco apóstolos significa, senza dubbio, “inviato”, “missionario”; ma anche
“congedato”, “mandato via”: in un certo senso, “abbandonato”.
Nell’agonia del Getsemani, come sulla croce del Golgota, Gesù racconta al
Padre la propria intima lacerazione, come sempre fanno i grandi uomini di Dio.
E nel silenzio sconcertante di quel Dio, si staglia nel cuore dell’Apostolo il volto
del Padre.

Anche nell’Epistolario paolino la solitudine dell’apostolo è sottolineata molte


volte.
Ma questo tema diventa più esplicito nella confessione amara di Paolo durante
la sua prima prigionia a Roma, intorno all’anno 63: “Tutti mi hanno abbandonato…”,
scrive Paolo a Timoteo (2 Timoteo 4,16), uno dei principali episcopi della seconda
generazione cristiana.
A prescindere dai problemi di autenticità di queste “Lettere pastorali”, la vicenda
di Paolo rispecchia esattamente l’imago Christi. Il verbo usato nella seconda Lettera a
Timoteo (enkataléipo) è lo stesso impiegato da Gesù in croce, almeno nella traduzione
greca che ne dà Marco: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (eis tí
enkatélipés me)?” (Marco 15,34).

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In effetti, si tratta in tutti e due i casi del Servo sofferente, dell’apostolo che dona
la propria vita, nonostante l’abbandono dei suoi. “Quanto a me”, Paolo lo aveva appena
scritto, “il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di
sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa…” (2
Timoteo 4,6-7).

Quello dell’apostolo è un donarsi ostinato. Abbandonato e tradito da…, egli


muore per...
Quella dell’apostolo è una solidarietà universale, nonostante l’incomprensione e
il rifiuto dei suoi. Il vino della cena deve essere bevuto, il medesimo pane deve essere
mangiato, lungo i secoli. Perché, alla fine, quello che vince è l’amore: l’amore di Gesù,
che supera perfino l’abbandono e il tradimento dei discepoli.

2. Il curato di Ambricourt

E’ stato osservato che tutto il cammino del curato di Ambricourt ripercorre una
“imitazione di Cristo”, spesso particolarmente evidente, altre volte più nascosta e
simbolica, ma che in ogni caso va considerata come la “struttura profonda” delle
confessioni del curato.
Gesù Cristo è per lui il modello di vita, ma anche un compagno, il solo Amico
con il quale parlare a cuore aperto, a cui confidare anche le righe cancellate del diario,
le pieghe più scabrose del proprio intimo segreto...
Di fatto, il curato sperimenta Gesù come un meraviglioso Amico vivente, che
soffre delle nostre pene, si commuove delle nostre gioie, che condividerà la nostra
agonia, che ci accoglierà nelle sue braccia, sopra il suo cuore.

Se il cammino umano di Gesù è un cammino che culmina nella croce, quello del
curato è segnato dal medesimo silenzio e dalla stessa notte.
Questo silenzio tenebroso, drammatico, è uno dei temi preferiti di Bernanos.
E’ il tema del silenzio di Dio. “Ho scritto questo”, confessa ad esempio il curato,
in fondo a una pagina del suo diario: le righe sono cancellate parecchie volte, ma ancora
decifrabili, annota Bernanos; “ho scritto questo in una profonda e completa angoscia
di cuore e di sensi. Tumulto di idee, immagini, parole. L’anima tace. Dio tace. Silenzio”
(mi riferisco alla traduzione italiana edita negli Oscar Mondadori, Cles TN 2009: p.
105).

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E’ la notte dell’agonia, la notte spaventosa; l’esperienza del vuoto, dell’angoscia
del curato di Ambricourt, “apostolo abbandonato”.
Egli sperimenta drammaticamente il silenzio di Dio, ma insieme – come Gesù
nel Getsemani – percepisce la sua presenza, in una maniera misteriosissima e mai
provata prima.
Superata questa prova, la notte spaventosa si apre alla luce divina. Il curato
assume tutti i limiti della sua umanità, compresa la diagnosi del cancro che ha ormai
divorato il suo organismo, e accetta una “morte piccola”, a sua misura.
Il paesaggio, strettamente in simbiosi con il cammino interiore del protagonista
– il paesaggio piovoso e scuro, il paesaggio inzuppato di pioggia e di nebbia –, si
schiarisce teneramente nei colori di un’alba in cui il curato, sul letto di morte, confessa
il “tutto è grazia” di santa Teresa di Lisieux.

Anche qui, come abbiamo già fatto con il racconto della passione secondo
Marco, propongo di osservare soprattutto due scene.

La prima scena si riferisce al singolare incontro del curato con Serafita, una delle
bambine del catechismo parrocchiale, nella quale lo spirito dell’infanzia si alterna con
la malizia del mondo.
Il curato rinviene faticosamente, nel buio della notte, al bordo di un campo
bagnato dalla pioggia. Ha avuto una terribile emorragia.
“Ha vomitato”, gli spiega Serafita che l’ha scoperto per caso, mentre pascolava
le mucche. “E’ sporco in faccia come se avesse mangiato le more”. E “senza smettere
di parlare”, scrive il curato, la ragazzina mi passava uno straccio bagnato “sulla fronte,
le guance. L’acqua fresca mi faceva bene, mi sono alzato, ma tremavo ancora forte.
Finalmente il tremore è cessato. La mia piccola Samaritana sollevava la lanterna
all’altezza del mio mento: per meglio giudicare la sua opera, immagino…” (p. 178).
Chi non legge, nella filigrana di questo racconto, un’immagine tanto cara alla
tradizione cristiana, l’immagine della Veronica, che deterge il volto insanguinato e
sofferente di Gesù?
Siamo nel cuore della via crucis – quella di Gesù, come quella del curato di
Ambricourt –. L’imitatio Christi è palese. La solitudine scandalosa del condannato a
morte è consolata dal gesto misericordioso di una donna. Intanto, il cammino della
croce continua.

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La seconda scena che propongo è quella conclusiva. Narra l’agonia e la morte
del curato, un po’ a immagine dell’agonia di Gesù.
Siamo nell’ultima pagina del romanzo, scritta “fuori testo”.
Il diario è ormai finito, e chi scrive è un ex-prete. Nella sua casa, a Lilla, il curato
di Ambricourt si è rifugiato per trascorrere la notte, dopo aver appreso la propria
condanna a morte: un medico morfinomane gli ha appena svelato, brutalmente, lo
stadio irreversibile del suo tumore. “Verso le quattro”, annota l’ex-prete, “non
riuscendo a prendere sonno, sono andato in punta di piedi alla porta della sua camera
e ho trovato il mio povero compagno riverso per terra, privo di sensi… Mentre
aspettavo il medico, il nostro povero amico ha ripreso conoscenza. Ma non parlava.
Aveva i goccioloni di sudore in fronte, sulle guance, e il suo sguardo, che si intravedeva
appena tra le palpebre socchiuse, sembrava esprimere una grande angoscia… Dato che
il prete non arrivava, ho creduto di dover dire al mio sfortunato compagno quanto mi
rincrescesse quel ritardo, che rischiava di privarlo delle consolazioni riservate dalla
Chiesa ai moribondi. Non sembrava avermi udito. Ma poco dopo ha posato la mano
sulla mia, mentre con lo sguardo mi faceva chiaramente intendere di avvicinare
l’orecchio alla sua bocca. Allora ha pronunciato in modo distinto, benché molto
lentamente, queste parole, che sono certo di riferire con esattezza: ‘Che cosa importa?
Tutto è grazia’.
Penso che sia morto di lì a pochi istanti” (p. 240).

Come è noto, sono queste le parole che chiudono il romanzo. Una conclusione
di grande effetto, senza dubbio. Una conclusione che riporta al centro i due grandi temi
che qui interessano: la solitudine dell’apostolo e l’imitazione di Cristo.

Attraverso una serie “imperdonabile” di insuccessi umani (la gente rimane


diffidente, i bambini del catechismo si prendono gioco di lui, il suo nutrirsi solo di pane
e vino lo fa ritenere un alcoolizzato, il conte del castello lo disprezza e sua figlia lo
odia, la gestione economica della parrocchia e della casa parrocchiale è disastrosa, il
“piano pastorale” non riesce a decollare…), il “piccolo” curato giunge alla totale
spoliazione di sé, che gli consente una trasparenza assoluta nell’esercizio della sua
missione.
Riesce addirittura a liberare la contessa dalla disperazione, in cui l’ha rinchiusa
la morte del figlio: un autentico miracolo.
La solitudine dell’agonia e la radicale spoliazione dell’apostolo – sia egli Gesù
di Nazaret o Paolo di Tarso, oppure il curato di Ambricourt – sono in definitiva la via
paradossale della vittoria dell’amore sopra la morte.
E davvero, in questa prospettiva, che cosa importa ancora? “Tutto è grazia!”.

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3. Conclusione: Hans Urs von Balthasar

Chi ha trattato con maggiore profondità e ampiezza il tema teologico della


solitudine dell’apostolo, con specifico riferimento all’opera letteraria di Georges
Bernanos, è uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo.
Alludo manifestamente a Hans Urs von Balthasar, e alla sua poderosa
monografia, intitolata Il cristiano Bernanos, pubblicata in lingua tedesca nel 1954.
Non trovo di meglio – per concludere questa singolare storia di vocazione
sacerdotale – non trovo di meglio che postillare un paio di passaggi del quinto capitolo,
nella seconda parte del libro, là dove von Balthasar descrive l’agonia finale
dell’apostolo come “centro stesso della vita”.
“Il Vangelo”, commenta il teologo svizzero, tenendo sempre sullo sfondo
l’agonia del Getsemani, “ha insegnato a Bernanos che la povertà dello spirito, la
spoliazione radicale e la debolezza… fanno un tutt’uno con la beatitudine, quella delle
braccia spalancate” (mi riferisco alla traduzione francese di M. de Gandillac, Le
chrétien Bernanos, Seuil, Paris 1956, pp. 431-433).
Ritornano così – significativamente intrecciati fra loro, e sempre nella
contemplazione di Cristo – i grandi temi della passione e della croce, dell’angoscioso
silenzio di Dio, dell’abbandono e della solitudine dell’apostolo.
In questa stessa agonia si colloca la comunione dei santi, uno dei temi centrali
della teologia balthasariana.
“Affinché si realizzi la comunione dei santi”, spiega infatti von Balthasar,
“bisogna che ogni membro del corpo mistico doni il suo essere totale – e radicalmente
spogliato –, perché divenga parte di un tutto; bisogna che egli si lasci colpire da quelle
ferite, che sole permettono la circolazione del sangue attraverso il corpo intero. Ma
dopo il Giardino degli Ulivi, questa ferita ha preso la forma dell’agonia, dell’essere che
viene meno nell’angoscia. Il carattere gratuito dell’amore si manifesta nella sofferenza
sotto forma di inutilità: ‘Mi sembra’, dice il curato di campagna, ‘che la mia vita, tutte
le forze della mia vita, vadano a perdersi nella sabbia’. E finalmente, di fronte alla
morte: ‘Piangevo con gli occhi spalancati, piangevo come ho visto piangere i
moribondi: era ancora la vita che usciva da me’” (p. 470).

Siamo di fronte al mistero cruciale della “solitudine dell’innocente nel mondo


del peccato”: quel mistero, per cui il parroco di Torcy – il confidente, o meglio il
“direttore spirituale” del curato di campagna – giunge a parlare “della ‘solitudine

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sorprendente’ e della ‘tristezza verginale’ di Colei che ‘era l’innocenza’, la Madre di
Dio, ‘nata senza peccato’...” (p. 474).
Ancora una volta, la solitudine dell’apostolo è consacrata come via di salvezza.

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CAPITOLO NONO
San Giovanni Bosco (1815-1888)

Don Bosco fu ordinato sacerdote a Torino il 5 giugno 1841.


A questa vocazione – destinata al servizio pastorale dei giovani più poveri – don Bosco
fu un chiamato nel senso forte, biblico del termine: “La fede di essere strumento del Signore
per una missione singolarissima fu in lui profonda e salda. Ciò fondava in lui l'atteggiamento
religioso caratteristico del ‘servo biblico’, del profeta che non può in alcun modo sottrarsi ai
voleri divini” (Pietro Stella).
Così noi possiamo confrontarci con la storia della vocazione di don Bosco, un po' nello
stesso modo in cui possiamo confrontarci con le grandi storie di vocazione della Bibbia.
E’ quello che cercheremo di fare qui, adesso. Prima andremo a don Bosco e alla sua
storia, poi torneremo al nostro oggi, confrontando quella storia con la nostra storia di
vocazione – ciascuno di noi con la sua, personale e irripetibile storia di vocazione –.

1. La storia della vocazione di don Bosco

Come in ogni storia di vocazione (della Bibbia, ma non solo), anche nella storia di don
Bosco è possibile rintracciare almeno tre momenti tipici: la chiamata-elezione, la risposta, la
missione.

1.1. La chiamata
Dobbiamo riconoscere che lo Spirito Santo ha suscitato, con l'intervento materno di
Maria, san Giovanni Bosco. Qui l'accento, come si conviene al primo atto di ogni storia di
vocazione, va sull'iniziativa gratuita di Dio. Il sogno dei nove anni, che ricorderemo tra poco,
lo mostra nel modo più chiaro.

1.2. La risposta
La qualità della risposta di don Bosco è ben sintetizzata da alcune, poche parole, che
esprimono il suo sì incondizionato alla chiamata. Don Bosco diceva: “Ho promesso a Dio che
fin l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”. Di qui traspaiono l'amore

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profondo e paterno di don Bosco ai giovani, e la sua totale dedizione alla chiamata del
Signore.

1,3, La missione
Don Bosco, e tutti coloro che in qualunque modo ne condividono la chiamata, sono
mandati per essere nella Chiesa segni e portatori dell'amore di Dio ai giovani, specialmente
ai più poveri.

Mi limito a richiamare due episodi di questa splendida storia, che è la vita di don
Bosco.
Un episodio si trova all'inizio, l'altro alla fine della sua vita. Da essi scaturisce un
appello irresistibile a seguire questo Padre e Maestro sulla via della santità.

“A nove anni” – ecco il primo episodio, raccontato da don Bosco stesso nelle sue
Memorie dell’Oratorio – “a nove anni ho fatto un sogno. Mi pareva di essere vicino a casa,
in un cortile molto vasto, dove si divertiva una gran quantità di ragazzi. Alcuni ridevano, altri
giocavano, non pochi bestemmiavano. Al sentire le bestemmie, mi slanciai in mezzo a loro.
Cercai di farli tacere usando pugni e parole. In quel momento apparve un uomo maestoso,
vestito nobilmente. Un manto bianco gli copriva tutta la persona. La sua faccia era così
luminosa che non riuscivo a fissarla. Il Signore mi chiamò per nome, e mi ordinò di mettermi
a capo di quei ragazzi...”.

A partire da questa visione si snoda – come il nastro di un film – tutta la storia della
vocazione di don Bosco.
Non sto qui a raccontarla di nuovo. Richiamo solo una celebre scena, molto felice, di
uno dei film su don Bosco. Si vede Giovannino, che per divertire i suoi piccoli compagni dei
Becchi, fa il funambolo, e cammina in equilibrio sulla corda, a piedi scalzi, da un albero
all'altro. E una voce fuori campo, la voce di don Bosco adulto, commenta: “Nella mia vita ho
sempre dovuto camminare così: guardando avanti e in alto. Diversamente sarei caduto giù...”.
Don Bosco sa che, a partire da quel primo sogno, la sua vita è tutta guidata dall'alto;
tutto scorre come se fosse stato pensato prima, per un misterioso disegno d'amore.

E' proprio questa consapevolezza intensissima, convalidata dai numerosi segni che don
Bosco esperimenta lungo il suo cammino, la causa del lungo pianto, il 15 maggio 1887, pochi
mesi prima della morte, nella Basilica del Sacro Cuore a Roma.
E' il secondo episodio che voglio ricordare. Don Bosco ha appena portato a termine la
costruzione della chiesa, tra infinite difficoltà e fatiche, per obbedire a un preciso invito del

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santo Padre, Leone XIII. Sostenuto da don Rua e da don Viglietti, il fedele segretario, scende
nella chiesa per celebrare la Messa all'altare di Maria Ausiliatrice. La folla si accalca attorno
all'altare. Ed ecco, appena cominciata la Messa, don Bosco scoppia a piangere. Un pianto
lungo, irrefrenabile, che accompagna quasi tutta la Messa. Don Rua e don Viglietti sono
impressionati. Tra la gente c'è un silenzio teso, che quasi si tocca. Alla fine della Messa, don
Bosco dev'essere portato di peso in sacrestia. Don Viglietti gli sussurra: “Don Bosco, ma
perché?...”. E lui: «Avevo davanti agli occhi, viva, la scena del mio primo sogno, a nove
anni».
In quel lontano sogno, gli era stato detto: “A suo tempo, tutto comprenderai”. Ora,
guardando indietro nella vita, gli pareva proprio di comprendere tutto.

2. A confronto con la nostra storia di vocazione

Ritorniamo ora da don Bosco a noi: la sua storia di vocazione è anche un po' la nostra
storia di vocazione, se lo vogliamo Chi condivide la passione educativa di don Bosco è
impegnato – in qualche modo – a rimodellare in se stesso la sua esperienza di vita.
Confrontiamoci dunque con ciascuno dei tre momenti della storia di don Bosco.

a) Con riferimento al primo tratto della sua storia di vocazione, la gratuita chiamata-
elezione da parte di Dio, diremo che, come don Bosco, ognuno di noi è chiamato ad essere
uomo del gratuito, in docile ascolto dello Spirito, in costante unione con Dio, proprio per
poter dare spazio in massimo grado alla chiamata del Signore. Questo significa che ciascuno
di noi è chiamato a maturare e a sviluppare un'autentica dimensione contemplativa, proprio
come fece don Bosco.

b) Quanto al secondo atto, la risposta, diciamo che, come don Bosco, ognuno di noi è
chiamato a maturare una risposta generosa e coerente. Il suo esempio è per noi un invito alla
fermezza del nostro impegno, all'unificazione dei nostri pensieri, delle nostre forze, di tutta
la nostra persona in una medesima direzione. Anche noi puntiamo alla qualità di una risposta,
che sveli un accordo (nel caso si don Bosco era uno splendido accordo!) di natura e di grazia.

c) Come don Bosco, compiamo anche noi la nostra missione, ben sapendo che la piena
fecondità dell'apostolato passa attraverso la croce.

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3. Conclusione: per il discernimento spirituale

a) La chiamata
Riconosco l’assoluto primato di Dio e della sua grazia nella mia storia di vocazione?
Interpreto il mio impegno morale come risposta a un amore che mi precede, e che garantisce
(solo che io lo voglia) la mia risposta? So accettare l’imprevisto di Dio, il suo modo di fare
nella mia vita? So riconoscerlo nelle modalità in cui egli si svela, senza imporgli le mie? Per
dilatare la mia disponibilità, curo con diligenza e amore la dimensione contemplativa della
vita?

b) La risposta
Posso rispondere come Maria, come i discepoli, come don Bosco, oppure come il
giovane ricco. Posso seguire Gesù, e lasciare tutto, oppure seguire i miei egoismi e lasciare
Gesù. Di fronte a questo dilemma, qual è la mia risposta reale, quella di ogni giorno? Qual è
l’angolo buio della mia vita, nel quale la mia risposta al Signore è meno generosa? Che cosa
devo ancora lasciare, per seguire veramente Gesù?

c) La missione
Ogni chiamata, ogni risposta sono per una missione. Sono intimamente persuaso che
la missione che mi è affidata non è un parto della mia fantasia o un gioco del caso? Sono
attento ai segni del Signore? Riconosco e coltivo come già operante in me quel messaggio di
salvezza che sono mandato ad annunciare e a testimoniare? Per essere fedele alla missione,
devo entrare nella logica della grazia: allora il mio impegno di fedeltà non sarà più quello
dell’impiegato o del burocrate, ma quello del missionario dell’amore e della grazia di Dio.
Sento la missione come peso da portare, o come grazia ricevuta? Curo l’atteggiamento
fondamentale, cioè – ancora una volta – la dimensione contemplativa, per interpretare la
missione ricevuta come una grazia?

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CAPITOLO DECIMO
Il Venerabile Servo di Dio don Giuseppe Quadrio (1921-1963)

Un’altra splendida storia di vocazione sacerdotale è quella del salesiano don


Giuseppe Quadrio – un sacerdote misticamente innamorato di Gesù Cristo e del Suo
sacerdozio –.
Nei sacerdoti ordinati, infatti, don Quadrio contemplava le “viventi epifanie di
Cristo”, e faceva di tutto – con la parola e con l’esempio – perché lo fossero davvero.
Diceva a loro: “O il prete è come Cristo, oppure è uno sgorbio”; e ancora: “Il prete è
chiamato ad essere il Christus hodie, sempre, dovunque e con tutti”.

Don Giuseppe Quadrio nacque a Vervio, in provincia di Sondrio, il 28 novembre


1921.
Entrò nell'Istituto missionario di Ivrea, e divenne salesiano nel 1937. A Roma,
presso l'Università Gregoriana, frequentò la Facoltà di Filosofia. Conseguita la licenza
a pieni voti, a vent’anni cominciò a insegnare nello Studentato di Foglizzo, in
Piemonte. Riprese poi gli studi alla Gregoriana.
Il 12 dicembre 1946, in un'importante disputa accademica (erano presenti nove
cardinali, e anche Mons. Montini, il futuro Paolo VI), il chierico Quadrio sostenne la
definibilità dogmatica dell'Assunzione di Maria al cielo in corpo e anima.
Dopo l’ordinazione sacerdotale e la laurea, fu inviato come professore di
Teologia dogmatica nel Pontificio Ateneo Salesiano di Torino-Crocetta, dove insegnò
per dieci anni. Fu anche decano della Facoltà di Teologia. Gli studenti dicevano che –
quando don Quadrio saliva in cattedra – sembrava che “la teologia prendesse fuoco”,
tanto era acceso e profondo il suo insegnamento.
Nel giugno del 1960 gli fu diagnosticato un linfogranuloma maligno, che lo
condusse alla morte, sempre a Torino, il 23 ottobre 1963. Non aveva ancora
quarantadue anni. Offrì la sua vita al Signore per il buon esito del Concilio Vaticano
II, iniziato ormai da un anno.
Il 19 dicembre 2009 il Papa Benedetto XVI ne ha riconosciuto l’eroicità della
vita e delle virtù.

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Per descrivere questa storia esemplare di vocazione sacerdotale disponiamo di
un’ottima fonte: è il ricco epistolario di don Quadrio stesso. In effetti, proprio dalle sue
Lettere (mi riferisco al volume edito dalla LAS, Roma 1991) traspare l'altissima
concezione che egli aveva del ministero sacerdotale come “vivente epifania di Cristo”.
Nello stesso tempo, affiora dalle medesime Lettere quell’“autoritratto” – certo non
voluto e non previsto –, che il Venerabile stesso ci ha lasciato, parlando del sacerdozio.

1. Il sacerdote: "Un uomo scelto fra gli uomini"... (Ebrei 5,1)

Prima di tutto, don Quadrio rimane sempre consapevole che il prete – come
attesta la Lettera agli Ebrei – è "uno scelto fra gli uomini".
L'umanità è per lui una componente essenziale del sacerdozio.
Purtroppo – così egli si rammarica con gli ex-allievi del 1960, nel terzo
anniversario della loro ordinazione – "ci può essere un sacerdozio disincarnato, in cui
il divino non è riuscito ad assumere una vera e completa umanità (docetismo). Abbiamo
allora dei preti che non sono uomini autentici, ma larve di umanità; dei 'marziani'
piovuti dal cielo, disumani ed estranei, incapaci di capire e di farsi capire dagli uomini
del proprio tempo e del proprio ambiente. Dimenticano che Cristo, per salvare gli
uomini, 'discese... si incarnò... si fece uomo', 'volle diventare in tutto simile a loro,
fuorché nel peccato'. Se siamo il ponte fra gli uomini e Dio, bisogna che la testata del
ponte sia solidamente poggiata sulla sponda dell'umanità, accessibile per tutti quelli
per cui fu costruito" (p. 326).
Agli stessi sacerdoti don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Il Verbo si è
fatto vero e perfetto uomo, per essere Salvatore. Anche il vostro sacerdozio non salverà
alcuno, se non attraverso questa genuina incarnazione. Gli uomini, che vi avvicinano
o che vi fuggono, sono tutti indistintamente affamati di bontà, di comprensione, di
solidarietà, di amore: muoiono del bisogno di Cristo, senza saperlo. A ciascuno di voi
essi rivolgono una preghiera disperata: Volumus Iesum videre (Giovanni 12,21). Non
deludete l'attesa della povera gente. Sappiate capire, sentire, cercare, compatire,
scusare, amare. Non temete: tutti aspettano soltanto questo! Prima che con i dotti
discorsi, predicate il Vangelo con la bontà semplice, accogliente, con l'amicizia serena,
con l'interessamento cordiale, con l'aiuto disinteressato, adottando il metodo
dell'evangelizzazione 'feriale', capillare, dell'un per uno, a tu per tu. Entrate attraverso
la finestra dell'uomo, per uscire attraverso la porta di Dio. Gettate ad ognuno il ponte
dell'amicizia, per farci passare sopra la luce e la grazia di Cristo" (pp. 286 s.). In verità,
don Quadrio era un ardente sostenitore della missione “porta a porta”, opportune e
importune.

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Da simili convinzioni scaturisce la pressante raccomandazione di don Quadrio,
perché i sacerdoti coltivino con cura la loro formazione umana: le qualità naturali non
sono per nulla vanificate dai doni della grazia. Al contrario! La “base umana” resta
sempre importante.
Al nipote Valerio, che si incamminava sulla via del sacerdozio, don Quadrio
confida: "Sei presente ogni giorno nella mia Messa e nelle mie preghiere, perché sono
troppo interessato alla tua formazione sacerdotale. Non sai infatti quanto mi stia a cuore
la maturazione definitiva del tuo carattere in quelle virtù umane e naturali, che ti
renderanno un uomo autentico, completo, conquistatore. Queste virtù umane sono
generalmente molto modeste e dimesse, ma basilari: la sincerità, la lealtà, l'amabilità,
l'accondiscendenza, la generosità, la padronanza assoluta di sé, l'alacrità nell'azione, la
calma imperturbabile nei contrattempi, la fiducia incrollabile, la costanza nei propositi,
la forza di volontà, che sa volere con chiarezza e pacata irremovibilità" (p. 144).
Qualche anno più tardi, don Quadrio scriverà ancora allo stesso Valerio (don
Valerio Modenesi, della Diocesi di Como): "Penso che noi sacerdoti dovremmo saper
gettare verso tutti il ponte di un'amabile, cortese, calda e serena personalità, generosa
e semplice, ricca di umanità e di comprensione, accogliente e servizievole. Solo su
queste arcate potranno correre il Vangelo e la Grazia!" (p. 258).
Si intravedono, dietro a queste raccomandazioni, il volto buono e accogliente di
don Quadrio, la sua squisita gentilezza, la sua amorevolezza semplice e schietta, il suo
rispetto profondo per le persone…
Insomma, il ricco corredo di doti umane, che don Quadrio aveva coltivato con
grande cura, faceva di lui il testimone vivente di quello che andava consigliando ai
sacerdoti.
A questa luce si possono considerare alcuni tratti caratteristici delle Lettere,
come l'attenzione fedele ad alcune ricorrenze (onomastici, anniversari, auguri,
condoglianze…); la capacità di esprimere riconoscenza; la sapiente alternanza tra l'uso
del Lei e l'uso del tu; la fantasia nell'attenzione alle persone.
Si può leggere, a quest’ultimo riguardo, una letterina scherzosa scritta a Gesù
Bambino nel Natale del 1961, quando don Giuseppe – ormai colpito dalla malattia –
doveva trattenersi a lungo in ospedale, per le cure del caso.
Cercando di imitare la grafia larga e incerta di un bambino, e costellando la
pagina di tipici errori infantili, don Quadrio formula una simpaticissima preghiera per
suor Maria Ignazia, appunto una suora del suo ospedale, "tanto brava, che corre sempre
e mi fa la pappa tuti i ciorni" (p. 284).

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2. ..."costituito nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per
i peccati"... (Ebrei 5,1)

Il prete, uomo "preso fra gli uomini", è consacrato da Dio per il bene dei suoi
fratelli. Nella persona del sacerdote si attua un misterioso incontro di grazia e di
salvezza tra l'umano e il divino.
A questo proposito, don Quadrio ammonisce i suoi ex-allievi a guardarsi da "un
sacerdozio mondanizzato, in cui l'umano ha diluito o soffocato il divino".
E aggiunge: "Abbiamo allora lo spettacolo lacrimevole di preti che saranno forse
buoni professori e organizzatori, ma che non sono più 'uomini di Dio', né viventi
epifanie di Cristo. Sono come certe chiese trasformate in musei profani. C'è un
termometro infallibile per misurare la consistenza del proprio sacerdozio: la preghiera.
E' la prima ed essenziale occupazione di un prete, anche se è direttore… o incaricato
dell'Oratorio. Tutto il resto sarà importante, ma viene dopo. Diversamente siamo un
ponte, a cui è crollata l'ultima arcata: quella che tocca Dio" (pp. 326 s.)
Proprio qui si radica la sollecitudine costante di don Quadrio per la "dimensione
contemplativa" del sacerdote.
E' significativo che dei suoi famosi "cinque consigli" a un prete novello, i primi
tre riguardino – nell'ordine rispettivo – la Messa ("celebra ogni giorno la tua Messa
come se fosse la prima, l'ultima, l'unica della tua vita… Un sacerdote che ogni giorno
celebra santamente la sua Messa, non commetterà mai delle sciocchezze"), il Breviario
("ordinariamente è il primo ad essere massacrato dal prete tiepido... Sii certo che col
tuo Breviario puoi cambiare il mondo, più che con le dotte tue conferenze o lezioni")
e la Confessione ("ricordati che, nei pericoli immancabili della tua vita sacerdotale, la
tua salvezza sarà l'avere un uomo che sappia tutto di te, che con mano ferma possa
guidarti, e sostenerti con cuore paterno": pp. 288 s.).
Si tratta in sostanza dei medesimi consigli che due anni prima don Quadrio aveva
dato a un altro ex-allievo sacerdote: "Prepari accuratamente", gli scriveva, "viva
intensamente e prolunghi nella giornata la Sua Messa... Tutta la Sua giornata diventi
una Messa. Viva, ami e gusti il Suo Breviario. Non dimentichi che con esso Lei
impersona tutta la Chiesa e prolunga Cristo orante. Sia fedele alla Confessione
settimanale e all'esame quotidiano" (p. 236).
Ai "carissimi amici del IV Corso" di Teologia, che saranno ordinati sacerdoti
l'11 febbraio 1961, scrive: "Non temete: la preghiera può tutto! Un prete che prega
bene non farà mai delle sciocchezze" (p. 243). A un sacerdote novello raccomanda: "Si
offra e si abbandoni a Cristo senza riserve. Non tema: è Lui che fa... Si innamori della
Sua Messa: là è il segreto di tutto!" (p. 260). Al nipote Valerio: "Preghiamo insieme:
meditando, amando e gustando gli inesauribili tesori del nostro Breviario. Amare e
godere questo nostro divino ufficio, che ci colloca ogni giorno nel cuore della Chiesa,

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sul vertice del mondo, a tu per tu con la miseria umana e con la Maestà divina, come
Mediatori tra Dio e il mondo" (p. 303).
Allo stesso don Valerio, qualche settimana dopo, chiede: "A proposito di
Vangelo, non ti sembra sacrilega la nostra ignoranza e trascuratezza verso di esso? Un
prete dovrebbe far voto di leggerne almeno una pagina ogni giorno. Insieme
all'Eucarestia, non c'è nulla di più santificante e nutriente che il Verbo di Dio incarnato
nel suo Vangelo" (p. 305).

3. ..."vero e autentico Prete, in cui l'uomo è tutto e sempre e solo Sacerdote,


pur rimanendo uomo perfetto" (p. 327)

Secondo don Quadrio, infine, le due componenti del sacerdozio – quella umana
e quella divina, su cui ci siamo intrattenuti finora – non possono rimanere
semplicemente giustapposte, ma devono trovare nel prete una sintesi profonda e
armoniosa.
Nella lettera già ricordata, scritta il 3 gennaio 1963 ai sacerdoti ex-allievi del
1960, dopo aver accennato – come abbiamo letto – al pericolo del docetismo
sacerdotale o del sacerdozio disincarnato, don Quadrio aggiunge: ma "ci può essere
anche la deformazione del nestorianesimo sacerdotale: un sacerdozio lacerato, in cui
il divino e l'umano coesistono senza armonizzarsi. Preti all'altare, ma laici sulla
cattedra, in cortile, tra gli uomini. Sono un ponte dalle due testate estreme intatte:
manca l'arcata centrale, che dovrebbe congiungerle. Vero e autentico Prete è colui nel
quale l'uomo è tutto e sempre e solo Sacerdote, pur rimanendo uomo perfetto, senza
esclusione di campi e di settori. L'uomo e il prete devono coestendersi e coincidersi
perfettamente in una sintesi armonica... Anche le occupazioni più profane devono
essere animate da una coscienza sacerdotale acuta e senza eclissi" (p. 327).
In altri termini, il sacerdote è chiamato ad essere l'incarnazione di Cristo – vero
uomo e vero Dio –, in mezzo alla gente a cui è mandato.
Agli stessi destinatari don Quadrio aveva scritto un anno prima: "Siate sempre,
dovunque e con tutti, un'incarnazione vivente e sensibile della bontà misericordiosa di
Gesù... Siate realmente e praticamente il Christus hodie del vostro ambiente; un Cristo
autentico, in cui il divino e l'umano sono integri e armoniosamente uniti. Il divino e
l'eterno, che è nel vostro sacerdozio, si incarni (senza diluirsi) in una umanità ricca e
completa come quella di Gesù, la quale abbia lo stile, il volto e la sensibilità del vostro
ambiente e del vostro tempo" (p. 286).
A un altro sacerdote ex-allievo egli confida: "Penso spesso a Lei, cioè al 'Cristo
di Cuorgné'. Deve essere per i Suoi Confratelli e bimbi il Sacramento vivo e visibile
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della Bontà di Gesù" (p. 264). A un altro raccomanda: "Sia davvero ‘il Cristo’ dei suoi
ragazzi!" (p. 314). A molti altri sacerdoti ripete il medesimo concetto, con le variazioni
del caso: "Non ti spaventi il pensiero che devi essere il Cristo di Arese, il Cristo Buono,
Paziente, Crocifisso, Agonizzante, Morto e Risorto dei tuoi ragazzi" (p. 265); oppure:
"Non La atterrisca il pensiero che Lei deve essere il Cristo di Torre Annunziata… " (p.
266).
Negli ultimi anni di vita, segnati dalla malattia e dalla sofferenza, don Quadrio
afferra esistenzialmente che l'umano e il divino del sacerdote giungono a fondersi in
pienezza solo nel sacrificio della croce, suprema epifania del Figlio dell'uomo e del
Figlio di Dio.
Una cattedra nuova – che è il letto del dolore – gli impone un insegnamento per
alcuni aspetti inedito.
Allora, nella prima domenica di Passione del 1962, scrive al nipote Valerio:
"Dovrei finalmente convincermi sul serio che un prete deve santificare la propria
sofferenza e quella degli altri. Non è soffrire che importa, ma soffrire come Lui. Anche
il tuo sacerdozio, Valerio, è un mistero di croce e di sangue... La Croce è veramente la
spes unica del nostro sacerdozio: non faremo nulla, se non mediante la Croce. Auguro
a te e a me, Valerio, di saper comprendere e vivere il mistero della Croce, e di saper
fare del nostro sacerdozio una Croce vivente, a cui appendere la nostra vita per la
salvezza delle anime" (p. 294).
Solo così il prete – uomo preso fra gli uomini, e per loro consacrato nelle cose
di Dio – può diventare "Sacramento evidente della Passione e Morte" di Gesù (p. 265).

$. Conclusione

E' questo il ritratto più vivo e veritiero del Venerabile Servo di Dio don Giuseppe
Quadrio, quello che egli stesso non sapeva di dipingere, mentre parlava ai suoi allievi
del sacro mistero dell'Ordine sacerdotale.
Davvero "le cose che diceva e scriveva" sul sacerdozio "erano 'sue': quello che
diceva era la sua vita!" (p. 350).
Nella sua vita egli è stato un "Sacramento tangibile della Bontà" del Signore, e
nel tragico epilogo degli ultimi anni il "Sacramento evidente della Passione e della
Morte" di Cristo per la salvezza del mondo: chi lo ha avvicinato – sull'altare o in cortile,
in cattedra o sul letto del dolore – sa di aver incontrato un testimone di Cristo; un
"vicario del Suo amore" (si noti che don Quadrio scelse questa espressione per

63
l’immaginetta-ricordo della prima Messa); un sacerdote, infine, in cui "si è rivelata la
bontà e l'umanità del nostro Salvatore Gesù Cristo" (p. 286).

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CAPITOLO UNDICESIMO
San Giovanni Paolo II

L’ultimo “medaglione sacerdotale” che presentiamo – e che forse ancor meglio


di altri risponde alla nostra domanda tematica: Chi è il ministro ordinato? – è la
Persona amata del Totus Tuus, san Giovanni Paolo II.
Mi riferisco soprattutto al volume autobiografico che lo stesso Papa Wojtyla ha
pubblicato nel cinquantesimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale,
intitolandolo significativamente Dono e Mistero (Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1996). Sarà questa la fonte “di prima mano” della nostra riflessione, rivisitata
ancora di recente dal volume “a quattro mani” del Papa Francesco e di don Luigi M.
Epicoco (San Giovanni Paolo Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2020.
Qui interessa soprattutto la terza parte del volume, pp. 59-78, intitolata: “Il sacerdote”).

Cito subito un passo di Dono e Mistero, che illustra al meglio il legame di tra il
ministro ordinato e la Madre di Gesù, tra l’apostolo e Maria santissima.
E’ un tema che non abbiamo ancora avuto l’occasione di affrontare in questo
volume, ma che comunque è essenziale per definire l’identità, la consacrazione e la
missione del ministro ordinato, fin dalla sua prima formazione.
“Pensando alle origini della mia vocazione”, scrive Giovanni Paolo II, “non
posso dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di Dio nella sua forma
tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di Wadowice…
Quando poi mi trovai a Cracovia, entrai nel gruppo del ‘Rosario vivo’, nella
parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo particolare Maria Ausiliatrice…
Ero già convinto che Maria ci conduce a Cristo, ma in quel periodo – nel quale
andava configurandosi la mia vocazione sacerdotale – cominciai a capire che anche
Cristo ci conduce a sua Madre. Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in
discussione il mio culto per Maria, ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente,
finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo.
Mi venne allora in aiuto il libro di san Luigi Maria Grignion de Monfort, che
porta il titolo Trattato della vera devozione alla Santa Vergine… Compresi allora
perché la Chiesa reciti l’Angelus tre volte al giorno. Capii quanto cruciali siano le
parole di questa preghiera: ‘L’Angelo del Signore portò l’annuncio a Maria, ed ella
concepì per opera dello Spirito Santo… Eccomi, sono la serva del Signore: avvenga di
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me secondo la tua parola… E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a
noi…’. Parole davvero decisive! Esprimono il nucleo dell’evento più grande che abbia
avuto luogo nella storia dell’umanità, e radicano la devozione a Maria nel Mistero
trinitario e nella verità dell’Incarnazione del Verbo di Dio.
Ed ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L’espressione deriva da san
Luigi Maria Grignion de Monfort. E’ l’abbreviazione della forma più completa
dell’affidamento alla Madre di Dio, che suona così: Totus Tuus ego sum, et omnia mea
Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria” (pp. 37-39).

Conviene completare questo riferimento sacerdotale-mariano con un passo


illuminante del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (2013, già citato):
“Esiste una relazione essenziale tra la Madre di Gesù e il sacerdozio dei ministri del
Figlio”, recita al riguardo il Direttorio. Questa relazione deriva “da quella che c’è tra
la divina maternità di Maria e il sacerdozio di Cristo. In tale relazione è radicata la
spiritualità mariana di ogni presbitero. La spiritualità sacerdotale non può dirsi
completa, se non prende seriamente in considerazione il testamento di Cristo crocifisso,
che volle consegnare la Madre al discepolo prediletto e, tramite lui, a tutti i sacerdoti
chiamati a continuare la sua opera di redenzione. Come a Giovanni ai piedi della Croce,
così ad ogni presbitero è affidata, in modo speciale, Maria come Madre” (n. 84).

Come dicevamo, dunque, in quest’ultimo capitolo del libro – prima delle


Conclusioni – vogliamo fare “memoria viva” di Giovanni Paolo II, riflettendo sulle
tappe fondamentali della sua storia di vocazione sacerdotale.
Ricordiamo anzitutto alcuni dati biografici più importanti.
Karol Wojtyla, nato nell'Arcidiocesi di Cracovia il 18 maggio 1920, fu eletto
Vescovo di Roma il 16 ottobre 1978. Il Signore lo chiamò a sé il 2 aprile 2005, nei
primi Vespri della “Domenica della misericordia”.
Certamente la storia della sua vocazione si snoda fra queste tre date
fondamentali. Ma c’è anche un’altra data, che appare per alcuni versi la più importante
di tutte: è quella dell'ordinazione sacerdotale, che don Karol ricevette il 1° novembre
del 1946, per l'imposizione delle mani dell'Arcivescovo di Cracovia, il principe Adam
Stephan Sapieha.
“La mia ordinazione”, scrive a questo riguardo Giovanni Paolo II nella sua
autobiografia, “ebbe luogo in un giorno insolito per tali celebrazioni: essa avvenne il
1° novembre, solennità di Tutti i Santi, quando la liturgia della Chiesa è rivolta a
celebrare il mistero della comunione dei santi e s'appresta a fare memoria dei fedeli
defunti. L'Arcivescovo scelse questa data, perché dovevo partire per Roma per

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proseguire gli studi. Fui ordinato da solo, nella cappella privata degli Arcivescovi di
Cracovia”.
“Mi rivedo, così, in quella cappella”, prosegue don Karol un po' più avanti,
“durante il canto del Veni, Creator Spiritus e delle Litanie dei Santi, mentre, steso per
terra in forma di croce, aspettavo il momento dell'imposizione delle mani” (pp. 51 s.).

In verità, è questo l'evento centrale della storia di vocazione di Karol Wojtyla.


Che egli fosse un “chiamato” nel senso forte, biblico del termine, è una
convinzione sempre più diffusa nelle persone che lo hanno incontrato. E’ un po’ come
per la storia di don Bosco, che Karol amava tanto: tutto nella vita di Giovanni Paolo II
appare come “pensato prima”, preparato “dall'alto”; e –come il “servo” biblico – egli
non si tirò mai indietro di fronte al misterioso disegno di Dio sopra di lui.
Dono e mistero, dunque, è il suo sacerdozio, come egli stesso lo contempla a
cinquant'anni dall'ordinazione; ma, più in generale, dono e mistero è tutta la sua vita.
“Volgendomi indietro”, confessa Giovanni Paolo II, “constato ‘come tutto si tiene’:
oggi, come ieri, ci troviamo con la stessa intensità nei raggi dello stesso mistero” (p.
39).
Così noi oggi possiamo rivisitare la storia della vocazione di Papa Wojtyla
inquadrandola nel medesimo schema biblico che abbiamo adottato in queste pagine:
rifletteremo dunque – ancora una volta – sulla chiamata-elezione, sulla risposta, sulla
missione, sul turbamento del chiamato, e sulla conferma rassicurante da parte di Dio.

1. La chiamata-elezione

Ecco dunque il primo tratto di questa bella storia di vocazione sacerdotale: la


chiamata-elezione, l'iniziativa assolutamente gratuita di Dio.
Rileggendo con occhi di fede la storia della sua vocazione, Giovanni Paolo II
confessa che “agli inizi” sta “il mistero”. “La vocazione”, egli scrive, “è il mistero
dell'elezione divina” (p. 9). E adduce a riprova un testo, che si carica per noi di grande
significato. E' Dio che parla, rivolgendosi al profeta Geremia: “Prima di formarti nel
grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho
stabilito profeta delle nazioni” (Geremia 1,5).
Rimane pur sempre l'impressione che Giovanni Paolo trovasse un po' di fatica a
spiegare “l’ultimo perché” della sua vocazione: così egli si è limitato a raccontare

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alcuni fatti e alcune esperienze, rileggendole spesso alla luce del “poi”, e svelando in
questo modo la trama di una storia nascosta.
Ricorda il suo primo incontro con il principe Sapieha, Arcivescovo Metropolita
di Cracovia; gli studi di Filologia polacca, iniziati nell'Università Jaghellonica e subito
interrotti, di necessità, allo scoppio della seconda guerra mondiale; la dura esperienza
di operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay; le recite
teatrali e i primi lavori letterari...
Ma riguardo agli inizi della sua vocazione sacerdotale, il Papa deve ammettere
che “le parole umane non sono in grado di reggere il mistero”.
Di fatto, l’autobiografia comincia proprio con queste parole: “Agli inizi… il
mistero! La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio. Nel
suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che
supera infinitamente l’uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in
tutta la sua vita. Di fronte alla grandezza di questo dono, sentiamo quanto ad esso siamo
inadeguati… Contemporaneamente, ci rendiamo conto che le parole umane non sono
in grado di reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in sé” (pp. 9 s.).

2. La risposta

Passiamo ora al secondo atto della nostra storia: la risposta alla chiamata del
Signore.
Quella di Giovanni Paolo II fu certamente una risposta generosa, senza riserve.
Nell'autunno del 1942 il giovane Karol prende la decisione definitiva di entrare
nel seminario di Cracovia, che funzionava clandestinamente.
E’ una risposta che impegna il giovane seminarista in un cammino incessante:
la chiamata infatti – l’abbiamo già detto più volte – comporta un faticoso esodo per la
sequela.
Bisogna lasciare la propria terra, come Abramo; oppure, come gli Apostoli,
occorre lasciare le reti; oppure lasciare il maestro di prima, come Andrea e il
“discepolo amato”; o meglio lasciare tutto, come Levi/Matteo, per seguire Gesù.
Anche Karol esperimenta dolorosamente il distacco. “Lo scoppio della guerra”,
egli scrive, mi aveva già allontanato “dagli studi e dall'ambiente universitario. In quel
periodo persi mio padre, l'ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari.
Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti

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precedenti; in qualche modo, era come venire sradicato dal suolo, sul quale fino a quel
momento era cresciuta la mia umanità”.
Ma il Signore non fa mancare i “segni” della sua grazia a chi si affida a lui. “Non
si trattava”, prosegue infatti il Papa, “di un processo soltanto negativo. Alla mia
coscienza si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote.
Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un'illuminazione interiore, che
portava in sé la gioia e la sicurezza di un'altra vocazione. E questa consapevolezza mi
riempì di una grande pace interiore” (p. 44).

3. La missione

Forse in questa “illuminazione interiore” il giovane Karol intravide qualcosa


della sua missione futura? Non lo sappiamo.
In ogni caso, è questa – la missione – la terza tappa della nostra storia.
L’abbiamo ripetuto più volte: né la chiamata, né la risposta sono fini a loro stessi.
Tutto è orientato all'incarico che il Signore affida a ciascuno, e che passa comunque
attraverso l’accettazione generosa della croce nella propria vita.
Karol Wojtyla dovette afferrare con particolare intensità questa logica
evangelica durante il rito della sua ordinazione sacerdotale. Da allora – anch’egli, come
la Vergine Maria, “pellegrino nella fede” – la fece propria, dilatando progressivamente
a raggio universale gli orizzonti della propria missione pastorale.
In una pagina, che sembra attraversare per intero la sua vita, Giovanni Paolo II
scrive: “Chi si appresta a ricevere la sacra Ordinazione si prostra con tutto il corpo, e
poggia la fronte sul pavimento del tempio, manifestando così la sua completa
disponibilità a intraprendere il ministero che gli viene affidato”, cioè la missione.
“Quel rito”, continua il Papa, “ha segnato profondamente la mia esistenza
sacerdotale. Anni più tardi, nella Basilica di San Pietro – si era all'inizio del Concilio
–, ripensando a quel momento dell'Ordinazione sacerdotale, scrissi una poesia, di cui
mi piace riportare un frammento: ‘Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento, su cui
camminano gli altri... Vuoi essere Colui che sostiene i passi – come la roccia sostiene
lo zoccolare di un gregge: Roccia è anche il pavimento di un gigantesco tempio. E il
pascolo è la croce”.
Di seguito, egli commenta: “Scrivendo queste parole pensavo sia a Pietro che a
tutta la realtà del sacerdozio ministeriale, cercando di sottolineare il profondo
significato di questa prostrazione liturgica. In quel giacere per terra in forma di croce

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prima dell'Ordinazione, accogliendo nella propria vita – come Pietro – la croce di
Cristo e facendosi con l'Apostolo ‘pavimento’ per i fratelli, sta il senso più profondo di
ogni spiritualità sacerdotale” (pp. 53 s.).

4. Il turbamento

Certamente un cammino di tale impegno ha conosciuto anche i momenti


dolorosi del dubbio e della prova.
Giovanni Paolo II non ne parla molto, ma lascia capire da vari indizi che il
periodo buio della guerra, prima della sua decisione di entrare in seminario, dovette
coincidere con un faticoso discernimento interiore, forse con una vera e propria “crisi”
della fede.
Di fatto la morte del padre, il forzato distacco dai progetti di prima, “il grande e
orrendo theatrum della seconda guerra mondiale”, il campo di concentramento per tanti
conoscenti prelevati dalle loro case, dalla cava di pietra, dalla fabbrica, e poi
quell'impressione di “sradicamento”: tutto questo non mancò di porre al giovane Karol
interrogativi molto seri su Dio, sugli altri, su se stesso. “A volte”, scrive, “mi
domandavo: tanti miei coetanei perdono la vita, perché non io?” (p. 45).
Ci fu qualche incertezza anche dopo l’ingresso nel seminario clandestino.
Wojtyla si chiedeva se fosse meglio continuare nella strada della vocazione diocesana,
oppure intraprendere quella della vita consacrata.
“Per un certo periodo”, confessa, “presi in considerazione la possibilità di entrare
nel Carmelo”. Ma “i dubbi furono risolti dall’Arcivescovo Cardinale Sapieha, il quale
– secondo lo stile che gli era proprio – disse brevemente: ‘Bisogna prima finire quello
che si è iniziato’. E così avvenne” (p. 35).
Così anche l'interrogativo e il dubbio appartengono alla storia della sua
vocazione.

5. La conferma rassicurante da parte di Dio

Ma il voto ardente di Giovanni Paolo II è che per nessun sacerdote il dubbio


rimanga l'ultima parola: egli sa che il dubbio permanente finisce per tarpare le ali della
fede, e paralizza le possibilità di una risposta generosa al Signore.
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Ebbene, la vita intera di san Giovanni Paolo II testimonia il superamento
coraggioso del dubbio, grazie alla conferma di Dio sulla sua storia di vocazione.
Quel grido: “Coraggio, sono io, non temere!”, il Papa l'ha sentito molte volte
nella sua vita. “Un giorno”, egli confessa, “lo percepii con molta chiarezza: era come
un'illuminazione interiore, che portava in sé la gioia e la sicurezza...” (p. 44).
Spesso, nella sua autobiografia, Giovanni Paolo II scrive commosso: “Solo più
tardi avrei capito...”. E da qui nasce la meraviglia, o meglio quel sinfonico Deo gratias!
(p. 110), che conclude l’autobiografia.
“Volgendomi indietro constato come ‘tutto si tiene’” (p. 39). Alla fine, Karol
Wojtyla deve riconoscere che ogni cosa nella sua vita era stata pensata “dall'alto”, che
fin dall’inizio tutto – proprio tutto – era dono e mistero.

6. Conclusione

Concludiamo questa storia di vocazione con le parole stesse di san Giovanni


Paolo II, quelle parole ispirate che – in forma di preghiera – egli pronunciò a Fatima il
13 maggio 1991, dieci anni dopo il famoso attentato.
In quell’occasione egli fece incastonare nel diadema della Vergine il proiettile,
che avrebbe dovuto ucciderlo e che invece, stando agli esperti balistici, fece un
percorso del tutto improbabile, risparmiando così danni irreversibili agli organi vitali.
Da parte sua, Giovanni Paolo II rimase sempre convinto che la mano materna di
Maria aveva deviato quel colpo mortale.

Ebbene, il 13 maggio 1991, a Fatima, Giovanni Paolo II pregò così, e così


preghiamo anche noi:

Madre della nostra vocazione,


“con te intendiamo seguire Cristo:
la stanchezza non ci appesantisca, né la fatica ci rallenti;
le difficoltà non spengano il coraggio, né la tristezza la gioia del cuore.
Tu, Maria, Madre del Redentore,

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continua a mostrarti Madre per tutti,
veglia sul nostro cammino,
fa’ che pieni di gioia vediamo il tuo Figlio nel Cielo.
Amen!”.

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CONCLUSIONE DELLA SECONDA PARTE

Le storie di vocazione sacerdotale che abbiamo percorso – mentre aiutano a


rispondere all’interrogativo fondamentale sul ministro ordinato e sulla sua identità –
rappresentano anche una formidabile consegna per ogni sacerdote: che sulla medesima
strada di santità si trovino a camminare. Insieme ai loro fedeli, i diaconi, i presbiteri e
i vescovi del terzo millennio, ciascuno con la sua irripetibile storia di vocazione, ma
sempre con tutta la fede e la passione di cui sono capaci.
E allora, volgendosi indietro a guardare il tempo che scorre, allora anche a loro
sembrerà di comprendere tutto: che tutto è grazia, perché il dono e il mistero di Dio
non deludono mai.
Desidero concludere questa seconda parte del volume con la preghiera che lo
stesso Giovanni Paolo II ha consegnato alla Chiesa, al termine della sua Esortazione
Apostolica Pastores dabo vobis.

Preghiamo dunque così:

“Maria, Madre di Gesù Cristo e Madre dei sacerdoti,


ricevi questo titolo, che noi tributiamo a te,
per celebrare la tua maternità
e contemplare presso di te il Sacerdozio
del tuo Figlio e dei tuoi figli,
Santa Genitrice di Dio…

Madre di Gesù Cristo,


eri con lui agli inizi della sua vita e della sua missione…
Accogli fin dall’inizio i chiamati,
proteggi la loro crescita,
accompagna nella vita e nel ministero
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i tuoi figli,
Madre dei Sacerdoti.
Amen!” (Pdv, n. 82).

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CONCLUSIONE GENERALE
Lectio di Atti 6, 1-6

Possiamo condensare le conclusioni di questo volumetto in una breve lectio, che


qui propongo. Leggeremo dal sesto capitolo degli Atti degli Apostoli il racconto
dell’ordinazione dei primi sette diákonoi.
E’ vero che questo termine non compare nel nostro racconto: ma, al di là della
terminologia adottata, non si può negare che “i sette” svolgessero nella primitiva
comunità di Gerusalemme un ufficio simile a quello dei diaconi.
Di fatto, essi vennero istituiti per il “servizio delle mense”, cioè per il servizio
della carità.

C’è forse un “rischio” – ci domandiamo – per chi, come ogni ministro ordinato,
esercita il servizio della carità?
Potrebbe sembrare questa una domanda fuori luogo, quando ci si ricorda,
insieme con l’apostolo Paolo, che, di tutte le cose, più grande è la carità.
Eppure, vogliamo conservare sullo sfondo questo interrogativo un po’
inquietante, mentre procediamo nella lectio del nostro brano.

1. Lettura

“In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca
mormoravano contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana,
venivano trascurate le loro vedove.
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: ‘Non è giusto che
noi lasciamo da parte la Parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate
fra voi sette uomini di buona reputazione (martyrouménous), pieni di Spirito e di
sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla
preghiera e al servizio della Parola’.

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Piacque questa proposta a tutto il gruppo. e scelsero Stefano, uomo pieno di fede
e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenàs e Nicola, un prosélito
di Antiochia. Li presentarono agli apostoli e, dopo aver pregato, imposero loro le mani”
(Atti 6,1-6).

2. Meditazione

Per meditare il brano propongo la sottolineatura di alcune espressioni più


importanti.

2.1. La prima parola da sottolineare è gongysmós, un sostantivo onomatopeico


che indica il brontolio della comunità, un po’ come fa una pentola di fagioli in
ebollizione.
In effetti, l'occasione immediata dell'intervento dei Dodici è una lamentela, un
mormorìo (quelli di lingua greca mormoravano); cioè una situazione di disagio, che
crea malumore e scontento nella comunità.
Anziché difendersi o respingere le accuse, i Dodici riconoscono le loro
responsabilità, e fanno una coraggiosa scelta pastorale, che comporta la
riorganizzazione delle strutture comunitarie.
Già qui possiamo trovare una buona lezione per noi.
Di solito, quando ci sentiamo attaccati, noi ci mettiamo subito sulla difensiva, e
ragioniamo più o meno così: “Ma che cosa vogliono ancora, questi! Io sto dando la mia
vita per loro…”.
I Dodici, invece, rinunciano a difendersi, e reagiscono in un modo pastoralmente
efficace.
Riconoscono che uno non può fare tutto. Comprendono che, ai fini di una buona
crescita della comunità, occorre distinguere i ministeri.
Così loro – i Dodici – si dedicheranno alla preghiera e al servizio della Parola;
altre persone eserciteranno invece servizi più pratici, come quello delle mense.
Di qui l'ordinazione dei sette, e l'inizio nella Chiesa di un coordinamento di
ministeri e di servizi diversi.

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2.2. Trascorriamo adesso alla seconda sottolineatura, che riguarda l’identikit del
diacono, cioè di colui che viene ordinato per servire nella Chiesa.
Stando al racconto degli Atti, i sette devono avere alcune caratteristiche precise.
Anzitutto saranno uomini “di buona reputazione” – o meglio, traduciamo noi,
“di provata testimonianza” –. In effetti, il participio usato da Luca si collega con il
termine “martire”. Potremmo dire che chi viene ordinato per servire nella Chiesa deve
comunque essere un “martire”, nel senso che la testimonianza della sua diaconia non
deve mai arretrare, a costo, se necessario, della vita stessa.
Non a caso il primo dei sette – Stefano – è anche il primo martire.
In secondo luogo, il diacono deve essere “pieno di Spirito e di sapienza”. Si tratta
appunto della sophía, la sapienza che viene da Dio: è la “sapienza dello Spirito”, che
chiede profonda intimità con il Signore.
Di fatto, Stefano viene definito come un “uomo pieno di fede e di Spirito Santo”.
Dunque, il servizio della carità – il cosiddetto “servizio delle mense”, per il quale
i sette vengono ordinati – presuppone il primato della dimensione contemplativa nella
loro vita.
E' un primato che risulta a chiare lettere dal fatto che i Dodici, al vertice della
gerarchia ecclesiastica, si riservano appunto la preghiera e il servizio della Parola. Ma
questa scelta non segna tanto una spartizione esclusiva, bensì un primato.
Leggiamo infatti che Pietro continua a visitare e a guarire i malati (9,32-34),
mentre Filippo, uno dei sette, converte il funzionario della regina di Etiopia esercitando
il servizio della Parola (8,27-39).
Non si tratta, dunque, di una spartizione esclusiva.
Piuttosto, il “servizio delle mense” – cioè il servizio della carità – viene
chiaramente subordinato alla preghiera e al “servizio della Parola”.
In definitiva, i Dodici hanno compreso che, senza la preghiera e la diaconia della
Parola, non ci può essere un servizio autentico della carità. L'impegno del
discernimento per realizzare vere opere di carità deve essere sostenuto dall'intimità con
il Signore, dalla confidenza e dall'amicizia profonda con lui.
Il missionario della carità, scriveva Giovanni Paolo II, è anzitutto “un testimone
dell'esperienza di Dio”, è “un contemplativo in azione”. Egli “trova risposta ai
problemi nella luce della Parola di Dio e nella preghiera”. “Se non è un contemplativo,
non può annunziare Cristo in modo credibile” (Redemptoris missio, n. 91).

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2.3. Infine – ed è questa l’ultima sottolineatura – i sette vengono fatti avanzare
davanti agli apostoli. E' il rito dell'ordinazione. Questi uomini, consapevoli della loro
identità e della loro missione, fanno un passo in avanti, come se dicessero: “Sono
presente, eccomi!”.
Allora gli apostoli, dopo aver pregato, impongono loro le mani e li consacrano
per la missione.

3. Per la preghiera e per la vita

Passiamo ora all’altro movimento della lectio divina – cioè alla preghiera e alla
conversione della vita –, riproponendoci quell’interrogativo, che abbiamo lasciato sullo
sfondo all’inizio di questa lectio.
Quale può essere il rischio di chi, come il ministro ordinato, serve nella Chiesa?
E' il rischio di Marta, di cui parla Luca nel capitolo decimo del suo Vangelo.
E’ il rischio di chi si lascia prendere dai “molti servizi” (pollè diakonía, scrive
Luca; ovvero frequens ministerium: 10,40), fino al punto di smarrire la giusta scala dei
valori.
Ma l'episodio narrato da Luca stabilisce anche l'antidoto, il farmaco salutare
all'agitazione di Marta, e suggerisce a chi serve nella carità il metodo per superare il
“rischio del servizio”. Questo farmaco è l'ascolto della Parola, definito come “la parte
migliore”.
C'è dunque un primato da salvare a tutti costi, il primato dell'ascolto, pena il non
senso e la degenerazione dell'agire.

Nella vita e nell'esperienza di chi serve nella carità rimane pur sempre l'impegno
di realizzare una sintesi matura tra “il servizio delle mense”, da una parte, e “la
preghiera e il servizio della Parola”, dall’altra; cioè tra le mille esigenze della carità e
la contemplazione di Dio.
A volte dobbiamo vivere, di necessità, nella molteplicità dei servizi, e ne
usciamo un po' tesi e stanchi.
Ma ciò che più conta è avere il giusto senso dei valori; è capire che il servizio
fondamentale è quello della preghiera e della Parola, e che il punto di partenza di ogni
diaconia autentica della carità è il cuore di Gesù Cristo, ricco di misericordia: e che con

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questo cuore dobbiamo metterci in sintonia, ascoltando docilmente la Parola del
Maestro, per conformare il nostro cuore al suo.
Alla fine di tutto, la grazia che il Signore suggerisce di chiedere ai suoi ministri
(proprio come suggerì una notte a Salomone: “Chiedimi ciò che vuoi…”), è quella di
continuare a servire il santo popolo di Dio – secondo le modalità e gli impegni
caratteristici della vocazione di ciascuno – con fede e amore, con premura e umiltà,
senza mai cedere alle tentazioni del ripiegamento su noi stessi, dell’accaparramento e
della strumentalizzazione, e appunto per questo rispettando il primato della
contemplazione, della preghiera e dell'ascolto della Parola.
L'esperienza ci dice che le necessità del “servizio della mensa” sono molteplici
e pressanti.
Ma proprio per questo motivo sarà sempre importante una valutazione ordinata,
una “sapienza del cuore”, che nasce dalla contemplazione e dalla sintonia profonda con
il cuore di Gesù, origine e fonte di ogni autentica diaconia della carità.

Cari fratelli diaconi, presbiteri, vescovi,


siamo chiamati a servire e ad animare la Chiesa, la Sposa amata, con il battito
del cuore del buon Pastore! Alziamo le nostre mani – come l’apostolo Tommaso – fino
al cuore di Gesù, e da questa contemplazione ricaviamo tutta l’efficacia della nostra
missione pastorale!
Infine, alla Vergine del fiat affidiamo la nostra vocazione di ministri ordinati.
Lo facciamo con la preghiera che il Papa Benedetto XVI ha recitato il 6 dicembre
2005, rivolgendosi alla Madonna di Loreto:

“Santa Maria, Madre di Dio”,


egli disse quel giorno,
“ti salutiamo nella tua casa.
Qui l’arcangelo Gabriele ti ha annunciato
che dovevi diventare la Madre del Redentore…
Aiutaci a dire di ‘sì’ alla volontà di Dio,
anche quando non la comprendiamo.
Aiutaci a fidarci della Sua bontà, anche nell’ora del buio.
Aiutaci a diventare umili,
come lo era il tuo Figlio, e come lo eri tu…

Tu, Madre buona,


soccorrici nella vita, e nell’ora della nostra morte.
Amen!”.

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