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Riassunto del Finocchiaro per

l'esame di Diritto
Ecclesiastico
Diritto Ecclesiastico
Università degli Studi di Palermo
147 pag.

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D IRITTO ECCLESIASTICO

Capitolo 1: Considerazioni introduttive


1­ Il diritto ecclesiastico e la scienza giuridica

La scienza giuridica ha carattere unitario. Essa studia la produzione, l’interpretazione e


l’applicazione delle norme giuridiche (che a differenza delle altre regole che governano la
società non possono essere fatte osservare con la forza dall’ordinamento).
La scienza giuridica prende in considerazione un fenomeno molto esteso, ossia un intero
ordinamento statale ed esamina tutti gli aspetti giuridici di esso. Per consentire un esame
scientifico di tutti gli aspetti dell’ordinamento è necessaria una segmentazione dei fenomeni
giuridici che lo riguardano in diverse discipline (ad es., diritto costituzionale, diritto
commerciale, diritto ecclesiastico, ecc.).
Da sottolineare che si tratta di una segmentazione soltanto didattica.
In particolare, il diritto ecclesiastico studia il settore dell’ordinamento giuridico dello Stato
rivolto alla disciplina del fenomeno religioso.
Dunque, nonostante l’aggettivo “ecclesiastico” possa far pensare che tale diritto abbia ad
oggetto lo studio di un ordinamento confessionale, esso si occupa di uno degli aspetti
dell’ordinamento statale, tanto che per alcuni autori sarebbe più appropriato parlare di “diritto
ecclesiastico civile”.
In realtà, lo studio del diritto ecclesiastico concerne tutto il diritto applicabile nell’ordinamento
statale per la disciplina del fenomeno religioso, sia quello deciso da un ordinamento
confessionale, sia quello deciso dal legislatore statale (per cui si parla di diritto ecclesiastico
civile).
Quest’ultimo principalmente detta norme che riguardano confessioni religiose e singoli
individui (appartenenti ad una di tali confessioni ovvero non professanti alcuna religione).
Il diritto ecclesiastico appartiene all’area del diritto pubblico. Dunque, esso principalmente
pone ad oggetto del suo studio norme costituzionali e norme che disciplinano l’attività della
pubblica amministrazione.
Tuttavia, esso è anche collegato ad altri rami del diritto, ad es., al il diritto civile, per il
riconoscimento del matrimonio religioso; al diritto internazionale, per studiare la posizione
della Santa Sede, la natura dei trattati e dei concordati da questa stipulati.
e gli atti internazionali che proteggono la libertà religiosa.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, la dottrina ha considerato le norme di diritto
ecclesiastico una base per esaminare la posizione di libertà dell’individuo (credente e non)
rispetto allo Stato ed alle confessioni religiose; dunque ha qualificato il diritto ecclesiastico
come legislatio libertatis.
La concezione del diritto ecclesiastico come legislatio libertatis è un postulato dalla scuola
storica del diritto che ebbe in Francesco Ruffini uno dei maggiori rappresentanti in Italia.
Il Ruffini osservava che i rapporti tra Stato e Chiesa devono essere considerati dal punto di
vista del cittadino ad un assetto di tali rapporti che garantisca e rispetti innanzitutto la sua
libertà di fede.
Sebbene tale qualifica trova riscontro nelle norme della Costituzione riguardanti il fattore
religioso, essa non è esaustiva in quanto una larga parte delle norme di diritto ecclesiastico non
si concilia con lo schema della garanzia della libertà individuale (ad es., le disposizioni sugli
enti ecclesiastici e sulla gestione del loro patrimonio possono essere considerate in chiave di
libertà delle organizzazioni confessionali, ma non dei singoli).
Dunque, il diritto ecclesiastico non si presenta soltanto come studio di una legislatio libertatis.
Esso è analisi di un settore dell’ordinamento statuale in cui, accanto alla garanzia della libertà
individuale, si devono considerare le vicende organizzative dalle quali ha origine il fattore

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religioso.

2­ Fonti di cognizione e di produzione del diritto ecclesiastico

Le fonti di cognizione del diritto ecclesiastico si trovano in disposizioni legislative dello Stato
emanate unilateralmente oppure in esecuzione di accordi con le confessioni religiose. Esse
sono:
­ La Costituzione.
Essa contempla espressamente il fattore religioso in alcune sue disposizioni:
All’art. 3 si afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
All’art. 7 si afferma che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio
ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate
dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
All’art. 8 si afferma che “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti
alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i
propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze”.
Tale III comma protegge e garantisce, insieme con l’art. 7 Cost., le norme di
derivazione concordataria, anch’esse fonte del diritto ecclesiastico civile. Attualmente,
le leggi approvate in base ad intese con le organizzazioni di minoranza sono:
 L. 449/ 1984, riguardante l’Intesa fra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla
Tavola valdese.
 L. 516 e 517/ 1988, riguardanti le Intese con l’Unione italiana delle Chiese
avventiste del Settimo G iorno e con le Assemblee di Dio in Italia.
 L. 101/ 1989, sull’Intesa con le comunità ebraiche.
 L. 116/ 1995, sull’Intesa con l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia.
 L. 520/ 1995: sull’Intesa con la Chiesa evangelica luterana d’Italia.
 L. 121 e 206/ 1985, che autorizzano la ratifica e danno esecuzione agli accordi
con la Santa Sede (queste due leggi non sono garantite dall’art. 8 III comma
Cost., ma dall’art. 10 I comma Cost.).
All’art. 19 si afferma che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne
in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
All’art. 20 si afferma che “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una
associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative,
né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di
attività”.
Inoltre, nella Costituzione si individuano alcune disposizioni che disciplinano il fattore
religioso in modo indiretto, come avviene in presenza delle norme che garantiscono le
libertà civili, quali l’art. 2 Cost.
­ Le norme di derivazione concordataria.
Si tratta dei Patti lateranensi, ossia gli accordi fra Stato e Chiesa stipulati nel 1929.
Essi si sostanziano in un Trattato che ha creato la Città del Vaticano ed altre garanzie
(rimasto in vigore); ed in un Concordato che disciplina il trattamento della Chiesa
cattolica in Italia (poi abrogato e sostituito dall’Accordo del 1984).

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­ Le leggi dello Stato unilaterali, quali quelle che hanno previsto le norme di
applicazione del Concordato, o quelle riguardanti le confessioni religiose che non
hanno stipulato intese con lo Stato.
­ Le altre norme statali (contenute in codici o leggi speciali) o regionali (riguardanti
l’assistenza, l’istruzione religiosa, i consultori familiari, ecc.).

Le fonti di produzione del diritto ecclesiastico, ovvero tuti quei procedimenti attraverso cui si
formano legittimamente le norme, sono di vario livello e pongono alcuni problemi.
Infatti, le norme dettate dalla Legge di esecuzione dei Patti Lateranensi o dalla Legge che dà
esecuzione alle intese con le confessioni religiose possono rinvenire la loro fonte normativa
alternativamente nella legge ordinaria o nella legge costituzionale.
Al riguardo, rilevano gli artt. 7 e 8 III comma Cost., i quali indicano che per l’esecuzione o
l’approvazione di un nuovo accordo fra Stato e Chiesa cattolica (o confessione che ha stipulato
un’intesa approvata per legge) diretto a modificare le norme a suo tempo concordate, è
sufficiente una legge ordinaria (al riguardo si parla di decostituzionalizzazione).
Invece, quando il legislatore intende modificarle per propria autonoma delibera, deve ricorrere
ad una legge costituzionale.
La legge ordinaria è la fonte principale delle norme di diritto ecclesiastico nel settore non
garantito dagli artt. 7 e 8 III comma Cost.
Essa disciplina senza problemi le materia non toccate da alcun accordo fra Stato e confessioni
religiose.
Invece, quando la legge ordinaria è chiamata ad applicare le norme introdotte da altra legge
esecutiva di un accordo Stato­confessioni ci si chiede in quale misura, oltre a norme secundum
legem, possa dettare norme praeter legem o contra legem.
Dopo la stipulazione del Concordato del 1929, si dubitò circa la conformità delle norme di
applicazione poste dalle leggi sul matrimonio e sugli enti ecclesiastici ed il patrimonio, alla
legge che aveva reso esecutivo il Concordato (L. 810/ 29).
Al riguardo, sulla base del principio della specialità si affermò la prevalenza delle norme poste
dalle leggi di applicazione, rispetto alla legge generale di esecuzione del Concordato.
Dunque, il primo grado nella gerarchia delle fonti di produzione è rappresentato dalle norme
applicative del Concordato Lateranense; il secondo, dalla legge generale di esecuzione del
Concordato.
Scendendo lungo la scala gerarchica delle fonti si ritrovano:
­ I regolamenti dettati con D .P.R. (in passato anche con regio decreto).
Essi devono essere conformi alle norme di legge e ne disciplinano le modalità
applicative.
Il contrasto con la norma di legge viene sindacato dall’autorità giudiziaria ordinaria
quando il regolamento viola un diritto soggettivo; dal giudice amministrativo, quando
esso viola un interesse legittimo oppure disciplina una materia riservata alla
giurisdizione esclusiva.
­ Le norme interne della P.A., spesso dettate attraverso circolari.
Esse devono essere conformi alle leggi ed ai regolamenti in quanto, oltre a disciplinare
gli aspetti pratici dell’azione amministrativa, possono riguardare anche interessi di terzi.

I rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose sono riservati alla potestà legislativa
dello Stato a norma dell’art. 117 II comma Cost.
Dunque, le Regioni (a statuto speciale o ordinario) non hanno competenza in materia.
Soltanto indirettamente le leggi regionali possano essere comprese fra le fonti di diritto
ecclesiastico, quando la materia di competenza regionale o concorrente interessa
implicitamente anche le confessioni religiose (ad es., l’istruzione o le attività culturali).

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Esse potrebbero disciplinare in modo diretto e specifico la materia ecclesiastica unicamente se
una legge dello Stato, esecutiva di un accordo con le confessioni religiose, lo consentisse.
Da sottolineare che non contraddice a tale situazione (dunque, non è possibile parlare di
delegificazione della materia delle intese) l’art. 13 II comma dell’Accordo del 1984 tra Italia e
Santa Sede, il quale prevede che la disciplina delle materie non considerate dall’Accordo
stesso, può essere dettata da ulteriori accordi tra le due parti, oppure anche da intese fra le
“competenti autorità dello Stato” e la Conferenza Episcopale Italiana.
Infatti, per ritenere ammissibili accordi a livello regionale in tale settore, sarebbe necessario
interpretare la formula “competenti autorità dello Stato” in modo ampio, così da
ricomprendervi anche le autorità regionali.
Neanche in relazione al Protocollo addizionale di tale Accordo è possibile parlare di
delegificazione della materia delle intese.
Esso prevede intese fra le autorità scolastiche italiane e la Conferenza Episcopale Italiana
riguardo all’insegnamento della religione nella scuola pubblica.
Un modo probabilmente illegittimo di eseguire le intese consiste nel rimetterle all’accordo tra
lo Stato e Chiesa cattolica, senza convalidarle attraverso una legge.
Ad es., il D .P.R. 792/ 1985 (dunque non una legge ma un D.P.R.) ha riconosciuto agli effetti
civili un elenco di festività religiose della Chiesa cattolica, ai sensi dell’art. 6 dell’Accordo
del 1984.
Questa disposizione concordataria prevede che “La Repubblica italiana riconosce come giorni
festivi tutte le domeniche e le altre festività religiose determinate d’intesa tra le Parti”.
Al riguardo, si può osservare che la festività domenicale è legittimamente confermata perché
l’Accordo è reso esecutivo con legge.
Invece, la norma concordataria rinvia la determinazione degli altri giorni festivi a ulteriori
intese. Tuttavia, essa non ha delegificato la materia, ma garantito alla Santa Sede che le
modifiche del calendario delle feste religiose sarebbero state introdotte d’accordo, e non in
modo unilaterale dallo Stato.
In ogni caso resta il dubbio circa la legittimità di tale modo di eseguire le intese, in quanto la
disciplina dei giorni festivi agli effetti civili sembra materia riservata alla legge per diverse
ragioni:
­ L’elenco di tali giorni è stato sempre fissato per legge.
­ I nuovi giorni festivi sono stati sempre introdotti per legge.
­ La materia dei giorni festivi coinvolge diritti soggettivi (garantiti dalla legge), sia per ciò
che riguarda i rapporti di lavoro, sia perché i giorni festivi modificano di diritto
(prorogandoli o anticipandoli) la scadenza dei termini.

Nel corso della discussione innanzi alla Camera dei Deputati sul disegno di legge destinato a
dare esecuzione all’Accordo del 1984, il 20 marzo 1985 è stato presentato in Parlamento un
ordine del giorno di indirizzo (che ha sempre un oggetto specifico, in quanto si inserisce in un
procedimento legislativo in corso).
Esso aveva l’obiettivo di disciplinare i casi in cui le intese fra lo Stato e la Santa Sede (o fra gli
organi dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana) riguardavano le materie riservate alla
legge.
Tale documento impegna il governo “A sottoporre preventivamente al Parlamento ogni
proposta o ipotesi di intesa, riguardante nuove materie o l’attuazione dei principi sanciti
dall’accordo concordatario, al fine di consentire alle Camere di esercitare in tempo utile i
propri poteri di indirizzo”.
Dunque, esso conferiva al Parlamento poteri di indirizzo ed impegnava il G overno ad una
determinata interpretazione ed attuazione delle norme in via di approvazione.
Affinché il Parlamento potesse esercitare pienamente i poteri di indirizzo, era necessario che il

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G overno presentasse integralmente e tempestivamente il testo della bozza di accordo. Invece,
quest’ultimo ha ritenuto che i poteri di indirizzo del Parlamento potessero essere esercitati
anche in base all’informativa (e presentò al Parlamento soltanto le linee fondamentali del
progetto di accordo).
Attualmente, i poteri di indirizzo non risultano intesi in modo univoco.
In particolare, quando il Parlamento approva la legislazione ecclesiastica decisa dal G overno,
quest’ultimo si assume un impegno di carattere politico. Infatti, l’approvazione si basa
principalmente sulla fiducia delle Camere al G overno.

In occasione della modificazione del Concordato del 1929, si è posta l’attenzione sulla
disciplina degli enti ecclesiastici. Al riguardo, si possono individuare alcune decisioni
controverse riguardanti il diritto statuale. In particolare,:
­ L’art. 75 (trasposto nella L. 222/ 85) prevedeva l’entrata in vigore di tali norme a
seguito della loro pubblicazione sia nella G azzetta Ufficiale, che negli Acta Apostolicae
Sedis.
Dunque, per la prima volta nella storia della legislazione italiana per l’entrata in vigore
di una legge veniva prevista non solo la pubblicazione in G azzetta Ufficiale, ma anche
la pubblicazione sugli atti ufficiali di un altro ordinamento (cosa sarebbe successo se la
Santa Sede non avesse pubblicato le norme sui suoi Acta?).
­ Altre questioni sorgono in relazione a due disegni di legge, ossia il disegno di legge
2336 (riguardante l’autorizzazione alla ratifica del Protocollo del 1984) ed 2337
(riguardate la sua l’esecuzione).
Nel corso dell’iter parlamentare circa il primo disegno di legge 2336 è stata istituita la
L. 206/ 85 che autorizza la ratifica del Protocollo.
La L. 206/ 85 con le norme concordate è stata pubblicata sulla G azzetta Ufficiale.
Da sottolineare che la L. 222/ 85 detta identiche norme, con il conseguente problema
della duplicazione di fonti.
Ne deriva che anche se il legislatore ordinario modificasse, derogasse o abrogasse la L.
222/ 85, le norme concordate rimarrebbero in vigore in forza della L. 206/ 85, fino a
quando non si dia esecuzione ad un nuovo accordo con la Santa Sede per la modifica,
deroga o abrogazione delle norme approvate dal Protocollo.
Nell’ordinamento canonico le norme concordate sono state rese esecutive inglobandole
in un decreto pubblicato negli Acta.

È possibile approcciarsi allo studio del diritto ecclesiastico seguendo 2 diverse teorie:
­ Una prima teoria si basa sul ius conditum (o diritto positivo) e ritiene necessario
confrontare le norme del 1929­1930 con la Costituzione, per individuare quali fra
queste possono convivere con le nuove norme fondamentali e quali invece risultano
incostituzionali.
­ Una seconda teoria confonde lo ius conditum con lo ius condendum e ritiene che una
riforma della legislazione del 1929­1930 è praticabile al di fuori delle previsioni 7 ed 8
III comma Cost.
Questa tesi è condivisa da coloro che apprezzano i concordati e da coloro che credono
nella purezza della fede e ritengono che la Chiesa non debba essere legata da patti di
indubbi rilevanza politica con lo Stato.

Capitolo 2: La religione e l’organizzazione del potere civile


1­ L’unione del sacro con il politico.
Il fenomeno religioso ha ed ha sempre avuto una grandissima importanza all’interno di ogni
società.
Nella lingua latina, il termine “ religio” comprendeva sia il culto del divino, sia la superstizione.

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Nella Roma arcaica non vi era distinzione tra istituzioni politiche ed organizzazione religiosa.
Tale situazione rimase immutata anche con l’avvento della Repubblica. In tale periodo il
governo civile si distingue dal sacerdozio, ma il collegio pontificale viene considerato un
organo dello Stato e continua a svolgere una funzione pubblica.
Soltanto con la Legge delle XII Tavole del IV sec. a.C. viene data ai romani la possibilità di
conoscere le leggi civili, fino a quel momento conosciute soltanto dai sacerdoti.
Con l’avvento dell’Impero, le funzioni di pontefice massimo furono assunte direttamente
dall’imperatore, il quale diventò divus, ossia divinità oggetto di culto.
Ciò giustifica l’avversione dell’autorità imperiale nei confronti dei cristiani: essi disconoscendo
la divinità dell’imperatore si rendevano rei di lesa maestà.
A tale situazione seguono diversi sistemi di rapporti tra Stato e confessioni religiose: cesaro­
papismo; giurisdizionalismo; teocrazia; separatismo.

2­ Rapporti fra stato e confessioni religiose il cesaro­papismo


Nel 313 d.C. Costantino (con l’Editto di Milano) e Licino (con l’Editto di Nicomedia)
riconobbero il cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano.
G li imperatori romani si convertirono al cristianesimo e diventarono i capi supremi della
Chiesa (dunque, ancora è forte il legame tra Stato e Chiesa; ad es., era l’Imperatore che
convocava i Concili o che ne rendeva esecutivi i decreti o i dogmi di fede).
Tale sistema dei rapporti fra Stato e religione è stato definito cesaro­papismo, ad indicare che
un’unica autorità suprema era contemporaneamente temporale e spirituale.
Il cesaro­papismo cessò nell’Europa Occidentale con la fine dell’Impero Romano di Occidente
(in cui viene meno infatti il potere di un’autorità politica centrale che potesse rivendicare un
potere supremo su tutta la Chiesa), ma persistette nell’impero di Bisanzio sino al sul crollo nel
1453.

3­ Il giurisdizionalismo
Mentre scema l’autorità dell’imperatore, diviene più forte quella del Vescovo di Roma, il quale
rivendica anche un potere temporale.
Successivamente, con la caduta dell’impero Romano d’Occidente viene meno l’unità del
potere civile con il potere ecclesiastico e la dottrina evangelica afferma la distinzione tra i due
poteri, ma continuano dubbi circa la loro delimitazione.
Poi (all’alba dello Stato moderno), iniziano a sorgere diversi Stati organizzati sotto il potere di
un principe, il quale ha la suprema potestà sul territorio, nel senso che è non è sottomesso da
nessun’altra autorità né papale né imperiale.
Tale sistema dei rapporti fra Stato e religione è stato definito giurisdizionalismo, in quanto il
re, forte del principio di legittimità, intendeva unificare ogni potere sotto la propria
giurisdizione. Al riguardo, Niccolò Macchiavelli descrive lo Stato come assoluto, territorialista
e giurisdizionalista.
Le guerre di religione che si formano in tale periodo si concludono con la pace di Augusta del
1555, la quale attribuisce ai Principi il ius reformandi, ossia il potere di imporre la religione da
essi professata a quei sudditi che non avessero preferito emigrare in altro Paese.
Soltanto con la pace di W estfalia del 1648, inizia ad aversi riguardo per le minoranze
religiose, attribuendo uguali diritti a cattolici, luterani e calvinisti.
Il termine “giurisdizionalismo” indica il prevalere della giurisdizione statale su quella
ecclesiastica. In realtà tale denominazione comprende diversi sistemi in cui la Chiesa era
subordinata allo Stato e che hanno assunto varie denominazioni:
­ Territorialismo in G ermania, in base al quale i principi esercitavano tutti i poteri
pubblici anche sulla Chiesa riformata.
­ G allicanesimo in Francia, in base al quale i poteri del Papa riguardavano soltanto le

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materie spirituali, mentre spettavano al re tutti i poteri temporali.
­ G iuseppinismo (o febbronicianesimo) in Austria, il quale sosteneva tesi vicine a quelle
gallicane.
­ Leopoldismo in Toscana.
­ Tanuccismo nel Regno di Napoli.
­ D iritto ecclesiastico siculo in Sicilia, sulla base del quale il re poteva esercitare supremi
poteri ecclesiastici nell’isola, in quanto considerato legato nato del Papa.
I poteri dei sistemi giurisdizionalisti e rientranti tra le prerogative essenziali del monarca (c.d.
iura maiestatica circa sacra) sono stati tradizionalmente classificati in 2 categorie:
­ Poteri diretti a proteggere la Chiesa.
Essi comprendono:
 Il ius advocatiae o protectionis, in forza del quale lo Stato garantiva l’unità
della Chiesa e la purezza della fede, combattendo ogni tentativo di eresia o
scisma.
 Il ius reformandi , ossia il potere dello Stato di introdurre riforme sulla Chiesa.
In particolare, negli Stati protestanti il potere del princeps doveva essere tale da
intervenire nell’organizzazione interna della Chiesa e mutare la religione dei
sudditi; negli Stati cattolici il potere del princeps doveva essere tale da introdurre
nella Chiesa quelle riforme ritenute necessarie per il buon funzionamento dei
suoi istituti.
In entrambi gli Stati lo ius reformandi comprendeva il potere di ammettere le
minoranze religiose in via di tolleranza.
­ Poteri diretti a difendere lo Stato dalla Chiesa.
Essi comprendono:
 Il ius nominandi, che consentiva al principe di concorrere alla nomina dei
funzionari ecclesiastici.
 Il ius exclusivae, che consentiva allo Stato di esercitare un veto sulle nomine
ecclesiastiche.
 L’exequatur o pareatur , che consentiva allo Stato di esaminare gli atti emanati
dall’autorità ecclesiastica, anche in materia di fede, per accertare che non
contenessero nulla di pericoloso per lo stesso Stato.
 Il sequestro di temporalità, che consentiva allo Stato di sequestrare i beni degli
istituti ecclesiastici a titolo di sanzione amministrativa o politica contro il
rappresentante dell’ente.
Il Concordato del 1929 lo limitò soltanto ai casi di cattiva gestione.
 Il ius appellationis, che consentiva agli ecclesiastici o ai fedeli di ricorrere al
sovrano, contro provvedimenti o sentenze dell’autorità ecclesiastica ritenuti
lesivi di diritti dei singoli o degli interessi dello Stato.
 Il ius dominii eminentis, che consentiva allo Stato di imporre tributi agli enti
ecclesiastici ed amministrare i loro beni in caso di vacanza, facendo propri i
frutti e con la possibilità di incamerarne i beni.
 Il ius inspiciendi, che consentiva al principe di intervenire e vigilare sulle
istituzioni ecclesiastiche, controllandone gli acquisti e l’amministrazione dei
beni, e di sorvegliare sui Concili.

4­ teocrazia
Nell’esperienza della civiltà europea non è mai realizzato pienamente un sistema teocratico,
ossia la soggezione dello Stato alla Chiesa.
In particolare, esso divinizza il Papa (Vicario di Dio, il vero monarca della Chiesa) e ritiene
che soltanto la Chiesa, una e fondata da Dio, può far valere ed attuare il principio di unità cui

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aveva mirato l’Impero Romano ormai decaduto.
Inoltre, secondo tali tesi Dio ha concesso al Papa sia il potere temporale che quello spirituale.
Tutte le potestà temporali sono esercitate in terra per delegazione del Papa, dunque, la potestà
ecclesiastica è la fonte di tutte le altre. Questo stato di cose venne denominato “ potestas
directa in temporalibus”.
La premessa della rivendicazione di tale sistema è avvenuta con Sant’Agostino, secondo quale
commette peccato la Civitas terrena quando tende soltanto alla felicità mondana dei sudditi,
al pari dell’individuo che cerca soltanto la felicità terrena.
Lo Stato può sottrarsi a tale situazione peccaminosa soltanto subordinando le sue leggi e la sua
azione alla legge divina. In questo modo si formerebbe una Civitas coelestis che guida gli
uomini verso il bene supremo.
Le tesi teocratiche furono fatte valere dalla Santa Sede nel periodo di sua massima potenza, fra
l’inizio del pontificato di G regorio VII (1073) e la fine di quello di Bonifacio VIII (1303).
Dalla potestas directa in temporalibus derivano varie conseguenze:
­ La Chiesa decideva unilateralmente la ripartizione di competenze fra essa e lo Stato.
­ Il potere civile non poteva in alcun modo interferire nella materia ecclesiastica.
­ Il potere civile era tenuto a mettere a disposizione della Chiesa i suoi mezzi coercitivi
per l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica (c.d. braccio secolare).
­ In caso di contrasto, le leggi ecclesiastiche prevalevano sulle leggi civili, le quali sarebbe
state ipso iure illegittime, nulle e non obbligatorie.
­ Nessuna autorità era legittima se non derivava il suo potere da un’investitura
ecclesiastica.
­ Il Papa poteva decidere in ultima istanza della guerra e della pace.

Dopo l’indebolimento dell’autorità papale e dopo la rottura dell’unità dei cristiani d’Occidente
avutasi con la riforma, subito dopo il Concilio di Trento, nella sua opera De Summo Pontefice,
Roberto Bellarmino delinea la potestas indirecta in temporalibus.
Essa consisteva nel potere della Chiesa di regolare con proprie leggi anche i rapporti civili, di
sciogliere i fedeli dall’obbligo di osservanza delle leggi civili contrarie agli interessi ecclesiastici
e di premere sui governanti affinché tali leggi non fossero emanate.
Oggi alcuni esempi di Stato teocratico sono riscontrabili nel mondo islamico.

5­ Il separatismo
Un’ulteriore sistema di rapporti fra Stato e confessioni religiose è rappresentato dal
separatismo.
L’idea separatista è stata proposta originariamente per realizzare l’indipendenza della Chiesa
e per tutelare i suoi interessi, andando anche contro quelli statali.
A tal fine esso è stato sostenuto nell’‘800 in Europa dal Protestantesimo liberale tedesco e dal
cattolicesimo liberale svizzero e francese.
In comune vi era la considerazione che la religione, ossia il rapporto tra uomo e Dio, è
qualcosa di estremamente personale.
Dunque, non può esistere una Chiesa di Stato e gli ecclesiastici non sono e non devono essere
considerati pubblici ufficiali.

Altro fine del separatismo è quello di far prevalere l’autorità dello Stato (corrente anti­
ecclesiastica).
Uno dei promotori di tale teoria è stato Ruggero W illiams, il quale considerava lo Stato un
ente del tutto laico che non doveva interferire in materia di religione.
Dunque, la Chiesa era considerata una corporazione privata non avente nulla in comune con
lo Stato.

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Negli USA, alla fine del ‘700, in seguito al processo che portò all’indipendenza delle colonie
inglesi, l’unico modo per superare i contrasti esistenti tra le varie teocrazie locali era quello di
adottare un separatismo fondato sulla libertà religiosa, proclamata dal primo emendamento
della D ichiarazione della Virginia del 1776.
Tale emendamento vieta al Congresso di approvare leggi che abbiano il fine di proibire o
imporre una determinata confessione religiosa.

Per quanto riguarda i Paesi dell’Est Europeo, nell’URSS, l’art. 52 Cost. dichiarava che la
Chiesa è separata dallo Stato.
Tuttavia, in tale ordinamento le libertà individuali erano concepite nella visione marxista­
leninista, ossia in funzione del fine (deciso dal partito) che la società doveva raggiungere.
Dunque, l’art. 52 Cost. garantiva la libertà di coscienza (ossia il diritto di professare qualsiasi
religione o nessuna) ed il diritto di praticare il culto, ma non riconosceva il diritto di svolgere
propaganda religiosa.
Era ammesso soltanto il diritto di svolgere propaganda ateistica, in quanto secondo i principi
marxisti­leninisti, il buon cittadino deve contribuire a liberare i compatrioti dalle convinzioni
errate ed illusorie sul mondo.
Possiamo affermare che nell’URSS la separazione tra Stato e Chiesa era anti­ecclesiastica.

In Italia il separatismo è stato uno strumento politico per risolvere la c.d. questione romana
nel quadro dell’unità d’Italia.
Cavour ha enunciato la testi separatista attraverso la celebre formula “Libera Chiesa in Libero
Stato”. Tuttavia, tale sistema ha avuto una modesta applicazione in Italia.
In particolare, sino ai Patti Lateranensi del 1929 il sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa era
qualificabile come giurisdizionalismo liberale, in quanto tutte le varie denominazioni
cristiane riformate dovevano rispettare le norme di diritto comune, mentre la Chiesa cattolica e
le Comunità israelitiche erano regolate da norme speciali Agli inizi del secolo, il rapporto fra
libertà religiosa ed uguaglianza di trattamento delle confessioni religiose divenne oggetto di
una controversia dottrinale tra 2 maestri:
­ Secondo Ruffini l’instaurazione di un regime giuridico uguale per tutte le confessioni,
date le differenze esistenti tra di esse, non attuava una vera uguaglianza, la quale di
contro, sarebbe consistita nel dare a ciascuno il suo.
­ Secondo Scaduto soltanto in regime separatista, operando tutte le confessioni a norme
del diritto comune, era possibile trattare in modo uguale tutte le confessioni ed
assicurare una vera libertà religiosa.

Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il separatismo è stato riproposto sempre in


funzione anti­ecclesiastica da:
­ La sinistra laica, in occasione del Convegno degli “Amici del Mondo su Stato e
Chiesa” del 1957.
La mozione conclusiva del Convegno proponeva l’abrogazione del Concordato e la
instaurazione di un ordinamento giuridico di netta separazione dello Stato dalla Chiesa.
­ Dai cattolici del dissenso, i quali elaborarono le loro idee a seguito di un movimento di
protesta contro le autorità e le istituzioni nel mondo occidentale (che colpì anche la
Chiesa).
Essi vedevano nel separatismo uno strumento per purificare la Chiesa, la quale doveva
essere povera e non privilegiata, né essere condizionata da accordi politici al fine di
divulgare meglio il Vangelo.
­ Dalla dottrina. In particolare, si ricordano gli scrittori laici che chiedevano una legge

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uguale per tutte le confessioni religiose per agevolare la libertà dei singoli.
Dunque, secondo tali autori la legge doveva dar vita ad un diritto comune (introdotto
unilateralmente dallo Stato) delle confessioni religiose.

Chi critica il separatismo di tipo ottocentesco, propone una separazione tra Stato e confessioni
religiose secondo cui il cittadino deve essere messo nelle condizioni di formare i propri
personali convincimenti di doverosità religiosa o laica; mentre le confessioni religiose devono
essere libere di adempiere ai propri compiti nel rispetto del principio di uguaglianza.
Al riguardo, occorre precisare che il principio della separazione tra Stato e confessioni religiose
è un postulato dell’idea liberale, secondo cui nello Stato di diritto è essenziale lasciare i
cittadini liberi di orientarsi in materia politica, filosofica, scientifica ed anche religiosa.
In presenza di istituzioni (quali quelle religiose) insediate nel territorio, è necessario che lo
Stato operari una separazione dei suoi poteri da quelli propri di esse. Si tratta di una
separazione in senso giuridico, attuata per lasciare liberi gli uomini di accettare
spontaneamente le dottrine religiose o morali che possono formarsi.
Secondo la dottrina liberare, lo strumento per realizzare la libertà e la parità di trattamento è la
legge dello Stato, in quanto i Concordati, avendo un contenuto privilegiato, sarebbero atti in
contrasto con il principio di uguaglianza.
Tuttavia occorre sottolineare che la disciplina privilegiata a favore di una confessione religiosa
non può essere introdotta soltanto attraverso una legge esecutiva di un accordo, ma anche
attraverso una legge prodotta unilateralmente dal legislatore.
Dunque, il contenuto privilegiato non dipende dal sistema separatista né dal sistema
concordatario. Esso può trovarsi tanto nell’uno quanto nell’altro.
Infatti, ciò che conta nella vita degli individui e dei gruppi sociali è il rispetto dei valori di
libertà ed uguaglianza, non l’esclusione per principio di accordi fra lo Stato e le confessioni
religiose.

Da sottolineare che le tesi che vedono l’accordo come fonte di privilegi risultano
contraddittorie quando sostengono che la legge dovrebbe tenere conto delle specifiche
esigenze delle varie confessioni religiose.
Infatti, qualsiasi norma che soddisfa una di queste esigenze specifiche avrebbe carattere
privilegiato, in quanto si riferirebbe o soltanto ad una determinata confessione, oppure soltanto
alle confessioni religiose, escludendo ogni altra forma di aggregazione sociale.
In realtà, la visione dell’accordo come fonte di privilegio non è da porre in assoluto.
Possono esistere accordi che pur riconoscendo le specifiche esigenze delle confessioni religiose,
non limitano di fatto la libertà dei singoli.
Peraltro la nostra Costituzione non soltanto riconosce i diritti dei singoli, ma anche quelli delle
formazioni sociali e delle confessioni religiose.

6­ La coordinazione e i concordati
Altro sistema che disciplina i rapporti tra le due entità esaminate è quello della coordinazione
fra Stato e confessioni religiose, adottato dalla nostra Costituzione (art. 7 e 8 III comma). Esso
trova il suo precedente storico nell’Accordo di W orms del 1122.
Per quanto riguarda i rapporti con Chiesa cattolica, essi dipendono dai concordati stipulati
dalla Santa Sede con gli Stati, al fine di disciplinare le materie di interesse comune (c.d. res
mitae).
In relazione alle materie considerate, le parti del concordato si obbligano a tenere un certo
comportamento, ciascuna nel territorio di cui ha la sovranità.
Si tratta di un sistema neutro, nel senso che è il contenuto dell’accordo (di volta in volta
stipulato) a determinare la posizione reciproca dello Stato e della Chiesa in un determinato
Paese.

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Per quanto riguarda la natura giuridica dei concordati, bisogna considerare 3 ordinamenti:
­ L’ordinamento in cui i rapporti stessi si svolgono (come vedremo analizzando gli altri
due ordinamenti si tratta dell’ordinamento internazionale generale).
­ L’ordinamento canonico, secondo cui i concordati sono di competenza della Santa
Sede, la quale è soggetto di diritto internazionale.
Dunque, l’ordinamento in cui si svolgono i rapporti concordatari è l’ordinamento
internazionale.
­ L’ordinamento statale.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, l’art. 7 I comma Cost. non obbliga lo Stato
a concordare con la Chiesa la disciplina delle materie di comune interesse.
A questo punto, si è aperto un dibattito circa la natura giuridica da attribuire all’atto
attraverso il quale eventualmente lo Stato cerchi di accordarsi bilateralmente con la
Chiesa.
Un’autorevole dottrina sosteneva che essi fossero contratti di diritto pubblico interno,
attraverso i quali lo Stato non riconosceva alla Chiesa né superiorità giuridica, né
potestà giuridica pari o analoga alla propria.
Lo Stato affermava la propria sovranità sulla Chiesa e considerava l’organizzazione
cattolica esistente in Italia soggetta alle proprie leggi.
Un’altra dottrina invece sosteneva la c.d. tesi curialista, secondo la quale il concordato
è un privilegio concesso dalla Chiesa allo Stato.
Altri ancora sostenevano che si trattava di un negozio di diritto esterno, simile ai
trattati internazionali, al quale sono di conseguenza applicabili le norme
dell’ordinamento internazionale.
In realtà, l’art. 7 I comma Cost., dichiarando che la Chiesa è nel proprio ambito
“sovrana e indipendente dallo Stato”, indica che vi è un settore di materie nel quale lo
Stato e la Chiesa trattano da pari a pari. Dunque, gli accordi bilaterali tra Stato e Chiesa
devono considerarsi atti di diritto esterno.
G ià prima dell’entrata in vigore della Costituzione, si riteneva che i rapporti
concordatari fra Stato e Chiesa si svolgessero in un ordinamento esterno ad entrambi.
Non era chiaro se considerare tale ordinamento esterno come parte dell’ordinamento
internazionale generale oppure come un settore speciale di questo.
Tuttavia, si ritiene che il riferimento è all’ordinamento internazionale generale, in
quanto esso non è costituito soltanto dalla comunità di Stati, ma ricomprende anche
organismi statali (dunque, anche la Santa Sede).
In questa prospettiva è possibile affermare che l’art. 7 I comma Cost. considera i
concordati ecclesiastici come accordi fra due ordinamenti primari, ossia atti simili ai
trattati internazionali. Ne consegue che quando l’Italia conclude un concordato, essa è
legata al rispetto delle norme internazionali generali riguardanti quella determinata
materia.
Da sottolineare che questo riconoscimento costituzionale non impegna l’ordinamento
internazionale. In tale ambito i concordati possono essere considerati simili ai trattati
internazionali soltanto in presenza di una norma dell’ordinamento internazionale che
riconosca ad essi tale natura giuridica.

7­ Qualificazione dello stato rispetto alle credenze di religione


Un altro importante problema è quello della qualificazione dello Stato a livello
costituzionale rispetto alle credenze religiose.
Al riguardo, principalmente si distingue tra:
­ Stato confessionista, quando esercita una forma di dominio o di controllo nell’ambito

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religioso, al fine di proteggere una determinata confessione religiosa che viene
riconosciuta come religione di Stato.
In questo caso, le altre confessioni vengono “tollerate” e godono di una misura più
limitata di libertà, nel senso che lo Stato tende ad escludere l’influenza sulla società dei
loro principi, spesso ritenuti contrari agli interessi nazionali.
­ Stato laico, quando tutte le confessioni godono dello stesso trattamento e sono
ugualmente libere nell’esercizio delle loro attività religiose.
Questa situazione può verificarsi soltanto adottando un sistema di rapporti tra Stato e
Chiesa di tipo separatista.

Per quanto riguarda la qualificazione confessionale dello Stato italiano, la nostra


Costituzione non contiene alcuna norma indicativa: non si afferma la laicità, né si designa una
religione come religione di Stato.
Su questo stato di cose si sono sviluppate 3 interpretazioni:
­ Alcuni, facendo riferimento all’art. 7 II comma Cost. (“I rapporti tra Stato e Chiesa
sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti,
non richiedono procedimento di revisione costituzionale”) ed all’art. 1 del Trattato
Laterano (“L’Italia riconosce quale unica religione di Stato la religione cattolica,
apostolica e romana”), ritenevano che lo Stato italiano fosse fortemente cattolico.
­ Altri, facendo riferimento ai generali principi di libertà e democrazia affermati nella
Costituzione, ritenevano che lo Stato italiano fosse laico e religiosamente neutrale.
­ Infine, una parte della dottrina ritiene che non è possibile procedere a qualificazione
confessionale dello Stato italiano osservando la Costituzione, ma soltanto dopo un
esame della sua legislazione, dell’attività amministrativa non vincolata o dei
comportamenti politici (dunque, a­posteriori).
Esaminando tali attività, alla fine degli anni ’60 un autore ha qualificato lo Stato
italiano come confessionista in senso cattolico, in quanto riconosce alla Chiesa
cattolica (ai suoi organi, ai suoi beni ed ai suoi enti) una posizione di particolare favore,
senza comprimere le altre confessioni.
Successivamente, questa qualificazione è stata contraddetta proprio dalla politica
legislativa dello Stato orientata in senso contrario alle concezioni cattoliche (ad es.,
attraverso le leggi sullo scioglimento del matrimonio).

Oggi lo Stato considera con favore la Chiesa cattolica, ma nella sua azione esso è ispirato da
principi laici.
Questo atteggiamento trova giustificazione in 2 divere fonti:
­ Nella Costituzione.
Al riguardo, occorre ricordare che l’Assemblea costituente rigettò un emendamento
diretto a riconoscere che “La religione cattolica è religione ufficiale della Repubblica
italiana”.
Da sottolineare che una parte della dottrina si era domandata se attraverso la menzione
dei Patti del 1929, la Costituzione avesse richiamato l’art. 1 del Trattato del Laterano,
con la conseguenza che lo Stato italiano doveva essere considerato confessionista e che
la Chiesa cattolica avrebbe avuto una posizione speciale nell’ordinamento statuale.
Tuttavia, il principio confessionista è espressamente abrogato dalla Costituzione stessa
quando essa afferma i principi di libertà ed uguaglianza.
­ Nell’Accordo del 1984 con la Santa Sede.
Con tale accordo le parti hanno convenuto di “Non considerare più in vigore il
principio originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano”. Dunque, esso è una conferma del fatto che la

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Costituzione ha abrogato il principio confessionista.

Ne consegue che la qualifica della Repubblica che emerge dalla Costituzione formale (artt. 2,
3, 7, 8, 19 e 20) è quella di uno Stato liberale e pluralista, che:
­ Riconosce pienamente la libertà religiosa degli individui e dei gruppi sociali.
­ Non differenzia lo status dei cittadini secondo la religione professata.
­ Si riserva di intrattenere rapporti paritari con le confessioni religione organizzate,
assegnando loro la stessa misura di libertà.

Per qualificare la posizione dello Stato nei confronti del fenomeno religioso, oltre alle norme
costituzionali, devono essere considerate anche le disposizioni normative (sempre attinenti al
fenomeno religioso) di livello pari o inferiore a quelle costituzionali, in particolare le norme
introdotte in esecuzione di accordi con le confessioni religiose.
Da qui emerge che lo Stato vede nella reciproca collaborazione con la Chiesa cattolica un
mezzo per conseguire la promozione dell’uomo ed il bene del Paese, dichiarazione che
contrasta con la laicità dello Stato.

Al riguardo, la Corte Costituzionale con la sentenza (interpretativa di rigetto) 203/ 1989, ha


ritenuto che dalle norme costituzionali che qualificano la Repubblica come liberale e pluralista
(artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20), sarebbe desumibile il principio supremo della laicità dello Stato
italiano.
Essa ha precisato che tale principio “Implica non indifferenza dello Stato dinnanzi alle
religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di
pluralismo confessionale e culturale”.

Tuttavia, esaminando più attentamente le stesse disposizioni costituzionali, il principio


supremo dell’ordinamento costituzionale sembra essere quello di libertà e pluralismo.
La qualifica di “laico” è generica risultando inadeguata per uno Stato che assume nei
confronti del fenomeno sociale religioso un forte interessamento.
Inoltre, la qualifica di “laico” è ambigua, in quanto indica soltanto una parte della società
italiana che in relazione a certe tematiche morali (ad es., l’aborto) si pone in contrapposizione
con i principi sostenuti dalla Chiesa cattolica.
Dal momento che la Repubblica è una cosa comune, non può essere denominata né laica né
cattolica.

La politica legislativa italiana in materia ecclesiastica dal 1848 al 1922


La storia della politica ecclesiastica italiana è divisibile in 3 periodi:
 Il primo periodo va dal 1848 al 1922.
Nel 1848 prende avvio la politica ecclesiastica della Destra in Piemonte.
Lo Statuto Albertino dichiarava la religione cattolica la sola religione dello Stato, mentre le
altre confessioni allora esistenti venivano tollerate conformemente alle leggi.
Poi, tale affermazione viene ridimensionata dal Parlamento subalpino, il quale dichiara con
legge che la differenza di religione non può dar luogo a discriminazioni nel godimento dei
diritti civili e politici.
In questi anni i Savoia cercavano di aprire delle trattative con la Santa Sede per una riforma
dei vecchi concordati piemontesi, ma Papa Pio IX non era disposto ad alcuna concessione.
Fallite le trattative, il Parlamento approvò 2 leggi proposte dal G uardasigilli Siccardi:
­ La prima abolì ciò che rimaneva del privilegio del foro ecclesiastico.
­ La seconda concesse l’autorizzazione agli acquisti degli enti.
Nel 1848 viene soppressa la Compagnia di G esù, vietando ogni sua adunanza in qualunque

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numero di persone e la corporazione delle Dame del Sacro Cuore di G esù.
Si trattava di un provvedimento tipicamente giurisdizionalista e per nulla liberale (escludeva il
diritto di associazione e di riunione degli stessi).
Dunque, la Destra storica sebbene ispirata dalle idee liberali, utilizzava gli strumenti del
giurisdizionalismo per raggiungere i suoi scopi.
La prassi giurisdizionalista fu portata avanti negli anni seguenti quando vennero soppresse
molte associazioni religiose a seguito della cernita tra enti ecclesiastici utili ed inutili.
Infine è di stampo giurisdizionalista il decreto luogotenenziale che soppresse tutte le
associazioni religiose incamerandone il patrimonio allo Stato, in quanto la Destra storica
riteneva che in caso di necessità lo Stato poteva disporre del patrimonio ecclesiastico.

Il problema della situazione giuridica della Santa Sede presenta in Roma e del Papa fu risolto
con la L. 214/ 1871 (c.d. Legge delle G uarentigie).
Essa è divisa in 2 titoli:
­ Il primo titolo è dedicato alle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede.
­ Il secondo titolo è destinato a disciplinare le relazioni fra Stato e Chiesa.
Tale legge è il risultato di una commistione fra principi giurisdizionalisti e principi separatisti.
In particolare, lo Stato rinunciava all’esercizio di un dato numero di poteri di controllo sulla
Chiesa, ma era competente a dettare in modo unilaterale le norme attinenti alle garanzie
offerte alla Santa Sede e al Papa.

Caduta la Destra storica nel 1876, la politica ecclesiastica mantiene il suo indirizzo liberale­
giurisdizionalista.
Nell’ultimo ventennio dell’800 vi furono numerosi provvedimenti in materia ecclesiastica, di
stampo giurisdizionalista liberali e separatisti, non accettabili dalla Chiesa (ad es., si
secolarizza il giuramento dei testimoni; il codice penale del 1889 tutelava la libertà religiosa; lo
Stato attribuisce a sé le rendite dei benefici ecclesiastici senza titolare).
Alla morte di Pio IX, venne eletto Papa Leone XIII, uomo di grande cultura e di mente aperta.
Continua a non raggiungersi alcuna intesa tra lo Stato e la Santa Sede, tanto più che i politici
ritenevano la questione definitivamente risolta con la Legge delle G uarentigie.

È necessario sottolineare che i cattolici non potevano partecipare alle competizioni elettorali
politiche, poiché la Sacra Penitenzieria aveva dichiarato che tale partecipazione “ non expedit”,
ossia non era opportuna.
In questo modo si volevano indebolire le nuove istituzioni.
Il non expedit fu attenuato nel 1904 dall’enciclica “Il fermo proposito” di Pio X, il quale ha
incoraggiato i cattolici a partecipare al potere legislativo.
Nel 1913 con il Patto G entiloni, G iolitti e G entiloni (quest’ultimo era il presidente
dell’Unione cattolica italiana) diedero vita ad un’intesa elettorale da cui nacque l’alleanza
politica fra i cattolici ed i liberali conservatori.
La prima guerra mondiale influì su queste vicende, in quanto nessun cattolico rifiutò di
combattere soltanto perché secondo la Santa Sede la questione romana non era stata risolta.
Finita la guerra, la politica vide irrompere sulla sua scena, attraverso il suffragio universale, i
partiti di massa:
­ Il partito socialista.
­ Il partito popolare italiano (di cui era animatore Luigi Sturzo, un sacerdote italiano).
Dunque, il non expedit fu definitivamente abolito.
La fine della guerra e l’inizio delle trattative per la pace diedero occasione ai Presidenti del
Consiglio del tempo di avere contatti con i rappresentanti della Santa Sede in vista di una
soluzione amichevole della questione romana.
Tuttavia, tali contatti non andarono oltre ad alcuni incontri personali, in quanto la situazione

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politica e sociale non consentiva ai G overni del tempo decisioni impegnative.
L’incomunicabilità tra i partiti di massa e la loro crisi, insieme ad altri fattori, avrebbe favorito
nel 1922 l’ascesa al potere del fascismo, che avrebbe ripreso la politica legislativa in materia
ecclesiastica.

 Il secondo periodo va dal 1922 al 1947.


Il movimento fascista inizialmente non aveva una propria ideologia politica.
Alle elezioni del 1919 i fasci esposero un programma che ricavava alcune idee della sinistra
italiana. Fra queste, la tesi che occorreva di nuovo devolvere allo Stato i beni ecclesiastici
(programma era anticlericale) ma non riuscirono a mandare alcun deputato in Parlamento.
Con le elezioni del 1921, ottenne il mandato parlamentare Mussolini.
Nel suo primo discorso alla Camera mostrò che il programma di politica ecclesiastica del
fascismo era cambiato: trattando della politica estera, sottolineò come mantenere buoni
rapporti con il Papato era necessario per accrescere l’influenza dell’Italia nel mondo. Inoltre, la
religione cattolica viene considerata un mezzo utile per cementare l’unità spirituale della
nazione.

Tra le prime norme a favore della religione cattolica si segnalano la legge sulla stampa, che
reintroduceva il delitto di vilipendio della religione di Stato; ed il regio decreto disciplinante i
programmi didattici di istruzione elementare che prevedeva che la dottrina cattolica fosse
fondamento e coronamento dell’istruzione. Poi, nel 1925 il governo istituì una commissione
mista per la revisione della legislazione ecclesiastica, alla quale partecipavano a titolo
personale alcuni ecclesiastici. Tali lavori furono successivamente abbandonati in quanto la
Santa Sede affermò essi non la impegnavano in alcun misura.
Nel frattempo i partiti politici erano stati sciolti ed il fascismo aveva tutto il potere per sé.
In tale clima iniziarono nel 1926 le trattative per la stipulazione di quegli accordi che
avrebbero preso il nome di Patti lateranensi.
Essi riguardavano la soluzione della questione romana (cui è dedicato il Trattato) e le
condizioni della religione e della Chiesa in Italia (cui è dedicato il Concordato).
Il Concordato del 1929 riconosceva ampia libertà alla Chiesa cattolica, rinunciava a taluni
vecchi strumenti dell’apparato giurisdizionalista, ma manteneva in vigore quelli ritenuti ancora
funzionali, come l’assenso governativo alle nomine di vescovi e parroci.
Nel 1929 il governo sottopose le leggi per l’esecuzione dei Patti all’approvazione delle Camere
largamente amiche. L’unico discorso di opposizione fu pronunciato da Benedetto Croce.
Per il resto il Parlamento approvò rapidamente i Patti e le leggi che davano ad essi esecuzione.

Da sottolineare che il Concordato non portò ad una pace assoluta, in quanto il timore che i
circoli di azione cattolica svolgessero attività politica o sindacale indusse i fascisti ad azioni
violente contro sedi e persone, che cessarono soltanto con il nuovo e specifico accordo del
1931 circa l’educazione della gioventù.
Del resto la Conciliazione era soltanto funzionale, in quanto avvenne tra uno Stato
autoritativo ed una Chiesa non ancora pacificata con il mondo moderno.
In ogni caso, molti provvedimenti politici furono approvati dalla Chiesa, quali la conquista
dell’Etiopia (che avrebbe agevolato in quella terra l’attività missionaria) e l’intervento nella
guerra civile spagnola a sostegno del generale Franco (che contrastava il comunismo ateo).

Il G overno mantenne la promessa di rinvigorire il principio della religione di Stato


promulgando leggi che vietavano di professare religioni diverse da quella cattolica. Dunque, le
minoranze religiose furono debellate.
Inoltre, il codice penale del 1930 prevedeva il reato contro il sentimento religioso e puniva il
vilipendio della religione dello Stato.

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I buoni rapporti tra Stato e Chiesa cessarono quando il G overno decise di attuare i principi
razzisti che si erano diffusi in G ermania con il nazismo (1938).
Caduto il fascismo, negli anni che hanno preceduto la formazione della Repubblica, i rapporti
tra Stato e confessioni religiose sono andati avanti sulla base del Concordato e delle leggi del
1929­1931.

 Il terzo periodo va dal 1947 ai giorni nostri.


La stipulazione dei Patti lateranensi incontrò le critiche dei gruppi antifascisti i quali furono
costretti alla clandestinità o all’esilio.
I perseguitati dal regime poterono trovare rifugio negli istituti ecclesiastici ed i cattolici, in
particolare la Democrazia cristiana, presero parte al Comitato di Liberazione Nazionale
(CLN).
Alla vigilia delle elezioni dell’Assemblea costituente e del referendum istituzionale, nessun
partito della sinistra propose la denuncia dei Patti Lateranensi o una politica ecclesiastica
contraria alla Chiesa cattolica.
Il V Congresso del Partito comunista sottolineò l’importanza che aveva la pace religiosa per le
classi lavoratrici.
Era questa l’atmosfera politica che portò alla formazione delle norme costituzionali per la
disciplina del fenomeno sociale religioso e alla riconferma dei Patti lateranensi.
G li unici ad opporsi furono i partiti della sinistra laica, ossia il Partito d’azione ed il Partito
repubblicano.
In relazione all’art. 7 Cost. (riguardante il richiamo dei Patti Lateranensi nella Costituzione), i
deputati del Partito liberale erano divisi fra favorevoli e contrari; mentre la Democrazia
cristiana (appoggiato dal PCI, partito comunista italiano che voleva salvaguardare la pace
religiosa degli italiani) seguì puntualmente le direttive della Santa Sede, secondo la quale era
necessario confermare tali accordi.
La menzione dei Patti nella Costituzione ebbe l’effetto di consolidare quegli accordi.

La Cassazione distingueva le norme costituzionali in 3 categorie:


­ Precettive di immediata attuazione.
­ Precettive ad esecuzione differita.
­ Programmatiche.
Per il Ministero dell’Interno, le norme sulla libertà religiosa non erano precettive e ciò
comportò una limitazione della libertà delle confessioni di minoranza, in quanto lo Stato
italiano praticava un confessionismo di fatto, nel senso che esso non affiorava dalla
Costituzione formale, ma era un dato politico caratterizzante l’ordinamento.
Soltanto alla fine della seconda legislatura repubblicana la Corte costituzionale ripristinò la
libertà di culto delle minoranze religiose, facendo venir meno il confessionismo.
In tal clima si accese una forte la polemica contro i Patti del 1929, condotta soprattutto da
intellettuali della sinistra laica che ebbe la sua espressione più organica nel convegno “Amici
del Mondo” del 1957 su Stato e Chiesa, concluso con una mozione che auspicava la denuncia
dei Patti lateranensi e l’instaurazione di un regime separatista.
Tuttavia, il periodo dei governi di centro­sinistra fu un caratterizzato da un immobilismo che
annullò tutti i progetti riformatori.
In tale clima era difficile pensare ad una revisione del Concordato, ma fu proprio nel tramonto
dell’esperienza dei governi di centrosinistra che nel 1965 Lelio Basso presentò una mozione
che poneva la questione della revisione del vecchio Concordato (tale proposta nasce dal fatto
che era stata vietata in Roma la rappresentazione “Vicario” perché ritenuta in contrasto con il
carattere sacro della città).
Tale mozione fu approvata, dando così via al procedimento di revisione del Concordato
durato 9 anni dall’ordine del giorno e conclusosi soltanto nel 1984.

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Nel 1968, il Ministro di G razia e G iustizia nominò una commissione per studiare le proposte
da presentare alla Santa Sede.
Il primo terreno di scontro si ebbe nel 1966 a causa della proposta di legge circa l’introduzione
del divorzio in Italia, al quale la Santa Sede si opponeva fortemente, in quanto si prevedeva
l’applicazione della legge anche ai matrimoni concordatari.
Entrata in vigore tale legge, nel 1970 un comitato di cattolici appoggiato dalla Chiesa propose
nei suoi confronti un referendum abrogativo.
Le trattative con la Santa Sede per la revisione del Concordato hanno avuto effettivo inizio
soltanto dopo la consumazione di questa vicenda, quando era in carica il primo dei governi di
solidarietà nazionale.

Il nuovo quadro politico determinò una parlamentarizzazione dell’accordo, nel senso che si
abbandonarono le trattative riservate.
Il governo presentò al Parlamento le prime tre bozze predisposte dalla Commissione paritetica
italo­vaticana ed un promemoria della discussione che aveva preceduto la stipulazione
dell’Accordo del 1984.
Tuttavia, anche la parlamentarizzazione è stata limitata, in quanto ha riguardato soltanto il
testo dell’Accordo del febbraio 1984; mentre dell’importante accordo del novembre 1984 il
Parlamento ha preso piena conoscenza in sede di approvazione della legge di autorizzazione
alla ratifica.
L’ordine del giorno del 1967 aveva constato che alcune norme del Concordato dovevano
essere riviste ed armonizzate con la nuova Costituzione.
Al riguardo, Arturo Carlo Jemolo teorizzò il criterio delle foglie secche, nel senso che le
norme non più attuali di quel testo dovevano essere lasciate cadere.
I rapporti tra Stato e Chiesa sono stati giurisdizionalizzati in quanto all’inerzia del G overno si
è sostituita l’autorità giudiziaria ordinaria e quella della Corte Costituzionale; ed in quanto il
rinnovamento della legislazione ecclesiastica a mezzo di sentenze avveniva in modo
unilaterale da parte dello Stato (da qui le proteste della Santa Sede contro le sentenze 16 e
18/ 1982 della Corte Costituzionale).

Le trattative per la revisione del Concordato si sono svolte attraverso la presentazione di varie
bozze di Accordo:
­ La prima bozza è stata presentata dal governo Andreotti nel 1976 alla Camera dei
deputati.
Il progetto è stato molto criticato perché manchevole sotto vari aspetti.
­ La seconda bozza è stata presentata dallo stesso governo ai gruppi senatoriali nel 1977.
­ La terzo bozza è stata presentata al Senato nel 1978.
­ La quarta e la quinta bozza sono state elaborate dalla Commissione italo­vaticana.
­ La quinta bozza bis è stata frutto di una revisione effettuata da una Commissione di
studio presso la Presidenza del Consiglio.
­ LA sesta bozza è stata formulata nuovamente dalla Commissione italo­vaticana.
Il contenuto del progetto definitivo è stato poi esposto in sintesi nel promemoria della
Presidenza del Consiglio ai parlamentari.
Il tratto comune di tali progetti è stato quello di lasciare ad un’altra intesa la disciplina della
materia degli enti e del patrimonio della Chiesa, di cui l’art. 7 ha previsto soltanto alcuni dei
principi fondamentali.
L’Accordo del 18 febbraio 1984 è stato stipulato in forma solenne in territorio italiano a Villa
Madama dal Segretario di Stato Cardinale Agostino Casaroli e dal Presidente del Consiglio
Bettino Craxi.

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Tale atto è stato qualificato dalle parti come “Accordo di modificazioni del Concordato
Lateranense”.
Anche se questo Accordo presenta collegamenti con il vecchio Concordato, dal punto di vista
sostanziale, esso ed il successivo Protocollo dello stesso anno formano un nuovo Concordato,
perché nulla rimase del vecchio.
Fra il vecchio Concordato del 1929 ed i nuovi Accordi del 1984 vi è una notevole differenza
quantitativa: il vecchio Concordato conteneva in 45 articoli tutte le norme e tutti i principi che
le parti avevano riconosciuto come frutto di trattative bilaterali (il resto era formalmente
disciplinato da norme dettate in modo autonomo dallo Stato); mentre il nuovo Concordato
presentava 96 articoli (anche se presi in testi diversi).
Ciò che invece accomuna tutti gli accordi (dal 1929 al 1984) è il voler cercare la soluzione la
soluzione delle questioni pendenti tra Stato e Chiesa mediante concordati, senza imporre
soluzioni unilaterali.

Le ragioni profonde delle due stipulazioni sono diverse.


Nel 1929 lo Stato intendeva utilizzare la religione cattolica come mezzo di governo, mentre
tale fine è estraneo alle forze politiche che hanno dato il proprio appoggio agli accordi del
1984. Queste ultime sono mosse nell’ottica della struttura corporativa della società italiana.
Di questa disponibilità a considerare le esigenze delle istituzioni estranee all’organizzazione
statale, hanno usufruito anche le confessioni valdese e metodista, le cui chiese hanno
stipulato con lo Stato l’Intesa del 1984.
Successivamente, nel 1986 lo Stato ha concluso altre due intese:
­ Quella con le Assemblee di D io in Italia.
­ Quella con l’Unione italiana delle Chiese avventiste del settimo giorno.
Più laboriosa è stata la conclusione dell’Intesa con l’ebraismo, in quanto occorreva che le
Comunità ebraiche, oltre a concordare l’Intesa con lo Stato, provvedessero ad elaborare uno
statuto interno autonomo che sostituisse lo statuto legale.
Dunque, la legge per l’esecuzione di tale Intesa, avvenuta nel 1987, ha avuto esecuzione
soltanto nel 1989 (dopo che venne presentato il nuovo statuto interno).
Nel 1993 sono state stipulate un’Intesa con l’Unione cristiana evangelica d’Italia ed una
Intesa con la Chiesa evangelica luterana in Italia.

Da sottolineare che tutti gli accordi e le intese stipulati tra lo Stato e le varie confessioni di
minoranza prevedono la possibilità di essere successivamente riviste, attraverso nuovi
accordi o nuove intese tra le parti.

Per quanto riguarda in particolare le modifiche delle Intese, le leggi prevedono un riesame di
esse al termine del 10° anno dalla data di entrata in vigore, salvo che l’opportunità di una
modifica non si presenti prima.
Inoltre, specifiche nuove Intese con il G overno sono previste per il caso in cui siano presentati
in Parlamento disegni di legge su materie che coinvolgano i rapporti con le anzidette
confessioni.
Tali norme giustificano politicamente le eventuali future trattative, ma è dubbio che obblighino
lo Stato anche sotto il profilo giuridico, perché l’avvio delle trattative può essere dato soltanto
quando lo stesso Stato riconosca che le ulteriori materie esigano la collaborazione fra Stato e
confessioni religiose.

Capitolo 3: l’ordinamento statuale e il fenomeno religioso. I soggetti “religiosi” ed i poteri


pubblici
1­ Le persone fisiche

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Nel disciplinare il fenomeno sociale religioso l’ordinamento dello Stato considera una
molteplicità di soggetti: le persone fisiche; gli enti (personificati e non) con un fine di religione
o di culto; e le confessioni religiose.
Inoltre, esso rispetto ad alcune materie attribuisce rilevanza giuridica alle norme delle
confessioni religiose, alle quali talora rinvia.
Infine, lo Stato nel proprio apparato ha uffici con competenze specifiche in materia
ecclesiastica ed organizza uffici ecclesiastici per l’assistenza spirituale di talune comunità
separate.

Per quanto riguarda le persone fisiche, la loro posizione religiosa individuale è indifferente,
in quanto la Costituzione assicura la libertà dei singoli in materia di religione (ex art. 19 Cost.
“Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto,
purché non si tratti di riti contrari al buon costume”).
Tuttavia, ciò non impedisce che la legge, nel rispetto del diritto di libertà di religione,
attribuisca rilevanza all’appartenenza ad una confessione religiosa o al fatto di rivestire
nell’ambito di questa particolari qualifiche.
La qualificazione confessionale può essere presa in considerazione dalla legge in modo diretto
(ad es., quando l’appartenenza ad una confessione religiosa comporta uno specifico
trattamento nell’ordinamento civile, quale per le comunità ebraiche l’avere diritto al riposo
festivo del sabato); oppure in modo indiretto (ad es., quando la legge prevede di destinare una
quota del gettito fiscale alla Chiesa cattolica o ad altre confessioni).
Inoltre, nel diritto dello Stato assumono rilevanza le qualifiche confessionali di
“ecclesiastico”, “sacerdote”, “diacono”, “religioso”, “Arcivescovo” “Vescovo” “Abate”,
“ministro di culto”, ecc.
In particolare, la qualifica di “ministro di culto” è propria dell’ordinamento statuale e si
riferisce a chi riveste, nell’ambito di una confessione religiosa, una posizione differenziata
rispetto a quella del semplice fedele.
Ad es., sono ministri di culto il sacerdote cattolico, il pastore o l’anziano delle Chiese
riformate, il rabbino della confessione ebraica, ecc.
La qualifica di “ecclesiastico” ha un significato più ampio per la Chiesa cattolica, in quanto
godono di tale qualifica non soltanto i sacerdoti, ma anche coloro che abbiano ricevuto il
diaconato.
La qualifica di “religiosi” si riferisce agli aderenti alle associazioni religiose di vita consacrata
che abbiano pronunciato i voti.
Le qualifiche esaminate possono qualche volta valere, come quella di sacerdote, per ottenere
talune prestazioni previste dalla legge.

2­ G li enti, le formazioni sociali


Per quanto riguarda gli enti, di regola ai fini del regime giuridico è indifferente che essi
abbiano o meno carattere confessionale.
Al riguardo, l’art. 20 Cost. prevede che “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto
d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative,
né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di
attività”.
Dunque, le leggi possono prendere in considerazione il carattere ecclesiastico di un ente o il
suo fine di religione per dettare apposite norme, ma queste non devono essere più restrittive di
quelle previste dal diritto statuale per tutte le altre associazioni o istituzioni.
Per il diritto statuale, un ente è “ecclesiastico” (ai fini del riconoscimento della personalità
giuridica civile) se è stato costituito o approvato dall’autorità ecclesiastica e se ha in modo

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essenziale un fine di religione o di culto.
Le formazioni sociali con fine di religiose o di culto rientrano nella previsione dell’art. 2 Cost.,
in quanto centri di svolgimento della personalità individuale.

3­ Le confessioni religiose
Per quanto riguarda le confessioni religiose, l’art. 7 I comma Cost. menziona esplicitamente
la Chiesa cattolica (in Italia, la confessione religiosa di maggioranza).
Invece, l’art. 8 Cost. considera al I comma tutte le confessioni religiose; al II e III comma le
confessioni di minoranza.
Tuttavia, nessuna norma detta una definizione di confessione religiosa.
Individuare una definizione univoca di tale nozione non è agevole, in quanto i vari gruppi
sociali qualificati come confessioni religiose sono spesso molto diversi l’uno dall’altro.
L’unica indicazione che la Costituzione ci fornisce è che si tratta di “un gruppo sociale con
fine religioso”.
Tuttavia, il termine “gruppo” è troppo generico, non essendo precisate le sue caratteristiche;
inoltre è oscuro il significato da attribuire ai termini “religioso” e “religione”.
Infatti, negli anni sono proliferate le iniziative più varie che si auto­qualificano come religiose,
sia di origine nazionale che estere (nuovi movimenti religiosi, nuove religioni, sedicenti
religioni, pseudo­religioni).
Dal punto di vista giuridico è necessario conoscere il rapporto tra i dirigenti e gli aderenti a tali
organizzazioni e quali sono le modalità del proselitismo.
Al riguardo, il Parlamento Europeo con una risoluzione del 1984 ha dettato i criteri a cui i
nuovi movimenti religiosi devono attenersi per essere considerati leciti:
­ Non devono accogliere minorenni.
­ Devono assicurare ai proseliti un sufficiente periodo di riflessione.
­ Dopo l’adesione devono essere assicurati i contatti dei proseliti con i parenti e con gli
amici.
­ Non devono mai incoraggiare gli aderenti ad infrangere la legge.
­ L’aderente deve poter liberamente abbandonare l’organizzazione, chiedere consigli
legali al di fuori di essa e chiedere assistenza medica.
Quando tali criteri non sono rispettati, il fenomeno sociale non può essere qualificato come
religioso e le organizzazioni non possono essere considerate confessioni religiose.

4­ Le confessioni religiose come ordinamenti giuridici


Dall’art. 7 I comma Cost. si deduce subito che la Chiesa cattolica dà luogo ad un
ordinamento giuridico originario.
Invece, in relazione alle altre confessioni religiose diverse dalla cattolica, l’art. 8 II Cost.
afferma “Le confessioni diverse dalla cattolica, hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”.
Da qui si deduce (anche se per alcuni autori è dubbio) che anche i gruppi sociali con finalità
religiosa diversa dalla cattolica sono riconosciuti dal diritto dello Stato come ordinamenti
originari, quando danno vita ad un ordinamento giuridico, ossia quando abbiano quel minimo
di organizzazione e normazione occorrenti affinché questo esista.
Qualcuno ha creduto di cogliere un collegamento tra l’art. 8 II comma Cost. e l’art. 18 Cost.,
riguardante la libertà di associazione, in particolare sostenendo che starebbero in un rapporto
di genus (art. 18) a species (art. 8).
Tuttavia, i punti in comune tra l’associazione con fine religioso o di culto (indubbiamente
garantiti dall’art. 18 Cost.) e l’ordinamento giuridico confessionale sono soltanto esterni (la
molteplicità degli aderenti, l’esistenza di una regola comune e di un’organizzazione), mentre
dal punto di vista della struttura interna (o della qualità) si riscontrano delle divergenze.

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Infatti, l’ordinamento giuridico è un fenomeno originato dal c.d. impulso organizzatorio del
gruppo sociale, prescinde dall’esistenza di un ente esponenziale (ossia un’associazione) ed è
dotato di una normazione propria, la quale potrebbe anche essere in contrasto con quella
dell’ordinamento generale.
Invece l’associazione, pur esistendo, potrebbe non essere un ordinamento giuridico, in quanto
gli statuti di società e di associazioni devono essere necessariamente conformi alla normazione
dell’ordinamento generale.

Le tesi secondo cui non è possibile distinguere le associazioni religiose dalle confessioni
religiose non tengono conto del fatto che le associazioni con fini leciti sono regolate dagli
accordi degli associati, riconducibili allo schema giuridico del contratto; mentre una
confessione religiosa resta fuori da tale schema (ad es., non si è ebrei o cristiani in forza di un
contratto soggetto alle leggi dello Stato ma per un impulso che non ha nulla di negoziale).
Dunque, l’associazione ha il suo habitat naturale dentro l’ordinamento statuale, la confessione
religiosa ne prescinde.
Tale situazione trova conferma nella diversa posizione che nel diritto italiano hanno gli statuti
delle confessioni religiose e gli statuti delle associazioni:
­ G li statuti delle associazioni non soltanto devono conformarsi interamente alle
previsioni non derogabili delle leggi ordinarie e dei regolamenti, ma tutte le volte in cui
una legge o un regolamento ne impongano la modifica, la deroga o la sospensione, gli
associati sono tenuti ad adeguare i loro accordi a tali nuove previsioni.
­ G li statuti delle confessioni religiose, essendo garantiti dall’art. 8 II comma Cost., non
possono essere sostituiti, modificati, derogati, sospesi o abrogati dalla legge ordinaria o
da altra fonte normativa inferiore. Inoltre, le disposizioni degli statuti possono essere
considerate “norme interposte” nel giudizio sulla costituzionalità di norme di legge
ordinaria che riguardano la confessione.
Dunque, l’art. 18 Cost. e l’art. 8 II comma Cost. si distinguono nettamente:
­ L’art. 18 Cost. garantisce la creazione di enti esponenziali delle confessioni religiose, la
cui costituzione può essere impedita se essi intendono svolgere riti contrari al buon
costume (in quanto essi devono conformarsi al limite della legge penale e del carattere
non segreto dell’associazione).
­ L’art. 8 II comma Cost. riconosce la giuridicità degli ordinamenti creati in modo
originario dai gruppi sociali diversi dai cattolici, anche quando non abbiano dato vita
ad un ente esponenziale.

Per ottenere la qualifica di confessione religiosa, il primo problema è quello dell’entità


numerica minima del gruppo.
Secondo un autorevole insegnamento, “non ogni congrega di tre amici può pretendere di
essere considerata una confessione religiosa”, nel senso che un requisito sufficiente a dar vita
ad un’associazione non sempre consente di individuare una confessione religiosa.
Al riguardo, la dottrina ha cercato di individuare le caratteristiche o i requisiti che il gruppo
deve presentare per essere qualificato come “confessionale”. Si distinguono 3 diverse tesi,
ciascuna delle quali si concentra un elemento preciso:
­ Il carattere istituzionale, organizzativo e normativo del gruppo.
In particolare, il gruppo dovrebbe presentarsi legato in modo permanente dal vincolo di
una fede comune che dia ad esso un assetto unitario.
Tuttavia, tale la tesi va oltre la legge, in quanto esige che il gruppo abbia
un’organizzazione ed una normazione propria, ossia che si tratti di un ordinamento
giuridico.
Infatti, essa contrasta con l’art. 8 II comma Cost. il quale, affermando che “Le

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confessioni religiose possano organizzarsi secondo i propri statuti”, riconosce a questi
gruppi sociali il diritto di darsi un’organizzazione (ma anche di non darsene).
Inoltre, è stato osservato che la Costituzione prevede l’esistenza di 3 diversi tipi di
confessioni religiose:
 La Chiesa cattolica.
 Le confessioni di minoranza organizzate.
 Le confessioni di minoranza non organizzate.
­ La caratteristica della peculiarità del fine perseguito dal gruppo sociale nel campo
religioso.
Tuttavia, anche le associazioni hanno un fine specifico. Dunque, se si osservasse tale
criterio, andrebbe smarrita la distinzione tra confessioni e associazioni religiose, con
evidente danno per una retta interpretazione della Carta.
­ Il requisito della conformità del fine religioso alla tradizione italiana.
Tuttavia, esso sembra estraneo alla prescrizione normativa, in quanto la Costituzione
mostra di riconoscere l’anzidetta libertà organizzativa a tutte le confessioni di
minoranza, non soltanto a quelle entrate nella tradizione italiana.

Dunque, nessuna di queste tre tesi è riuscita ad individuare una netta differenza tra confessioni
ed associazioni religiose.

La nozione di “confessione religiosa” (o gruppo con fine di religione o comunità) indica una
molteplicità di persone raccolte in un organismo sociale il quale cerca di raggiungere una meta
comune, ossia un fine che trascende gli interessi personali dei singoli individui che ne fanno
parte.
Tale caratteristica è presente anche in una associazione con fine di religione o di culto.
In realtà, la differenza sostanziale consiste nel fatto che:
­ Ogni confessione religiosa ha una propria ed originale concezione del mondo che
investe non soltanto i rapporti tra uomo e Dio ma anche i rapporti tra uomo ed uomo.
Essa detta regole che disciplinano non soltanto la vita sociale di un intero gruppo, ma
anche il comportamento del singolo all’interno di altre comunità (ad es., quella civile).
­ Le associazioni con fine di religione o di culto invece non hanno una propria originale
concezione del mondo.
Dunque, l’essenza strutturale di una confessione religiosa è quella di avere una propria ed
originale concezione del mondo.

Da sottolineare che è necessario porre l’attenzione anche sull’aggettivo “religiose”, in quanto


esso differenziare le confessioni dalle altre comunità che hanno una visione loro propria del
mondo, ma che non possono sicuramente essere considerate religiose (ad es., i partiti politici).
Con il termine “religione” si intende un complesso di dottrine costruite intorno al presupposto
dell’esistenza di un Essere Trascendente al quale l’uomo è tenuto a dare rispetto, obbedienza
ed amore.
Al riguardo, si distingue tra:
­ Comunità che ricercano il divino fuori, nel mondo sensibile, trascendente.
La loro fede si manifesta attraverso riti con cui si adora l’Essere Trascendente e si
chiede ad esso un atteggiamento benevolo.
­ Comunità che ricercano il divino nell’immanenza.
Secondo tali comunità l’uomo deve cercare il divino in sé stesso, o per liberarsi nel
nirvana dal desiderio e dalla volontà della vita (buddismo), o per esaltare la propria
personalità e conoscere il divino attraverso la scienza (gnosi, Scientology), o cercando il
divino in tutto ciò che è nel mondo sensibile.

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Da quanto detto è possibile formulare una nuova definizione di confessioni religiose.
Esse sono comunità sociali stabili; dotate o meno di organizzazione e normazione propria ed
originale; aventi una propria ed originale concezione del mondo; basata sull’esistenza di un
Essere Trascendente in rapporto con gli uomini, o sulla ricerca del divino nell’immanenza”.
Dunque, i circoli ateisti che affermano la non esistenza di Dio (c.d. fine religioso negativo),
pur interessandosi di religione, non possono essere considerati confessioni religiose.
Un altro fenomeno attinente alla vita religiosa, ma che non dà luogo all’esistenza di una
confessione religiosa, è quello dei dissidenti da una confessione già esistente, che staccandosi
da questa creano un organismo separato.
Da sottolineare che i dissidenti possono diventare una confessione religiosa ma soltanto
quando si differenziano dalla confessione esistente anche sul piano ideologico, offrendo una
propria concezione del mondo.

Per attribuire ad un gruppo sociale la qualifica di confessione religiosa, lo Stato non può
considerare il merito delle varie credenze di religione, ma deve limitarsi a compiere valutazioni
formali.
Al riguardo, la Corte Costituzionale con sentenza 195/ 1993 ha enunciato i criteri che
possono essere seguiti per assegnare la qualifica di confessione religiosa:
­ La stipulazione di un’intesa ex art. 8 III comma Cost.
­ Eventuali precedenti riconoscimenti pubblici.
­ Uno statuto che esprima i caratteri dell’organizzazione.
­ La comune considerazione.
Essi devono essere usati separatamente l’uno dall’altro e procedendo dal primo all’ultimo.
Da sottolineare che si tratta di criteri soltanto esemplificativi (ad es., non può essere qualificata
come confessione religiosa un’organizzazione che compie riti contrari al buon costume, atti
vietati da norme penali, oppure che agisce in contrasto con le regole segnalate dal Parlamento
europeo).

5­ Inapplicabilità dell’art.1 della legge 24 giugno 1929 n. 1159


L’art. 8 II comma Cost. afferma che “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno
diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento
giuridico italiano”.
Esso non afferma che tutte le confessioni diverse dalla cattolica sono ordinamenti, né impone
che si costituiscano come tali. Semplicemente prevede che tali confessioni, quando danno vita
ad un ordinamento giuridico, sono un ordinamento per il diritto dello Stato.
Ne consegue che la legge ordinaria non può imporre d’autorità uno Statuto che si sovrapponga
alle norme della confessione religiosa, le abroghi, le deroghi o le sostituisca.
Tuttavia, è necessario che tali confessioni abbiano uno Statuto organizzativo conforme
all’ordinamento italiano.
Da questa previsione di conformità, una parte della dottrina ha tratto 2 conseguenze:
­ La Chiesa cattolica sarebbe un ordinamento primario, mentre gli ordinamenti
delle altre confessioni sarebbero subordinati a quello statuale e da questo
derivanti.
A tale tesi si è ispirata la Corte costituzionale per giustificare la sanzione penale
(esclusiva o più grave) prevista per gli atti di vilipendio alla religione cattolica
rispetto alle sanzioni previste per il vilipendio delle altre religioni, affermando
che la situazione giuridica della Chiesa cattolica e delle altre confessioni è di
uguale libertà, ma non di identità di regolamento dei rapporti con lo Stato.
Tale tesi non è condivisibile, in quanto la differenza tra l’art. 7 I comma Cost. e
l’art. 8 II comma Cost. dipende da ragioni diverse.

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Anzitutto l’art. 7 I comma Cost. riguarda uno specifico e determinato
ordinamento giuridico riconosciuto dall’ordinamento italiano e con una struttura
organizzativa nota.
Invece l’art. 8 II comma si riferisce ad un numero indeterminato di confessioni
religiose considerate per la prima volta come ordinamenti.
Dunque, lo Stato considera “ordinamento giuridico” sia la Chiesa cattolica che
le altre confessioni religiose (non vi sono i presupposti per parlare di
subordinazione).
Inoltre, l’art. 8 II comma riconosce il carattere di ordinamento giudico delle
confessioni di minoranza organizzate secondo il proprio statuto. Dunque
sarebbe una contraddizione pensare che possa esservi un riconoscimento di un
ordinamento giuridico come subordinato.
Infatti, un ordinamento giuridico nasce quando un gruppo sociale di dota di
proprie regole che vengono imposte ai suoi componenti, in ciò sta il carattere
primario di un ordinamento.
Anche l’art. 2 dell’Intesa fra Stato e Tavola Valdese del 1984 la Repubblica ha
dato atto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento valdese, come in
tutti gli altri accordi conclusi con le varie confessioni.
La condizione che gli Statuti dell’organizzazione devono essere conformi
all’ordinamento statuale ex art. 8 II comma Cost., non significa che gli
ordinamenti confessionali sono subordinati allo Stato, ma soltanto che questo
non riconosce come ordinamenti giuridici primari quelle confessioni i cui statuti
organizzativi siano difformi rispetto ai principi accolti dal diritto statuale in tema
di organizzazioni plurisoggettive (ad es., se gli statuti prevedessero la prevalenza
del voto espresso della minoranza su quello della maggioranza).
In caso contrario, la confessione non darebbe vita a un ordinamento secondo il
diritto statuale, ma sarebbe soltanto ad un’associazione soggetta alle norme
dell’art. 18 Cost. (devono rispettare le norme statuali di diritto comune e quelle
applicabili alle confessioni che non abbiano stipulato intese con lo Stato).

­ La Costituzione contiene il divieto di ammissibilità dei culti che professano


princìpi o seguono riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume, al pari
dell’art. 1 I comma L. 1159/ 1929 sui culti ammessi.
Tuttavia, tale conseguenza non è accettabile per diverse ragioni.
In primo luogo, tale la citata legge ha perduto il suo carattere di generalità e non
è utilizzabile per intendere l’art. 8 II comma Cost., in quanto le leggi che hanno
dato esecuzione alle Intese stipulate tra lo Stato e le confessioni di minoranza
hanno dichiarato inapplicabili a tali confessioni le disposizioni sui culti ammessi
dettate dalle L. 1159/ 1929 e dal r.d. 289/ 1930.
Inoltre, la norma costituzionale è dettata al fine di garantire la conformità degli
Statuti organizzativi all’ordinamento statuale. Questa tesi invece ritiene di
applicare l’art. 8 II comma Cost. al fine della conformità di tutte le altre regole
statutarie di carattere etico­ideologico, riguardanti i principi religiosi professati
dalle confessioni diverse dalla cattolica, distorcendone il significato della norma
costituzionale.
Del resto lo Stato in materia religiosa è incompetente ex art. 19 Cost., il quale
limita il controllo dello Stato all’eventuale contrarietà dei riti al buon costume.
In realtà questo parallelismo tra Costituzione e la citata legge è assente, piuttosto
sono segno di una evoluzione di pensiero.
L’art. 1 I comma L. 1159/ 1929 (“I culti di minoranza sono ammessi purché non
confessino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico”) affermava un

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regime di tolleranza che consentiva allo Stato di controllare la conformità dei
principi delle confessioni religiose all’ordine pubblico o al buon costume.
La Costituzione invece ha tramutato tale regime in “libertà religiosa uguale per
tutti”, con la conseguenza che lo Stato non può sindacare i principi accolti dalle
confessioni (eccetto che nei limiti indicati). Essa ha inoltre escluso la menzione
dell’“ordine pubblico” quale complesso di motivi idonei a ridurre l’esercizio dei
diritti costituzionalmente garantiti ai singoli ed ai gruppi sociali.
La tesi da noi contrastata per cui continui ad essere applicabile l’art. 1 della L.
1159/ 1929, è portata aventi da chi ritiene necessario evitare che nel Paese
possano agire confessioni stravaganti, che incoraggino ad attività pratiche in
contrasto con i doveri imposti dall’ordinamento civile o che sostengano forme di
comportamento contrari all’etica comune.
Tuttavia, tali timori sono infondati sia in quanto il nostro ordinamento non
impedisce la diffusione di principi eterodossi diversi rispetto a quelli accolti dalla
comunità, sia in quanto l’ordinamento vigente sanziona con norme adeguate
l’inadempimento dei doveri pubblici.

[La Corte di Cassazione, facendo riferimento all’art. 406 (Delitti contro i culti ammessi nello
Stato) cod. pen., ha ritenuto che la formula “culti ammessi” era collegabile all’art. 8 II comma
Cost., con la conseguenza che era necessario controllare lo Statuto della confessione
interessata per accertare che l’esercizio della religione non violasse norme penali dettate in
materia di ordine pubblico e di tutela dei diritti della persona.
Essa voleva evitare che le norme penali riguardanti la tutela delle confessioni religiose fossero
applicate a favore di entità che non fossero tali.
Tuttavia, tali preoccupazioni erano infondate posto che il nostro ordinamento non esclude
l’esistenza di confessioni non organizzate. In realtà per una corretta qualificazione giuridica di
un’entità sociale come confessione religiosa occorre considerare i fatti, ossia l’effettivo
esercizio dell’attività da essa svolta (al quale la Corte di Cassazione fa comunque riferimento
quando considera la tutela dei diritti della persona nell’ambito dell’organizzazione).]

6­ Personalità delle confessioni religiose nel diritto italiano


Un altro problema rilevante è quello della personalità delle confessioni religiose nel diritto
italiano.
Secondo principi generalmente riconosciuti, la Chiesa cattolica è un’istituzione di diritto
pubblico con caratteri speciali, in quanto è titolare di poteri pubblicistici (ad es., potere di
certificazione in materia di attribuzione delle qualifiche di sacerdote, ecclesiastico, ecc.; potere
di applicare sanzioni disciplinari a carico di ecclesiastici e religiosi).
Dunque, la Chiesa ha personalità di diritto pubblico, ma sfugge al regime degli enti che fanno
parte dell’organizzazione statuale. La sua posizione può essere (seppur con qualche sforzo)
accostata alla soggettività pubblicistica degli Stati stranieri.
Invece, la Chiesa non ha personalità di diritto privato. Tale qualità non le è mai stata
riconosciuta. Inoltre, titolari dei beni ecclesiastici vengono riconosciuti i singoli enti della
Chiesa (non quest’ultima considerata in modo unitario).
La circostanza che la Chiesa cattolica sia per il diritto italiano un ordinamento giuridico
primario non implica che essa abbia una personalità di diritto privato.
Infatti, la creazione di un ordinamento giuridico non comporta la creazione di una persona
giuridica.
Neanche le altre confessioni religiose, di regola, hanno personalità di diritto privato
nell’ordinamento statale. Infatti, il fatto che venga riconosciuto l’ordinamento giuridico
istituito da una comunità non significa riconoscere anche la personalità giuridica.
Anche quando la legge ha riconosciuto la personalità giuridica ad alcune comunità, come è

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avvenuto per le Comunità israelitiche, il riconoscimento ha riguardato singoli enti esponenziali
di essa e non la confessione ebraica nel suo complesso.
Da sottolineare che l’autorità governativa può riconoscere la personalità giuridica di diritto
privato di specifici enti esponenziali delle confessioni diverse dalla cattolica, anche in assenza
di intese. Tuttavia, questo non cambia la situazione descritta in precedenza, in quanto la
personalità giuridica della confessione religiosa nel suo complesso non subisce mutamenti e
questa potrà essere considerata ordinamento ai sensi dell’art. 8 II comma Cost. e potrà essere
parte di una intesa con lo Stato per disciplinare ulteriormente con legge i loro rapporti.
Ad es., in seguito all’Intesa del 1993 la Chiesa luterana ha ottenuto il riconoscimento per legge
della personalità giuridica di varie Comunità evangeliche ad essa collegate.

7­ La rilevanza degli ordinamenti confessionali nel rito dello Stato


Nel momento in cui lo Stato riconosce agli effetti civili l’appartenenza confessionale di una
persona fisica o di un ente, o la qualifica da loro rivestita, la legge attua un collegamento fra
l’ordinamento statale e l’ordinamento confessionale, e quest’ultimo assume efficacia nella
sfera civilistica.
Esistono vari criteri di collegamento tra ordinamenti giuridici:
­ Rinvio recettizio o materiale.
Esso ha luogo quando un dato ordinamento che si ritiene competente a disciplinare una
materia, attua la disciplina riproducendo nel proprio ambito le norme dettate da un
altro ordinamento.
Dunque, le norme richiamate sono inquadrate nell’ordinamento richiamante che le fa
proprie.
Questa tecnica non può essere utilizzata nell’ordinamento italiano in cui lo Stato è
incompetente in materia religiosa ed in cui l’art. 7 I comma Cost. e l’art. 8 II comma
Cost. riconoscono piena autonomia alla Chiesa e alle altre confessioni religiose.
­ Presupposto in senso tecnico.
Esso ha luogo quando il diritto dello Stato attribuisce efficacia ad una qualifica
confessionale: le varie posizioni di Vescovo, fedele o Sommo Pontefice sono
riconosciute dall’ordinamento italiano così come disciplinate dagli ordinamenti
confessionali.
­ Rinvio formale.
Esso ha luogo quando il diritto dello Stato rinvia all’ordinamento confessionale la
disciplina delle materie che sono regolate dal diritto statale, in quanto di competenza
dello Stato, ma che sono anche di competenza dell’ordinamento confessionale

La caratteristica delle norme di adattamento dell’ordinamento statuale agli ordinamenti


religiosi è data dal fatto che lo Stato è competente a disciplinare alcune materie (ad es., il
controllo sugli enti o il matrimonio) in cui sono presenti delle caratteristiche di competenza
religiosa, aliene allo Stato. Dunque, l’ordinamento attribuisce rilevanza al diritto delle
confessioni religiose.
Da sottolineare che in relazione ad una serie di atti lo Stato riconosce autonomia alle
confessioni religiose (ad es., gli atti del magistero della Chiesa). Tali atti sono privi di rilevanza
giuridica all’interno dell’ordinamento statuale, nel quale di regola non producono effetti.
Inoltre, è anche possibile che la volontà privata attribuisca a determinati fatti d’ordine
religioso o spirituale alcuni effetti giuridici, prevedendo il verificarsi di questi come condizione
per l’efficacia o la risoluzione di un negozio.
In questo caso, la norma o l’atto previsto non assumono rilevanza come norme o atti di un
ordinamento esterno, ma come meri fatti giuridici.

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8­ La giurisdizione confessionale e il diritto dello Stato
In forza del collegamento, può accadere che gli atti autoritativi compiuti nell’ambito degli
ordinamenti confessionali hanno rilevanza nel diritto statuale.
Si tratta di atti normativi, amministrativi o giurisdizionali diretti a dirimere controversie
insorte all’interno degli ordinamenti confessionali o ad irrogare sanzioni.
Tali attività costituiscono la giurisdizione ecclesiastica.
Nel diritto canonico, l’espressione “potestà di giurisdizione” (o potestà di regime) indica il
potere di governare i fedeli nella vita sociale della Chiesa. Dunque, essa indica tutti i poteri
(legislativo, amministrativo e giudiziario).
Invece, nel diritto dello Stato, si parla di rilevanza della giurisdizione ecclesiastica per
indicare gli effetti prodotti nell’ordinamento statuale dai provvedimenti assunti dall’autorità
ecclesiastica nella soluzione di controversie (nell’esercizio del potere giudiziario) o
nell’irrogazione delle sanzioni (con le modalità proprie degli atti giudiziari).
Assumono rilevanza civile 3 diversi tipi di provvedimenti canonici:
­ D i carattere giudiziario.
Attraverso gli accordi del 1984 fra l’Italia e la Santa Sede ed il Trattato Lateranense del
1929, lo Stato ha riconosciuto gli effetti giuridici alle sentenze emesse dai tribunali
ecclesiastici che riguardano la nullità dei matrimoni canonici trascritti nei registri dello
Stato civile.
Inoltre, esso ha riconosciuto la giurisdizione degli organi nominati dall’autorità
ecclesiastica per risolvere le controversie tra i sacerdoti e gli istituti per il sostentamento
del clero in materia di assegni; e la rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari
adottati dall’autorità ecclesiastica nei confronti di ecclesiastici e religiosi.
­ D i carattere amministrativo.
Attraverso gli stessi Accordi del 1984 ed il Trattato del 1929, lo Stato ha riconosciuto gli
effetti civili di vari provvedimenti per l’erezione degli enti ecclesiastici; per la creazione
degli Istituti per il sostentamento del clero: per l’estinzione dei vecchi enti beneficiari;
per la nomina agli uffici ecclesiastici: ecc.
Inoltre, il potere di governo della Chiesa ha effetti civili per lo svolgimento o
l’instaurazione e la permanenza di taluni rapporti di pubblico impiego.
Ad es., l’autorità ecclesiastica rilascia una idoneità a coloro che sono chiamati ad
insegnare la religione cattolica nelle scuole pubbliche.
­ D i carattere certificativo.
All’autorità ecclesiastica è riconosciuto potere di certificazione in quanto ai suoi atti
non soltanto producono effetti nel diritto dello Stato, ma certificano la situazione
giuridica esistente nell’ordinamento della Chiesa.
Ad es., tale certificazione ha luogo quando il parroco attesta la celebrazione di un
matrimonio ai fini della sua trascrizione civile; oppure quando la Segnatura apostolica
attesta che la sentenza di nullità, pronunciata dai Tribunali ecclesiastici su tale
matrimonio, è divenuta definitiva.
Da sottolineare che la certificazione può rilevare sia in positivo (ad es., quando si
certifica la qualità di ministro di culto nei confronti di un soggetto appartenente alla
confessione religiosa), sia in negativo (ad es., quando si certifica che un ex ministro di
culto ha perso tale qualifica. In tal caso tale persona non sarà più considerata investita
di tale qualifica anche ai fini del diritto dello Stato).

La maggior parte delle norme statuali di riconoscimento dei poteri riguardano la Chiesa
cattolica, ma numerose norme riconoscono poteri anche alle autorità delle confessioni
religiose di minoranza.
Varie norme riconoscono a tali autorità il potere di certificazione (ad es., circa la qualifica di

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ministro di culto competente; oppure circa la celebrazione in sede confessionale di matrimoni
civilmente validi).

In ogni caso, le potestà di governo delle confessioni religiose e l’esercizio della giurisdizione
confessionale incontrano un limite nei diritti inviolabili garantiti ai singoli dalla Costituzione.
Inoltre, anche quando i poteri attribuiti da un ordinamento confessionale ai propri esponenti è
riconosciuto efficace nel diritto dello Stato, tale riconoscimento non è mai totalmente esente da
limiti o da controlli.
Ad es., le sentenze di nullità dei matrimoni canonici trascritti nei registri dello stato civile,
devono essere dichiarate esecutive dalla competente autorità giudiziaria italiana; oppure i
provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di ecclesiastici e religiosi, per produrre effetti
civili, devono essere intesi in armonia con i diritti garantiti dalla Costituzione.

9­ Poteri e uffici dello Stato aventi competenze in materia ecclesiastica


Numerosi organi costituzionali e uffici dello Stato hanno specifiche competenze nella
disciplina del fenomeno religioso:
­ Il Presidente della Repubblica nomina plenipotenziari per la conclusione di concordati
e di ratificare, previa autorizzazione del Parlamento, i concordati conclusi.
Inoltre, egli accredita gli ambasciatori italiani presso la Santa Sede e riceve le
credenziali del nunzio apostolico accreditato presso la Repubblica italiana.
­ Il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresenta di regola lo Stato negli accordi con
le confessioni religiose.
­ Il Consiglio dei Ministri delibera sugli atti concernenti i rapporti dello Stato con la
Chiesa cattolica e con le confessioni di minoranza e determina l’indirizzo politico in
materia ecclesiastica.
­ Il Ministro dell’Interno ha competenza generale in materia ecclesiastica (in passato
invece accreditata al Ministro di G razia e G iustizia  appunto denominato “Ministero
della G iustizia e degli Affari di Culto”).
Le Prefetture, ossia uffici territoriali del G overno, sono i suoi organi periferici.
Esse hanno una competenza propria anche in materia ecclesiastica, ad es., in relazione
al valore del bene e al modo di formazione del contratto per gli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione degli enti delle confessioni di minoranza; oppure con proprio decreto
determina il numero dei componenti le fabbricerie di Chiese che non siano cattedrali o
non siano dichiarate monumento nazionale.
Tra il 1933 ed il 1934, sono state istituite presso il Ministero dell’Interno due direzioni
generali: la Direzione generale degli Affari di culto e la Direzione generale del fondo
per il culto e del fondo di religione e di beneficenza per la città di Roma, poi fuse in un
unico edificio centrale che ha assunto la denominazione di D irezione generale degli
affari dei culti.
La Direzione generale degli affari dei culti ha le seguenti competenze:
­ Tutta la materia riguardante gli enti della Chiesa cattolica e delle confessioni di
minoranza.
­ La vigilanza e la tutela sugli enti delle confessioni di minoranza.
­ L’approvazione della nomina dei ministri di culto delle confessioni che non abbiano
stipulato intese con lo Stato.
Sino al 1986 essa ha amministrato 3 fondi:
­ I Fondi di religione delle nuove province.
­ Il Fondo per il culto, il quale svolgeva principalmente la funzione di corrispondere “i
supplementi di congrua” agli appartenenti al clero cattolico che ne aveva diritto.
L’Accordo del 1984, seguita da una legge del 1985, hanno previsto la soppressione del

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Fondo per il culto.
­ Il Fondo di religione e di beneficenza nella Città di Roma ed i Patrimoni riuniti ex
economiali.
L’Accordo del 1984, seguita da una legge del 1985, hanno previsto anche la
soppressione di tale fondo.
Il Patrimonio dei fondi è stato riunito in Patrimonio unico denominato Fondo edifici
di culto (FEC) ed ha la finalità di curare la conservazione, il restauro, la tutela e la
valorizzazione degli edifici di culto appartenenti al Fondo.
Fanno parte del patrimonio di tale Fondo gli edifici di culto cattolici acquisiti dallo
Stato, con tutti gli accessori e tutte le pertinenze.
Il Fondo edifici di culto è una persona giuridica pubblica, amministrata dal Ministero,
in sede centrale attraverso la Direzione generale degli affari di culto; ed in sede
provinciale attraverso i Prefetti.
Esso è amministrato secondo le norme che disciplinano le gestioni patrimoniali dello
Stato.
Il suo bilancio ed il suo conto consuntivo sono allegati al bilancio e al conto del
Ministero dell’Interno.
La peculiarità del Fondo edifici di culto sta nel fatto che è la prima volta che lo Stato
crea una persona giuridica pubblica non per un proprio autonomo atto di volontà,
liberamente deliberato dal Parlamento, ma in forza di un accordo con la Santa Sede.
Il Fondo edifici di culto può procedere alla liberazione del patrimonio da vari pesi. A
tal fine esso può:
 Affrancare i canoni enfiteutici gravanti sulle masse patrimoniali ad esso
pervenute, pagando una somma pari a 15 volte il valore dei canoni stessi.
 Affrancare tutte le altre prestazioni gravanti su tali masse patrimoniali, pagando
una somma pari a 10 volte la misura della prestazione stessa.
In entrambi i casi il consenso all’affrancazione da parte degli aventi diritto è presunto se
non comunicano il loro rifiuto entro 30 giorni dalla notificazione del provvedimento del
Fondo.
In caso di rifiuto l’affrancazione ha luogo in sede contenziosa.
Inoltre, sono stati estinti i rapporti perpetui (reali o personali). Dunque, per
l’amministrazione è più agevole il recupero dei crediti del Fondo.
Ancora, i contratti di locazione di immobili in alcune città (Roma, Trento e Trieste) a
vantaggio del clero officiante ed il cui onere gravava sul Fondo di Beneficienza e sui
Patrimoni riuniti sono risolti, salvo che gli attuali beneficiari esercitino la facoltà loro
attribuita di succedere in tali contratti assumendone gli oneri.
In caso di successione, il Fondo liquida ai beneficiari una somma pari a 5 cinque volte il
canone annuo corrisposto, aumentato del 10% a titolo di contributo per le spese di
volturazione e registrazione dei contratti.
Infine, quanto agli immobili adibiti ad uso di abitazione, che perverranno in proprietà
al Fondo edifici di culto, la legge prevede l’eventuale alienazione secondo le norme
sulla gestione dei beni disponibili dallo Stato, con investimento del ricavato.

10­Uffici ecclesiastici organizzati dallo stato e da altri enti pubblici per


l’assistenza spirituale delle comunità separate
Nel diritto dello Stato esistono uffici ecclesiastici per l’assistenza spirituale delle c.d.
comunità separate, organizzati dallo Stato per l’assistenza delle Forze armate; oppure da altri
enti pubblici, per altre comunità quali ospedali o carceri.
In generale, il servizio di assistenza è organizzato dallo Stato o dall’ente che amministra le
comunità quando si tratta di far fronte alle esigenze di un numero indeterminato di persone;

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negli altri casi il servizio è garantito dalla legge soltanto a coloro che ne facciano richiesta.
L’assistenza spirituale delle comunità separate tende a realizzare nel concreto il diritto di
libertà religiosa, in quanto consente ai singoli che trascorrono gran parte del loro tempo in
pubblici stabilimenti, la possibilità di usufruire del conforto spirituale della confessione da essi
professata e di seguire le pratiche di culto.
G li ecclesiastici incaricati dell’organizzazione dell’assistenza spirituale dei cattolici sono
nominati dalle competenti autorità italiane su designazione dell’autorità ecclesiastica, secondo
modalità stabilite d’intesa tra le due parti.
Il servizio di assistenza spirituale delle Forze armate è stato disciplinato da 3 diverse leggi,
successive al primo conflitto mondiale:
­ La prima ha istituito i cappellani militari di terra e di mare, ai quali era preposto un
vescovo di campo.
­ Le seconda ha istituito un ruolo stabile di cappellani per la marina militare.
­ La terza ha organizzato il ruolo stabile dei cappellani militari, dipendenti dall’ordinario
militare.
Attualmente la materia è disciplinata dalla legge 512/ 1961 (modificata nel 1997).
Il servizio di assistenza spirituale delle Forze armate è diretto dall’ordinario militare, ossia un
vescovo rivestito di dignità arcivescovile, coadiuvato da una curia costituita da un vicario
generale militare e da tre ispettori.
Questi ecclesiastici sono nominati con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Presidente
del Consiglio, di concerto con i Ministri dell’Interno e della Difesa, previa designazione
dell’autorità ecclesiastica.
Invece, i cappellani militari sono nominati con decreto del Capo dello Stato, su proposta del
Ministero della Difesa, previa designazione dell’ordinario militare.
Essi sono impiegati dello Stato.
Per essere nominati cappellani militari, i sacerdoti devono avere il godimento dei diritti civili e
politici e, trattandosi di un servizio militare, devono essere idonei all’incondizionato servizio
(ossia devono essere forniti dei requisiti fisici per poter bene esercitare tutte le funzioni inerenti
all’assistenza spirituale in qualsiasi sede, sia in pace sia in guerra). Inoltre, essi per assumere
servizio devono prestare giuramento secondo la formula prevista per gli ufficiali delle Forze
armate (lo stesso giuramento dovranno prestare il Vicario generale militare ed Ordinario
militare).
L’ordinamento gerarchico del ruolo dei cappellani è equiparato ai gradi degli ufficiali delle
Forze armate (il rango di Ordinario militare è assimilato al grado del tenente generale; quello
del Vicario generale al grado del maggiore generale; quello dei tre Ispettori al grado di
brigadiere generale; mentre i cappellani iniziano la loro carriera come “cappellano militari
addetto”  tenente; continuano come “cappellano militare capo”  capitano; giungono al
grado di “primo militare cappellano capo”  maggiore; arrivano anche al grado di “secondo
cappellano militare capo”  tenente colonnello; ed infine al grado di “terzo cappellano
militare capo”  colonnello).
L’Ordinario militare esercita la sua giurisdizione vescovile, oltre che sui cappellani militari,
anche sul personale religioso maschile e femminile addetto agli ospedali militari e sul
personale delle Forze armate.
I singoli cappellani hanno competenza parrocchiale nei riguardi del personale e del territorio
attribuito alla loro giurisdizione ecclesiastica.
Essi si distinguono in:
­ Cappellani in servizio permanente.
­ Cappellani in congedo, ossia di completamento o facenti parte della riserva.
­ Cappellani in congedo assoluto, ossia senza obbligo di servizio.
Quanto alla responsabilità, i cappellani militari sono assoggettati in sede penale alla
giurisdizione penale militare; in sede disciplinare al regolamento di disciplina militare ma

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soltanto in caso di mobilitazione totale o parziale o in caso di imbarco di servizio presso unità
delle Forze armate dislocate fuori del territorio dello Stato.
I cappellani in servizio presso gli istituti di prevenzione e pena non sono impiegati di ruolo
dello Stato, ma fanno parte del personale aggregato (ad es., l’assistenza spirituale per il
personale cattolico della Polizia di Stato).
I cappellani che operano presso enti pubblici diversi dallo Stato possono provvedere a tale
servizio nel modo che ritengono più opportuno, ma occorre in ogni caso una intesa con
l’ordinario locale.
Per quanto riguarda gli appartenenti alle confessioni di minoranza, l’assistenza spirituale
presso le caserme, le carceri e i luoghi di cura è organizzata, di volta in volta, secondo le
richieste avanzate dagli interessati aggregati a tali comunità. Tuttavia, tale servizio non può
essere considerato come cappellania, in quanto ha per lo più forma individuale.
Nello Stato confessionista e durante il regime monarchico, il sovrano aveva al proprio servizio
un cappellano maggiore (o elemosiniere), nominato in base a concessioni della Santa Sede,
Concordati o consuetudini.
Il Capo dello Stato si avvaleva di lui non soltanto per le funzioni spirituali, ma anche per
esercitare i suoi diritti di patronato o altre funzioni.
Poi, specialmente nel regno delle Due Sicilie, si costituivano Chiese annesse a palazzi reali,
rispetto alle quali il re aveva il diritto di nominare direttamente il clero ad esse preposto (c.d.
diritto di collazione straordinaria).
L’amministrazione di tali chiese era soggetta al particolare regime delle cappelle palatine.
Tali diritti regi vennero a cessare nel corso del processo dell’Unità nazionale.
A seguito della legge del 1939, anche le cappelle furono considerate come palatine. Inoltre, si
decise che la nomina del cappellano (o ordinario palatino) era riservata al re, previa intesa con
la Santa Sede.
Il cappellano aveva dignità vescovile e proponeva al re la nomina del clero palatino.
La materia è stato infine riordinata dal Protocollo del 1984, in cui si dichiara la libertà della
Chiesa nella nomina del clero addetto a Chiese e Cappelle palatine.

Capitolo 4: La Costituzione italiana ed il fenomeno religioso

1­ Le garanzie di libertà e i rapporti fra ordinamenti


La Costituzione del 1947 ha seguito un duplice criterio nel dettare i principi fondamentali in
materia di fenomeno religioso:
­ Ha garantito la libertà religiosa individuale e dei gruppi informali (art. 2 II comma ed
art. 19 Cost.).
­ Ha garantito la libertà delle confessioni religiose in misura uguale per tutte,
riconoscendo carattere originario e indipendente all’ordinamento della Chiesa cattolica
(art. 7 I comma Cost.) e delle altre confessioni religiose (art. 8 II comma Cost.).
Le norme costituzionali riguardanti la libertà religiosa possono essere coordinate in sistema
con le altre norme costituzionali che garantiscono diritti di libertà, in quanto strumentali per
l’esercizio della libertà religiosa stessa (ad es., con diritto di riunione o di associazione, i quali
sono strumentali all’esercizio del diritto di libertà religiosa in forma associata).
Da sottolineare che la Costituzione ha garantito la libertà ed il trattamento paritario anche nei
confronti degli altri enti civili ed ecclesiastici con fini di religione e di culto (art. 20 Cost.) e
dettato norme riguardanti le fonti del diritto idonee a disciplinare i rapporti fra lo Stato e le
confessioni religiose (art. 7 II comma ed 8 III comma Cost.).
Anche le norme costituzionali riguardanti i rapporti istituzionali fra lo Stato e le confessioni
religiose (art. 7 II comma ed art. 8 III comma Cost.) possono essere coordinate con quelle
sulla libertà religiosa (ad es., con le norme relative al trattamento delle minoranze o con quelle

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relative ai rapporti con l’ordinamento internazionale o con gli altri Stati).
È possibile affermare che la Costituzione garantisce un pluralismo, in quanto non si occupa
soltanto della libertà di scelta degli individui, ma anche del diritto all’esistenza,
all’organizzazione ed alla funzionalità delle varie istituzioni.
Infatti, non può esserci libertà individuale di scelta ideologica, religiosa o politica senza che
l’ordinamento garantisca la libertà delle istituzioni di esistere e di operare.
G li artt. 7 e 8 Cost. sono le norme fondamentali sui rapporti fra lo Stato e tutte le confessioni
religiose.
L’art. 7 Cost. afferma che “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modifiche dei Patti, accettate dalle due
parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”.
L’art. 8 Cost. stabilisce che “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze”.
È necessario ricordare come sono venute a formarli tali disposizioni.
Nell’ambito dei lavori preparatori sull’art. 7 Cost. I comma si cercò di mettere da parte
l’onnipotenza dello Stato.
Al riguardo, D ossetti propose una formula secondo cui lo Stato si riconosceva membro della
comunità internazionale e riconosceva come originari l’ordinamento giuridico internazionale,
gli ordinamenti giuridici degli altri Stati e l’ordinamento della Chiesa.
Tuttavia, non si raggiunse un accordo su tale formula ed in sostituzione di essa furono
presentate altre formule:
­ Togliatti propose 2 formule:
 “Lo Stato è indipendente e sovrano nei confronti di ogni organizzazione
religiosa ed ecclesiastica”.
 “I rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari”.
­ Tupini ripropose una formula analoga a quelle del Dossetti, ma con un’aggiunta
riguardante i Patti Lateranensi: “I Patti lateranensi sono riconosciuti come base dei
rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato”.
Dunque, l’attuale art. 7 I comma Cost. è una sintesi fra la proposta di Togliatti e quella di
Tupini.
Da sottolineare che i laici non accettavano che una tale disposizione fosse contenuta nella
Carta Costituzionale e ritenevano più opportuno che il suo contenuto fosse oggetto di Trattato
internazionale, in cui le due potestà riconoscono la reciproca indipendenza e sovranità.
Tuttavia, tali obiezioni rimasero o inascoltate.
I lavori preparatori dell’art. 7 II comma Cost., riguardante i Patti Lateranensi, sono stati più
laboriosi rispetto a quelli svoltisi per il comma precedente.
Il dibattito ha riguardato principalmente 2 tematiche:
­ Il valore da attribuire ai Patti rispetto alla Costituzione, essendo incerto se questi
dovessero essere considerati uguale o non alla seconda.
­ L’interpretazione della seconda parte del II comma, in quanto facendo riferimento alla
possibilità di una modifica, senza procedimento di revisione costituzione, sembrava
non voler vincolare in eterno i rapporti tra i due ordinamenti ai Patti del 1929.
Al riguardo, sembrerebbe che il richiamo ai Patti non attribuiva alle norme derivanti da tali
Protocolli un valore uguale a quello delle norme costituzionali.
In particolare, il relatore di maggioranza negò che la formula in esame valesse a

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costituzionalizzare i Patti del 1929, affermando invece che essa produceva non una norma
materiale ma una norma strumentale, la quale serviva ad indicare l’iter da seguire per la
modifica di tali Patti.
In realtà soltanto coloro che erano contrari all’approvazione della formula sostenevano la tesi
secondo cui essa avrebbe costituzionalizzato gli Accordi del 1929, in contrasto con le
disposizioni cui stava lavorando l’Assemblea costituente.
Dunque, era intenzione comune dell’Assemblea di non costituzionalizzare i Patti.
Infatti, nessuna delle parole della formula enuncia la regola secondo cui le norme dei Patti
lateranensi avrebbero un’efficacia pari a quella delle norme costituzionali.
La formulazione del testo definitivo è stata piuttosto dibattuta.
I rappresentanti dei partiti politici di sinistra avevano più volte dichiarato di non voler
rimettere in discussione i Patti, ma nello stesso tempo volevano evitare di attribuire loro rango
costituzionale al fine di poterli modificare con legge ordinaria quando necessario.
Tuttavia, vi era il timore che una semplice maggioranza parlamentare avrebbe potuto imporre
la fine del regime concordatario e della pace religiosa che questo aveva consentito.
Per rimediare a tale situazione fu proposto un emendamento aggiuntivo alla formula
originaria, il quale con riferimento ai Patti, affermava che “Qualunque modifica di essi,
bilateralmente accettata, non avrebbe richiesto un procedimento di revisione costituzionale,
ma sarà sottoposta a normale procedura di ratifica”.
Questa è stata la formula definitiva che è stata inserita, con qualche ritocco, nel testo in esame.
Per quanto riguarda i lavori preparatori all’art. 8 Cost., essi ebbero minore rilievo rispetto
all’art. 7 Cost..
L’attuale art. 8 I comma Cost. è stato approvato scegliendo tra 2 diversi testi, i quali
esprimevano 2 differenti concezioni dei rapporti tra Stato e confessioni religiose:
­ L’emendamento presentato da Laconi mirava ad introdurre una norma che parificasse
tutte le confessioni religiose, in quanto prevedeva che “Tutte le confessioni religiose
fossero eguali davanti alla legge”.
Tale emendamento fu respinto.
Il Cappi criticava tale emendamento poiché avrebbe potuto implicare una specie di
giudizio nel merito sul contenuto delle singole confessioni religiose, in particolare un
giudizio di parità che non era possibile ammettere.
­ L’emendamento aggiuntivo Cappi­G ronchi, il quale affermava che “Tutte le
confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”.
Tale emendamento fu approvato.
Il Laconi riteneva tale emendamento privo di alcun senso, posto che l’art. 19 Cost.,
garantisce proprio la libertà delle confessioni religiose.
Per quanto riguarda i lavori preparatori dell’art. 8 II comma Cost., si ricorda l’emendamento
proposto da Pajetta per sopprimere la riserva “in quanto non contrastino con l’ordinamento
giuridico italiano”, a proposito degli statuti organizzativi.
Infatti, dal momento che le varie parti politiche era concordi su molti aspetti significativi della
nuova disciplina costituzionale, la riserva creava per le confessioni non cattoliche una sorta di
discriminazione ingiusta.
L’art. 19 Cost. afferma che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede
religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in
privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
La sua formulazione non ha dato luogo a problemi, ma inizialmente prevedeva che l’esercizio
della libertà religiosa fosse escluso quando la confessione seguisse principi o riti contrari
all’ordine pubblico e al buon costume.
Invece, essa fu approvata dopo che l’Assemblea soppresse le parole “principi” ed “ordine
pubblico”.

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L’art. 20 Cost. prevede che “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una
associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di
speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
D ossetti osservò che tale disposizione (da lui presentata insieme a Cevolotto) serviva ad
impedire un trattamento d’eccezione per gli enti ecclesiastici o con fine di religione o di culto.
In questo modo invece lo Stato avrebbe potuto limitare la posizione di tali enti soltanto
quando avessero riguardato tutte le persone giuridiche.

2­ Tesi dottrinali sull’art.7 I comma della Costituzione


Da sottolineare che intorno all’art. 7 I comma Cost. (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono,
ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) nacquero critiche e giustificazioni.
Alcuni individuavano in tale disposizione un omaggio politico alla Chiesa; altri hanno
sottolineare il valore di tale disposizione dal punto di vista del diritto positivo.
Sicuramente, tale disposizione riconosce a livello costituzionale l’originarietà dell’ordinamento
canonico ed il suo carattere di ordinamento primario, nel senso che esso nasce per forza
propria e senza il tramite di alcun intervento esterno.
Dunque, sono illegittimi gli atti statuali che trattano la Chiesa alla stregua di un ordinamento
subordinato allo Stato (e che ad es., le impongono un determinato regime giuridico).
Tuttavia, lo Stato può intervenire autoritativamente in quei settori della vita ecclesiastica che
toccano la sfera di sua competenza.
Inoltre, tale disposizione tutela anche lo Stato contro la Chiesa, escludendo che possa essere
introdotto un sistema di rapporti con la Chiesa nel quale lo Stato sia subordinato a
quest’ultima.
Dunque, l’art. 7 I comma esclude i sistemi del cesaropapismo, in cui lo Stato diviene il capo
della religione; del giurisdizionalismo, in cui lo Stato esercita sommi poteri per tutelare la
Chiesa e tutelarsi da essa; della Chiesa di Stato; della teocrazia (non altri).

3­ L’ordine dello stato e della chiesa, il problema delle competenze


La formula dell’art. 7 non si limita a riconoscere che lo Stato e la Chiesa sono entrambi
indipendenti e sovrani, ma aggiunge che tale indipendenza e sovranità è realizzata da ognuna
delle due entità nel proprio ordine.
Sarebbe stata una precisazione utile se la Costituzione avesse detto qual è in concreto l’ordine
della Chiesa e l’ordine dello Stato.
In mancanza di tale determinazione, la dottrina ha pensato che l’ordine proprio della Chiesa
coincida, grosso modo, con i rapporti spirituali e religiosi.
Resta da stabilire quale sia la materia spirituale e quale quella temporale.
Questo problema non è stato risolto né dal Concordato né dall’art. 7 Cost. e costituisce il
problema della c.d. competenza delle competenze, ossia la determinazione del soggetto cui
spetti di risolvere un eventuale conflitto di competenze insorto fra lo Stato e la Chiesa.
Non potendo nessuna entità essere sottomessa all’altra, l’unica soluzione è quella di eliminare
la controversia attraverso una intesa comune alle parti (come anche indicato nel Concordato
del 1929 e nell’Accordo del 1984).
Tuttavia, quando le trattative sono inconcludenti, la competenza delle competenze spetta allo
Stato, il quale può decidere in modo unilaterale se la materia rientra o meno nella propria
competenza.
Per quanto riguarda la determinazione dell’ambito delle rispettive competenze da parte
dell’operatore del diritto, questi è tenuto a compiere tale operazione in base all’ordinamento
italiano.
Qualche autore ha ritenuto che l’art. 7 II comma Cost., con il richiamo ai Patti Lateranensi,
specificasse il contenuto dell’ordine proprio dei due ordinamenti.

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Tuttavia, i Patti Lateranensi non sono idonei ad indicare il contenuto dell’ordine proprio di tali
entità, in quanto riguardano principalmente le c.d. materie miste, ossia materia di competenza
comune. Inoltre, non contengono tutte le materia in relazione alle quali potrebbe sorgere un
conflitto tra i due ordinamenti.

4­ L’interpretazione dottrinale dell’art.7 II comma


Il dibattito dottrinale sull’interpretazione dell’art. 7 II comma Cost. è stato molto vivace.
Dopo la sua entrata in vigore, alcuni giuristi ritenevano che la Costituzione recepisse le norme
degli Accordi del 1929, dando a ciascuna di esse valore formale ( c.d.
costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi).
Dunque, le singole disposizioni di origine pattizia avrebbero acquistato un’efficacia pari a
quella delle norme costituzionali e avrebbero prevalso sia rispetto alle norme ordinarie, che nei
confronti delle norme generali della stessa Costituzione (in quanto considerate disposizioni
costituzionali speciali).
Tali tesi ha ricevuto adesioni in dottrina e qualche volta anche in giurisprudenza.
Al riguardo, la Corte di Cassazione negli anni ’60 ha sostenuto che l’art. 7 II comma Cost.
attribuiva alle norme pattizie lo stesso valore e la stessa efficacia che esse avrebbero avuto se
fossero stare incluse nella Carta costituzionale o fossero state approvate da legge
costituzionale, ed anzi, potrebbero dirsi un valore più intenso, per la sancita inapplicabilità del
procedimento di revisione costituzionale.
Abbandonata la tesi della costituzionalizzazione delle singole norme di origine concordataria,
si cominciò ad affermare che la Carta avrebbe, in realtà, costituzionalizzato il “principio
concordatario”.
Tale dottrina ha avuto diverse versioni:
­ Una prima tesi afferma che lo Stato è obbligato a regolare in maniera concordataria
tutte le materie che toccano gli interessi della Chiesa cattolica.
Questa teoria sostiene che l’art. 7 II comma, oltre a garantire i Patti Lateranensi e la sua
legge di esecuzione, garantirebbe anche le loro future modificazioni.
Tali norme sono esecutive di un precetto costituzionale, dunque resisterebbero alle
successive leggi ordinarie contrastanti (al pari dell’art. 11 Cost.).
­ Una seconda tesi afferma che l’art. 7 II comma Cost. avrebbe introdotto un sistema
particolare (o ius singolare), le cui disposizioni prevarrebbero sulle norme costituzionali
generali che interferiscono nelle materie regolate dallo stesso sistema.
­ Una terza tesi vede nell’art. 7 II comma Cost. il riconoscimento della regola
internazionale dello stare pactis, nel senso che garantirebbe tutte le convenzioni stipulate
con la Santa Sede, anche future (al pari dell’art. 10 ed 11 Cost.).
Dunque, le norme di legge ordinaria in contrasto con le norme garantite dall’art. 7 II
comma Cost. sarebbero viziate da illegittimità costituzionale.
Alla tesi della costituzionalizzazione del principio concordatario si è contrapposta quella della
costituzionalizzazione del “principio pattizio”.
Tale principio, oltre a garantire la conservazione delle norme di origine concordataria del
1929, garantirebbe anche i nuovi accordi riguardanti le stesse materie disciplinate dai Patti
lateranensi; invece gli accordi su materie diverse non usufruirebbero di tale garanzia.
Un’altra tesi ha ritenuto che l’art. 7 II comma Cost. garantirebbe, oltre alle norme di origine
pattizia vigenti nel 1947, qualsiasi altro accordo concluso in qualsiasi tempo tra l’Italia e la
Santa Sede.
Secondo tale tesi, l’art. 7 II comma Cost. deve essere intesa come norma di adattamento
automatico agli accordi con la Santa.
In particolare, le loro disposizioni sarebbero introdotte nel diritto statuale con il valore e
l’efficacia formale delle norme costituzionali.

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Dunque, l’art. 7 II comma Cost. sarebbe un ordine di esecuzione delle norme pattizie
(sostituendo il ruolo della L. 810/ 1929).
Alcuni autori hanno considerato l’art. 7 II comma Cost. nella prospettiva di norma sulle fonti
del diritto.
Secondo questa teoria, nella scala gerarchica delle fonti dell’ordinamento italiano tra le leggi
costituzionali e le leggi ordinarie, esisterebbe un livello intermedio occupato da fonti
normative atipiche.
Esse sono definite “atipiche” in quanto pur avendo il valore di leggi ordinarie, resistono
all’abrogazione, modificazione, deroga o sospensione al pari delle norme di legge
costituzionale.
Questa tesi ritiene essere una fonte atipica la L. 810/ 1929, esecutiva dei Patti lateranensi, in
quanto garantita dalla Costituzione.
Ne deriva che le norme garantite dall’art. 7 II comma Cost. non possono essere abrogate,
modificate, derogate o sospese da norme di legge ordinaria, ma anche che queste non possono
essere in contrasto con le norme della Costituzione e delle leggi costituzionali.
Nell’ambito della stessa prospettiva, un altro autore ha ritenuto che le norme dell’art. 7 II
comma Cost. devono essere considerate fonti pseudo­atipiche.
Ancora, un ulteriore autore ha considerato l’art. 7 II comma Cost. con riguardo ai suoi effetti
sui poteri dello Stato.
Da questa prospettiva, l’oggetto della tutela risulta essere duplice:
­ I Patti Lateranensi nell’ordinamento internazionale.
Al riguardo, si ritiene che l’art. 7 II comma Cost. avrebbe privato il G overno della
legittimazione a denunciare i Patti.
­ La legge di esecuzione di essi nell’ordinamento interno (L. 810/ 1929).
Al riguardo, si ritiene che l’art. 7 II comma Cost. avrebbe escluso la competenza del
legislatore ordinario ad abrogare, modificare, derogare o sospendere le norme della
legge di esecuzione dei Patti.
Nel caso di mutamento radicale delle circostanze poste alla base dei Patti, il G overno
sarebbe legittimato soltanto ad aprire trattative con la Santa Sede e procedere, in caso di
fallimento di queste, ad una modificazione delle norme di origine concordataria con
legge costituzionale.
Dunque, l’art. 7 II comma Cost. avrebbe parificato la L. 810/ 1929 (di ratifica ed
esecuzione) alle leggi costituzionali.
Tuttavia, essa ha previsto un procedimento di decostituzionalizzazione, in quanto tale
legge, per le parti toccate da un nuovo accordo, perde la parificazione alle leggi
costituzionali e essere modificarla è sufficiente una legge ordinaria di ratifica ed
esecuzione del nuovo accordo fra l’Italia e la Santa Sede.

5­ L’art.7 nella giurisprudenza della Corte Costituzionale


Prima di intervenire in relazione dell’interpretazione dell’art. 7 Cost., la Corte Costituzionale
ha precisato la propria competenza giurisdizionale in qualità di “giudice della legittimità
costituzionale delle leggi”.
Essa ha compreso nell’ambito della propria competenza:
­ Il giudizio sulla legittimità costituzionale delle norme di legge ordinaria.
­ Il giudizio sulla legittimità delle norme poste dalle leggi di revisione della Costituzione e
dalle altre leggi costituzionali.
Tale competenza è generalmente ammessa nei confronti dei vizi formali di tali leggi (ad
es., una legge costituzionale approvata senza il procedimento di cui all’art. 138 Cost.).
Affinché alla Corte Costituzionale possa essere riconosciuta una competenza anche nei
confronti dei vizi sostanziali delle leggi costituzionali, occorre ammettere che esistono

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principi costituzionali superiori alle norme della Costituzione formale ed appartenenti
alla c.d. Costituzione in senso materiale.
Tali principi sarebbero possono valere come parametri per il giudizio di legittimità
costituzionale “sostanziale” delle norme poste dalle leggi costituzionali.
Per quanto riguarda l’interpretazione dell’art. 7 Cost., l’intervento della Corte
Costituzionale è stato molto graduale e piuttosto tardivo (essendo avvenuto soltanto 15 anni
dopo la sua entrata in funzione).
Inizialmente ha Corte ha affermato in termini generici che l’art. 7 II comma Cost. “Non
sancisce soltanto un generico principio pattizio da far valere esclusivamente nella disciplina dei
rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, ma contiene un preciso riferimento al Concordato in
vigore, e dunque, ha prodotto diritto” (sentenza 30/ 1971).
Per precisare quale fosse il “diritto prodotto dall’art. 7 II comma Cost.”, la Corte lo ha
collegato al suo I comma (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine,
indipendenti e sovrani”).
In questo modo essa ha evidenziato la reciproca indipendenza delle due entità e, di
conseguenza, che il richiamo ai Patti non ha la forza di negare i principi supremi
dell’ordinamento costituzionale dello Stato. Sotto questo profilo si ammette il sindacato di
costituzionalità sui Patti.
Dunque si può affermare che l’art. 7 II comma Cost. produce diritto nel senso che parifica le
norme di origine concordataria alle norme poste dalle leggi costituzionali.
Tale situazione risulta ancora più evidente se si considera che la Corte costituzionale ha
dichiarato inammissibile il referendum proposto per l’abrogazione di tali norme, proprio in
quanto la legge di esecuzione dei Patti è da considerare protetta e garantita dalla Costituzione
(quindi non sottoponibile a referendum).
Da sottolineare che la tesi dei “principi supremi” è stata sottoposta a diverse critiche.
In primo luogo, si è ritenuto che la Corte Costituzione non avesse il potere di precisare i
principi supremi essendo eccessiva la discrezionalità che le verrebbe altrimenti attribuita.
Tuttavia, non è possibile disconoscere tale potere alla Corte.
In secondo luogo, è difficile segnare il confine tra principi supremi e non supremi quanto
essenziale, in quanto il fatto che la legge di esecuzione dei Patti viene equiparata alle leggi
costituzionali comporta che le sue disposizioni (rispettando i principi supremi) possono
derogare le norme della Costituzione formale.
Infine, la giurisprudenza della Corte è stata oscillante nel determinare quali fossero le norme
protette dall’art. 7 Cost.
Inizialmente la Corte considerava protette non soltanto le norme di origine concordataria
introdotte dalla legge di esecuzione 810/ 1929, ma anche le norme introdotte dalle leggi di
applicazione.
In una successiva sentenza, la Corte precisò che l’art. 7 Cost. protegge soltanto la legge di
esecuzione 810/ 1929, mentre le leggi di applicazione erano comuni leggi ordinarie che
potevano risultare illegittime per contrasto con le norme costituzionali.
Dopo l’entrata in vigore degli Accordi del 18 febbraio e del 15 novembre 1984 che hanno
abrogato il Concordato del 1929, la garanzia offerta dall’art. 7 Cost., dovrebbe essere limitata
al Trattato del Laterano, ossia l’unico Protocollo superstite dei Patti del 1929.
Tuttavia, la Corte Costituzionale sembra presupporre che l’art. 7 Cost. garantisca anche i
nuovi Accordi.

6­ G li accordi del 18 febbraio e 15 novembre 1984 e la costituzione


G li Accordo del 18 febbraio e del 15 novembre del 1984 e le leggi che ad essi hanno dato
esecuzione non hanno semplice modificato le norme del vecchio Concordato del 1929, ma ne
hanno abrogato tutte le norme (insieme alle norme della legge che lo aveva eseguito).

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Dunque, è una avvenuta una pseudo­modificazione del Concordato del 1929 mentre in realtà
le parti hanno voluto dare vita ad un nuovo Concordato.
In ogni caso (sia che si tratti di modificazione sia che si tratti di sostituzione) si esclude che le
leggi di esecuzione (121 e 206 del 1985) e gli accordi cui esse si riferiscono (18 febbraio e 15
novembre 1984) siano garantiti dall’art. 7 II comma Cost.
Coloro che sostengono invece la tesi opposta ritengono che se ai nuovi Accordi riguardanti la
Chiesa cattolica e le loro leggi di esecuzione non venisse riconosciuta la garanzia dell’art. 7 II
comma Cost., queste avrebbero un trattamento peggiore e discriminatorio rispetto a quello
previsto per le intese con le altre confessioni, cui l’art. 8 III comma Cost. garantisce le leggi di
approvazione.
In ogni caso dobbiamo sottolineare che l’art. 7 II Cost. non tutela insieme ai Patti Lateranensi
anche gli eventuali e successivi nuovi accordi, del cui aspetto non ci si curò più di tanto.
Al riguardo, si distinguono tesi diverse circa i nuovi accordi:
­ Dal momento che gli accordi tra Stato e Santa Sede sono parificabili ai trattati
internazionali, essi risultano garantiti dall’art. 10 Cost., in relazione al quale si ritiene
che, costituzionalizzando le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute,
abbia anche costituzionalizzato il principio “ pacta sunt servanda”, ponendo sotto la sua
garanzia gli accordi internazionali resi esecutivi nell’ordinamento italiano.
Dunque, secondo questa tesi, gli Accordi del 1984 non sono garantiti dall’art. 7 Cost.,
ma dall’art. 10 Cost.
­ I rapporti fondamentali fra Stato e Santa Sede disciplinati da accordi attengono alla
materia costituzionale con riferimento alla Costituzione materiale, ossia in qualità di
principi supremi dell’ordinamento costituzionale, a prescindere dalla previsione dell’art.
7 Cost.
­ Infine, occorre precisare che l’ordinamento vigente sembra orientarsi nel senso che l’art.
7 II comma Cost. garantisca anche i nuovi accordi.
Infatti, la Corte Costituzionale obiter dicta (in via incidentale) ha affermato che anche in
presenza di nuovi accordi il giudizio di legittimità delle norme contestate può essere
espresso soltanto avvalendosi del parametro dei principi supremi dell’ordinamento
costituzionale (parametro utilizzato per giudicare della legittimità costituzionale delle
norme di legge costituzionale ed equiparate).

Capitolo 5: Lo Stato e le confessioni religiose nella Costituzione

1­ Le confessioni religiose nella Costituzione \ 2­ le intese delle confessioni religiose con


lo stato, la natura giuridica delle intese
Mentre l’art. 7 Cost. disciplina i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica; l’art. 8 II e III
comma Cost. disciplina i rapporti tra lo Stato e tutte le altre confessioni religiose.
L’art. 8 afferma che “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative
rappresentanze (riserva di legge assoluta che garantisce la libertà religiosa)”.
Il III comma, prevedendo l’emanazione di leggi concordate, riserva alle confessioni di
minoranza un trattamento analogo a quello previsto per la Chiesa cattolica, assicurando ad
esse un rispetto maggiore di quello mostrato per qualsiasi altro gruppo sociale che entri in
rapporto con lo Stato.
Questa previsione è coerente con la norma dettata dal II comma dell’art. 8 Cost., il quale
riconosce alle confessioni organizzate il rango di ordinamenti giuridici indipendenti e non
subordinati.
È necessario qualificare la natura giuridica delle intese:

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­ Una tesi estrema, considera le intese come meri atti politici, negando ad esse qualsiasi
natura giuridica.
Secondo tale tesi, il legislatore non è vincolato ad adeguarsi alle loro statuizioni e non
sarebbe incostituzionale una legge ordinaria che disciplinasse un culto di minoranza in
assenza di intese.
Tuttavia, questa tesi è stata confutata. In particolare, è stato osservato che le intese
appartengono al “campo del diritto”, anche perché l’espressione “intendersi con qualcuno”
significa “attenersi alle intese poste a base della legge”.
Dunque, le intese sono rispetto alla legge di cui stanno alla base una “condizione di
legittimità costituzionale”, nel senso che costituiscono un limite per il legislatore ordinario, il
quale per non eludere la garanzia costituzionale offerta alle minoranze religiose e deve
attenersi ad esse per poter legiferare.
Ne conseguenze che il Parlamento dovrebbe limitarsi a rendere esecutivo l’accordo (tale
criterio assicura la conformità delle intese alla legge), oppure a tradurre in forma giuridica le
disposizioni concordate (tale criterio non assicura la conformità delle intese alla legge e lascia
un ampio margine discrezionale al Parlamento).
Da sottolineare che in ogni caso il Parlamento ha un forte potere deterrente nei confronti degli
accordi che non sono accettabili per lo Stato, in quanto può sempre rifiutare l’approvazione di
una legge di esecuzione di intese con una confessione di minoranza.
Se invece si prende in considerazione l’interesse della confessione religiosa, è essa stessa il
miglior giudice del proprio interesse.
Dunque, il Parlamento non ha motivo per modificare un regolamento di rapporti che la
confessione religiosa ha accettato consentendo all’intesa.
Infine, una legge che si limiti a dare esecuzione alle intese facilita l’eventuale controllo della
conformità della legge da parte della Corte Costituzionale.

3­ Capacità delle confessioni di stipulare intese: intese plurime e collettive


Un’altra questione riguarda la capacità a stipulare le intese.
Secondo alcuni autori, essa spetta soltanto alle confessioni religiose organizzate, ossia ai
gruppi che abbiano assunto un preciso assetto istituzionale.
Questa tesi sembra accettabile per 2 motivi:
­ In primo luogo, in quanto un gruppo con fini di religione o di culto che desidera essere
semplicemente una comunità spirituale, non sente il bisogno di una legge disciplinatrice
dei suoi rapporti con lo Stato.
­ In secondo luogo, in quanto un gruppo non organico difficilmente potrebbe individuare
i rappresentanti che dovrebbero concordare le intese con l’autorità statuale (i quali di
solito vengono indicati negli statuti della confessione religiosa).
Dunque, lo Stato non avrebbe con chi trattare in modo valido.
Altro problema è quello di vedere se le intese possono riguardare soltanto i rapporti tra lo Stato
ed una confessione religiosa, oppure se possono essere stipulate con il concorso di più
confessioni religiose e dar luogo ad una legge che le riguardi.
Chi sostiene che le intese possono riguardare i rapporti tra lo Stato ed una singola confessione
religiosa pone in evidenza i seguenti punti:
­ Le intese possono avere ad oggetto soltanto questioni particolari.
­ Ogni confessione ha un carattere specifico e che le intese devono tener conto delle
esigenze di ciascun gruppo confessionale.
­ Una legge generale approvata senza una intesa con le singole confessioni religiose
sarebbe in contrasto con l’art. 8 III comma Cost.
Tuttavia, queste difficoltà sembrano superabili (ed è dunque possibile affermare l’esistenza di
intese plurime), poiché nessun punto considerato esclude che più confessioni di minoranza

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possano avere interessi comuni, addivenire ad un’intesa collettiva con lo Stato o che, stipulata
un’intesa con una data confessione, a questa aderiscano altre confessioni.

4­ L’organo statuale competente a stipulare intese


Per quanto riguarda l’organo statuale competente a stipulare le intese, tale competenza spetta
al G overno, il quale è l’organo competente ad intrattenere i rapporti con gli ordinamenti
esterni allo Stato.
Esse sono dirette all’emanazione di una legge. Non toccano la responsabilità
dell’amministrazione ma la responsabilità politica del G overno e devono essere valutate sotto
il profilo dell’opportunità politica e del rispetto della Costituzione.
Le intese a carattere generale richiedono l’intervento del Presidente del Consiglio; invece,
quando esse investono la competenza di un singolo ministero, è richiesto l’intervento del
Ministro competente.
In entrambi i casi poi l’intesa raggiunta deve essere portata all’esame del Consiglio dei
Ministri, il quale è competente sia ad autorizzare la stipulazione dell’intesa, sia a deliberare la
presentazione del disegno di legge di approvazione dell’intesa stipulata.
Inoltre, presso la Presidenza del Consiglio è stata istituita un’apposita Commissione
interministeriale, presieduta dal Sottosegretario alla stessa Presidenza, la quale ha il compito
di preordinare gli studi e le linee operative per realizzare le intese richieste dalle confessioni
religiose.
Il Sottosegretario, una volta conclusa la trattativa e siglata la bozza di intesa con i
rappresentanti della confessione interessata, la trasmette con una relazione al Presidente del
Consiglio.

5­ Il contenuto delle intese


La dottrina si è posta anche il problema dell’eventuale contenuto delle intese, cercando di
individuare quali sono le materie suscettibili di un accordo ai sensi dell’art. 8 III comma Cost.
Ad es., una parte della dottrina ritiene che non possa essere oggetto di intesa la disciplina del
matrimonio celebrato davanti ai ministri di culti diversi dal cattolico, in quanto in tale materia
verrebbe soltanto in considerazione la legislazione statale.
Altri, più in generale, pensano che le intese possano riguardare questioni particolari di
carattere facoltativo.
Tuttavia, dalle disposizioni costituzioni si può soltanto ricavare le intese devono rispettare la
Costituzione, per il resto non sono specificate limitazioni e le intese sembrano ammissibili per
qualsiasi materia.
Sicuramente è da escludere:
­ Che attraverso le intese, lo Stato possa derogare alle norme sulla libertà religiosa.
­ Che le confessioni acattoliche possano disporre della facoltà discendenti dal diritto
pubblico per rinunciare a qualcuna di esse in cambio di aiuti economici o di altre utilità.
­ Che lo Stato possa concedere ad una confessione un regime privilegiato di libertà, in
violazione dell’art. 8 I comma Cost.

6­ Natura giuridica delle intese, atti di diritto interno o esterno?


Per quanto riguarda la natura giuridica delle intese, si distinguono 2 teorie:
­ Alcuni, le ritengono atti di diritto esterno, simili ai concordati stipulati con la Chiesa
cattolica, regolate da un ordinamento diverso da quello dello Stato e della Chiesa.
­ Altri, le ritengono atti di diritto interno, in particolare una convenzione di diritto
pubblico.
Al riguardo, la dottrina maggioritaria sostiene la seconda soluzione, sul presupposto che le
confessioni di minoranza non sono ordinamenti primari.

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Tuttavia, anche se si ammettesse che queste sono ordinamenti primari e le intese fossero
considerate come atti di diritto esterno, sarebbe difficile paragonare le intese ad un concordato
stipulato con la Chiesa cattolica.
Infatti, i concordati sono atti disciplinati nella forma, nella validità e nell’efficacia da apposite
norme di diritto internazionale generale; invece le intese con le altre confessioni non sono
prese in considerazione da alcuna specifica norma dell’ordinamento internazionale.
Inoltre, nulla può consentire di affermare che il solo ordinamento esterno esistente sia
l’ordinamento internazionale, tanto che, qualche autore pensa che i rapporti tra Stato e Chiesa
si svolgano in un singolare ordinamento concordatario, creato di volta in volta dall’incontro
della volontà tra Stato e Chiesa.
Dunque, si potrebbe affermare che le intese sono atti di un ordinamento esterno, creato di
volta in volta dall’incontro della volontà tra Stato e confessione di minoranza, disciplinati
“nella sostanza” dalle regole di buona fede e di lealtà che presiedono ai rapporti bilaterali tra
ordinamenti indipendenti e “nella forma” da quei criteri che le parti, di volta in volta,
riterranno di seguire.
La soluzione che considera le intese come atti di un ordinamento esterno diverso
dall’ordinamento internazionale è in linea con l’ipotesi della pluralità degli ordinamenti
giuridici e della socialità del diritto, oggi abbastanza condivisa.
Inoltre, il carattere “esterno” delle intese sembra confermato dalla stipulazione dell’Intesa del
21 febbraio 1984 fra Stato e Tavola Valdese, in quanto esso è avvenuto attraverso forme
solenni e con la partecipazione delle più alte autorità governative (Presidente e Vice Presidente
del Consiglio) che ne hanno accompagnato la stipulazione.
Il fenomeno dell’esistenza di ordinamenti esterni i quali non vivono a pieno titolo
nell’ordinamento internazionale, non è ignoto al nostro diritto.
Ad es., esso riconosce la qualità di soggetto di diritto esterno all’Ordine di Malta, un
organismo privo di potestà territoriale ma che partecipa alla vita della comunità
internazionale. Si tratta di un organismo sovrano ma dipendente dalla Santa Sede, in quanto è
un’associazione religiosa.
Le confessioni di minoranza non hanno soggettività di diritto internazionale ma, dal momento
che esse se organizzate costituiscono dei veri e propri ordinamenti giuridici, si esclude che in
sede di stipulazione delle intese possano apparire come subornati allo Stato.
In definitiva, le intese sono atti bilaterali che, per garantire libertà ed indipendenza delle
confessioni di minoranza, la Costituzione colloca in una sfera giuridica che non è quella
dell’ordinamento statuale, ma è quella di un ordinamento che viene creato di volta in volta,
dall’incontro della volontà dello Stato e delle comunità confessionali.
Questa è fra l’altro una ragione di più per ritenere che, se il G overno si rifiutasse di addivenire
alle intese, ovvero dopo averle raggiunte non esercitasse l’iniziativa occorrente per
l’emanazione della legge, non sarebbe violata alcuna norma costituzionale; il rifiuto semmai
implicherebbe l’eventuale responsabilità politica del governo di fronte al Parlamento.
Il procedimento legislativo per l’esecuzione delle intese ha inizio con la presentazione al
Parlamento del disegno di legge necessario per adattare l’ordinamento italiano al contenuto
delle intese stesse.
L’iniziativa compete in modo esclusivo al G overno, l’unico organo legittimato a stipulare le
intese.
Tale disegno di legge, nel caso di accordi di carattere generale, sarà d’iniziativa del Presidente
del consiglio; nel caso di accordi di competenza di un Ministro, sarà d’iniziativa si
quest’ultimo.
La legge non deve far altro che dare esecuzione alle intese.
Al riguardo, in passato si riteneva che il testo dell’intesa dovesse essere incluso nella legge di
esecuzione.
Oggi invece si ritiene che i disegni di leggi in questione qualificano le disposizioni proposte

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come norme di approvazione dell’intesa (non come norme dirette a seguire l’intesa).
Ne consegue che nel corso del dibattito parlamentare non sono ammissibili emendamenti che
mutino il senso delle disposizioni concordate.
Le leggi di approvazione sino ad oggi emanate affermano che i rapporti tra lo Stato e la
confessioni sono regolati dalle disposizioni degli articoli che seguono, sulla base dell’intesa
stipulata ed allegata alla presente legge.
Dunque, è agevole controllare la conformità della legge all’Intesa, in quanto le disposizioni
della prima ripetono fedelmente le disposizioni della seconda (al massimo si verificano
soltanto modeste varianti formali).
Una volta emanata la legge di approvazione, essa non può essere sospesa, modificata, derogata
o abrogata, se non in esecuzione di nuove intese fra lo Stato e la confessioni interessata.
Per riacquistare libertà d’azione, il legislatore dovrebbe emanare una legge costituzionale per
modificare o abrogare la legge esecutiva delle intese, ovvero dovrebbe abrogare, con
procedimento di revisione costituzionale, l’art. 8 III comma Cost.
Questa garanzia ha portato la dottrina a considerare le leggi previste da tale norma come
“leggi rinforzate” o come “fonti atipiche”.

7­ L’art. 8 III comma della Cost. e le leggi sui culti ammessi emante prima del 1948
L’art. 8 III comma Cost. (“I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di
intese con le relative rappresentanze”) ha prodotto effetti anche relativamente alle precedenti
leggi riguardanti i culti di minoranza, ossia la legislazione del 1929 – 1930.
In particolare, tutte le leggi emanate sulla base di intese prevedono che nei confronti delle
confessioni religiose parte di tali intese cessino di avere efficacia la L. 1159/ 1929 e il r.d.
289/ 1930.
Tali norme sarebbero inapplicabili in caso di contrasto con la Costituzione, e la Corte
Costituzionale dovrebbe dichiararne l’illegittimità. A questo punto il legislatore ordinario
potrebbe abrogarle autoritativamente, ma non sostituirle, per il quale caso sarebbe necessaria
una nuova intesa.
Inoltre, essendo la legislazione del 1929­1930 stata emanata senza raccogliere né l’assenso né il
dissenso delle confessioni interessate, potrebbe essere unilateralmente abrogata dal legislatore.
Tuttavia, queste critiche non tengono conto del fatto che sulla base della legislazione del 1929­
1930 le confessioni interessate hanno ottenuto tutta una serie di prerogative e che
l’abrogazione di quelle leggi metterebbe a repentaglio una serie di diritti già acquisiti.
Ne consegue che il legislatore ordinario può abrogare soltanto quelle norme delle leggi del
1929 – 1930 che, essendo limitatrici dell’uguale libertà di tutte le confessioni, sono
effettivamente in contrasto con la Costituzione.
Invece, non può abrogare quelle norme che hanno consentito alle confessioni di minoranza
l’acquisizione di diritti e di potestà non conseguibili in base al diritto comune.

Capitolo 6: La libertà religiosa nell’ordinamento italiano

1­ Il riconoscimento giuridico della libertà religiosa


Nel diritto italiano, la garanzia della libertà religiosa è offerta alle persone fisiche, agli enti, alle
formazioni sociali e alle confessioni religiose da norme di rango costituzionale.
Il riconoscimento della libertà religiosa è avvenuto nell’ordinamenti italiano per mezzo di atti
diversi.

2­ … nei trattati internazionali bilaterali


La libertà religiosa è stata promossa attraverso trattati internazionali bilaterali a partire dalla
Prima G uerra Mondiale, a seguito del riassetto territoriale che assegnava all’Italia territori i cui

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cittadini avevano religione ortodossa o etnia serba, croata e slovena.
Tali accordi furono completamente stravolti dalla Seconda G uerra Mondiale e dal Trattato di
pace che l’ha conclusa.
Ad ogni modo, questi tipi di accordi erano diretti a garantire la libertà religiosa delle istituzioni
ecclesiastiche ortodosse, ma non la libertà dei singoli fedeli.
Inoltre, a quel tempo lo Stato era di tipo giurisdizionalista ed esercitava sulle comunità
religiose i relativi poteri.
Per il resto, il singolo che professava quella determinata confessione era libero da impedimenti
che potessero derivare dall’ordinamento statuale; inoltre lo Stato doveva rispettare tale libertà e
non poteva interferire nel suo esercizio.
Un accordo bilaterale in cui fra l’altro è garantita la libertà religiosa, è il Trattato di amicizia,
commercio e navigazione stipulato fra l’Italia e gli USA nel 1948.
Tale trattato oltre ad assicurare la libertà di coscienza e di culto, in privato e in pubblico, con il
limite della pubblica morale e dell’ordine pubblico, considera una serie di attività pratiche volte
al conseguimento di fini religiosi.

3­ … nei trattati internazionali multilaterali


La libertà religiosa è stata promossa attraverso trattai internazionali multilaterali, a partire
dalla fine della Seconda G uerra Mondiale, al fine di proclamare tale libertà come principio da
osservare.
Nel diritto italiano, assumono specifica rilevanza le norme sulla libertà religiosa contenute
nelle Convenzioni che sono state rese esecutive nel nostro ordinamento. Tra queste si
ricordano:
­ Il Trattato di pace del 1947 fra l’Italia e vari Paesi.
L’art. 15 di tale Trattato obbliga l’Italia a rispettare la libertà di culto non disgiunta
dalla libertà di manifestazione del pensiero.
­ La Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali del 1950.
Essa riconosce ad ogni persona il diritto alla libertà di coscienza e di religione, inclusa
la facoltà di cambiare liberamente religione o credo, con il solo limite dell’ordine
pubblico, della salute, della moralità pubblica e dei diritti e delle libertà degli altri.
­ Il Trattato di Maastricht del 1992.
Esso assicura anche il diritto di libertà religiosa.
­ La Carta dei Diritti Fondamentali Dell’Unione Europea, firmata a Nizza nel 2000.
Essa garantisce ad ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di
religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione.
Inoltre, il regolamento CE 168/ 2007 ha istituito l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti
fondamentali, allo scopo di fornire agli Stati membri assistenza e consulenza in materia di
diritti fondamentali.
Ancora, in materia sono state rilevanti le decisioni della Corte di G iustizia e della Corte
Europea dei diritti dell’uomo.
Infine, apposite Convenzioni hanno escluso il fattore religioso come motivo di discriminazione
nel campo del lavoro e in quello dell’insegnamento.
Le norme derivanti da tali accordi internazionali sono state poste nell’ordinamento italiano da
leggi ordinarie.
Fino a quando tali accordi saranno in vigore nell’ordinamento internazionale fra gli Stati che li
hanno ratificati, esse non potranno essere unilateralmente abrogate dal legislatore ordinario.

4­ … nello statuto dell’ONU e nelle convenzioni promosse dell’ONU


La libertà religiosa è stata promossa anche nello Statuto dell’ONU e nelle Convenzioni
promosse dall’ONU.

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L’ONU ha fra i suoi fini quello di promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti umani e
delle libertà fondamentali senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.
Nell’ambito dell’ONU sono state stipulate varie Convenzioni (cui l’Italia ha aderito) nelle
quali il fattore religioso è garantito sotto vari aspetti (ad es., per ottenere lo status di rifugiato).
Tali Convenzioni sono trattati internazionali multilaterali, che fanno sorgere obbligazioni in
capo agli Stati ratificanti. Una volta eseguiti nell’ambito dell’ordinamento interno di ciascun
Paese, producono norme giuridiche che lo stato deve osservare nei confronti di persone fisiche,
gruppi sociali ed enti che operino nella sfera della sua sovranità.

5­ … nelle dichiarazioni dell’ONU


Diverso è il valore delle D ichiarazioni di principi approvate dall’Assemblea generale
dell’ONU, fra cui la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 ed altre
risoluzioni in cui la religione è dichiarata come diritto alla libertà ed è esclusa come fattore
discriminante dei diritti dei singoli e dei gruppi.
Tali Dichiarazioni non costituiscono un’autonoma fonte di diritto internazionale generale e
non hanno effetti giuridici obbligatori, in quanto l’Assemblea delle N.U. ha soltanto il potere
di emanare raccomandazioni, aventi valore di mere esortazioni, mentre è priva di poteri
legislativi mondiali.
Tuttavia, esse possono influire sulla prassi degli Stati e quando danno luogo ad una lunga serie
di comportamenti conformi, possono formare una consuetudine internazionale.
In questo caso, la fonte del diritto non è la Dichiarazione dell’ONU, ma la consuetudine.

6­ …. Nei documenti della C.S.C.E. e dell’ O.S.C.E.


Accanto agli accordi internazionali riguardanti la libertà religiosa, esistono atti internazionali
riguardanti dichiarazioni di principio che non hanno efficacia giuridica, essendo essa esclusa
o dalle dichiarazioni delle parti o dal testo stesso del documento.
Rientrano in tale tipo di accordi:
­ I documenti che dal 1975 hanno concluso le riunioni della Conferenza sulla sicurezza e
la cooperazione in Europa (C.S.C.E.).
­ Nella Conferenza dei Capi di Stato e di G overno della C.S.C.E., svoltasi a Budapest nel
1994, tale organismo è stato trasformato in Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione europea (O.S.C.E.).
La Dichiarazione conclusiva di tale conferenza ha ribadito i principi sulla tutela dei diritti
dell’uomo come fondamento essenziale della società civile democratica.
In particolare essa, ha confermato l’impegno dei Paesi partecipanti di garantire la libertà di
coscienza e di religione e di promuovere un clima di tolleranza e rispetto reciproci di diverse
comunità e fra credenti e non credenti.
Infine, essa ha manifestato la preoccupazione per lo sfruttamento della religione al fine del
nazionalismo aggressivo. Tuttavia, tale preoccupazione non ha impedito il compimento di
atroci delitti compiuti nella ex Jugoslavia al fine di procedere ad una “pulizia” etnico­religiosa.

7­ … nelle risoluzioni del parlamento europeo


Anche il Parlamento europeo è intervenuto in materia di libertà religiosa, attraverso proprie
risoluzioni, le quali possono valere come indicazioni delle tendenze prevalenti nell’ambito
dell’Unione.
Esse non possono essere considerate norme in quanto il Parlamento europeo, pur essendo un
organo eletto dal popolo a suffragio universale e diretto, non può essere considerato un organo
legislativo dell’Unione.

8­ … nei concordati e nelle intese


La libertà religiosa è garantita anche dalle norme che rendono esecutivi i Concordati con la

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Santa Sede e dalle Intese con i rappresentanti delle altre confessioni religiose.
La Chiesa cattolica assicurò ai propri fedeli una misura di libertà non era presente in
nessun’altra confessione religiosa con il Concordato del 1929 (dunque, si trattava di un
privilegio esclusivo).
Nello stesso anno lo Stato approvò la legge del 1929 sui culti ammessi. Essa era finalizzata ad
assicurare uguaglianza giuridica dei cittadini nel godimento dei diritti civili e politici e
nell’ammissione ai pubblici uffici senza distinzione di religione.
Tuttavia, dato il regime autoritativo del tempo, tale legge assicurava soltanto una libertà
contraffatta, ossia assicurata in astratto ma negata in concreto.
Uno spirito diverso ha animato la stipulazione degli Accordi del 1984 con la Santa Sede e
delle Intese stipulate con le varie confessioni religiose a decorrere da quell’anno.
Si trattava di accordi ed intese stipulati dopo che le libertà garantite dalla Costituzione si erano
effettivamente consolidate.
Attraverso di essi si cercava in tutti i modi di agevolare la libertà religiosa delle confessioni
stipulanti non in materia astratta, ma in concreto.

9­ … nel diritto privato


Anche le norme riguardanti i rapporti fra privati specificano le garanzie giuridiche offerte
dall’ordinamento alla libertà religiosa (ad es., la disciplina dei rapporti fra i componenti della
famiglia e quelli sorti nell’ambito del lavoro subordinato).

10­Aspetti giuridici e non giuridici della libertà religiosa


Come tutte le libertà, la libertà religiosa può essere intesa secondo sensi diversi:
­ Dal punto di vista teologico, essa coincide con la c.d. libertà ecclesiastica, ossia con la
libertà degli appartenenti ad una determinata confessione di conformare gli atti della
propria vita, privata e pubblica, ai precetti di questa.
­ Dal punto di vista filosofico, essa coincide con la libertà di pensiero, in quanto indica
la liberazione dello spirito dell’uomo da ogni preconcetto dogmatico e scientifico.
L’art. 19 Cost. considera la libertà religiosa come un diritto soggettivo dei singoli e dei gruppi
sociali all’esercizio di 3 fondamentali facoltà esteriori della vita religiosa che possono ricadere
sotto la disciplina dell’ordinamento, ossia la:
­ Professione della fede religiosa.
­ Propaganda in materia religiosa.
­ Esercizio privato e pubblico del culto.
Tale libertà è assicurata a tutti gli individui ed a tutti i gruppi sociali, senza discriminazione tra
una religione ufficiale dello Stato e le altre confessioni.
Il diritto di libertà religiosa non può essere limitato in via preventiva dal potere pubblico, in
quanto la Costituzione non prevede che l’esercizio delle facoltà descritte sia subordinato ad
una previa licenza di concessione governativa.

11­La libertà religiosa come diritto pubblico soggettivo, pretese e limitazioni e significato di
Roma
La libertà religiosa non è soltanto un diritto soggettivo, ma è un diritto “pubblico”
soggettivo, in quanto può essere azionato nei confronti dello Stato.
La Costituzione esclude che un provvedimento dell’autorità possa limitare la libertà religiosa
(in caso contrario, i singoli o i gruppi interessati possono adire l’autorità giudiziaria per far
dichiarare l’illegittimità del provvedimento limitativo) e ritiene illegittime le norme di legge
ordinaria che perseguono tale fine ex art. 19 Cost.
Nel caso in cui il provvedimento contrasti con la Costituzione, si potrebbe stimolare l’autorità
giudiziaria a sollevare la questione di legittimità costituzionale.

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Un diritto garantito dalla Costituzione può essere limitato dall’autorità di G overno soltanto se
è la Costituzione stessa ad attribuire tale potere all’autorità.
Infatti, la Corte costituzionale nella maggior parte delle sue sentenze afferma che i diritti di
libertà possono essere limitati soltanto da altri precetti e principi costituzionali.
Qualche autore ha sottolineato come a volte la Corte costituzionale ha affermato che al diritto
di libertà religiosa sono contrapposti interessi generici quali, ad es., l’ordine pubblico o la
sicurezza pubblica.
Da tale affermazione questi autori hanno sostenuto che per tutelare tali interessi, sarebbe
concesso all’autorità di emettere provvedimenti limitativi della libertà religiosa, con la
conseguenza che il diritto di libertà religiosa sarebbe degradato a mero interesse legittimo.
Tuttavia, questa conclusione è inammissibile in quanto nel nostro ordinamento il diritto di
libertà religiosa incontra il solo limite del buon costume e per ciò che riguarda esclusivamente i
riti.
Nella Costituzione repubblicana le libertà civili sono diritti fondamentali e quindi la loro
limitazione può avvenire soltanto sulla base di poteri previsti dalla Costituzione stessa.
Da sottolineare che la violazione del diritto di libertà religiosa da parte dell’autorità di
G overno comporta (oltre alla illegittimità dell’atto) la responsabilità dell’agente ex art. 28
Cost. innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria.
L’art. 1 del Concordato del 1929 stabiliva che “In considerazione del carattere sacro della città
Etera, il G overno italiano avrà cura di impedire a Roma tutto ciò che possa essere in contrasto
con detto carattere”.
Al riguardo, ci si chiedeva se esso potesse comportare limitazioni d’ordine territoriale circa la
libertà religiosa o, in generale, circa tutti i diritti garantiti dalla Costituzione.
Tale quesito meritava una risposta negativa, in quanto la “cura” del G overno non può limitarsi
ad una sola Regione ma si estende uniformemente su tutta la Repubblica.
Tale disposizione è stata poi abrogata dall’Accordo del 18 febbraio 1984, nel quale troviamo
una norma in cui si conferma la precedente interpretazione “La Repubblica italiana riconosce
il particolare significato che Roma ha per la cattolicità”.

12­Le tesi riduttive del diritto di libertà religiosa e le libertà formali


Alcune tesi restrittive hanno cercato di trarre dal dato della legge principi diversi.
Una prima tesi, ha limitato il contenuto del diritto di libertà nell’adesione ad una confessione
religiosa. Al riguardo, si distinguono 2 orientamenti:
­ Secondo un autore, il diritto di libertà religiosa è il diritto di fare il proprio dovere ed ha
ad oggetto il bene giuridico della fede. Dunque, qualsiasi forma di ateismo attivo è
illecita, in quanto minaccia la religiosità altrui.
­ Secondo altri autori, la vera libertà consiste nell’adesione ad una legge morale che sul
piano giuridico si esaurisce nel diritto di aderire ad una istituzione e di adempiere i
doveri derivanti da tale adesione.
Tali tesi vengono criticate in quanto non rispettano il dato offerto dalla Costituzione.
Infatti, l’art. 19 Cost. salvaguardia il diritto del singolo a non essere vincolato da alcuna norma
a carattere religioso; mentre gli artt. 3, 17, 18 e 21 Cost. assicurano a tutti il diritto di riunirsi,
organizzarsi e manifestare le proprie idee.
Inoltre, la Costituzione tutela la libertà religiosa anche come diritto dei gruppi sociali, ma in
caso di conflitto tra l’adesione al gruppo e l’interesse del singolo alla propria libertà, essa dà
prevalenza a quest’ultimo, avendo posto in primo piano i diritti fondamentali della persona.
Dunque, il nostro ordinamento riconosce la posizione delle varie confessioni religiose e la loro
autonomia, ma riconosce anche la posizione degli individui, i quali hanno diritto di assumere
posizioni eterodosse o di ateismo.
Una seconda tesi, ha limitato il contenuto del diritto di libertà nell’adesione ai valori

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dell’ordinamento civile, nel senso che la scelta di carattere religioso deve essere fatta
orientandosi in relazione a tali valori.
Tale tesi viene criticata, in quanto intende la libertà come virtù o impegno civile anche nei
confronti anche nei confronti delle opzioni spirituali.
Inoltre, la Costituzione garantisce non soltanto il diritto di scegliere una data confessione
religiosa ma anche di non sceglierla.
Una terza tesi, ritiene che la vera libertà si realizza quando l’uomo partecipa con atti diretti
alla formazione delle decisioni che lo riguardano.
Tale tesi viene criticata in quanto finisce con il dare al diritto di libertà religiosa un contenuto
parziale.
Infatti, mostra l’aspetto partecipativo della libertà religiosa ma tralascia il dato che il soggetto
può decidere di essere miscredente o di non partecipare ad alcun gruppo.
In realtà, il risultato cui è possibile pervenire in base all’esame delle vigenti disposizioni è
quello di considerare la libertà religiosa come una delle libertà formali.
L’aggettivo “formale” è dispregiativo, in quanto implica che tale libertà è soltanto a favore di
chi può esercitare di fatto le facoltà ad esse connesse.
Dunque, si tratta di una libertà che potrebbe essere utilizzata a pieno soltanto dalle confessioni
meglio organizzate, in particolare dalla Chiesa cattolica.
Da sottolineare che l’equilibrio pluralista garantito dalla Costituzione nel settore della libertà
religiosa non consente un intervento incisivo dello Stato.
Questo deve limitarsi a non favorire alcuna confessione o danno delle altre. Può invece
concedere qualcosa a tutte (ad es., la partecipazione ad un pubblico servizio).

13­La libertà religiosa come libertà privilegiata


Alle tesi che riducono la portata della libertà religiosa, si contrappongono quelle che la
esaltano, considerandola una libertà privilegiata.
Questa tesi nasce da parte di chi collega l’art. 19 Cost. con altre norme costituzionali che
garantiscono altre libertà (ad es., con l’art. 17 e 18 Cost. che garantiscono la libertà di riunione
e di associazione; oppure con l’art. 21 Cost. che garantisce la libertà di manifestazione del
pensiero).
A seguito di tale collegamento si è ritenuto che la libertà religiosa è disciplinata da norme
costituzionali speciali e più favorevoli.
Tuttavia, non si può parlare di libertà privilegiata ma si tratta di una semplice estensione
soggettiva della garanzia offerta dalla Costituzione, la quale attribuisce “a tutti” tali diritti,
dunque anche in materia religiosa.
Inoltre, l’esistenza di una norma apposita a garanzia della libertà religiosa non deve essere
ricercata nel fatto che essa sia una libertà privilegiata, ma in ragioni d’ordine storico: essa è
stata una delle prime libertà ad essere rivendicata come diritto nei confronti dello Stato.
Escluso che la libertà religiosa sia una libertà privilegiata in sede costituzionale, è da chiedersi
se non lo sia in sede di legislazione ordinaria.
Al riguardo, rilevano le norme che prevedono delle agevolazioni per le confessioni religiose.
Tali agevolazioni favoriscono l’esercizio di tutte le facoltà che derivano dal diritto di libertà
religiosa. Dunque, quando sono erogate con preferenza verso la confessione di maggioranza,
finiscono con l’alterare la misura di libertà di cui godono le varie formazioni sociali con fine
religioso o di culto.
Questa disparità di trattamento non è sempre giustificabile, in quanto tutti i gruppi devono
godere in misura uguale delle libertà garantite dalla Costituzione. Tuttavia, tali agevolazioni
non privilegiano la libertà religiosa nei confronti nei confronti delle altre libertà, in quanto

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anche queste usufruiscono degli interventi dello Stato (ad es., attraverso le agevolazioni
economiche attribuite all’attività delle scuole private, al mondo dello spettacolo, ecc.).

14­Libertà religiosi nei rapporti privatistici, nella famiglia


La libertà religiosa è un diritto pubblico soggettivo che i singoli e le formazioni sociali possono
far valere nei confronti dello Stato e di ogni ente a questo collegato.
Essa è anche un diritto soggettivo (dunque indisponibile) valido ed efficace nei rapporti tra
privati.
Nell’ambito del diritto di famiglia, l’art. 147 del c.c. del 1942 imponeva ai genitori di
impartire ai figli un’educazione conforme alla morale.
A seguito della riforma del diritto di famiglia del 1975 invece, l’art. 147 (Doveri verso i figli)
c.c. afferma che “Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire
ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni
dei figli”.
Essa non dice nulla circa l’educazione religiosa, ma è certo che al riguardo i genitori siano
lasciati liberi, con la riserva che tale educazione costituisca soltanto un avviamento, dovendosi
ammettere che il figlio, anche prima della maggiore età, ha diritto di scegliere la sua vita
religiosa (ex art. 147 c.c. si afferma infatti la necessità di “rispettare le inclinazioni naturali e le
aspirazioni dei figli”).
Nei rapporti fra i genitori, i patti sull’educazione religiosa della futura prole non hanno
validità giuridica, in quanto l’esercizio della potestà dei genitori non è suscettibile di atti
dispositivi ed in quanto la materia della libertà religiosa non è disponibile.
Nei rapporti fra i genitori di diverso orientamento religioso (o quando un mutamento sia
intervenuto nel corso della vita coniugale), in passato si riteneva che la scelta dell’educazione
religiosa dei figli spettasse al padre.
Tuttavia, questi principi erano in contrasto con gli artt. 29 II comma (“Il matrimonio è
ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a
garanzia dell’unità familiare”) e 30 I comma (“È dovere e diritto dei genitori mantenere,
istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”) Cost. che pongono i genitori su
un piano di assoluta uguaglianza quanto alla potestà sulla prole.
Attualmente, vista la parità dei coniugi, entrambi i genitori possono influire sull’educazione
religiosa dei figli (art. 316 c.c.).
In caso di disaccordo tra i genitori e quando non si pervenga ad una soluzione in ambito
familiare, potrà risolvere il conflitto il Tribunale per i Minorenni.
Fra i coniugi vigono senza riserve i principi della libertà religiosa, sia nel senso che ciascun
coniuge è libero di credere o non credere, sia nel senso che ciascun coniuge può cercare di
influire sull’altro, in modo lecito per cercare di modificarne la posizione in materia religiosa.
Tale comportamento trova un limite nell’unità familiare, la quale dovrebbe indurre a
comportamenti improntati al massimo rispetto della personalità del coniuge e lontani da ogni
fanatismo.
Nei rapporti fra privati la libertà religiosa potrebbe trovare limiti in materia successoria,
relativamente a quegli atti di ultima volontà che condizionano l’acquisto dell’eredità o del
legato al fatto che il beneficiario compia o meno un dato atto o tenga o meno un determinato
comportamento in sede religiosa.
Il modus non si ritiene valido quando risulta che il testatore ha voluto indurre il beneficiario a
compiere un atto contrario alle proprie convinzioni.
Invece, esso è lecita quando il lascito è stato effettuato per agevolare i programmi dell’erede o
del legatario.

15­Libertà religiosa nei rapporti di lavoro e pubblico impiego

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Un altro settore in cui la libertà religiosa potrebbe subire limitazioni è quello dei rapporti di
lavoro.
Al riguardo, il legislatore ordinario ha dettato specifiche regole:
­ È nullo il licenziamento del lavoratore per rappresaglia contro la fede religiosa di costui.
­ Sono nulli gli atti o accordi diretti a preordinare l’occupazione, il licenziamento,
l’attribuzione delle qualifiche, i trasferimenti di un lavoratore, ecc. alla sua
appartenenza religiosa o alla sua attività in materia religiosa.
­ Sono vietati i trattamenti di maggior favore per coloro che professano una determinata
religione.
È vietata ogni forma di discriminazione religiosa anche in relazione ai rapporti di pubblico
impiego.
Le norme che escludono che talune persone possono essere chiamate a svolgere date
professioni o alcune pubbliche funzioni (ad es., dispensa dal servizio militare) in
considerazione della loro particolare qualifica religiosa, non violano la libertà religiosa di
costoro.
Esse infatti considerano tali soggetti inidonei a svolgere quell’incarico in considerazione della
mitezza d’animo che dovrebbe contraddistinguerli, oppure considerano incompatibili tra loro i
due diversi uffici, allo scopo di garantire un altro interesse costituzionalmente tutelato (ad es.,
l’imparzialità della pubblica amministrazione).
Diverso è il caso in cui un ente o un’associazione con un’esplicita impronta confessionale
richieda per i propri dipendenti l’appartenenza ad una data confessione e preveda che
l’abbandono di questa importi la risoluzione del rapporto di lavoro.
In questi casi, accanto alla libertà del singolo, che può mutare la religione quante volte voglia
senza averne danno, sono in gioco l’autonomia dell’organizzazione ed il diritto di questa alla
propria identità religiosa, la quale risulta tutelata dalla Costituzione, al riguardo si parla di
diritto all’identità confessionale dell’ente.
In questo caso sarebbe quindi legittimo sia subordinare l’assunzione all’appartenenza religiosa,
sia licenziare il dipendente che abbia mutato religione (come ha anche precisato la Direttiva
CE 78/ 2000).
Ad es., tale situazione si verificava in relazione al sistema di reclutamento dei professori
universitari di ruolo delle Università cattoliche (S. Cuore; Istituto di magistero Maria
Immacolata), i quali fanno parte del corpo dei professori universitari dello Stato, ma l’art. 38
del Concordato del 1929 ne subordinava la nomina al nullaosta della Santa Sede (al fine di
verificare che in tali soggetti non vi fosse nulla da eccepire dal punto di vista morale o
religioso).
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha escluso l’ipotesi di incompatibilità tra l’art. 38 del
Concordato e gli artt. 3, 19 e 33 Cost.
In relazione agli artt. 19 e 33 Cost., in quanto i docenti sono sempre liberi di recedere dal
rapporto quando non condividano più le finalità della scuola. Viceversa, l’art. 19 Cost. sarebbe
violato se lo Stato imponesse ad un’università ideologicamente qualificata di avvalersi
dell’opera di docenti non ispirati allo stesso credo, perché ciò sacrificherebbe la libertà religiosa
dell’istituto.
In relazione all’art. 3 Cost., in quanto la Corte ha visto nella disposizione concordataria non
un privilegio dell’Università cattolica, ma una specificazione del principio di libertà religiosa.

L’uguaglianza di trattamento dei singoli senza distinzione di religione e l’uguale libertà di tutte
le confessioni religiose

16­L’uguaglianza di trattamento dei singoli senza distinzione… art.3 e l’uguaglianza di


libertà di tutte le confessioni religiose
Fra le norme costituzionali in materia religiosa rilevano gli artt. 3 e 8 I comma Cost.

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L’art. 8 Cost. afferma che “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla
legge”.
L’art. 3 Cost. afferma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”.
L’art. 3 Cost. riguarda il trattamento dei singoli cittadini.
In particolare, il I comma afferma il principio di uguaglianza formale, il quale esclude che il
legislatore possa utilizzare la religione professata come criterio di discriminazione dei cittadini;
il II comma afferma invece il principio di uguaglianza sostanziale.
Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale tali disposizioni presentano alcuni margini di
elasticità, in quanto:
­ Non vietano al legislatore di effettuare discriminazioni ragionevoli per disciplinare
situazioni diverse.
­ Nella materia considerata, norme parificate a norme costituzionale potrebbero
introdurre eccezioni.
Al riguardo, si parla di uguaglianza giuridica.
L’art. 8 I comma Cost. riguarda il tema della libertà religiosa ed occupa una posizione centrale
nel sistema (invece non è un principio supremo in quanto non afferma da solo il principio della
laicità dello Stato ma insieme con altre disposizioni, ossia gli artt. 2, 3, 7, 8 II comma, 19 e 20
Cost.).
Esso attribuisce a tutte le confessioni religiose la stessa misura di libertà. La formula è molto
chiara (“tutte le confessioni religiose”) e non si spiegano le tesi di chi sostiene che tale
disposizione si riferisca soltanto alla Chiesa cattolica.
Il fatto che la Costituzione assicuri la parità nel godimento della libertà non esclude che il
legislatore possa prevedere un trattamento diverso per le varie confessioni religiose, a secondo
che la necessità o l’opportunità lo richiedano.
Infatti, la Costituzione riconosce l’uguaglianza delle varie confessioni sotto il profilo della
libertà e non nel trattamento di cui esse possono essere fatte oggetto.
Ad es., essa riconoscendo l’importanza primaria della Chiesa cattolica e prevedendo di
regolare i rapporti con quest’ultima in maniera differente da quelli previsti per le altre
confessioni, mostra di considerare in modo differente i vari fenomeni sociali.
Tale posizione è sembrata a molti la traduzione in formule costituzionali del pensiero del
Ruffini, secondo il quale trattare in modo uguale rapporti giuridici disuguali, è altrettanto
ingiusto quanto trattare in modo disuguale rapporti giuridici uguali.

17­L’uguaglianza e la protezione delle formazioni sociali rispetto al trattamento delle


confessioni religiose
È necessario stabilire se l’art. 3 I comma Cost. si riferisca soltanto alle persone fisiche aventi
la cittadinanza italiana (come prevede in modo espresso la disposizione), oppure anche alle
persone giuridiche e ai gruppi sociali.
È respinta l’opinione secondo cui le formazioni sociali, di cui all’art. 2 Cost., in quanto
soggetti autonomi di diritto costituzionale, sarebbero tutelate dall’art. 3 Cost. al pari delle
persone fisiche (infatti, l’art. 3 Cost. fa esclusivo riferimento soltanto a queste ultime).
In realtà non c’è una norma costituzionale che garantisce l’uguaglianza delle formazioni
sociali.
La lesione dell’uguaglianza rileva soltanto quando la legge tratta in modo diseguale formazioni

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sociali con lo stesso fine, ma in quanto si determina una lesione dei diritti dei singoli che in
essa operano, impedendo di fatto il pieno sviluppo della persona umana.
Per contro, quando il trattamento differenziato non tocca il patrimonio giuridico dei singoli, le
formazioni sociali discriminate possono sviluppare la personalità dell’uomo. Dunque, non vi è
violazione dell’art. 3 Cost.
In ogni caso, dall’art. 8 I comma Cost. (secondo cui le formazioni sociali inquadrabili fra le
confessioni religiose hanno pari misura di libertà ma non parità di trattamento) si desume che
la Costituzione ha escluso in modo esplicito che alle formazioni sociali inquadrabili fra le
confessioni religiose possano essere applicati i principi desumibili dall’art. 3 Cost.

18­L’eguaglianza sostanziale delle confessioni religiose


La dottrina si domandata se il trattamento differenziato nel regime giuridico delle confessioni
religiose non influisca sulla misura della loro libertà.
Al riguardo, è necessario interpretare l’art. 8 I comma Cost., il quale estende il principio
dell’uguaglianza giuridica alle confessioni religiose, proprio quanto alla misura della loro
libertà garantita dall’ordinamento.
Libertà ed uguaglianza possono concorrere tra loro (ad es., sono menzionati come fattori
concomitanti dello sviluppo della persona umana dall’art. 3 II comma Cost.); ma possono
anche ritrovarsi in una situazione di conflitto (ad es., quando i vantaggi concessi a una
confessione religiosa cagionano una diminuzione della libertà a danno delle altre).
La nostra Costituzione non garantisce soltanto una libertà formale (art. 8 I comma Cost.) di
tutte le confessioni religiose, ma anche una libertà sostanziale (art. 8 II comma ed art. 7 II
comma Cost.) che consenta un effettivo esercizio della libertà religiosa e degli altri diritti
costituzionali.
Tuttavia, tale indirizzo non sempre ha trovato rispondenza nelle norme di legge che
disciplinano il fenomeno sociale religioso. Ad es., nell’applicare la legge ordinaria in sede
giudiziaria o amministrativa a volte si è negato ad alcune confessioni religiose la libertà
religiosa in senso formale.
Questa situazione dipende dal fatto che mentre per la Chiesa cattolica esiste già, in base alle
norme concordatarie o a quelle dettate in modo unilaterale dallo Stato, un corpo di norme che
favoriscono la sua esistenza o le sue attività, lo stesso non avviene per le altre confessioni (di
queste soltanto quella israelitica ottenne nel 1930 una disciplina legale che comunque non ha
agevolato la sua libertà ma soltanto soddisfatto alcune esigenze organizzative).
Se questa situazione persistesse, le disposizioni riguardanti la Chiesa cattolica assumerebbero
carattere privilegiato e sarebbe in contrasto con l’art. 8 I comma Cost.
Sul presupposto che la libertà religiosa fosse un diritto del cittadino verso lo Stato, la
concezione liberale affermava che la religione è un campo in cui lo Stato non può dare nulla e
su di lui incombe un dovere di astensione.
Ci potremmo domandare se, nella prospettiva democratica e sociale accolta dalla nostra
Costituzione, si possa pensare che lo Stato sia tenuto ad un facere che lo obblighi a garantire a
tutte le confessioni religiose una parità “nei punti di partenza”, nel senso che tutte le
confessioni dovrebbero godere di pari mezzi per raggiungere i loro fini.
Ciò comporterebbe 2 possibilità di intervento per lo Stato:
­ Intervenire dotando tutte le confessioni degli stessi mezzi.
Tuttavia, tale intervento non può essere realizzato perché non esiste norma
costituzionale che fa obbligo allo Stato di finanziare questa o quella confessione.
­ Intervenire ridimensionando i mezzi nei confronti della religione di maggioranza.
Tuttavia, tale intervento non può essere realizzato perché l’art. 20 Cost. vieta qualsiasi
limitazione legislativa e qualsiasi speciale gravame fiscale a carico degli enti ecclesiastici
o aventi fini di religione o di culto.
Dunque, non resta che valutare se il compito dello Stato consista nel rimuovere quelle

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situazioni di privilegio le quali, essendo concesse soltanto ad una confessione religiosa, la
avvantaggino nel godimento di una libertà che invece dovrebbe essere uguale per tutte le
formazioni sociali con fine religioso.
Da sottolineare che la Corte Costituzione, giudicando circa la legittimità dei Patti Lateranensi,
ha sostenuto che l’art. 7 II comma Cost. consentisse una deroga al principio di uguaglianza di
cui all’art. 3 I comma Cost. (nella parte in cui non si considera la dizione “senza distinzione di
religione”).
Secondo tale tesi, il principio di uguaglianza giuridica non è ascrivibile fra i principi supremi
dell’ordinamento costituzionale, se non come mero criterio di ragionevolezza delle scelte del
legislatore.
Dunque, anche nel settore della religione sarebbero ammissibili differenze, purché ragionevoli.
Tuttavia, è necessario aggiungere che se così deve essere inteso, in maniera corrispondente
deve ammettersi che anche l’art. 8 III comma Cost. può derogare al principio di uguaglianza
attraverso le Intese, ma a favore delle altre confessioni religiose.]

19­Facoltà promananti dal diritto di libertà religiosa


Considerando la libertà religiosa come diritto soggettivo individuale, dalla Costituzione si
ricava che sono riconosciute a tutti gli uomini le seguenti facoltà:
­ La facoltà di professare la fede religiosa in forma individuale o associata.
­ La facoltà di esercitare il culto in privato o in pubblico.
­ La facoltà di fare propaganda religiosa.
­ La facoltà di manifestare con ogni mezzo il proprio pensiero in materia religiosa.
­ La facoltà di riunirsi con altre persone a scopo di religione o di culto.
­ La facoltà di fondare associazioni con fini di religione o di culto e di aderire a quelle
esistenti.
­ Più in generale, la facoltà di esercitare tutti i diritti garantiti dalla Costituzione stessa in
funzione della libertà religiosa.
Dunque, il contenuto essenziale del diritto di libertà religiosa è quello di consentire
all’individuo di estrinsecare la propria personalità religiosa.
I gruppi sociali che perseguono un fine di religione o di culto, oltre a essere titolari di quelle
facoltà che competono ai gruppi sociali in quanto tali, sono anche titolari di quelle stesse
facoltà appartenenti agli individui e che possono essere esercitate in forma collettiva.
Tuttavia, esistono diritti i quali, seppure esercitabili da parte dei singoli, sono più idonei ad un
esercizio da parte di gruppi sociali e delle confessioni religiose (ad es., l’apertura di templi ed
oratori).

20­Libertà di coscienza e l’ateismo


Il fondamento di tutte le facoltà discendenti dal diritto di libertà religiosa è la libertà di
coscienza, ossia l’intimo ed libero atteggiarsi dell’individuo di fronte al problema dell’essere e
dell’esistere, nei suoi aspetti religiosi, etici, politici, sociali, ecc.
Secondo la dottrina tradizionale, la libertà di coscienza viene in rilievo dal punto di vista
giuridico se si manifesta all’esterno.
In epoca recente, è stato sostenuto che lo Stato dovrebbe garantire, ancor prima della
manifestazione esterna della coscienza religiosa o areligiosa, la formazione stessa di tale
coscienza.
Per garantire tale libertà “psicologica”, lo Stato dovrebbe:
­ Eliminare i fattori che pregiudicano la formazione delle coscienze personali di ciascuno.
­ G arantire l’uguaglianza dei punti di partenza anche in materia religiosa, specie a coloro
sono svantaggiati per motivi di carattere economico o sociale (ad es., Stato dovrebbe
rendere effettivo il diritto allo studio, perché tramite l’apprendimento si può acquisire

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una libertà di coscienza).

Nell’approfondire il tema della libertà religiosa non bisogna dimenticare che essa in primo
luogo un diritto soggettivo, in quanto la pretesa dell’individuo o del gruppo sociale è protetta
dall’ordinamento con la concessione agli interessati di un’azione in difesa di tale bene.
Tuttavia, la Costituzione non garantisce un diritto alla formazione della coscienza diverso dal
diritto di esprimere il proprio pensiero, di ricevere la comunicazione del pensiero altrui o di
ricevere l’istruzione.
Inoltre, nonostante sia necessario garantire una libera formazione delle coscienze, la legge non
potrà mai eliminare totalmente i condizionamenti derivanti dall’ambiente che influiscono sulla
formazione delle coscienze.
I condizionamenti ambientali sono irrilevanti anche per la disciplina dei vizi del consenso di
diritto privato, la quale considera come rilevanti soltanto l’incapacità, l’errore, la violenze ed
il dolo.
Tale disciplina è stata estesa anche alla formazione della coscienza religiosa o areligiosa.
La questione dei condizionamenti è stata risposta con riguardo ai simboli religiosi esposti o
mostrati in luogo pubblico, con particolare riferimento alla questione del Crocifisso.
Al riguardo, il Consiglio di Stato ha affermato che in Italia il crocifisso è idoneo ad esprimere,
in chiave simbolica ma adeguata, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, valorizzazione
della persona ed affermazione dei suoi diritti che connotano la civiltà italiana.
Il problema della libertà di coscienza comprende non soltanto la facoltà di orientarsi fra varie
fedi, ma anche la facoltà di non aderire ad alcun credo religioso. Ciò è quanto emerge
dall’art. 19 Cost., quando afferma che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria
fede religiosa in qualsiasi forma”.
Dunque, sono protetti anche l’ateo ed il miscredente, i quali non possono essere costretti, in
alcun modo, a compiere atti che implichino una professione di fede religiosa.
Collegando tale disposizione con l’art. 3 I comma Cost., ne deriva che da una posizione
religiosa, areligiosa o antireligiosa non può derivare al singolo alcun effetto favorevole o
sfavorevole nei campi che siano disciplinati dall’ordinamento statuale.
Inoltre, è protetto dalla Costituzione anche l’ateismo c.d. attivo, ossia la propaganda ateistica
o le eventuali associazioni.
Nessuna manifestazione attiva di ateismo può comportare conseguenze nel campo
dell’ordinamento statuale, né nei confronti dei singoli né nei confronti dei gruppi sociali.
Da sottolineare che le organizzazioni atee non sono confessioni religiose, dunque non possono
godere del regime previsto dall’art. 8 Cost.
Inoltre, seppure gli atei hanno diritto di contestare tutte le limitazioni a danno della loro
azione dall’esistenza di privilegi altrui incompatibili con la Costituzione, essi non possono
contestare in blocco l’esistenza nell’ordinamento di un favor religionis, in quanto non è possibile
configurare l’esistenza di un diritto soggettivo alla sua abolizione.

21­La professione della fede religiosa, l’appartenenza confessionale


La facoltà di professare la fede religiosa comporta la libertà di:
­ Dichiarare l’appartenenza a questa, quella o nessuna confessione.
­ Dichiarare, in privato o in pubblico, i principi cui si aderisce, senza che ciò comporti
alcuna conseguenza favorevole o sfavorevole per l’ordinamento statuale.
­ Tenere un comportamento coerente con tali principi, purché ciò non comporti la
violazione di altri valori garantiti dalla Costituzione.
Per l’ordinamento civile, l’appartenenza confessionale è sempre libera anche quando questa
fosse definita come obbligatoria dagli statuti organizzativi delle confessioni.
L’art. 4 del r.d. 1731/ 1930 sulle Comunità israelitiche, prevedeva l’appartenenza di diritto ad

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ogni Comunità di tutti gli israeliti che hanno residenza nel territorio di essa.
Tale norma è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, sul presupposto che
l’appartenenza qualificata di diritto dalla legge fosse da ritenere un’appartenenza obbligatoria.
Tuttavia è necessario sottolineare che tale illegittimità era smentita dal successivo art. 5, il
quale stabiliva che cessava di appartenere alle Comunità chi passasse ad altra religione o
dichiarasse di non voler più essere considerato israelita agli effetti del decreto (recesso dalle
Comunità israelitiche).
Infatti, un’appartenenza che poteva cessare in qualsiasi momento non era configurabile come
obbligatoria.
Inoltre, l’art. 5 (oggi abrogato) non era in contrasto con il principio di libertà religiosa, in
quanto si trattava di una dichiarazione da rendere alla confessione religiosa rimessa alla
coscienza del singolo, quando questo volesse sottrarsi agli obblighi derivanti dall’appartenenza
formale ad una confessione religiosa.
G aranzie riguardo alla professione dei principi di fede si rinvengono anche nell’Intesa stipulata
dallo Stato con la Chiesa evangelica luterana d’Italia (CELI), la quale assicura a tale Chiesa il
diritto di professare e praticare liberamente la fede evangelica secondo la confessione luterana
di Augusta del 1530.

22­La professione di fede e le dichiarazioni a proposito della fede professata


È da valutare se la facoltà di professare l’appartenenza a questa, quella o nessuna confessione
religiosa, importi anche l’obbligo dello Stato di disinteressarsi della religione professata dai
cittadini e quindi l’illegittimità di ogni indagine promossa dall’autorità per conoscere la
religione professata o meno dagli italiani.
La materia rientra nella c.d. tutela della privacy, ossia il rispetto dovuto alla vita privata delle
persone, soprattutto in seguito alla formazione di varie banche­dati.
Al riguardo, l’ordinamento italiano ha disciplinato il trattamento dei dati di carattere
personale.
Secondo la Convenzione di Strasburgo, cui l’Italia si è conformata, i dati personali, fra i quali
rientrano le convinzioni religiose, non possono essere elaborati automaticamente, a meno che
il diritto degli Stati aderenti non preveda garanzie adatte.
In particolare, in Italia il Codice in materia di protezione dei dati personali prevede che i dati
sensibili possono essere oggetto di trattamento soltanto con il consenso scritto dell’interessato e
previa autorizzazione del G arante della privacy.
Non sono sottoposti a questo regime i dati relativi agli aderenti alle confessioni religiose
effettuato dai relativi organi, purché le confessioni prevedano esse stesse relative garanzie in
relazione al loro trattamento ed i dati non siano comunicati fuori delle medesime confessioni.
Per il resto, nel nostro ordinamento manca un divieto generale di raccolta delle informazioni
anche religiose e non è vitata un’inchiesta statale in relazione a tale materia quando essa sia
compatibile con le norme costituzionali (ad es., gli stranieri nella dichiarazione di soggiorno
devono indicare la religione professata).
[Infatti, quando alcune norme, in ipotesi specifiche, vietano le indagini private sulle opinioni
religiose di altri privati, il divieto riguarda soltanto la loro diffusione; quando, in materia di
pubblica sicurezza si vieta di schedare i cittadini per la loro fede religiosa, il divieto è limitato
proprio allo schedare.]
Alcuni ritengono che lo Stato per rispettare l’uguaglianza e rimanere indifferente alla religione
dei cittadini non dovrebbe indagare su tale inclinazione.
Tuttavia, si sostiene che non è possibile governare senza conoscere la società governata, così
può essere utile effettuare una indagine sulla posizione religiosa dei cittadini con prevalenti
fini statistici e sempre che siano assicurate opportune forme di controllo sulla raccolta e
sull’uso dei dati.
Al riguardo, si sostiene l’ammissibilità di un’“anagrafe religiosa” sul presupposto che sia

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formata in base a dichiarazioni rese liberamente dai cittadini maggiorenni, senza possibilità di
alcun sindacato sulla loro veridicità e sempre modificabili.
Essa non sarebbe una schedatura poiché quest’ultima è seguita di nascosto e senza
contraddittorio. Inoltre, l’anagrafe religiosa consentirebbe di applicare il principio di
uguaglianza alle varie confessioni religiose, in quanto potrebbe bilanciare esigenze opposte. Ad
es., potrebbe essere applicata in tema di finanziamento delle confessioni religiose.
Al riguardo, l’Accordo del 15 novembre 1984 e la L. 222/ 1985 prevedono la possibilità da
parte dei cittadini di destinare a propria scelta l’8 per mille al sostentamento del clero cattolico
(dichiarazione implicita di fede religiosa).
Un simile trattamento è stato riservato anche alle altre confessioni religiose che hanno
stipulato intese con lo Stato.
Attraverso tali dichiarazioni sarà possibile accertare il numero di contribuenti che intende
finanziare la Chiesa cattolica o una delle altre confessioni. Non si tratta di una schedatura
vietata perché la dichiarazione è facoltativa e volontaria, la dichiarazione non equivale ad una
professione di fede e, infine, l’amministrazione finanziaria è tenuta al segreto sui nominativi
dei contribuenti.
Invece, sarebbero in contrasto con le norme costituzionali le leggi o i regolamenti che
imponessero ai singoli di tenere un comportamento che, in modo diretto o indiretto, importi
l’adesione a questa o a quella fede religiosa o l’accettazione del divino.
Le norme di tale tipo, ora espunte dall’ordinamento, sono rimaste a lungo in vigore dopo il
1948. Ad es., in tema di comunità separate, il regolamento per gli istituti di prevenzione e
pena prevedeva l’obbligo dei detenuti di seguire le pratiche del culto cattolico, salvo che non
avessero dichiarato di appartenere ad altra confessione religiosa (tale possibilità era esclusa per
i minorenni, obbligati a seguire la religione nella quale erano nati).
Attualmente, si prevede che i detenuti hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di
istruirsi in essa e di praticarne il culto.

23­Professione di fede e istruzione religiosa


Fino a quando era in vigore il Concordato del 1929 il sistema dell’istruzione religiosa nelle
scuole pubbliche ha avuto un’impronta confessionista, in quanto l’Italia considerava
fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica la dottrina cristiana.
I non cattolici e i non credenti potevano ottenere per i propri figli la dispensa
dall’insegnamento religioso ed i primi potevano ottenere un locale scolastico per far impartire
ai figli un’istruzione religiosa diversa dalla cattolica.
Tale sistema era in contrasto con la Costituzione, in quanto l’insegnamento della religione
cattolica era obbligatorio e chi chiedeva la dispensa da tale obbligo si auto­discriminava.
Il sistema è cambiato con l’entrata in vigore della L. 121/ 1985.
Lo Stato continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole
pubbliche non universitarie. Tuttavia, il suo insegnamento non è obbligatorio ma facoltativo e
gli interessati saranno invitati dall’autorità scolastica, al momento dell’iscrizione, a scegliere se
avvalersi o meno di tale insegnamento.
In passato, anche i programmi scolastici della scuola elementare erano organizzati secondo
una concezione confessionista, mentre attualmente i nuovi programmi sono stati organizzati in
modo diverso, al fine di garantire la libertà religiosa degli alunni e delle loro famiglie.
In linea di principio, il nuovo sistema sembra conforme alle norme che garantiscono la libertà
religiosa, ma non è esente da problemi. Ad es., è necessario decidere se lo Stato debba offrire
un panorama esauriente di tutte le credenze, sia religiose sia areligiose, con la conseguenza che
in caso di risposta affermativa sarebbe necessario modificare i programmi d’insegnamento
della scuola italiana.

24­Il giuramento nel processo

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Nel nostro ordinamento processuale, le norme che prevedevano il giuramento dei testimoni
imponevano a chi giurava di rendersi consapevole della responsabilità che con il giuramento
assumeva “davanti a Dio”. Pronunciando le parole “lo giuro”, implicitamente il giurante
dichiarava di professare la fede.
È evidente che tale formula violava la libertà religiosa degli atei, che risultavano obbligati ad
una professione di fede.
La Corte costituzionale inizialmente ha ritenuto infondata la questione.
Successivamente, essa ha mutato orientamento e con la sentenza 117/ 1979 ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale della formula, limitatamente alle parole “davanti a Dio”.
La questione è stata superata sia dal codice di procedura civile che dal codice di procedura
penale.
Per quanto riguarda il codice di procedura penale, l’art. 497 cod. proc. pen. del 1988 non
prevede più che i testimoni prestino un giuramento.
Il giudice, dopo aver avvertito il comparente delle responsabilità previste dalla legge penale per
i testimoni falsi o reticenti, lo invita a rendere una dichiarazione, con la quale il testimone,
consapevole della responsabilità morale e giuridica che assume, si impegna a dire tutta la verità
e a non nascondere nulla di quanto a sua conoscenza.
Per quanto riguarda il codice di procedura civile, l’art. 238 cod. proc. civ. affermava che “Il
giuramento decisorio è prestato personalmente dalla parte ed è ricevuto dal giudice istruttore.
Questi ammonisce il giurante sull’importanza [religiosa e] morale dell’atto e sulle conseguenze
penali delle dichiarazioni false, e quindi lo invita a giurare. Il giurante, in piedi, pronuncia a
chiara voce le parole: “consapevole della responsabilità che col giuramento assumo [davanti a
Dio e agli uomini,] giuro …”, e continua ripetendo le parole della formula su cui giura.
Oggi le parole indicate in parentesi quadra sono state dichiarate illegittime dalla Corte
Costituzionale con sentenza del 1996.
Inoltre, l’art. 251 cod. proc. civ. affermava che “I testimoni sono esaminati separatamente. Il
giudice istruttore ammonisce il testimone sulla importanza religiosa e morale del giuramento e
sulle conseguenze penali delle dichiarazioni false o reticenti e legge la formula: “consapevole
della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini, giurate di dire
la verità, null’altro che la verità”. Quindi il testimone, in piedi, presta il giuramento
pronunciando le parole: “Lo giuro”.
Al riguardo, la Corte costituzionale ha ritenuto irragionevole il diverso trattamento riservato ai
testimoni nel processo civile e in quello penale e ha dichiarato illegittimo l’art. 251 II comma
c.p.c., riscrivendone il testo. Ora il giudice istruttore è tenuto ad invitare il testimone a rendere
una dichiarazione sull’impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a sua
conoscenza.
Da sottolineare che il giuramento davanti a Dio chiamato come testimone rimane un atto
solenne per gli ebrei, i quali possono richiedere di pronuncialo a capo coperto. Tale disciplina
agevola la professione di fede degli ebrei.

25­La professione di fede dei gruppi sociali e l’obiezione di coscienza


La professione di fede del gruppo sociale comporta per il gruppo (anche se non acquista la
personalità giuridica) il diritto:
­ Di affermare i propri principi.
­ Di manifestare la propria adesione ai gruppi che accettino lo stesso credo.
­ Di distinguersi da quelli che accettino principi religiosi diversi.
Il gruppo confessionale è protetto nei confronti:
­ Dello Stato, il quale non può pretendere che esso muti o modifichi i principi cui
dichiara di aderire.
­ Degli altri gruppi sociali e dei singoli che volessero modificare tali principi fuori del
sistema consentito dall’organizzazione del gruppo.

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La Costituzione non offre elementi per identificare quali principi possono formare oggetto
della confessione di fede, ma ne presuppone la distinzione dagli altri principi che non sono
qualificati come religiosi.
Al fine di stabilire se un principio sia di carattere religioso o meno, l’operatore giuridico deve
avere riguardo al sentire comune condizionato dalla cultura e dalle tradizioni
dell’ordinamento in cui si trova ad operare.
Ad es., in Italia può essere concepita come fede religiosa soltanto la fede di un essere
soprannaturale che vuole il bene comune degli uomini. Dunque, il satanismo o la superstizione
possono dar luogo ad una linea di pensiero ma non sono ricomprese nell’ambito della libertà
religiosa.
I principi d’ordine religioso non incontrano nella nostra Costituzione il limite dell’ordine
pubblico o del buon costume (quest’ultimo è soltanto imposto per l’esecuzione dei riti ma non
si esclude che i principi contrari al buon costume siano coltivati altrimenti). Dunque, i precetti
contrari all’ordine pubblico o al buon costume possono formare oggetto di adesione in via di
principio.
Tuttavia, essi non possono essere attuati o tradotti in pratica, in quanto non è possibile violare
la Costituzione o le leggi con la pretesa di aderire ai precetti di una data fede religiosa.
Tale discorso è collegato a quello relativo all’obiezione di coscienza verso il compimento di
doveri imposti dall’ordinamento statuale.
Alcune confessioni religiose escludono che i propri aderenti possano eseguire comportamenti
che per lo Stato sono ritenuti doverosi quali, ad es., prestare giuramento o servizio militare,
pagare i pubblici tributi, usare determinati rimedi terapeutici, ecc.
Finché questi principi rimangono affermazioni teoriche, nulla quaestio.
Il problema sorge invece quando si voglia passare all’attuazione pratica di essi.
Al riguardo si afferma che nessuno, proclamando di voler seguire la propria coscienza
religiosa, può:
­ Sottrarsi al compimento di doveri imposti dalla legge.
­ Sottrarsi al dovere di solidarietà politica, economica e sociale nei confronti della
nazionale sancito dall’art. 2 Cost.
­ Rifiutarsi di prestare giuramento in occasione dell’assunzione di pubblici uffici o per la
testimonianza.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità
costituzionale delle norme che imponevano il giuramento dei testimoni sollevata da chi,
sulla base di un’interpretazione letterale del Vangelo, pretendeva di non prestare alcun
giuramento. Poi il tema è stato definitivamente risolto con l’eliminazione del
giuramento nel processo.
In ogni caso, il diritto di libertà religiosa torna a espandersi nuovamente tutte le volte in cui
l’ordinamento, per quanto imponga un obbligo, preveda che il singolo ne possa essere
esonerato, come nel caso dell’opposizione al servizio militare.
Il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare è
avvenuto gradualmente.
La L. 772/ 1972 ha riconosciuto l’obiezione di coscienza agli obbligati alla leva militare che
dichiaravano di essere contrari all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di
coscienza. Al servizio di leva veniva sostituito un servizio militare non armato o un servizio
civile sostitutivo.
Tuttavia, l’accoglimento dell’istanza era rimessa alle valutazione discrezionale di una
Commissione Ministeriale (l’obiettore non aveva infatti l’obbligo di motivare la propria
domanda) e si prevedeva che l’obiezione di coscienza non potesse aver effetto in sede di
richiamo alle armi. Dunque, agli obiettori veniva riconosciuto semplicemente un interesse
legittimo al corretto operare di tale organo ministeriale.

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Nel 1994 la Commissione Ministeriale è stata soppressa e l’obiezione di coscienza al servizio
militare è stata promossa a diritto soggettivo dei giovani di leva.
Nel 1998 il legislatore ha parificato il servizio civile sostitutivo al servizio militare,
considerandolo una forma valida di adempimento del dovere costituzionale di difendere la
Patria.
La leva, sebbene mai formalmente abolita, non è più obbligatoria dal 1º gennaio 2005 come
stabilito dalla legge Martino (L. 226/ 2004).

26­I giorni festivi


Ogni confessione religiosa ha i suoi giorni festivi (ad es., la domenica per la Chiesa cattolica;
il sabato per gli ebrei; il venerdì per i musulmani).
Il rispetto dei giorni festivi è un obbligo di coscienza dei credenti.
I giorni festivi mirano ad agevolare l’esercizio della libertà religiosa, in quanto consentono ai
credenti di adempiere il loro dovere di coscienza liberi dalle preoccupazioni dei giorni
lavorativi.
Nell’Accordo del 1984 fra l’Italia e la Santa Sede sono stati riconosciuti anche agli effetti civili
come giorni festivi tutte le domeniche e le altre festività religiose determinate d’intesa tra le
parti.
Tali norme, riguardando la generalità dei cittadini valgono a formare il calendario comune, sul
quale è regolato anche il funzionamento degli uffici pubblici.
Per quanto riguarda le confessioni diverse dalla cattolica, l’Intesa con l’Unione delle Chiese
avventiste e l’Intesa con le Comunità ebraiche prevedono il riconoscimento civile della
festività del sabato.
Tuttavia, per gli ebrei il riposo sabatico va da mezz’ora prima del tramonto del venerdì ad
un’ora dopo il tramonto del sabato; mentre per gli avventisti il riposo sabatico va dal tramonto
del venerdì al tramonto del sabato.
Quando i lavoratori avventisti o ebrei richiedano di fruire del riposo settimane di sabato (e fatte
salve le imprescindibili esigenze dei servizi essenziali previsti dall’ordinamento civile), devono
recuperare la giornata lavorativa la domenica o un altro giorno, senza diritto a compenso
straordinario.
Inoltre, nelle scuole si considerano giustificate le assenze degli alunni avventisti o ebrei nel
giorno del sabato.
La disciplina prevista per il sabato è estesa ad altre 7 festività ebraiche per complessivi 15
giorni. Il calendario di queste è comunicato entro il 30 giugno di ogni anno dall’Unione delle
Comunità ebraiche al Ministero dell’Interno, che lo pubblica in G azzetta Ufficiale.
Da sottolineare che le disposizioni di riconoscimento di festività diverse da quelle previste in
precedenza hanno carattere speciale e creano un “calendario speciale”, ma limitatamente al
riconoscimento dei giorni di riposo diversi da quelli comuni.
Dunque, non comportano variazioni alla disciplina del computo dei termini di prescrizione di
cui all’art. 2963 c.c., il quale prevede di calcolarli secondo il calendario comune (ossia secondo
il calendario seguito dalla generalità dei cittadini).
Del resto sarebbe impossibile calcolare il termine di prescrizione distinguendo tra le diverse
credenze religiose.

27­L’esercizio pubblico del culto e l’apertura di templi e oratori


L’esercizio del culto in privato e in pubblico è garantito dall’art. 19 Cost, il quale stabilisce che
tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto,
purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Tuttavia, l’esercizio del culto in pubblico non è esente da problemi.

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Esso coinvolge il problema dell’apertura di luoghi destinati a tale fine ed il contemporaneo
esercizio del diritto di riunione di cui all’art. 17 Cost.
La normativa del 1930 non attribuiva alle confessioni religiose di minoranza un vero e proprio
diritto ad aprire templi ed oratori, in quanto queste necessitavano di un’apposita
autorizzazione governativa (su richiesta di un ministro di culto regolarmente approvato al
capo dello Stato che decideva con decreto, documentando che l’edificio era necessario per
soddisfare effettivi bisogni religiosi di importanti nuclei di fedeli) ed i fedeli potevano riunirsi in
locali autorizzati soltanto se la riunione fosse stata presieduta da un ministro di culto
approvato; in mancanza, occorreva avvertire l’autorità di polizia.
Da sottolineare che le minoranze religiose non avevano alcun diritto soggettivo
all’autorizzazione dell’apertura di un edificio di culto, ma un mero interesse legittimo
difficilmente tutelabile, in quanto il giudice amministrativo non aveva il potere di giudicare
anche sul merito della questione.
In mancanza di autorizzazione governativa, edificio idoneo o presenza del ministro di culto, la
riunione era disciplinata dalle norme comuni per le pubbliche riunioni. Dunque, i suoi
promotori dovevano darne avviso al questore almeno 3 giorni prima.
Questo poteva impedire che la manifestazione avesse luogo per omesso avviso, oppure per
ragioni di ordine pubblico, moralità o sanità pubblica.
Da sottolineare che essi non potevano eludere il controllo riunendosi in forma privata, in
quanto il T.U. delle leggi in materia di pubblica sicurezza affermava che veniva considerata
pubblica anche una riunione che, sebbene indetta in forma privata, aveva il carattere di
riunione pubblica sulla base di una serie di indici (luogo in cui è tenuta, numero delle persone
che vi partecipano, scopo o oggetto di essa).
Poiché nessuna di queste limitazioni era prevista per la Chiesa cattolica (il cui esercizio
pubblico del culto era assicurata dall’Accordo del 1984), le altre confessioni erano svantaggiate
rispetto le disposizioni di cui agli artt. 8 I comma e 19 Cost.
In relazione a tale disciplina, il Ministero dell’Interno riteneva che l’art. 17 Cost. non fosse
applicabile alle riunioni di culto in luogo aperto al pubblico e che l’art. 19 Cost. non avesse
valore precettivo, ritenendo invece che le riunioni degli appartenenti alle confessioni di
minoranza fossero unicamente disciplinate dalle regole comuni in tema di riunioni pubbliche.
A tale interpretazione che disapplicava palesemente le norme costituzionali si oppose la
giurisprudenza di merito, la quale ritenne che le norme dell’art. 17 e dell’art. 19 Cost., essendo
immediatamente precettive, avessero abrogato le norme restrittive della libertà di culto del
1930 e le norme del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza.
Invece, la Corte di Cassazione ritenendo l’art. 19 Cost. una norma precettiva ma di
applicazione non immediata, affermava che sino all’emanazione di nuove leggi sui culti diversi
dal cattolico, l’apertura dei templi di tali confessioni restava disciplinata dalle norme del 1930.
Tuttavia essa, ritenendo l’art. 17 Cost. immediatamente precettivo (ed abrogante tacitamente il
T.U. sulle leggi di pubblica sicurezza), escluse che l’apertura di un tempio non autorizzato
potesse essere penalmente sanzionata.
Soltanto con l’entrata in funzione della Corte Costituzionale la libertà per chi non fosse
cattolico di aprire edifici al culto pubblico e di tenere riunioni in luogo aperto al pubblico ha
avuto concreta efficacia.
In particolare, essa con la sentenza 45/ 1957 dichiarò illegittimo l’art. 25 T.U. delle leggi di
p.s., riguardante le cerimonie religiose fuori dei luoghi destinati al culto, per contrasto con
l’art. 17 che la stessa Corte ha ritenuto applicabile a qualsiasi genere di riunione.
Inoltre, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale delle norme riguardanti l’autorizzazione
governativa per l’apertura dei templi e degli oratori delle confessioni di minoranza e della
norma che condizionava la legittimità della riunione non autorizzata al fatto che fosse
presieduta da un ministro approvato dall’autorità governativa.
Dopo l’intervento della Corte costituzionale, in materia di apertura di edifici di culto non

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sussistono differenze formali tra il trattamento alla Chiesa cattolica e quello riservato alle altre
confessioni.
Una disparità di carattere minore sussiste nell’art. 831 II comma c.c., il quale stabilisce
l’indisponibilità degli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto, ma soltanto quando si
tratti del culto cattolico.
Una disciplina identica è prevista per gli edifici adibiti al culto ebraico.
Non è possibile superare tale limitazione affermando che il vincolo di destinazione tutelerebbe
anche gli edifici dei culti diversi dal cattolico e dall’ebraico, in quanto un regime così
particolare dovrebbe derivare da una norma apposita.
Tale situazione è incompatibile con l’art. 8 I comma Cost.
Ulteriori limitazioni all’apertura di luoghi di culto per le confessioni di minoranza potrebbero
derivare dalle norme in materia urbanistica ed edilizia.
Infatti, per la costruzione di un edificio di culto o per la destinazione a luogo di culto di un
edificio già esistente, gli interessati devono ottenere il prescritto permesso di costruire rilasciato
dal dirigente o responsabile del competente ufficio comunale.
È evidente che ciò contrasta con l’esercizio della libertà religiosa, in quanto l’autorità
comunale potrebbe in vario modo ostacolare l’esecuzione dell’opera.
Inoltre, potrebbero essere le stesse norme urbanistiche a creare ostacoli.
Ad es., l’art. 7 della L. 1150/ 1942 prevede che nei piani regolatori generali dei comuni devono
essere indicate le aree riservate alle opere di interesse pubblico, fra le quali vengono annoverate
anche le Chiese.
Se si sostenesse che l’interesse garantito dalla legge sarebbe quello dei cittadini professanti la
religione di maggioranza, si potrebbe escludere che in dette zone possano essere costruiti
edifici di culto diversi dal cattolico.
inoltre, se tali costruzioni non potessero sorgere altrove, la libertà degli appartenenti alle
confessioni diverse dalla cattolica di disporre di un vero e proprio edificio verrebbe
insoddisfatta.
Infine, l’art. 17 Cost. stabilisce che delle riunioni in luogo pubblico dev’essere dato preavviso
alle autorità. Quest’ultima deve semplicemente prendere atto della comunicazione e può
vietare la riunione soltanto per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica. Dunque,
sarebbe illegittimo subordinare la “concessione” della riunione in luogo pubblico al previo
consenso scritto dell’autorità, proprio perché essa può manifestarsi senza bisogno di alcuna
autorizzazione.

28­I riti e il limite del buon costume


La Costituzione prevede come unico limite all’attività di qualsiasi confessione religiose, che i
riti non siano contrari al buon costume.
Nell’originaria formulazione, la libertà religiosa era garantita purché non si trattasse di una
confessione che coltivasse “principi o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume”.
Le parole “principi” e “ordine pubblico” furono soppresse dall’Assemblea costituente.
Dunque, oggi si escludo controlli attinenti ai principi professati dalla confessione religiosa e si
escludono provvedimenti censori contro una confessione religiosa giustificati dalla tutela
dell’ordine pubblico. In particolare, il costituente ha voluto sopprimere il termine “ordine
pubblico” in quanto, essendo molto generico, poteva essere discrezionalmente interpretato
dall’autorità.
In definitiva, l’unico limite in relazione ai riti delle confessioni religiose è il rispetto del buon
costume.
Tale limite sembra più teorico che pratico, poiché l’esperienza religiosa del nostro Paese non
conosce confessioni che compiano riti contrari al buon costume.
Tale nozione deve essere intesa in senso penalistico, dunque sono illegittimi i riti che

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offendono la libertà sessuale, il pudore e l’onore sessuale (diverso è limite del buon costume
indicato dall’art. 21 ultimo comma Cost. in relazione alla manifestazione del pensiero. Si tratta
in questo caso del buon costume civile, ossia dell’etica).
Da sottolineare che tale limite opera soltanto quando i riti contrari al buon costume vengono
concretamente svolti, in privato (si violerebbe l’art. 18 Cost. che vieta le associazioni segrete)
o in pubblico (la vicenda sarebbe nota all’autorità).
Esso è invece irrilevante quando una confessione religiosa si prodighi per diffondere idee
contrarie al buon costume, senza effettuare riti di iniziazione a tali pratiche o esigere
l’attuazione di tali principi nei confronti degli aderenti.

Nei confronti di quanti esercitano un culto mediante riti contrari al buon costume, l’art. 19
Cost. esclude interventi preventivi.
Provvedimenti preventivi sono previsti soltanto per i casi indicati dall’art. 21 VI comma
(l’ultimo) Cost., il quale afferma che “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e
tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti
adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
Questa linea di pensiero è stata accolta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza
45/ 1957, la quale ha sostenuto l’autorità di polizia può intervenire soltanto dopo che si è
verificata una prima trasgressione a questo limite, per vietare la ripetizione di quelle
determinate azioni.

29­Le associazioni a carattere religioso o culturale


Le associazioni a carattere religioso o culturale, in quanto perseguono un fine non vietato
dalla legge penale e garantito dall’art. 19 Cost., sono protette e disciplinate dagli artt. 18 e 20
Cost.
Dunque, la loro formazione o l’adesione ad esse non è subordinata ad alcun provvedimento
autorizzativo da parte dello Stato e la legge ordinaria non può prevedere nei loro confronti
limitazioni o gravami fiscali diversi da quelli esistenti per qualsiasi altra associazione.
L’appartenenza ad un’associazione è disciplinata dagli statuti di questa.
L’autorità dello Stato non può sindacare il merito dei provvedimenti disciplinari adottati dagli
organi delle associazioni in conformità degli statuti (ad es., quelli con cui vengono allontanati
alcuni soci), altrimenti interferirebbe sulla libertà dell’associazione.
Questa garanzia è presente anche in relazione alle associazioni religiose cattoliche, in forza
dell’art. 23 II comma dal Trattato del Laterano, per il quale hanno piena efficacia giuridica,
anche a tutti gli effetti civili, le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche
ed ufficialmente comunicati alle autorità civili circa le persone ecclesiastiche o religiose e
riguardanti materie spirituali o disciplinari.
L’esenzione del controllo statuale riguarda soltanto i religiosi professi di voti nei rapporti con
l’associazione cui appartengono.
Invece, non si esclude la tutela giurisdizionale dello Stato nell’ipotesi di provvedimenti che
riguardano soggetti non qualificabili come religiosi.
In ogni caso, l’autorità giudiziaria può sempre sindacare la legittimità del provvedimento
ecclesiastico quando questo ha ricadute su una situazione giuridica tutelata
dall’ordinamento statuale (anche dei religiosi).
Al riguardo, l’art. 23 del Trattato Lateranense si interpreta nel senso che la sentenza ed i
provvedimenti ecclesiastici producono effetti civili in armonia con i diritti costituzionalmente
garantiti ai cittadini italiani.
Le controversie fra i soci o i fra soci e l’associazione riguardanti i diritti soggettivi tutelati
dall’ordinamento sono azionabili davanti all’autorità giudiziaria ex artt. 24 e 113 Cost.
Una controversia circa la creazione di nuove associazioni si verifica, ad es., quando una

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nuova associazione ha la pretesa di collegarsi ad un organismo preesistente o ad una
confessione religiosa, in contrasto con le deliberazioni dei rappresentanti responsabili dell’uno
o dell’altra che disconoscono l’esistenza del legame confessionale. In questo caso, l’uso della
denominazione confessionale potrebbe essere interdetto dall’autorità giudiziaria.
Infatti, la garanzia della libertà religiosa ex art. 19 Cost. assicura a tutti la facoltà di creare
qualsiasi associazione con fine di religione o di culto. Tuttavia, leggendo tale disposizione
congiuntamente agli artt. 7 ed 8 Cost. ne deriva che si garantisce anche la c.d. l’identità delle
formazioni sociali preesistenti.
Il problema del rapporto tra associazione preesistente ed associazione nuova è problematico
soprattutto se quest’ultima è dissidente (ossia, che si oppone attivamente a un’opinione) alla
prima.
Infatti, in materia religiosa il fenomeno della dissidenza non mira alla creazione di un nuovo
organismo confessionale (una netta frattura avviene invece nel settore dei partiti politici), ma
opera restando all’interno di quella stessa confessione religiosa con il proposito di riformarla.
Al riguardo, sebbene il fenomeno dell’associazionismo può rispecchiare meglio le esigenze di
una data cerchia di persone, la qualificazione confessionale con la denominazione di una
confessione già esistente è sempre rimessa all’apprezzamento degli organi rappresentativi di
quest’ultima, i quali possono estromettere l’associazione non gradita.
Da sottolineare infine che nell’attuale ordinamento costituzionale, un’associazione con fine di
religione o di culto potrebbe anche svolgere attività politica, direttamente o affiancandosi a un
partito, purché agisca con metodo democratico.

30­La propaganda e il proselitismo


L’art. 19 Cost. assicura a tutti anche la libertà di propaganda e di proselitismo.
Tuttavia, la legge ordinaria distinguere fra il regime riservato alla Chiesa cattolica e quello cui
sono soggette le minoranze religiose.
Da sempre alla Chiesa cattolica è stata assicurata la più ampia libertà di propaganda e di
proselitismo in materia religiosa (lo prevedeva il Concordato Laterano, precedente alla
Costituzione, e lo prevede l’Accordo del 1984).
Essa può essere realizzata con l’esercizio del potere spirituale oppure con la libertà di
manifestazione del pensiero.
Le minoranze religiose, invece, non sempre hanno potuto esercitare la facoltà di propaganda,
sia prima che dopo l’entrata in vigore della Costituzione:
­ Prima dell’entrata in vigore della Costituzione, tali limitazioni derivano dalla
interpretazione dell’art. 5 della legge sui culti ammessi del 1929, per il quale la
discussione in materia religiosa è pienamente libera.
Infatti, la giurisprudenza interpretava tale disposizione nel senso di ammettere soltanto
la discussione fra persone competenti in teologia, al fine di raggiungere la verità
scientifica; non invece nel senso di ammettere la propaganda diretta a procurare nuovi
proseliti alle confessioni diverse dalla cattolica.
­ D opo l’entrata in vigore della Costituzione, l’attività di propaganda di queste
confessioni è incontrava 2 diversi ostacoli:
 In primo luogo, l’art. 113 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931
stabiliva che la distribuzione di volantini, opuscoli ed altri scritti propagandistici
effettuata da appartenenti alle confessioni diverse dalla cattolica, doveva di volta
in volta essere autorizzato dalle autorità di polizia, sia se questo materiale fosse
distribuito in luogo pubblico, sia che fosse distribuito in luogo privato.
Da sottolineare che a volte la domanda di licenza di diffondere volantini veniva
vietata in base a motivazioni definiti dall’autorità giudiziaria “in netto contrasto
con le garanzie costituzionali”.

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Tale regime è stato soppresso dalla Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato
la illegittimità costituzionale di quasi tutte le previsioni di tale articolo.
 In secondo luogo, l’art. 402 cod. pen. affermava che “Chiunque pubblicamente
vilipende la religione dello Stato è punito con la reclusione fino a 1 anno”.
Tale disposizione venne interpretata dalla giurisprudenza nel senso di punire
come reo di vilipendio della religione cattolica chiunque, pur non usando
espressioni oltraggiose, neghi drasticamente, senza congrua motivazione, i
dogmi affermati dalla Chiesa e il valore dei suoi riti.
Dunque, gli appartenenti alle confessioni di minoranza non potevano criticare
immotivatamente la Chiesa cattolica e non potevano usare quegli slogan che
rappresentano il modo più comune di fare propaganda.
Inoltre, la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di poter criticare la religione
cattolica soltanto a seguito di studi condotti con serietà e preparazione, ossia
soltanto ai dottori di teologia.
Questo stato di cose violava le disposizioni contenute nell’art. 19 Cost., il quale
riconosce a tutti e non soltanto ai teologi, il diritto di far propaganda religiosa (e
gli artt. 3 e 8 I comma Cost.).
Inoltre, esso era anche in contrasto con l’art. 21 Cost. in quanto, in un regime
che garantisce la libera manifestazione del pensiero, il legislatore ordinario non
può tutelare con sanzioni penali una particolare ideologia.
La Corte Costituzionale con sentenza del 2000 ha poi dichiarato l’illegittimità
costituzionale di tale norme penale ed affermato il principio supremo della
laicità dello Stato.

In materia di propaganda religiosa occorre distinguere tra:


­ Una legittima proposta di adesione ad una fede.
­ Un’attività non legittima, di regola qualificata come lavaggio del cervello.
Quest’ultima infatti non ha la finalità di diffondere una fede religiosa, ma mostra di
avere tale finalità allo scopo di reclutare soggetti, solitamente persone immature o
disorientate, per ottenere sostanziose elargizioni o attività lavorative a pieno tempo e
senza compensi nell’interesse dei dirigenti dell’organizzazione.
Per valutare la legittimità dell’opera di proselitismo occorre verificare se i promotori di essa
rispettano i principi desunti dal Parlamento europeo.
La critica dei principi espressi da una determinata fede non può estrinsecarsi in affermazioni
verbali che trascendano nella diffamazione di una confessione religiosa (tale attività integra
infatti il delitto di diffamazione).

31­La riservatezza sui dati personali riguardanti la religione


La tutela della libertà di religione e dell’uguaglianza dei cittadini a motivo di religione si è
arricchita con la L. 675/ 1996 che ha attuato in Italia la direttiva comunitaria sulla protezione
dei dati personali del 1995.
L’art. 22 I comma L. 675/ 1996 stabiliva che una serie di dati personali idonei a rivelare
l’origine razziale o etnica, le convinzioni religiose e filosofiche, le opinioni politiche o sindacali
potevano essere oggetto di trattamento soltanto con il consenso scritto dell’interessato e previa
autorizzazione del G arante.
Nel 1997 è stato precisato che il trattamento dei dati non è soggetto a notificazione al G arante
da parte di associazioni, fondazioni e comitati di vario genere, fra cui quelli a carattere
religioso.
Dunque, tali entità potevano raccogliere i dati degli associati o dei soggetti con cui fossero in
contatto, ma purché gli interessati ne fossero stati a conoscenza.
Tuttavia, tale disciplina riguardava soltanto le confessioni religione che avessero stipulato

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accordi con lo Stato; mentre escludeva le altre.
La lacuna legislativa è stata superata dal G arante della privacy, che ha emanato un
provvedimento con il quale ha ammesso al trattamento dei dati sensibili vari organismi di tipo
associativo e fondazioni, fra cui le confessioni religiose e le comunità religiose, senza
distinguere fra confessioni con accordi e confessioni senza accordi con lo Stato.
Successivamente, la L. 675/ 96 è stata modificata nel 2001.
Le nuove normative consentono un bilanciamento degli interessi che possono limitare la tutela
della privacy del singolo, affidato all’apprezzamento del G arante della privacy.
Infine, il D .Lgs. 196/ 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali) ha riordinato
tutta la materia, affermando che in definitiva:
­ I dati sensibili possono essere oggetto di trattamento soltanto con il consenso
dell’interessato e previa autorizzazione del G arante.
­ Non sono sottoposti a questo regime trattamento i dati relativi agli aderenti alle
confessioni religiose (con o senza intese) ed ai soggetti che hanno contatti regolari con
le medesime confessioni, sempre che il trattamento sia effettuato dai dei relativi organi
(o da enti civilmente riconosciuti) e che i dati non siano diffusi o comunicati fuori delle
medesime confessioni.
Queste ultime devono determinare idonee garanzie per quanto attiene ai trattamenti
effettuati, nel rispetto dei principi indicati dal G arante.
non occorre il consenso degli interessati, ma è necessaria la previa autorizzazione del
G arante.

32­Il governo delle confessioni religiose


Alla libertà di propaganda religiosa (art. 19 Cost.) si affianca la libertà degli organi delle
confessioni religiose di comunicare con i fedeli e con i terzi (art. 15 Cost.).
Essa ricomprende anche la pubblicazione di atti e provvedimenti.
L’art. 2 Concordato del 1929 garantiva alla Chiesa cattolica la libertà di comunicazione fra la
gerarchia e fra questa ed i fedeli e di pubblicare ed affliggere atti alle porte esterne degli edifici
di culto.
Esso costituivano un privilegio a favore della Chiesa, la quale in questo modo sfuggiva al
controllo preventivo di polizia previsto per qualsiasi altra organizzazione.
Successivamente, il r.d. 289/ 1930 ha autorizzato la pubblicazione e l’affissione degli atti
concernenti il governo spirituale delle confessioni diverse dalla cattolica, senza licenza
dell’autorità di polizia.
Tuttavia, godevano di questo privilegio soltanto i ministri di culto la cui nomina fosse stata
approvata dal Ministero dell’Interno.
Tale disposizione non è più applicabile alle Chiese valdesi, modiste, avventiste, ebraiche e
luterane.
Oggi la libertà di corrispondenza è garantita dall’art. 15 Cost., mentre la libertà di
comunicare al pubblico risulta tutelata dagli artt. 21 e 19 Cost., in quanto gli atti di governo
delle comunità confessionali, dal punto di vista dell’ordinamento statuale, sono considerate
come manifestazioni del pensiero.
Dunque, la manifestazione ha un contenuto lecito quando la pubblicazione non viola nessuno
dei valori garantiti dalla Costituzione; un contenuto illecito quando invece viola tali valori.
Inoltre, le pubblicazioni di atti e l’affissione di essi sono esenti da qualsiasi tributo (una eredità
lasciata dalle previsioni delle norme del 1929­1930).
Infine, tali norme non hanno più carattere privilegiato, in quanto anche gli altri organismi
sociali godono di un’analoga esenzione per le loro pubblicazioni ed affissioni.
Tale situazione non muta in relazione alla Chiesa cattolica.
L’art. 1 del Concordato e l’Accordo 18 febbraio 1984 le hanno assicurato il libero esercizio del

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potere spirituale e giurisdizione in materia ecclesiastica. Tuttavia, non è escluso che lo Stato
possa sindacare la conformità dell’atto di governo compiuto dall’autorità ecclesiastica
nell’ordinamento statuale, specie sotto il profilo delle norme penali.
Inoltre, l’art. 2 I comma dell’Accordo del 1984 non riconosce più il potere spirituale della
Chiesa sui fedeli (come prevedeva l’art. 1 del Concordato del 1929), ma il “ministero
spirituale” della Chiesa stessa.
Tuttavia, il passaggio dal “potere” al “ministero” non ha comportato un ridimensionamento
della rilevanza civile dei poteri ecclesiastici.
Infatti, sebbene l’Accordo 1984 riconosce la libertà della Chiesa nell’esercizio della
giurisdizione in materia ecclesiastica, soltanto quei provvedimenti i cui effetti siano
espressamente riconosciuti dalla legge avranno effetti civili, non tutti.
Inoltre, ciò non comporta che all’autorità ecclesiastica siano attribuiti gli stessi poteri
dell’autorità statuale, ma la prima può incidere sui diritti dei fedeli­cittadini soltanto nelle
ipotesi individuate espressamente dalle legge e quando siano conformi alla Costituzione
(dunque, non può incidere sui diritti costituzionalmente garantiti).
La libertà e l’autonomia riconosciuta dallo Stato alle confessioni religiose comporta che, nel
rispetto dei limiti della legge penale, dei diritti fondamentali e del diritto di difesa, rientrano del
tutto nella giurisdizione delle confessioni religiose i provvedimenti a carattere spirituale o
disciplinare riguardanti il governo dei fedeli.
Si tratta di casi in cui sussiste il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana. Ad
es., l’esclusione di uno degli appartenenti dalla comunità, deliberata in base allo statuto della
confessione, ha efficacia senza che sia esperibile alcuna ingerenza dello Stato.
Dalla Costituzione si ricava che il diritto garantito all’autorità ecclesiastica dagli articoli del
Concordato 1929 e dell’Accordo 1984 non ha un contenuto diverso da quello dei diritti
garantiti dagli artt. 15 e 21 Cost. ed incontra gli stessi limiti di questi.

33­La libertà religiosa e la tutela del sentimento religioso


Il codice penale del 1889 dettava norme specifiche per la tutela della libertà religiosa.
Quello del 1930, mutando prospettiva, con gli artt. 402­406, puniva i delitti contro la religione
dello Stato ed i culti ammessi, considerati non come delitti contro la libertà religiosa, ma come
offese arrecate al sentimento religioso. Ad es., l’art. 724 c.p. prevedeva la punizione della
bestemmia a titolo contravvenzionale.
Alcune di queste norme, oltre a proteggere con la sanzione penale il sentimento religioso,
attuavano una garanzia più completa della libertà religiosa, in quanto punivano come delitto
d’azione pubblica una serie di atti che potevano impedire o turbare l’esercizio delle facoltà
promananti dal diritto di libertà religiosa.
Dunque, la libertà religiosa è garantita da norme penali apposite, mentre l’esercizio delle altre
libertà riconosciute dalla Costituzione è tutelato dalle norme penali generali poste a presidio
della libertà morale dei singoli.
Il fatto che le norme in questione valevano a proteggere la libertà religiosa, e non soltanto il
sentimento religioso, trova conferma nelle iniziative di riforma parziale del codice penale del
1930. Infatti, queste avevano ad oggetto (fra l’altro) non più la tutale del sentimento religioso
nazionale ma la protezione delle confessioni religiose professate nello Stato.
Un’altra libertà tutelata da norme penali speciali è riservata alla libertà del voto. Tuttavia,
questa libertà attiene ai rapporti politici e non all’ambito dei rapporti civili come la libertà
religiosa.
La tutela penale della libertà qui considerata non dà luogo a problemi di legittimità
costituzionale quando sia rispettata l’uguaglianza di tutte le confessioni e di tutti i cittadini,
compresi gli atei, posto che la libertà garantita dalla norma costituzionale è anche libertà di
non credere.
Con queste cautele, la libertà religiosa potrebbe essere tutelata penalmente.

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La materia disciplinata dagli artt. 402­406 c.p. è stata messa in crisi dal Protocollo addizionale
(n. 1) all’Accordo del 1984, il quale ha dichiarato che non è più in vigore il principio secondo
cui la religione cattolica era la religione di Stato.
Se non vi è più una religione di Stato, non può certo esistere il reato di vilipendio della stessa
ex art. 402 c.p.
Sulla questione, la Corte Costituzionale ha seguito un percorso oscillante.
In un primo momento, essa ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata dal giudice a quo nei confronti dell’art. 402 c.p.
Qualche tempo dopo, ha ritenuto infondata la questione di legittimità sollevata circa l’art. 724
c.p., il quale puniva la bestemmia pronunciata contro divinità, simboli e persone venerate dalla
religione dello Stato, affermando che con il Protocollo addizione era venuto meno il significato
originario dell’espressione “Religione di Stato”, da intendere invece come “religione
cattolica”, in quanto già religione di Stato.
Tale situazione determinava una lesione della libertà religiosa degli appartenenti ad altre
confessioni, i quali potevano essere offesi senza subire sanzioni.
Successivamente, la Corte Costituzionale ha mutato orientamento e dichiarato l’illegittimità
costituzionale dell’art. 724 c.p.
In particolare, essa ha abolito soltanto le parole “O i simboli o le persone venerati nella
religione dello Stato”.
La prima parte della formula è rimasta in vigore, in quanto la punizione della bestemmia
contro la divinità in genere protegge dalle invettive e dalle espressioni oltraggiose tutti i
credenti di tutte le fedi religiose, senza distinzione.
Nell’inerzia del legislatore, la Corte Costituzionale ha rivisitato la disciplina dei reati contro il
sentimento religioso dichiarando l’illegittimità costituzionale parziale di una serie di
disposizioni penali.
Poi, la L. 85/ 2006 ha apportato modifiche al codice penale ha novellato la disciplina dei reati
in tema di religione, rubricando la sezione corrispondente del codice penale con la dizione
“D ei delitti contro le confessioni religiose”.
G li articoli di esso si fondano sul principio dell’uguale tutela penale di tutte le confessioni
religiose.
La necessità di tutelare tutte le manifestazioni del sentimento religioso è stata affermata anche
dall’art. 2 IV comma L. 101/ 1989 (legge di approvazione dell’Intesa con le Comunità
ebraiche), che assicura in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di
libertà religiosa, senza discriminazioni tra cittadini e tra i culti.
In conseguenza, è punito con la reclusione da 1 a 4 anni, salvo che il fatto non costituisca reato
più grave, chi propaganda idee fondate sulla superiorità di una religione sull’altra o sull’odio
per una religione, oppure incita alla discriminazione in base alla religione o a commettere atti
di violenza nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo religioso.
Chi da vita a organismi o associazioni con questi scopi è punito con la reclusione da 1 a 5 anni
e le pene sono aumentate per i capi o i promotori.

34­G li enti confessionali e la costituzione


La tutela costituzionale del fenomeno religioso si sviluppa attraverso diverse disposizioni:
­ L’art. 3 I comma garantisce l’uguaglianza dei cittadini.
­ L’art. 7 disciplina la posizione della Chiesa cattolica.
­ L’art. 8 disciplina la posizione delle altre confessioni religiose.
­ L’art. 19 garantisce la libertà religiosa di tutti in ogni forma.
Completa la tutela costituzionale del fenomeno religioso l’art. 20 Cost., il quale afferma che
“Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non
possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua
costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.

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Dunque, esso garantisce la posizione dei singoli e delle confessioni religiose di dar vita ad enti
esponenziali, ossia ad associazioni ed istituzioni aventi carattere ecclesiastico e fine di religione
o di culto. Questi non potranno essere discriminati in peius dal legislatore, rispetto ad
associazioni ed istituzioni di diritto comune.
Da sottolineare che l’espressione “diritto comune” non vale ad indicare che tali enti siano stati
privatizzati. In linea di principio la disposizione costituzionale può contribuire
all’accostamento degli enti con fine di religione o di culto con quelli privati, ma non vale ad
escludere che la legge possa attribuire a tali enti una posizione simile a quella degli enti
pubblici.
L’art. 20 Cost. pone una garanzia che avrebbe potuto essere desunta anche dalle norme
costituzionali che proteggono la libertà religiosa sotto ogni aspetto e dal principio di
uguaglianza di cui all’art. 3 II comma Cost.
Infatti, una legislazione che prevedesse speciali limitazioni e speciali gravami fiscali per gli enti
ecclesiastici o con fine di religione o di culto costituirebbe un limite per la libertà e
l’uguaglianza dei singoli promotori o partecipanti degli enti colpiti dalla legge.
Dunque, l’art. 20 Cost. è collegato con gli altri articoli della Costituzione in materia (3, 7, 8 e
19). Al riguardo, si distinguono 2 tesi:
­ Una parte della dottrina ritiene che l’art. 20 Cost. si ricolleghi al principio di
uguaglianza o che sia una specificazione dello stesso relativamente alle persone
giuridiche.
­ Altri ritengono che l’art. 20 Cost. tenda a rafforzare la libertà religiosa e ad estendere
ulteriormente il principio d’uguaglianza.
Essa aderisce maggiormente al sistema della Costituzione, la quale mira a garantire
quegli aspetti della libertà religiosa e dell’uguaglianza giuridica che potrebbero non
risultare protetti da un’interpretazione stretta delle altre norme costituzionali.

35­G li enti garantiti dall’art. 20 e contenuto della garanzia, riconoscimento della


personalità giuridica
L’art. 20 Cost. tutela le associazioni e le istituzioni aventi carattere ecclesiastico e fine di
religione o di culto.
Secondo la dottrina, tale garanzia riguarda gli enti cui possono dar vita indistintamente tutte le
confessioni religiose.
Tuttavia, inizialmente si riteneva che la formula “carattere ecclesiastico” si riferisse in modo
esclusivo agli enti della Chiesa cattolica, mentre gli enti delle confessioni diverse dalla cattolica
erano garantiti in quanto rientrassero fra quelli “con fine di religione o di culto”.
Questa distinzione è venuta meno dopo che nelle varie Intese concluse con le religioni diverse
dalla cattolica si è fatto riferimento agli enti ecclesiastici valdesi, agli enti ecclesiastici luterani,
agli enti ecclesiastici avventisti etc.
La dottrina oggi ritiene che il “carattere ecclesiastico” si riferisce non soltanto agli enti della
Chiesa cattolica, ma anche agli enti delle altre confessioni. In ogni caso dovrà trattarsi di enti
che appartengono ad una “Ecclesia” e non agli enti delle confessioni che non sono Chiese. Ad
es., gli enti delle Comunità ebraiche non sono enti ecclesiastici ma enti ebraici.
Inoltre, l’art. 20 Cost. non garantisce indiscriminatamente tutti gli enti confessionali, ma
soltanto quelli che perseguono un fine di religione o di culto (tra cui sono ricompresi anche le
associazioni che perseguono la diffusione dell’ateismo).
È irrilevante il riconoscimento della personalità giuridica, dunque l’art. 20 Cost. protegge
anche gli enti soltanto di fatto che abbiano un fine religioso o di culto.
Inoltre, tale disposizione garantisce a tutti enti con fine religioso o di culto un regime non
deteriore rispetto a quello riservato dal diritto comune a tutti gli altri enti, ma consente
l’emanazione di norme più favorevoli.
Ne consegue che una legge più sfavorevole agli enti confessionali, rispetto a quelle del diritto

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comune, è illegittima in quanto in contrasto con l’art. 20.
Per quanto riguarda gli effetti relativi all’applicazione della legislazione precedente, è
necessario innanzi tutto analizzare il riconoscimento della personalità giuridica agli enti della
Chiesa cattolica.
Secondo una parte della dottrina, le disposizioni concordatarie del 1929 avrebbero consentito il
riconoscimento della personalità giuridica soltanto per gli enti ecclesiastici esplicitamente
previsti dal Concordato, escludendo che altri enti privi delle caratteristiche stabilite dalla
legislazione concordataria potessero acquistare la personalità come enti di diritto comune.
Tuttavia, in realtà tale disposizione non impediva che la Costituzione, successiva al
Concordato, consentisse all’autorità governativa di attribuire la personalità giuridica di diritto
comune agli enti ecclesiastici che non avessero i requisiti per ottenere il riconoscimento ai sensi
della legislazione d’origine concordataria.
Diversamente, sarebbe venuta meno la parificazione, prevista dalla norma costituzionale, degli
enti ecclesiastici agli enti di diritto comune.
Inoltre, il riconoscimento per questa via non avrebbe pregiudicato gli interessi dello Stato
perché gli enti ecclesiastici che avessero ottenuto la personalità giuridica secondo il diritto
comune sarebbero rimasti soggetti ai controlli previsti da questo.
Sempre in tema di personalità giuridica, l’art. 20 Cost. esclude che il legislatore possa
approvare leggi che privino gli enti ecclesiastici o con fine religioso o di culto della personalità,
a meno che tali privazioni non coinvolgessero anche gli enti di diritto comune.

36­G aranzie costituzionali in tema di amministrazione degli enti


L’importanza dell’art. 20 Cost. risulta anche quando si prende in esame l’amministrazione
degli enti ecclesiastici o con fine di religione o culto.
L’Accordo del 18 febbraio 1984 fra l’Italia e la Santa Sede aveva conservato a favore dello
Stato la facoltà di effettuare un controllo statale degli acquisti degli enti ecclesiastici, ai quali si
applicavano le leggi civili relative alle persone giuridiche.
In questo modo si assicurava una parità di trattamento tra gli enti della Chiesa cattolica e le
persone giuridiche private, in conformità con l’art. 20 Cost.
Poi, con le riforme avviate nell’amministrazione pubblica tutte le norme sul controllo degli
acquisti degli enti sono state abrogate. Dunque, tale settore dell’attività delle persone
giuridiche civili e confessionali è stato liberalizzato.
Dall’1 gennaio 1986 è cessato il controllo sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione degli
enti ecclesiastici previsto dalle disposizioni concordatarie.
Inoltre, l’art. 20 Cost. esclude la legittimità costituzionale del controllo “per l’alienazione dei
beni” ed in genere sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti dagli enti delle
confessioni diverse dalla cattolica ed appartenenti alla categoria delle associazioni.
Infatti, per le associazioni riconosciute il codice civile non prevede che abbia luogo tale forma
di controllo. Quindi, sarebbe illegittimo l’esercizio di esso nei confronti delle associazioni
collegate con confessioni diverse dalla cattolica riconosciute.
Infine, l’art. 2 della L. 1159/ 1929 e l’art. 13 del r.d. 289/ 1930 prevedono che, per gli enti delle
confessioni diverse dalla cattolica, l’autorità governativa può introdurre norme speciali per
l’esercizio della vigilanza e del controllo da parte dello Stato, nel decreto di attribuzione della
personalità giuridica.
Tali disposizioni sembrano in contrasto con la norma dell’art. 20 Cost.
In ogni caso, nel decreto governativo di riconoscimento non possono essere inserite
prescrizioni diverse da quelle che la prassi usa inserire nei provvedimenti di riconoscimento
delle associazioni e delle fondazioni.

Il divieto dell’approvazione di “speciali gravami fiscali” dà luogo a 2 diversi problemi:


­ Uno di carattere sistematico, circa il rapporto fra la disposizioni dell’art. 20 Cost. e le

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altre norme costituzionali riguardanti la materia dei tributi.
Al riguardo, l’art. 20 Cost. è ritenuto un’applicazione del principio della capacità
contributiva fissato dall’art. 53 Cost. In particolare, la capacità contributiva degli enti
ecclesiastici non è influenzata dalla qualificazione o dai fini confessionali.
­ Uno di ordine esegetico, circa gli effetti giuridici del divieto.
Al riguardo, si deve ricordare che l’art. 20 Cost. esclude che possa essere introdotto un
qualsiasi tributo speciale a carico dei beni degli enti ecclesiastici o con fine di religione o
di culto (cattolici o diversi da questi).
Ad es., tale garanzia impedisce che in avvenire possa essere approvata una imposta che
gravi solo su tali enti.
Inoltre, l’art. 20 esclude che lo Stato possa introdurre appositi gravami fiscali, per
redistribuire le risorse fra gli enti di tutte le confessioni religiose.
Invece, esso non impedisce che lo Stato possa con legge, che sia esecutiva di un accordo
con la Santa Sede o di un’intesa con una o più confessioni, attribuire efficacia civile ad
un tributo introdotto dall’autorità religiosa che colpisca gli appartenenti alla confessione
o gli enti a questa collegati.
Infatti, la garanzia costituzionale protegge le associazioni e le istituzioni ecclesiastiche o
con fini di culto o di religiose da speciali gravami fiscali imposti dallo Stato per
incrementare le proprie entrate, mentre non vieta che le confessioni religiose,
avvalendosi della propria autonomia organizzativa, possano conseguire un contributo
finanziario dai propri aderenti e dagli enti ad esse collegati.

Capitolo 7: La Santa Sede e lo Stato Città del Vaticano

1­ La santa sede nel diritto italiano


I rapporti fra l’Italia e la Chiesa cattolica sono stati sempre caratterizzati dalla presenza nel
territorio italiano del governo della Santa Sede.
L’espressione “Santa Sede” ha 2 significati diversi sia per il diritto canonico che nel diritto
italiano:
­ In senso stretto, è l’ufficio del Sommo Pontefice.
­ In senso lato, con tale espressione si ricomprendono anche gli uffici e gli istituti della
Curia romana che collaborano con il Papa.
Nell’ordinamento italiano, la Santa Sede è un ente dotato di personalità giuridica anche nel
settore dei rapporti di diritto privato.
Tale riconoscimento era avvenuto con il Concordato del 1929.
Nonostante questo sia stato abrogato la Santa Sede rimane una persona giuridica per il diritto
italiano, in quanto tale qualifica le spetta per antico possesso di stato, ossia per il fatto che la
sua personalità giuridica non era stata soppressa dopo l’unione di Roma all’Italia.
La posizione della persona giuridica “Santa Sede” nel diritto italiano è quella di un ente
ecclesiastico, ma si differenzia da quella della generalità degli enti ecclesiastici, in quanto essa
non è tenuta agli adempimenti previsti dalle norme sugli enti ecclesiastici.

2­ La questione romana
Sino al Risorgimento non vi era stato un problema pratico di rapporti tra Stato e Chiesa che
riguardasse Roma, sede del Papato, in quanto il pontefice era anche sovrano temporale del
luogo in cui operava il governo centrale della Chiesa cattolica.
Il problema era sorto in sede politica, quando l’unità si veniva realizzando (nel ventennio
1850­1870).
G li eventi del settembre 1870 congiunsero Roma all’Italia ma, con la debellatio dello Stato
pontificio, aprirono la c.d. questione romana.

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Essa riguarda la posizione da riservare alla Santa Sede dopo la creazione di Roma capitale
d’Italia.
Il legislatore cercò di risolvere tale questione unilateralmente nel 1871, stabilendo con legge
(c.d. legge sulle G uarentigie pontificie) le prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede.
Tuttavia, proprio in quanto unilaterale, questa soluzione non fu mai accettata dal Vaticano.
Con il tempo la Chiesa si rese conto che la perdita del potere temporale, dapprima deplorato,
era stato invece provvidenziale in quanto con la liberazione dal peso di tale potere, la sua
azione in campo religioso aveva guadagnato slancio e la sua parola aveva acquistato
particolare prestigio.
Di conseguenza, per la soluzione della questione romana la Santa Sede si è preoccupata di non
chiedere il ripristino di una sovranità territoriale che importasse l’onere del governo di uno
Stato vero e proprio.
La trattativa ha avuto luogo riguardo alla determinazione della misura di una sovranità
simbolica e lo scopo di assicurare alla Santa Sede una serie di guarentigie reali e personali.

3­ Le garanzie reali a favore della santa sede, lo Stato città del vaticano
Le guarentigie reali riguardano l’ambito territoriale in cui il governo della Chiesa cattolica si
svolge in regime di assoluta immunità da qualsiasi controllo esterno.
L’art. 5 della L. 214/ 1871 aveva stabilito che il Sommo Pontefice continuava a godere dei
Palazzi del Vaticano e del Laterano, con tutte le pertinenze, e della Villa Barberini di Castel
G andolfo con tutte le pertinenze e dipendenze.
Tali beni appartenevano allo Stato (in quanto facenti parte del suo territorio) e si collocavano
fra i beni indisponibili dello Stato.
Il Trattato del 1929 riconobbe alla Santa Sede la piena proprietà e l’esclusiva ed assoluta
potestà e giurisdizione sovrana sul Vaticano, con tutte le sue pertinenze e le sue dotazioni.
Dunque, in tale città­Stato il governo italiano non poteva esplicare alcuna ingerenza e non vi
era altra autorità che quella della Santa Sede.

4­ Caratteri dello Stato città del vaticano


Da sottolineare la differenza tra le due sistemazioni:
­ La legge del 1871 attribuiva alla Santa Sede soltanto il godimento dei palazzi apostolici
e di altri edifici, non anche la disponibilità, in quanto si trattava di beni di proprietà
dello Stato e rientranti nel suo patrimonio indisponibile.
­ Il Trattato del 1929 crea lo Stato­Città del Vaticano ed il Palazzo Vaticano con tutte le
sue pertinenze ed i suoi accessori diventano piena proprietà della Santa Sede, ente
sovrano di quel territorio.
Il fatto che il territorio sia di proprietà dell’ente sovrano ha portato nel XX secolo alla
creazione un Patrimonialsta, ossia uno Stato patrimonio del sovrano, non come astratta
concezione della sovranità sul territorio, ma come effettiva appartenenza a titolo di proprietà
di tutto il territorio dello Stato al sovrano.
Il piccolo Stato si differenziale rispetto ad altri Stati, in quanto questi ultimi hanno la funzione
di organizzare la società nell’interesse e per il bene di essa.
Invece, lo Stato­Città del Vaticano non è stato creato per provvedere all’organizzazione sociale
dei suoi cittadini, ma per assicurare alla Santa Sede l’assoluta indipendenza e per garantirle
una sovranità indiscutibile anche nel campo internazionale.
Dunque, lo Stato­Città del Vaticano svolge una funzione strumentale, nel senso che è il mezzo
per garantire alla Santa Sede la libertà e l’indipendenza della missione religiosa.
Ne consegue che lo Stato­Città del Vaticano è considerato territorio neurale e inviolabile.
In definitiva, lo Stato­Città del Vaticano è uno Stato patrimoniale, strumentale e neutrale, la
cui sovranità spetta ad un monarca elettivo.

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5­ L’ordinamento e le fonti del diritto dello stato città del Vaticano
Come ogni altro Stato, lo Stato­Città del Vaticano ha una sua popolazione (i cittadini
vaticani), una sua organizzazione ed una sua normazione.
La normazione ha avuto la sua prima manifestazione con l’emanazione di 6 leggi organiche da
parte della Santa Sede:
­ La prima legge ha carattere fondamentale, in quanto ha determinato gli organi
costituzionali dello Stato, le rispettive sfere di competenza e la bandiera, lo stemma ed
il sigillo ufficiale dello stesso Stato.
Essa è stata sostituita con un’altra legge fondamentale nel 2000.
­ La seconda legge riguarda anch’essa le fonti ed è stata sostituita nel 2008.
­ La terza legge riguarda la cittadinanza ed il soggiorno.
­ La quarta legge riguarda l’ordinamento amministrativo.
­ La quinta legge riguarda l’ordinamento economico.
­ La sesta legge riguarda l’ordine pubblico.
A queste si sono successivamente aggiunte altre leggi, tutte pubblicate su un supplemento degli
Acta Apostolicae Sedis (di regola entrano in vigore il 7° giorno successivo alla pubblicazione).
Sono fonti dell’ordinamento giuridico vaticano:
­ La legge fondamentale.
­ Le leggi promulgate per lo Stato­Città del Vaticano dal Sommo Pontefice o da altre
autorità competenti.
­ Le norme di diritto internazionale generale e quelle derivanti da trattati e altri accordi di
cui la Santa Sede è parte.
­ In via suppletiva (ossia per le materie non disciplinate dalle leggi vaticane), le leggi e gli
altri atti normativi emanati dallo Stato italiano (purché i loro precetti non siano contrari
ai precetti divini o ai principi generali del diritto canonico); i codici (civile, penale e di
procedura penale); le pronunce del giudice in materia civile, quando il giudice decide in
base ai precetti di diritto divino e di diritto naturale ed ai principi generali di diritto
canonico.
Quanto all’organizzazione dello Stato­Città del Vaticano, il Capo dello Stato è il Papa, il quale
è titolare del potere legislativo, esecutivo e giudiziario.
In caso di vacanza della Santa Sede, i poteri di governo spettano al Collegio dei Cardinali.
G li organi amministrativi sono:
­ Il Cardinale segretario di Stato, il quale coadiuva il Sommo Pontefice.
­ Il Consigliere generale dello Stato.
­ G li altri Consiglieri dello Stato nominati dal Pontefice.
­ La Pontificia Commissione per lo Stato­Città del Vaticano.
Per l’esercizio ordinario del potere legislativo è nominata per un quinquennio un’apposita
Commissione.
L’esercizio del potere esecutivo è affidato al Cardinale Presidente della Commissione,
coadiuvato dal Segretario G enerale e dal Vice Segretario G enerale.
G li organi giudiziari sono formati: dal G iudice Unico, dal Tribunale della Corte d’appello e
dalla Corte di Cassazione, competenti per l’applicazione delle leggi civili.
Inoltre, nelle cause riguardanti materie disciplinate dal diritto canonico, funzionano come
tribunali dello Stato­Città del Vaticano: il Tribunale Apostolico della Rota Romana ed il
Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica. Essi sono tribunali della Santa Sede.

6­ Rapporti fra Italia e Santa Sede e in campo giudiziario


Per quanto riguarda i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, il Trattato del 1929 ed ulteriori
accordi hanno posto a carica della Santa Sede la recinsione del territorio del vaticano; hanno
vietato in territorio italiano nuove costruzioni; hanno disciplinato ed approvato il transito dei
diplomatici e delle merci.

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In campo giudiziario, le sentenze pronunciate dai tribunali dello Stato­Città del Vaticano
possono essere eseguite in Italia secondo le norme del diritto internazionale.
Per quanto riguarda la giurisdizione penale, l’art. 22 del Trattato prevede che la Santa Sede
può delegare, in singoli casi o in via permanente, allo Stato italiano la punizione dei delitti
commessi nel territorio dello Stato­Città del Vaticano.
La delega non occorre e si procede secondo le leggi italiane contro l’imputato, se costui si sia
rifugiato in territorio italiano.
Inoltre è prevista la consegna allo Stato italiano delle persone imputate di fatti ritenuti
delittuosi anche dalle leggi dello Stato­Città del Vaticano, ma che si siano rifugiate nello Stato
italiano o negli immobili immuni.
Tutte le volte che per un delitto commesso nello Stato­Città del Vaticano, la Santa Sede
richiede allo Stato italiano di procedere, i nostri giudici applicheranno il diritto penale italiano.

7­ Il regime di piazza san pietro


Piazza San Pietro è l’unica parte del perimetro del vaticano rimasta aperta al pubblico.
Dunque, essa è soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane sino ai piedi della scalinata
della Basilica.
Secondo una giurisprudenza costante, quando l’imputato di un delitto commesso nella piazza
sia catturato dagli agenti italiani o sia stato a questi consegnato, si considera rifugiato nel
territorio italiano e perciò si procederà contro di lui senza che occorra una richiesta della Santa
Sede.

8­ Notifica degli atti


Per quanto riguarda la notificazione degli atti in materia civile, essa è disciplinata da una
Convenzione con la Santa Sede del 1932 (che deroga alle ordinarie disposizioni sulle
notificazioni per le vie diplomatiche).
Essa prevede che per la notificazione da effettuare nello Stato­Città del Vaticano, l’interessato
deve fare istanza al Procuratore della Repubblica, il quale farà domanda al promotore di
giustizia del Tribunale di Prima Istanza dello stesso Stato­Città del Vaticano, che provvederà a
fare notificare l’atto; mentre per le notificazioni da effettuare in Italia occorre una domanda dal
secondo al primo dei due organi.

9­ La rinuncia della santa sede al privilegio del foro ecclesiastico


La Convenzione del 1932 disciplina anche i casi in cui siano convenuti in giudizio in Italia, la
Santa Sede, lo Stato­Città del Vaticano o il Sommo Pontefice:
­ Nel caso di citazione della Santa Sede o del Pontefice, essa va fatta in persona del
Cardinale Segretario di Stato.
Al riguardo, ci si è chiesto se il giuramento decisorio possa essere deferito al Cardinale
segretario di Stato.
Tuttavia, tale possibilità è esclusa, in quanto a norma della Convenzione egli ha la
rappresentanza processuale della Santa Sede, ma non la disponibilità dei suoi diritti,
necessaria per ammettere una prova legale come il giuramento.
Questo sarebbe ammissibile soltanto se, con proprio provvedimento, la Santa Sede
conferisse al Cardinale Segretario di Stato la facoltà di disporre della sorte della lite e
dei diritti in questa coinvolti.
­ Nel caso di citazione dello Stato­Città del Vaticano, essa va fatta in persona del
G overnatore dello stesso Stato­Città del Vaticano.
La dottrina ritiene che con tale accordo la Chiesa abbia rinunciato nei confronti dell’Italia al
privilegio del foro civile, ossia all’immunità giurisdizionale dei suoi soggetti nei riguardi dello
Stato italiano.

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10­ Altre garanzie reali, gli immobili immuni
Per quanto riguarda le garanzie reali a favore della Santa Sede, il Trattato del 1929 ha
riconosciuto agli immobili della Santa Sede le stesse immunità che il diritto internazionale
riconosce alle sedi degli agenti diplomatici (ad es., Basiliche patriarcali di San G iovanni
Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo; Villa Barberini di Castel G andolfo; ecc.).
Tali immunità si estendono anche agli immobili in cui si trovano i dicasteri della Santa Sede
collocati fuori dallo spazio dello Stato­Città del Vaticano (ad es., i palazzi della Dataria, della
Cancelleria, ecc.).
Le stesse immunità si applicano alle chiese, ovunque si trovino in Italia, quando vi sono
celebrate funzioni con l’intervento del Papa, purché non siano aperte al pubblico.
G li edifici immuni non sono esenti dalla giurisdizione dello Stato italiano nelle materie non
escluse (dal diritto internazionale o dal Trattato).
Infatti, i fatti giuridicamente rilevanti che si verificano in tali edifici (sia leciti che illeciti)
avvengono in Italia e soggiacciono, salvo esenzione per immunità, alle leggi ed alle autorità
italiane (ad es., la successione di chi abbia il domicilio in tali edifici si apre in Italia e non
all’estero; un reato commesso all’interno degli edifici immuni è commesso in territorio italiano
e perseguito dalle sue leggi, ma in questo caso l’autorità di polizia non può esercitare i suoi
poteri senza che i “preposti” li abbiano invitati).
Per quanto riguarda gli altri immobili, la garanzia riguarda soltanto l’impossibilità di
sottoporre tali immobili a vincoli o espropriazioni per pubblica utilità, se non previo accodo
con la Santa Sede, e l’esenzione da tributi ordinari e straordinari.
Inoltre, la guarentigia reale esclude l’ingerenza delle autorità civili competenti in materia
edilizia ed urbanistica relativamente all’assetto e alla destinazione di questi immobili.
In particolare, è previsto che la Santa Sede è libera di dare a questi immobili l’assetto che
crede, senza bisogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governative italiane.

11­ Le garanzie personali della santa sede


Le garanzie personali riguardano in primo luogo il Sommo Pontefice.
Con la debellatio dello Stato Pontificio egli aveva perduto la qualità di capo di Stato ed era
diventato un cittadino italiano, seppure con una posizione del tutto peculiare.
Infatti, la L. 214/ 1871 dichiarava sacra ed inviolabile la persona del Pontefice e gli riconosceva
il diritto agli oneri sovrani ed il diritto di legazione attiva e passiva.
Inoltre, essa puniva l’attentato, la provocazione a commetterlo, le offese e le ingiurie pubbliche
contro di lui. Dunque, il Papa era un cittadino dotato delle prerogative e delle garanzie di un
sovrano.
Il Trattato del 1929 ha posto fine a questa posizione, riconoscendo la sovranità della Santa
Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura. Dunque, il Papa non è
più un cittadino con particolari prerogative, ma è un sovrano con una propria potestà
territoriale, indipendente da qualsiasi potere.
Inoltre, esso considera sacra ed inviolabile la persona del Sommo Pontefice e ne parifica la
tutela a quella del Presidente della Repubblica.
Tale parificazione comporta un duplice effetto in materia penale:
­ Si esclude che al Papa possa essere applicata la legge penale, in quanto tale formula lo
priva della capacità di diritto penale.
­ In relazione alla tutela del Papa da attentati e offese, si applicano gli articoli del codice
penale in materia di attentati ed offese al Presidente della Repubblica, sia quoad poenam
(ossia in relazione alla valutazione del fatto operata dal giudice penale ai fini
dell’irrogazione in concreto della sanzione), sia quoad delictum (ossia in relazione alla
struttura dei reati previsti).

12­ La libertà del conclavi e dei concili

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Le garanzie personale riguardano anche quanti partecipano all’attività della Santa Sede
secondo le funzioni ad essi attribuite e previste dal Trattato e da altri accordi tra le parti.
In primo luogo, la legge delle guarentigie del 1871 ha previsto l’obbligo dello Stato di
assicurare la libertà del Papa, dei conclavi e dei Concili Ecumenici.
Nessun pubblico ufficiale e nessun agente della forza pubblica può introdursi nei luoghi di
dimora o residenza del Papa o nei luoghi in cui fosse adunato un Concilio o un conclave senza
l’autorizzazione del Papa, del conclave o del Concilio.
Nessuna autorità giudiziaria o politica può impedire o limitare la libertà personale dei
Cardinali durante la vacanza della Sede Apostolica (dunque, se un Cardinale è in carcere, dove
essere liberato per partecipare al conclave) ed il governo garantisce da ogni violenza esterna le
adunanze dei conclavi e dei Concili.

13­ La posizione dei Cardinali


A queste garanzie, il Trattato del 1929 ha aggiunto altri riconoscimenti ed esenzioni.
Per quanto riguarda la posizione dei Cardinali, nell’ordine delle precedenze, vengono subito
dopo il Presidente della Repubblica.
Se essi devono essere sentiti come testimoni in un processo civile, hanno il diritto di rendere le
deposizioni al domicilio oppure nel luogo da essi scelto, salvo che rinuncino a questo
trattamento.
I Cardinali residenti a Roma sono considerati a tutti gli effetti cittadini vaticani.

14­ Le esenzioni a favore di dignitari e funzionari della santa sede


Per quanto riguarda le norme di esenzione, il Trattato ha previsto che i dignitari della Chiesa,
le persone appartenenti alla Corte Pontificia ed i funzionari di ruolo della Santa Sede dichiarati
indispensabili, sono esenti dal servizio militare, dall’ufficio di giudice popolare e da ogni
prestazione di carattere personale.
Su tale base, qualcuno dei funzionari pontifici ha ritenuto di potersi sottrarre al dovere di
testimoniare. Tuttavia, questa tesi è infondata, in quanto la legge non esime dal testimoniare
neppure i Cardinali.

15­ Le garanzie della S.S. a favore dello svolgimento del suo ministero
Per quanto riguarda le garanzie a favore della Santa Sede per lo svolgimento del suo
ministero, nell’Accordo del 1984 (che ha sostituito le precedenti disposizioni del Concordato)
lo Stato, oltre a riconoscere alla Chiesa la piena libertà di svolgere la sua missione, ha
riconosciuto ad essa anche la libertà di esercizio del magistero; del ministero spirituale; e della
giurisdizione in materia ecclesiastica.
Inoltre, esso ha assicurato la reciproca libertà di comunicazione e corrispondenza fra la Santa
Sede, la CEI (Conferenza Episcopale Italiana), le Conferenze Episcopali regionali, i Vescovi, il
clero ed i fedeli, e la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e documenti relativi alla
missione della Chiesa.
Lo Stato ha l’obbligo di astenersi da ogni ingerenza in relazione a tali atti.
Tuttavia, sono fatti salvi i diritti dei terzi ugualmente tutelati dalla Costituzione repubblicana.
Dunque, un atto del magistero ecclesiastico potrebbe, se lesivo di tali diritti, essere conosciuto
ex post dal giudice civile ai fini del risarcimento del danno.

16­ G li enti centrali della chiesa


G li enti centrali della Chiesa, a norma del Trattato, sono esenti da ogni ingerenza da parte
dello Stato italiano e dalla conversione dei beni immobili.
L’espressione “enti centrali” non ha rispondenza nell’ordinamento canonico, ma si tratta di
una figura civilistica.
Secondo la dottrina tradizione, sono “enti centrali della Chiesa” le Congregazioni, i Tribunali

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e gli Uffici della Santa Sede, ossia gli enti che costituiscono la Curia Romana in senso lato, che
hanno la personalità giuridica e che provvedono al governo supremo della Chiesa.
La centralità degli enti è considerata non soltanto con riferimento alla struttura
dell’organizzazione della Santa Sede per lo svolgimento della sua missione spirituale, ma
anche, in generale, con riferimento agli “enti pontifici”, ossia enti gestiti direttamente dalla
Santa Sede, anche se autonomi rispetto agli enti e agli uffici della Curia romana e svolgenti
attività in settori anche lontani dalla missione spirituale della Chiesa.
Ad es., l’I.O.R. (Istituto per le opere di religione), nell’ordinamento canonico una persona
giuridica svolgente attività finanziaria, è certamente un ente pontificio qualificabile come ente
centrale (invece esso non potrebbe essere considerato “ente centrale” se per tale si intendesse
soltanto un ente che fa parte organica della Curia Romana).
Da sottolineare che secondo una parte della dottrina, l’I.O.R. sarebbe da qualificare come
“ente vaticano”, in quanto istituito nello Stato­Città del Vaticano.
Tali enti centrali o pontifici, quando svolgono la loro attività nell’ambito dello Stato­Città del
Vaticano o degli edifici comuni sfuggono a qualsiasi ingerenza dello Stato per il fatto stesso di
operare fuori dal territorio italiano.
L’art. 11 del Trattato, invece, garantisce tali enti dall’ingerenza dello Stato per l’attività da essi
svolta in territorio italiano.
Tuttavia, la garanzia della non ingerenza non importa l’immunità dell’I.O.R. e dei suoi
amministratori e funzionari dalla giurisdizione italiana quando essi compiono atti rilevanti
nell’ordinamento italiano.
Se agli amministratori ed ai funzionari di tale Istituto vengono imputati fatti costituenti reato
consumati o tentati in territorio italiano, essi soggiacciono alla giurisdizione penale dello Stato.
Infatti, l’art. 11 del Trattato esclude l’ingerenza dello Stato nei confronti dell’attività lecita
degli enti centrali della Chiesa, ma non impedisce allo Stato di reagire nei confronti della
commissione in Italia di reati ad opera dei titolari di tali enti.
Inoltre, la responsabilità penale è personale e non ricade sugli enti da essi gestiti o
rappresentati, i quali al massimo possono essere responsabili civili dell’operato dei propri
addetti.
Il diritto preconcordatario garantiva uffici e Congregazioni pontificie da visite, perquisizioni o
sequestri di carte, documenti, libri o registri soltanto se tali uffici avessero attribuzioni
meramente spirituali.
G li altri uffici e Congregazioni potevano essere perquisiti ed avere sottoposto a sequestro carte,
documenti e registri dall’autorità del governo italiano.
L’art. 11 del Trattato ha allargato la vecchia garanzia a tutti gli enti centrali, sia che avessero
attribuzioni meramente spirituali, sia che avessero attribuzioni economiche o finanziarie.
La posizione degli addetti agli enti centrali non è uguale a quella attribuita dalle norme di
diritto internazionale ai diplomatici stranieri accreditati presso il nostro Paese.
I diplomatici stranieri godono dell’immunità dalla giurisdizione penale per una espressa
disposizione di legge, la quale manca nel Trattato Lateranense.
Si esclude che possano essere soggetti a impedimento, investigazione o molestia da parte delle
autorità italiane gli ecclesiastici che per ragione di ufficio partecipano fuori della Città del
Vaticano all’emanazione degli atti della Santa Sede.
G li enti centrali hanno la personalità giuridica anche secondo il diritto italiano.
Inoltre, tali enti in territorio italiano sono ad ogni effetto rappresentati dalla Santa Sede che,
nell’ordinamento dello Stato, è certamente persona giuridica.

17­ I rapporti di lavoro dei dipendenti della S.S. e degli enti centrali
Per quanto riguarda i dipendenti della Santa Sede e degli enti centrali, essi godono regime
fiscale più favorevole.
In particolare, le retribuzioni di qualsiasi natura corrisposte dalla Santa Sede, dagli enti centrali

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della Chiesa e dagli enti gestiti direttamente dalla Santa Sede sono esenti da qualsiasi tributo
nei confronti dello Stato italiano e di ogni altro ente.
La Santa Sede ha istituito un Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, il cui statuto indica
che la sua attività riguarda il lavoro prestato alle dipendenze della Curia Romana e le
molteplici funzioni (ad es., quella di promuovere l’uniformità ed il miglioramento delle
condizioni economiche, essenziali e previdenziali del personale).
Inoltre, lo statuto di tale ufficio disciplina anche le controversie di lavoro, di cui prevede la
soluzione in sede amministrativa di conciliazione, oppure in difetto di conciliazione, attraverso
il giudizio di un Collegio di conciliazione e arbitrato.
Controversie di lavoro dei dipendenti della Santa Sede possono sorgere anche in relazione ad
individui che operano in territorio italiano.
Al riguardo, si pone il problema di individuare la giurisdizione competente.
Come nei confronti dei rapporti di lavoro dei dipendenti italiani di ambasciate straniere,
occorre distinguere 2 situazioni:
­ Se l’impiegato svolge una funzione istituzionale propria dell’organizzazione cui
appartiene (ad es., un giornalista impiegato presso la radio vaticana), il rapporto di
lavoro sfugge alla giurisdizione statale.
­ Se l’impiegato svolge un’attività che potrebbe essere prestata presso un qualsiasi altro
datore di lavoro (ad es., un autista), il rapporto di lavoro riguarda la giurisdizione
statale.
Dunque, l’immunità dalla giurisdizione statale riguarda i rapporti di servizio che attribuiscono
al funzionario un potere (anche minimo) di disposizione nell’ambito della funzione
istituzionale dell’ente.

Capitolo 8: G li enti delle confessioni religiose

1­ Il riconoscimento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici


Di regola, nell’ordinamento italiano le confessioni religiose non sono dotate di personalità
giuridica.
Invece, hanno o possono ottenere la personalità giuridica gli enti creati da tali confessioni.
Tuttavia, non sempre è stato così. Ad es., applicando i principi giurisdizionalisti nel periodo
risorgimentale, il legislatore soppresse una serie di enti della Chiesa cattolica privandoli della
personalità giuridica ed acquisendone il patrimonio.
Attualmente, il riconoscimento giuridico degli enti confessionali può avvenire in forza di
norme speciali o in base al diritto comune.
La personalità giuridica degli enti si acquista attraverso 3 modalità:
­ Per legge, quando è il legislatore a riconoscere la personalità.
­ Per riconoscimento dell’autorità giudiziaria, la quale afferma che l’ente è stato
costituito secondo uno schema previsto dalla legge, il suo atto costitutivo è conforme
alla legge e trascrive tale atto in un apposito registro (questa è la modalità meno
utilizzata per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici).
­ Con apposito provvedimento prefettizio di iscrizione dell’ente nel registro delle
persone giuridiche.
Il diritto comune in materia di riconoscimento di enti è mutato con il D.P.R. 361/ 2000, il
quale ha attribuito la competenza per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti
privati al prefetto del luogo in cui l’ente ha sede principale (in passato attribuito al Ministro
competente).
Il prefetto è anche competente a tenere il registro di tali enti (in passato di competenza
dell’autorità giudiziaria).
Da sottolineare che esistono anche enti che hanno la personalità giuridica per antico possesso

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di stato, ossia in quanto riconosciuti da lungo tempo come persone giuridiche. Di solito si
tratta di enti esistenti da epoca anteriore alla formazione dello Stato italiano.

2­ Riconoscimento della personalità per antico possesso di stato e per legge


Nell’ordinamento italiano, sono dotate di personalità giuridica per antico possesso di Stato:
­ La Santa Sede e gli altri enti ecclesiastici la cui personalità giuridica non è stata
soppressa dalle leggi eversive della seconda metà dell’800 (capitoli, seminari e
parrocchie di antica istituzione).
­ La Tavola Valdese ed i 15 Concistori della Chiesa delle Valli valdesi.
Sono dotate di personalità giuridica per riconoscimento di legge:
­ Le Comunità israelitiche esistenti nel 1930 e l’Unione delle Comunità israelitiche
italiane.
­ La Conferenza Episcopale Italiana.
­ L’Unione cristiana delle Chiese avventiste del 7° giorno.
­ Le Comunità evangeliche luterane di diverse città, la Chiesa cristiana protestante di
Milano e la Comunità evangelica ecumenica di Ispra­Varese.
Tutti gli enti menzionati sono organi­istituzioni delle confessioni cui appartengono e sono
dotati di personalità giuridica che, quando operano all’interno dell’ordinamento statale, sono
riconosciute dal diritto italiano.
Le leggi che hanno approvato le Intese con le varie confessioni di minoranza hanno, alle volte,
riconosciuto la personalità giuridica anche ad enti ad esse appartenenti che non sono organi
istituzioni, ma enti con fini propri (principalmente di istruzione).
Da sottolineare che diocesi, parrocchie ed Istituti per il sostentamento del clero sono stati
riconosciuti persone giuridiche in forza di un procedimento abbreviato, in cui all’autorità
governativa spettava di controllare la legittimità e la regolarità degli atti dell’autorità
ecclesiastica.
Si trattava di una sorta di procedimento di omologazione, attribuito alla competenza della
Pubblica Amministrazione, non dell’autorità giudiziaria (al pari di come avviene per il
riconoscimento della personalità giuridica degli enti privati, quali le società di capitali).
L’attribuzione della personalità ad un’entità collettiva organizzata deriva da un atto del potere
statuale, anche quando sia un atto remoto o presunto come avviene nel caso del godimento
della personalità giuridica per antico possesso di Stato.
Tale atto è emanato previa valutazione dei requisiti presentati dall’entità collettiva.
Dunque, si tratta di un atto qualificatorio che produce l’effetto di attribuire la personalità
giuridica all’entità sociale.

3­ Riconoscimento della personalità per decreto, le fonti normative


In base all’organo che lo emana, tale atto può assumere forme diverse (di atto legislativo, di
atto governativo, di atto giurisdizionale).
Il caso più comune è quello del riconoscimento della personalità giuridica degli enti per atto di
governo.
Le norme che disciplinano il riconoscimento degli enti delle confessioni religiose per decreto
del Ministero dell’Interno sono contenute:
­ Nella L. 206 e 222/ 1985, per quanto riguarda gli enti della Chiesa cattolica.
­ Nel D.P.R. 33/ 1987 (modificato nel 1999), che ha approvato il regolamento di
esecuzione della legge precedente.
­ Nella L. 1159/ 1929, per quanto riguarda gli enti delle altre confessioni religiose.
­ Nella L. 449/ 1984, per quanto riguarda gli enti delle Chiese Valdesi e Metodiste (in

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altre leggi si contengono le discipline per le altre confessioni).
Il Prefetto del luogo riceve le domande di riconoscimento di associazioni e fondazioni di
diritto privato e, se ritiene di accoglierle, dispone l’iscrizione degli enti nel registro delle
persone giuridiche da lui tenuto.
L’iscrizione comporta l’acquisto della personalità giuridica, senza che occorra l’emanazione di
un formale decreto di riconoscimento.
Tuttavia, la semplificazione del diritto comune non si applica alle confessioni religiose, la cui
attribuzione della personalità giuridica deve avvenire necessariamente con apposito decreto.
Ciò comporta una compressione della libertà religiosa disciplinata da norme meno favorevoli
di quelle previste per gli enti di diritto comune. Tale situazione è in contrasto con l’art. 20
Cost. e dovrebbe essere rimediata in sede di accordi o in sede legislativa.

4­ Riconoscimento degli enti della chiesa ccattolica


Per il riconoscimento degli enti della Chiesa cattolica è necessario che ricorrano i seguenti
requisiti di carattere generale:
­ G li enti devono essere costituiti ed approvati dall’autorità ecclesiastica (requisito
soggettivo).
­ L’autorità ecclesiastica deve aver dato il proprio assenso a che l’ente faccia istanza per
ottenere la personalità giuridica civile (requisito soggettivo).
­ L’ente deve avere sede in Italia (requisito oggettivo).
­ L’ente deve avere un fine essenziale (o costitutivo) di religione o di culto (requisito
oggettivo).
Da sottolineare che invece il Concordato del 1929 consentiva il riconoscimento degli
istituti ecclesiastici di qualsiasi natura, purché approvati dall’autorità ecclesiastica.
Tuttavia, in questo modo avveniva anche il riconoscimento come enti ecclesiastici di
enti che nulla avevano di ecclesiastico.
Per definizione di legge, hanno “fine essenziale di religione o di culto” gli enti che fanno
parte della costituzione gerarchica della Chiesa, gli istituti religiosi ed i seminari (art. 2 I
comma L. 222/ 1985).
Tale menzione non è tassativa, potendovi rientrare anche gli enti come le chiese non
parrocchiali aperte al culto pubblico, i santuari, i capitoli e gli istituti secolari.
Un argomento a favore dell’interpretazione estensiva è tratto dal fatto che il diritto civile
riconosce come enti ecclesiastici gli Istituti per il sostentamento del clero, i quali
istituzionalmente non hanno un fine costitutivo ed essenziale di religione o di culto, ma quello
di corrispondere la remunerazione ai sacerdoti in servizio.
Per gli enti diversi da quelli menzionati (diocesi, parrocchie, istituti religiosi, seminari ed enti
equiparati), il fine di religione o di culto deve essere valutato di volta in volta per accertare il
carattere costitutivo ed essenziale.
Sono soggette a tale accertamento le fondazioni e tutte le altre persone giuridiche
ecclesiastiche, in particolare, quegli enti della Chiesa che non abbiano personalità giuridica
nell’ordinamento canonico.
Sono considerate “attività religiose o di culto” quelle dirette all’esercizio del culto e della cura
delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi.
Invece, non sono considerate “attività di religione o di culto” quelle di assistenza, beneficenza,
istruzione, educazione e le attività commerciali e lucrative.
La dottrina ha cercato di interpretare il significato del carattere “costitutivo ed essenziale” del
fine di religione o di culto:
­ Secondo alcuni, il fine ha carattere essenziale quando non marginale è nell’ambito degli
scopi che l’ente persegue.
­ Secondo altri, il fine ha carattere essenziale quando ha un rilievo centrale tra le varie

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finalità dell’ente, in modo da configurarsi come la “causa” dell’ente stesso; oppure,
quando rappresenta la ragion d’essere dell’ente.
In realtà, il fine costitutivo ed essenziale è che l’ente persegue non soltanto secondo il suo
statuto, ma anche quello che esso svolge nel suo concreto operare, nei settori dell’esercizio del
culto, della cura delle anime, della formazione del clero o dei religiosi, o degli scopi missionari
o, ancora, della catechesi.
Dunque, affinché possa essere qualificato come ecclesiastico l’ente deve avere uno statuto o
delle tavole di fondazione che presentino uno degli anzidetti temi come fine principale
dell’ente e, di fatto, deve svolgere come attività preponderante una delle attività menzionate.

5­ L’iscrizione nel registro delle persone giuridiche


Una volta ottenuta la personalità giuridica civile, gli enti assumono la qualifica di enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti e hanno l’onere di iscriversi nel registro delle persone
giuridiche istituito presso la cancelleria dei Tribunali.
L’iscrizione svolge la funzione di pubblicità­notizia, in quanto in questo modo vengono rese
conoscibili le norme sul funzionamento dell’ente ed i poteri degli organi di rappresentanza.
Essa avviene a richiesta del legale rappresentante, ma sono previste variazioni rispetto alla
disciplina del codice civile circa i documenti da allegare alla domanda.
Il codice civile prevede il deposito dell’atto costitutivo e dello statuto.
Invece per gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa si richiede la
produzione del decreto canonico di erezione, da cui risultino la denominazione, la natura e la
sede dell’ente, oppure il deposito di una dichiarazione dell’autorità ecclesiastica integrativa
del decreto canonico che fosse privo di tali indicazioni.
Il deposito dello statuto può essere sostituito dall’allegazione di un attestato della Santa Sede
oppure del vescovo diocesano, dal quale risultino i detti elementi.
Quest’ultima norma si giustifica in quanto vi sono enti di antichissima istituzione che non
hanno statuti approvati agli effetti civili.
Poiché ai fini dell’iscrizione deve essere prodotto il decreto di riconoscimento della personalità
giuridica dell’ente o del numero della G azzetta Ufficiale nel quale il decreto è stato pubblicato,
occorreva disciplinare il caso degli enti ecclesiastici che avevano ottenuto la personalità
giuridica in epoca anteriore al 7 giugno 1929.
In questi casi, al posto del formale decreto di riconoscimento è necessario produrre un attestato
del Ministro dell’Interno dal quale risulti, oltre al possesso della personalità giuridica da parte
dell’ente, l’assenso dell’autorità ecclesiastica al riconoscimento e che non sia intervenuta
alcuna causa di estinzione della personalità.
Nel registro inoltre, devono essere iscritte le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, il
trasferimento della sede, l’istituzione di altre sedi, le sostituzioni degli amministratori e tutte le
deliberazioni circa lo scioglimento o l’estinzione dell’ente.
Tali iscrizioni devono essere domandate dai rappresentanti delle persone giuridiche
ecclesiastiche entro 15 giorni dal verificarsi di questi eventi.
Per l’iscrizione delle nomine dei nuovi amministratori, il termine decorre dalla accettazione
della nomina.
Nei casi di soppressione o estinzione degli enti, tali fatti producono effetti civili mediante
l’iscrizione nel registro del relativo provvedimento dell’autorità ecclesiastica.
Anche gli enti che erano stati riconosciuti prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni
dovevano iscriversi nel registro delle persone giuridiche entro il 3 giugno 1987. Tali enti non
sono legittimati a concludere alcun negozio giuridico fino a quando non provvederanno
all’iscrizione.
Ovviamente, sino alla scadenza dei termini indicati, tali gli enti potevano concludere tutti i
negozi che volevano anche in mancanza di iscrizione nel registro.

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G li enti privati riconosciuti come persone giuridiche ma non iscritti nel registro, mantengono
la legittimazione negoziale ma i suoi amministratori rispondono personalmente ed in solido
con la persona giuridica delle obbligazioni assunte.
Diversamente, l’ente ecclesiastico riconosciuto come persona giuridica ma non iscritto nel
registro comporta la perde della capacità di agire (difetto di legittimazione).
Dunque, i contratti eventualmente stipulati dai rappresentanti degli enti in questione sono
efficaci ma annullabili su istanza dell’ente o dell’altro contraente. Tali contratti sono
suscettibili di convalida o di ratifica.
Inoltre, se il contratto fosse annullato contro gli interessi del contraente, questo potrebbe
chiedere il risarcimento del danno al rappresentante dell’ente per aver ecceduto i limiti delle
facoltà conferitegli dalla legge.
Per quanto riguarda l’iscrizione nel registro ed i negozi giuridici compiuti dagli enti la cui
personalità giuridica è stata riconosciuta dopo il 3 giugno 1985, si applica integralmente il
regime previsto dal codice civile.
Dunque, anche se i rappresentanti di tali enti non richiedono le iscrizioni nel termine e
secondo le modalità previste, rispondono personalmente e solidalmente, insieme con la
persona giuridica, delle obbligazioni assunte.
Da sottolineare che alcuni ritengono ammissibile una differenziazione nel trattamento degli
enti ecclesiastici riconosciuti prima del 3 giugno 1985 da tutte le altre persone giuridiche
soggette all’iscrizione ed anche dagli enti ecclesiastici che siano stati riconosciuti dopo tale
data.
Diversamente da come potrebbe apparire tale differenziazione non sarebbe in contrasto con
l’art. 20 Cost., in quanto di per sé ragionevole.
Infatti, per una situazione di fatto gli enti già riconosciuti in passato non avevano l’obbligo
dell’iscrizione nel registro delle imprese e tali enti dovevano essere sollecitati ad iscriversi; gli
enti che sono stati riconosciuti successivamente, quando le nuove norme erano a regime, sono
trattati come tutte le altre persone giuridiche soggette all’iscrizione nel registro.

6­ Procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica


Il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici da
parte dello Stato, ha inizio con la domanda dall’autorità ecclesiastica competente, la quale per
il diritto canonico rappresenta l’ente.
Nella domanda, oltre ad essere indicati la denominazione, la natura ed i fini dell’ente, devono
essere precisate la sede e la persona che lo rappresenta.
Alla domanda devono essere allegati i documenti idonei a provare i requisiti necessari al
riconoscimento (ad es., il provvedimento canonico di erezione o di approvazione dell’ente e un
estratto dello statuto). Tra i documenti non è richiesta la produzione integrale dello statuto, in
quanto ai fini civilistici non ha utilità la conoscenza delle norme di ordine religioso.
Invece, occorre produrre i documenti diretti a dimostrare i requisiti generali e speciali stabiliti
dalla legge per il riconoscimento civile dei vari tipi di ente.
I documenti riguardanti il fine non occorrono quando si tratti di un ente appartenente alla
costituzione gerarchica della Chiesa, per i quali il fine di religione è presunto iuris et de iure
dalla legge.
Insieme alla domanda e ai documenti indicati deve essere allegato l’atto di assenso al
riconoscimento manifestato dall’autorità ecclesiastica competente. Quando occorra
(fondazioni di culto, chiese) è necessario provare la consistenza patrimoniale dell’ente.
La domanda va presentata presso la prefettura del luogo in cui l’ente ha sede. Se la domanda
è presentata ad un prefetto che non è territorialmente competente, questo la trasmette al
prefetto competente, dandone notizia agli interessati.
Il prefetto istruisce la domanda e, se necessario, può acquisire elementi di giudizio ulteriori
richiedendoli all’ente da riconoscere, all’autorità ecclesiastica o ad altri organi della pubblica

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amministrazione.
Dopo aver istruito la pratica, egli la trasmette al Ministero degli Interni il quale, se ricorrono i
presupposti previsti dalla legge, emana il decreto di riconoscimento (se l’istruttoria è
oggettivamente complessa, questi può richiedere il parere del Consiglio di Stato).
Il decreto (o il provvedimento che non accoglie la domanda) deve essere poi comunicato al
rappresentante dell’ente e all’autorità ecclesiastica che ha domandato il riconoscimento o che
vi ha dato l’assenso.
Da sottolineare che quando il Ministro decide di interpellare il Consiglio di Stato e questo dà
un parere contrario in relazione al riconoscimento della personalità giuridica ad un ente che il
Ministro intende invece concedere, è necessario interpellare il Consiglio dei Ministri e
l’eventuale riconoscimento deve avvenire con decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri.
Occorre ricordare che quando si tratti di enti che operino esclusivamente nell’ambito delle
materie di spettanza regionale, spetta alle regioni il potere di riconoscere la personalità
giuridica.

7­ La discrezionalità nel riconoscimento della personalità giuridica


Il riconoscimento delle persone giuridiche private, disciplinato dal Libro I del codice civile,
dipende da un atto ampiamente discrezionale dell’autorità governativa.
Infatti, questa valuta la conformità dell’atto costitutivo e dello statuto dell’ente alla legge, ma
anche se tale ente è necessario o utile e se ha i mezzi economici sufficienti per raggiungere i
propri fini.
Ci si chiede se all’autorità governativa competano poteri analoghi nel riconoscimento degli
enti della Chiesa cattolica.
Chiaramente, gli eventuali poteri discrezionali dell’autorità devono essere esercitati tenendo
presente che gli enti della Chiesa cattolica sono espressione della libertà religiosa, protetta ex
art. 19 Cost.
Inoltre, i poteri di valutazione dell’autorità governativa dovrebbero variare da caso a caso, in
quanto gli enti della Chiesa appartengono a varie categorie (associazioni, fondazioni).
Ovviamente, la valutazione riguarda la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge in generale
per tutti gli enti in questione ed in particolare per ciascun tipo di ente.
Una parte di tale esame è di mera legittimità (in cui si verifica la sussistenza dei presupposti
indicati dalla legge, quali i requisiti), un’altra parte anche di merito (in particolare, il requisito
attinente ai fini dell’ente).
G li enti della Chiesa cattolica sono riconosciuti come enti ecclesiastici quando abbiano un fine
di religione o di culto che sia costitutivo ed essenziale.
Tale fine è riconosciuto ipso iure per gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della
Chiesa, degli istituti religiosi e dei seminari o equiparati.
In tal caso, l’autorità governativa deve soltanto accertare che l’ente sia una parrocchia, una
diocesi, un ordine, una congregazione, ecc.
In tali ipotesi, il fine costitutivo ed essenziale o di religione o di culto è presunto iuris et de iure.
Invece, rispetto a tutti gli altri enti ecclesiastici, di volta in volta, l’autorità governativa è
chiamata a valutare quale attività svolgano effettivamente, per accertare se siano dirette in
modo costitutivo ed essenziale a fini di religione o di culto.
In questi casi, il giudizio riguardo alla natura costitutiva ed essenziale del fine è discrezionale
in quanto non disciplinato da norme giuridiche.
Il requisito della sufficienza del patrimonio o dei mezzi economici per il raggiungimento dei
fini dell’ente non può che essere valutato discrezionalmente.
Esso deve essere preso in considerazione tutte le volte in cui si tratta di riconoscere la
personalità giuridica di un ente appartenente al genere delle fondazioni, in quanto la

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fondazione può nascere soltanto in rapporto ad un patrimonio destinato ad un fine.
Sono soggette a tale analisi le chiese aperte al culto pubblico e le fondazioni di culto, la cui
sufficienza dei mezzi economici è richiesta espressamente dalla legge.
Tale esame invece non è più necessario per il riconoscimento degli enti che fanno parte della
costituzione gerarchica della Chiesa (ossia diocesi, parrocchie ed associazioni).
Infatti, a seguito dell’Accordo del 15 novembre 1984 tali enti non sono più considerati
fondazioni (come in passato), ma fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa.
Dunque, essi non hanno più bisogno di una dote redditizia.
Da sottolineare che in tema di riconoscimento della personalità giuridica l’autorità governativa
non può effettuare valutazioni circa l’utilità sociale degli enti della Chiesa cattolica.
Infatti, il giudizio sull’utilità di un ente ecclesiastico non è di competenza dell’autorità
governativa, inoltre (e soprattutto) sembra difficile che l’autorità statale possa essere in grado
di effettuare una simile valutazione.
L’Intesa del 1997, interpretativa ed applicativa degli Accordi del 1984 tra Italia e Santa Sede,
accoglie tutti i criteri indicati in precedenza.
Inoltre, essa afferma che l’indicazione del patrimonio occorre soltanto per il riconoscimento
degli istituti religiosi di diritto diocesano, delle chiese aperte al culto pubblico e delle
fondazioni di culto.
La pubblica amministrazione non può chiedere legittimamente tale indicazione per il
riconoscimento degli altri enti.
Dunque, sembra non è ampia la discrezionalità dell’amministrazione nel riconoscimento della
personalità giuridica degli enti della Chiesa cattolica.
Essa è poi risultata del tutto insussistente nel riconoscimento della personalità giuridica degli
enti che sono subentrati al sistema beneficiale.
Infatti, per il riconoscimento della personalità giuridica degli Istituti per il sostentamento del
clero, delle diocesi e delle parrocchie e per l’estinzione degli enti “chiesa parrocchiale” si è
prevista una procedura abbreviata di competenza del Ministro degli Interni.
Si tratta di una sorta di omologazione in cui è esclusa ogni valutazione discrezionale, in
quanto il riconoscimento come persona giuridica o l’estinzione dell’ente risulta essere un atto
dovuto.

8­ Le modifiche degli enti ecclesiastici


G li enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono essere soggetti a modificazioni, le quali
devono essere riconosciute con un procedimento uguale a quello previsto per l’attribuzione
della personalità giuridica.
In particolare, ogni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione dei beni e nel modo di
esistenza di un ente ecclesiastico, per essere efficace nel diritto statale deve essere riconosciuto
con decreto del Ministro dell’interno, sentito quando occorra il parere del Consiglio di Stato.
Questo provvedimento è trasmesso d’ufficio al registro delle persone giuridiche ai fini
dell’iscrizione.
Tuttavia, non è agevole individuare quando il mutamento del fine di un ente sia sostanziale e
quando non lo sia.
G li enti ecclesiastici sono tali in quanto hanno un fine costitutivo ed essenziale di religione o di
culto.
Se un ente cessa di perseguire il fine precedentemente indicato per interessarsi ad un altro fine
indicato come attività di religione che viene modificato attraverso un provvedimento
dell’autorità ecclesiastica, questo mutamento dovrà essere riconosciuto agli effetti civili.
Se invece, l’ente muti il proprio fine originario soltanto in via di fatto, senza alcun
provvedimento canonico, non occorre pensare ad un riconoscimento del mutamento da parte
dello Stato.

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Inoltre, non vi è mutamento dei fini quando un ente ecclesiastico persegue, oltre al proprio fine
costitutivo ed essenziale, anche altri scopi leciti, spesso strumentali al primo. Dunque, non vi è
alcun mutamento dei fini che debba essere riconosciuto agli effetti civili.
I mutamenti nella destinazione dei beni in passato rilevavano nel sistema beneficiale, in cui lo
Stato aveva l’onere di corrispondere un supplemento di congrua nei confronti dell’ente che
avesse subito un impoverimento.
Tale sistema è crollato, dunque il controllo della destinazione dei beni è divenuto rilevante
soltanto per garantire i terzi attraverso l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, oppure
nel caso di perdita del patrimonio per un ente del tipo fondazione, per l’eventuale revoca del
riconoscimento della personalità giuridica.

9­ L’estinzione degli enti ecclesiastici


G li enti ecclesiastici civilmente riconosciuti cessano di esistere agli effetti della legge dello
Stato quando siano soppressi dall’autorità ecclesiastica, oppure quando sia revocato il
riconoscimento civile.
La dottrina si è chiesta se fosse rilevante agli effetti civili la previsione del diritto canonico
secondo cui si verifica l’estinzione ope legis della personalità giuridica degli enti che non
agiscono per 100 anni, con conseguente devoluzione del patrimonio residuo alla persona
giuridica immediatamente superiore, nel caso in cui si tratti di persona giuridica pubblica e
nulla prevedano gli statuti; con devoluzione al soggetto indicato dallo Statuto, se si tratta di
persona giuridica privata.
In generale, il quesito è stato risolto in senso affermativo.
Tuttavia, nel diritto dello Stato l’estinzione e la soppressione degli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti diventano efficaci con l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche del
provvedimento ecclesiastico di soppressione o di estinzione.
Dunque, è irrilevante agli effetti civili l’estinzione di fatto dell’ente, ma occorre che il
provvedimento canonico si estinzione o soppressione sia trasmesso al Ministro dell’interno, il
quale con proprio decreto dispone l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche e devolve i
beni dell’ente estinto o soppresso secondo la prescrizione del provvedimento ecclesiastico.

10­La revoca del riconoscimento della personalità giuridica


L’ente ecclesiastico può perdere la qualifica di personalità giuridica nel diritto dello Stato
anche per un autonomo provvedimento dell’autorità governativa di revoca del
riconoscimento.
Ciò avviene quando l’ente perde uno dei requisiti prescritti per il riconoscimento civile. Non
può essere disposta per motivi diversi, venendo meno ogni discrezionalità del governo.
La revoca deve essere deliberata con decreto del Ministro dell’interno, sentito quando
occorre il Consiglio di Stato.
Inoltre, poiché la revoca avviene per iniziativa dell’autorità governativa, è previsto che sia
sentita l’autorità ecclesiastica. Infatti, il procedimento di revoca deve essere “inverso” a quello
del riconoscimento.
Da sottolineare inoltre che l’autorità di governo può annullare d’ufficio il riconoscimento in
autotutela, quando questo è stato concesso erroneamente.
Tutti questi provvedimenti devono essere riportati nel registro delle persone giuridiche in cui è
iscritto l’ente.

11­Le attività degli enti ecclesiastici diverse da quelle di religione o culto


G li enti della Chiesa cattolica possono diventare per lo Stato enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti quando hanno il fine costitutivo ed essenziale di religione o di culto.
Tuttavia, tali enti possono svolgere anche altre attività lecite per lo Stato, diverse da quelle di
religione o di culto.

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Al riguardo, sin dal Concordato del 1929 si è affermato il principio secondo cui le attività
diverse da quelle di religione o di culto svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette alle leggi
dello Stato in materia ed al relativo regime tributario.
Tale soggezione deve avvenire nel rispetto della “struttura e della finalità di tali enti”. Da
sottolineare che non è chiaro come lo Stato possa disciplinare una determinata attività in
modo contrastante con la struttura e la finalità degli enti.
È stato precisato che sono “attività diverse da quella di religione o di culto” quelle di
assistenza e beneficenza, di istruzione, educazione e cultura, e le attività commerciali o con
fine di lucro.
I medesimi principi sono fissati per gli enti delle confessioni di minoranza ed emergono dalle
leggi di approvazione di alcune Intese.

Fra le attività non qualificate dalla legge come attività di religione o di culto, rilevano le
attività assistenziali svolte da enti ecclesiastici ospedalieri.
In forza di una legge del 1890, tali enti erano soggetti al regime delle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza (IPAB). Dunque, ci si domandava se i rapporti di lavoro da essi
instaurati con il personale medico e paramedico fossero da qualificare come rapporti di
pubblico impiego, rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo.
Al riguardo, la Corte Costituzione nel 1988 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della
legge del 1890 nella parte in cui non prevedeva che le IPAB potevano esistere come enti privati
qualora ne avessero avuto le caratteristiche.
Poi, la giurisprudenza ha affermato che gli enti ecclesiastici ospedalieri non sono enti pubblici.
Dunque, sui rapporti di lavoro da essi intrattenuti la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

12­La qualifica giuridica degli enti confessionali


In passato, non era chiaro come inquadrare gli enti della Chiesa che venivano riconosciuti
come persone giuridiche dallo Stato.
Al riguardo, si sono sviluppate in dottrina 3 correnti di pensiero:
­ Alcuni ritenevano che gli enti ecclesiastici erano quid medium tra enti pubblici ed enti
privati, in quanto disciplinati da norme di un altro ordinamento e miravano a
soddisfare esigenze collettive.
Dunque, di volta in volta si doveva valutare se tali enti erano disciplinati da norme che
si riferivano ad enti pubblici o privati.
­ Altri ritenevano che gli enti ecclesiastici erano enti pubblici, in quanto lo Stato aveva
interesse alla loro conservazione.
­ Altri ancora ritenevano che gli enti ecclesiastici avevano carattere pubblico soltanto in
un sistema di rapporti tra Stato e Chiesa di tipo cesaropapista, nel quale la Chiesa fa
parte dell’organizzazione statuale.
Invece, nel nostro Paese, è la Chiesa cattolica a presiedere ai propri enti ed in quanto
essa è un ordinamento primario gli enti ecclesiastici non possono essere assimilati agli
enti pubblici statali.
Oggi si è posto fine alla discussione, in quanto si afferma che gli enti della Chiesa riconosciuti
come persone giuridiche dallo Stato assumono la qualifica di “enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti”.
Dunque, non si tratta né di enti privati né di enti pubblici, ma enti di una più ampia ed
autonoma organizzazione confessionale ai quali lo Stato si è limitato a riconoscere la
personalità giuridica.
Ad essi sono applicabili le norme che il codice civile detta per le persone giuridiche e le altre
disposizioni statuali che si riferiscono anche agli enti ecclesiastici.
Il carattere non pubblico degli enti della Chiesa cattolica trova conferma nella diversa
disciplina legislativa che vigeva per gli istituti di altre confessioni (ad es., le Comunità

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israelitiche e l’Unione delle comunità israelitiche italiane erano indubbiamente da qualificare
per il diritto italiano come enti pubblici, in quanto lo Stato ne prevedeva i fini e le sottoponeva
alla vigilanza ed alla tutela governativa).

Nei rapporti fra Stato e confessioni religiose, viene in rilievo il problema della qualificazione
confessionale degli enti collegati alle confessioni religiose.

13­L’ecclesiasticità degli enti


Con riferimento alla qualificazione degli enti collegati alla Chiesa cattolica si parla di
“ecclesiasticità degli enti”.
Sotto quest’ultimo profilo, in passato la dottrina ha seguito 2 tesi:
­ L’ecclesiasticità di un ente in senso cattolico è data dal suo collegamento con
l’ordinamento canonico e dal riconoscimento di esso da parte dello Stato.
­ L’ecclesiasticità di un ente in senso cattolico è data dal suo collegamento con
l’ordinamento canonico e dal fine di religione o di culto.
Poi, il Concordato del 1929 ha fissato il principio secondo cui lo Stato non può riconoscere
come “ente cattolico” un ente che non è tale per la Chiesa. Dunque, l’ecclesiasticità degli enti
dipende dall’essere stati costituiti secondo il diritto canonico.
Analogo principio è stato ripreso negli Accordi del 1984.
Del resto, la domanda di riconoscimento deve essere proposta dall’autorità ecclesiastica o da
chi rappresenti l’ente secondo il diritto canonico e con l’assenso della autorità ecclesiastica.
Dunque, nessuna associazione di religiosi o laici può ottenere il riconoscimento della
personalità giuridica come ente collegato all’organizzazione della Chiesa cattolica, se non sia
gradita ad essa, neppure un’associazione di fatto, contro la quale la Chiesa può agire sulla base
delle norme a tutela del diritto al nome.
L’associazione potrà ottenere il riconoscimento secondo il diritto comune, ma non potrà
attribuirsi la qualifica di “cattolica”.
Tali principi valgono non solo per le associazioni, ma per qualsiasi ente che intenda presentarsi
come cattolico. Non vi è nessuna possibilità che un ente sia considerato come ecclesiastico
senza o contro il volere dell’autorità ecclesiastica.
G li stessi principi valgono anche per gli enti collegati alle altre confessioni religiose.
Il fatto che per lo Stato nessun ente è ecclesiastico senza il riconoscimento della Chiesa, non
implica che tutti gli enti ecclesiastici per la Chiesa lo siano anche per lo Stato.
Infatti, ai fini del riconoscimento civile, gli enti della Chiesa cattolica devono avere come fine
costitutivo ed essenziale quello di religione o di culto.
Analoga regola vale per gli enti delle altre confessioni.

14­I vari enti della chiesa cattolica: la conferenza episcopale italiana


La Chiesa cattolica si avvale in Italia di vari enti:
­ La Conferenza Episcopale Italiana (CEI).
Essa è un istituto permanente, la cui struttura di base è data dall’assemblea dei vescovi di una
nazione o di un determinato territorio, i quali esercitano congiuntamente funzioni pastorali nei
confronti dei fedeli delle loro diocesi.
Tali Conferenze sono erette, soppresse o innovate dalla Santa Sede, sentiti i vescovi interessati
ed acquistano ipso iure personalità giuridica non appena siano erette.
L’art. 2 dell’Accordo 18 febbraio 1984 assicura la reciproca libertà di comunicazione e di
corrispondenza tra la Santa Sede, la CEI e le Conferenze Episcopali regionali; mentre l’art. 13
legittima la CEI a stipulare intese con le autorità dello Stato per regolare materie che
richiedono una collaborazione fra Stato e Chiesa.
Nell’esercizio dei suoi poteri normativi ed amministrativi, la CEI è legittimata a compiere
numerosi atti giuridicamente rilevanti.

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Per quanto riguarda i poteri normativi, la CEI:
 Emana le disposizioni necessarie per l’attuazione nel diritto canonico delle
norme riguardanti i beni ecclesiastici ed il sostentamento del clero.
 Emana le direttive per la formazione degli statuti dei vari Istituti diocesani per il
sostentamento del clero.
 Definisce l’esercizio del ministero del clero svolto a favore delle diocesi.
 Determina periodicamente quanto dovuto al clero.
 Stabilisce la procedura per i ricorsi e per la composizione delle controversie
determinate dai provvedimenti degli Istituti diocesani per il sostentamento del
clero, circa la misura della determinazione dovuta a quei sacerdoti che abbiano
altri proventi.
Le delibere in tali materie devono ricevere la recognitio della Santa Sede e vengono promulgate
con decreto del Presidente della CEI.
Essi nell’ordinamento canonico hanno valore ed efficacia di decreti generali, ossia atti
normativi parificati alla legge.
Per quanto riguarda invece l’esercizio di poteri amministrativi e di governo, la CEI:
 Ha eretto l’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
 Designa 3 componenti del consiglio di amministrazione del Fondo edifici di culto.
 Designa il presidente dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
 Determina annualmente la destinazione delle somme ricevute dallo Stato.
 Trasmette annualmente all’autorità statuale un rendiconto circa l’effettiva utilizzazione
delle somme ricevute dalle singole persone fisiche e dallo Stato.

­ Le diocesi e le parrocchie:
L’Accordo 15 novembre 1984 e la L. 222/ 1985 hanno previsto un riordino degli organi che
fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa, la quale è libera di organizzarsi e di
determinare la circoscrizione delle diocesi e delle parrocchie.
La L. 222/ 1985 ha stabilito che l’autorità ecclesiastica doveva effettuare la determinazione
della sede, della denominazione e dei confini territoriali delle diocesi e delle parrocchie entro il
30 settembre 1986.
Tale determinazione ha avuto l’effetto di equiparare la situazione di tali enti nel diritto dello
Stato alla situazione in cui si trovano nel diritto canonico.
Inizialmente, alle diocesi ed alle parrocchie non veniva riconosciuta la personalità giuridica.
Successivamente, il codex del 1983 ha stabilito che le diocesi e le parrocchie acquistano ipso iure
la personalità giuridica nel momento in cui vengono erette.
In misura corrispondente il Ministro dell’Interno con proprio decreto ha conferito ad esse la
qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Entro il 30 settembre 1986, con decreto del Vescovo sono stati estinti tutti i benefici esistenti
nelle diocesi per trasferirli presso l’Istituto diocesano per il sostentamento del clero, eretto
con lo stesso decreto in ogni diocesi.
Il decreto di trasferimento del Vescovo ha carattere amministrativo (e per il diritto dello Stato
producono l’effetto di un provvedimento amministrativo, ossia tutti gli effetti relativi al
trasferimento di immobili, quali le trascrizioni immobiliari o le volture catastali), dunque
diventa esecutivo dopo 10 giorni dalla notificazione e contro di esso può essere presentato
ricorso. La proposizione del ricorso sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato.
Nonostante le eventuali controversie che possono sorgere tra l’Istituto per il sostentamento del
clero e diocesi o parrocchie riguardano la proprietà di immobili situati in territorio italiano,
essi sono giustiziabili nell’ordinamento della Chiesa innanzi ai vescovi diocesani.
Sussiste un difetto di giurisdizione dello Stato, il quale ha riconosciuto agli effetti civili
l’autonomia dell’ordinamento canonico in misura ampia.

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Infatti, nessuna norma consente al giudice ordinario o amministrativo di disapplicare o di
annullare un provvedimento dell’autorità ecclesiastica.
Invece, la competenza giurisdizionale dello Stato sussiste riguardo al diritto di proprietà sui
beni non pregiudicati da alcun provvedimento canonico, nei confronti dei quali diocesi e
parrocchie potranno rivendicare innanzi al giudice ordinario il diritto di proprietà.
In particolare, si tratta di beni di cui ogni Istituto diocesano è divenuto titolare in forza della
successione universale prevista dalla L. 222/ 1985 e che sono rimasti in potere degli Istituti
stessi, in quanto non assegnati a diocesi e parrocchie.
Dunque, le diocesi e le parrocchie sono persone giuridiche, enti territoriali dell’organizzazione
della Chiesa cattolica dotate di un proprio patrimonio necessario per il funzionamento e per il
raggiungimento dei rispettivi fini.
Le diocesi sono preposte da un vescovo; le parrocchie da un parroco.

­ I capitoli (cattedrali o collegiali).


Essi fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa e sono riconosciuti come persone
giuridiche nel diritto dello Stato.
Inizialmente, i canonici facenti parte dei capitoli venivano retribuiti con i redditi dei rispettivi
benefici capitolari ed avevano diritto ai supplementi di congrua.
Da quando ha iniziato ad operare il nuovo sistema di retribuzione del clero (1° gennaio 1987),
a richiesta dell’autorità ecclesiastica potrà essere revocato il riconoscimento civile dei capitoli,
quando non siano più rispondenti alle esigenze della popolazione, con l’indicazione della
destinazione che l’autorità ecclesiastica intende dare al patrimonio del capitolo.
Nonostante sia subordinata alla richiesta dell’autorità ecclesiastica, la revoca un atto è
discrezionale in quanto il giudizio sulla rispondenza di un capitolo alle esigenze o alle
tradizioni religiose e culturali della popolazione non è disciplinato da norme giuridiche.
L’autorità ecclesiastica competente a chiedere la revoca è la Santa Sede per i capitoli cattedrali;
il vescovo diocesano per i capitoli collegiali.
La domanda è presentata al Ministro dell’Interno che decide con proprio decreto, sentito il
parere del Consiglio di Stato.
Nuovi capitoli potranno essere riconosciuti agli effetti civili ma soltanto a seguito della
soppressione di capitoli preesistenti, o quando un nuovo capitolo sia sorto dalla fusione di
capitoli già esistenti.

­ Le fondazioni di culto.
Esse sono enti strumentali al raggiungimento del fine religioso o di culto perseguito dalla
Chiesa dotate di personalità giuridica, dunque, costituiscono un autonomo centro di
imputazione di diritti ed obblighi.
Come ogni altra fondazione, esse consistono in una massa patrimoniale destinata stabilmente
ad un fine.
Le fondazioni canoniche sono erette come persone giuridiche pubbliche con decreto
dell’autorità ecclesiastica competente, con la denominazione “fondazioni di culto”.
Tale espressione vale a distinguere tali enti dalle altre fondazioni istituite da privati senza
intervento dell’autorità ecclesiastica oppure non autonome.
Il termine “culto” deve essere inteso in senso ampio, come comprendente il finanziamento di
ogni attività che abbia un fine strettamente religioso. In ogni casi tali fini devono essere
perseguiti attraverso il carattere dell’immediatezza.
Il riconoscimento della personalità giuridica è discrezionale, in quanto (oltre all’approvazione
da parte dell’autorità ecclesiastica, al suo assenso per il riconoscimento civile e all’esame del
fine da perseguire) la legge richiede che risultino la sufficienza dei mezzi per il
raggiungimento dei fini (alla stregua dei principi economici ed in relazione al quale si prevede
che il patrimonio debba essere attuale) e la rispondenza dell’attività del futuro ente alle

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esigenze religiose della popolazione (alla stregue dei principi di mera opportunità).
Da sottolineare che mentre nel nostro ordinamento non è ammesso creare per testamento
fondazioni fiduciarie di culto; nel diritto canonico questa possibilità si prevede.
Tale situazione si verifica quando il testatore, senza creare un nuovo soggetto, pone ad una
massa di beni un vincolo reale di destinazione, tenendoli separati dal patrimonio personale del
soggetto fiduciario, il quale potrebbe disporre di essi soltanto nei limiti indicati dal testatore,
mentre i creditori personali del fiduciario non potrebbero soddisfare le loro ragioni sui beni
vincolati.
Tale ipotesi si distingue da quella delle disposizioni a favore dell’anima, perché mentre in
queste ultime il vincolo è di carattere personale, nel primo caso il testatore pone un vincolo di
carattere reale.

­ Le chiese.
Le Chiese appartengono al genere delle fondazioni.
Le norme del Concordato del 1929 prevedevano che il riconoscimento della personalità
giuridica poteva avvenire nei confronti:
 Delle chiese pubbliche aperte al culto che erano preesistenti all’unità d’Italia e che non
vennero soppresse.
La dizione “pubbliche” indicava che l’edificio di culto di culto era di proprietà dello
Stato.
A ciascuna di esse era assegnata la rendita destinata dal Fondo edifici di culto.
A seguito del riconoscimento della personalità giuridica, l’edificio veniva consegnato
all’autorità ecclesiastica.
 Di qualsiasi altra chiesa che fosse aperta al culto pubblico e disponesse di un patrimonio
sufficiente per la manutenzione e l’ufficiatura.
Oggi, ai sensi della L. 222/ 1985 il riconoscimento delle chiese avviene in presenza di 2
requisiti:
 La chiesa ha un patrimonio sufficiente all’apertura al culto pubblico.
La dizione “apertura al culto pubblico” indica sia che la Chiesa deve essere officiata
regolarmente, nel senso che le funzioni religiose si svolgono in modo continuativo; sia
che ad essa può partecipare chiunque, senza dover giustificare un particolare titolo di
ammissione.
Dall’indicazione dei requisiti è stata eliminata la dizione “chiesa pubblica”. Dunque, la
personalità giuridica può essere attribuita non soltanto ad una Chiesa che sia di
proprietà pubblica, ma anche ad un edificio di culto che sia di proprietà di un privato.
A seguito del riconoscimento il privato non perde la proprietà del bene e può utilizzare
l’edificio quando non è officiato per un godimento compatibile con la destinazione al
culto, ma non può mutarne la destinazione.
 La chiesa non è annessa ad altro ente ecclesiastico.
Tale previsione è finalizzata a conseguire l’accorpamento degli enti.
Da sottolineare che la Pubblica Amministrazione ammette il riconoscimento soltanto quando
l’edifico di culto è di proprietà dell’ente­chiesa stesso che lo richiede, sulla base del fatto che
il Consiglio di Stato ritiene l’edificio di culto il sostrato sostanziale sul quale la persona sorge e
che, con il riconoscimento, si trasforma in elemento patrimoniale ed oggetto di dominio.
Dunque, essa esclude che possa essere riconosciuta la personalità giuridica di un ente­chiesa
quando l’edificio di culto è di proprietà di privati.
Tuttavia, tale elemento non è richiesto ai fini del riconoscimento dalla legge del 1985.
Del resto, quando l’ente­chiesa è aperto al culto pubblico è assoggetto al vincolo di
destinazione che ne assicura pienamente l’officiatura e la manutenzione.
Soltanto un atto dell’autorità ecclesiastica o la distruzione materiale possono sottrarre l’edificio

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alla sua destinazione al culto. Dunque, il diritto di proprietà del privato sull’edificio è
ampiamente sacrificato nella sua facoltà di godimento tutte le volte in cui essa debba cedere
nei confronti delle esigenze di culto.

­ I Santuari.
Essi non sono altro che Chiese.
Il Concordato del 1929 ha previsto che le basiliche della Santa Casa di Loreto, di San
Francesco in Assisi e di Sant’Antonio in Padova fossero cedute alla Santa Sede che le avrebbe
amministrate liberamente.
Per i santuari diversi da quelli nominati amministrati da privati, sarebbe subentrata la libera
amministrazione dell’autorità ecclesiastica.
Sino ad epoca recente, il termine “santuario” non è stato proprio del diritto canonico, ma è
stato usato nel diritto statuale per indicare quelle chiese, mete di pellegrinaggi, dove si
venerano immagini o reliquie fatte segno di particolare devozione.
Dunque, tale termine viene utilizzato per indicare una chiesa che soddisfa una necessità di
culto diversa da quella ordinaria.
Soltanto il codex del 1983 ha preso in considerazione i santuari, definendoli come quelle
chiese o quegli altri luoghi di culto in cui, con l’approvazione dell’ordinario competente per
territorio, si reca in pellegrinaggio un gran numero di fedeli, per un particolare motivo di pietà.
Tali norme riguardano soltanto i santuari già esistenti nel 1929 e non siano applicabili ai
santuari sorti in epoca successiva.
Per il riconoscimento della personalità giuridica civile è sufficiente che i nuovi santuari siano
costituiti secondo le forme proprie dell’ordinamento canonico, in quanto il loro fine di
religione o di culto è presunto.
Del resto, quando l’amministrazione ha dovuto procedere alle cessioni, ha stabilito delle
regole in positivo ed in negativo per l’individuazione di un santuario.
In positivo, la Chiesa doveva aver acquistato la personalità giuridica o doveva disporre di
un’autonoma massa patrimoniale in epoca anteriore al 1929; e doveva essere amministrata in
modo esclusivo e prevalente da laici.
In negativo, l’esistenza del santuario è stata esclusa quando la chiesa fosse disciplinata da altre
norme (in quanto cattedrale, parrocchiale ecc.); fosse stata di proprietà di privati o di enti
pubblici; oppure quando l’amministrazione civile di essa fosse stata stabilita dall’autorità
ecclesiastica.

­ Le fabbricerie.
Di solito le chiese sono amministrate dall’ecclesiastico ad esse preposto che ne ha la
rappresentanza negoziale e giudiziale (vescovo, parroco, rettore, ecc.).
L’amministrazione non sempre compete all’ecclesiastico ad essa preposto quando esiste una
fabbriceria.
Con il termine “fabbriceria” indica congiuntamente due cose diverse:
 La fondazione o la massa patrimoniale autonoma o le oblazioni dei fedeli raccolte
giornalmente ed amministrate in modo autonomo per la manutenzione e l’officiatura
del tempio (fabrica ecclesiae).
 L’eventuale il consiglio competente ad amministrare tali beni, costituito da ecclesiastici
o da laici o di composizione mista (consilium fabricae).
Quando le fabbricerie gestiscono una chiesa cattedrale o un edificio di culto dichiarato di
rilevante interesse storico o artistico, il consiglio è composto da 7 membri nominati per un
triennio (2 dal vescovo diocesano e 5 dal Ministro dell’Interno, sentito il vescovo) ed il loro
Statuto è approvato con decreto ministeriale, sentito il vescovo diocesano.
Quando le fabbricerie sono annesse ad una chiesa che non ha le precedenti caratteristiche, il

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consiglio è composto dal parroco o dal rettore della chiesa e da altri 4 membri nominati per un
triennio dal prefetto, d’intesa col vescovo diocesano. Esse sono rette da un regolamento
approvato dal prefetto, sentito il vescovo.
Tutti i membri della fabbriceria prestano la loro opera gratuitamente.
Il presidente della fabbriceria svolge diverse funzioni:
 Esegue le deliberazioni del consiglio.
 Eroga le spese deliberate.
 Adotta in caso di urgenza i provvedimenti necessari che dovranno poi essere ratificati
dal consiglio nella prima udienza utile.
 Promuove la tutela dei diritti riguardanti i beni della Chiesa.
 Prepara i bilanci ed i conti consuntivi che annualmente devono essere approvati dal
consiglio.
Il Concordato del 1929 stabilì che i consigli potevano essere formati anche interamente da laici
(in questo caso la loro nomina competeva all’autorità civile d’intesa con l’autorità
ecclesiastica), ma questi non potevano ingerirsi negli affari e nei servizi di culto. Tale regola
venne confermata anche in seguito.
La fabbriceria ha competenza a provvedere alle spese di manutenzione e di restauro della
chiesa e degli edifici annessi, all’amministrazione dei beni e delle offerte destinate a tale fine e
ad amministrare i beni patrimoniali le cui rendite sono destinate all’ufficiatura del tempio ed al
culto.
Le fabbricerie sono soggette alla vigilanza ed alla tutela dell’autorità governativa.
Infatti, il prefetto può:
 Formulare osservazioni sui conti consuntivi e sui bilanci preventivi delle fabbricerie.
 Disporre ispezioni.
 Sentito il vescovo del luogo, sospendere gli organi statutari della fabbriceria e nominare
un commissario per la gestione provvisoria (non superiore a 6 mesi ma prorogabile fino
ad 1 anno), quando siano accertate gravi irregolarità oppure per la fabbriceria sia
impossibile continuare a funzionare.
In questi casi il prefetto riferisce la situazione al Ministro dell’Interno il quale, sentito il
vescovo diocesano, può sciogliere l’amministrazione della fabbriceria e nominare un
commissario straordinario.
L’amministrazione straordinaria non può eccedere il termine di 6 mesi, prorogabile fino
ad 1 anno. Entro tale termine la fabbriceria deve essere ricostituita.
Con il D.P.R. del 1999 è stato soppresso il controllo statuale sull’attività di gestione delle
fabbricerie per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (mentre in passato la fabbriceria
necessitava dell’autorizzazione governativa, rilasciata dal Ministro dell’Interno se la
fabbriceria era di nomina ministeriale; dal prefetto negli altri casi).
Fino al 1989 la soppressione delle fabbricerie poteva essere disposta con decreto del Ministro
dell’Interno, sentito il parere del Consiglio di Stato e previa intesa con la CEI.
Dopo tale data, bisogna distinguere tra due eventualità:
 Se le fabbricerie sono dotate di personalità giuridica, anche se la Chiesa cui essa è
annessa perde la personalità giuridica, non può essere soppressa salvo che non abbia
più beni da amministrare. In quest’ultimo caso infatti viene meno il fine della
fabbriceria e la soppressione ha luogo con decreto del Ministro dell’Interno, d’intesa
con il vescovo diocesano e dopo aver sentito il parere del Consiglio di Stato.
 Se fabbricerie non dotate di personalità giuridica, si estinguono se annesse a Chiese
che hanno perduto la personalità giuridica, oppure quando non hanno più beni da
amministrare.
L’estinzione è accertata con decreto del Ministro dell’Interno ma si tratta di un atto
meramente ricognitivo di una realtà già verificatasi.

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­ Le associazioni religiose.
Esse si distinguono in:
 Istituti religiosi, ossia associazioni alle quali i soci aderiscono pronunziando voti
pubblici (perpetui o temporanei) ma rinnovabili, che impegnano a condurre una vita
fraterna comune, diretta a rendere pubblica testimonianza a Cristo e alla Chiesa ed
implicante una separazione dal mondo.
 Istituti secolari, non implicano alcuna separazione dei soci dal resto della società
umana. Sono costituiti da fedeli, laici o chierici, che vivono in carità, contribuendo alla
santificazione del mondo. A seconda le previsioni dello statuto, i soci possono vivere
ognuno per proprio conto, con la propria famiglia, o in comunione di vita fraterna.
 Società di vita apostolica, la cui adesione dei soci avviene senza la pronuncia di voti,
ma con l’assunzione dei consilia evangelica. L’adesione comporta la vita in comune dei
soci, diretta alla perfezione della carità.
Il legislatore risorgimentale aveva soppresso la personalità giuridica di tutte le associazioni
religiose che prevedessero, oltre all’emissione di voti, anche la vita in comune.
Il Concordato del 1929 ha poi ripristinato il riconoscimento della personalità giuridica di tali
associazioni. I requisiti per il riconoscimento della personalità giuridica sono:
 Approvazione della Santa Sede.
 Ubicazione della sede in Italia.
 Avere un rappresentante italiano e residente in Italia (oggi quest’ultimo requisito non è
essenziale per il riconoscimento delle Case generalizie e delle Procure di questi enti).
In presenza dei requisiti previsti dalla legge, le associazioni religiose hanno un vero e proprio
diritto al riconoscimento. Infatti, l’autorità governativa è chiamata soltanto a valutare se tali
requisiti sussistono.
L’unico accertamento rimesso all’autorità civile è quello di determinare se il rappresentante di
diritto sia anche rappresentante di fatto, ma in ogni caso non si tratta di un’attività
discrezionale.
Le associazioni non devono provare l’esistenza di un patrimonio (ossia di una massa di beni
attuale di cui disporre), in quanto sono composte da soci che con i loro contributi possono
formare o incrementare il patrimonio dell’organizzazione anche in un momento successivo al
riconoscimento. L’importante è che si dimostri la capacità di acquistare e di possedere
dell’associazione.
[La Pubblica Amministrazione ritiene erroneamente che il patrimonio sia irrilevante per il
riconoscimento degli istituti religiosi che risultano essere entità globali; rilevante per il
riconoscimento delle singole case religiose.]
Il riconoscimento della personalità giuridica civile spetta anche agli istituti secolari, quando
essi presentino i requisiti previsti.
Il Concordato del 1929 escludeva il riconoscimento degli istituti di diritto diocesano sul
presupposto della loro dubbia stabilità.
L’Accordo 15 novembre 1985 ha invece esteso tale possibilità anche a tali enti, con l’assenso
della Santa Sede e sempre che sussistano garanzie di stabilità, requisito che viene valutato
discrezionalmente.

Il Concordato del 1929 dedicava poco spazio alle associazioni, in quanto concluso in un’epoca
di assenza di libertà.
Nuove norme sono state formulate dopo la riconquistata libertà civile e dopo i nuovi fermenti
ideali del Concilio Vaticano II.
Le norme concordatarie prevedono il riconoscimento delle associazioni pubbliche di fedeli,
purché non abbiano carattere locale e la Santa Sede abbia dato il suo assenso al

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riconoscimento stesso.
Secondo il diritto comune, la domanda per il riconoscimento deve essere presentata
all’autorità statale o regionale competente, allegando i documenti richiesti dalla legge civile,
l’atto costitutivo o l’atto di approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica e l’assenso
dell’autorità ecclesiastica al riconoscimento.
Una volta riconosciuta la personalità giuridica dell’associazione secondo il diritto comune,
l’ente è regolato dalle leggi civili; invece all’autorità ecclesiastica si riserva la competenza circa
l’attività di religione e di culto dell’associazione e la competenza in materia degli organi
statutari.
Tale riserva di poteri consente all’autorità ecclesiastica di esercitare sugli organi dell’ente poteri
di controllo e vigilanza e comporta che la nomina del commissario liquidatore spetti a tale
autorità.
Il riconoscimento della personalità giuridica civile spetta anche agli istituti secolari, quando
presentino i requisiti previsti.
Tuttavia, il riconoscimento della società di vita apostolica e delle associazioni pubbliche di
fedeli secondo il diritto comune è discrezionale, contrariamente a quanto accade per gli istituti
religiosi, in quanto l’autorità governativa deve valutare anche lo scopo dell’ente ed i suoi mezzi
patrimoniali.

Un’associazione religiosa o laica non riconosciuta come persona giuridica è per lo Stato,
un’associazione di fatto.
La disciplina delle attività di religione e di culto delle associazioni di fatto collegate alla Chiesa
cattolica sono ovviamente soggette alla disciplina dell’autorità ecclesiastica.
Tuttavia, poiché l’ordinamento interno delle associazioni di fatto è regolato dagli accordi degli
associati, nel rapporto fra soci ed associazione e fra soci fra di loro il diritto canonico può
valere agli effetti civili in quanto ad esso rinvii lo Statuto dell’associazione.
Invece per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, vale il diritto dello Stato, e ciò per tutelare
la posizione dei terzi che vengono a contatto con l’associazione stessa.
[Da sottolineare che tali principi sui rapporti patrimoniali valgono per le singole associazioni
autocefale ma non nei confronti delle articolazioni degli istituti religiosi prive di personalità
giuridica (la quale viene invece attribuita all’associazione nel suo complesso). Infatti, è stato
osservato che tali articolazioni sarebbero prive di qualsivoglia autonomia e non potrebbero mai
intrattenere rapporti contrattuali con i terzi.]

­ Le confraternite (o congreghe, o misericordie e simili).


Esse appartengono al genere delle associazioni laiche con fini di culto e beneficenza (ad es.,
l’assistenza ai confratelli infermi o a terzi bisognosi).
La L. 6972/ 1890 ha riorganizzato le istituzioni pubbliche di beneficienza.
Essa ha sottoposto le confraternite ai controlli governativi e previsto la trasformazione in
istituti di beneficenza di quelle confraternite per le quali veniva a mancare il fine o che fossero
diventate superflue.
Invece, il Concordato del 1929 ha stabilito che le confraternite aventi scopo esclusivo o
prevalente di culto erano soggette all’autorità ecclesiastica e non subivano ulteriori
trasformazioni; quelle che erano state trasformate nel fine erano soggette all’autorità civile,
fatta salva la competenza dell’autorità ecclesiastica per gli scopi di culto.
Per quanto riguarda le controversie attinenti all’organizzazione delle confraternite, secondo la
giurisprudenza vi è difetto di giurisdizione del giudice statuale, soprattutto quando le
confraternite sono prive di personalità giuridica civile o siano state dichiarate aventi un fine
esclusivo o prevalente di culto.
Tuttavia, quando il provvedimento dell’autorità ecclesiastica riguarda l’esclusione di un socio,
il difetto di giurisdizione statale sussiste soltanto in ordine al merito del provvedimento, non

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sussiste invece in ordine all’accertamento del procedimento in base al quale il socio sia stato
escluso.
In tale materia la giurisdizione dello Stato non può incontrare limiti, in quanto si tratta di
controllare il rispetto dell’inalienabile diritto di difesa.

Da sottolineare che sono estendibili alle confraternite gli effetti della sentenza con cui la Corte
Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della legge del 1890 che non prevedeva che le IPAB
potessero continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora
ne avessero i requisiti. Infatti, ai sensi dell’art. 20 Cost. il regime delle confraternite non può
essere più gravoso di quello previsto per le altre istituzioni benefiche.
Con decreto del 1990, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, adeguandosi alla pronuncia
della Corte, ha impartito alle regioni una direttiva per il riconoscimento della personalità
giuridica di diritto privato alle IPAB (applicabile anche alle confraternite). In particolare, esso
afferma che la natura privata degli istituti deriva dalla presenza di una fra 3 caratteristiche:
 Carattere associativo dell’organizzazione.
 Istituzioni promessa e amministrata da privati.
 Ispirazioni religiosa dell’ente.

­ G li Istituti per il sostentamento del clero.


Si tratta di enti della Chiesa cattolica civilmente riconosciuti, strumentali all’organizzazione
ecclesiastica.

­ Le prelature personali.
Esse non sono esplicitamente menzionate dalle disposizioni concordatarie ma vengono
costituite o approvate dall’autorità ecclesiastica. Hanno sede in Italia e fine di religione o di
culto.
Tali enti sono diretti a promuovere una migliore distribuzione dei sacerdoti, oppure a svolgere
peculiari opere pastorali o missionarie a favore delle varie regioni e dei diversi ceti sociali.
Sono erette dalla Santa Sede, che ne emana anche gli Statuti, e sono presiedute da un prelato
od ordinario proprio, il quale esercita la potestà di giurisdizione su coloro che ne fanno parte.
Le prelature personali non sono associazioni religiose (infatti non sorgono per volontà degli
aderenti), ma organismi che per la propria struttura e le loro finalità, fanno parte della
costituzione gerarchica della Chiesa.
Pertanto, se una prelatura personale chieda il riconoscimento della personalità giuridica civile,
il fine di religione o di culto è presunto ed il giudizio dell’autorità amministrativa è limitato ad
un mero sindacato di legittimità riguardante la documentazione presentata per attestare
l’esistenza dei requisiti previsti dalla legge.

15­G li enti delle confessioni religiose di minoranza.


Lo Stato riconosce la personalità giuridica anche agli enti delle confessioni religiose di
minoranza. Tali enti possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica con decreto
del Ministro dell’Interno, sentiti il Consiglio di Stato ed il Consiglio dei Ministri.
La domanda per il riconoscimento è diretta al Ministro dell’Interno e va presentata al prefetto
competente per territorio.
Ai fini del riconoscimento, dallo Statuto dell’ente devono risultare lo scopo, i mezzi finanziari
per il suo raggiungimento, gli organi di amministrazione e le norme di funzionamento.
Queste norme riguardano gli enti creati in Italia; gli enti creati all’estero che svolgano attività
nel nostro Paese, se hanno personalità giuridica nello Stato da cui provengono, sono
considerate persone giuridiche anche dall’ordinamento italiano.
La L. 1159/ 1929 aveva previsto che gli enti delle confessioni diverse dalla cattolica sono
soggetti alla vigilanza ed alla tutela governativa, esercitata dal Ministro degli Interni.

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Inoltre, il decreto di riconoscimento può stabilire norme speciali per l’esercizio di tali controlli,
che il legittimo rappresentante sia cittadino italiano e le finalità cui devolvere i beni dell’ente in
caso di sua estinzione.
In caso di irregolarità nell’amministrazione o di mancato funzionamento degli organi statutari,
il Ministro degli Interni può sciogliere l’amministrazione degli enti e nominare un commissario
e tramite decreto può annullare gli atti e le deliberazioni dell’ente che siano contrarie alla legge
o ai regolamenti.
Questi poteri di controllo così penetranti sembrano essere in contrasto con l’art. 20 Cost. il
quale esclude che gli enti con fine di religione o di culto possano essere sottoposti a trattamenti
deteriori rispetto a quello previsto per le altre persone giuridiche. Sembra quindi chiaro come
questo regime non possa più essere giustificato nel quadro della vigente Costituzione
repubblicana.
In ogni caso, la prassi amministrativa ha superato la possibile contrarietà costituzionale di tali
norme affermando che parametro fondamentale per il riconoscimento e la regolamentazione
degli enti religiosi diversi dai cattolici sono gli artt. 8, 19 e 20 Cost.
Dunque, fatta salva la riserva della contrarietà dei riti al buon costume, devono considerarsi
ammessi nello Stato tutte le confessioni autenticamente religiose ed i loro rispettivi enti.

16­G li enti delle chiese valdesi e metodiste.


La legge 449/ 1984 disciplina le regole applicabili agli enti delle Chiese rappresentate dalla
Tavola valdese.
Lo Stato riconosce la personalità giuridica delle Chiese valdesi quando la domanda è richiesta
dalla Tavola Valdese, allegando una delibera del Sinodo con cui l’ente sia stata eretto in
istituto autonomo nell’ambito dell’ordinamento valdese e quando l’ente abbia congiuntamente
fine di culto, istruzione e beneficienza.
Nel riconoscimento di tali enti alla pubblica amministrazione non è attribuito alcun potere
discrezionale.
Mentre ai fini del riconoscimento gli enti cattolici devono avere un fine costitutivo ed
essenziale di culto; gli enti valdesi devono avere congiuntamente fini di culto, istruzione e
beneficenza.
Una volta riconosciuti, gli enti operano sotto il controllo e con l’approvazione della Tavola
valdese.
Le attività di istruzione o beneficenza svolte da questi enti sono soggetti alle leggi dello Stato in
materia, nel rispetto dell’autonomia e dei fini degli enti stessi.
G li enti delle Chiese valdesi e metodiste sono soggetti al regime tributario previsto dalle leggi
dello Stato; tuttavia i loro immobili sono esentati dall’ICI.
La personalità giuridica di questi enti cessa per iniziativa della Tavola Valdese (in questo caso
il patrimonio dell’ente verrà devoluto all’ente morale indicato dal Sinodo) o per mutamento
dei fini.
In entrambi i casi, la perdita della personalità giuridica civile avviene per revoca dell’originario
provvedimento che l’aveva riconosciuta e quindi il Ministro dell’interno dovrà emettere un
proprio decreto di revoca.

17­G li enti delle chiese avventiste, delle A.D .I., delle U.C.E.B.I. e della Chiesa
Luterana.
Sulla base dell’Intesa con le Chiese Avveniste, gli enti di queste sono riconosciuti come
persone giuridiche quando abbiano un fine di religione o di culto.
Il fine è di religione o di culto quando consiste nello svolgimento di attività dirette all’esercizio
del culto ed alla cura delle anime o alla formazione dei ministri di culto.
Invece, non sono considerate attività di religione o di culto, l’assistenza, la beneficenza,
l’istruzione, l’educazione e le attività lucrative.

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Inoltre, ai fini del riconoscimento, l’ente deve essere rappresentato giuridicamente e di fatto da
un cittadino italiano domiciliato in Italia.
La domanda di riconoscimento deve essere presentata da chi rappresenta l’ente e deve essere
stata deliberata dall’Unione delle Chiese avventiste.
Una volta ottenuto il riconoscimento, tali enti acquistano la qualifica di enti ecclesiastici
avventisti civilmente riconosciuti ed hanno l’obbligo di iscriversi nel registro delle persone
giuridiche.
Inoltre, l’intesa prevede che ogni mutamento sostanziale del patrimonio e del modo di
esistenza di un ente avventista civilmente riconosciuto, acquista efficacia civile con decreto del
Ministro dell’Interno.
Quando il mutamento sopravvenuto faccia perdere all’ente avventista uno dei requisiti per il
riconoscimento, esso perde anche la personalità giuridica, la quale viene revocata con decreto
del Ministro degli Interni, sentito il parere del Consiglio di Stato (se ritenuto utile) e l’Unione
delle Chiese avventiste.
Se, invece, la costituzione di un ente avventista è revocata dal competente organo delle Chiese
in questione, la personalità giuridica si estingue nel diritto statuale con decreto del Ministro
dell’Interno, sentito facoltativamente il Consiglio di Stato.
I beni degli enti soppressi o estinti sono devoluti secondo le deliberazioni dell’Unione.

Per quanto riguarda gli enti delle A.D .I., la L. 517/ 1988 dopo aver indicato gli enti
riconosciuti dalla legge, non detta norme per il futuro riconoscimento di altri enti.
Quindi questo potrà avvenire a norma delle disposizioni del codice civile. G li enti delle A.D.I.
devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche entro il 17 dicembre 1989, pena la
perdita della legittimazione negoziale.
Norme simili a quelle previste per gli enti della Chiesa cattolica e delle Chiese Avventiste, sono
previste anche per gli enti delle A.D.I. in materia di mutamenti del fine, di perdita dei requisiti
per il riconoscimento, di revoca della costituzione e di devoluzione dei beni.
Per quanto riguarda l’Unione Cristiana Evangelica d’Italia (UCEBI) essa ha ottenuto il
riconoscimento come persona giuridica di un “Ente patrimoniale”.
La L. 116/ 1995 prevede che le Chiese costituite come ente nell’Unione ed aventi sede in Italia,
possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica con decreto del Ministro
dell’Interno sentito, se ritenuto utile, il parere del Consiglio di Stato.
Con lo stesso procedimento possono essere civilmente riconosciute come enti ecclesiastici
anche gli enti dell’ordinamento battista, aventi sede in Italia e che abbiano fine di culto,
anche se congiunto con fini di assistenza o di istruzione.
Una volta ottenuto il riconoscimento civile, l’ente battista deve essere iscritto nel registro delle
persone giuridiche. La mancata iscrizione comporta la perdita della legittimazione a
concludere negozi giuridici.
La Chiesa evangelica luterana (CELI) in Italia ha ottenuto il riconoscimento della personalità
giuridica nel 1961 ed è retta da uno statuto deliberato dal Sinodo nel 1971 ed approvato nel
1975.
L’intesa con la Chiesa Luterana prevede il riconoscimento dei suoi enti con decreto del
Ministro dell’Interno, sentito facoltativamente il parere del Consiglio di Stato.
Con il riconoscimento della personalità giuridica, tali enti acquistano la qualifica di enti
ecclesiastici luterani civilmente riconosciuti.
Per quanto riguarda le nuove Comunità, occorre che la domanda di riconoscimento sia
proposta dal suo rappresentante e che ad essa sia allegata una deliberazione motivata da parte
della Chiesa evangelica luterana in Italia. Tale deliberazione è documento idoneo al
riconoscimento civile.
Invece, per il riconoscimento degli enti costituiti nell’ambito della CELI, occorre che essi
abbiano un fine di religione o di culto, anche se congiunto con fini di istruzione o di

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beneficenza.
Anche la CELI e le sue Comunità, ottenuto il riconoscimento, dovevano iscriversi nei registri
delle persone giuridiche, a pena di perdere la legittimazione negoziale.
Per quanto riguarda i mutamenti sostanziali del fine e la revoca, l’Intesa contiene norme simili
a quelle previste per la Chiesa cattolica e valdese.

18­G li enti ebraici.


La legge ha riconosciuto la personalità giuridica delle Comunità ebraiche e dell’Unione di esse.
La L. 101/ 1989 prevede che il riconoscimento della personalità giuridica di nuove Comunità
avverrà con decreto del Ministro degli Interni, sentito il Consiglio di Stato, su domanda
congiunta degli interessati e dell’Unione.
Le Comunità ebraiche e l’Unione delle Comunità nella legge del 1930 erano considerate
persone giuridiche pubbliche, in quanto dotati di poteri pubblici in relazione alla tenuta
dell’anagrafe degli ebrei presenti in Italia.
Di conseguenza, il rapporto delle Comunità e dell’Unione con i rispettivi dipendenti era
considerato un rapporto di pubblico impiego sul quale esercitava giurisdizione il giudice
amministrativo.
Tuttavia, la L. 101/ 1989 ha previsto che sia le Comunità sia l’Unione conservavano la
personalità giuridica, non più pubblica ma neanche privata.
In particolare, le Comunità ebraiche sono formazioni sociali originarie che provvedono al
soddisfacimento delle esigenze religiose degli ebrei secondo la legge e le tradizioni ebraiche,
ossia istituzioni tradizionali riconosciute dall’ordinamento italiano; l’Unione delle Comunità
ebraiche è l’ente rappresentativo della confessione ebraica nei rapporti con lo Stato.
Sia la Comunità che l’Unione, in quanto persone giuridiche riconosciute dallo Stato, hanno
dovuto iscriversi nel registro delle persone giuridiche, a pena di perdere la legittimazione
negoziale.
Cessato il carattere di enti pubblici delle Comunità ebraiche e dell’Unione, anche il rapporto
dei dipendenti di tali istituzioni ha cessato di essere un rapporto di pubblico impiego, anche se
una norma transitoria della L. 101/ 1989 ha previsto che nulla è innovato quanto al regime
giuridico e previdenziale di tali rapporti di lavoro in atto, dall’entrata in vigore della stessa
legge.
I nuovi rapporti di lavoro vengono, invece, disciplinati dalle norme che riguardano il rapporto
di lavoro privato, con conseguente giurisdizione del giudice del lavoro, il quale è competente
anche in ordine alle controversie riguardanti i rapporti di lavoro precedenti all’entrata in vigore
della legge.
In sede tributaria, in un primo momento le Comunità ebraiche non erano esentate dal
pagamento dell’INVIM (Incremento di Valore sugli Immobili) sulla base del presupposto che il
sostentamento del clero era soltanto una delle attività svolte da tali comunità.
Tale statuizione è stata superata dalla norma che ha esentato dall’INVIM gli immobili
appartenenti ad enti rappresentativi delle confessioni religiose aventi personalità giuridica, e
agli enti religiosi riconosciuti in base alle intese stipulate con lo Stato.
Sempre secondo la L. 101/ 1989, altre istituzioni e altri enti ebraici possono ottenere il
riconoscimento della personalità giuridica agli effetti civili, con decreto del Ministro
dell’Interno sentito, quando ritenuto utile, il Consiglio di Stato e su domanda del
rappresentante dell’ente.
Per ottenere il riconoscimento, gli enti devono essere stati approvati dalla Comunità
competente per territorio e dall’Unione; inoltre, devono avere fini di culto o di religione.
G li enti che ottengono il riconoscimento della personalità giuridica, assumono la qualifica di
enti ebraici civilmente riconosciuti.

19­G li enti confessionali stranieri.

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Sono enti confessionali stranieri quelli la cui personalità giuridica sia stata riconosciuta
dall’ordinamento dello Stato dove hanno sede, i quali intendono operare nel nostro Paese.
Tali enti sono considerati dotati di personalità giuridica ed hanno diritto di godere dello stesso
trattamento giuridico fatto dall’ordinamento italiano alle persone giuridiche nazionali.
Inoltre, agli enti stranieri sono applicate le norme dell’ordinamento italiano se la loro sede è
situata in Italia, oppure se il principale oggetto sociale si trova nel nostro Paese.
L’ordinamento italiano riconosce la personalità giuridica di tali enti stranieri anche quando
questa debba esserlo secondo le norme delle convenzioni internazionali.
Tali enti hanno automaticamente capacità giuridica e di agire relativamente all’ordinamento
italiano.
Tuttavia, il Ministero dell’Interno ha ritenuto di dovere svolgere accertamenti preventivi per
stabilire se l’ente fosse riconosciuto dall’ordinamento straniero quale persona giuridica, avesse
fini statutari e svolgesse attività conformi all’ordine pubblico e disponesse di sufficienti mezzi
finanziari.
In caso di esito favorevole di tali accertamenti, il Ministero effettua una “presa d’atto”,
ammettendo l’ente straniero a godere dei diritti civili.
Tuttavia, secondo il Consiglio di Stato tale prassi è criticabile, in quanto l’ammissione al
godimento dei diritti civili avviene in modo automatico ricorrendo i requisiti richiesti, senza
che occorra alcun atto formale di riconoscimento.

Capitolo 9: I mezzi per l’attività di religione o di culto


Coloro che si dedicano alle attività di religione o di culto (quali i ministri di culto) necessitano
di una retribuzione che consenta loro di condurre una vita dignitosa.
Inoltre, queste stesse attività necessitano di mezzi economici per il raggiungimento delle
finalità alle quali sono preposte e di beni mobili ed immobili.
I rapporti che nascono a seguito dell’erogazione o dell’uso di tali mezzi economici sono di
regola disciplinati dallo Stato. Tuttavia, alle volte questo attribuisce rilevanza alla disciplina
che tali rapporti ricevono negli statuti interni delle confessioni religiose.

Sezione I: 2­ sostentamento del clero


Nel diritto canonico, il sostentamento degli ecclesiastici che ricoprono un ufficio della Chiesa è
stato assicurato sino al 1986 secondo il c.d. sistema beneficiale.
L’ufficio ecclesiastico era privo di personalità giuridica, ma veniva affiancato da una persona
giuridica, il beneficio.
Si tratta di una dotazione patrimoniale eretta in un ente del tipo “fondazione”, il cui reddito è
servito a retribuire il funzionario ecclesiastico.
Tuttavia, la misura della congrua, ossia l’assegno che lo Stato pagava ai beneficiari di un
ufficio ecclesiastico ad integrazione delle rendite ricavate dal beneficio stesso, era variabile a
seconda dell’entità del patrimonio della fondazione beneficiale.
Di conseguenza, si creavano notevoli sperequazioni nel trattamento economico dei funzionari
(alcuni erano ricchi ed altri poveri).
Al riguardo, lo Stato è intervenuto versando un supplemento di congrua a quegli ufficiali
ecclesiastici il cui beneficio producesse redditi in misura inferiore ad un dato minimo.
Nell’‘800 l’intervento statale si giustificava con il fatto che i beni degli istituti ecclesiastici erano
stati incamerati dallo stesso Stato senza compenso e valeva anche a ripartire equamente fra gli
ecclesiastici i redditi dei beni appresi dallo Stato.
Inoltre, lo Stato voleva conquistarsi la benevolenza dei parroci, i primi destinatari dei
supplementi di congrua.
Con il Concordato del 1929, lo Stato si impegnò a continuare a corrispondere gli assegni
supplementari di congrua e ne precisò la disciplina.

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Il supplemento di congrua viene costantemente aggiornato secondo la svalutazione monetaria.
Esso era destinato ad assicurare un congruo e decoroso sostentamento personale, dunque era
una prestazione a carattere alimentare posta dalla legge a carico del Fondo per il culto.
G li ufficiali ecclesiastici che avevano tutte le caratteristiche per ottenere tale supplemento
vantavano un vero e proprio diritto soggettivo nei confronti del Fondo per il culto, azionabile
innanzi l’autorità giudiziaria ordinaria.

3­ Il tramonto del sistema beneficiale. G li istituti per il sostentamento del clero


Nel tempo, il sistema retributivo è stato trasformato.
Nel diritto della Chiesa, il nuovo codex iuris canonici si è adeguato alle prescrizioni del Concilio
Vaticano II ed ha previsto il graduale passaggio dal sistema beneficiale di retribuzione del clero
ad un sistema più moderno, con l’istituzione di Istituti per il sostentamento del clero
diocesani o inter­diocesani.
Con il Concordato del 1929 lo Stato aveva assunto l’impegno di corrispondere i supplementi di
congrua fino a quando non sarebbe stato stabilito diversamente con nuovi accordi.
Sulla base di questo impegno, lo Stato italiano ha aderito alla riforma del sistema retributivo
con l’Accordo del 15 novembre 1984 e con la L. 222/ 1985, i quali hanno previsto l’erezione, in
ogni diocesi italiana, di altrettanti Istituti per il sostentamento del clero, ad opera del vescovo o
dei vescovi interessati (sulla tale materia la Chiesa potrà legiferare soltanto praeter legem, non
contra legem).
Anche la CEI ha eretto l’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
Tali enti hanno acquisito la personalità giuridica agli effetti civili a decorrere dalla data di
pubblicazione sulla G azzetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’Interno.
Lo statuto di ciascun Istituto è emanato dal vescovo diocesano in conformità alle disposizioni
della CEI.
La legge stabilisce che almeno 1/ 3 dei membri del consiglio di amministrazione di ogni
Istituto e del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto centrale, sia composto da
rappresentati designati dal clero diocesano su base elettiva.
G li altri componenti ed il Presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto centrale
sono designati dalla CEI.
G li Istituti diocesani svolgono la funzione (iniziata il 1° gennaio 1987) di corrispondere al
clero che svolge servizio in favore della rispettiva diocesi un congruo e dignitoso
sostentamento.
Tale funzione ha carattere integrativo quando la remunerazione viene erogata ai sacerdoti che
svolgono il loro servizio presso un ente ecclesiastico, i quali hanno diritto a ricevere da tali enti
la remunerazione prevista dal vescovo.
Infine, essi devono destinare una quota delle proprie risorse per far fronte alle necessità di
coloro che, avendo abbandonato la vita ecclesiastica, non abbiano redditi sufficienti.

4­ Il patrimonio degli istituti per il sostentamento del clero


Il patrimonio degli Istituti per il sostentamento del clero è costituito dai beni già appartenenti
agli enti beneficiali esistenti nella diocesi.
Con il decreto di erezione di ogni Istituto diocesano (o con un decreto a parte), il vescovo ha
indicato i benefici esistenti nella diocesi che si estinguevano ed ogni Istituto diocesano è
succeduto ai benefici estinti in tutti i rapporti attivi e passivi.
Tali provvedimenti hanno acquistato efficacia civile tramite decreto del Ministro dell’Interno,
emesso entro 60 giorni dalla ricezione del provvedimento canonico.
Dalla data di pubblicazione di tale decreto gli enti beneficiali sono stati estinti anche agli effetti
civili.
Tutti i beni estranei alla dote del beneficio sono stati invece trasferiti alle diocesi, alle
parrocchie e ai capitoli non soppressi.

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La ripartizione dei beni tra Istituti diocesani per il sostentamento del clero e diocesi, parrocchie
e capitoli è avvenuto in 2 fasi:
­ In primo luogo i beni sono passati dai benefici estinti agli Istituti diocesani per il
sostentamento del clero per successione.
­ Poi, da questi a diocesi, parrocchie e capitoli, attraverso singoli provvedimenti dei
vescovi competenti per territorio.
Data la molteplicità dei trasferimenti patrimoniali previsti dalla riforma, la L. 22/ 1985 ha
esentato gli atti in questione da ogni tributo od onere.
L’Istituto centrale è nato con un proprio fondo di dotazione conferito dalla CEI.
Le sue entrate principali sono costituite dalle oblazioni ricevute dai fedeli e dalle somme
ricevute dalla CEI per il sostentamento del clero, derivanti da quell’8 per mille dell’IRPEF.
L’ente ha capacità di acquistare e possedere, dunque potrà compiere tutti quei negozi che siano
in grado di incrementare il suo patrimonio.

5­ i rapporti degli istituti diocesiani con l’istituto centrale per il sostentamento del clero.
Per quanto riguarda i rapporti tra gli Istituti diocesani e l’Istituto centrale, deve dirsi che gli
Istituti diocesani, dopo aver controllato le dichiarazione delle entrate rese annualmente dal
clero, provvedono all’integrazione dei proventi dei sacerdoti con i redditi del proprio
patrimonio.
In caso di insufficienza di tali redditi, gli Istituti diocesani chiedono all’Istituto centrale la
somma residua necessaria ad assicurare ad ogni sacerdote la remunerazione stabilita.
G li eventuali avanzi di gestione degli Istituti diocesani sono in parte versati all’Istituto
centrale, secondo quando stabilito periodicamente dalla CEI.
G li Istituti diocesani sono tenuti a comunicare all’Istituto centrale il proprio stato di
previsione prima dell’inizio di ciascun esercizio finanziario, corredato dell’eventuale richiesta
di integrazione.
Inoltre, essi devono trasmettere all’Istituto centrale una relazione consuntiva alla chiusura di
ogni esercizio finanziario, indicante i criteri e le modalità di corresponsione ai sacerdoti delle
somme ricevute per integrare i loro redditi.
Sul piano funzionale, Istituti diocesani ed Istituto centrale sono un’organizzazione coordinata
dal carattere unitario per il raggiungimento di uno scopo comune. Tuttavia, sul piano
strutturale, sono un’organizzazione a raggiera, senza carattere unitario, avente come centro
l’Istituto centrale e come raggi gli Istituti (diocesani o inter­diocesani), ognuno avente una
propria personalità giuridica.

6­ La natura giuridica degli istituti per il sostentamento del clero


Per quanto riguarda la natura giuridica degli Istituti per il sostentamento del clero non c’è
differenza tra gli Istituti diocesani e l’Istituto centrale:
G li Istituti Diocesani nascono dotati del patrimonio dei benefici esistenti nella diocesi, che
contemporaneamente si estinguono; si tratta di un patrimonio destinato allo scopo del
sostentamento del clero, dunque gli Istituti diocesani possono essere qualificati come
fondazioni.
L’Istituto centrale nasce con un proprio fondo di dotazione e ha la capacità per accrescere il
proprio patrimonio; si tratta di una massa patrimoniale autonoma destinata allo scopo del
sostentamento del clero, dunque anch’esso appartiene al genere delle fondazioni.
Inoltre, per i fini attribuitigli dalla legge e dallo statuto, esso può essere qualificato come
organo­persona giuridica, ossia un organo che oltre a svolgere funzioni principali e di controllo
contabile sugli Istituti diocesani, svolge anche attività assistenziali e previdenziali autonome ed

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integrative per il clero.

7­ La funzione degli istituti per il sostentamento del clero, la liquidazione degli assegni.
Per quanto riguarda la funzione degli Istituti per il sostentamento del clero, a partire dal 1°
gennaio 1987 ogni Istituto diocesano provvede, conformemente al proprio statuto, ad
assicurare il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della
diocesi. La misura degli assegni da corrispondere al clero è periodicamente determinata dalla
CEI.
Il diritto alla remunerazione a favore dei sacerdoti deriva dallo svolgimento del servizio a
favore delle diocesi a tempo pieno.
Secondo la CEI svolgono servizio in favore della diocesi:
I sacerdoti che sono impegnati in un’attività ministeriale nella diocesi.
­ I sacerdoti secolari che il vescovo abbia messo a disposizione dell’Ordinamento
militare.
­ I sacerdoti che vengono destinati alla cooperazione missionaria o che siano inviati dal
vescovo a frequentare regolari corsi di studio.
­ I sacerdoti che operano presso enti determinati dalla CEI e quelli che prestano servizio
come professori nelle Facoltà teologiche italiane, negli Istituti equiparati, oppure negli
Istituti superiori di scienze religiose eretti nelle diocesi italiane.
Tuttavia, nel calcolare la retribuzione occorre tener conto di ciò che i sacerdoti ricevono dagli
organismi cui sono assegnati o a titolo di borse di studio o di sussidio.
Con la delibera n. 46 la CEI ha stabilito che hanno titolo a partecipare al sistema di
sostentamento del clero soltanto i sacerdoti preposti a pieno tempo ad un ufficio
ecclesiastico, la cui verifica compete al vescovo diocesano.
Rientrano tra i sacerdoti in servizio a tempo pieno anche i canonici delle cattedrali o delle
collegiate i quali esercitino realmente e quotidianamente le funzioni corali e le specifiche
funzioni ministeriali previste dallo statuto capitolare.
Invece, non sono da considerare a tempo pieno i sacerdoti che svolgano prestazioni
ministeriali occasionali o che assicurino collaborazioni ministeriali per tempi limitati. Essi
hanno soltanto il diritto a ricevere dagli enti ecclesiastici che si siano avvalsi della loro opera
una giusta remunerazione per i servizi prestati.
La retribuzione dei sacerdoti secolari inviati all’estero per la cooperazione missionaria è
finanziato dall’8 per mille del gettito dell’IRPEF.

La retribuzione a carico dell’Istituto diocesano per il sostentamento del clero è di regola


un’integrazione di quanto dovuto ai sacerdoti dai singoli enti ecclesiastici presso i quali
svolgano servizio a tempo pieno (o determinato).
Al riguardo, la CEI ha stabilito che:
­ La diocesi remunera il vescovo diocesano, i vescovi ausiliari e quanti siano equiparati di
diritto ai vescovi. I vescovi titolari, che esercitino in Italia un incarico stabile a carattere
nazionale, hanno diritto a ricevere la remunerazione dall’ente presso il quale svolgono
il loro ministero.
­ La diocesi deve remunerare anche i sacerdoti addetti alla curia diocesana, in diversa
misura a secondo che svolgano servizio presso i suoi uffici a tempo pieno o a tempo
parziale.
­ La parrocchia deve remunerare il parroco e gli eventuali vicari parrocchiali.
­ Il seminario remunera i sacerdoti ad esso addetti.
­ Il tribunale regionale per le cause matrimoniali, i capitoli cattedrali, i santuari, le chiese­
rettorie, gli enti di qualunque specie che si avvalgono dell’opera di un cappellano,
remunerano i sacerdoti i quali svolgono tali funzioni.
­ Le facoltà di teologia e gli Istituti accademici equiparati devono remunerare i docenti a

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pieno tempo secondo la misura periodicamente stabilita dalla CEI. Tuttavia, se le
risorse economiche di tali organizzazioni sono particolarmente modeste, esse possono
deliberare una remunerazione inferiore.
­ La base stipendiale degli ecclesiastici è costituita anche dagli stipendi ad essi
eventualmente corrisposti da terzi diversi dagli enti ecclesiastici o dai proventi ricevuti
come cappellani delle forze armate e simili o come insegnanti presso scuole pubbliche o
private.
­ L’Istituto diocesano per il sostentamento del clero corrisponderà soltanto
un’integrazione, se quanto percepito dall’ente o da terzi non raggiunga la misura di un
congruo sostentamento stabilito dalla CEI.

La CEI ha dettato con apposita delibera (atto avente nell’ordinamento canonico valore di
legge) i criteri per determinare gli assegni dovuti ai sacerdoti.
Circa i 2/ 3 della remunerazione sono uguali per tutti, mentre per la rimanente parte della
remunerazione, si deve tener conto di vari fattori e circostanze:
­ Un determinato numero di punti è attribuito in relazione ai diversi uffici rivestiti ed ai
diversi oneri.
­ Altri punti sono attribuiti in relazione all’anzianità del sacerdote.
­ Punti aggiuntivi sono attribuiti in relazione alla residenza dei sacerdoti che non
dispongono di un alloggio ecclesiastico, per tener conto delle spese di locazione.
Questi criteri determinano la remunerazione in astratto spettante ad ogni sacerdote.
Per la determinazione in concreto, i sacerdoti devono comunicare annualmente all’Istituto
diocesano per il sostentamento del clero le retribuzioni ricevute dagli enti ecclesiastici e da
terzi. L’Istituto provvedere poi a verificare i dati e stabilisce, quando occorre, il pagamento
dell’integrazione.
Ai fini della determinazione della remunerazione si computano anche i 2/ 3 della pensione di
cui godano eventualmente i sacerdoti e derivante dal ministero esercitato o da altre attività
svolte d’intesa con il vescovo. Da tale calcolo sono escluse la pensione di vecchiaia e la
pensione di invalidità, corrisposte dal Fondo di previdenza del clero istituito presso l’INPS.
I sacerdoti che prestano servizio a favore della diocesi hanno un vero e proprio diritto a
percepire l’integrazione, sia per il diritto canoniche che per il diritto dello Stato.
La CEI stabilisce i procedimenti per dirimere eventuali controversie tra gli Istituti diocesani per
il sostentamento del clero ed i sacerdoti.
Tali procedimenti devono essere accelerati e la composizione dell’organo competente deve
essere tale da rappresentare adeguatamente il clero.
I ricorsi proposti contro tali organi non hanno effetto sospensivo, ma il superiore (ossia il
vescovo diocesano) può sospendere il provvedimento per gravi motivi.
La CEI ha provveduto ad emanare le disposizioni per la costituzione dell’organo di
composizione delle controversie sorte tra sacerdoti ed Istituti per il sostentamento del clero.
L’organo è composto da tre componenti e decide a maggioranza.
Il procedimento è diretto in primo luogo alla ricerca di una conciliazione. Soltanto in
mancanza di questa l’organo adotterà una decisione.
Il provvedimento dell’Istituto deve essere impugnato entro 10 giorni utili dalla comunicazione
con lettera raccomandata indirizzata al Presidente del collegio e, in copia, all’Istituto.
Il Presidente deve nominare il relatore e fissare l’udienza entro 10 giorni dal ricevimento della
lettera, convocando le parti a comparire.
L’istituto, almeno 5 giorni utili prima dell’udienza, deposita le sue controdeduzioni,
trasmettendone contemporaneamente copia al sacerdote interessato.
La decisione è comunicata in udienza, ma la motivazione è comunicata alle parti mediante
lettera raccomandata.

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Dal ricevimento di tale notificazione decorre il termine di 15 giorni utili per il ricorso
gerarchico.
Da sottolineare che le controversie sul sostentamento del clero non sono riservate alla
giurisdizione esclusiva dell’autorità ecclesiastica.
Infatti, anche per il diritto dello Stato sussiste il diritto soggettivo dei sacerdoti alla
remunerazione ed esso è di conseguenza tutelabile davanti al giudice statuale. Se tale facoltà
fosse esclusa, si tratterebbe di una previsione incostituzionale per contrasto con l’art. 24 Cost.

Per quanto riguarda i rapporti tra il giudizio civile e quello ecclesiastico, il sacerdote che ha
ottenuto una decisione in sede canonica, non può risollevare la stessa questione davanti al
giudice civile. Si tratterebbe infatti di un’inammissibile bis in idem.
Il sacerdote potrà rivolgersi al giudice dello Stato soltanto quando non si sia già rivolto
all’autorità ecclesiastica, anche al fine di evitare il rischio di soluzioni diverse della medesima
controversia.
Dunque, i provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica valgono ad escludere la
giurisdizione dello Stato.
Essi sono emanati da un’autorità estranea al nostro ordinamento, di conseguenza sono atti
dotati di efficacia certificativa riguardo alla misura della retribuzione, nel senso che
costituiscono prova per la formazione di un titolo esecutivo valido per il diritto dello Stato, ma
non hanno direttamente l’efficacia dei titoli esecutivi.
Quando il sacerdote interessato decide si rivolgersi ai tribunali dello Stato, il giudice
competente è quello ordinario e non il giudice del lavoro, in quanto i sacerdoti accedono allo
stato clericale non per esercitare un’attività lavorativa o una professione, ma per svolgere una
missione salvifica.
Del resto l’art. 4 Cost. garantisce non soltanto il diritto al lavoro, ma anche il dovere di ogni
cittadino a svolgere attività e funzioni che concorrano al progresso materiale o spirituale della
società.
Nel determinare l’an ed il quantum dell’eventuale diritto del sacerdote alla retribuzione o
all’integrazione, il giudice statuale dovrà applicare anche le disposizioni emanate dalla CEI
che disciplinano la misura della retribuzione ed il modo in cui deve essere calcolata
l’integrazione. Si tratta di un’ipotesi di rinvio formale del diritto italiano al canonico,
giustificato dal fatto che la materia è prevalentemente interna all’ordinamento della Chiesa.
La remunerazione prevista per il clero è equiparata al reddito di lavoro dipendente soltanto ai
fini fiscali.
Su tale remunerazione, l’Istituto centrale per il sostentamento del clero è tenuto ad operare le
ritenute IRPEF e ad effettuare il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

8­ Le entrate di diritto privato degli enti confessionali.


Per quanto che riguarda le entrate privatistiche degli enti delle confessioni religiose, vale il
diritto comune.
Quanto corrisposto dai fedeli ai ministro di culto per spirito di liberalità purché di modico
valore, costituisce donazione manuale ai sensi dell’art. 783 cod. civ.
La validità formale dell’oblazione deve essere considerata in rapporto ai vari casi, in quanto il
giudizio sulla modicità del dono dipende dalle condizioni economiche del donante (il limite
massimo potrebbe corrispondere al massimo importo percepibile attraverso la deduzione dal
reddito delle persone fisiche a seguito dell’8 per mille).
Tali donazioni sono destinate ad una persona giuridica e sono da questa acquistate senza che
occorra alcuna autorizzazione dello Stato.
Da tali oblazioni vanno tenute distinte quelle raccolte da un comitato o da un unico promotore
per un fine pio, in cui si tratta di creazione di un patrimonio autonomo, privo di soggettività,

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destinato ad uno specifico scopo.
Anche le somme corrisposte ai ministri di culti per la loro attività liturgica rientrano tra le
donazioni, in quanto il fatto religioso non può essere oggetto di obbligazione.
Quando invece l’intesa fra l’ente ed il fedele riguarda modalità estrinseche al fatto religioso (ad
es., accompagnamento di musiche, addobbo dell’edificio di culto, ecc.) si costituisce un
contratto di locazione d’opera o di mandato, disciplinato in tutti i suoi aspetti del diritto dello
Stato.

8.1 le disposizioni a favore dell’anima.


L’art. 629 c.c. disciplina delle disposizioni testamentarie a favore dell’anima tende a rendere
attuabile la volontà testamentaria di persone che, avendo fede, ritengono che il compimento di
attività liturgiche o rituali, agevoli l’avvicinamento delle anime dei trapassati alla beatitudine
(ad es., celebrazione di messe o accensione di lampade votive).
In passato, elementi essenziali ai fini della validità di una disposizione testamentaria a favore
dell’anima erano le indicazioni riguardanti il soggetto onerato (erede o legatario) e la
determinazione della somma o dei beni destinati allo scopo. Dunque, venivano indicate tutte
le caratteristiche di una obbligazione naturale, il cui adempimento è rimessa alla coscienza
dell’onerato ed avente soltanto l’effetto giuridico della soluti retentio.
Oggi, l’art. 629 c.c. prevede anche che qualsiasi interessato può promuovere l’azione per
ottenere l’adempimento della disposizione per l’anima e qualifica le disposizioni a favore
dell’anima come un onere a carico dell’erede o del legatario.
La disposizione testamentaria si risolve quando non viene adempiuta e tale evento è stato
considerato nel testamento come causa di risoluzione; oppure quando non viene adempiuta e
l’adempimento dell’onere ha costituito il solo motivo determinante delle disposizioni stesse.
I soggetti chiamati a svolgere le funzioni liturgiche previste dal testatore possono essere un ente
confessionale o un singolo ministro di culto.
Il testatore può anche designare una persona che curi l’esecuzione della disposizione.
Si tratta di uno speciale esecutore testamentario che provvede a che sia adempiuta la
disposizione.
Quando tale attività deve essere protratta nel tempo, a causa della svalutazione monetaria o
per altre ragioni di carattere economico, i mezzi non siano più sufficienti o l’onere, previsto dal
testatore a carico dell’erede o del legatario, finisca con l’assorbire interamente o quasi il valore
del lascito.
In questo caso è possibile ridurre l’entità dell’erogazione, con un provvedimento dell’autorità
della confessione religiosa cui appartiene l’ente o il ministro di culto incaricato delle
prestazioni rituali, quando sono d’accordo tutte le parti interessate.
In caso di dissenso invece, per la riduzione occorre una sentenza del giudice dello Stato,
certamente competente dato il contenuto economico delle pretese contrapposte.

9­ Le entrate di diritto pubblico degli enti confessionali.


Sono entrate di diritto pubblico degli enti confessionali le entrate che gli enti confessionali
ottengono in base a un rapporto pubblicistico. Tale evento si realizza in 2 ipotesi:
­ Quando l’ente è titolare di un potere tributario riconosciuto dallo Stato sui suoi
appartenenti o sugli enti ad esso subordinati.
Ne erano un esempio le decime sacramentali della Chiesa cattolica (soppresse nel
1887), ossia le prestazioni poste a carico dei proprietari dei fondi rustici di un dato
luogo, costituenti una vera e propria imposta fondiaria ecclesiastica, dovuta ai vescovi,
ai parroci o ad enti ecclesiastici per i servizi spirituali da essi resi alla popolazione del
luogo (cosa diversa sono le decime dominicali, dovute in base a titoli privatistici
disciplinate dal diritto comune).
Da sottolineare che lo Stato riconosce il potere tributario di una confessione religiosa, il

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riconoscimento deve avvenire per legge (art. 23 Cost.) e nel rispetto della capacità
contributiva di ciascun appartenente, secondo quanto prevede l’art. 53 Cost.
­ Quando l’ente riceve finanziamenti dallo Stato e da altre organizzazioni pubblicistiche.

Nel diritto italiano i contributi dello Stato e degli altri enti pubblici alle organizzazioni
confessionali hanno la loro radice storica nei rapporti intercorsi fra gli ex Stati dell’Italia
preunitaria e la Chiesa cattolica.
Sino al 1986 esaminando lo stato di previsione di alcuni Ministeri (dell’Interno, dell’Economia
e Finanze, e dei Lavori Pubblici), è possibile riscontrare l’esistenza di vari capitoli di spesa
inerenti al finanziamento della Chiesa cattolica.
A decorrere dal 1° gennaio 1987, i capitoli di spesa del Ministero dell’Interno, del Tesoro e dei
Lavori Pubblici sono confluiti nel bilancio del dicastero dell’Economia e delle Finanze per
essere versati in gran parte alla CEI che ha provveduto al pagamento degli assegni del clero ed
a versare la restante parte annualmente al Fondo edifici di culto.
A decorrere dal 1° gennaio 1990, lo Stato corrisponde alla CEI una quota pari all’8 per mille
dell’IRPEF destinata a scopi di interesse sociale o umanitario a diretta gestione statale, oppure
a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica.
Un’entrata di carattere privatistico è data dalla facoltà riconosciuta ai contribuenti persone
fisiche di donare all’Istituto centrale per il sostentamento del clero e ad alcune confessioni
religiose, somme di denaro che possono essere dedotte dall’imponibile.
Inoltre, resta a carico dello Stato il finanziamento del Fondo edifici di culto.
La CEI deve trasmettere ogni anno, entro il mese di luglio, un rendiconto riguardante
l’effettiva utilizzazione delle somme ricevute, nel corso del precedente anno, da essa e
dall’Istituto centrale per il sostentamento del clero.
Ricevuto il rendiconto, il Ministero dell’Interno entro 30 giorni ne trasmette copia ai Ministeri
del Tesoro e delle Finanze, accompagnata da una propria relazione.
Sino al 1984 nei bilanci di previsione dello Stato vi era un capitolo di spesa riguardante un
assegno perpetuo per il mantenimento del culto valdese in risarcimento dei danni patiti in
passato dallo stesso culto. Esso è stato soppresso nel 1984 a richiesta della Tavola valdese, la
quale per principio preferisce che le confessioni religiose siano finanziate dagli appartenenti ad
esse e non dallo Stato.
In occasione di specifiche evenienze religiose è lo Stato concorre alla realizzazione di
iniziative, mediante l’emanazione di apposite provvidenze legislative. Ad es., ciò è avvenuto in
occasione del G iubileo del 2000.

9.1 il finanziamento delle confessioni diverse dalla cattolica


Il finanziamento delle confessioni di minoranza è a carico dei propri fedeli.
Tuttavia, alcune leggi dello Stato prevedono suoi interventi sulla base di intese con alcune
confessioni religiose di minoranza:
Le intese con le Chiese avventiste e con l’A.D .I. (Assemblea di Dio in Italia) prevedono che
queste concorrano alla ripartizione dell’8 per mille dell’IRPEF (a scelta dei contribuenti).
In origine, mancando la scelta del contribuente le somme restavano allo Stato.
Tale principio è rimasto in vigore per le A.D.I., mentre alle Chiese Avventiste, mancando la
scelta del contribuente, viene comunque assegnata una quota delle somme non attribuite in
proporzione alle scelte espresse a favore di tali Chiese.
Norme analoghe valgono anche per le Chiese della Tavola Valdese.
L’Intesa con la Chiesa evangelica luterana d’Italia (CELI) prevede che essa concorre alla
ripartizione dell’8 per mille dell’IRPEF ed in caso di scelte non espresse da parte dei
contribuenti, a tale organizzazione verrà attribuita una quota delle somme non attribuite in
proporzione alle scelte espresse.
Da sottolineare che le somme attribuite alle confessioni di minoranza sulla quota dell’8 per

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mille, sono prelevate dalla quota spettante allo Stato a titolo IRPEF dopo che dal totale sia
stata dedotta la porzione spettante alla Chiesa Cattolica.
I contribuenti possono versare alle confessioni religiose anche offerte volontarie in denaro.
Dal momento che lo Stato concorre al finanziamento delle confessioni religiose, esse devono
trasmettere annualmente al Ministero dell’Interno un rendiconto sulla destinazione delle
somme ricevute dai singoli oblatori a titolo di liberalità e dallo Stato sulla quota dell’8 per
mille, diffondendone adeguata informazione.
Il rendiconto delle Chiese avventiste, delle ADI e della Chiesa Luterana deve precisare una
serie di dati, quali il numero dei ministri di culto cui è assicurata l’intera remunerazione;
l’ammontare complessivo delle somme derivanti dalle offerte liberali, ecc.
Il rendiconto della Tavola valdese invece riguarda soltanto l’utilizzo della quota dell’8 per
mille.
Le Chiese dell’Unione Cristiana Battista provvedono all’esercizio del culto e al sostentamento
dei propri ministri unicamente a mezzo di offerte volontarie, le quali possono essere dedotte
dall’imponibile agli effetti dell’IRPEF.
Quanto al finanziamento delle Comunità ebraiche, attualmente queste sono finanziate dal
contributo a carico degli iscritti previsto dallo Statuto dell’Unione delle Comunità ebraiche
italiane. Tali contributi annuali sono deducibili dall’imponibile IRPEF dei contribuenti.
Per le controversie sulla determinazione del contributo annuale dovuto dai singoli
appartenenti, si prevede un ricorso ad una apposita commissione arbitrale, la quale deve
rispettare il principio del contraddittorio, esperire in via preliminare un tentativo di definizione
amichevole e motivare la decisione, che è definitiva.
Tali controversie riguardano il diritto soggettivo del contribuente all’integrità del proprio
patrimonio, dunque l’interessato può adire l’autorità giudiziaria ordinaria dopo la decisione
della commissione arbitrale, in sede di giudizio di accertamento, oppure in sede di opposizione
all’eventuale condanna al pagamento.
Inoltre, a decorrere dal periodo di imposta del 1996, l’Unione delle Comunità ebraiche italiane
concorre alla ripartizione dell’8 per mille dell’IRPEF che i contribuenti le assegneranno. Tali
somme saranno destinate alle finalità dell’Unione.
Nel caso di scelte non espresse, l’Unione partecipa al riparto della quota non attribuita in
proporzione alle scelte espresse a favore delle Comunità ebraiche.

Sezione II: Le cose destinate all’esercizio della libertà religiosa

1­ Il potere civile e l’edilizia religiosa


L’ordinamento civile disciplina la materia dell’edilizia religiosa sotto molteplici aspetti. Infatti,
lo Stato italiano è liberale, pluralista ed è spinto dalla sua socialità ad intervenire nel settore,
favorendo tanto la gestione quanto la realizzazione dell’edilizia religiosa con apposite
disposizioni legislative riguardanti 3 profili: il regime dei beni immobili; la loro costruzione; ed
il finanziamento per le costruzioni.

2­ G li edifici di culto
Fra i beni strumentali alle confessioni religiose si annoverano gli edifici di culto (chiese dei
cristiani; sinagoghe degli ebrei; moschee dei musulmani), ossia un mezzo per manifestare in
piena autonomia la propria fede religiosa.
In quanto beni patrimoniali, tali edifici sono disciplinati dal diritto comune, salvo le
disposizioni dettate in esecuzione di impegni concordatari.
Per quanto riguarda gli edifici della Chiesa cattolica, le discipline di riferimento sono:
­ L’art. 5 dell’Accordo 18 febbraio 1984, il quale prende in considerazioni gli edifici
“aperti al pubblico”.
­ L’art. 831 II comma c.c., il quale prende in considerazione gli edifici “destinati al culto

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pubblico”.
Entrambe le norme si riferiscano unicamente alle chiese pubbliche (non anche ad edifici di
culto privati).
La requisizione, l’occupazione, l’espropriazione per pubblica utilità o la demolizione delle
chiese pubbliche, non possono aver luogo se non per gravi ragioni di interesse generale e
previo accordo con la competente autorità ecclesiastica.
La forza pubblica, salvo i casi di urgente necessità, non può entrare per l’esercizio delle sue
funzioni in tali chiese, senza aver previamente avvisato l’autorità ecclesiastica.
Norme analoghe sono dettate per gli edifici aperti al culto pubblico delle confessioni diverse
dalla cattolica.

3­ G li edifici di culto e il codice civile


L’art. 831 (Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto) c.c. afferma che “I beni degli enti
ecclesiastici sono soggetti alle norme del presente codice, in quanto non è diversamente
disposto dalle leggi speciali che li riguardano. [ il I comma riprende la regola generale
secondo cui i beni degli enti ecclesiastici sono disciplinati dal diritto comune, salvo sia
diversamente disposto da leggi speciali.]
G li edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati,
non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che
la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano”.
Il II comma riguarda il caso in cui l’edificio di culto è di proprietà di soggetti diversi da un ente
ecclesiastico (enti pubblici, persone giuridiche private o persone fisiche).
Si ritiene che con tale disposizione le chiese cattoliche aperte al pubblico siano state
equiparate, in relazione al regime, ai beni del patrimonio indisponibile degli enti pubblici.
Tuttavia, a differenza di quanto avviene per questi ultimi, non vi è una norma di legge che
disciplina la sottrazione al culto delle chiese pubbliche.
Al riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto che l’art. 831 II comma c.c. contenesse un rinvio
formale al diritto canonico, le cui norme in questa materia produrrebbero effetti
nell’ordinamento civile.
Esso prevede che il vescovo del luogo ha il potere di sottrarre una chiesa al culto divino,
quando non sia possibile ricostruirla o quando gravi ragioni consiglino di desistere da tale
destinazione.
Tuttavia, la tesi del rinvio al diritto canonico non convince, in quanto sembra che la garanzia
del mantenimento della destinazione sussista sul presupposto di fatto che l’edifico sia
attualmente aperto al culto pubblico.
Se in via di fatto tale presupposto viene meno (ad es., l’edificio viene distrutto per causa non
imputabile al proprietario), la garanzia di legge circa la destinazione viene meno a sua volta,
senza che occorra considerare le norme canoniche in materia.
Quando l’edificio di culto è di proprietà di soggetti diversi da un ente ecclesiastico, le facoltà di
godimento del proprietario sono limitate dalle disposizioni dell’autorità ecclesiastica in
merito all’esercizio del culto, rispetto alle quali egli non può interferire.
Il diritto di proprietà, per sua natura elastico, torna ad espandersi tutte le volte in cui la facoltà
di godimento del titolare del bene non sia in contrasto con le esigenze del culto (ad es., nelle
ore in cui la chiesa non sia aperta al culto, il proprietario potrà locare l’edificio per scopi
profani).
In questo caso, tra il proprietario dell’edificio e l’autorità ecclesiastica sussiste una comunione
nella facoltà di godimento, con il conseguente compossesso dell’edificio.
Il regime degli edifici di culto si estende anche alle pertinenze, in quanto si tratta di beni
destinati in modo durevole al servizio della cosa principale.
Il diritto all’uso pubblico di una chiesa, garantito dall’art. 831 II comma c.c., può essere fatto

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valere dal rettore del tempio o dal suo superiore ecclesiastico (in sede possessoria o petitoria).
Tuttavia, in vista dell’uso pubblico dell’edificio assicurato dalla legge, in qualche occasione la
giurisprudenza ha ritenuto che la legittimazione ad agire in giudizio, spettasse anche a
qualunque fedele interessato.
Specialmente nelle chiese di grandi dimensioni, lungo la navata esistono singole cappelle
(dette gentilizie) che costituiscono parte dell’edificio di culto ma sono nel godimento di terzi
diversi dal proprietario dell’edificio.
Tale godimento deriva o dall’attribuzione al terzo del diritto di proprietà sulla cappella, o
dall’attribuzione di un diritto perpetuo di godimento, a seguito di un provvedimento
discrezionale dell’autorità ecclesiastica.
Data la discrezionalità di tale concessione, essa può essere nel tempo revocata o modificata.
Tali atti, sfuggono alla giurisdizione dello Stato. Chi si sentisse danneggiato dai provvedimenti
in questione può agire secondo i rimedi previsti dall’ordinamento canonico.
Da sottolineare che la lettera dell’art. 831 II comma c.c. considera soltanto la religione
cattolica, trascurando le esigenze delle altre confessioni.
In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione per contrasto con gli
artt. 8 I comma e 19 Cost. sarebbe tuttavia sufficiente elidere l’aggettivo “cattolico”.

4­ G li edifici di culto ebraico.


Per quanto riguarda gli edifici del culto ebraico, essi oltre alle garanzie in tema di
occupazione, espropriazione, ecc. godono di una garanzia analoga a quella prevista dall’art.
831 comma II c.c., dettata dalla L. 101/ 1989.
Dunque, anche se tali edifici appartengono a privati non possono essere sottratti alla loro
destinazione, neanche per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia
cessata con il consenso della Comunità competente o dell’Unione.
Si tratta di un’estensione che essendo prevista da una legge rinforzata e garantita dall’art. 8 III
comma Cost., ha una resistenza alla modificazione, alla deroga e all’abrogazione maggiore di
quella dell’art. 831 comma II c.c., il quale invece può essere modificato, derogato o abrogato
da una legge ordinaria successiva.

5­ Costruzione e manutenzione degli edifici di culto.


Quando gli edifici di culto sono riconosciuti di interesse storico, artistico o archeologico e
sono di proprietà di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti o dei privati (o siano essi
possessori o detentori), si applica il regime dei beni di carattere monumentale.
Dunque, sono sottoposti alla vigilanza del Ministero per i beni culturali ed ambientali ed alle
autorizzazioni previste per eventuali restauri o per alienazioni o concessioni di ipoteca.
Inoltre, i proprietari sono tenuti a garantire la loro conservazione.
Quando invece gli edifici di culto vengono riconosciuti di interesse storico o artistico e sono di
proprietà di Stato, Regioni, province (o altri enti pubblici indicati), essi hanno la natura di
beni demaniali (in particolare beni culturali), dunque sono inalienabili, non possono formare
oggetto di diritti a favore di terzi e seguono il regime previsto per il demanio pubblico dall’art.
823 c.c. e dalle altre norme in materia.
Lo Stato deve provvedere alla conservazione ed al restauro delle chiese monumentali (ed
anche non monumentali) che siano di sua proprietà.
Al riguardo, nel 1985 è stato creato il Fondo edifici di culto con il compito di provvedere alla
conservazione, al restauro, alla tutela ed alla valorizzazione degli edifici di culto appartenenti
al Fondo. Si tratta di una persona giuridica amministrata dal Ministero dell’Interno.
I beni appartenenti al Fondo Edifici di Culto sono soggetti ad un regime particolare.
I beni immobili concessi in uso o locati a terzi non possono essere utilizzati per fini diversi da
quelli per cui è stata consentita la concessione o la locazione, né possono essere oggetto di

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subconcessione o sublocazione.
Quando tali divieti sono violati, la sanzione prevista è la decadenza della concessione o la
risoluzione del contratto di locazione.
Chi ha in uso o in concessione edifici di proprietà del Fondo, risponde della diligente custodia
e della conservazione degli stessi.
I beni di interesse storico o artistico non possono essere utilizzati per fini diversi da quelli cui
sono destinati senza l’autorizzazione del Ministero dell’Interno, sentito il Consiglio di
amministrazione del Fondo, a pena di immediata restituzione del bene e salvo il risarcimento
degli eventuali danni.

6­ La dismissione delle chiese del F.E.C.


G li edifici pervenuti al Fondo e provenienti dalle acquisizioni effettuate dallo Stato, corrono il
rischio di dismissione, in quanto l’autorità ecclesiastica può disporre liberamente di tali edifici.
La L. 848/ 1929 applicativa dell’art. 29 del Concordato, prevedeva che gli edifici di culto già
appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi e dotati di personalità giuridica dovevano essere
consegnati all’autorità ecclesiastica che ne avrebbe curato la manutenzione e l’officiatura.
L’espressione “consegna” garantiva alla Santa Sede il godimento dell’edificio, non il
trasferimento della proprietà, dunque non vi era alcuna dismissione della proprietà dello Stato.
Tuttavia, in un primo momento la giurisprudenza ha ritenuto che l’obbligo della consegna
implicasse anche l’obbligo di trasferire la proprietà.
In particolare, il Consiglio di Stato ha ritenuto che per effetto del riconoscimento della
personalità giuridica, l’ente­chiesa acquistava ipso iure la proprietà dell’edificio di culto e delle
sue pertinenze, mentre lo Stato la perdeva.
Successivamente, la L. 222/ 1985 ha riformato la materia degli enti e dei beni ecclesiastici. Essa
ha introdotto una norma transitoria che stabiliva che alle cessioni e ripartizioni riguardanti gli
enti­chiesa, la cui domanda per il riconoscimento della personalità giuridica fosse ancora
pendente, si applicassero le norme vigenti al momento della presentazione della domanda.
Al riguardo, il Consiglio di Stato ha affermato che in mancanza del riconoscimento di un ente­
chiesa, l’ente parrocchiale di nuova istituzione avrebbe acquistato i beni che virtualmente
spettavano alla chiesa, ma che non le erano formalmente intestati proprio perché ancora in
attesa di ricevere il riconoscimento della suddetta personalità giuridica.
Ciò ha importato che la norma transitoria riguardante le domande ancora pendenti per il
riconoscimento di enti­chiesa è stata trasformata in una disposizione che potrebbe avere
applicazione in un futuro indeterminabile.
Più di recente, il Consiglio di Stato ha specificato che non sussiste un diritto soggettivo della
parrocchia ad ottenere la retrocessione dell’immobile non più conventuale. La concessione o la
ripartizione di una congrua parte del fabbricato implica infatti una valutazione discrezionale
della Pubblica Amministrazione.

7­ Competenze statuali e regionali riguardo agli edifici di culto: le norme urbanistiche


L’autorità competente può consentire la costruzione di edifici di culto, con il rilascio di una
concessione edilizia.
Tuttavia, l’edificio di culto dev’essere progettato per sorgere in un’area destinata ad hoc dai
piani urbanistici.
L’Accordo 18 febbraio 1984 stabilisce che per la costruzione di nuovi edifici destinati al culto
cattolico, l’autorità civile terrà conto delle esigenze religiose della popolazione.
In materia urbanistica, accanto alla competenza del legislatore nazionale, vi è la competenza
delle Regioni ex art. 117 Cost., compresa la materia di edilizia di culto.
La L. 167/ 1962 sull’edilizia economica e popolare prevedeva che i piani urbanistici
destinassero zone ad opere e servizi complementari, urbani e sociali, fra le quali era compresa
la costruzione di edifici di culto.

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La successiva L. 765/ 1967 (c.d. legge­ponte) consentiva il rilascio di licenze edilizie in deroga
ai piani regolatori ed ai regolamenti edilizi soltanto per edifici ed impianti pubblici o di
pubblico interesse, fra i quali anche gli edifici di culto.
Dopo il trasferimento delle funzioni amministrative in materia urbanistica dallo Stato alle
Regioni, la misura degli spazi da riservare all’edilizia abitativa e quella da riserva agli spazi
pubblici, comprese le attrezzature religiose, compete alle Regioni. Lo Stato ha soltanto
funzioni di indirizzo e coordinamento.
In materia di edilizia di culto sono tutelati gli interessi di tutte le confessioni religiose, anche se
il loro rapporto con lo Stato non è disciplinato sulla base di intese.

8­ Finanziamento dell’edilizia religiosa


La materia del finanziamento pubblico dell’edilizia religiosa rientra nella competenza
concorrente del legislatore nazionale e di quello regionale.
La legge 222/ 1995 stabilisce che gli impegni finanziari per la costruzione di edifici di culto
cattolico e delle pertinenti opere parrocchiali sono determinati dalle autorità civili competenti
secondo le norme di legge.
In un primo tempo, lo Stato contribuiva soltanto all’acquisto dell’area ed alla costruzione del
rustico, poi le ha assunte a suo totale carico.
Successivamente, le norme approvate con il Protocollo del 15 novembre 1984 hanno disposto
l’abrogazione delle leggi statali riguardanti il finanziamento dell’edilizia di culto, eccetto che
delle leggi finalizzate alla realizzazione di interessi pubblici in materia (ad es., tutela del
patrimonio storico, interventi conseguenti a calamità naturali, ecc.).
In particolare, la legislazione del 1940­50 ha disposto che sono a totale carico dello Stato la
ricostruzione degli edifici di culto distrutti o danneggiati dagli eventi bellici e che esso
concorrere in misura del 50% della spesa alla riparazione dei danni causati da calamità.
Inoltre, i Comuni possono intervenire a sostegno dell’edilizia di culto per il soddisfacimento di
interessi locali.
La c.d. Legge Bucalossi del 1977 prevedeva che presso ogni Comune fosse costituito un fondo
per realizzare opere di urbanizzazione primaria e secondaria; la costruzione di edifici di culto
costituiva realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria. Se tale legge aveva aperto la
strada per competenza statale in tema di finanziamento dell’edilizia di culto, tale competenza è
venuta meno a seguito dell’abrogazione di tale legge nel 2001.
Nonostante lo Stato nel trasferire alle Regioni la competenza in materia urbanistica si sia
conservato una competenza in tema di indirizzo e di coordinamento, esso in materia di
finanziamento dell’edilizia di culto, non lo ha mai esercitato.
Dunque, le Regioni hanno seguito i propri criteri per utilizzare il fondo previsto dalla legge
Bucalossi o nell’utilizzare parte del proprio bilancio. Tali criteri sono variabili nella
individuazione dei soggetti legittimati a richiedere i finanziamenti:
­ Alcune Regioni erogano contributi a favore di tutte le confessioni religiose.
­ Altre fanno riferimento alle confessioni indicate genericamente come riconosciute.
­ Altre ancora prevedono il diritto al contributo pubblico soltanto a favore di quelle
confessioni religiose, diversa dalla cattolica, i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati
per legge.
­ Infine, qualche altra consente il contributo pubblico soltanto a favore della Chiesa
cattolica.
L’attribuzione del contributo pubblico soltanto a favore delle confessioni religiose diverse dalla
cattolica disciplinate per legge è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale per
contrasto con gli artt. 8 I comma e 19 Cost.
Secondo la Corte, il criterio differenziatore ammissibile è quello fondato sulla consistenza ed
incidenza sociale della confessione che richiede il contributo. Poi ovviamente questa dovrà

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accettare le condizioni apposte alla concessione e mantenere il vincolo di destinazione.
Invece, non sembra utile seguire il criterio dell’avvenuto riconoscimento da parte dello Stato
della confessione religiosa richiedente il contributo, in quale riconoscimento non implica la sua
rilevanza sociale.
Il D.lgs. 112/ 1998 ha redistribuito le competenza tra Stato e Regioni.
In particolare è previsto che lo Stato conserva il potere di indirizzo e di coordinamento. A
Regioni, province, comuni ed altri enti locali sono conferiti invece compiti normativi ed
amministrativi in varie materie, fra cui l’edilizia di culto.
A seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, l’urbanistica costituisce una di materia
di competenza esclusiva delle Regioni ex art. 117 Cost.
Tuttavia, sempre a norma dell’art. 117 Cost., lo Stato ha competenza esclusiva in relazione ai
rapporti fra la Repubblica e le confessioni religiose, materia in cui la dottrina fa rientrare anche
il finanziamento dell’edilizia religiosa.
Al riguardo si ritiene che il finanziamento, per la parte non strettamente urbanistica, deve
essere oggetto della legislazione statale con riferimento all’individuazione dei criteri generali di
accesso ai finanziamenti da parte dei gruppi religiosi. Invece, la Regione avrebbe una
competenza limitata all’individuazione dei requisiti di carattere tecnico strettamente legali
all’interesse delle Regioni e degli enti locali di gestire le proprie risorse.

9­ G li edifici di culto delle altre confessioni.


Per quanto riguarda gli edifici di culto delle altre confessioni, le Intese tra lo Stato e le Chiese
Avventiste e le Comunità ebraiche prevedono specifiche garanzie ai fini della costruzione di
edifici destinati ai rispettivi culti.
Quando tali edifici sono costruiti con i contributi delle Regioni o dei Comuni, essi sono
soggetti a un vincolo ventennale di destinazione (a decorrere dall’erogazione del contributo),
alla quale non possono essere sottratti neppure per effetto di alienazione. Il vincolo è trascritto
sui registri immobiliari e comporta la nullità degli atti e dei negozi contrastanti con la sua
esistenza.
Il vincolo può essere estinto prima del compimento del termine, d’intesa fra la Comunità
interessata e l’autorità civile che abbia corrisposto il contributo.
A tal fine è necessario restituire all’ente pubblico erogatore le somme percepite come
contributo, in proporzione alla riduzione del termine.

10­I sepolcri e le cappelle funerarie.


In passato, l’inumazione (sepoltura) dei defunti nelle chiese avveniva per concessione
dell’autorità ecclesiastica, titolare dei cimiteri annessi alle chiese, la quale costruiva a tal fine
sepolcri e cappelle gentilizie.
Quando sepolcri e cappelle costituiscono opere d’arte, sono disciplinate dalle legislazione
statale circa le cose di interesse storico, artistico o archeologico.
L’edificio di culto può passare in proprietà di soggetti diversi dall’originario ente ecclesiastico,
ma dal momento che di regola tali concessioni sono perpetue, il passaggio di proprietà è
irrilevante fino a quando l’edificio stesso continua ad avere la destinazione originaria.
Se invece l’edificio non viene più destinato al culto ma ad altri scopi, i discendenti dei
concessionari, provando la loro qualità, potrebbero aver interesse a trasportare in un cimitero i
resti degli antenati ed a rivendicare la proprietà dei monumenti, salvi gli effetti eventuali
dell’usucapione a favore del proprietario dell’edificio di culto.
Inoltre, la concessione dà luogo ad un diritto di superficie il quale, quando viene attribuito
senza un termine di scadenza, consente al concessionario di mantenere la proprietà della
costruzione realizzata.

11­Le sepolture ebraiche

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L’art. 16 L. 101/ 1989 sulle Comunità ebraiche, disciplina in maniera speciale la sepoltura
degli appartenenti a tale organizzazione.
La disposizione prevede che possono essere realizzati cimiteri delle Comunità o reparti ebraici
di cimiteri comunali, realizzati in un’area adeguata concessa dal sindaco.
In entrambi i casi le sepolture sono perpetue, in deroga alla norma che fissa la durata della
concessione comunale in 99 anni.
Ogni volta che si raggiunga tale scadenza, la concessione è rinnovata per un termine di uguale
durata in perpetuo.
G li oneri finanziari inerenti a tali rinnovi delle concessioni sono a carico degli ebrei interessati
ai sepolcri, ossia a carico dei familiari dei defunti.
In mancanza di tali interessati, l’onere del rinnovo grava sulla Comunità competente per
territorio o sull’Unione delle Comunità.
Nei cimiteri ebraici sono osservate le prescrizioni rituali di tale confessione. Quindi in tale
materia, il diritto dello Stato rinvia al diritto ebraico.

12­Le cose mobili destinate al culto


Negli edifici di culto e nelle loro pertinenze vi sono cose mobili destinate al culto (ad es.,
altari, immagini, vasi, arredi, ecc.).
Nel diritto canonico esse sono disciplinate da apposite norme o da norme speciali, in ogni caso
si tratta di norme riguardanti le cose sacre.
Il diritto dello Stato considera tali cose non in quanto “sacre”, ma in quanto destinate
all’esercizio del culto.
L’art. 514 cod. proc. civ. stabilisce che “Sono assolutamente impignorabili le cose sacre e
quelle che servono all’esercizio del culto”. Infatti, la vendita forzata farebbe cessare l’uso a fini
spirituali.
Tale norma è stata criticata per contraddizione con l’art. 831 c.c., il quale non dichiara
impignorabili gli edifici di culto.
Tuttavia, tale contraddizione non sussiste, in quanto l’art. 831 c.c. si riferisce ai beni immobili,
la cui inamovibile è sufficiente a conservarne la destinazione al culto.
Invece le cose mobili sono asportabili, dunque per conservare la loro destinazione necessitava
una disposizione apposita che ne escludesse la pignorabilità.
Sono anche le immagini sacre esistenti presso privati, quando assolvano alla funzione di
simbolo religioso e non meramente ornamentale.
Ai fini dell’impignorabilità, quel che conta è che la cosa sia di fatto e attualmente destinata al
culto.
Cessata tale destinazione, il bene segue il normale regime delle cose mobili.
Il proprietario che abbia concesso alla venerazione dei fedeli un’immagine sacra di sua
proprietà, non può aver compiuto una dedicatio ad cultum publicum come alle volte ha ritenuto
la giurisprudenza. Viceversa si ritiene che questo possa proporsi di sostituirla con una copia
fedele.

13­Tutela del patrimonio storico ed artistico


Per quanto riguarda la tutela del patrimonio storico ed artistico, la L. 1089/ 1939 pone sotto
la tutela dello Stato tutte le cose mobili e immobili aventi interesse artistico, storico,
archeologico e etnografico, incluse le cose di tale genere appartenenti agli enti ecclesiastici.
Il Ministro dei Beni culturali e le Regioni nei limiti della loro competenza hanno il dovere di
procedere d’accordo con l’autorità ecclesiastica per quanto riguarda le esigenze di culto.
Inoltre, l’Accordo del 18 febbraio 1984 prevede che la Santa Sede e la Repubblica italiana, nel
rispettivo ordine, collaborino per la tutela del patrimonio storico ed artistico e che le due Parti
concorderanno le opportune disposizioni per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali
d’interesse religioso appartenenti agli enti e alle istituzioni ecclesiastiche.

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Al fine di attuare tale collaborazione, il 13 settembre 1996 è stata raggiunta un’intesa di
carattere procedimentale tra il Ministro per i Beni Culturali e il Presidente della CEI, poi
sostituita con una successiva intesa nel 2005, la quale ha determinato gli organi chiamati a
collaborare:
­ In sede centrale, il Ministro per i Beni Culturali, o le persone da lui delegate; ed il
Presidente della CEI, o le persone da lui delegate.
­ In sede regionale, i direttori regionali; e i Presidenti delle conferenze Episcopali
regionali o le persone da lui delegate.
­ In sede locale, i Soprintendenti locali; ed i vescovi diocesani o le persone designate dai
vescovi.
La collaborazione sarà attuata in varie forme. Sono previste apposite riunioni affinché le parti
possano reciprocamente informarsi delle iniziative che intendono intraprendere e per definire
programmi, proposte e piani di spesa.
Al finanziamento degli interventi e delle iniziative, provvederanno lo Stato, gli enti
ecclesiastici interessati ed eventualmente i terzi.
Al fine di verificare la continuità delle forme di collaborazione previste dall’accordo e di
esaminare i problemi di interesse comune, opera l’Osservatorio centrale per i beni culturali di
interesse religioso di proprietà ecclesiastica, composto da rappresentanti del Ministero e della
CEI, le cui riunioni sono convocate almeno una volta ogni semestre ed ogni volta che sia
ritenuto opportuno.
Inoltre, sono dettate intese per la conservazione e la consultazione degli archivi e delle
biblioteche degli enti ecclesiastici.
In particolare, una nuova Intesa del 2000 indica che per “archivi di interesse storico di
proprietà di enti ed istituzioni ecclesiastiche” si intendono non soltanto gli archivi di notevole
interesse storico, ma anche gli archivi in cui siano conservati documenti aventi data anteriore
agli ultimi 70 anni.
Inoltre, tale l’Intesa indica 3 principi generali circa il patrimonio documentario ed archivistico
di interesse storico appartenente ad enti ed istituzioni ecclesiastiche:
­ Il patrimonio deve rimanere, per quanto possibile, nei luoghi di formazione o di attuale
conservazione.
­ Il Ministero per i Beni e per le Attività Culturali e la CEI assicurano, secondo le
rispettive competenze, la salvaguardia del patrimonio e delle rispettive sedi.
­ In caso di necessità gli archivi vengono depositati presso l’archivio storico della diocesi
competente per territorio.
In ogni caso, la consultazione degli archivi esistenti nello Stato­Città del Vaticano e nel
Palazzo del Laterano è rimessa alla disciplina della Santa Sede.
Il D.lgs. 112/ 1988 in tema di funzioni tra Stato, Regioni ed enti locali prevede che ciascuno di
essi può stipulare accordi per definire strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, in
relazione ad ambiti territoriali ben definiti.
Anche nelle Intese stipulate dallo Stato con le confessioni di minoranza sono state previste
norme dirette ad istituire una collaborazione, al fine di tutelare e valorizzare i beni del
patrimonio storico, artistico, culturale ed ambientale e librario appartenenti a tali confessioni.

Sezione III: Poteri statuali e poteri confessionali sulla gestione patrimoniale degli enti con
fini di religione o di culto

1­ Vigilanza e poteri dello stato sugli enti confessionali


I controlli dello Stato sulla gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici sono specificamente
previsti dalla legge, in quanto persone fisiche estranee all’ordinamento statuale (non hanno
carattere generale).
L’art. 20 Cost. esclude che lo Stato possa sottoporre la gestione degli enti ecclesiastici a

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controlli maggiori di quelli che esso esercita sulle altre persone giuridiche.
Quando lo Stato finanzia le confessioni religiose o gli enti di esse, esercita un controllo sul
modo in cui sono utilizzate le somme ricevute dalle organizzazioni confessionali, tuttavia si
tratta di un controllo contabile ex post diretto a dare trasparenza all’impiego delle somme, non
invece di una potestà dello Stato sulle confessioni religiose.
Controlli più penetranti sono previsti dalle norme del 1929­1930 per le persone giuridiche delle
confessioni religiose di minoranza non disciplinate da intese.
Ma tale regime, di cui è dubbia la legittimità costituzionale, è in fase di graduale superamento.
Infine, sino al 1986 lo Stato ha esercitato il controllo sugli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione degli enti della Chiesa cattolica congruati o congruabili, ossia di quegli enti
della Chiesa cattolica a cui lo Stato versava il supplemento di congrua nel caso in cui il
patrimonio di essi non producesse annualmente un dato reddito minimo fissato dalla legge.
Tale controllo è stato esercitato sino al momento in cui è cessato il pagamento dei supplementi
di congrua per il passaggio al nuovo sistema di retribuzione del clero.
La ragione del controllo sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione dipendeva
dall’interesse dello Stato a che gli enti non subissero perdite patrimoniali le quali, causando
una diminuzione dei redditi, si sarebbero ripercosse sul bilancio statale.
Tale controllo era contemplato anche sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti
dalle fabbricerie, ma anche questo è venuto meno nel 1999, anno in cui sono state abrogate le
disposizioni che lo prevedevano.

2­ I controlli sulla gestione degli istituti per il sostentamento del clero.


Per quanto riguarda i controlli sull’Istituto centrale e gli Istituti diocesani per il
sostentamento del clero, essi sono soggetti soltanto ai controlli previsti dal diritto canonico,
anche per quanto concerne gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
La CEI indica il valore massimo degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per i quali gli
enti non soggetti all’ordinario diocesano decidono secondo i propri statuti.
Nel momento in cui il valore del negozio ecceda la misura massima o si tratti di beni
particolari, occorre l’autorizzazione della Santa Sede.
G li atti eccedenti l’ordinaria amministrazioni relativi ai beni degli Istituti diocesani (o beni
diocesani) necessitano dell’assenso del vescovo (ad es., in tema di vendita). Se invece tali atti
superano di almeno 3 volte quello massimo stabilito dalla CEI, sarà necessario il consenso
della Santa Sede, previo parere della CEI.

3­ La vendita di immobili e la prelazione pubblica


Dal 1 gennaio 1987 si sono estinti gli enti beneficiali della Chiesa, è cessato il controllo dello
Stato su di essi e sono stati creati gli Istituti diocesani.
Tuttavia, è nato un nuovo rapporto giuridico tra la Pubblica Amministrazione e gli Istituti per
il sostentamento del clero.
In particolare, si riconosce il diritto di prelazione sulle vendite di immobili degli Istituti per il
sostentamento del clero, nell’ordine di priorità, allo Stato, al Comune in cui si trova il bene,
all’Università degli Studi, alla Regione e alla Provincia.
Il diritto di prelazione realizza il principio costituzionale volto ad assicurare la funzione sociale
della proprietà (art. 43 Cost.), mantenendo ai beni una funzione pubblica.
Quando intende vendere un immobile, l’Istituto notifica al Prefetto della Provincia in cui si
trova l’immobile la sua intenzione, indicando prezzo, modalità di pagamento e le altre
condizioni essenziali della vendita.
Entro 6 mesi dalla notificazione, il Prefetto comunica con atto notificato all’Istituto se e quale
degli enti pubblici intende acquistare il bene alle condizioni indicate, trasmettendo
contestualmente copia autentica della deliberazione di acquisto assunto dall’ente pubblico.

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Da sottolineare che lo scambio di comunicazioni tra l’Istituto e il Prefetto non dà luogo ad un
contratto (né definitivo né preliminare), ma è soltanto una manifestazione di intenti, tanto che
la stipulazione del contratto è prevista in una fase ulteriore.
Il contratto di vendita deve essere stipulato entro 2 mesi dalla comunicazione del Prefetto ed il
pagamento del prezzo può avvenire entro termini variabili, a seconda che l’acquirente sia un
ente pubblico diverso dallo Stato (entro 2 mesi dalla stipulazione del contratto per l’intero)
oppure lo Stato stesso (entro 2 mesi dalla registrazione presso la Corte dei Conti la prima rata
del 40%; entro 4 mesi successivi il restante 60%).
L’Istituto venditore è libero di vendere a terzi, qualora il Prefetto, entro il termine di 6 mesi
dalla notificazione della comunicazione dell’Istituto, non abbia comunicato l’intenzione di
uno degli enti pubblici di procedere all’acquisto.
Tuttavia, l’Istituto non può vendere l’immobile a prezzo inferiore o a condizioni diverse
rispetto a quanto comunicato al Prefetto.
Qualora la vendita a terzi sia effettuata oltre 3 anni dopo l’originaria comunicazione notificata
dall’Istituto al Prefetto, la comunicazione deve essere rinnovata e ricomincerà a decorrere un
nuovo termine semestrale entro cui il Prefetto potrà comunicare l’intenzione di acquisto da
parte di uno degli enti pubblici legittimati.
Queste norme sulla prelazione non trovano applicazione quando l’Istituto venda il bene a un
altro ente ecclesiastico, oppure esistano sul bene altri diritti di prelazione (della comunione
ereditaria; dei rapporti agrari e dei rapporti di locazione urbana) che siano esercitati dai
titolari.
Nelle caso in cui l’Istituto violi il diritto di prelazione di terzi diversi dallo Stato, questi
potranno esercitare il diritto al riscatto del bene nei confronti dell’acquirente.
Invece, nel caso in cui l’Istituto violi il diritto di prelazione dello Stato e degli altri enti
pubblici, il contratto di vendita al terzo sarà nullo.
La sanzione della nullità è più grave soltanto in apparenza. Oltre a non essere di agevole
esercizio, una volta esperita con successo il bene torna in proprietà all’Istituto, il quale dovrà
restituire al terzo acquirente il prezzo pagato, ma l’immobile non diventerebbe di proprietà
dell’attore.
Inoltre, l’Istituto ed il terzo potrebbero lasciare inalterata la situazione creatasi con il contratto
nullo ed il terzo potrebbe dopo 20 anni di possesso acquistarne di nuovo la proprietà per
usucapione.
Ben più efficace sarebbe stato consentire allo Stato o agli altri enti pubblici legittimati alla
prelazione, di esercitare il diritto di riscatto, in quanto avrebbero potuto sostituirsi nel contratto
al terzo acquirente.
In realtà l’unico rimedio praticabile nel caso di violazione del diritto di prelazione è
l’espropriazione per pubblica utilità, purché ve ne siano i presupposti.

4­ La rilevanza civile dei controlli canonici


L’Accordo 18 febbraio 1984 ha previsto che l’amministrazione dei beni appartenenti agli enti
ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico.
Tali controlli riguardano il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e
soltanto le persone giuridiche canoniche pubbliche. Quelle private, sono sottoposte al controllo
secondo quanto previsto dai loro statuti.
Il Concordato Lateranense del 1929 escludeva ogni intervento dello Stato in relazione alla
gestione ordinaria e straordinaria dei beni degli enti ecclesiastici ma non precisava se ad essi
era riconosciuta libertà di gestione, oppure se venivano riconosciuti effetti civili ai controlli
canonici.
L’Accordo del 1984 ha definitivamente accolto la seconda tesi.
Oggi, tale riconoscimento di efficacia civile è stato contemperato con gli interessi dei terzi che
entrano in rapporto negoziale con gli enti ecclesiastici.

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Dunque, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono attuare un adeguato regime di
pubblicità per rendere conoscibili le norme sul loro funzionamento ed i poteri degli organi di
rappresentanza, mediante iscrizione nel registro delle persone giuridiche. La mancata
iscrizione priva tali enti della legittimazione a stipulare contratti.
Alla registrazione degli enti ecclesiastici si applicano le medesime disposizioni previste per la
registrazione delle persone giuridiche private.
Inoltre, è assicurata anche la pubblicità dei provvedimenti canonici con cui la Santa Sede e la
CEI determinano quali atti siano da qualificare come eccedenti l’ordinaria amministrazione.
A tal fine, questi provvedimenti devono essere comunicati dalla CEI al Ministro dell’Interno
entro 30 giorni dalla promulgazione nell’ordinamento della Chiesa.
Chiunque sia interessato può chiedere alla Prefettura del luogo in cui risiede copia delle dette
deliberazioni ecclesiastiche vigenti al momento della richiesta.
Quando gli amministratori degli enti effettuano gli adempimenti diretti a rendere conoscibili le
norme sul funzionamento degli enti stessi e sui poteri degli organi di rappresentanza, i terzi
avranno diritto ad esigere che i rappresentanti abbiano ricevuto dai superiori tutte le
autorizzazioni previste dal diritto canonico e dagli statuti delle singole persone giuridiche.
Ove i terzi non curino di accertare l’esistenza dei poteri dei rappresentanti o siano mancate le
autorizzazioni previste, il contratto è annullabile da parte dell’ente per mancanza della sua
capacità ad essere parte del contratto.

5­ La rilevanza civile dei controlli interni sugli enti delle confessioni di minoranza.
La gestione degli enti delle confessioni religiose di minoranza che abbiano stipulato Intese con
lo Stato è disciplinata in modo analogo a quanto previsto per gli enti cattolici.
L’Intesa tra lo Stato italiano e la Tavola valdese prevede che “La gestione ordinaria e gli atti di
straordinaria amministrazione degli enti valdesi e metodisti si svolgono sotto il controllo e con
l’approvazione della Tavola valdese (cui si riconoscono effetti civili), senza ingerenza da parte
dello Stato, delle regioni o di altri enti territoriali”.
Norme simili sono previste per i controlli interni di ogni confessione che ha concluso Intese
con lo Stato.
In generale, gli enti delle confessioni diverse dalla cattolica devono iscriversi nel registro delle
persone giuridiche, in modo che i terzi vengano a conoscenza di ogni elemento di esse.
Sono esclusi da tale obbligo gli enti valdesi e metodisti. Se essi non si iscrivono di propria
iniziativa nel registro delle persone giuridiche, i terzi devono sperare che siano gli enti stessi a
documentare i dati necessari ad una valida stipulazione dei contratti.

6­ G li acquisti degli enti confessionali e la fine del controllo statale.


L’Accordo 18 febbraio 1984 aveva mantenuto in vigore il controllo dello Stato sugli acquisti
degli enti ecclesiastici, delle altre confessioni religiose e, in generale, su tutte le persone
giuridiche, pubbliche e private, diverse dalle società commerciali.
Tale controllo risaliva alla legge Siccardi del 1850, la quale prevedeva l’autorizzazione
governativa per gli acquisti di beni immobili, eredità e legati da parte degli enti, sia ecclesiastici
che civili.
L’intento del legislatore era quello di evitare il fenomeno della c.d. manomorta, ossia la
formazione di patrimoni che per lungo tempo potevano rimanere sottratti alla normale
circolazione.
Venuta meno l’esigenza di evitare la formazione della manomorta, la ratio dell’autorizzazione
governativa è stata individuata nella necessità di tutelare gli enti ecclesiastici dall’acquistare
beni da persone malfamate o beni che avrebbero trascinato l’ente in complicate vicende
giudiziarie. Tuttavia, lo Stato non ha titolo per effettuare tale tutela, la quale spetta invece
all’autorità delle confessioni religiose.

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Infine, si propose la più plausibile giustificazione che il controllo governativo avesse la finalità
di giudicare se l’acquisto che l’ente si proponeva di effettuare fosse o meno eccedente rispetto
ai suoi fini, per evitare che si arricchisse eccessivamente.
Rilevano gli artt. 1 e 14 L. 52/ 1985.
Tali norme hanno riconosciuto che potessero essere legittimamente trascritti nei registri
immobiliari gli acquisti di beni immobili per atto tra vivi a titolo oneroso e la dazione di
ipoteca, effettuati anche dalle associazioni non riconosciute.
Sino all’entrata in vigore di tali norme, si riteneva che i detti acquisti e le connesse eventuali
garanzie, fossero intestati alla persona fisiche che compiva l’atto o al nome di tutti gli associati.
Tali disposizioni hanno favorito gli acquisti e la dazione di ipoteche di tutte le organizzazioni
senza personalità giuridica operanti nella società italiana, comprese le associazioni religiose
non riconosciute.
Con la riforma della Pubblica Amministrazione entrata in vigore il 18 maggio 1997, sono state
abrogate tutte le norme che prevedevano l’autorizzazione governativa per l’accettazione di
eredità e legati e per l’acquisto di beni immobili da parte di persone giuridiche, associazioni e
fondazioni (alcune integralmente, altre soltanto parzialmente).

10­ Il regime tributario degli enti con fine di religione o di culto.


Per quanto riguarda il regime tributario degli enti con fine di religione o di culto, l’art. 20
Cost. esclude che essi essere sottoposti ad un regime più gravoso di quello previsto per gli altri
enti.
Tuttavia, essi possono godere di un regime fiscale più favorevole.
Per quanto riguarda gli immobili immuni siti in territorio italiano, ma attribuiti in piena
proprietà alla Santa Sede, essi sono esenti da tributi ordinari e straordinari verso lo Stato e
verso qualunque altro ente pubblico.
Tale esenzione attualmente riguarda il pagamento dell’IRES, dell’ILOR (imposta locale sui
redditi), dell’INVIM e dell’ICI.
Sia per gli enti della Chiesa cattolica sia per le persone giuridiche delle altre confessioni
religiose, relativamente agli aspetti tributari, i fini di culto sono equiparati ai fini di beneficenza
e di istruzione.
L’agevolazione spetta soltanto agli enti di cui sia stata riconosciuta la personalità giuridica
civile e consiste nella riduzione a metà dell’IRES.
Relativamente agli enti cattolici, avventisti ed ebraici, l’agevolazione è stata estesa anche agli
enti di tali confessioni che non siano stati riconosciuti come persone giuridiche dallo Stato ed
agli enti che sono riconosciuti come persone giuridiche, ma non sono qualificabili come enti
confessionali.
La L. 449/ 1984, con riguardo agli enti delle Chiese valdesi e metodiste, prevede che le attività
di istruzione e beneficenza di tali enti sono soggetti alle leggi dello Stato riguardanti le stesse
attività svolte da enti non ecclesiastici.
Dunque, se lo Stato agevola sotto il profilo tributario tali attività, gli enti in questione risentono
di tale beneficio.
Ai fini IRES, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e gli enti di tutte le confessioni
religiose riconosciuti come persone giuridiche, rientrano nella categoria degli enti non
commerciali.
I proprietari di immobili destinati all’esercizio del culto sono esentati dal pagamento
dell’IRPEF e dell’INVIM, a condizione che gli immobili stessi non siano oggetto di locazione
e purché l’attività culturale sia compatibile con le disposizioni degli artt. 8 e 19 Cost.
Infine, gli enti confessionali sono esentati dal pagamento dell’INVIM decennale
sull’incremento di valore degli immobili destinati all’esercizio delle attività istituzionali.
Per quegli immobili invece che non sono destinati alle attività istituzionali, si prevede una
riduzione del 50% dell’INVIM decennale.

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G li enti con un fine prevalente di religione e di culto, anche se privi di personalità giuridica,
nello svolgimento delle attività religiose godono del regime tributario riservato agli enti non
commerciali e alle ONLUS.
Inoltre, sono esentati dal pagamento dell’imposta sulle successioni e donazioni i trasferimenti
effettuati a favore di fondazioni ed associazioni legalmente riconosciute che abbiano come
scopo esclusivo l’assistenza, lo studio, la ricerca scientifica, e altre finalità di pubblica utilità.
Tali fondazioni ed associazioni sono poi esentati dal corrispondere l’INVIM in caso di
acquisto di immobili per successione o donazione, purché entro 5 anni dal trasferimento, l’ente
documenti di aver destinato i beni agli scopi anzidetti.
Tale esenzione spetta anche agli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni nei cui
confronti la legge ha equiparato i fini di religione o di culto ai fini di beneficenza e di
istruzione.
Norme specifiche riguardano le associazioni religiose cattoliche, contrassegnate dalla vita in
comune, le quali pur avendo un fine essenziale costitutivo di religione o di culto, sono libere di
svolgere anche altre attività, comprendenti la cessione di beni e di servizi.
Quando tali associazioni svolgono attività commerciale vera e propria, è consentita la facoltà
di operare una deduzione ai fini della determinazione del reddito d’impresa, per ciascuno dei
propri membri che presti opera continuativa nelle attività commerciali svolte dall’ente.
Ogni ente ecclesiastico confessionale che svolga attività per le quali sia prescritta dalle leggi
tributarie la tenuta di scritture contabili, deve osservare le norme che disciplinano tali scritture.

Il progressivo aumento delle organizzazioni dedite all’assistenza sociale ha dato luogo ad un


interessamento del legislatore che si è manifestato nella L. 266/ 1991 sul volontariato.
Inoltre, il D.lgs. 460/ 1997 ha riordinato la disciplina tributaria degli non commerciali e delle
ONLUS (organizzazioni non lucrative di utilità sociale).
Sono considerate ONLUS:
­ G li enti ecclesiastici delle confessioni religiose che abbiano concluso accordi, patti o
intese con lo Stato.
Da sottolineare che tale statuizione sembra di dubbia conformità con gli artt. 8 I
comma e 19 Cost., in quanto agevola l’esercizio di un aspetto della libertà religiosa
soltanto ad una parte delle confessioni religiose esistenti in Italia, escludendo le altre.
­ Le associazioni di promozione sociale previste tra gli enti assistenziali a carattere
nazionale che gestiscano mense o spacci, le cui finalità assistenziali sono riconosciute
dal Ministero dell’Interno.
Alle ONLUS si applicano una serie di agevolazioni (ai fini delle imposte sui redditi, di registro
e di IVA) e di esenzioni (imposte di bollo, di successione e donazione, di ICI, ecc.).
Ai fini tributaria, per qualificare un ente come ONLUS si considera il segmento di attività in
cui esso opera. Inoltre, per beneficiare di agevolazioni ed esenzioni, gli enti interessati devono
iscriversi all’anagrafe unica delle ONLUS, istituita presso il Ministero dell’economica e delle
finanze.

11­ Enti confessionali e l’impresa sociale.


Il D.lgs. 155/ 2006 ha introdotto in Italia l’impresa sociale, ossia un’organizzazione privata
senza scopo di lucro che esercita in via stabile e principale un’attività economica di produzione
o di scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse
generale.
Essa realizza il principio costituzionale della sussidiarietà, in quanto attribuisce alle persone
ed alle associazioni una specifica potestà di definire quali siano i fini di interesse generale e di
perseguirli.
La qualità di imprenditore è attribuita a colui che gestisce una impresa dotata delle
caratteristiche della professionalità, organizzazione e natura economica dell’attività e che

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agisce con metodo economico, ossia che tende alla potenziale equiparazione tra costi e ricavi.
La disciplina dell’impresa sociale è applicabile anche agli delle confessioni religiose con le
quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese e che svolgano le medesime attività, a
condizione che per tali attività adottino un regolamento in forma di scrittura privata
autenticata che recepisca le norme del decreto in materia. Inoltre, per tali attività le scritture
contabili devono essere tenute separatamente.

Capitolo 10: Ministri di culto e religiosi nel diritto italiano

1­ Rilevanza civile delle qualifiche confessionali


In certi casi, l’ordinamento italiano attribuisce rilevanza giuridica alla qualifica di “ministro di
culto”, “ecclesiastico”, “religioso” ecc. Tale rilevanza è attribuita da disposizioni di legge:
­ Dettate unilateralmente dallo Stato per esigenze della comunità civile.
Ad es., quando si prevedono situazioni di incompatibilità tra una di queste qualifiche
ed alcuni uffici pubblici; oppure quando si indica la qualifica confessionale come
elemento di una figura di reato.
­ Derivanti dall’esecuzione di accordi con le confessioni religiose.
Ad es., le norme volte ad agevolare lo svolgimento delle funzioni confessionali di tali
soggetti o renderle efficaci nei confronti dello Stato.
La qualifica civilistica di ecclesiastico corrisponde a quella canonistica di clericus, quando con
tale qualifica si intende espressamente ricomprendere tutte le categorie degli appartenenti al
clero (sacerdoti e diaconi).
Invece, essa si riferisce soltanto agli appartenenti al clero cattolico che abbiano raggiunto il
presbiterato o il più alto grado di sacerdozio quando si fa generico riferimento allo stato di
ecclesiastico.
Per il diritto italiano sono “chierici” i diaconi, in quanto con il diaconato si entra nello stato
clericale; sono “ecclesiastici” i presbiteri ed i vescovi.
Invece, non sono rilevanti i gradi che precedono il diaconato, ossia il lettorato e l’accolitato, in
quanto anche nel diritto canonico tali qualifiche non importano l’appartenenza allo stato
clericale; tuttavia ha rilevanza l’essere studente di teologia o degli ultimi due anni di
propedeutica alla teologia oppure l’essere novizio di un’associazione religiosa.
Il nostro ordinamento poi detta norme che riguardano i religiosi che abbiano preso i voti in un
istituto di vita consacrata o in una società di vita apostolica ed i novizi di tali associazioni.
Inoltre, assumono rilevanza anche alcune qualifiche attribuite a determinati soggetti dagli
statuti delle confessioni di minoranza che abbiano stipulato Intese con lo Stato.
Ad es., è rilevante la qualifica di missionario avventista riguardante l’Unione delle Chiese
avventiste.

2­ Qualifica civilistica di ministro di culto


Una qualifica civilistica omnicomprensiva è quella di “ministro di culto”, riferita a quanti, in
seno a qualsivoglia confessione religiosa, siano investiti di una potestà di magistero sui fedeli.
Un’altra espressione civilistica è quella di “ministro di culto avente giurisdizione o cura
d’anime”. Di tratta di espressioni con diverso significato:
­ I ministri di culto sono sacerdoti e vescovi della Chiesa cattolica, i rabbini delle
Comunità israelitiche, ed anche i pastori delle Chiese riformate.
Al riguardo, con riferimento alle confessioni di minoranza è necessario distinguere tra:
 Ministri di culto appartenenti a confessioni religiose che abbiano stipulato
Intese con lo Stato. In questo caso, per il diritto dello Stato sono “ministri di
culto”:
o Quelli delle Chiese valdesi e metodiste iscritti nei ruoli della Tavola

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Valdese.
o Quelli nominati dalle Chiese avventiste e certificati come tali dall’Unione
di dette Comunità.
o Quelli nominati dalle Comunità ebraiche e dall’Unione di dette
Comunità e certificati come tali dall’Unione.
o Quelli delle Chiese battiste il cui nominativo sia stato comunicato
all’autorità governativa.
 Ministri di culto appartenenti a confessioni disciplinate dalla L. 1159/ 1929. In
questo caso, per la qualifica di “ministro di culto” non sempre basta la nomina
da parte della confessione religiosa.
Infatti, quando tale soggetto debba compiere atti del suo ministero diretti a
produrre effetti civili, occorre che la nomina sia stata approvata dal Ministero
dell’Interno.
Soltanto dopo tale approvazione egli è ministro di culto pleno iure per il diritto
dello Stato.
­ I ministri di culto con giurisdizione o cura d’anime sono soltanto una parte dei
sacerdoti della Chiesa cattolica, ossia vescovi, parroci e pochi altri ministri di essa.
Infatti, nel nostro ordinamento il riconoscimento della giurisdizione in materia
ecclesiastica è effettuato in riferimento alla Chiesa cattolica.
Essa viene attribuita ai vescovi diocesani ed ai titolari di altri uffici specificamente
indicati, sotto la cui autorità i parroci esercitano la cura pastorale, ossia la cura d’anime
(esercitano cura d’anime anche i vicari parrocchiali, i vicari foranei ed i cappellani).

3­ La cessazione della qualifica confessionali


Tali qualifiche assumono rilevanza nel diritto dello Stato per l’applicazione delle norme che le
riguardano. Quando cessano le funzioni annesse alle qualifiche confessionali, cessano di aver
vigore anche quelle norme.
In passato, questo principio è stato posto in dubbio per i ministri del culto cattolico, in quanto
alcune norme del Concordato del 1929 sembravano riconoscere il carattere indelebile
dell’ordine sacro, nel senso che coloro che abbandonavano volontariamente il sacerdozio
perdevano le prerogative ed i diritti a questo connessi, ma ne conservavano i doveri, subendo
sanzioni per l’abbandono.
Questa tesi è ormai insostenibile a seguito dell’abrogazione di tali norme concordatarie da
parte dell’Accordo 18 febbraio 1984.

4­ Rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari circa ecclesiastici e religiosi.


Per quanto riguarda la rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari circa ecclesiastici e
religiosi, l’art. 23 del Trattato del Laterano afferma che “Per l’esecuzione nel Regno delle
sentenze emanate dai tribunali della Città del Vaticano si applicheranno le norme del diritto
internazionale.
Avranno invece senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia le
sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche ed ufficialmente comunicati alle
autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali o
disciplinari”.
Il II comma dell’art. 23 del Trattato Laterano applica il principio della libertà di governo delle
confessioni religiose.
Dunque, vi è difetto della giurisdizione civile in tali materie ed il giudice dello Stato non può
annullare il provvedimento del vescovo con cui un parroco sia stato rimosso dall’ufficio o
trasferito.
Tale disposizione ha il suo precedente nell’art. 17 L. 214/ 1871 sulle guarentigie pontificie, il

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quale escludeva sia ogni appello contro gli atti dell’autorità ecclesiastica, sia l’esecuzione
coatta degli stessi.
Tuttavia, erano rimessi alla cognizione del giudice statale gli effetti civili di tali provvedimenti,
la cui efficacia era comunque esclusa se contrari alle leggi dello Stato, all’ordine pubblico o ai
diritti dei privati e sarebbero stati soggetti alla legge penale se avessero costituito reato.
L’art. 23 del Trattato è stato inteso come se prevedesse un difetto di giurisdizione del giudice
statuale più ampio di quello della legge sulle guarentigie, escludendo qualsiasi ingerenza
statuale.
Tuttavia, si tratta di una tesi eccessiva, in quanto il giudice dello Stato ha sempre ed in ogni
caso giurisdizione sia su ipotetici atti che costituissero reato; sia su atti che comportano un
danno con le caratteristiche previste dall’art. 2043 c.c.
Tuttavia, affinché vi sia danno risarcibile occorre la lesione di un diritto garantito
dall’ordinamento statuale.
Il rapporto che lega il soggetto dotato di una qualifica confessionale all’autorità superiore
dell’ordinamento della Chiesa è disciplinato dal diritto canonico.
Tuttavia, sotto il profilo economico la posizione degli ecclesiastici e dei religiosi rientra
nell’ambito dell’ordinamento civile.
Infatti, la remunerazione dovuta ai sacerdoti è un vero e proprio diritto che, ai fini fiscali, è
equiparata al reddito da lavoro dipendente.
Dunque, una variazione in peius del rapporto canonistico senza l’osservanza delle norme del
diritto della Chiesa sarà rilevante anche per l’ordinamento dello statuale.
In questi casi la giurisdizione del giudice statuale sussiste in conformità con l’art. 24 Cost., il
quale precisa che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi
legittimi”.
Tali ragioni hanno indotto lo Stato e la Santa Sede a precisare che, senza pregiudizio per
l’ordinamento canonico (ossia senza che l’autorità statuale possa modificare o annullare i
provvedimenti dell’autorità ecclesiastica) l’art. 23 II comma del Trattato del Laterano deve
essere interpretato nel senso che gli effetti civili delle sentenze e dei provvedimenti emanati
dall’autorità ecclesiastica devono essere intesi in armonia con i diritti costituzionalmente
garantiti ai cittadini italiani.
Il primo luogo deve essere garantito il diritto di difesa, dunque l’eventuale rimozione dalla
funzione svolta dall’ecclesiastico o dal religioso deve avvenire in forza di un giusto
procedimento.
In secondo luogo, deve essere garantito il diritto alla retribuzione. Tuttavia, tale diritto può
essere oggetto di rinunzia, posto che il religioso può svolgere una attività lavorativa
adempiendo un voto di povertà ed in vista di vantaggi morali, spirituali o religiosi.
In questi casi il rapporto associativo con l’organizzazione confessionale garantisce il
mantenimento di tale soggetto. Quando tale rapporto associativo viene meno, il religioso ha la
possibilità di ottenere, non il pagamento a titolo di arretrati, ma una indennità di fine rapporto.

5­ Esenzione dal servizio militare.


Il Concordato del 1929 prevedeva l’esenzione automatica dal servizio militare dei sacerdoti e
religiosi che avessero emesso voti.
L’Accordo 18 febbraio 1984 prevede invece che sacerdoti, diaconi e religiosi che hanno emesso
voti hanno la facoltà di ottenere, a loro richiesta, l’esonero da tale servizio e l’assegnazione al
servizio civile sostitutivo.
Dunque, l’esenzione non è più automatica ma a domanda.
Si prevede quindi un esercizio dell’obiezione di coscienza in forma più ampia rispetto a quella
consentita ai giovani di leva che non siano chierici o religiosi, in quanto quella dei primi si
presume assolutamente sincera.
Inoltre, per quanto riguarda la mobilitazione generale di tutti gli idonei al servizio militare,

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gli ecclesiastici con cura d’anime non possono essere obbligati a rispondere alla chiamata,
quelli non assegnati a tale cura presteranno il servizio esercitando il ministero religioso tra le
truppe o lavorando nei servizi sanitari.
G li studenti di teologia e quelli degli ultimi 2 anni di propedeutica alla teologia sono parificati
agli studenti delle università italiane al fine del rinvio del servizio militare.

5.1­ i ministri di culto di minoranza e il servizio militare.


Per quanto riguarda la posizione dei ministri di culto delle confessioni di minoranza rispetto
al servizio militare, essa varia in base Intese approvate con lo Stato.
Le Intese con Valdesi, metodisti, A.D.I. e Luterani prevedono che i ministri di culto di tali
confessioni che prestino servizio militare siano posti in condizione di poter svolgere,
unitamente agli obblighi inerenti al servizio militare, anche il loro ministero nei confronti dei
militari che lo richiedano.
Per quanto riguarda gli avventisti, essendo essi contrari all’uso delle armi, hanno diritto ad
essere esonerati dal servizio militare a loro richiesta e di essere assegnati al servizio civile
sostitutivo.
In caso di mobilitazione generale, possono essere esentati soltanto i ministri di culto con cura
della anime, mentre i ministri che non svolgono tale attività saranno destinati al servizio civile
sostitutivo o ai servizi sanitari.
I ministri di culto delle Comunità ebraiche sono esonerati dal servizio militare, a loro
domanda.
In caso di mobilitazione generale è dispensato dalla chiamata alle armi soltanto chi svolge
funzioni di Rabbino Capo.

6­ Il segreto d’ufficio degli enti ecclesiastici.


L’art. 4 dell’Accordo 18 febbraio 1984 prevede il segreto d’ufficio degli ecclesiastici,
affermando che gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altre autorità civili
informazioni su persone o materie cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro
ministero.
Ciò vale anche per rabbini, i ministri di culto luterani e tutti i ministri delle confessioni
religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano a norma dell’art. 200
cod. proc. pen.
La violazione della norma comporta l’inutilizzabilità della prova raccolta in ogni stato e grado
del procedimento.
Il codice di procedura penale del 1930 tutelava in segreto d’ufficio dei ministri della religione
cattolica o di un culto “ammesso” nello Stato. Tale disposizione era di pronta applicazione in
quanto rimetteva alla discrezionalità del Ministero dell’Interno l’ammissione o meno della
confessione.
Invece, il nuovo riferimento agli statuti delle confessioni religiose che non contrastano con
l’ordinamento giuridico è chiaramente più problematico in quanto comporta che il giudice
deve accertare con approfondite indagini tale conformità, situazione che va contro l’esigenza
di celerità dei processi.
Oggetto della tutela del segreto d’ufficio non è soltanto ciò che i ministri di culto hanno
appreso durante la confessione (tale disposizione si riferisce esclusivamente ai ministri del
culto cattolico), ma anche tutto ciò che essi hanno appreso nella loro veste di ministri di culto.
Invece non è garantito dal segreto ciò che tali soggetti abbiano appreso al di fuori della
funzione, in qualità di cittadini comuni.
Il ministro di culto ha la facoltà di astenersi dal testimoniare su ciò che, senza costituire
segreto, abbia appreso a causa del suo ufficio; invece ha l’obbligo di astenersi dal testimoniare
su ciò che abbia appreso in via riservata.
Nel caso in cui l’ecclesiastico riveli senza giusta causa un segreto appreso nell’esercizio del suo

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ufficio, oppure impiega tale segreto a profitto proprio o di altri e dal fatto può derivare
nocumento è punito con la reclusione fino a 1 anno o con una multa, a norma dell’art. 622 c.p.

7­ Trattamenti degli stipendi e previdenza sociale degli ecclesiastici.


G li stipendi con cui sono retribuiti i ministri di culto della Chiesa cattolica e delle altre
confessioni religiose sono impignorabili secondo quanto previsto dall’art. 545 cod. proc. civ.,
in quanto somme dovute a titolo di stipendio o di salario o a un titolo analogo a quello
alimentare.
Da sottolineare che il termine “stipendio” utilizzato per la retribuzione dei ministri di culto è
soltanto metaforico, in quanto non è un compenso derivante dallo svolgimento di un rapporto
di lavoro subordinato, ma un assegno di tipo alimentare corrisposto a chi dedica il proprio
tempo ad una missione salvifica.
Tali somme sono considerate ai fini fiscali redditi di lavoro dipendente. Dunque, esse sono
gravate dall’IRPEF. Opera le ritenute l’Istituto centrale di Previdenza sociale, in qualità si
sostituto d’imposta.
Anche gli stipendi corrisposti dall’Unione delle Chiese avventiste, dalle A.D.I., dall’UCEBI e
dalla Chiesa luterana ai propri ministri sono equiparati al reddito da lavoro dipendente.
Tutti i sacerdoti secolari sono obbligati all’iscrizione presso il Fondo di previdenza del clero e
dei ministri di culto delle altre confessioni religiose, con il correlativo versamento dei
contributi.
I sacerdoti cattolici ed i ministri di culto delle altre confessioni religiose che svolgano ulteriori
attività lavorative, sono soggetti all’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità e la
vecchiaia. Tale pensione è cumulabile con quella a carico del Fondo di previdenza per il clero,
ma questa è ridotta di 1/ 3.
Il diritto alla pensione di vecchiaia a carico di detto Fondo matura con il 65° anno d’età, in
presenza di almeno 10 anni di iscrizione al Fondo, ma l’iscritto può differire la domanda di
pensione, continuando i versamenti, in modo da ottenere in seguito un trattamento
pensionistico più elevato.
Norme particolari disciplinano il caso in cui il Ministro di culto perda il titolo per l’iscrizione
al Fondo come, ad es., nel caso del sacerdote cattolico ridotto allo stato laicale. A questo
spetta la pensione di invalidità.
Per quanto riguarda la pensione di vecchiaia, se nel momento in cui perde il titolo per
l’iscrizione, l’interessato non abbia già raggiunto l’età pensionabile, può conservare l’iscrizione
al Fondo, in modo da poter conseguire la pensione con il versamento di contributi volontari.
Allo stesso modo, i sacerdoti cattolici ed i ministri delle altre confessioni religiose sono soggetti
al pagamento dei contributi per l’assicurazione contro le malattie.

8­ Le incompatibilità per i ministri di culto.


L’ordinamento italiano prevede una serie di incompatibilità per i ministri di culto in generale,
e qualche volta anche per i religiosi. In taluni casi, queste incompatibilità riguardano soltanto
gli ecclesiastici con cura d’anime.
Per la legge sul riordinamento dei giudizi della Corte d’Assise non possono assumere l’ufficio
di giudice popolare i ministri di qualsiasi culto e i religiosi di ogni ordine e congregazione;
inoltre, gli ecclesiastici ed i ministri di culto sono esclusi dalla nomina all’ufficio di giudice
onorario aggregato.
Infatti, tali qualificazioni confessionali potrebbe influenzare i requisiti di indipendenza e di
imparzialità che caratterizzano l’ufficio di giudice popolare o onorario aggregato.
La qualità di ministro di culto è incompatibile con l’ufficio di sindaco, al fine di evitare che il
capo dell’amministrazione comunale, che è anche ufficiale di governo, possa essere soggetto
ad autorità estranee all’ordinamento dello Stato.

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Altri uffici pubblici incompatibili con la qualifica di ministro di culto sono quelli di notaio, in
quanto il ministro di culto potrebbe influire sulla volontà del testatore inducendolo a favorire
enti confessionali; e di esattore delle imposta, in quanto si vuole evitare che l’esattore possa
essere oggetto di pressioni estranee allo svolgimento della sua attività.
Inoltre, il ministro di culto non può svolgere le funzioni di avvocato o di procuratore legale.
Poi, specifiche incompatibilità riguardano soltanto gli ecclesiastici con giurisdizione e cura
d’anime.
Essi non sono eleggibili a consiglieri comunali o provinciali, in quanto potrebbero esercitare
pressioni sugli elettori per ottenerne il voto.
In materia elettorale, non vi è invece incompatibilità per i ministri di culto quanto all’elezione
al Parlamento o a consigliere regionale, in quanto la maggior ampiezza dei collegi elettorali
esclude la rilevanza di eventuali pressioni.

9­ La capacità dei religiosi nel diritto dello Stato.


Nel diritto canonico, i religiosi appartenenti agli istituti di vita consacrata entrano a far parte
dell’associazione pronunciando i voti previsti dai rispettivi statuti, in particolare i voti di
castità, povertà ed obbedienza.
Tali voti comportano gli obblighi del celibato; il trasferimento all’istituto dell’amministrazione
dei beni che il religioso abbia al momento della professione dei voti e di quelli che acquisterà
successivamente; la totale sottomissione alla volontà dei superiori.
Le incapacità previste dal diritto canonico derivanti dai voti di castità e di povertà, non sono
rilevanti nel diritto dello Stato.
Il religioso professo di voti pubblici perpetui può celebrare matrimonio civile, riconoscere figli
naturali, acquistare beni a titolo gratuito o a titolo oneroso, in modo del tutto valido per il
diritto civile.
Tali atti in contrasto con i voti possono essere sanzionati dal diritto canonico, ma senza alcun
effetto sulla loro validità nel diritto dello Stato.
Nonostante il voto pubblico perpetuo di povertà, nel diritto dello Stato non si verificano quei
trasferimenti automatici di beni a favore dell’ente che sono previsti dal diritto canonico.
Dunque, il religioso che vuole consentire all’Istituto di acquistare i beni a lui pervenuti,
dovrebbe compiere atti idonei, a norma del diritto dello Stato, per il trasferimento dei beni
stessi.
Il voto di obbedienza, nell’ordinamento civile, non implica la totale soggezione del religioso
alla volontà dei superiori, ma soltanto un’obbedienza nei limiti del legalmente dovuto.

10­Il lavoro e la previdenza dei religiosi nel diritto dello Stato.


Tutte le volte che gli enti ecclesiastici svolgono attività diverse da quella di religione o di culto,
devono conformarsi alle leggi dello Stato riguardanti tali attività ed al regime tributario
previsto per le stesse.
Ad es., se l’ente svolge un’attività per la quale occorre che gli addetti siano iscritti agli albi
professionali, sarà necessario che i religiosi si conformino a tali norme.
È controverso se il rapporto tra l’associazione ed il religioso sia configurabile come rapporto di
lavoro subordinato. In caso di esisto positivo, una volta rotto il rapporto di appartenenza con
l’associazione, l’ex religioso avrà diritto a rivendicare il pagamento delle retribuzione a lui non
corrisposte.
Tuttavia, tale tesi non può essere accolta, in quanto l’ente ha l’obbligo di mantenere il
religioso; ed il religioso lavora per un fine di perfezione spirituale.
In realtà, tale rapporto giuridico non ha le caratteristiche delineate dall’art. 2094 c.c.
(Prestatore di lavoro subordinato). Infatti, il religioso non aderisce all’istituto o alla società di
vita apostolica per collaborare nell’impresa, ma per fare parte di una formazione sociale nella

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quale si possa meglio svolgere la sua personalità.
La medesima situazione si verifica nel il caso in cui l’associazione stipula convenzioni con
terzi (ad es., ASL o sanitari privati) affinché i religiosi lavorino presso di loro.
Infatti, in questo caso gli obblighi contributivi gravano sui terzi, ma è l’ente ecclesiastico a
percepire le retribuzioni che dovrebbero essere corrisposte ai religiosi impiegati e ad assegnare
al servizio i singoli appartenenti.
Correlativamente, quando il religioso commetta errori per i quali l’organizzazione che si
avvale dei suoi servizi sia tenuta a risarcire il danno, questa avrà diritto di regresso non nei
confronti del religioso, me nei confronti dell’Istituto al quale egli appartiene e che lo ha
destinato al servizio esterno.
Diverso è il caso in cui sia cessato il rapporto di appartenenza del religioso all’associazione.
In questo caso, essendo venuto meno il fine di perfezionamento spirituale dell’attività svolta
dal religioso, le prestazioni dell’ex religioso non possono essere considerate in modo diverso
dalle comuni prestazioni lavorative.
Ciò non consente di ottenere il pagamento delle retribuzioni per il periodo in cui vigeva il
rapporto associativo, essendo state per allora legittimamente rinunziate, ma consente di
ottenere il pagamento delle indennità di fine rapporto.
Da sottolineare che quando il religioso opera presso terzi, opera sotto la direzione e la
responsabilità delle organizzazioni convenzionali alle quali è assegnato. Dunque, il servizio
affidato ad essi non è appaltato all’associazione cui appartengono, né le associazioni religiose
assumono la veste di appaltatore o di intermediario di mere prestazioni di lavoro, posto che
l’unico obbligo che incombe su di esse è quello del mantenimento del religioso.
Ne deriva che non è configurabile un’ipotesi di intermediazione nelle prestazioni di lavoro.
Diverso è il caso in cui i religiosi siano assunti direttamente da una persona giuridica civile,
pubblica o privata.
In questo caso, si crea un vero e proprio rapporto di lavoro fra la detta persona giuridica ed i
religiosi assunti, del tutto disciplinato dalle comuni norme civilistiche e previdenziali.
Infine, dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto che nel caso in cui il religioso che presti
attività lavorativa presso terzi, muoia o resti invalido a causa di un’azione colposa o dolosa
ascrivibile alla responsabilità di terzi, l’ente di appartenenza del religioso avrà diritto al
risarcimento del danno, in quanto il religioso reca un incremento economico alla comunità a
cui appartiene.

11­I ministri di culto nel diritto penale.


Varie norme penalistiche considerano la qualità di ministro di culto.
L’art. 61 c.p. considerata come circostanza aggravante comune l’aver commesso il reato con
abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti, fra l’altro, anche alla qualità di ministro
di culto; oppure l’aver commesso il fatto contro una persona rivestita della qualità di ministro
di culto.
Costituiscono autonome ipotesi di reato il vilipendio di un ministro di culto, volto ad
offendere la confessione di appartenenza; ed il turbamento di funzioni, cerimonie o pratiche
religiose presiedute da un ministro di culto.
Inoltre, commettono reato i ministri di culto che nell’esercizio delle loro funzioni eccitano al
dispregio delle istituzioni o all’inosservanza delle leggi o delle autorità, oppure facciano
apologia di fatti contrari a tali valori. È sufficiente il dolo generico.
Il Protocollo addizionale n. 2 all’Accordo del 1984 assicura che l’autorità giudiziaria darà
comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio dei procedimenti penali
promossi a carico dei ecclesiastici.
Il codice penale del 1988 ha disposto la segretezza dell’iscrizione del nome della persona cui il
reato è stato attribuito nel registro delle notizie di reato.
Inoltre, ha disposto che il soggetto indagato assume la qualifica di imputato soltanto quando,

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chiuse le indagini preliminari, il P.M. chieda al giudice il rinvio a giudizio della persona.
È possibile derogare a tale disposizione e fare in modo che l’autorità ecclesiastica abbia
tempestiva notizia di quanto accade ad un ecclesiastico, attraverso una apposita richiesta
dell’ecclesiastico stesso inviata al P.M. al momento dell’iscrizione del suo nome nel registro
delle notizie di reato.

11.1­ abusi dei ministri di culto.


Diverso è il caso dei c.d. abusi dei ministri di culto in materia elettorale.
Nelle norme anteriori al 1946, era previsto il caso dei pubblici ufficiali che, abusando delle
loro funzioni, si adoperassero per influenzare le scelte degli elettori in materia elettorale.
Il ministro di culto commetteva il reato in questione quando, nell’esercizio delle sue funzioni,
ossia nel corso di discorsi in luoghi destinati al culto o in riunioni di carattere religioso,
compiva tali azioni con promesse o minacce spirituali o inducesse gli elettori a firmare
dichiarazioni di candidature o di liste di candidati. Per l’esistenza del reato bastava il dolo
generico.
Successivamente al 1946, la previsione normativa è stata modificata nel senso che il ministro
commetteva il reato in questione quando, al pari del pubblico ufficiale, abusava delle proprie
attribuzioni e nell’esercizio di esse.
Oggi, come in relazione alle norme successive al 1946, per l’esistenza del reato occorre che il
ministro di culto agisca abusando delle proprie attribuzioni.
Qualcuno ha ritenuto che l’abuso da parte del ministro di culto esiste soltanto quando egli
agisce in contrasto con le direttive dei suoi superiori.
Tuttavia, tale tesi è priva di ogni ragionevolezza.
In realtà, tale disposizione sembra essere interpretabile secondo quanto disposto dalla norma
precedente al 1946, ossia nel senso che l’elettore deve essere libero di scegliere chi votare ed è
inammissibile una pressione su di lui, compresa quella del ministro di culto, affinché voti in un
modo, piuttosto che in un altro.
Al riguardo, è necessario sottolineare che si tratta di una disposizione inapplicabile, posto che
sarebbe coinvolta la libertà della confessione religiosa nel decidere cosa la Chiesa possa o non
possa prospettare ai fedeli nell’esercizio del suo magistero.
Dunque, le ragioni della libertà sono prevalse su un giurisdizionalismo incompatibile con la
Costituzione.

11.2­ l’uso abusivo dell’abito ecclesiastico.


L’art. 498 c.p. (Usurpazioni di titoli o oneri) prevede come reato il fatto di indossare
abusivamente in pubblico l’abito ecclesiastico, al fine di evitare l’inganno nei confronti di
terzi.
È abusivo l’uso dell’abito ecclesiastico da parte di chi non abbia ricevuto ordinazione
sacerdotale, ma anche da parte di quel sacerdote che sia stato ridotto allo stato laicale
dall’autorità ecclesiastica.

12­La nomina agli uffici ecclesiastici nel diritto dello Stato.


In passato aveva grande importanza per lo Stato la nomina dei titolari di uffici ecclesiastici
con cura d’anime.
Dunque, la Legge sulle guarentigie pontificie del 1871 nonostante fosse di ispirazione
separatista conservò il placet governativo sulle nomine dei vescovi e dei parroci e, in genere, di
tutti gli uffici ecclesiastici, eccetto quelli della diocesi di Roma e delle sedi suburbicarie (ossia le
diocesi del Lazio “sotto” la città di Roma).
Il Concordato del 1929 riconosceva all’Italia la c.d. clausola politica per le nomine dei vescovi
e dei coadiutori con diritti di successione, in occasione delle quali, avrebbe comunicato il nome

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del prescelto al G overno, per assicurarsi che non vi fossero ragioni di carattere politico
contrarie alla nomina.
Una volta nominati, i vescovi dovevano prestare un giuramento di fedeltà davanti al Capo
dello Stato.
Inoltre, esso prevedeva il controllo governativo sulla nomina dei parroci, alla quale il G overno
si poteva opporre per gravi ragioni; oppure poteva sollevare la questione della loro rimozione
dall’ufficio per gravi ragioni sopravvenute.
Queste norme sono state abrogate dall’Accordo del 18 febbraio 1984, il quale prevede che la
nomina dei titolari degli uffici ecclesiastici sia effettuata liberamente dall’autorità
ecclesiastica.
L’accordo prevede che l’autorità della Chiesa comunichi alle competenti autorità civili tutte le
nomine ecclesiastiche che siano rilevanti per l’ordinamento dello Stato.
Lo Stato ha ora soltanto il diritto di conoscere le persone che siano chiamate a ricoprire gli
uffici indicati.
Nel nuovo Accordo è stata mantenuta la norma già prevista dal Concordato del 1929, secondo
cui per gli anzidetti uffici ecclesiastici, salvo che per la diocesi di Roma e per le diocesi
suburbicarie, saranno nominati soltanto ecclesiastici che siano cittadini italiani.
L’esenzione da questa regola degli uffici di Roma e sedi suburbicarie è dovuta al fatto che, in
tale porzione del territorio nazionale, il carattere di centro della cattolicità prevale su quello
della collocazione territoriale.

Capitolo 11: L’istruzione religiosa

1­ Stato, scuola e religione nell’esperienza italiana.


Al momento dell’unificazione italiana, era assicurata la libertà di ogni cittadino di istituire
scuole secondarie ed anche la libertà di istituite e gestire scuole da parte delle associazioni
religiose, in base alle leggi che disciplinavano la creazione e la gestione di scuole private.

2­ L’istituzione di scuole confessionali.


L’Accordo del 1984 garantisce il diritto della Chiesa cattolica di fondare scuole di ogni ordine
e grado ed istituti di educazione, ai quali è assicurata piena libertà.
G li alunni di tali scuole ricevono un trattamento scolastico equivalente a quello degli alunni
delle scuole pubbliche, anche per quanto riguarda l’esame di Stato.
Quanto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, varie leggi emanate sulla base di Intese
riconoscono a queste il diritto di istituire scuole di ogni ordine e grado ed istituti di
educazione, ai quali è assicurata piena libertà.
G li alunni di tali scuole ricevono un trattamento scolastico equivalente a quello degli alunni
delle scuole pubbliche, anche per quanto riguarda l’esame di Stato.
La “piena libertà” assicurata alle scuole non statali (cattoliche e non) comporta l’esclusione di
qualsiasi intervento nelle autorità scolastiche italiane circa l’organizzazione degli studi, le
discipline insegnate, la nomina degli insegnante, ecc.
Ovviamente, la libertà di cui godono queste scuole non le esenta dal rispetto delle norme che
riguardano aspetti della vita sociale diversi da quelli scolastici, ad es., la conformità degli
edifici destinati all’uso della scuola. In questo caso, l’intervento delle pubbliche autorità è
ammesso.
Sono definite scuole paritarie abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale, le
istituzioni scolastiche che fanno richiesta della parità e corrispondono agli ordinamenti
generali dell’istruzione, in coerenza con la domanda formativa delle famiglie degli alunni e
presentino determinati requisiti di qualità ed efficacia (ad es., devono iscrivere tutti gli studenti
che ne facciano richiesta; gli insegnanti devono essere forniti di un titolo di studio valido per
l’insegnamento; ecc.).

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Le norme per la parità scolastica fra scuole pubbliche statali e scuole non statali, comprese
quelle di ispirazione confessionale, hanno portato all’indiretto finanziamento pubblico delle
scuole paritarie (ad es., mediante assegnazione di borse di studio di pari importo).

3­ Lo stato giuridico degli insegnanti


Il rapporto di impiego degli insegnanti delle scuole confessionali presuppone che i docenti
rispettino l’indirizzo religioso della scuola e tengano comportamenti non contrastanti con i
principi etici da essi proposti.
Le volte in cui tale contrasto si è verificato, la giurisprudenza ha ritenuto che il licenziamento
del docente fosse assistito da una giusta causa.
Infatti, gli insegnanti sono considerati dei punti di riferimento per la formazione dei giovani e,
quindi, non possono permettersi comportamenti in contrasto con i principi professati dalla
confessione religiosa della scuola in cui insegnano.

4­ G li istituti per lo studio delle discipline ecclesiastiche.


Un aspetto della libertas Ecclesiae consiste nel fatto che alla Chiesa è riconosciuto il diritto a
creare e gestire Università degli Studi, volte a promuovere una più alta cultura ed un più pieno
apprezzamento della persona umana.
Inoltre, essa ha il diritto di istituire Università e Facoltà ecclesiastiche per lo studio delle
scienze sacre o con queste connesse e di istruire gli studenti in tali discipline scientifiche.
Le scuole in cui si forma il clero cattolico sono i seminari, i quali costituiscono l’unica sede per
la formazione teologica dei sacerdoti.
Tali istituti sono enti per i quali il fine costitutivo ed essenziale di religiose o di culto è presunto
iuris et de iure.

5­ L’università cattolica del Sacro Cuore.


In relazione a tale libertà, l’Accordo del 1984 prevede che le nomine dei docenti
dell’Università cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti istituti sono subordinate, sotto il
profilo religioso, al gradimento della competente autorità ecclesiastica.
Inoltre, il corpus iuris canonici prevede che se successivamente alla nomina il docente perde i
requisiti di integrità dottrinale e probità di vita richiesti, potrà essere rimosso dall’incarico.
La stessa Corte Costituzionale ha ritenuto che escludere il potere di revoca all’autorità
ecclesiastica sarebbe stato in contrasto con la libertà di una Università ideologicamente
qualificata. Dunque, la revoca è considerata legittima.
Qualche autore ritiene che manchi un collegamento tra la norma concordataria, la quale
considera la personalità del docente sotto il profilo religioso; e quella del corpus iuris canonici, la
quale considera la persona del docente sotto l’aspetto morale.
Tuttavia, tale tesi viene criticata, in quanto una valutazione dell’etica religiosa non può
prescindere dall’esame della morale.

6­ Riconoscimento delle lauree ecclesiastiche.


L’Accordo 1984 prevede il riconoscimento dei titoli accademici in teologia e nelle altre
discipline ecclesiastiche conferite dalle Facoltà approvate dalla Santa Sede (mentre il
Concordato del 1929 riconosceva soltanto le lauree in teologia).
Ai fini del riconoscimento dei titoli, devono sussistere 3 requisiti:
­ Devono essere stati conseguiti presso una facoltà approvata dalla Santa Sede.
­ La durata dei corsi di studio è stata uguale a quella prevista dall’ordinamento italiano

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per i titoli di pari livello.
­ L’interessato ha superato gli esami previsti.
L’Intesa con la Tavola valdese riconosce anche le lauree ed i diplomi in teologia rilasciati
dalla Facoltà valdese di teologia.
Ugualmente, le Intese con la Chiesa avventista, le A.D .I. e le Comunità ebraiche
riconoscono i titoli di studio rilasciati dagli Istituti di istruzione di tali confessioni.
Il riconoscimento delle lauree in teologia rilasciate dalle Università pontificie e dalle Università
delle altre confessioni religiose possono valere per l’immatricolazione degli studenti nei corsi di
laurea o di diploma delle Università statali.
Per il riconoscimento di titoli di studio esteri, possono valere anche le lauree rilasciate dalle
Università pontificie diverse da quelle in teologia, purché il curriculum dello studente offra
garanzie di serietà analoghe a quelle di un corso universitario curato dallo Stato e sia svolto
sotto la guida di docenti di una qualche notorietà.

7­ L’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche.


Per quanto riguarda l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, la legge Casati del
1859 ne prevedeva l’obbligatorietà, con facoltà per i non cattolici di ottenere la dispensa.
Tali disposizioni normative furono però invertite dalla prassi, nella quale era diventato
facoltativo l’insegnamento della religione, da impartire a chi ne facesse esplicita richiesta.
Caduta la Destra storica, tale tendenza si concretizzò in quelle norme di legge che eliminarono
dalla scuola pubblica ogni residuo di confessionismo, sopprimendo l’insegnamento della
religione delle scuole.
Tuttavia, ciò era in contrasto con la Legge Casati, le cui disposizioni non erano state
formalmente abrogate.
Per superare tale difficoltà, successive disposizioni regolamentari resero l’insegnamento della
religione cattolica facoltativo.
Il Concordato del 1929 prevedeva l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole
elementari e nelle scuole medie, in quanto lo Stato considerava fondamento e coronamento
dell’istruzione pubblica l’insegnamento della religione cristiana secondo la forma ricevuta dalla
tradizione cattolica.
Tale previsione era fondata sul principio della religione di Stato ed era interesse dello Stato
valorizzare la religione cattolica come elemento dell’unità spirituale della nazione.
Attualmente, l’Accordo 1984 afferma che lo Stato, riconoscendo il valore della cultura
religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del
popolo italiano, garantisce l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non
universitarie di ogni ordine e grado.
Tale nuova previsione trova la sua ratio nell’interesse dello Stato ad agevolare i cattolici nella
coltivazione dei valori espressi dalla loro confessione religiosa, al fine realizzare il diritto di
libertà religiosa dei cattolici ad avere nella scuola pubblica l’insegnamento della propria
religione.
Questa interpretazione del diritto di libertà non è condivisa dalle confessioni religiose di
minoranza. Ad es., la Tavola valdese ritiene che l’educazione religiosa sia di competenza delle
famiglie e delle Chiese, dunque ha rinunciato a chiedere allo Stato di svolgere nelle scuole
pubbliche l’insegnamento religioso.
Con successive Intese con lo Stato, le Chiese cristiane e le Comunità ebraiche hanno ottenuto
diritti analoghi in relazione allo studio di tali confessioni.

7.1 – l’organizzazione dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche.


Per quanto riguarda i problemi relativi all’organizzazione dell’insegnamento della religione
cattolica, il Protocollo Addizionale n.5 all’Accordo del 1984 stabilisce che l’insegnamento
religioso da impartire nella scuola pubblica, nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni,

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è quello conforme alla dottrina della Chiesa cattolica e che tale insegnamento è affidato ad
insegnanti riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati d’intesa con questa dalle
competenti autorità scolastiche.
Inoltre, esso rimette la determinazione dei programmi, l’organizzazione dell’insegnamento ed i
criteri per la scelta dei libri di testo, ad una Intesa fra le competenti autorità italiane e la CEI.
Tali intese sono quella del 14 dicembre 1985 e del 13 giugno 1990, rese esecutive con due
Decreti del Presidente della Repubblica.
L’adozione di una fonte regolamentare, quale è il Decreto del Presidente della Repubblica, ha
suscitato dubbi di legittimità, in quanto l’art. 97 I comma Cost. (buon andamento della P.A.)
prevede una riserva di legge relativa riguardo all’organizzazione dei pubblici uffici.
Tuttavia, tali dubbi appaiono infondati, in quanto il regolamento disciplina aspetti di un
sistema scolastico già organizzato con legge.

7.2­ la facoltà di scelta.


Molto importante risulta essere l’esercizio della facoltà di scelta di avvalersi o meno
dell’insegnamento della religione cattolica.
La scelta va effettuata all’atto dell’iscrizione ed è efficace per tutto l’anno scolastico cui si
riferisce.
La legge riconosce agli studenti della scuola media superiore di esercitare personalmente la
scelta se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica.
Ciò denota come in materia di libertà religiosa si consentano determinate facoltà ancor prima
della maggiore età.
La discriminazione che potrebbe derivare dalla scelta deve essere evitata in ogni modo, anche
in rapporto alla formazione delle classi, alla durata dell’orario scolastico giornaliero e alla
collocazione dell’insegnamento della religione nel quadro orario delle lezioni.
La questione dell’esercizio della facoltà di scelta riguardo all’insegnamento della religione
cattolica, in quanto tocca un aspetto della libertà di coscienza, ha dato luogo a controversie.
In giurisprudenza è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale della norma
secondo cui la Repubblica italiana garantisce l’insegnamento della religione cattolica nelle
scuole pubbliche non universitarie e della norma che rimanda ad una successiva Intesa fra
competenti autorità scolastiche e CEI per l’organizzazione dell’insegnamento della religione
cattolica per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale, avendo
interpretato le norme nel senso che quanti decidono di non avvalersi dell’insegnamento della
religione cattolica non hanno l’obbligo di optare per attività scolastiche alternative.
Infatti, secondo la Corte la previsione di un altro insegnamento obbligatorio, potrebbe
influenzare la scelta non rendendola libera.
La giurisprudenza ordinaria ha poi affrontato un ulteriore problema, domandosi se veniva lesa
la posizione di chi fosse costretto a rimanere a scuola quando decideva di non avvalersi
dell’insegnamento della religione cattolica, posto che questo era stato collocato all’interno
dell’orario ordinario di lezione.
Il giudice ordinario sollevò nuovamente la questione di legittimità costituzionale, ritenendo
che tali norme non soltanto fossero in contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost., ma anche con l’art.
97 Cost., in quanto il sistema introdotto avrebbe compromesso anche il buon andamento
dell’amministrazione scolastica.
La Corte costituzionale si espresse sul punto dichiarando infondata la questione di legittimità
costituzionale in quanto la collocazione dell’insegnamento della religione cattolica
nell’ordinario orario di lezione non violava l’art. 2 Cost., essendo impartita con modalità
compatibili con le altre discipline. Inoltre, si prevedeva che lo stato di non obbligo riguardo
all’insegnamento della religione poteva comprendere anche la scelta di allontanarsi o
assentarsi dalla scuola.

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7.3 – la qualificazione dei docenti.
L’insegnamento della religione deve essere svolto da docenti particolarmente qualificati.
A parte la qualificazione professionale, gli insegnanti devono dare garanzia di seguire i principi
della Chiesa e devono dunque essere in possesso dell’idoneità loro riconosciuta dall’ordinario
diocesano; tale idoneità può essere anche revocata.
Prima della L. 186/ 2003 che ha innovato la materia, gli insegnati venivano nominati
annualmente dall’autorità scolastica, su proposta dell’ordinario diocesano delle persone
ritenute idonee e in possesso dei titoli richiesti.
Oggi l’attuale Intesa prevede una collaborazione fra i Ministro della pubblica istruzione e la
CEI per l’aggiornamento professionale degli insegnanti di religione ed eventuali forme di
collaborazione fra le regioni e le conferenze episcopali regionali e fra gli enti locali e gli ordini
diocesani per l’aggiornamento degli insegnamenti dipendenti di tali enti.
In passato, la Corte Costituzionale ha negato ogni ipotesi di illegittimità costituzionale delle
norme precedenti al 2003, nonostante ponessero gli insegnanti in una posizione di precariato.
In ogni caso, la L. 186/ 2003 ha modificato la condizione degli insegnanti di religione
cattolica.
In particolare, essa ha istituito 2 distinti ruoli regionali del personale docente di religione,
articolati per ambiti territoriali coincidenti con le diocesi e corrispondenti ai cicli scolastici
previsti dall’ordinamento.
A tali insegnanti si applicano le norme di stato giuridico ed il trattamento economico previsto
dal T.U. in materia di istruzione e dalla contrattazione collettiva.
L’accesso ai ruoli avviene previo superamento di concorso per titoli ed esami.
Supera la posizione di precarietà in precedenza riconosciuta a tali insegnati, il fatto che se
l’insegnante di religione cattolica ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato e gli sia
stata revocata l’idoneità, può fruire della mobilità professionale nel comparto del personale
della scuola.

8­ L’insegnamento della religione nelle regioni di confine.


Nelle regioni di confine (Trentino­Alto Adige e Friuli­Venezia G iulia) dopo il 1929 è rimasto
in vigore il precedente ordinamento scolastico, secondo il quale l’insegnamento della religione
cattolica nelle scuole elementari e secondarie era obbligatorio, salvo dispensa amministrativa.
Inoltre, se nella scuola vi fossero almeno 20 alunni di religione non cattolica, era consentito
organizzare l’insegnamento di questa ulteriore religione per tali alunni.
L’ordinamento scolastico della provincia di Bolzano prevede che l’insegnamento della
religione è ricompreso nel programma educativo della scuola nelle scuole elementari e
secondarie. L’insegnamento è previsto per almeno un’ora settimanale.
Esso non si discosta da quello previsto dall’Accordo per la generalità del territorio dello Stato.
La principale differenza consiste nel fatto che il regime altoatesino prevede che l’insegnamento
continua ad essere obbligatorio, salvo rinuncia degli interessati, mentre nel resto del territorio
nazionale alunni e/ o genitori hanno facoltà di scelta.
Sia la rinuncia che la dispensa garantiscono la libertà di coscienza degli interessati e ciò
esclude qualsiasi contrasto con le norme costituzionali.
Invece, il regime dell’ordinamento scolastico in provincia di Trento prevede l’applicazione nel
Trentino del sistema di scelta vigente nella maggioranza delle scuole italiane ma vengono
richiamate le tradizioni locali circa l’insegnamento della religione.
Il sistema particolare vigente nelle religioni di confine è garantito dalla Costituzione ed è
conforme ad essa in quanto la rinunzia, come la dispensa, garantisce la libertà religiosa.

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Capitolo 12: Il matrimonio

1­ Il matrimonio civile e il matrimonio canonico.


Prima dell’unità d’Italia, il matrimonio canonico era obbligatorio ed era disciplinato dal
diritto canonico in base alla regola tridentina, secondo la quale la competenza a celebrare il
matrimonio dei battezzati spettava alla Chiesa.
I sudditi di religione diversa dalla cattolica non avevano lo ius connubii e potevano soltanto
formare famiglie di fatto.
Dopo l’unità d’Italia fu introdotto il matrimonio civile obbligatorio (nel senso che la legge
non riconosceva altra modalità di formazione del rapporto di rapporto di coniugio).
Tale sistema comportava che coloro che volevano celebrare nozze valide sia per lo Stato, sia
per la Chiesa, dovevano effettuare una doppia celebrazione: davanti all’ufficiale dello Stato
civile e in facie Ecclesiae.
Con il Concordato del 1929 il matrimonio canonico diviene rilevante agli effetti civili, purché
trascritto nei registri dello stato civile.
Le cause di nullità del matrimonio erano riservate alla giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici,
le cui sentenze erano rilevanti nel diritto dello Stato.
Inoltre, erano rilevanti le dispense sul matrimonio rato (valido) e non consumato.

2­ Il matrimonio concordatario e la sua crisi.


In particolare, il Concordato Lateranense affermava che lo Stato riconosceva al sacramento del
matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili e che le cause riguardanti la
nullità e la dispensa erano riservate alla competenza dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici.
Con tali previsioni, il diritto italiano apportava una deroga all’uguaglianza giuridica dei
cittadini in materia di stato civile.
Infatti, il principio della rilevanza della legge confessionale era stato introdotto soltanto a
favore dei cattolici.
Secondo tale disciplina, chi era coniuge a norma del diritto canonico lo era anche per il diritto
dello Stato. Il vincolo coniugale sorgeva con il matrimonio religioso e cessava quando il
vincolo fosse dichiarato nullo dalla Chiesa.
Così era stato creato fra l’ordinamento civile e quello canonico un regime di unione
imperfetta, nella quale l’imperfezione consisteva nel fatto che il diritto dello Stato non
riconosceva effetti civili al matrimonio canonico in pochi casi e che dei casi di divorzio previsti
dalla Chiesa riconosceva effetti soltanto alla dispensa “super rato”.
Tale sistema entrò in crisi a seguito dell’adozione della Costituzione repubblicana.

3­ La competenza dello stato sul matrimonio concordatario.


Dunque, secondo gli Accordi del 1929 mentre la Chiesa era competente a disciplinare la
validità del matrimonio ed a dichiararne l’eventuale nullità; lo Stato era competente a
disciplinare l’attribuzione degli effetti civili al negozio canonico, attraverso la trascrizione del
matrimonio, atto di sua competenza.
Infatti, la trascrizione non poteva avvenire in alcuni casi previsti dalla legge e poteva essere
anche dichiarata nulla quando fossero stati trascurati impedimenti civili.
I singoli che per unirsi nel vincolo coniugale optavano per il matrimonio concordatario,
compivano un autonomo atto di scelta del tutto disciplinato dal diritto dello Stato, finalizzato
alla produzione degli effetti civili del matrimonio canonico.
G li effetti civili del matrimonio devono essere voluti da persona maggiorenne, capace di
intendere e di volere.
Infatti, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge
matrimoniale del 1929 nella parte in cui non prevedeva la minore età degli sposi o di uno di

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essi fra gli impedimenti alla trascrizione civile del matrimonio canonico.
Inoltre, l’atto di scelta non è soltanto un procedimento intellettivo che rimane nella testa degli
sposi, ma un atto volitivo, in quanto coincide con l’atto di iniziativa del procedimento di
trascrizione.
Tale atto di iniziativa nel nostro caso coincide nella trascrizione tempestiva, con la richiesta
della pubblicazione effettuata dalle parti, insieme al parroco; e nella trascrizione tardiva, con
la richiesta delle parti all’ufficiale dello stato civile per ottenere la trascrizione.
In entrambi i casi esistono specifici atti giuridici suscettibili di un giudizio di validità da parte
del giudice civile.
Nel 1971 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del riconoscimento delle dispense
pontificie del matrimonio rato e non consumato e del procedimento di esecuzione delle
sentenze di nullità ecclesiastiche, in quanto per come erano state interpretate non consentivano
alla Corte di Appello di controllare se nel processo canonico fosse stato rispettato il diritto di
difesa delle parti e se la sentenza ecclesiastica fosse in contrasto con i principi dell’ordine
pubblico.
Per tale ragione il regime degli effetti civili del matrimonio canonico e delle sentenze
ecclesiastiche di nullità matrimoniale è passato dal sistema dell’unione imperfetta, alla fine
dell’uniformità. Dunque, il valido ed efficace matrimonio canonico poteva essere
improduttivo di effetti civili e viceversa.

4­ La revisione delle norme sul matrimonio concordatario.


La materia è stata revisionata dall’Accordo 18 febbraio 1984 e dal suo Protocollo addizionale
n.4.

5­ Il matrimonio canonico nel nuovo accordo della volontà degli effetti civili
L’art. 8 I comma afferma che “Sono riconosciuti effetti civili ai matrimoni contratti secondo le
norme del diritto canonico, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato
civile, previe pubblicazioni nella casa comunale”.
L’espressione “matrimoni contratti” in luogo del precedente “matrimoni celebrati” sottolinea
il fatto che il riconoscimento dello Stato riguarda il matrimonio canonico come atto negoziale
disciplinato interamente dal diritto canonico per quanto riguarda la validità; ma gli effetti
civili di tale negozio sono subordinati alla trascrizione nei registri dello stato civile. Infatti,
senza la trascrizione il vincolo rimane un rapporto puramente religioso.
I nubendi infatti nel celebrare il matrimonio canonico manifestano una volontà negoziale
necessaria ma non sufficiente per ottenere lo status coniugale civile, il quale può essere
conseguito soltanto quando sia stato da loro compiuto l’atto finalizzato alla trascrizione.

6­ La pubblicazione civile e la rimozione degli impedimenti civili.


La pubblicazione richiesta per la trascrizione deve essere eseguita con le stesse modalità
previste dalla legge per la pubblicazione che precede il matrimonio civile.
Eventualmente, il tribunale può autorizzare la riduzione del termine di durata della
pubblicazione o la sua omissione.
Ai fini della pubblicazione, all’ufficiale dello stato civile le parti devono dichiarare le loro
generalità (nome, cognome, cittadinanza, ecc.); rendere le dichiarazioni necessarie ad
escludere l’insussistenza degli impedimenti di parentela, affinità, adozione e affiliazione.
Inoltre, esse devono presentare una richiesta scritta al parroco, affinché l’ufficiale dello stato
civile sappia che quella pubblicazione è correlata alla trascrizione di un matrimonio canonico e
non alla celebrazione del matrimonio civile.
In passato, una circolare del 1930 del Ministero della G iustizia stabiliva che in presenza di un
impedimento dispensabile secondo le leggi civili del tempo, per procedere alla pubblicazione

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non sarebbe stato necessario che le parti ottenessero la dispensa dalla competente autorità dello
Stato, essendo sufficiente che il parroco attestasse l’avvenuta dispensa dal parallelo
impedimento canonico.
Tale circolare era di dubbia legittimità poiché attribuiva efficacia civile a dispense
ecclesiastiche non previste dalle norme d’origine concordataria.
Nel nuovo sistema, nel caso di impedimenti inderogabili previsti dalla legge civile, la
trascrizione non può mai aver luogo.
Nel caso della sussistenza di impedimenti derogabili, l’ufficiale dello stato civile può procedere
alla pubblicazione soltanto quando le parti abbiano ottenuto l’autorizzazione del tribunale.
In mancanza di tale autorizzazione, le parti non sono legittimate a chiedere la pubblicazione
civile.
Effettuata la pubblicazione e trascorsi 3 giorni, non sussistendo impedimenti o opposizioni alla
trascrizione, l’ufficiale dello stato civile rilascia alle parti un certificato attestante che “nulla
osta alla trascrizione civile”.
Invece, in presenza di impedimenti o di opposizioni, l’ufficiale dello stato civile sospende la
pubblicazione o il rilascio del certificato e comunica la situazione al parroco.
Tale certificato assicura alle parti che il matrimonio canonico sarà trascritto tempestivamente
anche se, dopo il rilascio stesso, sia emersa l’esistenza di un impedimento civile non derogato
o non derogabile.
In quest’ultimo caso, l’ufficiale dello stato civile è tenuto ad informare il Procuratore della
Repubblica, affinché provveda, se del caso, ad impugnare la trascrizione.
Il vantaggio per le parti rappresentato dall’avvenuta trascrizione in tali ipotesi, anche quando
la trascrizione stessa fosse annullata, consiste nel possibile godimento degli effetti del
matrimonio putativo.

7­ G li impedimenti civili di competenza del ministro di culto.


Ai fini della trascrizione civile, occorre che subito dopo la celebrazione il parroco spieghi ai
contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile
riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi (artt. 143, 144 e 147 c.c.) e rediga l’atto di matrimonio
in doppio originale, nel quale potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite
secondo la legge civile.
Tali adempimenti devono essere effettuati subito dopo la celebrazione canonica del
matrimonio, ossia senza soluzione di continuità con tale negozio.
Non è perciò ipotizzabile che gli adempimenti stessi possano aver luogo a distanza di tempo
dalla celebrazione matrimoniale e ad opera di persona diversa la ministro di culto che abbia
assistito ad essa.
La norma attribuisce al ministro di culto che compie gli adempimenti richiesti per la
trascrizione la qualità di pubblico ufficiale.
Infatti, quando egli redige l’atto di matrimonio in doppio originale e ne trasmette uno
all’ufficiale dello stato civile con la richiesta di trascrizione attesta, sino a querela di falso,
l’avvenuta celebrazione di un matrimonio canonico seguito dagli adempimenti richiesti per la
trascrizione civile.
Affinché l’atto di matrimonio sia regolare, occorre che venga trasmesso in originale e contenga
le indicazioni sulle generalità delle parti e dei rispettivi genitori, la data della pubblicazione, il
luogo e la data della celebrazione del matrimonio, il nome dell’ufficiale ecclesiastico che vi ha
assistito e la menzione dell’avvenuta lettura degli articoli del codice civile.

8­ La trasmissione e la trascrizione del matrimonio.


Il parroco del luogo in cui il matrimonio è stato celebrato richiede la trascrizione, trasmettendo
l’atto di matrimonio entro 5 giorni dalla celebrazione.
Se sussistono tutti i requisiti per la trascrizione, l’ufficiale dello stato civile cura la trascrizione

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stessa entro le 24 ore dal ricevimento dell’atto.
Anche se quest’ultimo termine non sia rispettato, il matrimonio una volta trascritto produce
effetti civili dal momento della celebrazione.
La trasmissione dell’atto di matrimonio da parte del parroco è un atto giuridico appartenente
al genere delle notificazioni.
La trascrizione del matrimonio canonico effettuata dall’ufficiale dello stato civile è un atto
giuridico del genere delle certazioni, ossia un atto che vale a qualificare il matrimonio
canonico, preceduto e accompagnato dal compimento degli adempimenti civilistici, come
idoneo a produrre nel diritto dello Stato gli stessi effetti del matrimonio civile.

9­ La trascrizione tempestiva.
Nell’Accordo 18 febbraio 1984 è possibile individuare due tipi di trascrizione:
­ La trascrizione tempestiva.
Essa ha luogo quando il parroco trasmette l’atto di matrimonio entro 5 giorni dalla
celebrazione e l’ufficiale dello stato civile, riscontrando regolare l’atto, essendo stata
previamente effettuata la pubblicazione civile ed avendo rilasciato il certificato che
nulla osta agli effetti civili del matrimonio canonico, trascrive l’atto nelle 24 ore dalla
sua ricezione.
Dunque, ai fini della trascrizione è indispensabile che le parti, prima di celebrare il
matrimonio canonico, effettuino la pubblicazione civile.
Da sottolineare che l’art. 13 della L. 847/ 1929 prevedeva la possibilità di una
trascrizione tempestiva ritardata, consentendo la trascrizione anche quando non vi
fosse stata la pubblicazione civile, purché l’autorità ecclesiastica avesse trasmesso l’atto
entro 5 giorni dalla celebrazione del matrimonio.
In questo caso, la trascrizione poteva aver luogo dopo che l’ufficiale dello stato civile
aveva effettuato la pubblicazione dell’avviso del matrimonio celebrato e non vi erano
state opposizioni, né erano risultati impedimenti.
Tuttavia, tale disposizione non è più prevista nell’Accordo del 1984. Del resto,
ammettere quella possibilità sarebbe in contrasto con il principio secondo cui il
matrimonio trascritto produce effetti civili dal momento della celebrazione, il quale
presuppone che la pubblicazione civile sia stata richiesta prima della celebrazione del
matrimonio.
­ La trascrizione tardiva.
Essa consente che il matrimonio canonico produca effetti anche se la richiesta della
trascrizione non sia stata effettuata dal parroco entro i 5 giorni dalla celebrazione.
A tal fine occorre che le parti abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal
momento della celebrazione del matrimonio canonico a quello della richiesta della
trascrizione.
Inoltre, poiché l’acquisto dello status coniugale civile è un diritto individuale
personalissimo, la trascrizione tardiva può essere effettuata soltanto a richiesta di
entrambe le parti o di una sola di esse, ma con la conoscenza e senza l’opposizione
dell’altra parte.
Dunque, non è ammissibile la trascrizione dopo la morte di una delle parti, a meno che
questo evento non sopravvenga dopo la richiesta di trascrizione e l’ufficiale dello stato
civile abbia già acquisito agli atti il consenso di entrambe; né un consenso a futura
memoria o in un testamento, in quanto in materia di stato coniugale la legge non
attribuisce effetti alle dichiarazioni fatte ora per allora.
La trascrizione tardiva serve a recuperare gli effetti civili del matrimonio canonico,
anche a notevole distanza di tempo.
A tal fine occorre che le parti compiano l’atto di iniziativa del procedimento di
trascrizione, manifestando all’ufficiale dello stato civile la volontà di acquistare lo stato

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coniugale civile attraverso la trascrizione del matrimonio canonico.
Anzi, occorre che le parti tornino a manifestare tale volontà, in quanto la trascrizione
tardiva serve, a rigore, per recuperare gli effetti civili di un matrimonio canonico che ad
origine era destinato alla trascrizione, poi non avvenuta per ragioni di caso fortuito o di
forza maggiore.
Chiaramente la trascrizione tardiva, non può servire a far produrre effetti civili ad un
matrimonio la cui efficacia le parti intendevano limitare soltanto all’ambito religioso.
Dunque, anche nel caso della trascrizione tardiva occorrerebbe che le parti prima della
celebrazione avessero curato la pubblicazione civile, che dovrà essere ripetuta in
occasione della richiesta della trascrizione tardiva, in quanto la pubblicazione
matrimoniale perde efficacia trascorsi i 180 giorni successivi al suo compimento.
L’unica eccezione alla necessità della previa pubblicazione sembra essere quella della
trascrizione tardiva del matrimonio dei minori, i quali non è pensabile, di regola, che
abbiano potuto domandare la pubblicazione senza essere stati ammessi al matrimonio a
norma dell’art. 84 c.c.
La trascrizione tardiva dovrebbe servire al recupero degli effetti civili del matrimonio
quando, effettuata regolarmente la pubblicazione civile e celebrate le nozze in facie
Ecclesiae, la trascrizione non sia seguita per cause fortuite o di forza maggiore.
Tuttavia, il legislatore e la prassi sembrano avviati sulla diversa via di consentire la
trascrizione tardiva anche quando, all’epoca della celebrazione del matrimonio, non
fosse stata richiesta la pubblicazione civile.
La trascrizione tardiva produce effetti dal momento della celebrazione, ma lascia
impregiudicati i diritti legittimamente quesiti dai terzi prima della trascrizione e in
contrasto con lo stato coniugale delle parti.
“Terzo” rispetto al matrimonio, è chiunque non sia parte del rapporto coniugale, ossia
ogni persona diversa dai coniugi.
Perciò, la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che sia terzo anche l’erede di una
delle due parti.
Tuttavia i diritti del terzo, per essere fatti salvi, devono essere stati acquistati in buona
fede.
Tale previsione è di dubbia correttezza, in quanto non si vede come possa essere
considerato in mala fede il terzo, quando la parte con cui ha trattato o da cui deriva i
suoi diritti risultava di stato libero dagli atti dello stato civile.
Tale disposizione probabilmente è una risposta alla norma secondo cui, eseguita la
trascrizione, i terzi avrebbero il diritto di ripetere, salvi gli effetti della prescrizione, le
prestazioni eseguite a favore delle parti, sul presupposto che fossero di libero stato.

10­G li impedimenti civili alla trascrizione.


Per quanto riguarda gli impedimenti civili alla trascrizione del matrimonio, esso non può
avere luogo quando gli sposi non abbiano l’età matrimoniale richiesta dalla legge dello Stato o
quando sussistano impedimenti considerati inderogabili.
Tuttavia, la trascrizione può aver luogo quando l’azione per far valere l’impedimento non è
più proponibile.
Costituiscono impedimenti civili alla trascrizione del matrimonio:
­ Il matrimonio dei minori.
In questo caso, la trascrizione può essere effettuata tempestivamente quando gli stessi siano
stati preventivamente autorizzati alle nozze dal competente tribunale dello Stato, dopo aver
accertato la loro maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte.
In mancanza di tale autorizzazione il matrimonio non è trascrivibile tempestivamente, ma
soltanto dopo che sia trascorso il termine per l’impugnazione del matrimonio civile dei minori
non autorizzato. Dunque, occorre che i minori abbiano raggiunto la maggiore età e sia

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trascorso ancora un anno da tale momento.
Tali matrimoni, con la trascrizione tardiva, acquistano effetto dal momento della celebrazione.
­ Il precedente matrimonio civile, o comunque avente effetti civili, da cui siano già
legate le parti.
Esso impedisce la trascrizione del matrimonio canonico, in quanto sarebbe un’inammissibile
bis in idem, il quale fra l’altro, farebbe sorgere problemi intorno al regime di validità del negozio
matrimoniale e alla decorrenza dei suoi effetti.
Quando sia una delle parti ad essere legata con terzi da matrimonio civile, la trascrizione è
inammissibile, in quanto lo stato libero è un requisito fondamentale e non derogabile per
contrarre matrimonio (art. 86 c.c.).
Ma se tale precedente matrimonio sia dichiarato nullo o sia stato annullato, il matrimonio
canonico potrebbe essere trascritto (ex art. 124 c.c.).
La trascrizione invece sarebbe inammissibile se il precedente matrimonio sia stato sciolto per
divorzio pronunziato con sentenza passata in giudicato successivamente alla celebrazione del
matrimonio canonico.
­ L’interdizione per infermità di mente.
Essa esclude la trascrizione del matrimonio, in quanto chi si trova in tale situazione non può
contrarre matrimonio né può compiere alcun negozio giuridicamente valido.
Se l’istanza di interdizione è stata soltanto promossa, il pubblico ministero può richiedere che
la semplice sospensione della trascrizione del matrimonio, fino a quando non passi in
giudicato la sentenza che si pronuncia su tale istanza.
Il matrimonio civile celebrato dall’interdetto per infermità di mente è annullabile.
Tuttavia, non può essere impugnato ma anzi viene ammessa la trascrizione tardiva se i coniugi
hanno coabitato 1 anno dopo la revoca dell’interdizione.
­ L’adozione speciale e l’affinità.
L’ adozione speciale esclude la trascrizione in quanto tale rapporto è parificato dalla legge al
rapporto di filiazione legittima e dà luogo agli impedimenti inderogabili previsti dall’art. 87 c.c.
Anche l’affinità in linea retta dà luogo a un impedimento inderogabile.
Quando il matrimonio da cui deriva il rapporto di affinità sia stato dichiarato nullo, le parti
possono ottenere dal tribunale l’autorizzazione al matrimonio, possono effettuare la
pubblicazione per la trascrizione tempestiva del matrimonio canonico e chiedere la
trascrizione tardiva di tale vincolo.
­ Il delitto.
L’impedimento da delitto ha luogo tra persone delle quali l’una sia stata condannata per
omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra.
Tale impedimento non nasce dal fatto delittuoso ma dalla sentenza di condanna.
Dunque, quando viene ordinata la cattura dell’imputato o si verifica rinvio a giudizio, la
trascrizione del matrimonio viene sospesa e potrà aver luogo soltanto se sia pronunciata
sentenza di proscioglimento.
G li impedimenti in affinità in linea retta e da delitto sono ascrivibili all’ordine pubblico c.d.
internazionale.

11­Matrimoni canonici non previsti dall’accordo.


Il matrimonio canonico non può essere trascritto, oltre che in presenza degli impedimenti
riguardanti la situazione delle parti, quando la richiesta di trascrizione non riguardi un
matrimonio celebrato in conformità all’Accordo del 18 febbraio 1984.
Ciò avviene o perché il matrimonio è stato celebrato in una delle forme speciali previste dal
diritto della Chiesa o perché sia stato contratto fuori dal territorio nazionale.

12­Il matrimonio segreto.


Il diritto canonico disciplina forme speciali di celebrazione, che non sempre consentono di

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qualificare il vincolo religioso come matrimonio avente effetti civili.
La prima di tali forme speciali è il matrimonio segreto o di coscienza, consentito dall’autorità
ecclesiastica quando sussistono gravi ed urgenti ragioni che sconsigliano alle parti di rendere
nota la celebrazione.
In tal caso il matrimonio è celebrato avanti al parroco e a due testimoni ed è documentato non
negli ordinari registri parrocchiali, ma in un registro conservato nell’archivio segreto del
vescovo.
Non è ammessa trascrizione del matrimonio agli effetti civili né tempestiva, né tardiva. Essa
avverrà in un’epoca futura, indeterminata ed incerta.
Dal matrimonio segreto bisogna distinguere il caso del matrimonio canonico celebrato nella
forma ordinaria, ma non trascritto tempestivamente agli effetti civili per un accordo delle parti
con l’autorità ecclesiastica.
Di solito questo accantonamento degli effetti civili del matrimonio canonico è richiesto dagli
interessati quando uno dei nubendi con la trascrizione del matrimonio nei registri dello stato
civile, perderebbe un vantaggio economico.
In tale ipotesi, il matrimonio potrebbe essere trascritto tardivamente a richiesta delle parti.

13­Matrimonio celebrato in periculo mortis.


È incerto se sia trascrivibile il matrimonio canonico celebrato in imminente pericolo per la vita
di una delle parti (c.d. in periculo mortis), in presenza del parroco.
In ogni caso è incompatibile con tale forma speciale di celebrazione l’effettuazione della
trascrizione tempestiva.
Per quanto riguarda la trascrizione tardiva, si ritiene possa essere ammessa soltanto in
presenza del consenso delle parti e quando la celebrazione è stata accompagnata dagli
adempimenti civilistici normativamente previsti (ad es., lettura degli articoli del codice civile e
redazione dell’atto di matrimonio in doppio originale).

14­Matrimonio celebrato solo alla presenza di testimoni.


Invece, è del tutto non trascrivibile il matrimonio canonico celebrato davanti ai soli
testimoni.
La legge del 1929 consentiva soltanto la trascrizione del matrimonio celebrato avanti al
ministro del culto cattolico.
Anche il nuovo Accordo prevede che gli adempimenti civilistici siano effettuati dal parroco o
da un suo delegato subito dopo la celebrazione del matrimonio canonico. Dunque, anch’esso
presuppone che alla celebrazione abbia assistito il ministro del culto.

15­Matrimonio canonico celebrato all’estero.


Il procedimento previsto dall’Accordo 1984 per la formazione del matrimonio canonico avente
effetti civili è attuabile soltanto nel territorio nazionale italiano.
I matrimoni canonici celebrati all’estero non sono trascrivibili in Italia, né producono effetti
civili, né possano essere trascritti all’estero dai consoli italiani, i quali sono ufficiali dello Stato
civile ma sono privi di tale abilitazione.
Tuttavia, il matrimonio canonico celebrato all’estero può assumere rilevanza nell’ordinamento
dello Stato sulla base delle norme di diritto internazionale privato, secondo le quali fuori dal
territorio dello Stato, il matrimonio fra cittadini o fra cittadini e stranieri può essere compiuto
davanti alla competente autorità diplomatica o consolare, oppure con le forme stabilite dalla
legge del luogo, davanti all’autorità competente.
Dunque, se la legge del Paese straniero riconosce il matrimonio canonico come forma valida
per la costituzione del rapporto coniugale, tale matrimonio sarà rilevante anche nel nostro
ordinamento.
Da sottolineare che in questo caso il matrimonio rileva in qualità di matrimonio celebrato

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all’estero (non in qualità di matrimonio canonico), in quanto esso ha rilevanza secondo le
norme di diritto internazionale privato (non secondo le norme concordatarie).
La sua trascrizione nei registri dello Stato civile non ha la natura giuridica di certazione, che
invece ha la trascrizione prevista dalle norme concordatarie, ma il carattere meramente
probatorio proprio dell’atto di matrimonio civile.
Al riguardo, alle volte la giurisprudenza ha seguito tesi compositiva, secondo cui il
matrimonio canonico celebrato all’estero in un Paese che riconosce tale celebrazione come
valida agli effetti civili è automaticamente efficace in Italia, in quanto matrimonio civile, a
norma delle disposizioni di diritto internazionale privato.
Quando invece il diritto straniero non riconosca efficacia civile alla celebrazione religiosa, il
matrimonio canonico potrebbe essere riconosciuto secondo le norme concordatarie.
Tuttavia, la seconda parte di questa tesi è priva di fondamento.
Essa afferma che le norme concordatarie, oltre ad essere ultra­territoriali, consentirebbero al
cittadino italiano di scegliere ovunque fra il matrimonio civile ed il matrimonio canonico con
effetti civili.
Invece, secondo il diritto positivo le facoltà riconosciute dalla legge al cittadino che operi fuori
dalla potestà di G overno della Repubblica, sono soltanto quelle risultanti in modo esplicito
dalle norme di diritto internazionale privato.

16­Il matrimonio degli stranieri in italia.


Anche gli stranieri possono celebrare in Italia un matrimonio canonico destinato a produrre
effetti civili a seguito della trascrizione.
Si tratta sia del caso del matrimonio fra due stranieri, sia del caso in cui il vincolo venga
celebrato fra uno straniero e un cittadino italiano.
Ai fini della trascrizione civile, la capacità dello straniero ammesso a celebrare dalla Chiesa il
matrimonio canonico è disciplinata dalla legge nazionale. Inoltre, nei confronti dello straniero
valgono in ogni caso gli impedimenti di interdizione per infermità di mente, di libertà di stato,
parentela in linea retta e in linea collaterale in secondo grado, affinità in linea retta, delitto e
lutto vedovile.

17­Matrimonio per procura.


Il matrimonio canonico celebrato per procura è trascrivibile quando ricorrono 2 circostanze
(art. 111 c.c.):
­ Si tratta di militari o persone al seguito delle forze armate, per ragioni di servizio, in
tempo di guerra.
­ Uno degli sposi si trova all’estero e ricorrono gravi motivi.
Al fine della trascrizione, non basta la procura canonica ma occorre, nel caso in cui uno degli
sposi si trovi all’estero, che sia rilasciata la procura per atto pubblico e che le parti abbiano
ottenuto l’autorizzazione del tribunale chiamato a valutare la sussistenza dei gravi motivi.

18­La giurisdizione sul matrimonio, controversie inerenti alla trascrizione


Il giudizio sulla trascrizione civile del matrimonio canonico, in quanto atto dello stato civile,
rientra nella giurisdizione del giudice dello Stato.
La trascrizione cessa di produrre i suoi effetti ex nunc quando il giudice dello Stato con una
sentenza passata in giudicato che accoglie una domanda di divorzio, dichiara cessati gli effetti
civili del matrimonio canonico.
Essa invece cessa di produrre effetti ex tunc quando il giudice dello Stato accoglie una domanda
diretta all’annullamento della trascrizione stessa.
Attualmente, per la parte non derogata dall’Accordo del 1984, è ancora in vigore la legge
matrimoniale 847/ 1929.
Essa prevede la facoltà di impugnare davanti al giudice dello Stato la trascrizione civile del

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matrimonio canonico quando:
­ È avvenuta sussistendo uno degli impedimenti inderogabili.
­ La trascrizione tardiva è avvenuta senza il consenso di entrambe le parti.
­ L’atto di iniziativa del procedimento è stato preso nel momento in cui una delle parti
era incapace di intendere e di volere, oppure il consenso per tale atto era viziato da una
di quelle cause che determinano l’invalidità del matrimonio civile.
­ È stato trascritto come matrimonio concordatario un matrimonio canonico non
previsto dall’Accordo.
In particolare, se si tratta di un matrimonio celebrato all’estero, e all’estero efficace
secondo la legge del luogo, la trascrizione come matrimonio concordatario va soltanto
rettificata con il procedimento di rettificazione di cui all’art. 455 c.c.
Se si tratta di un matrimonio che non può produrre effetti civili, il procedimento
contenzioso ha come oggetto l’annullamento della trascrizione.
Se il giudice civile accoglie un’azione promossa per l’annullamento della trascrizione,
ne ordina la cancellazione dai registri dello stato civile.

19­Le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio trascritto.


L’art. 8 II comma Accordo 18 febbraio 1984 riguarda il riconoscimento delle sentenze di
nullità dei matrimoni canonici trascritti a norma dell’art. 8 I comma.
Il rapporto tra Stato e Chiesa presenta una notevole differenza con gli accordi tra Stati in
materia di assistenza giudiziaria e di riconoscimento delle sentenze.
Tali accordi, infatti, sono basati sul principio della reciprocità: le sentenze dello Stato A sono
riconosciute dallo Stato B, e viceversa.
Nel rapporto Stato­Chiesa cattolica, invece, il riconoscimento è unilaterale: lo Stato riconosce
le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio canonico trascritto, ma la Chiesa non
riconosce le sentenze di nullità di tale negozio che fossero pronunciate dal giudice statuale.
Nell’ordinamento canonico, vige il principio secondo cui, data la natura sacramentale del
matrimonio fra battezzati, solo il giudice ecclesiastico ha giurisdizione su tale vincolo e può
dichiararne la nullità.
Solo il Pontefice può dichiararne lo scioglimento nel caso del matrimonio rato e non
consumato.
L’art. 34 IV comma Concordato 1929 aveva stabilito che erano riservate alla competenza dei
tribunali e dei dicasteri ecclesiastici le cause concernenti la nullità del matrimonio canonico e
la dispensa super rato.
Tuttora, è controverso se le norme concordatarie oltre al riconoscimento delle sentenze di
nullità del matrimonio canonico trascritto, esplicitamente menzionate dall’Accordo,
ammettano anche il riconoscimento delle sentenze di validità, pronunciate dai tribunali
ecclesiastici in sede di retractatio della precedente sentenza di nullità, già riconosciuta agli effetti
civili; vicende di cui l’Accordo non dice nulla.
In proposito, occorre tener presente che nell’ordinamento canonico le sentenze riguardanti lo
stato delle persone, fra le quali quelle sulla nullità del matrimonio, non passano mai in
giudicato, pur se siano divenute esecutive e abbiano avuto esecuzione.
Perciò, in presenza di nuovi gravi prove o di nuovi argomenti, la parte interessata alla validità
del matrimonio può ottenere dal tribunale ecclesiastico, in sede rescindente, una nova causae
propositio ed il tribunale, sulla base delle nuove prove, può dichiarare valido il matrimonio.
Lo Stato non si è impegnato a riconoscere qualsiasi sentenza ecclesiastica in materia
matrimoniale, ma solo le sentenze di nullità del matrimonio.
E’ una prassi che va oltre la legge quella di considerare possibile il riconoscimento agli effetti
civili delle sentenze ecclesiastiche di validità del vincolo, pronunciate in sede di retractatio,
anche quando sia passata in giudicato la sentenza civile di delibazione della nullità canonica
decisa in precedenza dai tribunali ecclesiastici.

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Tale prassi è stata giustificata in base al rilievo secondo cui la retractatio canonica potrebbe
essere accostata al giudizio civile di revocazione.
Quindi, se il processo ecclesiastico fosse stato riaperto per una ragione riconducibile a una
delle ipotesi di revocazione previste dall’art. 395 c.p.c., la sentenza potrebbe essere
riconosciuta agli effetti civili, con la conseguente revocazione della sentenza della corte
d’appello che aveva dato esecuzione alla precedente sentenza canonica di nullità.

20­La fine della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici


Nell’Accordo del 1984 non troviamo più il principio della riserva di giurisdizione a favore dei
tribunali ecclesiastici.
L’abbandono di tale principio si palesa considerando quanto previsto dall’Accordo del 1984 e
quanto invece previsto dal Concordato del 1929, in ordine al riconoscimento delle sentenze
ecclesiastiche.
Nel Concordato del 1929 tali sentenze erano efficaci nel diritto dello Stato con un
procedimento ufficioso e automatico. Cioè tutte le sentenze di nullità, quale ne fosse la causa,
erano riconosciute agli effetti civili.
Invece, nel nuovo Accordo del 1984 le sentenze di nullità del matrimonio, pronunciate dai
tribunali ecclesiastici possono essere rese esecutive nell’ordinamento dello Stato su domanda di
parte e a seguito di un giudizio di delibazione, a seguito del quale non è scontato che le
sentenze debbano essere riconosciute.
Ora, è chiaro che un ordinamento statuale che sottopone le sentenze di altri ordinamenti ad un
giudizio di delibazione, non riconosce l’esclusività di giurisdizione dell’ordinamento in cui le
sentenze sono emesse.
Tuttavia una parte della dottrina ha continuato a ritenere che la riserva di giurisdizione sia
stata mantenuta, basandosi su 3 argomenti:
 L’art. 8 II comma lett. a) dell’Accordo, nel disciplinare il procedimento di delibazione,
prevede che la corte d’appello deve accertare fra l’altro che il giudice ecclesiastico era il
giudice competente a conoscere la causa;
 Il Protocollo addizionale, nel dichiarare applicabili al procedimento di delibazione gli
artt. 796 e 797 cod. proc. civ. dice che, in tale applicazione, si dovrà tener conto della
specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale.
 Sempre il Protocollo addizionale prevede infine che nel giudizio di delibazione, in ogni
caso non si procederà al riesame del merito.

Nessuno di tali argomenti testimonia il permanere della riserva di giurisdizione a favore dei
tribunali ecclesiastici.
­ Il primo argomento non può essere accolto perché l’art. 8 II comma nel suo complesso
significa che il nostro ordinamento riconosce la competenza del giudice ecclesiastico a
pronunciare la nullità del matrimonio, con effetto per il diritto italiano, solo quando si
tratti di un matrimonio canonico trascritto a norma del precedente art. 8 I comma
Accordo.
Ciò significa che l’ordinamento italiano non riconosce la competenza del giudice
ecclesiastico a giudicare sulla nullità di quei matrimoni canonici che conseguono effetti
civili non a norma del Concordato, ma in base ai principi del diritto internazionale
privato e che rilevano quali matrimoni civili.
­ Il secondo argomento non è condivisibile perché il riferimento alla specificità
dell’ordinamento canonico ha la finalità di raccomandare alla Corte d’appello
un’oculata applicazione dell’art. 797 VII comma cod. proc. civ., relativamente
all’esame della sentenza ecclesiastica sotto il profilo del rispetto dei principi dell’ordine
pubblico italiano.
­ Il terzo argomento non può essere condiviso perché il divieto di riesame del merito nel

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giudizio di delibazione è un comune divieto inserito nelle convenzioni internazionali
inserito per agevolare il riconoscimento delle sentenze, ma non importa una riserva di
giurisdizione a favore di alcuno degli Stati partecipanti all’accordo.

Da parte sua la giurisprudenza, relativamente alla riserva di giurisdizione ha assunto un


atteggiamento altalenante. Mentre alcuni giudici hanno ritenuto che persistesse tale riserva, la
giurisprudenza prevalente ha accertato il venir meno di tale riserva e ha dichiarato la
giurisdizione del giudice civile sul detto matrimonio, alternativa a quella del giudice
ecclesiastico.

21­Competenza giurisdizionale dello Stato


Posto che nell’ordinamento dello Stato non vi è un riconoscimento di riserva di giurisdizione a
favore del giudice ecclesiastico, occorre accertare quale sia la competenza del giudice civile.
Il matrimonio canonico è disciplinato nella sua validità dal diritto canonico. Di conseguenza,
il giudice dello Stato non può giudicare della validità del matrimonio canonico, ma solo della
validità dell’atto di iniziativa del procedimento di trascrizione, in cui si concretizza la scelta tra
matrimonio civile e matrimonio canonico con effetti civili.
Tale atto di iniziativa è interamente disciplinato dal diritto dello Stato e finalizzato alla
trascrizione civile del matrimonio canonico.

22­I rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e giurisdizione dello Stato


Relativamente al matrimonio si possono verificare dei contrasti di giudicati e di litispendenza
fra l’ordinamento canonico e l’ordinamento civile.
L’esistenza di una sentenza civile di divorzio o di invalidità della trascrizione passata in
giudicato esclude il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità.
Il problema, invece, si pone nel momento in cui davanti al giudice civile sia pendente una
causa avente il medesimo oggetto di quella decisa dal giudice ecclesiastico.
Poichè il giudice ecclesiastico si pronuncia sulla validità del matrimonio canonico, mentre il
giudice civile decide sulla validità del procedimento di trascrizione può sembrare diverso
l’oggetto del giudizio dei due casi.
In realtà, questo oggetto è identico, in quanto sia la sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio, sia la sentenza di nullità della trascrizione o la sentenza di divorzio pronunciata
dal giudice civile comportano il venir meno degli effetti civili del matrimonio stesso.
Nel momento in cui intervenisse una sentenza civile che stabilisca l’invalidità della trascrizione
civile, questa determinerebbe il venir meno degli effetti civili dal momento della celebrazione e
poiché la sentenza di nullità produce altresì effetti ex tunc, il riconoscimento degli effetti civili
della sentenza ecclesiastica di nullità comporterebbe un’inammissibile bis in idem.
Diverso è il caso in cui entrino in rapporto una sentenza civile di divorzio e una sentenza
ecclesiastica di nullità.
Mentre la sentenza di divorzio produce effetti ex nunc, il riconoscimento della sentenza
ecclesiastica fa cessare gli effetti retroattivamente a decorrere dalla data di celebrazione del
matrimonio. Le due sentenze sono quindi logicamente incompatibili.
Se ne deduce che se si promuove il giudizio di divorzio, non si può ottenere il riconoscimento
dell’eventuale sentenza canonica di nullità.
Una parte della dottrina, ha tuttavia affermato che la sentenza di divorzio non escludeva il
riconoscimento degli effetti civili della sentenza di nullità, la quale produceva effetti solo
limitatamente a quelle materie non disciplinate dal giudicato di divorzio, onde restavano ad
esempio fermi i provvedimenti riguardanti i rapporti patrimoniali fissati dal giudicato sul
divorzio e che non erano oggetto della sentenza ecclesiastica di nullità.
D’altro canto, la sentenza di divorzio disciplina la fine della convivenza fra le parti, una
materia che è estranea al giudizio di nullità del matrimonio canonico.

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La giurisprudenza si è orientata verso soluzioni mediane, assicurando sia il riconoscimento
delle sentenze ecclesiastiche di nullità, sia la vigenza dei provvedimenti assunti dal giudice
civile nel giudizio di divorzio.

23­Il procedimento di delibazione


Il procedimento per riconoscere la sentenze ecclesiastica di nullità agli effetti civili si deve
svolgere avanti alla corte d’appello competente per territorio.
Il procedimento di delibazione ha luogo su domanda delle parti o di una di esse.
Tale domanda assume la forma del ricorso se proviene da entrambe le parti, altrimenti la
forma di citazione qualora sia avanzata da una sola parte.
Quindi, la volontà di entrambe le parti è necessaria per far acquistare al matrimonio canonico
effetti civili, mentre la volontà di almeno uno solo di essi è sufficiente per privare il matrimonio
di tali effetti.
Il presupposto processuale della domanda è che la sentenza ecclesiastica di nullità sia esecutiva
e che tale esecutività sia attestata da un decreto del superiore organo ecclesiastico di controllo.
La sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio emessa in primo grado è esecutiva quando
sia confermata in appello o da un decreto o da una ulteriore sentenza.
Il decreto di esecutività è emanato dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.

24­La Corte d’appello è chiamata ad accertare:


1. L’esistenza e l’autenticità dei provvedimenti ecclesiastici sulla nullità del matrimonio e
l’esistenza e l’autenticità del decreto della Segnatura Apostolica attestante l’esecutorietà
della sentenza.
2. Che il matrimonio dichiarato nullo era un matrimonio canonico trascritto a norma dell’art.
8 I comma Accordo.
3. Che il giudice ecclesiastico era competente a conoscere la causa.
4. Che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto
di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali
dell’ordinamento italiano.
Il diritto di difesa è rispettato quando il convenuto sia stato regolarmente citato a comparire
e abbia avuto un termine sufficiente per predisporre le proprie difese.
7­ 5.Che ricorrano le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la
dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere.
Tali condizioni consistono nella circostanza che la sentenza di nullità non sia contraria
ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano passata in giudicato e che non sia
pendente davanti al giudice italiano un processo avente il medesimo oggetto e fra le
stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero.

25­Le sentenze ecclesiastiche e l’ordine pubblico


Un altro requisito richiesto alle sentenze ecclesiastiche è che esse non devono produrre effetti
contrari all’ordine pubblico.
Si tratta dell’ordine pubblico c.d. internazionale, ossia quei principi che attengono al
collegamento fra ordinamenti reciprocamente indipendenti.
In materia matrimoniale, l’ordine pubblico italiano ha subito varie modificazioni.
Prima del 1970 era principio di ordine pubblico quello dell’indissolubilità del matrimonio,
perché il diritto italiano non ammetteva il divorzio.
Con l’introduzione del divorzio, il principio d’ordine pubblico italiano in materia
matrimoniale è quello dell’effettività dell’unione coniugale, della persistenza della comunione
spirituale e materiale tra i coniugi, dandosi rilevanza alla volontà delle parti piuttosto che alla
dichiarazione.
In conseguenza, le uniche ipotesi in cui una sentenza ecclesiastica possa essere in contrasto

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con l’ordine pubblico italiano sembrano quelle in cui la nullità dipende da motivi tipicamente
confessionali, che violino il diritto di libertà religiosa.
Perciò non sono in contrasto con l’ordine pubblico italiano le sentenze ecclesiastiche qualora la
nullità dipenda dai vari vizi del consenso, ancorché questi siano delineati in modo diverso dal
diritto italiano.

26­La simulazione unilaterale e l’ordine pubblico


L’unico caso che ha destato contrasti in giurisprudenza è stato quello della nullità del
matrimonio canonico per simulazione unilaterale del consenso.
In tal caso, la giurisprudenza ha ritenuto che abbia rilevanza come principio d’ordine pubblico
anche la tutela della buona fede del coniuge ignaro della simulazione compiuta dall’altra parte.
In un primo momento, la Cassazione aveva affermato che la simulazione unilaterale del
consenso da parte di uno degli sposi, se non è conosciuta nè conoscibile dall’altra parte, non
consente il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Da ultimo, però, la giurisprudenza ha ritenuto che la tutela della buona fede nel procedimento
di delibazione è diretta a garantire il coniuge per l’appunto in buona fede, e non il coniuge che
abbia causato la nullità del matrimonio.
Sicchè la delibazione è sempre ammissibile, sia quando la simulazione unilaterale compiuta da
uno degli sposi era conosciuta o era conoscibile all’altro al tempo delle nozze, sia quanto tale
simulazione era rimasta allora ignota, ma il coniuge in buona fede o non si opponga al
riconoscimento della sentenza ecclesiastica o sia lui stesso a domandare il riconoscimento
L’unica ipotesi in cui la delibazione è esclusa è quando sia il coniuge in buona fede ad opporsi
al riconoscimento della sentenza.
Invece, nessuna rilevanza ha l’opposizione del coniuge in mala fede, perchè l’ordinamento non
può proteggere chi abbia emesso una dichiarazione simulata lesiva dell’affidamento altrui.
La prima sezione della Cassazione aveva individuato altresì come principio d’ordine pubblico
la convivenza coniugale, stabilendo che in presenza di una simulazione unilaterale, la
circostanza che le parti abbiano convissuto escluderebbe il riconoscimento civile della sentenza
ecclesiastica di nullità pronunciata, appunto, a causa della simulazione unilaterale di uno dei
coniugi.
Tale tesi si fonda sulla considerazione che il nostro ordinamento ritiene irrilevante la validità
del consenso iniziale quando tra i coniugi sia stata realizzata un’effettiva comunione di vita.
A smentire questo orientamento, sono intervenute le SS.UU. che hanno escluso che la
sentenza ecclesiastica di nullità sia contraria all’ordine pubblico anche se l’azione sia stata
proposta dopo che i coniugi hanno convissuto successivamente alla celebrazione.

27­Le dispense pontificie super rato come sentenze straniere


Talora qualche corte d’appello ha ritenuto di dover riconoscere agli effetti civili anche le
dispense pontificie dal matrimonio rato e non consumato. Ossia una delle ipotesi di divorzio
previste dall’ordinamento canonico.
Tali pronunce sono in contrasto con l’ordinamento, in quanto le norme che riconoscevano
effetti civili a tali dispense, sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale.
Tale pronuncia era motivata dal dato che il procedimento di dispensa era stato definito dal
legislatore ecclesiastico come amministrativo e perciò non garantiva il diritto di difesa delle
parti.
Da parte sua, l’Accordo 1984 ha omesso di riconoscere agli effetti civili le dispense super rato.
Tuttavia qualche corte d’appello ha ritenuto di poter considerare il procedimento di dispensa
come giurisdizionale e ha attribuito alla dispensa stessa il carattere di sentenza, riconoscibile,
fuori Concordato, come sentenza straniera.

28­La provvisionale di competenza della Corte d’appello

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La Corte d’appello, quando riconosca agli effetti civili una sentenza ecclesiastica di nullità, può
attribuire a favore del coniuge che ne abbia il diritto e ne faccia richiesta, una provvisionale
sulle indennità spettantegli a norma degli artt. 129 e 129 bis c.c., rimandando le parti avanti al
giudice competente in primo grado per la decisione su tali questioni.

29­La separazione temporanea dei coniugi


In pendenza della causa di nullità davanti ai tribunali ecclesiastici, oppure in caso di pendenza
della causa per l’annullamento della trascrizione civile, le parti possono chiedere al tribunale
civile competente per territorio la separazione personale temporanea.
Tale separazione temporanea vale a disciplinare la posizione dei coniugi nel tempo in cui
durino il giudizio ecclesiastico di nullità e il successivo procedimento di delibazione o il
giudizio civile sulla trascrizione.
Ove passi in giudicato una sentenza che ponga fine allo stato coniugale, gli effetti della
separazione temporanea cessano perchè le parti non sono più coniugi.
Se, invece, il matrimonio rimane valido agli effetti civili, perchè le domande di nullità siano
rigettate, la separazione temporanea cessa ugualmente e le parti dovrebbero nuovamente
osservare l’obbligo della coabitazione che potrebbe essere legittimamente escluso da una nuova
pronuncia di separazione.
Nel caso del giudizio civile di invalidità della trascrizione, la separazione temporanea dei
coniugi è ordinata dallo stesso giudice avanti al quale pende la causa di annullamento degli
effetti civili del matrimonio.
Nel caso della pendenza di un giudizio di nullità avanti al tribunale ecclesiastico le parti
devono proporre apposita domanda al tribunale civile competente per territorio.
Se le parti sono concordi riguardo alla separazione temporanea, questa sarà trattata con rito
camerale e disposta dal tribunale con ordinanza che ne fisserà le condizioni.

30­Il matrimonio avanti ai ministri delle confessioni religiose di minoranza


Il matrimonio avanti ai ministri di culto delle confessioni religione di minoranza è disciplinato
dagli artt. 7­12 della L. 1159/ 1929 e del r.d. 289/ 1930.
È controverso se il matrimonio celebrato avanti ai ministri delle confessioni religiose di
minoranza sia un matrimonio religioso rilevante agli effetti civili, o sia un matrimonio civile o
sia un terzo tipo di matrimonio.
La prima tesi non è fondata, perché la legge non riconosce un matrimonio disciplinato dalle
norme statutarie delle varie confessioni religiose. Per la legge, la celebrazione religiosa è del
tutto indifferente.
Significativo è il fatto che secondo l’art. 11 L. 1159/ 1929 gli impedimenti e le cause di nullità
del detto matrimonio sono disciplinati dalle stesse norme previste per il matrimonio civile.
Perciò, il matrimonio in questione non è un matrimonio religioso trascritto, ma è un
matrimonio civile celebrato in forma speciale.
Il matrimonio civile, invero, non è sempre celebrato avanti all’ufficiale dello stato civile,
poichè la legge prevede che possa essere celebrato anche avanti ad altri soggetti investiti del
potere di certificazione, tra cui il ministro delle confessioni di minoranza la cui nomina sia
stata approvata dall’autorità governativa.

31­Approvazione della nomina del ministro di culto


Il matrimonio in questione per essere valido secondo il diritto dello Stato, deve essere celebrato
avanti a un ministro di una delle confessioni di minoranza, la cui nomina sia stata approvata
dal Ministero dell’interno.
Infatti, nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del ministro di culto, se la nomina
non abbia ottenuto l’approvazione governativa.
Per la validità civile del matrimonio in questione non basta che esso sai celebrato avanti a un

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ministro di culto la cui nomina sia stata approvata, occorrendo anche che siano osservate le
altre disposizioni dettate dalla L. 1159/ 1929.
Le parti, nel richiedere la pubblicazione all’ufficiale dello stato civile competente, devono
dichiarare l’intenzione di celebrare il matrimonio avanti al ministro di culto.
In conseguenza, l’ufficiale dello stato civile, oltre ad accertare che non sussistono impedimenti
fra le parti e che non sono state proposte opposizioni al matrimonio, accerta che il ministro di
culto indicato dagli sposi abbia ricevuto l’approvazione della nomina.
L’ufficiale dello stato civile, effettuata la pubblicazione e gli accertamenti anzidetti, ove nulla si
opponga alla celebrazione del matrimonio, rilascia un’autorizzazione, indicante anche il nome
del ministro di culto davanti al quale la celebrazione dovrà aver luogo e la data del
provvedimento ministeriale di approvazione della nomina.
Tale atto ha la natura propria delle autorizzazioni.
L’autorizzazione rilasciata di volta in volta dall’ufficiale dello stato civile vale a consentire al
ministro di culto, nel singolo caso, l’esercizio della facoltà a lui attribuita dalla legge.

32­Disciplina civilistica della celebrazione del matrimonio


Affinché il matrimonio sia civilmente valido è necessario che il ministro di culto provveda ad
una serie di adempimenti.
Subito dopo la celebrazione, egli deve dare lettura agli sposi degli artt. 143, 144 e 147 cod. civ.,
riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi, e deve ricevere, alla presenza di due testimoni, la
dichiarazione espressa di entrambe le parti, l’una dopo l’altra, di volersi prendere
rispettivamente in marito e moglie.
Tale dichiarazione non può essere sottoposta a termini o condizioni.
Ove le parti aggiungessero un termine o una condizione, il ministro di culto non dovrebbe
procedere alla celebrazione, e se questa avvenisse ugualmente, il termine o la condizione si
considererebbero non apposti.
Il ministro di culto redige, quindi, l’atto di matrimonio e lo trasmette in originale all’ufficiale
dello stato civile entro 5 giorni dalla celebrazione. L’ufficiale di stato civile ricevuto l’atto, ne
cura la trascrizione entro le 24 ore nei registri del matrimonio.
Nell’atto di matrimonio devono essere indicate le generalità delle parti e dei loro genitori, la
data e il luogo della pubblicazione, la data e il luogo della celebrazione e il nome del ministro
di culto davanti al quale è avvenuta.
L’atto, infine, può contenere quelle dichiarazioni che le parti intendessero rendere per scegliere
il regime della separazione dei beni, riconoscere e/ o legittimare figli naturali.
Nello svolgimento degli adempimenti di sua competenza, il ministro di culto è pubblico
ufficiale perché esercita la pubblica funzione certificativa diretta ad attestare che il matrimonio
celebrato avanti a lui è un matrimonio civilmente valido. L’atto formato dal ministro di culto è
atto pubblico.
La trasmissione dell’atto di matrimonio, pure in questo caso, è un’attività giuridica del genere
delle notificazioni.
E’ discusso se la trascrizione del matrimonio davanti ai ministri delle confessioni religiose di
minoranza abbia valore costitutivo, come nel caso della trascrizione del matrimonio canonico,
ovvero se al pari di tutti gli atti dello stato civile, abbia un’efficacia meramente probatoria.
Questa seconda ipotesi è infondata perchè il matrimonio celebrato avanti ai ministri delle
confessioni di minoranza produce gli stessi effetti del matrimonio civile, quando siano
osservate le disposizioni di legge.
La legge non prevede alcunchè per il caso in cui l’atto di matrimonio non sia trascritto.
Mancano norme per la trascrizione tardiva di tale matrimonio.
Questo non significa però che il matrimonio in questione non possa mai essere trascritto, in
quanto l’atto irregolare o l’atto smarrito o l’atto trasmesso con ritardo può essere
rispettivamente regolarizzato con il procedimento di rettificazione, di competenza del

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tribunale, previsto dagli art. 454 e ss. cod. civ.

33­L’invalidità del matrimonio celebrato avanti ai ministri delle confessioni religiose di


minoranza
Il matrimonio celebrato avanti ai ministri delle confessioni religiose di minoranza è
impugnabile, oltre che per le cause di nullità o di annullamento previste dal codice civile, per i
vizi propri della speciale forma di celebrazione.
È causa di nullità la mancata approvazione governativa della nomina del ministro di culto
perché tale approvazione è secondo la legge, requisito indispensabile per gli effetti civili.
La mancata autorizzazione, che dev’essere rilasciata dall’ufficiale dello stato civile, non
determina l’invalidità del matrimonio, perchè il ministro della confessione religiosa, avendo
ricevuto l’approvazione della nomina, aveva la capacità di assistere alla celebrazione ed aveva
il potere di certificare il matrimonio.
In passato, è stato prospettato che il ministro di culto avrebbe la facoltà di assistere solo alla
celebrazione dei matrimoni degli appartenenti alla propria confessione, sicchè sarebbe nullo il
matrimonio celebrato avanti a lui da appartenenti ad altra religione.
Ma tale tesi non è accoglibile, perchè in contrasto con le norme costituzionali che garantiscono
la libertà religiosa, comprendente la facoltà dei singoli di passare da una confessione all’altra
senza dover rendere conto di ciò ad alcuna autorità statuale.
E’ stato altresì sostenuto che il ministro di culto potrebbe assistere al matrimonio solo nel
luogo di sua residenza, essendo l’approvazione della nomina effettuata, di regola, con
riferimento a tale località.
Tale tesi però non è fondata perchè l’approvazione governativa abilita il ministro di culto a
compiere atti aventi effetti civili e tale abilitazione non è legittimamente limitabile a questa o
quella parte del territorio nazionale.

34­Il matrimonio davanti ai ministri di culto delle Chiese valdesi, metodiste, avventiste,
battiste, luterane e delle A.D.I.
Le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese si sono sottratte all’applicazione della L.
1159/ 1929 e del r.d. 289/ 1930 e il matrimonio celebrato avanti ad esse è ora disciplinato
dall’art. 11 della L. 449.
Secondo tale disposizione lo Stato riconosce gli effetti civili ai matrimoni celebrati secondo le
norme dell’ordinamento valdese, a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello
stato civile, previa pubblicazione alla casa comunale.
In occasione della pubblicazione civile, gli sposi devono comunicare all’ufficiale di stato civile
l’intenzione di celebrare il matrimonio secondo le norme dell’ordinamento valdese.
L’ufficiale dello stato civile, in occasione della richiesta di pubblicazione, spiega agli sposi i
diritti e i doveri dei coniugi, dando lettura degli artt. 143, 144 e 147 cod. civ. e, effettuata la
pubblicazione, ove non risulti alcun impedimento e non sia stata proposta alcuna opposizione,
rilascia ai nubendi il nullosta in doppio originale.
In tale atto l’ufficiale dello stato civile, oltre a precisare che la celebrazione avrà luogo secondo
le norme dell’ordinamento valdese deve attestare l’avvenuta lettura degli articoli del codice
civile.
Il ministro di culto, per assistere validamente alla celebrazione, non ha bisogno di alcuna
approvazione della sua nomina da parte dell’autorità governativa, ma occorre che sia iscritto
nei ruoli tenuti dalla Tavola valdese.
Effettuata la celebrazione, il ministro di culto forma l’atto di matrimonio in doppio originale,
allegando il nullaosta rilasciato dall’ufficiale dello stato civile, e entro 5 giorni dalla
celebrazione trasmette uno di tali esemplari dell’atto di matrimonio e del nullaosta all’ufficiale
dello stato civile del comune in cui è avvenuta la celebrazione.
Codesto ufficiale, constatata la regolarità dell’atto di matrimonio e l’autenticità del nullaosta

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ad esso allegato, trascrive il matrimonio nei registri dello stato civile entro 24 ore dal
ricevimento dell’atto e dà notizia dell’avvenuta trascrizione al ministro di culto.
Anche in questo caso, il ministro di culto esercita la pubblica funzione certificativa e, perciò, è
pubblico ufficiale.
L’atto di matrimonio da lui formato è atto pubblico e può contenere le dichiarazioni, ammesse
dalla legge, riguardanti la scelta del regime della separazione dei beni e il riconoscimento e/ o
legittimazione di figli naturali.
Quando l’atto di matrimonio non sia regolare o non sia trasmesso entro i 5 giorni dalla
celebrazione o comunque l’ufficiale dello stato civile rifiuti la trascrizione, questa può essere
ordinata dal tribunale in sede di procedimento di rettificazione degli atti di stato civile.
La trasmissione dell’atto di matrimonio da parte del ministro di culto è attività giuridica, del
genere delle notificazioni.

35­Il matrimonio celebrato secondo il rito ebraico


La L. 101/ 1989 ha riconosciuto effetti civili ai matrimoni celebrati in Italia secondo il rito
ebraico.
Anche in questo caso, gli effetti civili sono condizionati dalla trascrizione dell’atto di
matrimonio nei registri dello stato civile; requisito essenziale per il ministro di culto è che sia
cittadino italiano, a pena di nullità del matrimonio.
Le parti devono chiedere la pubblicazione all’ufficiale dello stato civile, comunicando che
intendono celebrare il matrimonio avanti ad un ministro della confessione ebraica.
Dopo che la pubblicazione sia stata eseguita e non sia stata proposta alcuna opposizione, nè
sia stato rilevato un impedimento, l’ufficiale di stato civile rilascia agli sposi un nulla osta in
doppio originale, che essi dovranno consegnare al ministro di culto.
Questo, dopo la celebrazione, deve spiegare alle parti gli effetti civili del matrimonio dando
lettura degli art. 143, 144 e 147 cod. civ., sui diritti e i doveri dei coniugi.
Una variante rispetto alle norme derivanti dalle altre Intese, è quella secondo cui i coniugi
possono rendere al ministro di culto le dichiarazioni che la legge civile consente siano rese
nell’atto di matrimonio, ossia le dichiarazioni riguardanti il riconoscimento o la legittimazione
dei figli naturali e la scelta del regime dei rapporti patrimoniali.
Il ministro di culto, entro 5 giorni dalla celebrazione, trasmette uno dei due originali, con
allegato il nulla osta, all’ufficiale dello stato civile che, entro le 24 ore successive procede alla
trascrizione, dandone notizia al ministro di culto. Il matrimonio avrà effetti civili dal momento
della celebrazione.
Anche in questo caso, l’eventuale trascrizione tardiva del matrimonio può avvenire ricorrendo
al procedimento di rettificazione previsto dall’art. 454 cod. civ.

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