Sei sulla pagina 1di 59

Prof. L.

Ortaglio

Secondo libro del Codice. [liberi: Sabarese, Diritto Canonico + dispensa]


Ci deve essere una interdisciplinarità tra il magistero e la s. Scrittura. È un codice che
presenta un forte legame con la Scrittura e il magistero. G. Paolo II quando presentò il
nuovo codice il 2 febbraio 1983 al collegio cardinalizio disse che bisognava pensare al
codice come un testo inserito in un ideale triangolo che ha 3 vertici: il vertice superiore
è la s. Scrittura, i 2 vertici alla base sono il codice e la Tradizione. Sempre G. Paolo II
disse agli inizi della promulgazione del codice che questo codice si può considerare
l’ultimo dei documenti conciliari, i documenti conciliari sono 16, questo è il 17esimo.
Tutto il pensiero teologico, il magistero, in modo particolare l’ecclesiologia, ha ispirato
queste norme. I documenti Conciliari sono dei testi ispirati se non sarebbero confluiti in una
istituzione giuridica (21) quando invece il carisma, l’ispirazione si concretizza in una
disciplina giuridica diventa questo carattere di imperatività (22) allora abbiamo questo
passaggio dall’ispirazione a una vita vissuta. Nel medioevo il diritto canonico si chiamava
teologia pratica; c’è quindi questo passaggio dal pensiero alla vita vissuta. Anche il codice
del 1917 aveva alle spalle uno suo bagaglio teologico e magisteriale diverso dall’attuale
codice. Il concilio ecumenico più retrostante è stato il Concilio Vaticano I ed è stato il
Concilio centrale (24) abbiamo avuto un’inversione di marcia, il CV II c’è stata una
decentralizzazione, quindi ci sono state anche le chiese locali che erano importanti.
Questo libro secondo è figlio della LG e si fonda sull’ecclesiologia della LG e proprio per
sottolineare il nesso tra il concilio e il codice, noi abbiamo nel codice dell’83 una novità che
non era presente nel codice del 17, i cosiddetti canoni teologici. Molto spesso prima di
esporre la disciplina, quindi le norme vere e proprie (26) dei canoni che presentano in sintesi
la prospettiva, il significato profondo di quei canoni che hanno carattere normativo,
disciplinare e sono estrapolazioni dai testi conciliari, quindi sono piccole sintesi di testi
conciliari (note sotto si nota ciò). Il secondo libri del codice tratta del popolo di Dio, quindi i
riferimenti sono tanti. Quando troviamo questi canoni teologici, sta a significare che il
codice vuole insistere (27:50).
Questo libro II si poggia sulla LG che ci presenta la Chiesa non più come società
perfetta, la Chiesa non è innanzitutto questo, la Chiesa è corpo mistico, come tempio,
come sposa; nel numero 1 della LG si dice che la Chiesa è sacramento (segno)
dell’intima unione con Dio e dell’intima unione di tutto il genere umano. Tutto questo
approccio nella teologia non c’è. La Chiesa prima era una unione di più persone che era
dotata di tutti gli elementi per raggiungere le proprie finalità, non aveva bisogno di
niente e di nessuno, è una società. Quando più persone si mettono insieme per
raggiungere un unico fine formano una società e la Chiesa è questo, tende a un unico
fine e cioè la salvezza; però vista in questa prospettiva si considera solo l’aspetto
visibile della Chiesa, ma accanto alla dimensione istituzionale c’è anche la dimensione
della grazia e il CV II recuperando la dimensione istituzionale, ha voluto anteporre la
dimensione invisibile, cioè quella della grazia. La LG insiste sul concetto di comunione,
infatti se la Chiesa è sacramento, segno dell’unione con Dio con l’essere umano, si può
tradurre con “koinonia” che in italiano traduciamo con “comunione”.
Queste due dimensioni (visibile e invisibile), quella istituzionale (34).. il n 8 della LG ne
parla ricorrendo a un’immagine appropriata, quella del Verbo Incarnato: “la Chiesa della
terra……formano una sola realtà esultante di un elemento umano e di un elemento
divino….”: il CV II non rivendica (36)…. la Chiesa di Dio e la Chiesa cattolica non sono
sinonimi; la Chiesa di Dio sussiste nella Chiesa cattolica, ma non si esaurisce nella Chiesa
cattolica, quindi la Chiesa cattolica è insita nella Chiesa di Dio, ma non l’assorbe tutta. Una
volta l’unica Chiesa era la Chiesa cattolica. La Chiesa di Dio è una realtà più ampia, tanto è
vero accoglie non solo chi ha ricevuto il battesimo, ma anche chi non lo ha ricevuto. In
questa Chiesa dice la LG non si possono separare la natura divina dalla natura umana,
stanno entrambi insieme e sono inseparabili. “Per una non debole analogia”: vuol dire che
sono molto somiglianti la Chiesa e il Verbo incarnato; quando due dimensioni sono
giustapposte sono sempre distinguibili. Natura divina e natura incarnata non sono due nature
giustapposte perché si fondono tra loro tanto da diventare inseparabili. È sempre la LG che
elenca le caratteristiche della Chiesa come popolo di Dio.

Le caratteristiche della Chiesa, del popolo di Dio:


Il popolo di Dio gode dell’unità, che è di origine, di missione; è di origine perché c’è un
solo battesimo, una sola fede e su questo si forma l’unità del popolo di Dio. Quindi la
prima caratteristica è l’unità, il fine è sempre lo stesso (salvezza) e tutti partecipano
alla medesima missione anche con dei ruoli differenti (n° 9 della LG). Subito dopo
l’unità la seconda caratteristica è l’uguaglianza (n° 32 della LG), l’uguaglianza
fondamentale, cioè questo aggettivo fondamentale deve farci risalire al battesimo e
siccome il battesimo è unico per tutti, tutti i membri della Chiesa sono uguali. Unità e
uguaglianza si richiamano tra di loro e si completano. La Chiesa quindi è una, uguale,
e c’è anche l’organicità, cioè in questa unità e uguaglianza poi si inserisce l’aspetto
della pluralità perché nella Chiesa non tutti svolgono la stessa funzione; c’è una
diversità di funzioni che noi chiamiamo organicità. La Chiesa è per divina istituzione,
quindi organizzata e diretta con molte varietà.
Quarta caratteristica: socialità, la Chiesa è inevitabilmente una società; c’è sempre
questo riverbero, questa socialità. Dicevano i romani: dove c’è una società c’è anche un
diritto”, basta che io mi relazioni con un’altra persona che bisogna stabilire ciò che è mio e
ciò che tuo, ecc. Il diritto quindi nasce proprio perché c’è la società, questo insieme di
persone.
Un’altra caratteristica è la storicità, cioè la Chiesa non è fatta di persone sganciata del
tempo, ogni frammento di storia vive la Chiesa che ha 2000 anni di storia, con tante culture,
vicissitudini; quindi la Chiesa di oggi non è quella di ieri e neanche quella di domani; la
Chiesa che è stata fondata da Gesù Cristo (10: 50) Anche la Chiesa pur essendo stata
istituita da Gesù è sempre un novum, ma c’è un aggancio con il popolo di Dio che la
proceduto. Il diritto della Chiesa ha un padre che è il diritto ebraico, che la Chiesa è il
suo prolungamento storico.
Poi abbiamo il carattere della missionarietà (12) per sua stessa natura è missionaria; la
Chiesa non può non essere missionaria, Gesù l’ha considerata come una……dilatazione
della Chiesa che è presente fin dalle origini, la Chiesa nasce da 11discepoli, c’è stato prima
il patto con il popolo ebraico, poi con i gentili. La missionarietà quindi è insita nella natura
stessa della Chiesa.
L’ultima caratteristica è la comunione escatologica. La Chiesa del cielo e della terra
non sono separate ma unite, quindi (14:50) si intravede la Chiesa celeste. Se noi viviamo
bene la nostra vita cristiana è come se noi aprissimo una finestra e permettessimo ai
lontani di intravedere il cielo, ma tante volte ci facciamo prendere dalla nostra umanità. I
voti religiosi sono 3 dimensioni che dovrebbero rendere particolarmente visibile la
Chiesa celeste in questa vita. La Chiesa quindi è un sacramento, come i 7 sacramenti
rendono presente Gesù Cristo nella nostra vita, così la Chiesa è sacramento di Dio,
dell’unità con Dio e unità con il genere umano (LG). (18:50)
Finora abbiamo parlato della dimensione invisibile, ma vediamo in che modo la Chiesa
è insieme anche istituzione, la natura istituzionale. Che cos’è l’istituzione? La nostra
società ne è piena: una scuola è una istituzione, un partito politico è un’istituzione.
L’istituzione è qualsiasi ente, qualsiasi corpo sociale, stabilmente organizzato: sullo
stadio quelle persone sono un corpo sociale, ma non è organizzato, perché ognuno va o
viene da casa sua, non c’è una continuità; quindi ci troviamo davanti a una istituzione
quando si hanno queste caratteristiche. La Chiesa le ha perché quando andiamo a Messa
la domenica c’è una continuità anche dopo la Messa, siamo Chiesa anche dopo la
Messa. La Chiesa in questo senso è anche istituzione quindi. L’organizzazione
scaturisce dalla stabilità, se noi costituiamo sempre un corpo sociale, non possiamo
stare insieme senza regole. Una cosa è un gruppo di pellegrini che fa un pellegrinaggio,
altra cosa è una associazione religiosa che va in pellegrinaggio. Ci deve essere una fusione
tra la dimensione istituzionale e quella carismatica. Qual è il passaggio che mette insieme
queste due cose per fare in modo che insieme diventano una sola cosa? I sacramenti! Che
hanno anche una giurisdizione (28). (29) Altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana
respirano della stessa forza, perché anche la confermazione e l’eucarestia confermano la mia
appartenenza ecclesiale. Se io sono scomunicato cosa succede? Che non posso ricevere i
sacramenti; nella penitenza io non solo ricevo il perdono di Dio, ma recupero anche il
rapporto con la Chiesa. Battesimo, confermazione, eucarestia, ci sono anche dei paralleli.
Ordine sacro e matrimonio coincidono nella vita dei soggetti, tanto è vero che l’ordine non
mi rende solo ministro di Dio, ma fa si che mi siano conferiti gli stessi poteri di Cristo. Il
matrimonio non è solo unione affettiva, ma fa scattare una serie di diritti e di doveri.
Quando la nostra vita passa attraverso i sacramenti, non solo soltanto segno o strumenti di
Gesù nella sua vita (33:50). Quindi l’istituzione non si aggiunge alla dimensione dello
Spirito, ma stanno insieme, perché nel battesimo non puoi distinguere i due effetti. Il
battesimo va registrato nel registro, perché registrare la sua esistenza nella Chiesa. Il registro
del battesimo è un libro sacro, è il libro della vita. Con l’atto di sbattezzo non si può far più
parte della Chiesa.

1-1-2022
La dimensione istituzionale ha origine dai sacramenti, attraverso i sacramenti si incide
anche nella confessione giuridica dei soggetti, come il battesimo di partecipare alla
personalità giuridica, quindi acquisti capacità giuridica e come il corso della vita cristiana
attraverso i sacramenti si consolida l’appartenenza a Dio, tanto è vero che quando
intervengono delle esperienze negative che mettono in crisi il tuo rapporto con la comunità,
allora ancora una volta attraverso i sacramenti può avvenire il ripristino, il recupero del tuo
rapporto con la comunità (penitenza, unzione degli infermi), che hanno dei risvolti anche di
carattere giuridico; ancora di più se parliamo di matrimonio, non solo l’essere uniti per
sempre, ma si tratta di uno status giuridico di diritti e doveri che si fondano sul vincolo del
diritto matrimoniale, anche l’ordinazione sacra c’è tutto un nuovo status giuridico che
comporta degli omeri, dei doveri, dei diritti; quindi tuti i sacramenti hanno una condizione
giuridico-canonica e nel tempo attraverso la ricezione dei sacramenti abbiamo questo
legame che si crea tra la persona e non solo Cristo, ma anche la comunità.
Noi ci occupiamo del secondo libro del codice “Populo Dei” (popolo di Dio) si fonda
sull’ecclesiologia del CV II in particolare sulla LG che ha inaugurato una ecclesiologia
diversa da quella precedente, mentre quella precedente era un’ecclesiologia verticistica, che
insisteva molto sulla struttura gerarchica della Chiesa; l’ecclesiologia del CV II pur non
negando la dimensione gerarchica, dà precedenza alla dimensione comunionale, quindi la
LG è prima cosa una comunione di persone, prima di essere una comunità gerarchica
organizzata. Se mettiamo a confronto il secondo libro del vecchio codice e del nuovo codice
c’è una enorme differenza, ma già dal titolo che prima si chiamava “le persone”, quindi il
titolo non aveva nulla di teologico; questo titolo lo si trova anche nel codice civile, risale al
diritto romano, alle suddivisioni che conosceva il diritto romano e poi nei diritti giuridici
moderni. Le persone nella Chiesa costituiscono il popolo di Dio, allora anche a livello
terminologico, l’attuale codice ha voluto uguale il suo linguaggio dal Concilio e quindi le
stesse categorie, le stesse espressioni presenti nei documenti conciliari li ha mutate e
trasferite nel codice ed ecco dove esce questa nuova espressione “il popolo di Dio”.
Il Concilio ha insistito più sugli elementi comuni che affraternano il popolo di Dio più che
sulle differenze; ecco perché nel secondo libro del codice c’è un’inversione della trattazione
dei vari temi. Il vecchio codice nel trattare le persone, partiva dal clero, poi ai religiosi, poi
ai laici; l’attuale codice fa un processo inverso; parte prima da “Christi fideles” quando si
parla del Christi Fidelis si parla di tutti i battezzati senza specificare se siano laici, chierici o
religiosi. Quindi canoni che riguardano tutti i battezzati; poi dopo aver parlato del Christi
fideles, si passa ai laici perché sono la parte preponderante della Chiesa e anche la gerarchia,
il papa prima di essere battezzato è stato un laico, solo in un secondo momento della sua
vita, con l’ordinazione sacra è diventato un chierico; quindi innanzitutto si parla dei laici
perché c’è un battesimo che affraterna tutti e che costituisce la base fondamentale su cui si
poggia il popolo di Dio; dopo aver trattato dei laici si passa ai chierici e in un terzo
momento si passa ai religiosi, alla vita consacrata, ma non perché sono al terzo posto
dell’ordine gerarchico, ma perché i religiosi sono una categoria di persone (Christis fideles),
che mettono insieme sia laici che chierici. Questa impostazione dipende dalla LG.
Questo popolo di Dio quale caratteristiche presenta? L’uguaglianza che si poggia sul
battesimo: l’unità, la socialità. Il nuovo codice, è diverso da quello del codice del 1917.
Quindi il soggetto fondamentale della vita ecclesiale, non è il clero, ma è il battezzato e il
clero è ordinato in funzione della comunità. Tra il clero e la comunità c’è un rapporto di
diaconia, di servizio, non c’è il diritto ad essere ordinati diaconi o presbiteri, perché se
una comunità non avrebbe bisogno di un presbitero in più, il vescovo non lo nomina. La LG
presenta anche questa apertura dei ministri sacri che potrebbero mettersi a disposizione di
una Chiesa più povera.
Abbiamo parlato di appartenenza attraverso il battesimo; la prima domanda che ci dobbiamo
porre è: quando scatta l’appartenenza alla Chiesa? Sotto questo profilo ci aiuta il canone
205. Il nuovo codice ha introdotto i canoni teologici, cioè dei canoni che non hanno dei
contenuti giuridici-canonici, ma hanno dei contenuti teologici, perché contengono i principi
ispiratori di tutta la normativa che segue; allora questi canoni: 204-205-206-207: sono
canoni teologici, estrapolati dalla LG e su questi principi ispiratori si poggerà tutta la
normativa che segue. Il canone 204 se lo mettiamo in sinossi con il n°31 della LG, vedremo
che i redattori del codice hanno copiato, infatti il canone 204 definisce chi sono i Christi
Fideles, quindi sono coloro che hanno ricevuto il battesimo e con il battesimo è avvenuta
una doppia incorporazione: sono stati incorporati a Cristo e sono stati incorporati alla
Chiesa, due incorporazioni che non si possono scindere, perché nello stesso momento con il
sacramento del battesimo io sono incorporato sia in Cristo che nella Chiesa, inoltre
sappiamo che la Chiesa è il corpo di Cristo e quindi si diventa membri del popolo di Dio. Il
canone elenca la partecipazione ai tre uffici: ufficio sacerdotale, profetico e regale e il
primo paragrafo si chiude ricordando che tutti i Christi fideles partecipano alla missione
della Chiesa, la Chiesa ha ricevuto una missione da Cristo, e tutti i membri partecipano
alla missione della Chiesa. Il laico non ha bisogno di una delega da parte dei chierici per
prendere parte alla missione della Chiesa, perché il laico in virtù del battesimo che ha
ricevuto, è già abilitato a dare il suo contributo alla missione che Cristo ha affidato alla
Chiesa. Secondo l’ecclesiologia pre-conciliare, i laici non potevano fare niente a meno
che non ci fosse stata una delega, cioè quello che facevano i laici era sempre su delega dei
chierici, adesso è superata questa concezione, perché il laico dal battesimo che ha ricevuto è
già abilitato a partecipare alla missione salvifica della Chiesa. Il secondo paragrafo del
canone 204 dice che la Chiesa è costituita e ordinata come società. La Chiesa è una
unione di più persone che tende allo stesso fine (salvezza), ma il codice non ha cestinato
l’espressione società, ma proprio in questo caso la recupera in modo che non vada smarrita
questa espressione della Chiesa; dice il canone: questa Chiesa sussiste nella Chiesa cattolica
che è governata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui. Quindi c’è una Chiesa di Dio
che abbraccia tutti i battezzati, anche delle Chiese ortodosse e protestanti; nella Chesa di
Dio poi si colloca la Chiesa cattolica, la quale è quella che è governata dal governo del
pontefice e dei vescovi in comunione con lui. Su questa svolta si svolge tutto l’impegno
ecumenico della Chiesa, questa puntualizzazione la troviamo sempre nella LG n° 8.
Alla luce di questo canone possiamo comprendere il canone 205 che è importante perché
ci spiega chi sono i membri della Chiesa cattolica e sotto questo profilo dobbiamo
puntualizzare che c’è uno spartiacque tra la fase preconciliare e il nostro tempo che è
impregnato dell’ecclesiologia del CV II. L’appartenenza alla Chiesa cattolica si poggia su
questi elementi: innanzitutto il battesimo, la professione di fede cattolica, i sacramenti e
il governo ecclesiastico. Questo prima e dopo il Concilio, perché non è cambiata questa
dottrina della Chiesa, questa dottrina era stata già puntualizzata da Pio XII
nell’enciclica “mistici corporis”; ma alla luce di quello che dicevamo prima (la Chiesa di
Dio è una Chiesa cattolica), la teologia conciliare ha elaborato questa distinzione e parla di
una comunione piena e di una comunione semi-piena; allora i membri della Chiesa
cattolica (n° 205): su questa terra sono pieni membri della Chiesa cattolica, quei battezzati
che hanno gli elementi del battesimo, la professione della stessa fede, i sacramenti, il
vincolo ecclesiastico. Quando manca qualcuno di questi elementi, l’accettazione del
governo della Chiesa, allora abbiamo la comunione incompleta, semipiena; mentre prima in
confronto di questi fratelli cristiani e non cattolici c’era un atteggiamento di chiusura, oggi
c’è un atteggiamento di apertura, soprattutto l’ecclesiologia conciliare ha riconosciuto la
“buona fede”: se una persona nasce in un ambito anglicano e quindi viene battezzato nella
Chiesa anglicana e si trova ad essere anglicano, non ha commesso un peccato,
l’appartenenza a una Chiesa cristiana è anche un fattore culturale, dipende anche da altri
fattori; se sono ortodosso, anglicano per la trasmissione della fede dei miei genitori mi sono
trovato in un ambiente dove si professa quel tipo di cristianesimo, non posso essere ritenuto
un dannato, sono un cristiano il quale non è nella piena comunione con la Chiesa cattolica,
la professione di fede non è completa, in alcune Chiese cristiane l’eucarestia è tale solo
durante la celebrazione, poi non lo è più dopo la celebrazione; questi elementi non
permettono di avere una piena comunione, perché manca uno di quegli elementi, non il
battesimo evidentemente; tra di noi la comunione è piena, non solo il battesimo, ma la
professione di fede, i sacramenti e il governo ecclesiastico, con gli altri cristiani che sono
beneficiari di alcuni di questi elementi c’è una comunione non piena, ma c’è comunque
una comunione. Posso partecipare a una celebrazione ortodossa e assumere l’eucarestia, in
caso di necessità; ma sono casi estremi e sono previsti in quelle zone dove si incontrano le
due Chiese.

Il canone 206 il catecumeno non fa parte della Chiesa, né della Chiesa cattolica, né
della Chiesa di Dio e quindi non dovrebbe nemmeno essere citato in un codice come il
nostro che è finalizzato a disciplinare la vita dei membri della Chiesa cattolica occidentale.
Quindi il nostro codice riguarda solo noi cattolici di diritto romano, perché c’è anche un
codice di diritto orientale; quindi i catecumeni non dovrebbero neanche essere nominati;
invece questo codice li cita più di una volta: i catecumeni anche se non sono membri della
Chiesa ma il fatto di desiderare, aspirare di far parte alla Chiesa, hanno un rapporto
affettivo, spirituale, non sacramentale e istituzionale; e in virtù di questo rapporto, di questo
legame, il canone 206 dice: che la Chiesa deve prendersi cura dei catecumeni come se
fossero già suoi. Il secondo paragrafo dice che questa cura deve esprimersi con grande
sollecitudine, per cui la Chiesa li invita a vivere una vita evangelica, incomincia a
introdurli ai sacramenti e giù di lì. L’attuale codice prevede nel libro 4 la celebrazione
dell’esequie anche per i catecumeni; se un catecumeno muore prima di ricevere il
battesimo, non per colpa sua non è arrivato a questo pieno ingresso nella Chiesa cattolica,
però per rispetto verso quel suo desiderio, quel suo impegno ad entrare nella Chiesa si
concede al catecumeno defunto di avere il rito dell’esequie; chiaramente il rito sarà in
maniera un po' diversa, le formule saranno appropriate alla condizione di catecumeno, però
una volta sarebbe stato inconcepibile che un non battezzato avrebbe potuto avere le esequie
nella Chiesa.
Il titolo primo del secondo libro si intitola “doveri e diritti di tutti i fedeli”. Nel mettere
in ordine la materia, non si parte dall’alto, ma dal basso e ci troviamo davanti a questi
canoni che vanno dal 208 al 223 che trattano dello statuto giuridico di tutti i fedeli. Per
statuto giuridico si intendono tutti i doveri e diritti inerenti ad uno status; ci sarà uno
statuto giuridico dei chierici, dei laici, dei religiosi, ecc. cioè riguardano una particolare
categoria di persona, questo insieme di diritti e doveri costituiscono lo statuto giuridico
di tutti i Christis fideles. Noi in genere anche quando parliamo, siamo abituati ad anteporre
i diritti e a posporre i doveri “diritti e doveri” diciamo sempre così! In ambito canonico si
fa il contrario: “doveri e diritti”, perché si fa questo? Perché il nostro essere cristiani si
poggia sul comandamento dell’amore, sulla carità, e allora in una visione della vita dove
il primato spetta alla carità, io do la precedenza ai miei doveri, ai miei obblighi, piuttosto
che ai miei diritti. Anteporre i miei diritti significa mettere me al primo posto.
Anteporre i doveri vuol dire concepire la mia vita a servizio dei fratelli; ecco perché nel
linguaggio canonico si antepongono sempre prima i doveri e poi si prendono in
considerazione i diritti; e noi vedremo che questi canoni sono più numerosi i doveri che i
diritti e che a volte allo stesso canone troviamo insieme doveri e diritti. Quando usiamo la
parola diritto facciamo riferimento a due situazioni: o alla legge oppure alla nostra
persona; se noi diciamo che “io ho il diritto di ricevere questo libro, perché ho pagato alla
cassa il prezzo stabilito”, quindi parliamo di diritto oggettivo, oppure facciamo riferimento a
una nostra facoltà di agire o alla pretesa che un altro agisca in una certa maniera nei miei
confronti “io vado nel negozio, prendere il libro, vado alla casa, pago”, io ho il diritto di
ricevere quel libro, il negoziante ha il dovere di darmi quel libro non un altro. Quindi qui si
parla di diritto soggettivo, cioè la mia facoltà di agire in un certo modo o l’altra persona di
agire in un certo modo nei miei confronti. In questo titolo del codice si parla di diritti e
doveri fondamentali, fondamentali che vuol dire? Doveri e diritti che non sono solo del
singolo, ma di tutta la comunità, quindi non è messo in discussione il mio rapporto con
l’altro, ma con tutta la comunità. Questi doveri e diritti hanno la loro ultima radice nel
diritto naturale; quindi non sono una concessione dalla parte di un’autorità competente, ma
sono diritti e doveri che Dio ha scritto nel cuore dell’uomo, che noi ritroviamo in tutti gli
ordinamenti giuridici; la libertà di pensiero, di parola, chi la può negare? Nessuno,
perché è insita nel cuore dell’uomo che noi chiamiamo diritto divino, ma anche chi non
crede in Dio questi diritti e doveri li riconosce perché sono scritti nella natura. Chi mi
può vietare di essere buddista, cattolico, mussulmano? Nessuno, perché fa parte della natura
dell’uomo di essere liberi. Questi diritti per noi credenti hanno fondamento in Cristo; anzi
qualche canonista ha ravvisato quasi in Cristo la titolarità di questi diritti, il battezzato poi la
riceve da Cristo stesso questa titolarità. Questi diritti sarebbero ascrivibili a Gesù stesso,
poi il credente li riceve nel battesimo e li esercita, è come se ognuno di noi fosse vicario
rispetto a Cristo. I membri della società civile possono trovarsi in situazioni contrapposte,
immaginiamo come se io sono proprietario di un terreno, la società civile ha bisogno di quel
terreno perché deve costruire una scuola, ci sono 2 interessi contrapposti: i miei interessi di
privato cittadino che dice che questo terreno è mio; la società civile dice: guarda questo
terreno è tuo, però a me serve, il mio bisogno è più importante del tuo; allora a volte si
creano situazioni conflittuali: viene prima il diritto del soggetto o quella della società? In
una società liberale si tende a privilegiare il soggetto privato, ma in una società di
orientamento socialista, si tende a privilegiare i bisogni della società civile; nella Chiesa
tutto questo non c’è, perché mai il soggetto privato si pone in antitesi con il Christis
fidelis, proprio in virtù del principio fondamentale che è la legge dell’amore. Ecco
perché in questa logica i doveri sono anteposti rispetto ai diritti: se io privato so che quel
terreno serve alla comunità, sono io stesso a metterlo a disposizione; è anche vero che la
comunità non può privarmi di un mio bene, se quel mio bene mi serve per vivere, mi dovrà
aiutare almeno a sopravvivere. Quando fu attuato questo codice, durante i lavori della
redazione di questo codice, fu pensata una carta costituzionale “lectio ecclesia
fundamentalis” e fu anche preparata, fu redatta e fu mandata anche in giro ai vari soggetti
che dovevano dare il loro parere; questa legge conteneva degli articoli che prevedevano
questi doveri e diritti fondamentali. Questa proposta trovò alcuni favorevoli, altri contrari.
La Chiesa ha già una sua carta costituzionale (vangelo) e questa lettera sembrava quasi
togliere il primato al vangelo nella vita della Chiesa, allora questo progetto fu fatto cadere
nel dimenticatoio e non se né più parlato. Quando nel 1983 è stato fatto promulgare il
codice, si è visto che quegli articoli non erano stati cestinati ma erano stati inseriti nel
secondo libro del codice e quindi si è trovata una soluzione di compromesso: non redigere
una lectio ecclesie fundamentalis distinta dal codice, ma si sono fatti confluire questi
articoli nel codice e raccolti nel titolo del secondo libro del codice perché adesso che li
vediamo ci accorgeremo che sono proprio principi di diritto naturale e sono applicati a tutti i
credenti senza distinzione. Su questi doveri e diritti fondamentali, si poggia sulla natura del
codice. Quando si parlerà dei laici, dei chierici, dei consacrati, si noterà che c’è sempre un
riferimento a questi canoni che presentano i principi fondamentali del diritto, in genere
anche del diritto canonico.
Il primo canone 208: è importante perché proclama quell’uguaglianza fondamentale che
abbiamo già detto, quindi tra tutti i Christi fideles sussiste una vera uguaglianza nella
vita e nell’azione, perché questa uguaglianza si fonda sul battesimo. Qui abbiamo una
idea portante di tutta la LG il n°32 che vedremo in maniera più discorsiva questo principio
che racchiude in maniera molto sintetica.
Poi il primo dovere can 209: è quello della comunione: quindi la comunione è un dovere, è
un obbligo, non un’esortazione; e quest’obbligo di coltivare la comunione è in due sensi: la
comunione verso la Chiesa universale e la Chiesa particolare (diocesi), nei documenti
conciliari prevale di più il termine “Chiesa locale”, o Chiesa particolare o locale si intende
la stessa cosa; è un obbligo della comunione.
Can. 210: prevede l’obbligo e il dovere di provvedere alla nostra santità, è un dovere
che tutti devono adempiere in base alla propria condizione, al proprio stato di vita; quindi
tutti i fedeli secondo la propria condizione tendono a una vita santa e a promuovere la
crescita della Chiesa e la sua continua santificazione. Quindi il mio impegno alla
santificazione non è solo personale, ma è universale, di tutta la Chiesa: l’espressione
“fatti santo” è superato, si concentra tutto in sé stesso; la santificazione è un dovere, un
impegno che ha sempre questo risvolto comunionale ed ecclesiale.
Can 211: qui troviamo sia il dovere che il diritto di lavorare perché il messaggio di
salvezza si espanda a tutti gli uomini e al mondo intero: la missione è un dovere e un
diritto a tutti i fedeli.
Can 212: prevede ancora una volta un dovere di obbedire ai pastori in quanto sono
rappresentanti di Cristo, maestro della fede e capi della comunità. Al secondo e terzo
paragrafo di questo canone c’è un correttivo, cioè che i fedeli hanno anche la libertà di
manifestare ai pastori le loro necessità, i loro desideri e al terzo paragrafo: in rapporto
alla cultura, alla competenza e al prestigio; quindi in virtù di questi tre attributi: io ho il
diritto di esporre ai pastori il mio pensiero che riguardano il bene della Chiesa. Io sono un
medico, uno scienziato, la Chiesa si sta occupando di una materia di carattere scientifico,
una questione che riguarda il mio settore, io come scienziato, ho il diritto di esporre il mio
pensiero ai pastori, ovviamente per quanto riguarda le mie competenze, per il bene della
Chiesa; io non intendo sostituirmi ai pastori, ma come scienziato siccome si tratta di una
materia di cui io sono competente e i pastori in questo momento si stanno occupando di
questo attimo, io ho tutto il diritto di esporre il mio pensiero poi lascerò ai pastori tirare le
loro conclusioni, non solo ho il diritto di manifestare il mio pensiero ai pastori, ma ne
posso anche parlare con gli altri fedeli, sempre nel rispetto delle competenze dei
pastori.
Can 213: è collegato al canone 1212, questi due canoni camminano insieme: i fedeli
hanno il dovere di ricevere dai pastori gli aiuti spirituali, in particolare hanno il diritto di
ricevere la parola di Dio e i sacramenti, ma i beni spirituali sono anche di più della parola di
Dio e dei sacramenti. Questo diritto lo troviamo nel n°37 della LG. I sacramenti e la
parola di Dio sono i beni spirituali per eccellenza, ma se ne possono individuare anche altri,
ad es. la direzione spirituale, questo è un diritto fondamentale, i pastori sono tenuti a
rassicurare l’esercizio di questo diritto. A volte succede che si negano i sacramenti, che non
è una questione di carattere pastorale, ma anche di carattere canonico e bisogna fare
attenzione perché si potrebbe violare un diritto fondamentale: di ricevere i beni spirituali. I
fedeli hanno diritto ai sacramenti e allora bisogna individuare bene il limite, cioè il
confine tra l’esercizio di questo diritto da parte dei fedeli e il dovere dei ministri sacri che si
sentono padroni dei sacramenti, di garantire che i fedeli abbiano una debita preparazione di
ricevere i sacramenti. Questo confine è molto elastico, quindi a volte viene stiracchiato a
favore dei fedeli, altre volte viene stiracchiato a favore dei ministri sacri, bisogna essere
molto prudenti e molto attenti; i ministri sacri sicuramente si devono preoccupare che ci
siano le debite preparazioni per ricevere il sacramento, ma è anche vero che i fedeli hanno
diritto di ricevere i sacramenti: “se tu parroco mi crei delle condizioni impossibili, tu mi
violi l’esercizio di questo diritto”, è anche vero che i fedeli devono pur rispettare un
minimo di condizioni per accedere al sacramento, altrimenti il sacramento diventa
inefficace.
Can 214: prevede la libertà di rito, non quella religiosa in senso generale, ma la libertà di
rito; perché nella Chiesa cattolica c’è una relativa libertà attraverso il quale si esprime il
culto. Il battesimo si riceve nel rito dei genitori o se i genitori sono di rito diverso si opta per
il rito del padre, ma già a 14 anni, il battezzato di una particolare Chiesa rituale,
acquista una facoltà di ricevere un rito diverso da quello di cui appena nato è stato
battezzato. In oriente questi riti sono distinti ma non separati, anche per la scarsità di clero,
molte volte il ministro sacro cattolico ha questa doppia competenza, per i fedeli di rito
romano celebra secondo il rito romano e per i fedeli di rito orientale celebra secondo il rito
orientale e così cambiano i paramenti, cambiano i testi liturgici, ma il ministro è sempre lo
stesso, perché si tratta di minoranze e assicurare un ministro per ogni rito è un po' difficile e
siccome si tratta sempre della Chiesa cattolica, i ministri sacri sono preparati e abilitati per
celebrare in entrambi i riti o in rito romano o in rito orientale del posto. Il rito orientale è
un termine molto generico, all’interno di questa espressione generica ci sono 16-17 riti,
gli ortodossi invece non fanno parte della Chiesa cattolica.

8-3-2022
Diritti e doveri sono sacri perché noi attribuiamo a Dio stesso che li ha inculcati nella
natura dell’uomo per cui per noi non sono solo diritti e doveri fondamentali, ma sono di
origine divina.
Il diritto di associazione ecclesiale fa capo a un diritto o dovere fondamentale a cui sono
collegati. I canoni a volte fanno riferimento solo a un diritto a volte solo a un dovere, altre
volte c’è un diritto e un dovere fondamentale e che evidentemente si tratta di una fattispecie
che hanno questa doppia valenza, sono diritto e dovere nello stesso tempo.
Canone 215: diritto di associazione che è un diritto fondamentale e molto importante. È
fondamentale perché l’uomo ha una natura sociale, non è fatto per stare da solo, ma per
stare in relazione; il diritto di associazione è innato nell’uomo, non è frutto della
concessione da parte di nessuna autorità esterna, né sul piano civile e neanche sul piano
ecclesiale, inoltre la Chiesa ha rispettato questo diritto fin dagli inizi. La Chiesa nasce
dall’incontro di persone che riconoscono in Cristo il loro Signore e sono battezzati nel nome
della Santissima Trinità, quindi entrano in questa grande società che è la Chiesa particolare,
la parrocchia, lo stesso seminario è una comunità dove il rettore è il rappresentate legale del
seminario, gli istituti religiosi; il fenomeno associativo permea tutta la vita della Chiesa e
poi le associazioni che liberamente si costituiscono, queste sono associazioni che
nascono dall’iniziativa dall’alto. La diocesi la istituisce la Santa Sede, la parrocchia il
Vescovo, ma poi c’è l’iniziativa che parte dal basso (i fedeli) i quali hanno questa libertà,
il canone 215 ristabilisce le finalità che deve avere un’associazione, noi possiamo
costituire tante associazioni, però tutte saranno rilevanti per l’ordinamento giuridico-
canonico, le associazioni che vogliono fregiarsi del diritto di ecclesialità, quindi le
associazioni ecclesiali, devono fare una scelta nel senso indicato dal codice. La
definizione di società quella dei romani, è un esempio anche per noi, unione di più persone
che perseguono lo stesso fine: di carità, di pietà, incremento della vocazione cristiana nel
mondo. Le confraternite sono delle associazioni che sono nate per un duplice motivo:
per un fine di pietà, (sepoltura dei morti), ma anche un fine di carità perché quando nella
società civile non c’erano tutti quei centri di assistenza che sono previsti oggi dalla
legislazione, le confraternite si prendevano cura anche delle famiglie del defunto che si
trovavano in difficoltà economica e si proponevano anche l’incremento della vocazione
cristiana, all’epoca erano delle associazioni dove si formavano i membri cristianamente, e
rispettavano tutte e 3 le finalità: la formazione cristiana dei membri, quindi il suffragio
e la sepoltura di quando i membri morivano e l’assistenza caritativa delle famiglie, dei figli,
delle vedove, nel caso in cui il defunto lasciava la famiglia priva di sostegno, della figura
maschile, della figura paterna che veniva a mancare.
Canone 216: prevede il diritto di promuovere e sostenere l’attività apostolica in base al
proprio stato: se io sono sacerdote-diocesano posso celebrare questo diritto secondo il mio
status sacerdotale, se sono religioso o religiosa lo farò da religioso o religiosa, se sono un
laico lo farò da laico, ma è importante che questo diritto fondamentale che si fonda sul
battesimo sia stato inserito tra i canoni perché fino al Concilio era diffusa la convinzione
che l’apostolato era una prerogativa dei ministri sacri, dei vescovi; questo lato faceva
rima con i successori degli apostoli, i redentori dell’apostolato sono i vescovi, i presbiteri,
ecc. i laici potevano essere impegnati sul piano pastorale/apostolico solo per delega.
Questo canone smantella questa concezione dell’apostolato compiuto per delega da parte dei
vescovi e riconosce un diritto fondamentale per tutti i Christi fidelis che si poggiano sul
battesimo, però c’è una restrizione comprensibile: tu da laico puoi prendere tutte le
iniziative di carattere apostolico che ritieni valide, ma nessuna iniziativa rivendichi per
sé stessa il nome di cattolica senza il consenso dell’autorità ecclesiastica competente.
Una libertà a 360 gradi potrebbe dare vita a delle deviazioni, allora bisognava pur mettere
uno sparti acque, allora ci sono alcune iniziative che hanno il carattere dell’ufficialità e altre
che non lo hanno, sono nelle mani del singolo il quale può fare quello che vuole, la Chiesa
non si può impegnare sul piano pubblico attraverso delle iniziative che sono discutibili, per
cui quando un’iniziativa riceve il consenso dell’autorità competente diventa un’iniziativa
che ha anche un attributo cattolico, quando non c’è questa attribuzione è una libera
iniziativa che potrebbe essere positiva, ma anche negativa, però la Chiesa non si
impegna in prima persona.
Canone 217: prevede il dovere di condurre una vita conforme alla dottrina cattolica e
quindi prevede anche il diritto all’educazione cristiana; da una parte io sono tenuto a
vivere una vita conforme alla dottrina evangelica, ma allo stesso tempo di ricevere anche un
educazione cristiana perché se non sono educato sul piano cristiano non è colpa mia se poi
nella mia vita assumo dei comportamenti che sono fuori dalla dottrina, sul piano della
catechesi, i ministri sacri hanno una grossa responsabilità: i bambini, giovani che approdano
nelle nostre comunità devono essere formati, noi speriamo che i primi rudimenti della
formazione cristiana siano stabiliti dalla prima famiglia di origine, ma poi abbiamo una
grande responsabilità di formare cristianamente queste persone. È un dovere per i pastori ed
è un diritto! Noi pretendiamo in età adulta dalla gente una maturità cristiana che a suo
tempo non abbiamo contribuito a formare, non possiamo chiedere ai fedeli una vita
evangelica se questi fedeli quando erano in fase di crescita e formazione cristiana, hanno
fatto dei corsi di catechismo in maniera superficiale o addirittura non li hanno fatti. Quindi
se noi assistiamo ad alte forme di immaturità cristiana è perché c’è stato un difetto di
formazione; tendiamo sempre a dare la colpa agli altri, ma noi in coscienza dobbiamo
chiederci se abbiamo rispettato questo diritto ai fedeli di formazione cristiana.
Canone 218: prevede la libertà di ricerca nelle scienze sacre e anche la libertà di
manifestare il proprio pensiero nell’ambito della propria competenza. Quindi c’è una
doppia libertà: di ricerca innanzitutto ma poi anche di manifestazione del proprio pensiero,
chiaramente nel campo in cui tu sei esperto, però sempre avendo davanti il Magistero
della Chiesa come gli argini che deve scorrere il fiume, l’acqua della tua competenza. Il
magistero per noi è fondamentale perché costituisce un po' le pareti di questo doppio argine
nel quale poi si incanala la ricerca biologica dei vari esperti.
Canone 219: la libertà di scelta del proprio stato di vita: celibato, nubilato, consacrato,
ecc. in caso di costrizione quella scelta di vita è nulla, cioè significa che è inesistente:
dici per 10 anni io ho vissuto la vita coniugale o 7 anni ho vissuto la vita sacerdotale, è tutto
nullo! Tutto inesistente!
Canone 220: è il diritto della buona fama e della buona intimità, oggi è un diritto sotto i
riflettori perché oggi c’è una tendenza alla denuncia molto facile, allora è prima una
questione di carattere morale: io non poso mettere in crisi la buona fama dell’altro per un
sospetto, per calunnia, moralmente è molto grave. Certamente lo posso fare, ma la mia
denuncia deve essere formata, cioè io devo mettere in condizione che l’autorità
ecclesiastica competente è in grado di riconoscere la vericità di quello che dico,
purtroppo c’è un facile ricorso alle denunce anonime, determinate da motivi di conflitto
personale, è molto grave, le denunce anonime prima o poi lasciano sempre una traccia, cioè
si mette sempre in moto qualcosa per la fondatezza di quella denuncia anonima e la persona
ne risente prima sul piano umano, perché è una situazione di sofferenza e poi sul piano
dell’immagine, non è per nulla evangelico.
Canone 221: diritto di rivolgersi ai tribunali ecclesiastici per rivendicare il proprio
diritto o per difendere il proprio diritto. Il primo paragrafo prevede questo diritto, il
secondo paragrafo invece che il giudizio sia effettuato secondo le leggi e con equità,
secondo le leggi che vuol dire? Che chi giudica non lo fa di testa sua, la legge prevede
quella pena? E tu quella pena devi applicare, cioè non puoi gestire il giudizio secondo la tua
mentalità o la tua sensibilità, questo è il principio di legalità e di applicare con equità.
L’equitas è una virtù a cui deve ispirarsi chi giudica nella Chiesa, che significa davanti alla
fattispecie dello stesso genere, si cerca una guida comune. Quindi l’equità completa il
giudizio fatto secondo legalità, quindi il giudizio deve essere assicurato nel rispetto della
legalità e della equità, l’equità completa la legalità, permette che non ci siano dei
dislivelli, delle diversità di trattamento tra casi che sono simili. Poi il terzo paragrafo
riconferma il principio di legalità, delle persone canoniche, bisogna che siano secondo
legge: nessuna pena senza una previa legge. Se io ho commesso quel delitto prima che fosse
emanata la legge penale, io non posso essere punito, se invece l’ho commesso all’indomani
in cui è andato in vigore, sarò punito per la legge penale.
Canone 222: i fedeli sono tenuti all’obbligo di sovvenire le necessità della Chiesa, quindi
quando la Chiesa chiede, c’è un obbligo a contribuire; la richiesta di aiuti economici da
parte della Chiesa deve essere motivata e il canone mi dice quali sono le motivazioni che
sono 4: il culto, le opere di apostolato, la carità e l’onesto sostentamento dei ministri; c’è
anche l’ordine gerarchico: prima viene il culto, poi l’apostolato, poi l’opera di carità e per
ultimo posto c’è l’onesto sostentamento dei ministri, ma una cosa se chiedo di comprarmi
una pandarella e un conto è se chiedo che la comunità mi finanzi una fuoriserie.
Un secondo paragrafo è dedicato alla proporzione della giustizia sociale e ai poveri; è una
sottolineatura che cerca di far passare questo principio che nell’ambito degli obblighi che
hanno tutti i fedeli, la promozione della giustizia sociale e dei poveri sono importanti, se io
ho un dipendente e non retribuisco come richiede la legge, io non rispetto questo obbligo di
promuovere la giustizia sociale, a volte è proprio nella chiesa che si individuano le
ingiustizie sociali: quante volte le persone non sono state retribuite nelle nostre realtà
ecclesiali e queste sono mancanze contro l’obbligo di promuovere la giustizia sociale o il
soccorso dei poveri. Ciò che danno i fedeli deve essere impiegato secondo l’intenzione e la
volontà dei fedeli senza depistamenti, se una deviazione fosse necessaria si deve chiedere il
permesso al Vescovo. Gli ex voto non possono essere alienati, bisogna chiedere il permesso
alla Santa Sede, neanche al vescovo, perché quegli oggetti hanno una loro sacralità, sono il
segno visibile di storia di vita, di sofferenza, di interventi della grazia di Dio nella vita delle
persone e questa sacralità va salvaguardata.
Canone 223: è un canone di sintesi, è un canone conclusivo. Prevede che nell’esercizio del
loro diritto i fedeli o sono singoli o sono in associazioni, i fedeli devono rispettare sempre il
bene comune della Chiesa e i diritti e i doveri nei confronti degli altri: tu puoi esercitare tutti
i diritti che ti sono riconosciuti ma non deve contrastare con i diritti della Chiesa e degli
altri, né tu per esercitare un diritto devi venire meno a un tuo dovere: io come genitore ho il
diritto all’apostolato, ma nel contempo sono un padre di famiglia, e ho il dovere di
assicurare l’educazione cristiana ai miei figli, le nostre comunità sono pieni di laici che
fuggono dai loro doveri e preferiscono esercitare un compito nell’ambito ecclesiale. Davanti
a tanta generosità c’è anche la voglia di evadere dai propri doveri oppure di coloro che
studiano le scienze sacre che hanno la libertà di ricerca, io nel momento in cui mi accorgo
che la ricerca teologica può creare dei problemi alla comunità, alla Chiesa, io mi devo un
attimo fermare, valutare, il bene della Chiesa ha la precedenza rispetto al mio diritto di
ricerca, questo canone è fondamentale perché individua il binario su cui si deve camminare
pur esercitando i legittimi diritti.
Il secondo paragrafo riserva l’autorità ecclesiastica con la facoltà di regolare gli esercizi di
diritti in vista del bene comune, cioè a volte l’autorità ecclesiastica deve porre dei limiti e li
pone non perché vuole spadroneggiare, ma vuole tutelare il bene della Chiesa, il bene del
singolo, il bene della comunità della Chiesa non devono porsi su fronti contrapposti, ma si
devono armonizzare tra loro e tutto questo se non lo si riesce a fare da soli ti aiuta l’autorità
ecclesiastica attraverso una regolamentazione.

15-3-2022
Canone 207: all’interno dei Christi fideles ci sono chierici e anche laici, il principio di
uguaglianza ci fa somigliare tutti, ma il principio di disuguaglianza ci differenzia. Questa
distinzione è di diritto divino ed è di carattere ontologico, perché entrambe le
condizioni (ministri sacri e laici) si fondano in un sacramento, imprimono il carattere,
non è semplicemente funzionale, la distinzione funzionale, di servizi, ecc. verrà in un
secondo momento. Tra questi due stati non vanno visti l’uno in competizione o
contrapposizione all’altro, ma sono ordinati l’uno all’altro. Quindi i chierici sono rivestiti
della purità di Cristo, noi diciamo che agiscono in persona Christi, ma sono anche dei
battezzati. I chierici sono vestiti dell’autorità di Cristo ma non cessano di essere cristiani e
sono stati concepiti in funzione del popolo di Dio che è formato prevalentemente da laici.
La condizione clericale per quanto sia contrassegnata dall’autorità di Cristo a livello di
essenza è una condizione che è diaconale rispetto a tutta la Chiesa.
Nel secondo paragrafo: “Dagli uni e dagli altri” (chierici e laici). Questo secondo paragrafo
racchiude la LG 43-44; “il loro stato non riguarda la struttura gerarchica della Chiesa”: la
Chiesa conosce due gradi chierici e laici; la vita consacrata non ha nulla a che vedere con
la struttura gerarchica della Chiesa; la vita consacrata ha a che fare con la dimensione
carismatica della Chiesa; che la Chiesa, il popolo di Dio contiene in sé una varietà di
carismi. In questa fascia di Christi fideles troviamo che alcuni sono chierici e alcuni laici; a
partire dal papa a finire all’ultima suora di questo mondo. Le suore sono tutte laiche. Per
gli uomini c’è una distinzione perché alcuni accedono all’ordine sacro e quindi a uno
dei tre gradi e quindi diventano chierici pur conservando la loro identità carismatica di
consacrati, altri rimangono solo laici e sono portatori di questa consacrazione di
carattere carismatico (consacrazione religiosa). Il paragrafo inoltre sottolinea la
dimensione di consacrazione che avviene tramite i voti o altri vincoli sacri. Cosa avviene
attraverso la professione dei voti di altri sacri legami? Ci si consacra a Dio da una
parte e poi si diventa collaboratori nei riguardi della missione salvifica della Chiesa.
C’è questa duplice conseguenza: la consacrazione dei voti non è solo in senso verticale
come legame tra me e Dio, ma anche in relazione alla Chiesa; io divento collaboratore
della Chiesa che per esprimere la sua azione salvifica si serve anche di me. L’ultimo
modello santità ci fa capire il modello carismatico: la dimensione istituzionale e
carismatica della Chiesa si fondono. Il diritto ha un’anima, ha una dimensione
spirituale, carismatica che è sotterranea e qui è uno di quei passi in cui la punta di
quest’iceberg esce fuori e si fa vedere.
Il termine “stato” e “condizione giuridica”: i due termini si somigliano ma non
coincidono, perché la condizione giuridica è un concetto più ampio rispetto a stato; la
condizione giuridica è la condizione laicale, all’interno della quale individuiamo degli
status: stato uxorato (coniugati), status di vita del celibe; lo status si colloca sempre
all’interno di una condizione giuridica. La condizione giuridica indica tutta la categoria,
all’interno della categoria si indicano degli status particolari.
Dal canone 224 si inizia a parlare dei laici: nel vecchio codice non si partiva dai laici,
ma dai chierici, poi dai religiosi e poi i laici e si fondava un’ecclesiologia diversa che
metteva al primo posto i chierici e all’ultimo posto i laici; per cui la prima condizione
giuridica che viene presa in considerazione è proprio quella laicale, la condizione laicale
si fonda sul battesimo che affraterna tutti i membri del popolo di Dio prima di prendere in
considerazione qualsiasi condizione e funzione. Dal canone 224 fino al canone 231
presenta lo statuto giuridico dei laici, quindi il complesso dei doveri e dei diritti che
appartengono a tutti i laici; troviamo prima il termine dovere e poi il termine diritto. Il
termine laico non lo troviamo nel NT, viene dal greco laos che è popolo, per indicare
quella parte del popolo che non era reputata al culto. Questo termine è entrato nel
linguaggio cristiano quando c’è stata la traduzione dei LXX, quindi quando già nella
Chiesa delle origini si cominciava ad individuare la distinzione dei ministri e dei
ministri sacri. La distinzione di questo termine lo si deve in modo particolare a Tertulliano
e poi entra anche nella traduzione dei LXX però l’origine è nell’ambito della cultura greca-
ellenistica, quindi siamo nel II-III sec. d.C. Come si regolava il vecchio codice quando
trattava dei laici? Il vecchio codice riservava pochissimi canoni ai laici ed erano sempre
canoni proibitivi, nel senso che si sforzavano di sottolineare ciò che ai laici non era
permesso; ad es. ai laici non era permesso toccare i libri dell’altare, non era permesso essere
sotterrati nel cimitero nella stessa area che era riservata ai chierici; la stessa definizione di
laico era concepita in maniera negativa, i laici erano quelli che non erano chierici, ma non ti
diceva il vecchio codice qual era lo specifico dei laici, era divieto ai laici di indossare
l’abito ecclesiaste, ogni canone conteneva un no! Una proibizione. C’era quindi questa
condizione del laico che non sottolineava l’importanza del battesimo, della loro
consacrazione.

Nei documenti conciliari c’è la LG, la costituzione dogmatica della Chiesa che dedica il
quarto capitolo ai laici; poi abbiamo un decreto che si occupa dell’apostolato dei laici,
quindi di questa loro collaborazione-cooperazione alla missione salvifica della Chiesa ed è il
decreto conciliare Apostolicam Appositatem. Il quarto cap. della LG si apre con il n°30
in cui il Concilio parla dei laici come uno status e dice che: il laicato è uno stato di vita e
questo stato di vita ha una sua specifica condizione e missione nella Chiesa; nel n° 31
abbiamo la definizione di laico: qui non si dà del laico una definizione di carattere
ontologico; del laico abbiamo una descrizione tipologica. Il canone 224 è un canone
cerniera e dice: che tutto quello che stato detto nei canoni precedenti dei christi fideles,
vale anche per i laici.
Nel canone 225: c’è la recensione del n°31 della LG, questa descrizione tipologica del
laico viene incorporato dal codice. Il codice recepisce questo numero per sottolineare che
la sua prospettiva è una prospettiva nuova, diversa. Nel 1983 questo codice è andato in
mano a vescovi, docenti, persone impegnate nella Chiesa che si erano formate secondo il
vecchio codice e la teologia preconciliare; se fosse promulgato adesso non ci sarebbe
bisogno di questo canone; ma all’epoca c’era una Chiesa formata verso questa prospettiva;
quindi un canone del genere era necessario, perché era come per dire: cari fratelli è cambiata
la prospettiva ecclesiologica della Chiesa, resettate tutto quello che avete nella vostra mente
e cambiate prospettiva. Nel primo paragrafo sottolinea l’impegno apostolico e
missionario che si fonda sui sacramenti del battesimo e della confermazione e su questi
due sacramenti i laici sono deputati da Dio; prima del concilio si parlava
dell’apostolato dei laici come una deputazione da parte della Chiesa, da parte dei
vescovi, qui invece si parla di una deputazione da Dio stesso. Quindi i laici hanno
l’obbligo e insieme il diritto all’apostolato. Se la deputazione venisse dalla Chiesa, la
Chiesa a me non mi chiede niente quindi io non sono tenuto ad impegnarmi a livello
apostolico, perché è la Chiesa che concede la facoltà di esercitare l’apostolato; se la Chiesa
non mi chiama non ho nessun obbligo e neanche un diritto; ma se l’apostolato lo ho da Dio
attraverso i sacramenti del battesimo e della confermazione, cambia tutto, allora vuol dire
che ho l’obbligo e diritto di cooperare alla missione salvifica della Chiesa per cui nessun
vescovo mi può vietare di collaborare o cooperare alla missione salvifica della Chiesa; è
chiaro che il vescovo me lo può vietare ad esercitare a livello istituzionale, ma a livello
esistenziale della mai vita di tutti i giorni, io laico, io battezzato, esercito liberamente a
questo diritto salvifico della Chiesa e nessuno me lo potrà mai vietare. Poi si fa riferimento
alla forma: come esercitare l’apostolato? In maniera singola o associata. Il paragrafo si
chiude facendo riferimento a quelle situazioni in cui il vangelo non può essere
annunciato se non attraverso i laici e da parte dei laici; l’azione della Chiesa non è
sempre gradita in certe nazioni; ci sono tante nazioni in cui i ministri sacri non possono
svolgere liberamente il loro ministero e quindi in certe situazioni il vangelo può essere
annunciato solo dai laici e allora in quelle situazioni il loro contributo diventa vitale per la
diffusione del vangelo e per l’instaurazione della Chiesa.
Nel secondo paragrafo: specifica qual è lo specifico del laico, il punto tra il ministero del
chierico e del laico, quindi la nota specifica del laico è la secolarità. C’è un sacerdozio
battesimale e c’è un sacerdozio ministeriale; sacerdozio battesimale significa che il
laico è incorporato a Cristo e al battesimo e alle tre funzioni del Cristo: sacerdote, re e
profeta; ma vi partecipa secondo il suo stato laicale e questo è un elemento comune a
tutti i christi fideles. Qual è lo specifico del laico che distingue il laico dal chierico? È la
secolarità. Il laico è il battezzato che vive nel secolo e con la sua azione anima il secolo in
maniera evangelica; fa si che il vangelo diventi un fermento che orienti il secolo verso il
Signore Gesù. Secolo è tutto ciò che è distinto dal sacro, ma questa dimensione secolare
non deve essere separata dal Cristo, deve essere orientata verso il Cristo e questa missione
spetta al laico. In modo particolare le cose temporali: il ministro sacro non è tenuto ad
occuparsi delle cose temporali, a volte se ne occupa anche il chierico, ma chi si deve
occupare delle cose temporali in maniera privilegiata è il laico, queste realtà temporali se
ne deve occupare in senso evangelico. Quindi il laico con il secolo, realtà temporali, con
il mondo deve instaurare un rapporto costruttivo e permettere che il vangelo possa
permeare il mondo, le realtà temporali; ad es. il mondo del lavoro che non entrano in
genere i ministri sacri; il mondo del lavoro, il mondo della politica, sono delle realtà
temporali, in cui può anche entrarci un ministro sacro, ma non è una regola comune;
questi ambiti sono popolati dai nostri laici. Il compito fondamentale e comune a tutti i
laici è questo; nel 226 si parlerà dei laici coniugali che è già una categoria all’interno
dei laici; ma il canone 225 dice cosa deve fare ogni laico: celibe, vedovo, religioso o
religiosa. Al di là della LG e della Apostolicam Actuositatem, la Chiesa è ritornata su
questo argomento ed ha emanato anche altri documenti sui laici. Pensiamo a Paolo VI che
nel 67 dopo la chiusura del concilio, istituì il pontificio consiglio dei laici, c’è una
congregazione per il clero, per i religiosi, ma non c’era nessun organismo che si occupasse
dei laici; che è diventato l’organismo della curia romana che si occupa dei laici e poi c’è
stata l’esortazione apostolica christifidelis laici di G. Paolo II; le esortazioni apostoliche
sono dei documenti nei quali si sintetizzano i risultati di un sinodo; G. Paolo II nell’87
favorì la celebrazione di questo sinodo che si occupò dei laici e nell’88 emanò questa
esortazione apostolica christifidelis laici, è una triade dei documenti dell’insegnamento
conciliare e post conciliare sui laici; poi questo pontificio consiglio dei laici che disciplina
tutto ciò che riguarda i laico, se ad esempio c’è un problema per quanto riguarda
l’associazione cattolica, il problema lo si pone al pontificio consiglio per i laici come
quando ci sono problemi per i chierici si parla con la congregazione del clero oppure
problemi per i religiosi e si va alla congregazione per gli istituti di vita consacrata e la
società di vita apostolica.
Canone 226: riguarda i laici che vivono nello stato coniugale. Al primo paragrafo per i
laici prima dell’impegno in comunità, in parrocchia, è concentrato nella famiglia e nel
matrimonio, a volte vediamo laici che evadono dai problemi che hanno a casa ed è più facile
impegnarsi nella parrocchia, ma il canone sottolinea che la prima forma ad edificare il
popolo di Dio avviene vivendo il proprio matrimonio e la propria vita familiare.
Il secondo paragrafo: fa riferimento all’educazione cristiana dei figli, il codice lo
definisce un obbligo gravissimo e aggiunge il diritto di educarli, quindi è un dovere e
un diritto nello stesso tempo. Questo diritto-dovere, è essenziale perché si trasmette con la
vita. È un diritto e dovere primario, cioè non lo concede nessuna autorità, viene da Dio
stesso, è inalienabile e insostituibile; io non lo posso delegare ad altri, gli altri mi possono
aiutare, la scuola aiuta i genitori, ma non c’è nessuna istituzione al mondo che posso
delegare o mi possa dire “me la vedo io”, no! perché è insostituibile.

23-3-2022
Canone 227: rivendica ai laici una duplice libertà, una libertà in materia di tutta la loro
attività nel campo secolare, la secolarità è lo specifico della condizione laicale, questa
secolarità si deve concretizzare in un impegno, quindi ai laici è riconosciuta questa
libertà di occuparsi di tutte le questioni che hanno un carattere secolare, temporale e
questa libertà si impone sia davanti allo Stato che davanti alla gerarchia ecclesiastica e
questo non ci deve meravigliare perché ci sono degli Stati in cui la credenza religiosa
diventa motivo di discriminazione, invece appunto questo diritto fondamentale affonda le
sue radici nel diritto naturale. Il canone sottolinea che questo loro impegno deve essere
animato da spirito evangelico e in ascolto dalla dottrina proposta dalla Chiesa. I laici
hanno il diritto di impegnarsi nelle realtà temporali ma non a briglie sciolte, anzi il
canone alla fine dice “nelle questioni opinabili”, cioè nelle questioni dove non c’è un
pensiero ben definito, devono presentare un pensiero come se non fosse il pensiero
della Chiesa, quindi nelle questioni opinabili, cioè dove non c’è un pensiero chiaro e
determinato, possono anche esprimere un loro pensiero ma lo devono qualificare come
loro pensiero, non devono qualificarlo come dottrina della Chiesa, una visione di quella
realtà strettamente personale. Questo diritto fondamentale dei laici evidentemente non è
patrimonio della Chiesa o esclusivamente della Chiesa, perché c’è una dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo nel 1948 che premette questo tipo di libertà e anche la
Costituzione italiana prevede all’articolo tre questa libertà. Quando nel 1984 c’è stato il
nuovo concordato tra la Santa Sede e l’Italia, all’articolo secondo è stata ribadita questa
libertà che è stata attribuita a tutti i laici. Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa, con la
gerarchia in particolare, oggi sulle labbra del papa ritorna spesso il termine clericalismo che
si contrappone il termine laicismo; quindi sia il clericalismo, sia il laicismo sono due
straripamenti che sono da evitare, da condannare, noi per clericalismo intendiamo
l’ingerenza (intervento arbitrario di pertinenza non propria) del clero temporale che sono
riservate ai laici, ma potremmo avere anche il fenomeno opposto.
Canone 228: parla della cooperazione dei laici; il primo paragrafo esige l’idoneità e fa
riferimento al diritto perché la cooperazione è un termine molto generico però ci sono
alcuni ambiti in cui i laici possono cooperare con più persone, altri ambiti non possono
cooperare, quindi sarà lo stesso diritto a stabilire questi limiti.
Poi il secondo paragrafo scende ancora un po' nel dettaglio e dice che i laici si
distinguono per “debita scienza, prudenza e onestà”, possono prestare il loro servizio,
la loro collaborazione come periti, cioè come esperti oppure come consiglieri negli
organi collegiali. Questo canone apre tante prospettive che nel precedente codice non erano
contemplate; questo canone apre le porte alla collaborazione dei laici nell’esercizio del
munus santificandi, allora c’è la collaborazione a livello catechetico, a livello liturgico,
quindi la possibilità di distribuire, di portare l’eucaristia, la partecipazione dei laici al
sinodo che si poggia proprio su questo canone; la collaborazione che si può realizzare
assumendo degli incarichi che non siano strettamente legati al ministero sacro e alla
potestà di ordine; pensiamo agli uffici di curia come la cancelleria: cancelliere, vice
cancelliere, notaio di curia; pensiamo anche ai tribunali ecclesiastici: oggi un laico può
essere giudice ecclesiastico, può essere notaio, cancelliere in tribunale ecclesiastico, queste
sono funzioni che non comportano l’esercizio della potestà sacra che si riceve con
l’ordine sacro e così si realizza questa cooperazione, prima c’erano solo i sacerdoti, i
laici facevano solo i portinai, si dedicavano alla pulizia. Questo canone è una porta che
ha aperto ai laici tutta una serie di possibilità che prima erano inconcepibili. Pensiamo
anche ai ministeri istituiti (lettorato e accolitato) anche questa possibilità che è
contenuta in questo canone, quando parliamo di laici parliamo sia di uomini che di
donne.
Canone 229: prevede il diritto da parte dei fedeli di ricevere un’adeguata educazione
cristiana, se questo è un diritto per i fedeli, diventa un obbligo per i pastori “dovere e
diritto”, quindi è bella la cooperazione che abbiamo detto, ma bisogna avere anche una
formazione, questa formazione è un dovere e un diritto, non si può chiedere di essere
chiamati a compiere degli uffici se non c’è l’adeguata formazione.
Il secondo paragrafo fa riferimento in forma specifica al diritto dei laici di
approfondire le scienze sacre nelle università ecclesiastiche e negli istituti di scienze
religiose e quindi anche la possibilità di poter conseguire i gradi accademici.
Al terzo paragrafo i laici possono ricevere il mandato dell’insegnamento delle scienze
sacre. La storia del cristianesimo in questo è molto significativo, questa riserva a favore
dei chierici è un fatto posteriore, ma nei primi secoli del cristianesimo abbiamo tanti
laici che si sono dedicati all’approfondimento delle scienze sacre. Questa apertura ai
laici circa l’approfondimento delle scienze sacre ha caratterizzato tutto il primo
millennio del cristianesimo, è in questo secondo millennio che c’è stata la restrizione,
ma a partire da Tertulliano che è un laico fino ad arrivare ai canonisti del medioevo, molti di
loro erano laici: Tertulliano, Giustino, sono tutti scrittori ecclesiastici dei primi secoli
del cristianesimo ed erano tutti laici a partire dal XIII sec. che si è creata questa
restrizione. Nel primo millennio la potestà di governo era disgiunta dalla potestà di
ordine, invece all’inizio del secondo millennio potestà di ordine e potestà di governo si
sono saldate tra loro per cui ancora oggi la potestà di governo non può essere
esercitata se non c’è la potestà di ordine e analogamente è tutto un pensiero teologico che
si traduce in una prassi ecclesiale. Quindi le date coincidono, perché fino al primo
millennio lo studio delle scienze sacre era aperto anche ai laici i quali erano accanto ai
teologi e chierici senza nessuna difficoltà, mentre col secondo millennio c’è stata questa
restrizione e in campo giurisdizionale abbiamo avuto questa saldatura tra potestà di
ordine e potestà di governo, in campo teologico c’è stato questa estromissione dei laici
e questa riserva dello studio teologico a favore esclusivamente dei chierici.
Canone 230: fa riferimento ai ministeri istituiti, la nuova versione del canone 230 non
specifica “maschile”, ma solo “i laici”. Siccome la Chiesa è grande, il canone fa
riferimento alle indicazioni e orientamenti che può dare una conferenza episcopale, qui nel
canone troviamo il principio generale che vale per tutta la Chiesa, poi sono le
conferenze episcopali che in base alla loro esperienza stabiliscono quali sono i requisiti
e i percorsi da compiere per poter essere istituiti lettori o accoliti. Il canone specifica
che questi ministeri non fanno maturare il diritto di essere sostenuti economicamente,
quindi è una cooperazione che si poggia sul volontariato.
Il secondo paragrafo ipotizza anche altri uffici, altre forme di cooperazione, fa degli esempi:
commentatore, cantore e poi dice altri compiti, vuol dire che le conferenze episcopali o
anche i singoli vescovi, possono liberamente concepire, pensare delle forme di
collaborazione per i laici, ogni diocesi può avere esigenze proprie diverse dalle altre
diocesi.
Il terzo paragrafo prevede che se non ci sono accoliti, non ci sono lettori, ai laici
possono essere attribuite delle facoltà, quindi delle funzioni: possono amministrare il
battesimo, distribuire l’eucaristia, presiedere anche una liturgia della parola, quindi si
tratti di funzioni che hanno la loro radice nella consacrazione battesimale e quindi che
sono aperte a tutti i laici, ora se la Chiesa prevede i ministeri istituiti, lo fa perché vuole
assicurarsi che i laici che eseguono queste funzioni siano preparati e quindi ecco
perché la conferenza episcopale deve ben disegnare il percorso formativo e le
condizioni richieste per accedere al lettorato e all’accolitato; però a volte le emergenze
sono tali per cui bisogna saldare anche tutto questo e quindi il canone non esclude che
pur senza essere accoliti, pur senza essere lettori, pur senza aver fatto tutto il cammino
preparatorio, un laico possa svolgere queste funzioni che sono svolte dai laici, perché
l’istituzione all’accolitato e al lettorato, non ti aggiunge nulla rispetto al battesimo, non
è un ordine sacro, non è una consacrazione, è un mandato che il lettore, l’accolito
riceve in maniera stabile e continuativa, chiaramente nel caso previsto dal terzo
paragrafo non è un mandato stabile, è un incarico conferito ad actum, proac vice, cioè
per questa volta, per questa situazione e non a caso il canone usa: “opera di
supplenza” che è momentanea, non stabile. Il battesimo può essere amministrato
anche da un non credente, facendo rinvio alla dottrina della Chiesa. Un seminarista
può fare un percorso da sacerdote anche fuori dal seminario con l’affidamento a un
sacerdote preparato che assicura un cammino serio del candidato. Sia un seminarista
che un religioso nel momento in cui lascia il suo percorso vocazionale decadono anche i
suoi ministeri, proprio perché il ministero non è come l’ordine sacro che ti imprime il
carattere, tu religioso se lasci la vita religiosa e sei sacerdote, il sacerdozio ti rimane in
piedi, perché il sacerdozio ti imprime il carattere, diventa incancellabile, ma i ministeri
istituiti sono affidati, ma nel momento che si interrompe questo percorso non ha più
senso il ministero istituito.
Canone 231: prevede l’obbligo per i laici che svolgono un servizio nella Chiesa,
l’obbligo di acquisire un’adeguata formazione, può sembrare ripetitivo ma questo
canone non fa distinzione, dice che per tutti i servizi che si assumono bisogna essere
preparati, c’è un obbligo di acquisire un’adeguata formazione.
Il secondo paragrafo affronta il problema della “rimunerazione” (ricompensare
adeguatamente), perché quando un laico svolge un servizio non a titolo di volontariato,
ma in maniera continuativa, ad es. un servizio che si assicura tutti i giorni, che prevede
la presenza in loco e quindi quando questo servizio impedisce di svolgere una propria
attività lavorativa e allora il canone 231 prevede il diritto del laico a una decorosa
rimunerazione nel rispetto delle norme del diritto civile: siamo in Francia? Bisognerà
applicare la normativa prevista dal codice civile francese, perché il laico non deve solo
badare a sé stesso, se ha una famiglia deve sostenere anche la sua famiglia e oltre alla
rimunerazione bisogna garantire anche la previdenza sociale, l’assicurazione sociale e
l’assistenza sanitaria, quindi diventa un dipendente a tutti gli effetti e l’ente
ecclesiastico interessato: sarà la parrocchia, sarà la diocesi o la Santa Sede, diventa il
datore di lavoro; quindi si stabilisce un rapporto di lavoro vero e proprio tra
dipendente e il datore di lavoro e come si applica la normativa in qualsiasi ambiente, così
nella Chiesa c’è un rapporto tra l’ente e il laico che presta il suo servizio a tempo pieno e
quindi anche la terminologia di lavoro quella classica che si usa negli ambienti di lavoro:
datore di lavoro chi ti assume e il laico che presta il suo servizio. Sul piano economico tutto
questo discorso diventa oneroso e allora oggi più che mai si verifica questo, perché oggi c’è
più bisogno dei laici rispetto ad un tempo, ma però oggi non ci sono le risorse
economiche di un tempo, oggi si sta creando la tendenza inversa, cioè che i chierici che
si devono occupare di certi servizi perché non prendono stipendi e se tu chiami a
lavorare dei laici a tempo pieno li devi retribuire come giusto che sia. Il volontariato
non assicura un servizio a tempo pieno, perché il volontario deve giustamente lavorare
per portare a casa lo stipendio, quindi non può stare a tua disposizione a tempo pieno,
ti può dare una collaborazione molto limitata nel tempo e questo è possibile in certi
servizi, ma non in altri servizi, perché ci sono dei servizi che possono essere aperti 5
giorni alla settimana e altri che si possono ridurre anche a un giorno alla settimana,
poi dipende dalla diocesi, dalla parrocchia, perché ad es. una piccola parrocchia può
aprire una cancelleria uno o due giorni alla settimana, allora il cancelliere lo può fare
pure un laico che sta in pensione; ma una grande diocesi che ha una cancelleria che
funziona tutti i giorni, devi assumere un laico e gli devi dare uno stipendio; questo
nostro discorso di carattere teologico e giuridico segue determinati principi belli, validi, poi
si scontra con la realtà. In queste opportunità che oggi il nuovo codice offre ai laici notiamo
che c’è una forma di cooperazione a tutti e tre i munus: ai munus docenti, ai munus
santificandi e ai munus regendi. Se io faccio parte di un consiglio presbiterale, di un
consiglio pastorale, di un consiglio degli affari economici io collaboro nell’esercizio del
munus regendi nella funzione di governo, quando io faccio catechesi insegno religione,
partecipo al munus docendi, quando ho a che fare con i sacramenti, con il mio
impegno sul piano pastorale, partecipo al munus santificanti; quindi tutte queste
opportunità vanno incasellate nei tria munera, quando io laico sono coinvolto in uffici,
in servizi di un tribunale ecclesiastico partecipo a un munus di governo però nella sua
funzione giudiziaria; oggi il tribunale di Napoli ha 18 dipendenti laici e 7-8 chierici e che i
18 dipendenti devono essere retribuiti.

29-3-2022
Nel secondo libro: ministri sacri e a questo argomento indica una 60ina di canoni da
232 a 293; si tratta di una grossa innovazione prima da parte del Concilio e poi dal
magistero pontificio. Paolo VI prima della promulgazione del codice emanò questa
lettera apostolica “ministeria quaedam” che riformò tutti gli ordini di istituzione
ecclesiastica perché la prima distinzione che si faceva una volta erano gli ordini di
istituzione divina e gli ordini di istituzione ecclesiastica, quindi diaconato, presbiterato
ed episcopato erano definiti ordini sacri di istituzione divina, cioè istituiti da Gesù
stesso, invece poi c’erano gli ordini minori di istituzione ecclesiastica ed erano:
l’ostiariato, lettorato, l’esorcistato, l’accolitato e il suddiaconato. Quindi Paolo VI fece
piazza pulita di questi ordini minori, né lasciò solo 2 più significativi lettorato che fa
riferimento alla parola di Dio e l’accolitato che fa riferimento all’eucaristia e li
qualificò come ministeri che avevano non più una natura clericale, ma una natura
laicale, tanto è vero che da quel momento furono accessibili anche ai laici di sesso
maschile. Prima della riforma di Paolo VI lo stato clericale iniziava con la tonsura che
oggi è sostituito con il rito di introduzione agli ordini, ma l’introduzione agli ordini
non qualifica come chierici, è solamente un percorso formativo che con l’aiuto di Dio e
la perseveranza porterà all’ordine sacro, al primo grado al diaconato, al secondo
grado al presbiterato; ma all’epoca con la tonsura che era questo taglio di capelli che
era un rito con cui si iniziava un percorso seminaristico, con la tonsura si cambiava
status; dallo stato laicale allo stato clericale, oggi questo passaggio avviene con il
conferimento del primo grado dell’ordine sacro e cioè con il diaconato. Quindi oggi il
termine ministro sacro si attribuisce solo ai chierici. Quindi un seminarista finché non
viene ordinato diacono è un laico, mentre prima della riforma di Paolo VI i seminaristi
si identificavano già come chierici. Il testo del codice promulgato nel 1983 non fa altro che
ripetere e incorporare questa novità disciplinare che fu introdotta 10 anni prima da Polo VI;
quindi quando parliamo di ministri sacri, parliamo di chierici, si intende parlare dei
diaconi, dei presbiteri e dei vescovi;
L’ordine sacro è un sacramento che imprime il carattere, che una volta ricevuto non
può più essere smarrito, si può interrompere l’esercizio del mistero sacro ma non si
smarrisce mai il carattere impresso dal sacramento, perché incide sul piano ontologico
dell’essere della persona per cui una volta ricevuto lo si porta sempre con sé, ha un
carattere indelebile così il sacramento del battesimo. Accanto alla dimensione
dell’essere, c’è una dimensione funzionale, la dimensione dell’agire e in questo senso può
essere interrotta la funzione dell’agire in particolari situazioni che si possono verificare.
Quali sono le funzioni fondamentali dei ministri sacri? Innanzitutto la custodia e la
trasmissione del depositum fidei, cioè il messaggio apostolico, accanto a questo c’è la
guida della comunità quindi la funzione pastorale e poi c’è anche la funzione
sacerdotale; quindi i ministri sacri sono mediatori del popolo di Dio e del Cristo. La
prima distinzione che noi facciamo dei tre gradi dell’ordine sacro, all’inizio non c’era una
differenza netta tra presbitero e vescovo, la presenza del diaconato la troviamo già nel NT e
ansi c’è qualche teologo che individua la presenza di diaconesse, ma la distinzione tra
presbiteri e vescovi, matura velocemente ma con una certa progressività perché le prime
comunità cristiane avevano un apostolo come loro guida, poi quando cresceranno
numericamente gli apostoli chiameranno attorno a sé dei collaboratori, il cristianesimo non
si è diffuso nelle campagne, si è iniziato a diffondere nelle città dove c’era maggiore
concentrazione di persone, i pagani erano quelli che abitavano nel pagus che era il villaggio,
la periferia, a un certo punto le comunità cristiane iniziarono a crescere e quindi la guida
della comunità ha bisogno di collaboratori e allora abbiamo questa crescita dei ministri
sacri; quindi si focalizza la distinzione tra il pastore che era la guida di tutta la comunità con
questi collaboratori che assicuravano anche la guida di queste cellule della grande comunità
cristiana che erano distanti dal centro e quindi basteranno pochi decenni per la distinzione
dell’episcopo, sorvegliante, vigilante e presbitero. Noi tradizionalmente facciamo
riferimento come testo della distinzione dei 3 gradi di ordine sacro facciamo
riferimento alla lettera ai Corinzi che scrive uno dei primi pontefici Clemente Romano,
nella comunità di Corinto ci sono dei contrasti interni e allora il pontefice interviene e con
questa lettera cerca di mettere ordine nella comunità di Corinto e specifica bene i tre gradi
dell’ordine sacro e le competenze che hanno ciascuno.
Per quanto riguarda i documenti conciliari per i ministri sacri (LG n° 20; 21; 28; 29). È
importante la differenza che c’è tra questi ordini, perché mentre l’episcopato è
conferito ai vescovi e sacerdoti; ai diaconi è conferito solo il servizio; da questa
distinzione c’è una conseguenza importante e cioè che il diacono in sé non può avere
degli incarichi di guida della comunità cristiana, perché la sua consacrazione è limitata
al servizio e non all’esercizio della funzione di pastore della comunità, che è invece
conferito al presbitero e al vescovo. Nonostante le facoltà, (gli incarichi) che si potranno
affidare ai diaconi, rimane sempre preclusa la funzione di pastore di una comunità,
quindi il diacono potrà avere degli incarichi anche di grande rilievo, ma a livello di
guida pastorale dovrà esserci sempre un presbitero, anche se non è presente nel
territorio, non ha contatto diretto con la comunità, ma la comunità deve avere sempre
il presbitero come suo pastore anche se il presbitero si fa rappresentare e agisce in loco
mediante la presenza e la collaborazione di un diacono, questo a motivo del suo carattere
teologico che viene ben precisato nel n° 29 della LG.
Il primo canone del codice ha seguito un ordine cronologico perché prima di diventare
chierico, c’è tutto un percorso formativo e il corso dedica 34 canoni alla formazione dei
chierici; questo vuol dire che la Chiesa tiene grande considerazione del percorso
formativo della consacrazione dei chierici. Sul piano del magistero questa materia è stata
affrontata in sede conciliare in Optatam Totius, poi c’è il decreto Presbiterorum ordinis.
Dopo il concilio ci sono stati degli interventi dei pontefici sul sacerdozio e sulla
formazione per il sacerdozio: nel 1970 la congregazione dell’educazione cattolica ha
emanato la ratio fundamentalis istitutionis sacerdotalis che è un documento che
raccoglie i principi sul cammino formativo di coloro che sono orientati al sacerdozio.
Il primo canone di questa sezione (canone 232) ricorda un diritto proprio originario della
Chiesa: la Chiesa ha dovere e diritto di provvedere alla formazione di coloro che sono
destinati al ministero sacro. In alcune nazioni alla Chiesa non è stato riconosciuto
questo diritto, la Chiesa ha dovuto formare i suoi ministri sacri in un ambiente clandestino,
nascosto, invece il canone prima indica il dovere che significa che la Chiesa deve sentire
l’obbligo di curare questo aspetto della sua vita; l’ordine sacro non si svende, non si
conferisce a buon mercato, ma si conferisce dopo che sia stato veramente assicurata al
candidato la debita formazione e poi nei confronti di qualsiasi altra novità che volesse
mettere in discussione questo dovere della Chiesa, il codice precisa che si tratta di un
diritto proprio e cioè che non viene concesso da nessuno, che appartiene alla Chiesa, di
un diritto nativo, cioè che non viene in un secondo momento ma lo troviamo alle
origini della Chiesa, è nato con la Chiesa e quindi appartiene proprio all’essenza della
Chiesa; è legato alla natura e alla missione della Chiesa.
Canone 233: Dovere di tutta la comunità è di favorire le vocazioni. Il canone non parte
dall’alto, ma parte dal basso perché i primi responsabili sono le famiglie, i genitori, poi
dagli educatori (sacerdoti, parroci e poi i Vescovi), quindi si parte da una dimensione
più vicina per poi allargarsi al mondo dell’educazione e qui entrano in gioco i sacerdoti
usa l’avverbio specialmente, soprattutto i parroci e poi si arriva ai vescovi.
Nel secondo paragrafo si parla delle vocazioni adulte per coloro che sono chiamati e si
predispone per costoro un percorso più mirato.
La pastorale delle vocazioni deve essere promossa con spirito aperto e generoso, e non
chiuso nella ristretta visuale dei propri particolari bisogni. Occorre favorire non solo le
vocazioni sacerdotali, ma anche quelle religiose, missionarie e le stesse vocazioni a
ministeri non ordinati tenendo presente i bisogni della Chiesa intera.
Nel 234: auspica la conservazione dei seminari minori. Il seminario così come oggi è
concepito è frutto del Concilio di Trento, prima del concilio c’era una varietà di
percorsi formativi in prospettiva dell’ordinazione sacra, a volte i candidati venivano
affidati ai monasteri attraverso i quali c’erano delle scuole di teologia, a volte erano
affidati a gruppi di sacerdoti che collaboravano con il vescovo, ad es. ai canonici della
cattedrale per lungo tempo nel passato hanno svolto questo servizio; un po' prima del
Concilio di Trento si avvertì l’esigenza di concentrare i candidati al sacerdozio in delle
strutture dove potessero vivere insieme questa preparazione al sacerdozio, il Collegio
Capranica si deve all’intuizione di questo Cardinale Domenico Capranica che nella
seconda metà del 400 nel suo palazzo a Roma mise su un collegio, quindi un luogo per
l’esperienza formativa dei candidati al sacerdozio; ma fu il Concilio di Trento che
impose ad ogni diocesi di mettere su un seminario, siamo nel 1563 e fu emanato un
decreto con cui si stabilì che tutte le diocesi dovessero avere un seminario. Secondo
alcuni studiosi di Storia della Chiesa questa è stata una idea più rivoluzionaria e più
importante del Concilio di Trento e subito dopo il Concilio ci fu questa ampia diffusione dei
seminari e in modo particolare s. Carlo Borromeo come arcivescovo di Milano fu il
maggiore realizzatore del Concilio di Trento.
Il canone 235: prevede l’istituzione del seminario maggiore e prevede un cammino
formativo che abbia la durata di almeno 4 anni, però è prevista anche la possibilità di
prepararsi all’ordinazione sacra fuori dal seminario; ovviamente questo può avvenire
se il vescovo lo permette e affida la formazione del candidato a un sacerdote
particolarmente affidabile che si assume questa responsabilità che gli viene conferita
dal vescovo.
Can. 236: con il recupero del diaconato permanente, nella Chiesa possiamo dire che
accanto al clero celibatario c’è anche il clero uxorato e quindi i diaconi permanenti
non sono solo chierici, ma anche laici. Questo canone per quanto riguarda i diaconi
permanenti, delega alle conferenze episcopali le organizzazioni del percorso formativo
per accedere al diacono permanente; evidentemente il diaconato permanente riguarda
laici che hanno impegni professionali, a volte sono vincolati dal matrimonio per cui il
codice non ha la pretesa di imporre una disciplina che valga per tutta la Chiesa
cattolica e fa rinvio alle conferenze episcopali.
Nella Chiesa primitiva esisteva già il diacono permanente, poi questa prassi è andata
smarrita e sarà Paolo VI nel 1967 con un motou proprio Sacros Diaconales Ordines il
quale ricostituisce il diaconato permanente nella Chiesa cattolica e questo motou
proprio stabilisce che il percorso formativo abbia la durata di almeno 3 anni; poi lo
stesso pontefice rinvia alle conferenze episcopali l’organizzazione del diaconato
permanente, al di là di questo motou proprio di Paolo VI ci furono anche altri
interventi della curia romana per organizzare il diaconato permanente dopo essere
scomparso per tanti secoli, non era facile organizzare la presenza dei diaconi permanenti; e
allora nel 69 abbiamo la congregazione per l’educazione cattolica che emana una
circolare per accedere al diaconato permanente e quindi è venuta fuori una disciplina
che il codice ha recepito ad es. l’età minima di 25 anni per i celibi; 35 anni per quelli
sposati; quindi per chi è celibe si impegni a conservare la sua vita celibataria, quindi se
rimani vedovo non puoi risposarti, per l’uxorato occorre il consenso della moglie, tutte
queste norme che ci sono nel codice sono state già emanate precedentemente negli anni 70
in seguito a vari interventi degli organi preposti, quindi la congregazione per l’educazione
cattolica e lo stesso pontefice Paolo VI che nel 72 emanò un altro motou proprio “ad
Pascendum” che specificò ulteriormente la disciplina cattolica al diaconato
permanente; in Italia la conferenza episcopale italiana (la CEI) è il 1971 che ha
introdotto il diaconato permanente.
Il canone 237: auspica in ogni diocesi un seminario maggiore, tanto è vero che il
secondo paragrafo stabilisce anche un seminario interdiocesano; c’è una differenza tra
un seminario diocesano e interdiocesano che vede coinvolti tutti i vescovi confederati tra di
loro per assicurare ai propri candidati un percorso seminaristico. Il seminario interdiocesano
può essere anche a carattere regionale o nazionale, ma è sempre necessaria l’approvazione
della Santa Sede
Nel canone 238: Quando il vescovo erige il seminario, il rappresentate delegato del
seminario sarà il rettore del seminario, il rettore fungerà anche da parroco per coloro
che risiedono stabilmente in seminario, eccetto per la materia matrimoniale, egli è
anche l’amministratore dei beni del seminario, infatti l’amministrazione è un compito
dell’economo.
Canone 239-240: Il primo paragrafo enumera distintamente le persone a cui è affidato
il funzionamento del seminario e la cura degli allievi nel campo disciplinare, scolastico
ed economico. Essi sono: il Rettore: capo dell’istituto e ne ha la prima responsabilità e tutti
gli devono ubbidienza nell’adempimento dei propri compiti. Se è necessario è affiancato da
un Vice Rettore. All’inizio dell’assunzione del suo ufficio il Rettore è tenuto a emettere la
professione di fede, dinanzi al Vescovo diocesano o a un suo delegato; il Moderatore o
Prefetto degli studi; L’economo: che ha cura dell’amministrazione, sotto l’autorità del
Rettore (l’Economo deve essere distinto dal rettore); i Docenti, se il seminario ha scuole
interne: essi devono procedere di comune intesa.
Nel secondo paragrafo: il ministero spirituale è affidato al Direttore di spirito e ai
confessori, sia ordinari che occasionali. Il Direttore di spirito dovrebbe essere più di uno
per lasciare agli alunni piena libertà di scelta. Essi possono rivolgersi anche ad altri
sacerdoti designati dal Vescovo: la designazione è necessaria sia per evitare possibili
disordini, sia per assicurare agli allievi sacerdoti idonei per un compito così importante.
Oltre al Direttore spirituale è previsto anche un Moderatore della vita spirituale. Si
tratta di due figure distinte, ma i loro compiti non sono precisati. È opportuno che lo
faccia il Vescovo diocesano, anche per evitare contrasti. I due uffici potranno anche
essere unificati.
I confessori ordinari sono i confessori abituali, stabili. Sono però prescritti altri
confessori non abituali per la maggiore libertà degli alunni, ai quali, salva la disciplina,
è consentito rivolgersi a qualsiasi confessore, sia all’interno del seminario che fuori di
esso. Nell’ammissione degli alunni agli ordini sacri come nell’eventuale loro dimissione
dal seminario, è assolutamente vietato chiedere a tal riguardo il parere dei confessori e
del direttore spirituale.
Canone 241: siano accolti in seminario soltanto coloro i quali sono ritenuti atti a
dedicarsi per sempre ai sacri ministeri. L’idoneità di ciascun aspirante dovrà essere
oggetto di un esame attento e rigoroso. Dovranno accertarsi: le sue doti umane e
morali, spirituali e intellettuali; la salute fisica e psichica; la retta intenzione.
Il secondo paragrafo: indica i documenti richiesti per legge in ordine all’ammissione:
certificato di battesimo e di confermazione; altri documenti saranno indicati nella Ratio
istitutionis sacerdotalis.
Il terzo paragrafo: fa obbligo al Vescovo diocesano di richiedere al Rettore del
seminario o al Superiore dell’Istituto religioso un debito attestato, soprattutto la
dimissione o l’uscita del giovane.
Il canone 242: parla di una ratio formativa per ogni nazione, quindi ogni conferenza
episcopale nazionale deve emanare una propria ratio che sia in sintonia con la propria
ratio che vale per tutta la Chiesa cattolica. La ratio della conferenza episcopale deve
essere approvata dalla Santa Sede. Tra la ratio di Paolo VI che vale per tutta la Chiesa
cattolica e poi le singole situazioni, c’è differenza. La ratio di Paolo VI è molto generica
volutamente poi lascia alle conferenze episcopali la fatica di applicare in maniera
adeguata certi principi in maniera locale: in Brasile è diverso dall’Italia e viceversa, ecc.
Canone 243: ogni seminario dovrà avere un Regolamento interno, approvato dal
Vescovo del luogo, se si tratta di un seminario diocesano, e da tutti i Vescovi
interessati, se si tratta di un seminario interdiocesano.
Canone 244: la formazione degli alunni ha un duplice aspetto: spirituale e dottrinale. I
due aspetti non devono mai essere disgiunti, soprattutto in un sacerdote.
Canone 245:la formazione spirituale tende a fare del giovane seminarista un soggetto idoneo
del ministero pastorale. Deve: essere informata a un profondo spirito missionario: è lo
spirito apostolico radicato nella fede e nella carità; comprendere la coltivazione delle virtù
umane: è necessaria perché si raggiunga la dovuta armonia tra i valori naturali e quelli
soprannaturali; la dimensione ecclesiale importa: una grande amore alla Chiesa, un
attaccamento al Papa, la fedele adesione al proprio Vescovo, un rapporto di amicizia e di
solidarietà con tutti, in particolare con i compagni di seminario.
Canone 246: per realizzare la dovuta formazione spirituale è necessario: la
celebrazione eucaristica, deve essere il centro di tutta la vita del seminario; la liturgia
delle ore fatta a nome della Chiesa e a comune vantaggio del Popolo cristiano e del
mondo intero; la filiale devozione verso la Vergine Santissima che va onorata anche con
la recita del Rosario; l’orazione mentale dove si acquisisce lo spirito di preghiera e si
consolida la vocazione; il ricorso frequente alla penitenza e la fiduciosa apertura della
propria coscienza al direttore di spirito scelto con piena libertà; la pratica degli esercizi
spirituali annuali.
Canone 247: il chierico è tenuto ad osservare la perfetta e perpetua castità. Il giovane
seminarista non diversamente dal sacerdote deve considerarlo un dono speciale di Dio, un
carisma prezioso dello Spirito. Ma l’osservanza del celibato come degli altri doveri
sacerdotali richiede un grande spirito di sacrificio per le difficoltà che essi comportano.
L’amore per la castità non deve però determinare in essi una disistima per il
matrimonio. È utile tener presente anche l’istruzione circa i criteri di discernimento
vocazionale riguardo alle persone omosessuali in vista della loro ammissione al
seminario e agli ordini sacri emanata dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica il 4-
11-2005.
Canone 248: la formazione dottrinale che gli allievi ricevono in seminario ha un duplice
contenuto e un duplice fine. Comprende da una parte l’acquisizione di una cultura in
generale di base, rispondente alle necessità di tempo e di luogo (cultura umanista e
scientifica); e dall’altra l’acquisizione di conoscenza delle scienze sacre.
Lo scopo non è semplicemente quello culturale. Gli studi teologici hanno una duplice
funzione educativa: la prima è di carattere personale: devono servire a dare un
fondamento alla propria fede; la seconda è di carattere apostolico: mettere in grado di
annunciare adeguatamente il messaggio evangelico agli uomini del proprio tempo, in forma
adeguata alla loro mentalità.
Canone 249: insiste sullo studio delle lingue. Al primo posto è la “lingua patria”, al
secondo posto la “lingua latina”. Sono anche da coltivare le “lingue straniere”,
specialmente quelle che risultano necessarie o utili alla formazione culturale o all’esercizio
del ministero.
Canone 250: gli studi propri dei seminari maggiori sono quelli filosofici e teologici. La loro
durata complessiva è di almeno sei anni. Possono essere compiuti sia congiuntamente che in
modo successivo, ordinando però il piano degli studi in modo tale che nell’uno o nell’altro
caso, il periodo dedicato alle discipline filosofiche corrisponda a un intero biennio, e quello
dedicato alle discipline teologiche sia pari a un intero quadriennio. Nel caso che gli studi
filosofici procedano parallelamente, bisognerà curare che la filosofia sia insegnata
come disciplina distinta e col suo metodo specifico, evitando che sia ridotta a una
semplice trattazione dei problemi.
Canone 251: sulla formazione filosofica il canone dà solo delle norme di carattere
metodologico, rimettendo alle Conferenze Episcopali la determinazione dei contenuti:
La formazione filosofica deve poggiare sul patrimonio filosofico contenuto nella
filosofia tomistica; deve essere aperta ai progressi della ricerca filosofica; dev’essere
impartita in modo da conseguire un triplice scopo: completare e perfezionare la
formazione umana degli alunni, affinare l’intelligenza, renderli più idonei a compiere
gli studi teologici.
Il canone 252 al paragrafo terzo: riguarda la formazione teologica; circa il metodo si
afferma che: la formazione teologica deve essere impartita alla luce della fede e sotto la
guida del Magistero; deve comprendere la dottrina cattolica (fondata sulla rivelazione
divina) nella sua integrità; deve costituire un alimento prezioso della vita spirituale degli
alunni; deve mettere gli alunni in grado di annunciare la dottrina cattolica e di
difenderla.
Le materie prescritte si distinguono in: discipline teologiche: S. Scrittura, che è l’anima
di tutta la teologia, e nella quale gli alunni devono essere istruiti con particolare cura, sì da
acquisirne una visione completa.; teologia dogmatica: fondata unitariamente sulla Parola di
Dio e sulla sacra Tradizione, deve effettuarsi avendo principalmente a maestro s.
Tommaso d’Aquino; alla teologia dogmatica va premessa la teologia fondamentale che
ha per oggetto la rivelazione cristiana e la sua trasmissione nella Chiesa; la teologia morale
e pastorale, il diritto canonico, la liturgia e la storia ecclesiastica: tutte materie che
vanno insegnate distintamente e con un proprio metodo.
Il terzo paragrafo sottolinea il pensiero teologico di s. Tommaso.
Canoni dal 265 a 272 che tratta dell’incardinazione dei chierici, cioè l’appartenenza
dei chierici ad una Chiesa particolare. La Chiesa per il passato è stata afflitta dal
problema dei chierici vacanti, cioè di chierici che non appartenevano a una Chiesa
particolare precisa o pur appartenendovi facevano perdere le loro tracce, non c’erano i
sistemi di oggi; allora il canone 265 ricorda questo principio fondamentale: ogni chierico
deve essere incardinato o in una Chiesa particolare o in una prelatura personale o in un
istituto di vita consacrata o in una società di vita apostolica. Quindi non sono ammessi
chierici acefali o vacanti, questo divieto di chierici acefali e vacanti lo troviamo presente
nel Concilio di Nicea del 325, quindi subito dopo l’editto di Costantino, subito dopo il
recupero della libertà da parte della Chiesa, del cristianesimo e già nel 325 i padri conciliari
sentivano l’urgenza di stabilire questo principio. A Calcedonia ne 451, viene ancora una
volta ribadito: vengono vietate le ordinazioni assolute, cioè un’ordinazione sciolta, non
vincolata ad una Chiesa particolare.
Nel canone 266: si stabilisce l’acumatismo, nel momento in cui tu sei ordinato sei
automaticamente anche incardinato, non c’è bisogno di un atto successivo, è
automatico.
Il secondo paragrafo riguardi i religiosi, i voti perpetui e conferma la stessa prassi: il
religioso con la professione perpetua viene incorporato nell’istituto, se dopo la professione
perpetua viene anche ordinato, con l’ordinazione viene incardinato nell’istituto religioso o
nella società di vita apostolica.
Il terzo paragrafo fa riferimento all’istituto secolare, perché in genere i chierici che ne
fanno parte, restano incardinati nella Chiesa particolare a cui servizio lavorano però per
concessione della sede apostolica possono anche essere incardinati nell’istituto secolare. È
possibile che pur essendo incardinato in una diocesi si può prestare servizio in un’altra
diocesi e queste situazioni sono molto delicate e vanno molto attenzionate perché esiste un
principio fondamentale per cui un chierico non può essere mai senza un diretto
superiore, è inconcepibile; il chierico non può stare nemmeno 24 ore senza un’autorità
ecclesiastica da cui dipendere e che abbia anche delle responsabilità nei suoi confronti;
quindi il canone 267 prevede che si possa anche cambiare diocesi, tu puoi lavorare in
un’altra diocesi senza cambiare, quindi restando incardinato nella diocesi di appartenenza
e si può anche escardinare da una diocesi e incardinare in un’altra diocesi. Per cambiare la
diocesi di incardinazione ci vogliono dei permessi, quindi una lettera di escardinazione
(ad quo) del vescovo da cui provieni e (ad quem) del vescovo alla quale tu approdi, se
non ci sono questi permessi scritti allora il passaggio di incardinazione non si verifica.
Il canone 268: prospetta una incardinazione ipso iure e cioè un chierico che ha avuto il
permesso di lavorare in un’altra diocesi, trascorsi 5 anni viene automaticamente
incardinato nella diocesi in cui si trova se lui non abbia precisato che non vuole
cambiare o uno dei due vescovi 4 mesi prima non abbia detto: guarda tu devi tornare
(vescovo ad quo oppure vescovo ad quem) è capitato che certi sacerdoti si sono trovati
incardinati in un’altra diocesi perché nessuno si è espresso e dopo 5 anni automaticamente
c’è il passaggio di diocesi sempre per quel principio che non è concepibile che tu per un
solo giorno sia sciolto da qualsiasi vincolo di obbedienza, perché in un giorno può succedere
quello che non succede in una vita intera e poi bisogna vedere chi si assume le
responsabilità.
Il secondo paragrafo del canone 268 fa il caso di un chierico che approda alla vita
religiosa, accade che un sacerdote lungo il corso del tempo si sente chiamato alla vita
consacrata ed entra in un istituto religioso o in un istituto di vita apostolica, succede che
finché è in formazione, lui rimane sempre incardinato nella diocesi da cui proviene, nel
momento in cui emette la professione perpetua, allora lui automaticamente si scardina
dalla diocesi ad qua e si incardina come chierico nell’istituto o nella società di vita
apostolica di cui emette i voti perpetui.
Canone 269: prevede che il vescovo non proceda all’incardinazione se ciò non è
richiesto dall’autorità, se il vescovo della diocesi di provenienza non sia favorevole per
iscritto, se lo stesso chierico non abbia per iscritto dichiarato che vuole incardinarsi in
un’altra diocesi, il passaggio da una diocesi all’altra è un discorso molto seria, bisogna
esprimersi per iscritto: il chierico deve fare per iscritto la richiesta motivandola, il
vescovo che riceve la richiesta deve valutare se è utile alla sua diocesi accogliere questo
chierico, perché se non fosse utile o dannoso perché è uno che porta solo guai, in genere
questi sono quelli che chiedono il cambio di diocesi, tranne pochi casi, a volte sono
sacerdoti che hanno problemi, non trovano pace e quindi il vescovo non ha nulla da
guadagnare e quindi può benissimo dire di no.
Il secondo paragrafo chiede che il vescovo che accoglie debba richiedere informazioni
sotto segreto al vescovo di provenienza sulla vita di questo sacerdotale. Attualmente è
vietato ad un chierico che abbia commesso determinati delitti far cambiare diocesi
proprio per questi motivi, quindi l’attuale predisposizione dei chierici che abbiano
commesso delitti, il divieto per i vescovi di farli cambiare diocesi si fonda su questo
principio, dove si chiede al vescovo di chiedere al vescovo di provenienza informazioni
sotto segreto circa la vita di questo sacerdote.
Canone 270: l’escardinazione è concessa per giusti motivi, ma se non esistono delle
gravi cause contrarie non può essere negata, quindi i vescovi e anche il sacerdote
interessato, devono dialogare tra di loro e devono evitare posizioni rigide o capricciose.
Occorre comunque una motivazione: sarà di carattere pastorale, familiare, di salute, ecc.
occorre una motivazione seria, convincente, positiva, non certamente una fuga ed è
vero che i vescovi possono negarlo o accettarla; ma il canone dice quando non ci sono
impedimenti dimostrativi, da una spinta per il cambio di diocesi.
Canone 271: il servizio alla diocesi può essere per un tempo determinato e anche
rinnovato più volte. (paragrafo secondo e terzo): parla delle convenzioni stipulate tra i
vescovi
Canone 272: prevede che l’amministratore diocesano non può concedere né
l’incardinazione né l’escardinazione: vuol dire che quando una diocesi è vacante, quindi il
vescovo è scaduto o morto e c’è l’amministratore diocesano, egli non può concedere né una
incardinazione o escardinazione perché è una figura di transizione e potrebbe fare una
scelta sbagliata che compromette il futuro di una diocesi, allora è bene che queste
scelte le faccia il vescovo diocesano il quale ha una chiarezza e anche un progetto di
lunga durata. Lo stesso canone prevede che se l’amministrazione supera un anno e
quindi i tempi si allungano, l’amministratore può intervenire in tal senso, ma deve
avere il consenso del collegio dei consultori, perché si presume che i consultori essendo
sacerdoti della diocesi, conoscono la situazione della diocesi e conoscono i sacerdoti
della diocesi, quindi il loro consenso colma il vuoto di esperienza che ha
l’amministratore diocesano. L’amministratore diocesano è sempre presbitero.

5-4-2022
Da 273 a 289, questi canoni presentano lo statuto giuridico dei chierici, cioè l’insieme
degli obblighi, dei doveri e diritti dei chierici; sono ricavati dai testi conciliari, in modo
particolare dal decreto conciliare sulla vita sacerdotale: “presbiterorum ordinis”.
Bisogna distinguere i diaconi celibi e quelli uxorati; da una parte si cerca di preservare,
tutelare l’identità della condizione clericale, dall’altro questo statuto giuridico serve
anche a tutelare le funzioni, i servizi dei chierici; non sono canoni del tutto nuovi, sono
riciclati dai canoni del 1917, però c’è una notevole differenza tra i due codici, perché
mentre il codice del 17 tendeva a sottolineare la differenza tra i chierici e i laici e per
quanto riguarda il diritto dei chierici si usava il termine “privilegi”, ma lo statuto giuridico
attuale dei chierici non consiste in questa separazione dei due ceti (clericale e laicale),
intanto c’è un legame che li unisce (battesimo) che è il sacramento fondante dell’ordine
sacro; ma allo stesso tempo si cerca di armonizzare le funzioni dei due ceti. È stato
eliminato il termine privilegio. Passando in rassegna questi doveri e diritti si possono
aggregare intorno a sei temi, a sei dimensioni della vita sacerdotale: la prima dimensione
che si impone quella prevista dal canone 203 e cioè la comunione con la Chiesa, questo
dovere fondamentale dei chierici che lo troviamo nel canone 273: ordinario è scritto senza
aggiungere altro termine e si possono aggiungere due aggettivi (diocesani o religiosi), ma
il canone non lo specifica quindi riguarda tutti i chierici.
Canone 274: diritto per i chierici che si richiede la potestà di ordine o la potestà di
governo. Ci sono uffici (incarichi) della Chiesa che noi distinguiamo: uffici divini e
uffici ecclesiastici: alcuni uffici sono stati istituiti da Dio stesso, altri uffici sono istituiti
dalla Chiesa in base alle esigenze; alcuni uffici quindi sono clericali ed esigono la
potestà di ordine e di rimando anche la potestà di giurisdizione; altri uffici invece sono
laicali, quindi non esigono la potestà di ordine, possono essere esercitati anche dai laici,
perché non centra niente l’ordine sacro, quindi abbiamo parlato anche di uffici impegnativi
come ad esempio giudice ecclesiastico, di cancelliere, economo diocesano, ecc. Il canone
dice che soltanto i chierici possono ottenere uffici il cui esercizio si ritiene la potestà di
ordine o di governo ecclesiastico.
Nel secondo paragrafo si aggiunge un obbligo: nel primo paragrafo si sottolinea il diritto,
nel secondo paragrafo si sottolinea il dovere e dice che se non sono sposati, i chierici sono
tenuti ad accettare e ad adempiere fedelmente l’incarico loro affidato dal proprio
ordinario. Questo può essere legato anche alla comunione che si può creare anche in questo
modo tra il presbitero e il proprio ordinario, accettando gli incarichi che si propongono e
adempiendoli fedelmente.
Questi canoni a volte prendono in considerazione il rapporto con i laici, cercano di
coordinare e di armonizzare tra di loro i due status che esistono nella Chiesa, canone
275: che nel primo paragrafo riguarda la comunione orizzontale, si raccomanda quindi
la preghiera comune, il vincolo della fraternità, si raccomanda la collaborazione.
Il secondo paragrafo riguarda che i chierici riconoscano e promuovano la missione che
i laici ciascuno per la propria parte esercitano nella Chiesa e nel mondo; esprime tutta
l’ecclesiologia del CV II non in termini patronali, ma in termini pastorali, cercando di
promuovere anche il laicato e tutte le forme di partecipazione che i laici possono avere
alla vita della Chiesa.
Canone 276: prevede un obbligo che spesso viene trascurato: l’obbligo della santità che
per un chierico non è facoltativa, non ha una dimensione solo spirituale, per un chierico
tendere alla santità è un obbligo, un dovere a cui non si può sottrarre; è un dovere per
tutti. Il canone non si limita ad enunciare all’obbligo, ma indica anche gli strumenti:
adempimento fede e costante dei propri doveri pastorali; l’alimento continuo della propria
vita spirituale attraverso la Parola di Dio e la SS. Eucaristia: i sacerdoti sono esortati
vivamente a celebrare ogni giorno il santo Sacrificio, e i diaconi, similmente, a parteciparvi;
La celebrazione quotidiana della liturgia delle Ore; la partecipazione ai ritiri spirituali e i
ritiri mensili (recessibus spiritualibus); orazione mentale; sacramento della penitenza;
devozione alla Vergine Santissima, ecc.
Canone 277: è un canone che ha le sue radici nel CV II e nei documenti pontifici che sono
seguiti da esso. In questi ultimi 50 anni la Chiesa è tornata più volte su questo argomento. Il
canone ha una bella sintesi sul celibato, ha una grossa opponente teologica per arrivare
all’obbligo del celibato. Come lo definisce questo obbligo? Rifacendosi al n°42 della LG
lo chiama “un dono speciale di Dio”, per farci capire che non è il chierico per primo a
donare la sua vita alla Chiesa e a Dio che lo ha chiamato, ma prima di essere il mio
dono è un dono di Dio; cioè quando faccio la promessa di celibato al momento della
mia consacrazione diaconale io restituisco a Dio quel dono che lui per primo ha fatto a
me, perché se io credo alla mia vocazione, credo che Dio mi ha dato i mezzi e le risorse
per vivere questa vita; Dio dà tutti i requisiti e le risorse per rispondere alla sua
chiamata e ci dona anche la capacitas di vivere la condizione celibataria, poi nella
libertà io ho anni di tempo per valutare se sono pronto ad assumermi questo obbligo,
lo ho io e lo ha l’istituzione che mi accoglie, la diocesi o l’istituto di vita consacrata, in
due si approfondisce questo dono di Dio per individuare se c’è. La vocazione è un
mistero, ma la Chiesa nella sua prudenza prevede un periodo di tempo (almeno 4 anni)
per verificare tutto questo. Quando maturano i tempi, io sono disposto e chi mi ha seguito
a nome della Chiesa, quando compio la promessa di celibato, restituisco a Dio quel dono
che mi ha fatto, dico: “si, Signore, io accetto questo dono e sono pronto a vivere questa
condizione di vita e pertanto tra me e te c’è questo rapporto di donare e restituire”. Concilio
di Elvira in Spagna nel IV sec., anche prima del Concilio di Elvira, nella comunità antica
c’era una netta preferenza per i ministri sacri celibi, anche quando venivano ordinati i
chierici uxorati, questi uxorati con l’ordinazione sacra, loro interrompevano la vita
coniugale, non potevano più vivere con la moglie, la comunità aveva l’obbligo di sostenere
la famiglia. Nella Chiesa primitiva gli uxorati una volta ordinati conducevano una vita
celibataria; anzi se erano sorpresi ad avere costumi di vita matrimoniali, incorrevano in pene
molto dure. Il ministro celibe si mette in corde diviso e non corde indiviso;
Al secondo paragrafo esorta i chierici a essere prudenti nei rapporti con le persone di
evitare una eccessiva vicinanza che possono mettere in pericolo la castità e possa
suscitare scandalo trai fedeli.
Canone 278: prevede per i chierici secolari il diritto di associarsi con altri chierici con
finalità che siano consone allo stato ecclesiastico, quindi i chierici non possono fare
un’associazione di comunità sportiva ad esempio, se vogliono associarsi, si devono
associare per una finalità che sia legata all’esercizio del ministero sacro. Nel canone
273 questa comunione era concepita in senso verticale: il rapporto tra i chierici e il proprio
ordinario (sommo pontefice); qui invece la comunione è sottolineata, riconosciuta sotto un
profilo orizzontale, cioè tra chierici stessi.
Il secondo paragrafo pone davanti ai chierici l’opportunità di fare riferimento a quelle
associazioni che siano state già riconosciute: a volte c’è una mania di far moltiplicare e
proliferare delle associazioni come se ci fossero delle intuizioni particolarmente nuove,
originali, quasi come se si fossero trovati tutti i problemi della Chiesa, giustamente il
canone esorta a non moltiplicare queste associazioni, ma possibilmente a far
riferimento a quelle che già sono riconosciute dalla competente autorità, che hanno i
loro statuti, che probabilmente perseguono le finalità che stanno a cuore a chi si orienta ad
entrare in una associazione clericale. Quali sono le finalità che può perseguire
un’associazione di chierici? Promozione della santità nell’esercizio del ministero tra
l’unione tra i chierici e l’unione con il vescovo.
Il terzo paragrafo prevede un divieto ben preciso: di fondare o partecipare ad associazioni
che sono incompatibili con il loro stato o associazioni che possono impedire il loro
ministero. Queste associazioni possono essere quelle che hanno una chiara
impostazione politica, a volte bisogna stare attenti che ci sono associazioni che in maniera
esterna e apparente promuovono ideali umanitari come la pace, il progresso, ma poi se vai a
vedere hanno un colore politico netto e quel tipo di associazione può diventare
partecipazione alla vita politica che si svolge sul territorio. Poi ci sono associazioni che a
volte hanno una libertà sindacale: assistenza ai lavoratori, anche qui sono associazioni
politicamente ben posizionate. Poi ci sono anche associazioni condannate dalla Chiesa
come quelle della massoneria.
Late sententie: vuol dire che non c’è bisogno di un processo per essere punito, ma il solo
fatto di aderire a quella associazione che è proibita fa scattare le pene. Il termine opposto è
efferente sententie: sono le pene che si applicano in seguito ad un processo.
Canone 279: fa riferimento alla formazione permanente che deve essere ritenuta
un’esigenza di carattere spirituale, intellettuale e di carattere pastorale, ha tre
dimensioni, nutre lo spirito, nutre il cuore, l’intelligenza, il cervello e l’operosità dei
ministri sacri; senza formazione permanente il cuore si atrofizza, si raffredda,
l’intelligenza si arrugginisce e anche l’operosità diventa monotona. Il primo paragrafo
del canone mette in guardia da quelle profane novità di espressione della falsa scienza;
oggi viviamo un clima di grande apertura, non c’è più quel controllo rigido dall’alto, quindi
a volte siamo raggiunti anche da teorie, pensieri che possono nascondere delle deviazioni
rispetto alla dottrina della Chiesa, quindi bisogna essere prudenti a saper discernere.
Il secondo paragrafo invita alla partecipazione di convegni, corsi, conferenze.
Il terzo paragrafo poi parla della specializzazione; i chierici sono invitati a proseguire i
loro studi specializzandosi in altre discipline, altre scienze sacre, anche se non sono
quelle sacre ma hanno connessione a esse.
Canone 280: raccomanda la pratica della vita comune, questa è una esperienza che si va
diffondendo come uno strumento per rispondere all’obbligo dell’ambito clericale per
stabilire la comunione tra i chierici.
Canone 281: affronta il diritto e un dovere, il diritto alla rimunerazione: chi serve
all’altare vive nell’altare, quindi i chierici hanno diritto ad una adeguata
rimunerazione che tenga conto dell’ufficio che svolgono nel tempo, nel luogo, è chiaro
che una cosa è se faccio il parroco in Africa e una cosa è se faccio il parroco a New York.
Il secondo paragrafo aggiunge anche l’assistenza sociale, quindi le assicurazioni circa
di malattie, invalidità e vecchiaia.
Nel terzo paragrafo si dice che anche ai diaconi coniugati spetta una rimunerazione se
svolgono un ufficio a tempo pieno, cioè che non hanno la possibilità di praticare
un’altra attività lavorativa che assicura alla famiglia il doveroso sostentamento; chi
invece ha già un lavoro retribuito non ha questo diritto.
Canone 283: richiama il dovere della povertà, che è un valore, la miseria no! La
povertà è una vita semplice astenendosi da tutto quello che sa di vanità. Ognuno di noi
deve saper distinguere il confine tra la semplicità e una certa austerità pastorale e alla fine
nella contro-testimonianza.
Canone 284: parla dell’abito ecclesiastico; parla di un obbligo in primis usare un abito
decoroso, poi quale debba essere il codice lo rimanda alle conferenze episcopali, la
Chiesa è grande e quindi gli usi sono diversi. La CEI ha stabilito che dal 1983 che
bisogna usare o la talare o il clergyman. Nella Chiesa primitiva non c’era differenza
tra gli abiti clericali e gli abiti laicali; non c’era distinzione né per il taglio né per il
colore, è stato un fenomeno progressivo, quando ad es. con la caduta dell’impero romano ci
fu l’invasione dei barbari, i barbari vestivano in maniera succinta, quindi con parti del corpo
scoperte; quindi i chierici del tempo iniziarono a distinguersi utilizzando abiti più secondo la
linea romana che ricoprivano tutto il corpo; e così successivamente la stessa questione
avviene per i colori, all’inizio non si faceva nessuna distinzione di colori, il colore nero era
obbligatorio dal Concilio di Trento.
Canone 286: proibisce di esercitare attività di affari, commercio, ecc. se si svolgono
attività commerciali ci si sporca con le cose che si toccano e quindi c’è questa proibizione
generale che può essere superata con una eventuale dispensa concessa dalla legittima
autorità.
Canone 287: dice che i chierici favoriscano il mantenimento della pace e la concordia
fondata sulla giustizia; quest’obbligo di mantenere la pace cozza con la politica, perché
nella vita politica devi prendere posizione contro un’altra linea politica e quindi tu
indirettamente non proponi la pace e la concordia, ma promuovi il conflitto. Ma è anche
vero che a volte c’è una realtà sociale in cui c’è una totale impreparazione da parte dei
laici ad assumersi degli incarichi di carattere politico che può essere necessario. È
possibile che un chierico si assuma una responsabilità in campo civile, dovrà chiedere
ovviamente il permesso al vescovo o all’ordinario religioso se è anche religioso, ma
deve essere una situazione dove davvero non c’è nessuno che possa prendersi certi
impegni, allora a quel punto diventa davvero un servizio per una comunità civile che è allo
sbando e non sa a chi rivolgersi per essere guidata e non può diventare una scelta di vita,
cioè io faccio il politico per tutta la vita, no! Io resto chierico, se mi impegno in ambito
civile lo faccio in quel periodo perché al momento non è risolvibile.
Lo stato clericale impone il carattere e quindi una volta diventati chierici il carattere
non si perde più, ma si può perdere lo stato clericale che è lo status giuridico, ma a
livello ontologico non si perde la propria condizione clericale. Quindi se una
ordinazione è stata ricevuta validamente, non si perde mai, non può essere mai
annullata; se ci sono dubbi sulla validità si può fare un processo per vedere se casomai
quell’ordinazione sia nulla e allora abbiamo una sentenza di nullità in caso di
ordinazione, ma sono casi molto rari, pensiamo all’ordinazione sacerdotale ricevuta e
accettata in assenza di libertà: sotto ricatto, se tu non ti ordini, io ti disconosco come figlio;
ti privo dell’eredità che hai diritto; quindi se fosse conferita sotto un atto di violenza, di
minaccia o se anche nascondessi la mia identità sessuale essendo donna e fossi ordinato
chierico.
Canone 290: se viene dichiarata nulla l’ordinazione perdo anche lo stato clericale;
mentre negli altri due casi non perdo solo la mia condizione clericale, ma perdo lo
stato.
Nel secondo punto si parla della dimissione dello stato laicale; chi commette abuso sui
minori viene condannato ad essere dimesso dallo stato clericale, non si parla di
riduzione allo stato laicale, questo termine veniva utilizzato quando si riteneva lo stato
laicale inferiore rispetto a quella clericale, con la riscoperta del CV II si parla di
dimissione dallo stato clericale.
terzo caso è il chierico che non si sente più di esercitare il ministero e quindi chiede la
grazia della dispensa dagli oneri sacerdotali, specificando se vuole anche la dispensa
dal celibato oppure no.
Canone 291: la perdita dello stato clericale non comporta la dispensa dall’ordine del
celibato, la dispensa è di competenza del romano pontefice.
Canone 292: specifica le conseguenze, non puoi più esercitare la potestà di ordine, gli
uffici e gli incarichi che hai ricevuto per il passato, né qualsiasi altra potestà; si fa
eccezione per il caso previsto dal canone 976 (libro quarto) che prevede l’assoluzione
in articolo mortis: qualsiasi sacerdote ancorché privo della facoltà di ascoltare le
confessioni, assolve validamente e illecitamente da qualunque censura o peccato qualsiasi
penitente che versi in pericolo di morte anche se sia presente un sacerdote approvato. Anche
se il moribondo ha la possibilità di rivolgersi a un sacerdote legittimo, il codice prevede
la libertà al penitente moribondo di rivolgersi al sacerdote che ha ricevuto la dispensa
dall’esercizio del ministero sacro.
Canone 293: prevede che chi ha perduto lo stato clericale può chiedere e può essere di
nuovo ammesso tra i chierici però per rescritto della Sede Apostolica; come è stata la
Sede Apostolica a concederti la dispensa, è a stessa autorità che ti deve riammettere
all’esercizio del ministero sacro; in questi casi c’è una valutazione caso per caso;
importante è anche il parere del vescovo che deve relazionare sul soggetto e anche
motivare il suo parere favorevole o sfavorevole; se ha un parere sfavorevole dal vescovo
è difficile che sarà riammesso.

3-5-2022
Prelature personali
Sono una entità nuova nella Chiesa che era stata auspicata dal CV II; infatti nel decreto
sui ministri sacri (presbiterorum ordinis) al n°10 c’è questa prospettiva della istituzione
della nascita della prelatura personale e si trova anche un cenno al n°20 nel decreto
dell’attività missionaria della Chiesa (Ad Gentes). Nel 1966 l’anno dopo la chiusura del
Concilio, quando fu emanato un motou proprio “Ecclesiae santae” per l’attuazione di
quanto era stato disposto, previsto dai documenti conciliari, in questo motou proprio noi
troviamo la normativa che avrebbe dovuto ispirare, regolare la vita delle prelature
personali. Gli attuali canoni che vanno dal 2094 al 2097, questi 4 canoni non fanno che
riprendere queste norme che erano già state predisposte dal motou proprio Ecclesiae
Santae. Perché se ne parla nel Presbiterorum ordinis e nel decreto Ad Gentes delle
prelature personali? Perché le prelature personali hanno la finalità di assicurare
l’esercizio del ministero sacro dove ci sono particolari carenze e i membri sono inviati
là dove c’è bisogno, quindi sono come un serbatoio di riserva da attingere quando c’è
carenza di chierici. È un’entità a sé, chi ne fa parte è incardinato nella prelatura come i
sacerdoti che sono incardinati nella propria diocesi. Quindi l’aiuto che si offre a un'altra
diocesi (filie donum), non comporta il trasferimento di diocesi, cioè si rimane
incardinati nella propria diocesi e il sacerdote in questione va a prestare servizio in
un’altra diocesi; è un’offerta di collaborazione da parte di una Chiesa che è più forte a
favore di una Chiesa particolare che è più povera di clero. Il codice volutamente non
dice cos’è la prelatura personale, ma si può assimilare ad una chiesa particolare senza
territorio, perché i chierici che sono incardinati nella prelatura personale possono
andare dappertutto; anche i religiosi fanno parte del loro istituto e possono essere mandati
dai loro superiori in altri luoghi per esercitare il loro ministero. La prelatura personale ha
una sua autonomia, dipendono dal prelato che è l’ordinario della prelatura personale.
La prelatura personale non ha territorio, il mondo intero è il raggio d’azione: l’Opus
Dei è l’unica prelatura nata nei giorni nostri. La prelatura personale è fatta solo di
chierici: diaconi, presbiteri e vescovi. I seminaristi, gli aspiranti, sono membri, ma non
effettivi, sono membri aspiranti. C’è un carisma molto generico e cioè aiutare le diocesi
che sono in difficoltà, ma una carenza non solo numerica, una carenza anche di
competenze; immaginiamo una diocesi che non ha bisogno di parroci, ha bisogno del
vicario giudiziale, cioè di colui che presiede il tribunale ecclesiastico e allora il chierico
della prelatura personale potrebbe essere inviato in vare diocesi per compiere questo
servizio.
Canone 294: “sono formati da presbiteri e diaconi del clero secolare”: sono assimilati al
clero secolare i membri, pur non costituendo una diocesi, è una figura nuova che si colloca
tra queste due figure consolidate: chiesa particolare e istituto di vita religiosa; ha degli
aspetti affini alla chiesa particolare, ma anche degli aspetti che richiama alla vita
religiosa. Il codice in questo caso volutamente non la definisce perché fino al 1983 (e
forse ancora oggi), non c’è una convergenza a livello dottrinale nel definire cosa sia una
prelatura personale. Il prelato ovviamente deve provvedere alla formazione dei
membri, deve assicurare loro un sostentamento.
Canone 296: prevede una estensione della prelatura anche ai laici; il rapporto che c’è
tra il laico e la prelatura è diversa da quella che ha il chierico e la prelatura; i laici
possono essere solo dei collaboratori esterni, si possono associare alla prelatura, ma
non ne entreranno mai a far parte ed è un rapporto di natura associativo. È chiaro che
la prelatura si serve di questi laici per portare avanti le loro iniziative pastorali; alle
prelature poi è data la libertà di disciplinare questo rapporto associativo mediante
degli statuti particolari, poi si possono anche stabilire delle convenzioni (accordi) tra i
laici e la prelatura stessa. L’opus dei ha i suoi statuti ed è l’unica esperienza in atto.
Can 330: parla del pontefice come un ufficio canonico istituito da Dio stesso, perché è
Gesù Cristo che ha istituito il Collegio Apostolico e ha istituito Pietro come capo del
Collegio Apostolico; e il pontefice è successore di Pietro, come il Collegio Episcopale è
il prolungamento storico del Collegio Apostolico.
Can 331: quando parla della figura del pontefice, ha una potestà ordinaria, ma questa è
suprema vuol dire che al di sopra non c’è nessun altro; è piena, cioè che non è
settoriale, ha tutto; è immediata nel senso che tra i fedeli e il papa non c’è un’autorità
intermedia, il papa scavalca anche il vescovo; è universale perché riguarda tutti i fedeli
della Chiesa cattolica. È suprema, ma il papa è l’unico soggetto che ha autorità suprema
nella Chiesa? No!
Canone 332 secondo paragrafo: la rinuncia del pontefice che non deve essere accettata
da nessuno, perché al di sopra del papa non c’è nessuno; la sua rinuncia scatta senza
nessuna forma di accettazione.
Tra il sinodo dei vescovi e il sinodo ecumenico c’è una grande differenza: il sinodo dei
vescovi non raccoglie tutti i vescovi, raccoglie alcuni rappresentanti dell’episcopato;
quindi le conclusioni di un sinodo non sono esercizio della suprema autorità; se il
pontefice vuole che certe conclusioni abbiano un valore vincolante per tutta la Chiesa
cattolica, è il pontefice che dà alle conclusioni del sinodo questo valore vincolante. Il sinodo
dei vescovi è stato istituito da Paolo VI quando si chiuse il Concilio.
Can 336: la stessa potestà suprema la ha anche il collegio episcopale ma mai in maniera
separata dal papa, ma insieme al papa. Come si esercita la podestà suprema del Collegio
Episcopale? In due forme: la si esercita in forma solenne e in forma non solenne: in
forma solenne è quello che avviene tramite il concilio ecumenico; l’esercizio non
solenne è quello che avviene attraverso l’azione congiunta dei vescovi senza che siano
convocati nel Concilio, ma il pontefice indice un’azione congiunta, li consulta e
recepisce i voleri della maggioranza e quell’azione congiunta diventa l’esercizio della
suprema autorità compiuta in forma non solenne. Pensiamo quando Pio IX ha
proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, o Pio XII ha proclamato il dogma
dell’Assunzione di Maria, non ha convocato vescovi, ma ha indetto una consultazione e in
base alle risonanze c’è stato la dichiarazione del dogma che è esercizio di una suprema
potestà, non del singolo pontefice, ma di tutto il Collegio Episcopale. Il pontefice ricorre a
questo sistema quando sente che il clima è favorevole, è maturo per arrivare a una
certa conclusione; è chiaro che se sul tema ci sono diverse opinioni e contrapposte non
si procede in tale maniera. Sotto ogni documento conciliare c’è la firma di tutti i vescovi
del CV II, questo vuol dire che quei documenti sono esercizi di una potestà suprema non del
solo pontefice ma di tutti i vescovi che hanno partecipato al CV II.
L’ufficio di pontefice si assume con l’accettazione dell’elezione, il collegio elegge, ma
dall’elezione si passa all’assunzione dell’ufficio tramite l’accettazione.
Can 343: i propri voti, “voti” significa parere, non decisioni.
Vita Consacrata
Il codice parla nella terza parte del secondo libro del codice, in modo particolare ne
parla a partire dal canone 573 fino alla fine del secondo libro, cioè fino al canone 746,
quindi ci sono circa 200 canoni della vita consacrata. Mentre il ministero sacro si fonda
nel sacramento dell’ordine nei suoi 3 gradi, la vita consacrata si fonda sul battesimo
che non è altro che un approfondimento sulla conservazione battesimale. Ciò che si
chiede a un credente in virtù della consacrazione battesimale, lo stesso si richiede al
consacrato, ma in maniera più radicata, più profonda, tanto è vero che si parla di una
consacrazione super rogatoria: i consigli evangelici fanno parte anche i battezzati, questi
consigli evangelici per me consacrato diverranno un impegno maggiore e quindi c’è una
perfetta continuità tra una consacrazione battesimale e la consacrazione religiosa. Il
codice quando parla di consacrati, li definisce come coloro che seguono il Signore
(intimius), cioè in maniera più profonda, quindi in maniera più radicale.
La genesi della vita consacrata
Per molto tempo si è detto che la genesi non è stata divina, ma ecclesiale; cioè la vita
consacrata non sarebbe stata istituita da Gesù Cristo, ma dalla Chiesa, questa
affermazione con il concilio è stata buttata all’aria, perché si basava sulla lettura del
NT e troppo letterale che non andava in profondità, ma i discepoli sono stati sempre
qualificati come i primi ministri sacri. Gli apostoli sono i primi vescovi, per questo si
parla di successione apostolica, i discepoli con la loro scelta di vita sono anche il
prototipo della vita consacrata perché loro lasciano tutto per seguire Gesù e fanno una
prima esperienza di vita comunitaria: lasciano famiglie da cui provenivano e oggi sotto
il profilo teologico ha preso piede quest’altra lettura della vita consacrata concedendola
come una esperienza non di istituzione ecclesiale, ma divina, perché ha una sua prima radice
nell’esperienza del discepolato dei 12. Se noi facciamo un excursus a partire dal NT noi la
vediamo presente fin nella Chiesa delle origini, cioè non bisogna aspettare secoli per
individuare le prime esperienze di vita consacrata, la abbiamo fin dai primi momenti
del cristianesimo e non solo per i 12; questo sia per la vita clericale che quella
consacrata, ad es. le vergini consacrate, alle vedove consacrate; nella Chiesa primitiva
abbiamo l’ordo Virginum e l’ordo viduanum; nelle due lettere di s. Paolo a Timoteo,
egli dà delle direttive ben precise al suo discepolo Timoteo perché organizzi bene
l’ordo viduanum, queste vedove che si sono consacrate a Dio, ma a un certo punto sono
di nuovo prese dal desiderio di risposarsi e allora san Paolo dà delle norme ben
precise. S. Paolo stabilisce il limite di età (60 anni) che era un’età molto avanzata; poi
dei requisiti anche di carattere umano, evangelico: dovevano essere donne distinte per
l’esercizio della carità, la cura degli ammalati, l’accoglienza dei poveri, non devono
andare in giro per le case a spettegolare, ecc. e solo in presenza di questi requisiti
queste vedove possono essere iscritte nell’albo delle vedove in maniera non associata,
ma individuale. Il cristianesimo per i primi secoli è soggetto alle persecuzioni, quindi
vivere in maniera associata sarebbe stato più pericoloso perché i nuclei subito si
individuano, invece vivendo in maniera isolata nella propria famiglia, nel proprio
contesto, senza cambiamenti, trasferimenti e aggregazioni era più facile sottrarsi
all’osservatore nemico; stessa cosa sarà per gli uomini la prima forma consacrata sarà
quella eremitica (Padri del deserto, s. Antonio Abate; s. Ciro); questi erano degli eremiti
singoli che vivevano la loro consacrazione a Dio in maniera individuale in zone
desertiche e ai tempi di solitudine alternavano anche tempi di apostolato, di servizio; s.
Ciro è anche medico, sicuramente non aveva frequentato nessuna facoltà di medicina, ma a
quei tempi si usavano dei metodi naturali, a volte erano ricercati per dare dei consigli, degli
orientamenti di vita. Le donne non andavano nel deserto perché la donna era troppo
esposta, per gli uomini c’era questa prassi dove vivevano in maniera isolata tanti
eremiti.
Abbiamo le prime esperienze di vita consacrata associata, quindi uomini, donne che si
riuniscono e vivono in maniera associata la loro vita, quindi la vita cenobitica, abbiamo i
legislatori: san Basilio, san Pacomio; le regole monastiche sono la forma di diritto
canonico. Contemporaneamente c’è una forma di vita consacrata anche clericale e
sono quelle comunità sacerdotali che si costituivano intorno al vescovo presso la
Cattedrale, quello che chiameremo col tempo vita canonicale, nasce proprio in questo
periodo e nasce come forma di collaborazione con il vescovo. Questi sacerdoti
collaboravano con il vescovo, si preoccupavano della formazione dell’ordine sacro;
non erano immessi e dediti alla vita pastorale, ma svolgevano questa collaborazione al
vescovo, vivevano insieme e seguivano delle regole; una di esse era la regola di s.
Agostino; poi abbiamo il movimento benedettino, s. Benedetto darà un forte impulso,
anche perché mentre queste prime forme di vita monastica cenobitica erano molto
isolate, con san Benedetto abbiamo una moltiplicazione di monasteri, di esperienze di
vita consacrata associata e seguiranno tutti la stessa regola di s. Benedetto, anche se con
il tempo il movimento benedettino si è andato frazionando perché sono nate altre figure
carismatiche che hanno voluto sviluppare qualche aspetto particolare e allora i benedettini
pur nascendo come un’unica esperienza monastica, avremo tante forme come i trappisti,
cistercensi, ecc. Questo nell’evoluzione del primo millennio della Chiesa. Anche a livello
architettonico c’è una loro conformazione, ad es. la Chiesa come luogo di culto, il
monastero, il refettorio, la foresteria, l’infermeria. Sono posti complessi perché
bisognava essere autosufficienti, non c’erano supermercati all’epoca, la stabilità era un
principio fondamentale, una stabilità a livello di governo: “l’abate è sempre abate” fino
alla morte. Gli abati avevano anche un potere di governo che andavano oltre il
monastero, ma anche ai fedeli, infatti i laici a volte collaboravano per la coltivazione
dei campi, allevamento degli animali e quindi un vescovo della diocesi non arrivava
fino all’aia che risentiva dell’influsso dell’azione del monastero. I monasteri erano
anche centri di cultura, quindi si andava anche a studiare in monastero, c’erano tanti
giovani mandati dalle loro famiglie. Fino all’anno 1000 il mondo conosciuto era sempre lo
stesso; si arrivava fino alla Germania per il nord, si arrivava fino al Portogallo per l’ovest, si
arrivava fino all’Africa settentrionale per il sud e si arrivava fino all’attuale medio Oriente
per l’est; si sapeva l’Inghilterra, c’era l’Irlanda la Scozia, ma erano ancora terre inesplorate,
così come si sapeva che oltre la Palestina, la Mesopotamia, c’erano altre terre, ma erano
territori avvolti dal mistero che non erano ancora esplorati. La Chiesa quindi si pone
questo problema: come evangelizzare questi popoli che erano rimasti ai margini della
Chiesa e davanti a questo che succede? Per un vescovo è difficile mandare il proprio
clero per l’evangelizzazione di questi popoli e questo servizio allora inizialmente
questo servizio viene assicurato da alcuni monaci. Noi sappiamo bene che il Nord
dell’Inghilterra, la Scozia, la Germania, sono stati inizialmente evangelizzati dai monaci, i
quali lasciavano il loro monastero per questa missione, ma evidentemente questo tipo di
apostolato era contrario al loro carisma, perché veniva meno la stabilitas, veniva meno la
vita comunitaria, quindi questo fenomeno che si è sviluppato alla fine del primo millennio e
inizio del secondo (XII sec.) c’è una novità delle famiglie della vita consacrata
apostolica che viene introdotta nella Chiesa da s. Francesco d’Assisi che era colui che
dopo 1000 anni di vita consacrata apre una prospettiva nuova, una prospettiva fino ad
allora mai sperimentata: vita consacrata apostolica. Francesco d’Assisi con le sue
intuizioni ha gettato le fondamenta di questa nuova forma di vita consacrata, ha preso
dalla vita monastica degli elementi conservandoli, ma poi ha dato delle sue note
originali che la rendevano idonea all’evangelizzazione. Quindi nel francescanesimo si
conserva la casa, ma che non è più un monastero ma un convento, non è fissa, è una
casa in cui si conviene (si arriva e si parte); la comunità è concepita in maniera più
ristretta: conserva la preghiera comunitaria, la mensa comune, il chiostro monastico,
quello francescano è aperto, non è chiuso. S. Francesco dice: “il mio chiostro è il
mondo”. La regola di s. Francesco è molto più breve di quella benedettina (12 cap.):
questa regola sarà così originale che Graziano quando farà il suo decreto, inserirà la
regola francescana nel decreto perché possa servire da prototipo per tutti coloro che
vorranno da quel momento in poi dar vita ad un’analoga forma di vita consacrata di
natura apostolica e ansi il Concilio stabilirà che altre regole non si possono approvare:
c’è la regola monastica, c’è la regola di s. Agostino, c’è la regola francescana. S.
Domenico fonda un’altra famiglia religiosa e non può fare una sua regola e infatti i
domenicani ancora oggi hanno la regola di s. Agostino.
Quando nel 1492 abbiamo la scoperta delle Americhe, ormai sono passati quasi 400
anni per assicurare alla Chiesa la disponibilità per assumersi l’onera
dell’evangelizzazione di questo nuovo mondo. Quando i confini del mondo conosciuto
si allargheranno, saranno i membri di queste famiglie religiose apostoliche che si
caricheranno nel bene e nel male saranno questi i grandi evangelizzatori e quindi la
vita della Chiesa. Dietro le norme c’è comunque l’azione di Dio, del suo Spirito, il
quale suscita nella Chiesa in base all’esigenza del momento storico determinate
esperienze che trovano anche la loro espressione sul piano canonico, perché quando
inizi qualcosa di nuovo ci vogliono le norme altrimenti si può finire male.
Il protestantesimo nel 1500 dà uno scossone alla Chiesa e la Chiesa deve affrontare
questa novità e quindi non ci pensa solo il Concilio di Trento a gestire e a confrontarsi e
scontrarsi con il protestantesimo, ma ci pensa anche Dio attraverso la vita religiosa, perché
questo sarà il periodo religioso dove nascerà un’altra forma di vita religiosa, quelle che
si chiameranno “congregazioni”: i gesuiti, poi i passionisti, i redentoristi, cioè istituti di
famiglie religiose che saranno ancora più elastiche di quelle precedenti. Le esigenze
della Chiesa a partire dal 500 in poi sono esigenze ancora diverse, quindi gli
spostamenti erano complessi, per fronteggiare queste nuove istanze bisognava pensare
a una vita consacrata più agile, ancora più agile di quello di stampo francescano. Ed
ecco queste congregazioni che perdono tutti i requisiti della vita monastica, i gesuiti
non hanno l’obbligo della preghiera comunitaria, della mensa comune, perché non
possono essere bloccati nella loro azione evangelizzatrice da questi impegni che ti
spezzano la giornata e allora ecco questa nuova forma di vita consacrata quella
congregazionale e all’epoca non erano curate, pensiamo all’analfabetizzazione:
l’analfabetismo era molto diffuso in quei tempi e quindi abbiamo gli scolopi che si
preoccuperanno di questo; pensiamo alla povertà che sarà affrontata da Vincenzo de
Paoli, parliamo di esperienza maschili, perché per le donne l’unica forma di vita
consacrata possibile è quella claustrale, perché le donne erano esposte più degli
uomini; i monasteri sono sempre all’interno della città per essere protetti, mentre i
conventi erano spesso fuori città: i domenicani si situeranno nelle città presso le
università per l’insegnamento; per l’architettura e per la case religiose risponderanno al
carisma di vita religiosa. Vincenzo de Paoli è il primo ad iniziare una forma di vita
consacrata apostolica femminile: perché nell’affrontare il problema della povertà si
serviva di collaboratrici donne che si consacravano in forma privata, non pubblica;
perché siccome non era ancora permessa, il santo sapeva che se avesse portato questo
problema all’autorità ecclesiastica gli avrebbero detto che non sarebbe stato possibile:
o apre un monastero e quindi c’è ancora un ulteriore esperienza di vita monastica o
niente e quindi pur di svolgere quel tipo di servizio Vincenzo de Paoli organizza le cose
in questa maniera: queste donne si consacrano a Dio con dei voti privati, non pubblici;
la vita consacrata femminile nasce all’interno della clandestinità. Dobbiamo aspettare il
600 per avere una vita apostolica femminile che avrà la sua esplosione nell’800. Gli attuali
istituti religiosi femminili sono fondati dall’800 in poi perché solo dal XIX sec. si rompe
questo muro della vita femminile, consacrata concepita in forma apostolica.
A metà del 900 abbiamo i cosiddetti istituti secolari. L’istituto secolare prevede che tu
viva la tua consacrazione vivendo non in comunità, ma in famiglia, continuando a fare
il lavoro che fai, nel 900 emerge questa biforcazione: la vita ecclesiale cammina su una
strada, la società tante volte cammina per un’altra strada e abbiamo dei movimenti di
pensiero, filosofici, politici che porteranno avanti tutta una cultura religiosa se non
anti-cristiana, quindi la società vivrà fino all’800 che erano tutti cattolici; col 900
questa uniformità salta e si creano due filoni distinti a volte anche opposti e allora
occorrerà pensare a degli evangelizzatori che non porteranno nessuna talare, nessun
abito religioso, ma si devono confondere nella massa e questo sarà il carisma degli
istituti regolari perché vivono all’esterno e devono animare in maniera cristiana la vita
secolare e nascono con questa nota, della discrezione, nel segreto, preferibilmente non
devono e non vogliono rivelare la loro identità perché la loro animazione cristiana del
secolo possa essere più efficace e negli anni 40 abbiamo i primi istituti secolari.
I primi canoni sono teologici, sono canoni che si ispirano alla LG dal n° 43 al 47 sono 5
numeri della LG del cap. 6 che descrivono la vita consacrata.
17-5-2022
Definizione di Chiesa particolare, quindi canone 368 e seguenti: presenta il rapporto
che c’è tra la Chiesa universale e le Chiese particolari riprende l’insegnamento della
LG n°23: dove si parla del rapporto in termini di “inerenza”: si dice che la Chiesa
cattolica sussiste NELLE Chiese particolari e DALLE Chiese particolari, quindi la
Chiesa cattolica non è la somma delle chiese particolari, questo indica un rapporto di
inerenza, quindi non immaginiamo la chiesa cattolica come una torta divisa in tante
fette, ma come una realtà unica che è presente in tutte le Chiese particolari. È un
canone teologico che vuole precisare la prospettiva da cui parte il codice che premette
questi canoni teologici quando tiene a precisare la svolta anche ideologica che è data dalla
disciplina codiciale, perché il diritto e la teologia camminano insieme, quando una
determinata materia come nella concezione della Chiesa particolare e il concilio ha detto
qualcosa di importante, il codice ci tiene a richiamarlo perché possiamo rileggere i
canoni che servono attraverso i canoni teologici, poi subito dopo il canone passa a
specificare che le Chiese particolari sono le diocesi. Chiesa particolare è un termine
generico, all’interno del quale ne troviamo determinati casi di Chiesa particolare. La
Chiesa particolare più ricorrente è la diocesi. Chiesa particolare è preferita dal codice,
i documenti conciliari preferiscono chiesa locale. Questo canone ci ricorda che la
chiesa particolare per eccellenza è la diocesi e oltre alla diocesi ci sono altre chiese
particolari: prelatura territoriale, l’abbazia territoriale, il vicariato apostolico, la
prefettura apostolica, l’amministrazione apostolica stabilmente eretta.
Canone 369 anche se di matrice teologica ci presenta la definizione di Chiesa
particolare: non è casuale questo canone perché il concilio nel parlare delle Chiese locali
ha operato una grande svolta, ha optato per un inquadramento personalistico: la chiesa è
fatta di persone. Noi quando parliamo di parrocchie pensiamo ai territori con confini
geografici, ma questi sono solo elementi indicativi, ma non costitutivo; gli elementi
costitutivi sono le persone, ecco perché il Concilio ha definito al n°11 del Christus
Dominus la diocesi come una porzione del popolo di Dio e questo canone riprende questa
espressione: la diocesi è una porzione nel popolo di Dio guidata alla cura pastorale di un
vescovo coadiuvato dal suo presbiterio, tutto il resto è tutta la teologia, quindi è il popolo di
Dio che costituisce la Chiesa particolare, che è costituito da chierici e laici, la cura
pastorale è costituta dal Vescovo, il presbiterio dai presbiteri.
Poi le altre chiese particolari esistono o perché ci sono dei motivi storici o pratici, a
volte anche di natura politica, come il can. N°370 delle abbazie territoriali: questa
esistenza di queste esistenze di queste abbazie risale al primo millennio del
cristianesimo dove erano centri di cultura, intorno all’abazia c’era tutta una vita
economica, erano dei baluardi di difesa contro i nemici; in quel periodo storico c’era
questo fenomeno: i fedeli che erano intorno all’abbazia, vuoi per vicinanza geografica,
vuoi perché erano a servizio dell’abazia, vuoi perché lì mandavano i loro figli per la
loro formazione, questi fedeli finivano poi anche sul profilo pastorale guidati
dall’abate e quindi in quel periodo storico si sono formate delle micro-diocesi intorno a
queste abbazie, perché i fedeli erano anche legati all’abazia e l’abate non era solo il
superiore monastico della comunità, ma anche il pastore di questi fedeli e aveva tutti i
poteri che aveva un vescovo. Ora questo fenomeno è in fase di estinzione, già nel 76
Paolo VI dispose che per il futuro non si sarebbero più costituite altre abbazie
territoriali, nel senso che non ne potevano nascere di nuove, restavano quelle che già
sussistevano, ma nel corso di questi anni molte di esse da abbazie territoriali stanno
diventando abbazie personali quindi legate alla comunità; fino a qualche anno fa
c’erano una 15ina, adesso meno. L’abate territoriale è completamente equiparato al
vescovo, quindi governa con autorità propria.
Le prelature personali nascono dopo il concilio (opus Dei), è una figura non ancora
inquadrata, qui parliamo della prelatura territoriale, cioè di una porzione del popolo di
Dio affidato a un prelato (vescovo) che governa con tutti i poteri di un vescovo.
L’esperienza ci insegna che queste prelature territoriali sono nate laddove i luoghi di
culto intensi i quali sfuggivano al controllo al vescovo competente del territorio e
quindi la Santa Sede al suo tempo le ha erette perché non potevano essere governate
dal vescovo della diocesi. Pompei all’epoca non era che una zona periferica ai margini della
diocesi di Nola, probabilmente oggi non sarebbe stata eretta, ma all’epoca quando le
comunicazioni non erano facili come oggi, tutto questo grosso movimento che si
sviluppa intorno a questo santuario mariano, all’epoca fu ritenuto che era più
opportuno erigere una prelatura personale che tutto fosse lasciato a distanza del
vescovo di Nola, non governa il santuario, ma la piccola porzione di popolo di Dio che
esiste su quel territorio, il prelato quindi ha la stessa potestà di un vescovo diocesano:
potestà ordinaria propria.
Il 371 invece parla degli altri 3 tipi di Chiesa particolare: Parla del vicariato apostolico,
della prefettura apostolica e dell’amministrazione apostolica stabilmente eretta, non a
caso i primi due tipi di chiese particolari sono stati collocati nel canone 370, mentre
questi altri 3 casi nel canone 371 perché c’è una radicale differenza che consiste che in
questi 3 casi il vicario apostolico, il prefetto apostolico, l’amministratore apostolico
non governano con potestà propria, ma governano con potestà ordinaria vicaria,
perché il diritto di questi 3 tipi di queste 3 chiese particolari parla di potestà ordinaria vicaria
e non propria? Perché si tratta di 3 situazioni in cui si registra una particolare fragilità
per cui la Sede Apostolica le tiene un po' sotto osservazione e chiede a chi le governa di
non governarle a nome proprio, ma a nome della Sede Apostolica; questi tre ordinari
(vescovi) governano in nome della Santa Sede che è referente ultimo innanzitutto: il
vicariato e la prefettura apostolica sono strutture ecclesiali missionarie le troviamo in
terra di missione, dove la Chiesa cattolica è ancora in fase di organizzazione,
impiantazione, consolidamento, quindi si tratta di Chiese che hanno bisogno di un
accompagnamento, allora la Santa Sede dall’alto le accompagna e si serve di un suo
rappresentante (vicario apostolico o prefetto apostolico); il prefetto apostolico
potrebbe essere anche un non vescovo, mentre invece il vicario apostolico deve essere
per forza vescovo. Il prelato territoriale deve essere vescovo e anche l’abate
territoriale.
Amministrazione apostolica: quando una diocesi è vacante viene nominato un
amministratore apostolico che è una figura di transizione, serve per una forma di
governo tra il vescovo che non c’è più e quello che deve essere nominato. Invece qui
parliamo di un’amministrazione apostolica stabilmente eretta: si tratta di Chiese
particolari, in genere sono sul territorio: nazioni dove ci sono problemi di carattere
politico, fenomeni rivoluzionari, la Santa Sede ha problemi ad interagire con i governi
locali e in queste situazioni di emergenza si preferisce questa Chiesa locale che la
Chiesa apostolica è stabilmente retta e sarà stabile finché cambi la situazione; anche in
questo caso l’amministratore apostolico non governa con potestà propria, ma con
potestà vicaria. Un amministratore apostolico delle diocesi in cui non c’è il vescovo è una
cosa, è una figura di transizione; qua parliamo di amministrazione apostolica stabilmente
eretta, vuol dire che è così a tempo indeterminato, può durare così anche per secoli.
Quando ci sono vicariati apostolici che non sono aperti ad una crescita di una Chiesa
cattolica, ad es. in Medio Oriente ci sono un sacco di vicari apostolici che sono lì da secoli,
potrebbero diventare diocesi, ma non è possibile perché il cattolicesimo è soffocato da altre
presenze cristiane e non cristiane, per cui non si dilata la presenza cattolica e di conseguenza
la Santa Sede mantiene il vicariato apostolico.
Organizzazione della Chiesa particolare: canone 460: all’organismo un poco più
importante di una Chiesa particolare che è il sinodo diocesano (can. Da 460 a 478), mentre
il sinodo dei vescovi è un’istituzione molto recente, organizzata dal post-concilio, è stato
Paolo VI a introdurlo nella Chiesa; il sinodo diocesano è una istituzione molto antica, lo
abbiamo nel quarto secolo, all’indomani dell’editto di Costantino, infatti la storia
riporta come primo sinodo diocesano a Roma nel 377 sotto il pontificato di Papa
Silicio. Questo fa capire come l’esigenza della comunione, dell’incontro, del dialogo non è
una scoperta die nostri tempi che possiamo vantarci, perché questa esigenza è nel midollo
della Chiesa. Tanto è vero che nella Chiesa ha potuto esprimersi con libertà attraverso
questa modalità del sinodo, quindi niente di nuovo, niente di moderno, ma ci troviamo di
fronte all’essenza della Chiesa che si manifesta dagli inizi che per secoli non fu attuata solo
per motivi di carattere pratico, di carattere politico, ma dal IV secolo in poi comincia e non a
caso nel Concilio di Trento fu stabilito che ogni anno in ogni diocesi doveva celebrarsi
un sinodo. Poi siccome era un po' difficile, più tardi nel Codice del 1917 si stabilì che
ogni diocesi celebrasse il sinodo almeno ogni 5 anni, perché il Concilio di Trento e il
Codice del 1917 prescrivevano una celebrazione così frequente del sinodo? Perché
all’epoca non c’erano gli organi collegiali di oggi e quindi il sinodo diventava l’unica
occasione per vivere la comunione ecclesiale; però bisogna anche riconoscere che
all’epoca era concepito un sinodo clericale, cioè composta solo da chierici. L’attuale
disciplina codiciale, non ha stabilito in maniera obbligatoria una scadenza della
celebrazione del sinodo perché sull’onda del CV II ci sono tanti organi conciliari:
consiglio presbiterale, consiglio pastorale, consiglio degli affari economici, ci sono
anche ad altri consigli: consiglio episcopale che non è obbligatorio ma può esserci,
quindi questo proliferare di organi collegiali non ha reso più un’attività frequente del
sinodo e poi altra novità che in una concezione di Chiesa che non è clericale, ma ad
ampio raggio, quindi aperti anche al laicato, il sinodo non è più un assemblea costituita
da chierici, ma anche da laici.
Can 431ss: (che cos’è la diocesi? Abbiamo detto i vari tipi di Chiesa particolare che ci sono
prefettura apostolica, vicariato apostolica, amministratore diocesano quando la sede diventa
vacante, ecc.) in questi canoni si parla di raggruppamenti delle Chiese particolari, che
la Chiesa sia comunione non è una scoperta del CV II, la percezione di essere padre,
koinonia, la Chiesa l’ha avuta fin dall’inizio ed ecco perché fin dall’inizio le Chiese
particolari hanno individuato delle forme di aggregazione e collaborazione ed ecco
perché fino al IV sec. la Chiesa ha avuto l’intuizione di raggruppare più Chiese
particolari insieme senza perdere la propria identità e favorire l’incontro tra i loro
pastori e quindi abbiamo le provincie ecclesiastiche. Le diocesi una volta erano molto
più numerose di oggi perché gli spostamenti, le comunicazioni non si potevano fare in
maniera molto facile, quindi c’erano più vescovi e più diocesi; oggi ci sono diocesi fuori
dall’Europa di cui i centri abitati distano tra loro centinaia di chilometri, ma nella
suddivisione delle diocesi fino al 1800 noi avevamo diocesi a pochi chilometri di distanza.
Oggi in Italia ci sono ancora 226 diocesi e sono ritenute troppe. La prima forma di
raggruppamento è la provincia ecclesiastica, poi sono state pensate anche le regioni
ecclesiastiche.
Le Conferenze Episcopali sono nate molto più tardi, all’inizio dell’800 ed è un
fenomeno che si è sviluppato in maniera spontanea, nel senso che sono partite
dall’iniziativa della base, poi il fenomeno si è allargato, finché la Chiesa cattolica le ha
istituzionalizzate, ma le prime Conferenze Episcopali sono nate nel centro Europa.
Ora a partire dall’inizio dell’800 ai tempi nostri si è verificata questa situazione per cui
il più antico esempio di raggruppamento quale è la provincia ecclesiastica, ha perso di
incisività. Le provincie ecclesiastiche si sono sgonfiate, nel senso che in molti casi non si
riuniscono neanche, perché non avrebbero nulla da dirsi, di conseguenza si potenzia la
Conferenza Episcopale sia a livello nazionale che a livello regionale.
Si è sviluppata nel tempo anche un’attività conciliare, una volta avevamo i concili
provinciali che erano appuntamenti seri, forti; sono possibili anche i concili regionali;
già un concilio nazionale diventa più praticabile. Tra una singola diocesi e la Sede
Apostolica, non ci sono autorità intermedie, quindi il metropolita, colui che presiede la
provincia ecclesiastica o il presidente della Conferenza Episcopale o della regione
ecclesiastica, svolge una funzione di coordinamento al limite di vigilanza, non di
governo. Se una diocesi fa un sinodo, gli atti del sinodo devono essere trasmessi al
metropolita ma come una forma di vigilanza, non perché il metropolita possa
interferire nella vita della diocesi. Uno spirito comunionale sarebbe molto sospettoso se
un vescovo si chiuderebbe a riccio nella sua diocesi e non dialoga con gli altri vescovi e
si dissente dalle decisioni prese dagli altri vescovi, però in linea di principio può
avvenire, perché nella sua diocesi il vescovo è completamente libero.
La regione ecclesiastica non è ipso iure (persona giuridica), se le si vuole attribuire la
persona giuridica, bisogna farne richiesta. Alla provincia ecclesiastica spetta stabilire
l’offerta da corrispondere per la celebrazione delle sante Messe, quindi non lo stabilisce
né il singolo vescovo, né la Conferenza Episcopale, ma la provincia ecclesiastica,
evidentemente perché ha una competenza territoriale non troppo piccola come la
diocesi, ma neanche troppo vasta come la Conferenza Episcopale, una cosa è l’economia
del Nord Italia e un’Economia del sud Italia, però tra l’economia di Napoli e di Capua si
prevede che non c’è troppa differenza.
Can. 460: l’assemblea dei sacerdoti e altri fedeli i quali prestano la loro collaborazione
al vescovo per il bene di tutta la comunità, il sinodo quindi è concepito come
un’assemblea che accoglie tutti gli esponenti di tutto il popolo di Dio per offrire
collaborazione al vescovo.
Can. 461: stabilisce la scadenza, dice il canone che quando a giudizio del vescovo è
sentire il consiglio presbiterale lo suggeriscano delle circostanze, quindi è lasciato
all’iniziativa del vescovo il quale lo può convocare quando vuole, deve solo ascoltare il
consiglio presbiterale. Se un vescovo avesse più diocesi, ma hanno un unico vescovo,
quel vescovo potrebbe convocare un sinodo per tutte e due le diocesi.
Il canone 462: ci ricorda che il sinodo è convocato vescovo e presieduto dal vescovo, anche
se nell’unione del sinodo possono essere presiedute anche da un vescovo ausiliare, o da
un vicario generale, vicario episcopale, poi c’è una fetta di membri che
automaticamente entrano a far parte del gruppo dei padri sinodali e poi ci sono quelli
che sono eletti ed alcuni sono nominati dal vescovo.
Canone 463: parla della composizione del sinodo, elenca i membri di diritto: i vescovi
ausiliari, vicario generale, vicario episcopale, vicario giudiziario, i canonici della
cattedrale, i membri del consiglio presbiterale, alcuni fedeli laici eletti dal consiglio
pastorale, rettori del seminario, un presbitero per ciascun vicariato, alcuni superiori
degli istituti religiosi.
Il canone 466: esprime il voto dei sinodali ha un valore consultivo e non deliberativo,
quindi la potestà resta sempre e solo nelle mani del vescovo, il sinodo in sé non ha
podestà di governo e quindi quando ci sarà la formulazione del sinodo, se si vuole dare
un valore vincolante, lo può e lo deve fare il vescovo nella sua potestà di governo e
quindi della sua potestà legislativa, un vescovo si può anche dissociare e non dare a
quella conclusione un valore vincolante perché non è oggetto della sua potestà
legislativa.
Canone 467: la conclusione del sinodo deve essere comunicato al metropolita e alla
Conferenza Episcopale; se durante lo svolgimento del sinodo la sede è vacante il sinodo
si sospende, poi sarà un nuovo vescovo a decidere se continuarlo o scioglierlo. Poi il
codice dopo il sinodo passa a trattare della curia diocesana.
Canone 469: dice che la curia è l’organismo delle persone che prestano la loro opera al
vescovo nel governo della diocesi, ogni curia ha sempre 3 ambiti: ambiti pastorale,
ambito amministrativo e ambito giudiziario.
Figure più ricorrenti della curia che non è in sé obbligatoria è il moderatore: colui che
un po' coordina tutti gli uffici di curia e deve essere un chierico, dice il canone 473: che
preferibilmente deve essere un vicario generale, ma può essere anche un presbitero, si
preferisce un vicario generale perché deve governare, deve disporre e quindi la sua
gestione sarà più efficace, ma non è una figura obbligatoria, ma è facoltativa.
Al paragrafo 4 si prevede un altro organo collegiale: il Consiglio Episcopale: “per meglio
favorire l’azione pastorale il vescovo se lo ritiene opportuno può costituire un suo consiglio
episcopale formato da vicari generali ed episcopali”: il vicario giudiziale fa parte del
consiglio episcopale? Il vicario giudiziale non è previsto come membro del consiglio
episcopale, perché il consiglio episcopale esercita una funzione di governo, di carattere
amministrativo, invece con il vicario giudiziale dalla potestà esecutiva ci trasferiamo
nella potestà giudiziaria, che è pur sempre attività di governo ma di un altro settore. Il
vescovo se vuole che il vicario giudiziale ne faccia parte lo può anche optare, ma in sé
non è automatico, mentre i vicari generali ed episcopali, fanno parte del consiglio
episcopale. Tutti gli atti di curia per avere effetto giuridico devono essere sempre
sottoscritti dall’ordinario (vescovo) o dal cancelliere o dal vice-cancelliere o da un altro
notaio di curia.
Can. 475 e seguenti si parla di vicari episcopali e vicari generali: i vicari sono dei
soggetti che hanno la potestà ordinaria, ma non propria, bensì vicaria, cioè loro
governano nel nome e per conto del vescovo ordinario e quindi devono seguire le linee
guida dell’ordinario, non possono nel loro ufficio dare vita a una politica ecclesiale che
sia contraria a quella del vescovo; il vicario generale è competente per tutta la diocesi,
ha una competenza ad ampio raggio, solo nelle materie che il vescovo avoca a sé gli
sono sottratte, ma se non ha competenza; il vescovo può dire al vicario generale che
questo settore lo avoca a sé, per cui è sottratto alla gestione del vicario generale. I
vicari episcopale sono vicari del vescovo, ma operano una determinata categoria di
persone, ad es. vicari episcopali nei territori per la diocesi, oppure per categorie: per i
religiosi; anche i vicari episcopali sono una introduzione del CV II. I vicari episcopali
sono chiamati ad tempus, cioè a tempo indeterminato. Quando c’è il vescovo ausiliare
deve essere anche vicario generale, ma nel vecchio codice c’erano dei vescovi ausiliari
che non erano vicari generali, ma poi c’era il presbitero che faceva il vicario generale;
quindi una diocesi aveva un presbitero che faceva il vicario generale e aveva un paio di
vescovi ausiliari senza vicari generali, quindi erano vescovi senza potere di governo, il
potere di governo lo aveva il presbitero che era vicario generale; per cui adesso quando
c’è un vescovo ausiliare è di diritto anche vicario generale, se ci sono più vescovi
ausiliari potrebbe essere uno solo vicario generale e gli altri no. Il codice prevede che la
diocesi abbia necessariamente un Vicario generale. La stessa potestà giudiziaria è
sottratta al vicario generale ed episcopale, perché c’è una figura a parte del vicario
giudiziale, anche il vicario giudiziale è una figura obbligatoria. Quindi vicario generale
ed episcopale hanno potere esecutivo, quella giudiziaria del vicario giudiziale e del
vescovo, quella legislativa è solo del vescovo. Evidentemente i vicari generali devono
essere chierici se partecipavano all’attività di governo e amministrativa.
Dal can 482 al 485, la figura del cancelliere è una figura obbligatoria, siccome non ha
potestà di governo, anzitutto assicura la legittimità degli atti e poi la loro custodia. Il
cancelliere può essere anche un laico. Il codice prevede la figura del cancelliere o altri
notai. Qui sono notai di curia, la sua forza viene dal vescovo, ma quella firma del
cancelliere del vice cancelliere e del notaio di curia deve essere presentata presso la
Santa Sede e presso la prefettura e loro devono sapere che quella firma su quella carta
è di quel soggetto che ha firmato quella carta, perché se in un atto si trovasse la firma di
un altro soggetto, quell’atto non vale niente.
Can. 492-493: si parla del consiglio per gli affari economici; in sé il consiglio degli affari
economici non è una novità del concilio, perché se ne parlava già nel codice del 17 che
era un consiglio di amministrazione, quindi il canone è l’erede del consiglio di
amministrazione che esisteva prima del codice dell’83; viceversa la funziona
dell’economo diocesano è una figura nuova introdotta prima dal CV II e poi dal
codice. Il codice usa il termine fedeli per sottolineare che si può essere anche laici i
quali devono essere esperti di economia e di diritto civile; la loro nomina
quinquennale, possono essere rieletti per altri quinquenni, non possono far parte del
consiglio degli affari economici i consanguinei del vescovo fino al quarto grado
(cugini). Non fa parte del consiglio degli affari economici l’economo, perché l’economo
è colui che amministra i beni, quindi deve essere controllato dal consiglio degli affari
economici che è colui che studia ed elabora la politica economica della diocesi, stabilisce i
criteri di come amministrare i beni della diocesi, stabilisce i criteri con cui amministrare i
beni della diocesi. È un consiglio che è chiamato a pensare e ad organizzare la vita
economica della diocesi quando bisogna compiere degli atti di amministrazione che
superano l’ordinaria amministrazione, perché se bisogna alienare un bene, questa
operazione coincide con l’economia della diocesi e quindi bisogna riflettere
sull’opportunità di applicare un determinata azione economica che può essere
un’alienazione o una vendita dell’immobile; a questo punto gli affari economici fanno
una valutazione circa l’opportunità. L’economo è il cassiere della diocesi, quindi deve
seguire le indicazioni, gestendo l’economia non può far parte del CAE. L’economo è
una figura obbligatoria, l’economo poi può essere rieletto ogni 5 anni, spetta ogni anno
presentare il bilancio delle uscite e delle entrate. Per gli atti di straordinaria
amministrazione occorre non il semplice parere del CAE, ma il consenso del CAE una
diocesi se non ha stabilità economica bisogna chiuderla.
Poi abbiamo 2 consigli che nelle diocesi furono subito organizzate prima del CVII:
consiglio presbiterale e consiglio pastorale can. 495-501 e 511-514: un consiglio
presbiterale è obbligatorio, è fatto solo di presbiteri diocesani e religiosi, abbiamo gli
statuti che ne disciplinano la costituzione, la composizione, il posizionamento; abbiamo
alcuni membri di diritto, altri sono eletti da tutto il presbiterio, altri sono di nomina
vescovile; il vescovo ordinario in certi casi è previsto che sia ascoltato necessariamente,
ma il vescovo non è tenuto ad attuare ciò che ha detto il consiglio presbiterale. Per
consacrare una Chiesa il vescovo deve consultare il Consiglio presbiterale, ma non fare
quello che dice il consiglio; oppure il cambiamento dei consigli di una parrocchia, la
soppressione di una parrocchia. Quando la sede diventa vacante il consiglio presbiterale
muore e sarà il nuovo vescovo a stabilirne uno nuovo.
Canone 502: Dal consiglio presbiterale si estrapola il collegio dei consultori, è un estratto
del consiglio presbiterale, il codice dice che il consiglio non sia fatto da meno di 6
membri e non più di 12 membri. A volte mettere insieme un collegio presbiterale è
difficile, allora il collegio dei consultori consente al vescovo una cerchia di persone più
ristretta e quindi più facile da consultare; quindi il vescovo di sua nomina prende dal
consiglio presbiterale un minimo di 6 e un massimo di 12 per nominarli consultori; se
la durata dei consultori è quinquennale, immaginiamo che cambia il vescovo, il consiglio
presbiterale decade, il collegio dei consultori non decade, anzi è molto prezioso perché
coagula l’amministratore apostolico nella condizione della diocesi; il fatto che il
vescovo che succede non può cambiare i consultori, anche se si fa un nuovo consiglio
presbiterale e alcuni consultori non stanno più nel consiglio presbiterale, i consultori
che sono stati nominati per quinquennio devono completare il quinquennio anche se
non fanno più parte del consiglio presbiterale. Anche per i consultori ci sono delle
materie delicate che devono essere necessariamente ascoltati, in altre materie non
basta l’ascolto, ma il loro consenso; quindi il vescovo può consultare i consultori
quando vuole nominare o rimuovere l’economo, quando si tratta di atti di
amministrazione importanti non straordinarie. Per gli atti di ordinaria
amministrazione il vescovo se la vede da solo, per gli atti di maggiore importante in
caso amministrativo occorre il parere dei consultori; per gli atti di straordinaria
amministrazione occorre il consenso del collegio dei consultori; quando il vescovo fa
una operazione economica molto impegnativa, serve il consenso prima del CAE e poi
del collegio dei consultori, sono due consensi proprio perché l’operazione economica
potrebbe rischiare di impoverire una diocesi, prima di essere adottata deve passare
per due filtri e non per un semplice parere, ma per un consenso. Occorre il consenso
del collegio anche per rimuovere il cancelliere, se si vuole rimuovere il cancelliere
prima del tempo serve il consenso del collegio dei consultori; poi il collegio dei
consultori svolge una funzione delicata in sede vacante, perché se la Santa Sede non
provvede subito a nominare un consultore apostolico, sarà il collegio dei consultori
entro 8 giorni dalla mancanza della sede che nomina un presbitero che
provvisoriamente governerà la diocesi.

24-5-2022
Codice 503-510: abbiamo due tipi di capitoli: capitoli cattedrali e capitoli collegiali; per
tradizione ogni diocesi con la sua cattedrale ha il capitolo cattedrale; una volta c’era
un fenomeno parallelo e cioè alcune chiese che erano rivestite di particolare storia,
particolare rilevanza, erano elevate a titolo di Chiese collegiate e avevano anche loro i
capitoli dei canonici. Questa fase dei capitoli è una fase di ridimensionamento, neanche
il capitolo cattedrale oggi è obbligatorio, ad es. nasce una diocesi in questi paesi del terzo
mondo, non è detto che si costituisca il capitolo cattedrale, viceversa capiterà che in alcune
diocesi che hanno il capitolo cattedrale, dal momento che si decide di non rinnovarlo
più, lo si fa estinguere per morte naturale dei membri fino a farlo scomparire, oggi non
è un organo importante e necessario come una volta; una volta era necessario perché
non c’era nessun organismo collegiale, non c’era il consiglio presbiterale, non c’era il
collegio dei consultori, non c’era il consiglio episcopale, non c’era il consiglio pastorale,
non c’era il consiglio degli affari economici; ebbene ognuno con le sue competenze; una
volta le competenze di tutti questi organi collegiali erano attribuiti al capitolo
cattedrale che aveva un grande potere, soprattutto nell’area del centro Europa, in
alcune diocesi aveva anche la facoltà di indicare una rosa di nomi al pontefice entro la
quale il pontefice nominava il vescovo della diocesi; un po' come oggi fa la CEI che
indicherà 3 candidati all’ufficio di presidente, quindi storicamente questi capitoli erano
molto influenti, potenti, a volte avevano potere di governo più forte dello stesso
vescovo e a loro erano attribuite le competenze istituite dagli organi collegiali prodotti
dopo il CV II. Una volta i capitoli della cattedrale avevano anche la responsabilità
della parrocchia, fenomeno piuttosto strano: che aveva come parroco della cattedrale
non un presbitero, ma un collegio di presbiteri, oggi tutto questo è vietato perché la
parrocchia della cattedrale deve avere un parroco che coincide con una persona fisica ben
precisa. La nascita di un capitolo o la soppressione di un capitolo devono passare per la
Sede Apostolica, cioè il vescovo non è libero di pronunciare l’ultima parola su questi
aspetti. Oggi i capitoli cattedrali non hanno più i poteri di una volta, oggi le loro
competenze sono di carattere liturgico, i capitoli cattedrali sono rivestiti di questo
compito: quello di sostenere, animare e curare la vita liturgica della cattedrale. Ogni
capitolo cattedrale avrà il suo statuto come tutti gli organi collegiali; tra le figure
riveste particolare importanza il canonico penitenziere che ha gli stessi poteri del
vescovo in foro interno; anzi il canonico penitenziere è così importante che se in una
diocesi non ci sarebbe il capitolo cattedrale o fosse soppresso il vescovo deve comunque
individuare un presbitero e dargli le competenze che ha il canonico penitenziere,
perché ogni cattedrale deve avere un presbitero, un sacerdote che assicuri la possibilità
per i fedeli di essere assolti da certi peccati e le pene rimesse, solo dalle pene riservate
dalla Sede Apostolica il canonico penitenziere non può assolvere, quindi il canonico
penitenziere è l’alterego del vescovo, ed ecco perché non può avere neanche degli uffici
di governo, perché il foro interno e il foro esterno devono essere distinti e separati,
quindi un vicario episcopale, un vicario generale, non potranno mai essere canonici
penitenzieri proprio per questo principio fondamentale. In genere i capitoli hanno anche
dei patrimoni e dal patrimonio del capitolo si attinge per dare ai canonici anche una
retribuzione economica, stessa cosa per i capitoli collegiali.
Canone 511-514: il consiglio pastorale rispetto al consiglio presbiterale, non è un
organo collegiale obbligatorio; infatti il 511 dice: se le esigenze pastorali lo
suggeriscano. Il codice risale già a 49 anni fa, oggi come oggi il consiglio pastorale
diocesano si trova in tutte le diocesi, anzi se non ci fosse sarebbe un campanello di
allarme. A livello di intuizione è conciliare, infatti lo prospetta il decreto sul ministero
dei vescovi “Christus Dominus” al numero 27. Subito dopo il Concilio le diocesi si
tuffarono nell’attuazione di questo consiglio e infatti ancor prima che uscisse il codice
nel 1953 la congregazione per il clero emanò una lettera circolare sui consigli pastorali,
per dare degli orientamenti perché non c’era nulla al di là di questo numero 27 e
quindi i vescovi delle diocesi avevano bisogno di indicazione per poter attuare ed
erigere nella loro diocesi il consiglio pastorale; questi 4 canoni dal 511 al 514, non
fanno altro che far entrare nel codice quegli orientamenti che già nel 1973 la
formazione per il clero aveva dato nella lettera circolare; qual è la peculiarità del
consiglio pastorale? Che è l’unico consiglio dove la componente laicale è
preponderante rispetto alla componente clericale.
Codice 512: dice che il consiglio deve essere costruito “presertim laici”, presertim
significa “soprattutto”, quindi vuol dire che a conti fatti la componente laicale deve
essere maggioritaria e se ci sono degli statuti che non compensano questa componente
laicale, il consiglio sarebbe illegittimo. Avrà il suo statuto, è presieduto dal vescovo, il
codice raccomanda che sia convocato almeno una volta l’anno. Quali sono le finalità del
consiglio pastorale? Mentre nel consiglio presbiterale la sua finalità era di coadiuvare il
vescovo nella condizione della diocesi, quindi il consiglio pastorale è definito “il
senato” della diocesi che sta accanto al vescovo; mentre nel consiglio pastorale deve
cercare, discutere e presentare proposte concrete in ordine all’attività pastorale della
diocesi. Quindi è un po' la voce dei laici che si aggiunge alla voce dei chierici che si
aggiunge al consiglio presbiterale per illuminare il vescovo nelle sue leggi pastorali. Ci
sono delle differenze perché bene pastorale nell’uno, bene pastorale nell’altro, però nel
consiglio presbiterale abbiamo una forma di partecipazione al governo della diocesi,
nel canone 495 troviamo il termine “governo” e ci sta bene perché il consiglio è fatto da
chierici; invece il canone 511 non lo troviamo perché i laici non hanno potere di
governo e non possono partecipare al governo della diocesi, ecco perché loro possono
solo presentare proposte concrete. Inoltre il consiglio pastorale ha sempre e solo potere
consultivo, viceversa abbiamo visto che il consiglio presbiterale ha prevalentemente un
valore consultivo, ma ci sono alcuni casi in cui il consiglio presbiterale ha anche il
potere di voto deliberativo.
A partire dal can. 515 in poi il codice parla della parrocchia e dei parroci: la parrocchia
è una istituzione della Chiesa molto antica, agli inizi del cristianesimo non c’era la
differenza tra parrocchia e diocesi, erano delle comunità cristiane, le prime cellule
della Chiesa, c’era un’unica comunità cristiana, perché i numeri erano molto numerati,
ma quando il cristianesimo comincia ad espandersi (313 con l’editto di Costantino e la
Chiesa smette di essere perseguitata e si può esprimere liberamente) abbiamo una fioritura
tale che giustifica il frazionamento della grande comunità in altre micro comunità e
quindi siamo nel IV sec. che si delinea la distinzione tra la diocesi e la parrocchia;
quindi cellula fondamentale della Chiesa, la parrocchia ha una storia molto antica che
parte dall’origine del cristianesimo, e al tempo del Concilio è stata messa sotto
osservazione e in quel periodo c’è stata una forte corrente di pensiero che l’ha vista
ormai come una istituzione ormai superata, che andava sostituita con altre forme.
All’epoca si sono diffuse le cosiddette comunità di base, all’epoca si ipotizzarono nuove
forme di aggregazione nella Chiesa diversa dalla tradizionale parrocchia, nonostante
le insistenze del pensiero, la parrocchia è riuscita a sopravvivere al Concilio, tanto è
vero che nell’Apostolicam Actuositatem al numero 10 si ribadisce che la parrocchia è
la cellula fondamentale della vita cristiana, è la struttura portante di ogni attività
pastorale, anche se la parrocchia non esclude altre forme comunionali della Chiesa;
quindi la parrocchia resta una istituzione, ma non è l’unica, quindi la parrocchia può
esistere insieme ad altre forme che esprime la koinonia che è l’essenza della Chiesa.
Canone 515: riferisce la definizione di parrocchia: se il codice a questo punto definisce
una definizione che non dovrebbe inserire, perché il codice è un testo legislativo, non è un
testo dottrinale; però se in questo canone ci riferisce la definizione di parrocchia, lo fa
perché ci tiene a sottolineare l’immagine, la concezione attuale della parrocchia, come
deve essere concepita la parrocchia oggi alla luce del CV II perché la parrocchia come
la diocesi era stata assimilata a una forma di circoscrizione della Chiesa e per
smantellare questa visione troppo territoriale della parrocchia, il CV II ci ha tenuto a
evidenziare la dimensione personale e comunionale della parrocchia; ecco perché al 515
si dice che la parrocchia è una determinata comunità di fedeli costituita stabilmente
nell’ambito della Chiesa particolare, quindi è una comunità, è un elemento personale e
fondamentale, affidato al parroco come proprio pastore sotto l’autorità del vescovo.
Quali sono gli elementi costitutivi della parrocchia, senza i quali non si può parlare di
parrocchia? La comunità dei fedeli e il parroco, quindi noi potremmo avere anche una
parrocchia senza territorio, quando si va in paesi che ci sono delle sacche di persone
con una lingua diversa, si erige una parrocchia personale: tutti i cattolici di lingua
italiana che stanno nella diocesi di Monaco in Germania, costituiscono una parrocchia
personale affidata a un parroco italiano. Se andiamo negli Stati Uniti dove la componente
di lingua spagnola aumenta sempre di più troveremo delle parrocchie personali in cui sono
raccolti i fedeli che parlano la lingua spagnola. Quindi il territorio non è un elemento
costitutivo, può essere un elemento indicativo per capire dove stanno, se stanno in
Europa o in Africa. Spetta al vescovo far nascere o morire o modificare una parrocchia,
queste operazioni non possono essere compiute dal vescovo se prima non ha sentito il
parere del consiglio presbiterale.
All’ultimo paragrafo del 515 il codice stabilisce che la parrocchia è sempre persona
giuridica “ipso iure” che vuol dire non è che prima nasce la parrocchia e poi in un
secondo momento il vescovo gli attribuisce la funzione giuridica, vuol dire che nel
momento in cui nasce una parrocchia, ha già la personalità giuridica e il parroco è il
rappresentante legale della parrocchia. Come persona giuridica la parrocchia può
acquistare dei beni, tutto questo lavoro di amministrazione dei beni viene condotto dal
parroco con il quale è il rappresentante delegato della parrocchia, anche se per certe
operazioni il parroco deve avere il permesso dal vescovo, ci sono dei passaggi anche
per il consiglio degli affari economici della diocesi, però comunque l’amministratore
dei beni della parrocchia è il parroco. Quando si nomina un parroco si comunica alla
prefettura e si specifica che è il rappresentante legale di quella parrocchia che è
persona giuridica conosciuta dalla prefettura; la prefettura ha l’elenco di tutte le
parrocchie delle diocesi, la prefettura è un ufficio provinciale, ogni provincia ha la sua
prefettura, quindi la prefettura di Napoli ha l’elenco di tutte le parrocchie non solo di
Napoli, ma anche di Pozzuoli, di Sorrento, Castellammare, di Nola, di Acerra. Se ad es.
una diocesi si spalma su due provincie, le parrocchie che stanno in provincia di Napoli
stanno elencate nella prefettura di Napoli; le parrocchie che stanno invece nella diocesi
della provincia di Caserta saranno segnalate presso la prefettura di Caserta.
Canone 516: parla della quasi parrocchia: le diocesi non nascono all’improvviso, si
diventa diocesi e a volte si parte da altre figure di transizione che permettono col
tempo a una comunità cristiana se è pronta, se è matura di diventare diocesi e così
succede anche per le parrocchie e allora come ci sono le prefetture apostoliche, i vicariati
apostolici che sono Chiese particolari che possono eventualmente domani diventare diocesi,
così succede anche a livello parrocchiale, la quasi parrocchia è una comunità cristiana
parrocchiale ancora in fase di assestamento, di consolidamento, funziona come una
parrocchia, ma non hanno il titolo di parrocchia, ma di quasi parrocchia e si parla di
quasi parroco, ha personalità giuridica, sarebbero parrocchie nate da poco. Il vecchio
codice per quanto riguarda i parroci faceva distinzione tra parroci in perpetuo
(irremovibili) parroci ad-tempus (amovibili), il nuovo codice non conosce più questa
distinzione, tutti i parroci sono amovibili, è demandato alle conferenze episcopali può
disegnare la stabilità del parroco, un parroco deve avere una sua stabilità che non si
identifica con il fissismo; quindi stabile si ma non irremovibile.
Il canone 517 parla della parrocchia in solido: cioè che la parrocchia è affidata a un
collegio di presbiteri i quali sono tutti parroci, anche se c’è un moderatore che farà da
coordinatore e rappresentanza legale della parrocchia, perché il rappresentante legale
può essere uno solo, non possono essere più di uno. La parrocchia in solido funziona bene
se i sacerdoti coinvolti sono intelligenti e non sono malati di protagonismo, altrimenti c’è il
rischio di non funzionare. Non è una novità dei nostri tempi, perché questa solidarietà
parrocchiale la troviamo anche nel passato, nell’area dell’Europa centrale che c’erano
le città episcopali, al quale la cura dei fedeli era affidata al collegio dei presbiteri.
Secondo paragrafo del 517: molti credono che il diacono può essere parroco, la suora
può essere parroco, il laico può essere parroco, questo non è possibile, perché il
parroco esercita una funzione amministrativa che è ancora saldata alla podestà di
ordine. Una suora può avere in affidamento la cura pastorale di una parrocchia, ma ci
deve essere sempre dietro un parroco.
Can. 519: dà la definizione di parroco: dice che il parroco è il pastore proprio della
parrocchia; “proprio” non significa che appartiene alla parrocchia, ma è un termine
canonico, sta ad indicare che ha una potestà di governo propria, non è il vicario del
vescovo il papa, ha una potestà di governo propria: agisce per nome e per conto di sé
stesso, non di altri. Il viceparroco ha potestà vicaria, ma il parroco ha potestà propria,
è chiaro che deve lavorare in atteggiamento di collaborazione con il vescovo, se una
cosa non è gradita al vescovo tu non la devi fare; il vescovo ha un potere di vigilanza, ma
il papa non è il vicario, il vice del vescovo, ma ha potestà di governo ordinaria propria
(la potestà di governo è inscindibilmente legata alla podestà di ordine)
Canone 520: il parroco non può essere una persona giuridica, ecco perché il capitolo
della cattedrale non può essere parroco e anche per i religiosi, non è possibile che il
parroco sia una comunità religiosa, ma deve essere una persona fisica, perché deve
concepirsi, asservirsi della parrocchia, quindi tutti i membri della comunità sono
chiamati a dare un contributo per l’andamento della parrocchia, ma il parroco è
sempre un sacerdote religioso singolo che è stato nominato tale dal vescovo su
presentazione del superiore maggiore. Quando le parrocchie sono affidate ai religiosi
in genere c’è sempre una convenzione scritta che stabilisce gli spazi legati alla
parrocchia, stabilisce se una parrocchia è guidata da un parroco, da un viceparroco o
da più di un vice parroco se è molto grande, a volte le parrocchie possono essere date
in perpetuo o a tempo determinato o a tempo indeterminato; se fosse data a un tempo
determinato, questo termine deve essere specificato nella parrocchia. I canoni seguenti
parlano più del parroco che della parrocchia, ma quello che vale per il parroco, vale anche
per la parrocchia.
Canone 522: prevede da una parte la stabilità, ma la nomina può essere a tempo
indeterminato e quindi il vescovo lo può trasferire in qualsiasi momento o
determinato, però in questo caso sarà la Conferenza Episcopale a stabilire questo
tempo determinato in cosa consista; la CEI nel 1984 (un anno dopo la promulgazione
di questo canone) ha stabilito che questa stabilità coincida con il novennio, dopo i nove
anni i vescovi se vogliono possono farti un’altra nomina per 9 anni, ma a Napoli in
maniera molto prudente, con la scadenza dei 9 anni, non c’è nessun tipo di intervento
da parte dell’arcivescovo, il parroco continua secondo la volontà del vescovo, per cui
per 9 anni non sei trasferibile, a meno che tu per iscritto non dai disponibilità per il
trasferimento, ma alla scadenza dei 9 anni in qualsiasi momento il vescovo ti può trasferire.
Diversa dalla figura del parroco è la figura dell’amministratore parrocchiale che è una
figura di transizione, quindi non gode di stabilità, l’amministratore parrocchiale si può
cambiare in qualsiasi momento. Il consiglio pastorale non è obbligatorio, a meno che il
vescovo non lo rende obbligatorio e in ogni parrocchia lo deve costituire, viceversa il
consiglio degli affari economici è obbligatorio in parrocchia.
Per prima cosa la vita consacrata è una forma stabile di vita. I fedeli: possono essere
chierici o laici che possono impegnarsi a vivere i voti o altri sacra legami.
Quando si parla di voto si parla in senso molto ampio, è sia il voto dei consacrati o il
voto che il fedele fa nel suo cuore: voto è una promessa fatta a Dio, quindi non si fanno
ne voti alla Madonna, né voto ai santi e deve essere libera, temperata, quindi equilibrata,
santa, una persona deficiente non lo può fare perché deve essere una promessa libera di un
bene possibile in virtù della religione. Quindi o è un voto di vita consacrata o di una pia
donna che non vuole mangiare carne per la quaresima, è sempre questo. Poi i voti si
dividono in personali e reali: personali che si adempiono alla propria persona, quelli
reali a una cosa: io prometto di costruire un ospedale per i malati di AIDS; abbiamo i
voti pubblici e voti privati: i voti pubblici non sono i voti fatti davanti agli altri, sono i
voti messi nelle mani di una comunità ecclesiastica legittimata a riceverli, voto privato
è quando non c’è un’autorità ecclesiastica. In alcuni istituti si parla di voti solenni che
sono i voti perpetui, è solo una questione linguistica, si parla di voti solenni invece di
perpetui negli istituti di vita consacrata dove hanno spessore storico e il codice per
rispettare questa antica tradizione ha permesso di continuare a chiamarli così, ad es.
negli ordini mendicanti ci sono i voti perpetui invece di quelli solenni, poi ci sono i
temporanei. Chiaramente le promesse fatte a Dio sono mantenute: anche io prometto
di fare un’opera buona, però non riesco a farla e allora c’è una dispensa dal voto, cioè
la liberazione dall’obbligo di adempiere quel voto; di solito sono i confessori che
dispensano dai voti privati, oppure può anche essere previsto un obbligo meno intenso
che prende il posto della dispensa, a volte si può anche fare così: io non mi sento di
adempiere il voto emesso, ma mi sento disposto a qualche altro impegno di minore entità
alle mie attuali possibilità. Per i voti religiosi la dispensa è affidata all’autorità
competente, mentre negli istituti di diritto diocesano la dispensa è riservata agli
ordinari diocesani, negli istituti di diritto pontificio la dispensa è riservata invece alla
Sede Apostolica, in particolare alla Congregazione pre gli istituti di vita consacrata che
agisce per nome e per conto del Sommo Pontefice.
La normativa prevede che dopo il noviziato si è permessi ai voti temporanei: sotto il
profilo teologico il voto temporaneo è assurdo, perché una promessa non si fa per un
periodo, perché una promessa o la si fa o non la si fa e fino all’800 dopo il noviziato si
emettevano subito i voti perpetui, perché se il soggetto si sentiva di impegnarsi c’era
subito l’emissione dei voti perpetui non di transizione; è stato il pontificato di Pio IX
per motivi prudenziali che furono introdotti i voti temporanei, per concedere al
consacrato maggiore tempo di riflessione e di valutazione.
Innanzitutto abbiamo gli istituti religiosi che possono essere istituti di diritto pontificio
e istituti di diritto diocesano: i primi sono approvati dalla Sede Apostolica, i secondi
dal Vescovi; fino a poco tempo fa per quanto riguarda gli istituti religiosi i vescovi avevano
campo libero, nel senso che erano l’autorità competente a fare di discernimento previo e poi
potevano procedere anche all’approvazione dell’istituto religioso; la recente disciplina della
Chiesa ha visto invece una variazione, nel senso che un ordinario diocesano non può
concedere attualmente l’approvazione a un istituto religioso se non c’è stata prima un
consultazione all’autorità superiore, cioè la Congregazione per gli istituti di vita consacrata.
Evidentemente forse alcuni vescovi non avevano fatto un buon discernimento e hanno
approvato negli ultimi tempi degli istituti di diritto diocesano che non si sono rivelati ben
impostati e quindi oggi un vescovo deve prima consultare la Sede Apostolica e ricevere
il suo nullaosta.
Poi gli istituti si dividono in clericali e laicali: innanzitutto è una questione carismatica.
Quando un istituto si dice clericale? Quando la sua finalità primaria è l’esercizio del sacro
ministero, questi istituti sono composti per la maggior parte da chierici. L’istituto invece
laicale quando il ministero che loro esercitano è di altro tipo, ad es. ai vari istituti che si
occupano di occupazione, di insegnamento o della cura degli ammalati, sono istituti laicali e
sono composti prevalentemente da laici; altra distinzione sono un gruppo di istituti che
hanno delle prerogative, parliamo degli istituti pontifici clericali: questi istituti godono di
una particolare autonomia e anche una particolare forza in ambito della Chiesa perché
a questi istituti vengono riconosciute quasi le stesse prerogative che ha una Chiesa
particolare, i loro superiori maggiori sono detti “ordinari religiosi” e hanno facoltà
simili a quelli del vescovo: possono conferire i ministeri istituiti, possono conferire la
facoltà di confessare però solo alle persone che risiedono all’interno della casa
religiosa, possono firmare le lettere dimissorie dell’ordinazione sacra dei loro
candidati, quindi hanno una potestà di governo che è più forte della potestà di governo
degli istituti laicali. Anche un istituto laicale di diritto pontifico non ha le stesse
prerogative dell’istituto di diritto pontificio clericale, perché la forza che si poggiano
queste prerogative sta nel fatto che i loro superiori maggiori sono chierici (non c’è
potestà di governo senza potestà di ordine) la potestà di governo non clericale è detta
potestà domestica perché dedicata solo alla casa religiosa e non va al di fuori di essa,
invece la potestà di questi istituti pontifici clericali vanno anche al di fuori della casa
religiosa.
Can. 573 primo paragrafo: ci sono elementi teologici della vita consacrata: “seguire Cristo
più da vicino”, quindi nel primo paragrafo elementi teologici.
Nel secondo paragrafo elementi giuridici della vita consacrata: su che cosa si fonda la
vita consacrata? Sui voti o altri vincoli sacri. Se non ci fossero i voti o qualche altro
sacro legame non parleremo di vita consacrata, ma di altro. Ci sono 4 espressioni di
vita consacrata: istituti religiosi, istituti secolari, gli eremiti, le vergini consacrate; la
vita consacrata si deve collocare in una di queste 4 espressioni. Poi c’è un’altra forma
di vita associata che non è strettamente consacrata che è quella delle società di vita
apostolica, quest’altra forma di vita apostolica sembra vita consacrata ma non lo è
perché non ci sono né i voti né altri sacri legami. I salesiani, i vincenziani non sono
istituti di vita consacrata, ma sono società di vita apostolica, quindi non hanno i voti, ma
hanno una vita comune di carattere apostolico. Nella loro organizzazione sono simili ai
religiosi, ma manca questo elemento fondamentale perché solo i voti sono i sacra
legami. Il vecchio codice faceva un altro tipo di distinzione: distingueva tra ordini e
congregazione: canonicamente parlando siete un istituto religioso come ordini dei frati
minori, noi siamo ancora ordine perché nel 1200 si usava ancora ordine. Negli istituti
religiosi prima c’è l’incorporazione attraverso la professione religiosa e poi c’è
l’incardinazione attraverso l’ordinazione sacra; gli istituti religiosi si dividono in:
clericali e laicali; diritto pontificio e diritto diocesano: quelli di diritto pontificio
ricevono l’approvazione del pontefice, quelli di diritto diocesano ricevono
l’approvazione del vescovo. Recentemente il pontefice ha dato una stretta a quelli di
diritto diocesano perché mentre i primi vescovi potevano approvare senza nessun tipo
di filtro un istituto neonato; adesso i vescovi devono avere il nullaosta dalla Santa
Sede. Oggi tutti gli istituti nascono a livello diocesano, poi se crescono si diffondono,
acquistano una certa stabilità allora saranno riconosciuti come di diritto pontificio.
Clericale vuol dire che non necessariamente siano tutti chierici, ma che siano
prevalentemente chierici; istituti laicali sono persone che fanno un servizio
prevalentemente laico; istituti misti non c’è ne sono o si è laicali o clericali.

Can. 578: ci ricorda che esiste un patrimonio per ogni istituto religioso: per patrimonio
non indichiamo i beni materiali, ma un patrimonio carismatico: la natura, il fine, lo
spirito, l’indole, le tradizioni di un istituto costituiscono un patrimonio che l’istituto
non deve mai tradire. Ogni istituto ha un suo patrimonio che troviamo espresso negli
ambiti costitutivi, in modo particolare un patrimonio che è racchiuso negli scritti del
fondatore o della fondatrice, della regola o nelle costituzioni che a suo tempo hanno
scritto i fondatori, quindi questo patrimonio va sempre fedelmente custodito.
Canone 580: Gli istituti tra di loro si possono aggregare e l’aggregazione non fa cadere
l’autonomia del singolo istituto, ad es. istituti maschili e femminile: quando c’è una
condivisione carismatica perché certe suore sono di ispirazione carmelitana, si possono
aggregare all’ordine dei frati carmelitani, ma l’aggregazione non fa cadere l’autonomia
del singolo istituto, l’ordine carmelitano conserva la sua identità, l’istituto femminile
conserva altrettanto la sua identità, però si stabilisce un rapporto di aggregazione.
Canone 581: accanto all’aggregazione abbiamo anche una divisione e cioè un istituto si
può dividere in più parti, ad es. quando nell’ambito di un istituto si sviluppa una linea
spirituale un po' diversa per cui si vuole riconoscere a quei religiosi una certa
autonomia.
Canone 582: Poi c’è il fenomeno delle fusioni che oggi si sta diffondendo sempre di più
perché molti istituti stanno diminuendo sempre di più e quindi molti istituti sono
costretti a fondersi.
Canone 584: Caso più grave sarebbe della soppressione che è sempre di competenza
apostolica, anche se fosse un istituto di diritto diocesano, siccome la morte di un
istituto è un fatto molto grave, non è più competente il vescovo ma la Congregazione
per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.
Can. 586: è un canone importante che parla dell’esenzione: l’esenzione è riconosciuta a
tutti gli istituti clericali di diritto pontificio. Esenzione significa che sono liberi dalla
giurisdizione dell’ordinario diocesano.
Can. 587: Ogni istituto ha il suo diritto proprio e si fa una distinzione tra codice
fondamentale e codice complementare; cos’è il codice fondamentale? È costituito da
quelle norme che sono fondamentali che hanno ricevuto l’approvazione dell’autorità
competente, ad es. pensiamo alla regola del fondatore, agli statuti generali, tutta quella
normativa che ha ricevuto a suo tempo dell’autorità a suo tempo o l’ordinario del
luogo, questo si chiama codice fondamentale e non si può cambiare senza il permesso
dell’autorità che a suo tempo ha approvato queste norme; i cambiamenti vanno
proposti, presentati, all’autorità competente alla quale si esprimerà se possibile o meno
accettare tali emendamenti. Il codice complementare è costituito da quella normativa
che non ha una rilevanza come il codice fondamentale, si tratta di quella normativa
meno impegnativa che cerca di applicare le norme che stanno nel codice fondamentale,
allora il codice complementare può essere cambiato liberamente. L’organo legislativo
di un istituto è il capitolo, cioè l’assemblea periodica dei membri dell’istituto è l’organo
che ha potere legislativo, quindi in sede di capitolo si possono adottare dei
cambiamenti al codice complementare e non ha bisogno dell’autorità competente.
Can. 591 ci ricorda che in alcuni casi il pontefice può porre sotto la sua giurisdizione
un istituto religioso, quindi questo canone è in collegamento col 586 che prevedeva già
l’esenzione e questi due canoni trattano appunto l’esenzione.
I voti temporanei devono avere una durata minima di 3 anni e una scadenza di 9 anni
e in nove anni bisogna decidere se quel candidato/a può proseguire per i voti perpetui
o essere mandato di nuovo nella sua famiglia d’origine. Per i voti temporanei occorre
aver raggiunto la maggior età (18 anni); per emettere i voti perpetui bisogna aver
raggiunto almeno i 21 anni.
Per aprire una casa religiosa bisogna avere il nullaosta del vescovo del posto, per
sopprimerla invece basta solo informare l’ordinario. Prima si faceva distinzione tra
congregazione e ordini, adesso non c’è più si parla di istituti religiosi.
Degli istituti secolari si parla dal can. 710 al 730; se cerchiamo le origini degli istituti
secolari dobbiamo andare alla fine del 700 perché è in quel periodo che venne fuori
questa esigenza di una vita consacrata che non fosse legata alla casa religiosa, ma fosse
inserita nel mondo. Fu Pio XII che diede le prime chiare linee canoniche a questa
forma di vita consacrata, il CV II ne parla in Perfettae Caritatis al n° 11. Il canone 710:
dice che è un istituto di vita consacrata come l’istituto di vita religiosa; è un canone
descrittivo; se tu sei chierico entri come chierico, se sei laico entri come laico; però i
chierici possono conservare la loro incardinazione nella diocesi o possono anche
incardinarsi nell’istituto secolare. Negli istituti secolari non c’è l’obbligo della vita
comunitaria, sono chiamati a una vita fraterna senza che ci sia la componente di vita
comunitaria. Una persona coniugata non può entrare in un istituto secolare, quindi
anche loro hanno dei vincoli sacri che non si chiamano voti, che prima assumono in
maniera temporanea e poi in maniera perpetua, questi vincoli sacri sono sempre i
consigli evangelici: castità, povertà e obbedienza. Anche per i gli istituti secolari una
volta che ci si è impegnati per sempre in questi vincoli, per dispensarsi dei voti
perpetui devono ricorrere alla Sede Apostolica. Il fatto che siano istituti secolari, non
fa si che nel caso vogliano uscire tutto sia più semplice o più veloce, anche per loro c’è
il ricorso alla congregazione.
Poi L’Ordo Virginum e la vita eremitica: la vita eremitica è una vita solitaria, l’eremita
non vive in comunità, ma la vigilanza di questa particolare vita consacrata è affidata al
vescovo, dove nelle sue mani l’eremita emette i suoi voti. Il canone ben preciso è il
canone 603-604: il canone 603 riguarda la vita eremitica il 604 riguarda l’ordine delle
vergini.
Questi sono forme di vita antiche che risalgono al cristianesimo che sono state
dimenticate e il vecchio codice le ha ripristinate e inquadrarle bene nel profilo
canonico.
Per quanto riguarda l’ordine delle vergini consacrate, non sono donne vincolate dalla
vita in comune, potrebbero anche farlo, ma è solo una possibilità, ma sono donne che si
consacrano a Dio emettendo i voti evangelici al vescovo e non perdono la loro
individualità, per cui restano nelle famiglie e lavorano come hanno sempre fatto;
sostanzialmente sono coloro che emettono un voto di verginità. Se si mettono insieme in
una forma comunitaria potrebbero anche avere una persona giuridica, possono in
questo caso anche preparare gli statuti, perché la via comune non può fondarsi solo
sulla buona volontà delle interessate. Le vergini consacrate non devono essere mai
state sposate. Una vedova può entrare in un ordine religioso, ma non nelle vergini
consacrate. La verginità non è inteso in senso fisico, ma è il matrimonio come
esperienza di vita che non deve far parte dell’esperienza di vita regressa.
La congregazione che ci interessa si chiama “congregazione per gli istituti di vita
consacrata” e la “società di vita apostolica”, vuol dire che si tratta di una categoria di
persone che non sono qualificati come consacrati; l’elemento discriminante sono i voti
perché è il voto su cui si forgia la vita consacrata. Queste società il vecchio codice le
chiamava “società di vita comune senza voti”, i canoni sono da 731 a 736, sono così pochi
perché loro a livello organizzativo sono organizzati come gli istituti religiosi: vita
comune, i capitoli, i superiori maggiori, ecc. l’organizzazione sostanzialmente è la
stessa, quello che manca sono i voti, tanto è vero che noi non siamo in grado di
distinguere una società di vita apostolica da un istituto religioso perché se prendiamo
un vincenziano o i salesiano sono ritenuti religiosi, ma canonicamente parlando
religiosi non sono, ma sono società di vita apostolica. Le prime società di vita
apostolica sono nate in Belgio. I primi tempi sono tempi vissuti nella clandestinità, il
diritto viene sempre dopo, nasce prima la realtà e poi il diritto per regolare; il 1500
avviene un particolare incremento di questa vita apostolica; il 1500 e il 1800 sono stati
i due secoli in cui questa vita comune non consacrata ha avuto un maggiore splendore:
tanto è vero che il 1500 è il secolo dei vincenziani, scolopi; mentre nel 1800: è stato il
secolo dei dehoniani, i salesiani; quindi questa vita ha sempre delle regole che hanno un
periodo fiorente come altri periodi in cui sono in fase calante.
La promessa di Celibato la si fa alla Chiesa e non a Dio, il voto lo si fa a Dio.

Potrebbero piacerti anche