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DONATO PAVONE

Il prete, uomo di comunione


La buona comunicazione come risorsa pastorale

L’attuale cultura postmoderna, così attenta alla dimensione intersog-


gettiva, richiede al prete di declinare il suo costitutivo essere ‘uomo
della comunione’ in una specifica attenzione relazionale. D’altra par-
te, poiché le molteplici forme del vivere comune sono una straordi-
naria risorsa per l’annuncio del Vangelo, il prete stesso non può non
interrogarsi su quali siano le concrete modalità espressive della co-
munione, capaci di propiziare il suo ministero. Don Donato Pavone,
sacerdote della diocesi di Treviso, psicologo e delegato del vescovo
per la formazione permanente del clero, propone in questo saggio
una ricca analisi di risorse, difficoltà e strategie relazionali, normal-
mente incontrate dal prete nella vita comunitaria e nei suoi mol-

La Rivista del Clero italiano 2| 2013


teplici e inevitabili conflitti. Una disamina ampia e utile, nella quale
ognuno potrà riconoscere almeno parte della propria esperienza
pastorale, e ravvisare le molteplici strategie ‘difensive’ spesso incon-
sapevolmente messe in atto a protezione delle proprie insicurezze,
della scarsa disponibilità al confronto e al dialogo e, quindi, a quella
buona capacità di comunicare che «è la via ordinaria di risoluzione
di conflitti e tensioni».

L’umanità del prete e la sua capacità di relazione


Chiamato a essere uomo di comunione e responsabile della comuni-
tà, il presbitero deve necessariamente sapersi relazionare con gli altri1.
Secondo il Magistero autorevole della Chiesa, infatti, la relazionalità
virtuosa è una delle qualità essenziali all’esercizio del ministero ordina-

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to, che si traduce nella promozione e attuazione di forme concrete di


fraternità, corresponsabilità e collaborazione. Il prete ne diventa sem-
pre più capace nella misura in cui si mantiene interiormente in cam-
mino. Del resto, è proprio l’impegno in una seria ascesi personale che,
con il sostegno della Grazia, lo fa crescere in quelle «virtù umane»2 che
sono necessarie all’efficacia del suo servizio3, giacché «l’umanità del
prete è la normale mediazione quotidiana dei beni salvifici del Regno»4.
I padri conciliari fondano tale umanità su virtù quali la sincerità,
il rispetto costante della giustizia, la fedeltà alla parola data, la genti-
lezza del tratto, la discrezione e l’amorevolezza nella conversazione,
la fermezza d’animo, il saper prendere delle decisioni ponderate e il
retto modo di giudicare persone ed eventi5. Per Giovanni Paolo II le
condizioni di base vanno dall’equilibrio generale della personalità alla
capacità di portare il peso delle responsabilità pastorali, dalla cono-
scenza profonda dell’animo umano al senso di giustizia e della lealtà6.
Secondo i vescovi italiani poi, i più rilevanti atteggiamenti virtuosi del
ministro ordinato sono: «L’equilibrio, l’amore per la verità, il senso di
responsabilità, la fermezza della volontà, il rispetto di ogni persona, il
coraggio, la coerenza, lo spirito di sacrificio […] il modo autorevole e
fraterno di entrare in rapporto con gli altri, la sincerità, la discrezio-
ne, il modo maturo di presentarsi e di esprimersi»7. Dal canto loro,
gli estensori del testo che raccoglie gli orientamenti per l’utilizzo delle
competenze psicologiche nell’ammissione e formazione dei candidati
al sacerdozio, segnalano le seguenti qualità umane, tra quelle che me-
ritano particolare attenzione da parte degli addetti ai lavori: «Il senso
positivo e stabile della propria identità virile e la capacità di relazionarsi
in modo maturo con altre persone o gruppi di persone; un solido senso
di appartenenza, fondamento della futura comunione con il presbite-
rio e di una responsabile collaborazione al ministero del vescovo»8.
Le qualità e le virtù umane, qui appena accennate, sono da conside-
rarsi imprescindibili perché «sono tenute in massima considerazione
tra gli uomini» e «rendono accetto il ministro di Cristo»9. Esse sono
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richieste al prete affinché la sua personalità sia «ponte e non ostacolo


per gli altri nell’incontro con Gesù Cristo Redentore dell’uomo»10, es-
sendo le «chiavi che aprono le porte della fiducia, dell’ascolto e della
confidenza»11 delle persone del nostro tempo, particolarmente sensi-
bili alle dinamiche della comunione12.
Uno dei tratti tipici dell’uomo post-moderno, infatti, è proprio il

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desiderio di relazione, che può essere interpretato come un bisogno


intenso, implicito e diffuso di intersoggettività autentica. Si tratta di
una rilevante spinta interiore, che non sempre l’interessato è in gra-
do di leggere, valutare criticamente, purificare e orientare. Ne stanno
alla base una serie di fattori, complessi e difficili da interpretare. A
detta degli studiosi dei fenomeni attuali, tale bisogno è il modo in
cui si manifesta oggi la domanda di felicità, come ricerca diretta del
volto dell’altro, di sintonia emotiva, gratificazione e condivisione13.
Si è alle prese ormai con una questione che investe la stessa struttu-
ra antropologica, quindi la cultura contemporanea, cioè il modo di
pensare e di giudicare prima ancora che l’ethos, il costume, l’insieme
delle abitudini di vita. È cambiato il modo d’intendere la relazione
autentica, essendo ridotta per lo più a un’esperienza confinata in uno
spazio circoscritto e selettivo. Le relazioni stanno diventando sempre
più corte e autoreferenziali. Ognuna di esse tende ad avere in sé il
proprio senso. Nella dinamica dei rapporti interpersonali convivono
la logica affettiva della gratificazione, quella estetica del gusto e quella
utilitaristica del vantaggio e del consumo. La distinzione fra autentico
e inautentico coincide con quella fra immediato e mediato. Ciò che
è autentico è immediato e diretto: non ha né deve aver bisogno di
schermi. Inoltre, si sta facendo sempre più strada la convinzione che
l’unica forma autentica di reciprocità è quella paritaria, perfettamente
bilaterale, scelta e contrattata. Rispetto a questo tipo di relazione, ogni
altra forma di rapporto asimmetrico, che presuppone cioè un dislivel-
lo non scelto tra gli interlocutori, tende a essere svalutato: è autentico
il rapporto affettivo tra due persone che si riconoscono e condividono
degli interessi, mentre lo è di meno, per esempio, quello tra genitori e
Il prete, uomo di comunione
figli, docenti e alunni, cittadini e stranieri. La distinzione tra relazioni
buone e cattive s’identifica con la distinzione tra relazioni volontarie
e involontarie.
Nella direttrice della ricerca di relazioni autentiche, poi, l’attuale
cultura dominante vuole come criterio di maturità della persona la sua
autonomia, intesa come assenza di legami. Mentre il legame, infatti, è
vissuto come costrizione o nella forma del contratto, l’autonomia è au-
spicata come condizione individuale e qualità sociale maggiormente
desiderabile. Il legame è percepito come debolezza, l’autonomia come
forza. La cultura postmoderna, nei tratti tracciati, va a toccare l’imma-
gine percepita della Chiesa. Essa stessa, infatti, è ridotta a istituzione

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alleata della metafisica, autoritaria e violenta, perciò incapace di ac-


cogliere, custodire e promuovere la libertà di ciascuno e di garantire
relazioni di qualità. Per questo, non sono pochi quelli che auspicano
una Chiesa in cui la verità lasci il posto alla carità14. In questa prospet-
tiva, la fede cristiana, abbandonata l’illusione del dogma, dovrebbe
annichilirsi nell’amicizia, nel dialogo e nella tolleranza.
Questo desiderio di relazione va ri-significato e ri-evangelizzato,
attraverso l’offerta di comunità in cui sia possibile vivere legami di
autentica relazionalità, ma anche mediante la proposta di chiavi in-
terpretative adatte alla lettura del vissuto e all’elaborazione di nuovi
significati. Giacché le molteplici forme del vivere comune sono una
straordinaria risorsa per l’annuncio del Vangelo, non ci si potrà non
chiedere quali siano le espressioni pratiche della comunione capaci
di propiziare la formazione di coscienze cristiane. Da qui dovrebbe
muovere un ripensamento complessivo, tra conferma e cambiamento,
del volto delle nostre comunità e della qualità dei legami su cui esse si
basano. In questa cornice, una delle primarie preoccupazioni di tutti,
quanto a riflessione e prassi, dovrà continuare a essere lo stile delle re-
lazioni del prete, soprattutto di quelle che vive e promuove in ambito
ecclesiale15.

A servizio della comunione ecclesiale


Ogni comunità cristiana è normalmente attraversata da tensioni e con-
flitti. «E vissero tutti felici e contenti» è un motto che appartiene al
mondo delle fiabe, ma che non può applicarsi alla condizione ordi-
naria della Chiesa16: una realtà che, seppur misterica, è segnata dalla
storicità, vale a dire condizionata in qualche misura dalle dinamiche
del divenire, quindi dal limite, dalla gradualità e dall’esercizio della
libertà umana. I differenti gradi o livelli di maturità spirituale e psi-
cologica, la personale eco emotiva delle esperienze passate, la diversa
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formazione ricevuta, la molteplicità dei pareri e dei punti di vista, le


singolari immagini sentite di Chiesa e le relative attese rispetto a essa
sono solo alcuni dei fattori che possono portare a uno stato di latente
o palese conflittualità. A volte lo scontro riguarda i principi fondanti
il vivere comune, altre volte è sulle modalità concrete di attuazione
della comunione a non esservi piena convergenza. Mentre in alcuni
casi il contrasto si pone sul piano delle dinamiche interne di conviven-

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za e collaborazione, in altri il conflitto concerne la missione, dunque


l’integrazione, non sempre facile, tra la fedeltà ai valori di sempre e la
risposta alle esigenze del tempo presente. Tuttavia, discriminante non
è la presenza o l’assenza del conflitto, ma come questo viene affron-
tato e gestito, giacché è possibile che divenga per tutti una preziosa
occasione di conversione. Il presbitero, da questo punto di vista, ha
un ruolo del tutto particolare.
Nella comunità cristiana, infatti, il ministero del prete si dà essen-
zialmente in una vera e propria opera di mediazione, in vista dell’unità
nella carità17. Poiché, in virtù della Grazia ricevuta nel giorno dell’or-
dinazione, rappresenta sacramentalmente Cristo, unico mediatore di
salvezza, egli ha la responsabilità di creare le condizioni perché vi sia
comunione tra il Padre e i suoi figli. Lo può fare in special modo con
la preghiera d’intercessione18, la liturgia delle ore e la celebrazione
dell’Eucaristia, sorgente e origine della comunione ecclesiale. Il pa-
store non può non pregare per il gregge che il Signore gli ha affidato,
per la porzione di Chiesa che sta servendo. Egli è missionario non
solo quando porta Dio alle persone, ma anche quando si sforza di
introdurle, condurle e offrirle a lui mediante l’orazione, come ha fatto
Gesù che, poco prima di morire, ha chiesto per i suoi amici il dono
della comunione con il Padre e tra di loro. Cosa non di poco conto,
pregando per i nemici o per le persone che in qualche modo gli fan-
no del male, mentre esprime al Signore un sincero, seppur sofferto,
desiderio di riconciliazione, il prete matura atteggiamenti virtuosi di
bontà e misericordia.
Il prete che voglia operare per la comunione, poi, presta attenzione
alla singola persona, ai suoi bisogni e alle sue difficoltà, in particolar
Il prete, uomo di comunione
modo a chi versa in condizioni di povertà ed emarginazione. Offrire
accoglienza e consolazione, sicurezza e fermezza, pazienza e miseri-
cordia, guida e accompagnamento, vuol dire, in fondo, impegnarsi
perché le relazioni nella Chiesa siano di qualità evangelica. Il presbi-
tero che investe energie e tempo in questa direzione contribuisce a
creare quei legami di carità che, alla fine, rendono credibile l’annuncio
del Vangelo.
In fedeltà alla natura del ministero che svolge nella Chiesa, il pre-
sbitero non può essere un «uomo di rottura». Al contrario, egli è
chiamato a creare le condizioni affinché i fedeli che gli sono affidati
camminino realmente insieme. Lo fa stimolando chi va lentamente

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ad aumentare il passo e chi corre troppo a rallentare. Da un lato non


può permettersi, infatti, di ‘tirare’ fino a strappare, dall’altro non può
accettare passivamente che le comunità che serve si assestino su dina-
miche di stagnazione. Il prete, quando è davvero uomo di comunione,
costruisce ponti tra le persone, mette in collegamento realtà territo-
riali tra loro diverse e apparentemente incompatibili, amplia gli stretti
orizzonti dei gruppi, delle associazioni e dei movimenti ecclesiali. È
suo compito rinviare costantemente alla realizzazione di un progetto
che si spinge ben oltre la ricerca degli interessi di parte, orientando
tutti al bene in sé e a quello della Chiesa nel suo insieme.
In seno alla comunità cristiana, il ministro ordinato non spegne
quella dialettica che è motivo di ricchezza per tutti, ma si adopera
perché le diversità non degenerino in fratture e spaccature che, anche
se fatte in nome della verità, producono ferite profonde e dolorose,
spesso insanabili. Molte volte, proprio in virtù del ruolo che gli appar-
tiene o gli è attribuito, si ritrova a dover mediare tra persone e gruppi
in tensione tra loro. Ora, quando i conflitti si affacciano all’orizzonte,
perché è normale che ci siano, il presbitero deve avere il coraggio e la
capacità di aiutare singoli, famiglie, gruppi e parrocchie a riconoscerli,
a chiamarli per nome, ad affrontarli nei luoghi opportuni e nei modi
adeguati19, secondo quello stile evangelico che sa coniugare verità e
carità, per trasformarli in opportunità di crescita nell’unità.
In questa prospettiva, il presbitero che si spende per la comunione
ecclesiale esercita il ruolo della presidenza, che gli è proprio, come ser-
vizio a tutti. Egli riconosce e promuove le vocazioni, i ministeri e i ca-
rismi che lo Spirito Santo suscita tra i cristiani, cerca di far crescere in
loro il senso di appartenenza alla Chiesa, stimola ciascuno all’assunzio-
ne della responsabilità che gli compete e lo aiuta a maturare non solo
la disponibilità a collaborare, ma anche la capacità di agire in piena e
vera corresponsabilità20. Sono corresponsabili quei battezzati che, in
cammino verso una fede adulta, possiedono un autentico senso eccle-
siale, sono in qualche modo parte attiva della comunità, si pensano in-
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sieme agli altri, condividono le scelte che riguardano tutti, camminano


nell’alveo di un comune progetto pastorale e si spendono quotidiana-
mente per il Vangelo nei più svariati ambiti della loro vita. È così che,
contribuendo alla formazione21 di un laicato corresponsabile, il prete
lavora saggiamente ed efficacemente per l’edificazione della Chiesa22,
che è missionaria quando è la parabola di una comunione possibile.

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Il prete, la comunità e i suoi molteplici conflitti


L’esperienza insegna come il servizio alla comunione che il prete svol-
ge nella comunità non sia facilmente praticabile. I motivi e le cause
di tale difficoltà risiedono in fattori di diversa natura e complessità.
Volendo restringere l’ambito della riflessione alla mediazione dei con-
flitti, si osserva che, nonostante la sua retta intenzione e il prezioso
sostegno della Grazia, nelle relazioni personali come nelle interazioni
gruppali, anche il presbitero, a onor del vero non sempre consapevol-
mente, può adottare delle strategie di comportamento che, alla prova
dei fatti, si dimostrano non solo immature, ma anche inefficaci.
C’è chi, ad esempio, sostanzialmente per il timore di essere inade-
guato e di non riuscire a far fronte alla realtà, assume l’atteggiamento
infantile della negazione23. Mancando di reality testing, non riconosce
le difficoltà, le tensioni e i conflitti che oggettivamente esistono tra
persone o gruppi. Pur assistendo da vicino ad alcuni fatti, non li vede,
non li sente o non li vive. Per lui va tutto bene: sono gli altri a essere
pessimisti, ad avere il tempo di crearsi problemi o la voglia di rovinarsi
la vita. In alcuni casi, può succedere che il prete non solo neghi la re-
altà, ma addirittura la idealizzi. È così che, anche in presenza di disagi
inconfutabili e di una certa rilevanza, mosso da retta intenzione, può
arrivare a pensare: «Una comunità come questa dove la trovo? Qui
davvero tutti si vogliono bene!».
In certe occasioni, il modo di affrontare i problemi del presbitero
può assomigliare a quello di chi fa cessare ogni tipo di comunicazione
emotiva. Tra bambini o persone immature, del resto, spesso ci si apo-
strofa con un bel: «Non gioco più!». Quando le cose non vanno bene, Il prete, uomo di comunione
magari subito dopo una tensione patita in profondità, anche gli adulti
talvolta anestetizzano gli affetti, allentano i legami, perdono la voglia
di stare insieme e di lavorare per una finalità condivisa, si tengono il
muso o non si parlano per un bel po’. Contrariamente a quanto si pos-
sa pensare, il conflitto rimane irrisolto e le emozioni che ha innescato
giocano un ruolo alla lunga devastante sulla qualità stessa dei rappor-
ti. Mentre questa reazione si può comprendere nell’immediato, non
dovrà rappresentare la maniera ordinaria di interagire nei casi di dif-
ficoltà e incomprensione. Qualora questo dovesse accadere, infatti, le
relazioni tra le persone diventerebbero nel tempo sempre più fredde,
asettiche e formali. Pur continuando ad andare avanti senza clamorosi

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traumi o palesi sofferenze, la ‘comunità congelata’ verrebbe progressi-


vamente meno al suo vero scopo, che è la comunione per la missione.
La detonazione della rabbia, poi, sarebbe soltanto rinviata. L’assenza
di conflitti, dunque, non è di per sé segno di comunione autentica.
A fronte di certe situazioni, c’è il prete che tende a tacere e ad
andare avanti come se niente fosse, pur di mantenere l’equilibrio e
garantire l’armonia con le persone e nella comunità. Le discussioni ac-
cese, le divergenze apparentemente insanabili e le fratture dolorose lo
trovano prevalentemente passivo. Sotto il velo della prudenza, spesso
si cela la mancanza di forze e risorse per reagire. Questo suo approc-
cio può esprimere, di fatto, un radicale pessimismo: non credendo
alla possibilità di una risoluzione pacifica e costruttiva del conflitto,
rinuncia alla sfida di affrontarlo con chiarezza e determinazione. La
sfiducia di poter individuare una via d’uscita alla situazione molte vol-
te si estende dal responsabile della comunità agli altri suoi membri,
generando in loro resistenze e blocchi di ogni tipo. Contro qualsia-
si forma d’intraprendenza e creatività, infatti, il sentire che s’impone
progressivamente è che non vale la pena di darsi da fare per risolvere
i problemi perché tanto non cambierà mai nulla.
Vi è pure il prete che non si sottrae alla battaglia: scarica qui e ora
la sua ansia e sfoga la sua rabbia, in parole e gesti, a prescindere dalle
conseguenze che tutto questo può avere sull’altro, sulla relazione con
lui e sulla comunità. La tensione presto sparisce e ritorna la calma, ma
il sereno dopo la tempesta è solo di facciata, perché non si fonda sulla
reale comprensione reciproca. Di sicuro, prima o poi la tregua cesserà e
l’aria si farà nuovamente irrespirabile. Ci si pizzicherà su ogni cosa, utile
pretesto a ciascuno dei contendenti per indurre l’altro al litigio. Ci si su-
pererà nell’evidenziare ciò che non va. Per questa via, i conflitti si ripete-
ranno e moltiplicheranno fino all’esasperazione e all’inevitabile rottura.
Quando si prende la scorciatoia della spiritualizzazione, tutto viene
coperto con il manto della volontà di Dio: «Se sta accadendo questo
– si pensa – significa, in fondo, che è il Signore a volerlo». Proprio per
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questo, ci sono preti che accettano supinamente il disagio e l’ingiusti-


zia perché ‘croci’ da vivere con fede24. Il più delle volte, tale apparente
sensibilità spirituale nasconde l’incapacità o la pigrizia di cercare e tro-
vare vie praticabili di risoluzione al conflitto in questione. Addirittura,
c’è chi, mosso da una fede incrollabile, con grande naturalezza e salda
convinzione insegna che basta la preghiera per aggiustare ogni cosa.

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Qualcuno si spinge ancora oltre consigliando alle persone di prendere


in mano il Vangelo e di aprirlo a caso, perché il Signore non mancherà
di indicare la soluzione a qualsiasi problema o incomprensione. Più
che di autentica fede cristiana, si dovrebbe qui parlare di magismo
religioso25. Tra l’altro, giacché i problemi e le fratture rimangono, si
potrà giungere a credere che il Padre sia disinteressato alla vita dei
suoi figli o impotente di fronte alla cattiveria degli uomini.
Un’altra delle strategie più usate è la generalizzazione. Il problema
è esteso e indebitamente distribuito, tanto che a quello in ballo se ne
aggiungono a catena degli altri. In questo modo, vengono evidenziate
e amplificate le divergenze. «Siete tutti così», «Gli altri ce l’hanno con
me», «Da sempre mi avete trattato male», «I laici non capiscono le
fatiche dei preti» sono pensieri e considerazioni che non rendono giu-
stizia a nessuno, sono indice di poco realismo, espressione di una rab-
bia spostata su chi non la merita e soprattutto manifestazione di poca
disponibilità al confronto e al dialogo, quindi a quella comunicazione
diretta che, come si tornerà a dire, è la via ordinaria di risoluzione di
conflitti e tensioni26. Ancora una volta, a generalizzare è quel presbite-
ro che non sa o non vuole fare la fatica di affrontare le difficoltà. Tale
operazione, alla fine, non paga, perché i problemi sono approcciati in
modo costruttivo solo quando sono delimitati e circoscritti.
Di fronte a ciò che non funziona, è grande la tentazione di indivi-
duare chi ne ha la colpa. A tal proposito, in ogni comunità c’è chi la
introietta e chi, invece, la proietta. Ci sono preti che si sentono sempre
colpevoli di ciò che accade, al contrario, ce ne sono altri che tendono a
vedere la causa del proprio e altrui malessere nell’ambiente circostan-
te o nelle persone con le quali hanno a che fare. Sembrerà strano, ep-
Il prete, uomo di comunione
pure anche il prete può avere bisogno di un capro espiatorio: anziché
prospettare soluzioni, distribuisce peccati ed errori. Sia introiettando
che proiettando la colpa, il prete non affronta realmente i problemi, le
tensioni e i conflitti. In realtà, se ci sono delle difficoltà o delle fratture
è perché tutti, anche se in diversa misura, hanno in qualche modo
contribuito a crearle. Ora, poiché la soluzione non può che venire
dalla cooperazione di tutti, ci si dovrà chiedere come collaborare per
produrre cambiamento.
Un altro fenomeno che accade di frequente, al sorgere di incom-
prensioni e tensioni in seno alla comunità, è la costituzione di alleanze
difensive: ci si coalizza per difendersi e attaccare. Anche il pastore può

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trovarsi coinvolto, attivamente o passivamente, in una vera e propria


lotta per il potere e il controllo. La comunità rischia di spaccarsi e
frammentarsi, magari in nome della fedeltà al Vangelo, quando, in
realtà, sono i bisogni ad avere il sopravvento sui valori proclamati.
Nella difesa delle proprie posizioni, non ci sono ragioni che tengano,
si perde il senso della realtà, si procede a oltranza, seppur nella con-
sapevolezza dell’irrazionalità del proprio dire e argomentare. Finché
non si giungerà a comprendere e decidere che a vincere dev’essere la
comunità e il suo vero bene, inevitabilmente si chiuderanno tutte le
porte alla comunione nella diversità.

La comunicazione e il dialogo
Mantenere alta l’idealità, non smettere di rilanciare i valori e i motivi
fondanti la comunione, formare ai significati e agli atteggiamenti cor-
relati alla logica della carità evangelica, far maturare nei cristiani la co-
scienza dell’interdipendenza, sono solo alcuni tra i compiti ai quali il
presbitero non può sottrarsi, pena la regressione delle interazioni alla
prevalente dinamica della gratificazione dei bisogni, che tanta parte
hanno nel sorgere dei conflitti. Nella comunità cristiana, infatti, dovrà
essere il Vangelo, con i suoi orientamenti e le sue esigenze, a costituire
il quadro di riferimento entro cui operare un discernimento capace di
condurre all’assunzione e alla trasformazione del vissuto, quindi anche
di quelle situazioni conflittuali che di volta in volta si possono verificare.
Desiderando rimanere ancorati alla realtà, ma nello stesso tempo
non volendo entrare nelle questioni riguardanti la comunità come si-
stema e il ruolo della leadership del prete, perché, seppur decisive,
troppo complesse per essere adeguatamente sviluppate in questo con-
testo, sembra utile riflettere su una delle vie per l’edificazione della co-
munione, che è poi anche una delle condizioni di base per affrontare
con efficacia le tensioni27: la capacità di comunicare28.
Donato Pavone

La considerazione positiva dell’altro è un ingrediente essenziale


alla comunicazione. Non si tratta dell’ingenuo e cieco pensar bene
dell’interlocutore, ma del saper andare oltre il suo comportamento,
fino a coglierne l’oggettiva dignità e amabilità. È proprio il dono di
questa stima di base che crea le condizioni del dialogo e dello scambio
reciproco; questo vale, in particolar modo, nel caso di chi ha sbaglia-
to. La fiducia genera nell’altro apertura e disponibilità, la disistima, al

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contrario, resistenza, diffidenza, se non addirittura ostilità. Se è vero


questo, allora perché muti l’atteggiamento profondo di colui con il
quale fa fatica a relazionarsi, è necessario che il prete lavori seriamen-
te su se stesso, andando a rivedere l’immagine sentita che ha del suo
interlocutore.
Per dialogare con efficacia, poi, il presbitero deve saper guardare il
problema, più in generale osservare la realtà, da un punto di vista che
non è il suo. È empatico29, infatti, chi sa mettersi nei panni dell’altro
al punto da cercare onestamente di capirne le ragioni e provarne le
emozioni, nel riconoscimento e nella salvaguardia dei confini identi-
tari, propri e altrui. Nel compito di mediatore di conflitti, il prete è
chiamato proprio a creare le condizioni perché i negoziatori si ascolti-
no veramente, in un contesto di sicurezza, quindi alla presenza di un
garante delle regole del rispetto reciproco. Ora, è capace di empatia
chi non si sente padrone della verità, ma conosce la fatica e il limite
della ricerca, tanto da essere disponibile a riconoscerla laddove essa si
riveli, per questo anche aperto al confronto. La rigidità è quasi sempre
segno d’insicurezza, manifestazione dell’incapacità di stare nel dubbio
e di accettare soluzioni diverse dalle proprie. Il prete ‘flessibile’ non è
un qualunquista, ma uno che sa distinguere l’essenziale da ciò che non
lo è ed è disposto a cercare insieme agli altri quelle forme concrete di
realizzazione della verità, alle quali è possibile giungere soltanto attra-
verso un lungo e articolato lavoro di discernimento. Così facendo, il
pastore contribuisce a tessere la trama della comunione e ad affronta-
re costruttivamente quei conflitti che segnano la vita della comunità
che gli è affidata. Del resto, il dialogo che fa crescere la comunione è
quello in cui si riceve e offre, secondo la logica della complementarie-
Il prete, uomo di comunione
tà30, nel rispetto e nella valorizzazione delle differenze, utili e preziose
per il bene comune.
A proposito di responsabilità, il modo di comunicare del prete è
indicativo di quanto gli stiano veramente a cuore le persone e la realtà
ecclesiale che serve. Non sarebbe responsabile quando dovesse dire
la verità senza scrupoli o delicatezza, ma nemmeno qualora tacesse o
facesse finta di niente, nascondendosi dietro a messaggi compiacen-
ti e ad atteggiamenti accomodanti. La persona responsabile mette in
parole ciò che pensa e sente in maniera chiara, diretta e controllata.
Il prete non è uno che non prova mai rabbia, ciò che è auspicabile,
piuttosto, è che sia capace di gestirla in maniera matura. Sentire non

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è esprimere. Rispetto a ciò che di primo acchito sente senza volere


e che, per certi versi, gli s’impone come un dato con il quale fare
i conti, la responsabilità risiede nella decisione di esprimerlo in un
modo o in un altro. A tal proposito, l’acting out dell’aggressività non
può diventare per il presbitero uno stile o un’abitudine. Purtroppo, ci
sono preti che quando si arrabbiano trascendono, sbottano, insultano
o spaccano qualcosa. È evidente che, anche se in buona fede, non
è versando la propria rabbia sugli altri che si coltivano relazioni di
qualità evangelica. Espressa così, infatti, la rabbia ferisce e divide. Un
pastore questo non se lo può proprio permettere. D’altra parte, però,
reprimere sistematicamente la propria rabbia alimenta dentro di sé il
fuoco di un’aggressività che qualcuno, magari il soggetto stesso, sta
già in qualche modo pagando. Anche l’espressione passiva e indiretta
della stessa alla lunga allontana, destabilizza e divide.
Il presbitero, per contro, deve imparare a dire la verità con carità.
Trasformandosi paradossalmente in qualcosa di costruttivo31, la rab-
bia genera così occasioni di dialogo, confronto e condivisione. Perché
questo possa avvenire, è necessario che il prete si educhi al discerni-
mento degli affetti. Ora, perché le emozioni siano espresse in maniera
matura, non devono essere trattenute né versate, ma contenute32. Il
termine contenere evoca un confine, un limite, un filtro. Per contenere,
infatti, bisogna avere uno spazio interiore in cui depositare, custodire
ed elaborare le emozioni e i sentimenti. I modi, i tempi, i luoghi dell’e-
spressione vanno dunque pensati, soppesati e scelti. Ecco che la per-
sona responsabile è in grado di sentire, chiamare per nome le proprie
emozioni, accettare di provarle, quindi purificarle alla luce dei valori
e orientarle al bene in sé, a quello dell’altro e della comunità cristiana.

Il perdono e la correzione fraterna


La riflessione sul profilo del presbitero, uomo di comunione, sem-
Donato Pavone

bra trovare una sensata conclusione nell’orizzonte del perdono e della


correzione. Il perdono, oltre che dono dell’infinita bontà di Dio, è una
scelta libera e responsabile, che va contro l’istinto spontaneo di ren-
dere male per male. Non è qualcosa d’immediato o reattivo, bensì il
frutto di un cammino relativamente lungo di elaborazione personale.
Per riuscire a perdonare, infatti, ci vuole non solo un buon bagaglio di
principi e convinzioni, ma anche la capacità d’introspezione, di con-

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trollo dei propri impulsi, di tolleranza della frustrazione, di empatia


e verbalizzazione. Il presbitero che sa perdonare ha imparato a inter-
pretare il vissuto alla luce della Parola, ad affidarlo a Dio mediante la
preghiera e a rispondere qui e adesso alla sua volontà. L’atto intrin-
secamente buono del perdonare è di per sé eloquente, per certi versi
terapeutico: in una società dell’io al centro di tutto, della conflittualità
esasperata e della logica dell’utile a ogni costo, il comportamento di
chi agisce gratuitamente e per un bene più grande ha una valenza
estremamente educativa.
È davvero difficile domandare perdono. Le strategie per nascon-
dere il proprio errore sono tante, i motivi per farlo ancora di più.
Chiedere scusa non è domandare perdono. Chi chiede scusa, infatti,
si sforza di portare ragioni plausibili al proprio fallimento. Chi chie-
de perdono, invece, non cerca alibi, ma riconosce di aver sbagliato,
sta davanti all’altro così com’è, in attesa di un gesto di clemenza, di
un atto d’amore incondizionato. Non è facile neppure perdonare. Sa
farlo non solo chi non perde il contatto con la propria condizione
di fragilità e peccato, ma anche chi non dimentica che cosa desidera
quando sperimenta la propria miseria. Nel momento del fallimento
tutti sperano di poter essere accolti, capiti e perdonati, così come di
sentirsi nuovamente investiti della fiducia altrui ed essere messi nelle
condizioni di potersi giocare un’altra possibilità. È proprio chi non
perde la memoria della sua creaturalità che assume i medesimi atteg-
giamenti che desidererebbe l’altro avesse nei suoi riguardi se fosse al
suo posto. Il presbitero, che in forza del sacramento ricevuto esercita
nella Chiesa il ministero della misericordia, sa che il giudizio ultimo
sugli altri lo può dare solo Dio. Il prete che ama i fratelli, il Vangelo e
Il prete, uomo di comunione
la comunità che serve, formula certamente dei giudizi sul comporta-
mento e le parole dell’altro, ma lo fa con grande rispetto e delicatezza,
nella convinzione che sono penultimi, non riguardano l’interezza del-
la persona e non intaccano il suo valore complessivo.
Il perdono va a braccetto con la correzione fraterna. In verità, chi
non corregge non ama e chi non si vede corretto non si sente amato.
Quando il prete corregge stimola il fratello a uscire dal fatalismo e
dalla rassegnazione, se non lo fa gli trasmette sfiducia, quindi non ne
propizia maturazione e conversione. Infatti, qualora non intervenisse
adeguatamente non metterebbe la persona nelle condizioni di assu-
mersi le proprie responsabilità, quando, in realtà, ognuno è respon-

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La Rivista del Clero Italiano

sabile delle proprie azioni, le conseguenze delle quali ricadono inevi-


tabilmente sugli altri e sull’intera comunità. Pertanto, il pastore che
non corregge non fa alla fine un buon servizio nemmeno alla Chiesa.
Poiché la correzione va fatta solo per amore, il prete è chiamato a vi-
gilare costantemente su di sé, con lo scopo di purificare e ri-orientare
l’intenzione del suo agire al bene in sé. Quando l’intenzione non è
retta, infatti, l’altro difficilmente accoglie la correzione. Tra l’altro, ri-
conosce uno sbaglio e accetta realmente di cambiare soltanto chi si
sente amato. La correzione, poi, va fatta con amore. Quella che gli sta
davanti è una persona che ha una sensibilità, una storia, delle attese,
delle fragilità: non può permettersi di entrare nella vita della gente
similmente a un elefante in una cristalleria, rischiando di fare danni
seri e irreparabili. Infine, mentre si assume la responsabilità di cor-
reggere, il prete si lascerà umilmente raggiungere dai feed-back altrui,
nella consapevolezza che il Signore lo fa progredire nella fede anche
attraverso la correzione dei fratelli e delle sorelle che gli pone accanto.

Conclusione
Al prete è chiesto tanto, in taluni casi forse troppo. Per riuscire a reg-
gere la complessità del tempo presente ed esercitare al meglio il suo
ministero, non può isolarsi33, né dev’essere lasciato solo. Qualora non
fosse preceduto e sostenuto da un’autentica relazione d’amore con il
Signore, non avvenisse nell’ambito di un’effettiva fraternità sacerdo-
tale34, non si accompagnasse a forme di vera solidarietà cristiana, non
si nutrisse di rapporti di sincera amicizia e di leale corresponsabilità,
il servizio alla comunione in seno alla comunità, soprattutto in alcune
situazioni, sarebbe vissuto dal presbitero come uno sforzo titanico e
un compito disumanizzante.
Donato Pavone

1
Cfr. Pastores Dabo Vobis, 43.
2
Il Magistero non solo distingue le virtù umane da quelle evangeliche (povertà, castità
e obbedienza), ma anche vede nella carità pastorale la maniera propria del presbitero di
vivere i consigli evangelici (cfr. Presbyterorum Ordinis, nn. 15-17; Pastores Dabo Vobis,
nn. 27-30; Cei, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, Roma 2006, nn. 23-25).
3
Cfr. ibi, n. 90.
4
Cei, La formazione permanente dei presbiteri nelle nostre Chiese particolari, Roma
2000, n. 23.

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5
Cfr. Optatam Totius, 11; Presbyterorum Ordinis, 3.
6
Cfr. Pastores Dabo Vobis, nn. 43-44. A tal proposito, scrive il Papa: «Il sacerdote non
sia né arrogante né litigioso, ma sia affabile, ospitale, sincero nelle parole e nel cuore,
prudente e discreto, generoso e disponibile al servizio, capace di offrire personalmente,
e di suscitare in tutti, rapporti schietti e fraterni, pronto a comprendere, perdonare e
consolare» (n. 43).
7
Cei, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, Roma 2006, n. 90.
8
E ancora: «La libertà di entusiasmarsi per grandi ideali e la coerenza nel realizzarsi
nell’azione d’ogni giorno; il coraggio di prendere decisioni e di restarvi fedeli; la
conoscenza di sé, delle proprie doti e dei propri limiti integrandoli in una visione positiva
di sé di fronte a Dio» (Cec, Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche
nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio, Roma 2008, n. 2).
9
Optatam Totius, n. 11.
10
Pastores Dabo Vobis, n. 43.
11
Cei, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana, Roma 2006, n. 90.
12
«L’umanità di oggi, spesso condannata a situazioni di massificazione e di solitudine,
soprattutto nelle grandi concentrazioni urbane, si fa sempre più sensibile al valore della
comunione: questo è oggi uno dei segni più eloquenti ed una delle vie più efficaci del
messaggio evangelico» (Pastores Dabo Vobis, n. 43).
13
Cfr. M. Magatti (intervista a), Eccesso e crisi delle relazioni: una lettura sociologica, in:
F. Botturi - C. Vigna (a cura di), Affetti e legami, Vita e Pensiero, Milano 2004, pp. 111-
121; L. Alici, Persona e relazione: le radici antropologiche della società civile, in R. Gatti
- M. Ivaldo (a cura di), Società civile e democrazia, Ave, Roma 2002, pp. 49-70; F. Viola,
Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, in: C. Vigna - S. Zamagni
(a cura di), Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 107-138; M.
Benasayag - G. Schmit, L’epoca delle passione tristi, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 25-38 e
101-117; U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano
2008, pp. 43-64; G. Grandi, Persona, felicità, educazione, La Scuola, Brescia 2012, pp.
13-22.
14
Cfr. G. Vattimo, Per un cristianesimo non religioso, in: G. Filorano - E. Gentile - G.
Vattimo, Cos’è la religione oggi?, ETS, Pisa 2005, pp. 43-61; R. Girard - G. Vattimo,
Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Transeuropa, Pisa 2006, pp.
16-36; G. Vattimo, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, pp. 72-87.
15
Cfr. E. Parolari - D. Pavone, Ministero alla prova. Per una lettura sapienziale delle
relazioni del prete, «La Rivista del Clero Italiano», 9 (2011), pp. 566-584.
16
Cfr. A. Manenti, Vivere insieme. Aspetti psicologici, EDB, Bologna 1991, pp. 25-41; Il prete, uomo di comunione
S. Pagani, Tra Gesù e la gente. Il prete, uomo per questo tempo, Vita e Pensiero, Milano
2005, pp. 51-56; H. Zollner, Convivere con le tensioni, «Tredimensioni», 5 (2008), pp.
313-322.
17
Si vedano almeno i seguenti testi. «(Il presbitero) è servitore della Chiesa comunione
perché, unito al vescovo e in stretto rapporto con il presbiterio, costruisce l’unità della
comunità ecclesiale nell’armonia delle diverse vocazioni, carismi e servizi» (Pastores
Dabo Vobis, 16). «Il sacerdote è chiamato a rivivere l’autorità e il servizio di Gesù
Cristo capo e pastore della chiesa animando e guidando la comunità ecclesiale, ossia
riunendo la famiglia di Dio come fraternità animata nell’unità» (Pastores Dabo Vobis,
26). «Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta
loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità
viva e unita e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo […]
nell’edificare la Chiesa i presbiteri devono avere con tutti dei rapporti improntati alla
più delicata bontà» (Presbyterorum Ordinis, 6). «Il sacerdote è chiamato a misurarsi con
le esigenze tipiche di un altro aspetto del suo ministero […] si tratta della cura della vita

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La Rivista del Clero Italiano

della comunità che gli è affidata e che si esprime soprattutto nella testimonianza della
carità» (Congregazione per il clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri,
Roma 1994, n. 55).
18
Cfr. E. Bianchi, Ai presbiteri, Qiqajon, Magnano [Mi] 2004, pp. 39-41; L. Manicardi,
Pregare nel ministero, Qiqajon, Magnano (Bi) 2004, pp. 21-23.
19
N. Wolf, Si sente dire che… Come si superano le crisi e si compongono gli scontri, in N.
Wolf - E. Rosanna, L’arte di dirigere le persone, EDB, Bologna 2010, pp. 75-91.
20
«Il rinnovamento della parrocchia in prospettiva missionaria non sminuisce affatto il
ruolo di presidenza del presbitero, ma chiede che egli lo eserciti nel senso evangelico del
servizio a tutti, nel riconoscimento e nella valorizzazione di tutti i doni che il Signore ha
diffuso nella comunità, facendo crescere la corresponsabilità […] I sacerdoti dovranno
vedersi sempre più all’interno di un presbiterio e dentro una sinfonia di ministeri e di
iniziative: nella parrocchia, nella diocesi e nelle sue articolazioni. Il parroco sarà meno
l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; e perciò avrà
cura di promuovere vocazioni, ministeri e carismi. La sua passione sarà far passare i
carismi dalla collaborazione alla corresponsabilità, da figure che danno una mano a
presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Il
suo specifico ministero di guida della comunità parrocchiale va esercitato tessendo la
trama delle missioni e dei servizi: non è possibile essere parrocchia missionaria da soli»
(Cei, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Roma 2004, n. 12).
21
Cfr. D. Pavone, Sulla formazione degli adulti, «Tredimensioni», 3 (2012), pp. 270-279.
22
Cfr. R. Repole, L’umiltà della Chiesa, Qiqajon, Magnano (Bi) 2010, pp. 72-80.
23
Cfr. G. Crea - F. Mastrofini, Preti sul lettino, Giunti, Firenze 2010, pp. 10-12.
24
Cfr. L. Manicardi, L’umanità della fede, Qiqajon, Magnano (Bi) 2005, pp. 27-30.
25
Cfr. G. Cucci, La maturità dell’esperienza di fede, Elledici, Torino 2010, pp. 47-49.
26
Cfr. S. Ayestarán, Il conflitto comunitario. Un’opportunità per crescere o una minaccia
di distruzione?, EDB, Bologna 2007, pp. 27, 54 e 64-65.
27
Cfr. A. Manenti, Possibili rimedi ai conflitti, «Tredimensioni», 7 (2010), pp. 75-84.
28
Cfr. A. Manenti, Vivere insieme, cit., pp. 78-85; G. Colombero, Dalle parole al dialogo.
Aspetti psicologici della comunicazione interpersonale, San Paolo, Milano 1998, pp. 68-
96.
29
L’empatia non è simpatia. Se le persone con cui collabora sono simpatiche, al prete
riesce sicuramente più facile, bello e gratificante il lavoro, ma la simpatia non è una
condizione in tal senso imprescindibile. Infatti, quando in gioco vi è la costruzione di
una comunità secondo il Vangelo, si deve saper andare oltre la simpatia o l’antipatia. Per
la comunione, la collaborazione e la corresponsabilità, piuttosto, a essere indispensabile
è l’empatia.
30
Non sono ottimali le relazioni comunicative reattive (i due interagiscono, ma in maniera
non controllata e istintiva), simmetriche (regolate dalla logica della competizione e della
spartizione di potere) e parallele (ciascuno comunica le sue idee e rimane sulle sue
posizioni).
31
L’altro ha così la possibilità di rendersi conto di ciò che ha detto o fatto, di rendere
Donato Pavone

ragione dell’accaduto, di chiedere scusa, di rinnovare il desiderio di riparare o di


cambiare.
32
Cfr. M. Cerato, Emozioni e sentimenti. Curare il cuore e la mente, Effatà, Torino
2003, pp.15-40 e 86-157; G. Cucci, I sentimenti sono necessari per vivere?, «La Civiltà
Cattolica», IV (2011), pp. 10-21; G. Cucci, Affetti e vita spirituale, «La Civiltà Cattolica»,
IV (2011), pp. 569-579.
33
Cfr. Presbyterorum Ordinis, n. 7.
34
Cfr. E. Bianchi, Ai presbiteri, cit., pp. 57-60.

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