Sei sulla pagina 1di 4

Accompagnamento personale: il dramma della libertà

don Alessandro Manenti

Come appena sentito dalla comunicazione di Nardello, l’accoglienza in noi del mistero di
Cristo è un fatto processuale di progressivo incontro fra messaggio e libertà della persona. Su tale
fondamento si giustifica l’importanza dell’accompagnamento personale.
Si tratta di un metodo pedagogico sui generis che si colloca fra la psicoterapia e la
direzione spirituale, ma non si identifica né con l’una né con l’altra. Come la psicoterapia, è attenta
alla personalità del soggetto in vocazione; come la direzione spirituale, è attenta al contenuto
oggettivo della vocazione; ma il suo specifico non è mescolare i due ambiti per il semplice fatto che
la grazia suppone la natura ma metterli in comunicazione, cioè saperli tener distinti quando sono
autonomi e intrecciati quando possono convergere. Un metodo, dunque, che non può non dipendere
da una solida base di psicologia e teologia. Questo metodo si concretizza nella tecnica che
chiamiamo “colloqui di crescita vocazionale”. Colloqui (quindi attraverso la relazione), di Crescita
(quindi con tempi e fasi ben precise), Vocazionale (quindi nel contesto di uno specifico e personale
progetto di vita).

In riferimento al tema della nostra due giorni possiamo definire l’accompagnamento


personale come un itinerario sistematico rivolto a chi ha già fatto o intende fare una scelta
vocazionale di vita, al fine di allargare la libertà della sua scelta.
Allargare la mia libertà di scegliere significa organizzare e riorganizzare continuamente le
mie energie psichiche (di mente, cuore e volontà) intorno al mio centro vitale (sequela Cristo). Il
centro è vitale quando in progressivo crescendo di libertà lo desidero affettivamente, lo stimo
centrale per la mia identità, a lui voglio affidarmi, da quello farò dipendere il mio onore e la mia
amabilità, in riferimento a quello darò ordine e unità alle parti della mia vita, su quello misurerò la
credibilità del mio agire (la psicoterapia non promette ciò per difetto di psicologismo, ma neanche
la direzione spirituale per difetto di spiritualismo). Il movimento progressivo della libertà di scelta è
un movimento di “assimilazione” in me di quel centro e di “accomodamento” di me a quel centro,
di apprendimento ma anche di sequela, di accoglienza del venire di Dio verso di me e del mio
andare verso di lui. Detto diversamente, la vita cristiana come scelta significa tradurre in se stessi
l’intreccio fra il momento antropologico della teologia e il momento teologico della antropologia,
l’intreccio fra il saper “notare” la discesa di Dio verso di me e saper “rispondere” con l’ascesa
verso di Lui, in una “unione dinamica della grazia divina con la persona umana", intendendo con
unione dinamica il fatto che la vocazione è attività "totalmente" di Dio ma anche "realmente"
dell'uomo, il lavoro di Dio nel cuore della libertà umana ma anche il lavoro di quest'ultima che è
chiamata ad amare nella sua accezione più tipicamente cristiana di capacità di stare davanti a Dio
come partner dell'alleanza.
Anche le conseguenze pastorali di questo cammino saranno enormi perché imparare a notare
Dio nella propria vita e a rispondere a Dio nella vita archivierà inesorabilmente quella pastorale
ritmata sul “buon senso” cioè sull’andare a naso, sul “fai come puoi” o peggio sulla emergenza.
Un seminarista che ha provato su di sé la forza diagnostica e terapeutica del vangelo, farà un
discernimento non solo “post factum”, ossia valutare la sua prassi già avviata ma “ante factum”
ossia farsi serie domande sul significato di quella prassi prima ancora di porla in essere (dalla
pastorale del “comunque una buona parolina passa” alla pastorale del “che parolina passa?”).
Si capisce da qui che l’accompagnamento si rivolge a chi vive già da libero e chiede di
essere liberato ancor di più, che può fare l’accompagnatore solo un prete che ha scelto di
promuovere le coscienze e non di condizionarle e che è una formula che trova il suo posto solo
dentro ad una pastorale che vuole individuare e preparare i leaders di domani e non in una pastorale
di conservazione.
Libertà personale e prassi pastorale

Sul tema accompagnamento si moltiplicano i convegni e le scuole, ma oggi la linea


educativa di non pochi seminari italiani va in un’altra direzione. Quella dell’apprendistato di un
ruolo da trasmettere dalle vecchie alle nuove generazioni di preti, con conseguente allergia per il
seminarista che pone domande sul senso e la sostenibilità di quel ruolo. La linea è: basta pregare,
non troppa teologia che fa inorgoglire, educare al sacrificio, imparare a tener duro e domani… “ti
arrangi e farai come potrai”; chi chiede spiegazioni di tanta assurdità non ha lo spirito di
obbedienza. Che vuol dire: basta essere dei kamikaze della situazione che liberi in Cristo. Libertà e
obbedienza diventano nemiche. Si lascia che la propria interiorità passi indenne l’impatto con il
vangelo, con l’esito che, nello scorrere degli anni, il prete prende più la forma di uno zombi che di
un liberato in Cristo.
Esempio. Troppo spesso ci si accorge con stupore che il seminarista non si serve del sapere
appreso a scuola per la sua vita spirituale o per organizzare i primi compiti pastorali. Non si serve
neanche del sapere più facilmente traducibile come, ad esempio, lo studio della teologia biblica.
Vediamo anche che il giovane prete, nel giro di pochi mesi dall’ordinazione, archivia i libri e si fa
guidare nella prassi dai sussidi pronti all'uso, dalle consuetudini del luogo in cui va ad operare (non
sempre adeguate ai tempi) o dalla spiritualità personale che già aveva prima dell'entrata in
seminario e non sottoposta nel frattempo a vaglio critico: schiavo del suo orizzonte interpretativo
prima del seminario, durante il seminario e dopo il seminario. Escluso il caso più grave di
impermeabilità, il seminarista dai suoi anni di seminario si può lasciare influenzare limitatamente
all’ampliare il suo previo orizzonte di vita, ma non per trasformarlo. Acquisisce approssimazioni
ma non personalizzazioni, abilità di ruoli ma non stili di vita. Incamera le nuove informazioni nel
suo previo orizzonte di vita che già costituiva l'ambito dei suoi interessi. Lo esplicita meglio, lo
sottopone ad un allargamento orizzontale. Ma non fa un passaggio verticale che gli permetta di
passare ad un nuovo orizzonte qualitativamente migliore del precedente non solo perché arricchito
di nuovi oggetti di interesse ma di nuovi criteri per valutare gli oggetti di sempre. E così, esce dal
seminario come è entrato, semmai con qualche conoscenza in più sul chiacchiericcio dei preti.
Quando invece il seminarista amplifica la sua libertà di scelta acquisisce un orizzonte diverso e
incomincerà a valutare in modo diverso e, di conseguenza, anche a sostenere decisioni e azioni
diverse rispetto alla stessa e identica realtà (spirituale e pastorale) che però viene ora diversamente
affrontata. Incomincerà a passare dal guardare al vedere, dal prendere come guida non la prassi ma
il significato mediato dalla stessa (…il che lo metterà in seri guai con la prassi).
Perché la scissione fra sapere teologico e prassi pastorale? In ottica di accompagnamento, si
ritiene che il legame teoria-prassi non è diretto ma passa attraverso l'attivazione dell’io della
persona e si ritiene che il mancato uso pastorale di ciò che è stato appreso non deriva solo dalla
difficoltà di coniugare oggettività e situazione ma dal non saper fare in se stessi questa sintesi, per
cui ci si riduce ad una prassi scriteriata.
Qui, a livello di impostazione educativa dei seminari si ritrova lo stesso tema ecclesiologico
rilevato da Nardello, ossia l’impostazione di un seminario è strettamente dipendente dal modo che
esso ha di concepire il ruolo della chiesa che non è quello di aggiogare a sé le menti della gente ma
di mediare il loro ancoraggio cristologico di cui essa è garante. Non è una eresia chiederci
seriamente se i temi che la nostra due giorni sta mettendo alla ribalta siano proprio i più graditi per
come si imposta oggi la pastorale, piuttosto arretrata rispetto alla riflessioni che la teologia sta
facendo.

Dramma della libertà

La libertà, abbiamo visto nella giornata precedente di studio, è nozione filosofica, teologica
e biblica e come tale si può imparare senza tanti contorsioni emotive per la nostra salute.
Solo quando quel concetto va a toccare la carne viva della nostra esperienza e interiorità,
solo allora si anima, ci fa percepire quello che esso sta a significare, solo allora produce e deve
produrre contorsioni emotive (non raramente anche di ordine fisiologico e ormonale). Calato
nell’esperienza, il concetto di vita cristiana come scelta rivela tutto il suo aspetto drammatico,
seducente ma anche ributtante, attraente eppure repellente (come testimonia il ben noto fenomeno
delle resistenze a crescere).
Bisogna provare per crederlo: essere troppo liberi, ecco ciò che l’essere umano teme di più.
Vivere nella libertà dei figli di Dio va spogliato dai toni romantici con cui in genere coloriamo
questo obiettivo; colori che attingiamo dalla nostra fantasia distruttiva che la libertà in Cristo è
quella che sa riempirsi solo dell’amore di Cristo in un unisono di affetti e progetti, dopo essere da
lui stati fulminati il giorno della nostra conversione che ha butta definitivamente alle spalle una
storia di non libertà. Ci immaginiamo che la vita cristiana come scelta sia il destino della piccola
crisalide che diventa farfalla. Da qui, in seconda battuta, un accanimento terapeutico alla ricerca dei
residui angoli non liberi, da debellare con l’arma del sacrificio e della rinuncia, quasi a dire: più
soffri per Cristo e più lo ami. Che spazio rimane, in questi percorsi da una parte narcisisti e
dall’altra mortificanti, per l’amore di Cristo verso il ladrone graziato che, seppur graziato, resta
sempre un ladrone? (Invito a riflettere sulla immagine interiore che ciascuno di voi si è fatto del
proprio essere libero in Cristo).

Libertà orizzontale e verticale

La vita cristiana come scelta è certamente un appello a vivere nella libertà anziché nella
schiavitù, ma questa libertà da noi già accettata e a noi già donata introduce una domanda
successiva: nella mia libertà già donata a Cristo, dove si possono insinuare non tanto –come ho
accennato prima- residui angoli non liberi (da combattere) ma ulteriori appelli di Dio ad una libertà
di dono ancora più vitale?
Supposto che noi siamo capaci di intendere e di volere (libertà essenziale cioè di
comprendere, riflettere e fare decisioni), supposto che abbiamo anche già fatto decisioni libere
(libertà effettiva), con l’accompagnamento si tratta di crescere in quella libertà effettiva, cioè di
allargare gli spazi della libertà effettiva e ciò in senso orizzontale ma anche verticale.
Allargare orizzontalmente la libertà che già usiamo (esercizio orizzontale della libertà)
significa aumentarne il numero e l’ampiezza delle scelte fatte, ma sempre dentro allo stesso
orizzonte: sono già affettuoso con i miei amici e adesso provo anche ad esserlo con i miei genitori
anziché continuare ad usarli come capro espiatorio dei miei umori; in refettorio mi siedo sempre
vicino al mio confratello simpatico, adesso provo a sedermi vicino a quello antipatico e ad
interessarmi di lui; so già destreggiarmi con gli adolescenti della chiesa, adesso provo ad incontrare
quelli che stanno a ciondolarsi nel bar di fronte alla chiesa).
Allargare verticalmente la libertà (o esercizio verticale della libertà) è fare un insieme di
giudizi e decisioni per mezzo dei quali si passa da un orizzonte ad un altro. In questo esercizio
verticale si realizza un’esperienza di trasformazione, qualcosa di più profondo e diverso. Il rapporto
con il nostro centro vitale subisce un mutamento qualitativamente migliore, una relazione più
intima. È questa l’opportunità che l’accompagnamento vuole suscitare. Allarga e non soffoca la
comprensione delle cose.
Esempio: un seminarista dal carattere un po’ cocciuto e indipendente riscontra di avere
difficoltà nel campo della castità quando si sente costretto ad adeguarsi alla volontà altrui:
defraudato della sua autonomia gestionale nella vita pratica perché obbligato ad obbedire, la
ricupera nella fantasia dai ricorrenti contenuti sessuali dove lui si immedesima nel ruolo del
conquistatore e regista. Per un educatore preparato (cioè con competenze, insieme, di psicologia e
–insisto- di antropologia teologica), non ci vuole molto per capire che per questo ragazzo la
masturbazione è un modo per affermare/ricuperare in fantasia l’autonomia perduta nella realtà.
Qui il problema è a prima vista di natura sessuale: una forza (richiamo del sesso) è in lotta
con un’altra (ideale di castità). E il consiglio sarà quello di liberarsi dalle schiavitù delle tentazioni
con contro-misure ascetiche, che prima o poi perderanno perché quel ragazzo – con il tempo-
imparerà a ricuperare la sua autonomia con manovre meno colpevolizzanti (ad esempio affinando le
sua capacità argomentativi) o più “spiritualmente” contrabbandabili, ad esempio con un rigorismo
morale nei confronti degli altri o con un devozionismo da madonnina infilzata. Si lavora cioè sulla
libertà orizzontale, nella logica: “se hai già fatto 30 fai 31 e sforzati di fare il bravo anche nel
sesso”.
Nel percorso di accompagnamento sarà invece facile che dentro a questo problema sessuale
(solo sintomatico) si giochi un dramma della libertà molto più pericoloso e imbarazzante dove gli
attori della vera lotta non sono il bisogno di sesso sentito dal ragazzo e l’esigenza di castità richiesta
da Dio, ma da una parte Dio che –forse per la prima volta- incomincia ad insinuarsi anche nello
spazio di autonomia di questo ragazzo, e dall’altra questo ragazzo che deve mettersi faccia a faccia
con Dio con il suo bisogno di autonomia e non solo con quello di sesso e scegliere se continuare in
una autonomia auto-gestita o se giocarla in un quadro di intimità qualitativamente più profonda con
Dio. Si lavora, cioè, sulla libertà verticale, sulla conversione degli orizzonti. La sfida di questa
scelta ulteriore potrebbe essere così formulata: vuoi agire in spirito di donazione solo in un contesto
di tua autonomia da tutelare/ricuperare oppure accetti di entrare nella logica del dono senza
frontiere? È qui che si gioca il dramma della libertà verticale: il dramma non è il cedimento alle
richieste del sesso ma quello di tacitare Dio nel momento in cui chiama ad una nuova intimità senza
frontiere (o almeno a spostarle più in là).

Paura della libertà verticale

La troppa libertà crea ansia come il non averne affatto. Una certa dose fa piacere, ma
l’eccesso turba. È un dato di esperienza constatare che noi tutti abbiamo paura delle nostre
possibilità più alte, abbiamo paura di diventare ciò che, in alcuni momenti privilegiati, intravediamo
e possiamo diventare. E questo al di là delle nostre più o meno grandi debolezze di carattere.
L’essere umano è troppo debole per grandi dose di grandezza. Parafrasando De Lubac, possiamo
dire che la vita umana è un paradosso. Quanto più si libera, si arricchisce, si interiorizza tanto più si
spaventa; il dramma della libertà, già sovrano nella vita umana, ha il suo regno di elezione nella vita
dello spirito; la vita mistica, poi, è il suo trionfo.
Il Dio dei cristiani crea certamente problemi allo psichismo umano, ma ne crea anche alla
fede cristiana perché il Dio di Gesù, a differenza delle nostre immaginazioni romantiche, è un Dio
che è stato troppo radicale con noi, troppo esagerato nel proporci obiettivi e mete, così esagerato e
crudele da mandare suo figlio in croce e poi farci chiedere da suo Figlio di imitarlo. Bastava meno.
Ci bastava che Gesù ci proponesse una convivenza da amanti, da conviventi, perché -si sa- un buon
amante si deteriora se diventa marito. Invece ci ha proposto l’esagerazione di stare davanti a Lui
come partner dell'alleanza. Anche per il credente rimane problema il modo di presentarsi del Dio di
Gesù, il modo con cui chiede di dialogare con Lui, le clausole del dialogo, le modalità di
apprendimento. L’assenso della fede è sempre conflittuale e a seconda di come attraversiamo il
conflitto, la fede muore o diventa scelta personale. Ma se muore, l’antico fedele non diventa ateo
ma fa la parodia dell’ateo. Così per la libertà di stare davanti a Dio: se non cresce anche
verticalmente ma rimaniamo nella libertà orizzontale seppur ampliata, non ritorniamo in schiavitù,
ma facciamo la parodia della libertà: galleggiamo in uno stato di semi-libertà, di una libertà
decentemente cristiana ma che se spinta ad un livello più in là si bloccherebbe. Ci basta essere
sufficientemente liberi in Cristo, proprio perché esserlo del tutto (cioè fino a farci schiavi di quella
libertà) è - appunto- da noi avvertita come schiavitù.
Si vede veramente Dio quando vedendolo non si cessa mai di desiderare di vederlo
(Gregorio di Nissa). “Rompi la tela a questo nostro dolce incontro” (S. Giovanni della Croce).
Queste frasi non sono musica per sognare ma squilli di battaglia: dicono che essere liberi in Cristo e
per Cristo è ingaggiare una lotta -come quella di Giacobbe- che è insieme abbraccio e scontro,
ricerca e ripulsa, supplica e minaccia.

Potrebbero piacerti anche