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Il carisma e l'istituzione: tema e variazioni

Pier Davide Guenzi, 29/06/2015


Nella vita della Chiesa: quando le persone sono una risorsa
Severino Dianich, 29/06/2015
Il riconoscimento e la valorizzazione dei carismi, indispensabili perché il popolo di Dio torni
davvero a essere il soggetto principale della missione della Chiesa, restano ancora pesantemente
condizionati da molti equivoci. Lo è, a dire il vero, già l’asserto or ora dichiarato, per il quale il
principale soggetto della missione della Chiesa sarebbe il popolo di Dio e non il vescovo. E questo
nonostante che Lumen gentium definisca l’intero corpo dei cristiani come “popolo messianico” e
“strumento della redenzione”, e nonostante che il Codice di diritto canonico investa tutti i fedeli
della più grande di tutte le responsabilità che la Chiesa ha nei confronti del mondo, cioè il compito
di evangelizzare: “Il compito dell’evangelizzazione …dovere fondamentale del popolo di Dio” (can.
781).

Nonostante sia stato spesso denunciata, stenta a morire anche l’idea che le istituzioni della Chiesa
nulla abbiano a che fare con i carismi, e che l’attività carismatica sia ovviamente estranea o
contrapposta alle attività istituzionali della Chiesa. Per smentirla basta ricordare che le istituzioni
fondamentali della Chiesa sono basate sui sacramenti del battesimo, dell’ordine e del matrimonio,
che sono azione divina nel cuore dell’uomo, tesa a trasformarlo dotandolo di una grazia specifica,
cioè di un carisma.

Il carisma nell’ordinario

L’impressione diffusa, poi, che i carismi debbano svelarsi per qualche loro connotazione fuori
dell’ordinario, ormai da nessuno dichiarata esplicitamente, opera nel sottofondo così
efficacemente da aver permesso ai pastoralisti, ai moralisti e ai teologi in genere di studiare e
progettare la missione della Chiesa senza prestare alcuna attenzione a quei carismi, diffusissimi e
di grande importanza, che sono inscritti nelle competenze professionali e nelle esperienze
acquisite dai fedeli nella loro operosità quotidiana, come se queste nulla avessero a che fare con i
doni dello Spirito che formano la personalità del fedele.

Il superamento di questi equivoci deve venire da un’impostazione della visione della Chiesa che
non si arresti alla considerazione delle sue istituzioni, quasi che sul suo vivere quotidiano, non
inscritto nel quadro istituzionale ecclesiastico, oppure operante dentro le istituzioni civili,
l’ecclesiologia nulla avesse da dire: “Quod non est in registro non est in mundo”.

L’appassionata ricerca di una possibile definizione adeguata della Chiesa ha inseguito molte
categorie, tutte dotate di una loro fecondità, come comunione, società, comunità, popolo, corpo,
corpo di Cristo. Anche la categoria di “persona” è apparsa spesso sulla scena: si ricorderà degli
anni Sessanta il bel libro Una mystica persona di Heribert Műhlen. Ma poco si sono considerate le
“persone”, come uomini e donne in carne e ossa, nonostante l’ovvio riconoscimento che la Chiesa
esiste solo se alcune “persone” si coinvolgono reciprocamente nella comunicazione della fede.

Detto questo, bisognerebbe riconoscere che ogni nuova persona che entri nella Chiesa vi apporta
la sua singolare dotazione carismatica, contribuendo così a trasformarne il volto intero e
determinare di sé la sua azione nel mondo. Dopo il celebre saggio di Von Balthasar Chi è la Chiesa?,

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Joseph Komonchak ha intitolato un suo recente saggio Who are the Church? che, tradotto,
suonerebbe in maniera un po’ bizzarra: “Chi sono (o siamo) la Chiesa?”.

Per parlare adeguatamente dell’apporto dei carismi alla forma della Chiesa sarebbe opportuno
cominciare utilizzando gli schemi tipologici elementari, con cui abitualmente si definiscono le
singolarità dei diversi tipi umani. Il concetto di carisma si differenzia da quello di istituzione, infatti,
perché dice un’azione dello Spirito Santo nell’interiorità del credente, che ne determina in modo
nuovo la personalità, dal di dentro della sua esperienza vitale. Tutto in lui sarà invaso da quel
carisma dei carismi, che è la fede.

Già l’essere donna o essere uomo diventerà, quindi, una differenza anche carismaticamente
determinata dalla determinazione della fede. L’essere giovane o l’essere vecchio non è un dato
indifferente in rapporto alla propria collocazione nella Chiesa e la partecipazione alla sua
missione.

Un rapporto complesso

Essere dotati di un alto grado di istruzione, oppure essere dotati di un alto sapere pratico,
contribuisce a determinare personalità diverse, che apportano alla vita ecclesiale diverse dotazioni
carismatiche. Essere contadino o magistrato, manovale dell’edilizia o imprenditore, insegnante o
cuoco, medico o impiegato comunale, meccanico o ingegnere spaziale non possono essere
considerati dati irrilevanti, se è vero che la fede investe la totalità della persona.

I doni dello Spirito, i cammini di perfezione e la santità, come la multiformità della missione non
sono determinati solo dalla posizione istituzionale del fedele nella Chiesa. La vita, e la vita di fede,
viene prima del suo ordinamento.

Per questo, una volta censurata l’ipotesi di un’alternativa fra carisma e istituzione, bisogna
affrontare seriamente il complesso rapporto fra i due. Ci sono, infatti, anche situazioni nelle quali,
di fatto, istituzione e carisma divaricano. Indicherei solo due esempi. Ci sono vescovi dediti a
compiti istituzionali, per esempio all’amministrazione dei beni della Chiesa, che non hanno molto a
che vedere con il carisma del ministero episcopale.

Un secondo esempio è assai drammatico: ci sono situazioni matrimoniali istituzionalmente


corrette, nelle quali il carisma dell’amore reciproco non c’è, e ci sono situazioni istituzionalmente
scorrette, nelle quali l’amore famigliare è realmente vissuto. Ma il problema più di fondo per la
Chiesa resta ancora quello di un suo ordinamento, tuttora incapace di dare voce in capitolo, in una
vera struttura sinodale di carattere decisionale, ai carismi dei fedeli comuni, perdendo in tal modo,
nell’efficacia del suo funzionamento, le grandi ricchezze di attitudini, competenze ed esperienze
nelle quali agisce e si manifesta l’azione dello Spirito.

Nella morale fondamentale: un nodo imprescindibile, una tensione


feconda
Giannino Piana, 29/06/2015
L’applicazione del binomio carisma-istituzione all’etica implica anzitutto la considerazione della
radice antropologica da cui tale binomio trae origine. Il suo fondamento ultimo va infatti ricercato
nella persona, la cui unità originaria non implica uniformità, ma è costituita da una differenza,
quella tra spirito e corpo, i quali vanno intesi non come elementi del tutto autonomi che
confluiscono successivamente in unità – come vogliono le posizioni dualiste –, ma come
dimensioni costitutive della stessa realtà.

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La compresenza di queste due dimensioni non è tuttavia del tutto pacifica: a spirito e corpo
corrispondono istanze diverse legate alla natura dell’uno e dell’altro, che danno origine a una
situazione tensionale. Mentre infatti lo spirito tende al superamento dei limiti spazio-temporali e
ad esaltare l’interiorità umana, e in quanto tale de-situa la persona proiettandola costantemente
oltre se stessa, il corpo la situa, circoscrivendola entro uno spazio e un tempo definiti e
obbligandola a fare concretamente i conti con i propri limiti. La dialettica tra le due dimensioni
appare inevitabile. E tuttavia, lungi dall’assumere connotati di radicale opposizione, diventa in
definitiva sorgente di reciproco arricchimento.

La tensione tra spirito e legge

Il rapporto tra carisma e istituzione affonda le proprie radici, in ultima analisi, proprio in questo
dato antropologico. Se vale il principio secondo il quale agere sequitur esse, l’agire morale, in
quanto espressione di un soggetto insieme spirituale e corporeo, riflette (e non può che riflettere)
questa dialettica. Le dinamiche che qualificano in modo specifico l’impianto dell’eticità rinviano al
rapporto tra l’aspetto soggettivo e l’aspetto oggettivo dell’agire, che viene declinato nei rapporti tra
coscienza e norma, tra atteggiamento buono e comportamento giusto (o retto), tra intenzionalità
ed efficacia storica; in sintesi, tra spirito e legge.

La ragione ultima della moralità va senz’altro rintracciata nel mondo interiore della persona,
perciò nello spirito che anima di sé la decisione e nel quale si rende trasparente il coinvolgimento
della persona nella concretezza dell’azione. Ma lo spirito, in quanto espressione della persona, che
è realtà strutturalmente relazionale, esige il ricorso a un dato oggettivo – il mondo dei valori e
delle norme – il quale fornisce le condizioni per il corretto sviluppo delle relazioni interpersonali. Si
determina così una circolarità virtuosa tra spirito e legge; anche se si tratta di una circolarità non
perfettamente bilaterale, perché il primato è dello spirito, e l’adesione alla legge costituisce un
segno importante ma non univoco di valutazione della moralità.

La conferma di questo assunto viene dalla teoria dell’opzione fondamentale, la quale evidenzia
con chiarezza, nella determinazione dell’eticità, l’importanza primaria del progetto di vita, ma
rinvia anche alla sua necessaria mediazione nelle scelte particolari quotidiane, riconoscendo
peraltro che tra le due realtà non si dà perfetta equivalenza. Le scelte particolari infatti non sono
sempre e necessariamente espressione della scelta fondamentale e in sintonia con essa, la quale
proprio per questo può (normalmente attraverso un processo graduale di segno opposto) venire
ribaltata.

Carisma e istituzione manifestano dunque, sul terreno dell’etica, la loro indispensabile


correlazione, pur nel riconoscimento della distinzione dei rispettivi ambiti e nell’ammissione della
presenza di una gerarchia di valori. Questa assegnando al carisma, cioè allo spirito, il primato (non
rinunciando, in altri termini, a evidenziare la priorità della coscienza, dell’intenzionalità e
dell’atteggiamento buono), mette tuttavia nel contempo in luce l’importanza dell’istituzione,
rendendo trasparente come la moralità comporti, nella sua piena espressione, l’implicazione dei
due fattori.

La “novità” della morale evangelica

La dialettica tra carisma e istituzione trova, a sua volta, riscontro anche nell’ambito del messaggio
evangelico. L’aperta polemica nei confronti del formalismo farisaico o l’affermazione che a contare
nella valutazione del comportamento umano non è ciò che entra nella bocca dell’uomo ma ciò che
esce dal suo cuore (Mt 15,15-20; Mc 7,15) evidenziano con chiarezza il primato assegnato dalla
morale evangelica allo spirito o al mondo interiore dell’uomo.

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Questo primato non implica, tuttavia, rifiuto di attenzione alla legge, la quale conserva intatta la
propria validità: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad
abolire, ma a dare pieno compimento” (Mt 5,17). Le stesse antitesi del discorso della montagna
(“Avete inteso che fu detto agli antichi… ma io vi dico”, Mt 5,21-48), che sembrano opporre la
novità inaugurata da Gesù ad alcune istanze della legge mosaica, rappresentano in realtà un
“portare la legge al suo compimento” (al suo pleroma). La “novità” di Gesù consiste dunque
piuttosto nel dare corso a una “giustizia migliore” o “superiore” (Mt 5,20), cioè nell’adesione
interiore a ciò che la legge propone, privilegiando lo spirito e incentrando l’agire attorno al
comandamento dell’amore.

Il primato è assegnato in questo caso al carisma, senza che questo debba significare la rinuncia a
fare i conti con l’istituzione, con gli aspetti più specificamente normativi dell’esperienza morale,
che rappresentano un fattore permanente (e necessario) di confronto per l’agire umano. Il
rapporto tra carisma e istituzione trova, infine, piena esplicitazione nella relazione tra le norme-
precetto, che segnano il limite da non oltrepassare e obbligano perciò a un assenso senza
eccezioni e senza limitazioni, e norme escatologico-profetiche, che rinviano costantemente oltre,
perché hanno come obiettivo il perseguimento dell’ideale di perfezione e conferiscono, di
conseguenza, alla condotta del credente il carattere di un cammino di conversione permanente.

La dialettica è dunque qui tra due istanze, che hanno entrambe un carattere normativo, ma che al
tempo stesso mettono in luce la strutturale tensione che caratterizza l’esperienza cristiana: che
non può ridursi al rispetto di una serie di divieti, ma sollecita una costante apertura al bene i cui
contenuti non sono mai del tutto circoscrivibili, perché coincidono con la carità, essenza stessa del
Dio trinitario.

Le conseguenze per la definizione dell’eticità

Il dinamismo dell’etica in generale, e di quella cristiana in particolare, è dunque radicalmente


riconducibile alla dialettica tra carisma e istituzione. Questo conferisce una particolare duttilità alla
valutazione della condotta morale, dove il contenuto materiale dell’azione risulta essere una spia
(non univoca) della moralità soggettiva, la quale rinvia al mondo interiore della persona e può
essere colta (in termini mai radicali e definitivi) dalla stessa persona coinvolta. L’esortazione di
Gesù a “non giudicare” (e a non giudicarsi) per “non essere giudicati” scaturisce da questa
constatazione. Come, d’altronde, l’insistente invito di papa Francesco a esercitare la misericordia –
è questo il messaggio del prossimo giubileo – non va confuso con una sorta di buonismo irenico,
ma è espressione di un essenziale dato antropologico, la percezione dell’impossibilità di formulare
un giudizio radicale e definitivo su qualsiasi comportamento umano.

Ma il discorso non deve essere ristretto soltanto a questo ambito. Ha implicazioni importanti
anche nell’ambito della definizione della verità morale. Il dualismo, che ha caratterizzato in
passato (e tuttora caratterizza in larga misura) questa definizione, e che tende a separare
nettamente l’aspetto oggettivo da quello soggettivo, riconducendo di fatto l’eticità al primo e
considerando il secondo soltanto in fase applicativa, è insufficiente.

Non è questa, infatti, la specificità della verità morale, che non si identifica con la verità metafisica,
ma include (e non può che includere) la soggettività come elemento costitutivo, essendo l’eticità
radicata, in ultima analisi, nella coscienza del soggetto e dovendo tuttavia contemporaneamente
fare riferimento a un dato oggettivo. Il rapporto tra carisma e istituzione rappresenta pertanto il
connotato fondamentale del fatto etico, poiché appartiene alla stessa definizione della sua
identità.

Il politico tra carisma e istituzione: “con” e “oltre” Max Weber


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Pier Davide Guenzi, 29/06/2015
L’articolazione politica del binomio carisma-istituzione guida quasi immediatamente il pensiero
alle modalità di legittimazione del potere e alla sua descrizione attraverso “tipi ideali” proposta da
Max Weber. Figure certamente isolabili sotto il profilo descrittivo della scienza, ma diversamente
intrecciate nelle espressioni concrete individuabili nella storia umana.

È ancora necessario pensare “con” Weber alla tensione carismatica e istituzionale, soprattutto per
quegli elementi in grado di interpretare attuali tendenze operanti sul nostro scenario politico-
culturale, ma anche andare “oltre” l’autorevole filosofo tedesco. Tra l’altro il suo pensiero è ancora
tutto raccolto nella forma moderna dello stato nazionale, basata sulla ricerca del potere per
l’esercizio legittimo della forza nei limiti di un territorio e di un popolo. Tale quadro politico è
trasceso dalla contemporanea globalizzazione, che ha spogliato lo stato «di gran parte della sua
sovranità un tempo onnicomprensiva, “totale”, posto dinanzi a una situazione “senza alternative”
molto più spesso di quanto non sia libero di scegliere le proprie politiche e pressato da forze
esterne anziché dalle preferenze democraticamente espresse dei suoi cittadini» (Z. Bauman, La
società sotto assedio, Laterza, Roma-Bari 2003, XIV).

Oltre la legittimazione della forza: l’autorevolezza delle persone

Secondo Weber, la legittimazione del potere si esprime attraverso tre principali modalità presenti
nella storia umana [cfr. La politica come professione (1919), in Il lavoro intellettuale come professione,
Torino, Einaudi, 1948, pp. 49-50]:

– l’“autorità del costume”, cioè la tradizione consuetudinaria, radicata sul carattere sacro delle
istituzioni;

– l’autorità della “legalità” «in forza della fede nella validità della norma di legge e della
“competenza” obiettiva fondata su regole razionalmente formulate», cioè l’istituzione, con le sue
funzioni e i suoi rappresentanti;

– l’“autorità del dono di grazia (Gnadengabe)”, cioè il carisma personale espresso dal leader sulla
base di un’intima “vocazione” (Beruf) e il riconoscimento da parte dei suoi seguaci.

Certamente, per quanto concerne la politica, la prima forma risulta radicalmente superata nel
trapasso dalla società di ancien regime allo stato moderno basato sul sistema delle istituzioni
democratiche e della modalità elettiva dei suoi capi.

Tuttavia, ponendosi già “oltre” la lezione weberiana, il livello tradizionale, spogliato dall’aura
“sacrale”, potrebbe richiamare l’orientamento degli uomini alla socialità e alla sua organizzazione
politica, insufficiente però a determinare le ragioni obiettive che presiedono al governo della vita
della moltitudine.

Il secondo livello, carismatico, nel rispetto costituzionale e parlamentare, indica la figura


del leader partitico che “aspira” al potere di governo. La terza, tipica dello “stato moderno”,
inquadra l’ordinamento entro il quale circoscrivere e orientare il patto civile, per conferire
concretezza e progettualità al legame sociale attraverso l’esercizio del potere legittimo. In questa
prospettiva l’assetto delle istituzioni e la personalità propria di chi è chiamato all’esercizio del
governo non si pongono in alternativa, ma sono chiamate a interagire, alla luce di un legame, alla
base della vita pubblica, più profondo rispetto al patto stabilito e di un’efficace azione determinata
da fini storici obiettivi e condivisi.

Accanto al rigoroso rispetto dell’assetto costituzionale, occorre coltivare quelle che Weber
individua come qualità “sommamente decisive” per l’uomo politico, in ragione di quella

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“autorevolezza” personale, che è la matrice di senso su cui iscrivere lo stesso riconoscimento
dell’autorità e del potere. Tali qualità sono individuate nella «passione, senso di responsabilità,
lungimiranza».

La prima impone una dedizione appassionata (e trasparente) alla causa (Sache). La seconda
istituisce il politico come soggetto accreditato per dare azione a tale causa. La lungimiranza,
specifica virtù del politico, esprime la «capacità di lasciare che la realtà operi su di noi con calma e
raccoglimento interiore», creando un opportuno spazio di distanza riflessiva in vista di una
migliore attitudine valutativa e operativa. «La politica – ricordava Weber nel 1919 – si fa col cervello
e non con altre parti del corpo o con altre facoltà dell’anima. E tuttavia la dedizione alla politica, se
questa non deve essere un frivolo gioco intellettuale ma azione schiettamente umana, può
nascere ed essere alimentata soltanto dalla passione. Ma quel fermo controllo del proprio animo
che caratterizza il politico appassionato e lo distingue dai dilettanti della politica che
semplicemente “si agitano a vuoto”, è solo possibile attraverso l’attitudine alla distanza in tutti i
sensi della parola» (ivi, 101-102).

Oltre l’opposizione: un’etica politica di principi e responsabilità

Quale dunque l’ethos della politica intesa come dedizione alla causa? Qui entra in gioco la celebre
distinzione weberiana tra “convinzione” personale e “responsabilità” civile-politica. Con essa si
riformula il binomio tra dimensione carismatica, che impone l’obbedienza della persona a principi
assoluti, e dimensione istituzionale, che impone di rispondere alle e delle conseguenze
(prevedibili) delle proprie azioni.

È noto come, in sede di teoria etica normativa, i due modelli siano stati assunti come oppositivi e,
inoltre, più a monte, postulino una necessaria distinzione tra razionalità etica e razionalità politica.
Tuttavia Weber fa notare che l’etica della “convinzione” (Gesinnungsethik) non coincide con la
mancanza di assunzione di responsabilità, né l’etica della “responsabilità” (Verantwortungsethik)
con un’azione motivata unicamente dall’efficienza del risultato obiettivo. Non esiste a livello
esistenziale un agire in base a principi che non sappia tenere conto anche degli effetti, né un agire
fortemente attento agli effetti prodotti che, tuttavia, non possa prescindere da una base valoriale
personale. Dopo aver mostrato la separazione concettuale, Weber opera cioè la loro
ricomposizione esistenziale: «L’etica della convinzione e quella della responsabilità non sono
assolutamente antitetiche ma si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo,
quello che può avere la vocazione alla politica» (ivi, 119).

Weber gioca sul termine Beruf che, in tedesco, include la doppia semantica “professionale” e
“vocazionale”. L’esercizio professionale, secondo le norme istituzionali, ha bisogno di verificare le
proprie azioni sulle conseguenze positive o negative, mentre l’idea carismatica della vocazione alla
politica si sviluppa anche partire da principi cui il singolo conferisce un’adesione personale.

Oltre il populismo e la rigidità istituzionale: l’oscillazione polare di carisma e istituzione

Sin qui la lezione weberiana. Ma l’oltrepassamento richiesto dall’attuale condizione della politica
sembra postulare la ricomposizione di carisma e istituzione, quasi nel senso dato da Guardini, di
“opposizioni polari” più che realtà antitetiche. In tale ambito risulta possibile il pensiero e l’azione
politica secondo il suo orientamento intenzionale (e convinto) al bene comune. Questa oscillazione
contribuisce a rimettere in assetto ciò che di ciascuno di questi elementi risulta destabilizzante. Sul
versante del carisma, la preoccupante declinazione populistica dell’esercizio politico; sull’altro, la
necessaria capacità progettuale da innestare nelle istituzioni in vista di una migliore (e non solo
efficiente o efficace) possibilità operativa delle stesse e un più chiaro orientamento lungimirante.

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In questa prospettiva, l’«oltre Max Weber» si pone nell’evidente ridimensionamento (o
svuotamento) del peso ideologico dei partiti del dopo-guerra, progressivamente impostosi in Italia
già alla fine degli anni Ottanta. A tale processo ha corrisposto l’emergere di forze politiche e,
soprattutto, di figure di leadership (o aspiranti a essa) fortemente caratterizzate da tratti
populistici. Una forma di politica tinta di spinte demagogiche, retoricamente persuasive e
fortemente carezzanti la sensibilità “emozionale” dell’elettorato. Essa sembra essere l’ultima
evoluzione di una concezione che esalta la dinamica carismatica come portatrice di una specifica
“vocazione” per lo svecchiamento dell’apparato statale (e degli stessi partiti “tradizionali”) in vista
delle riforme improcrastinabili per la vita civile e pubblica, in talune espressioni non senza forzare
le stesse regole istituzionali.

Oltre la polarità carisma-istituzione: la cittadinanza

La ricomposizione di carisma e istituzione trova il suo orizzonte di riferimento in un humus di più


convinta cittadinanza, che coinvolga chi governa e chi è governato. Su di esso si coltiva la
personalità e il carisma di chi ambisce alla guida della comunità politica, ma individua anche un
preciso impegno condiviso da parte di tutte le forze politiche democratiche. L’impulso carismatico,
inserito nel quadro istituzionale, necessita pertanto di un più chiaro orientamento da una
prospettiva centrata sull’autorità politica e sull’esercizio del potere come “assicurativo” del bene
comune per i consociati, a una concezione più “partecipativa” del bene comune, cioè implicante il
coinvolgimento di tutte le espressioni della società, che ne danno ricchezza umana e possibilità di
futuro, con la promozione di soggettività politicamente attive.

Il carisma politico oggi richiesto è certamente la capacità di trovare risposte innovative, ma anche
la valorizzazione e la circolazione di dinamiche virtuose, già presenti nel tessuto civile, che facciano
da stimolo alle stesse istituzioni per individuare pratiche comuni di vita attente al bene di tutti e di
ciascuno.

L’uscita dalla stagnazione (che non è solo economica, ma anche politica) richiede, pertanto, la
“professionalità carismatica” del politico per “saper fare” ciò che si richiede nel momento. E questo
tuttavia attraverso più limpidi processi di inclusione delle ricchezze di pensiero e di azione presenti
nella società civile; attraverso la capacità di integrare, in una forma di sussidiarietà virtuosa
improntata alla più costruttiva solidarietà, quanto è già in atto per la rigenerazione del legame
sociale. Ma anche, fuggendo la tentazione efficientistica del decisionismo a corto respiro,
attraverso un lavoro lungimirante per abilitare e far crescere nuove competenze e modalità
partecipative.

Entro la tradizione cristiana

Tale oscillazione di energia costruttiva lungo la polarità carisma-istituzione può far tesoro del
pensiero di ispirazione cristiana, attento, più che al “saper fare”, al “saper essere”. Sul versante
dell’istituzione, ricordando che la “politica” rappresenta, nel campo del bene comune, quello che la
“prudenza”, come virtù, suggerisce per le decisioni individuali secondo il criterio del bene, qui e
ora, possibile e doveroso (cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a. 10). E
richiamando, accanto alla prudenza, la forza testimoniale della parresia, che non solo sa intuire il
nuovo, ma riconosce come atteggiamento del politico la disponibilità a portare il peso (e le
conseguenze) della propria azione, anche pagandone personalmente il prezzo. E che sa esprimere
la propria forza di novità nell’umile e rispettosa attenzione alla parola dell’altro, nella convinzione
che solo in questo modo potrà esigere dall’altro (anche l’avversario politico) altrettanta franchezza
e rispetto della verità.

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A tale compito di (ri)generazione del legame sociale può ancora servire la lezione del “vecchio”
Max Weber: «La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi
con passione e discernimento allo stesso tempo. È perfettamente esatto, e confermato da tutta
l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre
l'impossibile» (Il lavoro intellettuale come professione, 120-121).

Il profilo carismatico dell’economia


Alessandra Smerilli, 29/06/2015
Quando si parla di un carisma si parla di gratuità che irrompe nella storia, ci si trova di fronte a
occhi diversi che sanno vedere cose belle dove altri vedono solo problemi da risolvere: e così il
nuovo arriva nella storia, anche dell’economia.

Il teologo svizzero von Balthasar, tra i più grandi del Novecento, ci dona alcune luci per capire cos’è
un carisma. Egli descrive la vita della Chiesa come una dinamica tra diversi “principi” o profili, che
continuano nel tempo e rendono vive, in modo idealtipico o archetipico, le esperienze di alcune
persone che hanno vissuto a fianco di Gesù nella sua esperienza storica.

In particolare, i due principi fondativi sono per lui costituiti da quello “petrino” e da quello
“mariano”. Il principio petrino sottolinea, per Balthasar, soprattutto la componente istituzionale,
verticale, gerarchica, giuridica, sacramentale e oggettiva della vita della Chiesa, mentre quello
mariano dice la sua natura carismatica, di accoglienza, fraterna, orizzontale e di sequela. Questi
due principi a suo avviso non sono in conflitto tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e
complementare.

La storia della Chiesa può essere per Balthasar raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste
due dimensioni co-essenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di carismi.

Credo che non solo la storia della Chiesa, ma tutta la storia sociale ed economica possa essere
letta come un intreccio di istituzioni e di carismi. Leggiamo l’apporto allo sviluppo delle istituzioni,
studiamo la storia delle guerre, dei re, dei mercanti, ma (anche se c’è una minore attenzione
storiografica) non possiamo negare il contributo allo sviluppo economico dei carismi, da san
Benedetto per la storia dell’Europa, a san Francesco e alla scuola francescana con le teorie del
valore dei beni e i monti di pietà come forma di aiuto alle situazioni di indigenza. Studi recenti
hanno dimostrato come la maggior parte dei distretti industriali italiani sia sorto nei pressi di
un’abbazia, perché dai monaci si andava a imparare il senso e l’organizzazione del lavoro.

E come non leggere la storia del welfare state se non a partire da coloro, come le persone mosse
da carismi, che hanno avuto occhi per vedere nuovi bisogni e si sono messi all’opera, costruendo i
primi ospedali, le prime scuole? I portatori di carismi sono persone che vedono prima di altri
bisogni e cose nuove e si mettono all’opera, dando luogo ad attività economiche innovative. Anche
la storia della cooperazione sociale in Europa e in Italia può essere letta come storia del profilo
carismatico. Oggi i movimenti di responsabilità sociale d’impresa, la finanza etica, l’economia civile
e di comunione… sono tutte espressioni di questo profilo carismatico.

Innovazione e imitazione

Ma per comprendere le caratteristiche di un carisma, la sua azione nella storia ci facciamo aiutare
da alcuni studiosi.

Una prima intuizione l’abbiamo dall’economista Schumpeter, che nella sua Teoria dello sviluppo
economico (1911) ci ha offerto una delle teorie economiche più suggestive e rilevanti del
Novecento, quando ha distinto tra imprenditori “innovatori” e imprenditori “imitatori”.

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L’imprenditore innovatore è colui che con un’innovazione spezza lo stato stazionario, e con questa
innovazione crea valore aggiunto e sviluppo, porta avanti l’economia e la società.

Poi in un secondo momento arrivano, come uno sciame di api richiamate dalla nuova opportunità
di profitto, altri imprenditori “imitatori”, che fanno propria quell’innovazione, che da quel
momento in poi diventerà parte integrante dell’intero mercato e della società. I profitti in quel
settore tendono progressivamente a zero, e l’economia torna presto allo stato stazionario, finché
non arrivano altri innovatori, che, con nuove innovazioni, spingeranno avanti “i paletti dello
sviluppo economico”, in un nuovo processo di innovazione-imitazione, che è il vero circolo virtuoso
creatore di ricchezza e di sviluppo.

Il carisma è una relazione

Nella dinamica sociale è all’opera un meccanismo simile, cioè esiste una dinamica, una rincorsa,
tra “carisma” e “istituzione”. Il carismatico innova, vede bisogni insoddisfatti, individua nuove
forme di povertà, apre nuove strade alla fraternità, spinge più avanti i “paletti dell’umano” e della
civiltà. Poi arriva l’istituzione (lo stato, ad esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione e la
fa diventare “normale”, la istituzionalizza.

La dinamica carisma-istituzione è descritta anche da Weber: per lui il carisma è dato a singole
persone, che ne sono i depositari, i quali vengono riconosciuti come tali dalle comunità di
riferimento. Il carisma è quindi essenzialmente una relazione, un riconoscimento da parte di una
comunità che una persona ha dei doni speciali, diversi, non comuni.

Per Weber, poi, il carisma è associato a una tipica forma di autorità, al suo esercizio e
legittimazione, e quindi alla leadership e al potere. Il portatore di un carisma è sempre un leader –
anche se non vale la relazione contraria. Egli tiene a sottolineare il carattere a-valutativo o “laico”
della leadership carismatica: i portatori di carisma possono essere monaci, eroi e profeti, ma anche
pirati, criminali, intellettuali e artisti. Il carisma, nei processi tipici in cui storicamente si dispiega, si
rivela come una forza trasformatrice e rinnovatrice: “Il carisma costringe alla sottomissione
interiore verso ciò che ancora non c’è stato, all’assolutamente unico, e perciò divino… esso è
veramente la forza rivoluzionaria specificamente ‘creatrice’ della storia” (Economia e società, 503).

Tale forza rivoluzionaria è destinata, però, a non durare nella storia, a essere un’esperienza
provvisoria e transitoria: essendo il carisma incarnato in una singola persona, non è trasferibile ad
altri. Il paradosso, infatti, a cui è sottoposto il dominio carismatico, è che mentre si lavora su come
renderlo stabile e duraturo si pongono le inevitabili premesse del suo tramonto. Il potere
carismatico per Weber è quindi labile, transitorio, e il destino di processi carismatici è legato
all’istituzionalizzazione degli stessi e al rientro nel dominio del “quotidiano” e nella routine. Il
desiderio di far durare un carisma traducendolo in buone pratiche, regole, codificazioni per farlo
vivere oltre la generazione del fondatore, quindi, è la via che spesso conduce alla sua scomparsa.

Weber coglie molto bene il significato di trasformazione della storia che hanno i carismi, e coglie
anche la transitorietà di alcune esperienze, sebbene la storia dimostri che il carisma può rimanere
vivo seppur istituzionalizzandosi, se sa rinnovarsi continuamente: i tanti ordini religiosi che
continuano a stare sulla frontiera delle povertà ci parlano di istituzioni che durano da centinaia di
anni e sono sempre nuove nelle loro opere. E queste esperienze dimostrano anche che il carisma
non è dato a una sola persona, il fondatore, ma si propaga in ogni persona che in maniera
autentica si avvicina a un carisma attratta da esso.

Oggi stiamo esiliando la gratuità dalla vita pubblica, e quindi facciamo più fatica a riconoscere e
apprezzare i carismi, ma essi sono all’opera. E come silenziosamente l’opera dei monaci nell’epoca

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definita “oscura” ha fatto rinascere l’Europa, così oggi i carismi lavorano per una nuova primavera,
anche economica.

Bibliografia

Balthasar (von) U.H., Punti fermi, Rusconi, Milano 1972.

Balthasar (von) U.H., Il complesso antiromano, Queriniana, Brescia 1974.

Bruni L., Smerilli A., Benedetta economia, Città nuova, Roma 2008.

Bruni L., Smerilli A., La leggerezza del ferro, Vita e pensiero, Milano 2011.

Bruni L., Smerilli A., L’altra metà dell’economia, Città nuova, Roma 2014.

Leahy B., Il principio mariano nella Chiesa, Città nuova, Roma 1999.

Schumpeter J., Teoria dello sviluppo economico, UTET, Torino 1971 (1911).

Weber M., Economia e società, Donzelli, Roma 2005.

Il Vangelo e la Chiesa nel sociale


Paolo Carlotti, 29/06/2015
Nella presente sezione di Dialoghi dedicata al tema «carisma e istituzione» rivive una problematica
forse non molto definita e piuttosto controversa, tipica degli anni post-conciliari del secolo scorso,
ma che ha ancor oggi alcune risonanze, anche se evidentemente non più la stessa forma e la
stessa portata: diverse congiunture culturali, intellettuali e teologiche sono nel frattempo mutate.

Nel vivere sociale, la secca incidenza della globalizzazione ha accentuato notevolmente il dato
tecnico e pragmatico, lasciando opacizzare la trasparenza antropologica ed etica di molti suoi
ambiti, a partire dalla politica e dall’economia e finanza per giungere alla mediatica e alla bioetica,
diminuendo notevolmente la rilevanza – e quindi la percezione – della competenza ecclesiale e
ancor di più evangelica (cf. P. Carlotti, La virtù e la sua etica. Per l’educazione alla vita buona, LDC,
Torino 2013).

Il dato tecnico sembrerebbe esaurire il bisogno: ma può essere veramente così? Oppure «il mondo
interiore è rilevante nella valutazione normativa, e fa la differenza per la nostra concezione di ciò
che dovremmo essere come cittadini, anche laddove non fa alcuna differenza in termini di
effettivo comportamento. […] Perché mai, allora, dovremmo supporre che in uno dei più
importanti ambiti della nostra esistenza, quello di cittadini, un guscio vuoto sia tutto ciò di cui
abbiamo bisogno? [...] Chi obietta pensa che le nazioni abbiano bisogno di competenza tecnica:
pensiero economico, dottrina militare, versatilità nella scienza e nella tecnologia informatica.
Dunque le nazioni hanno bisogno di queste cose, ma non hanno bisogno di cuore»? (M.
Nussbaum, Emozioni politiche. Perché l'amore conta per la giustizia , Il Mulino, Bologna 2013, 472s).

Nella stessa direzione, Paul Ricoeur aveva confrontato la “poetica” dell’amore con la “prosa” della
giustizia, rispettivamente la logica della sovrabbondanza con la logica dell'equivalenza, nella
consapevolezza della necessità di entrambe, verso un approccio alla realtà mosso da un “interesse
disinteressato” suscitato da un’economia del dono, non solo “economica”. «L’economia del dono
sopravanza da tutte le parti l'etica. A un’estremità di questo ventaglio troviamo il simbolismo... della
creazione, nel senso fondamentale di donazione originaria dell'esistenza; appartiene a questo
simbolismo il primo uso del predicato “buono” applicato in Genesi 1 a tutte le cose create
[...] All'estremità opposta del ventaglio di significati in cui si declina l'economia del dono, troviamo il
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simbolismo, simmetrico a quello della creazione e non meno complesso dei fini ultimi, ove Dio
appare la fonte di possibilità sconosciute» (P. Ricoeur, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2007,
32s).

Una nuova autocoscienza ecclesiale

Per altro verso, in molti modi, con la ricorrente fine delle molte “cristianità” la Chiesa è uscita dalla
sua cittadella privilegiata e protetta e ha riscoperto il compito di annunciare non tanto se stessa,
ma il Vangelo «in modo nuovo, come una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre»
(Francesco, Misericordiae vultus, n. 4). È determinante questo giro di volta, che passa
dall’ecclesiocentrismo al cristocentrismo, all’annuncio di quel Vangelo che è Gesù Cristo in
persona. La concezione della Chiesa come cittadella protetta e privilegiata l’aveva poi resa
particolarmente solidale con lo status quo sociale, di fatto esistente e prevalente, di cui si
interpretava ultima garante e da cui si attendeva ritorni in benefici e riconoscimenti in privilegi. Era
vigente una certa solidarietà tra il trono e l’altare, come era in uso dire, che talora vedeva la
“ragion di stato” praticata oltre il suo naturale ambito, con qualche oscillazione in fatto di coerenza
e di trasparenza, che ha reso meno luminosa se non opaca la posizione “ufficiale” della Chiesa.

Naturalmente la Chiesa non è mai stata solo la Chiesa gerarchica, al suo interno non sono mai
mancate persone che, istituzionalmente irrilevanti o marginali e pur tuttavia realmente Chiesa,
non hanno mancato di segnare una traccia convinta e convincente di vita cristiana, fraternamente
solidale con l’uomo ultimo nel bisogno e nella necessità. Poveri in aiuto dei poveri, scarsamente
provvisti di mezzi materiali, ma altamente dotati in stili di vita umanamente e cristianamente
qualificati, quasi a ribadire l’ovvia verità della priorità dell’amore – e non dei suoi mezzi – per la sua
autenticità: per essere caritatevoli ci vuole prima di tutto la carità e poi i soldi, e non è vero che
senza i soldi non si possa essere caritatevoli e che con i soldi senz’altro lo si possa.

L’insegnamento sociale della Chiesa si è andato progressivamente riallineando con l’evoluzione di


questa autocoscienza ecclesiale, anche con le sue alterne, ma alla fin fine anche orientative
vicende, che hanno raggiunto un momento significativo con papa Francesco. La Chiesa con il suo
insegnamento sociale ha saputo interrogare e anche sfidare i nuovi potentati e le
nuove lobby economiche, finanziarie, politiche e mediatiche con riflessioni e pratiche strettamente
corrispondenti, attivate anche in revisione sostanziale delle proprie posizioni tradizionali. Questa
novità, dovuta – mi sembra – anche a un ascolto più attento e a un dialogo più tempestivo nel
frattempo intervenuto tra magistero e teologia, è stata notata e riconosciuta anche da coloro che,
dentro e fuori la Chiesa, la desidererebbero più incisiva e più conseguente nel riferimento
profetico all’Evangelo e meno incline verso considerazioni “troppo umane”.

Un magistero sociale che evolve

Ne è un esempio emblematico la vicenda del magistero sulla pena di morte, che è culminata con la
recente richiesta della sua abolizione da parte di Benedetto XVI e di Francesco, pur stante la
relativa accettazione di Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae e l’approvazione di Pio XII. Lo stesso
potrebbe dirsi a proposito del rifiuto della cosiddetta guerra giusta, pur nel delicato e concreto
discernimento delle lecite azioni di legittima difesa, come i casi delle ricorrenti e gravi guerre civili
ripropongono.

Si pensi pure, per il suo tempo, tempo che continua a essere significativo anche oggi, alla
tempestiva recezione, operata dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, dei diritti dell’uomo, la cui
“Carta” era stata emanata appena da qualche anno dall’ONU, nonostante il difficoltoso retroterra
ecclesiale che li caratterizzava, specialmente alcuni di essi. Anche oggi non tutti nella Chiesa e nella
società hanno la stessa disponibilità all’accoglienza concretamente sollecitata da papa Francesco

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verso il popolo del mare “nostrum”, tale che superi una facile indifferenza di fronte alle disgrazie
altrui. È questa profezia quotidiana e possibile una novità della dottrina sociale della Chiesa.

Sul fronte dell’economia e della finanza globale si sono avuti importanti segnali di cambiamento,
quando a un’economia segnata dalla logica della massimizzazione del profitto e dello scambio
contrattuale si è avuto il coraggio di proporre un’economia del dono e di comunione, tesa in
primis alla qualificazione umana e cristiana delle relazioni e delle loro reti, di modo che
nell’esercizio della professione e del lavoro non si sia costretti a decurtare o a dimenticare la
propria comune umanità. Il crescente “scarto” umano, fatto di povertà endemica e di miseria
senza speranza – che il sistema economico induce –, è stato ben identificato e denunciato, non
solo enfaticamente, ma prospettando efficacemente alternative oggi praticabili (P. Carlotti, Carità
persona e sviluppo. La novità della Caritas in veritate, LAS, Roma 2011).

Anche la questione ecologica, svolta con pertinenza come ecologia umana, cioè come quella
riflessione sulla custodia e la salvaguardia del creato che procede dalla considerazione
dell’impatto ambientale dell’agire moralmente problematico dell’uomo, è segnale positivo e
promettente. Non siamo di fronte a un semplice moralismo, disattento della complessità della
questione nelle sue numerose dimensioni variamente tra loro embricate, quanto di fronte al
tentativo di una lettura realmente profonda, che coinvolge l’uomo, che col proprio standard e stile
di vita è agente ecologico primario. Anche la questione ecologica non può essere solo un guscio
vuoto, fatto solo di tecnologie e di tecniche, ha bisogno di un cuore, di un cuore nuovo: non è forse
questa la profezia di cui proprio oggi c’è bisogno?

Un'introduzione
Pier Davide Guenzi, 29/06/2015
Questo secondo numero di «Dialoghi» è dedicato al binomio carisma-istituzione. Può sembrare la
concessione a una forma di riflessione “datata”, legata ad altri contesti civili e culturali, come gli
anni ’70 del XX secolo. È parso, invece, di estrema attualità individuare in questa tensione un utile
filtro interpretativo di dinamiche in atto, in ambito ecclesiale e pubblico, e, insieme, un orizzonte di
riferimento orientativo per il futuro.

In prima battuta, la metafora musicale che incornicia il titolo: tema e variazioni, sembra invitare a
cogliere, su un base melodica, differenti modalità interpretative: libertà – responsabilità; profezia –
governo; fantasia – obbedienza; creatività – tradizione… In ciascuna ri-espressione sono evidenti
tensioni e fatiche, ma anche opportunità per leggere sensatamente dinamiche ed esigenze della
nostra attualità (cf. il contributo di imminente pubblicazione di G. Brunelli).

Inoltre, come ben evidenziato dalle analisi provenienti dai diversi contributi qui proposti, la
polarità carisma-istituzione appare in grado di intercettare chiavi di comprensione e, insieme,
indicazioni etiche feconde in campi differenti del vivere insieme, la società, l’economia, la politica,
la comunità cristiana.

L’opportunità di arricchire il tessuto istituzionale con la ricchezza dei doni personali riguarda
certamente un aspetto imprescindibile per la vita stessa della Chiesa. La parola e i gesti di papa
Francesco, a riguardo, offrono la trasparenza di una duplice fedeltà: quella richiesta per la custodia
e la crescita della realtà istituzionale della Chiesa, e quella dovuta alla propria libertà interiore,
nella consapevolezza del dono particolare dello Spirito concesso a ognuno per l’utilità comune.

L’esemplarità del pontefice, tuttavia, non può occultare, come ben espresso dal contributo di
S. Dianich, l’esigenza di riconoscimento e valorizzazione dei doni carismatici da parte dell’intera
comunità ecclesiale. Essi, infatti, sono indispensabili perché il popolo di Dio torni davvero a essere

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il soggetto principale della missione della Chiesa e sviluppare una coerente riflessione sulla natura
stessa dell’istituzione ecclesiale. All’interno di questa dinamica virtuosa si pone lo specifico della
vita consacrata, tradizionalmente polarizzato sulla dimensione carismatica, ma la qui qualità
domanda a tutt’oggi di essere ripensata (cf. il contributo di imminente pubblicazione di
C. Corbella).

Il binomio carisma-istituzione intercetta, inoltre, alcune caratteristiche fondanti l’ethos cristiano.


Giannino Piana, nel suo testo, le pone in evidenza a partire da un quadro antropologico unitario e
relazionale e dalla caratterizzazione dell’etica evangelica nella tensione (e composizione) tra
Vangelo e legge, tra interiorità personale e attenzione al dato oggettivo.

L’insegnamento sociale della Chiesa rappresenta un banco di prova particolarmente significativo


di una riflessione, ormai ritenuta parte dell’esercizio “istituzionale” del magistero, che tuttavia sin
dai suoi inizi ha rappresentato (e rappresenta) un momento particolarmente “carismatico”
nell’orientare il giudizio cristiano sul mutamento sociale contemporaneo, spesso in anticipo e con
più vigore profetico rispetto alla tradizione accademica della stessa teologia morale (cf.
Paolo Carlotti).

Gli altri due contributi allargano la riflessione in ambito politico ed economico. Nel primo caso,
muovendosi dalla lezione weberiana su carisma e istituzione, si invita a oltrepassarla per
individuare, accanto ai rischi di una eccessiva polarizzazione sull’uno o sull’altro elemento,
elementi imprescindibili per orientare il pensiero e l’azione politica nel contesto socio-culturale
contemporaneo (Pier Davide Guenzi). Il secondo rilegge la forza del “carisma”, particolarmente
espressa secondo la logica della gratuità e del dono, come vettore imprescindibile di
rinnovamento dell’economia anche per l’oggi (Alessandra Smerilli).

Al lettore di scoprire nuove “variazioni” sul “tema” o, a partire da quelle offerte nei contributi, dare
il proprio apporto per ampliarne la loro comprensione.

La sfida di un’istituzione carismatica nella vita consacrata


Carla Corbella, 29/06/2015
Per alcuni, come Hans Küng e – dall’altra parte del globo - Leonardo Boff, carisma e istituzione
sono semplicemente inconciliabili: per altri, su posizioni più moderate e improntate all’equilibrio,
carisma e istituzione possono essere in un rapporto non solo possibile, ma addirittura fecondo.
Ciò può avvenire se i due sono compresi in termini di dono/compito del governo e dono/compito
della profezia (G. Costa, «Papa Francesco: Carisma e istituzione», in Aggiornamenti sociali 4/2013). In
questo senso né l’uno né l’altro sono qualcosa di privato, conquistato grazie alle proprie capacità e
dunque utilizzabile a proprio piacimento come espressione di potere, ma grazia ricevuta per il
bene dei singoli e della Chiesa, la cui ricaduta sul mondo contribuisce alla realizzazione del Regno.
Dunque entrambi indispensabili a un corpo in buona salute come dovrebbe essere quello della
Chiesa.

Due polmoni

Già Giovanni Paolo II sottolineava come i carismi andassero accolti con gratitudine, sia da parte di
chi li riceve, sia da parte di tutta la Chiesa in quanto fonte di grazia per l’intero Corpo di Cristo.
Tuttavia nessun carisma dispensa dal riferimento ai pastori ai quali spetta il compito del
discernimento sulla loro genuinità e sul loro esercizio ordinario (cf. Christifideles laici, n. 24). In
un’omelia del 3 giugno 2006 anche papa Benedetto XVI ha ribadito come carisma e istituzione,
rimandando l’uno all’altro, siano entrambi essenziali alla vita della Chiesa ma, al contempo,
implichino spesso delle forti tensioni e anche, a volte, conflitti. Papa Francesco, immediatamente

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con la scelta del nome e la sua stessa biografia, mostra come i due poli siano conciliabili e possano
realmente essere i due pilastri o, secondo un’illustre citazione, i due polmoni della Chiesa.

Tuttavia le tensioni non possono essere magicamente appianate in quanto nascono dal fatto che,
se ogni uomo, come dice il magistero, deve essere fedele a Dio, alla sua grazia e alla chiamata che
riceve, questo avviene sempre attraverso concretizzazioni storiche. Esse però – mediate da
persone concrete e leggi contingenti – sono destinate, per la loro stessa natura storica, a
modificarsi nel tempo. Detto diversamente, le istituzioni che esprimono una chiamata irrevocabile,
che diviene poi decisione di vita nei termini di una totale consacrazione a Dio, sono mediazioni
umane e, dunque, ontologicamente povere per poter dare forma perfetta alla chiamata divina. Ciò
implica che ogni istituzione umana, per quanto ottima, mantenga i limiti propri di tutto ciò che è
umano e – nel tentare di esprimere sempre più e sempre meglio la realtà divina cui rimanda –
debba cambiare ed evolversi.

Carisma e istituzione: una rilettura in chiave “intersoggettiva”

Il cambio, tuttavia, può essere superficiale o profondo. Non è compito del presente lavoro indicare
quali e quanti cambiamenti siano necessari affinché l’istituzione sia in grado di concretizzare
nell’attuale contesto la chiamata ricevuta dai singoli, tuttavia sembrerebbe interessante una sua
rilettura alla luce della prospettiva intersoggettiva. Infatti si può applicare il rapporto
soggetto/oggetto intendendolo come rapporto soggetto/istituzione. A questo proposito un
aspetto interessante è legato al rapporto proprio esistente tra istituzione e comunità nella misura
in cui l’istituzione dovrebbe favorire e stimolare la comunità. In particolare una Chiesa come realtà
viva non si identifica tout court solo con l’istituzione-Chiesa, ma con la comunità ecclesiale (cf. M.
Nardello, «Il problema della formazione: un punto di vista ecclesiologico», in Tredimensioni 4 (2007)
1, 19-31, 20-23).

Più volte la psicologia ha evidenziato come il rapporto soggetto/oggetto sia assai delicato e
complesso: non esauribile né nella prospettiva intrapsichica, né in quella interpersonale, esso
necessita di uno sguardo più ampio, quello intersoggettivo. In questo orizzonte, non solo il
soggetto si deve verificare rispetto alla sua adesione o meno all’istituzione, ma anche quest’ultima
può essere sia un’opportunità di crescita, sia occasione di involuzione per l’identità del singolo.

Ciò è di fondamentale importanza, nella misura in cui la vocazione divina è presentata


normalmente come chiamata a una precisa scelta di vita mediata da una precisa istituzione
umana. In questo senso, disattendere le leggi dell’istituzione significa disattendere la chiamata
ricevuta, essendoci un legame intrinseco tra le due, ma uguale responsabilità ha l’istituzione
rispetto all’aiuto che dà al singolo per vivere concretamente la chiamata ricevuta.

Entrambi, soggetto e istituzione, sono spinti a rispondere con responsabilità alla chiamata divina,
interrogandosi sinceramente sul proprio ruolo e sulla propria responsabilità in ordine, per
l’istituzione, alla reale crescita del singolo e, per il singolo, alla reale fedeltà alla chiamata. È
evidentemente che, se l’istituzione Chiesa rischia a volte di formare la propria identità e
significatività sull’ossequio dei suoi membri, più difficilmente accetterà di rivedere profondamente
le istituzioni particolari di cui è formata.

La dinamica istituzionale può accendere il carisma?

Ritorniamo a papa Francesco. I suoi gesti, le sue scelte, i suoi documenti ufficiali e le sue omelie
stanno mostrando il suo modo di concepire l’istituzione di cui è a capo. Detto diversamente, nella
sua persona si rende sempre più evidente come il carisma possa attivare dinamiche istituzionali
che consentono al carisma stesso di fecondare realtà in un modo che, da solo, non potrebbe
raggiungere. In papa Francesco l’istituzione diviene carismatica.
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In questo modello anche la vita consacrata può trovare una pista interessante per uscire
dall’impasse in cui sembra trovarsi. Come? Guardando a papa Francesco e alla sua proposta di
concepire il ruolo dell’istituzione (papa, vescovi, istituzioni religiosi) in termini relazionali e
rielaborare la propria identità a partire proprio dalla relazione. Detto diversamente: partire
dall’identità – chi sei? quali criteri hai per dire che esisti? – per creare nuovi nessi tra il carisma
vissuto dai soggetti e l’istituzione ricordando che la persona non agisce bene perché ha conosciuto
bene, ma apprende bene perché assorbito in una relazione significativa con l’altro. La propria
identità è plasmata dall’incontro con l’altro ben oltre l’accoglienza e l’empatia perché, proprio in
questo incontro, è stimolata una diversa sintesi di ciò che si è.

È la prospettiva intersoggettiva che, coinvolgendo veramente l’istituzione nella relazione, può


venire in aiuto affinché le persone vivano l’istituzione e nell’’istituzione in termini di promessa di
vita e non di lento ma progressivo suicidio della propria identità e della chiamata ricevuta.

Il focus viene posto in questo modo sulla relazione che si vive, e non sulla continua e martellante,
quanto inutile, proclamazione delle norme e dei valori. L’internalizzazione di questi ultimi è così il
risultato, a volte molto lento, della relazione tra le istituzioni nella loro forma - ma anche le
persone che le costituiscono - e chi propone e vive un carisma. Tale relazione, in cui entrambi si
giocano in modo sincero senza paura della lotta che ne può scaturire, è il medium di un
cambiamento realmente significativo tanto da perdurare nel tempo.

Nello spazio intersoggettivo chi vive il carisma non si trova solo. La presenza di un’istituzione gli
permette di avere un nuovo sguardo su ciò che intuisce promettente nei termini del Regno per
esplorarlo e viverlo in modo più umanizzante. L’istituzione deve accettare realmente di entrare in
contatto empatico col carisma, non per irreggimentarlo, ma per incoraggiarlo, dal di dentro, a
diventare adulto secondo il Vangelo. Tale contesto empatico, ben lungi dall’essere una complicità
assolutoria, è, al contrario, l’accettazione di condividere dal di dentro ciò che ciascuno vive. Esso si
evolve in contesto affettivo intersoggettivo che, chiamando in causa l’Io consistente delle
istituzioni (e delle persone che le costituiscono), fa sì che le indicazioni di quest’ultima diventino
elementi effettivamente ristrutturanti in quanto preparati con chi ha ricevuto o scelto il carisma,
sbocco di una ricerca comune che risponde a un desiderio sincero di essere sempre più
espressione di Vangelo.

Evidentemente tutto ciò presuppone un’istituzione capace e decisa a mettersi in gioco, ma anche
tanto matura da accettare contrasti e lotte in vista di un più spirituale e umano.

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