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4.
Comitato scientifico
Virna Brigatti, Roberto Diodato, Paolo Giovannetti
Laura Neri, Giuliano Vigini
Pier Francesco Fumagalli
Ecumenismo
Copertina: Eros Rozza
ISBN: 978-88-7075-897-9
Il contesto storico-culturale
Ecumenismo ecclesiale e secolare
I protagonisti
John R. Mott
Nathan Söderblom
Agostino Bea
Aristokles Pyrou
Yves Congar
L’ecumenismo oggi
Tratti generali del periodo 1966-2016
Dialoghi dottrinali
I consigli di chiese
Relazioni ebraico-cristiane
Bilancio e prospettive
Bibliografia e sitografia
Il contesto storico-culturale
Con la svolta di Costantino, che nel 313 apre alla chiesa le porte
dell’impero, ha inizio un nuovo, lungo periodo della storia della chiesa.
L’iniziativa per l’unità è guidata dall’imperatore, che nel 325 convoca a
Nicea il primo concilio ecumenico, per contrastare l’eresia ariana che nega
la piena divinità di Cristo. Gli imperatori sono poi impegnati a moltiplicare
i loro sforzi convocando nuovi concili che precisino in che modo Cristo è
insieme uomo e Dio, con un crescendo di definizioni cristologiche che, tra
accese polemiche, culmineranno nel 451 a Calcedonia. Contro queste
ulteriori formulazioni teologiche si leva il dissenso dottrinale, nestoriano
prima (431) e poi monofisita.
Il primo a dissentire è Nestorio di Costantinopoli, che affermando la
compresenza di due persone in Cristo – la divina e l’umana – porterà la
chiesa di Persia (oggi chiesa assira d’Oriente) a staccarsi dalla comunione
dottrinale e ecclesiale con le altre chiese. Il secondo dissenso è sostenuto da
Cirillo di Alessandria, che all’opposto afferma una sola natura del Verbo di
Dio fatto carne, e ispirerà la separazione di quel gruppo di chiese,
denominate per sedici secoli «monofisite» e oggi dette «ortodosse
orientali»: copta, etiopica, sira, malankarese e armena. In entrambi i casi un
peso non lieve nella separazione ebbero fattori etnici, politici e culturali:
Bisanzio-Costantinopoli, o Nuova Roma, consolidò la propria posizione
dopo il 330, anno dell’inaugurazione della nuova sede imperiale, mentre
alla periferia dell’impero – in Egitto, Armenia, Mesopotamia, Persia,
Etiopia e Siria – agivano forti spinte centrifughe, che si esprimevano anche
nell’impeto espansionistico e missionario di nestoriani e monofisiti verso
India, Cina e Africa. Il caso dell’Armenia, il più antico dei regni cristiani,
rimane paradigmatico come fenomeno di inculturazione della fede
intrecciata con la componente etnica e politica. Un fenomeno analogo, ma
di esito opposto, può invece essere considerata la scomparsa, nel IV secolo,
della chiesa giudeo-cristiana in Siria e Palestina. Di fatto questa evoluzione
conduce i tre patriarcati di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria, in
posizione marginale rispetto a Roma e Costantinopoli. Non diversa è stata
l’evoluzione dei rapporti tra Roma e Bisanzio: con la fine dell’impero
romano d’occidente (476), la chiesa latina ricerca una propria autonomia
mediante il consolidamento delle strutture giuridico-amministrative, mentre
in teologia s’impone il pensiero di Agostino d’Ippona. A Oriente trionfa la
civiltà bizantina con Giustiniano ( † 565) e la formazione del consenso
normativo dell’ortodossia, di cui sono protagonisti Dionigi l’Aeropagita (†
500 ca.), Massimo il Confessore († 662), Giovanni Damasceno († 749 ca.);
la teologia è apofatica, e di conseguenza la spiritualità è un silenzio
adorante (esicasmo) in cui si esprime la deificazione dell’uomo. Pur ancora
sostanzialmente unite dalla struttura episcopale, le chiese latina e greca si
organizzano ormai diversamente: quella di Roma con forme sempre più
simili a una monarchia, quella di Costantinopoli attorno a patriarcati e
sinodi legati all’imperatore, la cui dottrina dei cinque patriarcati
(pentarchia) è espressa nella Novella 109 delle Pandette.
Il movimento monofisita continuò la propria attività, in contrasto con la
volontà imperiale di Giustiniano che sosteneva il dogma di Calcedonia; in
Siria i monofisiti furono detti giacobiti, da Yaqob Baradai vescovo di
Edessa (541-578).
L’imperatore intervenne anche contro tre scritti («capitoli») di Iba di
Edessa, Teodoreto di Ciro, Teodoro di Mopsuestia, condannandoli nel 544
come nestorianizzanti; ne venne uno scisma (detto «dei tre capitoli») che
coinvolse largamente la chiesa latina, esteso all’Africa, Milano e Aquileia, e
rientrò nel secolo VII. La condanna fu poi confermata dal quinto concilio
ecumenico nel 553; il sesto concilio ecumenico condannò l’eresia
monotelita, di derivazione monofisita, cui sembrava aver aderito
genericamente papa Onorio I (625-638). In entrambi i casi i papi Vigilio
(537-555) e Martino I (649-653) subirono gravi umiliazioni a
Costantinopoli, fino al carcere e all’esilio per papa Martino. In questa
situazione si può comprendere come in Oriente i nestoriani, e non essi soli
ma anche altre minoranze, come gli ebrei, guardassero all’Islam con
speranza, e come in Occidente i latini cercassero altrove un centro di unità e
un’autorità politica cui appoggiarsi. Già questa parziale panoramica dei
primi otto secoli di cristianesimo ci permette di cogliere molti elementi di
divisione – specie riguardo alla chiesa assira e alle antiche chiese orientali –
nei quali si nota l’influsso, se non addirittura il peso determinante, dei
fattori culturali e politici su quelli dottrinali e teologici che all’epoca furono
addotti come decisivi per giustificare la separazione fra quelle chiese e le
chiese di Roma e di Costantinopoli.
La separazione fra chiesa d’Oriente e d’Occidente
L’istituzione del Sacro Romano Impero, per iniziativa di papa Leone III e di
Carlo Magno re dei Franchi, nell’800 segna una svolta nei rapporti fra greci
e latini, le cui relazioni peggiorarono progressivamente, fino alla rottura
della comunione ecclesiale. Gli scontri fra chiesa latina e greca si fanno più
frequenti e più gravi, culminando nelle scomuniche del 1054. Tra gli
episodi più significativi di questo processo di estraniazione si colloca il
tentativo di Carlo Magno di imporre l’inserimento del Filioque
(letteralmente «e dal figlio») nel Credo stabilito a Nicea-Costantinopoli: i
latini pensavano così di descrivere meglio il dono dello Spirito Santo che
procede anche dal Figlio, ma i greci non accettarono l’inserimento,
vedendovi una diminuzione del Padre, unica origine del Figlio e dello
Spirito. Così, quando nel 1014 il Filioque fu ufficialmente inserito nel
Credo romano, si costituì un ostacolo dottrinale, ancora oggi non del tutto
superato, per la comunione fra Roma e l’ortodossia. Altro fatto grave fu la
pretesa latina di inviare missionari in Bulgaria, che apparteneva alla
giurisdizione bizantina. In questa atmosfera già tesa nell’867 Fozio di
Costantinopoli scomunicò papa Niccolò I, che nell’863 ne aveva chiesto la
deposizione: è l’inizio della lotta di Bisanzio per la difesa dell’«ortodossia».
Lo scisma rientrò, sopito più che risolto, per riesplodere nel 1054, in
occasione di un’aspra controversia sul pane azzimo usato dai latini nella
celebrazione eucaristica. I legati papali scomunicarono il patriarca Michele
Cerulario, provocando per reazione la scomunica contro il papa: ne seguì la
rottura della comunione anche fra Roma e le chiese slave di Bulgaria e
Russia. Le crociate infersero il colpo finale al processo di separazione fra le
due chiese sorelle: l’insediamento di patriarchi latini a Gerusalemme e
Antiochia, il sacco di Costantinopoli nel 1204 e l’effimero impero latino
d’Oriente (1204-1261) indebolirono fatalmente Bisanzio e furono ferite mai
dimenticate dai greci.
Non essi soli, del resto, furono vittime delle crociate: sorte simile toccò
alle comunità ebraiche, specialmente nella valle del Reno, che vennero
duramente perseguitate, mentre l’antiebraismo cristiano dilagava e veniva
giustificato teologicamente, creando dell’ebraismo uno stereotipo
demoniaco e perfido che durerà fino al secolo XX. Tra il secolo XI e il XIII
si aggiunsero altre controversie dottrinali fra Roma e Costantinopoli, tra le
quali le polemiche sul Purgatorio e sull’invocazione dello Spirito nella
preghiera di consacrazione eucaristica (Epiclesi): in tal modo si consumò la
rottura della comunione di carità, di preghiera, di formulazione della fede e
di struttura ecclesiale. L’autorità papale in Occidente si consolidò,
presumendo di riunire in sé ogni potere terreno e spirituale, secondo la
teoria di Bonifacio VIII, che già Dante aveva fieramente avversato. Anche
nelle opere dei principali teologi greci o latini, come Simeone nuovo
teologo ( † 1022), Massimo Planude ( † 1130) o Tommaso d’Aquino ( †
1274) si riscontrano due sistemi di pensiero ormai da tempo avviati su
percorsi non comunicanti. La situazione di separazione fra chiesa latina e
greca è dunque complessa e profonda, e comprende punti dottrinali anche di
grande importanza, come pure una diversa concezione dell’autorità del
vescovo di Roma; il linguaggio assai differente delle scuole teologiche e
delle tradizioni culturali, e il ricordo bruciante delle crociate, nella memoria
dei bizantini, rende ancora oggi difficile la piena fiducia e la collaborazione
per ricomporre l’unità rispettando le diversità nelle materie che non toccano
la sostanza della fede.
Tentativi di unione. Benché l’ecumenismo sia un movimento recente, la
divisione fra Roma e Costantinopoli fu già anticamente percepita come un
male, e si tentò di porvi rimedio in vari modi. Dopo la rottura del 1054 non
mancarono tentativi, privati o istituzionali, di ricomporre l’unità, come il
colloquio di unione del 1135 a Costantinopoli tra Anselmo di Havelberg e
Niceta di Nicomedia, sui temi del Filioque e dell’autorità della chiesa.
L’imperatore Michele VIII Paleologo, riconquistata nel 1261 Costantinopoli
ai crociati, accettò l’unione proposta nel 1274 al secondo concilio di Lione;
credeva così di porsi al sicuro dalle mire espansionistiche di Carlo d’Angiò,
ma questo non fu sufficiente a impedire che papa Martino IV, amico di
Carlo, lo scomunicasse nel 1281. Opuscoli sul tema dell’unità della chiesa
vengono composti da Giovanni Gerson nel 1391 (Opus de unione ecclesiae)
e nel 1409 (De unitate ecclesiae); Dietrich di Nieheim, nello scritto De
modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio universali (1410) è a
favore della superiorità del concilio sul papa; Nicola da Cusa, nel De
concordantia catholica (1433), propone l’ideale umanistico dell’armonia
universale e della concordanza delle religioni. Questo ideale, che Giovanni
Boccaccio (1313-1375) aveva artisticamente descritto nella novella di
Melchisedek giudeo e del Saladino (Decamerone I, 3), soppianta nella
teoria il tono polemico e apologetico dei «dialoghi» o disputationes
medievali, ma risulta inefficace nella pratica della riconciliazione ecclesiale.
I due concili di unione tenuti a Costanza (1414-1418) e a Basilea-Ferrara-
Firenze (1431-1439) fallirono entrambi gli obiettivi sostanziali di riformare
e riunire la chiesa, nonostante che il primo abbia posto fine allo scisma
d’Occidente, e il secondo abbia promulgato decreti di unione con i greci,
grazie all’importante contributo del metropolita di Nicea Bessarione (poi
cardinale), del metropolita Isidoro di Kiev e dell’imperatore Giovanni VIII
Paleologo. Quantunque animati da intenzioni positive, nessuno di questi
tentativi ebbe successo allora, benché molte argomentazioni a quel tempo
portate a favore dell’unità conservino il loro valore, e siano state riprese nel
dialogo contemporaneo tra cattolici e ortodossi; mancava però un’atmosfera
serena e non polemica, condizione essenziale per la riconciliazione
profonda, e inoltre sia Roma sia Costantinopoli erano, diversamente da
oggi, direttamente coinvolte nella politica secondo i modi e la mentalità
dell’epoca, risultandone fortemente condizionate sia nel campo dottrinale
sia in quello ecclesiale.
Nel contesto generale di separazione fra latini e greci, assolutamente
singolare resta invece il caso della chiesa italo-albanese, che pur rimanendo
sempre in piena comunione con l’ortodossia, si sviluppò in Italia
meridionale a opera di comunità albanesi, fuggite dall’oppressione turca
durante la resistenza guidata da Giorgio Castriota Skanderbeg ( † 1468).
Non senza tensioni con i latini, all’epoca del concilio tridentino, questa
chiesa si integrò anche nella piena comunione con Roma, difendendo e
conservando le tradizioni proprie degli arbëreshë, divenendo così una
chiesa-ponte tra l’Occidente e l’Oriente.
Oltre alla divisone fra chiesa latina e greca, la seconda grande divisione
della cristianità, cui l’ecumenismo intende porre rimedio, è quella tra
cattolici e riformati, all’interno del mondo cristiano occidentale. Questa
divisione, a differenza della prima, si compie in pochi anni o decenni, non
con un processo secolare, e percorre trasversalmente tutta l’Europa. Va
inoltre considerato che l’Occidente procedeva ormai con rapidità
straordinaria verso cambiamenti culturali che portavano in sé germi di una
vera e propria rivoluzione: in poco tempo si compiono mutamenti di
eccezionale ampiezza e profondità, e anche la differenza di mentalità
rispetto alla cristianità orientale si è di conseguenza fatta più grande di
quanto non sia accaduto in molti secoli di lente trasformazioni. Mentre,
soprattutto in Italia, il Rinascimento celebra i suoi fasti artistici e letterari,
maturano quelle scoperte scientifiche e geografiche che segneranno in breve
la fine dell’unità culturale dell’Occidente europeo medievale e daranno
all’Europa un volto e un ruolo moderno e mondiale. Questa nuova
situazione, ricca di fermenti sociali e politici, raccoglierà istanze
riformatrici cristiane dei secoli precedenti, e costituirà l’ambiente
favorevole per il successo della Riforma della chiesa d’Occidente.
Veramente, segnali premonitori non erano mancati nella cristianità
occidentale, e numerosi erano stati in passato i moti di riforma più o meno
radicale: catari e albigesi nel Sud della Francia, patari in Lombardia,
spiritualisti seguaci di Gioacchino da Fiore, discepoli di Pietro Valdo (1140-
1217 ca.), mendicanti di Francesco d’Assisi (1182-1226) e, più tardi, i
lollardi di John Wyclif e il gruppo degli utraquisti di Giovanni Hus in
Boemia, che origineranno le chiese dei Fratelli moravi. A volte, come per il
francescanesimo, la chiesa istituzionale era riuscita a integrare questi
movimenti traendone un contributo di rinnovamento, ma in genere furono
aspramente combattuti con le armi, l’inquisizione, i roghi. Non diverso
quindi dai precedenti dovette apparire in principio il movimento della
Riforma, iniziato nel 1517 da Martin Lutero (1483-1546), che però assunse
rapidamente dimensioni europee e quindi universali, tanto che oggi si parla
in proposito di «riforma magistrale», per distinguerla dalla «riforma
radicale» di carattere anabattista, e dalla «riforma cattolica» che si espresse
al Concilio di Trento (1545-1563). Il maestro ispiratore venne presto
seguito da una schiera di ardenti riformatori: Huldrych Zwingli a Zurigo,
Martin Butzer di Strasburgo, l’umanista Filippo Melantone, Andreas Rudolf
Bodenstein (Carlostadio) a Wittenberg; Giovanni Calvino e Guglielmo
Farel attuano a Ginevra una riforma con caratteri originali, mentre a
Zwickau Thomas Müntzer riunisce gli anabattisti rivoluzionari, e Menno
Simons in Olanda quelli pacifisti che da lui saranno detti mennoniti.
Inizialmente, i riformatori non intendevano causare uno scisma, ma
concorrere al rinnovamento della chiesa; i tre principi fondamentali della
Riforma – la sola fede, la sola grazia, la sola scrittura sacra – toccavano
però il cuore della chiesa d’Occidente, e attorno a essi si raccolsero cristiani
già divisi da concezioni teologiche ed ecclesiastiche, da culture divenute più
secolari e nazionali, da aspirazioni alla libertà e all’autonomia in nuove
strutture politiche. L’impulso riformatore svolse quindi il ruolo di
catalizzatore delle spinte nazionali di autonomia dal potere imperiale e
dall’autorità pontificia, e i principi tedeschi per primi si appoggiarono su di
esso per affermare l’indipendenza politica.
Nel 1529, alla seconda dieta di Spira, le città libere «protestarono» a
favore della libertà individuale nelle scelte di fede, e così il termine di
«protestanti» divenne d’uso generale. Aspre polemiche teologiche si
intrecciarono in Europa a sanguinose guerre di religione per un secolo e
mezzo. Cattolici e protestanti sostennero dottrine radicalmente opposte a
proposito della concezione della chiesa, sottoposta alla Parola di Dio
(creatura Verbi) secondo i riformatori, chiesa di santi riunita in ogni
assemblea secondo Lutero; il Concilio di Trento invece concepiva la chiesa
come istituzione gerarchica sottomessa all’autorità della Sede romana. Altre
divergenze profonde riguardavano i sacramenti, la condizione umana dopo
la morte, il culto di Maria e dei santi, il canone biblico, l’autorità del
concilio. All’interno della riforma vi furono divisioni sul modo di concepire
la presenza di Cristo nella cena del Signore, la libertà e la predestinazione
umana alla salvezza, le forme di organizzazione della chiesa. In Inghilterra,
dove ancora si conservava la gerarchia episcopale, sorse per reazione un
movimento per la riforma genuina (puritanesimo) che dava importanza alle
singole congregazioni (congregazionalismo). L’idea esclusivista di chiesa
era comunque prevalente, sicché una sola poteva essere la vera chiesa o
comunità dei salvati, le altre dovevano essere avversate e denigrate; ne sono
esempio le numerose opere di teologia controversistica o di storia
ecclesiastica di autori tanto riformati (Centuriatori di Magdeburgo) che
cattolici (cardinale Cesare Baronio).
L’intreccio di queste forti componenti teologiche con altri fattori di
diversa natura caratterizzò la storia europea: già nel 1531 anche Enrico VIII
si proclamò capo della chiesa d’Inghilterra, e re Gustavo Adolfo di Svezia
(1496-1560) introdusse la riforma nei paesi scandinavi. I valdesi nel 1532
aderirono alla Riforma, nella quale riconobbero un movimento che si
conciliava con i loro stessi ideali cristiani. In Francia il protestantesimo
ugonotto fu ufficialmente ammesso nell’editto di Nantes (1598), dopo
lunghe guerre segnate da stragi come quella del 24 agosto 1572 (notte di
san Bartolomeo), ma Luigi XIV nel 1695 revocò l’editto di Enrico IV. Da
ambo le parti il sangue di martiri, come Giovanni Fisher e Tommaso Moro,
fu versato per mano di altri cristiani, come a Costantinopoli nel 1204, ma in
misura ben più tragica, e molti alla ricerca della libertà emigrarono e
passarono l’oceano per vivere nel «nuovo mondo», iniziando un nuovo tipo
di diaspora missionaria. Nel 1648, con la pace di Westfalia, l’Europa è
divisa, secondo il principio «cuius regio, eius et religio», tra regioni unite a
Roma (Italia, Austria, Polonia, Francia, regioni iberiche) e regioni nelle
quali si è affermata la Riforma, nei due rami luterano e riformato
(calvinista) o nella forma anglicana: regioni tedesche, svizzere e
scandinave, Boemia, Olanda, Ungheria, Inghilterra, Scozia.
Dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca (1453), la situazione
della chiesa ortodossa bizantina è segnata dall’affermarsi dell’autorità di
Mosca, «terza Roma», che è elevata a sede patriarcale da Geremia II di
Costantinopoli, nel 1589, durante il regno di Ivan IV il Terribile. Tuttavia in
Ucraina i cristiani ruteni continuarono a essere uniti a Roma, secondo
l’orientamento che Isidoro di Kiev aveva assunto al Concilio di Firenze, e
in occasione del concilio ortodosso polacco di Brest (1596) i vescovi
ortodossi si sottomisero al papa. Da questa «Unione» di Brest vennero detti
«uniati» i cattolici di queste regioni che conservano i riti della chiesa
bizantina, e le cui vicende subirono l’influenza delle variazioni dei confini
del regno polacco prima, dell’impero austro-ungarico poi. I protestanti
cercarono in Europa orientale un accordo di cooperazione con gli ortodossi,
e lo raggiunsero nella conferenza di Vilna (1599); gli ortodossi non
accettarono, evidentemente, i princìpi della Riforma, che appariva loro una
questione interna alla cristianità occidentale, ma potevano facilmente
accordarsi con i protestanti nell’opposizione al papato, per la difesa di
comuni interessi. La cristianità offre dunque nel secolo XVII un panorama
più che mai spezzato in chiese che apparentemente sono incamminate su
percorsi divergenti e contrapposti; la situazione di divisione non è più
sentita come un male cui cercare rimedio, ma come un dato di fatto
necessario, di cui ciascun gruppo fornisce spiegazioni e giustificazioni
diverse.
Origini e sviluppo dell’ecumenismo
La terza assemblea del CEC (Nuova Delhi, 1961). La terza assemblea del
CEC, che si svolse a Nuova Delhi dal 19 novembre al 5 dicembre 1961, con
la partecipazione di 577 delegati, si collocò in questo clima di
aggiornamento e di rinnovata speranza ecumenica. I delegati ortodossi
furono sessantaquattro, e cinque gli osservatori cattolici, che avevano
dovuto superare lo scoglio di un veto del Sant’Uffizio. Tema principale fu
«Gesù Cristo: la luce del mondo», e il tema dell’unità della chiesa fu
approfondito con il contributo della commissione di Fede e costituzione. Le
questioni del rapporto con le altre religioni, di una forma asiatica di
cristianesimo e della solidarietà con tutti gli uomini furono affrontate
anticipando molti temi del Concilio vaticano secondo. Un forte impulso
missionario venne al CEC dall’integrazione del CMI, che divenne
Commissione del CEC per la missione ed evangelizzazione. A Nuova Delhi
numerose chiese di Africa, America del Sud e Asia si associarono al
Consiglio ecumenico, che cominciò così ad assumere una dimensione meno
occidentale e veramente universale.
Il fondamento associativo del consiglio fu riformulato, come da più parti
si chiedeva, con l’inserzione del riferimento alla Trinità e alle Scritture, e
divenne: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è un’associazione di chiese
che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le
Scritture e cercano perciò di realizzare insieme la loro comune vocazione a
gloria dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo».
Le chiese ortodosse orientali, che nel passato avevano sperimentato il
proselitismo protestante, salutarono con soddisfazione un rapporto che
trattava di «Testimonianza cristiana, proselitismo e libertà religiosa». Dietro
proposta della Federazione protestante francese, l’assemblea approvò anche
una risoluzione sull’antisemitismo, che riprendeva nella sostanza il
documento di Amsterdam, proponendone i contenuti in un contesto
ecumenico divenuto più solido e a dimensione universale. Con l’Assemblea
di Nuova Delhi, in conclusione, il Consiglio ecumenico parve prossimo a
raggiungere le sue dimensioni complete sotto il profilo sia di base
associativa, sia di fusione dei precedenti organismi ecumenici attivi nel
quarantennio precedente. Gli eventi successivi avrebbero mostrato che
l’equilibrio raggiunto era non certo statico o burocratico, ma dinamico e
animato da vitalità e tensioni.
John R. Mott
Nathan Söderblom
Aristokles Pyrou
Yves Congar
Dialoghi dottrinali
I consigli di chiese
I consigli di chiese, libere associazioni che permettono di condividere e
confrontare riflessioni e azione comune, sono passati da 30 nel 1948 a circa
90 nel 1991, a livello nazionale; i consigli locali poi sono decine di
migliaia. Nel 1986 la chiesa cattolica era presente in 33 consigli nazionali, e
in tre conferenze regionali (Caraibi, Pacifico, dal 1990 Medio Oriente), e
l’interesse cattolico a partecipare ai consigli è manifesto e crescente. Nel
1993, alla terza consultazione internazionale dei consigli nazionali di
chiese, i cattolici erano presenti in 41 consigli, e la loro importanza per lo
sviluppo del movimento ecumenico è sempre più chiaramente riconosciuta.
Tra le numerose iniziative recenti, va ricordata l’assemblea ecumenica
europea «Pace giustizia e salvaguardia del creato» (Basilea, 15-21 maggio
1988), convocata dalla Conferenza delle chiese europee (KEK) e dal
Consiglio delle conferenze episcopali europee (CCEE), cui parteciparono
700 delegati. Consapevoli della «responsabilità decisiva» dei cristiani e
delle chiese in Europa, i partecipanti hanno fatto ogni sforzo per vedere
nelle diverse tradizioni non più motivo di separazione, ma di arricchimento
reciproco, e hanno invocato la grazia della conversione per «dimorare nella
comunione fraterna e nella solidarietà».
Dal 1983 la chiesa cattolica prende iniziative del più alto livello giuridico e
dottrinale, che confermano e danno nuovo impulso alla sua azione
ecumenica, iniziata con il Concilio vaticano secondo: «La promulgazione
del nuovo Codice di diritto canonico per la chiesa latina (1983) e quella del
Codice dei canoni delle chiese orientali (1990) hanno creato, in materia
ecumenica, una situazione disciplinare in parte nuova per i fedeli della
chiesa cattolica. Allo stesso modo il Catechismo della chiesa cattolica,
pubblicato nel 1992, ha posto la dimensione ecumenica nell’insegnamento
di base per tutti i fedeli della chiesa». Questo è il giudizio, esposto nella
premessa al Direttorio ecumenico (1993), che costituisce il documento più
recente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, nel quale sono dati
norme, orientamenti e motivazioni per la pratica dell’azione ecumenica. Nel
primo capitolo, il Direttorio afferma che Dio «attira tutta la famiglia umana
e anche l’intera creazione all’unità in lui» (n. 11), e questa unità è, nel
popolo di Dio, una comunione trinitaria e universale (n. 13), quindi tratta
dell’organizzazione ecclesiale, della formazione, della comunione tra i
battezzati, della collaborazione, del dialogo e della testimonianza comune.
Il pontificato di Giovanni Paolo II appare sempre più segnato dalla
vocazione ecumenica, dalla sollecitudine per la pace e per i poveri, dallo
slancio dell’evangelizzazione rinnovata, in vista del grande giubileo del
2000. Nel 1986, nella visita alla sinagoga di Roma e nella grande preghiera
per la pace ad Assisi, si vide come un’icona anticipatrice della prospettiva
papale; l’anno seguente l’enciclica sociale Sollicitudo rei socialis rivolgeva
l’appello conclusivo a tutti i cristiani, agli ebrei, ai musulmani, a tutti i
seguaci delle grandi religioni del mondo. L’enciclica missionaria
Redemptoris missio (1990) afferma anzitutto che «l’impulso missionario
appartiene all’intima natura della vita cristiana e ispira anche
l’ecumenismo» (Introduzione): molti di questi argomenti vengono ripresi e
applicati al contesto europeo durante il Sinodo convocato dal papa a Roma
nel 1991; la dichiarazione sinodale Tertio millennio iam tratta della nuova
evangelizzazione dell’Europa e riconosce la necessità del dialogo e della
collaborazione con gli altri cristiani, con gli ebrei e con tutti coloro che
credono in Dio. Finalmente, nella lettera apostolica di preparazione al
giubileo Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II propone di
sottolineare la dimensione ecumenica e universale del santo giubileo con un
incontro pancristiano, e addita tre tappe preparatorie (caratterizzate dalla
riflessione su Cristo, lo Spirito, il Padre), orientate a un incontro a
Betlemme, Gerusalemme e al Sinai, e accompagnate dal dialogo
interreligioso, in particolare con ebrei e fedeli dell’Islam. Questa
prospettiva inclusiva e globale trova espressione organica e completa
nell’Enciclica sull’ecumenismo Ut Unum Sint (30 maggio 1995) –
indirizzata dal papa non più solo ai cattolici ma a tutti i cristiani del mondo
– nella quale Giovanni Paolo II si rivolge alle Chiese ortodosse d’Oriente
chiamandole “chiese sorelle”, e pone la fede e il servizio all’umanità come
fondamenta della fraternità cristiana che unisce tutti i fedeli. Un ulteriore
complemento e sviluppo in questa stessa direzione si coglie nell’Enciclica
del santo padre Francesco Laudato si’ sulla cura del mondo quale “casa
comune” (24 maggio 2015), a partire dalla “preoccupazione di unire tutta la
famiglia umana” (n. 13) e con riferimento al messaggio del patriarca
ecumenico Bartolomeo.
La Dichiarazione di Augusta sulla Giustificazione (1999)
Relazioni ebraico-cristiane
Sin dal 1948, dopo la catastrofe della Shoà in Europa che segnò la morte
atroce per milioni di ebrei e la fine di gran parte della millenaria tradizione
ebraica europea, il Consiglio Ecumenico delle Chiese costituitosi a Ginevra
riconobbe la fondamentale importanza del rapporto fra la chiesa e il popolo
ebraico, come già aveva chiaramente indicato Karl Barth. Nella chiesa
cattolica, la consapevolezza del legame tra ecumenismo e relazioni con
Israele ha trovato una manifestazione istituzionale fin dal 1966, con
l’istituzione di un Ufficio vaticano per i rapporti cattolico-ebraici, collegato
con il Segretariato per l’unità e diretto dal cardinale Bea. Nel 1970 le
principali istituzioni ebraiche mondiali, riunitesi nel Comitato
internazionale ebraico per le relazioni interreligiose (IJCIC), dettero vita,
insieme con delegati della Santa Sede, al Comitato internazionale di
collegamento cattolico-ebraico (ILC). Quest’organo congiunto dal 1970 al
2016 ha tenuto 23 riunioni, la più recente della quali a Varsavia nell’aprile
2016 sul tema de L’Altro nella tradizione ebraica e cattolica: i rifugiati nel
mondo di oggi. Nel 1974 Paolo VI istituì la Commissione della Santa Sede
per i rapporti religiosi con l’ebraismo, come organismo distinto ma
collegato al Segretariato; questa Commissione ha finora pubblicato quattro
importanti documenti, gli Orientamenti per l’applicazione di Nostra aetate
(n. 4) nel 1974, i Sussidi per l’educazione cattolica su ebrei ed ebraismo nel
1985, il testo su antisemitismo e genocidio ebraico Noi ricordiamo. Una
riflessione cristiana sulla Shoà nel 1998, e nel 2015 il documento “Perché i
doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11, 29). Riflessioni su
questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione
del 50º Anniversario di Nostra aetate (n. 4). Anche il Consiglio ecumenico
delle chiese ha promosso analoghe iniziative di collegamento con le
istituzioni ebraiche. Alcuni recenti esempi possono confermare i progressi
dei rapporti tra chiesa ed ebraismo: nel 1993, la rinuncia definitiva a erigere
un Carmelo nel campo di sterminio di Auschwitz, ove venne sterminato
oltre un milione di ebrei; nello stesso anno, l’avvio di piene relazioni
diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele; nel 1994, a
Gerusalemme, una prima significativa dichiarazione congiunta del
Comitato misto (ILC) sul tema della famiglia. Anche l’ortodossia si è
incamminata con decisione nel dialogo con l’ebraismo, e nel 1993 si è
tenuto ad Atene un incontro accademico – il terzo – su «Continuità e
rinnovamento», per arrivare a una sincera collaborazione «dinanzi ai
problemi comuni che opprimono l’uomo contemporaneo» (Metropolita
Damaskinos e G. Riegner). Nel 2002 è stata costituita a Gerusalemme la
Commissione bilaterale israelo-vaticana con il Gran Rabbinato dello Stato
d’Israele, che ha finora tenuto 13 riunioni, il più recente dei quali nel 2015
sul tema Amerai lo straniero come te stesso. Migranti e rifugiati: un
pericolo o un vantaggio?.
Bilancio e prospettive
Vissert ’t Hooft riassumeva l’ecumenismo nelle tre tappe dei pionieri, degli
architetti e dei costruttori; capovolgendo l’immagine, potremmo pensare
all’ecumenismo che cerca di distruggere i muri di separazione fra le chiese:
non erano muri portanti, essenziali, ma sono stati consolidati nei secoli così
da sembrare struttura irrinunciabile della chiesa; a questi muri le chiese si
sono appoggiate, sì che se venissero tolti di colpo, ne verrebbero danni
gravi, per cui occorre un paziente lavoro di restauro strutturale
interpretativo del reale progetto architettonico originario. O, più
radicalmente, si tratta non di restauro, ma di nuova fedeltà a un progetto che
risponde al futuro di Dio.
C’è chi ha avanzato l’idea che «forse finora, per l’ecumenismo d’ogni
provenienza, è stato solo tempo di preistoria […] un ecumenismo
dell’esodo: come di carovane cioè aggirantisi nel deserto alla ricerca della
terra promessa ecumenica» (A. Asnaghi, 1977). Forse la teologia attuale
potrebbe mirare a essere una «interpretazione ecumenica dell’Esodo», al cui
vertice sta il pellegrinaggio di tutte le genti a Sion, sorgente della Torà del
Messia. A questo pellegrinaggio stanno partecipando già tutti i popoli: il
popolo di Dio che è Israele, il popolo di Dio che è la chiesa di Cristo nello
Spirito, i popoli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Oggi forse non è sempre
facile vedere il pellegrinaggio ecumenico di tutti i popoli, ma l’enorme
sviluppo di strumenti tecnologici di comunicazione e di organismi
internazionali e mondiali di coordinamento, conferma che l’umanità aspira
all’unità pur nell’innumerevole pluralità di culture e tradizioni diverse, e
nelle violente contraddizioni di una storia che sembra simile a una danza
sull’orlo dell’abisso.
Nel pellegrinaggio ecumenico delle chiese, inoltre, si assiste a un moto
circolare ascendente – tipico della celebrazione liturgica – che, a opera di
semplici laici, teologi, pastori, fa entrare nella vita pastorale e nella
riflessione teologica della chiesa istanze di salvezza emergenti dal popolo di
Dio e dall’umanità nel suo cammino storico. In questo cammino, che è
ecumenico grazie alla convergenza in esso di tutti i cristiani e di tutte le
chiese, si attua una comunione che è insieme ecclesiale, universale e
cosmica, e che esige una risposta morale. La compresenza di questi
molteplici aspetti dell’unica comunione fa sì che alcuni si preoccupino per
la possibile confusione fra ecumenismo e aspetti secolari e cosmici quali
l’impegno per la pace, la giustizia, l’integrità del creato, e questa
preoccupazione non va dimenticata o sottovalutata.
In questo orizzonte ecumenico aperto verso una pienezza, si può cercare
di situare un bilancio che individui punti fermi, limiti e nuove frontiere
dell’ecumenismo.
Punti fermi dell’ecumenismo. Il movimento ecumenico affermatosi durante
il secolo XX si è messo in luce come una realtà complessa, nella quale
agiscono protagonisti di natura diversa: Dio Padre Figlio e Spirito, e la
chiesa suo popolo; ma anche il popolo di Dio che è Israele, l’intera famiglia
umana, la storia e il cosmo sono entrati e sono in rapporto, in vario modo,
con la chiesa nel suo cammino verso l’unità. Si è chiarito che l’ecumenismo
ha un aspetto spirituale che è generale e fondamentale, e corrisponde
all’iniziativa unificante dello Spirito Santo che procede dal Padre, ed è
donato da Gesù Cristo nella Pasqua. Il Consiglio ecumenico delle chiese,
ponendo a proprio fondamento la confessione delle chiese sul Cristo, nel
1948, più tardi arricchita nel 1961 del riferimento alla Trinità e alle
Scritture, ha mostrato di aderire alla sottolineatura della centralità di Cristo,
sostenuta in modi diversi da teologi eminenti tra cui Karl Barth e Karl
Rahner. Il cardinale Joseph Ratzinger vede nell’affermazione «Gesù è
risuscitato» il vero articolo che sorregge la chiesa e che deve determinare la
fede e la teologia. Riconoscendo questo fondamento di fede cristologica, e
pur ammettendo l’incompiutezza di ogni formula dottrinale o elaborazione
teologica, rimane, anzi viene accentuato con maggiore evidenza, il primato
assoluto dell’azione di Dio per la redenzione dell’umanità, per realizzare il
fine e la fine della storia, o escatologia. Si può dire che nel suo complesso la
riflessione teologica, esegetica e pastorale nel secolo attuale è stata
largamente influenzata dall’azione e dalla dottrina ecumenica, e viceversa
queste si sono avvantaggiate dei risultati di quella. A questi chiarimenti
dottrinali si è accompagnato come elemento complementare ed egualmente
necessario il costante atteggiamento di conversione personale e
comunitaria, senza il quale la dottrina ecumenica resta insufficiente e
infruttuosa.
1. Chiarimenti dottrinali. In molti casi l’ecumenismo si è affermato grazie a
sottolineature o accentuazioni diverse di precedenti affermazioni dottrinali,
ma si sa bene quanto appunto le diverse intonazioni e i diversi ritmi possano
influenzare una sinfonia, una danza, una disposizione armonica della verità
secondo una «gerarchia», come affermato dal decreto Unitatis redintegratio
(n. 11). Al primo posto si colloca l’atto di fede in Dio padre e creatore: «La
confessione del cristianesimo resta, come per Israele, una confessione del
Dio unico», legata direttamente all’obbligazione etica (J. Ratzinger),
all’ortoprassi, che è imitazione della vita divina, supremo modello e
principio dell’unità della chiesa (vedi UR, n. 2).
Dalla esperienza-verità fondamentale dell’unicità e unità di Dio e della
sua azione per l’uomo nella storia e nel cosmo, deriva la certezza della
continuità della sua elezione e alleanza nei riguardi di Israele e della Chiesa.
Uno solo è Dio e Padre – Shema’ Israel: A… Ehad – perciò unico il suo
popolo, unica la storia della salvezza; uno solo è Signore e Cristo, Gesù
«nato dalla stirpe di Davide, quanto alla carne, stabilito Figlio di Dio con
potenza secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti» (Romani
1, 4), «una sola fede, un solo battesimo» (Efesini 4, 5), un solo culto di
rendimento di grazie (eucaristia) che è celebrazione del Pesah definitivo.
Karl Barth sottolinea l’unità del piano di salvezza: «Dio si determina ad
essere il Signore d’Israele e della chiesa e, come tale, il Signore del mondo
e dell’umanità intera; di conseguenza ha voluto la vocazione d’Israele e
della chiesa e poi la creazione del mondo e dell’uomo. Ecco quanto ci dice
la Bibbia» (Dogmatica ecclesiastica II/2, § 32.3). La comunità eletta, tutta
intera, Israele e la chiesa, in due forme, è chiamata a servire Dio
manifestando la presenza della sua gloria (ibidem, § 34.3).
Nella sua forma universale, che è la chiesa, questo popolo ha una unità
interiore, invisibile, data dalla presenza e dalla azione dello Spirito (Ruah)
di santità, e un’unità corporea, visibile, data dal suo essere corpo di Cristo;
esso ha quindi una reale personalità corporativa, tipica della famiglia, cui
corrisponde una struttura organica, sacramentale (i sacramenti e i ministeri)
a carattere apostolico, e in essa il servizio di Pietro ha un ruolo particolare
per l’unità, la carità, la missione della chiesa, la continuità con la tradizione
degli apostoli.
2. La chiesa come «Koinonia» (comunione). Riscoperta così la
fondamentale unità dei cristiani e delle chiese nella confessione del Dio uno
e trino, come è espressa negli antichi simboli di fede della chiesa indivisa, e
l’impegno etico conseguente a essere una sola chiesa, il movimento
ecumenico si è trovato di fronte a diverse concezioni della chiesa, che
giustificavano ciascuna la propria legittima esistenza. Dopo una prima fase
di studi comparativi delle varie dottrine ecclesiologiche, ci si è resi conto
che occorreva riflettere insieme sui fondamenti di una comune concezione
della chiesa. Già H. de Lubac invitava a riconoscere che «Il mistero della
Trinità ci ha aperto una prospettiva del tutto nuova: il fondamento
dell’essere è comunione», la comunione delle tre persone divine che
insieme sono e agiscono. L’unica chiesa santa cattolica apostolica, nella
quale si riversa la vita divina così come la chiesa stessa confessa nel credo,
è ora sempre più considerata come una «Chiesa di chiese» (J.-M.-R. Tillard)
sorelle e riconciliate, nella quale le singole chiese sono unite senza essere
assorbite. Non si tratta di unire le chiese in una federazione o in una «super-
chiesa», ma di camminare verso una comunione piena, poiché per il
momento essa è parziale, non è ancora perfetta. Su questa strada, la tappa di
un concilio ecumenico di tutte le chiese rimane tuttora un obiettivo
significativo. Nell’attuale dibattito ecumenico, «il modello dell’unione
organica che include una integrazione strutturale delle chiese rimane un
punto di riferimento» (J. Vercruysse).
Nel documento del dialogo cattolico-luterano, L’unità davanti a noi
(1984), è accolto il concetto di chiesa come «comunità conciliare»,
elaborato da Fede e costituzione, e si propone l’idea dell’«unità in una
diversità riconciliata», di una «comunità ecumenica vincolante, che
conserva in se stessa anche articolazioni confessionali». In vista di un
futuro concilio ecumenico, L. Vischer ne aveva indicato nel 1989 quattro
pre-condizioni (accettazione della comune fede apostolica, accordo su
battesimo, eucaristia e ministero, reciproco riconoscimento ecclesiale,
accordo sulla natura e l’autorità del concilio), e J. Vercruysse suggerisce di
considerare l’intero movimento ecumenico come una fase «pre-conciliare».
Gli elementi costitutivi essenziali della comunione della chiesa sono
riassunti nel documento del dialogo anglicano-cattolico, La chiesa come
comunione (1990), ove si riconosce una comunione, anche se imperfetta, tra
le due chiese anglicana e cattolica-romana: «Gli elementi costitutivi
essenziali per la comunione visibile della chiesa derivano e sono
subordinati alla comune confessione di Gesù Cristo come Signore […]. È
ora possibile descrivere quali sono gli elementi essenziali che costituiscono
la comunione ecclesiale. Essa è basata sulla professione di una sola fede,
rivelata nelle Scritture, e fissata nei simboli. È fondata su un solo battesimo.
Una sola celebrazione dell’eucaristia è la sua espressione e il suo centro
preminente. Trova necessariamente espressione nella condivisione
dell’impegno alla missione affidata da Cristo alla sua chiesa. È una vita di
reciproca sollecitudine dei membri l’uno per l’altro […]. Sono costitutivi
della vita di comunione anche l’accettazione degli stessi valori morali
fondamentali, la condivisione della stessa visione dell’umanità creata a
immagine di Dio e creata di nuovo in Cristo, e la professione comune di una
sola speranza nel compimento finale del regno di Dio. Per alimentare e far
crescere questa comunione, Cristo Signore ha fornito un ministero di
supervisione, la pienezza del quale è affidata all’episcopato, che ha la
responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle chiese [locali] […].
Nel contesto della comunione di tutte le chiese, il ministero episcopale di un
primate universale ha il ruolo di essere il centro visibile dell’unità» (IV, 45).
Il medesimo documento tratta ampiamente (III, 25-41) delle altre
caratteristiche di quest’unica chiesa di Dio, che sono la santità, la cattolicità
(universalità), l’apostolicità, anche nel senso della missionarietà. Queste tre
note richiamano all’impegno etico, personale e comunitario,
all’orientamento necessario e al rapporto intrinseco riguardo al mondo e
all’umanità, all’unità nella missione, nel dialogo, nella testimonianza
cristiana, di cui si parla a proposito dell’Unità e comunione ecclesiale (IV,
45).
Anche il documento allegato al sesto rapporto dei lavori congiunti della
chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico (1990), tratta del medesimo
argomento: «La chiesa: locale e universale»; vi si riconosce che «sempre di
più il concetto di Koinonia o comunione è considerato di grande valore per
la comprensione della molteplicità delle chiese locali nell’unità dell’unica
chiesa» (n. 5), e si afferma che «gli elementi ecclesiali necessari per la
piena comunione in seno a una chiesa visibilmente unita – l’obiettivo del
movimento ecumenico – sono: la comunione nella pienezza della fede
apostolica, nella vita sacramentale, in un ministero realmente unico e
riconosciuto reciprocamente, nella struttura conciliare dei rapporti e delle
sedi decisionali, nella testimonianza comune e nel servizio del mondo» (n.
25).
3. Verso una teologia ecumenica. I chiarimenti dottrinali ormai affermati e
condivisi dalle chiese permettono di comprendere meglio anche il valore di
una ricerca teologica che si qualifica come «teologia ecumenica», e di cui
G.R. Evans ha riassunto la metodologia (Method in ecumenical theology:
the lesson so far). Di questa riflessione teologica, così importante per il
progresso del movimento ecumenico, sono state messe in rilievo le
caratteristiche, l’intrinseca dimensione storica, la problematica del
linguaggio che vi è congiunta, la relazione con le comunità che vivono nella
fede ricevuta in tradizioni diverse. La prima caratteristica della teologia
ecumenica, che Evans riprende da Congar, è la disponibilità a studiare in
collaborazione con fratelli cristiani di altre chiese, senza che alcuno abbia
autorità su altri, ma su un piano di completa parità, sotto l’autorità dello
Spirito Santo. Altre due caratteristiche sono: il rispetto per la realtà e il
valore ecclesiale delle altre comunità, il rifiuto di metodi polemici o ostili
frequenti nelle controversie del passato.
Le diverse dottrine e i diversi sistemi teologici vengono esaminati sia
con metodo comparativo – come era uso nelle prime fasi degli studi
ecumenici – sia ricercandone le correlazioni, le consonanze, la
complementarità, e muovendo dai dialoghi bilaterali verso quelli
multilaterali, più complessi e profondi. Nel corso dei dialoghi ecumenici è
emersa l’importanza dei riferimenti storici, sia per la storia della dottrina,
sia per la storia della chiesa: in generale, poiché «tutte le domande e le
risposte teologiche hanno senso solo nel contesto della storia» (W.
Pannenberg), e inversamente, perché «la storia ha senso solo alla luce della
fede» (G.R. Evans). In particolare, poi, considerando l’influsso dei fattori
non teologici sull’elaborazione dottrinale e sulle divisioni della cristianità,
occorrerebbe sviluppare una storiografia ecumenica della intera cristianità,
facendo attenzione «a evitare centrismi geografici, classismi, etnocentrismi,
sessismi e culti della personalità» (O.C. Edwards), nonché la tentazione del
revisionismo. Una storia ecumenica della teologia e della chiesa dovrebbe
aiutare a non dare valore assoluto a discipline locali o a categorie teologiche
determinate da condizionamenti storici particolari. Sovente, in questa
prospettiva storica, le comunità appaiono distinte non da dissensi di fede,
ma da percorsi storici differenti, da secoli di incomprensioni.
Anche la problematica specifica del linguaggio teologico si pone
all’interno del quadro, sia storico che contemporaneo, del pluralismo dei
linguaggi della fede e delle culture. Si sta quindi affinando la ricerca di un
linguaggio, né univoco né equivoco, ma analogico, conforme alla natura
della teologia, che cerca le consonanze e non l’esclusività rispetto ad altre
formulazioni possibili. Il rapporto tra l’elaborazione di una teologia
ecumenica e il cammino ecumenico delle chiese colloca questa teologia nel
contesto della Koinonia, sicché sottolinea l’esigenza della comunione con i
simboli di fede delle comunità cristiane che sono vissute nel passato, con le
generazioni che sono inseparabilmente unite agli apostoli e a Israele. La
Koinonia appare così insieme sincronica e diacronica, sensibile
all’elemento simbolico ed estetico, al tono di un linguaggio che rivela la
tensione etica verso la carità e la verità. La ricerca di questa sinfonia di
chiese e di dottrine fa percepire che occorre essere disposti alla ricezione
anche nei confronti delle altre tradizioni, accogliendo, in una diversità
riconciliata, sia dottrine espresse in termini o toni polemici, sia dottrine
comuni espresse in termini antichi anteriori alle divisioni, sia formulazioni
nuove ma fedeli alla tradizione della fede. Sarebbe infatti imprudente
dimenticare il passato e rinunciare a interpretarlo: esso va ricordato, anche
perché vi sia spazio per il perdono domandato ed elargito, perché non si
perpetui l’inimicizia, e si possa procedere verso la piena e completa
comunione dottrinale e istituzionale, nel pluralismo legittimo di forme e
tradizioni distinte ma non separate, consapevoli che tuttavia l’unità perfetta
è insieme storica e metastorica.
In questo cammino di rinnovamento la teologia ecumenica sta ormai
avanzando decisamente, e in alcuni settori, come l’ecclesiologia, sono stati
proposti perfino dei «catechismi ecumenici», come quello di H. Schütte, La
chiesa nella comprensione ecumenica (1993), che riassume punti di
importanza centrale per l’ecumenismo contemporaneo.
4. Conversione permanente. Il legame necessario tra teologia ecumenica,
etica ecumenica e conversione si è imposto con sempre maggior vigore, in
sintonia anche con la reazione generale alla teologia puramente
intellettualistica che si era sviluppata sotto l’influsso di illuminismo,
idealismo e romanticismo. È così divenuta comune la convinzione che le
migliori formule teologiche di unione non bastano, senza che siano
accompagnate da una continua opera di conversione personale, comunitaria,
istituzionale, che faccia spazio all’irruzione dello Spirito Santo. Anche le
istanze di rinnovamento tipiche dei movimenti neo-catecumenali,
pentecostali ed evangelici, interpretano in vari modi questa convinzione di
riforma spirituale. Le stesse divisioni tra cristiani, che tuttora permangono,
sono divenute un argomento per richiamare tutti alla conversione: «La
disunione dei cristiani è la confutazione del Vangelo della signoria di Gesù
Cristo da parte dei cristiani stessi. È essa l’ostacolo più grave alla diffusione
del Vangelo nel mondo di oggi. Come possiamo superare questa vergogna
della cristianità?» (E. Schlink).
Nell’atteggiamento e nel cammino personale di conversione ecumenica
vengono messe in evidenza alcune virtù, come l’umiltà, la pazienza e la
carità, necessarie per ripercorrere in senso opposto gli itinerari della
divisione, e procedere insieme nella testimonianza cristiana. A proposito
dell’aspetto istituzionale della conversione, conviene ricordare
l’osservazione di Congar riguardo alle «impalcature» della chiesa, sempre
provvisorie e pur necessarie, ma che devono essere costantemente adeguate
alla vocazione universale della salvezza; nella prospettiva storica
dell’incarnazione, l’istituzione ha un aspetto di intrinseca mutevolezza
continua, e un criterio perenne di rinnovamento nello Spirito, che è insieme
garanzia di continuità con la tradizione (il Vangelo) e di fedeltà al futuro del
regno cui Dio chiama l’umanità e il mondo. In questo orizzonte universale
della storia della salvezza si sta superando la dialettica tra clericalizzazione
medievale e secolarizzazione moderna – già si parla di desecolarizzazione –
e sembra ora più opportuno riportare l’accento sui temi originari della
sacralità (nel senso di «consacrazione», in rapporto a Dio) e della laicità
(nel senso di «fraternità», in rapporto all’umanità), connotazioni essenziali
del popolo di Dio in cammino.
Quanto poi all’aspetto comunitario della conversione, che riguarda le
chiese e la chiesa nella sua totalità, ritorna sempre valido il principio di
Lutero «Ecclesia indiget reformatione» che anche il concilio tridentino
cercò di attuare «in capite et in membris», e J. von Lodenstein nel 1675
riprese con il motto celebre «Ecclesia reformata semper reformanda».
In questo impegno di continua conversione un posto eminente occupa il
culto o la preghiera in comune – espressa anche in forma solenne nella
settimana di preghiera per l’unità – e la collaborazione nella missione, nel
dialogo, nel servizio della carità, della giustizia e della pace, per la salvezza
del mondo.
Un caso particolare di conversione personale e comunitaria, che
coinvolge tutto il popolo di Dio, può essere considerato quello della
«recezione» dei documenti ecumenici: le chiese, come è avvenuto ad
esempio per il documento di Lima (BEM), sono richieste di esprimersi sul
rapporto fra questi e la fede della chiesa attraverso i secoli. In questo
processo di recezione ecumenica il senso tradizionale, canonico e giuridico,
che ortodossi e cattolici danno al termine «recezione», si estende al dibattito
che coinvolge l’intero popolo di Dio nelle diverse chiese locali; perché una
tale recezione possa compiersi occorrono tempi, metodi e strumenti
appropriati, adatti alle varie situazioni e culture, e questi per ora non sono
ben sperimentati ovunque.
Il gruppo di dialogo cattolico-protestante di Dombes, nel suo studio più
recente Per la conversione delle chiese, ha trattato ampiamente dei vari
aspetti della conversione, cercando di conciliarla con la preoccupazione di
custodire l’identità ecclesiale: «Noi scorgiamo nel movimento ecumenico
un grande processo di conversione e di riconciliazione delle nostre
diversità, nella ricerca della comunione tra le identità confessionali, che una
volta purificate dai loro elementi non evangelici o di peccato, possono
accogliersi, diventare complementari e arricchirsi mutualmente» (n. 153).
5. Pastorale ecumenica. Le chiese, specialmente a livello locale, hanno
sviluppato diverse forme di collaborazione e di vita comune, a volte
anticipando le iniziative di livello internazionale o di carattere ufficiale,
anche spinte da necessità urgenti. Sovente l’accresciuto numero di
matrimoni interconfessionali, tra sposi credenti e praticanti impegnati in
chiese diverse, ha suscitato riflessioni, richiesto normative comuni, creato
necessità di scambi di beni sacramentali. Le esigenze della catechesi e della
testimonianza cristiana hanno indotto ministri e membri delle chiese a
collaborare in forme varie, che non raramente divenivano in qualche modo
istituzionali assumendo la struttura di consigli pastorali misti o di organismi
simili più o meno stabili. L’uso comune di luoghi sacri per celebrazioni di
comunità diverse in orari distinti è divenuto in certe regioni più frequente, e
ha facilitato il clima di amicizia e di fiducia reciproca fra le chiese.
Limiti attuali dell’ecumenismo. Sia nel corso dell’esposizione storica, sia
nella breve sintesi delle principali acquisizioni ecumeniche, sono stati
menzionati limiti e ostacoli al movimento ecumenico, che si possono
riassumere in due categorie: i punti dottrinali controversi e le angustie
ecclesiali che frenano la conversione all’ecumenismo. Ma questi ostacoli in
sé racchiudono anche cariche positive; il loro effetto negativo
potenzialmente disgregante, che può arrivare a generare perfino nuovi
scismi, si rivela solo in presenza di altri fattori, tra i quali principalmente va
sottolineata la scarsa preoccupazione per la comunione, anche visibile, di
tutte le chiese. Quando poi la già debole passione per l’unica e indivisa
chiesa di Cristo è soverchiata da condizionamenti storici, culturali, politici o
di altro genere, il cammino per mantenere l’unità o per ricomporla diviene
particolarmente arduo.
1. Punti dottrinali controversi. Tra le espressioni di fede controverse, la
formula Filioque riassume un punto che tuttora non è chiarito e che separa
la cristianità delle due tradizioni, quella orientale o greca, e quella latina o
occidentale. Nonostante i progressi compiuti da ambo le parti, in dialoghi
bilaterali tra varie chiese e con iniziative solenni e significative, un accordo
completo non è ancora stato raggiunto, benché si possa vederlo
all’orizzonte. L’importanza di questo punto è primaria, perché si tratta della
comprensione dei rapporti tra le persone divine, che sono all’origine della
chiesa, e quindi anche della sua unità.
Anche la riflessione sulla sacramentalità della chiesa e sui sacramenti ha
condotto a notevoli convergenze, riconoscendo la centralità dell’eucaristia e
il valore comune del battesimo, ma permangono divergenze che ancora non
consentono, in via normale, a molte chiese il pieno e reciproco scambio dei
rispettivi beni sacramentali.
Quanto alla struttura ecclesiale comune, sta sì emergendo un
riconoscimento generale della funzione del ministero di «supervisione»
(episkopé), e perfino del ruolo del vescovo di Roma per l’unità visibile
(«ministero petrino»); però i termini cattolici tradizionali relativi al
«primato» di giurisdizione diretta e universale rimangono un grave ostacolo
per le altre chiese e richiederanno ulteriori interpretazioni e chiarimenti,
anche in rapporto con l’autorità dei concili nell’unica chiesa.
Un punto dottrinale e pastorale particolarmente critico concerne il ruolo
delle donne nel ministero ecclesiale: varie posizioni si contrappongono in
proposito, sotto l’evidente influsso di diverse concezioni culturali della
femminilità, e in relazione alla natura dei sacramenti. Il femminismo, nelle
varie e talora opposte correnti contemporanee, è ben presente nel
movimento ecumenico, ma il modo in cui trova espressione, nella
consacrazione episcopale o sacerdotale femminile, suscita contrasti e forti
riserve da parte di ortodossi e cattolici.
2. Angustie ecclesiali. Ristrettezze e chiusure di mente e di cuore si possono
sempre manifestare, a volte animate da sincero amore evangelico, e si
verifica quindi il caso di gruppi o chiese che non si aprono all’ecumenismo,
ma restano centrati sul proprio particolare credo: in tali casi i
confessionalismi non sviluppano la pienezza universale di cui sono
potenzialmente portatori.
Su questi atteggiamenti di rifiuto, accompagnati non di rado da un
marcato zelo per l’evangelizzazione e da proselitismo presso membri delle
altre chiese, agiscono inoltre fattori sia culturali sia sociali. Talora la scarsa
conoscenza storica e teologica dei motivi che hanno portato alla divisione
della chiesa è un elemento determinante, così che mediante opportuni studi
è possibile rimuovere ostacoli prima ritenuti insormontabili e iniziare un
dialogo. In altre circostanze i condizionamenti delle polemiche appena
sopite sono così vivi, da creare un clima sociale di sospetto, talora di odio:
si ricordano, dopo la fine dell’Unione Sovietica nel 1989, le tensioni
frequenti nelle chiese dell’Europa orientale, motivate dalla questione della
restituzione alle chiese di quei beni confiscati dal potere pubblico dopo il
1918 o dopo il 1946. Il conflitto tra cattolici e protestanti in Irlanda si
intreccia con le vicende, antiche e recenti, della lotta sanguinosa per
l’indipendenza irlandese; in America latina l’impegno ecumenico si unisce
spesso alla lotta per la libertà e la giustizia, mentre l’anticomunismo e i
governi autoritari volentieri si associano con correnti fondamentaliste e
settarie, o le strumentalizzano ai propri fini.
Di tipo ben diverso sono invece i contrasti fondati su contrapposizioni
dialettiche, di carattere ideologico, che suscitano divisioni sia all’esterno
che all’interno del movimento ecumenico, e possono facilmente combinarsi
con i fattori di contrasto di altra natura: così ci si scontra opponendo il
dialogo alla missione, il servizio del mondo all’evangelizzazione, la
secolarizzazione alla clericalizzazione, la libertà dello spirito alla sclerosi
dell’istituzione. Due esempi, infine, tratti l’uno dall’interno del movimento
ecumenico, l’altro dall’esterno, possono ben mostrare la complessità delle
resistenze al cammino verso l’unità. Il primo è quello che Evans chiama
«recezione negativa», ovvero la reazione di apatia, di critica, di rifiuto o di
difesa, nei confronti delle iniziative di dialogo ufficiale e dei documenti fatti
circolare ampiamente fra le chiese per suscitare l’allargamento della base
ecumenica. Questo processo di consultazione e di coinvolgimento
dell’intera comunità, secondo un modello nuovo di conciliarità, non sempre
è ben compreso e accettato; il linguaggio teologico complesso dei
documenti ecumenici fa nascere il timore di confusione, a paragone con la
semplicità popolare delle proprie tradizioni distintive.
Un secondo esempio, ad extra, è costituito dalla sfida alle chiese da parte
di sette, movimenti religiosi e nuovi culti, che con il loro proliferare
pongono interrogativi e provocano risposte ecumeniche. Si tratta di
fenomeni con caratteri assai vari, che esprimono netto dissenso dalle chiese
(sette), oppure esigenze di rinnovamento (movimenti), o, ancora,
sostanziale alterità (nuovi culti). Sul piano dei contenuti, si va da dottrine
che hanno analogie con il cristianesimo (come i testimoni di Geova, o i
mormoni), a forme di gnosi o di ricorso a energie psichiche, fino a casi
estremi di esperienze chiaramente opposte alla dignità della persona umana
e al messaggio di Cristo, come il moonismo. L’impressionante diffusione di
questi nuovi gruppi rivela l’ansietà religiosa presente in ampi strati sociali,
ma anche l’inadeguatezza delle chiese nel ricercare e nel proporre modi di
testimonianza fraterna e luoghi di accoglienza rispettosi della libertà
personale e delle tappe di maturazione religiosa, anche oltre gli schemi
pastorali tradizionali.
Verso nuove frontiere dello Spirito. Sul finire di questo primo secolo di
ecumenismo moderno, un punto fermo rimane la fiducia e fedeltà nei
confronti di Dio che prepara il suo regno di amore, giustizia e pace per tutti
i popoli, in un cosmo rappacificato, secondo la visione dei profeti d’Israele,
in una Gerusalemme rinnovata che scende dall’alto, quale sposa di Cristo.
Questa fiducia e fedeltà è atto insieme personale e comunitario, che assume
connotazioni distinte nei «due generi di fede», che sono all’origine, secondo
M. Buber (Zwei Glaubensweisen, 1950), delle comunità di fede ebraica e
cristiana, chiamate a servire Dio «spalla a spalla» (Sofonia 3, 9).
D. Flusser, nella sua riflessione che muove dal pensiero di Buber, ritiene
che il cristianesimo non possa «fare a meno del primo genere di fede, che è
comune al Cristianesimo, all’Ebraismo e all’Islam», e che «fino a oggi la
frattura tra i due generi di fede essenzialmente differenti non è stata
superata all’interno del Cristianesimo». A questo genere di fede ebraica, e
alla ricomposizione di questa frattura, sembra alludere Giovanni Paolo II
allorché saluta gli ebrei come fratelli e sorelle «nella fede di Abramo» (31
dicembre 1986).
Già F. Rosenzweig ne La stella della redenzione (Der Stern der
Erlösung, 1921) vedeva nell’ebraismo e nel cristianesimo «una
complementarità necessaria che si proietta fino al futuro della redenzione»
(G. Bonola), quando dichiarava: «Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e
cristiano, sono lavoratori intenti a una stessa opera. Egli non può fare a
meno di nessuno dei due». K. Barth, come si è ricordato sopra, poneva
l’elezione eterna del popolo di Dio in rapporto con la predestinazione come
elezione in Gesù Cristo: in Gesù Cristo sta l’origine dell’unità e della
dualità della comunità eletta da Dio; «secondo il decreto eterno di Dio,
questo popolo esiste in quanto Israele (in tutto lo sviluppo della sua storia,
ante et post Christum natum!), ma anche in quanto chiesa composta di
giudei e di pagani» (Die kirchliche Dogmatik II/2, § 34, 1A). L’identità di
Israele fonda oggettivamente la fraternità e la solidarietà con la chiesa, ed
esclude ogni antisemitismo «che, dall’esterno, nega e combatte l’elezione
d’Israele» (ibidem, 1B).
Il cammino ecumenico delle chiese è chiamato perciò a esercitarsi in
varie direzioni: per sviluppare fraterne relazioni religiose con il popolo
ebraico, per crescere verso la piena comunione di tutti i cristiani nell’unica
chiesa santa, cattolica e apostolica, per approfondire il dialogo con le
religioni, per servire l’umanità e il mondo testimoniando Cristo risorto e
vivificatore per mezzo del suo Spirito. Proseguendo lungo la strada tracciata
nel secolo XX, occorrerà rispondere alle sfide e superare i limiti attuali; tra
gli argomenti da approfondire per conseguire un consenso di fede nell’unica
chiesa sono stati individuati: 1) le relazioni tra Scrittura e Tradizione; 2)
l’Eucaristia; 3) l’Ordinazione; 4) il Magistero; 5) la Vergine Maria (Ut
unum sint, n. 79). L’imperativo ecumenico, oltre che in questo campo
dottrinale, si declina nell’imperativo etico, e tra i molti temi morali stanno
emergendo nettamente la «reverenza per la vita», l’ingegneria genetica, e
molti altri che sono all’ordine del giorno del Consiglio ecumenico delle
chiese. Infine, per ciò che riguarda l’aspetto fondamentale dell’ecumenismo
spirituale e della conversione del cuore, si profila la fioritura di un
ecumenismo esteso al mondo evangelico e pentecostale.
Un’altra forma caratteristica in cui l’ecumenismo sarà sempre più
chiamato a esprimersi sarà quella del dialogo interreligioso, in particolare
nei confronti dell’Islam, ma non solo di esso. L’esplosione di integrismo,
fanatismo e fondamentalismo religioso, costituisce un nuovo campo nel
quale è urgente che tutti i credenti nell’unico Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe, il Padre di Gesù Cristo Signore, il Misericordioso adorato dai
fedeli dell’Islam, entrino in dialogo armati solo della propria fede.
Rimarrà sempre essenziale ricordare quanto il vescovo Eusebio di
Cesarea scriveva poco prima della sua morte (339), commentando la
preghiera di Gesù: «Che siano una cosa sola (Giovanni 17, 21): questo il
fine gioiosissimo, per il quale il Dio che sta sopra tutte le cose, il Padre del
nostro Salvatore, elargirà il regno dei cieli promesso e confermato dallo
stesso Salvatore a quanti ne sono degni; questo il bene altissimo destinato a
quanti si sottomettono al Figlio suo, quando diventerà tutto in tutti» (La
teologia ecclesiastica 3, 18). Contemplando questa mèta di perfetta unità
escatologica, nel mezzo delle nostre storiche divisioni e delle grandi
tragedie contemporanee, è possibile condividere la prospettiva del vescovo
di Roma Francesco che considera l’ecumenismo nel quadro dell’amicizia
con Israele, del dialogo con l’Islam, della collaborazione con le religioni,
per un servizio di unità e pace dell’intera famiglia umana, per curarne le
ferite con la medicina della misericordiosa tenerezza e dell’amorevole
compassione. Gli storici incontri di Francesco con il pastore pentecostale
Giovanni Traettino, con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, con la Chiesa
Valdese, con il Patriarca di Mosca e della Russia Kirill, aprono una «nuova
stagione ecumenica di riconciliazione, di testimonianza e di missione»
(Walter Kasper). Ne è conferma l’annunciata partecipazione del papa alla
commemorazione ecumenica congiunta con la Federazione luterana
mondiale, a Lund, il 31 ottobre 2016, per il quinto centenario della Riforma
protestante. Vale sempre anche nell’ecumenismo il principio fondamentale
dell’Evangelo, che la carità è la via della verità.
Bibliografia e sitografia
Introduzioni
Storia
Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948 (1953), voll. I-III, a cura
di R. Rouse e St. Ch. Neill, Bologna, EDB, 1973-1982.
Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1968 (1970), vol. IV, a cura di
H.E. Fey, Bologna, EDB, 1982.
Collane
Riviste
Studi particolari