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Mario Tedeschi

Manuale di

Diritto Ecclesiastico

Quinta edizione

G. Giappichelli Editore – Torino


Parte Generale

Il diritto ecclesiastico italiano

1.) Definizione, contenuto e oggetto del diritto ecclesiastico

Il diritto ecclesiastico è quel settore dell’ordinamento giuridico dello Stato che riguarda il
fattore religioso, distinto dal diritto canonico, che concerne l'ordinamento giuridico della
Chiesa cattolica. Le norme di cui si compone sono norme unilaterali, in quanto prodotto
della legislazione emanata dallo Stato e non costituiscono un corpo organico, ritrovandosi
in tutti i settori del nostro ordinamento giuridico, e cioè nella Costituzione, nel codice civile
e penale, nel codice di procedura civile e penale, nelle leggi amministrative e finanziarie,
nel diritto commerciale e del lavoro.
Vi sono poi norme di diritto ecclesiastico che hanno la loro fonte in atti bilaterali, quali i
concordati con la Chiesa cattolica o le intese con le confessioni diverse dalla cattolica. Tali
norme sono esterne al nostro ordinamento e acquistano vigore al suo interno solo
attraverso le leggi di esecuzione, per i concordati, o le leggi di approvazione, per le
intese. Il diritto ecclesiastico va distinto da tutti gli ordinamenti confessionali, in particolare
dal diritto canonico, che riguarda l’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica. Le norme
in esso contenute assumono rilievo solo se ed in quanto espressamente richiamate dal
nostro ordinamento, attraverso le figure tipiche del diritto internazionale privato del rinvio
materiale o ricettizio e della presupposizione.
È importante definire quando una norma può essere considerata di diritto ecclesiastico e
in cosa consiste il fattore religioso. Ecclesiastico è tutto ciò che riguarda la vita e le
attività delle Chiese, soprattutto nei loro rapporti con le altre Chiese e con lo Stato;
religioso è tutto ciò che riguarda gli interessi dei gruppi confessionali e degli individui.
Dunque una norma giuridica può qualificarsi come ecclesiastica o religiosa non sulla base
della fonte da cui scaturisce ma solo sulla base del suo oggetto, del suo contenuto
materiale.
Meno rilevante di quanto comunemente si crede è il problema della natura pubblicistica
o privatistica delle norme di diritto ecclesiastico. Tradizionalmente ad esse si riconosce
una connotazione pubblicistica sulla base che il diritto ecclesiastico si basa su alcuni
principi generali che assumono una particolare rilevanza sul piano sociale.
Allo Stato spetta garantire le norme di diritto ecclesiastico in quanto unico referente sia dei
singoli che delle confessioni. Ma a cosa si deve la connotazione pubblicistica delle norme
di diritto ecclesiastico? A vari fattori: a ragioni sistematiche (necessità di porre il diritto
ecclesiastico, per l'oggetto e la rilevanza delle sue norme, nell’ambito del diritto pubblico);
alla legislazione costituzionale o di diritto internazionale (che si trova quasi
esclusivamente nell’ambito del diritto pubblico consentendo notevole libertà alle parti
contraenti); alla politicizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Comunque, premesso che le distanze tra pubblico e privato sono negli ultimi anni molto
diminuite, per cui tale differenza ha minor valore di un tempo, bisogna evidenziare che il
diritto ecclesiastico non può essere considerato come un settore di esclusiva pertinenza
del diritto pubblico dello Stato, perché così si finirebbe col limitarne l’oggetto e
l’importanza. Infatti, molti istituti di diritto ecclesiastico che riguardano i soggetti, le persone
giuridiche, la proprietà, il patrimonio, il matrimonio sono attinenti al diritto comune e i primi
manuali di diritto ecclesiastico non trattavano la materia dal punto di vista
costituzionalistico ma si soffermavano su quelle che oggi si considerano parti speciali:
persone fisiche, persone giuridiche, rapporti patrimoniali e rapporti personali. Uno sviluppo
dal lato del diritto pubblico si è avuto solo dopo i Patti lateranensi e l'avvento della
Costituzione del 1948.
2.) Svolgimento legislativo e dottrinale. Dalla legislazione unilaterale...

L’evoluzione legislativa e dottrinale del diritto ecclesiastico può dividersi in tre periodi.
Il primo periodo è quello liberale, caratterizzato da una legislazione unilaterale dello
Stato di tipo giurisdizionalista. A questo periodo risalgono le leggi eversive e la legge
delle guarentigie, emanate dopo la promulgazione dello Statuto Albertino.
Il secondo periodo è caratterizzato dalla legislazione bilaterale, incentrata sulla stipula
dei Patti lateranensi e dalla ripresa delle trattative bilaterali con la Chiesa cattolica, ma
anche dalla continuazione della legislazione unilaterale dello Stato. In questa fase, la
dottrina ecclesiastica, considera le relazioni tra Stato e Chiesa dal punto di vista del diritto
internazionale, come rapporti tra ordinamenti giuridici primari.
Il terzo periodo, tuttora in corso, è caratterizzato dall’entrata in vigore della Costituzione,
che all’art. 7 conferma i Patti lateranensi, dalla contrattazione bilaterale, la cui massima
espressione è l’accordo di modificazione del Concordato lateranense del 1984, e dalla
stipulazione delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica.
Con l’unità d’Italia fu estesa a tutto il regno la legislazione sarda e ciò ebbe conseguenze
negative sulla legislazione ecclesiastica italiana, poiché furono abrogate le legislazioni
degli ex Stati, alcune delle quali più avanzate di quella piemontese, e cancellate le
consuetudini locali e la tradizione giurisprudenziale di stampo giurisdizionalista. La
legislazione sardo-piemontese si ricollega a quella francese riflettendosi nello Statuto
Albertino che considerava la religione cattolica religione di Stato, il Re veniva definito
protettore della Chiesa, i magistrati vigilavano sul mantenimento degli accordi tra Chiesa e
Stato, esercitando la loro autorità e giurisdizione sugli affari ecclesiastici. Infine, gli altri
culti erano semplicemente tollerati, espressione di una libertà religiosa antiquata, legata al
volere del principe e non considerata diritto soggettivo dei singoli. Numerose altre leggi
riguardavano aspetti ecclesiastici o religiosi, in particolare la Legge Sineo che
subordinava la pubblicazione di libri liturgici, bibbie e preghiere al preventivo permesso del
Vescovo, in deroga alla libertà di stampa, e che stabiliva che i membri del Senato nominati
a vita dal Re erano scelti anche tra Arcivescovi e Vescovi dello Stato. Si stabiliva, inoltre,
che la differenza di culto non costituiva eccezione al godimento dei diritti civili e politici e
all'ammissibilità alle cariche civili e militari.
La “Legge che escludeva dagli Stati sardi la Compagnia di Gesù e vietava le case
della corporazione delle Dame del Sacro Cuore” del 1848 segna l’inizio della
legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico e la soppressione degli enti. Questa
legislazione, dal carattere spiccatamente anticlericale, era in contrasto con il carattere
confessionale dello Stato sancito dall’art. 1 dello Statuto Albertino, di poco precedente.
Tale contraddizione è giustificata sia dal fatto che lo Statuto Albertino era una costituzione
flessibile e non rigida, sia dal fatto che, con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861,
si pose al centro della scena politica la Questione romana, che comportava la
soppressione del potere temporale della Chiesa e che determinò una forte
contrapposizione tra il Regno d’Italia e lo Stato Pontificio, con la conseguente interruzione
dell'attività concordataria attraverso la quale la Chiesa cattolica aveva riallacciato rapporti
con i governi che considerava legittimi.
Da quel momento furono promulgate una serie di leggi sempre più aspre nei confronti
degli enti e dell'asse ecclesiastico, dette leggi eversive, tra le quali: Legge con la quale
si aboliscono i contributi ecclesiastici, le decime e le immunità ecclesiastiche
(1851); Regio decreto sulla soppressione delle corporazioni religiose in tutto il
regno (1866); Legge di soppressione degli enti ecclesiastici secolari in tutto il regno
e di liquidazione dell'asse ecclesiastico (1867).
L’ultima importante legge eversiva fu la legge delle guarentigie del 1871 (mai accettata
dal Pontefice), che restò in vigore fino ai Patti lateranensi del 1929 e suddivisa in due titoli.
Il primo titolo “Prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede”, sanciva la
sacralità ed inviolabilità della persona del Sommo Pontefice, oltre che di quella del Re;
stabiliva che il Governo italiano rendeva al Sommo Pontefice gli onori sovrani; attribuiva al
Pontefice una rendita annua; stabiliva che il Pontefice continuava “a godere dei palazzi
apostolici vaticano e lateranense”, della villa di Castel Gandolfo, e che essi, come pure i
musei, la biblioteca e le collezioni d’arte, erano esenti da tasse e assicurava il diritto di
legazione attivo e passivo, la non ingerenza della pubblica autorità, la facoltà di
corrispondere liberamente con l'episcopato e con tutto il mondo cattolico e la non
ingerenza delle autorità scolastiche nei seminari, scuole ed istituti cattolici per l'educazione
degli ecclesiastici che continuavano a dipendere unicamente dalla Santa Sede.
Il secondo titolo, invece, riguardava le “Relazioni dello Stato con la Chiesa”. Fu abolita
ogni restrizione all’esercizio del diritto di riunione dei membri del clero cattolico; furono
aboliti il giuramento dei Vescovi al re e il diritto di nomina o di proposta regia, stabilendo
che con apposita e successiva legge si sarebbe provveduto al riordinamento, alla
conservazione ed all'amministrazione delle proprietà ecclesiastiche nel regno.
Tale legge non chiudeva la Questione romana. Il Pontefice non solo non accetterà mai la
legge e le dotazioni finanziarie ma romperà ogni relazione con il Re d'Italia considerandosi
prigioniero nei propri palazzi e impedendo ai sovrani cattolici di fargli visita a Roma poiché
ciò poteva essere interpretato quale accettazione della situazione di fatto.
La legge si prefiggeva di porre un freno alla pretese confessionali e il diritto ecclesiastico
sarà caratterizzato da questo aspetto e dall'essere, pertanto, una scienza laica.
Molti dei problemi dell'epoca non sono più attuali, interi settori sono profondamente mutati,
altri, come quello matrimoniale, anch'esso oggetto di notevoli mutamenti, possono
costituire un modello di riferimento ad esempio per quanto riguarda il principio del
doppio binario, di un matrimonio civile totalmente scisso da quello religioso.

3.) ...a quella pattizia...

Nonostante la legislazione eversiva, la Chiesa cattolica intendeva risolvere la Questione


romana insieme al governo italiano ma, il non expedit di Pio IX, che aveva comportato
l’uscita dalla scena politica di tutti i cattolici per protesta nei confronti dei governi liberali,
non facilitava le cose. Con il patto Gentiloni del 1913 i cattolici presentarono liste comuni
con i liberali ritornando alla politica e sempre in quegli anni nacque il Partito Popolare, di
ispirazione cattolica per il quale ci si attendeva il sostegno da parte della Santa Sede ma
così non fu poiché essa ritenne che il movimento fascista le offrisse maggiori garanzie.
Infatti, dopo l’avvento del Fascismo, i rapporti tra Chiesa cattolica e Stato italiano mutano
ed iniziano le trattative segrete Pacelli-Barone che anticiparono la conciliazione. Il
Fascismo, dapprima non favorevole alla Chiesa, voleva risolvere la Questione romana per
conquistare il consenso dei cattolici sia italiani che degli altri Stati, dimostrando di essere
riuscito dove Cavour aveva fallito. Di contro, la Chiesa aveva interesse ad essere
considerata a pieno titolo soggetto di diritto internazionale.
Dopo una lunga trattativa, l’11 febbraio 1929 furono stipulati i Patti lateranensi, composti
da: un Trattato tra la Santa Sede e l’Italia (con quattro allegati), una Convenzione
finanziaria e un Concordato. Gli allegati riguardavano la determinazione del territorio
della Città del Vaticano, gli immobili con privilegio di extraterritorialità ed esenti da
espropriazioni e tributi, quelli solo esenti da espropriazioni e tributi.
I Patti, di cui restano in vigore il Trattato ed i relativi allegati, sono di fondamentale
importanza perché segnano il passaggio dalla legislazione unilaterale alla contrattazione
bilaterale, interrotta a metà del XIX secolo ma che sarà recepita dalla Costituzione e che
perdura tuttora. Un successo per fascismo e Chiesa cattolica e un duro colpo per liberali e
giurisdizionalisti poiché il fascismo riuscì dove questi avevano fallito. Ma si trattava solo di
un successo strumentale ai propri obiettivi poiché sopravvennero, qualche anno dopo, le
prime crisi, sintomo di una non facile convivenza: la crisi sull'Azione Cattolica e quella
sulle leggi razziali.
Nel Trattato si riafferma il principio confessionale per cui la religione cattolica apostolica
romana è la sola religione di Stato; si riconosce l’autonomia degli enti centrali della Chiesa
cattolica, la sovranità internazionale della Santa Sede, il diritto di legazione attivo e
passivo e le immunità diplomatiche agli inviati della Santa Sede. Dopo aver riconosciuto la
sovranità della Santa Sede in campo internazionale, si crea la Città del Vaticano e si
stabilisce il regime giuridico di Piazza San Pietro, aperta al pubblico e soggetta ai poteri di
polizia delle autorità italiane. La sovranità e la giurisdizione spettano alla Santa Sede,
mentre l’Italia deve provvedere ai servizi pubblici (acqua, ferrovia, telefonia, ecc.) e si vieta
agli aeromobili di sorvolare il territorio del Vaticano. Si afferma la sacralità e l’inviolabilità
della persona del Sommo Pontefice equiparandola a quella del Re; hanno cittadinanza
vaticana tutte le persone con stabile residenza nel corrispondente territorio e i dignitari
della Chiesa e le persone della Corte Pontifica saranno, rispetto all'Italia, esenti dal
servizio militare, dalla giuria e da prestazioni di carattere personale. Essendo lo Stato della
Città del Vaticano una enclave, lo Stato italiano assicura il diritto di transito sul proprio
territorio sia ai diplomatici inviati dalla Santa Sede o presso di essa, che alle merci; si
assicura anche in Italia l’efficacia giuridica delle sentenze delle autorità ecclesiastiche
riguardanti persone ecclesiastiche o religiose in materia spirituale o disciplinare; è disposto
che la Santa Sede sarà proprietaria di una serie di basiliche, edifici, immobili ed istituti
pontifici indicati negli allegati II e III; si riconoscono alla Santa Sede il diritto di arbitrato
internazionale, in virtù del quale essa interviene nelle controversie tra Stati solo su
richiesta delle parti in causa, nonché la neutralità e l’inviolabilità del suo territorio; infine
l’art. 26 dichiara risolta definitivamente la Questione romana e riconosce il Regno d’Italia,
con Roma capitale dello Stato italiano. Nella Convenzione finanziaria venivano regolate
le questioni finanziarie sorte dopo le spoliazioni degli enti ecclesiastici a seguito delle leggi
eversive.
Quanto al Concordato, esso mutava il contenuto del diritto ecclesiastico italiano e i suoi
punti essenziali erano: il riconoscimento della religione cattolica quale religione dello Stato
italiano; la previsione di una serie di esoneri e privilegi in favore delle persone fisiche
ecclesiastiche; l'esenzione degli edifici aperti al culto da requisizioni o occupazioni; si
stabilivano le festività della Chiesa che lo Stato italiano riconosceva; l'assistenza spirituale
alle forze armate; la Santa Sede doveva comunicare preventivamente allo Stato italiano la
nomina di Arcivescovi e Vescovi, che doveva essere approvata, mentre i Vescovi
dovevano prestare giuramento di fedeltà nelle mani del Capo dello Stato (non più in
vigore); erano previste agevolazioni finanziarie e fiscali per gli enti ecclesiastici, nonché
interventi economici a sostegno del clero (le c.d. congrue); era previsto per tutti gli
ecclesiastici il divieto di iscriversi e militare in qualunque partito politico ed era riconosciuta
l’istruzione parificata e l’insegnamento della religione in tutte le scuole pubbliche (tranne le
università); basiliche e santuari sarebbero stati gestiti liberamente dall'autorità
ecclesiastica e, in maniera particolare, la Santa Sede accordava piena condonazione a
coloro i quali, a seguito delle leggi eversive, si trovavano in possesso di beni ecclesiastici.
Lo Stato italiano si impegnava a rivedere la propria legislazione per uniformarla alle
direttive del Trattato e del Concordato e si precisava che il fine di culto o di religione è
equiparato agli effetti tributari a quello di beneficenza e di istruzione.
Ma l’elemento più innovativo del Concordato è rappresentato dal riconoscimento degli
effetti civili al matrimonio religioso, in quanto fino a quel momento la tradizione
legislativa italiana aveva seguito il principio del “doppio binario”, per cui il matrimonio
religioso era del tutto separato da quello civile. Ora si riconoscono, invece, gli effetti civili
del matrimonio-sacramento disciplinato dal diritto canonico al quale era riservata anche la
giurisdizione sulle cause matrimoniali. Le decisioni prese nel 1929 costituiranno un vincolo
per il regime attuale risultando ancora interessanti.
Il Concordato prosegue con altre norme sull'insegnamento della religione, la nomina dei
professori delle Università cattoliche (previo nulla osta della Santa Sede), il regime
giuridico di Università e seminari, titoli di studio, onorificenze pontificie e titoli nobiliari. Si
riconoscono, infine, le organizzazioni dipendenti dall'Azione Cattolica Italiana che
svolgono la loro attività fuori dai partiti politici e si rinnova il divieto per gli ecclesiastici di
iscriversi e militare in qualsiasi partito politico.
L'attuazione del Concordato richiederà l'emanazione di due leggi, una sul matrimonio e
una sugli enti, quest'ultima sostituita da una nuova legge dopo le modificazioni del 1984
mentre resta in vigore quella sul matrimonio.
Veniva emanata, inoltre, la Legge contenente disposizioni sull'esercizio dei culti
ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti
medesimi (n. 1159/29) che regolamentava le altre fattispecie ecclesiastiche al di fuori di
qualsiasi contrattazione. Tale legge resta in vigore per quelle confessioni che, alla data
odierna, non hanno sottoscritto intese con lo Stato italiano. La legge poneva il limite
dell'ordine pubblico e del buon costume e stabiliva il principio che l'esercizio dei culti è
libero, confermando il contenuto della Legge Sineo che la differenza di culto non può
influenzare il godimento dei diritti civili e politici e l'ammissibilità alle cariche pubbliche civili
e militari. Ma, soprattutto, si stabiliva il regime giuridico del matrimonio acattolico al
quale si attribuivano effetti civili previa autorizzazione allo svolgimento rilasciata
dall'ufficiale di stato civile dopo aver verificato il compimento delle formalità preliminari e la
mancanza di opposizioni alla celebrazione del matrimonio.

4.) ... alla contrattazione bilaterale

L’entrata in vigore della Costituzione del 1948 rappresenta un momento importante


nell’evoluzione del diritto ecclesiastico. In essa è legittimata la contrattazione bilaterale,
anche se si differenzia la posizione della Chiesa cattolica da quella delle confessioni
acattoliche. La posizione della Chiesa infatti è basata sui Patti, che sono atti di diritto
esterno che vanno resi esecutivi nel nostro ordinamento; la posizione degli enti acattolici
si basa sulle Intese, che sono atti di diritto interno che necessitano della successiva
legge di approvazione. Inoltre nella Costituzione non è più accolto il principio
confessionale per cui la religione cattolica è la religione di Stato, ma si può dedurre il
principio della laicità dello Stato.
L’entrata in vigore della Costituzione pose il problema del rapporto tra le norme in essa
contenute con la legislazione ecclesiastica.
Fu così che nel 1968 fu costituita la commissione Gonella, formata da soli rappresentanti
dello Stato, sostituita da una commissione mista, cioè composta da membri nominati sia
dallo Stato che dal Vaticano, commissione che procederà alle modificazioni del
Concordato che si sostanzieranno negli accordi di Villa Madama del 18 febbraio 1984
(Legge 121/85).
Il problema di fondo era quello di decidere se procedere all’abrogazione o alla revisione
dei Patti.
Si affermò l’orientamento revisionista poiché, in effetti, abrogare tutto il sistema
concordatario significava porre nel nulla uno strumento che si era rivelato un mezzo
tramite il quale la Chiesa si poneva in relazione con gli altri ordinamenti e il Concordato
venne ad assumere, sul piano internazionale, la veste di convenzione bilaterale che
vincolava i partecipanti all'esecuzione di quanto stabilito all'interno dei loro ordinamenti.
Tale orientamento, come detto, si sostanziò negli articoli dell'accordo del 1984.
Sempre in questa fase cominciano ad essere sottoscritte le intese con le confessioni
diverse dalla cattolica. A tutt’oggi sono state sottoscritte sei intese, approvate con legge:
con la Tavola Valdese, con l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7°
giorno, con le Assemblee di Dio in Italia, con l’Unione delle Comunità ebraiche
italiane, con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e con la Chiesa Evangelica
Luterana in Italia. Altre due intese non sono state ancora convertite in legge: quella con i
Testimoni di Geova e quella con i Buddhisti. Progetti di intesa sono iniziati con la
Chiesa apostolica in Italia, con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni
e con l'Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha. La legge n. 1159/29 sui
culti ammessi resta in vigore per le confessioni che non hanno sottoscritto intese o che
non vogliono farlo.
Questa che è stata delineata è l'evoluzione legislativa del diritto ecclesiastico in Italia con
contributi derivanti anche dalla riforma del diritto di famiglia, dall'introduzione della legge
sul divorzio e da tutta la legislazione di diritto comune.

5.) Autonomia didattica e scientifica del diritto ecclesiastico

L'autonomia didattica del diritto ecclesiastico è stata acquisita a fine ottocento, a scapito
del diritto canonico. L'oggetto della materia è delineato con riferimento alle questioni
tipiche dell'epoca, la materia patrimoniale e gli enti, ponendosi in rapporto con altre
discipline giuridiche al fine di determinare il proprio ambito di competenza.
Mentre è pacifica l'autonomia didattica del diritto ecclesiastico, lo stesso non si può dire
dell'autonomia scientifica in quanto tale diritto non si è sviluppato autonomamente ma
con il contributo di altri settori della scienza giuridica. In questo senso sorgono difficoltà
quando le norme non sono poste solo dallo Stato ma hanno anche derivazione
confessionale o quando si è di fronte a fattispecie tipiche del diritto ecclesiastico che si
comprendono solo attraverso la loro evoluzione storica. Assume pertanto importanza
l'aspetto consuetudinario di tali norme.
Inoltre, la scienza giuridica è una e solo per comodità si distinguono vari settori in base
alla diversità di fini e ciò vale anche per il diritto ecclesiastico che, inoltre, è una scienza
statuale e va ricompresa in quest'ambito piuttosto che nell'ambito delle scienze sacre e
confessionali.
Solo in questo senso è possibile parlare di autonomia scientifica del diritto ecclesiastico.
L'evoluzione legislativa, sostanziatasi nella legge sul divorzio, nella riforma del diritto di
famiglia, nella codificazione canonica (che ha richiesto modifiche a leggi dello Stato), nella
revisione del Concordato, nelle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, negli
interventi della Corte Costituzionale, provano quanto sia difficile muoversi da presupposti
esclusivi del diritto ecclesiastico e che la normativa è talmente variegata e interdisciplinare
che sarebbe limitativo parlare di autonomia scientifica del diritto ecclesiastico.

6.) Il diritto ecclesiastico e le scienze affini

A differenza del diritto canonico, che ha una storia millenaria, il diritto ecclesiastico ha
avuto una vita molto più breve e una minore evoluzione legislativa e scientifica.
La storia del diritto canonico riguarda tutto il periodo antecedente al Codex iuris
canonici del 1917, un ambito vastissimo nel quale sono ricomprese anche norme di diritto
pubblico ecclesiastico, quella parte del diritto canonico che concerne i rapporti con gli
Stati. La conoscenza di queste fonti è necessaria per comprendere sia il diritto canonico
attuale che il diritto ecclesiastico.
La storia dei rapporti tra Stato e Chiesa riguarda le relazioni esterne intercorse tra i due
poteri, o in termini di unione o in termini di separazione. Nel primo caso se prevale la
Chiesa si parla di sistemi di tipo teocratico, se prevale lo Stato si parla di sistemi di tipo
giurisdizionalista. Nel secondo caso i due poteri non si intersecano. Ma un separatismo
assoluto non è concepibile poiché, configurandosi res mixtae, esse vengono regolate da
accordi o concordati che creano un momento di collegamento nei rapporti tra Stato e
Chiesa. Stato teocratico era quello di Giustiniano, ma anche l'Iran degli ayatollah e molti
paesi musulmani. In sistemi separatisti può parlarsi dei c.d. concordati di separazione,
termini contrastanti ma che evidenziano il convivere di distinti sistemi. Classificazione che,
comunque, non può rappresentare la varietà dei rapporti tra potere civile e potere
ecclesiastico al punto che non è facile dire se l'attuale sistema appartiene a quello
unionista o a quello separatista.
La materia di cui si tratta è un ambito di studi molto vasto, coltivato non solo da
ecclesiastici, la cui rappresentazione richiede non solo l'esame di aspetti giuridici ma
anche storico-politici poiché, più che tra Stato e Chiesa, la contrapposizione è tra politica e
religione. È un settore, comunque, importante, che nulla ha a che vedere con altre
discipline affini quali la storia della Chiesa o la storia delle religioni, che potrebbero essere
utili per meglio comprendere, appunto, il diritto ecclesiastico.
Strutture ecclesiastiche, movimenti, ordini religiosi, costituiscono realtà insopprimibili
dell'ordinamento, di tale rilevanza che hanno condizionato anche il diritto comune e che
meritano attenzione e approfondimento. Importanza riveste anche l'aspetto
comparatistico poiché i movimenti religiosi hanno quasi sempre carattere multinazionale
e si muovono a cavallo di diversi ordinamenti, per cui può essere interessante verificare
come una stessa realtà è trattata in diversi ambiti territoriali.

7.) Il diritto ecclesiastico nell'ambito delle scienze giuridiche

Il diritto ecclesiastico trae le sue norme da tutti i settori dell'ordinamento ed è una scienza
laica, distinta dal diritto canonico e da tutte le scienze sacre.
Le riforme legislative degli ultimi anni hanno influenzato il diritto ecclesiastico,
modificandone i contenuti; su esso ha influito direttamente l'evoluzione legislativa,
dottrinale e giurisprudenziale di tutti i settori della scienza giuridica, sia riguardo ad aspetti
costituzionalistici (libertà religiosa, matrimonio) o di diritto internazionale (soggettività,
capacità, rapporti tra diritto interno ed esterno), sia riguardo alle strutture amministrative
dello Stato (gestione dei beni ecclesiastici, regime degli enti) o al diritto canonico
(matrimonio religioso) o agli aspetti civilistici e processuali in tale materia.
Al diritto civile deve farsi riferimento per la materia degli enti o per alcuni problemi di diritto
di famiglia (mutamento di confessione di uno dei coniugi, educazione religiosa dei figli);
principi di diritto del lavoro devono essere utilizzati per problemi riguardanti il lavoro dei
religiosi; di diritto tributario per il regime degli enti ecclesiastici o per l'otto per mille; di
diritto penale per reati contro il sentimento religioso o riguardanti religiosi; di diritto
commerciale per l'ente ecclesiastico imprenditore (anche senza fini di lucro).
Come si vede, le norme di diritto ecclesiastico si rinvengono in tutti i settori
dell'ordinamento.

8.) Problemi metodologici

Il diritto ecclesiastico presenta alcuni peculiari problemi metodologici relativi al contenuto e


all'oggetto delle proprie norme. Il riferimento a questioni religiose o a problemi di
coscienza relativi al foro interno degli individui, la sacralità di molti istituti, la necessità di
rapportarsi ad aspetti immateriali rendono particolare l'approccio alla scienza del diritto
ecclesiastico e, per comprenderla, occorre una notevole sensibilità giuridica e molteplici
interessi culturali, in particolare per i presupposti da cui iniziare e i fini da perseguire. Per i
presupposti ci si riferisce alle scienze sacre e teologiche, per i fini a mezzi posti a tutela
dell'interesse religioso che non possono essere gli stessi di quelli posti a tutela di un
interesse economico.
La posizione intermedia tra varie discipline, le connotazioni ideologiche, i presupposti
storico-politici, i contenuti spirituali e i fini religiosi che persegue il diritto ecclesiastico
rendono il problema metodologico centrale per la disciplina.
Per le altre discipline, muoversi all'interno di un determinato corpo di norme è agevole; lo
stesso non può dirsi per il diritto ecclesiastico perché non ci si può basare su principi
propri ed esclusivi. Ne consegue che bisogna rivolgersi ai principi generali delle altre
scienze per la risoluzione dei problemi di diritto ecclesiastico.
In sostanza, il diritto ecclesiastico si può avvalere, ad esempio, delle elaborazioni dei
civilisti per la materia matrimoniale; oppure può avvalersi dei principi di diritto
internazionale per problemi relativi agli aspetti concordatari. Questi esempi dimostrano che
si tratta di un problema dalle pratiche conseguenze e, pertanto, l'approccio metodologico
ed il taglio con cui viene studiata questa materia sono importanti per la sua comprensione,
anche in prospettiva futura.
La novità, oggi, potrebbe essere rappresentata da un diritto ecclesiastico europeo anche
se, per la verità, lo sviluppo legislativo dei singoli Paesi europei sulle materie religiose e la
loro disomogeneità destano qualche preoccupazione. In Europa vi è una notevole
diversificazione religiosa ed è prevista l'adesione di Paesi musulmani per cui, piuttosto che
sottolineare le radici giudaico-cristiane del Continente, sarebbe preferibile attestarsi su
posizioni di laicità.

Capitolo II

Profili internazionalistici e pubblicistici

1.) Profili internazionalistici. Dinamica giuridica dei concordati

A lungo il diritto ecclesiastico si è ispirato al diritto internazionale per disciplinare alcune


importanti questioni pratiche.
Dal 1870, infatti, lo Stato Pontificio non esisteva più, in quanto era stato privato del suo
territorio. Poiché erano riconosciuti soggetti di diritto internazionale solo gli Stati, si poneva
allora il problema del riconoscimento alla Santa Sede della personalità internazionale,
anche se in ogni caso, le era assicurato il diritto di legazione attivo e passivo e il pontefice
era arbitro di controversie internazionali. Ma, a quei tempi, la concezione formalistica del
diritto internazionale non permetteva, come oggi, il ricorso al principio di effettività e
l'allargamento della comunità internazionale a enti diversi dagli Stati, il che avrebbe
consentito di risolvere il problema molto agevolmente.
Il riconoscimento alla Santa Sede della personalità internazionale si basava su concezioni
moniste, dualiste e miste.
Le concezioni moniste erano sintetizzate nella posizione dello Jemolo, secondo cui
anche se gli enti erano due, e cioè lo Stato della Città del Vaticano e la Santa Sede,
impersonata dal Pontefice, il soggetto di diritto internazionale era unico, la Santa Sede
appunto. Secondo i sostenitori delle concezioni dualiste lo Stato della Città del Vaticano
costituiva un nuovo soggetto di diritto internazionale, diverso dalla Santa Sede e quindi vi
erano due soggetti con personalità giuridica internazionale (l'altro era il Pontefice).
I sostenitori delle concezioni miste consideravano la Chiesa cattolica una società
perfetta, libera e sovrana (societas iuridice perfecta) che prescindeva dall’esistenza di
uno Stato territoriale.
Ciò premesso, è possibile dire che la personalità internazionale va riconosciuta solo alla
Santa Sede, che è un ente distinto dallo Stato della Città del Vaticano, avente anch’esso
rilevanza internazionale. A loro volta entrambi non vanno confusi con la Chiesa cattolica
che non ha una personalità internazionale distinta da quella della Santa Sede.
Inoltre, mentre gli internazionalisti usano indistintamente i tre termini di Chiesa cattolica,
Santa Sede e Stato della Città del Vaticano, gli ecclesiastici, invece, distinguono i tre
termini in quanto: la Chiesa cattolica è una confessione religiosa nata dal Cristianesimo,
la Santa Sede, è l’organo di governo della Chiesa cattolica e lo Stato della Città del
Vaticano è solo un’entità territoriale.
Dunque la personalità internazionale spetta alla Santa Sede, che è titolare di tutte le
attività in campo internazionale che la collocano in una posizione paritetica, non uguale, a
quella degli altri Stati. La Santa Sede, infatti, ha solo osservatori permanenti presso
l’O.N.U. ma non può esserne membro in quanto è un micro stato.
Lo Stato della Città del Vaticano nacque con i Patti lateranensi, e più precisamente con il
Trattato. È uno Stato enclave, perché è completamente circondato da un altro Stato,
quello italiano, che si impegna a garantire la comunicazione ferroviaria e la circolazione
dei mezzi terrestri ed aerei, nonché a garantire i collegamenti e i servizi telefonici e postali.
Si stabiliva che le persone residenti nella Città del Vaticano ne avessero la cittadinanza. Il
nuovo Stato aveva così tutti gli elementi essenziali: un territorio (lo Stato della Città del
Vaticano), un organo di governo (la Santa Sede) ed una popolazione.
Si riconosceva alla Santa Sede la proprietà di una serie di “immobili con privilegio di
extraterritorialità e con esenzione da espropriazione e tributi”. Si affermava la
neutralità ed inviolabilità dello Stato della Città del Vaticano, sottoposto alla sovranità del
Sommo Pontefice. La neutralità sarà in buona misura rispettata durante la seconda guerra
mondiale, non invece quanto stabilito all'allegato II in riferimento agli immobili con
privilegio di extraterritorialità.
Diversi enti fanno capo allo Stato della Città del Vaticano, che ne costituiscono la sua
struttura generale desumibile da diverse leggi fra cui la legge fondamentale e quelle sulle
fonti del diritto, sulla cittadinanza ed il soggiorno, sull'ordinamento amministrativo,
sull'ordinamento economico, commerciale e professionale e sulla pubblica sicurezza.
Nel 2000 veniva emanata la nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
che accentra nel Sommo Pontefice i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, gli
conferisce la rappresentanza di diritto internazionale e istituisce una Commissione che
coadiuva il Pontefice nell'esercizio del potere legislativo ed esecutivo.
Nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale è in auge la teoria della pluralità
degli ordinamenti del Santi Romano. Ne consegue il ricorso agli strumenti del diritto
internazionale privato (presupposizione, rinvio materiale e ricettizio) per spiegare i rapporti
tra diritto statale e canonico. Storicamente il modello concordatario risale al Concordato
di Worms del 1119-1122. Esso è una convenzione internazionale tra la Chiesa cattolica e
gli Stati, la cui caratteristica è quella di essere “chiusa”, cioè non aperta all’adesione di
Stati terzi. Quanto al contenuto, dapprima lo strumento concordatario è servito per stabilire
soprattutto privilegi a favore della Chiesa, mentre col tempo è divenuto un mezzo con cui
risolvere le questioni di interesse comune (res mixtae).
In materia di concordati trovano piena applicazione i principi di diritto internazionale stare
pactis e rebus sic stantibus. Sul piano pratico, lo Stato che stipula un concordato, che lo
ratifica e che ne promulga la legge di esecuzione, assume l’obbligo sia di rispettare gli
impegni assunti sia di non legiferare in maniera contraria fin quando sussistono i
presupposti che hanno portato alla firma dell'atto. I concordati, infine, possono essere
denunziati senza che ne segua necessariamente uno nuovo, o modificati, in tutto o in
parte, o dar vita a nuovi accordi di minore importanza senza produrre conseguenze per
quello principale. Tutto ciò avendo sempre a riferimento il diritto internazionale.

2.) Profili pubblicistici. L’evoluzione costituzionale

Dal punto di vista pubblicistico va evidenziato il carattere rigido della Costituzione del
1948, che differisce dallo Statuto Albertino, avente invece un carattere flessibile. Vanno
poi esaminati gli articoli della Costituzione del 1948 che riguardano il fattore religioso, sia
in forma individuale che associata, che costituiscono una grande novità per il venir meno
del connotato della confessionalità su cui si basava la vecchia carta.
L’art. 2 Cost. garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia “nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, tra le quali si vogliono ricomprendere le
confessioni religiose. Ma la norma non garantisce in modo generico le formazioni sociali e,
pertanto, sembra improprio l'inserimento di questa tra le norme che riguardano il fattore
religioso in forma associata.
L’art. 3 Cost. si riferisce a “tutti i cittadini”, per cui sancisce il principio fondamentale
secondo cui la religione non può essere motivo di discriminazione tra i cittadini, tutti con
pari dignità sociale ed eguali davanti alla legge. Ciò assumerebbe una certa importanza
nell'ambito del diritto ecclesiastico perché sancirebbe anche il principio di uguaglianza fra
tutte le confessioni religiose.
L’art. 4 Cost. stabilisce il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività che concorra allo
sviluppo materiale o spirituale della società e il fattore religioso concorre sicuramente al
progresso spirituale.
L’art. 52 Cost. definisce “sacro” il dovere del cittadino di difendere la Patria, unica
disposizione in cui si usa tale termine.
L’art. 7 Cost. presenta delle problematiche più complesse. Esso stabilisce, al comma 1,
che lo Stato e la Chiesa sono indipendenti e sovrani ciascuno nel proprio ordine,
disposizione sostanzialmente inutile tranne che per evidenziare una paritetica posizione
tra le due entità. Al comma 2 si prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai
Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono
procedimento di revisione costituzionale. Ne consegue che le modifiche unilaterali
richiedono il procedimento di revisione costituzionale e ciò conferisce un carattere di
specialità ai Patti stessi, nel senso che le disposizioni in essi contenute non solo
assumevano un carattere costituzionale, ma in quanto speciali prevalevano sulle stesse
norme costituzionali. Questa interpretazione molto forzata si basava sulla teoria
dell’ordinamento giuridico di Kelsen, secondo cui il diritto internazionale prevale su quello
interno. Ma riconoscere la prevalenza delle disposizioni pattizie su quelle costituzionali
non è pensabile poiché si ammetterebbe l'intrusione, a livello legislativo, di un
ordinamento esterno a quello dello Stato con evidente lesione del principio di sovranità, e
pertanto si affermò una tesi diversa (avallata dalla Corte Costituzionale), secondo cui l’art.
7 ha costituzionalizzato il principio pattizio, e non le singole norme dei Patti lateranensi.
Lo Stato, nelle materie di comune interesse, non avrebbe proceduto unilateralmente ma in
via bilaterale e l'art. 7, pertanto, vincola il Parlamento a non legiferare in maniera contraria
ai Patti ed il Governo ad eseguire gli impegni assunti. Il vincolo, comunque, riguarda solo
la materia concordataria senza intaccare la sovranità dello Stato che rimane libero, una
volta denunziato l'accordo, di intervenire in maniera contraria agli impegni assunti o di
procedere, in via legislativa, su fattispecie differenti.
L’art. 8 Cost. fa riferimento alle confessioni religiose stabilendo che sono tutte egualmente
libere davanti alla legge, ricomprendendo tra queste anche la confessione cattolica.
Al secondo comma la norma si riferisce alle confessioni religiose diverse dalla
cattolica, poste con evidenza su un piano differente da quella cattolica considerata
ordinamento al pari dello Stato, le quali hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano, come qualsiasi altra
associazione. In pratica la Chiesa cattolica è considerata ordinamento giuridico
primario mentre le confessioni diverse da essa sono considerati ordinamenti giuridici
derivati, anche se il termine ordinamento è improprio e poco adatto a qualificare le
confessioni.
I rapporti tra le confessioni diverse dalla cattolica e lo Stato, a partire dal 1984, sono
regolati per legge sulla base di intese stipulate con le relative rappresentanze. Ma il
proliferare delle confessioni religiose pone nuovi problemi: occorre definire cosa si intende
per confessione religiosa; capire se la legge del 1929, ancora in vigore per le
confessioni che non hanno sottoscritto intese, debba essere abrogata o se sia possibile
sostituirla unilateralmente; decidere se sia più conveniente stipulare un'intesa tipo al posto
di tante intese quante siano le confessioni acattoliche. Problemi che l'art. 8 non riesce a
risolvere.
L’art. 19 Cost. tutela la libertà religiosa, un diritto soggettivo pubblico, che in quanto
tale va tutelato dallo Stato, sancendo che “Tutti hanno diritto di professare liberamente la
propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne in pubblico o in privato il culto,
purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
L’art. 20 Cost. dispone che il carattere ecclesiastico o il fine di religione o di culto di
un'associazione o istituzione non possono essere cause per limitazioni legislative o
particolari gravami fiscali nei loro confronti riguardo alla costituzione, alla capacità giuridica
e ad ogni forma di attività.
La norma mira ad impedire la rinascita, riguardo agli enti (associazioni o istituzioni), sia di
una legislazione anti-ecclesiastica che di una legislazione di favore, applicando al
riconoscimento e al regime giuridico di tali enti la disciplina di diritto comune. Sono evidenti
nella norma impliciti riferimenti ai precedenti storici.

3.) Il regime giuridico delle confessioni religiose diverse dalla cattolica

L’art. 8 Cost. pone varie problematiche, soprattutto per l’indeterminatezza del concetto di
confessione religiosa. In Italia, infatti, non esiste un registro delle entità religiose per cui
le confessioni sono qualificate tali solo in base agli elementi desumibili proprio dall'art. 8.
Tali elementi sono: gli statuti, un’organizzazione interna, rappresentanti con cui
rapportarsi all'esterno nonché l'inserimento nella tradizione storica e legislativa italiana e
una struttura tipica degli ordinamenti giuridici derivati i cui valori non siano confliggenti con
quelli dello Stato.
Anche se le confessioni restano libere di autodeterminarsi in riferimento alla fede e ai
contenuti religiosi, è sempre lo Stato che deve qualificare come confessione un
determinato gruppo religioso e a stabilire nei suoi confronti misure legislative, comprese
quelle di stipulare intese, in pratica a valutare non solo l'esistenza dei presupposti per
instaurare un rapporto giuridico ma anche in cosa una confessione religiosa si differenzi
da un movimento di pensiero o da un'associazione non riconosciuta. Fra l'altro, non tutti i
gruppi religiosi in possesso dei requisiti previsti sono considerati confessioni da parte dello
Stato, né con tutti lo stesso Stato è disposto a sottoscrivere intese. Occorre sempre
esaminare i contenuti, verificare le richieste poiché, in caso contrario sarebbe sufficiente
una convenzione tipo. Ma il pluralismo religioso non consente ciò. Sarebbe invece
auspicabile approvare una legge generale sui culti religiosi che sostituisca
definitivamente quella del 1929, valutando uniformemente ed aggiornando il panorama
religioso italiano, sciogliendo i nodi e risolvendo le problematiche ancora esistenti, con
evidente ritorno alla legislazione unilaterale.
Allo stato attuale, le intese sottoscritte sono dodici, di cui sei convertite in legge e sei
ancora da convertire. Le intese sono atti di diritto interno che, per l'appunto,
necessitano della successiva legge di approvazione. In tutte sono presi in
considerazione gli stessi aspetti dei concordati: ministri di culto, assistenza spirituale,
istruzione religiosa, matrimonio, regime giuridico degli enti, aspetti tributari e finanziari,
festività, a volte adottando soluzioni più avanzate di quelle concordatarie.
La prima intesa è quella sottoscritta dalla Tavola Valdese nel 1984 ed alla quale
sembrano essersi ispirate anche le altre.
I suoi punti essenziali sono: la denunzia della legge del 1929 sui culti ammessi; il
riconoscimento dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordinamento valdese nonché del
principio di non ingerenza da parte dello Stato, nell’ambito dell’ordinamento valdese, in
materia ecclesiastica. Su richiesta della Tavola Valdese si estingue dal bilancio dello Stato
l'assegno di mantenimento spettante al culto valdese che, di conseguenza, si sosterrà
autonomamente. La tutela penale in materia religiosa va realizzata attraverso la
protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e non
mediante la tutela specifica del sentimento religioso.
Si tutelano poi i diritti dei valdesi che prestano il servizio militare e la relativa assistenza
spirituale negli ospedali, negli istituti penitenziari, nelle case di cura e nei pensionati, i cui
oneri sono a carico degli organi ecclesiastici competenti.
Singolare è la rinuncia all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche; è garantito
però il diritto degli acattolici di non avvalersene su richiesta dei soggetti interessati, se
maggiorenni, o dei loro genitori o tutori, salvo il diritto della Tavola Valdese di rispondere
ad eventuali richieste in merito provenienti da alunni, dalle loro famiglie o da organi
scolastici.
Si riconoscono poi effetti civili al matrimonio celebrato secondo le norme dell’ordinamento
valdese, purché siano rispettate le norme sulla pubblicazione e l’atto relativo sia trascritto
nei registri dello stato civile.
Resta ferma la personalità giuridica degli enti ecclesiastici valdesi aventi fini di culto,
istruzione e beneficenza e si riconoscono le lauree e i diplomi rilasciati dalla Facoltà
valdese di teologia e la possibilità per gli studenti di usufruire del rinvio militare. Infine si
stabilisce l’impegno a rivedere il contenuto dell’accordo entro dieci anni dalla sua entrata
in vigore, prevedendo però la possibilità di convocarsi prima nel caso in cui ciò si ritenesse
o fosse opportuno.
Poiché il mantenimento del culto e il sostentamento dei ministri avviene grazie ad offerte
volontarie, la legge introduce la possibilità di detrarle ai fini dell’Irpef e stabilisce inoltre che
anche la Tavola Valdese concorre alla ripartizione dell’otto per mille.
Quanto all’intesa con l’Unione italiana delle Chiese Avventiste del 7° giorno del 1988, i
suoi punti essenziali sono: la garanzia del diritto per gli avventisti, per ragioni di fede
contrari all’uso delle armi e soggetti all’obbligo del servizio militare di essere assegnati, su
loro richiesta e secondo le norme sull’obiezione di coscienza, al servizio sostitutivo civile;
nonché la garanzia dell’assistenza spirituale ai militari negli ospedali e negli istituti
penitenziari, fermo restando che i relativi oneri economici sono a carico dell’Unione delle
Chiese Avventiste.
Per quel che riguarda il diritto di non avvalersi degli insegnamenti religiosi ufficiali e di
impartire i propri, di istituire scuole parificate e di concedere diplomi, le disposizioni si
ispirano al modello dell’intesa con la Tavola Valdese. Si riconosce il riposo sabbatico, che
va dal tramonto del venerdì a quello del sabato. L’unico limite è costituito dalle
“imprescindibili esigenze di servizi essenziali previsti dall’ordinamento”. Esso comporta il
diritto di assentarsi dalle scuole il sabato e di sostenere le prove di esame in un giorno
diverso. Un punto riguarda gli edifici aperti al culto pubblico che non possono essere
requisiti, espropriati o demoliti se non per gravi ragione e previa intesa con l'Unione. Infine
i fedeli possono dedurre dal reddito, ai fini Irpef, i contributi volontari e possono concorrere
alla ripartizione dell’otto per mille; l'Unione si impegna a collaborare con lo Stato nella
tutela del patrimonio storico e culturale delle Chiese e sono riconosciuti i titoli di studio
rilasciati dall'Istituto Avventista di Cultura Biblica (Laurea in teologia e Diploma in teologia
e cultura biblica).
Quanto all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia, anch’essa del 1988, è dello stesso
tenore dell’intesa stipulata con l’Unione delle Chiese Avventiste.
L’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane del 1989 ricalca il modello delle
precedenti. I punti essenziali sono: la garanzia dei diritti costituzionali, la tutela penale del
sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa senza discriminazioni tra cittadini e tra
culti; il riconoscimento del riposo sabbatico e delle festività, il diritto a prestare giuramento
a capo coperto e la macellazione secondo i loro riti, nonché il diritto all’assistenza
spirituale ai militari negli ospedali e negli istituti penitenziari; in queste disposizioni però
manca la clausola che l’assistenza non grava finanziariamente sullo Stato. Per quanto
riguarda l’insegnamento della religione e il diritto di non avvalersene, il diritto di istituire
scuole di ogni ordine e grado, il riconoscimento della laurea rabbinica e del diploma di
cultura ebraica, le disposizioni sono analoghe a quelle delle altre intese.
Gli edifici di culto non possono essere requisiti, espropriati o demoliti se non per gravi
ragioni e previo accordo con l'Unione e la forza pubblica non può entrare in tali edifici se
non con preavviso e previ accordi con la Comunità competente. Viene consentito alle
Comunità che ne facciano richiesta la sepoltura perpetua in aree particolari assicurando
l'osservanza dei rituali ebraici.
Lo Stato e le Comunità ebraiche si impegnano alla tutela del patrimonio culturale ebraico;
le Comunità ebraiche vengono riconosciute come formazioni sociali che provvedono al
soddisfacimento dei bisogni religiosi degli ebrei. Si sancisce l’obbligo per tutte le Comunità
ed enti ebraici, che svolgono le proprie attività senza ingerenza da parte dello Stato, di
iscriversi nel registro delle persone giuridiche entro due anni dall’entrata in vigore della
legge di approvazione; si stabilisce che i contributi volontari delle Comunità ebraiche sono
deducibili ai fini Irpef, ed anche qui ci si impegna a rivedere l’intesa entro dieci anni dalla
sua entrata in vigore e si denunziano le leggi antecedenti.
Nell’intesa con l’Unione evangelica battista d’Italia del 1995, i battisti sottolineano i
principi su cui si basa la loro fede (battesimo dei credenti e valore della Chiesa locale) e
ne affermano altri, quali: il principio di non ingerenza reciproca tra Stato e Chiesa, nel
rispetto della Costituzione; si afferma che la fede evangelica non necessita di tutela penale
diretta e che le Chiese evangeliche si impegnano a sostenere tutte le spese relative
all'esercizio del culto, senza oneri a carico dello Stato o di altri enti pubblici.
Per il resto il contenuto dell’intesa, come pure quella con la Chiesa evangelica luterana
dello stesso anno, ricalca le altre intese sottoscritte.
Sarebbe più facile per lo Stato stipulare un'intesa tipo piuttosto che tante intese quante
sono le confessioni religiose ma il presupposto è costituito da una legge sui culti e sulla
libertà religiosa (come in Spagna) e una più attenta politica ecclesiastica poiché la
proliferazione di intese frammenta la legislazione ecclesiastica e lascia in vigore, per tutte
le altre confessioni che non hanno sottoscritto intese, la legge del 1929 sui culti ammessi.
Altre sei intese sono state sottoscritte ma non ancora convertite in legge: con la Chiesa
Apostolica in Italia, con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, con la
Congregazione italiana dei Testimoni di Geova, con la Sacra Arcidiocesi Ortodossa
d'Italia ed Esarcato per l'Europa meridionale, con l'Unione Buddhista Italiana e con
l'Unione Induista Italiana.

4.) La laicità dello Stato

La Costituzione del 1948, a differenza del precedente Statuto Albertino, non sancisce il
principio confessionista, per cui il nostro Stato può considerarsi legittimamente laico.
Ciò è stato ribadito da una sentenza della Corte Costituzionale del 1989: la laicità è un
principio fondamentale della Costituzione. Pertanto, quello della laicità, sembrerebbe un
problema risolto ma ciò è vero solo in parte facendo apparire il principio tutt'altro che
consolidato.
Il concetto di laicità nasce con l’Illuminismo e con la caduta dell’assolutismo regio, che
attribuiva alla Chiesa una posizione politica di grande rilievo, per cui lo Stato doveva
essere necessariamente confessionale per godere dell’appoggio ecclesiastico.
È stato detto che lo Stato liberale rappresenta l’unico esempio di Stato laico, in quanto è
caratterizzato da una legislazione anticlericale e di tipo unilaterale. Ciò è senz'altro vero
ma lo Stato attuale, con sistemi di tipo concordatario o nel quale si attua una tutela
differenziata delle confessioni religiose, non può considerarsi del tutto laico.
Lo Stato dovrebbe assumere una posizione di neutralità rispetto alle confessioni religiose
e tale neutralità, nel nostro ordinamento, non è ancora stata conseguita come prova il fatto
che nessuna disposizione in tal senso è contenuta nella Costituzione, che è stato di
recente confermato lo strumento concordatario, che si è lontani dal garantire a tutti una
piena libertà religiosa e che le varie confessioni non sembrano stare su posizioni paritarie.
È riscontrabile, infatti, nella nostra società una sorta di “confessionismo strisciante”,
testimoniato dalle feste religiose (cattoliche) e dall'adozione del calendario gregoriano,
dall’apposizione di simboli religiosi nei tribunali e nelle scuole, dal fatto che i vescovi sono
considerati autorità ecclesiastiche e autorità dello Stato e i parroci che celebrano il
matrimonio ufficiali dello stato civile. Al momento attuale dunque il nostro Stato non può
essere definito del tutto laico. E per garantire che una confessione religiosa non prevalga
sulle altre, il principio di laicità è stato ribadito nella nuova Costituzione europea.

5.) Fattore religioso e tutela degli interessi religiosi dei cittadini

Lo Stato agisce a tutela degli interessi religiosi dei propri consociati anche nell'ambito delle
c.d. organizzazioni di tendenza, in particolare enti di assistenza e beneficenza e Ipab,
dove i singoli (ecclesiastici o laici) lavorano e portano avanti le proprie istanze religiose
che necessitano di tutela.
L'interesse sta a base di molti comportamenti dell'uomo che sono così giustificati e
motivati e, in questa prospettiva, la tutela dell'interesse religioso può condividersi. Bisogna
capire però in che cosa consista l'interesse religioso, se si può parlare di interessi o se si è
in presenza di diritti soggettivi dei cittadini o di diritti potestativi. In ogni caso, la tutela di
questi diritti non può prescindere dall'applicazione dei principi generali dell'ordinamento,
tra i quali figura la tutela della libertà religiosa e, pertanto, la tutela degli interessi religiosi
non è alternativa a quest'ultima ma deve essere considerata all'interno di essa.
Lo Stato può tutelare un certo tipo di interessi religiosi, non tutti gli interessi; e può farlo in
relazione ad interessi di altri e a quelli della comunità, anche su un piano individuale e non
solo come interessi diffusi. Quei fedeli, ad esempio, che considerino danneggiato il loro
interesse a causa della rimozione di un parroco, della soppressione di una parrocchia o
del comportamento disdicevole dello stesso parroco, possono costituirsi parte civile nei
confronti del Vescovo per vedere riconosciuti i loro interessi. Prima dell'entrata in vigore
della Costituzione ciò non era possibile poiché si riteneva che la rappresentanza dei fedeli
spettasse al Vescovo o al parroco.
In relazione a tale argomento debbono prendersi in considerazione anche gli interessi dei
gruppi confessionali all'interno dei quali i singoli agiscono, con preciso riferimento alle
formazioni sociali di cui all'art. 2 Cost., distinguendo un'autodeterminazione individuale
(liberale) da un'autodeterminazione collettiva (democratica) e lo Stato deve garantire
allo stesso modo la protezione di entrambe le fattispecie perché gli interessi dei singoli
possono essere in conflitto o avere natura diversa di quelli dei gruppi di cui fanno parte.

6.) La libertà religiosa

La libertà religiosa è stata considerata un diritto pubblico soggettivo che il singolo


vuole che sia protetto e garantito dallo Stato e che trova il proprio limite nella libertà degli
altri singoli.
Ruffini evidenziava in materia che si doveva fare riferimento proprio all'individuo e non al
gruppo poiché in capo al singolo la libertà religiosa trovava la sua piena attuazione. Un
diritto che la dottrina tradizionalmente considerava negativo, assoluto, pubblico e
costituzionale. Ma la libertà religiosa non è solo un valore giuridico ma anche etico-
politico, storico e relativo.
Rifacendosi al pensiero di Kelsen, il quale riteneva che la libertà non fosse un concetto
giuridico, è possibile ritenere la libertà religiosa un diritto autonomo e non unitario, positivo
e non negativo, privato oltre che pubblico, relativo e non assoluto, un diritto che è tutelato
sia dalla Costituzione che dalla legge ordinaria.
Comunque, una libertà assoluta non può attuarsi e, infatti, la nostra Costituzione, nel
conflitto tra libertà ed uguaglianza ha scelto di far prevalere quest'ultima.
Dalla tutela accordata dallo Stato rimaneva esclusa la c.d. libertà di coscienza, aspetto
essenziale della libertà religiosa, ma lo Stato non può limitarsi a garantire e tutelare solo le
manifestazioni esterne della libertà religiosa ma deve considerare anche gli aspetti interiori
e considerare la libertà un valore, un principio.
Le disposizioni costituzionali in merito appaiono largamente incomplete con la
conseguenza di una costante violazione della libertà religiosa al punto da sostenere che il
diritto soggettivo alla libertà religiosa non è solo un diritto pubblico e la sua tutela può
provenire anche dagli altri consociati e non solo dallo Stato; che è un diritto non negativo
e lo Stato deve promuoverne e favorirne l'attuazione; che è un diritto non unico perché
autonomi sono i singoli diritti di libertà; che è un diritto non assoluto ma relativo perché
trova un limite nel diritto degli altri.
Ma, comunque, ciò non comporta che lo Stato possa intervenire in un ambito che
l'individuo si è faticosamente conquistato né che i singoli possano sottrarsi, per ragioni di
coscienza a comandi imperativi dello Stato.
Ha destato perplessità il modo in cui è stato attuato il diritto di libertà religiosa nel nostro
ordinamento, anche alla luce del diffuso dissenso religioso.
In Italia, questione attinente alla libertà religiosa è quella che riguarda i simboli religiosi,
come l'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche o negli uffici pubblici, oppure
l'utilizzo del velo islamico. In Francia le disposizioni contrarie all'uso del velo sono in
evidente contrasto con la laicità di tale Paese, a conferma che ci si trova di fronte a
problemi di libertà religiosa.
In Italia, per ben undici volte, è stato presentato in Parlamento il progetto di legge sulla
libertà religiosa ma ciò non sembra che sia del tutto in linea con la tutela che richiede un
principio costituzionale di tale portata che verrebbe ad essere regolamentato da una legge
ordinaria.

Capitolo III

LE FONTI DEL DIRITTO ECCLESIASTICO

1.) Principi generali

Quanto alle fonti del diritto ecclesiastico, non ha più ragione d'essere la vecchia
distinzione del D’Avack tra fontes cognoscendi ed existendi, poiché per fonte si intende
il fatto o l’atto che produce le norme e non il documento che materialmente le rende
riconoscibili.
Del medesimo autore è invece del tutto condivisibile la posizione per cui questi sostiene
che le norme del nostro diritto ecclesiastico preconcordatario che non siano state abrogate
o derogate da norme successive, sono da considerarsi pienamente vigenti nel nostro
ordinamento giuridico.
Gli ecclesiastici sono soliti distinguere, a secondo della provenienza, tra: fonti unilaterali
(statuali e confessionali) e fonti bilaterali. A loro volta, tali fonti vanno ulteriormente
distinte e classificate secondo i criteri di gerarchia e competenza. Le gerarchie normative
possono essere strutturali, quando un determinato potere normativo trae la sua esistenza
dall’altro; formali, quando la relazione tra fonti è istituita dalle fonti stesse; logiche, cioè
istituite dalla struttura del linguaggio delle fonti e non dal diritto; assiologiche, quando la
relazione tra le norme è istituita dalle valutazioni degli interpreti.
Quanto alla classificazione delle fonti, esse sono ordinate gerarchicamente, secondo
l’elencazione dell’art. 1 prel., per cui le leggi prevalgono sui regolamenti ed entrambi sugli
usi; in questa materia bisogna fare riferimento all’ordinamento giuridico dello Stato, che è il
solo a poter inserire nel proprio ambito fonti esterne, attraverso il rinvio formale o materiale
e la presupposizione e a conferire agli atti o fatti normativi aventi forza di legge il relativo
grado gerarchico.
Le norme di diritto esterno acquistano rilevanza nell’ordinamento interno a condizione che
l’ordinamento statuale non abbia in materia specifiche disposizioni; che le norme cui si
rinvia non introducano principi contrari a quelli su cui si basa il nostro ordinamento e che
abbiano un contenuto ben determinato o determinabile. Criteri, questi, pacifici nell'ambito
del diritto internazionale nel quale, tra l'altro, vige il principio di effettività, cioè del
collegamento tra la norma e la realtà attraverso l'accettazione dei consociati. Tale principio
ha effetto sulla vita delle norme perché quando queste non sono più applicate (perché
contrarie ad altre disposizioni o non adeguate alla realtà) ciò può rappresentare un
avvertimento per il legislatore sul valore attuale della norma ma, comunque, non potranno
essere violate per desuetudine per cui rimangono in vigore fino all'eventuale abrogazione.
Le sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale in origine non avevano valore di
legge ma si limitavano a dichiarare una norma non compatibile con la Costituzione o con
leggi costituzionali per cui non si poteva ritenere applicabile (funzione negativa ma
propositiva). Buona parte della dottrina, invece, ritiene che tali sentenze abbiano la qualità
di fonti del diritto in quanto efficaci erga omnes e capaci di introdurre nell'ordinamento
nuove norme di rango legislativo. La funzione della Corte sarebbe in questo caso positiva.
Diverse sono le sentenze additive, con le quali la Corte si sostituisce al legislatore
tentando di introdurre nuove norme di legge. Ma tale potere è riservato, in primo luogo al
potere legislativo e, in secondo luogo, al potere esecutivo e, quindi la giurisprudenza
costituzionale manipolativa non può mai costituire fonte di norme, e ciò sia per le
sentenze di accoglimento che per le sentenze di rigetto o di inammissibilità che non
sono fonti di diritto e non modificano alcuna legge.
In questi casi compito della dottrina non è seguire l'orientamento della Corte
Costituzionale ma riferirsi ai principi generali e alle leggi fondamentali dell'ordinamento
assumendo una posizione di controllo dell'operato della Corte, tentando di evitare eccessi
e travalicamenti.
Le sentenze della Corte Costituzionale costituiscono un significativo punto di riferimento
ma non sono fonti del diritto in senso tecnico proprio per la funzione negativa svolta. Per
ricomprenderle tra le fonti del diritto bisognerebbe attribuire valore in tal senso al
precedente tramite un riesame teorico dell'opinione tradizionale che nega alla
giurisprudenza tale caratteristica. Il precedente ha efficacia vincolante solo nei sistemi di
common law mentre nel nostro può avere, al massimo, mera efficacia persuasiva.

2.) Le fonti di diritto ecclesiastico interno

Le fonti del diritto ecclesiastico interno sono: le norme della Costituzione riguardanti il
fattore religioso, le leggi costituzionali, le leggi ordinarie, i regolamenti e gli usi in tale
materia.
La legge di esecuzione dei Patti lateranensi deve essere considerata una legge ordinaria
che può essere modificata da altra legge ordinaria, previ accordi con la Chiesa cattolica o,
unilateralmente, con il procedimento di revisione costituzionale.
L'art. 7 Cost. riguarda non il solo Concordato ma il regime pattizio tra lo Stato e la
Chiesa in via permanente ed impone al legislatore di non emanare norme contrarie ai
Patti. Ne consegue che, una legge ordinaria contraria ai Patti emanata senza l'accordo
dell'altra parte sarebbe incostituzionale. Pertanto, la lettura congiunta dell'art. 7 c. 2 e 8 c.
3 Cost. individua il c.d. principio di bilateralità nel quale si sostanzia l'attuale sistema
pattizio. Ogni nuovo accordo sarebbe, in ogni caso protetto costituzionalmente in base a
quanto previsto dall'art. 10 Cost. circa la conformità alle norme del diritto internazionale
generalmente riconosciute.
Le norme di derivazione ordinaria non possono non avere copertura costituzionale poiché
in mancanza avrebbero un grado inferiore rispetto alle norme promulgate sulla base delle
intese sottoscritte ai sensi dell'art. 8 Cost.
Le leggi emanate sulla base delle intese sono leggi rinforzate, soggette a sindacato di
costituzionalità in quanto leggi ordinarie ma con un grado di resistenza maggiore nei
confronti del legislatore ordinario.
Alcune perplessità sono sorte relativamente al fatto che, sulla base degli art. 7 e 8 Cost.,
l'impegno pattizio sia vincolante per lo Stato mentre quest'ultimo dovrebbe essere libero di
regolamentare la materia ecclesiastica residua in via unilaterale. Ulteriori perplessità
nascono dal fatto che le intese concordatarie sono approvate con d.p.r. contribuendo a
confondere il sistema delle fonti di diritto ecclesiastico.

3.) Le fonti di diritto esterno

Il rapporto tra le fonti di diritto interno ed esterno è stato oggetto di intervento della Corte
Costituzionale, che nella sentenza n. 168/1991 ha affermato il principio secondo cui:
“l’ordinamento statale non è aperto in modo incondizionato alle norme comunitarie poiché
è comunque vigente il limite del rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana”.
Dunque quello delle fonti si configura come un sistema chiuso, in cui lo Stato è l’unica
fonte possibile, garanzia di omogeneità ed unitarietà. Ma tale concezione deve rapportarsi
a quelle concezioni più recenti che fanno capo ad un pluralismo delle fonti legislative e
delle giurisdizioni che ha consentito, alla Corte di Giustizia europea di affermare la
preminenza delle norme di diritto comunitario, la loro superiorità rispetto alle norme interne
degli Stati, comprese quelle costituzionali, e l'obbligo per il giudice dello Stato di
disapplicare norme nazionali in contrasto con quelle comunitarie. Nelle sue affermazioni,
la Corte, non tiene conto del fatto che la sovranità nazionale spetta al popolo, che vi
sono principi fondamentali della Costituzione immodificabili, che i diritti inviolabili
dell'uomo, i doveri inderogabili, lo status personale e le libertà essenziali sono disciplinabili
solo dallo Stato. Pertanto le norme comunitarie devono essere recepite nei singoli
ordinamenti statuali nel rispetto di tali ordinamenti e delle loro Carte Costituzionali.
Quella vista sopra è una concezione del sistema delle fonti garantista delle attribuzioni
dello Stato che non consente di aderire alle posizioni di chi auspica, nell’ambito del diritto
ecclesiastico, un sistema di codeterminazione delle fonti e un temperamento della
sovranità dello Stato. La codeterminazione delle fonti, in altre parole, determinerebbe un
ampliamento del sistema delle fonti, ricomprendendovi anche ordinamenti distinti dallo
Stato. Ma ciò non può certo derivare dall'autolimitazione della sovranità dello Stato. Ciò è
ribadito dalla Costituzione dove Stato e Chiesa sono posti su un piano di pari
indipendenza e sovranità senza alcuna limitazione, appunto, della sovranità che spetta al
popolo. Altrettanto, non si può sostenere che la laicità dello Stato comporti una limitazione
della sua sovranità poiché lo Stato è laico proprio perché non condizionato da alcuna
confessione, mantenendosi in una posizione neutrale rispetto a tutte le confessioni.
Inoltre, l'autonomia confessionale (possibilità di emanare statuti da parte delle
confessioni) è garantita dalla Costituzione non solo alla Chiesa cattolica ma anche alle
confessioni acattoliche, e le manifestazioni di tale autonomia debbono, comunque e
sempre, rapportarsi ai principi fondamentali dello Stato e alle norme cogenti o imperative,
come le norme penali. Pertanto, la riserva di statuto di cui all'art. 8 Cost. non consente
alle confessioni religiose di emanare norme aventi forza di legge in maniera tale da
prevalere su leggi costituzionali ed ordinarie.
L’unica strada per ampliare la categoria delle fonti è, quindi, quella della legislazione
costituzionale, in quanto ricorrere a strumenti esterni o agli orientamenti giurisprudenziali
complicherebbe solo la materia. Se la disposizione di cui all'art. 1 disp. prelim. c.c. non si
ritiene più al passo con i tempi, bisogna intervenire positivamente e modificarla.
Se quanto detto è valido in via generale, altrettanto lo è per il diritto ecclesiastico, per la
particolare importanza delle norme costituzionali che lo riguardano.

4.) Sistematica delle fonti. Possibili prospettive

La dottrina costituzionalistica ha evidenziato come ormai sia messo in discussione il


principio di tassatività e tipicità delle fonti. Ciò è dovuto soprattutto all’introduzione di
un nuovo tipo di legge (di delegificazione), cioè di un tipo di legge avente effetti peculiari
e diversi da quelli delle altre leggi ordinarie, che da un lato ha determinato la rottura del
numero chiuso e dall’altro ha comportato l’ammissibilità della creazione di nuove fonti
collocate a livello primario. Ciò, con tutta evidenza, contrasta col suddetto principio di
tassatività per cui è necessario procedere, in sede costituzionale, a una risistemazione
delle fonti e alla ricostituzione del numerus clausus di queste, che non può avvenire
tramite legge ordinaria.
Queste posizioni dottrinali confortano quanto si è finora affermato ricordando, comunque,
che compito del giurista non è quello di assecondare posizioni dottrinali o giurisprudenziali
ma quello di dare stabili e chiari parametri di riferimento in attuazione dei principi generali
del diritto, specie in questa materia.
Anche la dottrina ecclesiastica più recente è cosciente del fatto che, un sistema delle fonti
come si è delineato, rischia di fare perdere l'idea di efficacia generale e di forza tipica della
fonte legislativa ordinaria. Una prova di ciò è data dalla diversa qualificazione delle leggi di
approvazione delle intese con le confessioni acattoliche che finiscono proprio per alterare
le caratteristiche della legge ordinaria. Il rapporto tra leggi di approvazione delle intese e
leggi ordinarie non è un rapporto di forma ma un rapporto di sostanza per cui queste, in
definitiva, svolgono la funzione costituzionale di attuare il principio di libertà religiosa.
Ne consegue che le ulteriori intese citate nell'Accordo del 18 febbraio 1984 si configurano
come accordi internazionali in forma semplificata per cui tutta la confusione creatasi in
seguito alla stipulazione dei Patti lateranensi può risolversi facendo ricorso alle classiche
figure dell'adattamento del diritto interno al diritto convenzionale. È stato osservato che le
fattispecie pattizie sorte tra Stato e Chiesa sono atti distinti ma collegati, prodotti da fonti
distinte, una internazionale e l'altra interna. Il Concordato del 1984 è, in pratica un
accordo internazionale che prevede ulteriori futuri accordi che completino le norme non
self-executing che le parti hanno voluto riservare proprio ad un successivo incontro di
volontà e, pertanto, anch'essi accordi internazionali ma in forma semplificata (non occorre
ratifica) e di secondo grado poiché prodotti sulla base di un obbligo giuridico assunto con
l'Accordo e in esecuzione del medesimo.
Da quanto sopra si evince che non si può procedere solo sulla base delle categorie del
diritto interno, anche se bisogna comunque muovere da esse, e che non è necessario
ricorre a nuove figure giuridiche per costruire un sistema delle fonti adeguato alla realtà
giuridica ma ciò può ottenersi sulla base delle più classiche e consolidate categorie sulle
fonti.

PARTE SPECIALE

I SOGGETTI

Capitolo I
LE PERSONE FISICHE

1.) Soggettività, personalità e capacità

L’elaborazione dei concetti di soggettività, capacità e personalità ha determinato il


riconoscimento di una sempre maggiore rilevanza ai gruppi.
L’elaborazione dei diritti individuali da parte degli ordinamenti è il risultato della
contrapposizione tra individuo ed autorità, in quanto il soggetto ne esige la tutela non solo
dagli altri soggetti, ma anche dall’ordinamento.
Questo aspetto assume caratteri particolari nell’ambito del diritto ecclesiastico con la
contrapposizione degli ecclesiastici (ai quali veniva riconosciuta la pienezza dei diritti) ai
laici (posti su di un piano di minore rilievo). Tranne poche eccezioni riguardanti la c.d.
cittadinanza vaticana, spettante al Pontefice, ai cardinali residenti in Roma e a pochi altri,
che non esclude ipotesi di doppia cittadinanza dato che non segue i criteri dello ius
sanguinis e dello ius soli, anche gli ecclesiastici residenti nel nostro Stato sono cittadini
italiani e come tali sottoposti alle leggi dell’ordinamento, anche se con delle peculiarità.
Senza dubbio, infatti, quello di ecclesiastico è uno status particolare (non privilegiato),
che è attribuito al soggetto dagli ordinamenti confessionali cui appartiene e che poi è
recepito dall’ordinamento statuale. L’ecclesiastico è sottoposto sia all’ordinamento
confessionale, volontario, che a quello statuale, coattivo, e, rispetto ad altri soggetti (come
il fedele) è maggiormente vincolato dall’ordinamento confessionale in quanto con i voti
assume dei particolari impegni verso la propria confessione. Bisogna tenere presente,
comunque, che dalla qualifica di ecclesiastico non può derivare una flessione dei diritti
soggettivi dei singoli né dello Stato nei loro confronti, ciò per evitare previsioni di diritto
singolare o privilegiato come in passato è accaduto.
La persona umana, tutte le persone, sono soggetti di diritto e si trovano in una condizione
da cui deriva la capacità giuridica (art. 1 c.c.), l'attitudine ad essere titolari di diritti e
doveri giuridici, diversa dalla capacità di agire, attribuita al soggetto maggiorenne (art. 2
c.c.). In questa sede ci riferiamo alla persona, titolare di specifici diritti (al nome,
all'immagine, allo status familiare) sia civili che pubblici, che non hanno carattere
patrimoniale e sono inalienabili, intrasmissibili, imprescrittibili e irrinunciabili e sono
garantiti dalla Costituzione che promuove il pieno sviluppo della persona umana. Ai diritti
si contrappongono i doveri: di difesa della patria, di prestazioni patrimoniali, di fedeltà
alla Repubblica. La persona umana, quindi, è interessata, nel nostro ordinamento, da un
vasto ambito di operatività che richiede che divenga nuovamente il principale punto di
riferimento dell'ordinamento.

2.) La condizione giuridica degli ecclesiastici

I cittadini appartenenti ad una confessione religiosa si trovano in una particolare


condizione: sono sottoposti coattivamente all’ordinamento statale e volontariamente
all’ordinamento della propria confessione.
Le norme di diritto ecclesiastico civile rilevanti nell’ordinamento statale e riguardanti la
condizione giuridica degli ecclesiastici sono diverse e numerose.
Vanno esaminate, innanzitutto, quelle contenute nell’Accordo di modificazione del
Concordato lateranense del 1984.
L’art. 4 dispone per gli ecclesiastici la facoltà di chiedere l’esonero dal servizio militare o
l'assegnazione al servizio civile sostitutivo e di non dare ai magistrati “informazioni su
persone o materie di cui siano venuti a conoscenza in virtù del proprio ministero”:
non si tratta di un divieto assoluto, in quanto gli ecclesiastici sono liberi di comportarsi
diversamente. Ancora l’art. 4 concede agli studenti di teologia e ai novizi degli istituti di
vita consacrata e delle società di vita apostolica di “usufruire degli stessi rinvii dal
servizio militare riconosciuti agli studenti delle università italiane”. È inoltre stabilito che
“in caso di mobilitazione gli ecclesiastici non assegnati alla cura di anime sono chiamati ad
esercitare il ministero tra le truppe, o, subordinatamente, assegnati ai servizi sanitari”. È
stabilito che gli ecclesiastici possono effettuare collette “all’ingresso o all’interno degli
edifici di culto o ecclesiastici”, e che essi devono ritenersi ufficiali di stato civile per
quanto riguarda il matrimonio religioso ad effetti civili.
In caso di epidemie o calamità, anche i ministri di culto possono validamente ricevere un
testamento “in presenza di due testimoni di età superiore ai sedici anni”. L’illecito
commesso da un religioso nell’esecuzione di un’attività svolta col consenso dei superiori,
impegna questi ultimi e l’ente committente della prestazione e l’obbedienza del religioso
verso i suoi superiori è considerata dal diritto statale “come ogni altra obbedienza
legalmente dovuta”. Come si può vedere, alla condizione giuridica degli ecclesiastici in
Italia non vengono attribuiti particolari privilegi.
Diversamente potrebbe sostenersi per quanto riguarda le norme penali sulla condizione
giuridica degli ecclesiastici, ancora legate a una concezione antiquata del fattore religioso.
Sicuramente non ha più senso parlare di delitti contro la religione di Stato e i culti
ammessi, anche perché tale dizione è stata sostituita da quella che parla dei delitti contro
le confessioni religiose.
I ministri di culto possono essere sia soggetti attivi che passivi di un reato. Nel primo caso,
“l’aver commesso il fatto con abuso di potere o con violazione di doveri” costituisce un
aggravante, per cui la pena è aumentata fino ad un terzo. Nel secondo caso, l’aver
commesso un reato sia nei confronti dei ministri di culto cattolico che di un culto ammesso
nello Stato costituisce un aggravante.
Norme del c.p. (art. 403 e 404) riguardano il fattore religioso, nella fattispecie il reato di
vilipendio che può attuarsi sia nei confronti delle persone che delle cose, anche in
occasione di funzioni religiose compiute in luogo privato da un ministro del culto cattolico
(precisazione inopportuna). Le norme del codice penale che prevedevano disparità di
trattamento tra la religione cattolica e le altre confessioni sono state dichiarate
incostituzionali.
Una volta era stabilito che, in caso di arresto, gli ecclesiastici e i religiosi dovevano
essere custoditi separatamente mentre, adesso, è stabilito che lo Stato assicura che
l'autorità giudiziaria darà comunicazione all'autorità ecclesiastica competente per territorio
dei procedimenti penali promossi a carico di ecclesiastici.
L'art. 405 c.p. riguarda il turbamento di funzioni religiose di una confessione religiosa
compiute con l'assistenza di un ministro di culto o in luogo destinato al culto o in luogo
pubblico o aperto al pubblico. Costituisce un aggravante il concorso di violenza o di
minaccia alle persone.
Il capo del c.p. intitolato “Dei delitti contro la pietà dei defunti”, punisce: la violazione del
sepolcro, il vilipendio delle tombe o delle cose destinate al culto dei defunti, il turbamento
di un funerale o di un servizio funebre, il vilipendio, la distruzione, soppressione o
sottrazione, l’occultamento e l’uso illegittimo di cadavere.
La bestemmia è considerata una contravvenzione per cui è prevista solo un’ammenda e
sembra riguardare l'offesa alla divinità, ai simboli o alle persone venerati dalla religione.
Norme penali si ritrovano anche nel Trattato lateranense. Poiché “la persona del Sommo
Pontefice è considerata dallo Stato italiano sacra e inviolabile, l’attentato contro di essa
e la provocazione a commetterlo, come anche le offese e le ingiurie pubbliche, sono
punibili con le sanzioni previste per i medesimi reati perpetrati nei confronti del Presidente
della Repubblica”. “A richiesta della Santa Sede e per delegazione di quest’ultima, l’Italia
si impegna a punire i delitti commessi nella Città del Vaticano, salvo quando il reo si rifugi
in territorio italiano, nel qual caso nei suoi confronti si procede secondo le leggi italiane.
Dal canto suo, la Santa Sede consegnerà allo Stato le persone rifugiate nella Città del
Vaticano o negli immobili immuni, imputate di atti, commessi nello Stato italiano, che siano
ritenuti delittuosi da entrambi gli Stati, a meno che i preposti agli immobili non preferiscano
fare accedere gli agenti italiani al fine di operare l'arresto”.
“Le persone aventi stabile residenza nella Città del Vaticano” sono sottoposte alla
sovranità della Santa Sede, anche in concorrenza, in caso di doppia cittadinanza, con la
giurisdizione di altri Stati.
Molto importante è l’art. 23 del Trattato lateranense, che riconosce rilevanza
nell’ordinamento italiano alle sentenze ed ai provvedimenti delle Autorità ecclesiastiche,
riguardo persone ecclesiastiche o religiose in materia spirituale o disciplinare. Alla luce di
questa disposizione, il giudice civile non può negare efficacia giuridica ad un
provvedimento canonico in senso stretto, che incide sulla situazione giuridica soggettiva
di un soggetto, come la rimozione dalla funzione di parroco. L’ecclesiastico può rivolgersi
al giudice civile solo nel caso in cui vi sia stata una violazione procedimentale o se sia
stata lesa una sua libertà fondamentale di cittadino, e in tal caso ha diritto al risarcimento
del danno patrimoniale. Il giudice civile non potrà dichiarare il proprio difetto di
giurisdizione poiché violerebbe l'art. 24 Cost.

3.) L’assistenza spirituale

Gli ecclesiastici provvedono ad assicurare ai propri adepti l’assistenza spirituale nelle


Forze armate, nelle strutture sanitarie e negli istituti di prevenzione e pena.
Quanto ai cattolici, la materia è disciplinata dall’art. 11 dell’Accordo di modificazioni del
Concordato lateranense del 1984. Al comma 1 tale norma collega la garanzia
dell’assistenza spirituale all’esercizio della libertà religiosa. Nel comma 2 aggiunge che
“l’assistenza spirituale è garantita da ecclesiastici nominati dalle autorità italiane
competenti su designazione dell’autorità ecclesiastica, secondo modalità stabilite d’intesa
fra l’autorità ecclesiastica e quella statuale” rendendo necessari ulteriori accordi.
Vanno ora esaminati i singoli ambiti in cui è assicurata l’assistenza spirituale.
Quanto alle istituzioni militari, il primo intervento legislativo risale ad un d.l.lgt. (decreto
legislativo luogotenenziale) del 1915, che istituì i cappellani militari di terra e di mare
dipendenti da un vescovo di campo. In seguito, la legge 873/1973 poneva i cappellani
militari alle dipendenze sia dell’autorità civile che ecclesiastica con un'impronta ancora
confessionista. Il carattere confessionista è stato definitivamente superato con la legge
382/1978, secondo cui la nomina a cappellani militari presuppone il godimento dei diritti
civili e politici e dei relativi requisiti fisici, dopo di che essi entrano con lo Stato in un
rapporto di pubblico impiego e sono assimilati ai gradi militari.
Quanto agli istituti di prevenzione e pena, va detto che la religione era considerata uno
strumento essenziale per la riabilitazione dei carcerati, tanto che era obbligatoria la
partecipazione alle funzioni di culto. È evidente la lesione della libertà religiosa che così si
realizzava. Ai detenuti acattolici era concesso di restare nelle celle e ricevere l’assistenza
spirituale solo su richiesta. La legge 354/1975, invece, tutela pienamente la libertà
religiosa, riconoscendo “ai detenuti acattolici e agli internati la libertà di professare la
propria fede religiosa e praticarne il culto. Si assicura la celebrazione dei riti di culto
cattolico e a ciascun istituto è assegnato almeno un cappellano. Gli appartenenti a
religione diversa dalla cattolica hanno facoltà di ricevere, su richiesta, l’assistenza
spirituale dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti”. Anche se la libertà religiosa del
detenuto ha una piena tutela, in realtà, solo per i cattolici è istituito un servizio stabile,
mentre per gli acattolici è prevista solo la possibilità di poter usufruire del servizio.
L’assistenza religiosa al personale della Polizia di Stato è prevista da un’intesa tra il
Ministero dell’Interno ed il Presidente della C.E.I., resa esecutiva nel 1991, e che stabilisce
che l’assistenza spirituale è svolta da cappellani incaricati con decreto del Ministro
dell’Interno, su designazione del vescovo del luogo, senza che si costituisca un rapporto di
pubblico impiego. Nel 1999, un'intesa sull'assistenza spirituale al personale della Polizia di
Stato muta lo scenario con la creazione del cappellano coordinatore nazionale,
nominato dalla Conferenza Episcopale, con la quale si coordina, e che deve essere sentito
prima di ciascuna nomina e che ha funzioni di programmazione e di aggiornamento. Date
le caratteristiche dell'incarico conferito ai vari cappellani (diritto al compenso, orario di
lavoro, dipendenza dal Questore), la nuova intesa instaura un vero e proprio rapporto
d'impiego a carico dello Stato, diversamente dalla precedente intesa.
Forme minori di assistenza spirituale sono previste nei convitti nazionali e negli educandati
femminili e tramite cappellani comunali, cappellani del lavoro e cappellani delle navi.
Quanto all’assistenza spirituale negli enti ospedalieri, bisogna fare riferimento alla legge
132/1968, in cui l’assistenza spirituale è qualificata come servizio. Anche in questo caso,
però, il servizio è organizzato in modo stabile solo per i cattolici e non anche per gli
acattolici. Inoltre, per i fedeli delle altre confessioni la direzione sanitaria, su richiesta
dell’interessato, provvede al reperimento dei relativi ministri ed alla remunerazione per il
servizio prestato a titolo di prestazione occasionale. Anche la legge istitutiva del Servizio
sanitario nazionale garantisce l’istituzione di un vero e proprio servizio solo alla Chiesa
cattolica, mentre alle altre confessioni è offerta solo la possibilità di manifestare le proprie
esigenze. Infatti, la qualifica di assistente religioso è riservata solo al personale di
assistenza cattolico mediante l'assunzione tra il personale ospedaliero o tramite una
convenzione stipulata tra un sacerdote designato dal Vescovo e l'amministrazione
sanitaria.
Dunque lo status giuridico dei cappellani è diverso a seconda dell’ambito in cui operano: i
cappellani militari sono considerati a tutti gli effetti membri delle Armi in cui sono
inquadrati; i cappellani delle carceri possono essere considerati incaricati di pubblico
servizio e soggetti alla disciplina del rapporto di pubblico impiego; non altrettanto può dirsi
per i cappellani della Polizia di Stato; i cappellani ospedalieri conservano un’autonomia
che non consente di inquadrarli nella categoria del pubblico impiego. È evidente che la
legislazione statale in materia non attua in pieno il principio di eguaglianza.
Quanto alle confessioni acattoliche, l’assistenza spirituale è oggetto delle intese sinora
sottoscritte.
Nell’intesa con la Tavola Valdese l’assistenza spirituale è assicurata ai militari, alle case
di cura o di riposo, agli ospedali evangelici e agli istituti penitenziari. La Tavola Valdese si
impegna a sostenere autonomamente gli oneri finanziari inerenti le attività religiose
mentre, lo Stato, assicura a tutti gli interessati di potersi avvalere liberamente di tale
assistenza spirituale, senza caricare sulla spesa pubblica il costo di attività non inerenti ai
suoi fini istituzionali”.
Disposizione che avrebbe dovuto informare anche la norma concordataria di cui all'art. 11
al fine di attuare pienamente il principio costituzionale di eguaglianza dei singoli nonché la
pari libertà dei culti religiosi poiché la tutela degli interessi dei cattolici, per gli oneri
finanziari che ne conseguono, finisce con il gravare su tutta la comunità.
Nell’intesa con l’Unione italiana delle Chiese Avventiste del 7° giorno, nonostante
siano contrarie per ragioni di fede all'uso delle armi, è garantita l’assistenza spirituale ai
militari, nelle strutture sanitarie e penitenziarie e gli oneri finanziari per l’assistenza
spirituale sono a carico dell’Unione stessa.
Analoghe disposizioni sono rinvenibili: nell’intesa con le Assemblee di Dio in Italia,
nell’intesa con le Comunità ebraiche italiane, nell’intesa con l’Unione cristiana
evangelica battista d’Italia e in quella con la Chiesa evangelica luterana.
La materia dell'assistenza ha in Italia grande tradizione al punto da formare oggetto
dell'art. 38 Cost. da cui deriva l'obbligo per lo Stato di riconoscere il diritto all'assistenza a
qualunque organizzazione, laica o confessionale, con applicazione del principio di
sussidiarietà.
Inoltre, nel 1985, si è stabilito che le attività di assistenza, beneficenza, istruzione,
educazione e cultura sono diverse da quelle di religione e di culto.
Alla luce di tutto ciò non si spiega come gli ecclesiastici di confessione cattolica incaricati
dell'assistenza spirituale debbano essere nominati dallo Stato su designazione dell'autorità
ecclesiastica poiché in materia l'interesse non è soltanto pubblico e non può gravare solo
sullo Stato, privilegiando fra l'altro la confessione cattolica rispetto alle altre.

4.) Le obiezioni di coscienza

L’obiezione di coscienza, in passato non ammessa, consiste nel rifiuto di rispettare


determinate disposizioni di legge per motivi di coscienza.
L’obiezione di coscienza considerata è quella avente motivazioni religiose. È
tradizionalmente consistita nelle forme di obiezione di coscienza al servizio militare, al
giuramento, all’interruzione della gravidanza e ad alcune prestazioni terapeutiche,
tutte regolamentate da precise disposizioni di legge. L'obiezione di coscienza deve essere
riguardata nell'ambito dei doveri costituzionali e, per questa ragione, non può estendersi
indefinitamente.
Riguardo all'obiezione di coscienza, l'atteggiamento della Chiesa cattolica è molto aperto
poiché già Papa Paolo VI si rallegrava del fatto che il servizio militare potesse essere
sostituito con un servizio civile e che con legge dello Stato si provvedeva al caso di chi,
per motivi di coscienza, rifiutava di usare le armi. Inoltre, nel can. 289 § 1 c.i.c. si prevede
la possibilità per gli ecclesiastici di prestare servizio militare solo su licenza del proprio
Ordinario, esprimendo una chiara riserva sul servizio militare considerato non consono allo
stato clericale.
La fattispecie in esame è l'unica in cui la coscienza viene ad essere giuridicamente
tutelata in maniera esplicita individuando le motivazioni morali a base dei soggetti, tra le
quali rientra la motivazione religiosa. Si crea, pertanto, un contrasto tra i valori
fondamentali dell'ordinamento (doveri costituzionali) e i valori dei singoli individui, per i
quali si tenta di trovare, per via legislativa, una particolare tutela.
Quanto all’obiezione di coscienza al servizio militare, nulla di specifico si rinviene nella
nostra Costituzione, al di là dell’art. 11, che afferma il principio del ripudio della guerra, e
dell’art. 52, che afferma il “sacro dovere del cittadino” di difendere la Patria.
Diversa è la situazione legislativa ordinaria. La materia era disciplinata dalla legge
772/1972, che esonerava dall’obbligo i soggetti: “che si fossero dichiarati contrari all’uso
delle armi per motivi di coscienza, fondati su convinzioni “religiose, filosofiche o
morali”. Proprio perché questa norma pone sullo stesso piano le convinzioni religiose,
filosofiche o morali, essa desta perplessità e dimostra la necessità di una nuova
regolamentazione di tutta la materia.
In un disegno di legge del 1991 sulla libertà religiosa si riconosceva ai cittadini il diritto di
agire secondo la propria coscienza, nel rispetto dei diritti-doveri sanciti dalla Costituzione e
si equiparava la libertà di coscienza e di religione, quali diritti fondamentali della persona,
e si precisava che nessuno poteva essere discriminato o soggetto a costrizioni a causa
della propria fede religiosa né obbligato a dichiarare espressamente l'appartenenza
confessionale.
L’attuale legge 230/1998 ricollega il diritto degli obiettori alla Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo e alla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, oltre
che al dovere costituzionale di difesa della Patria. Chi intende avvalersi del diritto di
prestare il servizio civile deve “presentare domanda al competente organo di leva entro 15
giorni dalla data di arruolamento”, indicandone i motivi. Il diritto non è esercitabile da chi è
in possesso del porto d’armi, o abbia presentato domanda per prestare il servizio militare
nelle Forze armate, nei Carabinieri, nella Guardia di Finanza, nella Polizia di Stato, nella
polizia penitenziaria o nel corpo forestale, da chi sia stato condannato per detenzione di
armi o per violenza contro persone o delitti derivanti dall’appartenenza a gruppi eversivi o
criminalità organizzata.
Entro sei mesi dalla presentazione della domanda, il Ministro della difesa decreta
l’accoglimento della domanda o ne motiva il rigetto, contro cui può presentarsi ricorso
all’autorità giudiziaria ordinaria che può sospendere l'efficacia del provvedimento. Coloro
che prestano servizio civile godono degli stessi diritti di chi presta servizio militare. È
istituito l’Ufficio nazionale per il servizio civile, presso la Presidenza del Consiglio dei
ministri, con una sede centrale e sedi regionali. Presso questo organo è tenuto l’albo
degli enti e delle organizzazioni convenzionate (senza scopo di lucro, con fini di
assistenza, con capacità organizzativa e attività continuativa da almeno tre anni) e la lista
degli obiettori, ed è istituita una Consulta nazionale in via permanente. L’Ufficio nazionale,
tra l’altro, provvede all’organizzazione del servizio e alla “formazione e addestramento”
degli obiettori. “Il servizio civile ha una durata pari a quella del servizio militare di leva e
comprende un periodo di formazione ed uno di attività operativa”. Il rifiuto di prestare il
servizio civile comporta la pena della reclusione da sei mesi a due anni. La prestazione del
servizio civile è incompatibile con l’assunzione di impieghi pubblici o privati, con l’esercizio
di attività professionali, o la partecipazione a corsi o tirocini propedeutici a tali attività.
L'assegnazione dell'obiettore deve avvenire entro l'area ed il settore di impiego indicati
nella domanda e tenendo conto delle richieste degli enti e delle organizzazioni.
In materia è istituito il Fondo nazionale per il servizio civile degli obiettori di coscienza
con propria dotazione economica e il Presidente del Consiglio presenta una relazione
annuale al Parlamento sull’organizzazione, la gestione e l’andamento del servizio civile.
È disposta l’abrogazione della legge 772/1972, e successive modifiche.
L’obiezione di coscienza rimane pertanto sottoposta ai due limiti generali di fedeltà alla
Repubblica e ai doveri di solidarietà politica, economica e sociale.
Quanto all’obiezione di coscienza circa l’interruzione volontaria della gravidanza il
riferimento è la legge 194/1978, che prevede l’esercizio dell’interruzione volontaria della
gravidanza negli ospedali autorizzati, consentendo però al personale sanitario ed ausiliario
che non condividesse, anche per motivazioni religiose, lo spirito della legge, di richiedere
l’esonero da queste attività, salvo i casi di imminente pericolo di vita. In questo caso un
ruolo fondamentale è riconosciuto alle concezioni religiose relative all'inizio, al valore e alla
tutela della vita. Lesiva della libertà religiosa sarebbe la prassi amministrativa di escludere
dall'accesso alle strutture ospedaliere gli obiettori di coscienza.
Circa l’obiezione al giuramento, inteso sia come impegno che come riferimento alla
divinità, è più volte intervenuta la Corte costituzionale. In una sentenza del 1979 ha
ritenuto illegittimi gli artt. del c.p.c. e del vecchio c.p.p. che non contenevano l’inciso “se
credente”. Il nuovo c.p.p. ha risolto il problema adoperando una formula che impegna
solo la responsabilità morale e giuridica del testimone. Quanto al processo civile, la Corte
costituzionale ha ribadito la propria posizione in una recente sentenza del 1996.
Tutti i problemi riguardanti la bioetica possono far sorgere riserve ed obiezioni di carattere
religioso ma in materia manca una regolamentazione giuridica e ci si muove attraverso
Commissioni di studio o Comitati che non emanano norme giuridiche ma possono
influenzare profondamente su fondamentali principi giuridici, dalla capacità giuridica e di
agire ai diritti della persona fino all'eutanasia.
Non sembrano costituire obiezioni di coscienza i casi relativi, ad esempio, al riposo
sabbatico o al rispetto delle festività o costumanze religiose ma piuttosto semplice
applicazione dei principi di libertà religiosa e di eguaglianza, sul presupposto della laicità
del nostro Stato. Le c.d. obiezioni di coscienza rivendicate (ad es. diritto alla
riservatezza, obiezione ecologica, prestazioni di lavoro o fiscali, ecc.) possono
considerarsi solo nei rispettivi ambiti (di lavoro, fiscale o politico). L’unica eccezione è
costituita dall’obiezione ai trattamenti sanitari obbligatori e alle emotrasfusioni, rifiutate dai
Testimoni di Geova per motivi religiosi, ma da attuarsi nel rispetto della persona umana e
del diritto alla vita, bene fondamentale, poiché ciò dovrebbe sempre prevalere sui
convincimenti religiosi.
5.) Il sostentamento del clero. Aspetti previdenziali

In passato il sostentamento del clero era condizionato dal sistema beneficiale, nel senso
che all’ufficio ecclesiastico di parroco, vescovo o cardinale, spesso si accompagnava un
beneficio, cioè un insieme di beni attraverso cui avveniva il sostentamento dell’ufficio
stesso. L’ammontare di questi beni era così rilevante che spesso sorgevano dispute
sull’amministrazione di quelli vacanti, che ritornavano all’autorità civile fino alla nomina di
un nuovo titolare ecclesiastico. Questi erano i c.d. diritti di regalia, che furono mantenuti
dalla legge delle guarentigie ed aboliti poi dal Concordato del 1929. Tuttavia il sistema
beneficiale era insufficiente, sia perché non tutti gli uffici ecclesiastici godevano di un
beneficio, sia perché vi erano molti ecclesiastici sprovvisti di uffici. Lo Stato decise allora di
intervenire attraverso i supplementi di congrua, cioè delle integrazioni della rendita di
ciascuno fino a un minimo ritenuto dignitoso. L’ammontare di tali integrazioni variava
anche in base alla funzione svolta.
Si realizzò così un sistema che impegnava sia la Chiesa che lo Stato e che consentiva a
quest’ultimo di esercitare un certo controllo sul clero. Tale sistema si protrasse per
lunghissimo tempo fino a che il nuovo Codex iuris canonici, nel 1983 non ha abolito il
sistema beneficiale, rendendo così indispensabile un intervento normativo in materia. Ciò
è stato realizzato con la legge 222/1985. In essa si stabilisce di istituire in ogni diocesi
l’Istituto per il sostentamento del clero o Istituti interdiocesani, oltre ad un Istituto
centrale “che integri le riserve degli altri Istituti”, tutti aventi personalità giuridica, al fine di
garantire “il dignitoso sostentamento del clero che è al servizio della diocesi”. La
retribuzione “è equiparata, solo ai fini fiscali, al reddito da lavoro dipendente” e “l’Istituto
centrale effettua le ritenute fiscali e versa i contributi previdenziali e l’Irpef”. Tali istituti
possono svolgere funzioni previdenziali integrative autonome per il clero. I beni beneficiari
estinti confluiscono negli Istituti, che succedono in tutti i rapporti attivi e passivi, e tali beni
formano un'unica massa comune.
I singoli sacerdoti sono tenuti a comunicare all’Istituto diocesano “l’ammontare della
remunerazione che ricevono dagli enti ecclesiastici presso cui esercitano il ministero e gli
stipendi che eventualmente percepiscono da altri soggetti”. Se la somma dei proventi
risulta inferiore alla misura determinata dalla C.E.I., l’Istituto stabilisce l’integrazione
spettante, dandone comunicazione all’interessato”. All’integrazione si provvede mediante i
redditi patrimoniali di ciascun Istituto integrati, se insufficienti, dall’Istituto centrale. Le
entrate dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero sono costituite dalle oblazioni
dei fedeli e le persone fisiche possono dedurle dal proprio reddito fino all’ammontare di
due milioni, e dalle somme da versare alla C.E.I. risultanti dalla destinazione dell’otto per
mille dell’Irpef. Gli interventi dei singoli istituti e di quello centrale sono integrativi sulla
base dei redditi già percepiti e delle somme attribuite tramite le erogazioni liberali e l'otto
per mille. Lo Stato, pertanto, attraverso questo procedimento, concorre con la Chiesa nel
sostentamento del clero cattolico.
Quanto alle confessioni acattoliche, non è destinata al sostentamento del clero ma solo ad
“interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali”, la ripartizione della quota
dell’otto per mille dell’Irpef che, dopo l’intesa, hanno sottoscritto i valdesi. Anche le altre
intese prevedono la destinazione dell’otto per mille ad iniziative sociali ed umanitarie, per
cui è evidente che lo Stato non assume obblighi verso il clero acattolico. In materia vige
una legge che ha ad oggetto l'istituzione di un fondo di previdenza per il clero e i ministri di
culto delle confessioni acattoliche che disciplina anche i trattamenti pensionistici con lo
scopo di concedere una pensione diretta all'iscritto che abbia compiuto 65 anni o che sia
divenuto permanentemente invalido ed una pensione indiretta ai superstiti dell'iscritto o
pensionato. Al clero in genere sono applicate varie norme che riguardano la previdenza e
assistenza, l'assicurazione obbligatoria contro l'invalidità e la vecchiaia, l'assicurazione
obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
6.) Il lavoro dei religiosi

In materia di lavoro dei religiosi anche la Chiesa ormai dà per scontata l’esistenza di un
rapporto diretto tra lavoro e retribuzione.
Lo stesso Codex iuris canonici dispone che l’organizzazione ecclesiastica assicuri a tutte
le persone che prestino la loro attività una retribuzione giusta ed adeguata, che consideri
l’attività svolta e chi l’ha posta in essere, che consenta agli ecclesiastici e ai diaconi
coniugati che si dedicano a tempo pieno al ministero ecclesiastico il proprio
mantenimento, e di usufruire della previdenza sociale in caso di malattia, invalidità o
vecchiaia.
Il Trattato lateranense tende ad attribuire la competenza su tali materie al diritto canonico
sottraendola al diritto comune. Inoltre vige il principio di prevenzione, per cui, una volta
che l’ecclesiastico ha adito la giurisdizione canonica, non può poi rivolgersi a quella statale
per definire una controversia sulla retribuzione che gli spetta, ma è anche vero che
l’ecclesiastico ha diritto ad adire direttamente la giurisdizione ordinaria senza che questa
possa negare la propria competenza.
I voti di obbedienza e di povertà o l’osservazione che in convento si entra per fini di
perfezione spirituale e non per esercitare una professione, rilevano solo sul piano
personale e nell’ambito confessionale, fermo restando come lo stesso diritto canonico
stabilisce che l’ecclesiastico vada assistito in caso di malattia, invalidità o vecchiaia: ma
ciò è possibile solo se si versano i contributi previdenziali e pensionistici, sulla base di una
retribuzione conseguente a un rapporto di lavoro e non di una prestazione gratuita. Tutti gli
ecclesiastici hanno diritto alla previdenza e debbono essere retribuiti per il lavoro svolto.
La dottrina distingue tra una spiritualizzazione intrinseca ed oggettiva ed una
spiritualizzazione estrinseca e soggettiva dell’attività lavorativa. La prima è immanente
all’ufficio ecclesiastico in senso stretto e perciò non è suscettibile di valutazioni
economiche. La seconda, invece, è sottoposta alle regole di diritto del lavoro, in quanto ciò
che rileva è l’attività lavorativa comunque svolta dall’ecclesiastico. È questa che deve
essere retribuita, anche ai fini previdenziali e assistenziali e poco importa se è svolta in un
seminario o in una scuola privata perché chi deve essere garantito è, principalmente, il
cittadino anche se ecclesiastico. Si tratta, pertanto, di applicare in via preliminare le
disposizioni statali in materia.
Se i suddetti principi non venissero accolti si violerebbe il principio di eguaglianza,
costituendo ingiustificate eccezioni.
Ciò premesso, il lavoro degli ecclesiastici va configurato come rapporto di lavoro
subordinato e questa è l'unica via percorribile per fornire all’ecclesiastico una garanzia di
sostentamento per l'eventuale riduzione allo stato laicale o in caso di pochi o nessun
mezzo di sussistenza.
A volte, l'attività svolta dagli istituti di appartenenza degli ecclesiastici è anche di carattere
economico o speculativo per cui, in questi casi, è fuor di ogni dubbio che l'attività svolta
dall'ecclesiastico sia un'attività di lavoro economicamente quantificabile, contribuendo ai
fini economici dell'impresa.

7.) L’istruzione religiosa

L’istruzione religiosa va inquadrata nell’ambito del diritto allo studio. Le sue problematiche
vanno affrontate sulla base delle norme costituzionali, concordatarie e di diritto comune.
Quanto alle norme costituzionali, l’art. 33 Cost. afferma il principio del pluralismo
scolastico, riconoscendo ad “Enti e privati il diritto sia di istituire scuole o istituti di
educazione, senza oneri per lo Stato”, sia di ottenere, per quelle “che chiedono la parità,
piena libertà ed un trattamento per i loro alunni equivalente a quello degli alunni delle
scuole statali”. È questa la libertà della scuola, e cioè che ciascuno ha il diritto di
scegliere l'insegnamento più conforme alle proprie opinioni o esigenze, espressione di
pluralismo e democrazia. Accanto a tale libertà vi è la libertà nella scuola che riguarda
l'insegnamento della religione (facoltativo o meno e termini di svolgimento) e lo status
giuridico degli insegnanti di religione.
L'art. 33 Cost. stabilisce che l'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento e,
pertanto, oltre allo Stato, anche enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di
educazione, senza oneri per lo Stato.
L’art. 34 Cost. sancisce il diritto allo studio, affermando che: “La scuola è aperta a
tutti”, stabilendo i limiti dell’istruzione obbligatoria e garantendo “ai capaci e meritevoli”
il diritto a “raggiungere i più alti gradi degli studi attraverso borse di studio, assegni, ecc.”.
Dato che l’istruzione costituisce una res mixtae, è stata oggetto anche di disposizioni
concordatarie.
L’Accordo del 1984 stabilisce che: “La Repubblica italiana garantisce alla Chiesa cattolica
il diritto di istituire scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione”.
Si garantisce che: “Gli istituti universitari, i seminari e gli altri istituti per ecclesiastici e
religiosi o per la formazione nelle discipline ecclesiastiche, istituiti secondo il diritto
canonico, continueranno a dipendere solo dall’autorità ecclesiastica. I titoli accademici, in
teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche sono riconosciuti dallo Stato, al pari dei
diplomi conseguiti presso la Scuola vaticana. “Le nomine dei docenti dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti istituti sono subordinate al gradimento della
competente autorità ecclesiastica.
Altrove si garantisce agli studenti di teologia il diritto di usufruire degli stessi rinvii dal
servizio militare previsti per gli studenti delle università italiane.
Dunque nelle scuole confessionali il diritto allo studio è assicurato nel rispetto dei principi
sul pluralismo scolastico e religioso e l’autonomia delle confessioni, solo che ciò
accade in modo sicuramente maggiore per la confessione cattolica, mentre invece
andrebbero garantiti a tutti in eguale misura.
Al riguardo l’Accordo del 1984 stabilisce che: “La Repubblica italiana, riconoscendo il
valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte
del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle
finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non
universitarie di ogni ordine e grado”; sarebbe stato preferibile un insegnamento
riguardante la cultura religiosa e non quello di una sola religione. Inoltre “Nel rispetto della
libertà di coscienza, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o meno di tale
insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto,
su richiesta dell’autorità scolastica, senza che dalla scelta ne derivi alcuna
discriminazione”.
In realtà, la dichiarazione di avvalersi o meno dell’insegnamento, comporta una vera e
propria schedatura e, quindi, implicitamente una discriminazione, tanto più rilevante se si
pensa che a coloro che non si avvalgono dell’insegnamento non è garantita alcuna
alternativa, né è permesso sottrarvisi, dato che si tratta di un corso curriculare e non
collocato all’inizio o alla fine dell’orario di lezione, come accade invece negli Stati Uniti col
relised time. Su questi problemi è intervenuta più volte la Corte costituzionale che,
richiamandosi in particolare al principio di laicità, dapprima ha stabilito che gli alunni non
erano tenuti a seguire alcun altro insegnamento obbligatorio ma, allo stesso tempo, non
erano autorizzati ad allontanarsi dalla scuola. In un secondo momento, la Corte muta in
parte il proprio orientamento e, ribadendo la legittimità costituzionale dell'Accordo del
1984, stabilisce che l’insegnamento della religione non è causa di discriminazione e non
contrasta con il principio di laicità poiché permette all’alunno di potersi allontanare dalla
scuola.
Va poi considerato il problema dell’insegnamento della religione e dello status
giuridico degli insegnanti. L’insegnamento religioso fu reintrodotto nelle scuole italiane
(elementare e media) dall’art. 36 del Concordato del 1929 secondo i programmi da
stabilirsi d'accordo tra la Santa Sede e lo Stato, per cui la materia diventava di nuovo
obbligatoria ma se ne poteva essere dispensati su domanda dei genitori o di chi ne fa le
veci. L’insegnamento è impartito da insegnanti e professori ritenuti idonei dall’ordinario
diocesano. L’attestato di idoneità ha durata annuale e l’eventuale revoca impedisce di
svolgere l’insegnamento. Dunque gli insegnanti sono considerati quali incaricati annuali,
pagati dalla Pubblica Amministrazione ma sottoposti all’assoluta discrezionalità
dell’ordinario diocesano.
Nel 1989 un’intesa tra l’autorità scolastica e la C.E.I. ha riguardato tutta la materia e, in
particolare: i programmi di insegnamento, le modalità di organizzazione, i criteri per la
scelta dei libri, i profili per la qualificazione professionale degli insegnanti. Questi ultimi
sono sempre sottoposti all'ordinario diocesano che può revocare la loro idoneità. La
qualificazione riguarda solo quelli delle scuole secondarie e non delle materne ed
elementari, e concerne: titolo in teologia o altra disciplina ecclesiastica, approvato dalla
Santa Sede; attestato di compimento del regolare corso di studi teologici in seminario;
diploma accademico di magistero in scienze religiose, sempre approvato dalla Santa
Sede; diploma di laurea valido in Italia insieme a diploma rilasciato da un istituto di scienze
religiose approvato dalla C.E.I. Nessuna innovazione, invece, riguardo lo status giuridico
degli insegnanti, che è oggetto di competenza normativa esclusiva dello Stato. Gli
insegnanti hanno comunque gli stessi diritti e doveri degli altri loro colleghi e “partecipano
alle valutazioni periodiche e finali” dei loro alunni.
Con le norme del 2000 sulla parità scolastica, che stabilisce che il sistema nazionale di
istruzione è costituito dalle scuole statali e da quelle paritarie private, un ruolo rilevante è
stato attribuito alle scuole confessionali.
Sia per le scuole pubbliche che per quelle private, nel 2003, sono stati istituiti due distinti
ruoli regionali del personale docente, articolati per ambiti territoriali corrispondenti alle
diocesi. Le norme sullo stato giuridico sono uguali per tutti gli insegnanti, nelle scuole
materne ed elementari l'insegnamento della religione può essere affidato agli stessi
docenti ritenuti idonei dall'autorità ecclesiastica e l'accesso ai ruoli avviene tramite
concorso per titoli ed esami su base regionale. L'assunzione, a tempo indeterminato, è
disposta dalle regioni d'intesa con l'Ordinario ecclesiastico competente per territorio il
quale può revocare l'idoneità. I posti vacanti sono coperti con contratti a tempo
determinato stipulati dai singoli dirigenti scolastici, su indicazione del dirigente regionale,
sempre d'intesa con l'Ordinario diocesano che ha competenza anche sulle richieste di
mobilità degli insegnanti.
Come si vede, l'intervento della Chiesa cattolica sull'istruzione religiosa è notevole e
l'insegnamento in materia è garantito solo a quest'ultima e non alle altre confessioni.

Capitolo II

Le persone giuridiche

1.) Il concetto di ente ecclesiastico

Il termine ente significa “esistente”, indica cioè una realtà che vive ed agisce non solo di
fatto ma anche di diritto, consentendo di estendere il concetto di soggettività anche alle
persone giuridiche, oltre che a quelle fisiche: dunque entrambe sono soggetti di diritto.
Possono anticiparsi alcune caratteristiche degli enti: hanno in genere natura giuridica
privata, assumono personalità giuridica nel nostro ordinamento solo dopo il
riconoscimento, avente perciò natura costitutiva e non dichiarativa, che può essere
revocato quando viene meno un presupposto per la sua concessione.
I requisiti per il riconoscimento agli effetti civili delle persone giuridiche ecclesiastiche,
siano esse associazioni o fondazioni, sono: l’erezione o approvazione da parte
dell’autorità ecclesiastica, la sede in Italia, il fine di religione o di culto. L'autonomia
patrimoniale ha assunto nel tempo una minore importanza per la possibilità data alle
persone giuridiche non riconosciute di operare nell'ambito dell'ordinamento civile.
I riferimenti normativi in tale ambito si traggono dal codice civile e da quanto stabilito per le
persone giuridiche dall'Accordo del 1984, dalle intese con le confessioni acattoliche e dalle
leggi riguardanti le singole tipologie di enti. Gli ordinamenti confessionali assumono una
minore importanza e nessuna confusione può essere fatta tra il regime che gli enti
assumono all'interno dei loro ordinamenti confessionali e quello assunto nell'ordinamento
italiano.

2.) La natura giuridica degli enti ecclesiastici

Il problema della natura pubblica, privata o mista degli enti ecclesiastici nasce dal fatto
che l’art. 2 del c.c. del 1865 sembrava riconoscere agli enti ecclesiastici una natura
pubblica. Il codice civile del 1942 non parla più in modo esplicito di enti ecclesiastici ma li
menziona nell'art. 831 in quanto proprietari di beni. Non sono ricompresi tra gli enti
pubblici di cui all'art. 11 per cui qualcuno riteneva fossero soggetti solo al diritto canonico e
alla legislazione pattizia. In realtà, il fatto che si richieda l'iscrizione nel registro delle
persone giuridiche, che il riconoscimento non sia automatico ma discrezionalmente
concesso e soprattutto che le attività non aventi fine di culto o religione sono assoggettate
alle leggi statali, induce a ritenere che gli enti ecclesiastici abbiano una natura giuridica
privata.
Legato al problema della natura giuridica è il problema dell’ecclesiasticità dell’ente. Già
nell’epoca liberale il giudizio ultimo sul carattere ecclesiastico degli enti dipendeva dalla
volontà legislativa dello Stato. In generale l’ecclesiasticità veniva riconosciuta solo agli enti
cattolici e non a quelli acattolici e tali enti non potevano essere creati dallo Stato
indipendentemente dall'erezione canonica.
Attualmente la legge 222/1985 stabilisce che la qualifica di ente ecclesiastico civilmente
riconosciuto (istituto religioso, seminario, società di vita apostolica, associazione pubblica
di fedeli, chiese, fondazioni di culto) si ottiene in seguito al riconoscimento da parte
dello Stato, che avviene sulla base di alcuni requisiti necessari: l’erezione o approvazione
canonica dell’ente, la sede in Italia e il fine di religione o di culto, che deve essere
costitutivo ed essenziale dell'ente.
Agli effetti civili, si considerano attività di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del
culto o alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari,
alla catechesi, all'educazione cristiana; sono attività diverse da quelle di religione o di culto
quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e le attività a scopo di
lucro. In questo modo si differenzia il fine di religione e di culto da quello di beneficenza e
di istruzione e, pertanto, gli enti ecclesiastici riconosciuti possono svolgere attività diverse
da quelle di religione o di culto.
Anche l’iscrizione degli enti nel registro delle persone giuridiche presso la Prefettura,
prevista dalla legge 222/1985, conferma la natura privata degli enti ecclesiastici. Senza
l’iscrizione, pertanto, gli enti ecclesiastici non potranno porre in essere negozi giuridici.
Anche il Consiglio di Stato ha affermato che le attività diverse da quelle di religione o di
culto svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette alle leggi dello Stato e al regime tributario
previste per le stesse attività.
Quanto detto vale anche per l'ente ecclesiastico imprenditore che svolge un'attività no
profit il quale, in caso di insolvenza è soggetto alle procedure concorsuali.
In caso di modifica sostanziale dell'ente o delle ragioni che ne hanno determinato il
riconoscimento, questo può essere revocato. L'ente ecclesiastico può essere soppresso o
estinto dall'autorità ecclesiastica ma, in caso di mutamento sostanziale dei fini, concorre
anche lo Stato con la sua autorità.
Oggi, pertanto, l'ecclesiasticità è attribuita dallo Stato una volta ravvisata l'utilità pubblica
dell'ente sul presupposto dell'erezione o approvazione canonica, della sede in Italia e del
fine di religione e di culto, requisiti necessari per il riconoscimento.
In particolare, le attività di istruzione educazione e cultura possono assimilarsi a quelle
religiose se dirette alla formazione ecclesiastici e religiosi e all'istruzione religiosa dei
fedeli. Riguardo all'attività di assistenza e beneficenza si può distinguere tra enti che
svolgono tale attività in modo complementare (ecclesiastici) e quelli che la svolgono in
maniera istituzionale (laici). L'attività commerciale o sindacale è incompatibile con il fine di
religione e di culto.
Dunque, il carattere di ecclesiasticità non è intrinseco nella natura dell’ente, ma è un
requisito che proviene dallo Stato, il che vale anche per gli enti acattolici.

3.) L’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto

L’art. 4 della legge 222/1985 stabilisce che: “Gli enti ecclesiastici che hanno la
personalità giuridica nell’ordinamento dello Stato assumono la qualifica di enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti”. L’ente non nasce come ecclesiastico ma lo
diventa solo dopo il riconoscimento dello Stato. La legge 222/1985, pertanto, riguarda solo
gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
L’art. 7 dell’Accordo del 1984 e la legge n. 222/1985 individuano i requisiti per il
riconoscimento, alcuni di carattere soggettivo: l’erezione o l'approvazione da parte
dell’autorità ecclesiastica; altri di carattere oggettivo: la sede in Italia e il fine di religione
o di culto. Tale fine è presunto per “gli enti che fanno parte della struttura gerarchica della
Chiesa, per gli istituti religiosi e i seminari”; va invece accertato di volta in volta per le
fondazioni o per gli enti “che non abbiano personalità giuridica nell’ordinamento della
Chiesa”, purché tale “fine sia costitutivo ed essenziale dell’ente”.
La domanda per il riconoscimento è inoltrata, da chi rappresenta l'ente o dall'autorità
ecclesiastica competente, alla Prefettura competente per territorio, corredata dai
documenti che provano che l'ente da riconoscere è in possesso dei requisiti prescritti dalla
legge. Il Prefetto istruisce la domanda e, accertati i presupposti di legge, trasmette il
fascicolo al Ministero degli interni, Direzione generale degli affari dei culti con uno
specifico parere. Con il decreto di riconoscimento si conclude il procedimento
amministrativo. In caso di non accoglimento della domanda se ne da comunicazione a chi
ha richiesto il riconoscimento che ha la facoltà di ricorrere, per motivi di legittimità, al
Consiglio di Stato.
Il riconoscimento ha senza dubbio un carattere discrezionale, dal momento che la
legge 222/1985 dispone che gli enti “possono essere riconosciuti come persone giuridiche
agli effetti civili”. Tale discrezionalità è, comunque, circoscritta dalla legge e non opera
riguardo agli Istituti per il sostentamento del clero, le diocesi, le parrocchie e la C.E.I. Sono
dotate di personalità giuridica per antico possesso di stato la Santa Sede, gli enti centrali
della Chiesa, i seminari, le parrocchie di antica istituzione e i capitoli. La discrezionalità è
maggiore nei confronti delle associazioni e delle fondazioni di culto per le quali viene
preso in considerazione il criterio della sufficienza dei mezzi.
Dopo aver ottenuto il riconoscimento, gli enti ecclesiastici devono iscriversi nel registro
delle persone giuridiche istituito presso il Tribunale di ogni capoluogo di provincia,
indicando la data, il nome del richiedente, l’atto costitutivo e lo statuto, nonché
“presentando una copia del decreto di riconoscimento”. Lo statuto, per gli enti che
appartengono alla costituzione gerarchica della Chiesa, può essere sostituito dal decreto
canonico di erezione o da una dichiarazione dell'autorità ecclesiastica integrativa di tale
decreto. Gli altri enti possono sostituire lo statuto con un attestato della Santa Sede o del
vescovo diocesano.
Dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche ne consegue che gli enti possono
compiere atti giuridici validi nei confronti dei terzi; diversamente, ne rispondo gli
amministratori in solido con la persona giuridica. I contratti sottoscritti da un ente non
iscritto sono annullabili e possono essere soggetti a convalida o a ratifica. La mancanza
delle autorizzazioni o dei poteri di rappresentanza produce l'invalidità nella forma
dell'annullabilità.
L’iscrizione equipara gli enti ecclesiastici alle altre persone giuridiche private. Infatti la
legge 222/1985 vieta agli enti non iscritti nel registro delle persone giuridiche, di
concludere negozi giuridici. Una volta iscritti gli enti possono stare in giudizio e svolgere
attività processuali in persona dei propri rappresentanti.
Il procedimento di riconoscimento esclude qualsiasi forma di automatismo.
Quanto alle strutture e finalità dell’ente, bisogna distinguere tra mutamenti sostanziali
dell’ente, revoca del riconoscimento e soppressione ed estinzione.
I mutamenti sostanziali vanno riconosciuti “con decreto del Presidente della Repubblica,
udito il parere del Consiglio di Stato”. Qualora il mutamento “faccia perdere all’ente uno dei
requisiti prescritti per il suo riconoscimento, può essere revocato il riconoscimento stesso
con decreto del Presidente della Repubblica, sentita l’autorità ecclesiastica e udito il
parere del Consiglio di Stato” (non più obbligatorio). La revoca è disposta dall'autorità
governativa e il provvedimento deve essere iscritto nel registro delle persone giuridiche.
Dalla revoca si distingue l’annullamento del riconoscimento per motivi di legittimità. La
prima avviene per cause sopravvenute, mentre il secondo rientra nel potere dello Stato di
annullare il provvedimento in caso di mancanza di uno dei requisiti prescritti dalla legge,
ed ha effetti retroattivi.
Alla soppressione o estinzione dell’ente provvede l’autorità ecclesiastica che “trasmette
il provvedimento al Ministro dell’interno, che, con proprio decreto, dispone l’iscrizione nel
registro delle persone giuridiche e provvede alla devoluzione dei beni dell’ente soppresso
o estinto”.
La soppressione va distinta dall’estinzione, in quanto la prima avviene per volontà di un
organo diverso dall’ente stesso, la seconda per il venir meno dello scopo dell’ente
ecclesiastico. Nell'ordinamento canonico sono stati privati della personalità giuridica, e
quindi estinti, le mense vescovili e i benefici parrocchiali.
La legge 13/1991 ha parzialmente modificato il procedimento di riconoscimento della
personalità giuridica previsto dalla legge 222/1985 escludendo, per il provvedimento di
riconoscimento degli enti ecclesiastici, la necessità del d.p.r. attribuendo la competenza a
un d.p.c.m. o a un d.m., ma ha poca importanza la provenienza del decreto da un organo
piuttosto che da un altro.

4.) Tipologie di enti ecclesiastici: associazioni...

Oltre all’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto possono esistere enti di fatto (che non
hanno avuto il gradimento dell'autorità ecclesiastica) ed enti approvati in diritto canonico
ma che non hanno ottenuto il riconoscimento da parte dello Stato.
Tradizionalmente le persone giuridiche sono distinte in: associazioni, in cui prevale
l’elemento personale e la volontà è interna; fondazioni, in cui prevale l’elemento
patrimoniale e la volontà è esterna e istituzioni, enti misti di particolare importanza (come
la Chiesa).
Nonostante il diritto di associazione sia stato garantito solo di recente dagli ordinamenti
statuali liberi, l’origine delle associazioni è antichissima. Il Codex iuris canonici si occupa
delle associazioni distinguendo tra associazioni private (dei fedeli, sia di chierici, di laici o
miste) e associazioni pubbliche. Tutte le associazioni debbono avere i loro statuti e la
loro autonomia è relativa e imperfetta.
Le associazioni pubbliche sono erette dalla Santa Sede se universali o internazionali, dalla
C.E.I. se nazionali e dal Vescovo se diocesane. Esse sono dotate di personalità giuridica
ed i loro statuti vanno approvati dall’autorità ecclesiastica.
Sebbene abbia dei caratteri peculiari, l’associazione ecclesiastica non si sottrae alla
disciplina legislativa in materia di associazioni: dunque le associazioni private sono in tutto
regolate dalle leggi civili, fatta salva la competenza dell'autorità ecclesiastica per l'attività di
religione e di culto e i poteri della stessa in ordine agli organi statutari.
Nessun fraintendimento può sorgere in merito poiché un ordinamento primario (quello
dello Stato) non può consentire che una stessa materia sia regolamentata, su posizioni
paritetiche, da altro ordinamento. La specificità dell'associazione ecclesiastica non la
sottrae alla legislazione civile e quella privata resta in tutto e per tutto regolata da tale
legislazione, a cui bisogna sempre fare riferimento.
Le associazioni hanno sicuramente una legittima aspettativa, nei confronti dell'autorità
ecclesiastica competente e dello Stato, ad essere riconosciute come persone giuridiche,
anche se potrebbero preferire non richiedere o non ottenere tale riconoscimento per
conservare una maggiore autonomia, e lo Stato non è obbligato a concederlo. Il
riconoscimento è sempre un atto discrezionale e le associazioni ecclesiastiche hanno
goduto, non di un diritto, ma di un principio di favore per i fini perseguiti ritenuti utili per lo
Stato, purché non gravino sul bilancio di quest'ultimo.
Esiste poi un principio cui fare sempre riferimento e cioè che, in caso di incompatibilità tra
norme canoniche e norme di diritto comune, sono sempre queste ultime a prevalere e a
dover essere applicate al caso concreto.
Le confraternite, infine, sono associazioni laicali tendenti a perfezionare la vita dei loro
adepti e a promuovere il culto pubblico e la dottrina cristiana. Nel 1890 sono state sottratte
alla soppressione e riconosciute istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. Il
Concordato del 1929 stabiliva che, le confraternite con scopo esclusivo o prevalente di
culto non sono soggette a ulteriori trasformazioni dei fini e dipendono dall'autorità
ecclesiastica per il funzionamento e l'amministrazione, snaturandone il carattere di laicità.
La legge 222/1985 conferma che le confraternite non aventi scopo esclusivo o prevalente
di culto continuano ad essere disciplinate dalla legge dello Stato, salva la competenza
dell'autorità ecclesiastica per quanto riguarda le attività dirette a scopi di culto.

5.) ... e fondazioni. Lasciti per enti da fondare

Le fondazioni sono persone giuridiche costituite da un complesso di beni destinati ad


uno scopo di culto o benefico, di pubblica o privata utilità. Nelle fondazioni la volontà è
esterna, in quanto proviene dal fondatore.
Anche le fondazioni devono presentare i requisiti relativi al riconoscimento, che ha
comunque natura discrezionale.
Sono fondazioni le chiese, i santuari, le fabbricerie, le fondazioni di culto, i seminari e
gli istituti per il sostentamento del clero.
Quanto alle chiese, la legge 222/1985, superando la distinzione tra chiese private e
pubbliche, stabilisce che: “il riconoscimento delle chiese è ammesso solo se aperte al
pubblico e non annesse ad altro ente ecclesiastico, e sempre che siano fornite di mezzi
sufficienti per la manutenzione ed ufficiatura”.
Dunque anche le chiese private aperte al pubblico possono essere riconosciute. In
proposito il codice civile, all'art. 831, stabilisce che gli edifici destinati all’esercizio del culto
pubblico non possono essere sottratti a tale destinazione anche se appartengono a privati.
Solo il vescovo può sottrarre la chiesa al culto divino. La requisizione, l’occupazione,
l’espropriazione per pubblica utilità o la demolizione delle chiese non possono avere luogo
se non per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica. La
forza pubblica non vi può entrare senza previo avviso all'autorità ecclesiastica
competente, salvo il caso di urgente necessità.
I santuari sono chiese molto importanti, in quanto per le immagini o le reliquie conservate
sono mete di pellegrinaggio e di culto. Si differenziano dalle altre chiese solo perché nei
Consigli di amministrazione vi è un maggior numero di componenti laici.
Le fabbricerie sono enti particolari, costituiti da una massa patrimoniale destinata alla
manutenzione e conservazione di un edificio di culto di particolare importanza. Tale massa
patrimoniale è gestita da un Consiglio di amministrazione composto di membri
ecclesiastici e laici. Proprio la composizione mista del consiglio costituisce la caratteristica
dell’istituto: i laici, infatti, volevano in tal modo controllare gli ecclesiastici in riferimento alla
gestione dei soldi da loro raccolti per la costruzione di un edificio di culto.
In atto le fabbricerie hanno una composizione diversa a seconda che gestiscano una
chiesa cattedrale, un edificio di culto di rilevante interesse storico o artistico, o altro
(rispettivamente sette membri o cinque membri). Il presidente predispone il bilancio,
esegue le delibere, eroga le spese, adotta i provvedimenti necessari in caso d'urgenza ed
ha una funzione di tutela rispetto ai beni della chiesa amministrati dalla fabbriceria.
Questa, senza ingerenze nei servizi di culto, provvede alla manutenzione e restauro della
chiesa e amministra i beni destinati all'ufficiatura, al culto e agli arredi.
Al Prefetto deve essere trasmesso il conto consuntivo annuale e il bilancio preventivo sui
quali può formulare osservazioni, può disporre ispezioni in caso di gravi irregolarità o
urgenti necessità e nominare un commissario prefettizio, riferendo al Ministro dell'interno,
che può sciogliere la fabbriceria e nominare un commissario straordinario. La fabbriceria
non può compiere atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione governativa.
La fabbriceria si estingue per i casi previsti dalla legge (ad es. quando non dispongono più
dei beni) con una differenza: la fabbriceria persona giuridica continua ad amministrare i
propri beni anche se la chiesa perde la personalità giuridica; la fabbriceria che non sia
persona giuridica cessa di esistere se la chiesa perde la personalità giuridica o non vi
siano più beni da amministrare.
Le fondazioni di culto sono persone giuridiche che hanno come base patrimoniale una
massa di beni i cui redditi sono destinati in perpetuo a scopo di culto. Possono essere
riconosciute quando risultano sufficienti i mezzi per il raggiungimento dei fini e rispondono
ad esigenze religiose della popolazione. I relativi beni e la loro destinazione, di solito,
hanno origine in negozi di diritto privato, testamenti o donazioni. Caratteristiche che si
ritrovano nella legge 222/1985 dove si precisa che il fine di culto è accertato di volta in
volta, rimarcando il carattere discrezionale del riconoscimento.
Sono pubbliche le fondazioni di culto costituite dall’autorità ecclesiastica, private le altre
anche se vanno comunque approvate dalla stessa autorità. Sono diverse le fondazioni
pie, che non sono autonome perché consistono in una massa di beni affidata da un
disponente ad un ente ecclesiastico con l’onere di destinarne i redditi alla celebrazione di
messe o ad altre funzioni sacre.
Secondo il Concordato del 1929, i seminari dipendevano solo dalla Santa Sede, mentre
oggi dipendono dalla C.E.I. Il tipo di seminario prevalente è quello diocesano o
interdiocesano, che prepara nuovi sacerdoti.
Quanto agli istituti per il sostentamento del clero, essi hanno carattere fondatizio e va
ricordato che il fondo patrimoniale degli istituti diocesani è costituito dai beni già
appartenenti agli enti beneficiali esistenti nella diocesi. Come l’istituto centrale, essi sono
enti autonomi dotati di una propria personalità giuridica.
Le fondazioni possono nascere anche da un atto di autonomia privata, per lo più lasciti
testamentari, in quanto ciò è stato ritenuto possibile da parte della dottrina. Altri ritengono
che il testamento, in questi casi, funge da semplice dichiarazione di voler costituire una
fondazione per cui è necessario ricorrere alle norme del negozio di fondazione per dare
corso ad essa con la destinazione del patrimonio indicato. In ogni modo, si conferma la
validità dell'atto di destinazione dei beni.

6.) Gli enti acattolici

Gli enti acattolici vanno senza dubbio ricompresi tra gli enti ecclesiastici. In materia è
ancora vigente, per le confessioni che non hanno sottoscritto intese con lo Stato, la legge
1159/1929. Il riconoscimento, analogo a quello degli enti cattolici, è richiesto al Ministro
degli interni da parte di chiunque ne sia interessato. La relativa domanda, da presentare in
Prefettura, deve essere accompagnata dallo statuto dell’ente, in cui vanno indicati: lo
scopo, gli organi di amministrazione, le norme di funzionamento ed il patrimonio dell’ente.
Valutati questi elementi, il Presidente della Repubblica emana il decreto di erezione in
ente morale, su proposta del Ministro degli interni, sentiti il Consiglio di Stato ed il
Consiglio dei Ministri. Gli enti “sono soggetti alla vigilanza ed alla tutela governativa”, e il
Ministro dell’interno può, se necessario, nominare un commissario governativo.
Una volta riconosciuti civilmente, gli enti confessionali sono considerati persone
giuridiche private, dotate di autonomia giuridica.
Quanto alle intese finora stipulate, va notato che in quella valdese, si parla esplicitamente
di “enti ecclesiastici valdesi”; per il loro riconoscimento, essi debbono avere “fini di
culto, istruzione e beneficenza” ed è richiesta “la delibera sinodale con cui l’ente è stato
eretto in istituto autonomo nell’ambito dell’ordinamento valdese”. Gli organi statali hanno
un potere di verifica ma non di ingerenza poiché gli oneri per il mantenimento non sono a
carico dello Stato. Anche se l’intesa non ne parla, l’ente riconosciuto deve iscriversi nel
registro delle persone giuridiche.
Nell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane, fermo restando che l’Unione
“conserva la personalità giuridica di cui è dotata”, si stabilisce che presso il Ministero
dell’interno sono depositati lo statuto dell’Unione e quello degli altri enti ebraici
(ecclesiastici) civilmente riconosciuti. Tali enti devono avere fini di culto o di religione, ed
essere approvati dalla Comunità competente per territorio e dall’Unione. Il loro
riconoscimento avviene con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il parere del
Consiglio di Stato. Si stabilisce quali enti conservano la loro personalità, quali la perdono e
l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche. Le comunità ebraiche erano considerate
enti pubblici e ad esse appartenevano di diritto tutti gli israeliti residenti nel loro territorio.
L’intesa con l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno stabilisce
che ad essa e all’Istituto avventista di cultura biblica è riconosciuta la personalità giuridica.
“Per ottenere il riconoscimento gli enti devono avere la sede in Italia e perseguire fini di
culto o religione, da accertare di volta in volta” tenendo conto delle attività svolte. “La
domanda di riconoscimento va presentata da chi rappresenta l’ente”. Il riconoscimento è
concesso con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato”. È
previsto l’obbligo di iscrizione nel registro delle persone giuridiche. “La gestione ordinaria e
straordinaria avviene con il controllo delle autorità ecclesiastiche competenti, senza alcuna
ingerenza da parte dello Stato”. Il mutamento del fine che fa perdere all’ente uno dei
requisiti richiesti per il riconoscimento, può provocare la revoca del riconoscimento stesso.
Le Assemblee di Dio in Italia sono già riconosciute come enti morali con decreto del
Presidente della Repubblica del 1959. Nell’intesa da loro stipulata si stabilisce che le loro
attività “sono soggette alle leggi civili riguardanti le stesse attività svolte da enti non
ecclesiastici”. Si escludono ingerenze dello Stato, è prevista l’iscrizione nel registro delle
persone giuridiche e la revoca del riconoscimento in caso di mutamento dei fini.
L’intesa con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia e l'intesa con la Chiesa
Evangelica Luterana in Italia ricalcano le disposizioni delle altre intese.
Le intese con la Chiesa Apostolica in Italia, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli
Ultimi Giorni, la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, la Sacra
Arcidiocesi Ortodossa d'Italia ed Esarcato per l'Europa meridionale, l'Unione
Buddhista italiana e l'Unione Induista Italiana Sanatana Dharma Samgha trattano i
medesimi argomenti delle altre intese esaminate.
Alla luce di quanto esposto, può dirsi che, la dizione “ente ecclesiastico civilmente
riconosciuto” è usata dal legislatore per indicare sia gli enti cattolici che quelli acattolici
che hanno raggiunto accordi con lo Stato e il loro regime è sottratto all'applicazione della
legge 1159/1929.

7.) Il Fondo edifici di culto

Il Fondo edifici di culto, sorto dopo gli Accordi del 1984, è disciplinato dalla legge
222/1985. Si riallaccia a diversi enti creati nel corso degli anni e al Fondo per il culto
tramite il quale lo Stato provvedeva alle esigenze di culto della popolazione con funzione,
anche, di redistribuzione delle ricchezze ecclesiastiche fra il clero cattolico. Interveniva
nei confronti del clero meno abbiente con il supplemento di congrua e provvedeva alla
manutenzione delle chiese di sua proprietà autonomamente. Fu trasformato nel 1929 in
una Direzione generale del Ministero dell'interno e poi soppresso con la legge 222/1985.
Il nuovo Fondo edifici di culto è dotato di personalità giuridica, non è un ente
ecclesiastico ma un ente pubblico strumentale, un organismo cioè che non fa parte
dell’amministrazione dello Stato ma che ha una gestione patrimoniale autonoma che fa
capo al Ministero dell'interno.
I proventi del patrimonio del Fondo sono impiegati per la conservazione, il restauro, la
tutela e la valorizzazione degli edifici di culto appartenenti ad esso e per gli altri oneri posti
a carico del Fondo stesso. L’impiego di tali proventi è disposto dal Fondo di concerto col
Ministero per i beni culturali e ambientali e il Ministero dei lavori pubblici.
Il Ministro dell’interno nomina il Consiglio di amministrazione, di cui fanno parte anche
membri ecclesiastici designati dalla CEI, che appronta il bilancio preventivo e consuntivo,
che il Parlamento deve poi approvare.

8.) Aspetti fiscali. L’ente ecclesiastico imprenditore e gli enti senza scopo di lucro.
Nuove prospettive

Uno degli scopi principali del riconoscimento e della qualifica di ecclesiastici degli enti è
quello di assicurare ad essi agevolazioni tributarie, differenziandoli così dalle altre
persone giuridiche. Il punto è ora di individuare in cosa tali agevolazioni concretamente
consistano.
Il finanziamento delle confessioni religiose avviene in due modi: quello della “destinazione
di una quota pari all’otto per mille del gettito Irpef”; o quello delle “offerte libere,
incentivate con la previsione della deducibilità dall’imponibile Irpef”.
L’Accordo del 1984, per gli enti cattolici, stabilisce il principio secondo cui: “agli effetti
tributari gli enti aventi fine di religione o di culto e le attività dirette a tali scopi, sono
equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o istruzione. Le attività diverse da quelle di
religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette alle leggi dello Stato
riguardanti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.
Più in particolare, il Testo Unico delle imposte dirette prevede delle deduzioni fiscali
per le elargizioni a favore dello Stato di persone fisiche o giuridiche che svolgono, senza
scopo di lucro, attività di ricerca in campo artistico o culturale, per la manutenzione o il
restauro degli enti, stabilisce la deducibilità delle elargizioni a favore di persone giuridiche
che perseguono finalità anche di culto e include tra gli oneri deducibili le spese per la
manutenzione ed il restauro dei beni di interesse storico e artistico, e gli oneri relativi al
lavoro prestato dai loro membri nelle attività commerciali svolte dall’ente. Quanto all’IVA,
sono previste esenzioni dall’obbligo dell’imposta per varie attività riguardanti gli enti
ospedalieri e le attività didattiche. Inoltre sono previste esenzioni dall'imposta di
successione e sulle donazioni e agevolazioni in materia di imposta comunale sulla
pubblicità e sulle pubbliche affissioni. Recentemente è stata stabilita l'esenzione
dall'ICI/IMU/??? per gli immobili utilizzati per le attività di assistenza e beneficenza,
istruzione, educazione e cultura anche se svolte in forma commerciale purché connesse a
finalità di religione o di culto.
La legge 222/1985 stabilisce che “gli edifici di culto non possono essere sottratti alla loro
destinazione, neanche per effetto di alienazione, se non sono decorsi venti anni
dall’erogazione del contributo. Il vincolo è trascritto nei registri immobiliari. Esso può
essere estinto prima del compimento del termine d’intesa tra l’autorità ecclesiastica e
l’autorità civile erogante, previa restituzione delle somme ricevute a titolo di contributo”.
Recentemente il legislatore ha mostrato una particolare attenzione verso le agevolazioni
fiscali per gli enti “no profit”, tra cui vanno inclusi gli enti di volontariato. Se nei loro
confronti le agevolazioni tributarie sono giustificate dal fatto che svolgono un’attività
gratuita, diverso è il problema dell’ente ecclesiastico imprenditore.
La Cassazione ha stabilito che: “un istituto d’istruzione gestito da una congregazione
religiosa può essere considerato imprenditore quando operi secondo un criterio
economico, perseguendo cioè il tendenziale pareggio tra costi e ricavi. L’ente
ecclesiastico, nello svolgere attività imprenditoriali, infatti, non perde la propria identità
giuridica, solo non può usufruire di agevolazioni fiscali. Gli enti sono sottoposti, innanzi
tutto, al regime delle persone giuridiche e quella di ecclesiastico è solo una qualifica,
favoritiva ma irrilevante quando l'ente assume una diversa funzione. In quanto
imprenditore, l’ente sarà sottoposto al regime di diritto comune riguardante la
rappresentanza, il fallimento e il lavoro.
Nel caso in cui gli enti rientrino tra quelli no profit, saranno sottoposti alla relativa
disciplina. La normativa sulle ONLUS stabilisce che gli enti appartenenti a questa
categoria devono avere un esclusivo fine solidaristico e vi possono rientrare gli enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti e riconosciuti anche dalle confessioni religiose che
hanno stipulato un'intesa con lo Stato. Debbono perseguire scopi solidaristici nel rispetto
delle loro prerogative di religione e di culto, anche se la legge tace in merito. L’esempio più
importante è costituito dalle Ipab, opere pie espressione di solidarietà sociale
religiosamente ispirata, di natura pubblica e privata. Le ONLUS si ritrovano in vari settori e
godono di una neutralità fiscale che costituisce un indubbio vantaggio.
Il carattere comune agli enti ecclesiastici e a quelli no profit è l’esclusione del lucro
soggettivo. Ciò non significa però che l'ente non può assumere la qualifica di imprenditore.
La legge 266/1991 sul volontariato stabilisce che le organizzazioni di volontario possono
assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei loro fini ma
compatibilmente con lo scopo solidaristico. Deve essere espressamente prevista
l'assenza di fini di lucro, la democraticità della struttura, l'elettività e la gratuità delle
cariche associative. È stato giustamente rilevato che, oltre un certo confine, si esaurisce la
specialità della natura e della disciplina degli enti ecclesiastici, i quali ritornano ad essere
soggetti privati come tutti gli altri.
Un d.lgs. del 1997 procede al riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali
e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale, disciplina estesa anche agli enti
ecclesiastici che assumono parzialmente tale qualifica, in presenza di determinati requisiti.
Il d.lgs. 155/2006 ha disciplinato l'impresa sociale estendendo tale disciplina anche agli
enti ecclesiastici e agli enti acattolici che hanno stipulato intese con lo Stato.
Gli enti ecclesiastici, dalla norma in questione, sono reputati quale possibile forma
organizzativa titolare di un'impresa sociale; è consentita l'adozione di un regolamento nella
forma della scrittura privata autenticata; deroga alle norme sulla qualificazione dell'attività
principale e a quelle per il personale dipendente; deroga al regime sulla responsabilità
patrimoniale; non hanno l'obbligo di utilizzare la locuzione “impresa sociale”; limita
l'obbligo delle scritture contabili; sono possibili destinatari di devoluzioni patrimoniali; non
sono soggetti a procedure concorsuali in caso di insolvenza.

Parte speciale

I rapporti

CAPO PRIMO

I RAPPORTI PATRIMONIALI

1.) La proprietà ecclesiastica

Il problema della gestione dei beni ecclesiastici (la c.d. manomorta ecclesiastica)
rappresenta una delle più rilevanti res mixtae, dato che una parte consistente dei beni
culturali in Italia è di provenienza o di proprietà ecclesiastica. L’aspetto fondamentale è
stabilire a chi spetti la proprietà dei beni, e chi e in che misura debba occuparsene.
Ancora nel secolo scorso la Chiesa presentava un assetto di tipo feudale ed aveva una
proprietà immobiliare molto rilevante. La perdita progressiva di tale proprietà iniziò con gli
interventi bellici e proseguì con quelli legislativi. Si intaccava così la manomorta, ma non il
beneficio ecclesiastico che resisterà fino al Codex iuris canonici del 1983.
Dopo la legislazione eversiva, i problemi più importanti riguardavano l’individuazione degli
enti soppressi e di quelli conservati, dei beni che andavano assegnati al Fondo per il
culto, devoluti o acquistati dallo Stato, concessi ad enti pubblici, o a privati, o convertiti.
Attualmente la materia è disciplinata dalla legge 222/1985 che ha istituito il Fondo edifici
di culto, stabilendone le competenze; in particolare, i proventi di tale patrimonio sono
utilizzati per la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto
appartenenti al Fondo, non ché per gli altri oneri posti a carico del Fondo stesso. In
generale si può dire che accanto ad un patrimonio ecclesiastico in senso stretto, che
assicura l’esistenza della Chiesa cattolica e da questa direttamente gestito, vi è quello che
tutela i fini di culto e gli interessi religiosi dei cittadini credenti, che è di diretta spettanza
dello Stato, anche se la Chiesa è impegnata a collaborare alla sua gestione.
Secondo la definizione comune, il patrimonio sacro è “quel complesso di beni materiali
che costituiscono il mezzo con cui la Chiesa raggiunge i suoi scopi”. In realtà i beni
appartengono direttamente alla Sede Apostolica e la Chiesa esercita su di essi solo una
forma di auctoritas. Riguardo al concetto di patrimonio ecclesiastico, le concezioni
dottrinali erano diverse: parte riteneva che esso dovesse essere determinato in base allo
scopo cui era destinato; per altri ecclesiastico era quel patrimonio sottoposto alla signoria
della volontà della Chiesa. La definizione cui si è pervenuti, infine, è la seguente: il
patrimonio ecclesiastico è quel complesso di diritti su beni materiali che l'ordinamento
statuale riconosce all'autorità ecclesiastica per il raggiungimento dei suoi fini.
Tale patrimonio può essere sia mobile che immobile, appartenente ad enti ecclesiastici o
destinato al culto. Attualmente il criterio di qualificazione del patrimonio ecclesiastico è
basato sull'attività svolta o sull'utilizzo del bene.

2.) La tutela del patrimonio storico ed artistico

La materia della tutela del patrimonio storico ed artistico è stata compiutamente


disciplinata dalla legge 1089/1939, che, dopo aver individuato le cose di “interesse
artistico, storico, archeologico o etnologico” da dover tutelare, imponeva ai rappresentanti
delle province, dei comuni e degli enti ed istituti legalmente riconosciuti, di presentare un
elenco di tali cose, prevedendo, per le cose di proprietà degli enti ecclesiastici, di
procedere d’accordo con l’autorità ecclesiastica, e distinguendo tra cose appartenenti allo
Stato e a privati.
In atto, il codice civile (art. 810) stabilisce che: “Sono beni le cose che possono formare
oggetto di diritto”, che (art. 831) “I beni degli enti ecclesiastici sono soggetti alle norme del
codice stesso, in quanto non è diversamente disposto dalle leggi speciali che li
riguardano”, e che gli edifici di culto, anche se privati, “non possono essere sottratti alla
loro destinazione neppure per effetto di alienazione, finché la destinazione stessa non sia
cessata in conformità delle leggi che li riguardano”; una specie di servitù di uso pubblico
(deputatio ad cultum).
Anche nell'art. 9 Cost., ma alquanto genericamente, si afferma che la Repubblica
promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tutela il paesaggio e il
patrimonio storico e artistico italiano e, in sostanza, rinvia alle leggi speciali in materia. Gli
artt. 117 e 118 Cost. affidano alle Regioni competenze legislative su musei e biblioteche
degli enti locali e l'esercizio delle relative funzioni amministrative.
La legge 512/1982 riguarda il “regime fiscale dei beni di rilevante interesse culturale”.
Essa prevede “esenzioni da imposte dirette per gli immobili con destinazione ad uso
culturale, poiché si presume che tali beni non costituiscano fonte di reddito. Si sono anche
esclusi dai redditi imponibili i redditi catastali di terreni che siano aperti al pubblico o la cui
conservazione sia riconosciuta di pubblico interesse dal Ministero per i beni culturali e
ambientali. Quanto alle imposte dirette, quelle di successione e di donazione, i beni
vincolati non concorrono alla formazione dell’attivo ereditario, sia mobili che immobili che
di interesse storico.
Anche per quanto riguarda l’imposta di registro, la legge 512/1982 stabilisce che
“l’aliquota è ridotta del 50 % se il trasferimento ha per oggetto immobili di interesse
storico, artistico o archeologico, purché l’acquirente non venga meno agli obblighi della
loro conservazione e protezione”. Agevolazioni sono previste anche per quel che riguarda
l’IVA, l’INVIM e le imposte ipotecarie e catastali. È previsto, infine, che gli eredi possano
cedere allo Stato i beni vincolati a scomputo delle tasse dovute.
Ciò premesso, l’art. 12 dell’Accordo del 1984, dopo aver introdotto il principio generico
secondo cui Stato e Chiesa cattolica si impegnano a collaborare “per la tutela del
patrimonio storico ed artistico”, prevede che: “Al fine di armonizzare l’applicazione della
legge italiana con le esigenze religiose, gli organi competenti delle due parti
concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione ed il
godimento dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni
ecclesiastiche”, e stipuleranno intese per “la conservazione e la consultazione degli archivi
di interesse storico e delle biblioteche dei medesimi enti ed istituzioni”. Ciò consente alla
Santa Sede di condizionare l'attività legislativa dello Stato in materia, nonostante nessun
impegno in tal senso fosse stato previsto nel Concordato del 1929.
In materia si è scelta la dizione di “beni culturali” che appare molto generica ed
indeterminata. Tali beni sono di interesse pubblico e soddisfano bisogni e interessi
giuridicamente protetti e sono diversi sia da quelli pubblici propriamente detti che da quelli
privati. L'evoluzione del diritto di proprietà, anche in rapporto alla sua funzione sociale,
consente di apporre vincoli e limiti ai beni culturali di interesse religioso in quanto
particolarmente rilevanti. La dizione beni culturali è presente anche nel can. 1283 n. 2
c.i.c. per cui ha valore, oltre che nei confronti dello Stato, nei confronti della Chiesa.
Il principio di collaborazione tra Stato e Chiesa è presente anche nelle intese con le
confessioni diverse dalla cattolica. Manca nelle intese sottoscritte nel 2007 ma non ancora
convertite in legge.
Sono ipotesi, quelle in argomento, in cui si scontra l'interesse dello Stato con l'interesse
del proprietario del bene e, in caso di beni di interesse religioso tale interesse è anche
della confessione religiosa.
La legge 1089/1939, inoltre, limita la circolazione dei beni di interesse storico e artistico
appartenenti allo Stato o ad altri enti morali, vietandone l’esportazione e disciplinandone
l’espropriazione. Il privato è tenuto a notificare la detenzione di tali beni e a denunziare
ogni atto di trasmissione dei beni per consentire al Ministero dei beni culturali di esercitare
il diritto di prelazione a parità di prezzo. Anche il diritto canonico prevede per la vendita
di tali beni la licenza della Santa Sede, per cui vi sono casi in cui occorre una duplice
autorizzazione. La circolazione di tali beni, specie di quelli immobili, è pertanto molto
limitata.
Nel 1996, al fine di dare seguito agli impegni concordatari, è stata stipulata un'intesa tra il
Ministro per i beni culturali ed ambientali e il presidente della C.E.I. per attuare le forme di
collaborazione previste e stabilire le reciproche competenze. Sono seguite altre norme
sempre riguardanti la tutela dei beni in oggetto e la competenza dei vari organi dello Stato
e della Chiesa.

3.) Il regime giuridico degli edifici di culto

Gli edifici di culto, detti anche templi, oratori, cappelle, sinagoghe, moschee o chiese,
sono quei luoghi in cui i fedeli di una determinata confessione esercitano, sia
singolarmente che collettivamente, le loro funzioni di culto. Lo Stato qualifica gli edifici di
volta in volta, sulla base di una valutazione che tiene conto dell’uso, della destinazione e
degli interessi che soddisfa senza tenere conto della qualifica conferita dal diritto canonico
o dalle altre confessioni religiose.
L’edificio di culto comprende anche i locali accessori, vere e proprie pertinenze, alle quali
è esteso il regime dell'edificio principale.
In passato dottrina e giurisprudenza hanno cercato di salvaguardare il più possibile la
destinazione del bene-chiesa al normale culto fino a negarne la commerciabilità e
immaginando una sorta di demanio ecclesiastico o di servitù di uso pubblico sugli
edifici sacri in favore della collettività. Espressione di questa tendenza è una legislazione
che va dal secolo scorso fino ai nostri giorni.
Gli artt. 9 e 10 del Concordato del 1929 escludevano gli edifici aperti al culto da
requisizioni o occupazioni e da demolizioni, tranne che per gravi necessità pubbliche e
previo accordo con l’ordinario diocesano; inoltre, salvo i casi di urgente necessità, la forza
pubblica non può entrare per l’esercizio delle proprie funzioni negli edifici aperti al culto,
senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica”. Nel Concordato, inoltre, lo
Stato assicura alla Chiesa il libero e pubblico esercizio del culto con la conseguenza che
gli edifici di culto sono tutelati dallo Stato in quanto mezzo per il soddisfacimento di
esigenze religiose dei cittadini.
La legge 121/1985 ribadisce le disposizioni del Concordato aggiungendo che, per la
costruzione di nuovi edifici di culto e loro pertinenze, l'autorità civile terrà conto delle
esigenze religiose della popolazione.
Le intese con le confessioni acattoliche contengono in materia principi analoghi, compreso
le intese del 2007 non ancora convertite in legge.

4.) L’autorizzazione agli acquisti degli enti ecclesiastici

L’autorizzazione è un atto amministrativo mediante cui la Pubblica Amministrazione


rimuove un limite posto dalla legge all’esercizio di un diritto, per rendere legittimo il
comportamento di un determinato soggetto che, altrimenti, non potrebbe essere posto in
essere. L'atto compiuto senza la prescritta autorizzazione è invalido e ciò può essere
sollevato sempre dal p.m. o da chiunque vi abbia interesse. L'autorizzazione, quindi, è un
requisito di validità dell'atto che l'ente deve compiere, senza il quale l'atto è da
considerarsi nullo.
Sebbene questo settore della disciplina abbia natura amministrativa, il principio vigente in
materia è quello dell’applicabilità agli enti ecclesiastici delle norme del codice civile. La
legge 222/1985 stabilisce, infatti, che “Agli acquisti degli enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti si applicano le disposizioni delle leggi civili relative alle persone giuridiche”.
La disciplina in materia risale alla seconda legge Siccardi del 1850, che stabiliva che: “Gli
enti ecclesiastici e laici non potevano acquistare beni immobili né beni mobili senza
autorizzazione, da concedere con decreto regio, previo parere del Consiglio di Stato. Lo
stesso valeva per le donazioni e le disposizioni testamentarie. L'autorizzazione aveva la
duplice finalità di reprimere la manomorta e di tutelare gli eredi legittimi. Tali principi
venivano ribaditi nel codice civile del 1865 e confermati nella legge 848/1929.
Il codice civile del 1942, all'art. 17, non si discosta dalla legge Siccardi, stabilendo che:
“La persona giuridica non può acquistare beni immobili, né accettare donazioni o eredità,
né conseguire legati senza l’autorizzazione governativa. Senza questa autorizzazione
l’acquisto e l’accettazione non hanno effetto”.
Di recente, la legge 127/1997, ha stabilito che: “L’art. 17 c.c. e la legge 218/1896, sono
abrogati; sono altresì abrogate le altre disposizioni che prescrivono autorizzazioni per
l’acquisto di immobili o per accettazione di donazioni, eredità e legati da parte di persone
giuridiche, associazioni e fondazioni”. Disposizioni applicabili anche a fatti anteriori
all'entrata in vigore della legge.
Prima della legge 127/1997, altri provvedimenti legislativi interessavano la materia. Con
d.p.r. 616/1977 le regioni venivano investite di funzioni amministrative riguardo l'acquisto
di immobili e l'accettazione di donazioni, eredità e legati. Con la legge 13/1991 si stabiliva,
per gli enti pubblici soggetti alla legge Siccardi, la competenza del Ministro che esercita la
vigilanza, previo controllo della Corte dei Conti. È stato modificato l'art. 2659 c.c. che
consente la trascrizione nei registri immobiliari degli acquisti inter vivos delle associazioni
non riconosciute. La legge 266/1991 consente alle organizzazioni di volontariato prive di
personalità giuridica di acquistare liberamente beni mobili registrati e beni immobili
necessari alla propria attività. La legge 123/1991 sanava gli acquisti di regioni e province
autonome effettuati senza autorizzazione. La Corte Costituzionale, con sentenza del 1988,
stabiliva che le regioni si dovevano attenere alla legge Siccardi poiché il fine
dell'autorizzazione è sempre quello di contenere gli acquisti patrimoniali e di tutelare
l'interesse generale della collettività, autorizzazione, pertanto, compatibile con l'autonomia
regionale.
A prescindere dall'opportunità o meno dell'abrogazione dell'art. 17 c.c., non sembra che le
motivazioni di una tale legislazione siano venute meno in quanto un nuova manomorta è
ancora oggi configurabile ed è necessario controllare gli acquisti degli enti ecclesiastici.
Non appare condivisibile l'opinione di chi afferma che l’autorizzazione finiva con l’attribuire
ad un’autorità amministrativa il potere di limitare la possibilità per gli enti di disporre dei
beni necessari per conseguire i propri fini, in quanto non è in discussione l’autonomia degli
enti ecclesiastici, ma la possibilità di acquistare beni senza alcun controllo: la funzione
dell’autorizzazione è, da un lato, quella di evitare l’immobilizzazione di beni che sono così
sottratti al commercio giuridico, dall’altro, di tutelare i diritti degli eredi legittimi. Sebbene i
rapporti tra Stato e Chiesa siano cambiati rispetto al secolo scorso, le ragioni che avevano
portato alla legge Siccardi sono ancora di attualità. L’autorizzazione agli acquisti, pertanto,
è sostanzialmente una forma di controllo sulla trasparenza gestionale, con finalità di
vigilanza.
Un sistema simile di controlli è riproposto nel Codice dei beni culturali e del paesaggio
con cui si prevede, tra le altre cose, l'acquisto in via di prelazione da parte del Ministero,
delle regioni o di altro ente pubblico, in caso di vendita di beni culturali a titolo oneroso.
Ulteriori novità sono state introdotte con il d.lgs. 62/2008 che, con riferimento agli enti
ecclesiastici, li ricomprende tra i soggetti tenuti a garantire la conservazione dei beni
culturali di cui sono possessori o detentori.
Capitolo II

I rapporti personali

1.) Tipologie matrimoniali. Il matrimonio religioso con effetti civili

Fino ai Patti lateranensi del 1929 il sistema matrimoniale italiano era caratterizzato dal
principio del doppio binario, che considerava il matrimonio religioso e quello civile su
due piani totalmente distinti, per cui il credente, se voleva attribuire rilevanza giuridica
civile al proprio matrimonio religioso, li doveva stipulare entrambi. I Patti hanno introdotto il
matrimonio religioso ad effetti civili, che ha nel procedimento di trascrizione il mezzo
attraverso cui si realizza il collegamento tra ordinamento statale e canonico.
Quanto ai matrimoni acattolici, essi sono stati finora ricompresi in un’unica categoria e
regolati dal codice civile, dalla legge sui culti ammessi del 1929 e dalle intese finora
sottoscritte.
Pertanto, le tipologie di matrimonio sono: meramente religioso, religioso ad effetti civili,
civile e acattolico. In riferimento al matrimonio civile, si sono avuti nel corso del tempo
importanti novità: si pensi alla legge sul divorzio del 1970 e alla riforma del diritto di
famiglia del 1975, il che dimostra che la materia matrimoniale è in continua evoluzione.
Infatti, oggi, sono sempre più frequenti i matrimoni misti, tra persone appartenenti a
diverse confessioni religiose, per cui bisogna porre particolare attenzione a questo aspetto
per le problematiche che può creare all'interno della famiglia in ordine all'educazione
religiosa dei figli o al mutamento di confessione di uno dei genitori o per quanto riguarda
l'adozione o l'affiliazione.

2.) Il procedimento di trascrizione

L’Accordo del 1984, che concerne il procedimento di trascrizione, stabilisce che: “Ai
matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico sono riconosciuti gli effetti civili,
a condizione che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe
pubblicazioni in municipio”. Le pubblicazioni, quindi, costituiscono il primo atto del
complesso procedimento di trascrizione e garantiscono alle parti che, una volta celebrato,
il matrimonio sarà trascritto.
“Subito dopo la celebrazione, il parroco, fungendo così da pubblico ufficiale, spiegherà
ai contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli artt. 143, 144 e 147 c.c.,
riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi (diritti e doveri reciproci dei coniugi, indirizzo
della vita familiare e residenza della famiglia, doveri verso i figli), e redigerà l’atto di
matrimonio, in doppio originale, in cui possono essere inserite le dichiarazione dei coniugi
consentite dalle leggi civili”, e relative al regime patrimoniale. “Il parroco del luogo in cui è
stato celebrato il matrimonio” invia all'ufficiale dello stato civile l’atto di matrimonio,
accompagnato dalla richiesta di trascrizione fatta per iscritto, non oltre 5 giorni dalla
celebrazione (c.d. trascrizione tempestiva). La trascrizione “può essere effettuata anche
posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e
senza l’opposizione dell’altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente
lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e
senza pregiudizio dei terzi” (c.d. trascrizione tardiva).
L’ufficiale dello stato civile, qualora sussistano le condizioni per la trascrizione, la effettua
entro 24 ore dal ricevimento dell’atto e ne dà notizia al parroco.
Dunque la celebrazione è un atto complesso: religioso, in quanto è somministrato un
sacramento, amministrativo, in quanto il parroco funge da pubblico ufficiale.
Alla trascrizione non si può procedere: “quando gli sposi non rispondano ai requisiti della
legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione, quando sussiste tra gli sposi un
impedimento che la legge civile considera inderogabile”, anche se essa “è tuttavia
ammessa quando l’azione di nullità o di annullamento non potrebbe più essere proposta”.
L’art. 4 del Protocollo addizionale chiarisce che si intendono come impedimenti
inderogabili della legge civile: l’interdizione per infermità di mente di uno dei
contraenti, la sussistenza tra gli sposi di altro matrimonio valido agli effetti civili e gli
impedimenti derivanti da delitto o affinità in linea retta. Secondo una sentenza della
Corte costituzionale, l’interdetto va equiparato all’incapace naturale.
Quanto alla trascrizione, l’attuale sistema prevede sia la trascrizione tempestiva che
quella tardiva. Quest’ultima è sottoposta alla volontà delle parti, non può cioè essere
richiesta da terzi, neanche per fondati motivi o interessi personali. È la pubblicità, invece,
che assicura alle parti che il matrimonio sarà trascritto. Ciò ha delle importanti
conseguenze pratiche. In primo luogo nel caso in cui le parti, per valide ragioni personali,
decidano di stipulare un matrimonio meramente religioso, il c.d. matrimonio di
coscienza, questo, se celebrato nella forma segreta, sarà iscritto in un apposito registro
diocesano, ma il vescovo non potrà trascriverlo contro la volontà delle parti. Ed ancora, la
trascrizione non può essere richiesta dai figli, né dai creditori di una delle parti per potersi
rivalere sul patrimonio dell’altra, poiché in tale materia vige il principio della libertà
matrimoniale, secondo cui spetta solo alle parti scegliere tra uno dei diversi tipi di
matrimonio (meramente religioso, religioso a effetti civili, solo civile o acattolico)
consapevoli che, una volta scelto tale tipo, saranno sottoposti solo ed esclusivamente al
regime corrispondente.
Ciò premesso, bisogna dire che la trascrizione si sostanzia in un negozio autonomo e
costituisce l’atto finale di un processo amministrativo che ha inizio con le pubblicazioni.
La dottrina aveva poi individuato un terzo tipo di trascrizione, quella tempestiva
ritardata. In questo caso, pur mancando le preventive pubblicazioni, l’atto di matrimonio
era stato trasmesso nei termini stabiliti all’ufficiale di stato civile, che provvedeva alle
pubblicazioni e se non vi erano opposizioni o casi di intrascrivibilità, procedeva alla
trascrizione secondo quanto disposto dalla legge 847/1929. Poiché quest’ultima legge è
stata abrogata non è più possibile delineare tale tipo di trascrizione.
L’aver riconosciuto rilevanza solo alla volontà delle parti impedisce anche la trascrizione
post mortem, che invece era prevista dalla legge 847/1929, in quanto non si ritengono
possibili interventi di terzi in un negozio di natura squisitamente personale.
Infine, è stato affermato che bisogna acquisire piena sicurezza sulla chiara ed esplicita
volontà di entrambi i coniugi di voler conferire effetti civili al matrimonio canonico
ricevendo le relative istanze, per accertarne provenienza e contenuto, evitando di
interpretare espressioni che siano dubbie o equivoche. Può essere considerato idoneo, a
tal fine, un testamento che, peraltro, trova impiego in numerose ipotesi relative a volontà
inerenti la dimensione etica o religiosa, quali: riconoscimento del figlio naturale,
disposizioni a favore dell'anima, confessione stragiudiziale, cremazione, donazione di
organi, ius eligendi sepulcrum.

3.) Gli effetti civili delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale

L’Accordo del 1984 stabilisce che: “Le sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dai
tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività della Segnatura
Apostolica, sono su domanda delle parti o di una sola di esse, dichiarate efficaci nella
Repubblica italiana con sentenza della Corte d’Appello competente”, cioè quella dove il
matrimonio è stato trascritto.
La Corte d’Appello deve innanzitutto accertare: “che il giudice ecclesiastico era il giudice
competente a conoscere della causa; che nel procedimento davanti ai tribunali
ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio; che
ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di
efficacia delle sentenze straniere”.
Si aggiunge nel protocollo addizionale: 1) che dovrà tenersi conto che i richiami fatti dalla
legge italiana si intendono fatti al diritto canonico; 2) si considera passata in giudicato la
sentenza esecutiva per il diritto canonico; 3) in ogni caso non si procederà al riesame del
merito.
La Segnatura Apostolica, nel dichiarare esecutive le sentenze dei tribunali ecclesiastici,
deve accertare che alle parti sia stato garantito il diritto di agire e di difendersi
(regolarità del procedimento) in almeno due gradi di giudizio, con conseguente
passaggio in giudicato della sentenza (definitività del procedimento). Quanto al divieto
di riesame nel merito: il giudizio di merito circa la nullità matrimoniale è di competenza del
diritto canonico, e non della giurisdizione civile.
L’Accordo del 1984 prevede, inoltre, che la Corte d’Appello competente, “nella sentenza
che rende esecutiva una sentenza canonica, può stabilire provvedimenti economici
provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo”; ciò al
fine di evitare uno degli effetti negativi delle sentenze di nullità che colpivano il contraente
più debole. L'autorità giudiziaria italiana può intervenire in merito anche successivamente.
Nei limiti in cui la sentenza canonica può essere assimilata a quella di un ordinamento
statuale, potrebbe essere automaticamente riconosciuta nel nostro ordinamento, al pari
delle altre sentenze straniere.
Anche a livello europeo, con la Convenzione Bruxelles II del 1968, si è cercato di istituire
un sistema di riconoscimento automatico e di esecuzione delle decisioni in materia di
annullamento, divorzio e separazione per tutti gli Stati membri dell'Unione Europea, anche
al fine di evitare procedimenti paralleli nei vari Stati con il rischio di decisioni
contraddittorie. Tale convenzione non è stata ancora ratificata dagli Stati membri.

4.) Il problema della riserva di giurisdizione

Il Concordato del 1929 stabiliva il principio della riserva di giurisdizione dei tribunali e
dicasteri ecclesiastici per “le cause che riguardavano la nullità del matrimonio e la
dispensa del matrimonio rato e non consumato”. Tale principio costituì la concessione
più rilevante dello Stato alla Chiesa cattolica lesiva della sua sovranità ma giustificata dalla
sacramentalità del matrimonio. Il fatto che l'Accordo del 1984 non parli più di tale
argomento e che dica che le disposizioni del Concordato non riprodotte sono abrogate,
può indurre a ritenere che la riserva esclusiva di giurisdizione sia venuta meno e che ci si
trovi di fronte a giurisdizioni concorrenti.
L'esclusività della riserva di giurisdizione in materia matrimoniale si deduce da diverse
norme e, in particolare, quando si stabilisce che, per l'applicazione degli artt. 796 e 797
c.p.c. (giudice competente e condizioni per la dichiarazione di efficacia) si deve tenere
conto dell'ordinamento canonico e della sua specificità, costituendo ciò una limitazione
della sovranità dello Stato e una conferma della riserva di giurisdizione.
Ma anche se la giurisdizione fosse concorrente, ci si troverebbe sempre di fronte ad una
riserva poiché, essendo la giurisdizione canonica quella di un ordinamento
confessionale e non di uno Stato, si tratterebbe di una giurisdizione volontaria e non
coattiva; tra l'altro, in riferimento a tale ordinamento non è garantito il principio di
reciprocità, che sta alla base della delibazione delle sentenze, e, pertanto, non è
possibile assimilare la giurisdizione canonica a quella di uno Stato o a una giurisdizione
speciale.
Dal principio della libertà matrimoniale, secondo cui le parti hanno il diritto di scegliere
tra i vari tipi di matrimonio (meramente religioso, canonico ad effetti civili, civile e
acattolico) consegue il regime matrimoniale a cui gli sposi si sottopongono per cui, in base
al principio di prevenzione e della concorrenza delle giurisdizioni, le parti hanno la
facoltà di adire indifferentemente i Tribunali ecclesiastici o quelli dello Stato. Ciò potrebbe
dare vita a nuove giurisdizioni e a un possibile contrasto di giudicati poiché le parti
potrebbero adire entrambe le giurisdizioni concorrenti, senza che il giudice civile possa
dichiarare la litispendenza perché non sussiste sul piano esterno e perché per
l'ordinamento canonico non vale il principio di reciprocità. Non è applicabile neanche l'art.
39 c.p.c. poiché, in questo caso, i giudici appartengono a due diversi ordinamenti.
Il problema in esame non è di facile soluzione perché così come lo Stato non può
rinunciare al principio dell'unità della giurisdizione, connesso al concetto di sovranità,
la Chiesa non può disconoscere la sacramentalità del matrimonio o la natura
confessionale e volontaristica del proprio ordinamento. Il diritto canonico non può
essere considerato alla stregua del diritto di uno Stato estero e l'ordinamento canonico e
quello civile non sono su posizioni paritetiche. La possibile soluzione sarebbe, pertanto,
quella di separare le due giurisdizioni, magari con un ritorno al sistema del doppio
binario, e rivalutare il principio di libertà matrimoniale. Ancora una volta è bene
ricordare che l'attività canonica non si può qualificare come giurisdizionale poiché il
giudice canonico è senza imperium e il procedimento non ha carattere autoritativo. La
giurisdizione canonica, pertanto, è una giurisdizione spirituale, confessionale e
indipendente, certamente non statuale.

5.) Il matrimonio acattolico

Il matrimonio acattolico è disciplinato dalla legge 1159/1929, oltre che dalle sei intese
finora stipulate dallo Stato italiano, con le quali si stabilisce che agli atti compiuti dai
ministri dei culti ammessi sono riconosciuti effetti civili, ma solo se la loro nomina è stata
preventivamente autorizzata dal Ministro degli interni. Ciò in conseguenza della rinuncia
all'esclusività del matrimonio civile avvenuta con il Concordato del 1929 che sanciva la
fine del c.d. principio del doppio binario, cioè dell'assoluta separazione tra matrimonio
religioso e matrimonio civile.
Il matrimonio acattolico celebrato da uno dei ministri di culto produce dal giorno della
celebrazione gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile,
quando siano state adempiute le disposizioni dettate dalla legge. È l’ufficiale di stato civile
che sarebbe competente a celebrare il matrimonio, che, una volta adempiute tutte le
formalità preliminari e accertato che non sussistono impedimenti alla celebrazione del
matrimonio, rilascia l’autorizzazione scritta contenente l’indicazione del ministro di culto
dinanzi al quale la celebrazione deve aver luogo e della data del provvedimento con cui la
nomina di questi è stata approvata. Il ministro di culto deve dare lettura degli artt. 143, 144
e 147 c.c., riceve alla presenza di due testimoni idonei la dichiarazione degli sposi di
volersi prendere in marito e moglie e compila l'atto di matrimonio che trasmette in originale
entro 5 giorni all’ufficiale di stato civile. Questi, entro 24 ore, provvede alla trascrizione nei
registri dello stato civile, informandone il ministro di culto che ha celebrato il matrimonio. In
caso di impedimento legittimo, il ministro di culto nominato può delegare altro ministro che
può legalmente sostituirlo nell’ufficio, purché anch’egli sia stato approvato. Ma i ministri di
culto non possono rilasciare copie né certificati degli atti di matrimonio celebrati davanti a
loro. Ciò a conferma che non possono essere considerati alla stregua di un ufficiale dello
stato civile, cioè non è un pubblico funzionario. Al matrimonio acattolico, dunque, una volta
trascritto, si applicano, anche per quanto riguarda le domande di nullità, tutte le
disposizioni relative al matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile, al punto che
tale tipo di matrimonio, più che essere considerato quale fattispecie autonoma
sembrerebbe una sottospecie del matrimonio civile.
Il matrimonio acattolico non sembra in alcun modo essere assimilabile al matrimonio
canonico (perché non si applicano le norme delle singole confessioni) o al matrimonio
civile (perché non si è voluto imporre, a chi ha una fede religiosa diversa dalla cattolica, il
matrimonio civile) e, pertanto sembra costituire un terzo tipo di matrimonio che,
naturalmente, si conforma a quello civile, l'unico, in precedenza, ad avere valore per lo
Stato. L'introduzione del solo matrimonio cattolico accanto a quello civile avrebbe
costituito una soluzione poco soddisfacente, anche se sarebbe stato più corretto un rinvio
ai singoli diritti confessionali.
Oggi, in base alla legge 1159/1929, le condizioni necessarie affinché il matrimonio
acattolico consegua effetti civili sono: l'autorizzazione conferita dall'ufficiale di stato
civile al ministro di culto (nulla-osta); la forma di celebrazione comune a tutti i culti, che
non può essere modificata (ciò ha creato problemi con il matrimonio israelitico in quanto
non prevede che le parti esprimano il loro consenso né la presenza di un ministro di culto
– non è tale il rabbino – poiché la sposa è oggetto di un accordo tra il padre e lo sposo).
La trascrizione del matrimonio acattolico ha valore costitutivo ed è ammessa quella
tardiva.

6.) Natura ed essenza giuridica del matrimonio

La natura e l’essenza giuridica del negozio matrimoniale cambiano a seconda del punto di
vista, confessionale o statualistico. Per l’ordinamento civile è irrilevante che il
matrimonio possa essere considerato un sacramento, così come per l’ordinamento
canonico è insufficiente una concezione meramente contrattualistica del matrimonio.
L’art. 29 Cost. pone il matrimonio a base della famiglia, nucleo essenziale della società,
per cui l’istituzione ancora oggi conserva un’importanza fondamentale e alcuni dati comuni
tra i due punti di vista suddetti potevano rinvenirsi in passato e possono rinvenirsi tuttora.
In primo luogo la forma che ha alcuni aspetti ricorrenti: lo scambio del consenso
(dichiarazione di volersi prendere come marito e moglie) ricevuta da un ministro di culto o
da un ufficiale dello stato civile in presenza di testimoni e in forme tipiche (lettura degli
articoli del codice civile e scelta del regime patrimoniale), dichiarazione trascritta nei
registri parrocchiali e in quelli di stato civile, con conseguente mutamento dello status
dei nubendi da quel momento non più liberi ma legati dal rapporto di coniugio e con
conseguenze anche sul piano patrimoniale qualora non si scelga il regime di
separazione dei beni in quanto oggi il regime legale è quello della comunione per cui tutti
gli atti compiuti da uno dei coniugi (acquisti, vendite, donazioni) hanno bisogno del
consenso dell'altro o sono ricondotti ad un patrimonio comune. Tutto ciò non avviene nel
caso della famiglia di fatto che si basa su una mera convivenza anche se ora la
giurisprudenza attribuisce al convivente tutta una serie di diritti. C'è la comune volontà di
convivere come marito e moglie ma non si vuole o non si può utilizzare lo strumento del
matrimonio.
L'essenza del matrimonio va ricercata al suo interno, qualunque sia il tipo di matrimonio
stipulato. Oltre la forma, comuni sono gli aspetti spirituali. La comunità di vita che
scaturisce dal matrimonio si sostanzia per il diritto canonico nei bona prolis, bona fidei e
bona sacramenti, e per l'ordinamento giuridico nei diritti-doveri dei coniugi, di mutuo
sostegno, di fedeltà e di educazione della prole (anche se oggi hanno assunto minore
importanza e con l'introduzione del divorzio il matrimonio non è più indissolubile).
Particolare considerazione merita la concezione del matrimonio di Doms, secondo cui il
rapporto di coniugio nasce dalla volontà di ciascun coniuge di donarsi all’altro, di
completarsi, e cioè da un atto di assoluta libertà in cui si sostanzia l’amore coniugale, che
certo comporta limitazioni e di cui essi conoscono bene gli effetti. Senza la volontà di
donarsi, di prendersi e di accettarsi come coniugi, il matrimonio non avrebbe alcun
significato e ciò potrebbe rappresentare la sua fine. Dunque è in questa scelta spirituale
che va ricercata l’essenza del matrimonio.
In diritto romano l'affectio maritalis costituiva l'elemento determinante che oggi sancisce
come l'aspetto psicologico è stato sempre considerato il momento più rilevante del
negozio matrimoniale, anche se ciò non escludeva il ripudio o il divorzio. Divorzio che, con
l'introduzione nel nostro ordinamento, non consente più di ritenere il matrimonio
indissolubile e lo avvicina più alla concezione romanistica che a quella confessionale.
Il matrimonio, istituto di derivazione civile, è stato attratto nell'orbita degli ordinamenti
religiosi perché è stato ritenuto un momento così importante nella vita degli individui da
essere caratterizzato dalla c.d. sacralità. Ciò crea reciproche influenze che non
contribuiscono a chiarire la natura dell'istituto, specie giuridica, poiché spesso si
sottolineano gli aspetti comuni ma si dimenticano quelli differenti: la diversa rilevanza della
consumazione, essenziale per il matrimonio canonico, indifferente per quello civile; la
procreazione, entrambi gli ordinamenti prevedono il matrimonio di mutuo ausilio,
celebrato quando non è più possibile avere figli, ma ciò è coerente in ambito civile dove la
procreazione non è un fine essenziale del matrimonio, diversamente in ambito canonico
dove tali matrimoni dovrebbero essere considerati nulli; l'indissolubilità e la
sacramentalità, escluse in ambito civile. In sostanza, solo l'obbligo di fedeltà finisce per
accomunare i due tipi di matrimonio.
Essenza e natura giuridica del matrimonio vanno viste all'interno di ciascuna tipologia di
matrimonio più che negli aspetti comuni in quanto si tratta di distinguere nettamente i due
tipi di matrimonio. Il matrimonio religioso si distingue da quello civile perché risponde a
regole che hanno radici nelle civiltà e nelle credenze dei vari popoli, al punto che non
sempre ne derivano effetti giuridici, ma solo nell'ambito confessionale di appartenenza. Il
matrimonio civile è assimilabile ad un contratto, che vincola le parti sul piano personale
e su quello patrimoniale. In tutti i casi crea una comunità, liberamente e attraverso lo
scambio del consenso e con forme tipiche, aspetto comune mentre diversa è la natura
giuridica perché il matrimonio, da cui scaturisce la famiglia legittima, è qualcosa di più di
un contratto e, data la sua dissolubilità, è qualcosa di diverso da un sacramento, è
un'istituzione sociale.
Come si può notare, l'istituto nel tempo è molto mutato e, se identica è rimasta la ratio,
diverso è il suo modus operandi all'interno della società civile.

7.) Matrimonio, separazione e divorzio. Diritto di famiglia e libertà religiosa

Sono vicende del rapporto matrimoniale la separazione, consensuale e giudiziale, il


divorzio e tutto ciò che riguarda i contrasti tra i componenti la famiglia per motivi religiosi.
Il regime della separazione personale e del divorzio è di natura esclusivamente
civilistica e pertanto esula dal diritto ecclesiastico. Qui si vuole solo ricordare che anche il
Codex iuris canonici prevede la separazione con permanenza del vincolo e che proprio
al diritto canonico si ispira uno dei casi di scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio, quello che può essere richiesto da uno dei coniugi quando il matrimonio non
è stato consumato con la conseguenza che, non essendo consentita la delibazione delle
sentenze di scioglimento super rato et non consummato, la non consumazione,
irrilevante per l'ordinamento civile, viene ad assumere valore giuridico per il divorzio.
I contrasti nell’ambito familiare sono quelli che nascono dal mutamento di confessione
religiosa di uno dei coniugi o dal contrasto sull’educazione religiosa dei figli, e possono
anche costituire causa di separazione o di divorzio o essere risolti con l’intervento del
giudice.
Si è già visto, in relazione all’ora di religione, che il contrasto va risolto tenendo conto
dell’interesse del minore, rispettando la sua volontà: al minore è riconosciuta la capacità
di autodeterminarsi e di essere titolare di diritti soggettivi perfetti ed autonomi.
La legge 54/2006 ha previsto, in caso di separazione, l'affidamento del minore ad
entrambi i genitori anche al fine di predisporre una maggiore tutela della sua libertà
religiosa. Ma in caso di contrasto tra i coniugi dovuto al mutamento di confessione
religiosa di uno dei due che pretende che anche i figli seguano la propria decisione, ciò
costituisce un problema non indifferente e attuale, per le conseguenze che può avere in
materia di separazione. La conversione di un coniuge ad altra confessione può costituire
impedimento alla prosecuzione della convivenza o causa di addebito della separazione.
Qui il principio di favore nei confronti della confessione originaria, o il favor religionis
catholicae può contrastare con il principio di libertà religiosa. L’intervento del giudice è
previsto per tentare di risolvere le situazioni più problematiche. Il principio cui dovrebbero
ispirarsi gli interessati, compreso il giudice, è quello del rispetto della libertà religiosa
individuale, anche nel caso in cui il singolo si dichiari ateo. L’appartenenza confessionale
di uno dei coniugi è garantita dall’art. 19 Cost. e pertanto è irrilevante ai fini della
separazione, se tale coniuge non viene meno ai doveri familiari. Non è possibile, inoltre,
stabilire clausole relative all'educazione religiosa della prole in una convenzione di
separazione poiché la libertà religiosa non è negoziabile.
Su queste posizioni si è attestata anche la Cassazione, che ha stabilito che la libertà di un
soggetto di mutare fede non può affievolirsi solo perché è sposato ed ha figli, e che il
mutamento di fede religiosa di uno dei coniugi non costituisce motivo di addebito della
separazione, mentre lo è l’intolleranza verso le nuove convinzioni dell’altro coniuge.
La famiglia legittima è tutelata dalla Costituzione. All'interesse della famiglia, al quale sono
subordinati gli interessi dei singoli, si è contrapposta una concezione individualistica per
cui la famiglia è un mezzo per perseguire gli interessi dei singoli. In passato si tendeva a
sottrarre l'ambito familiare da interventi esterni ma oggi non è più così. L'ingerenza di
soggetti esterni, talvolta, può apparire irrispettosa degli interessi dei singoli e, pertanto, si
deve cercare di garantire al singolo, all'interno della famiglia, un certo ambito di libertà,
intervenendo solo nei casi strettamente necessari, quando siano le parti stesse a
richiederlo, senza dimenticare che la composizione dei conflitti non può prescindere dal
rispetto della volontà dei singoli e dei loro interessi. Diversamente ogni decisione
potrebbe apparire arbitraria e ingiusta. Non si richiede altro, per ciò che ci attiene, che sia
rispettato il diritto alla libertà religiosa.
I diritti inviolabili della persona all'interno delle formazioni sociali sono garantiti dall'art.
2 Cost., e l'art. 30 Cost. non legittima certo i genitori ad imporre un'ideologia religiosa. Il
diritto-dovere dei genitori di dare ai figli un'educazione religiosa può riguardare solo i
primi anni della loro vita poiché, al compimento del quattordicesimo anno, i figli restano
liberi di operare le proprie scelte in materia religiosa. Non sono validi, si ribadisce, patti dei
genitori in materia perché la libertà religiosa è indisponibile. Il tribunale dei minorenni di
Genova ha decretato che il minore ha il diritto di professare una fede religiosa diversa da
quella di un genitore e la Corte di Cassazione ha stabilito che la scelta dell'affidatario non
può essere influenzata dalla sua fede religiosa e il mutamento di fede di un coniuge non
può incidere sull'affidamento dei figli.
In materia, l'intervento del giudice è considerato espressione di autoritarismo e, pertanto,
dopo il tentativo di conciliazione, può solo limitarsi ad attribuire potere di decisione al
coniuge che ritiene più idoneo a curare gli interessi del figlio.

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