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2041 IP: IL POPOLO DI DIO
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(can. 204-329)

Dispensa ad uso privato degli studenti

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Roma, 2012

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Fr. Jorge Horta, OFM

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INTRODUZIONE GENERALE AL LIBRO II

Il Libro II, Il Popolo di Dio, che costa di 343 canoni, è diviso in tre Parti: I Fedeli (can.
204-329); La Costituzione Gerarchica della Chiesa (can. 330-572); e Gli Istituti di vita consacra-
ta e le Società di vita apostolica (can. 573-746). Questo libro risulta essere, senza alcun dubbio,
il tentativo meglio riuscito di tradurre in linguaggio canonistico l‟ecclesiologia conciliare, tro-
vandosi, infatti, una corrispondenza, a volte letterale, con la costituzione dogmatica Lumen Gen-
tium.

La Chiesa, come la ha concepita e voluta Gesù, non è soltanto una società (can. 204), ma
è soprattutto comunione, sacramento di salvezza o meglio, «…segno e strumento dell’intima unione con
Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (LG 1).

Gli elementi d‟ecclesiologia conciliare sono maggiormente riconoscibili nel Libro II:

a) La dottrina che presenta la Chiesa come popolo di Dio e l‟autorità gerarchica come ser-
vizio.
b) La dottrina che vede la Chiesa come comunione, e determina le relazioni tra le Chiese
particolari e la Chiesa universale, tra collegialità e primato.
c) La dottrina secondo la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio loro,
sono partecipi del triplice ufficio di Cristo re, profeta e sacerdote.
d) La dottrina che riguarda i doveri e i diritti dei fedeli, particolarmente dei fedeli laici.
e) L‟impegno della Chiesa per l‟ecumenismo.

Possiamo affermare che l‟impegno del legislatore per tradurre in linguaggio canonico la
dottrina conciliare (cfr. Cost. Sacrae disciplinae leges), ricupera la nozione di Chiesa trinitaria, dove
il popolo di Dio è Ecclesia de Trinitate, vive in trinitate e cammina in Trinitatem.

«…I credenti in Cristo li ha voluto convocare nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata sin dal prin-
cipio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica alleanza e istituita
“negli ultimi tempi”, è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine
dei secoli» (LG 2).

1
«…la Chiesa universale si presenta come “un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo”» (LG 4).

Sono tanti i punti dai quali si rileva la corrispondenza tra Codice e Concilio nella tratta-
zione della materia riguardante il popolo di Dio. L‟ecclesiologia che si può dedurre dal Codice di
Diritto Canonico del 1917 è quella che si era delineata dopo i primi secoli della Chiesa, che aveva
avuto il suo sviluppo nel medioevo e la sua consacrazione nel Concilio Tridentino: una Chiesa
piramidale e rigidamente stratificata, una Chiesa società disuguale, nella quale si distingueva net-
tamente un popolo-guida da un popolo-guidato. In tale concezione, il ruolo determinante competeva
al principio gerarchico.

Alla base del Codice di Diritto Canonico del 1983, invece, si trova la concezione della Chie-
sa-comunione, com‟emerge dall‟insegnamento del Vaticano II. Questa concezione, pur mante-
nendo fermo il principio della costituzione gerarchica della Chiesa, mette in luce l‟uguaglianza
fondamentale e la comune dignità, su cui s‟innestano le diversità funzionali in forza della speci-
fica vocazione di ciascuno. Partendo perciò dalla considerazione della Chiesa come popolo di
Dio, il Libro II inizia trattando della condizione comune a tutti che è quella di fedeli, per passa-
re poi a parlare della costituzione gerarchica della Chiesa e degli Istituti di vita consacrata e le
Società di vita apostolica. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, che trova
dei precisi riscontri nel modo con cui sono formulati gli obblighi e i diritti di tutti i fedeli.

Rispetto al Codice di Diritto Canonico del 1917, gli elementi più indicativi sono, soprattutto:

a) La soggiacente visione di Chiesa: da societas inaequalis a communione, in cui la Chiesa è il


popolo di Dio e l‟autorità è servizio.
b) Il passaggio da una visione clericale ad una visione in cui il soggetto è il christifidelis, recu-
perato protagonista della Chiesa, come afferma P.A. Bonnet1, con i suoi doveri e diritti,
con particolare riguardo ai fedeli laici.
c) Il passaggio da una visione individualistica, tendente ad esaltare la condizione del singolo
e i rapporti tra questi e l‟istituzione, ad una visione in cui la considerazione cade sul sin-

1 P. A. BONNET, Il Christifidelis recuperato protagonista umano nella Chiesa, in R. LATOURELLE (a cura di), Vaticano II:
bilancio e prospettive. Venticinque anni dopo (1962-1987), Assisi 1988, vol. I, p. 471-492.
2
golo in quanto parte della comunione ecclesiale, considerata nei vari ambiti in cui essa si
realizza.

La nozione di popolo di Dio, valorizzando la dignità e l‟agire di tutti i fedeli nella Chiesa,
mette in evidenza il valore soteriologico della comunità (LG 9). È all‟interno di questa dimen-
sione comunitaria a carattere soteriologico che il diritto trova la giustificazione della sua esisten-
za e funzione nella Chiesa. In questa prospettiva, la normativa canonica cercherà di prendere in
considerazione l‟agire e la dignità d‟ogni fedele in relazione con la comunità.

Con la nozione di popolo di Dio, il Legislatore vuole indicare che la socialità della Chie-
sa non è frutto del compromesso storico puramente umano. Esso è frutto della partecipazione
comune alla vita divina di tutti i battezzati che sono chiamati a costituire una comunità divina e
strutturale.

3
1. BATTESIMO E SOGGETTIVITÀ GIURIDICA

Nella dottrina del Vaticano I, la Chiesa era definita una societas perfecta et inaequalis. È pri-
vilegiato, dunque, l‟aspetto visibile (società), la sua autonomia e superiorità nei confronti dello
Stato (dato l‟origine e il fine superiore). Per diritto divino è offerta la distinzione tra due catego-
rie fondamentali: i chierici, che hanno la potestà d‟ordine, e i laici, che ne sono privi. Questa vi-
sione di Chiesa è mutata con il Concilio Vaticano II, cambiamento che sarà rispecchiato nella
codificazione di 1983.

È necessario affermare che adesso, nella codificazione postconciliare, la soggettività giu-


ridica in Ecclesiam è data e configurata dalla ricezione del battesimo che costituisce i battezzati
come persone nella Chiesa (can. 96). La personalità giuridica e canonica, quindi, sarà ancora pre-
cisata nella sua larghezza e profondità in questo secondo libro del Codice, avendo come punto
di partenza però, un fondamento che raduna in comunione a tutti i membri: il christifidelis.

4
2. IL «CHRISTIFIDELIS» COME CATEGORIA GIURIDICA FONDAMENTALE
PER TUTTI I BATTEZZATI (CAN. 204)

2.1 La categoria di “persona”

Nel Codice di Diritto Canonico del 1917, persona, che nel diritto canonico odierno è sinoni-
mo di fedele cristiano, è un concetto che definisce la soggettività giuridico-canonica dei singoli
battezzati. Persona poi si sviluppa nelle categorie proprie degli “ordini” o stati giuridici tradizio-
nali: chierico, laico, religioso. Il laico sarà inteso in senso prevalentemente negativo: il non chie-
rico.

L‟ecclesiologia è dominata della prevalenza del ministero gerarchico, considerando la


Chiesa nella sua totalità, ma in senso gerarchico. Oltre questo, sono determinati e indicati i
compiti di ogni stato: ai chierici appartiene la missione ad intra (quindi, il compito di governare,
santificare ed insegnare, per avere ricevuto la potestà d‟ordine e di giurisdizione); ai laici la mis-
sione ad extra, cioè la consecratio mundi (seguendo gli orientamenti che emanano dai pastori). I reli-
giosi hanno come compito fondamentale la santità di vita.

Il Concilio Vaticano II rappresenta l‟affermarsi (anche più giusto sarebbe dire la risco-
perta) di una categoria teologica e giuridica fondamentale, il fedele cristiano, nell‟ambito di una
concezione ecclesiologica che s‟ispira nelle categorie biblico-patristiche: popolo di Dio, sacra-
mento di salvezza, corpo di Cristo. Quest‟identità viene, dunque, rispecchiata nell‟attuale ordi-
namento canonico:

«Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona con i do-
veri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, in quanto sono in comu-
nione ecclesiastica e purché non si frapponga una sanzione legittimamente inflitta» (can. 96).

Oltre qualsiasi definizione naturale, filosofica o teologica, senza negare queste, nel diritto
canonico la personalità è determinata dall‟essere riconosciuto soggetto di diritti e doveri nella
Chiesa, giuridicamente vincolato al suo ordinamento. Tale soggettività deriva dal battesimo va-

5
lidamente ricevuto nella comunità ecclesiale e perfezionato da una vita in comunione ecclesia-
stica, cioè, nel fatto di diventare christifidelis, fedele cristiano2.

Per Eugenio Corecco3, la considerazione delle relazioni persone-comunità, nella dinamica


ecclesiale, è posta in termini non di una persona privata alle prese con le istituzioni, come nel
diritto civile. È un rapporto istituzionale perché tutti i fedeli appartengono alla Chiesa e la rap-
presentano in modo diverso. Il principio della comunione, dunque, è finalizzato a manifestare
visibilmente la communio ecclesiae nella vita di ognuno, come azione di tutta la Chiesa (cfr. CIC,
can. 209 e 223).

I carismi, in questa linea di discorso, sono per la comunione della comunità ecclesiale.
Bisognerebbe convenire che Dio fa dono dei carismi alla Chiesa tramite gli individui. Mediante
la loro libertà, vuole che loro arricchiscano alla comunità ecclesiale. Nell‟antropologia cristiana,
infatti, il fatto che Dio conceda i carismi agli individui è un argomento che permette sostenere il
valore della distinzione della persona nei confronti della comunità, ma non solo. In Dio, distin-
zione e comunione sono riunite, nell‟uomo creato e salvato, la distinzione e la comunione si ar-
ticolano in una dialettica di tensione permanente tra la persona e la comunità ecclesiale.

2.2 La categoria di “laico”

Nell‟elaborazione del Codice del 1983, il coetus “De laicis” si trova davanti a complesse
precisioni da fare.

È vero che fare una sezione speciale per i laici è difficile, considerando che tutti i diritti e
i doveri del christifidelis sono rimandati ai laici. D‟altronde, invece, è conveniente, anche psicolo-
gicamente, che alcuni canoni propri per i laici siano distribuiti nelle varie parti del secondo libro.
Lo stato laicale viene a coincidere con lo stato dei christifidelis nel suo senso puro, quindi sarebbe
stato più logico prescindere di questa sezione, ma, la comprensione del laicato, della sua natura

2 Il can. 87 del Codice piobenedettino affermava, infatti, che con il battesimo si diventa persona nella Chiesa (ante-
cedente dell‟attuale can. 96), quindi soggetto di diritti e doveri. Tale canone, nella sua categoricità, però, non era
preciso. Ad esempio, nei matrimoni misti, anche il coniuge non battezzato ha dei diritti. Il nuovo codice, invece,
non parla di persone (non fa una dottrina giuridica, ma semplicemente si limita ad esporre la normativa) ed intro-
duce una figura nuova sulla quale si sviluppa tutta la normativa: il fedele cristiano, christifidelis. È questo il punto di
partenza e di comprensione del nuovo Codice.
3 Cfr. E. CORECCO, L’apporto della teologia alla elaborazione di una teoria generale del diritto, in: Scienza giuridica e diritto

canonico, Torino 1991, p. 44.


6
e della sua specifica missione era venuta fuori, quindi non si riteneva opportuno eliminare del
Codice questa sezione4. Risultato: la Commissione fa la scelta per una nozione del laico, cioè il
fedele cristiano non chierico e non religioso che ha come compito e campo specifico la secolari-
tà.

«Col nome di laici s’intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato re-
ligioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e
costituiti popolo di Dio, e nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di
Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cri-
stiano».

«Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie
condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta» (LG 31).

Ai laici non spetta la sola sfera secolare ma anche quella spirituale e strettamente eccle-
siale; infatti, loro compiono la missione di tutto il popolo cristiano non solo nel mondo (extra
Chiesa), ma, e in modo prevalente, nella Chiesa, perciò sono chiamati collaborare nei vari tipi
d‟apostolato, sebbene l‟impegno della secolarità è una caratteristica peculiare e propria della vita
dei fedeli laici.

Il laico, nell‟adempiere la sua missione ad intra e ad extra Ecclesiam, è corroborato dal do-
no dello Spirito e dalla grazia del sacramento della confermazione che lo rende capace di dif-
fondere e difendere la fede in ogni ambito. L‟attuazione dei fedeli laici nella vita della Chiesa ha
una sua modalità che, secondo il Concilio, è propria e peculiare: tale modalità è designata con
l‟espressione indole secolare.

4 J. HERVADA (Elementos de Derecho Constitucional Canónico, Pamplona 20012), in merito alle figure del christifideles
e del laico, sostiene che: «De ningún modo deben considerarse sinónimos estas palabras, pese a que tal sinonimia
se estableció con frecuencia en el pasado a causa de la mentalidad estamental. Laico es palabra que define a unos
fieles determinados según el principio de distinción de funciones; fiel, por el contrario, designa a todos los
miembros del Pueblo de Dios de acuerdo con el principio de igualdad fundamental» (p. 96).
7
2.3 La categoria di “fedele cristiano” e i suoi stati giuridici e condizioni a norma
del can. 207 CIC

Il Codice piobenedettino si limitava ad affermare, nel can. 875, che l‟uomo è costituito
persona nella Chiesa per il battesimo, con i diritti e i doveri propri dei cristiani, ma senza svi-
luppare sufficientemente nei canoni successivi la realtà del fedele cristiano. La dottrina aveva
potuto ritenere (e così è stato) dunque, che la categoria fondamentale nell‟ordinamento canoni-
co fosse quella formulata dal can. 107: «Per istituzione divina, ci sono nella Chiesa chierici diversi dei lai-
ci, anche non tutti i chierici siano d’istituzione divina; ma uni e altri possono essere religiosi»6. In questo caso,
i commentatori del Codice del 1917 della BAC7 scrissero in merito a questo canone:

«La Chiesa è, per istituzione divina, una società perfetta, ma disuguale, nella quale c’è una classe di
persone che hanno come compito la direzione (chierici) e un’altra che deve essere governata (laici). I reli-
giosi non costituiscono una classe adeguatamente distinta, perché o sono chierici o sono laici; ma il Codice
tratta di loro in modo separato. Per la sua speciale consacrazione al servizio divino, i religiosi hanno la
preferenza sui laici e partecipano di molti dei diritti ed obblighi dei chierici».

L‟attuale Codice delinea nel can. 204 la categoria fondamentale del christifidelis i cui tratti
essenziali sono: l‟incorporazione a Cristo con il battesimo (già indicata nel canone 96), la parte-
cipazione dell‟ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, la missione affidata da Dio alla
chiesa da compiere nel mondo secondo la condizione propria di ciascuno. La condizione di po-
polo di Dio, comune a tutti i suoi membri, si caratterizza dalla dignità e dalla libertà (LG 9), com-
portando come conseguenza che tutti i fedeli partecipino del fine della Chiesa in un sfera
d‟azione comune orientata, appunto, al raggiungimento di questo fine8.

I fedeli, dunque, sono stati chiamati ad esercitare la missione che Dio ha affidato alla
Chiesa: non sono quindi considerati in maniera statica (come “persone” semplicemente, soggetti
di diritti e di doveri), ma in maniera dinamica, guardando alla missione che devono esercitare («se-

5 CIC-1917, can. 87: «Per il battesimo l‟uomo viene costituito persona nella Chiesa di Cristo, con tutti i diritti ed
obblighi dei cristiani, tranne che, in quello che tocca ai diritti, oste qualche obice e che impedisca il vincolo della
comunione ecclesiastica o una censura inflitta dalla Chiesa».
6 CIC-1917, can. 107: «Per divina institutione sunt in Ecclesia clerici a laicis distincti, licet non omnes clerici sint

divinae institutionis; utrique autem possunt esse religiosi».


7 Código de Derecho Canónico y legislación complementaria, Biblioteca de Autores Cristianos (BAC), a cura di L. MÍGUE-

LES DOMÍNGUEZ, S. ALONSO MORÁN, e M. CABREROS DE ANTA, Madrid 1957.


8 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 96.

8
condo la condizione propria di ciascuno»), essendo resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e
regale di Cristo (can. 204 §1).

Secondo Hervada, quattro sono gli aspetti o elementi che, in una sistemazione scientifi-
ca, possono essere considerati come integranti della condizione costituzionale del fedele: a) La
condicio communionis, o rapporti di comunione e solidarietà del Popolo di Dio rispetto della fede e
i mezzi salvifici; b) La condicio libertatitis o sfera d‟autonomia nella quale il fedele tende ai fini che
gli sono propri secondo la sua personale e piena responsabilità; c) La condicio subiectionis o condi-
zione di legame all‟ordine del Popolo di Dio, stabilito per Cristo, e di legame ai legittimi pastori,
conseguenza del carattere istituzionale e gerarchico del Popolo di Dio; e d) La condicio activa o
condizione di membro del Popolo di Dio chiamato a partecipare attivamente nella sua vita o
nella sua azione9.

Il can. 207, in concordanza con il canone 204, lascia vedere che il principale fondamento
per la struttura della Chiesa non è l‟ordine ma il battesimo (cfr. can. 96), dal quale sgorgheranno
le altre distinzioni personali (chierici, laici, consacrati). È a partire della realtà fondamentale del
christifidelis che posteriormente saranno interpretati i diversi carismi nella Chiesa10. Infatti, tutti i
battezzati, come in parte abbiamo già assegnato, sono ugualmente chiamati alla santità, alla mis-
sione salvifica della Chiesa.

«Uno solo è quindi il popolo eletto di Dio: “uno solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef
4,5); comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, co-
mune la vocazione alla perfezione, una sola la salvezza, una sola la speranza, e una unità senza divi-
sione» (LG 32).

Sebbene sono stabilite delle distinzioni tra i membri della Chiesa, esse non si oppongono
tra loro, ma saranno intese in un senso di comunione e collaborazione vicendevole. Il canone
207 dunque, dovrà essere letto alla luce della dottrina conciliare e in connessione ai canoni 96 e
204.

9 Cfr. Idem, p. 99.


10 K. UMBA, La notion de peuple de Dieu dans le nouveau code. Une notino unificante de la normative canonique?, Roma 2000,
p. 66: «La condizione propria di ciascuno si ritrova globalmente dentro di due gruppi: i ministri sacri e i laici, se-
condo la dimensione istituzionale della Chiesa (can. 207 §1). Seguendo il Vaticano II, il Codice riconosce una ter-
za modalità di vita ecclesiale: la vita consacrata e le società di vita apostolica. La condizione propria di ciascuno
introduce una differenza di qualità dentro la realizzazione della missione della Chiesa (LG 10b)».
9
«Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essen-
zialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, ognuno a suo modo, partecipano
all’unico sacerdozio de Cristo» (LG 10).

Il battesimo è il fondamento della comune vocazione alla santità e all‟apostolato nella


Chiesa, ma è anche vero, d‟altra parte, che i modi e le forme per rispondere a tale vocazione so-
no diversi. Tale diversità implica stati e condizioni di vita che si realizzano in vocazioni specifi-
che.

Il primo paragrafo del canone 207 contiene la distinzione operata ex divina institutione tra i
fedeli: i ministri sacri e i laici. L‟ontologica ineguaglianza funzionale e sacramentale tra i fedeli,
non contrasta con la partecipazione di tutti quanti i fedeli al medesimo statuto di battezzati e al-
la stessa missione della Chiesa; essa trova fondamento nella ricezione dell‟ordine sacro.

Nel §2, del citato canone 207, la distinzione dei singoli membri all‟interno del popolo di
Dio è effettuata dalla struttura carismatico-istituzionale della Chiesa, originando in questo modo
non una bipartizione, ma una tripartizione che comprende chierici, laici e consacrati. Questo
paragrafo ci permette di individuare lo statuto canonico dei fedeli che, con la professione di
consigli evangelici medianti voto o altri vincoli sacri, si sono consacrati in modo speciale a Dio.
La comprensione della vita consacrata in questo paragrafo non è presa dal punto di vista perso-
nale o associativo, ma da quello istituzionale. Infatti, anche se la redazione di questo canone po-
trebbe condurre a considerarne la vita consacrata come uno stato intermedio o un mezzo stato,
la sua indipendenza (e corrispondenza) è determinata sia dal Concilio sia dalla stessa legislazio-
ne canonica.

«Un simile stato, se si tiene conto della divina e gerarchica costituzione della Chiesa, non è intermedio
tra la condizione dei chierici e quella dei laici, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da
Dio a godere di questo speciale dono della vita della Chiesa e ad aiutare, ciascuno a suo modo, la mis-
sione salvifica di essa» (LG 43).

Dal combinato disposto dai due paragrafi del canone 207 pare potersi dedurre che ai
membri degli Istituti di vita consacrata, che non siano ordinati in sacris, si applicano le norme sui
doveri-diritti dei fedeli laici, compatibilmente con le disposizioni speciali dettate dal legislatore

10
universale e/o particolare per i membri di tali istituti. Parimenti accade con i membri ordinati in
sacris.

Con il superamento della divisione gerarchica della Chiesa, la questione della bipartizione
(chierici e laici) o tripartizione (chierici, religiosi, laici) è superata.

Nel passato il termine “status” era importante per indicare la condizione giuridica di un
soggetto poiché appartenente ad una determinata categoria di persone. Infatti, secondo le con-
cezioni ecclesiologiche del Codice Piobenedettino, erano considerati costitutivi della Chiesa so-
lo due stati giuridici: del chierico e del laico. Lo stato religioso riguardava piuttosto la vocazione
alla santità.

Il nuovo Codice parla dello stato11 giuridico del christifidelis come fondante degli altri sta-
ti: chierici, laici e consacrati. Le ulteriori specificazioni, anche chiamate condizioni, dello stato
generale di christifidelis possono essere di qualsiasi natura: derivare dai sacramenti (diaconi, ve-
scovi, coniugati), dalla situazione della persona (domicilio, Chiesa sui iuris ecc.), dai particolari
carismi con cui il fedele edifica il corpo di Cristo sia che si tratti di carismi che si esplicano pre-
valentemente all‟interno della comunità (catechista, laico consacrato, dottore, missionario, con-
templativo, ecc.), sia che si tratti di carismi che si esplicano prevalentemente all‟esterno (profes-
sioni ed attività umane diverse).

Scrisse il Sabbarese12 nelle sue conclusioni:

1. La definizione di cristiano viene data nel can. 204 e la sua condizione nella Chiesa viene
specificata nel can. 208. Il fedele cristiano si caratterizza, dunque, come homo che, in forza
del battesimo:
a. è incorporato a Cristo divenendo partecipe del suo ufficio sacerdotale, profetico e
regale, ed è incorporato alla Chiesa (è il primo effetto del battesimo);

11 V. SARTORIO, Gli stati di vita. Un avvio di riflessione a partire da Vita Consecrata, in: Vita Consacrata, an. 35 (1999), p.
168, lascia intravedere la difficoltà nella comprensione del termine status, in quanto comporta diversi profili
d‟intendimento: «…dal punto di vista strettamente teologico indica le situazioni fondamentali della storia della
salvezza determinate dal libero comunicarsi da Dio nel suo interagire con la libertà dell‟uomo; dal punto di vista
giuridico… ha che a fare con la divisione tripartita e giuridicamente stabile della comunità ecclesiale; dal punto
di vista morale determina il “dovere di stato” connesso con la propria condivisione di vita; dal punto di vista
spirituale è considerato in relazione alla perfezione cristiana e all‟assunzione di una spiritualità adeguata, caratte-
rizzata appunto secondo il proprio stato di vita: clericale, religioso [è meglio dire consacrato] o laicale».
12 L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio. Commento al Codice di Diritto Canonico. Libro II, parte I, Roma 2000, p.

163.
11
b. è costituito persona nell‟ambito ecclesiale, cioè soggetto di doveri e di diritti propri
del battezzato (è il secondo effetto del battesimo);
c. è chiamato ad attuare la missione della Chiesa.
2. La condizione di christifidelis è quella fondamentale, comune a tutti gli appartenenti al popolo
di Dio:
a. per essa vige tra tutti una vera uguaglianza nella dignità e nell‟agire;
b. su di essa si innestano le diversità derivanti dai vari ministeri e carismi.
3. La condizione di christifidelis non si perde né in forza dell‟ordine sacro, né per l‟appartenenza
alla vita consacrata: avremo così il christifidelis laico, il christifidelis chierico, il christifidelis consa-
crato. Possiamo anzi dire che il christifidelis non esiste in astratto come puro e semplice, ma
come laico, come chierico, come consacrato.
4. Se la condizione di christifidelis è comune a tutti, esistono nella Chiesa delle distinzioni tra le
persone in base a due criteri fondamentali: quello gerarchico e quello carismatico. In forza
del principio gerarchico avremo una bipartizione in laici e chierici; in forza di quello cari-
smatico avremo una tripartizione in laici, chierici e consacrati. È la dottrina che si ricava da
vari testi, specie dal can. 207.

2.4 La “figura” del fedele (can. 204 § 1)

La nozione di christifidelis coincide con quella di persona, alla quale si riferisce il can. 96.
Si tratta, in ambedue i canoni, dell‟uomo battezzato nella Chiesa 13. Non c‟è distinzione tra
l‟essere persona nella Chiesa ed essere fedele. I diritti e doveri dei cristiani sono propri della
persona battezzata e non sono altro che i diritti e doveri dei fedeli.

Il fedele è: membro del Popolo di Dio; incorporato a Cristo con il battesimo; chiamato ad attuare, se-
condo la propria condizione, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo. Partendo di
questa realtà, tutti i fedeli sono ontologicamente uguali, e hanno i medesimi diritti e dovere
fondamentali elencati poi nei canoni 208-223.

13 Cfr. Idem., p. 19: «Questo canone ha un carattere più teologico che giuridico, poiché in altro luogo, nel can. 96,
il Legislatore ha intenso definire la condizione giuridica del fedele. La differenza tra il nostro canone e il can. 96
consiste nel fatto che quest‟ultimo descrive la condizione canonica delle persone fisiche e gli effetti derivanti dal
fatto che un uomo è battezzato…; mentre il can. 204 §1 tratta delle persone già divenute fedeli, in forza del bat-
tesimo, e perciò già costituite popolo di Dio».
12
«…secondo la condizione propria di ciascuno,…». Le condizioni giuridiche soggettive non sono
contrarie all‟uguaglianza fondamentale. Ciascuno è un fedele unico e irrepetibile, che vive nella
propria condizione alla qual è stato chiamato.

Allora, le circostanze che determinano la condizione giuridica soggettiva che corrisponde


alla condizione canonica del fedele possono essere molto varie: a) Propri della diversità funzionale: il
celibato per i chierici; proibizione d‟incarichi pubblici civili, dell‟esercizio del commercio,
d‟appartenenza ai sindacati; i voti per i consacrati; i diritti e gli obblighi degli sposati, dei genito-
ri; ecc. b) Altre: l‟età, il domicilio, la parentela, il rito ecc.

Il principio d‟uguaglianza impedisce di parlare di tre classi, generi o stati di cristiani. Esi-
ste solo un genere di cristiano: il fedele. Lo status personae non significa altro, perciò, che una ca-
ratterizzazione della capacità personale di agire i diritti e doveri che ne scaturiscono di questa
personalità.

Il Concilio Vaticano II ha ben applicato alla Chiesa il termine di Popolo di Dio o di co-
munione, ma ha usato anche l‟espressione “società” specialmente quando si riferisce al princi-
pio gerarchico, all‟aspetto visibile della Chiesa come realtà complessa strutturata sia da elementi
umani che divini14, elemento che viene ripreso nel paragrafo 2 del canone 204.

La considerazione della Chiesa come società ha delle conseguenze fondamentali:

a) Carattere d‟istituzione, realtà che deriva dalla volontà del divino fondatore e che è carat-
terizzata dalla permanenza, trascendenza, indipendenza delle persone che la formano.
b) La struttura come corpo sociale, organico, unitario che non è la semplice somma delle
sue parti, ma un‟entità propria e indipendente dei suoi membri. Essendo istituzione, la
Chiesa ha funzioni che non derivano dal Popolo di Dio ma direttamente da Cristo: Ro-
mano Pontefice e i vescovi in comunione con lui. Senza venire contro l‟uguaglianza fon-
damentale, la Chiesa è caratterizzata dalla diversità funzionale.

14LG 8: «Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattoli-
ca, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui…».
13
2.5 La comunione ecclesiale (can. 96; 204 §2; 205; 209)

La Chiesa può essere concepita come “comunione”, anzi il concetto di comunione è il


cuore dell‟autoconoscenza della Chiesa. La communio ricorda tra l‟altro la solidarietà tra i fedeli
che deriva dall‟unità e la partecipazione a vincoli ontologici. La communio significa più che qual-
che vincolo di carità, più che un vago affetto, è una realtà organica che esige una forma giuridi-
ca che la custodisca. La communio è l‟unione dei battezzati, una realtà spirituale ma socialmente
rappresentata. La communio esige un ordinamento, altrimenti non può essere attuata socialmente
n‟operare in modo efficace.

Il canone 204 §2 stabilisce che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica, che è
unica15. Anche la dottrina contenuta nel decreto conciliare sull‟ecumenismo riafferma a più ri-
prese l‟unità e l‟unicità della Chiesa sul fondamento della dottrina ecclesiologica paolina e gio-
vannea16.

La Chiesa va intesa come la storica Chiesa fondata da Cristo e affidata a Pietro17. Sussi-
stere è sinonimo di persistere, vale a dire continuare ad esistere: tale asserto intende dire qualco-
sa di positivo per la Chiesa Cattolica, altrimenti i padri conciliari non avrebbero cambiato est
con subsistit in. Ciò che si attribuisce alla Chiesa Cattolica è la pienezza dei mezzi di salvezza18.

La capacità giuridica d‟ogni fedele nella Chiesa rimane immutata ed è indelebile, in forza
del battesimo ricevuto. Tuttavia la capacità di agire giuridicamente, vale a dire il libero esercizio
della propria personalità giuridica, suppone la comunione ecclesiastica. Il can. 205 stabilisce che la
comunione ecclesiastica è piena e perfetta quando unisce in sé tutti i beni di cui Cristo ha dota-
to la sua Chiesa fondandola, sia secondo l‟aspetto ontologico-interno sia secondo quello della
visibilità esterna terrestre: la pienezza di tali beni in vista della salvezza è in possesso unicamente

15 Cfr. LG 23.
16 Cfr. UR 1.
17 Cfr. LG 8.
18 Cfr, UR 4.

14
della Chiesa Cattolica19. I tre elementi giuridici visibili e esternamente verificabili, già indicati dal
Concilio20, sono:

1) Professione di fede: adesione all‟unico depositum fidei, rivelato nella Sacra Scrittura, tra-
smesso nella Tradizione e nella forma proposta dal Magistero della Chiesa.
2) Unità dei sacramenti, il primo: il battesimo, dal quale nasce la condizione di fedele.
3) Unità con i pastori: comunione gerarchica.

Mancando uno di questi vincoli la comunione non è piena. In altri termini, secondo il
Codice, solo quei battezzati che professano la fede, accettano tutti i sacramenti, riconoscono
l‟autorità del papa e dei vescovi, sono pienamente incorporati nella società ecclesiale. Sebbene
tutti i battezzati sono fedeli cristiani, solo i cattolici hanno la pienezza dei diritti e la totalità dei
doveri che spettano ai membri della Chiesa21. La communio, infatti, è ordinata all‟edificazione del
Corpo di Cristo, del popolo di Dio, perciò, la missione che gli è stata affidata richiede anche la
cooperazione di tutti i fedeli per portarla alla fine.

Questi vincoli si rompono con apostasia (ripudio totale della fede), eresia (ostinata nega-
zione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una verità che si deve credere per fede divina e catto-
lica, o nel caso di ostinato dubbio su di essa), scisma (rifiuto totale della sottomissione al roma-
no Pontefice o rifiuto della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti)22. In questa
non-piena comunione si trovano anche i battezzati non cattolici. È da precisare, comunque, che
i fedeli educati in stato di eresia e di scisma, che rimangono in tale situazione in buona fede, so-
no detti “fratelli separati”23, non essendo in piena comunione, teologica e giuridica, con la Chiesa.
In senso giuridico, detta separazione comporta la sospensione dei doveri-diritti specificamente
ecclesiali. Eretici e scismatici possono, in ogni modo, esercitare quei doveri-diritti che sono pre-
supposti per la reintegrazione nella piena comunione ecclesiale. In alcuni casi, poi, possono es-

19 Cfr. UR 3.
20 LG 14: «Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accetta-
no integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e nel suo organismo visibile sono uniti con
Cristo (…) nel vincolo della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione».
21 G. FELICIANI, Obblighi e diritti di tutti i fedeli cristiani, in: Il Fedele Cristiano. La condizione giuridica dei battezzati, diret-

ta da A. LONGHITANO, Bologna 1989, p. 62: «Il Codice, dunque, sulle orme del concilio, considera anche i cri-
stiani non cattolici come appartenenti alla chiesa, ma, nel nuovo clima di sensibilità ecumenica, non pretende più
imporre a essi tutti gli obblighi dei fedeli cattolici”.
22 Cfr. CIC, can. 751; 1364 §1; 1371.
23 Cfr. UR 3.

15
sere ammessi a partecipare ad atti di culto e a ricevere i sacramenti della penitenza,
dell‟Eucaristia e dell‟unzione degli infermi, osservate le condizioni poste dal c. 844 sulla
communicatio in sacris.

2.6 I catecumeni (can. 206)

«…nel nuovo codice sia definito chiaramente lo stato giuridico dei catecumeni. Infatti essi sono già uniti
alla Chiesa, appartengono già alla famiglia del Cristo, e spesso vivono già una vita di fede, di speranza e
di carità» (AG 14).

Un‟eccezione ai can. 96 e 204, è proposto dal can. 206 sui catecumeni. Infatti, loro, pur
non essendo battezzati, sono considerate “come” persone nell‟ordinamento canonico, in altre
parole soggetti di certi diritti e obblighi. Afferma il Sabbarese: «Pur non avendo la piena capacità giu-
ridica, che si acquista solo con il battesimo, a tenore del can. 96, godono di una certa soggettività giuridica che la
Chiesa riconosce loro per il peculiare legame che essi hanno ─rispetto ad altri non battezzati─ con la Chiesa
stessa»24.

Il paragrafo due sostiene che «La Chiesa dedica una cura particolare, e …già ad essi elargisce di-
verse prerogative che sono proprie dei cristiani». In questo proposito possiamo confrontare il regola-
mento giuridico contenuto nel can. 851, l‟Ordo initiationis christianae adultorum e le legislazioni del-
le Conferenze Episcopali. I catecumeni hanno certe prerogative: l‟iscrizione nel registro di cate-
cumeni secondo il rituale dell‟iniziazione cristiana, partecipare, pur entro i limiti dovuti alla loro
condizione, alla vita liturgica e alle attività pastorali della Chiesa; ricevere l‟istruzione catechetica
generale e specifica; condurre una vita secondo la professione di fede cattolica e di condurre,
altresì, una vita evangelica; ricevere i sacramentali a norma del can. 1170; e soprattutto hanno il
diritto di ricevere il battesimo25. Secondo lo stesso can. 788 §2, i catecumeni hanno il diritto e il
dovere di partecipare attivamente alla realizzazione dei fini della Chiesa.

In quanto non battezzati, non sono tenuti alle leggi meramente ecclesiastiche, ad ecce-
zione di quelle disposizioni che direttamente li riguardano, emanate sia dal Legislatore universa-
le sia da quello particolare26.

24 L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 25.


25 Cfr. CIC, can. 788.
26 Cfr. CIC, can. 11.

16
3. DOVERI E DIRITTI DI TUTTI I FEDELI CRISTIANI

Dopo il Concilio Vaticano II fu avanzata la proposta di redigere una Lex Ecclesiae


Fundamentalis, un testo supremo di riferimento, una “super legge”, cioè una sorta di carta costitu-
zionale della Chiesa. Il Codice Piobenedettino conteneva delle affermazioni di diritto e pur a-
vendo una sorta di elenchi di diritti e doveri per Vescovi, sacerdoti e religiosi, non conteneva
dei veri e propri “cataloghi di diritti”.

Fu dunque istituita una Commissione che studiò e lavorò fino al 1978, elaborando diver-
si canoni sui diritti e doveri dei fedeli chierici e laici. Sorsero però alcuni problemi: non tutti e-
rano convinti della bontà dell‟esistenza di una “Carta Costituzionale” della Chiesa e poi quali era-
no i “diritti” che dovevano essere inseriti? Quello alla vita? Quello alla buona fama? Eppure non
valgono soltanto per i “fedeli”, ma per tutti gli uomini.

Si formarono così due diverse correnti, una favorevole e l‟altra contraria all‟elaborazione
di questa “Lex Fundamentalis”. I lavori in ogni modo proseguirono e furono elaborati circa 70
canoni. Nel 1978 il progetto fu accantonato: papa Paolo VI era morto ed erano venuti meno
anche alcuni elementi di spicco della corrente favorevole, tra cui il Card. Felici. Il nuovo Codi-
ce, però, non gettò via il lavoro fatto dalla commissione ed incorporò i canoni da essa elaborati
nel libro II.

Prima di affrontare gli elementi che vengono promulgati nel Codice del 1983, è necessa-
rio fare qualche distinzione terminologica. In diritto costituzionale s‟intende per doveri e diritti
fondamentali quelli ne derivano immediatamente e direttamente della costituzione della Chiesa,
in quanto diritto positivo, costituendo ambiti di responsabilità e libertà del fedele dai quali sgor-
gano effetti sociali e giuridici nel confronto con il Popolo di Dio. Questi diritti ed doveri sono
universali e perpetui27.

27 «…, los derechos y deberes fundamentales se tienen por el hecho de estar bautizado y, en consecuencia, su ti-
tularidad no depende de ninguna condición social dentro de la Iglesia. …todos los fieles tienen la misma condi-
ción constitucional con la misma fuerza y extensión; los derechos y deberes fundamentales son idénticos en to-
dos y en todos valen lo mismo. Por dignidad se entiende en ciencia jurídica el ser sujeto de derecho. En virtud
del principio de igualdad todos los fieles son igualmente personas en sentido jurídico y los derechos y deberes…
tienen en todos la misma fuerza de cosa debida» (J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 97).
17
Sono soggetti dei doveri fondamentali tutti ed ognuno dei fedeli, qualsiasi la loro condi-
zione o funzione nel Popolo di Dio. Ugualmente tutti ed ognuno dei fedeli è titolare dei diritti
fondamentali. Appartengono, infatti, al piano dell‟uguaglianza fondamentale che precede qualsi-
asi differenziazione, essendo, quindi, comuni a tutti i fedeli e anteriori ad altri diritti o doveri
che si possono avere per la condizione o funzione sociale che si abbia28.

3.1 Uguaglianza fondamentale e molteplicità di carismi e ministeri (can. 208)

Il canone 208, enunciando il principio d‟uguaglianza fondamentale tra tutti i fedeli, pro-
clama l‟uguaglianza nella dignità e nell‟agire di tutti i fedeli. Il fondamento teologico di tale prin-
cipio è riposto nella consacrazione battesimale (non una qualche considerazione sociologica),
perciò ogni credente è chiamato a conformarsi a Cristo. Questa radicale uguaglianza di tutti i
fedeli si fonda, dunque, sulla ricezione del sacramento del battesimo.

Fino al Concilio Vaticano II, si è fortemente rilevato che la Chiesa è una società di non
uguali: societas inaequalis. Ai tempi del Vaticano I, infatti, la convinzione che affermare una vera
gerarchia nella Chiesa, istituita da Cristo stesso, implicava necessariamente la condanna
dell‟uguaglianza tra i membri. Ancora, alla veglia del Vaticano II, nel primo schema De Ecclesia
si affermava: «Si quis dixerit ecclesiam institutam divinitus esse tanquam societatem aequalium; ab episcopis
vero haberi quidem officium et ministerium, non autem propriam regimini potestatem, quae ipsis libere
exercenda: anathema sit». Esiste una gran paura di affermare la radicale uguaglianza dei fedeli nella
Chiesa, giacché farlo implicava negare una gerarchia di diritto divino, dotata di vera potestà giu-
risdizionale.

Accogliere il concetto di fedele, implica riconoscere che la rigenerazione in Cristo per il


battesimo costituisce a tutti i fedeli in una vera uguaglianza nella dignità e nell‟azione; in forza di
tale uguaglianza tutti cooperano all‟edificazione del corpo di Cristo secondo la condizione pro-
pria di ciascuno. Sotto questo profilo, è necessario ricordare che uguaglianza radicale in forza
del battesimo non implica necessariamente che essa sia pure illimitata. «È radicale in quanto si
stende a tutti i fedeli battezzati e concerne tutto ciò che ad essi è comune. È limitata, in quanto lo status canoni-

28 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 107; 111-112.


18
co dei christifidelis è distinto dagli stati derivanti dalle differenti condizioni vocazionali all’interno del popolo di
Dio, ove si trovano chierici, laici e consacrati»29.

Conseguenze del principio d‟uguaglianza:

a) necessità di vedere i principi costituzionali nella loro interconnessione;


b) precisazione delle nozioni di soggetto nella Chiesa (tutti gli uomini) e persona in Ecclesia (il
fedele);
c) necessità di determinare sufficientemente la nozione di condizione canonica e nesso tra
principio d‟uguaglianza e varietà dei carismi;
d) crisi del termine “status”;
e) esigenza di conciliare l‟uguaglianza fondamentale o radicale di tutti i fedeli e la distinzio-
ne funzionale.

La Chiesa non è una comunità omogenea e indifferenziata. Al contrario, secondo LG 32,


per divina istituzione, essa è organizzata e diretta con una mirabile varietà, inclusa la realtà ge-
rarchica sostentata nell‟ordine sacro (can. 1008)30. Tutti gli uffici ecclesiastici che comportino
l‟esercizio del potere d‟ordine o di governo sono riservati ai chierici (can. 274, § 1). La Chiesa,
infatti, si definisce come società costituita di organi gerarchici, caratterizzata dalla costituzione
gerarchica (LG 8).

L‟origine e la legittimazione del potere si differenzia nettamente da quelle invocate per i


poteri esercitati in seno alle comunità politiche. Secondo l‟insegnamento dai tempi apostolici
sulla sacra potestas, l‟autorità della Chiesa non si fonda su delega o consenso di coloro che appar-
tengono alla comunità ecclesiale, ma ne deriva direttamente e immediatamente da Cristo che,
fondando la Chiesa, ha stabilito le sue linee essenziali31. Il compito dei pastori non è agire da so-

29 L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 29s.


30 Cfr. LG 10: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano
essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l‟uno all‟altro».
31 Cfr. LG 18: «Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha istituito nella sua Chiesa

vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti, che sono dotati di sacra potestà, sono a ser-
vizio dei loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò godono della vera dignità
cristiana, aspirino tutti insieme liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla salvezza». Confrontare
anche i numeri 20 e 28.
19
li, ma riconoscere i servizi e carismi di tutti i fedeli in modo che tutti cooperino concordemente
all‟opera comune32.

La condizione personale dei consacrati non è caratterizzata, come quella clericale, dalla
destinazione a determinati compiti ecclesiali, ma di un particolare modo di vita. Ella appartiene
alla santità della Chiesa, giacché preannuncia la venuta del regno dei cieli (can. 573, § 1; 574 §1),
non riguarda la gerarchia e, allo stesso tempo, non costituisce una condizione intermedia tra
chierici e laici.

In forza dell‟affermazione del canone 208, derivano precise conseguenze giuridiche che
costituiscono una sorta de catalogo dei doveri-diritti dei fedeli. Non si tratta di una elencazione
esaustiva ma esemplificativa, quale tentativo di dedurre dai testi conciliari norme codiciali.

Il Sabbarese33 offre alcune motivazioni in merito all‟elenco di diritti e doveri:

a) Nella concezione della Chiesa sacramento di salvezza, mistero di comunione, popolo di


Dio, è insita una dimensione giuridica dalla quale non si può prescindere e che postula, a
sua volta, di essere tradotta in un corpo di leggi. La concezione di una Chiesa puramente
spirituale, e perciò invisibile, interiore e non decifrabile esteriormente, non interpreta la
realtà del cristianesimo.
b) Il diritto è al servizio della persona. Tutto ciò che riguarda la persona umana non è stra-
neo, anzi rientra pienamente nell‟economia della salvezza: in essa deve rifulgere quindi
l‟insieme dei diritti, legati alla giustizia e alla persona umana. Si deve affermare che la de-
terminazione oggettiva di ruoli e di comportamenti costituisce una tutela e una garanzia
per la carità, ponendo le condizioni per rafforzare, difendere e aiutare la fraternità.
c) Una terza giustificazione affonda le radici nella legge biblica che, nella storia del popolo
d‟Israele si pone a salvaguarda dell‟alleanza.

I canoni seguenti, sui diritti e doveri fondamentali, riguarderanno quindi tutti i fedeli, in-
dipendentemente dal loro stato, il quale potrà, al limite, solo aumentare o diminuire la respon-
sabilità dei soggetti, ma non aumentare o diminuire questi diritti e doveri fondamentali che, ri-
petiamo, riguardano tutti.

32 Cfr. LG 32; CL 21-25.


33 L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 159-160.
20
3.2 I diritti e obblighi fondamentali (can. 209)

Dopo il Concilio si suscita un‟ampia discussione, tra teologi e canonisti, circa il valore e
significato dei diritti e doveri fondamentali dei fedeli. I diritti dei fedeli non sono da confondere
con i diritti umani, ai quali il magistero pontificio più recente dedica tanta attenzione. Non si
fondano direttamente, in modo immediato ed esclusivo nella natura umana, ma derivano
dall‟incorporazione al popolo di Dio. I diritti specifici dei cristiani inoltre, non sono preesistenti
alla Chiesa, ma conferiti dalla stessa mediante il battesimo e gli altri sacramenti. Scopo della
Chiesa, dunque, non è garantire la realizzazione dei diritti individuali, ma assicurare permanenza
del mistero di Cristo nella storia e lavorare per la salvezza delle anime34.

L‟enunciazione dello statuto giuridico di tutti i fedeli è indispensabile, dal punto di vista
tecnico e giuridico, come attuazione della costituzione dogmatica Lumen gentium circa la fonda-
mentale unità ed eguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio, realtà che precede la diversità
dei loro ministeri. Tutte le norme sono in diretta funzione del conseguimento dell‟unico fine: la
gloria di Dio e la salvezza delle anime. Nella comunità ecclesiale, qualunque posizione soggetti-
va va riconosciuta e tutelata poiché diretta al raggiungimento del fine proprio ed esclusivo della
Chiesa.

Il primo obbligo di tutti i fedeli consiste nel conservare sempre, e in ogni manifestazione
della sua vita, sia questa privata, familiare o sociale, una comunione con la Chiesa universale e
particolare, nonché con la comunità parrocchiale alla quale il fedele appartiene. In questo cano-
ne 209 §1, si tratta di quella comunione che il Legislatore ha precedentemente esplicitato nel
triplice vincolo della fede, dei sacramenti e della disciplina (can. 205). Vivere nella comunione
non è uno tra tanti diritti e doveri che spettano ai battezzati, ma costituisce l‟unico diritto-
dovere veramente fondamentale perché riassume, sintetizza e qualifica tutti gli altri.

34 I diritti fondamentali sono universali, propri di ogni fedele che trova il suo fondamento nella condizione onto-
logico-sacramentale del cristiano; sono perpetui, in quanto la condizione di battezzato è perpetua; sono dei diritti
irrinunciabili, derivanti della volontà fondazionale di Cristo, quindi non appartiene ai singoli la possibilità di rinun-
ciare ad essi. I diritti fondamentali, quindi, hanno il loro fondamento nella costituzione della Chiesa stessa, quin-
di, si fondano nei principi di diritto divino esplicitati in norme giuridiche e positive. In questo senso, l‟esercizio di
questi diritti da parte del fedele non si riduce ad un‟azione individualista o non solidaria, ma situano ad ogni fede-
le in una dimensione attiva all‟interno della comunità cristiana con una grande responsabilità sociale. Cfr. J. HER-
VADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 102-104.

21
È compito di ciascun fedele adempiere i doveri del proprio stato nei confronti della
Chiesa universale e particolare, sia in quanto fedele sia in quanto appartenente ad una determi-
nata categoria di fedeli nella Chiesa, secondo le determinazioni del diritto universale, particolare
e proprio. Da cui, quindi, il monito fatto nel paragrafo 2.

Il fedele cristiano non ha libertà di coscienza nel senso che la comunità non possa do-
mandargli, come condizione della sua appartenenza, un comportamento confessionale vinco-
lante; ma ha diritto che nei suoi confronti la Chiesa non eserciti alcuna forma di costrizione u-
sando mezzi che per loro natura sono estranei al proprio ordinamento giuridico.

3.3 Vocazione alla santità (can. 210)

La vocazione alla santità è ritenuta da alcuni autori già implicita nel dovere di conservare
e professare pubblicamente la fede. È una norma di diritto divino come lo è, anche, il dovere di
vivere in comunione con la Chiesa (can. 209), il dovere-diritto di collaborare alla diffusione del
messaggio evangelico (can. 211), il dovere-diritto alla parola e ai sacramenti (can. 213); il diritto
al rito e alla propria spiritualità (can. 214); il dovere-diritto all‟apostolato (can. 216); il dovere di-
ritto all‟educazione cristiana (can. 217).

La vocazione alla santità è rivolta a tutti fedeli, senza distinzione. La raccomandazione di


Gesù, «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro Celeste che è nei cieli»35, riguarda tutti i cristiani e, di
fatto, nel corso dei secoli ha riconosciuto e canonizzato come santi e beati uomini e donne che
avevano vissuto nei più diversi stati personali e condizioni esistenziali. Dobbiamo riconoscere,
però, l‟evidente numero superiore di santi e beati appartenenti alla vita clericale e religiosa, in
confronto con quelli laici.

È innegabile tuttavia che, spesso in forme meno esplicite, si è ritenuto che la chiamata
alla santità riguardi solo ai chierici e consacrati, mentre gli altri fedeli possono accontentarsi di
un non meglio definito minimo indispensabile per raggiungere la salvezza. Tale concezione ri-
duttiva viene respinta dal Vaticano II.

La costituzione dogmatica Lumen gentium mette in luce che la Chiesa è indefettibilmente


santa poiché Cristo la ha amata: «Noi crediamo che la Chiesa, il cui mistero è esposto nel sacro concilio, è

35 Mt 5,48.
22
indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato il solo santo, ha
amato la Chiesa come sua sposa e ha dato se stesso per essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5, 25-26),…»36.
Non c‟è privilegio o monopolio per singoli gruppi nella Chiesa. Chiara conferma di una vera
uguaglianza che vige tra i battezzati in forza della loro rigenerazione in Cristo: «I seguaci di Cristo,
chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore,
nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò real-
mente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno
ricevuta»37.

Il canone 210 presenta una norma di carattere sia morale sia giuridico. Nel piano morale,
circa il dovere di dedicare tutte le proprie energie al perseguimento della santità personale e
dell‟intero corpo ecclesiale (cfr. can. 748 §1). Dal punto di vista giuridico, infatti, la Chiesa si
presenta come una societas christifidelium, all‟interno della quale va considerato un principio giuri-
dico: il dovere di collaborare inerente al contenuto proprio delle finalità dalla Chiesa, nel caso
della salus animarum. Quest‟obbligo poi, ha rilevanza giuridica anche in considerazione del pecu-
liare rapporto esistente nella Chiesa tra salus animarum e bonum publicum. Sicché la posizione del
singolo fedele nella comunità ecclesiale è di subordinazione al bene dei fedeli tutti e di dipen-
denza da essi, in quanto la natura e il fine della Chiesa sono di carattere soprannaturale (cfr. can.
223 §1).

3.4 La missione (can. 211)

«La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Fi-
glio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AG 2).

Appartiene a tutti i fedeli il dovere di professare pubblicamente la fede e di partecipare


all‟apostolato della Chiesa38. Tale missione o mandato non riguarda solo la gerarchia, né i con-
sacrati, ma ogni battezzato poiché è l‟intero popolo di Dio l‟inviato a tutto il mondo ad annun-
ciare la Buona Novella. Qui è possibile realizzare un aggancio al diritto di associazione che i fe-
deli hanno (can. 215): il singolo da solo non può fare molto ma spontaneamente è portato ad

36 LG 39.
37 LG 40.
38 Cfr. LG 33; AG 36.

23
avvicinarsi ad altre persone con le quali può coordinare le proprie forze per il conseguimento di
un fine comune.

Il dovere di partecipare alla missione della Chiesa investe principalmente il piano morale,
ma anche riviste un carattere giuridico e deve essere letto in connessione col canone 781: «Dal
momento che tutta quanta la Chiesa è per sua natura missionaria e che l’opera di evangelizzazione è da ritenere
dovere fondamentale del popolo di Dio, tutti i fedeli, consci della loro responsabilità, assumano la propria parte
nell’opera missionaria».

La missione, però, non è solo dovere ma anche un diritto. I battezzati, infatti, non la
possono effettivamente svolgere se non hanno libertà necessaria per la sua piena realizzazione,
ma questo non significa arbitrarietà. La missione diretta a diffondere l‟annuncio divino di salvezza è
fatta, in coerenza con il canone 204, 205 e 212, e cioè, in comunione con tutta la Chiesa
nell‟ambito della comunione di fede, sacramenti e gerarchia.

Così, ad esempio, grava principalmente sul Romano Pontefice e sul Collegio dei Vescovi
la funzione di annunciare il Vangelo (can. 756 §1); sui singoli Vescovi in quanto pastori nelle
chiese particolari loro affidate (can. 756 §2); sui presbiteri, cooperatori dei Vescovi, e sui diaco-
ni, in comunione con il Vescovo e suo presbiterio (can. 757); sui membri degli IVC, in forza
della loro consacrazione (can. 758); sui genitori cristiani verso i loro figli, come pure su coloro
che ne fanno le veci e sui padrini (can. 226 §2; 774 §2; 793; 872; 1136).

In questa prospettiva, sorge la necessità e l‟obbligo di aprire ai laici le porte, affinché se-
condo le loro forze e le necessità dei tempi anch‟essi effettivamente partecipino all‟opera salvi-
fica della Chiesa39.

3.5 L’obbedienza alla gerarchia (can. 212)

L‟obbedienza ai pastori, in quanto dovere, appartiene agli elementi originari propri del
tessuto ecclesiologico e spirituale del Concilio, insieme al dovere di far crescere interiormente in
santità il Corpo Mistico che è la Chiesa (can. 210), collaborare alla diffusione del messaggio cri-

39Particolarmente rilevante a questo proposito è l‟esortazione apostolica di Giovanni Paolo II “Christifidelis laici”
(AAS 81 [1989] p. 393-591), circa la vocazione e la missione dei fedeli laici nella Chiesa. La funzione della gerar-
chia rispetto l‟apostolato dei laici consiste nell‟appoggiarlo, nel prestare i sussidi spirituali, ordinare lo sviluppo
dell‟apostolato al bene comune della Chiesa e vigilare affinché s‟adempiano la dottrina e l‟ordine.
24
stiano (can. 211), il diritto di fare presente i propri bisogni ai pastori (can. 212 §2), il diritto e
dovere di esternare ai pastori e agli altri fedeli la propria opinione (can. 212 §3), il diritto di rice-
vere la parola e i sacramenti (can. 213), il diritto alla propria spiritualità e al proprio rito (can.
214), il diritto d‟associazione (can. 215), il dovere-diritto all‟apostolato (can. 216); il dovere-
diritto alla formazione religioso-teologica (can. 217), il diritto alla libertà d‟insegnamento (can.
218). Il diritto-dovere di partecipare attivamente alla liturgia non appare nel catalogo codiciale
ma è recepito con formule giuridicamente meno qualificanti, ad esempio nei can. 835 §4; 937;
840 e 898.

Il primo paragrafo del canone 212 non riguarda qualunque decisione dell‟autorità, ma
quanto essa stabilisce nell‟ambito del legittimo esercizio delle funzioni di insegnamento e di go-
verno affidate da Cristo. Questo assicura la direzione e la guida della comunità, ed è realizzata
in molteplici modi che vanno dall‟esortazione e dall‟esempio all‟esercizio della cosiddetta pote-
stà di governo, che è: legislativa, esecutiva e giudiziaria. In questi tre elementi si esprime una so-
la ed identica potestà, giacché il papa e i vescovi sono titolari di questi poteri che Cristo ha con-
giuntamente attribuito agli apostoli e ai loro successori. La costituzione della Chiesa si rivela e-
stranea e incompatibile con quel principio della divisione dei poteri che è stato teorizzato da
Montesquieu e ha trovato attuazione in non pochi ordinamenti statali contemporanei. Nulla pe-
rò impedisce che il concreto svolgimento delle singole attività della potestà di giurisdizione sia
affidato da parte di chi detiene la titolarità ad organi specifici e diversi.

L‟obbedienza ai pastori, giacché maestri della fede, non è solo dovere morale ma anche
giuridico, se l‟insegnamento avviene nel rispetto di tutte le condizioni sostanziali richieste dal
diritto e circa le materie specificamente indicate. Diverse gradazioni a seconda che si tratti di
magistero pontificio o episcopale, di carattere infallibile o meno, secondo modi specificati dal
concilio e codificate nei can. 749-754.

L‟obbedienza è qualificata come cristiana; essa si riferisce perciò non soltanto ai contenuti
del comando, ma anche al modo di soddisfacimento degli obblighi di legge, alla diligenza richie-

25
sta nell‟orizzonte cristiano della virtù filiale dell‟obbedienza che si modella sul profilo
dell‟obbedienza del Figlio al Padre40.

La norma è giuridicamente vincolante solo quando il comando dell‟autorità è ragionevo-


le, coerente ai valori fondamentali dell‟ordinamento della Chiesa o, più in generale, alle esigenze
della comunione che caratterizza il cattolicesimo. Di fronte ad un ordine gravemente irragione-
vole, il fedele ha non soltanto il diritto ma anche il dovere di rifiutarsi, poiché non si tratta di
quell‟obbedienza cristiana, prestata nella coscienza della personale responsabilità richiesta dal
can. 212 §1.

Il Legislatore, però, sancisce nel §2 il diritto di petizione, vale a dire il diritto di adire alla
competente autorità per introdurre richieste, chiedere provvedimenti su questioni d‟interesse
personale e comunitario, specialmente d‟ordine spirituale. E l‟autorità ha il dovere di prendere
in considerazione le domande, senza che questo comporti necessariamente l‟obbligo di conce-
dere quanto è richiesto dei fedeli.

Finalmente è stabilito il diritto alla libertà di pensiero (§3), il cui esercizio è tuttavia sot-
toposto a condizioni rigorose: deve essere secondo il grado di scienza, competenza e prestigio
dei singoli fedeli; non può infrangere l‟integrità della fede e dei costumi; sono soggetti al rispet-
to dell‟autorità dei pastori; deve essere orientato al rispetto della dignità delle persone e all‟utilità
comune (cfr. can. 223).

3.6 La parola di Dio e i sacramenti (can. 213)

Il canone 213 riconosce a tutti i fedeli il diritto di ricevere i mezzi necessari al persegui-
mento della santità, specie per ciò che riguarda la predicazione della Parola di Dio e i sacramen-
ti. A tale diritto corrisponde il dovere dei sacri pastori di soddisfare le esigenze spirituali dei fe-
deli stessi.

40 L‟adesione al magistero della Chiesa è sempre un atto di fede, quindi, inserendosi in una dimensione che tra-
scende l‟ambito meramente umana. Quest‟atto è, inoltre, un atto veramente umano che esige la concorrenza sia
dell‟intelletto, sia della volontà. Ci sono, però, delle gerarchie nell‟adesione al magistero della Chiesa: a) Fede divi-
na, a quelle verità rivelate da Dio nella Sacra Scrittura, senza l‟intervento del magistero ecclesiastico; b) Fede divina
e cattolica, richiede l‟assenso di fede alle verità contenute nella parola di Dio scritta o tramandata dalla tradizione,
proposta dal magistero infallibile della Chiesa; e, infine, c) Religioso ossequio, al magistero non infallibile sia del Ro-
mano Pontefice, sia del Collegio dei Vescovi, nell‟esercizio del loro magistero autentico circa la fede e i costumi,
nonché ai Vescovi in comunione con il capo del Collegio e con i membri in quanto autentici dottori e maestri
della fede. Cfr. CIC, can. 750; 752-753.
26
«I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali
della Chiesa, soprattutto ciò gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ai pastori quindi manifestino
le loro necessità e i loro desideri, con quella libertà e fiducia, che si addice a figli di Dio e a fratelli in
Cristo» (LG 37).

Secondo il nuovo Codice, questo diritto s‟incontra con due obblighi concreti diretti ai
Vescovi (can. 387) e ai parroci (can. 528 §2), e in pratica a coloro che hanno come compito
principale la cura pastorale e il governo di una porzione del popolo di Dio41.

Questo diritto non ha un carattere assoluto ma deve essere esercitato nel rispetto di una
serie di rigorose condizioni. I sacri pastori sono tenuti ad ammettere ai sacramenti solo quei
battezzati che li chiedano opportunamente, siano ben disposti e non abbiano dal diritto la proi-
bizione a riceverli42.

Questa disposizione di carattere generale è attentamente specificata dalle norme riguar-


danti i singoli sacramenti43: sulla confermazione (can. 885 §1); sulla comunione (can. 912); sulla
confessione (can. 986 §1); sull‟unzione dei malati (can. 1001 e 1003 §3); sul matrimonio (can.
1058). Non si può invece, parlare di un diritto a ricevere il sacramento dell‟ordine, giacché il suo
conferimento è subordinato ad una valutazione discrezionale del vescovo che consideri
l‟ordinazione del candidato utile per il ministero della Chiesa (can. 1025, §2).

Sotto il profilo oggettivo, il diritto ai beni spirituali può essere esercitato a determinate
condizioni: così, ad esempio, i genitori devono prepararsi debitamente al battesimo del figlio
(can. 867 §1); per ricevere la santa comunione è normalmente richiesto il digiuno eucaristico per
almeno un‟ora prima della comunione (can. 919 §1).

41 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 119: «El fiel tiene derecho en sentido estricto
ante aquellas personas, instituciones u oficios con las que le une un vínculo jurídico que contiene ese derecho y la
correlativa obligación de justicia, v. gr. El párroco o el obispo diocesano. También se genera el derecho por la
situación, esto es, cuando, dada una situación, el derecho de los fieles sólo puede satisfacerse por un ministro sa-
grado determinado, pues es una forma de concretarse el deber del ministro que nace de la destinación recibida
del sacramento del orden».
42can. CIC, 843 § 1.
43 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 120-122.

27
3.7 Il rispetto dell’identità rituale (can. 214; CCEO can. 28; 39-41)

Parlare del rito, significa determinare la famiglia liturgica alla quale appartiene il fedele,
riguarda pertanto la liturgia. In Occidente possiamo distinguere: rito romano, ambrosiano, mo-
zarabico e, inoltre, le legittime particolarità che si trovano nell‟ambito della liturgia d‟alcune dio-
cesi e ordini in occidente, come indirettamente anche il rispetto dei latini per i riti d‟Oriente
(CCEO can. 28; 39-41).

La stragrande maggioranza dei cattolici segue il rito della chiesa di Roma, ma sussistono
ben cinque altri riti orientali (antiocheno, alessandrino, costantinopolitano o bizantino, siro o-
rientale o caldeo, armeno). Il Vaticano II affermò, nonostante la minore diffusione, pari dignità
dei singoli riti orientali con quello romano, fondamento, quindi, dell‟importanza di questa nor-
ma canonica44.

Ognuno, al momento del battesimo, è ascritto ad un rito che è di norma quello dei geni-
tori, ma che può anche essere scelto liberamente dall‟interessato qualora abbia compiuto 14 an-
ni (can. 111 §2). L‟appartenenza rituale, determinata dal battesimo, comporta precisi doveri,
concretamente, salvo casi assolutamente particolari (can. 112), non solo i cattolici, ma anche i
battezzati di qualsiasi chiesa o comunità cristiana che si convertano al cattolicesimo, hanno
l‟obbligo di mantenere ovunque il proprio rito, onorandolo e osservandolo secondo le loro for-
ze. A questo dovere corrisponde quel diritto, sancito dal can. 214.

Il diritto al proprio rito sta condizionato, poiché battezzato che si trova in territori popo-
lati da fedeli di rito diverso non può pretendere, sempre e dovunque, di potersi avvalere del mi-
nistero di un presbitero del rito proprio. Le autorità ecclesiastiche del luogo, inoltre, non pos-
sono trascurare le specifiche esigenze ma devono adoperarsi, nei limiti delle risorse disponibili,
per rispondere ad esse. In questo senso il can. 383 §2, impone ai vescovi latini che abbiano nelle
rispettive diocesi fedeli di rito diverso, di provvedere alle loro necessità spirituali sia mediante
sacerdoti o parroci del medesimo rito sia mediante un vicario episcopale.

44Risulta di grande importanza l‟articolo scritto dal prof. M. BROGI, Il Diritto all’osservanza del proprio rito (CIC can.
214), in: Antonianum, an. 68 (1993), p. 108-119, che nell‟introduzione afferma: «Mantenere il proprio rito, osserva-
re il proprio rito, significa dunque rimanere fedele alle proprie tradizioni, cioè alla propria liturgia, alla propria di-
sciplina ecclesiastica ed al proprio patrimonio spirituale» (p. 108).
28
3.8 La libertà d’associazione e di riunione (can. 215)

Questa è la prima volta che un tale principio è inserito ufficialmente nell‟ordinamento


canonico: fondare e dirigere liberamente associazioni e tenere riunioni. Il canone 215 apre una
panoramica che pone il fedele in un modo di agire diverso: quello consociato, non più da solo
ma considerando la socialità della persona, la naturalità che ha la persona nell‟agire insieme ad
altre, condividendone l‟ideale, perseguendo insieme un fine e svolgendo insieme un‟azione.

Il fondamento di questo diritto è duplice: esso risponde alla natura sociale dell‟uomo; poi
trova pure il suo fondamento nel carattere sopranaturale della Chiesa e dei fedeli in essa. Asso-
ciarsi, infatti, è utile per il perseguimento della missione della Chiesa da parte di tutti i fedeli.

Le iniziative apostoliche stesse sono realizzate in forma associata. Perciò il Concilio con-
sidera le associazioni nel contesto dell‟apostolato.

«I fedeli sono chiamati ad esercitare l’apostolato individuale nelle diverse condizioni della loro vita; tutta-
via ricordino che l’uomo, per natura sua, è sociale e che piacque a Dio riunire i credenti nel popolo di
Dio (cfr. 1 Pt 2, 5-10) e in un unico corpo (cfr. 1 Cor 12,12). Quindi l’apostolato associato corrispon-
de felicemente alle esigenze umane e cristiane dei fedeli e al tempo stesso si presenta come segno della co-
munione e dell’unità della Chiesa in Cristo che dice: “Dove due o tre riuniti in mio nome, io sono in
mezzo a loro” (Mt18,20)» (AA 18).

Il legame tra diritto all‟iniziativa apostolica (can. 211) e diritto d‟associazione è strettissi-
mo, ma questo non toglie che si tratti di due diritti diversi e distinti tra loro: da un lato le inizia-
tive apostoliche possono essere realizzate anche in forme non associative, ad esempio mediante
creazione d‟apposite fondazioni; d‟altra parte un‟associazione di fedeli potrebbe proporsi finali-
tà non immediatamente pertinenti all‟apostolato, come la santificazione personale dei suoi
membri.

L‟esercizio del diritto all‟associazione, inoltre, può rivelarsi uno dei modi con cui i fedeli
partecipano alla funzione di governo (munus regendi). Il diritto di associazione comprende, anche,

29
il diritto di fondare associazioni, di iscriversi ad esse, di una giusta autonomia statutaria e di go-
verno45.

3.9 L’iniziativa apostolica (can. 216)

Il diritto di promuovere e sostenere l‟attività apostolica della Chiesa appartiene a tutti i


fedeli, pertanto non ha bisogno di una speciale concessione da parte della gerarchia in forma di
mandato specifico46.

Il diritto all‟apostolato comporta conseguentemente il diritto di fondare le relative asso-


ciazioni, di partecipare a quelle già esistenti, di avere necessaria autonomia e di obbedire ai sacri
pastori. Il canone ci ricorda, infatti, la necessità di ricevere il consenso da parte della competen-
te autorità ecclesiastica prima di qualificare come “cattolica” un‟iniziativa apostolica.

«Sono molte, infatti, nella Chiesa le iniziative apostoliche che vengono costituite dalla libera scelta dei
laici e rette dal loro prudente criterio (…). Ma nessuna iniziativa rivendichi a se stessa la denominazio-
ne di cattolica, se non sia intervenuto il consenso della legittima autorità ecclesiastica» (AA 24).

3.10 L’educazione cristiana (can. 217)

Per condurre una vita cristiana, il fedele deve ricevere un‟adeguata formazione, che ne
sviluppi fino alla maturità la personalità sia sul piano umano sia su quello spirituale. Appartiene,
dunque, alla categoria dei doveri-diritti dei cristiani.

Il canone 217 evidenzia il diritto a ricevere quella formazione di base, necessaria a com-
piere il cammino di fede conforme alle esigenze del Vangelo, ma anche apre la possibilità di po-
ter compiere studi superiori e conseguire gradi accademici in discipline sacre47.

45 Sul diritto di fondare e partecipare nell‟associazioni, è conveniente tenere presenti i criteri contenuti in AA 19.
Cfr. L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 39. Per l‟associazioni dei fedeli, cfr. il titolo V, can. 298-329.
46 L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 40: «…tale diritto appartiene a tutti, in forza del battesimo e della

confermazione che abilitano i fedeli a partecipare alla missione stessa della Chiesa. […]. Si tratta di un diritto che
ha un fondamento soprannaturale, con una qualificazione sul piano giuridico, e che si esplicita in una serie di re-
lazioni esterne, le cui modalità di esercizio sono soggette alla giurisdizione della competente autorità ecclesiasti-
ca».
47 Sostiene il SABARESSE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 41: «Circa il diritto a ricevere una istruzione di carattere

superiore, esso comporta l‟obbligo da parte della competente autorità di garantire le condizioni di acceso alle U-
niversità e facoltà ecclesiastiche per l‟investigazione delle discipline sacre o delle discipline a queste connesse (cf.
cann. 815-821)».
30
Il dovere-diritto all‟educazione cristiana, è il presupposto che si trova alla base del dove-
re-diritto di ricevere la parola e i sacramenti; del dovere d‟essere diligenti nell‟esercizio degli uf-
fici ecclesiali (can. 209), rilevato dal CIC per i laici con il dovere di acquisire una dottrina cristia-
na (can. 229 §1) proporzionata allo stato e una formazione specifica ai ministeri (can. 231 §1) e
il dovere di sopperire alle necessità materiali della Chiesa (can. 222 §1).

Il munus docendi, al quale è consacrato il Libro III del Codice, parlando sull‟educazione
cattolica, ribadisce che la vera educazione persegue la formazione integrale della persona, tende
a sviluppare armonicamente le doti fisiche, morali e intellettuali, a far acquisire un più perfetto
senso di responsabilità e il retto uso della libertà, a preparare a un‟attiva partecipazione alla vita
sociale48. Questo, dunque, anche se è indicato nel canone come un diritto, è allo stesso tempo
un obbligo diretto alla missione che ogni fedele ha di svolgere all‟interno della comunità eccle-
siastica: «…, chiamati a condurre una vita conforme alla dottrina evangelica,…». Nessuno può limitare
questo diritto, ma anche nessuno si può escludere di lui.

Si deve rilevare che il diritto all‟educazione cristiana, in mancanza di un‟esplicita delimi-


tazione al solo ambito canonico, deve intendersi riconosciuto anche negli ordinamenti statali,
com‟espressione del più generale diritto alla libertà religiosa.

3.11 La libertà di ricerca (can. 218)

La libertà di ricerca con deve essere confusa con autonomia. Tale libertà deve essere sot-
tomessa al Magistero ufficiale della Chiesa. Questo principio è raccolto dal pensiero dello stesso
Concilio Vaticano II, il quale afferma:

«Ma affinché siano in grado di esercitare il loro compito sia riconosciuta ai fedeli la giusta libertà di ri-
cercare, di pensare, di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono compe-
tenti» (GS 62).

Senza libertà di ricercare, di pensare, di manifestare con umiltà e con coraggio la propria
opinione nel campo in cui sono competenti, non è possibile alcuna scienza e i teologi cattolici si

48Cfr. CIC, can. 795: «Dal momento che la vera educazione deve perseguire la formazione integrale della persona
umana, in vista del suo fine ultimo e insieme del bene comune della società, i fanciulli e i giovani siano coltivati in
modo da poter sviluppare armonicamente le proprie doti fisiche, morali e intellettuali, acquistino un più perfetto
senso di responsabilità e il retto uso della libertà e siano preparati a partecipare attivamente alla vita sociale».
31
troverebbero nell‟impossibilità di svolgere adeguatamente il loro ufficio in seno alla comunità
ecclesiale. Il popolo di Dio sarebbe così privato di un aiuto insostituibile per l‟approfondimento
dell‟intelligenza della fede e la stessa autorità del magistero, senza l‟apporto della ricerca teologi-
ca, incontrerebbe molte difficoltà.

La libertà, però, va esercitata sotto lo sguardo attento dei Pastori, perché non si arrechi
danno alla fede e ai costumi dei fedeli (cfr. can. 823-830). Tale controllo può essere esercitato
dal nihil obstat per la pubblicazione di scritti.

Si può concludere, dunque, indicando che l‟esercizio di questo diritto comporta


l‟ottemperanza di tre condizioni:

a) La ricerca e le opinioni devono svilupparsi unicamente nel settore dell‟opinabile, essen-


do interdetta ogni libertà ove si tratti di verità su cui si è già pronunciato il Magistero del-
la Chiesa.
b) Ricerca e opinioni personali non possono ledere il diritto o anche i semplici interessi
d‟altri fedeli giuridicamente tutelati.
c) Nell‟esercizio della libertà, deve rispettarsi il modo d‟espressione richiesto dall‟oggetto
stesso, pertanto il proprio pensiero va presentato come ipotesi in riviste specializzate o
in congressi d‟esperti, e non mediante le comuni vie della comunicazione sociale.

3.12 La scelta dello stato di vita (can. 219)

Questo diritto, com‟espressamente è ricordato dalla GS, è un diritto naturale.

«Contemporaneamente cresce la coscienza dell’esimia dignità che compete alla persona umana, superiore
a tutte le cose, e i cui diritti e doveri sono universali e inviolabili. Occorre, perciò, che siano rese accessibili
all’uomo tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vesti-
to, l’abitazione, il diritto a scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, all’educazione,
al lavoro, al buon nome, al rispetto, ala necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto
dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo reli-
gioso» (GS 26).

Il diritto alla libera scelta dello stato è annoverato tra i diritti propri del fedele. Per il bat-
tezzato tale scelta costituisce l‟individuazione della modalità concreta con cui realizzare la pro-

32
pria vocazione cristiana e ha, per oggetto uno status di natura ecclesiale come quello di laico o di
chierico, coniuge cristiano o consacrato. Non può essere costretto a ricevere l‟ordine sacro, a
sposarsi o ad abbracciare la vita consacrata e tale libertà è sancita da diversi canoni del Codice: è
illecito costringere alcuno a ricevere gli ordini (can. 1026); il matrimonio è nullo se manca con-
senso (can. 1057 §1) o se è viziato (can. 1097; 1098; 1103); l‟ingresso al noviziato e la professio-
ne sono invalidi se l‟interessato vi è stato indotto da violenza, grave timore o inganno (can. 643
§1, 4°; 656, 4°).

Si deve tenere presente, inoltre, che questo diritto considera pure la libertà dei fedeli laici
di rimanere nella condizione laicale (cfr. LG 31). La condizione laicale non si esige né viene as-
sunta, sennonché semplicemente si possiede. Non avendo, quindi, possibilità d‟esigenza sociale,
non può parlarsi tecnicamente di un diritto. Il diritto si configura, però, come il diritto di rima-
nere liberamente nella condizione di laico e a sviluppare tutte le virtualità cristiane a partire da
questa condizione ed in essa.

A partire dell‟anteriore, dobbiamo affrontare un‟altra distinzione: i laici devono per forza
orientare la loro vita al matrimonio? Il matrimonio è, non soltanto una vocazione naturale, ma
anche una vocazione cristiana e, nella misura che il matrimonio è positivamente in relazione
con il mistero di Cristo (sacramento dell‟unione di Cristo con la Chiesa), quest‟istituzione è via
di santità e vita cristiana. Esiste, quindi, la libertà fondamentale a contrarlo. Il celibato, invece,
appare nel contesto del messaggio di Cristo come un consiglio, cioè come una possibilità aperta al
cristiano, senza diventare un obbligo sociale o giuridico. A partire di questo, il fedele ha la liber-
tà fondamentale d‟assumere liberamente questa condizione, senza coazione, e a rimanere in es-
sa. Si tratta, quindi, di un diritto di ogni fedele, anche i laici, giacché non è una condizione, quel-
la del celibato, una condizione esclusiva dei fedeli consacrati49.

Il contenuto del diritto previsto dal presente canone consiste nella pretesa giuridica ad
essere immuni da qualsiasi costrizione esterna nella scelta dello stato di vita definitivo 50, anche

49 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 133. Hervada aggiunge a pagina 134: «En cuan-
to a los laicos, hasta el s. III fueron tales las vas vírgenes cristianas y los ascetas no clérigos; posteriormente siem-
pre ha pervivido esta posibilidad (aunque con cierta tendencia a refugiarse en formas de vida asimiladas o por lo
menos influenciadas por la vida consagrada); y actualmente vuelve a ser una realidad en la vida de la Iglesia la
unión entre la condición de laico o secular (según la descripción de LG, 31) plenamente vivida y el celibato».
50 Cfr. L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 43.

33
se, come ben ricorda il Sabbarese, questa libertà di scelta non è prevista per l‟ammissione alla
vita consacrata e allo stato clericale.

«L’interesse dei fedeli a emettere la professione mediante i consigli evangelici o a ricevere l’ordine sacro ri-
sponde agli interessi generali della Chiesa, valutati dall’autorità competente ed espressi in autorevoli
provvedimenti di conferma della vocazione». E aggiunge: «…la vocazione risulta essere un requisito di
carattere teologico: proviene da Cristo ed è significata tramite la Chiesa, alla cui autorità compete ricono-
scere e ammettere alla vita consacrata e agli ordini sacri coloro che giudica idonei, senza che questi ab-
biano, in proposito, alcun diritto»51.

3.13 La buona fama e il rispetto dell'intimità (can. 220)

Ogni uomo deve disporre di un ambito esistenziale assolutamente privato. Ciascun bat-
tezzato ha il diritto a vivere il suo personale rapporto con Cristo, quindi, senza indebite interfe-
renze sia da parte dei fratelli di fede, sia anche della stessa autorità ecclesiastica.

Gli abusi nell‟esercizio di un‟indiscreta e malintesa direzione spirituale, nell‟ambito di


quei gruppi di fedeli che praticano l‟esame di vita o di coscienza in comune; l‟agire dei superiori
e maestri dei novizi che aprono le lettere di nascosto; ecc.

Il rispetto della buona fama (alla quale si oppone l‟ingiuria e la diffamazione) e


dell‟intimità (in modo che non siano divulgati fatti attinenti alla vita privata della persona, anche
se di per sé veri e non necessariamente lesivi della dignità personale) sono, senz‟altro, diritti
comuni a tutti gli uomini, ma all‟interno della comunità cristiana assumono flessioni e connota-
zioni specifiche che devono essere adeguatamente tutelate. Così si capisce la decisione del legi-
slatore di inserire queste norme tra i diritti dei fedeli. Altre prescrizioni più dettagliate sancisco-
no, ad esempio, il diritto alla libera scelta del confessore (can. 991) e l‟obbligo di quest‟ultimo di
interrogare il penitente con prudenza e discrezione (can. 979).

La redazione del canone parla di non «…ledere illegittimamente…» questi diritti, perciò è
possibile che vi siano casi in cui la divulgazione di fatti lesivi dell‟onore della persona e della sua
riservatezza non comportano necessariamente la violazione. Anzi, a volte è necessario e lecito,
in morale ed in diritto, scoprire gli difetti, peccati o delitti quando è in gioco un bene superiore

51 Idem.
34
delle persone, della società civile e della Chiesa. Questi casi, che ci ricorda il Sabbarese52 sono,
ad esempio:

a) Materia penale, quando si deve provvedere all‟indagine previa, a seguito di un crimine


commesso. In questo senso, il canone 1717 del diritto penale, ricorda che l‟indagine sia
fatta in modo di non mettere in pericolo la buona fama di alcuno, vale a dire dello stesso
indagato come dei suoi testimoni o parenti.
b) Materia matrimoniale, segnalando eventuali impedimenti al matrimonio, di cui il fedele è
venuto in conoscenza, in seguito alle pubblicazioni matrimoniali (can. 1067).

Il diritto sarà tutelato quindi, con un cauto agire da parte dell‟autorità amministrativa e
giudiziaria:

a) È vietato prendere in considerazione denuncie presentate in forma anonima.


b) L‟accusato può conoscere il nome dell‟accusatore e l‟oggetto dell‟accusa.
c) I fedeli hanno il diritto di difendere i diritti di cui godono nella Chiesa presso il foro ec-
clesiastico competente (can. 221 §1).
d) I provvedimenti amministrativi e le sanzioni penali devono essere sempre motivati.
e) Il fedele sempre ha il diritto di ricorrere all‟autorità gerarchica superiore, qualora ritenga
sia stato leso il proprio buon nome.

3.14 La rivendicazione e la difesa dei diritti (can. 221; 223)

Si tratta di tre garanzie fondamentali:

a) difesa dei propri diritti sia in via giudiziale, sia in via amministrativa
b) essere giudicati a norma del diritto
c) essere punito a norma del diritto (eccezione: can. 1399).

Il libero esercizio dei diritti da parte dei fedeli può essere limitato dalle sanzioni legitti-
mamente inflitte dall‟autorità ecclesiastica (can. 96). La Chiesa ritiene di avere un diritto, proprio
e originario, ad irrogare sanzioni penali ai suoi membri che commettano delitti (can. 1311), ma
anche tiene la proibizione di punire qualcuno per un fatto che non sia espressamente previsto
come delitto dalla legge (nullum crimen sine lege).

52 Ibidem, p. 44.
35
Tale principio non trova nel diritto della Chiesa attuazione coerente e consequenziale,
giacché può essere derogato ogni qualvolta la speciale gravità della violazione esiga una puni-
zione e urga la necessità di prevenire o riparare gli scandali (can. 1399). Nella Chiesa la legge
suprema è la salvezza delle anime, la quale può richiedere la punizione di comportamenti gra-
vemente lesivi dell‟ordine ecclesiale, anche quando questi non siano specificamente ed espres-
samente sanzionati dalle leggi.

Il canone 221 stabilisce il diritto di adire il giudice ecclesiastico competente per accertare
o tutelare i diritti soggettivi, come il diritto alla difesa per rimuovere gli ostacoli di ogni genere
che possono impedire la tutela in giudizio dei propri diritti. Inoltre, viene stipulato che i fedeli
devono essere puniti a norma di legge.

Nell‟esercizio di tutti i diritti, si deve osservare il principio morale della responsabilità


personale e sociale; sempre si deve agire secondo giustizia e umanità. L‟autorità non deve limi-
tare i diritti, ma solo assicurare il loro retto esercizio ed evitare gli abusi (can. 223 §1).

La seconda clausola del canone 223, che concede all‟autorità competente la capacità di
moderare l‟esercizio dei diritti di tutti i fedeli, può sorprendere, ma essa non può apparire come
un assegno in bianco nelle mani del superiore, con il rischio di compromettere l‟affidabilità dei
cataloghi sui doveri-diritti del fedele, svuotando il suo contenuto.

Il principio del bene comune, non definito da criteri oggettivi di valutazione, resta così
vago da prestare udito alle più svariate opinioni. La clausola, infatti, non determina con quali
strumenti, legislativi o amministrativi, l‟autorità è autorizzata ad intervenire.

Il problema si porrebbe in termini più imperativi se questi diritti dei fedeli avessero ca-
rattere costituzionale, perché sarebbero investiti estrinsecamente da un rango formale superiore
a qualsiasi altra norma legislativa o disposizione amministrativa, cui non fosse concesso un po-
tere derogativo dalla costituzione stessa.

Trattandosi di una codificazione e non di una costituzione, il problema non si pone in


termini formalmente diversi, poiché non si applica il principio della costituzionalità della legge,
pur valendo, almeno in linea di principio, quello della legalità dell‟attività amministrativa, garan-
tito dal can. 33 §1. Nel sistema canonico il diritto divino, e subordinatamente quello naturale,

36
gode di una gerarchia materiale superiore a tutte le altre norme, più forte di quell‟attribuibile a
qualsiasi disposizione per il semplice fatto formale di appartenere ad una costituzione.

3.15 L’impegno a sovvenire alle necessità della Chiesa (can. 222 § 1-2)

Un vero obbligo che incombe a tutti i fedeli e quello di fornire il necessario per il man-
tenimento della Chiesa, com‟è affermato dal canone 221 §1, sebbene la formulazione generica
non precisa i modi.

«…; i fedeli, cioè, sono da vero tenuti all’obbligo di procurare che non manchino ai presbiteri i mezzi per
condurre una vita onesta e dignitosa. Spetta ai vescovi ricordare ai fedeli questo loro obbligo, e provvedere
─ognuno per la propria diocesi, o meglio ancora riunendosi in gruppi interessati a uno stesso territorio─
all’istituzione di norme che garantiscano un mantenimento dignitoso per quanti svolgono o hanno svolto
una funzione al servizio del popolo di Dio» (PO 20).

«…abbiano a cuore [i laici] la necessità del popolo di Dio sparso su tutta la terra. Anzitutto facciano
proprie le opere missionarie fornendo aiuti materiali o anche personali. È, infatti, dovere e onore dei cri-
stiani restituire a Dio parte dei beni che ricevono da Lui» (AA 10).

Il Concilio, inoltre, raccomanda ai sacerdoti il destinare al bene della Chiesa e alle opere
di carità le risorse economiche che eccedano le loro esigenze, come anche invita gli istituti reli-
giosi ad utilizzare una qualche parte dei loro beni per le necessità della Chiesa e il soccorso dagli
indigenti (PO 17; PC 13).

Il fatto che sia una formulazione generica, si radica nell‟impossibilità del Legislatore di
addentrarsi in queste specificazioni a causa della complessità della questione.

Il fedele può soddisfare l‟obbligo di sovvenire alle necessità della Chiesa in molteplici
forme, da libera offerta a prestazioni economiche richieste in certe circostanze dall‟autorità ec-
clesiastica, dalle donazioni alle disposizioni testamentarie. I modi concreti possono mutare in
funzione della notevole varietà di situazioni nei diversi paesi, a causa delle differenti normative
civili, unilaterali, realtà economiche, ecc. Viene concesso un ampio spazio al legislatore partico-
lare (cfr. can. 1261; 1262).

37
Sovvenire alle necessità del popolo di Dio non è soltanto un dovere, ma anche un dirit-
to. Questo significa che il fedele ha diritto nella Chiesa di prendere delle iniziative che contri-
buiscano a risolvere queste necessità (fondazioni, istituzioni pie, eredità, ecc.).

Il secondo paragrafo, riversato alla promozione della giustizia sociale e l‟assistenza ai po-
veri nel vincolo della carità, indica i doveri di diritto naturale che obbligano a tutti gli uomini in
forza della fraternità e della sobrietà umana.

«Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene, all’uso di tutti gli uomini e popoli, così che i
beni creati debbono secondo un equo criterio essere partecipati a tutti, avendo come guida la giustizia e
compagna la carità» (GS 69; cfr. 90).

«…la misericordia verso i poveri e gli infermi come pure le cosiddette opere caritative e di mutuo aiuto,
destinate ad alleviare le necessità umane d’ogni genere sono tenute dalla Chiesa in particolare onore»
(AA 8).

Per il battezzato, tale obbligo acquista peculiare rilievo anche sul piano soprannaturale,
in forza del comandamento evangelico della carità. Si tratta, pertanto, di un obbligo con un du-
plice fondamento: divino naturale e divino positivo.

4. I LAICI NELLA CHIESA

Alcuni elementi dello sviluppo storico del laicato nella Chiesa.

Nella Chiesa, dai primi secoli fino al medioevo si chiama laico il membro del popolo di Dio
che non è chierico53, colui che agisce pienamente nelle realtà profane54, ma che, nella vita della
Chiesa, ha una partecipazione attiva55: predicavano la parola di Dio, distribuivano l‟eucaristia in
caso di necessità, partecipavano all‟elezione del vescovo56.

Sarà nel corso della storia, quando la Chiesa si unisce all‟impero e con la nascita del
monachesimo, che il laico pian piano sarà relegato verso un posto secondario e passivo, fino ad
arrivare alla perdita del senso e del valore ecclesiale nel medioevo. Il Decreto di Graziano (1140

53 I. DE LA POTTERIE, L’origine et le sens primitif du mot «laïc», p. 840-841.


54 L. NAVARRO, Persone e soggetti nel diritto della Chiesa, Roma 2000, p. 102.
55 Cfr. J. DÍAZ MORENO, Los laicos en el nuevo Código de Derecho Canónico, p. 10.
56 L. NAVARRO, Persone e soggetti nel diritto della Chiesa, p. 102.

38
circa) ci parla, appunto, dei due tipi di cristiani: il primo è composto dai chierici e monaci; il
secondo dei laici. Al primo gruppo corrisponderebbe una più intensa vita cristiana: si dedicano
all‟orazione e alla contemplazione, vivono la povertà e si allontanano del mondo. Al secondo
gruppo (laici) è invece permesso il possedere dei beni temporali, contrarre matrimonio. Loro
possono, inoltre, salvarsi nella misura che evitano i vizi57. Pur considerando che il laico è inserito in
modo particolare nelle realtà temporali, esse furono considerate come un impedimento per
raggiungere la santità.

Come scrive Navarro, “…la missione della Chiesa s’identifica quasi esclusivamente con il ministero
proprio dei chierici, e la perfezione cristiana si considera propria di questi e dei religiosi. …in pratica si giunge
all’identificazione della Chiesa con la gerarchia, confusione che si accentuerà nel periodo della controriforma,
mantenendosi fino al s. XX”58.

Un altro testimonio dell‟opposizione tra chierici e laici, ancora più radicale dal primo, ci lo
offre la Bolla del papa Bonifacio VIII “Clericis laicos”, 24 de febbraio 1296, dove l‟atteggiamento di
certi laici che cercano di esercitare il loro dominio sulle persone ecclesiastiche (concretamente a
causa del contrasto tra Bonifacio VIII e Filippo il Bello sul contributo finanziario del clero di
Francia), porta come conseguenza la ancora più radicale chiusura da parte della gerarchia
ecclesiastica59. I laici, secondo questa Bolla, sono nemici dei chierici.

57 Decr. Grat., pars 2, causa 12, qu. 1, can. 7: «Duo sunt genera Christianorum. Est autem genus unum, quod
mancipatum divino offitio, et deditum contemplationi et orationi, ab omni strepitu temporalium cessare convenit, ut
sunt clerici, et deo devoti, videlicet conversi. ο enim grece latine sors. inde huiusmodi homines vocantur
clerici, id est sorte electi. Omnes enim Deus in suos elegit. Hi namque sunt reges, id est se et alios regentes in
virtutibus, et ita in Deo regnum habent. Et hoc designat corona in capite. Hanc coronam habent ab institutione
Romanae ecclesiae in signo regni, quod in Christo expectatur. Rasio vero capitis est temporalium omnium depositio.
Illi enim victu et vestitu contenti nullam inter se proprietatem habentes, debent habere omnia communia. § 1. Aliud
vero est genus Christianorum, ut sunt laici.  enim est populus. His licet temporalia possidere, sed non nisi ad
usum. Nichil enim miserius est quam propter nummum Deum contempnere. His concessum est uxorem ducere,
terram colere, inter virum et virum iudicare, causas agere, oblationes super altaria ponere, decimas reddere, et ita
salvari poterunt, si vicia tamen benefaciendo evitaverint».
58 L. NAVARRO, Persone e soggetti nel diritto della Chiesa, p. 103.
59 BONIFACIUS pp. VIII, Bula Clerici laicos, 1296 feb. 24 «Clericis laicos infestos opido tradit antiquitas, quod et

presentium experimenta temporum manifeste declarant, dum suis finibus non contenti nituntur in vetitum, ad illicita
frena relaxant nec prudenter attendunt quod sit eis in clericos ecclesiasticasve personas et bona interdicta potestas…
ecclesiarum prelati, secclesiis ecclesiasticisque personis regularibus et secularibus imponunt onera gravia ipsosque
talliant et collectas imponunt, ab ipsis suorum proventuum vel bonorum dimidiam decimam vel quamvis aliam
portionem aut quotam exigunt et extorquent eosque moliuntur multifarie subicere servituti sueque submittere ditio-
ni,…».
39
Da Trento in poi la situazione tende ad aggravarsi maggiormente, giacché ci troviamo
davanti ad una reazione di fronte alle nuove dottrine protestanti che questionano il sacramento
dell‟ordine e, per questo stesso motivo, la specificità dello stato clericale. Inoltre, il Concilio si
preoccupa di proteggere il clero dei pericoli dal mondo, ragione per cui difende la concezione
della società disuguale60 e l‟importanza dello stato sacerdotale61.

Nel corso della storia, i laici rimarranno sempre nell‟ultimo posto e saranno definiti in
opposizione al clero, come un fedele “privato” o “comune”, poiché non ha ricevuto la tonsura
clericale e non ha emesso i voti in un istituto religioso. I chierici sono un corpo chiamato ad
insegnare, i laici ad ascoltare e imparare, i chierici a governare e i laici ad essere governati 62.
L‟assenza di un fondamento giuridico comune, come oggi lo è il christifideles, fa più forte
quest‟opposizione all‟interno della Chiesa. Nel secolo XIX, quando le trasformazioni sociali si
fanno stabili, la visione della Chiesa ha le note con cui si è formata a partire della società medievale.

Per il codice del 1917, laico è quel battezzato che non è chierico ne religioso, senza
un‟ulteriore distinzione, sembrando un “resto” che ha una condizione cristiana inferiore: è
suddito63. Il codice è molto scarso nella legislazione riferita ai laici: il can. 682 indica che i laici
hanno diritto a ricevere gli aiuti necessari per raggiungere la salvezza (ma appartiene a tutti i
membri, non soltanto ai laici); il can. 683 vieta ai laici l‟uso dell‟abito ecclesiastico. Altri canoni
sono applicabili ai laici, ma non in modo diretto ed esclusivo, quindi non ci consentono di avere
veramente una struttura giuridica espressa ed esclusiva dei laici64.

Negli anni posteriori a questo codice, forse a causa dei cambi sociali del secolo XX, il
laicato comincia ad essere ricuperato, sia nella pratica che nella teoria, riconoscendogli un luogo nel
quale deve assumere la missione della Chiesa: rendere testimonio della loro fede nel campo
temporale o profano65. Si sviluppa una teologia che cerca di rilevare il valore della vocazione
secolare e la sua peculiarità nei confronti con chierici e religiosi.

60 Cfr. J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico, p. 719.


61 CONCILIUM TRIDENTINUM (1545-1563), Sessio XXIII (15 iul. 1563): Vera et cattolica doctrina de sacramento ordinis
ad condemnandos errores nostri temporis.
62 A. ALVAREZ CORTINA, La concepción estamental de los derechos fundamentales del laico en la doctrina canónica del siglo

XIX. Algunos de sus fundamentos y consecuencias, p. 750.


63Cfr. J. L. ARRIETA, Fondamenti della posizione giuridica attiva dei laici nel diritto della Chiesa, p. 51.
64Cfr. J. DÍAZ MORENO, Los laicos en el nuevo Código de Derecho Canónico, p. 16.
65Cfr. A. MONTAN, I laici nel diritto della Chiesa. Presupposti ecclesiologici e profilo giuridico, p. 473.

40
Sarà il Concilio Vaticano II chi raccoglierà questa tendenza e riconoscerà l‟importanza dei
laici e della sua partecipazione nella comunità ecclesiale, assegnandogli un ruolo attivo e proprio al
servizio della comunità tutta66. Il Concilio, sostiene Montan, esclude l‟esistenza di soggetti passivi
nella Chiesa, spogliati di ogni attribuzione attiva67. Il Concilio intende per laici i fedeli che, dopo
essere stati incorporati a Cristo per il battesimo, adempiono nella Chiesa e nel mondo, la
missione propria di tutto il popolo cristiano, il cui carattere è, in modo proprio, la secolarità 68.
Como conclude Navarro, «Dopo il Concilio, il laico non può più essere considerato una longa manus della
gerarchia, bensì un membro della Chiesa, un fedele comune, anche egli chiamato alla santità, che partecipa alla sua
missione, ed è dunque corresponsabile nell’edificazione della Chiesa»69.

4.1 La posizione del laico nel diritto postconciliare

Il Codice del 1983, ispirandosi al Vaticano II, ha cercato di arricchire il concetto di “lai-
co”, che non è soltanto uno degli “altri” (ceteri) fedeli di cui parla il can. 207 §1. Senza dare una
definizione di laico, il Codice parla di loro, ponendolo prima dei chierici, dal canone 224 fino al
231.

«Col nome di laici s’intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato re-
ligioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e
costituiti popolo di Dio, e nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di
Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cri-
stiano» (LG 31).

Il canone 204 aveva dato una definizione dei “fedeli”; quindi nella categoria dei “laici” si
riscontra quanto detto nel canone 204: incorporati a Cristo; costituiti popolo; resi partecipi delle
tre funzioni di Cristo; chiamati ad attuare la missione di Cristo.

I fedeli laici costituiscono una determinazione ulteriore e più specifica rispetto ai battez-
zati. Loro sono coloro che non solo vivono nella Chiesa ma che anche agiscono per la Chiesa,
giacché cooperano nella sua edificazione e crescita informando la propria esistenza al persegui-

66Cfr. A. ALVAREZ CORTINA, La concepción estamental, p. 750.


67Cfr. A. MONTAN, I laici nel diritto della Chiesa, p. 478.
68LG nº 31
69 L. NAVARRO, Persona e soggetti nel diritto della Chiesa, p. 104.

41
mento di una vocazione personale, riconducibile, ad un tempo, all‟adempimento di una missione della
Chiesa70.

La dimensione laicale attiene, al pari che la clericale, alla divina costituzione della Chiesa
(can. 207 §1), quindi la scelta di vita con cui ad essa si aderisce non può risultare da un atto me-
no libero e responsabile di quello con cui si aderisce all‟ordine sacro (can. 219)71. Per alcuni,
questa consacrazione avvenne con la cresima, vale a dire, del sacramento con cui il fedele si con-
segna ad un vescovo consacrandosi ad una certa e specifica missione ecclesiastica, quell‟inerente
alla realtà mondana individuata come campo d‟apostolato della Chiesa particolare in cui è inseri-
to72.

L‟ordine temporale che spetta ai laici comprende i beni della vita e della famiglia, i beni
economici, le arti e le professioni, le istituzioni della vita politica, le relazioni internazionali, lo
sviluppo e il progresso73. Ma loro esercitano questa missione non solo nel mondo ma anche, e
soprattutto, nella Chiesa, e pertanto sono chiamati a svariate forme di apostolato attivo nella
Chiesa74.

Nei canoni sui laici si regola non solo l‟esercizio e l‟adempimento dei doveri da parte dei
fedeli laici, ma si stabilisce pure l‟abilità di questi agli uffici ecclesiastici, alle funzioni e ai mini-
steri.

Il canone introduttorio (can. 224) indica che all‟attuale statuto codiciale sul laico e sui
doveri e diritti devono essere integrati da altre norme, vale a dire da quelle sui diritti-doveri di
tutti i fedeli (can. 208-223), sui doveri e diritti elencati nel presente titolo (can. 224-231), e quelli
distribuiti in altri canoni del Codice.

Il nuovo Codice offre ai laici quindi:

 Un tratto più chiaro ed esteso degli obblighi e diritti (can. 204-205; 207; 224-231).

70 Cfr. AG 21.
71 Cfr. P. ESCARTIN CELAYA, Vocación y misión del fiel laico en la Iglesia y en el mundo, in: Seminarios, an. 46 (2000), p.
17: «Podría decirse que los laicos, al “consagrar el mundo” en las tareas seculares, actúan „en persona de Cristo‟
de forma análoga a como se dice que el presbítero actúa „en persona de cristo‟ en la celebración de la Eucaristía».
72 Cfr. Ibidem, p. 38: «En el laico se hace visible y concreta la relación de la Iglesia con el mundo. En él se realiza,

de forma excepcional, el encuentro de la Iglesia con los diversos campos de la cultura y con los diversos cambios
en la experiencia de la humanidad».
73 Cfr. AA 7.
74 Cfr. LG 33.

42
 Meno discriminazione: uguaglianza in dignità ed azione per virtù del battesimo (can. 204-
205; 207-208).
 Speciale enfasi nel sacerdozio comune dei fedeli: partecipazione più attiva nell‟eucaristia; offerta
del suo ministero sacerdotale nelle azioni sacramentali, di preghiera, di ringraziamento,
carità e vita santa (can. 204-205; 208; 210-216; 225; 327-329).
 Maggiore partecipazione nell’esercizio del potere di governo (can. 124-145).
 Partecipazione più consultiva: come membri del sinodo diocesano (can. 460-468), del consi-
glio pastorale diocesano o del consiglio parrocchiale (can. 511-514; 536).
 Ruolo attivo nelle parrocchie: sia nel piano amministrativo sia pastorale (can. 517), sotto
l‟autorità del parroco (can. 521 §1).
 Possono esercitare diverse attività nella Chiesa: cancelliere e notaio (can. 483); procuratore ed
avvocato (can. 1483); promotore di giustizia e difensore del vincolo (can. 1435); giudice
(can. 1421 §2); economo diocesano (can. 494); membri del consiglio per gli affari eco-
nomici della diocesi/parrocchia (can. 492-494; 537); rappresentante della Santa Sede,
membro delle commissioni pontificie o di delegazioni davanti ad organismi internazio-
nali, conferenze o congressi (can. 301); accoliti e lettori (can. 230); ministri straordinari
dell‟eucaristia (can. 943); predicazione (can. 766); insegnare teologia e altre scienze sacre
(can. 229 §3); missionari (can. 784); catechisti (can. 785); ministri straordinari del batte-
simo (can. 861 §2) o delegati per assistere matrimoni (can. 1112); amministrare i sacra-
mentali (can. 1122).

4.2 Il Sinodo del 1987 e i recenti documenti del Magistero

La preoccupazione per la vita laicale nella Chiesa, quindi il recupero dello stato di vita
laicale nella sua peculiarità e importanza, si evidenzia nei diversi documenti emanati dall‟autorità
magisteriale della Chiesa. Non è il caso fare un commento di tutti essi, ma menzionarli in modo
di avere una visione generale che consenta un posteriore studio più approfondito.

Nel 1987 si realizza un Sinodo dei Vescovi sull‟argomento: “Fedeli laici. Vocazione e missio-
ne nella Chiesa e nel mondo a venti anni dal Concilio Vaticano II”. E‟ di gran rilievo leggere sia
l‟instrumentum laboris, sia le proposizioni di questo Sinodo. Il primo appare il 22 aprile 1987
(cfr. EV 10/1587-1731), preceduto da una lettera di Giovanni Paolo II intitolata Rursus
43
episcoporum synodus (cfr. EV 10/1581-1586), il secondo, dove sono consegnate le proposte del
Sinodo sotto il titolo Post disceptationem, con data 29 ottobre 1987 (cfr. EV 10/2103-2214) segui-
to dal messaggio del Sinodo sotto il titolo Per concilii semitas (cfr. EV 10/2215-2243). Il docu-
mento finale viene alla luce tramite l‟Adh. apostolica Christifideles laici, con data 30 dicembre
1988 (cfr. EV 11/ 1606-1900). È uno dei documenti con maggiore rilevanza, orientato a sco-
prire la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, che rispecchia, senza dubbi, il ruolo che lo-
ro debbono ricoprire nella comunità ecclesiale.

La Congregazione per il Culto Divino, con data 2 giugno 1988 (cfr. EV 11/715-764),
pubblica il Direttorio Christi Ecclesia, sulle celebrazioni domenicali in assenza del presbitero.
Dopo aver spiegato le condizioni per procedere a queste celebrazioni, si procede a determinare
il modo di esse. In merito a queste materie, la Pontificia Commissione per l‟Interpretazione dei
Testi Legislativi, con data 11 luglio 1994, chiarisce un dubbio circa il canone 230 §2, aggiungen-
do una lettera inviata dalla Cong. per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti sul servizio
all‟altare compiuto da donne (cfr. EV 13/1867; 14/589-596).

Nell‟ultimo tempo, di gran importanza è l‟Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de Mysterio,


sulla collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, 15 agosto 1997 (EV 16/671-740).
Come viene affermato nella premessa, «…nelle ultime tre assemblee generali ordinarie del sinodo dei ve-
scovi, si è riaffermata l’identità, nella comune dignità e diversità di funzioni, propria dei fedeli laici, dei sacri mi-
nistri e dei consacrati,…» e aggiunge, «Occorre tener presente l’urgenza e l’importanza dell’azione apostolica
dei fedeli laici nel presente e nel futuro dell’evangelizzazione». Con questo spirito, l‟istruzione sviluppa al-
cuni elementi teologici sul sacerdozio comune e ministeriale e il modo di collaborazione tra uno
e l‟altro, per dopo dar luogo alle disposizioni d‟ordine pratico.

4.3 Partecipazione dei laici all’apostolato (can. 225)

Riempire le realtà temporali con lo Spirito di Cristo costituisce la vocazione particolare


dei laici:

«Il carattere secolare è proprio e particolare dei laici. […]. Per loro vocazione è proprio de laici cercare il
Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (LG 31; cfr. n° 36; AA 4).

44
In base al primo paragrafo del canone 225, solo il laico è idoneo, in determinati contesti,
a rendere testimonianza alla verità evangelica, a svolgere, secondo la propria chiamata ed in vir-
tù al battesimo e la confermazione ricevute, un ruolo originale e insostituibile («…tale obbligo li
vincola ancora maggiormente in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere
Cristo se non per mezzo loro»)75.

Il canone riconosce il diritto dei laici di esercitare l‟apostolato sia singolarmente sia in
forma associata. Il canone 327, infatti, esorta i laici a tenere in gran considerazione le associa-
zioni costituite per fini spirituali. I chierici, inoltre, devono promuovere la missione propria dei
laici nella Chiesa e nel mondo (can. 275 §2); i vescovi diocesani devono urgere dai laici
l‟esercizio della loro attività apostolica (can. 394 §2); i parroci devono riconoscere la partecipa-
zione dei laici alla missione della Chiesa favorendone anche le associazioni a finalità religiosa
(can. 529 §2; cfr. anche: can. 781; 784; 785 §1)76.

La vocazione tipica dei laici è quella di assumere sino in fondo ciascuna delle realtà tem-
porali (§2). Solo il laico, infatti, mediante la realizzazione dei suoi particolari compiti familiari,
economici, sociali, politici, può far sì che la Chiesa si renda presente en ciascuna di queste real-
tà.

4.4 Gli obblighi specifici degli sposati (can. 226)

Il ministero coniugale è emblematico dello stato laicale. Nel matrimonio i laici vivono la lo-
ro condizione secolare sia nella Chiesa sia nel mondo, perciò non è azzardo affermare che i lai-
ci, mediante il matrimonio e la famiglia, edificano non solo il popolo di Dio ma anche la società
civile (can. 226 §1: «I laici che vivono nello stato coniugale, …, sono tenuti al dovere specifico di impegnarsi,
mediante il matrimonio e la famiglia, nell’edificazione del popolo di Dio»).

Le famiglie cristiane, che in tutta la loro vita si mostrano coerenti con il Vangelo e of-
frono l‟esempio di un matrimonio cristiano, danno al mondo una preziosissima testimonianza
del Cristo, sempre e dovunque, ma in modo speciale nelle regioni in cui sono sparsi i primi semi

75 Cfr. P. ESCARTIN CELAYA, Vocación y misión del fiel laico, p. 33: «No podemos olvidar que la Iglesia como cuerpo
visible de cristo está en el mundo, de un modo eminente, gracias a los laicos. Ellos viven con naturalidad ese
carácter excéntrico que lleva a la Iglesia a vivir volcada hacia el mundo para anunciarle la gozosa esperanza del
Reino de Dios».
76 Cfr. Christifideles laici, n° 23; 28.

45
del Vangelo, o la Chiesa si trova ai suoi inizi, o versa in grave pericolo. Questo canone, dunque,
rappresenta una concrezione del canone 225.

Il secondo paragrafo, inoltre, indica il grave dovere dei genitori di educare cristianamente
la prole. Secondo la dottrina conciliare, la famiglia è considerata la chiesa domestica, in cui i ge-
nitori, con la parola e con l‟esempio, sono per i figli i primi educatori nella fede e i testimoni
dell‟amore di Cristo77. I figli devono ricevere dei genitori il primo annuncio del Vangelo, poiché
la famiglia è il luogo naturale della nascita della fede. Tale obbligo è coerente con il diritto, af-
fermato nel canone 217, d‟ogni fedele chiamato per il battesimo a condurre una vita secondo la
dottrina evangelica, all‟educazione cristiana. Il ruolo dei genitori e della famiglia emerge con
forza nel libro III, sulla funzione d’insegnare, quando si parla della catechesi (can. 774 §2),
dell‟educazione cattolica (can. 793) e delle scuole (can. 796 §2; 797-798), nonché nel libro IV
sulla funzione di santificare (can. 835 §4).

Quest‟obbligo, però, non è esclusivo dei genitori ma anche di tutta la comunità cristiana:
la Chiesa deve provvedere in vari modi all‟educazione di tutti i suoi membri. Sarebbe importan-
te, ad esempio, la promozione di leggi civili che garantiscano l‟educazione religiosa e morale dei
figli nel rispetto della coscienza dei genitori.

4.5 La fecondità secolare dei laici (can. 227)

Il Codice è consapevole della doppia “cittadinanza” dei fedeli laici, quindi offre una pos-
sibilità di fare compatibili ambedue realtà, quella civile e quell‟ecclesiale («È diritto dei fedeli laici
che venga loro riconosciuta nella realtà della città terrena quella libertà che compete ad ogni cittadino;…»). È,
quindi, l‟immunità di coazione ed un ambito d‟autonomia, che esclude qualsiasi tipo di coazione
o discriminazione da parte della gerarchia ecclesiastica per causa delle sue opzioni temporali;
corrispondono alla responsabilità ed all‟autonomia personali del cristiano, inoltre, le opzioni
temporali, rispetto alle quali la gerarchia ecclesiastica è incompetente 78.

77 Cfr. LG n° 11; 35.


78 Cfr. J. HERVADA, Elementos de Derecho Constitucional Canónico, p. 135: «…el derecho de libertad en materias tem-
porales abarca los siguientes aspectos: 1° Autonomía del mundo secular, en su desenvolvimiento, con respecto a
la autoridad eclesiástica. 2° El derecho del fiel a seguir la propia opinión cristiana en cuestiones temporales frente
a los demás fieles. Junto a estos derechos existen los siguientes deberes: 1° de no vincular el mensaje evangélico a
la propia opinión como si esta última fuese su interpretación única, auténtica o necesaria; 2° de no reivindicar en
exclusiva el magisterio de la Iglesia a favor de su parecer; 3° de respetar las opiniones de los demás fieles».
46
La seconda parte del canone è un‟applicazione concreta del can. 212 §1. Il canone quin-
di, sancisce la fedeltà dei laici dinanzi al magistero della Chiesa nell‟esercizio della loro libertà e
la prudenza nel proporre le proprie convinzioni in questioni opinabili («…usufruendo tuttavia di
tale libertà, facciano in modo che le loro azioni siano animate dallo spirito evangelico e prestino attenzione alla
dottrina proposta dal magistero della Chiesa, evitando però di presentare nelle questioni opinabili la propria o-
pinione come dottrina della Chiesa»). Seguendo questo scopo, i laici hanno il diritto di associarsi (cfr.
can. 327-329).

In base al canone 227, l‟esercizio delle libertà in tutti i settori della comunità umana, pur-
ché ispirato dal messaggio evangelico e rispettoso delle direttive fissate dal magistero, va cano-
nicamente riconosciuto non soltanto come svolgimento di situazioni soggettive da vantare di
fronte alla società civile, bensì soprattutto com‟esplicazione del ministero tipico del laico, e cioè
di diritti-doveri specifici del suo stato di vita esercitati in vista dell‟edificazione della Chiesa.

4.6 La partecipazione dei laici al “munus regendi” (can. 228)

Il can. 228, dopo aver previsto che i laici possono essere assunti anche in uffici ecclesia-
stici in senso stretto, purché non comportino una piena cura delle anime (cfr. can. 150; 129 §2),
sancisce nel paragrafo secondo, che i laici dotati della dovuta competenza sono legittimati a
svolgere una funzione consultiva a sostegno dell‟azione dei ministri sacri, nelle forme più con-
grue alla loro tipica ed autonoma missione a norma di legge.

Nell‟ambito della missione direttamente spirituale della Chiesa esistono ministeri e fun-
zioni più strettamente uniti ai pastori per le quali i laici hanno capacità, non diritto. La difficoltà
si radica nel definire quali ministeri loro possono effettivamente esercitare (cfr. can. 274 §1; 129
§2). Non è lecito, infatti, confondere gli uffici e incarichi laicali con quelli strettamente clericali,
poiché il sacerdozio comune dei fedeli differisce essenzialmente dal sacerdozio ministeriale o
gerarchico.

Secondo questo can. 228 §1, a differenza del vecchio Codice, i laici sono abilitati ad as-
sumere uffici ecclesiastici nel senso proprio79, né più né meno degli uffici riservati ai chierici 80.

79Cfr. CIC, can. 145 §1: «L‟ufficio ecclesiastico è qualunque incarico, costituito stabilmente per disposizione sia
divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale».
47
Gli uffici strettamente clericali possono essere conferiti soltanto a coloro che sono insigniti
dell‟ordine sacro, richiedono il sacramento dell‟ordine come condizione sine qua non, e la potestà
di governo per adempierli è trasmessa dalla legittima autorità.

Senza problemi si può affidare loro le funzioni temporanee a carattere consultivo: nella
nomina di vescovi o parroci (can. 377 §3; 524); Concili particolari e al Sinodo diocesano in cui i
laici sono presenti a vari titoli e con diversa obbligatorietà (can. 443 §3-5; 463 §1-2); Consigli
pastorali, diocesano o parrocchiale, in cui i laici sono membri di diritto qualora fossero istituiti
(can. 512 §1; 519; 536 §1).

Uffici a carattere dirigenziale: moderatore delle associazioni laicali pubbliche (can. 317
§3); amministratore di beni ecclesiastici (can. 956; 1282), uffici nei tribunali, d‟assessore (can.
1424), uditore (can. 1428 §2), notaio (can. 483; 1436), procuratore e avvocato (can. 1483), perito
(can. 1574), aiuto nelle procedure rogatorie (can. 1528), inchieste preliminari ad ogni processo
penale (can. 1717 §1), periti nelle procedure penali amministrative (can. 1718 §3), mediatori
(can. 1733 §1), membri dell‟ufficio incaricato di trovare una soluzione equa nelle controversie
amministrative (can. 1733 §2).

L‟ufficio di delegato e osservatore della Sede Apostolica nei Congressi internazionali


(can. 363 §2) e quello di cancelliere di Curia (can. 483 §2), che non implicano l‟esercizio della
potestà di giurisdizione. Neanche la partecipazione alla cura pastorale di una parrocchia (can.
517 §2) implica giurisdizione, perché le facoltà e diritti specifici del parroco sono esercitati e-
sclusivamente dal presbitero che assume questa funzione, senza essere parroco giuridicamente.

Gli uffici che appartengono più strettamente alla sfera sacerdotale: ufficio di predicare
(can. 766); giudice, che non può però sfociare nella presidenza di un turno collegiale del tribu-
nale (can. 1421 §2). La base dottrinale per questi tre uffici si radica nel cooperare all‟esercizio
del ministero della parola o al potere di giurisdizione. Cooperare non significa partecipare alla
natura di un potere o di un ufficio di cui è titolare un altro. Anche i presbiteri, che sono “fidei
cooperatores” del vescovo (can. 245 §2), lo aiutano in forza del loro grado d‟ordine sacerdotale,
senza partecipare alla pienezza del sacramento del vescovo.

80 CL (= Christifideles laici), n° 4: «Nei documenti conciliari, tra i vari aspetti della partecipazione dei fedeli non in-
signiti del carattere dell‟ordine alla missione della Chiesa, viene considerata la loro diretta collaborazione con i
compiti specifici dei pastori».
48
4.7 La partecipazione dei laici al “munus docendi” (can. 229)

Il primo paragrafo di questo canone, sul “munus docendi”, riconosce che i laici hanno il di-
ritto-dovere di procurarsi una formazione spirituale idonea alla messa in opera del loro specifi-
co compito d‟evangelizzazione. Ciò non impedisce che i laici possano acquisire una formazione
più approfondita delle discipline sacre.

È riconosciuta, infatti, la possibilità e il diritto-dovere di acquistare quella cultura religio-


sa adatta alla propria condizione e capacità, con la possibilità di accedere ai corsi accademici nel-
le università e facoltà ecclesiastiche e, a parità di condizioni e di preparazione, di ricevere
dall‟autorità ecclesiastica il mandato di insegnare le scienze sacre (can. 812). Proprio alle ipotesi di
studio, ricerca ed insegnamento delle scienze sacre in sedi ufficialmente deputate e gestite
dall‟autorità ecclesiastica, hanno riguardo i canoni 812, 822, 827, 830, tra altri, che dispongono
autorizzazioni, approvazioni e censure.

Importante è tenere conto che, quando si parla di laico, si fa riferimento a tutti indistin-
tamente, uomini e donne.

Un principio generale di questa capacità dei laici al munus docendi si trova nel can. 759: lo-
ro possono essere chiamati a cooperare con il Vescovo e con i presbiteri nel ministero della pa-
rola. Loro possono adempiere uffici in diversi settori: catechesi (can. 528 §1; 776), matrimoniale
(can. 1063) e familiare (can. 851); catechisti nelle missioni (can. 785); come missionari in senso
vero e proprio (can. 784).

Il laico può impartire la catechesi fuori dei luoghi ufficiali anche senza una deputazione
particolare. Può predicare ovunque, eccetto che nelle Chiese e negli oratori. Solo in questa si-
tuazione concreta, la sua predicazione assume, per ragioni estrinseche, un carattere d‟ufficialità
tale da poter essere confusa con quella dei ministri ordinati. Ciò giustifica la limitazione imposta
dal can. 766. Il laico però, non predica mai con la stessa autorità formale del ministro ordinato,
poiché la Parola è in lui disgiunta dal sacramento dell‟ordine. Questa è probabilmente, la ragio-
ne ultima che può essere invocata per giustificare l‟esclusione del laico dalla possibilità di tenere

49
l‟omelia. Nella celebrazione eucaristica Parola e Sacramento raggiungono la loro massima e-
spressione d‟unità e reciprocità strutturale81.

4.8 La partecipazione dei laici al “munus sanctificandi” (can. 230)

I laici non sono esclusi della funzione di santificare nella Chiesa, come è chiaramente
stabilito dal canone 230 e come è ricordato dal canone 835 §4, all‟inizio del Libro IV, dopo aver
esplicato il ruolo di Vescovi, presbiteri e diaconi:

«Nella funzione di santificare hanno una parte loro propria anche gli altri fedeli partecipando attiva-
mente secondo modalità proprie alle celebrazioni liturgiche, soprattutto a quella eucaristica; partecipano
in modo peculiare alla stessa funzione i genitori, conducendo la vita coniugale secondo lo spirito cristiano
e attenendo all’educazione cristiana dei figli».

I ministeri stabili di lettore e d‟accolito, per i quali possono essere assunti solo laici di ses-
so maschile (can. 230 §1), sono ministeri che si esercitano non solo nell‟ambito liturgico, ma
anche in quell‟extraliturgico. La riserva di lettore e accolito stabile solo agli uomini si spiega per-
ché, anche se si tratta di ministeri laicali, entrano nella preparazione al ministero ordinato (can.
1035 §1; cfr. can. 1024).

Il ministero di lettore comprende l‟annuncio della Parola di Dio, l‟animazione liturgica e


la preparazione dei fedeli a ricevere i sacramenti, in altre parole la formazione catechetica. Il
ministero dell‟accolito comprende il servizio dell‟altare, ma può essere chiamato a distribuire la
comunione, come ministro straordinario prima d‟altri laici (can. 910 §2). La funzione extralitur-
gica dell‟accolito consiste nell‟aiuto da prestare alle persone inferme. Per accedere stabilmente a
questi ministeri occorre una legittimazione di carattere rituale-liturgico (can. 230 §1).

I ministeri temporanei possono essere conferiti ad actum a tutti i laici di entrambi sessi
(can. 230 §§ 2-3). Per loro non si ha alcun rito liturgico d‟istituzione, poiché la deputazione non
ha carattere formale e canonico82.

81Istruzione interdicasteriale Ecclesiae de mystero, Disposizioni pratiche, art. 3 §1: «Non si tratta, infatti, di eventuale
maggiore capacità espositiva o preparazione teologica, ma di funzione riservata a colui che è consacrato con il
sacramento dell‟ordine sacro, per cui neppure il vescovo diocesano è autorizzato a dispensare dalla norma del ca-
none, dal momento che non si tratta di legge meramente disciplinare, bensì di legge che riguarda le funzioni di
insegnamento e di santificazione strettamente collegate tra di loro». Il documento aggiunge nel §4: «L‟omelia al di
fuori della celebrazione eucaristica può essere pronunciata da fedeli non ordinati in conformità al diritto o alle
norme liturgiche e nell‟osservanza delle clausole in essi contenute».
50
Tra i ministeri di supplenza straordinaria si possono riconoscere:

a) L‟assistenza ai matrimoni da parte dei laici in qualità di testi qualificati (can. 1112), in
quanto quest‟azione non implica l‟esercizio della potestas regiminis, come lascerebbe invece
intendere il verbo “delegare” usato dal canone. Si tratta di una semplice deputazione
protetta con clausola irritante («Dove mancano sacerdoti e diaconi… voto favorevole della Confe-
renza episcopale… ottenuta la facoltà della Santa Sede»). Il laico è semplicemente testimone
qualificato ed esercita questa funzione grazie al battesimo.
b) La partecipazione nell‟esercizio della cura pastorale di una parrocchia, in mancanza del
sacerdote (can. 517 §2).
c) La predicazione in una Chiesa u oratorio, in particolari situazioni di necessità (can. 766).
d) Come ministro straordinario del battesimo (can. 861 §2).
e) Come ministro straordinario della comunione (can. 910 §2).
f) Nella esposizione del Santissimo Sacramento (can. 943).
g) Amministrazione d‟alcuni sacramentali (can. 1168).

Il loro esercizio è ammesso, come regola generale, solo in caso d‟assenza o impossibilità
del ministro sacro (rispettivamente del lettore e accolito stabile).

82 Conviene tenere presente la Risposta del PONTIFICIO CONSIGLIO PER L‟INTERPRETAZIONE DEI TESTI LEGI-
SLATIVI, data il giorno 11 luglio 1992 (cfr. AAS 86 [1994] 541-542): «D. Tra le funzioni liturgiche che i laici, sia
uomini sia donne, possono assolvere secondo il can. 230 §2 del CIC, si può comprendere anche il servizio
all‟altare? R. Si e secondo le istruzioni che saranno date dalla sede apostolica».
51
Alcune spunti sull’Istruzione “Ecclesia de Mystero” circa la collaborazione dei laici al
ministero dei sacerdoti.

Dopo aver richiamato quanto già predisposto nei canoni 758, 759 e 785 §183, circa la
possibilità che i laici hanno di collaborare nell‟esercizio del ministero della parola, la presente i-
struzione nell‟art. 2 ripropone alcune condizioni riguardanti l‟esercizio legittimo di tale ministe-
ro, specie del ministero della predicazione in una chiesa o oratorio:

a) deve trattarsi di una situazione di necessità o utilità che evidenzia, pertanto, uno stato di
eccezionalità;
b) si deve agire, come precisa il can. 766, secondo le disposizioni della Conferenza episco-
pale, che necessitano del riconoscimento della Santa Sede;
c) anche in caso di scarsità di ministri ordinati, situazione che potrebbe presentarsi come
permanente, la predicazione può essere concessa come ministero di supplenza e non
può diventare un fatto ordinario.

L‟articolo 4 ricorda la retta comprensione del can. 517 §2 circa la collaborazione dei fe-
deli non ordinati al ministero parrocchiale o in altri luoghi di cura, vuol dire una partecipazione
straordinaria nell‟esercizio della cura pastorale:

a) da adottarsi in motivo di scarsità di sacerdoti;


b) che non comporta il governo della parrocchia, riservato a un sacerdote.

L‟istruzione conclude chiamando alla necessaria selezione di fedeli non ordinati per uffi-
ci di supplenza e la loro adeguata formazione. Non possono essere ammessi a teli compiti se
non quei fedeli dotati di sana dottrina e d‟esemplare condotta di vita. La loro adeguata forma-
zione, da tenersi in ambienti differenti dai seminari, deve essere garantita dall‟autorità compe-
tente nell‟ambito della propria Chiesa particolare, mediante corsi di formazione.

83 CIC, can. 758: «I membri degli istituti di vita consacrata, in forza della propria consacrazione a Dio, rendono
testimonianza del Vangelo in modo peculiare, e convenientemente essi vengono assunti dal vescovo in aiuto per
annunciare il Vangelo».
can. 759: «I fedeli laici, in forza del battesimo e della confermazione, con la parola e con l‟esempio della
vita cristiana sono testimoni dell‟annuncio evangelico; possono essere anche chiamati a cooperare con il vescovo
e con i presbiteri nell‟esercizio del ministero della parola».
can. 785 §1: «Nello svolgimento dell‟opera missionaria siano assunti i catechisti, cioè fedeli laici debita-
mente istruiti e eminenti per vita cristiana, perché, sotto la guida del missionario, si dedichino a proporre la dot-
trina evangelica e a organizzare gli esercizi liturgici e le opere di carità».
52
4.9 Dovere di un’adeguata formazione (can. 231 §1)

I fedeli laici, che in forma permanente o temporanea si dedicano ad uno speciale servizio
della Chiesa, in pratica coloro che sono assunti per qualche ufficio ecclesiastico o ministero, so-
no tenuti al duplice obbligo di acquisire un‟adeguata formazione e di compiere il proprio com-
pito con consapevolezza, assiduità e diligenza.

4.10 Diritto ad un’onesta rimunerazione (can. 231 §2)

I laici che sono assunti per uno speciale servizio nella chiesa hanno diritto ad un‟onesta
retribuzione, alla previdenza, alle assicurazioni sociali e all‟assistenza sanitaria. Tale diritto non è
riconosciuto ai lettori e agli accoliti, anche se stabilmente assunti.

Tuttavia, se è vero che il ministero di lettore e di accolito non dà per sé il diritto ad esi-
gere rimunerazione, è anche vero che se il lettore o l‟accolito prestano la loro opera a servizio
della Chiesa a tempo pieno e non hanno altri mezzi di sussistenza, devono essere trattati secon-
do giustizia, in base ai riconoscimenti previsti nel presente canone.

53
5. I MINISTRI SACRI O CHIERICI NELLA CHIESA
(CAN. 232-293)

Le norme relative ai chierici hanno cambiato considerevolmente tra i due Codici. Prima
di iniziare, dunque, la nostra esposizione, mi sembra importante fare un piccolo confronto tra le
due legislazioni.

CIC-1917 CIC-1983

Libro II: Delle persone, Prima parte, Dei chieri- Libro II: Del popolo di Dio, Prima parte, Dei
ci. fedeli cristiani.
Sezione I. Dei chierici in genere Tit. III: Dei ministri sacri o chierici
Tit. I: Dell‟ascrizione dei chierici ad una diocesi Cap. 2: Dell‟ascrizione o incardinazione
Tit. II: Dei diritti e privilegi dei chierici. dei chierici
Tit. III: Degli obblighi dei chierici Cap. 3: Degli obblighi e diritti dei chierici
Tit. IV: Degli uffici ecclesiastici Cap. 4: Della perdita dello stato clericale
Cap. 1: Della provvisione degli uffici eccle-
siastici Libro I: Delle norme generali
Cap. 2: Della perdita degli uffici ecclesia- Tit. VIII: Della potestà di governo
stici Tit. IX: Degli uffici ecclesiastici
Tit. V: Della potestà ordinaria e delegata Cap. 1: Della provvisione di un ufficio ec-
Tit. VI: Della riduzione dei chierici allo stato laicale clesiastico
Cap. 2: Della perdita di un ufficio ecclesia-
stico

Libro III: Delle cose, Prima parte, Dei Sacra- Libro IV: Della funzione di santificare della
menti. Chiesa, Parte I, Dei sacramenti.
Tit. VI: Dell‟ordine Tit. IV: Dell‟ordine
Cap. 1: Del ministro della sacra ordinazio- Cap. 1: Della celebrazione e del ministro
ne dell‟ordinazione
Cap. 2: Del soggetto della sacra ordinazio- Cap. 2: Degli ordinandi
ne Art. 1: Dei requisiti da parte dei candidati
Cap. 3: Di quello che deve precedere alla Art. 2: Dei requisiti previi per l‟ordinazione
sacra ordinazione Art. 3: Delle irregolarità e degli altri impe-
Cap. 4: Dei riti e cerimonie della sacra or- dimenti
dinazione Art. 4: Dei documenti richiesti e dello scru-
Cap. 5: Del tempo e del luogo della sacra tinio.
ordinazione Cap. 3: Della iscrizione e certificato
Cap. 6: Dell‟annotazione e testimonio dell‟ordinazione realizzata.
dell‟ordinazione verificata.

Libro III: Delle cose, Quarta parte, Del magi- Libro II: Del popolo di Dio, Prima parte, Dei
stero pontificio. fedeli cristiani.
Tit. XXI: Dei seminari Tit. III: Dei ministri sacri o chierici
Cap. 1: Della formazione dei chierici

54
Come possiamo apprezzare, le norme canoniche che fanno riferimento ai chierici si so-
no spostate secondo un nuovo criterio normativo, distribuendo la materia in diversi libri: Nor-
me Generali, Popolo di Dio e la Funzione di Santificare nella Chiesa. La formazione dei mini-
stri, invece, è mezza prima degli obblighi e diritti dei chierici. Forse il suo contenuto si adisce
più al libro III, sulla funzione di insegnare che agli obblighi dei fedeli.

5.1 La categoria del ministro ordinato

Secondo l‟affermato nel canone 207 §1, «Per istituzione divina tra i fedeli cristiani vi sono nella
Chiesa i ministri sacri, che nel diritto sono chiamati anche chierici;…». Per volontà divina, questi ministri
sacri sono e rimangono christifidelis, ma per la stessa volontà divina, chiamati ad assumere un
particolare ruolo nella vita della Chiesa, per questo motivo per il diritto canonico hanno una
particolare denominazione e ordinamento.

Alla base della funzione ministeriale vi è un sacramento specifico, quello dell‟ordine, che
abilita all‟esercizio del ministero attraverso una particolare conformazione a Cristo (cfr. can. 266
§1; 1008)84. Nel nuovo Codice quindi, chierico è il fedele che ha ricevuto il sacramento
dell‟ordine in uno dei suoi tre gradi: diaconale, presbiterale o episcopale. Nel Codice preceden-
te, il concetto di chierico includeva anche i fedeli che non avevano ricevuto tale sacramento: i
tonsurati85, coloro che avevano ricevuto gli ordini minori (accolitato, lettorato, esorcista, ostia-
riato) e l‟ordine maggiore del suddiaconato86.

Per ben capire l‟evoluzione di questa forma sopra detta fino alla realtà che oggi viviamo,
dobbiamo fare menzione anche del m. p. “Ministeria quaedam”, di Paolo VI (15 agosto 1972)87.
Paolo VI scrisse:

«…, poiché gli ordini minori non sono rimasti sempre gli stessi e numerosi uffici ad essi connessi, come
accade anche oggi, sono stati esercitati anche da laici, sembra opportuno rivedere ed adattarla alle odierne
esigenze, in modo che gli elementi che sono caduti in disuso in quei ministeri, siano eliminati; quelli che

84 Cfr. LG, n° 10: «Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacer-
dotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio in nome di tutto il popolo…».
85 CIC-1917, can. 108 §1: «Si chiamano chierici coloro che, almeno per la prima tonsura, sono stati consacrati ai

ministeri divini».
86 Cfr. CIC-1917, can. 949: «…, col nome di ordini maggiori o sacre sono designate il presbiterato, diaconato e

suddiaconato; e col nome di minori l‟accolitato, esorcista, lettorato e ostiariato».


87 AAS, 64 (1972), p. 529-534.

55
si rivelano utili, siano mantenuti; quelli che sono necessari, vengano definiti; e, nello stesso tempo,sia sta-
bilito quel che si deve esigere dai candidati all’ordine sacro».

E, tra le cose che vengono prescritte sono: l‟eliminazione della tonsura; l‟ingresso allo
stato clericale col diaconato; gli “ordini minori” saranno detti “ministeri” e potranno essere
conferiti anche ai laici; i ministeri che saranno mantenuti in tutta la Chiesa latina sono il lettora-
to e l‟accolitato, riservati però ai soli uomini secondo una veneranda tradizione della Chiesa.

Un importante documento è il Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, pubblicato il 31


marzo 199488. Nel capitolo I (Identità del presbitero), nei numeri 1-19, ci troviamo davanti ad
un‟interessante esposizione degli elementi fondamentali che caratterizza il ministero dei chierici.

5.2 La consacrazione costituisce ministri sacri

Secondo il can. 266 §1 si diventa chierici attraverso l‟ordinazione diaconale, cioè attra-
verso la partecipazione all‟ordine sacro, del quale, a norma del can. 1099 §1, partecipano anche
l‟episcopato e il presbiterato, oltre al diaconato stesso 89. Alla base dunque della funzione mini-
steriale vi è un sacramento specifico, quello dell‟ordine, che abilita all‟esercizio del ministero at-
traverso una particolare conformazione a Cristo.

«Con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli mediante il carattere indelebile
con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a pa-
scere il popolo di Dio, adempiendo nella persona di Cristo capo, ciascuno nel suo grado, le funzioni di
insegnare, santificare e governare»90.

L‟istituzione dei ministri sacri nella chiesa, è volontà divina (can. 207 §1) e si fondamenta
nel sacramento dell‟ordine (can. 1008). Questo sacramento, però, non abilita soltanto o prima di
tutto a svolgere certe funzioni nel senno della comunità, ma produce in coloro che lo ricevono
una realtà ontologica, stabile e permanente, giacché, infatti, loro sono segnati con un carattere
indelebile. Per il battesimo si è inseriti nel corpo di Cristo. Per il sacramento dell‟ordine, Cristo
capo si rende presente come colui che alimenta e sostenta la vita donata. Attraverso i sacri mi-
nistri, scrive De Paolis, «…, Gesù risorto, assiso alla destra del Padre, continua ad esercitare il suo sacerdo-

88 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Directorium “Dives Ecclesiae”, EV 14/750-917.


89 Cfr. LG, n° 28.
90 CIC, can. 1008.

56
zio eterno, portando a compimento la sua opera di salvezza. È Cristo che continua ad attuare l’opera salvifica,
attraverso i sacri ministri. È per questo che l’azione ministeriale ha sempre la sua efficacia, nonostante la inde-
gnità del ministro sacro»91.

La vita dei ministri sacri, dunque, si caratterizza per la consacrazione e la missione, in un


modo particolarmente diverso degli altri fedeli cristiani. Loro sono chiamati a svolgere una fun-
zione specifica nella Chiesa sostentata nel sacramento dell‟ordine sacro. Partecipano in modo
diverso dei laici ai munera sanctificandi, docendi et regendi, ragione per la quale alcune funzioni pro-
prie dell‟organizzazione ecclesiastica sono loro riservate.

«Cristo Signore, per pascere e sempre più crescere il popolo di Dio, ha istituito nella sua Chiesa vari mi-
nisteri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri, infatti, che sono dotati della sacra potestà, sono a
servizio dei loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio, e perciò godono della vera
dignità cristiana, aspirino tutti insieme liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla sal-
vezza» (LG, n° 18).

Il concreto rapporto di servizio nel quale sono indicati i destinatari delle funzioni sarà
determinato abitualmente mediante l‟incardinazione e la missione (o deputazione) che concede
un ufficio, ma in alcuni casi è lo stesso diritto che indica il destinatario (cfr. can. 976 e 1335).

Navarro indica i seguenti effetti giuridici provocati dal sacramento dell‟ordine: a) una
nuova configurazione con Cristo che comporta uno stile di vita particolare regolato dalle norme
canoniche; b) l‟incorporazione all‟ordine dei chierici (intesa come struttura organizzata) come
vescovo, presbitero o diacono; c) nascono dei vincoli tra coloro insigniti dal carattere sacramen-
tale che si manifestano anche giuridicamente; d) capacità di svolgere le funzioni proprie del suo
stato nel grado dell‟ordine ricevuto92.

5.3 Gli uffici di santificare, insegnare e governare

A livello generale, si può affermare che tutto ciò che riguarda la potestas nella Chiesa,
spetta il ministro sacro93. La ragione è anche chiara: la potestas nella Chiesa appartiene a Cristo;
gli viene dal Padre e l‟esercita come Figlio del Padre e capo della Chiesa: egli la comunica a co-

91 V. DE PAOLIS, I ministri sacri o chierici, p. 107, in: Il fedele cristiano.


92 Cfr. L. NAVARRO, Persone e soggetti nel diritto della Chiesa, p. 66-67.
93 Cfr. V. DE PAOLIS, I ministri sacri o chierici, p. 109-111.

57
loro del cui ministero egli si serve per esercitarla. Tuttavia, oltre questo principio, in casi speciali
e singoli, il potere di Cristo può essere demandato anche a persone non consacrate e quindi per
sé non deputate.

o Alcuni atti sacerdotali possono essere deputati ad altre persone non rivestite dal carattere
sacerdotale ministeriale ma soltanto del sacerdozio comune, mentre altri sono riservati
esclusivamente al sacerdote (can. 900 §1; 965; 882; 1003 §1; 1012).

o Il potere di insegnare, anch‟esso risiede nei sacri ministri, sia nelle proposizioni delle verità
da credere (can. 749-750), sia nell‟esercizio autentico della fede e dei costumi (can. 752-
753). Anche essendo un compito proprio della gerarchia (can. 756-757), siccome il mini-
stero della parola e dell‟evangelizzazione è di tutta la Chiesa, tutti ne portano la respon-
sabilità (can. 211), sia i laici (can. 225; 226; 673-677; 759), sia i membri degli istituti di vi-
ta consacrata (can. 758). Ma la gerarchia ne ha sempre la direzione (can. 782).

o In quanto alla potestà di governo, è ovvio che i titolari abituali nella Chiesa sono i ministri
sacri in forza dell‟ordine ricevuto, in quanto agiscono in persona Christi capitis. Il canone
129 §2 riconosce la possibilità che i fedeli laici (quindi anche i consacrati che hanno la
condizione laicale) possano svolgere qualche ruolo che appartiene alla potestà di gover-
no, pur che non comporti la cura delle anime.

5.4 La pastorale vocazionale (can. 233)

«“La pastorale delle vocazioni nasce dal mistero della chiesa e si pone al servizio di essa”. Il fondamento
teologico della pastorale delle vocazioni quindi “può scaturire solo dalla lettura del mistero della Chiesa
come mistero della vocazione”. […]. Di conseguenza, la pastorale delle vocazioni, per natura sua, è
un’attività ordinata all’annuncio di Cristo e all’evangelizzazione dei credenti in Cristo. Ecco allora la
risposta alla nostra domanda: proprio nella chiamata della Chiesa a comunicare la fede è radicata la
teologia della pastorale vocazionale»94.

L‟intera comunità cristiana compare al primo posto tra i soggetti impegnati nella promo-
zione vocazionale. Sono impegnati in questo compito, dunque, la Chiesa universale, le Chiese
particolari e le parrocchie. Altri soggetti individuati dal §1: le famiglie cristiane, gli educatori, i

94 PONT. OPERA PER LE VOCAZIONI ECCLESIASTICHE, doc. Nuove vocazioni per una nuova Europa, n° 25.
58
sacerdoti, i parroci, nonché evidentemente i Vescovi 95. Nell‟elenco mancano le associazioni ec-
clesiali, ma soprattutto i seminari stessi, anche se si può pensare che essi sono compresi
nell‟espressione “tutta la comunità cristiana”.

È interessante rilevare che, nel canone, l‟unica indicazione circa il modo di condurre la
pastorale vocazionale è rivolto ai Vescovi e consiste nel rendere consapevole il popolo loro af-
fidato sull‟importanza del ministero sacro e sulla necessità di ministri nella Chiesa e nel suscitare
e sostenere iniziative atte a favorire le vocazioni.

Dovere generico: È di tutta la comunità cristiana

Dovere specifico: È dei familiari, educatori, sacerdoti e par-


roci

Dovere principale: Appartiene al Vescovo

«La vocazione sacerdotale è un dono di Dio, che costituisce certamente un grande bene per colui che ne è
il primo destinatario. Ma è anche un dono per l’intera Chiesa, un bene per la sua vita e la sua missione.
La Chiesa, dunque, è chiamata a custodire questo dono, a stimarlo e ad amarlo: essa è responsabile del-
la nascita e della maturazione delle vocazioni sacerdotali. Di conseguenza, la pastorale vocazionale ha
come soggetto attivo, come protagonista la comunità ecclesiale come tale, nelle sue diverse espressioni: dalla
Chiesa universale alla Chiesa particolare e, analogamente, da questa alla parrocchia e a tutte le compo-
nenti del Popolo di Dio»96.

Il secondo paragrafo si riferisce ad una speciale cura per coloro che, in una età matura
(vocazioni adulte), si sentono chiamati ai sacri ministeri. Essi hanno bisogno di una particolare
sollecitudine da parte dei sacerdoti e soprattutto dei vescovi. Il canone specifica anche il modo,
di parola e opera, quindi, devono essere preparati “nel debito modo”, proprio per la loro età, per la
loro esperienza, per la formazione che hanno avuto. Il programma per curare queste vocazioni,
quindi, dovrà essere disposto nelle particolari legislazioni.

95 Cfr. OT, n° 2; GIOVANNI PAOLO II, Adh. ap. post-sinodale Pastore dabo vobis, n° 68.
96 Pastore dabo vobis, n° 41.
59
5.5 I luoghi della formazione (can. 232; 234-238)

Dalla particolare funzione che il sacerdote è chiamato a svolgere nella Chiesa, si può ca-
pire sia il posto centrale di servizio del ministero sacerdotale e la particolare cura che la Chiesa
pone nel preparare i sui ministri sacri. Come commenta De Paolis97, il nuovo Codice vede la
formazione come un processo che coinvolge la globalità della persona e quindi considera non
solo l‟aspetto dottrinale, ma anche quello umano, spirituale e pastorale, superando la prospetti-
va nettamente dottrinale del Codice del 1917. Uno degli aspetti che emerge della nuova legisla-
zione è la dimensione comunitaria.

Le fonti del canone sono, oltre al Codice precedente, i documenti conciliari, in particola-
re il decreto Optatam totius.

Formazione: un diritto proprio ed esclusivo (can. 232)

Il can. 232, proclama il diritto proprio ed esclusivo della Chiesa di formare coloro che
sono destinati al ministero sacro, in modo che si escluda ogni tipo d‟interferenza nelle compe-
tenze dell‟autorità ecclesiastica da parte del potere civile98. Si tratta, dunque, dell‟affermazione di
principio che riguarda il diritto pubblico ecclesiastico. L‟ambito proprio di tale diritto è circo-
scritto alla formazione in ordine ai sacri ministeri, a un servizio all‟interno della Chiesa o co-
munque spettanti ad essa. Spetta dunque esclusivamente alla Chiesa la loro regolazione e di
conseguenza la formazione di quanti sono chiamati a svolgerli.

L‟autorità competente per attuare questo diritto/dovere è, innanzitutto la Santa Sede per
la disciplina comune in tutta la Chiesa universale; poi le Conferenze episcopali (can. 242) e i
singoli vescovi per i chierici diocesani (can. 243), i moderatori competenti secondo le costitu-
zioni d‟ogni istituto o società.

CIC-1917, can. 1352 Dignitatis Humanae 4 CIC-1983, can. 232

«Alla Chiesa compete il diritto «… alle comunità religiose compe- «La Chiesa ha il dovere e il diritto

97Cfr. V. DE PAOLIS, I ministri sacri o chierici, p. 116-117.


98Lo Stato italiano riconosce questo diritto esclusivo della Chiesa: Accordo tra la S. Sede e la Repubblica Italiana, 18
febbraio 1984, art. 10, in: AAS 77 (1985), p. 529.
60
proprio ed esclusivo di formare te il diritto di non essere impedite proprio ed esclusivo di formare
coloro che desiderano consacrarsi con mezzi legali o con atti ammi- coloro che sono destinati ai mini-
ai ministeri ecclesiastici» nistrativi del potere civile di sce- steri sacri».
gliere, educare, nominare e trasfe-
rire i propri ministri,…».

Tra i due codici si possono determinare le differenze fondamentali: già non si parla sol-
tanto di un diritto, ma anche di un dovere appartenente alla Chiesa; sposta l‟intenzionalità, già
non tanto nell‟atteggiamento volitivo (“coloro che desiderano…”) ad un atto di deputazione (“coloro
che sono destinati…”), più consone con la considerazione teologica del ministero sacro.

Rispondendo a questo dovere/diritto s‟inserisce il seminario, struttura nata dal Concilio


Tridentino99. La distinzione, però, tra seminario maggiore e minore comincia a farsi strada sol-
tanto dal secolo XIX ed è incorporata nel codice del 1917100.

Il seminario minore e altre istituzioni similari (can. 234)

«Nei seminari minori eretti allo scopo di coltivare i germi della vocazione, gli alunni, per mezzo di una
speciale formazione religiosa e soprattutto di un’appropriata direzione spirituale, si preparino a seguire
Cristo redentore con animo generoso e cuore puro» (OT, n° 3).

Il seminario minore è cosa diversa dal seminario maggiore, come pure dal semplice col-
legio, perché per definizione è un‟istituzione vocazionale o, nelle parole del canone,
un‟istituzione dove «…allo scopo di incrementare le vocazioni, si provvede a dare una particolare formazione
religiosa, insieme con una preparazione umanistica e scientifica…» (can. 234 §1). La Ratio fundamentalis in-
stitutionis sacerdotalis, in 1970, determinava:

«Il seminario minore non è fatto per coltivare le vocazioni certe ─l’età degli alunni non lo ammette─ ma
per studiare i segni di una vocazione possibile… Il seminario minore accoglie ragazzi che accettano for-
malmente ─essi e la loro famiglia─ l’ipotesi di una vocazione»101.

E‟ chiaro dal testo del canone, che il seminario minore non è un‟istituzione d‟assoluta
necessità in ogni diocesi e neppure per un insieme di diocesi. Essi, però, vanno mantenuti, dove

99 Cfr. Concilium Tridentinum, Sessio XXIII (15 iul. 1563), can. XVIII.
100 Cfr. CIC-1917, can. 1354.
101 SACRA CONGREGATIO PRO INSTITUTIONE CATHOLICA, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6 ian. 1970,

n° 18.
61
esistono; anzi devono essere incrementati e favoriti. Là dove non esistano, il vescovo diocesa-
no, se lo giudica necessario, provveda alla loro erezione (can. 234 §1). Sulla sua importanza, so-
stiene la “Pastore dabo vobis”:

«Come attesta una larga esperienza, la vocazione sacerdotale ha un suo primo momento di manifesta-
zione spesso negli anni della preadolescenza o nei primissimi anni della gioventù… La Chiesa si prende
cura di questi germi di vocazione seminati nei cuori dei fanciulli, curandone, attraverso l’istituzione dei
Seminari Minori, un premuroso, benché iniziale, discernimento e accompagnamento… La loro proposta
educativa tende a favorire in modo tempestivo e graduale quella formazione umana, culturale e spirituale
che condurrà il giovane ad intraprendere il cammino nel seminario Maggiore con una base adeguata e so-
lida»102.

Per cogliere il significato dei seminari minori e della formazione che deve essere imparti-
ta in essi, come pure nelle istituzioni similari, il Codice non offre molti elementi; rimane piutto-
sto nel generico.

Il §2 del canone 234, enuncia un‟esigenza di ordine generale: chi intende accedere al sa-
cerdozio deve avere quella formazione umanistica e scientifica «…con la quale i giovani di quella re-
gione vengono preparati a compiere gli studi superiori». Di fatto, gli studi strettamente ecclesiastici esi-
gono una formazione di base adeguata. È ammessa un‟eccezione: «A meno che, in casi determinati,
le circostanze suggeriscano diversamente…». Questo caso avviene, ad esempio, nelle vocazioni adulte,
la cui cura dovrà essere coerente alla situazione personale del candidato.

Il seminario maggiore (can. 235; 237-238)

Ogni diocesi dovrebbe coltivare e educare i suoi ministri. Ma la norma deve tener conto
della realtà, infatti, non tutte le diocesi sono in grado di erigere e mantenere un proprio Semina-
rio Maggiore. I motivi possono essere diversi: l‟esiguo numero dei candidati al sacerdozio, la
difficoltà di trovare personale adatto e preparato; la mancanza di mezzi finanziari.

La mancanza di un sufficiente numero di candidati metterebbe in questione un requisito


fondamentale per l‟educazione: l‟esistenza di una comunità formativa. Ciò spiega l‟alternativa
prospettata dallo stesso Codice: l‟erezione di un Seminario Maggiore interdiocesano, o l‟invio

102 Pastore dabo vobis, n° 63.


62
degli alunni ad un altro seminario maggiore (can. 237 §1). Allo scopo la Ratio fundamentalis solle-
cita anche una cooperazione tra clero diocesano e religioso (IV, 21).

«Dove invece non si possono realizzare queste condizioni in una sola diocesi, è necessaria la costituzione
del seminario interdiocesano (regionale, centrale o nazionale) e, secondo le necessità locali, si deve rag-
giungere una fraterna cooperazione del clero diocesano e religioso, affinché, con l’unione delle forze e dei
mezzi, e salve giustamente i diritti e le competenze di entrambi cleri, si possano più facilmente costituire
centri adatti agli studi ecclesiastici, frequentati dagli alunni dei due cleri, i quali ricevono la propria for-
mazione spirituale e pastorale nelle rispettive case»103.

Per l‟erezione di un Seminario Interdiocesano, si esige la previa approvazione della Sede


Apostolica da chiedere e ottenere tramite la Conferenza Episcopale o i Vescovi interessati, a se-
conda che il seminario sia per tutto il territorio della conferenza o solo per alcune diocesi (can.
237 §2). La necessità della previa approvazione, sia dell‟erezione sia degli statuti che regoleranno
la vita del seminario, appartiene tanto alla natura stessa delle cose, in quanto i singoli vescovi as-
sumono ruoli e competenze che superano i limiti della propria diocesi, che all‟importanza della
materia in sé, cioè la creazione di un seminario interdiocesano.

«Perché si abbia un vero seminario maggiore, secondo quanto risulta dai documenti e dalla costante tra-
dizione della Chiesa, si richiedono assolutamente questi requisiti: una comunità animata da spirito di
carità, aperta alle necessità del mondo di oggi e organizzata gerarchicamente, nella quale cioè l’autorità
del legittimo superiore venga esercitata efficacemente di cuore e secondo l’esempio di Cristo, e dove, con la
collaborazione di tutti, venga favorita veramente la maturità umana e cristiana degli alunni; la possibili-
tà di iniziare l’esperienza della vita sacerdotale mediante le relazioni sia di fraternità sia di dipendenza
gerarchica; la presentazione della dottrina sul sacerdozio, fatta dai superiori delegati dal vescovo, e insie-
me della vita del sacerdote e di tutte le condizioni che si richiedono nel sacerdote, e che gli alunni devono
conoscere un po’ alla volta ed accogliere, sia che riguardino la fede e la dottrina, sia lo stile di vita;
l’opportunità di verificare la vocazione sacerdotale e di comprovarla con segni e qualità sicure, in modo
che possa essere presentato al vescovo un giudizio certo sull’idoneità del candidato al sacerdozio»104.

103 Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6 ian. 1970, IV, n° 21.


104 Idem, IV, n° 21, nota 74; traduzione offerta da V. De Paolis, op. cit., p. 123.
63
Il motivo per il quale la Chiesa esige la formazione sacerdotale in un Seminario Maggiore
è rispondere a quanto abbiamo affermato nel canone 232, e ad una necessità maggiore: tali a-
lunni hanno bisogno di una formazione confacente allo stato sacerdotale e ne devono conosce-
re i diritti, i doveri e lo stile di vita. Questo è un obbligo gravissimo dell‟autorità competente
della Chiesa e, quindi, irrinunciabile.

Il periodo complessivo degli studi previsto in genere dagli ordinamenti è di sei anni. Tut-
ti interi questi sei anni devono essere trascorsi nel seminario maggiore (can. 250). Tuttavia il
can. 235 §1 prevede una possibile eccezione: «…se a giudizio del vescovo diocesano le circostanze lo ri-
chiedono, almeno per quattro anni». Non sono specificate le circostanze; queste sono lasciate al giu-
dizio del vescovo, ma si deve trattare d‟esigenze oggettive richieste dalle circostanze. Le circo-
stanze potrebbero riguardare il primo periodo degli studi, in particolare gli studi filosofici. Gli
ultimi anni hanno maggiore rilevo e una più grande importanza per la formazione: essi vanno
passati senz‟altro in un seminario.

L‟eccezione non deve pregiudicare la finalità della norma generale. Di qui la prescrizione
del §2 dello stesso can. 235: «Coloro che legittimamente dimorano fuori del seminario, siano affidati dal ve-
scovo diocesano a un sacerdote pio e idoneo, affinché abbia cura che siano diligentemente formati alla vita spiritu-
ale e alla disciplina». La norma è di tale importanza che se un alunno avesse compiuto gli studi ec-
clesiastici al di fuori di questa norma, non potrebbe essere lecitamente e legittimamente ordina-
to.

Infine, il canone 238 stabilisce che il seminario legittimamente eretto ha personalità giu-
ridica nella Chiesa, essendo il rettore il suo rappresentante legale, tranne una disposizione con-
traria dalla stessa autorità competente. I seminari diventano, dunque, soggetti di diritti e di do-
veri, in forza della stessa legge canonica (can. 114 §1).

5.6 I responsabili della formazione (can. 239-240. 259-264)

Il can. 239 determina gli uffici che sono previsti nella vita del seminario. Tra essi, il §1
stabilisce quello di rettore e di economo; il §2 quello del direttore spirituale. Il rettore dirige il
seminario, l‟economo provvede all‟amministrazione, il direttore spirituale cura la vita spirituale.
L‟economo e il direttore spirituale agiscono sotto la responsabilità e le direttive del rettore. Per

64
il rapporto tra direttore spirituale e alunni, inoltre, il canone ricorda che loro non hanno
l‟obbligo di presentarsi a lui ma che possono «rivolgersi ad altri sacerdoti ai quali il Vescovo abbia affi-
dato tale incarico» (§2).

Il canone prevede, inoltre, che il carico di vice-rettore sia nominato «se è del caso», e di in-
segnanti che vivano nel seminario «se gli alunni compiono gli studi nel seminario», come la possibilità
di altri sacerdoti ai quali gli alunni possono presentarsi, se non intendono servirsi del direttore
spirituale. Da quanto detto, non sembra che né il direttore spirituale e tanto meno gli altri sa-
cerdoti debbano risiedere in seminario.

La funzione formativa nel seminario è un impegno de tal importanza che deve essere af-
fidato a persone ben determinate, scelte dal Vescovo, in modo che agiscano a nome suo secon-
do adeguati indirizzi formativi, e siano essi stessi dotati di preparazione spirituale, pedagogica e
tecnica.

«Poiché l’educazione degli alunni dipende dalla sapienza delle leggi e soprattutto dall’idoneità degli edu-
catori, i superiori e i professori dei seminari devono essere scelti fra gli uomini migliori e diligentemente
preparati con un corredo di sana dottrina, di conveniente esperienza pastorale e di una speciale forma-
zione spirituale e pedagogica» (OT, n° 5).

Compiti affidati al rettore: direzione quotidiana del seminario secondo le norme della
Ratio, le direttive dal vescovo diocesano e il Regolamento del seminario (can. 260); con la colla-
borazione del vice-rettore, degli insegnanti e degli stessi alunni, curare l‟osservanza delle norme
disciplinari (can. 239 §3; 261); con l‟aiuto del prefetto degli studi, curare che gli insegnanti a-
dempiano debitamente il loro compito (can. 261 §2); assistere, con le funzioni di parroco, quan-
ti si trovano nel seminario, poiché il seminario è esente dalla giurisdizione parrocchiale (can.
262). Il rettore non ha, però, tutti gli obblighi del parroco. Lui esercita la potestà del parroco in
relazione con i sacramenti, dispense (can. 1196; 1245), le esequie (can. 530, 5°). Ma, ad esempio,
non è obbligato ad applicare la messa pro populo); le è tolto, inoltre, il referente alla materia ma-
trimoniale (can. 262) e gli si ricorda che non ascoltino le confessioni sacramentali dei propri a-
lunni (can. 262; 985). All‟inizio dell‟assunzione dell‟incarico il rettore deve emettere la profes-
sione di fede e il giuramento di fedeltà (can. 833, 6°). Il vice-rettore aiuta nella direzione del se-
minario.

65
Le norme circa l‟economo e i beni economici del seminario sono trattate dal Codice con
estrema concisione. Precisato che la rappresentanza giuridica del seminario spetta alla persona
del rettore (can. 238 §2), l‟economo ha come compito proprio la cura dell‟amministrazione or-
dinaria. Poiché il seminario è una persona giuridica pubblica, il suo patrimonio deve essere ge-
stito a norma del can. 1257 §1 e deve avere il proprio consiglio d‟amministrazione (can. 1280).

Il can. 263 (cfr. can. 259) fa ricadere sul vescovo diocesano, nel caso dei seminari dioce-
sani, o sui vescovi interessati, per la parte che a ciascuno spetta, nel caso del seminario interdio-
cesano, la responsabilità di provvedere «…alla costituzione e alla conservazione del seminario, al sosten-
tamento degli alunni, alla rimunerazione degli insegnanti e alle altre necessità del seminario». Il Codice, in
questo canone, non offre ai Vescovi la strada per fare fronte alle loro responsabilità ma, in for-
za del can. 1266, il Vescovo può disporre che in tutte le chiese e oratori, anche se appartenenti a
istituti religiosi, purché almeno di fatto siano aperti abitualmente al pubblico, si faccia una que-
stua in favore del seminario. Il can. 264 §2, poi, precisa le modalità di tale tributo:

«Sono soggette al tributo per il seminario tutte le persone giuridiche ecclesiastiche, anche private che hanno
sede in diocesi, a meno che non si sostengano solo di elemosine oppure non abbiano attualmente un colle-
gio di studenti o di docenti finalizzato a promuovere il bene comune della Chiesa; tale tributo deve essere
generale, proporzionato ai redditi di coloro che vi sono soggetti e determinato secondo le necessità del se-
minario».

Riguardo al direttore spirituale (can. 239 §2; 246 §4), debbono essere salvati due principi,
quello dell‟unicità della direzione spirituale e quello della libertà di coscienza dei seminaristi; nel-
lo stesso tempo si deve evitare una certa anarchia nella formazione spirituale e quindi la deputa-
zione all‟ufficio di direttore spirituale è fatta dal vescovo diocesano, perché non tutti i sacerdoti
sono da considerarsi adatti per una tale funzione. Per ogni seminario deve essere nominato al-
meno un direttore spirituale, rimanendo la libertà degli studenti di accedere a colui che loro vo-
gliono. I confessori ordinari e straordinari sono quei sacerdoti deputati dal Vescovo a questa
funzione, ai quali gli alunni del seminario possono accedere per ricevere il sacramento della pe-
nitenza, sempre rimanendo piena la loro libertà di rivolgersi a qualsiasi altro confessore sia den-
tro che fuori del seminario (can. 240 §1).

66
Ai confessori come ai direttori spirituali è vietato di richiedere direttamente il parere in
caso d‟ammissione agli ordini e di dimissioni dal seminario (c. 240 §2), giacché si tratta
d‟esercizio in foro esterno in ambito disciplinare, la qual cosa esula dalla competenza sia del
confessore sia del direttore spirituale.

5.7 La “Ratio formationis generalis” e la “Ordinatio formationis” (can. 241-258)

Seguendo lo schema dell‟Optatam totius e della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, il


legislatore ecclesiastico dà norme sulla formazione sotto una triplice prospettiva: spirituale, dot-
trinale e pastorale, dopo aver ricordato la necessità di un‟accurata selezione per l‟ammissione e
in conformità ad una Ratio generale della formazione e di un ordinamento proprio.

Ammissione al seminario (can. 241)

Anche se la storia d‟ogni vocazione sacerdotale, come peraltro la storia d‟ogni vocazione
cristiana, è la storia di un dialogo ineffabile tra Dio e l‟uomo, tra l‟amore di Dio che chiama e la
libertà dell‟uomo che risponde a Dio nell‟amore, essa sussiste nella Chiesa e per la Chiesa, è
proprio il Vescovo o il superiore competente, quindi, chi deve valutare l‟idoneità del candidato,
la sua vocazione, e riconoscerla formalmente105. E non si tratta di qualsiasi Vescovo, ma del Ve-
scovo diocesano (oppure dei Vescovi interessati se si tratta di un seminario interdiocesano) da
chi dipende il seminario: lui è abilitato per concedere l‟ammissione al seminario maggiore.

L‟ammissione al seminario deve essere preceduta, dunque, da un adeguato periodo di


preparazione umana, cristiana, intellettuale e spirituale106, specialmente perché il Vescovo, re-
sponsabile di questa ammissione, possa accettare soltanto chi, tenuto conto dei sue doti umane
e morali, spirituali e intellettuali, nonché della sua salute fisica e psichica, come della retta inten-
zione, sia stimato adatto al ministero sacro per tutta la vita (can. 241 §1). Non si tratta di colti-
vare germi di vocazione, ma di sviluppare una vocazione già individuata.

Mi sembra opportuno riportare cui alcune idee dalla Lettera Circolare inviata dal Card.
Jorge Medina, allora pro-prefetto della Congregazione per il Culto e la Disciplina dei sacramenti

105 Cfr. Pastore dabo vobis, n° 35-36.


106 Cfr. OT, n° 6; Pastore dabo vobis, n° 62; Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6 ian. 1970, VII, n° 39.
67
sugli scrutini circa l‟idoneità dei candidati agli ordini107. Il cardinale che, sulla base
dell‟importanza del sacramento dell‟ordine e, considerando la possibilità che in certi luoghi que-
sti scrutini non si facciano108 oppure sono superficiali109, offre certi criteri a considerare nel
momento di realizzare lo scrutinio:

«…l’autorità competente deve fare la chiamata ufficiale a nome della Chiesa, al diaconato e al presbite-
rato, sulla base di una certezza morale fondata su argomenti positivi circa l’idoneità del candidato
(c. 1052 §1 in relazione al c. 1025 §§ 1-2 e c. 1029). Non è, invece, sufficiente il criterio di ammettere
tra i candidati un fedele solamente come stimolo o aiuto: la chiamata non può avvenire se esiste un dub-
bio prudente circa l’idoneità (c. 1052 §3 in relazione al c. 1030)» (n° 2).

«La prima selezione dei candidati per il loro ingresso in seminario deve essere attenta, giacché non è in-
frequente che i seminaristi, dato questo primo passo, proseguano l’iter verso il sacerdozio considerando
ogni tappa come una conseguenza e prolungamento necessario di questi primo passo (cfr. c. 241 §1)» (n°
7).

«…Sembra più opportuno allontanare un candidato dubbioso, per grande che sia la necessità di clero di
una chiesa particolare o di un istituto, che dovere poi lamentare un doloroso ─e non di rado scandaloso─
abbandono del ministero: “Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno” (1 Tim 5,22)» (n°
9).

Il can. 241 §2 determina che il candidato deve proporzionare i certificati del battesimo e
della confermazione, insieme agli altri documenti richiesti dalla Ratio della formazione sacerdo-
tale110. Una particolare attenzione va prestata all‟ammissione di candidati che provengono da al-
tri seminari o da istituti religiosi (§3): per la loro ammissione si richiede una relazione scritta del
rispettivo superiore, nella quale si evidenzi «soprattutto la causa della dimissione o uscita»111.

107 CONGREGACIÓN PARA EL CULTO DIVINO Y LA DISCIPLINA DE LOS SACRAMENTOS, Carta circular Entre las
más delicadas, Roma, 10 nov. 1997, Prot. n° 589/97, in: Notitiae, 33 (1997), p. 495-506; Communicationis, 30 (1998),
p. 50-59; EV, 16/1322-1338.
108 Idem., n° 5: «La congregazione… ha avuto l‟occasione di verificare in vari casi, quando pervengono richieste

di dispensa dagli obblighi sacerdotali, che non sono stati trovati i documenti dei corrispettivi scrutini e perciò no si è potuto
unirli al processo informativo, il che farebbe pensare che a volte non sono stati realizzati con la debita cura».
109 Idem, n° 6: «… ci sono dei casi nei quali c‟è stata negligenza o imprudenza, il che indica una grave responsabi-

lità morale in riferimento a defezioni che feriscono profondamente le persone…».


110 Idem, Allegato I.
111 Idem., n° 8: «… Di particolare importanza sono i casi in cui un candidato sia stato espulso da una casa di

formazione, o invitato a ritirarsi da essa: i motivi di tale decisione debbono essere richiesti riservatamente a colo-
68
Sempre si pone la difficoltà tra l‟esame d‟idoneità del candidato e il diritto alla vita priva-
ta e intimità (can. 220)112. Certamente che non è una situazione facile da risolvere, ma alcuni in-
tenti ci sono stati, tra i quali il della diocesi di Washington. In questo documento, la diocesi ri-
conosce questo diritto comune a tutte le persone, e per quello riassicura i candidati indicando
che «avranno acceso agli archivi dei candidati soltanto le persone delegate dall’Arcivescovo o il Direttore delle
vocazioni». La Chiesa non può rinunciare a indagare sull‟idoneità dei candidati, quindi se il candi-
dato decide di non proporzionare queste informazioni, in forza al can. 220, solleverebbe un
dubbio significativo sull‟idoneità per l‟ordinazione, sufficiente per squalificare un candidato
(can. 1052 §3), ragione per cui l‟Arcidiocesi non vuole accettare tale candidato all‟ordinazione.
«Questa decisione non vuole spogliare il candidato d’alcuni diritti, giacché la Chiesa non riconosce un diritto alla
formazione sacerdotale od ordinazione».

Nel 2002 è stata pubblicata una lettera del Card. Jorge Medina, allora Prefetto della Con-
gregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dove viene stabilito un criterio
prudenziale riguardo la possibilità d‟ordinare o meno uomini con tendenze omosessuali. Il Car-
dinale scrisse: «L’ordinazione al diaconato o al presbiterato di uomini omosessuali o con tendenza omosessuale
è assolutamente sconsigliabile e imprudente e, dal punto di vista pastorale, molto rischiosa. Una persona omoses-
suale non è, pertanto, idonea a ricevere il sacramento dell’Ordine sacro»113. Sebbene corrisponda ad una
lettera che risponde alla richiesta di un Vescovo (che non viene nominato), la sua pubblicazione
nell‟organo ufficiale della Congregazione e il riferimento alla Congregazione per il Clero e alla
Congregazione per la Dottrina della Fede conferiscono a questo documento un valore non in-
differente e che deve essere tenuto in particolare considerazione.

A questa lettera seguì l‟Istruzione In continuità, del 4 novembre 2005, emanata dalla Con-
gregazione per l‟Educazione Cattolica114, che richiama ad una sufficiente maturità affettiva nei
candidati al ministero ordinato che lo renda capace di porsi in una corretta relazione con uomi-
ni e donne, “sviluppando in lui un vero senso della paternità spirituale nei confronti della comunità ecclesiale

ro che presero la decisione e debbono essere dati con la maggiore oggettività possibile, evitando ambiguità ed eu-
femismi».
112 Cfr. CIC, can. 642.
113 Cfr. Notitiae, an. 38 (2002), p. 586.
114 CONGREGAZIONE PER L‟EDUCAZIONE CATTOLICA, Istr. In continuità, circa i criteri di discernimento vocazi-

onale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sa-
cri, Roma, 4 novembre 2005, in: Seminarium, 47 (2007), p. 649-657.
69
che gli sarà affidata”115, escludendo coloro che presentano tendenze omosessuali profondamente
radicate lasciando aperta la possibilità a coloro che presentano una tendenza omosessuale tran-
sitoria116.

Ratio formationis e regolamento proprio (can. 242-243)

La gran diversità de situazioni ecclesiali e la necessità de che la formazione sacerdotale,


anche se orientata ad un‟identità comune del presbitero, sappia adeguarsi alle differenti condi-
zioni di vita e di cultura, giustifica il fatto che, insieme ad una legislazione di carattere universale
ci sia un ordinamento in coerenza alle esigenze concrete d‟ogni situazione. Il Codice prevede,
dunque, un duplice ordinamento per la formazione sacerdotale: una Ratio generalis (can. 242) e
un ordinamento proprio del seminario (can. 243).

Sembra che La Ratio formationis generalis117 riguardi solo i seminari maggiori, poiché obbli-
go derivante dal Codice, ma nulla vieta che essa possa trattare anche della formazione nei semi-
nari minori. Essa deve essere generale e le sue norme devono valere per tutti i seminari, partico-
larmente maggiori, sia diocesani sia interdiocesani. Tale Ratio deve essere preparata dalla Confe-
renza episcopale. Essa deve modellarsi all‟interno delle norme emanate dalla suprema autorità
della Chiesa, in particolare deve rispettare le norme del Codice e della Ratio fundamentalis
institutionis sacerdotalis, che contiene i principi e le norme per la formazione sacerdotale in tutta la
chiesa. Inoltre, come del resto tutte le altre norme emanate dalla Conferenza episcopale, la Ratio
deve essere approvata dalla Santa Sede (can. 455 §2). Alla stessa Conferenza episcopale e con
uguale procedura, spetta l‟aggiornamento della medesima.

In quanto al contenuto, nella Ratio sono «…definiti i principi supremi e le norme generali della
formazione seminaristica, adattate alle necessità pastorali d’ogni regione o provincia» (can. 242 §1). La Ratio,
benché tratti in generale il problema della formazione, di fatto non può essere che locale e limi-
tata all‟ambito della Conferenza episcopale e sottoposta alle norme di diritto universale. I prin-
cipi “supremi” della formazione pertanto saranno tali solo in senso relativo; supremi, perché gli
riprendono da altri documenti della Chiesa o perché applicati nel territorio della Conferenza e-

115 Idem, n° 1.
116 Idem, n° 3.
117 Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, 6 ian. 1970, in: EV 3/1796-1947; aggiornata: 15 mar. 1985, in: EV

S1/918-1072.
70
piscopale, ma subordinati a quelli del magistero supremo della Chiesa. Ancora di più, le norme
generali sono da intendersi in senso relativo, tanto più che queste vanno formulate «adattate alle
necessità pastorali d’ogni regione e provincia». Sono “generali” perché valide per tutti i seminari mag-
giori del territorio. I principi supremi invece non possono avere adattamenti, appunto perché
principi supremi ed essenziali.

Mentre nel can. 242 si parla di Ratio generale della formazione, nel can. 243 si parla di
“ordinamento” proprio. La differenza terminologica è di rilievo. La Ratio non è semplicemente la
somma di norme pratiche: contiene un progetto educativo globale, secondo un disegno e una
dottrina. Essa deve contenere, infatti, i principi supremi ed essenziali della formazione e le
norme generali. L‟ordinamento proprio, che è dato come applicazione concreta della Ratio per
ogni seminario, contiene soltanto norme applicative pratiche della stessa Ratio. Ha un valore
eminentemente disciplinare, determinando in modo chiaro tutti gli aspetti che integrano le di-
mensioni della formazione sacerdotale già detti nel CIC e negli altri documenti formativi.
Quest‟ordinamento deve essere approvato dal vescovo diocesano oppure, se si tratta di un se-
minario interdiocesano, dai vescovi interessati, e deve rimanere nell'ambito della Ratio generalis.

La formazione dei seminaristi, secondo il can. 244, è considerata in tre dimensioni: spiri-
tuale, dottrinale e pastorale. La formazione nel seminario, quindi, deve tendere a preparare pre-
sbiteri che, vivendo lo spirito del Vangelo, siano adatti all‟annuncio di esso, alla santificazione e
alla guida pastorale del popolo di Dio: «La formazione spirituale e l’insegnamento dottrinale degli alunni
del seminario vengano coordinati armonicamente e siano finalizzati a fare loro acquisire lo spirito del Vangelo e
un rapporto profondo con Cristo, unito a un’adeguata maturità umana, secondo l’indole di ciascuno» (can.
244).

Secondo questo canone, preso da OT 8, sono tre gli elementi che devono essere consi-
derati: a) le finalità della formazione; b) le dimensioni della formazione; e c) le modalità della
formazione.

a) Finalità della formazione: essa deve tendere a che gli alunni acquisiscano lo Spirito del Van-
gelo e una profonda relazione con Cristo. Stando a questo, gli educatori hanno il dovere
di un‟attenzione particolare verso la vita interiore degli alunni privilegiando delle attività
che si orientino a questo fine (cfr. can. 246).

71
b) Dimensioni della formazione: il canone rileva prima di tutto la dimensione spirituale e quella
dottrinale. Alla fine la necessità di un‟adeguata maturità umana. Se si collega questo ca-
none con il can. 255 relativo alla pastoralità d‟ogni processo formativo, possono essere
identificate quattro dimensioni della formazione intimamente unite tra sé: umana, spiri-
tuale, intellettuale e pastorale.

c) Modalità della formazione: gli elementi della formazione non possono essere considerati au-
tonomi e indipendenti tra loro, ma armonicamente coordinati. Questo esige che i supe-
riori del seminario, in modo speciale il rettore, siano particolarmente chiamati a procura-
re che le diverse attività siano collegate tra loro e dirette a un progetto educativo comu-
ne.

Il criterio che deve essere contenuto nella formazione, è chiaramente contenuta (anche
soltanto in modo indicativo), nel can. 1029, ma sviluppato in diverse parti del Codice stesso. È
molto chiara la sintesi offerta dal Sabbarese (p. 87-89).

Formazione spirituale (can. 245-247)

«La stessa formazione umana, se sviluppata nel contesto di un’antropologia che accoglie l’intera verità
dell’uomo, si apre e si completa nella formazione spirituale…

…come per ogni fedele la formazione spirituale deve dirsi centrale e unificante in rapporto al suo essere e
al suo vivere da cristiano, ossia da creatura nuova in Cristo che cammina nello Spirito, così per ogni pre-
sbitero la formazione spirituale costituisce il cuore che unifica e vivifica il suo essere prete e il suo fare il
prete. In tal senso, i Padri del Sinodo affermano che senza la formazione spirituale la formazione pasto-
rale procederebbe senza fondamento e che la formazione spirituale costituisce come l’elemento di massima
importanza nell’educazione sacerdotale»118.

Per il fatto stesso che la consacrazione sacerdotale comporta un‟inserzione più profonda
nel mistero pasquale, gli alunni del seminario debbono ricevere una formazione tale da farli en-
trare in comunione con tale mistero. Essa perciò deve tenere presente lo stile di vita sacerdotale
nella prospettiva dei doveri e dei diritti dei chierici (can. 273-287). Loro dovranno essere forma-
ti a quella spiritualità e stile di vita. Così il Codice, dopo aver indicato la meta educativa della

118 Pastore dabo vobis, n° 45.


72
formazione spirituale (can. 245), traccia negli altri canoni ciò che costituisce la struttura della
spiritualità nella pietà sacerdotale (can. 246), nella vita celibataria (can. 247 §1), non mancando
di evidenziare anche le asprezze e le difficoltà (can. 247 §2).

È certamente impossibile, in un testo normativo, esprimere la ricchezza spirituale alla


quale deve tendere il sacerdozio, perciò i canoni si limitano ad enunciare, in modo generale, le
finalità che devono orientare le diverse attività formative della spiritualità dei seminaristi. Sarà
compito della normativa propria (sia la Ratio sia l‟ordinamento particolare) concretare in modo
più specifico questi indirizzi.

Il primo elemento che sgorga dal can. 245 §1, è il senso della formazione spirituale: «esse-
re resi idonei all’esercizio fecondo del ministero pastorale», «essere permeati di spirito missionario», «essere attento
alla propria santificazione»; «acquisire un’adeguata armonia tra i valori umani e soprannaturali». In altre pa-
role, e forze per questa ragione è indicata all‟inizio, la formazione spirituale giunge di appoggio
a tutta la vita del ministro sacro, lo fa disponibile e saldo come pastore, «in atteggiamento costante di
fede viva e di carità», che lo abilita, appunto, ad essere un segno di riferimento di tutta la comunità
cristiana. In modo conseguente, è sottolineata la dimensione ecclesiologica del ministero. La
dimensione ecclesiale della vocazione e del ministero sacerdotale, fa che l‟idoneità per il mini-
stero pastorale abbia bisogno di una profonda comunione con la Chiesa, perché il presbitero è
stato costituito aiutanti e cooperatori dell‟ordine episcopale, e quindi unito agli altri presbiteri
per un‟intima fraternità (can. 245 §2)119. Nel can. 384, infatti, si dice che il vescovo deve ascol-
tarli come adiutores et consiliarii.

Nel canone 246, nei suoi cinque paragrafi, ci troviamo davanti ad una serie completa
d‟attività che favorisce un‟intensa vita spirituale. Il sacerdote è un uomo eminentemente spiritu-
ale, è un uomo di Dio. La consacrazione trae il suo senso dell‟eucaristia, così come la sua vita
(cfr. can. 276 §§ 1-2, 2°); è un uomo di culto, specialmente attraverso la liturgia delle ore (can.
276 §2, 3°); chiamato alla meditazione e al silenzio, a vivere con Maria nel cenacolo l‟impegno
della conversione e della riconciliazione (can. 276 §2, 3-5). A tale stile di vita gli alunni devono
essere formati nel seminario: essi pertanto sono chiamati a porre al centro della vita la celebra-
zione eucaristica, della quale devono imparare a fare dono della propria vita; ad essere uomini

119 Cfr. LG, 28.


73
del culto e della lode, con la liturgia delle ore; coltivare una devozione filiale a Maria; una conti-
nua conversione che, nel sacramento della penitenza (già non settimanale, come chiedeva il ca-
none 1367120 del Codice di Diritto Canonico del 1917, ma frequentemente), nella direzione spiritua-
le e negli esercizi spirituali, trova i suoi momenti particolarmente forti.

can. 246 can. 276


§1: La celebrazione eucaristica sia il centro di tutta la vita del seminario, in mo- can. 276 §2, 2°
do che ogni giorno gli alunni, partecipando alla stessa carità di Cristo, attingano
soprattutto a questa fonte ricchissima forza d‟animo per il lavoro apostolico e
per la propria vita spirituale.

§2: Siano formati alla celebrazione della liturgia delle ore, mediante la quale i can. 276 §2, 3°
ministri di Dio lo invocano a nome della Chiesa per tutto il popolo loro affida-
to, anzi per tutto il mondo.

§3: Siano incrementati al culto della Beata vergine Maria, anche con il rosario can. 276 §2, 5°
mariano, l‟orazione mentale e gli altri esercizi di pietà con cui gli alunni acqui-
stano lo spirito di preghiera e consolidano la vocazione.

§4: Gli alunni si abituino ad accostarci con frequenza al sacramento della peni- can. 276 §2, 5°
tenza; si raccomanda inoltre che ognuno abbia il proprio direttore spirituale,
scelto liberamente, a cui possa aprire con fiducia la propria coscienza.

§5: Gli alunni facciano ogni anno gli esercizi spirituali. can. 276 §2, 4°

La formazione al celibato. L‟impegno del celibato caratterizza profondamente lo stile di vita


sacerdotale, pur non essendo un elemento inerente alla natura del sacramento stesso, ma un
obbligo d‟istituzione ecclesiastica121. Il canone 277 ne ribadisce l‟importanza. Ad esso, come af-
ferma il can. 247, deve essere preparato l‟alunno con un‟adeguata formazione. Tale preparazio-

120 Il CIC-1917, can. 1367, stabilisce:


«Procurino i vescovi che gli alunni del seminario:
1° Preghino tutti i giorni in comune le preghiere della mattina e della sera, dedichino un tempo alla pre-
ghiera mentale e assistano al sacrificio della Messa;
2° Si confessino almeno una volta alla settimana, e con la dovuta riverenza s‟alimentino frequentemente
del pane eucaristico;
3° Le domeniche e i giorni festivi assistano alla Messa e ai Vespri Solenni, servano l‟altare ed esercitino le
cerimonie sacre, soprattutto nella cattedrale, se, a giudizio del Vescovo, possono farlo senza detrimento
della disciplina degli studi;
4° Facciano tutti gli anni esercizi spirituali durante alcuni giorni di seguito;
5° Frequentino, almeno una volta ogni settimana, ad un‟istruzione su temi spirituali che finisca con
un‟esortazione pia».
121 A questo proposito raccomando vivamente di leggere il testo di A. STICKLER, Il celibato ecclesiastico. La sua storia

e i suoi fondamenti teologici.


74
ne consisterà prima di tutto nel cogliere il celibato come peculiare dono di Dio. La Sacra Congrega-
zione per l‟educazione cattolica afferma il seguente:

«Il celibato, considerato nella sua prospettiva concreta d’oggi pone in evidenza la necessità di consentire
una maturità affettiva umana e, insieme, di far vivere la continenza come espressione della carità aposto-
lica. Una continenza non interiormente dominata dalla carità apostolica non è per nulla evangelica, né
d’altronde potrebbe essere praticata dalla persona consacrata, la quale ha scelto il celibato per vivere e
comunicare la carità ecclesiale in modo più intenso e originale».

E aggiunge:

«Lo scopo della formazione seminaristica è di preparare un uomo maturo, responsabile, un sacerdote per-
fetto e fedele. Però le condizioni odierne del mondo non facilitano una tale maturazione e perfezione; que-
sta situazione socio-ambientale negativa impone pertanto un accrescimento di responsabilità personale nei
candidati al sacerdozio; infatti il compito di attuare pienamente la loro vocazione ricade, in fondo, su di
essi stessi»122.

Il can. 1037 prescrive che non si ammettano i candidati al diaconato “se non hanno assunto,
mediante il rito prescritto, pubblicamente davanti a Dio e alla Chiesa, l’obbligo del celibato”, sempre che non
abbiano già emesso i voti perpetui in un istituto religioso.

Formazione dottrinale (can. 248-254)

Il fine principale della formazione dottrinale (can. 248) è quello di preparare i seminaristi
per adempiere la loro missione di maestri del popolo di Dio.

«È necessario contrastare con decisione la tendenza a ridurre la serietà e l’impegno degli studi, che si
manifesta in alcuni contesti ecclesiali, come conseguenza anche di una preparazione di base insufficiente e
lacunosa degli alunni che iniziano il curricolo filosofico e teologico. È la stessa situazione contemporanea
ad esigere sempre più dei maestri che siano veramente all’altezza della complessità dei tempi e siano in
grado di affrontare, con competenza e con chiarezza e profondità di argomentazioni, le domande di senso
degli uomini d’oggi, alle quali solo il Vangelo di Gesù Cristo dà la piena e definitiva risposta»123.

122 SACRA CONGREGAZIONE PER L‟EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti educativi per la formazione al celibato sa-
cerdotale, 11 aprile 1974, EV, 5/229.
123 Pastore dabo vobis, n° 56.

75
Tale formazione è messa in stretta relazione con la vita di fede e la vita spirituale degli
alunni, in quanto la stessa fede, sostenuta da una sana dottrina, è da quest‟ultima alimentata.
Questa formazione deve comprendere: 1) un complemento, se necessario, alla formazione nelle
lettere e nelle scienze, una volta espletato il curricolo di studi previsto dal can. 234; 2) un tempo
di formazione filosofica; 3) un tempo di formazione teologica.

Il can. 249 contempla lo studio delle lingue, la propria, quella latina; e anche d‟altre lin-
gue. L‟esigenza imposta dal canone si trova in continuità con tanti altri interventi dell‟autorità
ecclesiastica. Di fatto, l‟ignoranza della lingua latina preclude la possibilità del contatto diretto
con le fonti della tradizione ecclesiastica, che in gran parte sono scritte in latino, e con il magi-
stero attuale.

Il piano di formazione deve corrispondere alla “Ratio institutionis sacerdotalis” la quale deve
essere osservata anche dagli istituti religiosi. La durata minima è di sei anni. Il curriculum degli
studi ecclesiastici, pertanto, comprenderà la formazione filosofica e teologica, organizzate in
modo simultaneo o successivo, secondo le determinazioni della propria Ratio institutionis. In o-
gni caso l‟intero curriculum dovrà comprendere almeno un sessennio completo, di cui un intero
biennio per gli studi filosofici e un quadriennio per quelli teologici (can. 250).

La formazione filosofica intende raggiungere i seguenti oggettivi: arricchire la formazio-


ne umana degli alunni, esaltare l‟acutezza del loro pensiero e renderli più idonei a compiere stu-
di teologici. Il tipo di formazione si fondamenta nel patrimonio filosofico perennemente valido
ma anche riconoscendo le diverse correnti moderne che hanno un influsso importante nella so-
cietà odierna124.

«La filosofia aiuta non poco il candidato ad arricchire la sua formazione intellettuale del “culto della ve-
rità”, cioè di una specie di venerazione amorosa della verità, la quale conduce a riconoscere che la
verità stessa non è creata e misurata dall’uomo ma all’uomo è data in dono dalla Verità suprema, Di-
o;…»125.

Nel can. 252 troviamo un triplice fine degli studi teologici: conoscere l‟integra dottrina
cattolica, alimentare in essa la propria vita spirituale e acquisire la attitudine ad annunciare il

124 CIC, can. 251; OT 15.


125 Pastore dabo vobis, n° 52.
76
Vangelo (§1)126. I futuri presbiteri, infatti, debbono annunciare il Vangelo in un mondo sempre
più secolarizzato e indifferente, nonché debbono essere pronti al dialogo ecumenico, al plurali-
smo teologico, ad affrontare nuove situazioni ecclesiali, oppure problemi che sorgono dal mo-
do sociale o dalle scienze umane. La Ratio institutionis sacerdotalis di ogni nazione deve dare un e-
lenco di tutte le discipline che riguardano il curricolo teologico, indicando brevemente il pro-
gramma di esse, il numero di anni o di semestri e le ore settimanali di scuole assegnate a ciascu-
na. Se per varie ragioni particolari questo dovesse essere impossibile, deve essere indicato alme-
no un programma che determini i punti generali più importanti delle materie, includendo il con-
tenuto delle materie (§§ 2-3).

Il canone 253 si riferisce agli insegnanti. I criteri indicati dal Codice riguardano da una
parte la preparazione tecnica e scientifica e dall‟altra le virtù morali, formazione intellettuale teo-
logica127. Per il primo aspetto, gli insegnanti devono essere laureati o licenziati in una università
o in una facoltà pontificia, ossia approvata dalla Santa Sede. Per il secondo aspetto, gli inse-
gnanti si devono distinguere per virtù (§1). Non si può essere buoni teologi se non si è buoni
cristiani. Conseguentemente l‟insegnante che manchi gravemente al suo dovere va rimosso da
parte della stessa autorità che lo ha incaricato o nominato (§3). È raccomandato, inoltre, che i
professori siano diversi secondo le materie che si trattano, giacché ognuna ha il suo metodo
d‟insegnamento (§2), quindi non ad un‟accumulazione delle materie.

Il Codice nel can. 254 offre anche delle direttive ai professori. Essi, nel loro insegnamen-
to, devono essere solleciti ad evidenziare l‟intima unità e armonia dell‟intera dottrina della fede,
in modo che gli alunni, nella varietà delle materie, esperimentino di avere a che fare sempre con
l‟unica scienza teologica. Per raggiungere adeguatamente l‟obiettivo è necessario che nel semi-
nario ci sia un responsabile che guidi e coordini l‟intero ordinamento degli studi (§1).

Formazione pastorale (can. 255-258)

L‟intero processo educativo umano e intellettuale dei futuri sacerdoti ha come obiettivo
finale quello di offrire un valido contributo alla maturazione armonica della loro personalità di
pastori al servizio della edificazione della comunità cristiana. «In tal senso il fine pastorale assicura

126 OT 16.
127 Pastore dabo vobis, n° 53-56.
77
alla formazione umana, spirituale e intellettuale determinati contenuti e precise caratteristiche, così come unifica e
specifica l’intera formazione dei futuri sacerdoti»128. È un importante compito dei superiori e docenti
adoperarsi con azione convergente, perché la coordinazione dei vari aspetti formativi siano in-
dirizzati con gradualità a illustrare e a raggiungere la loro specifica finalizzazione pastorale.

Sebbene tutta la formazione degli alunni abbia una finalità pastorale, tuttavia il can. 255
stabilisce che nel seminario ci deve essere una formazione pastorale in senso stretto, che insegni
agli alunni i principi e i metodi che riguardano l‟esercizio del ministero di insegnare, santificare e
guidare il popolo di Dio, in un modo coerente con le realtà del tempo e del luogo.

Il can. 256 §1 specifica le materie che rientrano nel campo di una formazione pastorale
specifica. Esse sono comprese sotto un‟espressione unica e generica: «Tutto ciò che riguarda in mo-
do specifico il sacro ministero», espressione che trova poi un‟esemplificazione: «nell'attività catechetica e
omiletica, nel culto divino e in modo particolare nella celebrazione dei sacramenti; nel dialogo con le persone, an-
che non cattoliche o non credenti, nell'amministrazione parrocchiale e nell'adempimento di tutti gli altri impegni».
Il tutto è introdotto con l‟avverbio «praesertim», ad indicare che si tratta di un‟esemplificazione
delle cose più importanti, quelle che hanno bisogno di una sottolineatura. Con posteriorità alla
Promulgazione del Codice, nella Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis si precisa ancora di più
questi contenuti:

«Gli alunni devono essere istruiti anche sulle varie forme dell’apostolato moderno: sull’azione cattolica e
le altre associazioni, sulla cooperazione con i diaconi, sul modo di agire con i laici per risvegliare e favori-
re la loro specifica attività apostolica e promuovere ogni giorno più la loro collaborazione, sul modo di
andare incontro a tutti gli uomini secondo le diverse circostanze di luogo e condizioni di vita, e inoltre
sull’arte di impostare con loro un fruttuoso dialogo»129.

Un secondo elemento che è rilevato dal Codice è quello dell‟inserzione dei seminaristi
nella Chiesa universale e particolare. Nel secondo paragrafo del can. 256, risulta chiara
l‟importanza di svegliare in loro il senso di responsabilità nei confronti della Chiesa universale e
le sue necessità, come il promuovere la loro attenzione verso i problemi missionari, ecumenici e
quelli più urgenti, «anche di carattere sociale». Questo canone risponde, anche, alle nostre perplessi-

128Pastore dabo vobis, n° 57.


129CONGREGAZIONE PER L‟EDUCAZIONE CATTOLICA, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis “Tria iam lustra”,
19 marzo 1985, n° 95, in: EV S1/1063.
78
tà in relazione alla pastorale vocazionale: i seminaristi (quindi anche il seminario siccome strut-
tura formativa) «siano solleciti nel promuovere le vocazioni».

Il Codice non parla di un presbiterio a livello della Chiesa universale. Il canone 257, in-
vece, raccoglie l‟idea teologica della responsabilità di tutti verso la Chiesa universale, soggiacente
a questi testi, precisandone il contenuto. Non soltanto sollecitudine per la Chiesa particolare
nella quale sono incardinati, ma anche nei confronti della Chiesa universale, in modo di essere
disposti a trasmigrare in altre Chiese che avessero bisogno del loro ministero (§1). L‟anteriore ci
permette di scoprire una maggiore mobilità già dall‟educazione nei seminari, immagine diversa
del presbitero nel codice precedente, con una particolare sensibilità ecclesiale. Il Vescovo, dun-
que, non soltanto deve favorire questa realtà nei seminari, ma anche provvedere affinché gli a-
lunni che sentono la chiamata ad offrire questo servizio siano dovutamente preparati non sol-
tanto all‟esercizio del ministero sacro, ma anche ad una formazione specifica secondo il luogo al
cui intendono servire: lingua, cultura, condizioni sociali, usi e consuetudini, istituzioni (§2). Non
si parla di tempo (se permanente o temporanea), cosa che in realtà è coerente con i criteri che
dopo saranno detti con riferimento all‟incardinazione dei chierici.

Un altro elemento evidenziato dal canone, è la centralità del Vescovo come pastore e
capo della Chiesa particolare: il presbitero rimane strutturalmente determinato nella sua missio-
ne apostolica dal costante riferimento al Vescovo.

Gli alunni possono essere formati per la pastorale in differenti scienze (psicologia, peda-
gogia e sociologia), ma questo non è sufficiente, perché non si tratta di apprendere teoricamen-
te dei principi, ma di imparare ad applicare tali principi nella prassi. Così il can. 258 prevede che
siano promosse esperienze pastorali dei candidati al sacerdozio sotto la guida di un sacerdote
esperto.

5.8 La formazione dei diaconi permanenti (can. 236)

Solo il can. 236 tratta della formazione al diaconato permanente, essendo competente a
dare disposizioni in questo senso la Conferenza episcopale. Il canone distingue due categorie di
candidati: i candidati giovani, i quali sono tenuti a dimorare per almeno tre anni in una casa speci-
fica, salvo disposizioni diverse date dal Vescovo diocesano e per gravi ragioni; e i candidati d’età

79
più matura, sia celibi sia coniugati, i quali sono tenuti a seguire un progetto formativo di tre anni,
approvato dalla Conferenza episcopale130.

Il fine della formazione dell‟una e dell‟altra categoria è alimentare la vita spirituale, in


modo che possano condurre una vita evangelica e siano preparati a adempiere i compiti propri
dell‟ordine che riceveranno. Questa formazione, quindi, non può essere accelerata e superficia-
le, ma analoga a quell‟impartita ai candidati al sacerdozio: S. Scrittura, teologia dogmatica, teo-
logia morale, diritto canonico, liturgia, pedagogia, catechesi, amministrazione ecclesiastica, ecc.;
tuttavia per i candidati di età più matura e per quelli coniugati, l‟organizzazione degli studi si de-
ve comporre con il loro lavoro e i loro doveri familiari, per cui si possono prevedere dei corsi
serali oppure delle settimane di studio, ecc., tenendo conto della cultura che già possiedono.

5.9 L’incardinazione dei chierici (can. 265-272)

CIC-1917 CIC-1983
111 §1 «Ogni chierico deve essere ascritto ad 265 «Ogni chierico deve essere incardinato o
alcuna diocesi o ad alcuna religione, af- in una Chiesa particolare o in una prela-
finché non siano ammessi in nessun mo- tura personale oppure in un istituto di
do chierici vaghi» vita consacrata o in una società che ne
abbiano la facoltà, in modo che non sia-
no assolutamente ammessi chierici acefa-
li o girovaghi».

130 CONGREGAZIONE PER L‟EDUCAZIONE CATTOLICA, Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti,
in: AAS, 90 (1998), p. 843-879; EV 17/156-283. Il documento sostiene:
«49. Il programma formativo deve durare almeno tre anni, oltre il periodo propedeutico, per tutti i can-
didati.
«50. Il Codice di Diritto canonico prescrive che i candidati giovani ricevano la loro formazione “dimo-
rando per tre anni in una casa specifica, se non per gravi ragioni il Vescovo diocesano non abbia dispo-
sto diversamente”. Per la creazione di tale istituto, “i Vescovi dello stesso Paese o, se sarà necessario, an-
che di più Paesi, secondo la diversità delle circostanze, uniscano i loro sforzi. Scelgano, quindi, per la
guida di esso, superiori particolarmente idonei e stabiliscano accuratissime norme relative alla disciplina e
all‟ordinamento degli studi”. Si abbia cura che questi candidati siano in relazione con i diaconi della loro
diocesi d‟appartenenza.
«51. Per i candidati di età matura, sia celibi sia coniugati, il Codice di Diritto Canonico prescrive che essi
ricevano la loro formazione “mediante un progetto formativo della durata di tre anni, determinato dalla
Conferenza Episcopale”. Esso deve essere attivato, dove le circostanze lo permettono, nel contesto di
una viva partecipazione alla comunità dei candidati, che avrà un proprio calendario di incontri di pre-
ghiera e di formazione e prevedrà anche momenti comuni degli aspiranti.
Per questi candidati sono possibili diversi modelli d‟organizzazione della formazione. A motivo degli
impegni lavorativi e familiari, i modelli più comuni prevedono gli incontri formativi e scolastici nelle ore
serali, durante i fine settimana, nel tempo delle ferie o secondo una combinazione delle varie possibilità.
Dove i fattori geografici si presentassero particolarmente difficili, si dovrà pensare ad altri modelli, distesi
in un arco di tempo più lungo o facenti uso dei mezzi moderni di comunicazione».
80
111 §2 «Per la ricezione della prima tonsura il 266 §1 «Uno diviene chierico con l‟ordinazione
chierico rimane ascritto, oppure come diaconale e viene incardinato nella Chie-
viene detto, incardinato, alla diocesi per sa particolare o nella prelatura personale
la quale fu promosso». al cui servizio è stato ammesso».

Il principio dell‟ascrizione o dell‟incardinazione, per il quale non sono ammessi chierici


acefali o girovaghi, ha avuto diverse motivazioni e applicazioni lungo il corso dei secoli.

Nella Chiesa primitiva si aveva un legame indissolubile tra il chierico e la Chiesa per la
quale era ordinato131. Per essere ordinato si doveva avere un titolo di ordinazione, come ascri-
zione ad una determinata chiesa o comunità, in modo che fossero assicurati il servizio pastorale,
la vigilanza sui chierici da parte del superiore competente, evitando chierici girovaghi, e il so-
stentamento di essi. Il fondamento della necessità di un titolo d‟ordinazione, sta nel fatto che la
Chiesa non ha mai riconosciuto un diritto soggettivo ad essere ordinato chierico o ad entrare
nello stato clericale. Il sacerdozio è una vocazione che la Chiesa, mediante i pastori legittimi, è
chiamata a verificare e autenticare, sulla base delle qualità del soggetto e secondo le esigenze del
bene delle anime.

Non erano perciò ammesse anticamente ordinazioni assolute, vale a dire di chierici che
non fossero addetti ad una determinata chiesa, non richiesti dalle esigenze del bene delle anime.
L‟ordinazione comportava perciò l‟incardinazione alla comunità o alla chiesa per la quale si era
stato ordinati; e questo in perpetuo. Si evitava così che vi fossero dei chierici girovaghi, senza
aggregazione o incardinazione ad una chiesa. Non era permesso, inoltre, il passaggio dei chierici
da una chiesa ad un‟altra, eccetto casi di necessità pastorale 132, ma questa disposizione spesso
non veniva osservata. Erano frequenti, infatti, le ordinazioni assolute e il passaggio di chierici da
una chiesa all‟atra, col consenso del vescovo, per necessità pastorali.

Il Concilio Lateranense III (1179), ammise le ordinazioni senza titolo canonico, oppure
col titolo del patrimonio, perciò o il chierico aveva beni personali e provvedeva al suo sosten-
tamento, altrimenti vi provvedeva il vescovo133. Con tale provvedimento, però, oltre le inten-
zioni del concilio e dei papi, si apriva una breccia di rilievo nella normativa canonica.

131 Cfr. CONC. CALCEDONENSE (451), in: COD n° 90.


132 Idem.
133 Cfr. COD, n° 214.

81
L‟interpretazione ampia della possibilità che un chierico potesse considerare i propri beni o
l‟eredità paterna come titolo sostitutivo per l‟ordinazione e per il sostentamento, aprì una larga
strada alle ordinazioni assolute, giustificate con il titolo patrimoniale. Ciò che doveva essere ec-
cezionale e come riparazione alla violazione della disciplina ecclesiastica, di fatto, venne ad esse-
re cosa ordinaria e ammessa. Più tardi, l‟ordinazione col titolo del beneficio (beni connessi ad
un ufficio per il sostentamento del titolare) fece sì che sempre più fosse ridotto il legame del
chierico con la sua diocesi d‟origine, poiché egli sceglieva il vescovo che gli dava un beneficio
migliore nella sua diocesi. Da questo venne una gran mobilità del clero da una diocesi all‟altra.

Il Concilio di Trento, preoccupato del sostentamento del clero, di per sé stabilì che un
chierico fosse lecitamente ordinato solo col titolo del beneficio, ma, per il bene delle chiese,
ammise che potesse essere anche ordinato col titolo del patrimonio o della pensione134. Il con-
cilio di Trento, nella sua sincera volontà di rinnovare la disciplina ecclesiastica, affermò il prin-
cipio che l‟unico criterio per l‟ordinazione doveva essere l’utilitas o la necessitas ecclesiae, in modo
che non ci fossero chierici vagabondi; inoltre che i chierici forestieri potessero celebrare i sa-
cramenti in un‟altra diocesi solo con le lettere commendatizie del loro ordinario 135.

Questa disciplina resta in vigore fino al secolo XVIII, ma intanto si moltiplicarono i tito-
li d‟ordinazione (di missione, di servizio della diocesi, della chiesa, d‟amministrazione). Data la
diminuzione dei benefici nel secolo XIX, i chierici per lo più furono ordinati a titolo di servizio
della diocesi, così il vescovo poteva affermare i suoi diritti nei confronti dei chierici per tratte-
nerli nella sua diocesi. L‟incardinazione, allora, era un mezzo di subordinazione dei chierici
all‟autorità e il titolo per il sostentamento.

L‟incardinazione ha avuto presenti, oltre le accentuazioni nei diversi periodi storici, quat-
tro obiettivi fondamentali:

1) evitare che ci fossero chierici acefali;


2) assicurare il sostentamento dei chierici, perché questi non fossero costretti a mendicare e
a girovagare qua e là;

134 CONCILIO DI TRENTO, Sess. XXI, Decr. de reform., c. II, in: COD, n° 728-729.
135 Idem., Sess. XXIII, Decr. de reform., c. XVI, in COD, n° 749-750.
82
3) evitare le facili migrazioni dei chierici da una comunità ad un‟altra, insistendo
sull‟incardinazione che, in linea di principio, deve essere definitiva;
4) regolare le ordinazioni in vista del bene delle anime e assicurare una vigilanza sui chierici
da parte del superiore competente.

Il Codice del 1917 sostanzialmente non fa altro che recepire e riprodurre la disciplina già
vigente. Fu confermata la necessità del titolo d‟ordinazione (can. 974 §1, 7), il quale deve essere
perpetuo e garantire il sostentamento adeguato. Mediante l‟ordinazione, il chierico è incardinato
nella diocesi e, perché ordinato con il titolo per il servizio della diocesi, rimane legato con un
vincolo particolare d‟obbedienza al suo vescovo. Il Codice del 1917 prevede sì la possibilità
d‟escardinazione, ma non la favorisce. L‟incardinazione prevista è, per definizione, perpetua e
assoluta: il chierico vi si deve impegnare con giuramento.

L‟appartenenza ad un monastero era titolo sufficiente per l‟ordinazione. La dottrina par-


lava per i religiosi del titolo paupertatis seu professionis religiosae. La povertà professata con voto in
un istituto approvato dalla Chiesa tiene il posto del titolo d‟ordinazione, poiché lo stesso mona-
stero o istituto religioso deve provvedere al necessario sostentamento. Il titolo paupertatis diventa
legittimo, però, soltanto per i religiosi di voti solenni perpetui. Tutti gli altri vengono esclusi: i
novizi, quanti vivono in comune more religiosorum, coloro che hanno i voti soltanto temporanei o
perpetui non solenni.

La legislazione del Codice del 1917 può essere riassunta nei seguenti punti:

- Perché si possa ammettere uno agli ordini sacri è necessario sempre il titolo canonico
(can. 974 §1,7). Per i religiosi di voti solenni, titolo dell‟ordinazione è la stessa professio-
ne religiosa, ossia il titolo paupertatis (can. 982 §2).

- Per i religiosi di voti semplici perpetui, il titolo è «mensae communis», oppure «Congregatio-
nis», oppure qualche cosa di simile a norma delle costituzioni (can. 982 §2).

- Per tutti gli altri istituti e gli altri religiosi, vale il principio stabilito per i secolari o i dio-
cesani (can. 982 §3).

Il significato della parola «titulus»

83
In campo civilistico, e anche secondo il modo di parlare comune, titulus significava anti-
camente iscrizione e, soprattutto, la ragione per cui uno è possessore o proprietario di una cosa.
In campo ecclesiastico però, fin dall‟antichità, titulus indicava la chiesa e quindi l‟iscrizione di un
ecclesiastico ad essa. Il titolo d‟ordinazione, secondo una primitiva accezione, era la perpetua
incardinazione di un chierico nel clero di una certa chiesa (titolo), per la quale egli s‟impegnava
a prestare il suo ministero, in cambio del sostentamento. In seguito, il titolo non significò più
l‟incardinazione stessa, ma il diritto al sostentamento.

In conclusione il titolo venne a significare semplicemente il mezzo per un onesto sosten-


tamento del chierico, al punto che fu chiamato anche titulus sustentationis. Siccome molteplici e-
rano i mezzi di sostentamento, vari erano anche i titoli previsti dalla legislazione.

Il termine incardinazione

L‟ordinazione avviene in Ecclesia ed è pro Ecclesia. È un elemento che rientra nelle struttu-
re ecclesiastiche che la Chiesa ha assunto per rispondere alle diverse esigenze di luogo e di tem-
po.

Il termine incardinazione indica l‟appartenenza di un chierico ad una chiesa particolare, ad


una prelatura personale, ad un Istituto di vita consacrata (IVC) o ad una Società di vita apostoli-
ca (SVA) che abbiano la facoltà di incardinare, riaffermando il principio assoluto per cui nessun
chierico può essere acefalo o girovago (can. 265), cioè senza Ordinario o Superiore proprio.
Quest‟appartenenza assicura al chierico l‟esercizio e protezione dei suoi diritti (cfr. can. 384),
espressione del servizio inerente al ministero ordinato. Per la rimunerazione dei chierici (cfr.
can. 281), si esige anche la dedicazione al ministero o almeno disponibilità ad esso, essendo in-
sufficiente la mera incardinazione, eccetto in casi d‟infermità ed età avanzata.

Il Codice prevede due tipi d‟incardinazione: originaria e derivata. L‟incardinazione originaria


si ha con l‟ordinazione diaconale, tramite la quale uno diventa chierico ed è incardinato nella
Chiesa particolare o nella Prelatura personale, IVC o SVA (can. 266 §§ 1-2). L‟incardinazione
derivata si produce mediante un atto amministrativo complesso che può comprendere due modi:
a) una concessione formale (can. 267), che comporterebbe il transito di una diocesi ad un‟altra,
fermo restando il principio che, così come non possono esserci chierici acefali, non si possono

84
avere due incardinazione; oppure b) ipso iure, la quale può avvenire sia per il decorso del tempo,
sia per la professione perpetua o definitiva del chierico ad un IVC o SVA (can. 268).

Strutture d‟incardinazione: diocesi e strutture equiparate (can. 368), prelatura personale


(can. 295), istituti religiosi (can. 266, §2; 731), istituti secolari per propria natura (can. 266 §3;
711).

- Società di vita apostolica (can. 266 §2). Le società di vita apostolica, che propriamente non
sono istituti di vita consacrata, ma assimilati a loro (can. 631), possono incardinare sol-
tanto se hanno una facoltà (can. 265; 266 §2). La possibilità però riguarda soltanto le so-
cietà clericali, anche se solo di diritto diocesano. Colui che sia stato incorporato definiti-
vamente alla società può essere ordinato diacono e così è incardinato alla stessa società
anche come chierico. La differenza dall‟istituto religioso sta nel fatto che per le società di
vita apostolica si richiede sempre la clericalità perché possano incardinare, diversamente
dall‟istituto religioso, che potrebbe essere anche laicale. Tuttavia per le società di vita a-
postolica si ammette che le costituzioni possano stabilire diversamente.

- Istituti secolari. Il can. 266 §3, per l‟incardinazione agli istituti secolari stabilisce: «Il membro
di un istituto secolare con l’ordinazione diaconale viene incardinato nella chiesa particolare al cui servizio
è stato ammesso, a meno che, in forza di una concessione della sede apostolica, non venga incardinato
nell’istituto stesso». Da una lettura immediata del canone risulta che, secondo
l‟orientamento del Legislatore, il chierico di un istituto secolare sia incardinato ordina-
riamente nella diocesi. Tale possibilità, anche se ridimensionata, non è esclusa dal can.
266 §3, dal momento che si ammette la concessione della facoltà d‟incardinazione da
parte della Sede Apostolica.

A volte, specialmente per un istituto secolare clericale di diritto pontificio, posso-


no sorgere esigenze di disponibilità per servizi più ampi, addirittura mondiali. I superiori
non potrebbero disporre con libertà dei membri, se questi fossero incardinati alla chiesa
particolare. Precisamente tali esigenze di maggiore disponibilità per la chiesa universale
possono rendere utile e opportuna un‟incardinazione all‟istituto invece che alla chiesa
particolare. Del resto l‟incardinazione in quanto tale non tocca la natura dello stile di vita
dell‟istituto.

85
Un chierico che si trasferisse da una diocesi all‟altra non cesserebbe d‟essere chie-
rico secolare e diocesano. Un chierico di una prelatura personale non cessa d‟essere chie-
rico secolare, anche se incardinato alla prelatura. Un chierico secolare incardinato al
proprio istituto non perde la propria secolarità, perché non è incardinato alla diocesi.
L‟importante è che egli, dovunque sia chiamato a operare, conservi uno stile di sacerdote
secolare.

Circa il vincolo giuridico-pastorale costituito con l‟incardinazione, sostiene il Direttorio


per il ministero e la vita dei presbiteri:

«Non va dimenticato, a tale proposito, che i sacerdoti secolari non incardinati nella diocesi e i sacerdoti
membri di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, i quali dimorano nella diocesi ed eserci-
tano, per il suo bene, qualche ufficio, sebbene siano sottoposti ai suoi legittimi ordinari, appartengono a
pieno o diverso titolo al presbiterio di tale diocesi dove hanno voce sia attiva che passiva per costituire il
consiglio presbiterale…»136.

L‟incardinazione c‟introduce ad un altro concetto: l’escardinazione. Per escardinazione


s‟intende la cessazione d‟appartenenza di un chierico ad una chiesa particolare, ad una prelatura
personale, ad un IVC o ad una SVA che abbia la facoltà di incardinare, con il conseguente legit-
timo trasferimento ad una nuova struttura che abbia la facoltà d‟incardinare (can. 270).
L‟escardinazione produce effetto soltanto con la nuova e conseguente incardinazione (can. 267
§2).

Competente per l‟incardinazione e l‟escardinazione è il Vescovo diocesano e quelli equi-


parati dal diritto (can. 267; 381 §2). Per quanto si riferisce all‟amministratore diocesano, si deve
seguire le disposizioni del can. 272.

Il procedimento di un‟incardinazione successiva è particolarmente complesso (cfr. can.


267; 269; 270). Questa difficoltà obbedisce a due principi: 1) non sono ammessi i chierici acefa-
li; 2) non sono possibili contemporaneamente due incardinazione. Di qui la necessità di regolare
insieme il processo d‟incardinazione con quello d‟escardinazione.

136 CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Directorium Dives Ecclesiae, 31 marzo 1994, n° 26, in: EV 14/789.
86
Per la validità dell‟incardinazione in un‟altra chiesa particolare si richiede una lettera di
escardinazione da parte del vescovo diocesano a quo, contemporaneamente una lettera
d‟incardinazione del vescovo della chiesa ad quem. L‟effetto dell‟escardinazione avviene soltanto
con l‟incardinazione nuova. Così sono salvati i due principi di cui sopra.

Per procedere all‟incardinazione, il vescovo deve essere particolarmente attento. Il can.


269 gli offre i criteri di prudenza: 1) la necessità o utilità della sua chiesa; 2) lettere
d‟escardinazione e informazioni adeguate; 3) dichiarazione del chierico «di volersi dedicare al servi-
zio della nuova chiesa particolare, a norma del diritto» (can. 269, 3°).

Il chierico, dunque, «che si trasferisce legittimamente (cioè d‟accordo con il rispettivo ordina-
rio), dalla propria chiesa particolare a un’altra, dopo cinque anni viene incardinato in quest’ultima per il diritto
stesso». Questo, però, su precise condizioni però: «Purché abbia manifestato per iscritto tale intenzione
sia al vescovo diocesano della chiesa ospitale, sia al vescovo diocesano proprio e purché nessuno dei due abbia e-
spresso un parere contrario alla richiesta entro quattro mesi dalla reazione della lettera» (can. 268 §1).

Va anche ricordato che il can. 693 prevede la possibilità, per un chierico religioso, di
un‟incardinazione automatica per semplice decorso del tempo, quando vi sia stata l‟accoglienza
ad experimentum per un quinquennio da parte del vescovo. In questo caso, salvo che il vescovo
non abbia espresso la sua volontà contraria prima dello scadere del tempo, il chierico è automa-
ticamente incardinato, in forza del diritto, alla diocesi, allo scadere del quinquennio
d‟esperimento.

Un‟altra figura d‟importanza è la licenza di trasferimento da una chiesa particolare ad un’altra


(can. 271). Il trasferimento riguarda il caso di un chierico che, pur rimanendo incardinato nella
propria chiesa particolare, su licenza del Vescovo diocesano a quo e previa accettazione del Ve-
scovo ad quem, acquista il domicilio o quasi-domicilio in una diocesi diversa da quella d‟origine a
motivo de ministero che in essa è chiamato ad esercitare. L‟accordo è sigillato per scritto con
una convenzione che definisca: a) la durata del servizio; b) luogo del ministero e dell‟abitazione
del sacerdote, tenuto conto delle condizioni di vita nella regione dove il sacerdote si reca; c) gli
aiuti di vario genere e chi deve prestarli; d) le assicurazioni sociali in caso di malattia, d‟inabilità
e di vecchiaia; e) i reciproci diritti dei due vescovi sul sacerdote in questione. Normalmente il
trasferimento avviene da una diocesi che può disporre di un certo numero di sacerdoti, verso

87
altre bisognose di personale, particolarmente verso terre di missione. Ad esempio
l‟accompagnamento degli emigranti della stessa lingua e nazione per sostenerli nella fede nel
momento del passaggio e del trapianto.

Il sacerdote che opera il trasferimento, pur rimanendo alle dipendenze dell‟ordinario


d‟incardinazione, dipende anche dal nuovo ordinario presso il quale presta il suo ministero, sia
per l‟attività pastorale sia per la sua disciplina personale.

Un confronto tra il can. 266 §2 e il can. 1019 §1 fa emergere una particolarità: con il dia-
conato si è incardinati all‟istituto religioso o alla società di vita apostolica, anche se l‟istituto reli-
gioso non è né clericale né pontificio e la società di vita apostolica, benché clericale, non è di di-
ritto pontificio. Le dimissorie, invece, possono essere date solo dai superiori maggiori di un isti-
tuto religioso clericale di diritto pontificio o di una società di vita apostolica clericali di diritto
pontificio (can. 1019 §1). La facoltà di rilasciare le lettere dimissorie è molto più rigida che quel-
la d‟incardinare. Mentre l‟incardinazione è prevista almeno come possibile per gli istituti secola-
ri, le dimissorie sono del tutto escluse. Eppure i superiori degli istituti secolari clericali di diritto
pontificio avrebbero la possibilità di esercitare la potestà ecclesiastica anche in foro esterno.
Tuttavia il Codice li ha esclusi da tale facoltà, forse proprio perché altrimenti si correva il rischio
di compromettere la loro secolarità137.

Un altro elemento che è messo in risalto dal can. 268, è che il chierico deve manifestare
il suo desiderio d‟incardinarsi nella diocesi per iscritto. Anche se lavora fuori della sua diocesi
d‟origine non si può mai imporre il cambio della diocesi.

Per agire pastoralmente nella diocesi, il chierico, anche se incardinato ad un istituto reli-
gioso, è sotto l‟obbedienza del vescovo diocesano, perché solo lui è responsabile della cura pa-
storale nella diocesi. Infatti, l‟incardinazione non ha mai significato, per il chierico religioso, sot-
trazione alla dipendenza dal vescovo diocesano per la cura pastorale.

Si può agevolmente concludere che il nuovo Codice non ha propriamente abolito il tito-
lo d‟ordinazione, ma lo ha semplificato. Il titolo d‟ordinazione è il servizio al ministero ecclesia-

137 L‟incardinazione rimane, com‟è sempre stato nella tradizione ecclesiastica, almeno negli ultimi dieci secoli, un
istituto che intende rispondere prevalentemente a delle esigenze disciplinari. Le lettere dimissorie invece signifi-
cano il giudizio che l‟autorità ecclesiastica intende riservarsi sull‟idoneità al ministero clericale e la chiamata ad es-
so da parte della stessa gerarchia ecclesiastica.
88
stico. La diocesi, la chiesa particolare o la prelatura personale, per il cui servizio il chierico è or-
dinato, s‟impegnano a dargli il necessario sostentamento, poiché esercita il ministero ecclesiasti-
co. Il chierico da parte sua s‟impegna, facendosi ordinare, a prestare il suo ministero nella chiesa
o nella prelatura. Per i religiosi la garanzia economica è l‟appartenenza alla comunità, come pure
per gli altri sacerdoti d‟istituti di vita consacrata o di società di vita apostolica. Possiamo affer-
mare, dunque, che l‟unico titolo che oggi rimane è quello del servizio ecclesiastico o
l‟inserimento in una comunità, alla quale la chiesa riconosce la facoltà di poter incardinare sa-
cerdoti.

5.10 Gli obblighi e i diritti dei chierici (can. 273-289)

La missione specifica ecclesiale dei chierici si esplica nell‟esercizio sacramentale delle


funzioni sacre che ha un‟origine previa nell‟elezione divina e nella consacrazione sacramentale,
per cui si da un‟ontologica distinzione tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune dei
fedeli.

«Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essen-
zialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro;… Il sacerdote ministeriale, con la
potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in per-
sona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo;…»138.

Dal comune status di christifidelis, alcuni ricevono il sacramento dell‟ordine e sono costitui-
ti ministri sacri, quindi agiscono in persona Christi e sono consacrati e destinati a pascere il popo-
lo di Dio. Rimanga chiaro che lo specifico dato dall‟ordine sacro non implica qualcosa in più,
ma semplicemente qualcosa di essenzialmente diverso. Il Codice prospetta i doveri e i diritti dei
ministri sacri, superando l‟idea stessa dei privilegi dei chierici, anticamente concepiti con pretesa
d‟effetti giuridici sugli ordinamenti civili, e quindi con anacronistiche discriminazioni già cancel-
late dalla prassi vigente139. I contenuti normativi di questo capitolo sono invece bene connessi
con la natura del ministero sacro e con le istanze fondamentali della disciplina del clero, anche
in forza del decreto conciliare Presbyterorum ordinis.

138 LG, n° 10.


139 Cfr. CIC-1917, can. 120-122.
89
La comunione gerarchica. Il canone 273 prescrive lo speciale obbligo di rispetto e ob-
bedienza dei chierici verso il Sommo Pontefice e il proprio Ordinario. Questo perché i chierici
partecipano al medesimo sacerdozio e al medesimo ministero apostolico del Sommo Pontefice
e del proprio Ordinario (LG 28); sono ad essi uniti nella comunione gerarchica, dal momento
che cooperano col proprio Ordinario, che in quanto Vescovo è membro dell‟ordine episcopale
(can. 331); in quanto incardinati in una Chiesa particolare per compiervi un ministero, sono ad
essa ascritti sotto un proprio Ordinario, col quale formano il presbiterio di quella Chiesa parti-
colare; hanno promesso filiale obbedienza, al momento della sacra ordinazione, al Vescovo e al
proprio Ordinario.

L’assunzione d’uffici ecclesiastici (can. 274). Il paragrafo 1 viene a completare il ca-


none 228 §1 e indica che soltanto i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio richieda la
potestà d‟ordine o la potestà di governo ecclesiastico140, in quanto essa sgorga del munus sacra-
mentale. La potestà d‟ordine, come altrettanto la potestà di governo ecclesiastico, ha la sua ori-
gine nel sacramento dell‟ordine. Questo non significa che il sacramento renda capaci a ricevere
la potestà, ma che il sacramento dell‟ordine stesso è la fonte della potestà141.

La sacra potestà forma un‟unità che si trasmette all‟ordinato però, per essere attuata, ri-
chiede la determinazione giuridica che va aggiunta, cioè, il conferimento di un ufficio o
l‟assegnazione di sudditi a norma del diritto (missio canonica). Senza quella determinazione, chia-
mata in passato giurisdizione, ogni atto di governo è invalido mentre gli atti sacramentali gra-
vemente illecite.

In corrispondenza, il secondo paragrafo richiama ad accettare e adempiere fedelmente


l‟incarico affidato dal proprio Ordinario.

Collaborazione fraterna e promozione dei laici (can. 275). Sulla scia dell‟anteriore,
questo canone enumera uno dei primi obblighi dei chierici: stare uniti tra di loro nel vincolo
della fraternità, della preghiera e della collaborazione vicendevole, il cui motivo principale si ra-
dica nell‟edificazione del corpo di Cristo. Seguendo il decreto conciliare PO, si deve avere pre-

140Cfr. CIC, can. 129 §1.


141Senza però escludere la possibilità reale di riconoscere una fonte diversa della medesima potestà ecclesiastica
di governo, con la concessione o la partecipazione all‟esercizio, can. 129 §2.
90
sente che la partecipazione al medesimo sacerdozio di Cristo unisce i chierici in una fraternità
superiore.

«I presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono tutti tra loro uniti da in-
tima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui
servizio sono assegnati sotto il proprio Vescovo»142.

Nell‟ambito della riflessione sulla natura sinodale della Chiesa, il Vaticano II, operando
una piccola rivoluzione copernicana, ha riscoperto l‟istituto del Presbiterio, una realtà ecclesiolo-
gica e giuridica fondamentale per la comprensione della struttura costituzionale della Chiesa
particolare e della stessa Chiesa universale. L‟idea di presbiterio, viva nel primo millennio, si è
progressivamente affievolita fino a scomparire. Essa è stata, in un certo senso, confiscata
dall‟istituto del Capitolo cattedrale che, sia pure con inadeguatezza di strumenti giuridici, ha ga-
rantito la sopravvivenza della coscienza sinodale nell‟ambito della Chiesa particolare.

Esiste anche una ragione funzionale e pratica dell‟esistenza del Presbiterio: i presbiteri
sono collaboratori necessari del vescovo. La Chiesa particolare è il luogo concreto in cui si rea-
lizza la Chiesa universale, la cui struttura sinodale (o collegiale) nasce proprio dal fatto che
quest‟ultima non solo si realizza nella Chiesa particolare, ma è anche costituita di loro.

Il legame ontologico di natura sacramentale e giurisdizionale esistente tra tutti i membri


del Presbiterio, permette di affermare che la missione pastorale è affidata, in una Chiesa partico-
lare, al Presbiterio in quanto tale, su una base di responsabilità personale differenziata, ma sino-
dalmente reciproca e, per questo, dal profilo ecclesiologico non meno stringente che qualsiasi
forma di responsabilità collettiva. Ciò significa, tra molte altre cose, che la coordinazione pasto-
rale non trova la sua giustificazione nel principio razionale dell‟efficienza, ma nella struttura ec-
clesiologica del Presbiterio stesso e che di conseguenza s‟impone come una necessità d‟ordine
teologico143.

142PO, n° 8.
143Cfr. Dives Ecclesiae, n° 21: «Concretamente, la comunione ecclesiale del presbitero si realizza in diversi modi.
Con l‟ordinazione sacramentale, infatti, egli entra in speciali legami con il papa, con il corpo episcopale, con il
proprio vescovo, con gli altri presbiteri, con i fedeli laici». (in: EV, 14/782).
91
Alla collaborazione tra i chierici, il paragrafo 2 aggiunge la collaborazione con la missio-
ne dei laici, missione che i chierici devono riconoscere e promuovere. Tale obbligo trova la sua
fonte in PO n° 9, assunto alla lettera nella norma codiciale144.

L’impegno dei chierici per la santità (can. 276). All‟interno della vocazione universale
alla santità, cui tutti i fedeli sono chiamati, i chierici sono tenuti a tendervi in modo peculiare,
perché consacrati a Dio per un nuovo titolo (§1). Per tale cammino il Codice propone anche i
mezzi, nel §2, e pone al primo posto l‟adempimento fedele e instancabile del ministero pastora-
le. Seguono, poi, i mezzi che esaltano l‟impegno nella dimensione spirituale: preghiera, liturgia
delle ore, celebrazione eucaristica (magari quotidiana), ritiri spirituali, penitenza, devozione ma-
riana e altri mezzi di santificazione.

Il canone 125 del Codice precedente prescriveva anche la visita quotidiana al Santissimo
Sacramento, l‟esame di coscienza e la recita del rosario. Questo Codice impone soltanto la litur-
gia delle ore e gli esercizi spirituali; il resto è raccomandato145.

La continenza perfetta e perpetua nel celibato (can. 277). Questo canone ispirandosi
al magistero conciliare di OT n° 10 e PO n° 16, presenta positivamente l‟obbligo di osservare la
perfetta e perpetua continenza evidenziandone:

o Il valore escatologico: il celibato per il Regno dei cieli (Mt 19,11).


o Il valore cristologico: mediante il celibato i chierici possono aderire più fedelmente a Cristo con cuore
indiviso; in quanto dono peculiare di Dio, esso va custodito con la dovuta prudenza (can. 277 §2).
o Il valore ministeriale: possono dedicarsi più liberamente a Dio e ai fratelli.
È necessario distinguere tra celibato e continenza. Il celibato fa riferimento allo stato di non
sposato del chierico, promessa fatta per amore a Dio. La legge della continenza, invece, vigente
già nei primi secoli, faceva riferimento al fatto che colui che era chierico, benché fosse sposato

144 PO, n° 9: «I presbiteri devono riconoscere e promuovere sinceramente la dignità dei laici, nonché il loro ruolo
specifico nell‟ambito della missione della Chiesa».
145 CIC-1917, can. 125: «Procurino gli ordinari di luogo: 1° Che tutti i chierici purifichino frequentemente la co-

scienza nel sacramento della penitenza. 2° Che dedichino ogni giorno un tempo all‟orazione mentale, visitino il
Santissimo Sacramento, preghino il santo Rosario alla Vergine Madre di Dio e facciano l‟esame di coscienza».
92
prima di ricevere gli ordini, dal momento dell‟ordinazione in poi non poteva fare uso del ma-
trimonio146.
Conseguenze giuridiche: il celibato costituisce un impedimento matrimoniale (can.
1087); attentare matrimonio costituisce un delitto (can. 1394); il celibato deve essere protetto
con attenzione dal proprio chierico (can. 277 §2); dal Vescovo proprio (can. 277 §3); e i delitti
riguardanti il sesto comandamento sono esplicitamente puniti (can. 1395).

La comunione ecclesiale (can. 278). Questo canone, nei suoi tre paragrafi, tratta
d‟argomenti diversi ma con un comune denominatore: la promozione della comunione ecclesia-
le.

Il paragrafo 1, applicazione specifica del can. 215, tratta del diritto d‟associazione dei
chierici secolari, in vista di conseguire finalità confacenti allo stato clericale.

Il paragrafo 2 precisa ulteriori finalità, quando suggerisce ai chierici di preferire


l‟adesione a quelle associazioni che stimolano alla santità nell‟esercizio del ministero e favori-
scono l‟unità dei chierici tra loro e con il proprio vescovo.

Il paragrafo 3, infine, contiene un espresso divieto: non fondare o partecipare ad asso-


ciazioni il cui fine o la cui attività non sono compatibili con gli obblighi dello stato clericale, op-
pure possono ostacolare il diligente compimento dell‟incarico loro affidato 147.

La continua formazione dottrinale (can. 279). Il Legislatore ha qui inteso evidenziare


che la formazione seminaristica ha un suo naturale proseguimento, anche dopo l‟ordinazione,
come continuazione e perfezionamento della formazione ricevuta nel seminario. In altre parole,
la formazione non è un optional ma un vero e proprio obbligo. Questo canone, inoltre, mette

146 Cfr. Pastore dabo vobis, n° 29: «I Padri Sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con
un‟importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita: “Ferma restante la disci-
plina delle Chiese Orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricor-
da ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico
per il mondo attuale”». E ancora: «È particolarmente importante che il sacerdote comprenda la motivazione teo-
logica della legge ecclesiastica sul celibato. In quanto legge, esprime la volontà della Chiesa, prima ancora che la
volontà del soggetto espressa dalla sua disponibilità. Ma la volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazione
nel legame che il celibato ha con l‟Ordinazione sacra, che configura il sacerdote a Gesù Cristo Capo e Sposo della
Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con
cui Gesù Cristo Capo e Sposo l‟ha amata».
147 Cfr. SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, decr. Quidam episcopi: de quibusdam associationibus vel

coadunationibus quae omnibus clericis prohibentur, 8 mar. 1982, in: AAS, an. 74 (1982), p. 642-645; cfr. anche
in: EV, 8/98-103.
93
in evidenzia che ogni diocesi deve avere un pieno formativo per venire incontro a questa neces-
sità de formazione permanente (§2) e, inoltre, l‟apertura ad altre scienze che possono avere un
rapporto con le scienze sacre (§3).

La raccomandazione della vita in comune (can. 280). Questa norma ha la sua fonte
in PO, n° 8148, nella quale si precisano le finalità di una tale consuetudine, che dove esiste, va
possibilmente mantenuta, giacché giova al ministero apostolico e costituisce per il fedele esem-
pio di carità e d‟unità. Essa sarà diversa per natura e forma da quella vita comune che devono
osservare i religiosi (can. 665 §1), i membri di istituti secolari (can. 714) e delle società di vita
apostolica (can. 740).

Diritto al congruo sostentamento e alla previdenza sociale (can. 281149). L‟obbligo


di un‟equa remunerazione dei ministri rientra nel generale dovere dei fedeli di sovvenire alle ne-
cessità della Chiesa, tra i cui fini, il Legislatore ha previsto pure il sostentamento del clero (can.
222 §1; 1261 §2; 1274 §1). Giacché i chierici sono impegnati nel ministero sacro, hanno diritto
al sostentamento, adeguato alla loro condizione, secondo criteri e finalità che il Legislatore stes-
so indica nel canone 281 §1: i criteri sono la natura dell‟ufficio e le circostanze di luogo e di
tempo; le finalità sono provvedere al proprio sostentamento e alla giusta retribuzione di quanto
sono a servizio dei chierici.

Una situazione particolare è disposta per i diaconi coniugati: coloro che si dedicano a
tempo pieno nel loro ministero, sia dato il necessario per vivere dignitosamente. Coloro invece,
che ricevono una retribuzione per la professione civile che esercitano (oppure hanno esercita-
to), vivano di quest‟ingresso.

Stile di vita clericale e destinazione dei beni (can. 282). Se da una parte il Codice ri-
conosce ai chierici il diritto al loro dignitoso sostentamento, dall‟altra raccomanda che condu-
cano una vita semplice, astenendosi da qualunque apparenza di vanità. L‟esortazione di questo
canone è ripresa da PO n° 16-17, dove i sacerdoti vengono invitati ad abbracciare la povertà vo-

148 «…, per far sì che i presbiteri possano reciprocamente aiutarsi a fomentare la vita spirituale e intellettuale, col-
laborare più efficacemente nel ministero, ed eventualmente evitare i pericoli della solitudine, sia incoraggiata fra
di essi una certa vita comune, ossia una qualche comunità di vita, che può naturalmente assumere forme diverse,
in rapporto ai differenti bisogni personali e pastorali…».
149 Cfr. PO, n° 20.

94
lontaria, quale stile di vita che maggiormente conforma a Cristo povero, per vivere con maggio-
re disponibilità al ministero sacro.

A ciò, il §2 aggiunge alcune precisazioni circa l‟amministrazione e la destinazione dei be-


ni. Dopo aver provveduto al proprio onesto sostentamento e all‟adempimento dei doveri del
proprio stato, i chierici sono esortati a devolvere i beni in sovrappiù per il bene della Chiesa e
per opere di carità.

L’obbligo della residenza (can. 283). Il Codice ha previsto l‟obbligo di residenza per
coloro che hanno un ufficio residenziale; si tratta, nel caso, del Vescovo diocesano (can. 395 §2)
e degli equiparati (can. 381 §2 e 368), del Vescovo coadiutore e ausiliare (c. 410),
dell‟Amministratore diocesano (can. 429), del parroco (can. 533 §1), dei parroci in solido (can.
543 §2,1), del vicario parrocchiale (can. 550 §1).

Solo la violazione della residenza da parte di chi ad essa obbligato in ragione dell‟ufficio
ecclesiastico comporta una giusta pena, non esclusa, dopo l‟ammonizione, la privazione
dell‟ufficio (can. 1396).

Il diritto codiciale ha stabilito un periodo massimo di un mese di ferie per i titolari


d‟uffici, cui è annesso, per il diritto stesso, l‟obbligo della residenza (cfr. can. 410; 533).

L’abito ecclesiastico (can. 284). Da quest‟obbligo sono esclusi i diaconi permanenti, in


forza del can. 288. Tuttavia la legge universale del Codice rimanda alle leggi particolari, sia a
quelle emanate dalle conferenze episcopali sia alle leggi consuetudinarie locali, in modo che sia-
no esse a determinare quando indossare l‟abito portare.

Il riferimento alla normativa delle Conferenze episcopali e alle consuetudini locali è mol-
to opportuno, poiché vi possono essere motivi d‟ordine politico e civile che suggeriscano di evi-
tare l‟uso dell‟abito, quando non lo vietano addirittura, perché così stabilito per legge statale.

Divieti e proibizioni a chi è nello stato clericale (can. 285-289). Questi canoni pre-
sentano una serie di divieti, la cui forza precettiva va valutata secondo criteri di gradualità, inde-
corosi (raccomandazione della determinazione nel diritto particolare perché dipende in parte
dalla cultura e dalle tradizioni del luogo), aliene (l‟ordine sacro implica rinuncia a professioni in
sé degne però estranee al servizio sacerdotale), e proibite (cariche pubbliche che comportano

95
l‟esercizio o la partecipazione alla potestà civile, legislativa, esecutiva o giudiziale), indicati dalle
singole norme, che ricordiamo schematicamente a seguito.

a) can. 285 §1: è assolutamente vietato tutto ciò che non si addice allo stato clericale, se-
condo le disposizioni del diritto particolare.
b) can. 285 §§ 2-3: è da evitarsi tutto quanto è alieno dallo stato clericale, come pure
l‟assunzione di pubblici uffici che comportano esercizio di pubblico potere legislativo,
esecutivo e giudiziario.
c) can. 285 §4: la norma distingue tra divieto senza licenza dell‟Ordinario e divieto senza il
suo parere. Senza licenza dell‟Ordinario i chierici non possono amministrare beni appar-
tenenti a laici né assumere uffici con annesso l‟obbligo del rendiconto. Senza consultare
il proprio Ordinario non possono assumere fideiussioni o firmare cambiali.
d) Dall‟obbligo di cui al §§ 3 e 4 sono esclusi i diaconi permanenti, per disposizione esplici-
ta del can. 288, a meno che il diritto particolare stabilisca diversamente.
e) A norma del canone 1042, 2°, costituiscono impedimenti per ricevere gli ordini sacri
l‟esercizio di uffici e l‟assunzione di amministrazione vietata con dovere di rendiconto, in
particolare: eventuali uffici o amministrazioni vietate dal diritto particolare perché scon-
venienti allo stato clericale o anche alieni allo stato clericale; uffici pubblici che compor-
tano partecipazione all‟esercizio del pubblico potere; amministrazione di beni riguardanti
i laici o ufficio secolari; attività affaristiche e commerciali per sé o per conto di altri.
L‟impedimento cessa quando ci si liberi legittimamente da tali attività e uffici interdetti
dimettendosi dall‟ufficio o dall‟amministrazione oppure presentando il rendiconto.
f) can. 286: senza la licenza della competente autorità ecclesiastica è proibita ai chierici
l‟attività affaristica e commerciale, esclusi i diaconi permanenti e salvo diversa disposi-
zione per diritto particolare.
g) can. 287: richiamato il dovere di favorire e promuovere la pace e la concordia, la norma
vieta ai chierici di partecipare attivamente ad attività politiche e sindacali. Tale divieto
non riguarda i diaconi permanenti, a tenore del già citato can. 288, né i chierici, quando
si tratta di difendere i diritti della Chiesa e il bene comune, avendo previamente richiesto
il giudizio in merito alla competente autorità ecclesiastica.

96
h) can. 289 §1: il servizio militare volontario non si addice allo stato clericale, per cui i chie-
rici e i candidati agli ordini sacri possono esercitarlo solo su licenza del proprio Ordina-
rio.
i) can. 289 §2: ribadisce quanto già determinato nel can. 285 circa le esenzioni di cui i chie-
rici possono avvalersi per incarichi e pubblici uffici loro concessi dalle leggi o consuetu-
dini civili; possono accettare tali uffici, previa disposizione del proprio Ordinario.

5.11 La perdita dello stato clericale (can. 290-293)

Lo stato clericale non s‟identifica con l‟ordine sacro, come lo stato di christifidelis non
s‟identifica con il battesimo. L‟ordine, perché sacramento, imprime carattere, vale a dire crea una
situazione ontologica che costituisce il battezzato in ministro sacro abilitandolo ad agire in perso-
na Christi (can. 1008). Tale costituzione non può mai venire meno, se il battezzato è stato vali-
damente ordinato (can. 290). Lo stato clericale, invece, fa riferimento alla condizione giuridica del
chierico nella Chiesa, con tutti i doveri e diritti annessi alla valida ricezione dell‟ordine sacro.

Lo stato clericale presuppone la sacra ordinazione; su di essa l‟ordinamento giuridico


precisa e determina lo stato clericale, l‟insieme cioè di diritti e di doveri, con conseguente stile di
vita, che costituiscono lo status giuridico del chierico nella Chiesa. Un‟eventuale perdita dello
stato clericale non significa pertanto perdita della stessa ordinazione.

La perdita dello stato clericale va distinta da una proibizione, totale o parziale, del diritto di
esercitare il ministero clericale o in ogni caso le facoltà derivanti dallo stato. La proibizione può
derivare dalla mancanza d‟incardinazione. Non essendo ammissibili i chierici acefali (can. 266).
Un tale chierico pertanto non potrà esercitare il ministero connesso con l‟ordine ricevuto senza
le lettere dimissorie (can. 1383).

Un chierico religioso, inoltre, che fosse dimesso dal proprio istituto, non potrebbe eser-
citare neppure il ministero clericale se non trova un vescovo che lo accolga e lo autorizzi ad e-
sercitare il ministero (can. 693 e 701). In questo caso non abbiamo necessariamente una vera
incardinazione; ma qualche cosa che la sostituisce nel significato, perché il ministero è esercitato
sotto la responsabilità del vescovo stesso.

97
La proibizione di esercitare il ministero può derivare inoltre da pene canoniche, sia me-
dicinali (come la scomunica, l‟interdetto e la sospensione: can. 1331ss), sia espiatorie (can.
1336). In questi casi la proibizione non toglie al chierico lo stato clericale, ma ne impedisce
l‟esercizio finché rimane la pena o l‟irregolarità (cfr. can. 1040ss).

Va anche detto che la perdita dello stato clericale può avvenire sia con la cancellazione di
tutti i diritti e doveri inerenti allo stesso stato, sia con la permanenza dell‟obbligo del celibato
(manente caelibatu). Il celibato, infatti, nello stato clericale ha un rilievo speciale e, anche se esso è
una legge ecclesiastica, il suo significato non si esaurisce semplicemente in una determinazione
legale: il chierico lo assume davanti a Dio.

La perdita dello stato clericale sostanzialmente consiste nella privazione dei doveri e di-
ritti connessi con il sacro ministero; il chierico che perde lo stato clericale a livello pratico è un
semplice christifidelis, o un laico, o anche un membro di un istituto di vita consacrata (in caso che
la perdita dello stato sia occasionata con la nullità della stessa). Tuttavia in casi d‟emergenza (pe-
ricolo di morte), per il bene delle anime, l‟ordinamento canonico permette ad un chierico che
non è più nello stato clericale l‟esercizio di tale ministero (cfr. can. 976).

L‟ordinamento canonico oggi prevede tre modi per la perdita dello stato clericale: la di-
chiarazione con sentenza o decreto; la pena della dimissione; l‟indulto o la grazia della Sede A-
postolica.

1. Dichiarazione di nullità per sentenza, frutto di un processo giudiziale, o per decreto, in un


procedimento amministrativo. In questi casi si applicano le prescrizioni date nei canoni
1708-1712. Il can. 290, dopo aver affermato che «…la sacra ordinazione, una volta validamen-
te ricevuta, non diviene mai nulla», indica questo primo modo di perdere lo stato clericale. In
particolare il can. 1712 stabilisce che: «Dopo la seconda sentenza a conferma della nullità della
sacra ordinazione, il chierico perde tutti i diritti propri dello stato clericale ed è liberato da tutti gli obbli-
ghi».

2. Dimissione dello stato clericale mediante pena legittimamente inflitta. Questo è il secondo modo di
perdere lo stato clericale (can. 290, 2°). Si tratta, dunque, di una pena che può essere in-
flitta soltanto di fronte a un delitto, a norma del can. 1321. Va detto, tuttavia, che la pena
di dimissione dello stato clericale è una pena gravissima. La Chiesa ricorre ad essa, per-

98
ciò, in casi estremamente gravi e la prevede soltanto come pena ferendae sententiae. I delitti
tipificati per questa pena sono: apostasia, eresia, scisma (can. 1364); profanazione delle
specie eucaristiche (can. 1367); violenza fisica contro la persona del Romano Pontefice
(can. 1370); casi gravi di delitto di sollecitazione in confessione (can. 1387); attentato
matrimonio, anche solo civile (can. 1394); reati contro il sesto comandamento, specie il
concubinato (can. 1395), e oggi è piuttosto necessario, avere presente il delitto contro
minorenni150. Si tratta, dunque, della possibilità di infliggere la pena espiatoria di dimis-
sione dallo stato clericale, prevista dal can. 1336 §1, 5°; in tale caso bisogna procedere a
norma dei canoni sul processo penale (can. 1720-1728).

Per di più il can. 1317 stabilisce che la pena della dimissione dallo stato clericale
non può essere costituita con legge particolare. Pertanto solo una legge penale universale
può stabilire la pena della dimissione dallo stato clericale. Va pure rilevato che in nessu-
no dei casi la pena della dimissione è obbligatoria. Dove poi è possibile, essa va applicata
soltanto dopo che siano stati fatti altri tentativi, anche con pene, per riportare sulla buo-
na strada il chierico, che ha commesso il delitto.

Trattandosi poi di una pena gravissima e, in ogni modo, di una pena espiatoria
perpetua, essa può essere inflitta soltanto tramite processo giudiziale e quindi con sen-
tenza (can. 1342 §2), in un tribunale collegiale con tre giudici (can. 1425 §1, 2°). Il can.
1350 §2 si preoccupa anche della situazione economica del chierico dimesso: «L’ordinario

150Sono note le disposizioni che sia il Romano Pontefice (Litt. ap. Sacramentorum sanctitatis tutela, 30 aprile 2001) e
LA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE (Ep. Ad exequendam ecclesiasticam legem, 18 maggio 2001)
hanno emanato riguardo questi casi. In merito alla lettera della Congregazione, Mons. T. BERTONE (La competen-
za e la prassi della Congregazione per la Dottrina della Fede. Procedure speciali, in: Quaderni dello Studio Rotale, 11(2001),
LEV, an. 2002 (pub.), p. 23-45), scrisse: «Essa si presenta come una vera e propria promulgazione della legge
pontificia e come una sua spiegazione. In tal modo si ovvia anche all‟obiezione circa la segretezza dei documenti
che regolavano la materia» (p. 36). Poi spiega, sommariamente, alcuni elementi della procedura e delle innovazio-
ni che sono state introdotte: «Quando un Ordinario viene a conoscenza di uno dei delitti enunciati e abbia com-
piuto la debita investigazione previa, egli deve consultare la CDF. Questa ha due possibilità: se vi sono le circo-
stanze peculiari, avoca a sé il caso; oppure dice all‟Ordinario di avviare la causa nel proprio tribunale e dà le nor-
me che devono essere seguite. Il Tribunale di appello di secondo grado è solo e sempre la CDF. Viene stabilito
anche il tempo della prescrizione per i delitti riservati alla Congregazione: 10 anni, che per il delitto con un mino-
re decorrono dal diciottesimo anno compiuto del minore (art. 5). Vengono anche richiamate alcune norme: giu-
dici, promotore di giustizia, notai e avvocati devono essere sempre sacerdoti. I Tribunali locali devono giudicare
secondo i codici propri (CIC e CCEO) insieme alle norme proprie della Congregazione. Tali cause infine sono
soggette al segreto pontificio» (p. 37).
99
abbia cura di provvedere nel miglior modo possibile a chi è stato dimesso dallo stato clericale e che, a cau-
sa della pena, sia veramente bisognoso».

3. Rescritto della Sede Apostolica, mediante il quale la Santa Sede concede la dispensa dello sta-
to clericale per cause gravi ai diaconi e gravissime ai presbiteri151.

La perdita dello stato clericale per indulto non era prevista dal codice del 1917, il
quale prevedeva soltanto la possibilità della «riduzione allo stato laicale» (can. 214), per il
chierico che fosse stato ordinato sotto timore grave e che, passato il timore, non avesse
ratificato almeno tacitamente con l‟esercizio dell‟ordine la stessa ordinazione.

Di fatto però cominciò a introdursi qualche possibilità di ottenere dalla Santa Se-
de la dispensa dagli oneri sacerdotali; possibilità che venne ufficializzata sotto il pontifi-
cato di Paolo VI. Nella sua enciclica Sacerdotalis caelibatus del 24 giugno 1967, il Sommo
Pontefice allargava la normativa canonica, quando scriveva che, nel giudizio relativo alla
sacra ordinazione, compresa quella sacerdotale, le indagini fossero «estese anche ad altri casi
e motivi gravissimi non previsti dall’attuale legislazione canonica, i quali possono dare luogo a fondati e
reali dubbi sulla piena libertà e responsabilità del candidato al sacerdozio e sull’idoneità allo stato sacer-
dotale, in modo da liberare quanti, in un giudizio dato a norma di legge, siano dichiarati effettivamente
non adatti».

In seguito lo stesso Pontefice, tramite la Congregazione per la dottrina della fede,


emanò delle disposizioni che regolavano la concessione della dispensa dagli oneri sacer-
dotali (lettera circolare del 13 gennaio 1971). Il Santo Padre intendeva provvedere anzi-
tutto a quei sacerdoti che avevano lasciato il loro ministero sacerdotale da tanti anni e
che ormai, legati da nuovi vincoli, non potevano più tornare all‟esercizio ministeriale.
D‟altra parte la malattia, l‟età avanzata e la nuova situazione consigliavano di concedere
loro la dispensa, perché potessero riconciliarsi con Dio e con la Chiesa e quindi vivere
tranquillamente la loro vita cristiana. In tale situazione l‟autorità competente considerò
necessario un momento di riflessione, in vista di una nuova normativa. Questa fu pro-

151Non è considerata la dispensa del celibato a coloro che sono insigniti con l‟ordine sacro di primo grado, cioè
per i Vescovi. Tuttavia quest‟anno 2008 abbiamo ricevuto una “novità eccezionale”, quale fu la dispensa conces-
sa a Mons. Fernando Lugo, Vescovo del Paraguay già sospeso ad divinis con decreto del 20 gennaio 2007 firmato
dal Card. Giovanni Battista Re, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, perché si era presentato come candi-
dato alla Presidenza della Repubblica del Paraguay, essendo stato eletto (cfr. CIC, can. 1333 §1).
100
mulgata, per incarico del Papa Giovanni Paolo II, dalla Congregazione per la dottrina
della fede, in data 14 ottobre 1980. Le nuove norme di procedura sono accompagnate da
una lettera a tutti gli ordinari dei luoghi e ai superiori generali degli istituti clericali.

La lettera passa quindi a dare i criteri che dovranno essere tenuti presenti in se-
guito nell‟inoltrare le domande per la dispensa dagli oneri sacerdotali: «Nell’esame delle do-
mande rivolte alla Santa Sede, oltre i casi dei sacerdoti che, avendo abbandonato già da molto tempo la
vita sacerdotale, desiderano sanare una situazione dalla quale non possono ritirarsi, la Sacra congrega-
zione per la dottrina della fede prenderà in considerazione il caso di coloro che non avrebbero dovuto rice-
vere l’ordinazione sacerdotale, perché è mancata la necessaria attenzione o alla libertà o alla responsabi-
lità, oppure perché i superiori competenti, al momento opportuno, non sono stati in grado di valutare
prudentemente e sufficientemente se il candidato fosse realmente idoneo a condurre perpetuamente la vita
nel celibato consacrato a Dio».

Nelle norme di procedura viene stabilito chi sia l‟ordinario competente ad avviare
l‟istruttoria per la richiesta alla Santa Sede della dispensa dagli oneri sacerdotali e quali
siano le norme da osservare. Espletata l‟istruttoria, attraverso l‟interrogatorio del richie-
dente, di eventuali testi, alla presenza del notaio e sotto giuramento circa la verità delle
deposizioni, allegata la dichiarazione dell‟ordinario del luogo secondo la quale
un‟eventuale concessione della dispensa dagli oneri sacerdotali non creerebbe scandalo
fra i fedeli, l‟ordinario competente dovrà fare una prima valutazione: giudicare se
dall‟istruttoria risultano i motivi previsti per la concessione della dispensa stessa da parte
della Santa Sede. Nel caso che esistano tali motivi, la pratica, con la domanda del richie-
dente, viene inoltrata alla Sacra congregazione per la dottrina della fede, la quale esami-
nata la richiesta, emetterà il suo parere. Se sussistono i motivi per una concessione, la
domanda viene inoltrata al Santo Padre, il quale deciderà se concedere o no la dispensa.

Ma ritorniamo ai canoni per ulteriori precisazioni. La competenza per concedere


l‟indulto, mediante rescritto, di dispensa dagli oneri clericali appartiene alla Santa Sede. La di-
spensa richiede, a norma del can. 90, una giusta causa. Tale causa deve essere grave per la di-
spensa del diacono, e gravissima per il sacerdote. Tale rescritto comporta non solo la perdita
dello stato clericale, ma anche del celibato. Di fatto la dispensa dagli oneri del diacono viene da-

101
ta dalle Congregazioni competenti, fino al 1989 erano competenti la Congregazione per il Clero,
la Congregazione per le Chiese Orientali o la Congregazione dei Religiosi; poi è diventata com-
petente la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. La dispensa invece
dagli oneri sacerdotali compreso il celibato è riservata personalmente al Santo Padre, secondo le
norme di procedura sopra indicate. I vescovi diocesani non possono dispensare dal celibato ec-
clesiastico in nessun caso, come afferma il can. 87 §2.

Infine, rileviamo che la perdita dello stato clericale è per sé perpetua. Pertanto «il chierico
che ha perduto lo stato clericale non può essere nuovamente ascritto tra i chierici, se non per rescritto della Sede
Apostolica» (can. 293). Di fatto oggi non sono rari i casi in cui la sede apostolica riammette allo
stato clericale e quindi all‟esercizio del ministero sacerdoti che lo chiedono e che siano nelle
condizioni di poter adempierne gli obblighi.

Con l‟entrata in vigore della Costituzione Apostolica “Pastor bonus”, il 1 marzo 1989, la
competenza per le dispense passò alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sa-
cramenti. Essa mandò il 6 giugno una lettera circolare agli ordinari del luogo e i moderatori su-
premi degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica. La Congregazione ribadi-
sce che essa non respinge a priori le petizioni di sacerdoti che non hanno ancora compiuto 40
anni. Considera in casi eccezionali tali petizioni e li fa valutari da una commissione speciale. I
motivi devono essere più gravi che per coloro che per i sacerdoti più anziani. Il motivo più im-
portante è il grave scandalo nei casi in cui delle difficoltà con il celibato si manifestavano già nel
periodo della formazione, ma non erano sufficientemente prese in considerazione dai formato-
ri. In tale lettera la Congregazione ricorda che gli ordinari devono, se l‟oratore versa in pericolo
di morte, mandare immediatamente un Fax con la petizione dell‟oratore e il proprio voto. Data
l‟urgenza, si fa a meno del procedimento ordinario.

Il celibato riguarda i diaconi sposati perché non possono risposarsi dopo la morte della
moglie. Si concede però la dispensa nei casi seguenti:

1) notevole e provata utilità del servizio del diacono per la Chiesa locale alla quale appartie-
ne;

2) figli minorenni che necessitano della cura materna;

3) presenza di genitori o suoceri anziani che hanno bisogno di assistenza.


102
Mentre prima della lettera della Congregazione del 1997 si richiedeva la presenza con-
temporanea di tutti motivi, ora basta uno solo.

Secondo il canone 291, la perdita dello stato clericale non comporta ipso iure, la dispensa
del celibato, giacché questa è competenze esclusiva del Romano pontefice. L‟unica eccezione
riguarda alla dichiarazione della nullità della sacra ordinazione.

Gli effetti derivanti dalla perdita dello stato clericale sono (can. 292):

1. perde ipso facto tutti i diritti propri di tale stato;

2. è libero da tutti gli obblighi connessi allo stato clericale;

3. non può esercitare la potestà di ordine152;

4. è privato eo ipso di tutti gli uffici e incarichi;

5. è privato eo ipso di qualsiasi potestà delegata.

152 Il PONTIFICIO CONSIGLIO PER L‟INTERPRETAZIONE DEI TESTI LEGISLATIVI, in una dichiarazione del 19
maggio 1997 (cfr. Notitiae, an. 33 (1997), p. 324-326), dichiara l‟illegittimità di chiedere, ad un sacerdote che ha
attentato matrimonio, la celebrazione della Santa Messa. Il documento sostiene, al n° 1: «…, al chierico che abbia
attentato il matrimonio, non è lecito in alcun modo esercitare i sacri ordini, e segnatamente celebrare l‟Eucaristia;
né i fedeli possono legittimamente richiederne per qualsiasi motivo, tranne il pericolo di morte, il ministero».
Chiarifica, inoltre, al n° 2: «Il diritto dei fedeli ai beni spirituali della Chiesa (cf. can. 213 CIC e 16 CCEO) non
può essere concepito in modo da giustificare una simile pretesa dal momento che tali diritti debbono essere eser-
citati entro i limiti e nel rispetto della normativa canonica».
103
6. LE PRELATURE PERSONALI (CAN. 294-297)

6.1 L’origine delle prelature personali

Dal punto di vista giuridico, c‟incontriamo di fronte ad una delle novità più rilevanti e
significative nel nuovo Codice di Diritto Canonico: è, infatti, una nuova struttura che sorge e
prende vita nel complesso delle strutture ecclesiali.

Anche qui, però, siamo nella linea del Concilio Vaticano II, e non in un arbitrario proce-
dere istituzionale da parte della Suprema autorità. Il Decreto Presbyterorum ordinis, infatti, affer-
ma:

«E lì dove ciò sia reso necessario da motivi apostolici, si faciliti non solo una funzionale distribuzione dei
presbiteri, ma anche l’attuazione di peculiari iniziative pastorali in favore di diversi gruppi sociali in cer-
te regioni o nazioni o addirittura in tutto il mondo. A questo scopo potrà essere utile la creazione di se-
minari internazionali, peculiari diocesi o prelature personali, e altre istituzioni del genere, cui po-
tranno essere iscritti o incardinati dei presbiteri per il bene di tutta la Chiesa, secondo norma da stabilir-
si per ognuna di queste istituzioni, e rispettando sempre i diritti degli ordinari del luogo»153.

Con questo, il Concilio intende allargare il concetto di diocesi e prelatura che fino ad es-
so si teneva, e cioè, passare da un concetto eminentemente territoriale ad uno personale. A sua
volta Ad gentes prospetta la possibilità di integrare in una prelatura personale quei gruppi socio-
culturali esistenti in una regione determinata, i quali, a causa di differenti abitudini di vita, tradi-
zioni, ecc., non riescano facilmente ad adattarsi alla forma peculiare che la Chiesa ha ivi assun-
to154, quindi, per ragioni di apostolato e di più efficace annuncio evangelico155.

Le norme relative alle prelature personali furono sviluppate nel motu proprio Ecclesiae
sanctae, dove si prevede che i fedeli laici appartenenti a tali prelature possano anche partecipare
alla realizzazione dei compiti apostolica propri delle stesse, stipulando a tale scopo l‟opportuna

153 PO, n° 10.


154 Cfr. AG, n° 20, nota 4; n° 27, nota 28.
155 Cfr. S. CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Declaratio Praelaturas personalis, 23 ago. 1982, in: EV 8/276: «Le

prelature personali…, rappresentano un‟ulteriore prova della sensibilità con la quale la Chiesa risponde alle parti-
colari necessità pastorali ed evangelizzatrici del nostro tempo».
104
convenzione156. La costituzione apostolica Regimini ecclesiae universae attribuisce alla Congregazio-
ne per i Vescovi, la competenza sulle prelature personali e sui loro prelati, nei luoghi non sog-
getti alla Congregazione per le chiese orientali o alla Congregazione di Propaganda Fide 157. In-
fine, trattando sulla diocesi, si considera la possibilità delle Prelature nel Direttorio pastorale dei
Vescovi Ecclesiae imago (2 nov. 1973)158.

Nonostante durante i lavori del Concilio e nei documenti applicativi postconciliari si fos-
se chiarita la natura e i fini delle Prelature, nei lavori di riforma del Codice vi fu sempre la ten-
denza ad assimilare le Prelature alle Chiese particolari. Lo dimostra il fatto che fino allo Schema
del 1980 le Prelature erano ancora definite come una porzione del Popolo di Dio sotto la giuri-
sdizione di un Prelato, alla guisa del Vicariato castrense. Bisognerà attendere i lavori della Plena-
ria del 1981, dalla quale fu elaborato lo Schema novissimum del 1982: in esso le Prelature non figu-
ravano più tra le chiese particolari, anche se ancora nella Parte II sulla costituzione gerarchica
della Chiesa159.

Tuttavia, senza negare gli elementi comuni con le diocesi (entrambe sono forme giuri-
sdizionali d‟organizzazione della chiesa per l‟adempimento della sua missione pastorale),
nell‟ultima fase dell‟elaborazione del Codice prevalse l‟opinione secondo la quale accanto alle
diocesi si dovevano enumerare nel medesimo titolo soltanto le entità giurisdizionali (prelature
territoriali, vicariati e prefetture apostoliche, ecc.) territorialmente circoscritte 160. Per tale ragio-
ni, il titolo sulle prelature fu trasferito nel luogo che attualmente occupa, lasciando agli statuti di
ognuna di loro l‟ulteriore determinazione delle norme secondo le quali si debba reggere.

Nel mese di agosto del 1982, alla legislazione appena riportata venne data l‟attuazione
concreta con l‟annuncio pubblico della istituzione della prima Prelatura personale della Santa
Croce e Opus Dei. La dichiarazione della S. Congregazione per i vescovi porta, infatti, la data del

156 Cfr. Ecclesiae sanctae, I, n° 4, in: EV 2/764.


157 Cfr. Regimini Ecclesiae universae, n° 49 §1, in: EV 2/1589.
158 Ecclesiae imago, n° 172, in: EV 4/2223.
159 Cfr. L. SABBARESE, I fedeli costituiti popolo di Dio, p. 117.
160 Cfr. G. LO CASTRO, Le prelature personali nell’esperienza giuridica e nel dibattito dottrinale dell’ultimo decennio, in: Il dirit-

to ecclesiastico, an. 1(1999), p. 119: «…le prelature personali differiscono dalle chiese particolari in senso stretto non
tanto perché circoscrizioni di carattere personale, quanto per le finalità e per le correlative funzioni: essendo le
prelature personali costituite per il perseguimento di scopi specifici (can. 294), che le distinguono anche fra di lo-
ro; mentre le diocesi sorgono per lo scopo generale, e perciò onnicomprensivo, di rendere presente ed operante
in esse “la Chiesa di cristo, una, santa, cattolica e apostolica” (decr. Christus Dominus, 11)».
105
23 di agosto, stante l‟approvazione al documento del Santo Padre il 5 di agosto. La dichiarazio-
ne venne pubblicata in L’Osservatore Romano, però, solo il 28 di nov. 1982, data in cui il Papa
Giovanni Paolo II promulgò la Costituzione apostolica Ut sit validum161, nominando in pari
tempo a Prelato Generale dell‟Opus Dei Mons. Alvaro del Portillo, già Presidente Generale.

«L’erezione della prima Prelatura personale appare quindi attuazione del Concilio, proprio perché fu
fatta prima della promulgazione del nuovo Codice di Diritto Canonico; assume quindi una particolare
importanza, in quanto rientra praticamente nella serie delle realizzazioni concrete dello spirito conciliare
e delle sue norme di applicazione. Il Codice regolerà per il futuro questa complessa e delicata materia»162.

Con tale costituzione apostolica si metteva in pratica per la prima volta la figura giuridica
della prelatura personale; questo documento, pertanto, ha un valore ermeneutico notevole, in
ordine ad una corretta comprensione delle prelature e ad un‟esatta interpretazione della norma-
tiva vigente.

6.2 L’erezione e la composizione

Il Codice del 1983 presenta una novità rispetto agli schemi anteriori, in particolare allo
schema del 1982. Quest‟ultimo cambiamento si riferisce alla sistemazione della materia: dalla
parte II, De Ecclesiae constitutione hierarchica, Sezione II, De Ecclesiis particularibus deque earundem
coetibus, titolo IV, passa all‟attuale titolo IV della parte I, De christifidelibus, precedendo la norma-
tiva sulle associazioni dei fedeli.

I can. 294-297 costituiscono una legge quadro o complesso di disposizioni normative di


carattere generale a cui devono adeguarsi tutte le prelature personali, le quali avranno, inoltre, i
propri statuti, sanciti dalla Santa Sede (can. 295 §1), nei quali si dovranno determinare ulterior-
mente la finalità di ciascuna di esse nonché la loro composizione concreta, la potestà del prela-
to, i criteri di appartenenza dei fedeli laici, ecc.

Secondo il dettato del can. 294, una prelatura personale può essere eretta:

161In: EV 8/462-471.
162P.G. MARCUZZI, Le prelature personali nel nuovo Codice di diritto canonico, in: Apollinaris, an. 56 (1983), p. 466. Que-
sto articolo presenta una semplice ma accurata presentazione dell‟evoluzione che ha avuto la normativa sulle Pre-
lature personali nei diversi schemi fino al Codice del 1983.
106
a) al fine di promuovere un‟adeguata distribuzione dei presbiteri: questa finalità deve in-
tendersi non in un senso puramente geografico, e cioè che una prelatura sia creata con lo
scopo generico di fornire sacerdoti ad altre diocesi con scarsità di clero (necessità alla
quale si può provvedere anche tramite il trasferimento di sacerdoti: can. 268ss), ma nel
senso che la prelatura possa inviare alle diocesi che li richiedano sacerdoti dotati di una
preparazione specifica, per lo svolgimento di determinati apostolati; oppure,

b) al fine di attuare peculiari opere pastorali o missionarie per le diverse regioni o per i di-
versi raggruppamenti sociali. Quanto al carattere peculiare dell‟opera pastorale, svolta da
una prelatura personale, è da notare che essa può essere eretta:

- sia per la realizzazione di una peculiare opera pastorale da svolgersi in seno alle
chiese locali, nel qual caso la prelatura stessa, stabilendosi nelle singole diocesi
con il consenso del vescovo rispettivo, eserciterà nelle medesime le opere pasto-
rali per le quali sia stata istituita;

- sia per assumere la cura ordinaria di un gruppo di fedeli con caratteristiche peculia-
ri.

La loro natura è di carattere clericale, stante le finalità che è chiamata a conseguire e la


composizione dei membri, di cui si tratta nel can. 294. I chierici conservano la caratteristica di
far parte del clero secolare, a guisa degli altri chierici incardinati nelle Chiese particolari.

L‟erezione di una prelatura personale spetta in esclusiva alla Santa Sede, nel caso specifi-
co, la competenza spetta alla Congregazione per i Vescovi 163, la quale ascolta previamente le
Conferenze episcopali interessate (can. 294).

Parimenti, la prelatura avrà i propri statuti, sanciti dalla Sede apostolica (can. 295 §1), nei
quali si determinerà, fra l‟altro, l‟eventuale partecipazione di laici all‟apostolato della prelatura
(can. 296), nonché i rapporti della prelatura con i vescovi diocesani dei territori nei quali essa
svolga le mansioni pastorali affidatele (can. 297). In questi statuti saranno stabiliti, inoltre, i fini
e le attività proprie (can. 294), le norme circa la formazione in seminario (can. 295 §1), specie la

163 Cfr. Pastor bonus, n° 80.


107
formazione spirituale degli alunni promossi agli ordini con il titolo della Prelatura (can. 294) e le
norme circa il loro sostentamento (can. 295 §2).

In una prelatura personale bisogna distinguere:

 Il prelato164, che è il suo ordinario proprio, al quale spetta il governo e, pertanto, di dirige-
re tutta l‟attività della prelatura e di dettare norme di carattere legislativo o amministrati-
vo, ecc.; la sua giurisdizione è limitata ai peculiari compiti apostolici della prelatura. Tra
le altre manifestazioni della sua potestà, il Codice di diritto canonico indica espressamen-
te che egli può erigere il seminario nazionale o internazionale e incardinare i chierici alla
prelatura (can. 295 §1).

Qualunque prelatura è, in effetti, una struttura giurisdizionale e gerarchica a cui è prepo-


sto un prelato il quale la regge come ordinario e pastore proprio, con giurisdizione circoscritta al
suo particolare compito pastorale e apostolico, diverso dalla cura pastorale ordinaria dei vescovi
diocesani. Infatti, il canone 295 del Codice di diritto canonico afferma che il governo della prelatura personale
è affidato ad un prelato, che n‟è l‟ordinario proprio165.

164 Il prelato, la cui competenza si restringe alla formazione, incardinazione, promozione agli ordini, destinazione
e sostentamento del clero della prelatura, è preposto ad essa come suo ordinario proprio (can. 295), tuttavia,
mentre può essere compreso sotto il can. 134 §1 come ordinario personale analogicamente ai superiori delle so-
cietà di vita apostolica di diritto pontificio, non può essere né assimilato né equiparato al vescovo diocesano; per
questa ragione non viene compreso nel can. 381 §2 e non fa parte di alcuna conferenza dei vescovi (cfr. Nuovo
Dizionario di Diritto Canonico, p. 820).
165 In conformità con tale canone, la costituzione apostolica Ut sit dispone, all‟articolo IV: «L’Ordinario proprio della

prelatura dell’Opus Dei è il suo Prelato». L‟Opus Dei costituisce quindi un‟unità organica e indivisibile, sulla quale, nel
suo insieme, viene esercitata la giurisdizione del prelato in modo tale che tutti i fedeli della prelatura, secondo la
loro relativa funzione e posizione all'interno di tale unità, e tenendo presente la missione della prelatura, sono
sottoposti alla giurisdizione del prelato. Perciò l‟articolo III della costituzione Ut sit descrive tale giurisdizione nei
seguenti termini: «La giurisdizione della prelatura personale si estende ai chierici in essa incardinati, nonché ai lai-
ci che si dedicano alle opere apostoliche della stessa prelatura, limitatamente per questi ultimi all‟adempimento
dei peculiari obblighi che essi hanno assunto con vincolo giuridico, mediante una convenzione con la prelatura:
gli uni e gli altri, chierici e laici, dipendono dall‟autorità del prelato nello svolgimento dell‟opera pastorale della
medesima prelatura, a norma di quanto prescritto nell‟articolo precedente».
L‟articolo che precede la bolla Ut sit stabilisce che le norme dalle quali è retta la prelatura sono il diritto generale,
la costituzione apostolica Ut sit e il Codex iurís particularis Operis Dei. La dichiarazione Praelaturae personales presenta
un riassunto delle norme che determinano la potestà del prelato. Essa dichiara che si tratta di una potestà ordina-
ria di regime o di giurisdizione, limitata a ciò che riguarda il fine specifico della prelatura, e la distingue da quella
che compete ai vescovi diocesani nell‟ordinaria cura pastorale dei fedeli. Precisando ulteriormente, la dichiarazio-
ne dice che tale potestà comporta, oltre al regime del proprio clero, la generale direzione della formazione e della
cura spirituale e apostolica specifica che ricevono i laici incorporati nell‟Opus Dei, in vista di una maggiore dedi-
zione al servizio della Chiesa.
La dichiarazione evidenza poi l‟ampiezza della giurisdizione del prelato e la sua responsabilità nei confronti del
clero della prelatura: «Insieme al diritto di incardinare i propri candidati al sacerdozio, il prelato ha l‟onere di cu-
108
 Il clero della prelatura, che compone il suo presbiterio. Esso è composto da presbiteri del clero
secolare con la collaborazione di diaconi (can. 294), che ordinariamente hanno ricevuto la pro-
pria formazione nel seminario, nazionale o internazionale, della prelatura e sono incardinati alla
stessa, per dedicarsi ai suoi apostolati. Dopo l‟ordinazione, il prelato deve provvedere sia alla
formazione spirituale del proprio clero, sia al suo decoroso sostentamento (can. 295). Pertanto,
per quanto riguarda i sacerdoti incardinati nella prelatura, tale giurisdizione è piena per il foro
sia interno e per quello esterno, e si estende, in pratica, a tutto ciò che deriva dal vincolo
dell‟incardinazione: formazione, regime disciplinare, missione canonica e le facoltà ministeriali
riguardo ai fedeli della prelatura, riguardo alla missione che essa svolge, ecc.
Giunto il momento dell‟ordinazione, compete al prelato dare le dimissorie; dal prelato,
inoltre, i nuovi sacerdoti ricevono la missione canonica con le opportune licenze ministeriali per
celebrare la santa messa, predicare la parola di Dio e ascoltare le confessioni; e dipendono da lui
per quanto riguarda la destinazione a una determinata circoscrizione.

 I laici sono sotto la giurisdizione del prelato per quanto riguarda il compimento dei peculiari im-
pegni ascetici, formativi e apostolici da loro liberamente assunti tramite il vincolo di dedizione al
fine proprio della prelatura (can. 296). Essi sono sottoposti alla giurisdizione del vescovo dioce-
sano in tutto quanto il diritto stabilisce per la generalità dei semplici fedeli, quindi, continuano
ad essere tali nelle singole diocesi nelle quali hanno il proprio domicilio o quasi-domicilio (can.
107 §1). Loro dipendono dal Prelato limitatamente alla cooperazione organica, cui si sono im-
pegnati mediante convenzione166, in quanto si dedicano alle finalità proprie della Prelatura.
Il carattere personale e la varietà di forme che possono assumere le Prelature, fanno sì
che non esista un criterio unico d‟appartenenza dei fedeli laici alle stesse, com‟è il domicilio per
quanto riguarda le strutture territoriali. Tale rapporto dovrà fondarsi, invece, sulle circostanze
personali (unite o meno ad altre di carattere territoriale) determinate negli statuti delle singole
prelature.

rare la loro specifica formazione nei propri centri, conforme alle direttive della Congregazione competente, non-
ché la vita spirituale e la formazione permanente dei sacerdoti da lui promossi ai sacri ordini, così come il loro
dignitoso sostentamento e la necessaria assistenza in caso di malattia, vecchiaia, ecc.».
166 P.G. MARCUZZI, Le prelature personali nel nuovo Codice di diritto canonico, in: Apollinaris, an. 56 (1983), p. 472:

«Quale l‟effetto giuridico di tale convenzione? È interessante confrontare i diversi testi. La Dichiarazione della S.
CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Praelaturae personales, II b, parla di “laici Praelaturae incorporati”, e più avanti
ancora al IV ci riporta la medesima frase; quindi l‟effetto giuridico più evidente sarebbe l‟incorporazione dei laici
alla Prelatura personale. Tale incorporazione però non sottrae dalla giurisdizione dei rispettivi Vescovi diocesani,
limitando la giurisdizione personale del Prelato a ciò che riguarda l‟adempimento di particolari obblighi, concer-
nenti la vita spirituale, la formazione dottrinale e l‟esercizio dell‟apostolato, dei laici che liberamente li hanno as-
sunti “vinculo deditionis ad finem Praelaturae proprium” (III d)».
109
6.3 Il rapporto con le Chiese locali

I rapporti della Prelatura personale con gli Ordinari di luogo sono definiti dagli statuti
propri della medesima Prelatura. Gli Ordinari di luogo non sono tutti i vescovi della Chiesa u-
niversale, ma soltanto quelli nelle cui Chiese particolari la Prelatura esercita, di fatto, oppure in-
tende esercitare le sue opere pastorali o missionarie.

È ovvio che, essendo di natura personale e operando quindi entro l‟ambito territoriale
appartenente ad una Chiesa locale, la prelatura personale dovrà sostenere dei rapporti armonici
con la stessa. Per quanto concerne tali rapporti fra strutture appartenenti all‟organizzazione pa-
storale della Chiesa, possiamo distinguere concretamente tre diverse fattispecie:

o Se una prelatura personale è costituita per la cura pastorale ordinaria di un raggruppa-


mento di fedeli, i rapporti dovranno essere simili a quelli che intercorrono, per esempio,
fra l‟ordinariato militare e le rispettive diocesi territoriali.

o Se la prelatura esercita le sue opere pastorali in seno alle chiese locali, oltre al consenso
del vescovo diocesano previo al suo stabilirsi nella diocesi e previsto nel can. 297, gli sta-
tuti dovranno indicare quali altri requisiti si debbano adempiere nei singoli casi, affinché
l‟azione della prelatura personale resti sempre armonicamente inserita nella pastorale or-
ganica della Chiesa universale e in quella delle chiese locali.

o Infine, se una prelatura personale intende promuovere un‟adeguata distribuzione di pre-


sbiteri, gli statuti dovranno prevedere come e in quali condizioni potranno essere inviati
nelle singole diocesi che li richiedano, e nelle quali essi dipenderanno dal vescovo dioce-
sano nello svolgimento del ministero loro affidato.

La figura del Vescovo diocesano e quella del Prelato, sono giuridicamente distinte tra lo-
ro, ma esercitano una potestà mista, quindi, rivolta alle medesime persone ma non per la mede-
sima materia. Così risulta che il Vescovo diocesano ha potestà esclusiva per quanto concerne la
cura delle anime e l‟esercizio del culto pubblico, ma non, di per sé, per quanto si riferisce allo
stile di vita proprio della Prelatura e alle opere che questa svolge in diocesi, salvo in caso d‟abusi
e fermo restando il principio della mutua collaborazione, cose tutte da precisarsi negli statuti
della Prelatura.

110
7. LE ASSOCIAZIONI DEI FEDELI (CAN. 298-329)

Tra le più significative innovazioni introdotte dal Codice del 1983 alla luce degli inse-
gnamenti del Concilio Vaticano II, viene annoverato il riconoscimento del diritto di associazio-
ne. Questo non significa che prima non ci fossero delle associazioni, ma che la comprensione di
esse è diversa dalla nuova codificazione: nel codice del 1917, infatti, le associazioni appartene-
vano unicamente allo stato laicale e ne esaurivano praticamente l‟intera trattazione, senza che si
accennasse minimamente alle associazioni delle altre categorie di fedeli167.

Prima delle codificazioni, ai laici era solo richiesto di avvalersi degli aiuti spirituali offerti
dalla gerarchia e di conformarsi alle sue direttive in modo disciplinato ed obbediente. Una con-
cezione, quindi, che non lasciava molto spazio alla iniziativa personale dei fedeli in genere e alla
libertà associativa in specie, tanto più che l‟autorità ecclesiastiche ─dopo aver normalizzato le
confraternite, riconducendole sotto il proprio controllo─ si erano fatte esse stesse, in molti pae-
si, promotrici di associazioni di notevole rilevanza, privilegiandole decisamente e raccomandan-
dole caldamente all‟adesione dei rispettivi sudditi.

Tale processo di sostanziale limitazione della libertà associativa raggiunge il culmine con
la codificazione Pio benedettina che, come noto, definisce degni di lode quanti si iscrivono alle
associazioni erette o almeno raccomandate dalla gerarchia168, quasi che solo le aggregazioni do-
tate di tali qualifiche meritino di essere prese in considerazione.

Una posizione più aperta viene assunta pochi anni dopo dalla risoluzione della Congre-
gazione del Concilio “Corrientensis”, dal 13 novembre 1920169, con la quale si ammette che i bat-
tezzati costituiscano, mediante un accordo di natura privata, associazioni che peraltro non sono
riconosciute agli effetti giuridici e finiscono quindi con l‟essere relegate ai margini
dell‟ordinamento canonico.

La valorizzazione della figura del fedele operata dal Concilio Vaticano II impone un pro-
fondo riesame di tutta la questione. I padri conciliari, infatti, ricordano che “l’uomo, per natura

167 Cfr. CIC-1917, can. 684-725.


168 Cfr. CIC-1917, can. 684: «Sono degni di lode i fedeli che s‟iscrivono nelle associazioni erette o almeno racco-
mandate dalla Chiesa; ma fuggiranno delle associazioni segrete, condannate, sediziose, sospette o che procurino
sottrarsi alla legittima vigilanza della Chiesa».
169 AAS, 13(1921), p. 135-144.

111
sua, è sociale”170. A Concilio già iniziato, Giovanni XXIII aveva evidenziato come “dall’intrinseca
socialità degli esseri umani” derivasse il diritto di associazione, riconoscendo nelle associazioni e nei
corpi intermedi “un elemento necessario e insostituibile perché sia assicurata alla persona umana una sfera
sufficiente di libertà e di responsabilità”171.

Il magistero conciliare si rivela originale e innovativo: oltre a sancire formalmente la li-


bertà associativa, la fonda su argomentazioni di natura propriamente ecclesiologica, presentan-
do le associazioni non come una realtà marginale e meramente eventuale nella vita della comu-
nità cristiana, ma come un segno dello stesso mistero della Chiesa, della sua comunione e della
sua unità in Cristo. Le associazione infatti, a giudizio dei padri conciliari, possono favorire e raf-
forzare “una più intima unione tra la vita pratica dei membri e la loro fede” e devono, in ogni caso, “ser-
vire a compiere la missione della Chiesa nei riguardi del mondo”172. Esse, quindi, sono di “grande impor-
tanza” poiché “spesso l’apostolato richiede di essere esercitato con azione comune”, e si rivelano assoluta-
mente necessarie negli ambienti di lavoro dove “solo la stretta unione delle forze è in grado di raggiunge-
re pienamente tutte le finalità dell’apostolato odierno e di difendere validamente i beni”173.

Tutti questi insegnamenti riguardano esclusivamente i laici dal momento che, a proposi-
to dei chierici, ci si limita a raccomandare “le associazioni che, in base a statuti riconosciuti dall’autorità
ecclesiastica competente, ravvivano ─grazie a un metodo di vita convenientemente ordinato e approvato, e
all’aiuto fraterno─ la santità dei sacerdoti nell’esercizio del ministero, e mirando in tal modo al servizio di tutto
l’ordine dei presbiteri”174. Il Vaticano II riconosce, dunque, formalmente il diritto di associazione ai
soli laici ma adducendo motivazioni di portata tanto generale da risultare valide per tutti i bat-
tezzati.

7.1 Fondazione e finalità delle associazioni (can. 215; 298-300)

Il Codice del 1917 contemplava le associazioni dei fedeli secondo una classificazione che
le distingueva in terzi ordini, confraternite e pie unioni. Il canone 684 considerava degni di lode
quei fedeli che si ascrivevano ad associazioni erette o almeno raccomandate dalla Chiesa, e da

170 Cfr. AA, n° 18.


171 GIOVANI XXIII, Enciclica Pacem in terris, parte I, n° 6.
172 AA, n° 19.
173 AA, n° 18.
174 PO, n° 8.

112
dove si può rilevare la legittima esistenza di associazioni non erette né approvate dall‟autorità;
ma il can. 686 enunciava la regola generale che nessuna associazione è riconosciuta nella Chiesa
se non è stata eretta o almeno approvata dalla legittima autorità ecclesiastica, e il can. 689 di-
sponeva che ogni associazione avesse un proprio statuto da sottoporre all‟esame e
all‟approvazione della Santa Sede o dell‟ordinario del luogo.

Quest‟intima connessione tra elemento associativo ed elemento gerarchico fu, tuttavia,


ben presto oggetto da un‟importante risoluzione della Sacra congregazione del concilio, la
Resolutio Corrientensis solo di qualche anno posteriore alla promulgazione del Codice. Il docu-
mento ha per oggetto la soluzione di un dubium circa la dipendenza della Conferenza di S. Vin-
cenzo dalla potestà dell‟ordinario diocesano, trattandosi di un‟associazione non eretta e nem-
meno approvata dall‟autorità ecclesiastica, ma costituita privata conventione e diffusa come società
laica, cioè non ecclesiastica, che non ripete, quindi, la propria esistenza da un atto dell‟autorità
medesima. Il documento rileva che, pur non essendo «ecclesiastica» in senso canonico, la Confe-
renza ebbe il favore della Chiesa, fu lodata da tutti i vescovi, incoraggiata e dotata di molte in-
dulgenze dai Romani Pontefici e ha conservato fin dall‟inizio un‟intima coniunctio con le autorità
ecclesiastiche175.

La Resolutio pone la distinzione tra associazioni ecclesiastiche e associazioni laiche costi-


tuite per un fine pio: le associazioni che possono essere qualificate ecclesiastiche in senso stretto
sono quelle dirette dall‟autorità e che ripetono la loro esistenza dall‟atto di erezione; ma oltre
questa, vi sono ancora unioni di fedeli che sono costituite sotto la potestà e il regime dei laici.
Poiché queste ultime non ricevono la loro esistenza ab ecclesia (cioè non esistono per un atto
dell‟autorità, né da questa sono riconosciute quoad iuris effectus), discende che le medesime non
sono governate e rette dall‟autorità, ma dagli stessi laici designati nei rispettivi statuti. L‟autorità,
tuttavia, non è del tutto priva di poteri nei confronti di tali associazioni laicali; in materia di fede

175 Cfr. SACRA CONGREGATIO CONCILII, Resolutio Corrientem., Iurisdictionis, seu dependentiae Conferentiarum
S. Vincentii a paulo a potestate Ordinarii loci, 13 nov. 1920, in: AAS, 13(1921), p. 139: «… oltre alle associazione
ecclesiastiche stricto sensu, erette e dirette dall‟autorità ecclesiastica, vi sono altre unioni di fedeli anche per un fine
pio, ma costituite sotto la potestà e il governo dei laici, meramente approvate o lodate dall‟autorità ecclesiastica,
che sorgono per l‟aiuto agli indigenti, ed esercitano opere di beneficenza a favore dei poveri, si occupano degli
infermi, della protezione delle vedove e degli orfani, promuovono una sana e cristiana educazione, o promuovo-
no il bene spirituale e la tutela morale dei giovani operai, o lottano contro i vizi imperanti. (…) siccome
l‟associazione non ha esistenza dalla Chiesa, né da essa viene riconosciuta circa gli effetti giuridici, non viene go-
vernata e diretta dall‟autorità ecclesiastica, ma da laici designati nei propri statuti».
113
e di costumi è evidente la soggezione di qualsiasi fedele e di qualunque associazione all‟autorità
della Chiesa: ma da ciò non segue che tali associazioni debbano essere sottoposte all‟ordinario
del luogo in ciò che concerne la costituzione, l‟esistenza, gli statuti, l‟attività e il governo interno
delle medesime. Come, infatti, i singoli fedeli in quanto tali sono soggetti alla giurisdizione del
vescovo, così vi rimangono quando si riuniscono in associazioni. Il vescovo, per questo solo
fatto, non può dirigere le suddette associazioni in forza della propria giurisdizione, allo stesso
modo in cui dirige quelle ecclesiastiche, ma tuttavia ha il dovere di vigilare secondo il disposto
del can. 336 §2.

Questo documento che delinea lo statuto di giusta libertà delle associazioni laicali è par-
ticolarmente interessante perché consente di cogliere i profili di quelli che nell‟insegnamento
conciliare e nella letteratura successiva sono indicati come gli elementi o criteri di ecclesialità
delle associazioni. Tali elementi consistono:

a) nel fine dell‟associazione, che deve essere un fine «pio» consistente, ad esempio, nella be-
neficenza ai poveri, nella cura degli infermi, nella protezione delle vedove e degli orfani,
nel procurare il bene spirituale e morale dei giovani, ecc.;

b) nella sottomissione alla Chiesa in materia di fede, di costumi e nell‟osservanza della di-
sciplina ecclesiastica;

c) nell‟intima comunione con l‟autorità ecclesiastica.

La distinzione che il codice del 1917 proponeva si basava sostanzialmente sul criterio
dell‟autorità, per cui si avevano:

a) associazioni erette dalla competente autorità (can. 684; 686 §1);

b) associazioni approvate dalla legittima autorità ecclesiastica (can. 686 §1);

c) associazioni raccomandate dalla Chiesa (can. 684).

Per quanto riguardava le associazioni in specie, abbiamo la seguente elencazione:

a) Terzi ordini secolari (can. 702-706): associazioni approvate con riconoscimento ufficiale
della loro esistenza da parte dell‟autorità ecclesiastica, senza che ciò comportasse

114
l‟acquisizione di personalità giuridica, ma solo l‟acquisizione di beni spirituali. La finalità
del Terzo ordine era il conseguimento della perfezione nella vita cristiana.

b) Confraternite (can. 707-725): potevano essere costituite solo per formale decreto di ere-
zione, mediante il quale una associazione acquistava ipso iure personalità giuridica. Le
Confraternite avevano come scopo l‟incremento del culto pubblico.

c) Pie unioni (can. 707-725): potevano essere semplicemente approvate o anche erette, allo
scopo di perseguire opere di carità o di pietà.

Fra le novità del codice del 1983 vi è la divisione delle associazione in pubbliche e priva-
te, divisione collegata a quella omonima fra le persone giuridiche. L‟uso di questa divisione ed
in particolare della terminologia “pubblico” e “privato” ha sollevato critiche in alcuni settori
della canonistica. Tale divisione, infatti, ha rispolverato le polemiche riguardanti l‟esistenza di
un vero diritto privato all‟interno del diritto canonico: per alcuni autori l‟uso di tali categorie
corrisponde a una trasposizione acritica nell‟ordinamento canonico di alcune categorie civilisti-
che, proprie del diritto secolare e, secondo loro, estranee al diritto della Chiesa. A sostegno
dell‟ineguadezza dell‟applicazione di questa divisione alle associazione di fedeli si fa notare che,
contrariamente a quanto possa far pensare la terminologia, le associazioni private sono davvero
associazione della Chiesa, agiscono anche al suo interno, e le sue attività sono ecclesiali: in bre-
ve, sono anche la Chiesa.

Le norme che regolano le associazioni private permettono di evidenziare i contenuti


principali del diritto di associazione del fedele176: la sua operatività nella costituzione dell‟ente,
nel suo governo lungo tutta la sua vita e anche nell‟estinzione. Perciò le attività dell‟associazione
privata si presentano sempre nella società ecclesiale come riflesso dell‟azione responsabile dei
fedeli nella Chiesa.

La comprensione della portata della distinzione fra associazione pubbliche e private con-
tribuisce in modo decisivo a capire il fatto che la suddetta distinzione non ne determina la mag-
giore o minore importanza nella Chiesa, e quindi un maggiore prestigio ecclesiale (come se le
associazioni pubbliche avessero preminenza su quelle private). La dignità di ogni associazione e

Circa il diritto di associazione, questo viene sancito nei canoni 215-216 (per tutti i fedeli); 225 §1 (per i laici); e
176

278 (per i chierici).


115
il suo contributo alla missione della Chiesa non sono deducibili dalla configurazione come pub-
blica o privata, ma da altri criteri come i frutti di santità, di apostolato, le sue attività,
l‟estensione geografica raggiunta, il numero di soci, ecc. Proprio per poter rispondere alle attese
della comunità ecclesiale è fondamentale che ogni ente associativo riceva la configurazione giu-
ridica più adeguata alla propria finalità, attività, origine, ecc. e alle sue esigenze specifiche. Attri-
buire una configurazione sbagliata andrebbe a scapito della stessa associazione.

L‟insieme dei canoni 298-311, preposto alle norme specifiche sulle associazioni pubbli-
che e private, stabilisce le basi canoniche su cui fondare, costituire ed erigere una associazione
di fedeli nella Chiesa, cioè ecclesiale ed ecclesiastica, con particolare riguardo ad alcune fattispe-
cie di associazioni, di cui si offre la denominazione, la nozione e i criteri secondo cui si può par-
lare di ecclesialità.

Il can. 298 §1 enuncia un ampio quadro delle finalità che possono essere assunte dalle
varie iniziative associative dei fedeli. Tali finalità possono consistere nel favorire l‟incremento di
una vita più perfetta, nella promozione del culto pubblico o della dottrina cristiana, o in varie
altre opere di apostolato, «quali sono iniziative di evangelizzazione, esercizio di opere di pietà o di carità,
animazione dell’ordine temporale mediante lo spirito cristiano».

Lo stesso canone avverte, tuttavia, che la disciplina dettata in questo titolo, pur
nell‟ampiezza delle finalità indicate, non concerne due settori in cui pure si svolge una conside-
revole parte dell‟esperienza associativa. Da tale disciplina sono, infatti, esclusi gli istituti di vita
consacrata e le società di vita apostolica; non perché tali importanti fenomeni della vita ecclesia-
le non possano essere riguardati sotto il profilo associativo, ma perché i membri di tali istituti,
per la pubblica professione dei consigli evangelici, assumono uno stato personale proprio (sunt
in alio peculiari statu) e diverso dallo stato comune degli altri fedeli, chierici o laici. Questo non
vuole dire, però, che i membri di tali istituti non possano partecipare di tale associazioni, sal-
vando certamente quello che è proprio della loro vita interna.

A diverso titolo, inoltre, sono escluse ─nel senso che non sono ritenute suscettibili di
regolamentazione canonica─ quelle forme associative che i fedeli promuovono o alle quali ade-
riscono uti cives, e non in quanto fedeli, e che concernono opere o istituzioni di ordine tempora-
le.

116
Secondo il nuovo codice, le associazioni private possono essere descritte come enti costitui-
ti dai fedeli mediante un accordo privato tra di loro per perseguire, tramite l‟azione comune, fi-
nalità di natura ecclesiale177. Godono di una marcata autonomia di governo: la stessa associa-
zione si dà gli statuti, nomina i moderatori, può scegliere un assistente spirituale, e amministra i
propri beni178. Tutte le associazioni private devono avere i loro statuti approvati o almeno esa-
minati dall‟autorità ecclesiastica competente; alcune riceveranno la lode, la raccomandazione
dell‟autorità ecclesiastica179 o il titolo di “cattolica”180 o le verrà concessa la personalità giuridica
privata. Alla luce della normativa del nuovo codice sulle associazioni private, questi enti sono lo
strumento paradigmatico per l‟esercizio del diritto di associazione del fedele181.

Da quanto si ricava del canone 299, non è necessario che tutte le associazioni private
siano lodate o raccomandate, dal momento che si richiede il più generale requisito del “riconosci-
mento” (§3). Con questo termine s‟indica l‟atto, distinto dalla approvazione, che costituisce il
presupposto per l‟acquisto della personalità giuridica, con cui l‟autorità ecclesiastica competente
esamina la conformità degli statuti con il diritto universale, onde verificare che non vi sia nulla
in contrario e che l‟associazione non persegua finalità estranee all‟ordinamento canonico.

La volontà dei fedeli non svolge solo un ruolo fondamentale nella nascita
dell‟associazione ma anche durante la sua vita e al momento dell‟estinzione: l‟associazione esi-
sterà finché permane la volontà di unione. Le associazioni private sono, quindi, un settore del
diritto canonico nel quale sono esplicitamente riconosciuto gli effetti dell‟autonomia privata.

Spetta ai soci fondatori porre in essere l‟atto fondazionale, nel quale dovranno precisare
il fine comune che vogliono perseguire, i mezzi di cui dispongono e le persone con cui dare ini-
zio alla vita dell‟ente. Questo atto dovrà essere portato a termine nel rispetto dei requisiti di va-
lidità e di liceità degli atti giuridici. Normalmente, l‟atto costitutivo verrà recepito in un atto di
fondazione, che costituirà il documento con il quale si fornisce prova scritta dell‟atto costitutivo
e si garantisce la costituzione dell‟associazione. Più avanti torneremo su questo argomento.

177 Cfr. CIC, can. 298; 299 §1.


178 Cfr. CIC, can. 321; 323-325.
179 Cfr. CIC, can. 299 §2.
180 Cfr. CIC, can. 300.
181 Cfr. CIC, can. 215.

117
“Nessuna associazione assuma il nome di «cattolica», se non con il consenso dell’autorità ecclesiastica
competente…”182. Questo canone viene dato specificamente per le associazione private, giacché
un‟associazione costituita dall‟autorità ecclesiastica assume naturalmente il nome di cattolica,
mentre non è così per le associazioni private.

La possibilità di ricevere la qualificazione di cattolica comporta un esplicito riconosci-


mento del fatto che le finalità perseguite dall‟associazione si iscrivono nella missione apostolica
della Chiesa e la impegnano in qualche modo “pubblicamente”, pur rimanendo iniziative perse-
guite da privati. Il rimando al can. 312 (“L’autorità competente ad erigere associazioni pubbliche…”)
non implica che esclusivamente le associazioni pubbliche possono dirsi cattoliche; bensì che il
consenso all‟assunzione della denominazione in questione deve essere dato dalle stesse autorità
che sono competenti ad erigere associazioni pubbliche.

Le basi canoniche delle associazioni sono le seguenti:

a) Fini costitutivi: incremento di una vita più cristiana, promozione del culto pubblico e
della dottrina cristiana, opere di apostolato, animazione dell‟ordine temporale mediante
lo spirito cristiano (can. 298).

b) Contenuti essenziali degli statuti: prevedere affinché possa essere dotata di una struttura
capace di rispondere ai fini suoi propri (can. 304; 94 §1).

c) Sottomissione alla competente autorità della Chiesa in quegli aspetti fondamentali che
concernono la fede, la morale e la disciplina ecclesiastica (can. 305).

d) Accettazione e dimissione dei membri, con la determinazione dei doveri e diritti (can.
306-308).

e) L‟autonomia giuridica a norma del diritto e degli statuti (can. 309).

Criteri che il codice offre per determinare una possibile classificazione:

a) Privaticità (can. 299) e pubblicità (can. 301).

b) Cattolicità (can. 300), determinazione riservata soltanto alla competente autorità.

182 CIC, can. 300. Cfr. can. 216.


118
c) Secondo il tipo del governo: clericale, se retta dei chierici (can. 302); laicale, se retta dei
laici (can. 327-329).

d) Terzo ordine (can. 303).

e) Secondo l‟ambito o l‟estensione: universali o internazionali, nazionali o diocesane (can.


312).

7.2 Tipi di associazioni e normativa comune (can. 301-311)

Il primo tipo di associazione che ci riporta il canone 301 §1, è quella che si riferisce
all‟insegnamento della dottrina cristiana in nome della Chiesa o l‟incremento del culto pubblico,
oppure che assumono altri fini il cui conseguimento è riservato, per sua natura, all‟autorità ec-
clesiastica. In questo modo, pone criteri distintivi delle associazioni pubbliche (§3) e, così facendo,
contribuisce pure alla identificazione delle associazioni private. Le associazioni pubbliche, infat-
ti, partecipano alla struttura istituzionale della Chiesa, in quanto costituite dalla competente au-
torità della chiesa stessa, in nome della quale agiscono. Al contrario, le associazioni private na-
scono dalla libera e autonoma iniziativa dei fedeli, agiscono a nome proprio per il perseguimen-
to di particolari finalità ─sebbene congruenti o comunque non contrarie a quelle della Chiesa─
fissate nei propri statuti.

Il paragrafo secondo del canone, evidenzia una funzione di supplenza alle carenze
dell‟iniziativa privata. Infatti, se è vero che, normalmente, le associazioni pubbliche perseguono
finalità di interesse generale, già enunciate sopra, è anche vero che l‟autorità ecclesiastica può
costituire associazioni pubbliche, qualora ritenga che a determinate finalità più urgenti o di
maggiore interesse, di per sé non riservate all‟istituzione ecclesiastica bensì rimesse alla autono-
mia privata dei fedeli, non si sia sufficientemente risposto mediante iniziative private. Come
l‟autorità realizza un atto di supplenza, dovrà procurare che, in quanto sia possibile, siano gli
stessi fedeli coloro che promuovano e costituiscano associazioni private per raggiungere questi
fini che li sono propri.

Da una lettura congiunta di questi due paragrafi, risulta che l‟autorità è libera di creare
associazioni pubbliche che perseguano ogni tipo di fini associativi coerenti con la natura della
Chiesa.

119
Le seconde, ossia le associazioni private, sono quelle che, come recita nella sua esempla-
re essenzialità il can. 299, i fedeli hanno il diritto di costituire mediante un accordo fra di loro
per conseguire i fini di cui al can. 298 § 1, con esclusione di quelli che, secondo il can. 301 § 1
appena citato, formano oggetto di riserva in favore dell‟autorità gerarchica.

Il can. 116 § 1 definisce le persone giuridiche pubbliche come quelle entità, a sostrato
personale o patrimoniale, che «vengono costituite dalla competente autorità ecclesiastica perché, entro i fini
ad esse prestabiliti, a nome della Chiesa compiano, a norma delle disposizioni del diritto, il compito proprio
(munus proprium) loro affidato in vista del bene pubblico; tutte le altre persone giuridiche sono private».

Similmente, per il can. 301 le associazioni pubbliche di fedeli sono quelle che, erette
dall‟autorità competente, si propongono come finalità la trasmissione della dottrina cristiana in
nome della Chiesa, l‟incremento del culto pubblico oppure abbiano altri fini il cui conseguimen-
to è riservato per sua natura all‟autorità ecclesiastica. Tale partizione, come è noto, gode nel di-
ritto secolare di un‟antica tradizione che gli studiosi fanno risalire alle fonti del diritto romano
dove è posta sulla base della utilitas: nel diritto privato viene in considerazione l‟utilità dei singo-
li, nel diritto pubblico quella della collettività.

È necessario, a questo proposito, ricordare che l‟apostolato, ossia l‟attività della Chiesa
ordinata al fine suo proprio di «rendere partecipi tutti gli uomini della salvezza operata dalla redenzione e
per mezzo di essi ordinare effettivamente il mondo intero a Cristo» richiede la partecipazione di tutti i fe-
deli, ciascuno secondo la propria condizione183 e che la vocazione ricevuta dai fedeli
all‟apostolato non proviene loro dalla gerarchia bensì dal Signore stesso184. Si tratta di un diritto
e dovere nativo dei fedeli, ricevuto radicalmente per mezzo del battesimo e della cresima, di
partecipare alla missione della Chiesa. Per attuare convenientemente questo diritto, i fedeli rice-
vono dallo Spirito Santo doni e carismi anche i più semplici che devono, però, essere esercitati
«con la libertà dello Spirito» e al tempo stesso «nella comunione con tutti i fratelli in Cristo, soprattutto con i
propri pastori che hanno il compito di giudicare sulla loro genuinità e uso ordinato, non certo per estinguere lo
Spirito, ma per esaminare tutto e ritenere ciò che è buono»185. Vi sono, cioè, attività riservate per loro na-
tura all‟autorità e, quindi, all‟organizzazione ecclesiastica, come anche attività e scelte che rica-

183 AA, n° 2.
184 AA, n° 3.
185 Idem., cfr. LG, n° 12; 30-31.

120
dono nella sfera di libertà e di autonoma determinazione dei fedeli in quanto tali, ma tutte ine-
renti all‟unica missione della Chiesa.

Il canone 302 indica le condizioni che devono ricorrere perché un‟associazione possa
dirsi clericale: dirette dai chierici, che si propongono come finalità l‟esercizio dell‟ordine sacro e
che vengono riconosciute come tali dalla competente autorità. Il canone non sviluppa il suo
contenuto, ma si deve osservare che queste associazioni sono del tutto diverse da quelle enun-
ciate nel canone 278 (volte a favorire la santità dei consociati, l‟unità tra di loro e con il loro Ve-
scovo): si tratta di associazioni che hanno lo scopo di favorire l‟esercizio ministeriale e che, in
quanto tali, sono necessariamente pubbliche. Non è esclusa la partecipazione anche dei fedeli
laici, dato che l‟esercizio dell‟ordine sacro ha come soggetto le associazioni in quanto coetus.

Il canone 303 si riferisce alla associazioni che dipendono da un istituto religioso, tradi-
zionalmente note come Terzi Ordini, ma che possono avere altre possibili denominazioni, che
conducono una vita apostolica e tendono alla perfezione cristiana mediante l‟osservanza di una
regola approvata dall‟autorità competente. Queste associazioni, pur ispirate al carisma di un Isti-
tuto religioso, rimangono di carattere secolare, dato che i loro membri continuano a vivere nel
mondo. Esse sono rette dalle norme del diritto universale, comune alle associazioni dei fedeli,
nonché naturalmente dalle norme statutarie di ciascuna associazione, nelle quali verranno inte-
grati quegli elementi carismatici che qualificano il legame di ciascuna associazione con un parti-
colare Istituto religioso e con il suo patrimonio giuridico.

Elementi di governo delle associazioni, pubbliche o private: avere i propri statuti in cui
siano determinati i fini, la sede, il governo e le condizioni richieste per partecipare ad esse, e la
modalità di azione (can. 304 §1), insieme all‟assunzione di un nome o titolo (can. 304 §2); sot-
tomissione alla vigilanza e cura dell‟autorità competente (can. 305). L‟incorporazione valida del
membro, gli concede i diritti e i privilegi dell‟associazione (can. 306), e ad esse possono aderire
anche i membri degli istituti religiosi col consenso del superiore proprio (can. 307 §3), e non
può essere dimesso se non per una giusta causa (can. 308).

All‟interno delle associazioni private possono essere individuate due tipi: con personalità
giuridica e senza questa personalità (can. 310). Questo significa che la associazione privata senza
personalità giuridica non è soggetto autonomo di diritto, e di conseguenza, si identifica con la

121
pluralità dei suoi membri: i beni appartengono ai soci come persone fisiche; i moderatori pos-
sono agire solo come mandatari o procuratori dei singoli membri, che possono svolgere attività
contrattuale solo in nome e per conto degli associati e che le obbligazioni assunte in nome degli
associati costituiscono obbligazioni dei singoli i quali sono pertanto chiamati a rispondere in so-
lido e illimitatamente. I beni acquisiti di tali associazioni non sono parte del patrimonio ecclesia-
stico, a mente del canone 1257 §1.

Il codice, comunque, attribuisce loro una certa soggettività: hanno diritto al nome e pos-
sono avere statuti (can. 304); sono soggette alla vigilanza della competente autorità (can. 305
§1); sono soggetti beneficiari di privilegi, indulgenze e altre grazie spirituali (can. 306); possono
emanare norme peculiari, tenere assemblee, designare moderatori e officiali in genere (can. 309).

Finalmente, il canone 311 presenta una norma cautelare per i terzi ordini o associazioni
simili. Si vuole evitare che queste associazioni si sottraggano alle comuni responsabilità
nell‟edificazione della Chiesa particolare, con dispersione di persone e energie («…abbiano cura
che tali associazioni prestino aiuto alle attività di apostolato esistenti nella diocesi, soprattutto operando, sotto la
direzione dell’Ordinario del luogo, insieme con le associazioni finalizzate all’esercizio dell’apostolato nella dioce-
si»).

7.3 Le associazioni pubbliche nella Chiesa (can. 312-320)

Le associazioni pubbliche si differenziano dalle altre sulla base di questi requisiti: sono
erette dall‟autorità competente; si propongono il conseguimento dei fini indicati nel can. 301 già
citato; agiscono in nome della Chiesa; sono costituite in persone giuridiche e ricevono la mis-
sione per i fini ad esse assegnati (can. 313); e sono, per la qualificazione pubblicistica assunta,
soggette alla disciplina adeguata alla loro condizione giuridica.

Dall‟insieme dei canoni del presente capitolo, ricaviamo il seguente schema:

can. 312-313: erezione, personalità giuridica e missione ecclesiastica.

can. 314-315: statuto e sottomissione all‟autorità ecclesiastica competente.

can. 316: ascrizione e dimissione dei membri.

can. 317-318: regime interno, autorità ordinaria e straordinaria.

122
can. 319: amministrazione dei beni.

can. 320: soppressione.

Secondo il disposto del can. 312, solo l‟autorità competente può erigere associazioni
pubbliche. Per le associazioni universali e internazionali la competenza appartiene alla Santa Se-
de186. La conferenza episcopale può erigere associazioni che svolgono l‟attività in tutta la nazio-
ne; infine, spetta al vescovo diocesano la erezione di associazioni che operano nell‟ambito della
diocesi, eccettuate le associazioni per le quali il diritto di erezione è riservato per privilegio apo-
stolico ad altre autorità.

Il paragrafo 2 ha come scopo garantire l‟esercizio dell‟autorità del Vescovo nella sua dio-
cesi, quindi è richiesto il consenso scritto dell‟ordinario diocesano stesso; «tuttavia il consenso del
vescovo diocesano per l’erezione di una casa o di un istituto religioso vale anche per l’erezione, presso la stessa ca-
sa o presso la Chiesa annessa, di un'associazione propria di quell’istituto». Infatti, nel caso che una asso-
ciazione nazionale o internazionale voglia iniziare le sue attività in una nuova diocesi, questo
canone dispone che il Vescovo diocesano giudichi, sulla base delle esigenze pastorali della sua
diocesi, l‟opportunità dell‟azione di questa associazione. Inoltre, il consentimento del Vescovo
per l‟erezione di una casa di un istituto religioso vale anche per erigere una associazione che sia
propria del istituto.

Con lo stesso decreto con cui viene eretta, l‟associazione pubblica è costituita persona
giuridica (can. 313): ciò significa che, mentre alcune persone giuridiche possono essere costitui-
te come tali ex ipso iuris praescripto (can. 114 §1), per quanto riguarda le associazioni la personalità
è loro conferita dal provvedimento di erezione, previa approvazione degli statuti da parte

La Santa Sede è competente per le associazioni internazionali e universali, in concreto intervengono i seguenti
186

Dicasteri:
Segretaria di Stato: per le organizzazioni cattoliche internazionali e per le associazioni di fedeli laici con ca-
rattere internazionali.
Congr. per il Culto e la Disc. Dei Sacramenti: associazioni di carattere internazionale create per promuovere
l‟apostolato liturgico, la musica, il canto o l‟arte sacra.
Congr. Per il Clero: associazioni di chierici.
Congr. Per gli IVC e SVA: per i Terzi Ordini e per le associazioni che intendono divenire col tempo IVC
o SVA.
Congr. Per l’Educazione Cattolica: associazioni interuniversitarie.
Pont. Cons. Per i Laici: associazioni laicali dei fedeli.
Pont. Cons. Per la Famiglia: associazioni il cui fine è servire la famiglia.
Pont. Cons. Della Pastorale per gli Operatori Sanitari: organizzazioni cattoliche internazionali.
Pont. Cons. Delle Comunicazioni Sociali: associazioni cattoliche internazionali.
123
dell‟autorità competente a erigerla (can. 314). L‟elemento costitutivo generico dell‟associazione
pubblica è, sotto il profilo formale, l‟atto di erezione. Questo vale anche per le forme associati-
ve già esistenti in virtù dell‟iniziativa privata che, per la rilevanza ecclesiale raggiunta, per
l‟efficacia e la diffusione dell‟azione apostolica, o per altre ragioni convenientemente apprezzate
dalla gerarchia, possono assumere i compiti indicati nel can. 301 §1, sempre che tale trasforma-
zione sia conforme al proprio carisma associativo. Le associazioni pubbliche agiscono in nome
della Chiesa. Il Codice ribadisce più volte quest‟asserzione: nel can. 116 a proposito delle persone
giuridiche in generale e nei can. 301 e 313 con specifico riguardo alle associazioni. Il decreto di
erezione è, quindi, un atto a contenuto complesso, in quanto costituisce in senso formale
l‟associazione, le conferisce la personalità giuridica e le assegna con la missione le finalità da
raggiungere, finalità che, peraltro, dovranno trovare una più puntuale articolazione nello statuto
dell‟associazione stessa.

In considerazione della natura pubblica dell‟associazione, l‟autorità competente esercita


nei suoi confronti alcuni poteri a norma di diritto. Fermo restando che l‟associazione gode di
autonomia sia nell‟intraprendere spontaneamente iniziative confacenti alla sua indole sia
nell‟autogoverno a norma degli statuti, tale autonomia si svolge tuttavia sotto l‟alta direzione
dell‟autorità ecclesiastica a cui è riferibile l‟atto di erezione (can. 315). Come avvertono i lavori
di codificazione, la giurisdizione che appartiene alla gerarchia in questo settore non deve essere
intesa come una rigida e soffocante vigilanza ma come attività tesa a promuovere, stimolare e
favorire le iniziative delle associazioni e all‟osservanza della giusta libertà che a esse compete.
Questo munus gerarchico, che non è pertanto assimilabile a un potere ordinatorio, consiste es-
senzialmente nel dare un indirizzo sugli obiettivi da raggiungere e nell‟indicare e proporre mo-
dalità di azione sufficientemente ampie ed elastiche da consentire una loro mediazione operati-
va da parte del destinatario.

Gli altri poteri dell‟autorità (can. 314-320) consistono nell‟approvazione degli statuti e di
ogni loro revisione; nel confermare, istituire o nominare il moderatore dell‟associazione e nella
nomina dell‟assistente ecclesiastico; nella nomina, ove lo richiedano gravi motivi, di un commis-
sario che in nome dell‟autorità stessa diriga temporaneamente l‟associazione. Il moderatore può
essere rimosso dall‟incarico per giusta causa da chi lo ha nominato o confermato, non senza a-
vere prima sentito il moderatore stesso e gli altri dirigenti, a norma degli statuti.
124
L‟associazione, inoltre, amministra i propri beni secondo le disposizioni dello statuto, ma
sotto l‟alta direzione dell‟autorità competente e i beni stessi, assumendo la qualifica di beni ec-
clesiastici, sono sottoposti alla disciplina stabilita dal libro quinto del Codice. L‟associazione, in-
fine, può essere soppressa per gravi cause dall‟autorità che l‟ha eretta, sentito il suo moderatore
e gli officiali maggiori.

Si può affermare, quindi, che l‟associazione pubblica agisce nomine Ecclesiae nel senso che
la istituzione ecclesiastica, rappresentata dalla gerarchia, si assume la precisa responsabilità di
garantire la autenticità ecclesiale della sua azione, diventandone, in ultima analisi, corresponsabi-
le, e, d‟altra parte, che l‟agire nomine Ecclesiae comporta una certa ufficialità, cui non fa seguito
l‟identificazione fra l‟associazione e l‟autorità. Esempio per un‟associazione pubblica: L‟Azione
Cattolica

7.4 Le associazioni private nella Chiesa (can. 321-329)

Mediante accordi privati, i fedeli hanno il diritto di costituire associazioni per conseguire
i fini indicati nel can. 298, con esclusione di quelli che il can. 301 riserva all‟autorità ecclesiastica.
Così il can. 299 §1 definisce nel suo oggetto il riconoscimento del diritto dei fedeli di fondare
associazioni, diritto che sta alla base di ogni altra situazione giuridica soggettiva inerente a que-
sta materia.

L‟associazione privata è, infatti, presieduta e diretta dai fedeli che concorrono a formarla
anche con adesioni successive (can. 321); può acquistare la personalità giuridica, previa appro-
vazione dello statuto (non è sufficiente il semplice esame) da parte dell‟autorità competente
─che deve accertare l‟effettiva utilità del fine e il possesso dei mezzi sufficienti a conseguirlo
(can. 114 §3)─ e che emana, a tal fine, un decreto formale di riconoscimento, senza che tuttavia
tale approvazione ne muti la natura privata (can. 322). Non tutte le associazioni private sono
però riconosciute come persone giuridiche.

L‟associazione, inoltre, designa liberamente i propri organi di governo e di rappresentan-


za a norma degli statuti, e può scegliere liberamente, «se lo desidera» un consigliere spirituale che
dovrà, in tal caso, avere la conferma dell‟ordinario diocesano (can. 324); e amministra libera-
mente i beni che possiede con i soli limiti imposti dal can. 325 (vigilanza dell‟autorità competen-

125
te affinché i beni siano usati per i fini dell‟associazione e, salvo il diritto dell‟ordinamento di vi-
gilare, a norma del can. 1301, sulla destinazione dei beni donati o lasciati per cause pie).

Essa, infine, si estingue a norma di statuto e può essere soppressa solo per i motivi tassa-
tivamente indicati nel can. 326, qualora, cioè, la sua attività sia causa di danno grave per la dot-
trina o la disciplina ecclesiastica oppure di scandalo per i fedeli. I beni della associazione estinta
seguono la destinazione stabilita nello statuto, fatti salvi i diritti acquisiti e la volontà dell'offe-
rente.

7.5 I criteri dell’ecclesialità delle associazioni private

Ma gli aspetti più interessanti delle recognitio consistono nell‟accertamento dei profili so-
stanziali, ossia dell‟esistenza dei requisiti di ecclesialità dell‟associazione: i carismi, infatti, come
afferma il n. 12 della Lumen gentium «soggiacciono al giudizio dei pastori».Nei confronti di tutte le as-
sociazioni l‟autorità esercita poteri di vigilanza e di regime secondo il generale disposto del can.
305. Per quanto riguarda le associazioni private, quantunque esse godano di autonomia (can.
323 §1), la vigilanza ha lo scopo di consentire all‟autorità ecclesiastica di aver cura affinché in
esse sia conservata l‟integrità della fede e dei costumi e di vigilare che non si insinuino abusi nel-
la disciplina ecclesiastica. A tale scopo compete all‟autorità l’officium et ius invisendi, ossia il diritto
e il dovere di visitare tali associazioni, a norma del diritto e degli statuti. Quanto alla potestà di
governo che la medesima autorità esercita nei confronti delle associazioni, essa non implica
un‟ingerenza nella vita interna dell‟associazione e nella sua attività, ma è limitata a quanto dispo-
sto dai can. 323-326, in base ai quali spetta all‟autorità competente vigilare. La debita relatio si
concreta quindi nella dipendenza delle associazioni dalle funzioni di vigilanza e di regime
dell‟autorità. Inoltre, si precisa che questa dipendenza riguarda gli stessi ambiti dei fedeli indivi-
dualmente considerati. Al contrario, le associazioni costituite dall‟autorità sono sotto la «superiore
directione» di questa. Per le associazioni liberamente create dai fedeli, la vigilanza riguarda la fede,
la morale e la disciplina ecclesiastica, affinché si eviti la dispersione delle forze e ordinare al be-
ne comune l‟esercizio dell‟apostolato; confermare il consigliere spirituale eventualmente scelto
dall‟associazione; vigilare perché i beni siano usati per i fini dell‟associazione e
sull‟amministrazione di quei beni che sono donati per cause pie; sopprimere infine

126
l‟associazione qualora la sua attività sia di danno grave per la dottrina o la disciplina ecclesiastica
o di scandalo per i fedeli187.

187Cfr. CL, n° 30-31; CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Nota pastorale, 22 maggio 1981, Criteri di ecclesialità
dei gruppi, movimenti e associazioni; CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA: COMMISSIONE EPISCOPALE PER IL
LAICATO, Nota pastorale, Roma 29 aprile 1993, n. 15-19.

127
Sommario

INTRODUZIONE GENERALE AL LIBRO II ...................................................... 1

1. BATTESIMO E SOGGETTIVITÀ GIURIDICA ................................................ 4

2. IL «CHRISTIFIDELIS» COME CATEGORIA GIURIDICA FONDAMENTALE PER


TUTTI I BATTEZZATI (CAN. 204)........................................................................... 5

2.1 La categoria di “persona” ..................................................................................... 5

2.2 La categoria di “laico” ........................................................................................... 6

2.3 La categoria di “fedele cristiano” e i suoi stati giuridici e condizioni a norma del can. 207
CIC ................................................................................................................................. 8

2.4 La “figura” del fedele (can. 204 § 1) ................................................................... 12

2.5 La comunione ecclesiale (can. 96; 204 §2; 205; 209) ....................................... 14

2.6 I catecumeni (can. 206) ....................................................................................... 16

3. DOVERI E DIRITTI DI TUTTI I FEDELI CRISTIANI ................................ 17

3.1 Uguaglianza fondamentale e molteplicità di carismi e ministeri (can. 208) .. 18

3.2 I diritti e obblighi fondamentali (can. 209) ....................................................... 21

3.3 Vocazione alla santità (can. 210) ........................................................................ 22

3.4 La missione (can. 211) ......................................................................................... 23

3.5 L‟obbedienza alla gerarchia (can. 212) .............................................................. 24

3.6 La parola di Dio e i sacramenti (can. 213) ........................................................ 26

3.7 Il rispetto dell‟identità rituale (can. 214; CCEO can. 28; 39-41) .................... 28

3.8 La libertà d‟associazione e di riunione (can. 215) ............................................ 29

3.9 L‟iniziativa apostolica (can. 216) ........................................................................ 30

3.10 L‟educazione cristiana (can. 217) ..................................................................... 30

128
3.11 La libertà di ricerca (can. 218) .......................................................................... 31

3.12 La scelta dello stato di vita (can. 219) ............................................................. 32

3.13 La buona fama e il rispetto dell'intimità (can. 220) ....................................... 34

3.14 La rivendicazione e la difesa dei diritti (can. 221; 223) ................................. 35

3.15 L‟impegno a sovvenire alle necessità della Chiesa (can. 222 § 1-2) ............. 37

4. I LAICI NELLA CHIESA ....................................................................................... 38

Alcuni elementi dello sviluppo storico del laicato nella Chiesa. .......................... 38

4.1 La posizione del laico nel diritto postconciliare ............................................... 41

4.2 Il Sinodo del 1987 e i recenti documenti del Magistero ................................. 43

4.3 Partecipazione dei laici all‟apostolato (can. 225) .............................................. 44

4.4 Gli obblighi specifici degli sposati (can. 226) ................................................... 45

4.5 La fecondità secolare dei laici (can. 227) ........................................................... 46

4.6 La partecipazione dei laici al “munus regendi” (can. 228) .................................. 47

4.7 La partecipazione dei laici al “munus docendi” (can. 229) .................................. 49

4.8 La partecipazione dei laici al “munus sanctificandi” (can. 230) .......................... 50

4.9 Dovere di un‟adeguata formazione (can. 231 §1) ............................................ 53

4.10 Diritto ad un‟onesta rimunerazione (can. 231 §2) ......................................... 53

5. I MINISTRI SACRI O CHIERICI NELLA CHIESA ........................................ 54

5.1 La categoria del ministro ordinato ..................................................................... 55

5.2 La consacrazione costituisce ministri sacri ....................................................... 56

5.3 Gli uffici di santificare, insegnare e governare ................................................. 57

5.4 La pastorale vocazionale (can. 233) ................................................................... 58

5.5 I luoghi della formazione (can. 232; 234-238).................................................. 60

5.6 I responsabili della formazione (can. 239-240. 259-264) ................................ 64

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5.7 La “Ratio formationis generalis” e la “Ordinatio formationis” (can. 241-258) ........ 67

5.8 La formazione dei diaconi permanenti (can. 236) ........................................... 79

5.9 L‟incardinazione dei chierici (can. 265-272) ..................................................... 80

5.10 Gli obblighi e i diritti dei chierici (can. 273-289) ........................................... 89

5.11 La perdita dello stato clericale (can. 290-293) ................................................ 97

6. LE PRELATURE PERSONALI .......................................................................... 104

6.1 L‟origine delle prelature personali .................................................................... 104

6.2 L‟erezione e la composizione ........................................................................... 106

6.3 Il rapporto con le Chiese locali ........................................................................ 110

7. LE ASSOCIAZIONI DEI FEDELI .................................................................... 111

7.1 Fondazione e finalità delle associazioni (can. 215; 298-300) ........................ 112

7.2 Tipi di associazioni e normativa comune (can. 301-311) ............................. 119

7.3 Le associazioni pubbliche nella Chiesa (can. 312-320) ................................. 122

7.4 Le associazioni private nella Chiesa (can. 321-329)....................................... 125

7.5 I criteri dell‟ecclesialità delle associazioni private .......................................... 126

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