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LEZIONI DI DIRITTO ECCLESIASTICO

Cosa studia il diritto ecclesiastico? L’aggettivo potrebbe condurre in errore, dato che tradizionalmente
significa “attinente alla Chiesa”: in realtà, esso va distinto dal diritto canonico, relativo alle disposizioni dei
sacri canoni, e va piuttosto visto come il diritto dello Stato in materia religiosa. Negli ordinamenti statali
moderni, infatti, vi sono un insieme di norme specifiche che disciplinano il fenomeno religioso, non soltanto
con riferimento alla Chiesa cattolica ma anche rispetto alle altre confessioni o addirittura alla spiritualità
individuale non confessionale, come nel caso dell’ateismo, per una tendenza mitteleuropea a includere
anche le convinzioni religiose. Questa evoluzione è la risposta dell’ordinamento ad un fenomeno che i
sociologi delle religioni definiscono BELIEVING WITHOUT BELONGING, ovvero il credere in entità spirituali
senza appartenere a specifici gruppi o comunità confessionali.
Il diritto ecclesiastico nasce, quindi, da un processo di progressiva emancipazione o separazione del diritto
canonico, dato che originariamente le due espressioni erano sinonimi. Originariamente il diritto
ecclesiastico, sinonimo del canonico, aveva come sua unica fonte la Chiesa romana. Con l’affermarsi delle
dottrine separatiste dopo la Rivoluzione francese, diminuisce l’influenza del Pontefice, in quanto la Chiesa
gallicana viene sottoposta all’influenza dello Stato: nasce le droit civil ecclésiastique, fonte di norme distinte
dai sacri canoni tradizionali, derivante dallo Stato e non dalla Chiesa. Stessa cosa avviene in Germania con
la formazione dello Staatliches Kirchenrecht, secondo il brocardo: “princeps in regno suo est imperator”.
Già nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, dopotutto, si affermano le dottrine giurisdizionaliste, che
scindono l’aspetto spirituale da quello temporale.
Il 20 settembre 1870 l’Italia invade lo Stato pontificio, nella nota breccia di Porta Pia: la Chiesa non ha più
un territorio su cui esercitare la sua sovranità. Il neonato Regno d’Italia realizza poi un’opera di spoliazione
o incameramento delle ricchezze pontificie, a partire dalla prima legge di eversione del patrimonio
ecclesiastico. Si afferma comunque l’idea che le leggi di spoliazione non rispondano a disegno sistematico,
ma siano eventi sparsi, privi di organicità e sistematicità di materia. Nel novembre 1884 è il professore
palermitano Scaduto ad avere l’intuizione che lo enumera tra i fondatori dell’odierna dottrina, distinguendo
tra diritto ecclesiastico e canonico.
Si può considerare l’evoluzione del diritto ecclesiastico in Italia come l’insieme di tre fasi: il periodo liberale,
che va dal 1870 al 1929, definibile come il diritto della tolleranza; il periodo della conciliazione a partire dal
1929, che può essere definito come il diritto del privilegio; il periodo che segue all’avvento della
Costituzione repubblicana, definibile come diritto delle libertà.

DIRITTO DELLA TOLLERANZA


Lo Statuto albertino, seppur immerso in un clima di crescente liberalismo secondo gli ideali del secondo
Ottocento, rifletteva la politica confessionalista degli Stati tradizionali. Per tale ragione definiva il culto
cattolico come l’unica religione dello Stato, affermando che gli altri culti potessero essere solamente
tollerati. Nonostante il formale richiamo al principio confessionalista, nella pratica il Regno d’Italia
proseguiva la sua opera di espropriazione dei beni della Chiesa, con una politica di fatto separatista. In
quegli anni, inoltre, si facevano i conti con la Questione romana: dopo la presa di Roma, infatti, il Papa si era
dichiarato “prigioniero politico” del Regno d’Italia. Si tentò di risolvere la questione con la legge delle
Guarentigie pontificie del 1871, in cui si conferiva al Papa uno status giuridico identico a quello di un
sovrano, anche se privo di un territorio, come le immunità internazionali: il Pontefice però non accetto le
disposizioni che venivano dall’alto, unilaterali, voleva essere considerato un soggetto con cui lo Stato
dovesse dialogare alla pari. Anche nei confronti dei “culti tollerati” vi era un clima difforme dall’espressione
formale, in quanto questi erano in realtà liberi di esprimersi e venivano tutelati dalle stesse leggi penali
relative al culto cattolico.

DIRITTO DEL PRIVILEGIO


Nel 1929 Mussolini decidere di fare un uso strumentale della religione cattolica e cerca l’avallo della
gerarchia della Chiesa per le sue politiche autoritarie. La Chiesa decide di allearsi quindi con i governi
autoritari di destra che si instaurano in Europa per riampliare il proprio potere temporale e tutelarsi dalle
tendenze politiche antireligiose provenienti dall’oriente. Da questa singolare convergenza di interessi si ha
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la risoluzione della questione romana: nascono i Patti lateranensi. I due documenti più importanti di tali
Patti sono il Trattato del Laterano e il Concordato.
Con il Trattato del Laterano si istituisce lo Stato di Città del Vaticano, ripristinando in maniera quasi
simbolica la sovranità territoriale: poco meno di un chilometro è comunque sufficiente anche oggi per
garantire allo Stato Vaticano innumerevoli immunità e garanzie sul piano internazionale, come
l’impossibilità di citare la Santa Sede in giudizio nei casi di pedofilia a carico di uomini di Chiesa. Il Trattato è
finalmente il riconoscimento della soggettività della Chiesa come soggetto internazionale e non come
suddito a cui si rivolgono le leggi. All’articolo 1, inoltre, viene ribadito il principio confessionalista dello
Stato.
Il Concordato è invece l’atto che contiene la disciplina materiale dei rapporti con la Chiesa. Il principio
confessionalista non è più un criterio formale dell’ordinamento ma diventa effettivamente operante
attraverso l’instaurazione di un sistema di privilegi a favore della religione cattolica. Un esempio è l’articolo
5 del Concordato, relativo ai sacerdoti apostati o puniti con la censura, non possono più svolgere attività a
contatto con il pubblico: non si riferisce alla ovvia impossibilità di proseguire l’attività di proselitismo
religioso, ma a qualunque concorso pubblico o attività in cui si possa avere un rapporto con il pubblico; si
colpisce il soggetto che abbia leso gli interessi della Chiesa con un marchio indelebile. Un altro esempio è
l’insegnamento della religione a scuola, che diventa coronamento dell’istruzione e non più semplice
insegnamento, per cui tutti i programmi devono adeguarsi ad essa. Altro esempio è, chiaramente, la
disciplina del matrimonio concordatario, verso il quale i tribunali della Chiesa godono di una riserva di
giurisdizione. Anche nell’ambito del Codice penale vengono previste apposite fattispecie come il vilipendio
della religione cattolica.
Nel 1929 viene inoltre emanata la legge numero 1159, ancora in vigore seppure modificata.
Tradizionalmente, la legge dichiarava ammessi nell’ordinamento soltanto i culti che non fossero contrari
all’ordine pubblico e al buon costume. Con questa previsione particolarmente ampia e indefinita, fu
possibile limitare la libertà religiosa dei culti non cattolici, ad esempio vietando nel 1932 l’ordine
pentecostale. Fu impedito anche il proselitismo dei culti non cattolici, ammettendo la sola discussione fra
teologi, che era però chiaramente limitata dal rischio di essere denunciati per vilipendio.
DIRITTO DELLE LIBERTÀ
Con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948, vengono ristabiliti i principi di libertà e di tutela della
persona umana. Questi principi sono in ogni caso tutelati dall’articolo 139 della Costituzione, il quale
stabilisce che la forma repubblicana, intesa come l’insieme dei valori fondamentali dell’ordinamento e non
come la sola forma dello Stato, non può essere soggetta a riforma.
La Costituzione dichiara al primo comma dell’articolo 8 che tutte le confessioni religiose sono egualmente
libere davanti alla legge: inoltre, ex articolo 19, tutti hanno la piena libertà di professare la propria legge. Il
modello è quindi quello della libertà e del post-confessionalismo.
L’unico limite è quello dell’articolo 7, comma II, il quale richiama i Patti lateranensi: secondo gran parte
della dottrina tradizionale, questo richiamo riconosceva l’antico privilegio del culto cattolico, addirittura
costituzionalizzando i Patti e riconoscendo loro un rango superiore alla Costituzione. Questa visione è stata
avallata dalla stessa Corte costituzionale, facendo prevalere il Concordato su taluni principi non
fondamentali della Carta costituzionale. Si parlava perciò di hortus conclusus, norme speciali che avevano
come unica fonte i Patti lateranensi.
Con il passare degli anni e l’evoluzione della morale, nonché con il cambiare degli interpreti, si modifica
anche tale visione. Per questa ragione, nel 1971 la Corte costituzionale dichiara illegittima una disposizione
riconducibile ai Patti lateranensi, in contrasto con la Costituzione, ristabilendone la primazia. Già nel 1965 la
Chiesa si era rinnovata, durante il Concilio Vaticano II: le previsioni come l’articolo 5 del Concordato erano
ormai, come le definisce lo studioso Carlo Arturo Jemolo, “foglie secche”.
Nel 1984 viene modificato il Concordato, tre soli giorni dopo viene realizzata la prima Intesa dello Stato con
una confessione religiosa diversa da quella cattolica, dando finalmente attuazione al terzo comma
dell’articolo 8 della Costituzione e svolgendo il pluralismo confessionale. A tale intesa seguono tante altre,
spesso fotocopia le une delle prime. Mancano comunque intese con il culto musulmano, una realtà
frammentata priva di un soggetto specifico a cui fare riferimento, con istanze di particolare difficoltà: si
tratta infatti di un culto che non ha subito il processo di laicizzazione, in cui la comunità civile coincide con

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quella religiosa; inoltre, non è di facile integrazione la diversa concezione dei generi, a partire dall’istituto
del ripudio nel matrimonio. Manca poi un’intesa con i Testimoni di Geova, in particolare a causa dei
problemi che tale culto pone con le emotrasfusioni.
In molti Paesi si è comunque estesa la disciplina di tutela delle confessioni religiose alle convinzioni
spirituali personali, includendo così tra le associazioni di culto anche le organizzazioni filosofiche e non
confessionali: è quello che in Belgio viene definito laïcité, per cui viene riconosciuta l’assistenza spirituale
anche ai non credenti nelle situazioni in cui si farebbe riferimento ad un ministro di culto, come negli
ospedali o nelle prigioni.

La complessità dell’epoca attuale porta un problema: come si fa a definire cos’è la religione?


Il problema è particolarmente delicato. Si potrebbe pensare di adottare una definizione strettamente
rigorosa di “religione”: ma questo avrebbe il rischio di limitare la libertà dei gruppi, in un contesto in cui la
libertà di religione, insieme agli altri diritti fondamentali dell’uomo, è tutelata anche a livello
sovranazionale, attraverso organismi come la Corte EDU, che si stanziano contro una definizione restrittiva
di religione, che penalizzerebbe molti gruppi di recente affermazione. Il problema non si pone di certo,
infatti, per le grandi religioni abramitiche, ma per tutte le religioni di recente insediamento, che trovano un
ordinamento giuridico costruito su un preciso modello di fede religione. La Costituzione non confligge con
gli organismi internazionali, avendo fatto del pluralismo la sua bandiera, per questo in ambito confessionale
l’articolo 8 comma 1 cost. dice: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”.
Discriminare le diverse formazioni ingiustificatamente si ripercuote sugli individui: il gruppo privilegiato
avrà fedeli privilegiati nella loro esperienza di fede, mentre il gruppo che non riesce ad ottenere le stesse
garanzie degli altri penalizzerà i suoi fedeli per la loro appartenenza ad esso. Ci si chiede dunque se si debba
adottare una nozione ampia, ma questo permetterebbe il proliferare di iniziative in frode alla legge: come
afferma Ruffini, infatti, il diritto ecclesiastico è una legislazione di libertà (legislatio libertatis), dato che
moltissime norme agevolano i gruppi confessionali, a partire dall’8xmille, per cui molti gruppi aspirano a
stipulare l’Intesa e partecipare alla ripartizione di questi fondi. Si deve quindi trovare un giusto equilibrio
tra una definizione eccessivamente ampia e una eccessivamente restrittiva.
Nel nostro ordinamento, come in altri, non si dà una definizione normativa di religione e di confessione
religiosa. Nonostante la tecnica di redazione dei testi normativi normalmente voglia che si mettano le varie
definizioni utili nei primi articoli, non si è mai tentato di definire normativamente il concetto di religione,
per una scelta consapevole: si è voluto evitare di cristallizzare in un dato normativo un fenomeno
caratterizzato dal grande dinamismo. Vi è un’unica eccezione: la Direttiva 95/2011, dove si individua il
concetto di persecuzione per motivi religiosi, in quanto la direttiva si occupa del riconoscimento dello
status di rifugiato, dalle persecuzioni belliche alle violazioni delle libertà fondamentali, tra cui risulta la fede
religiosa. Si offre, quindi, una definizione puntuale della persecuzione per motivi religiosi e il termine
religione include: “in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o
l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti
religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo
religioso o da esso prescritte”. Emerge subito che la norma equipara le convinzioni teiste, non teiste e
ateiste: nella logica della normativa in questione, infatti, si deve tutelare chiunque fugga per ragioni
religiose, anche l’ateo. Nel 2014 si verificò il caso di un immigrato afghano in Inghilterra, che da musulmano
divenne ateo e temeva, per questa ragione, delle persecuzioni religiose nel suo Paese d’origine: chiese
quindi il riconoscimento dello status di rifugiato nel Regno Unito e venne applicata tale norma. Vi è
comunque da dire che il riconoscimento dell’ateismo non rientra nella definizione giuridica della
confessione religiosa, ma rileva solo ai fini della determinazione delle discriminazioni su base religiosa: la
direttiva non definisce quindi in positivo una confessione religiosa.
Uno Stato moderno, laico e pluralista non può agevolmente dare una nozione di religione, ma non si deve
essere scettici sulla possibilità: non si deve infatti confondere l’impossibilità di entrare nel merito delle
diverse credenze religiose con la possibilità di avere un concetto proprio di religione. Anche la Cassazione
ha ribadito tale concetto, affermando che gli organi dello Stato devono avere la competenza per stabilire se
un determinato fenomeno si possa considerare religioso o meno sul piano giuridico. In dottrina, alcuni
autori si rifanno alla comune opinione sociale su ciò che viene considerato religione, secondo altri si deve

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guardare alla finalità religiosa, così come risulta consolidata nella tradizione. Il limite di queste definizioni è
che lasciano fuori dal concetto di religione le forme nuove, più controverse, facendo rientrare solo le fedi
radicate nel territorio, senza risolvere alla base il problema. Per questa ragione la Corte di Strasburgo
sottolinea che non si devono considerare le sole confessioni tradizionali: l’elemento discretivo deve essere
l’essere religione o meno.
Anche il professore Finocchiaro aveva analizzato il problema negli anni ‘90, definendo la confessione
religiosa come una comunità sociale avente una propria originaria concezione del mondo, basata
sull’esistenza di un essere trascendente in rapporto con gli uomini. Il tema dell’originalità della concezione
serviva a distinguere le confessioni religiose dalle associazioni, gli enti esponenziali delle prime: la
confessione è un soggetto dotato di propria e originaria concezione del mondo; l’associazione ha invece la
concezione della confessione a cui appartiene. Ma il rimando all’essere trascendente deriva dalla realtà
consolidata in Italia negli anni ’70 e ‘80, perciò non risolve i problemi contemporanei.
È il caso del noto gruppo Scientology, nato negli Stati Uniti, caratterizzato da diverse particolarità, come le
prescrizioni di vitamine al posto delle preghiere: per questa ragione i membri sono spesso finiti in tribunale
per esercizio abusivo della professione medica. Si tratta, infatti, di un approccio scientifico alla religione, in
cui un apparecchio elettronico, l’e-meter, misura i problemi fisici della persona e possono essere consigliate
le saune per trovare giovamento spirituale. I fondatori di tale culto sono degli oligarchi che si arricchiscono
predicando alle persone o attraverso le loro pubblicazioni particolarmente costose: altra ragione per cui tali
soggetti sono finiti in tribunale, volendo usufruire di agevolazioni fiscali limitate alle confessioni religiosi pur
vendendo libri e realizzando prestazioni con carattere psicologico-psichiatrico, con il sovrapporsi di
fenomeni che coincidono con fattispecie penali e di evasione fiscale.
Il professore Finocchiaro aggiunse quindi un elemento alla sua tesi, per includere le religioni atee, che fino a
qualche anno fa potevano sembrare una contraddizione: non si basano sull’esistenza di un essere
trascendente, ma cercano la religiosità nell’immanenza. Altri autori hanno affermato che sia meglio
accontentarsi, al posto di una definizione religiosa, di un paradigma, tendenzialmente inclusivo e poco
esclusivo: tale affermazione non è però risolutiva e dà adito a maggiori dubbi di quanti ne risolva.
Uno studioso, già giudice della Corte di Cassazione, il professore Colaianni, ha proposto una tesi originale:
sostiene, infatti, che vale in questo settore l’autoqualificazione, cioè dovrebbe essere sufficiente, almeno in
prima battuta, la qualificazione che il gruppo fa di sé dinnanzi all’organo pubblico. Non deve essere il
gruppo a farsi carico dell’onere di dare una dimostrazione in positivo del suo essere religione, dovrà essere
l’organo pubblico, inteso come il Governo con cui si stipula l’Intesa o gli organi deputati all’accertamento
fiscale, a dimostrare che non si tratti di una confessione e darne la prova: si inverte l’onere della prova. Se
tale tesi fosse corretta, basterebbe inserire nello Statuto del gruppo la natura di confessione: Colaianni
muove dal fatto che è in gioco una libertà fondamentale, per cui in linea di principio si deve valutare ciò che
viene affermato dal gruppo, ferme le valutazioni del caso. Partendo da questa tesi, il professore afferma
che l’UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, non potrebbe essere una confessione, in quanto
dichiara nel primo articolo del suo Statuto che “Dio è un mito”, autoqualificandosi in modo diverso da una
religione: tale elemento potrebbe però cambiare, in quanto uno Statuto è chiaramente modificabile.
Un altro gruppo controverso è quello del Pastafarianesimo, in cui si professa che gli antenati dell’uomo
siano i pirati e vengono istituite regole di chiara ispirazione parodistica rispetto alle religioni tradizionali: è
forse il caso più semplice, in quanto la Corte EDU sostiene che, affinché si possa parlare di religione, si
debba trattare di credenze dotate di un certo grado di serietà, coerenza e importanza. La fede religiosa
deve penetrare profondamente nello stile e nel modo di vita. In questo senso torna l’UAAR, che
rappresenta un esempio di ateismo militante e attivo, di persone che rivendicano la loro identità: la
credenza c’è, perché credere nell’esistenza o nell’inesistenza di Dio sono due facce della stessa medaglia.
Se la religione ha un aspetto identitario, in cui la comunità compie atti di culto e rituali, le contemporanee
comunità ateiste non si limitano a rinnegare l’esistenza di Dio, ma realizzano atti e rituali laici. In questo
contesto pone invece dei problemi il Buddismo, oggi riconosciuto tramite due Intese, in quanto tale
confessione non pratica attività di culto nel modo tradizionale.
Il tema dell’autoqualificazione viene comunque messo da parte dalla Corte costituzionale, con riferimento
al caso Scientology, nelle sentenze del 1992, del 1993 e del 2002: la Corte afferma infatti che non si può
rimettere sic et simpliciter a ciò che viene affermato dal gruppo. Se vi è un’Intesa, allora non si potrà

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mettere in dubbio il carattere di religione, in quanto sarà stato preventivamente riconosciuto come culto
ammesso ai sensi della legge 24 giugno del 1929, numero 1159: se manca l’accertamento positivo compiuto
dagli organi competenti, dovranno subentrare i criteri dell’interprete. I criteri definiti dalla Corte sono
quindi: eventuali precedenti riconoscimenti pubblici, i caratteri espressi dallo Statuto, la comune
considerazione. Tali criteri non definiscono, ovviamente, il concetto di religione, ma consistono in dei
parametri che agevolano l’attività dell’interprete. Con riferimento al primo criterio, relativo al precedente
riconoscimento pubblico, può essere il riconoscimento da parte del Ministero dell’Interno ai sensi della
legge 1159/1929, mentre il Consiglio di Stato ha dichiarato che i riconoscimenti esteri non possono valere.
Per quanto riguarda i caratteri nello Statuto, non si tratta che dell’autoqualificazione, ma si riferisce allo
Statuto nella sua interezza, per cui non si applica comunque la tesi del professore Colaianni. Rispetto
all’ultimo criterio, la comune considerazione, gli avvocati di Scientology la intendevano nel senso della
considerazione comune ai membri del gruppo, avendo interesse ad autoproclamarsi come confessione
religiosa. La Cassazione, proprio in una sentenza relativa a questo culto, ha comunque affermato che la
comune considerazione che si riferisca alla maggioranza tende a penalizzare le minoranze religiose, per cui
quest’ultimo parametro, come i precedenti, non risolve tutti i problemi.
Per fare una ricostruzione, sicuramente la religione è all’opposto della scienza: le credenze non sono
sottoponibili al procedimento di verifica con metodo scientifico, perciò l’ateismo è accomunato alla fede
religiosa. tali fenomeni sono differenziati solo dal contenuto della credenza, non dall’atteggiamento
interiore della persona. Credere in qualcosa di religioso vuol dire riconoscere il carattere sacro di
determinate cose, per il “dover essere” individuato dai filosofi: un valore religioso si colloca all’apice dei
valori di un soggetto, perciò qui si può riscontrare la differenza con l’ateismo inteso in senso tradizionale,
contrapposto alla fede positiva e opposto alla sacralità delle cose. Se però gli atei si organizzano e svolgono
riti, come i francesi che ai tempi della rivoluzione venerarono la razionalità, anche l’ateismo assume
carattere religioso: se le norme di condotta religiose ne rispecchiano i valori, comunque i valori possono
essere ricostruiti a partire da una filosofia, invece che a partire dalla trascendenza. Perciò si deve vedere
l’elemento concreto: se si vedono gli aspetti rituali, si possono assimilare gli atei ai gruppi confessionali.

FONTI DEL DIRITTO ECCLESIASTICO


Cosa significa parlare di microsistema o sottosistema di fonti del diritto ecclesiastico?
Ricordando che: le fonti del diritto sono atti o fatti attraverso i quali si producono le norme vigenti
nell’ordinamento, le fonti di produzione, come la legge, immettono nell’ordinamento le nuove norme, le
fonti di cognizione sono gli strumenti materiale che ci permettono di conoscere le norme, le fonti sulla
produzione sono particolari fonti che servono a regolare e disciplinare la produzione delle fonti (es. art 7 c.
II Cost. e art.8 c. III che ci indicano quali sono, indirettamente, gli organi e le procedure attraverso le quali
vengono create le regole che disciplinano i rapporti tra Stato e confessioni religiose).
Importante distinzione da fare è tra fonti unilaterali di diritto ecclesiastico e fonti bilaterali, quest’ultime
frutto di negoziazione tra Stato e le chiese. Le fonti bilaterali non esistono dappertutto, ma acquistano
importanza solo nei modelli di diritto ecclesiastico che aspirano alla cooperazione con le fonti religiose.
Altra distinzione che possiamo introdurre è tra fonti di diritto ecclesiastico specializzate e non
specializzate. Le prime nascono con lo specifico compito di disciplinare una materia di diritto ecclesiastico,
le seconde lo fanno solo in seconda battuta, nascono per altro scopo.
Studiamo le fonti del diritto ecclesiastico perché c’è la convinzione, in alcuni studiosi, che questa materia
costituisca un microsistema che si colloca all’interno del sistema generale delle fonti del diritto. Stando al
modello del diritto ecclesiastico del privilegio abbiamo visto che, secondo molti, i Patti lateranensi davano
vita ad un sistema chiuso, retto da principi propri, non da quelli del sistema generale delle fonti del diritto.
Se ciò è vero, allora non c’è dubbio che il diritto ecclesiastico sia una disciplina particolare, speciale, una
sorta di corpo estraneo rispetto al generale sistema delle fonti. Tutto ciò si desumeva dal fatto che molti
studiosi sostenevano che i Patti lateranensi si trovavano in una posizione superiore anche alla stessa
Costituzione. Da ciò deriva che questi accordi non erano modificabili con legge ordinaria e anche
l’insindacabilità da parte della Corte costituzionale. Come si è arrivati a sostenere ciò? Si è arrivati a questo
sulla base dell’interpretazione che un tempo si dava dell’art 7 c.II Costituzionale.

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Già nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente si tentava di capire quale valore dare ai Patti lateranensi.
Ci furono polemiche accesissime. Nel corso dei lavori, l’onorevole Tupini ricordò l’importanza di fare
esplicita menzione in Costituzione ai Patti del Laterano, questo per evitare che una nuova maggioranza
politica, un domani, li abrogasse. Per salvaguardare la pace religiosa era necessario che la nuova Repubblica
“firmasse” questo documento, una sorta di approvazione da parte del nuovo ordinamento. Questo pericolo
era intravisto anche perché in Assemblea molti avevano fatto notare l’incompatibilità di molte norme dei
Patti con altre norme della nuova Costituzione. Esempio è l’articolo 1 dei Patti, che affermava il principio
della religione cattolica come religione di Stato, cosa in contrasto con l’art. 8 Cost. Altro esempio è l’art. 5 III
c. con l’art.51 della Costituzione. La parte contraria all’approvazione di questa norma intravedeva il rischio
di “costituzionalizzazione” dei Patti, finendo per dare valore superiore alla stessa Costituzione.
Di fronte a queste due posizioni contrapposte intervenne la proposta di Togliatti (il quale era consapevole
dell’importanza dei Patti per garantire la pace religiosa): fare cioè puro riferimento a rapporti concordatari.
La differenza rispetto alla norma proposta da Tupini è la mancanza di un esplicito riferimento ai Patti del
Laterano. La maggioranza non fu però soddisfatta perché non si sarebbe data garanzia esplicita ai Patti.
L’onorevole Dossetti trovò un compromesso, propose quindi di fare riferimento esplicito ai patti
lateranensi, aggiungendo però, per superare le preoccupazioni della minoranza, che le modificazioni dei
patti, accettate dalle due parti, non avrebbero richiesto modifica della Costituzione. Tutto ciò sembrò
convincente. L’ostacolo della costituzionalizzazione sembrò superato, sennonché, subito dopo l’entrata in
vigore della Costituzione, Cassazione, dottrina e studiosi in generale affermarono come vi fosse stata
proprio una costituzionalizzazione dei Patti, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario. Questo perché si è
fatto esplicito riferimento non al principio concordatario ma direttamente ai Patti. Vero che non esiste
norma costituzionale che possa essere modificata con legge ordinaria, ma è anche vero che non vi è una
legge ordinaria che richieda, per poter essere modificata, un procedimento di revisione costituzionale in
caso di non accordo con la Santa Sede.
È corretto interpretare questo inciso a contrario (e cioè “con una revisione costituzionale si possono
modificare le norme in assenza di accordo con la Santa Sede)? Questa è forse un po’ incorretta, perché è
improbabile avere una revisione costituzionale che modifichi una norma dei Patti, più probabile è invece
una riforma costituzionale che cancelli nettamente l’art.7. Intanto nel 1964 la Cassazione affermava come le
singole norme dei Patti avessero stesso valore ed efficacia che avrebbero avuto se fossero state inserite
nella Costituzione, o fossero state approvate con legge costituzionale, anzi valore più intenso per la sancita
inapplicabilità del procedimento di revisione costituzionale. Questa interpretazione è oggi obsoleta, eppure
la Corte costituzionale, fino a qualche tempo fa affermava come l’art.7 avesse innalzato le norme dei Patti
ad un gradino non equiparabile a quello della Costituzione, ma comunque superiore a quello delle leggi
ordinarie: di fatto l’illegittimità delle norme dei Patti si può avere solo se vi è contrasto con i principi
supremi.
Oggi su che cosa basiamo l’esistenza di un microsistema delle fonti del diritto ecclesiastico? Alcuni
sostengono che non sia più possibile affermarne l’esistenza. Ma se questo esiste quanto può allontanarsi
dal generale sistema delle fonti? Non possiamo ad esempio pensare che in questo microsistema vi possa
essere una violazione del principio di eguaglianza, uno dei valori all’apice del nostro ordinamento.
Quale può essere il fondamento di questo sottosistema? Intanto la stessa Costituzione riserva un
trattamento speciale alle confessioni religiose. Questa autonomia concessa non è riconosciuta a
nessun’altra realtà. Inoltre, c’è il riconoscimento delle leggi che disciplinano i rapporti tra Stato e
confessione, predeterminando la presenza dell’elemento concordatario. Lo stato non può, a differenza
degli altri casi, disciplinare in materia unilateralmente, c’è quindi una limitazione della sovranità. Nei paesi
separatisti la legge disciplina qualsiasi materia, anche religiosa. Nel nostro ordinamento c’è una limitazione
di sovranità. Quando riconosco, come Stato, l’indipendenza e la sovranità della Chiesa nel proprio ordine,
sto autolimitando la portata della sovranità. Vero che viene riconosciuta ampia autonomia alle altre realtà
sociali, ma non così forte come quella concessa alle confessioni religiose.
Fondamento di questo microsistema è quello comune alle altre formazioni sociali e lo troviamo all’art.2
Cost. Queste confessioni religiose non le dobbiamo più guardare come ordinamenti stranieri con cui
mettersi d’accordo, ma sono innanzitutto delle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità della
persona, così come tutte le altre formazioni. C’è quindi un’impostazione diversa rispetto a quella di uno

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stato autoritario. Adesso c’è la valorizzazione delle autonomie, la nuova visione di uno stato democratico e
pluralista. Lo stesso articolo 2 tutela i diritti inviolabili dell’uomo, diritti che non possono essere violati
neanche dal costituente, sono una realtà preesistente allo stato.
Si apre un problema: se il fondamento costituzionale è comune alle altre formazioni sociali è anche vero
che la confessione religiosa viene trattata meglio rispetto alle altre realtà sociali. Esempio sono i concordati,
che vengono stipulati con la Chiesa, non con le altre formazioni. Esempio è dato dall’articolo 39 che, anche
se non è mai stato attuato, impone la creazione di organizzazioni democratiche all’interno dei sindacati.
C’è una giustificazione a tutto ciò? Alcuni sostengono allora che nella Costituzione ci sia una sorta di favor
religionis, una preferenza rispetto alle altre formazioni sociali. Fino a qualche anno fa questo era un dato
che si dava per scontato, ma una Costituzione pluralistica può fare veramente così, riconoscere un
vantaggio iniziale ad un soggetto rispetto agli altri? Alcuni si oppongono a questo, verrebbe meno il
pluralismo. Altri hanno allora sostenuto che la libertà religiosa, a differenza delle altre, gode di una sorta di
primazia. Storicamente la libertà religiosa è stata la prima ad essere rivendicata di fronte allo stato. Questo
problema di libertà religiosa si è posto soprattutto di fronte all’attuazione delle prime misure straordinarie
dovute al covid-19. CI furono limitazioni alla libertà di culto. Eppure, i teatri sono stati successivamente
limitati più delle cerimonie religiose (nonostante i pari rischi epidemiologici). Tutto questo perché le libertà
in gioco sono diverse. Ciò è stato addirittura affermato anche dal Consiglio di Stato francese.
Altri soggetti hanno affermato anche una differenza strutturale tra questa la libertà e le altre. Il Patto
Internazionale sui diritti civili e politici all’art.4 disciplina la materia delle situazioni di straordinaria
emergenza, cosa non disciplinata nello specifico dalla nostra Costituzione. In tale articolo si afferma come in
queste situazioni vi sono alcune libertà che non possono essere comunque derogate. Vi sono alcuni diritti
garanti dalla convenzione che non possono essere derogati neanche in situazione di emergenza e tra
queste vi è la libertà di culto, stabilendo quasi una sorta di gerarchia tra le varie libertà.
Nel corso delle discussioni in Assemblea costituente i rapporti stato-chiesa erano stati esaminati dal punto
di vista dei rapporti internazionali. Le analogie ci sono e il nostro testo parla di fenomeni contigui ma
diversi. L’autore del nostro testo si chiede se:
1. la bilateralità tra Stato e confessioni religiose sia identica ai fenomeni di negoziazione legislativa;
2. i concordati stipulati tra stato e confessioni siano assimilabili ai trattati internazionali.
Alcuni si sono spinti a dire che i concordati non sono altro che manifestazione di negoziazione legislativa,
idea che fa riferimento a quella prassi che vede il Governo dialogare con determinate parti sociali prima di
produrre una riforma (esempio intervento sulle pensioni), ed è quello che tenta sempre di fare uno stato
democratico e pluralista. Questo è però, secondo alcuni, uno dei canali attraverso cui si “svuota il potere
del Parlamento”, perché se il dialogo si produce nei tavoli dei vari ministeri il Parlamento non farà altro che
dare o meno una semplice approvazione. Questa però è la prassi, anche se non vi è alcuna norma
costituzionale che lo preveda. Questa è la principale differenza tra negoziazione legislativa e rapporti Stato-
Chiesa. In quest’ultimo caso vi è l’obbligo costituzionale di avere concordato.
Per quanto riguarda il confronto tra trattati internazionali e concordati le analogie non mancano. Ma se
facciamo un paragone tra un trattato Italia-Francia, per esempio, e un concordato tra Stato e confessione
religiosa, nel primo caso avremmo due soggetti che hanno propria sovranità e rivolgono le loro azioni a dei
cittadini. Nel secondo caso una confessione religiosa, che non ha proprio territorio (evitiamo di confondere
ad esempio lo stato Città del Vaticano con la Santa Sede, intesa come supremo organo della Chiesa), non si
rivolge solo a determinati cittadini di determinate nazionalità, ma a tutte le persone che praticano quella
confessione. Dal punto di vista giuridico questi due rapporti, trattati internazionali e rapporti Stato-
confessione religiosa, godono dello stesso trattamento in Costituzione? No. Dobbiamo fare il confronto tra
artt. 7 e 8 e l’art. 11 della Costituzione. Leggendo l’art.11 ricaviamo che il nostro ordinamento è aperto alla
comunità internazionale. La nostra Costituzione però non prevede direttamente limitazioni di sovranità
quando disciplina i rapporti con le realtà internazionali, c’è solo una manifestazione di disponibilità.
L’articolo 7 invece prevede direttamente una limitazione di sovranità, lo stato si autolimita non
intervenendo nell’ordine proprio della Chiesa.

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Nel rapportarsi con gli altri Stati, lo Stato è disposto ad accettare delle forme di limitazione della propria
sovranità, come enunciato dall’articolo 11 della costituzione: la limitazione della sovranità dello Stato sarà
l’effetto del singolo trattato, come nell’esempio dell’Unione europea. Facendo invece il confronto tra
l’articolo 11 e l’articolo 7, viene affermata la non ingerenza del diritto dello Stato nelle questioni che
riguardano la fattispecie in evidenza, ma anche lo Stato, nel suo ambito di competenza, non accetta
l’ingerenza della Chiesa. Rispetto al primo comma dell’articolo 7, si deve affrontare il tema delle fonti
autonomiche, ovvero quelle fonti che hanno la loro base nel potere di autonomia, di produrre delle norme.
Si tratta, ad esempio, di norme di organizzazione, come quelle relative all’elezione del Papa, ma anche di
norme di comportamento.
Le norme autonomiche delle confessioni religiose sono, perciò, le norme interne riguardanti
l’organizzazione del gruppo, nonché il comportamento e le condotte che vengono richieste ai propri fedeli.
Tradizionalmente, questa materia era ricostruita differenziando in maniera netta la qualifica attribuita alle
fonti autonomiche della chiesa cattolica rispetto a quelle attribuite alle altre confessioni religiose. A norma
del primo comma dell’articolo 7, si afferma che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono rispettivamente nei
propri ordini indipendenti e sovrani: il riconoscimento di tali attributi indica la presenza di un ordinamento
giuridico ordinario, che può organizzarsi in modo autonomo e perfino contrastante con lo Stato italiano. La
piena espressione dell’autonomia della Chiesa è rappresentata da tre spunti: il diritto canonico; lo
strumento del rinvio nell’ambito di applicazione del diritto privato internazionale; la soggettività
internazionale della Santa sede. La Santa sede partecipa a numerose organizzazioni internazionali, ma non
sempre come membro effettivo: nell’ONU o nell’OMS, ad esempio, ha la qualifica di osservatore. È,
chiaramente, l’unica confessione religiosa che fa parte di organizzazioni internazionali. Tra due ordinamenti
sovrani si pone il problema della competenza delle competenze, in cui è difficile individuare i limiti di
ognuno.
La stessa sovranità non viene riconosciuta alle altre confessioni: l’articolo 8 al comma 2 afferma che le
confessioni diverse da quella cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Come nel caso di due soggetti che autonomamente
stipulano un contratto, non possono violare le disposizioni normative sancite dalla legge. Le confessioni
acattoliche trovano ingresso nell’ordinamento attraverso la legge 24 giugno del 1929, purché seguano
principi che non siano contrari all’ordine pubblico e al buon costume, limite che poi viene ribadito
nell’anzidetto comma 2 dell’art 8 della Costituzione.
Un caso molto rilevante era stato quello dei Sikh, il cui credo si era diffuso in Emilia e nella provincia di
Latina: si tratta di un gruppo di persone provenienti dall’India, che per rispettare i precetti della propria
fede devono indossare sempre i 5 K, tra cui il kirpan, pugnale dalle dimensioni notevoli. In Italia non è
ammesso il porto d’armi ingiustificato, ma tali soggetti avevano chiesto di essere riconosciuti dallo Stato:
questo aveva sempre affermato di non poterli riconoscere come un’associazione di culto, perché uno dei
precetti del credo, ovvero l’uso del kirpan, entrava in contrasto con le norme interne. Nell’ottobre del 2021,
con la delibera numero 1685, il Consiglio di Stato ha invece riconosciuto questo gruppo, in quanto i Sikh
avevano dato luogo ad una versione del kirpan inoffensiva.
Con riferimento, invece, alle comunità ebraiche, fino all’Intesa con lo Stato nel 1989, le norme statutarie si
trovavano in un regio decreto: in passato, infatti, la comunità ebraica si autofinanziava attraverso
un’imposta dovuta dai suoi membri, con la quale si otteneva la possibilità di fruire dei servizi della
comunità; questo contributo era riscosso avvalendosi della disciplina per la riscossione delle imposte locali,
per cui se non si fosse pagato si sarebbe stati sottoposti a sanzioni. La legge dello Stato assicurava il braccio
secolare alla confessione. Si era affermata una tesi per cui, sebbene le regole organizzative del gruppo
fossero inserite in uno Statuto incapsulato in una legge, sarebbe bastato modificarla per modificare lo
Statuto: questo è avvenuto nel 1988, quando la confessione ha tentato di cambiare una norma
organizzativa interna, ma la Consulta si è espressa negativamente, non condividendo la possibilità di poter
modificare la legge con un atto di autonomia.
Tornando a commentare l’articolo 8, il primo comma afferma che tutte le confessioni religiose sono
egualmente libere di fronte alla legge, perciò non si può riconoscere la natura di entità con un suo ordine di
competenza alla sola Chiesa: si deve interpretare l’articolo 8 come il primo comma dell’articolo 7, al di là
della diversità testuale, in quanto questa deriva dalla storica prevalenza del cattolicesimo e non da una

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esigenza di diverso trattamento. Il limite di non contrasto con l’ordinamento giuridico citato nell’articolo 8
coincide quindi con il limite del rispetto dei principi di cui all’articolo 7. Anche le confessioni acattoliche
sono perciò indipendenti e sovrane, come si può affermare grazie all’interpretazione evolutiva delle norme
della Costituzione.

Un altro principio del sottosistema delle fonti del diritto ecclesiastico è il principio di bilateralità: principio
in base al quale i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose sono regolati in forza di accordi, per via
bilaterale. Esso si basa sul tandem secondo comma art 7 + terzo comma art 8.
La bilateralità è necessaria, non si tratta di una scelta operabile dal legislatore ma di una condizione di
legittimità costituzionale rispetto ai rapporti fra lo Stato e le confessioni. La garanzia del principio di
bilateralità è analoga per la Chiesa cattolica e le altre confessioni, nonostante la diversa formulazione dei
due commi, che quindi non implica la diversità di trattamento normativo fra i culti. L’argomento logico da
svolgere è che la Chiesa cattolica aveva stipulato, venti anni prima dell’entrata in vigore della Costituzione, i
Patti del Laterano, a differenza di tutte le altre confessioni: il costituente del 1947 non poteva perciò non
tenere conto della diversa posizione; è chiaro, inoltre, che intendesse riservare al culto cattolico particolare
visibilità. A quel tempo, Giorgio Peyrot, un illustre esponente delle chiese evangeliche e studioso di questi
temi, disse che il costituente aveva utilizzato per la chiesa cattolica una norma riservata menzionata
espressamente, mentre le altre confessioni erano state trattate come una sorta di “coacervo anonimo degli
indistinti”, un insieme anonimo considerato allo stesso modo, senza distinzioni all’interno delle diverse
confessioni religiose. Quanto espresso è certamente vero, ma si deve anche tenere conto che il culto
cattolico è sempre stato predisposto alle relazioni concordatarie con gli Stati, mentre ciò non si può
affermare per tutti gli altri culti, in particolare per quelli protestanti, che non sono del tutto favorevoli
all’accordo con gli Stati. Non si poteva quindi utilizzare la stessa formulazione dedicata alla Chiesa.
La prima intesa stipulata, in attuazione del terzo comma dell’articolo 8, fu quella con la Tavola Maltese, un
gruppo religioso conosciuto prevalentemente in Piemonte che uscì così dal “coacervo anonimo degli
indistinti”. L’intesa fu definita come una “intesa di separazione”, perché rispondeva originariamente ad una
logica diversa dal Concordato: serviva a ribadire principi separatistici, nell’ottica protestante che non vuole
scendere a compromessi e intromissioni dello Stato, in particolare nelle questioni di fede. Ad esempio, una
norma dell’Intesa affermava che lo Stato doveva fare venire meno le tre o quattro lire che lo Stato
riconosceva al culto a titolo di risarcimento per le pregresse persecuzioni, in opposizione all’ingente sistema
di finanziamento che il Concordato ha creato a favore del culto cattolico: si tratta proprio di un principio
separatista, per cui il culto mira a preservare la propria purezza rifiutando finanziamenti dello Stato.
Qual è la logica che si può ritenere sottintesa al principio di bilateralità necessaria? Il riconoscimento
dell’ampia autonomia che viene data a queste confessioni dal primo comma dell’art 7 e dal secondo
comma dell’art 8 della Costituzione: Chiesa cattolica e altre confessioni sono da considerare come
ordinamenti giuridici originari, operano alla pari dello stato, non sono dunque entità subordinate.
Di fronte a questa realtà, uno Stato separatista si sarebbe limitato a non inserirsi negli affari interni delle
confessioni: avrebbe riconosciuto anche per le confessioni religiose le garanzie che sono previste dal diritto
comune per tutti i gruppi, però i profili identitari, dunque le rivendicazioni delle identità confessionali, le
avrebbe lasciate perdere. Lo Stato separatista, dunque, garantisce la libertà senza dare rilevanza a questi
tratti identitari. Invece, uno Stato che si ispira alla cooperazione con le confessioni religiose, come l’Italia,
non si limita soltanto ad essere neutrale nei confronti delle esperienze di fede, ma si fa carico di assicurare
una tutela della libertà religiosa anche in senso positivo, promozionale, andando incontro, nei limiti del
possibile, anche alle rivendicazioni identitarie che provengono dai gruppi confessionali.
Questo rientra nella generale distinzione che si fa tra principio di eguaglianza formale e sostanziale:
nell’ambito universitario si potrebbe prendere il caso di uno studente la cui famiglia ha un reddito basso,
per cui lo Stato non si limita ad essere neutrale, facendo pagare la stessa quota a tutti indifferentemente
per un principio di uguaglianza formale, ma applica un principio di uguaglianza sostanziale, differenziando i
contributi sulla base del reddito. Uno Stato separatista e neutrale non si fa carico dell’esigenza di chi debba
ad esempio portare il velo, perché nessuno lo deve portare. L’uguaglianza può perciò essere intesa come
neutralità, oppure come accomodamento, quando si sostanzia in un tentativo di accomodare le diversità
per mettere tutti nella condizione di godere della propria libertà di religione in senso sostanziale. La

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Costituzione non si limita a garantire le libertà formale, ma si fa carico anche dell’esigenza di promuovere
l’effettivo godimento di queste libertà: come affermavano i costituzionalisti di una volta, le libertà sono
tutelate magis ut valeat, nel massimo della capacità espansiva. Gli accordi e le intese con le confessioni
servono quindi ad assicurare il massimo svolgimento delle manifestazioni della libertà religiosa. la logica
della cooperazione che rileva alla luce del secondo comma dell’articolo 7 e del terzo comma dell’articolo 8 è
quindi la conseguenza dell’ampiezza dell’autonomia riconosciuta alle confessioni religiose: queste non
possono essere considerate semplici associazioni o mere formazione sociali, che si adeguano alle norme
cogenti previste dallo Stato; le confessioni vanno viste come ordinamenti con organizzazione interna anche
contrastante con le regole dello Stato, per cui è necessaria l’Intesa come strumento di cooperazione.
Essendo ordinamenti autonomi, infatti, potrebbero qualificare in modo diverso dall’ordinamento nazionale
gli stessi fatti, scatenando conflitti.
I conflitti possono avvenire anche sul piano della lealtà del soggetto credente nei confronti della religione.
Un esempio può essere quello del testimone di Geova rispetto al servizio militare o alle emotrasfusioni. Nel
primo caso il credo ha tra i precetti divini il divieto di prestare servizio militare, che è invece un dovere
previsto dalla legge dello Stato, in particolare all’articolo 52 della Costituzione, che definisce la difesa della
Patria un sacro dovere. Rispetto alle trasfusioni, invece, nel credo dei Testimoni di Geova si tratta di un
grave peccato, in quanto è vietato consumare sangue altrui e a questo viene ricondotto il divieto di
riceverne in ambito medico: per quanto sia lecito rifiutare cure mediche non desiderate, il conflitto si pone
nel momento in cui si tratti di un minore a rischio di morte.
Quando si verificano tali conflitti di lealtà un ordinamento separatista rimane neutrale e non cerca
soluzioni, mentre uno Stato cooperazionista tenta di andare incontro alle esigenze identitarie della
confessione, per quanto non possa accettarne tutte le istanze. Si devono quindi distinguere due casi: se la
regola confessionale entra in conflitto con norme di legge statali attuative di valori costituzionali
incondizionati e irrinunciabili, l’autonomia confessionale trova un limite e non potrà pretendere che lo
Stato si pieghi alle sue richieste, come nel caso delle trasfusioni ad un minore, che deve essere tutelato in
ogni caso; se la regola confessionale entra in conflitto con valori che si possono bilanciare o consentono di
essere attutati in maniere diverse, si cercherà il compromesso, come nel caso del servizio militare, che può
essere convertito in un altro tipo di obbligo per andare incontro alle diverse esigenze identitarie.
I nuovi patti fra lo Stato e le diverse confessioni vanno intesi come “pacta libertatis et coperationis”, cioè
come accordi che servono a trovare delle soluzioni tali da assicurare una migliore garanzia della libertà
religiosa. Questa espressione è tratta dai documenti del Concilio Vaticano II, a riprova dell’evoluzione della
Chiesa, che non rivendica più i temi del 1929 e si distacca dall’antico tipo di patti, detti “pacta unionis”. Il
primo esempio di pactum unionis è il Concordato di Worms del 1122, tra l’Imperatore Enrico V e Papa
Callisto II: aveva lo scopo di risolvere la lotta per le investiture, in quanto i vescovi non sapevano se la loro
nomina dovesse giungere dal Papa o dall’imperatore: si trattava quindi di un regolamento di confini, per
individuare a chi appartenesse la competenza di nominarli, ma si finì con il confondere le materie religiose
con le materie civili, facendo reciproche concessioni.
I Patti del 1929 erano pacta unionis, perché appartenevano a quel modello di Concordato comune tra la
Prima e la Seconda guerra mondiale in diversi Stati europei: si tratta di Paesi in cui dominano governi
autoritari di destra, come la Germania di Hitler o la Spagna di Franco, per cui l’alleanza con la Chiesa
cattolica, allora particolarmente prestigiosa e influente, serve a reprimere il dissenso, è strumentale al
raggiungimento degli obiettivi autoritari dello Stato. In questi patti viene riaffermato il principio della
religione di Stato e questo si impegna ad assicurare agli ecclesiastici la difesa da parte delle sue autorità per
gli atti del loro ministero spirituale, mettendo a disposizione le proprie forze dell’ordine e riconoscendo il
carattere sacro della città di Roma, dove non poteva accadere nulla in contrasto con tale carattere.
L’insegnamento della religione viene considerato fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica, a
riprova del regime di unione. Un’altra dimostrazione deriva dal fatto che se un ecclesiastico fosse stato
colpito da un provvedimento disciplinare non solo avrebbe operato il III comma dell’articolo 5 del
Concordato, ma se ci fosse stata una sanzione, come l’obbligo di dimorare in un determinato luogo, le
misure di polizia offerte dallo Stato ne avrebbero garantito l’esecuzione. In questo sistema di unione la
Chiesa offriva il giuramento di fedeltà, la cosiddetta clausola politica per cui vescovi e parroci giuravano

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fedeltà al regime: vi sono tuttora studi in corso sulla moderata reazione della Chiesa di fronte a leggi
gravissime come quelle razziali.
La Costituzione opera una svolta radicale rispetto al regime autoritario del passato e per rafforzare la scelta
liberale e personalistica si fissa una clausola di non ritorno al vecchio regime nell’articolo 139, che
impedisce che una riforma costituzionale possa variare radicalmente l’ordinamento e le basi su cui si fonda:
si tratta di un atteggiamento di ripudio attraverso la fissazione della forma repubblicana. Anche rispetto al
rapporto con la Chiesa si fissa il principio della distinzione degli ordini: i problemi della lotta alle investiture
non possono più porsi, dato che l’articolo 7 chiarisce che l’ordine della Chiesa e l’ordine dello Stato sono
indipendenti e sovrani. Non si può tornare indietro, ma un pezzo del vecchio regime rimane: il costituente
non rimuove, infatti, i Patti del 1929, nonostante fossero espressione di autoritarismo e privilegio. La Chiesa
aveva ovviamente insistito moltissimo affinché i Patti trovassero espressa menzione nella Costituzione,
temendo che una possibile maggioranza comunista o socialista futura potesse eliminarli.
Per meglio comprendere il tema si deve partire dal secondo comma dell’articolo 7: nel primo inciso di
questo comma si fa espresso riferimento al principio pattizio, cioè il principio di salvaguardia dei Patti del
1929. Il principio pattizio si distingue dal principio di cooperazione, che è un modo di confrontarsi tra lo
Stato e la Chiesa, tipico dei sistemi come quello italiano, per promuovere la tutela della libertà religiosa in
senso positivo. Nel primo caso, invece, si tratta di un principio di diritto singolare, in quando fa riferimento
ad un documento particolare, costituito dai Patti; è inoltre una norma eccezionale, perché mantiene in
vigore i Patti nonostante il costituente abbia ripudiato ogni elemento o forma del regime precedente, in
quanto non credeva che i tempi fossero ancora maturi per prendere le distanze dalla Chiesa cattolica, la
democrazia era ancora troppo fragile. Dal secondo elemento scaturisce la terza caratteristica, ovvero la
transitorietà: il costituente fa un’eccezione e si rende conto di essere di fronte ad un pactum unionis che va
adeguato, ma potrà aggiornarlo solo intavolando trattative per revisionare questi patti. Il secondo inciso del
secondo comma dell’articolo 7 stabilisce, infatti, che “Le modifiche dei Patti accettate dalle due parti non
richiedono un procedimento di revisione costituzionale”: questa formula era stata inserita dall’onorevole
Dossetti per mettere fine ai dubbi della minoranza politica rispetto alla costituzionalizzazione dei Patti ed è
l’inciso da cui si coglie l’intenzione di riconoscere i patti in via transitoria. Nella legge fondamentale per la
regolazione dei rapporti con la Chiesa si indica che il costituente ha in mente la modifica dei Patti: non va
letta come una norma di carattere tecnico che spiega come modificare i Patti, ma si deve leggere come un
incitamento alla modifica dei Patti, attraverso una legge ordinaria con l’accordo della Santa Sede. Solo così
si può garantire la complessiva coerenza della scelta del costituente.
Un fenomeno simile è avvenuto rispetto alla tredicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione,
in rapporto all’articolo 16. L’articolo 13 della disposizione transitoria e finale, prima di essere abrogata
diversi anni fa, vietava ai discendenti maschi di casa Savoia di rientrare nel territorio italiano, in evidente
conflitto con l’articolo 16, relativo alla libertà di circolazione, che impedisce la presenza di restrizioni dettate
da ragioni di carattere politico e autorizza eventuali restrizioni solo in via generale, come nel caso del
lockdown e non per restringere uno specifico gruppo di persone. La tredicesima disposizione era
chiaramente nominativa, nei confronti delle specifiche persone che costituiscono la linea maschile dei
Savoia: era chiaramente una norma d’eccezione, di difficile armonizzazione con la logica delle libertà, ma si
trattava di una norma transitoria, in quanto poi abrogata con conseguente rientro dei Savoia nel Paese.
Taluni dicono allora che il secondo comma dell’articolo 7 sia una norma transitoria fuori posto, che sarebbe
dovuta essere tra le disposizioni transitorie e finali: questa norma può rendere tollerabile l’eccezione solo
se la limitazione è in via transitoria. Tuttavia, l’aggiornamento dei Patti lateranensi è avvenuto solo una
quarantina di anni dopo, contro ogni buon auspicio dei costituenti.

Copertura Costituzionale dei “nuovi” accordi


Il primo del secondo comma dell’articolo 7 ha ormai esaurito gran parte della sua sfera di efficacia, perché
nel 1984 si è finalmente avuta la revisione dei Patti del 1929: il Trattato del Laterano, che dava vita allo
Stato di Città del Vaticano, è rimasto in vigore nella sua formulazione originario e continua a godere della
copertura costituzionale che deriva dal principio pattizio, che salvaguardia i Patti del 1929. È stato invece
eliminato il Concordato, sostituito da un nuovo Concordato tuttora in vigore, sulla cui copertura
costituzionale vi sono stati molti dubbi: ci si chiede infatti se sia un mero documento recepito con legge

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ordinaria (la 121 del 1985), o se sia protetto dalla Costituzione rispetto ad eventuali modifiche
unilateralmente disposte dal legislatore. Anche il Trattato del Laterano è stato recepito con legge ordinaria,
la 810 del 1929, per cui dovrebbe essere soggetto alla gerarchia delle fonti e modificabile da legge ordinaria
successiva, ma gode di copertura costituzione attraverso l’applicazione del secondo comma dell’articolo 7:
se una legge provasse a modificarlo, sarebbe incostituzionale. C’è poi un problema di eventuale copertura
delle norme incluse nei Patti rispetto alle norme della Costituzione: i patti originari non sono stati
costituzionalizzati e non si collocano quindi allo stesso livello della Costituzione, ma godono di una
copertura confermata dalla Corte costituzionale, per cui possono essere sindacati solo in presenza di un
contrasto con un principio supremo della Costituzione.
Il processo che portò alla revisione dei patti ebbe inizio da uno specifico episodio nel 1965. Un
drammaturgo tedesco voleva rappresentare la sua opera teatrale “Il vicario” a Roma: dato che l’opera era
fortemente critica nei confronti dell’atteggiamento di Papa Pio XII verso i crimini perpetrati dai nazisti sugli
ebrei, il prefetto di Roma non ne ammise la rappresentazione. L’articolo 1 del Concordato del 1929
riconosceva, infatti, il carattere sacro della città di Roma, che impegnava gli organi dello Stato ad evitare
che vi si potessero realizzare atti contrastanti con la sacralità, come l’opera del caso. Dopo questo episodio,
il socialista Lelio Basso presentò un ordine del giorno al Senato per chiedere la revisione del Concordato,
ma i tempi non erano ancora maturi.
Il primo dicembre del 1970 viene approvata la legge Fortuna Baslini sul divorzio, la 898/1970: le gerarchie
ecclesiastiche si oppongono fermamente e la Chiesa organizza un referendum per l’abrogazione
dell’istituto, che a suo avviso minava l’indissolubilità del matrimonio. Il referendum viene perso e la legge
rimane: questo grave momento di crisi per la Chiesa, sconfitta nella competizione elettorale da essa stessa
promossa, è ideale per lo Stato. Si è così superata la prospettiva originariamente profilata, che voleva
intervenire con alcuni ritocchi formali sul vecchio Concordato, arrivando invece alla definizione di un nuovo
accordo. Bisogna quindi capire se tale Concordato sia una legge ordinaria come tutte le altre o goda della
stessa copertura costituzionale del precedente.
Se si interpreta in modo rigoroso il primo inciso del secondo comma dell’articolo 7, si dovrebbe dire che il
nuovo accordo non gode di copertura costituzionale, o perlomeno non di quella dell’articolo 7: ci sarebbe
infatti un appiglio, la copertura suppletiva data dall’articolo 10. L’articolo 10 dispone che la Repubblica si
conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra cui si staglia il principio pacta
sunt servanda, relativa al rispetto dei patti internazionali. Questo ragionamento non funziona, perché la
norma pacta sunt servanda non è una norma costituzionale, ma, per quanto sia una norma internazionale e
consuetudinaria, è soprattutto strumentale, cioè relativa alle fonti del diritto, mentre l’articolo 10 richiama
le norme materiali, come il principio di libertà dei mari. Con l’intervento di modifica del titolo V, e in
particolare dell’articolo 117 della Costituzione, si prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle
Regioni è esercitata conformemente agli obblighi internazionali: si potrebbe allora dire che il nuovo
accordo del 1984 goda della copertura derivante dall’articolo 117 comma I della Costituzione.
Quando si parla di copertura costituzionale, si limita la democrazia, in quanto quest’ultima si basa sul
trasferimento del potere sovrano dal popolo ai rappresentanti in Parlamento, che si trovano però limitati
rispetto ai determinati argomenti che rientrano nella copertura costituzionale. Inoltre, il discorso non vale
solo verso la legge ordinaria successiva, ma anche verso le norme della Costituzione: la Corte costituzionale
è stata più volte chiamata, a partire dal 1970, a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale di alcune norme
incluse nei Patti lateranensi.
È giusto che questi documenti possano ledere principi fondamentali della Costituzione? Si prenda un caso
che è sorto in seguito alla riforma del diritto di famiglia del 1975, che stabiliva che il matrimonio civile possa
essere contratto solo da persone maggiorenni. Nel diritto canonico, allora come ora, il matrimonio si può
celebrare anche tra persone minorenni, purché avessero raggiunto il quattordicesimo anno d’età: il
matrimonio si trascriveva nei registri dello stato civile e acquistava piena efficacia. Venne sollevato il caso
innanzi alla Corte costituzionale, organo custode della legalità costituzionale, perché si creava una
sostanziale differenza fra i minori cattolici, che attraverso il rito canonico potevano contrarre matrimonio, e
i minori di altri culti, che non potevano: si era così di fronte ad una discriminazione per motivi religiosi, con
la grave violazione del principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione. La Corte rispose che l’articolo 7
comma II non si era limitato a sancire un generico principio di cooperazione fra lo Stato e la Chiesa, ma il

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Concordato era produttore di diritto, in una posizione intermedia fra la legge ordinaria e la Costituzione,
mentre la verifica della Corte è limitata ai soli principi supremi. La Corte inoltre dichiarò che l’articolo 7
offre una copertura ad atti lesivi dell’articolo 3 della Costituzione, definendo tale principio come non
supremo. Trovò comunque un escamotage per eliminare la normativa: dato che per contrarre matrimonio
si deve effettuare una scelta, tra il matrimonio civile e quello concordatario, l’atto di scelta deve essere
consapevole, perciò deve essere compiuto da persone maggiorenni. Così, nella visione della Corte
costituzionale, il Concordato prevale comunque sul principio di eguaglianza e ritiene di dover dichiarare di
volta in volta se il principio sia supremo o meno.
Tornando al tema della copertura che l’articolo 7 garantisce ai Patti, dato che taluni autori credevano non la
garantisse anche agli accordi ulteriori, già nella discussione all’interno dell’Assemblea costituente,
composta da eminenti giuristi come Mortati o Esposito, si disse che l’inciso avrebbe comportato la
copertura non solo per i Patti già esistenti, ma anche per gli accordi successivi riguardanti le stesse materie.
Richiamando i Patti, il costituente si è autolimitato con riferimento a quelle materie, che non possono
essere modificate da una semplice maggioranza parlamentare ma necessitano del consenso della Santa
Sede. Se c’è un accordo di modifica si dovranno distinguere due casi: se disciplina le stesse materie che
sono regolate dai Patti, si manterrà la copertura, mentre se disciplina materie nuove si uscirà dalla
previsione dell’articolo 7. Più si estende la copertura, infatti, più si limita la democrazia. Un problema è così
l’individuazione delle materie “vecchie”: anche risolvendo il problema, la fonte diventerebbe frammentata,
perderebbe la sua unitarietà perché verrebbe sezionato l’articolo tra la parte che riguarda la materia
precedente e gode di copertura, e la parte nuova, che invece è priva di garanzia costituzionale, creando una
fonte disarticolata. Il problema implica, poi, che all’interno del recinto che definisce una materia come
vecchia, sia possibile apportare qualsiasi modificazione alla disciplina: questo tradisce la logica per cui il
costituente era consapevole di quanto fosse stato detto dai Patti originali e ne avesse accettato la
limitazione. Ma dire il contrario implicherebbe che le materie non possano essere disciplinate in maniera
differente.
Per superare queste incongruenze, alcuni autori hanno formulato un’altra tesi, che risulta essere più
rilevante, perché è quella che le parti hanno tenuto presente quando hanno revisionato il Concordato.
L’accordo nuovo è infatti chiamato Accordo di modificazione del concordato del 1929: questa formula
permette di ritenere che il vecchio Concordato sia ancora in vigore e quindi non abrogato. Questa tesi
sosteneva di non dover distinguere tra materie vecchie e nuove, ma tra accordi di modifica e nuovi accordi,
ossia tra accordi che modificano i Patti ed un accordo che riscrive totalmente il vecchio Concordato. Il
semplice accordo di modifica godrebbe della copertura, l’accordo che invece andasse a riscrivere il
Concordato no. Questa tesi trova un fondamento di carattere testuale nell’articolo 7, dato che si citano
espressamente le modificazioni. Un altro vantaggio, rispetto alla precedente tesi, è che la fonte sarà
qualificata come unitaria qualora si accerti la natura innovativa: o gode per intero della copertura, o non ne
gode, senza spezzettamenti fra materie vecchie e nuove.
Qual è però il vero problema grave ed insuperabile? Un medesimo risultato riformatore godrebbe della
copertura costituzionale oppure no a seconda che sia ottenuto attraverso diversi interventi di modifica
succedutisi nel tempo oppure con un unico intervento sostanzioso concentrato in un tempo preciso: se si
ammettesse la copertura per le semplici modifiche, ci si potrebbe allontanare sempre di più dalla disciplina
originaria, sostenendo che si mantenga la copertura in quanto si tratta di semplici modifiche. Si deve
rimanere invece agganciati al volere del costituente. Se si prende l’esempio dell’ora di religione nelle
scuole, originariamente di due ore, la si potrebbe ridurre prima ad un’ora e mezza, quindi ad un’ora ed un
quarto, fino al toglierla definitivamente. L’articolo 7, prevedendo le semplici modificazioni, non le ha
qualificate, perciò potrebbe includere riforme graduali, o sostanziali, o di materie già regolate quanto gli
accordi aggiuntivi o integrativi. Tuttavia, questo allontanerebbe la disciplina dalla volontà del costituente.
L’articolo 117 risolve il problema, dando copertura a tutti gli accordi, ma il limite di questa tesi sarebbe di
assimilare eccessivamente i Concordati e i trattati internazionali: i Concordati sono infatti pacta libertatis et
cooperationis, mentre i trattati internazionali sono pacta unionis, che vanno a regolare le reciproche
competenze fra Stati. Sia le intese che gli accordi di modifica sono strumenti di cooperazione tra ordini
distinti, volti a sviluppare la libertà religiosa e confessionale.

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Per quanto riguarda la situazione delle altre confessioni, l’articolo 8 al III comma sancisce che “I rapporti fra
lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica sono regolate, per legge, sulla base di Intese con le
relative rappresentanze”, perciò le leggi che recepiscono le intese godono di copertura costituzionale nei
confronti di leggi ordinarie successive: tale norma ha carattere eccezionale, in quanto deroga alla regola
generale della procedura legislativa ordinaria e incontra il limite all’interpretazione analogica.
La Corte costituzionale, nella celebre sentenza numero 203 del 1989, diede una definizione della laicità,
intesa come salvaguardia della libertà di religione in un regime di pluralismo culturale e confessionale. Nelle
successive pronunce, la Corte ha compiuto delle aggiunte: ha ad esempio sostenuto che la laicità comporta
la neutralità e l’equidistanza dello Stato rispetto alle diverse confessioni religiose, oppure come distinzione
degli organi distinti. Il nucleo della laicità sarebbe quindi ricavabile dal principio della distinzione degli ordini
e dalla concreta distinzione che si realizza all’interno dell’ordinamento.
Nelle ultime pronunce, la Corte fa riferimento anche al principio di imparzialità che lo Stato deve tenere
nei confronti delle diverse fedi religiose, corollario del principio di laicità. In particolare, considera il
principio di laicità come principio supremo dello Stato, con la logica di rimanere fedele alla vecchia
impostazione in cui la compatibilità del Concordato si può misurare solo sui principi supremi. Secondo
questo meccanismo, si ammetteva che i Patti originari fossero considerati più importanti dei principi
costituzionali non supremi, in quanto il costituente era consapevole dell’autolimitazione, ma riversandolo
sull’accordo di modifica del Concordato, si dovrebbe ammettere possibile la modifica dei principi
costituzionali non supremi. Tuttavia, non si può ammettere che una legge ordinaria, come lo è la legge 121
del 1985, che ha dato ingresso al Concordato, modifichi una norma costituzionale, andando contro l’ordine
stabilito dalla gerarchia delle fonti. C’è chi oppone allora che tale meccanismo invece funzioni con
riferimento all’Unione europea, dato che il costituente ha manifestato la disponibilità a cedere porzioni di
sovranità per un ordinamento che assicura la pace tra le Nazioni, ma non poteva conoscere le future
limitazioni derivante da questa organizzazione; nei confronti delle fonti derivate del diritto dell’Unione
europea è possibile fare valere solo la teoria dei controlimiti, ammettendo allora che un regolamento
comunitario possa modificare principi costituzionali. Questo va però ammesso, per il discorso della
relativizzazione dello Stato: lo nostro non pretende di esercitare poteri sovrani illimitati, ma si autolimita in
diverse occasioni, ammette forme di accomodamento lesive di principi costituzionali al fine
dell’integrazione. Anche con riferimento alle confessioni, si va incontro alle esigenze di autonomia
confessionale, ammettendo limitazioni ai principi non fondamentali della Costituzione.
Taluni sostengono che la Corte abbia abbandonato questa sua idea nella sentenza numero 349 del 2007,
parte delle note sentenze gemelle (348 e 349) che hanno considerato la CEDU una norma interposta: la
Corte sostiene che le norme della CEDU godano della copertura data dall’articolo 117 comma 1 della
Costituzione, passando in rassegna le disposizioni costituzionali per giungere a tale conclusione. Infatti,
l’articolo 10 comma 1 non va bene, in quanto prevede l’adattamento automatico con riguardo alle norme
consuetudinarie del diritto internazionale; il comma 2 prevede invece la copertura internazionale solo per
una particolare categoria di trattati, ossia quelli che riguardano la condizione giuridica degli stranieri;
l’articolo 11 prevede limitazioni della sovranità per un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
nazioni, ma l’adesione al Consiglio d’Europa e alla CEDU non comporta limitazioni di sovranità, e la Corte
costituzionale aggiunge che lo Stato non cede porzioni di sovranità in materia di diritti inviolabili. Perciò, la
Corte dichiara che: “l’art. 10 comma 2 e l’art. 7 della Costituzione fanno riferimento a ben identificati
accordi concernenti rispettivamente la condizione giuridica dello straniero e i rapporti tra Stato e chiesa
cattolica, e pertanto non possono essere riferiti a norme convenzionali diverse da quelle espressamente
menzionate”. Perciò, anche accordi totalmente estranei alle materie regolate dai patti o totalmente
innovativi, godono della copertura dell’articolo 7.
Estendendo questa copertura, non si rischia di intaccare il principio di democraticità? È vero che non
qualsiasi accordo gode della copertura, ma per stabilire se un accordo ne goda o meno, si farà attenzione a
quella che è la sostanza di questi accordi: se si tratta di accordi di promozione della libertà religiosa, godono
della copertura, se si invece non afferiscono a tale tema, non ne godono. Come evidenzia il professore
Finocchiaro, l’oggetto della normativa concordata è definito: non tutti gli accordi tra Stato e Chiesa possono
godere di tale copertura, che è circoscritta a determinate materie. All’interno del sistema delle fonti del
diritto ecclesiastico, si deve operare una fondamentale distinzione fra fonti unilaterali e bilaterali. La

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presenza di fonti unilaterali implica che determinate materie debbano essere disciplinate per legge
unilaterale, con precisi limiti d’oggetto. Le garanzie generiche che riguardano la libertà religiosa di tutti
devono essere disciplinate con legge e tramite intese o concordati, dato che questi ultimi si devono invece
occupare delle specifiche esigenze delle singole confessioni religiose. Si deve perciò distinguere tra la
generica libertà religiosa e la specifica libertà confessionale: determinate confessioni, infatti, potrebbero
ritenere insufficienti le garanzie previste per la libertà generale, con il conseguente bisogno di concordare
particolari forme di collaborazione con lo Stato. Perciò, le materie non afferenti al singolo rapporto devono
essere disciplinate da legge unilaterale dello Stato, mentre le materie che riguardano le specifiche esigenze
confessionali devono essere disciplinate attraverso il confronto fra lo Stato e le confessioni. Nella sentenza
numero 52 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato che “le intese devono essere concluse in vista
della elaborazione della disciplina di ambiti collegati ai caratteri peculiari delle singole confessioni religiose.
Le intese sono perciò volte a conoscere le esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose, ovvero
a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni, ovvero ancora
a specifici atti proprio della confessione religiosa”. L’intesa non è perciò una fonte di privilegio, ma può
anche essere una limitazione per l’autonomia confessionale.
Dato che le Intese nascono con lo scopo di rispondere alle specifiche esigenze delle confessioni religiose, è
sorto negli ultimi anni un problema, relativo alle cosiddette “intese fotocopia”: tutti i diversi atti trovano
norme di principio che ribadiscono le generiche garanzie di libertà religiosa, norme relative alla nomina dei
ministri di culto, all’esenzione dal servizio militare, alla materia matrimoniale o ai beni culturali, senza
differenze sostanziali tra i diversi culti acattolici. Questo fenomeno è sorto come risposta al sistema
discriminatorio instaurato dalla legge 1159 del 1929: dato che questo decreto disciplina i culti privi di
un’Intesa, questa si è trasformata nell’occasione per sottrarsi all’applicazione della normativa generale
discriminatoria. Molti gruppi aspirano così all’Intesa, ma questo priva di logica l’Intesa stessa: se c’è una
legge generale discriminatoria, sta al Parlamento modificarla o abrogarla, permettendo quindi allo
strumento delle intese di tornare a disciplinare elementi particolari e non gli ambiti generali.
Secondo taluni autori, tra cui il professore Finocchiaro, la legge 1159 del 1929 non potrebbe essere
modificata o abrogata, in quanto godrebbe di copertura costituzionale, dal comma III dell’articolo 8: tale
visione è però paradossale, in quanto la legge è stata introdotta unilateralmente dal legislatore, non è
equiparabile ai Patti Lateranensi; inoltre, è chiaro che la garanzia data dal terzo comma dell’articolo 8 si
riferisca alle legislazione successiva all’entrata in vigore e non a quella di epoca fascista.
Il Concordato del 1984 introduce una novità: il mutamento qualitativo del principio di bilateralità, per cui
non si guarda più alla quantità delle norme, ma alla qualità. La novità è data dalle “intese ulteriori”: in
genere, nel parlare di intese, ci si riferisce all’istituto del III comma dell’articolo 8, che fa riferimento agli
accordi tra lo Stato e le confessioni acattoliche; in questo caso si tratta invece di ulteriori accordi previsti
per completare il quadro della disciplina dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Tradizionalmente, il principio di bilateralità si esauriva soltanto nella fase di stipulazione dell’accordo tra le
alte parti: il Concordato del ’29 era stato stipulato dal Governo di Mussolini e dal segretario di Stato del
Vaticano, ma sono intervenute anche altre fonti per dare attuazione o esecuzione alle norme pattizie. Ad
esempio, l’articolo 34 del vecchio Concordato regolava il matrimonio concordatario, ma a disegnare la
disciplina intervenne anche la legge numero 847 del 1929, che attuava la disposizione dell’articolo 34: si
dava attuazione alla legge bilaterale tramite una legge unilaterale dello Stato. I tre livelli che rilevano sono:
la normativa di principio; la normativa di dettaglio; la normativa applicativa o di esecuzione. Il Concordato
del 1929 conteneva una serie di norme relative agli enti ecclesiastici, attuate con legge 848/29 ed eseguite
con decreto-legge dello stesso anno. Si ha così un primo livello, la normativa concordata, relativa ai principi,
un secondo, ossia la normativa unilaterale, di dettaglio, e infine un terzo, ossia la normativa applicativa con
fonte unilaterale. La logica di questo schema rientra nella prospettiva dell’uso strumentale della religione:
sul piano solenne il Governo cedeva su determinati argomenti, recuperando quanto concesso sul piano
della normativa di attuazione.
Oggi è venuto meno l’uso strumentale della religione: i patti nascono nell’ottica della cooperazione, per
promuovere la libertà, perciò lo schema della bilateralità si può adottare anche nelle fasi dell’attuazione e
dell’esecuzione. Taluni parlano di bilateralità diffusa: si utilizza l’accordo principale relativamente ai principi

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del rapporto Stato-Chiesa, mentre per i dettagli si rinvia ad un’intesa ulteriore, per ottenere più facilmente
un accordo, ma non si dovrebbe dilatare troppo il principio.
Le intese ulteriori prendono il nome di intese concordatarie in senso lato e si riferiscono ai rinvii a
pattuizioni successive, inclusi nel Concordato. All’interno di questa categoria, se ne trova un’altra, costituita
dalle intese concordatarie in senso stretto: può capitare che le alte parti dello Stato e della Chiesa
nell’accordo principale si limitino ad individuare la materia di interesse comune, detta res mixtae, senza
concordare alcun principio di disciplina, affermando di volersene occupare in una intesa successiva. Se si
prende l’articolo 6 del Concordato del 1984: “La Repubblica italiana riconosce come giorni festivi tutte le
domeniche e le altre festività religiose determinate d'intesa fra le Parti”. Elemento di res mixta sono i giorni
festivi diversi dalla domenica, la cui definizione viene rinviata ad una successiva intesa. Se si prende
l’articolo 7 al comma 6: “all’atto della firma del presente accordo, le parti istituiscono una Commissione
Paritetica”. Tale commissione è un organo, ma la norma presenta numerose res mixtae, come la disciplina
della materia degli enti e dei beni ecclesiastici o quella della revisione degli impegni finanziari dello Stato. Le
intese concordatarie in senso stretto sono quindi pattuizioni interordinamentali, in cui vengono in gioco gli
interessi delle parti: hanno carattere settoriale perché riguardano la disciplina di una sola materia
determinata e sono stipulate dagli stessi soggetti che hanno stipulato il patto originario, in linea di massima
con le stesse modalità, differenziandosi dal Concordato solo per il loro carattere settoriale. Il professore
Finocchiaro distingue tra accordo-quadro e accordo-derivato.
Nell’accordo del 18 febbraio del 1984 vi sono dei casi che presentano elementi di res mixtae, ma che
rimandano ad un’intesa successiva le sole norme di dettaglio: si tratta di intese para-concordatarie o sub-
concordatarie, definite così perché non sono sullo stesso livello dell’accordo e si limitano a dettare la
normativa di attuazione delle norme di principio contenute nell’accordo-quadro. Si è comunque di fronte
ad una pattuizione inter-ordinamentale, dato che le parti intervengono come espressione di due
ordinamenti: le intese di questo tipo hanno comunque contenuto settoriale, ma sono stipulate da soggetti
esponenziali diversi da quelli di vertice e sono finalizzate all’attuazione e integrazione del patto originario
che le prevede. Mentre le intese concordatarie intervengono tra le più alte parti e dettano l’intera
disciplina, le seconde intervengono ad un livello più basso.
Si hanno poi le intese procedimentali, da collegare ai moduli convenzionali dell’attività amministrativa.
Oggi, i provvedimenti amministrativi seguono le disposizioni della legge 241 del 1990, che ha
democraticizzato le procedure, consentendo la partecipazione del cittadino alla fissazione dei contenuti del
provvedimento. Già dal 1984 il Concordato aveva anticipato questo tema, prevedendo che al terzo livello,
quello dell’applicazione o dell’esecuzione delle norme, si ricorresse a intese.
Se si prende ad esempio la nomina degli insegnanti di religione, vi è la disposizione di principio, seguita
dall’intesa para-concordataria (l’articolo 5 del protocollo addizionale), ma al momento reale della nomina,
quindi nel piano dell’applicazione, serve un’ulteriore intesa tra l’organo scolastico competente e il vescovo.
Erano sorte numerose polemiche relativamente all’articolo 12, punto 2, dell’accordo del 1984. L’articolo 12
tratta infatti della tutela dei beni culturali, stabilendo che la Santa sede e lo Stato, nel rispettivo ordine,
collaborano per garantire una migliore fruizione dei beni del patrimonio storico-artistico del territorio: tale
punto sarebbe in contrasto con l’articolo 9 della Costituzione, in quanto i beni culturali sono competenza
esclusiva della Repubblica; il punto 2 va letto diversamente, perché la normativa sui beni culturali rimane
allo Stato, anche rispetto ai beni ecclesiastici, ma si deve armonizzare l’applicazione delle norme comuni
con le esigenze di carattere religioso. Vi sarà quindi una normativa unilaterale dello Stato, che riguarda i
beni culturali, seguita da un’intesa procedimentale che armonizza l’applicazione delle norme con le
esigenze religiose: mancano le res mixtae, ma vi è il rimando alle materie di competenza dello Stato, per cui
le parti non intervengono come ordinamenti, ma solo per rendere più democratiche determinate
procedure amministrative che sono di competenza dello Stato.

Per quanto riguarda l’adattamento del diritto alle intese, l’intesa concordataria o di primo livello equivale al
Concordato, quindi necessita di un ordine di esecuzione. L’intesa procedimentale o di terzo livello tramite
un DPR o un regolamento. Più difficile, invece, l’adattamento all’intesa para-concordataria, che si trova nel
livello intermedio. La materia di cui si occupa questa intesa potrebbe essere coperta da riserva di legge,
escludendo l’intervento dei regolamenti o di altri interventi sublegislativi, perciò dal punto di vista pratico

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taluni si chiedevano quale fosse l’utilità di svolgere tali rinvii, nascenti dallo scopo di alleggerire l’iter
procedurale, se poi potevano essere recepiti soltanto attraverso una legge. Inoltre, la riserva di legge
richiede una certa cautela: il Parlamento, teoricamente, non potrebbe neanche trasferire il proprio potere
all’Esecutivo rispetto alle materie coperte da riserva, altrimenti sarebbe come aggirarla; solo se l’Esecutivo
è vincolato da criteri ben precisi a cui attenersi la riserva vale. Si deve poi distinguere tra riserva di legge
assoluta e relativa: è assoluta quando vengono in gioco i profili negativi delle libertà fondamentali; si
relativizza quando da questi profili si passa a quelli positivi e promozionali, per cui sarà possibile intervenire
anche con DPR.
Nel caso degli enti, quando attraverso intesa para-concordataria si detta la disciplina sugli impegni finanziari
dello Stato nei confronti delle confessioni, mancano principi fissi e si ritiene che questa intesa detti tanto
norme di principio quanto di dettaglio, per cui deve essere recepita con una legge nel primo caso e da DPR
nel secondo.
Il rinvio alle intese ulteriori, contenuto nell’accordo-quadro, non ha delegificato la materia per cui si opera il
rinvio: se non c’è la riserva ma quella materia è già regolata da una legge, il DPR non sarà sufficiente.
Qualora tale principio non venga rispettato, per effetto della bilateralità, prevista nel patto originario e
trasmessa a cascata a tutte le intese successive, si crea una difficoltà nella gerarchia delle fonti, in quanto
un’intesa para-concordataria recepita con DPR non potrà essere modificata da una legge: si parla in questo
caso di “relativizzazione dell’ordine gerarchico naturale delle fonti”, in quanto sarà nuovamente necessaria
l’intesa. Un esempio si era posto con riferimento all’intesa che ha concordato i giorni festivi, recepita con
DPR nonostante già prima di questa fonte fosse presente una legge in materia, che rimane in vigore in
quanto non opera la degislazione.

Tornando alle intese procedimentali, si pongono numerose problematiche in ambito pratico. L’esempio più
rilevante viene dato dai protocolli per la ripresa delle funzioni liturgiche, emanati durante il periodo
pandemico: nella prima fase della pandemia, il Governo ha stabilito la sospensione di partecipazione, da
parte del popolo, a tutte quelle che sono le funzioni liturgiche, vietando persino la possibilità di recarsi
presso i luoghi di culto al fine di prevenire il rischio di contagio. Dopo la prima fase, a seguito
dell’affievolimento delle misure ristrettive, sono state però stipulate delle intese, definite “protocolli per la
ripresa delle funzioni liturgiche”, ossia dei veri e propri protocolli di sicurezza, volti a garantire un corretto
svolgimento e a prevenire ogni tipo di nuovo contagio.
Ma questi protocolli come possono essere classificati? La maggior parte ha sostenuto che fossero delle
intese procedimentali, ossia si tratterebbe di intese che sono servite a dare una migliore attuazione a dei
provvedimenti emanati dal governo ai fini della crisi sanitaria. Tutto ciò farebbe pensare, che i protocolli
sarebbero da ritenere, ai sensi della L.241\1990, delle procedure amministrative. È stata, però, sollevata
un’obiezione da parte degli amministrativisti, dichiarando errata l’associazione posta con la legge del ’90, in
quanto secondo questi ultimi, al governo non è riconosciuta alcuna competenza per poter intervenire sulle
modalità di disposizione delle attività di culto. Altri ancora hanno sostenuto che leggendo l’art 14 della L.
121\1985:” Se in avvenire sorgeranno difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni
precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un'amichevole soluzione ad una
Commissione paritetica da loro nominata”, si riscontri nuovamente quel principio di bilateralità che è
espressione della logica cooperativa applicata ad ogni fase. Quindi, interpretando l’art 14 si può desumere
che nel caso in cui dovessero sorgere problematiche circa l’applicazione di norme (come è stato durante la
prima fase della crisi pandemica, circa le restrizioni che hanno portato alla sospensione delle funzioni
religiose, in violazione dell’art. 2 della stessa legge, che riconosce “la piena libertà di svolgere la sua
missione pastorale”), sarà necessario trovare una soluzione concordata tra le parti attraverso l’istituzione di
una commissione paritetica.
Un’ultima avvertenza generale: le intese attuative, siano esse para-concordatarie o procedimentali, non
possono allargare l’ambito della bilateralità.
L’art 13, punto 2 dell’accordo 18 febbraio 1984 sembrerebbe scompaginare completamente il quadro
come fin qui è stato visto. In realtà attraverso un’interpretazione approfondita, l’art 13 non si orienterà in
maniera così diversa, rispetto a quanto stabilito precedentemente. Stabilisce infatti l’Art. 13: “Ulteriori
materie (rispetto a quelle analizzate fin ora) per le quali si manifesti l'esigenza di collaborazione tra la

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Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le
competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana”.
Come deve essere inteso il contenuto di questo articolo, composto da due particelle? In senso
disgiuntivo o congiuntivo? Sicuramente in senso disgiuntivo. Per cui questa norma avrebbe prodotto due
effetti:
1. La concordatarizzazione indefinita della materia concordataria: qualsiasi materia può essere
disciplinata tramite concordati, anche una materia diversa dei rapporti. Ma perché ciò è possibile?
L’art 13 dichiara appunto che, anche se ci si dovesse trovare fuori dall’oggetto tipico dei rapporti, si
potrebbe ricorrere a un’intesa concordataria.
2. Deconcordatarizzazione indefinita quanto alla forma: la tipica materia concordataria potrebbe
essere disciplinata da un’intesa che non sia di stampo concordatario. La materia inerente ai
rapporti, viene affidata a un’intesa che ha la forma tipica dell’intesa concordataria, ma una forma
più “snella”, simili a quella delle intese para-concordatarie.
Se così fosse, tutto ciò che fin ora è stato spiegato, non avrebbe alcun senso. Da qui una serie di domande
utili alla ricostruzione del precedente sistema, partendo dall’analisi dell’art 13.
- È possibile una concordatarizzazione indefinita della materia concordataria?
Questo non è possibile, perché si modificherebbe la Costituzione; se vi è un limite di oggetto che è
espressamente definito dalla Cost., il concordato non può cambiare quanto stabilito. Molto
importante, infatti, è il concetto di riserva di legge: quando vi è una materia coperta da tale riserva,
neppure la legge può disporre nella sua forza normativa, sarà necessaria una nuova intesa tra le
parti.
- Si può ammettere la deconcordatarizzazione?
Anche in questo caso, ammettendo la deconcordatarizzazione, si avvalorerebbe la tesi, secondo cui
una materia prettamente concordataria possa essere disciplinata da un’intesa con forma diversa da
quella prevista. Questo non è praticabile in quanto si andrebbe contro la disciplina o meglio il
principio sancito dall’art 7 Cost., quindi anche questo caso produrrebbe una violazione circa i
principi costituzionali.
- Come bisogna interpretare la disposizione dell’art 13, punto 2?
Bisogna distinguere due ipotesi:
a). Nel caso in cui l’esigenza di collaborazione sorga in direzione a una materia che rientra
nell’oggetto dei rapporti, il “sia…, sia” va inteso in senso congiuntivo, ossia ipotizzando che a
un’intesa concordataria segua una para-concordataria; quindi, sarà rispettato il sistema dei rapporti
concordatari. A questo punto, potrebbe anche esserci un’intesa procedimentale che riguardi le
norme di esecuzione.
Nella materia dei rapporti, il “sia…, sia” è da ritenere in senso disgiuntivo, soltanto qualora si
ammetta un’eventualità, ossia che l’intesa para- concordataria sia tale solo nella forma; però,
affinché questo si verifichi, è necessario che vi sia una delega di competenza da parte della Santa
Sede, alla conferenza episcopale italiana.
b). Nel secondo caso, se la materia non rientra nell’oggetto dei rapporti, è da intendere che la
norma faccia riferimento a un’intesa procedimentale, e pertanto può essere disciplinata seguendo
tale forma. Come ben si sa, l’intesa procedimentale prescinde da un previo accordo, e interviene
per armonizzare l’applicazione in campo religioso, di una norma unilaterale dell’ordinamento.
Quindi il “sia…, sia “va inteso in senso disgiuntivo.
GLI EFFETTI DEGLI ACCORDI
La prima distinzione da fare è la seguente: effetti immediati ed effetti tipici degli accordi.
EFFETTI IMMEDIATI derivano immediatamente dal fatto stesso che l’accordo sia stato sottoscritto dalle
parti; tali che si producano prima della legge di adattamento dell’ordinamento all’accordo. Primo effetto
immediato deriverebbe dalla costituzione in capo all’esecutivo del vincolo di iniziativa; ci sarebbe l’obbligo
per il governo di presentare al parlamento il disegno di legge volto al recepimento dell’accordo. L’iniziativa
governativa, in questo caso è di tipo riservata. Un problema di adempimento di tale obbligo, potrebbe
verificarsi al mutamento dell’esecutivo; per cui magari un governo ha stipulato un’intesa, successivamente
però decade e quindi non potrà adempiere all’obbligo derivante dall’iniziativa governativa. La sanzione

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della sua violazione è semplicemente legata alla responsabilità politica che ricade sul governo stesso. Di
recente si è affermata un’idea diversa: l’iniziativa legislativa non è riservata al governo; pertanto, si sono
verificati dei casi concreti, in cui sono stati alcuni parlamentari a presentare il disegno di legge in
parlamento per il recepimento dell’accordo. Questo problema affligge i testimoni di Geova, che nonostante
abbiamo stipulato ben due intese, non riescano ad ottenere la legge di approvazione delle stesse.
L. 400\1988 - art 2, comma 3, lettera i: “Sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei ministri: gli atti
concernenti i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica di cui all’articolo 7 della Costituzione;” un’intesa o un
nuovo concordato, prima di essere recepiti in legge, devono essere approvate dal Governo nella sua
collegialità.
Secondo effetto immediato è il vincolo di emenda per il parlamento: si è sempre in una fase preliminare il
recepimento di un'intesa o di un accordo, e ci si interroga sulla possibilità del parlamento di introdurre
emendamenti a disegno di legge. L’accordo elide questo potere del parlamento, il quale viene posto di
fronte ad un aut- aut: o approva il disegno di legge che recepisce l’intesa, o lo respinge in toto. Nel caso in
cui dalla discussione parlamentare dovesse emergere l’esigenza di fare una modifica all’intesa, si restituisce
il testo al governo al fine di riaprire le trattative con la confessione religiosa e procedere alle modifiche. Non
è consentito fare modifiche, in sede di discussione del testo. Questo iter può presentare qualche problema,
in quanto tante volte il doversi trovare davanti a tale aut-aut, crea qualche difficoltà al parlamento. Quando
si è discussa la questione di modifica del concordato, lo stesso negoziato tendente alla conclusione
dell’accordo, è stato parlamentarizzato. Si è parlato appunto di parlamentarizzazione del negoziato; ossia il
parlamento attraverso l’approvazione di alcuni ordini del giorno, ha posto in esser alcuni avvertimenti al
governo circa le trattative per il nuovo concordato, in modo tale da non dover respingere il testo del nuovo
concordato, ogniqualvolta si fosse riscontrata un’anomalia. Si è provveduto a costituire, presso la
presidenza del Consiglio dei ministri, una commissione interministeriale, che ha il compito di preordinare gli
studi e le linee operative per la conduzione delle trattative con le rappresentanze delle confessioni religiose
interessate alla stipula delle intese di cui l’art. 8 della Costituzione.
Terzo effetto immediato nel 1984, dopo la modifica del concordato, il 21 febbraio è stata stipulata la prima
intesa, dando attuazione al principio del pluralismo confessionale, con la Tavola Valdese. Questo gruppo
non ha manifestato interesse particolare per quanto riguarda una presenza nelle scuole dell’insegnamento
della religione; anzi è stato richiesto il massimo delle garanzie affinché i ragazzi appartenenti al gruppo
religioso non fossero costretti a seguire l’ora di religione nelle scuole. Quando è stata proposta la nota, però
la possibilità di scelta, riguardo l’adesione all’ora di religione, è stata data solo ai ragazzi che avessero
raggiunto la maggiore età. Dopo qualche tempo, precisamente nel 1986, la norma è stata modificata (con
una nuova legge, preceduta da una nuova intesa). Nel frattempo, il legislatore, unilateralmente, approva la
L. 281\1986 in materia di capacità di scelte scolastiche, che riconosce ai ragazzi frequentanti le scuole
superiori la capacità di scegliere circa la partecipazione all’ora di religione. A questo punto, il disegno di
legge di recepimento della nuova intesa con la Tavola Valdese (1986) si è arrestato, in quanto da un punto
di vista formale si aveva già una legge unilaterale, non preceduta da intesa, che andasse a modificare una
legge preceduta, invece da intesa.
EFFETTI TIPICI, invece, conseguono all’intervento di adattamento del diritto interno all’accordo stipulato
con le confessioni religiose. Questo intervento avviene attraverso la legge di recepimento dell’accordo. È
necessario fare una prima distinzione tra concordato ed intesa.
Per quanto riguarda il concordato, l’adattamento avviene attraverso una legge contenente l’ordine di
autorizzazione alla ratifica, segue poi la ratifica da parte del P.d.R., e infine vi la legge contenente l’ordine di
esecuzione. I concordati sono atti assimilati ai trattati internazionali. Anche la Corte EDU, in una recente
pronuncia, ha detto che i concordati sono trattati internazionali.
Nel 1984, quando si è trattato di recepire la prima intesa, si è avuto difficoltà nello stabilire le procedure da
adottare in sede di adattamento. All’inizio il disegno di legge parlava di ordine di esecuzione; questo serviva
in tutto ad assimilare le intese ai concordati. Si può parlare di atti esterni del diritto dello stato, tanto che
alcuni hanno definito le intese come ordinamenti esterni allo Stato e alla confessione religiosa. Il legislatore
però ha preferito non assimilare le intese ai concordati; pertanto, è stato modificato il disegno di legge di
adattamento. Oggi, si parla di legge di approvazione dell’intesa, quasi per prendere le distanze. O per
differenziare l’intesa dai concordati o dagli accordi con la chiesa cattolica; la legge che approva l’intesa ha in

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allegato il testo dell’intesa stessa, proprio per garantire una verifica di conformità, dal momento che il
parlamento non può modificare l’intesa, ma recepirla così come gli viene proposta.
Anche qui, ci si ritrova di fronte a un vincolo di emenda: il parlamento in un’altra occasione, potrà
modificare la legge di approvazione dell’intesa? Non sarà possibile, in quanto necessiterà una nuova intesa
(effetto tipico della legge di recepimento dell’intesa o dell’accordo).
Il secondo effetto tipico prodotto dalle leggi di recepimento rende impossibile l’ammissibilità dei
referendum abrogativi di suddette leggi. Ma perché ciò è possibile? È davvero vietato al corpo elettorale di
esprimere il proprio parere? A tal proposito si è espressa la Corte costituzionale, con la Sent. 16\1978 su cui
la corte ha costruito la sua giurisprudenza sull’ammissibilità dei referendum. La nostra costituzione all’art
75, comma 2, disciplina questa materia: “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio,
di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”; la norma, indicando i casi in
cui non è ammissibile il referendum, sembrerebbe tassativa. Pertanto, la corte nella Sent. 16\1978, elabora
una propria giurisprudenza in base alla quale, non solo nei casi stabiliti dall’art 75, comma2, Cost. non è
ammesso il referendum abrogativo. La corte conferisce alla norma un’interpretazione di tipo
esemplificativa, annoverando tra i casi, anche l’impossibilità di ammettere un referendum abrogativo per
legge di rango costituzionale; quando ad esempio, il testo contenente la richiesta di referendum, abbia un
contenuto non chiaro. Per quanto concerne i patti lateranensi, la corte conferisce agli stessi, la medesima
forza di resistenza passiva delle leggi costituzionale; quindi, non è possibile ammettere un referendum
abrogativo di legge di recepimento delle intese o degli accordi.
((23 marzo
Un caso particolare è dato dall’Intesa riguardante la materia dei beni ecclesiastici e degli interventi
finanziari dello Stato a favore della Chiesa cattolica: l’accordo si è concluso grazie all’opera di un’apposita
commissione paritetica, che ha elaborato il protocollo sul modello degli enti ecclesiastici, la mano
attraverso cui la Chiesa svolge le sue attività, anche diverse dal culto. La stranezza dell’Intesa risiede nel
fatto che sia stata recepita nell’ordinamento per effetto di due leggi: la 206 del 1985 e la legge numero 222
dello stesso anno; si tratta di due leggi fotocopia. Il legislatore ha infatti tentato di separare due momenti
che nella prassi sono uniti: se si volesse scandire nella successione logica le varie fasi di adattamento
all’ordinamento interno dei trattati internazionali, vi sarà l’autorizzazione alla ratifica, se le materie
rientrano nei casi dall’articolo 80, successivamente
Nella prassi, tuttavia, ciò non succede, in quanto la legge che contiene l’autorizzazione alla ratifica è la
stessa che contiene l’ordine di esecuzione. Perciò, allontanandosi dalla prassi, si sono separati i due
momenti attraverso le due leggi. Viene inoltre introdotta una formula particolare: al posto di “piena ed
intera esecuzione è data”, ma “piena ed intera esecuzione sarà data”, per indicare che saranno necessari
nuovi interventi normativi per dare esecuzione al provvedimento.
Il professore Finocchiaro afferma che anche abrogando la legge 222, l’accordo rimarrebbe in vigore, ma ciò
non è vero, in quanto solo attraverso tale legge esso trovava ingresso.
))

L’articolo 19 della Costituzione si concentra unicamente sulla libertà religiosa, mentre l’articolo 21 della
CEDU abbraccia la libertà di pensiero. Nella prospettiva della norma della CEDU la libertà religiosa include
anche la libertà di ateismo: la norma generale consiste nelle libertà di pensiero e di coscienza, di credere e
di professare una fede; dalla specificazione di questa libertà fondamentali si deve considerare la libertà di
non credere. L’impostazione della CEDU consente di risolvere i dubbi relativi alla tutela ordinamentale
dell’ateismo. Le tesi che negavano la copertura costituzionale sono ormai superate, perché lo ritenevano
contrastante con la tutela religiosa positiva del bene della fede, la cui concezione è stata superata a sua
volta. Per quanto concerne, invece, l’ateismo attivo, ci si chiede se rientri nell’articolo 19 o nel 21. Collocarsi
nella prospettiva dell’articolo 19 significa aspirare ad una qualifica particolarmente vantaggiosa; l’articolo
21 richiama invece le garanzie promozionali tipiche del diritto ecclesiastico. Nella giurisprudenza è superata
la concezione risalente ad una sentenza del tribunale di Ferrara degli anni ’40, che nel caso di affidamento
di minori, a seguito della separazione dei coniugi, aveva affermato che il giudice non potesse prescindere
totalmente dalla scelta religiosa dei coniugi, per cui avrebbe sempre dovuto scegliere il genitore credente a
quello ateo, in quanto il primo offriva maggiori garanzie dal punto di vista dell’educazione e della crescita

20
del figlio. Nonostante la posizione sia stata abbandonata, però, anche oggi i giudici potrebbero non
prescindere totalmente dalle convinzioni religiose dei coniugi.
LIBERTÀ DI COSCIENZA
In ordine cronologico, questa libertà sorge prima della libertà di professare una fede religiosa o di
esercitare un culto: consiste infatti nel caput et fondamentum della libertà di religione. La libertà di
coscienza è tutelata dalla CEDU, ma apparentemente non dalla Costituzione: vi sono, però, due vie per
individuarla nel testo. Si può fare riferimento all’art 2 della Costituzione, clausola generale che riguarda tutti
i diritti inviolabili dell’uomo, oppure si può fare rimando all’articolo 3, che tutela la dignità umana: è in
questo secondo caso che la giurisprudenza richiama con sicurezza la tutela della libertà di coscienza. Perciò,
anche se implicitamente, la Costituzione assicura la libertà di coscienza.
La libertà di coscienza riguarda l’intimo atteggiarsi o proiettarsi della coscienza personale sulle questioni
fondamentali che riguardano la vita dell’uomo, o anche il formarsi di un convincimento sull’esistenza di dio
o su un certo orientamento di carattere politico. Un tempo si riteneva inutile garantire la libertà di
coscienza, perché afferisce a qualcosa di interno alla psiche umana, su cui la legge non potrebbe, neanche
volendo, intervenire. Per tale ragione, la Corte EDU distingue all’articolo 9 tra foro interno e foro esterno: il
foro esterno è tutto quello che si manifesta e che i nostri sensi riescono a percepire; il foro interno è quello
della coscienza, la sfera soggettiva in cui i pubblici i poteri non possono entrare per un limite di carattere
ontologico e naturale.
Con il passare del tempo e l’evolversi dei culti, questa impostazione ha mostrato qualche limite: talune
formazioni sociali, infatti, praticano tecniche di lavaggio del cervello finalizzate a condizionare in maniera
invasiva la coscienza dell’individuo. Così, l’idea tradizionale che vuole la coscienza nel solo momento
esteriore viene meno, perché diventa necessario tutelare la libertà di coscienza nel momento formativo,
quando la persona acquisisce conoscenze ed esperienze. Sull’argomento era sorto un dibattito, in quanto
non era pacifico che si dovesse tutelare la libertà di formazione della coscienza: nessuna norma della
Costituzione prevede tale libertà, perciò taluni, tra cui Martines si sforzarono di trovare elementi su cui
basare l’ipotetico diritto alla formazione della coscienza esente da condizionamenti. Il professore
Finocchiaro aveva criticato tale impostazione dottrinale: guardando all’assetto complessivo
dell’ordinamento, è complesso evitare totalmente i condizionamenti ambientali. La tesi degli autori che
sostengono la libera formazione della coscienza è che in una società che gode di innumerevoli mezzi di
comunicazione di massa, che tendono a privilegiare talune idee a svantaggio generale, ci sia il rischio che la
religione che gode di fatto di una posizione di privilegio comporti un condizionamento della formazione
educativa. Finocchiaro rimanda però ad un settore in particolare, quello della materia politica, al momento
della consultazione elettorale: l’ordinamento democratico fa sì che l’elettore sia libero di esprimere la
propria preferenza, prevedendo anche particolari reati nel caso di condotte che minino questa libertà, ma
non c’è una garanzia di assoluta neutralità ideologica che consenta una formazione della coscienza giuridica
del soggetto del tutto esente da condizionamenti.
LIBERTA’ DI RELIGIONE NEGATIVA
Comporta la libertà di non professare una fede religiosa, di non subire alcuna propaganda in materia
religiosa e di non compiere alcun atto di culto. Tutte le libertà garantite dalla Costituzione hanno sempre un
risvolto negativo: quando il costituente ha previsto la libertà di religione aveva presente la condizione del
vecchio regime, che penalizzava la posizione dell’individuo dal punto di vista della libertà; con la nuova
Costituzione si garantiva la libertà di manifestazione del pensiero, ma costituisce anche il suo risvolto
negativo, cioè la libertà di non manifestare alcun pensiero.
Non bisogna comunque confondere il risvolto negativo della professione di fede con l’ateismo, che consiste
nella convinzione dell’inesistenza di dio e che può avere anche risvolti positivi. La libertà di religione
negativa riguarda tutti, invece, anche i credenti, qualora non vogliano realizzare atti di culto o ascoltare le
propagande altrui. Nonostante la libertà di fare non sia esplicitamente citata, è comunque compresa nella
norma come risvolto negativo della libertà positiva tutelata. Tra i risvolti pratici del diritto si annovera, ad
esempio, la scelta di seguire o meno l’ora di religione nelle scuole: la promozione della libertà in senso
positivo permette l’inserimento dell’ora di religione nell’orario scolastico, per andare incontro alle esigenze
dei cattolici, ma è necessario chiedere ai ragazzi se la vogliano seguire. Un altro risvolto era relativo al
giuramento del testimone nel processo, che tradizionalmente era costretto a giurare facendo

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implicitamente una professione di fede: doveva infatti dichiarare di essere consapevole della responsabilità
che con l’atto contraeva davanti a Dio.

Vi sono talune differenze rilevanti tra l’articolo 9 della CEDU e l’articolo 19 della Costituzione. La norma
della Convenzione individua, infatti, le modalità concrete attraverso le quali si manifesta la propria fede
religiosa, indicando espressamente quattro aspetti: culto, insegnamento, pratiche, osservanza. Nell’articolo
non ci sono riferimenti all’insegnamento o alle pratiche religiose, ma solo all’attività di culto. L’articolo 19,
invece, parla di professione di fede, di propaganda e di esercizio del culto. La differenza risiede nelle diverse
problematiche gli ordinamenti osservano. In Italia non vi sono particolari esigenze o criticità derivanti dal
compimento delle attività di culto, ma derivano dal compimento di pratiche di vita religiosamente motivate,
ossia le condotte dei fedeli nell’adeguarsi a determinati precetti professionali slegati dall’attività di culto.
Esempi possono essere quello di indossare un capo di abbigliamento o alimentarsi in un determinato modo:
il costituente del 1948 teneva conto di una realtà omogenea dal punto di vista professionale, perciò aveva
indirizzato la tutela verso ciò che riteneva di maggiore rilevanza. Anche nella giurisprudenza CEDU sono
sorte esigenze nuove, tanto che la Corte ha messo dei paletti alla definizione del termine “pratiche”, che
non può giustificare in chiave religiosa ogni atto. La libertà religiosa in ambito CEDU incontra, inoltre, una
serie di limiti, per rispondere all’esigenza di bilanciamento dei diversi interessi in gioco.
Un ulteriore aspetto di differenza si trova nell’espressa previsione della libertà di propaganda di cui
all’articolo 19 della Costituzione, non ritrovabile nella CEDU, che invece fa riferimento alla libertà di
cambiare religione. La norma sovranazionale trova la sua fonte ispiratrice nella Dichiarazione dei diritti
dell’uomo, che non aveva potuto inserire tale diritto per accontentare i Paesi islamici. Se si mettono
insieme la libertà di insegnamento e la libertà di cambiare credo, si potrebbe affermare che la CEDU tuteli
anche l’attività di proselitismo, che significa indurre una persona a cambiare la sua religione attraverso
un’attività di insegnamento. La Costituzione italiana fa comunque esplicito riferimento alla propaganda, a
differenza della Convenzione, perché si voleva evitare la situazione di compressione del periodo fascista.
L’articolo 5 della legge 1959 n.29 garantiva la discussione in materia religiosa, ma con discussione si
intendeva il confronto su temi religiosi tra persone esperte in teologia, non il proselitismo da parte dei
fedeli ordinari.
Così come non si può limitare il foro interno, nel caso della manifestazione esterna vi possono essere dei
limiti, che nell’ambito CEDU vengono espressamente enunciati dall’articolo 9. Mentre la Costituzione
italiana pone come unico limite, e solo ai riti, il buon costume, in ambito sovranazionale esiste una
elencazione di limiti con la previsione della riserva di legge. Attraverso queste tutele si garantisce che le
norme che impongono limiti siano chiare, perché si riferiscono comunque ad una libertà fondamentale: il
fedele deve sapere con sicurezza se la sua condotta costituisca una esplicazione della sua libertà o consista
invece in un reato. L’ordine pubblico individuato dalla Costituzione italiana è diverso da quello che si
costituiva nel periodo fascista: allora, infatti, era utilizzato strumentalmente per limitare la libertà delle
minoranze; per questa ragione, nel testo originario della Costituzione non era stato menzionato affatto.
Ci sono comunque limiti impliciti molto più importanti: la libertà religiosa incontra infatti le limitazioni
derivanti dall’attuazione di altre garanzie costituzionali, perché le norme non possono prevalere in assoluto
le une sulle altre. Anche la Corte costituzionale ha ribadito la necessità di bilanciare i diritti costituzionali
cercando di assicurare la tutela a tutti. Un esempio particolare in tal senso è dato dall’emergenza
pandemica, quando il Governo ha dovuto introdurre una serie di restrizioni particolarmente stringenti,
anche rispetto alla libertà di religione. D’altra parte, anche se non espressamente menzionata come limite
dall’articolo 19, la salute viene indicata nell’articolo 9 della CEDU: la questione di fondo non è ammettere la
limitazione della libertà di religione per ragioni di salute, ma capire fino a che punto si possa limitare una
libertà. Il problema è quindi quello della proporzionalità delle restrizioni riguardanti le libertà
fondamentale: in una società totalitaria, le libertà possono essere azzerate, mentre in una società pluralista
non è possibile se vi sono alternative. Le restrizioni devono perciò essere necessarie e insostituibili,
altrimenti viene meno la proporzionalità.
Un problema che si pone spesso riguarda poi il limite della sicurezza pubblica. L’unico riferimento nella
Costituzione si trova nell’articolo 17: può funzionare come limite alla libertà religiosa? Non c’è una rilevanza
generalizzata di questo bene come limite alle libertà in generale. La Corte chiude alla possibilità di dare

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incondizionata tutela alla libertà religiosa, però al tempo stesso cerca una soluzione che vada incontro alle
ragioni dei fedeli e alle esigenze della sicurezza pubblica della collettività: in sintesi, quindi si individua
comunque il valore della sicurezza, che funziona anche come limite alla libertà religiosa secondo il modello
della proporzionalità sopra evidenziato. Sull’argomento, a livello internazionale, erano sorti dubbi rispetto
alla volontà della Francia di impedire l’utilizzo del burqa alle donne di religione islamica. La Corte europea
dei diritti dell’uomo ha decretato l’esistenza di un diritto a “guardarsi in faccia”, che limiterebbe la libertà
della donna che sceglie di indossare il burqa per motivi religiosi. L’argomento ha, chiaramente, dato adito
ad accese discussioni: da un lato, il burqa è considerato il frutto di una società che vede la donna
subordinata all’uomo e non gode di alcun tipo di libertà; dall’altro, le donne francesi di religione islamiche,
anche indossando il burqa, sono inserite nella società, sono istruite e svolgono lavori dignitosi, dichiarando
di portare il capo per volontà personale, per cui nessuno può biasimare la loro scelta. La sentenza della
Corte non richiama alcuna norma convenzionale: si tratta di un valore desunto dalla legge del singolo
ordinamento nazionale.
In Italia, invece, l’articolo 19 garantisce un diritto pubblico soggettivo: la libertà religiosa. Perciò, le facoltà
che scaturiscono dal diritto sono azionabili anche nei confronti dello Stato e della Pubblica
amministrazione: nessun organo pubblico può emanare provvedimenti lesivi della libertà religiosa. In
passato, lo Statuto albertino costituiva le libertà e i diritti come interessi legittimi, che venivano tutelati in
modo subordinato alla mancanza di provvedimenti autorizzativi della pubblica autorità, che poteva così
potenzialmente bloccarli: oggi non è però concepibile che un diritto pubblico soggettivo degradi ad
interesse legittimo, perciò non sono ammissibili interventi preventivi o autorizzazione per ottenere la
possibilità di esercitare le facoltà derivanti dalla libertà religiosa, né si possono costituire interventi
repressivi. Gli unici interventi repressivi fanno così riferimento ai riti considerati contrari al buon costume,
tipici di determinate sette lesive dei diritti e della dignità umana. Un’altra caratteristica è quella
dell’indisponibilità: i soggetti non possono rinunciare preventivamente alla loro libertà religiosa, ad
esempio rispetto ad un rapporto di lavoro. Proprio nell’ambito privatistico sorgono numerosi problemi
complessi, rispetto all’efficacia indiretta delle libertà fondamentali: le norme costituzionali si dirigono infatti
al legislatore e ai pubblici poteri, ma il principio di uguaglianza ha efficacia nei rapporti interprivati? Taluni
autori si dimostrano scettici sul tema, altri invece sostengono che vi sia un nucleo duro del principio di
uguaglianza, che dovrebbe essere applicato direttamente anche nei rapporti tra privati, al fine di tutelare la
dignità dei singoli cittadini. Proprio il richiamo alla dignità giustifica l’applicazione del principio di
uguaglianza ai rapporti tra privati.
Il tema dell’applicabilità diretta delle norme costituzionali relative alle libertà è stato approfondito dalla
dottrina tedesca, dove si sono trovati due schieramenti: parte della dottrina non condivide la tesi,
sostenendo che nei rapporti privatistici debba regnare l’autodeterminazione delle parti; altri sostengono
che le norme costituzionali non possano non avere proiezione in ambito privatistico.
Ha prevalso la tesi intermedia, che dà ai rapporti privati uno spazio di autonomia e determinazione
mantenendo delle clausole generali di ordine pubblico che richiamano i concetti delle norme costituzionali.
Si può prendere il caso del fedele sikh, che porta con sé il proprio pugnale: la norma sul porto abusivo di
oggetti atti ad offendere descrive il porto come abusivo se non avviene per giustificato motivo, il cui
concetto svolge quindi il ruolo di clausola generale. Alcuni sostengono che la libertà religiosa, applicata
come principio diretto presunto dalla Costituzione, concorra a definire il concetto di giustificato motivo: se
non vi fosse perciò il limite della pubblica sicurezza, attraverso la clausola generale prevista, si otterrebbe
l’applicazione diretta del principio costituzionale e il fedele sikh potrebbe rivendicare la protezione che
discende dall’articolo 19.

Conseguenze legate alle singole facoltà garantite dalla norma (art.19):


Una delle conseguenze è la libera professione di fede: si può scegliere di appartenere o meno ad un gruppo
confessionale, anche maggioritario, senza alcuna conseguenza vantaggiosa o svantaggiosa, con il diritto di
cambiare la propria fede religiosa.
Rispetto alla libertà negativa, si era posto il problema del giuramento dei testimoni. Il Codice penale del
1930 prevedeva come formula: “consapevole della responsabilità morale e giuridica che viene assunta
davanti a Dio e agli uomini, giura di dire la verità”. Così, rispondere “lo giuro” significava accettare

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implicitamente la validità della premessa, che aveva un significato religioso. Talvolta, alcuni si rifiutavano di
giurare in nome della libertà di professione della fede religiosa, ma da ciò scaturiva un rischio penalistico. La
Corte costituzionale, chiamata nel 1960 a pronunciarsi rispetto alla legittimità costituzionale di queste
norme, non riscontrò alcun contrasto con l’art.19 della Costituzione in quanto “l’ateismo inizia quando
finisce la vita religiosa”. Un’altra pronuncia del 1961 considerò manifestamente infondata la questione e
nel 1963 venne dichiarato nuovamente che il giuramento alludesse a generali valori religiosi, non
riguardasse l’ordine proprio delle confessioni, rimanendo così nel regime di competenza dello Stato.
Ripresa la questione nel 1977, in seguito al rinnovo della giurisprudenza, la Corte costituzionale riconosce
l’implicita professione di fede: si stabilisce allora che il giudice chieda al soggetto se sia credente prima di
formulare il giuramento. Si risolve con questa sentenza la posizione dell’ateo, quindi, ma non quella del
credente che vorrebbe esercitare la sua libertà negativa. La situazione di disparità che si crea permettendo
a taluni di non giurare è ancora più paradossale se si considera il giuramento come una tecnica di
certificazione di quanto viene affermato, per cui in linea logico-teorica la deposizione di chi giura andrebbe
considerata come più affidabile di chi non si presti al giuramento. Per risolvere la questione, la Corte ha
eliminato i riferimenti religiosi: con la sentenza del ’96, si afferma che non è possibile rafforzare l’efficacia
dei precetti civili avvalendosi di precetti confessionali, perché questo è contrario al principio di laicità dello
Stato.
Un altro aspetto rilevante è quello dell’obiezione di coscienza, che sorge quando i doveri civili confliggono
con precetti tipici di una determinata religione: si allude con tale concetto ai casi in cui la fede implica il
dovere di rispettare determinati principi, che però entrano in contrasto con precetti normativi dello Stato.
La natura di questo fenomeno è quindi data proprio da un conflitto tra doveri incompatibili. I due doveri
non si trovano sullo stesso piano, in quanto uno dei due è dettato dalla legge dello Stato, che si presume
essere stata approvata democraticamente, mentre l’altro fa parte dell’ordinamento normativo della
“coscienza di ognuno”. Kant a tal proposito avrebbe fatto riferimento ad un conflitto improprio. Dal punto
di vista formale, quindi, deve prevalere il precetto della legge statale. La Corte costituzionale, però, sostiene
che la coscienza sia il riflesso più profondo dell’idea di dignità dell’uomo. Perciò non può essere sempre
trascurata da parte dell’ordinamento. La libertà di professare la propria fede può permettere al fedele di
agire in conformità a questa, andando anche contro i precetti della legge civile?
Il problema si era posto, ad esempio, per il servizio militare. La legge n.772 del 1972 prevedeva che i
chiamati alla leva militare, se totalmente contrari all’uso delle armi per imprescindibili motivi di coscienza,
potessero richiedere di svolgere piuttosto il servizio civile sostitutivo. In sé, non si tratterebbe di
un’obiezione di coscienza, dato che la norma stessa prevede un’opzione che elimina il conflitto: una
commissione valutava il soggetto per assicurarsi della sua vera inclinazione nei confronti del servizio
sostitutivo, inoltre veniva prevista una durata differente, maggiore per il servizio civile, per disincentivare la
condotta di chi si dichiarava obiettore solo per sottrarsi al servizio militare. Il problema continuava però a
porsi nei confronti dei Testimoni di Geova, in quanto il servizio sostitutivo si svolgeva comunque all’interno
delle caserme o delle basi militari, contribuendo quindi di fatto indirettamente alla difesa armata, in
contrasto con i precetti del loro culto: per tale ragione disertavano, commettendo un reato e scontando la
pena in carcere anche più e più volte, quante erano le chiamate al servizio.

Condizione diversa è invece quella del personale sanitario obiettore di coscienza: soprattutto con
riferimento alle procedure direttamente rivolte all’interruzione della gravidanza, il legislatore aveva
previsto l’obiezione di coscienza ai sensi dell’art.9 della legge 194. Infatti, l’esercizio di questa pratica entra
in contrasto con il precetto religioso del non uccidere: la dichiarazione dell’obiezione di coscienza deve
essere fatta a monte, ma il soggetto non può sottrarsi dall’intervenire, prima o dopo le pratiche abortive,
nel caso in cui vi sia un effettivo caso di necessità. Anche i farmacisti avevano tentato di sollevare obiezioni
di coscienza in passato relativamente ai contraccettivi, ma chiaramente questi non hanno nulla a che
vedere con l’aborto. Più difficile la posizione intermedia della pillola del giorno dopo o di quella dei cinque
giorni dopo.

Il medico ha diritto, a seguito di apposita dichiarazione ai sensi dell’art. 9 legge 194, di astenersi a
partecipare alle pratiche abortive della gravidanza, ma non è dispensato dal compiere l’assistenza

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antecedente o successiva al parto. Questo fa sorgere alcuni dubbi, ad esempio su che cosa determina
l’interruzione della gravidanza, o da quando comincia quella sequela causale di fatti che porta ad essa. In
particolare, si è posto il problema se l’attività che si svolge all’interno dei consultori familiari, possa
autorizzare i medici che vi sono addetti a far valere l’obiezione di coscienza. La donna, prima di recarsi
presso la struttura ospedaliera, deve percorrere una fase antecedente all’intervento, che viene svolta
presso il consultorio familiare, dove il medico le rilascia una certificazione che attesta che presenta i
determinati requisiti previsti dalla legge 194. L’interruzione non è, infatti, uno strumento di controllo delle
gravidanze indesiderate, per cui la legge distingue due fasi: prima dei tre mesi, quindi entro i 90 giorni dal
concepimento, dove è sempre in gioco il discorso legato alla salute della donna, però i requisiti non sono
particolarmente rigorosi, e invece dopo i tre mesi quando bisogna addirittura essere in serio pericolo per la
vita della donna, o ci deve essere l’accertamento di malformazione grave del feto. Allora il medico che fa
questo tipo di certificazione sta partecipando alla sequela che porta poi all’aborto?
Sulla questione, il TAR del Lazio ha escluso che questa fase del processo, legata alla semplice attestazione
dello Stato di gravidanza e delle condizioni che consentono la pratica abortiva, possa entrare nel
presupposto previsto dall’art. 9 per far valere l’obiezione di coscienza. Vi è poi la questione della carenza di
medici disposti ad eseguire questo tipo di interventi, dato che più dell’80% dei medici italiani sono obiettori
di coscienza: per risolvere il problema, alcuni ospedali e alcune aziende sanitarie, prima in Puglia, poi anche
l’ospedale San Camillo di Roma ed anche altri, hanno previsto dei bandi riservati a medici non obiettori,
ipotizzato che si possa procedere a delle assunzioni mirate di medici. Si poneva allora una criticità, legata al
divieto di attuare discriminazioni nella selezione dei prestatori di lavoro: e il datore di lavoro differenzia il
personale da assumere in base alle convinzioni di coscienza, c’è il rischio che faccia una discriminazione per
motivi religiosi. Tuttavia, dapprima il Tar Puglia e poi il Tar Lazio si sono espressi, considerando legittima la
rinuncia al diritto a esercitare l’obiezione di coscienza, poiché qui si tratta di bilanciare da un lato la libertà
di coscienza, ma dall’altro lato il diritto fondamentale previsto dalla Costituzione, che è il diritto alla salute
delle donne, e nel farlo, i giudici dicono che bisogna dare precedenza al diritto di salute della donna che ha
carattere indiscutibilmente primario. E allora è da tenere presente che la stessa legge 194 art.9, pure di
fronte a questi problemi di reperimento del personale, ribadisce che il diritto della donna deve essere
assicurato in ogni caso. Dinanzi a questa prospettiva è normale e legittimo prevedere una compressione
della libertà di coscienza dei medici e quindi ammettere una rinuncia preventiva a questo diritto.
Questo si può fare per la fase antecedente all’assunzione: può verificarsi però anche il caso nel quale
l’obiezione di coscienza sorga in un momento successivo all’assunzione. Ma si può ammettere che qualcuno
partecipi al bando in una situazione di vantaggio, quando il bando destinava proprio a questo servizio? In
questo modo l’azienda ospedaliera non avrà risolto nulla perché si troverà con del personale che non
rispetta le sue esigenze. Bisogna distinguere due ipotesi: se accade durante il periodo di prova che dura
normalmente sei mesi o meno. Nel primo caso, se si scopre che sussistono problemi di coscienza che non si
riescono a superare, si dichiarano e l’azienda ospedaliera ha tutto il diritto di licenziare e considerare
concluso validamente il periodo di prova. Se il problema sorge dopo i sei mesi l’opinione dottrinale più
diffusa è quella che il medico ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e licenziarlo sarebbe porre un
atto contrario alla legge. Questa prospettiva ha naturalmente sollevato alcuni dubbi.
Sempre occupandoci del tema di obiezione di coscienza in tema di interruzione della gravidanza si è posto
anche il problema se il Giudice Tutelare che può essere chiamato nella procedura che porta
all’interruzione volontaria della gravidanza ad intervenire possa sollevare l’obiezione di coscienza
all’aborto. Qua il caso è quello previsto dall’art. 12 II comma della legge 194, se viene in gioco il Giudice
Tutelare e la donna non ha raggiunto la maggiore età e sta aspettando un bambino e ci sono i problemi di
salute che la legge 194 prevede come requisiti all’aborto. Questo è il caso della minorenne che dovrebbe
essere autorizzata dai genitori, questi infatti sono i soggetti che esercitano la potestà e che suppliscono alla
carenza di capacità della ragazza. Però ci possono essere gravi motivi di contrasto, come nel caso in cui i
genitori sono in disaccordo o non danno il consenso: allora c’è l’intervento del giudice tutelare che
interviene in questa procedura.
Senza l’autorizzazione del giudice tutelare all’aborto non si può procedere. Tante volte è capitato che i
giudici tutelari si siano opposti per ragioni di coscienza, ritenendo che loro, dando questa autorizzazione, in
sostanza si stessero pronunciando favorevoli all’aborto. La questione si è posta davanti alla Corte

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costituzionale sin dal 1987 e poi a più riprese fino a poco tempo fa: il giudice non può sollevare l’obiezione
di coscienza perché in realtà non sta manifestando una posizione favorevole all’aborto, il suo intervento
serve semplicemente a verificare la capacità della donna di esprimere la sua volontà di procedere a questo
intervento. Quindi il giudice tutelare verificherà solo se la ragazza sta liberamente decidendo di abortire o
meno.
Un altro punto che riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza è una pronunzia recentissima del
TAR del Lazio del 4 giugno 2021 che ha affrontato il problema della eliminazione della ricetta per la pillola
dei cinque giorni dopo. Qui, tutta una serie di movimenti contrari all’aborto, pro-life e così via hanno
sostenuto che liberalizzare l’utilizzo di questo farmaco è una decisione irresponsabile, poiché potrebbe
essere intanto un fattore di rischio per la salute della donna, in quanto questi farmaci hanno degli effetti
collaterali dannosi per chi li assume, e poi che lasciare questa libertà di scelta esclusivamente alla donna è
un incentivo all’aborto.
Il TAR del Lazio nella sua pronunzia dice che è vero che nella medicina ci sono delle posizioni che esprimono
dubbi e perplessità sulla questione, però l’AIFA si è rifatta a una corrente di pensiero secondo cui l’effetto di
questo farmaco sarebbe solo semplicemente antifecondativo, cioè impedirebbe l’ovulazione e quindi non
c’è un problema legato all’aborto.
Un altro problema sempre riguardante l’obiezione di coscienza del medico è quello legato al rifiuto delle
cure.
L’art. 32 della Costituzione stabilisce che le cure sono subordinate al consenso del paziente. Nessuna
persona può essere sottoposta ad un trattamento medico senza il suo consenso. La giurisprudenza ha
chiarito che questa regola vale persino nei casi estremi, cioè nei casi in cui è in gioco la vita.
Nel caso in cui si è dato il consenso, lo si può sempre ritirare in un secondo momento.
La legge 219 del 2017 si occupa proprio del consenso informato.
L’Art. 1 comma 5 di questa legge, dice che ci deve essere la capacità di esprimere un consenso che deve
essere attuale. (Il medico deve dire per es. al malato che in assenza di terapia tra una settimana morirà e
così via, e sarà poi quella persona a eventualmente comunque rifiutare coscientemente). Il medico si
rimette a ciò che vuole il paziente, spazio per l’obiezione di coscienza a rigore non ce ne sarebbe. Quando è
che possono sorgere problemi? Quando in capo al medico e alle persone che non sono medici sorge un
obbligo di intervenire quando si tratta di altre persone.
Facendo l’esempio delle emotrasfusioni, facciamo il caso dei genitori che devono dare il consenso alla
emotrasfusione per il loro figlio minore. È famoso un caso verificatosi in Italia, dei coniugi ONEDA, una
coppia di testimoni di Geova che non ha dato il consenso per l’emotrasfusione della propria figlia: quando
questa è morte per la mancata trasfusione, i due sono stati indagati per omicidio.
Questi casi si risolvono attraverso l’art 333 del codice civile. Di fronte ad un conflitto improprio tra doveri,
in questi casi sarà il giudice che si sostituisce ai genitori quando c’è un oggettivo danno alla salute del
bambino. Ci sono addirittura casi in cui i genitori vengono privati della potestà.
Tornando alla questione degli adulti testimoni di Geova, c’è un problema di conflitto di doveri quando un
testimone di Geova dà il consenso ad un intervento chirurgico, poi nel corso dell’intervento la questione si
complica e la persona a giudizio dei medici è in pericolo di vita e allora ha bisogno di una emotrasfusione.
Questo è un caso che si è verificato di recente, e c’è una pronuncia della Cassazione n. 29469 del 2020 che
ha indicato come si deve comportare il medico in questi casi. Una donna aveva dato il consenso ad un
intervento di laparoscopia, nel corso dell’intervento si rende necessario procedere ad una emotrasfusione
per la quale non aveva dato preventivamente il consenso, anzi trattandosi di un testimone di Geova l’aveva
anche escluso questo consenso. Si pone un problema, cioè se il consenso che si dà per l’intervento vale per
le emotrasfusioni che si
rendessero eventualmente necessarie nel corso dell’intervento. E da medici cosa bisogna fare rispetto ad
una persona che sta morendo? Si dovrebbe rispettare la sua religione, o no? I medici del caso procedono
con l’emotrasfusione, salvano la vita alla donna, ma finiscono in Tribunale perché vengono denunciati
poiché hanno proceduto senza il consenso della donna.
La Cassazione sostiene che i medici hanno sbagliato in quanto si trovavano di fronte ad una dichiarazione
chiara che aveva fatto la donna in cui diceva che non voleva la emotrasfusione anche qualora fosse stata
necessaria per evitare la morte.

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La Cassazione dice anche che c’è una norma art. 1 comma 6 della legge 219 del 2017 che tutela anche il
medico, perché dice che se il medico ha rispettato la volontà del paziente, allora non vi è più responsabilità
né penale per omissione di soccorso, né civile e così via. Il discorso vale anche per le cure salvavita, cioè se il
paziente chiede al medico di staccare il respiratore artificiale, che significa in qualche modo attuare una
condotta che contribuisce alla morte del malato.
Si potrebbe dire che il medico ha diritto a sollevare l’obiezione di coscienza in questo caso: se stacca la
macchina, infatti, il paziente muore e se non la stacca il paziente vive, quindi non c’è dubbio che la sua è
una condotta che in qualche modo entra nella sequela causale che porta alla morte. Si sono verificati casi
dolorosi che hanno portato poi a responsabilità penali a carico dei medici. Ora, la norma sembrerebbe
riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza del medico, perché non si può chiedere al medico una
condotta contraria al codice deontologico.
Una situazione ancora diversa si verifica nel caso dell’aiuto al suicidio. La Cassazione in passato aveva detto
il medico che stacca il respiratore non provoca la morte del paziente, perché in sostanza la morte è sempre
conseguenza del corso naturale della malattia. Quindi il medico, staccando il respiratore, dà la possibilità ad
un processo naturale che porta alla morte di determinare questo evento. Aiutare al suicidio, cioè aiutare un
malato
terminale che abbia deciso di morire, significa che si chiede al medico non di interrompere un trattamento
salvavita che porta alla morte, ma di accelerare questo processo attraverso la somministrazione o l’aiuto al
paziente a somministrarsi un farmaco letale. In questo secondo caso la morte è provocata dal farmaco, non
dal corso naturale della malattia.
Se qualcuno somministrasse il farmaco, la fattispecie dal punto di vista penalistico dovrebbe essere quella
dell’omicidio del consenziente, ma così non è poiché il medico procura il farmaco e lo sistema in maniera
tale che magari basta anche un premere le labbra ed il paziente si autosomministra il farmaco, quindi è un
suicidio, non vietato dalla legge. La Corte costituzionale è intervenuta nel 2018 con una ordinanza dicendo
che la norma del Codice penale non è costituzionalmente illegittima però non tiene conto di esigenze che
abbiano una precisa rilevanza costituzionale. Invitava allora il legislatore ad intervenire entro un anno con
una legge che disciplinasse l’aiuto al suicidio. La Corte dice che questa legge dovrebbe prevedere
l’obiezione di coscienza del medico. La Corte costituzionale dice che bisogna far valere il diritto di questi
malati all’autodeterminazione, e quindi se decidono di morire il legislatore deve prevedere l’obiezione di
coscienza per i medici perché qui siamo di fronte ad una condotta che determina la morte di una persona.
La Corte, da per presupposto che ci sia la possibilità di prevedere il diritto all’obiezione di coscienza quando
c’è un conflitto tra doveri.
Dal punto di vista del paziente c’è un diritto all’aiuto al suicidio.
La Corte, di fronte all’inerzia del Parlamento è poi intervenuta con la sentenza n 242 del 2019 ed ha
dichiarato in parte illegittima la norma dell’art. 580 del c.p. La Corte costituzionale si corregge e sostiene
di non aver mai parlato di un diritto del malato a chiedere un suicidio assistito, in questa sentenza non si
parla più di obiezione di coscienza del medico, perché la Corte dice che non può essere punito il medico che
aiuti la persona a suicidarsi.
Stando alla sentenza del 2019 non sembrerebbe esserci un diritto al suicidio e parallelamente un dovere del
medico ad aiutare il malato a suicidarsi, e quindi non avrebbe più senso parlare di obiezione di coscienza.
Tuttavia, questa previsione non ha convinto tanti e molti dicono che il diritto al suicidio c’è.
Importante è sapere come la Corte costituzionale arriva a dichiarare la illegittimità della norma del c.p.,
perché l’art.32 della Costituzione esclude che ci possa essere un trattamento sanitario senza consenso.
Il prof. Silvestri, ex Presidente della Corte costituzionale, ha rilevato che quando vengono in gioco i principi
costituzionali si è quasi all’indirizzo politico: anche se la Costituzione non prevede l’aiuto al suicidio,
equiparare la situazione del medico che aiuta la somministrazione del farmaco letale a quella del medico
che stacca il respiratore è una forzatura, le due condotte sono moralmente diverse e meritano delle
valutazioni differenti. Dosando i vari principi costituzionali, una Corte che ha il potere di interpretare in
maniera vincolante le norme della Costituzione può dire che la nostra Costituzione prevede l’aiuto al
suicidio. Il soggetto che chiede il distacco del respiratore in qualche modo si suicida: i medici hanno
l’obbligo di intervenire con sedativi per cui il malato non sente nulla, e questa persona arriva alla morte
senza soffrire, ma tale processo può arrivare al culmine dopo sette\otto giorni, ledendo gravemente la

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dignità del paziente; diversamente, con un farmaco la morte arriva dopo poche ore senza sofferenze.
Equiparare le due situazioni come ha fatto la Corte costituzionale è qualcosa di molto discutibile proprio dal
punto di vista della interpretazione della Costituzione. Resta la scelta che fa un legislatore di poter
introdurre anche una disciplina per effetto di una scelta democratica.
È in discussione un disegno di legge che disciplina questa materia, che è stato approvato dalla Camera
proprio pochi giorni fa, che torna alla prospettiva dell’ordinanza della Corte costituzionale. Disciplina un
diritto al suicidio contrariamente a quello che aveva detto la Corte costituzionale nella sentenza del 2019 in
quanto si vuole che ci sia un diritto del malato terminale a potersi avvalere dell’aiuto al suicidio. L’art.6 ai
commi 1 e 3 del disegno di legge della materia in esame ha dovuto disciplinare l’obiezione di coscienza del
medico. Questi commi dicono che il personale sanitario con una dichiarazione può essere dispensato dal
compiere le pratiche che siano direttamente rivolte al suicidio, ma aggiunge la norma che il medico non è
dispensato dall’assistenza antecedente all’intervento. Rileva inoltre la sequenza causale che porta la morte:
Cappato era stato sottoposto a processo per aver accompagnato in macchina il paziente alla clinica svizzera,
ma era stato DJ Fabo a premere lo stantuffo e a far partire il farmaco, cioè il fattore determinante
dell’evento morte. La determinazione del principio di causalità è essenziale per evitare lo svuotamento del
diritto all’obiezione di coscienza.
Ci sono alcuni casi di obiezione di coscienza detti secundum legem: infatti, se la legge interviene per
disciplinare la materia, si passa dal fenomeno classico dell’obiezione di coscienza a quello dell’opzione di
coscienza. Quali sono i casi disciplinati dall’ordinamento?
-La legge n.40 del 2004 disciplina l’obiezione di coscienza del medico alla partecipazione alle procedure di
procreazione medicalmente assistita.
Questa normativa, tuttora molto controversa, ha subito parecchi interventi da parte della Corte
costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di diverse previsioni al suo interno. L’obiezione di coscienza è
stata prevista perché, quando è stata approvata questa legge, nel testo originario era previsto il divieto di
embrioni sovrannumerati, ma questa previsione è stato eliminata dalla Corte costituzionale: il limite, infatti,
non teneva conto delle esigenze di salute della donna. Se si vede l’embrione come un essere umano,
l’eliminazione degli embrioni sovrannumerati rientra nel precetto che vieta l’omicidio. Questa spiegazione
comunque convince poco, mentre è più comune l’idea che la vita debba nascere attraverso le tecniche
naturali, con la conseguente contrarietà ideologica a tutto quello che determina la vita in modo diverso.
-La legge 413 del 1993 che disciplina l’obiezione di coscienza sulla sperimentazione animale.
Qui secondo alcuni c’è in gioco la dignità dell’obiettore, ma la ratio di questa forma di obiezione è da
collegare con la tutela degli animali, quindi chi obietta lo fa perché ritiene che non si debba arrecare
sofferenza a degli esseri viventi. Oggi questa ricostruzione è un po’ rafforzata dalle modifiche recentemente
apportate alla Costituzione, all’art.9. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.

Restano altri casi di obiezione di coscienza molto controversi, come l’obiezione di coscienza alle
vaccinazioni, particolarmente rilevante rispetto alle vaccinazioni obbligatorie come quella del COVID per
determinate categorie di soggetti. Si è detto qui che la religione non c’entra, chi fa obiezione di coscienza
alle vaccinazioni lo fa per diffidenza circa le tecniche seguite per produrre questi farmaci, o contro poteri
economici occulti, ma ci sono alcuni gruppi religiosi, anche cattolici, che dicono che sono state utilizzate
cellule derivanti da feti abortiti, richiamando così carattere religioso. Tuttavia, anche la Chiesa ha emanato
un provvedimento dicendo che non c’è alcun problema da questo punto di vista.
Un’altra è l’obiezione di coscienza dell’ufficiale di stato civile che rifiuta di contrarre matrimoni o unioni
tra persone dello stesso sesso.
Negli Stati Uniti questi casi sono all’ordine del giorno, ma anche in Italia vi è stato qualche esempio. Bisogna
in questi casi tutelare tutti, anche la figura dell’ufficiale di stato civile che non vuole celebrare queste
unioni.
Il Consiglio di Stato italiano, intervenendo in una vicenda del genere in sede consuntiva, ha detto che si
può risolvere il problema in maniera semplice: l’ufficiale di stato civile, ossia il sindaco, può tranquillamente
delegare il compito ad un qualsiasi dipendente del Comune che sia favorevole alla celebrazione.
Si garantisce così l’interesse della coppia, che ha un diritto garantito dallo Stato, ossia quello di poter
celebrare le nozze, e la possibilità di non forzare un dipendente del comune.

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Un altro caso di obiezione di coscienza controversa è quella fiscale.
Vi è chi ha tentato di evitare di pagare le tasse, affermando di poter calcolare la percentuale di liquidità
destinata agli armamenti e di detrarre tale particolare cifra: ciò non è tuttavia immaginabile
dall’ordinamento, per cui tali soggetti sono incorsi in pesanti multe.

LA TUTELA DELLA LIBERTA’ RELIGIOSA NELL’AMBITO FAMILIARE


Per quanto riguarda l’ambito familiare, nonostante si tratti di un istituto privatistico, ci sono alcune norme
che danno attuazione al principio di libertà. Un tema particolarmente spinoso è sicuramente quello
dell’educazione religiosa dei figli: l’articolo 30 della Costituzione assicura ai genitori il diritto-dovere di
educare i propri figli, ma sul piano confessionale possono porsi molti problemi relativi
all’autodeterminazione dei minori. Se si guarda alla legge, i minori che frequentano le scuole superiori
possono scegliere direttamente se seguire o meno l’ora di religione, previa firma dei genitori, per cui
potrebbero sorgere dei contrasti familiari. Sul tema, trattandosi di una libertà indisponibile, non sono
ammissibili patti dei genitori prima del matrimonio, perché i coniugi devono essere liberi di scegliere.
Grandi conflitti sorgono nella scelta della scuola, soprattutto tra genitori separati o divorziati: se non si è
d’accordo sulla scelta, se pubblica o privata confessionale, i genitori dovranno rivolgersi al giudice, che
dovrà tenere conto anche del fattore economico. Nel dubbio, il giudice si orienterà verso la scuola pubblica,
privilegiandone la neutralità.
Rispetto ai casi in cui il giudice deve svolgere valutazioni sull’affidamento condiviso, anche se formalmente
è stato superato l’orientamento discriminatorio che preferisce il genitore credente al genitore ateo, i giudici
finiscono per prediligere, più o meno apertamente, le credenze religiose consolidate, rimanendo diffidenti
in particolar modo nel caso di genitori che appartengono a movimenti religiosi recenti o a gruppi che
pongono problemi relativamente alla crescita del minore, come nel caso dei culti che non ammettono
l’emotrasfusione.
Un altro problema che si pone è relativo alla conversione di un coniuge in seguito al matrimonio: questo
rientra infatti nella libertà individuale del soggetto, ma ci si chiede se il mutamento della religione possa
costituire elemento alla base dell’addebito della separazione. Se si tratta di un esercizio di una libertà
fondamentale, infatti, non si possono collegare ad esso conseguenze negative, ma la giurisprudenza
afferma che si deve indagare se la conversione determini un inadempimento dei diritti e dei doveri che
sorgono dal matrimonio: in tal caso sarà ammissibile l’addebito, ma esso non deriva dalla conversione in sé
direttamente, bensì dall’inadempimento causato dalla conversione.
Per quanto riguarda la materia successoria, invece talvolta il testatore pone una sorta di condizione di tipo
religioso all’erede per l’accettazione dell’eredità o di un legato: questo è uno di quei casi in cui la libertà di
religione interviene direttamente nei rapporti privatistici. L’articolo 643 del Codice civile stabilisce infatti
che: “Nelle disposizioni testamentarie si considerano non apposte le condizioni impossibili e quelle contrarie
a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume”. L’utilizzo della clausola generale permette di
ritenere che la garanzia costituzionale, ancorché non direttamente richiamata, sia applicabile.

LIBERTÀ RELIGIOSA SUL POSTO DI LAVORO


Altro ambito in cui la libertà religiosa pone dei problemi è quello lavorativo. La legge 604/66 contiene la
disciplina dei licenziamenti individuali e ha introdotto nel nostro ordinamento il principio in base al quale il
lavoratore può essere licenziato per giusta causa o giustificato motivo. Inoltre, questa legge ha
disciplinato per la prima volta il licenziamento discriminatorio, affermando che il licenziamento
determinato da situazioni religiose è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata. Ciò significa
che se anche il datore di lavoro licenzia giusta causa, ma alla base c’è un motivo religioso, la giustificazione
data dal datore non ha alcuna rilevanza: ciò è riscontrabile, ad esempio, nel caso in cui la medesima
condotta sia realizzata da due lavoratori, ma nei confronti di uno c’è un’ammonizione e nei confronti
dell’altro, che è di una religione diversa, c’è il licenziamento.
Nel 1970 viene emanato lo Statuto dei lavoratori, il quale rafforza i diritti sindacali del lavoratore ma anche i
diritti legati alla libertà di religione. L’art.8 dello Statuto vieta al datore di compiere indagini sulle opinioni
religiose del prestatore di lavoro, sia durante lo svolgimento del lavoro, sia ai fini dell’assunzione.

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La dottrina a riguardo è divisa perché una parte degli studiosi ha sostenuto che questa norma serve a
rafforzare le garanzie previste dall’art.1 dello Statuto, tra cui la libertà religiosa. Tuttavia, la tesi corretta è
un’altra, cioè dall’art.8 si può ricavare l’implicito divieto per il datore di lavoro di tenere conto della
religione professata dal lavoratore. Questo significherebbe che quando il datore assume un lavoratore non
può valutare se quest’ultimo abbia o non abbia una determinata fede religiosa.
Il limite che però emerge da questa disposizione (art.8) è che essa prevede solo un divieto di indagini.
Inoltre, questo articolo è assistito da sanzione penale, cioè il datore di lavoro se fa indagini sulle opinioni
religiose del lavoratore commette un reato. Proprio perché viene in gioco il piano penale, l’interpretazione
di questa norma deve essere letterale e non può essere applicata analogicamente a casi non previsti.
Quindi non si può dire che il datore non può utilizzare conoscenze sulla fede religiosa dei lavoratori di cui lui
già dispone, perché la norma vieta solo il compimento delle indagini.
Successivamente, con il Codice del 2003 in materia di dati personali le convinzioni religiose vengono
considerate come dati sensibili e quindi il datore di lavoro anche se disponesse di conoscenze sulla fede
religiosa non le potrebbe trattare senza l’esplicito consenso dell’interessato e l’autorizzazione del garante.
L’art.8 quindi tutelava fino ad un certo punto il prestatore d’opera dalle discriminazioni legate alla fede
religiosa perché non aveva la capacità di vietare l’utilizzo i dati ma aveva come scopo solo vietare le
indagini. Prendendo in considerazione la lavoratrice musulmana, si capisce subito che è musulmana non è
necessario fare un’indagine per scoprire la religione professata. Capiamo quindi come l’art.8 tutelava solo i
soggetti che mantengono una posizione di riserbo sulla loro convinzione religiosa prevedendo che il datore
non può compiere indagini. Questi problemi sono stati in parte superati dalla normativa che vieta l’utilizzo
dei dati personali.
Bisogna inoltre considerare che fino al 1995 esisteva il servizio del collocamento obbligatorio (il datore di
lavoro faceva una richiesta numerica all’ufficio di collocamento che era intermediario tra domanda e offerta
di lavoro). Oggi invece il datore di lavoro privato ha libertà di scelta dei lavoratori. Si potrebbe pensare che
il datore sia libero di scegliere i lavoratori anche in base alla religione da lui professata, ma non è così
perché esistono le garanzie di non discriminazione. L’art.15 dello Statuto riguarda i licenziamenti ma anche
fasi intermedie del lavoro come promozioni, trasferimenti. Quindi l’esigenza di non discriminare il
lavoratore per motivi religiosi riguarda tutte le fasi del lavoro e soprattutto il momento dell’assunzione.
Bisogna considerare che c’è una tendenziale corrispondenza tra l’ordinamento e l’orientamento culturale
prevalente di una società. Fin quando la nostra società è rimasta prevalentemente una società cattolica è
chiaro che i problemi di conflitto nell’ambito del lavoro non sorgevano perché le regole comuni sul rapporto
di lavoro erano costruite sulle esigenze (come dicono alcuni lavoristi) del lavoratore bianco, capo di famiglia
e cattolico. Si pensi al calendario lavorativo, tendenzialmente la domenica non si lavora e questo va bene
per una popolazione prevalentemente orientata in senso cattolico: il problema nasce se nell’azienda
comincia a lavorare un musulmano (giorno festivo è il venerdì) o un ebreo (giorno festivo è il sabato). Per
poter concedere i giorni festivi diversi dalla domenica, il datore deve necessariamente conoscere la
religione del lavoratore.
Possono poi esserci casi particolari, come quello svedese in cui una lavoratrice musulmana, dopo aver
partecipato ad una selezione, si rifiutò di stringere la mano al capo dell’azienda intenzionato ad assumerla,
per cui questi si rifiutò di assumerla. Dato che il rifiuto derivava da motivazioni religiose, si tratta di una
fattispecie tipica di discriminazione per motivi religiosi nella fase antecedente al rapporto di lavoro.
L’ordinamento dell’Unione Europea ha emanato delle norme che hanno segnato un progresso decisivo
nell’ambito della tutela della libertà di religione dei lavoratori e di divieto di discriminazione. In particolare,
la direttiva 2000/78 CE, che detta un quadro generale per la parità di tutela dei lavoratori e delle condizioni
di lavoro. Questa direttiva viene chiamata “di seconda generazione”, perché a differenza delle precedenti
non si ferma alla parità tra uomo e donna, ma abbraccia numerosi fattori di rischio, come l’handicap, l’età o
le opinioni politiche e religiose. La direttiva 2000/78 CE è stata recepita nel nostro ordinamento con dlgs.
216/2003: ha fornito una definizione di discriminazione religiosa distinguendo tra discriminazione diretta e
discriminazione indiretta, che trovava già un accenno nel Testo Unico in materia di immigrazione del 1998
ed è stata così precisata.

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ART.2 (2000/78 CE) “Nozione di discriminazione”: “1. Ai fini della presente direttiva, per "principio della
parità di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei
motivi di cui all'articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1,
(quando sulla base della religione…possiamo leggere così) una persona è trattata meno favorevolmente di
quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente
neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una
determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le
persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone”
La discriminazione diretta comporta un trattamento svantaggioso per una persona confrontando
quest’ultima con un’altra persona che si trova in posizione analoga (il termine di comparazione diventa un
elemento essenziale quando si fa una valutazione di parità o di discriminazione).
La discriminazione indiretta si ha quando esiste un provvedimento apparentemente neutro che produce
effetti pregiudizievoli o causa particolare svantaggio per motivi religiosi. Il datore di lavoro è titolare di
determinati poteri direttivi e disciplinari, con la capacità di dettare regole organizzative rispetto all’assetto
dell’azienda e alla posizione del lavoratore: se il lavoratore non segue tali regole, è soggetto a
provvedimenti disciplinari, tra cui rientra l’extrema ratio del licenziamento. Il prestatore d’opera, soggetto
debole del rapporto, si trova in un rapporto di subordinazione, ma ha tanti diritti, tra cui quello di non
essere discriminato per motivi religiosi.
Cosa significa provvedimento apparentemente neutro? Il provvedimento neutro è quel provvedimento
neutrale che non tiene conto della religione, altrimenti rientrerebbe nella nozione di discriminazione
diretta: crea una discriminazione nonostante non faccia esplicito riferimento alla religione. Si pensi al caso,
realmente accaduto, del datore di lavoro che chieda alle sue dipendenti di tenere i capelli sciolti: non vi è
un esplicito riferimento religioso, ma può avere effetti pregiudizievoli su chi, ad esempio, indossa il velo
islamico. Sarebbe invece esplicitamente discriminatorio se il bando del datore di lavoro dichiarasse di non
assumere donne musulmane. La discriminazione indiretta invece è una discriminazione mascherata.
Qual è più grave tra la discriminazione diretta e quella indiretta? Certamente è più pericolosa quella
indiretta perché è subdola, non facilmente riconoscibile. Per quanto riguarda la gravità, è più grave quella
diretta, perché è chiara la volontà di discriminare. Nella direttiva, nel caso della discriminazione diretta l’art.
4 si afferma che non c’è discriminazione diretta, ove esplicita, quando una caratteristica correlata alla
religione costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento della prestazione lavorativa.
Ad esempio, un macellaio di religione ebraica cercherà un aiutante in macelleria che sia di religione ebraica,
perché per maneggiare la carne deve conoscere determinate regole e non può essere assunto chiunque per
svolgere quella prestazione lavorativa. In questo caso è legittimo subordinare l’assunzione e quindi la
selezione del lavoratore al fatto che professi una determinata religione.
Altri esempi di discriminazione indiretta possono essere l’uso della domenica come unico giorno di riposo o
il professore della scuola pubblica costretto a svolgere la sua attività avendo alle spalle il crocifisso,
assumendo di essere in una posizione di svantaggio rispetto agli insegnanti cattolici.
Mentre per la discriminazione diretta l’unica giustificazione è quella prevista all’art.4, cioè l’ipotesi
eccezionale dei requisiti occupazionali, nel caso della discriminazione indiretta basta che ci sia una oggettiva
giustificazione, purché i mezzi che il datore adotta siano proporzionati al raggiungimento dello scopo. I casi
che più di frequente si sono verificati in tale materia riguardano le lavoratrici di religione musulmana che
indossano il velo.
Bisogna prima distinguere i lavoratori del pubblico impiego dai lavoratori del settore privato. La differenza
fondamentale che c’è tra le due aree è la seguente: nel caso del pubblico impiego dovrebbero prevalere le
esigenze di neutralità, quindi ci può essere un problema se un lavoratore del pubblico impiego esibisce un
simbolo di appartenenza confessionale. Nel caso del settore privato questi problemi di neutralità non si
pongono, perché il dominus è il datore di lavoro e se questo vuole dare una determinata immagine
all’impresa può farlo, può tollerare quello che vuole nella sua azienda.

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Rispetto alle esigenze di neutralità pubbliche, rileva un caso francese relativo ad una insegnante di scuola
che portava il velo islamico: la Corte EDU si è pronunciata a riguardo, dicendo che l’insegnante non possa
insegnare con il velo islamico. Tuttavia, ha giustificato la presenza del crocifisso sulla parete, in quanto
“simbolo passivo”, mentre l’insegnante è un elemento attivo della classe che potrebbe condizionare la
formazione della coscienza dei minori.
Nel settore privato proprio in Italia si è verificato il caso rilevante di un’azienda di scarpe che stava
organizzando una fiera e aveva bisogno di un’addetta per fare opera di volantinaggio. Il bando era
formulato con la richiesta di una ragazza di bella presenza e che doveva avere preferibilmente capelli sciolti
e fluenti. Una ragazza si presenta con il velo islamico, perciò il datore di lavoro le dice di non poterla
assumere per via della clausola del bando relativa ai capelli e le chiede se sia disposta a togliere il velo; la
ragazza si rifiuta, essendo un suo diritto portare il velo, e il datore non la assume e assume un’altra ragazza.
Art. 3 della direttiva “Ambito di applicazione”: “Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente
direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi
di diritto pubblico, per quanto attiene:
a) alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i
criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i
livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;”

C’è quindi una norma in cui espressamente si dice che queste garanzie di non discriminazione funzionano
prima, già nella fase pre-assuntiva. La ragazza sulla base di questa norma fa ricorso e il giudice di primo
grado le dà torto, dicendo che il datore di lavoro non voleva discriminare le lavoratrici di religione islamica
ma ha fatto quella clausola perché aveva esigenze legate all’aspetto delle ragazze: non c’era un animus
nocendi, una mala fede del datore. La Corte d’Appello, però, dichiara un errore di diritto nella pronuncia di
primo grado, in quanto il giudice di primo grado pretende di distinguere i comportamenti del datore di
lavoro sulla base del fatto che siano in buona fede o in mala fede, ma le norme della direttiva hanno
un’applicabilità oggettiva e prescindono del tutto dal valutare l’intentio del datore di lavoro.
Queste norme operano in maniera oggettiva nel senso che l’unica cosa che rileva è se provocano danni,
conseguenze sfavorevoli o posizioni di particolare svantaggio per la lavoratrice. Se questo svantaggio viene
accertato oggettivamente, il provvedimento del datore di lavoro è illegittimo a prescindere dal fatto se
l’abbia adottato in mala fede o in buona fede. E in questo caso di specie la lavoratrice con il velo si trovava
in una situazione di svantaggio. Così la Corte d’Appello riconosce il diritto al risarcimento del danno, anche
perché il bando chiedeva “preferibilmente” capelli sciolti, non indicandoli come requisito irrinunciabile.
Come individuare il criterio giusto per conciliare le contrapposte esigenze del datore di lavoro, come quella
di dettare le sue regole sull’organizzazione dell’impresa, e il diritto della lavoratrice di esibire segni di
appartenenza confessionale?
Una prima soluzione sarebbe quella di distinguere intanto le lavoratrici BACK OFFICE, cioè le lavoratrici che
stanno dietro l’azienda, come ad esempio la lavoratrice addetta al call center, dalla lavoratrice addetta allo
sportello, quindi a contatto diretto con la clientela.

Questa soluzione giurisprudenziale che le Corti spesso hanno applicato in diversi paesi europei non è da
accogliere in quanto, ferma restando la massima libertà della lavoratrice back office, il caso della lavoratrice
front office bisogna considerarlo in una posizione diversa. Intanto ci sono degli interessi che si
contrappongono alla libera professione della fede religiosa rispetto ai quali è pacifico che debba prevalere
un’attenzione verso di essi, come nel caso in cui vengano in gioco esigenze legate alla sicurezza della libertà
lavorativa, o esigenze legate all’igiene soprattutto in determinate attività, come nei laboratori di analisi, al
cui interno è necessario indossare determinati capi di abbigliamento e non indossarne invece altri, per
legge non è consentito indossare determinati capi o accessori, quindi il datore di lavoro sta semplicemente
attuando un precetto previsto dalla legge che disciplina quell’attività lavorativa.
I casi più incerti sono quelli in cui viene messa in gioco L’IMMAGINE DELL’AZIENDA, in quanto in questo
caso è il datore di lavoro che sceglie che tipo di immagine vuole dare alla sua azienda, e quindi è lui che
impone delle particolari restrizioni sull’abbigliamento delle lavoratrici dell’azienda.

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Prima del 2017 ci si era convinti che bisognasse guardare al tipo di attività lavorativa svolta, quindi una
restrizione che grava sulla libertà religiosa deve rispondere a dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità,
e per stabilire ciò si va a guardare al tipo di attività che svolge la lavoratrice e al tipo di attività che svolge
l’impresa e ci si regola di conseguenza; come nei casi delle commesse addette alle boutique che portano il
velo e si vestono con una tunica nera, e questo non va bene per il datore di lavoro, che dapprima cerca di
convincere la commessa ad allinearsi ai canoni di abbigliamento della clientela, ma se la commessa non
accetta questa condizione, allora il datore licenzierà commessa; inevitabilmente si finirà davanti al giudice
ed egli dirà che il licenziamento ha una giusta causa derivante dal fatto che la commessa ha tra l’altro la
funzione anche di incentivare l’acquisto, quindi all’interno di una boutique la commessa dovrebbe
tendenzialmente usare un canone di abbigliamento che incentivi il cliente che entra all’acquisto, quindi la
posizione del datore di lavoro è comprensibile.
Ancora, il caso di una lavoratrice addetta al banco della frutta di un supermercato che porta il velo, qui il
collegamento tra l’aspetto dell’immagine aziendale e le mansioni che vengono chieste alla dipendente non
sembra rilevante e quindi giustificabile.

Il 14 Marzo 2017 interviene per la prima volta la CGUE con due importanti pronunce che intervengono su
questo tema.
1.Nel primo caso, un’addetta all’accoglienza assunta alle dipendenze di una società che garantisce questo
tipo di servizio sia al settore pubblico che al settore privato, è al corrente che c’è una regola aziendale che è
ostile a far indossare il velo alle dipendenti, però non c’è nessuna regola scritta che prevede il divieto di
indossare il velo, allora per tre anni la donna si adegua alla regola non scritta e non porta il velo, ma da un
momento all’altro cambia idea e per ragioni religiose deve prestare l’attività lavorativa indossando il velo. Il
consiglio di amministrazione dell’azienda allora dopo due giorni si riunisce e fissa una regola scritta secondo
la quale non si possono portare sul luogo di lavoro segni esteriori di convinzioni politiche, filosofiche o
religiose.
2.Il secondo caso riguarda una donna con il velo esperta in informatica, in francese chiamato
“ingénieur d'etudes”, questa donna viene mandata dalla società che assicura questi servizi di consulenza
informatica fuori a svolgere questa attività presso una ditta cliente, ma succede che la ditta cliente, quando
si vede arrivare questa donna con il velo segnala alla società che gliel’ha inviata che i collaboratori della
ditta hanno avuto disagio a stare con questa lavoratrice con il velo, e chiedono che la prossima volta venga
mandata un’altra persona altrimenti cambieranno fornitore di servizio; questa minaccia pesa al datore di
lavoro.

La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi su questi due casi a seguito del rinvio pregiudiziale si deve
interrogare innanzitutto se c’è una DISCRIMINAZIONE DIRETTA della lavoratrice nello svolgimento
dell’attività lavorativa; la Corte esclude che ci possa in un caso del genere una discriminazione diretta,
perché la norma prevista dall’azienda si riferisce ai segni esteriori di carattere politico, religioso e filosofico,
inoltre questo divieto che viene previsto dalla normativa interna dell’impresa è un divieto che si applica
indiscriminatamente a tutti i lavoratori dell’azienda e tutti i tipi di simboli.

In altri casi, la CGUE aveva detto che ci può essere una DISCRIMINAZIONE DIRETTA anche in presenza di un
semplice provvedimento apparentemente neutro, come nel caso riguardante un sospetto trattamento
discriminatorio ai danni di alcuni utenti del servizio di fornitura di energia elettrica di origine rom.
È successo che la compagnia che fornisce il servizio di energia elettrica, che normalmente installa i contatori
della luce a circa 1 metro e mezzo di altezza/2 metri ovviamente per consentire la lettura dei contatori, in
una città bulgara abitata in prevalenza da cittadini rom, i contatori vengono installati ad otto metri di
altezza, perché pensavano che questi potessero manomettere i contatori.
Potrebbe trattarsi di un provvedimento apparentemente neutro perché quest’ultimo valeva anche per i
cittadini della città che non erano di etnia rom, tuttavia la Corte sostiene che c’è un nesso immediato tra la
decisione della compagnia elettrica di installare i contatori a 8 metri di altezza e il fattore di rischio che è
l’etnia, c’è un pregiudizio verso questa etnia, ed è questo che fa capire che ci si trova davanti ad un caso di
DISCRIMINAZIONE DIRETTA.

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Un passaggio molto delicato è quello dell’individuazione del corretto termine di comparazione quando si
tratta di questioni riguardanti la discriminazione diretta: il dubbio è che tutti i lavoratori di quell’azienda
stiano subendo la medesima discriminazione, e se si comparano due gruppi di lavoratori tutti egualmente
discriminati, il risultato sarà che non c’è discriminazione perché tutti sono discriminati.
Un altro aspetto delicato è se il provvedimento aziendale è neutro solo perché riguarda anche altri fattori di
rischio oltre quello religioso come cause di discriminazione, ma questo non toglie che ci sia sempre un
riferimento esplicito alla religione, per cui è dubbio che un provvedimento del genere possa considerarsi
neutro, sia perché c’è la questione del destinatario del provvedimento, sia perché equiparare questi segni
non significa che non sono tutti discriminati questi lavoratori che vogliono esibire determinati segni.
Ma è logico equiparare il segno filosofico o politico al segno religioso? Questa è chiaramente una forzatura.
La Corte sostiene che semmai ci dovrebbe essere una DISCRIMINAZIONE INDIRETTA: provvedimento
apparentemente neutro, perché riguarda tutti i simboli, però potrebbe avere effetti pregiudizievoli per le
lavoratrici di religione islamica. Tuttavia, la Corte rimette la valutazione al giudice del rinvio.
Il datore di lavoro potrebbe adottare una politica di rigorosa neutralità ideologica, e se lo fa in modo
sistematico e coerente, purché questa politica riguardi solo le lavoratrici a contatto con la clientela, ed è
questa la giustificazione oggettiva della sospetta discriminazione indiretta.
Inoltre, la Corte dice che, prima di arrivare al licenziamento, il datore di lavoro deve cercare di fare un
accomodamento ragionevole, cioè deve vedere se riesce a concordare con la lavoratrice che ha questo
problema legato alla sua libertà religiosa, di esercitare la sua mansione che le consenta di continuare a
lavorare senza rinunciare alla sua regola confessionale.
La novità deriva dal fatto che la DIRETTIVA 2000/78/CE aveva disciplinato espressamente il tema delle
soluzioni ragionevoli, però lo aveva fatto esclusivamente tenendo in considerazione il fattore di rischio in
caso di handicap.
Con riguardo a questa politica di neutralità ideologica, la Corte chiarisce intanto che, se è il capriccio di un
utente a decidere queste cose, questo non può funzionare come criterio di giustificazione della misura
adottata dal datore di lavoro, perché restringe una libertà fondamentale.
In realtà però il limite del rinvio pregiudiziale è che il giudice del rinvio non chiede alla corte di giustizia
un’indicazione di massima, cioè un’interpretazione che sia poi utilizzabile anche in altri casi, ma gli descrive
tutto il caso, e alla fine la corte di giustizia gli dà la soluzione di quel caso, ma non era questa la logica; non è
che il datore di lavoro introduce la regola perché gli è stato chiesto da Tizio, quella era una situazione di una
sofferenza che poteva riguardare anche altri utenti del servizio, per cui il datore di lavoro si deve attrezzare
per andare incontro alle esigenze della clientela, e lui sa che per la sua attività produttiva la clientela chiede
un certo tipo di contatto con i lavoratori.
È sufficiente che un datore di lavoro dica di voler attuare una politica di rigorosa neutralità nella sua
azienda? Potrebbe essere sufficiente una sua libera scelta?
Pochissimi giorni prima della pronuncia della Corte di Giustizia, si verifica un caso in Spagna di una hostess
addetta ai servizi di terra che indossa una divisa e a cui non fanno portare il velo islamico. Questa viene
licenziata e fa ricorso al suo datore di lavoro. Il giudice le dice che la norma introdotta dal suo datore di
lavoro non si preoccupa di assicurare atteggiamenti di neutralità nei confronti dell’azienda, ma piuttosto si
preoccupa di esigenze di carattere estetico: vuole che le hostess della compagnia siano vestite in un certo
modo per esigenze di carattere estetico. E la corte dice che questo non si può fare, perché un conto è
introdurre una politica di rigorosa neutralità, un conto è che il bisogno di tutelare l’immagine dell’azienda si
traduca in prescrizioni fondate su esigenze di carattere meramente estetico. Questo ve lo dico perché nel
2021 la corte di Cassazione in Francia si è pronunciata sul famoso caso della commessa della boutique
dicendo che non si può più ragionare come si faceva prima, cioè tenendo conto della natura delle mansioni
svolte, perché ora la Corte di Giustizia ci ha detto che bisogna tenere conto della eventuale politica di
neutralità ideologica, nel caso concreto invece la normativa interna era semplicemente una normativa di
carattere meramente estetico. Il contratto di lavoro stipulato con la lavoratrice presso una boutique
richiedeva che quest’ultima fosse esemplare nei suoi atteggiamenti di accoglienza, sorridente e dinamica e
che indossasse un abbigliamento coerente con il funzionamento dell’azienda; che ogni impiegato dovesse
contribuire all’obiettivo dell’azienda a fornire la soddisfazione del cliente, pertanto la persona che fosse a

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contatto con questo doveva avere una presentazione corretta ed ubidiente, e non indossare abiti con
marchi concorrenti. La descrizione delle mansioni dell’assistente di vendita conferma che la commessa
rappresenta l’immagine dell’atelier attraverso il suo look/abbigliamento/acconciatura/trucco. Qui la Corte
di Giustizia non ci permette di fare questo tipo di valutazioni basate semplicemente sulle mansioni perché
dice che se il datore di lavoro adotta la politica di neutralità ideologica bene, ma se invece pensa solo
all’estetica allora prevale la libertà religiosa. Quindi a questo punto sorge il problema di capire se il datore
di lavoro vuole adottare una politica di neutralità o fondare la sua valutazione solo sull’estetica, ma
conoscendo l’orientamento della Corte di Giustizia, sia che si tratti di un’officina meccanica, di un asilo o di
una boutique, se si adotta la politica di rigorosa neutralità ideologica il problema è risolto.
Senonché la Corte di Giustizia nel Luglio scorso è intervenuta su un’altra fattispecie e ha cambiato in
sostanza la conclusione della precedente pronuncia: la sentenza prendeva in carico la domanda presentata
nell’ambito di una controversia tra una lavoratrice e il suo datore di lavoro che era un’associazione
registrata che gestiva asili nido e qui la lavoratrice viene sospesa dall’esercizio delle sue funzioni perché non
aveva rispettato il divieto imposto dal suo datore di lavoro di indossare qualsiasi segno visibile di natura
politica/filosofica/religiosa. Con questa pronuncia la Corte di Giustizia intanto conferma il suo precedente
orientamento per cui non si può parlare di discriminazione diretta, ma non si limita più a dire che il datore
di lavoro deve solo adottare una politica di neutralità ideologica, perché aggiunge “a condizione che, in
primo luogo, tale politica risponda ad un’esigenza reale di detto datore di lavoro, circostanza che spetta allo
stesso datore di dimostrare prendendo in considerazione le aspettative legittime dei clienti, nonché le
conseguenze sfavorevoli diritte dell’assenza di una tale politica, o dalla natura dell’attività, o dal contesto in
cui queste norme si descrivono.” Bisogna poi verificare che la politica sia seguita in modo coerente e
sistematico, e poi il divieto si deve limitare allo stretto necessario, tenuto conto della portata e della gravità
effettiva delle conseguenze sfavorevoli (cioè se il datore di lavoro nota che per un certo abbigliamento della
sua dipendente perde tutti i clienti, questa è una conseguenza grave). Quindi la politica di neutralità può
giustificare la discriminazione diretta, ma solo nei casi particolari che abbiamo visto.

Segni visibili: andiamo a considerare quali sono quei simboli che vengono considerati visibili/vistosi. In
Francia si distinguono in base alle dimensioni del simbolo, un simbolo con delle dimensioni eccessive viene
trattato in un determinato modo per questo può essere più di impatto, un simbolo più discreto (un
crocifisso appeso ad una collanina) non dà problemi. Ma a questo proposito la Corte di Giustizia afferma
che un divieto che si limita soltanto all’uso dei simboli di dimensioni vistose è una discriminazione diretta
basata sulla religione e condizioni personali, perché si va esplicitamente a colpire determinati simboli.
Quindi nella logica della Corte se si va a limitare l’uso di tutti i simboli religiosi/filosofici/politici non c’è
discriminazione diretta, se invece si va a limitare l’suo di un determinato particolare simbolo si è in
presenza di una discriminazione diretta.

Particolari tipologie di datori di lavoro: organizzazioni confessionali di tendenza. Nell’ambito delle aziende
e delle imprese con scopo di lucro, dobbiamo ritagliare quella particolare categoria di datori di lavoro che
sono quelli di tendenza, che sono diversi dagli altri perché hanno una tendenza ideologica. Cioè la loro
attività lavorativa ha come fine quello di perseguire una particolare ideologia, di diffondere dei particolari
ideali. Non esistono solo organizzazioni confessionali di tendenza, ma anche organizzazioni filosofiche,
politica. Per esempio, la scuola cattolica. Questa rilascia un titolo che viene equiparato a quello rilasciato
dalla scuola pubblica, come il titolo rilasciato dalla Cattolica del Sacro Cuore sarà uguale a quello rilasciato
dall’università pubblica, però l’ateneo è un ateneo di tendenza che oltre a formare degli esperti nel settore
giuridico, si preoccupa che ciò avvenga in un contesto di tendenza ideologica e di diffusione del messaggio
cattolico. In queste organizzazioni è legittimo subordinare la condizione del lavoratore al fatto che questo
confessi o meno una religione, è legittimo licenziarlo nel caso in cui dopo l’assunzione sopravvenga un
conflitto ideologico tra quello che lui insegna e la tendenza del datore di lavoro. Ricadiamo quindi in quello
che l’art. 4 della direttiva prevede a proposito della discriminazione diretta: eccezione al divieto di
discriminare, perché quando ci occupiamo del regime delle organizzazioni di tendenza ci troviamo
all’interno di un istituto che è creato proprio alla logica dell’eccezione al divieto di discriminazione. Sebbene
quindi la regola sia quella che non si può discriminare, nelle organizzazioni di tendenza questo ha un senso

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e sua logica, perché non avrebbe senso all’interno dell’università o della scuola cattolica chiamare ad
insegnare un docente che non solo è ateo ma promuove le sue idee. Nel Concordato del 1929, l’art. 38 si
limitava a dire che si può insegnare se hai l’attestato di idoneità che ti rilascia l’autorità ecclesiastica, e
questo lasciava intendere che non c’è una norma che prevede nel caso di conflitto con la tendenza
dell’università il licenziamento. A questo proposito è intervenuta la sentenza 895/1972 della Corte
costituzionale contro il docente che rivendicava la libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione e
sottolineava che non esiste una norma che prevede un licenziamento. In tale sentenza la Corte afferma che
è riconosciuta la libertà di insegnamento, ma se si desse ad un insegnante ateo la possibilità di insegnare in
una università cattolica verrebbe radicalmente trasformata l’ideologia della istituzione. Quindi noi
garantiamo alla Chiesa la possibilità di istituire scuole di ogni ordine e grado e questa libertà è garantita
dall’art. 33 Cost. e se si pretendesse che tali scuole si vadano ad allineare totalmente alle regole della
scuola pubblica si andrebbe a trasformare radicalmente la natura della scuola stessa. Aggiunge poi la Corte
Cost. che il docente non può lamentare una totale cancellazione della sua libertà perché nessuno lo
costringe ad insegnare qualcosa in cui non crede, pertanto può andare ad insegnare in un’altra università.
Questa è la logica della Corte costituzionale che quando si trova a dover giudicare un conflitto di interessi a
livello costituzionale, si preoccupa di tutelare tutti gli interessi in gioco, senza arrivare all’azzeramento di
uno dei due. Quando però si parla di organizzazione confessionale di tendenza bisogna sicuramente
mettere in conto una restrizione delle libertà fondamentali, però allo stesso tempo non si può accettare un
appiattimento totale della posizione del lavoratore sulla scala ideologica. Allora la giurisprudenza ha
tradizionalmente distinto ancora una volta tra mansioni, cioè è andata a valutare la posizione del lavoratore
in queste aziende a seconda del tipo di mansioni svolte, cioè ha sempre distinto tra mansioni di tendenza e
mansioni neutre dal punto di vista della ideologia perseguita dalla scuola e all’interno di una scuola
cattolica un insegnante di lettere deve ovviamente svolgere mansioni di tendenza a differenza, per
esempio, dell’insegnante di educazione fisica. A questo punto la giurisprudenza si è interrogata
sull’influenza che le scelte di vita personali possono avere sul rapporto di lavoro e sulla tendenza della
scuola. Un tempo i casi che si verificavano molto spesso erano quelli dell’insegnante della scuola cattolica
che contraeva matrimonio civile. A questo proposito si potrebbe dire che l’insegnante è ineccepibile a
livello dell’insegnamento, quindi si può accusare la persona di un insegnamento contrario alla tendenza?
Dal punto di vista delle mansioni didattiche no, però dal punto di vista della condotta ci potrebbe essere
qualche problema. Nell’art. 10 della L.131 del 1985 (nel protocollo addizionale si dice che la S.S è d’accordo
con l’interpretazione che lo Stato dà a questa norma alla luce della sentenza della Corte Cost. 295/1972) si
richiede un insegnamento puramente in linea con i principi religiosi o si richiede una testimonianza di quei
valori? Cioè se un insegnante professa i precetti religiosi e poi a casa si sposa con il matrimonio civile, resta
ancora credibile nel suo insegnamento? Questo problema si ripresenta con le persone omosessuali: è il
caso che è stato deciso dalla Corte del tribunale di Trento nella pronuncia del 23 feb. 2017 in cui
un’insegnante di storia dell’arte assunta presso un istituto religioso cattolico è stata licenziata per avere
una relazione con una donna. In questo caso la lavoratrice richiede di non essere discriminata per il suo
orientamento sessuale ma l’istituto religioso funziona proprio in deroga al divieto di discriminazione. In
questa sentenza il tribunale specifica che se si vuole licenziare una lavoratrice perché la sua condotta va in
conflitto con la tendenza della scuola, questo può accadere solo a condizione che il provvedimento sia
oggettivamente giustificato dalla natura della prestazione e in relazione al contesto del suo svolgimento.
Ma la direttiva 4/1978 parla di natura dell’attività lavorativa e di contesto ma non li richiede entrambi ma
alternativamente. Questo è importante perché se interpretiamo a livello letterale questa norma, anche una
lavoratrice che svolge una mansione neutra, se tiene una determinata condotta in un contesto
particolarmente sensibile, può essere discriminata; se andiamo a richiedere entrambi i requisiti e questi
sussistono (natura e contesto) si è nel campo del divieto delle discriminazioni.

I SIMBOLI ISTITUZIONALI
I simboli istituzionali sono quei simboli religiosi presenti in determinati ambienti, come nei luoghi di lavoro,
ed esibiti dalle pubbliche istituzioni. Fin quando si fa riferimento ai simboli personali, i problemi principali
che si pongono riguardano i limiti che incontra la libertà della lavoratrice rispetto ai vincoli eventualmente
imposti dal datore di lavoro. Quando vengono in gioco i simboli istituzionali, accanto a questi problemi che

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si ripresentano in determinati contesti, si aggiunge un problema ulteriore ovvero il fatto che è lo Stato,
l’ente pubblico, l’Istituzione che decide di esibirli. Ad esempio, il Crocifisso che è segno o espressione di
un’opzione di carattere etico che è stata compiuta dallo Stato: si pone un problema legato alla neutralità,
imparzialità delle Istituzioni, conseguenza della laicità dello Stato. Il Crocifisso è presente nelle scuole
pubbliche, nei tribunali e, in genere, dovrebbe esserci in tutti gli uffici pubblici. La presenza del Crocifisso
soprattutto nelle scuole ha posto particolari problemi quando quest’ultima viene utilizzata come seggio
elettorale. Su questo tema vi sono delle vere e proprie norme che prevedono l’esposizione del Crocifisso:
un regio decreto del 1924 per le scuole elementari e un regio decreto del 1928 per le scuole medie. Si
tratta di decreti risalenti al periodo fascista immediatamente prima della famosa Conciliazione.
Nasce, dunque, il dubbio legittimo che questi provvedimenti siano stati emanati con spirito confessionista,
di uso strumentale della religione, infatti, lo Stato e la Chiesa instaurano un ordine nuovo con i Patti
Lateranensi e, per manifestare questo nuovo ordine, con la riaffermazione del principio della religione
cattolica come religione di Stato, viene prescritta l’esposizione di questi simboli religiosi nelle scuole, uffici
pubblici e tribunali. La normativa citata si occupa, però, unicamente delle scuole, per quanto riguarda il
tribunale vige una Circolare emanata dal Ministro della Giustizia del 1926 che prescrive anche all’interno
di questi detto obbligo. Per quanto riguarda, poi gli uffici pubblici ci sono delle circolari ministeriali che
disciplinano questa materia. In alcune regioni, nel caso di specie la Lombardia, si è pensato di recente di
emanare un ordine a riguardo: la legge regionale n. 18/2011 che ha prescritto che in tutti gli uffici della
regione ci debba essere esposto il Crocifisso. La ratio non è più quella dell’epoca fascista, siamo di fronte ad
una scelta compiuta dal legislatore regionale di prevedere l’esposizione di questo simbolo. Un problema
che sorge riguardo le scuole riguarda l’ambito applicativo di queste norme, infatti, il regio decreto del 1924
si applica alle scuole elementari, il regio decreto del 1928 alle scuole medie, dunque, la conclusione
naturale è che queste norme non si applichino alle scuole superiori, concetto ribadito anche in una
sentenza della Cassazione sezione lavoro. Ma bisogna sollevare un’obiezione: la scuola media è stata
istituita nel 1940, come può, quindi, un provvedimento del 1928 applicarsi ad una scuola che non esisteva?
Nel 1928 la scuola media era il biennio della scuola superiore. Diretta conseguenza è che la scuola media e
anche le scuole superiori dovevano esporre il Crocifisso, con la sola esclusione della scuola materna. Nei
seggi elettorali, le cui sedi sono le scuole, non c’è una norma che prescrive la presenza o meno del
Crocifisso, tuttavia, è accaduto che alcuni scrutatori hanno rifiutato di assumere l’ufficio per la presenza di
questo simbolo.
Oggi lo scrutatore, il presidente e il segretario presentano una domanda per essere inseriti in un apposito
elenco, al quale segue il sorteggio, diversamente, nel passato, tutti i cittadini, inseriti nelle liste elettorali del
Comune, potevano essere sorteggiati. Qualsiasi elettore poteva essere nominato scrutatore. Quest’ultimo
può rifiutarsi di adempiere all’ufficio soltanto in presenza di un giustificato motivo. Accadde che il sig.re
Montagnana, professore di filosofia, nominato scrutatore, dichiarò che avrebbe adempiuto all’ufficio solo
se fosse stato rimosso il Crocifisso dal seggio elettorale. Chiaramente la motivazione fornita dal professore
non venne giustificata ai sensi della norma e il pretore di Cuneo lo condannò al pagamento di un’ammenda.
Montagnana presentò ricorso, la Corte di Cassazione si pronunciò sul punto e pur sottolineando la
mancanza di quel nesso di causalità diretto tra il fatto contrastante con la coscienza e il diritto, tentò di dare
un orientamento di diritto al giudice annullando la condanna con rinvio. Il giudice del rinvio, mancando quel
nesso di causalità diretto, confermò la condanna. Il professore presentò nuovamente ricorso e il giudice
Colaianni, consigliere della Corte di Cassazione, affermò che lo scrutatore, essendo un pubblico ufficiale, ha
legittimo motivo, dovendo esercitare l’ufficio in un seggio con esposto un Crocifisso, di sentire lesa la sua
libertà di coscienza. Viene annullata la condanna senza rinvio.
Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, dato che il partito Democrazia Cristiana richiamava apertamente
i valori cristiani, il simbolo poteva condizionare la libertà di scelta dell’elettore.

Un altro luogo dove le esigenze di imparzialità sono forti è il tribunale. La Circolare del 1926 prescrive, come
si è detto, l’esposizione del Crocifisso. Il caso più famoso in questione è il caso Tosti, che ha iniziato una
vera e propria battaglia per la rimozione dei Crocifissi dai tribunali. Tosti, giudice onorario, non ha mai
tenuto udienza proprio per la presenza dei suddetti e per ragioni, chiaramente, di coscienza. Il Presidente
del tribunale di Camerino, allora, autorizzò il giudice Tosti a tenere udienza nella sua stanza o in altra aula in

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cui non vi fosse esposto il Crocifisso ma per il giudice Tosti questo non era sufficiente: dovevano essere
rimossi tutti i Crocifissi da tutte le aule di tribunale italiane. La conseguenza fu un’imputazione per il reato
previsto dall’art.328 c.p. di omissioni per atti d’ufficio, Tosti affrontò il processo sostenendo di essere
vittima di una discriminazione sul luogo di lavoro ma comunque fermo sulla sua posizione: il Crocifisso era
lesivo della sua libertà di coscienza e di religione. Intervenne il CSM ma il giudice Tosti propose una sorta di
compromesso: richiese che venisse esposto anche il simbolo religioso ebraico, la menorah. Il CSM e la
Cassazione, che intervennero sulla questione, sottolinearono la mancanza di una norma di legge che
legittimasse l’abbinamento al Crocifisso di altro simbolo religioso. Dunque, per accettare la condizione era
necessario l’intervento del legislatore, non era sufficiente richiamarsi al pluralismo o alla laicità dello Stato.
Il limite della vicenda del caso Tosti fu che il giudice non poteva lamentare una violazione della sua libertà
di coscienza in quanto quest’ultimo, per adempiere all’ufficio, avrebbe potuto tenere udienza, con
autorizzazione del Presidente del tribunale, in un’aula in cui il Crocifisso non era esposto. Tosti non accettò
quest’ultima condizione perché, in realtà, come si è detto, era promotore della laicità dello Stato e la sua
volontà era eliminare tutti i Crocifissi dalle aule di tribunale. Ma può un singolo cittadino, nel caso di specie
Tosti, chiedere al giudice che sia data attuazione al principio di laicità? Il principio di laicità è un diritto
soggettivo? La libertà di coscienza, la libertà di religione negativa sono diritti soggettivi, azionabili di fronte
ai pubblici poteri ma la laicità non è un diritto soggettivo, è più un interesse diffuso cioè una situazione
giuridica debolmente connotata dal punto di vista soggettivo.

La questione riportata all’interno delle scuole è diversa: non vi sono, infatti, interessi stringenti di neutralità
al suo interno. La scuola è sicuramente una realtà diversa dai tribunali e dai seggi elettorali. Secondo taluni,
il Crocifisso si pone irrimediabilmente in contrasto con il principio di laicità dello Stato: mentre la
studentessa o la lavoratrice che porta il velo compie una scelta personale legata ad un suo diritto umano
fondamentale, nel caso del Crocifisso la scelta è compiuta dallo Stato, vi è un’opzione di carattere etico
incompatibile con il principio di laicità dello Stato. Secondo altri, il Crocifisso contrasta con il diritto alla
libera formazione della coscienza: la presenza di un solo simbolo potrebbe essere fuorviante per un altro
credo. Altri ancora rilevano che il Crocifisso è simbolo del cattolicesimo, ma ne riconoscono anche un
significato di carattere culturale e storico, avendo caratterizzato non solo l’esperienza italiana ma anche
quella europea. Questa tesi può essere assimilata al problema dell’ora di religione nelle scuole, il
Concordato infatti precisa che la Repubblica continua ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica,
tenuto conto che i principi del cattolicesimo, fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano.
Secondo questa tesi, richiamarsi alla laicità di fronte alla storia perde di significato.
Alcuni hanno pensato di risolvere il problema, dal punto di vista tecnico, considerando le norme del 1924 e
1928 come implicitamente abrogate. La ratio di queste norme era, infatti, giustificata dal principio
dell’epoca fascista della religione di Stato ma, nel 1984, con il nuovo Concordato, scompare questo
principio, dunque, anche la ratio di queste leggi. Questo produce come conseguenza anche l’estinzione
dell’obbligo di esporre il Crocifisso nelle scuole.
Negli anni 2008-2010 Il Ministro Calderone, per risolvere il problema del numero enorme di leggi in Italia al
fine di semplificare l’orientamento tra le stesse, decise di verificare quali provvedimenti, a partire dal 1861,
fossero ancora vigenti e quali fossero, invece, da abrogare. Con un decreto-legge del 2008 viene inserito
nell’elenco delle disposizioni espressamente abrogate il regio decreto del 1924, diversamente, quello del
1928, riguardante le scuole medie, resta pienamente in vigore. Si trattava chiaramente di una svista, per
questo, viene emanato un nuovo decreto nel quale viene sancita l’efficacia sia del regio decreto del 1928
che del 1924, precedentemente ed erroneamente abrogato. L’unica via percorribile per disfarsi di questo
simbolo religioso è rivolgersi alla giurisprudenza. La questione, nel frattempo, era arrivata anche alla Corte
costituzionale nel 2004 che venne chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della presenza dei
Crocifissi nelle aule scolastiche. La Corte negò la propria competenza perché le norme denunciate (regio
decreto ’24 e ’28) non erano norme di legge, ma di livello secondario, norme regolamentari, riguardanti
l’arredo scolastico e l’art.134 della Costituzione prevede che la Corte possa giudicare unicamente la
legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni. Gli avvocati, pur essendo a

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conoscenza dell’incompetenza della Corte costituzionale in materia, avevano tentato di dimostrare che
queste norme, formalmente di rango regolamentare, avevano sostanzialmente ruolo di norme di primo
piano perché sarebbero state richiamate dal Testo Unico del 1994 in materia di pubblica istruzione. La
giurisprudenza amministrativa, tanto il TAR quanto il Consiglio di Stato sono sempre stati favorevoli ad
ammettere la legittimità della presenza dei Crocifissi, addirittura, in un caso, il TAR Veneto, arrivò a
sostenere non solo che il Crocifisso non fosse in contrasto con la laicità ma che esso stesso ne fosse un
simbolo. A seguito della mancata pronuncia della Corte, si arriva ad investire della questione la Corte di
Strasburgo che, nel 2009 a Sezione semplice e all’unanimità, dà torto all’Italia: i crocifissi dovevano essere
rimossi dalle aule perché pregiudicavano la tutela della libertà di religione e di coscienza degli allievi. Il
Governo italiano, a seguito di questo, presenta ricorso alla Camera Alta della Corte di Strasburgo, che
due anni dopo, a maggioranza, ribalta la questione: i Crocifissi possono stare nelle aule scolastiche italiane
perché non vi è violazione della libertà religiosa. L’orientamento della Corte era cambiato perché ben dieci
paesi europei si erano dichiarati minus curiae e si erano alleati all’Italia per la battaglia contro la decisione
adottata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la rimozione dei Crocifissi. La Corte di Strasburgo
inizialmente nega la sua competenza, non essendo l’organo competente a pronunciarsi in materia,
riguardando la stessa questioni interne allo Stato. La CEDU tutela, infatti, i diritti e le libertà dell’uomo e la
laicità, come si è detto, non è un diritto. La Corte affermò di potersi pronunciare unicamente sulla
compatibilità dell’esposizione del simbolo con l’art. 9 CEDU e art. 2 Protocollo addizionale n.1 della
Convenzione. L’art. 2 riconosce ai genitori il diritto a che sia assicurata nelle scuole, ai propri figli,
un’educazione e una formazione conforme ai propri principi religiosi. Questa disposizione, se interpretata
letteralmente, sembrerebbe voler dire che le scuole dovrebbero assicurare un’educazione conforme alle
esigenze religiose delle diverse famiglie, ecco perché è stata accettata dagli stati con tutta una serie di
riserve. La Corte di Strasburgo interpreta questa norma in maniera molto più soft, affermando serva
unicamente a garantire il pluralismo: se la scuola è pluralista, se la scuola si apre alle diverse confessioni
religiose, se i programmi scolastici sono pluralistici allora questa norma è rispettata.
Chiaramente, la scuola, ai sensi di questa norma, non può indottrinare, non può condizionare in maniera
pervasiva la formazione, l’educazione dei giovani. Dunque, se la situazione è questa, è chiaro che un
Crocifisso non ha né la forza né un impatto tale da poter indottrinare i ragazzi. La Corte si pronuncia proprio
in questo senso, il Crocifisso pur essendo un simbolo religioso è pur sempre un simbolo passivo e non è
equiparabile, per questo, ad una lezione di religione o al velo di un’insegnante di religione islamica. La
decisione della Corte di Strasburgo dimostra ancora una volta che la questione non è tanto legata alla
violazione della libertà di formazione della coscienza o della libertà religiosa negativa degli utenti del
servizio quanto ad una questione legata alla laicità delle Istituzioni.

Una questione che si è posta più di recente è quella del dubbio di una violazione del divieto di
discriminazione del lavoratore. Il ragazzino che frequenta la scuola è l’utente del servizio, il docente è un
lavoratore e in quanto tale ha diritto alle garanzie previste dal d.lgs. 216/2003 ovvero il diritto a non essere
oggetto di discriminazione diretta o indiretta sul luogo di lavoro. Un caso verificatosi di recente ha
riguardato il professore Coppoli (soggetto attivo nell’ambito dell’UAAR: Unione degli atei e degli agnostici
razionalisti) che, chiamato ad insegnare in una scuola secondaria superiore, scopre che è esposto il
Crocifisso per deliberazione a maggioranza dell’assemblea degli studenti. La decisione dell’assemblea,
ratificata dal consiglio di classe, viene comunicata al Preside e da questo parte l’ordine di servizio per tutti
gli insegnanti della classe. Il professore, venuto a conoscenza della situazione, si rifiuta di insegnare proprio
per la presenza del Crocifisso all’interno dell’aula, ritenendo di essere vittima di una discriminazione e che
questo fatto leda la sua libertà di insegnamento, di religione e la laicità dello Stato. Il professore Coppoli, a
seguito di accesi dibattiti, propone in autotutela dei suoi diritti di rimuovere il Crocifisso durante le sue ore
di lezione per poi appenderlo nuovamente alla parete al termine delle stesse. Il “compromesso” venne
respinto dal preside per la maggioranza in assemblea degli studenti favorevoli all’esposizione del simbolo. A
seguito di sanzioni e ammonizioni, il professore venne sospeso dallo stipendio e dall’attività didattica per 30
giorni, di fronte a questo provvedimento si pronuncia il Tribunale di Terni per tre volte, la Corte d’appello di
Perugia, la Cassazione sezione lavoro e, infine, le sezioni unite della Cassazione. Dopo aver percorso ogni
strada, Coppoli introduce una novità legata al divieto di discriminazione ma, per valutarne

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l’esistenza, occorre anzitutto verificare se vi è una discriminazione diretta o indiretta. In questo caso non
può parlarsi di discriminazione né diretta né indiretta perché il provvedimento del preside colpisce tutti i
docenti, allo stesso modo, di quella classe e la libertà di insegnamento e la libertà di coscienza del docente
è salvaguardata. Se ci fosse stata una lesione della libertà di insegnamento del professore Coppoli allora ne
sarebbe conseguito un particolare svantaggio e quindi una discriminazione indiretta. Quando la questione
arriva in Cassazione, la sezione lavoro sottolinea sin da subito l’importanza della stessa e la affida alle
sezioni unite, traendo prima alcune conclusioni: la discriminazione indiretta potrebbe esserci perché il
docente si troverebbe in una situazione di particolare svantaggio derivante dal fatto che i suoi insegnamenti
potrebbero essere visti come strettamente compenetrati dalla fede religiosa. La Cassazione a sezioni unite
ribadisce la mancanza di discriminazione sia diretta che indiretta e precisa che il disagio, eventualmente
provato dal professore ateo, a tenere una lezione in un’aula con esposto un Crocifisso non può essere
considerato uno svantaggio per il lavoratore.
La Cassazione precisa che le norme del ’24 e del ’28 si applicano a tutte le scuole e sono tutt’ora vigenti ma
ne propone un’interpretazione conforme a Costituzione, affermando l’inammissibilità del carattere
istituzionale della presenza del simbolo. Il problema per la Corte di Cassazione è che il simbolo è esposto
perché previsto in una norma e, uno stato laico, non può compiere delle opzioni di carattere etico a
favore di un simbolo religioso rispetto ad un altro. Interpretando le norme in maniera conforme a
Costituzione la presenza del simbolo non è più obbligatoria ma diviene facoltativa. Il problema che si pose è
che non c’erano dubbi interpretativi riguardo le norme citate, queste non lasciavano spazio ad alcun
margine interpretativo. La critica che venne mossa è che la sentenza della Corte ha riscritto una norma,
trovando una soluzione in linea con il principio di laicità dello Stato, ma il problema è che il giudice non può
legiferare bensì avrebbe potuto unicamente disapplicare la norma. Come afferma l’importante
costituzionalista Massimo Luciani, il giudice non può far dire alla norma quello che nella norma non c’è
scritto: l’interpretazione conforme è sempre un’interpretazione, non è una creazione di norme. L’aspetto
positivo di questa sentenza è che lasciando decidere la classe o l’istituto scolastico si possono adottare delle
soluzioni diversificate o non necessariamente uguali per tutto il territorio nazionale. Questo carattere è
importante in una realtà caratterizzata da profonde differenze per quanto riguarda la composizione della
popolazione e di conseguenza anche la composizione delle classi. Di conseguenza imporre a livello
nazionale l’esposizione del crocifisso significa non tenere conto delle diverse realtà che ci sono nel nostro
paese. Lasciare scegliere la classe in base alla sua composizione è un modo per tutelare nel miglior modo le
esigenze che si possono presentare all’interno di quella particolare realtà. In Inghilterra funziona così anche
per quanto riguarda l’insegnamento della religione nelle scuole, non c’è un unico programma uguale per
tutte le scuole ma esso cambia da provincia a provincia, esso viene fissato dalla realtà locale attraverso un
confronto tra i soggetti interessati.

La Corte di Cassazione riconosce il significato religioso del Crocifisso, ma lo associa ad altri messaggi laici,
come la pace o la fratellanza.
La laicità francese è infatti da intendere come indifferenza e distacco tra la dimensione pubblica e la
religione: una sorta di impermeabilità delle pubbliche istituzioni verso il fenomeno religioso. La laicità
italiana, invece, è intesa come apertura alle diversità, come pluralismo e non come neutralità rigorosa verso
il fenomeno religioso: se il crocifisso è un simbolo di pace in cui tutti si riconoscono e non contrasta con il
principio di laicità, sarà lecito collocare anche altri simboli di altre confessioni a fianco del crocifisso, perché
non è un’apertura a senso unico. Questo può avvenire nella scuola, una realtà frequentata con continuità
dagli stessi soggetti per più anni e in cui le esigenze di imparzialità della pubblica amministrazione non si
pongono in maniera così astringente come in un tribunale. La Cassazione ha poi cercato di evitare che la
decisione della scelta dell’esposizione del simbolo alla fine dipenda da una decisione della maggioranza che
trascuri del tutto la volontà delle minoranze o anche da una decisione di una minoranza che ponga un veto
contro l’esposizione del crocifisso. Così, apre la strada agli accomodamenti, già previsti dalla direttiva
europea 2078 sulla discriminazione nei luoghi di lavoro. Il particolare svantaggio dell’esposizione del
Crocifisso nei confronti del soggetto ateo c’è ma la decisione della maggioranza e la discriminazione sono
giustificate purché vi sia un’oggettiva giustificazione e i mezzi impiegati siano appropriati e necessari, di
conseguenza si ricorrerà agli accomodamenti.

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TUTELA PENALE DELLE RELIGIONI
Le norme che attualmente rilevano sono: l’articolo 403, punisce le offese ad una confessione religiosa
mediante vilipendio di persone; l’articolo 404, punisce le offese ad una confessione religiosa mediante
vilipendio o danneggiamento di cose; articolo 405, punisce il turbamento di funzioni religiose del culto di
una confessione religiosa; articolo 724, punisce la bestemmia.
Fin dal Codice Zanardelli, l’ordinamento italiano ha tutelato le religioni sul piano penale. Nell’ambito del
Codice del 1889, i reati erano previsti come lesivi della libertà: si adottava una prospettiva liberale, senza
distinzioni fra i diversi culti. L’impostazione non discriminatoria venne completamente stravolta dal Codice
Rocco del 1930, che creò un capo nuovo di reati dalla comune denominazione “dei delitti contro il
sentimento religioso e contro la pietà dei defunti”. Il primo dei due capi di questo titolo riportava
l’intestazione “dei delitti contro la religione dello stato e culti ammessi”. Era infatti cambiata la logica
criminale, dato che il codice pubblicizzava anche gli interessi privi di tipica connotazione privatistica: si tiene
poi conto anche dei mutamenti istituzionali seguiti al nuovo ordine dei rapporti Stato-Chiesa derivante dai
Patti Lateranensi. Il Codice non si preoccupa più di tutelare le libere manifestazioni della fede religiosa, ma
di tutelarla in sé e per sé considerata, come bene di civiltà essenziale per il raggiungimento di fini etici: per
questa ragione viene introdotto, ad esempio, il reato di vilipendio della religione di Stato, ovvero il caso in
cui si esprima disprezzo verso un dogma; non rileva più la libertà del singolo, anche religioso, ma solo il
bene religioso nella sua configurazione astratta. A riprova del rango pubblicistico della tutela religiosa,
questi reati sono ordinati dopo quelli contro la personalità dello Stato e l’amministrazione della giustizia.
Lo studioso Marco Pannella, pur ammettendo il carattere fascista del Codice Rocco, lo definisce un
monumento, data la sua coerenza: se vi è un nuovo ordine tra lo Stato e la Chiesa, era necessario punire
diversamente le offese alla religione di Stato rispetto a quelle dirette agli altri culti ammessi. Per questa
ragione l’articolo 406 estendeva l’applicabilità delle norme di tutela, escluso il vilipendio, anche ai culti
ammessi, diminuendo però la pena: così, una stessa condotta offensiva produceva conseguenze diverse a
seconda del culto leso. In questa prospettiva, solo la religione cattolica era un bene di civiltà: gli altri culti
erano ammessi soltanto. Questa prospettiva è chiaramente mutata ed oggi si può affermare che diverse
religioni siano beni di civiltà: l’assetto comincia a vacillare proprio dall’ingresso della Costituzione, ma anche
per la mutata società. Più volte grandi film d’autore, come quelli di Scorsese, erano stati denunciati per
vilipendio della religione, dato il loro contenuto blasfemo, oltre ai numerosissimi casi di blasfemie e
bestemmie provenienti da soggetti che erano stati fermati dalle forze dell’ordine per diverse occasioni.
La norma relativa alla bestemmia è l’articolo 724: “Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o
parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato è punito.”
Dato il riferimento alla religione di Stato, gli avvocati tentavano di ottenere la soluzione affermando che
tale norma fosse stata implicitamente abrogata con l’entrata in vigore della Costituzione: se la ratio era
tutelare la religione di Stato, essendo venuta meno questa veniva anche meno l’oggetto giuridico stesso del
reato, per cui la norma risulta indeterminata, in un contesto in cui uno dei principi costituzionali che
riguardano la materia penale è la necessaria determinatezza e tassatività. Sul punto intervenne, però, la
Corte costituzionale, affermando che le norme non fossero rivolte a tutelare la religione cattolica in quanto
religione di Stato, ma facesse riferimento alla religione di Stato per indicare la religione cattolica, professata
dalla maggioranza dei cittadini: affermava così che il riferimento contenuto nella norma fosse solo un
tramite linguistico per indicare il cattolicesimo, che rimane come oggetto di tutela anche nel venire meno
del principio originariamente utilizzato per indicarlo. La Corte giustificò per molto tempo la disparità di
pena tra le offese arrecate alle diverse religioni; pur ammettendo la differenza di trattamento, affermò che
essa fosse motivata da due criteri: quantitativo, relativo alla quantità di persone, per cui è corretto punire in
forma più grave un’offesa arrecata alla religione seguita dalla maggioranza della popolazione; sociologico,
derivante dal criterio successivo, perché l’offesa alla maggioranza causa una reazione sociale più forte.
Nonostante ciò, la Corte invocò più volte l’intervento del legislatore, che non arrivò: per questa ragione ha
recentemente cambiato orientamento. Venendo in gioco le libertà religiose e di coscienza dei fedeli, ha
riconosciuto che non vi sia motivo di operare differenziazioni legate al dato quantitativo o sociologico, ma si
deve parificare la tutela. La Corte ha così dichiarato illegittimo l’articolo 402 del Codice penale e l’articolo
406 nella parte in cui prevedeva una pena diminuita per le offese arrecate ai culti di minoranza.

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Questa manovra creava però alcune difficoltà: nell’ambito penale, infatti, l’articolo 25 della Costituzione
prevede una riserva di legge, per cui il giudice non può aumentare le pene dei reati. Per realizzare la parità
di tutela si presentavano due strade: elevare la sanzione dei culti ammessi equiparandola a quella prevista
per la religione cattolica o diminuire la sanzione prevista per le offese arrecate alla religione cattolica. La
prima strada era preclusa alla Corte, che non può innalzare le pene previste dalla legge: si è perciò operata
una parificazione verso il basso. Sul tema è poi comunque intervenuto il legislatore nel 2006 con una
riforma che ha parificato i culti risolvendo la questione.
Per quanto riguarda la bestemmia, l’articolo 724 non è collocato all’interno dello stesso capo previsto per i
delitti contro il sentimento religioso, in quanto si tratta di una contravvenzione: si trova così nel capo
relativo agli atti di mal costume. Reprimere la bestemmia non è quindi solo una tutela del sentimento
religioso della popolazione, ma anche un limite al mal costume dettato dalle buone maniere.
Originariamente, la norma rilevava solo nell’ambito cattolico, per cui venne sollevata la questione di
legittimità costituzionale. La Corte decise di scindere due aspetti: da una parte, il riferimento alla Divinità;
dall’altro, i simboli o le persone venerati nella religione di Stato. La venerazione e l’adorazione sono infatti
diversi sul piano teologico, solo la Divinità può essere adorata: è chiaro, così, che quando la norma parla di
soggetti venerati, si riferisce ai soli simboli e persone, parte illegittima perché applicabile alla sola religione
cattolica e quindi espunta per parità di tutela di tutte le confessioni. Il concetto di Divinità, invece, si applica
a tutti i culti, senza restrizioni. Si tratta anche in questo caso di una manovra complessa: la Corte ha, di
fatto, ampliato il campo applicativo di una fattispecie incriminatrice, ledendo il principio di riserva di legge
in materia penale, per cui starebbe al legislatore intervenire.
In ogni caso, oggi la tutela penale non ha ad oggetto i dogmi ma riguarda le cose, le persone e i riti. Viene in
gioco la libertà religiosa in senso stretto. La tutela è chiaramente rivolta alla libertà di religione.
Tornando alla riforma del 2006, questa ha equiparato del tutto la posizione della Chiesa cattolica a quella
degli altri culti: questo risultato è stato molto sofferto e la via che ha portato al risultato molto complicato,
ma si tratta ormai di un dato da cui partire. Sono state a lungo discusse e restano discusse le questioni
legate alla compatibilità di questi reati, che puniscono le offese, come il vilipendio, con il principio della
libertà di manifestazione del pensiero, in particolare con quella particolare libertà che scaturisce
dall’articolo 19, che riguarda la propaganda religiosa. Questo tema si aggancia alla facoltà che scaturisce
dall’articolo 19, relativo alla propaganda religiosa: si può fare propaganda religiosa offendendo,
vilipendendo gli altri? Questa questione si affronta incidentalmente all’ateismo: le vecchie tesi che non
ammettevano la tutela dell’ateismo attivo sono superate, ma anche la Suprema Corte ha ammesso il
proselitismo dell’ateo, senza offendere la fede religiosa e le convinzioni altrui. Taluni non sono molto
convinti di questo fatto e insistono sulla incompatibilità dei reati di opinione e le garanzie costituzionali: se
si riflette, il legislatore punisce una manifestazione del pensiero, ma si può replicare che si debba tutelare
l’onore e la reputazione delle persone. Anche se l’ingiuria non è più un reato, rimane un illecito; la
diffamazione è invece tuttora un reato: offendere la reputazione di una persona è vietato dalla legge
penale. Se si parla male di una persona, si sta comunque esprimendo un’opinione o manifestando il proprio
pensiero, ma se la manifestazione di pensiero è oggettivamente lesiva della reputazione degli altri, viene in
gioco come valore prevalente sulla libertà la tutela dell’onore e della reputazione altrui. Questo può valere
anche quando viene in gioco il sentimento religioso delle persone? Una volta si diceva che la libertà di
manifestazione del pensiero non fosse illimitata: intanto vi è un limite espressamente previsto dall’articolo
21, quello del buon costume, ma oltre a questo si è sempre detto che la libertà incontra altri limiti,
intrinseci ed estrinseci. C’è ad esempio il limite della continenza del linguaggio utilizzato: si può esprimere
tutti i propri pensieri, utilizzando un linguaggio di per sé non offensivo. Poi ci sono i limiti estrinseci,
derivanti dall’esigenza di tutelare altri valori costituzionali.
Alcuni dicono che ci si trova di fronte a norme incompatibili con l’articolo 21, ma secondo altri vi sono
diversi problemi, legati ai principi che il legislatore dovrebbe seguire quando emana delle norme
incriminatrici: uno dei requisiti costituzionali delle norme incriminatrici è quello della tassatività e della
determinatezza. Il cittadino deve sapere cosa è vietato e cosa è consentito, perciò non è ammessa
l’analogia in materia penale e le norme penali devono essere chiare e di stretta interpretazione. Il concetto
di vilipendio non si trova in natura: c’è una differenza di fondo tra gli elementi naturalistici e gli elementi
normativi della fattispecie penale; se si parla di omicidio, la morte è un elemento naturalistico, al di là delle

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argomentazioni sugli elementi di confine. Se si parla invece di un elemento normativo, come nel caso del
vilipendio, questo non esiste in natura: si è al limite con l’esigenza di tassatività e determinatezza della
fattispecie. È in più casi intervenuta la Corte costituzionale per chiarire questo aspetto. Essa riconosce i
problemi di tassatività o determinatezza, ma ricorda che il criterio di fondo da seguire nell’applicare queste
norme: il vilipendio è un fatto gravemente e grossolanamente offensivo, quindi la Corte ricorda che la
critica alla religione o ai dogmi, anche se condotta in forma aspra e senza linguaggio forbito, è comunque
tutelata dagli articoli 19 e 21; non si deve però arrivare alla contumelia o allo scherno, all’offesa fine a se
stessa, che costituisce ingiuria al credente, perciò lesione della sua personalità, e oltraggio ai valori etici di
cui si sostanzia e alimenta il fenomeno religioso oggettivamente riguardato. La Corte riconosce che stabilire
in concreto se si travalica il limite del vilipendio sia complicato, ma c’è un criterio di fondo che viene
indicato all’interprete: se il fatto è gravemente e intrinsecamente offensivo è vilipendio, se si mantiene nei
limiti di una critica no. Se ad esempio si rappresenta il Pontefice in determinati atti, vi è addirittura il limite
del buon costume previsto dalla Costituzione all’articolo 21. Il problema di tassatività e determinatezza può
esserci, ma è superabile attraverso il criterio generale indicato dalla Corte.
La riforma ha in qualche modo rappresentato un progresso, perché ha abrogato l’articolo 402 del Codice
penale, che puniva il semplice fatto del vilipendio: “Chiunque pubblicamente vilipendi la religione dello
Stato”. La descrizione della fattispecie si esauriva nel concetto di vilipendio, e questo poteva essere
complicato da stabilire nei singoli casi concreti. Questa norma non esiste più, gli articoli 403 e 404
richiedono che vi sia un’offesa verbale o fisica rivolta alle persone o alle cose: questo circoscrive la
fattispecie, i penalisti parlano infatti di reati a forma vincolata, in cui la condotta deve assumere
determinate caratteristiche. L'omicidio si può realizzare in qualunque modo, purché si ottenga il risultato
dell’evento: in questo caso invece si deve realizzare una condotta specifica, di vilipendio e offesa della
persona. Tramite il vilipendio rivolto alle persone o alle cose si realizza l’offesa alla religione, perciò la
fattispecie deve essere dettagliata.
L’aspetto più controverso riguarda l’oggetto della tutela: qual è il bene giuridico tutelato da queste norme?
Se si fa l’esempio della diffamazione, si contrappone alla libertà di manifestazione del pensiero il bene
giuridico dell’onore e della reputazione altrui. In questo caso, le norme tutelano direttamente la libertà di
religione. L’articolo 405 vieta ad esempio che si interrompa o si rechi disturbo ad una cerimonia religiosa,
qui è chiaro che la tutela si rivolge alla libertà di culto. Quando invece si punisce il vilipendio, non c’entra la
libertà di religione in senso stretto: anche su questo punto è intervenuta la Corte costituzionale, dicendo
che questi reati sono rivolti alla tutela del sentimento religioso, che è un bene avente precisa rilevanza
costituzionale. La Corte lo chiama infatti un corollario della libertà di religione: questo è importante perché,
nel diritto penale, secondo la posizione più garantista, il legislatore non è libero di introdurre norme
incriminatrici per tutelare qualsiasi bene, purché non sia incompatibile con la Costituzione. Per le
ricostruzioni più garantiste le norme penali incriminatrici devono trovare un aggancio nei valori
costituzionali; l’omicidio tutela, ad esempio, il bene della vita: non viene citato espressamente, ma viene
comunque tutelato dalla Costituzione nei diritti fondamentali. L’oggettività giuridica dei reati dovrebbe
essere conforme ai valori messi in risalto dalla Costituzione, non è ammissibile una norma penale che vada
a tutelare beni privi di rilevanza costituzionale, privi di significato a livello costituzionale. Per mettere in
pratica questo discorso, la norma che tutela le riunioni di culto si può agganciare alla libertà di religione,
costituzionalmente garantita. La norma che vieta la turbatio sacrorum, quindi tutti quei comportamenti e
quelle condotte che disturbano le libere riunioni dei fedeli all’interno di un luogo di culto, si ricollega ad una
libertà costituzionale. Ma per le altre norme rileva quanto detto dalla Corte costituzionale, che afferma che
la tutela del sentimento religioso è un corollario della libertà di religione: se al livello costituzionale vi è la
tutela della libertà religiosa, che comprende la tutela del sentimento religioso come bene di rilevanza
costituzionale, sul piano della base costituzionale i reati rilevano.
Se questo ragionamento della Corte è giusto, ci si deve chiedere quale sentimento religioso venga in gioco:
il sentimento individuale o un sentimento inteso come bene di civiltà, quale era in epoca fascista? Deve
rilevare chiaramente quello individuale: se il sentimento religioso è corollario dell’articolo 19, questo, per
quanto applicabile anche ai gruppi, si applica essenzialmente alla libertà dei singoli. Non c’è dubbio allora
che il sentimento religioso, inteso come corollario o appendice dell’articolo 19, ne riflette le caratteristiche:
se affermiamo che questo tutela anche gli atei, anche l’ateo avrà diritto al suo sentimento religioso

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individuale. Così come è ingiusto offendere il sentimento religioso del credente, agganciandosi all’articolo
19 sarà ingiusto offendere anche il non credente. Del resto, il tema potrebbe apparire anche scontato: la
libertà fondamentale va tutelata sotto tutti i possibili profili e risvolti.
Ma se si vedono invece gli articoli 403 e 404, questi parlano di vilipendio alle persone strumentale all’offesa
delle religioni: dov’è l’ateo? Il dubbio è che il legislatore, in maniera affrettata, non abbia seguito non solo
l’indicazione della dottrina, ma anche della Corte costituzionale: si insiste ancora sull’offesa arrecata alla
confessione religiosa, ma l’articolo 19 e i suoi corollari tutelano anche altro. Concepirlo come strumentale
all’offesa alla confessione religiosa può essere pericoloso.
Se si aggancia questa considerazione al principio di partenza, per cui tutte le confessioni sono trattate allo
stesso modo, in epoca fascista si aveva la religione intesa come bene di civiltà, mentre oggi tutte le religioni
sono beni di civiltà, secondo la lettura delle norme. L’intervento del legislatore è importante, perché la
Corte costituzionale può intervenire solo fino ad un certo punto, come si vede nel caso della norma in
materia di bestemmia: facendo il sezionamento chirurgico della norma (ad esempio cancellando i termini
“o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato” e lasciando la Divinità) per un verso si amplia la
fattispecie, azione che la Corte non può fare, ma dall’altro la si restringe, perché una bestemmia contro la
divinità, contro Cristo, è punita, ma contro i santi o la Madonna no, dato che sono simboli o persone
venerate e non divinità. Questo è coerente dal punto di vista della logica spicciola, ma anche dal punto di
vista del discorso del malcostume: si è liberi oggi di bestemmiare, purché si sappia selezionare
correttamente i destinatari. Si pone ad esempio il problema dei profeti, soprattutto in determinati casi
complessi: non si tratta di divinità. Taluni hanno tentato di risolvere il problema affermando che l’articolo
403 si riferisce al vilipendio delle persone che determini un’offesa alla religione: per quanto il profeta sia
una persona, non è vivente; le persone a cui si riferisce l’articolo sono chiaramente viventi. Vi sono perciò
dei limiti che dovrebbero essere superati dall’intervento del legislatore.
La Corte costituzionale, inoltre, non potendo innalzare le pene per le offese relative ai culti ammessi, ha
dovuto abbassare le pene per quelle alla religione cattolica: il legislatore della riforma non ha ragionato sul
punto e ha affermato che i reati rimangono, ma vengono puniti con una multa. Ha però senso prevedere un
delitto e punirlo con una multa, che pur essendo una sanzione penale risultante anche sulla fedina, in
termini di soldi è meno gravosa di una sanzione amministrativa come può essere per il divieto di sosta. Il
legislatore non ha tenuto conto del fatto che la Corte costituzionale non avesse operato una scelta di
politica-criminale nell’abbassare le pene: si trattava di una scelta obbligata, mentre era compito del
legislatore quello di seguire determinati indirizzi di politica-criminale e di regolarsi di conseguenza.
Alcuni, di fronte ad un abbassamento radicale della sanzione, ridotta alla multa con l’eccezione del
danneggiamento delle cose, dove è ancora prevista la reclusione, affermano che si tratti di repressione di
carattere meramente simbolico, per cui si sono volute conservare le norme ma la loro applicazione in
sostanza non ha alcun significato, per cui potrebbero essere eliminate. Altri hanno affermato che tali norme
sono invece particolarmente importanti, perché potrebbero essere reati di pericolo presunto: il legislatore
vieta determinate condotte non per la loro offensività, che manca o è minima, ma per prevenire la possibile
reazione di determinati soggetti, che potrebbero commettere altri fatti, stavolta lesivi di beni o valori di
carattere primario. Se si realizzano le vignette come quelle di Charlie Hebdo, chiaramente offensive del
sentimento religioso, ci sono taluni soggetti che potranno realizzare addirittura delle stragi. Si concepiscono
tali reati come reati di pericolo presunto per prevedere una forma di tutela anticipata volta a prevenire
conseguenze peggiori. Un altro esempio è il divieto di portare in giro armi, che di per sé non significa nulla,
potrebbe consistere in una mera scelta, ma si vuole prevenire che si possa fare utilizzo dell’arma per
uccidere o ledere qualcuno. All’interno di una società secolarizzata non farà impressione la
rappresentazione parodistica del Pontefice, ma determinati fedeli potranno avere reazioni negative:
chiaramente la reazione non può mai essere giustificata, ma si utilizzano tali strumenti per prevenire le
condotte.
Un settore in cui c’è una forma di tutela della religione sotto questo punto di vista è quello della pubblicità:
la pubblicità commerciale ha le sue regole, relative ad esempio agli spot, che non possono offendere il
sentimento religioso dei cittadini. È chiaramente interesse di chi fa la pubblicità non offendere i sentimenti
religiosi, perché anzi si vuole invogliare lo spettatore all’acquisto dei prodotti, però il giurì della disciplina
pubblicitaria è più volte intervenuta per mettere paletti e restrizioni alla libertà artistica. In diverse

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occasioni, ad esempio, ha vietato la volgarizzazione di formule, nomi o persone connotati di sacralità, o ha
censurato lo sgradevole sentimento di profanazione o di strumentalizzazione per fini commerciali del luogo
e delle pratiche di culto e di devozione, delle persone e delle immagini sacre, ha poi condannato la
deificazione del prodotto reclamizzato, che si sostituisce o si affianca all’oggetto proprio del culto, nonché
l’irrisione, la parodia e gli attacchi gratuiti alle persone e alle confessioni. È quindi giustificata una tutela del
bene del sentimento religioso, ma si deve capire se sia necessaria la tutela penale o meno:
nell’ordinamento italiano la sanzione penale è l’estrema ratio, il rimedio che rileva in assenza di altri
strumenti; se poi si configura come semplice multa, c’è sicuramente il dubbio che il bene concretamente
tutelato non meriti di essere incluso fra le norme incriminatrici previste dal Codice penale. La tendenza
dell’ordinamento oggi si sta spostando in un’altra direzione, quella della repressione dei cosiddetti discorsi
d’odio, gli hate speech. Si tratta di discorsi, quindi rientrano nel campo delle opinioni, ma non si parla più di
opinioni offensive dei sentimenti, si parla di discorsi che provocano odio e discriminazione: non si tutela la
religione con i suoi dogmi, ma le persone nel loro diritto a non essere discriminate per motivi religiosi, di
razza, di lingua e così via dicendo. L’ordinamento si è attrezzato a questo proposito con la Legge Mancino, il
decreto-legge 26 aprile 1993 numero 122, che assicura una particolare protezione penale contro alcuni atti
discriminatori. Se si cerca un aggancio con la Costituzione rispetto al bene tutelato, non vi sono difficoltà, è
chiaro che si rientri nel principio d’uguaglianza all’articolo 3, che dà copertura rispetto all’oggetto giuridico
tutelato da queste norme: ecco perché a tale proposito le discussioni sono meno accese rispetto agli altri
reati trattati; lì vi è il sentimento religioso ribadito dalla Corte costituzionale, che non trova però riferimento
nella Costituzione, che parla di libertà di manifestazione del pensiero. In questo caso vi è invece un esplicito
riferimento alla norma della Costituzione che garantisce l’eguaglianza fra le persone e la pari dignità dei
soggetti. Questa normativa del 1993 viene dopo una precedente legge, la 13 ottobre del 1975 numero 654,
di autorizzazione alla ratifica della Convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le
forme di discriminazione razziale: da qui parte la tutela, originariamente limitata agli atti discriminatori che
colpiscono un gruppo nazionale, etnico o razziale. Originariamente, il fattore di rischio, il fattore
considerato sensibile sul piano della tutela dell’uguaglianza, era l’etnia, l’identità nazionale o la razza: il
riferimento al fenomeno religioso viene dopo, non dalla legge Mancino come dicono molti, ma dalla legge
101 del 1989, che ha approvato nell’ordinamento l’Intesa fra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche. In
quell’Intesa, si è stabilito per la prima volta che la norma della convenzione relativa alla razza, recepita
nell’ordinamento del ’75, doveva intendersi riferita anche alle discriminazioni motivate sulla religione.
Successivamente il decreto Mancino recepisce queste indicazioni e parlerà di razza, etnia, sesso e religione.
Che cosa dice il Decreto Mancino? Introduce una norma che stabilisce che chiunque propagandi idee
fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di
discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, è punito, come chi istiga a commettere o
commette violenza o atti di provocazione alla violenza per gli stessi motivi.
Qual è l’elemento che distingue le due ipotesi? In un caso c’è l’hate speech, nell’altro l’hate crime,
l’elemento della violenza che si associa ai discorsi. Chiunque istiga a commettere o commette violenza, a
differenza del caso precedente, in cui si limita a fare discorsi che incitano alla discriminazione. Al di là di
questa norma, c’è anche un’altra novità importante nel Decreto Mancino: viene introdotta l’aggravante
della discriminazione, prevista originariamente dall’articolo 3 del Decreto, che si applica a tutti i reati
punibili con pena diversa dall’ergastolo commessi con finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale,
razziale o religioso. Nel quadro si ha perciò una nuova norma incriminatrice che vieta la propaganda che
istiga alla violenza e, soprattutto, una circostanza aggravante che, salvo i reati punibili con l’ergastolo, si
applica a tutti i reati: se si commette un reato e nel porlo in essere si persegue una finalità di
discriminazione o di odio, si verrà puniti con una pena maggiore. Cosa vuol dire commettere un reato con
finalità di discriminazione o di odio? Si potrebbe dire che la commissione del reato sia strumentale rispetto
al fine di discriminare o di spargere odio, ma questa spiegazione non regge: la giurisprudenza,
nell’interpretare questa norma, segue due criteri. Quello più restrittivo ammette il ricorrere dell’aggravante
quando, dalla condotta, si crei il pericolo di atti cosiddetti emulatori, ovvero che altre persone a loro volta
attuino atti di discriminazione o di odio: qui si coglie la strumentalità, la finalità è quella di indurre gli altri a
comportamenti in odio, ad esempio contro gli islamici o gli ebrei. Ma in un caso abbastanza recente, un
cittadino italiano vede una donna che si sta recando alla Moschea per pregare, esercitando la sua libertà

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fondamentale, indossando il velo islamico: questi le strappa il velo, azione che di per sé è reato perché
costituisce violenza privata, la minaccia dicendole di andarsene e pronunciando frasi oscene. La fattispecie
di base è violenza privata, con minacce e atti osceni, ma è un caso tipico in cui il Pubblico ministero
contesta l’aggravante della discriminazione: tuttavia, in quel posto non c’era nessuno. Perciò, se si parla di
finalità come preludio al pericolo che altri possano compiere determinati gesti, in questo caso il soggetto
verrà assolto o non vi sarà l’aggravante, perché manca il pericolo che altri possano raccogliere la
provocazione. Così, nell’altro orientamento, più diffuso, la giurisprudenza afferma che il legislatore non
voleva parlare di finalità di discriminazione, ma voleva piuttosto fare riferimento ai motivi, al movente: se
dalla condotta, a prescindere dalla presenza di altre persone, si presume che il soggetto abbia in odio
determinate persone, si può punire in modo particolare.
Le pietre d’inciampo sono delle pietre particolari, nelle strade in cui vi sono sanpietrini al posto delle
mattonelle, che ricordano le persone deportate nei campi di sterminio. Se un soggetto durante la notte ne
rimuovesse una, questo fatto verrebbe qualificato come un furto o un danneggiamento, ma c’è anche una
finalità di discriminazione e d’odio, intesa proprio come movente, come volontà di manifestare disprezzo
verso la memoria di determinate persone. Questi sono i problemi che pone la tutela verso la quale ci si sta
indirizzando: mentre il sentimento religioso viene tutelato da una semplice multa, guadagna terreno questo
tipo di incriminazioni, tant’è che il Ministro Orlando approvò la normativa relativa alla riserva di codice, per
cui le norme sparse nelle leggi speciali vennero inserite nel Codice per una questione di visibilità. Nel Codice
si trovavano ad esempio reati come lo spigolamento abusivo, che consisteva nel furto di castagne nelle
campagne, mentre le nuove fattispecie, così importanti, che tutelavano dalle discriminazioni, si trovavano
al di fuori: attraverso la riserva di codice si inserirono queste norme all’interno, ed oggi l’articolo 604-bis e il
604-ter si trovano nel capo dedicato alla tutela dell’uguaglianza.
Oggi si è aperto un dibattito per la tutela dell’omofobia: il disegno di legge Zan era stato approvato da un
ramo del Parlamento e intendeva ampliare la tutela penale contro questo tipo di atti e discorsi anche ai casi
di discriminazione giustificati dal diverso orientamento sessuale, con una serie di figure che sono venute
emergendo e richiamano tutela. Ci si chiede infatti se sia giusto punire gli atti di incitamento all’odio
religioso e non lo stesso comportamento nei confronti di chi sia ad esempio omosessuale: il disegno di
legge Zan intendeva proprio estendere la tutela a queste particolari fattispecie. Quando si discuteva tale
disegno è però venuta fuori una polemica, con una nota di protesta della Santa Sede rivolta al Presidente
del Consiglio dei ministri, in cui questa diceva di rimodulare il testo, perché avrebbe violato il Concordato.
La Santa Sede ha spesso portato avanti iniziative di questo tipo: si erano avute, ad esempio, negli anni ’70
del secolo scorso, rispetto alla legge sul divorzio, quando la Santa Sede aveva affermato che tale legge
introducesse un vulnus al Concordato; in quel caso il Governo aveva mantenuto una posizione ferma e
risoluta, rafforzata dalla Corte costituzionale, affermando che il Concordato disciplina il matrimonio come
atto e non come rapporto. La Corte voleva salvare la possibilità per il Parlamento ed il Governo di
disciplinare il divorzio, dato che uno Stato sovrano deve poter disciplinare come crede il matrimonio civile,
però in realtà il matrimonio concordatario è diverso, per cui l’applicazione del divorzio a quest’ultimo è un
elemento di modernità straordinaria, sicuramente un progresso da salutare con favore, ma non previsto dal
Concordato del 1929, che ne realizzava un ostacolo. Il Parlamento nella sua sovranità approva la legge sul
divorzio, per cui la Chiesa realizzò un referendum abrogativo con esito negativo. Vi è però una differenza di
fondo tra l’atteggiamento che la Chiesa teneva verso la legge sul divorzio e quello che tiene rispetto a
questo disegno di legge: nel caso del divorzio, la Santa Sede voleva in sostanza impedire l’approvazione
della legge da parte del Parlamento rispetto ai matrimoni concordatari, un’ingerenza notevole nella politica
italiana, contrario alla laicità intesa come la non ingerenza reciproca tra Stato e Chiesa; oggi, nella nota
rivolta al Parlamento, non si afferma di non approvare la legge, anche perché i tempi sono cambiati. La
richiesta che viene fatta è di non ledere la libertà della Chiesa, delle istituzioni ecclesiastiche, ponendola in
una condizione tale da non poter esercitare il suo magistero. Cosa c’è di diverso rispetto all’impostazione
tradizionale? L’indicazione di libertà, opposta all’ingerenza: è chiaro che la nota richieda la rimodulazione
del testo, perché ci sono norme in contrasto con il Concordato, ma stavolta vengono chiamate in causa
quelle che garantiscono la libertà di esercitare liberamente la propria missione. In questo decreto vi era la
questione dell’identità di genere, che per la Chiesa dipende dal dato biologico, mentre questa normativa
accoglieva un’idea più ampia dell’identità di genere, ammettendo che la persona possa farla dipendere

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dalla propria volontà. La norma nel mirino della Santa Sede è quella in cui si affermava che un giorno
all’anno, anche nelle scuole cattoliche, si sarebbe celebrata la giornata contro l’omobifobia: non mettendo
in dubbio la libertà dello Stato rispetto alle scuole pubbliche, non si poteva imporre tale regola, così come
non si potrebbe imporre negli ospedali cattolici l’esercizio dell’interruzione di gravidanza. Porre l’obbligo
per le scuole cattoliche di festeggiare questa giornata ha posto un problema, per cui la Santa Sede ha
chiesto la correzione, per il diritto di rivendicare la propria identità basata sul diritto divino. Non si deve
pensare alla libertà religiosa come ad una possibilità in assenza di divieti: la libertà significa poter agire in
conformità alle proprie convinzioni e alle proprie idee.
Una questione che si è posta recentemente: la Santa Sede è un soggetto di diritto internazionale e
partecipa attivamente alla politica internazionale, tanto che è soggetto di numerose convenzioni di tutela
dei diritti umani fondamentali. Tra queste, la Santa Sede ha sottoscritto la Convenzione sui diritti del
fanciullo, stipulata a New York nel 1989, che tutela i diritti del fanciullo, tra cui il divieto di discriminare per
motivi di sesso o genere. Questa convenzione ha creato degli organismi, dei comitati che si occupano
dell’attuazione di questi accordi: periodicamente il comitato chiede conto ai vari Stati che hanno
sottoscritto la convenzione dello stadio di attuazione interna di questi documenti. Sia rispetto alla
Convenzione contro la tortura, sia rispetto alla Convenzione sui diritti del fanciullo, sono nate polemiche
accese tra il Comitato dell’ONU, che se ne occupa, e la Santa Sede, in quanto il primo rimprovera la Santa
Sede per la mancata attuazione. Se si prende ad esempio il punto in cui la Convenzione afferma che non si
possono discriminare i bambini sulla base del sesso, la Chiesa ha un’idea di parità di genere diversa, per cui
si parla di complementarità fra i sessi, parità nella dignità; mentre le Convenzioni si riferiscono al
trattamento discriminatorio, ad esempio nei confronti di famiglie omosessuali. In questo esempio entra in
conflitto il modo in cui viene applicata la Convenzione sui diritti umani con un tratto identitario della Chiesa.
Secondo il professore la Santa Sede dovrebbe evitare di sottoscrivere trattati che non condivide
pienamente, rivendicando piuttosto le proprie garanzie di libertà: un’entità che opera sul campo morale,
spirituale e religioso evita di sottoscrivere trattati di questo tipo, non può affermare di essere a favore dei
diritti umani e non riconoscere gli organismi e l’interpretazione delle convenzioni. Inoltre, il comitato delle
Nazioni Unite prende di mira la Santa Sede perché questa non sta adottando tutte le iniziative necessarie a
proteggere i minori dalla pedofilia: a partire dal 2002 si è scoperta un ingente crisi sul tema dei preti
pedofili. La risposta della Santa Sede è stata che la Convenzione si applicasse al solo Stato Vaticano,
all’interno delle mura e del territorio dello Stato: questa giustificazione non è chiaramente bastata agli
organismi internazionali.
Tornando al disegno di legge Zan, se si pone il tema della libertà religiosa, la Chiesa vuole portare avanti la
sua idea, per cui l’omosessualità è un peccato. Così, l’altra norma del decreto nel mirino della Santa Sede
affermava la libertà di manifestare le proprie opinioni sull’argomento, ma con modalità tali che non siano
idonee a provocare atti di discriminazione. Il legislatore ordinario ha salvaguardato la libertà di manifestare
il proprio pensiero, garantito dall’articolo 21 della Costituzione, anche se non si era mai vista una legge
ordinaria che salvaguardasse una norma costituzionale, in quello che qualche autore ha chiamato
“excusatio non petita”: si esprime che non si vuole intaccare la libertà di manifestazione del pensiero
quando non è nelle facoltà del legislatore, la norma ordinaria non può intaccare la norma costituzionale, si
tratta di classica excusatio non petita perché si teme di intaccarla. Si afferma però che la manifestazione
non debba avere luogo attraverso atti idonei a determinare discriminazione. se un parroco nella sua omelia
dice che l’omosessualità è un peccato e un soggetto per questa ragione commette un crimine si può
gravare il parroco dell’onere di assicurarsi se il suo modo di esprimersi sia idoneo a istigare la
discriminazione. In questo caso il legislatore avrebbe dovuto parlare di atti diretti a determinare
discriminazione, per evitare il terreno scivoloso in cui si è trovato. Rispetto al tema è chiaramente rilevante
il ruolo della scuola nella sensibilizzazione, mentre la norma penale deve costituire una extrema ratio: non a
caso, nella disciplina antidiscriminatoria, si era partiti dalla razza, avendo avuto il precedente dell’Olocausto
e dei genocidi.
Il professore si interroga sul perché nella disciplina già esistente non si sia semplicemente inserita anche
l’ambito del genere, del sesso e dell’orientamento sessuale, senza necessità di creare una norma diversa.
Afferma inoltre che si deve distinguere l’odio, che deve chiaramente essere bandito da ogni contesto, ma
non si può imporre alla Chiesa di pensarla allo stesso modo della cultura comune. Si dovrebbe incentivare

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l’uso di strumenti che prevengano le condotte lesive, senza “imbavagliare” le posizioni di chi non si ritrova
nel sentire comune, altrimenti si lederebbe il pluralismo. Nella scuola cattolica si vuole dare una
determinata impostazione di tipo pedagogico-religioso, per cui non si può imporre di festeggiare qualcosa
che non rientra nella sua identità. Si era verificato un tempo il caso di un vescovo che aveva definito
concubini due coniugi che avevano contratto matrimonio civile: dal punto di vista della norma
confessionale, due persone che non contraggono matrimonio religioso si trovano in una situazione
irregolare, anche se non è il caso di utilizzare determinati termini.

LIBERTÀ DI PROPAGANDA
Per quanto riguarda la terza facoltà che viene garantita dall’articolo 19, si tratta dell’esercizio degli atti di
culto e dei riti. Il limite del buon costume che viene esplicitato in questa norma tradizionalmente veniva
interpretato in due modi diversi: alcuni ritenevano che costituisse un limite, relativo alle regole civili che
dovrebbero esistere in una comunità, ma questo modo di intendere è stato ormai abbandonato, guardando
al buon costume nel senso del termine; i riti vietati da questa norma sono quelli che offendono il pudore e
l’onore sessuale. Per quanto possa sembrare particolare, esistono sette o religioni che praticano atti
sessuali offensivi per il pudore, non ammessi nell’ordinamento perché al di fuori dell’esercizio della libertà
religioso.
Uno strumento indispensabile per esercitare il culto è l’edificio di culto, la struttura all’interno della quale le
confessioni religiose pongono in essere i riti collettivi, le riunioni di culto. Dell’edificio di culto si servono un
po’ tutte le confessioni religiose, al di là del luogo tipico della Chiesa: gli ebrei hanno le sinagoghe, i
musulmani le moschee, nonché i nuovi movimenti religiosi che utilizzano templi, luoghi di culto in cui solo
una parte viene destinata all’attività di culto, per il resto si tratta di luoghi in cui si svolgono attività di
carattere culturale, concerti e altro. Questo pone chiaramente problemi sul piano della definizione giuridica
di queste strutture.
Gli edifici di culto hanno una condizione giuridica particolare, come il vincolo della destinazione al culto,
sancito dall’articolo 831 del Codice civile, per cui: “Gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto
cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per
effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li
riguardano.” Questo è un vincolo che intacca e comprime il diritto di proprietà, in quanto anche il soggetto
privato proprietario di un edificio di culto regolarmente officiato non potrà fare nulla: potrà vendere
l’edificio, ma il vincolo di destinazione passerà dall’attuale proprietario all’altro, senza variare niente sotto
quel punto di vista. Se la Chiesa contiene opere d’arte, come è abbastanza frequente, il proprietario potrà
dire che al di fuori dell’orario in cui l’edificio è destinato al culto si limiti l’accesso dei visitatori chiedendo ad
esempio il pagamento di un ticket, ma al di là di questa possibilità di sfruttamento economico non v’è altro.
In questo senso, bisogna distinguere tra edifici di culto MONUMENTALI e NON MONUMENTALI o semplici.
Qual è l’elemento che differenzia le due strutture? L’edificio di culto monumentale è un edificio che, oltre a
servire la sua tipica funzione di destinazione al culto pubblico, ha anche carattere di bene di pregio storico
o artistico. In questo caso sulla struttura convergono due differenti discipline: da un lato c’è la disciplina
vincolistica, che sottopone i beni aventi un determinato pregio storico o artistico a particolari limitazioni
(disponibilità, utilizzo ecc.), ma queste strutture sono anche edifici di culto, come nell’esempio del Duomo
di Milano dove si celebra la Messa. Esiste, presso il Ministero dell’Interno, una struttura che si chiama
“Fondo Edifici di Culto” (particolare ramo dell’organizzazione del Ministero) che è un ente proprietario di
un numero consistente di edifici di culto monumentali (molti sono anche in Sicilia); sono beni che a loro
tempo erano stati espropriati all’asse ecclesiastico, quindi il proprietario di questi beni è lo Stato e sono
beni demaniali: questo ente ha il compito di provvedere alla loro manutenzione o restauro.
Rileva una distinzione fra gli edifici di culto PUBBLICO e quelli di culto PRIVATO, come gli oratori o le
cappelle private. Per comprendere la distinzione non si deve guardare il regime di proprietà: ci possono
essere edifici di culto pubblico di cui sono proprietari soggetti privati, o al contrario si possono avere edifici
di proprietà pubblica che invece seguono il regime di edifici di culto privato. Qual è l’elemento che vale a
differenziare le due tipologie? È la destinazione al culto PUBBLICO, a prescindere dalla proprietà. Se per
accedere a queste strutture non è necessario esibire alcun particolare titolo di ammissione, e se queste
strutture sono aperte a chiunque voglia accedervi, allora si è di fronte ad un edificio di culto pubblico,

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altrimenti si è di fronte ad una struttura di culto che a prescindere dalla proprietà, viene utilizzata, ad
esempio, dagli appartenenti ad una determinata confraternita. L’elemento decisivo è LA DESTINAZIONE AL
CULTO.
L’elemento caratteristico della disciplina è il VINCOLO DI DESTINAZIONE AL CULTO. Viene in rilievo
l’articolo 831 comma 2 c.c. a norma del quale: “Gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto cattolico
(non qualsiasi edificio di culto, e ciò è chiaro dato che eravamo nel 1942, la costituzione non c’era, e la
prospettiva è quella confessionista), anche se appartengono a privati (quindi qualsiasi sia il soggetto), non
possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione
stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano” Una disposizione simile è stata prevista
dalla Legge n.101/1989 che ha approvato l’intesa tra lo Stato e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane. È
possibile dire, dunque, che questo regime particolare per gli edifici di culto vale sicuramente per quelli
cattolici ed ebraici. Che cosa significa e cosa comporta questo vincolo di destinazione? Intanto bisogna
comprendere come sorge: tutti avranno sentito parlare della consacrazione o benedizione di una Chiesa,
questo è l’atto formale, disciplinato dal diritto canonico, mediante il quale una determinata struttura è
destinata al culto pubblico. Questo è sufficiente affinché sorga il vincolo di destinazione previsto dal Codice
civile? No. Il vincolo di destinazione ex. articolo 831 c.c. nasce a condizione che ci sia l’attuale e concreta
destinazione al culto dell’immobile. Non basta che l’autorità ecclesiastica faccia la consacrazione e poi
l’immobile rimane chiuso; questo è un problema che si sta ponendo perché nel nostro paese il numero di
chiese è sproporzionato rispetto alle effettive esigenze della popolazione. Ad esempio, a Roma ci sono tante
chiese che vengono aperte solo per i turisti o quando si deve festeggiare il Santo della chiesa. Questo
significa che non si applica più l’articolo 831 c.c. e l’immobile rischia di perdere il vincolo di indisponibilità
legato all’effettiva destinazione al culto del bene. Il soggetto, se deve provare l’esistenza del vincolo, è
inutile che provi l’atto canonico di consacrazione della chiesa, ma deve provare che essa sia effettivamente
utilizzata (effettiva attività di culto). Quindi per quanto riguarda l’opponibilità di questo vincolo non è
necessaria alcuna trascrizione nei pubblici registri, basta che la struttura sia effettivamente destinata al culto
e si applica l’articolo 831 c.c.
Gli edifici di culto cristiani ed ebraici hanno questo tipo di tutela, che comprime in maniera significativa il
diritto del proprietario. Normalmente la proprietà dell’edificio di culto è dell’ente ecclesiastico, ma ci sono
anche dei privati proprietari di queste strutture; la disciplina del vincolo di destinazione al culto comprime
tantissimo il diritto di proprietà privata del bene, il soggetto rimane proprietario con il relativo onere della
manutenzione ma non può utilizzare la struttura, perché l’autorità ecclesiastica che esercita il culto non può
essere distratta da quella finalità nell’utilizzo dell’immobile. Per il proprietario sarà possibile solo un
biglietto di ingresso per le visite. Che sia proprio legittima questa prassi è discutibile: o la struttura è un
edificio di culto destinato alla fruizione libera da parte dei fedeli, o se si mettono delle restrizioni sorgono
dei rischi. Nella realtà però ciò avviene, e talvolta il pagamento del ticket si giustifica con l’esistenza di
ricavare fondi da investire nella manutenzione della struttura. Poi ci sono alcuni complessi edilizi
caratterizzati per il fatto che hanno annessi dei musei, dei teatri, o dei campi di calcio. In questi casi si deve
distinguere l’edificio di culto, destinato al culto, da quelli che sono invece le pertinenze, cioè degli annessi
alla cosa principale che servono al miglior utilizzo della cosa principale. In questi casi, se il proprietario ha
un museo annesso all’edificio di culto ha la possibilità di gestirlo come meglio crede.
Detto ciò, quindi, che succede per le altre confessioni? C’è qualche forma di tutela di cui si possono avvalere
gli altri culti? C’è un problema di diverso trattamento fatto alle altre confessioni religiose, in violazione
dell’articolo 8 comma 1 Cost. Alcuni studiosi hanno ritenuto che per gli altri culti possa trovare applicazione
l’articolo 2645-ter c.c., che è una norma generale: “Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni
mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata
della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela (riferimento
all’articolo 1322 c.c) riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone
fisiche ai sensi dell'articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai
terzi il vincolo di destinazione: questa è una norma che non era originariamente inclusa nel codice civile, ma
è stata aggiunta in seguito, però è una norma generale che si presta allo scopo. Qual è però il limite? In
questo caso il vincolo deve essere trascritto, se non vi è la trascrizione, non vi è possibilità di opporlo al
terzo, a differenza dell’articolo 831 c.c. che opera indipendentemente da qualsiasi trascrizione nei registri.

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Compreso come sorge questo vincolo, bisogna vedere come CESSA. Leggendo l’articolo 831 comma 2 c.c.:
“fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano” -> il Codice
civile ci dice che ci sono delle leggi che disciplinano la cessazione di questo vincolo. Ma in realtà queste
leggi non esistono, non vi è alcuna legge statale che disciplina la cessazione del vincolo della destinazione al
culto. Si ritiene allora che in questo caso il codice civile abbia fatto un rinvio al diritto canonico; quindi,
attraverso questa norma bisogna applicare le regole canonistiche che si occupano della sconsacrazione
delle chiese. Però alla fine quello che interessa è che alla fine è l’autorità ecclesiastica ad avere il potere di
decidere se chiudere o meno una struttura e far cessare la destinazione al culto della struttura. Non può
essere il privato a prendere questa decisione. È ovvio che se l’edificio di culto diventa inutilizzabile, perché
diventa pericolante o viene permanentemente destinato ad un uso profano (come dice il codice di diritto
canonico), quindi non si svolge più attività di culto, questo è un modo per far perdere la destinazione al
culto.
Una questione che si è posta in giurisprudenza è quella della INVIOLABILITÀ’ degli edifici di culto. Un
bene pignorato è un bene che è sottratto alla procedura esecutiva volta ad ottenere il pagamento di un
credito. Ai sensi dell’articolo 2740 c.c. ogni soggetto risponde dell’adempimento delle sue obbligazioni con
tutti i suoi beni presenti e futuri; quindi se un soggetto ha un debito e non lo paga, ad un certo punto
l’ufficiale giudiziario potrebbe pignorargli la casa. Il pignoramento quindi significa destinare l’immobile al
soddisfacimento alla pretesa creditoria del creditore. Nel nostro ordinamento però ci sono alcuni beni che
non possono essere pignorati, ci sono delle norme che escludono da queste procedure esecutive alcuni
beni. L’articolo 514 c.p.c. parla di cose mobili assolutamente impignorabili e al n.1 dice che non possono
essere pignorate “le cose sacre e quelle che servono all’esercizio del culto”. Questa norma può essere
applicata agli edifici del culto? La rubrica parla di cose mobili, mentre l’edificio di culto è un bene immobile,
quindi si dovrebbe dire che quest’ultimo è fuori dalla previsione normativa. Dunque ad esempio: non può
essere pignorato il calice, perché è una cosa (mobile) sacra destinata all’esercizio del culto, mentre può
essere pignorato l’immobile. Tanti studiosi e anche il Tribunale di Patti, che si è pronunciato qualche anno
fa su una vicenda che riguardava una chiesa di Patti, hanno sostenuto e sostengono che gli edifici di culto
possono essere pignorati per far valere l’adempimento di un’obbligazione. Perché? Perché intanto non vi è
una norma espressa che escluda dal pignoramento questi beni, l’articolo 514 c.p.c. parla solo di beni mobili;
inoltre, il ragionamento che fanno il Tribunale di Patti e tanti studiosi è: l’articolo 831 c.c. dice in modo
chiaro “non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione” quindi
deduciamo che l’edificio di culto può essere alienato, ma non può essere sottratto alla sua destinazione. Il
privato può vendere la chiesa se è di sua proprietà, ma anche l’ente ecclesiastico o l’ente pubblico. Il
vincolo invece passerà dal vecchio proprietario al nuovo; quindi, è inutile vendere il bene per far cessare il
vincolo. Il Tribunale di Patti dice che se il bene può essere venduto, può essere anche pignorato, perché il
pignoramento è un atto della procedura esecutiva che poi porta alla vendita del bene (il bene viene
venduto all’asta e con il ricavato vengono soddisfatti i creditori). Se il bene è alienabile può essere anche
sottoposto alla vendita all’asta. Una cosa simile è stata detta anche dal Tribunale di Salerno nel 2010
dicendo che l’edificio di culto può essere pignorato. La maggioranza dei civilisti ha, però, sempre sostenuto
che questi beni NON siano pignorabili, sebbene possano essere alienati, perché questa è una possibilità che
non ha modo di realizzarsi nella pratica. In sostanza sono beni extra-commercium, quindi in quanto tali di
fatto sono inalienabili e quindi non pignorabili.
C’è da considerare l’articolo 5 dell’Accordo del 18 Febbraio 1984 tra Stato e Chiesa Cattolica, che si occupa
degli edifici di culto, ed introduce alcune garanzie per questi immobili. La norma dice che non possono
essere espropriati (divieto di espropriazione per pubblica utilità di questi beni), non possono essere
requisiti, occupati, demoliti se non previo accordo con la competente Autorità ecclesiastica. Quindi questa
è una norma che prevede ulteriori garanzie per queste strutture. Un aspetto interessante riguarda
l’APERTURA di queste strutture, ed è un problema che interessa le confessioni religiose di recente
insediamento nel nostro Stato. La Chiesa Cattolica ne ha in eccesso e spesso concede in uso questi edifici
anche ad altri gruppi religiosi, ad esempio agli ortodossi; questo è un modo per evitare che ci siano
pressioni sulle autorità locali per ottenere le strutture da parte delle minoranze religiose. Se la Chiesa
Cattolica riconosce di avere strutture in eccesso rispetto alle sue effettive esigenze e le concede in uso a
questi nuovi gruppi religiosi è un bel gesto, che consente anche di risparmiare molti soldi. Ma cosa

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accadeva in passato, nel 1929 con il regio decreto 289/1930 (normativa attuativa della L. n.1159/1929)? Per
la Chiesa Cattolica non c’erano limiti per l’apertura di edifici di culto, i culti di minoranza ammessi dovevano
chiedere una speciale autorizzazione al Ministero dell’Interno, che era ampiamente discrezionale. Questo
significava negare ai culti di minoranza il diritto ad avere un edificio di culto, perché richiedere
un’autorizzazione (discrezionale) alla pubblica amministrazione è esattamente il contrario di avere una
pretesa azionabile davanti al tribunale, com’è invece un diritto soggettivo. Qui poi vi erano delle ricadute
anche sulle riunioni di culto, perché i gruppi di minoranza potevano riunirsi per celebrare i riti solo
all’interno di strutture di culto autorizzate. Bisogna tenere presente però che nel 1929/1930 le norme
generali sulle riunioni private erano molto restrittive, non vi era la Costituzione, vi erano delle norme
contenute nel Testo Unico sulla Pubblica Sicurezza che richiedevano l’autorizzazione anche per le riunioni in
luogo pubblico, e talvolta anche per le riunioni private quando per le loro caratteristiche erano assimilabili
alle riunioni pubbliche. Detto in modo semplice: se gli edifici di culto non erano autorizzati dal Ministero
dell’Interno non potevano fare riunioni di culto, quindi questa era una restrizione significativa della libertà
religiosa. La Corte costituzionale, con sentenza n. 59 del 1958, dichiarò illegittime queste norme per
contrasto con l’articolo 19, 8 comma 1 e 17 della costituzione; erano delle norme che limitavano la pari
tutela di tutte le confessioni religiose, la libertà di religione e la libertà di riunione in luogo pubblico,
eccetera.
Così, si potrebbe dire che oggi vi è libertà, perché la Corte costituzionale ha eliminato queste norme
discriminatorie e i culti di minoranza sono liberi di poter edificare un edificio di culto senza problemi. Ma
non è così, perché alle limitazioni della vecchia normativa, oggi si sono sostituite le limitazioni che l’autorità
COMUNALE, o le regioni, possono attuare nei confronti dei culti sgraditi. A partire dalla legge urbanistica
del 1942, ma nei fatti dagli anni ’70 in poi, per poter edificare sul suolo pubblico si devono rispettare i piani
regolatori comunali e si deve avere, quella che un tempo si chiamava concessione edilizia, il permesso di
costruire, cioè un’autorizzazione del comune. A monte le normative comunali di pianificazione urbanistica
devono riservare determinati spazi a questo tipo di strutture (es. area destinata al verde pubblico, alla zona
industriale, alla zona residenziale, e anche quella destinata all’edilizia di culto). Come si può ostacolare la
libertà di questi culti di minoranza? Intanto ponendo delle restrizioni in sede di piano regolatore generale,
cioè riservando questi spazi in maniera non sufficiente rispetto alle esigenze della popolazione (anche se è
difficile individuare la necessaria quantità di spazio per queste strutture, le risorse non sono illimitate, si
deve tenere conto della consistenza effettiva di un gruppo religioso in un determinato contesto). Un altro
ambito di competenze che concretamente si è attivato talvolta è quello REGIONALE, perché le regioni
hanno in questa materia una competenza CONCORRENTE con lo Stato. L’articolo 117 Cost. prevede la
competenza concorrente tra stato e regioni per l’assetto urbanistico del territorio; le regioni hanno
competenza per emanare leggi che riguardano l’assetto urbanistico del territorio. È anche vero che lo
stesso articolo 117 dice che i rapporti tra Stato e confessioni religiose sono riservati allo stato, quindi questa
è una materia di competenza esclusiva dello stato; ma c’è la materia concorrente riguardo l’assetto
urbanistico.
Cosa hanno fatto quindi le regioni (Lombardia e Veneto in particolare)? Hanno detto di essere competenti in
materia di assetto urbanistico, quindi hanno emanato una normativa che formalmente disciplina l’assetto del
territorio, ma nella realtà è una normativa volta ad intralciare le iniziative di alcune particolari confessioni
religiose in questo settore -> si è sentito parlare molte volte delle leggi cosiddette “anti-moschee”, sono leggi
regionali che secondo molti sono state concepite per porre ostacoli alla edificazione di moschee in territorio
lombardo e veneto. Se si legge la legge, si vede che per gli altri culti (diversi dalla religione cattolica e
confessioni religiose che hanno stipulato intese con lo stato) bisogna accertare una serie di questioni legate
all’impatto sul paesaggio (è un aspetto importante), si deve verificare se vi è una esistenza nel territorio
(questo è sacrosanto, come detto prima, dato che gli spazi comunali non sono infiniti; se non vi è un gruppo
consistente di quella determinata confessione religiosa non si può consumare il territorio così), si deve poi
andare a vedere gli statuti di queste confessioni per controllar che non ci siano norme in contrasto con
l’ordinamento italiano, si devono istallare delle telecamere per vedere chi entra e chi esce (è evidente che vi è
un pregiudizio nei confronti delle moschee, perché si pensa che in quel luogo si riuniscano delinquenti). Il
problema è: l’ente regione, senza l’articolo 177 cost., ha competenza a fare questo o no? Se vi è un
problema di ordine pubblico per cui si devono installare delle telecamere per vedere chi entra e chi esce, ciò
riguarda la sicurezza, la religione è competente in materia di ordine e sicurezza pubblica? No, e non c’è
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dubbio su questo. La misura ha un suo senso e una sua logica, ma deve essere prevista per tutti gli edifici di
culto e poi deve essere prevista dallo stato con una sua legge, perché la regione non ha la competenza per
regolare queste materie. È stata posta la questione innanzi la Corte Costituzionale, che si è pronunciata una
prima volta nel 2016 con sentenza n. 63, dichiarando l’illegittimità costituzionale di queste norme perché in
contrato con l’articolo 19 e 117 Cost. Per essere sintetici, il succo della pronuncia è: la regione è
competente nell’emanare norme che riguardano lo sviluppo armonico dei territori dal punto di vista
urbanistico, ma non ha competenza a limitare l’esercizio dei diritti fondamentali, non ha competenza a
disciplinar questa materia; dunque, dato che aprire un edificio di culto è un diritto (non una concessione
come nel 1929), questo diritto non può essere vanificato da una normativa regionale che pone particolari
paletti a danno di alcune confessioni religiose. La Corte si era già pronunciata anni prima per quanto
riguarda la questione del FINANZIAMENTO di queste strutture -> dal punto di vista della legislazione
urbanistica, gli edifici di culto sono qualificati come opere di urbanizzazione secondaria. Le opere di
urbanizzazione sono quelle strutture che servono a rendere un determinato territorio fruibile al meglio dalla
collettività (opere di urbanizzazione primaria: es. acquedotti, fognature, illuminazione), quindi per rendere
vivibile un determinato terreno/contesto residenziale si devono fare queste opere. Gli edifici di culto sono
opere di urbanizzazione secondaria ma sono anch’essi necessari per realizzare un centro urbano. Costruire
opere di urbanizzazione secondaria è già un vantaggio dal punto di vista della normativa urbanistica, perché
non si deve pagare per ottenere il permesso di costruire, perché hanno un rilievo pubblico. Le regioni hanno
emanato leggi per finanziare queste opere, quindi hanno concesso dei fondi per l’edificazione di queste
opere. Una legge della regione Abruzzo aveva previsto che questi fondi potessero essere elargiti solo alle
confessioni con intesa (o Chiesa); quindi tutte le altre regioni, come l’Islam, restavano fuori dal
finanziamento. La Corte costituzionale fin dal 1993, dichiarando illegittima questa normativa della regione
Abruzzo, dice che non può essere fatta una distinzione tra confessioni con o senza intesa, nella ripartizione
del territorio a disposizione e nella concessione dei finanziamenti si deve guardare semplicemente alle
esigenze della popolazione; se queste giustificano un investimento di questo tipo, è discriminatorio, in linea
di principio, lasciare fuori dai finanziamenti le confessioni senza intesa. La normativa lombarda si segnala
anche per un altro aspetto: richiede il permesso di costruire anche per il semplice mutamento di
destinazione di un immobile. Alcune comunità musulmane, per riunirsi in preghiera, a volte utilizzano
garage o capannoni adibiti ad attività commerciali; non facendo opere edili, e si muta la destinazione di
questi edifici, è necessario il permesso per costruire. Questa è una restrizione che riguarda che comunità di
culto islamiche. Qui la giurisprudenza ha cercato di superare questo ostacolo, e molte volte è questa che
dice che se non vi è un carico urbanistico che deriva dal mutamento della destinazione, e quindi se non è un
vero e proprio edificio di culto (per venire incontro alle esigenze della comunità islamica si deve dire che
non è un vero e proprio edificio di culto), e quindi non ha il tipico impattino di queste strutture, allora si può
prescindere dell’autorizzazione per il mutamento della destinazione. Questo porta a dire che se la struttura
è frequentata da 10 persone non è un luogo di culto, mentre se è frequentata da 200 persone è un luogo di
culto, ha un impatto sul carico urbanistico, allora è necessaria l’autorizzazione per il cambio di destinazione.

ENTI ECCLESIASTICI
Cos’è un ente ecclesiastico? Un ente è una persona giuridica che ha una autonomia patrimoniale (perfetta o
non defetta).
Il Codice civile parla, a partire dall’articolo 12, di enti pubblici ed enti privati: gli enti privati, in particolare,
hanno di solito scopo di lucro, come nel caso delle società commerciali. L’ENTE ECCLESIASTICO, invece, è
una categoria intermedia tra l’ente pubblico e quello privato, ed è una figura di cui la Chiesa e le confessioni
religiose non possono fare a meno: la vita umana ha una fine, ma le confessioni non possono morire al venire
meno di determinati soggetti, perciò è importante avere enti esponenziali che rappresentano l’organizzazione
interna della confessione. Tendenzialmente, le confessioni religiose non sono dotate di capacità giuridica e di
capacità di agire, anche se vi sono alcune eccezioni; mentre ce le hanno gli enti che appartengono alla
struttura organizzativa del gruppo.
L’ente ecclesiastico è quindi una persona giuridica che è derivata da una investitura della confessione, e che
ha un fine di religione o di culto. Gli elementi costitutivi della nozione sono due: il carattere ecclesiastico,
ossia il collegamento che c’è tra l’ente e la sua confessione religiosa; il fine di religione o di culto. L’ente
ecclesiastico cattolico nasce nell’ordinamento della Chiesa e che in più ha il fine di religione o di culto ai
sensi delle leggi dello Stato
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Come avviene il riconoscimento della personalità giuridica? In questo settore c’è da registrare una novità
significativa rispetto all’impostazione originaria del Codice civile del 1942: l’articolo 12 si ispirava alla
logica della CONCESSIONE DELLA PERSONALITÀ GIURIDICA, infatti un ente privato per essere
riconosciuto doveva presentare domanda al competente ramo di amministrazione statale e poi con decreto
del Presidente della Repubblica veniva concessa la personalità giuridica. È importante sottolineare l’aspetto
del carattere concessorio della personalità, perché quando si parla di concessione vuol dire che vi è in capo
alla pubblica amministrazione un potere discrezionale; questa è la prova dell’esistenza di una diffidenza
verso la creazione di nuovi soggetti giuridici, perché hanno autonomia patrimoniale, quindi i terzi devono
essere messi nelle condizioni di non correre dei rischi. Se il soggetto giuridico collettivo merita di essere
riconosciuto, ciò deve avvenire, ma non può essere concessa a cuor leggero perché vi possono essere delle
conseguenze negative nei confronti dei terzi. Il Codice civile del 1942 era diffidente perché riservava a sé il
potere della concessione della personalità giuridica. Un altro aspetto da cui emergeva la cautela del codice
civile verso questi enti era l’istituto dell’AUTORIZZAZIONE AGLI ACQUISTI. L’articolo 17 c.c.
subordinava l’acquisto di un bene immobile da parte di questi enti senza scopo di lucro all’autorizzazione
governativa; interveniva il ministero per stabilire se quel bene effettivamente poteva essere acquistato o
no, per evitare il fenomeno di proprietà che rimanevano immobilizzate, con possibili danni per l’economia
che era molto legata alla circolazione di beni immobili e agricoli.
Con il passare degli anni ci si rese conto che si doveva eliminare l’autorizzazione agli acquisti, perciò la legge
Bassanini del 1997 ne ha previsto l’abrogazione: così, anche gli enti privatistici senza scopo di lucro possono
oggi liberamente acquistare beni immobili senza avere l’autorizzazione da parte della pubblica
amministrazione. Inoltre, sempre in attuazione della riforma Bassanini, con D.P.R. 361/2000, si è
abbandonato il sistema concessorio del riconoscimento della personalità e si è passato ad un sistema più
snello: in base al quale un ente chiede al prefetto di essere iscritto nel registro delle persone giuridiche
esistente nella prefettura, e questo basta ad ottenere la personalità giuridica. La pubblica amministrazione
oggi non ha più un potere discrezionale forte nel valutare la domanda presentata da un ente. Questa
premessa è importante perché quando è stato firmato il Concordato, nel 1984/1985, la legge Bassanini
ancora non esisteva, quindi per gli enti privati vigeva il regime concessorio, e ovviamente questo stesso
regime è stato applicato agli enti ecclesiastici: infatti, salvo i casi in cui la legge stessa concede il
riconoscimento all’ente, o nei casi in cui l’ente possegga per antico possesso di stato la personalità giuridica
perché esiste da molto tempo ed ha agito come se l’avesse, oggi per ottenere il riconoscimento come ente
ecclesiastico bisogna presentare domanda al prefetto, il quale poi trasmetterà i documenti al Ministro
dell’Interno, che concederà la personalità giuridica all’ente ecclesiastico.
Così, oggi l’ente privato è riconosciuto in forma semplificata, mentre l’ente ecclesiastico deve invece
seguire un percorso più tortuoso: serve un provvedimento del Ministro dell’Interno che riconosca la
personalità giuridica all’ente. Stando così le cose si è posto un problema di costituzionalità, perché
l’articolo 20 della Costituzione dice che il carattere ecclesiastico o il fine di religione o di culto di una
associazione o istituzione non può essere causa di speciali limitazioni legislative per la sua costituzione,
capacità giuridica e ogni forma di attività. Questa norma è la risposta alle vicende legate alle leggi
eversive del 1866, che avevano determinato la soppressione di alcuni enti. Oggi alcuni si chiedono se la
normativa è illegittima, perché l’ente privato senza scopo di lucro viene agevolato nel riconoscimento,
quindi l’ente ecclesiastico si trova in una condizione deteriore rispetto all’ente di diritto comune, perché la
sua procedura di riconoscimento è più complicata e si ispira ancora alla logica della concessione. Come si
può controbattere a questo tipo di conclusione? L’ente ecclesiastico è un ente che gode di uno statuto
giuridico privilegiato, perché l’ente ecclesiastico beneficia di agevolazioni fiscali e altre agevolazioni dal
punto di vista normativo. Dunque, se l’ente vuole godere di quei determinati vantaggi, allora si può
giustificare la maggiore cautela, una verifica più scrupolosa dei requisiti per ottenere la personalità
giuridica.
Un ente ecclesiastico per essere riconosciuto deve avere 4 requisiti: deve essere costituito o approvato
dall’autorità ecclesiastica (carattere ecclesiastico), così si garantisce l’ortodossa derivazione
confessionale dell’ente; deve avere fine di religione o di culto; deve avere la sua sede principale in Italia;
deve avere l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica a chiedere il riconoscimento.
Il FINE DI RELIGIONE O DI CULTO deve essere costitutivo ed essenziale. Qui si registra la principale novità
rispetto al Concordato del 1929, che riconosceva come enti ecclesiastici gli enti della Chiesa di qualsiasi
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natura, con una sorta di rinvio in bianco a quello che succede all’interno dell’ordinamento canonico. Ora non
è più così: lo Stato oggi si riserva di compiere una verifica volta ad accertare che l’ente effettivamente
persegue un fine di religione o di culto con carattere costitutivo ed essenziale. Come si accerta la ricorrenza
di questo fine? La pubblica amministrazione di volta in volta deve verificare che l’ente svolga alcune attività
considerate come attività di religione e di culto ai sensi dell’articolo 16 della legge 222/1985. Articolo 16:
alla lettera a si elencano le “attività' di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura
delle anime, (alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione
cristiana); mentre alla lettera b si parla di “attività' diverse da quelle di religione o di culto” e si specifica che
“quelle di assistenza e beneficenza, istruzione” e le attività aventi scopo di lucro non sono attività di
religione o di culto -> questo è uno degli aspetti più attuali su cui vale la pena soffermarsi. Momento della
richiesta del riconoscimento: la pubblica amministrazione valuterà ai sensi dei parametri indicati dall’articolo
16 se l’ente ha o meno fine di religione o di culto. Ovviamente per gli enti che sono connaturati con la
struttura della confezione, come parrocchia o diocesi, non si va a verificare se svolgono attività di religione o
culto perché è implicito. Infatti, la legge 222 dice che gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica
della chiesa, tra cui diocesi e parrocchie, gli istituti religiosi e i seminari il fine di religione o di culto è
presunto ius et de iure. Per gli altri enti si deve svolgere una verifica puntuale e concreta di volta in volta.
Che significa fine di religione o di culto COSTITUTIVO ED ESSENZIALE? Ci si è chiesti in particolare se
l’ente ecclesiastico, oltre ad avere un fine di culto, possa avere anche altri fini. È chiaro che debba avere un
fine di religione o di culto, ma può avere anche un fine diverso da quello? Quindi abbinare un fine diverso?
Alcuni sostengono che questo non sia possibile; altri dicono che questa possibilità può essere data, purché
l’altro fine non diventi prevalente e assorbente. Ad esempio, l’istituto religioso può avere il suo fine di culto
però può anche gestire una scuola confessionale, o si pensi al caso degli enti che gestiscono degli ospedali
(attività di assistenza sanitaria). Anche questi enti devono avere un fine costitutivo ed essenziale di religione
o culto altrimenti non possono essere riconosciuti ai sensi della legge 222. L’attività di gestione
dell’ospedale o della scuola privata può diventare un fine che si colloca accanto al fine di religione o culto?
O deve limitarsi ad essere un’attività diversa? L’ente può senza dubbio svolgere attività diverse, ma ci
stiamo domandando se queste possono diventare un vero e proprio fine o meno. L’idea prevalente è che
l’ente possa avere PIU’ FINI, quindi non deve essere necessariamente essere il fine del culto a
caratterizzarlo, però questo fine diverso non può diventare prevalente.
Che succede se diventa prevalente? Se un ente ecclesiastico alla fine si è trasformato in un ospedale e
l’attività di culto è diventata marginale, questo rischia che gli venga revocato il riconoscimento della
personalità giuridica da parte del Ministero dell’Interno (così come è stata concessa, può essere ritirata). Va
detto però che vi è un problema serio da questo punto di vista: un tempo quando esisteva l’autorizzazione
agli acquisti, il Ministero aveva costantemente la possibilità di controllare la coerenza istituzionale dell’ente:
cioè se arrivava una domanda per autorizzare ad acquistare un palazzo al centro di Londra, il ministero si
chiedeva cosa se ne dovesse fare l’ente ecclesiastico, e negava l’autorizzazione se l’ente voleva acquistare il
bene per fini speculativi (è anche un dice del fatto che l’ente si sta trasformando in qualcosa di diverso
dall’ente ecclesiastico). Dunque, prima ci era l’occasione di fare questo controllo ma nel momento in cui non
vi è più l’autorizzazione agli acquisti, non c’è mai il momento di verifica per vedere se l’ente ecclesiastico si
sta trasformando in qualcosa di diverso. Quindi rimane la disciplina nella legge 222 per cui se l’ente perde
uno dei requisiti per il riconoscimento allora il Ministero revoca la personalità giuridica, ma questo non si è
mai verificato perché non c’era l’occasione concreta per fare questo tipo di verifica. Molti hanno sottolineato
che ormai questo elemento del fine di religione o di culto sta perdendo la sua capacità di connotare la natura
dell’ente ecclesiastico, ed alcuni hanno parlato del RISCHIO di una vera e propria
COMMERCIALIZZAZIONE di questi enti: alcuni di questi enti, che dal punto di vista fiscale sono enti
non commerciali, perché hanno un fine non commerciale, quindi sono agevolati, ma di fatto si stanno
trasformando in enti che svolgono attività d’impresa.

L’ente ecclesiastico come può diventare un imprenditore? La giurisprudenza, anche alla luce degli
orientamenti che vengono dalla normativa dell’Unione Europea, è d’accordo a sostenere che affinché si
abbia un imprenditore, al di là agli aspetti all’organizzazione professionale dell’attività produttiva, non sia
necessario il lucro soggettivo, ovvero il guadagno che viene ripartito tra i soci, perché questo è
incompatibile con un ente ecclesiastico. Ma accanto al lucro soggettivo vi è anche quello oggettivo, che si
realizza attraverso investimenti nel conseguire la finalità prefissata: questi soldi non vengono ripartiti tra i
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soci, ma vengono reinvestiti per il perseguimento della finalità dell’ente. Si è detto che affinché si abbia un
imprenditore basta l’economicità della gestione dell’attività: significa che se l’ente agisce cercando di
ottenere un pareggio tra costi ed entrate, anche se è in perdita, è un imprenditore. Non serve né il lucro
soggettivo né quello oggettivo, basta l’ECONOMICITÀ’ DELLA GESTIONE, cioè l’obiettivo di
perseguire il tendenziale pareggio di bilancio tra entrate e costi. Questa è una questione che si è posta per
gli enti ecclesiastici che gestiscono scuole e anche per quanto riguarda il pagamento dell’IMU (o ICI): l’ente
che gestisce una scuola entra in concorrenza con scuole private che non sono senza scopo di lucro, ma che
perseguono lecitamente uno scopo di lucro. L’ente ecclesiastico gode di vantaggi fiscali derivanti dal non
esercitare attività commerciale, ma poi fa pagare delle rette agli alunni, giustificandole con la scusa di
coprire i costi. Sul tema è perciò intervenuta la Corte di Giustizia, condannando la Chiesa a versare l’IMU,
perché si è ritenuto violato il principio degli aiuti di Stato, dove anche l’agevolazione fiscale può essere un
considerato tale. Questo sistema finisce con il distorcere la concorrenza e la Corte di Giustizia ha deciso in
questo senso: soltanto quando l’ente ecclesiastico chiede una quota simbolica non si ha attività economica
ed imprenditoriale, altrimenti scatta il divieto di aiuti di Stato e questo non può concedere alcun tipo di
vantaggio. Infatti, anche il legislatore ha stabilito che l’agevolazione fiscale funziona solo nel caso in cui la
retta sia un valore simbolico e non sia idonea a coprire i costi per lo svolgimento di del tipo di attività.

Una distinzione fondamentale che si può fare tra le persone giuridiche è quella che separa le associazioni, in
cui prevale l’elemento personale, dalle fondazioni, in cui assume maggior rilievo il patrimonio destinato allo
scopo dichiarato dall’ente. Ciò non significa che la fondazione possa prescindere del tutto dall’elemento
personale (o che l’associazione possa del tutto fare a meno dell’elemento patrimoniale), ma mentre nel
caso dell’ente ecclesiastico, come una parrocchia, non si possono fare valutazioni sulla sufficienza dei mezzi
in relazione alle attività che questo deve portare avanti, per le fondazioni di culto, enti che hanno come loro
essenza il patrimonio, sarà possibile fare un accertamento discrezionale. Quando noi parliamo di fondazioni
di culto facciamo riferimento ad enti che hanno rilevante importanza (ospedali che funzionano proprio
grazie alle risorse provenienti da questi).
Ci sono poi altre figure importanti come le associazioni, che possono essere di religiosi o di fedeli laici.
Novità del nuovo accordo è la possibilità che possano essere riconosciuti come enti ecclesiastici anche gli
istituti religiosi di diritto diocesano, che si contrappongono agli istituti di diritto pontificio. Gli istituti religiosi
di diritto diocesano hanno rilevanza locale, nell’ambito della diocesi per l’appunto, che possono essere
riconosciuti purché diano garanzia di stabilità, valutata dalla P.A.
Quali sono le “attività diverse” a cui facevamo cenno nella lezione precedente? Sappiamo che l’ente
ecclesiastico si caratterizza per il fine di religione o di culto, che è costitutivo ed essenziale. L’articolo 7 n.4
dell’Accordo del 18 febbraio 1984 contiene una norma relativa alle attività diverse svolte dagli enti
ecclesiastici: “Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette,
nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al
regime tributario previsto per le medesime.” Esempio di attività diversa potrebbe essere quella ospedaliera.
Si dice quindi che queste attività diverse sono sottoposte alle regole di diritto comune che disciplinano quel
determinato settore (ad es. quello ospedaliero). Questa regola vale anche per il regime tributario. L’ente
ecclesiastico che svolga attività di lucro dovrà pagare le tasse che anche gli altri esercenti pagano. L’articolo
però pone un limite all’applicazione della normativa di diritto comune; questa potrà trovare applicazione
finché non si intacchino le finalità perseguite dall’ente. Ovviamente non è facile interpretare correttamente
il testo. Facendo l’esempio degli ospedali ecclesiastici possiamo considerare il servizio di interruzione
volontaria della gravidanza, obbligo di cui il servizio ospedaliero ecclesiastico viene dispensato. Questa
norma però rischia di trasfigurare la figura stessa dell’ente ecclesiastico, che ha comunque come fine quello
di religione e di culto. Siamo allora sicuri che qualsiasi “attività diversa” sia compatibile con la finalità di
culto (come gestire una finanziaria per ottenere soldi). Il dubbio che sorge è che questa clausola del
“rispetto della struttura e della finalità” possa significare che l’ente non debba perdere la sua caratteristica
essenziale. Questo in effetti sta accadendo, vi sono casi di enti ecclesiastici che costituiscono società
commerciali per svolgere attività diverse, si parla quindi di “secolarizzazione” dell’ente ecclesiastico.
Impulso in questa direzione si è avuto con l’abrogazione dell’istituto dell’autorizzazione agli acquisti (art.17
cc.), con i quali si poteva prima verificare la coerenza delle attività svolte dall’ente rispetto alle finalità

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perseguite. Oggi il ministero non ha più questo strumento. Rimane in vigore la regola della revoca del
riconoscimento della personalità giuridica di quell’ente che perde i suoi originali connotati, ma non si
capisce bene con quale strumento possa verificare. Altra spinta viene anche dalla riforma del terzo settore,
con la quale l’ordinamento italiano, in linea con gli altri ordinamenti europei, ha valorizzato le attività di
utilità sociale svolte dai soggetti privati, soprattutto spinto dalla crisi dello stato sociale. Agevolare l’attività
di questo tipo di enti può essere economicamente conveniente. L’incentivo, anche fiscale, di queste attività
profane, diverse da quelle di culto, possono portare l’ente ecclesiastico a porre in essere queste nuove
attività. Teniamo comunque presente che l’ente ecclesiastico non è un ente del terzo settore, ma può dar
vita ad un ramo che, se presenta determinati caratteri, sarà considerato appartenente al terzo settore.
Notiamo bene che il riconoscimento dell’ente ecclesiastico, concesso con decreto del ministro dell’interno,
permette all’ente di guadagnare la personalità giuridica. A questo punto per l’ente nasce l’onere di iscriversi
nel registro delle persone giuridiche. Non bisogna invece confondere tutto questo con la registrazione degli
enti privati, che acquisiscono la personalità giuridica proprio con l’iscrizione nel registro delle persone
giuridiche presso la prefettura. La registrazione per gli enti privati ha natura costitutiva, nel caso degli enti
ecclesiastici ha natura dichiarativa, cioè serve a rendere conoscibili ai terzi i rappresentanti dell’ente. È
utile per il terzo sapere che nel nostro ordinamento vige il principio della rilevanza civile dei controlli
canonici (articolo 7 n.6 dell’Accordo): “L'amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è
soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico. Gli acquisti di questi enti sono però soggetti anche ai
controlli previsti dalle leggi italiane per gli acquisti delle persone giuridiche.” Sappiamo che l’ente nasce
nell’ordinamento canonico quindi ci sembra ovvio che sia sottoposto ai controlli del diritto canonico, ma
questi hanno rilevanza civile. Il terzo che stipula un negozio con l’ente ecclesiastico senza accertarsi che il
rappresentante dell’ente si sia dotato di tutte le autorizzazioni richieste dall’ordinamento ecclesiastico
potrà incorrere in un accordo invalido. L’articolo 18 della legge 222 del 1985 recita: “Ai fini dell’invalidità o
inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non
ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l'omissione di controlli canonici che
non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche.” Il terzo è quindi tutelato
dal registro. Mentre le parrocchie o le diocesi, cioè enti che appartengono alla struttura gerarchica della
Chiesa, vantano regole interne sulle attività economiche tutte uguali (quindi basta semplicemente
consultare il codice di diritto canonico), gli istituti religiosi o altri tipi di enti possono avere di volta in volta
regole diverse; assume allora grande importanza il registro delle persone giuridiche.
Qual è la posizione dell’ente ecclesiastico che non si sia iscritto? Sappiamo che l’ente privato che non si
iscrive non acquisisce la personalità giuridica e non può quindi stipulare negozi giuridici. Nel caso dell’ente
ecclesiastico invece la personalità giuridica c’è già, ottenuta attraverso il riconoscimento. La legge 222 del
1985 distingue due ipotesi. Gli enti già esistenti nel 1985 che non si erano ancora iscritti l’hanno dovuto fare
entro determinate date, pena l’impossibilità di compiere negozi giuridici (art.5). Per quanto riguarda gli altri
enti, sempre all’articolo 5 si afferma che “agli enti ecclesiastici non può comunque essere fatto, ai fini della
registrazione, un trattamento diverso da quello previsto per le persone giuridiche private.” Il problema è che
questo accadeva nel 1985, quando gli enti privati avevano un’iscrizione nel registro con funzione
dichiarativa. La conseguenza della mancata iscrizione era l’assenza di autonomia patrimoniale perfetta
(articolo 33 ultimo comma CC). Con la riforma Bassanini, che ha abrogato l’articolo 33, tutto questo è
cambiato. Come va letto l’articolo 5 della legge 222 del 1985 allora? L’idea è quella del rinvio materiale
della legge 222 all’articolo 33 (la legge 222 ha quindi recepito il contenuto dell’articolo 33, pur questo
abrogato). Si stabilisce quindi che per gli enti ecclesiastici riconosciuti dopo il 1985, se non si iscrivono nel
registro delle persone giuridiche, continua ad operare la responsabilità personale in solido per gli
amministratori e rappresentanti che hanno agito in nome e per conto dell’ente ecclesiastico.
Cosa sono gli enti ecclesiastici? Hanno natura pubblicistica, privata o ad un terzo genere? Il ricorso allo
schema dell’ente pubblico stona con il principio di laicità dello stato. In passato si è arrivati a qualificare gli
enti ecclesiastici ebraici come enti di diritto pubblico (finché non è arrivata la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di questa disciplina). Rimane da chiarire entro quali limiti si possa distinguere l’ente
ecclesiastico dall’ente privato. Quando noi abbiamo un ente ecclesiastico che vive già nell’ordinamento
possiamo equipararlo ad un ente privato? Il problema si pone concretamente poiché nel nostro
ordinamento esistono norme che si riferiscono genericamente agli enti privati, facendo sorgere

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l’interrogativo circa l’applicabilità di queste agli enti ecclesiastici. Esempio è il decreto legislativo 231 del
2001, che ha disciplinato per la prima volta nel nostro ordinamento la responsabilità delle persone
giuridiche per aver posto in essere un reato. Per i romani le persone giuridiche, che sono finzioni giuridiche,
non potevano commettere reati. Con l’arrivo di questa nuova disciplina anche le persone giuridiche, in
determinate condizioni, possono essere considerate penalmente responsabili.
Articolo 1 (Soggetti):
1. Il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi
dipendenti da reato.
2. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e
associazioni anche prive di personalità giuridica.
3. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli
enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
Nel terzo comma si escludono alcuni enti dall’applicazione di questa disciplina. E gli enti ecclesiastici
possono essere contemplati in questo comma? Il problema si può risolvere cercando di capire se l’ente
ecclesiastico si possa inquadrare (escludendo naturalmente la riferibilità agli enti territoriali e agli enti
pubblici non economici) tra gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. Si potrebbe dire che
l’ente ecclesiastico sia un elemento di organizzazione interna delle confessioni (quindi di rilievo), ma la
dottrina non è d’accordo. Dai lavori preparatori si è capito che il riferimento agli “enti che svolgono funzioni
di rilievo costituzionale” si era fatto in relazione ai partiti politici e ai sindacati. Come si risolve il problema?
Dobbiamo chiederci a che tipo di attività dell’ente ecclesiastico si fa riferimento e utilizzare quindi la norma
di raccordo dell’articolo 7 n.3 dell’Accordo, laddove si afferma che all’ente ecclesiastico che svolga attività
diverse, nel rispetto della struttura e della finalità dell’ente, si applicano le disposizioni di diritto comune.
Mentre all’attività di culto non si applicano le disposizioni di diritto comune, per le altre attività il
Concordato ci dà la possibilità di farlo. Il diritto comune stabilisce che per gli enti vale la responsabilità
penale, di conseguenza questa va estesa anche agli enti ecclesiastici, se lo si ritiene compatibile con la
struttura e la finalità di tali enti. Vi sono però dei problemi. Questa disciplina ha previsto un principio
(semplificando) in base al quale se l’ente si organizza in determinato modo, viene esentato dalla
responsabilità di reato. In tal modo si urta con la struttura dell’ente ecclesiastico, poiché così facendo si
costringerebbe l’ente ecclesiastico ad organizzarsi in altro modo, a rivedere la sua struttura, Tale problema
però si supera sulla base del fatto che questi schemi organizzativi sono semplicemente facoltativi, l’ente
non è obbligato in alcun modo.
Un’altra questione che si può porre è quella dell’applicabilità agli enti ecclesiastici delle cosiddette
procedure concorsuali, ovvero quelle procedure che riguardano il fallimento o l’amministrazione
straordinaria e si applicano nel caso in cui un ente non riesca più a far fronte alle sue obbligazioni. Nel caso
in cui un ente ecclesiastico dovesse accumulare un grande debito può fallire? Andando ad analizzare la
norma che interessa questa materia, non si parla in maniera esplicita di enti ecclesiastici in riferimento al
tema del fallimento. In un caso abbastanza recente, accaduto nel 2013, il tribunale di Roma si è soffermato
sulla questione, dichiarando che anche per gli enti ecclesiastici dovesse essere previsto il fallimento, perché
applicare la disciplina del fallimento non significa intaccare la struttura dell’ente, non viene intaccata
l’identità dell’ente stesso. Il problema nasce dal fatto che quando si interviene con una dichiarazione di
fallimento, a quel punto saranno gli organi designati dal tribunale che si sostituiscono ai precedenti nella
gestione dell’impresa: se si prende il caso di un ospedale, i preti e le suore che se ne occupavano verranno
messi da parte e sostituiti dai “curatori del fallimento”. Il tribunale di Roma, però, si è limitato solo nel
distinguere tra attività di culto e l’attività commerciale, dove rilevano gli organi sostitutivi.

Un’altra questione si è posta rispetto agli organismi di diritto pubblico: se gli enti ecclesiastici bandiscono
dei lavori finanziati per un importo che risulta essere superiore al 50% da parte dello Stato o da enti
pubblici, devono affidare i lavori tramite una regolare gara d’appalto. Si potrebbe così definire l’ente come
pubblico.

SOSTENTAMENTO DEL CLERO

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Per il sostentamento del clero, un tempo vigeva il cosiddetto metodo beneficiale, un sistema basato sui
benedici, ovvero enti fondatizi che erano collocati accanto ai principali uffici ecclesiastici: così, ad esempio,
il parroco aveva il cosiddetto beneficio parrocchiale.
Trattandosi di un ente beneficiale, si trattava di un patrimonio vero e proprio, che poteva includere, ad
esempio, anche terreni da cui l’ecclesiastico ricavava un reddito. Il numero dei benefici era il
corrispondente degli uffici ecclesiastici. Col passare del tempo, emerse l’esigenza di un intervento statale
per aiutare quegli uffici ecclesiastici ove i benefici erano così bassi da non poter garantire il sostentamento
del soggetto. Così, attorno al 1850 nascono i cosiddetti supplementi di congrua: con gli stessi beni della
Chiesa espropriati, lo Stato paga per il sostentamento del clero, in un sistema speculativo che fece sorgere
numerose differenze tra gli ecclesiastici. Il sistema era poi improduttivo, perché dividendo la proprietà in
numerosi benefici, gli appezzamenti di terreno venivano sfruttati sulla base individuale, quindi con minore
ricavo rispetto ad uno sfruttamento generalizzato. Inoltre, per effetto di questi supplementi, si determinò
una confusione tra lo Stato e la Chiesa, dato che il primo pagava totalmente lo stipendio: con il passare del
tempo, la svalutazione della moneta e la grave crisi derivante dalla Seconda guerra mondiale, lo Stato non
riusciva più a coprire i benefici con il solo guadagno derivante dai beni, perciò dovette iniziare a sostenere
la Chiesa con soldi pubblici, continuando a mantenere il sistema di differenziazione tra ecclesiastici ricchi e
poveri. Il sistema venne superato con la riforma del diritto canonico del 1983, che eliminò i benefici e
introdusse gli istituti per il sostentamento del clero a base diocesana: esistono oggi all’incirca 200 istituti
dedicati, che accorpano la proprietà ecclesiastica. Con il Concordato del 1984 viene rinnovato anche tale
sistema, prevedendo un istituto centrale di coordinamento.
L’articolo 24 della legge 222 del 1995 stabilisce poi che il sacerdote ha diritto ad un congruo e dignitoso
sostentamento: si fa comunque sempre riferimento ad una remunerazione e non ad una retribuzione,
perché non vi è un rapporto di dipendenza con il datore di lavoro.

Si deve comunque fare una distinzione fra beni redditizi e non redditizi: in passato, la diocesi non aveva una
personalità giuridica, se ne godevano solo i benefici; oggi l’edificio di culto è passato alla parrocchia, mentre
tutti i beni produttivi di reddito sono nelle mani degli istituti per il sostentamento. Prendendo l’esempio del
parroco, questo viene pagato dalla parrocchia, se questa non ha disponibilità economica si rivolgerà
all’istituto per il sostentamento per l’integrazione. Si devono quindi distinguere due aspetti di
remunerazione: in astratto, ovvero quanto il sacerdote ha diritto di percepire, facendo riferimento al tetto
massimo; in concreto, ovvero quanto riceve realmente. Nel caso in cui il sacerdote sia, ad esempio, anche
un docente presso una scuola pubblica, da cui riceve uno stipendio, dovrà comunicarlo all’istituto per il
sostentamento del clero, che alla remunerazione in astratto sottrarrà la parte percepita in forza della
retribuzione statale. Quello del sacerdote è un diritto soggettivo: se non venisse garantito, la legge 222 del
1985 prevede che possa rivolgersi agli organi di composizione delle controversie dedicati, ma può fare
valere la sua pretesa anche direttamente di fronte ai giudici statali. Secondo la Cassazione, però, se il
soggetto si rivolge al giudice ecclesiastico e questi non riconosce la possibilità di tutela in quella particolare
fattispecie, il soggetto non potrà rivolgersi ad un altro giudice.

FINANZIAMENTI ALLA CHIESA


Esistono due modelli di finanziamento tipici: quello diretto, tipico dei regimi confessionisti, di cui godeva
esclusivamente la Chiesa negli anni precedenti; quello dell’autofinanziamento, tipico dei sistemi separatisti,
in cui le confessioni religiose non vengono sostenute da fondi pubblici. Questi modelli non si riferiscono alle
sole caratteristiche dello Stato, possono derivare anche da questioni dottrinali inerenti ai culti: le Chiese
protestanti, ad esempio, hanno combattuto contro i privilegi della Chiesa cattolica perché si rifanno alla
regola del “far da sé”. Per essere veramente libere, chiedono ai propri fedeli i mezzi per finanziarsi.
Il finanziamento a favore della Chiesa nasce in seguito alle leggi eversive, come compensazione
dell’espropriazione statale dei beni ecclesiastici: i soldi ricavati finivano nel supplemento di sostegno al
clero, ma questa logica è stata chiaramente modificata oggi. Dal punto di vista formale, lo Stato continua a
pagare i funzionari ecclesiastici, perché vi è un impegno concordatario, assunto prima nel ’29 e ribadito nel

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Concordato del 1984. Il fondamento costituzionale si trova nel carattere interventista della carta, che
prevede il godimento effettivo delle libertà attraverso il sostegno attivo dello Stato.
Nonostante le previsioni formali, di fatto i maggiori fondi sono goduti dalla Chiesa, religione di maggioranza
che ha quindi la minore necessità di sostegno. Per superare il problema, nel 1985 si introdusse, sul modello
spagnolo, l’istituto dell’8x1000, sistema di finanziamento indiretto in cui sono i cittadini a decidere la
destinazione dei fondi al momento della dichiarazione dei redditi, con apertura tendenziale a tutte le
confessioni religiose. Con il nuovo Concordato, infatti, è stato stabilito che una quota del gettito
complessivo dell’IRPEF, ossia l’imposta personale sui redditi pagata dai contribuenti, sia indirizzata da
questi a favore di un culto o dello Stato, nel primo caso per sostenere le esigenze di culto, nel secondo per
finanziare interventi sociali ed umanitari. Tuttavia, si è previsto che la quota relativa alle scelte non
espresse venga ripartita in proporzione alle scelte espresse, stravolgendo il significato del sistema.
Se originariamente il gettito proveniente dalle scelte attivamente legate alla Chiesa rispondeva alla somma
necessaria per sostentare il clero, oggi tale problema è stato superato. Inoltre, col passare degli anni, le
scelte espresse sono diminuite radicalmente, per disinteresse o ignoranza, ammontando addirittura al 38%.
La quota relativa alle scelte non espresse, coincidente in questo caso al 62%, non rimarrà allo Statto, ma
verrà ripartita secondo le scelte espresse: considerando che gran parte della quota di queste è per la
Chiesa, paradossalmente la maggioranza delle quote inespresse vengono direzionate secondo la volontà
della minoranza che si è espressa. Così, gli utili arrivano alla confessione non tramite una scelta, ma
attraverso una presunzione, secondo il modello delle consultazioni politiche in cui prevale il voto della
maggioranza e chi non vota si rimette alla decisione altrui: tuttavia, nell’ambito politico esiste, per questa
ragione, un quorum, affinché la scelta di pochi non si riversi su tutti.
Al di là di questo, il sistema aveva il pregio di essere aperto agli altri culti diversi dalla religione cattolica, ma
non tutte le chiese protestanti aderirono inizialmente. Nel caso della Tavola Valdese, ad esempio, vi è una
battaglia ideologica risalente nei confronti della Chiesa cattolica, accusata di farsi “pagare dallo Stato” non
solo con riferimento all’8x1000, ma anche rispetto agli stipendi del clero o dei professori di religione e gli
altri fondi pubblici di particolare rilevanza. Per questa ragione, tale confessione aveva chiesto allo Stato di
rimuovere dal suo bilancio le sette lire che venivano garantite alla Tavola valdese come risarcimento per le
persecuzioni di natura religiosa. Nel 1988 si ha comunque una novità: due chiese protestanti decidono di
partecipare all’8x1000, ma destinano i fondi ad interventi sociali ed umanitari nei Paesi del terzo mondo,
rifiutando di usarli per scopi di culto. Così, anche nel 1991 la Tavola valdese accetta l’8x1000, rifiutando la
parte delle scelte non espresse perché non rispecchiante la vera volontà dei cittadini; nel 2007 decide invce
di partecipare anche alla ripartizione delle scelte non espresse. Tra i culti riconosciuti, rimane al di fuori
delle previsioni dell’8x1000 soltanto la Chiesa di Gesù Cristo e dei Santi degli ultimi giorni.
Rispetto al sistema della ripartizione, nel 2014 intervenne la Corte dei Conti con quattro delibere,
prendendo una posizione molto dura nei confronti del sistema adottato, dato che ormai la Chiesa riceveva
più fondi dalle scelte non espresse che dalle scelte espresse: inoltre, rispetto al PIL, l’IRPEF non rappresenta
la crescita effettiva, ma è solo un sintomo dell’aumento della pressione fiscale, per cui il maggiore vantaggio
non è giustificato da necessità maggiori. La Corte rimarcò poi la questione del pluralismo imperfetto alla
base del modello dell’8x1000, dato che per accedervi è necessario stipulare un’intesa, mentre molti culti
anche rilevanti sul piano nazionale ne sono sprovvisti, come l’Islam. Vi sono poi problemi legati alla
trasparenza sull’erogazione dei fondi, perché i rendiconti sull’utilizzazione dei fondi che vengono chiesti ai
diversi conti sono molto generici. Un altro elemento denunciato dalla Corte è il disinteresse mostrato dallo
Stato rispetto alla sua quota, dato che non incentiva i cittadini alla scelta e anzi evita di informare sulla
necessità di esprimersi sul modulo. Inoltre, lo Stato ha spesso dirottato fondi della sua quota per scopi
diversi da quelli originariamente previsti: ad esempio, per finanziare i soldati in missione in Afghanistan, o
addirittura per interventi di ristrutturazione degli edifici di culto cattolici. In questo modo, si svilisce il
significato della scelta del libero cittadino.
L’unica realtà che in questo periodo di crisi economica ha beneficiato di incrementi nei finanziamenti
pubblici, così, è stata la Chiesa. Nonostante nel 1995 fosse stata nominata una commissione paritetica, che
doveva riunirsi ogni tre anni per valutare gli introiti dell’8x1000, questa si è riunita senza mai apportare
cambiamenti sostanziali, neanche rispetto alla prassi consolidata dei CAF che favoriscono la Chiesa o
determinati conoscenti nei moduli relativi al 5x1000 e al 8x1000.

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Insegnamento della religione nelle scuole
Vari interessi confliggenti coesistono quando si pone il problema dell’insegnamento della religione nelle
scuole pubbliche. Intanto vi è il punto di vista delle stesse confessioni religiose, perché non tutte le la
pensano allo stesso modo a proposito della loro presenza nella scuola pubblica. La chiesa cattolica è la
confessione che, più di tutte, ha sempre avvertito questa esigenza all’interno della scuola pubblica, in
maniera da assicurarsi una sorta di “continuità educativa” nelle nuove generazioni: ha, perciò, sempre
lodato quelle nazioni che assicurano una stabile presenza all’interno della scuola pubblica mediante la
cosiddetta “ora di religione”. Altre confessioni religiose, per lo più protestanti, la pensano in maniera
radicalmente diversa su questo punto e sostengono che l’educazione religiosa sia un diritto e dovere che
grava essenzialmente sulle chiese e sulle famiglie; dunque, la scuola non dovrebbe diventare mai un luogo
dove si provvede ad assicurare una qualche forma di educazione religiosa. Altre confessioni religiose
ancora, nel panorama europeo, la pensano diversamente a seconda del Paese dove operano: se hanno una
presenza forte e significativa, chiedono e ottengono di avere anche una presenza nella scuola pubblica;
mentre nei contesti in cui queste confessione religiose sono minoranze numeriche, incapaci quindi di
imporsi, rinunciano a qualsiasi partecipazione all’interno delle scuole pubbliche. Per esperienza si può
constatare un dato, cioè che il tema della presenza delle confessioni religiose all’interno della scuola
pubblica è collegato alla presenza di scuole private e al modo in cui si usufruisce di questa opportunità: nei
Paesi in cui l’insegnamento della religione nella scuola pubblica tende ad essere emarginato, cresce
l’interesse delle famiglie per le scuole private confessionali e viceversa. Infatti, ci sono alcune famiglie che
reputano irrinunciabile l’educazione religiosa per i propri figli e nel momento in cui la scuola pubblica non
destina neanche un piccolo spazio all’educazione religiosa , la famiglia rinuncerà a quel progetto educativo
e si rivolgerà alle scuole gestite direttamente dalla confessione religiosa, che danno massime garanzie sotto
questo punto di vista: le scuole private-confessionali svolgono gli stessi programmi, assicurando lo stesso
titolo di studio delle scuole pubbliche, ma si basano su un progetto educativo che si caratterizza per una
particolare impostazione ideologico-confessionale.
Perché ci deve essere l’ora di religione all’interno delle scuole pubbliche? Innanzitutto, vengono in gioco i
diritti delle famiglie: non c’è dubbio che la famiglia abbia un compito educativo verso la prole e questo
compito si può tradurre da una parte nel diritto di scegliere la scuola che si ritiene più adeguata ad
assolvere a questo compito, mentre dall’altra nella possibilità di usufruire di un apposito spazio all’interno
delle scuole pubbliche. Dunque, quando si parla della presenza confessionale all’interno delle scuole, non
va considerato esclusivamente l’interesse della confessione, ma bisogna tenere conto anche del diritto e
del dovere che hanno le famiglie di assicurarsi una loro continuità educativa o all’interno della scuola
pubblica oppure attraverso la scelta di una scuola privata-confessionale conforme alle proprie condizioni.
Viene in gioco anche una garanzia che opera al livello del diritto sovranazionale: infatti, l’art 2 del
protocollo addizionale n 1 della CEDU riconosce ai genitori il diritto che ai propri figli sia assicurata
un’educazione conforme alle proprie convinzioni religiose. L’interpretazione adottata dalla Corte di
Strasburgo è di tipo restrittivo, perché presa alla lettera questa disposizione obbligherebbe gli Stati ad
attivarsi per assicurare dei percorsi educativi assolutamente conformi alle convinzioni dei genitori.
Questa norma mette in evidenza l’esigenza di tutelare questo diritto-dovere dei genitori di assicurare
un’educazione religiosa ai figli e dunque quando parliamo di “ora di religione” nelle scuole pubbliche c’è sia
interesse della chiesa ma anche l’interesse delle famiglie.
La prospettiva è totalmente diversa alla luce dei principi separatisti, la cui conclusione è che nella scuola
pubblica non si deve insegnare la religione, perché si perderebbe la sua essenza neutrale dal punto di vista
ideologico e nell’essere aperta a tutti modi di interpretare e vedere la realtà; quindi, l’idea separatista è che
ci sia un’incompatibilità di fondo tra il concetto stesso di scuola pubblica e una presenza confessionale. Il
discorso della scuola privata è diverso, già c’è una struttura che nasce con quel tipo di impostazione e
scegliendola si ritiene che quell’impostazione ideologica faccia al caso proprio, mentre la scuola pubblica
dovrebbe essere concettualmente neutra dal punto di vista ideologico. La logica separatista allora non
vuole una confessione religiosa all’interno della scuola pubblica perché l’insegnamento confessionale non
risponde ai canoni della stessa libertà di critica e neanche è conforme ai principi della libertà
d’insegnamento, perché è ovvio che l’ora di religione, anche se svolta all’interno della scuola pubblica, deve

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essere conforme alla dottrina religiosa. Quindi, se la libertà di insegnamento e di ricerca insieme alla libertà
di confronto di tutte le visioni del mondo e della vita sono irrinunciabili per la scuola pubblica, non ci può
essere spazio per un insegnamento confessionale. Allora c’è un’incompatibilità sostanziale di fondo tra un
insegnamento dottrinale, conforme ad un’ideologia, e la scuola pubblica, aperta al pluralismo; sembra che
ci si trovi di fronte ad interessi confliggenti di cui non si riesce a realizzare una forma di compromesso.
Alcuni studiosi hanno fatto delle proposte alternative rispetto alla presenza confessionale all’interno delle
scuole pubbliche: secondo alcuni ci si doveva chiedere se alla Chiesa convenisse insistere sulla presenza
facoltativa dell’insegnamento confessionale, che rischia di non essere scelto, proponendo invece di
annettere all’interno della scuola un insegnamento obbligatorio, ma che riguardasse la cultura e i valori
religiosi in generale, a prescindere da una determinata impostazione confessionale; secondo altri, invece, si
sarebbe dovuto introdurre un insegnamento obbligatorio di storia delle religioni che guardi anche
all’ateismo, in cui analizzare le varie risposte ai problemi esistenziali e a quelli riguardanti il futuro umano.
L’elemento che accomuna le due proposte è il fatto che gli insegnamenti sarebbero obbligatori, ma non
violerebbero la libertà di coscienza degli studenti, perché sono insegnamenti che non hanno per oggetto
dogmi di una fede religiosa, ma hanno come oggetto cultura e storia religiosa, dunque elementi che non
hanno implicazione confessionale.
Alcuni hanno comunque replicato che queste soluzioni possono implicare dei problemi dal punto di vista
della libertà di coscienza, dato il tema della cultura religiosa: pur non trattandosi di un insegnamento
confessionale, tocca tematiche sensibili dal punto di vista della libertà di coscienza. Un altro problema che
si porrebbe è che resterebbero insoddisfatti coloro che hanno interesse a ricevere un insegnamento
confessionale; se c’è da tenere in conto il diritto-dovere delle famiglie di educare i propri figli anche nel
contesto scolastico, allora non tornerebbero utili gli insegnamenti che abbiano per oggetto la storia delle
religioni o di cultura religiosa, perché tali genitori vorrebbero piuttosto un piccolo spazio dedicato a quel
tipo di insegnamento che possa contribuire ad assicurare la loro idea di educazione.
Per quanto riguarda l’evoluzione storica, a partire dal periodo liberale ottocentesco, l’ordinamento italiano
adottò una svolta in senso separatista, nell’ottica della libera chiesa in libero stato, nonostante la
dichiarazione di confessionismo formale prevista dallo Statuto albertino. Nelle scuole, invece, la legge
Casati del 1859 prevedeva l’insegnamento obbligatorio della religione in tutte le scuole pubbliche, in
evidente contraddizione con la logica separatista generale. Questo paradosso si giustifica alla luce
dell’influenza che la Chiesa esercitava proprio sulla gestione delle scuole pubbliche, dato che proprio in
quel periodo sorgevano per la prima volta le prime scuole laiche e molte, come ad esempio le elementari,
erano anche sottoposte al controllo dell’autorità ecclesiastica: perciò, nell’organizzare per la prima volta
queste istituzioni, viene comunque previsto come obbligatorio l’insegnamento della religione tradizionale.
Una novità avviene nel 1876 con la legge Coppino, che dispone l’eliminazione dell’insegnamento religioso
nelle scuole rispecchiando la logica separatista. Questa norma però non si applica alle scuole elementari,
dove viene assicurato su richiesta delle famiglie, prescindendo, quindi, da un’idea di insegnamento
obbligatorio per tutti. Un regolamento del 1908 affiderà poi la decisione al consiglio comunale: se la
maggioranza del consiglio comunale è favorevole all’attivazione del corso di religione, allora si procede
senz’altro a questa attivazione a cura del comune, altrimenti dovranno essere le famiglie a richiedere il
servizio, ma avverrà fuori dall’orario normale delle lezioni, gestito dai “padri di famiglia”.
Questa situazione muta radicalmente nel 1923 con la riforma Gentile, che porta avanti la concezione
ideologica gentiliana, secondo la quale per i ragazzini delle scuole elementari è essenziale l’educazione
religiosa, che diventa uno strumento per governarne la vivacità e educarli ai valori. Si inaugura la
formulazione per cui “l’ora di religione cattolica nelle scuole è fondamento e coronamento dell’istruzione
elementare”: non soltanto un’ora dedicata, la religione è alla base dell’intera istruzione elementare, perciò
tutte le materie forniscono nozioni ed aspetti legati all’insegnamento confessionale cattolico. La riforma
risente infatti della concezione del ventennio fascista, che ha trovato il suo culmine nel 1929 con il nuovo
Concordato. Mussolini estende l’idea gentiliana fino alla scuola media di primo e secondo grado: l’articolo
36 del Concordato fa perciò riferimento alle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Questo va in conflitto
con l’idea originale gentiliana, che vedeva nella religione una funzione pedagogica ma concepiva il ragazzo
più grande come una persona consapevole e capace di autodeterminarsi. Il Concordato, tuttavia, prevede
l’insegnamento come materia obbligatoria, per cui è necessario fare espressamente richiesta di essere

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dispensati con i gravi problemi di pressione sociale che questo comporta. Si instaura così un sistema
discriminatorio, che finisce per privilegiare chi vuole seguire l’ora religione e collocare in una situazione di
svantaggio coloro che non vogliono. I programmi scolastici di questo periodo prevedono comunque un
insegnamento religioso diffuso: in tutte le materie ci sono riferimenti alla religione cattolica.
Nel periodo repubblicano successivo vengono emanati provvedimenti di reiscrizione dei programmi
scolastici, abbandonando il modello dell’insegnamento religioso diffuso e laicizzando i contenuti delle
materie. Viene cancellata la formula per cui l’insegnamento confessionale è fondamento e coronamento
dell’istruzione, che non poteva più avere senso in un contesto in cui lo Stato di diritto assume su di sé il
compito dell’istruzione. In ogni caso, l’articolo 9 del Concordato del 1984 stabilisce che “la Repubblica
continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica tenendo conto del valore della cultura
religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo
italiano”. La ratio è perciò quella del valore della cultura religiosa e l’importanza storica dei principi del
cattolicesimo, ma questi riferimenti non giustificano la presenza confessionale. In ogni caso rileva il
passaggio dall’obbligatorietà salvo dispensa alla facoltatività vera e propria dell’insegnamento: è oggi
previsto che all’iscrizione tutti gli studenti dichiarino se intendano avvalersi o meno dell’insegnamento.
L’insegnamento della religione cattolica è un insegnamento di carattere confessionale, desumibile dal fatto
che gli insegnanti di religione devono essere muniti dell’idoneità rilasciata dall’autorità ecclesiastica, con
rilevante limitazione della libertà d’insegnamento. L’insegnante dovrà poi mantenere la visione ortodossa,
altrimenti l’autorità potrebbe ritirare l’idoneità.
Si è data attuazione all’articolo 9 del Concordato attraverso un’intesa paraconcordataria del 1985 tra il
Ministro dell’istruzione e la Conferenza episcopale italiana, esplicitando la finalità educativa
dell’insegnamento, che non va inteso come catechismo, per cui deve essere garantita anche la libertà di
critica. L’intesa attualmente in vigore risale invece al 28 giugno 2012: un problema rilevante era quello di
evitare che la scelta dell’ora di religione possa determinare delle discriminazioni, ad esempio accorpando gli
studenti all’interno di una classe sulla base della loro scelta. Un altro aspetto volto ad evitare
discriminazione è quello della collocazione dell’ora di religione nel quadro dell’orario delle lezioni: se
fosse nel pomeriggio, non avrebbe lo stesso titolo degli altri insegnamenti, ma può essere inserito all’inizio
o alla fine delle lezioni, per consentire a chi non abbia scelto di seguirlo di evitarlo. Per tentare di
recuperare un po’ dell’antica obbligatorietà, la Chiesa ha fatto in modo che la richiesta avvenisse al
momento dell’iscrizione: di regola, se la scelta viene effettuata al primo anno della scuola elementare,
rimane invariata per tutti gli anni. Per quanto riguarda la capacità delle scelte scolastiche, la legge 281 del
1996 attribuisce la scelta direttamente ai ragazzi che frequentano le scuole secondarie superiori,
prescindendo dall’età. La normativa richiede, in realtà, la firma dei genitori e si potrebbe configurare
l’ipotesi in cui ci sia una divergenza tra la posizione del ragazzo e quella dei genitori di difficile risoluzione.
Un problema che si è posto tante volte riguarda lo svolgimento delle attività alternative: chi non la sceglie,
che cosa è tenuto a fare? Come sarebbe giusto disciplinare le attività alternative previste per chi sceglie di
non avvalersi dell’ora di religione? Questo problema non si è posto nei Paesi Europei che hanno una
tradizione pluriconfessionale ben consolidata, come in Germania in cui si ha la possibilità di scelta tra l’ora
di religione cattolica e quella protestante. In Italia non esiste invece un vero pluriconfessionismo, intanto
perché la Chiesa cattolica è troppo forte, mentre le minoranze confessionali che hanno stipulato l’intesa
sono troppo deboli per avere la forza di ottenere una disciplina di una presenza confessionale a scuola. Sin
dal 1986, la circolare n.302 del Ministero della Pubblica Istruzione ha dichiarato che “coloro che non si
avvalgono dell’ora di religione devono frequentare delle attività alternative organizzate dalla scuola”,
definendole “obbligatorie”. Viene perciò svolto un ricorso al tar del Lazio, che si pronuncia nel 1987,
dichiarando che pur non trattandosi di un’ora aggiuntiva ma di un’ora curricolare, chi sceglie di non seguire
quest’ora non può essere obbligato a svolgere attività di carattere alternativo, ma avrà un tempo scuola
minore rispetto ai suoi compagni. Interviene quindi il Consiglio di Stato pronunciandosi in modo opposto:
proprio perché va assicurato un eguale tempo scuola a tutti, diventa obbligatorio frequentare le attività
alternative. La questione arriva di fronte alla Corte costituzionale, che emana la sentenza 203 del 1989, in
cui per la prima volta si parla del principio di laicità dello Stato: dato che viene in gioco la libertà di
coscienza degli allievi, questi non possono essere obbligati a svolgere un’attività alternativa, perciò la Corte
costituzionale introduce la locuzione “coloro che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione, si trovano in

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una condizione di non obbligo”. Nella sentenza 13 del 1991 chiarisce il concetto: il ragazzo che sceglie di
non avvalersi dell’ora di religione può seguire l’eventuale attività alternativa organizzata dalla scuola,
decidendo in autonomia se dedicarsi a tale attività, dedicarsi allo studio individuale o tornare a casa.
Un’altra questione è relativa al fatto che la scelta di avvalersi si esprima al momento dell’iscrizione, mentre
l’attività alternativa viene scelta al momento dell’inizio delle lezioni, compilando un modulo diverso. Inoltre,
spesso le scuole italiane non si organizzano affatto per tali attività. Uno studente delle superiori, attraverso
l’UAAR, ha fatto ricorso per questa ragione: il tar del Lazio ha dato ragione al ricorrente. L’insegnamento
della religione cattolica, inoltre, continua ad essere assicurato sotto forma di insegnamento obbligatorio
salvo rinuncia dell’interessato nelle regioni che il Concordato definisce come “di confine”, sembrando
riferirsi ad alcune province, come quelle di Trento e Bolzano.
Che succede per le altre confessioni religiose? Hanno o non hanno un qualche diritto? Possono aspirare di
avere una qualche presenza nella scuola pubblica? Le intese che sono state sinora stipulate riconoscono alle
confessioni diverse dalla cattolica il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni o
dalle scuole o dalle loro famiglie, concernenti l’insegnamento o lo studio del fatto religioso e delle sue
implicazioni, fermo restando che gli oneri economici resteranno a carico delle confessioni, non è un
compito di cui si fa carico lo Stato.
Per quanto riguarda la posizione giuridica che rivestono gli insegnanti di religione cattolica, si tratta di
pubblici dipendenti. Così come veniva previsto dal Concordato del 1929 e rinnovato nel 1984, l’insegnante
viene incaricato annualmente: di anno in anno l’autorità scolastica e quella ecclesiastica stipulano un’intesa
e nominano un supplente, perché l’insegnante è sempre un incaricato a tempo determinato, per la
questione dell’idoneità. Mentre gli altri insegnanti vincono il concorso ed hanno l’assegnazione della
cattedra, l’insegnante di religione deve ottenere l’idoneità concessa dall’autorità ecclesiastica, che può
ritirarla, perciò si trovò la soluzione dell’incarico a tempo determinato. Sulla questione si è pronunciata la
Corte costituzionale con la sentenza 390 del 1999, dichiarando di non aver trovato contrasti fra questa
disciplina e il principio di uguaglianza, data le peculiarità dell’insegnamento. Alcune norme contrattuali
avevano tentato di avvicinare la condizione degli insegnanti di religione a quella delle altre materie: si tratta
degli insegnanti cosiddetti stabilizzati, che hanno un diritto automatico al rinnovo dell’incarico sotto
determinate condizioni, ma rimaneva una differenza sul piano della retribuzione. Altra distinzione rilevante
è tra insegnanti di religione specialisti e insegnanti di religione non specialisti: questi ultimi sono gli
insegnanti di altre materie della scuola elementare che sono disposti a svolgere l’insegnamento della
religione avendo prima ottenuto l’idoneità da parte dell’autorità scolastica.
Il governo Berlusconi approva la riforma n.186, che prevede per la prima volta gli insegnanti di ruolo di
religione al posto dei supplenti: una indubbia coerenza con la logica che ha ispirato la riforma del
concordato, la quale parla di insegnamento inserito nel quadro delle finalità della scuola. Questa legge
determina la rotazione organica degli insegnanti di religione nella misura del 70% dei posti di insegnamento
funzionanti. Per l’altro 30% si continua col vecchio sistema, ossia quello a tempo determinato, data la
peculiarità dell’insegnamento, subordinato alla scelta dei ragazzi, per cui possono esserci variazioni e
contrazioni dei posti disponibili. Per quanto riguarda l’idoneità, il vescovo può ritirarla, ma non necessita di
essere riconfermata ogni anno. La legge prevede così che ogni tre anni si svolgano concorsi per insegnanti
di religione, ma nei fatti si continuano a coprire i posti con contratti a termine. Nel frattempo, nel 1999,
l’Unione europea emana una direttiva per contrastare l’abuso di successione dei contratti a termine, che
lascia il lavoratore in una situazione di precarietà: è possibile rinnovare il contratto una sola volta,
dopodiché il rapporto si trasforma in lavoro a tempo indeterminato. Mentre questo meccanismo
indubbiamente valeva sul piano privato, non era comunque ammissibile nel pubblico impiego, dove esiste il
principio del concorso come strumento d’accesso al rapporto lavorativo, perciò l’abuso porta solo al
risarcimento del danno e alle sanzioni per le pubbliche amministrazioni. Inoltre, il rinnovo può avvenire nel
caso vi sia una giustificazione oggettiva: si prenda l’esempio delle supplenze, che derivano dall’esigenza
temporanea di sostituire un lavoratore in malattia, per cui non si può assumere un altro soggetto a tempo
indeterminato.
Recentemente, un gruppo di insegnanti di religione di Napoli, assunti per 4 anni consecutivi con contratto a
tempo determinato, si sono rivolti al Tribunale, il quale ha riconosciuto l’abuso ma ha detto di non potere
convertire il contratto in contratto a tempo indeterminato, perché si tratta di lavoratori del pubblico

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impiego, né può riconoscere un risarcimento: in pratica riconosce l’abuso ma non può fare nulla. Perciò,
solleva la questione dinnanzi alla Corte di Giustizia, la quale, pronunciandosi il 13 gennaio 2022, condanna
l’Italia in materia di successione di contratti: anche se vi è una ragione oggettiva, legata alle scelte che di
anno in anno gli studenti fanno, c’è un abuso del rapporto a termine degli insegnanti di religione. La Corte,
attraverso un’interpretazione conforme al diritto dell’UE, invita il giudice a riconoscere delle forme di
risarcimento per i docenti di religione che siano nominati con contratti a termine in violazione della
direttiva europea.
Una altra stranezza è che la legge che ha previsto il concorso per i docenti di religione ha stabilito che
durante il concorso non si debba valutare l’abilità dell’insegnante: questi dovrà superare delle prove, ma
non servono a valutare l’abilità all’insegnamento. La competenza relativa alla valutazione del docente di
religione, proprio perché di religione, dovrebbe spettare all’autorità ecclesiastica, la quale rilascia l’idoneità
ad insegnare: di conseguenza il concorso non può servire a compiere questa valutazione e manca di
significato. Il problema era risolvibile prevedendo nella commissione soggetti che già svolgono il ruolo di
docenti di religione.
Un altro aspetto criticato di questa normativa è che, nel caso in cui l’insegnante di religione assunto a
tempo indeterminato perda l’idoneità, se ha un titolo per insegnare altre materie possa partecipare agli
affidamenti che le riguardano. Questo è un grande privilegio, perché il soggetto entra nel ruolo di pubblico
dipendente facendo un concorso che non valuta la sua abilità, per poi poter insegnare tutt’altra materia al
venire meno dell’unico requisito d’ingresso.

MATRIMONIO
Il matrimonio è un istituto alla base della famiglia legittima. In passato si trattava di un monopolio della
Chiesa: il matrimonio, considerato come sacramento, veniva a costituire un passaggio obbligato per
acquistare lo status di coniuge anche agli effetti civili. La situazione cambia nel 1865, quando il Codice civile
prevede per la prima volta l’istituto del matrimonio civile: esso nasceva in Olanda nel 1850 per sanare la
situazione delle minoranze religiose sul piano del possesso dello status coniugale. Con questa previsione,
l’istituto del matrimonio civile era l’unica via per acquisire secondo la legge civile lo status di coniuge: si
parla di “matrimonio civile obbligatorio” cioè come unica forma valida a costituire una famiglia legittima.
Il credente era perciò costretto alla doppia celebrazione: doveva contrarre un matrimonio civile davanti
all’ufficiale di stato civile, dunque una celebrazione in Chiesa per risolvere i problemi legati alla propria fede
religiosa. La celebrazione in Chiesa poteva essere fatta sia prima del matrimonio civile sia dopo, al contrario
di ciò che tuttora è previsto in Francia, dove è vietato contrarre un matrimonio religioso se prima non si
contrae un matrimonio civile
Nel 1929 cambia la situazione. Il Concordato del 1929 prevede la possibilità di contrarre un matrimonio
canonico, che a seguito della trascrizione nei registri dello stato civile diventa un matrimonio valido e
produttivo degli effetti civili. Nasce così il matrimonio concordatario. Non è più necessaria la doppia
celebrazione e la Chiesa riacquista un potere sul matrimonio molto simile a quello previsto dalle antiche
leggi. Il Concordato si era ispirato alla regola della uniformità degli status, affermando che una volta
ottenuto lo status canonico di coniuge, quasi sempre si otterrà automaticamente lo status di coniuge ai
sensi della legge civile. Inoltre, l’art.34 del Concordato prevede espressamente la riserva di giurisdizione
sulle cause concernenti la nullità del matrimonio concordatario e sulle procedure di dispensa del
matrimonio rato e non consumato a favore dei tribunali e dei dicasteri ecclesiastici. La riserva di
giurisdizione a favore della Chiesa significa che lo Stato non ha titolo per intervenire e per valutare la
validità del matrimonio, è un compito che rimane esclusivamente riservato ai tribunali ecclesiastici.
Si parlava di status uniformi perché la legge attuativa del Concordato aveva escluso la possibilità di
procedere alla trascrizione di quel matrimonio, intesa come passaggio formale obbligatorio per attribuire gli
effetti civili al matrimonio, solo in due casi: l’infermità di mente di uno dei coniugi o la presenza di un
precedente matrimonio valido agli effetti civili tra uno dei coniugi e un terzo. In questo secondo caso, poi,
veniva in rilievo il Codice penale, dato il divieto di bigamia. In questi due casi, la giurisdizione ecclesiastica
poteva dichiarare la nullità del matrimonio, valida agli effetti civili: anche se il Concordato disciplina un
procedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, questo procedimento è di carattere
formale, la Corte d’Appello non operava alcun controllo circa lo svolgimento regolare del procedimento.

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Le cose cambiano nel 1970 con l’approvazione della legge sul divorzio, che non a caso ha generato un aspro
conflitto con la Chiesa. Questa non voleva, infatti, che la legge sul divorzio venisse applicata ai matrimoni
concordati, regolati dal Concordato. Intervenne sul tema la Corte costituzionale, affermando che la
competenza della Chiesa sul matrimonio riguarda solo l’atto, il negozio giuridico alla base della fattispecie,
mentre il vincolo, il rapporto, rientra nella sfera di competenza esclusiva dello Stato. Dato che il divorzio
incide sul vincolo, nel caso in cui si verifichi l’impossibilità di continuare la comunione di vita materiale e
spirituale fra i coniugi, il giudice civile può pronunciare lo scioglimento, che è chiaramente diverso dalla
nullità.
Si altera in questo modo la regola dell’uniformità degli status: un matrimonio concordatario può essere
sciolto dal giudice civile, ma la pronuncia di divorzio non incide sul sacramento e i soggetti rimarranno
coniugi ai sensi del diritto canonico.

La legge vieta quindi la trascrizione quando una delle parti è interdetta per infermità mentale, ma non se il
soggetto è incapace naturale, ossia se ha ad esempio fatto uso di sostanze stupefacenti al momento del
matrimonio, o minorenne. Sul tema è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 31 del 1970,
argomentando con la cosiddetta teoria sull’atto di scelta. Oggi si potrebbe argomentare che tale norma
concordataria violi il principio di uguaglianza, in quanto viene consentito ad una persona non lucida di
sposarsi attraverso il matrimonio canonico, quando non è consentito nell’ambito civile. Tuttavia, per
l’orientamento della Corte, l’articolo 7 comma 2 della Costituzione offre copertura alla norma
concordataria anche quando questa urta con il principio di uguaglianza, considerato non supremo. Così, la
Corte afferma che quando si sceglie di contrarre un matrimonio concordatario, si accetta il regime giuridico
che questo comporta: si tratta di un bivio ordinamentale, una fase antecedente anche al Concordato in cui i
futuri sposi scelgono la via. Qui la scelta deve essere consapevole e lucida, perciò il minorenne non può fare
l’atto di scelta del regime e la Corte può dichiarare l’illegittimità della norma. A questa ricostruzione si può
obiettare che nel caso si voglia stipulare un contratto, c’è sicuramente un atto di scelta, come in ogni altro
negozio giuridico, ma il regime giuridico dell’atto di scelta è lo stesso della dichiarazione contrattuale, non
c’è separazione. Quella della Corte è quindi una forzatura per evitare di dichiarare l’illegittimità per
violazione del principio di uguaglianza.

Nel processo di secolarizzazione dell’istituto matrimoniale, è venuta meno l’indissolubilità, ma si sono


anche diffuse forme di convivenza di fatto ormai formalizzate dalla legge numero 76 del 2016. Le
convivenze possono essere registrate dall’Ufficiale di stato civile per ottenere una serie di diritti, seppure
non coincidenti con quelli relativi al matrimonio. Anche il requisito della diversità di sesso tra i nubendi è
stato superato in molti Paesi, mentre in Italia è ammesso il riconoscimento della coppia omoaffettiva nella
forma dell’unione civile, che seppure riconosca la legittimità dell’unione non è assimilabile al matrimonio.
Data la separazione tra stato canonistico e stato civilistico, l’articolo 8 del Nuovo Concordato ha separato il
negozio matrimoniale, disciplinato ancora oggi dal diritto canonico, dal procedimento mediante il quale si
attribuiscono effetti civili al matrimonio. Anche se oggi non è più il solo diritto canonico a disciplinare
l’intero istituto ma supplisce, nell’ambito del rapporto, il diritto civile, il nuovo matrimonio concordatario
non è una semplice forma religiosa di celebrazione del matrimonio civile. Vi è chi lo crede, basandosi in
particolare sul fatto che non si possa procedere alla trascrizione in presenza di un impedimento
inderogabile della legge civile, mentre in passato solo l’infermità mentale e il precedente matrimonio
potevano impedirla. Ma il fatto che si debbano rispettare i requisiti previsti per il matrimonio civile non
toglie che l’istituto sia regolato dal diritto confessionale, il che comporta che vi possano essere cause di
nullità aggiuntive, nonché il riconoscimento della giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici su tale materia. Nel
momento in cui si riconosce la validità agli effetti civili di queste pronunce, è chiaro che il matrimonio sia
regolato anche nella sostanza dal diritto confessionale. Mentre l’articolo 34 del Concordato del 1929 faceva
un rinvio al sacramento del matrimonio, l’articolo 8 del nuovo Concordato riconosce gli effetti civili ai
matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico. Per fare un paragone con un altro culto, nella
legge che ha approvato l’intesa fra lo Stato e la Tavola valdese, la 449 del 1984, vi è una norma che
disciplina il matrimonio, parlando di riconoscimento degli effetti civili ai matrimoni celebrati secondo le

65
norme del diritto valdese. Ma nel caso dei matrimoni concordatari si utilizza l’espressione “contratti”,
quindi non si fa esclusivo riferimento al momento della celebrazione.
Un altro indice di separazione fra il negozio matrimoniale canonico e il procedimento civile è legato al
meccanismo del rinvio. L’articolo 34 del Concordato del 1929 operava un rinvio formale al sacramento,
disciplinato dal diritto canonico, mentre oggi non si svolge tale rinvio formale ma si riconoscono i matrimoni
canonici come fatti produttivi di effetti anche nell’ordinamento dello Stato.
L’ordinamento usa infatti diverse tecniche quando rinvia alle norme di un altro ordinamento: si distingue
tra rinvio materiale o recettizio, rinvio formale o presupposto in senso tecnico. Nel caso del rinvio formale,
la legge italiana rinvia alla fonte dell’altro ordinamento, richiama il diritto confessionale e quindi la
disciplina del matrimonio prevista nell’ordinamento canonico. Nel caso del presupposto, non fa rinvio alla
legge straniera, ma al fatto così come disciplinato da questa.

Può accadere che tra i coniugi ci sia un impedimento dispensabile dalla legge civile e loro siano stati
autorizzati a contrarre il matrimonio dal Vescovo. Basta la dispensa ottenuta davanti all’autorità
ecclesiastica, oppure deve pronunziarsi il Tribunale Civile come nei casi in cui questi problemi sorgono
nell’ambito del matrimonio civile?
I casi degli impedimenti dispensabili sono quelli previsti dall’art. 87 n.3 e 5 del Codice civile, e riguardano i
matrimoni tra zii e nipoti e tra cognati. In questo ultimo caso c’è l’impedimento, ma non è inderogabile,
perché è superabile con una autorizzazione da parte del Tribunale.
Alcuni studiosi ritengono che non basti la dispensa del Vescovo, ma una circolare del 1986 ritiene che sia
sufficiente.

Per quanto concerne il momento costitutivo del rapporto nel matrimonio concordatario, le parti dovranno
rivolgersi all’Ufficiale di stato civile, ossia il sindaco, del comune dove intendono celebrare il matrimonio,
per richiedere le pubblicazioni civili. Il sindaco verifica d’ufficio se ci siano impedimenti, nel qual caso
bloccherebbe la procedura. Le parti dovranno presentare anche la richiesta del parroco, affinché l’ufficiale
di stato civile sappia che la pubblicazione è finalizzata alla trascrizione di un matrimonio concordatario. Lo
scopo delle pubblicazioni nel matrimonio civile è garantire che il terzo interessato possa opporsi al
matrimonio: la procedura per farlo passa dal ricorso al Tribunale; potrebbe essere il caso del coniuge
preesistente di una delle due parti. Nel caso di matrimonio concordatario, la richiesta delle pubblicazioni ha
anche un’altra funzione: serve anche a far emergere la volontà degli effetti civili del matrimonio, perché le
parti avrebbero potuto limitarsi a celebrare un matrimonio meramente canonico. Le pubblicazioni devono
rimanere affisse nella bacheca del comune per almeno otto giorni. Trascorsi altri tre giorni senza che
nessuno abbia mosso opposizioni, l’ufficiale di stato civile rilascia un nullaosta alla trascrizione del
matrimonio. La rilevanza del certificato di nullaosta sta nel fatto che, se una volta rilasciato dovesse
emergere un impedimento o venisse notificato il decreto, l’ufficiale dello stato civile dovrà comunque
trascrivere il matrimonio, ma al tempo stesso informerà il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale,
che valuterà se sia il caso di richiedere l’annullamento della trascrizione.

A seguito della trascrizione, si tiene la celebrazione, in cui il ministro del culto svolgerà i necessari
adempimenti: tra questi, la lettura degli artt. 143-144-147 c.c. riguardo i diritti e doveri dei coniugi, altro
momento in cui emerge la volontà dei nubendi di conferire al matrimonio gli effetti civili. Questo
adempimento è di fondamentale importanza per conferire al matrimonio religioso effetti civili e deve
svolgersi subito dopo la celebrazione, o dal parroco o da un delegato. Il parroco, dunque, in questa
circostanza assolve alla funzione di pubblico ufficiale, perché sta certificando la volontà dei nubendi di
contrarre un matrimonio: se dichiarasse il falso, sarebbe penalmente responsabile di falso in atto pubblico.
Il parroco stesso dovrà, poi, redigere l’atto di matrimonio in duplice esemplare (due originali, firmati
entrambi di pugno dal parroco, testimoni e dai nubendi) per rendere dotte le parti di star contraendo un
duplice matrimonio: quello davanti al ministro del culto che dà vita allo status coniugale di coniuge e l’altro
avente effetti civili. Un originale verrà conservato nel registro parrocchiale e l’altro verrà trasmesso
all’ufficiale dello stato civile ai fini della trascrizione. Una volta firmato sorge l’obbligo per il parroco di
trasmettere, entro cinque giorni dalla celebrazione del matrimonio, l’atto all’ufficiale dello stato civile, il

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quale, a sua volta, dovrà procedere alla sua trascrizione nei registri dello stato civile entro le 24 ore
successive al ricevimento. Questi due termini non hanno la stessa importanza, se l’ufficiale dello stato
civile non trascrive entro le 24 ore non succede praticamente nulla perché i coniugi si considereranno tali
dal momento della celebrazione (efficacia retroattiva), sorgerà unicamente una responsabilità disciplinare
in capo all’ufficiale, ma, dal punto di vista giuridico non cambierà nulla. Questo è il regime della
trascrizione tempestiva, ma che succede se il parroco non trasmette la richiesta di trascrizione entro i 5
giorni? Non la potrà più fare, perché si tratta di un termine perentorio che grava sul ministro di culto: la
volontà di conferire effetti civili al matrimonio si presume duri cinque giorni, una volta superati viene meno
questa presunzione. In questo caso non si verte più nell’ambito della trascrizione tempestiva ma in quello
della trascrizione tardiva. La trascrizione tardiva è una nuova figura, regolata dal nuovo Concordato,
dunque ammissibile, che si ha quando sono le parti, trascorsi inutilmente cinque giorni, che richiedono
all’ufficiale dello stato civile di trascrivere tardivamente il loro matrimonio. Vi è un’altra figura di
trascrizione disciplinata dalla legge 847/1929 di cui è dubbia la compatibilità con il nuovo Concordato: la
trascrizione
tempestiva ritardata, che si ha quando il parroco ha fatto richiesta entro 5 giorni ma non si era proceduto
alle pubblicazioni prima della celebrazione. Essendosi fatta una celebrazione canonica senza le
pubblicazioni, l’ufficiale dello stato civile non può trascrivere il matrimonio: la legge prevedeva, in questi
casi, che l’ufficiale facesse un avviso di avvenuta celebrazione del matrimonio avente lo scopo di sostituire
le pubblicazioni. Si tratta in questi casi di una trascrizione ritardata perché viene richiesta entro i 5 giorni
però bisogna aspettarne altri 8 giorni per la pubblicazione successiva e di solito altri 3 dopo la
pubblicazione. Non è chiaro se questo istituto sia ancora applicabile al matrimonio concordatario.
L’articolo 8 del Concordato stabilisce, infatti, che: “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti
secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato
civile, previe pubblicazioni nella casa comunale.” Non specifica che le pubblicazioni debbano essere
necessariamente fatte prima della celebrazione ma solo prima della trascrizione. Dunque, stando alla
lettura di questa norma, quest’istituto sembra essere utilizzabile, ma il professore Finocchiaro dissente.

TRASCRIZIONE TARDIVA
La trascrizione è tardiva quando viene richiesta dopo cinque giorni dalla celebrazione. Viene meno
presunzione della volontà degli effetti civili, per cui saranno le parti a dover manifestare nuovamente
davanti all’ufficiale dello stato civile la loro volontà di conferire effetti civili al loro matrimonio. Il professore
Finocchiaro ha una visione restrittiva di questo istituto e sostiene che vi si possa ricorrere solo qualora il
parroco non abbia richiesto la trascrizione entro cinque per caso fortuito o cause di forza maggiore. In
realtà l’istituto può essere applicato anche a quei matrimoni che le parti, per questioni personali, volevano
limitare all’ambito canonistico. L’istituto può servire anche a recuperare gli effetti civili in un matrimonio
che le parti originariamente intendevano limitare alla sfera religiosa. La trascrizione tardiva può essere
richiesta anche da una sola delle parti con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altra. Nel momento in
cui viene richiesta la trascrizione, di qualsiasi tipo, le parti non devono avere degli impedimenti inderogabili:
ad esempio, devono essere di stato libero e non ci deve essere l’impedimento della commistione di sangue.
Nel caso della trascrizione tardiva, il Concordato richiede un requisito ulteriore: non basta che le parti siano
di stato libero nel momento in cui chiedono la trascrizione ma devono aver conservato ininterrottamente il
loro stato libero dal momento della celebrazione fino al momento in cui chiedono la trascrizione.
Perché questo è importante? Se le parti non conservano il loro stato libero durante questo periodo, nel
momento in cui si procede alla trascrizione tardiva del matrimonio, gli effetti di questa trascrizione
retroagiscono al momento della celebrazione dello stesso e, se una delle parti, è stata vincolata ad un altro
matrimonio, in quel periodo di tempo, è chiaro che si verificherebbe un caso di bigamia, sia pure
transitoria. Nei casi di scioglimento del matrimonio per morte o per divorzio non si è conservato
ininterrottamente lo stato libero. Diverso è il caso in cui l’altro matrimonio ci sia stato ma sia stato
dichiarato nullo, annullato: sebbene vi sia stato un precedente matrimonio, l’annullamento dello stesso ha
effetto ex tunc, la parte non solo sarà di stato libero nel momento in cui richiede la trascrizione tardiva ma
avrà conservato ininterrottamente il suo stato libero dal momento della celebrazione al momento della
trascrizione. Il Concordato, ancora, stabilisce che la trascrizione tardiva produce effetti retroattivi ma lascia

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impregiudicati i diritti legittimamente acquisiti dai terzi in contrasto con lo status coniugale delle parti. Ma
quale può essere il terzo pregiudicato? Il terzo pregiudicato non può essere, chiaramente, l’erede perché la
giurisprudenza ha chiarito che la trascrizione tardiva post morte di uno dei coniugi non può aver luogo: non
è ammissibile la volontà di trascrivere il matrimonio per testamento. Un terzo che subisce un pregiudizio
può essere quello che ha stipulato un negozio giuridico con un individuo che lui sapeva essere di stato
libero e, dunque, rispondeva con tutti i suoi beni delle obbligazioni che aveva contratto. Nel momento in cui
quest’ultimo risulta essere coniugato, con regime di comunione dei beni, la garanzia patrimoniale si
dimezza. A tal fine si rese necessaria la tutela dei terzi in casi di questo tipo.

Per quanto riguarda gli impedimenti alla trascrizione, il nuovo Concordato non ammette la trascrizione in
presenza di un qualsiasi impedimento che la legge civile consideri inderogabile. Tuttavia, lo stesso art.8
aggiunge un’ulteriore disposizione stabilendo che la trascrizione è ammissibile quando non sia più
proponibile l’azione per far valere l’impedimento ai sensi delle leggi civili. Supponiamo che il matrimonio sia
stato contratto da un minore di età sotto i 16 anni, ai sensi del diritto canonico il matrimonio delle persone
minori di età, in contrasto con il Codice civile, è perfettamente valido ed efficace. Il problema risiederà nel
fatto che l’ufficiale dello stato civile non potrà trascriverlo perché uno dei nubendi è minorenne, ma il
Codice civile specifica che l’azione per far valere l’invalidità del matrimonio contratto da un minorenne
decade trascorso un anno dal raggiungimento della maggiore età, dunque, a seguito di questo, non potrà
essere più fatto valere. La situazione rispetto alla disciplina risultante dalla sentenza della Corte
costituzionale n.16/82 è cambiata: difatti in questa era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della
legge 847 nella parte in cui consentiva la trascrizione di un matrimonio tra minorenni con la conseguenza
che il matrimonio tra i minori di età non si sarebbe potuto mai trascrivere. Con il nuovo Concordato questa
possibilità è prevista, ulteriore prova che il Concordato stesso riservi un trattamento privilegiato al
matrimonio canonico, mentre è complicato contrarre un matrimonio civile per un minorenne.

Un caso diverso è quello dei matrimoni non trascrivibili. I matrimoni non trascrivibili sono quelli celebrati in
forma speciale che si ritiene non possano essere trascritti, non è in gioco l’esistenza di un impedimento ma
la figura in sé del matrimonio che non è ricompresa nella previsione dell’art 8 n. 1 dell’accordo.
Il diritto canonico disciplina il matrimonio di coscienza o matrimonio segreto. Le parti possono avere un
interesse nel non fare sapere della loro unione, il parroco ai sensi del diritto canonico celebrerà un
matrimonio in segreto alla presenza degli sposi e dei testimoni. L’atto di matrimonio verrà conservato in un
archivio segreto. Questa figura di matrimonio è agli antipodi rispetto a quella disciplinata dal concordato
che invece richiede una serie di adempimenti civilistici e le pubblicazioni. Chiaramente questa è una figura
incompatibile con lo schema delineato dall’art 8.
Un altro caso potrebbe essere il matrimonio contratto in imminente pericolo di vita di uno dei coniugi senza
la presenza dei testimoni. Anche in questo caso si riesce a superare il problema formale.
C’è un’altra figura, quella del matrimonio contratto davanti ai soli testimoni, senza la partecipazione del
ministro di culto. Esso non potrebbe essere trascritto poiché non vi è un ministro di culto a certificare la
volontà degli sposi ma se leggessimo l’art 8 par 1 nel quale si parla di matrimoni contratti a norma del
diritto canonico esso potrebbe essere trascritto.
C’è anche il caso del matrimonio celebrato per procura. L’art 111 del Codice civile richiede
un’autorizzazione del tribunale ed è necessario accertare la gravità delle ragioni, il diritto canonico
prescinde da queste motivazioni.
Nella pratica ha avuto modo di presentarsi il caso del matrimonio canonico celebrato all’estero, esso potrà
essere trascritto e rilevare come matrimonio concordatario? Qui vi è un problema di fondo ad ammettere
che un matrimonio concordatario possa essere celebrato all’estero. Come abbiamo visto la trascrizione ha
efficacia costitutiva e ciò vale a differenziare la trascrizione di un matrimonio concordatario dalla
trascrizione di un matrimonio civile poiché in questo ultimo caso la trascrizione nei registri dello stato civile
ha efficacia probatoria, nel caso invece di quello concordatario senza trascrizione non vi sono effetti civili.
Esempio: cittadini italiani che si sposano in Francia. Nel caso di matrimonio concordatario contratto
all’estero la questione da risolvere è quale organo sarebbe competente a compiere la trascrizione.
Dovrebbe essere l’ufficiale dello stato civile del comune di Parigi (ad esempio) che però non ha alcun

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vincolo, non può essere sottoposto alla normativa concordataria italiana. Il nostro testo ritiene che non si
possa celebrare un matrimonio concordatario all’estero. Si può però verificare un’altra situazione: il caso in
cui lo stato straniero dove si celebra il matrimonio preveda la forma matrimoniale canonica come forma di
matrimonio valida agli effetti civili. In questo caso viene in gioco la normativa di diritto internazionale
privato (Legge n. 218 1995) in base alla quale un matrimonio celebrato all’estero secondo la legge del luogo
può essere trascritto in Italia come matrimonio civile celebrato all’estero. In questo caso il matrimonio
canonico acquisterà effetti anche in Italia. Li acquisterà non come matrimonio concordatario ma come
matrimonio civile effettuato all’estero. Di conseguenza la trascrizione avrà effetto probatorio e non
costitutivo. Anche se il matrimonio è stato celebrato dal parroco esso avrà solo effetti civili in Italia. Di
conseguenza i tribunali ecclesiastici potranno pronunciarsi su quel matrimonio perché canonico ma tali
pronunce non potranno essere riconosciute in Italia, perché non si tratta di un matrimonio concordatario.
A questo punto è doveroso chiedersi che matrimonio è quello celebrato nella basilica di San Pietro dello
Stato Città del Vaticano. Innanzitutto, bisogna chiedersi se è presente l’organo competente a trascrivere.
Qui non sembra esserci alcuna difficoltà poiché lo stato Città del Vaticano si trova all’interno di un comune
italiano. L’ufficiale dello stato civile straniero sarebbe il sindaco di Roma, è sottoposto al concordato e
potrebbe trascrivere il matrimonio. Ciò è totalmente sbagliato poiché il Vaticano è Stato straniero e non è
detto che viga il concordato. A parte questo se guardiamo le leggi dello stato Città del Vaticano ce n’è una
che afferma che all’interno del Vaticano il matrimonio è esclusivamente regolato dal diritto canonico.
Questo riferimento sembra essere fatto al diritto canonico generale e non ci sono riferimenti al concordato.
Inoltre, il diritto canonico dello stato Città del Vaticano non è un diritto confessionale ma un diritto statale.
È come se ricadessimo nella fattispecie di prima. Un matrimonio contratto all’estero secondo la legge dello
stato straniero che riconosce effetti civili al matrimonio canonico rileverà da noi come matrimonio civile
contratto all’estero e non si potrà richiedere la trascrizione di quel matrimonio perché vi è l’ostacolo del
divieto di procedere alla trascrizione quando le parti sono già vincolate da un matrimonio valido agli effetti
civili.
Si potrebbe giungere alla conclusione che le sentenze pronunciate non potranno essere riconosciute in
Italia perché è un matrimonio civile celebrato all’estero. Ciò è sbagliato perché in questo caso, a differenza
di quello francese, i giudici che sono competenti a pronunciarsi su questo caso non sono solo giudici
ecclesiastici ma sono anche giudici di uno stato straniero ( Città del Vaticano ) e se si pronuncia la Sacra
Rota sulla validità del matrimonio tale pronuncia non sarà di un tribunale ecclesiastico ma sarà la pronuncia
di un tribunale statale straniero ed in questi casi si possono applicare le norme di diritto comune che
riguardano il riconoscimento delle sentenze straniere. Anzi troverà applicazione Art 65 della legge 218 del
1995 che prevede una procedura semplificata per il riconoscimento delle sentenze straniere che riguardano
la materia dei rapporti di famiglia.
Rispetto alla giurisdizione, anche ai matrimoni concordatari si applica il divorzio. Sin dal 1970 il legislatore
parla di cessazione degli effetti civili e non di scioglimento. Ciò risponde ad una logica ben precisa:
l’impossibilità del giudice di sciogliere un matrimonio canonico definito indissolubile. Quindi il vincolo
canonistico rimane in piedi ma possono cessare gli effetti civili di questo vincolo. Un’altra certezza deriva
dall’art 16 della legge 847 del 1929 che si occupa della invalidità della trascrizione. Poteva accadere che
colui che contraeva matrimonio era un interdetto. Ci si rivolgeva al giudice civile per chiedere la
dichiarazione di invalidità della trascrizione poiché essa è avvenuta in violazione della vecchia legge
matrimoniale. Dopo la sentenza n.32 del 71 della Corte costituzionale a questo caso si è aggiunto quello
dell’incapace naturale. Anche in quel caso se la persona ubriaca ha celebrato il matrimonio in chiesa e si è
proceduto alla trascrizione il giudice dichiarerà invalida quella trascrizione per un impedimento derivante
dall’incapacità di intendere e di volere del soggetto.
A questi casi si devono aggiungere quelli in cui la trascrizione sia stata comunque eseguita in presenza di un
impedimento che la legge civile considera inderogabile. Se la trascrizione è stata compiuta nonostante
l’esistenza un qualsiasi impedimento inderogabile si potrà chiedere l’invalidità di questo atto.

Ci si può rivolgere innanzi ai giudici civili per una dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario?
L’art. 34 del vecchio Concordato risolveva espressamente il problema, il nuovo concordato tace.

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Come interpretare tale silenzio normativo, sulla riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici?
La maggior parte degli autori, afferma che, non essendo stata confermata espressamente la riserva, questa
non operi più. Quindi ci si può liberamente rivolgere al giudice civile, per ottenere una dichiarazione di
nullità del matrimonio concordatario. L’elemento fondamentale su cui si basa questa tesi è che, si reputa
necessario, che tale accordo avesse dovuto espressamente pronunciare tale tipo di riserva, per poterla
ritenere concretamente operativa. Altri studiosi ritengono che tale riserva vi sia tuttora nonostante manchi
un esplicito riferimento. Hanno individuato alcuni indici testuali, nel nuovo art. 8 del concordato del 1984,
capaci di far indurre che la riserva di giurisdizione persista. Quali sono questi indici?
Leggendo l’Art 8, punto 2, del nuovo accordo si evince che, quando la Corte di appello è chiamata a
deliberare la sentenza di nullità, deve accertare che il giudice ecclesiastico sia il giudice competente a
conoscere la causa. Ma perché il nuovo concordato, riferendosi al giudice ecclesiastico, utilizza il termine “il
giudice competente”? Ciò sta ad indicare che, anche oggi, come quanto stabilito nel vecchio concordato,
l'unico giudice competente ad emanare una sentenza di nullità del matrimonio concordatario sia il giudice
ecclesiastico.
Un altro indice normativo lo si ricava dall’art 4, protocollo addizionale all’accordo. L’art. 4 precisa che
bisogna tenere conto della specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo
matrimoniale, che in esso ha avuto origine. Alcuni autori ritengono che, da tale articolo, si possa ricavare
l’intenzione di confermare la riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici.
L’art. 4, protocollo addizionale all’accordo introduce anche il divieto di riesame del merito, ossia al giudice è
vietato andare a valutare il merito della decisione ecclesiastica.

Come si regola la giurisprudenza? Alcuni giudici di merito hanno parlato di fine della riserva di giurisdizione
da un punto di vista normativo, ma di una sua sopravvivenza da un punto di vista logico. Quindi, non
essendoci più alcuna norma che ribadisce tale riserva, è logico ritenerla ancora in vigore, per il semplice
fatto che il matrimonio concordatario resta comunque regolato dal diritto canonico. Questa tesi è stata
smentita dalla cassazione. Esisterebbe una giurisdizione alternativa tra giudice civile e giudice ecclesiastico.
A tal proposito, la Corte costituzionale con la pronuncia 421\1993 ha dichiarato che anche nel nuovo
concordato viene espressa la riserva di giurisdizione. L’argomento utilizzato dalla corte è il seguente: l’art.
8, a differenza dell’art. 34, non fa un rinvio formale al diritto confessionale, opera un rinvio del tipo del
presupposto in senso tecnico; c’è un rinvio al fatto, al matrimonio come disciplinato dal diritto
confessionale. Se il concordato presuppone il fatto matrimonio come regolato dal diritto confessionale, il
giudice civile non può intervenire su questo.
Se si ipotizza che la riserva di giurisdizione non sussista, è opportuno porsi una nuova domanda: potendo
investire il giudice civile in una questione legata alla validità del matrimonio concordatario, quale diritto
dovrà applicare? Sarebbe spontaneo dire che il giudice applicherà il diritto canonico, in quanto essendo il
matrimonio concordatario, tanto nella forma quanto nella sostanza, regolato dal diritto canonico, è ovvio
che il giudice civile sia chiamato a seguire il diritto canonico, se la parte si rivolge al giudice civile, è perché
non riconosce più la sacramentalità del vincolo.
C’è anche da tener conto la parte riguardante lo ius poenitendi. Alla luce di quanto emerso in materia di
tutela dei principi fondamentali di libertà religiosa, qualora una delle parti dovesse rivolgersi a un giudice
civile, piuttosto che a un giudice ecclesiastico, sarà sicuramente mossa dal non voler riconoscere più al
matrimonio la sacralità del suo vincolo. È una scelta motivata dal fatto di non voler più aver alcun legame
con la Chiesa, pentendosi della sua precedente scelta. È proprio da ciò che nasce lo ius poenitendi: il voler
dissociarci dalla chiesa rivolgendosi a un giudice civile.
Un’altra tesi, invece, partendo sempre dall’art. 8 del nuovo accordo, ritiene che la riserva di giurisdizione sia
finita, per cui, il giudice civile non si pronuncerà sul matrimonio canonico, ma interviene sulla validità della
trascrizione dell’atto. Sebbene l’art 16 della L. 847\1929 consentiva la dichiarazione di validità della
trascrizione qualora fosse stata eseguita per un interdetto o per un soggetto vincolato a un precedente
matrimonio, ora è necessario ricondurre a questa norma, non solo i casi in cui la trascrizione sia stata
eseguita in presenza di un qualsiasi impedimento inderogabile, ma anche nei casi in cui c’è un vizio che
rende invalido il matrimonio ai sensi delle norme sulla validità del matrimonio civile.

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DELIBAZIONE MATRIMONIALE
La materia del riconoscimento agli effetti civili delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio è
espressamente regolata dall’art. 8, punto 2 dell’accordo 18 febbraio 1984. Quando, però, si parla del
vecchio Concordato, bisogna ricollegarsi al concetto di uniformità degli status: quando il tribunale
ecclesiastico si pronunciava circa la nullità di un matrimonio, d’ufficio la cancelleria del tribunale
ecclesiastico trasmetteva la sentenza di nullità alla Corte d’appello competente del territorio, che si limitava
a svolgere un controllo di regolarità formale, senza compiere alcuna valutazione. Il nuovo sistema è quello
della separazione degli status, e ciò ha comportato la fine dell’ufficiosità del procedimento di delibazione.
Secondo il nuovo Concordato, le sentenze di nullità sono riconosciute su domanda delle parti o di una di
esse. È stato poi introdotto il c.d. principio della domanda, che nei primi anni di applicazione del nuovo
Concordato era stato inteso come una domanda da allegare, in carta da bollo, dai coniugi alla sentenza
emanata dal tribunale ecclesiastico. Il principio della domanda, però, è da intendere in senso tecnico: è
necessario un giudizio, una citazione o per lo meno un ricorso perché sia rispettato tale principio. Questa
domanda deve assumere la forma di un atto introduttivo a un giudizio, e quindi non può pervenire da una
semplice manifestazione di volontà delle parti.
La citazione è un atto tipico di un giudizio di tipo contenzioso. il ricorso, invece, è una procedura
semplificata; la decisione avviene in camera di consiglio, senza discussione tra le parti.
L’altra innovazione, rispetto all’accordo del 1929, riguarda il tipo di controllo che oggi compie la Corte di
appello. Il controllo è stato introdotto per effetto della Sent. 18\1982 della Corte costituzionale, che in tale
occasione ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della precedente normativa per contrasto con il
principio supremo della tutela giurisdizionale, interpretato nel senso che tutti devono avere la possibilità di
rivolgersi a un giudice e avere un giudizio quando si tratta di decidere una materia controversa. La Corte
costituzionale introduce una verifica necessaria da parte della Corte di appello che riguarda i principi di
ordine pubblico sostanziale e processuale.
Con il nuovo Concordato si recepisce l’orientamento della Corte costituzionale e si equiparano le sentenze
dei tribunali ecclesiastici alle sentenze straniere. Nel 1985, perché una sentenza straniera potesse essere
riconosciuta nel nostro ordinamento, doveva essere sottoposta a un giudizio di delibazione affidato alla
Corte di appello, che compiva una serie di accertamenti risultanti dall’art 797 c.p.c. la Corte di appello,
quindi, ai sensi dell’art. 4 del protocollo addizionale, deve controllare che la sentenza ecclesiastica sia
conforme ai requisiti previsti dall’art di c.p.c.
Nel 1995, viene approvata la legge 218 di riforma del diritto internazionale privato, che ha stravolto il
meccanismo di riconoscimento delle sentenze straniere nell'ordinamento italiano: infatti, ai sensi dell’art.
64 della suddetta legge, le sentenze straniere sono automaticamente riconosciute nel nostro ordinamento,
a meno che una delle parti non avvii un giudizio di contestazione di riconoscimento della sentenza.
Concepito sulla base della presunzione della conformità della sentenza straniera. Dopo questa riforma, per
le sentenze dei tribunali ecclesiastici resta tutt’ora in vigore la necessità del giudizio di delibazione delle
sentenze. Il discorso della delibazione della sentenza non è assimilabile in tutto con il meccanismo di
riconoscimento automatico di cui la l.218\1995; quando si richiede la delibazione alla Corte di appello, c’è
un accertamento giudiziario che fa stato circa l’esistenza di quei requisiti. Quando si parla invece di
riconoscimento automatico, da un punto di vista procedurale sarà sicuramente più semplice, però quel
riconoscimento sarà sempre sottoposto al dubbio che ci possa essere una contestazione al riconoscimento
stesso e possa essere messo quindi in discussione l’effettivo riconoscimento della sentenza.

Art. 8, punto 2 L.121\1985: “Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali
ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo,
sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della
corte d'appello competente, quando questa accerti:
a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio
celebrato in conformità del presente articolo;
b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di
resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano;

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c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle
sentenze straniere. La corte d’appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza
canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato
dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”.

Se la norma non ci fosse stata, una sentenza del tribunale ecclesiastico non avrebbe ottenuto la delibazione
e, di conseguenza, non si sarebbe potuta applicare la normativa di diritto comune, assimilando le sentenze
dei tribunali ecclesiastici alle sentenze dei tribunali stranieri. L’unica eccezione è data dal tribunale
ecclesiastico dello Stato del Vaticano, che è equiparato a uno Stato straniero: ad esempio, nel caso di un
matrimonio celebrato nella basilica di san Pietro, se il tribunale ecclesiastico dichiara nullo il matrimonio,
sarà responsabile la Sacra Rota romana, che funzionerà come tribunale statale straniero, ma il tribunale
ecclesiastico di una qualsiasi altra città italiana non è un tribunale straniero. L’articolo 8 assume quindi
rilevanza nell’equiparare le sentenze dei tribunali ecclesiastici a quelle di tribunali stranieri.
Possono essere riconosciute le sentenze pro validitate? Nel processo matrimoniale canonico si distinguono
in sentenze positive o negative. Le sentenze affermative sono quelle che hanno risposto positivamente al
dubbio concernente la validità; quindi, dichiarano nullo il matrimonio e sono sicuramente riconoscibili. Ma
le sentenze che dichiarano la validità del matrimonio sono riconoscibili, oppure no? Alcuni ritengono
l’espressione indicata dall’art. 8 in senso strettamente letterale: si parla di sentenze di nullità e da ritenere
riconoscibili saranno solo quelle pronunciate circa la nullità del matrimonio; altri, invece, intendono
quest’espressione in senso più ampio, come se il concordato avesse previsto anche il riconoscimento circa
la validità del matrimonio. Ci si potrebbe chiedere a cosa servano le sentenze di validità riconosciuta agli
effetti civili: si potrebbero eccepire come precedente in giudicato in un eventuale giudizio civile riguardante
l’invalidità di quel matrimonio. Nell’ordinamento canonico, però, le sentenze che riguardano lo stato delle
persone non passano mai in giudicato, sono sempre provvisorie: al sopravvenire di nuovi elementi
probatori, purché di una certa importanza e gravità, si può riaprire il giudizio. Possono allora essere
riconosciute agli effetti civili le cosiddette sentenze ecclesiastiche di retractactio, ossia di ritrattazione della
causa? In questo caso, si avrà una sentenza di nullità del tribunale ecclesiastico e una pronuncia della Corte
d’appello che ha riconosciuto questa sentenza agli effetti civili: ad esempio, se le parti sono di stato libero e
hanno un’altra famiglia, ma il tribunale ecclesiastico con un giudizio successivo ammette l’errore della
precedente sentenza si può riconoscere la pronuncia di retractactio? In tanti negano, altri affermano che
debbano ricorrere gli stessi presupposti dell’art. 395 del Codice di procedura civile italiano, relativo alla
revoca straordinaria di una sentenza.
Il Concordato del ’29 ammetteva la delibazione anche delle dispense pontificie del matrimonio orato e non
consumato, uno dei tre casi in cui il diritto canonico ammette il divorzio, in quanto il matrimonio è stato
regolarmente celebrato, ma non consumato: può essere sciolto con una dispensa emanata dal pontefice, il
cui provvedimento, secondo il vecchio Concordato, veniva automaticamente delibato. Senonché, la Corte
costituzionale, nella sentenza n.18 del 1982, affermò che trattandosi di una dispensa del pontefice, quindi
di una procedura amministrativa e non di un vero e proprio giudizio, ci sarebbe stata una violazione di un
diritto fondamentale alla difesa, e che di conseguenza queste sentenze non potevano essere riconosciute:
dichiarò, dunque, l’illegittimità costituzionale delle vecchie norme concordatarie.
Il nuovo Concordato dell’84 non parla di provvedimenti di dispensa, si è allineato alla decisione della Corte.
Tuttavia, anche e soprattutto per effetto della riforma introdotta dalla legge n.218/1995, non si è più rigidi
nei confronti del riconoscimento delle sentenze straniere come lo si era in precedenza: la logica, ad oggi, è
quella di favorire la cooperazione giudiziaria. Così, oggi, pacificamente si ritiene che il concetto di sentenza,
cui fa riferimento l’art.64 della legge n.218, possa essere riferito anche ad un atto amministrativo quando
viene emanato all’interno di un ordinamento straniero in una materia in cui in Italia è necessaria la
sentenza: ad esempio, in alcuni Stati, il divorzio non è pronunciato dal giudice, ma dall’autorità
amministrativa, ma quelle pronunce, che non sono sentenze in senso stretto, sono riconoscibili
nell’ordinamento. Inoltre, non è del tutto esatto ciò che aveva detto la Corte costituzionale quando affermò
che le dispense sono provvedimenti amministrativi, perché dietro quest’ultimi c’è una fase contenziosa che
si svolge dinanzi il tribunale ecclesiastico: la dispensa del matrimonio orato e non consumato è, quindi,
molto simile ad un accertamento giurisdizionale.

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Il dato normativo è vincolante: le pronunce emanate dai giudici ecclesiastici non sono sentenze. Rileva,
come esempio, lo sbaglio del Tribunale di Torino, che alcuni anni fa ha riconosciuto agli effetti civili un
matrimonio orato e non consumato: la Cassazione ha perciò annullato tale decisione. I giudici di Torino non
avevano applicato l’articolo 8, relativo alle sentenze di nullità, ma la legge 218, relativa alle sentenze in
generale: ma se non c’è una norma che esplicitamente assimila le sentenze dei tribunali ecclesiastici alle
sentenze straniere non è possibile pervenire a tale equiparazione.

L’articolo 8, comma 2, della legge numero 121 del 1985 stabilisce che: “2. Le sentenze di nullità di
matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore
organo ecclesiastico di controllo…”. Perciò, la delibazione si chiede alla Corte d’Appello competente nel
Comune in cui si è celebrato il matrimonio, presentando la sentenza del tribunale ecclesiastico e allegando
il decreto di esecutività emanato dal supremo tribunale della segnatura apostolica: si tratta di
un’attestazione che proviene dal tribunale ecclesiastico, con cui si conferma che la pronuncia ecclesiastica è
esecutiva. Fino al 2015, nell’ordinamento canonico, vigeva un principio in base al quale si consideravano
esecutive, in materia di stato alle persone, le sentenze che erano state confermate in appello: vigeva, in
sostanza, il principio della “doppia pronuncia conforme”, successivamente cancellato dalla riforma del
processo matrimoniale-canonico. Oggi basta una sentenza, anche di primo grado, rispetto alla quale siano
scaduti i termini per l’impugnazione.
“…sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza
della Corte d'appello competente, quando questa accerti…”. Da qui si evince innanzitutto l’importanza del
principio della domanda, a ciò segue la lista dei presupposti, stabilendo l’oggetto del giudizio, che avviene
nell’ambito della procedura di fronte alla Corte d’Appello.
Questa deve accertare “a) che il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in
quanto matrimonio celebrato in conformità del presente articolo;”. Leggendo la norma si potrebbe credere
che si basi su una competenza sul piano canonico, ma questa va letta nel suo insieme: bisogna verificare
che si tratti di un diritto concordatario, precisazione necessaria perché la sentenza potrebbe riguardare un
matrimonio meramente canonico, a cui non si possono certo riconoscere effetti civili, ma potrebbe riferirsi
anche un matrimonio canonico celebrato all'estero e riconosciuto in Italia come matrimonio civile. In
questo secondo caso, chiaramente si esula dalla disciplina della norma: se la legge del Paese straniero
prevede come valida agli effetti civili la forma canonica di celebrazione del matrimonio, questo rileva come
matrimonio civile in Italia, per cui vi sarà la giurisdizione ecclesiastica rispetto all'atto originario ma non si
tratterà di un matrimonio concordatario italiano: la giurisdizione non è quindi riconosciuta, si tratterà
sempre di un matrimonio civile di fronte allo Stato italiano. Così, la Corte d'appello non valuta la
competenza in base alle norme confessionali, ma controlla che si tratti di un matrimonio concordatario.

“b) che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di
resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano;”. Questo è
un controllo fondamentale che riguarda l’ordine pubblico processuale: in base all’insegnamento della Corte
costituzionale, proveniente dalla sentenza n.18 dell’82, bisogna accertare davanti ai tribunali ecclesiastici se
si è svolto un vero giudizio, non lesivo delle garanzie fondamentali di agire in giudizio riconosciuto dalla
Costituzione. Ma, come dice la norma, è necessario “assicurare il diritto di agire e resistere in giudizio in
modo non difforme dai principi fondamentali”, quindi non si può pretendere che il processo canonico si sia
svolto nel rispetto delle norme della procedura civile italiana: ad esempio, il termine per comparire è di 10
giorni ai sensi del diritto canonico, di 60 giorni ai sensi della procedura civile. Si pretende soltanto il rispetto
di alcuni principi essenziali, come quello del giusto processo.
Su questo piano, però, il processo canonico è discutibile, perché è tradizionalmente caratterizzato dal
carattere inquisitorio, mentre il processo moderno è basato sul contraddittorio: perciò, si svolge un po’ in
segreto; un organo che compie un’istruttoria e le indagini senza il confronto a viso aperto tra le parti. Così,
mentre i principi fondamentali dell’ordinamento italiano riguardanti il processo sono quelli del
contraddittorio, il processo canonico si ispira ancora alla logica inquisitoria: nonostante i conflitti sorti, la
Cassazione è stata sempre indulgente nel riconoscere agli effetti civili queste sentenze. Si è arrivati perfino

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a riconoscere agli effetti civili un processo in cui non si era proceduto alla regolare citazione del convenuto,
o un altro caso relativo alla mancanza del difensore tecnico, ovvero il professionista legale, del convenuto.
Nel processo canonico, poi vale la regola per cui per i difensori delle parti è vietato assistere all’esame dei
testimoni o all’interrogatorio delle parti, ma si permette loro di leggere le verbalizzazioni degli interrogatori
successivamente. Nel 2001 il caso Pellegrini giunse così di fronte alla Corte dei diritti dell’uomo, perché
venne annullato il matrimonio di un soggetto senza che questi fosse citato in giudizio, potesse accedere al
fascicolo processuale o nominare un difensore di fiducia: il processo si era svolto in maniera
“documentale”, una forma spedita prevista nei casi in cui è evidente l’esistenza del motivo di nullità, dato
che i due soggetti erano consanguinei. La Corte EDU ha così condannato l’Italia, affermando che, a
prescindere dal motivo di nullità, deve sempre esserci un processo rispettoso dei principi del
contraddittorio.

“c) che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle
sentenze straniere. La Corte d'appello potrà, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza
canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato
dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente per la decisione sulla materia”. La norma del
Concordato rinvia alle altre condizioni richieste dall’art.797 del Codice di procedura civile per la
dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere. Quali sono questi altri requisiti di cui bisogna accertare la
ricorrenza? Intanto l’assenza del contrasto di giudicati, perché non ci può essere delibazione se la sentenza
ecclesiastica è in conflitto con un precedente giudicato italiano; poi c’è il controllo che riguarda l’ordine
pubblico sostanziale: la sentenza ecclesiastica non può ottenere disposizioni che siano contrarie ai principi
dell’ordine pubblico italiano.
Rispetto al contrasto, avviene spesso nella pratica che si chieda la delibazione di una sentenza di nullità
dopo che tra i coniugi è già intervenuta una pronuncia di divorzio passata in giudicato; è possibile delibare
la sentenza di nullità che il tribunale ecclesiastico, nel frattempo, ha emanato riguardante quel
matrimonio? Quale potrebbe esser l’interesse a delibare queste sentenze? Gli interessi potrebbero essere
di varia natura. La sentenza di divorzio lascia in piedi il rapporto fino alla pronuncia, si tratta di uno
scioglimento che non cancella il passato: se uno dei due si volesse risposare in chiesa, non potrebbe farlo.
Nel caso della sentenza di nullità che venga ad essere delibata, invece, si riacquista lo status libero e ci si
può risposare in chiesa. La vera ragione, in realtà, è un’altra, ossia quella di liberarsi dagli oneri derivanti dai
provvedimenti economici che il giudice del divorzio ha posto a carico di una delle parti, come potrebbe
essere l’assegno di mantenimento a favore del coniuge: chiedendo la delibazione della sentenza di nullità
del matrimonio, viene meno il giudicato di divorzio con tutti i provvedimenti economici. Questo accadeva
fino ad alcuni anni fa: per un verso la giurisprudenza diceva non ci fosse un contrasto di giudicati, per cui la
sentenza poteva essere delibata; per altro verso, nel momento in cui si deliba la sentenza, si travolge il
giudicato di divorzio con tutti i provvedimenti economici. Con gli anni questa giurisprudenza è cambiata,
perché danneggiava il coniuge più debole: rimane l’assenza di contrasto di giudicati e la sentenza può
essere delibata, ma i provvedimenti economici restano salvi. Questo meccanismo ha incontrato tutta una
serie di sviluppi fino a quando, con sentenza n.9004 del 2021 della Suprema corte, si è arrivato a sostenere
che non solo i provvedimenti economici rimangono salvi quando si trovano in un giudicato di divorzio, ma
se ancora l’accertamento riguardante questa materia non si è concluso, la delibazione non determina la
cessazione della materia nel giudizio volto ad imporre questo assegno di mantenimento. La logica è sempre
quella di tutela del coniuge più debole.
L’ultimo punto è la questione dell’ordine pubblico. Come dice l’art.797 del Cod. proc. civile, non può essere
riconosciuta una sentenza straniera se produce effetti contrari all’ordine pubblico: quando si può verificare
questo contrasto? Il professore Finocchiaro fa l’esempio della suora che abbia contratto matrimonio: una
sentenza che dichiarasse nullo il matrimonio di una suora non potrebbe essere riconosciuta perché
contrario al principio di ordine pubblico della libertà religiosa. Ma non è un caso frequente.
Ciò che si verifica di frequente, invece, è che il matrimonio canonico venga dichiarato nullo per simulazione
unilaterale del consenso, ossia la cosiddetta “riserva mentale”. La simulazione unilaterale del consenso, ai
sensi del diritto confessionale, avviene quando le parti hanno dichiarato di voler essere marito e moglie, ma
una delle due parti nella sua mente, senza esternarlo, con un atto positivo di volontà ha escluso uno dei

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bona matrimoni, come il bonum proliis, ossia il fatto di avere dei figli. Questo determina l’invalidità del
matrimonio, ma nell’ordinamento italiano è necessaria la dichiarazione, l’ordinamento civile non può
contestare ciò che uno pensa. Nel diritto canonico vale un principio diverso: quello della insostituibilità del
consenso.
Si può delibare una sentenza di questo tipo nell’ordinamento italiano? Nel tempo in giurisprudenza si è
consolidata l’idea che queste sentenze non possano essere riconosciute agli effetti civili, perché ci sarebbe
un principio di ordine pubblico, quello dell’affidamento incolpevole o della buona fede dell’altro coniuge,
che impedirebbe la delibazione. Quando un coniuge fa la riserva mentale, l’altro coniuge si affida a ciò che il
primo dice e l’ordinamento ritiene che si debba proteggere questa persona, impedendo la delibazione. Il
professore Finocchiaro è critico rispetto a questa interpretazione, perché afferma che la mala fede nel
Codice civile incide solo sugli effetti del matrimonio putativo: fa sorgere il diritto a un’indennità, ma non
impedisce l’invalidità del matrimonio. Bisogna tenere presente che l’affidamento incolpevole da tutelare
presuppone che una parte non abbia comunicato la sua riserva e la vittima abbia la diligenza di chiedere la
delibazione. Fino a qualche anno fa, questo era l’unico caso in cui le sentenze di nullità non potevano
essere riconosciute agli effetti civili per contrasto con l’ordine pubblico sostanziale.
Da alcuni anni si è aggiunto un altro caso, quello della vitalità del rapporto coniugale. Un’altra caratteristica
del matrimonio canonico e del relativo processo di nullità è che i motivi di invalidità possono esser fatti
valere sempre, non c’è un termine di decadenza o prescrizione, sempre nella logica della insostituibilità del
consenso: se un ordinamento si basa sulla volontà effettiva manifestata al momento della celebrazione del
matrimonio, poi non può stabilire delle decadenze. Questo significa che ci si può sposare, si può vivere
serenamente e avere anche dei figli, per poi far valere una delle cause di annullamento.
L’orientamento più recente della Cassazione è che se sono trascorsi tre anni e si è svolta una convivenza
senza problemi non si può più chiedere la delibazione, perché il riconoscimento della sentenza diventa
contrastante con l’ordine pubblico. L’articolo 4 del protocollo addizionale del Concordato ribadiva che nella
delibazione bisogna tener conto della specificità dell’ordinamento canonico, dal quale è regolato il vincolo
matrimoniale: perciò, bisognerebbe intervenire con una legge per assimilare, agli effetti economici, un
matrimonio che sia stato annullato dopo tanti anni al divorzio, così non ci sarebbe più motivo per ricorrere
alla nullità. Per un verso si salvaguarderebbe la specificità dell’ordinamento confessionale per il quale il
consenso è insostituibile, ma al tempo stesso si tutelerebbe il coniuge più debole, che avrebbe le forme di
sostegno economico identiche a quelle che vengono riconosciute nel caso del divorzio.

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