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Catalin Dioguardi

LUMSA A.A. 2015 - 2016

Diritto canonico

Il diritto canonico è l'ordinamento giuridico prodotto non da una comunità politica, ma da


una comunità confessionale religiosa e presenta delle caratteristiche peculiari che derivano
proprio dalla sua natura di prodotto di una comunità confessionale.
Dal punto di vista etimologico il termine “canonico” deriva dal greco “kánon” che significa
misura, regola, e questo termine veniva utilizzato per indicare le leggi ecclesiastiche destinate
a disciplinare la vita del popolo di Dio, in modo da poterle distinguere dalle leggi di diritto
romano (leges). L'espressione era comunque troppo generica poiché riguarda diritto-etica-
religione. Proprio per questo nel concilio di Nicea, nel 325 d.C. vennero adottate importanti
decisioni tra le quali la distinzione tra dogmi di fede e dogmi morali: si parlò delle norme
giuridiche ecclesiastiche come “canones disciplinares” per distinguerle dai “canones fidei” (principi
dogmatici o regole della fede) e dai “canones morum” (principi morali ed etici). Tuttavia con il
tempo per indicare le regole della fede e le regole etiche venne utilizzata una terminologia
diversa e così il termine canones o canoni riguardò solo ed esclusivamente precetti giuridici.
Le regole infatti del diritto canonico non prendono il nome di articoli bensì di canoni.
L’espressione “diritto canonico” iniziò a indicare il diritto della Chiesa solo dal secolo VIII e
nel divenire della storia il diritto della Chiesa aveva preso diverse denominazioni: ius sacrum,
per distinguerlo da quello profano cioè lo ius civile; ius decretalium, usato nell’età medievale
perché il legislatore della Chiesa emanava le leggi nella forma delle “decretali”; ius pontificium,
ma il diritto canonico non è posto solo dal Papa (legislatore massimo) ma anche da altri
legislatori come il concilio ecumenico, inoltre nel diritto canonico è molto importante la
consuetudine; ius ecclesiasticum è un’espressione polisemica, in senso proprio indica quella parte
di diritto canonico che non è di origine divina quindi le norme di origine umana che possono
mutare nel tempo, mentre le norme di origine divina non possono mutare. Dal punto di vista
terminologico, invece, bisogna fare ulteriori distinzioni basandoci sulle fonti. Si suole parlare
infatti di diritto meramente ecclesiastico (ius mere ecclesiasticum) o di diritto umano (ius
humanarum) per le norme poste dalla competente autorità ecclesiastica; distinto dal diritto
divino naturale (ius naturale) per l’insieme delle norme poste all’atto della creazione e comuni a
tutti gli uomini; distinto ancora dal diritto divino positivo (ius divinum positivum) promulgato per
mezzo della Rivelazione e contenuto nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. Quindi il diritto
della Chiesa ha un duplice elemento: umano e divino.

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Lo studio del diritto canonico è fondamentale per tre motivazioni:
1. Carattere culturale: serve al giurista per capire che il diritto non inizia né finisce
esclusivamente dalla comunità politica. Il diritto non è esclusivamente prodotto dallo
stato, ma esistono tanti ordinamenti giuridici (Santi Romano). Dal punto di vista della
comparazione il diritto canonico manifesta una grande somiglianza ai diritti secolari
mantenendo comunque le sue caratteristiche peculiari essendo orientato ad una
prospettiva del tutto diversa. Infatti il diritto canonico è destinato a disciplinare la vita di
una comunità di carattere universale, legato ad un elemento personale poiché i destinatari
delle norme sono i battezzati della Chiesa cattolica.
2. Carattere storico: Il tramonto del medioevo frantumò il sacro romano impero in una
pluralità di Stati sovrani che svilupparono dei diritti nazionali, portando alla fine di uno
ius comune. In questo contesto il diritto canonico ha influenzato enormemente la
formazione dei diritti secolari. Molti istituti del diritto dello stato, sia di diritto privato che
di diritto pubblico, sono prodotti dal diritto canonico e riadattati dallo stato; dunque
studiare l'ordinamento canonico permette di comprendere le loro origini e il loro
sviluppo. Es. Persona giuridica nasce nell'ordinamento canonico, come istituto elaborato da
un pontefice. Matrimonio civile non deriva dal matrimonio romano, ma dal matrimonio
canonico privato di elementi religiosi.
Inoltre la chiesa cattolica non è una democrazia, la sovranità non sta nel popolo, la
sovranità proviene dall'altro e scende verso il basso. Negli ordini religiosi (salesiani,
francescani, domenicani) la struttura di governo è particolare in quanto articolata secondo
un modello democratico. Questa struttura è sempre stata presente nella chiesa ed è stato
proprio questo modello democratico che ha ispirato l'evolversi della filosofia dello stato.
Tracce di diritto canonico si riscontrano sia nella famiglia di civil law che nella famiglia di
common law perché il diritto della Chiesa ha influenzato il diritto secolare europeo da cui
entrambe le famiglie traggono origine.
3. Carattere pratico: riguarda la realtà ordinamentale del nostro paese. Il diritto canonico
entra con sorprendente vitalità negli ordinamenti giuridici secolari, dovuto
fondamentalmente ad una pratica concordatarie e dunque ad accordi tra stato italiano e
chiesa cattolica intercorrenti dal 1929. Questi accordi furono attuati per regolare una serie
di materie, e in virtù di questi si è stabilito che alcune norme di materia canonica avessero
applicazione anche nell'ordinamento italiano. Es. Matrimonio concordatario gli effetti sono
regolati dal codice civile, ma il fondamento è nel diritto canonico.
Inoltre la chiesa agisce attraverso una serie di soggetti che assumono la forma di persona
giuridica e gli atti posti in essere da essi, come dei contratti ad esempio, sono regolati si da
norme di diritto civile, ma anche, per espressa disposizione pattizia, da norme di diritto
canonico. Lo stato italiano riconosce efficacia anche a queste norme e dunque il giurista
non può assolutamente ignorare aspetti di diritto canonico.

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Esistono comunque comunità confessionali che non hanno ordinamento giuridico. Nel corso
della storia della chiesa esistono anche diversi fenomeni di rigetto circa la visione del diritto
(Eresie e movimenti medievali, Riforma luterana, contestazioni conseguenti al concilio
Vaticano II) che hanno posto in discussione il diritto canonico e lo stesso carattere giuridico
della Chiesa. Di fronte a queste visioni di rigetto ci si è domandato se per la chiesa fosse
necessaria questa entità di diritto: la Chiesa, si incarna in un organismo sociale, e non è
sottratta alle leggi che sono proprie delle formazioni sociali sul piano naturale. Si è
evidenziato come la dimensione giuridica non sia in alcun modo eliminabile proprio perché
individuabile in tre aspetti della chiesa che presuppongo un ordinamento giuridico:
1. Chiesa come popolo: non si può fare riferimento alla cittadinanza (come avviene per lo
stato), ma si fa riferimento all'aver ricevuto il sacramento del battesimo. Tutti i battezzati
formano un popolo, e ciò significa dire che ogni battezzato è in rapporto con gli altri
membri della comunità ed essendo in rapporto hanno dei diritti e doveri reciproci; la
dimensione diritto e dovere riguarda proprio l'esperienza giuridica.
2. Chiesa come comunità: se la chiesa è una comunità esisteranno beni e interessi
comuni e occorre dunque garantire a tutti la possibilità di usufruirne. La possibilità di
accesso a questi beni, di ordine prevalentemente spirituale come la sacra scrittura o i
sacramenti, deve essere garantita a tutti. Senza dimensione giuridica si avrebbe una
comunità in cui il più forte prevaricherà sui più deboli privando loro di questi beni. Questi
beni spirituali sono mezzi per la salvezza. La chiesa vive per questo scopo (fine spirituale)
la salvezza delle anime.
3. Chiesa come società: vi è un'uguaglianza generale data dalla qualificazione del
battesimo. Nella chiesa tuttavia vi sono dei ruoli diversi, una gerarchia, per cui c'è chi
esercita una potestà e chi è destinatario di questa potestà. Anche questa dimensione
gerarchica richiede il diritto, che assicura a chi è gerarchicamente subordinato i propri
diritti evitando a chi possiede la potestà di abusare della sua autorità (l'autorità non è
arbitrio, anche la potestà papale è limitata).
La chiesa è popolo con origine sovrannaturale, ha una dimensione comunitaria che si organizza in società ed ha
come suo presupposto l'ordinamento giuridico.

La dimensione giuridica nella chiesa non può dunque essere eliminata. La chiesa non può
fare a meno del diritto canonico, ma siamo sicuri si parli proprio di diritto? È
un'obiezione che è stata posta soprattutto a partire da quando si è consolidato lo stato
moderno per cui si è arrivato a dire che il diritto canonico o non avrebbe i caratteri proprio
dell'esperienza giuridica. Con il fenomeno della codificazione è sorta l'idea che lo stato fosse
l'unico detentore creatore di norme. Già nell'800 fu avanzata la contestazione che in realtà il
diritto della chiesa non fosse vero diritto e che le norme canoniche sarebbero dei prefetti etici
ma non giuridici. Questa idea che lo stato mantenesse il monopolio della produzione
giuridica è stata accantonata a partire da quando si è affermato che non esiste un unico
ordinamento giuridico e che l'ordinamento dello stato è uno dei tanti presenti (teoria di

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Santi Romano). I contestatori della reale giuridicità del diritto canonico non si sono fermati
e hanno elaborato diverse ipotesi per cui il diritto canonico non debba essere
realmente inteso come diritto:
• Potestà coercitiva: la chiesa non ha una potestà coercitiva per imporre l'osservanza delle
norme quando il destinatario non lo faccia spontaneamente; se manca la coercitività, il
diritto canonico non sarebbe riconducibile all'esperienza del diritto. Tuttavia si è fatto
notare che la vera caratteristica della norma giuridica non è la sua coercibilità, ma la sua
imperatività (comando precetto) che deve essere percepito dal destinatario come vincolante.
La chiesa non ha dunque un elemento coercitivo, ma le sanzioni spirituali sono molto più
cocenti di quelle materiali; si vede come esempio a riguardo quello che succedeva
nell'impero romano ove i cristiani si facevano martirizzare perché preferivano obbedire alla
forma canonica piuttosto che a quella imperiale (quella canonica la sentivano più
imperativa, anche se non prevista di coercitività rispetto a quella imperiale). L'impiego della
forza fisica ha una valenza diversa rispetto a quella della imperatività.
• Intersoggettività: un'altra polemica si è concentrata sul fatto che l'ordinamento canonico
mancherebbe di intersoggettività in quanto il diritto canonico regolerebbe il rapporto tra
un uomo e Dio piuttosto che tra uomini. Anche questa obiezione non è significativa perché
l'ordinamento canonico regola la relazione tra uomini appartenenti ad una comunità (è la
teologia ad occuparsi del rapporto con Dio).
• Diritto canonico come branca della teologia: il concilio Vaticano II ha sostenuto che
il diritto canonico non sarebbe realmente diritto ma una branca della teologia e l'unica
differenza rispetto a questa sarebbe che il diritto canonico va studiato con metodo giuridico.
La scuola di Monaco di Baviera per affermare ciò si basava sul fatto che il fondamento della
chiesa è sovrannaturale e che esiste per portare l'uomo alla salvezza; per fare ciò utilizza dei
beni sovrannaturali che sfuggono alla dimensione giuridica, e possono essere studiati solo in
chiave teologica (diritto come ancella della teologia). Di fronte a questa contestazione ha reagito
la canonistica spagnola che ha affermato in maniera persuasiva che i beni spirituali sono
fondamentali e di origine sovrannaturale, questo però non vuol dire che l'ordinamento
canonico, non sia diritto in quanto la scrittura e i sacramenti servono proprio alla salvezza
dell'essere umano e la chiesa ne è depositaria e amministratrice, non proprietaria, e devono
essere accessibili a coloro che fanno parte della chiesa. Occorrono dunque delle regole circa
la loro fruizione e chi rispetta queste regole ha diritto di accedere a questi beni e mezzi di
salvezza che la chiesa ha il dovere di amministrare. Stiamo parlando proprio di diritto e di
dovere tipici nell'esperienza giuridica.

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Caratteristiche del diritto canonico
1. La prima caratteristica è la sua universalità: La chiesa, è stata istituita da Gesù Cristo
per portare in tutto il mondo il messaggio di salvezza. La sua missione, non è limitata ad
un territorio o ad un popolo, come accade per gli ordinamenti giuridici degli Stati o per
altri ordinamenti confessionali come quello ebraico, che pone delle limitazioni di carattere
etnico per la professione di tale fede. L’ordinamento giuridico canonico ha un carattere
aperto, mediante il battesimo, infatti, l’uomo è incorporato nella Chiesa di Cristo. La
qualità di fedele, si acquista per libera determinazione soggettiva, e non, come ad esempio
per la cittadinanza, grazie alla volontà dello Stato di concederla.
2. personalità dell'ordinamento canonico Criterio ordinario e fondamentale di
individuazione dei destinatari delle norme canoniche è quello personale, le norme
canoniche sono quindi dirette ai battezzati della Chiesa cattolica. Viceversa, nei diritti
statali, il criterio ordinario è quello territoriale. Se nel passaggio di frontiera da uno Stato
all’altro, muta il diritto secolare, lo stesso non accade al diritto canonico che, non avendo
una dimensione nazionale segue la persona.
3. negli ordinamenti statali tutte le norme provengono da un legislatore umano, terreno.
Nell'ordinamento canonico il nucleo più importante delle sue norme è prodotta dalla
divinità che ha dio come suo autore. Si distingue dunque un diritto divino che ha
direttamente dio come autore e un diritto umano. Il diritto divino è superiore al diritto
canonico umano e questa superiorità ha due aspetti: 1) (caratteristica in negativo) il diritto
umano non può mai contraddire il diritto divino 2) (caratteristica in positivo) il diritto
umano si articola su quello divino, è arricchimento e sviluppo del diritto divino. Il diritto
divino è nella chiesa una sorta di costituzione ma a differenza di questa è inalterabile; è
infatti inderogabile, inabrogabile, immodificabile.
4. Sconosciuta ai diritti secolari è la distinzione tra foro esterno e interno. La potestà
di governo è normalmente esercitata in maniera pubblica e notoria, con effetti conosciuti
dalla comunità di fedeli. Ciò significa che il diritto canonico regolamenta comportamenti
che un terzo può percepire attraverso i sensi (attività esteriore). Eccezionalmente
l'ordinamento canonico può regolamentare il foro interno cioè atteggiamenti che
rimangono nella sfera interiore dell'individuo e non vengono resi pubblici (Es. bestemmia);
5. Elasticità vale a dire che, a differenza degli ordinamenti secolari, quello canonico non
mette come valore assoluto la certezza del diritto. Nell'ordinamento canonico, infatti,
l’adesione dei soggetti non è data dal timore della sanzione ma dalla volontà di
conseguirne la finalità, che coincide col bene spirituale delle anime. Se ci si rende conto
che la norma da applicare, potrebbe produrre una situazione iniqua si può benissimo
disapplicare tale norma derogandola o sostituendola. Nell'ordinamento secolare il
principio dura lex sed lex ha la sua ragione di fondo nella c.d. certezza del diritto, cioè in
quel bene superiore nella vita dei consociati, tale che tutti possano a priori conoscere le
situazioni giuridiche che, in base alle norme violate, si verranno a produrre.
Nell’ordinamento canonico preme naturalmente, come requisito indispensabile di

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qualunque sistema normativo, la garanzia della certezza del diritto; tuttavia questa cede
rispetto al bene supremo della salus animarum. Naturalmente l'elasticità riguarda
solo le norme di diritto canonico poste dall’autorità umana.

Diritto divino e diritto umano


Il diritto divino non è un insieme unitario ma si divide in due sotto categorie:
1. Diritto divino naturale: dato da un complesso di situazioni giuridiche attive e passive
(diritti e doveri) proprio dell'essere umano in quanto tale (correlati alla natura dell'essere
umano). Essendo proprie dell'essere umano riguarda tutti gli uomini a prescindere che
questi facciano o non facciano parte della chiesa. Il diritto divino naturale è conoscibile
attraverso due canali: in primis mediante la ragione umana, le capacità razionali che
vanno applicate dall'essere umano non considerato singolarmente ma in relazione alla
creazione (principio dell'eterosessualità del matrimonio). Naturalmente la ragione umana
può anche sbagliare e per evitare l'errore della ragione umana vi è un ulteriore canale che
è la rivelazione divina, contenuta nella scrittura da cui è possibile ricavare il diritto divino
naturale. La singola autorità nella chiesa può errare quella che non può sbagliare è la
chiesa come istituzione nel suo complesso rappresentata dal concilio ecumenico.
2. Diritto divino positivo è quel diritto divino che riguarda esclusivamente la chiesa e
dunque coloro che hanno ricevuto il battesimo; la dimensione giuridica che Cristo ha
voluto per la chiesa. Il diritto divino positivo è percepibile di conoscenza dall'uomo grazie
alla sacra scrittura, mezzo principale di conoscenza del diritto divino positivo. La fonte di
conoscenza sussidiaria è la cosiddetta Tradizione nel senso etimologico del termine.
Quando si parla di tradizione si fa riferimento a qualcosa che è stato trasmesso e si tratta
di una trasmissione orale di Cristo agli apostoli e dagli apostoli ai successori (vescovi). La
tradizione essendo orale non si ravvisa nella sacra scrittura (trasmissione divino
apostolica). Nella chiesa cattolica il sacramento dell'ordine è riservato al sesso maschile e
ciò non si ritrova nella sacra scrittura essendo stato tramandato dalla tradizione divino
apostolica che termina nel 1 sec dopo Cristo (fine dell'esistenza degli apostoli). Accanto
alla tradizione divino apostolica vi è anche quella umano apostolica che non coincide con
forme di conoscenza del diritto divino ma di insegnamenti importanti di essere umani che
non vengono da Cristo.
3. diritto umano riguarda solamente i battezzati nella chiesa cattolica (i battezzati nella
chiesa acattolica non sono soggetti al diritto umano) e tra questi solo coloro che
presentano i requisiti della ragione umana e dei 7 anni di età. Il diritto divino umano può
essere modificato.
La superiorità del diritto divino si ravvisa dal fato che non è facilmente conoscibile o
identificabile come il diritto umano poiché deriva da un attività di interpretazione. Un
giurista, Vincenzo del giudice ha elaborato una teoria secondo cui nella chiesa non
esistono altre norme se non quelle poste dal legislatore umano e il diritto divino sarebbe stato
realmente diritto soltanto se il legislatore umano lo avesse tradotto in norma che ne riproduca

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il contento; in questo modo il diritto divino diventerebbe operante e sarebbe oggetto di studio
da parte del giurista. Il vantaggio della tesi di del giudice risolve il problema della conoscenza
del diritto divino, per cui se non vi è la traduzione in norma, il diritto divino si considera
come non esistente; tuttavia se il diritto divino opera solo se tradotto mancando questa
traduzione, il diritto divino non è vincolante per cui potrebbe essere violato dal diritto umano.
La vigenza del diritto divino dipenderebbe così dal legislatore umano. La canonistica
spagnola ha cercato di dare una risoluzione facendo sì che il diritto divino fosse operante a
prescindere dal lavoro umano, per cui ciò che rende il diritto realmente vincolante è la sua
dimensione storica, la sua storicità ovvero quando la comunità prende consapevolezza circa
l'esistenza di una norma. Applicando questa costruzione al diritto divino prescinde dalla
traduzione del legislatore umano. Questa operazione prede il nome di positivazione che
consiste nel prendere coscienza per cui una determinata regola appartenga al diritto divino a
prescindere della traduzione del legislatore umano. Si ha invece la formalizzazione quando
il legislatore umano canonico redige un canone che riproduce il contenuto di un precetto
divino avendo così una veste tecnica. Avendo elaborato questa costruzione nessuno ha
dubitato del fatto che il diritto divino sia operante e vincolante una volta che viene
individuato a prescindere dal canone che ne riproduca il contenuto.

Chiesa Latina e Chiesa Ortodossa


La chiesa cattolica, per sua espansione, si è sempre dovuta confrontare con culture diverse. Il
diritto canonico conosce due grandi tradizioni: quella Occidentale, della Chiesa latina, e
quella Orientale, cioè delle chiese sui iuris orientali cattoliche. Le chiese ortodosse, sono quelle
chiese cristiane che non sono in comunione con la Chiesa cattolica, dalla quale si staccarono
con lo scisma del 1054. Alla compatta unità della Chiesa latina, rigidamente strutturata in un
organismo unitario centralizzato, rispondono in Oriente una pluralità di chiese ognuna delle
quali si distingue per rito, cioè per il "patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare". Le
chiese cattoliche di rito orientale sono 21, raggruppate sostanzialmente in cinque grandi
gruppi, in base al rito: alessandrina, antiochena, costantinopolitana, armena e caldea. Le
chiese cattoliche orientali non hanno mai usato il latino, ma il greco, l'aramaico o altre lingue
locali. Vi sono anche delle differenze giuridiche che hanno fatto sì che il diritto divino sia
ovviamente identico, ma le norme umane diverse parzialmente, per esempio nelle
chiese cattoliche orientali i ministro di culto o i presbiteri possono essere coniugati. Il rapporto
tra Chiesa latina e chiese orientali è richiamato da due documenti del concilio Vaticano II: è
previsto che "nella comunione ecclesiastica, vi siano legittimamente delle chiese particolari,
che godono di proprie tradizioni, rimanendo integro il primato della cattedra di Pietro,
Romano Pontefice." In passato si era pensato di creare un corpus unico di lex fondamentalis
che è stato un progetto accantonato, esistendo attualmente il Codex iuris canonici, che
riguarda la sola Chiesa latina e il Codex canonum ecclesiarum orientalium, che si riferisce a
tutte e sole le chiese orientali cattoliche.

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Fonti di produzione del diritto canonico
Le fonti del diritto canonico sono: Legge, decreto generale, decreto generale esecutivo,
istruzioni, consuetudine, atti amministrati singolari, statuti, regolamenti.

La legge canonica
La Legge canonica è un ordine dato dalla ragione per il conseguimento del bene comune
(salvezza delle anime), ordine promulgato da coloro che hanno il compito di governare la
comunità. È una definizione che risale a San Tommaso e dunque molto antica. La legge deve
essere razionale: ciò significa che la legge canonica non deve contraddire il diritto divino e
che si deve armonizzarsi coi principi di fondo dell'ordinamento canonico; se manca una di
queste caratteristica la legge è irrazionale; la legge irrazionale non è legge ma corruzione
della legge e si è in dovere di non obbedire. Alla definizione di San Tommaso se ne affianca
un altra più vicina a quella dell'ambiente secolare secondo cui la legge è un atto della potestà
legislativa, generale e astratta, il cui contenuto è fissato mediante la promulgazione.
La caratteristica della generalità e dell'astrattezza le ritroviamo nelle leggi generali, poste dal
Supremo legislatore della Chiesa, il Papa o dal Collegio episcopale riunito nel Concilio
ecumenico; La generalità e l’astrattezza non sono rinvenibili nelle leggi particolari, o ad
personam, leggi nelle quali l’efficacia è limitata ad un territorio o a specifiche comunità di
persone, istituto non riscontrabile negli ordinamenti secolari. Le leggi particolari possono
provenire sia dal papa, sia dal collegio episcopale, ma anche da altri soggetti come vescovi
diocesani singolarmente considerati o aggregazioni di vescovi, subordinati rispetto al collegio
episcopale. I destinatari della legge particolare devono essere individuati in base a un criterio
di ordine territoriale o di ordine personale: Se a carattere territoriale, ci si riferisce ai fedeli
abitanti di un determinato territorio; si tratta di un criterio molto simile a quello del concetto
di residenza, tuttavia nel diritto canonico non esiste il concetto di residenza ma di domicilio, o
quasi domicilio canonico.
Il domicilio canonico si può acquisire in due modi:
1. È richiesto sia un elemento materiale vale a dire la dimora abituale è situata nel
territorio della diocesi e un elemento psicologico con cui non si intende modificare la
dimora abituale a meno che accade un evento straordinario e imprevedibile che costringa
a trasferire la dimora.
2. Richiesto solo l'elemento materiale, per cui si acquisisce il territorio canonico di una
diocesi se si dimora all'interno della stessa per 5 anni; il fattore psicologico non viene
preso in considerazione.
Può accadere che un fedele che non abbia acquistato la diocesi canonica e che non sia legato
ad alcun territorio, né ad alcun vescovo: subentra dunque in assenza dei due criteri prima
elencati, il criterio del quasi domicilio che si può acquisire in due maniere:

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1. Tramite un elemento materiale coincidente col dimorare in un determinato territorio, e
l’elemento psicologico, ovvero l'intenzione di rimanere in un determinato territorio per
almeno tre mesi;
2. Si prende in considerazione solo l'elemento materiale per cui si acquista il quasi domicilio
canonico se si permane in una diocesi per almeno tre mesi continui.

Il diritto canonico ha comunque una valenza universale e vi sono delle problematiche per
quanto concerne le popolazioni nomade. In tal caso il fedele prende il nome di girovago che
non ha né domicilio né quasi domicilio e a lui si applica la legge vigente al territorio in cui si
trova.
La legge particolare può riferirsi non soltanto al territorio, ma anche ad una caratteristica
personale riferita ad esempio solamente ai laici, o ai chierici. In questo caso ovunque si trovi il
fedele, essendo al legge legata alla qualità della persona, quest'ultima trova applicazione.
La potestà legislativa appartiene al vescovo ma il codice canonico dà la possibilità di
delega ad un altro soggetto, con delle precise condizioni: la delega deve essere sempre
espressa e mai implicita; bisogna essere specificata la materia della delega ma anche le
condizioni attraverso le quali si può ricorrere alla delega. Queste condizioni così rigorose non
valgono se la delega dovesse essere fatta dal pontefice o dal collegio episcopale.
Una volta fatta la legge deve essere promulgata. Per la legge universale la promulgazione
avviene come regola generale mediante pubblicazione sugli acta apostolicae sedis (atti della
sede apostolica) altro non sono che l'equivalente della gazzetta ufficiale. Per le leggi particolari
non vi è una modalità specifica e predeterminata, ma sarà la stessa legge di volta in volta a
prevedere come deve avvenire la promulgazione. Diversa è anche la vacatio legis: per la
legge universale l'intervallo è di tre mesi, per la legge particolare la vacatio è di un mese salvo
diversa previsione della legge. Una volta entrata in vigore deve essere osservata dal
destinatario o dai destinatari.
I destinatari delle leggi canoniche sono i battezzati nella Chiesa cattolica; può accadere
però che il battezzando abbia meno di 14 anni, in questi casi si guarda ai genitori o a coloro
che sul soggetto ne esercitano la potestà, il battezzando riceverà il sacramento nella chiesa
Latina nel caso in cui entrambi i genitori siano battezzati nella chiesa Latina (medesimo
ragionamento per la chiesa orientale). Può accadere però che i genitori appartengano a chiese
con riti differenti e in questi casi spetta alla volontà dei genitori decidere quale rito riceverà il
figlio; in caso di disaccordo, il codice stabilisce che il figlio deve essere battezzato nella chiesa
rituale del padre. Si tratta comunque di una scelta modificabile nel senso che è possibile
passare da una chiesa rituale all'altra ottenendo l'autorizzazione del pontefice oppure
attraverso il matrimonio, quindi senza alcuna autorizzazione.

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Interpretazione della legge
La legge in vigore deve essere interpretata: si può avere un'interpretazione autentica e una
non autentica. L'interpretazione autentica proviene o dal legislatore o da colui al quale il
legislatore ha delegato questo compito o è effettuata dal consiglio pontificio. Vi è poi
l'interpretazione non autentica che deriva da tutti coloro che devono interpretare la
norma e avrà efficacia inter partes.
Bisogna stabilire i parametri per comprendere le norme:
1. Parametro letterale, secondo cui bisogna intendere le parole del legislatore considerate
nel testo e nel contesto. Può verificarsi che tale interpretazione non ci aiuti a comprendere
il significato della norma;
2. Parametro analogico, si fa così riferimento al criterio dei “luoghi paralleli” vale a dire ci
si connette ad altre norme diverse da quella di difficile interpretazione che però
riguardano la stessa materia. Se anche questo criterio non funzione ne subentra un terzo;
3. Parametro razionale, la c.d. ratio legis, cioè analizzare e stabilire il fine della legge. Se
neanche questo dovesse funzionare si utilizzerà un quarto criterio;
4. Parametro intenzionale, secondo cui si fa riferimento all’intenzione del legislatore
(mens legislatoris). La mens legislatoris non deve essere confusa con la ratio legis in quanto
l’obiettivo della legge (ratio legis) è lo scopo che la legge vuole raggiungere, l’intenzione
(mens legislatoris) è il perché si vuole raggiungere quello scopo .
Attraverso questi quattro criteri dovrebbe essere possibile l'interpretazione della legge. Per
alcuni tipi di leggi, come quelle che stabiliscono una pena o quelle che limitano il diritto
(restringono l'esercizio di questo), il codice prevede che deve essere effettuata una
interpretazione restrittiva, ossia limitativa della portata della norma.

Abrogazione
L'abrogazione della legge canonica è simile a quella del diritto pubblico italiano:
l’abrogazione esplicita si ha quando una legge abroga esplicitamente un’altra, quella
implicita quando una legge è direttamente contraria ad un’altra oppure quando una legge
riordina integralmente una materia già disciplinata da altre leggi. Il rapporto tra leggi
universali e leggi particolari è regolato secondo un principio di gerarchia: se leggi particolari
sono poste del supremo legislatore ecclesiastico, prevalgono sulle leggi generali, da cui non
possono essere abrogate; se la legge particolare è posta dal legislatore inferiore, essa non può
abrogare né derogare la legge universale, che quindi prevale. Il codice canonico precisa infatti
che "da parte del legislatore inferiore non può essere data validamente una legge contraria al diritto superiore."
Per quanto riguarda le leggi gerarchicamente pari ordinate, anche in diritto canonico vale il
principio secondo cui la legge posteriore abroga la precedente o deroga alla medesima, così
come il principio che la legge riguarda le cose future (opera pro futuro) per cui di regola non
ha valore retroattivo a meno che il legislatore non disponga altrimenti.

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Decreto generale il codice canonico afferma che il decreto generale è una legge ed è quindi
regolato dalle norme sulle leggi. La ragione della distinzione con la legge sta nel fatto che il
decreto è un tipo di legge utilizzato in due situazioni:
• per completare una regolamentazione preesistente, e dunque non avrà un valore autonomo
e si ricollegherà a leggi già esistenti;
• Nel caso in cui occorre una normazione di urgenza che non sarà quella definitiva.


Decreto generale esecutivo serve a determinare le modalità di applicazione della legge e


per ciò presuppone l'esistenza di una legge. Non è mai autonomo, ma sempre correlato ad
una legge preesistente, e non può mai contraddirla: è quindi una fonte subordinata alla legge.
Il decreto generale esecutivo deve esser conforme al principio di legalità. Il decreto generale
esecutivo è assimilabile ad un regolamento nel sistema gerarchico statale, in quanto
applicativo della legge e correlato ad essa. Il decreto generale esecutivo si rivolge a tutti i fedeli
coinvolti in una determinata legge.

L'istruzione serve ad individuare le modalità di attuazione di una legge; in quanto tale


potrebbe sembrare identico al decreto generale esecutivo, tuttavia sussiste una differenza ossia
che l'istruzione non riguarda i fedeli in genere, bensì coloro i quali all'interno della chiesa
ricoprono un incarico, un ufficio e che sono chiamati ad attuare una legge canonica (es.
Giovanni Paolo II istruzione sul processo matrimoniale). Questa istruzione è passata
inosservata poiché rivolto ad dei soggetti ben determinati e non al comune fedele. Il regime
per il resto è identico al decreto in quanto anche l'istruzione presuppone l'esistenza di una
legge; essa dunque non può contraddire la legge e come il decreto è una fonte secondaria che
presuppone non solo la razionalità, ma anche la legalità. Se volessimo ricondurre l'istruzione
ad una norma nel sistema normativo statuale destinato non erga omnes ma a soggetti
determinati, nella circolare ministeriale.

Consuetudine
Per consuetudine non si intende una fonte atto, ma una fonte fatto. La consuetudine
nell'ordinamento canonico è sempre stata estremamente importante anche se attualmente
l'ordinamento canonico privilegia la fonte scritta. Sotto alcuni profili è assolutamente identica
a quella dell'ordinamento italiano. La consuetudine è uno dei mezzi fondamentali attraverso
cui l'ordinamento canonico attua l'elasticità, in quanto alla comunità è permesso di
autoregolamentarsi. Al grande pregio di essere strumento di elasticità si contrappone un difetto
per cui la comunità possa darsi delle regole che anziché agevolare la salvezza dell'anima la
possano ostacolare (rilassamento della norma). Il codice canonico prevede dunque dei requisiti
ben precisi perché possa nascere la consuetudine:

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1. Elemento materiale. La consuetudine deve nascere da un comportamento di “una
comunità capace almeno di ricevere una legge e di introdurre un diritto” (can. 25) e non
dal comportamento di un singolo. Sull’interpretazione del canone 25 si contrappongono
due tesi: la prima ritiene che qualunque gruppo di fedeli sia per definizione capace di
ricevere una legge e quindi potrebbe creare una consuetudine (concetto ampio); la
seconda tesi, quella dominante, si riferisce a quel gruppo di fedeli che rientra in uno dei
modelli di comunità che il codice prevede (es: parrocchia, ordine religioso, casa religiosa).
2. Elemento psicologico. La comunità deve comportarsi in un determinato modo perché
è sua precisa intenzione creare una norma. E’ necessario che tale comportamento sia
ritenuto giusto e quindi dovuto, e inoltre sia ripetuto e osservato per il tempo stabilito.
3. Approvazione del legislatore. La consuetudine deve essere approvata dal legislatore
per due motivazioni: una di ordine pratico, finalizzata all'impedimento che attraverso la
consuetudine la comunità possa creare delle norme che non rientrano nel fine ultimo
della salvezza dell'anima (perché ad esempio la ostacolano); una di ordine più ampio,
riconducibile alla natura stessa della chiesa. Nella chiesa, infatti, la sovranità non
appartiene ai fedeli, per cui essi non sono in grado di creare norme (nella chiesa non vige
un principio democratico). L'approvazione del legislatore può essere esplicita quando il
legislatore formalizza tramite una legge la consuetudine cosicché questa risulti
espressamente approvata; l'approvazione è implicita quando la comunità si comporta in
un determinato modo e per un determinato periodo (30 anni) e il legislatore non
interviene mai a rimproverare tale comportamento.

Una volta nata la consuetudine ha un efficacia di tre tipi:


1. Secundum legem, quando la comunità non sta creando nulla di nuovo ma si presta ad
adempiere quanto già previsto da una legge al fine di interpretarla meglio;
2. Praeter legem la consuetudine ha forza di legge quando disciplina una materia non
normata dal legislatore, integrando così le lacune dell'ordinamento;
3. Contra legem, la consuetudine proprio perché mezzo di elasticità può derogare la legge
ma solo il diritto umano e mai quello divino. Tuttavia nella deroga del diritto umano vi è
un limite: la consuetudine come tutte le norme canoniche deve essere razionale, e la
consuetudine espressamente riprovata dalla legge è per definizione irrazionale e quindi
non potrà mai derogare una legge. Molto più frequente è il caso che la legge non
condanni espressamente un determinato comportamento ma si limita genericamente a
vietare tutte le consuetudini ad essa contrarie; la riprovazione in questo caso è generica e
non specifica (impedisce che quel determinato comportamento diventi consuetudine) in
quanto allunga il decorso del tempo, che non sarà più di 30 anni. La consuetudine deve
essere immemorabile, ossia neanche la comunità ricorda il momento in cui sia sorta la
consuetudine stessa, oppure deve essere una consuetudine quantomeno centenaria;

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Come cessa la consuetudine: secondo il codice la consuetudine scompare solamente in
virtù o di una legge successiva o da una consuetudine che revoca quella precedente. Anche
questa revoca può essere esplicita o implicita. Se tuttavia siamo in presenza di una
consuetudine centenaria o immemorabile l'abrogazione può essere solamente esplicita non
può mai essere implicita.

Atti amministrativi singolari


Si tratta di atti giuridici che hanno per destinatari soggetti specificatamente individuati, ad
personam (opposto della generalità). Il termine amministrativo potrebbe essere ingannevole:
l'atto amministrativo singolare non può essere contrario alla legge o alla consuetudine o
ledere un diritto acquisito, a meno che l'autorità che abbia emanato l'atto non abbia
espressamente previsto una clausola derogatoria (cioè una clausola che legittima l'atto a
derogare la legge, la consuetudine o il diritto acquisito).
Quest'ultimo punto è particolarmente problematico: per derogare la legge nella gerarchia
delle fonti occorre in realtà un'altra legge e non è possibile attuarsi la deroga con un atto
amministrativo: questo atto amministrativo viene a configurarsi dunque come un atto
legislativo. Si tratta di un atto, che è amministrativo nella forma e nel nome, ma è legislativo
nella sostanza .
L'atto amministrativo singolare non è una categoria unitaria e tale categoria comprende:
Atti amministrativi formalmente e sostanzialmente tali;
Atti amministrativi solo formalmente, ma nella sostanza sono legislativi (sono leggi);
Atti amministrativi singolari che in realtà hanno natura di sentenza e sono assimilabili a
pronunce giudiziarie .
Se si tratta di un atto amministrativo sia nella forma che nella sostanza (atto
amministrativo in senso stretto) basterà essere titolari della potestà esecutiva. Se invece
l'atto è amministrativo solo nella forma, ma in sostanza è una legge occorre la potestà
legislativa. Un atto amministrativo nella forma e nella sostanza deve rispettare i principi di
razionalità legalità e mentre se invece l'atto è amministrativo solo nella forma, ma nella
sostanza è una legge, dovrà rispettare il principio di razionalità e non di legalità in quanto può
derogare la legge.
Nell'ordinamento canonico la legge ad personam è assolutamente consentita in virtù della
caratteristica dell'elasticità, che proviene dal primato che ha in tale ordinamento il fine della
salvezza delle anime. Se infatti la regola generale prevista dalla legge o comunque una
disposizione superiore confligge nel caso concreto con il fine della salvezza del singolo
individuo, l'ordinamento canonico mette a disposizione dell'autorità istituti (privilegi,
dispense) che gli consentano di derogare alla norma generale o superiore.
La categoria degli atti amministrativi essendo molto ampia, il codice canonico ne fa una
classificazione non in base al contenuto ma dal fatto che possano o non possano provenire
dall'autorità ex ufficio, cioè senza istanza di parte. Il parametro che il legislatore utilizza è di

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verificare se l'atto amministrativo singolare può provenire ex ufficio, quindi dall'autorità di
propria iniziativa, o se invece richiede un'istanza di parte.
Se può provenire anche ex ufficio si chiama decreto. I decreti sono quegli atti amministrativi
singolari che possono provenire, oltre che dall'istanza delle parti, anche su iniziativa
dell'autorità, quindi ex ufficio .Gli atti amministrativi singolari che presuppongono
necessariamente l'istanza di parte, si chiamano rescritti.
Nel momento in cui si richiede un decreto, l'autorità ecclesiastica è tenuta a dare una risposta
ma se questa non proviene, il silenzio viene interpretato come diniego se dal momento della
richiesta del decreto sono decorsi tre mesi.
Il codice individua all'interno della categoria dei decreti il precetto che si caratterizza per il
proprio contenuto (prevede un ordine di fare o di non fare qualcosa). Normalmente si ricorre
al precetto soprattutto per sollecitare l'osservanza di una legge, ma non esclusivamente
lasciando aperta la possibilità che si usi il precetto, in via residuale, per imporre doveri nuovi.
Il rescritto presuppone sempre l'istanza di parte che richiede dunque più fasi:
• l'istanza del richiedente da parte di un fedele o di un gruppo di fedeli;
• la valutazione da parte dall'autorità, tenendo conto delle motivazioni che spingono il fedele
alla richiesta.
Il codice presuppone che i fedeli nel richiedere il rescritto espongano il vero. Il codice
regolamenta anche i possibili vizi della motivazione: surrezione e orrezione.
La surrezione si ha quando il fedele, nel descrivere le motivazioni, omette qualche
circostanza vera, dando così luogo ad una rappresentazione della realtà parziale, ritenendo
che l'autorità, se sapesse tutta la verità, respingerebbe la richiesta. Se il rescritto viene
concesso e successivamente si verrebbe a conoscenza della surrezione, e questa è stata
determinante alla concessione del provvedimento, il rescritto in questo caso è nullo con
efficacia retroattiva.
L'orrezione si ha quando il fedele indica delle motivazioni false. Se il provvedimento viene
concesso, ed in seguito l'autorità si rende conto che le motivazioni erano false, il rescritto sarà
nullo con efficacia retroattiva. 

Anche i rescritti possono essere amministrativi o legislativi e i rescritti più importanti sono atti
con natura legislativa. I rescritti con natura legislativa sono il privilegio e la dispensa (norme
singolari).
Il privilegio viene definito dal codice come "legge privata concessa con benevola intenzione"; alla
base della concezione del privilegio sta una norma ad personam per il fine della salvezza
dell'anima; il privilegio può riguardare una persona fisica (privilegio personale), una cosa
(privilegio reale) o un luogo (privilegio locale).
Il privilegio può essere a tempo determinato se ha scadenza predefinita, la quale deve essere
esplicitamente indicata; se non vi è scadenza si desume che il privilegio sarà a tempo
indeterminato. Se il privilegio è a tempo indeterminato non vuol dire che non termina mai,
dal momento che se è personale, termina con la morte del titolare; nel caso in cui si tratti di

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privilegio reale e locale, essi si estinguono con la distruzione della cosa o del luogo.
Per il privilegio reale questa estinzione è irreversibile, per il privilegio locale il codice prevede
una sorta di reminiscenza del diritto per cui se il luogo dovesse venire ricostruito entro
cinquant'anni dalla distruzione il privilegio rivive.
Accanto al privilegio vi è la dispensa ossia l'esenzione dall'osservanza di una legge.
È chiaro che la dispensa non è altro che un atto legislativo: per derogare una legge serve
esclusivamente un'altra legge. Per potere concedere questa esenzione occorre la potestà
legislativa. Fine della dispensa è quello di piegare la certezza formale del diritto al fine della salvezza delle
anime.
Il vecchio codice prevedeva che la dispensa fosse richiesta al pontefice ed eccezionalmente al
vescovo. Il nuovo codice ha rovesciato la visione precedente e prevede che la dispensa venga
abitualmente richiesta al vescovo e in alcune circostanze al pontefice.
• Nel caso di oggettiva difficoltà di ricorrere alla Santa sede è possibile richiedere la
dispensa al vescovo; questa difficoltà si deve intendere o nel fatto che il fedele non si possa
recare materialmente a Roma o non può nemmeno utilizzare il servizio postale presso
sempre la Santa sede. È chiaro che l'evoluzione tecnologica ha fatto sorgere varie
problematiche e il pontificio consiglio ha chiarito che anche se il fedele potesse utilizzare
strumenti di messaggistica tecnologici (fax, email), la difficoltà sussiste ugualmente in quanto
sono strumenti che non garantiscono la privacy.
• Altra condizione per cui è possibile richiedere la dispensa al vescovo è che non si può
attendere che cessi questa difficoltà comunicativa perché potrebbe verificarsi al fedele un
grave danno, sia spirituale che materiale.
• Altra condizione è che deve trattarsi di una dispensa che la santa sede di fronte ad una
situazione analoga (a quella in cui si trova il richiedente) generalmente concede.
Se sussistono queste tre condizioni la dispensa può essere chiesta anziché al pontefice al
vescovo. C'è un solo caso in cui questo non è possibile per cui se vi è difficoltà di comunità
della Santa sede bisogna aspettare la fine delle difficoltà: ossia quando il chierico voglia essere
dispensato dall'ordine del celibato. In questo caso si dovrà aspettare che cessi l'impedimento
che ostacola la comunicazione con il pontefice, e il vescovo non ha competenze.
Infine il codice canonico prevede che anche il parroco, gli altri presbiteri o i diaconi possano
dispensare, ma a condizione che tale potestà sia stata loro concessa.
Affinché la dispensa possa essere concessa è necessario che vi sia alla base una motivazione
fondata. Il codice si ammette che non è possibile dispensare se non sussiste una causa
giusta e ragionevole, tenuto conto delle circostanze del caso è della gravità della legge dalla
quale si vuole essere dispensati. Ciò significa che per potersi dispensare, essendo la dispensa
una legge, occorre, come ogni norma canonica che sia razionale. L'autorità a cui viene
sottoposta la richiesta di dispensa deve valutare sulla razionalità di quest'ultima tenendo conto
del fatto concreto su cui si basa la circostanza insieme alla gravità della legge da cui si vuole
essere dispensati. La gravità del contesto deve essere più grave del contenuto della legge da

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cui si vuole essere dispensati. Ciò vuol dire che l'autorità che si trovi dinanzi ad una richiesta
di dispensa è tenuta a fare una valutazione comparativa: è più razionale mantenere la legge
generale ed astratta o accogliere la richiesta di dispensa e esentare quel caso specifico?
Si tratta di una valutazione su due diverse razionalità, ed in base a questo decidere se
accogliere o meno, la richiesta di dispensa.
Il legislatore, però, si è posto un altro problema ossia il caso in cui l'autorità ecclesiastica
conceda erroneamente una dispensa in mancanza di una causa giusta e ragionevole.
In questo caso si tratterebbe di un provvedimento non razionale (corruptio legis), per
questo la legge singolare è illegittima è in quanto tale si considera una legge inefficace
Nel momento in cui si prende in considerazione questa ipotesi, per cui la dispensa è
inefficace, il comportamento che il fedele tiene sulla base di questa dispensa, sarebbe un
comportamento illegittimo perché non ha un fondamento sulla norma.
eccezionalmente il codice prevede che, la dispensa sia illecita, ma valida, purché non vi sia
surrezione ed orrezione, in quanto si tratti essenzialmente di un errore commesso dall'autorità
ecclesiastica. L'autorità che l'ha concessa sarà sanzionata (tranne il pontefice), ma la dispensa
produrrà ugualmente effetti giuridici.

Gli Statuti
Lo statuto in diritto canonico è la normativa interna delle persone giuridiche; esso riguarda
solo la persona giuridica interessata.

I Regolamenti
Il diritto canonico ha varie forme di collegialità (conclave – sinodo - concilio ecumenico) che
sono disciplinate da regole che si chiamano regolamenti e si riferiscono ognuno ad ogni
singola riunione.

Diritto suppletorio
Come l’ordinamento statale anche quello canonico può avere dei vuoti; queste lacune
vengono colmate dal c.d. diritto suppletorio; se vi è una materia per la quale non vi è nessuna
norma si usa il diritto suppletorio, il quale prevede quattro criteri:
1) Analogia legis, se vi è un vuoto si applica una legge che regolamenta un caso simile;
2) Analogia iuris, vengono applicati i principi fondamentali dell’ordinamento canonico
secondo il principio dell’aequitas canonica. Vengono cioè applicati in modo elastico
tendendo in considerazione la particolarità delle situazioni di fatto;
3) Sentenze e pronunce della giurisprudenza - prassi della curia romana (l’insieme di
quegli organi che collaborano col Papa nella guida della Chiesa universale); il Papa ha
due compiti: il primo è quello di guidare la diocesi di Roma, il secondo è quello di guidare

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la chiesa universale e per fare ciò si serve di una serie di organi con funzioni
amministrative, esecutive, consuntive, giudiziarie (pontificio consiglio);
4) Comune e costante opinione dei giuristi; se l’attività pratica non è sufficiente
(sentenze o prassi) si usa il criterio intellettuale, prendendo in considerazione
l’opinione comune e costante dell’insieme dei giuristi del diritto canonico.


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Il popolo di Dio 

Il popolo di Dio è la composizione della chiesa in termini soggettivi; si tratta di un concetto
molto vecchio, del quale già troviamo tracce nelle lettere di Pietro. Per popolo di Dio si
intende l'idea in base alla quale tutti i membri della chiesa hanno uno status giuridico
comune, e che comprende tutti i battezzati della chiesa cattolica. Mediante il battessimo
infatti l'uomo è incorporato alla chiesa di Cristo, e in essa costituito persona (cioè
individuo umano), titolare di doveri e diritti. L'espressione persona sembrerebbe far pensare
che chi è battezzato acquista una capacità giuridica, e chi non è battezzato ne è privo
assimilandolo ad una res. In realtà il termine "persona" sta ad indicare proprio l'individuo
umano, che avendo ricevuto il battesimo è membro della chiesa, e dunque non è assunto dal
legislatore in senso tecnico giuridico, ma in senso stretto.
I non battezzati comunque non godono nell'ordinamento canonico della pienezza della
capacità giuridica, tuttavia essi hanno una soggettività giuridica canonica in quanto
destinatari di norme che conferiscono loro dei diritti quali ad esempio il diritto di libertà
religiosa o il diritto di ricevere il battesimo.
I battezzati fanno parte del popolo di Dio, si tratta di un concetto molto antico, che però la
chiesa ha progressivamente messo da parte a favore del principio della distinzione dei
fedeli in categorie. Si passa dunque da un'uguaglianza di fondo alla classificazione di fedeli
in varie categorie, ognuna delle quali ha uno status giuridico ben preciso. Questo processo si
fa iniziare con il decreto di Graziano: all'interno del corpus iuris canonici. Graziano aggiunge
anche dei propri commenti e in particolar modo afferma, in riferimento ai beni temporali, la
distinzione di due categorie di cristiani: i chierici ed i laici.
I chierici sono quelli che, oltre ad aver ricevuto il sacramento del battesimo, hanno ricevuto
anche il sacramento dell'ordine. I laici sono tutti coloro che non hanno ricevuto il
sacramento dell'ordine. Mentre i laici possono disporre liberamente dei beni temporali, i
chierici dovrebbero limitarsi perché potrebbero essere distolti dalla loro missione. La chiesa ha
teso ad estrapolare questa distinzione effettuata da Graziano, e ne ha fatto un principio
generale, dimenticando l'uguaglianza di fondo. I chierici vengono considerati come quelli che
guidano la chiesa, mentre in laici sono coloro che obbediscono. Tale distinzione si è
accentuata ancora di più nel Concilio di Trento.
Il concilio Vaticano II ha riscoperto il concetto di popolo di Dio, cioè l'idea
dell'eguaglianza di fondo, concetto che poi è passato nel nuovo codice (II libro). Ciò
significa che all'interno della chiesa vi sono si ruoli di diversi, ma i fedeli, in virtù del
battesimo, hanno diritti e doveri comuni.
Questo principio prende il nome di "principio di eguaglianza essenziale": tutti i fedeli
hanno, indipendentemente dal ruolo che svolgono nella chiesa, dei diritti e doveri che li

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accomunano. Dal punto di vista dell'eguaglianza essenziale tra fedeli e pontefice non c'è
alcuna differenza. All'interno della chiesa però vi sono ruoli diversi, in relazione alle funzioni
che ciascuno è chiamato a svolgere (sacramento dell'ordine) e tali attribuiscono diritti e doveri
peculiari (disuguaglianza funzionale)
I fedeli vengono così divisi in tre categorie: 1) Chierici (coloro che hanno ricevuto il
sacramento dell'ordine che si distingue del diaconato, presbiterato ed episcopato); 2) Laici
(coloro che vivono da cristiani nel mondo) 3) Religiosi coloro che professano i consigli
evangelici (povertà, carità e obbedienza).


Status giuridico comune dei fedeli



Il termine fedele non fa riferimento solo all'avversario ricevuto il sacramento del battesimo dal
momento che è necessaria la comunione ecclesiale (richiede un'adesione dell'individuo
volta a condividere il messaggio di cui la chiesa è portatrice). Il battezzato che non professa la
fede cattolica non è in comunione con questa e si pone al di fuori del suo ambito socio
giuridico.
La comunione ecclesiale deve necessariamente comprendere tre elementi: 1) La fede; 2) I
sacramenti; 3) Governo ecclesiastico;
Questo vuol dire che il battezzato, se vuole essere un fedele a tutti gli effetti, deve condividere
la fede proposta dalla Chiesa, chi non condivide questa fede anche se ha ricevuto il battesimo,
non è in comunione con la chiesa. In modo particolare, bisogna credere nei sacramenti.
Inoltre occorre condividere il rispetto di coloro che nella chiesa esercitano una potestà,
bisogna essere in comunione gerarchica. Questa gerarchia nella chiesa è rappresentata dal
pontefice e dai vescovi: il fedele deve riconoscere queste autorità.
Se manca uno solo di questi tre elementi il soggetto, pur essendo battezzato, non è in
comunione con la chiesa e non potrà avere la pienezza dello status giuridico.
Nel momento in cui si rompe il rapporto di comunione, il fedele pone in essere un illecito
penale canonico; potrebbe essere un rifiuto totale della fede cattolica (apostasìa), un rifiuto
parziale della fede cattolica (eresìa). Può anche accadere che un soggetto, mantenga la fede,
ma rompa il rapporto di subordinazione gerarchica con l'autorità (Scisma). L'apostasìa, lo
scisma, l'eresia, sono dei crimini sanzionati dall'ordinamento canonico con la scomunica.
Si tratta tuttavia di comportamenti che possono anche non essere resi esterni, per questo
motivo il codice si è posto il problema che il fedele deve avere modo di esternalizzare il
proprio distacco dalla chiesa. Il nuovo codice menziona la possibilità che il fedele si distacchi
dalla chiesa con un atto formale: detto atto formale di recesso, con il quale il fedele
manifesta in maniera certa ed incontrovertibile l'intenzione di discostarsi dalla fede. 


Il pontificio consiglio ha chiarito quali debbano essere le caratteristiche dell'atto formale di


recesso: si tratta di un atto recettizio, che va trasmesso all'autorità ecclesiastica; ricevuta

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questa dichiarazione, il vescovo, deve fare presente al fedele che incorrerà nella scomunica, ed
invitarlo a cambiare orientamento. Se il fedele mostra di voler perseverare la sua decisione, va
fatta annotazione dell'atto formale di recesso nel registro dei battezzati, e questo avrà delle
conseguenze giuridiche. 


Diritti dei fedeli


Parte del codice è dedicata ai doveri e ai diritti dei fedeli. Per una differenza sostanziale i
doveri vengono trattati prima dei diritti.
1. Diritto all'eguaglianza: tutti i fedeli hanno diritto di agire all'interno della chiesa in
modo eguale. Ciò determina che, all'interno della chiesa, ogni soggetto ha un ruolo attivo
per permettere alla chiesa di raggiungere il proprio scopo: si parla di principio di
corresponsabilità dei fedeli.
2. Diritto a ricevere i beni spirituali della chiesa (sacramenti) per il raggiungimento
della salvezza.
3. Diritto di manifestare il proprio pensiero su ciò che riguarda il bene della
chiesa: ciascun fedele ha il diritto di manifestare agli altri fedeli, quello che è il proprio
pensiero circa il bene della chiesa. ( simile Art 21 costituzione) questa norma contiene una
puntualizzazione: l'ampiezza di questo diritto varia in relazione alla scienza, alla
competenza ed al prestigio del fedele. La scienza è la cultura generale di cui il fedele
dispone, tanto più è colto, quanto più ampio sarà questo diritto. Competenza fa
riferimento alla conoscenza che il soggetto ha delle scienze sacre e della vita interna della
chiesa. Il prestigio è il ruolo, la reputazione, che il fedele ha all'interno della comunità
ecclesiale.
4. Diritto ad essere immuni alla costrizione della scelta dello stato di vita.
Significa che il fedele può scegliere a quale categoria di fedeli appartenere, può decidere
se sposarsi o meno. Il matrimonio, così come la vita religiosa, sono atti personalissimi.
5. Diritto alla tutela della buona fama e della riservatezza. Il fedele ha il diritto di
non vedere offeso il suo decoro all'interno della comunità dei fedeli. Il diritto alla
riservatezza (corrisponde alla privacy) secondo il quale il fedele ha diritto affinché le
proprie scelte personalissime non vengano divulgate (es. Registri nei quali la chiesa
cattolica annota tutti i sacramenti che un soggetto riceve, si tratta di dati sensibili che
vanno circondati da riservatezza).
6. Altri diritti importanti sono quelli che riguardano il fedele che per qualche ragione debba
ricorre alla giustizia canonica: un fedele può essere attore in causa o convenuto in
causa o imputato in un processo penale canonico e per ciò sottoposto a giudizio.
Si può essere attori: Un fedele ricorre alla giustizia canonica nel momento in cui richiede
un intervento della chiesa affinché vengano tutelati i propri diritti. Il codice afferma che
ogni fedele ha diritto a ricorrere alla giustizia canonica, per la tutela delle proprie

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situazioni giuridiche soggettive.

Si può essere anche convenuti e il soggetto ha diritto di essere giudicato secondo legge e
che le norme canoniche debbano essere applicate con equità (tenendo conto delle
particolarità della fattispecie concreta in base alla caratteristica della elasticità).
L'imputato ha delle garanzie cioè il fedele ha diritto ad essere colpito da una pena
canonica solamente nei casi previsti dalla legge. Secondo il principio nullum crinem sine lege.
Tuttavia il canone 1399 prevede in casi eccezionali che il giudice possa punire con una
pena anche quando il comportamento non è previsto come criminoso.
7. Diritto di associazione i fedeli hanno il diritto di formare delle associazioni; il vecchio
codice non prevedeva questo diritto, ma soltanto alcune categorie di associazioni. Il fedele
ora può agire nella chiesa da solo, ma può agire anche con associazioni avendo o finalità
di culto e di religione o finalità caritative. Il codice distingue due tipi di associazioni di
fedeli: le associazioni private e le associazioni pubbliche. Le prime sono quelle costituite
direttamente su iniziativa dei fedeli, le seconde sono quelle costituite direttamente su
iniziativa dell'autorità ecclesiastica. Tale distinzione si ricollega alla più generale
distinzione tra persone giuridiche private e persone giuridiche pubbliche. Le
prime nascono per libera ed autonoma iniziativa dei fedeli, agiscono in nome proprio per
il perseguimento delle finalità che liberamente si sono sottoposte degli statuti, seppure
sempre congruenti con le finalità proprie della Chiesa; le seconde sono costituite dalla
competente autorità ecclesiastica e agiscono in nome di questa. La distinzione ha riflessi
sul regime giuridico della realtà interna delle associazioni, sulle loro attività e sul loro
patrimonio (i beni appartenenti alle persone giuridiche pubbliche compongono il cd
patrimonio ecclesiastico).

Doveri dei fedeli


1. dovere di conservare sempre la comunione ecclesiale (conservare la fede, onorare
i sacramenti e rispettare l'autorità). Corollario di questo dovere è accettare quello che
l'autorità ecclesiastica insegna e dispone (i comandi). Questo duplice dovere trova un
limite in quanto è un dovere che vige solo nel momento in cui la comunità ecclesiastica
esprima il comando secondo diritto;
2. Dovere di provvedere alle necessità della chiesa la chiesa ha un fine spirituale, ma
si trova ad agire in una realtà temporale e dunque utilizza mezzi materiale; il fedele è
tenuto a provvedere alle necessità della chiesa secondo le proprie possibilità in relazione ai
beni;
3. Dovere di promuovere la giustizia sociale: il fedele ha il dovere di agire in tutti i
rapporti interpersonali secondo giustizia;
4. Dovere di auto limitarsi nell'esercizio dei diritti ogni fedele quando esercita un
diritto deve sempre avere presente il bene comune, i propri doveri nei confronti degli altri

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e i diritti altrui. I diritti diritti della chiesa infatti non sono mai solamente del singolo; si
tratta di un orientamento della chiesa che è sempre stato presente basato sulla concezione
che i diritti fossero funzionali al bene comune (tesi panpubblicistica).
L'ordinamento canonico ha superato questa concezione e ritiene che i diritti siano
funzionali sia al singolo che al bene comune. La norma prevede che a prescindere da
questo potere di auto limitazione l'autorità ecclesiastica possa moderare l'esercizio di
questi diritti.

Diritti dei laici


Il codice prevede che ai laici vada riconosciuta nella città terrena quella libertà che spetta a
qualunque altro cittadino. Il termine città terrena indica con un termine aulico la comunità
politica: al laico spetta, nel momento in cui agisce nella comunità politica, la libertà spettante
al comune cittadino. Tale canone si rivolge allo stato e alla chiesa stessa.
• Stato il canone affronta il problema secondo il quale è possibile che lo stato abbia nei
confronti della chiesa un atteggiamento ostile e chiaramente ciò porta a vedere i laici
cattolici come dei potenziali nemici e dunque soggetti a discriminazione rispetto agli altri
cittadini. Questo canone condanna in primo luogo il cosiddetto laicismo intendendosi con
ciò l'atteggiamento negativo dello stato nella chiesa che si riversa nei cittadini.
• Chiesa il fedele laico generalmente è chiamato ad obbedire alla comunità ecclesiastica
solamente in ambito spirituale e non temporale ove la chiesa non può dare ordini ai laici, a
meno che non sia connesso con un ambito spirituale (es bioetica). Questa norma dunque
non condanna solamente il laicismo ma anche il clericalismo (ossia che i laici debbano
obbedire alla chiesa in ogni ambito anche temporale).

Accanto a questo diritto il codice esprime la possibilità che i laici possano avere incarichi
di governo nella chiesa, incarichi che comportano esercizio dell'autorità. Il Vecchio codice
prevedeva che gli incarichi di governo fossero riservati solo ai chierici. In linea di principio
afferma il nuovo codice che anche i laici possono avere potestà di governo, e poiché non
specifica nulla, si possono intendere sia laici di sesso maschile che di sesso femminile;
Ovviamente non tutti gli incarichi, perché alcuni incarichi richiedono esplicitamente il
sacramento dell'ordine (il promotore di giustizia può essere un laico ad esempio).
Per ottenere tali incarichi di governo occorrono comunque le dovute competenze quali ad
esempio la conoscenza della vita intenta della chiesa e delle sue scienze sacre (teologia, sacra
scrittura, diritto canonico) e la chiesa dispone delle strutture come le università ecclesiastiche ove
ove poter studiare tali scienza; l'accesso a tali università è riconosciuto ai laici, ed é condizione
per acquisire quella preparazione necessaria a conseguire il relativo titolo di studio per
ricoprire le cariche nella chiesa.

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Permane qualche differenza tra laici di sesso maschile e femminile, per esempio ci sono
alcune funzioni che possono essere affidate, in modo stabile, solamente ai laici di sesso
maschile, funzioni connesse con il sacramento dell'ordine: il Lettorato ed Accolitato. Sono
funzioni connesse con lo svolgimento di attività liturgiche.
• Lettore è colui che durante la messa è legittimato a leggere la sacra scrittura e insegnare a
chi non le conosce, le verità della chiesa cattolica (catechismo).
• L'accolito è preposto ad esporre l'eucarestia per la donazione eucaristica, distribuirla tra i
fedeli e riporla del tabernacolo.
La conferenza episcopale italiana, inoltre, per lo svolgimento di queste funzioni richiede non
soltanto il sesso maschile, ma l'avere compiuto il venticinquesimo anno di età, e naturalmente
essere battezzati.
I laici di sesso femminile possono assolvere anche queste funzioni ma non stabilmente e
con scadenza temporale che eventualmente potrebbe essere rinnovata dal l'autorità
ecclesiastica.

Doveri dei laici


• contribuire alla diffusione del cattolicesimo soprattutto laddove il cattolicesimo
possa essere conosciuto attraverso la loro testimonianza. Quando un potere politico è ostile
nei confronti della chiesa tende ad eliminare i chierichi e i religiosi, ma non può
sicuramente eliminare i laici e in questa situazione risultano essere gli unici a poter dare
testimonianza del cattolicesimo.
• santificare la realtà temporale. Il laico vive nel mondo ed è legato all'interno della vita
temporale e perciò è tenuto ad agire in coerenza con il cattolicesimo. Il codice si sofferma in
particolare sulla dimensione della famiglia: nel nucleo familiare, nei confronti dell'altro
coniuge e della prole, deve agire in coerenza con la fede cattolica; questo comporta il dovere
di dare ai figli l'educazione cattolica e se ne hanno la possibilità di scegliere per loro un
insegnamento scolastico di stampo cattolico.

I chierici
I chierici coloro che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine; si tratta di un sacramento
unitario che si articola in tre gradi: diaconato, presbiterato, episcopato ai quali corrispondono
i diaconi, presbiteri e vescovi. Per lungo tempo nella chiesa il diaconato è stato considerato
un momento di passaggio per il presbiterato; in tempi recenti invece la chiesa ha riscoperto il
diaconato non come momento di passaggio ma come momento di arrivo, prevedendo che
accanto ai diaconi transeunti ( destinati al presbiterato) vi siano i diaconi permanenti. I
diaconi svolgono delle funzioni di ausilio ai presbiteri; i presbiteri sono comunemente i preti e
poi vi sono i vescovi coloro che hanno un compito di guida.

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Per poter ricevere il sacramento dell'ordine occorre avere alcuni requisiti: 1) battesimo 2) la
comunione ecclesiale 3) il sesso maschile. Occorre inoltre compiere un percorso di
formazione di competenza esclusiva della chiesa: "la chiesa ha il diritto proprio e nativo di
formare coloro che si apprestano al sacramento ordine". Tale percorso di formazione
originariamente avveniva da parte dei monasteri o dalla guida del vescovo; la chiesa a seguito
del protestantesimo e con il concilio di Trento la chiesa utilizza lo strumento dei seminari.
I seminari si dividono in seminari maggiori e minori, diversi per il tipo di educazione e per
l'età richiesta:
• Seminari minori soggetti piccoli di età che eventualmente potrebbero avere un germe di
vocazione. Al seminario minore accedono soggetti che hanno terminato le scuole
elementari e vengono studiate le stesse materie di pari livello a qualunque scuola con
l'aggiunta di alcune materie volte ad attenzionare questo germe di vocazione. Il seminario
minore non è obbligatorio averlo per le diocesi ma è facoltativo;
• Seminario maggiore è finalizzato esclusivamente a colui che vuole diventare chierico ed
ogni diocesi è tenuta ad averlo (vi è anche la possibilità di un seminario maggiore
interdiocesario). Questo percorso dura 6 anni tranne per i diaconi permanenti che dura tre
anni. Al termine di questi sei anni il soggetto può ricevere il sacramento dell'ordine, ma non
si tratta di un diritto a riceverlo, ma deve essere il vescovo ad autorizzare l'ordinazione. Lo
scrutinio è il momento in cui il vescovo decide se un soggetto è idoneo al sacramento.
Il diacono permanente può anche essere un soggetto coniugato; in questo caso il codice
lascia alle conferenze episcopali il compito di stabilire l'età in cui si può assumere il ruolo di
diaconato permanente. La conferenza episcopale italiana ha stabilito che il soggetto
coniugato deve avere almeno 35 anni di età, ed è l'unico caso in cui si conferisce il sacramento
dell'ordine ad un soggetto coniugato. Però non è possibile che un diacono permanente
contragga matrimonio, dopo aver conseguito l'ordinazione: si tratta di una deroga
unidirezionale.
Se un soggetto viene ammesso all'ordinazione riceve il sacramento dell'ordine; il momento di
iscrizione alla categoria dei chierici è un momento sacramentale e viene amministrato dal
vescovo che è l'unico soggetto che può conferire il sacramento dell'ordine secondo quelle che
sono le valutazioni. Ciò vuol dire che egli non ha bisogno del consenso di autorità esterne
tranne nell'ipotesi in cui debba consacrare un altro vescovo. Il vescovo ha infatti la possibilità
di conferire l'ordine per il primo e secondo grado, ma per il terzo grado, ossia la
consacrazione a vescovo, ha bisogno del mandato apostolico. In quest'ultimo caso la sua
volontà da sola non basta, perché nell'attuale normativa canonica il vescovo, per consacrare
un altro vescovo, ha bisogno del mandato apostolico, cioè di un'autorizzazione da parte
del pontefice. Se il vescovo conferisse il sacramento dell'ordine episcopale senza mandato
pontificio, tale conferimento sarà illecito, ma valido (in questo caso si verifica uno scisma). Il
mandato pontificio è solo condizione di liceità e non di validità.
Nel momento in cui un soggetto viene ordinato in modo regolare, il soggetto diventa chierico
e al tempo stesso viene inserito in una diocesi, nella quale dovrà svolgere il proprio ministero e

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la propria attività a beneficio della stessa. Questo atto prende il nome di incardinazione ed
è un atto obbligatorio: non possono esistere chierici acefali, cioè non inseriti in una diocesi.
In passato l'incardinaione non era obbligatoria e vi potevano essere chierici vaganti e la storia
ha dimostrato che la condotta di questi soggetti fosse in violazione degli obblighi facenti capo
ai chierici stessi.
È anche possibile, una volta incardinati, cambiare diocesi, ma ciò richiede il consenso del
vescovo di partenza e del vescovo di arrivo. L'escardinazione e l'incardinazione avvengono
contestualmente (esce in una diocesi e entra in un altra istantaneamente altrimenti nel lasso di
tempo vi sarebbe il chierico acefalo). Una volta incardinato il chierico deve esercitare i suoi
diritti e doveri.

Diritti dei chierici


• Diritti di associazione il codice riconosce al chierico il diritto formare associazioni con
altri chierici. Sono assolutamente lecite a patto e in condizione che non perseguano finalità
incompatibili con la missione chiericale: il chierico deve esercitare infatti il cosiddetto
sacerdozio ministeriale finalizzato all'amministrazione dei sacramenti e all'insegnamento.
Il codice non dice quali possano essere queste associazioni incompatibili ma vi sono norme
extracodicistiche come una dichiarazione della congregazione per il chierico che individua
alcune associazioni che sono vietate ai chierici come: 1) l'appartenenza alla massoneria; 2)
associazione che si occupi direttamente o indirettamente di politica. In questo caso infatti il
chierico perderebbe la sua figura di punto di riferimento per la comunità di fedeli in quanto
sarebbe identificato con l'ideologia politica. Ulteriore divieto per le associazioni clericale
riguarda 3) la creazione di fondazioni volte a tutelare i diritti dei chierici nei confronti del
vescovo (che svolga attività sindacale); se si consentisse ciò il rapporto presbitero, diacono e
vescovo si configurebbe come un rapporto di lavoro subordinato, ma quella del chierico non
è un attività lavorativa bensì un ministero, una vocazione particolare. La creazione di queste
associazioni porterebbe inoltre anche ad una concezione marxista di lotta di classe che non
può essere importata all'interno della chiesa. Vi è anche il divieto più alto per i ministri di
culto 4) di partecipare a organizzazione di criminalità organizzata di stampo mafioso. In
caso contrario la sanzione prevista è la scomunica.
• Altro diritto ricoprire incarichi che richiedono necessariamente l'esercizio della
potestà d'ordine ossia di amministrare i sacramenti. I sacramenti vengono sempre
amministrati dai chierici tranne per il battesimo che può essere amministrato da chiunque,
anche da un non battezzato. Il matrimonio è l'unico sacramento che noi ci autoconferiamo;
il ministro del sacramento non è mai il chierico, ma lo sono gli sposi.
• Altro diritto è quella a una remunerazione (retribuzione in quanto questo termine si
riferisce strettamente al lavoro). La remunerazione del chierico serve per provvedere a se
stesso o a provvedere a persone che lo assistono. Oltre alla renumerazione devono
prevedersi anche delle forme di previdenza in caso il chierico non possa per problemi di

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anzianità svolgere il suo ministero. Per i diaconi permanenti coniugati la remunerazione
dovrà essere tale da consentitire di far vivere in modo dignitoso non soltanto il diacono, ma
anche la famiglia. Nel momento in cui il diacono ha un altra attività lavorativa non ha
diritto alla renumerazione.
• Il chierico ha diritto anche a un periodo di riposo annuale, si parla di giusto periodo di
riposo che la conferenza episcopale ha fissato per un periodo di trenta giorni.

Doveri
• mantenere il rapporto di comunione ecclesiale;
• deve stabilire la propria dimora nella diocesi in cui è stato incardinato e non può
allontanarsi da questa per un periodo di tempo lungo a meno che non abbia il permesso del
vescovo. In Italia il periodo lungo è di due settimane.
• Altro dovere è quello di indossare l'abito che individui immediatamente il sacramento
dell'ordine.
• Inoltre il chierico si deve limitare nell'utilizzo dei beni materiali; il ministro di culto
qualora dovesse avere di più di quello necessario deve destinare questo surplus per scopi
religiosi o caritativi.
• l'obbligo del celibato. Si tratta di un dovere particolarmente discusso basato su delle
differenze tra la chiesa Latina e quella orientale. L'obbligo del celibato è un principio di
diritto umano: analizzando la scrittura si trovano diverse testimonianza in cui i chierici sono
soggetti sposati (es uno dei miracoli di Cristo è quello di guarire la suocera di Pietro;
qualche apostolo probabilmente sarà stato sposato in quanto "nessuno di loro ha lasciato
moglie e figli per non avere molto di più". Nella chiesa delle origini il clero poteva essere
coniugato. Tuttavia ci si è posto il problema se i soggetti coniugati che ricevono il
sacramento dell'ordine devono vivere in castità o potere continuare ad esercitare la
sessualità. La posizione che prende la chiesa Latina è volta a ritenere che chi ha ritenuto il
sacramento dell'ordine debba vivere in castità. Nel concilio di Elvira si afferma che è
bene che il soggetto coniugato che abbia il sacramento dell'ordine viva da celibe,
astenendosi alla sua sessualità. Nelle deliberazioni del primo concilio ecumenico di Nicea
del 325 si affronta pure il problema dello status giuridico del chierico coniugato: il chierico
non può abitare con soggetti di sesso femminile, tranne che si tratti di alcuni soggetti
specificatamente indicati tra cui la madre o la sorella. Tale principio viene interpretato nel
senso che un soggetto celibe che riceve il sacramento dell'ordine non può sposarsi, oppure
se dovesse contrarre matrimonio, questo sarà illecito e comunque non dovrà coabitare con
la moglie. Un chierico coniugato può continuare ad essere coniugato ma deve vivere come
se fosse celibe.
Nelle chiese medio orientali si sostiene che il concilio di Nicea non ha inteso stabilire
come principio generale che il ministro di culto non possa coabitare con la moglie, e dal
silenzio del terzo canone non si può fare discendere che il chierico debba vivere da celibe.

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Non c'è un principio generale di divieto di coabitazione, ma il concilio di Nicea rimanda la
questione alle singole chiesa particolare: ogni diocesi deve decidere come interpretare il
terzo canone. Tutte le diocesi riconoscono questo principio, permettendo al chierico di
avere l'esercizio della sessualità, tranne nel giorno domenicale o nelle altre festività religiose.
La situazione rimane invariata fino al settimo secolo con il secondo concilio trullano a
costantinopoli: si tratta di un concilio delle chiese d'Oriente con cui si stabilisce che si può
conferire il sacramento dell'ordine a soggetti sposati solamente se si tratta di diaconato o
presbiterato, non per l'episcopato. I diaconi e i presbiteri possono esercitare la loro sessualità
tranne nelle domeniche, le festività religiose e periodi penitenziali; i vescovi però non
possono essere coniugati. Tale concilio non è considerato valido per la chiesa occidentale.
Gregorio VII affronta due problemi: l'acquisto delle cariche ecclesiastiche (simonia) e il
concubinato. Papa Gregorio stabilisce che da questo momento in poi si possano ordinare
solamente soggetti celibi e chi è coniugato non può accedere ai sacramenti dell'ordine.
Ma se un chierico dovesse comtrarre matrimonio questo sarà illecito, ma valido. Con il
secondo concilio lateranense, invece, si stabilisce che se un soggetto è chierico e contrae
matrimonio questo sarà assolutamente nullo; l'incompatibilità dei due sacramenti diventa
piena. Attualmente Le chiese orientali continuano a ritenere che un soggetto coniugato
possa ricevere il sacramento dell'ordine (diacono o presbitero) però se un soggetto è
ordinato non può contrarre matrimonio e se lo fa è nullo. Nella chiesa Latina
l'incompatibilità va invece nei due sensi: per cui un chierico non può ricevere il sacramento
del matrimonio e un coniugato non può ricevere il sacramento dell'ordine.

Incompatibilità che gravano sui chierici


Vi sono una serie di attività che sono lecite, ma non consentite ai chierici. Il codice del 17 era
molto più analitico con una elencazione dettagliata delle attività; il nuovo codice enuncia dei
principi generali .
• attività indecorose ossia tutte quelle attività che non sono consone all' attività dell'essere
umano e meno che mai a chi è un ministro di culto (es chierico ruolo di attore in un film
pornografico).
• Attività aliene alla condizione del chierico, incompatibile con l'attività spirituale (es
attività sportiva come la box, oppure la caccia).
• una serie di attività consentite ai laici ma vietate ai chierici come ad esempio il divieto di
attività che comporti la partecipazione all'esercizio del potere civile. Con ciò si
indica tutti quegli incarichi che comportino partecipazione all'esercizio della sovranità
statuale; la sovranità dello stato si manifesta attraverso i poteri legislativi esecutivi e
giudiziario. Il chierico non può essere parlamentare, far parte del governo o della
magistratura poiché ciò porterebbe ad una commistione tra spirituale e temporale.

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• Vi è anche l'incompatibilità che riguarda la sfera dei rapporti economici come
l'impossibilità di rilasciare cambiali senza autorizzazione esplicita del vescovo; la
cambiale è un titolo di credito che può circolare e ciò significa che può finire in ambienti
non esattamente leciti e portare il chierico in situazioni poco trasparenti. Il codice vieta
anche l'esercizio di un attività d'impresa senza autorizzazione del vescovo; l'attività di
imprese porterebbe infatti il chierico a contatto con il potere temporale. Si vieta anche al
chierico di avere parte attiva nei partiti politici o nella guida della associazioni
sindacali; si tratta di un'ipotesi molto diversa dal diritto di associazione di chierici. 

Il codice vieta questo "parte attiva" e l'interpretazione di questa norma ha portato a due
orientamenti diversi: l'orientamento più severo ritiene che al chierico è vietato qualunque
forma di partecipazione al partito politico incluso anche la sola iscrizione al partito stesso;
l'orientamento più moderato ritiene che essere parte attiva si intende essere parte del
partito, ma il chierico potrebbe avere la qualifica di semplice iscritto. Non vi è mai stato un
pronunciamento del pontificio consiglio e dunque sono possibili entrambe le
interpretazioni. Diversa questione va fatta per i sindacati per cui l'interpretazione unanime
è quella che il chierico potrebbe essere iscritto ma non avere alcuna posizione direttiva ad
un sindacato. Ad esempio si pensi al chierico che svolga anche una attività etico profana (es
infermiere, insegnante, religione) potrebbe avere interesse ad iscriversi in sindacato ma non
potrà avere alcuna posizione all'interno di questo. Questo divieto trova una deroga per
disposizione espressa della norma quando violare una norma è reso necessario dalla tutela
dei diritti della chiesa (comunità dei fedeli) o dal bene comune (bene della collettività).
• Svolgimento del servizio militare volontario se il servizio militare è obbligatorio il
chierico è tenuto al suo dovere nei confronti dello stato; se invece è previsto come volontario
allora il chierico in questi casi non deve scegliere il servizio.
Queste incompatibilità riguardano i chierici eccezion fatta per i diaconi permanenti in quanto
il diacono permanete in molti casi è un soggetto che è inserito appieno nella realtà profana e
temporale, per cui sarebbe troppo gravoso imporgli queste incompatibilità.

Perdita della qualifica di chierico


Il sacramento dell'ordine è un sacramento indelebile. L'unica ipotesi in cui un chierico può
smettere di essere tale è se il sacramento non è stato amministrato in modo valido per cui il soggetto
non solo non è chierico, ma non lo è mai stato. I sacramenti comunque amministrati dal
chierico nullo restano validi se il soggetto è ritenuto chierico in quella comunità.
L'unica maniera per cui un chierico non sia più chierico è avere la sentenza di un ufficio
speciale presso la rota romana che dichiari la nullità della sua carica. Queste decisioni
prima spettavano alla congregazione per il clero.
Se il sacramento è stato ricevuto correttamente è possibile che al chierico si possa vietare di
esercitare i diritti e adempiere ai doveri: è il caso della secolarizzazione che può avvenire
solamente in due ipotesi:

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1. quando il chierico commette un grave crimine; in questo caso al chierico può essere
inflitta la pena della dimissione dell'incarico clericale (rimane chierico ma non ha più lo
status giuridico di chierico non potendo più esercitarne i diritti e doveri);
2. lo stesso chierico che chiede di essere secolarizzato per cui chiede di essere dispensato
dai diritti e dai doveri. Secondo il codice il provvedimento di secolarizzazione può
essere concesso ai diaconi se c'è una causa grave e ai presbiteri se c'è una causa
gravissima; il codice però non contempla alcuna norma per i vescovi. Il provvedimento di
secolarizzazione è una grazia che si richiede al pontefice e rientra come dispensa. Il
provvedimento di secolarizzazione dispensa da tutti i diritti e doveri tranne dal dovere di
celibato per il quale si necessita di un rescritto ad hoc dal parte del pontefice.
Una volta ottenuta la secolarizzazione il chierico potrebbe anche tornare ad attuare la sua
carica per essere riammesso a fare il chierico, ma deve ottenere la concessione del pontefice.
Sono richieste molto rare e spesso non accettate.

Vita consacrata
Si tratta di una forma di vita stabile caratterizzata dal fatto che chi la sceglie segue cristo
particolarmente da vicino. Si tratta di una scelta che impegna l'individuo in maniera
definitiva; vero è che tutti i fedeli sono tenuti a seguire cristo, ma chi sceglie la vita consacrata
lo fa in maniera intensa. La vita consacrata nasce in origine come forma di vita individuale
tramutatasi poi in collettiva. Gli istituti di vita consacrata sono comunità ove il modello di
imitazione dell'esperienza di Cristo che viene seguito non è lo stesso per tutti gli istituiti ma
cambia da uno all'altro. Nascono per iniziativa dei fedeli, approvati dal l'autorità ecclesiastica,
e quando se ne fonda uno si stabilisce anche il tipo di vita, di impostazione che si dovrà
condurre in quell'istituto. Ogni istituto ha le proprie costituzioni o la sua regola laddove il
fondatore ha raggruppato le norme sulla vita interna di quell'istituto.
Si entra a far parte di un istituto attraverso voti o altri vincoli sacri. Il voto indica una
promessa, un impegno e si tratta di una promessa libera e deliberata fatta a Dio. Si deve
promettere un bene possibile e migliore: per bene si intende qualcosa di positivo che rientra nelle
possibilità fisiche o spirituali del promittente; migliore si intende che la promessa indica a
qualcosa di meglio di che sto rinunciando. Se ricorrono tutti questi elementi si tratta di un
voto valido.
Il voto a seconda dell'oggetto può essere personale reale o misto:
• personale quando si promette un'azione della persona;
• reale quando il soggetto promette una res una cosa;
• misto quando implica sia un'azione che una res.

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Vi è inoltre una distinzione tra voto pubblico e privato: il voto è pubblico se viene accettato
dalla autorità ecclesiastica a nome della chiesa, tutti gli altri voti sono privati. Nelle ipotesi di
vita consacrata attraverso i voti il soggetto si impegna ad osservare i tre consigli evangelici
ossia castità, povertà e obbedienza.
Gli istituti di vita consacrata li possiamo dividere in diverse categorie a secondo del
soggetto da cui è avvenuta la consacrazione; si distingue tra istituti di vita consacrata di
diritto diocesano approvato dal vescovo e istituti di vita consacrata pontificia approvati dal
papa. Vi sono poi degli istituti di vita consacrata clericale e istituiti laicali.
La vita consacrata non è comunque una forma di vita unitaria ma ne esistono diverse
forme:
• Vita consacrata religiosa;
• Vita consacrata secolare;
• Società di vita apostolica;
• L'ordine delle vergine (caratterizzato dal fatto che sono delle donne con voto pubblico di
castità che si mettono al servizio della chiesa secondo le disposizioni del vescovo);
Queste quattro sono forme collettive alle quali si affianca quella ermetica che è assolutamente
individuale ed è quella più antica. La vita ermetica è una forma di vita che si svolge
assolutamente da soli e richiede una separazione assoluta dal mondo e dagli altri essere umani
(Si prevede dunque un distacco totale). La vita eremita richiede che i tre consigli evangelisti
siano persi con voto pubblico con approvazione del vescovo.

Vita consacrata religiosa


Da un punto di vista quantitativo quella religiosa è il più consistente ed è caratterizzata in
modo particolare dal fatto che impone una rigida separazione dal mondo e vive in comunità
che si chiamano tecnicamente case. Negli istituti di vita consacrata religiosa vi è un'autorità
interna che si articola in una serie di organi monocratici e collegiali. La casa ha il suo organo
monocratico che è il suo superiore locale; la casa apre il concetto di provincia religiosa:
più case dello stesso ordine sottoposte alla stessa autorità che si chiama superiore provinciale.
Il Moderatore supremo è l'organo monocratico che guida tutto l'istituto con le sue varie case.
Ad ognuno di questi tre organi monocratici corrisponde un organo collegiale di governo che
si chiama capitolo. Il codice canonico lascia un'ampia autonomia alle regole interne di
ciascun istituto, stabilendo che ogni istituto è libero di darsi le proprie regole. L'unica
previsione riguarda il moderatore supremo che deve essere sempre scelto mediante elezione
ed a eleggerlo deve essere sempre il capitolo generale. Altra previsione riguarda la durata in
carica di questi organi: come regola generale tutte le cariche devono esser a tempo
determinato tranne il moderatore supremo che può essere a tempo indeterminato. Gli organi
monocratici hanno competenza per le funzione meno importanti; ai capitoli spettano le
funzioni più importanti tra cui la modifica delle costituzioni. Proprio per queste sue funzioni
importanti, il capitolo deve rappresentare l'intero istituto.

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L'ingresso in un istituto di vita consacrata religiosa avviene attraverso un procedimento
molto lungo. Il codice prevede che il percorso di formazione cominci con il noviziato: si
tratta di un periodo di prova durante il quale il soggetto non fa parte dell'istituto, ma sta
verificando se è portato per quello stile di vita. Nulla vieta che l'istituto potrebbe prevedere
degli strumenti di formazioni precedenti al noviziato. Per essere ammessi al noviziato occorre
avere almeno 17 anni e ha una sua durata non inferiore ad un anno e non maggiore a due;
può tuttavia essere interrotto in qualunque momento e può essere prolungato non più di sei
mesi.
Durante questo percorso di noviziato, il novizio conduce una vita religiosa, ma non fa parte
dell'istituto (assiste al capitolo ma non ha voce di deliberazione, "non ha voce in capitolo").
Al termine del noviziato occorre valutare se il soggetto è idoneo a seguire il percorso. Se i
superiori lo ritengono idoneo e il soggetto vuole continuare il percorso si passa alla fase
successiva: professione dei voti temporanei. Il novizio professando i voti diventa a far
parte dell'istituto ma con scadenza determinata. La professione temporanea dura non meno
di tre anni e non più di sei anni. Si tratta di un tempo in cui il soggetto fa parte dell'istituto ma
non si tratta ancora di una scelta definitiva per cui allo scadere dei voti temporanei può
decidere di non continuare. Se il soggetto volesse interrompere il suo percorso prima della
scadenza dei voto temporanei ha bisogno di un'apposita autorizzazione a differenza del
novizio che non necessita alcuna autorizzazione. In caso di dubbio anche qui è possibile una
proroga che non può superare i nove anni in totale. A questo punto se il soggetto vuole
continuare il percorso professa i voti perpetui che non hanno scadenza definita. Si tratta di
una scelta che permette lo status giuridico tipico dei religiosi ossia un tipo di vita particolari
con diritti e doveri.

Status giuridico dei religiosi: diritti e doveri


Possiamo soffermarci su due tipi di diritti uno spirituale e uno materiale: spirituale il
religioso ha diritto di condurre all'interno dell'istituto, la vita che caratterizza proprio l'istituto
e è proibito al superiore di escludere il religioso dalle attività tipiche dell'istituto a meno che
non vi sia un valido motivo. Hanno inoltre diritto al mantenimento e di sussistenza
dell'istituto di cui appartengono.
Accanto a questi diritti costituiscono una serie di doveri legati al tipo di vita religiosa:
• Dovere di condurre una vita in comunità; è possibile l'allontanamento dalla casa con
giustificato motivo e con il consenso del superiore ma questa assenza non deve durare più di
un anno a meno che non vi siano motivi di salute o di studio.
• Indossare l'abito tipico degli istituti;
• dovere di obbedienza agli organi di governo dell'istituto e quindi superiori e capitoli; è
chiaro che l'obbedienza deve rispondere ad un comando legittimo secudum legem;

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• obbligo di castità per cui chi è religioso non può contrarre matrimonio (l'avere professato i
voti perpetui è impedimento matrimoniale).
• povertà, ossia limitarsi nei beni terreni: si può avere un voto di povertà semplice e un voto di
povertà radicale. Nel voto di povertà semplice il religioso ha l'obbligo di cedere ad altri
l'amministrazione dei propri beni e la scelta di questo amministratore va fatta se possibile in
forma riconosciuta non solo dal diritto della chiesa, ma anche dal diritto dello stato. In ogni
caso la proprietà rimane comunque del religioso. Discorso diverso riguarda i beni che
dovrebbe acquistare dopo la professione dei voti: se l'acquisto deriva dal proprio lavoro o da
un motivo religioso, questi beni sono automaticamente dell'istituto cui appartiene. Ciò che
dovesse acquistare ad altro titolo è suo.
Nel voto di povertà radicale prima di fare la professione di voti occorre cedere ad altri
tutto ciò di cui è proprietario, deve cioè privarsi della proprietà. Una volta fatta la
professione dei voti tutto ciò che acquisterà a qualunque titolo sarà dell'istituto. Il codice
sottolinea in questi casi che in caso di incompatibilità delle norme dello stato, in quanto non
vi è la diretta proprietà dell'istituto occorrerà il ritrasferimento secondo le forme previste dal
diritto statale della proprietà dei beni del religioso.
• Dovere della clausura ossia della separazione dal mondo. La clausura caratterizza
qualunque forma di vita religiosa e può assumere varie forme a seconda dell'intensità della
clausura:
• Clausura comune è quella tipica di ogni forma di vita religiosa e consiste
nelle limitazione del religioso di uscire dalla casa e per gli estranei di accedere
alla casa stessa; all'interno della casa vi sono degli spazi ove i terzi non possono
abitualmente accedere.
• clausura della vita religiosa contemplativa dedicata allo studio ma
prevalentemente alla preghiera; qui la forma di clausura è più rigorosa con
separazione all'esterno più marcata.
• Clausura integralmente contemplativa dedicata esclusivamente allo
studio e alla preghiera; questa forma di vita raggiunge il suo culmine con le
religiose e la cosiddetta clausura papale. La clausura papale è infatti quella più
rigorosa di tutte prevedendo che le religiose non devono uscire dalla casa e gli
estranei non vi possono accedere. È legittimo lasciare la casa se c'è un
gravissimo è imminente pericolo (es terremoto o incendio) o ad esempio per
l'esercizio dei diritti civili o ancora per provvedere alle esigenze della casa
stessa, ma con il consenso della superiora. Accanto a queste vi sono le ipotesi
in cui gli estranei possono entrare all'interno: il vescovo può accedervi senza
bisogno di permessi speciali, così come i cardinali, il nunzio apostolico
(rappresentante del pontefice), l'assistente spirituale della casa, il personale
sanitario. Al di fuori di queste categorie altri soggetti possono accedere
solamente se hanno un permesso speciale.

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Il religioso che ha professato i voti può naturalmente avere dei ripensamenti.
Se ha professato i voti temporanei può aspettare la scadenza dei voti temporanei e andarsene
liberamente; altrimenti prima della scadenza deve richiedere un apposito permesso che gli
può concedere il moderatore supremo per una causa grave. Nei voti perpetui si può
richiedere la secolarizzazione presentando la domanda al moderatore supremo che deve
essere supportata da cause molto gravi. Il moderatore supremo presenterà la richiesta con un
parere all'autorità competente (pontefice o vescovo, in base al tipo di istituto se di diritto
pontificio o diocesano) che prenderà una decisione.
Può anche verificarsi che non sia il religioso a lasciare l'istituto ma sia l'istituto a ritenere
indegno il religioso in conseguenza di crimini canonici. Se il religioso commette dei crimini
l'autorità dell'istituto, ossia il capitolo potrebbe dimetterlo. La dimissione è di tre tipi: ipso
iure conseguenza automatica in caso di: aver notoriamente abbandonato la fede cattolica, o il
religioso che abbia contratto matrimonio o abbia provato a contrarlo. Vi e poi la dimissione
obbligatoria quando il religioso commette determinati crimini per i quali occorre un
processo quindi una sentenza di condanna. Si chiama obbligatoria perché in presenza di
determinati crimini non c'è da parte di chi giudica la discrezionalità della pena da infliggere,
ma la sanzione è esclusivamente la dimissione. Vi è poi quella lasciata alla discrezionalità
dei superiori qualora il religioso commetta altri crimini.

Vita consacrata secolare


La vita consacrata secolare si tratta di una innovazione del ventesimo secolo. Si chiama
secolare perché a differenza della vita religiosa comporta che il soggetto dia testimonianza
all'interno del mondo; non ci si separa dal mondo ma si agisce all'interno della realtà
temporale. Non si può contrarre matrimonio in virtù del voto di castità ma si può operare
una professione.

Società di vita apostolica


Non sono forme di vita consacrata in quanto non è detto che vi sia la professione dei consigli
evangelici, ma vi è la vita comunitaria. Anche quando vi sono i consigli evangelici non vi sono
mai i voti.

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Il governo della chiesa

La chiesa è costituita sulla terra come societas gerarchicamente ordinata. Essa ha


ricevuto dal suo Fondatore il compito di predicare il Vangelo a tutte le genti (munus docendi) e di
amministrare i sacramenti, segni e strumenti della grazia divina che perpetuano la presenza
di Cristo nella storia per la santificazione degli uomini. La parola di Dio e i sacramenti
rappresentano quindi il bene più prezioso della chiesa e la fonte della sua stessa
organizzazione di governo, orientata al compimento della missione di salvezza. Su questi
elementi si fonda l'ordinamento ecclesiale.

Autorità all'interno della chiesa: la potestà


Nella chiesa esistono tre potestà diverse che corrispondono alla triplice definizione che cristo
dà di se stesso (via, verità, vita): la potestà d'ordine (la vita), la potestà di magistero (la
verità), la potestà di giurisdizione o di governo (la via). Questi vengono anche detti i tria
munera ecclesiae.
L'ordinato compimento dei tria munera richiede una complessa organizzazione ecclesiastica,
nella quale tali funzioni sono ripartite in distinte sfere di competenza, la cui unità è costituita
dal concetto di ufficio ecclesiastico, definito come "qualunque incarico, costituito stabilmente per
disposizione sia divina sia ecclesiastica, da esercitarsi per un fine spirituale". Il potere della chiesa ha
comunque un carattere personale in forza della consacrazione.

La potestà d'ordine
La potestà d'ordine non è altro che la potestà di amministrare i sacramenti; essa viene
conferita mediante il sacramento dell'ordine (dunque spetta ai chierici). Il culmine del
compimenti di tali segni sacramentali è agire impersonando Cristo nell'eucarestia.
Vi è solo un caso in cui la violazione di una norma canonica non solo è illecita ma anche
invalida riguarda il sacramento della confessione qualora il chierico dovesse assolvere i
proprio complice in un crimine canonico che riguardi la sfera della sessualità, non solo sarà
illecita ma anche invalida.

Potestà di magistero
La potestà di magistero consiste nell'insegnare le verità di fede. Con ciò si intende sia
predicare il Vangelo a tutte le genti, nonché annunciare principi morali, ossia l'etica, e in
generale formulare giudizi su qualunque realtà umana quando questo è richiesto dalla tutela
dei diritti fondamentali dell'uomo o dalla salvezza delle anime. Il compito della chiesa di
svolgere questa attività di insegnamento riguarda non solo i soggetti ordinati (pontefici e
vescovi), ma tutti i fedeli. Si distingue infatti tra magistero autentiche e non autentico: sono
entrambe forme di insegnamento ma il magistero non autentico viene da coloro che non

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sono legittimati a parlare in nome della chiesa come istituzione (i fedeli).
Il magistero autentico proviene da chi è legittimato a parlare in nome della chiesa come
istituzione e dunque dai vescovi e dal pontefice; il magistero autentico assume carattere
vincolante per i fedeli. La suprema volontà di magistero spetta anzitutto al Sommo Pontefice
e al Collegio episcopale nel momento in cui si parla di chiesa universale (al di fuori dei confini
delle diocesi). A tale magistero ordinario e universale si affianca quello particolare dei vescovi
limitato per la propria comunità di fedeli (ossia all'interno della diocesi).
Il magistero autentico si suddivide in tre sotto categorie a seconda del suo grado di
vincolatività:
• Il magistero non definitivo si ha quando la chiesa propone qualcosa sotto suggerimento,
ma non impone nulla, proprio perché non è sicura di ciò che sta proponendo (magistero
esortativo);
• Il magistero definitivo si ha quando la chiesa propone qualcosa come qualcosa in cui si
deve credere e si è tenuti a condividere quell'insegnamento; il principio espresso potrebbe
comunque essere modificato in futuro;
• Il magistero infallibile si ha quando la chiesa enuncia qualcosa come assolutamente vera
e immodificabile. Le uniche autorità che possono insegnare qualcosa di infallibile sono il
pontefice e il collegio episcopale limitatamente alla fede e alla morale. L'infallibilità del papa
come singolo è molto più tarda rispetto a quella del concilio episcopale la cui infallibilità
deriva dalle origini della chiesa, mentre quella del pontefice solo dopo il concilio Vaticano I.
Un tempo la potestà di magistero si rivolgeva essenzialmente ai credenti per insegnare loro le
verità di fede e contrastare gli errori dottrinali. Oggi invece il magistero della chiesa tende a
rivolgersi anche all'esterno della comunità dei credenti, per riaffermare principi morali che
per la dottrina cristiana sono fondati sulla natura stessa dell'uomo (es bioetica o condizione
della donna) e in base al quale l'ordinamento canonico è universale e l'insegnamento si rivolge
a tutti. Il codice canonico enuncia due principi che sembrano in contraddizione poiché da un
lato dice che tutti gli uomini hanno il dovere di cercare la verità, accettarla e condividerla (la verità è la
rivelazione divina); mentre dall'altro lato il codice afferma che nessuno può essere costretto a
diventare cattolico. Apparentemente possono sembrare in contraddizione, ma in realtà non lo
sono in quanto in questa norma si mescola una dimensione teologica è una dimensione
giuridica. L'enunciazione dove dice che l'uomo deve conoscere la verità ha valore teologico e
se la verità è una tutto il resto è errore. Da un punto di vista giuridico però non è possibile
trasportare questa affermazione in quanto vi è il diritto divino naturale. Si mescola così una
prospettiva teologica a una giuridica.
Il magistero si applica con vari mezzi:
• Il primo dei mezzi di trasmissione per le verità di fede e di magistero è l'ambito della
famiglia sulla base del presupposto che i genitori devono insegnare alla prole la fede;
• Il catechismo: provvede alla preparazione ai sacramenti;
• La predicazione: attraverso la lettura e commento della sacra scrittura;

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• Gli istituti cattolici. Una scuola può essere definita cattolica quando: 1) è gestita da un
autorità ecclesiastica; 2) è gestita da una persona giuridica canonica pubblica (costituita
direttamente dall'autorità ecclesiastica); 3) l'autorità ecclesiastica con un atto esplicito la
definisce tale. All'interno della scuola cattolica qualunque materia va insegnata secondo i
principi del cattolicesimo e deve essere previsto un insegnamento della religione cattolica.
Coloro che nelle scuola insegnano la religione cattolica devono avere una specifica
autorizzazione da parte del vescovo. Per il codice canonico allo stesso modo i genitori se
possibile devono mandare i figli in una università cattolica e questa si definisce tale se ha le
tre maniere previste per la scuola. Tuttavia non è previsto lo studio della religione cattolica
ma si prevede l'insegnamento di materie come teologia. Accanto alle università cattoliche vi
sono quelle ecclesiastiche ove si studiano le scienze sacre e quelle materie importanti per la
vita interna della chiesa. Le università ecclesiastiche possono essere dichiarate tali solo dalla
Santa sede.
• I mezzi di comunicazione utilizzati dalla chiesa sono solo la stampa e la radio
(questa parte del codice è vecchia rispetto all'innovazione contemporanea).
I libri redatti dai fedeli circa la fede e la morale possono essere anche uno strumento per
ledere la fede o i principi etici. Per quanto concerne i libri si prevede infatti che il vescovo
diocesano, prima che vada in stampa, debba esaminarlo preventivamente. Per i libri liturgici
si prevede che necessitino l'approvazione da parte del vescovo o della conferenza episcopale.
Una norma particolare si occupa delle ipotesi in cui esistano organi di stampa che siano
soliti attaccare la chiesa cattolica e in questo caso si sottolinea che i fedeli non scrivano mai
articoli in questi organi di stampa. Se poi si tratta di un chierico o di un religioso non deve
scrivere su organi di stampa di questo genere a meno che non riceva l'approvazione del
vescovo. Per radio e televisione la conferenza episcopale deve stabilire delle norme per
regolamentare la partecipazione di chi è ordinato a trasmissioni televisive e radio, se si
affrontano questioni di fede o di morale.

Potestà di governo
La potestà di governo è il potere di governare i fedeli nella vita sociale della chiesa.
È il sinonimo di quello che è la sovranità dello stato per cui si ricompone la funzione
legislativa, esecutiva e giudiziaria. Tuttavia nell'ordinamento ecclesiale, a differenza degli
ordinamenti civili, ove le tre funzioni sono del tutto indipendenti, questo principio di
separazione dei poteri non esiste infatti si parla di tre funzioni. In molti casi infatti lo stesso
organo concentra in sé le tre funzioni.
La potestà di governo è riservata a coloro che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine
(chierici) e i laici possono cooperare nell'esercizio della medesima potestà.
Il legislatore canonico nel vecchio codice affermava che solo i chierici potevano avere potestà
di governo e i laici erano esclusi. Nel nuovo codice si afferma invece che se un incarico
comporta potestà di governo e potestà d'ordine può essere affidato solo al chierico, se
comporta potestà di governo può anche il laico.

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Nella chiesa allora si è cominciato a riflettere circa la nascita della potestà di governo e si è
giunti alla conclusione che vi siano due elementi essenziali alla base di tale potestà: si ha la
potestà di governo piena se si ha la consacrazione episcopale, ma da sola non basta a
rendere la potestà di governo esercitabile, in quanto mancano dei destinatari. Per diventare
esercitabile infatti, la potestà di governo, ha bisogno di un atto ulteriore ossia che il vescovo
venga posto a capo di una determinata comunità e che eserciterà la potestà di governo su
quella comunità (l'ambito territoriale su cui esercitare tale potestà). Questo tipo di atto non è
sacramentale ma è una determinazione giuridica che prende il nome di missione canonica
e che rende la potestà di governo esercitabile.
La missione canonica ha fatto capire che la potestà di governo si riceve solo se si è consacrati
vescovi ma in forma inferiore può essere anche conferita solo in via giuridica senza via
sacramentale. Nasce così l'idea che nella chiesa esistano incarichi che attribuissero a dei
soggetti la potestà di governo anche senza via sacramentale. Questi incarichi si chiamano
tecnicamente uffici e l'atto col quale viene conferito l'ufficio si può chiamare missione canonica o
provvista dell'ufficio.
L'ufficio è una legittimazione astratta all'esercizio di funzioni pubbliche
ecclesiastiche stabilmente costituite dal diritto, funzioni la cui titolarità spetta alla chiesa istituzione.
La legittimazione astratta indica che l'ufficio preesiste all'individuazione di chi sarà il
titolare (non è ad personam) all'esercizio della potestà di governo.
Stabilmente costituite dal diritto vuol dire che il tipo di potestà che si può esercitare è
stabilita dalla legge per ogni ufficio indipendentemente dalla persona e dal titolare.
Titolarità spetta alla chiesa indica che chi è titolare esercita il potere a titolo derivativo
perché la potestà non è del titolare ma è della chiesa.
La potestà di governo ordinaria si ha in quanto si è titolari di un ufficio; ad esercitare tale
potestà sono il Pontefice, i vescovi diocesani e altri che sono preposti ad una chiesa. La potestà
di governo ordinaria può essere propria o vicaria: è propria se la si esercita in nome proprio
(dalla persona titolare dell'ufficio), è vicaria se la si esercita in nome di un altro ufficio (in
rappresentanza di altri).
Accanto all'ufficio c'è un altra maniera che la chiesa usa per attribuire la potestà di governo
che è la delega: si ha quando chi ha un ufficio ecclesiastico attribuisce temporaneamente una
parte della propria potestà di governo ad un altro soggetto che non ha nessun ufficio, affinché
la svolga in nome e per conto del primo. A differenza dell'ufficio è sempre transeunte.
La potestà giudiziaria si può delegare solo per la raccolta delle prove, mai per la decisione.

Come si riceve l'ufficio ecclesiastico


L'ufficio ecclesiastico viene ricevuto attraverso un procedimento complesso articolato in tre
fasi:
1) designazione del titolare dell'ufficio;
2) collazione del titolo che consiste nell'attribuzione dell'ufficio;

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3) se il soggetto accetta avviene la presa di possesso dell'ufficio.
Generalmente la designazione del titolare e la collazione sono due fasi che vengono compiute
dallo stesso soggetto che in questo caso è sempre l'autorità ecclesiastica. Questa maniera di
procedere a destinazione e collazione si chiama libera collazione laddove il termine libera
indica il compimento dell'autorità ecclesiastica senza intervento di terzi. Questa è il
procedimento che viene utilizzato nella stragrande maggioranza ma non nella totalità perché
accanto alla libera collazione esistono altre maniere che differiscono da questa in quanto la
destinazione del titolare e la collazione del titolo non vengono fatte dallo stesso soggetto.
• La prima di queste modalità alternative si chiama presentazione: si ha un soggetto
singolo ha il diritto di scegliere lui il titolare dell'ufficio. Il soggetto viene presentato
all'autorità ecclesiastica e se ha i requisiti previsti dal diritto canonico, l'autorità ecclesiastica
è obbligata a porre in essere la collazione (il conferimento del titolo qui prende il nome di
istituzione). L'origine della presentazione deriva dall'antichità ove le famiglie più ricche e
nobili potevano influenzare la chiesa sulla base delle loro donazioni alle diocesi e la chiesa in
cambia permetteva loro la presentazione.
• Può accadere che questo diritto di designare il titolare spetti non al singolo, ma a un gruppo
di soggetti, un organo collegiale, con metodo democratico. Si ha così una elezione. Anche
qui se chi viene eletto ha i requisiti previsti l'ufficio l'autorità ecclesiastica non può rifiutare
la collazione e si ha una conferma dell'elezione; tuttavia nel momento in cui il soggetto scelto
non ha i requisiti previsti dall'ordinamento canonico, se il requisito che manca è
inderogabile la presentazione o l'elezione è nulla e chi ha il diritto di scegliere dovrà
individuare un altro soggetto che risponda ai requisiti dell'ufficio.
• L'ordinamento canonico prevede però il conferimento dell'ufficio anche in assenza di alcuni
requisiti. Si parla di postulazione ove se il requisito è derogabile chi ha il diritto di
presentazione o di elezione può chiedere una dispensa.
In ogni caso alla fine avviene la presa di possesso che è un atto formale con il quale chi ha
ricevuto l'ufficio si insedia nella carica ed esercita la sua funzione.
Una volta che un soggetto ha ricevuto un ufficio può anche perderlo. L'ufficio si può perdere
per:
1) la morte del titolare;
2) la rinuncia, la quale per essere efficace deve essere accettata da chi ha conferito l'ufficio;
solo in una carica la rinuncia non necessita di accettazione ossia in quella del pontefice, la
quale rinuncia deve essere libera e manifesta;
3) decorso del tempo ove l'ufficio abbia scadenza determinata. Accanto a questa il
decorso del tempo può incidere in un altro modo: può essere infatti che l'ufficio sia a
tempo indeterminato ma può essere ricoperto solo fino ad una certa età (ufficio di vescovo
diocesano);
4) il trasferimento: chi dispone del trasferimento deve poter disporre sia dell'ufficio di
partenza, ma anche di quello di arrivo (trasferimento disposto dal l'autorità ecclesiastica).

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Il trasferimento può essere disposto anche con il consenso del trasferito. Un trasferimento
non gradito se non supportato da una giusta causa può essere punito;
5) rimozione: quando l'autorità che gli ha conferito il titolo ritiene che sussiste una causa
grave, e può essere conseguenza di una sanzione penale come punizione per un crimine
commesso o perché è opportuno rimuovere il soggetto dall'ufficio; come sanzione penale è
prevista dal codice nei confronti dei chierici quando questo perda notoriamente la fede
cattolica o quando contragga matrimonio o cerca di contrarlo. Al di fuori di queste ipotesi
la rimozione può essere disposta per altri crimini e sarà rimessa alla discrezionalità del
giudice. Vi è poi la rimozione per motivi di opportunità conseguenza del fatto che chi è
titolare di un ufficio non lo sta svolgendo bene e occorre rimuoverlo.
6) privazione è invece sempre e soltanto una sanzione penale.

Organi di governo della chiesa universale


La costituzione gerarchica della chiesa è fondata sul collegio dei vescovi e dal Pontefice. Con il
collegio dei vescovi si attua la successione all'originario collegio apostolico; si tratta di una
successione organica, non personale, nel senso che ogni nuovo vescovo dal momento della
consacrazione entra a far parte del collegio. Nell'ufficio del pontefice si attua invece una
successione di carattere personale all'apostolo Pietro. Entrambi godono della potestà suprema
sulla chiesa universale, ma mentre il pontefice può sempre esercitare tale potere liberamente,
il collegio deve sempre intendersi insieme con il suo capo.

Il pontefice
Il Romano Pontefice è il Vescovo della Chiesa di Roma, l’ufficio concesso dal Signore a Pietro
e trasmesso ai suoi successori (can. 331). Il Papa è titolare dell’ufficio episcopale sulla diocesi
di Roma, che esercita attraverso il Cardinale vicario e gli uffici del Vicariato di Roma. In
quanto successore di Pietro, è anche capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore
in terra della Chiesa universale.
L'ufficio del pontefice è di diritto divino positivo; indiscussa è dunque la sua esistenza che è
sempre esistita e sempre esisterà. Al riguardo il riferimento fondamentale è nel noto passo di
Matteo "tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa". Si tratta di un brano in una cultura
ebraica (cambiamento del nome da Simone ti chiamerai Pietro, nel momento in cui si cambia
il ruolo), ove Cristo affida infatti un ruolo unico a Pietro che assume una doppia valenza: fa
parte del collegio apostolico, ma ha anche un ruolo come singolo.
Dai passi evangelici emerge chiaramente che Pietro tra gli apostoli non è il più colto
(pescatore), né il più intelligente (spesso non capisce le parole di Cristo). Ciò indica un altro
principio non irrilevante ossia che non si diventa pontefice in base a caratteristiche personali
(intelligenza), ma in virtù dello spirito santo e in virtù della scelta.
L'incarico che viene dato a Pietro è destinato a protrarsi nel tempo non a terminare con la
sua persona, si tratta dunque di un incarico stabile. Esiste dunque all'interno della chiesa un

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vescovo particolare, ma il brano non ci dice chi deve essere questo vescovo nel corso della
chiesa, come debba essere scelto e quale ruolo debba svolgere.
Il brano nulla ci dice circa la scelta del pontefice. Si è stabilito che l'ufficio di sommo Pontefice
ha carattere elettivo. Può essere eletto pontefice qualunque battezzato di sesso maschile che abbia la
maggiore età e che sia in comunione ecclesiale. Dal 1378 per mera prassi il pontefice viene scelto
all'interno del collegio cardinalizio.
Per quanto concerne l'elettorato attivo bisogna vedere le notevoli evoluzioni: a partire dal XI
secolo si è affermato il principio per cui, per mera prassi, il pontefice viene eletto dai cardinali
riuniti in conclave (cum clavis), al quale hanno diritto di partecipare tutti i cardinali che non
abbiano ancora compiuto ottanta anni (potrebbero tuttavia essere eletti). Il compito di vigilare
sull'isolamento del conclave spetta al camerlengo. Il conclave si svolge all'interno della cappella
sistina dove, fino a qualche anno fa, i cardinali vi alloggiavano pure. Giovanni Paolo II ha
invece stabilito che i cardinali alloggiassero al di fuori della cappella sistina e si recassero lì
solo per le votazioni.
In passato il pontefice poteva essere eletto per ispirazione, per compromesso o a scrutinio
segreto. La modalità di ispirazione faceva riferimento al fatto che l'elezione del pontefice è
guidata in qualche modo dallo spirito santo per cui uno dei cardinali dichiara pubblicamente
chi fosse la persona per la quale avrebbe votato. Se si trattava del prescelto tutti gli altri
cardinali avrebbero dato il loro assenso. L'elezione per compromesso si aveva quando il
collegio cardinalizio decideva di affidare il compito di elezione del pontefice a un gruppo
ristretto di cardinali (non meno di nove e non più di quindici). Tali modalità di elezione ( per
compromesso e ispirazione) sono state eliminate da Giovanni Paolo II.
Una volta che la sede pontifica è diventata vacante (morte o rinuncia) i cardinali devono
riunirsi per procedere all'elezione del pontefice. Il conclave deve cominciare in un lasso di
tempo tra quindici e venti giorni dando il tempo materiale ai cardinali di confluire a Roma. Papa
benedetto XII ha permesso la possibilità di anticipare l'inizio del conclave, senza la necessità
di aspettare quindici giorni, se i cardinali elettori siano già arrivati a Roma.
Il compito dei cardinali è principalmente quello di eleggere il pontefice e provvedere al
governo della chiesa solamente per gli atti di ordinaria amministrazione. Se si tratta di affari
ordinari poco importanti il governo della chiesa spetta alla congregazione particolare,
composta da 4 cardinali (camerlengo, più tre sorteggiati). Per le questioni più importanti se ne
occupa invece tutto il collegio cardinalizio. È importante comunque che non venga apportata
alcuna modifica o innovazione.
L'elezione del pontefice avviene a scrutinio segreto e deve cominciare il pomeriggio con la
riunione in capella Sistina, dal momento che la mattina si svolge la messa. Nel momento in
cui i cardinali entrano nella cappella Sistina il Maestro invita a tutti coloro che non sono
cardinali di uscire. Nel pomeriggio vi può essere solo una votazione.
Per eleggere il pontefice è necessaria una maggioranza qualificata dei 2/3. Se non si
raggiunge la maggioranza alla prima votazione, si continua a votare sempre a scrutinio
segreto fin quando non ci sarà una maggioranza qualificata dei 2/3. I voti vengono dapprima

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deposti in un'urna e poi si fa lo spoglio delle schede. Dal momento che vige all'interno del
conclave un principio di segretezza le schede a seguito della spogli devono essere bruciare. Ne
deriva da ciò la cosiddetta fumata, la quale viene prodotto dalla combustione delle schede a
cui si aggiunge un prodotto a seconda del colore che si vuole ottenere per la fumata.
Può accadere che le votazioni continuino senza raggiungere la maggioranza qualificata. La
normativa di Benedetto XVI prevede delle modalità per evitare che il conclave duri troppo a
lungo e dopo 21 votazioni infruttuose, si deve ricorrere necessariamente al ballottaggio tra gli
ultimi due soggetti che nell'ultima votazione hanno avuto il maggior numero di voti: questi
due cardinali non possono più votare.

Il conclave è finalizzato affinché i cardinali decidano chi votare senza condizionamenti esterni
che potrebbero provenire sia dall'interno della chiesa sia dall'esterno (es. condizionamenti
politici). In passato accadeva che i sovrani tentassero di condizionare l'elezione del pontefice,
perché pensavano di avere un diritto di veto "ius exsclusivae" nei confronti dell'elezione del
pontefice. Se fosse stato eletto un pontefice sgradito ai sovrani, questi avrebbero potuto
esercitare il loro diritto di veto e costringere il collegio cardinalizio ad eleggere un altro
pontefice . 

Tali sovrani erano: il re di Francia, il re di Spagna e l'imperatore d'Austria; si trattava di
monarchie che si ritenevano, storicamente, di aver sempre difeso gli interessi della chiesa
cattolica. La chiesa non aveva mai riconosciuto esplicitamente tale potere ma tollerava che
questo diritto di veto potesse essere esercitato. Dal momento che il conclave si è sempre svolto
in isolamento era prassi che, i cardinali provenienti da queste monarchie, presentassero
l'elenco dei cardinali sgraditi dai sovrani e che non si voleva diventassero pontefici. Ma
occorreva fare attenzione nell'esercitare il diritto di esclusiva, perché poteva essere esercitato
soltanto una volta. 

Questa prassi termina nel1904 per opera di Pio X che ha espressamente vietato ai cardinali di
farsi portavoce in conclave di condizionamenti derivanti dall'autorità politica, pena la
scomunica.

Una volta che il pontefice è stato eletto, occorre che il soggetto accetti l'elezione. 

Se il soggetto è già vescovo entra immediatamente nel possesso delle prerogative del pontefice:
la sua elezione diventa efficace a partire dal momento dell'accettazione. Oggi tutti i cardinali
sono anche vescovi (non è vero però il contrario).

Se dovesse essere eletto un soggetto che non è vescovo, a seguito dell'accettazione, occorrerà
procedere immediatamente alla consacrazione episcopale, conferendogli l'ordine sacro nel
grado più alto. A questo punto il soggetto può esercitare le prerogative pontificie.


Le prerogative del pontefice si esplicano in tutte le potestà:


• potestà d'ordine: il pontefice, a differenza di tutti gli altri vescovi, può autorizzare la
consacrazione episcopale. Per il resto, per quanto riguarda la potestà d'ordine, il pontefice è

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un vescovo come tutti gli altri; un vescovo può conferire ad altri il sacramento dell'ordine,
ma se lo fa nel grado più alto ha bisogno dell'autorizzazione pontificia, altrimenti tale
consacrazione è valida ma illecita. La sanzione è la scomunica per entrambi;
• potestà di magistero: la prerogativa che assiste il pontefice come organo monocratico, è
quella della infallibilità in certi ambiti. Tale prerogativa trova un fondamento nella sacra
scrittura, e si tratta di una prerogativa sulla quale la chiesa ha dibattuto per tanti anni, e
sulla quale le opinioni erano abbastanza discordanti. Nel Vangelo di Luca vi è infatti un
colloquio tra Cristo e San Pietro, nell'ambito dell'ultima cena. 

Cristo rivolgendosi agli apostoli dice che nella prova nessuno gli sarà accanto; si poi rivolge
in particolare a pietro: dicendo che pietro, una volta che avrà capito veramente
l'insegnamento di cristo, dovrà confermare ai suoi fratelli la fede.

Questa affermazione viene interpretata come una sorta di garanzia che cristo sta dando a
Pietro, che qualora ci siano dubbi di fede, toccherà a Pietro chiarirli e risolverli perché lui
soltanto ha il compito di rafforzare la fede in tutti gli altri. Tale prerogativa viene
riconosciuta a Pietro in quanto pontefice, dando la garanzia che, in materia di fede, quello
che stabilirà lui sarà sicuramente giusto.
Altra interpretazione afferma che il ruolo del pontefice è un ruolo importante, ma non c'è il
riconoscimento di una garanzia che pietro sarà sicuramente sempre nel giusto. 

Attorno a queste due interpretazioni si è sviluppato un dibattito durato fino al concilio
Vaticano I del 1870, dibattito accentuato quando papa Pio IX ha proclamato il dogma
dell'immacolata concezione della madonna; è la prima volta che un dogma di fede viene
riconosciuto dal papa come organo monocratico e non da un concilio ecumenico.
Questo riaccese il dibattito sul fatto che il papa, da solo non nell'ambito di un concilio di
fede, potesse proclamare un dogma di fede. La posizione francese si schierava a favore
dell'infallibilità del papa, mentre la scuola canonistica tedesca era contraria. 

Anche per questo motivo venne convocato il Concilio Vaticano I: occupandosi del ruolo del
pontefice, si sancirà che il papa, a certe condizioni, è infallibile; a questa prerogativa è
dedicata un brano della costituzione del Vaticano I " l'eterno pastore" .


Il papa è infallibile quando:


1. Il papa è infallibile solo quando si occupa di fede o di morale;
2. Il Pontefice deve agire coma pastore e dottore supremo di tutti i cristiani: cioè deve agire
con carattere di ufficialità, ed esercitando, in modo esplicito questa prerogativa
dell'infallibilità. Il papa deve agire ex cattedra, cioè il pontefice deve agire in modo
ufficiale di insegnamento;
3. Il pontefice deve insegnare un magistero definitivo, come una verità acquisita sulla quale
non ci può essere alcun tipo di modifica o revisione.

Se manca una sola di queste caratteristiche non c'è infallibilità.

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• Potestà di governo: il pontefice ha potestà di governo sulla chiesa universale, mentre il
vescovo solo sulla propria diocesi. 

La potestà di governo del pontefice non è solo universale, ma anche suprema, piena ed
immediata: suprema vuol dire che non ci sono, all'interno della chiesa, autorità
ecclesiastiche sovraordinate rispetto al pontefice, e ciò determina che non possono essere
impugnati i provvedimenti che provengono direttamente dal pontefice (è la prima sede non
edificata da nessuna--> prima sede a neminur iudicatum); è piena perché si può esercitare
in tutte quelle materie che riguardano la chiesa, sia in ambito esecutivo, che legislativo, che
giudiziario (il pontefice è supremo legislatore, esecutore e giudice: qualunque fedele può
chiedere di essere giudicato non dal tribunale ecclesiastico, ma direttamente dal pontefice
che non potrebbe rifiutarsi; allo stesso modo il pontefice può giudicare su qualsiasi causa
canonica perché è giudice di tutta la cattolicità); è immediata perché si esercita sui fedeli
direttamente, senza passare attraverso il vescovo diocesano.

Il fatto che questa potestà sia esercitata liberamente significa che non incontra limiti in
nessuna autorità umana, ma non che sia una potestà illimitata perché incontra i limiti del
diritto divino, naturale è rivelato.
La possibilità di perdita dell'ufficio papale può avvenire per morte o per rinuncia, perché le
altre modalità presuppongono un'autorità superiore. L'eventuale rinuncia non richiede
l'accettazione di alcuno, e per essere valida deve essere fatta liberamente e manifestata.


La curia romana
Il pontefice ha non solo la responsabilità della chiesa universale, ma anche della propria
diocesi; egli, inoltre, è anche capo dello stato pontificio e per questo motivo il pontefice ha
bisogno di una struttura che lo affianchi e di organi che lo assistano nello svolgimento dei
suoi compiti. La curia romana è costituita da una serie complessa di dicasteri e di altri
organismi coordinati dalla segreteria di stato, cui presiede il cardinale segretario di stato,
nominato dal Pontefice e suo principale collaboratore.
La costituzione apostolica pastor bonus individua due caratteristiche della curia romana: la
strumentalità, perché coadiuvano il pontefice e sono funzionali alle sue prerogativa, è il suo
carattere vicario perché non agisce per propria iniziativa, ma esercita la potestà ricevuta dal
Papa.
Tutti gli uffici della curia romana sono guidati da cardinali (prefetti) o da arcivescovi
(presidenti).

I dicasteri della curia romana si dividono in :
1. Segreteria di Stato: coadiuva da vicino il sommo pontefice, coordina l'attività degli altri
dicasteri e cura i rapporti con gli stati. La segreteria di stato si divide in due sezioni: 

affari generali (ove vi rientrano quelle questioni che non rientrano nelle competenze di
singoli uffici della curia romana) e la sezione per i rapporti tra gli Stati. A capo della
segreteria c'è il segretario di stato il quale altro non è che un cardinale.

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I rappresentanti del pontefice presso la comunità politica si chiamano nunzi apostolici, e
dipendono dalla segreteria di stato: è assimilato al diplomatico.
2. Congregazioni: abitualmente hanno potestà esecutiva e sono assimilabili ai ministeri. In
casi eccezionali hanno competenze come organi giudicanti.
La congregazione per la dottrina e la fede ha ancora competenza giudiziaria, in particolar
modo per i delitti particolarmente gravi, ovvero giudica i delitti contro la fede, contro i
sacramenti e contro la morale (delitti contro la confessione, delitti contro l’eucarestia e
delitti di pedofilia ecclesiastica).
3. Pontifici consigli: hanno competenze di natura consultiva o propositiva. L'unico
consiglio che ha poteri decisionali è il pontificio consiglio per l'interpretazione dei testi
legislativi, che deve individuare la corretta interpretazione delle leggi, e deve anche
valutare se il diritto particolare è conforme alle leggi superiori ed in caso di difformità ne
dichiara l'illegittimità (compito che lo assimila alla corte costituzionale). Le decisioni del
Pontificio consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi sono sottoposte al pontefice che
le sottoscrive, e diventano quindi vincolanti e non più impugnabili.
4. Tribunali. Vi sono tre tipi di tribunale: la rota Romana, la penitenzieria apostolica ed il
supremo tribunale della segnatura apostolica.
La penitenziaria apostolica competente per le materie che concernono il foro interno e le
indulgenze. non si considera un tribunale vero e proprio in quanto vi si ricorre non per
chiedere giustizia, ma per implorare una grazia.
La rota romana è il tribunale di terza istanza; vi è un primo grado di giudizio a livello
diocesano, un secondo a livello locale e poi il tribunale di terzo grado costituito dalla rota
romana. Se una causa finisce in terzo grado di giudizio sicuramente finisce davanti la rota.
La rota può giudicare anche in secondo grado, quando la parte soccombente che abbia
perso una causa presenti l'appello di fronte alla rota e non di fronte al tribunale di secondo
grado, dando così luogo all'appello per saltum. In questo caso, il terzo grado d'appello,
sarà fatto sempre di fronte alla rota ma con un altro collegio giudicante.
Talvolta la rota può anche essere tribunale di prima istanza. Ciò accade per alcune cause
che sono affidate alla rota già in primo grado di giudizio: queste cause sono le cause
canoniche che riguardano i capi di stato ed i capi di governo. Sono inoltre riservate alla
rota fin dal primo grado le cause non penali che vedono coinvolto un vescovo.

È previsto questo tipo di procedimento, per codesti casi specifici, perché si mira a fare in
modo che il giudizio seguo ed imparziale. Sono competenti della rota fin dal primo grado
inoltre anche le cause che vengono deferite dal pontefice alla rota; le sue sentenze sono di
aiuto ed orientamento per i tribunali inferiori di primo e secondo grado, per questo
motivo, a partire dal 1908, le sentenze della rota vengono pubblicate in modo che gli
operatori pratici del diritto abbiano un punto di riferimento. La pubblicazione avviene
con uno sfasamento di 5 anni rispetto all'emanazione della sentenza in quanto le parti
non vengono individuate così come i luoghi.
Il supremo tribunale della segnatura apostolica rappresenta la massima istanza della

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giustizia amministrativa della chiesa. Tale supremo tribunale risolve i conflitti di
competenza tra i tribunali e i vari dicasteri ed è l'unico tribunale che eccezionalmente può
sindacare le sentenze rotali. Al supremo tribunale si possono presentare sentenze di
ricusazione dei giudici della rota romana (chi è parte del processo è convinto che il giudice
sia prevenuto nel suo giudizio). Altra competenza della segnatura è il giudice
amministrativo, se si ritiene che un atto amministrativo canonico sia illegittimo il
destinatario di questo provvedimento può esperire una serie di rimedi tra cui il ricorso
giudiziario alla segnatura apostolica. È l'unico organo giudiziario che la chiesa riconosce
per gli atti amministrativi; L'assegnatura ha infatti una sezione specifica che si occupa
specificatamente degli atti amministrativi.
Ultima funzione della segnatura, e la più importante, è la vigilanza sulla corretta
amministrazione della giustizia canonica. Nell'esercizio di questo compito la segnatura
potrebbe anche adottare dei provvedimenti disciplinari. 

Sia le sentenze della rota e della segnatura non sono mai firmate dal pontefice, ma
vengono firmate dal giudice che le ha pronunciate: se venissero firmate dal pontefice
diventerebbero atti non impugnabili. 

La curia romana non ha potestà legislativa, perché espressamente le norme canoniche
prevedono che la curia romana non possa fare norme di legge a meno che non vi sia
un'esplicita attribuzione di competenze da parte del pontefice.
Tali dicasteri si differenziano tra loro anche per il tipo di potestà esercitata, che per le
congregazioni è essenzialmente quella esecutiva, per i tribunali giudiziaria, mentre i pontifici
consigli hanno di regola poteri meramente consultivi. Tutti i dicasteri della curia sono
formalmente posti su un piede di parità giuridica e agiscono in nome del pontefice con
potestà ordinaria vicaria, anche se con ciò non significa che i loro atti siano direttamente
impugnabili al pontefice.

Il collegio dei vescovi (collegio episcopale)


Il collegio dei vescovi, il cui capo è il sommo pontefice, è formato da tutti i vescovi. Il collegio
episcopale non è altro che la prosecuzione del collegio apostolico. Per far parte del collegio
episcopale non basta essere vescovo, occorre anche aver ottenuto la comunione ecclesiale.
Il collegio episcopale così composto è organo supremo parificato al pontefice.
Il Collegio dei vescovi esercita la sua potestà, piena e suprema, sulla Chiesa universale in
modo solenne nel Concilio ecumenico, oppure mediante l'azione congiunta dei Vescovi sparsi
nel mondo indetta o liberamente recepita dal Romano Pontefice così da realizzare un vero
atto collegiale.
Il collegio episcopale ha la potestà d'ordine, di magistero e di governo. Le ultime due il
collegio le può esercitare o in forma solenne o in forma insolenne. La forma solenne si ha
quando tutti i vescovi della chiesa si riuniscono materialmente in uno stesso luogo (concilio
ecumenico). Vi è poi la forma non solenne quando si ha comunque un'azione collegiale

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anche senza il materiale spostamento dei vescovi. Questa azione può essere promossa o dal
pontefice o dal singolo vescovo (dietro approvazione del pontefice).
I concili ecumenici sono molto rari in quanto di non facile organizzazione materiale.
La sempre meno affermazione dei concili ecumenici è dovuta soprattutto all'accrescersi delle
prerogative papali che ha reso meno necessario i concili ecumenici e anche al fatto che partire
da un certo periodo si è affermato che il concilio ecumenico fosse non in posizione di parità
rispetto al papa ma fosse superiore a questo (conciliarismo). Per cui i pontefici hanno visto con
diffidenza l'organo del concilio ecumenico.
Il primo concilio ecumenico in senso tecnico è il concilio di Nicea. Vi è però un precedente
storico che è considerato come una sorta di concilio ecumenico anche se tale non si può
definire, attestato dalla sacra scrittura e ciò conferma il fatto che sia un organo di diritto
divino positivo. Si tratta del cosiddetto concilio di Gerusalemme, un embrione da cui
discendono i concili ecumenici. Si è trattato di una assemblea tenutasi a Gerusalemme per
risolvere il problema relativo al fatto che per diventare cristiani si dovesse prima essere ebrei;
bisognava in pratica stabilire se la professione cristiana si rivelasse a tutti, compresi i pagani o
solo agli ebrei. Questo problema è stato risolto dagli atti degli apostoli, dietro la consultazione
degli apostoli e degli anziani, decidono che si può tranquillamente passare dal paganesimo al
cristianesimo senza bisogno di convertirsi prima all'ebraismo.
Al concilio ecumenico prendono parte di diritto solamente coloro che sono vescovi e hanno la
comunione ecclesiale, con voto deliberativo. Si ammette anche la possibilità che possono
essere chiamati a parteciparvi altri soggetti, solo se si ha l'autorizzazione dalla suprema
autorità della chiesa (pontefice o collegio episcopale) che dovrà inoltre stabilire il suo ruolo
che spetterà a tali soggetti(voto consultivo, deliberativo o semplice osservatore).
Spetta unicamente al pontefice convocare il concilio ecumenico, presiedendolo
personalmente o mediante suoi delegati, come pure trasferire il concilio stesso, sospenderlo o
scioglierlo o approvarne i decreti. In passato era possibile che la convocazione avvenisse anche
da parte di imperatori come nel caso di Costantino.
Sempre al pontefice spetta di determinare le questioni da trattare nel concilio e di stabilire
l'ordinamento da osservare per il suo funzionamento interno. I vescovi possono proporre altre
questioni che devono però essere approvate dal pontefice.
Il concilio altro non è che un organo collegiale, con delle caratteristiche particolari per il
fatto di ricomprendere al suo interno anche il pontefice. Con ciò non si deve però pensare che
il funzionamento e l'operatività del concilio ecumenico dipendano dall'applicazione del
principio di maggioranza. Infatti se si applicasse il metodo a maggioranza potrebbe accadere
che il voto del pontefice sia in minoranza, ma il concilio episcopale non può andare mai
contro le decisioni del Pontefice, perché è pur vero che è un organo supremo della chiesa
universale, ma questa sua caratteristica deriva dal fatto che deve essere sempre in sintonia con
il pontefice e mai contro di esso.
Per questo motivo, le decisioni all'interno del concilio ecumenico vengono prese con un
metodo che tenga conto del ruolo primario del pontefice; per le votazioni si tiene conto della

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maggioranza, ma la maggioranza è condizionata dal fatto che in questa vi sia il pontefice. 

Dunque perché si prenda una decisione all'interno del concilio ecumenico occorre che ci sia
una maggioranza, e che di questa maggioranza faccia parte il pontefice. Se non si raggiunge
questa situazione, non sarà adottata nessuna deliberazione, ed occorrerà continuare le
discussione fino a quando non sarà raggiunta una maggioranza che veda in essa anche il
pontefice. 

Tale disciplina si applica anche nel caso di concilio episcopale non solenne. 

Una volta che le delibere conciliari siano state prese, non sono efficaci dal momento che
richiedono nuovamente la conferma dal papa singolarmente considerato come organo
monocratico. A seguito di tale conferma avrà luogo la promulgazione e, da questo momento,
le delibere conciliari diventeranno efficaci.
Il concilio ecumenico non si può riunire senza la presenza del proprio capo o suo legato.
Talmente stretto è il rapporto tra concilio e pontefice che, in caso di vacanza della sede
apostolica, il concilio viene interrotto ipso iure, fino al l'elezione del nuovo pontefice, il quale
potrà decidere se continuare il concilio oppure scioglierlo.

Potestà del collegio episcopale


Potestà di magistero: è simile a quella che ha il pontefice, in quanto anche il collegio
episcopale, a certe condizioni, è infallibile. Deve trattarsi anzitutto di questioni che riguardino
la fede o la morale e in secondo luogo, altra condizione, è che deve trattarsi di un atto ufficiale
e definitorio cioè un atto con il quale si stabilisce qualcosa di vincolante.
Potestà di governo: il collegio episcopale ha esattamente la stessa potestà che ha il pontefice
come organo monocratico. Si tratta di una potestà suprema, piena, immediata, universale e
che può essere esercitata liberamente. 

Vale dunque tutto ciò che si è già detto per la potestà di governo del pontefice. 


Sinodo dei vescovi


Il sinodo dei vescovi è uno dei vari modi con cui i vescovi cooperano con il pontefice
nell'esercizio del suo ufficio di pastore della chiesa universale.
Si tratta di un'istituzione di diritto umano creata da Paolo VI nel 1965 per fare in modo che il
papa possa confrontarsi spesso con l'episcopato e favorirne un collegamento organico.
In realtà vi era già un organo che collaborava con il pontefice, ossia il collegio cardinalizio;
tuttavia i cardinali sono nominati dal pontefice e perciò vi era naturalmente il fondato
pericolo che il collegio cardinalizio non fosse portatore di contributi diversi rispetto a quelli
del pontefice, dando luogo ad un confronto non produttivo.
Si penso allora di creare un altro organo diverso dal collegio cardinalizio ossia il sinodo dei
vescovi. Si tratta di un organo consultivo (collegio episcopale - organo deliberativo) che

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può assumere carattere decisionale solo con un' esplicita attribuzione di competenza da parte
del papa.
Il sinodo è interamente sottoposto all'autorità del pontefice, cui spetta di convocarlo quando
lo ritiene opportuno e indicare anche le questioni da trattare. Il pontefice è tenuto a
presiedere personalmente il sinodo o attraverso propri delegati; egli è tenuto inoltre a
sospendere, concludere, trasferire o sciogliere il sinodo.
Non tutti i vescovi prendono parte al sinodo ma solo quelli in rappresentanza dell'episcopato.
Può essere una rappresentanza mondiale se la questione riguarda la chiesa universale, così
come locale per alcune zone. La composizione del sinodo varia dunque a seconda degli
argomenti da trattare e delle circostanze:
• Si riunisce in sinodo generale quando si trattano di argomenti che riguardano la chiesa
universale. Il sinodo generale può essere ordinario nel momento in cui si tratta di problemi
di ordinaria amministrazione, che riguarda la vita comune della chiesa. È invece
straordinario quando ha ad oggetto un problema che non riguarda la vita comune della
chiesa, ma un problema particolare.
Trattandosi una rappresentanza dell'episcopato occorre avere dei criteri di scelta di chi
prende parte al sinodo. I membri del sinodo si dividono in categorie: 1) membri di diritto
ossia i capi degli uffici della curia romana competenti per materia, a seconda delle questioni
da trattare nel sinodo. 2) membri designati dal pontefice, ma questi non possono essere più
del 15% dei componenti del sinodo; 3) Tutti gli altri membri del sinodo devono essere eletti
con metodo democratico stato per stato.
Quando devono essere trattati affari che riguardano direttamente una o più regioni
determinate, il sinodo si riunisce in assemblea speciale e i membri sono scelti dalle
conferenze episcopali del luogo per il quale viene convocata l'assemblea.
Quando il pontefice dichiara conclusa l'assemblea cessa l'incarico per i suoi membri, ma il
sinodo è dotata di una segreteria generale permanente presieduta dal segretario generale
nominato dal pontefice. Per ogni assemblea inoltre il pontefice può nominare uno o più
segretari speciali.
A livello statale l'organo che rappresenta la chiesa è la conferenza episcopale, la quale
elegge gli organi da mandare al sinodo. Tuttavia le conferenza episcopali non sono tutte
uguali, ma variano a secondo della grandezza degli Stati. Poiché all'interno del sinodo
abbiamo i rappresentanti delle conferenze episcopali, il regolamento del sinodo prevede che
vi debba essere un rappresentante ogni 25 vescovi delle conferenze episcopali.
Benedetto XVI ha introdotto una novità riguardo al sinodo generale prevedendo che al
termine di ogni giornata di lavori del sinodo vi fosse un ora di dibattito libero nella quale
potevano essere proposta qualunque questione, accrescendo così la democraticità del sinodo.
Essendo un organo consultivo il sinodo ha ragion d'essere nel momento in cui la sede
pontificia non sia vacante. Se la sede pontificia è vacante durante il corso del sinodo esso è
sospeso.

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Collegio cardinalizio
È un organo collegiale di diritto umano. Si discosta dal sinodo però perché è un organo molto
antico che sorge storicamente più o meno intorno al IX - X secolo dopo Cristo e nasce per
volontà del pontefice di avere dei collaboratori. La diocesi di Roma era infatti divisa in sette
circoscrizioni (diaconie) ognuna delle quali era preposta da un diacono. Essere posti a capo di
una delle sette diaconie significava che i diacono avrebbero dovuto gestire somme non
indifferenti, fondi che il pontefice stanziava per lo svolgimento dell'assistenza e della
beneficienza. Il pontefice cominciò così a cercare all'interno del clero dei soggetti diaconi ai
quali affidare la guida delle 7 diaconie.
Chiaramente l'esigenza di avere dei collaboratori si andò estendendo anche in altri settori,
con conseguente aumento di necessità di assistenza e consulenza del Pontefice, anche
occasionalmente. All'epoca era necessaria la vicinanza fisica con un soggetto per poterlo
consigliare. Il pontefice necessitava soggetti vicino a lui ma poiché l'attività di consulenza era
fondamentalmente occasionale occorreva dare loro un incarico abituale che consentisse a
questi di stare a Roma o vicino Roma in modo che il pontefice avrebbe potuto usufruire della
loro collaborazione.
Nacque così la prassi di affidare a questi soggetti la guida di una chiesa di Roma, o la guida di
una diocesi vincono Roma. Le diocesi vicino Roma si chiamavano suburbicarie (sotto la
città o meglio confinanti con quella di Roma). Per avere la guida di una chiesa occorre essere
presbiteri e per guidare una diocesi occorre essere vescovi. Quindi i collaboratori del
pontefice potevano essere o diaconi (attività caritatevole) o presbiteri (a capo di una chiesa) o
vescovi (a capo di una diocesi). A partire dal X secolo per indicare questi collaboratori del
soggetti si cominciò ad utilizzare il termine incardinatus (colui che è incardinato o a Roma
o in una delle diocesi suburbicarie), da questa parola deriva "cardinale". Nasce così, in
quest'epoca, l'ordine dei cardinali.
Ma trattandosi di una norma di diritto umano poteva essere tranquillamente modificata, e
alcuni pontefici stabilirono che tale dignità di cardinale potesse essere conferita anche a
soggetti che non avessero il sacramento dell'ordine, ossia ai laici. Tuttavia ci si rese conto, che
tale apertura aveva "mondanizzato" la carica, in quanto era diventata molto ambita al fine di
ottenere prestigio ed autorità. 

Per questo motivo si modificò nuovamente la normativa eliminando la possibilità di attribuire
la carica di cardinale a soggetti laici, necessitando almeno l'ordine di presbitero. 

Se il soggetto è presbitero e non vescovo, deve ricevere la consacrazione episcopale.

Nonostante ciò è rimasta nel collegio cardinalizio la divisione in tre ordini:
1. Cardinale dell'ordine episcopale;
2. Cardinale dell'Ordine presbiterale;
3. Cardinale dell'ordine diaconale.


Tale differenza deriva dal fatto che contestualmente alla nomina cardinalizia arriva anche un
titolo che può essere o una diaconia o il titolo di una chiesa dentro Roma o il titolo di una

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diocesi sub urbicaria. La differenza rileva soltanto a livello onorifico, in quanto le funzioni
rimangono le stesse. All'interno di ciascun ordine vi è una gerarchia interna legata
all'anzianità di nomina.
Solamente il pontefice può attribuire il titolo di cardinale. Le modalità con le quali si può
attribuire il cardinalato sono due:
1. Modalità di nomina Pubblica (solenne): il pontefice in presenza di altri cardinali,
comunica, con proprio decreto, che ha deciso di conferire questo titolo ad uno o più
soggetti, a seguito ci sarà una cerimonia ufficiale;
2. Modalità di nomina in pectore: per cui il pontefice decide di conferire il titolo ad un
soggetto, ma sussistono delle ragioni di opportunità che sconsiglino di rendere questa
nomina pubblica (es si pensi a presbiteri o a vescovi che sono oggetto di persecuzione da
parte delle autorità civili di uno stato ostile alla chiesa). In questi casi il pontefice si limita a
comunicare che ha deciso di fare un cardinale in pectore senza fare il nome, il quale resterà
conosciuto solo al pontefice. Nel momento in cui queste ragioni di opportunità cesseranno
il pontefice farà il nominativo del soggetto che potrà ad esercitare le sue funzioni, e tale
nomina decorrerà dal giorno in cui il pontefice ha deciso di conferire questo titolo (dalla
decisione in pectore). Se il pontefice dovesse morire prima di aver rivelato questo soggetto
nessuno potrà mai sapere chi fosse l'interessato.

Il collegio cardinale assolve diverse funzioni:


1. Elezione del pontefice ;
2. Consiglieri e collaboratori del pontefice, tale compito può essere svolto o collegialmente o
individualmente su richiesta del papa. Nel caso in cui il collegio cardinalizio si riuscire per
attività di consulenza e collaborazione, questo prende il nome di concistoro che può
essere:
ordinario: quando il papa vuole essere corroborato dal collegio per
questioni di ordinaria amministrazione o per atti particolarmente solenni
(es. conferire il titolo di cardinale). Il pontefice può scegliere se convocare
tutti i cardinali, o soltanto quelli che si trovano a Roma.
straordinario: cui sono convocati tutti i cardinali quando si presentano
peculiari necessità della chiesa.
Possono prendere parte al concistoro soggetti che non siano cardinali soltanto nel caso in cui
sia ordinario, nel caso di atti solenni; fuori da queste ipotesi è necessario essere cardinali per
partecipare al concistoro al fine di conservare la riservatezza.
3. Guida degli uffici della curia Romana, si tratta di una funzione prettamente individuale.

Un cardinale può passare da un organo all'altro per provvedimento pontificio, al fine di


conferire delle promozioni.

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Tale collegio ha bisogno di un rappresentante nei confronti dei terzi, tale ruolo è esercitato
dal cardinale decano che ha le stesse funzioni di qualunque altro cardinale pur
rappresentando il collegio cardinalizio. In passato il decano veniva scelto tra i cardinali
dell'ordine episcopale, secondo un criterio di anzianità di nomina; oggi si utilizza il criterio
elettivo all'interno del collegio cardinalizio. Nella rarissima ipotesi in cui venisse eletto
pontefice un soggetto non ancora vescovo spetterebbe al decano conferirgli il sacramento
dell'ordine nel grado più alto.
Il cardinale protodiacono è il più anziano per nomina all'interno dell'ordine diaconale, il
suo compito è quello, in occasione dell'elezione del pontefice, di annunciare alla comunità dei
fedeli il cardinale che è stato eletto Pontefice.
I cardinali, titolari di un incarico all'interno della curia romana, nel momento in cui la sede
pontificia diventa vacante, decadono automaticamente dalla carica perché si tratta di una
potestà vicaria che presuppone che ci sia il titolare della potestà. Rimangono in carica solo il
cardinale camerlengo e il cardinale vicario per la diocesi di Roma.


Le chiese particolari
La più comune è la diocesi definita come la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura
pastorale del vescovo con la collaborazione del presbitero. La diocesi risulta costitutiva da un elemento
personale (popolo di Dio), da uno gerarchico istituzionale (la potestas del vescovo) e da un
nucleo costitutivo rappresentato dalla parola di Dio e dall'eucarestia.
Alla diocesi sono assimilate altre chiese particolari:
1. Prelatura territoriale o abbazia territoriale: Sono chiese particolari che hanno una
base particolare ovverosia fa parte di queste chiese chi dimora in un determinato
territorio. Sono chiese molto antiche che anziché essere guidate da un vescovo sono
guidate da un prelato o da un Abate che ha la stessa potestà di governo di un vescovo
diocesano (potestà ordinaria propria). I vescovi non sono vicari del pontefice (ha una
propria potestà).
2. vicariato apostolico o prefettura apostolica: tratta di porzioni di chiesa che, per ragioni
peculiari, ancora non possono essere costituite come diocesi, ma che in futuro lo
diventeranno ( si tratta di uno stato transeunte). Sono guidati da un vicario apostolico o da
un prefetto apostolico, che guidano le comunità in nome del pontefice ed hanno quindi
una potestà ordinaria vicaria.
3. amministrazione apostolica stabilmente costituita: è una porzione di chiesa che, per
ragioni particolari, non può essere costituita come dicesi in modo permanente. È guidata
da un amministratore apostolico in nome del Pontefice, con una potestà ordinaria vicaria.

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Prelatura personale
È una figura contemplata nel codice dell'83. Sono organizzazioni formate da soggetti ordinati
(presbiteri e diaconi), erette dalla Santa sede che ne forma anche gli statuti. Per la
elaborazione di tale figura si è andati dal particolare al generale (metodo induttivo).
Si ricorre alla prelatura personale per assicurare una migliore distribuzione del clero o per
compiere particolari opere pastorali. La guida prende il nome di prelato, soggetto ordinato,
che ha sui membri della prelatura la potestà stessa che ha il vescovo. Si prevede inoltre che il
prelato possa istituire per la prelatura un seminario, nazionale o internazionale. I chierici che
fanno parte della prelatura non seguiranno un normale percorso ma un apposito seminario
della prelatura. Si prevede anche la possibilità che i laici possano partecipare alla prelatura
sulla stipula di una convenzione (accordo tra la prelatura e laico). Esempio classico di
prelatura è l'opus dei.

L'ufficio dei vescovi


È un istituto di diritto divino in quanto i vescovi sono i successori degli Apostoli (successione
apostolica); il vescovo è colui che riceve il sacramento dell'ordine nel grado più alto, che gode di
una potestà propria è che ha vari compiti.
Per la nomina occorrono dei requisiti: il soggetto deve essere presbitero da almeno 5 anni,
avere almeno 35 anni di età e deve avere una laurea in teologia, in diritto canonico o sacra
scrittura. Il codice prevede che i vescovi sono nominati liberamente dal pontefice, oppure da
lui confermati se eletti in base a legittime consuetudini.
Un vescovo può consacrare un altro vescovo ma per farlo in modo lecito occorre il mandato
apostolico. Ogni tre anni le conferenze episcopali sono obbligate a istituire un documento,
un elenco, ove vengono inseriti i nomi dei soggetti ritenuti idonei a conferire l'episcopato. In
più qualunque vescovo può sottoporre al pontefice i nominativi dei soggetti che ritiene idonei
di essere nominati vescovi. Una volta che è il soggetto è stato consacrato vescovo, questo può
essere chiamato a vari compiti, tra cui la guida di una diocesi.
È una parte del popolo di Dio che è affidata alla guida di un vescovo coadiuvato dal suo
presbiterio. Il vescovo che guida la diocesi si chiama vescovo diocesano, tutti gli altri ai
quali non è affidata la guida di una diocesi si chiamano vescovi titolari.
Il vescovo diocesano: ricevono la guida di una diocesi tramite un atto sacramentale missio
canonica, a seguito del quale prendono possesso dell'ufficio e potranno guidare la comunità
esercitando su di essa una potestà di Governo ordinaria e propria.
Per potere esercitare l'ufficio deve prima prendere possesso canonico della diocesi, cioè il
momento in cui esibisce (personalmente o tramite procuratore) la lettera apostolica al collegio
dei consultori a cui compete il governo della diocesi durante il periodo di vacanza e alla
presenza del cancelliere della curia che ne redige un verbale; ciò deve avvenire entro 4 mesi

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dalla ricezione della lettera apostolica, se non è già stato consacrato vescovo o entro due mesi
se è già stato consacrato vescovo.
La potestà di governo del vescovo comprende sia lo potestà legislativa, esecutiva, e
giudiziaria. Il codice stabilisce che il vescovo deve esercitare la funzione legislativa
personalmente, mentre per le altre due funzioni può avverarsi di collaboratori; per la potestà
esecutiva il vescovo può esercitarla personalmente o tramite i vicari generali, ossia coloro che
sono tenuti ad esercitare la funzione esecutiva in nome e per conto del vescovo, senza alcune
limitazioni salvo quelle espresse riservate al vescovo. Nel caso in cui ci fosse una diocesi molto
grande si potrebbe ricorrere ai vicari episcopali, una figura eventuale che ha la funzione
esecutiva limitatamente a determinati ambiti (per materia, territorio ecc..). 

Il vescovo esercita la funzione giudiziaria tramite il vicario giudiziario che ha la potestà
ordinaria vicaria. Tale soggetto deve essere necessariamente presbitero. Per alcune cause il
diritto canonico prevede che il giudice debba essere, non monocratico, ma collegiale: si
prevede dunque che il vicario giudiziario sia affiancato dai giudici diocesani, che vengono
nominati dal vescovo su proposta del vicario. Tali soggetti potranno anche essere laici e
contribuiranno ad amministrare la giustizia all'interno della diocesi.
All'interno della diocesi è possibile che al vescovo diocesano si affianchino ulteriori figure:
1. Vescovo ausiliare si tratta di un collaboratore più stretto del vescovo che lo può
sostituire negli atti di potestà d'ordine; vengono costituiti su richiesta del vescovo quando
lo suggeriscono le necessità pastorali della diocesi. Sono privi del diritto di successione;
2. Vescovo coadiutore sono costituiti d'ufficio dalla Santa sede e godono ipso iure del
diritto di successione. In caso di vacanza della sede episcopale il vescovo coadiutore
diviene immediatamente vescovo della diocesi. 


Fra i principali doveri attinenti al vescovo diocesano vi è quello di proporre e spiegare ai


fedeli le verità di fede, predicando personalmente; egli inoltre deve offrire un esempio di
santità nella carità, nell'umiltà nonché deve celebrare frequentemente la messa per il popolo.
Tali compiti richiedono che il vescovo abbia una rapporto costante con la diocesi che gli è
stata affidata, e per questo ha l'obbligo di risiedere nella diocesi della quale ha la guida.

Il vescovo non può allontanarsi dalla sua diocesi per più di un mese, a meno che non si tratti
di cause eccezionali (es. per motivi di salute, conclave ecc); in modo particolare non può
allontanarsi dalla diocesi in periodi liturgicamente sensibili.
Il vescovo è tenuto ogni anno a visitare la propria diocesi (visita pastorale), a meno che non si
tratti di una diocesi molto grande per cui il vescovo può frazionare la visita in cinque anni.
Il vescovo diocesano ha un rapporto gerarchico nei confronti del pontefice, infatti è tenuto a
trasmettere i dati che riguardano la propria diocesi al pontefice (si tratta sempre di porzioni
dell'una ed unica chiesa universale). Per cui ogni 5 anni il vescovo deve stendere una relazione
sulla propria diocesi ed inviarla alla Santa sede; sempre ogni 5 anni il vescovo dovrà compiere
la visita ad limina recandosi a Roma, per venerare la tomba degli apostoli pietro e Paolo, e

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presentarsi al pontefice. 


Impedimento e vacanza della sede episcopale


Può accadere che il vescovo sia in carica, ma la carica sia impedita. Ciò si verifica quando a
motivo di esilio, confino, prigionia, o altra inabilità il vescovo non può svolgere il proprio
compito e non può comunicare nemmeno per lettera con i propri fedeli. In questo caso il
compito di governare la diocesi spetta al vescovo coadiutore (figura eventuale), se c'è,
altrimenti spetterà al vescovo ausiliare. Se non dovesse esserci il vescovo ausiliare, il compito
di guidare la diocesi spetterebbe al vicario generale, a quello episcopale, o ad un altro
presbitero; si dovrà seguire l'ordine contenuto nell'elenco redatto dal vescovo diocesano.
Tale elenco deve essere custodito segretamente dal segretario della curia diocesana. Nel caso
in cui l'elenco non si trova, o viene distrutto o non è utilizzabile, in queste ipotesi il governo
della diocesi spetta al collegio consultorio. Questo potrà guidare la diocesi solo per gli atti di
ordinaria amministrazione.
La sede episcopale diventa vacante con la morte del vescovo diocesano, con la rinuncia
accettata dal pontefice, con il trasferimento o la privazione (legata ad un crimine canonico).
La sede inoltre puoi diventare vacante nel caso in cui il vescovo compia 75 anni. Egli è infatti
obbligato a presentare la rinuncia all'ufficio al sommo pontefice, il quale provvederà
accettandolo o meno dopo aver valutato tutte le circostanza.
Se vi è un vescovo coadiutore la vacanza viene subito colmata, altrimenti il governo della
diocesi spetta temporaneamente al vescovo ausiliare, in attesa che venga nominato
l'amministratore diocesano, dal collegio dei consultori, entro otto giorni dal giorno
successivo della sede vacante. Se questo termine decorre la sua nomina spetta al metropolita.
Amministratore può essere solo un soggetto che ha ricevuto il sacramento dell'ordine di
secondo grado e dunque rivolto almeno ai presbiteri (non un laico, non un diacono).
È possibile avere una diocesi non su base territoriale, ma su base personale (es il rito).

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Raggruppamenti particolari di chiese
Il vescovo deve essere pienamente inserito all'interno della chiesa universale, per cui, per
evitare che ciascun a diocesi resti isolata il codice ha previsto alcune forme di collegialità
particolari, minori rispetto al collegio episcopale che valgono solo per alcune parti della
chiesa. Queste forme di collegialità consistono nel raggruppare tra di loro le diocesi che sono
territorialmente vicine.
Province ecclesiastiche sono circoscrizioni territoriali dotate ipso iure di personalità
giuridica che riuniscono le diocesi tra di loro più vicine al fine di promuovere un'azione
pastorale comune e per favorire i rapporti con i vescovi diocesani. Ciascuna diocesi deve far
parte della provincia che può essere costituita, soppressa o modificata solo dalla suprema
autorità della chiesa.
Le diocesi che fanno parte della provincia ecclesiastica non sono tutte sullo stesso piano: la
diocesi metropolitana o l'arcidiocesi è la più importante della provincia ecclesiastica, e
colui che guida queste diocesi prende il nome di arcivescovo o vescovo metropolita. Le altre
diocesi si chiamano diocesi suffraganee.
L'arcivescovo ha dei poteri di coordinamento dell'attività dei vescovi che fanno parte della
provincia ecclesiastica (non ha poteri di giurisdizione su questi), ma può avere delle funzioni
deliberative quando una delle diocesi suffraganee diventa vacante. Spetta all'arcivescovo il
compito di informare la Santa sede di eventuali violazioni in tema di fede o del rispetto della
normativa canonica che dovessero avvenire all'interno delle diocesi suffraganee.
Regione ecclesiastica Accanto alla provincia ecclesiastica vi può essere anche la regione
ecclesiastica la quale è semplicemente eventuale, nel senso che è possibile che più province
ecclesiastiche vengano accorpate in un unica regione ecclesiastica. La regione ecclesiastica
potrebbe avere personalità giuridica.
All'interno della provincia vi è il concilio provinciale, un organo collegiale con funzioni
deliberative composto dall'insieme dei vescovi della provincia ecclesiastica. Serve a fare in
modo che questioni comuni a tutte le diocesi della provincia, vengano affrontate e risolte in
modo unitario. La convocazione avviene ogni volta che risulti opportuno dalla maggioranza
dei vescovi della provincia. Spetta al metropolita decidere la sede e determinare l'ordine delle
materie da trattare no che di dichiarare chiuso il concilio. Le delibere del concilio provinciale,
una volta adottate a maggioranza, non sono immediatamente efficaci; vanno trasmesse alla
Santa fede che dovrà confermare o meno la relativa delibera. A seguito della conferma
saranno pubblicate ed entreranno in vigore secondo le modalità previste dal concilio stesso.
Concilio plenario si tratta di una forma di collegialità nazionale. Oggi il concilio plenario è
stato affiancato e sostituito dalla conferenza episcopale, che ha una composizione più snella e,
mentre il concilio è occasionale, la conferenza episcopale ha una sua stabilità ed esiste
continuativamente e si protrae nel tempo. La convocazione di un concilio plenario deve essere
richiesta dalla conferenza episcopale alla Santa sede tutte le volte che lo riteneva necessario.
Essa è inoltre tenuta ad eleggerne il presidente e il concilio deciderà con metodo democratico.
Anche per il concilio plenario le delibere vanno autorizzate e verranno promulgate.

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Il concilio provinciale o il concilio plenario sono concili particolari. In entrambi vi sono dei
membri di diritto: i vescovi diocesani, i vescovi coadiutori, i vescovi ausiliari e tutti i vescovi
titolari che abbiano in quel territorio uno speciale incarico loro affidato dalla Santa sede o
dalla conferenza episcopale; non solo sono membri di diritto ma hanno anche voto
deliberativo; sono invece membri di diritto ma con voto consultivo i vicari generale e i vicari
episcopale. Possono prendere parte al concilio particolare anche i vescovi che non abbiano
alcun incarico speciale e il concilio dovrà indicare se a questi spetti voto deliberativo o
consultivo. Potrebbero invitarsi al concilio anche presbiteri e i laici con voto meramente
consultivo.

La conferenza episcopale
La conferenza episcopale nasce come forma di cooperazione a livello nazionale come
organismo più snello rispetto al concilio plenario in quanto la composizione è più ristretta. Si
tratta di un organismo permanente, che consiste in un'assemblea dei vescovi di una nazione o
di un territorio. Membri di diritto sono i vescovi diocesani, coadiutori, ausiliari e altri vescovi
titolari che hanno voto deliberativo.
Lo statuto delle conferenza prevede le regole sulla composizione, e viene approvato dalla
Santa sede. Ogni conferenza elegge al suo interno il presidente e il segretario generale.
A questa composizione più ristretta fa riscontro una limitazione nelle competenza a decidere
rispetto al concilio plenario: un concilio plenario può deliberare su qualunque questione che
riguardi quella porzione di territorio, ed ha quindi una potestà piena su tutto ciò che riguarda
quella porzione di chiesa. La conferenza episcopale, invece, può deliberare solamente sulle
materie che le vengono affidate dalla Santa sede; non è possibile deliberare su altre materie a
meno che non ci sia una deliberazione unanime.
La conferenza episcopale ha una sua stabilità, perché anche quando non è riunita ha degli
organi permanenti che rimangono in carica sempre e vengono rinnovati ogni 5 anni: il
presidente, il segretario generale, ed il consiglio episcopale. Il presidente deve essere scelto
tramite elezione; tuttavia l'unica conferenza episcopale che non può eleggere il proprio
presidente è quella italiana, ove il presidente è eletto dal pontefice. Spetta al presidente
nominare il segretario generale ed i sotto segretari. Il consiglio episcopale, invece, è eletto dai
membri della conferenza stessa. 

La conferenza episcopale delibera tramite metodo democratico non con maggioranza
semplice, ma con maggioranza qualificata dei 2/3, i cui decreti sono soggetti a ricognitivo
della santa sede.

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Consiglio presbiteriale e collegio dei consultori
Organi collegiali che collaborano con il vescovo nel governo della diocesi. Il fondamento di
tali organismi risiede nello stesso sacramento dell'ordine, in forza del quale i presbiteri sono
intimamente associati all'ordine episcopale e chiamati a cooperare con il vescovo all'interno
del diocesi.
Il consiglio presbiteriale è un organo che deve rappresentare il presbiterio, cioè l'insieme dei
presbiteri e dei diaconi di quella diocesi. Si tratta di un organo necessario e
rappresentativo costituito da un gruppo di presbiteri e diaconi in rappresentanza degli
altri. Tale organo ha una funzione consultiva, per consigliare il vescovo quando questo ne
avesse la necessità. Compito di tale consiglio è essenzialmente consultivo. Il consiglio
presbiteriale deve rappresentare il presbiterato locale, per cui la scelta dei rappresentati
avverrà con un metodo democratico cioè tramite un'elezione. Almeno la metà dei membri del
consiglio presbiterale deve essere scelta tramite elezione, l'altra metà può essere scelta con
altro metodo (es. designata dal vescovo).
Tra i membri del consiglio presbiterale, il vescovo diocesano sceglie i membri del collegio
dei consultori che devono essere un numero compreso tra 6 e 12. Talvolta questo consiglio
può essere chiamato a decidere assumendo poteri deliberativi (ad esempio quando la sede
della diocesi è vacante). I soggetti che fanno parte sia del consiglio presbiterale che del
collegio dei consultori non potranno che essere soggetti che hanno ricevuto il sacramento
dell'ordine;
Consiglio per gli affari economici: è un organo necessario che ha il compito di
amministrare i beni della diocesi. È composto da almeno tre fedeli esperti in economia e in
diritto civile nominati dal vescovo per 5 anni. Tale consiglio deve redigere il bilancio
preventivo ed il bilancio consultivo, in più si occupa di tutti gli atti di straordinaria
amministrazione che riguardano il patrimonio della diocesi. Si tratta di un organo
deliberativo.
Nel silenzio del codice desumiamo che di tale organo possano far parte anche i laici, sia di
sesso maschile che femminile: questo perché avere l'origine sacro non è condizione necessaria
per esercitare il compito amministrativo, ma si richiede solo la conoscenza dell'economia, del
diritto canonico e del diritto dello Stato (per la canonizzazione del diritto civile).

Curia diocesana
La curia diocesana ha il compito di assistere il Vescovo nella direzione dell’attività pastorale,
nell’amministrazione della diocesi e nell’esercizio della potestà giudiziaria. Al vertice della
curia c’è il vicario generale, nominato dal Vescovo, a cui spetta di diritto la stessa potestà
esecutiva su tutta la diocesi che spetta al Vescovo, cioè la potestà di porre tutti gli atti
amministrativi salvo quelli che il Vescovo si sia riservato. E’ una facoltà del Vescovo costituire
uno o più vicari episcopali, di sua libera nomina, con la stessa potestà ordinaria che spetta al

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vicario generale ma circoscritta ad una parte determinata della diocesi, o per un determinato
genere di affari, o per i fedeli di un determinato rito o per un gruppo di persone.
Entrambi questi vicari possono essere liberamente rimossi dal Vescovo, devono mantenerlo
informato sulle attività e non agire mai contro la sua volontà e il suo intendimento. Spetta al
Vescovo diocesano coordinare l’attività pastorale dei vicari. Il cancelliere, invece, provvede
alla compiuta redazione degli atti della curia e alla loro custodia nell’archivio o tabularium
diocesano.

Consiglio pastorale diocesano


E’ un organismo di rappresentanza dell’intero popolo di Dio, il codice prevede la sua
costituzione in ogni diocesi ed è sotto l’autorità del Vescovo. Le sue funzioni sono studiare,
valutare e proporre conclusioni operative su quanto riguarda le attività pastorali della diocesi;
ha una competenza di carattere generale ma con funzioni meramente consultive. E’ composto
da fedeli in piena comunione con la Chiesa, chierici, religiosi e soprattutto laici, membri per
un tempo determinato, scelti per rappresentare tutta la porzione del popolo di Dio. Solo il
Vescovo ha il compito di convocare e presiedere il consiglio pastorale, almeno una volta
all’anno, e di rendere di pubblica ragione le materie trattate.

Sinodo diocesano
E’ uno strumento di ausilio all’esercizio della funzione legislativa del Vescovo diocesano. E’
l’assemblea dei sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa particolare, per prestare aiuto al
Vescovo; viene convocato dal Vescovo diocesano, che lo presiede personalmente o tramite il
vicario generale o episcopale. Si tratta quindi di un organismo temporaneo, destinato a
cessare una volta esaurita la sua funzione. Il codice prevede che tutte le questioni proposte
siano sottomesse alla libera discussione dei membri ma aggiunge anche che nel sinodo
diocesano l’unico legislatore è il Vescovo diocesano, infatti gli altri membri hanno solo un voto
consultivo ed è solo lui che sottoscrive le dichiarazioni e i decreti sinodali, che possono essere
resi pubblici per la sua autorità. Spetta sempre al Vescovo diocesano sospendere o sciogliere il
sinodo diocesano. Le finalità di questo organismo possono essere: adattare l’applicazione delle
leggi generali della Chiesa alle circostanze locali, emanare norme per l’azione pastorale e per
il governo della diocesi, stimolare le varie attività e iniziative, correggere gli errori nella
dottrina e nei costumi.

La parrocchia
La parrocchia una volta costituita è persona giuridica. Il vescovo diocesano divide le
diocesi in parrocchie e ognuna è affidata ad un presbitero che prende il nome di parroco.
Nel territorio della parrocchia sono presenti anche diversi luoghi di culto dalla chiesa
parrocchiale che prendono il nome di rettorie.

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I beni della chiesa

Il libro V del codice canonico, intitolato i beni temporali della chiesa, si apre affermando che la
chiesa ha il diritto proprio e indipendente di acquistare, possedere, amministrare e alienare
beni temporali. Alla categoria di beni ecclesiastici possono essere ricondotti beni di diverso
genere: i beni materiali (res corporales), sia immobili che mobili, i beni immateriali (res
incorporales), come ad esempio le opere di ingegno, e le res sacrae, cioè quelle cose,
mobili o immobili, sono immediatamente destinate al culto divino. Tuttavia i beni ecclesiastici
e le res sacrae non sono necessariamente connessi: le res sacrae infatti possono trovarsi in
proprietà di privati e in questo caso naturalmente non faranno parte del patrimonio della
chiesa.
Il codice individua quando questi beni possono definirsi patrimonio ecclesiastico: "sono
patrimonio ecclesiastico i beni che appartengono alla chiesa cattolica, alla Santa sede e a
tutte le persone giuridiche canoniche e pubbliche. Il patrimonio ecclesiastico si costituisce
attraverso due modi : modalità di diritto privato, cioè facendo ricorso ad istituti giuridici
previsti dai diritti secolari, per l'acquisto di diritto di proprietà (titolo oneroso, gratuito,
originario o derivativo), si parla a riguardo di canonizzazione della legge civile (legge civile
che diventa norma canonica); modalità di diritto pubblico con cui la chiesa esercita una
sorta di potere di imperio. La chiesa può infatti imporre alle persone fisiche e giuridiche di
devolvere parte dei loro redditi a determinati enti ecclesiastici, mediante tributi o tasse.
La tassa è una forma di prestazione patrimoniale che la chiesa può chiedere come
corrispettivo di un servizio determinato. Vi sono poi anche le offerte (oblazioni) o le collette
speciali, come atti di liberalità posti in essere dai fedeli.
Il patrimonio acquisito ha precise regole circa l'amministrazione di beni. Il mancato
rispetto di queste regole comporta l'invalidità dell'atto non solo nel diritto canonico, ma anche
nel diritto statale. Amministratore della persona giuridica pubblica è colui che la presiede a
norma di legge o per disposizione statutaria (esempi tipici di amministratori ex lege sono il
vescovo per la diocesi o il parroco per la parrocchia). Gli amministratori sono tenuti ad
adempiere i loro compiti in nome della chiesa, e con la diligenza del buon padre di famiglia.
Le regole del diritto canonico sulla amministrazione prevede la distinzione tra atti di
ordinaria e straordinaria amministrazione. Per gli atti di ordinaria amministrazione chi
amministra la persona giuridica può emettere questi atti senza bisogno di autorizzazione. Se
invece parliamo di atti di straordinaria amministrazione, ossia quegli atti che producono
sostanziali innovazioni alla situazione patrimoniale della persona giuridica, sia in positivo
(acquisto di un bene), sia in negativo (alienazione o perdita di un bene) occorrono anche
autorizzazioni di altri soggetti. Alcuni sono previsti dal codice canonico come le alienazioni se
superiori a un certo valore; alle alienazione sono assimilati tutti i negozi giuridici che non
sono alienazioni ma che possono avere effetto negativo sul patrimonio della persona giuridica
(es locazione, atti di liberalità gravati da oneri o condizioni).

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Si è previsto anche un valore massimo (un milione di euro) oltre il quale l'autorizzazione del
vescovo non porta la validità dell'azione, ma occorre altresì il consenso della Santa sede
(doppia conferma). Se parliamo poi di un atto di alienazione che riguarda il patrimonio di
una diocesi, il vescovo per autorizzare l'atto ha bisogno del consenso del collegio dei
consultori e del consiglio per gli affari economici, altrimenti sarà un contratto invalido.
L'individuazione degli atti di straordinaria amministrazione va a livello nazionale da parte
della conferenza episcopale. Per le altre persone giuridiche diverse dalla diocesi, ma
comunque soggette alla diocesi (es parrocchia) dovrà essere lo statuto della persona giuridica
stabilire quali sono gli atti di straordinaria amministrazione, se lo statuto non dice nulla spetta
al vescovo diocesano supplire alla lacuna dello statuto.
Regole particolari riguardano i beni culturali ecclesiastici: si intende quei beni culturali
che sono in proprietà di persone giuridiche canoniche pubbliche e che fanno parte del
patrimonio ecclesiastico e non necessariamente debbono avere un carattere religioso (come
un dipinto che raffigura un'immagine sacra), né devono essere costituiti da materiali preziosi.
Il diritto canonico pone infatti alcune norme per la loro conservazione per il restauro nonché
per le autorizzazioni alla loro alienazione (qualunque sia il loro valore occorre
l'autorizzazione del vescovo e della Santa sede).
Sostentamento del clero
Il sistema tradizionale del sostentamento del clero era basato sul sistema beneficalie; tale
sistema è stato ampiamente riformato dal concilio Vaticano II prevedendo: 1) Istituto per il
sostentamento del clero, presente in ogni diocesi e formato dai beni e offerte dei fedeli; 2)
Fondo per previdenza sociale del clero, formato da beni appartenenti ai chierici e dalle
liberalità dei fedeli, provvede all’assistenza sanitaria, alle pensioni di invalidità e vecchiaia; 3)
Fondo comune costituto con fondi individuati dal diritto locale e dalle liberalità dei fedeli, per
le necessità di chi presta servizio a favore della chiesa, anche i laici.

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Diritto penale canonico

Nel can. 1311 è detto che la Chiesa "ha il diritto nativo e proprio di costringere sanzioni
penali i fedeli che hanno commesso delitti". Dunque la Chiesa ha un proprio diritto penale al
quale è dedicato il libro sesto del codice intitolato “le sanzioni nella Chiesa”. Poiché quello
canonico è un ordinamento originario e sovrano, che non tra esistenza o legittimazione da
altro ordinamento, ne consegue che esso ha in sé anche l'idoneità e la legittimazione a
ricorrere alla coercizione, per assicurare l'effettiva osservanza delle sue disposizioni.
Il can. 1311 vuole sottolineare l’indipendenza della potestà coattiva della Chiesa nei confronti
di ogni autorità umana e particolarmente dello stato. Esiste poi una ragione interna, diretta a
sottolineare che nella misura in cui il popolo di Dio si pone come società umana
giuridicamente organizzata non può fare a meno di un diritto penale. Si è dubitato però della
necessità di un diritto penale canonico, poiché sarebbe in contraddizione con la Chiesa come
comunità volontaria e la costrizione penale contrasterebbe con la libertà religiosa e di
coscienza. In realtà concependo la chiesa come ordinamento giuridico sarebbe utopico non
fare riferimento ad un diritto penale; infatti la Chiesa ha sempre esercitato questa funzione
punitiva, nella forma più severa con la separazione dalla comunità (scomunica) di chi si è reso
responsabile di fatti gravi.
La misericordia non può prescindere dal perseguimento della giustizia, o diventerebbe
oggettiva complice del male e quindi cattiva pedagoga nel far discernere le azioni virtuose da
quelle malvagie. Dunque la Chiesa è legittimata a reagire anche con sanzioni penali.
Inoltre bisogna anche sottolineare la presenza del principio di legalità (“nullum crimen sine lege”)
giacché il can. 221 afferma che i fedeli hanno il diritto di non essere colpiti da pene canoniche
se non a norma di legge. Questo principio è temperato dal can. 1399 secondo cui oltre ai casi
stabiliti dalla legge, la violazione esterna di una legge divina o canonica può essere punita con una giusta pena
solo quando la speciale gravità della violazione esige una punizione e urge la necessità di prevenire o riparare gli
scandali.
In diritto canonico può emanare leggi penali chiunque abbia potestà legislativa, sia il
legislatore universale sia i legislatori particolari. Inoltre chiunque abbia potestà legislativa può
emanare pure precetti penali, cioè comandi diretti non alla generalità ma a soggetti
determinati. Il diritto canonico pone divieto di interpretazione estensiva della legge penale ed
esclude il ricorso all’analogia in materia penale. Viceversa non esclude che la consuetudine
possa abrogare una norma penale, introdurre esimenti, produrre un interpretazione
secundum legem; mentre è da escludere che con una consuetudine possano essere introdotte
nuove fattispecie criminose.

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Elementi del delitto
Il codice canonico non dà una definizione di delitto, ma il can. 1321 afferma che vi è delitto
quando vi sia una violazione esterna, di una legge o di un precetto, compiuta con
dolo o colpa. Perché vi sia il delitto dunque è necessaria la ricorrenza di tre elementi:
materiale o oggettivo (il fatto), psicologico o soggettivo e infine uno giuridico (antigiuridicità
del fatto).
• Elemento oggettivo (violazione esterna) Il crimine è una violazione esterna della legge,
cioè percepibile esteriormente da un terzo. Riguarda infatti il comportamento dell'agente e
l'evento che ne deriva, legati da un rapporto causale; l'azione dell'agente lede interessi
giuridicamente protetti di persone fisiche e giuridiche;
• Elemento psicologico è dato proprio dall'atteggiamento psicologico dell'agente. Il
crimine deve essere commesso con dolo o con colpa, cioè volutamente o con negligenza,
imprudenza o imperizia;
• Elemento giuridico necessario affinché vi sia delitto è la violazione di una legge. Anche
l'ordinamento canonico conosce il principio della tassatività della fattispecie penale: non si
può essere puniti per un fatto che l'ordinamento non preveda come criminoso ( nullum
crimine sine legem). Tale principio è assolutamente inderogabile negli ordinamenti statali,
mentre in quello canonico è possibile l'eccezione che si trova nel canone 1399. Tale canone
prevede che anche se il fatto non è previsto come criminoso, l'autorità ecclesiastica può
comunque erogare una sanzione penale, se quella violazione di legge è particolarmente
grave e vi è anche la necessità di prevenire o eliminare lo scandalo (sinonimo di confusione
che potrebbe sorgere nella comunità dei fedeli se un comportamento riprovevole non
venisse punito); si tratta di una deroga al principio di tassatività. È comunque conseguenza
della caratteristica peculiare dell'ordinamento canonico dell'elasticità.
Se ricorrono tutti gli elementi del crimine l'ordinamento può fargli corrispondere una pena.
Tuttavia mentre negli ordinamenti statali la pena è predeterminata dalla legge, in quello
canonico viene lasciata ampia discrezionalità al giudice: spesso la pena per i crimini non è
prevista, ma si prevede solo che debba trattarsi di "giusta pena" ; anche quando la sanzione è
fissata dalle legge in molti casi si da la possibilità al giudice di sostituirla con un'altra scelta da
lui, se la sanzione prevista dalla legge non gli sembra adatta a quel caso concreto. 


Circostanze del delitto


Il singolo delitto può essere caratterizzato da alcuni elementi, detti circostanze del delitto, che
comportano un aumento o una diminuzione della sanzione dello stesso.
• Circostanze esimenti quando una circostanza esclude la punibilità per cui il crimine
commesso non può essere punito: 1) chi ha meno di 16 anni; 2) aver agito nell'ignoranza
incolpevole della legge (ignoranza giustificabile);
• Circostanze attenuanti fanno sussistere la punibilità ma prevedono una pena più lieve:

1) Se si è nella fascia di età compresa tra i 16 ed i 18 anni; 2) Il soggetto era consapevole che

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stava per violare una legge ma non sapeva che, per quella violazione, era prevista una
sanzione penale; 3) ha agito per legittima difesa senza la giusta proporzione ; 4) Il soggetto
era temporaneamente privo di ragione;
• Circostanze aggravanti 1) recidiva (il soggetto ha commesso per più volte lo stesso tipo
di reato, e risulta quindi propenso alla criminalità); 2) aver commesso il crimine con abuso
di autorità o di ufficio.
Ulteriore distinzione è tra delitto consumato e delitto tentato: il delitto consumato si
verifica quando gli atti posti in essere dal delinquente risultano produttivi del fatto; il delitto
tentato quando per un evento qualsiasi, anche la rinuncia del reo, l'evento delittuoso non si
produce. In questi casi non si dà luogo a sanzione a meno che non si debba sanzionare
l'eventuale scandalo che il tentativo avesse prodotto o ne sia derivato un grave danno.

Soggetto attivo del delitto


Soggetti attivi del delitto sono solo i fedeli cattolici (i battezzati nella chiesa cattolica).
Questo vale per i delitti comuni, vi sono però dei casi in cui soggetto attivo del delitto può
essere solo il fedele con delle determinate qualità: ad esempio, il can. 1394 riguarda solo il
chierico perché tratta della violazione dell’obbligo del celibato proprio del suo stato; il can.
1366 riguarda solo i genitori qualora facciano battezzare o educare i figli in una Chiesa o
comunità cristiana non cattolica. Situazione particolare è quella del Pontefice, il quale gode
di immunità personale; egli infatti non può essere soggetto attivo di delitto perché le norme
promanano da lui stesso, o da legislatori a lui inferiori.

Le pene
Si dividono in:
• Pene medicinali o censure sono le sanzioni più dure che la chiesa conosce. Hanno come
scopo principale quello di indurre il colpevole a comprendere l'errore ed a cambiare
condotta; hanno quindi carattere rieducativo. Tali pene sono:
Scomunica: comporta l'esclusione del delinquente dalla comunità ecclesiale. Da
ciò ne deriva che non può ricevere sacramenti né amministrarli, non può
esercitare alcun ufficio. Tale sanzione può essere revocata;
interdetto (scomunica minore): produce gli stessi effetti della scomunica , ma
solo limitatamente alla partecipazione al culto; l'interdetto potrebbe avere un
incarico nella chiesa;
sospensione: è una sanzione che può colpire solamente il chierico, e consiste
nella privazione totale o parziale di porre in essere tutti gli atti della potestà
d'ordine, o alla potestà di governo. Se il chierico colpito da sospensione viola il

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divieto gli atti di potestà d'ordine da lui compiuti saranno atti illeciti ma validi
(la potestà d'ordine non può essere persa). Se il soggetto colpito da sospensione
viola il divieto gli atti di potestà di governo saranno illeciti e nulli (la potestà di
governo può essere persa).


• Pene espiatorie: la finalità principale è la punizione del reo: privazione dell'ufficio,


dimissione dallo stato clericale, obbligo o proibizione di dimorare in un determinato luogo.
• Rimedi penali: possono essere usati come funzione preventiva o come sanzione se è stato
compiuto un crimine abbastanza lieve. Nel primo caso il rimedio penale prende la forma
dell'ammonizione, con la quale si ricordano al fedele le conseguenze. Nel caso in cui sia
usato come sanzione di un crimine particolarmente lieve prenderà la forma di un
rimprovero o riprensione. 


Le sanzioni possono essere inflitte in due modalità:


• ferendae sententiae: la sanzione è data al termine del processo attraverso la sentenza.
• Latae sententiae: per alcune crimini particolarmente gravi la sanzione spirituale viene
erogata automaticamente in virtù del fatto che il soggetto ha commesso il crimine, anche se
non vi è stato un processo e l'autorità ecclesiastica non ne sia a conoscenza. In questi casi
potremmo avere un processo successivo con una sentenza con effetti dichiarativi e non
costitutivi: avrà effetti fin dal giorno in cui il crimine è stato connesso, e non dal giorno di
emanazione della sentenza. (Es. scomunica per l'aborto).
Qualunque pena è comunque reversibile.

Delicata graviora
Alcuni delitti di particolare gravità sono individuati espressamente nel codice come: delitti
contro la religione e L'Unità della chiesa (eresia, scisma); delitti contro le autorità ecclesiastiche (violenza
fisica al pontefice, vescovi o religiosi).
Ulteriori fattispecie delittuose sono contenute in legislazioni speciali. Un ruolo di primaria
importanza è stato svolto dalla congregazione per la dottrina e per al fede circa i delitti contro
la fede, contro la morale (pedofilia) o contro i sacramenti.
La pedofilia concerne il compimenti di atti sessuali nei confronti di un minore di 18 anni.
La normativa speciale prevede che la sanzione della dimissione possa essere inflitta in via
amministrativa e quindi al di fuori delle dinamiche del processo. Nei casi di colpevolezza
eclatante la congregazione per la dottrina della Fede può chiedere al pontefice di punire il
chierico con la dimissione dallo stato clericale. Questi provvedimenti vengono sottoscritti dal
pontefice. Tale sanzione , essendo inflitta dal pontefice, è inappellabile, e si tratta di
provvedimenti che possono essere presi senza contraddittorio ( inaudita altera parte): il

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chierico è secolarizzato con una pena inappellabile e stabilita all'esterno del processo. 

Nell'ordinamento canonico inoltre vige un principio secondo il quale un soggetto si presume
innocente fintanto che non si dimostra il contrario. Questo comporta che, come regola
generale, nei confronti dell'imputato non si potrebbe adottare alcun tipo di procedimento,
perché si presume l'innocenza. Tale principio è suscettibile di deroga nei processi di pedofilia,
perché altrimenti si potrebbe consentire una reiterazione del crimine; per cui la normativa
prevede che, anche prima della sentenza, il vescovo diocesano possa irrogare dei
provvedimenti cautelari nei confronti del soggetto imputato per pedofilia. Questi
provvedimenti cautelari possono essere adottati non solo durante il processo, ma anche nella
fase di indagine previa. Questi provvedimenti cautelari vanno revocati se il soggetto viene
assolto, ma si ammette anche la possibilità che il vescovo possa mantenerli.
Nel crimine di pedofilia rientra, dal 2001 grazie alla congregazione della dottrina e della fede,
anche la pedopornografia: sarà imputabile anche il chierico che non ha avuto contatti con
minori ma detiene o utilizza materiale pedopornografico. Il termine di prescrizione è di 20
anni e decorre dal giorno in cui è stato commesso il crimine.
Questi processi sono tutti sottoposti a segretazione: Gli atti delle sentenze non vengono mai
resi pubblici si applica il cosiddetto segreto pontificio. La violazione di quest'obbligo del
segreto comporta la scomunica. Il problema che si è posto è quest'obbligo di segretezza come
va inteso; per lungo tempo purtroppo la segretezza è stata intesa che tutta la vicenda debba
essere segreta e che la vittima potesse rivolgersi alla giustizia canonica e non possa rivelare la
situazione a nessuno. Benedetto sedicesimo ha sottolineato che il segreto è esclusivamente
processuale e la vittima possa anche denunciare il fatto a terzi (es polizia). Questo fenomeno
della pedofilia è connesso all'obbligo del celibato? Il dato che risulta dimostra che non c'è
connessione perché tale fenomeno si verifica anche alle chiese protestanti dove non vi è
l'obbligo di celibato.
Il termine di prescrizione per la pedofilia è di 20 che non decorrono dall'atto compiuto di
pedofilia ma dal compimento dei 18 anni della vittima.


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Matrimonio

Il matrimonio oltre ad essere un negozio giuridico è anche un sacramento e doppia rilevanza


gli fa acquisire un ruolo particolare. Per quanto attiene in particolare al sacramento del
matrimonio, si deve rilevare che esso è sempre stato oggetto di speciale attenzione da parte
del legislatore canonico, in quanto il matrimonio, fra tutti sacramenti, è l'unico preesistente
all'istituzione di questi mezzi grazie da parte di Cristo; d'altra parte quello matrimoniale,
costituisce dal punto di vista sociologico, lo stato più diffuso tra i fedeli.
L'ordinamento canonico privilegia il matrimonio come negozio costitutivo grazie al quale si
acquisisce lo status di coniuge.
La regolamentazione del matrimonio contiene sia norme di diritto divino naturale, sia norme
di diritto positivo, sia norme di diritto umano: il matrimonio riguarda qualunque essere
umano, perché è un istituto di diritto naturale.
Il matrimonio è un patto un foedus fra un uomo ed una donna, che sorge esclusivamente dalla
libera volontà dei soggetti contraenti, cioè gli sposi; volontà che non può essere supplita da
nessuna potestà umana, neppure ecclesiastica (nessuno può vincolare altri al matrimonio).
Il matrimonio anzitutto è un patto, cioè un incontro di volontà, e non è più inteso come un
contratto in quanto non ha natura patrimoniale (Anche se, giuridicamente, resta sempre un
contratto). Essendo un patto devono essere coinvolti più soggetti che devono essere
necessariamente un uomo ed una donna (caratteristica dell'eterosessualità): si tratta di
una caratteristica di diritto divino, e come tale non derogabile.
Le volontà che occorrono, perché si formi il matrimonio, sono quelle dei soggetti coinvolti: è
uno dei contributi più importanti che il cristianesimo ha dato nell'evoluzione storica del
matrimonio. Storicamente infatti il matrimonio era un accordo fra lo sposo e l'ascendente
maschio più anziano della famiglia della sposa; tuttora nel matrimonio ebraico a livello
liturgico è rimasta una traccia di questa vecchia concezione. Nel mondo islamico il
matrimonio tuttora è un accordo tra l'uomo ed il curatore matrimoniale della donna, che
viene concepita come inabilitata.
Il matrimonio viene così a configurarsi come un'alleanza fra uomo e donna che danno vita ad
una comunità di vita e di amore, ordinata al bene dei coniugi ed alla procreazione ed
educazione dei figli.

I fini e le proprietà del matrimonio sono considerati come i bona matrimonii da
S.Agostino. In particolare i tria bona che costituiscono la sostanza stessa del matrimonio:
bonum prolis attiene alla procreazione e all'educazione della prole, bonum fidei alla fedeltà
vicendevole tra i coniugi, bonum sacramenti all'indissolubità.

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Perché queste finalità dell'istituto possano essere pienamente ed armonicamente perseguite
caratteristiche essenziali del matrimonio sono:
• Unità: comporta il principio della monogamia (un solo uomo una sola donna)
Nell'ordinamento canonico non esistono forme di poligamia. Questa proprietà comporta il
dovere di fedeltà (bonum fidei);
• Indissolubilità con il matrimonio l'uomo è la donna stabiliscono la comunione di tutta
una vita, il matrimonio è quindi indissolubile ed in quanto tale, una volta fatto, non può
essere sciolto. Questa caratteristica non è altro che l'unità proiettata nel tempo; se i soggetti
hanno il vincolo matrimoniale valido non può essere sciolto se non in ipotesi rarissime
previste dal codice canonico, per le quali non è sufficiente la mera volontà degli sposi di
sciogliere il vincolo matrimoniale per cui non si può parlare di divorzio. È possibile
nell'ordinamento canonico la separazione. La chiesa cattolica è rimasto l'unico ordinamento
religioso a sostenere l'indissolubilità del matrimonio perché si tratta di un principio di diritto
divino, questo si scontra con la mentalità corrente secondo la quale invece è dissolubile. Si
parla di bonum sacramenti.


Secondo il vecchio codice il matrimonio individuava un fine principale, ossia la


generazione ed educazione della prole, e due secondari, ossia il muto aiuto tra i coniugi ed
il rimedio alla concupiscenza. Con muto aiuto si faceva riferimento al fatto che il matrimonio
serviva a creare un legame tra due persone, affinché si potessero appoggiare nei momenti
difficili della vita; con rimedio alla concupiscenza si intendeva il fatto che il matrimonio
venisse considerato come la maniera lecita per esercitare la sessualità. Questi due fini
secondari previsti dal vecchio codice introducevano una triste visione del matrimonio, che
veniva inteso essenzialmente come un rimedio a due mali. 

Il nuovo codice ha introdotto invece un valore positivo del matrimonio. Tra i fini del
matrimonio vi individua infatti il bene dei coniugi (bonum coniugum): il matrimonio ha
come fine la realizzazione di entrambi i coniugi, i quali devono vedere entrambi il proprio
bene in quello dell'altro. È quindi un mezzo di crescita dei coniugi sia nei momenti positivi,
che in quelli negativi. La chiesa ha chiarito che uno dei fini del matrimonio è che si realizzi la
personalità del coniuge, nel rapporto, e che ognuno vede questo come il proprio bene.
Altro fine del matrimonio è la generazione ed educazione della prole. Questo vuol dire
che il matrimonio deve essere aperto alla generazione della prole: in entrambi i soggetti ci
deve essere la disponibilità è la propensione ad avere figli.
Per quanto riguarda l'educazione della prole si è avuta un'evoluzione all'interno
dell'ordinamento canonico: abbiamo un'interpretazione tradizionale dominante ed una
innovativa minoritaria, che hanno una grande rilevanza pratica.
L'interpretazione dominante tradizionale ritiene che i genitori siano obbligati a fornire
alla prole quanto è strettamente indispensabile per la sopravvivenza (cibo, abbigliamento
ecc..) , si parla di prima educazione o educazione fisica.


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A questa interpretazione se ne affianca un'altra innovativa che ha ampliato il concetto di
educazione, includendo il dovere per i coniugi di fornire ai figli tutto quello che è nelle loro
possibilità in modo da sviluppare, al massimo grado, il benessere fisico e psichico della prole. 

Il fine della generazione e della educazione della prole si può sintetizzare nell'espressione del
bonum prolis.

Il matrimonio contratto fra non battezzati o un battezzato è un non battezzato prende il


nome di matrimonio legittimo: si tratta in questo caso di un contratto e non di un
sacramento, poiché presuppone a tal fine la fede di entrambi.
Il matrimonio validamente contratto fra battezzati prende il nome di matrimonio rato
questo caso non è solo contratto, ma anche sacramento. La dimensione contrattuale e
sacramentale non è scindibile in quanto la chiesa ha sempre ritenuto di essere l'unica
competente a regolare il matrimonio tra battezzati. Se fossero visti disgiuntamente si potrebbe
pensare che lo stato disciplina il contratto, mentre la chiesa il sacramento. Una che tra i
coniugi sia intervenuta la consumazione, cioè si siano compiuti gli atti sessuali il matrimonio si
dice rato e consumato.



Elementi costitutivi del matrimonio
Perché il matrimonio possa essere validamente celebrato occorre la ricorrenza di tre elementi:
1. Consenso del parti
2. La Capacità: la volontà deve essere manifestata da persona giuridicamente abile non
viziato né la sua formazione né nella sua manifestazione;
3. La volontà deve essere manifestata nella forma prescritta dall'ordinamento
Tali tre elementi non sono sullo stesso piano: il consenso assume una posizione di rilievo. È
elemento indispensabile in quanto non ci potrà essere un matrimonio valido se manca la
volontà degli sposi. Per quanto riguarda la capacità e la forma sono possibili delle esenzioni: è
possibile ad esempio che un soggetto che non abbia la capacità matrimoniale, ma possa
chiedere l'autorizzazione a contrarlo. Allo stesso modo si può prevedere una deroga per la
forma prevista dall'ordinamento. Non si prevede alcuna deroga invece per la volontà, che
deve essere sempre necessaria.
A individuare tali elementi necessari la chiesa è arrivata dopo un lavoro molto lungo; in
particolare, in passato si è discusso sul requisito del consenso e ci si è chiesto se questo sia
elemento necessario ma anche sufficiente, ai fini del perfezionamento della fattispecie.
Per lungo tempo nella chiesa sotto questo profilo si sono contrapposte due teorie elaborate nel
medioevo dalle università di Bologna e di Parigi.
• Secondo la scuola bolognese: il consenso è necessario, ma non sufficiente; il matrimonio
era un contratto reale per cui si perfeziona con la consegna della cosa. L'oggetto del
trasferimento reciproco del diritto al compimento dell'attività sessuale (ius in corpus). Se

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non vi è consumazione il matrimonio è invalido, è la consumazione diventa elemento
affinché il matrimonio fosse valido.
• Alla scuola bolognese si contrappone la scuola di Parigi secondo cui il matrimonio è un
contratto consensuale per cui è sufficiente la volontà degli sposi, la capacità degli sposi e la
forma per il perfezionamento della fattispecie. La consumazione non è elemento necessario
affinché il matrimonio sia valido.
Il pontefice Alessandro III ha risolto la questione affermando la prevalenza della tesi
parigina: affinché il matrimonio sia valido non è necessaria la consumazione; Tuttavia
sottolinea che la consumazione rende il matrimonio assolutamente indissolubile. Nasce così la
figura del matrimonio rato e consumato. Se il matrimonio è rato ma non consumato, o non è
rato, in qualche ipotesi potrebbe essere sciolto.

Capacità
Per capacità si intende l'idoneità del soggetto a valutare il proprio comportamento è essere
cosciente ad esso. L'ordinamento canonico afferma che tutti possono contrarre matrimonio a
meno che non vi sia un divieto che glielo impedisca. Quando per circostanze si priva un
soggetto della capacità a contrarre matrimonio si tratta di impedimento.

Impedimenti
Gli impedimenti sono fatti o circostanze che rendono la persona inabile a contrarre
matrimonio validamente. Gli impedimenti sono tassativamente fissati dall'ordinamento
canonico e solo il pontefice o il collegio episcopale possono individuarli, in quanto si tratta di
limitare l'esercizio di un diritto naturale quale è il matrimonio. Per la stessa ragione Le norme
che li contemplano vanno interpretate in senso restrittivo e non estensivo.
Gli impedimenti si distinguono in:
• Impedimenti dirimenti che hanno appunto effetti invalidanti.
• Impedimenti impedienti rendono illecito il matrimonio, ma rimane valido. .
Il codice oggi ammette gli impedimenti dirimenti.
Dal punto di vista della loro origine essi si distinguono in impedimenti di diritto divino o
impedimenti di diritto umano. Questa distinzione coincide con la distinzione di impedimenti
indispensabili e impedimenti dispensabili.
• Impedimenti di diritto divino: hanno fondamento nel diritto divino e non possono
essere mai dispensati;
• Impedimenti di diritto umano: sono posti in essere dal l'autorità suprema e possono
essere dispensati. Solo dunque gli impedimenti di diritto ecclesiastico possono essere
dispensati e il potere di dispensa spetta alla Santa sede o all'ordinario del luogo (per avere la
dispensa è necessaria una giusta causa e ragionevole).

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Ulteriore distinzione si ha tra:
• Impedimenti assoluti Se l'impedimento priva il soggetto della capacità matrimoniale
verso tutti erga omnes (es. età);
• Impedimenti relativi la privazione non è verso tutti solo determinate categorie di
soggetti (es. parentela);
• Impedimenti perpetui: quando l'impedimento permane nel tempo;
• Impedimenti temporanei quando termina con il decorrere del tempo.

Età
L'ordinamento canonico prevede un'età matrimoniale al disotto della quale non si può
contrarre matrimonio. L'età matrimoniale è di 16 anni per l'uomo e 14 per la donna. La
determinazione di una età nuziale nasce dall'esigenza di garantire che i nubendi abbiano
raggiunto la maturità psicologica e biologica necessarie per esprimere un valido consenso.
Inoltre il legislatore canonico, che è un legislatore universale, ha fissato un limite minimo,
tenendo conto delle diverse situazioni etniche, sociali e culturali riscontrabili nel mondo.
La norma prevede che la conferenza episcopale, Stato per Stato, possa stabilire un'età
maggiore affinché il matrimonio non sia solo valido ma anche lecito (es. in Italia si è
uniformata l'età a quella prevista dal codice civile, dal momento che i matrimoni canonici
producono anche effetti civili).

Impotenza
L'impedimento di impotenza può essere di due tipi:
• Impotenza coeundi cioè l'incapacità di avere rapporti sessuali causata da malformazioni
fisiche o psichiche. Tale può essere dell'uomo o della donna, così come può essere assoluta,
cioè nei confronti di tutti o relativa, cioè nei confronti di una determinata persona. È un
impedimento di diritto divino naturale e quindi non può essere dispensato. L'impotenza è
impedimento dirimente purché sussistano due caratteristiche: 1) deve essere antecedente
alle nozze 2) perpetua, cioè non curabile o curabile con mezzi che sono moralmente illeciti.
• impotenza generandi riguarda la sterilità e può riguardare tanto l'uomo che la donna.
Tale impotenza non impedisce il matrimonio, né, se contratto, lo rende invalido (potrebbe
rilevare ma non come impedimento, ma come vizio del consenso se dolosamente nascosta).
Ciò. Quanto la sterilità comunque non impedisce ai coniugi di porre in essere l'atto sessuale
naturale, anche se ad essi di fatto non segua la creazione.

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Precedente matrimonio
Altro impedimento è la mancanza di stato libero: se una persona ha già contratto
matrimonio non può contrarne un altro e se dovesse contrarre un altro matrimonio sarà
nullo. Si tratta di un impedimento non dispensabile perché di diritto divino naturale. Il codice
precisa che non è possibile contrarre matrimonio finché non vi è la sentenza che dichiari la
nullità del precedente vincolo nuziale.

Disparità di culto
Altro impedimento riguarda la disparità di culto ossia quel principio in base la quale chi è
battezzato nella chiesa cattolica, come regola generale, deve sposare un altro battezzato. La
ratio di tale impedimento risiede nella difficoltà che possono insorgere nel caso di matrimoni
misti sia per la fede della parte cattolica, sia per l'educazione cattolica dei figli che costituisce
un dovere dei genitori. Questo impedimento è in parte di diritto umano e di diritto divino e
può essere dispensato solo se ricorrono alcune condizioni ben precise: la parte cattolica deve
impegnarsi a conservare la propria fede ed è tenuta a fare tutto quanto in suo potere per
battezzare la prole ed educarla nel cattolicesimo (la prima è obbligazione di risultato, la
seconda è obbligazione di mezzi); La parte non cattolica deve essere informato di questo
impegno del coniuge cattolico e inoltre entrambi i coniugi devono conoscere e condividere le
proprietà e finalità del matrimonio canonico. Se ricorrono tutte e tre le dimensioni
l'impedimento potrebbe essere dispensato dal vescovo. 


Parallelo alla disparità di culto è la mixta religio ossia quando un battezzato cattolico
intende sposare un battezzato acattolico; in questo caso l'impedimento è impediente, il
matrimonio sarà valido ma illecito.

Impedimenti religiosi
Peculiari nel diritto canonico sono gli impedimenti dell'ordine sacro e del voto religioso
perpetuo.
• Ordine sacro Chi ha ricevuto il sacramento dell'ordine (in qualunque grado diaconi
presbiteri e vescovi) non può accedere al sacramento del matrimonio, a meno che non
riceva una specifica dispensa;
• Voto religioso di castità la vita religiosa è connotata dagli impegni di castità, povertà e
obbedienza. L'impedimento matrimoniale riguarda coloro che hanno il voto di castità
pubblico e perpetuo in un istituto religioso. Le altre forme di vita consacrata non hanno
questo impedimento. Il voto privato non fa nascere l'impedimento matrimoniale; solo il
voto pubblico è perpetuo risulta come impedimento.

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Ratto
Questo impedimento è diretto a garantire pienamente la libertà della donna a contrarre
matrimonio e a sposare una persona determinata. Secondo il codice non è possibile costituire
un valido matrimonio fra l’uomo e la donna rapita purché ciò sia fatto allo scopo di contrarre
matrimonio. Si richiede quindi un elemento materiale e psicologico: il rapimento e lo scopo di
contrarre matrimonio con la donna stessa. Questo impedimento nasce da una considerazione
di tipo antropologico, esistono infatti delle culture dove è diffuso il fenomeno dell'uomo che
rapisce la donna per contrarre matrimonio. Il codice orientale ha invece previsto come
impedimento il generico rapimento a scopo matrimoniale, senza fare distinzioni di sesso. Si
tratta di un impedimento derivante da fatto delittuoso, ossia la privazione della libertà
personale.
L’impedimento non è dispensabile, ma viene meno una volta che la donna separata dal
rapitore e posta in un luogo sicuro (fuori dalla sfera di azione del rapitore dove non può
condizionare la libertà della donna), abbia la libertà di determinarsi e scegliere
spontaneamente di contrarre matrimonio con l’uomo che l’ha rapita.

Il crimine
Si tratta del coniugicidio che sorge nel caso per l'intento di sposare un altra persona uccide
il proprio coniuge o il coniuge dell'altra persona. Questo comportamento è criminoso sia se
posto in essere da un solo soggetto, sia se l'omicidio è frutto di una cooperazione materiale o
morale fra i due soggetti. Aggiunta la sanzione penale vi è inoltre l'impedimento
matrimoniale. Si tratta di un impedimento di diritto umano e come tale dispensabile, ma la
riserva è riservata alla Santa sede.

Parentela e affinità
L'impedimento di consanguineità riguarda tutti coloro che discendono da un antenato
comune. Il diritto canonico prende innanzitutto in considerazione l'impedimento di
parentela in linea retta: questa rende nullo il matrimonio in qualunque grado; questo
impedimento è considerato di diritto divino naturale indispensabile. Mentre il matrimonio
contratto tra consanguinei in linea collaterale l'impedimento di matrimonio sussiste fino al
quarto grado incluso. Tale impedimento si discute se sia di diritto divino o di diritto umano;
in ogni caso una norma del codex dice che non si può dispensare l'impedimento di parentela
in linea collaterale nel secondo grado (fratelli). Per quanto riguarda l'impedimento del terzo e
del quarto grado è di diritto umano quindi è dispensabile.
Analogamente il diritto canonico fa divieto di contrarre matrimonio a coloro che sono uniti
da parentela legale, adozione. Tale impedimento nasce dal fatto che l'adozione conferisce
all'adottato lo stato di figlio legittimo, creando un vincolo di filiazione giuridica.

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L'affinità è il vincolo che sussiste tra il coniuge e i consanguinei dell'altro coniuge. L'affinità
che rileva come impedimento matrimoniale nell'ordinamento canonico è quella in linea retta,
ma è diritto umano e quindi dispensabile.

Pubblica onestà
La pubblica onestà si verifica quando due soggetti sono sposati, ma il loro matrimonio è stato
dichiarato nullo, o due soggetti che vivono insieme senza essere sposati e questo concubinato
è pubblico (ossia il loro rapporto di convivenza è desumibile da documenti con valore legale) e
notorio (dato di fatto). Per ragioni di carattere etico-sociale, anche se non vi sia alcuna affinità
l'ordinamento canonico vieta che il soggetto possa scontrare matrimonio con consanguinei
dell'altro convivente nel primo grado della linea retta. Si tratta di un impedimento di diritto
umano e può essere dispensato.
Nell'ordinamento canonico latino altri impedimenti dirimenti. Mentre le chiese cattoliche
orientali considerano come impedimento la parentela spirituale sussistente tra chi battezza e il
battezzato. 


Il consenso
Il consenso deve essere consapevole, libero e pieno; questo deve essere libero e non frutto di
costrizione; per consenso pieno si intende che chi si sposa deve accettare il modello di
matrimonio integralmente così come la chiesa lo propone. Vista la centralità del consenso, un
difetto o vizio di questo, produce l'invalidità del matrimonio, anche se per essere rilevante
deve essere accertata dal competente giudice ecclesiastico.

Vizi del consenso: l'incapacità a contrarre matrimonio


Nel diritto canonico i vizi del consenso matrimonio non si sanano mai.
Consenso viziato per ragioni di ordine psichiatrico o psicologico: si tratta del canone 1095
che nasce sulla scorta dei progressi scientifici. La giurisprudenza della rota ha svolto un ruolo
importantissimo. Il 1095 non è una realtà unitaria ma si divide in tre sotto ipotesi che fanno
riferimento a tre situazioni diverse:
1. 1095 - 1 Non può contrarre matrimonio colui che manca di sufficiente uso di
ragione; si intende colui che non ha nemmeno quel minimo di capacità cognitivo volitiva
da non potere comprendere il matrimonio come istituto. Si tratta naturalmente di una
grave malattia mentale che ricorre in fattispecie rare; si parla di amensia (colui che non
ha mente);

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2. 1095 - 2 contrae un matrimonio nullo chi difetta gravemente di discrezione di
giudizio circa i diritti e doveri matrimoniali essenziali. In questa norma vi
rientrano quei soggetti che capiscono cosa sia il matrimonio in astratto, ma non sono in
grado di capire quali conseguenze che derivano dal matrimonio. Chi non ha questa
capacità non potrà contrarre il matrimonio in modo valido, il matrimonio sarà nullo. La
casistica è molto ampia: la schizofrenia, dipendenza dall'alcool e da stupefacenti. Si tratta
della cosiddetta dementia (la mente c'è ma non è normale);
3. 1095-3 si tratta di una terza ipotesi di difetto di consenso e riguarda coloro che per
ragioni d'ordine psichico non possono assumere gli obblighi essenziali del
matrimonio. Si tratta di incapacità che la giurisprudenza ha individuato in diverse
patologie mentali: paranoie, immaturità psico affettive, alcolismo e poi vi sono delle forme
tipiche come la rupofobia (paura dei microbi) o la ludopatia (dipendenza cronica dal gioco
d'azzardo).
Tra i fini del matrimonio vi é anche l'educazione della prole; a riguardo si sono viste le due
teorie che si riflettono anche sul requisito della capacità di assumere gli obblighi essenziali del
matrimonio. Se consideriamo come fine del matrimonio l'educazione della prole nel senso
minimale della teoria tradizionale, la capacità ad assumere gli obblighi essenziali del
matrimonio consisterebbe nella capacità intellettiva e volitiva tale da non uccidere la prole
una volta che è stata messa al mondo; anche se il soggetto dovesse essere mentalmente
disturbato, basterebbe che fosse in grado di mantenere in vita la prole per essere considerato
capace di contrarre validamente matrimonio.

Se intendiamo invece il concetto di educazione nel senso più ampio della teoria innovativa,
adempierebbe il fine del matrimonio chi, dopo avere generato dei figli, dia loro tutto ciò che
può per farli crescere nel miglior modo possibile. Se il fine è questo, anche la capacità da
richiedere agli sposi per contrarre matrimonio validamente sarebbe più ampia: deve essere
tale da far vivere la prole nel miglior modo possibile; un'anomalia psichica che non mette in
pericolo la vita della prole ma il loro benessere psichico, ha ,in base a questa prospettiva,
rilevanza.
Ci si chiede inoltre se questa incapacità ad assumere gli obblighi essenziali del matrimonio
deve essere assoluta o può riguardare anche solo quel rapporto interpersonale.

L'interpretazione dominante è nel senso che debba essere assoluta, perché altrimenti si
rischierebbe di far passare l'ipotesi di incapacità ad assumere gli obblighi essenziali del
matrimonio in ipotesi di incompatibilità di carattere, che non genera la nullità del
matrimonio. Giovanni Paolo II ha sottolineato che deve trattarsi di incapacità e non di
difficoltà. 



L'ignoranza
Si tratta dell'ignoranza del contratto di matrimonio, ossia il caso della persona che non sa
cosa è il matrimonio e non può sposarsi validamente. Il codice precisa il contenuto minimo

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che il soggetto deve conoscere: i soggetti devono sapere che il matrimonio è "una comunità
permanete tra un uomo ed una donna ordinata alla generazione della prole, per la quale è
richiesta una cooperazione sessuale." Il legislatore richiede dunque la consapevolezza degli
elementi essenziali del matrimonio ossia l'unione di un uomo e una donna, la sua durata nel
tempo e l'apertura alla procreazione mediante il rapporto sessuale.


L'errore
Si verifica quando si ha una conoscenza non corretta; ciò che si conosce non corrisponde alla
realtà.
• Errore di diritto: è così chiamato perché verte sulla struttura e sulla disciplina giuridica
del matrimonio. Contrae matrimonio nullo chi, al momento del matrimonio, è in errore
sull'unità, indissolubilità e sacramentalità del matrimonio, purché quest'errore sia stato
determinante della volontà. "
• Errore di fatto cioè l'errore che riguarda al persona dell'altro contraente.

L'errore di fatto può essere spontaneo quando c'è un errore perché si crea una divergenza
tra ciò che si crede e ciò che realmente è sulla persona dell'altro contraente, ma tale
divergenza non è frutto dell'inganno di nessuno; l'errore spontaneo si divide in


• L'errore di fatto spontaneo sull'identità della persona è dato dall'errore


sull'identità fisica della persona (Volevo sposare tizia ma ho sposato caia). In questo
caso l'errore rende invalido il matrimonio.
• L'errore di fatto spontaneo sulla qualità della persona si verifica quando
l'errore si ha sulla qualità dell'altro, cioè la divergenza in ciò che si pensa e ciò che
realmente è sulla qualità della persona. In genere questo errore non incide sulla
validità del matrimonio, ma il codice stabilisce che l'errore sulla qualità è causa di
nullità del matrimonio solo se la qualità è intesa da chi ha sbagliato in modo
diretto e principale." La qualità non è il motivo per il quale ci si sposa, ma diviene,
per volontà diretta e principale, l'oggetto del consenso matrimoniale. In realtà il
nubente non vuole sposare quella determinata persona, ma quella determinata
qualità.
La giurisprudenza rotale ha conosciuto un'evoluzione con riguardo all'errore sulla
qualità. Alla fine degli anni 70, un orientamento rotale ha fuso insieme l'errore
sulla qualità e sull'identità; in questo caso si è ottenuta una figura ibrida, con il
risultato che qualunque errore di qualità diventerebbe errore di identità. Quindi
basterebbe dimostrare di aver sbagliato sulla qualità della persona per determinare
la nullità del matrimonio per errore di identità, raggirando così l'indissolubilità del
matrimonio. Alla fine degli anni 90 la rota con una sentenza ha rivisto il suo
orientamento, scindendo errore su qualità e identità.


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Altro caso particolare di errore è quello provocato da dolo. Si verifica quando vi è un
soggetto che inganna l'altro volutamente. Il consenso è viziato quando si pone in essere un
inganno, cioè il contraente venga indotto in errore su una qualità dell'altra parte e per ciò
presti il consenso; la qualità in questione, fisica o morale, sia per natura sua tale da Per
turbare gravemente la vita coniugale. Il dolo può essere posto sia dalla stessa parte contraente
o da una terza persona, e consistere non solo in un comportamento attivo, ma anche in un
comportamento passivo od omissivo purché esplicitamente diretto a indurre in errore.
In ogni caso il fine dell’inganno deve essere quello di indurre il soggetto a sposarsi.
Si ritiene sia una norma di diritto umano.

La condizione
Il consenso può essere viziato a causa della sussistenza di una condizione, Per cui la validità o
meno del contratto matrimoniale dipende dalla sussistenza di una determinata circostanza.
Nell’ordinamento civile si considera come non apposta. Nell'ordinamento canonico può esser:
• De futuro la condizione ha per oggetto un evento futuro ed incerto e in questo caso si ha
sempre la nullità del contratto matrimoniale. Un caso particolare di condizione futura è
quella potestativa la quale riguarda un fatto la cui realizzazione dipende dalla volontà
dell'altra parte.
• Condizione presente o passata l'ordinamento canonico afferma la possibilità
dell'opposizione di tale condizione se l'incertezza è soggettiva (es ti sposo se sei incinta). Il
matrimonio è valido o meno a seconda se si verifichi o meno il fatto dedotto in condizione.
L'apposizione di tali clausole costituisce tutta di un elemento di grande turbativa del
consenso e per questo si prevede che non si può porre la condizione se non con la licenza
scritta dall'ordinario del luogo.

Violenza e timore
Nessuno può validamente obbligassi se non liberamente, tanto è vero che il consenso deve
essere personale non può essere supplito da nessuno. E’ nullo il matrimonio di chi presta
consenso con violenza o timore gravi, per evitare i quali si è costretti a scegliere il matrimonio.
La violenza può essere fisica o morale. In realtà nel caso della violenza fisica, il consenso
viene addirittura a mancare. La violenza morale o affinché produca l'invalidità del
matrimonio deve essere grave, nel senso che deve essere grave l’azione violenta e deve esserlo
anche il timore che nasce di conseguenza; la gravità deve essere di per sé idonea a
condizionare il soggetto con normale diligenza e capacità cognitiva ed indurlo a prestare il
consenso matrimoniale. Violenza e timore devono avere origine esterna e dunque non
rilevano le ipotesi di autoconvincimento e suggestioni individuali. Possono essere incussi
anche non intenzionalmente e si parla in tal caso di metus indirectus; in questo caso il
matrimonio sarà nullo perché il soggetto non ha agito liberamente.

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Il vecchio codice affermava che il timore dovesse essere pure ingiusto; il codice dell’83 ha
rimosso tale specificazione poiché in ogni caso il timore che vizia il consenso viene
considerato ingiusto.
Una fattispecie particolare è il timore reverenziale (metus reverentialis), che si produce in
un rapporto caratterizzato da vincoli di dipendenza affettiva o psicologica. La caratteristica di
questo metus è che non produce elementi di violenza fisica o morale, ma condizionamenti del
consenso derivanti da ricatti affettivi o da abusi di autorità. Le preghiere, le suppliche possono
in concreto costituire fattori che costringono un soggetto a contrarre matrimonio.
Generalmente questi fattori non invalidano un matrimonio, ma quando oggettivamente
diventano forme di pressione gravi e soggettivamente vengono da persone con forte
personalità allora possono invalidare un matrimonio.

La simulazione
È il caso di nullità matrimoniale più diffuso. Si parla di simulazione quando ricorre una
divergenza tra la manifestazione esterna del consenso matrimoniale e l'interno volere;
esternamente si esprime la volontà di contrarre matrimonio ma internamente non si vuole.
La simulazione può essere:
• Totale quando non si vuole il matrimonio o si vuole il matrimonio per finalità diverse da
quelle proprie dell'istituto (donna straniere che sposa un italiano per acquisire la
cittadinanza).
• Parziale quando la volontà del soggetto è diretta a costituire il matrimonio, ma con
esclusione di elementi essenziali. Nell'ultimo caso può assumere 5 forme :
1) Simulazione contro unità: il soggetto che si sposa si riserva il diritto di essere infedele (non
si assume l’obbligo di fedeltà al momento della celebrazione);
2) Simulazione contro l’indissolubilità: non si ammette la perpetuità del matrimonio,
escludendo dunque l’indissolubilità;
3) Simulazione contro il bene dei coniugi: il soggetto che si sposa non vede nell’altra parte
un compagno di vita ma ad esempio lo considera una domestica o una procreatrice;
4) Simulazione contro procreazione: il soggetto si sposa escludendo il fine della procreazione;
5) Simulazione contro la sacra mentalità: il soggetto accetta solo la dimensione contrattuale
e non quella sacramentale.
La simulazione può essere anche:
• Bilaterale in nubendi d'accordo esprimono esternamente il consenso, ma internamente
escludono il matrimonio stesso o un suo elemento essenziale;
• Unilaterale (riserva mentale) quando la divergenza tra manifestazione esterna ed interna
provenga da uno solo dei nubendi.

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Si deve precisare che perché il matrimonio sia invalido per simulazione non è sufficiente una
generica intenzione contro il matrimonio, ma necessita un atto positivo di volontà (si
traduca in precisa scelta volitiva con riferimento a quel matrimonio.) Secondo il can. 1101 il
consenso interno dell’animo si presume conforme alle parole o ai segni adoperati nel
celebrare il matrimonio, si ha cioè la presunzione di conformità della dichiarazione esterna
alla volontà interna; si tratta di una presunzione iuris tantum poiché ammette la prova
contraria.

La forma canonica di celebrazione


Il matrimonio è un negozio a forma vincolata, sicché l'osservanza della forma di celebrazione
comporta l'invalidità del matrimonio. Si tratta di una forma giuridica o canonica la quale si
distingue dalla forma liturgica vale a dire il rito della celebrazione. Tale obbligo di forma
giuridica venne introdotta dal concilio di Trento allo scopo di evitare la piaga dei cosiddetti
matrimoni clandestini, cioè dei matrimoni celebrati al di fuori di qualunque forma solenne
pubblica (per la validità del matrimonio bastava solamente il consenso e la capacità
matrimoniale). Questi matrimoni producevano infatti una serie di conseguenze negative sul
piano morale e sociale, in quanto non prevedendo testimoni poteva dare origine a
contestazioni sullo status di coniugi. .
Il concilio di Trento con il decreto “Tametsi”, ha previsto che la forma obbligatoria del
matrimonio valesse per la sua validità e doveva avvenire di fronte al vescovo o al parroco e
almeno due testimoni. Nel 1907 Pio X emanò un decreto con il quale eliminò la differenza
tra forme tridentine (che seguivano il decreto del Concilio di Trento) e forme non tridentine e
dunque tale obbligo di forma venne esteso a tutta la chiesa cattolica;
La forma ordinaria di celebrazione del matrimonio consiste nello scambio del consenso tra
gli sposi alla presenza di un testimone qualificato, cioè l'ordinario del luogo o il parroco (che
possono comunque delegare un altro vescovo o parroco), e di almeno due testimoni comuni.
Il ministro sacro assiste soltanto alla celebrazione, ma non amministra il sacramento in
quanto i ministri del sacramento del matrimonio sono gli stessi sposi. Prima della celebrazione
sono effettuate le pubblicazioni con cui si accerta che il matrimonio venga contratto
lecitamente e validamente.
Si è previsto inoltre che per assistere alla celebrazione, potrebbe essere delegato anche un
laico: per fare ciò occorre il consenso della conferenza episcopale e della Santa Sede e il
soggetto da delegare deve avere avuto una giusta preparazione per la celebrazione nuziale. La
delega può essere speciale, ovvero per un determinato matrimonio o generale, ovvero per tutti
i matrimoni celebrati in quel territorio. Tutto ciò è previsto a scopo probatorio, in quanto si
vuole evitare una qualsiasi contestazione sullo status dei coniugi.
Forme straordinarie di celebrazione

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• Celebrazione in segreto: si pensi ad esempio a due persone conviventi da anni e che tutti
ritengono sposati. La pubblica celebrazione potrebbe suscitare disappunto e da qui nasce la
segretezza della celebrazione alla presenza del ministro sacro e dei due testimoni ma previe
pubblicazioni e con il vincolo di segretezza per coloro che intervengono;
• Celebrazione davanti ai testimoni: è possibile che il matrimonio avvenga davanti ai soli
testimoni senza la presenza del ministro di culto; tale tipo di forma è possibile in caso di
pericolo di morte di uno o di entrambi gli sposi e non è possibile avere la presenza di un
ministro di culto entro un mese;
• Matrimonio per procura Altra forma prevista dal codice è il matrimonio per procura; gli
sposi, o uno o entrambi, non possono essere presenti ed esso può avvenire solo a
determinate condizioni: 1) La procura deve essere scritta; 2) Deve riguardare una persona
determinata; 3) Deve essere specificato con chi deve essere contratto il matrimonio; 4) Per
essere valida deve essere firmata dal mandante, dal vescovo, dal parroco e da due testimoni
o deve essere redatta in una forma valida per la legge statale del luogo della celebrazione. Se
dopo la procura il mandante cambia idea, può revocare la procura; se non fa in tempo a
revocare la procura e non ha comunque la volontà di contrarre matrimonio, quest’ultimo
non sarà valido.

Nullità e convalidazione del matrimonio


Il matrimonio è contratto invalidamente qualora vi sia stato un vizio del consenso, un
impedimento non dispensabile o non dispensato, un vizio di forma. Si deve notare che a
differenza del diritto civile, che nella disciplina generale dell'invalidità del matrimonio
distingue tra nullità e annullabilità, il diritto canonico contempla solo la nullità; ciò significa
che il contratto matrimoniale è inefficace e senza effetto sin dall’origine e la relativa nullità,
operante di diritto, può essere giudizialmente accertata in ogni tempo.
Quindi la sentenza di nullità del matrimonio, pronunciata dal giudice ecclesiastico, produce
effetti retroattivamente (ex tunc) dal momento della celebrazione del matrimonio.
In quanto istituto che risponde ad un diritto naturale dell'uomo ed in quanto sacramento tra
battezzati, il matrimonio è oggetto di particolare favore nell'ordinamento canonico (c.d. favor
matrimonii): da un lato perché nel dubbio il matrimonio deve ritenersi valido (fino a prova
contraria); dall’altro perché viene offerta agli sposi la possibilità di convalidare il
matrimonio, e ciò può avvenire solo nel caso in cui venga meno il motivo che ha prodotto
l'invalidità del matrimonio, ossia un vizio del consenso, un impedimento o un vizio di forma.
La sanatoria può avvenire in due maniere diverse: per convalida semplice o sanazione in
radice:
1. Convalida semplice avviene mediante la rinnovazione del consenso matrimoniale. affinchè
si ricorra alla convalida semplice occorre che l’impedimento sia cessato o venga
dispensato da un’autorità ecclesiastica. Se l’impedimento è pubblico gli sposi dovranno
rinnovare il consenso davanti il ministro di culto e i testimoni; se invece l’impedimento è

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occulto, il rinnovamento del consenso deve avvenire in forma privata, cioè solo davanti
l’autorità ecclesiastica. Rinnovando il consenso si sana la nullità. Il matrimonio può essere
dichiarato nullo anche per il vizio del consenso e ciò può essere sanato sempre attraverso
il rinnovo del consenso, dopo esser cessato il vizio. Se il vizio è pubblico dovranno
rinnovare il consenso entrambi i coniugi; se è privato dovrà rinnovare il consenso quel
coniuge che ha manifestato il consenso viziato al momento della celebrazione. Se invece il
matrimonio risulta nulla per vizio di forma, gli sposi potranno sanare il matrimonio
rinnovando il consenso secondo la forma canonica stabilita.
2. Sanazione in radice può essere utilizzata solo per un vizio di forma o per un
impedimento. Gli sposi chiedono all’autorità ecclesiastica di sanare il matrimonio, non
richiedendo il rinnovamento del consenso. Essa solitamente viene chiesta al vescovo, a
meno che non si tratti di un impedimento la cui sanatoria è riservata alla Santa Sede. Se
l’autorità ecclesiastica accoglie la richiesta, il matrimonio viene sanato e la validità del
matrimonio decorre dal giorno della celebrazione.

Separazione e scioglimento del matrimonio


L’essenza della condizione matrimoniale è data dalla comunità di tutta la vita e comporta
tra l’altro il dovere di osservare la coabitazione tra gli sposi. Questo dovere può venire meno
solo per una causa legittima e cioè l’adulterio, o la grave compromissione del bene della
prole o del coniuge o la durezza della vita comune.
Il diritto canonico tende a favorire la riconciliazione fra i coniugi, fermo restando che la
separazione non fa venir meno l’obbligo della fedeltà e dell’indissolubilità e dell’educazione e
sostentamento della prole.
La separazione personale dei coniugi battezzati è di competenza dell’autorità ecclesiastica
(anche l’autorità civile ha competenza, ma non può concederla per cause diverse rispetto a
quelle previste dall’ordinamento canonico).
Il matrimonio rato e consumato ha indissolubilità assoluta intrinseca e non potrà essere
sciolto da nessuno e viene meno solo con la morto di uno dei coniugi.
Il matrimonio rato e non consumato. La non consumazione del matrimonio non deve
derivare da anomalie fisiche o psichiche, perché in questo caso vi verserebbe nella fattispecie
dell'impotenza. Perché possa ottenersi lo scioglimento la non consumazione deve essere
debitamente accertata dalla Santa sede e deve sussistere una giusta causa è ragionevole. Lo
scioglie it avviene con provvedimento pontificio di dispensa, che può essere richiesto da
entrambi i coniugi o da uno solo di essi. Si tratta di un provvedimento di carattere
amminsitrativo concesso dal pontefice grazie alla potestà ministeriale vicaria.

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Privilegio Paolino (basato su un noto passo di San Paolo) à riguarda una situazione
particolare in cui vi sono due soggetti non battezzati e sposati e uno dei due si converte alla
religione ricevendo il battesimo. Se inoltre la parte non battezzata non voglia farsi battezzare
o almeno convivere pacificamente con il coniuge, ad esempio inducendolo al peccato o
pretendendo l'educazione acattolica dei figli (si verifica un'interepllanza da parte del vescovo
al soggetto non fedele) il battezzato sarà legittimato a contrarre nuove nozze e il vecchio
matrimonio si scioglie automaticamente. Nel privilegio Paolino lo scioglimento è giustificato
dal fatto che il bene della fede prevale sul bene dell'insolubilità. (La dottrina canonisti a ha
visto nel privilegio Paolino una fattispecie di rescissione del contratto matrimoniale, perché
concluso a condizioni inique.
Poligamia si verifica quando il pagano un po' li chiamo, o la pagana poliammidica, riceve il
battesimo non può moglie gravoso rimanere solo con il primo coniuge, può scegliere uno fra i
vari coniuge sposarlo di nuovo canonicamente.
Quando il pagano che riceve il battesimo non può più ristabilire la convivenza con il coniuge
naturale a causa della prigionia o della persecuzione per cui può sposare un altra persona.

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Amministrazione della giustizia

La soluzione delle controversie nella chiesa


Anche nella comunità ecclesiale possono insorgere dei conflitti fra i consociati, che devono
essere risolti per assicurare la giustizia e la pacifica convivenza. La direttiva dell’ordinamento
canonico riconosce come finalità primaria la “riconciliazione” delle parti, senza dover
ricorrere al giudice. Il favor iuris, di cui l’ordinamento canonico ha sempre goduto la
soluzione extragiudiziale delle controversie, è inteso nel senso che per disposizione canonica il
giudice ecclesiastico non solo è legittimato a indurre le parti a superare di comune accordo il
conflitto che le divide ma è tenuto a fare ogni sforzo per raggiungere questo fine.
La riconciliazione costituisce finalità primaria dell’ordinamento canonico. La direttiva di
valore, la pacificazione piuttosto che il giudizio, ha un paradigma nella pagine evangeliche,
sottolineando al tempo stesso la capacità naturale di ciascuno di cercare la giustizia e di
saperla attuare. Qualora non si riuscisse a risolvere pacificamente le liti, si devono trovare
all’interno della comunità le modalità alternative di soluzione alle controversie. I testi sacri al
riguardo fondano una triplice direttiva: la preferenza o la riserva di una giurisdizione
domestica, perché i christifideles ricorrano al giudice ecclesiastico e non a quello secolare; il
consiglio ad evitare o a risolvere in via extraprocessuale ogni controversia; l’invito ad una
riconciliazione che superi ogni dimensione giuridica.

Lo spirito della giustizia canonica


La Chiesa ha un diritto originario e proprio di assicurare davanti ad un giudice la tutela dei
diritti e dei relativi doveri contemplati dal diritto canonico. Nell’ordinamento canonico la
potestà di governo, detta anche potestà di giurisdizione, si struttura nei tre poteri legislativo,
esecutivo e giudiziario, che non sono separati ma fanno capo ad un’unica autorità: il
Pontefice, per la Chiesa universale, i Vescovi, per le Chiese particolari. Anche se i poteri sono
uniti, il loro esercizio è comunque distinto e soggetto alla legge; in particolare la funzione
giudiziaria deve essere esercitata in base al diritto vigente, soprattutto nel caso in cui sia
svolta direttamente dal Papa, che è anche supremo legislatore. Anche la funzione di rendere
giustizia nella Chiesa è segnata dal fine salvifico, infatti la giustizia canonica non si accontenta
della verità processuale ma tende alla verità oggettiva e sostanziale. Al riguardo è chiaro come
le cause che riguardino lo stato delle persone non passano mai in giudicato; per le cause
matrimoniali ad esempio, non è indifferente il matrimonio erroneamente dichiarato nullo dal
giudice ecclesiastico ma in realtà oggettivamente valido o viceversa. Ecco perché anche a
distanza di molto tempo la questione può essere riesaminata dal giudice ecclesiastico, al fine
di far coincidere verità processuale e verità sostanziale. Lo spirito che anima la giustizia nella
Chiesa è l’istituto dell’aequitas canonica, la quale ha la preoccupazione di garantire la
giustizia nel caso concreto ed evitare che la formalistica applicazione della legge si risolva in

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una violazione della giustizia. L’istanza all’equità si oppone a quell’idea del diritto positivo
“dura lex, sed lex”. Altro elemento caratterizzante è il ruolo della giurisprudenza; anche per il
diritto canonico, infatti, il giudice è soggetto alla legge, attuando la volontà del legislatore, ma
al contempo opera l’interpretazione della legge, avvalendosi degli stessi criteri utilizzati nei
diritti secolari, ma tenendo principalmente in considerazione la conformità al diritto divino.
Nell’attività interpretativa il giudice ecclesiastico esplicita e integra il dato normativo, dando
luogo al “diritto vivente”, cioè quel diritto scritto così come interpretato ed integrato dalla
giurisprudenza. Dunque la giurisprudenza, cioè l’orientamento assunto dai giudici
nell’interpretare ed applicare la legge, acquisisce una certa rilevanza “normativa”, in
particolare sono i tribunali pontifici della Segnatura Apostolica e della Rota romana a
svolgere un ruolo fondamentale nel “fare giurisprudenza”.

Giurisdizione e competenza
Con il termine giurisdizione, o potestas iudicialis, si indica il potere conferito al giudice
ecclesiastico di giudicare controversie e di applicare le norme canoniche. La Chiesa per diritto
proprio ed esclusivo giudica le cause che riguardano cose spirituali e, la violazione delle leggi
ecclesiastiche per stabilire la colpa e infliggere la pena. Questa disposizione rivendica una
potestà propria della Chiesa ed esclusiva, in quanto non concorre con quella statale. Le res
spirituales spettano al giudice ecclesiastico, quelle temporales spettano al giudice statale. Le
cause spirituali in materia di fede e sacramenti sono innanzitutto riservate alla giurisdizione
ecclesiastica in maniera esclusiva. Alla giurisdizione ecclesiastica spettano altresì le cause in
materia temporale, che sono tuttavia connesse con l’ordine spirituale, ad esempio controversie
riguardanti beni lasciati mortis causa per fini che sono propri della Chiesa. Rientrano infine
nella competenza ecclesiastica le cause penali, quando si tratti di delitti propriamente
canonici, come ad esempio l’eresia. In alcuni casi si tratta di reati perseguiti anche dal diritto
dello Stato, come ad esempio il caso dell’omicidio. L’individuazione fra i diversi giudici
ecclesiastici è definita secondo il criterio territoriale in base al domicilio del chiamato in
giudizio. Talvolta la competenza al giudizio di determinati casi è riservata ad una determinata
autorità giudiziaria, come nel caso del Pontefice a cui sono riservate le cause riguardanti i capi
di Stato, i cardinali, i legati pontifici, i Vescovi nelle cause penali. Inoltre è sancita
l’incompetenza assoluta di qualsiasi giudice ecclesiastico a giudicare atti o strumenti
confermati in forma specifica dal Pontefice. Questo sistema di riserva o di avocazione
pontificia è espressione del primato di giurisdizione che il Pontefice ha nella Chiesa
universale. Sono riservati alla Rota romana, tribunale pontificio, i procedimenti che hanno
come parti i Vescovi o i superiori di congregazioni monastiche o di istituti religiosi di diritto
pontificio. Nel diritto canonico inoltre è assicurato ad ogni fedele il diritto di ricorrere al
giudizio del Pontefice, giudice supremo nell’ordinamento della Chiesa, in qualsiasi causa ed in
qualunque momento. Proprio perché grado massimo di giudizio, la Santa Sede non è
giudicata da nessuno; questo principio riflette il primato di giurisdizione del Pontefice su tutta

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la Chiesa e ha una duplice applicazione: l’immunità personale di cui gode il Papa, e la non
impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali e amministrativi.

L'ordinamento giudiziario
E’ strutturato in tribunali di prima istanza, istituiti in ogni diocesi, e di seconda istanza istituiti
presso l’arcidiocesi, infatti l’appello si propone al tribunale del Vescovo Metropolita.
L’ordinamento è completato dai tribunali della Santa Sede, la Rota romana che è il tribunale
pontificio di appello dei fedeli e giudice competente per alcuni tipi di cause, e dal Supremo
Tribunale della Segnatura Apostolica, ossia il supremo tribunale della Chiesa che giudica i
ricorsi contro le sentenze rotali, le controversie amministrative, risolve i conflitti di
competenza tra tribunali ecclesiastici ed ha funzioni di vigilanza e di controllo sui tribunali
inferiori. Ci sono poi altri tribunali della Santa Sede con leggi proprie, da ricordare la
Penitenzieria Apostolica, che ha competenza per le materie che attengono al foro interno.
Anche le Conferenze episcopali possono costituire tribunali di secondo grado, nel proprio
territorio e con il consenso della Santa Sede. Per l’organizzazione interna dei tribunali, il
codice prevede che il giudice può essere monocratico o collegiale, se collegiale composto da
tre o cinque giudici; la diversa composizione dipende dall’importanza e dalla gravità delle
materie da trattare. Nel tribunale di prima istanza giudice è il Vescovo, che esercita la
funzione attraverso un Vicario giudiziale. Esistono poi i giudici diocesani che formano,
quando richiesto, il collegio giudicante. Nel caso del tribunale collegiale, il presidente del
collegio designa tra i componenti un giudice relatore, il cui compito è relazionare il collegio
sui vari aspetti della causa e a redigere la sentenza. In ogni tribunale è presente il Promotore
di giustizia, un pubblico ministero tenuto ad intervenire in ogni causa che tocchi il bene
pubblico e le cause penali; il Difensore del vincolo, che interviene nelle cause di nullità della
sacra ordinazione e di nullità o scioglimento del matrimonio, per porre tutti gli argomenti
possibili contro la nullità o lo scioglimento; un notaio che svolge le funzioni di cancelliere
redigendo e sottoscrivendo gli atti processuali. A queste funzioni sono chiamati dei chierici
competenti in diritto canonico, ad alcune di esse anche dei fedeli laici.

Il giudizio ordinario e i giudizi speciali


Il sistema processuale canonico è costituito da un unico modello di processo detto giudizio
contenzioso ordinario. Questo tipo di processo, che normalmente avviene per iscritto, è
costituito da:
• Fase introduttiva, aperta dalla presentazione al giudice competente del libello
introduttivo della lite, nel quale è indicato l’oggetto e i punti di diritto su cui si basa la
domanda. Se il giudice adito ritiene di dover accogliere la domanda, citerà in giudizio l’altra
parte per la contestazione della lite.

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• Fase istruttoria, Avviene raccolta delle prove fornite dalla parte che asserisce un
determinato fatto. Le prove possono essere: le dichiarazioni delle parti, le deposizioni dei
testimoni, documenti, perizie, l’ispezione di luoghi o cose. Nelle prove possono rientrare
anche le presunzioni, cioè le deduzioni probabili su una cosa incerta ma a partire da un
fatto certo. Si distinguono in presunzioni hominis, cioè formulate dal giudice, e presunzioni
iuris, cioè stabilite dalla legge. Queste ultime a loro volta si suddividono in presunzioni
iuris tantum, cioè ammettono la prova contraria, e presunzioni iuris et de iure, che non
ammettono la prova contraria. Un esempio di presunzione iuris tantum è il favor
matrimonii secondo cui il matrimonio, nel dubbio, si deve ritenere valido fino a che non sia
provato il contrario; un esempio di presunzione iuris et de iure lo troviamo in materia
penale, quando viene esclusa l’imputabilità e la punibilità, a coloro che non hanno
abitualmente l’uso della ragione. Segue poi la pubblicazione degli atti, in modo che le parti
possano prenderne visione e decidere la loro difesa anche con la richiesta di presentazione
di nuove prove. La fase istruttoria si conclude con il decreto del giudice di conclusione in
causa che segna il passaggio alla fase della discussione, che di regola avviene per iscritto.
• Il processo è chiuso con la sentenza definitiva che decide la causa. La sentenza deve
rispondere a tutti i dubbi formulati nel libello e deve essere motivata. Essa può essere
impugnata dalla parte che la ritiene non giusta, attraverso tre strumenti di tutela concessi
dal diritto canonico:
3. Appello, che si limita alla conferma o alla riforma della sentenza impugnata, può essere
proposto fino a che la sentenza non sia passata in giudicato (res iudicata). Ciò avviene
quando per legge non è più possibile un ulteriore giudizio o quando sono trascorsi i
termini per proporre l’appello. La res iudicata preclude la possibilità di investire
nuovamente il giudice della questione a meno che non si tratti di causa relativa allo stato
delle persone poiché non passano mai in giudicato.
4. Querela di nullità: è un rimedio processuale tendente ad invalidare la sentenza perché
inficiata da una nullità insanabile o sanabile. Quindi non attiene al contenuto della
sentenza ma alla sua validità formale, a ragione di irregolarità particolarmente gravi
verificatesi nel corso del processo: ad esempio nel caso di nullità insanabili l’incompetenza
assoluta del giudice oppure nel caso di nullità sanabili la non motivazione della sentenza.
5. Restitutio in integrum, si ha contro una sentenza che sia passata in giudicato ma
consti palesemente della sua ingiustizia. E’ un rimedio giuridico straordinario a cui si
ricorre in caso di manifesta ingiustizia relativamente all’impianto probatorio (falsità delle
prove), alle parti (dolo di una parte a danno dell’altra).

Tra i processi speciali ricordiamo le cause relative al matrimonio che si distinguono in:
cause per la dichiarazione di nullità di matrimonio; cause di separazione personale dei
coniugi; la dispensa dal matrimonio rato e non consumato; la dichiarazione di morte presunta
del coniuge. Nei processi speciali troviamo poi le cause per la dichiarazione della nullità della
sacra ordinazione, riservate alla Santa Sede. Particolari peculiarità si trovano nei processi

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penali diretti ad accertare l’eventuale commissione di un delitto; a questo accertamento segue
l’azione criminale, cioè l’atto pubblico diretto ad infliggere o dichiarare la pena. Si deve fare
menzione dei processi che integrano la giustizia amministrativa della Chiesa. Infatti, se un
atto dell’autorità ecclesiastica lede un diritto del fedele costui ha assicurati dall’ordinamento
canonico precisi strumenti di tutela: ricorso gerarchico all’autorità ecclesiastica
immediatamente superiore oppure davanti al tribunale amministrativo (ricorso contenzioso
amministrativo) che si svolge davanti al tribunale pontificio della Segnatura Apostolica. Infine
vanno ricordati tra i processi speciali le cause di beatificazione e canonizzazione, che non
sono disciplinate dal codice ma da una legge speciale data da Giovanni Paolo II con la
costituzione apostolica “Divinus perfectionis Magister” del 25 gennaio 1983.

Cause matrimoniali
Sul matrimonio-sacramento tra battezzati cattolici solo il giudice ecclesiastico ha competenza
a giudicare. Tre distinti principi regolano il rapporto tra matrimonio dei battezzati cattolici e
funzione giudiziaria, cioè:
1) Principio di verità: sta ad indicare che nell’ordinamento canonico è intollerabile
mantenere nel vincolo matrimoniale chi l’ha invalidamente contratto. Il giudizio
ecclesiastico mira al raggiungimento della verità autentica. Per il favor matrimonii, si deve
ritenere valido il matrimonio, fino a prova contraria. Inoltre le cause matrimoniali non
passano mai in giudicato, perché riguardanti lo stato delle persone.
2) Principio di giustizia: sta ad indicare che il giudizio ecclesiastico sul matrimonio deve
essere ispirato al perseguimento della giustizia, vale a dire la valutazione della oggettiva
validità o nullità del vincolo matrimoniale alla luce del diritto canonico.
3) Principio di necessità o indisponibilità: sta ad indicare che nel caso di matrimonio
non può aver luogo la direttiva di valore tipica dell’ordinamento canonico secondo la
quale i fedeli sono invitati a fare di tutto pur di superare i conflitti senza ricorrere al
giudice e di mirare non solo ad una soluzione extragiudiziale delle controversie, ma anche
e soprattutto al perdono e alla riconciliazione. Nel senso che, se la nullità è sanabile, è
bene che i coniugi ricorrano agli appositi istituti, ma se è insanabile, il ricordo all’officium
iudicis è inevitabile, perché si tratta di rimuovere una condizione di peccato che si oppone
al perseguimento di quel bene spirituale che costituisce la finalità propria della Chiesa.

Giusto processo
Si intende un metodo di accertamento della verità, che si conclude con una decisione giusta
adottata da un giudice imparziale. La conformità a giustizia del processo canonico è garantita
da due fattori:1) Principio dell’equità: costituisce il criterio per adeguare la decisione alla
giustizia naturale; 2) Principio di verità: l’ordinamento canonico non si accontenta della
mera verità processuale, ma deve perseguire la verità sostanziale e oggettiva.

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Demografia celeste

Santità canonizzata
Si indica la proclamazione, da parte dell’autorità ecclesiastica, che determinati fedeli, nel
corso della loro vita, hanno praticato in modo eroico le virtù e sono vissuti nella fedeltà alla
grazia di Dio.
Tutti i battezzati sono chiamati alla santità ma non tutti sono destinati alla santità canonizzata,
cioè quella santità in grado eroico che si propone a modello per tutta la chiesa. Vi sono infatti
delle differenze tra la santità comune e la santità canonizzata, che la dottrina teologica ha
evidenziato: il santo canonizzabile deve essere portatore di un messaggio divino all’umanità,
testimone delle realtà soprannaturali, modello di vita cristiana.
Si tratta di atti che costituiscono e strutturano i processi di beatificazione e canonizzazione. Questi
processi non sono atti giurisdizionali che creano un santo; la loro funzione è meramente
dichiarativa ed i loro effetti si producono su coloro che sono ancora pellegrini sulla terra,
legittimandone il culto. Oggetto dei processi di beatificazione e canonizzazione è
l’accertamento dell'esercizio eroico delle virtù teologali, o morali di una persona, del martirio
sofferto per Dio o dei miracoli operati da Dio per sua intercessione.
La beatificazione è un provvedimento della suprema autorità della Chiesa (normalmente il
papa ma anche il concilio ecumenico) con il quale viene permesso il culto pubblico di un
fedele che visse e morì in concetto di santità. Si tratta comunque di un provvedimento
preparatorio e non definitivo. La canonizzazione è invece il provvedimento col quale la
stessa suprema autorità decreta che un servo di Dio, già annoverato tra i beati, venga iscritto
nell’elenco dei santi e sia venerato in tutta la Chiesa. Entrambi i provvedimenti vengono
emanati a conclusione di un complesso di operazioni dirette all’accertamento della santità e
strutturate in forma processuale.
Solo la canonizzazione è un atto definitivo e irrevocabile; la beatificazione è invece destinata
al perfezionamento, nel giudizio definitivo, della canonizzazione.
Dal punto di vista canonistico, l'atto di beatificazione e canonizzazione è espressione della
potestà legislativa; difatti sia nel caso della beatificazione che in quello della
canonizzazione ricorrono gli elementi della generalità, dell'astrattezza e della novità, che sono
caratterizzanti la funzione legislativa, anche se il procedimento di formazione è rivestito delle
forme del processo. Nel diritto canonico esistono infatti casi nei quali l’esercizio della funzione
legislativa (in questo caso) o di quella amministrativa (es dispensa di matrimonio i rato e non
consumato) presuppone accertamenti di fatti, per i quali si utilizzano strumenti tipicamente
processuali.

La disciplina della beatificazione e canonizzazione esprime un caso di bilanciamento fra


poteri: da un lato quello del popolo cristiano, che ha il compito di esprimere un giudizio,

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poiché nessuna causa può essere introdotta senza la cosiddetta “fama di santità”, cioè la
convinzione diffusa tra molti fedeli che una persona defunta che ha vissuto una vita cristiana
esemplare; dall’altro lato quello della istituzione, con la funzione di controllare, verificare e
confermare il giudizio popolare espresso.

Evoluzioni storiche
La venerazione dei fedeli che avevano dato particolare testimonianza della propria fede è
presente sin dai primi tempi della Chiese. Si possono distinguere sei grandi periodi in cui la
canonizzazione è venuta a strutturarsi:
• I PERIODO: è caratterizzato dal culto dei martiri, cioè coloro che avevano reso
testimonianza a Cristo con la propria vita. Si tratta di un culto che nasce spontaneamente
dalla comunità cristiana a seguito della esemplarità della fine dei fedeli andati incontro al
martirio per non rinnegare il Signore; esso non è sottoposto ad autorizzazioni dell’autorità
ecclesiastica, nè condizionato da procedimenti formali di accertamento, in quanto il
martirio era un fatto di pubblico dominio. Con questo culto nascono i martirologi, cioè i
cataloghi dei martiri, dove si annotava il nome, la data del martirio o dies natalis (giorno
della nascita al Paradiso), il luogo della sepoltura. Divenuto il cristianesimo religione
ufficiale dell’impero, si aggiunse il culto dei confessori: si tratta dei fedeli che avevano
patito la violenza delle persecuzioni, senza arrivare alla morte o dei fedeli che si erano
distinti per la conformazione a Cristo della propria vita terrena (esperienze esemplari di
penitenza, ascesi ecc). Anche questo culto nasce da spontanei moti del popolo, senza
accertamenti dell'autorità ecclesiastica o formalizzazioni processuali, data comunque
l'evidenza dei segni.
• II PERIODO: durante il Medioevo cristiano comincia a formarsi progressivamente
l’istituto della canonizzazione come atto formale di autorizzazione al culto di nuovi santi posto dal
Vescovo locale, previo accertamento della santità della vita. Si parla di “canonizzazione
vescovile” perché la legittimità del culto è legata ad un atto autorizzativo del Vescovo
diocesano, che segue ad un’inchiesta della Vita del santo. La canonizzazione può essere
anche espressione di collegialità dell’episcopato locale riunito in un sinodo o in un concilio.
Vengono stabiliti gli elementi essenziali della procedura: requisito della pubblica fama di
santità e della sussistenza di miracoli, o del martirio; la stesura di una vita del canonizzando;
la presentazione di questa composizione al giudizio del Vescovo diocesano o del sinodo; la
loro approvazione del culto pubblico.
• III PERIODO: la canonizzazione viene attratta nelle materie riservate alla competenza
dell’autorità pontificia. Il pontificato di Urbano II pose le premesse per l’elaborazione di
questa disciplina disponendo un’accurata investigazione dei fatti anche attraverso l’assunzione di
prove testimoniali come condizione per poter procedere alla canonizzazione da parte del
Pontefice. Con la riserva alla Santa Sede, il processo di canonizzazione inizia a formarsi
come processo canonico speciale, caratterizzato da forme processuali canoniche comuni e

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forme processuali peculiari. Lo sviluppo della scienza canonistica ha avuto un ruolo
fondamentale, e davanti alla necessità di accertamento dei fatti dai quali evincere la santità,
solo il diritto poteva fornire strumenti adeguati per l’acquisizione della documentazione
necessaria e per la sua analisi.
• IV PERIODO: periodo importante a livello normativo: Papa Barberini distingue tra
beatificazione e canonizzazione in due diverse procedure. La beatificazione fu definita più
precisamente da Alessandro VII.
• V PERIODO: è XX secolo. Nasce il primo codice canonico nel 1917 in cui vi sono bene
142 canoni che disciplinano le procedure di beatificazione e canonizzazione; la distinzione
tra beati e santi è assolutamente chiara, come anche i ruoli e le competenze in ogni parte
del processo.L’utilizzo della metodologia storica e della scienza medica tende a ridurre il
ruolo del diritto, segnando l’inizio di un’evoluzione.
• VI PERIODO: parte dal Concilio Vaticano II. Tre sembravano essere le caratteristiche
negative del codice del 1917: la riduzione del ruolo dei vescovi diocesani; l’assenza di
sinodalità nella formazione del giudizio da sottoporre al Papa; l’eccessiva lunghezza e
complessità delle procedure; per queste ragioni era stata avanzata la richiesta di una riforma
radicale. A seguito del Concilio viene creata la s. Congregazione per le cause dei santi Con
la usale vengono semplificate le procedure di beatificazione e canonizzazione. Con la
riforma di Giovanni Paolo II si assiste fondamentalmente ad una de-giuricidizzazione
delle cause di beatificazione e canonizzazione ed una migliore messa in luce dei fondamenti
teologici di queste procedure. Si abbandona la pretesa di vedere nel codice un’unica legge e
infatti il vigente codice rinvia in più punti al diritto speciale ed a quello particolare,
presentandosi come una sorta di legge quadro.

Peculiarità del processo di beatificazione e canonizzazione


Come per l'intera esperienza canonistica, anche in quest'ambito elementi del diritto secolare
entrano a comporre le procedure canoniche, come elementi canonistici vengono ceduti al
diritto secolare. In particolare, il processo canonico si costruisce sulla struttura dell’ordo
giustinianeo, integrato e modificato dalle disposizioni canoniche. Contribuisce anche il diritto
germanico per quanto attiene al regime delle prove. D'altra parte il processo di
canonizzazione assume elementi del processo canonico ordinario e del processo canonico
criminale, ma al tempo stesso influisce sull’evoluzione di entrambi.

L’odierna disciplina

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Il procedimento delle causa di canonizzazione e beatificazione ha carattere inquisitorio: il
procedimento tende alla valutazione della vita e delle virtù, o del martirio, o dei miracoli.
Vengono suddivise le cause “recenti” da quelle “antiche”. La distinzione è data dalla possibilità
di provare l’esercizio delle virtù o il martirio attraverso testimoni oculari oppure soltanto a
fonti scritte; nel primo caso il procedimento avverrà secondo le regole processuali, nel
secondo caso l’accertamento dei fatti avverrà con l’utilizzo delle più moderne metodologie
della critica storica.
Competente ad istruire il processo è l’Ordinario diocesano, della diocesi in cui il servo di
Dio è deceduto, oppure (previa autorizzazione della Congregazione per le cause dei santi), un
altro Ordinario locale. L'istruttoria sui miracoli è fatta dall’Ordinario del luogo dove è
avvenuto il miracolo.
Una seconda fase compete alla Congregazione per le cause dei santi alla quale spetta
lo studio del materiale e il dibattimento sugli atti di causa per l’accoglimento dell’istanza o
per la sua archiviazione.
Al Pontefice spetta di pronunciare la decisione definitiva.
Gli attori della causa (ossia i soggetti interessati ad ottenere il riconoscimento della santità)
possono essere singoli fedeli, associazioni, persone giuridiche ecclesiastiche o civili. A loro
spetta l’onere di sostenere le spese della causa e possono agire soltanto attraverso un
procuratore denominato “postulatore", approvato dall’Ordinario diocesano. Al postulatore
spetta la rappresentanza processuale degli attori, svolge le funzioni di avvocato della causa ed
è tenuto all'indagine previa che costituisce la base dell'istruttoria.
Nel processo interviene anche una parte pubblica per la tutela del bene pubblico o generale.
Si tratta del Promotore di Giustizia nel tribunale diocesano in cui avviene l’istruttoria e
del promotore della fede presso la congregazione per le cause dei santi. Essi intervengono nel
processo per l’accertamento del vero, ossia tutelare i diritti della fede e l’osservanza delle regole
processuali.
Un ruolo importante è svolto dai testimoni, anche coloro che fossero eventualmente
contrari alla causa o avessero a deporre contro.
Ampio spazio è dato all’ausilio dei periti: i censori teologi, che debbono valutare che negli
scritti del servo di Dio non ricorrano errori in materia di fede o morale, ma anche i periti
medici, che devono valutare i miracoli.
Il processo si svolge in due fasi:
• fase istruttoria a livello locale: Il procedimento è aperto dall’istanza rivolta dall’attore
tramite il postulatore perché si inizi il giudizio e si istruisca la causa. Accolta l’istanza, il
Vescovo diocesano consulta la Conferenza episcopale e notifica a tutti i fedeli la petizione,
invitando i fedeli a fornire notizie utili sulla causa. Questa fase si può chiudere con il rigetto
dell’istanza o con l’accoglimento, in quest’ultimo caso inizia la fase istruttoria vera e propria
in cui vengono valutati gli scritti del servo di Dio, raccolte le deposizioni testimoniali sulle virtù o
sul martirio, si apre l’inchiesta sui miracoli. Finita l’istruttoria diocesana, i relativi atti sono

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trasmessi in duplice copia autenticata alla Congregazione per le cause dei santi e gli originali
restano nell’archivio della curia diocesana.
• fase dibattimentale e decisionale: si apre, presso la congregazione per le cause dei
santi, con un controllo di legittimità da parte del sottosegretario del dicastero e con la nomina
di un relatore che prepara la raccolta delle prove documentali e testimoniale e degli atti del
processo. Intervengono poi i consultori teologi e il promotore della fede che si pronunciano
sulla causa. I loro voti sono sottoposti al collegio dei cardinali e dei vescovi della
Congregazione a cui è rimessa la decisione. I miracoli sono oggetto di una specifica
procedura in cui intervengono periti e teologi, prima di essere portati in discussione. Le
sentenze pronunciate dai cardinali e dai vescovi sono rimesse al Pontefice, cui spetta di
decretare il culto pubblico ecclesiastico.


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