La prima sentenza che si è soffermata ex professo sul tema del trattamento
medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, è stata la nota sentenza Massimo (Cass., Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo). Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta; sicchè egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. Aderendo, dunque, alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in concreto la antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo. Da un lato, infatti, occorreva assegnare il dovuto risalto alla circostanza che l’art. 39 del codice di deontologia medica allora vigente stabiliva che il consenso del paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico (MEDICALIZZA L’ATTO); dall’altro, doveva pure rammentarsi che, in tema di trattamento medico chirurgico, l’antigiuridicità della lesione provocata, poteva, indipendentemente dal consenso, essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di giustificazione; negandosi al tempo stesso validità alla tesi secondo la quale quella attività rinverrebbe copertura in cause di giustificazione non codificate, riferite alla finalità, pur sempre terapeutica, perseguita dal chirurgo. La sentenza sottolinea che «se il trattamento, eseguito a scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere l’ipotesi in cui esso sia consentito dall’ipotesi in cui il consenso invece non sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno scopo terapeutico, e l’esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale (art. 32, comma 2, Cost.), e che, a fortiori, il reato sussiste ove l’esito sia sfavorevole». Nel contrastare, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo la quale l’oggetto di tutela dell’art. 50 cod. pen. sarebbe limitato alla libertà di autodeterminazione, con conseguente possibilità di ritenere configurabile, in relazione al trattamento medico eseguito senza il consenso, il reato di cui all’art. 610 cod. pen., la medesima sentenza ha precisato che «la formulazione di ordine generale del principio sancito dalla norma, non autorizza l’esclusione della protezione del diritto alla integrità fisica (tra molti altri) e, semmai, soltanto il trattamento medico senza il consenso che pur sempre non cagioni lesioni potrebbe far ipotizzare fatti di violenza privata».