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Mons Doti.

PIETRO VENERONI

MANUALE
DI L I T U R G I A
N ona Edizione
riveduta e corretta da Mons. Malocchi
Vie. Gen. di Pavia
Volume Primo

Nozioni Generali
Forma e parti della Liturgia

"EDITRICE ÀNCORA»
Sede di Pavia
Proprietà letteraria riservata ai termini di legge*

Scuola Tipografica Istituto Pav. Artigianelli >Pavia -1940-XVHI


PARTE I

Nozioni Generali sulla Liturgia


CAPO I.
Concetto e divisione
della Liturgia
1. Etimologia.
La parola liturgia, Ιειοτυργϊχ deriva dalle voci gre­
che htrov o ìwvov ed epycv. Presso i classici scrit­
tori si usa a significare una funzione, un officio o
ministero pubblico, esercitato nell’interesse del
popolo (1). Nella S. Scrittura questa parola assume
un significato più ristretto, il servizio divino. Così
presso i Settanta indica il ministero di Leviti e dei
Sacerdoti che esercitavano il divin culto (2), a cui
partecipava il popolo (3) ed anche l’atto più solen­
ne del culto sacro : il sacrificio (4). Nel Nuovo Te­
stamento essa significa tanto l’antico ministero
levitico (5) quanto la missione di Gesù Cristo ri­
guardo al popolo gentile (6) e le funzioni del suo
sacerdozio eterno presso il Padre (7), a beneficio
dei credenti (8).
(1) Alcuni, come Bergier, Dichlich, vorrebbero far derivare
l i parola liturgia da λίτυς εργον opera di preghiera; ma que­
sta etimologia non è generalmente adottata. Maugère: « Notions
généralcs sur la liturgie » Chap. I.
(2) Exod XXVIII, 39, XXIX, 30; Deut. X VII, 12; Joel I. 9 ;
Shron. XXIII, 28; II, Chron. V , 13; X I, 14; XXXV, 3-10.
(3) Chron. XXV, 3.
(4) Exod. XXVIII, 30; Chron. II. XXXV, 16; Joel I, 9.
(5) Hebr. IX, 21.
( 6 ) Rom . XV, 6 .

.
21
(7) Hebr. V i li, 2; Act. Apost. XHI, 2; Hebr. VIH , 6 ; IX,

(8 ) Hebr. V, 1 ; V II, 25.


8 Capo l

Il centro del culto pubblico cattolico è la SS. Eu­


carestia e precisamente il santo sacrificio della
Messa, la sinossi, a cui tutto è ordinato e da cui
tutto dipende. Così nei primordi della Chiesa i Sa­
cramenti o si amministravano nella Messa od ave­
vano con essa stretta relazione; la salmodia prece­
deva il Sacrificio. Ed anche oggidì alcuni Sacra­
menti si amministrano solennemente nella Messa
o si consacra l’olio che è materia di tre sacra­
menti; nelle chiese conventuali la Messa ha rela­
zione col divino Ufficio. Perciò la parola liturgia
venne adoperata a dinotare il santo Sacrificio della
Messa, ed il rito con cui si offriva (1), quantunque
si usi anche spesso per significare le funzioni del
ministero sacerdotale (2) : così nel Sinodo di Ancira
e nelle opere di S. Giovanni Crisostomo (3). I pa­
dri greci poi aggiungono la parola mystica o sacra
ogni volta che volevano indicare la S. Messa. Così
Teodoreto : aCur novi testamenti Sacerdotes mysti­
cam liturgiam peragunt,... y> (4); ed Eusebio di Ce­
sarea : «divinis coeremoniis et mystica liturgia, san-
ctorumque precationum societate perfrui...y> (5)»
2. Cosa significa attualmente.
Ora però questa parola non si usa più indifferen-
(1) Const. Apost. V i li. 6 ; Goar Euchol. Graec. p. 9; Διδαχή
τών δώδκηεα Δπστόλων c. 15; Clem. Rom . I Cor. XLIV. 3.
(2) Cfr. Dr. Valentin Thalhofer. « Manuale di Liturgia Cat­

-.
tolica ». Ediz. 2. Friburgo. 1894. § 1.
(3) Syn. Anc. a. 314; Jo. Chrys. Hom. 29 in Ep. ad Rom*·
12
(4) Ad Hebr. V ili.
(5) In Vit. Costantini, IV·
Concetto e divisione della Liturgia 9

temente a dinotare un officio pubblico, sacro o pro­


fano, ma è esclusivamente adoperata per le cose
sacre; nè va più ristretto al Sacrificio eucaristico,
ma comprende tutti gli atti di culto stabilito in una
società per onorare Dio, o in altri termini, l’insie­
me dei mezzi con cui una società onora Dio (1).
3. Definizione.
Gesù Cristo è il sommo ed eterno Sacerdote, il
quale incentra in sè tutto il culto.
Per Lui, in Lui e con Lui solo si rende al Padre
ogni onore e gloria (2). Tale culto in ispirito e ve­
rità egli lo esercitò durante la sua vita mortale e lo
esercita ancora in cielo interpellando per noi, cioè :
« humanitatem pro nobis assumptam et mysteria in
ea celebrata, conspectui paterno repraesentando »
(2). Ma egli ha creato una società religiosa, una sa­
cra gerarchia, incaricata di continuare sulla terra
l’esercizio pubblico del culto alla divinità; questa
società è la Chiesa cattolica, apostolica, romana.
Perciò la liturgia si può definire : cc II complesso
degli atti che si esercitano nella Chiesa di Dio in
terra, da persone gerarchiche, come organi ordinati
e rappresentanti visibili di Cristo, sommo Sacerdote
celeste, a bene dei fedeli e nella più intima unione
con essi, come culto religioso della divina maestà,
secondo norme determinate dalla Chiesa stessa». —
(1) Mangère 0 . c. — Bonix, Tractatus de Iure Liturgico,
eap. I, e H , — Renandot: Liturg. Orient. collect;o. Paris,
1716, t. I. p. 169.
(2) S. Thom . Commera, in Epist. ad Hebr. V i li, 34,
10 Capo I

O più breve « La liturgia è il culto divino del Capo


mediatore della Chiesa, visibilmente rappresentato
dai suoi ministri, a bene dei membri del suo misti­
co corpo, ed in unione con essi, secondo norme de­
terminate » (1).
Dalla quale definizione consegue : — 1. che il ve­
ro culto con cui si onora Dio non può essere che
nella vera Chiesa di Gesù Cristo, 2. che i prote­
stanti, i quali si separarono dalla Chiesa, non por­
tando seco che brandelli di verità e di azioni di
culto, non hanno liturgia, in senso vero e proprio
della parola, mentre negano la gerarchia sacerdo­
tale ed il sacrificio, particolarmente nel suo valore
espiatorio : e quantunque s’accordino coll’Harnack
nel definirla : teoria degli atti obbligatori fissati nel
servizio divino (2), non convengono poi tra loro·
nel determinare quali siano questi atti (3), appun­
to perchè manca la divina autorità.
4. La liturgia è vera scienza ed eccellente.
La liturgia è vera scienza. Essa ha una parte di­
vina, ossia si svolge intorno a quello che Dio ha
rivelato e stabilito per culto, o immediatamente o
mediante la Chiesa cattolica, la quale si sviluppò,
(1) Thalhofer Op. cit. loc. Ho preferito questa definizione a
quelle che si danno comunemente, come quella del Muratori
(Liturg .Roman. Vetus Dissert. prev. c. I) del Bouix, ( Tractatus
de jure liturg. cap. Ili) del Maugère (o. c.), perchè essa ab­
braccia la vera essenza del culto sacro, mentre le altre defini­
zioni sono piuttosto enumerative delle parti o degli atti di culto.
( 2) Harnack, Praktìsche Theologie II., p. 104.
(3) Thalhofer O. c. 1. c.
Concetto e divisione della Liturgia 11

attraverso i secoli, circondando il culto di quella


maestà che conviene a Dio e agli uomini che lo ono­
rano.. Ha poi anche una parte umana, per così
dire, cioè introdotta dagli usi e consuetudini: e
questa, diversa secondo i tempi ed i luoghi, è giu­
dicata e regolata dalla Chiesa.
Quindi Voggetto della liturgia è presentato dalla
Chiesa; e risulta dalle disposizioni divine, divino-
apostoliche, ecclesiastiche e dalle consuetudini par­
ticolari, approvate dalla Chiesa stessa. La liturgia
come scienza, studia le parole, le azioni, i simboli
del culto, li spiega come canali che comunicano la
vita soprannaturale; in ogni atto del culto essa rav­
visa una manifestazione di un complesso sopranna­
turale, di un organismo vitale mosso dallo spirito
di Dio che vive nella Chiesa. Breve: la liturgia
studia il principio e l’organismo del culto divino
nella Chiesa cattolica; quindi, quantunque non sia
una disciplina teologica propriamente detta, è pe­
rò un ramo importante della scienza sacra, della
teologia pastorale (1). E’ la scienza, diremo col Pa­
troni, che partendo da principii certi, ordina gli
atti del culto divino, e quindi è subalterna della
teologia dogmatica, da cui desume l’oggetto, che è
Dio, ed i principii, che sono sempre verità teologi­
che (2).
Quanto poi una tale scienza sia eccellente non si
potrebbe esprimere meglio che colle parole dell’A-

(1) Thalhofer. I. c.
(2) Patroni « Lezione di Sacra Liturgia ». Voi. I. lez, I.
12 Capo I

zevedo : ccDicam tamen, non minus vere quam au­


dacter, quod sentio; dicam sacrorum Rituum disci­
plinam illas omnes (sacrorum librorum interpreta­
tionem, sacros Canones, scholasticam theologiam,
dogmaticam atque moralem) longe multumque an­
tecellere. Illae enim posterioribus saeculis exortae
sunt, haec vel ab ipsis Ecclesiae incunabulis initium
duxit; illae longe remotius Deum spectant, haec ad
ipsum Dei cultum refertur; illae ad bonos mores
tantummodo communiunt, haec solidos pietatis
fructus affert; illae denique in sola rerum divina­
rum cognitione plerumque conquiescunt, haec ita
cum rebus divinis implicita est et cohaeret, ut ab
iisdem sejungi non possit. Quid si maxima huic fa­
cultati dignitas accedit ex eo quod primus illius auc­
tor et magister fuerit Deus ipse?... y> (1).

5. Rito - Cerimonia.
La liturgia adunque è la scienza del culto sacro,
quella che studia i principii ed i mezzi con cui si
svolge il divin culto, il rito, le cerimonie.
La parola Rito, vale altrettanto che regola. Non
convengono però i liturgisti nel precisare il senso
di questa parola. Quindi essa: a) si prende in un
senso ampio, e vale lo stesso che liturgia, cosi si
(1) D© Azevedo: Introd. cl Traci, de Sacr. Missae di Benedet
XIV. Si è citato per intero questo passo non già per sostenere
che la liturgia sia superiore bile altre scienze teologiche, che lo
abbiamo già detto, essa è un ramo della pastorale ed entrambe
sono subalterne della teologia dogmatica, ma per far sentire
meglio l ’importanza di questa scienza, sopratutto per il Sacer­
dote.
Concetto e divisione della Liturgia n

dice : rito romano^ rito ambrosiano ecc. : b) si ado­


pera per indicare il modo, la regola prescritta dal­
l’autorità, con cui si deve compiere una funzione
e le relative cerimonie; così si dice: rito della Be­
nedizione col SS. Sacramento, rito del Battesimo
ecc. ; c) si usa ancora a dinotare le parti accidentali
0 meglio gli atti che la eseguiscono.
La parola cerimonia da alcuni si fa derivare aa
Caere, città d’Italia in cui i Romani trasportarono
1 loro dei, quando Roma fu presa dai Galli, chia­
mata perciò da Tito Livio « sacrarium populi ro­
mani » (1); altri la derivano da Caereris munia,
funzioni ad onore di Cerere; altri da carimonia,
astinenza, come praticavano i giudei di astenersi da
alcuni cibi e bevande; altri da cerus, parola antica
latina, che vuol dire sacro, consacrato, santo (2).
Quest’ultima pare la più probabile ed allora ce­
rimonia varrebbe altrettanto che azione sacra,
E difatti nel senso comune cerimonia è un atto che
si eseguisce nel culto, che concorre al suo splendo­
re ed all’esterna espressione dei sensi interni. Tali
sono le genuflessioni, gli inchini, i segni di cro­
ce, ecc.
Le cerimonie quindi del culto non si devono con­
siderare come azioni sopraggiunte al culto stesso e
ad esso quasi estranee; ma piuttosto come parti,
sebbene secondarie e remote, di quel vivo organi­
smo che si esercita nella Chiesa di Dio, la cui vita,

(1) Tit. Liv. Historiar lib . V. cap. I.


(2) Cfr. Thom. Sum Theol. 1. 2. q. XCIX. 3.
14 Capo I

essendo la stessa vita di Gesù Cristo, tutto penetra


nobilita e divinizza e per esse si manifesta.
6. Divisione della liturgia.
La liturgia, come scienza, è generale e partico­
lare. La prima studia la natura, l’origine, il valore,
il simbolismo del culto, ne esamina le parti inte­
granti e ne addita le fonti. La seconda studia gli
atti con cui si esercita il culto nelle sue parti come
la Messa, l’Ufficio, i Sacramenti. Questa poi è la
teoretica, se si svolge a ricercare l’origine, le anti­
chità, le vicende dei riti, li confronta ed espone il
senso delle cerimonie; ed è pratica, quando studia
la vigente disciplina della Chiesa, riceve le norme
dalle legittime fonti e, per via di giuste conseguen­
ze, le applica alla pratica nelle sacre funzioni. Lo
studio completo della scienza liturgica deve abbrac­
ciare e la parte teoretica e la parte pratica.

7. Importanza di questo studio per il Clero.


Dal fin qui detto appare l’importanza, la neces­
sità anzi, di questo studio pel Clero. Se infatti Id­
dio nell’antico Testamento esigeva nei ministri del
Santuario la scienza delle cose sante e specialmente
del modo di trattarle, e voleva allontanati dal sacro
culto coloro che una tale scienza non possedevano;
quanto più si esige tale scienza nella nuova Legge,
in cui tutto è puro, santo e divino nel culto! Senza
una tale scienza il Sacerdote non potrà mai parte­
cipare alla divina efficacia che estendono anche sul
Concetto e divisione della Liturgia 15

Ministro le cose sante che egli comunica agli altri.


E’ vero che la scienza non basta, occorre anche la
pietà; ma questa non sarà mai vera ed illuminata
sen*,a la cognizione delle cose sante, nella loro na­
tura, e nel modo con cui ad esse si può partecipa­
te. Questa cognizione renderà grave, spedito ed e-
dificante tutto ciò che il sacro Ministro esercita nel
divin culto e così disporrà meglio le anime a rice­
vere il frutto, al quale sono ordinate le cose sante
della religione.
CAPO II.

Origine della Liturgia

8. Culto naturale e liturgia ebraica.


La natura stessa insegnò all’uomo i primi atti di
culto verso il suo Creatore, e lo indusse pure ad
esprimere con atti esterni gli interni sentimenti
cioè l’umiliazione, il pentimento, l’adorazione, il
ringraziamento. Tra questi atti esterni il principale
fu il sacrificio, accompagnato da religiose cerimo­
nie (1), con cui l’uomo protestavasi servo di Dio,
principio della creazione e del governo del mondo.
Formata la scocietà, la medesima legge naturale
creò il culto esterno sociale; perchè l’uomo si uni­
sce a Dio anche con una santa società : ccut sancta
societate inhaereamus Deo » (2); e Dio non tardò
ad istituirlo positivamente in seno al popolo d’I­
sraele, eleggendo la tribù di Levi ad esercitarlo.
Poiché « de dictamine legis naturalis est quod ho­
mo aliqua faciat ad reverentiam divinam; sed quod
haec determinata faciat vel illa, istud non est de
dictamine rationis naturalis, sed de institutione ju­
ris divini vel hunurni » (3).

(1) Thalhofer §. Π. in cui espone assai profondamente i prin.


cipii naturali dei culto. — « Nullam religionem, neque veram
neque falsam, sine caeremoniis constare posse ». S. August. c.
Faustum 1. 19. e. 11.
(2) S. Augustinus. De Civitate Dei X. c. 6 .
(3) S. Thomae, Summa Theol. 1. q. 81. a. 2. ad 3.
Origine della Liturgia 17

Tutto è. da Dio stesso stabilito nella Liturgia e-


troica. Il tabernacolo e l’arca dell’alleanza, la
mensa dei piani della proposizione, il candelabro e
tutte le cose appartenenti al culto sono formate
secondo il modello dato da Dio (1). Nello stesso
modo Dio aveva prescritto l’altare degli olocausti
(2), quello dei timiami delle ostie pacifiche e per
il peccato (3), il rito dei sacrifici e la qualità delle
vittime da offrirsi, il rito della consacrazione sacer­
dotale (4), le vesti di Aronne e dei Sacerdoti (5),
la gerarchia levitica (6), i precetti cerimoniali (7),
le feste, le solennità ed il rito con cui si dovevano
celebrare (8).
Gli altri popoli, perduto il deposito della divina
rivelazione, spinti dalla natura, prestarono culto
alle false divinità, ebbero pure la loro liturgia: e-
ressero templi, costituirono sacerdoti, immolarono
vittime, ordinarono feste. La loro liturgia però, co­
me la fede, non era altro che un riflesso degli aber-
ramenti e delle passioni umane, per cui volsero alle
cose create quegli atti di culto che si devono sola­
mente al Creatore.
Il culto naturale poi scaturiva dalla pura natura

(1) Exo.a. XXV. XXVI.


(2) id. XXVII.
(3) id. X XX : Lev. I VI.
(4) id. XXIX.
(5) id. XXVIII.
( 6) id. et Levit, passim.
(7) Levit. XIX.
( 8) id. XVII. Sulla liturgia del sacrificio nell’ epoca patriar­
cale vedi. Kossing. « Spiegazione liturgica della S. Messa » Re -
gensburg. 1860, 48-03.
18 Capo II

dell’uomo. Ma siccome l’uomo è stato elevato al­


l’ordine soprannaturale, a figlio di Dio, così deve
prestargli servizio, non solamente nel timore, ma
anche nella santità e giustizia. Perciò il lume natu­
rale doveva essere sollevato, dal lume della fede,
principio della vita soprannaturale e divina. Tale
culto soprannaturale, rivelato, trovasi nel popolo
ebreo. Ma la natura di questo culto, l’indole del po­
polo, il fine a cui doveva servire esigevano quella
moltitudine di precetti cerimoniali che noi vedia­
mo dati da Dio al popolo ebreo. Il culto ebraico era
figurativo, non solo della futura verità eterna che
si manifesterà nella patria, ma anche di Cristo che
è la via che ad essa conduce (1). Questo antitipo
infinito non poteva venir figurato da un solo tipo,
bisognava adunque moltiplicare le figure. Quel po­
polo era inclinato all’idolatria fu quindi necessario
tenerlo a freno « col fardello di innumerevoli os­
servanze, che erano invero un giogo gravissimo, ma
ben adatto ad un popolo di dura cervice » (2); ed
i buoni stessi, che si trovavano fra gli ebrei, erano,
per le molte cerimonie, invitati a sollevarsi più
spesso a Dio, e ricevevano più copiosi benefici dal
mistero di Cristo che contemplavano in figura (3).
Il fine della liturgia ebraica era di mantenere l’uni­
tà nazionale del popolo, conservare il culto al vero
Dio, impedire l’idolatria fattasi universale negli al­
tri popoli, quindi un solo tabernacolo, un sacerdo-
( 1) S. Thom. S. th. 1. 2. q. CI. ia. 2.
( 2) S. Agost. Sena. LXX, n. 3.
(3) S. Thom. 1. c. a. 3.
Orìgine della Liturgia 19

zio ereditario, un solo tempio e l’osservanza delle


numerose cerimonie comandate come legge : cccu-
stadi ergo praecepta et caeremonias » (1).
9. Gesù Cristo istitutore della liturgia cat­
tolica.
Gesù Cristo venuto per compiere le antiche figu­
re, insegnare agli uomini l’adorazione del Padre in
ispirito e verità e raccogliere in una sola famiglia
tutti i popoli, doveva abrogare l’antico culto ebrai­
co, che non aveva più ragione di essere (2), stabi·*
lime uno nuovo, insegnare una nuova liturgia (3).
Egli però non fece che creare il nuovo sacrificio eu­
caristico ed i Sacramenti; poi li affidò alla Chiesa,
comunicandole il potere legislativo con cui essa, col
volgere dei tempi secondo le circostanze, dovea
creare quelle preci, quelle azioni, quelle cerimonie
del culto che erano ordinate al rispetto, allo splen­
dore delle cose sacre, e all’istruzione del popolo (4).
10. Istituzione degli Apostoli e della Chiesa.
Quantunque G. C. non abbia istituito che l’es­
senza del Sacrificio, la materia e la forma dei Sa-
(1) 5- Tommaso tratta diffusamente del carattere allegorico,
morale, anagogico, dei precetti cerimoniali delTantica Legge.
0 . cit. art. 3, 4, 5, 6 .
( 2) S. Thom. 1. 2. q. CHI. a. 1.
(3) Cfr. S. Agost·, c. Faustum, lib. XIX. c. 11, ove· dimostra
la convenienza che nella religione cristiana sianvi atti esterni
.di culto divino da ciò che questi si trovano in tutte le religioni.
— Cfr. pure Amberger « Teologia Pastorale », V oi. 2, c. I. art.
2. § 1.
(4) Lapini, Istit. Liturg. P. I. Lez, 2.
20 Capo II

cramenti, tuttavia durante la sua vita, esercitando


la sua potestà sacerdotale, aveva fatto uso di segni,
di parole e di atti esterni. Verbalmente aveva pre­
gato il Padre, s’era prostrato a terra, aveva alzato
gli occhi al cielo (1), aveva fatto uso di una formu­
la per cacciare gli spiriti maligni (2) e per compie­
re i miracoli (3). E per comunicare la vita sopran­
naturale della-grazia alle anime aveva adoperato
l’imposizione delle mani (4), il tocco colla saliva
(6); comunicando lo Spirito Santo agli Apostoli
soffiò su di essi e disse: a Accipite Spiritum San­
ctum » etc. Anzi S. Clemente Rom. dice che G. C.
diede speciali disposizioni circa il modo di esercita­
re il divin culto:
« In divinae cognitionis profunda introspicientes
cuncta ordine debemus facere quae nos Dóminus
jussit peragere... neque temere et inordinate fieri
praecepit, sed praefinitis temporibus et horis, ubi
etiam et a quibus celebrari vult, ipse excelsissima
sua voluntate, definivit ut pure et sancte omnia
foeta in beneplacito aecepta essent voluntati ejus ».
(XL). Secondo S. Giustino, G. C. risuscitato fece
agli Apostoli nel cenacolo speciali rivelazioni (6),
al che pare alluda S. Giovanni quando dice che
G. C., dopo aver sanato l’ineredulità di San Torn­

i i) Matth. XIV, 19; XXVI. 39.


(2) Marc. IV. 8 ; V ili, 24; Lue. IX. 12.
(3) Matth. IX. 6 ; XVII. 15; Marc. III. 3.
(4) Lue. XIII. 13.
(5) Marc. V II. 32.
( 6) S. Justini, Apologia 1. 67.
Origine della Liturgia 21

maso nel cenacolo, compì molte altre cose (1) e ri­


velò molte cose del suo regno (2). S. Epifanio af­
ferma che gli Apostoli furono gli ordinatori dei di­
vini misteri (3). Altrettanto afferma S. Innocenzo I.
nella lettera a Decenzio (a. 416). S. Celestino I.
(422-432), Vigilio (538); S. Gregorio VII agli Spa-
gnuoli. Onde il Renaudot dichiara : Nessun cristia­
no può dubitare che gli Apostoli abbiano ricevuto
dal Signore le istruzioni e la forma con cui celebra­
re i divini Misteri, sebbene ciò non sia chiaramen­
te notato nei Vangeli (4). Ora questo esempio, que­
ste istruzioni, insieme al comando di far quanto
egli aveva fatto (5), fu raccolto dagli Apostoli, i
quali nell’offrire il Sacrificio nella preghiera e nel­
l’amministrazione dei Sacramenti, imitando il divi­
no Maestro, adoperarono parole, atti e cerimonie
esterne, cc Quelle forme liturgiche che si erano già
adoperate nella Chiesa fondata nella prima Pente­
coste in Gerusalemme, avanti la dispersione degli
Apostoli, nella celebrazione comune dei divini Mi­
steri, costituirono il nucleo, dal quale si svolsero lo
varie forme della liturgia cattolica, la liturgia origi­
naria. Alcune di queste forme noi le troviamo negli
Atti degli Apostoli e nelle loro lettere, ed altre fu­
rono dalla tradizione ritenute come apostoliche,-

( 1) Jo. XX, 30.


(2) Act. Apost. I, 3.
(3) S. Epiphanii, ad Haereses. 79 n. 3.
(4) Renaudot., Liturg. Orientalium collectio t. I. c. ΙΠ .,
pag. 17; Magani, L’antica liturgia romana. V oi. I., pag. 18-19.
(5) Lue. XXI, 19.
22 Capo Η

mentre sono generali e non si può in alcun tempo


trovarne l’autore od il principio (1) ».
Ora dalla S. Scrittura appare che gli Apostoli
istituirono le seguenti parti riguardanti il Sacrificio
Eucaristico: la lettura della S. Scrittura e delle let­
tere apostoliche (2), la preghiera impetratoria ed:
eucaristica (3) col canto dei salmi (4); il bacio di
pace e l’offerta del pane e del vino, perchè venis­
sero consacrati (5), come pure altri doni che essi
potevano offrire liberamente (6) per* l’agape comu­
ne e pel mantenimento dei poveri (7); ringrazia­
menti e benedizioni (8) intorno alla consacrazione
del pane e del vino (9), l’espressione della memo­
ria della morte di Gesù nella frazione del pane, le
preci alla comunione col pane consacrato e col ca­
lice (10), per formare più intima unione di Cristo
capo coi membri (11). Tali erano ancora le parti
principali del Sacrificio quando S. Giustino Martire
scriveva la sua prima Apologia (12) ed al tempo di
Tertulliano e di S. Cipriano. Pel Battesimo non è
dubbio che gli Apostoli adoperassero la materia e

( 1) Thalhofer. Op. cit. § 21. n. 3.


(2) Act. Apost. II. 42; I. Tim. IL I. segg.
(3) Act. Apost. II. 42; XX. 71. I. Cor. XI, 23, C0I0 &9. IV .
66. I. Tim . IV. 13.
(4) Act. Apost. Π. 46. Ephes. V· 19 e seg.
(5) I Cor. X. 16; XI. 23 seg.
(6) I Cor. XVI. 2.
(7) Act. A p / II. 46. I. Cor. XI. 20 seg.
(8) I. Cor. XI. 23-25.
(9) Act. Ap. II. 42. 46; XX. 7.
(10) 1. Cor. XI. 26.
(11) Id. X . 16-17.
(12) Anno 138 o· 139. Apologia I. Cap. 65-67.
Orìgine della Liturgia 23

la forma chiaramente istituite da G. C. ; essi am­


ministrarono la Cresima coll’imposizione delle ma­
ni (1), la preghiera e l’unzione coll’olio accompa·»
gnava l’Estrema Unzione (2) e troviamo anche il
rito essenziale dell’Ordinazione dei ministri sa­
cri » (3).
Altre parti finalmente della liturgia furono in di­
versi tempi e circostanze ordinate dai Sommi Pon­
tefici o dai Concilii per tutta la Chiesa od anche dai
Vescovi per le loro particolari Diocesi, approvante
0 consenziente il Sommo Pontefice. Quindi la litur­
gia cattolica è di origine divina ed ecclesiastica.

11. Ragioni per cui la Chiesa introdus


queste parti nel divin culto.
Ma perchè la Chiesa introdusse nella liturgia
tante parti accidentali, tante cerimonie? A questa
domanda rispondono i protestanti e qualche poco
avveduto cattolico : fu il bisogno in che si trovano
1 Ministri, una causa fisica ci diede tutte queste ce­
rimonie, e quindi, cessata la causa, dovrebbero ces­
sare anche le cerimonie che non hanno più ragione
di essere. Così per esempio, se si domanda al De-
Vert perchè la Chiesa fece uso dei lumi nella cele­
brazione dei santi Misteri; per illuminare, rispon­

di Act. Ap. V i li. 14-17; XIX 6. Cfr. I Cor. 21-25. Eph.


I. 13.
(2) Jacob. V . 14-15.
(3) Act. A p. VI. 6: X III. 3; X IV . 22; I. Tim. IV , 14; II.
Tim . I. 6. — Thalbafer. 0 . c. §. 21, n. 3. nota; Amberger. 1.
«. i 2.
24 Capo II

de, le tenebre della notte, durante la quale si com­


pivano. Così l’incenso si adoperò solo per purifi­
care l’aria; il Vescovo porta il pastorale perchè gli
antichi, vecchi di solito, ne avevano bisogno per
sostenersi. Al Venerdì Santo, Sacerdoti e fedeli si
prostrano a terra davanti alla croce, non già per
adorare con profonda umiltà la preziosa morte del
divin Redentore, ma per imitarlo morto, e con
questo metodo egli spiega tutte le cerimonie della
chiesa.
Contro siffatta interpretazione protesta tutta
quanta l’antichità, la storia, il fatto stesso : Difatti
è certo che :
1. Alcune parti della liturgia ebbero origine sen­
za dubbio dalla convenienza, dalla comodità; eb­
bero cioè nna causa puramente fisica. Così si usa la
palla a coprire il calice perchè nulla ci cada den­
tro, il suono delle campane per chiamare i fede­
li ecc.
2. Altre ebbero origine dalla convenienza e dal
mistero insieme, cioè ebbero simultaneamente una
causa fisica ed una mistica. Così il cingolo serve a
tener raccolto il Camice intorno alla persona, e si­
gnifica la virtù della continenza che deve avere il
ministro dell’altare.
3. Altre ebbero, in origine una causa fisica, ma
cessata affatto questa, ne ricevettero una simbolica
e restarono solo come simboli, così il manipolo,
l’amitto ecc.
4. Altre si introdussero per rendere più splendi­
do il culto : tali sono le vesti sacre, gli ornamenti
Origine della Liturgia 25

degli altari e delle chiese, i suoni, i canti, il numero


dei ministri, ecc.
5. Infine alcune parti hanno sino dalla loro ori­
gine io scopo di esprimere in forma sensibile qual­
che verità della fede, ossia hanno una causa misti-
ai ed anagogica. Così l’altare rappresenta G. C.,
la forma di croce del sacro tempio l’intima unione
dei fedeli col sacrificio della croce, l’incenso sim­
boleggia la preghiera e la divinità di G. C. Così di­
casi di molte altre parti liturgiche che entrano nel­
l’amministrazione dei Sacramenti, nella celebra­
zione della Messa, nelle benedizioni e consacrazioni
delle cose, nelle quali la Chiesa prega che i fedeli
« salubriter intelligant quid mystice designet in fac­
to » (1).
Laonde il Concilio Tridentino : « Cum natura ho*
minum ea sit, ut non facile queat sine adminiculis
exterioribus ad rerum divinarum meditationem su­
stolli, propterea pia mater Ecclesia ritus quosdam,
ut scilicet quaedam submissa voce, Sia vero elatio­
ri in Missa pronuntiarentur instituit. Caeremonias
item adhibuit ut mysticas benedictiones, lumina,
thymiamata aliaque id genus multa ex apostolica
disciplina et traditione, quo et majestas tanti Sacri­
ficii religionis et pietatis signa ad rerum altissima­
rum, quae in hoc Sacrificio latent contemplationem
excitarentur » (2).

(1) Dom. in Palmis Oratio in jBened. Palm. — Lebrun. $pie-


gaz. letter. storica
e mistica della Messa. Prefazione.
(2) Sess. XXII. De sacr. Missae. Cap. V.
26 Capo Η

Ed il pontefice Sisto V. nella bolla ccImmensa


Dei: Sacri Ritu et caeremoniae, quibus Ecclesia a
Sp. S. edocta ex Apostolica traditione et disciplina
utitur in Sacramentorum administratione, divinis
officiis omnique Dei Sanctorum veneratione, ma­
gnam christiani populi eruditionem veraeque fidei
protestationem continent, rerum sacrarum majestay
tem, commendant, fidelium mentes ad rerum altis­
simarum mediationem sustollunt, et devotionis e-
tiam igne inflammant... ».
CAPO III.

La l i t u r g i a
nei primi secoli cr is tian i.
R i f o r m a del s e c o l o q u a r t o
12. Importanza di questo studio. - Fonti.
Lo studio del carattere, dello sviluppo storico
della liturgia nei primi secoli cristiani è. di una
grandissima importanza, perchè è di qui che si può
conoscere l’indole della liturgia cattolica, la sua in­
tima relazione col dogma e colla morale, e ancora
perchè è di qui che si svilupparono, come rami da
un albero, tutte le forme liturgiche che troviamo in
uso più tardi nella Chiesa.
Per tale studio però non possiamo attingere a
fonti dirette, perchè la Sacra Scrittura e particolar­
mente gli Atti e le Lettere apostoliche, i Padri e
gli scrittori ecclesiastici di questo tempo non ci
danno il codice liturgico completo, quale era allora
in uso, ma parlano della liturgia solo per incidente,
altro essendo lo scopo dei loro scritti. Da questi pe­
rò possiamo conoscere tanto che basti per avere un
concetto della liturgia cattolica in questi primi se­
coli.
13. Carattere generale della liturgia nei pr
mi tre secoli.
Dalla sua origine fino al secolo quarto, sino cioè
28 Capo III

al periodo dei grandi elaboratori, la liturgia catto­


lica ci presenta un triplice carattere generale.
1. Dalla sua origine essa, quanto al suo atto più
importante che è il Sacrificio, viene innestata, per
così dire sul rito giudaico. G. C. fece la Pasqua coi
suoi discepoli secondo il rito giudaico e dopo di
esso istituì l’Eucaristia; con ciò sciolse l’antico rito
e cessarono i sacrifici e i precetti cerimoniali che ri­
guardavano Cristo venturo.
2. Gli Apostoli separarono a poco a poco, per
quanto si potè, l’antico dal nuovo rito, e disposero
il servizio religioso cristiano secondo il bisogno del
loro tempo e dei primi fedeli. Così fino alle istitu­
zioni fatte dagli Apostoli, la legge cerirmmiale an­
tica si poteva osservare, in quanto prescriveva il
modo di onorare Dio. E siccome queste condizioni
rimasero sempre le stesse fino alla metà del secolo
quarto, così formarono il carattere delle preghiere
liturgiche fino a questo tempo. La Chiesa composta
di cristiani venuti dal paganesimo e dal giudaismo,
soffriva fiere persecuzioni, e la liturgia riflette que­
sto suo stato (1).
3. Prima della metà del secolo quarto cessarono
le persecuzioni e la liturgia assunse un nuovo ca­
rattere. La famiglia era santificata, il Cristianesi­
mo era dominante: la Chiesa non aveva più a te­
mere l’influenza dei popoli che si aggregava, ma

(1) De Smedt, Uorganisation des Eglises chrètiennes au III


siede, Rev. des quest, hist. 100 livr. Octóber. 1891, p. 401; Ma­
garli. 0 . c., pag. 29.
La Liturgia nei primi secoli cristiani 29

ad essi comunicava la religiosa sua vita allora fatta


pubblica : quindi anche il culto venne a conformar,
si ai bisogni dei nuovi tempi.
Più innanzi vedremo anche particolarmente in
che consiste questa riforma; qui diamo solo uno
sguardo alla liturgia del tempo degli Apostoli sino
al secolo quarto e vedremo come essa, specialmen­
te riguardo al S. Sacrificio, quanto alla sostanza,
fu sempre uguale, e si può dire che le liturgie cat­
toliche che da quel tempo provennero, sono': « su­
peraedificatae super fundamentum. Apostolorum et
Prophetarum, ipso summo angulari lapide Christo
Jesu » (1), ossia sono come tante parti di un unico
edificio, tanti rami che sorsero da unico tronco.
14. Liturgia Apostolica.
Circa lo stato della liturgia nei suoi primordi os­
sia nella prima organizzazione che ebbe per mezzo
degli Apostoli, i dotti, fino a questi ultimi anni, si
dividevano in due sentenze. Gli uni opinavano che
ciascun Apostolo fondando una Chiesa, vi avesse
anche lasciato un ordine liturgico, al tutto partico­
lare, senza relazione colle altre chiese, e così nei
vari centri della fede cristiana sorgessero varie spe­
cie di liturgie; gli altri sostenevano l’unicità della
liturgia organizzata dagli Apostoli di comune ac­
cordo, sotto la dilezione e l’autorità del loro capo
S. Pietro, quindi detta apostolica, petrina, o eie-

(1) Eph. II. 20 Vedi Probst. « Liturgia del quarto secolo e


sua Riforma ». Introduzione.
30 Capo 111

mentina. Quest’ultima sentenza è però ormai riu­


scita vittoriosa; e mentre da una parte torna di
splendore all’autorità della Chiesa, dall’altra è so­
stenuta da sì ferme ragioni e da sì grande autorità
che non lasciano più intorno ad essa il minimo
dubbio. Noi avremo agio a ravvisarne le prove cri­
tiche nello studio che faremo delle liturgie parti­
colari (1).
Fedeli al divin comando: fate questo in memoria
di me ed alle istruzioni ricevute, gli Apostoli ripe­
terono la frazione del pane, ossia il S. Sacrificio
eucaristico nelle case (2); il’tempo ed il luogo della
celebrazione indica già un allontanamento dal rito
giudaico nella solennità pasquale. Alle parole con
cui G. C. aveva istituita la SSma. Eucaristia vi ag­
giunsero tosto altre preghiere, come voleva il ca­
rattere dei convertiti alla fede cristiana. I Giudei
dovevano adorare, lodare, ringraziare Dio pel com­
pimento delle Profezie e delle loro speranze in Ge­
sù Cristo, ed i Gentili convertiti dovevano pure in-

(1) Il grande capitano che sostenne vittoriosamente questa


sentenza può dirsi che sia stato il Dott. Ferdinando Pfobst Pre­
lato, Canonico e professore dell’ università di Breslavia, il quale
scrisse due celebri opere: la prima porta il titolo: «.Liturgia dei
primi tre secoli cristiani » ; la seconda tratta della « Liturgia del
quarto secolo e sua riforma ». Nessun, per quanto io sappia,
ha approfondito come Probst questo studio importante, epperò
in questo capo, come anche nella parte seconda di questo lib ro,
ben volentieri lo seguo. Il suo metodo differenziasi da quello
tanto in voga oggidì. Egli preferisce studiare i Padri, e dalle
loro espressioni illuminare i codici liturgici che oggi ci restano;
mentre oggidì si dà molto peso, forse troppo, agli argomenti
critici interni.
(2) Act. II. 46.
La Liturgia nei primi secoli cristiani 31

vitare le creature e ringraziare Dio, che li aveva


tolti alle ombre della morte e chiamati all’ammira-
bile sua luce. Perciò doveva servire il grande Hai
lei od Alleluja (1) che dev’essere stato probabil­
mente, recitato da Cristo con gli Apostoli, nell’ul­
tima cena, e risulta dai salmi 112 fino al 117 inclu­
sive. Anche dopo la Comunione vi dovevano essere
preghiere che esprimevano l’unione dei fedeli con
G, C. Le lettere di S. Paolo, i Padri della Chiesa
da S. Clemente e S. Giustino fin a S. Giovanni Cri­
sostomo ce ne fanno fede, e le troviamo nelle Co­
stituzioni Apostoliche. Quindi la liturgia apostoli­
ca ci si presenta già non come un conglomerato di
preghiere e di azioni, ma come parti di un organi­
smo incipiente che si svilupperà colVandare del
tempo, sotto Vazione della divina autorità della
Chiesa.
Gli apostoli dunque ordinarono essi stessi la Mes­
sa (2), la quale incominciava senza dubbio colla
lezione della S. Scrittura, ad esempio de’ Giu­
dei (3) : l’Apostolo ricorda tale costume a Timoteo e
ai primi cristiani (4). Permettendolo il Vescovo, si
facevano dagli ispirati rivelazioni e profezie (5) e

(1) Salmo 113 nella Volgata.


(2) Kliefoth, « Die urpriingliche Gottesdienstordnung » V oi.
I. pag. 194.
(3) Act. Apost. X III, 15: X V . 21.
(4) I Tim , IV. 13, Quindi si leggevano anche le lettere che
gli Apostoli mandavano alle prime comunità dei fedeli e se le
scambiavano a vicenda. Cfr. I Thessal. V . 27. Coloss. IV. 16;
e Card. Bona, Rerum liturg. JJb. II, c. 6. η. 1.
(5) I Cor. XIV. 23-29.
32 Capo III

in seguito si teneva il sermone (1) e Vagape (2).


Qui cominciava la preghiera comune, cioè fatta da
tutti e per tutti, anche col canto di Salmi e di Inni
(3); si passava alla preghiera propriamente detta
per tutti gli uomini, pei re e per le potestà, per la
conversione degli infedeli, per gli amici ed i nemi­
ci (4), pei Superiori ecclesiastici vivi e morti (5).
Seguiva il bacio di pace (6) e si faceva dai fedeli
l’offerta dei doni (7). E’ assai verosimile che prima
della consacrazione del pane e del vino, gli Apostoli
abbiano recitato una preghiera di ringraziamento
e di lode a Dio pel beneficio della creazione e della
Redenzione, in nome di Gesù Cristo e forse anche
il Trisagio (8). Ce lo attestano le liturgie e i Padri
più antichi e ne abbiano una traccia negli scritti

(1) I Cor. XIV. 26, Act. Apost. XX. 7. ib. XIII. 15.
(2) Omettiamo qui tutto quello che si riferisce all'agape, che
prima faceva parte del rito con cui si celebravano i sacri misteri
e tosto, al tempo stesso degli Apostoli, venne separata e tenuta
nelle case. Essa era già cessata al principio del secondo secolo,
od almeno separata nella Messa, come ne fa fede 3· Ignazio nella
lettera agli smirnesi (c. 8). Tertulliano ne parla pure e la fa ve­
dere unita alla « Dottrina dei dodici apostoli » esposta e com ­
mentata dal eh. Prof. D . R odolfo Malocchi (Modena, 1886, n.
1902) e dal Minasi (Roma 1891; e Probst. « La liturgia dei pri­
mi secoli » , p. 23.
(3) Coloss. III. 6; Eph. V . 16; Jac. V . 13.
(4) I Tim . II. 12.
(5) Hebr. ΧΠΙ. 7.
(6) II Thess. V . 26; Rom . XVI. 26; II Cor. ΧΠΙ. 12.
(7) Rom . XV. 16; II. Cor. IX. 13.
(8) Sull’ origine del Trisagio vedi « Civ. Catt. », ruad. 329.
pag. 166.
La Liturgia nei primi secoli cristiani 3S

degli Apostoli (1). Secondo l’apostolo (2) vi era


una eucaristia nel divino servizio, a cui i fedeli ri­
spondevano insieme Amen (3), ma ad essa non
potevano assistere gli infedeli, quindi si passava
alla consacrazione (4). Questa era seguita da una
preghiera, con cui si ricordava la morte e la resur­
rezione di G. C. (5). ( Unde et memores), ed una
offerta (Offerimus praeclarae majestati tuae)r che
nella parte sostanziale si trovano in tutte le litur­
gie; si pregava che il Corpo e il Sangue del Signore
non tornassero in giudizio, ma in benedizione e
per la vita eterna, e fors’anche dai fedeli si faceva
VExomologesi o confessione (6). V’era la invoca­
zione dello Spirito Santo affinchè manifestasse G.
C., si ricordava la Chiesa, e piu tardi vi aggiunsero
i nomi dei Santi (Comunicantes, etc.) probabil­
mente si recitò anche l 'Orazione Domenicale e in­
fine il Celebrante comunicava se stesso e distribui­
va le Sacre Specie ai fedeli concludendo i Sacri Mi­
steri con preghiere di ringraziamento.
Come ognun vede, qui abbiamo un vero germe,
un vero organismo di liturgia che proviene dagli
Apostoli; e però essa non è un prodotto della co-

(1) Act. Apost. IL 46-47. Eph. V . 18-20 Coloss. ΙΠ. 7. —


Circa il contenuto di questa preghiera cfr. Probst. op. cit.»
p. 30 e seg. Da essa venne il prefazio, il canone della Messa
e il nome di eucarestia al pane consacrato.
(2) I Cor. X IV . 16.
(3) Rom. X V. 6.
(4) I Cor. XI. 23-25; Kb. 6; X. 1. Hebr. ΧΠΙ.
(5) I Cor. XI. 26 Act. Apost. II. 26.
(6) Probst. I. c.
34 Capo IU

munita dei fedeli (1), nè fu uno sformo vano quel­


lo dei cattolici di dare alla liturgia un’origine apo­
stolica, servendosi della tradizione (2).
15. I Padri Apostolici e gli scrittori dei s
coli secondo e terzo.
Nelle lettere di S. Clemente Romano e nelle Co­
stituzioni Apostoliche (3), come pure nella Dottri­
na degli Apostoli, troviamo, quantunque più svi­
luppata, la medesima liturgia quale ci si presenta
nelle lettere degli Apostoli (4). S. Ignazio d’Antio­
chia, nelle lettere a quei di Smirne, di Efeso, di
Magnesia e di Filadelfia, ricorda parte dei Misteri
che si celebravano dai cristiani, pienamente con­
cordanti colla liturgia Apostolica (5). Tanto appare
ancora dalla lettera a Diognete.
Ognun sa con quanto riserbo i Padri e gli scrit-

(1) Tanto afferma il protestante Baehr: « Begriindung einer


Gattestienstordmung fiir die evang. Kirche », 1856 d. 6.
(2) Così Harnack: a Teologia Pratica », p. 256.
(3) S. Clemente Romano fu Papa dal 92 al 101, fu successore
di S. Lino e di S. Cleto, vide gli Apostoli e secondo alcuni,
sarebbe stato l ’autore delle Costituzioni apostoliche. Ma la cri·
tica ha ormai messo in certo che queste vennero compilate nel
eecolo IV. Da ciò non segue però scrive il Probst, che la litur­
gia che vi è contenuta (lib. V ili) sia stata stesa in questo
secolo; perchè chi mise insieme l’ intera opera poteva inserire
senza dubbio, tra gli altri documenti, anche uno scritto origi­
nale di S. Clemente, e precisamente la sua liturgia. Cfr. « Civ,.
Catt. » quad. 922.
(4) Cfr. Probst. 1. c. pag. 40-62, e : « Liturgia del quattro-
cento », p. 30 seg. e p. 341 ; Minasi « La dottrina degli Aposto­
li », Roma, 1891.
(5/ Probst. « Liturgia dei tre primi secoli », p. 63-64.
La Liturgia nei primi secoli cristiani 35

tori ecclesiastici dei primi secoli parlassero e scri­


vessero sui Misteri cristiani. Il precetto di Cristo di
non dare le cose sante ai cani, le persecuzioni, che
infierivano, avevano creato la disciplina dell*arcat­
ila. Ma anche nel secondo e terzo secolo abbiamo
testimonianze così esplicite, che fanno da una par­
te concludere ad un ulteriore sviluppo della litur­
gia, dall’altra ad uno stretto rannodamento alle
istituzioni apostoliche. S. Giustino, nella prima A-
pologia indirizzata all’imperatore Tito Antonino
Pio, in tre capitoli (1) descrisse le adunanze reli­
giose dei cristiani e la loro fede nella SS. Eucaristia.
Dalle testimonianze dell’apologià appare che si leg­
gevano: <c Commentaria Apostolorum aut scripta
prophetarum », vi era il sermone, a cui assistevano
anche i catecumeni la preghiera comune e pei pe­
nitenti, la preghiera pei fedeli, l’amplesso della pa­
ce, l’offerta del pane e del vino, l’anafora, il po­
polo che rispondeva Amen la Comunione. Sulla
Comunione dice il Santo: cc distributio fit'et com­
municatio unicuique praesentium et absentibus per
Diaconos mittitur » (c. 67).
Ora tutto ciò, scrive il De Rossi, conviene esat­
tamente colla liturgia universale di tutte le chiese
di oriente e d’occidente, la quale uniformità so­
stanziale in tanta varietà di regioni, di lingue e po-

(1) S. Justini Pro Christ. Apolog. I. et II. Nella prima apo-


logia, chiamata maggiore, espone due volte i Misteri cristiani,
cioè al c. 65 e al 67, ma nel primo espone il rito della Messa
solenne dopo il battesimo, nell’altro la Messa della domenica.
36 Capo HI

poli, ed in età tanto vicina all’apostolica deve ne­


cessariamente provenire da una istituzione primor­
diale e dagli Apostoli (1). Atenagora, sventando la
accusa che i pagani facevano ai cristiani di ateismo,
accenna al S. Sacrificio, come prova della loro fe­
de (2). S. Ireneo, scrivendo pure contro gli ereti­
ci, fa molti accenni alla liturgia che ci appare già
assai sviluppata (3).
Questo sviluppo va sempre crescendo nel terzo
secolo. Clemente Alessandrino distingue la Messa
dei Catecumeni da quella dei fedeli ed in questa
descrive le preghiere che si fanno, il bacio della
pace, l’offerta, l’anafora, il trisagio, la comunione,
il ringraziamento. Dalle opere di Origene si può
esporre tutto il processo liturgico, quale ci appare
ancora dalle opere di Tertulliano e di S. Cipriano.
16. Scrittori e Padri del secolo quarto.
Cessate le persecuzioni, e quindi la disciplina
dell’arcano, il quarto secolo della Chiesa si apre
con una serie dei più grandi padri e scrittori sacri
che espongono ed illustrano la liturgia. Eusebio di
Cesarea (m. circa il 338) ci fa conoscere la liturgia
greca; S. Cirillo (m. 386) quella gerosolimitana;
S. Atanasio (m. 373) l’alessandrina; S. Basilio
(m. 379), i due Gregori di Nazianzo (m. 390) e di
(1) De Rossi Bollettino d’Archeol. cristiana a. 1886, p. 22.
(2) Athenag. Legatio pro christianis. Apologia indirizzata agli
imperatori M. Aurelio Antonio e L. Aurelio Commodo.
(3) S. Iraenei Adv. haer. I. IV. c. 33, n. 8 ; c. 17, n. 6; 18,
n. 1-6; 1. Π, c. 28, n. 3. c. 30 ed altrove.
La Liturgia nei primi secoli cristiani 37

Nissa (m. 373?) quella di Capadocia e di Grecia;


S. Giovanni Crisostomo l’antiochena e la costanti­
nopolitana. - Nell’occidente abbiamo Ambrogio
(m. 397), S. Agostino (m. 430) e S. Efrem.
Dal confronto però degli scritti di questi Padri
risulta che « la liturgia dei primi quattro secoli in
tutti i paesi ed in tutte le chiese particolari, alme­
no nelle cose sostanziali, era una, apostolica, cat­
tolica, e conservò fedelmente quella delle Costitu­
zioni Apostoliche, fondamento di tutte le liturgie,
non solo nelle linee principali, ma spesso perfino
nell’ordine letterale » (1).
17. Riforma liturgica - cause - carattere
principali elaboratori della liturgia.
Il secolo quarto segna anche l’epoca della rifor­
ma liturgica. E’ facile conoscere le cause che la de­
terminarono. Lo spirito cristiano era penetrato nel­
la società, aveva vinto ed abbattuto il paganesimo
e dominava nell’impero romano (2). Molti però
entravano nella Chiesa, quasi trascinati dalla cor­
rente, non ben convinti delle fede, che professa­

ci) Si sono qui appena accennati i nomi dei Padri e scrii*


tori dei primi tre secoli, come pure del quarto, perchè tome·*
rebbe impossibile esporre l'opera e il contenuto liturgico se*
condo le opere di questi Padri d’ altra parte di alcuni avremo
occasione di parlare nella seconda parte di questo libro. Chi
volesse però approfondire questo punto sì bello ed importante
potrebbe servirsi delle opere più volte citate dal Probst. — Π
Lebrun « Explic. Missae », Dissert. I. Art. V . espone l’ ordine
generale della liturgia fino al secolo IV . Inoltre potrebbe leg­
gere l’ opera di Mons. Magani più volte citata.
(2) Moehler « Kirchengeschichte ». V oi. I.
38 Capo III

vano solo esteriormente; per costoro l’antica litur­


gia era troppo lunga e reclamavasi un abbrevia­
mento. Gli ariani sostenuti dagli imperatori, per­
seguitavano i cattolici; i Vescovi cacciati, disperse
le chiese, i fedeli impediti di assistere ai divini Mi­
steri. La prova durò un mezzo secolo ed anche i
fedeli dovevano domandare una riforma. Questi
eretici pretendevano trovare nella liturgia cattolica
un appoggio alla loro dottrina, mentre si pregava
il Padre per mezzo del Figlio e dello Spirito San­
to (1), interpolavano le preghiere stesse, di qui il
divieto dei Concilii di introdurre nuove preghiere, e
la creazione di una più chiara espressione del dog­
ma nelle parole della liturgia (2). Cambiate le cir­
costanze in cui si trovava la Chiesa bisognava an­
che formare quello che riguardava i Catecumeni,
i penitenti; poiché da una parte il Battesimo degli
adulti si faceva più raro, e più sovente occorreva
quello dei bambini, dall’altra la penitenza pubbli­
ca e sopratutto l’accusa pubblica, che talora s’in­
giungeva dal confessore come penitenza per certi
gravissimi peccati, allontanava molti dai Sacramen-
(1) Π Card. Mai pubblicò un palinsesto, che ba per autore
un ariano, in cui si cerca di mostrare che nelle preghiere dei
cattolici si contiene la dottrina .di Ario. Vedi Probst. Liturgia
del quattrocento, pag. 355.
(2) Così S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo abbreviarono
e riformarono la liturgia greca contrapponendola all’eresia. —
Il Concilio d’ Ippoma (393) ordinò che nessuno dovesse adope­
rare forme nuove di preghiera (can. 21), quello di Cartagine
(a. 407) prescrive che non si adoperassero che le preghiere esa­
minate dal Sinodo. In seguito a questo Canone, osserva S. A go­
stino che vennero migliorate molte preghiere, (De bapt. Donat.
1. 6, c. 25, n. 47).
La Liturgia nei primi secoli cristiani 39

ti e dalla chiesa. In fine ciò che esercitò la più gran­


de influenza sulla riforma fu la creazione e lo svi­
luppo dell’α /mo ecclesiastico. Cessate le persecu­
zioni si celebrarono pubblicamente e si accrebbe il
numero delle Feste, stabilita la Pasqua, la settima­
na e l’anno vennero divisi in ferie, la vita di Gesù
Cristo venne a poco a poco distribuita come in un
ciclo, nell’anno sacro, i Santi che fioriscono nella
Chiesa ebbero le loro Feste: tutto ciò richiedeva
una nuova sistemazione nella liturgia.
E tale riforma si fece. Il Catecumenato e per con­
seguenza la Messa dei catecumeni andò scomparen­
do prima nell’oriente, più tardi nell’occidente. La
penitenza pubblica prima riservata al giudizio dei
Vescovi, poi vietata (1); s’introdussero nuove Fe­
ste (2); e alla metà del secolo quarto s’era già siste­
mato l’anno ecclesiastico. Così i secoli quarto e
quinto, in cui si definirono i Misteri della SS. Tri­
nità e della Cristologia, furono ancora quelli che
videro un nuovo sviluppo nel culto, che è sempre
espressione del dogma. I nomi dei Santi più illustri
entrano nel Canone, ma questo, nella sostanza ri-
(1) Socrate o. c. I. 5, c. 19; Sozom. I. 17. c. 16. — Nell’ oc­
cidente la penitenza pubblica scomparve assai più tardi ne ab­
biamo ancora nn avanzo t ei Pontificale Romano. Vedi V oi. IV.
Parte I. Cap. VI.
(2) I padri ammirano questa disposizione ecclesiastica, net
esaltano i frutti « Come il Signore, dice S. Paolino di Nola, ha
popolato di stelle il cielo, smaltato di fiori i campi, diviso l’ an­
no nelle stagioni, così ha ancora ornato l ’anno di feste, affinchè
i deboli non vengano sopraffatti dai loro lavori giornalieri »
Carm. 27, v. 108. Così esprime ancora S. Leone I· Serm. 86 in
jejun. mensis 3. n. 2; S. Giov. Grisost. Cont. Judaeos hom. 3.
n. 4. e S. Atanansio. Epistol. heortasticae. Ep. I· η. 1.
40 Capo IH

mane invariato; le preghiere che lo precedono e lo


eeguono esprimono non più il dolore, ma la gioia
della Chiesa per le vittorie di G. C. e dei suoi Santi
nel mondo.
Solo la chiesa greca non accettò interamente l’an­
no ecclesiastico e da questo punto soltanto la litur­
gia che fu sempre una, cominciò a dividersi in o-
rientale ed occidentale. Questa divisione non è so­
stanziale; è però il presagio del grande scisma, che
avvenne più tardi nella fede.
Lavorarono in questa riforma, oltre i Concili,
S. Basilio e S. Giovanni Grisostomo nell’oriente ed
il Papa S. Damaso nell’occidente.
1S. Come era tramandata in questi secoli
la liturgia.
Ma come si tramandava la liturgia in questi pri­
mi secoli? Gesù Cristo non lasciò alcun scritto; ne­
gli Apostoli non abbiamo un ordine liturgico, ma
solo pochi cenni, molte cose stabilirono a viva vo­
ce (1). Ma nei primi secoli è stata scrìtta la liturgia
o venne trasmessa a viva voce? Il P. Lehrun rispon­
de e dimostra che prima del secolo IV non fu scrit­
ta la liturgia. Le prove ch’egli adduce sono le se­
guenti: — a) Il silenzio di tutta Vantichità; non
può recare la testimonianza di un solo autore de­
gno di fede che provi esservi stato in quei tempi
un ordine liturgico scritto. — b) La testimonianza
esplicita di Tertulliano che parlando del rito del

(1) I Cor. XIV.


La Liturgia nei primi secoli cristiani 41

battesimo e della Messa dice : cchórum et (diarum


hujusmodi disciplinarum, si legent expostulas scrip­
turarum, nullam invenies; traditio tibi praetende­
tur auctrix, consuetudo confirmatrix, fidesque ob­
servatrix » (1): di S. Cipriano, il quale invoca pu­
re la tradizione per l’infusione dell’acqua nel vino
nella Messa (2): di S. Giustino che afferma che:
cc Praeses ipse quum maxime potest orat et gratia­
rum actionem prosequitur (3): di S. Basilio che
dice nessuno dei Santi aver scritte le parole della
consacrazione ma insieme a molte altre parti litur­
giche « Patres nostri silentio quieto minimeque cu­
rioso servarunt », e ne dà la ragione: a Pulchre
quidem illi nimirum docti arcanorum venerationem
silentio conservari. Num quae nec intuere fas est
non initias, qui conveniebat horum doctrinam pu­
blicitus circumferri scripto? Haec est ratio cur que-
dam citra scriptum tradita sunt, ne dogmatum co­
gnitio, propter assuetudinem vulgo veniret in con­
temptum » (4). Ed infine la testimonianza di S. In­
nocenzo I, il quale, scrivendo a Decenzio Vescovo
di Gubbio, dice che vi sono cose che non può met­
tere in iscritto cc quae aperire non debeo » (5). —1

(1) T em ili, de cor. mil., n. 3-4.


(2) S. Cypr. Epist. ad Caecil. 65.
(3) Justin Apoi. 1, cap. 67. — Si noli peraltro che un’ altra
versione molto più fedele .dice: « et qui praest preces et gratia-
rum actiones totis viribus emittit ». Lo stesso Bingham osservò
che, se fosse vero ciò, « omne preces publicas cessare necesse
esset, et omnis religiosus cultus in preces privatas populi abi­
ret ».
(4) S. Basii, de Spir. Sanet., cap. 27.
(5) Innoc. Epist. Ad Decent, ove aggiunge: « reliqua quae
42 Capo III

c) Il fatto che i Sacerdoti e i Vescovi dovevano sa­


pere a memoria il rito dei Sacrificio e dei Sacra­
menti (1).
Ma ognun vede che se le prove riferite possono
valere per escludere un codice ufficiale autentico,
scritto per l’uso pubblico nella Chiesa, nel che con­
vengono tutti, non bastano a provare che non vi
fossero scritture particolari contenenti cose o parti
liturgiche. Anzi tali libri si sa positivamente che
esistevano. Donde potevano infatti venire le accuse
di Celso che i preti leggevano libri barbari per in­
vocare i demoni? (2). Tali libri non potevano es­
sere i dittici (3). Sappiamo inoltre che vi erano
Salmi ed Inni scritti prima di S. Ireneo (4). L’apo­
logista S. Giustino cita anche parole liturgiche (5).
Origene le dichiara nel pergamo (6), e S. Basilio

scribi fas non erat cum adfueris, interroganti poterimus edice-


re ».
(1) S. Agostino .dice del Sim bolo: « Sit vobis codex tiestra,
memoria » De Symb. ad cath., e Giustiniano lamentasi che m ol­
ti sacerdoti non sapessero a memoria nè l’ Oblazione nè il Bat­
tesimo ( Novell. 27, n. 137).
(2) Origenes, Contra Celsum 1. 6. c. 40.
(3) Così affermò Daniel ( Codex liturgicus) ma, nota il Probst.
1. 1. p. 7, i dittici contenevano egli dice τεραταιες, racconti
misteriosi, che probabilmente erano esorcismi. — Cfr. pure Ori­
genes, in Math. series 110.
(4) Cfr. anche Eph. V . 14; Rom . XV 10 - Euseb. Hist. eacl.
1. 5. c. 28. — I tratti scritturali facenti parte della liturgia (le­
zioni, epistole, vangeli) usavansi leggere sui codici della Sacra
Scrittura, come si può arguire dal codice Vaticano del princi­
pio del IV secolo che il P. Vcrcellone provò essere stato scritto
per uso liturgico. Martigny « Diction. des Antiquités chrétièn-
nes » Livres liturgiques, 3.
(5) Justini, Apoi. I. c. 13; Dial. c. Tryhon. c. 30.
(6) Origenes in Jerem. hom. 14, n. 14.
La Liturgia nei primi secoli cristiani a
non contrapone già la tradizione a libri liturgici,
ma ai libri sacri, « Tali libri, osserva il Probst, non
erano esposti al pubblico e nemmeno ritenuti apo­
stolici. Stesi secondo la tradizione senza che si co­
noscesse l’autore, sottratti al pubblico commercio,
essi appartenevano, per contrapposto, alla S. Scrit­
tura, alla tradizione orale (1).
19. Lingua liturgica - Ragioni per cui la
Chiesa usa le lingue morte e specialmente il latino.
La lingua nella liturgia non è determinata da
alcuna legge divina od apostolica. In origine però
gli Apostoli celebrarono i sacri Misteri in siro-cal·
daico nella Palestina, ed in greco nelle altre parti
del mondo. Nei primi secoli cristiani la lingua più
comune di Roma era la greca, come lo provano la
lettera di S. Paolo, il Vangelo di S. Marco e gli atti
dei primi Pontefici (che furono i Misteri della SS.
Trinità e della Cristologia), scritti in greco (2), e
quindi anche i sacri Misteri si celebrarono in que­
sta lingua (3). Ciò però non esclude l’opinione di
coloro (4) i quali vogliono che qualche parte si can­
tasse o recitasse nelle due lingue. (Trisagio, Gio­

ii) D. Probst. 1. c. p. 12.


(2) S. Basii, de Sp. S. c. 27. — Introd. al Vangelo di San
Marco e alla Lett. ai Romani di Mons. Martini.
(3) Una splendida dimostrazione di questo si trova presso
de Rossi « Roma sotterranea » V oi. II. p. 236-238 Cfr. pure D ol-
linger « Hyppolitus », p. 27-28; M olini « D e vita et lipsanis S·
Marci », p. 76 e seg.
(4) Così Gaspari « Storia del Simbolo battesim. e della re.
gola di fede » Cristiania 1875 V I. III. p. 267 ; Thomassin.
44 Capo IH

ria). Verso la fine del secolo terzo il latino popo­


lare (1) prevalse nella liturgia e passò in eredità
nella Chiesa Romana.
Pochi casi si trovano nella storia in cui i Papi
permisero l’uso di altra lingua ai popoli nuovamen­
te convertiti (2); però gli scismatici che s’unirono
alla Chiesa nei secoli decimosettimo e decimo otta­
vo fu lasciata la loro lingua. Così anche oggidì le
lingue liturgiche sono il latino, il greco, il copto,
Varmeno, il siro (3) e lo slavo.
Quantunque però molte di queste lingue siano
ancora vive, nella liturgia si usarono sempre le for­
me delle lingue morte. Ed anche ultimamente
quando la S. Sede permise l’uso slavo volle si usas­
se il paleoslavo (4).
Contro i protestanti e i giansenisti, che volevano
introdurre la lingua volgare nella liturgia, la Chie­
sa lancia i suoi anatemi (5). E che tale condotta
della Chiesa sia piena di sapienza appare da ciò :
1. La Chiesa deve conservare presso tutti i popoli
la stessa dottrina, le stesse massime, l’uso degli

(1) Non adunque il latino classico. Thalhofer o. c. p. Eccl.


discipl. I. 2. 82. n. 3.
(2) Thalhofer 1. c·; Lapini o. c. p. 152.
402.
(3) Thalhofer 1. c.
(4) S. C. ■ 13 febbr. 1892 n. 3668 I. I I ; 3 agosto 1908 n.
3899.
(5) Cfr. Conc. Tri3. Sess. 23 de sacrif. Missae, c. TV; Bolla
« Auctorem fidei » di Pio V I conti o il sinodo di Pistoia, ove
condanna la Prop. 22 di quel conciliabolo che voleva « richia­
mar la liturgia a maggior semplicità di riti mercè la lingua vol­
gare e il proferir tutto ad alta voce ».
La Liturgia nei primi secoli cristiani 45

stessi Sacramenti. Ora se permettesse che ciascun


popolo usasse la propria lingua si correrebbe peri­
colo di alterare tutto ciò, perchè la diversità della
lingua importa a poco a poco naturalmente le di­
versità delle idee e delle cose che si devono credere
o fare; 2. L’uso d’una sola lingua presso tutti i
popoli mostra l’unità di fede, di comunione, di Sa­
cramenti nella Chiesa cattolica. 3. Le lingue popo­
lari vive sono di continuo soggette a variazioni e,
come diceva Orazio, sono come le foglie degli al­
beri, cadono le vecchie e spuntano le nuove. Ora
se la liturgia usasse la lingua viva bisognerebbe ri­
formarla ad ogni mezzo secolo, e ciò importerebbe
non leggero lavoro e grave pericolo, perchè vi sono
espressioni dogmatiche che non si potrebbero cam­
biare senza pericolo di alterare la verità del dogma.
4. L’uso del latino o di una lingua morta è confor­
me al carattere misterioso, severo, e grave della
religione cattolica, fa sentire la grandezza dei suoi
Misteri, servendo ad essi come di un sacro velo (1).
Quindi la lingua volgare è formalmente esclusa
dal Messale, dal Breviario e dal Pontificale, come
pure da Rituali e Sacramenti, nei luoghi ove è ac­
cettato il Rituale Romano, e dalle orazioni litur­
giche (2). In quelle diocesi poi, ove si usa un Ri-

(1) De Maistre, Du pape, lib. I r. 20.


(2) In lingua volgare non si può .dare Passoluz. in «articulo
mortis (S. C. R . 3. ging. 1904); non si può cantare il Tantum
ergo e le litanie esposto il SS. Sacram, non si può usare nella
distribuzione della S. Comunione anche fuori della Messa (S.
C. R ., 5 marzo 1904).
46 Capo III

tuale proprio antico, è. lasciata facoltà ai Vescovi


di conservare anche quelle parti che sono lingua
volgare per tutto ciò che ha carattere decisamente
liturgico. Quindi non possono cantare in lingua
volgare il Te Deum e altre preci liturgiche, com­
presi gli inni (S. C. R., n. 2537.3) nè preci imme­
diatamente prima della Benedizione col SS. Sacra­
mento (3530.2); si possono cantare nelle Messe pri­
vate, non nelle solenni o cantate (3880) (1).
Nè con ciò si viene ad impedir la partecipazione
del popolo ai sacri Misteri; poiché per questo fine
basta che il popolo comprenda l’essenza dell’ azio­
ne liturgica, sappia quali atti soggettivi debba com­
piere, perchè si deve pregare o ringraziare Dio; e
tale spiegazione il Parroco è obbligato a darla al
popolo (2). Del resto il culto cattolico ha delle a-
zioni simboliche assai popolari e più intelligibili
che non la parola stessa volgare e vi sono libri di
pietà che dirigono la divozione del fedele, secondo
la liturgia della Messa. Perciò è sempre vero che
tanto nelle chiese che fuori di esse ccfra i cattolici
si prega dal popolo assai più che fra i protestanti...
e Vintroduzione della lingua popolare nella litur­
gia, non solo non gioverebbe alla pietà ed alla edi­
ficazione dei fedeli, ma le starebbe anzi di dan­
no » (3).

(1) Questi numeri si riferiscono alla Colleziono dei Decreti


autentici della $. C. dei Riti.
(2) Gonc. Trid. De Sacr. Missae, cap. 8 sess· 24 de reforma­
tione, cap. 7.
(3) Thalhofer. o. c. pag. 419.
CAPO IV .

Diritto Liturgico

20. Dottrina cattolica.


Che la Chiesa sia l’unica legittima autorità che
regola e determina le cose spettanti al culto, è fuori
di questione presso i cattolici: ed è certo ancora
che il Papa, come Capo e Pastore supremo, ha il
supremo diritto di regolare la liturgia in tutte le
chiese.
Non così presso i protestanti. Essi concordano
tutti nel negare al Sommo Pontefice tale diritto e
nell’attribuirlo al principe laico, come diritto pro­
prio o maestatico, come dicono, ovvero collegiale,
a lui cioè conferito dai sudditi. Così Boehmer,
Tommasio, Mosheim e Pfa. I gallicani concedevano
ad ogni Vescovo il diritto di regolare, senza dipen­
denza dal Papa, le cose liturgiche nella propria
diocesi, quantunque lo volevano poi, nell’esercizio
di questo diritto, dipendente dalla civile autorità.
A costoro, fino ai tempi più recenti, fecero seguito
i cesaristi che volevano soggetti al principe il Papa
ed i Vescovi nell’esercizio del diritto liturgico (1).

(1) Tutti questi errori colle loro infinite, suddivisioni sona


empiamente esposti dal Bouix « Traci, de jure liturg. ». Pari&
II. sect. 1.
48 Capo IV

21. Autorità dei Vescovi nella liturgia.


I Vescovi, successori degli Apostoli, esercitarono
fino dai più antichi tempi, una autorità circa la li­
turgia nelle loro Diocesi (1). Essa però era limitata
dai Sinodi, dall’uso tradizionale, nè alcuno osò mai
commutare il proprio rito con un altro che gli pa­
resse migliore. E’ vero che durante il medio evo,
dove era in uso il rito romano, i Vescovi poterono
fare delle mutazioni che non toccassero il carattere
generale dei libri liturgici, ma poco dopo il secolo
decimosesto tale diritto venne riservato al Papa, ed
anche dove, per concessione di S. Pio V, si conser­
va la liturgia che saliva a più di duecento anni in­
nanzi il suo decreto, i Vescovi non possono farvi
alcuna mutazione, nè cambiarla con altra, tranne
che colla romana, col consenso del Capitolo.
Quindi il Vescovo nell’attuale disciplina litur­
gica:
1. Non può pervertire o commutare il rito delle
Processioni : cc Non licere Episcopo pervertere vel
commutare ritum Processionum praescriptum a
Caerimoniali et Rituali R., neque de consensu Ca­
pituli » (2).
2. Nulla può aggiungere al proprio Calendario
diocesano per ciò che riguarda gli Offici dei Santi :
« ...Non potuisse nec posse locorum Ordinarios,
tam saeculares quam Regulares, addere Calendari
etiam proprii Sanctorum Off., nisi ea dumtaxat

(1) Thalhofer Op. cit. § 22.


(2) S. C. R. 16 genn. 1658, n. 1048.
Diritto Liturgico 49

quae Breviari R. rubricis vel S. C. R. vel Sedis


Apost. licentia conceduntur » (1).
3. Nè può trasferire da un giorno all’altro le fe­
ste stabilite nel Breviario romano, se non nei casi
e nel modo voluto dalle rubriche (2) e nemmeno
nel Sinodo (3).
4. Gli arcivescovi e Vescovi non possono essere
giudici definitivi nei dubbi che nascono sui sacri
riti e cerimonie (4).
5. Non possono mutare il rito delle feste, elevan­
dolo a grado maggiore od abbassandolo a grado in­
feriore (5).
6. Non possono senza speciale privilegio, dele­
gare la facoltà di benedire i sacri paramenti, a co­
loro che non l’hanno per diritto del Codice (6).
7. Il Vescovo può regolare l’uso della lingua vol­
gare nelle funzioni non liturgiche, la può permet­
tere o vietare.
8. Può e deve togliere gli abusi contrarii alle ru­
briche dei libri officiali (7) cc Advigilent ne abu­
sus... irrepant, praesertim circa administrationem
Sacramentorum et Sacramentalium, cultum Dei et
Sanctorum » (Codice c. 336. 2), anche con pene

(1) 5. C. Η. 8 aprile 1628. η. 460 ad 1.


(2) » 7 dicembre 1630, n. 549.
(3) » 16 gemi. 1658, n. 1048.
(4) » 11 giugno 1605, n. 179 ad. 1.
(5) » 16 ottobre 1628, n. 477 ad. 7, 13 gennaio 1631,
n. 555 ad. 1.
(6) > S. C. R . 16 maggio 1744, n. 2377 ad. 4.
(7) » Racc. decr. aut. n. 3333, 2; 3337,1194-1255-1405-
1588-1806-2613.
ecclesiastiche. E’ il primo giudice delle consuetu­
dini particolari, ma alla S. Sede spetta la suprema
approvazione di esse. '
9. Può dare norme particolari, conforme ai prin­
cipi generali della liturgia, che servono al decoroso
disimpegno delle funzioni ed interdire le cose inde­
centi al culto.
10. Ha diritto di rivedere le orazioni e gli eser­
cizi di pietà, che si fanno nelle chiese ed oratori e
nei casi più difficili deve ricorrere alla S. Sede. —
Non può approvare nuove Litanie da recitarsi pub-
licamente. (Cod. c. 1259).
11. Deve vigilare perchè si osservino i Canoni che
riguardano il culto divino pubblico o privato, per­
chè non si introducano pratiche superstiziose an­
che nella vita privata dei fedeli. Alle leggi che il
Vescovo può emanare in proposito sono soggetti
anche tutti i religiosi esenti e a questo fine può an­
che visitare le loro chiese ed oratori pubblici (Cod.
c. 1261).
Di qui s’intende il Decreto della S. C. dei Riti:
« Expresse mandavit (S. R. Congr.) ut tam Cano­
nici quajn olii, quicumque Ministri, Officiales et.
Magistri Caeremoniarum a praedictis abstineant nec
audeant vel praesumant caeremonias ordinarias im-
mutare, seu variare, vel novas ordinare, diverso ac
vario modo ab eo qui in Rubricis Missalis, et Bre-
viarii R. et dicto libro Caeremoniarum praescribi­
tur, et ab usu et consuetudine universali et com­
muni aliorum similium Ecclesiarum, sine expressa
Diritto Liturgico 51

licentia ejusdem S. Congr. ad quam specialiter et


particulariter haec pertinent, sub poenis contra fa­
cientibus arbitrio ejusdem S. C. imponendis et exe-
quendis » (1).
Quindi nell’esercizio delle sacre funzioni: « A-
deundus loci Ordinarius qui stricte tenetur opporr
tunis remediis providere, ut Rubricae et S. C. R.
Decreta rite serventur; si quid vero dubii occurrat
recurrendum ad eandem S. Congr. pro declaratio­
ne » (2).

22. Il Sommo Pontefice ha la suprema auto


rità nella liturgia.
Il diritto supremo di regolare la liturgia nella
Chiesa spetta al Romano Pontefice per autorità or­
dinaria e immediata. cc Unius Apostolicae Sedis est
tum sacram ordinare liturgiam, tum liturgicos ap­
probare libros ) (Cod. c. 2257). Ciò risulta dagli
uffici di Pastore e Maestro supremo e di Capo che,
per divina istituzione, egli esercita nella Chiesa. Il
Papa può dettar leggi, sopprimere forme di culto
che non gli sembrino conformi al fine, introdurne
di nuove, sanzionare o riprovare le consuetudini.
Quindi il Concilio Vaticano (3) : cc erga quam (Ro­
mani Pontificis jurisdictionis potestatem) cujuscum-
que ritus et dignitatis pastores atque fideles, tam
seorsim singuli quam simul omnes, officio hierar-

(1) S. C. R . 12 maggio 1612, n. 297.


(2) S. C. R. 17 settembre, 1822, n. 2621, I.
(3) Cone. Vatie. Sese. Iv ., cap. 3.
52 Capo IV

chicae subordinationis veraeque obedientiae ob­


stringuntur, non solum in rebus, quae ad fidem et
mores, sed etiam in iis quae ad disciplinam et regi­
men ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent».
E già prima, nel 1867, Pio IX dichiarò agli armeni
che al Romano Pontefice si deve cc subesse quoad
ritus et disciplinam ».
Tale diritto infatti fu sempre esercitato dal Som­
mo Pontefice. Verso la fine del secolo II, il Papa
San Vittore decise la questione della Pasqua che
teneva divisi gli asiatici (1); durante i primi secoli
i Papi lasciarono ai Patriarchi ed ai Concili di re­
golare le cose di liturgia, ma con ciò non si spo­
gliarono del loro diritto; anzi, tutti intenti a radu­
nare l’occidente ad unità liturgica, vollero che
l’oriente mantenesse i suoi riti, perchè : cccatholi­
cae Ecclesiae unitati nihil plane adversatur mdlti-
plex sacrorum legitimorumque rituum varietas;
quinimo ad Ecclesiae dignitatem majestatem, decus
ac splendorem augendum maxime conducit » (2).
Nel 385 San Siricio scrisse ad Imerio, Vescovo di
Tarragona, sul Battesimo solenne di Pasqua e di
Pentecoste, e prescrisse altre leggi liturgiche disci­
plinari. Al Vescovo Anisio di Tessalonica parla dei-
ile ordinazioni vescovili di Illiria (3). Nel 416 In-

(1) V edi: Darras. Storia ecclesiastica. V oi. I, pag. 141.


(2) Enc. di Pio IX ai Patriarchi e Vescovi orient. 8 aprile
1862. Altrettanto ripetè Leone X III nella lettera Apostolica:
« Praeclara gratulationis », 20 giugno 1894 e « Orientalium di­
gnitas », 30 novembre.
(3) Darras. O. c., Voi. pag. 486.
Diritto Liturgico 53

nocenzo I scrive a Decenzio, Vescovo di Gubbio,


sul tempo in cui deve darsi, nella Messa, il bacio
di pace, e quando si devono, pure nella Messa,
ricordare i nomi degli oblatori. Nel 429 San Cele­
stino scrive ai Vescovi delle Provincie di Vienna e
di Narbona nelle Gallie, riprovando l’abuso intro­
dotto da alcuni sacerdoti di usare il pallio e cingoli
speciali neEa S. Messa. S. Leone I prescrive a Dio.
scoro d’Alessandria di iterare la Messa in quelle
chiese, ove per la moltitudine o distanza, non pos­
sano convenire in una sola volta i fedeli; riprende
i Vescovi di Sicilia perchè, ad imitazione dei greci,
amministravano il Battesimo solenne nella festa
dell’Epifania.
Tutti conoscono quello che fecero per la liturgia
universale S. Damaso e S. Gregorio Magno. Questi
ora scrive a Leandro di Siviglia approvando il rito
dell’unica immersione nel Battesimo, che colà si
usava, per contrapporsi all’eresia ariana, ora con­
ferma le consuetudini introdotte nella diocesi di
Ravenna; prescrive al Vescovo di Calaorra di fare
sui neofiti due segni di croce in fronte col sacro
Olio.
Di essa si interessarono in modo speciale S. Gre­
gorio VII, Aless. Ili, Clemente IV e sopratutto San
Pio V che ordinò la riforma del Messale e del Ri­
tuale, i quali più tardi apparvero insieme al Cerim.
ed al Martirologio sotto Benedetto XIV, che li pre­
scrisse per tutte le chiese.
E per diritto e per fatto adunque al Romano
54 Capo IV

Pontefice compete la suprema autorità della litur­


gia (1).

23. Come esercita il Papa tale supremo d


ritto. - Sacra Congregazione dei Riti.
Tale diritto il Romano Pontefice lo esercita per­
sonalmente colle Bolle, Encicliche o Brevi; dopo le
edizioni del Messale e Breviario fatto coll’approva­
zione di S. Pio V ordinariamente esercita il suo di­
ritto per mezzo della S. Congregazione dei Riti,
anche pei paesi delle Missioni.
La Sacra Congregazione dei Riti (2), istituita da
Sisto V colla Costituzione « Immensa aetemi Dei »
del 22 gennaio 1588 ha per ufficio: di conservare
la perfetta unità del rito in Roma e fuori, di invi­
gilare sulla correttezza dei libri liturgici ufficiali, di
interpretare autoritariamente le prescrizioni litur­
giche, di decidere i casi dubbi, di concedere spe­
ciali facoltà e dispense, di rilasciare anche nuove
prescrizioni per elevare il culto, specialmente di
regolare lo sviluppo che la liturgia va acquistando
coll’introduzione di nuovi uffici proprii diocesani
o simili, di fare il processo della Beatificazione e
Canonizzazione dei Santi. In quest’ultimo caso essa

(1) Vedi trattato diffusamente questo punto presso il Bouix,


Jus liturgicum P. II. cap. I, e P. I li, cap. I-X.
(2) Colia Costit. Ap. Sapienti Consilio (29 giu. 1908) Pio X
tolse alla Congr. de Propag. fide le decisioni sui S. Riti.
Piritto Liturgico 55

agisce però straordinariamente per un mandato


speciale del Papa (1), Cfr. Codex Can. 253. 1.2.
24. Decreti e decisioni della S. C. dei Riti
loro valore - Formulario.
Ora i decreti della S. Congregazione dei Riti so­
no generali o particolari. I primi sono emanati per
tutta la Chiesa, come sono quelli che si trovano al
principio del Breviario o del Messale e quelli inti­
tolati cc Urbi et orbis » ovvero spiegano un senso di
una rubrica, anche se questo è fatto da una persona
privata, i secondi, che si dicono anche loocdi9 sono
quelli che si danno per qualche chiesa o luogo di
cui portano il nome, o per qualche Ordine o corpo-
razione. Ora:
1. E’ certo che i Decreti generali hanno vigore
di legge universale, perchè sono emanati per auto­
rità del Sommo Pontefice. Quindi al quesito : « An
decreta a S. R. C. emanata et responsiones quae­
cumque ad ipsa propositis dubiis scripto formaliter.
editae eandem habeant auctoritatem, ac si imme­
diate ad ipso Summo Pontefice promanarent quam.
vis nulla facta fuerit de iisdem relatio Sanctitati
Suae? » la medesima S. Congregazione il 23 mag­
gio 1846 rispose : ccaffirmative » (2).

(1) Thalhofer. O. c., pag. 358; Bouix. O. c. P. II. Sect. Π.


cap. VI. Tutte queste attribuzioni sono contenute nella citata
Bolla Immensa, Vedi Bullar. Rom . edit. Coquellines lib. 4.. part.
4, pag. 395; Vedi Bolla citata da Pio X.
(2) S. C. R . 23 maggio 1846, n. 2919.
56 Capo IV

Tali decreti hanno bisogno di essere promulgati


perchè abbiano autorità? E’ certo che i Decreti che
dichiarano un diritto preesistente come le interpre­
tazioni delle Rubriche non hanno d’uopo di pro­
mulgazione ma basta che consti della loro autenti­
cità; quanto ai decreti che inducono un nuovo di­
ritto e si potrebbero dire estensivi hanno bisogno di
essere promulgati e di solito il R. P. comanda di
promulgarli. Tale promulgazione ufficiale incomin­
ciando dal gennaio 1909 si fa per mezzo dell’.dctai
Apost. Sedis per decreto di Pio X.
2. I decreti interpretativi di una rubrica o pre­
scrizione dei libri liturgici hanno vigore di legge
generale per quei luoghi ove la rubrica, la legge o
il rito è accolto e usato.
3. I decreti locali per se non obbligano che in
quei luoghi pei quali furono fatti, possono però es­
sere obbligatori anche in altri luoghi, quando siano
ordinati dal Sinodo sulla stessa materia, quando vi
sia una legittima consuetudine, e quando la S. C.
li estenda ad altri luoghi.
4. Quelli che approvano o condannano partico­
lari consuetudini hanno solo vigore nel luogo, nella
diocesi o nell’Ordine per cui vennero emessi; però
se tali consuetudini, colle medesime circostanze, si
trovano in altri luoghi si possono conservare se so­
no approvate tranne il caso in cui nel decreto si
dicesse : « pro quibus nominatim editum fuit » e si
Diritto Liturgico 57

devono^ togliere se condannate (l). Quindi al quesi­


to : An decreta S. R. C. dum edentur derogent cui­
cumque contrarie invectae consuetudini etiam im­
memorabili; et in caso affirmativo, obligent etiam
quoad conscientiam? Rispose : affirmative : sed re­
currendum in particulari y> (2).
5. Le risposte o decisioni personali che recano
privilegi, facoltà o dispense, sono particolari in
senso rigoroso e non si possono estendere ad altre
persone, diverse da quelle per cui furono date.
Quindi spesso contengono la clausola « De speciali
gratia, in exémplum τύοη afferenda » (3). Talora s|
danno decisioni di fatto, e la S. C. perchè non sia­
no applicate come regola vi aggiunge: Dummodo
non transeat exemplum (4).
6. I decreti generali della S. Cv dei Riti obbli­
gano anche i Regolari che non hanno riti partico­
lari anche quando vanno contro le loro Costituzioni
approvate dalla S. Sede (5).
7. Quelli che riguardano la materia dei paramen­
ti sono generali ed obbligano tutti (6).
8. Qualora si volessero impetrare nuovi Uffici e
Messe o modificazioni bisogna uniformarsi alle i-
struzioni date dalla medesima Congregazione il 13
luglio 1896 (7).
(1) S. C. R . 1 loglio 1873; 25 sett. 1875, n. 3380 I.
(2) S. C. R . 11 settembre 1847, n. 2951 ad. 13.
(3) Cfr. S. C. R- 25 settembre 1846, n. 2918.
(4) Cfr. S. C. R . 6 dicembre 1696, n. 1955.
(5) S. C. R- 7 dicembre 1888, n. 3697, I.
(6) S. C. R . 7 dicembre 1888, n. 3697, XVI.
(7) 3. C. R . 13 loglio 1896, n. 3926.
58 Capo IV

9. Tra le decisioni della Sacra Congregazione dei


Riti se ne possono trovare di quelle che sono in
opposizione con altre. I tempi, i luoghi e le circo­
stanze si mutano e quindi ciò che una volta era
buono ed utile col processo di tempo e col maturar­
si delle circostanze può diventar meno conveniente
od inutile, e uno studio ed un esame più profondo
possono persuadere altrimenti di quello che era sta­
to deliberato. Per decidere in tali casi quale via se­
guire si deve innanzitutto esaminare la fattispecie
ed in ogni modo quando due decreti stanno in
aperta opposizione l’anteriore s’intende abrogato
dal posteriore. Del resto nella nuova Collezione au­
tentica dei Decreti si sono omessi tutti quelli con­
tradditori (1). Il Codice (Can. 2) nulla stabilisce
circa i riti e le Rubriche che sono nei libri liturgici
ufficiali, quindi questi hanno tutto il loro valore
se non sono corrette nel Codice espressamente.
Per potere convenientemente intendere i Decreti
e le decisioni della S. C. dei Riti è duopo cono­
scere il suo formulario. Quando dice Lectum, re­
latum, intende dare una cortese negativa alla diffi­
coltà proposta; pro gratia, accorda un privilegio
od una dispensa; dilata, vuol dire che si sospende
la decisione o che il dubbio non è ben proposto;
dentur Decreta, significa che la difficoltà è già stata

(1) La Collectio authentica comprende i decreti fino all’ an­


no 1927 inclusivo. Colla edizione autentica del Breviario, Rituale
e Messale in cui sono inserite nuove rubriche vengono abrogate
tutte le Decisioni della C. dei Riti date in precedenza e che non
sono in corrispondenza colle nuove rubriche introdotte.
Diritto Litùrgico

sciolta^ da altri decreti; serventur rubricae, vuol


dire che non si deve imporre di più di quello che
nelle rubriche è detto; nihil, è la ripulsa della pe­
tizione; in decisis, negative et amplius, vuol dire
che è inopportuno il proporre di nuovo il dubbio;
justa mentem, cioè è accolta la cosa nel senso in­
teso dalla S. C. che poi tosto lo dichiara; facto
verbo cum SS.; cioè la S. C. si è riservato di fare
approvare la cosa dal Papa.
Dal fin qui detto si può decidere quando le deci­
sioni della S. C. dei Riti sono precettive e quando
sono direttive. Sono precettive quando usano una
clausola precettiva ovvero interpretano una rubri­
ca precettiva; sono direttive quando includono un
suggerimento, un consiglio, ovvero interpretano
una rubrica direttiva.

25. Rubriche.
Chiamasi rubriche quelle norme che si trovano
nei libri liturgici, secondo le quali si devano rego­
lare le azioni e le cose del culto. Il nome provenne
dall’antico costume degli operai di segnare in creta
rossa le linee dell’opera che dovevano eseguire e
degli scrittori che segnavano in color rosso il titolo
delle opere. Tale uso passò alla Chiesa. Ed in quel
tempo stesso nel quale s’incominciò pure a scrivere
in rosso le regole colle quali si dovevano eseguire
le sacre funzioni, donde il nome di rubriche. Esse
vennero inserite nei libri liturgici per l’autorità
del Sommo Pontefice o della S. C. dei Riti.
60 Capo IV

Le rubriche si dividono:
1. In essenziali ed accidentali. Le prime sono
quelle che costituiscono la stessa azione sacra, sen­
za delle quali essa non sarebbe valida; le seconde
quelle che si riferiscono solo all’ornato, all’istitu­
zione, al significato mistico ecc.
2. In ordinarie e straordinarie. Le prime sono
quelle che si devono sempre osservare; le altre si
osservano o si devono omettere, secondo le circo­
stanze speciali.
3. In precettive e direttive. Le precettive sono
ordinate per modo di legge : le direttive per modo
di consiglio e d’istruzione (1).
Quest’ultima distinzione è negata da alcuni i
quali sostengono che tutte le rubriche sono precet­
tive, ma è difesa generalmente dai rubricisti e dagli
autori di morale (2). Riguardo però agli autori di
morale si deve ben osservare che essi stabiliscono
quando è peccato e quando no l’omissione di una
rubrica. Ma da ciò che non è peccato una omissio­
ne non deriva per conseguenza che si possano coni
tutta facilità tralasciare.
Ora quanto alle rubriche del Messale conven­
gono tutti nell’ammettere che sono direttive quelle
che riguardano tutto ciò che è prima o dopo della
Messa perchè il Tridentino scomunica chi insegnas-
(1) De Herdt Sacrae Liturg. Praxis, V oi. I, η. 1.
(2) Vedi su questa questione la « Civ. Catt. » quad. 991. A l
cuni meno esattamente distinguono le Rubriche direttive dalle
precettive dalla gravezza dell’ obbligo che impongono e dicono
precettive quelle che obbligano sub levi. Anche S. Alfonso con­
danna un tal criterio di divisione (Theol. mor. de Euchar. 399).
Piritto Liturgico 61

se che il rito della Messa e della solenne ammini­


strazione dei SS.mi Sacramenti si possa cambiare
od omettere. Quanto alle altre si danno le seguenti
regole per distinguerle :
a) La espressione letterale della rubrica stessa,
se si adopera la forma imperativa o la parola debet
e molto più se si usa la forma negativa « abstineat,
caveat » e si dice che chi fa altrimenti pecca, la
rubrica è da tenersi come precettiva, ovvero una
delle espressioni cc dicere poterit, curabit », oppu­
re si usa la forma condizionale « si fieri potest, si
habéri potest, si opportunitas dabitur » la rubrica
è solo direttiva.
b) Il secondo criterio si desume daUa materia
circa la quale versano le rubriche. Così sono pre­
cettive tutte quelle che riguardano l’essenza dei
Sacramenti, del Sacrificio, delle Benedizioni, spet­
tano alla loro integrità e alla dovuta riverenza. Ta­
li sono le rubriche che vogliono mónda l’acqua del
Battesimo, le tovaglie dell’altare, che esigono il sale
per l’acqua benedetta, ecc.
c) Il terzo criterio, e certo il più importante fuo­
ri di ogni questione, è la dichiarazione che venisse
fatta dalla S. Congregazione dei Riti. Così p. e.
fu dichiarata precettiva la rubrica del Rituale R.
circa l’uso della Borsa e del Corporale nell’ammi-
nistrare la S. Comunione (1).
d) Il quarto ed ultimo criterio è quello che si
desume dalla, sentenza comune, degli autori; a que-

(1) S. C. R. 27 febbraio, 1847 n. 2932, ad 3.


62 Capo IV

sti difatti rimanda sovente, nelle sue risposte, la


stessa S. C. dei Riti (1).
Tali sono i criteri che si assegnano per poter di­
stinguere le rubriche precettive dalle direttive. In
pratica però si deve procurarae di osservarle tutte
colla più grande esattezza possibile. Dalla loro per­
fetta osservanza infatti riceve il sacro culto quella
maestà e splendore che gli è proprio; il popolo ne
ritrae edificazione, ed il sacro Ministro che le com­
pie si mette in istato di ricevere maggior frutto di
grazie, mentre alla loro fedele osservanza vi con­
corrono con tanta parte la mente ed il cuore. San
Carlo Borromeo e S. Francesco di Sales, S. Alfon­
so de’ Liguori portavano fino allo scrupolo la loro
osservanza; e S. Teresa sarebbe stata pronta a
dare la vita per la più piccola cerimonia della
Chiesa cattolica. Molto più che le stesse rubriche
direttive contengono spesso cose che obbligano già
per diritto ; e darebbe certo segno di freddezza, ne­
gligenza o mancanza di spirito nel! sacerdote (2)*
26. Consuetudine vigente - Divisione - R
quisiti.
Che anche la vigente consuetudine, sia una fonte
del diritto liturgico lo prova la storia della Chiesa.
Tertulliano di molte cose dice che : « traditio auc­
trix, consuetudo confirmatrix et fideis observatrix»

(1) Pighi « Liturg. Sacramntorum » Tit. I. cap. III.


(2) Quarti, Quaest. Proenu. c. V I, p. I ; Cavalieri, tom. 5r
e. 2. II.
Diritto Liturgico 63

#o
Cipriano la chiama costume non di pochi ma ge­
nerale, che non può esser contrario alla verità (1).
Ad essa fanno appello sovente S. Agostino e S. Am.
brogio (2). Si trovano approvate dai Concilii (3),
dalla Bolla di S. Pio V sul Messale e da quella di
Paolo V sul Rituale, dal Rituale stesso (4) e da
molte decisioni della S. C. de Riti (5) non poche
consuetudini.
Tale consuetudine nella liturgia, come nelle al­
tre leggi, può essere juxta legem, praeter legem e
contra legem.
a) La Consuetudine juxta legem, non è altro che
una pratica interpretazione della legge e quindi
ha la stessa autorità della legge.
b) La consuetudine praeter legem compie la leg­
ge, estendendola anche ad altri oggetti da essa non
contemplati, ma non ad essa contrari. Tale è la
consuetudine di porre le tre cartaglorie sull’altare
invece di una sola nel mezzo, di suonare il campa­
nello al Domine non sum dignus. Contro della qua­
le ultima consuetudine non è la prescrizione di
Pio V di nulla aggiungere o detrarre al Messale,
che proibisce solo le innovazioni e le cose estranee
al rito.
c) Infine la consuetudine contro una legge gene-

(1) Cypr. ad Caecil. c. 11; Epist. n. 13: 74, n. 9; 75, n. 19.


(2) S. Ambr. Epist. lib . II. 54, n. 2 ad Januarium.
(3) Cfr. Thalhofer o. c., p. 362; Philips, « Kirchenrecht » ,
pag. 694.
(4) Cfr. Rito d’ammin. del Sacram, del Matrimonio.
(5) Cfr. S. C. R . 28 aprile 1607. n. 232; 23 apr. 1607. n. 233;
10 maggio 1608, n. 252; 27 nov. 1655, n. 992 etc.
64 Capo IV

rale liturgica contenuta melle rubriche del Rituale,


Messale, Breviario, Pontificale e Cerimoniale Ro­
mano, non ha alcun valore, anzi si deve ritenere
corruttela. Così Benedetto XIII nel concilio di Ro­
ma (1725). cc Episcopis districte praecipimus ut
contraria omnia quae in ecclesiis seu saecularibus,
seu regularibus (iis exceptis qui proprio vel Ri­
tuali, vel Missali, vel Breviario utuntur a S. Sede
probato) contra praescriptum Pontificalis Romani
et Caeremonialis Episcoporum vel rubricas Missa­
lis, Breviarii et Ritualis irrepsisse competerint, de­
testabiles tamquam abusus et corruptelas prohi­
beant et omnino studeant removere, quamvis non
obstante interposita appellatione, vel immemorabili
allegata consuetudine, cum non quod fit, sed quod
fieri debet, si attendendum » (1).
E la S. C. dei Riti: « Consuetudines quae sunt
contra Missale R. sublatae sunt per Bullam Pii V.
in principio ipsius Missalis impressam et dicendae
sunt potius corruptelae quam consuetudines » (2).
Così fu dichiarata corruttela la consuetudine di ag­
giungere, al Venerdì Santo, nella Messa, l’orazione
pel Vescovo (3). Di tal tenore è. ancora la Bolla
di Urbano Vili preposta al Messale. In pratica pe­
rò, ccad vitanda varii generis incommoda » si ap­
provano anche consuetudini contro le rubriche (4)
(1) Questo decreto fu emanato per le Provincie romane, ma
ognuno vede che vale anche per tutte le .diocesi dove sono in
uso i detti libri liturgici.
(2) S. C. R . marzo 1591, n. 9 ad. 10.
(3) S. S. R. 7 agosto 1875, 3365. II.
(4) Così la S. C. di propaganda il 19 agosto 1865 permise
Piritto Liturgico 6S

Di qui le condizioni simultanee che deve aver


la consuetudine perchè abbia vigore:
1. Deve essere immemorabile. Ciò appare, indi­
rettamente dalle sopra citate parole di Benedetta
XIII, e in modo diretto, dai decreti della S. C. dei
Riti che esigono una tale qualità nella consuetu­
dine. Però quando vige una consuetudine imme­
morabile ed esce un decreto della S. C. dei Riti
che è contrario ad essa, per sè resta abrogata e per
sostenerla bisogna ricorrere alla S. C. dei Riti (1).
2. Non dev*essere contraria alle rubriche del
Messale, del Rituale, del Breviario, del Cerimo­
niale dei Vescovi e del Pontificale. La consuetudi­
ne contraria alle Rubriche del Messale o Breviario
devono dimostrarsi anteriori alla Bolla di Pio V,
ogni consuetudine in proposito introdotta dopo
questa Bolla è abuso imprescrivibile (2).
3. Dev’essere lodevole, cioè non tornare a disdo­
ro del culto, ma accrescerne piuttosto la maestà.
Solo le consuetudini lodevoli e ragionevoli ed im­
memorabili si possono conservare, come le tollera
il Cerimoniale dei Vescovi, e la S. C. dei Riti (3)
« Caeremonialem librum non obstare nec tollere

ai Vescovi della Provincia di Quebec, qualora vi sia un motivo


ragionevole, di impartire la benedizione solenne nuziale fuori
della Messa.
(1) S. C. R . 11 settembre 1847, n. 2951 ad. 13: Cfr. n. 24.
(2) S. C. R . 11 marzo 1660, n. 1153; 18 giugno 1696, 1812.
Questa Bolla si trova nei Messali, Breviari e Rituali.
(3) S. C. R . 10 gennaio 1704, n. 154; 5 marzo 1606, n. 207;
28 aprile 1607, n. 228.
66 Capo IV

immemorabiles consuetudines Ecclesiarum » (l)r


ma le altre si devono abolire.
4. Dev’essere approvata, per potersi imporre
come legge. Onde non basta che sia antica, anche
immemorabile. La S. C. dei Riti al quesito « U-
trum nec ne, servandae sint antiquae consuetudines
cujusque Ecclésiae, quando haec non sint Rubricis
contrariae? » Rispose: (2) Esplicet quae sint
consuetudines et rucurrant in casibus particulari­
bus ». II primo giudice poi della convenienza e le­
gittima delle consuetudini particolari diocesane è
il Vescovo, e quindi si possono conservare quelle
ch’egli approva e si devono abolire quelle eh’egli
giudica da togliersi; dal giudizio del Vescovo però
si può far appello alla Sacra Congregazione dei
Riti (3).
Del resto sarebbe desiderabile che si togliessero
le consuetudini particolari, locali, massime se po­
co conformi alle regole liturgiche, e solo si conser­
vassero le antiche e lodevoli che sono generali nel­
la Diocesi, ed approvate almeno col tacito consenso
del Vescovo, che le conosce. Ciò si può ottenere
facilmente quando le chiese particolari si unifor­
mino, nelle sacre funzioni, alla Cattedrale, che
come è la madre delle altre, deve essere ancora la
loro maestra. Peraltro le chiese inferiori « sequi
non debent caerimonias Cathedralis Ecclesiae in Us

(1)s. C. R . 7 luglio 1612, n. 298.


(2) S. C. R . 7 dicembre 1844, n. 2873.
(3) Cfr. n. 2.
Diritto Liturgico 67

quae sunt contra Rubricas et regulas Missali et


Caeremonialis Episcoporum (1).
Quindi la savia disposizione : Quomodo se gere-
re debeant Caeremoniarum Magistri aliique, qui
vident in Ecclesiis non peragi functiones juxta
Rubricas nec observari Decreta et Resolutiones S.
R. Congregationis? Risp. : Adeundus loci Ordina-
rius qui stricte tenetur providere opportunis reme-
diis ut Rubricae et S. R. C. Decreta rite observen­
tur; si quid vero dubii occurat, recurrendum ad
eandem Sacram Congregationem pro declaratio­
ne (2).

27. I Liturgisti.
Quale autorità hanno gli scrittori di Liturgia? A
questa domanda risponde il Coppin (3); 1. Se la
dottrina di un autore e anche quella comune degli
autori è contraria apertamente alle rubriche, non
ha alcun valore di fronte ad un decreto contrario
della S. C. dei Riti; 2. Quando tutti i liturgisti, o
anche solo alcuno appoggiati ad una rubrica o ad
un decreto autentico insegnano una dottrina od
una pratica, si devono seguire, il far altrimenti sa­
rebbe temerario; 3. Quando insegnano che una co­
sa è lecita, finché non viene positivamente proibita
dalla Sacra Congregazione dei Riti si può seguire
la loro sentenza; 4. Quando si dividono in varie
(1) S. C. R. 16 marzo 1391, n. ad. 7.
(2) S. C. R . 17 settembre 1822, n. 2621 ad 1.
(3) Coppin-Stimart, Sacrae Liturg. Compendium Parisiìs-Lip*
•iae 1905.
68 Capo IV

sentenze la loro autorità vale quanto valgono le


ragioni che si adducono; 5. Quando qualche ru­
brica si-può in pratica interpretare in vari modi,
si stia a quella pratica che vige nella diocesi, così
si otterrà l’uniformità nelle sacre funzioni, ciò che
è sempre da desiderare.
CAPO V .

Valore dogmatico
della Liturgia

28. La liturgia è professione di fede.


Che la sacra liturgia sia espressione della fede
della società religiosa che ne fa uso, appare dalla)
sua stessa natura, mentre risulta di atti esterni, e
pubblici di culto, i quali necessariamente, per es­
ser veri, suppongono la fede in chi li compie. Ma
ciò si rende più evidente se si osservano le parti
integrali della liturgia stessa, le cose che essa usa,
le azioni che si compiono, le parole che si pronun­
ciano nell’esercizio del sacro culto.
a) Hanno in primo luogo uno scopo religioso le
cose liturgiche: l’immagine del Crocifisso propo­
sta alla venerazione dei fedeli suppone ed esprime
il mistero della Redenzione: l’Ostia esposta sull’al­
tare, la lampada dinanzi al tabernacolo suppone
ed esprime la fede nella reale presenza. E così tutti
gli oggetti sacri del culto come i lumi, le vesti, l’in­
censo, le sacre Reliquie ecc. esprimono la fede del­
la società religiosa che li adopera.
b) Le azioni e cerimonie liturgiche, come genu­
flessioni, segni di croce, inchini ecc., sono come
un velo trasparente che lasciano scorgere la fede
della società religiosa, mentre mostrano ciò che
70 Capo V

crede il ministro il quale agisce a nome della stes­


sa società. E ciò è tanto vero che quando le società
religiose fecero divorzio dalla fede cattolica, abo­
lirono anche queste esterne espressioni.
c) Anche le parole liturgiche esprimono la fede
in Dio, in G. C., nei Santi che si invocano, si rin­
graziano o si rendono propizii. La liturgia adun­
que in sè e nelle sue parti ha una parola vivente,
espressiva della fede della società religiosa, dello
spirito che lo anima. Quindi per conoscere quale
sia la fede di una società religiosa qualsiasi baste­
rà osservare ciò che è espresso chiaramente dalla
sua liturgia, mentre questa non può essere scien­
temente od erroneamente difforme dalla fede pub­
blica. cc Legem credendi lex statuit supplican­
di » (1).

29. La verità di un dogma si può dimostrar


da ciò che è espresso nelle liturgie delle Chiese
unite alla romana od anche nella liturgia romana.
La colonna e il fondamento della vera fede è la
Chiesa cattolica, che ha il suo centro a Roma, ove
ha sede il successore di S. Pietro, il Vicario di
G. C. Quando adunque un dogma è espresso chia­
ramente nelle liturgie delle Chiese unite alla ro­
mana si deve ritenere rigorosamente per vero.
« Cum errare nequeat Ecclesia catholica, non po-

(1) S. Coelestini, Episi, ad Galliar, Episc. c. Π.


Cfr. Bouix o. c. P. I. c. V II § 1 e 2; Card. Bona o. c. 4.
I. c. VII § II. Maugère o. c. Chap. IV § I.
Valore dogmatico della Liturgia 71

test ullum erronem reperiri dogma clare expres­


sum in liturgia Ecdesiae Romanae et simul in li-
turgiis multarum ipsi unitarum ecclesiarum; ergo
ex eo quod aliquod dogma reperiatur in dictis li-
turgiis clare expressum recte et vigorose concludi­
tur ipsius veritas ». Di qui si vede di quanto valo­
re sia la liturgia nella dimostrazione delle verità
dogmatiche : « Quando nempe cAiqua liturgica dog­
matis expressio seu manifestatio universalis est,
utpote in Ecclesia Romana, et majori caeterarum
parte usurpata, tanta est ejus auctoritast quanta
ipsiusmet docentis et profitentis Ecclesiae catholi­
cae » (1). E la ragione è data dal Decreto posto
innanzi alla nuova Collezione dei Decreti autentici
della S. C. dei Riti, oc quandoquidem Ecclesia cum
Christi corpus sit, vitam Christi vivat, Christi spi­
ritum hauriat eoque agatur; cumque actus et ma­
res, vitae judices, et testes sint; hac de causa quid­
quid eloquatur quidquid moliatur in eo se se ef­
fundat seque prodet divina virtus opus est. Hinc
illud Innocentii III effatum; singula divinis sunt
signata mysteriis singula animum coelesti volupta­
te profundunt, singula pietate cient, alunt, fo­
vent » (2).
E neppure è bisogno, per accertarsi della verità
di una dottrina, d’interrogare la maggior parte
delle liturgie unite alla romana, ma basta osserva­

ti) Bouix, 1. c.
(2) Innoe. III. lib. ult. adv. Haeres, n. 21 et segg.
72 Capo V

re se esso sia chiaramente espresso nella liturgia


romana (1).
Il che trovasi chiaramente indicato nella bolla
Ineffabilis, nella quale si reca la prova della verità
dell’Immacolata Concezione di Maria SS. anche
dal fatto che la Chiesa romana ne celebra la festa.
Il modo poi con cui le verità dogmatiche posso­
no essere espresse nella liturgia è triplice: alcune
sono confessate e proclamate nella recita del sim­
bolo o delle formule liturgiche; p. es. la genera­
zione eterna del divin Verbo, la processione della
Spirito S. dal Padre e dal Figlio, il primato del
Sommo Pontefice. Altre sono espresse indiretta­
mente negli atti che procedono da essa e quindi le
suppongono necessariamente: così p. es. il dogma
della esistenza del purgatorio e della utilità dei
suffragi si contiene negli atti del culto praticati
pei fedeli defunti. Finalmente altre verità costitui­
scono l’essenza stessa del culto cattolico e lo di­
stinguono in culto di latria, di iperdulia e di dulia,
secondo le qualità delle persone cui viene esibi­
to (2).
30. Condotta degli eretici.
La qual cosa appare tanto più chiara se si osser­
va la condotta che tennero gli eretici circa la litur­
gia. Ogni volta che l’eresia negò o contraffece qual-

(1) Maugère, 1. c.
(2) Lapini « Ist. Liturgiche », Lez. X V ; Cfr. pure Perrone»,
« D e locis theolog. » ; p. II s. 11. c. 11.
Valore dogmatico della Liturgia n

che punta della dottrina cattolica fu costretta a


togliere o ad alterare anche le parti relative della
liturgia. Basti ricordare quello che fecero gli anti­
chi gnostici, gli adamiti, gli eutichiani, i seguaci
di Nestorio, di Pietro Fullone, di Ario, di Donato,
fino ai protestanti, per provare la verità di questo
punto. Ehione, Cerinto, i Nazarei non credevano
che Gesù Cristo avesse abrogato l’antico rito ebrai­
co fondandone un nuovo, e cercarono di rimettere
in uso le cerimonie ebraiche (1). Tutti ricordano
li formule del Battesimo che adoperavano i Valen­
tiniani, i montanisti, gli eunomiani. I protestanti
che non credono alla reale presenza non solo han­
no abolita la Messa, ma hanno pure alterato mille
volte la formula della Comunione (2). I greci sci­
smatici, che non credono alla processione dello
Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, escludono dal
simbolo nella Messa, la parola Filioque.
31. Uso che ne fecero i SS. Padri e gli scrit
tori ecclesiastici.
D’altra parte i Padri della Chiesa, a provare la
verità di un dogma e a difenderlo dalle novità ap­
pellavano spesso alla liturgia in uso nella Chiesa
cattolica. S. Agostino dalle orazioni della Chiesa
dimostra che la perseveranza finale è un dono gra-

(1) Darras. Voi. I. pag. 41.


(2) Cfr. Bossuet, « « Storia delle variazioni delle chiese pro­
testanti ».
74 Capo V

tuito di Dio (1); dal rito con cui si amministra il


Battesimo, e specialmente dagli esorcismi, prova la
esistenza e trasmissione del peccato originale (2).
S. Girolamo appella alla liturgia per combattere i
luciferiani (3). Mario Vittorino prova da essa la
divinità di Gesù Cristo contro gli ariani (4) San
Celestino Papa scrisse ai Vescovi delle Gallie la ce­
lebre sentenza: cc legem credendi lex statuit sup­
plicandi », ed insegna la liturgia, « quae unifor­
miter in omni catholica Ecclesia celebratur, esse
credendi legem (5). San Tommaso dal fatto che
la Chiesa celebra la festa della Natività di Maria
Santissima insegna che essa nacque santificata (6).
Il Suarez prova che essa fu assunta in cielo in ani­
ma e corpo dal fatto della festa dell’Assunzione (7).
Onde il Bellarmino : « Aliquando, dice, ex vetustis
caeremoniis' multis persuadentur aliqua dogmata,
quam ex melius testimoniis » (8). In fine il Con­
cilio stesso di Trento, a dimostrare la verità di al­
cuni dogmi cattolici citò le parole e preghiere di
cui fa uso la liturgia (9).

(1) S. August. de bona persev., 23.


.(2) Id. de peccatorum meritis et remiss. 1. I. c. 34, et. <c.
Iulian. c. 5.
(3) S. Hjeronym, dial. c. Lucifer,, c. 4.
(4) Marius Victor de Trinit. 1. I.
(5) S. Coelestin. Pap. Epist. ad Galliar. Episc. cap. ΙΧ·ΧΙ.
(6) S. Thom. P. III. q. 26, a. 1.
(7) Suarez in III part. d. Thomae, t. II. clisp. XXI, sect. 2.
(8) Bellarm. de effect. Sacram. 1., II. 31. — Cfr. pure Ber-
gier. Dizionario teologico « Liturgia ».
(9) Cone. Trid. Sess. V I. cap. 10: Sess. XXI, cap. 4. —
Quindi pare erronea la sentenza di coloro che pensano che le
pratiche liturgiche generali della Chiesa esprimenti in modo
Valore dogmatico della Liturgia 75

32. Principali verità cattoliche espresse nel


liturgia.
Così dalla liturgia cattolica si può dimostrare la
unità della natura divina e la Trinità delle perso­
ne, la Provvidenza di Dio, la creazione del mon­
do, la caduta dell’uomo, la Redenzione del genere
umano operata da G. C. si dimostra la divinità di
Gesù Cristo e dello Spirito Santo, la Verginità di!
Maria Santissima, la istituzione divina della Chie­
sa, il primato d’onore e di giurisdizione del Som­
mo Pontefice, l’infallibilità della Chiesa, l’istitu­
zione divina dei Sacramenti, il culto dei Santi, la
esistenza del Purgatorio e l’efficacia del suffragio,
l’esistenza e la trasmissione del peccato originale,
la presenza reale di Gesù Cristo nella SS. Eucari­
stia ecc. (1).
Tutti sanno peraltro come la liturgia esprime la
verità della fede; ma essa non è l’organo per cui
ci vengono proposte le verità da credersi come di
fede: ciò spetta al magistero infallibile della Chie­
sa. Quindi nella liturgia vi possono essere espresse
delle verità che dalla Chiesa non son ancora state
proposte come oggetto di fede; chi le rifiutasse non

chiaro una dottrina, si possono appoggiare ad opinioni soltanto


probabili. Cfr. Bouix I. c .; Lapini, o. c. Lez. X V, i quali ri­
spondono alle difficoltà che propongono nel fatto della celebra­
zione della festa dell’ Immacolata Concezione di Maria prima che
questa fosse definita di fede. Anche Pio IX nella Bolla Ine//a-
hilis riferisce, tra gli altri argomenti, quelli desunti dalla li­
turgia.
(1) Vedi trattato assai diffusamente questo punto presso Buoix,
oc. c., 1. c.
76 Capo v

sarebbe eretico, incorrerebbe però la nota di teme­


rario. Così dicesi dei fatti che trovansi nella le­
zione dei Santi del Breviario che hanno quel va­
lore che hanno i fatti che ci presenta la sana cri­
tica storica.
CAPO VI.

De l s i m b o l i s m o n e l l a L i t u r g i a

33. Natura del simbolismo liturgico - Div


sione.
Simbolo, dal greco: Συμβολαι, συν-βοίΧλειν, signifi­
ca una cosa che sta in relazione con un’altra,
ossia ciò che rappresenta sensibilmente qualche
cosa che non cade sotto i sensi. Così nei primi cri­
stiani la conoscenza del Credo ed il Segno della
santa Croce erano simboli che facevano riconoscere
il cristiano. Presa in senso ampio, la parola sim­
bolo vale altrettanto che segna sensibile, che può
rappresentare qualche altra cosa, ed in questo
senso tutte le azioni dette mistiche, che il sacerdote
compie nella liturgia, come: gli inchini del capo o
del corpo, genuflessioni, il giunger le mani ece.,
sarebbero azioni simboliche.
Preso però in senso stretto e rigoroso, simbolo è
quel segno nel quale l’intelletto scorge una analo­
gia con un’altra cosa dal segno stesso rappresen­
tata. Quindi esso non è un segno generico, ma con­
creto e determinato da quella cosa che è ordinato
a rappresentare (1).
Ora il simbolo nella liturgia si distingue:
1. In naturale e soprannaturale. Il primo è

(1) Thalhofer o. c. § 25, n. 4. b ; Lapini, o. c. Lez. XXXII.


78 Capo VI

quello che esprìme una cosa che si trova nel mede·


simo ordine del simbolo stesso, come lo scettro è
figura della potestà, la corona indica la dignità re­
gale; il secondo è quello che rappresenta un’idea
di ordine soprannaturale, come l’altare è simbolo*
di G. C., la pianeta significa la carità, l’incenso la
preghiera.
2. E’ reale o convenzionale. Reale quando la re­
lazione a quello che esprime è fondata nella na­
tura della cosa stessa, ossia vi ha naturale corri­
spondenza fra il sensibile e l’intelligibile ; ed è in­
vece convenzionale od illativo quando non esiste
relazione naturale tra il simbolo e la cosa signifi­
cata, ma ve la trova l’intelletto, considerando la
cosa sotto un aspetto particolare. Così la pianeta è
simbolo illativo della carità, o del giogo soave di
G. C.
3. Il simbolo tanto reale che illativo si suddivi­
de in allegorico, anagogico e tropologico, secondo-
chè si riferisce a ciò che si deve credere, sperare o
praticare, ovvero si riferisce alla fede, alla spe­
ranza o alle virtù morali.
34. Il simbolismo esiste nella liturgia.
Ma esiste il simbolismo nella liturgia? Tutti con­
cedono che essendo il culto cattolico di ordine so­
prannaturale, anche il simbolismo se esiste in es­
so, debba essere soprannaturale: tutti ammettono
ancora che nella liturgia si possa trovare il simbo­
lismo convenzionale od illativo. La questione si
riduce adunque a sapere se esiste anche il simboli-
Del simbolismo nella Liturgia 19
---------- -----^---------------------------------

8mo reale. Lo negò affatto il monaco Claudio De-


Vert. « La disciplina della Chiesa, dice, in quan-
to ai riti ed alle cerimonie è fondata su ragioni
semplici, desunte per lo più o dagli usi antichi o
dalla conformità delle parole colle azioni, a guisa
degli oratori, che, congiungono il gesto alla decla-
mozione; ovvero da una ragione di necessità, di
comodo, dì decoro. Le cause mistiche benché ri-
spettabili al sommo, non sono che idee arbitrarie,
qualche volte giuste, spesso amene, sempre ag-
giunte posteriori al rito : buone se si voglia, a pa­
scere lo spirito, non a formare la scienza » (1). Il
Vescovo di Soissons, Mons. Langet, scriveva al
suo clero contro il De-Vert: celo invece dico che
Vintenzione della Chiesa riguardo alle cerimonie è
stata questa sin da principio, di non adottarné
neppur una se non per ragioni affatto simbo­
liche » (2). Ma se il primo peccava di difetto, il
secondo peccava di eccesso.
Ora il simbolismo esiste realmente nella sacra
liturgia. Dio stesso lo ha stabilito e ne ha consacra­
to l’uso nell’antica legge mentre i sacrifici, le pra-

(1) Claude De-Vert — « Esplication simple, litteraire et histo-


rique des Cèrémonies de VEglise ». — Il monaco di Cluny fiero
giansenista, voleva mettere in lu cj le ragioni storiche delle ceri­
monie cattoliche, liberandole dal misticismo, di cui fino allora
le aveva circondate la tradizione cristiana! La sua opera apparve
sul princ'pio del secolo decimo ottavo, ma non ha ancora finito
di formarsi dei seguaci anche tra ì cattolici poco avveduti. Egli
aveva anche tentato di rovinare completamente il Breviario (Vedi
Darras. Stor. Eccles., V oi. 11., p. 442).
(2) Languet. « De vero Ecclesiae sensu circa sacrarum caere­
moniarum usum ». Ristampato in Roma dal dotto Assemani.
80 Capo VI

tiche religiose, le feste, il sacerdozio, il tempio·


erano pieni di simboli. La figura scompare al so­
praggiungere della realtà in G. C. ma il simboli­
smo rimane e G. C. ne consacra l’uso. Le offerte
dei Magi alla capanna e di Maria e Giuseppe nel
tempio erano simboli, come lo attestano i SS. Pa­
dri di comune accordo. La predicazione, i miracoli
di G. C. sono spesso accompagnati da segni sim­
bolici: nell’ultima cena colla lavanda dei piedi
egli volle significare la mondezza del cuore, e nel­
la istituzione della SS. Eucaristia adoperò il pane
che è simbolo dell’unione intima di G. C. coi fe­
deli, come lo professa la Chiesa nella Secreta del­
la Messa votiva del SS. Sacramento. Anche la ma­
teria degli altri Sacramenti istituiti da G. C. è
piena di senso simbolico. — Gli apostoli espongo­
no spesso il senso mistico della materia e delle ce­
rimonie dei sacramenti (1) e di simboli sacri, litur­
gici è. ripiena la Apocalisse. — I SS. Padri conob­
bero ed esposero spessissimo nelle loro opere il
simbolismo liturgico e formano una serie continua
dai primi secoli sino al decimoquarto (2). Il Con­
cilio di Trento, nel luogo già citato, parla di sim­
boli visibili della liturgia acconci ad elevar l’ani­
mo alla contemplazione dei misteri invisibili che

(1) Cfr. I. Cor. V . 6 ; XI. 7. Rom . VI. 4; Colos. II. 12;


Gal. ΙΠ. 27; V. 9; 1. I. Petr. Π Ι; Jacob. V.
(2) Sono per lo più gli stessi Padri e scrittori che esposero
il senso mistico della Sacra Scrittura: la loro serie coi nomi
principali, vedi presso Maugère o. c. ehap. V i l i § 3. Si noti che
in essi vi fu anche qualche esagerazione, nel voler trovare sim­
bolismo dappertutto.
Del simbolismo nella Liturgia 81

si contengono nel S. Sacrificio. Ed il Catechismo


romano esalta la potenza dei simboli: cc quae sa·>
cramenta efficiunt, caerimoniae ipsae,magis decla-
rant, et veluti ante oculos ponunt, et earum re­
rum sanctitatem in animo fidelium altius impri­
munt » (1); e parlando del S. Sacrificio e dei Sa­
cramenti espone il senso mistico delle cerimonie
che ne accompagnano l’amministrazione. La stessa
liturgia, mentre contiene cerimonie ed usi di cose
sacre, evidentemente istituiti per ragioni simboli­
che, come il passare del sacerdote dall’uno all’al­
tro lato dell’altare nella S. Messa, l’infusione del!
calice, dichiara non di rado il significato mistico
delle cerimonie o cose che usa nelle preghiere che
fa o nella forma della tradizione dei sacri mini­
steri, nelle benedizioni degli oggetti, delle chiese,
degli altari, dei calici, delle campane, dei para­
menti, ecc. di cui fa uso la liturgia.
. E la ragione stessa dimostra come il culto cri­
stiano debba essere accompagnato e perfezionato
dal simbolo. « Le verità cristiane rivelate, espres­
se nel divin culto, sono piene di misteri, e quindi
lo stesso Divin Redentore, per renderle intelligi­
bili allo spirito umano, faceva spesso uso nelle sue
istruzioni di paragoni e di simboli: quale meravi­
glia quindi che anche la Chiesa, volendo nella sua
liturgia esprimere la propria fede nei misteri e
fatti del Cristianesimo, non s’accontenti in molti
casi della parola imperfetta e passeggera; ma la di-

(1) Catech. Cone. Trid. Pars. II. de Sacr. in gen. 18.


82 Capo VI

chiari e l’approfondisca mediante azioni simboli·


che, ovvero la imprima, per così dire, in simboli
permanenti? » (1). Perciò si può dire dei simboli
liturgici quello che San Paolo diceva dell’universo
visibile : cc invisibilia ipsius, a creatura mundi, per
ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, sempi-
tema eius virtus et divinitas » (2).

35. Principali simboli reali - Lumi ed incenso.


Ricchissima è la liturgia cattolica di simboli
reali. Questi si trovano tanto nelle azioni quanto
nelle cose che servono al culto. Le principali azio·
ni simboliche sono i segni di croce nella Messa,
lavanda delle mani, l’incensazione, l’infusione
dell’acqua nel vino, l’aspersione coll’acqua bene­
detta, la alitazione nel Battesimo, il leggero schiaf­
fo che dà il Vescovo nell’amministrazione della
Cresima, l’imposizione delle mani e la presenta­
zione degli strumenti nel Sacramento dell’Ordine,
le processioni, il velarsi del crocifisso e delle im­
magini dei Santi in tempo di Passione, la denuda­
zione degli altari al Venerdì santo, e moltissimo
altre cerimonie della Settimana santa, della Con­
sacrazione delle chiese, dei Vescovi e dei Sacerdo­
ti. Anche alle cose che adopera nel culto la Chiesa
ammette un senso simbolico. Così il sale, la cenere
e il vino che si adoperano per la benedizione del­
l’acqua nella consacrazione della Chiesa, l’olio che

(1) Thalhofer c. c. § 25 6 a.
(2) Rom . I. 20.
Del simbolismo nella Liturgia 83

è materia dei Sacramenti, la veste bianca e la can­


dela accesa che si dà al battezzato, i paramenti sa­
cri, l’anello che si consegna agli sposi, l’edificio
stesso della chiesa, l’altare e molti altri oggetti che
servono pel culto, hanno il loro significato simbo­
lico.
I simboli che più spesso occorrono nella liturgia
sono i lumi e Vincenso, e di questi parliamo qui
particolarmente.
Ad esempio degli ebrei (1), la Chiesa cattolica,
fin da principio, fece uso dei lumi nella liturgia,
e precisamente per fini simbolici. I candelieri, le
lampade, la candela del Battesimo si trovano ricor­
dati dagli scrittori più antichi (2).
L’odierna disciplina della Chiesa prescrive i lu­
mi nella celebrazione della Messa davanti al Ta­
bernacolo, in cui si conserva la SS. Eucaristia, nel­
l’amministrazione dei Sacramenti, in molte Bene­
dizioni, al canto solenne del Vangelo, nella recita
pubblica del divino Ufficio ecc.
Ora la luce e per la sua natura e pe’ suoi effetti
simboleggia Dio, Gesù Cristo vera luce del mondo
(3), la fede, la grazia e le buone opere; e adope­
rata nel sacro tempio, nella liturgia, esprime che
esso è la dimora di Dio in terra. Si adoperano i
lumi nel Sacrificio eucaristico perchè in esso è

(1) Lev. V I. 6; Exod. XXV, 31 e β. XXXVII. 17. Lev.


XXIV. 3.
(2) Cfr. Jakob « L'arte a servizio della Chiesa - Pavia, Arti­
gianelli » dove parla dei candelieri e delle lampade.
(3) Io. V i li. 12.
84 Capo VI

Gesù Cristo dispensatore di luce e di vita; si ac­


cendono davanti al tabernacolo, come tipi di quel
Lume di cui si amministrano i Sacramenti (Micro-
logo) e ad annunciare ai fedeli che là dentro sta
l’Agnello, la vera lucerna della città di Dio. L’E-
vangelo è la buona novella, lo si annuncia quindi
solennemente fra i lumi di letizia. Nei Sacramenti
e nelle benedizioni della Chiesa è Gesù Cristo che
opera invisibilmente, «mentre illumina, purifica ed
infonde la vita nelle anime: ed i lumi esprimono
queste intime operazioni. La Chiesa prega pubbli­
camente in nome di Gesù Cristo, per mezzo de’
suoi ministri ed in unione coi fedeli; e i lumi,
mentre rappresentano l’intima unione della Chie­
sa con Cristo, chiamano i fedeli ad una vita ri-
splendente per le buone opere (1).
L’incenso s’adoperò pure nel sacro culto, tanto
presso i pagani (2) come presso gli ebrei (3), e la
(1) Thalhofer, o. c. § 52, n. 3. Cfr. inoltre Menzel. « Sym-
bolik » alla parola « Lrcht » o^e l'autore espone i vari significati
simbolici della luce. L’ autore è protestante, ma l ’ opera sua è
assai pregevole e non manca di esporre il sentimento cattolico
nei sim boli; essa potrebbe ispirare a qualche studioso dell’ arte
nna specie di Catechismo artistico nel quale esporre l’ uso che
l ’ arte fece della natura per esprimere i suoi concetti specialmente
morali e religiosi.
(2) Tale uso dei pagani si ricorda spesso nella Sacra Scrit,
tura. Cfr. III. Reg. XI. 18; XIII. 1; Ezech. V I. 13. I Macc.
I. 58. 2.; II. 15. Nei primi secoli i persecutori cercavano di
indurre i cristiani ad abbruciar incenso agli idoli. Sarebbe però
in errore colui, il quale, da questo fatto, volesse affermare che
la Chiesa tolse dai pagani l’ uso dell’ incenso, come qualche al·
tra pratica ; la Chiesa non fece una mutazione, ma una rwen ·
dicazione, cioè quegli onori divini che si davano erroneamente
ai falsi dei, essa li ordinò pel vero D io.
(3) Sull’ altare dei sacrifici si abbruciava incenso. Cfr. Exod.
XXX. 1. seg.; Lev. XVI. 18.
Del simbolismo nella Liturgia 85

Chiesa cattolica fino dai primi tempi accolse que­


sto uso nella liturgia.
L’odierna disciplina liturgica prescrive l’uso
dell’incenso nella Messa solenne, al Magnificat nel
canto dei Vespri solenni, nella esposizione, pro­
cessione e benedizione col SS. Sacramento, nella
benedizione e processione delle candele e delle
Palme, nelle processioni colle sacre Reliquie, nel­
la consacrazione dell’altare e delle chiese e nelle
principali Benedizioni, nelle esequie pei defunti;
Ora Vincenso è il simbolo della preghiera, dell’a­
dorazione di Dio, delle buone opere: <cThuribu-
lum vel orationale significat praedicationem9 quae
excitat orandum vel Domini carnem; incensum
vero significat orationes quas (Christus) effundit
in came, unde « dirigatur oratio mea sicut incen­
sum in cospectu tuo »; ignis est charitas qua usque
adeo diléxit nos, quod ipsam carnem calefecit ei
torruit in ara crucis et odorem oratiónum retulit
conspersum in nares Patris, unde respondit : cla­
rificari et iterum clarificabo, vel per odorem in-'
telligimus bonum odorem de Christo, quem qui
vul vivere debet in cor suum trajicere » (1). Ed
ancora più chiaramente Durando: <c .... per thu-
ribulum aureum cor humanum competenter nota*
tur... habens ignem charitatis et thus devotionii
sive suavissimae oratiónis sed bonorum exemploA
rum sursum tendentium, quod per fumum indé
resùltatem notatur. Sicut enim thus in ignem thu-

(1) Riccardo di Cremona, « Mitrale » ΙΠ. c. 2.


86 Capo VI

ribuli suaviter redolet et sursum ascendit, ita opus


bonum, vel oratio ex charitate, ultra omnia thimia-
muta flagrat » (1).
Quindi la liturgia adopera l’incenso per tutto'
ciò che in qualche maniera partecipa della maestà
di Dio. S’incensa l’altare che è il luogo del sacri­
ficio e della preghiera, il crocifisso che è l’imma­
gine di Colui che si sacrifica, e nel cui nome si
prega (2); le Reliquie dei Santi che sono nostri
avvocati presso Dio, il sacerdote che è il ministri
visibile di G. C. ; l’Oblata a significare che insie­
me ai doni, i fedeli devono offrire a Dio i loro
cuori, le loro preghiere. Si incensa ancora l’altare
al Benedictus delle Lodi e al Magnificat del Ve­
spro e per rispetto ai sacri Cantici che sono tratti
dal Vangelo, e per significare che il cristiano colla
preghiera deve incominciare e terminare la gior­
nata. S’incensano i ministri sacri, perchè sono coo­
peratori del sacrificio o della sacra funzione, infi­
ne il popolo « ut nimirum excitet ad orationem et
effectum divinae gratiae repraesentet » (3). In­
fine s’incensano anche le cose : cioè il cadavere dei
fedeli, che fu il tempio dello Spirito Santo, gli
oggetti che sono consacrati in modo speciale al di-
(1) Duranti. « Rationale divinorum officiorum » IV . c. V I.
η. 6 e c. V i li, e X. E* questa un’ opera veramente aurea, il cui
studio è raccomandato anche dal Cerimoniale dei Vescovi (I.
c. V . n. 8).
(2) Durand. 1. c.
(3) Bona « Rer. liturg. » 1. c. 26, n. 9. — Non si può negare
che l’ incensazione delle persone si faccia anche a titolo di onore
della dignità; ciò appare anche dal Cerimoniale, il quale spesso
parla dell’ « honor incensi » (1. c. XXIII, n. 1-34).
Del simbolismo nella Liturgia 87

vin culto, il libro del Vangelo che contiene la pa­


rola di Dio; il sepolcro « ut omnis immundorum
spirituum praesentia arceatur » (1), ed il cimitero,
perchè pure venga protetto « ab omni incursione
malorum spiritum et... ab omni spurcitiae inqui­
namento et immundorum spiritum insidiis » (2).
Ed è appunto per questo significato simbolico del­
l’incenso che la S. C. dei Riti ha vietato di sosti­
tuire ad esso altra materia, mescolata al carbone,
che dà la medesima fragranza dell’incenso e reca
minore dispendio alle chiese, ma vuole che si usi
l’incenso naturale, escluso qualsiasi surrogato (3).
36. Regole per trovare e spiegare il sens
simbolico.
Per riconoscere il senso simbolico delle azioni o
cose liturgiche possono servire le seguenti regolé
generali.
1. Studiare il contenuto delle parole che accom­
pagnano l’azione o si trovano nelle preghiere delle
benedizioni delle cose o nell’uso delle cose stesse.
Questa è la regola principale con cui si discorre
tutta la ricchezza del simbolismo sacro nei para­
menti, nell’incenso, nell’altare e nell’edificio sacro·
della chiesa, nei lumi, nell’acqua santa, nelle Pal­
me ecc.
2. Si cerchi Vorigine e le circostanze dell*istitu­

ii) Duranti, o. c. 1. V II, c. 35.


(2) Pont. Rom . de Benedict. coemeterii. — Cfr. Thalhofer.
o . c., § 53.
(3) S. C. R . 7 Agosto 1875, n. 3363.
88 Capo VI

zioTDe delle cerimonie. Così s’intende il senso sim­


bolico del rito del Battesimo e della SS. Eucaristia.
Sovente nella prima istituzione di una cerimonia o
nell’uso d’un oggetto pel sacro culto si accenna dal
Sommo Pontefice o dai Concili la loro ragione
simbolica, se vi è.
3. Si osservi la relazione che una cerimonia o
l’uso di una cosa può avere con detti, fatti o cose
che si trovano nella Sacra Scrittura. L’architettu­
ra, la scultura e la pittura sacra, specialmente nel
medio evo, erano ricchissime di simboli ornamen­
tali tolti dalla Scrittura e dalla vita dei Santi e sola
una profonda cognizione dei Libri sacri e della
agiografia può servire di chiave per ispiegarli.
4. Infine il senso simbolico così detto tradizio­
nale, non meno importante del reale, si trova nel­
le opere dei Padri e scrittori sacri (1).
Dovendosi poi spiegare il senso delle cerimonie*
prima di ogni altro si deve esporre il senso lette­
rale, che è quello che corrisponde al fine princi­
pale per cui furono istituite; e questo non va con­
fuso col senso mistico, quando nell’origine e nella
mente della Chiesa è da esso distinto e neppure si
deve ricercare una causa fisica, quando evidente­
mente l’azione o la cosa ne ha una mistica. Il sen­
so mistico va esposto secondo la mente della Chie­
sa espressa nelle sue preghiere, nelle opere dei

(1) Le opere più importanti a cui si può ricorrere per tro­


vare e3 esporre il significato mistico sono quelle di Innocenzo
III, di Duranti, Gavanto, Lebrun. Benedetto XIV, Gueranger
e sopratutto Durando di Mende, nell’ Opera più sopra citata.
Del simbolismo nella Liturgia 89

SS. Padri, e principalmente nel Concilio di Trento


e nel Catechismo Romano.
Si può anche esporre il senso mistico illativo :
però si osservi : a) di non riferirlo come significato
vero e reale del rito, ma come un senso che in!
esso si può ravvisare; b) che il senso illativo non
sia mai contrario alla fede, al buon costume od
alla mente della Chiesa, anzi in modo particolare
concordi con questa; c) che in fine la relazione
non sia troppo lontana, nè ridicola, o contraria al
vero senso della cerimonia. Questo senso quindi,
che può servire talora di pia meditazione, anche
al popolo deve esporsi con parsimonia, buon cri­
terio e giusto fondamento.
37. Utilità del simbolo liturgico.
Ma è utile il simbolo liturgico? Questo simboli­
smo, rispondono i protestanti, non fa che sopraca-
ricare inutilmente il culto, distrae il ministro ed
il popolo, conduce ad un morto meccanismo, ad
una vuota esteriorità (1). Nulla di più falso.
Le azioni esterne sensibili e simboliche del cul­
to mentre servono ad imprimere vieppiù nell’ani­
mo le verità della fede, sono assai acconce a de­
stare nei cuori i sentimenti di pietà; ciò si può
provare colla stessa esperienza. Ciò che distrae nel
culto non è il significato simbolico delle azioni e
delle cose, che è sempre ordinato al medesimo fi-

(1) Harnack, « Praktische Thelogie », pag. 287; Dorner a Kir*


che und Reich Gottes » , pag. 97.
90 Capo VI

ne a cui è ordinato il culto, ma sono le novità, e


nulla di nuovo vi è nella liturgia. Il fedele nel
ciclo delle Feste ecclesiastiche, nel ripetersi delle
funzioni, vede ripetersi sempre le medesime ceri­
monie i medesimi simboli. E questi, mentre dan­
no al culto una bella varietà e gli tolgono la mo­
notonia, dirigono passo passo il fedele negli atti
del culto stesso. Sono forse distraenti le commo­
venti cerimonie, piene di simbolismo, che usa la
Chiesa nella Settimana Santa? E neppure si dica
che le lezioni simboliche siano di difficile intelli­
genza pel popolo : perchè ciò che forma il pregio
del simbolo liturgico è la sua facile intelligenza,
la pratica efficacia, in proporzione della cultura e
della pietà che ciascuno possiede : « Ciascuno a
suo modo attinge dalle azioni simboliche un van­
taggio religioso, secondo le sue forze ed i suoi bi­
sogni: davanti ad esse chi si rappresenta questo,
chi quest’altro tratto delle opere di G. C. e ciascu­
no trova nelle azioni simboliche, un vasto campd
alla pietà... Spesso le azioni simboliche, nella li­
turgia cattolica, sono accompagnate dalle relative
parole che servono come di commento, ma son
trevi, come, per esempio il « lumen Christi »; ed
il loro concetto, come nello spogliar degli altari, è
di carattere poetico ed universale, sicché lasciano
all’individuo ancora molto a meditare. Colui che
non intende le parole può ancora ricavare grande
frutto dalle azioni simboliche perchè esse sono già
di per sè, nella loro generalità, di facile intelli­
genza, per cui rendono popolare il culto cattolico,
Del simbolismo nella Liturgia 91

e ciò, tanto più in quanto la Chiesa nella liturgia,


per profondissime ragioni, fa uso di una lingua
morta » (1). « Il nostro culto, dice il protestante
Samann, perdette ogni attrattiva; la sua dignità e
il carattere soffersero gran danno ed assunsero
quello di una stanchevole monotonia : tutto ciò che
era drammatico nel senso più esteso della parola,
è scomparso... Non vi fu mai religione sì povera
nelle azioni del culto sacro, quanto il protestante-
simo ».
La Chiesa, che nel Concilio di Trento esaltò la
influenza delle cerimonie sulla mente e sul cuore
dell’uomo e la maestà che imprimono al sacro
«ulto, è così giustificata dai suoi stessi nemici.

(1) Thalhofer, o. c. § 2S.


CAPO Υ Π .

Font i pri nci pali del l a Li t ur gi a.

38. Fonti dirette e indirette.


La sacra liturgia, come scienza, studia le norme
clie regolano il sacro culto, ed ha le sue fonti, che
sono dirette e indirette.
Fonte diretta è Vautorità della Chiesa cattolica,
la quale solamente ha ricevuto da Dio il mandato
di ordinare il culto divino. Le fonti indirette sono
quei monumenti che ci fanno conoscere la liturgia
nella sua storia o la spiegano. Tra queste fonti in­
dirette la principale positiva è costituita dai libri
della Sacra Scrittura, tanto dell’Antico Testamen­
to, il cui culto, come precursore e figurativo del
cristiano, ebbe su questa tanta influenza, quanto
del Nuovo; e specialmente le Lettere e gli Atti
Apostolici, nei quali abbiamo già veduto il princi­
pio di tutto l’organismo della liturgia cattolica. —
La letteratura patristica contiene molte cose che gli
Apostoli insegnarono a viva voce, e riflette cori
certezza la pratica delle diverse Chiese nell’eser­
cizio del divin culto. Tra questa tiene il primo
luogo, e per tempo e per importanza, la Dottrini
dei dodici Apostoli, scoperta dal Bryennios nel
1873, che, secondo la critica, può risalire al primo!
Fonti principali della Liturgia 93

secolo (1). Quindi le Costituzioni Apostoliche in


otto libri, di cui alcune parti risalgono certamen­
te all’epoca apostolica; i Canoni Apostolici, quelli
di S. Ippolito, e il libro intitolato cc Peregrinatio
S. Silvae Aqui t ad loca sancta », che risale al IV
secolo, scoperto e pubblicato dal Gamurrini, in
cui si trovano importanti notizie sulla liturgia ge-
rosolomitana (2). Gli scritti dei martiri S. Giu­
stino, S. Ignazio, S. Clemente Romano, ecc.
Tra le fonti indirette stanno in primo luogo gli
atti dei Concilii, dei quali abbiamo importanti col­
lezioni. Basti citare quelle dell’Hardouin (3), dei
Mansi (4) e la Lacense edita a Friburgo (5). Rac­
colta importantissima, sebbene particolare, è la
Acta Ecclesiae Mediolanensis di S. Carlo Borro-
meo.
In secondo luogo vengono le Costituzioni ponti-
ficie che non hanno minore autorità degli atti con­
ciliari, e i Decreti della S. Congregazione dei Ri?
ti, nonché le sue risposte e decisioni nei casi par­
ticolari.
Dei Decreti della S. C. dei Riti si è in questi
ultimi anni (1898-1900) fatta una collezione au­

l ì) Vedi il dotto commento che ne fecero R odolfo Malocchi


« il P. Minasi.
(2) Thalhofer, o. c. § 5. n. 1-2.
(3) Hardouin. « Collectio maxima Condi, gener, et prov. ».
Paris 1714, 1715.
(4) Mansi « Sanctorum Conciliorum, nova et amplissima col­
lectio » Florentiae 1759-1798.
(5) Collectio Lacensis: « Acta et decreta Sacrorum Concilio-
rum recentiorum » , Fribnrghi Brisgov. 1870-1891 in 7 volumi.
Cfr. Magani, o. c., voi. I. pag. 57 e seg.
94 Capo VII

tentica, stampata a Roma coi tipi della Propagan­


da fide, nella quale con sano criterio, vennero
omessi tutti quei Decreti che stavano in contrad­
dizione od erano stati abrogati da altri successivi
e nel Decreto che la precede si dichiara che sola­
mente le decisioni che in essa sono contenute
hanno vigore, tutte le altre si ritengono abroga-
te (1).
In terzo luogo vengono i libri liturgici. Questi
sono antichi e moderni.

39. Libri liturgici antichi.


Fra i libri liturgici antichi stanno in primo luo­
go i Sacramentari. Tre sono i più importanti. Il
primo è quello che porta il nome di S. Leone Ma­
gno, detto leoniano. Quantunque non sia un codice
ufficiale ed, almeno nella forma che ha attual­
mente, non sembri scritto prima del secolo quin­
to, contiene tuttavia delle parti assai antiche im­
portanti che ci fanno conoscere lo stato della li­
turgia romana da S. Damaso a S. Leone Magno. Il
secondo è il gelasiano <c la più antica raccolta uf­
ficiale romana di Orazioni della S. Messa » (2);
è diviso in tre parti, (almeno quale ci si presenta
dalle diverse edizioni) che trattano del ciclo del-

(1) L’ultima collezione dei decreti (1927) ha aggiunto una


lunga appendice, nella quale il numero dei decreti giunge a
4404, a cui fa seguito il Commentario del Cardellini all’ Istru­
zione clementina.
(2) Thalhofer. 1. c.
Fonti principali della Liturgia 95

l’anno, delle feste dei Santi e dei giorni domeni­


cali. Il terzo è il gregoriano. San Gregorio Magno
non ha un proprio Sacramentario ma, secondo che
ci riferisce Giovanni Diacono, non fece che elabo­
rare quello di San Gelasio : « Sed et Gelasianum
codicem de Missarum solemniis multa subtrahens,
pauca convertens, nonnulla adiiciens pro expo­
nendis Evangelicis lectionibus in unius libri volu­
mine coarctavit » (1).
I successori di San Gregorio adoperarono il di
lui Sacramentario e lo inviarono alle altre nazioni,
specialmente in Francia. Ai Sacramentari si ran­
nodano, più o meno strettamente, per importan­
za, il Messale gotico, il Sacramentario e il Messale
gallicano antico (2). A San Gregorio Magno dob­
biamo ancora VAntifonario e il Graduale, quan­
tunque quell’originale sia andato perduto e quelli
che ora esistono, e sono i più antichi nella biblio­
teca capitolare di San Carlo, non lo rappresentino
che più o meno fedelmente.
Anticamente le parti del divino Ufficio eranu
raccolte in libri particolari che prendevano il no­
me di salteri, mattutinali, diurnali, vesperali, col­
lettari, lezionari, innari, antifonari, responsoriali
ed omeliari, mentre quello che li comprendeva
tutti si chiamò breviario. Tutti questi libri antichi,
dei quali non mancano importanti pubblicazioni,

(1) Joan. Diacon, in Vita Gregorii, 1. 2. c. 17.


(2) I tre citati Sacramentari, il Messale gotico, il Sacramen.
tario e Messale Gali co antico vennero pubblicati dal Muratori
« Liturgia Romana vetus » Venetiis.
96 Capo VII

sano una fonte copiosa per la liturgia antica, sono


gli Ordines così detti perchè contengono le regor
le, Γ ordine con cui si dovevano compiere le azioni
liturgiche. Da questi uscirono il Messale, il Pon­
tificale ed il Rituale. Sono celebri sopratutto quel­
li della Chiesa Romana, detti perciò: Ordines Ror
mani, raccolti e pubblicati dal Mabillon (1), in
numero di quindici. Infine gli antichi Martirologi,
tanto della chiesa d’oriente che di quella d’occi­
dente.
40. Libri liturgici attuali.
Ma la fonte più copiosa e sicura sono i libri
liturgici che sono in uso nella Chiesa attualmente
cioè : il Messale, il Graduale, il Breviario, VAnti­
fonario e il Vesperale, il Pontificale, il Cerimonia­
le dei Vescovi, il Rituale, il Martirologio. Essi
hanno rubriche copiose generali e particolari tan­
to fuori come entro le sacre azioni che dirigono e
riferiscono tutta la ricchezza e la maestà del sacro
culto nel S. Sacrificio, nella amministrazione dei
Santi Sacramenti e nel compimento di tutte le sa­
cre funzioni. .
Il Messale, la cui edizione ufficiale apparve la
prima volta nel 1570, per ordine di S. Pio Y, ven­
ne ricorretto e riordinato dal Papa Clemente Vili

(1) Mabillon « Museum Italicum », 'Paris 1689, 1724. Π Thal.


hofer fa una breve, ma dotta recensione critica di questi quin­
dici ordines nel luogo sopra citato. Π Muratori (o. c.) pubblicò
il primo, togliendolo dal Mabillon: esso tratta della messa pon­
tificale della chiesa romana.
Fonti principali della Liturgia 97

e da Urbano Vili. Il Pontefice Leone XIII ne ap­


provò una edizione, detta tipica, e volle ut novae
ejusdem Missalis editiones huic tamquam typicae
praesertim quoad cantum ad normam Decreti die
2 aprilis 1880 fideliter expressum, sint confor­
mes » (1). In questa edizione vennero decise e sta­
bilite controversie con apostolica autorità e nessuno
può mutare o togliere alcunché al Messale. — Fa
parte del Missale il Graduale, che contiene le parti
della Messa da eseguirsi dal Coro in canto fermo,
cioè VIntroito, il Graduale, il Tratto, VOfiertorio,
il Communio, del tempo e dei Santi, e le Sequen­
ze, quando occorrono. La sua edizione tipica ap­
parve con Decreto 23 luglio 1920 nella edizione
Vaticana.
Π Breviario è intimamente collegato col Messa­
le nella sua storia di riforma: alla Commissione
eletta da S. Pio V dobbiamo la prima edizione
ufficiale del Breviario uscita nel 1568. Baronio,
Bellarmino e Gavanto, per incarico di Clemente
Vili corressero gli errori che s’erano introdotti
per opera dei tipografi nell’edizione piana, cor­
ressero il testo biblico secondo la Volgata, accreb­
bero e meglio ordinarono le rubriche. La loro
opera però non parve ancora bastare ad Urbano
Vili che volle rivedere gli inni, ed infine Bene­
detto XIV imprese pure una revisione che non
potè mandare a fine. Leone XIII curò come per il

(1) S. C. R. 10 marzo 1884, Decreto premesso alla edizione


tipica.
98 Capo VII

Messale, così anche per il Breviario una edizione


tipica, la quale, con breve della S. C. dei Riti del
12 Settembre 1885, apparve a Ratisbona nel me­
desimo anno coi tipi Federico Pustet. Più tardi
apparve la nuova edizione tipica riformata con
Decreto 25 marzo 1914. Fanno parte del Brevia­
rio VAntifonario e il Vesperale, che contengono
il canto (fermo) delle antifone, inni, salmi, le­
zioni, responsori; versetti ecc. del Divino ufficio*
Anche di questo come del Directorium chori si
ebbero dalla tip. Pustet le edizioni tipiche emen­
date.
Il Pontificale, tratto dagli antichi Ordines, con­
tiene l’amministrazione dei Sacramenti, le bene­
dizioni e le funzioni di carattere giurisdizionale
appartenenti al Vescovo. Apparve la prima volta
nell’edizione ufficiale del 1596 per opera di Cle­
mente Vili, ricorretto poi da Urbano Vili nel
1644 e da Benedetto XIV nel 1752. Anche nel
Pontificale si ha l’edizione tipica 1888 di Fed. Pu­
stet di Ratisbona.
Il Cerimoniale dei Vescovi, emendato e compo­
sto oltreché dai sopracitati Papi, da Innocenzo X,
e da Benedetto XIII, fu pubblicato da ultimo da
Benedetto XIV. Esso, come lo indica lo stesso
nome, contiene il rito di tutte le cerimonie vesco­
vili, ma le sue norme si possono e si devono ap­
plicare anche ad altre funzioni quando vi è pre.
sente il Vescovo. L’edizione tipica è quella del
1886. Essa è un libro liturgico per eccellenza e
le sue rubriche obbligano dovunque, come lo in-
Fonti principali della Liturgia 99

dicano le bolle Pontificie che reca in principio. La


S. C. dei Riti scrive: « Omnes Ecclesias Metropo­
litanas, Chatedrales et Colegiatas dictum librum
Caeremonialem in omnibus ad unguem servare
debere, praeterquam in illis quae de antiqua imme­
morabili ac laudabili consuetudine, alio vel diver­
so modo ab eo qui in caerimoniali praescribitur,
observantur ». (1) Esso obbliga anche i Regolari
che hanno rito romano, e non godono di speciale
indulto (2).
Il Rituale apparve nell’edizione ufficiale fatta
per ordine di Paolo V, affinchè : cc in tanta Ritua­
lium multitudine sua illi (qui curam animarum
gerunt) ministeria, tamquam ad publicam et obsi­
gnatam normam peragerent, unoque ac fideli duc­
tu inoffenso pede ambularent cum consensu » (3).
Benedetto XIV ne ordinò una revisione; e sotto il
Pontificato di Leone XIII apparve l’edizione del
1884. L’ultima edizione tipica Vaticana è del 10
giugno 1925. Essa riveduta ed emendata secondo
il Codice di Diritto Canonico è obbligatoria per
tutti.
Il Martirologio ebbe origine dal costume di con­
servare il nome e la data della gloriosa morte dei
Martiri e dei Santi. Ogni chiesa aveva in antico il
suo Martirologio ed i principali sono: quello che

(1) S. C. R . 6 log lio 1605, n. 184; 4 marzo 1606, n. 207; 14


novembre 1654, n. 371; 7 agosto 1894, n. 3839 I.
(2) S. C. R . 10 gennaio 1604, n. 154. Cfr. De-Her.3t. Praxis
Pontificatus seu Caerem. Episc. expositio practica Lovanii 1873.
(3) Bolla di Paolo V . sul Hit. Romano 17 giugno 1614.
100 Capo VII

si attribuiva a S. Eusebio, tradotto da S. Gerola­


mo, di cui comunemente porta il nome, quello di
Eucherio del secolo V. quello di S. Beda, quelli
di Vandalberto di Rabano Mauro, di Adone, del
Diacono Floro di Lione, dell’Usuardo. Il Martiro­
logio del Card. Baronio e dell’Agellio fu pubbli­
cato per ordine di Gregorio XIII, corretto da Ur­
bano Vili da Clemente X e da Benedetto XIV. La
edizione fatta per ordine di quest’ultimo Ponte­
fice è l’unica ufficiale che si può adoperare nel­
l’Ufficio.
A tutte queste fonti si può aggiungere VOttava­
rio Romana, che contiene le lezioni del secondo e
terzo notturno per tutta l’ottava dei Santi che nel
Breviario non hanno ottava e serve o può servire
per quelle chiese che hanno per titolare un Santo,
la cui ottava non si trova nel Breviario. Fu pub­
blicato dal Gavanto nel 1638, e la tipica edizione
apparve nel 1883 a Ratisbona.
Tutti i libri liturgici, di qualunque sorta essi
siano, che servono all’uso pubblico nella chiesa,
oltre alle Bolle Pontificie devono portare anche
l’approvazione del Vescovo della diocesi nella qua­
le sono stampati. In questa approvazione si deve
dichiarare che essi concordano cogli originali pre­
sentati dalle edizioni tipiche ed ufficiali (1). Quin­
di ogni volta si rinnova ancora la dichiarazione
vescovile, e non possono usare quegli esemplari
che ne vanno privi (2).
(1) Decreto Generale S. C. R . 26 aprile 1834, n. 3716.
(2) S. C. R . 18 febbraio 1843, n. 2885. 1. 2.
Fonti principali della Liturgia 101

In questi ultimi anni la Tipografia Vaticana


curò una nuova edizione tipica dei libri liturgici,
riformando sopratutto il canto sui codici antichi.'
Questa edizione fu dichiarata Vunica tipica, ai
quali si devono conformare tutte le edizioni sotto­
poste alla revisione vescovile. Sono già pubblicati:
il Messale e il Graduale, il Rituale e il Breviario.
PARTE II

Li t urgi e particolari
Liturgie particolari.

Già abbiamo più sopra accennato (1) come la


liturgia nei primi secoli della Chiesa era unica e
serviva tanto per l’oriente come per l’occidente;
e probabilmente è quella contenuta nel libro ot­
tavo delle Costituzioni Apostoliche, detta anche
clementina. Ciò non toglie però che quel germe,
quel’organismo liturgico, creato dagli Apostoli ed
ordinato ad un ulteriore sviluppo per opera della
Chiesa, non avesse già in quei primi secoli delle
particolarità in alcuni luoghi; differenze acciden­
tali che per nulla intaccano la sostanza. I Vescovi,
successori degli Apostoli, maestri della fede e del'
culto, conoscitori dei bisogni particolari delie loro
comunità, furono anche quelli che regolarono la
liturgia in questi primi tempi. Presto però questo·
compito venne assunto dai Concili generali e pro­
vinciali, e quindi le differenze particolari andaro­
no scomparendo e le liturgie presero un carattere
provinciale ed ebbero il loro centro, come il loro
nome, dalla sede principale della vittoria. Alcune
di quelle città erano state sedi di Apostoli, e quin­
di la loro liturgia venne ad assumere il nome dal­
l’Apostolo stesso. *
E’ inutile ancora osservare qui che, esaminan­
do le liturgie, non facciamo questione della loro
autorità per la persona che le scrisse, perchè

(1) Vedi n. 14.


106 Capo 1

ognun sa che Vautorità di una liturgia non di*


pende nè da chi la stese nè da chi la raccolse od
ordinò, ma dalla Chiesa che la adoperò e la ado­
pera nel divino culto. Così posto pure che la critica
trovasse apocrifi i libri che ora ci restano della li­
turgia di S. Giacomo, di S. Marco o di S. Pietro,
essi non cesserebbero di avere una grande autorità
perchè qualunque sia lo scrittore, o il tempo in cui
quei libri vennero stesi, è certo che le liturgie, che
contengono, furono o sono in uso nella Chiesa, e
questo per noi basta.
Dividonsi le liturgie in orientali ed occidentali;
le prime prendono il nome delle principali città di
oriente, sedi di Apostoli o di Patriarchi, le secon­
de prendono il nome dalle città e nazioni in cui
furono o sono in uso.
SEZIONE I.

Liturgie orientali
CAPO I.

Liturgia Gerosolimitana
detta di S. Giacomo o di S. Cirillo

41. Origine della liturgia gerosolimitana.


Gerusalemme fu il centro in cui ebbe origine e
si svolse, nei primi tempi del Cristianesimo, il
Liturgia Gerosolimitana 107

culto cattolico. La liturgia che vi si conservò, dopo


la dispersione degli Apostoli, ebbe il nome dal
primo e più grande Vescovo che governò quella
chiesa e si chiamò liturgia di S. Giacomo. Con ta­
le nome difatti è designata dalla tradizione costan­
te ed universale presso i Siri (1), è ricordata da
Proclo (2), dal Sinodo Trullano che ricavò da
questa liturgia un argomento contro gli idropara-
sti che non adoperavano l’acqua nel S. Sacrificio
della Messa (3) e dell’autore della « Collectanea
de quibusdam haeresibus » (4), il quale può esse­
re vissuto circa il secolo nono.
Seguono le autorità del Menologio basiliano e
quelle dei più celebri personaggi dell’Oriente, co­
me Giovanni Cytrio, Marco Arcivescovo di Efe->
so, Isac armeno, Gennadio Scholario, Nicolò me-
tenese, Alessio Aristeno, Emanuele Malasso, Ga­
briele Severo, ed il Card. Bessarione con molti
altri di tempo posteriore (5).
Non mancano i caratteri intrinseci che ci fanno
conoscere questa liturgia di origine gerosolomita-
na e apostolica. Si fa in essa infatti memoria dei
luoghi santi : conserva dovunque un carattere

(1) Renaudot. « Dissert, de Syriacis Melchitarum et Jacobi·


tarum Liturgiis » II.
(2) Fragmenta de Tradictione divinae Missae. — Il fram­
mento passa sotto il nome di Proclo, quantunque la critica non
ne assicura la autenticità. E’ certo però che esso riferisce il
pensiero del tempo in cui fu scritto, e per noi basta.
(3) Anno 692. Can. 32.
(4) Tom. II Thesaurus monumentar. Canisii. p. 3, fol. 49.
(5) Binterim « Denkwurdigkeiten », .Voi. IV. 2. p. 145.
108 Capo l

semplice, severo, vi si fa menzione della Chiesa


nascente e perseguitata e sopratutto nella formula
della consacrazione si dice: Egli (Gesù Cristo) lo
presentò (il calice) a noi suoi discepoli ed Apò*
stoli. L’importanza di quest’ultimo argomento à
evidente ; poiché tutti sanno con quanta cura si cu^
stodì questa formula presso le chiese, ove gli Apo­
stoli stessi fondarono la liturgia. Si raccolsero an->
che le più piccole particolarità e si tramandarono
con sacra venerazione (1). Pare quindi .accertato
che la liturgia di S. Giacomo derivi da questa
Apostolo. Sostenendo però la paternità di S. Gia-i
corno su questa liturgia non si vuol affermare che
essa venne scritta da lui ciò che è anzi da esclu­
dersi affatto, ma solamente che discende da lui»
in quella forma particolare, quale l’abbiamo nella
parte essenziale, e quale la designò sempre la tra­
dizione, e che essa abbia avuta per patria la città
di Gerusalemme, sia cioè apostolica nello stretto
senso della parola.

42. Vicende storiche - lingua in cui fu scritta.


Le vicende di questa liturgia vanno intimamen­
te collegate colla storia della città di cui porta il
nome. Gerusalemme fu ridotta, dall’Imperatore
romano Tito, ad un mucchio di rovine; ma i crii
stiani e gli ebrei non seppero abbandonare quei
luoghi che ricordavano tante sacre memorie. Essi

(1) Probet. « Liturgie der drei ersten Jahrh » , § 73.


Liturgia Gerosolimitana 109

ritornarono tosto ad abitarvi. La religione cristia­


na vi rifiorì, e ben quindici Vescovi, per testimo­
nianza di S. Cirillo, tennero, con successione con­
tinua, quel seggio episcopale, dopo S. Giacomo (1).
Questo fatto ci assicura come anche l’antica
liturgia originaria vi si mantenne inalterata. L’Im­
peratore Adriano distrusse una seconda volta la
città, che in parte era stata riedificata, diè ordine
che nessun giudeo potesse abitare in quelle regioni
e nel luogo di Gerusalemme sorse, per suo co­
mando, la città di Aelia, nella quale convennero
gli stranieri romani e i cristiani convertiti dal pa­
ganesimo.
Durante queste vicende il culto cristiano non
era mai cessato a Gerusalemme e nei dintorni; ciò
che si dovette cambiare fu probabilmente la lin­
gua. Perchè mentre nel lasso di tempo che passò
fra Tito e Adriano, si adoperava, pel commercio
e per la liturgia la lingua aramaica o siro-cMaica,
nella nuova città, dove quella lingua non era in­
tesa, si adoperò il greco. Non è però senza fonda­
mento l’opinione di coloro che affermano come,
assai per tempo, s’adoperasse nella liturgia di
Gerusalemme anche la liturgia siriaca. Tale opi­
nione confermerebbe la sentenza di Bickel, secon­
do il quale la versione siriaca rappresenta, più fe­
delmente che non la greca, l’antica liturgia gero-
«olomitana, poiché una tale versione potè derivare
dall’aramaico. Egli è certo però che la versione

(1) Cyrill. cat. 13, n. 15.


110 Capo l

greca, anche se posteriore di tempo alla siriaca, stai


a pari, per autorità a questa mentre fu adoperata
in Asia, cc Non si può supporre infatti, osserva il
Probst, che distrutta Gerusalemme cessasse l’anti-
corito delle sue solennità e che i cristiani di quei
luoghi avessero ricevuto quello che si adoperava
in Cesarea od in Antiochia » (1).
La versione greca (2), dalla quale con maggior
probabilità provenne la siriaca (3) è quella che si
riconosce come propria del patriarcato di Gerusa-i
lemme e delle Chiese greche dell’isola di Cipro e
della Sicilia (4). Certo non si può stabilire in qua-
l’epoca sia stata scritta la liturgia greca che ora
possediamo, e che passa sotto il nome di S. Giaco­
mo, ma essa rappresenta senza dubbio la formai
che aveva alla metà del secolo quinto (5), ossia in
quel tempo in cui, in luogo della Messa dei Cate­
cumeni, sottentrò il preparamento alla Messa, dii
cui non fa parola S. Cirillo nelle sue catechesi.·

(1) Probst. « Liturgie des vierten Jahrh ». § 17.


(2) Ammesso che prima del secolo IV non sia stato scritto
alcun codice ufficiale per la liturgia, non si può neppure par·
lare di versione nel senso stretto della parola. Qui si prende
non nel senso di traduzione delle orazioni liturgiche in un’ altra
lingua, ma a dinotare il fatto della celebrazione dei sacri mi·
steri in una lingua diversa dalla originaria.
( 3) Renaudont. « liturgiar. orientai, Collectio » t. 1. Dissert.
num. 2.
(4) A Messina si conserva un codice eh contiene un fram­
mento di questa liturgia, pubblicato dal dotto Assemani nel suo
« Codex liturgicus », voi. 5. Esso è una parafrasi della liturgia
di S. Giacomo, e secondo la critica può risalire al secolo X.
Ma il terremoto del 1908 seppellì forse anche questo prezioso
documento.
(5) Daniel a Codex liturgicus » , t. IV. 1.
Liturgia Gerosolimitana 111

Quindi in questo tempo vi si introdusse la parola


« ομόνσιος-» consostanziale, consacrata nel Concilio
Niceno e l’altra « Secrozes* » Madre di Dio, appli­
cata alla B. Vergine, adoperata negli atti del Con­
cilio Efesino. Si aggiunse anche, prima delle lezio­
ni, il Trisagio che ebbe origine sotto l’Imperatore
Teodosio II, mentre il cantico dopo l’anafora è
antichissimo ed è certo di origine apostolica. Pie­
tro Fullone, usurpatore della sede antiochena, ca­
duto nell’errore dei teopassiani cercò di introdur­
re il suo errore nel Trisagio, ma venne condan­
nato dal Concilio Trullano, quantunque l’impera­
tore Anastasio, sostenitore degli eretici, volesse
che i giacobiti avessero a conservar quelle aggiun­
te (1).
43. Dove era in uso anticamente.
La liturgia di S. Giacomo era in uso non solo
in Gerusalemme, ma in tutta la Palestina e la Si­
ria. « Hierosolymitarum liturgiam amplexae sunt
nedum subiectae ecclesiae, verum alienae quam-
plures, quin fere omnes orientales, ad illam suas
liturgias expresserunt et accomodarunt » (2). Ma
nel secolo quinto gli abitanti di queste regioni cad­
dero per la maggior parte nell’eresia dei monofi·
siti e si chiamarono giacobitù per distinzione dai
cattolici, che si dissero melchiti. Entrambi man-12

(1) Lebrun, I. c. t. II II Dissert. VI, art. 1.


(2) Assemani « Codex limrg. eccl. universalis » t. 4 p. 2
Praef.
112 Capo l

tennero per qualche tempo la liturgia di S. Giaco­


mo, finché questi ultimi, dopo un concilio di Co-^
stantinopoli, abbracciarono la liturgia di questo
patriarcato colla lingua greca, abbandonando la
siriaca. Ma la liturgia di S. Giacomo si conservò,
quantunque con una grande quantità di aggiunte,1
tanto presso i giacobiti eretici quanto presso i ma·
Toniti, che per la liturgia non si distinguono quasi
per nulla dai Giacobiti (1). Di questa liturgia A-
bramo Echell ricorda più di cinquanta forme, le
quali, fatte poche eccezioni, non contengono che
l’anafora, e i codici che riferiscono la preparazio­
ne della Messa, sono pochi, recenti, e questa par­
te venne attinta dalla liturgia di S. Giacomo. Il
Renaudont ne pubblicò più di trentotto (2).12

(1) Bickel a Literar. Handtveise » , n. 86, p. 51S.


(2) Renaudot V . II. pag. 46 e 47. — Queste più che cin­
quanta anafore della liturgia giacobitica sono esposte critica-
mente dal citato Bickel. Egli le divide in due classi. Alla prima
riferisce quelle che sono certamente apocrife od almeno assai
dubbie, e tra queste annovera le tre liturgie di S. Pietro, quella
dei dodici Apostoli attribuita a S. Luca, quelle di S. Giovanni
e S. Marco, di S. Clemente Romano, di S. Dionigi Aeropagita,
di S. Ignazio di Antiochia, Matteo il Pastore; in fine quelle
dei Pontefici Sisto, Celestino e Giulio, dei SS. Padri Basilio,
Gregorio Nazianzeno, Cirillo Alessandrino, dei siri Maruta e
Giacomo di Sarug, del persiano Simone. Nella seconda colloca
quelle che vengono stese dai Patriarchi dei Giacobiti siri. Fra
questi sono: Filosseno, Giacomo Baradeo, Tomaso di Aracla,
Giovanni c i Bacra (sec. VII), Giacomo di Edessa, che fece una
recensione della Liturgia di S. Giacomo, Eleazaro Bar Sebetha
di Babilonia, detto anche Filosseno di Bagdad (sec. IX), Mose
Barkepba, Giovanni Bar Schuschan ( 1165) nei messali cattolici
sotto il falso nome di S. Giovanni Grisostomo, Dionigi Barca,
lib ( 1171) i Patriarchi Michele il Vecchio, Giovanni Scriba
od il Piccolo (verso il principio del sec. XII) e Giovanni Ibe
Maadani ( 1263) Gregorio Barhebreus ( 1286) Discorso di
Liturgia Gerosolimitana 113

44. Edizioni.
I codici antichi di questa liturgia sono assai rari.
Le persecuzioni continue che agitarono le Chiese
orientali, l’ignoranza di molti che trascurarono di
conservare i libri liturgici, il cieco zelo con cui
Maroniti del Libano e del Malabar mandarono al­
le fiamme gli antichi sacramentari, furono le cause
per cui si trovano rarissimi codici, specialmente di
quelli che contengono un ordine generale. Quanto
alle edizioni che si fecero di questa liturgia scrive
il Renaudot: cc Omnes... Liturgiae Syriacae Ma-
Tonitarum titulo editae, aut quae in recentissimis
aliquot codicibus reperiuntur Jacobitarum sunt,
ut complures cdiae quas recenset Abrahamus E·
chellensis. Nam in codicibus Jacobitarum, qui ser­
vantur in bibliotheca Seguieriana et Colbertina ut
in Florentina omnes illae reperiuntur, cum certis
indiciis, quae illas Jacobitis proprias esse demo·
strani. Immo, quod satis mirari non possumus, in
Romana ipsa editione tituli servati sunt loannis
Barsusan, Matthei Pastoris, Dionysii ed aliorum9
quos non unis locis monuerunt. Unde in aliquot e-
xempiaribus, atrum transverso calamo signum
Joannis Barsusan nomini illitum est. Verum igno­
ravere editores, eam quae fuisse, quod falsa Sancti

Kardu (fine del sec. XIII) ed il Patriarca le Waib (1332). Ed


in m odo speciale considerevole è infine l’ anafora dei Santi Dot­
tori composte sulle liturgie dei più grandi Dottori della Chiesa,
del Patriarca Giovanni Bar "Wahbun, verso la fine del sec. XII,
in cui sono citate le anafore di S. Giacomo, S. Giovanni e altre
antiche. Cfr. Renaudct. Dissert. cit.
114 Capo 1

Pontificis Epistola, ad erroris sui patrocinium pas·


sim abuterentur : eam quae Dionysio Atheniensi
contra librorum veterum fidem tribuitur, esse,
Dionysii Barsalibi; nullam esse denique, quam
Jacobitae sibi non vindicarent » (1). Senza accen-
nare però le edizioni che ne fecero i greci questa
liturgia fu stampata in greco dal Moral Panno*
1650, e nello stesso anno, anche in latino e dedi-!
cata al Card. Lorena, e più tardi al Pontefice Si­
sto V. In una di queste edizioni latine vi è una pre­
fazione di Claudio De Santi, poi Vescovo d’E-
vreux, e nell’altra dedicata dal Canonico S. Andrea
di Parigi al Papa, si trovano note di Genziano
Hervet. Questi tre dotti personaggi concorsero a-
dunque alla pubblicazione della liturgia di S. Gia­
como (2). Venne altresì pubblicata in tedesco dal
Probst, e prima di lui in latino dal Renaudot, il
quale ci dà l’ordine di tutte le principali liturgie
siriache.
45. Sua autorità.
Appena vennero pubblicate le prime edizioni
della liturgia di S. Giacomo insorse una viva di­
sputa tra i cattolici e i protestanti circa la sua au«-
torità. Alcuni dei cattolici pretendevano che essa
fosse stata scritta dallo stesso Apostolo di cui porta
il nome, e quindi avesse autorità apostolica, men-12

(1) Renaudot, 1. c. Vedi inoltre la lettera di Jacopo di E-


dessa intorno ai riti della Messa dei Siri presso Lapini, Lez~
XII. Appendice.
(2) Lebrun, 1. c.
Liturgia Gerosolimitana 115

tre i protestanti la rifiutavano come apocifra non-


attribuendole alcun valore. Ora, quantunque sia
dalla critica accertato che l’Apostolo non scrisse
alcun ordine liturgico, è però un fatto che questa-
liturgia fu in uso fino dai primi tempi della Chie­
sa, perciò ha una grandissima autorità. E’ certo·
che caduta poi in mano degli eretici, ebbe a subire
i loro errori ma se si tolgono i punti dogmatici che
determinano la loro separazione dalla Chiesa, e
che essi vi inserirono, essa riferisce tutto il dog­
ma cattolico del tempo in cui avvenne il fatto do­
loroso. Quindi è un monumento di grandissima
autorità per ribattere gli errori che sorsero più-
tardi e separarono dalla Chiesa i popoli, e special-!
mente contro i protestanti.
46. Ordine e parti principali di questa litu
gia.
Secondo le edizioni più sopra citate l 'ordine ge­
nerale di questa liturgia è il seguente. Il Celebrante
prima di incominciare la Messa chiede perdono a
Dio, con una preghiera, dei suoi peccati, onde
essere purificato. Quindi si abbrucia incenso con
nuove preghiere. Arrivato all’altare, il Celebrante
saluta il popolo, annunciando la pace; il Diacono
invita alla preghiera e i cantori incominciano il
trisagio. Il Celebrante dà la pace e il coro canta
l’Alleluia; quindi, dopo alcune preghiere, a cui
invita il Diacono, si congedano i Catecumeni. Be­
nedetto l’incenso, si canta l’inno dei Cherubini o
dei tre Alleluja. Si fa l’offerta dei doni, la recita
116 Capo l

del Simbolo, si dà il bacio della pace, si fanno pre­


ghiere generali.
Quindi si chiude il santuario colle cortine ; il Ce­
lebrante annuncia la pace e il Diacono invita al
raccoglimento : stiamo, die2 , con riverenza e timo­
re e mettiamo tutta la nostra attenzione alla obla­
zione divina. Il Celebrante continua la preghiera
e recita il prefazio in cui si chiamano tutte le crea»
ture a lodar Dio; il popolo canta il Sanctus, dopo
il quale il Celebrante benedice i doni e li consa­
cra colla formula generale e tradizionale nella
Chiesa. S’invoca lo Spirito Santo sui doni, si fan­
no preghiere in segreto, il memento per tutti i bi­
sogni, si prega per intercessione della ccSantissima
e gloriosa Vergine Maria, nostra Signora, Madre
di Dio, innalzata sopra tutte le creature » ; e i can­
tici proseguono ad esaltare le glorie della santissi­
ma Vergine. Si fa una lunga preghiera pei morti,
per i fedeli della Chiesa, si recita l’Orazione do­
menicale, si benedice l’assemblea, si alza l’Ostia
facendo una preghiera, con cui si domanda a Dio
che santifichi il popolo presente. Si frange il Pane
consacrato, lo si mescola col vino e si fa la comu­
nione, durante la quale si cantano salmi. Si fanno
ancora delle preghiere, e il Sacerdote infine dà la
benedizione (1).
In questa liturgia, dice il Probst, si devono di­
stinguere due parti principali, quella che proviene
dall’antica chiesa gerosolimitana e risale fino a1

(1) Lebrun, 1. c. § 1.
Liturgia Gerosolimitana 117

S. Giacomo, e quella che venne aggiunta più tardi,


cioè dal 350 al 450. Prima del 350 è difficile sia
avvenuta una considerevole mutazione, quantun-i
que per esempio la parola « consostanziale » si
possa esser trovata in essa subito dopo il Concilio!
niceno. Dopo il 450 essa ha già assunto la forma
attuale. In quanta parte essa si possa riferire ai)
primi tre secoli lo si può solo ricercare dal conte·"
nuto delle preghiere. Quindi, confrontando que«
sta liturgia con quella di S. Clemente e di S. Mar­
co, passa il medesimo dottissimo autore a stabilire
quelle parti che risalgono ai primi tre secoli, e
quelle che si possono riferire all’epoca che abbia­
mo più sopra accennato, cioè al tempo che passò*
dalla metà del secolo quarto (1).
47. Le catechesi mistagogiche di S. Cirillo.
Il più antico monumento della liturgia di San
Giacomo sono le catechesi di S. Cirillo Vescovo di
Gerusalemme. Delle ventitré che si possiedono, le
prime diciotto furono dal Santo tenute ai compei
tenti, durante la quaresima; le altre cinque, dette
mistagogiche (2), ai neofiti, durante l’ottava di
Pasqua. Nella prima di queste si parla delle ceri-»
monie avanti il Battesimo cioè delle rinuncie e
della professione di fede; la seconda tratta delle
sacre unzioni e del Battesimo; la terza dell’unzio-12

(1) Ferd. Prosbt. « Liturgie der drei ersten Jarhunderten ».


§ 73.
(2) . La sesta andò perduta.
118 Capo l

ne del sacro Crisma: la quarta dell’Eucarestia; la


quinta della Sacra liturgia e della Comunione. Il
Santo parlava a neofiti, perciò non era più astretto
alla disciplina dell’arcano, quantunque lo ricono­
sca (l); teneva discorsi semplici, nei quali ricorda
ed espone i sacri riti, ma egli non fa che esporre
le parti principali e non traccia tutto l’ordine li-*
turgico gerosolimitano.
La più importante delle catechesi mistagogiche
è la quinta, in cui il Santo descrive ed espone mi­
sticamente le cerimonie della Messa solenne dalla
oblazione fino alla fine, cc Vidistis igitur Diacon
num, sacerdote et presbyteris altare Dei circum-,
stantibus, aquam abluendis manibus porrigentem
... ea manuum oblutio symbolum estt mundos vos
ab omnibus peccatis et praevaricationibus esse de­
bere. Deinde clamat Diaconus; Vos invicem susci­
pite osculemurque mutuo... signum igitur est oscu->
lum hoc animas sibi invicem admisceri et omnibus
iniuriarum memoriam obliare... Postea clamat sa­
cerdos; sursum corda... idem igitur est ac si prae­
cipiat sacerdos ut omnes circam illam horam de­
ponant curam vitae huius et domesticam sollicitum
dinem... Post haec sacerdos ait; Gratias agamus
Domino, vere enim gratias agere debemus quod
cum indigni essemus, ad tantam nos vocavit gra-
tmm... Facimus deinde mentionem coeli et terrae
et maris et solis et lunae, astrorum et totius crea­
turae tam ratione praeditae, quam carentis, visi-1

(1) Catech. 6. n. 29 Pratoc., n. 12 Cath 23, n. 9.


Liturgia Gerosolimitana 119

bilis et invisibilis, Angelorum, Archangelórum....


Deinde postquam nosmetipsos per has spirituales
laudes santificavimus, Deum benignum exoramus
ut emittat sanctum Spiritum super dona preposita
ut faciat panem quidem corpus Christi, vinum ve-
ro sanguinem Christi. Postquam vero perfectum
est spirituale sacrificium, incruentus cultus super
illam propositionis hostiam, obsecramus Deum pro
communi Ecclesiarum pace, pro recta mundi com-
positione, pro imperatoribus, pro militibus et so­
ciis, pro his qui infirmatibus, laborant pro his qui
aflictionibus premuntur... Postea recordamur eo­
rum quoque qui obdormierunt, primum, deindé
et pro defunctis... » (1). Di qui appare come la
liturgia di S. Cirillo abbia importanti relazioni
con quella delle Costituzioni Apostoliche di San
Giustino e conferma la sentenza che abbiamo più
sopra difesa che nei primi tre secoli unica sostan­
zialmente era la liturgia, e precisamente quella
delle Costituzioni Apostoliche.

48. Uso attuale della Liturgia.


Non ostante gli sforzi dei patriarchi di Costanti­
nopoli di ridurre l’occidente ad unità liturgica,
facendo abbracciare le riforme di S. Basilio e di
S. Giovanni Grisostomo, la liturgia di S. Giacomo1

(1) Catech. 6, passim. La più bella ed erudita esposizione


di questo monumento liturgico venne fatta dal Probst.: «Litur­
gie des vierten Jahrhund » . § 19 e seg. ; Lebrun. oc. c. Dis. sert.
I. art. 7 ex 7.
120 Capo l

perseverò non solo presso gli eretici, ma anche fra


i cattolici. Attualmente il rito siriaco cattolico di-
videsi in quattro classi cioè: il siriaco puro, il si-
ro-caldaico, il siro maronitico e il siro malabarico-
Il rito siriaco puro è in uso in Siria (diocesi di
Aleppo, Beyrouth, Damasco) nella Mesopotamia
(dioces. di Bagdad, Diarbekir, Gezira, Bardin,:
Mossul), e nella Fenicia (dioc. di Homs e Hama).
Il siro caldaico è usato nella Mesopotamia (dio­
cesi di Mossul, Gezira, Diaberkir, Mardin, Zaku);
nel Kurdistan (dioc. Akra Amadia, Kerkuk, Seer-
th, Sena); nella Persia (dioc. di Salmas).
Il maronitico è adoperato in Aleppo, Beyrouth»
Balmak, Damasco, Gebail e Batrum, in Tiro e Si­
done, nelFisola di Cipro ed a Tripoli.
Il malabarico nei due Vicariati Apostolici di
Cottayam e Trichur.
CAPO II.

Liturgia delle Apostoliche Costituzioni


e Antiochena.

49. Liturgia Apostolica o Clementina.


Nel libro ottavo delle Costituzioni, attribuite
agli Apostoli e che certamente, nella loro sostanza,
risalgono ai tempi Apostolici, si contiene l’ordine
di una liturgia che prese il nome di apostolica. Si
chiama anche clementina, perchè quella raccolti
di Costituzioni si attribuisce al Pontefice romano
S. Clemente.
50. Integrità - antichità - autorità di questa
liturgia.
Molte sono le questioni a cui diede luogo questa
liturgia. Chi la vede ripiena di interpolazioni, che
la fa risalire non prima del secolo quarto, molti le
tolgono l’autorità, mentre affermano che essa h
una liturgia ideale, non stata mai in uso nella!
Chiesa. — Ora non si può negare che questa litur­
gia, quale ora ci si presenta nel libro ottavo delle
Apostoliche Costituzioni, dovè subire qualche ag­
giunta, in corrispondenza alle circostanze del tem­
po e del luogo in cui fu usata : come per esempio,
le regole circa il modo di comunicare il popolo,
pervenute dal Concilio di Nicea, il memento dei
122 Capo Η

vivi, in cui si fa cenno di alcuni ordini del clero*


e quello dei morti in cui si accennano solo i mar­
tiri; ma tuttociò è conforme alla liturgia del secon­
do secolo. Più tardi si fecero delle aggiunte; ma
queste non sono interpolazioni, sono anzi uno svi­
luppo conforme alla natura dela liturgia stessa.
La liturgia apostolica è certamente la più antica
di tutte quelle che si conoscono. Difatti la messa
dei Catecumeni è ancora affatto conforme alla an­
tica disciplina, secondo la quale il popolo si divi­
deva in catecumeni, energumeni, competenti e pe­
nitenti. Nella liturgia di S. Basilio e di S. Giovan­
ni Grisostomo, quale ora ci resta, questa divisione
è già scomparsa. Anche la liturgia di S. Cirillo, di
Gerusalemme ce la riferisce e tanto concorda con
questa che furono credute una sola, per cui se
nelle catechesi non è spiegata questa prima parte
della Messa, ciò è certamente per la ragione che
non occorreva spiegarla ai battezzati, che già la
conoscevano prima del Battesimo; ma essa ha già
il Pater noster avanti la Comunione, che la nostra
non ha ancora e che tutte le liturgie posteriori con­
servarono. La sua antichità appare ancora dalla
lunghezza delle preghiere, le quali solo più tardi,
nel tempo cioè della riforma, vennero abbreviate.
Inoltre essa si distingue per maggior antichità da
quella di S. Giacomo e di S. Basilio, non solo per­
chè non contiene le preghiere di preparazione alla
Messa che vennero aggiunte a tutte le liturgie ri­
formate, ma nel Memento non ha nomi speciali
di Santi, e nelle preghiere si fa cenno degli asce­
Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 123

ti (1). Essa è conforme con quella a cui accennano


S. Giustino M., Tertulliano e S. Ireneo, quando
parlano della Messa dei Catecumeni, dell’Offerto-
rio e della formula della consacrazione (2). La
dogmatica che vi si contiene è tutta conforme ai
primi tempi della Chiesa. Si osserva, dice il Drey,
in questa liturgia una grande sicurezza con cui si
usano e si scambiano diverse espressioni ad indi­
care le relazioni della SS. Trinità, il che prova che
allora non vi era una formula definita canonica-
mente sul dogma, quindi essa è certamente ante­
riore all’eresia degli ariani. Laonde per tutto ciò
si può concludere che questa liturgia rappresenta
la forma che aveva il culto cattolico al principio
del secondo secolo (3).
Di qui appare quanto sia la sua autorità. Qua-123

(1) Drey « Neue Vntersuclungen » , pag. 139. Riferito dal


Probst. « Liturgie der drei ersi. Jahrh ». | 96. — L ’ origine de­
gli asceti è antichissima ed alcuni la fanno risalire sino agli
antichi g'udei, fra i quali avevano il nome di nazareni. Così
i primi cristiani di Gerusalemme erano detti asceti. Origene
dà questo nome a quelli che si astenevano spesso un giorno o
due dal cibo e dalla bevanda. S. Cirillo di Gerusalemme chia­
ma asceta la profetessa Anna (Cath. X. 9). Essi erano addetti
anche alla cura dei poveri (S. Gerol. Script. Eccl. 51-76) spesso
erano anche martiri e confessori. Portavano il pallio (Tertul.
de pallio III, IV) ed avevano nelle chiese un posto distinto
(tra il clero ed il popolo) Dionys. de eccl. hierarch. 1. 6. I l i
c .; Const. Apos. 1. V i l i 13. Cfr. Martigny « Dictionnaire des
Antiquités chrétiènnes » (Ascètes).
(2) S. Giust. ed Iren 1. 17. 38. 1. I. V oi. 2.
(3) Probst. 1. c. —■ Il Drey per provare l’ antichità della li­
turgia si riporta anche al razionalismo che da esso traspare ed
è caratteristico del tempo di S. Giustino che seppe adoperarlo
6Ì bene a dimostrare come le verità cristiane sono conform i e
non contrarie alla umana ragione.
124 Capo II

lunque infatti sia stato l’autore del libro che ora


passa sotto il nome di Costituzioni apostoliche, è
certo che egli non fece che raccogliere quelle parti
liturgiche che risalivano ad un tempo anteriore a
San Clemente e presentandosi questa liturgia come
apostolica, volle dimostrare solo che essa è ante­
riore al Concilio di Nicea e a S. Basilio. Così in­
fatti ne parla Proclo, Patriarca di Costantinopoli
dopo il 437 : oc Molti Vescovi Dottori della Chiesa,
ci hanno lasciate liturgie scritte, la piu antica e
celebre è quella di S. Clemente che gli Apostoli
stessi hanno tramandato » (1). Noi crediamo, scri­
ve il Probst, che essa contenga la liturgia Aposto­
lica. Essa risale agli Apostoli per ciò che riguardai
l’ordine di tutta l’azione, il seguito delle preghie­
re particolari, spesso perfino delle parole. Con ciò
non si vuol negare che questa o quella preghiera
nel corso del tempo abbia potuto ricevere un carat­
tere conforme ai bisogni e alle circostanze del tem­
po. li raccoglitore introdusse alcune note nei do­
cumenti che teneva alla mano, e queste apparten­
gono al secolo quarto. Che poi egli avesse interes­
se ad attribuirla agli Apostoli e in seconda linea a
S. Clemente Romano, può darsi. Sarebbe falso se
si volesse attribuire una parte all’Apostolo Andrea,
un’altra a San Giacomo e l’insieme a S. Clemente
come autore del libro, ma l’errore riguarderebbe
più la forma che la sostanza, perchè quello che gli
Apostoli ordinarono a San Clemente o altri raccol-1

(1) Galland. tom. X, p. 630.


Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 12S

se, nella sostanza risale veramente agli Aposto­


li (i).
51. Dove fu in uso.
Ma la liturgia delle Costituzioni Apostoliche fa
in uso nella Chiesa? Rispondono negativamente
Goar, Renaudot, Lebrun ed il Krabbe, i quali di­
cono essere questa una liturgia puramente ideale«
Contro di questi stanno il Drey, il Probst e molti
altri critici moderni. « Davanti alla evidente anti­
chità della nostra liturgia, scrive il Drey, è un
grande errore quello del Goar e di Renaudot, che
affermano che la liturgia delle Apostoliche Costi­
tuzioni non sia mai stata in uso in alcune delle
chiese orientali. E donde sanno questo? e come lo
possono affermare? Che essa dopo il tempo di S.
Basilio, con cui incominciano le liturgie che por­
tano i nomi noti di Vescovi e di Chiese, non sia
stata più adoperata, lo si può arguire con una cer­
ta verosimiglianza. Difatti si hanno testimonianze
che provano che la liturgia hasiliana si sovrappose
a tutte le altre e nel secolo quinto era quasi accol­
ta per tutto l’oriente, mentre quella di S. Giovan­
ni Crisostomo che sorse più tardi, si limitò alla
chiesa di Costantinopoli, finché crescendo di auto­
rità si estese a tutti i greci e slavi, senza però to­
gliere del tutto la liturgia hasiliana. Ma che ne se­
gue da ciò, riguardo ai primi secoli? Questi ave­
vano pure la loro liturgia;... e l’identità della no-1
(1) Probst. o. c. § 73.
126 Capo II

stra con quella di San Cirillo è più che probabi­


le (1)»· Quindi quando il Renaudot afferma: « Ne-
que apud Graecos a quibus Costitutiones Aposto­
licus Syri et alii acceperunt memoria nulla est Li­
turgiae quae Clementi tribueretur, quia scilicet ini
nulla Ecclesia celebri et quae aliis legem aut exem~
pium dare posset, forma rituum et orationum sin­
gularis ex Clementinis expressa, in usu fuit » (2)*
si può rispondere che il non trovarsi memoria di
essa nelle altre liturgie non è una prova che essa
non fosse in uso, perchè ognun sa che nei primi
tre secoli la liturgia cattolica era unica e lo prova­
no le testimonianze degli scrittori di quei tempi
perfettamente concordi fra loro. E la diversità dei
nomi che viene a prendere la liturgia non indica
altro che una nuova elaborazione che altri ne fece.
Quindi questa liturgia è per eccellenza quella del­
la Chiesa Cattolica, e come tale è descritta da San
Giustino e in essa conveniva l’oriente e l’occidente.
Epperò concluderemo col Probst. : cc La questio­
ne della patria della liturgia apostolica in quanto
si voglia intendere che essa abbia appartenuto ad
una chiesa determinata, dalla quale si siano distin­
te le altre liturgìe, è assurda. Poiché la liturgia dei1
2
(1) Drey « Neue Untersuchungen » , pag. 139.
A dimostrare poi la esistenza della liturgia prima di San
Basilio e di San Giovanni Crisostomo, questo autore afferma
come presso ciascuna chiesa v i era una liturgia particolare indi,
pendente e non vi era una liturgia universale colla quale con­
venivano nella sostanza e nell’ ordine le particolari, il che è
falso come abbiam già toccato sopra al c. 19 e altrove.
(2) Renaudot O. c. t. II. In liturg. Clem. Rom . notae, p .
199. Cfr. pure tom. I. Dissert. 10.
Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 127

tre primi secoli era unica dappertutto con poche*


variazioni, che poterono occorrere, questa liturgici
ha dappertutto la sua patria. Tuttavia pensiamo
che l’autore delle Costituzioni Apostoliche sia del­
la Siria, probabilmente di Antiochia... mentre ini
essa si ricorda S. Evodio, che fu Vescovo di Antio­
chia... e da ciò si spiega come S. Giustino nativo
di Sichem di Satmaria, la conoscesse sì bene » (1).
52. Vicende storiche della chiesa antiochen
fino a S. Giovanni Grisostomo.
Egli è adunque assai probabile che questa litur­
gia, almeno nella sua sostanza, perseverò nella
chiesa antiochena fino al principio del secolo quar.
to. Durante la prima metà circa di questo secolo
la sede di Antiochia fu travagliata dagli ariani. Eu­
stachio, vescovo cattolico, venne cacciato ed eletto
in suo luogo Eudossio. I cattolici però non abban­
donarono nè il Vescovo nè la loro liturgia e cele­
brarono i divini misteri nelle case private; essi si
chiamavano eustazioni. Promosso Eudossio alla se­
de Costantinopolitana, di comune accordo fu eletto
Melezio, il quale venne ben presto in odio agli
ariani, che crearono un nuovo Vescovo. Così si a-'
vevano in Antiochia tre partiti: gli eustaziani, f
meleziani e gli ariani, i quali durarono finché if
Vescovo Flaviano, successore di Melezio, consacrò
prete il Diacono Giovanni, detto il Grisostomo
(386).1
(1) Probst. o. c. | 86, 87. ove mette in confronto la liturgia
clementina con quella .descritta da S. Giustino.
128 Capo li

Durante queste lotte di partiti, nessuno, è certo,


mise mano alla riforma della liturgia, poiché gli al­
tri avrebbero tosto dato sulla voce al novatore, e
nemmeno gli ariani lo osarono, quantunque intro­
ducessero nuove preghiere. Questi ultimi anzi si
gloriavano di poter dimostrare, colla liturgia alla
mano, la verità della loro nuova dottrina. Gli eu-
staziani e i meleziani ci tenevano troppo a mante­
nere l’antica tradizione, di fronte ai novatori del'
dogma! Quindi al tempo in cui il prete San Gio­
vanni Grisostomo spiegava nelle sue omelie, la li­
turgia di Antiochia, questa era ancora l’antica, la'
liturgia tradizionale nella chiesa, la clementina.
53. Carattere Generale.
Ciò appare dal carattere generale che presenta
la liturgia antiochena quale ci è esposta nelle opere
del Santo, scritte durante il suo soggiorno ad An­
tiochia. I sacri Misteri oltre alla domenica si cele­
bravano tre volte alla settimana, più spesso, e
quante se ne voleva (1), la Messa era divenuta un
sacrificio quotidiano (2). Nelle solennità dei Mar­
tiri essa durava due ore e terminava verso mezzo­
giorno (3). E perciò appare che la liturgia non era
ancora stata abbreviata quantunque molti ne sen­
tivano il bisogno (4), e si stancavano della lunghez-1234

(1) Contra sud. Orat. 3. n. 4. ad Tim . hom. 5. n. 3.


(2) Ad Eph. hom. 4. n. 4.
(3) De Bapt. Christi, η. 1; de B. Philogonio 4 hom. 6; nu­
mero 1.
(4) De Anna hom. 4, n. 5.
Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 129

za delle preghiere, anche nelle messe private, per


cui il Santo faceva sentire l’eccellenza della pre­
ghiera comune della Chiesa nella Messa (1). Nes­
suno poi può provare che il Santo avesse posto ma­
no alla liturgia antiochena, come fece più tardi a
Costantinopoli.
54. Esposizione che ne fa il Crisostomo.
Come risulta dalle opere di S. Giovanni Crisosto­
mo, l’ordine della liturgia antiochena era il seguen­
te. Entrato il Vescovo nella chiesa, si leggevano
tratti dell’Antico e Nuovo Testamento (2), scelti
secondo il tempo e la festività, quindi si cantavano
alcuni Salmi (3). Seguiva l’omelia, che incomin­
ciava coll’annuncio della pace (4), dopo la quale
incominciavano le preghiere della Messa dei Cate­
cumeni e penitenti (5), all’invito del diacono ; pre­
ghiamo pei Catecumeni, cc Dopo la preghiera in­
giungiamo ai Catecumeni di chinare il capo e dm·
mo loro, mediante la santa benedizione impartita
dal Vescovo, una prova che la preghiera per essi
venne da Dio esaudita... e tutti rispondono: A-
men » (6). Venivano quindi congedati i CaZecu-1 2
3
4
5
6

(1) De incompr. natura Dei, hom. 3, n. 4.


(2) Ad I. Cor. hom . 36, n. 7.
(3) In Matth. h. 11, n. 7; in Ps. 177, η. 1; in Ps. 140. η. 1.
(4) De S. Pentec. hom. 1. n. 4. Si teneva pure omelia alla
sera (De mut. nom. h. 2, η. 1) ed anche nei giorni feriali
(in Ps. 48, n. 2). Durante la quaresima si tenevano più nume­
rosi discorsi ed istruzioni al popolo. (In Gen. serm. 5. n. 3)
massimamente in città (De martyrib., η. 1).
(5) De resurrect, et contra ebrios. η. 2.
(6) In IL Cor. h. 28.
130 Capo II

meni, si scopriva l’altare, rimasto velato, ed inco-^


minciavano le preghiere per gli Energumeni (1),
riferite dal Santo come legge della Chiesa e di tra­
dizione (2), ed eseguite collo stesso rito delle preci
pei catecumeni. Si pregava pei Catecumeni (3),
quindi tutto il popolo col Celebrante recitava le in­
vocazioni dei Kyrie eleison (4), e i penitenti rice­
vuta la benedizione dal Vescovo, venivano allon­
tanati.
Chiuse le porte del tempio, qui incominciava la
Messa dei fedeli. Le preghiere dei fedeli erano ge­
nerali e assai lunghe, ma il Santo ne fa sentire l’al-
tissima importanza. Seguiva il bacio, ossia la pace,
che si dava abbracciandosi simbolo dell’unione dei
cuori dei fedeli (5), si faceva l’offerta dei doni
che consistevano in pane e vino, portate dal clero
sull’altare (6). Il Diacono invitava il popolo a sor­
gere in piedi, poiché incominciavano i sacri Miste­
ri, ossia l’anafora o prefazio, chiamato dal Santo
preghiera di ringraziamento, inno, dossologia, sa­
crificio (7), al tutto conforme colla liturgia cle­
mentina (8). L’anafora era seguita dal canto degli
Angeli o Trisagio (9), dalla consacrazione, per la123456789

(1) De incompr. nat. Dei. h. 3. n. 7.


(2) In II. Cor. h. 2. n. 5: ad Rom . h. 7, n. 6.
(3) In Matth. h. 72, n. 4.
(4) De Anna serrn. 4. n. 6.
(5) In Matth. h. 32, n. 6; de prodit. ludae, h. 1, n. 6
(6) Probst. « Liturgie des vierten Jahrh ». § 47
(7) In Gen. hom. 9. n. 5.
(8) Probst. o. c..§ 48.
(9) In Ps. 135, n. 3; in Matth. h. 25, n. 3.
Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 131

quale il pane ed il vino offerti diventano il Corpo


e il Sangue di Gesù Cristo (1).
Dalla consacrazione alla fine della Messa non
troviamo nelle opere del Santo un ordine liturgico
preciso; egli perciò presta molta materia, che si
deve ordinare secondo le più antiche liturgie. Do­
po la consacrazione tutte le liturgie hanno 19Anatri*
nesi {Unde et memores) ed una preghiera di offer­
ta, di cui il Santo fa breve cenno. Quindi ricorda
l’invocazione dello Spirito Santo (2). La ragio­
ne di questa invocazione dello Spirito Santo sul­
le sacre Specie è descritta dal Santo : « Il Sacerdo­
te fa una lunga preghiera non già per invocare un
fuoco dal cielo che consumi i doni che stanno sul­
l’altare, ma perchè discenda la grazia sul sacrificio
e per mezzo di questo accenda le anime di tutti e
le renda più splendide dell’argento purificato (3).
Quindi lo spirito*di Dio opera sullo stesso sacrificio,
non già a trasmutare il pane e il vino (che son già
consacrati), ma per comunicare ad essi la viriù
di santificare le anime. Tale invocazione si faceva
dal solo sacerdote colle mani alzate (4).
A qual punto della Messa si facesse la esomolo-1234

(1) Come S. Cirillo di Ger--salemme, così anche il Crisosto­


mo in questo punto si esprimono nel modo più chiaro; essi
riconoscono, ammirano, insegnano la reale presenza. Cfr. de
prodit. Judae, hom. 1. c. n. à; in II. ad Thim. h. 2. n. 4; in
I, ad Cor. h. 34, n. 2; de poenit. h. 9, η. 1.
(2) De Sacerd. 1. 6. c. 4 ; ad Cor. h. 24, n. 5.
(3) De Sacerd. 1. 3. c. 4.
(4) Probst. o . c. §. 51.
132 Capo II

gesi o confessione descritta dal Santo, non lo si


potrebbe facilmente stabilire (1). « Con tremore,
scrive, dobbiamo recitare il cantico degli Angeli,
con timore si deve fare la esomologesi al Creatore,
onde ottenere, per mezzo di essa, il perdono dei
peccati » (2). Da ciò segue, dice il Probst, che il
popolo, recitando il trisagio, aggiungeva anche una
preghiera per ottenere il perdono dei peccati. Cer­
to il Santo ricorda di rado questa preghiera e solo
di passaggio, ma ciò non dà il diritto di negarne la
esistenza nella liturgia. Da questo fatto segue sol­
tanto che essa nella liturgia antiochena nè era lun­
ga nè notevole per la sua importanza. In ciò con­
corda pure la liturgia per la remissione dei peccati
tanto alla invocazione dello Spirito Santo, come
alla orazione che precede immediatamente la Co­
munione (3).
Alla consacrazione ed all’invocazione dello Spi­
rito Santo seguiva una preghiera di ringraziamen­
to e di invocazione (4) e di qui appare la unifor­
mità di tutte le liturgie. In questa preghiera si ri­
cordavano i Martiri, i Confessori, i Sacerdoti (5)
ed i morti, perchè giungano all’eterno riposo e
trovino un giudice pietoso (6). Quindi recitavasi
il Pater noster (7), che era chiuso da una dossolo-1234567
(1) In diem Natalem D. N. J. C., n. 7.
(2) In Ozian h. 1. n. 2.
(3) Probet. 1. c.
(4) In Matth. h. 25, n. 3.
(5) A.d Cor. h. 41, n. 4.
(6) In Matth. h. 32; n. 4; ad Philipp, h. 3, n. 4; de Sacerd.
1. 6 c. 4.
(7) In Ps. 112, η. 1.
Liturgia delle Apostoliche Costituzioni 133

già : cctuo è il regna, la potenza, la gloria per. tut­


ta Γeternità; Amen » (1).
Le liturgie orientali dopo la dossologia hanno la
benedizione che il Celebrante imparte al popolo,
la quale nella liturgia clementina incomincia coli
saluto: Pax vobiscum ed il responsorio: Et cum
spiritu tuo. Di questa fa pure cenno S. Giovanni
Crisostomo (2). Si frangeva il Pane immediata·
mente prima della Comunione e colle particole
infrante si faceva la Comunione ai fedeli (3). Il
Celebrante innalzava l’Ostia esclamando : « San­
cta sanctis » e il popolo rispondeva esaltando la
santità di Gesù Cristo (4). Quindi il Celebrante
assumeva le sacre Specie, le distribuiva ai fedeli,
mentre il diacono teneva lontano gli indegni. La
Comunione si faceva sotto le due specie e tutti as­
sumevano quelle del vino da un medesimo cali­
ce (5). Al tempo del Santo i fedeli d’Antiochia s’e-
rano già rattiepiditi, e non usavano più di comuni­
carsi tutti i giorni, nella Messa, ed egli ne muove
spesso lamento (6). Dopo la Comunione recitava
una preghiera di ringraziamento, nella quale il
Santo vede una figura di quell’inno che Gesù Cri­
sto recitò co’ suoi Apostoli dopo l’ultima cena; ma
sul concetto di essa, come pure sull’ultimo con-1

(1) De Angusta porta, n. 5.


(2) Contra Jun. orat. 3, n. 3. de Pentec. h. 1. n. 4.
(3) In Matth. hom. 50, n. 2 e 3.
(4) Ibid. hom. 7, n. 6 ; de baptism. Christi, n. 4.
(5) In Matth. h. 82 n. c.
(6) De Bapt. Christi, n. 4.
134 Capo Η

gedo che si dava all’adunanza, egli non fa paro-


la (1).
55. Ultime vicende della Liturgia antiochena.
Il Patriarcato di Antiochia non conservò una li­
turgia particolare, ma in esso prevalse la siriaca,
e specialmente il rito siriaco maronitico, e più tar­
di vi si introdusse anche la liturgia greca di San.
Basilio e di San Giovanni Grisostomo.
Attualmente in questo patriarcato vi è il rito
siriaco puro, il siro-maronitico e il greco melchita.1

(1) Cfr. Probst. o. c. § 40 al 54 che qui si è cercato di


ridurre in compendio. Più ampiamente ancora: Bingham. Ori.
gin. Ecclesiast. 13, 6; Hammond. The ancient. Liturgy of An~
tioch. Oxford. 1879.
CAPO III.

Liturgia Alessandrina o di S. Marco.

56. L'antica liturgia alessandrina o di Sa


Marco.
L’Egitto ricevette la fede cristiana dall’Evange­
lista San Marco, il quale pose la sua sede in Ales­
sandria; non si può quindi dubitare che egli abbia
anche costituito in quella chiesa un ordine litur­
gico. Ortodossi e giacobiti sono d’accordo nell’at-
tribuire la loro liturgia a San Marco. Nessun do­
cumento però ci rimane di essa nell’antichità, che
il Proclo non ne fa cenno e il Patriarca Balsamo-
ne, celebre canonista di Costantinopoli, interro­
gato dal Patriarca Marco d’Alessandria cosa si do­
vesse pensare di questa liturgia attribuita a San
Marco, rispose che la nuova Roma, cioè la Chiesa
Cattolica del Santissimo ed Ecumenico trono di
Costantinopoli, non lo riceveva (1).1

(1) Qual differenza tra la condotta della Chiesa Romana che,


salva la fede, permise e permette ancora l’ uso dei proprii riti
antichi e la Chiesa scismatica di Costantinopoli, che dice per
bocca di questo patriarca: « Omnes ecclesiae sequi debent moretη
novae Romae, nimirum Costantinopoli, et celebrare iuxta tra­
ditiones magnorum Doctorum et luminarium pietatis sancti Jo·
hannis Grysostomi et Sancti Basilii... Pronuntiamus igitur non
esse has (scii, liturgiae S. Jacob et S. Marci) recipiendas. Etsi
enim ab iis facta sint, ab omni usu vacare jubentur, ut et alia
multa! » Presso Renaudot t. I. p. 88.
136 Capo III

Ma verso la fine del secolo decimosesto il Card*


Sirletto trovò, nel monastero di Grottaferrata, nel­
la Calabria, un manoscritto greco colla iscrizione:
« Liturgia divina del S. Apostolo ed Evangelista
Marco, discepolo di San Pietro », che fu stampata
tosto in latino dal Canonico Giovanni di S. Andrea
di Parigi nel 1585, quindi dal Renaudot, e recen­
temente dal Probst e dallo Swainson su di un ma­
noscritto di Rossano e su due rotoli, l’uno di Mes­
sina del secolo duodecimo e l’altro del Vaticano*
del secolo decimoterzo.
Tale scoperta sollevò grandi dispute tra i prote­
stanti ed i cattolici; ma uno studio profondo del
prezioso documento condusse il Renaudot a questa
conclusione: che esso è antichissimo e rappresen­
ta propriamente la antica liturgia alessandrina (1).
In verità, scrive il Lebrun, si può credere che essa
sia stata in uso tra gli egiziani ortodossi, non rile­
vandosi veruna cosa che dinoti eresia o scisma, ed
inoltre che se ne siano serviti, finche sono stati co­
stretti ad assentire alle istanze dei Patriarchi di
Cosantinopoli, dai quali bramavano essere protet­
ti, forzati così dopo alcun tempo, a valersi delle
sole due liturgie della Chiesa di Costantinopoli (2).
Certo essa non è scritta da S. Marco, ma è un
formulario proveniente dalla antica liturgia ales­
sandrina. E poiché concorda con quelle dei mono-
fisiti, giacobiti e copti, è da dire che essa rappre-1

(1) Renaudot 1. c., pag. 93-94.


(2) Lebrun o. c. Dissert. VII.
Liturgia Alessandrina o di S. Marco 137

senta il rito in nso prima dello scisma di Dioscoro,


avvenuto verso la metà del secolo quinto ( 1). Una
altra prova della sua antichità ed autenticità (2)
si deduce dal fatto elle un Concilio armeno riferi­
sce un tratto dei messale di San Atanasio Vescovo
di Alessandria nel secolo quarto; ora questo tratto
trovasi perfettamente concorde colla liturgia di
San Marco riferitaci dal citato manoscritto. Quindi
pare accertato che essa si usò in Alessandria fino a
Sant’Atanasio ; molto più che, tranne in poche par­
ti di minor importanza, concorda perfettamente
colla liturgia clementina e con quella descritta da
S. Giustino, da Clemente Alessandrino e da Ori-
gene (3).
Con ciò, conclude il Probst, non si vuol dire che
là liturgia di San Marco, quale ora ci si presenta,
risalga ai primi secol. Basta questa prova. Nel se­
colo quinto la Chiesa orientale invece dell’antica
messa dei catecumeni introdusse la così detta ilta-
tio. Le liturgie orientali hanno una doppia anafo­
ra. La prima (illatio) si estende fino al bacio di
pace, la seconda (oblatio) incomincia da questo
punto. La prima si chiama anafora, perchè in essa
εί portava la materia del sacramento dalla creden­
za all’altare e questa costituiva la parte principale
dì essa (4). Nella liturgia di S. Marco, quale ci si1

(1) Renaudot 1. c. Dissert. m. 12, p. 82.


(2) Cioè del fatto che essa fu in uso in Alessandria.
(3) Binterim « Denkwiirdigkeiten », IV, 2. p. 260.
(4) Probst. Liturgie drei ersten Jahrh. § 74.
138 Capo 111

presenta, appaiono già queste due parti, per cui


essa può risalire alla metà del secolo quinto.
57. Esposizione che ne fa S. Atanasio.
S. Atanasio, vescovo di Alessandria dal 326 al
373, accenna nelle sue opere, alla liturgia alessan­
drina, ed essa conviene perfettamente con quella
generalmente in uso in quei primi secoli. La Messa,
secondo S. Atanasio, consta di due parti; la prima
detta dei catecumeni, Ja seconda detta dai fedeli.
Nella prima egli fa cenno delle Lezioni della Sa­
cra Scrittura, del canto, dei Salmi e della predi­
ca (1). Questa era per lo più tenuta dai Vescovi e la
adunanza dei fedeli che l’ascoltavano era chiamata
conventus ( σύναξις-) (2). I catecumeni, secondo il
Libro dei titoli dei salmi attribuito al Santo, erano
distinti in diversi gradi, per ciascuno dei quali vi
erano stabiliti dei salmi da recitarsi (salmi Gra­
duali) con una propria esomologesi (3). Questi
gradi erano sei, formati da coloro che riconosceva­
no i loro peccati, dai Catecumeni, dai competenti,
penitenti, energumeni e fedeli; quindi le preghie­
re erano fatte per tutte queste classi, quantunque
la prima forse non vi assistesse.
Della seconda parte della messa il Santo ricorda
la preghiera comune (4), il bacio di pace, che po-1

(1) S. Athan. « Histor. Arianor. ad monachos », n. 81. Apoi.


de fuga, n. 55; Vita S. Anton, c. 1.
(2) Epi&t. heort. 11, n. 4.
(3) De titul. Psalm. 119.
(4) Episi, heort. 2, n. 7.
Liturgia Alessandrina o di S. Marco 139

leva servire come segno di congedo dei Catecume­


ni. Nell’àpologìà contro gli ariani, indirizzata al­
l’imperatore Costanzo parla della oblazione della
Messa Alessandrina (1). Seguiva la preghiera di
ringraziamento o canticum novum, come la chiama
anche Clemente Alessandrino, cantato con gioia, e
a cui il popolo rispondeva : Amen. In essa si ricor­
davano i principali benefici di Dio, e specialmente
la creazione e la redenzione (2). Accenna pure al
trisagio e spiega la parola Alleluia che si trova in
esso (3); e se nelle opere di San Atanasio non si
trovano diretti cenni del tratto che passava dal
canto del trisagio alla consacrazione, di questa egli
parla in modo chiaro : « Tu vedrai, dice ai neofiti,
i leviti portanti pane e vino e collocarli sulla men­
sa. Prima della invocazione e della preghiera, non
sono altro che parie e vino, ma fatta la grande e
mirabile preghiera ( ev/a) il pane diventa il Corpo
e il calice il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.
Al salire della potente preghiera, discende il Ver­
bo nel pane e nel calice e questo diviene il suo
Corpo » (4). A questo sacrificio vuole il Santo che
i fedeli aggiungano la purezza di coscienza (5).
Dell’invocazione dello Spirito Santo sulle Sacre
Specie parla il Vescovo alessandrino Teofilo: il'1

(1) Apoi. contra Arianos ad Constantium, η* 17.


(2) Tali parti sono ricordate dal Santo nei commenti ai Sal­
mi e specialmente nei salmi CII. CIII. C IV .: Cfr. pure Orai.
c. gentes c. 40-46; De Incarnat. c. 3.
(3) Cioè: Hall « D e u s » , el « f o r t is » uja « r o b u s tu s » .
(4) Fragm. V ili.
(5) Episi, heort. 1. n. 9.
140 Capo III

pane del Signore in cui appare ( άττοφαάω) il Cor­


po di Gesù Cristo che noi spezziamo per la nostra
santificazione, e il sacro calice posto sulla mensa
della Chiesa, sono nel fatto inanimati e vengono
santificati mediante la invocazione e la venuta del­
lo Spirito Santo (1). In fine, secondo Origene, la
Comunione nella Messa Alessandrina era precedu­
ta da una preghiera con cui si impetrava la purifi­
cazione dei fedeli, onde partecipare ai Sacri Miste­
ri. Tale preghiera pare siasi trovata nella liturgia
di Alessandria anche al tempo di S. Atanasio. Vi
era pure l’offerta : « Etenim nunc illum haud ma­
terialem agnum immolamus sed verum illum9 qui
immolatus fuit Dominus Noster Jesus Christus» (2);
ed una preghiera di ringraziamento, fatta per
mezzo di G. C. (3). Tali preghiere si facevano col­
le mani alzate estese (4), il che è simbolo della vit­
toria sul nemico riportata da Gesù Cristo in croce*
di cui si fa memoria nella S. Messa (5). Sul rito con
cui si distribuiva la Comunione il Santo parla este­
samente in più luoghi delle sue opere. La SS.ma
Eucaristia si dava in mano ai fedeli e molti la ri­
cevevano ogni giorno, ma era necessario preparar-1

(1) Hieron Epist. 93. — Con queste espressioni i Padri greci


non intendevano di escluder la dottrina cattolica che la con·
sacrazione si compie colle parole di Cristo: Hoc est etc.; ma di
inchiudére, come parte integrale della Messa, quei riti che ri-
traggono le azioni compiute da Cristo stesso nell’ ultima cena,
in m odo speciale l ’invocazione dello Spirito Santo ecc.
(2) Ep. heorù. 2. n. 9.
(3) Ep. heort. 4, n. 5 e 11, n. 11.
(4) De incarnai, c. 52.
(5) Expos. in ps. X VIII n. 3. Epist. ad Adelphinum. 7.
Liturgia Alessandrina o di S. Marco 141

visi convenientemente (1). Quindi dice S. Atana­


sio al Diacono : « Osserva bene di non presentare
il Calice della vita immacolata agli indegni, affin­
chè tu non abbia da diventare colpevole d’aver da­
to le cose sante ai cani » (2). Mentre il Celebrante
porgeva il pane consacrato ai fedeli, il diacono
porgeva loro il Calice. Dopo le ultime preghiere di
ringraziamento, si congedavano i fedeli e così si
concludevano i sacri Misteri (3).
58. Opera di S. Cirillo.
Tale era la liturgia alessandrina durante i primi
quattro secoli del cristianesimo. Nel tempo decor­
so da S. Atanasio a S. Cirillo, che occupò la sede
di Alessandria nella prima metà del secolo quinto,
non avvennero certamente mutazioni: egli rifulse
e perfezionò almeno nell’anafora, come esigevano
i tempi e le sorte eresie, la liturgia di San Marco,
onde quella che passa sotto il nome di S. Cirillo,
conservata ancora in Egitto, è intitolata : « Litur­
gia Marci quam perfecit Cyrillus ». Nè solo S. Ci­
rillo, ma molti altri Santi si diedero in questo tem­
po a comporre orazioni per l’Altare, onde risulta­
rono circa dodici liturgie, diverse solo nelle paro­
le ma nel senso uniformi. Ma le chiese di Egitto
per ordine dei patriarchi dovevano servirsi soltan-1
(1) Ep. heort. 5, n. 3; 13, n. 7; 6, n. 12.
(2) Fragni, de incontam. mysterii.
(3) Abbiamo cercato di compendiare il prezioso stadio del
Probst, che dalle opere di S. Atanasio espose nella sua natura
■e forma la liturgia Alessandrina. Probet. «Liturgie des vierten
Jahrhuderts » Art. ΙΠ . § 25-31.
142 Capo III

to di tre, cioè di quelle di San Basilio, di San Gre-


gorio il Teologo (o illuminatore) e di San Cirillo..
59. Scisma di Dioscoro - Origine dei Cop
e loro liturgia.
A S. Cirillo successe nella sede di Alessandria
Dioscoro. Partigiano d’Eutiche e dei monofisiti,
condannato nel Concilio di Calcedonia (a. 451),,
deposto dalla sua sede, Dioscoro sollevò gravi tur­
bolenze nella chiesa alessandrina, le quali conti­
nuate da Timoteo Eluro, terminarono in uno sci­
sma. I partigiani di Dioscoro, pochi per verità in
Alessandria, ma numerosi nel restante Egitto, ab­
bandonando la lingua greca, fin qui in uso nella;
liturgia, incominciarono a celebrare i sacri Misteri
nella lingua egizia o copta mentre gli ortodossi,,
detti melchiti conservarono la lingua greca. Tale
differenza durò circa due secoli, cioè fino all’anno
660, in cui i maomettani divennero padroni di
quel paese. I greci di Egitto allora, affezionati al­
l’Imperatore di Costantinopoli, furono oppressi, e
i copti scismatici, che avevano favorita la conqui­
sta dei mussulmani, ebbero da questi l’esercizio
libero della loro religione e la conservarono sino
al presente, celebrandola però in arabo (1). Code­
sti eretici si chiamarono anche giacobiti da Giaco-1

(1) Lebrun o. c. Dissert. VII. Art. 1. Nella lingua copta,


della quale parla ampiamente il Renaudot, venne tradotta anche
la Sacra Scrittura. In questa liturgia vi hanno tre dialetti prin­
cipali cioè il saihidico o tebano, il basmurico dell’ Egitto medio
ed il bonerico o menfitico delle regioni del delta.
Liturgia Alessandrina o di S. Marco 143

mo Siro detto Baraba o Zanzalo, morto nel 577.,


Gli ortodossi non scomparvero però del tutto, mai
continuarono a celebrare i sacri Misteri nella lin­
gua arabica, tollerata dagli oppressori, i quali,
ignoranti della religione cristiana, non sapevano
fare tante distinzioni dogmatiche.
Tanto i copti scismatici che gli ortodossi, i quali
esistono tutt’ora, sebben dispersi, hanno tre litur­
gie, quella di S. Marco o di S. Cirillo, quella di
S. Basilio e la terza di S. Gregorio Nazianzeno.,
Ma mentre i giacobiti lasciarono intatta la prima,
introdussero in queste due ultime il loro errore,
dicendosi della carne di Gesù Cristo : <cAccépit,
eam ex Sancta Domina Nostra Deipara semper vir­
gine Maria, et fecit eam unam cum Divinitate sua,
non per commixtionem, confusionem aut altera·1
tionem » (1). Così il Wansleb, che fu in Alessan­
dria per studiare i riti giacobitici scrive : cc Questa
chiesa ha dodici Messe, ma i direttori della chiesa
copta ne hanno scelte tre solamente, da porsi in
uso e sono: quella di Basilio, che è la ordinaria,
quella di S. Gregorio il Teologo da dirsi nelle fe­
ste di Nostro Signore e in altri giorni solenni, e
quella di San Cirillo il Grande che si dice nella
quaresima, nel digiuno di Natale e per i morti.1

(1) Questi eretici non volevano esser detti eutichiani, e ciò


è tanto vero che non posero nei dittici il nome di Eutiche e
sottoscrissero l’ Etiopico di Zenone. Persistevano solo in rifiutare
il concilio di Calcedonia, il quale secondo essi, aveva condan·
nato a torto Dio&coro, e sostenevano la unità di natura in Cri·
sto, benché senza confusione o alterazione; nè con ciò si ere.
devano nestoriani.
144 Capo Hi

Non avendo una ragione particolare si servono di;


quella di S. Basilio, che i sacerdoti debbono reci­
tare a memoria e sempre in lingua copta » (1). Il
dottissimo domenicano descrive le chiese e il rito
dei copti, come si può vedere presso il Lebrun.
Anche il Renaudot ha ristampate in latino le tre!
liturgie che ancora si adoperano dai copti, corre­
dandole di prezioso commento.
60. Gli etiopi od abissini.
L’Abissinia, detta con nome generale Etiopia,
ricevette la fede cristiana ai tempi di Costantino il
Grande, e S. Atanasio vi mandò il primo Vescovo,
S. Frumenzio, che pose la sua sede in Axum, ove
sorse una sontuosa cattedrale. Tenaci nella fede
abbracciata, i popoli di queste regioni seppero di­
fenderla dall’eresia ariana, di cui si era fatto pro­
pagatore l’Imperatore Costanzo e pieni di gratitu­
dine per S. Atanasio che loro mandò il primo Ve­
scovo, ricevettero sempre il loro unico Vescovo o
Patriarca, detto Abbuna, dai Patriarchi copti di
Alessandria. Tale dipendenza li ha altresì indotti
ad abbracciare l’errore dei giacobiti, mentre si se­

ti) Wansleb, Hist. Eccles. Alex, seu Copi. Iacob. 11 Wan-


sleb era stato spedito in oriente dal duca di Sassonia, con ordine
di studiare le antiche liturgie specialmente dei copti e degli
abissini, per trovare se con essi si poteva sostenere l’ eresìa di
Lntero. Andò e studiò; e frutto del suo studio, rinunciò aji pro­
testantesimo e vestì l ’ abito dei Domenicani. Ritornò poi, rin­
viato dal ministro Colbert di Francia, a studiare le liturgie
abissine e mandò alla biblioteca del re di Francia più di 500
codici manoscritti. Egli mori l ’anno 1676.
Liturgia Alessandrina o di S. Marco 145

pararono dai cattolici al tempo della dominazione


mussulmana. Nel secolo decimosesto i missionari
cattolici cercarono di riunirli a Roma, ma il tenta­
tivo fallì. Anche nel 1700, accolti benignamente il
missionari dal Negus Giusto, per false accuse spar­
se dai monaci scismatici etiopi, vennero poi lapi­
dati. Nel passato secolo Pinfaticabile Card. Mas­
saia riesci a ridurre non pochi alla fede cattolica e
i convertiti conservarono il loro antico rito.
Gli Abissini hanno dodici liturgie, cioè quella di
S. Giovanni Evangelista, dei 318 padri del Con­
cilio di Nicea, di S. Epifanio, di S. Giacomo di
Sarug o Siro, di S. Giovanni Crisostomo, di No­
stro Signor Gesù Cristo, degli Apostoli, di S. Ci­
rillo e di S. Gregorio Nazianzeno detto il teologo,
del loro Patriarca Dioscoro, di S. Basilio e infine
quella di S. Cirillo. Ve n’ha però una detta cc Li­
turgia communis sive Canon universitatis Aethio*
pum » stampata dal Renaudot nel primo volume
della sua collezione (1).
61. Uso attuale del rito copto od abissino.
Fondata una missione nell’Egitto, molti dei cop­
ti si convertirono al cattolicismo e fu loro lasciato1

(1) Lebrun, o. c. Dissert. V i l i a. 2.


Il dotto Lebrun, al luogo citato, riferisce molte cose circa
i costumi, la religione e la dogmatica degli abissini. La brevità
•che ci siamo proposti, ci impedisce di dilungarci su questo pun-
to e rimandiamo senz’ altro gli studiosi all’ opera del Lebrun e
a quella del Card. Massaia, « / miei trentocinque anni di mis­
sione nell’alta Etiopia ».
146 Capo HI

Γ antico rito, che ancora si adopera per tutto il Vi­


cariato Apostolico dell’jEgitto, il quale conta circa
10.000 cattolici. Anche neWAbissinia vi fu eretto
un Vicariato Apostolico con circa 12.000 cattolici
con proprio rito, per cui si adopera la lingua
amharica etiopica antica detta Ghez.
CAPO IY.

Liturgia Costantinopolitana e Armena.

62. Liturgia primitiva nella chiesa di Bisanzio.


L’antica Bisanzio ricevette assai per tempo la
religione cristiana e con questa naturalmente la
liturgia. Quale sia stata questa non ci è dato sa­
pere con certezza, per l’assoluta mancanza di do­
cumenti; ma è probabile sia stata la medesima che
era in uso nella Cappadocia, anche nelle sue par­
ticolarità. Difatti le provincie dell’Asia procon­
solare, che aveva per metropoli Efeso, quella del
Ponto con Cesarea e la Tracia con Eraclea, più
tardi Costantinopoli, stavano già prima del Con­
cilio di Nicea (325) in tale relazione che S. Gre­
gorio Nazianzeno di Cappadocia trovò in Costan­
tinopoli una liturgia che conveniva al tutto con
quella della sua patria (1), la quale non era poi
altra da quella delle Apostoliche Costituzioni.
63. Carattere di questa liturgia quale appare
dagli scritti di S. Gregorio Nazianzeno e di San
Giovanni Grisostomo.
Ora dagli scritti di S. Gregorio Nazianzeno, co­
me pure da quelli del Grisostomo, ci h dato com-1

(1) Probst. « Liturgie des vierten Jhrhundertes » § 54.


148 Capo IV

prendere quale sia stato precisamente il carattere


di questa liturgia prima della riforma basiliana.
Costretto a parlare in un tempo in cui il pagane­
simo era risuscitato per opera di Giuliano l’Apo­
stata, S. Gregorio difende le pratiche religiose
cristiane di fronte alle pagane, quindi parla della
lezione e della spiegazione (omelia) che se ne fa­
ceva... « In ogni chiesa, egli dice, si legge Mose
e la legge, la salmodia e tutto quello che si riferi­
sce αΙΓAntico e Nuovo Testamento » (1). Anche
il popolo vi partecipava; infatti dice il Santo che la
madre sua Nona rispondeva le parole necessarie e
mistiche (2). S. Giovanni Grisostomo descrive an­
cor più precisamente le prime parole del Vescovo
che annuncia la pace, quelle del diacono e l’uffi­
cio del lettore (3), l’omelia che il Vescovo faceva
dalla cattedra, stando seduto in segno della sua
dignità, incominciata col saluto della pace (4).
Quindi parla delle preghiere sui catecumeni, pe­
nitenti ed energumeni, in modo al tutto conforme
al rito che descrisse in Antiochia (5), fatto che
ancora una volta ci prova l’unità liturgica di quei
secoli. Accenna alle preghiere che si facevano per

(1) In Ecclesiast. hom. 1; Orat. 4. n. 111.


(2) Orat. 18, n. 9.
(3) Ad coloss. h . 3 ; Act. Apost. h. 29, n. 3 ; 1. c. hom . 19,
n. 5; in Epist. ad Thes&. hom. 3, n. 4 ; In Epist. ad Hebraeos.
hom. 8, n. 4.
(4) 1. c. hom. 7, n. 2; hom. 18, η. 1; ad Thim. hom. II,
η. 1.
(5) In Act. Apost. hom. 41, n. 2; hom. 46 n. 3; hom. 1.
n. 8.
Liturgia Costantinopolitana e Armena 149

i fedeli e che i fedeli stessi facevano privatamen­


te (1). Vi era anche la preghiera di lode e ringra­
ziamento ( ευχαριστία.) il cui ordine conviene per­
fettamente colla liturgia clementina. «Se si coor­
dinano, scrive il Probst, i cenni che fa S. Gregorio
sull’Eucaristia sul cantico della vittoria e sull’inno
delle prediche 4, 6 e 38, e tale confronto non solo
è lecito ma anche fondato nelle stesse parole di
S. Gregorio, non ci può essere alcun dubbio che la
liturgia a cui accenna il Santo e che egli usò in
Cappadocia ed in Costantinopoli, era la clemen­
tina, perciò che riguarda il carattere della preghie­
ra di ringraziamento come pure le sue parti prin­
cipali e il suo processo » (2). La consacrazione e le
preghiere che le seguivano secondo il Grisostomo
non sono dissimili nella liturgia di Costantinopoli
da quelle di Antiochia. Parla del Memento dei
vivi e dei morti, della memoria dei martiri (3), dei
superiori ecclesiastici e civili, delle persone e dei
luoghi (4), e a questa preghiera il popolo rispon­
deva : Amen. Seguiva la così detta « Oratio Ca-
tholica » o Litanie, le cui parti, mentre corrispon­
dono colla liturgia basiliana, convengono pure con
quella antiochena. Alla Comunione il diacono in­
vitava ad accostarsi con fede e ne rimoveva gli
indegni « Cum timore Deo attendamus! » Il Ce­
lebrante diceva Sancta sanctis e il Diacono o il co-

(1) Hom. 3, i. 2, in Epist. ad Philemon.


(2) Probst. 1. c. § 56.
(3) In Act. Apost. hom. 21, n. 5.
(4) Ibid. b. 18, n. 5.
150 Capo IV

ro proseguivano a lodare la santità di Dio. Duran­


te questo cantico di lode si frangeva l’Eucaristia,
facendo una specie di esomolesi. Il Celebrante si
comunicava pel primo, quindi comunicava i fede­
li, e si conchiudevano i sacri Misteri con preghiere
di ringraziamento (1).
Quindi concluderemo col Probst: «La esposi­
zione della Messa bizantina si può confrontare con
quella di Cappadocia e delle Apostoliche Costitu­
zioni. La Messa dei Catecumeni in Cappadocia,
secondo i cenni che ne fanno S. Gregorio Nazian-
zeno e il Crisostomo, conviene perfettamente con
quella delle Apostoliche Costit., invece dopo
Nectario mancano le preghiere sui penitenti ed
energumeni. E siccome i fedeli, alla fine del secolo
quarto, solo di rado si portavano ad offrire il pa­
ne e il vino, si formò col secolo quinto il ricco ce­
rimoniale dell’Obiezione che troviamo nella litur­
gia detta di S. Giovanni Crisostomo. Il prefazio
bizantino, come vien descritto da S. Gregorio, ap­
pare ancora in perfetta armonia col cappadocico,
e apostolico, e dalle preghiere del prefazio fino al­
la dossologia vi è solo questa differenza che nella
liturgia bizantina il memento dei morti va unito
alla memoria dei Santi, a cui fa seguito quella dei
vivi, mentre nella liturgia apostolica queste stan­
no prima del memento. Anche il rito della ammi­
nistrazione della Comunione in Bisanzio conviene
perfettamente col dementino » (2).
(1) In IL. Thess. hom. 5, n. 4 ; De bapt. Christi, n. 4.
(2) Probst. o . c. | 59.
Liturgia Costantinopolitana e Armena 151

64. Riforma liturgica di S. Basilio.


Il rito greco quale ci si presenta attualmente,
porta il nome di San Basilio; ma perciò non si può
ritenere che questo Santo abbia creato una nuova
liturgia, perchè egli stesso confessa che quei riti
sacri che gli Apostoli prescrissero si tramandarono
poi segretamente nella Chiesa (1). Tutto il com­
pito adunque che ebbe S. Basilio non fu, che di
riordinare, riformare9 se si vuol dire, secondo ì
bisogni dei tempi, quella liturgia che era di origine
apostolica ed in uso nella Chiesa.
E che reale riforma si sia fatta da S. Basilio è
cosa certa. Egli stesso infatti si difende da coloro
che lo accusano di aver introdotto un nuovo modo
di cantare i salmi, diverso da quello usato in Neo­
cesarea (2). S. Gregorio Nazian. amico di S. Ba­
silio, gli attribuisce un nuovo ordine di preghie­
re (3). S. Gregorio Nisseno paragona suo fratello
(S. Basilio) a Samuele, « poiché entrambi perfe­
zionarono la forma della liturgia ed offersero al
Dio ostie pacifiche » (4). E’ celebre sopratutto
la testimonianza di Proclo, Patriarca di Costanti­
nopoli dal 434 al 446. Dopo aver detto come molti
successori degli Apostoli ordinarono la liturgia,
scrive : ccMa allora quando Basilio il Grande vide
la trascuratezza e corruzione degli uomini che si
annoiavano della lunghezza della liturgia non per­ i)

ii) S. Basii, de Sp. n. 66.


(2) Epist. 207, n. 2.
(3) S. Greg. Naz. orat. 20.
(4) S. Greg. Niss. in Laudem fratris Basilii.
152 Capo IV

che egli la ritenesse troppo estesa e lunga, abbre­


viò le lezioni, onde togliere ai ministri ed agU
auditori la noia dalla loro lunghezza... » (1).
Molti in questo tempo posero mano alla rifor­
ma di cui si sentiva bisogno, ma quella che in
oriente si estese sopra tutto fu l’opera di S. Ba%
silio. Ma quaie liturgia abbreviò il Santo? Goar,
Renaudot e Daniel sono di avviso che la riforma
basiliana versasse sulla liturgia di S. Giacomo. Ma
altri col Probst, e con maggior probabilità, sosten­
gono che S. Basilio non riformò questa o quella
particolarità che poteva avere la liturgia per ca­
gione di luoghi, ma la stessa liturgia tipica, uni­
versale ossia quella delle costituzioni Apostoliche.
Da questa per conseguenza convien muovere per
giudicare in che consiste la riforma basiliana.
La liturgia di S. Basilio non contiene l’ordine
nè le rubriche che si prendono dalla comune; le
preghiere sono più lunghe di quelle di S. Giov.
Grisostomo e si adopera in alcuni giorni dell’an­
no, come la vigilia di Natale e dell’Epifania, le
domeniche di quaresima tranne quella delle Pal­
me, la santa e grande Feria, cioè il giovedì santo,
il sabato santo e la festa di S. Basilio. Fu tradotta
anche in siriaco per le chiese che usano questa lin­
gua. Il codice piu antico della liturgia basiliana e
il barberino, che può risalire al secolo ottavo o
nono, stampato in Parigi nel 1560. Venne pure1

(1) Probst, « D e tradit. Divinae Missae» apud Galand. t.


9. pag. 680.
Liturgia Costantinopolitana e Armena 153

pubblicato dal P. Goar nel suo Eucologio greco


(Parigi 1647, Venezia 1730) insieme ad un altro
esemplare di Isidoro Piromalo di Smirne, Diacono
del monastero di S. Giovanni dell’Isola di Pat­
mos (1).
65. Liturgia detta di S. Giovanni Crisosto
mo e Messa dei presantificati.
La Chiesa orientale fa pure uso di una liturgia
che porta il nome di S. Giovanni Crisostomo; que­
sta serve per tutto l’anno c contiene l’ordine della
Messa e le rubriche. Generalmente però si ritiene
che la liturgia che passa sotto il nome di San Gio­
vanni Grisostomo non sia sua o che sia stata po­
steriormente assai interpolata. La testimonianza di
Proclo, il quale afferma che il Grisostomo ridussei
ad una forma più compendiosa la liturgia, è l’u­
nica che si può citare. Ma nessuno degli scrittori
coevi ne fa cenno, neppure quelli che minutamen­
te s’occupano di lui, come Socrate, Teodoreto, So-
zomeno, e i suoi biografi Palladio e Giorgio.
La terza liturgia Costantinopolitana è quella
detta dei presantificati che serve nei giorni di di­
giuno in quaresima, nei quali non si celebra la
Messa, ma si riceve soltanto la SS. Eucaristia, con­
sacrata la domenica precedente. Tale costume è as­
sai antico in Oriente e il Concilio di Laodicea
(a. 363) prescrisse non doversi nella quaresima1

(1) Probst. o. c. § 95-96; Lebrun, o. c. Dissert. V I, ari. 2.


154 Capo IV

offrire il Pane (cioè celebrare la Messa) se non nel


sabato e nella domenica, giorni nei quali era pure
solo permesso di celebrare la memoria dei Martiri.
Questa Messa incomincia colla recita dei Salmi
graduali, accompagnati da antifone e responsori,
seguiti da Lezioni (non però tolte dal Vangelo) e
da preghiere pei Catecumeni. Congedati questi, il
Sacerdote fa le preci pei fedeli e sulla SS. Euca­
restia, conservata colle sacre Specie del pane in­
tinto nel calice consacrato (1).
66. Dove si estende la liturgia di questo
Patriarcato.
La liturgia greca del patriarcato di Costantino­
poli ebbe la più grande estensione. I popoli con­
vertili dai greci ricevettero anche il loro rito e cosi
quelli della Georgia e Mingralia, i Bulgari, con­
vertiti nel quarto secolo, i Russi o Moscoviti, che
abbracciarono la fede nel secolo decimo. Il rito
greco si estese sopratutto nel patriarcato di Ales­
sandria, di Antiochia e di Gerusalemme, ed anche
in Italia, specialmente in Roma, nella Calabria e
nelle Puglie.
67. Ordine generale della Messa di rito greco.
L’ordine della Messa solenne di rito grecot qua­
le appare dalle liturgie di S. Basilio e di S. Giov.
Crisostomo, pubblicate dal P. Goar e dalla spie-li)

l i ) bebrun. 1. c.
Liturgia Costantinopolitana e Armena 155

gazione che ne fecero diversi autori è il seguente.


Vengono prima le cerimonie compiute dal Cele­
brante e dal Diacono per la preparazione del pane
da consacrarsi, che si incide parecchie volte con
una lancia, pronunciando parole che ricordano la
passione di Nostro Signore. Quindi si incensano gli
oggetti che si devono collocare sopra i doni, cioè
la stella, il velo della patena e il calice, il gran ve­
lo, detto aria, con cui si copre la patena e il calice.
Dopo questa preparazione il Celebrante e il Dia­
cono vanno all’altare e lo incensano ai quattro lati,
recitando preghiere: s’incensa pure il santuario e
la chiesa. Qui comincia la S. Messa: baciato il li­
bro posto nel mezzo dell’altare, e fatta l’adora­
zione col Celebrante, il Diacono, uscito dal san­
tuario, e postosi in luogo elevato, comincia le pre­
ci, dette pacifiche. Il Celebrante, nel Santuario,
recita una preghiera secreta che conclude a voce
alta. Si cantano dal ooro le antifone e i versetti
secondo il tempo, che d’ordinario sono tre, inter­
calati da preghiere del Celebrante. Uscendo dal
santuario e rientrandovi, recitansi preghiere e si
fa il così detto ingresso del Vangelo, seguito dal
canto del trisagio. E qui, se il Celebrante è Vesco­
vo, tiene nelle mani due candelieri, uno a tre pun­
te e l’altro a due, con cui benedice il popolo du­
rante il canto del trisagio. Annunciata la pace, il
lettore legge l’Epistola seguita da canti; il Diacono,
circondato da lumi con pompose cerimonie, legge
il Vangelo da un luogo elevato della nave della
chiesa; quindi si fanno preghiere pei catecumeni,
156 Capo IV

dopo le quali il Diacono li invita ad uscire. Se­


guono preghiere pei fedeli, l’incensazione del­
l’altare, e la processione dei doni, che dalla protesi
o mensa posta al lato dell’altare, passando per la
nave della chiesa, si portano solennemente al­
l’altare col calice, la patena, il coltello ed una
spugna per asciugare il calice. Questo si chiama il
grande ingresso. Scoperti i doni dei loro veli, si
fanno le preghiere dell’oblazione, si annuncia la
pace, a cui risponde il diacono e il coro e si chiu­
dono le porte del santuario, in alcune chiese an­
che con cortina. Si canta il Simbolo costantinopoli­
tano (1), a cui fa tosto seguito il prefazio termi­
nato col trisagio o Sanctus. Quindi il Diacono col­
la stella e col ventaglio (ptm?) fa diverse cerimo­
nie sull’oblata, mentre il Sacerdote continua le
preci segrete del Canone. Fa l’invocazione dello
Spirito Santo, il memento dei vivi e dei morti, re­
cita l’orazione domenicale, consacra ed alza l’O­
stia, la infrange e ne mette una porzione nel ca­
lice, in cui infonde anche alcune gocce di acqua
calda. Tanto il Celebrante quanto il Diacono rice­
vono le sacre Specie, quest’ultimo, ricevendole, fa
una professione di fede. In alcune chiese si comu­
nicano i fedeli colle Specie del pane immerse nel
vino, per mezzo di un piccolo cucchiaio. In fine,1

(1) E’ il medesimo simbolo che si recita nella chiesa latina;


ma i greci scismatici omettono, come ognuno sa, la parola filio*
que là dove si parla della processione dello Spirito Santo dal
Padre e da.l Figlio.
Liturgia Costantinopolitana e Armena 157

fatte le ultime preghiere, il Celebrante benedice


il popolo (1).
68. Liturgia armena - origine, carattere, v
cende - I Mechitaristi.
L’Armenia minore ricevette la fede, secondo la
tradizione, dai due Apostoli Taddeo e Bartolomeo
e già nel terzo secolo la religione vi era fiorente.
Nel secolo quarto San Giorgio, detto rillumina-
tore, convertì anche l’Armenia maggiore, la quale
gareggiò ben presto colla prima nel fervore reli­
gioso. E siccome questo Santo, consacrato da San
Basilio di Cesarea, veniva dalla Cappadocia, sem­
bra fuor di dubbio che anche la liturgia armena
primitiva sia stata quella adoperata in Cappado­
cia, ed in Costantinopoli. Gli armeni accolsero*
tosto la riforma liturgica basiliana e la mantennero
trascinati da Giacomo Baradeo nello scisma di Eu-
tiche e presero il nome di giacobiti. Da quest’e­
poca (precisamente dal luglio 551) essi comincia­
rono una nuova era, che seguono ancora. Molti di
essi si riunirono a Roma al principio del secolo de-
cimoquinto.
Ora la liturgia di questi popoli si è sempre
mantenuta inalterata anche dopo il loro scisma, e
solo dopo la loro unione alla Chiesa cattolica av-1

(1) Vedi JLebrun o. c. Dissert. V . a. 4. — La liturgia di S.


Giovanni Crisostomo venne eseguita solennemente nella Basi·
lica di San Pietro in Roma nella fine del 1907. Cfr. La liturgia
di S. Giovanni Crisostomo con versione italiana. Roma, Fer·
rari, 1907.
158 Capo IV

vennero alcune variazioni. Alcuni religiosi armeni


incorporati nell’ordine di S. Domenico, ne adot­
tarono anche la liturgia, traducendola nella prò*
pria lingua. Una edizione latina si fece pure del
Messale armeno ad uso del collegio armeno di Ro­
ma, con alcune variazioni, ma essa non è in uso.>
La vera liturgia armena fu stampata in Venezia
nell’anno 1686, dai Mechitaristi di S. Lazzaro, e
più tardi, cioè verso il 1700, dal P. Didon, Vescovo
di Babilonia, che ne pubblicò una traduzione lati­
na, anche delle messe pei defunti. Tra gli scisma­
tici in poche chiese si celebra giornalmente più di
una messa ; e i giorni ordinari in cui non si celebra
eono quelli di digiuno, mentre i cattolici adottaro­
no il costume della chiesa romana di celebrare la
Messa letta, e la celebrano ogni giorno (1).
Nell’Armenia si formò una celebre congrega­
zione di benedettini, antoniani, o più comunemen­
te detta dei Mechitaristi dal fondatore Mecbitar.
Questi, prima a Modone nella Morea, sotto le re­
gole di S. Antonio, poi di S. Benedetto, quindi si
trasferì a Venezia, ove ebbe in dono dal Senato l’i­
sola di S. Lazzaro, che i Mechitaristi tengono tut­
tora con un noviziato per le missioni nell’Armenia,
a loro affidate dalla S. Congregazione di Propa­
ganda. Ora dalla tipografia armena di questo con­
vento nel 1876 è stata edita una operetta sui « Riti
e le cerimonie della chiesa armena » pubblicata1

(1) Pianton. « Enciclop. Eccl. » , Venezia, 1859 « Liturgia ar­


mena ».
Liturgia Costantinopolitana e Armena 1591

dal Padre Giacomo Issaverdeuz della medesima


Congregazione. In essa si descrive la pianta e la di­
sposizione della chiesa, il rito pomposo della so­
lenne amministrazione dei Sacramenti. Tra questi
si osserva che gli armeni sono obbligati ad acco-·
starsi alla confessione cinque volte all’anno, cioè
all’Epifania (nella quale solennità celebrano anche
il Natale), alla Pasqua, nelle feste della Trasfigu­
razione, deU’Assunzione di Maria Vergine e della
Esaltazione della S. Croce. Si descrive sopratutto
la Messa solenne, il cui rito riferiremo brevemente.
Il Celebrante porta in capo la corona (sagavard)
(o la mitra se è Vescovo) e veste la corona (Cha*
òigue), le maniche (pasban), la stola (oprare), il
cingolo (se è Vescovo anche lo scudo gonker), il su-
perometale (vaghas) e la cappa o piviale (chourt-
char). Il Vescovo porta anche il palio ed i preti
dottori di teologia hanno per insegna un bastone
sormontato da due serpenti, simbolo della pruden­
za. Durante la vestizione dai chierici, disposti in
semicerchio nel coro, si canta l’inno del celebre
Dott. Khatchadour. All’ingresso del santuario il
Celebrante fa l’abluzione delle mani, recitando coi
Diaconi il salmo 26. Quindi incomincia la prepara-
zione o Messa dei catecumeni. In essa si fanno pre­
ghiere pei catecumeni; il Sacerdote rivolto al po­
polo, fa la confessione e il primo dignitario del co­
ro recita l’assoluzione pel Celebrante. Questi allo­
ra sale i gradini dell’altare, si chiude il gran velo
o cancello davanti al santuario, e il Diacono pre­
para la materia del sacrificio, mentre si cantano in
160 Capo IV

coro inni o melodie relative alla festa. Si ritira il


gran velo, s’incensa l’altare, Poblata, il popolo
che si fa il segno della croce stando in piedi. Dopo
alcune preghiere e cerimonie si canta il trisagio, i
Diaconi e i chierici recitano le invocazioni della
pace per tutte le persone, per i vivi e pei morti.
Si leggono le profezie e le epistole del giorno, il
diacono legge il vangelo, seguito dalla recita del
Credo fatta pure dal Diacono. Tra le armonie dei
canti e colla scorta dei flabelli si portano all’altare
le offerte, ricevute dal Celebrante col capo scoper­
to. Su di esse si fa una preghiera, attribuita a
S. Atanasio, perchè vengano trasmutate nel vero
corpo e sangue di G. C. e si conclude colla agiolo­
gia (sanctus). Qui, mentre Diaconi, chierici e po­
polo stanno in ginocchio, il Celebrante pronuncia
le parole sacramentali. La chiesa armena, come la
latina e la greca unita, erede che in virtù di queste
parole pronunciate dal Celebrante il pane e il vino
si cambiano nel vero corpo e sangue di Gesù Cri­
sto. Si fa l’invocazione dello Spirito Santo, si pre­
ga pei diversi ordini gerarchici, il coro canta l’O­
razione Domenicale e il Celebrante fa l’elevazione
dell’Ostia. Seguono le preci della benedizione al­
ternate tra Celebrante e Diacono. Il Celebrante, te­
nendo con una mano il Pane consacrato e coll’al­
tra il Calice, si rivolge verso il popolo che, pro­
strato, adora: seguono ancora preci e benedizioni
e cantici, mentre il Celebrante frange il pane in
quattro parti, di cui ne mette tre nel calice, fa­
cendo professione di fede nella SS. Trinità. Si co­
Liturgia Costantinopolitana e Armena 161

mimica con la parte dell’Ostia infranta e assume


poi un sorso di vino consacrato; col rimanente di
questo, mescolato al pane, fa la comunione al po­
polo, durante la quale si cantano inni. Quindi si
chiude la grande cortina, il Celebrante, se è Vesco­
vo, indossa di nuovo le vesti sacre deposte prima
dell’offertorio, se è prete riassume la corona, re­
cita qualche preghiera, quindi riaperta la cortina
si recitano nuove preci, si legge il Vangelo di San
Giovanni. Dopo la Messa si distribuisce il pane be­
nedetto, come si usa nelle chiese orientali.
Al principio del secolo decimosettimo nella li­
turgia armena s’erano introdotte alcune innova­
zioni nella Messa privata; come di far l’oblazione
non prima dell’Introito, ma dopo il Simbolo, di
fare la elevazione dopo la Consacrazione, di non
benedire più il popolo col SS. Sacramento. La
S. C. dei riti, fece facoltà di introdurre nel calen­
dario alcuni Santi, ma ordinò di ritornare alla
stretta osservanza delle rubriche circa La Messa (1).
69. Dov’è in uso attualmente il rito greco.
Il rito greco, quale è in uso oggidì nella Chiesa
cattolica, si divide in quattro classi, cioè: in rito
greco puro, rumeno, slavonico e melchita.
Il rito greco puro mantiene nella liturgia la lin­
gua greca e si adopera nella missione di Cappa­
docia, in Costantinopoli ed in Malgara di Tracia.1

(1) S. C. R . 22 luglio 1751, n. 2414.


162 Capo IV

Appartengono a questo rito le Chiese greche dell’I­


talia inferiore e di Sicilia (1).
Il rito greco - rumeno che adopera la lingua ru­
mena, è in uso in una parte dell’ex-impero Austro
Ungarico e con circa 700 parrocchie, in Gran Va-
radino con 167 parrocchie, in Lugos con 157 par­
rocchie ed in Szmos-Ujas od Armenopoli con 489
parrocchie.
Il rito greco slavonico si suddivide in bulgarico
e ruteno.
Il primo si adopera nella Macedonia, nella Tra­
cia e dai bulgari di Costantinopoli e dintorni, in
ciascuna delle quali regioni è istituito un Vicaria­
to Apostolico. In Macedonia vi sono 35 parrocchie,,
in Tracia 17 stazioni, e poche nei dintorni di Co­
stantinopoli.
Il rito slavonico-ruteno è in uso nell’Arcidiocesi
di Leopoli (Galizia) (par. 149) e nella diocesi di
Crisio (par. 23), di Eperies (par. 197), di Munkats
(par. 387) di Premislia (par. 720) e di Stanisla-
now.
Il rito greco-melchita (2) è in uso nel patriarcato
di Antiochia cioè nelle diocesi di Aleppo, Emesa,

(1) Benedetto XIV, confermando le Costituzioni de’ suoi


predecessori riguardo agli italo>greci permise che ritenessero il
proprio rito, ma volle fossero soggetti ai Vescovi latini. Essi
hanno due seminari uno in S. Demetrio Carone di Calabria,
detto Seminar o Corsini, l’ altro a Palermo. I Superiori di que­
sti Seminari sono Vescovi, così detti ordinatori, perchè hanno
facoltà di conferire i Sacri Ordini ai loro chierici.
(2) Tutti ricordano l ’origine storica di questo nome. Quando
l’ imperatore Marciano nel 541 si diede a far eseguire i decreti
del Concilio di Calcedonia, nel quale erano stati condannati,.
Liturgia Costantinopolitana e Armèna 163

Tiro sedi arcivescovili, e nelle sedi vescovili di


Beyruth (Berito) e Gipail, Balbeq od Eliopoli,
Bsra ed Hauran, Cesarea di Filippo o Paneas, Da­
masco, Sodoni o Saida, Tolemaide o S. Giovanni
d’Acri, Zahle o Sarzul (1).
Il rito armeno è oggidì in uso nel patriarcato di
Armenia e Cilicia, il suo titolare risiede a Costane
tinopoli. Nella Turchia Asiatica il rito armeno con­
ta le diocesi di Adana, Aleppo, Amida o Diarbe-
kir, Ancira od Angora, Cesarea del Ponto, Arze-
rum, Karputh, Marasc, Mardin, Melitene o Mala-
tia, Muse, Brusa o Brussa, Sebaste o Sivas, Tokat,

Etiliche coi monofi&iti e D ioscoro, nacque una divisione tra gli


orientali. Gli uni ribelli all’ imperatore, e perciò alla fede di
lui propugnata, si chiamarono Mardaiti, gli altri ossequiosi ac­
cettarono il Concilio e si dissero Calcedonesi o MeleItiti cioè
regalisti, che equivaleva in quell’ occasione a cattolici. Nel se­
colo X questi vennero dai Patriarchi di Costantinopoli trascinati
nell’ errore e scisma foziano. La gerarchia cattolica vi fu rista­
bilita solo nel 1687 e vi continua tuttora.
(1) Ci pare qui il luogo di fare un cenno dei libri liturgici
che sono in uso presso i greci che sono fonte importantissima
per lo studio. Essi hanno il Grande Eucologio ( Εοχολδγιον
tè μέγα,) che contiene le parti immutabili (diremo il comune)
dell’ offìciatura Πμεδωνόκτιον e delle solennità. Liturgia di
S. Basilio, di S. Giovanni Grisostomo e dei Presantificati e for­
mulari per l ’ amministrazione dei Sacramenti e per molte bene­
dizioni. Il Trodion che contiene le regole del canto ( ώ δ α ί )
di ciascun giorno; è diviso in 3 parti il proprio del tempo, il
Pentacostario e 1’ Ο κτώηχος (libro degli otto toni sacri) che
hanno un ciclo mutabile di otto settimane. Il Meneen (ΜηναΧον)
che contiene il proprio dei Santi, diviso in dodici mesi: il Ti­
pico che contiene l’ ordine delle funzioni sacre come il Direc­
torium dei latini. Il Psalterium, diviso in 20 sessioni (perchè
durante la salmodia si sta seduti) ( Κ αθίσμ ατα ) ciascuna del­
le quali è suddivisa in tre στήσεις I libri che contengono le
Ore speciali del divino Ufficio si dicono orologi. Cfr. Thalhofer
o. c. § 5.
164 Capo IV

Trebisonda. E’ in uso in parte della metropolitana


di Leopoli, nella diocesi di Alessandria d’Egitto.
In fine, come già abbiamo accennato, il rito ar­
meno è usato dai Mechitaristi che sono nell’Isola
di S. Lazzaro a Venezia, in Costantinopoli, a Vien­
na d’Austria ed in Trebisonda (Armenia) (1).1

(1) Uno stadio accurato sulle liturgie orientali è quello


dito in questi ultimi anni dal Principe Massimiliano, Freiburg,
i. B. Herder.
SEZIONE II

Liturgia Occidentale

CAPO L

Liturgia Gallicana.

70. Difficoltà di questo studio. - Antichità


carattere della liturgia gallicana.
Tutti coloro che trattarono dell’antica liturgia in
uso nella Gallia prima dell’introduzione del rito
romano, fecero sentire la difficoltà di questo studio.
11 Card. Bona, che sopra tutti approfondi questo
punto, si confessa: « Implicatum..., in hac disqui-
sitione in qua suscepti operis ratio exigit, ut de
Missa ante Pipinum et Carolum Magnum in Galliisi
usitata eiusque ritibus agam. Cum enim tot saecu<*
lorum decursu eorum memoria interierit, nemo non
videt quam difficile futurum sit, e ruderibus anti­
quitatis, veluti e tumulis, sepultos eruere et ad lu­
cem revocare » (1).1

(1) Card. Bona, « Rerum Liturgicarum » Lib. I, cap. XII.


166 Capo I

Ora tutti sono d’accordo nell’attribuire alla li­


turgia che era in uso prima di Pipino in Francia,
una grande antichità. Infatti Ilduino, nella Prefa­
zione alle Areopagitiche, parla di messali gallicani
antichi « et nimia pene vetustate consumpti... con­
tinentes Missae ordinem, more gallico, qui ab ini­
tio receptae fidei usu in hac occidentali plaga est
habitus, us'queqiio tenorem quo nunc utitur, ro-
manum susceperit » (1). S. Agostino, spedito in
Inghilterra l’anno 596, attraversando la Francia,
osserva, nella celebrazione della Messa, delle ce­
rimonie particolari e domanda al Pontefice San
Gregorio donde poteva nascere tal diversità di con­
suetudini nelle chiese unite colla medesima fede a
Roma. S. Gregorio di Tours chiama antichissimo
l’ordine delle letture che si facevano nella Messa.
S. Cesario di Arles (a. 501) le chiama divine. Il
Papa S. Innocenzo I. scrive a Decenzio sul tempo
in cui, a Roma, nella Messa, si dava la pace, che
era differente da quella della Gallia.
Tutta la difficoltà adunque nasce solo quando si
vuole ricercare quale sia stato il carattere di questa
liturgia. Il primo a gettare il seme della discordia
circa questo punto, e quindi un eccitamento allo
studio, fu Mattia Fiacco Illirico, principe dei Cen­
turioni Magdeburgesi rigidissimo luterano, il qua­
le, nel 1558 pubblicò in Strasburgo una messa tro­
vata in un antico codice manoscritto, che intitolò :
cc Missa latina quae olim ante Romanam circa sep-1

(1) Cfr. Bona, 1. c. Lebrun o . c. Dissert. IV art. I.


Liturgia Gallicana 167

tingentesimum Domini annum in usu fuit, bona


fide ex vetusto authenticoque codice descripta ».
In essa mancano l’Introito, le Collette, l’Epistola,
il Graduale, il Vangelo, l’Offertorio, il Prefazio e
il Postcomunio, perchè queste parti variavano se­
condo le circostanze di tempo e di feste. I prote­
stanti pretesero di trovare in essa traccia dei loro
errori e ne menarono vanto. Ma il Card. Bona di­
mostrò con saldi argomenti che quella edita dal­
l’Illirico non è l’antica messa gallicana, bensì la
romana o gregoriana a cui s’erano aggiunte nuove
orazioni, ed è cattolica in tutta la sua estensione.
Quindi la inserì nella sua opera e la corredò di
note.
Ora il dottissimo cardinale traccia ancora breve­
mente il vero carattere della liturgia gallicana an­
tica in quattro punti.
Primo : in essa si recitano le passioni dei Marti­
ri, come appare dal luogo sopracitato di Ilduino,
che prosegue, parlando degli antichi messali : cc iti
quibus voluminibus habentur duae Missae de San­
cto Dionysio quae sic inter celebrandum... tormen­
ta Martyrum sociorumque sic ejus succinte com­
memorat, sicut et reliquae Missae ibidem scriptae
aliorum Apostolorum vel Martyrum, quorum pas­
sionem habentur, notissime decantant ». Tale me­
moria pare si facesse sui prefazio.
Secondo: la Messa gallicana si celebrava col ri­
to stesso che quella toletana o mozarabica ma dif­
feriva alquanto dalla milanese e dalla romana. Ciò
appare dalla lettera di Carlo il Calvo al Clero di
168 Capo I

Ravenna: oc Usqua ad tempora abavi nostri galli-


canae Ecclesiae divina celebrant officia, sicut vidi­
mus et audivimus ab eist qui ex patribus toletanae
ecclesiae coram nobis sacra officia celebrant » (1)*
Terzo : nell’ordine gallicano si recitava una le­
zione dei profeti, l’altra delle lettere degli Apo­
stoli, la terza del Vangelo. Cosi ci narra San Gre­
gorio di Tours (2) e appare ancora dal Microlo-
go (3).
Quarto : in essa il Diacono ingiungeva il silenzio
avanti l’Epistola e prima del Vangelo. Ciò appare
ancora dalle opere del citato Santo.
71. Sua provenienza.
Circa la provenienza di questa liturgia scrive il
Lebrun : Vi ha tutto il fondamento di credere l’or­
dine antico delle messe gallicane come provenuto
dalle chiese d’oriente (4). 1. Per la sua confor­
mità con le liturgie orientali. 2. Perchè i primi
Vescovi delle Gallie furono quasi tutti orientali.
San Trofino I, Vescovo di Arles era discepolo di
San Paolo, S. Crescente pure discepolo di Paolo
era venuto dall’oriente nelle Gallie, al dire di S.

(1) Apud Mabillon. « Liturgia Gallicana » Lib. I. cap. 3.


(2) S. Gregor. Toronesi in Lib. 4. 6. et lib. 8.
(3) M icrol. in cap. 8.
(4) Non mancano però coloro che sostengono che la liturgia
antica gallicana non sia stata altro che la Romana anche nelle
sue specifiche particolarità. Posta questa opinione, rimarrà sem.
pre a spiegarsi come essa abbia potuto poi differenziarsi dalla
Romana già sin dalla fine del secolo sesto, molto più che tra
Roma e Gallia vi erano facili comunicazioni.
Liturgia Gallicana 169

Epifanio e di Teodoreto. Questi accerta che nelle


Epistole di S. Paolo dove si legge Galizia è d’uopo
leggere, od almeno intendere, la Gallia, che fuor
di dubbio era una colonia dei galati; S. Fotino ve­
scovo di Lione, era greco, come pure S. Ireneo di
lui successore ed era stato discepolo di San Poli-
carpo. S. Saturnino, l’apostolo di Tolosa, era pure
venuto dall’oriente; e l’epistola delle Chiese di
Vienna e di Lione a quelle deH’Africa e di Frigia,
pubblicata da Eusebio fa vedere abbastanza la cor­
rispondenza tra le Chiese delle Gallie e quelle di
oriente. Tutto ciò può far comprendere l’origine
della liturgia delle chiese gallicane: giacché am­
messo pure che i primi apostoli delle Gallie siano
passati per Roma, ciò che sembra accertato col fon­
damento d’antica tradizione, e di là fossero stati
spediti dai Papi, ciò non avrebbe punto impedito
ad essi di ordinare la liturgia giusta l’uso delle
chiese orientali, al quale per nulla si opponeva la
chiesa di Roma (1).
A questo argomento del Lebrun si può aggiunge­
re la stretta relazione di questa liturgia col rito
mozarabico, come si vedrà nel capo seguente, il
qual rito fu senza dubbio una importazione orien­
tale. Con ciò non si può peraltro convenire colla
moderna scuola critica inglese, la quale pretende
attaccarsi all’apostolicità della liturgia prescinden­
do dalla sede di Pietro. Nella liturgia gallicana dei
primi secoli come in tutte le altre, nulla di sostan-1

(1) Lebrun, 1. c.
170 Capo 1

zialmente diverso dalla romana, le differenze e-


sterne accidentali appariscono dopo il secolo quar­
to e quinto.
In questa liturgia ebbero molta parte S. Ilario di
Portiere, che compose un libro degli inni ed un
altro sui Misteri; Museo, prete di Marsiglia, che
d’ordine del Vescovo Venerio compose, estraen-
dole dalla Sacra Scrittura, le lezioni per le parti
di tutto l’anno coi responsori e capitoli, stese un
libro dei Sacramenti contenente preghiere, conte-
stazioni (prefazi) e salmi, ed in fine il Sinodio che
compilò un libro di messe, al quale S. Gregorio di
Tours prepose una dichiarazione.
72. Monumenti che rimangono.
Di questa importante liturgia ci rimangono an­
cora sei monumenti, cioè quattro Messali o Sacra­
mentari, un lezionario ed una esposizione della
Messa (1).
Il primo è il Messale Gothicum sive gallicanum
che era in uso nella Gallia Narbonese, ove erano i
Goti, pubblicato dal Mabillon e dal Muratori. Il
manoscritto trovasi nella biblioteca Vaticana e forse
in antico della chiesa d’Autun (2). E’ della fine
del secolo settimo, perchè contiene la messa di S.
Leodegario o Leggero, morto nel 678, martire e

(1) Pubblicato dal Tommasi, poi dal Mabillon, Muratori e


recentemente dal Delisle e da Neale e Forbes.
(2) Devoucoux. Ancienne Liturg. du Dioec,. d’Autun. Paris,
1748.
Liturgia Gallicana 171

Vescovo di Autun. Vi si riscontrano analogie col


Sacramentario Gregoriano (1).
Il secondo è il Messale Francorum; pubblicato
dal Morino e dal Card. Tommasi, pure della bibl.
Vaticana, proveniente dall’Abbazia di S. Dionigi,
ed appartenente al secolo sesto o settimo. Ma que­
sto, insieme alle preghiere speciali della liturgia
gallicana, contiene orazioni di S. Gelasio, e i pre-
fazi, che portano il nome di Contestationes, termi­
nano come nel rito romano.
Il terzo Messale è pure nella biblioteca Vatica­
na ed è chiamato dal Mabillon Gallicanum vetus.
Ha molte somiglianze col gotico, ma è di origine
gallicana, ed ha pure una grande analogia col sa­
cramentario gelasiano.
Il quarto è il messale trovato nel monastero di
Bobbio, ed è intitolato Sacramentarium gallica-
num9 pubblicato nel Museo Italico del Mabillon,
ora trovasi nella bibl. nazionale di Parigi, prove­
niente da Besanzone e portato da S. Colombano a
Bobbio, ove fu scoperto. Il Canone che contiene
h il Gelasiano ed ha con questo codice molte rela­
zioni; lo si crede del secolo settimo.
Il quinto è il Lezionario, trovato nel convento
di Luxeuil dal Mabillon e pubblicato nei suoi libri
sulla liturgia gallicana; ora trovasi pure a Parigi,
ed è del secolo settimo.
Infine l’ultimo monumento che ci rimane è la
esposizione della Messa, fatto da S. Germano Ve-1

(1) Marchesi. La Liturgia Gallic. Roma 1867.


172 Capo i

scovo di Parigi, in due lettere trovate nel mona­


stero di S. Martino ad Aulun e date in luce dal
Martène e dal Durando. Quest’ultimo monumento
che risale alia metà del sesto secolo, contiene l’or­
dine più chiaro della messa gallicana e concorda
con quanto si trova negli altri monumenti e negli
scritti di S. Gregorio di Tours.
A questi importanti monumenti si devono ag­
giungere le Messe che Monse trovava nella Biblio­
teca di Carlsruhe, in numero di quindici, da lui
pubblicate. Il manoscritto è della fine del secolo
settimo, scritto in lingua rustica gallicana, e costi­
tuisce il documento forse più importante di que­
sta liturgia.
73. Ordine e parti della Messa.
Ora da tutti questi monumenti ed insieme dagli
scritti di S. Gregorio di Tours, si può conoscere
l’ordine e le parti dell’antica messa gallicana. La
Messa cominciava con una Antifona, ora detta
Introito, seguita dal Kyrie eleison, detto dai chie­
rici, mentre il popolo rispondeva Christe eleison;
si recitava l’inno angelico o Gloria, quindi il sa­
cerdote faceva l’ammonizione al popolo « ad diem
pie exigendum », chiamato Prefazio. Indi legge-
vasi una profezia seguita dal salmo o responsorio
e dalla colletta, in cui spesso si parafrasava il Be­
nedictus, seguiva la lettura dell’Epistola, prima
della quale il Diacono raccomandava il silenzio.
Nelle feste dei Santi queste lezioni erano precedu­
te dalla narrazione della lóro vita.
Liturgia Gallicana 173

Dopo l’Epistola il Diacono leggeva dall’ambone


il Vangelo, dopo il quale il clero cantava il Gloria
tibi Domine; il Vangelo era annunciato fra i lumi.
Si cantava il Sanctus in segno di gloria, si teneva
l’Omelia del Vescovo o si leggevano omelie dei
Santi relative al Vangelo letto. Quindi si facevano
preghiere generali dai Diaconi, seguite da una col·
letta, recitata dal Sacerdote. Allora si licenziavano
i catecumeni ed i penitenti, rimanevano in chiesa
solo i fedeli, ai quali il Diacono raccomandava
un’altra volta il silenzio. Il Diacono portava all’al­
tare il calice e le sacre suppellettili della Messa,
anche il pane ed il vino. Fatta l’oblazione, il Sa­
cerdote ne assumeva quanto bastava pel sacrificio,
coprendo il tutto colla palla o corporale, che era
ampio.
Si facevano due collette, una detta post nomina
l’altra ad pacem, si faceva memoria dei vivi, dei
defunti e dei Santi, e si dava la pace. Queste pre­
ghiere erano seguite dalla contestatio, illatiof o im­
molatio, incominciate col sursum corda e chiuse
col trisagio. Il principio del Canone è diverso nei
vari messali, secondo le messe che si celebravano,
ma conteneva una breve orazione che terminava
coll’azione del sacrificio o consacrazione. Fatta la
consacrazione, si recitava pure il Pater noster dal
Celebrante col popolo, dopo il quale il Diacono in­
vitava tutto il popolo ad inchinarsi a ricevere la
benedizione che qui si impartiva del Vescovo.
Quindi aveva luogo la Comunione che i fedeli tutti
174 Capo I

ricevevano all’altare. Le sacre Specie del pane si


mettevano in mano ai fedeli e il diacono distribuii
va la S. Comunione col calice. Coloro che non par­
tecipavano alla S. Comunione ricevevano la Eulo­
gia o pane benedetto, quella parte del pane cioè
che si era offerta nella Messa, ma non consacrata.
Non si conosce quello che si cantava durante la S.
Comunione, ma pare che si cantassero salmi rela­
tivi ai sacri Misteri, come sappiamo si faceva an­
che in Africa e sopratutto a Cartagine.

74. Introduzione del rito romano in Francia.


Tale era la liturgia che fu in uso in Francia, con
poche differenze locali, fino al tempo di Pipino e
Carlo Magno. Per istanza di Pipino il Pontefice
Stefano III mandò in Francia cantori che eseguis­
sero le sacre funzioni col canto romano, e Paolo
III inviò nel 758 l’Antifonario e il Responsoriale.
Carlo Magno volle che non solo il canto ma il rito
stesso di Roma si introducesse in Francia, e però
domandò al Papa Adriano I, ed ottenne, il Sacra­
mentario di S. Gregorio, e lo volle seguito da tutte
le chiese del suo regno : cc unusquisque Presbyter
Missam ordine romano cum sandalis celebret ». La
volontà del fervente imperatore venne eseguita, e
la Gallia, l’Italia settentrionale, la Germania, la
Sassonia, abbracciarono il rito di Roma. Nel 1856
si abbandonarono anche le altre reliquie rimaste
del rito.
Liturgia Gallicana 175

75. Usi particolari ancora vigenti in alcun


Chiese.
Ciò non impedì però che qua e là, nelle Diocesi
specialmente di Francia, si conservassero, fino ai
nostro tempo, alcuni usi particolari di quella an­
tica liturgia. Così in molte chiese il Vescovo prima
della Comunione, tra l’orazione domenicale e il
Pax Domini, imparte la solenne benedizione al po­
polo. Ciò si pratica in Lione, Parigi, Sens, Auxer-
re, Troyes, Meaux, ed altrove. Un altro uso man­
tenuto è quello di leggere una profezia prima del­
l’Epistola nella Messa di Natale, nelle chiese di
Reims, Besancon, Lisieux, Auxcerre, Soissons e an­
che presso qualche ordine di Regolari. Inoltre in
molte chiese nella messa parrocchiale, dopo il di­
scorso, si fanno preghiere pubbliche e generali; in
molte cattedrali si conserva il SS. Sacramento so­
speso sull’altar maggiore, entro speciali vasi. Si
conservano in molte diocesi dei prefazi propri che
contengono l’elogio dei Santi o la dichiarazione
del mistero del giorno, come si trovano nella litur­
gia ambrosiana ed un rito splendido, per cerimo­
nie, pel numero dei ministri, nelle Messe Pontifi­
cali.
CAPO IL

Liturgia Gotico-Mozarabica.

76. Liturgia spagnola nei primi secoli cristiani.


Nei primi secoli cristiani la liturgia in uso nelle
chiese di Spagna era romana, attribuita a S. Pie­
tro. S. Isid.oro di Siviglia lo attesta: cc Ordo autem
Missae vel oratiónum quibus oblata Deo consa·
crantur primum a Sancto Petro est institutus » (1);
ed è probabile ve Rabbia portata lo stesso Apostolo
S. Paolo che nella lettera ai Romani (2) promette
di rivederli, quando farà viaggio per la Spagna.
Nella lettera di S. Innocenzo I. a Decenzio si dice
che la Spagna ricevette la fede da Roma, e S. Gre­
gorio VII, scrivendo ai re Sancio e Alfonso, sup­
pone a loro noto che S. Pietro avesse mandato in
Ispagna sette Vescovi, i quali, colla fede, vi por­
tarono la liturgia. Quindi nei primi quattro secoli
la liturgia spagnola concordava pienamente colla
romana ed i concili di Elvira e di Toledo, ristabi­
lendo alcune pratiche ricordano che esse erano in
uso in Roma.

(1) De Eccles. Offic. 1. 1 c. 15.


(2) Ronu XV. 24. 28.
Liturgia Gotico-Mozambica­ n i

77. Liturgia gotica.


Nel quinto secolo, la Spagna fu invasa da nu­
merose orde barbariche. Alani, Svevi e Vandali la
percorsero saccheggiando e distruggendo, ed in fi­
ne vi posero la stanza i Goti. Questi, prima di ca­
dere nell’arianesimo, avevano ricevuto la fede, e
quindi la liturgia, dall’oriente, e in ispecie da Co­
stantinopoli, per mezzo del Vescovo Ulfila (1),
spedito loro da S. Giovanni Crisostomo. Quindi,
entrando nella Spagna, vi recarono la liturgia gre­
ca, come già la mantennero quelli che s’erano
stanziati nella Gallia Narbonese, la quale liturgia
da essi prese il nome di Gotica.

78. Decreti del Concilio di Braga per Γ uni­


formità liturgica.
Questa però non si tenne distinta dalla antica
che era in uso nella Spagna, ma si mescolò con es­
sa, dando così origine a diversità di pratiche nella
celebrazione della Messa e nella recita del divino
Uffizio. A togliere questa varietà il Papa Vigilio!
nel 1538 inviò l’ordine della Messa romana al Ve­
scovo Profuturo, invitandolo ad uniformarvisi, e
i Vescovi spagnoli si raccolsero a concilio nel 563
in Bretagna.1

(1) Filostorgio Lib. VII, cap. 58; Ammiano Marcellino lib.


ΙΠ. c. 51; Sozomeno, lib. V I. c. 37. Π vescovo Ulfila cadde
poi nell’ Arianesimo e cercò di trascinarvi i Goti. A lui dob­
biamo la versione della S. Scrittura in gotico, nella quale si
conservano ancora i Vangeli.
178 Capo 11

In questo Concilio si stabilì :


1. Che si dovesse tenere un’unica regola nella
salmodia: Ut unus atque idem psallendi ordo in
Matutinis vel Vespertinis officiis teneatur, et non
diversae ac privatae, neque Monasteriorum con­
suetudines cum ecclesiastica regola sint permix­
tae » (c. 10).
2. Che nella Messa si leggessero le medesime le­
zioni. « Item placuit ut per solemnium dierum Vi­
gilias vel Missas omnes easdem et non diversas Lec­
tiones in Ecclesia legant ».
3. Che i Vescovi e i sacerdoti daranno tutti,
nella stessa maniera, il saluto cc Dominus vobi­
scum ».
4. Che le Messe saranno celebrate secondo Por-
dine spedito dalla S. Sede al vescovo Profuturo:
item placuit ut eódem ordine Missae celebrantur
ab omnibus, quem Profuturus quodam hujus Me­
tropolitanae Episcopus ab ipsa Apostolicae, sedis
auctoritate suscepit scriptum » (c. 4.).
5. Inoltre non si dovesse cantare nelle chiese
nessuna poesia se non tolta dall’Antico o dal Nuo­
vo Testamento: « Placuit ut extra Psalmos vel ca­
nonicarum Scripturarum Novi et Veteris Testa­
menti, nihil poetice compositum in Ecclesia psal­
latur sicut et Sancti praecipiunt Canones ». (c.
12) ( 1).

(1) Lebrun, o. c. Dissert. y . art. 1.


Liturgia Gotico.Mozarabica 179

79. Opera dei SS. Leandro ed Isidoro e d


altri - Concilio di Toledo.
L’opera riformatrice del Concilio bragarense fu
continuata da S. Martino, primo apostolo dei Goti
nella Galizia, poi Arcivescovo di Braga, da Gio­
vanni Goto e sopratutto dei Santi fratelli Leandro
ed Isidoro.
S. Leandro, amico di S. Gregorio Magno, radu­
nò in Toledo un Concilio (a. 598) in cui stabilì che
nella Messa si cantasse, subito prima l’orazione
domenicale il Simbolo di Costantinopoli, oc I Ve­
scovi della Spagna, dice il Lebrun, introducessero
questo costume per assicurarsi della fede di quelli
che dovevano comunicarsi, e questo è il senso in
cui S. Leandro Vescovo di Siviglia si affaticò per
regolare tutta la liturgia. Sarebbe fuori di propo­
sito il dire che ne abbia fatta una totalmente di­
versa da quella di prima : egli è però ragionevole
pensare che, mantenendo buona parte degli usi
antichi di quella chiesa, ve ne abbia inseriti molti
orientali e forse altri ancora di rito gallicano, per
comporre un ufficio, in cui i Vescovi della Gallia
Narbonese potessero accordarsi più facilmen­
te » (2).
S. Isidoro successo al fratello, nel Vescovado di
Siviglia, dopo aver dato a lui la debita lode per la
sua operosità nella liturgia: « In Ecclesiasticis of·
ficiis non parvo elaboravit studio » continuò con

(1) Lebrun, 1. c.
180 Capo II

maggiore alacrità l’opera di riforma. Radunò per­


tanto un secondo Concilio di Toledo nel 633, in
cui fece Prescrizioni che dovevano osservarsi in
tutto il regno dei Goti, nella Spagna e nella Gal­
lia Narborense, ordinate a togliere tutte le diver­
sità di pratiche in uso nelle varie chiese.
1) Nel Venerdì santo non si tengano chiuse le
chiese, ma si faccia l’ufficio della passione, e il
popolo domandi ad alta voce perdono dei propri
peccati.
2) Non si tralasci la benedizione del cereo nella
Vigilia di Pasqua, « acciocché la benedizione di
questo lume ci conduca più particolarmente ai Mi­
steri della risurrezione ».
3) Nell’ufficio pubblico o privato si dirà dal cle­
ro l’orazione domenicale ogni giorno.
4) Durante la Quaresima ed il giorno dell’anno
non si canterà VAlleluia.
5) Si possono cantare inni composti dai Santi
dottori, come Ilario ed Ambrogio.
6) Nelle domeniche e feste dei Martiri si canterà
l’inno dei tre fanciulli.
7) Alla fine dei salmi si aggiungerà: Gloria et
hcmor Patri etc.
8) Dalla Pasqua alla Pentecoste si leggerà il li­
bro della apocalisse.
9) La benedizione nella Messa si darà tra l’ora­
zione domenicale e la Comunione.
10) I sacerdoti destinati al governo delle Parroc­
chie riceveranno dal Vescovo il libro degli Uffici:
« ut ad Ecclesias sibi deputatas instructi accedant »
Liturgia Gotico.Mozarabica 181

— Anche S. Ildefonso Vescovo di Toledo (a. 659-


669) compose alcune messe; e S. Giuliano, pure
Vescovo di Toledo (a. 690), ritoccò il Messale
« Librorum Missarum de toto anni circulo in qua-
tuor partes divisum, in quibus aliquas, vetustatis
injuria vitiatas atque semiplenas, emendavit atque
complevit, aliquas vero, ex toto composuit ». (1).

80. Messale mozarabico.


Così persevero la liturgia nella Spagna fino al
secolo ottavo. In questo tempo avvenne l’invasione
degli arabi o goti, i quali incendiarono chiese e
monasteri, uccisero sacerdoti e dispersero i cristia­
ni. Questi dovettero mescolarsi cogli arabi, epperò
si chiamarono mozarahi, e mozorabica pure si
chiamò la liturgia. Essa quindi non è altro che la
antica liturgia della Spagna perfezionata e rifor­
mata dai Santi Leandro ed Isidoro, mescolata poi
di riti orientali al sopravvenire dei Goti.
Ma al tempo della dominazione maomettana si
introdussero nel messale alcuni errori per cui Eli-
pando Vescovo toletano e Felice di Urgel preten­
devano, colla liturgia, sostenere il loro errore circa
la figliazione adottiva di G. C. Alcuino, con altri
dotti personaggi, ne fece la correzione; finche in
un Concilio, alla presenza del Papa, fu concluso
che nel Messale mozarabico non si trovava più
nulla di meno conforme del dogma.

(1) Lebrun, 1. c.
182 Capo II

81. Introduzione del rito romano nella Spa-


gna - Uso attuale del rito mozarabico.
Ciò non tolse che i Romani Pontefici cercassero
di richiamare la Spagna ad unità liturgica con Ro­
ma. L’opera fu iniziata sapientemente da Alessan­
dro II, proseguita da Gregorio VII e da Urbano II;
e al secolo decimoquinto il riio mozarabico più non
si praticava nella Spagna. — Il Card. Ximenes di
Toledo però non volle che esso perisse affatto, e
fece stampare, nel 1500, il Messale, e dopo due
anni, il Breviario; eresse una Cappella nella Cat­
tedrale di Toledo, nella quale fondò un capitolo
che continua ancora a celebrare in rito mozarabico.
Si usa pure in sei parrocchie urbane di Toledo,
nella chiesa del Salvatore a Salamanca, nella Cap­
pella di S. Maria Maddalena a Valladolid.
82. Ordine della Messa mozarabica - sua re­
lazione colla gallicana antica.
Il Card. Bona (1) espone ampiamente l’ordine
della Messa mozarabica, e noi ne riferiamo le parti
più importanti. Il sacerdote, vestito dei sacri para­
menti, recita una preghiera per il perdono dei
peccati, va all’altare ove, premessa la salutazione
angelica, incomincia la Messa con un’Antifona, il
salmo Judica me Deus, seguito dai Versetti. Fatta
la confessione, sale l’altare, fa un segno di croce
sulla mensa, poi la bacia, e recita l’Antifona della1

(1) Bona « Rerum liturgie. » Lib. I.


Liturgia Gotico.Mozarabica 185

croce con quattro Collette. Passa quindi dal lato


destro, recita l’Introito col Versetto, il Salmo e il
Gloria. Quindi recita le orazioni, senza dire la pa­
rola Oremus, colla conclusione : Per Dóminum etc.
Legge la Profezia, dopo la quale si canta il Respon­
sorium. Imposto il silenzio il Celebrante legge la
Epistola, a cui si risponde il Deo Gratias, e il Van­
gelo prima e dopo del quale si canta VAlleluia.
Si fa l’offerta dell’ostia e del calice con speciali
orazioni e si adopera l’incenso se la Messa è so­
lenne. Si canta il Sacrificium, che è un’antifona
simile all’Offertorio romano; il Sacerdote lava le
mani, recitando il Salmo Lavabo etc. Quindi bene­
dice l’oblata e recita una orazione in silenzio. A
questo punto nel Messale si trova scritto : Incipit
missa, forse perchè fin qui potevano essere pre­
senti i Catecumeni. Si legge un breve sermone al
popolo, in cui si esorta a contemplare i Misteri
della festività, seguito da una orazione in cui si fa
memoria dei Santi che sono assai numerosi. Vi ha
l’orazione post nomina, quella ad pacem, dopo la
quale si dà la pace. Segue, dopo alcuni versetti e
responsori la Illatio per lo più assai lunga, dopo
la quale si canta il Sanctus, seguito da una orazio­
ne detta post sanctus. Qui incomincia il Canone
con una invocazione a G. C. ; si fa la consacrazione
e dopo alcune cerimonie si fa l’elevazione e tutti
recitano il simbolo : Credimus in unum Deum Pa­
trem Omnipoténtem etc. Nel simbolo vi ha aggiun­
ta la parola fiHoque ordinata dal Concilio di Tole­
do (a. 589). Il Celebrante frange l’Ostia in due
184 Capo II

parti, delle quali prende una, la spezza in altre


cinque parti e le mette sulla patena in linea verti­
cale e la prima si dice corporatio, l’altra nativitas,
la terza circumcisio, la quarta apparitio, l’ultima
passio. L’altra metà viene suddivisa pure in quat­
tro parti dette mors, resurrectio, gloria, regnum,
e vengono poste sulla patena in linea orizzontale.
Purificate le dita, fa la preghiera pei fedeli vivi e
defunti; recita l’orazione domenicale e alle singole
petizioni si risponde: Amen. Mette una particola
nel calice, e quella precisamente detta regnum,
con una preghiera simile a quella del rito romano.
Qui il Celebrante dà la benedizione al popolo e si
canta il responsorio detto: Ad accedentes, in cui'
si ammoniscono i fedeli circa i Misteri che stanno1
per ricevere. Tenendo fra le dita la particella detta
Gloria sul calice, il Celebrante fa il Memento prò
defunctis, quindi assume le sacre Particole. Assun­
te anche le sacre specie del Vino, e fatte le ablu­
zioni legge l’Antifona : Refecti Christi corpore etc.
e conclude coll’annunzio: Solemnia completa sunt
in nomine Domini Nostri Jesu Christi. Votum no­
strum sit acceptum cum pace, e si risponde : Dea
gratias. Il Celebrante recita ancora inginocchiato
all’altare, la Salve Regina coll’orazione Concede,
dà la benedizione al popolo dicendo: In unitate
Sancti Spiritus, benedicat vos Pater e Filius: A-
men; e tosto parte dall’altare.
Confrontando questa esposizione della messa
mozarabica coll’antica gallicana si scorge tosto la
relazione che passa tra queste due liturgie.
CAPO Ι Π .

Liturgia Milanese od Ambrosiana.

83. Fonti principali - e scritti.


La fonte più antica per lo studio della liturgia
della chiesa milanese sono le opere di S. Ambrogio,
che fu Vescovo di quella città, e specialmente ili
libro De Mysteriis nel quale peraltro non si trova
che qualche frase che accenna alla liturgia. Il libro
de sacramentis è ritenuto oggidì come non apparte­
nente a S. Ambrogio, ma con ciò non si può ne­
gare che contiene molte notizie che gettano luce
sul rito antico di questa Chiesa. Un secondo docu­
mento è il Lezionario ambrosiano, pubblicato dal
Tommasi e dal Giorgi. E’ un codice, secondo il
Tommasi anteriore al secolo ottavo; ma indagini
fatte recentemente sul manoscritto, che rovasi nel­
la biblioteca vaticana, lascierebbero credere che
esso non abbia servito ad uso liturgico (1). In terzo
luogo viene un Evangeliario che risale al tempo di
Carlo M. e contiene le lezioni evangeliche delle
solennità e delle feste dei Santi.
Tra gli scrittori più antichi abbiamo il Beroldo,
custode della Metropolitana, autore dell’opera:
Ordo et caeremoniae Ecclesiae mediolanensis, re-1

(1) Cfr. Magoni, o. c. V oi. I. pag. 221-223.


186 Capo III

centemente pubblicato dal Can. M. Magistretti (1).


In questi ultimi anni vennero pubblicati impor­
tanti studi su questa liturgia fra i quali quello del
Ceriani, già citato, composto con fine critica sui
più antichi manoscritti, che rappresenterebbe lo*
Ordinarium Missae; e l’opera del Magisiretti : La
liturgia della Chiesa nel secolo IV. Anche Mons.
Magani ne trattò diffusamente, specialmente delle
sue vicissitudini.
84. Origine di questa liturgia.
Circa Vorigine del rito della chiesa milanese non
sono d’accordo gli scrittori. Chi lo fa risalire fino
all’Apostolo S. Barnaba, il quale secondo un’an­
tica tradizione, sarebbe stato l’evangelizzatore del­
la città di Milano; chi non vede in esso che una
mescolanza della liturgia gallicana o mozarabica,
ed altri infine lo vorrebbe di provenienza orienta­
le. La sentenza però più probabile è quella che
afferma l’antica liturgia milanese non esser altro
ehe quella primitiva di Roma avanti la riforma.
Coll’andar del tempo essa ebbe un particolare svi­
luppo, ma questo fu al tutto accidentale, nè mai
intaccò la sostanza, cc Ulla sane a nono saeculo et
deinceps, immo fortasse vel ante, ex Romano ac-1

(1) Beroldus, Sive Ecclesiae Ambros. Mediolanen. Kalend


et Ordines, ed adnot. M. Magistretti 1894. Il messale di Pamele
(1536-1587) oggidì non si ritiene, a giusta ragione, che una
raffazzonatura d’ una pessima edizione del 1560, nemmeno rife­
rita fedelmente e totalmente nellO rdinario. Cfr. Dottor Ceriani
Notizia liturg. Ambr. Mediolani, 1895.
Liturgia Milanese od Ambrosiana 187

cepisse Ambrosianum Ordinarium, quae olim utri*


que deerant, ipse novi; α ϋ α ipsum a Romana dif­
ferentia innovasse vidi... Sed ista additamenta
sunt secundaria ut ita dicam, vel devotionis causa
inducta ante Ingressam in Secretis ad Lectiones
sacras ad Offertorium et Communionem quae ta­
men ipsam Ordinarii veterem textum qualis extat
in Miss. Saec. IX et X, hoc confidenter, dicerem
unam eandemque fuisse primitus Liturgiam Am-
brosianam cum Romana eumque ex Roma huc al­
latam fuisse et jam ante textum Gelasianum et Gre­
gorianum qui vix a Gelasiano differt in Canone, in
eadem forma qua nunc habet, costitutam fuisse;
omnia autem quae Ambrosiana vetus prae Gelasia-
na et Gregoriana habet vel uno vel eodem sensu
sed diffusiori sermone prolata, maxima ex parte,
si non omnino omnia extitisse olim in Liturgia Ro­
mana, antequam Romani Pontifices pro sua pru­
dentia et auctoritate in fidelium commodum eam
identidem ordinaverunt ut brevior et expeditor es­
set » (1). Ciò si prova dal confronto degli antichi
Ordinari Romani con quelli ambrosiani; dal quale
confronto appare che la liturgia ambrosiana risale
ad epoca più antica del Sacramentario Gelasiano.
Si prova ancora dalle notizie liturgiche che ci dan­
no i Padri africani e dalla liturgia di S. Marco, la
quale ha una grande affinità colla latina e pare de­
rivata dalla medesima fonte da cui deriva l’Ambro-1
(1) A . M. Ceriani. «.Notitia Liturgiae Ambrosianae ante se-
culum XI medium etc. ». Mediolani 1895. Cfr. pure Martène,
« De antiquis, eccles. ritibus » Rotomagi, 1700 t. I. p. 471 seg.
188 Capo IH

siana (1). Anche S. Ambrogio ricorda questa per­


fetta uniformità della liturgia milanese colla ro­
mana, poiché parlando dice: cujus typum in om­
nibus sequimur et formam (2).

85. La liturgia milanese quale appare da


opere di S. Ambrogio e dal libro De Sacramentis.
Quando S. Ambrogio salì la cattedra di Milano,
trovò in quella chiesa già ordinata la liturgia, e
dalle sue opere ci è dato conoscere in qualche mo­
do il carattere di essa, come pure quello che egli
fece per riordinarla. La messa dei catecumeni in­
cominciava colla lezione della S. Scrittura, ossia
dei profeti, degli Apostoli, del Vangelo (3) e di
libri particolari secondo i tempi dell’anno (4).
Fra le lezioni si cantavano dall’adunanza, dei sal­
mi (5), e dopo la lettura del Vangelo si teneva la
omelia seguita da preghiere pei catecumeni e pei
penitenti, i quali a questo punto venivano conge­
dati (6). Qui incominciava la Messa dei fedeli, si
facevano le preghiere comuni, ossia per le diverse
classi dei fedeli, dette dignitates orationis, e per le

(1) Ceriani, « . c.
(2) De sacram, lib . 3, c. I. n. 5.
(3) Epist. 22, n. 4 ; de Myst. c. 8, n. 43; in Ps. 118 serm.
I. num. 11.
(4) Serm. c. Auxentium c. 7.
(5) Epist. 22 nn. 3, 4, 7; in Ps. I. Praef., n. 9.
(6) Ep. ad Marcel. 14; de Poenit. 1. I, c. 15, n. n. 80. Fa
a questo punto della Messa che avvenne il celebre fatto dell’al­
lontanamento dell’ imperatore Teodosio dal tempio, dopo la stra­
ge di Tessalonica. Epist. 59 da Teod.
Liturgia Milanese od Ambrosiana 189

podestà (1). Queste si trovano nel Messale del Pa-


melio nelle domeniche di quaresima, quantunque
la forma sia assai posteriore di tempo. Ϊ fedeli por­
tavano all’altare i doni, rito che ancora si conser­
va in Cattedrale nelle Messe solenni, e questi con­
sistevano in pane e vino (2), che veniva mescolato
con acqua (3), simbolo di quella uscita dal costato
di G. C. in croce (4). Da questa offerta erano
esclusi quelli che se rendevano indegni per qual­
che enorme delitto (5). Nessun laico dopo l’obla­
zione poteva stare nel recinto del Santuario (6).
Ai tempi del santo vigeva la disciplina dell’arca­
no, quindi nelle sue opere non si trovava traccia
del simbolo che recitavasi nella Messa. Si faceva
solenne incensazione dei doni offerti e la preghiera
di ringraziamento e di lode a Dio (Prefazio) (7),
con quella chiamata supplicatio od obsecratio, qua­
le era in uso precisamente nella chiesa alessan­
drina, africana, e in quella di Roma. Si faceva
commemorazione dei Santi e dei defunti (8) quan­
tunque non si possa stabilire con certezza se i de­
funti si ricordassero prima o dopo la consacrazio-

(1) In Ps. 118 Serm. 22, n. 15; Epist. I, n. 2.


(2) De Sacram. 1. IV , c. 4 n. 18.
(3) De Myster. c. 3 n. 14; de Sacram. 1. 4. c. 4. 8. n. 19.
(4) De Sacram. Lib. V . c. I, n. 3, 4.
(5) Teodoreto, 1. 5, c. 27.
(6) Ciò non era permesso neppur all’ imperatore. Cfr. Baro,
nii. Ann. 800; n. 28; S. Àmbros. in Lucam c. 2.
(7) De instit. Virg. c. 2, n. 9. De Cain. 1. 2, c. 6, n·. 21.
(8) De Excess. fratris suis Satyri, η. 80; de obitu Valentin,
consolatio, η. 56.
190 Capo III

ne. Si faceva la lavanda delle mani (1). Il Santo


ci ha lasciato la forma della consacrazione e parla
della presenza reale (2). Dopo la consacrazione
seguiva una preghiera di offerta (3) fatta colle
mani espanse, si dava il perdono dei peccati. « Au·
dis quod quotiescumque offertur sacrificium, mors
Domini, resurrectio Domini, elevatio Domini, si-
gnificetur et remissio peccatorum y> (4). Quantun­
que non risulti dalle opere del Santo, pare però
che alla frazione del pane si faceva una speciale
preghiera (Confractorium), seguita dall’Orazione
Domenicale e da una dossologia: Per dominum
nostrum ecc. (5). Il Celebrante impartiva la bene­
dizione del popolo (Oratio inclinationis) (6), detto
ancora : simbolo di comunione dava la pace col ba­
cio, simbolo di pietà e di carità (7). Si faceva
quindi la comunione, preceduta da una preghiera
di adorazione. Il Sacerdote presentava il Pane con­
sacrato ai fedeli colla formula: Corpus Christi;
questi lo ricevevano in mano rispondendo : Amen.
Probabilmente si faceva la comunione anche con
le specie del Vino (8). Durante la comunione del

(1) Martene, o. c. 1. I. c. 4. a. 12 ord. 3.


(2) De Sacram. 1. 4, c. 5. n. 21; De Misi. 52. in Ps. 38, n .
25 de fide ad Grat. 1. 3, n. 5.
(3) In Ps. 38, n. 25.
(4) De S a c r a m 1. 5, c. 4, n. 25.
(5) L. c. 1. 6. c. 5. n. 24.
(6) In Ps. 40, n. 36. Questa benedizione data dal celebrante
dopo il Pater noster nelle messe solenni è ricordati nel IV Conc.
Prov. di Milano tenuto nel 1576.
(7) Epist. 41, n. 14 e 51.
(8) Exaem. 1. 6. c. 9. n. 69; de Offic. 1. I. c. 50, n. 558.
Liturgia Milanese od Ambrosiana 191

popolo si recitava il salmo XXII (1), e la Messa


terminava con preghiere speciali di ringraziamen­
to, quali si trovano in tutte le antiche liturgie,
specialmente quelle di S. Marco. Di queste dice il
Santo <( Tunc utique paratus adsiste ut accipias
tibi munimentum, ut corpus edas Domini Jesu in
quo remissio peccatorum est, postulatio divinati
reconciliationis et protectionis eternae » (2).

86. Opera di S. Ambrogio nella Liturgia.


Nè solamente S. Ambrogio ci fa conoscere co*
suoi scritti il carattere che aveva in quei primi se­
coli la liturgia milanese, carattere che conferma
un’altra volta la sentenza dell’unità liturgica, ma
spiegò sopratutto la grande influenza ed attività
nello sviluppo e nel più grande uso della Chiesa
di Milano. Egli infatti istituì il canto alternativo
dei salmi e degli inni, come già si praticava in
oriente e come poco dopo si fece in tutto l’occi­
dente (3). Fu autore di gran numero di inni, i
quali per la grazia e divozione che spirano furono
in alcune Chiese cantati anche nella Messa (4).
Gli si attribuiscono le Messe per le feste dei SS.
Nazario e Celso, Vitale ed Agricola, dei quali ri­
trovò i corpi; molti Prefazi, nei quali si ricorda-

(1) De Sacram. 1. 5, c. 3, n. 12 e 13.


(2) In Ps. 118; Serm. 8, n. 48. Anche in questo punto ab­
biamo cercato di compendiare il lavoro del Probst nell’ Opera
cit. dal § 63 al § 70 e di là abbiamo pure le citazioni.
(3) Paulin. Vita S . Ambros.; S. Aug. Conf. 1. IX, c. 7.
(4) Walfridus, Rerum Ecclesiast. o. c. XXV.
192 Capo III

no, in modo breve ma splendido, le gesta dei mar­


tiri e dei Santi. Le orazioni per la Benedizione de­
gli Olii Sacri e del Cereo Pasquale, sono pure at­
tribuite a S. Ambrogio e furono poi inserite anche
nel Sacramentario Gregoriano, e quindi si conser­
vano tutt’ora nel rito Romano (1). Lo sviluppo pe­
rò che prese la liturgia milanese per l’opera del
Santo, mentre da una parte fu al tutto conforme
al tipo romano (2), dall’altra si atteggiò ad espri­
mere più chiaramente i misteri allora impugnati
dagli eretici, cioè la Incarnazione e la consostan­
zialità del Divin Verbo.

87. Vicende di questa liturgia.


I successori di S. Ambrogio posero pure gran
cura perchè il prezioso patrimonio lasciato ad essi
fosse conservato nella sua pienezza, e venisse pra­
ticato (3). Tra gli illustri Vescovi che s’interessa­
rono della liturgia si ricordano S. Simpliciano e
S. Eusebio (a. 449) che restituì alla sua chiesa i
libri antichi dei divini Uffici; Teodoro II (a. 725)

(1) Lebrun. o. c. Dissert. I l i a. 1. Kienle, « P. Ambrosi. Su-


dien und Mittheilungen au$ dem Benedictinerorden ». Jargang
1887.
(2) Thalhofer, o. c. § 22.
(3) Carlo Magno com e dispiegò grande zelo per introdurre
il rito romano nelle Gallie, cercò ancora di farlo accettare dalla
chiesa milanese, obbligando così i figli di S. Am brogio a rinun­
ciare al loro rito: ma non vi riuscì. Landolfo, Beroldo, Paiva­
no e Duranto riferiscono i prodigi avvenuti nella basilica di
S. Pietro in Roma e che indussero il Papa a conservare il rito
Gregoriano e l’ Ambrosiano i cui Messali posti nell’altare si
erano miracolosamente aperti.
Liturgia Milanese od Ambrosiana 193

che commentò con pietà ed erudizione questi stessi


libri; Olrico (a. 1120) che riordinò il sacro canto,
e Francesco I (a. 1296) che riordinò la Messa;
Francesco Piccolpasso (a. 1440) che pubblicò una
costituzione sul Breviario ambrosiano.
Sopratutti va distinto per zelo ed operosità il
grande S. Carlo Borromeo. Egli non solo incaricò
gli uomini dotti perchè studiassero il rito ambro­
siano, ima lavorò egli stesso col Galesini a correg­
gere l’edizione del Breviario, il cui uso volle ren­
dere generale anche ai Regolari (1). Istituì a Mi­
lano, coll’approvazione del Papa Gregorio XIII,
una Congregazione incaricata dello studio e della
custodia del rito. L’opera fu compiuta dal Card.
Monti (a. 1632), sotto il qual ultimo uscirono il
Messale e il Breviario. Ed infine il Card. Pozzobo-
nelli che curò ancora l’edizione del Messale e del
Breviario (a. 1751 - 1754).
Anche i Sommi Pontefici protessero e difesero
questo rito. Così Alessandro VI volle che i Cister­
censi, introdotti al monastero di S. Ambrogio « in
Missis, caeremoniis, cantu et aliis divinis officiis,
tam nocturnis quam diurnis, de consueto officio
Ambrosiano noncupato prout hactenus dicere con-
suerverunt9 nihil immutent » (Bolla 10 aprile
1497). Tanto fece ancora Giulio II riguardo agli
Olivetani nel 1507. Gregorio III, lodato il rito am­
brosiano, dà a S. Carlo facoltà di ristabilirlo e in-1

(1) Fu stampato nel 1594, con qualche aggiunta arbitraria


fatta dai correttori.
194 Capo III

tfodurlo nelle chiese a lui soggette, ove non vi fos­


se (Breve 25 genn. 1575). Papa Martino V, ritor­
nando dal Conc. di Gostanza (a. 1418) pontifica
nel Duomo di Milano col rito ambrosiano. Leone
XII dichiara in un breve ai Conservatori della Bi­
blioteca Ambrosiana che : cctantum Ritui tribuU
mus Ecclesiae Mediolanensis, quantum tribui par
est ei, quam sua ipsi religio et antiquitas atque
eius, a quo nomen habet, sanctitas et preclara in
universalem Ecclesiae promerita commendant ».

88. Principali particolarità del rito ambro


no - suo uso attuale.
Il rito ambrosiano per nulla si differenza dal ro­
mano per ciò che riguarda la chiesa, l’altare, le
immagini, le vesti sacre, il canto e il complesso
della Messa e dei Sacramenti. Le reminiscenze gre­
che o mozarabiche che alcuno vuol trovare in que­
sto rito, se provano qualche cosa, dimostrano solo
che in quei primi secoli vi era uniformità liturgica
maggiore di quella che si crede. Del resto notiamo
qui le particolarità più importanti.
1) Nella Messa il Sacerdote indossa il camic
prima dell’amitto. Al principio della Messa, dopo
l’Antifona Introibo, aggiunge il versetto Confite­
mini Domino quóniam bonus e dopo VIndulgen-
tiam, i Versetti: Adiutorium nostrum etc. e, Sit
nomen Domini benedictum. Letta 1'‘Ingressa, sa­
luta il popolo col Dominus vobiscum, senza però
rivolgersi al popolo, e stando dalla parte dell’Epi-
Liturgia Milanese od Ambrosiana 195

stola, recita il Gloria in excélsis, a cui aggiunge tre


volte il Kyrie eleison. Legge quindi l’orazione su­
per populum seguita dalle Commemorazioni e dal­
l’Epistola. Nelle messe solenni si canta anche la
lezione, che si omette nelle messe feriali e da mor­
to, col psalmello e il versetto. La lezione, l’Epi­
stola e il Vangelo si cantano, nelle Messe solenni,
dall’amhone. Il Diacono annuncia la pace colla
formula : Pacem habete, il Sacerdote recita la pre­
ghiera detta super sindonem e si fa l’offerta. Nelle
Messe solenni s’incensa con rito speciale per tre
volte, come nel rito romano, cioè all’/ngresso, al
Vangelo, all’offertorio. Si recita il Simbolo costan­
tinopolitano, VOrazione super oblata, dopo la
quale si recita il Prefazio. Ogni messa, anche da
morto e votiva, ha il suo prefazio particolare, che
forma uno dei più bei pregi di questo rito. I pre-
fazi contengono in breve la virtù del Santo, o la
dichiarazione del mistero o della festa che si cele­
bra. L’ordine del Canone non ha grande differen­
za dal romano: il Sacerdote lava le mani appena
prima della consacrazione, e dopo di questa sten­
de le braccia in forma di croce. Dopo il Pater no­
ster e l’orazione seguente, che si recita ad alta vo­
ce, il Diacono, nelle messe solenni, dice, rivolto
al popolo: Offerte vobis pacem. Questo si omette
nelle messe da morto e in suo luogo si recita VA-
gnus Dei che si tralascia nelle altre. Sul termine
della Messa si legge il Transitorium, coi tre Kyrie
eleison ed alcuni versetti, quindi il Celebrante dà
’a benedizione e recita il Vangelo di S. Giovanni.
196 Capo IU

In questo rito si tace VAlleluia dalla prima do­


menica di Quaresima alla Pasqua, nella feria delle
Litanie, in quelle dette de exceptato, cioè la setti­
mana prima di Natale, nelle vigilie e nelle Roga-
zioni e in luogo di esso si dice il cantus.
In tutta la Quaresima non si celebrano feste dei
Santi ma si fa sempre della feria, eccetto le feste
di S. Giuseppe e dell’Annunciazione di Maria.
Nelle domeniche si fa sempre ufficio de ea e non
mai di un Santo, e si distinguono in capite quadra­
gesimae, della Samaritana, di Abramo, del Cieco,
di Lazzaro e delle Palme, secondo i Vangeli che si
leggono nelle Messe. In tutti i venerdì di quaresi­
ma. non si celebra la Messa, nè si distribuisce la
SS. Comunione ai fedeli.
Le ceneri si impongono il primo giorno delle
ferie delle litanie, che cominciano il lunedì dopo
la domenica tra l’ottava dell’Ascensione : in queste
tre ferie vi era obbligo di digiuno: al Venerdì
Santo non vi è la Messa dei presantificati e in esso
si onora la sepoltura di G. C.
2) Quanto al divino Ufficio il rito ambrosiano si
differenzia pure nella forma dal romano. Il Vespro
dicesi lucernario e comincia dall’antifona: Quo­
niam tu illuminas « si recita l’Inno prima dei sal­
mi. Nella settimana santa, cioè il giovedì ed U ve­
nerdì, nell’ufficio si recita la così detta piccola
passione di S. Giovanni, e nelle altre ferie si legge
il Passio degli altri evangelisti. Nelle ferie di qua­
resima si aggiunge l’ufficio dei morti.
3) Quanto ai sacramenti; il battesimo si amati-
Liturgia Milanese od Ambrosiana 197

nistra, con un ammirabile splendore di rito e di


preghiere, per immersione; nell’Estrema Unzione
si recitano i sette salmi penitenziali. Il rito degli
altri Sacramenti contenuto nel Pontificale è iden­
tico in tutto al romano. Splendido è il rito ambro­
siano nelle esequie dei fedeli e di sacerdoti. In fine
i colori liturgici ambrosiani sono in numero e qua­
lità identici ai romani, quantunque non si adope­
rano i medesimi colori per lo stesso oggetto. Così,
per esempio, il colore per il SS. Sacramento, nel
rito ambrosiano, è il iosso, pei penitenti è il verde,
per le matrone il violaceo ecc. (1).
Il rito ambrosiano si usa nell’Archidiocesi mila­
nese, fatta eccezione di quelle parrocchie ove era
uso anticamente il rito cosidetto patriarchino od
acquileino (2) le quali adottarono il rito romano,
come Monza e la Pieve di Pontirolo, da cui dipen­
deva pure Treviglio; si eccettua ancora la pieve di
Chignolo Po che è stata più tardi annessa all’Ar-
chidiocesi milanese ed ora (1925) alla pavese. Fuo­
ri della diocesi di Milano questo rito vige in quei

(1) Cfr. Piantoti. Enciclopedia Ecclesiastica « JLiturgia Am­


brosiana » , Card. Bona, o. c. Lib. IX.
(2) Di questa liturgia qui non s’ è fatto uno studio partico­
lare perchè essa non è uiù in uso. Importanti documenti si tro.
vano nella Parrocchia di Pontirolo milanese. Questo rito si dice
aquileino dalla città ove ebbe il suo centro e patriarchino dal
titolo del Vescovo che la governava. Si era esteso in una zona
della Lombardia che abbracciava Monza, Com o, Treviglio. Pro.
babllmente vi era stato importato per le relazioni tra Acquilea
e la casa regnante dei Longobardi. Esso differiva ben poco dal
romano, come si può vedere presso Magani, o. c. V oi. I. p.
1166.
198 Capo III

luoghi che erano già appartenenti a questa, come


la valle S. Martino (dioc. di Bergamo), la Valle
Canobbina (Novara), le tre Valli (Lugano).
CAPO IV.

Liturgia Romana

89. Liturgia romana o petrina.


Che San Pietro abbia portata a Roma insieme
colla fede anche la liturgia, è cosa fuori di dubbio.
La costante tradizione chiama il Principe degli A-
postoli autore della liturgia romana. Difatti il Pon­
tefice S. Innocenzo I ricorda questa tradizione nel­
la lettera a Decenzio : « Quis nesciat non advertat,
id quod a Principe Apostolorum Petro romanae
ecclesiae traditum est ac nunc usque custoditum,
ab omnibus debere servari, nec supra induci ali­
quid quod auctoritatem non habeat aut aliunde ac«■
cipere videatur exemplum? Praesertim cum sit
manifestum in omnem Italiam, Gallias, Hispanias,
Africam atque Siciliam Insulasque interjectas, nul­
lum instituisse Ecclesias nisi eos quos venerabilis
Apostolus Petrus au eius successores constituerunt
sacerdotes ». Il papa Vigilio, S. Isidoro di Siviglia
e Walfredo di Strabone sono del medesimo senti­
mento, e lo dimostrano ampiamente Martene (l),
Grancolas (2), Lebrun (3) Domenico Gregori (4),
«d altri.

(1) Martene, « de antiq. Eccles. ritibus », c. 3, art. 1. § 7.


(2) Grancolas, « De antiq. Liturg. ». p. 51.
(3) Lebrun o. c. Diss. II. a. 2.
<4) Gregorio, a Liturgia Rom. Pontif. » 1. 1. c. 2.
200 Capo IV

L’antica liturgia romana o petrina non va perù


confusa con quella intitolata « Divina liturgia del­
l’Apostolo Pietro », scoperta dal Vescovo Lindano
nella biblioteca del Cardinale Sirleto di Roma e
stampata ad Anversa nel 1589, nella quale i critici
non vedono che un miscuglio di liturgie greche
coll’uso romano, assai posteriore ai primi secoli,
e quindi almeno quale si trova attualmente, non
mai stata in uso a Roma (1), nè altrove. E nep­
pure si deve prendere alla lettera l’espressione di
S. Isidoio di Siviglia che dice: « Ordo missae vel
orationum quibus oblata Deo sacrificia consecran­
tur primo a Sancto Petro est institutus, cujus cele­
brationem uno eodemque modo univérsus peragit
orbis » (2). Ciò si deve intendere della sostanza,
dell’ordine, se si vuole, ma non anche delle ceri­
monie (3).
Del resto è accertato che l’antica liturgia roma­
na o petrina, non era altro che quella delle Apo­
stoliche costituzioni o clementina, fondamento di
tutte le liturgie (4).
90. Riforma liturgica incominciata da S.
maso e proseguita dai pontifici successori.
La riforma liturgica, resa necessaria da molte
cause (5), ebbe principio per opera, secondo al­
ti) Lebrnn, 1. c .: Bona, o . c ., lib. c. 8.
(2) S. Isid. Hispal. De offic. eccles. lib. I, c. 15.
(3) Bona, o. c., lib. 1. c. 7, n. 5.
(4) Probst, « Liturgie des virten Jahrh » . Pag. 5. §§. 89-98.
I I . 89-88.
(5) Cfr. n. 17.
Liturgia Romana 201

cimi, del Pontefice S. Damaso. Le relazioni che


egli aveva con S. Basilio e con S. Gerolamo lo do­
vevano certo mettere in grado di dar mano a que­
sto riordinamento. S. Gerolamo attesta d’aver aiu­
tato S. Damaso « in cartis ecclesiasticis » (1) il che
ei può intendere almeno nella scelta di tratti che
fino allora erano lasciati nell’arbitrio dei vescovi.
Nel « Convivium Monachorum » (2), si legge :
« Primus beatus Damasus Papa, adjuvante beato
Hieronymo presbytero, vel ordinem ecclesiasticum
descriptum de Hierosolyma permissu sancti ipsius
Damasi trasmittentem instituit et ordinavit ». E
d’altra parte un pontefice che diè incarico a S. Ge­
rolamo di far la versione della Sacra Scrittura non
poteva trascurare di pensare anche alla liturgia,
della quale essa forma tanta parte.
Ma in che consiste poi il carattere dell’opera ri-
formatrice di questo Pontefice nella sacra liturgia?
Nel rispondere a questa questione gli studiosi si
dividono in due schiere. I più spinti, e tra questi
il Probst, vogliono che S. Damaso operasse nella
liturgia una riforma radicale, sì da creare un nuo­
vo tipo, che si conserva tutt’ora nella sostanza,
nella chiesa romana, ma che si allontana da quello
(1) S. Hieronym. Epist. Ad Constant. Alcuni dubitano della
autenticità di quella lettera, ma il Rancke ( Perikopensystem )
afferma che essa ha per autore quello stesso che raccolse il
Lectionarium.
(2) Il Gerbert nel lib ro: a Monumenta veteris liturgiae ale·
manicae », pubblicò un manoscritto del monastero di San Gallo
nel secolo IX intitolato: « Item incipit de convivio sive prandio
atcque coenis Monachorum, qualiter in monasteriis Romanae ec­
clesiae constitutis est consuetudo ».
202 Capo IV

delle Costituzioni Apostoliche. Così il titolo delle


preghiere, il loro numero, il loro carattere, spirito
e processo, i prefazi, i postcomuni, le orazioni su­
per populum vennero ad assumere una forma to­
talmente nuova (1). Altri invece, e sono i più, ne­
gano il carattere radicale d’una tale riforma, non
solo perchè la storia non la registrò nelle sue pa­
gine, ma anche perchè poco conforme alla grande
venerazione che la Chiesa romana ebbe sempre
per tutto ciò che è di tradizione apostolica. Anche
i santi Basilio e Crisostomo riformarono la litur­
gia orientale, ma tale riforma non si spinse fino ad
alterarne il carattere; per la massima parte fu solo
un’abbreviazione, una eliminazione di ciò che non
era più conforme ai tempi ed alla disciplina eccle­
siastica; ma si conservano inalterate le parti prin­
cipali e tra queste sopratutto il Canone. Altrettan­
to devesi dire della riforma liturgica della chiesa
romana, pongasi pure incominciata dal Pontefice
S. Damaso (2).
Ad ogni modo però l’opera incominciata da
questo pontefice fu proseguita alacremente da*
suoi successori. Tra questi vanno distinti S. Leone
Magno, che secondo Walfredo Strabone, fece ag­
giungere alcune parole al Canone (3), San Gelasio
e Vigilio; ma sopratutti S. Gregorio Magno sotto
il cui glorioso pontificato, come si estese grande-

(1) Probst. « Liturgie des virten Johrh. Q. §§ 102-207.


(2) Thalhofer, o. c. § 22.
(3) Walfridus Strabo, «. De rebus eccles. » . c. 22.
Liturgia Romana 203

mente nei popoli l’influenza della Chiesa, così si


eviluppò il culto cattolico. Così verso il secolo de­
cimo la messa, e si può dire tutta la liturgia roma­
na, fu ridotta allo stato e forma in cui si trova
tutt’ora.
91. II canone e i Sacramentari.
Il Canone, certamente di istituzione apostolica e
scritto prima della metà del secolo quinto, fu inse­
rito la prima volta nel Sacramentario gelasiano,
mentre non si trova in quello detto leoniano (1).
Il papa Vigilio lo mandò come cosa proveniente da
antica tradizione nella Chiesa Romana al vescovo
Profuturo e lo accompagnò con una lettera, la qua­
le ha una grande importanza perchè ci fa cono­
scere lo stato della liturgia romana in quel tempo.
« Ordinem precum in celebritate missarum nullo
nos tempore, nulla festivitate significamus habere
divisum; sed semper eodem tenore oblata Deo mu­
nera consacrare : quoties vero Paschatis aut Ascen­
sionis Domini vel Pentecostes et Epiphaniae, Sanc­
torumque Dei fuerit agenda festivitas singula capi-
tuia diebus aptis subiungimus, quibus commemo­
rationem sanctae solemnitatis ut eorum facimus
quorum natalia celebramus cetera vero ordine con­
sueto prosequimur. Qua propter et ipsius canoni­
cae precis textum direximus subter adiectum quem1

(1) Vedi il Sacramentario leoniano e gelasiano pubblicati


dal Muratori. 11 Canone, nel Sacramentario gelasiano del Tom·
masi e del Muratori, trovasi nel libro terzo.
204 Capo IV

(Deo propitio) ex Apostolica traditione suscepimus.


Et ut caritas tua cognoscat, quibus locis aliqua fe­
stivitatibus apta connectes Paschalis diéi preces si­
militer adjecimus » (1).
Dalle quali parole appare:
1) Che il Canone era chiamato per eccellenza
preghiera canonica : « Canonicae precis textum » ;
2) Che discende da tradizione apostolica : «.quem
ex apostolica traditione suscepimus » giusta quan­
to affermò più tardi il Concilio di Trento (2);
3) Che deve dirsi ogni giorno, senza distinzione
di festività : « sed semper eódem tenore oblata Deo
munera consecrare » ;
4) Che solo in certi giorni solenni si faceva qual­
che addizione, onde fare particolare memoria del­
la festività : « quibus commemoratiónem sanctae
solemnitatis aut eórum (Sanctorum) facimus quo­
rum natalitia celebramus » ;
5) che il Papa trasmette il testo per far conosce­
re dove si devono aggiungere le inserzioni: « qui­
bus locis apta connectes » (3).
Quanto alla parola capitula, di cui si parla, co­
munemente s’intendono le aggiunte che si fanno in
principio del Canone, ma non mancano coloro che

(1) Questa lettera è anche ricordata come diretta a.3 Eut


E’ probabile che il Vescovo portasse i nomi di Euterio e di
Profuturo. Sotto quest’ ultimo è ricordato dal C oncilio braca-
rense. Cfr. n. 77.
(2) Conc. Trident. Sess. ΧΧΠ cap. IV dp Canone Missae.
(3) Lebrun, 1. c. Art. 2.
Liturgia Romana 205

vogliono intendere le stesse orazioni o collette del


giorno.
S. Gregorio M. fece una versione del Canone,
ed è celebre la trasposizione della recita del Pater
noster prima di dividere l’ostia, per il che fu dai
siciliani accusato di conformarsi agli orientali.
Tutto il tesoro che ci resta della liturgia roma­
na antica è raccolto nei Sacramentari che furono
spediti ai paesi dove andava introducendosi il rito
romano e dei quali si è parlato altrove (Vedi nu­
mero 40).
92. Opera dei sommi Pontefici per ridur
l’occidente a unità liturgica.
Il rito romano difatti, dopo essersi esteso in tut­
ta Italia, richiamata alla più stretta uniformità con
Roma, togliendo quelle piccole differenze locali
che s’erano introdotte nei primi secoli (1) passò,
come già abbiamo veduto in Francia e nella Spa­
gna, quindi nella Bretagna ove terminò di portare
l’unità liturgica nei secoli XI e XII (2), già desi­
derata dal Concilio di Cloveshove nel 747, tenuto
sotto l’influenza di S. Bonifacio.

(1) Eccettuata, s’intende Milano, ove perseverò il rito roma­


no antico colla sua forma locale, ed Aquileia, ove restò, fino al
sec. XTV, il così detto rito patriarchino. Vedi Lebrun, o. c. Diss.
ΠΙ a. 2.
(2) Alcune diocesi però conservarono ancora qualche parti,
colarità, come ci appaiono dal Stowe Missal e dagli antichi mes­
sali inglesi di Salisbury, Bargor, Hereford e Y ork, confrontati
col Leofric-Missal, pubblicato da Maskell (Monumenta ritualia
tom. I.) nel 1883 che è un messale romano del secolo XI.
206 Capo IV

In Germania la fede si diffuse nel secondo o ter­


zo secolo (1) per opera di missionari francesi o ir­
landesi e vi penetrò anche la liturgia antica o gal­
licana; ma nel secolo Vili tutta la Germania per
10 zelo di Carlo Magno aveva abbracciato il rito di
Roma. « Quando però si dice, che al tempo dei
primi carolingi tutta la Germania ricevette il rito
romano, non si deve pensare che questa conformi­
tà sia stata assoluta, anche nelle particolarità. Non
solo le diocesi di Treviri, Munster, Colonia, man­
tennero parecchie particolarità della liturgia galli­
cana, ma anche altresì altre diocesi di Germania
avevano molte cose particolari nei messale, rituale
e breviario. La liturgia era romana nelle genera­
lità, ma per opera dei vescovi particolari, durante
11 medio evo, s’introdussero qua e là degli usi che
non potevano reggere davanti alla pura dottrina
ecclesiastica ed alla storia.
Il Messale ed il Breviario di Pio V, accettato
dappertutto, portò l’unità liturgica nella Messa e
nell’ufficio (2).

(1) S. Irenaeus Adv. Haer. 1. 10, n. 2.


(2) Thalhofer, o . c. u 22.
P A R T E III

Parti integranti della liturgia


P a r t i i n t e g r a n t i della l i t ur gi a
La sacra Liturgia è il complesso degli atti che
la Chiesa cattolica compie per prestare alla divi­
nità il debito culto. Ma dovendo essere questo uno
nella sostanza, esterno e pubblico nel modo, sono
necessari alcuni mezzi che mentre servono da una
parte ad ottenere e conservare l’unità, dall’altra
valgono ad esprimere gPinterni sentimenti della
società religiosa, ad istruire ed edificare il popolo.
A questo fine e al fine ancora di consacrare la
natura materiale e Vuomo stesso, la Chiesa adope­
ra nel divin culto degli oggetti materiali, come l’al­
tare, i fiori, la cera, le tovaglie, i sacri paramenti,
ecc. : adopera gli atti esterni fisici dell’uomo fatto
ministro di Dio, come genuflessioni, inchini, con­
giungimento di mani, baci ecc. : mette sul labbro
dei sacri ministri le parole convenienti ad espri­
mere il fine delle sacre funzioni. Gli Oggetti di cui
fa uso la Chiesa, le azioni che comanda ai sacri
ministri, le parole che mette sul loro labbro sono
ciò che chiamasi qui col nome di parti integranti
della liturgia sacra.
Ora di queste parti si tratta qui. Non si fa che
radunare le regole principali date dalla Chiesa per
mezzo dei libri liturgici o delle risposte della Sa­
cra Congregazione dei Riti, e dai liturgisti, che ne
sono in qualche modo gli interpreti. Ed a propo­
sito si pongono in questo luogo, onde evitare inu­
tili ripetizioni; mentre occorre parlare delle me­
desime cose trattando della Messa, del divino Uf­
ficio e dei Sacramenti.
SEZIONE I.

Oggetti sacri
CAPO I.

L’A l t a r e

93. Altare - divisione - significato.


L’altare è il luogo ove si celebra il S. Sacrificia
della Messa.
Si divide:
1. Per ragione della forma e strutturai in fisso e
mobile ovvero portatile. L'altare fisso od immobile
è quello la cui lastra marmorea si estende a tutta
la mensa ed è aggiunta alla parte marmorea infe­
riore in modo da fare come un sol pezzo di marmo
e consacrata colla mensa (can. 1197). La parte in­
feriore può essere circondata da lastre o massa
marmorea, ovvero formata da colonne, che tengo­
no luogo di stipite od anche da mensole di marmo
incastonate nel fondo, pure di marmo, sulle quali
riposa immediatamente la lastra. L'altare mobile
o portatile è la pietra per lo più piccola che sola
è consacrata e si dice anche ara portatilis, cioè
pietra sacra, ovvero la stessa pietra unita allo sti-
Ualtans 211

pite, il quale però non è consacrato con essa (Can.


1197).
Quindi, nota il Cardellini, l’altare fisso ed il
portatile si differenziano: a) per la grandezza: il
primo è una lastra che si estende a tutta la mensa,
il secondo è una pietra larga sufficientemente a
sostenere il calice e l’ostia; b) per la congiunzione
colla mensa: l’altare fisso forma un tutto riunito
insieme alla parte inferiore della mensa, con ce­
mento ed irremovibile ; nel portatile, si può estrar­
re la pietra e portarla altrove; c) per la posizione
delle Reliquie : nell’altare fisso si può scavare il
sepolcreto delle reliquie nello stipite, come vedre­
mo, nel portatile dev’essere scavato nel mezzo del­
la lastra marmorea e chiuso con lastrina pure mar­
morea; d) per le unzioni. Nella consacrazione del­
l’altare fisso si fanno le unzioni ai quattro angoli
quasi congiungendo la lastra collo stipite inferiore,
mentre si omettono nella consacrazione degli al­
tari portatili.
2. Per ragione dei privilegi si divide in privile­
giato e non privilegiato. Il primo è quello al quale
sono annessi privilegi e indulgenze specialmente
riguardo ai fedeli defunti: il secondo ne va senza.
L’altare non perde i suoi privilegi quando viene
dissacrato, anzi, se venisse distrutto si può ancora
riedificare e non perde per ciò il privilegio, pur­
ché sia eretto sotto il medesimo titolo·, e nel mede-
simo luogo (1).1
(1) S. C. Indulg. 24 aprile 1843 n. 548; 20 marzo 1846, 547
26 marzo 1867.
212 Capo l

3. Per ragione della posizione nella chiesa si di


vide in maggiore e minore. Il primo sta nel luogo
principale, al coro, gli altri stanno nei luoghi se­
condari, come nelle cappelle, in fondo, ai bracci,
ecc.
Gli altari fissi della cui consacrazione non resta
documento, si ritengono come consacrati se in essi
si è sempre celebrata la s. messa (1).
L’altare — a) è il luogo del sacrificio, ossia il
luogo destinato al sacrificio di Gesù Cristo nella
sua Chiesa visibile in terra: quindi è figura di
quella mensa sulla quale il divin Redentore istituì
il SS. Sacramento, come pure della Croce, del Cal­
vario e del Sepolcro e del suo stesso Corpo, il qua­
le fu il vero altare su cui ed in cui Egli si offerse
al Padre per gli uomini (2). — b) E’ il luogo della
dimora di Gesù Cristo, la sede del suo Corpo e
Sangue santissimo; quindi è figura del Santo dei
Santi, del Tabernacolo e sacro monte di Dio, del-
Γaltare della celeste Gerusalemme, del trono su
cui sta il divino Agnello, intorno al quale i giusti
che per lui vennero uccisi, offrono le loro conti­
nue adorazioni. — c) Simboleggia Voltare spiri­
tuale su cui si offrono le preghiere dei fedeli, quin­
di è figura della Chiesa e dei cuori dei fedeli. « Ju­
sti qui spiritum Dei habent... fide quae charitate
inflammatur, qui in genere bonae omnes et hone-

(1) S. C. R . 31 1867, n. 3162. 4.


(2) Lib. de Sacramentis, lib. IV , c. 2.
Voltare 213

state actiones, quas ad Dei gloriam referunt, nu­


merandae sunt » (1).

94. Erezione degli Altari.


Per erigere un altare mobile, specialmente tem­
poraneo, anche nella chiesa, si richiede la licenza
del vescovo (2). Si tollera la consuetudine di eri­
gere altari portatili negli oratori in occasione di
festa o concorso di popolo (3). Per gli altari che
si vogliono erigere in chiesa, fissi o mobili, occorre
sempre darne avviso al vescovo, come si deve fare
per ogni opera che si eseguisce in chiesa, ed otte­
nere il permesso (4).
Circa la materia e la forma, gli altari da consa­
crarsi devono essere di pietra (5). cc Altare debet
esse lapideum » (6), e precisamente di pietra o
marmo naturale e non in qualsiasi modo artefatta,
come di cemento (7), o di gesso (8). La lastra mar­
morea superiore di un sol pezzo e non diversi pezzi
riuniti insieme (9), e il sostegno dev’essere pure
di marmo « et ita quidem uti communiter et facile
probari possit totus lapideus » (10). Quindi quan-

(1) Catech. Roman. Pars II. Cap. V II. Cfr. Jakob. « l’ Arte
al servizio della Chiesa ». V oi. 2, pag. 28.
(2) 3. C. R . 23 magg. 1778, n. 2510.
(3) S. C. R ; 4 febbr. 898, n. 3978, 1.
(4) Can. V . de Consecr. dist. I.
(5) Cfr. Cod. Can. 1897.
*(6) Rub. Gen. Missal. Lib. XX.
(7) S. C. R . 17 giugno 1843, n. 2862, I.
(8) S. C. R . 29 apr. 1887, n. 3674, Π Ι; 3684, 3 : 3725 : 3750.
(9) S. C. R . 17 giugno 1843, n. 2862.
(10) S. C. R. 14 die. 1888, » . 36*8. 2.
214 Capo l

do il nucleo dell’altare sottostante la mensa è bensì


lapidetis, ma cc undique tectus· lateribus quibus su­
perinducta est crusta marmorizata, consecrari ne­
quit » (1). Può anche essere sostenuta ai quattro
lati da un sopporto così chiuso che fatta la consa­
crazione nulla si possa introdurvi e non è neces­
sario che l’interno sia tutto ripieno (2). La mensa
non può essere solamente incassata nella parte mar­
morea posteriore, ma deve aver i suoi sostegni (3).
Se la lastra venne perforata nel sepolcreto può es­
sere consacrata mettendo una piccola lastra nelle
parti inferiori al sepolcreto (4). Non è però ne­
cessario che tutta la parte inferiore che sostiene la
lastra sia di marmo, può esseie mediatamente su
stipiti marmorei ai lati o su colonnette, pure di
marmo naturale (5). La lastra superiore dev’es­
sere lunga almeno due metri e profonda c. 60, ed
anche più, in proporzione della chiesa o della cap­
pella ove l’altare si erige, e portare ai quattro an­
goli e nel mezzo scolpita una croce a bracci uguali.
Se però non è possibile costruirsi la lastra di questa
dimensione deve essere almeno di tale grandezza
da formare la parte principale mediana che devesi
consacrare, mentre ai due lati si possono connet­
tere altre tavole o pezzi che non si consacrano.
La parte però consacrata deve sempre riposare su

(1) S. C. R . 14 die. 1888 n. 3698, 2.


(2) S. C. R. 28 seu. 1872 n. 3282.
(3) S. C. R . 8 giugno 1894, n. 3229. 1.
(4) S. C. R . 2 febbr. 1896, n. 3884.
(5) S. C. R . 28 sett. 1872 n. 3282; 7 agosto 1875. 3364. IL
L'altare 215

sostegni d.i marmo; la mensa dev’essere alta dalla


predella circa m. 1,15.
Il sepolcreto, cioè il luogo nel quale si chiudono
le sacre reliquie, si può formare in quattro modi
cioè :
1. Si può scavare nel mezzo della tavola stessa
da consacrarsi una apertura di circa 14-15 cm. e
profonda 7-9 od anche meno, munita di un coper­
chio che si adatta ad una incastonatura e portante
una croce scolpita nella parte superiore. In questo
modo deve costruirsi il sepolcreto delle pietre sa­
cre od altari portatili (1).
Circa questa forma, che è quella più general­
mente in uso, si osservi: a) nell’atto della consa­
crazione non si può riempire tutto il sepolcreto,
senza usare la lastrina superiore (2); 6) questa la­
stra non può essere di metallo (3), ma dev’essere
di pietra (4), qualunque essa sia, purché, natura­
le, non artefatta, non è necessario sia di mar­
mo (5); c) deve essere fissata, nella1consacrazione,
non con geséo od altra materia, ma con cemen­
to (6), giusta il Pontificale.
2. Oppure il sepolcreto si può scavare nella par­
te anteriore del sostegno marmoreo della mensa,123456

(1) S. C. R. 31 marzo 1887, n. 3671, II.


(2) S. C. R . 28 luglio 1883, n. 3585.
(3) S. C. R. 16 settembre 1881, n. 3532. I.
(4) S. C. R . 16 settembre 1881, n. 3532. I.
(5) S. C. R . 16 die. 1882, n. 3567. Nell’ /ndex generalis è
corretto questo Decreto e suona così: necesse non est ut sit
marmoreum.
(6) Decis. citata ad Π.
216 Capo l

così profondo che arrivi fino al mezzo e chiuso da


un coperchio, come si è detto, portante scolpita
una croce. Tale sepolcro non si potrebbe praticare
in una muratura (1).
3. Si può scavare nella parte posteriore della
costruzione della mensa : ed in questo caso devono
osservarsi tutte le condizioni come nel caso prece­
dente.
4. Infine il sepolcreto si può scavare nel mezzo
della costruzione, al disotto della lastra marmorea
che gli serve, in questo caso, di coperchio. Può
essere di grandezza arbitraria, secondo le quantità
delle reliquie da includervi; ma dev’essere sempre
scavato nel marmo naturale.
Gli altari mobili o portatili, si possono costruire
di muro, di legno (2) ed anche di marmo in parte,
ma nel mezzo della mensa si deve inserire una
pietra consacrata, tanto grande da poter contenere
il calice e l’ostia. La pietra deve avere il sepolcre­
to nel mezzo e non di fronte (3); dev’essere inter­
nata dalla fronte dell’altare al più di cm. 14 e in­
serita nel muro o nella tavola di legno in modo
che si possano distinguere i suoi limiti : ccEmineat
aliquantulum ut ejus limites a sacerdote facile co­
gnosci possint » (4).
Circa la posizione. Gli altari non si devono eri­
gere in modo che chi celebra la messa su di essi1234

(1) Anaci. Juris Pontif. Series. II, pag. 2435.


(2) S. C. R . 10 nov. 1612, n. 303: 29 genn. 1662, n. 1219.
(3) S. C. R . 21 marzo 1887 n. 3671, 13 giu. 1899 n. 4032. 2.
(4) Cavanto Comm. in Rub. Miss. Gen. Tit. XX, lit. p.
L’altare 217

debba voltare le spalle all’altar maggiore, nè vici·


no ad una porta, ove sarebbero disturbate le fun­
zioni. Davanti alla mensa, per terra, vi può essere
un gradino od anche più.
95. Forma.
Il piano del gradino superiore o predellino deve
essere lungo almeno m. 1,20 e, se è di marmo,
deve avere nel mezzo un robusto tavolato della
lunghezza della mensa; questa può circondarsi di
marmo (1). I gradini devono salire ai tre lati, ed
essere larghi circa 38 cm. Gli altri minori possono
essere adossati alle pareti, ma almeno l’altar mag­
giore dev’essere così formato da poter girarvi in­
torno; in questo caso fra l’altare e la parete late­
rale si appendono le tendine.
Ogni altare che si erige in chiesa non deve mai
avere la forma di altare portatile, cioè, mobile, ma
in qualche modo dev’essere fisso alla parete od al
pavimento o presentare altrimenti i caratteri di
stabilità. Ciò è abbastanza indicato da molte e-
spressioni della S. C. dei Riti: « dummodo altaris
portatilis speciem non praeseferat ».

96. Luogo.
Circa il luogo .dell’erezione dell’altare si noti
che non si possono erigere altari nelle cappelle se­
polcrali, se i sepolcri ove stanno o si devono collo-1

(1) S. C. R . 2 giugno 1883, n. 2576. I.


218 Capo 1

care i cadaveri non distano almeno di un metro


dalla fronte e dai lati della mensa, nè quando so­
pra di essi vi passa una strada (1). Però se il se­
polcro è sotto l’altare ed è questo separato da una
camera o meglio se sotto l’altare vi è la camera in
cui si mettono i cadaveri (o l’ossario) sull’altare
si può celebrare la messa (2). Non si possono però
erigere altari nei sotterranei dei cimiteri ove si
mettono i cadaveri o le ossa (3). Il vescovo può
permettere l’erezione d’un altare mobile in mezzo
alla chiesa per esporvi immagini, statue o reliquie
purché non vi sia pericolo di scandalo o di irrive­
renza (4).

97. Titolo.
Non è lecito, nella medesima chiesa, erigere più
altari o cappelle sotto il medesimo titolo (5). Il
titolo di un altare fisso consacrato non si può com­
mutare senza indulto apostolico, nè si può porte
sull9altare stesso altra immagine o statua (6).
Non si devono dedicare altari ai Santi dell9An­
tico Testamento, si tollerano quelli dedicati già in
antico (7).

(1) S. C. R . 21 apr. 1873, n. 2239; 12 genn. 1897, n. 3945. II.


(2) S. C. R . 27 luglio 1878, n. 3460. I I ; luglio 1902 in u.
•de Gueretaro.
(3) S. C. R . 21 aprile 1873, n. 3284.
(4) S. C. R . Decr. n. 2510.
(5) 5. C. R . 10 novembre 1906.
(6) S. C. R . 17 luglio 1640, n. 712.
(7) S. C. R. 3 agosto 1696, n. 1978.
Voltare 219

Senza il permesso della S. Sede non si possono


erigere altari ai Beati (1).
98. Uso.
L’altare serve per la celebrazione della messa e
se ha il tabernacolo per la Custodia del SS. Sacra­
mento, serve ancora per l’esposizione e benedi­
zione col SS. Sacramento. Nella parte che sta sot­
to la mensa non si può praticar armadio o riposti­
glio per attrezzi di chiesa, eccetto per le SS. Reli­
quie. Si potrebbe se detto ripostiglio fosse sotto i
gradini (2).
Se sull’altare vi è tabernacolo, questo va bene­
detto prima di adoperarlo (3).
99. Custodia dell’Altare - Baldacchino.
Grande cura è da mettere nella custodia delVcd-
tare. Ogni altare dovrebbe essere diviso dalla na­
vata della chiesa con balaustrata e nel mezzo avere
un cancello di ferro. Perchè non venga imbrattata
la mensa deve tenersi ricoperta, fuori del tempo in
cui si celebra la s. messa, da una sopratovaglia.
Devono conservarsi costantemente puliti dalla pol­
vere. c<Altaria semper munda et nitida sint, nec
per incuriam obsordescant » (4). Si deve procu­
rare che dalla volta superiore alla mensa nulla ca-1234

(1) S. C. R . Decr. 27 sett. 1639, n. 1130, 3.


(2) S. C. R . 4 febbr 1898, n. 3978, 1.
(3) S. C. R . 20 giu. 1899, n. 4035.
(4) C aerem. Ep. Lib. I. Cap. VI. 2.
220 Capo I

da, e quindi si esigerebbe che su di ogni altare


vi fosse il baldacchino. ccAn in omnibus Altaribus
sive Cathedralis, sive aliarum ecclesiarum, debeat
erigi baldacchinum, vel in maiori tantum in quo
osservatur Augustissimus Sacramentum? » Resp.
In omnibus (1). Π Cerimoniale dei Vescovi esige
tale baldacchino anche nel caso in cui l’altare è
disgiunto dalla parete: « Quod baldacchinum su­
pra etiam statuendum erit, si altare sit pariete se­
junctum; nec supra habeat aliquod ciborium ex
lapide aut ex marmore confectum » (2).

100. Cause per le quali si dissacra l'alta


la pietra sacra.
ISAltare fisso, consacrato, si dissacra:
a) Quando la mensa viene separata anche per
un momento di tempo o tolta dalla sua hase o dal·
10 stipite (3); anche restando integro e inviolato
11 sepolcreto (4). Se la lastra venne solo alzata o
mossa per breve tempo, l’Ordinario può permet­
tere che un sacerdote faccia la consacrazione del­
l’altare colla formula breve (Cod. can. 1200, 1).
b) Quando l’altare venisse trasportato altrove,
anche se non si muovesse la mensa o non si toc-1234

(1) S. C. R . 27 apr. 1697, n. 1966; 33 magg. 1846, n. 2921.


(2) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XII, n. 13.
Il baldacchino agli altari minori non si usa neppure a Roma
e la nuova collezione dei Decreti sembra lo esiga solo per l’ al­
tare del Santissimo e per l ’Altare maggiore.
(3) S. C. R . 15 maggio 1819, n. 2609. Cod. can. 1200, 1.
(4) S. C. R. 26 marzo 1869. n. 3198.
Ualtare 221

casse il sepolcreto (1), o lo si muovesse solo di po­


chi passi (2).
c) Non si dissacra quando si rimuove Fimmagine
del Titolare dell’altare, perchè gli altari sono de­
dicati solamente a Dio, quantunque s’intenda di
onorare in essi anche i Santi (3).
d) L’altare, qualunque esso sia, fisso o mobile,
è profanato quando sotto di esso, viene seppellito
un cadavere, senza osservate la debita distanza
dalla mensa (m. 1), e non si può più celebrarvi la
messa, finché il cadavere o le ossa non siano al­
lontanate (4).
Tanto l’altare consacrato (fisso) quanto la pietra
sacra vengono dissacrate per le seguenti cause che
sono ad entrambi comuni :
a) per una frattura enorme e notevole (5), co­
me se si spezzasse nel mezzo, in una parte ove ven­
nero fatte le unzioni (v. g. una parte contenente
una croce) « Altare quodeumque vel immobile, vel
portatile, evadit exacratum ob fracturam vel per
se enormem ob quantitatem vel enormem propter
locum unctionum, licet levis in se fractura es­
set » (6). Od anche una screpolatura che passi da
una parte all’altra della mensa, massime se aura­

ti) S. C. R . 3 settembre 1879, n. 3504, 1.


(2) S. C. R . 20 febbr. 1874, 3326, 1.
(3) S. C. R . 7 luglio 1759. n. 2450.
(4) S. C. R . 11 giugno 1629, n. 508; 13 febb. 1666, n. 1333,
n. 5; 2 aprile 1875, n. 3339. Cfr. Rituale Rom . De exequiis.
Cap. I, n. 9. Cod. can. 1202. 2.
(5) S. C. R . 3 mar. 1821, n. 2412. Cod. can. 1200, 1.
(6) S. C. R. 6 ottobre 1837, n. 2777. Instructio.
222 Capo l

versa il sepolcreto, anche se le parti non sono di­


sgiunte tra di loro e dal sostegno (1), nè in questo
caso può essere sufficiente il sigillarla fortemente
con cemento (2).
ò) Quando fossero rimosse le reliquie del sepol­
creto (3), nel qual caso si possono inserire nuove
reliquie o le antiche, ma si deve consacrare di
nuovo (4); come pure se si infrange o si rimuo­
ve la copertura del sepolcreto eccetto il caso in cui
il vescovo o un suo delegato rimuovesse il coper­
chio per meglio fermarlo o surrogarlo con altro o
per visitare le reliquie (Cod. can. 1200, 2).
Una leggera frattura del coperchio del sepolcro
non lo dissacra e qualunque sacerdote può ripara­
re la screpolatura. La dissacrazione della chiesa
non fa dissacrare gli altari fissi o mobili (Cod.
can. 1200, 3, 4) (5).
Se la mensa dell’altare o la pietra è dissacrata
si può alienare o conservare in luogo onesto (6).
Di qui la cura che si deve usare nell’apparec­
chiare l’altare per non dissacrarlo. Perciò è bene123456

(1) S. C. R . 23 giugno 1879, n. 3497, 1.


(2) S. C. R . 19 maggio 1896, 3, n. 3907.
(3) S. C. R . 6 ott. 1837, n. 2777. Instructio 7 die. 1884, n.
2880, 1. Cod. can. 1200, 2.
(4) S. C. R. Decr. cit. ad 2; 23 pag. — 3 luglio 1846. n.
2911: 5 die. 1851, n. 2991. 2 c. n. 3162. 5.
(5) — Nella consacrazione dell’altare il Vescovo può mettere
esternamente un sigillo di cera di Spagna che dal Pontificale
non è richiesto: quando s’infrangesse questo sigillo non reste­
rebbe dissacrato l’ altare (S. C. R . 5 die. 1851, 299 1. I.).
(6) S. C. R . 9 maggio 1906, e n. 212.
L’altare 223

non salirvi o sovrapporvi qualche cosa di pesante,


conviene mettere prima sopra la mensa una tavola
robusta di legno che la ricopra tutta. Non si deve
permettere che venga traforata la mensa nemmeno
per collocarvi candelieri o affrancare il pallio!
Se l’altare ha il tabernacolo, questo va benedet­
to prima di adoperarlo (l), da chi ha facoltà di
henedire le sacre suppellettili (2).12

(1) S. C. R. 20 giu. 1899. 4035.


(2) 3. C. R. 17 magg. 1760, n. 2457.
CAPO IL

Ornato d e l l ’A l t a r e

101. Tovaglie - Corporale - Palla - Puri


tore - Loro materia - Benedizione.
All’ornamento dell’altare appartengono in- pri­
mo luogo le tovaglie. Esse sono di uso antichissimo
nella chiesa, ne parla S. Ottato di Milevi: certo
risalgono agli Apostoli (1).
Il Messale riguardo ad esse prescrive: « Altare
operiatur tribus mappis, seu tobaleis mundis, ab
Episcopo vel alio habente potestatem bénedictis,
superiori saltem oblonga, quae usque ad terram
pertingaty duabus aliis brevioribus, vel una dupli­
cata » (2). Ed il Cerimoniale dei Vescovi vuole che
esse: oc totam altari planitiem et latera conte­
gant » (3). Da ciò appare :
1. Che le tovaglie sull’altare devono essere in
numero di tre, oltre il crismale. Una di esse però,
quella che sta al disotto, si può ripiegare in due,
<e così serve per due.
2. Quella superiore deve arrivare fino a terra ai12

(1) Thalhofer. o. c. § 58. n. 2. 6.


(2) Miss. Rom . Rub. Gen. Tit. XX: de defect. X, 1.
^3) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XII, n. 11.
Ornato dell*Altare 225

due lati della mensa, qualunque sia la forma del­


la mensa stessa (1).
Una di queste tovaglie, cioè quella superiore,
può portare una fascia di seta ricamata od almeno
un merletto di lino, e non di tulle o di cotone;
anche il cosidetto trasparente o fondo del pizzo
dev’essere di seta, non però di color nero. « Ap­
poni poterunt fasciae ex auro vel serico elaboratae
ac variegatae, quibus ipsa altaris facies apte redi­
mita ornatiorque evadet ». (2).
4. Sotto le tovaglie, ed immediatamente sulla
pietra e mensa sacra si deve stendere il crismale,
di tela, come vuole il Pontificale Romano, che de­
ve coprire tutta la parte consacrata (3).
5. Le tovaglie devono sempre conservarsi nitide
e monde. Quindi, oltre al cambiarle spesso, massi­
me quella superiore, conviene, fuori della messa,
tenere costantemente stesa sulla mensa una sopra-
tovaglia di lana, od anche di cotone, o di altra ma­
teria di qualsiasi colore, eccetto il nero.
6. Tanto le tovaglie come il crismale e la sopra-
tovaglia devono essere di tali dimensioni da co­
prire tutta la mensa.
7. Agli angeli della mensa o lungo gli spigoli non
si possono mettere lastre di metallo o di legno per
ornamento o per tenere ferme le tovaglie (4).
H corporade s’annovera tra gli ornamenti del-1234

(1) Miss. Rom . 1. e .; S. C. R . 9 1899, n. 4029. 1.


(2) C a e r e m .E p .I ib . I. ÌQep. Χ Ι Ι , η . 11.
(3) Pontif. R . De altaris consecr. Cfr, Ornat Ècclee. Capv 5·
(4) Caerem. Ep. 1. c.
226 Capo II

l’altare, quantunque si usi solamente per la messa*


per la benedizione col SS. Sacramento e per la di­
stribuzione della S. Eucarestia. La sua ampiezza
deve esser almeno di mezzo metro quadrato; non
deve avere alcun ricamo nel mezzo e nemmeno la
croce; si può ricamare una croce nel mezzo dei
lati ove si bacia; anche agli angoli si possono fare
ricami, ma leggeri o che non protendano troppo
all’indietro; all’intorno si può fare un ricamo o
mettere un pizzo di lino.
Il corporale non si può lasciare steso sull’altare,
ma deve riportarsi ogni volta alla sacristia ripie­
gato entro la borsa (1). — Esso dev’essere stirato
con amido in modo che riesca lucido, impenetra­
bile di una certa robustezza; e se per esso si usano
le così dette tele damascate con intessuto un dise­
gno bisogna aver cura nel dare il mangano, perchè
non riescano filamentose; il disegno dev’essere
conveniente (2).
La palla, che si usa nella messa per ricoprire il
calice non deve sorpassare in dimensione la pa­
tena. La sua forma è quadrata od anche rotonda.
Nel mezzo si ricama una leggera croce ed all’ingiro
si può ornare con ricamo od anche con leggero
pizzo. E’ stata fatta domanda alla S. Congr. se si
può adoperare una palla coperta nella parte supe­
riore di seta, ed essa il 22 genn. 1791 rispose ne-12

(1) S. C. R . 13 sett. 1704, n: 2146. 1. 2.


(2) Cfr. Jakob « L’ arte al servizio della Chiesa » . Versione
italiana: Pavia, Artigianelli I960, voi. 2, pag. 235.
Ornato dell’Altare 227

gativamente ( 1). Più tardi però permise quelle che


hanno nella parte superiore un panno di seta tes­
suto d’oro o ricamato, purché quella inferiore che
tocca il calice sia di lino monda e facilmente amo­
vibile e quella superiore non sia di color nero, nè
porti segni di morte (2).
Il purificatore che serve pure per la messa, e
per la astersione delle dita dopo la S. Comunione
deve essere di conveniente ampiezza; nel mezzo si
ricama una leggera croce, ed all’ingiro può avere
un leggero ricamo o anche un basso pizzo.
La materia assolutamente prescritta per tutti
questi arredi sacri è il lino o la canapa, e non si
può sostituire ad essi qualsivoglia altra materia, sia
pure che51per mondezza, pregio e tenacità superi
il lino o la canapa (3); ciò non è permesso nem­
meno per le chiese povere (4); neppure possono
essere di mussolo (5).
Le tovaglie, i corporali, la palla devono essere
benedetti dal Vescovo o da chi ha la facoltà. La
palla va sempre, nella benedizione, insieme al
corporale, del quale è come un appendice; quindi
non vi è obbligo di benedirla quando se ne forma
una nuova, si può anche benedirla da sola; ma
non si muta mai la formula (6).123456
(1) Cfr. Thalbofer. o. c. § 58, n. 2. 6.
(2) S. C. R. 17 lugl. 1892, n. 3832. IV; 24 nov. 1905.
(3) Decr. Gen. S. C. R. 15-18 magg. 1819, n. 2600. Vedi
Voi. IV, n. 192.
(4) S. C. R. 17 die. 875, n. 3388; 23 logl. 1878, n. 3455,
I: 13 ag. 1895, n. 3868, I.
(5) S. C. R. 15 mar. 1664, n. 1287.
(6) 3. G. R. 4 bett. 1880, n. 3524. III. Can. 1306, 1. 2;
228 Capa II

I purificatori non si benedicono.


I corporali, le palle, i purificatori si devono la­
vare, quando occorre, dai ministri in sacris, in va­
so speciale e la prima acqua si deve versate nel
sacrario o sul fuoco. Quando sono stati adoperati
non si devono lasciare toccare dai laici.
— Gli ornati di queste sacre suppellettili devo­
no essere in relazione allo scopo a cui servono
quindi devono essere a simboli della SS. Eucare­
stia : si possono anche mettere croci, calici, osten­
sori, angeli ecc. (1).
Le tovaglie dell’altare significano il banchetto
eucaristico o la mensa del Signore, ricordando i
panolini con cui fu involto il Corpo di G. C. nel
sepolcro, servono a conciliare il rispetto al santo
Sacrifizio ed al SS. Sacramento (2); sono simboli
del vero altare G. C. il quale è in cielo svelato sul­
la terra nella Chiesa militante (3). D corporale poi
che è ordinato in modo speciale al rispetto del
SS. Sacramento e a raccogliere i frammenti signi­
fica la sacra sindone (4).

102. Pallio.
« Altare pàllio quoque orneturcoloris, quoad
fieri potest, diéi festo vel Officio convementìsa (5).1
2345
(1) S. C. R. 5 dic. 1868, n. 3191, V.
(2) Thalhofer, 1. c., n. 2. a.
(3) Amberger, « Pastoraltheologie », t. U . § 57 ; I. § 112.
(4) Durando, « Rationale Divinorum Officiorum », lib. VI
cap. 29.
(5) Rub. Gen. X X : Caerem. Episc., 1. c. X II, n. 11. in
celebr. Missae t. IV. I.
Ornato dell’Aliare 229

Il pallio non è necessario quando l’altare è for­


mato in modo di tomba, ovvero ha già una fronte
di marmo o di altra materia convenientemente or­
nata.
Per la materia il pallio può essere di metallo,
di legno, o di stoffa, intelaiata in una cornice : ma
questa non deve impedire al sacerdote di metter
le mani giunte, come vuole il messale, sull’alta­
re (1).
Il colore deve essere possibilmente conforme al­
l’Ufficio od alla festa, ma non si può usare il pal­
lio di color nero davanti all’altare ove sta il SS.
Sacramento (2).
L'ornato dev’essere in relazione allo scopo a cui
il pallio serve ed al significato dell’altare: quindi
può portare l’Agnello, immagini della B. Vergine
o dei Santi, specialmente del Titolare, simboli del­
la SS. Eucarestia, i quattro evangelisti od anche
una semplice croce nel mezzo.
Il pallio non può essere sostituito da una piccola
tavola sospesa nel mezzo, in fronte della men­
sa (3). Il pallio non si benedice.
103. Croce.
« Super Altare collocetur crux in medio » (4).
La croce sull’càtare dev’essere: « Prealta ita ut1234

(1) « Ita ut digiti parvi dumtaxat frontem, seu medium gn.


ferioris partis tabulae seu mensae altaris tangant ». Rit. serv.
(2) S. C. R. 1 dicembre 1882, n. 3562.
(3) S. C. R. 10 sett. 1898, n. 400, 2.
(4) Rub. Gen. Miss. Tìt. XX.
230 Capo Π

pes crucis aequet altitudinem vicinorum candela­


brorum et crux ipsa tota candelabris superemineat
cum imagine sanctissimi Crucifixi versa ad interio­
rem altaris faciem y> (1) ossia verso il sacerdote
celebrante. Essa dunque dev’essere tanto alta che
l’i'mamgine del crocefisso sorpassi l’altezza dei can­
delieri che stanno a lato.
Quindi non basta una piccola croce appena vi­
sibile con crocefisso sulla porta del tabernacolo o
sulla carta gloria cc sed poni debet alia crux in me­
dio candelabrorum » (2). Che se per caso si do­
vesse mettere un’altra in tempo della messa, do­
vrebbe essere visibile tanto al celebrante quanto
al poplo (3), Benedetto XIV scrive in proposito ai
vescovi : ccvobis praecipimus ut nullo pacto patio-
mini {neque in Ecclesiis Regularium) rem divi».
nam fieri... nisi Crucifixus inter candelabra ita
promineat ut sacerdos celebrans ac populus sacri­
ficio assistens eundem crucifixum facile et commo­
de intueri possit quod advenire nequit si exigua
solum Crux minori tabulae defixa fidelibus exchU
beatur » (4).
Il suo posto è nel mezzo dei candelieri superiori
dell’altare; quando, celebrando il vescovo, si met­
te il settimo candeliere nel mezzo, la croce sta da­
vanti a questo. Essa non può collocarsi sul trono,
nel luogo preciso ove si colloca il SS.mo Sacra-1234

(1) Caerem. Episc. I, η . XII, n. 11.


(2) S. C. R. 16 giug. 1663, n. 1270.
(3) S. C. R. 17 seu. 1822, n .f2621, η . T.
(4) Const. Accepimus, 16 lag. 1746.
Ornato dell’Altare 231

mento per* l’esposizione e sotto di essa non si può


mettere il corporale o altro lino (1).
Quando si dovesse rimuovere questa croce posta
tra i candelieri se ne deve collocare un’altra più
al basso, ma visìbile tanto al celebrante quanto al
popolo (2). Anche sugli altari minori è conveniente
vi sia la croce fra i candelieri, non però richiesta
se non vi si celebra la messa.
Le croci non si possono rivestire di un panno
per impedire che prendano la polvere (3). Si può
omettere quando nella tavola dell’altare si trovas­
se l’immagine del crocefisso come parte principale
e facilmente visibile al celebrante e al popolo (4),
non basterebbe però la immagine del crocefisso
che si trovasse sulla porticina del tabernacolo (5).
La croce dell’altare come quella per le proces­
sioni si può benedire; tale benedizione però non
è di precetto (6).
La croce dell’altare, si deve velare con velo vio­
laceo dai primi vespri della Domenica di Passione,
prima dell’ufficio, fino al Venerdì santo. Solo al123456

(1) S. C. R. 15 giug. 1883, n. 3576, Π Ι . Ciò che si dice del


trono dell’esposizione si deve dire di quello mobile, non del
tronetto marmoreo che potrebbe trovarsi stabilmente nel mez.
zo dell’altare. Sotto di questo è fuori di dubbio che si possa
e si debba mettere la croce, altrimenti su tanti altari essa non
troverebbe posto. Anche qui però quando l’altare è parato per
l’esposizione non si deve mettere la croce al luogo ove si espo­
ne il SS. Sacramento.
(2) S. C. R. 17 sett. 1822, n. 2621, 7.
(3) S. C. R. 12 seu. 1857, n. 3059, XI.
(4) Bened. XIV. Const. Accepimus 16 lugl. 1749.
(5) S. C. R. 16 giugno 1663, n. 1270, 1.
(6) S. C. R. 12 luglio 1704, n. 2143.
232 Capo II

giovedì santo il velo della croce dell’altare ove si


celebra dev’essere di color bianco; nè si possono
scoprire per qualunque funzione occorra, nemme­
no per gli esercizi spirituali. Tale velo non deve
essere trasparente, e deve coprire tutta l’imma­
gine del crocefisso.
Si mette la croce sull’altare perchè : « Ab aspec­
tu crucis sacerdoti celebranti passio Christi in me­
moriam revocatur, cujus passionis viva imago et
repraesentatio hoc sacrificium est (1). Si mette
« inter duo candelabra... quóniam Christus in Ec­
clesia mediator extitit. Ipse enim lapis angularis,
qui fecit utraque unum, ad quem pastóres a Judea
et Magi ab oriente venerunt » (2); e significa che
tutta la virtù del sacri Misteri che si compiono sul­
l’Altare e nella Chiesa procede dal sacrificio della
croce.

104. Candelieri - Candele - Lampade.


I candelieri dell’altare possono essere di metal­
lo, cioè d’oro, d’argento, di ottone od anche di ra­
me o bronzo dorati od almeno argentati oppnre di
legno dorati o argentati.
La forma non dovrebbe essere, per quelli del
medesimo gradino, di uguale altezza, ma salire a
scala ascendente verso la croce che sta nel mez-12

(1) Bona, De Sacr. Missae, Lib. 1. Cap. XXV, n. 8.


(2) Durando, o. c. Lib. I, c. Ι Π , n. 31.
Ornato deWAltare 233

zo (1). Dall’osservanza di questa regola può scu­


sare la consuetudine contraria diocesana (2).
Pel numero devono essere almeno sei od anche
più, secondo le funzioni che si compiono, e dispo­
sti simmetricamente da una parte e dall’altra del­
la croce (3).
Invece dei candelieri non si può mettere ai lati
della croce un candelabro a più bracci (4).
Pel posto, essi devono stare immediatamente
sulla mensa o sui gradini dell’altare e non fuori,
il che s’intende in modo speciale per la celebra­
zione della Santa Messa (5).
Il candeliere del cereo pasquale dev’essere di­
stinto dagli altri, più robusto, e posto in piano,
dal lato del Vangelo (6).
Le candele dell’altare devono essere di pura cera
od almeno di cera nella massima e notabile parte.
« Qua in re parochi aliique rectores ecclesiarum et
oratoriorum stare poterunt normis a respectivis Or­
dinariis traditis, nec privati sacerdotes Missam ce~
lebraturi de qualitate candelarum anxie inquirere
tenentur » (7).
Devono essere di conveniente altezza e grossez­
za, intere e monde (8). Quindi non si possono u-12345678

(1) Caerem. Ep. loc. cit.


(2) S. C. R. 25 luglio 1855, n. 7.
(3) Miss. Rom., 1. c. t. IV, ». 4; Caerem. Ep.,1. c. e n. 6.
(4) S. C. R. 16 seti. 1865, n. 3137 IH.
(5) Caerem. Ep. loc. cit.; S. C. R. 16 sett. 1865, n. 2137, I.
(6) S. C. R. 14 giugno 1845, n. 2890, 2.
(7) S. C. R. 14 die. 1904.
(8) Ornai, eccles. n. 6; Miss. Rom. de defect. t. X. η . 1.
234 Capo II

sare sull’altare candele miniate o finte (1); e quel­


le di stearina, parafina o di sego (2), e nemmeno
la luce del gaz o l’elettrica (3), insieme alle can­
dele o invece di esse (4). La luce elettrica (e il
gaz) si può usare <cad depellandas tenebras Eccle­
siasque splendidius illuminandas, caute ne modus
speciem praeseferat theatralem » (5).
Circa le candele finte al quesito: « Utrum tole­
rari possit usus caereorum fictorum ex metallo in
quibus macchina quadam introducitur cereus?
Risp. Toletari posse » (6). Il giudizio però di que­
sto caso, spetta al vescovo.
Come si accendono e come si spengono. Le can­
dele dell’altare si accendono cominciando da quel­
la che è in alto più vicina alla croce dal lato deh
VEpistola, poi collo stesso ordine le altre della
stessa parte; quindi s’accendono le altre dal lato
del vangelo cominciando da quella che è più vici­
na alla croce fino all’ultima posta dallo stesso
lato. -— Nello spegnerle si tiene l’ordine inverso
e si comincerà dal lato del vangelo dalla candela
più lontana dalla croce, quindi dalla parte della
epistola colla stessa regola e ordine (7).
Se l’altare ha più gradini si incomincia dal su­
periore e si discende all’inferiore prima dal lato1234567

(1) S. C. R. 16 seti. 1843, n. 2865; 4 seti. 1875, n. 3376, IH.


(2) S. C. R. 10 dicembre 1857, n. 3063.
(3) S. C. R. 4 giugno 1895, n. 3859.
(4) S. C. R. 16 maggio 1902.
(5) S. C. R. 4 genn. 1895, n. 3859.
(6) S. C. R. 11 maggio 1878, n. 3448, XHI.
(7) S. C. R. 1 febbraio 1907, IX.
Ornato dell'Aitare 23S

dell’epistola e poi da quello del Vangelo incomin­


ciando sempre per ogni ordine dalla candela più
vicina alla croce. Nello spegnere si tiene l’ordine
inverso.
. Circa le lampade vuole il Cerimoniale dei Ve­
scovi : « Lampades quoque ardentes numero im­
pari in ecclesiis adsint, tum ad cultum et ornatum
tum ad mysticum sensum... Hae vero in primis
adhibendae sunt ante altare vel locum, ubi asser­
vatur SS. Sacraméntum et ante citare majus, qui­
bus in locis lampadarios pensiles esse decet, plures
sustinentes lampades ex quibus, qui ante altare
majus erit, tres ad minus; qui ante Sacraméntum
saltem quinques lucernas habeat. Ante vero reli­
qua singula altaria singulae possunt lampades ap­
pendi; quae quidem in praecipuis festis, saltem
dum Vesperae et Missa solemnis decantatur conti­
nue ardeant. Ante SS. Sacraméntum, si non om­
nes,' ad minus tres accensae tota die adsint. Sed et
ante locum et fenestrellam Confessionis suprascrip-
tae, ubi consuetudo est lampadem ardere servan­
da est. Possunt etiam in altari majori, vel aliis,
quae habent ciboria circumcirca lampades appen­
di y> (1). Davanti alle cappelle che non hanno al­
tare, come davanti al battistero, non si possono ap­
pendere lampade. Le lampade si possono appen­
dere per mezzo di un braccio fisso alle pareti o di
corda o catene, purché stiano davanti all’alta­
re (2); per le lampade si possono usare vetri di12
(1) Caerem. Ep. 1. I, c. XII, n. 17.
(2) S. C. R. 25 giugno 1883, n. 3576, IV.
236 Capo II

color rosso, verde e di altri colori (1). Bisogna te­


nerle costantemente ben regolate e pulite.
L’olio per le lampade dev’essere generalmente
di oliva « Generatim utendum esse oleo olivarum;
ubi vero haberi nequeat, remittendum prudentiae
Episcoporum ut lampades nutriantur, ex aliis oleis
quantum fieri possit vegetalibus » (2).
Già abbiamo veduto il significato dei lumi nella
celebrazione dei sacri Misteri (n. 35). In modo
speciale : cc in cornibus altaris duo sum candelabra
constituta ad significandum gaudium duorum po­
pulorum de Christi nativitate laetantium » (3).

105. Fiori.
Servono pure all’ornamento dell’altare i fiori,
« Vascula cum flosculis frondibusque odoriferis
seu serico contextis, studiose ornata adhiberi po­
terunt » (4). I fiori naturali sono i più acconci ad
esprimere il simbolismo che la Chiesa vede nell’al­
tare, ma richiedono una cura speciale per la con­
servazione e rinnovazione (5).
I fiori artificiali non vanno tollerati.
La loro posizione sull’altare è tra i candelieri,12345

(1) S. C. Decisione citata, η . V.


(2) S. C. R- 9-14 luglio 1886, n. 3121.
(3) Durando, o. c., 1. 1, cap. Ili, 27.
(4) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XII, n. 12.
(5) Ciò s'intende non soltanto dei fiori colti, ma anche di
quelli sulle loro piante entro i vasi. I vasi però devono essere
convenienti per l ’altare. Questa cura si potrebbe avere e l’al­
tare diventerebbe qualche cosa di meglio che non essere ornato
di fiori di carta o d’altra materia indecente.
Ornato dell’Altare 237

anche ai lati, non sul tabernacolo ove si conserva


il SS. Sacramento, nè davanti ad esso, sul sepol­
cro (1). Sull’altare sano vietati i fiori : a) nelle
messe cantate da requie, perchè i fiori sono ornato
festivo (2); b) in tutto il tempo di Quaresima (cioè
dalla feria delle ceneri fino al sabato santo) nelle
messe e ufficiatura delle tempore; si eccettuano la
domenica Laetare, la messa del giovedì santo e del
sabato santo.
I fiori significano la presenza del divino Agnello
che si pasce tra i gigli, e simboleggiano le virtù che
devono fiorire nel cuore dei cristiani redenti dal
sacrificio della croce.
105. Sacre Reliquie.
Le sacre Reliquie sono ornamento dell’altare ed
insieme oggetto di culto. Si devono conservare:
« in armario... apposito atque apprime decoro et
congruente intus serica (ubi id praestari queat) te­
la coloris abducto; foris autem verba Reliquiae
Sanctorum depicta aut sculpta praeferente... quod
et obseratum et communitum semper habeatur.
Hoc porro armarium, ni forte extet in choro sub­
tus altare ubi reliquiae tantum Sanctorum poni
possunt, nullibi melius, quam in presbyterio in
cornu epistolae ex adverso loci illius in quo vasa
sacra asservantur, statui, aut potius muro excava­
ri posset. Si id quacumque ratione fieri nequeat, e12

(1) S. C. R. 22 gennaio 1701, n. 2067 ad 10.


(2) Caerem. Ep., lib. II. Cap. XII, n. 12.
pariete alicujus Capellae effodiatur: vel denique
in digniori aliquo ac magis conspicuo loco sacri-
stiae collocetur, sculptis vél pictis in anteriori par­
te verbis supra numeratis. At vero clavis armarii
penes parochum aut sacerdotem qui praefecti sa-
cristiae munere fungitur, non penes aedituum vel
procuratores Ecclesiae (fabbriceri) esse debet» (1).
Le sacre reliquie apartengono all’ornato solen­
ne e straordinario dell’altare. Il loro posto sull’al­
tare è ai lati della croce o fra i candelieri, siano
esse entro cassette ovvero in capsule davanti ai
busti. Anche i busti o statue dei Santi si possono
esporre sull’altare, abbiano o no le reliquie. Il
loro numero può essere di quattro o sei; si colloca­
no ordinariamente sul gradino superiore, ma si
potrebbero porre anche sugli altri.
Le sacre reliquie o immagini dei Santi sull’al­
tare sono vietate :
a) quando su di esso sia esposto per la pubblica
adorazione il SS. Sacramento (2);
b) durante la quaresima, come si è detto pei
fiori;
c) nelle messe cantate de requie (3).
Quando sull’altare stanno esposte le sacre Reli­
quie conviene tener acceso almeno due candele
davanti ad esse, specialmente quando vi sono in
chiesa i fedeli.123

(1) Caerem. Ep., 1. c., 12, Rit. cel. Miss. t. TV, 5.


(2) S. C. R. 2 settembre 1741, n. 2465, a. 1.
(3) Caerem. Ep., 1. c.
Ornato dell*Altare 239
trV.

Si espongono sull’altare perchè « Reliquiae


sunt exempla utriusque testamenti, auctores pas­
sionis martyrum et vita confessorum, quae nobis
sunt ad imitationem relicta. Haec in capsa recon­
dimus cum ad imitandum, ea in corde retine-
mus.. » (1). Esse furono i templi mistici dello
Spirito Santo, gli strumenti con cui i Santi glorifi­
carono Dio e fecero bene al prossimo, sono i sacri
possessi che i cittadini del cielo hanno sulla terra,
e saranno messe a parte della gloria delle loro a-
nime.
Si mettono le loro reliquie sull’altare a simbo­
leggiare l’unione che i Santi hanno con Gesù
Cristo.
107. Cartegloria.
Le cartegloria sono ornamento straordinario per
l’altare ossia per la messa, « Ad crucis pedem po­
natur tabella secretarum » (2). La rubrica pre­
scrive solo una carta gloria, quella cioè che sta
nel mezzo, ma l’uso e la comodità ne introdussero
altre due, una cioè dal lato dell’epistola per le
orazioni del Lavabo, l’altra dal lato del Vangelo
col principio del Vangelo di s. Giovanni. Devono
avere forma decente, caratteri alquanto grandi,
nitidi, e distinti. Non può servire perciò la porti­
cina del tabernacolo, su cui siano scritte le parole
della consacrazione; queste anzi si dovrebbero le-12

(1) Durando, o. c„ 1. I, c. VII, n. 2.


(2) Rubr. gen. Miss. Rom. tit. XX.
240 Capo Π

vare. Le tabelle, terminata la messa, si abbassano


sulla mensa e si ricoprono colla sopratovaglia.
108. Uso di tali ornati.
Tali sono gli ornamenti dell’altare secondo le
rubriche ; ma circa il loro uso si deve aver riguardo
al tempo, alle festività, alle persone.
Secondo il tempo dell’anno liturgico si appor-
rano le Reliquie, i fiori, o si adoperano solo i can­
delieri.
L’ornato dell’altare deve corrispondere al grado
della festa che si celebra, onde sarà diverso l’ap­
parato delle prime solennità da quello delle altre.
Infine si deve aver riguardo alle persone che
funzionano, e ciò vale sopratutto pel Vescovo.
Quando il Vescovo celebra o compie qualche fun­
zione pubblica l’apparato dell’altare dev’essere
solenne, tranne il caso che il Vescovo avesse di­
sposto altrimenti. Il Cerimoniale dei Vescovi de­
scrive l’ornato dell’altar maggiore nelle principa­
li solennità (1).
E questa distinzione del grado della solennità
si deve osservare in tutto, tanto nell’apparato del­
l’altare come nell’uso dei paramenti (2).
Vuole infine il medesimo Cerimoniale che « to­
ta ecclesia et singula illius sacella et altaria sem­
per munda et nitida sint, nec per incuriam obsor­
descant » (3).1
23
(1) Caerem. Ep. Libr. I. Cap. XII, η . II.
(2) S. C. R. 12 genn. 1777, n. 2506 ad 1.
(3) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. VI. 2.
CAPO ΙΠ.

Dei vasi sacri

109. Calice > Patena.


Tra i vasi sacri di cui fa uso la Chiesa nell’e­
sercizio del culto, tengono il Brimo luogo, per la
loro importanza, il calice e la patena.
Il calice, riguardo alla materia, dev’essere d’oro
o di argento od almeno avere la coppa d’argento,
dorato nell’interno (1). Per la povertà della chie­
sa si permettono i calici di stagno od anche di ra­
me, di ottone o di altra materia solida, ma dev’es­
sere tutto dorato od argentato. Di qualunque ma­
teria però sia il calice, la coppa deve essere sem­
pre d’argento e dorata nell’interno : onde la S. C.
dei Riti al quesito se il Vescovo possa consacrare
un calice con coppa di stagno, rame od ottone, ri­
spose : «cStandum rubricis » (2). Ciò devesi dire
ancora dei calici colla coppa di alluminio, che so­
no parimenti proibiti, e la risposta della S. C. che
si citava in proposito e li tollerava per le chiese
povere, venne esclusa dalla nuova Collezione dei
Decreti autentici.
Per la forma, il calice deve avere un piede ro­
tondo e poligonale, ma abbastanza ampio, in mo­

li) De consecrat. Disi. 1. 45. Hit. cel. Miss. t. I, n. 1; de


dejfect. t. X, η . 1.
(2) S. C. R. 16 settembre 1865, n. 3136, IV.
242 Capo III

do che possa stare in piedi con sicurezza. Sul pie­


de si possono scolpire od incidere figure che non
impediscano però di maneggiarlo comodamente;
non si devono mettere ornati senza alcun concetto»
nè stemmi profani. Il gambo, (tra il piede e la
coppa), dev’essere alto in modo che si possa fa­
cilmente prendere con la mano, e nel mezzo del
gambo deve avere il nodo, ornato conveniente­
mente, ma sempre in modo che si possa facilmente
prendere colla mano. La coppa dev’essere, nel
fondo, alquanto ristretta ed allargarsi a poco a po-
ci verso l’alto, quasi a guisa di imbuto; il labbro
superiore non dev’essere rivoltato all’infuori nè
troppo affilato. Il principio o fondo della coppa
deve distare dal nodo almeno due dita ed il suo
ornato deve pur lasciar libero due dita di spazio
verso il labbro. Nell’intemo la coppa deve essere,
oltreché dorata tutta piana e liscia.
Per la grossezza il calice, secondo S. Carlo Bor­
romeo dev’essere alto almeno 22 cm. ; la coppa de­
ve avere 25 cm. di perimetro o più, in proporzio­
ne dell’altezza. Un calice troppo piccolo sarebbe
indecente.
La patena è della stessa materia della coppa del
calice, d’argento, o d’oro. Per la povertà della
chiesa si tollera che essa sia d’altra materia, ma
dev’essere tutta dorata. La sua forma è rotonda ed
al labbro sottile ed affilata, onde poter raccogliere
facilmente i frammenti sul corporale. Dev’essere
affatto liscia, senza ornati in rilievo od incisioni,
c nel mezzo deve avere una piccola concavità o
Dei vasi sacri 243

cerchiello non troppo profondo, che s’accomodi al


labbro del calice (1). Per la dimensione deve ave­
re circa 15 cm. di diametro, od anche di più.
Tanto il calice che la patena devono essere con­
sacrati dal Vescovo. E qualora fossero stati adope­
rati, senza che fossero consacrati, si devono fare
consacrare dal vescovo ed il loro uso non supplisce
la consacrazione. E la ragione è data dal Fornici:
ccquae pendent ex institutione Ecclesiae non pos­
sunt suppleri alio ritu diverso ab eo quem Ecclesia
designat et determinat. Cum autem consecratio,
qua vasa sacra redduntur apta ad sacrificium fue­
rit instituta ab Ecclesia sub certis et determinatis
ritibus et verbis per determinatas personas adhi­
bendis; hinc fit quod non adhibitis tali ritu et tali
forma verborum per idoneam personam nunquam
evadant apia ad sacrificium; et quamvis sacramen­
tum Eucharistiae sit longe excellentius quam un­
ctio chrismatis episcopalis benedictio nihilominus
non habet alius affectus quam quos ipse Christus
illi attribuit suo fini proportionatos. Quapropter
non habet effectus aliorum sacramentorum, nec
Sacramentalium, quae ex libera institutione Eccle­
siae dependent. Et per hanc sententiam quam te­
net Quartus, Meratus, Gavantus, etiam corporalia,
mappae et vestes sacerdotales quae vere benedic­
tae non sunt, proportionaliter tales non evadunt
nisi per benedictionem in eum finem institutam,
et templa non consecrantur per Missam in eis die­

ci) Instruet, suppel. jLib. II. Missal. Rom.


244 Capo III

tas, sed per solam formam et ritus ab Ecclesia in­


stitutos ad consecrationem induendam in templa
praedicta » (1). Questa sentenza è indirettamente
confermata da una decisione della S. C. dei Riti
che riguarda i paramenti (2).
Il calice perde la consacrazione : 1. Quando nel
fondo della coppa si trova un foro o una screpo­
latura, sebbene piccola. 2. Quando si rompe per
modo che si rende indecente per il S. Sacrificio,
quantunque per breve tempo. 3. Quando si stacca
la coppa dal piede, tranne il caso in cui essa fosse
fissata al piede mediante una vite, perchè il calice
venne consacrato in questa forma.
Quando vien nuovamente indorata la coppa o
riparata non perde la consacrazione (Cod. can.
1305, 2).
Anche la patena perde la sua consacrazione
quando per una rottura enorme è resa indecente
per l’uso a cui serve.
Il calice è immagine di quello adoperato da
G. C. nell’ultima cena nell’istituzione della SS.
Eucarestia; in senso mistico ricorda il calice della
Passione che G. C. accettò per ubbedienza al Suo
Divin Padre. Simboleggia il Cuore santissimo di
G. C., dalla cui apertura uscì il prezioso suo San­
gue; e il calice del divin banchetto, il mistero del­
la fede, il calice della salute, la cella della carità,12

(1) Fornici, o. c., pag. 24-25.


(2) S. C. R. 31 agosto 1867, n. 3161 VI.
Dei vasi sacri Ζ45

la fonte inesausta delle grazie, il mistico bagno


delle anime (1).
Il calice e la patena vengono consacrati cc tum
propter sacramentis reverentiam, tum ad reprae­
sentandum effectum scmctitatis quae ex passione
Christi provenit, secundum illud Hebr. ult. 12:
Jesu ut santificaret per suum sanguinem populum
etc. )> (2).
II calice e la patena si conservano conveniente­
mente in proprio astuccio o borsa.

110. Ostensorio - Lunetta - Teca.


L'ostensorio è il sacro vaso che serve per espor­
re ai fedeli l’Ostia consacrata, portarla nelle pro­
cessioni, e impartire la benedizione. Secondo il
Cerimoniale dei Vescovi la sua materia dev’essere
d’oro o d’argento (3); ma il rituale Romano non
dà alcuna regola in questo punto (4), può essere
anche di rame, o di ottone dorato od almeno inar­
gentato (5).
Dev’essere di conveniente grandezza. « Altitu­
dine cubitali (circa 45 cm.) aut maiori minorive1 2345

(1) Amberger, « Pastoraltheologie ». Voi. II. p. 947.


(2) S. Tommaso, 1. c. in corp. Durando, o. c., 1. I. c. 8,
n. 24. Da patena ha il medesimo significato del calice. Cfr.
Pontif. Rom. De Patenae et Calicis consecrat. Oratio super oa-
licem et patenam.
(3) Lib. II. c. Χ Χ Χ Ι Π , n. 14.
(4) Ritual. Rom. de Process., c. 5.
(5) 3. C. R. 31 ag. 1867, n. 3162 VI; Ornat, ecdes., c. 16;
Instr. suppell., 1. Π .
246 Capo HI

pro tabernaculi magni ratione » (1). Il piede deve


essere abbastanza largo, onde l’ostensorio sia soste­
nuto con sicurezza; di forma esagonale, od otta­
gonale o rotondo (2). Il nodo non deve portare or­
nati che impediscano di prenderlo facilmente col­
la mano.
Nel mezzo ove si mette l’ostia, vi devono essere
vetri trasparenti, e lo spazio dev’essere tanto lar­
go da poter contenere facilmente un’ostia grande,
senza che, tocchi le pareti, e dorato internamente.
La capsula, ove si ripone l’ostia, dev’essere mu­
nita di una porticina che si possa chiudere con si­
curezza quando vi si contiene l’Ostia. L’ostenso­
rio dev’essere sormontato da una croce (3) e la
Istruzione clementina vuole che all’ingiro sia at­
torniato dai raggi (4). Circa Vernato si noti che
non devono esservi statuette degli angeli in adora­
zione.
L’ostensorio non deve servire ad altro scopo che
per collocarvi la Sacra Ostia per l’esposizione o
Benedizione.
La lunetta è il piccolo i^trumento che serve a
tener ferma e ritta l’ostia nell’ostensorio o nella
teca.
La Materia della lunetta è quella degli altri sa-1234

(1) Instr. supell., 1. c.


(2) Instr. supell., c. 1. c.
(3) S. C. R. 11 sett. 1847, n. 2957. Secondo S. Carlo sul-
l’ostensorio si può trovare rinunagine di G. C. risuscitato.
(4) Thalhofer. o. c. § 68; Jakob « L’arte a servizio detta
Chieda» §. 44; ove si riferiscono le regole date da S. Carlo.
Amberger, o. c. II. p. 946.
Dei vasi sacri 247

cri vasi; quindi può essere d’oro, d’argento, di


rame, d’ottone, ma in ogni caso sembra dorata (1).
Nulla si trova prescritto in quanto alla forma, ma
la più comune e conveniente è quella dei due se­
micerchi che si combaciano perfettamente, riuniti
con una cerniera al fondo, la quale permette che
uno dei semicerchi si abbassi perfettamente onde
purificarla dai frammenti. Per raccoglier questi
al disotto dei due semicerchi sta convenientemente
un piccolo cucchiaio o navicella.
La lunetta si introduce nell’ostensorio per mez­
zo di una incavatura di due lastrine che l’assicu­
rano nella parte inferiore della capsula, e vi deve
stare in modo fermo e sicuro.
La teca serve per conservare nel tabernacolo
l’Ostia sacra. Anch’essa dev’essere di metallo, in­
dorata nella parte interna, sormontata da una
croce e costrutta in modo che si possa ben chiude­
re e mettervi facilmente e con sicurezza la lunetta.
Ultimamente venne in Francia inventata una
specie di teca-lunetta formata di due cristalli te­
nuti da metallo e riuniti a cerniera, perchè ser­
visse a conservare l’Ostia nel Tabernacolo ed a ri­
portarla direttamente nell’ostensorio. La S. C. dei
Riti l’approvò a patto che l’Ostia sia ben chiusa
in detti cristalli e non li tocchi (2); che se l’Ostia
deve toccare i vetri o stretta dal cerchio metallico
anche per star ritta, la lunetta è proibita (3).231
(1) S. C. R. 31 agosto 1867, n. 3162, VI.
(2) S. C. R. 4 febbr. 1871, n. 3234, IV.
(3) S. C. R. 14 genn. 1898, n. 3974.
248 Capo HI

Tanto l’ostensorio come la teca con la lunetta


devono essere benedette da chi ha la facoltà neces·
saria (1). La lunetta fa parte dell’ostensorio o del­
la teca, quindi per se non occorre benedirla a par·
te quando si provvede nuova o si fa riparare.
L’ostensorio è il luogo più secreto dell’abitazio­
ne di G. C. tra noi, dal quale procede luminoso
come lo sposo dinanzi alla sposa, è il forte palaz­
zo, la sacra torre del Re della fortezza (2).
111. Pisside.
La Pisside, detta anche ciborio o tabernacolo
mobile, è il sacro vaso che serve per la consacra­
zione delle particole, e per la comunione. Riguar­
do alla materia essa dev’essere solida e convenien­
te, d’oro, d’argento od anche d’ottone o di rame.
Se non è d’argento ma d’altro metallo inferiore,
dev’essere inargentata o dorata all’esterno (3); è
però desiderabile che la coppa almeno sia d’ar­
gento; inoltre Vinterno della coppa, se non è d’oro
dev’essere dorata e per il rispetto al SS. Sacra­
mento e perchè si possono più facilmente vedere
e raccogliere i frammenti, e perfettamente piana e
levigata (4). La pisside non può essere di vetro (5).
La sua dimensione è proporzionata al numera12345

(1) Rit. celebr. Miss. tit. Π , n. 3; S. Alph. t. 6. n. 385;


Quarti, p. 2, a 5 diff. 2.
(2) Amberger, 1. c.
(3) Perchè sia decente, come vuole il Rituale De SS. Eu-
charist. Sacram.
(4) Ornat, eccles. Cap. 18.
(5) S. C. R. 30 gennaio 1880,. n. 3511.
Dei vasi sacri 249

dèi fedeli che si comunicano nella chiesa, ma come


non dev’essere troppo piccola, così pure non deve
essere troppo grossa perchè diverrebbe inservibile.
Quanto alla forma la pisside deve avere un piede
fermo e non vacillante; il nodo liscio, onde si pos­
sa tenere con comodità; il coperchio della mede­
sima materia della pisside si elevi in forma rotonda
o piramidale e sia sormontato dalla croce o dalla
immagine del divin Redentore; esso deve chiude­
re perfettamente la tazza, ma in modo da potersi
togliere facilmente non unito a cerniera. Nelle
chiese in cui si conserva il SS. Sacramento si devo­
no avere almeno due pissidi, oltre a quella più
piccola che serve per trasportare il Viatico agli
ammalati (1).
La pisside prima che si adoperi dev’essere bene­
detta da chi ha la necessaria facoltà: essa viene a
perdere la benedizione per le stesse cause per cui
il calice perde la consacrazione.
La pisside è il vaso che contiene il Pane della
vita, la coppa della vera manna, della celeste me­
dicina; è la torre dove si nasconde il pane dei for­
ti, la fonte della comunicazione dello Spirito San­
to, il calice della benedizione, la sorgente dèi doni
di Dio (2).
112. Vasi per i Sacri Olii.
I vasi degli Olii sacri sono di due specie: quelli
cioè che servono per la conservazione e quelli che12
(1) Così prescrivono parecchi Sinodi ed è indicato dal Ri­
tuale Rom., tit. V, c. 4, n. 9.
(2) Amberger, o. c., t. Π , 946.
250 Caso I U

servono per l’amministrazione dei Sacramenti.


Tanto gli uni come gli altri devono essere d’ar­
gento od almeno di stagno (non di vetro, nè di
ferro, o di marmo), ben chiusi e mondi, portanti
l’iscrizione esterna che indichi l’Olio sacro che
ciascuno contiene. Quelli che servono per l’ammi­
nistrazione dei Sacramenti possono contenere an­
che bambagia entro un piccolo vasetto di vetro
che sta nel vaso metallico, ed evitare il pericolo
di versare l’Olio sacro. Il vasetto di vetro non è
necessario se l’altro è d’argento. Essi pure devono
portare le lettere iniziali che lo distinguono. Per
maggior comodità, il vasetto del S. Crisma va spes­
so unito a quello dell’Olio dei Catecumeni. Si de­
vono conservare in luogo proprio, decente e mon­
do (1) quindi un piccolo armadio scavato nel mu­
ro del presbiterio (2) rivestito di stoffa hianca,
chiuso a chiave, la quale deve conservarsi dal par­
roco: le chiavi degli Olii dovrebbero esser due.
Si possono conservare anche nel battistero od in
sacristia, ma sempre in armadio particolare (3).
All’esterno si mattono le parole: Olen Sacra.
113. Cura e custodia dei vasi sacri.
I vasi sacri chiedono quella cura e rispetto che
si deve alle cose destinate al divino culto, poiché:
<c ex hoc quod aliquid deputatur ad cultuali Dei,123
(1) Rit. Rom. de Sacram. Baptis.
(2) S. C. R. 16 giugno 1663, n. 2218-1260.
(3) De Herdt. Ι Π , n. 157; Instr. fabr. lib. I, cap. 19. Cfr.
Amberger, o. c. Π , p. 792.
Dei vasi sacri 251

efficitur quoddam divinum et debetur ei riveren-


tia quae refertur in Deum » (1). Si devono di tan­
to in tanto lavare con acqua e sapone od altra ma­
teria non corrosiva; si deve proibire che vengano
toccati dai laici, e dove vi sia necessità di trattarli,
richiedono alcuni liturgisti che si domandi il per­
messo al vescovo (2). — I calici, le pissidi, gli
ostensori, e le teche si devono custodire in sacri-
stia, in armadio proprio decente; è bene che le
patene abbiano la loro borsa di panno, ed i calici,
gli ostensori e le pissidi il loro particolare astuc­
cio (3). Devono poi essere regolarmente notati nel­
l’inventario (Cod. can. 1295, 2).123

(1) S. Thom. S. Theol. II.a ILae q. 99. art. 1.


(2) Cardellini, in decr. 4438-4578: S. C. R. 29 magg. 1694
apud Anacleta jnris Pontif. 8. ser., n. 2530.
(3) Ornat. Ecc. Gap. 66.
CAPO IV.

Paramenti sacri

114. Uso delle vesti sacre nell'esercizio


sacro culto.
I sacri paramenti nella celebrazione dei SS. Mi­
steri non si usano per precetto divino : i santi Pa­
dri e gli Apostoli non ricordano per nessun modo
un tale comando dato da G. C. Certamente duran­
te le persecuzioni dei primi secoli il S. Sacrificio,
come si celebrava in qualunque luogo convenien­
te, si celebrava ancora senza vesti speciali, anzi
spesso erano quelle comuni che usavano nella vita
gli stessi pagani. E’ tuttavia accertata da tutti gli
eruditi la sentenza di Benedetto XIV che afferma
come il costume di celebrare la s. messa, quando
appena era possibile, con vesti più nitide e pre­
ziose delle comuni, risalga agli apostoli (1).1

(1) Bona, Rerum Liturgia. Lib. I. Cap. V ; Bered. XIV. D


Sacrif. Missae, lib. I. Cap. VII. Cfr. pure; Kraus a Realency-
clopedie » Kleidung: Hefele. « Beeitrage zur birchengeschichte »
II, p. 150 seg.; Krazer, a de Uturgiis », pag. 248; Thalhofer.
« Liturgik ». V oi. I, p. 856 e seg.
Tra i recenti p oi: Estrerer, Beitrage zur Kirchengeschichte
Arhchàologie und Liturgie, Tubingen 1864; Boch, Geschichte
der liturg. Germander, Koln 1856-1871; Braun, Die priesterli-
chen Gerwaender, des Abendlandes etc.; Jacob: L Jorte a ser­
vizio della Chiesa. V oi. II .; Magani; L’ antica Lit. rom. Voi.
3; Brano, Die liturgische Gerwandung. Freiburg. Herder 1907.
Pagamenti 'sacri 253

Un motivo che potè indurre alla scelta di vesti


speciali del sacro culto potè essere certamente il
fatto di aver Dio, nell’esercizio del culto ebraico,
figurativo del cristiano, ordinato tali vesti. Poiché
come scrive il Card. Bona (1): « congruum est ut
habérem legales umbrae aliquid sibi respondens
non solum in coelestibus exemplaribus, ad quae
jussit Deus omnia fieri, sed etiam in rebus nostris,
quae ut ait Dionysius in Eccles. Hierarch, partim
sunt tipi coelestium, partim mosaicarum umbra­
rum corpora, testante Apostolo ad Hebr. X, quod
habuerit lex umbram futurorum ».
Certo non vi era una legge che regolasse tutta
questa materia, ma le testimonianze degli scrittori
ci fanno arguire che in questo punto si cercò sem­
pre la nitidezza e lo splendore. La penula lasciata
da S. Paolo nella Troade, la lamina portata da S.
Giovanni Evangelista, Vinfula ricordata da Ter­
tulliano, le querele di S. Ottavo di Milevi contro
i donatisti che avevano profanato i sacri paramenti
della chiesa, il decreto di Stefano Π che proibisce
l’uso delle sacre vesti fuori dalla chiesa, e la te­
stimonianza di S. Gerolamo, che afferma che la
divina religione ha vesti speciali pel ministero del­
l’altare e altre diverse per l’uso quotidiano, sono
una chiara conferma di questa sentenza (2).
Nè poteva essere altrimenti: poiché, come scri­
ve il Fornici (3), ciò era conveniente per la di-123
(1) Bona, Rer. Uturg. I, c. XXIV.
(2) Bona, ibid,
(3) Fornici, Institi. Liturg. Urbeveteri 1857, n. 32.
gnità dei sacri Misteri, e per le stesse circostanze
in cui si trovavano i primi cristiani. Questi veni­
vano dal giudaismo e dall’idolatria; v’era dunque
bisogno che la loro pietà fosse aiutata e difesa con
apparati esterni, affinchè non prendessero scanda­
lo. E l’avrebbero senza dubbio avuto, se i ministri
cattolici avessero celebrato con vesti comuni, sì
grandi e tremendi Misteri. Essi che vedevano i lo­
ro sacerdoti non accostarsi mai all’altare senza
candide preziose vesti, qual conto avrebbero fatto
della nuova religione se non avessero i sacerdoti
cristiani adoperato vesti speciali per splendore e
forma? La materia e la forma non era prescritta
da norme speciali, ma era regolata dall’uso, dimo-
docchè « per incrementum ad eum qui nunc habe­
tur ornatum aucti sunt » (1). A poco a poco però
prevalse come regola Vuso romano e i Sinodi par­
ticolari ne fanno sempre menzione parlando dei
sacri paramenti. Sappiamo ancora che tali vesti
venivano benedette, quindi erano riservate all’uso
sacro (2), ed avevano nella mente della Chiesa un
significato simbolico (3).
La ragione poi dell’uso dei sacri paramenti nel
sacro culto è la medesima che il Concilio di Tren­
to dà per la Messa : a ut majestas tanti sacrificii123

(1) Walfr. Strabo, o. c., cap. 48.


(2) Cfr. Corpus Juris canon. De consecr. I 42; Miss. Rom.
Rit. celebr. I. 2.
(3) Cfr. Innoc. III. De myst. Altar. I, c. 3136 Amarius, De
Offic. II, c. 17. Questo appare specialmente dagli antichi Sa­
cramentari e Pontificali. Vedi Muratori, Liturg. Rom. vetus.
II, pag. 422; Martène, De antiq. eccles. rit. I, c. 4, art. 12.
Paramenti sacri 255

commendaretur et mentes fidelium per haee visi-


bilia religionis et pietatis signa ad rerum altissima­
rum, quae in hoc sacrificio latent contemplationem
excitarentur » (4).

115. Forma - Ornato e colore dei paramenti.


Nella Chiesa fu sempre tradizionale la forma
dei paramenti come il loro ornato e colore.
Riguardo alla forma i sacri paramenti furono
subito da principio ricchi e di grandi dimensioni,
come ce ne fanno fede le pitture che ancora si
vedono qua e là di vescovi, di sacerdoti, di dia­
coni vestiti di sacri indumenti. Ma la loro sover­
chia ampiezza, massime dopoché il culto cattolico
si estese e i sacri misteri si dovettero celebrare più
spesso si trovò poco pratica, per cui specialmente
la pianeta, andò restringendosi e dell’antica for­
ma di casula si ridusse ad una forma che aveva
ampie la parte posteriore e anteriore, mentre ai
lati sorpassava appena le spalle. Qui si arrestò la
tradizione ecclesiastica e San Carlo dà la forma e
la misura della pianeta che è abbastanza ricca.
In questi ultimi tempi si è voluto richiamare la
antica ricchezza e ornato, specie dello stile gotico.
Queste forme presero sviluppo massime in Inghil­
terra, ;n Francia, in Germania e nel Belgio e va
introducend,osi anche in Italia.
La S. C. dei Riti, era già intervenuta in propo­
sito con decreto 21 agosto 1863 in cui stabiliva non4
(4) Coivc. Trid. Sess. XXII, c. 5. de sacr. Miss.
256 Capo IV

esser lecite queste nuove forme e i vescovi che da


tempo le avevano accettate dovevano esporre le
loro ragioni alla S. Sede. Con decreto poi 9 dicem­
bre 1925 al quesito « An in conficiendis et adhi­
bendis paramentis pro missae sacrificio sacrisque
functionibus liceat recedere ab uso in Ecclesia re­
cepto aliumque modum et formam etiam antiquam
inducere ? » Rispose : <κ Recedere non licere incon­
sulta Apostolica Sede; iuxta Decr. seu Litteras cir­
culares Sacrae Ritum Congregationis ad R.mos Or­
dinarios datas sub die 21 augusti 1863 ».
Quanto all’ornato deve essere sacro e non vuoto
di concetto, giusta ciò che in altri luoghi si è no­
tato.
Come nella liturgia ebraica (1), così anche nella
cristiana furono in uso assai per tempo diversi co­
lori pei sacri paramenti (2). Ciò che appare dagli
antichi inventarii, nei quali si trovano tutti i pa­
ramenti dei colori oggidì usati. Solo però nel se­
colo decimoquinto si determinarono i colori voluti
dalle rubriche.
Nella moderna desciplina cinque sono i colori
liturgici ordinarii, cioè il bianco, il rosso, il verde,
U violaceo ed il nero; il loro uso è ordinario dalle
rubriche del messale (3). Sono quindi proibiti:123

(1) Exod. XXVI. 31; XXXVIII, 5. seq.


(2) Clem. Alex. Pedagog., 1. II. 2. 10: Conet. Apoet. lib.
V ili. 12 S. Hieronim. rdu. Pelag. I, c. 56; S. Grisost. hom·
82 in Matth.
(3) Rnbr. gen. Iit. XVIII.
Paramenti sacri 257

1. I paramenti formati di stoffa di color, gial­


lo (1), siano di seta o di altra materia.
2. I paramenti di color ceruleo: « usum cerulei
coloris velati abusum eliminandum » (2).
3. Quelli a più colori, che non ne hanno uno
predominante (3); solo col permesso dell’Ordina­
rio si possono usare nelle chiese povere (4).
3. Quando gli ornati sono a più colori il para­
mento si giudica dal colore del fondo della stoffa.
5. Si possono adoperare i paramenti di tessuto
d*oro per color bianco, per il verde, per il ros­
so (5) per ragione della preziosità (6), e i tessuti
d'argento* per colore bianco (7).
6. Oltre a questi cinque colori ordinari troviamo
nel Cerimoniale dei Vescovi indicato, il rosaceo
come proprio di due domeniche, cioè la terza di
avvento e la quarta di quaresima (8), anche per
le messe lette (9).
All’uso di questi colori la Chiesa annette un prò-
fondo simbolismo. Il bianco* che è colore della
purezza, della grazia di Dio, del Divin Verbo fatto
carne, si adopera nella festa della SS. Trinità ed123456789
(1) S. C. R. 12 nov. 1831, 3682, 50; 23 sett. 1837, n. 2769.
V.; 26 mar. 1859, n. 3802.
(2) S. C. R. 23 febbr. 1839, n. 2788. 2; 16 marzo 1833, n.
2704, 4.
(3) S. C. R. 23 settembre 1837, n. 2769. V. 2.
(4) S. C. R. 12 novembre 1831, n. 2682. 50.
(5) S. C. R. 29 marzo 1851, n. 2968, 5; 28 aprile 1866, n.
3145; 5 die. 1868, n. 3191, IV.
(6) S. C. R. 20 novembre 1885, n. 3646. Π .
(7) S. C. R. 20 nov. 1885, n. 3646, Ι Π .
(8) Caerem. Ep. Lib. Π Cap. Χ Ι Π , n. 11.
(9) $. C. R. 29 nov. 1901.
258 Capo IV

in quelle del Redentore che non hanno relazione


alla Passione. La grazia di Dio si partecipa agli
uomini nel battesimo, nelle feste degli Angeli*
della B. V. Maria, dei confessori, delle vergini, e
delle vedove. Si usa nella messa votiva degli sposi,
perchè si euppone di benedire l’integrità della
carne della sposa. Esso ha un carattere maiestatico,
giocondo; quindi si usa pel SS. Sacramento, nella
dedicazione delle chiese, in molte benedizioni e
consacrazioni, nelle solennità del matrimonio ed in
altre solenni circostanze.
Il rosso è il colore del sangue e del fuoco, ed è
simbolo della passione e della carità. Quindi si
adopera nelle feste degli strumenti della passione
di G. C. (1) in quelle dei martiri e dello Spirito
Santo, nel giorno degli Innocenti, perchè questo
indica la glorificazione; nelle feste delle vergini
martiri, perchè il martirio si preferisce alla vergi­
nità, nelle messe della festa delle sacre Reliquie
che si conservano nelle proprie chiese (2). Il co­
lore rosso si usa ancora nella messa per la elezione
del Sommo Pontefice e nella festa degli Innocenti
qualora questa cadesse in domenica o fosse elevata
a rito doppio di prima classe.
Il verde è quasi colore medio, si adopera per
quelle feste che non hanno carattere proprio di
penitenza e di letizia e sono come di media solen­
nità. Tali sono le domeniche dopo l’ottava dell’E­
pifania fino alla settuagesima e quelle dell’ottava12
(1) S. C. R. 23 aprile 1875, n. 3352, II.
(2) S. C. R. 17 ag. 1771, n. 2492.
Paramenti sacri 259

del S. Cuore di Gesù all’avvento. E’ simbolo del­


la speranza.
Il violaceo, che è pallido e livido, è simbolo
della penitenza e del dolore. Quindi si adopera
nell’Avvento e Quaresima ed in altri tempi di pe­
nitenza; nel tempo di passione, pel dolore che in
esso dobbiamo avere, nella festa degli Innocenti
pel dolore delle madri ecc. : nelle funzioni che
precedono la messa della vigilia di Pasqua e di
Pentecoste, ad indicare l’afflizione e l’umiltà dei
catecumeni prima del battesimo; nelle ferie dei
quattro tempi, eccetto quelle di Pentecoste che so­
no festive per ragione dell’ottava; nella benedi­
zione delle candele, ceneri, palme, nelle processio­
ni che si fanno per impetrare la divina misericor­
dia, eccetto quelle col SS. Sacramento, colle sta­
tue e colle reliquie. Si usa pure nella Messa delle
vigilie, compresa quella dell’Immacolata (1).
Il nero è il colore delle tenebre, della morte,
del dolore; quindi si adopera nel Venerdì santo
<c quando ténebrae factae sunt » per ricordare la
morte del Salvatore; e in tutte le funzioni dei de­
funti (2) eccetto, che vi fosse esposto il SS. Sacra­
mento, oppure celebrasse il Papa, perchè questi
luget in rubro.
116. Benedizione delle vesti sacre.
Si devono benedire di precetto : il corporale,
l’amitto, il camice, il manipolo, la stola, la piane-
(1) S. C. R . 12 seu. 1901.
(2) Thalhofer, o. c. δ 72; De Herdt, V oi. I, n. 506; Ga-
vanta. Thesaurus sacr. rit. 1. c.
260 Capo IV

ta, la palla, le tovaglie, il cingolo (1). Si dubita


da qualcuno se vi sia l’obbligo per il piviale, per
la dalmatica e la tunicella; comunemente però si
ammette dai liturgisti che anche questi si abbiano
da benedire. Non si benedicono il velo del calice
e degli altri vasi, la borsa, il pallio, il purificatore
e il manutergio. Quando i paramenti fossero stati
adoperati per ignoranza, senza essere benedetti
non si possono perciò adoperare, ma occorre be­
nedirli perchè quantunque per quell’uso si possa­
no dire santificati, non vennero però deputati al­
l’uso sacro, il che si fa mediante la benedizione
della chiesa. Questa sentenza sostenuta da alcuni
liturgisti tra cui il Merati, e impugnata da altri,
venne decisa dalla S. C., la quale affermò che la
contraria sentenza non si può più seguire in pra­
tica (2).
La benedizione dei sacri paramenti può darsi
dai Cardinali, dai Vescovi ordinarii nella loro dio­
cesi e dai parroci e dai Rettori delle chiese nelle
chiese loro soggette e dai Superiori degli Ordini
religiosi, o dai sacerdoti del loro Ordine da loro
delegati per le chiese ad essi soggette. (Cod. can.
1307).
Le formole delle benedizioni dei sacri paramen­
ti che si trovano in fine del Messale e nel Ritua­
le (3) sono tre, e cioè : la prima per gli indumenti123
(1) Kubr. Gen. t. X X ; Rit. Celebr. tit. I, η. 1, 2; de defect.
t. X, η. I ; Bened. XIV Inst. 21; De Herdt, n. 168.
(2) S. C. R . 31 agosto 1867; 3161, VI.
(3) Thalhofer, o. c. § 72; De Herdt, V oi. I, n. 506; che
esse sono di oso esclusivo del Vescovo.
Paramenti sacri 261

sacerdotali in generale; la seconda speciale per le


tovaglie e la terza per i corporali e le palle.
I sacri paramenti perdono la benedizione:
1. Quando perdono la prima forma, nella quale
furono benedetti, avvenga ciò per caso o per indù·
stria, come per aggiustarli. Ciò però non avviene
quando si aggiustano a poco a poco, percè la veste
si tiene nella sua forma e integrità, quantunque si
aggiunga una parte; il contrario sarebbe se la par­
te aggiunta fosse maggiore.
3. Quando si separa una parte notevole, come
le maniche dal camice o quando si rompono in
modo che nessuna parte può servire.
4. Quando da essi si formano altre vesti sacre,
eome se dal camice si. formassero amitti, dal pivia­
le le stole ecc.
5. Quando diventano indecorosi o esposti a pub­
blica vendita (Cod. can. 1305).
I paramenti laceri, logori o interdetti non si
possono vendere, senza il permesso del vescovo,
nè adoperare per usi profani, ma si possono tra­
sformare in altri che servano alla chiesa e quando
son perfettamente inservibili si devono abbruciare
e le ceneri si gettano nel sacrario.

117. Amitto.
V emitto (da amicere, velare, coprire) pare in­
trodotto nel secolo ottavo per coprire il collo d’un
ornamento conveniente e fu poco dopo riguardato
262 Capo IV

come figura dell’antico sopraomerale degli ebrei,


dell’e/od usato da Samuele e da Davide, col qual
nome è spesso chiamato dagli scrittori. Si dice an­
che Vanagolajum humerale e più comunemente
« amictus ». Prima si indossava dopo il camice e
si portava sul corpo, nel rito romano s’indossa pri­
ma e si accomoda intorno al collo e sulle spalle.
L’amitto dev’essere di tela di lino o di canapa (1);
non si possono adoperare quelli di mussola (2) nè
d’altra materia, nemmeno per le chiese povere (3).
Circa il suo ornato, deve avere una croce nel mez­
zo e può portare agli angoli e all’ingiro altri or­
nati.
Quando si indossa : « osculatur in medio ubi est
crux et ponit super caput et mox declinat ad col­
lum et eo vestium collaria circumtegens, ducit
chordulas sub brachiis et circumducens per dorsum
ante pectus, educit et ligat » (4).
Si usa ogni volta che si indossa il camice, e dai
canonici che assistono parati alla cattedra del Ve­
scovo ‘sul rocchetto, se ne hanno l’uso o sotto la
cotta.
L’amitto significa il panno con cui si velò la fac­
cia di G. Cristo e la corona di spine ; in senso mo­
rale è. lo scudo della salute contro gli assalti del
demonio; significa ancora la custodia della lingua
e della voce (5).
(1) Decr. Gen. S. C. R . 15-18 maggio 1819, n. 2600.
(2) S. C. R . 15 marzo 1664, n. 1287.
(3) id. 17 d.cembro 1875. n. 3387.
(4) Rit. celebr. Miss. tit. I, η. 1.
(5) Orazione nella vestiz., per la Messa e nell’ Ordinazione
del Suddiacono.
Paramenti sacri 263

118. Camice - Cingolo - Cotta - Rocchetto.


Il camice, la tunica dei Romani, era la prima
veste sacerdotale dell’A. T. E’ detta dai latini alba,
per la bianchezza, od anche camisia o camisiL· :
fu in uso nella Chiesa fino dai più antichi tem­
pi (1).
Dev’essere di lino o di Canapa, lungo secondo
Cavanto m. 1,75 e largo m. 7 (2); all’estremità
delle maniche e della parte inferiore può avere un
pizzo anche con fondo colorato « Num tolerari
possiti ut fundus coloratus supponatur, textili den­
ticulato vel operi phrygio in manicis et fimbriis al­
barum mecnon in manicis rochetti? R. Quoad ma­
nicas et fimbrias albarum, affirmative; quoad ma­
nicas autem rochetti fundum esse potest coloris ve­
stis talari relative dignitatis » (3). E più tardi alia
questione, cc An toleranda consuetudo utendi fun­
do cerulei coloris sub velo traslucente in fimbriis
et manicis albarum? R. Affirmative et detur Decr.
12 julii 1892 V ». (4).
Il camice si usa : nella messa dal celebrante, dal
diacono e suddiacono, nelle processioni, nelle be­
nedizioni col SS. Sacramento e nelle altre funzio­
ni che precedono o seguono immediatamente la
messa.1
2
3
4

(1) Vedi opere citate nella nota, al n. 114.


(2) Anche S. Carlo dà questa misura.
(3) S. C. R . 12 luglio 1897, n. 3780. V .
(4) id. 24 novembre 1899, n. 4048, VII.
264 Capo IV

Si indossa : « caput submittens, deinde manicam


dextram brachio dextro et sinistram sinistro impo­
nes. Albam ipsam corpori adaptat, elevat ante et
lateribus hinc inde et cingolo, per ministrum a ter-
go sibi porrecto, se cingit. Minister elevat albam
super cingulum circumcirca ut honeste dependeat
et legat vestes : ac vel circiter super terram aequa­
liter fluat y> (1). Se il camice è aperto nel davanti
si deve chiudere intorno al collo con legami.
Il camice è simbolo della novitas vitae, cioè del-
l’innocenza, purità e santità in cui deve cammina­
re chi lo porta per arrivare ai gaudi sempiterni;
della grazia santificante che procede dal sangue
dell’Agnello : può anche significare la perseveran­
za, per la sua lunghezza. Ricorda la bianca veste
con cui Gesù Cristo venne rivestito da Erode (2).
Il cingolo, detto anche batheus, zona, venne in­
trodotto per tener raccolto il camice intorno alla
persona « ne tunica ipsa defluat et gressum impe­
diat j> (3). Quanto alla materia è conforme al pen­
siero della Chiesa che essa sia di lino o di cana­
pa (4) e di color bianco, ma si permettono anche
quelli di seta tessuta con oro e di lana (5) e del co­
lore dei paramenti (6). Può essere in forma di cor­
dicella od anche di nastro stretto e di grosso spesso­
re ed ai capi può aver i fiocchi. Dev’essere lungo123456
(1) Rit. cel. Miss., I. e.
(2) Raban. Maur. de istit. Clerie., lib. 6, 17.
(3) Lue. XXIII. 11.
(4) S. C. R . 22 genn. 1701, n. 267 ad. 7.
(5) id. 8 giugo. 1862, n. 3118.
(6) id. 8 giugn. 1709, n. 2194. 3.
Paramenti sacri 265

abbastanza da potersi adattare e stringere intorno


alla persona, raddoppiato e legato nel davanti.
Non si possono usare i cingoli detti papalini,
che scendono ai fianchi in due fascie di stoffa co-
lorata e ricamata; dove vi è la consuetudine di u-
sarli si tollerano finche, siano consumati (1).
Il cingolo non si deve legare alla parte superiore
del corpo, ma circa le reni (2).
Significa: Le funi e i flagelli della passione di
G. C. ed è simbolo della castità per cui il Sacci-
dote si prepara a ricevere la venuta del Signore (3).
La cotta (superpelliceum) è la veste ordinaria e
comune del clero all’altare, nel coro, nelle proces­
sioni, nelle benedizioni ecc. Essa differisce dal roc­
chetto in ciò che mentre la cotta ha le maniche lar­
ghe, nel rocchetto sono meno ampie, e fatte come
quelle del camice; la cotta è. veste comune, il roc­
chetto è della dignità.
Il rocchetto si usa da chi ne ha diritto; i cano­
nici, se hanno tale diritto, lo usano nell’assistenza
al vescovo nei Pontificali, per cui non possono usa­
re il camice (4). Si usa ancora nelle processioni e
nelle altre funzioni, che non precedono o seguono
la messa. Il rocchetto non si può mai usare da solo,
ma sempre colle altre insegne personali : non si può
usare fuori dalla propria chiesa (5), eccetto che vi12345
(1) S. C. R . 24 novembre 1899, n. 4018.
(2) Bened. XIV. Della Messa letta, I. §. 42.
(3) Oraz. nella vestiz. del Sacerdote per la Messa; Cfr. D o­
rando, o . c. lib. III. c. 4.
(4) S. C. R . 14 settembre 1745, n. 2388. 2.
(5) S. C. R . 12 Inglio 1892, n. 3784, ΙΠ.
266 Capo IV

sia presente Finterò capitolo o per privilegio. Non


si può usare per l’amministrazione dei sacramenti
e nelle funzioni per cui è prescritta la cotta (1),
non ne’ funerali (2), nè alla benedizione col SS.
Sacramento (3). — Si permette però l’uso del roc­
chetto e su di esso l’amitto da chi ne ha diritto,
nelle benedizioni colle reliquie e col SS. Sacramen­
to, quando non vi sono i ministri parati (4).
La materia della cotta e del rocchetto è la mede­
sima di quella del camice; nulla vi ha però di posi­
tivamente stahilito. Quanto all’ornato essi possono
avere ai lembi ed alle maniche un fondo colorato
sotto il pizzo, ma il colore dev’essere quello della
veste talare delle relative dignità che lo porta­
no » (5).
Queste due vesti sacre hanno il medesimo signi­
ficato del camice, cioè, pel candore dinotano la ca­
stità, la innocenza, ccEt ideo ante omnes alias ve­
stes sacras (cotta) saepe induitur, quia divino coi­
tui deputati innocentiae viteae cunctis virtutum ac­
tibus superpollere debent, juxta illud Psal. 24:
Innocentes et recti adhaeserunt mihi » (6).
119. Pianeta - Pianete plicate.
La Pianeta anticamente aveva la forma d’un
manto rotondo, ampio, senza apertura, tranne123456
(1) S. C. R . 17 seti. 1822, n. 2622; 12 gemi. 1878, n. 3478.
V ili; 12 luglio 1892, n. 3784.
(2) S. C. R . 17 marzo 1629, n. 495.
(3) S. C. R . 25, settembre 1852, n. 3005.
(4) $. C. R . 20 marzo 1869, 3201, 6.
(5) S. C. R . 12 luglio 1892, n. 3780, V.
(6) Durando, lib. I li, cap. I, n. 10.
Paramenti sacri

quella del capo e di uso comune pei laici e per i


chierici. Dai greci è detta pianeta ( TÙ.avd&cu ) cc quod
error sonat... eo quod errabundus limbus ejus u-
trimque in brachio sublevatur » (1); dai latini è
chiamata clausola « per diminutionem a casa, eo
quod totum hominem tegit, quasi minor casa y> (2).
Mentre i greci la conservarono nella sua primitiva
ricchezza i latini andarono man mano restringen­
dola sino alla forma odierna, togliendovi tutto ciò
che impediva il libero movimento delle braccia (3).
La forma odierna della pianeta è data dal Gavanto
e da S. Carlo Borromeo: dev’essere ampia da co­
prire le braccia sino ai gomiti (circa cm. 77), lun­
ga m. 1,16 da arrivare alle tibie con una croce
formata di stoffa o dalla guarnizione.
Quanto alla materia la pianeta dev’essere di se­
ta. Essa non può essere di lana, o di lino o di coto­
ne (4) nè ricoperta o intessuta di materia vitrea
(5); può essere di seta, di filugello, di broccato
d’oro ecc. Per la povertà della chiesa (da giudicar-12345
(1) Gemma animae, c. 207.
(2) Raban. Maur. o. c., 1. 1. 21.
(3) Bona, 1. c. D i qui provennero tre usi che ancora si con·
servano nella Chiesa: il primo di sollevare alquanto la pianeta
all’ incensazione e all’ elevazione dell’ ostia e del calice; il se­
condo di imporre il manipolo al vescovo appenaprima di sa­
lir l’ altare dopo fatta la confessione, ciò che prima si faceva per
tutti i sacerdoti che a questo punto, sollevando le braccia le
estraevano dalla pianeta; il terzo è l’ uso che ancor tengono il
diacono e il su.ddiacono di levar la dalmatica e la tunicella
(anticamente pure assai ampie) nei giorni di quaresima e di
d-'giuno, queste si rialzano anche onde essere più liberi; di qui
venne l ’ uso dlle Pianete plicate.
(4) S. C. R. 23 seti. 1847, n. 2769, V. 3.
(5) S. C. K. 11 seti. 1847, n. 2449.
268 Capo IV

si dal vescovo) si tollerano le pianete e gli altri pa­


ramenti tessuti di lino, lana e cotone che hanno di
seta solamente la parte esterna che si vede (l).
E* permesso il cosidetto gelsolino? Per la sen­
tenza affermativa si cita una risposta della S. C.
dei Riti in data 21 aprile 1893 : ma quella risposta
è ben lontana dall’aprire il varco a qualsiasi stoffa
che porta tal nome, ma solamente volle approvare
una certa qualità di tessuto che venne presentato
al giudizio della S. Sede, tessuto formato di seta e
filamento di gelso vegetale. La S. C. dei Riti ri­
spose : cc Posse adhibere, dummodo textum de quo
agitur numquam, nova adiecta malteria, immute·
tur ». La stoffa gelsolino che oggi è in commercio
in generale non è altro che vegetale (gelso e cotone)
tutt’altro da quella permessa dalla S. C. dei Riti.
Sulle pianete, come pure sugli altri paramenti,
non vi possono essere ornamenti profani, emblemi
mortuari « in his nullae imagines mortuorum vel
cruces albae ponantur » (2). L’uso degli stemmi
gentilizi è regolato dalle particolari costituzioni dio­
cesane.
La pianeta si usa nella Messa ed in qualche al­
tra particolare funzione.
La pianeta per l’ampiezza che tutto ricopre, è
simbolo della veste nuziale, ossia della carità e de’
suoi frutti che sono l’innocenza e la santità (3).123

(1) S. C. R . 23 marzo 1882, n. 3543.


(2) Caerem. Episc., lib. II. Cap. XI, η. 1; S. C. R . nov.
1905.
(3) Pont. Rom . De Ord. Presb.; Durando, lib. ΙΠ . c. VII.
Paramenti sacri £69

Essa si porta sulle spalle; quindi significa il giogo


del Signore (1), la croce di G. C., il vestimento di
porpora di cui fu vestito G. C., od anche la di lui
veste inconsutile.
Le pianete piegate, che si usano dai sacri mini­
stri nelle messe in certi tempi, sono per forma e
colore simili a quella del celebrante, ossia alle co­
muni, violacee, ma nel davanti vengono ripiegate
all’indietro fino al petto e legate con nastro e te­
nute fisse con aghi che si tolgono finita la messa.
Si adoperano soltanto nelle chiese cattedrali, e nel­
le principali, nonché parrocchiali, mentre nelle
minori, i ministri devono servire col solo camice,
manipolo e stola (2). I tempi e le funzioni nelle
quali si adoperano sono: nelle messe delle dome­
niche e ferie d’avvento e di quaresima; nelle vigi­
lie di pentecoste e di pasqua, prima della messa.
Si eccettua, la domenica Gaudete e quella Lae­
tare. Non si adoperano neppure nella vigilia dei
Santi, di Natale, e nei quattro tempi di penteco­
ste. Si adoperano ancora per la benedizione e pro­
cessione delle candele nella festa della Purificazio­
ne della B. V. e nella domenica delle palme, qua­
lunque siano i ministri che servano in tale occa­
sione, anche i canonici (3).
Le pianete non sono l’abito proprio dei ministri
della messa, quindi essi, nell’esercizio attuale del-123

(1) Oraz. della vestizione.


(2) Rubr. Gen. Missal. XIX, 6 e 7.
(3) S. C. R . 6 maggio 1826, n. 26-46, 4; Caerem. Episc. lib.
II, c. XVII, n. 6 etc.
270 Capo IV

le loro funzioni proprie depongono la pianeta pli­


cata. Così il suddiacono la depone prima di legge­
re l’epistola e la riassume dopo cantata l’epistola
e baciata la mano del celebrante; il diacono la de­
pone avanti il canto del Vangelo e la riassume do­
po la comunione. Il cerimoniale dei vescovi vuole
che la pianeta piegata del diacono, a suo tempo
invece di levarla, si ravvolga a modo di stola sulla
spalla sinistra fermandola sotto il braccio de­
stro (1). Ma siccome se ne può adoperare un’altra
già ravvolta e ripiegata a modo di stola, così ebbe
origine lo stolone che porta il diacono in tutto il
tempo che serve alla messa senza pianeta.
120. Dalmatica e Tunicella.
La dalmatica non differisce dalla funicella che
per la grandezza, ma una tale differenza è affatto
trascurata. La prima è l’abito del diacono, la se­
conda del suddiacono, ed entrambe sono assunte
dal vescovo pontificante « ut ostendat, se perfecte
omnes habere ordines, tamquam qui eos aliis coni­
feri » (2).
La dalmatica, così detta dal luogo della sua ori­
gine, venne adoperata come veste distintiva del
diacono verso il secondo secolo. In origine era as­
sai lunga colle ampie maniche, di color bianco, ma
andò man mano arricchendosi d’oro e di ornati (3).123

(1) Caerem. Ep., lib . Π, cap. XIII. 9.


(2) Durando, o. c. 1. III. XI. n. 4.
(3) Martigny, Diction. des antiq. chrét. « Dalmatique ».
Paramenti sacri m

Il Decreto 2578 dice che la materia della dalma­


tica e tunicella non è necessario sia conforme a
quello della pianeta.
Il significato è chiaramente espresso dalla for­
mula che usa il vescovo nell’ordinazione del dia­
cono·, quando dice: « Induat te Dóminus indumen­
to salutis et vestimento laetitiae et dalmatica ju­
stitiae circumdet te semper » : e del suddiacono
quando dice: cc Tunica jucunditatis et indumento
laetitiae induat te Dóminus' » (1).
L’uso di queste due vesti è ordinato· dal Messale
« Dalmatica et tunicella utuntur Diaconus et Sub-
diaconus in missa solemni, et processionibus et Be­
nedictionibus, quando sacerdoti ministrant (2).
121. Piviale.
Il piviale era detto anticamente casula cuculiata,
perchè era come una pianeta col cappuccio. Daill’u-
so che se ne faceva nelle processioni in tempo· di
pioggia, ebbe il nome di cappa pluvialis. Si adoperò
peraltro assai per tempo nei pontificali dal prete
assistente, ed in coro, per cui si disse anche cappa
choralis. Più tardi si praticò una apertura nel da­
vanti, per maggior comodità ed 51cappuccio fu tra-»
sformato in quell’ornamento che ora si trova nella
parte posteriore di esso che conserva l’antico no­
me.12

(1) Pontif. Rom . De Ordin. Diaconi et Subdiaconi. Cfr. Du­


rando, o. c. 1. III. c. X XI.
(2) Rub. gen. Mise., t. XIX, n. 5.
272 Capo IV

La materia del piviale è come quella degli altri


paramenti. La forma oggidì in uso comune è quella
di un ricco mantello semicircolare, tenuto nel da­
vanti per mezzo di un fermaglio; nella parte po­
steriore ha appeso il cappuccio, in forma quasi di
un semicerchio, colle fimbrie. L’ornato del piviale
trovasi in modo speciale nel davanti ossia nello sto.
Ione e sul cappuccio.
Si usa il piviale nelle processioni (1) e benedi­
zioni solenni che si danno all’altare : nelle benedi­
zioni solenni e private che si danno col SS. Sacra­
mento, e sotto di esso basta la stola colla cotta (2);
nell’Officio solenne del Mattutino, delle Lodi e dei
Vespri (3); lo usa il prete assistente alla messa so­
lenne, il sacerdote nelle .assoluzioni dei defunti
ecc. (4).
Sull’origine e significato del piviale scrive il Du­
rando: cc vestis quae pluvialis vocatur, creditur a
legali tunica mutuata. Unde sicut illa tiutimwbuMs
sic ista fimbriis infigitur, quae sunt labores huius
numdi et sollicitudines. Habet etiam caputium
quod est supernum gaudium » (5).

122. Stola.
La stola chiamata fin dal secolo nono ed ancora
dai greci orarium, è la veste del diacono, del sa­
li) Nelle quali non è peraltro segno di giuri adizione. S. C.
R . 21 marzo 1699, n. 2023, 2.
(2) S. C. R . 23 genn. 1700, n. 2074, I.
(3) S. C. R . 13 giugno 1876, n. 1572, 1.
(4) Rubr. Gen. Miss., t. XIX, n. 3.
(5) 0 . c., lib. III. c. I, n. 13.
Paramenti sacri 27$

cerdote e del vescovo. Presso i pagani si chiamava


stola il vestimento lungo specialmente delle matro­
ne, presso i giudei significava qualsiasi vestimen­
to (1).
Secondo alcuni cominciò ad adoperarsi come or­
namento della chiesa al tempo degli Apostoli. Du­
rando £a risalire l’uso della stola, nella odierna
forma al tempo in cui si incominciò a portare il ca­
mice. (c Antiquitus stola erat vestis candida pertin­
ges usque ad vestigia, qua Patriarchae utebantur
ante legem quam primogeniti, cum benedictionem
Patris acciperent induebant, et Domino victimas ut
Pontifices offerebant. Sed postquam alba coepit
portari, mutata est in torquem » (2). Essa si chia­
mò orctrium da orare, perchè la stola si usa nellai
preghiera pubblica e nell’amministrazione dei sa­
cramenti (3).
La odierna disciplina della Chiesa vuole che la
stola sia della medesima materia della pianeta,
quindi di seta e non di tela o di cotone (4), ed ab­
bia una croce nel mezzo ed alle estremità.
Per la forma essa non deve ridursi così stretta,
da parere un nastro, massime attorno al collo, ma
dev’essere larga almeno 15 cm. e più larga al basso.
Deve portare tre croci una alla sommità che sta al
collo e le altre abbasso ai lembi.1234

(1) Cfr. Gen. XLI: Esther VI.


(2) Lib. ΙΠ, cap. V , n. 6.
(3) Martigny, o. c. « Orarium ». Vedi sopratutto Card. Bo­
na, op. e cap. cit. n. 6.
(4) S. C. R . 23 sett. 1837, n. 2769 V . 3.
274 Capo IV

Lo stolone che si usa dal diacono nelle domeni­


che d’Avvento e di Quaresima, non, deve avere le
croci (1). La stola è segno di ufficio e non di giu­
risdizione (2).
Circa l’uso della stola si osservi che :
1. E’ necessaria quando· si fanino o si ammira-
strano i sacramenti; nei sacramentali, nelle bene­
dizioni, nelle processioni, funerali ed altre funzio­
ni per cui è .ordinata dalle rubriche e nelle predi­
che dove vi è consuetudine (3), nel qual caso de­
v’essere del colore corrispondente all’Ufficio, anche
nel dì della Commemiorazione dei defunti e nella
festa dell’Annunciazione e di San Giuseppe quan­
do cadono nella Settimana santa (4). Deve sempre
usarsi dal Diacono quando tratta la SS. Eucaristia*
eccettuati i due casi accennati (pei Canonici o altri
assistenti al vescovo) dal Cerimoniale dei Vesco­
vi (5).
2. E’ proibita nei divini Uffici : per l’ebdomario
nelle chiese collegiate (6) e nelle altre funzioni, da
chi non funge da celebrante, al prete assistente alla
messa del vescovo (7) o di altro Sacerdote, quando
si porge l’aspersorio al vescovo che entra in chie­
sa (8).12345678
(1) S. C. R. 25 seu. 1852, n. 3006 7.
(2) S. C. R . 21 luglio 1855, n. 3055 2.
(3) S. C. R . 26 sett. 1868, n. 3185.
(4) S. C. R . 6 febbraio 1892, n. 3764 ΧΠΙ.
(5) Caerem. Episc. Lib. II. Cap. XXIII n. 12; e Cap. XXXIII*
n. 20. S. C.R . 9 giug. 1899, n. 4030.
(6) S. C. R. 11 settembre 1847, n. 2956. 5.
(7) S. C. R. 12 marzo 1836, n. 2740, 1. 2.
(8) S. ,C. R . 16 aprile 1853, n. 3009. 9.
Paramenti sacri 275

E’ permessa nell’Ufficio e Vespro dei defunti,


nell’adorazione del SS. Sacramento!, ai predicatori
giusta la consuetudine (1), ai Cappellani che ac­
compagnano Je loro Confraternite in processione
nelle loro chiese (2), ma non fuori di esse (3), ec­
cetto nei luoghi ove vi è la consuetudine (4).
Nell indossarla : « Sacerdos ambabus manibus
accipiens... (eant) deosculatur et imponit medium
eius collo ac trasversando eam ante pectus in mo­
dum crucis, ducit partem a sinistro humero pen­
dentem ad dextram et partem a dextro humero
pendentem ad sinistram. Sicque utramque partem
stolae extremitatibus cinguli hinc inde ipsi cingulo
coniungit » (5).
Diverso è il modo di portare la stola : il diacono
la porta sempre attraverso, cioè sulla spalla sini­
stra ed allacciata sotto il braccio destro; il sacer­
dote la deve portare sempre incrociata sul petto e
legata col cingolo ogni volta che mette il camice,
e pendente sul petto solo quando ha la cotta. Il
vescovo la porta sempre pendente sul petto.
La stola significa: a) La veste della grazia, per­
duta nel peccato di Adamo ; b) il giogo -del Signore
che è soave e Leggero; quindi si porta sulle spalle,
attraverso il collo <cquam cum osculo (Sacérdos)12*45
(1) S. C. R . 12 novembre 1831, n. 2682, 21.
(2) S. C. R . 12 gennaio 1704, n. 2123, 23.
/3) S. C. R. 6 die. 1868, n. 2391, III; 9 luglio 1718, n. 2250,
3; 3 6ett. 1746, n. 2391.
(4) S. C. R . 27-30 marzo 1824, n. 2635; 9 maggio 1837, n.
2763; 9 maggio 1857, n. 3051, c. ΙΓ'.
(5) Rii. cel. Miss. I, 3.
276 Capo IV

sibi imparili et deponit, ad notandum assensum et


desiderium quo se subijcu huic iugo » (1). c) Può
significare anche la pazienza, la mortificazione, la
obbedienza; d) significa allegoricamente la Croce
di Gesù Cristo e le funi con cui fu legato1(2).

123. Manipolo.
Anticamente i ministri della Chiesa solevano
portare sul braccio sinistro un fazzoletto per aster­
gere il sudore e per* altri bisogni; esso era quindi
chiamato sindon, sudarium, mappula, maritile. Col
progresso diéi tempo, passò, in parecchie chieste,
a formare un ornamento ecclesiastico, detto mar
nipoh, ornato spesso di oro, di gemane e fimbrie,
tessuto come la stola. Tale mutazioni, secondo il
Card. Bona sarebbe avvenuta verso il secolo deci­
mo (3). Il Sacerdote nella messa solenne lo assu­
meva dopo la confessione.
Secondo la 'odierna disciplina, il manipolo deve
essere della medesima materia della stola e portare
tre croci, una cioè nel mezzo e le altre alle estre-123

(1) Durando, o. c., 1. I li, cap. V , η. 1.


(2) De Herdt, o. c. I, n. 166, 5; Thalhofer, o. c. § 70, n. 8.
(3) Rer. Liturg. lib. I, 2. XXIV. η. V . Ciò è vero se si
intende dell’ uso comune universale, poiché abbiamo fatti che
ci provano come assai più per tempo il manipolo era ornamen­
to sacro liturgico. Così per citarne uno solo, $. Gregorio M.
accordò al vescovo di Ravenna, che i diaconi di quella chiesa
potessero portare il manipolo sul braccio nelle sacre funzioni.
Lib. II. Epist. 54. Nel secolo XI fu accordato ai diaconi e nel
XII ai suddiaconi. Amalar. lib. I li, c. 6; Alexander de Alee,
in Exposit. Missae.
Paramenti sacri 277

mità (1). Si assume baciandolo nel mezzo, ed ap­


plicandolo al braccio· sinistro, sull’avambraccio,
legandolo con nastri o fermandolo con aghi.
Circa le dimensioni e le croci vale quello che si
è detto per la stola.
Si adopera esclusivamente per la miessa, tanto
dal celebrante come dai ministri.
Quindi non si adopera nelle processioni, ai ve­
spri, nella benedizione do! SS. Sacramento, nelle
assoluzioni al feretro. Si assume sempre immedia­
tamente prima della messa e si depone tosto dopo
ogni volta che prima o dopo la messa vi è qualche
altra funzione (aspersione, esequie, benedizione
ecc.). — B manipolo: a) significa le buone opere,
la penitenza, il lavoro, il dolore e la vigilanza cri­
stiana « quatenus sudorem mentite abstergit et sa­
porem cordis excutit (2). 6) cc Ministri manipulum
in brachio sinistro ferunt, ad notandum quod strie-
ti non debent esse ad terrena, sed ad coelestia ex­
pediti » (3), ed ancora perchè il dolore e il lavoro
sono di questa vita, dinotata dalla sinistra, c) In
senso allegorico rappresenta le funi icon cui G. C.
ebbe legate le mani.
124. Veli - Borsa.
Nell’uso liturgico occorrono varie specie di veUt123

(1) Le due croci ai lembi del manipolo e della stola sono


facoltative.
(2) Durando, 1. c. cap. 6; Rit. Ordin. subd.; Oraz. per la
Vestizione.^
(3) Durando, 1. eit. 5; lib. Π , c. V i li, 60 e ΧΧΧΙΠ, 14.
278 Capo IV

cioè il velo omerale, quello del calice, quello del­


la pisside, della teca, dell’ostensorio.
Il velo umerale detto comunemente continenza,
deve essere di seta (anche la fodera), di convenien­
te grandezza e lunghezza (1).
Il ricamo che porta non deve impedire di poter
prendere comodamente la patena, il càlice, l’osten-
sorioi o gli altri vasi sacri.
Le aggiunte di stoffa, a modo di fazzoletti o dì
borse sono meno convenienti (2), ad ogni modo
anche esse devono essere di seta.
Si adopera: 1. Dal suddiacono.nella «messa so­
lenne. 2. Dal Celebrante nella benedizione col SS.
Sacramento, anche privata con la Pisside (3). 3.
Nelle processioni col SS. Sacramento, nella pro­
cessione e benedizione colle reliquie della Passio­
ne.
Il velo del calice è di uso antichissimo nella li­
turgia e di esstor si parla nelle Costituzioni Aposto­
liche (4). Prima doveva essere di lino, ora deve
essere di seta, ciò che si intende anche per la fode­
ra (5). Secondo S. Carlo il velo deve essere: «ah
omni parte cubito et unciis duodecim (cm. 66) oc
paulo amplius late patens...; ab oris undique se­
rico opere, auro argentove tenuiter ornatum. Pre­
tiosius autem auro aut argento contextum sit fim­
briis item aureis aut argenteis adhibitis » (6).
(1) Ornat. Eccl. c. 33 — Caerem. Episc., lib. I, cap. X.
(2) Jakob. O. c. § 78, n. 8.
(3) S. C. R . 21 luglio, 1855, n. 3031 4; 13 luglio 1882 I.
(4) Can. 72 Dist. I. de consecr.
(5) Ritus celebr. Miss. I, η. 1.
(6) Instr. supell., 1. II.
Paramenti sacri 279

Il velo della pisside, .secondo il Rimale, dev’es­


sere di color bianco « albo velo coperta » (1).
S. Carlo ne prescrive la forma e Vornato e ne ac­
cenna la materia. « Pro ciborio conficiatur parvum
tentoriolum in modum palioli, seu parvulis pluvia­
lis; in ecclesiis opulentioribus, si non ex tela aurea
vel argentea, margaritis et gemmis redemita, ut
certe esse debent saltem ex serico auro et argento
intexto, fimbriis dissolutis et filis aureis immixtis
vel aliis modis ornatis habeatur y> (2).
Circa il velo dell’ostensorio e della teca non vi
ba alcuna prescrizione, onde è lecito seguire la
consuetudine, ma è pure conveniente siia di seta.
La borsa Berve per portare dalla sacrestia alP'al-
tare e riportare il corporale. Essa dev’essere abba­
stanza ampia da contenere comodamente il corpo­
rale; deve essere del icolore degli altri paramenti
ed avere nel mezzo una croce. NeH’interno sia fo­
derata di seta o di tela di lino, con ornati ai lati
ed agli angoli (3), all’esterno di seta.
E’ vietato di usare la borsa che è destinata a con­
tenere il corporale, per raccogliere elemosine (4).
125. Paramenti vescovili.
Nell’Antioo Testamento il Sommo Sacerdote usa­
va abiti particolari nell’esercizio delle sacre fun­
zioni ; anche la Chiesa mantenne queste distinzioni1234
(1) Rit. Rom . Tit. IV, c. I De SS. Ench. Sacram., n. 5.
(2) Ornat. Èccles, c. 27.
(3) Ornat. Eccles., c. 31; Jakob, O. c. § 52.
(4) S. C. R. 2 maggio 1919.
280 Capo IV

di abiti pel Vescovo. Attualmente i paramenti sa­


cri specificamente vescovili sono : i sandali, la cro­
ce pettorale, le chiroteche o gu'anti, il pallio, la
mitra, l’anello e il bastone pastorale.
1) I sandali erano un antico indumento sacro,
concesso talora anche ai diaconi (1), ordinato al
rispetto del tempio, come calzatura senatoria, e nei
Capitolari idi Carlo Magno prescritti anche pei sa­
cerdoti nella messa (2). Anticamente vi erano va­
rie specie di sandali, ma sono andati in disuso.
I sandali devono essere del colore dei paramen­
ti (3). Il vescovo li usa ogni volta che celebra
messa pontificale o conferisce gli ordini nella mes­
sa. Non si adoperano i sandali nella messa del Ve­
nerdì santo (4), nelle messe de requie (5). Met­
tere i sandali al vescovo spetta al suddiacono; il
vescovo se li può far mettere dal suo cappellano,
ma il suddiacono deve assistere (6).
S. Tommaso ne dà il significato·: « Per caligas si-
gnificatur rectitudo gressus, per sandalia, quae
pedes ligant, contemptus terrenorum » (7).
2) . Ad esempio del sommo sacerdote presso gli
(1) S. Greg. M . Lib. 7 epist. 38.
(2) JL’ nso .dei Sandali rimase finché comunemente fa in ose
la calzatura romana che lasciava il piede quasi n udo; perciò
tutti i sacerdoti portano una specie di compagia diversa da
quella dei Vescovi. Cfr. Gaume. Catech. di Persev. P. IV . Lez.
XIII.
(3) S. C. R . 17 maggio 1890, n. 3729. Π.
(4) Caerem. Ep. lib . II. Cap. XXV. 6.
(5) Caerem. Ep. Lib. II. Cap. X I, 2.
(6) S. C. R . 18 maggio 1899, n. 4015, Π.
(7) S. Tom . Supplem. ad III P. q. XL a 7 Cfr. Durand.
ab. m, c. vili.
Paramenti sacri 281

ebrei, che portava in fronte una lamina d’oro, il


Vescovo, assai per tempo, portò nei sacri Uffici, la
croce pettorale la quale significa che il vesdovo de­
ve sopra ogni altro glorificare Dio nella sua mente
e ricordare la passione diéi martiri, le cui reliquie
sono racchiuse nella croce (1) « ad denotandum
quod Christi passionem, quae per illam significa-
tur credit et confitetur » (2).
3). L’uso dei guanti risale certamente nella chie­
sa latina, avanti il secolo Χ Π (3), si chiamavano
pmnitìae, ed erano di color bianco. I guanti si usa­
no dal vescovo ogni volta che usa i sandali e devo­
no, come quelli,, essere del colore dei paramenti.
Essi quindi si possono usare nei Pontificali, non
nelle benedizioni col SS. Sacramento. Nè si pos­
sono usare inell’andare o tornare dalla chiesa per
la messa pontificale. Quando il vescovo· imparte la
Benedizione papale mette i guanti (4).
Secondo S. Tommaso essi significano la cautela
nelle opere (1. c.); ricordano il fatto di Giacobbe
che comparve dinanzi al padre rivestito delle pelli
di agnello; simboleggiano G. C. che si rivestì dei
nostri peccati e si offerse al Padre per espiarli (5).
4. Il pallio, ora, in via regolare, distintivo degli
Arcivescovi e dei patriarchi, detto dai greci omo-
phorion, ed in uso fino al quarto secolo, è fermato1 2345

(1) Orat. elicenti, ab Episc. quum. in Pontif. celebrat.


(2) Durando, 1. c. Cap. IX .
(3) I greci non ne fanno uso.
(4) S. C. R ., n. 3729, 2 ; 2049, 14 ; 3871, 3 ; 3873, 1.
(5) Orat, dicendae ab Episc., etc.
282 Capo IV

di lana di agnelli benedetti il giorno di S. Agtóese,


nella Chiesa di questa Santa, in via Nomentana
presso Roma.
Il Pontificale romano enumera i giorni e le feste
nelle quali si può usare il pallio (1).
Esso': 1. Significa la pienezza e l’eccellenza del­
l’Ufficio pastorale (2). 2. E’ simbolo di unità e di
comunione perfetta eolia Sede Apostolica, mentre
è dato dal Papa e benedetto sulla tomba di S. Pie­
tro. 3. Ricorda al Vescovo di essere imitatore di
G. C. gl ut sint boni nrngnique illius Pastoris imi­
tatores, qui errantem ovem suis humeris imposi­
tam coeteris adunavit, pro quibus animum posuit...
Videant suis humeris impositam crucem, sitque il­
lis crucifixus mundus et ipsi mundo » (3).
5). La mitra ricorda la tiara iche ornava la fron­
te del sommo sacerdote nell’Antica Legge (4): è
di origine apostolica, quantunque anticamente era
per la forma alquanto diversa da quella che si ado­
pera oggidì. Quindi il Cerimi, dei Vescovi dice:
<c mitrae usus antiquissimus est ».
Il medesimo Cerimoniale distingue tre specie di
mitre. gl Una quae pretiosa dicitur, quia gemmis et
lapidibus pretiosis, vel laminis aureis vel argenteis
contexta esse solet: altera auriphrygiata sine gem­
mis et sine laminis aureis vel argenteis; sed vel ali­
quibus parvis margaritis composita, vel ex serico1*34

(1) Pontif. Rom . P. I. De Pallio.


(£) Oraz. .della bened. dei Pallio.
(3) Ibid. Cfr. Dorando, L c ., cap. XVII.
(4) Caerem. Ep. lib. I. cap. X V II 1. 4. O. c. § 71 n. 7.
Paramenti sacri 283

albo, auro intermixto vel ex tela aurea simplice si­


ne laminis et margaritis: tertia quae simplex vo­
catur, sine auro ex simplici sierico damasceno vel
alio, aut etiam linea ex tela alba confecta, rubeis
baciniis seu frangis et vittis pendentibus ».
Quindi espone Fuso di ciascuna di queste specie
di mitre (1). — Gli Abbati regolari e gli altri pre­
lati inferiori al vescovo non possono usare la mi­
tra preziosa, sie non è loro concessa per speciale
privilegio ; sotto di essa usano· il pileolo nero (2).
La mitra ha un doppio significato : 1. In quanto
copre e difende il capo come un elmo, significa che
il vescovo è difensore della verità, ed è armato per­
ciò della cognizione dei due Testamenti. 2. In
quanto è ornamento esprime l’altissima dignità del
vescovo. Ciò è espresso nella consacrazione del ve­
scovo quando gli si impone la mitra.
6) ISAnello era usato dai greci e dai romani per
distinguere le persone di autorità (3). Esso qui si­
gnificai 1. L’alleanza spirituale del vescovo colla
sua chiesa che diventa com'e la sua sposa (4). 2. E’
il signaculum fidei, per cui egli deve custodire
« sposanti Dei sanctam videlicet ecclesiam in&eme-1234

(1) Caerem. Ep. Lib. I. cap. XVII, 1. 4.


(2) S. C. R . n. 1131; 1753. 3.
(3) Sull’ anello regale solitamente stava anche il sigillo. Cfr.
Ester X 10 $eg. Jer. XXI 24; Dan. V I 17; 1. Macc. VI· 15.
(4) E’ vero che non parlano dell’anello episcopale Amala-
rio, Rabano Mauro e lo Pseudo-Alcuino, ma ciò prova solo che
a quel tempo ■l’ anello episcopale non era di uso comune, men­
tre abbiamo molte testimonianze e fatti che provano che esso
si adoperava nei primi secoli. Cfr. Martigny, Dictionn. des An-
tiquités chrétiènnes « Anneau Episcopal. ».
284 Capo IV

rata fide ornatus, illibate » (1). 3. Significa la san­


ta attività, che il vescovo deve avere nell’esercizio
della virtù, ccDigitos (meos) virtute decora ». 4.
Si mette nel dito anulare della mano destra per di­
stinzione delPanielliO matrimoniale che si porta nel
dito anulare della sinistra.
Π vescovo usa l’anello in. tutte le ecclesiastiche
funzioni e lo porta ordinariamente.- Nelle messe
Pontificali il vescovo lo depone prima della lavan­
da delle mani che fa prima della vestizione, e lo
assume dopo messi i guanti (2).
Nulla si presenta o si riceve dalla mano diéi ve­
scovo senza baciare l’anello. Non si bacia per tutto
il venerdì Satnto tanto nelle funzioni che fuori, ed
il vescovo in quel giorno colla mano non benedi­
ce (3).
A nessuna che non è vescovo è lecito portare l’a­
nello nelle funzioni sacre, eccetto i Protonotari A-
post. che hanno l’uso dei Pontificali, soltanto però
quando celebrano pontificalmente (4). Quindi al
quesito : ccNum sacerdotes qui gradus sunt come*
cuti in aliqua Academia vel Universitate facuita·
tem tribuente gestandi anulum, hoc gestare queant
digito, sicut Praelati gestant? » R. Permittitur,
praeterquam in ecclesiasticis functionibus iuxta
alia decreta (5).
(1) Orat, in Consecr. Episc.
(2) S. C. R . 29 maggio 1891, n. 3747 1.
(3) S. C. R . 23 maggio 1846, n. 2907 5.
(4) S. C. R . 20 nov. 1628, n. 483; 22 ging. 1630, n. 536; 17
sett. 1701, n. 2079 7; 12 apr. 1704, n. 2130 2.
(5) S. C. R . 23 magg. 1846, n. 2970 5. S. C. R . 20 nov. 1628,
n. 483; 22 gin. 1930, n. 536; 12 apr. 1704, n. 2130 2.
Paramenti sacri 285

7. Il Pastorale (come distintivo vescovile fu certo


in uso fino dal quarto secolo (1). Prima di legno,
poi anche d’avorio, d’argento e d’oro. Si chiamò
pure pedum ferula, e fu usato anche dai Papi fino
al secolo decimo secondo, in cui cessarono d’ado-
perarlo. In oriente esso non è ricurvo ma è sormon­
tato da una croce o da un T, od anche da due ser­
penti. Il pastorale significa l’ufficio pastorale del
Vescovo, espresso nei noti versi della Glossa juris
Canonici :
In baculi forma, Praesul, datur haec tibi norma
Attrahe per primum, medio rege, punge per im am ;
Attrahe peccantes, rege jnstos, punge vagantes:
Attrahe, sustenta, stimola vaga morbida lenta (2).

Il suo uso è esclusivo pel vescovo nella sua dio­


cesi, e le circostanze e funzioni in cui si deve ado­
perare sono determinate dal Cerimoniale dei Ve­
scovi. Non si adopera nella messa da morto (3).
8). La Cappa magna è indumento proprio dei
vescovi, dei canonici e di coloro che ne hanno fa­
coltà per privilegio o consuetudine. Non si può u-
eare nell’amministrazione dei sacramenti, nè per
portare la patena quando il vescovo distribuisce
la S. Comunione. Si può usare nelle prediche della
propria chiesa e non fuori di essa, nemJrneino per
assistere ad un Sacerdote che celebra la prima mes­

ti) Baronius, Ann. 504, n. 38.


(2) Gavanto, P. 2, tit. I in fine.
(3) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. X VII. 5-9.
286 Capo IV

sa. Si può adoperar^ quando intervengano capito­


larmente (1).
Abbiamo esposto l’origine, l’uso, il significato
dei principali paramenti sacri che adopera il sa­
cerdote e il vescovo, ora concluderemo col Gavan-
to che questi ornamenti non sono virtù, ma segni,
di cui facendo uso siamo ammoniti di ciò che dob­
biamo cercare o fuggire e del fine a cui dobbiamo
dirigere le opere nostre. « Attendat ergo, dice In­
nocenzo III, sacerdos studiose ut signum sine si-
gnificato non ferat, aut vestem sine virtute non
portet, ne forte similis sit sepulchro de foris deal­
bato intus autem omni pleno spurcitia. Quisquis
autem sacris indumenti ornatur et honestis moribus
non induitur quanto venerabilior apparet homini~
bus, tanto indignior redditur apud Deum. Sacerdo­
talem itaque gloriam jam honor non commendet
vestium sed splendor animarum » (2).

126. Cura e conservazione dei sacri par


menti.
I sacri paramenti devono essere conservati con
quella cura che richiedono le cose sacre' o prezio­
se (3). Gli armadi devono essere alti almeno 2 me­
tri onde i piviali possono starvi comodamente, se
si appendono. I paramenti si possono appendere e123
(1) S. C. R ., n. 2578; 3779, 3; 2578. 2 ; 3784. 3.
(2) Innoc. III. De sacr. altare mysterio 1. I, c. 63.
(3) Instruet, de munditia ecclesiar. etc. Acta Eccl. Medio*
lanen. P. IV , pag. 639-642. E’ un’ opera che dovrebbe essere in
mano di tutto il Clero: Scavini, Theolog. mor. V oi. V I Lib.
VI. App. 44.
Paramenti sacri 287

tener distesi. Nel primo caso si deve curaro che i


sostegni di legno non siano angolosi, ma coperti di
tela e adatti a ciascun paramento, sicché questi non
piglino pieghe; quelli del piviale lunghi quanto il
piviale stesso ; non si devono mettere più paramen­
ti, massimo se preziosi sul medesimo sostegno, e
sopra di essi si deve porre un rivestimento di tela
per preservarli dalla polvere. — Se si tengono col­
locati e distesi nei cassetti non si devono ammuc­
chiare: e tra l’uno e l’altro pezzo si deve mettere
una carta velina od una tela, — ei deve evitare di
collocare gli armadi in luoghi umidi. Almeno due
volte all’anno i sacri paramenti si devono esporre
all’aria, non al sole, nelle belle giornate asciutte.
— Anche la biancheria va messa nei cassetti af­
fatto asciutti, ben piegata, con petali di rose o la­
vanda, e darle aria ad ogni tanto.
Non si devono mettere alla rinfusa nei cassetti
le diverse qualità di oggetti, ma tenerli distinti e
ben ordinati. Non mescolare la biancheria di buca­
to con quella già adoperata. Quella che è da riser­
varsi pel bucato va tenuta in luogo apposito e non·
lasciarla ammucchiata tanto tempo.
Nell’uso dei sacri paramenti, massime se prezio­
si, bisogna aver il massimo riguardo nell indossarli
e nel levarli. Non accostarsi con essi troppo all’al­
tare sì da fregarli contro ; quando si siede allo scan­
no non permettere che la parte posteriore si prema
contro allo scanno, non appoggiarvi le mani, mas­
sime d’estate, non la berretta. Aver cura non si
macchino di cera, tenendo a rispettiva distanza i
288 Capo IV

ceroferari, e guardandosi dal mettersi sotto le can­


dele accese o le lampade. Quando si hanno para­
menti completi non è conveniente usare spesso un
capo di essi come per es. la pianeta, consumandola
con che col resto del paramento diventa stonante;
ma si tengano le pianete apposta per* adoperarsi in
occasioni speciali.
Infine la cura dei paramenti non la si abbandoni
completamente agli inservienti, ma se la assuma,
almeno per riguardo alla sorveglianza, qualche sa­
cerdote o meglio di tutti il parroco. Anche questi
devono essere regolarmente notati nell’Inventario
della Chiesa, come vuole il codice (Can. 1926. 2;
1299. 3; 1522. 1).
CAPO V.

Altri oggetti liturgici

127. Pitture e sculture ad uso liturgico.


La Chiesa vede nelle immagini di cui fa uso al­
trettanti maestri della fede e strumenti di edifica­
zione pei cristiani (1). Ma perchè le sacre imma­
gini riescano a questo scopo è necessario che nella
creazione delle immagini per ciò che riguarda il
concetto, il carattere, il soggetto, e l’uso di esse si
osservino le regole che la Chiesa stessa ha emanato
in proposito, perchè si possano esporto nel sacro
tempio.
Pel riguardo al concetto è proibito porre o far
mettere immagini o statue che sono insolite pel
concetto e per forme, senza approvazione del ve­
scovo (2); che sono contrarie alla fede o possono
ingenerare errore od eresia negli spettatori (3); il
vescovo stesso non può approvare immagini sacre
da esporre alla pubblica venerazione dei fedeli, le123

(1) Cone. Trid. Sese. XXV. Dorando, lib. 1, c. 3.


(2) Cod. can. 1279, 1.
(3) Cone. Trid., 1. c. Si legge negli atti della Chiesa Mila­
nese: « Caveant Episcopi ne quid pingatnr aut scalpatur quod
vetustati Scripturarum, traditionum aut ecclesiasti carum histo­
riam adversetur, ne cujus lectio prohibetur eius imago populo
proponatur. Historiae quoque quibus Ecclesia neque probati
scriptores auctoritatem ullam dederunt, sed sola vulgi vana opi.
nione commendantur, effingi prohibentur » (P. I. Cone. Pr. I).
290 Capo V

quali non siano conformi all’uso provato della


Chiesa (Cod. can. 1272. 2). (
Per riguardo al carattere sono vietate quelle che
sono inoneste, lascive, profane od in qualsiasi mo­
do indecenti (1), che sono lacere o deformi (2).
Riguardo al soggetto non si possono mettere im­
magini di statue o persone private, anche di eccle­
siastici costituiti in dignità eolie loro iscrizioni (3).
Sono proibite le immagini dei Beati, statue, tavole,
scritture rappresentative delle loro gesta nelle chie­
se ed oratori, senza il permesso della S. Sede; non
è mai permesso di metterle sull’altare, e il permesso
del culto è locale (4). Dove è lecito celebrare la
messa dei Beati si possono ancora esporre sugli al­
tari le loro immagini o statue (5). Ciò dicesi ancora
delle immagini di coloro che muoiono in fama di
santità; però le loro gesta si potrebbero dipingere
sui vetri delle finestre, perchè: « imagines neque
aliquid cultus vel sanctitatis indicium praeseferunt,
neque profani aut ab Ecclesiae consuetudine alie­
ni » (6).
La benedizione delle immagini dei Santi è di di­
ti) S. C. R . 22 maggio 1896 n. 3909.
(2) Cfr. Cod. can. 1272. 3. Quando sono ridotte in tale stato
da rendersi indecenti pel sacro tempio e non si vogliono o non
si possono più restaurare, non si devono lasciare esposte, ma
si devono velare o ritirar dalla chiesa. Cfr. la Gost. di Urbano
V i l i « Sacrosancta » S. C. R . 15 marzo 1642, n. 1403-810.
Il Codice dà opportune norme circa la restaurazione o 1%
eliminazione delle immagini preziose. Vedi Can. 1280-1281.
(3) S C. R . 27 agosto 1892, n. 3791.
(4) S. C. R . Decreto 27 sett. 1659, n. 1130.
(5) S. C. R . 17 aprile 1660, n. 1156, 1.
(6) S. C. R . 14 agosto 1884, n. 388.5.
Altri oggetti liturgici 291

ritto vescovile, ma il vescovo la può delegare (1).


Riguardo particolarmente aìVimmagine della
B. V. di Lourdes si può dipingere cogli aggiunti
della sua apparizione e può servire di palla all’al­
tare (2).
Circa l’itso* è proibito di vestire le statue o· le im­
magini (3) di portarle in processione sotto il bal­
dacchino (4) di esporle sul tabernacolo ove si con­
serva il SS. Sacramento in modo che il taberna­
colo stesso serva di base (5). E’ proibito di esporre
nella stessa chiesa e molto più nel medesimo altare,
due quadri o statue rappresentanti il medesimo al­
tare, due quadri o statue rappresentanti il medesi­
mo santo, e se trattasi della Madre di Dio, sotto il
medesimo titolo (6).
Riguardo poi specialmente alle immagini della
B. V. del Rosario e della B. V. di Pompei si noti:
a) ini quelle chiese alle quali sono erette le Confra­
ternite della antica immagine della B. V. del Ro­
sario non si può ad essa sostituire quella di Pont-123456

(1) Cod. can. 1279. 4.


(2) 3. C. R . 27 agosto 1892, n. 3791.
(3) Dove però vi è la consuetudine di vestire l ’immagine
.della B. V . secondo il colore della festa o dei tempi o collo·
caria sul luogo principale dell’altare ove si conserva il SS. Sa·
cramento, la S. C. R . rimise la tolleranza di un tal uso al
prudente giudizio del vescovo, pnrchè le vesti nulla abbiano
d’ indecente. S. C. R . 15 mar. 1888, n. 3690.
(4) S. C. R . 27 mag. 1828, n. 2647.
(5) S. C. R . 22 ag. 1744, n. 2379. 2. Il Decreto vale anche
per le reliquie di S. Croce e degli strumenti della Passione. 12
marzo 1839, n.' 2740. 1.
(6) S. C. R . Circolare 20 mag. 1890, n. 1832.
292 Capo V

pei; b) non si può metter© un quadro della B. V.


di Pompei ove vi è quella del Rosario, nè, si pos­
sono erigere nella stessa chiesa due altari, uno alla
B. V. del Rosario, l’altro a quella di Pompei, nè
mettere il quadro in altro luogo; pubblico della
chiesa esposto alla divozione dei fedeli; c) visitan­
do ili quadro della B. V. di Pompei i confratelli
del Rosario non possono acquistare le indulgenze
del Rosario (1).
Le sacre immagini e statue esposte al culto &i
devono velare dai primi vespri della Domenica di
Passione ossia dal pomeriggio del sabato (2) e de­
vono rimaner velate fino· al Gloria in excélsis della
messa dei Sabato santo. Qualunque festa occorra
in questo tempo non si possono scoprire (3) nem­
meno la statua di S. Giuseppe (4). Se però la sta­
tua è esposta fuori dell’altare si può lasciare sco­
perta (5). La statua od immagine della B. V. Ad­
dolorata si può esporre nella feria VI dopo la do­
menica di Passione in cui si celebra la festa (6),
e quella di Gesù morto si può esporre al Venerdì
santo dopo messa dei presantificati (7). Anche la
immagine del crocifisso esposta sugli altari si deve
velare; nè si può scoprire l’immagine del Crocifis­
so che è sul. pergamo, sull’altare o sul palco in1234567
(1) S. C. R. 24 febbr. 1890, n. 3723.
(2) S. C. R . 4 ag. 1663, n. 1275. 2; 12 nov. 1831. n. 2612,
34; Caerem. Ep. Lib. II. Gap. XX. 30.
(3) S. C. R. 16 nov. 1649, n. 926 2-3.
(4) S. C. R. 3 gpr. 1876, n. 3396.
(5) S. C. R. 11 mag. 1878, n. 3448. XI.
(6) S. C. R . 12 nov. 1831, n. 2631; n. 2682, 52.
(7) S. C. R . 6 genn. 1907, n. 4191.
Altri oggetti liturgici 293

tempo di passione, quando si fa la S. Missione. Il


velo dev’essere di oolor violaceo e non trasparen-
te (1).
Fanno eccezione i quadri delle stazioni della Via
Crucis (2), e quelle immagini che non sono espo­
ste al culto. Quindi si devono velare tutte quelle
che servono di palla agli altari, siano statue o di­
pinti.
Le statue che servono al culto pubblico in chiesa
si devono benedire prima di esporle: le altre si
possono benedire, ed è conveniente che si benedi­
cano. Sull’arco trionfale che è sopra della balau­
stra dell’altare maggiore non deve mancare l’imi-
magine del Crocefisso.
Circa il posto ove collocare l’effige del S. Cuore
di Gesù fu chiesto: « Effigies Sacratissimi Cordis
Jesu debetne potius collocari in medio Altaris ma­
joris loco tabernaculi; vel si adest tabernaculum
in quo asservatur SS. Eucaristiae Sacraméntum, in
hujus posteriori parte? E fu risposto : cc Negative
ad utrumque » (3). Però le immagini del Sacro
Cuore di Gesù e di Maria si possono collocare ai
lati dell’ingresso del Santuario (4).
Le pareti degli altari e della chiesa non sono da
eopracaricarsi di immagini specialmente quadretti
offerti dai fedeli, spesso indecenti, e molto meno1*34
(1) S. C. R . 17 apr. 1660, n. 1158; 20 nov. 1662, n. 2194-
1248; 22 luglio 1848, n. 2164 2 ; Caerem. Ep. U b . II. Cap.
XX 3.
’ (2)*S. C. R . 18 luglio 1889, n. 2628 1.
(3) S. C. R . 31 marzo 1887, n. 3673 II.
(4) S. C. R. Deci», cit., η. 1.
294 Capo V

permettere che si circondino di fiori, di nastri eoe.


ciò che per la chiesa è per lo meno puerile (1). So­
no positivamente vietate alle pareti della chiesa ed
alle cappelle le corone mortuarie (2).
128. Immagine del Titolare - Palle d’altare.
Tra le immagini e statue che sono in venerazio­
ne nella chiesa non deve mancare quella del Tito­
lare della chiesa stessa e del Patrono del luogo. La
immagine del Titolare, se non è sull’altare maggio­
re, il che sarebbe per sè voluto dalle leggi liturgi­
che, perchè l’altar maggiore specialmente è dedi­
cato al Titolare della chiesa, deve stare nel coro
della chiesa, in luogo principale. Le sacre imma­
gini che servono di palla od icone ad un altare e
rappresentano il santo od il mistero a cui l’altare
è dedicato non si possono rimuovere o cambiare
senza indulto (3). Se l’altare è consacrato si ri­
chiede indulto della S. Sede, che di rado si conce­
de; se invece l’altare non è consacrato per sè basta
ottenere il' consenso del vescovo.
129. Orciuoli - Campanelli da Messa.
Gli orciuoli servono « ad suggerendum vinum et
aquam in Eucharistiam Sanguinis Christi » (4)
e sono chiamati anche amulae, ampullae, cauci,1234

(1) Cfr. pag. 158 e 167 e note relative.


(2) S. C. R . 22 maggio 1916, n. 3909.
(3) S. C. R . 11 marzo 1837, n. 3762.
(4) Pontif. Rom . In Ordinat. Acolith.
Altri oggetti liturgici 295

gemellwnes. Devono essere per la materia di cri­


stallo o di vetro, onde evitare qualsiasi scambio nei
liquori. Si possono anche adoperare quelli di me­
tallo d’oro o d’argento dove vi è la consuetudi­
ne (1), od anche di vetro colorato, ma in questi ca­
si devono portare un segno che li distingua. — Per
maggior pulizia della tovaglia si devono sempre
portare sulla mensa col proprio bacile e asciugarli
sempre all’esterno perchè non sgocciolino sulla to­
vaglia.
Riguardo alla forma, quelli di cristallo possono
essere rigonfi con piede e manico, e conveniente­
mente portano un tubetto. Possono anche essere
rivestiti di lavoro metallico.
Il bacile su cui si portano gli orciuoli può essere
di metallo o di terra smaltato, sempre però di for­
ma e di ornato differente da quelli di uso dome­
stico.
Gli orciuoli ed il bacile devono conservarsi co­
stantemente puliti; si devono asciugare bene dopo
che si sono adoperati. Per l’abluzione delle mani
del celebrante nella messa solenne o privata non si
può usare la Brocca (2).
I campanelli che servono a chiamare gli astanti
alla preghiera sono di due specie. Quello cioè ap­
peso alla parete, all’uscio della sacrestia, che serve
a dare il segno del principio della messa; e quello
che si usa nella messa. Tanto l’uno come l’altro12
(1) $. C. R . 28 aprile, n. 3149.
(2) 5. C. R . 18 luglio 1902.
296 Capo V

devono avere un suono ben appropriato e forma


distinta da quello di uso comune. Quello che serve
durante la messa non può essere in forma di un
catino rovesciato posto su di un pernio da percuo­
tersi (1).
Il campanello nella messa si deve suonare anche
nelle cappelle private, anche quando non vi è che
il celebrante e l’inserviente (2).
Si suona al Sanctus, all*elevazione e dove vi è
consuetudine si può suonare anche al Domine non
sum dignus. Non si deve suonare nelle messe pri­
vate che si celebrano mientre nella chiesa si fanno
processioni, assoluzioni pei defunti, durante l’E­
sposizione pubblica del SS. Sacramento o benedi­
zione col medesimo, durante l’ufficiatura in coro,
quando l’altare ove vi si celebra è in vista del co­
ro (3), e durante una pubblica supplicazione fatta
in chiesa (4).
130. Turibolo e navicella.
Secondo le prescrizioni di S. Carlo ogni chiesa
deve avere due turiboli d’argento, d’oro, di rame
argentato, od anche di ottone (5). « Quando sane
thuribulum cum quadruplici catena (compresa
quella del coperchio) et operculo eiusdem metalli,
ubi ritu Romano fit; at Ambrosiano more cum cate-12345

(1) S.C. R . 18 settembre 1898, n. 4000 Ut.


(2) S. C. R . 18 loglio 1885, n. 3638.
(3) S. C. R. 21 novembre 1893, n.38141.
(4) S. C. R . 21 novembre 1893, n.3814II.
(5) Orat. eccles., c. 67 e 68.
Altri oggetti liturgici 297

àula triplici sineque operculo adhibetur. Longitu­


do porro catenarum sit cubitorium duorum et un­
ciarum circiter duodecim » (1 m. circa) (1).
La navicella può essere della stessa materia del
turibolo. Tanto il turibolo che la navicella col suo
piccolo cucchiaio devono conservarsi costantemente
puliti.
L'incenso che si adopera dev’essere o puro in­
censo di soave odore o, se si aggiunge qualche altra
materia, questa dev’essere di quantità sempre in­
feriore all’incenso (2); non si possono usare so­
stituzioni artificiali.
Il turibolo rappresenta quell’incensiere d’oro
veduto da S. Giovanni nell’Apocalisse portato da
un Angelo davanti al trono di Dio (3); la Chiesa
cattolica ripiena delle orazioni dei Santi che offre
a Dio ; il cuore dei cristiani che sempre dev’essere
acceso dell’amore alla preghiera (4).
131. Sedili.
Circa i sedili che si usano nelle sacre funzioni
pel Celebrante e pei ministri, nota il Cerimoniale
dei Vescovi: ccSatis erit scamnum oblongum coo­
pertum aliquo tapete, aut panno aptari a latere
Epistolae in quo sedeat Sacerdos cum Diacono et
Subdiacono » (2).1
2345

(1) Inst. suppell. lib. Π.


(2) Caerem. Ep. Lib. I Cap. XII 19, e Cap. XXIII, n. 3.
(3) Apocalisse, V ili. 3.
(4) Durando, lib. IV , c. 8. Cfr. n. 35 in fine.
(5) Lxb. I, cap. XII, n. 22.
298 Capo V

E’ proibito l’uso delle sedie camerali (1), tale


prescrizione obbliga anche i Regolari (2). Questo
bancone è descritto dal Martinucci: <( In cornu
Epistolae statuetur scamnum cum modico dorsuali
seu postergali quo celebrans cum ministris conside-
bit. Scamnum instruetur auleo laneo, quod conve­
niat solemnitati: oporter ut scamnum sit aequale,
sine fulcris, sine prominentia aut discrepantia ulla
pro celebrante; nullus ne celebranti quidem sup­
ponatur pulvinus. Licet tamen uti exiguo suppedali
ligneo, quod exiguo etiam contegetur tapete viridis
coloris » (3). Esso non deve avere i bracciali o al­
tri sostegni per le braccia del celebrante o dei mi­
nistri (4), non cuscino, quantunque si possa met­
tere un panno che orni il sedile ed anche cambiarsi
secondo il colore della festa. Il sedile dev’essere
lungo almeno 1.50 e largo almeno 0.60, onde non
vengano sciupati i paramenti quando si siede.
132. Pile dell’acqua santa - Significato -
spersorio.
I vasi per Vacqua santa nella chiesa sono di due
specie. Quelli fissi alle porte, e quelli che servono
per l’uso liturgico in molte funzioni e benedizioni
che richiedono l’acqua lustrale.
Ad esempio dell’antico tempio giudaico, che ave-1234

(1) S. C. R . 16 giugno 1674, n. 1513, 1; 12 aprile 1704, n.


3130 ad 17 seu. 1822 n. 2621. 6.
(2) S. C. R . 14 novembre 1654 n. 977.
(3) Manual. Sacram. Caerem. Part. II. cap. IV , n. 7.
(4) S. C. R . 16 giugno 1893 n. 3804, XI.
Altri oggetti liturgici 299

va il vaso delle purificazioni, la Chiesa, assai per


tempo, fece uso dell’acqua benedetta entro' vasi col­
locati alla porta del tempio. Questi vasi, secondo
S. Carlo, devono stare ad ogni porta, mantenersi
sempre provvisti d’acqua santa, da cambiarsi ogni
settimana (1). Tanto prescrive anche il Cerim. dei
Vescovi: cc acqua benedicta singulis saltem hebdo­
madis renovetur » (2). Il vaso stesso deve conser­
varsi nitido e conveniente ad un tanto ministero,
è quindi da ripulirsi bene ogni volta che si cambia
l’acqua, cioè ogni settimana almeno.
L’uso dell’acqua santa all’ingresso della chiesa:
1. ricorda ai fedeli la purezza del cuore con· cui
devono assistere ai sacri misteri e stare alla pre­
senza di Dio. 2. L’acqua santa stessa, come sacra­
mentale, serve ad ottenere la remissione dei peccati
veniali.
In vaso portatile per l’acqua santa (vas gesto·
rium, corintium) secondo S. Carlo cc ex argento
confectum, piae etiam alicuius caelaturae praebeat,
at ex aere aut aurichalco conflatum in ecclesiis cen­
sus tenuitate laborantis permittitur » (3).
L’espersorio può essere della stessa materia del
vaso portatile per l’acqua santa, munito di setole,
ovvero formato all’estremità di un globo forato
contenente una spugna.
E’ qui il luogo di ricordare a chi spetta il diritto
di presentare Vaspersorio al vescovo. In generale1 23
(1) Ornat. Ep. Lib. I. Cap. 5.
(2) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. VI 2.
(3) Istrnc. Eccles. M ediol., lib. II, p. 11.
300 Capo V

cc spectare ad digniorem ecclesiae ad quam Episco­


pus accedit semper et quocumque modo incedat
porrigere eidem Episcopo aspersorium » (1). « E-
tiamsi adsit aliquid Canonicus vel dignitas Cathe-
drcdis dummodo non adsit capitulariter cum indu­
mentis canonicalibus ; tunc enim hujusmodi manus
ad primam dignitatem Cathedralis spectare, sicut
alias resolutum fuit » (2).
Nelle chiese poste entri i limiti d’una parrocchia
ma indipendenti da essa, spetta al Cappellano o su­
periore di essa presentante l’aspersorio al vescovo
quando entra in chiesa (3).
133. Pulpito.
Ogni chiesa almeno parrocchiale deve avere il
pulpito. Il suo posto originario, e conforme alle
esigenze liturgiche, è vicino al presbiterio, accanto
al pilastro che sostiene l’arco trionfale, dal lato
del Vangelo. Così il predicatori è veduto dal cele­
brante, che deve sedere ini cornu Epistolae, e dal
popolo e presenta grande comodità al celebrante
stesso quando sale il pulpito per spiegare il Van­
gelo durante la messa. Peraltro la maggior como­
dità può essere titolo sufficiente per collocarlo dal
lato dell’epistola (4).1234

(1) S. C. R . 9 loglio 1678 n. 1644.


(2) S. C. R . 24 nov. 1714, n. 2229. 3.
aie.
(3) S. C. R . 19 sett. 1605, n. 1323. 16; 19 1665, n. 1327;
13 febb. 1666, n. 1330.
(4) S. C. R . 14 giugno 1845, n. 2891, 3; Cfr. Caerem. Ep.
Lib. 1, Cap. X III; 18.
Altri oggetti liturgici 301

Non dev’essere troppo alto, abbastanza ampio· e


comodo pel predicatore, sicuro e di facile accesso.
Sul pulpito, conforme alla consuetudine generale,
vi deve essere il Crocifisso (1). Nei giorni festivi si
può ornare con tappeti o drappi preziosi, ma nei
Venerdì santo, nella predica della Passione deve
stare senza ornamento (2). Quando si tiene orazio­
ne in lode di un defunto al pulpito, questo si può
ricoprire di panno nero.

134. Organo e suo uso.


L'organo è il re dei sacri strumenti musicali, an­
zi l’istrumento per così dire, ufficiale della Chiesa.
Esso serve ad accompagnare il canto a solo, corale
e popolare; lo aiuta, lo rinforza, lo armonizza.
Quindi è un mezzo ancora per sollevare gli animi
alle cose celesti, dove lo si usi in conformità alle
regole della Chiesa (3). Questo scopo determina la
sua posizione nella chiesa, la forma, Vistrumenta-
ziotoe e l’uso.
1) — Riguardo al posto, quando l’organo deve
servire principalmente per accompagnare il canto
popolare, può stare sulla porta principale, di fron­
te all’altare maggiore. Questa posizione rende pos­
sibile dare alla struttura dell’organo una maggior
vastità e ricchezza di strumenti. Qui peraltro Per­

i i ) Caerem. Ep. lib. II. Cap. XI. 10.


(2) S. C. R. 9 apr. 1680, n. 1646. 2; 25 seu. 1688.
(3) Cfr. S. Thom. Summa theol. p. I, q. 19 a. 2; Bellar­
mino, Controv. t. IV, lib. I, cap. 17.
302 Capo V

gano non, deve mai rinchiudere una finestra o ro­


sone che si trovasse sulla facciata; in tal caso l’or­
gano si potrà bipartire. Se invece l’organo deve ser­
vire particolarmente per il canto liturgico O'musi­
cale, come è nelle cattedrali, il suo posto è vicino1
ài coro·, sia al lato del presbiterio o altrove. In ogni
caso conviene tener conto delle leggi acustiche dei
luogo, le quali spesso richiedono altre località per
l’organo.
2) — Riguardo citta forma esterna la cantoria e
la cassa che contiene gli istrUmenti devono essere
in armonia di stile colla chiesa. Anche la tenda che
lo ricopre per preservarlo dalla polvere dev’essere
decente.
3) — Riguardo aìVistrumentazione o struttura
interna dev’essere conforme perfettamente alle leg­
gi liturgiche, e questo in modo speciale si deve dire
della qualità degli strumenti (1). — Perciò prima
d’intraprendere nuove costruzioni o riparazioni di
organi è d’uopo interrogare l’autorità ecclesiastica.
4) — Circa l’uso dell’organo si danno le seguenti
regole.
a) Il suono dell*organo è proibito : 1. Nelle do
meniche di Avvento e di Quaresima alle messe ed
ai vespri de tempore, eccettuata la domenica terza
d’Avvento e la quarta di Quaresima (2). 2. Nelle
messe de requie e nell’Ufficiatura da morto (3).123

(1) S. C. R . 26 genn. 1664 n. 1283.


(2) Caerem Ep. Lib. I Cap. XXVII, 1-2.
(3) Caereiri. Ep. Lib. I. Cap. XXVIII. 13. Il Caerem. dice:
« I n officiis D efunctorum, organa non pulsantur; in missis au-
Altri oggetti liturgici 30»

3. Nel Giovedì santo : dopo il Gloria in excelsis fino


al Gloria del Sabato Santo. 4. Quando si celebra
in paramenti violacei eccetto le messe nelle quali
i ministri possono usare la dalmatica e la tunicella,
non ostante che il colore sia violaceo (1).
Quando è vietato il suono dell’organo, non si
può usare Vharmonium od il pianoforte (2). E’
pure vietato il suono dell’organo nel canto delle
Lamentazioni e Miserere e delle altre parti liturgi­
che della Passione nel divino ufficio del sacro Tri­
duo della morte di Gesù Cr. ; lo si può usare per
le altre funzioni non liturgiche, come per il canto
delle sette parole (3).
Nelle messe cantate de requie si può usare l’orga­
no per l’aiuto del canto, ma l’organo deve tacere
ogni volta che tace il canto. Questa regola vale an­
cora pei giorni feriali di Avvento o di Quaresi­
ma (4).
b) — E permesso il suono : 1. In tutte le altre
domeniche e feste dell’anno (5). 2. Nelle feste dei
Santi che occorrono anche in Quaresima e nelle
altre funzioni di questo tempo come nella Bene­
dizione col SS. Sacramento ecc. ed in generale in
tutte le funzioni che si fanno con solennità e leti-
tena, si musica adhibeatur, silent organa cum silet cantus ». Ciò
in pratica si estende al caso in cui vi è deficienza di cantori,
ma a questa stessa questione la S. C. R . rispose: Serventur ru­
bricae (26 sett. 1386, n. 3183).
(1) S. C. R. 12 sett. 1741, n. 2395 4; 20 mar. 1903.
(2) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XXVIII. 1.
(3) S. C. R. 16 giugno 1893, n. 3804 II.
(4) Caerem. Ep. 1. c.
(5) S. C. R. 7 luglio 1899, n. 4041. I.
304 Capo V

zia (1). 3. Nel canto del divino Ufficio è permesso


di alternare i versetti col suono dell’organo.
c ) — E’ permesso ancora il suono dell*organo:
Ogni volta che il vescovo entra in chiesa per fare
od assistere ad una funzione, mentre fa il prepa­
ramento alla Messa, assume i paramenti e finita la
funzione quando sveste i paramenti fino a che è
uscito dalla chiesa. Si fa eccezione per le funzioni
da morto e quelle di rito feriale in Avvento e Qua­
resima.
Nella messa solenne il Cerimoniale dei Vescovi
prescrive : « In Missa solemni pulsatur alternatim
(organum), cum dicitur Kyrie eleison et Gloria in
excélsis Deo, in principio Missae; item finita Epi­
stola; item ad Offertorium, item ad Sanctus cdter-
natim, ac deinceps usque ad Pater noster; sed ad
elevationem Sanctissimi Sacramenti pulsatur orga­
num graviori et dulciori sono; et post elevationem
poterit immediate motettum aliquod opportunum
cantari; item ad Agnus Dei altematim ac deinceps
usque ad Postcommunionem ac in fine Missaey> (2).
Tutte lie parti eseguite dai cantori nella messa de­
vono cantarsi con voce intelligibile e il suono del­
l’organo non deve soffocare le parole (3).
L’organo nella messa solenne non può accompa­
gnare il canto del Prefazio e del Pater noster (4),
e conseguentemente, a maggior ragione, non può1234

(1) Caerem. Ep. 1. cit.


(2) Caerem. Ep. 1. cit. n. 9.
(3) S. C. R . 25 luglio 1898, n. 3994. Π.
(4) id. 27 gennaio 1898, n. 4009; Caerem, Ep. 1. cit.
Altri oggetti liturgici 305

accompagnare il canto delie altre parti eseguite dal


celebrante e dai ministri.
Quanto· al canto del Simbolo : « cum dicitur Sym­
bolum in Missu ηση est alternandum cum organo,
sed illud integrum per chorum cantu intelligibili
proferatur » (1).
Peraltro purché si canti integralmente il simbolo
tra un versetto e l’altro si può frammettere il suo­
no dell’organo (2).
La consuetudine di suonar l’organo subito dopo
Vite Missa est (Benedicamus) per supplire il canto
della risposta (3), si ritiene abrogata per posteriore
decreto (4).
Dalle quali regole generali si deduce particolar­
mente che nella messa solenne (che non sia de re­
quie) si suona Γorgano : a) durante la vestizione del
celebrante e dei ministri e la loro andata all’altare
finché son giunti ai piedi dell’altare stesso; ò) du­
rante il canto del Graduale o della Sequenza alter­
nando od accompagnando; d) dopo la parola Ore­
mus, fino' al principio del Prefazio; e) dal Sanctus
al Per omnia saecula saeculorum che precede il
Pater noster ; f ) dall9Agnus Dei fino al Dóminus
vobiscum dopo la consumazione; g) dopo la bene­
dizione fino al ritorno in sacrestia.
Nella messa letta o privata si suona l’organo :
d) durante la vestizione e l’andata all’altare fino al1234
(1) Caerem. Ep. 1. c., n. 10; S. C. R. 10 marzo 1657, n.
1025; 7 seu. 1861, n. 3108. XV.
(2) S. C. R. 22 marzo 1862, n. 3110. VII.
(3) id. 11 seu. 1847, n. 2951. 5.
(4) id. 15 febbraio 1907. II.
306 Capo V

principiare della messa; b) dopo· l’epistola fino al


principio del Vangelo; c) all’offertorio, dopo la re­
cita del Sanctus fino al Per omnia saecula che pre­
cede il Pater noster; e) dopo la recita dell’-dgrats
Dei fino al Dominus vobiscum dopo la comunione.
(Se avesse luogo la comunione dei fedeli, si sospen­
de il suono dell’organo dalla recita del Confiteor
fino all’ultimo Domine non sum dignus, riprenden­
dolo durante la comunione dei fedeli, massime ce
numerosa ; f) dopo la benedizione fino alla fine del­
l’ultimo Vangelo; g) dopo le preghiere ordinate dal
Sommo Pontefice sino al ritorno del celebrante in
sagrestia.
6. Nei Vespri solenni si suona l’organo: a) nel-
l’uscire dei ministri col celebrante dalla sagrestia
fino al Pater noster; b) alla fine d9ogni salmo o du­
rante il canto, anche alternando i versetti; c) nel
ritorno alla sagrestia.
7. Nella Benedizione col SS. Sacramento si suona
l’organo: a) durante la vestizione, l’andata all’al­
tare e la esposizione del SS. Sacramento; b) per
accompagnare o alternare i Salmi e gli Inni che si
cantano; c) durante la Benedizione col SS. Sacra­
mento; ma, come all’elevazione dell’Ostia nellla
messa, « graviori et dolciori sono » (1).
Nel suono poi dell’organo, in ogni tempo ed oc­
casione, si osservi la norma data dal Cerimoniale
dei Vescovi: « Cavendum autem est, ne sonus or­
gani sit lascivus aut impurus, et ne cum eo profe­

ti) Caerem. Ep. 1. c., η. 9.


Altri oggetti liturgici 307

rantur cautus qui ad officium, quod agitur, non


spectant, nedum profani aut lubrici » (1).
Di qui consegue che coloro che suonano' l’organo
in chiesa devono essere istruiti di queste regole on­
de evitare confusione e distrazione da parte dei fé-
deli e dei sacerdoti.1

(1) Caerem. Ep. 1. e. n. 13.


SEZIONE Π .

Delle Azioni liturgiche (1)

CAPO UNICO

135. Quando si sta in piedi o si siede nel


liturgia.
Nei primi secoli i cristiani pregavano in piedi e
rivolti specialmente all’oriente. Ciò, mentre signi­
ficava la fiducia con cui i figli di Dio invocavano il
Padre, indicava pure che la loro patria era il Cie­
lo, ove Gesù risuscitato sta alla destra del Padre.
Il pregare in ginocchio invece era in modo speciale
segno della confessione dei propri peccati, e quindi
si praticava nei tempi e nelle funzioni di penitenza.
« Omnes quando oramus, dice S. Agostino,
mendici Dei sumus, ante januam magni patris fami*
lias stamus imo et prosternimur, supplices ingenii-
scimus, aliquid volentes accipere » (2). Così i pe­
nitenti dovevano sempre stare in ginocchio, perchè
« inflexio genuum poenitentiae et luctus indicium
est » (3).1
23

(1) Tutta Isi materia di questo capo è svolta ampiamente .dal


Thalhofer nell’ opera più volte citata dal §. 40 al 51.
(2) S. Aug. In festo SS. Trinit. Nona lectio.
(3) S. Isid. De eccles. off. I, 31.
Delle azioni liturgiche 309

A poco a poco prevalse l’uso di pregare in gi­


nocchio.
Il sedere durante i divini Uffici fu sempre rite­
nuto inconveniente nei primi secoli; durante il me­
dio evo in vista dell’infermità umana, fu permesso
non solo al popolo, ma anche al clero di sedere du­
rante la salmodia e in alcune parti della messa soc­
ienne (1).
Il sacerdote è mediatore tra Dio e il popolo e
quindi durante la liturgia, ordinariamente sta in
piedi, poiché tale posizione è la più conveniente tra
le due parti: il prete non siede, ma sta in piedi,
dice S. Giovanni Crisostomo, perchè questi è il se­
gno delVufficio sacerdotale (2). Quindi il cele­
brante sta in piedi: nella celebrazione del santo
Sacrificio, nella amministrazione dei Sacramenti,
fatta eccezione solo del sacramento della penitenza,
che si esercita non liturgicamente, ma giudizial­
mente; quando amministra i Sacramenti, almeno
durante le preci delie benedizioni, durante l’ufficia-
tur'a, almeno durante la preghiera principale che è
l’orazione. Quindi è regola assoluta che il celebran­
te quando offre il sacrificio prega come mediatore,
quindi sta in piedi. Il sedere è talora eccezione,
fatta per ragioni simboliche e talora, e per lo più,
è concessione per l’infermità e fragilità umana.
Giusta le regole liturgiche in coro si sta in pie-12

(1) In oriente i fedeli sedevano anche durante la lettura della


S. Scrittura e l ’ omelia. Const. Apost. II. 57; .V ili. 5. S. Just
Apoi. I. 67.
(2) Horn 7 ad Hebr. n. 2; hom. 18 ibid. η. 1.
310 Capo Unico

di: I. Durante il divino Ufficio nella recita del Pa­


ter, Ave, Credo, tanto prima che dopo l’Ufficio,
tranne nelle preci feriali ed in jfine di Compieta,
quando si è detta l’antifona finale in ginocchio. AJI
principio ed alla fine delle Ore, eccetto durante le
preci feriali. Ai versetti dopo ciascun Notturno e il
Celebrante nelle singole benedizioni, durante la re­
cita del Te Deum, del Quicumque (Simbolo di
S. Atanasio). Inoltre sta in piedi chi recita o canta
da solo una parte dell’Ufficio.
II. Nella messa cantata e solenne si sta in piedi
dall’Aufer a nobis al Gloria, durante le Orazioni
(eccetto nelle messe penitenziali e de Requie) dal
principio del Vangelo al Credo, od all’Offertorio
se non vi è il Credo. Quando s’incensa il coro, al
Prefazio, dall’elevazione al Communio. Dal Domi­
nus vobiscum alla fine della messa, tranne alla be­
nedizione che dà il Celebrante in cui tutti genuflet­
tono.
Si sta seduti: I. Nel divina ufficio durante la
recita o il canto dei Salmi, delle Lezioni, e al canto
dell’Antifona del Benedictus e del Magnificat
(Caeriim. Episc. I. II, c. 1, nn. 12-17).
Π . Nella messa solenne o cantata il Celebrante
coi ministri possono sedere al Kyrie, al Gloria e al
Credo. Quando il celebrante e i ministri siedono i
chierici accoliti e il turiferaio possono sedersi sui
gradini della predella dell’altare (1). In coro si sie­
de appena finita la confessione del celebrante e dei

(1) S. C. R . die. 1779, n. 2515. 5.


Delie azioni liturgiche 3X1

ministri fino all’Introito della messa (1), all’Epi­


stola e alle Profezie, al Graduale, al Tratto coi ver­
setti, durante la Sequenza. Dall’offertorio fino al­
l’incensazione del coro e al prefazio, dal Commu­
nio al Dominus vobiscum (2). Il cerimoniere quan­
do esercita il suo ufficio deve stare in piedi (3).
Quando siede il celebrante tutti possono sedere.
136. Genuflessioni.
Le genuflessioni e prostrazioni sono ordinate
dalla liturgia non solo a confessare la nostra mise­
ria, davanti a Dio, ma ad esprimere la umiltà del­
la preghiera, l’adorazione profonda della maestà
di Dio (4) e l’incarnazione del divin Verbo : « ca­
dimus in terram ut Christum in come adore­
mus » (5).
La genuflessione è di due specie cioè semplice e
doppia. La prima si fa piegando fino a terra il gi­
nocchio destro, senza inchino del capo; la seconda
si fa piegando a terra, prima il ginocchio destro poi
il sinistro coll’inchino profondo del capo.
Circa il modo di fare le genuflessioni: « Genu-
flexiones faciendae sunt corpore et capite erectis,
nec unquam caput inclinanudum est, nisi utroque
genuflectendum sit quando post genuflectionem
non corpus sed solum caput profunde inclinatur1 2345
(1) S. C. R . 4 aprile 1871, n. 3491. 5.
(2) Rubr. Gen. Miss. I. X V II: De Carpo, « Caerem juxta rii.
Rom. », Pars. I, Cap. V e V I ; De Herdt. o. c. voi. I. n. 146
« II. 378.
(3) S. C. R . 31 maggio 1817, n. 2578. 8-9.
t.
(4) Amberger, o . c ., p.
U, 319.
(5) Honor. Gemma animae, c. 117.
312 Capo Unico

toto tempore genuflexionis, nisi interea, aliquid sit


agendum, v. g. incensare SS. Sacramentum, quo
casu post genuflexionem ante incensationem et rur­
sus post incensationem inclinatur » (1).
Nelle genuflessioni all’altare solo il celebrante
tiene sempre le mani hinc inde distese sulla mensa.
La genuflessione si fa sempre e da tutti tranne dal
celebrante all’altare (o quando si porta in mano
qualche cosa) colle mani giunte cc non praecipitan­
ter et cum strepitu sed modeste et reverenter » (2).
Si fa genuflessione semplice da tutto il clero che
passa davanti alla croce dell’altare in cui si funzio­
na, tranne l’ebdomadario ed i canonici anche se
non vi è presente il SS. Sacramento (3), però so­
lamente nell’atto della funzione (4); ogni volta che
si passa davanti all’altare in cui si contiene il
SS. Sacramento, davanti alle reliquie della Passio­
nò esposte; ogni volta che i cantori o i lettori van­
no, muovendosi dal loro posto in coro, per leggere
o cantare una parte dell’ufficio; davanti al vescovo
diocesano ogni volta che funziona od assiste alle
sacre funzioni (tranne i canonici che fanno solo in­
chino) non ostante qualsiasi contraria consuetudi­
ne (5). — Nel divino Ufficio si fa genuflessione in12345

(1) De Terdt, I, n. 115; S. C. R. 16 febbr. 1906.


(2) De Herdt, 1. c.
(3) Caerem. Ep., lib. c. V ili, n. 3; S. C. R. 15 maggio 1745,
n. 2385.
(4) S. C. R . 30 Agosto 1892, n. 3792. XI.
(5) Caerem. Ep. 1. c .; S. C. R . 9 maggio 1857 n. 3046 La
genuflessione che si fa al Vescovo diocesano è un atto di pro­
fondo ossequio al carattere che egli porta di maestro, sommo*
Delle azioni liturgiche 313

coro alla parola Venite adorémus etc. dell’Inviato-


rio, durante il versetto Te ergo quaesumus del Te
Deum. Ave spes unica» e (1) Tantum ergo, Veni
Creator Spiritus, Ave Maris Stella eccetto quan­
do è esposto il SS. Sacramento (2), nel qual caso
si genuflette solo alla strofa Tantum ergo e non
nelle altre, nelle Antifone finali della B. V., eccet­
tuato il tempo pasquale e dai primi vespri della
domenica alla compieta della domenica stessa. Al
Sacrosanctae e al Pater Ave che lo segue; durante
la recita delle preci feriali, dei defunti, e dei Salmi
graduali e penitenziali e durante le Litanie; nella
lettura del Martirologio, eccetto il cantore e i ce­
roferari, alla vigilia di Natale dalle parole : In Be-
thlem Judae, a quelle secundum carnem, dopo le
quali anche il cantore genuflette semplicemente
verso il libro.
Ogni volta si passa davanti al SS. Sacramento
esposto anche privatamente si deve fare genufles­
sione doppia (3).
Nella messa solenne in coro si genuflette: a) al
principio della messa fino alla fine della confessione
del celebrante e dei ministri; 6) alla recita del ver­
setto: Et incarnatus est. Riguardo particolarmente
a questo versetto si noti che: tutti distintamente
devono genuflettere col celebrante, mentre lo si re­
sacerdote e giudice della diocesi sua, rappresentante visibile di
G. C., la cui croce porta sul petto.
(1) Caerem. Ep., lib. II. Cap. I .; S. C. R. 14 nov. 1676 n.
1583, 7.
(2) S. C. R. 31 agosto 1793, n. 4450.
(3) id. 7 marzo 1746, n. 2390 4.
314 Capo Unico

cita (1); tutti ancora devono genuflettere compreso


il celebrante ed il vescovo se è presente, mentre si
canta questo versetto nella festa dell’Annunciazio­
ne in giorno proprio o trasferito (2) e in quella del
Natale (3). Nelle altre messe quando si canta que­
sto versetto devono genuflettere solamente quelli
del coro che stanno in piedi (4), quindi il cerimo­
niere (5), ma non gli altri che stanno seduti (6).
Nè qui è il caso di applicare la regola del Cerimo­
niale « quod caput inclinantibus Cammicis, inferio­
res genuflectant ». Dove però vi è consuetudine di
inginocchiarsi anche al canto di questo versetto, la
si può ritenere (7); ma in questo caso tutto il clero
deve inginocchiarsi; c) dal principio del Canone fin
dopo l’Elevazione; d) alla benedizione in fine della
Messa (tranne i canonici); e) alle parole Et verbum
carum factunt est del Vangelo di S. Giovanni; /)
alla prima e all’ultima orazione delle messe delle
ferie d’Avvento, dei quattro tempi, delle vigilie
con digiuno, e de requie ed in quelle votive pra re
gravi, celebrate con paramenti violacei; g) tutti ge^
nuflettano al Flectamus génua, alle parole In nomi­
ne Jesu etc. e quando genuflette il celebrante, co­
me nel Passio.
(1) S. C. R. 12 agosto 1854, n. 4029 2.
(2) id. 16 giug. 1663, n. 1268; 13 giug. 1677, a. 1421 3.
(3) id. 22 luglio 1848, n. 2960 2.
(4) id. 13 giug. 1671, ii. 1421 3; 17 giug. 1673, n. 1570.
(5) id. 12 agosto 1854, n. 3029 3.
(6) id. 22 lng. 1848, n,. 2960 2 ; 15 giug. 1895, n. 3860.
Ì7) id. 17 settembre 1897, n. 3965.
Delle azioni liturgiche 315

La prostrazione si fa stando in ginocchio con


profondo inchino del corpo. Essa si fa alle parole :
Venite adorémus, nell’adorazione della croce, al
Veneremur cemui del Tantum ergo, al Te ergo
quaesumus e alla Benedizione col SS. Sacramen­
to (1).
137. Inchini.
Nella sacra Scrittura troviamo accennati gli in­
chini tanto come atto di adorazione verso Dio (2)*
che di ossequio verso gli uomini (3), fatto talora
ripetutamente (4). La liturgia ordina questo ai sa­
cri ministri ed al popolo come atto di culto, di ri­
spetto per le cose sante, di onore e di ossequio alle
persone sacre.
Le Apostoliche Costituzioni, i più antichi ordini
liturgici, gli scrittori ecclesiastici parlano di questo
uso introdotto nel culto fino dai primi tempi (5).
Quanto più è elevato in dignità Poggetto del no­
stro ossequio, altrettanto più profondo è l’inchino;
ora l’inchino è doppio cioè del corpo e del capo;
quello del corpo si suddivide in profondo e medio­
cre; quello del capo in profondo, medio e piccolo.
L’inchino del corpo è profondo quando il capo
e il corpo si piegano per modo che allungando le
braccia si può arrivare colle dita a toccare le gi-12345

(1) De Herdt II, n. 376.380; III. 3. 2. De Carpo o. c., c. IV.


(2) Gen. XXIV. 26.
(3) Gen. XXIII. 7: I. Reg. XIV. 19.
(4) Gen. XXXIII. 3.
(5) Tfaalhofer, 1. c. De He-dt, I. n. 128.
316 Capo Unico

nocchia e quando si è. all’altare la fronte tocca qua­


si la mensa.
E’ mediocre quando s’inchinano alquanto il capo
e le spalle e si può dire come regola che la fronte
s’inchina, quando si è all’altare, fino alla palla
posta sul calice, circa cioè la metà delPinchino pro­
fondo.
L’inchino del capo si fa senza piegare il corpo :
è profondo quando insieme al capo si muovono al­
quanto anche le spalle; è medio quando si fa con
notevole depressione del capo, senza movimento
delle spalle; è piccolo o leggero quando è un sem­
plice movimento del capo e quasi un cenno. L’in­
chino profondo del capo corrisponde al culto di la­
tria, assoluto o relativo; il medio al culto di iper-
dulia; il piccolo al culto di dulia e si fa ai Santi e
alle persone viventi (1).
Nel divino Ufficio si china il capo: 1. durante
tutto il versetto Gloria Patri. 2. In fine degli inni
in cui si nomina la SS. Trinità. 3. Ai nomi di Gesù,
di Maria e del Santo di cui si celebra l’Ufficio o di
cui si fa speciale commemorazione. 4. Prima delle
lezioni il lettore fa inchino del capo verso chi re­
cita l’Ufficio finché ha ricevuta la benedizione. Si
fa inchino profondo del capo: 1. al confiteor fino
al Misereatur inclusivo : 2. dal Celebrante nell’an-
(1) De Herdt, I. n. 121. In generale i liturgisti adoperano la
parola riverenza per indicar la genuflessione e le inclinazioni e
dicono « facta debita reverentia ». Con questa espressione in­
tendono dire che si deve fare quell’atto che è prescritto in
quella circostanza, cioè genuflessione, inchino del corpo o del
capo.
Delle axioni liturgiche 317

dare e partire dall’altare in cui non si conserva il


SS. Sacramento (1).
Durante la messa sono prescritti a suo luogo gli
inchini da farsi dal celebrante e dai ministri. Note­
remo solo qui che è bene che tutto il clero presen­
te ai divini Uffici ed alla messa faccia l’inchino al
Gloria Patri ai nomi di Gesù e di Maria ecc. occor­
renti nel Vangelo, nelle Orazioni ecc.
138. Elevazione degli occhi.
La liturgia prescrive assai spesso Velevazione
degli occhi. Dove è il desiderio, la speranza, l’amo­
re delle anime, là si rivolge naturalmente anche lo
sguardo. Nella preghiera l’anima si rivolge a Dio
che regna in cielo: e quindi è naturale che colui
che prega levi l’occhio del corpo alla dimora di
Dio, al cielo, sì per manifestare anche esternamen­
te l’interna elevazione dell’anima, sì ancora per
accrescere, con questo atto esterno, l’atto interno,
renderlo più vivo, più perfetto (2).
L’elevazione degli occhi nella preghiera è sim­
bolo di una gioconda fiducia di venire esaudito (3).
In due modi si può compiere questo atto, di ele­
vare cioè gli occhi verso l’oggetto del culto: 1. In
principio d’un’orazione e quindi abbassarli tosto
(statim demissis oculis), o perchè segue un inchino
od altra azione come al Te igitur, al Veni sanctifi-123
(1) De Herdt IL 381.
(2) Tbalhofer, 1. c. § 44.
(3) Cfr. Jib. XXII. 26-27; ib. XXVII. 10; Ps. XXIV. 16;
CXXII.
318 Capo Unico

cator, al Suscipe Sancta Trinitas nella Messa etc.


2. Quando si tengono elevati durante una pre­
ghiera od un atto, come all’elevazione dell’Ostia e
del Calice. Di quest’ultima specie è l’atto ordinato
dalla rubrica di fissare gli occhi nell’Ostia consa­
crata al Memento dei morti, al Pater noster, ed alle
altre orazioni avanti la Comunione (1).
139. Elevazione e congiunzione delle mani.
Come l’elevazione degli occhi così Velevazione e
il congiungimento delle mani nella preghiera è na­
turale espressione dell’elevazione dell’anima verso
Dio; atto di vivo desiderio di venir esaudito, di ot­
tenere il soccorso dall’alto, espressione di gioia, di
ringraziamento, di giubilo. Questa ragione fonda-
mentale dell’elevazione delle mani nella preghiera
si trova in due atti che sono Vestensione e la con­
giunzione delle mani davanti al petto. — I cristia­
ni fino dai più antichi tempi nell’estensione delle
mani vedono una imitazione del Salvatore che si
offerse e pregò sulla croce colle mani distese e que­
sto si avvera ancora nella messa, mentre la liturgia
dei Sacramenti, dei Sacramentali e dell Ufficiatura
ordina di tenere le mani giunte (2). Questa congiun­
zione delle mani significa la divozione e l’umil­
tà (3).
Le mani si estendono, colle dita unite (quando
la rubrica non prescrive il contrario) davanti al123
(1) Cfr. Rit. celebr. Mise. t. X.
(2) Thalhofer, 1. c. § 45.
(3) Durando, lib. IV» c. 7, n. 5.
Delle azioni liturgiche 319

petto, in linea retta, fino alle spalle in modo che


le due palme stiano di fronte e la mano non sor­
passi la spalla in altezza nè in larghezza. Quando
si levano dall’altare o vi si posano o si congiungo­
no, i movimenti si fanno sempre in linea retta (1).
Si eongiungonlo le mani in questo modo: si ap­
plica la palma e le dita stese congiunte di una ma'
no all’altra nella stessa posizione: il pollice destro
si pone sul sinistro in forma di croce (tranne nella
messa dalla consacrazione alla Comunione), si ten­
gono così giunte le mani dinanzi al petto a poca
distanza dalle vesti; l’estremità delle dita quando
il corpo è eretto, si alza alquanto verso la faccia.
E9 regola generale che in tutte le funzioni litur­
giche tutto il clero, deve sempre tenere le mani
giunte, quando non si tiene in mano il libro od
altra cosa, ovvero non si deve compiere qualche at­
to con le mani. Solo le orazioni della messa si di­
cono colle mani disgiunte; ma extra missam, come
nell’Ufficio, nelle benedizioni, all’amministrazio­
ne dei sacramenti, si dicono a mani giunte.

140. Imposizione delle mani.


L’imposizione delle mani s’incontra spesso nel­
l’Antico Testamento come simbolo e mezzo di tra­
smissione di qualche cosa di natura grata od odio­
sa. Così il patriarca Isacco comunicò il diritto di
primogenitura, colle annesse prerogative, al suo fi-

(1) De Herdt. I, 139.


320 Capo Unico

glio Giacobbe (1). Mosè comunicò a Giosuè la sua


autorità coll’imposizione delle mani (2). Così s’im
ponevano le mani sui condannati a morte (3), sul­
le vittime del sacrificio (4). Nel Nuovo Testamen­
to l’imposizione delle mani è sempre simbolo della
comunicazione di una forza invisibile che opera su
tutta la persona (5), od anche sul solo corpo (6):
mezzo di comunicare lo Spirito Santo ai semplici
fedeli per la loro perfezione (7), od anche alle per­
sone pubbliche per l’adempimento di un ufficio sa­
cro (8).
Nell’uso liturgico Vimposizione delle mani si fa
nel Battesimo, nella Cresima, nell’ordinazione del
Sacerdote, negli Esorcismi, nella riconciliazione
degli apostati e degli eretici, nella messa, sull’o-
blata, nell’amministrazione del sacramento della
Penitenza, ecc. ecc. (9).
141. Abluzione delle mani.
Anche le frequenti abluzioni delie mani che ci
fanno nella liturgia, hanno per fine non solo la cor­
porale mondezza, ma anche di esprimere la purez-

(1)
Gen. XXVII, 29.
(2)
Num. XXVII 23.
(3)
Levit. XXIV 14; Dan. XIII 34.
(4)
Levit, passim.
(5)
Matth. IX 13.
(6)
Matth. XIX 18; Marc. V . 23; Lue. XIII 13; Act. Apost.
IX 9 ibia.
XXVIII 8.
(7) Act. Ap. VII 17; XIX 6.
(8) Act. Ap. V I 6; Tim . IX 14; V 22.
(9) Thalhofer, o. c. §. 50; Bergier, Dictionn de Theologie,
« Imposition des mains ».
Delle axioni liturgiche S21

za interna eolia quale bisogna presentarsi a Dio»


Tale simbolismo era già conosciuto dai pagani nelle
abluzioni che facevano i sacerdoti e il popolo al­
l’entrare nei sacri templi, e fu consacrato dalla re­
ligione ebraica. I cristiani ed i sacerdoti usarono
questo atto fino dai primi tempi, ed i Canones Hip­
polyti ordinarono : Christianus lavet manus omni
tempore, quo orat (c. 27). Un avanzo di tale opera­
zione è l’uso dell’acqua lustrale all’ingresso della
chiesa.
La liturgia ordina la lavanda delle mani ai sacri
ministri prima di molti atti di culto. Prima della
messa, e durante la stessa messa, prima del Batte­
simo e dell’amministrazione della S. Comunione.
Anche dopo la S. messa, quantunque non sia di ob­
bligo è tuttavia antica pratica di lavarsi le mani;
questo atto che il Sacerdote compie avanti di recarsi
alle opere profane gli si può ricordare che deve
portare la purezza della vita anche nelle cose estra­
nee al divin culto (1). — Durante la messa letta o
solenne non si può usare la brocca pel sacerdote
celebrante, ma si deve usare l’orciuolo (2). Il ve­
scovo dopo la messa non fa l’abluzione delle ma­
ni (3).
142. Coprimento e scoprimento del capo.
Il popolo ed i sacerdoti della religione giudaica
tenevano e tengono ancora coperto il capo nelle123
(1) Thalhofer, o. c. §. 46.
(2) S. C. R. 18 luglio 1902.
(3) id. 15 maggio 1900.
322 Capo Unico

loro sinagoghe: h Γ atteggiamento del servo e dello


schiavo della legge dinnanzi al suo Signore. I fedeli
cristiani stanno in chiesa : « nudo capite, quia non
erubescimus » (1), essendo stati liberati dalla
schiavitù della legge. Solo alle donne è prescritto
di entrare in chiesa velato capite per indicare la
loro inferiorità e dipendenza dall’uomo, il rispetto
del luogo santo, ovvero il loro mistico sposalizio
con G. C. (2).
Le persone liturgiche in origine celebravano i
sacri Misteri a capo scoperto, ma assai per tempo
assunsero le infulae clericales, le quali, dopo il se­
colo ottavo, secondo la nuova forma che presero,
si divisero in infulae pontificales e sacerdotales. Le
prime presero il nome di Mitre (simplices, auri-
phrigiatae, pretiosae). Nel coro invece pei chierici
fu in uso il cappuccio. La berretta sacerdotale è
ora distintivo dei Ministri di G. C. e simbolo della
loro autorità (3).
Nella moderna disciplina liturgica è prescritto di
stare a capo scoperto : 1. Durante il s. Sacrificio
e l’esercizio delle azioni o preghiere ad esso con­
giunte. Non è permesso l’uso della parrucca nel­
la celebrazione della Santa Messa (4) ed anche fuo-1234
(1) Tertulliano Apologetico, c. XXX.
(2) Nel Pontificale Rom . nel rito della benedizione e consa·
orazione delle Vergini si dice: «Desponsare summi Dei F ilio »
e presentando il velo: « Accipe velamen sacrum quo cognosca­
ris mundum contempsise et te Christo Jesu veraciter humiliter-
que toto cordis annisu sponsam perpetualiter subdidisse ».
(3) I Cor. XI 10.
(4) Can. Nullus de Consecr. dist. 1 ; S. C. R . 4 apr.1699. n.
2027. 4. 5.
Delle azioni liturgiche 323

ri della messa non si può usare, senza dispensa ve­


scovile (1); nella celebrazione della messa non si
può usare il pileolo, senza espressa facoltà della
S. Sede (2). 2. Nell’attuale esercizio di una fun­
zione (3); fatta eccezione della predica, dell’ascol-
tar le confessioni, in coro, quando si siede, e nelle
processioni che si fanno senza SS. Sacramento o
la reliquia della S. Croce. 3. Quando è esposto o
si trasporta il SS. Sacramento, sia di giorno che di
notte (4).
E* permesso o prescritto Vuso della berrettai
1. Generalmente nell’andare dalla sagrestia alle
sacre funzioni e nel ritorno alla sagrestia. 2. Quan­
do si siede in coro, si predica (se non è esposto il
SS. Sacramento) o si ascoltano le confessioni, e
nelle processioni colle statue e reliquie dei San­
ti etc. 3. Nella messa solenne durante il canto del
Kyrie, del Gloria e del Credo, quando i ministri
siedono allo scanno. Si deve levare : 1. Al Glo­
ria Patri, al nome di Gesù o della SS. Trinità.
2. AÌVIncarnatus del Credo. 3. Quando si fa in­
chino o genuflessione, eccetto quando il celebrante
porta il calice e non deve fare genuflessione dop­
pia nell’andare all’altare per la messa o nel ritor-1234
(1) Bene.d. Xiy de syn. dioc. 1. XI. c. 9 e Insit. 34 §. 4
e 96.
(2) Anche i Vescovi usano il pileolo, solo in vigore di spe·
ciale privilegio. P io IX il 16 giugno 1867 permise ai vescovi
« ut pileolo violacei coloris libere oc licite uti possint et va-
leant » ; Leone XIII in occasione del suo giubileo concesso ai
Vescovi l’ uso della berretta violacea.
(3) S. C. R . Risposta sopra citata.
(4) id. 31 agosto 1872, n. 5.517. II.
324 Capo · Unico

no alla sagrestia. 4. Quando si riceve ì’incenea-


zione.
Nel coprire o scoprire il capo si avverta: cc prius
sedendum esse ac deinceps caput cooperiendum;
et contra prius caput esse detegendum et postea
eurgendum; item advertatur cum detegendum vel
cooperiendum est caput id semper fieri oportere
non capitis excessione, sed decenti manuum (cioè
della mano destra) applicatione » (1).
Circa l’uso dei pileolo particolarmente si osser­
vi : Chi usa il pileolo lo deve levare (in coro) quan­
do si fa riverenza all’altare, quando si genuflette,
si fa la confessione e si riceve l’incensazione; quan­
do nel divino Ufficio s’intonano i salmi o si inco­
minciano le antifone, quando si scende a cantare
al leggìo, chi legge l’invitatorio, le Lezioni, i re­
sponsori brevi, il Martirologio; mentre si riceve
l’aspersione, nella recita del Gloria, Credo, San­
ctus, Agnus Dei, mentre si canta il Vangelo, rice­
vendo la pace, all’elevazione, alla benedizione in
fine della messa (2). Presente il vescovo chi cele­
bra non può usare il pileolo, anche se ha privile­
gio (3). Non lo può usare chi fa da diacono, sudr
diacono o da prete assistente nella messa (4); non
lo possono usare i canonici mentre intorno al ve­
scovo recitano, in circolo, il Kyrie, Gloria, ecc., nè
alla cattedra, quando il vescovo sta in piedi o leg-1234
(1) De Carpo, o. c. p. I. c. VII. n. 28.
(2) S. C. R. 4 aprile 1879, n. 3891, 1.
(3) id. 21 marzo 1679, n. 1558; 20 seti. 1681, n. 1681.
(4) id. 2 seti. 1679, n. 1636.
Delle azioni liturgiche 325

ge (1), o chi in qualche modo serve da mini­


stro (2). Non lo si può usare quando si porta il
SS. Viatico, anche di notte (3), nemmeno per in­
fermità (4); non lo'possono usare i ministri che
cantano il Passio e leggono le Lezioni (5). La ber<-
retta che si usa nelle funzioni ecclesiastiche deve
essere per tutti indistintamente a tre spicchi (6), il
pileolo dei sacerdoti, di qualunque dignità siano,
deve essere tutto nero, anche il fiocchetto per chi
non ha privilegio particolare.
143. Segno di croce.
Come la croce è il centro della fede cristiana,
così il suo segno ricorda tutta l’opera della Reden­
zione. Quindi esso fu in uso nella vita privata dei
cristiani fino dai primi tempi, per cui si meritarono
il titolo di crucis religiosi (7), e trovò specialmen­
te la più grande applicazione nella sacra litur­
gia (8).
Dapprima si faceva in forma di T, col pollice,
non solo sulla fronte delle persone, come si usa

(1) s. C. R . 31 agosto 1680, n. 1650 1. 2. 3. 4. n.


(2) id. 23 agosto 1695, n. 1931.
(3) id. 21 genn. 1696, n. 1938.
(4) id. 10 settembre 1701, n. 2079. 1.
(5) id. 7 'dicembre 1844, n. 2877.
(6) id. 10 genn. 1693, n. 1891; 4 apr. 1699,
(7) Tertulliano, Apologetico Cap. XVI.
O. c. § 49. Cfr. pure Bergier. Dictionn», de Thèologie. « Croix
(signe de l a ) » ; Martigny. Dictionn. des Antiq. crei. «Croix
(signe de la) ».
(8) Vedi esposto ampiamente questo punto dal Tbalhofer.
326 Capo Unico

ancora, ma anche sulle cose (1), però assai per


tempo, prevalse l’uso della mano, tanto per segna­
re sè stesso, come per benedire le cose o le perso­
ne, in forma di croce.
La formula che accompagna il segno, sembra che
in origine sia stata : in nomine Christi, come si tro­
va ancora negli esorcismi degli ossessi; ma già nel
medio evo troviamo la formula odierna : In nomine
Patris, etc., nell’uso tanto liturgico che privato. —
Nessuna altra azione s’incontra così sovente nella
sacra liturgia, come il segno di croce. Nella messa
si fa non meno di quaranta volte, nel divino Uffi­
cio occorre pure circa 13 volte sulla persona ed
una volta sulle labbra e sul petto; si usa sempre
nell’amministrazione dei sacramenti e di tutte le
benedizioni o consacrazioni di cose o di persone.
Circa il modo di fare i segni di croce occorrenti
nella liturgia si osservi:
1. Quando si devono fare sulle persone o cose:
« Sacerdos parvum digitum vertit ei cui benedicit,
ac benedicendo totam manum dexteram extendit,
omnibus illius digitus pariter junctis, ac extensis,
quod in omni benedictione observatur » (2).
2. Facendo il segno della croce sulla propria per­
sona si pone la sinistra, quando non è impedita,
infra pectus, quindi : ccvertit ad se palmam manus
dexterae et omnibus illius digitis junctis et extern1
2

(1) S. Greg. M. Dial. I. 11; III. 35.


(2) Rit. celebr. Miss. tit. ΙΠ. 5; S. C. R. 24 luglio 1683,
n. 1711. 6.
Delle azioni liturgiche 827

sis, a fronte, ad pectus et ab humero sinistro ad


dexterum signum Crucis format » (1).
3. All’altare quando si fa il segno sull’oblata o
sul Messale, come nelle messe de requie, la sini­
stra si mette colla palma stesa sulla mensa dell’al­
tare. Segnando il vangelo si mette la sinistra stessa
sul libro.
4. Quando si fa il segno si sta sempre col corpo
eretto, non mai inclinato.
5. Ad ogni linea della croce si devono pronun­
ciare le relative parole, se vi sono.
6. L’estensione e misura del segno, si desume
dalla estremità del dito mignolo; e deve essere pro­
porzionato all’oggetto che si benedice, ma in al­
tezza non deve mai sorpassare il capo, in larghezza
le spalle di chi lo compie.
7. Prima di ogni segno di croce sulle cose o sulle
altre persone si devono giungere le mani, se la
sinistra non è. impedita.
8. I segni di croce devono essere distinti nelle lo­
ro linee, esatti, modesti e non si deve agitare la ma­
no con precipitazione (2).
Il segno della croce, come ognuno sa, esprime
i misteri principali della fede cattolica, ossia è si­
gnificativo, ma esso è altresì effettivo e, special-
mente sotto quest’ultimo aspetto è adoperato per lo
più nella liturgia, essendo la croce fonte di ogni
benedizione e grazia (3).123
(1) Ibid.
(2) De Herdt. I. n. 131.
(3) S. Leo, M. hom. 8 in Passione Christi, n. 7.
328 Capo Unico

Quindi questo segno: 1. si usa nella messa e rap­


presenta la passione e morte di G. C. di cui la mes­
sa è commemorazione ed è un segno di benedizio­
ne e di grazie. 2. Nell’Ufficio divino si adopera
per mettere colui che lo recita in speciale rapporto
con G. C. e con la SS. Trinità. Talora è. speciale
confessione delle colpe od invocazione del soccorso
di Dió (Deus in adiutorium, Domine labia mea
apéries, Converte nos, Adiutorium nostrum) d’in-
vocaziòrie di Dio sulle opere della giornata (alla
fine di Prima), e per la notte (fine di Compieta).
Al principio del Benedictus e del Magnificat si fa il
segnó; di croce, non solo pel rispetto a questi sacri
cantici, che son tratti dal Vangelo, ma anche per
ottenere la grazia di recitare bene queste parti che
compiono, per così, dire, l’Ufficip (1). 3. Nella
Confessione e amministrazione dei Sacramenti e
nelle benedizioni il segno di croce è sopratutto co­
municativo della grazia, secondo l’indole dei sa­
cramenti, o della grazia da riceversi da chi li usa.
144. Bacio liturgico.
Il bacio, secondo la comune accettazione, è sim­
bolo dell’amore, quindi dai greci chiamato φ ί λ τ ρ α .
Nella Sacra Scrittura si usa a dinotare l’espressio-'
ne tanto dell’amore naturale tra le persone (2),12

(1) Thalhofer, o. c. § 49. n. 4. 6.


(2) Amore fraterno Gen. (XXXIII. 4.), amore dei parenti
fi. Reg. XX. 11), fra gli sposi (Gant. I. 1.).
Delle azioni liturgiche 329

come dell’ossequio e venerazione verso le persone


o le cose (1).
Nella sacra liturgia si adopera il bacio per espri­
mere entrambi questi due sentimenti, ma sempre in
ordine soprannaturale. Si baciano le persone, per­
chè si riconoscono fratelli in G. C. o si rende loro
ossequio, perchè si vedono rivestiti dell’autorità di
G. C. ; e si baciano le cose, perchè sono consacrate
all’uso sacro, e fatte strumento di comunicazione
della grazia.
Il bacio liturgico quindi non è puramente un
simbolo, esso è. un’azione religiosa morale, che ha
un triplice significato, cioè : 1. Significa la carità
fraterna. Così fi bacio ordinato da S. Paolo (2) fu
sempre in uso nella messa, tanto in oriente come
in Occidente (3) o all’offertorio come simbolo di
riconciliazione (4), od avanti la comunione, come
preparazione a ricevere il Dio della carità (5). E’
simbolo della Pace di G. C. e quindi « clerus po­
pulusque se invicem osculantur, quia homines gra­
tiam Domini Angelorumque amicitiam per Chri­
stum, qui eu pax nostra se promeruisse gratulane12
3
4
5

(1) Exod. XVIII. 7; II. Reg. XIX, 20; Act. Apost. XX. 37.
Spesso si bacìa la bocca, la mano o il piede. Ester baciò la
punta dello scettro di Assuero (Esth. V . 2.).
(2) Cfr. più sopra n. 14.
(3) Vedi Liturg. Gerosolomitana n. 41 seg. ; Lit. delle A po.
et. Cost. od Antiochena n. 49 seg.; Liturg. di S. Marco n. 56
seg. Lit. Costantinopol. n. 62 seg. ; Gotico Mozarabica n. 26
seg.; Lit. Ambrosiana n. 83 seg.
(4) Cfr. Matth. V. 23-24; S. Cyrill. Hierosol. Cathec. Myst.
V. n. 3. Cfr. n. 47.
(5) Tertull. chiama il bacio « signaculum orationis » De orat,
c. 18.
330 Capo Unico

tur » (1). 3. Infine è espressione di ossequio e di


venerazione, perciò ad esprimere questa somma ri­
verenza al Papa si bacia il piede (2).
Al vescovo ed al celebrante si usa il bacio rive­
renziale della mano destra (al vescovo si bacia l’a­
nello) ogni volta che si dà in mano o si riceve qual­
che cosa (3), anche se chi presenta l’oggetto al
celebrante o al vescovo è canonico (4). Presentan­
do qualche cosa al celebrante i ministri baciano
prima la cosa poi la mano, ricevendola dal cele­
brante prima baciano la mano poi la cosa, qualun­
que sia la dignità dei ministri e del celebrante (5),

(1) Honor. Gemma animae, fisso è simbolo anche di gioia


perciò come anticamente si ometteva nei giorni di p en iten e
(Tertull. de orat. 18) eoe! ora si omette nella Messa de requie.
— Anticamente tetto il popolo si dava la pace coll’ abbracciarsi
e col bacio, separatamente gli nomini dalle donne. Nel secolo
X III probabilmente s’introdusse Vistrumenlum pacis, in uso an­
cora in qualche chiesa che si porge a baciare dal diacono oolla
form ula: Pax tecum.
(2) Nella Messa Pontificale del Papa vi hanno m olti baci
oscula reverentialia, cioè si bacia la mano, il petto, le ginoc­
chia. Il suddiacono dopo l'Epistola e il diacono prima del canto
del Vangelo in greco baciano il piede. Cfr. Innoc. III. de altaris
myst. ,lib. V I, c. 6 ; lib. II. c. 27.
(3) Tali baci si fanno dai ministri e dal clero solo al cele­
brante e non ad altri, e presente e funzionante il vescovo solo
al vescovo. Si omettono nelle messe da morto, e quando è espo­
sto il SS. si omette il bacio all’ anello del vescovo, come pure
la genuflessione e gli inchini e il bacio della mano e del tur
ribolo nell’ incensazione dell’ altare, ossia si omettono i baci pu­
ramente reverenziali mentre si fanno quelli che sono misti e
appartengono al rito. Cardellini. Comm. ad instrì. Clem. § 30.
n. 14.
(4) S. C. R . 13 marzo 1700, n. 2048 13 ; 31 maggio 1817,
n. 2578. 5.
(5) S. C. R . 23 aprile 1690, n. 1835.
Delle azioni liturgiche 331

« quìa tunc non attenditur personae dignitas sed


qualitas ministerii » (1).
Tra le cose che si baciano vi è l’altare « non
tantum ut salutatio et ut signum in rem sacram sed
etiam ut signum amoris erga Christum qui per al-
tare figuratur ». E quindi nel baciare l’altare si
stendono le mani sulla mensa « ut sacérdos Chri·
stum quasi complectatur, ad obtinendum tum sibi
tum aliis ejus benedictionem et reverentiam » (2).
Si bacia ancora il libro del vangelo che contiene la
parola di G. C., la croce sui sacri paramenti, e le
cose che servono per servizio divino come il turi­
bolo, il cucchiaio ecc.
Quando la cosa che si presenta dev’essere bacia­
ta anche dal celebrante, chi la porge la deve baciare
in disparte e non nel luogo ove la bacia il celebran­
te (3).123

(1) Cardellini adnot. ad Resp. Decreti, n. 2578 dub. V.


(2) De Herdt. I. 139. Cfr. Thalhofer, 1. c.
(3) Caerem. Ep., lib . II, V II, c. n. Ì2.
SEZIONE Ι Π

Delle parole liturgiche

CAPO UNICO

145. Simbolo apostolico.


Tre specie di simboli occorrono nella sacra litur­
gia; cioè: quello detto Apostolico, quello di Nicea
o di Costantinopoli e il Simbolo attribuito a S. A-
tanasio. Il secondo si recita solo nella messa, il ter­
zo soltanto nell’Ufficio, mentre il primo è comune
tanto all’Ufficio come ad altre parti della liturgia
e di questo particolarmente convien parlare nello
studio della liturgia generale.
D’origine certamente apostolica, questo Simbolo
fu raccolto e adoperato nella Chiesa fino dai primi
tempi. Veniva insegnato ai neofiti fino dai primi
tempi e si custodiva dai cristiani come regola di fe­
de facile e sicura; subito entrò a far parte della
sacra liturgia e il Pontefice S. Damaso ordinò che
si recitasse a tutte le ore del divino Ufficio. I Padri
della Chiesa ne fecero dottissimi commenti e ne
raccomandarono sempre la recita ai fedeli : « Sym­
bolum quoque, scrive S. Ambrogio, specialiter de­
bemus tamquam mostri signaculum cordis antelu­
canis horis quotidie recensere; quoniam et cum
Delle parole liturgiche 333

horremus aliquid assidue recurrendum est. Quan­


do emm sine militiae sacramento miles in tentorio,
bellator in praelio? » (1).
La sacra liturgia fa uso del Simbolo apostolico:
1. Nel divino Ufficio a Mattutino, a Prima ed
alla fine di compieta che abbracciano la giornata
cristiana.
2. Nell’amministrazione del Battesimo, come C'­
eterna professione di fede, nell’ordinazione dei sa­
cerdoti, quasi dichiarazione della fede, che predi­
cheranno : « stantes profitentur fidem, quam predi-
catari sunt » (2).
3. Negli esorcismi degli ossessi come arma di di­
fesa contro il demonio.
4. In molte altre benedizioni e funzioni, essendo
la fede il principio di ogni celeste benedizione.
Il Simbolo si recita generalmente in secreto, per
la disciplina dell’arcano che vigeva nei primi seco­
li, per la quale si teneva nascosto il Simbolo anche
ai Catecumeni fino al tempo degli scrutinii, che si
facevano poco prima del battesimo.
146. Orazione Domenicale e Salutazione an
gelica.
Uorazione domenicale, la più eccellente, utile ed
efficace delle preghiere, quella propria dei figli di12

(1) S. Ambros. lib. I li, de Virgin. Vedi trattato ampiamente


questo punto del Card, Bona, Divin. Psalmodia, cap. XVI, §
3; Cfr. Martigny, o. c. « Symbole des Apótres » ; Bergier, o.
c. ibid.
(2) Pont. Rom . de Ordin. Presbyteri.
334 Capo Unico

Dio entrò, come il Simbolo, nell’uso comune dei cri­


stiani e nella sacra liturgia fino dal tempo aposto­
lico, e la si recita ancora colla più grande fre­
quenza (1), cioè nella messa, nel divino Ufficio,
nell’amministrazione del battesimo, in moltissime
benedizioni e consacrazioni.
E la ragione di questo uso frequente nella sacra
liturgia dell’Orazione domenicale, sta nella sua
eccellenza e nella perfezione delle cose che con­
tiene.
Si recita per lo più a voce bassa; per dichiarare
la nostra umiltà; per rammentarci che la vera pie­
tà risiede nel cuore e perchè dobbiamo seriamente
meditarla mentre la recitiamo.
L9Ave Maria o salutazione angelica fu per lun­
go tempo attribuita al Concilio di Efeso (a. 431)
nella sua forma attuale; in realtà nella prima par­
te almeno fu introdotta nella liturgia di S. Grego­
rio M. (sec. VI) o da qualcun altro nella stessa
epoca. Non era però preghiera abituale dei cristia­
ni. Il primo a farne uso fu S. Ildefonso di Tolosa
(sec. VII). La prima prescrizione che rende pub­
blico l’uso di questa orazione è del secolo XIII.
Nel Can. 1198 l’Arcivescovo Oddone di Parigi e-
sorta i fedeli a recitarla unitamente al Credo e al
Pater Noster. L’istituzione del Rosario ne genera­
lizzò la recita e con S. Pio V entrò nella Liturgia
(1) Bona o. e. §. 1; Bergier e Martigny, « Orcdson domi­
nicale ». Thalhofer, o. e. p. 33.
Delle parole liturgiche 335

dell’Ufficio divino. La prima forma completa si


trova nel Rosario Certosino (1563) (1).
Un antichissimo e poi uso dei cristiani di prega­
re al mattino, alla sera ed al mezzogiorno, diede
origine alla recita del così detto Angelus Domini od
Ave Maria.
Ossia di tre Ave Maria coi versetti : Angelus Do­
mini..., Ecce Ancilla..., Et verbum ceno..., Ora
pro nobis e l’orazione Gratiam tuam, seguita da tre
Gloria Patri. Tale pia divozione è arricchita di in­
dulgenze dai Pontefici Benedetto XIII e Leone XIII.
Nel tempo pasquale invece àe\VAve Maria coi ver­
setti si dice l’Antifona: Regina coeli, stando in
piedi.
147. Diverse forme d’introduzione alle pre
ghiere.
La Chiesa alla preghiera che mette sul labbro a’
suoi ministri per onorar Dio ed ottenere le divine
benedizioni fa precedere sempre una specie di in­
troduzione, la quale serve di preparamento e di
eccitamento alla preghiera stessa.
1. La prima e più antica introduzione è il Kyrie
eleison, ripetuto per lo più tre volte e conservato
in lingua greca nella liturgia latina, « ut unum
populum esse ostendamus unumque Deum u-
trumque populum {latin, et graec.) credere » (2).1
2
(1) P. Cagier, Moie bibliografique 1825 t. ΠΙ. pag. 243-251.
Le Clerq Bulletin d’ anciènne litterature et d’archeologie chré-
tièime 15 genn. 1922.
(2) Alenino, de divin offic. c. 40. Thalhofer o. c. § 35.
336 Capo Unico

Questa formula che significa tutte le preghiere uni­


versali della Chiesa (1) e si ripete nella messa, nel­
l’Ufficio, avanti molte orazioni e specialmente a-
vanti l’Orazione domenicale, ha per fine di ricon­
ciliarci con Dio, affinchè per sua misericordia pos­
siamo invocarlo nostro padre, ed attendere con
frutto alla preghiera (2).
2. Una seconda formula è il Deus in adjutorium,
con cui si confessa la propria debolezza e si invoca
Dio in proprio soccorso : ccDomine, ad adjuvandum
me festina ». Tale formula occorre specialmente
nell’ufficio, al principio delle Ore ed a Prima
mentre si omette al triduo della morte di G. C.„
perchè in esso l’aniipa di chi prega è già raccolta
nella contemplazione del mistero e nell’Ufficio da
morto, perchè è. officio di tristezza : « In agendis
mortuorum et circa passionis dominicae solemnita-
tem inchoationes et espletiones (Benedicamus Do­
mino) officiorum non ut in caeteris fiunt, tristitiae
videlicet significaendae causa » (3).
3. La terza formula di introduzione alle preghie­
re liturgiche è Adjutorium nostrum in nomine Do­
mini accompagnato dal segno di croce che si recita
in tutte le benedizioni ed esprime la fiducia nella
potenza del nome di Dio, mentre il segno di croce
ci mette in relazione colla SS. Trinità ed è titolo
della nosra speranza. Dicendo Adjutorium si mette
la mano alla fronte, alla parola nostrum si tocca
(1) fiupert. di Denta, de viv. off. I. 29.
(2) Amalar. de eccles. offic. Lib. I. c. 2.
(3) Wal. Strabone presso Thalhofer 1. c.
Dette parole liturgiche m

il petto, in nomine la spalla sinistra, Donimi la de*


stra (1). Questo versetto è seguito dal Domine, ex-
audi orationem meam o dal Dominus vobiscum.
Col primo il sacerdote invoca Dio per sè, col se­
condo augura l’aiuto di Dio agli astanti che gli ri­
spondono : Et cum spiritu tuo. Il Dominus vobi­
scum non si dice dopo il canto delle Litanie prima
dell’Oremus nè dopo l’Inno dei Santi fuori del­
l’Ufficio, secondo il Ritulae romano (2).
4. Un’ultima formula generale di introduzione è
la parola Oremus, che nel rito romano si dice sem­
pre prima delle Orazioni, perchè il celebrante re­
cita queste preghiere specialmente liturgiche non
soltanto in nome di Cristo ma anche in nome dei
fedeli, i quali devono essere uniti col sacerdote
nella preghiera, epperò ad essa sono invitati colla
parola Oremus (3).
148. Carattere delle Orazioni.
Le orazioni che la Chiesa fa nelle funzioni han­
no un carattere speciale, secondo il fine a cui ser­
vono.
1. Quelle della messa e dell’ufficio contengono
sempre due parti distinte : nella prima si esalta Dio
in se o nel Santo Mistero che si celebra e nella se­
conda si invoca una grazia che per lo più sta in
relazione col mistero o colla vita del Santo.

(1) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XXV. 5.


(2) S. C. R . 24 luglio 1901. V II.
(3) Thalhofer, 1. c.
338 Capo Unico

2. Quelle che si recitano sulle cose, luoghi o per­


sone da benedirsi contengono quasi sempre una di­
chiarazione degli effetti della benedizione.
3. Talora contengono una specie di epopea sa-
era, che ricorda le meraviglie di Dio operate con
quell’elemento che si benedice, al bene del popolo
ebreo o cristiano : così nella benedizione del cereo
o dell’acqua nella consacrazione delle chiese.
4. Infine alcune sono imperative, come quelle
che si usano negli esorcismi.
Le Orazioni liturgiche si recitano sempre, fuori
della messa colle numi giunte, quando non si tiene
iiì mano il libro od altra cosa.

149. Conclusione delle orazioni.


Cinque sono le maniere con cui si concludono le
Orazioni.
a) Se Vorazione è diretta al Padre si conclude
dicendo Per Dominum nostrum;
b) se al Figlio: Qui vivis et regnas;
c) se nel principio dell’Orazione si fa menzione
dèi Figlio si dirà. Per eundem;
' d) se del Figlio si fa menzione in fine dell’ora­
zione : Qui tecum vivit et regnat etc.
e) Se si nomina lo Spirito Santo si dirà : In uni­
tate ejusdem Spiritus Sancti etc.
Quando si dicono più Orazioni si fa la conclu­
sione soltanto dopo la prima, e le altre non si con­
cludono che all’ultima; la conclusione dev’essere
Delle parole liturgiche 339

quella voluta dall’ultima orazione che si recita,


qualunque sia il carattere delle precedenti (1).
Queste regole date dalla Rubrica del Breviario
sono dai liturgici ordinate nei noti versi:
« Per Dominum dicas, Patrem si Presbyter oras;
Dum loqueris Nato, qui vivis dicere cures;
Commemorans Natum, tu Patri dic Per eundem,
Si circa finem, Qui tecum dicere debes;
Commemorans Flamen, ejusdem dic prope finem ».
La conclusione lunga si fa solo nella messa e nel­
l’Ufficio; la breve si fa in tutte le altre funzioni,
quando non vi è altra prescrizione (2) o legge par­
ticolare (3). — Questa conclusione breve, se l’O­
razione è diretta al Padre è: Per Christum Domi­
num nostrum; se si dirige al Figlio: Qui vivis et
regnas per omnia saecula saeculorum o in saecula
saeculorum. Se si fa menzione del Figlio è: Per
eundem Christum Dominum nostrum.
In fine delle Orazioni si aggiunge Amen e talora
Alleluja, come espressione di fiducia e di gioia.
Si osservi come per lo più le Orazioni sono di­
rette al Padre, e poche al Figlio e nessuna allo
Spirito Santo (4).
150. Canto e recita delle Orazioni.
Nel canto delle Orazioni si deve far uso di un
(1) Rubr. Brev. Rom . tit. XXX.
(2) S. C. R . maggio 1885 n. 2734, 1, 2.
(3) $. C. R . 8 aprile n. 1865 n. 3134.
(4) Bened. XIV de Sacr. Missae sect. I. n. 112; Bona o.
c. lib. II. i. V. ad 5. E la ragione di queste conclusioni è data
da Kossing. « Liturgische Erklarung der heil, Messe » . Regen-
sburg 1869, pag. 367 seg.
340 Capo Unico

triplice tono cioè il festivo, il feriale semplice ed


il feriale, a) Le orazioni si cantano in tono festivo
negli Uffici doppi e semidoppi, nelle domeniche, al
Mattutino, alla messa ed ai Vespri. Fuori di questi
Uffici si dicono sempre in tono feriale. Nel tono
festivo si sogliono fare due variazioni. La prima è
fa, mi, re, fa, e si dice punto principale, la secon­
da è fa, mi, e si dice semipunto. Il punto princi­
pale si fa alla conclusione di quella che è la prima
parte dell9orazione, ritenendo alquanto la voce e
respirando, osservando per altro nel canto la rego­
la già data. Il semipunto si fa nello stesso modo
nella clausola seguente, col canto fa, mi, e ciò si
intende quando l’orazione è lunga abbastanza da
ricevere le due variazioni. Che se essa è più breve
si fa solo il punto principale. Non si fa mai prima
il semipunto, ma si prosegue fino alla parola che
conclude la prima parte e con essa si fa il punto
principale, quindi il semipunto. Ma quando l’ora­
zione è brevissima, come p. e. quella di S. Callisto,
si omette il semipunto. Fatto il semipunto, non si
fa più alcun punto o semipunto sebbene seguono
altre clausole. Oltre a questi punti ogni volta oc­
corrono le virgole, si sostiene alquanto la nota fa
nella penultima o se questa è breve nell’antipenul­
tima.
Alla fine dell’Orazione la nota fa, si deve soste­
nere nella penultima dizione alquanto più che nel­
Delle parole liturgiche 341

le virgole, come se si duplicasse la vocale sulla qua­


le si sostiene la predetta nota.
Nelle conclusioni delle Orazioni in tono festivo,
quando sono Per Dominum e Per eundem Domi­
num il semipunto si fa alla parola tuum e il punto
principale alla parola Deus. Quando è qui tecum
si fa soltanto il punto principale alla parola sancti
Deus.
b) Il tono feriale semplice si usa nelle feste sem­
plici, nei giorni feriali e nelle messe dei defunti.
L’orazione in tono feriale, si dice in voce eguale.
Nel luogo del punto principale e del semipunto si
fa solamente una pausa e respirazione; si fanno le
virgole e le finali come nel tono festivo. — Altret­
tanto si osserva nelle conclusioni.
c) il tono feriale serve per le Orazioni poste in
fine del Salterio dopo le Antifone della B. V. per
l’orazione Dirigere a Prima, le orazioni nell’Uffi­
cio dei defunti, quando hanno clausola minore.
Conviene in tutto con il tono sopraddetto, eccetto
che in fine della penultima sillaba si declina dal
fa al re. Serve per orazioni delle Litanie, dell’A­
spersione dell’acqua benedetta nella domenica, ed
altre simili, come in quelle della lavanda dei piedi,
e nella benedizione delle candele. La terminazione
finale fa, re, si fa solamente nell’ultima Orazione
quando sono parecchie.
Le orazioni si devono leggere con voce grave e
conveniente, interponendo una breve pausa alla
fine di ogni clausola e specialmente una clausola fi­
nale, con decoro e gravità. — Il tono del Vangelo,
342 Capo Unico

della Epistola, dei Capitoli, delle Antifone ecc. si


trovano nel Pontificale romano, nel Rituale, nel
Direttorio del Coro (1) e nel Graduale (2).
Nella pronuncia delle parole liturgiche conviene
osservare il tono conveniente della voce. Questo è
triplice cioè, segreto, medio, alto.
La voce è segreta quando le parole si proferisco­
no in modo che gli astanti non le sentano. Si du­
bita se sia necessario che vengano udite da chi le
pronuncia; ma tanto la sentenza negativa che quel­
la affermativa è probabile (3). Con questa voce si
recita la maggior parte del Canone della messa, il
Poter, Ave, Credo nel divino Ufficio ed il Pater
noster nelle benedizioni delle cose, dei luoghi e
delle persone.
La voce è media se le parole si proferiscono in
•modo da poter essere intese dal ministro e da altre
persone circostanti. Così si pronuncia nella messa
VOrate fratres, il Sanctus, il Nobis quoque pecca­
toribus etc.
Tra la voce media e segreta, vi è la voce sommes­
sa, con cui si recita la conclusione dellOremn*
dell’ufficiatura nel triduo della Passione.
Infine la voce alta quando dai circostanti si può
udire ed intendere. Non è necessario perchè la vo­
ce sia alta che tutto il popolo la senta, basta che
la possano ascoltare i circostanti attenti. Ad ogni
modo la voce dev’essere anche proporzionata al
(1) Caerem. Ep. Lib. I. Cap. XXVII. da cui è tratto alla
lettera tutto quello che qui si è detto circa le Orazioni.
(2) S. C. R . 14 aprile 1877 n. 3830. II. III.
Delle parole liturgiche 343

luogo ove si parla. Con questa voce alta si devono


recitare tutte le orazioni, preci, antifone, versetti
ecc. della liturgia, ove non sia disposto altrimenti
dalle particolari rubriche.
Ed a ragione la Chiesa ordina questa diversità
di voce, perchè ciò è tutto conforme alla natura
umana che si solleva alla meditazione delle cose
divine per mezzo di aiuti esterni, ed al fine delle
orazioni. Così si pronunciano a voce alta quelle
cose che contengono la glorificazione di Dio, l’i­
struzione del popolo e a voce segreta quello che de­
ve eccitare attenzione, riverenza, divozione e che
non vuol essere avvilito e profanato (1).

(]) Cfr. Trid. Sese. 22 de sacr. Miss. e. 5; ib. can. IX. et


cap. XIII.
Motu Proprio di Pio X
sulla Musica Sacra
Tra le sollecitudini dell’officio pastorale, non
solamente di questa Suprema Cattedra, che per in-,
scrutabile disegno della Previdenza sebbene inde-,
gni occupiamo, ma di, ogni Chiesa particolare,
senza dubbio è precipua quella , di mantenere e
promuovere il decoro della Gasa di Dio, dove gli
augusti misteri della religione si' celebrano e dove
il popolo cristiano si raduna, onde ricevere la gra­
zia dei Sacramenti, assistere al santo Sacrificio del­
l’Altare, adorare l’augustissimo Sacramento del
Corpo del Signore ed unirsi alla preghiera comune
della Chiesa nella pubblica e solenne ufficiatura
liturgica. Nulla adunque deve occorrere nel tem­
pio che turbi od anche solo diminuisca la pietà e
la divozione dei fedeli, nulla che dia ragionevole
motivo di disgusto o di scandalo, nulla sopratutto
che direttamente offenda il decoro e la santità del­
le sacre funzioni e però sia indegno della Casa di
Orazione e della Maestà di Dio.
Non tocchiamo partitamente degli abusi che in
questa parte possono occorrere. Oggi l’attenzione
nostra si rivolge ad uno dei più comuni, dei più
difficili a sradicare e che talvolta si deve deplora­
re anche là, ove ogni altra cosa è degna del mas­
simo encomio per la bellezza e sontuosità del tem­
pio, per lo splendore e per l’ordine accurato delle
cerimonie, per la frequenza del clero, per la gra-
Motu Proprio di Pio X 345

vita e per la pietà dei ministri che celebrano. Tale


è Fabnso nelle cose del canto, e della musica sa­
cra. Ed invero, sia per la natura di quest’arte per
sè medesima fluttuante e variabile, sia per la suc­
cessiva alterazione del gusto e delle abitudini lun­
go il correr dei tempi, sia pel funesto influsso che
su l’arte sacra esercita l’arte profana e teatrale,
sia pel piacere che la musica direttamente produce
e che non sempre torna' facile contenere in giusti
termini, sia infine per i molti pregiudizi che in ta­
le materia di leggeri s’insinuano e si mantengono
poi tenacemente anche presso persone autorevoli
e pie, v’ha una continuai tendenza a deviare dalla
retta norma stabilita dal fine, per cui l’arte è am­
messa nei canoni ecclesiastici,, nelle ordinazioni dei
Concili generali e provinciali,‘nelle prescrizioni a
più riprese emanate dalle Sacre Congregazioni ro­
mane e dai sommi Pontefici Nostri Predecessori.
Con vera soddisfazione dell’ànimo nostro ci è
grato riconoscere il molto bene che in tale parte si
è fatto negli ultimi decenni anche in!questa Nostra
alma Città di Roma, ed in molte Chiese della pà­
tria Nostra, ma in modo! particolare in alcune na­
zioni,, dove uomini, egregi e zelanti del culto di Dio,
con l’approvazione di questa Santa Sede e sotto
la direzione dei Vescovi, si unirono in fiorenti so­
cietà e rimisero in pienissimo onore la musica, sam­
era pressoché in ognii loro chiesa ò cappella. Co-
desto bene tuttavia è ancora assai lontano dall’es­
sere comune a tutti, e se consultiamo l’esperienza
Nostra personale e teniamo conto delle moltissime
346 Capo Unico

lagnanze che da ogni parte ci giungono in questo


poco tempo, dacché piacque al Signore di elevare
l’umile Nostra Persona al supremo apice del Pon­
tificato romano, senza differire più a lungo, credia­
mo nostro primo dovere di alzare subito la voce a
riprovazione e condanna di tutto ciò che nelle fun­
zioni del culto e nell’ufficiatura ecclesiastica si ri­
conosce difforme dalla retta norma indicata. Es­
sendo infatti Nostro vivissimo desiderio che il vero
spirito cristiano rifiorisca per omni modo e si man­
tenga nei fedeli tutti, è necessario provvedere pri­
ma di ogni altra cosa alla santità e dignità del tem­
pio, dove appunto i fedeli si radunano per attin­
gere tale spirito dalla sua prima ed indispensabile
fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti
misteri e alla preghiera pubblica e solenne della
Chiesa. Ed è vano sperare che a tal fine su noi di­
scenda copiosa la benedizione del Cielo, quando il
nostro ossequio all’Altissimo, anziché ascendere in
odore di soavità, rimette invece nella mano dei
Signore i flagelli, onde altra volta il Divin Reden­
tore cacciò dal tempio gli indegni profanatori.
Per la qual cosa, affinchè niuno possa d’ora in­
nanzi recare a causa di non conoscere chiaramente
il dover suo e sia tolta ogni indeterminazione nel­
l’interpretazione di alcune cose già comandate,
abbiamo stimato espediente additare con brevità
quei principi che regolano la musica sacra delle
funzioni del culto e raccogliere insieme in un qua­
dro generale le principali prescrizioni della Chiesa
contro gli abusi più comuni in tale materia. E però
Motu Proprio di Pio X 347

di moto proprio e certa scienza pubblichiamo la


presente Nostra Istruzione, alla quale quasi a
codice giuridico della musica sacra vogliamo dalla
pienezza della Nostra Autorità Apostolica sia data
forza di legge, imponendone a tutti col presente
Nostro chirografo la più scrupolosa osservanza.
Istruzione sulla Musica Sacra
i.

PRINCIPI GENERALI
1. La musica sacra, come parte integrante del­
la solenne liturgia, ne partecipa al fine generale,
che è la gloria di Dio e la santificazione ed edifica­
zione dei fedeli. Essa concorre ad accrescere il de­
coro e lo splendore delle cerimonie ecclesiastiche,
e siccome suo ufficio principale è di rivestire con
acconcia melodia il testo liturgico che viene propo­
sto all’intelligenza dei fedeli, così il suo proprio è
di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo
affinchè i fedeli con tale mezzo siano più facilmen­
te eccitati dtalla divozione e meglio si dispongano
ad accogliere in sè i frutti della grazia, che sono i
propri della celebrazione dei sacrosanti misteri.
2. La musica sacra deve per conseguenza posse­
dere nel grado migliore le qualità che sono proprie
della liturgia, e precisamente la santità e la bontà
delle forme, onde sorge l’altro suo carattere, che
è Vuniversalità.
Deve essere santa, e quindi escludere ogni pro­
fanità, non solo in se medesima ma anche nel mo­
do onde viene proposta per parte degli esecutori.
Deve essere arte sacra, non essendo possibile
che altrimenti abbia sull’animo di chi l’ascolta
quell’efficacia, che la Chiesa intende ottenere ac­
cogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni.
Istruzione sulla Musica Sacra 349

Ma dovrà insieme essere universale in questo


senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di am­
mettere nelle composizioni chiesastiche quelle for­
me particolari che costituiscono in certo modo il
carattere specifico della musica loro propria, que­
ste però devono essere in tal maniera subordinate
ai caratteri generali della musica sacra, che nes­
suno di altra nazione all’udire debba provarne im­
pressione non buona.
Π.
GENERI DI MUSICA SACRA
3. Queste qualità si riscontrano in grado sommo
nel canto gregoriano, che è per conseguenza il
Canto proprio della Chiesa romana, il solo canto
che essa ha ereditato dagli antichi Padri, che ha
custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici
liturgici, che come suo direttamente propone ai
fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusiva-
mente prescrive e che gli studi più recenti hanno
sì facilmente restituito alla sua integrità e purezza.
Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre con­
siderato come il supremo modello della musica sa­
cra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguen­
te legge generale: tanto una composizione per
chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’an­
damento, nell*ispirazione, nel sapore si accosta od­
ia melodia gregoriana, e tanto è meno degna del
tempio, quando più da quel supremo modella si
riconosce difforme.
350 Istruzione sulla Musica Sacra

L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà


dunque restituirsi largamente nelle funzioni del
culto tenendosi da tutti per fermo, che una funzio­
ne ecclesiastica nulla perde della sua solennità,
quando pure non venga accompagnata da altra
musica che da questa soltanto.
In particolare si procuri di restituire il canto
gregoriano nell’uso del popolo, affinchè i fedeli
prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura,
come anticamente solevasi.
4. Le anzidette qualità sono pure possedute in
ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente
dalla Scuola Romana la quale nel secolo XVI ot­
tenne il massimo della sua perfezione per opera di
Pier Luigi di Palestrina e continuò poi a produrre
anche in seguito composizioni di eccellente bontà
liturgica e musicale. La classica polifonia assai be­
ne si accosta al supremo modello di ogni musica sa­
cra che è il canto gregoriano. Per questa ragione
meritò di essere accolta insieme al canto gregoria­
no nelle funzioni più solenni della Chiesa, quelle
della Cappella Pontificia. Dovrà dunque anche es­
sa restituirsi largamente nelle funzioni ecclesiasti­
che specialmente nelle più insigni basiliche, nelle
chiese cattedrali, in quelle dei seminari e degli al­
tri istituti ecclesiastici, dove i mezzi necessari non
sogliono far difetto.
5. La Chiesa ha sempre riconosciuto e favorito
il progresso delle arti, ammettendo al servizio del
culto tutto ciò che il genio ha saputo trovare di
buono e di bello nel corso dei secoli, salvo però
Istruzione sulla Musica Sacra 351

sempre le leggi liturgiche. Per conseguenza la mu­


sica più moderna è pure ammessa in chiesa, offren­
do anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e
gravità, che non sono per nulla indegne delle fun­
zioni liturgiche.
Nondimeno, siccome la musica moderna è sorta
precipuamente a servizio profano, si dovrà atten­
dere con maggior cura, perchè le composizioni mu­
sicali di stile moderno, che si ammettono in chiesa,
nulla contengono di profano, non abbiano remine­
scenze di motivi adoperati in teatro, e non siano
foggiate, neppure nelle loro forme esterne, sul-
Pandamento dei pezzi profani.
6. Fra i vari generi della musica moderna, quel­
lo che apparve meno acconcio ad accompagnare le
funzioni del culto è lo stile teatrale che durante
il secolo scorso fu in massima voga, specie in Ita­
lia. Esso per sua natura presenta la massima oppo­
sizione al canto più importante di ogni buona mu­
sica sacra. Inoltre rintima struttura, il ritmo e il
cosidetto convenzionalismo di tale stile non si pie­
gano, se non malamente, alle esigenze della vera
musica liturgica.
ΠΙ.
TESTO LITURGICO
7. La lingua propria della Chiesa Romana è la
latina. E’ quindi proibito nelle solenni funzioni li­
turgiche di cantare in volgare qualsivoglia cosa;
352 Istruzione sulla Musica Sacra

molto più poi di cantare in volgare le parti varia­


bili o comuni della Messa e dell’Ufficio.
8. Essendo per ogni funzione liturgica determi­
nati i testi che possono proporsi in musica e l’or­
dine con cui devono proporsi, non è lecito nè. di
confondere quest’ordine, nè di cambiare i testi pre­
scritti in altri di propria scelta, nè di ometterli per
intero od anche solo in parte, se pure le rubriche
liturgiche non consentano di supplire con l’organo
alcuni versetti pel testo, mentre questi vengono
semplicemente recitati in coro. Soltanto è permes­
so, giusta la consuetudine della Chiesa Romana, di
cantare un mottetto al SS. Sacramento dopo il Be­
nedictus della messa solenne. Si permette pure che
dopo cantato il prescritto offertorio della messa si
possa eseguire nel tempo che rimane un breve mot­
tetto sopra parole approvate dalla Chiesa.
9. Il testo liturgico deve essere cantato come sta
nei libri, senza alterazione o posposizione di paro­
le, senza indebite ripetizioni, senza spezzarne le
sillabe, e sempre in modo intelligibile ai fedeli che
ascoltano.
IV.
FORMA ESTERNA DELLE SACRE
COMPOSIZIONI
10. Le singole parti della messa e dell’Ufficia­
tura devono conservare anche musicalmente quel
concetto e quella forma che la tradizione ecclesia­
stica ha loro dato e che trovasi assai bene espressa
Istruzione sulla■Mugica Sacra 353

nel canto gregoriano. Diverso dunque è il modo di


comporre un introito, un graduale, un'antifona,
un salmo, un inno, un Gloria in excelsis ecc.
In particolare si osservino le norme seguenti :
a) Il Kyrie, Gloria, Credo ecc. della messa devo­
no mantenere l’unità di composizione propria del
loro testo. Non è dunque lecito di comporli a pezzi
separati, così che ciascuno di tali pezzi formi una
composizione musicale compiuta e tale possa stac­
carsi dal rimanente e sostituirsi con un’altra.
b) Nell’Ufficiatura dei Vespri si deve ordinaria­
mente seguire la norma del Caeremoniale Episco­
porum, che prescrive il canto gregoriano per la sal­
modia e permette la musica figurata pei versetti
del Gloria Patri e per l’inno.
V.
CANTORI
12. Tranne le melodie proprie del celebrante al­
l’altare e dei ministri, le quali devono essere sem­
pre in solo canto gregoriano senza alcun accompa­
gnamento di organo, tutto il resto del canto litur­
gico, è proprio del coro dei leviti, e però i cantori
di chiesa, anche se sono secolari, fanno propria­
mente le veci del coro ecclesiastico. Per conseguen­
za le musiche che propongono devono, almeno nel­
la loro massima parte, conservare il carattere di
musica da coro.
Con ciò non s’intende del tutto escluso la voce
sola. Mia questa non deve mai predominare nella
354 Istruzione sulla Musica Sacra

funzione, cosi che la più gran parte del testo li­


turgico sia in tal modo eseguita, piuttosto deve
avere il carattere di semplice accenno o spunto
melodico ed essere strettamente legata al resto del­
la composizione a forma di coro.
13. Dal medesimo principio segue che i cantori
hanno in chiesa vero ufficio liturgico, e che però
le dorme, essendo incapaci di tale ufficio, non pos­
sono essere ammesse a far parte del coro o della
cappella musicale. Se dunque si vogliono adope­
rare le voci acute dei soprani e contralti, queste
dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo
l’uso antichissimo della Chiesa.
14. Per ultimo non si ammettono a far parte del­
la cappella di chiesa se non uomini di conosciuta
pietà e probità di vita, i quali col loro modesto e
devoto contegno durante le funzioni liturgiche si
mostrino degni del santo ufficio che esercitano. Sa­
rà pure conveniente che i cantori, mentre cantano
in chiesa, vestano· l’abito ecclesiastico e la cotta,
e se trovansi in cantorie troppo esposte agli occhi
del pubblico, siano difesi da grate.
VI.
ORGANO ED ISTRUMENTI
15. Sebbene la musica propria della Chiesa sia
la musica propriamente vocale, nondimeno è per­
messa eziando la musica con accompagnamento di
organo. In qualche caso particolare nei debiti ter­
mini e coi convenienti riguardi, potranno anche
Istruzione sulla Musica Sacra 355

ammettersi altri strumenti, ma non mai senza li­


cenza speciale dell’Ordinario, giusta la prescrizio­
ne del Caeremoniale Episcoporum.
16. Siccome il canto deve sempre primeggiare,
così l’organo o gli strumenti devono semplicemente
sostenerlo e non mai opprimerlo.
17. Non è permesso di premettere al canto lun­
ghi preludi o d’interromperlo con pezzi d’inter­
mezzo.
18. Il suono dell’organo negli accompagnamenti
del canto, nei preludi, interludi e simili, non solo
deve essere condotto secondo la propria natura di
tale strumento, ma deve partecipare di tutte le qua­
lità che ha la vera musica sacra e che si sono pre­
cedentemente annoverate.
19. E’ proibito in chiesa l’uso del pianoforte,
còme pure quello degli strumenti fragorosi o leg­
geri, quali sono il tamburo, la grancassa, i piatti,
i campanelli e simili.
20. E’ rigorosamente proibito alle cosidette ban­
de musicali di suonare in chiesa; e solo in qualche
caso speciale, posto il consenso dell’Ordinario, sa­
rà permesso di ammettere una scelta limitata giu­
diziosa e proporzionata all’ambiente, di strumenti
a fiato, purché la composizione e l’accompagna­
mento da eseguirsi sia scritto in stile grave, conve­
niente e simile in tutto a quello proprio dell’or­
gano.
21. Nelle processioni fuori di chiesa può essere
permessa dall’Ordinario la banda musicale, purché
non si eseguiscano in nessun modo pezzi profani.
356 istruzione sulla Musica Sacra

Sarebbe desiderabile in tali occasioni che il con­


certo musicale si restringesse ad accompagnare
qualche cantico spirituale in latino o volgare, prò*
posto dai cantori o dalle pie congregazioni che
prendono parte alla processione.
VII.
AMPIEZZA DELLA MUSICA LITURGICA
22. Non è lecito per ragione del canto o del suor
no fare attendere il sacerdote all’altare più di
quello che comporti la cerimonia liturgica. Giusta
le prescrizioni ecclesiastiche, il Sanctus della mes­
sa deve essere compiuto prima dell’elevazione, e
però anche il Celebrante deve in questo punto aver
riguardo ai cantori. Il Gloria ed il Credo, giusta
la tradizione gregoriana, devono essere relativa­
mente brevi.
23. In generale è da condannare come abuso
gravissimo, che nelle funzioni ecclesiastiche la li­
turgia apparisca secondaria e quasi a servizio del­
la musica, mentre la musica è semplicemente par­
te della liturgia e sua umile ancella.
V ili.

MEZZI PRECIPUI
24. Per l’esatta esecuzione di quanto viene qui
stabilito, 1 Vescovi, se non l’hanno già fatto, isti­
tuiscano nelle loro diocesi una commissione spe­
Istruzione stàio Musica Sacra 357

ciale di persone veramente competenti in cose di


musica sacra, alla quale, nel- modo che giudiche­
ranno più opportuno, sia affidato l’incarico d’in­
vigilare che le musiche non solo siano per sè buo­
ne, ma che rispondano altresì alle forze dei can­
tori, e vengano sempre eseguite.
25. Nei Seminari dei chierici e negli istituti ec­
clesiastici, giusta le prescrizioni tridentine, si col­
tivi, da tutti con diligenza ed amore il prelodato
canto gregoriano tradizionale, ed i superiori siano
in questa parte larghi d’incoraggiamento e di en­
comio coi loro giovani sudditi. Allo stesso modo,
dove torni possibile, si promuova tra i chierici la
fondazione di una Schola Cantorum per l’esecuzio­
ne della sacra polifonia e della buona musica li­
turgica.
26. Nelle ordinarie lezioni di liturgia, di mora­
le, di diritto canonico che si danno agli studenti di
teologia non si tralasci di toccare quei punti che
più particolarmente riguardano i principii e le leg­
gi della musica sacra, affinchè i chierici non esca­
no dal seminario digiuni di tutte queste nozioni,
piur necessarie alla piena cultura ecclesiastica.
27. Si abbia cura di rinnovare, almeno presso le
chiese principali, le antiche Scholae Cantorum, co­
me si è. già praticato come ottimo frutto di buon
numero di luoghi. Non è difficile al clero zelante
d’istituire tali Scholae perfino nelle chiese minori
e di campagna; anzi trova in esse un mezzo assai
facile d’adunare intorno a sè i fanciulli e gli adul­
358 Istruzione sulla Musica Sacra

ti, con profitto loro proprio ed edificazione del po­


polo.
28. Si procuri di sostenere e di promuovere
ogni miglior modo ile scuole superiori di musica sa­
cra dove già sussistono ancora. Troppo è importan­
te che la Chiesa stessa provveda all’istruzione dei
suoi maestri organisti e cantori, secondo i veri
principi dell’arte sacra.
IX.
CONCLUSIONE
29. Per ultimo si raccomanda ai maestri di ca
pella, ai cantori, alle persone del clero, ai supe­
riori dei Seminari, degli istituti ecclesiastici e delle
comunità religiose, ai parroci e rettori di chiese,
ai canonici delle colleggiate e delle cattedrali, e so­
pratutto agli Ordinari diocesani di favorire con
tutto lo zelo queste sagge riforme, da molto tempo
considerate e da tutti concordemente invocate, af­
finchè noni cada in disagio la stessa autorità della
Chiesa, che ripetutamente le propose ed' ora di
nuovo le inculca.
Data dal nostro Palazzo Apostolico al Vaticano,
il giorno della Vergine e martire S. Cecilia, 22 No­
vembre 1903, del nostro Pontificato l’anno primo.

PIUS PP. X
Appendi ce
CAPO UNICO

Del portamento liturgico


151. Cosa s'intende per portamento liturgico.
Chiamiamo portamento liturgico il modo nobile
e decoroso di eseguire le azioni e di pronunciare
le parole della Sacra liturgia conforme alle norme
che la regolano.
Esso è tanto necessario che dove manca, i fedeli
invece di ricevere edificazione, prendono scandalo.
Una musica per piacere dev’essere ben eseguita,
■una predica per produrre i suoi effetti vuol essere
ben presentata, e le sacre cerimonie perchè ren­
dano maestoso il culto ed istruiscano ed edifichino
il popolo, devono essere ben eseguite. Nell’antico
Testamento Dio lanciava le sue maledizioni a chi
trattava con negligenza le cose divine (1): la Chie­
sa nel Cone. di Trento vuole che i sacri ministri
portino all’altare la massima possibile mondezza e
purità di csuore ed una forma esterna di devozione
e pietà (2). Ma ciò che il' Tridentino vuole per la
inessa, che è l’azione più santa vdel ministero sa­
cerdotale, si deve applicare a tutte le altre, per­
chè il Sacerdote opera sempre ed in ogni occasione

(1) Jerem. XLVIK. 10.


(2) Sess. XXII. de Sacr. Mise.
360 Capo Unico

in nome di G. C. a cui presta la voce, la parola,


la mano, la persona, per rendere sensibile l’azione
del suo sacerdozio invisibile. Quindi il Sacerdote,
ministro visibile di G. C. deve condursi, come tale
•in modo degno di rappresentarlo : in una parola
egli deve parlare, operare come farebbe G. C.
stesso se compisse visibilmente quelle azioni (1).
152. Mezzi generali per la retta esecuzion
degli atti di culto.
Ad ottenere questo altissimo fine, cosi necesse-
rio al ministero sacerdotale, gioveranno alcuni
mezzi generali e delle regole particolari per le a-
zioni corporali e la pronuncia delle parole. I mez­
zi generali per riuscire ad ottenere una degna e
nobile esecuzione liturgica sono :
1. Una esatta cognizione delle regole liturgiche e
delle rubriche. Tale studio, a cui il sacerdote è ob­
bligato per ragioni del suoi stesso ufficio, giova al
disimpegno sicuro e breve delle funzioni, fa pren­
dere gusto a quello che si fa, reca grande frutto
al popolo. Il fare quello che si vede fare dagli al­
tri senza saperne la ragione, non ,è agire da uomo
e molto meno da sacerdote, che deve avere la
scienza delle cose di Dio. Prima quindi di mettersi
a compiere una funzione si scorrano prossima­
mente le rubriche, si richiamino le regole, si pre­
parino tutte le cose necessarie, si diano gli ordini
convenienti, onde non interrompere la funzione.
(1) Vedi Sailer, BeitrSge zur Rildung der Geistlichen EL
j»ag. 168 seg.
Del portamento liturgico 361

2. Formarsi sempre un grande concetto di ciò


si fa : vederlo come parte di quel grande e nobile
‘organismo creato da G. C. e diretto dalla Santa
Chiesa per effondere sul popolo', sulle cose, sui
luoghi, le grazie e le divine benedizioni. Le cose
sante devono essere trattate santamente e si do­
vrebbe aver tanta cura delle azioni liturgiche
quanta se ne ha per le sacre Reliquie e per la ma­
teria dei Sacramenti. Onde S. Cirillo Alessandri­
no -scrive : « Lex nihil, quod ad divinum cultum
modi quod sacerdotali opere sit indignum » (1).
pertineat esiguum existimare permittit, aut ejus-
E S. Isidoro : ccIn sacerdotio ii omnium maxime
contumeliosi sunt qui male illud ac scelerate ad­
ministrant » (2).
3. Procurare di mettere una seria attenzione a
quello che si fa, onde evitare errori, ripetizioni,
perdite di tempo e noie al popolo : una retta inten­
sione di fare quell’azione in nome di G. C. e col­
l’autorità di Santa Chiesa (3).
4. Tutto l’esteriore spiri divozione e pietà, tra­
sformando, per quanto è possibile i modi indivi­
duali, particolari, in quelli degni dell ministro di
Gesù Cristo. Anche il servo davanti al padrone, di
fcui porta le divise, si compone in modo che spira
riverenza, rispetto, onore.
5. Ma tutto ciò a nuli’altro riuscirà che «ad un

(1) 3. Cirill. Alex, de adoratione in epiritu et ventate. JLib.


ΧΠ. pag. 573. Ed. Paris. 1638.
(2) 3. Isid. Péius. Lib. II. Ep. 52 ad Theodosium.
(3) Rit. Rem . Tit. I. n. 12.
362 Capo Unico

morto meccanismo se in cuore dell sacerdote non


arderà un fervido amore a Gesù Cristo, alla Santa
Chiesa, al sacro ministero che esercita. L’amore è
il maestro più eloquente delle convenienze umane
ed è ancora l’ispiratore di quella nobiltà con cui
si deve trattare Dio e le cose divine. Qual amore
{dimostrano d’aver a Dio e all sacro ministero: colo­
ro che sanno usare urbanità e trattano bene con
tutti e dappertutto, fuorché con Dio e nella santa
sua Casa? Ovvero quelli ai quali non sembra mai
troppo lungo: il tempo eccetto quando lo si deve
impiegare all’altare o nel trattar le cose sante, dal­
le quali cercano sbrigarsi nel più breve tempo pos­
sibile?

153. Regole speciali per la retta esecuzion


delle azioni corporali.
Per ciò che riguarda la retta esecuzione delle
azioni corporali in particolare, si osservino le se­
guenti regole :
1. Esse devono essere distinte, Una per volta e
non agglomerate. Come p. es. voltare i fogli .del
libro e far genuflessioni o coprire il calice, baciare
l’altare e volgersi al popolo per dire il Dominus
vobiscum, senza essersi ben rizzato nella persona.
Nè si devono mettere insieme le azioni e le parole,
se le rubriche vanno distinte.
2. Nel camminare, il passo dev’essere lento,
grave senza però dar nella cadenza militare.
3. La persona deve tenersi sempre ritta, compo­
Del portamenti liturgico 363

sta, le mani giunte, il capo ritto e gli occhi bassi,


quando non vi sia prescritta altra azione.
4. I movimenti, dove è possibile, specialmente
quelli di rivolgersi indietro, siano sempre fatti gi­
rando verso destra, come è prescritto in. molti ca­
si, nella messa. Stando davanti all’altare si giri
la persona in modo da non volgere le spalle all’al­
tare.
Occorrendo qualche errore nell’atto che si fa
una cerimonia, lo si corregga in modo da non recar
meraviglia o scandalo. Spesso è meglio lasciar cor­
rere una cerimonia erronea ma ben fatta, quando
non è essenziale nella funzione, che interromperla
o riformarla. Questa regola vale speciaitaente per
coloro che sono chiamati a dirigere le funzioni co­
me cerimonieri.
154 Regole per l’esecuzione delle azioni che
si fanno in comune con gli altri.
1. Ognuno deve attendere a compiere bene il
proprio ufficio, senza interessarsi di quello degli
altri, suggerire od usurpare l’Ufficio altrui. Una
funzione in cui tutti, compreso il celebrante ed i
sacri ministri, vogliono farla da cerimoniere, di-
venterà sempre una confusione od almeno una
continua distrazione per tutti.
2. Le azioni che si fanno insieme ad altri si de­
vono fare contemporaneamente (genuflessioni, in­
chini ecc.), a suo luogo e nel medesimo modo.
Quindi è regola generale che i Ministri quando so­
no col celebrante, da lui prendano la norma circa
364 Capo Unico

il luogo, il modo, il tempo di eseguire le.cerimo­


nie, e gli altri prendano la norma dall superiore
o da chi sta alla testa; così dal turiferario, chi ac­
compagna il suddiacono dal suddiacono stesso, il
suddiacono dal diacono, ecc.
155. Come si devono pronunciare le parole.
Le parole liturgiche hanno un duplice scopo,
cioè, di conversare con Dio per rendergli il debito
culto e di istruire gli uomini, quindi:
1. Si devono pronunciare, sì nel canto come nel­
la recita, in modo grave, nobile e animato da spi­
rito di pietà, di divozione e riverenza.
2. Si deve evitare nella lettura la troppa fretta,
come pure la soverchia lentezza e la monotonia.
3. Nelle benedizioni e nell’amministrazione dei
Sacramenti non si devono recitare le forinole a
memoria, tranne ove si può far a meno, come la
formola della assoluzione, il Pater, Ave, Credo,
-occorrenti in molte funzioni, il Salmo e le prime
Orazioni della messa quando si sale all’altare.
Queste regole principali sono raccolte nel Mes­
sale e sopratutto nel Rituale, ove si legge : cc Dum
(Sacerdos) Sacraméntum aliquod ministrat, singula
verba, quae ad illius formam et ministerium perti­
nent, attente, distincte, et pie, atque clara voce,
pronuntiabit. Similiter et alias orationes et preces
devote religióse dicet; nec memoriae, quae plerum­
que labitur, facile confidet sed omnia recitabit ex
libro. Reliquas praeterea caerimonias ac ritus, ita
decenter gravique actione peraget, ut adstantes ad
Del portamento liturgico 365

celestium rerum cogitationem erigat, et attento&


reddat » (1).
Così operando il 'sacerdote compirà l’ufficio suo
di mediatore tra Dio e gli uomini. A Dio recherà
onore e gloria, agli uomini darà edificazione e gra­
zia, per sè raccoglierà meriti presso l’eterno Sa­
cerdote che degnamente rappresenta sulla terra.
« Fungi Sacerdotio, et habere laudem in nomine
ipsius, et offerre illi incensum dignum in odorem
suavitatis. (Eccl. XLV) » :

A. M. D. G.

{ ! ) Rit. Rora. Tit. I, n. 11.


INDICE
PARTE I.

Nozioni generali sulla Liturgia


C apo I, C o n c etto e divisione della L itu rg ia pag. 7
1. Etimologia —■ 2. Cosa significa attualmente — 3.
Definizione — 4. La liturgia è vera scienza ed/
eccellente — 5. Rito — cerimonia — 6, Divisione
della liturgia —■ 7. Importanza di questo studio
per il Clero.
C apo II. O rig in e d ella L itu rg ia » 16
8. Culto naturale e liturgia ebraica — 9. Gesù Cri­
sto istitutore della liturgia cattolica — 10. Istitu­
zione degli Apostoli e della Chiesa — 11. Ragioni
per cui la Chiesa introdusse queste parti nel divin
culto.
Capo III. L a L itu rg ia n ei p rim i secoli cristia n i — Ri­
fo rm a del secolo q u a rto . » 27
12. Importanza di questo studio — Fonti — 13. Ca­
rattere generale della liturgia nei primi tre secoli
— 14. Liturgia Apostolica — 15. I Padri Aposto­
lici e gli scrittori dei secoli secondo e terzo —
16. Scrittori e Padri del secolo quarto — 17. R i­
forma liturgica — cause — carattere — principali
elaboratori della liturgia — 18. Come era traman­
data in questi secoli la liturgia ·— 19. Lingua li­
turgica — Ragioni per cui la Chiesa usa le lingue
morte e specialmente il latino.
Capo IV. D iritto litu rg ico » 47
20. Dottrina cattolica — 21. Autorità dei Vescovi
nella liturgia — 22. Il Sommo Pontefice ha la
suprema autorità nella liturgia — 23. Come eser­
cita il Papa tale supremo diritto — Sacra Congre­
gazione dei Riti — 24. Decreti e decisioni della
S. C. dei Riti — loro valore — Formulario —
25. Rubriche — 26. Consuetudine vigente — Divi­
sione — Requisiti — 27. I Liturgisti.
Capo V. V alo re dogm atico della litu rg ia. » 69
28. La liturgia è professione di fede — 29. La verità
d’ un dogma si può dimostrare da ciò che è e­
06 8 INDICE

spresso nelle liturgìe delle Chiese unite alla ro·


mana od anche nella liturgia romana — 30. Con·
dotta degli eretici — 31. Uso che ne fecero i SS.
Padri e gli scrittori ecclesiastici — 32. Principali
verità cattoliche espresse nella liturgia.
C ap o VI. Del sim bolism o nella litu rg ia pag. 77
33. Natura del simbolismo liturgico — Divisione —
34. Il simbolismo esiste nella liturgia — 33. Prin·
cipali simboli reali — Lumi ed incenso — 36. R e­
gole per trovare e spiegare il senso simbolico —
37. Utilità del simbolo liturgico.
Capo VII. Fonti principali della Liturgia 92
38. Fonti dirette ed indirette — 39. Libri liturgici
antichi — 40. Libri liturgici attuali.

PARTE II
Liturgie particolari
SEZ IO N E I

LITURGIE ORIENTALI

C apo I. L itu rg ia G ero so lim ita n a d e tta di S. G iacom o


o di S. C irillo » 106
41. Origine della liturgia gerosolimitana — 42. V i­
cende storiche — lingua in cui fu scritta — 43.
Dove era in uso anticamente — 44. Edizioni —
45. Sua autorità — 46. Ordine e parti principali
di questa liturgia — 47. Le catechesi mistagogiche
di S. Cirillo — 48. Uso attuale della liturgia.
C apo II. L itu rg ia delle A postoliche C o stituzioni e A n­
tio ch en a « 121
49. Liturgia Apostolica o Clementina — 50. Integrità
— antichità — autorità di questa liturgia — 51.
Dove fu in uso — 52. Vicende storiche della chie­
sa antiochena 6no a S. Giovanni Grisostomo —
53. Carattere generale — 54. Esposizione che ne
fa il Grisostomo — 55. Ultime vicende della li­
turgia antiochena.
C a p o fili. L itu rg ia A lessan d rin a o d i S. M arco » 135
56. L’ antica liturgia alessandrina o di S. Marco —
57. Esposizione che ne fa S. Atanasio — 58. Opera
INDICE 369

di S. Cirillo — 59. Scisma di Dioscoro — Origine


dei Copti e loro liturgia — 60. Gli etiopi o abis·
s'ni — 61. Uso attuale del rito copto od abissino.
Capo IV . L itu rg ia C o stan tin o p o litan a e A rm e n a pag. 147
62. Liturgia primitiva nella chiesa di Bisanzio —
63. Carattere di questa liturgia quale appare dagli
scr'tti di S. Gregorio Nazianzeno e di S. Giovanni
Grisostomo e Messa dei presantificati — 66. Dove
si estende la liturgia di questo Patriarcato — 67.
Ordine generale della Messa di rito greco — 68.
Liturgia Armena — origine, carattere, vicende —
I Mechitaristi — 69. D ov’è in uso attualmente il
rito greco.

SEZ IO N E II

LITURGIA OCCIDENTALE
Capo I. L iturgia G allica n a » 165
70, Difficoltà di questo studio — Antichità e carat­
tere della liturgia gallicana — 71. Sua provenien­
za — 72. Monumenti che rimangono — 73. Ordine
e parti della Messa — 74. Introduzione del rito
romano in Francia — 75. Usi particolari ancora
vigenti in alcune Chiese.
Capo IL L iturgia G otico-M ozarabica » 176
76. Liturgia spagnola nei primi secoli cristiani —
77. Liturgia gotica — 78. Decreti del Concilio di
Braga per Puniformità liturgica — 79. Opera dei
santi Leandro ed Isidoro e di altri — Concilio di
Toledo — 80. Messale mozarabico — 81. Introdu­
zione del rito romano nella Spagna — Uso attuale
del rito mozarabico — 82. Ordine della Messa
mozarabica — sua relazione con la gallicana an­
tica.
Capo III. L iturgia M ilanese od A m b ro sia n a > 185
83. Fonti principali e scritti — 84. Origine di que­
sta liturgia — 85. La liturgia milanese quale ap­
pare dalle opere di S. Am brogio e dal libro De
Sacramentis — 86. Opera di S. Am brogio nella
Liturgia — 87. Vicende di questa liturgia — 88.
Principali particolarità del rito ambrosiano.
37Q INDICE

C ap o IV. Liturgia R om ana pag. 199


89. Liturgia Romana o petrina — 90. Riforma litur­
gica incominciata da S. Damaso e proseguita dai
Pontefici successori — 91. Il Canone e i Sacramen­
tari — 92. Opera dei Sommi Pontefici per ridurre
Poccidente ad unità liturgica.

PARTE III

Parti integranti della liturgia


SEZIONE I

OGGETTI SACRI

C a p o I. L 'a lt a r e » 210
93. Altare — divisione — significato — 94. Erezione
degli Altari — 95. Forma — 96. Luogo — 97. T i­
tolo — 98. Uso — 99. Custodia dell’ altare — Bal­
dacchino — 100. Cause per le quali si dissacra
l ’ Altare e la pietra sacra.
C a p o li. O rn ato d ell’ altare » 224
101. Tovaglie — Corporale — Palla — Purificatore
<
— Loro materia — Benedizione — 102. Pallio —
103. Croce — 104. Candelieri — Candele — Lam­
pade — 105. Fiori — 106. Sacre Reliquie — 107.
Cartegloria — 108. Uso di tali ornati.
C a p o UT. D ei V a si sa cri » 241
109. Calice — Patena 110. Ostensorio — Lanetta —
Teca — 111. Pisside — 112. Vasi per i sacri Olii
— 113. Cura e custodia dei vasi sacri.
C a p o IV . P aram en ti sa cri » 252
114. Uso delle vesti sacre nell’esercizio del sacro
culto — 115. Forma — ornato e colore dei para­
menti — 116. Benedizione delle vesti sacre — 117.
Amitto — 118. Camice — cingolo — cotta — roc­
chetto — 119. Pianeta — pianete plicate — 120.
Dalmatica e tunicella ■— 121. Piviale — 122. Stola
— 123. Manipolo — 124. Veli — borsa — 125.
Paramenti vescovili — 126. Cura e conservazione
dei sacri paramenti.
INDICE 371

Capo V. A ltri oggetti litu rg ici pag. 289


127. Pitture e sculture ad uso liturgico — 128. Im­
magine del Titolare — Palle d’ altare — 129. Or-
ciuoli — campanelli da Messa — 130. Turibolo e
navicella — 131. .Sedili — 132. Pile dell’ acqua
santa — Significato — Aspersorio — 133. Pulpito
— 134. Organo.

SEZ IO N E 11

Capo u nico — D elle azioni litu rg ich e » 308


133. Quando si sta in piedi o si siede nella liturgia
— 136. Genuflessioni — 137. Inchini — 138. Ele­
vazione degli occhi — 139. Elevazione e congiun­
zione delle mani — 141. Abluzione delle mani —
142. Coprimento e scoprimento del capo — 143.
Segno di Croce — 144. Bacio liturgico.

SEZ IO N E III

Capo unico D elle p a ro le litu rg ich e » 332


145. Simbolo apostolico — 146. Orazione domenica­
le e Salutazione angelica — 147. Diverse forme
d’ introduzione alle preghiere — 148. Carattere
delle orazioni — 149. Conclusione delle orazioni
— 150. Canto e recita delle orazioni.
Motu p ro p rio d i P io X su lla M usica s a c r a » 344
Istruzione su lla M usica s a c ra » 348
I. Principi generali — II. Generi di Musica sacra
— III. Testo liturgico — IV . Forma esterna delle
sacre composizioni — V . Cantori —■ V I. Organo
e istrumenti — VII. Ampiezza della musica litur­
gica — V i l i . Mezzi precipui — IX. Conclusione.
APPENDICE
Capo unico — D el p o rta m e n to litu rg ico » 359
151. Cosa s’ intende per portamento liturgico — 152.
Mezzi generali per la retta esecuzione degli atti
di culto — 153. Regole speciali per la retta ese­
cuzione delle Azioni corporali — 154. Regole per
l ’esecuzione delle azioni che si fanno in comune
con gli altri — 155. Come si devono pronunciare
le parole.
R EIM PRIM ATUR

D. C arlo M alocchi V. Q.
P « v i a, 8 agosto 1939

Finito di stampare
coi tipi della Scuola Tipografica Artigianelli - Pavia
il 10 settembre 1939 - XVII

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