di Alberto Villa
Un’ampia sezione de “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber è dedicata all’analisi di
un complesso movimento religioso, a sua volta ramificato in diverse confessioni e sette, che ha
caratterizzato la storia teologica del Vecchio Continente a partire dal XVI secolo, in particolar modo nei
paesi del Nord Europa. Lo studio di tale fenomeno religioso, il protestantesimo ascetico, è centrale nella
ricerca di Weber: solo analizzando approfonditamente le sue caratteristiche si possono riconoscere quelle
affinità che permettono di comprendere come l’etica professionale protestante abbia posto le basi per
l’affermarsi, tra il XVI e il XVII secolo, di uno spirito capitalistico, proprio laddove il protestantesimo ascetico
aveva posto radici più profonde. Weber identifica un punto focale in grado di spiegare perché lo spirito
capitalistico si riconosca maggiormente in società che hanno basi puritane: il passaggio dall’ascesi monacale
extramondana del mondo cattolico all’ascesi professionale intramondana del mondo protestante, come
diretta conseguenza (per quanto riguarda il calvinismo) della dottrina della predestinazione.
Considerata, insieme a quella della giustificazione, come uno dei punti di maggior dissenso dogmatico fra le
varie comunità religiose, la dottrina della predestinazione degli eletti risulta anche essere un forte elemento
sovversivo e, dunque, la causa dei forti contrasti fra il potere temporale e il calvinismo. A questo proposito
Weber introduce l’esempio di Oldenbarnevelt, un esponente della classe nobiliare olandese seicentesca
impegnatosi in una lotta contro le forme calviniste più radicali. Troviamo qui una prima differenza tra
luteranesimo e puritanesimo: se il primo è diventato religione di Stato, il secondo emerge come un
elemento religiosamente ed eticamente sovversivo. È importante sottolineare, però, che la predestinazione
è solo una delle diverse possibilità della configurazione puritana da cui Weber fa derivare la genesi dello
spirito del capitalismo. Per delineare i principi fondanti della dottrina della predestinazione, il sociologo
tedesco fa riferimento ai principali articoli della Confessione di Westminster del 1647, uno dei grandi sinodi
che si è occupato di conferire dignità canonica a tale dottrina. La predestinazione si basa sulla convinzione
che Dio abbia deciso, da sempre e per sempre, il fato ultimo di ogni uomo. Ciascun individuo, dunque, è già
prima della sua nascita (almeno secondo il supralapsarianismo) destinato all’elezione nel Regno di Dio
oppure alla dannazione eterna. Dio, in quanto onnipotente e onnisciente creatore dell’Universo, deve
necessariamente essere libero, e così le sue decisioni. Ma affinché esse siano veramente libere, è essenziale
che non possano essere influenzate, per non dire cambiate, dalle azioni degli uomini. E non solo la
decisione di Dio non è soggetta alle opere umane, ma è anche del tutto insondabile dall’intelletto umano –
almeno per quanto riguarda la dottrina ortodossa di Calvino. L’individuo non ha dunque nessuna
responsabilità per quanto riguarda la salvezza della propria anima, una cosa inedita per il cristianesimo ante
riforma. Questo concetto si basa su un principio imprescindibile per il credente calvinista: l’incolmabile
abisso che separa l’uomo e Dio, tema che si inserisce nella lunga tradizione, ben più antica del
cristianesimo, del contrasto fra finito e infinito. L’illimitato potere di Dio pone le sue creature in totale
soggezione e dipendenza rispetto alla sua potenza: ogni uomo condivide con il creato intero l’obiettivo
finale del piano divino, ovvero l’accrescimento della gloria di Dio. L’assenza di responsabilità dell’individuo
priva completamente il singolo di ogni angoscia derivante dalla concezione cattolica del doversi guadagnare
la Civitas Dei. Ciò, nella dottrina di Calvino, garantisce uno stato psichico di lieta sicurezza e, inoltre, esclude
qualsiasi altro mezzo per la liberazione dell’angoscia, tra cui, come vedremo, la confessione e la penitenza.
Seppure il rapporto tra uomo e Dio fosse basato su un estremo contrasto, esso è anche l’unico che il fedele
calvinista potesse aspirare ad avere. Tutta la sua fiducia doveva riporsi in Dio e in Dio soltanto, generando
un profondo senso di isolamento di fronte a un Creatore del tutto trascendente e distante da ogni
comprensione umana. L’uomo è solo di fronte a Dio e non c’è nessuna mediazione:
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“Nessuno poteva aiutarlo [l’uomo]. Nessun predicatore: poiché solo l’eletto può comprendere spiritualiter la
parola di Dio. Nessun sacramento: poiché […] i sacramenti […] non costituiscono affatto un mezzo per
ottenere la grazia di Dio, sono solo «externa subsidia» della fede, soggettivamente. Nessuna Chiesa: poiché
vale sì la massima «extra ecclesiam nulla salus» […]; ma alla Chiesa (esterna) appartengono anche i reprobi
[…]. Infine, anche, nessun Dio: poiché anche Cristo è morto solo per gli eletti”. Queste parole di Weber
chiariscono la natura dell’interiorità del rapporto col divino. Il calvinismo si rifà all’eliminazione luterana dei
sacramenti, ma aggiunge un peculiare aspetto fondamentale: la dottrina della redenzione limitata, già
teorizzata da Gotescalco. Secondo il calvinismo, infatti, Dio non si è fatto uomo per tutto il genere umano,
bensì esclusivamente per gli eletti. La redenzione limitata assegna un significato diverso alla venuta di
Cristo: attraverso la passione e la morte di Gesù, Dio si fa carico del peccato originale dei soli eletti,
accogliendoli dunque nella Civitas Dei. Solo in questo modo sarebbe potuto accadere: nessuno se non Dio
avrebbe potuto farsi carico di un tale fardello, ma nessuno se non un uomo avrebbe potuto pagare per le
colpe umane. Il calvinismo trae queste conclusioni a partire da alcuni brani delle Scritture, e in particolare
dall’Antico Testamento. Un esempio è costituito da un passo tratto da Isaia: “Il mio servo renderà giusti
molti, perché si caricherà delle loro iniquità" (Is 53,11). L’utilizzo della parola “molti” è il punto centrale
dell’interpretazione calvinistica della limitatezza dell’azione di Cristo, al contrario della concezione cattolica
e luterana di una redenzione universale.
Si tratta di una differenza sostanziale rispetto al cattolicesimo e al luteranesimo, una differenza che
sottolinea la precisione del piano divino, così come inteso dal calvinismo. Ma le divergenze sono molteplici:
come abbiamo visto, Weber sottolinea anche l’impossibilità dei sacramenti nel determinare lo stato di
grazia dell’uomo. Il “Nessun sacramento” si inserisce pienamente nel procedimento di disincantamento del
mondo (Entzauberung) di cui il calvinismo è promotore. Dal mondo, e così dalla religione, viene rimossa la
magia: la confessione non può, secondo Lutero, costituire un mezzo per eliminare il peccato e rendere
l’uomo degno della salvezza divina. Calvino adotta l’eliminazione dei sacramenti, abbandonando la
confessione e la penitenza. Esse sono, infatti, inconciliabili con la dottrina calvinista, poiché permettono al
fedele di scaricare la tensione in cui era destinato, per volere divino, a vivere; una tensione, la sua, che
deriva dall’impossibilità sia di influire il proprio stato di grazia, sia di definirlo (almeno secondo la dottrina
ortodossa). Ma se il monaco tedesco riteneva che l’unico mezzo per ottenere la grazia di Dio fosse la sola
fide, per Calvino non ha senso nemmeno porsi il problema di come riuscire a conquistarsi l’elezione.
Dopotutto, questo è solamente uno dei punti di discrepanza fra la dottrina luterana e quella calvinista.
Spesso, però, più che divergenze si tratta di sviluppi ulteriori, da parte di Calvino, di spunti di Lutero. È il
caso del tema dell’amore verso il prossimo: in Lutero si ha già una derivazione del lavoro professionale da
questa tematica fondamentale dell’insegnamento cristiano; Calvino, dal canto suo, raccoglie e analizza il
suggerimento di Lutero alla luce dell’imprescindibile dipendenza dell’uomo nei confronti del suo Creatore,
associandola al senso di isolamento precedentemente illustrato. L’unico modo per amare il prossimo
consisterebbe nel lavoro professionale al servizio della gloria di Dio, in quanto servizio reso alla
configurazione razionale del cosmo; il beneficio del genere umano si coniugherebbe così all’accrescimento
della gloriam Dei, unico fine non peccaminoso per le opere del calvinista. Si tratta di un punto
particolarmente importante, che introduce un aspetto centrale per la ricerca di Weber: l’inscindibilità fra
lavoro professionale e fede indiscussa.
Come molto spesso accade, non tutti i precetti ortodossi sono rimasti invariati nel tempo. Gli epigoni di
Calvino infatti, contrariamente alle disposizioni del teologo, non hanno potuto non chiedersi se non ci fosse
un modo per accertare il proprio stato di grazia. La certitudo salutis non poteva più limitarsi ad essere
testimoniata dal criterio indicato da Calvino del sentimento di una fede tenace: la grazia divina e dunque
l’elezione doveva presentarsi in segni tangibili. Qui il lavoro professionale assume un ruolo importante:
esso viene proposto come la migliore via da intraprendere per raggiungere la sicurezza della propria
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elezione respingendo ogni dubbio come “assalto del diavolo”. Ma perché il lavoro professionale mondano
detiene tale capacità? Weber risponde a questa domanda ponendo a confronto, ancora una volta, i
differenti modi di concepire la relazione fra uomo e Dio. L’unio mystica luterana, caratterizzata dal
sentimento interiore di Dio e da una passività nei confronti di tale compenetrazione viene totalmente
ribaltata da Calvino. Questo avviene in virtù del principio “finitum non est capax infiniti”, che esclude per
l’uomo (finito) la possibilità che Dio (infinito) possa entrare in lui come se la sua anima fosse un
contenitore. L’uomo è piuttosto uno strumento del piano divino, e dunque, come strumento, è
completamente volto all’attività: il lavoro professionale assume quindi la propria sfumatura ascetica
facendosi latore di una fides efficax presente esclusivamente nell’eletto da Dio.
L’opera muta qui la sua funzione: se per il cattolico era il mezzo attraverso cui conquistarsi la beatitudine,
per il calvinista è il segno di una fede che può rivelarsi solo in chi fosse stato predestinato al Regno di Dio.
Weber, a questo punto, introduce una rilevante riflessione sul diverso grado di metodicità delle opere
buone del fedele calvinista rispetto al cattolico medievale. “Nel Medioevo il laico cattolico normale viveva,
dal punto di vista etico, […] «alla giornata»”. Il “sistema” etico del cristiano cattolico medio era,
paradossalmente, proprio l’assenza di sistematicità: ogni azione si inseriva nel contesto della redenzione di
un certo peccato, costituendo un gioco di vizio e penitenza che non assurgeva ad un sistema razionale di
condotta etica. Questa, ovviamente, non era la posizione della Chiesa, a cui tuttavia non si può negare una
certa responsabilità: “anch’essa” scrive Weber “esigeva che egli [il fedele] aspirasse all’ideale di una vita
condotta secondo fermi principi. Ma proprio questa esigenza essa indeboliva (per la media) con uno dei suoi
strumenti di potere e di educazione più importanti: con il sacramento della penitenza”.
L’ideale pratico della vita puritana, d’altra parte, è molto più vicino a quello del monaco piuttosto che a
quello del laico. La vita monastica cattolica era del tutto sistematica e congiungeva, secondo la regola
benedettina, lavoro e contemplazione: il monaco ricercava un’esistenza terrena che si avvicinasse il più
possibile alla beatitudine, erigendo, di fatto, un metodo assente all’esterno del monastero. L’intero testo di
Weber si fonda sulla ricerca di affinità interne; quella fra il monaco cattolico e il professionista puritano è
un’affinità che poi si traduce in un’esperienza antitetica. Se il monastero nel mondo cattolico rappresentava
una fortezza della santità in Terra, ci fu un evento che ne distrusse le mura: la Riforma. Lutero, seppur sulla
base di esperienze personali e non puramente guidato da intenzioni sistematiche, abolì gli ordini monacali e
Calvino sottoscrisse la sua decisione. L’esito puritano, però, non fu l’abbandono dei principi e delle strutture
etiche del monaco, bensì la loro diffusione universale: il metodismo di una santificazione eretta a sistema
viene così a coincidere per il monaco e per il fedele puritano, veicolato da una continuità che passa
attraverso il lavoro. L’ascesi abbandona così la sua caratteristica extramondana per divenire intramondana,
in cui l’incontro con Dio può avvenire solo con il riconoscimento del suo operare attraverso il fedele e,
dunque, esclusivamente nel lavoro professionale.
Il potersi sentire uno strumento della gloria divina non può sussistere se non si manifesta un rapporto con
Dio così particolare. Dalle caratteristiche che il Signore assume nel calvinismo, per quanto abbiamo
osservato, si può riconoscere un corposo influsso di stampo decisamente più veterotestamentario rispetto
al cattolicesimo. Il Dio calvinista non solo si pone su un livello altro e nettamente superiore rispetto
all’essere umano, ma oltretutto non permette alcun tipo di mediazione, aspetto che i cattolici rilevano nella
venuta di Cristo. Anche in questa nuova condotta di vita segnata dall’ascesi intramondana, infatti, si
riscontra una pari dignità fra Antico e Nuovo Testamento. Dalle scritture dei patriarchi il puritanesimo trae il
rigoroso rispetto della Legge, nonché il razionalismo della religiosità individuale. Tale aspetto razionale si
palesa, come sottolinea Weber, nel continuo controllo da parte del puritano del proprio stato di grazia. Lo
scopo, che segna la differenza sostanziale con il diario religioso del cattolico, è auto-dirigere il proprio
animo, senza contare sull’aiuto (per altro inutile dal punto di vista individualistico del calvinista) di un terzo
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che funga da tramite fra il fedele e l’estremo giudice. E, ovviamente, tale metodicità si riversava nell’ambito
professionale, così strettamente legato (come abbiamo detto) a quello ascetico. La professionalità diventa
quindi la dimensione in cui ricercare i segni della salvezza di Dio, che corrispondono, infine, nientemeno che
al successo lavorativo.
Si capisce, in questo senso, da dove Weber fa derivare quel rigore metodico (in quanto intimamente
religioso) che si riscontra anche nel capitalismo moderno. Un esempio è sicuramente costituito dalle parole
di Benjamin Franklin, il quale in Advice to a young tradesman (1748) sottolinea l’importanza di attuare una
contabilità etica: controllare e annotare persino il più piccolo comportamento che possa influenzare il
proprio credito. Ebbene arriviamo al punto: quale differenza c’è fra la contabilità etica di Franklin e la
metodica ricerca di segni della salvezza puritana? L’assenza di Dio, o meglio la sua sostituzione con il
denaro. Se prima il fedele era uno strumento di Dio per l’accrescimento della sua gloria, nel capitalismo
l’uomo è uno strumento del denaro per il suo plus-potenziamento, che permette poi la continuità del ciclo
D-M-DI. La dimensione capitalistica si pone quindi come il risultato di una progressiva scomparsa del tratto
religioso dell’ascesi intramondana, che lascia tracce inconfondibili. Non si tratta dunque di uno sviluppo, o
di una trasformazione. Il termine che credo renda meglio questo processo sia l’inglese development, in
quanto sottintende una dimensione originaria (quella religiosa e in particolare puritana) a cui si possa
ricondurre la forma originaria del fenomeno seguente (ossia lo spirito del capitalismo).
L’esperienza calvinista, che passa dalla dottrina della predestinazione, è, come avevamo anticipato, solo
una delle possibili strade: Weber continua la sua analisi con la descrizione delle diverse confessioni
ascetiche che appaiono, in realtà, come “indebolimenti della coerenza interna del calvinismo”. Il tratto
fondamentale rimane però la particolarità del rapporto abissale fra uomo e Dio. Ciò che non ha permesso al
luteranesimo di ingenerare il seme dello spirito capitalistico, infatti, è la mancanza dell’impulso metodico
che deriva, nei movimenti ascetici, dall’impossibilità per l’uomo di influenzare i decreti divini, mancanza che
si rivela nella possibilità, per il luterano, di riconquistare, attraverso la confessione e la penitenza, la grazia
eventualmente perduta.