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DARIO VITALI

Sacerdozio, vescovo e presbiterio


Un contributo teologico

Dopo essere intervenuto in margine alla 56ª Assemblea generale


della CEI «sul modello di prete oggi» (7/8, 2006, pp. 519-530), indi-
cando il presbiterio come luogo decisivo per definire un profilo di
ministro ordinato per la Chiesa di oggi, nel presente contributo don
Dario Vitali (docente di Teologia dogmatica alla Pontificia Università
Gregoriana di Roma) prosegue quella riflessione, mirando a fonda-
re la teologia del presbiterio nella teologia del sacerdozio. La tesi
proposta dall’articolo, ricca di conseguenze pastorali, è che il sacer-
dozio «partecipato dal vescovo e dai presbiteri, si manifesta e si
esercita in forma radicalmente comunionale, fondata su un legame
di reciprocità tra vescovo e presbiterio, per cui non esiste presbite-
rio che intorno a un vescovo e, reciprocamente, non esiste un

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vescovo senza il “suo” presbiterio».

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La teologia del sacerdozio oggi sembra un po’ in disuso. Dal concilio
in poi è subito percepibile un cambio di registro nell’accostare la que-
stione: più che di «sacerdozio ministeriale» si preferisce parlare di
«ministero ordinato». Il cambio può avere cause diverse, tutte possi-
bili, nessuna decisiva: la più probabile rimanda al bisogno di coniare
una formula che abbracciasse tutti i gradi dell’ordine, anche quello
del diaconato, introdotto dal Vaticano II come forma stabile di mini-
stero nella Chiesa, e che notoriamente non è ad sacerdotium, ma
ad ministerium. Ma forse non è estranea al fenomeno una sorta di
riflesso condizionato, per cui si doveva cassare ogni termine che evo-
casse la radicale separazione tra chierici e laici, tra Ecclesia docens e
discens, tipica della Chiesa pre-conciliare. Oltre a queste, di carattere

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più contestuale, esiste anche una causa più in radice, da riconnettere


alla definizione della sacramentalità dell’episcopato, proposta in
Lumen Gentium 21. Questo dato, radicalizzando la distinzione tra
episcopato e presbiterato, sembra complicare – inutilmente, per più
di qualcuno, che accusa il Vaticano II di allontanarsi anche qui dalla
Tradizione – la dottrina sull’unità del sacerdotium affermata a partire
più o meno dal IV secolo1, sostenuta dalla Scolastica2 e ratificata a
Trento3. Esistono i margini per comporre la questione?

La formulazione tridentina
Le dottrina formulata a Trento è nota. Il decreto sul sacramento dell’or-
dine, riprendendo la prospettiva sviluppata dalla Scolastica, fa dipende-
re l’esistenza e la necessità del sacerdozio dall’Eucarestia: se esiste l’una
come simbolo dell’unità e della carità che Cristo ha lasciato alla Chiesa,
«con cui volle che tutti i cristiani fossero congiunti e strettamente legati
tra loro»4, deve esistere anche il sacerdozio come ministero adatto a cele-
brare i misteri della salvezza. Il nesso costitutivo è esposto subito in aper-
tura del decreto sul sacramento dell’ordine: «Poiché nel Nuovo
Testamento la Chiesa cattolica ha ricevuto dalla istituzione stessa del
Signore il santo visibile sacrificio dell’Eucarestia, bisogna pure ammet-
tere che in essa esiste anche un nuovo sacerdozio visibile ed esteriore»,
istituito da Cristo stesso e trasmesso agli apostoli e ai loro successori,
dotato del potere «di consacrare, di offrire e di distribuire il suo corpo
e il suo sangue, e inoltre di rimettere o non rimettere i peccati», come
attesta la sacra Scrittura e l’insegnamento costante della Chiesa5.
Il capitolo 2 precisa che a servizio di un così alto sancti sacerdotii
ministerium esistono più ordini di ministri, diversi tra loro e distri-
buiti secondo una scala, attraverso la quale ascendono al sacerdozio
coloro che sono immessi nella condizione clericale con la tonsura.
Tale cursus honorum prevedeva sette figure di ministri, divisi in quat-
tro ordini minori e tre ordini maggiori: ostiario, lettore, esorcista,
accolito; e poi suddiacono, diacono e, al vertice della scala, il sacer-
dote6. Il Catechismo Romano conferma e specifica questa dottrina,
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riprendendo passo passo il decreto tridentino7. Il canone 6 del decre-


to condanna chi sostiene che «nella chiesa cattolica non vi è una
gerarchia istituita per divina disposizione, che si compone di vescovi,
di sacerdoti e di ministri»8.

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Che tali ministeri non appartengano al sacerdotium lo si evince dal


canone 2 del decreto, dove si scomunicano quanti asseriscano «che,
oltre al sacerdozio, non vi siano nella Chiesa cattolica altri ordini,
maggiori e minori, attraverso i quali, come per gradi, si tenda al sacer-
dozio»9. Dunque, il sacerdozio costituisce il vertice e il coronamento
del sacramento dell’ordine.
Ma l’insistenza sulla sua grandezza di fatto ne sfuma le distinzioni.
È vero che il decreto nomina l’episcopato, affermando che, «più di
tutti gli altri gradi ecclesiastici, appartengono a questo ordine gerar-
chico in primo luogo i vescovi, successori degli apostoli, e che essi
sono stabiliti (come afferma lo stesso apostolo) dallo Spirito santo “a
pascere la Chiesa di Dio” (At 28,20), sono superiori ai presbiteri, pos-
sono conferire il sacramento della cresima, ordinare i ministri della
Chiesa e compiere le molte altre funzioni che non competono agli
ordini inferiori»10. E tuttavia, la superiorità rispetto ai presbiteri, per
quanto caratterizzante del profilo del vescovo, non si risolve in una
distinzione di grado all’interno dell’unico sacerdotium. Almeno per
come la teologia post-tridentina ha inteso la differenza, risolvendola
sul registro del potere di giurisdizione.

L’unità del sacerdotium


Il Catechismo Romano apre il paragrafo sul sacerdozio affermando
che «il massimo grado degli Ordini sacri è costituito dal sacerdo-
zio»11. Si tratta del «sacerdozio esteriore» o «esterno», distinto da
quello «interiore» – il sacerdozio comune – di tutti i battezzati: «Il Sacerdozio, vescovo e presbiterio
sacerdozio esteriore non appartiene a tutti i fedeli indistintamente,
ma a un ristretto numero di prescelti, consacrati con la legittima
imposizione delle mani e con solenni cerimonie liturgiche e destinati
a compiere specifici ministeri sacri»12.
Sacerdozio esteriore che il testo qualifica anche come presbiterato:
«I Padri della Chiesa – dice il Catechismo – lo designano con il nome
di “presbiterato” (presbyteros = anziano), non solo per la maturità
degli anni necessaria a questo ordine, ma soprattutto per la gravità, la
dottrina e la prudenza indispensabili… Altre volte i Padri designano
quest’ordine con il nome di “sacerdozio”, dal momento che rende
sacri a Dio i suoi ministri, conferendo loro i poteri sacri circa i sacra-
menti e le divine realtà nella Chiesa»13. Come a dire che esiste

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un’equivalenza tra presbiterato e sacerdozio, senza ulteriori distinzio-


ni. Il vescovo, infatti, compare unicamente come colui che «consacra
il novello sacerdote», in quanto i riti di ordinazione esprimono bene
gli obblighi – e quindi l’identità – dei ministri sacri: «Offrire a Dio il
sacrificio della Messa e amministrare i sacramenti istituiti da Gesù»14.
Nel paragrafo successivo, che indica i vari gradi del sacerdozio, il
Catechismo specifica subito che, «sebbene il sacerdozio nella Chiesa
sia unico, riveste molteplici gradi per autorità e dignità. Il primo
grado è costituito dai semplici sacerdoti, delle cui sacre attribuzioni
abbiamo finora parlato. Il secondo è quello dei vescovi, preposti nelle
singole diocesi al governo dei ministri della Chiesa e dei fedeli, inve-
stiti della cura e della vigilanza della loro salvezza eterna […] Il terzo
grado è quello degli arcivescovi che presiedono a più vescovi, detti
anche metropoliti, presuli cioè di città considerate come madri di
altre in una medesima provincia […] Il quarto grado è rappresentato
dai patriarchi, espressione che designa i primi e supremi padri delle
anime […] A capo e al di sopra di tutti la Chiesa cattolica ha sempre
riconosciuto e venerato il sommo Pontefice romano […] Egli è il
padre di tutti i fedeli e di tutti i vescovi, qualunque sia la funzione e il
potere di cui sono investiti; e, come successore di Pietro, vicario di
Gesù Cristo, presiede alla Chiesa universale»15.
Il paragrafo disegna la struttura piramidale della gerarchia cattoli-
ca, sotto la guida del papa. E, tuttavia, la distinzione dei gradi non
attiene al potere di ordine, ma a quello di giurisdizione. Come a dire
che si dà un unico sacerdozio, uguale per essentiam in tutti i gradi, i
quali esistono in ragione del governo della Chiesa, come si può evin-
cere da un passaggio precedente del Catechismo: «Il potere sacerdo-
tale si distingue in potere di ordine e potere di giurisdizione. Il pote-
re di ordine attiene alla consacrazione del corpo reale del Signore
nell’Eucarestia, il potere di giurisdizione si riferisce invece al Corpo
mistico di Gesù Cristo e consiste nella capacità di governare e di gui-
dare i fedeli verso la beatitudine celeste»16.
D’altronde, inteso come gratia ad conficiendam Eucharistiam17, il
sacerdozio non sembrava differire sostanzialmente nel vescovo e nel
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presbitero: l’uno e l’altro celebrano la Messa. E comunque rimaneva


discussa la tesi se l’episcopato si potesse intendere come un ordine
distinto dal presbiterato, più pienamente partecipe del sacerdozio di
Cristo. La Scolastica, infatti, lo riteneva un sacramentale: nella

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Summa, S. Tommaso ripete la distinzione dei sette ordini, minori e mag-


giori18; per quanto riguarda l’episcopato, pur ammettendo che ricades-
se nella potestà di ordine piuttosto che di giurisdizione, negava che
fosse un ordine distinto dal sacerdozio e che avesse, di conseguenza,
valore di sacramento, dal momento che non ha un potere superiore al
presbitero quanto all’Eucarestia19. D’altronde, alla domanda se al di
sopra dell’ordine sacerdotale possa esistere un ordine episcopale,
risponde che bisogna distinguere due atti del sacerdote: quello princi-
pale, cioè la capacità di consacrare il corpo di Cristo, non può dipen-
dere da alcuna autorità superiore che non sia divina; l’atto secondario,
vale a dire la preparazione del popolo a ricevere il sacramento
dell’Eucarestia, in quanto legato alla giurisdizione, dipende dal vesco-
vo20. Dunque, quanto all’essenza, esiste un unico sacerdotium.

La novità conciliare
Naturalmente, l’unità del sacerdotium non è più di un’opinione teolo-
gica. Tanto è vero che prima del Concilio Vaticano II andava emer-
gendo la posizione teologica a favore della sacramentalità dell’episco-
pato21. D’altronde, era difficile inquadrare la figura e il ministero del
vescovo sotto il potere di ordine – soprattutto se lo si considera come
ministro dell’ordinazione – e poi negare l’esistenza di un ordine supe-
riore al presbiterato22. Lo Schema de Ecclesia del Vaticano I già affer-
mava esplicitamente che «i vescovi per divina istituzione sono supe-
riori ai presbiteri sia nel potere di ordine che di giurisdizione»23.
Il Concilio Vaticano II sostiene questa dottrina con termini così Sacerdozio, vescovo e presbiterio
forti, che il testo in questione si avvicina a una definizione dogmatica
vera e propria. Ecco il testo: «Insegna il santo concilio che con la con-
sacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento del-
l’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e
dalla voce dei santi Padri viene chiamata il sommo sacerdozio, il ver-
tice del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce pure,
con l’ufficio di santificare, anche gli uffici di insegnare e di governa-
re, che però, per loro natura, non possono essere esercitati se non
nella comunione gerarchica con il capo e con le membra del collegio.
Dalla tradizione, infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e
dall’usanza della Chiesa sia d’Oriente che d’Occidente, consta chia-
ramente che con l’imposizione delle mani e con le parole della consa-

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crazione la grazia dello Spirito santo viene conferita, e viene impres-


so un sacro carattere, in maniera che i vescovi in modo eminente e
visibile sostengono le parti dello stesso Cristo maestro, pastore e pon-
tefice, e agiscono in sua persona»24.
Il dispiego di auctoritates a sostegno della dottrina è impressionan-
te: l’insegnamento conciliare si richiama alla «consuetudine liturgica
della Chiesa» e alla «voce dei santi Padri» e indica quale fonte della
dottrina «la Tradizione, quale risulta con evidenza (declaratur) spe-
cialmente dai riti liturgici e dall’usanza delle Chiesa sia d’Oriente che
d’Occidente». Se la Costituzione, fedele al dettato di Paolo VI25, non
propone una definizione infallibile, i termini del testo sembrano assu-
mere un carattere vincolante se non definitivo: l’episcopato costitui-
sce il «sommo sacerdozio», cioè «la pienezza del sacramento dell’or-
dine», «il vertice del sacro ministero».
La dottrina così formulata pone la questione del rapporto tra epi-
scopato e presbiterato: se il sommo sacerdozio – e quindi la pienezza
dell’ordine – coincide con l’episcopato, di quale sacerdozio partecipa
l’ordine dei presbiteri? Di quello del vescovo, che ripresenta in pie-
nezza Cristo-capo, o di quello di Cristo stesso? La problematica
emerge, ad esempio, in J. Auer, il quale chiosa l’affermazione conci-
liare in questo modo: «Nella trattazione dell’ecclesiologia si dovrà
determinare più da vicino il ministero episcopale. Intanto è sicuro che
la consacrazione episcopale, per l’odierna comprensione della Chiesa
come per quella paleocristiana, è l’autentico sacramento dell’ordine e
che tutti gli altri ordini possono essere soltanto partecipi di questo
sacramento, in quanto generano e forniscono aiutanti e collaboratori
per i vescovi della Chiesa»26.
L’idea che i presbiteri partecipino del sacerdozio del vescovo sem-
brerebbe confermata dal Concilio stesso. La Lumen Gentium pare
muoversi in questa direzione: «Cristo, santificato e mandato nel
mondo dal Padre, per mezzo dei suoi apostoli ha reso partecipi della
sua consacrazione e della sua missione i loro successori, vale a dire i
vescovi, i quali hanno legittimamente affidato, secondo gradi diversi,
l’ufficio del loro ministero a soggetti diversi nella Chiesa. Così il mini-
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stero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato secondo ordi-


ni diversi, da quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, pre-
sbiteri, diaconi» (LG 28).
Se il testo non utilizza espressioni come ordo secundus, secunda

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dignitas o gradus, che faranno la ricomparsa nel rito, tuttavia sembra


dare per certa la superiorità dell’episcopato, anche quando ammette
che i presbiteri partecipano, in suo gradu ministerii, alla funzione di
Cristo, unico Mediatore: «I presbiteri – continua LG 28 – pur non
possedendo il vertice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell’e-
sercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro uniti nell’onore sacer-
dotale e in virtù del sacramento dell’ordine, a immagine di Cristo,
sommo ed eterno sacerdote, sono consacrati per predicare il vangelo,
pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del
Nuovo Testamento. Partecipando, secondo il grado proprio del loro
ministero, alla funzione dell’unico mediatore Cristo, essi annunciano
a tutti la divina parola; ma soprattutto esercitano la loro funzione
sacra nel culto o assemblea eucaristica, dove, agendo in persona
Christi, e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al
sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente
e applicano, fino alla venuta del Signore, l’unico sacrificio del Nuovo
Testamento».

Unità del sacerdotium nella distinzione dei gradi


Posta l’intenzione del Concilio di affermare la sacramentalità dell’e-
piscopato, la questione è se la formulazione dottrinale comporti
necessariamente un rigetto dell’unità del sacerdotium, sostenuta per
tanto tempo nella tradizione teologica ed ecclesiale. O se, invece, si
possono comporre le due tesi.
A ben vedere, i testi conciliari dicono sempre che ambedue – Sacerdozio, vescovo e presbiterio
vescovi e presbiteri – partecipano del sacerdozio di Cristo-capo, che
ambedue agiscono in persona Christi e, ciascuno in suo gradu, sono
maestri, sacerdoti, pastori. Dove sta, allora, la differenza? In chiave
cristologica – nel fatto, cioè, di ripresentare Cristo-capo – la natura
del sacerdozio è la medesima per vescovo e presbitero. In ultima ana-
lisi, era questo il punto di vista – decisivo e discriminante – della
Scolastica, che affermava l’unità del sacerdotium a scapito della sacra-
mentalità dell’episcopato, la cui funzione e responsabilità ecclesiale
veniva compresa nel quadro del potere di giurisdizione, e quindi
ridotta a un sacramentale utile a indicare un primus inter pares che
assumeva una funzione di governo nella Chiesa.
D’altronde, quella tesi si sosteneva sulla distinzione dei due poteri

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– di ordine e di giurisdizione – e sul fatto che solo il primo fosse deci-


sivo per la definizione del sacerdotium. Ma il Vaticano II ha rinuncia-
to a quella distinzione27, preferendo descrivere la partecipazione al
sacerdozio di Cristo sulla base dei tria munera: docendi, sanctificandi,
regendi. La scelta implica conseguenze profonde per la determinazio-
ne della natura del sacerdotium: per quanto rimanga vero che la fun-
zione fondamentale è quella di santificazione, i tria munera si com-
pongono e compenetrano in una profonda unità, che è facile distin-
guere sul piano della concettualizzazione, non altrettanto su quello
dell’esercizio pastorale. Questo fatto comporta che anche il munus
regendi, prima circoscritto al campo della giurisdizione, rientri come
elemento essenziale del sacerdozio ministeriale. Con la conseguenza
che – se l’episcopato è la pienezza del sacramento dell’ordine – il pre-
sbiterato, in quanto non possiede il vertice del sacerdozio, non può
che ridursi a partecipazione al sacerdozio del vescovo. Non sembre-
rebbero esistere spazi per comporre le due tesi circa l’unità del sacer-
dotium e la sua distinzione in gradi.
E, però, la contraddizione è solo apparente. Se, in effetti, la rinun-
cia alla distinzione tra potere di ordine e di giurisdizione e l’articola-
zione delle funzioni secondo tria munera – che specificano gli ele-
menti costitutivi della funzione sacerdotale – domandano di assume-
re la differenza tra episcopato e presbiterato come vincolante per la
natura stessa del sacramento, determinano anche l’assunzione della
dimensione ecclesiale nella struttura essenziale del sacerdotium. Ma se
questo è vero, significa che sono altrettanto vincolanti per la defini-
zione del sacerdozio ministeriale l’unità del sacerdotium – nel senso
che vescovo e presbitero sono ambedue configurati a Cristo-capo e
agiscono in persona ejus – e la distinzione del grado, per cui solo il
vescovo possiede «la pienezza del sacramento dell’ordine».
Questo significa che, per la corretta definizione del sacerdozio
ministeriale, bisogna distinguere adeguatamente due dimensioni
essenziali: quella cristologica e quella ecclesiale. In fondo, la debolez-
za della proposta avanzata dalla Scolastica risiedeva proprio nella
mancata percezione del carattere ecclesiale del sacerdotium, in corri-
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spondenza all’indebolimento del rapporto tra Eucaristia e Chiesa, che


era venuto a determinarsi all’inizio del II millennio28. Così la questio-
ne veniva risolta unicamente sulla base della dimensione cristologica,
dove le differenze – soprattutto se considerate in relazione

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all’Eucarestia – si riducono al punto da sembrare irrilevanti.


Posta invece la duplice dimensione, il problema si compone
immediatamente: quanto alla dimensione cristologica, si dà ugua-
glianza del presbitero e del vescovo nella partecipazione al sacerdozio
di Cristo-capo; quanto alla dimensione ecclesiale, si dà una sostanzia-
le differenza, perché il ministero del vescovo riveste una funzione
determinante nella definizione della natura stessa della Chiesa, in
quanto «principio visibile e fondamento dell’unità nella sua Chiese
particolare» (LG 23). La presenza del successore degli apostoli è uno
degli elementi necessari che fanno di una Chiesa particolare la Chiesa
una, santa, cattolica e apostolica29. Su questa base, non può esistere
Chiesa particolare se non con il vescovo e intorno al vescovo30.
In forza di questa sua funzione personale a favore di quella portio
Populi Dei, il vescovo, in quanto oeconomus gratiae supremi sacerdotii
(LG 26), ha anche la funzione di scegliersi collaboratori adatti a svol-
gere il ministero sacerdotale nel grado del presbiterato. Collaboratori
che, ordinati a condizione della promessa di obbedienza al vescovo,
entrano a far parte del suo presbiterio, a servizio della sua Chiesa,
sotto la sua autorità. Come a dire che il legame con il vescovo è con-
ditio sine qua non dell’esercizio del sacerdozio nel grado del presbite-
rato. Si tratta della conseguenza diretta della dimensione ecclesiale
del sacerdotium.

Il presbiterio, espressione dell’unità del sacerdotium


Ma il fatto che i presbiteri possano esercitare il ministero a condizio- Sacerdozio, vescovo e presbiterio
ne del legame di obbedienza con il vescovo non risolve ancora la que-
stione circa l’unità del sacerdotium. È possibile pensare una forma di
unità meno estrinseca, quando si ammetta la distinzione dei gradi?
Una via di soluzione è insinuata dal Vaticano II, che associa sem-
pre i presbiteri al ministero del vescovo. Così LG 20, quando afferma
che «i vescovi hanno ricevuto il ministero della comunità, avendo
come aiuto i presbiteri e i diaconi». Anche LG 21 si apre con l’affer-
mazione che «nei vescovi, assistiti dai presbiteri (quibus presbyteri
assistunt), è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pon-
tefice sommo».
La conferma del legame strettissimo che il concilio istituisce tra
vescovo e presbiteri si trova anche nei testi che accennano al presbi-

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terio: «I presbiteri, saggi collaboratori dell’ordine episcopale, chia-


mati al servizio del popolo di Dio, costituiscono con il loro vescovo
un unico presbiterio, sebbene destinati a uffici diversi» (LG 28);
«tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’or-
dinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale;
ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi
al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo» (PO 8); «alle cure
pastorali del vescovo, coadiuvato dal presbiterio [Episcopo cum coo-
peratione presbyterii]» è affidata quella porzione del Popolo di Dio
che è la diocesi (CD 11), nella quale e a servizio della quale i sacerdoti
«costituiscono un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il vesco-
vo è il padre» (CD 28); «la precipua manifestazione della Chiesa si ha
nella partecipazione piena e attiva di tutto il Popolo santo di Dio alle
medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucari-
stia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il
vescovo circondato dal suo presbiterio e dai ministri» (SC 41).
Dunque, il vescovo è, come si esprime AG 19, una cum suo quisque
presbyterio. La circonlocuzione intende che ciascun vescovo (quisque)
forma una unità con il suo presbiterio (una cum suo presbyterio). Non
solo, naturalmente, perché ne ha bisogno per il servizio pastorale alla
Chiesa31. L’unità è più profonda e rimanda alla natura del sacerdotium
che esiste in due gradi e che, perciò, non può concentrarsi né esaurirsi
nel solo grado dell’episcopato. «Pienezza dell’Ordine» non equivale a
totalità ed esclusività del sacerdozio. PO 7 afferma che «la stessa unità
di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei pre-
sbiteri con l’ordine dei vescovi»32.
Peraltro, quando i testi conciliari parlano non genericamente di
ordine dei vescovi o di episcopato33, ma del vescovo come principio
di unità della sua Chiesa, anche la relazione con i presbiteri è sottrat-
ta alla genericità e si chiarisce nel riferimento al presbiterio34. Peccato
che il rito di ordinazione dei presbiteri, nelle varie traduzioni, abbia
indebolito la forza delle formule del Pontificale Romanum, parlando
di «ordine del Presbiterato». La lezione tridentina parlava di ordina-
re ad onus Presbyterii, di eleggere ad Presbyterii munus, e pregava:
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«Da, quaesumus, omnipotens Pater, in hos famulos tuos Presbyterii


dignitatem; … super hos famulos tuos, quos ad Presbyterii honorem
dedicamus, munus tuae benedictionis infunde». Il rito de ordinatione
Diaconi, Presbyteri et Episcopi rinnovato dopo il Vaticano II35 ribadi-

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sce le medesime formule, parlando di ad onus Presbyterii ordinare, ad


o in ordinem Presbyterii accedere, Presbyterii dignitatem dare.
Se vale l’argomento della Tradizione, queste formule di ordinazio-
ne dicono che il candidato viene inserito nel presbiterio. Viene, in
altre parole, costituito membro di un ordo che per sua natura è colle-
giale, e come tale esercita il suo servizio a favore della Chiesa partico-
lare. Pastores dabo vobis precisa che «il ministero ordinato ha una
radicale forma comunitaria e può essere assolto solo come un’opera
collettiva»36. Come a dire che il presbiterio non è la somma dei preti
utili al vescovo per il servizio pastorale, ma un coetus di fratelli a ser-
vizio della Chiesa, costituito come tale in forza del sacramento che il
innesta come le membra nel corpo37. In questa direzione bisognereb-
be intendere il fatto che i presbiteri, dopo la preghiera di ordinazio-
ne e l’imposizione delle mani da parte del vescovo, impongano a loro
volta le mani sul capo dell’eletto: il gesto, se letto in tutto il suo signi-
ficato, indica l’accoglienza di un nuovo membro nel presbiterio.

Conclusioni
Questa massa di elementi, se letti nel quadro delle relazioni Chiesa
particolare-vescovo-presbiterio, permettono di arrivare a conclusioni
interessanti sulla questione dell’unità del sacerdotium. Ammessa la
distinzione dei gradi, sulla base della duplice dimensione – cristologi-
ca ed ecclesiale – del sacerdozio ministeriale, si può comprendere l’u-
nità in termini dinamici, nella necessaria correlazione tra il vescovo e
il suo presbiterio. Sacerdozio, vescovo e presbiterio
Per un verso, il vescovo esercita una funzione personale, in quan-
to è principio e fondamento di unità della sua Chiesa. La Chiesa par-
ticolare che egli guida è tale per la presenza del vescovo38: senza
vescovo non si dà Chiesa particolare, perché non sarebbe assicurata
la sua apostolicità. In forza di questa funzione apostolica, che è cri-
stologica ed ecclesiale insieme, egli è il sommo sacerdote della sua
Chiesa, pastore e maestro, il quale assicura la Parola e l’Eucarestia
come mezzi necessari per la salvezza del popolo che gli è affidato.
Tuttavia, il vescovo non esercita da solo il sacerdozio a favore di un
popolo che gli è affidato, ma sempre congiuntamente al suo presbite-
rio, al quale è unito in forza della partecipazione al sacerdozio di
Cristo-capo. Si può discutere se il vescovo sia dentro o sopra il pre-

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sbiterio, ma è indubbio che non è mai senza il presbiterio, come il pre-


sbiterio non è mai senza il vescovo39. Si potrebbe dire che il vescovo
è principio e fondamento dell’unità sia della sua Chiesa che del suo
presbiterio.
Questo significa che il sacerdotium, partecipato dal vescovo e dai
presbiteri, si manifesta e si esercita in una forma radicalmente comu-
nionale, fondata su un legame di reciprocità tra vescovo e presbiterio,
per cui non esiste presbiterio che intorno al vescovo e, reciproca-
mente, non esiste un vescovo – il quale, naturalmente, sia principio di
unità di una Chiesa particolare – senza il «suo» presbiterio. Si capisce
allora come la diocesi sia «la porzione del popolo di Dio affidata alla
cura pastorale del Vescovo con la cooperazione del presbiterio, in
modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito santo
mediante il Vangelo e l’Eucarestia, costituisca una Chiesa particolare
in cui è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo una, santa,
cattolica e apostolica» (CJC 369).
Si capisce, in questa prospettiva, che parlare di episcopato e pre-
sbiterato come due ordini dell’unico sacerdotium possa in certo qual
modo risultare fuorviante: la pienezza del sacerdozio del vescovo è tale
in relazione alla Chiesa che serve, in quanto ne è principio di unità; al
Popolo di Dio che gli è affidato, del quale è sommo sacerdote. Ma pro-
prio questo munus sanctificandi esiste cum cooperatione presbyterii
(LG 21). Come a dire che il vincolo del vescovo con il suo presbiterio
è fondante per la completa espressione del sacerdotium: il vescovo è
sempre una cum suo presbyterio (AG 19) e in questa unità possiede ed
esercita la pienezza del sacerdozio40. Se questo è vero, non basterà
asserire che l’esercizio del sacerdozio nel grado del presbiterato ha
come conditio sine qua non il legame con il vescovo; bisognerà pure
ammettere che la funzione del vescovo a servizio della sua Chiesa non
può darsi che in unità con il presbiterio. Una prospettiva del genere
appare sicuramente in linea con la tradizione più antica, quando la
figura del vescovo monarchico si è andata progressivamente delinean-
do all’interno del collegio dei presbiteri, distinguendo per funzioni
diverse due termini in origine praticamente sinonimi. Se è vera l’ipo-
DARIO VITALI

tesi che l’episkopos nasce quando, venendo meno la presenza e l’azio-


ne dell’apostolo, si impone la necessità di continuarne la funzione, si
capisce come il sacerdotium della Chiesa nei primi secoli esistesse in un
collegio, all’interno del quale si venne a distinguere una figura che

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ponesse la Chiesa locale in continuità con la Chiesa delle origini.


Peraltro, la distinzione di una funzione personale del vescovo – quella
di essere il garante e il segno di unità della sua Chiesa – e di una colle-
giale del presbiterio, compartecipe del governo della comunità insie-
me con il vescovo, orienta a preferire la collocazione del vescovo come
principio di unità «dentro» e non «sopra» il presbiterio.
Un recupero di tale visione del sacerdotium non implica alcuna
soppressione del ruolo unico e personale proprio del vescovo, ma ne
esclude ogni configurazione personalistica, svincolata dal presbiterio;
anzi, fa del presbiterio l’espressione più alta del sacerdotium come
organismo ministeriale di comunione in cui si compongono in unità
dinamica episcopato e presbiterato.

1
In Occidente le posizioni di Girolamo (cfr. Ep. 69,3: PL 22,656; Ep. 146, 1ss.: PL
22,1992-95; Commentarium in epistulam ad Titum, I, 5: PL 26, 562-563) e
dell’Ambrosiaster (Commentarium in epist I ad Timoth.: PL 17, 496; cfr anche
Quaestiones Veteri et Novi Testamenti, q. 101: «De iactantia romanorum levitarum»: PL
35, 2301-2303) secondo cui vescovo e presbitero si equivalgono, dato che ambedue
sono chiamati sacerdos, e il vescovo è un primus inter pares, sono state riprese e divul-
gate da Isidoro di Siviglia (De eccl. off. II, 7, 2: PL 83,787).
2 L’idea che presbiterato ed episcopato costituissero un solo ordine, attraverso il

Decretum Gratiani (c. 5, d. 95; c. 24, d. 93), entra nelle Sentenze di Pietro Lombardo
(Sent. IV, d. 24, c. 14) e di qui nei grandi Scolastici come Alessandro di Hales e
Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, i quali ritengono l’episcopato un
sacramentale. Ma non mancheranno autori (ad esempio, Duns Scoto) che sosterranno
la sacramentalità dell’episcopato.
3
Sessio XXIII, 15 Iul. 1563: Doctrina de sacramento ordinis: DS 1763-1778.
4 Decretum de ss. Eucaristia, proemium, DS 1635.
5 Doctrina et canones de sacramento ordinis, cap. I: DS 1764.
6 Cfr. Doctrina et canones de sacramento ordinis, cap. II: DS 1765. La prima men-
Sacerdozio, vescovo e presbiterio
zione dei 7 ordini risale a papa Cornelio, ricordata in Eusebio, Historia ecclesiastica, 6,
43, 11: PL 3, 765 A-B; DS 109.
7 «Essendo cosa divina l’esercizio di un così grande sacerdozio, era logico che per

esercitarlo con maggiore dignità e venerazione, si pensasse di costituire una gerarchia


che dalla tonsura clericale salisse per gradi agli ordini minori e maggiori. Secondo la
costante tradizione della Chiesa, questi ordini sono sette: ostiariato, lettorato, esorci-
stato, accolitato, suddiaconato, diaconato, sacerdozio. La loro gerarchia è determinata
dal rapporto dei singoli ordini con il sacrificio della Messa e l’amministrazione
dell’Eucarestia per cui furono istituiti. Essi si dividono in ordini maggiori o sacri e ordi-
ni minori; ai primi appartengono il sacerdozio, il diaconato e il suddiaconato; gli altri
quattro sono ordini minori»: Catechismo Romano, § 276. Cfr L. Adrianopoli, Il cate-
chismo Romano commentato, Milano 19923, p. 285.
8 DS 1776.
9
DS 1772. Il termine sacerdotium non può riferirsi al sacerdozio comune, sia per-
ché il termine ritorna nello stesso canone con chiaro riferimento al sacerdozio ministe-

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Mensile di aggiornamento pastorale e cultura religiosa fondato nel 1918

riale, sia perché il capitolo dottrinale a cui il canone rimanda è dedicato alla dimostra-
zione della grandezza del sacerdozio cattolico, a servizio del quale esistono tanti mini-
steri, ripartiti in ordini minori e maggiori.
10 Doctrina et canones de sacramento ordinis, cap. IV: DS 1768.
11 Catechismo Romano, § 284.
12 Ibidem. Sorprendente l’abbondanza dei riferimenti al sacerdozio comune, con

tutti i riferimenti biblici contenuti in LG 10; come a dire che anche il recupero della
dottrina al Vaticano II non sortirà effetti, se non si insisterà in una debita recezione del
tema nella vita ecclesiale.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 Catechismo Romano, § 285.
16 Catechismo Romano, § 274.
17
A. Tanquerey, Brevior synopsis Tjeologiae dogmaticae, Parisiis-Tornaci-Romae
1946, p.711.
18 Summa Theologiae, III, q. 37, art. 2.
19 Summa Theologiae, III, q. 40, art. 5.
20
Summa Theologiae, III, q. 40, art. 4.
21 Basti consultare, ad esempio, due testi che prima del concilio hanno fatto scuola:

J. Lecuyer, Il sacerdozio di Cristo e della Chiesa, Bologna 1965; C. Dillenschneider, Il


sacerdozio nostro nel sacerdozio di Cristo. Fondamenti dogmatici, Bologna 1966.
22
Si potrebbe citare la costituzione Sacramentum ordinis di Pio XII (30 nov. 1947)
AAS 40 (1948) 5-7, quando stabilisce la materia e la forma del sacramento dell’ordine,
e quindi orienta a considerare ogni distinta ordinazione – diaconale, presbiterale ed
episcopale – in chiave sacramentale.
23 De Ecclesia, cap. IV: Mansi 53, 310.
24 LG 21: EV 1, 335.
25 Cfr il Discorso di apertura del secondo periodo: «È venuta l’ora, a Noi sembra, in

cui la verità circa la Chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non
forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con
quelle dichiarazioni con le quali la Chiesa con più esplicito ed autorevole magistero
dichiara ciò che essa pensa di sé». EV 1, 152*.
26 J. Auer, I sacramenti della Chiesa, Assisi 1974, p. 432. I corsivi nel testo.
27 LG 28. Il testo dello schema III utilizza ancora la distinzione tra potere di ordine

e potere di giurisdizione, che scompare nella redazione definitiva: Potestats sacra tum
ordinis tum iurisditionis, quae ex missione Christi in Episcopis residet, vario gradu variis
subiectis in Ecclesia legittime demandatur.
28 Basterà rammentare qui H. de Lubac, Corpus mysticum. L’Eucarestia e la chiesa nel

Medioevo, Milano 19822, il quale mostra nel Medioevo, anche sotto la spinta della cele-
brazione privata dell’Eucarestia, di incrinare l’intima correlazione di Eucarestia e Chiesa,
ambedue corpus Christi, e il mistero eucaristico cessa di essere sacramentum unitatis.
29 Così si esprime CD 11: «La diocesi è una porzione del popolo di Dio, che è affidata

alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al
suo pastore e da lui unita per mezzo del vangelo e dell’Eucarestia nello Spirito santo, costi-
tuisca una Chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo
DARIO VITALI

una, santa, cattolica e apostolica». Continua il testo, precisando che «i singoli vescovi, ai
quali è affidata la cura di una Chiesa particolare, sotto l’autorità del sommo pontefice,
come pastori propri, ordinari e immediati, pascono nel nome del Signore le loro pecore ed
esercitano a loro vantaggio la funzione di insegnare, di santificare e di governare». Il testo
è ripreso, praticamente alla lettera, dal Codice di Diritto Canonico, can. 369.
30 Questo non significa che tutto debba avvenire con la presenza del vescovo, o che

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tutto si concentri a un livello diocesano: SC 41-42 mostra come la vita della Chiesa par-
ticolare avviene nelle comunità, soprattutto parrocchiali, nelle quali si articola la dio-
cesi. Per una riflessione sull’argomento, cfr. D.Vitali, La parrocchia, luogo privilegiato
della spiritualità diocesana, «Presbyteri», 40 (2006), 9, pp. 706-717.
31 Anche se SC 42 sembra insinuare questa prospettiva: «Poiché nella sua Chiesa il

vescovo non può presiedere personalmente sempre e ovunque l’intero gregge, deve
necessariamente costituire dei raggruppamenti di fedeli (fidelium coetus) tra cui hanno
un posto preminente le parrocchie organizzate localmente sotto la guida di un pastore
che fa le veci del vescovo».
32 PDV 17; «All’interno della comunione ecclesiale, il sacerdote è chiamato in par-

ticolare a crescere, nella sua formazione permanente, nel e con il proprio presbiterio
unito al vescovo. Il presbiterio nella sua verità piena è un mysterium: infatti è una realtà
soprannaturale, perché si radica nel sacramento dell’Ordine. Questo è la sua fonte, la
sua origine. È il “luogo” della sua nascita e della sua crescita» (Ibid, 74). «La fisiono-
mia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui lega-
mi non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’Ordine: una grazia che
assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacer-
doti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più diverse
forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali, ma anche quelle materiali» (Ibi, 74).
33 I testi conciliari tendono a parlare genericamente dell’episcopato, non del vesco-

vo. La ragione può risiedere nella forte sottolineatura della collegialità, dove un sog-
getto che comprende tutti i vescovi può essere meglio configurato come un ordo; nella
relazione con i presbiteri, poi, esiste la difficoltà a configurare il rapporto al vescovo di
quanti appartengono agli istituti di vita consacrata, i quali dipendono direttamente dal
loro legittimo superiore. La tendenza a parlare di episcopato sembra rafforzata oggi,
almeno per due motivi, di natura assai diversa: da un lato, l’esistenza delle conferenze
episcopali, che appaiono come un soggetto collettivo identificabile con l’episcopato di
una data nazione; dall’altro, la tesi che l’ordinazione episcopale abbia per effetto l’im-
missione nel collegio episcopale del candidato, il quale, in conseguenza di tale appar-
tenenza, riceve la missio canonica che può essere a servizio di una Chiesa particolare o
della Chiesa universale. Per quanto sostenuta anche dalla Pastores gregis, la tesi sembra
discostarsi dall’usanza plurisecolare della Chiesa, peraltro in vigore ancora oggi, di
legare ogni vescovo al titolo di una Chiesa.
34 D’altronde, è sintomatico che la riscoperta del presbiterio cammini di pari passo

con il recupero della Chiesa locale, inaugurato al Concilio soprattutto con l’afferma- Sacerdozio, vescovo e presbiterio
zione che «nelle e a partire dalle Chiese particolari, formate a immagine della Chiesa
universale, esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (LG 23).
35 Pontificale Romanum: Rito di ordinazione del Vescovo, dei Presbiteri e dei Diaconi,

Città del Vaticano 1992. Confrontare l’originale latino e la traduzione italiana dei nn.
121. 123. 124. 131.
36 PDV 17.
37 In forza della corrispondenza tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, si

può stabilire anche un’analogia tra presbiterio e Chiesa: come questa non è la somma
dei battezzati, ma, appunto, il corpo di Cristo, così il presbiterio non è la somma dei
preti, ma un corpo di carattere ministeriale, posto a servizio della Chiesa particolare.
Né il fatto che sia ministeriale lo rende semplicemente funzionale, e quindi sociologi-
co: se l’ordine sacro costituisce personalmente ogni presbitero in una forma stabile di
vita, anche l’organismo che li costituisce in unità stabile: per quanto si può parlare di
una fondazione ontologico-sacramentale del presbiterio.
38 Né si dà il caso della sede vacante come argomento contrario, perché su quella sede

dovrà comunque essere immesso un successore; piuttosto, il fatto che la Chiesa partico-

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lare non cessi di essere tale durante la sede vacante è un forte argomento a favore della
sua natura teologica e non solo amministrativa, come più di qualcuno vorrebbe.
39
Il linguaggio ricalca – mutatis mutandis – la relazione tra papa e collegio dei
vescovi: il collegio non esiste che cum Petro e mai sine Petro, e, correlativamente, il
papa, che svolge nel collegio una funzione personale che vale singulariter (CJC, can.
331), è sempre coniunctus con il collegio dei vescovi (cfr. CJC 330; 333, §2). La possi-
bilità di articolare in parallelo le due realtà è suggerita e in certo modo garantita da LG
23, quando afferma che «il sommo pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo
e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi, sia della moltitudine dei
fedeli; i vescovi, invece, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento
dell’unità nelle loro chiese particolari» e, si potrebbe aggiungere, nel o del loro presbi-
terio. Sull’interpretazione del termine coniunctus, cfr. F. Coccopalmerio, Il primato del
romano pontefice nel Codice di diritto canonico, in G. Ancona, Dossier Chiesa e
Sinodalità, Gorle (Bg) 2005, pp. 67-118.
40 A riprova basta citare il caso dei vescovi coadiutori e ausiliari, la cui funzione

vicaria è regolata dal CJC 403-411.


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