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I movimenti e le idee

4.

Collana diretta da Alberto Cadioli

Comitato scientifico
Virna Brigatti, Roberto Diodato, Paolo Giovannetti
Laura Neri, Giuliano Vigini
Pier Francesco Fumagalli

Ecumenismo
Copertina: Eros Rozza

Realizzazione eBook: CreaLibro di Davide Moroni

ISBN: 978-88-7075-897-9

Copyright © 2016 Editrice Bibliografica

Via F. De Sanctis, 33/35 - 20141 Milano

Proprietà letteraria riservata


Indice

Il contesto storico-culturale
Ecumenismo ecclesiale e secolare

Dal protoscisma giudaico-cristiano all’ecumene cristiana

L’epoca dei concili ecumenici (313-800)

La separazione fra chiesa d’Oriente e d’Occidente

Riforma della chiesa in Occidente e guerre di religione (1517-1648)

Origini e sviluppo dell’ecumenismo


Movimenti scissionisti e unionisti dal Seicento al Novecento

Da Edimburgo (1910) ad Amsterdam (1948)

Il Consiglio ecumenico delle chiese e l’ortodossia

Il rinnovamento del Concilio vaticano secondo (1962-1965)

I protagonisti
John R. Mott

Nathan Söderblom

Agostino Bea

Angelo Giuseppe Roncalli

Aristokles Pyrou

Yves Congar

L’ecumenismo oggi
Tratti generali del periodo 1966-2016

Primi frutti del concilio: incontri, direttive, dialoghi

La «Concordia di Leuenberg» (1973)

Azione ecumenica di Giovanni Paolo II


Il documento di Lima «Battesimo eucaristia e ministeri» (BEM, 1982)

L’ecumenismo dopo Lima

Dialoghi dottrinali

Il Consiglio ecumenico dopo Lima

I consigli di chiese

L’ecumenismo nel diritto canonico, nella catechesi e nella pastorale cattolica

La Dichiarazione di Augusta sulla Giustificazione (1999)

Relazioni ebraico-cristiane

Bilancio e prospettive

Bibliografia e sitografia
Il contesto storico-culturale

Ecumenismo ecclesiale e secolare

L’ecumenismo, o movimento mondiale per l’unità dei cristiani, è un


fenomeno spirituale, e insieme avvenimento storico, che nasce all’inizio del
secolo XX in Europa e Nordamerica, assume dimensioni universali dopo la
seconda guerra mondiale, e caratterizza profondamente la cristianità
contemporanea. Esso persegue lo scopo di perfezionare l’unione o
comunione nella fede, nella preghiera, nella vita di carità e di missione
evangelica, realizzando dove possibile anche un’unità organica e
istituzionale fra le chiese, perché il mondo creda in Cristo.
Oikoumene, parola con una storia plurimillenaria, dal greco «mondo
abitato, civilizzato», riassume il concetto greco-romano classico di civiltà
mondiale, arricchito poi di nuovo significato in riferimento all’unità del
mondo cristiano. L’aggettivo «ecumenico» non appare nelle formulazioni
dei simboli di fede; la scelta è caduta invece sulla definizione del popolo dei
credenti come «Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (simbolo niceno-
costantinopolitano, a. 381). La qualifica di «ecumenico», nel linguaggio
ecclesiastico, viene attribuita ai sette concili generali della cristianità,
convocati dall’imperatore: i primi quattro concili, detti «della chiesa
indivisa» – il che è esatto solo per i primi due – si tennero a Nicea (325),
Costantinopoli (381), Efeso (431), Calcedonia (451); a questi s’aggiunsero i
concili di Costantinopoli II (553), Costantinopoli III (680-681) e Nicea II
(787). Il titolo di «ecumenico» fu pure assunto, nonostante l’opposizione di
papa Gregorio I Magno (590-604), dal patriarca di Costantinopoli Giovanni
il Digiunatore (582-595) e dai suoi successori: in questo caso, come nel
caso dei concili, il termine «ecumenico» appare connesso anche con
l’auctoritas imperiale. Una connessione più stretta con la fede e la dottrina
della chiesa è attestata dall’uso nei secoli seguenti: il documento detto
Synodikon chiama la Festa dell’ortodossia, istituita l’11 marzo 843, festa
della «fede che ha sostenuto l’ecumene»; il Liber concordiae del 1580, che
raccoglie la dottrina luterana, si apre con i tre simboli della fede «cattolica,
ovvero ecumenica»; la chiesa latina suole chiamare «ecumenici» i suoi
concili generali dal 1123 al 1965.
Le variazioni dell’uso semantico rivelano anche un profondo influsso su
di esso da parte delle circostanze storiche in cui si realizza il rapporto fra la
chiesa e il mondo: ciò introduce varianti, talora notevoli, di senso, che
possono arrivare oggi all’ambiguità, quando l’ecumenismo viene
impropriamente riferito allo sviluppo di relazioni fra persone o gruppi di
religioni diverse, sette o nuovi culti, o a iniziative generiche di carattere
pacifista o ecologico, proprie del cosiddetto «ecumenismo secolare»; altre
volte ancora l’ecumenismo viene confuso con l’irenismo (la ricerca di un
accordo anche a prezzo di sorvolare su gravi divergenze), l’esoterismo (la
ricerca di dottrine segrete), il sincretismo (la ricerca di una concordanza
mediante giustapposizione di elementi presi qua e là da diversi sistemi
religiosi). D’altra parte, non si comprenderebbe la ricerca contemporanea
dell’unità dei cristiani, senza un riferimento iniziale alla storia delle
divisioni della cristianità nel corso di venti secoli, ai conflitti dottrinali, e
alla dottrina che oggi è a fondamento dell’ecumenismo. In questa storia la
chiesa – e le varie chiese – appare come protagonista, e occorre fin da
principio notare «la differenza tra una storia di fatti e di idee, una storia di
conflitti e rotture, e la nascita di una nuova comprensione della fede, una
fede di legami riconosciuti, di comunione, di riconciliazione. Il movimento
ecumenico rappresenta una nuova visione, una nuova realtà e comprensione
del corso della storia» (J. Willebrands).
Questa nuova visione, che in nessun modo può essere considerata una
forma di «revisionismo» della storia, è stata esposta nel 1964 nel decreto
sull’ecumenismo Unitatis redintegratio (UR) del Concilio vaticano
secondo: «Da Cristo Signore la chiesa è stata fondata una e unica, eppure
molte comunioni cristiane propongono se stesse agli uomini come la vera
eredità di Gesù Cristo; tutti asseriscono di essere discepoli del Signore, ma
la pensano diversamente e camminano per vie diverse, come se Cristo
stesso fosse diviso. Tale divisione contraddice apertamente alla volontà di
Cristo» (Proemio). Il concilio osserva che tra i cristiani separati, per grazia
di Cristo, cresce oggi la conversione interiore e il desiderio dell’unione,
anzi «una certa comunione, sebbene imperfetta, con la chiesa cattolica»
unisce già tutti i battezzati credenti in Cristo (UR, n. 3), i quali pertanto già
in qualche modo appartengono al popolo di Dio pellegrino alla celeste
Gerusalemme. Secondo questa concezione di riconosciuta e ritrovata
fraternità cristiana il concilio raccomanda di migliorare la conoscenza della
storia, e soprattutto della teologia aliena da spirito polemico.
Per correggere atteggiamenti o pregiudizi ostili o polemici radicati ancor
oggi, conviene anche ricordare che, dal punto di vista storico, la
responsabilità delle divisioni riguarda unicamente quelli che ne furono
protagonisti all’epoca in cui queste accaddero; inoltre, dal punto di vista
dottrinale, vanno tenuti in conto sia il modo di esporre i contenuti della
fede, sia la gerarchia tra le varie verità, due fattori importanti menzionati
dal concilio nel medesimo decreto (UR, n. 11).
Occorre infine distinguere con chiarezza l’ecumenismo anche dai
rapporti fra ebrei e cristiani e dal movimento che in questo secolo ha
condotto a relazioni di amicizia, dialogo, riconciliazione e cooperazione fra
la chiesa e il popolo ebraico. Questo movimento, sovente parallelo
all’ecumenismo, se ne distingue tuttavia in quanto non si prefigge l’unione
fra le due comunità di fede. Ciononostante non manca chi sostiene che
questi due movimenti hanno connessioni profonde, e perciò compito
primario dovrebbe essere quello di ricomporre o di riconoscere una
fraternità radicale fra ebrei e cristiani, chiamati con modalità diverse a
essere popolo santo dell’unico Dio, secondo la visione di Paolo di Tarso
nella lettera ai Romani (capp. 9-11).
Fin dall’inizio della storia della chiesa, la relazione di continuità ma
anche di contrapposizione rispetto a Israele costituisce un elemento
caratteristico per comprendere la natura stessa della chiesa di Gesù Cristo, e
quindi anche la sua vocazione all’unità.

Dal protoscisma giudaico-cristiano all’ecumene cristiana

Se consideriamo il periodo della chiesa delle origini, dalla Pentecoste


dell’anno 30 all’inizio dell’età costantiniana (313) o al Concilio di Nicea
(325), cogliamo già una profonda e costante tensione fra unità, molteplicità
e divisioni nel popolo di Dio. Il Nuovo Testamento narra la Pentecoste (Atti
2) come la ricomposizione della confusione di Babele (Genesi 11), che
completa la missione di Gesù per l’unità di tutto Israele (Giovanni 11, 52),
anzi coincide con la Pentecoste ebraica – Shavu‛ot – in cui si celebra il
dono della Torà; Gesù prega il Padre perché i suoi discepoli siano perfetti
nell’unità, affinché il mondo creda che il Padre ha inviato suo Figlio
(Giovanni 17, 21-23), e Paolo afferma che Gesù ha abbattuto in se stesso il
muro che separava ebrei e non ebrei, realizzando la pace (Efesini 2, 14-18).
Nello stesso tempo, però, Paolo ammette un grande pluralismo tra i fedeli,
in relazione con la ricchezza della vita divina, e arriva fino ad affermare
l’opportunità delle divisioni – scismi ed eresie – che permettono di
riconoscere i veri credenti (1 Corinti 11, 19); in un certo senso, parla degli
ebrei come «nemici» (Romani 11, 28), anche se relativizza questa
affermazione mitigandola nel contesto generale dell’elezione e dell’amore
eterno di Dio per Israele. Sullo sfondo di una originaria unità si può meglio
comprendere il principio enunciato da rabbi Gamaliele, esponente della
scuola moderata di Hillel e maestro di Paolo: esprimendosi con termini che
potremmo definire «ecumenici» ante litteram, esortò il Sinedrio a non
opporsi agli apostoli (Atti 5, 34-39), mostrando così di ritenere la loro
dottrina non contraddittoria con l’unità profonda del giudaismo. La sua
voce rimase inascoltata, e dall’unico olivo buono di Israele si svilupparono
ebraismo e chiesa, quest’ultima come Ecclesia ex circumcisione e Ecclesia
ex gentibus. La teologia della «chiesa della circoncisione», o giudeo-
cristiana, che ha ricevuto rinnovata attualità dagli studi di J. Daniélou
(Théologie du Judéo-Christianisme, 1958), fu sostituita dalla teologia dei
concili ecumenici, la cui terminologia fu profondamente influenzata dalla
cultura bizantina. La decadenza della chiesa giudeo-cristiana, che
scomparve nel secolo quarto, coincise con l’aggravarsi dell’opposizione fra
chiesa e sinagoga, e in entrambi i casi è possibile scorgere due forme di un
«protoscisma» che, ferendo il popolo di Dio nella sua unità, preludeva a
ulteriori scissioni.
D’altra parte questo primo periodo, pur segnato dal fiorire di molte sètte
ed eresie, fu comunque fortemente caratterizzato da una grande unità nella
tradizione apostolica espressa nei primi simboli di fede testimoniati dal
sangue dei martiri, dalla fissazione del canone delle sacre scritture, dalla
comune celebrazione dell’eucaristia e dal servizio caritativo. Si consolidano
i patriarcati di Antiochia, Alessandria e Roma, i più antichi, di origine
apostolica, tra i quali si notano diversità nel modo di esporre e interpretare
la fede comune, che si accentueranno in seguito. Comincia inoltre a farsi
sentire l’influsso della divisione dell’impero in due parti, orientale e
occidentale, divisione che è all’inizio di carattere amministrativo; tuttavia la
crescente superiorità politica e culturale di Roma e Costantinopoli, sedi
imperiali, influirà presto anche nell’ambito dell’autorità ecclesiastica.
L’epoca dei concili ecumenici (313-800)

Con la svolta di Costantino, che nel 313 apre alla chiesa le porte
dell’impero, ha inizio un nuovo, lungo periodo della storia della chiesa.
L’iniziativa per l’unità è guidata dall’imperatore, che nel 325 convoca a
Nicea il primo concilio ecumenico, per contrastare l’eresia ariana che nega
la piena divinità di Cristo. Gli imperatori sono poi impegnati a moltiplicare
i loro sforzi convocando nuovi concili che precisino in che modo Cristo è
insieme uomo e Dio, con un crescendo di definizioni cristologiche che, tra
accese polemiche, culmineranno nel 451 a Calcedonia. Contro queste
ulteriori formulazioni teologiche si leva il dissenso dottrinale, nestoriano
prima (431) e poi monofisita.
Il primo a dissentire è Nestorio di Costantinopoli, che affermando la
compresenza di due persone in Cristo – la divina e l’umana – porterà la
chiesa di Persia (oggi chiesa assira d’Oriente) a staccarsi dalla comunione
dottrinale e ecclesiale con le altre chiese. Il secondo dissenso è sostenuto da
Cirillo di Alessandria, che all’opposto afferma una sola natura del Verbo di
Dio fatto carne, e ispirerà la separazione di quel gruppo di chiese,
denominate per sedici secoli «monofisite» e oggi dette «ortodosse
orientali»: copta, etiopica, sira, malankarese e armena. In entrambi i casi un
peso non lieve nella separazione ebbero fattori etnici, politici e culturali:
Bisanzio-Costantinopoli, o Nuova Roma, consolidò la propria posizione
dopo il 330, anno dell’inaugurazione della nuova sede imperiale, mentre
alla periferia dell’impero – in Egitto, Armenia, Mesopotamia, Persia,
Etiopia e Siria – agivano forti spinte centrifughe, che si esprimevano anche
nell’impeto espansionistico e missionario di nestoriani e monofisiti verso
India, Cina e Africa. Il caso dell’Armenia, il più antico dei regni cristiani,
rimane paradigmatico come fenomeno di inculturazione della fede
intrecciata con la componente etnica e politica. Un fenomeno analogo, ma
di esito opposto, può invece essere considerata la scomparsa, nel IV secolo,
della chiesa giudeo-cristiana in Siria e Palestina. Di fatto questa evoluzione
conduce i tre patriarcati di Gerusalemme, Antiochia e Alessandria, in
posizione marginale rispetto a Roma e Costantinopoli. Non diversa è stata
l’evoluzione dei rapporti tra Roma e Bisanzio: con la fine dell’impero
romano d’occidente (476), la chiesa latina ricerca una propria autonomia
mediante il consolidamento delle strutture giuridico-amministrative, mentre
in teologia s’impone il pensiero di Agostino d’Ippona. A Oriente trionfa la
civiltà bizantina con Giustiniano ( † 565) e la formazione del consenso
normativo dell’ortodossia, di cui sono protagonisti Dionigi l’Aeropagita (†
500 ca.), Massimo il Confessore († 662), Giovanni Damasceno († 749 ca.);
la teologia è apofatica, e di conseguenza la spiritualità è un silenzio
adorante (esicasmo) in cui si esprime la deificazione dell’uomo. Pur ancora
sostanzialmente unite dalla struttura episcopale, le chiese latina e greca si
organizzano ormai diversamente: quella di Roma con forme sempre più
simili a una monarchia, quella di Costantinopoli attorno a patriarcati e
sinodi legati all’imperatore, la cui dottrina dei cinque patriarcati
(pentarchia) è espressa nella Novella 109 delle Pandette.
Il movimento monofisita continuò la propria attività, in contrasto con la
volontà imperiale di Giustiniano che sosteneva il dogma di Calcedonia; in
Siria i monofisiti furono detti giacobiti, da Yaqob Baradai vescovo di
Edessa (541-578).
L’imperatore intervenne anche contro tre scritti («capitoli») di Iba di
Edessa, Teodoreto di Ciro, Teodoro di Mopsuestia, condannandoli nel 544
come nestorianizzanti; ne venne uno scisma (detto «dei tre capitoli») che
coinvolse largamente la chiesa latina, esteso all’Africa, Milano e Aquileia, e
rientrò nel secolo VII. La condanna fu poi confermata dal quinto concilio
ecumenico nel 553; il sesto concilio ecumenico condannò l’eresia
monotelita, di derivazione monofisita, cui sembrava aver aderito
genericamente papa Onorio I (625-638). In entrambi i casi i papi Vigilio
(537-555) e Martino I (649-653) subirono gravi umiliazioni a
Costantinopoli, fino al carcere e all’esilio per papa Martino. In questa
situazione si può comprendere come in Oriente i nestoriani, e non essi soli
ma anche altre minoranze, come gli ebrei, guardassero all’Islam con
speranza, e come in Occidente i latini cercassero altrove un centro di unità e
un’autorità politica cui appoggiarsi. Già questa parziale panoramica dei
primi otto secoli di cristianesimo ci permette di cogliere molti elementi di
divisione – specie riguardo alla chiesa assira e alle antiche chiese orientali –
nei quali si nota l’influsso, se non addirittura il peso determinante, dei
fattori culturali e politici su quelli dottrinali e teologici che all’epoca furono
addotti come decisivi per giustificare la separazione fra quelle chiese e le
chiese di Roma e di Costantinopoli.
La separazione fra chiesa d’Oriente e d’Occidente

L’istituzione del Sacro Romano Impero, per iniziativa di papa Leone III e di
Carlo Magno re dei Franchi, nell’800 segna una svolta nei rapporti fra greci
e latini, le cui relazioni peggiorarono progressivamente, fino alla rottura
della comunione ecclesiale. Gli scontri fra chiesa latina e greca si fanno più
frequenti e più gravi, culminando nelle scomuniche del 1054. Tra gli
episodi più significativi di questo processo di estraniazione si colloca il
tentativo di Carlo Magno di imporre l’inserimento del Filioque
(letteralmente «e dal figlio») nel Credo stabilito a Nicea-Costantinopoli: i
latini pensavano così di descrivere meglio il dono dello Spirito Santo che
procede anche dal Figlio, ma i greci non accettarono l’inserimento,
vedendovi una diminuzione del Padre, unica origine del Figlio e dello
Spirito. Così, quando nel 1014 il Filioque fu ufficialmente inserito nel
Credo romano, si costituì un ostacolo dottrinale, ancora oggi non del tutto
superato, per la comunione fra Roma e l’ortodossia. Altro fatto grave fu la
pretesa latina di inviare missionari in Bulgaria, che apparteneva alla
giurisdizione bizantina. In questa atmosfera già tesa nell’867 Fozio di
Costantinopoli scomunicò papa Niccolò I, che nell’863 ne aveva chiesto la
deposizione: è l’inizio della lotta di Bisanzio per la difesa dell’«ortodossia».
Lo scisma rientrò, sopito più che risolto, per riesplodere nel 1054, in
occasione di un’aspra controversia sul pane azzimo usato dai latini nella
celebrazione eucaristica. I legati papali scomunicarono il patriarca Michele
Cerulario, provocando per reazione la scomunica contro il papa: ne seguì la
rottura della comunione anche fra Roma e le chiese slave di Bulgaria e
Russia. Le crociate infersero il colpo finale al processo di separazione fra le
due chiese sorelle: l’insediamento di patriarchi latini a Gerusalemme e
Antiochia, il sacco di Costantinopoli nel 1204 e l’effimero impero latino
d’Oriente (1204-1261) indebolirono fatalmente Bisanzio e furono ferite mai
dimenticate dai greci.
Non essi soli, del resto, furono vittime delle crociate: sorte simile toccò
alle comunità ebraiche, specialmente nella valle del Reno, che vennero
duramente perseguitate, mentre l’antiebraismo cristiano dilagava e veniva
giustificato teologicamente, creando dell’ebraismo uno stereotipo
demoniaco e perfido che durerà fino al secolo XX. Tra il secolo XI e il XIII
si aggiunsero altre controversie dottrinali fra Roma e Costantinopoli, tra le
quali le polemiche sul Purgatorio e sull’invocazione dello Spirito nella
preghiera di consacrazione eucaristica (Epiclesi): in tal modo si consumò la
rottura della comunione di carità, di preghiera, di formulazione della fede e
di struttura ecclesiale. L’autorità papale in Occidente si consolidò,
presumendo di riunire in sé ogni potere terreno e spirituale, secondo la
teoria di Bonifacio VIII, che già Dante aveva fieramente avversato. Anche
nelle opere dei principali teologi greci o latini, come Simeone nuovo
teologo ( † 1022), Massimo Planude ( † 1130) o Tommaso d’Aquino ( †
1274) si riscontrano due sistemi di pensiero ormai da tempo avviati su
percorsi non comunicanti. La situazione di separazione fra chiesa latina e
greca è dunque complessa e profonda, e comprende punti dottrinali anche di
grande importanza, come pure una diversa concezione dell’autorità del
vescovo di Roma; il linguaggio assai differente delle scuole teologiche e
delle tradizioni culturali, e il ricordo bruciante delle crociate, nella memoria
dei bizantini, rende ancora oggi difficile la piena fiducia e la collaborazione
per ricomporre l’unità rispettando le diversità nelle materie che non toccano
la sostanza della fede.
Tentativi di unione. Benché l’ecumenismo sia un movimento recente, la
divisione fra Roma e Costantinopoli fu già anticamente percepita come un
male, e si tentò di porvi rimedio in vari modi. Dopo la rottura del 1054 non
mancarono tentativi, privati o istituzionali, di ricomporre l’unità, come il
colloquio di unione del 1135 a Costantinopoli tra Anselmo di Havelberg e
Niceta di Nicomedia, sui temi del Filioque e dell’autorità della chiesa.
L’imperatore Michele VIII Paleologo, riconquistata nel 1261 Costantinopoli
ai crociati, accettò l’unione proposta nel 1274 al secondo concilio di Lione;
credeva così di porsi al sicuro dalle mire espansionistiche di Carlo d’Angiò,
ma questo non fu sufficiente a impedire che papa Martino IV, amico di
Carlo, lo scomunicasse nel 1281. Opuscoli sul tema dell’unità della chiesa
vengono composti da Giovanni Gerson nel 1391 (Opus de unione ecclesiae)
e nel 1409 (De unitate ecclesiae); Dietrich di Nieheim, nello scritto De
modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio universali (1410) è a
favore della superiorità del concilio sul papa; Nicola da Cusa, nel De
concordantia catholica (1433), propone l’ideale umanistico dell’armonia
universale e della concordanza delle religioni. Questo ideale, che Giovanni
Boccaccio (1313-1375) aveva artisticamente descritto nella novella di
Melchisedek giudeo e del Saladino (Decamerone I, 3), soppianta nella
teoria il tono polemico e apologetico dei «dialoghi» o disputationes
medievali, ma risulta inefficace nella pratica della riconciliazione ecclesiale.
I due concili di unione tenuti a Costanza (1414-1418) e a Basilea-Ferrara-
Firenze (1431-1439) fallirono entrambi gli obiettivi sostanziali di riformare
e riunire la chiesa, nonostante che il primo abbia posto fine allo scisma
d’Occidente, e il secondo abbia promulgato decreti di unione con i greci,
grazie all’importante contributo del metropolita di Nicea Bessarione (poi
cardinale), del metropolita Isidoro di Kiev e dell’imperatore Giovanni VIII
Paleologo. Quantunque animati da intenzioni positive, nessuno di questi
tentativi ebbe successo allora, benché molte argomentazioni a quel tempo
portate a favore dell’unità conservino il loro valore, e siano state riprese nel
dialogo contemporaneo tra cattolici e ortodossi; mancava però un’atmosfera
serena e non polemica, condizione essenziale per la riconciliazione
profonda, e inoltre sia Roma sia Costantinopoli erano, diversamente da
oggi, direttamente coinvolte nella politica secondo i modi e la mentalità
dell’epoca, risultandone fortemente condizionate sia nel campo dottrinale
sia in quello ecclesiale.
Nel contesto generale di separazione fra latini e greci, assolutamente
singolare resta invece il caso della chiesa italo-albanese, che pur rimanendo
sempre in piena comunione con l’ortodossia, si sviluppò in Italia
meridionale a opera di comunità albanesi, fuggite dall’oppressione turca
durante la resistenza guidata da Giorgio Castriota Skanderbeg ( † 1468).
Non senza tensioni con i latini, all’epoca del concilio tridentino, questa
chiesa si integrò anche nella piena comunione con Roma, difendendo e
conservando le tradizioni proprie degli arbëreshë, divenendo così una
chiesa-ponte tra l’Occidente e l’Oriente.

Riforma della chiesa in Occidente e guerre di religione (1517-


1648)

Oltre alla divisone fra chiesa latina e greca, la seconda grande divisione
della cristianità, cui l’ecumenismo intende porre rimedio, è quella tra
cattolici e riformati, all’interno del mondo cristiano occidentale. Questa
divisione, a differenza della prima, si compie in pochi anni o decenni, non
con un processo secolare, e percorre trasversalmente tutta l’Europa. Va
inoltre considerato che l’Occidente procedeva ormai con rapidità
straordinaria verso cambiamenti culturali che portavano in sé germi di una
vera e propria rivoluzione: in poco tempo si compiono mutamenti di
eccezionale ampiezza e profondità, e anche la differenza di mentalità
rispetto alla cristianità orientale si è di conseguenza fatta più grande di
quanto non sia accaduto in molti secoli di lente trasformazioni. Mentre,
soprattutto in Italia, il Rinascimento celebra i suoi fasti artistici e letterari,
maturano quelle scoperte scientifiche e geografiche che segneranno in breve
la fine dell’unità culturale dell’Occidente europeo medievale e daranno
all’Europa un volto e un ruolo moderno e mondiale. Questa nuova
situazione, ricca di fermenti sociali e politici, raccoglierà istanze
riformatrici cristiane dei secoli precedenti, e costituirà l’ambiente
favorevole per il successo della Riforma della chiesa d’Occidente.
Veramente, segnali premonitori non erano mancati nella cristianità
occidentale, e numerosi erano stati in passato i moti di riforma più o meno
radicale: catari e albigesi nel Sud della Francia, patari in Lombardia,
spiritualisti seguaci di Gioacchino da Fiore, discepoli di Pietro Valdo (1140-
1217 ca.), mendicanti di Francesco d’Assisi (1182-1226) e, più tardi, i
lollardi di John Wyclif e il gruppo degli utraquisti di Giovanni Hus in
Boemia, che origineranno le chiese dei Fratelli moravi. A volte, come per il
francescanesimo, la chiesa istituzionale era riuscita a integrare questi
movimenti traendone un contributo di rinnovamento, ma in genere furono
aspramente combattuti con le armi, l’inquisizione, i roghi. Non diverso
quindi dai precedenti dovette apparire in principio il movimento della
Riforma, iniziato nel 1517 da Martin Lutero (1483-1546), che però assunse
rapidamente dimensioni europee e quindi universali, tanto che oggi si parla
in proposito di «riforma magistrale», per distinguerla dalla «riforma
radicale» di carattere anabattista, e dalla «riforma cattolica» che si espresse
al Concilio di Trento (1545-1563). Il maestro ispiratore venne presto
seguito da una schiera di ardenti riformatori: Huldrych Zwingli a Zurigo,
Martin Butzer di Strasburgo, l’umanista Filippo Melantone, Andreas Rudolf
Bodenstein (Carlostadio) a Wittenberg; Giovanni Calvino e Guglielmo
Farel attuano a Ginevra una riforma con caratteri originali, mentre a
Zwickau Thomas Müntzer riunisce gli anabattisti rivoluzionari, e Menno
Simons in Olanda quelli pacifisti che da lui saranno detti mennoniti.
Inizialmente, i riformatori non intendevano causare uno scisma, ma
concorrere al rinnovamento della chiesa; i tre principi fondamentali della
Riforma – la sola fede, la sola grazia, la sola scrittura sacra – toccavano
però il cuore della chiesa d’Occidente, e attorno a essi si raccolsero cristiani
già divisi da concezioni teologiche ed ecclesiastiche, da culture divenute più
secolari e nazionali, da aspirazioni alla libertà e all’autonomia in nuove
strutture politiche. L’impulso riformatore svolse quindi il ruolo di
catalizzatore delle spinte nazionali di autonomia dal potere imperiale e
dall’autorità pontificia, e i principi tedeschi per primi si appoggiarono su di
esso per affermare l’indipendenza politica.
Nel 1529, alla seconda dieta di Spira, le città libere «protestarono» a
favore della libertà individuale nelle scelte di fede, e così il termine di
«protestanti» divenne d’uso generale. Aspre polemiche teologiche si
intrecciarono in Europa a sanguinose guerre di religione per un secolo e
mezzo. Cattolici e protestanti sostennero dottrine radicalmente opposte a
proposito della concezione della chiesa, sottoposta alla Parola di Dio
(creatura Verbi) secondo i riformatori, chiesa di santi riunita in ogni
assemblea secondo Lutero; il Concilio di Trento invece concepiva la chiesa
come istituzione gerarchica sottomessa all’autorità della Sede romana. Altre
divergenze profonde riguardavano i sacramenti, la condizione umana dopo
la morte, il culto di Maria e dei santi, il canone biblico, l’autorità del
concilio. All’interno della riforma vi furono divisioni sul modo di concepire
la presenza di Cristo nella cena del Signore, la libertà e la predestinazione
umana alla salvezza, le forme di organizzazione della chiesa. In Inghilterra,
dove ancora si conservava la gerarchia episcopale, sorse per reazione un
movimento per la riforma genuina (puritanesimo) che dava importanza alle
singole congregazioni (congregazionalismo). L’idea esclusivista di chiesa
era comunque prevalente, sicché una sola poteva essere la vera chiesa o
comunità dei salvati, le altre dovevano essere avversate e denigrate; ne sono
esempio le numerose opere di teologia controversistica o di storia
ecclesiastica di autori tanto riformati (Centuriatori di Magdeburgo) che
cattolici (cardinale Cesare Baronio).
L’intreccio di queste forti componenti teologiche con altri fattori di
diversa natura caratterizzò la storia europea: già nel 1531 anche Enrico VIII
si proclamò capo della chiesa d’Inghilterra, e re Gustavo Adolfo di Svezia
(1496-1560) introdusse la riforma nei paesi scandinavi. I valdesi nel 1532
aderirono alla Riforma, nella quale riconobbero un movimento che si
conciliava con i loro stessi ideali cristiani. In Francia il protestantesimo
ugonotto fu ufficialmente ammesso nell’editto di Nantes (1598), dopo
lunghe guerre segnate da stragi come quella del 24 agosto 1572 (notte di
san Bartolomeo), ma Luigi XIV nel 1695 revocò l’editto di Enrico IV. Da
ambo le parti il sangue di martiri, come Giovanni Fisher e Tommaso Moro,
fu versato per mano di altri cristiani, come a Costantinopoli nel 1204, ma in
misura ben più tragica, e molti alla ricerca della libertà emigrarono e
passarono l’oceano per vivere nel «nuovo mondo», iniziando un nuovo tipo
di diaspora missionaria. Nel 1648, con la pace di Westfalia, l’Europa è
divisa, secondo il principio «cuius regio, eius et religio», tra regioni unite a
Roma (Italia, Austria, Polonia, Francia, regioni iberiche) e regioni nelle
quali si è affermata la Riforma, nei due rami luterano e riformato
(calvinista) o nella forma anglicana: regioni tedesche, svizzere e
scandinave, Boemia, Olanda, Ungheria, Inghilterra, Scozia.
Dopo la caduta di Costantinopoli in mano turca (1453), la situazione
della chiesa ortodossa bizantina è segnata dall’affermarsi dell’autorità di
Mosca, «terza Roma», che è elevata a sede patriarcale da Geremia II di
Costantinopoli, nel 1589, durante il regno di Ivan IV il Terribile. Tuttavia in
Ucraina i cristiani ruteni continuarono a essere uniti a Roma, secondo
l’orientamento che Isidoro di Kiev aveva assunto al Concilio di Firenze, e
in occasione del concilio ortodosso polacco di Brest (1596) i vescovi
ortodossi si sottomisero al papa. Da questa «Unione» di Brest vennero detti
«uniati» i cattolici di queste regioni che conservano i riti della chiesa
bizantina, e le cui vicende subirono l’influenza delle variazioni dei confini
del regno polacco prima, dell’impero austro-ungarico poi. I protestanti
cercarono in Europa orientale un accordo di cooperazione con gli ortodossi,
e lo raggiunsero nella conferenza di Vilna (1599); gli ortodossi non
accettarono, evidentemente, i princìpi della Riforma, che appariva loro una
questione interna alla cristianità occidentale, ma potevano facilmente
accordarsi con i protestanti nell’opposizione al papato, per la difesa di
comuni interessi. La cristianità offre dunque nel secolo XVII un panorama
più che mai spezzato in chiese che apparentemente sono incamminate su
percorsi divergenti e contrapposti; la situazione di divisione non è più
sentita come un male cui cercare rimedio, ma come un dato di fatto
necessario, di cui ciascun gruppo fornisce spiegazioni e giustificazioni
diverse.
Origini e sviluppo dell’ecumenismo

Movimenti scissionisti e unionisti dal Seicento al Novecento

Per comprendere le premesse del movimento ecumenico nel secolo XX, vi


sono alcuni fatti e tendenze che conviene prendere in considerazione nei
secoli successivi alla Riforma. Fino a tutto il Settecento, in America si
susseguono movimenti spirituali di «risveglio», che da una parte producono
frazionamenti delle chiese e nascita di nuove comunità, e dall’altra sono
aperti a una nuova concezione di unità fra i cristiani, quasi anticipatrice
dell’ecumenismo. Soltanto durante l’Ottocento anche in Europa si notano
segni di rinnovamento nella cultura ecclesiastica che si apre alla
collaborazione fra cristiani di chiese diverse, e nella seconda metà del
secolo questo rinnovamento tocca in parte anche la chiesa cattolica. Questa
evoluzione di atteggiamento fra i cristiani non è senza rapporto con la
profonda evoluzione storica e culturale dell’epoca. Tra il secolo XVII e il
secolo XIX intervengono infatti fenomeni storici non più omogenei con le
epoche precedenti, che scandiscono perentoriamente anche la storia della
chiesa: le rivoluzioni americana (1776) e francese (1789) segnano il
tramonto del millennio carolingio e del progetto di Sacro romano impero.
Durante l’illuminismo europeo che precede la rivoluzione, il concetto già
umanistico di tolleranza rinasce in forma nuova, in un contesto laico e
razionalista, ma comunque ciò favorisce una nuova mentalità nella quale le
diversità di fede perdono di rilievo polemico, facilitando quindi l’incontro e
il confronto fra cristiani di chiese diverse. Secondo l’ispirazione umanistica
che cercava l’irenismo o il concordismo, ci furono dei tentativi di accordo
sulle dottrine essenziali comuni, ma non produssero risultati; era comunque
interessante l’ipotesi di «colloquium charitativum», proposto da G. Calixtus
a Torùn nel 1645, fondato sulla distinzione fra contenuti dottrinali e la loro
formulazione. In area protestante si formarono correnti che tendevano a
essere interconfessionali e coltivavano un fervido impegno etico e
missionario: ne furono protagonisti Philipp Jakob Spener (1635-1705) e
Nikolaus L. Zinzendorf (1700-1760). Queste correnti influenzarono nuove
forme di comunità, come i «fratelli» che sorsero in Germania nel 1708. In
Olanda, in un clima inasprito da accuse di giansenismo, nel 1723 la «Chiesa
cattolica romana del vecchio clero episcopale» si separò da Roma, creando
le premesse della chiesa che sarà detta poi dei «vecchi cattolici»; questo
genere di separazioni sono comunque fenomeni eccezionali nell’epoca
moderna post-tridentina.
L’era coloniale americana: il «grande risveglio». In America l’ambiente
sociale era molto più favorevole alla collaborazione fra cristiani, il peso
delle tradizionali polemiche meno forte, e il pluralismo creava situazioni di
rapporti interconfessionali normali. Durante l’era coloniale americana
(1600-1776) il movimento del «grande risveglio» (revival), unito al
pietismo e al rinnovamento evangelico missionario, portò al costituirsi di
nuovi gruppi, i quali all’origine erano accomunati da eguali finalità, e non
sempre intendevano costituirsi come organismi ecclesiali indipendenti. Con
il tempo, tuttavia, spesso finirono col separarsi e divenire autonomi. Così
nacquero i battisti di John Smyth ad Amsterdam (1609) che presto si
diffusero in America, i Padri pellegrini in America del Nord (1620), la
Società religiosa degli amici (quaccheri) di George Fox e William Penn in
Inghilterra e a Filadelfia (1649), i metodisti di John Wesley prima a Oxford
(1729) poi in America. In generale il clima liberale americano era di
rispetto per tutti, tranne che per i cattolici; eccezione nell’eccezione fu la
tolleranza fra protestanti e cattolici nel Maryland (1634), a Rhode Island
(1636) e in Pennsylvania (1682), almeno fino al diffondersi
dell’anticattolicesimo ottocentesco.
Il «secondo risveglio». La nascita dello Stato federale consolidò questa
situazione di rispettoso pluralismo. Nell’America della Frontiera (1783-
1865) e del «secondo risveglio» cristiano che accompagna la marcia a
Ovest, Alexander Campbell (1788-1866) riunisce i Discepoli di Cristo,
aventi come ideale l’unità originaria dei primi cristiani, e nascono altre
chiese: la Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, o mormoni,
nell’Utah (1847), la Chiesa avventista del settimo giorno a Battle Creek,
Michigan (1863).
L’Europa dopo la Rivoluzione: il movimento di Oxford. Nel vecchio
continente l’evoluzione verso forme di cooperazione interconfessionale fu
assai più lenta, come era prevedibile, considerando il peso della tradizione e
la complessità delle situazioni storiche, ma tuttavia fu profonda e articolata,
e in molti casi evidentemente influenzata dal nuovo clima politico e sociale.
Nella fase postrivoluzionaria si compiono in Europa quei processi di
costituzione degli Stati nazionali, già delineatisi all’inizio della Riforma. È
anche la stagione dei colonialismi nazionali che si fanno concorrenti
dell’impero coloniale britannico, della prima rivoluzione industriale, della
questione sociale e operaia, della lotta per l’abolizione della schiavitù,
fenomeni che con le loro gravi implicazioni etiche coinvolgono tutte le
chiese, accomunandole in un confronto su terreni nuovi, fuori degli steccati
dottrinali tradizionali. I rapporti internazionali si fanno più stretti, come si
vede nei moti risorgimentali e operai. In Italia iniziative missionarie
protestanti durante il periodo risorgimentale ebbero spesso carattere
anticattolico e anticlericale, suscitando forti reazioni. I nuovi fattori
culturali, sociali e politici influenzarono, per via di affinità, o di
contrapposizione, o di emulazione, la creazione di iniziative cristiane di
collegamento e di cooperazione. La Bibbia si rivela il luogo più propizio
alla collaborazione: nascono la Società biblica britannica e forestiera
(Londra, 1804) e la Società biblica americana (1816), che intendono essere
interdenominazionali. In direzione opposta, il neoirenismo razionalista
suscita le reazioni di quanti sottolineano le irriducibili divergenze dottrinali
fondamentali («fondamentalisti») che separano i vari gruppi cristiani. In
quest’atmosfera polemica si può meglio comprendere l’intransigenza
cattolica che si espresse nel Sillabo di Pio IX (1864) contro il pensiero
liberale. Il dogma dell’Immacolata concezione di Maria proclamato dal
papa (1854) approfondì le divisioni con le altre chiese; ma l’atteggiamento
di isolamento cattolico sotto il pontificato di Pio IX era pure largamente
influenzato da fattori non teologici, e quindi suscettibile di evoluzione col
mutare di circostanze esterne, come si sarebbe visto nei pontificati
successivi.
Nella chiesa anglicana, che indubbiamente risentiva dei vantaggi
culturali che le venivano dall’essere al centro dell’impero britannico, si
ebbero numerose iniziative significative di incontro con cristiani di altre
chiese. In Inghilterra con la pubblicazione del Treatise on the Church of
Christ (Oxford, 1838) di William Palmer, ha inizio un movimento di
riavvicinamento tra gli anglicani della Chiesa alta (High Church), i cattolici
e gli ortodossi. Il movimento di Oxford sviluppa la teoria di un’unica chiesa
divisa in tre rami, che è sufficiente siano messi in comunicazione mediante
lo scambio di sacramenti (intercomunione). Tra i protagonisti del
movimento, che vennero detti «trattariani», figurano John Henry Newman
(1802-1891), divenuto poi cattolico e cardinale, Ambroise Sisle Phillips,
autore di On the future Unity of Christendom (1857), Edward Bouverie
Pusey che nel 1865 scrisse l’Eirenicon. A Oxford nel 1857 si costituì
l’Associazione per la promozione dell’unità della cristianità (APUC), con
partecipazione anche dei cattolici, e nel 1863 l’Associazione delle chiese
d’Oriente (ECA); purtroppo nel 1864 la Santa Sede proibì ai cattolici di
essere membri dell’APUC, che rimase comunque un’esperienza profetica di
incontro ecumenico.
Il rinnovamento delle scienze teologiche. Le nuove correnti di studi
teologici nell’Ottocento contribuirono in misura notevole ad aprire nuovi
orizzonti di unità cristiana. Adam Möhler (1796-1838) espresse un nuovo
orientamento circa il concetto di unità della chiesa in Die Einheit der
Kirche, oder das Prinzip des Katholizismus (1825), e influenzò il teologo
russo Alexei S. Khomiakov (1804-1860). L’opera di Julius Wellhausen
(1844-1918) negli studi biblici, e di Adolf von Harnack (1851-1930)
nell’edizione critica delle fonti patristiche del cristianesimo orientale, favorì
l’incontro di studiosi di scienze ecclesiastiche, anche ortodossi e cattolici; in
questo clima pacato e alieno alla polemica si ponevano le premesse per
lasciarsi alle spalle la tradizionale teologia controversistica e apologetica.
Numerosi scrittori cercarono una piattaforma comune di unione dei cristiani
o delle chiese: il luterano Johann August Probst (1792-1844) in
Pennsylvania, Samuel Simon Schmucker (1799-1873) a Gettysburg, Philipp
Schaff (1819-1893) e la scuola riformata di Mercersburg, l’episcopaliano
William Reed Huntington (1838-1918). In Russia Vladìmir Sergeevič
Solov’ëv (1853-1900), animato da convinzioni filosofiche e politiche,
diffuse l’ideale dell’unione delle chiese, e la sua opera fu diffusa in Europa
grazie all’agostiniano Aurelio Palmieri (1870-1926).
Associazioni e conferenze cristiane internazionali. La seconda metà
dell’Ottocento vede il proliferare di nuovi organismi cristiani di varia
natura: a Londra nel 1844 viene fondata l’Associazione cristiana della
gioventù maschile (YMCA), cui seguirà nel 1854 quella femminile
(YWCA); nel 1846 si costituì l’Alleanza evangelica, primo esempio di
organismo internazionale missionario-proselitistico, a tendenza antiromana.
Pochi anni dopo, si costituirono l’Alleanza riformata (nel 1875) e
l’Alleanza battista mondiale (nel 1905). Si sviluppò anche un robusto
movimento studentesco internazionale, culla dei primi pionieri
dell’ecumenismo moderno: J. Mott, J. Oldham, N. Söderblom, W. Vissert ’t
Hooft. Un’altra forma di collaborazione, seguendo lo spirito del tempo, fu
avviata con successo: quella delle conferenze. Gli avventisti tennero a
Washington, nel 1863, la loro prima conferenza mondiale. Nel 1867 si riunì
a Londra, nel palazzo di Lambeth, la conferenza (Lambeth Conference)
destinata a divenire a cadenza decennale il foro delle chiese aderenti alla
comunione anglicana. Numerose e varie furono le conferenze o le
organizzazioni di carattere missionario, come l’Ausschuss der deutschen
evangelischen Missionen (1885) e la Conferenza nordamericana per le
missioni estere (1893), e pertanto divenne più sentita l’esigenza di
coordinare l’opera missionaria che le diverse confessioni e denominazioni
protestanti svolgevano all’estero, in modo frazionato e spesso in reciproca
polemica. A questa situazione si cercò di rimediare convocando conferenze
missionarie internazionali negli anni dal 1854 al 1900: l’ultima di queste,
nel 1910 a Edimburgo, segnò l’inizio dell’ecumenismo moderno.

Prime iniziative di unione. A queste iniziative di collaborazione


interconfessionale seguirono i primi passi in una nuova direzione, dal
frazionamento verso la riunificazione. La prima conferenza ecumenica
metodista ebbe luogo a Londra nel 1881, e fu seguita dalla riunificazione
delle quattro famiglie metodiste, sancita alla Conferenza di Belleville, in
Canada (1884). Una spinta dottrinale notevole per l’unità venne dalla
Conferenza di Lambeth del 1886, che formulò, ispirandosi ai Padri della
chiesa, un appello all’unità fondata su quattro punti, detti «quadrilatero di
Lambeth»: 1. le Scritture apostoliche, 2. l’autorità apostolica, 3. la
tradizione apostolica, 4. i sacramenti (battesimo e eucaristia).
Più pragmatica fu, invece, la proposta di un’unione federale o
confederata, che Philipp Schaff presentò al Parlamento mondiale delle
religioni riunito a Chicago nel 1893, parlando sulla «Riunificazione della
cristianità». L’idea riscosse un certo consenso nell’area americana, ove nel
1908 nacque il Consiglio federale delle chiese di Cristo, avente lo scopo di
realizzare l’opera della fraternità cristiana nella preghiera e nel consiglio
reciproco in materia di vita spirituale e di attività religiose delle chiese.
L’atteggiamento della chiesa cattolica. Sullo sfondo dell’orientamento
protestante verso varie forme di collaborazione, la posizione della chiesa
cattolica, che si trova in una situazione critica, stretta da più parti da forze
miranti a porre fine allo Stato pontificio, appare complessa e articolata.
Nonostante la difficile situazione dei cosiddetti greco-cattolici (ruteni e
ucraini di rito bizantino) uniti a Roma nei territori sottoposti alla Russia
zarista, papa Leone XIII (1878-1903) ha cura di evitare il tradizionale
linguaggio polemico e introduce nei riguardi degli ortodossi il concetto di
riunione, in sostituzione del linguaggio del «ritorno a Roma» degli
scismatici. La proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia al
Concilio vaticano primo (1870) aveva causato tra l’altro una forte
opposizione in Germania, Svizzera, Boemia e Moravia, e questo
movimento portò nel 1889 le chiese vecchiocattoliche a confluire
nell’unione di Utrecht. Sensibile ai gravi problemi sociali, Leone XIII nel
1891 pubblicò l’enciclica Rerum novarum, e l’anno seguente in una lettera
pubblica invitò cattolici, protestanti, ebrei, e tutti gli uomini di buona
volontà, a unirsi nell’azione spirituale e sociale. Nei rapporti con gli
anglicani, Leone XIII incaricò una commissione di studiare la questione
della validità delle ordinazioni presso quella chiesa, come sollecitavano dal
1890 Charles Wood, visconte di Halifax, e l’amico francese padre Fernand
Portai. L’indagine si concluse però negativamente, e la bolla pontificia
Apostolicae curae, nel 1896, dichiarava le ordinazioni anglicane invalide e
nulle.
Preghiere per l’unità. Un fatto significativo che accompagnò le prime
iniziative per l’unità fu la preghiera: già l’Alleanza evangelica propose una
settimana di preghiera, e lo stesso fece a metà del secolo XIX l’APUC di
Oxford, specificando che la preghiera comune aveva come intenzione il
conseguimento dell’unità dei cristiani, conforme alla volontà di Cristo. Più
tardi Henry Lunn, l’organizzatore delle conferenze di Grindenwald e editore
della «Review of the Churches» (1891-1896), suggerì di istituire a
Pentecoste la Domenica della riunificazione. Appelli alla preghiera per la
riunificazione, a Pentecoste, vennero rivolti in Scozia e Inghilterra nel 1901
e 1906. Dalla collaborazione tra il parroco anglicano Spencer Jones e
l’episcopaliano protestante americano Paul Wattson – che poi divenne
cattolico e fondò la comunità dei francescani dell’Atonement (Riparazione)
– nacque nel 1907 l’idea dell’Ottava di preghiera per l’unità (18-25
gennaio); Pio X nel 1909 approvò l’iniziativa, che fu estesa da Benedetto
XV a tutta la chiesa, anche se gli altri cristiani non potevano consentirvi a
causa dello spirito che l’animava, per cui si implorava pur sempre il
«ritorno» di tutti nell’unico ovile di Roma.
Concludendo questa panoramica sulla complessa vicenda storica e
spirituale che costituisce l’ambiente vitale da cui scaturisce il movimento
ecumenico moderno, costatiamo tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX
l’emergere di alcune tendenze unificatrici che avanzano in diverse aree
della vita dei cristiani e delle chiese: esse riguardano il confronto dottrinale,
la collaborazione missionaria, la risposta alle grandi rivoluzioni sociali, la
formazione di unioni confessionali e di organizzazioni cristiane
internazionali, la costituzione di consigli di chiese a dimensione nazionale o
anche al di là dei limiti nazionali, il diffondersi della preghiera per l’unità
dei cristiani. Se questo orientamento riguarda in genere i protestanti, anche
le chiese cattolica e ortodossa entrano però in una fase nuova: l’unificazione
d’Italia e la rivoluzione bolscevica segnano per entrambe la fine di due
epoche iniziate da Costantino, creando una situazione che apre a orizzonti
di servizio svincolato dal potere terreno, e perciò anche più disponibile alla
collaborazione ecumenica.

Da Edimburgo (1910) ad Amsterdam (1948)

Nella nascita e nello sviluppo del moderno movimento ecumenico si


possono individuare tre periodi: quello iniziale, a partire dalla prima
conferenza missionaria mondiale di Edimburgo nel 1910; quello centrale,
dalla fondazione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) ad
Amsterdam nel 1948; e quello che continua tuttora, successivo al Concilio
vaticano secondo (1962-1965).
Nel primo periodo sono protagonisti i tre movimenti distinti che
esprimono le diverse vie di ricerca di unione nate nel mondo protestante: il
movimento missionario, quello del Cristianesimo pratico (Life and work), e
quello dell’incontro dottrinale su temi di Fede e costituzione della chiesa
(Faith and order). Il secondo periodo vede l’iniziativa passare
prevalentemente nel nuovo organismo, il CEC, che da Ginevra promuove
ricerche e assemblee ecumeniche in tutto il mondo. La chiesa ortodossa, pur
sconvolta dall’oppressione del regime sovietico (1918-1989), dà
ciononostante un contributo originale all’ecumenismo. Le due grandi guerre
che lacerano l’Europa purificano le chiese e avvicinano ancor più, anche
nelle persecuzioni e nei campi di concentramento, i cristiani, confermandoli
nel progetto di ricomporre l’unità di cuore, di fede, di opere, promuovendo
con coraggio la riconciliazione e la pace. Il mostruoso piano nazista di
annientamento del popolo ebraico in Europa, attuato nella Shoà (la
catastrofe degli anni 1933-1945), rivela nel modo più chiaro il volto
antiumano dell’antisemitismo e del razzismo, convincendo le chiese della
necessità di convertirsi dal tradizionale antiebraismo di origine tanto
patristica e medievale quanto luterana.
A Edimburgo si tenne nel 1910 la prima conferenza missionaria
mondiale, a carattere interdenominazionale, per iniziativa delle principali
organizzazioni missionarie protestanti europee e nordamericane, con lo
scopo di coordinare l’attività delle missioni ormai diffuse in tutti i
continenti. Per la prima volta vescovi anglicani avevano partecipato ai
lavori delle commissioni preparatorie, insistendo – e ottenendo – che la
conferenza non fosse, come le precedenti, adenominazionale, bensì che i
partecipanti fossero rappresentanti ufficiali delle società missionarie: essi
tuttavia non rappresentavano le Chiese cui appartenevano, e pochi fra loro
provenivano da chiese indigene. Per evitare polemiche vennero esclusi dalla
conferenza temi di carattere dottrinale, e non furono invitati né cattolici, né
ortodossi, né società missionarie che esercitavano proselitismo fra altri
cristiani. Monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, inviò
tuttavia una lettera, che fu letta durante i lavori. Ciò che univa i partecipanti
era lo slancio evangelico e missionario per diffondere l’annuncio di Cristo,
e degli otto temi proposti, tre avevano rilievo ecumenico: l’ultimo, in
particolare, trattava della collaborazione e della promozione dell’unità. Il
cinese Cheng Ching Yi si distinse per i suoi interventi, e il discorso
conclusivo di Charles E. Brent, vescovo missionario della Chiesa
episcopale protestante degli Stati Uniti, commosse gli animi; ma l’esito
estremamente positivo fu merito principale di John R. Mott, laico
metodista, che fu la mente organizzativa della conferenza, e di Joseph H.
Oldham (1874-1969), segretario esecutivo, che divennero protagonisti del
periodo iniziale dell’ecumenismo moderno. Con una decisione che dette
inizio di fatto al primo organismo ecumenico, la conferenza istituì una
commissione di continuazione, di cui fecero parte Mott, Oldham e Georgina
Gallock. Sarà proprio grazie all’opera di questa commissione, che nel 1921
sarà fondato il Consiglio missionario internazionale (CMI), con sede a
Londra nell’Edinburgh House, avente come segretario generale J. Oldham.
Oltre a questo risultato principale che richiese un lungo e paziente
lavoro, ve ne fu un altro, le cui conseguenze si sarebbero viste più tardi. Il
vescovo missionario Brent, tornato negli Stati Uniti, con la convinzione che
occorreva studiare gli argomenti dottrinali per costruire l’unità, ottenne, il
19 ottobre 1910, dalla Convenzione generale della chiesa episcopale
protestante, una risoluzione per istituire una commissione preparatoria di
una nuova conferenza mondiale che trattasse, questa volta, le questioni di
Fede e costituzione di cui non si era discusso a Edimburgo. Robert H.
Gardiner fu il segretario di questa commissione, il cui lavoro, ripreso nel
1919, porterà alla Conferenza di Losanna del 1927.
Contemporaneamente, con analoga finalità, una commissione per trattare
il tema dell’unità dei cristiani era istituita dal Consiglio nazionale delle
chiese congregazionali degli Stati Uniti; nel medesimo tempo Peter Aislie,
presidente della Convenzione annuale dei discepoli di Cristo, ottenne la
costituzione di una Commissione dell’unione cristiana (che sarebbe poi
divenuta l’Associazione per la promozione dell’unità cristiana), e iniziò la
pubblicazione del «Christian Union Quarterly». Così, in pochi mesi, per
l’azione non concordata, e tuttavia mirabilmente concorde, di cristiani di
chiese assai diverse, si mise in movimento una rete organizzativa
molteplice, che partendo da comunità e istituzioni cristiane diffuse nel
mondo intero mirava all’unità dei cristiani: era la nascita
dell’«ecumenismo».
Confronto dottrinale e cooperazione sociale. I preparativi della nuova
conferenza sulle questioni di Fede e costituzione ecclesiale videro
coinvolte, negli anni precedenti la guerra (1911-1914), specialmente le
chiese della Gran Bretagna, ma anche ortodossi e cattolici, e tra questi i
cardinali Gibbons e Farley. Il neo eletto papa Benedetto XV, con una lettera
del cardinal Gasparri del 18 dicembre 1914, rese noto il suo favore e
assicurò le sue preghiere per l’esito della prevista conferenza, che tuttavia si
sarebbe tenuta solamente tredici anni dopo. Con l’aggravarsi delle tensioni
mondiali, inevitabilmente appariva a molti cosa più urgente, e prioritaria,
dedicarsi a iniziative internazionali di cooperazione a favore della giustizia
sociale e della pace: nel 1910 a Besançon nasceva la Fédération
internationale des chrétiens sociaux, e nel 1911 si costituiva la Lega
internazionale dei cattolici per la pace; le riviste «Le christianisme social»,
«The peacemaker», «Die Eiche» riflettono e promuovono questa ansia di
collaborazione pratica. In America le relazioni ecumeniche si allargano e
diventano interreligiose e organizzazioni cattoliche, protestanti ed ebraiche
si incontrano sui tre temi della chiesa, della pace e dell’unità: si costituisce
così nel 1914 la Church peace union, organo che sostiene l’Alleanza
mondiale per la promozione dell’amicizia internazionale attraverso le
chiese, fondata a Londra il 5 agosto 1914.
Questa Alleanza, frutto della conferenza internazionale cristiana
organizzata a Costanza ai primi di agosto e interrotta dallo scoppio della
guerra, svolse una preziosa opera di soccorso ai civili internati e ai
prigionieri di guerra, mostrando l’importanza dell’azione comune dei
cristiani a sostegno del diritto internazionale. L’opera di assistenza a
profughi e rifugiati fu un terreno di incontro e di dolorosa maturazione per i
cristiani provenienti da chiese divise. Alcune chiese assunsero anche
iniziative dirette e ufficiali: la situazione di neutralità dei paesi scandinavi
permise ai primati del Nordeuropa, sotto l’ispirata guida di Nathan
Söderblom (1866-1931), arcivescovo di Uppsala, di convocare colà una
conferenza cristiana nel 1917, e nella prima conferenza cristiana del
dopoguerra, a Oud Wassenaar, Olanda, nel 1919, Söderblom propose di
istituire un Concilio ecumenico delle chiese, per realizzare un fronte
cristiano unito e lavorare alla riconciliazione e alla fratellanza fra i popoli.
A questo scopo un comitato organizzativo si riunì a Parigi nel mese di
novembre, e su istanza anglicana si convenne di invitare anche Roma, ma di
far precedere una conferenza internazionale preliminare. Questa ebbe luogo
a Ginevra il 9-12 agosto 1920, senza la partecipazione degli anglicani, e
accolse la proposta di Söderblom di convocare una conferenza universale
cristiana, o «ecumenica», su «Vita e azione», aperta a tutte le chiese inclusa
la cattolica romana. Ciò segnò l’inizio istituzionale del movimento di
Cristianesimo pratico, che accettava l’assioma «la dottrina divide, il
servizio unisce».
Nei medesimi anni il movimento di Fede e costituzione, che partiva
invece dal presupposto della necessità della comparazione dottrinale, aveva
svolto un’azione analoga per preparare la conferenza auspicata già prima
della guerra. Da New York salpò una delegazione alla volta dell’Europa e
dell’Oriente, che fu anche ricevuta il 16 maggio 1919 da papa Benedetto
XV in Vaticano. Il papa, però, che cinque anni prima aveva manifestato un
atteggiamento più favorevole, fu benevolo ma irremovibile, ribadendo che
Roma non intendeva partecipare a un tal genere di congressi mondiali,
stante la sua nota posizione circa l’unità della chiesa visibile. La missione
fu nel complesso positiva, segnò l’ingresso nel movimento di ortodossi e
riformati tedeschi, e nel 1920 da Ginevra un Comitato di continuazione
curò i preparativi della conferenza. Nello stesso anno, tra i frutti
significativi di questo clima ecumenico, si annovera la lettera enciclica del
patriarcato di Costantinopoli a tutte le chiese di Cristo, preparata
dall’arcivescovo Germano, nella quale si auspica la creazione di un
organismo cristiano comune. La Conferenza di Lambeth, pochi mesi dopo,
rivolge un «Appeal to all Christian people», ricordando le responsabilità
delle nazioni cosiddette cristiane per gli orrori bellici, e invocando la
riunificazione della cristianità. I due protagonisti della campagna per il
riconoscimento della validità delle ordinazioni anglicane, padre Portal e
lord Halifax, fondandosi su questo appello si rivolsero al cardinale Mercier
di Bruxelles, dando inizio a una serie di incontri teologici dal 1921 al 1925,
a carattere non ufficiale, ma approvati e incoraggiati dalla Santa Sede, sul
tema della convergenza e riunificazione fra le due chiese. Era un altro segno
dell’atteggiamento positivo e prudente del papa, che mirando ai rapporti
con la chiesa d’Oriente, nel 1917 rese autonoma la Congregazione per le
chiese orientali e istituì l’Istituto pontificio per gli studi orientali.
Nel frattempo anche i preparativi per una conferenza del «cristianesimo
pratico» erano progrediti, grazie principalmente all’opera di Nathan
Söderblom, e parve probabile che su questo terreno, distante da
controversie teologiche, la collaborazione con la chiesa cattolica non
avrebbe trovato ostacoli.
Tuttavia, allorché nel febbraio 1921 tre vescovi scandinavi in una lettera
illustrarono al papa l’iniziativa della conferenza di Vita e azione prevista a
Stoccolma nel 1925, ne ricevettero attraverso il cardinal Gasparri una
risposta evasiva. In certa misura il contributo cattolico alla preparazione
della Conferenza di Stoccolma non mancò, perché studiosi cattolici
parteciparono alla conferenza del 1924 a Birmingham (Copec: Conference
on Christian politics, economics and citizenship), presieduta da William
Temple, e i rapporti della Copec furono presentati a Stoccolma.
La Conferenza di Stoccolma (1925). La Conferenza universale cristiana di
Stoccolma, apertasi il 19 agosto 1925, vide la partecipazione di oltre 600
delegati ufficiali designati dalle chiese di 37 paesi, e tra essi una folta
rappresentanza di ortodossi. La guida ispirata che animò la conferenza fu
l’arcivescovo Söderblom, convinto assertore della necessità di un’etica
cristiana comune per il servizio della società mondiale. Il tema e lo spirito
della conferenza apparivano nel sottotitolo dell’Innario multilingue:
Communio in adorando et serviendo oecumenica. Furono presenti
osservatori cattolici non ufficiali, e i risultati della conferenza
sottolinearono il regno universale di Cristo nel mondo. Il Comitato di
continuazione allora istituito portò poi, nel 1930, alla fondazione del
Consiglio universale cristiano di Vita e azione, che attraverso l’opera del
vescovo di Chichester, G.K.A. Bell, dopo il 1933 si occupò anche
dell’assistenza ai profughi ebrei. Vita e azione concordò nel 1928 con
l’Alleanza mondiale la risoluzione di Eisenach-Avignone, che condannando
la guerra proponeva di sostituirla con arbitrato internazionale.
La Conferenza di Losanna (1927). Anche il confronto dottrinale in quegli
stessi anni era maturato, e ciò fu manifesto alla prima conferenza mondiale
di Fede e costituzione, riunita il 3 agosto 1927 all’Università di Losanna. I
partecipanti, oltre 400 da 108 chiese, erano per lo più rappresentanti
ufficiali delle loro chiese. Tra i sette temi proposti figuravano con chiarezza
gli argomenti che sarebbero rimasti all’ordine del giorno nel dialogo
ecumenico fino ad oggi: la vocazione all’unità, la natura della chiesa,
Vangelo, fede, ministeri e sacramenti, l’unità dei cristiani. La conferenza
produsse anche una collaborazione più stretta delle tre organizzazioni
ecumeniche mondiali: alcuni suoi rapporti influirono largamente sulle
successive riunioni del Consiglio missionario, e un sottocomitato di
collegamento con Vita e azione fu deciso dal Comitato di continuazione di
Losanna, riunito a Praga nel 1928.
Da parte cattolica il confronto dottrinale rimaneva invece impraticabile,
e ci fu una reazione contro il «pancristianesimo» (o «panprotestantesimo»);
lasciata cadere l’esperienza dei colloqui teologici di Malines, dopo
l’enciclica Mortalium animos (1928) si preferì sviluppare l’ecumenismo
spirituale nell’incontro con l’ortodossia. Il pontificato di papa Pio XI (1922-
1939) è caratterizzato dall’impulso a conoscere liturgia e spiritualità
ortodosse, attraverso l’opera dei benedettini di Amay (e poi di Chevetogne),
e di Niederaltaich; a Amay dom Lambert Beauduin pubblica la rivista
«Irenikon» (1926), e da Niederaltaich uscirà nel 1939 «Una sancta».
Da parte anglicana l’interesse per l’ortodossia era egualmente vivo, e nel
1928 fu fondata la Compagnia di S. Albano e S. Sergio, che pubblicò la
rivista «Sobornost» e favorì in Occidente la conoscenza del mondo
bizantino. La diaspora ortodossa provocata dalla persecuzione sovietica
riportava progressivamente a contatto della cristianità occidentale le grandi
tradizioni dell’Oriente cristiano, predisponendo gli animi a superare le
antiche barriere che dividevano i greci dai latini.
Cristiani nella tempesta. La situazione politica europea sempre più critica
determinò sempre di più i cristiani a riunirsi con maggior determinazione
nella riflessione e nella vita comune. Una delle organizzazioni più attive
alla quale collaborarono i cristiani fra le due guerre fu l’Alleanza mondiale,
sorta nel 1914, diretta da un consiglio internazionale di 145 membri
designati dai consigli nazionali autonomi che aderivano all’Alleanza. Alla
Conferenza di Praga del 1928 furono indicati alcuni obiettivi principali
riguardanti i temi etico-religiosi e le chiese, tra cui la libertà religiosa, la
conciliazione degli antagonismi di classe e di razza, la promozione della
giustizia a livello internazionale. Nel 1929, ad Avignone, l’Alleanza
dichiarò che la guerra come mezzo per dirimere questioni internazionali
andava rifiutata, e occorreva ricorrere all’arbitrato, o a una corte mondiale o
alto tribunale. Per tutto il tempo in cui l’Alleanza operò (1914-1948),
rimase un’organizzazione aperta ai credenti anche di altre fedi religiose; i
suoi rapporti con Vita e azione furono così stretti che dal 1933 al 1938 H.L.
Henriod fu segretario generale di entrambi gli organismi, e si pensò che
fosse possibile una fusione, la quale poi non si realizzò. Questa ecumenicità
universalista o umanistica, che ebbe l’occasione di esercitarsi specialmente
negli anni del secondo conflitto mondiale, costituì comunque un elemento
che accomunava protestantesimo e cattolicesimo nella ricerca di princìpi
della «coscienza morale dell’umanità» (N. Ehrenström).
Quando, dopo la presa del potere da parte di Hitler in Germania (1933),
apparve la minaccia di una nuova guerra, e razzismo e antisemitismo
esplosero in Europa, il movimento ecumenico costituì un foro di resistenza
teorica e pratica al neopaganesimo e all’autoritarismo nazionalista, riunendo
gli sforzi delle chiese per sviluppare una solidarietà cristiana internazionale.
In Germania la reazione al mito razziale di «Blut und Boden» (sangue e
terra) si espresse nella Bekennende Kirche (chiesa confessante) ai sinodi di
Barmen (1933-34), guidata dal pastore Martin Niemöller, ed ebbe tra i suoi
profeti e martiri Dietrich Bonhöffer (1906-1945).
Una svolta ecclesiologica importante per il movimento ecumenico fu
l’ingresso deciso e critico di Karl Barth, a partire dal suo intervento nel
1935 al Seminario ecumenico organizzato dall’Alleanza mondiale a
Ginevra. Il Consiglio cristiano universale di Vita e azione negli anni Trenta
si dotò di un dipartimento di ricerca, che nel marzo 1933 organizzò a
Rengsdorf una conferenza su «La chiesa e i sistemi sociali contemporanei»,
la quale affermò il dovere dei cristiani di opporsi allo Stato totalitario. Un
altro avvenimento che testimoniò la crescente convergenza dei cristiani
dinanzi all’affermarsi dei totalitarismi fu la Conferenza internazionale di
Parigi (1934) su «La chiesa e lo Stato, oggi». In quello stesso anno il
Consiglio cristiano di Vita e azione decise di sostenere apertamente la
chiesa confessante tedesca e dispose l’inizio dei lavori preparatori per la
seconda conferenza mondiale del 1937 su «La chiesa, la comunità e lo
Stato». In risposta alle esigenze di porre in rilievo le basi teologiche
dell’impegno sociale, come sosteneva Fede e costituzione, anche Vita e
azione promosse studi preliminari per la conferenza su vari temi: la
concezione cristiana dell’uomo, il regno di Dio e la storia, la fede cristiana e
la vita comune. Pensatori ortodossi e cattolici offrirono il loro contributo
nella fase preparatoria, e anche il cardinale Michael Faulhaber, arcivescovo
di Monaco, sostenne l’azione comune contro le forze anticristiane.
Di altro tipo, ma egualmente significativo, fu in quegli anni l’apporto di
un cattolico, padre Paul Couturier (1881-1953), che a Lione propose e
diffuse la preghiera per l’unità dei cristiani con una intenzione nuova:
l’unità come Cristo vuole, con i mezzi che Cristo vorrà, quando Cristo
vorrà. La via del confronto dottrinale, apertasi per i cattolici con le
conversazioni di Malines, fu percorsa da altri teologi coraggiosi, primo tra i
quali Yves Congar (Chrétiens désunis. Principes d’un oecuménisme
catholique, 1937); dal 1937, per iniziativa di padre Couturier, nell’abbazia
di Notre Dame des Dombes, un gruppo di sacerdoti e pastori francesi e
svizzeri cominciò a riunirsi in amicizia, costituendo un gruppo di preghiera
e di studio che continua tuttora.
La Conferenza di Oxford (1937). Nell’Università di Oxford, dal 12 al 26
luglio 1937, si riunì la seconda conferenza mondiale di Vita e azione, con la
partecipazione di 425 membri, tra i quali 300 delegati ufficiali di chiese, in
maggioranza dagli Stati Uniti e dal Commonwealth, con scarsa
rappresentanza di chiese ortodosse e orientali e di chiese giovani autoctone.
Pochi furono gli osservatori cattolici presenti a titolo personale, e alla
chiesa evangelica tedesca fu impedito di partecipare. Grazie ai rapporti
preliminari accuratamente preparati, la conferenza produsse testi di grande
autorevolezza soprattutto per l’etica protestante, e affermò l’indipendenza
della chiesa di fronte all’autorità mondana. Il ruolo del laicato per la
testimonianza cristiana nella vita pubblica fu chiaramente sostenuto da J.H.
Oldham, che aveva diretto i lavori preparatori con straordinaria
competenza. Nella elaborazione della dottrina sociale cristiana, Oxford
rappresentò una tappa significativa per i protestanti, come la Rerum
novarum lo era stata per i cattolici. La conferenza si concluse con la
decisione di istituire insieme a Fede e costituzione un Consiglio ecumenico
delle chiese (CEC), come aveva preconizzato Söderblom nel 1919.
La Conferenza di Edimburgo di Fede e costituzione. Fede e costituzione
tenne la sua seconda conferenza mondiale a una settimana di distanza, dal 3
al 18 agosto 1937, a Edimburgo, sotto la presidenza dell’arcivescovo di
York, e più autorevole ecumenista britannico, William Temple. I
partecipanti furono oltre 500, da 123 chiese, ma Berlino negò, anche per
quella occasione, il passaporto ai delegati della chiesa evangelica tedesca.
Più numerosi che in passato convennero rappresentanti ortodossi, guidati
da Germano metropolita di Tiatira. L’invito fu rivolto anche ai cattolici, che
non lo accolsero. I rapporti e il documento finale, poi trasmessi alle chiese,
toccavano quattro temi: la grazia, chiesa di Cristo e parola di Dio, ministero
e sacramenti, l’unità nella vita e nel culto.
L’11 agosto fu presentata la proposta di Vita e azione per costituire un
Consiglio ecumenico delle chiese, e la proposta fu accolta, istituendo il
Comitato provvisorio «dei quattordici» (sette membri di Fede e
costituzione, sette di Vita e azione) per attuare il progetto. Fu discussa la
questione della piattaforma dottrinale del consiglio, e fu infine indicata la
formula della «confessione di fede in nostro Signore Gesù Cristo, Dio e
Salvatore» come possibile fondamento dell’associazione delle chiese,
formula che venne ampliata in senso trinitario nel 1961. La conferenza si
chiuse con una dichiarazione solenne di unità nella fede trinitaria e di
confessione che «le nostre divisioni sono contrarie al volere di Cristo», per
cui i delegati pregarono Dio di guidarli alla pienezza dell’unità, nella
certezza che «esiste una unità più profonda delle divisioni», e nella
speranza che in Cristo il mondo lacerato trovi unità e pace.
A seguito delle decisioni delle due conferenze di Oxford ed Edimburgo
fu convocata a Utrecht, dal 9 al 12 maggio 1938, una speciale conferenza
consultiva, per elaborare lo statuto del Consiglio ecumenico in formazione.
Anche il Consiglio missionario internazionale (CMI) dette il proprio
contributo, e nella conferenza missionaria mondiale di Tambaram, in India
(1938), William Paton sostenne con vigore che evangelizzazione e
movimento ecumenico sono interdipendenti, e che quindi il CMI avrebbe
dovuto avere stretti rapporti con il CEC. Prevalse infine una linea media,
che prevedeva che il CMI si sarebbe associato al CEC, senza rinunciare alla
propria autonomia.
Durante il tragico periodo bellico (1939-1945) il CEC, dai suoi uffici di
Ginevra, Londra e New York, poté svolgere un’intensa opera di assistenza
spirituale, morale e materiale, e le comuni esperienze nel dolore, nella
prigionia, nel soccorso alle vittime della guerra, fecero maturare
l’ecumenismo della croce. Anche il martirologio ecumenico si arricchì di
nuovi nomi, come Max Metzger, il fondatore della
Christkönigsgesellschaft, e Bernhard Lichtenberg, il difensore degli ebrei
perseguitati e sterminati.
La ripresa postbellica. L’attività ecumenica, che la guerra aveva non
interrotto ma orientato all’opera di aiuto pratico, riprese senza difficoltà
mirando a realizzare il programma di costituzione del Consiglio ecumenico,
deciso nel 1938. La fiducia che si poteva tornare a riunirsi nella fraternità
cristiana crebbe quando a Stoccarda, nel 1945, il nuovo consiglio della
chiesa evangelica tedesca riconobbe le colpe e le responsabilità tedesche nel
conflitto appena concluso. Il comitato provvisorio del CEC si riunì a
Ginevra nel gennaio 1946 e decise la fondazione di un istituto ecumenico
(Bossey); nell’estate fu istituita la commissione delle chiese per gli affari
internazionali. Molte iniziative coinvolsero il CEC e il CMI, e riguardarono
sia le chiese in Oriente, sia i rapporti con l’ortodossia. La cooperazione per
la diffusione della Bibbia si tradusse nella istituzione di una Alleanza
biblica universale (ABU), nella quale per iniziativa di Herman Rutger si
associarono sedici società bibliche nazionali: promuovendo la cooperazione
interconfessionale nella traduzione e nella distribuzione delle Scritture,
l’ABU divenne un luogo privilegiato di incontro ecumenico. Nel corso della
preparazione della prima assemblea del CEC le speranze che vi sarebbe
stata una partecipazione cattolica vennero a cadere, quando il Sant’Uffizio
con un Monitum (5 giugno 1948) ricordò che solo a lui competeva di
autorizzare dei cattolici a prender parte a riunioni interconfessionali.
Incontri fra cattolici e altri cristiani si facevano comunque più frequenti:
in Italia l’azione ecumenica si sviluppò con l’opera di Maria Vingiani che
dal 1947, traendo ispirazione dalla corrente del cattolicesimo non
conformista francese di cui erano esponenti Chenu, Congar, Mounier e
Maritain, compì un riavvicinamento fra cattolici, protestanti ed ebrei, che
continua nel Segretariato attività ecumeniche (SAE). In spirito
«unionistico» il gesuita Charles Boyer fondò a Roma la rivista «Unitas», il
foyer con lo stesso nome, e il Centro pro unione. Cattolici, protestanti ed
ebrei costituirono nel 1946 un Comitato internazionale (International
council of Christians and Jews), che dal 30 luglio al 5 agosto 1947 tenne a
Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale per combattere
l’antisemitismo. I partecipanti, tra i quali Jules Isaac e Jacques Maritain,
rivolsero un appello alle chiese in dieci punti programmatici – i cosiddetti
«dieci punti di Seelisberg» – ispirandosi alla parola di Paolo sugli ebrei:
«Essi sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono
irrevocabili» (Romani 11, 28-29). Questo appello ha un’importanza
straordinaria, sotto vari aspetti, perché è il frutto di una collaborazione
ecumenica fra cristiani ed ebrei, e perché influenzerà l’atteggiamento
successivo delle chiese, dall’assemblea del CEC a Amsterdam al Concilio
vaticano secondo e oltre.

Il Consiglio ecumenico delle chiese e l’ortodossia

Le chiese ortodosse e quelle ortodosse orientali – dette fino ad allora


«monofisite» – assumono atteggiamenti differenti nei confronti
dell’ecumenismo, anche a causa dei condizionamenti politici: mentre le
chiese ortodosse orientali aderiscono progressivamente al CEC fin dal
1948, il patriarcato di Mosca e gli altri sottomessi ai regimi comunisti ne
rimangono fuori fino al 1961. Il patriarcato di Mosca si annesse anche le
chiese ortodosse autonome di Lettonia, Lituania e Estonia; la chiesa
orientale cattolica in Ucraina occidentale (Rutenia), Slovacchia e Ucraina
carpatica fu soppressa dal Governo di Mosca (1946), che «cedette» parte
dei fedeli con gli edifici ecclesiastici alla chiesa di Mosca; in modo simile si
comportò il patriarcato romeno con i cattolici di rito bizantino (1948).
Questo comportamento produsse gravi conflitti, rimasti latenti in epoca
sovietica, ma ridestatisi più di recente negli anni Novanta, con ripercussioni
dirette nel dialogo cattolico-ortodosso.
La prima assemblea del CEC (Amsterdam, 1948). Nel periodo
immediatamente precedente l’apertura dell’assemblea ecumenica non
mancarono altre critiche sostanziali contro un movimento contestato con
motivazioni diverse. La Conferenza delle chiese ortodosse autocefale,
riunita a Mosca dall’8 all’11 luglio 1948, si concluse con un documento di
dissenso nei confronti dell’ecumenismo, inteso in modo riduttivo come un
movimento «panprotestante», non spirituale, ma piuttosto socio-politico; la
conferenza si espresse anche contro il riconoscimento della validità delle
ordinazioni anglicane, a favore delle quali si erano pronunziati anni prima
(1930-31) altri rappresentanti dell’ortodossia. Il mese successivo, in una
riunione tenuta a Ginevra, promossa dal Consiglio americano delle chiese
cristiane, di ispirazione evangelica radicale e fondamentalista, nacque il
Consiglio internazionale delle chiese cristiane, che divenne propugnatore
fervente di idee contemporaneamente anticattoliche e antiecumeniche. In
quest’atmosfera ricca di fermenti e di speranze a lungo coltivate, ma non
senza polemiche all’interno e all’esterno, si aperse la prima assemblea del
Consiglio ecumenico delle chiese, che inaugurò una nuova fase nella storia
dell’ecumenismo.
La prima assemblea del CEC si tenne ad Amsterdam dal 22 agosto al 4
settembre 1948; vi partecipavano 351 delegati di 147 chiese, tra cui quelle
copta, etiopica e siro-malabarese. Dopo le forti critiche espresse alla
conferenza delle chiese ortodosse autocefale a Mosca, gli ortodossi non
parteciparono, e pochi furono i cattolici, in veste non ufficiale. Il tema
generale proposto fu «Il disordine dell’uomo e il piano di Dio», con chiaro
riferimento alla tragedia bellica le cui ferite erano ancora evidenti in
Europa; inoltre, venne redatta una prima formulazione della base
associativa del Consiglio ecumenico, successivamente perfezionata a
Toronto nel 1950 e a Nuova Delhi nel 1961. La Commissione Fede e
costituzione, a questo proposito, sottolineò che l’unità è un dono di Dio in
Cristo, e pertanto le chiese sono chiamate «a muoversi, sotto la guida
divina, per realizzare l’unità nella fede, nella solidarietà, alla tavola del
Signore e nella proclamazione del verbo vivificante». Però a Toronto fu
ritenuto necessario dissipare i timori di chi vedeva nel Consiglio ecumenico
una specie di «super-chiesa» con competenza a intervenire nella vita delle
chiese associate, e fu dichiarato che l’appartenenza al CEC «non implica
l’accettazione di una dottrina specifica circa la natura dell’unità della
chiesa». W. A. Vissert ’t Hooft (1900-1985), già segretario generale del
comitato provvisorio del CEC dal 1938, fu eletto segretario generale del
CEC, ufficio che ricoprì fino al 1966, divenendo uno dei principali artefici
della riconciliazione ecumenica.
L’assemblea di Amsterdam pubblicò anche un documento
sull’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei nel quale, ricordando i
sei milioni di vittime del genocidio nazista in Europa, le chiese
confessavano «in tutta umiltà che troppo spesso abbiamo trascurato di
manifestare l’amore cristiano verso il prossimo ebreo, ed anzi quello della
semplice giustizia sociale. Abbiamo tralasciato di combattere con tutte le
nostre forze il disordine secolare dell’uomo rappresentato
dall’antisemitismo […]. Chiediamo a tutte le chiese qui rappresentate di
denunciare l’antisemitismo, qualunque siano le sue origini, come un
atteggiamento assolutamente inconciliabile con la professione e la pratica
della fede cristiana. L’antisemitismo è un peccato allo stesso tempo contro
Dio e contro l’uomo». A questo documento fecero seguito due altre
importanti dichiarazioni, nelle quali l’ammissione di corresponsabilità e
colpevolezza per i crimini commessi contro gli ebrei si fece più esplicita: la
risoluzione del Katholikentag (Assemblea dei cattolici tedeschi) del
settembre 1948, e la dichiarazione della chiesa evangelica tedesca al sinodo
di Weissensee il 27 aprile 1950. Dopo lo sterminio del popolo ebraico in
Europa, i rapporti con gli ebrei divenivano un tema grave e urgente per la
coscienza dei cristiani e delle chiese. L’attività di Fede e costituzione
proseguì intensamente dopo Amsterdam, e consentì un confronto e un
approfondimento dottrinale sempre più ampio, che risultò prezioso per
orientare il Consiglio. Fede e costituzione si articolò in tre commissioni
(chiesa, culto, intercomunione), e nella terza conferenza mondiale (Lund,
1952) sottolineò la ricerca dell’unità visibile della chiesa, dando l’avvio a
una serie di studi ecclesiologici che andarono oltre la tradizionale
ecclesiologia comparativa cui Fede e costituzione si era fino ad allora
dedicata. Attraverso questi studi maturò la concezione dell’unità come
quella di una sola famiglia, i cui membri sono uniti «con i vincoli visibili
del verbo, del sacramento, del ministero e della fratellanza comunitaria»
(Leslie Newbigin, One body, one gospel, one world, London 1958).
L’opera del CMI, riunitosi nel 1952 nella Conferenza di Willingen
(Germania), si svolgeva ormai con collegamenti sempre più stretti con il
CEC, e mirava alla fondazione di centri regionali di studio e di ricerca
sull’attività missionaria; nello stesso tempo, a Willingen fu discussa la
relazione esistente fra la vocazione missionaria della chiesa e la sua
vocazione all’unità, un tema di interesse determinante anche per il CEC e
per Fede e costituzione, e che preludeva alla fusione del CMI con il CEC.
Un altro settore in cui il CMI sviluppò un’intensa collaborazione con il
CEC, fu quello dei diritti umani, poiché era convinzione radicata e
condivisa che le chiese debbono avere «una precisa responsabilità nella
promozione di un clima internazionale pacifico» (O. Fr. Nolde). Consiglio
missionario e Consiglio ecumenico avevano dato vita fin dal 1946 a
Cambridge a una commissione mista permanente delle chiese per gli affari
internazionali, che si proponeva di formare i cristiani alla responsabilità
nell’area delle relazioni internazionali; questa commissione predispose
l’importante dichiarazione sulla libertà religiosa che i due consigli fecero
nel 1948, e operò a tutela dei diritti umani, per i profughi e contro il riarmo.
Questa azione si esplicò nelle ricorrenti crisi internazionali, dall’Indocina a
Formosa, dall’Ungheria al Libano (a Beirut furono tenute due conferenze,
nel 1957 e nel 1965), in Tibet, in Congo. Alcune proposte concrete o
ricerche della commissione non hanno perso di attualità, come quella
avanzata a Nyborg (Danimarca) nel 1958, di favorire lo sviluppo con il
contributo dell’1% del reddito nazionale offerto dai paesi sviluppati, o la
ricerca di una visione cristiana dell’ethos internazionale.
Il campo del «cristianesimo pratico» poteva costituire un luogo di
incontro e collaborazione anche con cattolici, specialmente dopo che il
Sant’Uffizio, con l’istruzione Ecclesia catholica (20 dicembre 1949) aveva
permesso l’attività ecumenica in aree che non toccavano le questioni
dottrinali. In campo dottrinale, se da una parte la proclamazione del dogma
dell’Immacolata concezione (1950) aveva suscitato le critiche delle altre
chiese, continuavano d’altra parte gli studi ecumenici, e nel 1951 nei Paesi
Bassi fu fondata la Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche, di cui
era segretario padre Jan Willebrands, poi cardinale. Ma gli ecumenisti
cattolici continuarono a esser guardati con diffidenza da Roma, fino al
disgelo improvviso prodotto da papa Giovanni XXIII (1958-1963).
Nel 1952 si notarono altri segni positivi di apertura ecumenica nel
mondo ortodosso: il patriarcato ecumenico di Costantinopoli, sotto la guida
profetica di Atenagora I (1886-1972), affermò in un’enciclica che la
collaborazione con il CEC era necessaria, ma solo nell’azione pratica;
presero anche avvio, sotto gli auspici del CEC, gli incontri teologici fra
protestanti e ortodossi, e nel 1956 a Mosca si tenne un incontro teologico
fra anglicani e ortodossi, che riconsiderarono positivamente la validità delle
ordinazioni anglicane. Un attivo movimento giovanile internazionale
ortodosso, il Syndesmos, fu creato nel 1953 a Parigi.
La seconda assemblea del CEC (Evanston, 1954). La seconda assemblea
del CEC ebbe luogo a Evanston (USA) dal 15 al 31 agosto 1954, con la
partecipazione di 502 delegati di 161 chiese. Ebbe come tema «Cristo,
speranza del mondo», e raccolse il frutto delle precedenti riunioni di Lund e
Willingen, specialmente circa il rapporto fra ecumenismo e missione di
Cristo e della chiesa. Affrontò esplicitamente le tensioni sociali, razziali,
internazionali, e definì la struttura del CEC in quattro dipartimenti (Studi,
Azione ecumenica, Aiuto interecclesiale, rifugiati e affari internazionali,
Informazione). La Commissione Fede e costituzione decise di iniziare
l’importante studio su «La Tradizione e le tradizioni». Poco dopo, nel 1955,
il Patriarcato ecumenico istituì a Ginevra un Ufficio di collegamento con il
CEC, diretto dal vescovo Iakovos di Melita. L’azione del CEC ebbe di mira
anche il coordinamento o almeno l’incontro fra i dirigenti delle famiglie
confessionali mondiali, i cui segretari si riunirono a Ginevra a partire dal
1957; in tal modo si ebbe l’occasione per avviare un dibattito sereno sul
ruolo del confessionalismo nel movimento ecumenico, e sulle tensioni fra le
chiese turbate dal proselitismo esercitato da cristiani di altre confessioni nei
confronti dei loro fedeli.
A queste riunioni periodiche presero parte, oltre a rappresentanti di
patriarcati ortodossi, i segretari di organismi di natura assai varia, alcuni dei
quali di spiccata tradizione evangelica: l’Alleanza mondiale battista,
l’Alleanza mondiale delle chiese riformate, le Chiese dei vecchi cattolici, il
Comitato consultivo mondiale degli amici (Quaccheri), la Comunione
anglicana (comprendente diciannove chiese nazionali e regionali,
indipendenti e autonome), la Conferenza mondiale mennonita, il Consiglio
internazionale congregazionalista, il Consiglio mondiale metodista, la
Convenzione mondiale delle chiese di Cristo (Discepoli), l’Esercito della
salvezza, la Federazione luterana mondiale, costituitasi nel 1947 come
libera associazione di chiese luterane.
L’integrazione progressiva del movimento missionario protestante con il
Consiglio ecumenico maturò anche grazie a due altre grandi assise
ecumeniche: l’assemblea del CMI ad Accra (Ghana), nel 1957, e la
Conferenza cristiana dell’Estremo Oriente, istituita a Kuala Lumpur
(Malaysia) nel 1959. Quest’ultima conferenza, in sintonia anche con il
movimento di decolonizzazione in Asia e Africa, sottolineò che l’azione
missionaria è una responsabilità che riguarda le chiese in tutto il mondo, e
non solo le chiese di più antica istituzione. Grazie a questo rinnovamento
della prospettiva missionaria, diversi consigli missionari nazionali ritennero
opportuno diventare consigli cristiani nazionali, e in questa nuova forma si
associarono al Consiglio ecumenico; in altri casi si formarono associazioni
regionali che svolgevano azione ecumenica: di questo tipo è la Conferenza
delle chiese europee (KEK, nella dizione tedesca), che ebbe di fatto inizio
nel 1959 con le Conferenze di Nyborg, e la Conferenza panafricana delle
chiese, sorta a Kampala nel 1963.
Il Consiglio ecumenico, attraverso Fede e costituzione, seguì e
incoraggiò il movimento unionista fra le chiese: già diciannove unioni di
chiese erano state istituite fra il 1925 e il 1948, e altre 23 chiese unite si
formarono nel ventennio seguente (1948-1968); ben 46 chiese erano poi in
via di unione nel 1968. Questo cammino verso l’unione di chiese si
muoveva insieme alla riflessione sulle strutture più adatte nella costituzione
di chiese unite, e faceva meglio comprendere come l’episcopato storico, che
in molte chiese protestanti era stato abbandonato, rappresentava invece un
fattore sempre positivo e auspicabile per l’unità. Contemporaneamente, si
approfondiva la consapevolezza che i consigli di chiese erano istituzioni
transitorie, tappe di un percorso orientato verso una chiesa a struttura
conciliare, all’interno della quale le stesse denominazioni avevano carattere
di provvisorietà, rispetto all’universalità e all’unità del popolo di Dio e del
corpo di Cristo. Gli orientamenti diversi che, come correnti convergenti,
stavano cercando di fondersi nell’unico fiume dell’ecumenismo,
costituivano già un corso d’acqua assai consistente, pronto ad accogliere
anche il sì della chiesa cattolica al movimento per l’unità.
Venti di rinnovamento. Fin dagli anni Venti i pionieri dell’ecumenismo
erano convinti che ortodossi e cattolici dovessero aderire al processo di
unità dei cristiani, ma in realtà dopo quarant’anni grandi parti della
cristianità ne restavano ancora lontane, e tra queste anche i movimenti
evangelici e pentecostali. Gli anni Sessanta segnarono l’inizio di grandi
cambiamenti a lungo attesi. Una ventata di aria fresca e di rinnovamento
stava entrando nella chiesa cattolica con papa Giovanni XXIII, e se ne vide
un segno quando egli ricevette fratel Roger Schutz di Taizé nel 1958.
Decisione carismatica del papa fu la convocazione del concilio, primavera
della chiesa, e la creazione del Segretariato per la promozione dell’unità dei
cristiani, a Pentecoste del 1960 (5 giugno), di cui fu nominato presidente il
cardinale Agostino Bea (1881-1968), e segretario Willebrands, che era stato
già partecipe di molte iniziative ecumeniche attraverso la Conferenza
cattolica per le questioni ecumeniche. Il cardinale Bea, già rettore del
Pontificio istituto biblico, biblista e confessore di Pio XII, si rivelò
infaticabile artefice di ecumenismo sia all’interno della chiesa cattolica, sia
nel dialogo con le altre chiese, vero «cardinale dell’unità» (S. Schmidt).
Accanto a lui, e poi suo successore a capo del Segretariato per l’unità, per
un trentennio (1960-1989) J. Willebrands prima collaborò e poi guidò la
svolta ecumenica della chiesa cattolica iniziata con il concilio.
In questa nuova situazione il Consiglio ecumenico poté – finalmente! –
invitare osservatori cattolici alla riunione della commissione Fede e
costituzione nell’agosto 1960, e il 22 settembre, a Milano, Bea si incontrò
con Vissert ’t Hooft, dando inizio ai rapporti tra il CEC e la chiesa cattolica.
Anche il mondo ortodosso esprimeva segni sempre più chiari di aperture
ecumeniche in varie direzioni. A partire dal 1959 la chiesa russa discusse in
vari convegni con teologi riformati tedeschi le questioni teologiche centrali
per le due tradizioni cristiane. Le conferenze panortodosse di Rodi,
convocate negli anni Sessanta, conseguirono vari risultati: ne venne un
atteggiamento più aperto verso la chiesa cattolica, come auspicava il
patriarca Atenagora, e si ravvivò la speranza di poter convocare un sinodo
panortodosso, evento di fondamentale importanza per l’unità della
ortodossia e quindi in genere della chiesa intera. Alla prima Conferenza di
Rodi, nel 1961, venne inoltre deciso che era venuto il tempo di ricomporre
la controversia antica con le chiese orientali «pre-calcedonesi», e di unirsi
al Consiglio ecumenico delle chiese. Infine, nell’azione missionaria, in
genere poco presente nell’ortodossia, vi fu un segnale di rinnovamento, con
la costituzione ad Atene, nel 1961, del Centro internazionale missionario
panortodosso Porefthentes.
La terza grande corrente cristiana, la più marginale all’ecumenismo, era
quella evangelica e pentecostale. La fioritura di questi movimenti nel secolo
XX era avvenuta sotto il soffio spirituale del rinnovamento dei laici
cristiani: nell’America latina dai 12 mila evangelici all’inizio del secolo, si
giunse ai 9 milioni nel 1961, e le prime conferenze evangeliche latino-
americane si tennero a Buenos Aires (1949) e Lima (1961). Tali movimenti,
poco amanti di strutture istituzionali e pastoie burocratiche, e fortemente
proselitistici, crebbero ai margini del movimento ecumenico, ma i pur tenui
rapporti con il Consiglio ecumenico recarono frutti positivi, e alcuni di
questi movimenti aderirono al CEC all’Assemblea di Nuova Delhi.

La terza assemblea del CEC (Nuova Delhi, 1961). La terza assemblea del
CEC, che si svolse a Nuova Delhi dal 19 novembre al 5 dicembre 1961, con
la partecipazione di 577 delegati, si collocò in questo clima di
aggiornamento e di rinnovata speranza ecumenica. I delegati ortodossi
furono sessantaquattro, e cinque gli osservatori cattolici, che avevano
dovuto superare lo scoglio di un veto del Sant’Uffizio. Tema principale fu
«Gesù Cristo: la luce del mondo», e il tema dell’unità della chiesa fu
approfondito con il contributo della commissione di Fede e costituzione. Le
questioni del rapporto con le altre religioni, di una forma asiatica di
cristianesimo e della solidarietà con tutti gli uomini furono affrontate
anticipando molti temi del Concilio vaticano secondo. Un forte impulso
missionario venne al CEC dall’integrazione del CMI, che divenne
Commissione del CEC per la missione ed evangelizzazione. A Nuova Delhi
numerose chiese di Africa, America del Sud e Asia si associarono al
Consiglio ecumenico, che cominciò così ad assumere una dimensione meno
occidentale e veramente universale.
Il fondamento associativo del consiglio fu riformulato, come da più parti
si chiedeva, con l’inserzione del riferimento alla Trinità e alle Scritture, e
divenne: «Il Consiglio ecumenico delle chiese è un’associazione di chiese
che confessano il Signore Gesù Cristo come Dio e Salvatore secondo le
Scritture e cercano perciò di realizzare insieme la loro comune vocazione a
gloria dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo».
Le chiese ortodosse orientali, che nel passato avevano sperimentato il
proselitismo protestante, salutarono con soddisfazione un rapporto che
trattava di «Testimonianza cristiana, proselitismo e libertà religiosa». Dietro
proposta della Federazione protestante francese, l’assemblea approvò anche
una risoluzione sull’antisemitismo, che riprendeva nella sostanza il
documento di Amsterdam, proponendone i contenuti in un contesto
ecumenico divenuto più solido e a dimensione universale. Con l’Assemblea
di Nuova Delhi, in conclusione, il Consiglio ecumenico parve prossimo a
raggiungere le sue dimensioni complete sotto il profilo sia di base
associativa, sia di fusione dei precedenti organismi ecumenici attivi nel
quarantennio precedente. Gli eventi successivi avrebbero mostrato che
l’equilibrio raggiunto era non certo statico o burocratico, ma dinamico e
animato da vitalità e tensioni.

Il rinnovamento del Concilio vaticano secondo (1962-1965)


Quattro secoli dopo il grande Concilio di Trento, convocato nel mezzo della
crisi protestante, la chiesa cattolica si apprestava a un nuovo concilio, che
sarebbe stato non polemico o dogmatico, ma pastorale ed «ecumenico» nel
senso del moderno movimento per l’unità dei cristiani, coinvolgendo tutti in
un dibattito aperto sul mondo e sulle chiese. Il Segretariato per l’unità,
appositamente istituito, mediante un’infaticabile attività di visite e di
contatti suscitò l’adesione delle altre chiese a mandare osservatori al
concilio: circa cinquanta furono i delegati e gli ospiti provenienti dalle
chiese ortodosse, dalle famiglie confessionali mondiali, da alcune chiese
(Evangelische Kirche in Deutschland – EKD, Kyodam, India meridionale),
dal CEC e invitati ad personam. La loro stessa presenza, con l’attiva
collaborazione che ne derivò, fu un fatto «determinante per l’aspetto
ecumenico che dominò il Concilio» (A. Bea), e al termine del concilio il
loro numero era più che raddoppiato.
Il Segretariato predispose gli schemi conciliari sull’ecumenismo e sulla
libertà religiosa, ma specie su questo secondo tema dovette incontrare le
obiezioni della Commissione teologica, che aveva essa pure predisposto un
suo schema sull’argomento. Un aperto dissenso si manifestò nella
Commissione centrale preparatoria 1’8 maggio 1962, quando lo schema De
Ecclesia preparato dalla Commissione teologica fu presentato e discusso: in
esso si affermava solennemente che solo la chiesa cattolica romana è la vera
chiesa di Cristo. Tra gli altri, intervenne anche Bea, per notare che la rigida
impostazione giuridica proposta non era sostenibile. Negli stessi mesi il
cardinale Bea svolse inoltre un’azione dottrinale, cercando in varie
circostanze di illustrare teologicamente in qual modo il battesimo comune a
tutti i cristiani è fondamento dell’incorporazione a Cristo nella chiesa; per
tale dimostrazione, sulla base dell’insegnamento di Paolo (1 Corinti 12,
12s; Galati 3, 27), si riferì a testi sia canonici (Codice di diritto canonico,
can. 87) sia del magistero (Mediator Dei, a. 1947), e propose di distinguere
tra la piena appartenenza alla chiesa e l’appartenenza parziale. Giovanni
XXIII intervenne più volte e in vari modi per indirizzare l’attività conciliare
in senso ecumenico: all’apertura del concilio, 1’11 ottobre 1962, il papa
invitò a distinguere fra il depositum fidei e la sua formulazione, suscitando
così grandi speranze fra quanti si attendevano un aggiornamento della
chiesa, senza venir meno alla fedeltà alla Tradizione. Inoltre il papa
intervenne per chiarire che il Segretariato per l’unità era competente, al pari
delle altre commissioni conciliali, a partecipare ai lavori del concilio.
Durante la prima sessione conciliare fu pure determinante la decisione
del papa, che il 21 novembre dispose l’interruzione della discussione del
controverso schema sulle «Fonti della rivelazione», come desiderava la
maggioranza dei padri, e stabilì che il Segretariato venisse associato alla
Commissione teologica per rielaborare lo schema; un osservatore ortodosso
in quella circostanza commentò: «Per la prima volta, ho capito quanto sia
utile avere un papa».
La guida profetica di papa Giovanni venne a mancare tra la prima e la
seconda sessione del concilio, e il neo eletto Paolo VI (1897-1978)
all’apertura della seconda sessione, il 29 settembre 1963, con sorprendente
invocazione si rivolse agli altri cristiani, chiedendo e concedendo perdono
per le reciproche colpe del passato – polemiche e persecuzioni – causa delle
divisioni dei cristiani. Il papa indicò ai padri che l’ecclesiologia sarebbe
stata al centro della riflessione conciliare; il medesimo tema – «La chiesa
nel piano di Dio» – era stato anche l’argomento centrale della quarta
assemblea mondiale di Fede e costituzione, riunitasi a Montréal nel luglio
precedente. Numerosi erano stati in quella occasione i teologi cattolici che,
invitati come osservatori, avevano dato un significativo contributo alla
conferenza. A Montréal, inoltre, fu presentato il rapporto finale, frutto dello
studio su «La Tradizione e le tradizioni», iniziato nel 1954; vi si
distinguevano la Tradizione (Cristo, il Vangelo) in quanto contenuto
sostanziale, la tradizione in quanto processo di trasmissione, e le tradizioni,
in quanto forme espressive e tradizioni confessionali diverse. Era ormai
manifesto il nesso fra i temi dibattuti a Montréal e quelli che il concilio
stava affrontando, e di fatto le discussioni e le conclusioni se ne
avvantaggiarono reciprocamente. L’importanza della riflessione teologica
nel cammino ecumenico appariva sempre più chiara, e dopo Montréal le
commissioni di studio vennero aumentate; tra i vari studi che Fede e
costituzione promosse ve ne sono due di particolare rilievo, il primo
sull’ermeneutica biblica e il suo significato per il movimento ecumenico, il
secondo su «L’Eucaristia: un sacramento di unità». Oltre a questa
maturazione dottrinale, altri fatti importanti stavano creando un’atmosfera
sempre più fraterna che avrebbe favorevolmente influenzato le conclusioni
del concilio: la collaborazione missionaria, i viaggi e gli incontri fra capi di
chiese, la collaborazione del Consiglio ecumenico con la chiesa cattolica.
Nel dicembre 1963, la Commissione per le missioni e l’evangelizzazione
organizzò a Città del Messico la prima conferenza missionaria mondiale
nell’ambito del Consiglio ecumenico, dopo l’avvenuta fusione del
Consiglio missionario internazionale nel 1961. Questa conferenza
missionaria ed ecumenica sottolineò l’importanza della testimonianza
cristiana per gli uomini nel mondo laicizzato, un tema cui anche il concilio
doveva riservare molta attenzione nel suo decreto Ad gentes. Paolo VI nel
1964 dette inizio ai grandi gesti ecumenici, durante il pellegrinaggio in
Terra Santa, abbracciando il 6 gennaio, a Gerusalemme, il patriarca
Atenagora, in segno di riconciliazione fra chiesa d’Occidente e d’Oriente;
in un secondo viaggio, esplicitamente «missionario», il papa si recò a
Bombay, dove incontrò il Catholicos della chiesa ortodossa siriaca
dell’India. Altri gesti significativi che accompagnarono questo dialogo di
carità furono la restituzione di reliquie alla chiesa ortodossa da parte della
chiesa latina. Anche il patriarca di Mosca, Alessio, compì un viaggio a
Londra, e l’arcivescovo Michael Ramsey di Canterbury rese visita ad
Atenagora a Costantinopoli. Questi gesti di fraternità cristiana esprimevano
un clima di concordia e riconciliazione, e impressionavano l’opinione
pubblica mondiale abituata da secoli a considerare normale la divisione fra
le chiese. In questa atmosfera si colloca egualmente la conferenza
britannica di Fede e costituzione sull’argomento: «Una sola chiesa
rinnovata per la missione».
Il rinnovamento della chiesa, la riconciliazione delle chiese, il servizio e
la missione al mondo, apparivano sempre più intrinsecamente connessi. Il
Consiglio ecumenico all’inizio del 1964 aveva trasmesso al cardinale Bea
un memorandum con suggerimenti intesi a migliorare il decreto
sull’ecumenismo, che doveva esser discusso e approvato nella successiva
sessione conciliare, la terza; il 15 aprile, inoltre, si tenne a Milano una
riunione informale tra Bea, Vissert ’t Hooft e pochi altri collaboratori, da
cui nacque l’idea di istituire gruppi di lavoro misti del CEC e del
Segretariato. Nell’agosto fu pubblicata l’enciclica Ecclesiam suam nella
quale Paolo VI rivolse il suo «messaggio fraterno e familiare» sulla chiesa e
sul suo mistero, collocandolo nel contesto del dialogo con il mondo e della
missione. Il 21 novembre, con l’approvazione e promulgazione dei testi
conciliari sulla chiesa (Lumen gentium), sull’ecumenismo (Unitatis
redintegratio) e sulle chiese orientali (Orientalium ecclesiarum), l’impegno
ecumenico cattolico fu solennemente sancito. In Lumen gentium (LG, n. 8)
l’unica chiesa di Cristo, è detto, «sussiste» nella chiesa cattolica, i cui doni
propri peraltro si possono trovare anche fuori di essa, e spingono all’unità
cattolica. In Unitatis redintegratio (UR, n. 1) si afferma che «Il
ristabilimento dell’unità […] fra tutti i cristiani è uno dei principali intenti
del sacro concilio», e si saluta come un evento provvidenziale il
«movimento per l’unità, chiamato ecumenico», esponendo i «Princìpi
cattolici sull’ecumenismo» (cap. I). Si noti che la formula «Princìpi
dell’ecumenismo cattolico», proposta durante i lavori conciliari, fu respinta,
poiché si intese sottolineare l’unicità del movimento ecumenico moderno, e
l’adesione ad esso da parte della chiesa; la decisione, poi, di dichiarare che
la chiesa di Cristo «sussiste» (e non «è») nella chiesa cattolica (senza
l’aggiunta «romana»), rifletteva bene la posizione sostenuta dal cardinale
Bea e consentiva di riconoscere i tesori spirituali presenti in altre chiese.
Il lavoro del concilio continuò con la preparazione dei testi definitivi di
altri documenti con importanti implicazioni ecumeniche: il decreto sulle
missioni (Ad gentes), la costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo
contemporaneo (Gaudium et spes), le dichiarazioni sulla libertà religiosa
(Dignitatis humanae) e sulle religioni non cristiane (Nostra aetate), che
furono approvate nel quarto periodo conciliare. Laborioso e contrastato fu
l’iter di Nostra aetate, che all’origine doveva essere un testo sugli ebrei, e
successivamente avrebbe dovuto essere un’appendice di Lumen gentium;
infine, ne risultò la carta fondamentale per la promozione del dialogo
interreligioso e di nuove fraterne relazioni religiose fra chiesa cattolica e
popolo ebraico, per il rigetto dell’accusa di deicidio, dell’antisemitismo e
dei pregiudizi antiebraici. La chiusura del concilio, 1’8 dicembre 1965, fu
preceduta da altri gesti fondamentali di riconciliazione con la chiesa
d’Oriente: la restituzione delle reliquie di san Saba a Gerusalemme, e
l’annullamento delle scomuniche del 1054, con cerimonie solenni a Roma e
Istanbul (7 dicembre). Il 4 dicembre Paolo VI aveva, per la prima volta,
invitato gli osservatori a un culto comune a San Paolo fuori le Mura, dando
inizio a incontri ecumenici di preghiera che sarebbero poi divenuti
frequenti. A partire dal Concilio vaticano secondo, l’impegno ecumenico
della chiesa cattolica diveniva ormai chiaro, teologicamente fondato e
irrevocabile.
I protagonisti

John R. Mott

John R. Mott (1865-1955) nacque a Purvis (New York) e da studente alla


Cornell University si fece apostolo convinto di Cristo e del Vangelo,
secondo lo spirito del cosiddetto «secondo risveglio evangelico», il
movimento spirituale internazionale che percorse la Gran Bretagna,
l’Irlanda, e poi l’America e il resto dell’Europa, fino a toccare la Russia. La
sua vocazione ecumenica e missionaria fu suscitata dall’incontro con J.E.K.
Studd, uno dei celebri «sette di Cambridge», studenti al servizio delle
missioni nella Cina interna. Nel 1886 Mott entrò nel movimento
missionario giovanile, partecipando alla prima conferenza degli studenti
cristiani a Mount Hermon (Massachusetts); prima segretario della sezione
studentesca dell’Associazione cristiana della gioventù maschile (YMCA),
divenne poi presidente del Movimento volontario studentesco (SVM), e nel
1895 a Vadstena (Svezia) fu tra i fondatori della federazione mondiale degli
studenti cristiani. Egli vide nella federazione una forza spirituale che
«affretterà la risposta alla preghiera del Signore: ut unum sint», e capace di
realizzare una genuina unione della cristianità, favorendo i contatti fra gli
studenti delle varie chiese e nazioni del mondo.
Negli anni 1895-97 Mott compì il primo dei suoi viaggi in Asia, cui ne
seguirono altri nel 1907, nel 1912-13 e in molte altre occasioni, i quali
«misero in moto nel continente asiatico il movimento ecumenico» (H.-R.
Weber); in un’epoca in cui i viaggi intercontinentali presentavano ancora
difficoltà di ogni genere, egli dispiegò immense energie in queste iniziative
che lo condussero a valicare ogni frontiera per la causa di Cristo.
Condivideva con J.H. Oldham la convinzione che occorreva istituire i
Consigli cristiani nazionali delle giovani chiese asiatiche, e la sua azione in
questo campo conseguì i risultati sperati. Visitò anche la Russia due volte,
nel 1899 e nel 1909, e il Sudafrica (1906). Impegnatosi a fondo nella
preparazione della Conferenza missionaria mondiale di Edimburgo del
1910, ne fu il presidente, dirigendo la Commissione di continuazione fino a
che, nel 1921, si formò il Consiglio missionario internazionale, che guidò
per vent’anni. «Egli riuniva in sé – scrive il Latourette – in altissimo grado
un aspetto dignitoso e imperioso, profonda fede religiosa, zelo evangelico,
l’intuito di discernere le doti attuali e le virtualità dei giovani nonché di
stimolarle, una visione lungimirante, coraggio, tatto, abilità amministrativa,
ascendente sulle assemblee pubbliche», e queste doti gli permisero di
penetrare a fondo nei problemi delle chiese, riscuotendo la fiducia sia dei
giovani sia delle autorità ecclesiastiche.
Mott rivolse i suoi interessi anche alle chiese ortodosse, dall’incontro
con le quali gli vennero «le sue intuizioni migliori e più ricche di
conseguenze» (O. Tomkins); nel 1911 viaggiò nel Vicino Oriente con
l’episcopaliano Silas McBee, e organizzò a Costantinopoli la conferenza
della Federazione mondiale degli studenti cristiani, avendo così
l’opportunità di visitare università e collegi universitari, anche se purtroppo
questi promettenti contatti furono interrotti dalla guerra e ripresero solo
negli anni Trenta.
Per l’autorità riconosciutagli nelle relazioni fra le chiese gli fu richiesto,
a lui metodista e laico, di presiedere l’incontro fra le autorità della chiesa
malankara «Mar Thoma» e della chiesa anglicana, in India, a Serampore
(Trevancore), nel 1913. Anche l’azione evangelica in America latina venne
attentamente seguita da Mott, che nel 1916 organizzò a Panama il congresso
sull’azione cristiana in America latina, con un programma simile a quello
della Conferenza di Edimburgo di sei anni prima. Dopo la seconda guerra
mondiale, come presidente del Consiglio missionario internazionale,
promosse un’azione molteplice su vari fronti: in Cina, con Oldham, ebbe
una parte di primo piano nella Conferenza cristiana nazionale di Shanghai
(1922); in Africa settentrionale e nel Medio Oriente promosse la serie di
«conferenze musulmane» (1924), dalle quali nacque l’idea di un Consiglio
cristiano, istituito poi nel 1927; fondamentale fu il suo ruolo nel dirigere le
conferenze del Consiglio missionario a Gerusalemme (1928) e a Tambaram
(1938), quest’ultima decisamente orientata alla stretta collaborazione con il
Consiglio ecumenico delle chiese. Visitò ancora l’Africa nel 1934,
convocando le conferenze cristiane in Sudafrica e nel Congo.
Nell’ambito della Federazione mondiale degli studenti cristiani, riprese
nei Balcani e nell’Europa orientale i contatti iniziati nel 1911, organizzando
incontri fra capi di chiese ortodosse e l’YMCA a Sofia (1928), a Kephissia
in Grecia (1930) e a Bucarest (1933) e consolidando i movimenti
studenteschi in quelle regioni. Condivise anche gli ideali del cristianesimo
sociale di Vita e azione, coltivando l’amicizia con Nathan Söderblom, e
presiedette lo speciale consiglio consultivo americano creato nel 1934 per
preparare i piani di studio per la conferenza di Oxford del 1937, le cui
sessioni deliberative furono da lui presiedute. Con William Paton diresse la
Commissione provvisoria del Consiglio ecumenico delle chiese, istituita
alla conferenza di Westfield (1937), e alla successiva conferenza di Utrecht
(1938) fu eletto vicepresidente del CEC, con l’arcivescovo Germano di
Tiatira e Marc Boegner.
Durante la guerra, da New York, Mott continuò a seguire e promuovere
molte attività del CEC, dirigendo le riunioni del gruppo americano del
Comitato provvisorio del CEC. Nello stesso tempo, curò le relazioni sempre
più strette fra il alt e il CEC, presiedendo il Comitato congiunto fra i due
organismi, istituito a Tambaram; benché nel 1941 avesse dato le dimissioni
da presidente del CMI, i frutti dell’orientamento da lui impresso maturarono
nel 1947, con la reciproca associazione fra il CMI e il CEC, cui fece seguito
l’istituzione di una Commissione per l’Asia orientale e, nel 1949, di un
Segretariato congiunto per quella regione. Designato fra i cinque presidenti
del CEC nel 1946, gli fu conferito nel medesimo anno il premio Nobel per
la pace, e nel 1948 fu eletto presidente onorario del Consiglio ecumenico.
La sua saggezza politica ed ecclesiale e la sua abnegazione cristiana
possono essere riassunte dalle sue stesse parole: «Per coloro che credono
nella forza del Cristo non vi sono porte chiuse e sono aperte infinite
opportunità».

Nathan Söderblom

Nathan Söderblom (1866-1931) nacque a Trönö (Svezia) da famiglia


luterana e fu educato in ambiente pietista, che influenzò profondamente la
sua spiritualità. Compì gli studi di teologia a Uppsala e, al pari di altri
pionieri dell’ecumenismo, respirò il clima di rinnovamento e di
collaborazione del Movimento studentesco cristiano, partecipandovi
attivamente. Nel 1891 prese parte alla conferenza americana di Northfield,
promossa da D.L. Moody, il quale trasmise al giovane Nathan il suo
entusiasmo ecumenico. Dal 1894 al 1901 fu a Parigi, cappellano
dell’ambasciata svedese, e si dedicò allo studio delle antiche religioni
orientali; negli stessi anni seguì con interesse le iniziative del movimento
cristiano sociale, e avendo partecipato alla conferenza di Erfurt (1896)
contribuì a diffondere gli orientamenti sociali e politici di Friedrich
Nauman. Ebbe così l’occasione di conoscere coloro che, già impegnati
nell’azione sociale cristiana, si sarebbero poi collegati nel movimento di
Vita e azione.
Divenuto professore di storia della religione a Uppsala (1901-1914), la
nomina ad arcivescovo di Uppsala gli giunse inattesa, pochi mesi prima che
scoppiasse la guerra mondiale. Immediatamente, nel suo nuovo ufficio, si
dedicò a promuovere la pace e l’amicizia cristiana, rivolgendo un appello
contro la guerra: benché i capi delle chiese dei paesi belligeranti non
l’abbiano sottoscritto, il proposito di Söderblom resta come un modello di
proclamazione solenne della fraternità cristiana universale dinanzi agli
orrori della guerra. L’arcivescovo nel 1917 promosse un secondo appello,
che prese la forma di un manifesto delle chiese evangeliche dei paesi
neutrali, per ottenere «una pace giusta e durevole»; una uguale consonanza
di proposte, volte a realizzare una pace concordata, si riscontrava sia nella
conferenza di Stoccolma che pochi mesi dopo riunì esponenti del
movimento operaio internazionale, sia nella nota di Benedetto XV ai capi di
stato, 1’11 agosto 1917. Poteva così sembrare più vicina un’intesa di tutte le
chiese, a partire dalle istanze sociali da tutti condivise.
Contemporaneamente le principali chiese di Gran Bretagna chiesero a
Söderblom di farsi promotore di una conferenza internazionale cristiana, cui
invitare anche ortodossi e cattolici: di fatto tale conferenza si tenne a
Uppsala dal 14 al 16 dicembre 1917, ma vi parteciparono solo
rappresentanti di chiese dei paesi neutrali. Gli argomenti principali che vi
furono trattati, tuttavia, già anticipavano sostanzialmente i temi ispiratori
del futuro movimento del «cristianesimo pratico»: la croce di Cristo vero
centro dell’unità dei cristiani, un’unità attuata nel pluralismo e nella
testimonianza, nell’impegno sociale e internazionale, per una pace garantita
da un ordine giuridico poggiato «sui principi della verità, della giustizia e
dell’amore». Incoraggiato dai risultati della Conferenza di Uppsala,
l’arcivescovo riprese i contatti anche con la chiesa cattolica e le chiese
ortodosse, per convocare l’auspicata conferenza cristiana internazionale, ma
finì col rinunciarvi non avendo trovato i necessari consensi. La Conferenza
cristiana di Oud Wassenaar, nel 1919, offerse a Söderblom una nuova
opportunità di riassumere tutte le sue iniziative maturate nel corso della
guerra, e di proporre l’istituzione di un concilio ecumenico delle chiese, «in
grado di parlare a nome della cristianità sui problemi religiosi, morali e
sociali degli uomini».
Questo principio venne precisato da Söderblom alla Conferenza di
Ginevra dell’anno seguente: in quella circostanza, che segna anche la
fondazione del movimento Vita e azione, egli sostenne con successo l’idea
che anche i cattolici dovevano essere invitati alla futura conferenza
ecumenica internazionale. Benché per ottenere quest’ultimo risultato
sarebbero dovuti passare ancora decenni, le aspirazioni dell’arcivescovo
svedese furono nella sostanza pienamente coronate con la conferenza di
Vita e azione a Stoccolma nel 1925. Artefice principale della Conferenza di
Stoccolma, egli non tardò però a rendersi conto che il principio del
cristianesimo pratico, di rafforzare la solidarietà tra le chiese
nell’applicazione dell’etica cristiana ai problemi sociali, non poteva restare
troppo a lungo disgiunto dalle questioni dottrinali che in quegli anni
venivano dibattute dall’altra organizzazione ecumenica Fede e costituzione.
Alla Conferenza di Losanna nel 1927, perciò, Söderblom avanzò l’ipotesi di
fondere Vita e azione con le altre organizzazioni ecumeniche in un unico
consiglio di chiese, ma fu fortemente osteggiato per questa proposta, troppo
anticipatrice per quel momento. Non cessò di sperare nella convergenza
ecumenica con la chiesa cattolica, e anche la sua profonda, ampia e ferma
critica all’enciclica Mortalium animos (1928), nella quale Pio XI negava la
possibilità di partecipazione al movimento per l’unità, è una manifestazione
del suo appassionato interesse verso Roma.
Negli ultimi anni si consumò tutto nelle iniziative ecumeniche, e fu pure
nominato vicepresidente aggiunto del Comitato di continuazione di Fede e
costituzione, riunitosi a Praga nel 1928. Il premio Nobel per la pace,
assegnatogli nel 1930, attesta l’ampiezza mondiale della sua carità
evangelica che non conosceva confini. Tra le sue numerose opere
scientifiche e di divulgazione, trattano dell’unità cristiana: Christian
fellowship or the united life and work of Christendom, New York 1923;
Kristenhetens möte i Stockholm Augusti Nittonhundratjugufem: Historik,
aktstycken, grundtankar, eftermäle, Stockholm 1926; Christliche Einheit,
Berlin 1928. Nel giudizio dei contemporanei, espresso da G.K.A. Bell,
arcivescovo di Cicester, Söderblom «operò più di ogni altro maestro o di
ogni altra autorità cristiana per unire le chiese ortodosse ed evangeliche di
tutti i paesi e di tutte le confessioni in una grande e solidale famiglia, per la
causa di Cristo, per la sua verità, la sua giustizia e la sua pace».
Agostino Bea

Figlio unico di una povera ma religiosa famiglia cattolica del villaggio di


Riedböhringen, nella regione tedesca del Baden, Agostino Bea (1881-1968)
compì i suoi primi studi a Sasbach, quindi nel 1897 passò al ginnasio di
Costanza – respirandone il clima interconfessionale – e successivamente a
Rastatt. A diciassette anni maturò la propria vocazione religiosa, che poté
realizzare entrando nella Compagnia di Gesù nel 1902, dopo aver atteso a
lungo il consenso dei genitori, specialmente del padre. I gesuiti erano a quel
tempo banditi dalla Germania, quindi il novizio dovette prendere la via
dell’esilio: in Olanda, a Valkenburg prima, poi a Sittard, fino
all’ordinazione sacerdotale nel 1912. Per le spiccate doti intellettuali che
rivelava, si pensò di farlo proseguire negli studi in vari e disparati settori:
etnologia o filologia, teologia o lingue orientali. Allo scoppio della guerra,
fu assegnato al servizio militare sanitario come superiore della residenza di
Aquisgrana (1914-1917). Tornato a Valkenburg, vi insegnò Sacra Scrittura,
e nel 1919 fu anche prefetto degli studi, finché non divenne Superiore
provinciale (1921-1924) dedicandosi alla riorganizzazione della Compagnia
in Germania per la quale era stato revocato nel 1917 il bando d’esilio.
Tra i suoi scritti del tempo si segnala la forte e chiara confutazione
dell’antisemitismo, che stava emergendo, con l’articolo Antisemitismus,
Rassentheorie und Altes Testament (in «Stimmen der Zeit», 1920).
Distintosi per equilibrio, energia e solidità di pensiero, fu inviato a Roma
nel 1924, come responsabile della formazione e insegnante al Pontificio
istituto biblico e alla Pontificia università Gregoriana. Nel 1929, svolse con
successo una missione per la ricostruzione dell’Università cattolica di
Tokyo, e l’anno seguente venne nominato rettore del Pontificio istituto
biblico, che diresse fino al 1949, dispiegando le proprie qualità umane e
dedicandosi a pubblicazioni scientifiche; appoggiò l’iniziativa della
Settimana biblica italiana, da cui sarebbe poi nata nel 1948 l’Associazione
biblica italiana, e si recò tre volte in Oriente, interessandosi alla succursale
dell’Istituto biblico a Gerusalemme.
Il campo biblico gli aperse la possibilità di contatti ecumenici, e Pio XI
nel 1935 consentì che guidasse una delegazione al congresso di Gottinga
sull’Antico Testamento, organizzato da studiosi evangelici. In qualità di
consultore della Pontificia commissione biblica, Bea offrì un contributo
determinante all’enciclica di Pio XII Divino affiante Spiritu (1943) e alla
Lettera al cardinale Suhard (1948). Nel 1949, cessato l’ufficio di rettore, fu
nominato consultore della Santa Congregazione del Sant’Uffizio, che allora
si occupava anche di materie ecumeniche, e nel 1950 divenne pure
consigliere della Santa Congregazione dei riti, dove svolse un’intensa opera
per la riforma liturgica.
Furono dieci anni operosi passati nel cuore della chiesa cattolica, a
contatto con il papa – di cui fu confessore dal 1945 al 1958 – e dai quali
Bea trasse un’esperienza profonda della curia romana. Nel medesimo tempo
intrattenne rapporti ecumenici, specialmente con l’ambiente tedesco,
seguendo con interesse i lavori del circolo teologico interconfessionale di
Paderborn, l’attività ecumenica dell’abbazia benedettina di Niederaltaich, e
favorendo la fondazione dell’Istituto ecumenico «J. Adam Möhler», voluto
dall’arcivescovo di Paderborn, L. Jaeger. Nei contatti frequenti con la
Conferenza cattolica per le questioni ecumeniche, fondata nel 1951 a
Warmond, nella diocesi di Haarlem, ebbe modo di conoscerne il segretario,
l’allora professore Jan Willebrands, che chiamò più tardi a collaborare con
lui in Vaticano.
Alla morte di Pio XII succedette per padre Bea un breve periodo di più
silenziosa tranquillità, interrotto dall’ordine perentorio del neoeletto papa
Giovanni XXIII, che il 16 novembre 1959 lo elevava al cardinalato: aveva
79 anni, e la nomina lo colpì «come un fulmine a ciel sereno», del tutto
inattesa. Era per lui l’inizio di un periodo decisivo per il servizio della
chiesa, della causa dell’unità dei cristiani, della promozione di rapporti
fraterni fra cristiani ed ebrei: tutta la sua formazione di studioso, la sua
precedente esperienza internazionale e di curia, si sarebbero presto rivelate
preziose nel collaborare all’«aggiornamento» voluto da papa Giovanni con
il Concilio vaticano secondo. All’inizio del 1960, Bea sollecitò da parte di
Ed. Stakemeier, direttore dell’Istituto Möhler, un progetto per l’istituzione
di una Commissione per il movimento ecumenico, progetto che egli stesso
trasmise al papa l’11 marzo, unito alla supplica dell’arcivescovo Jaeger per
la creazione di una «Pontificia commissione per promuovere l’unità dei
cristiani»; il papa, cui già il 23 maggio 1959 il patriarca greco-melkita
Maximos IV aveva presentato una nota al medesimo fine, stavolta reagì con
grande entusiasmo e rapidità, e stabilì che Bea divenisse presidente della
Commissione «pro unione christianorum fovenda», la quale avrebbe preso
parte ai lavori del concilio.
Poche settimane più tardi, fu ancora il papa a intervenire perché il nuovo
organismo si definisse non «Commissione», ma «Segretariato», affinché
avesse maggior libertà di azione rispetto alle commissioni conciliari.
Provvidenziale si rivelò la scelta che Bea fece per l’ufficio di segretario
generale del Segretariato: il professor Jan Willebrands, infatti, aveva
acquisito una esperienza decennale di studio e di relazioni personali nel
settore dell’ecumenismo, e fu quindi in grado di corrispondere al compito
nuovo che si apriva per la chiesa in cammino verso la riconciliazione dei
cristiani.
Presto poi si sarebbe aggiunto per Bea un nuovo incarico, riguardante i
rapporti con l’ebraismo. Il professor Jules Isaac aveva infatti suggerito a
Giovanni XXIII la creazione di una sottocommissione che si occupasse
dell’insegnamento cattolico sugli ebrei, e il papa aveva deciso di inviare
Isaac dal cardinale. Effettivamente, l’incarico di curare le relazioni con il
popolo ebraico gli fu conferito dal papa il 18 settembre, e già il 26 ottobre
Bea ricevette a Roma Nahum Goldman, presidente del Congresso mondiale
ebraico, con il quale discusse del modo di sviluppare ufficialmente i
rapporti ebraico-cristiani. Il segretariato, che fu istituito, con le altre
commissioni conciliari, il 5 giugno 1960, venne guardato con speranza
dagli altri cristiani, come un segno e una promessa di dialogo e di fraternità,
e il suo presidente seppe infondere entusiasmo e concordia nei membri,
consultori e ufficiali, che lavorarono alacremente nella fase preparatoria del
concilio. Il cardinale stesso, nella sua qualità di membro della Commissione
centrale, esaminava accuratamente tutti gli schemi preparatori, dava il suo
contributo con osservazioni di carattere sia teologico sia metodologico,
esercitando una funzione di «coscienza ecumenica» nei lavori preparatori,
non rifiutando di trattare con semplicità e fermezza anche questioni spinose
e controverse, come quella del rapporto tra il successore di Pietro e i
vescovi nell’esercizio dell’autorità apostolica, o quella dell’atteggiamento
della Commissione dottrinale che rifiutava di lavorare insieme al
segretariato.
Durante il medesimo periodo Bea percorreva l’Europa, dimostrando
un’energia eccezionale per la sua età, e si faceva «ambasciatore dell’unità»
presso cattolici e protestanti. L’attività del cardinale nel periodo conciliare
(1962-1965) fu sempre intensa e molteplice: prima di ogni altra cosa, a
metà ottobre inviò al papa un esposto riguardante la questione della
competenza del segretariato per la presentazione e l’emendazione degli
schemi conciliari, al quale il papa rispose affermativamente. Ciò ottenuto,
Bea dirige l’opera del segretariato, che assumendosi una notevole mole di
lavoro, riesamina i propri schemi conciliali ed è coinvolto nell’esame di
altri schemi. In dicembre, invia a Giovanni XXIII un promemoria sulle
relazioni fra chiesa e popolo ebraico, poiché lo schema relativo era stato
tolto dal programma del concilio, e il papa lo assicura del suo
interessamento alla questione.
L’intesa profonda tra papa e cardinale si rinnovò anche quando a
Giovanni XXIII successe Paolo VI, e nel novembre 1963 fu discusso lo
schema sull’ecumenismo, cui erano annessi due capitoli, l’uno sulle
relazioni con gli ebrei, l’altro sulla libertà religiosa: lo schema fu approvato
con solo 86 voti contrari su 2.052 votanti, ma purtroppo non c’era stato
tempo per discutere i due ultimi capitoli annessi. Non meno impegnativi
furono i viaggi, i contatti ecumenici e le conferenze di Bea durante i quattro
anni del concilio: in Danimarca, in Germania, più volte negli Stati Uniti, a
Ginevra presso il Consiglio ecumenico delle chiese e a Costantinopoli in
visita ufficiale al Patriarcato ecumenico, per la prima volta dopo nove secoli
dall’infelice visita di un altro cardinale, Umberto da Silva Candida, nel
1054. Il 26 settembre 1964, guidò la delegazione che ricondusse a Patrasso
la reliquia del capo di sant’Andrea, che era stata affidata a papa Pio II nel
1462, e anche questo gesto di carità fraterna accrebbe la fiducia tra le chiese
sorelle d’Oriente e d’Occidente.
Nel frattempo, le ricorrenti difficoltà sorte durante l’iter conciliare dei
due schemi riguardanti la libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei
vennero affrontate da Bea con la consueta calma e decisione, fino
all’approvazione, praticamente unanime, dei due documenti conciliari
Dignitatis humanae e Nostra aetate. La preparazione di quest’ultimo
documento fu particolarmente tormentata: ottenuta la riconferma
dell’interesse di papa Giovanni per l’argomento (dicembre 1962), il 19
novembre 1963 il cardinale illustrò ai padri lo schema, che fu poi
rielaborato e, dopo l’approvazione del papa, il 3 luglio 1964, nuovamente
introdotto da Bea alla terza sessione del Concilio (25 settembre 1964).
Consapevole, comunque, delle difficoltà di tipo politico e psicologico che
l’argomento suscitava presso i cristiani nel Vicino Oriente, nel luglio 1965
Bea inviò una delegazione del segretariato in visita ai patriarchi orientali
cattolici per illustrare loro il testo della prevista dichiarazione, e ne
sottolineò il carattere puramente religioso; questa iniziativa ottenne frutti
positivi e smorzò le precedenti polemiche, permettendo l’approvazione
finale del documento con il voto pressoché unanime dei padri conciliati. Si
sarebbe potuto credere che il più che ottuagenario cardinale, dato il meglio
delle sue energie al concilio, e fattisi sentire i primi segni della malattia,
avesse esaurito il suo servizio alla chiesa e all’ecumenismo, ma non fu così:
egli dovette rinunciare soltanto ai viaggi, prezioso strumento di incontro
fraterno, ma per il rimanente continuò nel lavoro silenzioso, guidando il
segretariato nell’eccezionale opera dell’ecumenismo post-conciliare, fino a
poco prima della morte. Fedele servitore di Cristo e della chiesa, Bea fu
giudicato «franco difensore della libertà religiosa» (J. Nordenhaug), uomo
di coraggio e di «semplicità profondamente cristiana» (Atenagora I),
interprete delle aspirazioni più grandi dell’ecumenismo contemporaneo (I.
Giordani).

Angelo Giuseppe Roncalli

Nato da modesta famiglia contadina nel paese di Sotto il Monte (Bergamo),


Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963), compiuti gli studi sacri, fu
consacrato nel 1904 sacerdote, divenendo segretario del vescovo di
Bergamo, Radini-Tedeschi; cappellano militare durante la prima guerra
mondiale, passò quindi a Roma presso la Congregazione di Propaganda fide
quale responsabile nazionale per le missioni. Nel 1925 iniziò il servizio
diplomatico come visitatore apostolico in Bulgaria, e successivamente, dal
1934 al 1944, fu delegato apostolico in Turchia e Grecia, dove svolse
un’opera di soccorso specialmente verso le vittime della guerra, fossero
cattolici od ortodossi, ebrei o turchi. Nominato nunzio apostolico a Parigi
nel 1944, vi operò con discrezione per la riconciliazione nazionale nel
dopoguerra, ed ebbe frequenti contatti ecumenici, fino a che nel 1953 Pio
XII lo volle cardinale e patriarca di Venezia. Eletto successore di Pietro il
28 ottobre 1958, dopo un conclave durato solo tre giorni, pochi mesi più
tardi, il 25 gennaio 1959, sorprese la chiesa e il mondo facendo conoscere
l’idea che «non era maturata in lui come il frutto di una prolungata
meditazione, ma come il fiore spontaneo di una primavera insperata: l’idea
del Concilio ecumenico vaticano secondo». Con la sua profonda umanità e
bonaria semplicità seppe immediatamente conquistarsi la fiducia universale
e infuse la speranza di un profondo «aggiornamento» della chiesa.
Uno tra i molti gesti spontanei che suscitarono grande impressione fu, il
Venerdì Santo 1959, l’ordine di omettere l’aggettivo «perfidi» dalla
preghiera per gli Ebrei nella solenne liturgia, un gesto che colpì soprattutto
l’opinione pubblica ebraica, e convinse, tra l’altro, il professore francese
Jules Isaac, presidente onorario dell’Amicizia ebraico-cristiana in Francia, a
chiedere udienza al papa. Questa udienza, che fu preparata a Roma grazie
alla collaborazione della professoressa Maria Vingiani, trasferitasi da
Venezia all’Urbe per dedicarsi alla causa dell’unità cristiana, ebbe luogo il
13 giugno 1960, e produsse nel papa la convinzione che fosse necessario e
urgente rivedere l’«insegnamento del disprezzo» della chiesa a proposito
degli ebrei. Pochi giorni prima, con il motu proprio Superno Dei nutu (5
giugno) il papa aveva istituito le commissioni conciliali e i segretariati, tra
cui quello per l’unità dei cristiani, presieduto da Agostino Bea, nel quale
riponeva la più grande stima e fiducia, e che aveva creato cardinale sei mesi
prima, sicché al termine dell’udienza Giovanni XXIII indirizzò senz’altro
Isaac da Bea. Il cardinale stesso, nel novembre 1960, informa i membri del
Segretariato per l’unità che, per mandato speciale del papa, la materia
riguardante gli ebrei sarà di competenza di questo ufficio. Ma
l’atteggiamento di apertura del papa e il suo impegno per l’unità dei
cristiani cominciarono già a produrre reazioni positive e frequenti visite di
capi di altre chiese, fatto nuovo ed eccezionale dopo i secoli della divisione;
tutti segni che «l’orizzonte comincia a rischiararsi»: la prima visita di
cortesia «in forma privata» gli fu resa da Geoffrey Fisher, arcivescovo di
Canterbury, nel novembre 1959. La visita che, nello stesso periodo,
intendeva rendergli il patriarca ecumenico Atenagora I fu invece ritenuta
prematura.
Negli anni seguenti tra le visite più significative vi furono quelle del
vescovo presidente degli episcopaliani d’America, Arthur Lichtenberger,
del moderatore della Chiesa presbiteriana di Scozia, A.C. Craig e del
presidente del Consiglio mondiale metodista, P. Corson. Durante la
preparazione del concilio, l’interesse del papa per l’aspetto ecumenico
crebbe e si manifestò in non poche occasioni, risultando talora determinante
per orientare le decisioni preliminari o per sciogliere punti controversi, e
sovente in ciò Giovanni XXIII era aiutato dai «fogli di lavoro» che Bea gli
trasmetteva e che egli – come attesta monsignor Capovilla – leggeva
attentamente, «trovandovi piena conformità con la sua linea magisteriale e
pastorale, nello spirito e nella lettera, in attuazione del disegno conciliare».
Il 7 novembre 1961 il papa volle assistere alla seduta della Commissione
centrale preparatoria che doveva dibattere la delicata questione degli inviti
agli osservatori di altre chiese e del tipo di partecipazione di questi al
concilio; la finalità di «ricostituire l’unità visibile di tutti i cristiani» venne
poi da lui ribadita nella costituzione apostolica di indizione del concilio,
Humanae salutis (Natale 1961) e nell’allocuzione di apertura del concilio
(11 ottobre 1962). Fu sempre il papa a intervenire direttamente in materie
fondamentali per l’attività del Segretariato per l’unità: 1. si riservò di
studiare e decidere a proposito della permanenza del Segretariato, terminato
il concilio; 2. nell’udienza del 1° febbraio 1962 al cardinale Bea dispose che
il Segretariato preparasse anche gli schemi sulla libertà religiosa e sugli
ebrei; 3. estese la competenza del Segretariato alla cura dei rapporti fraterni
con le chiese orientali non cattoliche. A concilio aperto, papa Roncalli agì
con sorprendente rapidità e decisione, quando, ad esempio, il 19 ottobre – a
seguito di un esposto di Bea – precisò che la competenza del Segretariato
era pari a quella delle altre commissioni; fu sempre il papa a sospendere, il
21 novembre, la discussione sul controverso schema delle «Fonti della
rivelazione».
Quanto poi gli stessero a cuore le relazioni con gli ebrei, lo si vide
allorché Bea, ai primi di dicembre, gli inviò un promemoria sull’argomento,
che in giugno era stato sorprendentemente tolto dal programma del
concilio; il 13 dicembre 1962 il papa così rispose di suo pugno: «Letto con
attenzione questo rapporto del Card. Bea, ne condividiamo perfettamente la
gravità e le responsabilità di un nostro interessamento. Il “Sanguis eius
super nos et super filios nostros” non attribuisce ad alcun credente in Cristo
la dispensa dall’interessarsi del problema e dall’apostolato per la salvezza
di tutti i figli di Abramo egualmente che di ogni vivente sulla terra. “Te
ergo, quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti”.
Ioann.es XXIII PP». Appoggiandosi a questa risposta, Bea tornò a
riproporre al concilio lo schema su non cristiani ed ebrei, che maturò infine
nella dichiarazione Nostra aetate (28 ottobre 1965). L’intero magistero
pontificio fu segnato dall’interesse per i problemi umani, che il papa
affrontò particolarmente nelle encicliche Mater et magistra (1961) e Pacem
in terris (1963), quest’ultima quasi coincidente con l’attribuzione al
pontefice del premio Balzan per la pace.
La sua morte, dopo un rapido declino causato da un tumore allo stomaco,
strinse ancor più tutti i cristiani in un vincolo di fraterna carità, lasciando in
eredità la fiduciosa speranza di una comunione da realizzare pienamente
nella riconciliazione, nell’umiltà, nella verità.

Aristokles Pyrou

Aristokles Pyrou (1886-1972) nacque a Tsaraplana (Grecia), a quel tempo


sotto dominio turco, e compì gli studi teologici a Halki, quindi divenne
monaco e fu consacrato diacono con il nome di Atenagora. Negli
sconvolgimenti bellici che coinvolsero i Balcani prestò opera di soccorso,
mentre svolgeva l’ufficio di segretario presso il santo sinodo, e dal 1923
come metropolita di Corfù. Dal 1931, con la nomina ad arcivescovo della
chiesa greco-ortodossa in America, acquisì vasta esperienza internazionale
e fu a contatto con il pluralismo confessionale che caratterizza la società
statunitense. Nel 1949 fu eletto patriarca ecumenico (Atenagora I), ufficio
che gli dava un primato di onore tra le chiese ortodosse, che riconoscono
alla sede di Costantinopoli la funzione di promuovere azioni comuni delle
chiese, principalmente mediante la convocazione del sinodo panortodosso.
Suo programma costante fu quello di migliorare i rapporti interni
all’ortodossia, affrontando in particolare la questione della diaspora
ortodossa, e di sviluppare relazioni ecumeniche sia con il Consiglio
ecumenico delle chiese – di recente istituzione – sia con la chiesa cattolica.
Quanto ai rapporti con il primo organismo, la situazione non era facile, sia
perché esistevano tensioni antiche tra ortodossi ed evangelici a motivo del
proselitismo di questi ultimi, sia per l’atteggiamento negativo assunto dalla
chiesa di Russia e dalle altre chiese autocefale con essa collegate, le quali
nella Conferenza di Mosca del 1948 avevano preso posizione contro il
CEC.
Il patriarca ecumenico, con un’enciclica del 1952, portò varie ragioni a
favore della collaborazione pratica con il Consiglio ecumenico: 1. è gradita
a Dio l’azione comune delle chiese nell’affrontare i problemi dell’umanità;
2. ciò dà occasione di testimoniare la fede ortodossa; 3. infine, questo aiuta
gli ortodossi ad apprendere nuovi metodi apostolici. Successivamente, nel
1955, il patriarcato ecumenico istituì a Ginevra un proprio ufficio di
collegamento con il CEC, diretto dal vescovo Iakovos di Melita. Un’altra
iniziativa di grande importanza che Atenagora attuò fu la serie delle
conferenze panortodosse, la prima delle quali si tenne a Rodi nel 1961,
conferenze che miravano a preparare la convocazione del sinodo
panortodosso e a coordinare i rapporti tra ortodossia e chiesa cattolica negli
anni del Concilio vaticano secondo.
Durante l’assemblea del CEC a Nuova Delhi, nel 1961, grazie all’opera
paziente del patriarca ecumenico, anche le chiese ortodosse dell’Europa
dell’Est aderirono al CEC, colmando lo squilibrio prima esistente fra la
partecipazione di ortodossi e di protestanti nel consiglio. Atenagora, fin dal
1961, aveva anche manifestato il desiderio di incontrarsi con papa Giovanni
XXIII, che tuttavia ritenne prudente rimandare l’incontro a un momento più
opportuno. Questo si ripresentò all’inizio del pontificato di Paolo VI, con
uno scambio di lettere calorose e fraterne, che preparò l’atmosfera
favorevole al grande incontro di Gerusalemme. All’annuncio fatto da Paolo
VI del suo imminente pellegrinaggio in Terra Santa, il patriarca reagì
esortando tutti i capi delle chiese a recarsi a Gerusalemme per pregare con il
papa. Egli stesso poi inviò il 27 dicembre 1963 una delegazione di alto
livello a Roma per preparare il suo incontro con il papa a Gerusalemme,
accelerando così l’esecuzione del santo progetto. Il 6 gennaio 1964 a
Gerusalemme Atenagora, con ben undici metropoliti, andò incontro a Paolo
VI, l’abbracciò «come si abbraccia un fratello» dicendo: «dobbiamo fare la
pace, far vedere al mondo che siamo ritornati fratelli», e il sogno dell’unità
parve allora davvero a portata di mano, reso visibile al mondo dal servizio
dei millecinquecento giornalisti che seguivano il viaggio. Per l’incontro, il
patriarca aveva ottenuto il previo assenso di tutte le chiese autocefale, ad
eccezione della chiesa di Grecia; inoltre, effettivamente il papa si incontrò a
Gerusalemme con numerosi altri patriarchi, arcivescovi e rappresentanti di
chiese ortodosse, ortodosse orientali e protestanti, superando d’un balzo
tutte le ostilità secolari che dividevano i credenti nel Cristo. In un’atmosfera
ormai diversa, la terza Conferenza panortodossa di Rodi deliberò quindi che
si procedesse nelle relazioni con la chiesa cattolica, sulla via del «dialogo
della carità» e verso «il dialogo teologico»; a questo scopo, una delegazione
ufficiale del patriarcato ecumenico, composta dai metropoliti Melitone di
Eliopoli e Theira e Crisostomo di Mira, fu inviata a Roma, e nell’aprile
1965 il cardinale Bea guidò un’analoga delegazione cattolica a
Costantinopoli.
Frutto di questi, e di successivi incontri, fu la preparazione della solenne
cerimonia pubblica congiunta, il 7 dicembre 1965, festa di sant’Ambrogio,
di «abolizione delle reciproche scomuniche» del 16 e 24 luglio 1054;
mentre il cardinale Bea leggeva il breve pontificio di abolizione Ambulate
in dilectione dinanzi al papa e al concilio, nella stessa ora, nella chiesa
patriarcale del Fanar Atenagora stesso diede lettura del Tomos del Santo
Sinodo, proclamando che «l’anatema lanciato […] nell’anno della salvezza
1054 nel mese di luglio della VII Indizione è, da questo momento e a
conoscenza di tutti, tolto dalla memoria e dal mezzo della chiesa per la
misericordia del Dio delle misericordie». Il patriarca serbo German fu il
primo a felicitarsi con Atenagora per l’abolizione delle scomuniche, ed
eguali sentimenti espressero le chiese di Mosca, Belgrado, Bucarest, Sofia,
Atene, Antiochia, Gerusalemme e Cipro, in occasione della visita del
metropolita Melitone, inviato del patriarcato ecumenico.
Il tempo era ormai finalmente maturo per le visite tanto attese: Paolo VI,
prevenendo Atenagora, nel 1967 gli rese visita a Costantinopoli, e questi
venne a Roma dal 26 al 28 ottobre; il patriarca sottolineò l’urgenza del
dialogo teologico per arrivare presto a celebrare insieme l’eucaristia, mentre
il papa nel breve Anno ineunte esortava al reciproco rinnovamento delle
chiese, pervenute a riconoscersi come sorelle per grazia del Signore. Dopo
l’incontro a Roma, Atenagora proseguì nel suo viaggio europeo, come
«pellegrino per l’unità», si recò a Ginevra, quindi a Londra, ove si incontrò
con l’arcivescovo di Canterbury, Michael Ramsey. Negli ultimi anni si
dedicò a favorire il dialogo con l’Islam, e la riconciliazione con le chiese
orientali ortodosse («pre-calcedonesi»), spronando l’ortodossia ad aprirsi
verso il mondo.

Yves Congar

Yves Congar (1904-1995) nacque a Sédan, in Francia, ed entrato nell’ordine


domenicano iniziò nel 1930 l’insegnamento a Le Saulchoir, Parigi; con
l’opera Chrétiens désunis nel 1937 introdusse nel dibattito cattolico i
problemi ecumenici che maturavano in quegli anni nei movimenti di Vita e
azione e di Fede e costituzione. Prigioniero dei tedeschi durante la seconda
guerra mondiale, ebbe modo di sperimentare la solidarietà che ispira l’aiuto
fraterno oltre le barriere confessionali, e nel dopoguerra animò il
movimento dei preti operai; già nel 1950, quando Pio XII pubblicò
l’enciclica Humani generis, vi fu chi lo giudicò tra coloro ai quali
l’enciclica faceva allusione come sostenitori di «falso irenismo». Nel 1954
accolse il divieto di insegnare e di continuare ad avere rapporti con i
protestanti, si recò a Gerusalemme, poi a Cambridge, infine passò a
Strasburgo; aveva intanto aderito alla Conferenza cattolica per le questioni
ecumeniche, di cui Willebrands era segretario, e aveva anche seguito i
lavori del Consiglio ecumenico delle chiese.
La sua posizione, espressa in opere fondamentali quali Vraie et fausse
réforme dans l’Eglise (1950) e Jalons pour une théologie du laïcat (1953),
lo rendeva inquietante per il panorama teologico cattolico tradizionale, ma
con l’avvento di papa Giovanni XXIII, che nominò Congar membro della
Commissione teologica preparatoria del concilio, l’atmosfera cambiò
completamente. Durante il concilio contribuì alla stesura di molti
documenti di notevole importanza: la costituzione dogmatica sulla chiesa
(Lumen gentium) e sulla divina rivelazione (Dei Verbum), la costituzione
pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), il
decreto sull’attività missionaria (Ad gentes) e sull’ecumenismo (Unitatis
redintegratio), le dichiarazioni sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae) e
sulle religioni non cristiane (Nostra aetate). La sua produzione teologica è
impressionante per estensione, e pur sempre pervasa dal suo senso di
modestia, di «timore di avere troppo angustamente presentato
l’ecumenismo di un teologo»: per la profondità e la ricchezza dei temi che
seppe affrontare con equilibrio e senso della chiesa, egli influì in modo
eccezionale sul pensiero ecumenico in area cattolica. Attento a coinvolgere
«la Chiesa e tutte le Chiese» nella grazia e nello sforzo ecumenici, per
evitare il rischio di accademismo o di intellettualismo sottolineò che
«l’ecumenismo non è che un caso particolare dell’esercizio della vita
cristiana stessa», e perciò è affare insieme sia di mente, sia di cuore, non
conosce settorialismi clericali, ma è opera e responsabilità di tutto il
«Popolo di Dio». Nel campo della ecclesiologia, da lui preferito, amava
ricordare che «l’ecumenismo ci fa riscrivere la nostra teologia»: in
particolare egli faceva notare che, dal Concilio di Trento fino alla Mystici
corporis di Pio XII, prevalse il «sistema del tridentinismo», secondo il
quale «la porta di entrata della ecclesiologia è stata l’idea di società
completa – societas perfecta», gerarchica e ineguale, divisa tra chierici e
laici, e secondo questa visione il Corpo mistico del Cristo è la chiesa
cattolica romana. «Con il Vaticano II – continua Congar – la porta di entrata
buona [dell’ecclesiologia] è apparsa l’idea di comunione o l’idea del Popolo
di Dio».
La diversità nel punto di partenza permise di superare la semplice
identificazione (est) fra Corpo mistico e chiesa cattolica, sostituendo
l’espressione «subsistit» che lascia spazio a gradi diversi di comunione
(Lumen gentium, 8), per cui oggi «l’ecclesialità delle Comunioni non è
valutata in rapporto alla Chiesa romana come tale quale essa è, ma in
rapporto alla Chiesa come Cristo l’ha disposta, e anche in rapporto al fine a
cui Dio conduce la sua opera e di cui i tratti precisi in parte ci sfuggono.
Questa chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica romana senza
identificarsi strettamente con essa. Inglobando questa Chiesa e ciò che c’è
di Chiesa a fianco di lei, si può parlare di universale e santa Chiesa di
Cristo»; questo concetto permette anche di chiamare «sorelle», quelle
chiese che partecipano della struttura sacramentale e della tradizione
apostolica.
Un altro notevole contributo di Congar è stato l’aver ricordato l’aggancio
dell’ecumenismo al mistero del Dio uno e trino, e in particolare il rapporto
con lo Spirito: «L’ecumenismo è prima di tutto un fatto dello Spirito
Santo», che mette nei cuori i germi di conversione. Questa conversione ha
un aspetto personale e uno comunitario, che richiede la partecipazione di
tutti gli altri cristiani e si esercita efficacemente nel dialogo, «assunto nel
senso più largo del termine», fondato sulla «comune volontà di tendere,
insieme e grazie gli uni agli altri, verso la pienezza e verso la purezza di
quel cristianesimo le cui fonti ci sono comuni». L’azione dello Spirito si
esprime specialmente nella preghiera comune dei cristiani per l’unità: la
preghiera, che sovente ha mostrato vie nuove là dove prima i percorsi
parevano chiusi, sostiene l’azione ecumenica, lasciando spazio allo Spirito
di unità. Obbligato dal 1985 all’inattività pratica a causa di un’infermità
cronica che lo afflisse per gran parte della sua vita, Congar non cessò di
testimoniare con lucidità e coraggio, nell’umiltà della sua condizione, il
valore del servizio nell’esistenza concreta dedicata a Cristo e alla sua
chiesa.
L’ecumenismo oggi

Tratti generali del periodo 1966-2016

Lo sviluppo del movimento ecumenico nel cinquantennio successivo al


Concilio vaticano secondo, sul finire del secondo millennio cristiano, è
caratterizzato da una crescita straordinaria per estensione e varietà di
iniziative, accanto allo sviluppo di dialoghi e relazioni interreligiose più
generali, in un contesto mondiale di accentuato pluralismo, con tensioni in
rapida successione, tra le quali il crollo del sistema sovietico nel 1989
sembra concludere i due secoli rivoluzionari aperti dalla rivoluzione
francese. A questo crollo corrisponde un declino di teologie rivoluzionarie
affermatesi dopo il 1968; si rendono manifeste una profonda crisi e una
ricerca di valori, di cui sono sintomi movimenti come il pacifismo,
l’ecologismo, il fiorire di sette e nuove religioni, mentre avanza la ricerca di
un consenso sui temi dell’etica.
Con l’ingresso della chiesa cattolica nel movimento ecumenico, il
dialogo dottrinale, caratteristico di Fede e costituzione, rifiorisce in
un’ampia serie di dialoghi teologici, colloqui, conversazioni, locali e
internazionali, bilaterali e multilaterali, che si concludono con dichiarazioni
concordate, accordi sostanziali, riconoscimenti reciproci di chiese, ospitalità
eucaristica offerta o accolta. Tuttavia la chiesa cattolica, dopo qualche
esitazione, decide di non aderire al Consiglio ecumenico, in considerazione
della natura non omogenea dei due organismi, sotto il profilo teologico:
chiesa locale e universale l’una, associazione di chiese prevalentemente
nazionali l’altro. Fra le conclusioni più significative dell’approfondimento
dottrinale di questo periodo si colloca il documento di Fede e costituzione
elaborato a Lima nel 1982, Battesimo eucaristia e ministeri (BEM), che
costituisce una sorta di spartiacque tra due versanti della riflessione
ecumenica del secolo XX. Quanto alla cooperazione pratica, sulla scia del
movimento Vita e azione, essa cresce rapidamente, con l’istituzione di un
organismo congiunto fra chiesa cattolica e Consiglio ecumenico, Sodepax
(Society, Development, Peace, 1967-1981), e sotto la spinta dell’Assemblea
di Uppsala (1968), ma rallenta l’attività negli anni Ottanta. L’ecumenismo
spirituale continua a esprimersi, soprattutto nella Settimana di preghiera per
l’unità e nei centri di spiritualità ecumenica. Una forte tensione missionaria
ed evangelica si esprime nelle tre ondate del movimento pentecostale,
carismatico e delle chiese indipendenti non confessionali, un movimento
che diviene forza motrice e catalizzatrice di trasformazioni culturali, sociali
e politiche, e che ora accomuna circa cinquecento milioni di cristiani. Il
dialogo dei cattolici con i pentecostali e con gli evangelici si colloca in
questo contesto missionario, nel quale pure agisce con forza l’Alleanza
biblica universale (ABU).
Le conclusioni di quest’ultima, più recente fase dell’ecumenismo, nei
rapporti bilaterali fra chiese e comunioni diverse, sono finora state
incoraggianti: si va dal pieno riconoscimento (tra comunione anglicana e
chiese luterane, nel 1986), all’invito al riconoscimento reciproco (tra
discepoli e riformati, nel 1984), agli accordi ufficiali fra ortodossi e
ortodossi orientali (Amba Bishoi, 1989), fra cattolici e copti ortodossi,
siriano-ortodossi, siro-malankaresi, che preparano il ristabilimento della
piena comunione. Gli approfondimenti che si profilano all’orizzonte
riguardano quattro tematiche principali: 1. Vita sacramentale; 2.
Confessione della fede; 3. Natura e scopo della Chiesa, unità della Chiesa
come koinonia; 4. Ermeneutica delle Sacre Scritture.
Si può auspicare che un numero crescente di chiese siano disponibili con
maggiore magnanimità ad aprirsi «alla cultura, alla storia, alle sfide del
mondo in cambiamento; a superare le barriere ideologiche e intensificare il
dialogo con le altre chiese; per adottare una nuova ermeneutica e
un’adeguata metodologia teologica; per diminuire le contrapposizioni e le
polemiche, ascoltarsi e parlarsi con umiltà e semplicità» (S. Rosso - G.
Ceronetti). L’avvicinarsi del Sinodo panortodosso, e le più recenti tragedie
che coinvolgono i cristiani del Vicino e Medio Oriente minacciati di
genocidio – come altre minoranze religiose, tra le quali gli yazidi –
costituiscono nuove sfide per l’ecumenismo della solidarietà e della pace,
una via sulla quale papa Francesco si è incamminato con decisione,
incontrando anche il patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kirill a Cuba il
12 febbraio 2016.

Primi frutti del concilio: incontri, direttive, dialoghi


Già prima della fine del concilio, nel gennaio 1965, il Consiglio ecumenico
aveva proposto alla chiesa cattolica di istituire un gruppo misto di lavoro, e
il primo incontro ufficiale avvenne a Ginevra poco più tardi. Ciò permise di
realizzare due consultazioni, una sui problemi missionari, l’altra su chiesa e
società. Anche la Conferenza delle chiese ortodosse orientali, riunita a
Addis Abeba, propose l’avvio del dialogo con i cattolici, e valutò molto
positivamente l’azione del Consiglio ecumenico.
Alla Conferenza mondiale di Ginevra del 1966, organizzata dal CEC sui
problemi dello sviluppo, parteciparono quindi tutte le chiese, e Paolo VI
poco dopo riconfermò l’impegno cattolico nell’enciclica Populorum
progressio (1967). Con la visita dell’arcivescovo di Canterbury, Michael
Ramsey, a Roma nel 1966, fu istituita la prima Commissione teologica
mista anglicano-cattolica romana (ARCIC) che pubblicò nel 1981 la sua
relazione finale. Paolo VI operò all’interno della chiesa, con la riforma
liturgica che ridava spazio alla Parola di Dio nelle lingue vernacole, con la
riforma della curia (1967) che confermava e definiva il ruolo del
Segretariato per l’unità, e, all’esterno, con iniziative di dialogo, tra le quali
spicca il «dialogo della carità» specialmente nei confronti della chiesa
d’Oriente, come è testimoniato dal Tomos Agapis. L’azione del pontefice
trovava perfetta corrispondenza nell’opera del patriarca Atenagora, come
ben dimostra anche lo scambio di visite che si resero nel 1967, a Istanbul e
a Roma, e i pazienti lavori preliminari per arrivare a istituire una
commissione teologica mista. Nei medesimi anni, e in modo analogo, si
moltiplicano visite e colloqui non ufficiali sia tra cattolici e ortodossi
orientali, sia tra ortodossi (calcedonesi) e ortodossi orientali, in un clima
crescente di ritrovata fraternità che predisponeva a successivi passi e
accordi ufficiali. Dichiarazioni comuni conclusero gli incontri di Paolo VI
con il catholikos Vasken I degli Armeni (1970), con il patriarca Ignatius
Yaqub III dei siro-ortodossi (1971), con papa Shenuda III dei copti
ortodossi (1973).
Il Segretariato per l’unità a Pentecoste del 1967 pubblicò il Direttorio
ecumenico, che mirava all’istituzione di commissioni ecumeniche
diocesane, trattava della validità del battesimo nelle altre chiese e intendeva
promuovere l’ecumenismo spirituale: questo primo documento, che fu
completato nel 1970 da una seconda parte, risultò fondamentale per
orientare i cattolici nell’azione ecumenica. Il congresso dei laici (Roma, 11-
18 ottobre 1967) vide un’ampia partecipazione di esponenti delle altre
chiese, e fornì anche l’occasione per il primo incontro cattolico-metodista
ad Ariccia, da cui si avviò il dialogo ufficiale. I rapporti tra cattolici e
luterani, allacciati durante il concilio, permisero di giungere a istituire una
Commissione mista (1967-1971), che preparò il rapporto di Malta (1972) su
«Il Vangelo e la chiesa». La consultazione di Fede e costituzione (Bristol,
1967) riunì esperti delle chiese attorno al tema «Lo Spirito Santo e la
cattolicità della chiesa», e promosse studi sui fattori non teologici che
condizionano la discussione o l’unità ecclesiale (e certamente l’amicizia e
la stima reciproca apparivano tra questi ultimi). A Pentecoste del 1968 il
Segretariato e l’Alleanza biblica universale pubblicavano un documento
congiunto: le Direttive per la cooperazione interconfessionale nella
traduzione della Bibbia, che risultò di straordinaria importanza per il lavoro
ecumenico in campo biblico, e fu successivamente aggiornato nel 1987.
Nella seconda metà degli anni Sessanta il Consiglio ecumenico riuscì a
promuovere e consolidare un chiaro impegno ecumenico da parte di tutte le
famiglie confessionali mondiali, e un altro positivo avvenimento fu, nel
1970, la fusione nell’Alleanza riformata mondiale di due organismi: il
Consiglio internazionale congregazionalista e l’Alleanza mondiale delle
chiese riformate (presbiteriane).
A Uppsala, dal 4 al 20 luglio 1968, si tenne la quarta assemblea del CEC
sul tema, tratto dalla riunione di Bristol di Fede e costituzione, «Ecco, io
faccio nuove tutte le cose». Vi parteciparono 704 delegati, oltre a centinaia
fra osservatori, ospiti, collaboratori, e 750 giornalisti; 14 furono gli
osservatori ufficiali cattolici. L’assemblea, impressionata dall’assassinio di
Martin Luther King, il cui intervento era atteso a Uppsala, e riecheggiando
temi della Gaudium et spes, avviò l’apertura all’«ecumenismo secolare»,
dichiarando: «Le Chiese hanno bisogno di una nuova apertura al mondo
nelle sue aspirazioni, nelle sue realizzazioni, nella sua irrequietezza e nella
sua disperazione», e affermando la natura etica e sociale del culto. Trattò
anche dell’eventuale entrata di Roma nel CEC (poi non attuata), e designò i
primi nove esperti cattolici membri a pieno titolo di Fede e costituzione. Tra
i nuovi programmi, istituì quello di lotta al razzismo.
La Conferenza di Uppsala fu anche occasione per incontri tra riformati e
cattolici, che decisero di istituire una prima fase di dialoghi ufficiali (1968-
1977), distinti da quelli luterano-cattolici, cui pure partecipavano dei
riformati. La Federazione luterana mondiale e la Conferenza di Lambeth
iniziarono anch’esse un dialogo teologico internazionale (1968-1973).
Tanto proliferare di dialoghi ufficiali internazionali si può comprendere
tenendo presente che da decenni le relazioni ecumeniche e i dialoghi locali,
nazionali e regionali, oltre che gli studi di Fede e costituzione, avevano
preparato un terreno particolarmente fecondo per la ricerca comune e il
confronto teologico, e si erano creati centri e istituti di formazione
ecumenica. Gruppi di antica tradizione, come quello di Dombes,
cominciarono a pubblicare documenti di più vasto respiro su punti
fondamentali: nel 1971 Verso una stessa fede eucaristica? e
successivamente altri studi sui ministeri, sullo Spirito Santo, la chiesa e i
sacramenti.
Per iniziativa della chiesa cattolica, fu fondato nel 1972 l’Istituto
ecumenico voluto da Paolo VI a Tantur, tra Gerusalemme e Betlemme, che
accoglie studiosi, pastori e laici, e i cui programmi sono approvati da un
comitato consultivo interconfessionale.

La «Concordia di Leuenberg» (1973)

Frutto particolarmente significativo del dialogo che ha coinvolto i


protestanti in questi anni, è stata la Concordia di Leuenberg (1973) fra le
chiese europee di tradizione riformata e luterana, cui si unirono valdesi e
fratelli boemi. Si trattò di un testo fondamentale per la realizzazione della
piena comunione di pulpito e altare fra chiese diverse, ma concordi
sull’insegnamento del Vangelo e sull’amministrazione dei sacramenti, che
influenzò profondamente in altre parti del mondo il movimento per l’unità
fra i protestanti, e favorì l’azione unita dei protestanti nelle relazioni con gli
altri cristiani, per giungere all’unità. Tra il 1973 e il 1988 erano circa 80 le
chiese che sottoscrissero il documento di concordia.
Diversa fu la genesi del dialogo fra cattolici e carismatici, dovuto anche
alla perseverante azione di David du Plessis (1905-1987), e che nel periodo
iniziale si svolse con l’assistenza dei carismatici protestanti (1972-1976),
ma poi continuò senza di loro, scandito in periodi quinquennali.
Iniziarono quindi i dialoghi tra l’Alleanza battista mondiale e l’Alleanza
riformata mondiale (1973-1977), che condussero a un rapporto sulla
concezione della missione della chiesa e del senso del battesimo,
successivamente rivisto e pubblicato nel 1982. Dal 1973 al 1976 anglicani e
ortodossi iniziarono la discussione dottrinale, che si concluse con la
Dichiarazione concordata di Mosca, in cui si riconosceva tra l’altro che il
Filioque non faceva parte del testo originario del Simbolo niceno-‐
costantinopolitano; questi risultati sarebbero stati utili anche nel dialogo
cattolico ortodosso, che si stava preparando in quegli anni.
Le relazioni tra cattolici e ortodossi orientali, fatte di visite, di incontri e
dialoghi non ufficiali, tra cui quelli tenuti a Vienna dal 1971 dal 1978 per
iniziativa del cardinale Franz König e della fondazione Pro Oriente,
portarono nel 1974 all’inizio ufficiale del dialogo con i copti ortodossi, e
apparve chiaramente che, sul fondamento del riscoperto accordo
cristologico, si poteva mirare al ristabilimento della piena comunione
ecclesiale.
Nel 1975, dal 23 novembre al 10 dicembre, a Nairobi (Kenia) si svolse la
quinta assemblea del CEC, che aveva per argomento principale «Gesù
Cristo libera e unisce», e cercò di conciliare l’impegno sociale con la
spiritualità cristiana. I partecipanti furono 676 delegati di 285 chiese. Temi
assai dibattuti furono il dialogo interreligioso, l’evangelizzazione, la ricerca
di una «società giusta, partecipativa e sostenibile».
L’assemblea propose di considerare la chiesa come «una comunità
conciliare di chiese locali, esse stesse autenticamente unite […] dallo stesso
battesimo e dalla stessa eucaristia; riconoscono reciprocamente i loro
membri e i loro ministri. Sono unite dal comune impegno di professare il
Vangelo di Cristo…».
Negli anni seguenti i dialoghi teologici internazionali s’infittirono:
ortodossi e vecchi cattolici ripresero il dialogo (1975-1987) che in passato
già avevano cominciato, con lo scopo di ricongiungersi nella piena
comunione; nel 1977 i cattolici iniziarono altri dialoghi teologici di vario
tipo: con i discepoli (1977-1981) e con gli evangelici (1977-1984), con i
quali ultimi discussero sulla missione cristiana, in tre incontri, ma senza
mirare alla unione ecclesiale completa; conversazioni bilaterali fra luterani
e metodisti, aventi molte tradizioni comuni, si tennero dal 1977 al 1984. Il
dialogo fra ortodossi e anglicani subì invece una sospensione (1977-1979),
a causa di difficoltà degli ortodossi di fronte alla prassi anglicana di
ordinazione delle donne al presbiterato. Gli anglicani intrapresero un
dialogo con i riformati (1981-1984), allo scopo di superare i conflitti
dottrinali del passato. Infine non va dimenticato che il movimento
femminile, iniziato da una decina d’anni, riuscì a organizzare nel 1978 a
Bruxelles la prima consultazione delle donne cristiane europee, e il tema del
femminismo s’impose così nell’ambiente ecumenico.

Azione ecumenica di Giovanni Paolo II

Il nuovo pontefice, eletto nel 1978 dopo il brevissimo pontificato di


Giovanni Paolo I, mostrò fin dall’inizio con forza il proprio orientamento
ecumenico chiaro e costante: durante la visita al Fanar, il palazzo del
patriarca di Costantinopoli, nel 1979, istituì con Dimitrios I la Commissione
teologica congiunta con le chiese ortodosse, le cui riunioni iniziarono con
una prima serie di incontri nel 1980 a Patmos e Rodi, e si conclusero nel
1982 con il documento di Monaco sull’«Eucaristia alla luce della Trinità».
Quanto ai rapporti con gli ortodossi orientali, in un documento comune con
papa Shenuda III di Alessandria datato 23 giugno 1979, Giovanni Paolo II
dichiarava che «L’obiettivo dei nostri sforzi è la piena comunione di fede
che si esprime nella comunione della vita sacramentale e nell’armonia di
rapporti reciproci tra le nostre due chiese sorelle nell’unico Popolo di Dio»,
in un’unità senza assorbimento o dominazione di una chiesa sull’altra. Nel
documento, si riconosceva che una volta raggiunta l’unità, il papa di
Alessandria sarà l’unica autorità della chiesa copta, e pertanto il patriarcato
copto cattolico, istituito nel secolo XIX in conformità alla teoria
unionistica, non avrà più motivo di continuare. Questo accordo è
fondamentale perché mostra uno spirito di conciliazione, utile anche per
orientare serenamente verso la composizione di analoghe tensioni, ben più
gravi e attuali, tra cattolici orientali e ortodossi in Ucraina.
La commissione mista luterani-cattolici produsse tre documenti su temi
fondamentali per l’unità: Das Herrenmahl (La cena del Signore, 1978), La
via verso una maggiore unità (1980) e Il ministero pastorale nella Chiesa
(1981); due altri documenti furono emessi in occasione del 450º centenario
della Confessione di Augusta e nel 500º anniversario della nascita di Martin
Lutero, nel 1980 e nel 1983, e si fece strada una sempre più profonda
convergenza, che avvicinò la meta dell’unità visibile tra cattolici e luterani.
Eguale impressione suscitò l’ampia convergenza che risultava nel primo
rapporto del dialogo anglo-cattolico (ARCIC I) nel 1981, cui seguì
immediatamente, l’anno dopo, l’istituzione della seconda Commissione di
dialogo (ARCIC II), durante la visita di Giovanni Paolo II in Gran
Bretagna. Anche tutti gli altri contatti e dialoghi in corso sotto il precedente
pontificato vennero portati avanti con decisione, grazie all’opera del
Segretariato per l’unità, alla cui guida dal 1968 al 1989 fu il cardinale
Johannes Willebrands; nel 1988, con la riforma della curia romana, il
segretariato divenne Consiglio pontificio, e dal 1990 è presieduto dal
cardinale Edward Idris Cassidy.
L’attività pratica di cooperazione attuata da Sodepax parve invece subire
una flessione a partire dal 1981, anche se in forme differenti si cercò sempre
di manifestare il comune impegno cristiano dinanzi ai bisogni di pace e di
giustizia del mondo. Un Gruppo consultivo misto su pensiero sociale e
azione sostituì Sodepax nel 1981, ma cessò l’attività nel 1988.

Il documento di Lima «Battesimo eucaristia e ministeri» (BEM,


1982)

La Commissione Fede e costituzione nella riunione di Lima nel 1982


raccolse in un documento di fondamentale importanza i frutti di lunghi studi
iniziati fin dal 1927 a Losanna e continuamente allargati e arricchiti,
tenendo conto anche dei risultati dei numerosi dialoghi teologici bilaterali e
multilaterali che in anni più recenti le chiese avevano iniziato direttamente
al fine di camminare verso la piena unità. L’attenzione per l’eucaristia si era
espressa nel 1964 con l’avvio di studi su «L’eucaristia: un sacramento di
unità» (J.J. von Allmen), ma essa ritornava puntualmente di attualità nelle
riunioni ecumeniche, allorché alcuni partecipanti ponevano la questione
dell’ospitalità eucaristica o «intercomunione» (secondo la terminologia
cattolica, «communicatio in sacris»). Anche la tematica dei ministeri era
riemersa più volte, in precedenza, perché toccando la struttura essenziale e
concreta delle chiese (episcopali, presbiteriane, congregazionaliste)
costituiva inevitabilmente un punto delicato di confronto e di possibili
tensioni. Nella riunione della Commissione di Fede e costituzione ad Accra
nel 1974 vennero redatte tre dichiarazioni concordate su battesimo,
eucaristia e ministeri, dalle quali prese forma il documento di Lima.
A proposito del battesimo, sul cui significato c’erano divergenze fra le
chiese, il BEM afferma che «tutte le chiese riconoscono la necessità della
fede per ricevere la salvezza contenuta e manifestata nel battesimo», e che il
battesimo sia di credenti adulti sia di bambini si colloca «nella Chiesa in
quanto comunità di fede».
La presenza reale, vivente e attiva di Cristo nell’eucaristia è affermata
dal BEM, che vede in essa il segno vivo ed efficace del sacrificio di Cristo.
Il ministero ordinato è posto nel contesto generale dell’intero popolo di
Dio, e si riconosce che «il ministero tripartito di vescovo, presbitero e
diacono può servire oggi come un’espressione dell’unità che cerchiamo, e
anche come mezzo per raggiungerla». Quanto alla natura teologica del
BEM, esso non è una dichiarazione dogmatica, ma si offre alle chiese come
un sussidio teologico per il dialogo ecumenico. Molte chiese, compresa la
cattolica, consigli di chiese, gruppi di teologi, reagirono al BEM negli anni
seguenti, e le loro risposte costituiscono un ulteriore elemento di
valutazione delle reali convergenze dottrinali per ricercare un confronto
sempre più prossimo sulla via dell’unità. Il documento di Lima rimane il
frutto più alto del dialogo dottrinale multilaterale fra le chiese, punto di
riferimento per l’ecumenismo contemporaneo.
A Lima fu anche celebrata l’eucaristia in modo da tener conto del
documento approvato dalla commissione (la cosiddetta «Liturgia di Lima»).
L’anno seguente a Vancouver, il CEC convocò la sesta assemblea
mondiale, dal 24 luglio al 10 agosto, che fu la più rappresentativa, con 847
delegati di 301 chiese e alcune migliaia di partecipanti, e il cui tema
principale fu «Gesù Cristo, Vita del mondo».
Il documento di Lima, o BEM, faceva credere ormai prossima l’unità
completa delle chiese, e nel medesimo tempo fu sentita tutta l’urgenza di
lottare per la dignità umana nel mondo. Da questa esigenza scaturì negli
anni Ottanta e Novanta l’impegno e la messa in atto di quello che fu
chiamato – con espressione che suscitò qualche perplessità nella chiesa
cattolica – il «processo conciliare» per la giustizia, la pace e la salvaguardia
del creato. L’assemblea sottolineò l’unità organica tra fede, vita
sacramentale, costituzione ecclesiale e impegno mondano, in conformità al
modello eucaristico.
Il documento di Lima, pur con i limiti che furono rilevati, per cui non
poteva esprimere un accordo sufficiente a motivare la piena comunione
delle chiese, costituì una base di confronto che stimolò ulteriori sintesi,
incoraggiò a intraprendere nuove fasi di dialogo più approfondito, rese più
consapevoli del valore della ricerca paziente dell’unità. Il gruppo misto di
lavoro tra CEC e chiesa cattolica, nel suo quinto documento (1983) tracciò
un bilancio dei temi trattati tra il 1965 e il 1983, e i dialoghi tra chiese, che
nel 1984 in tutto il mondo erano circa 130, non solo continuarono, ma
crebbero di numero e di impegno dottrinale nel decennio successivo,
costituendo un esteso corpus ormai tanto vasto, da evocare l’analoga
crescita, in altre epoche, del Corpus iuris di Giustiniano o del diritto
canonico medievale.

L’ecumenismo dopo Lima

Nella fase più recente (1983-1996) dell’ecumenismo contemporaneo spicca


l’intensificazione dei dialoghi teologici ufficiali, che a livello internazionale
raddoppiano di numero, raggiungendo la ventina, e cominciano a dare come
frutto, in non pochi casi, il riconoscimento della piena comunione fra le
chiese, o che perlomeno si avvicinano a questa meta, anche se poi nella
pratica occorrerà più tempo per la ricezione completa di questi risultati, sia
a livello istituzionale, sia a livello locale. L’attività del Consiglio ecumenico
continua in modo deciso, nel settore di Fede e costituzione, con la quinta
assemblea mondiale, e nella Assemblea di Camberra (1991), senza
trascurare iniziative di notevole portata regionale o mondiale, come a
Basilea e Seul, l’emanazione di importanti documenti e l’attività per la
promozione della dignità umana. In questo periodo la chiesa cattolica
riespone in forma sistematica, catechetica e canonica, la propria dottrina e
prassi nelle quali è confermata la priorità per l’impegno ecumenico e
missionario, mentre il papa a metà degli anni Novanta propone un
coraggioso programma ecumenico e interreligioso in preparazione al terzo
millennio.

Dialoghi dottrinali

Nell’area dell’ortodossia si notano novità significative in tutti e tre i rami:


ortodossi (calcedonesi), ortodossi orientali (precalcedonesi), assiri
d’Oriente (un tempo detti «nestoriani»). Gli ortodossi nonostante la
difficoltà insorta con gli anglicani sul punto dell’ordinazione delle donne
riprendono le discussioni dottrinali, interrotte nel 1977, e nel 1989 iniziano
la terza fase dei colloqui; per la prima volta, poi, nel 1985 si forma una
commissione mista internazionale con i luterani, che nel 1989 pubblica la
dichiarazione comune su «Il canone e l’ispirazione». Nel 1988 comincia il
dialogo ufficiale ortodosso-riformato, che nel 1991 conduce a una
dichiarazione comune sulla Trinità e sul riconoscimento del Credo niceno-
costantinopolitano. Ortodossi e ortodossi orientali nel 1989 si riuniscono in
una commissione mista nel monastero di Amba Bishoi a Wadi al-Natrun
(Egitto) e si propongono di ristabilire la comunione partendo da una
dichiarazione cristologica comune, a partire dalla quale nel 1990 a
Chambésy giungono alla conclusione che essi partecipano dell’unica fede e
tradizione apostolica, fondamento della loro unità e comunione.
Gli ortodossi riprendono anche il dialogo con i vecchi cattolici e
giungono a due dichiarazioni comuni (1985 e 1987) che preparano la via
della comunione di fede e di sacramenti. Un dialogo tra ortodossi russi e
discepoli viene intrapreso nel 1987. Quanto al dialogo con la chiesa
cattolica, che aveva subìto una sospensione nel 1990 a motivo delle tensioni
in Ucraina fra cattolici orientali e ortodossi a proposito della restituzione ai
primi di beni ecclesiastici confiscati in epoca staliniana, esso riprese dopo la
condanna congiunta dell’«uniatismo» come metodo di ricerca dell’unità
(documento di Freising, 1990) e con un documento di lavoro (Ariccia,
1991) sul modo di comporre tali divergenze.
Gli ortodossi orientali iniziarono nel 1983 un dialogo teologico con gli
anglicani nel Seminario di St Albans, in Inghilterra, e nel 1987
l’arcivescovo Rubert Runcie di Canterbury e papa Shenuda III di
Alessandria resero una comune dichiarazione di fede a Amba Bishoi. Varie
chiese orientali ortodosse (copta, ortodossa siro-malankarese, malankarese
siro-ortodossa) sono entrate in dialogo con la chiesa cattolica, mentre non è
così per la chiesa etiopica e quella armena apostolica, con le quali ultime
peraltro vi è una sostanziale comunione di fede, e le visite fraterne dei
patriarchi alla chiesa sorella di Roma sono divenute un fatto normale.
Nuove dichiarazioni comuni hanno concluso gli incontri di Giovanni
Paolo II con il catholikos Karekin II degli armeni (1983), con il patriarca
siriano Ignatius Zakka I Iwas (1984), con l’Abuna Paulos, patriarca della
chiesa d’Etiopia (1993). Il dialogo copto-cattolico, nella sua seconda fase
(1988-1992) si è occupato di differenze dottrinali in vista di un accordo per
ristabilire la piena comunione di fede. I dialoghi tra cattolici e le due chiese
siro-malankaresi iniziarono nel 1988 e nel 1990, dopo la visita pastorale di
papa Giovanni Paolo II in India (1986), e si occuparono tra l’altro dei
matrimoni misti; il passo più grande verso il ristabilimento della piena
comunione è stato compiuto negli incontri con la chiesa ortodossa siro-
malankarese (Kottayam 1989 e 1990), e l’accordo cristologico raggiunto
riprende la dichiarazione comune del papa e del patriarca di Antiochia Mar
Ignatius Zakka I Iwas nel 1984. Nel 2004 si è tenuto il primo incontro della
Commissione internazionale congiunta per il dialogo teologico fra la Chiesa
cattolica e le Chiese ortodosse orientali, passo significativo per un ulteriore
avvicinamento nella prassi pastorale.
I rapporti della chiesa assira dell’Oriente con la chiesa cattolica, iniziati
nel 1984, portarono all’importante dichiarazione cristologica di fede
comune, fra il patriarca Mar Dinkha IV e papa Giovanni Paolo II, a Roma,
nel 1994, con la quale si ricompose l’armonia dottrinale spezzata nel 431.
Per realizzare una piena comunione, occorrerà però comporre le diverse
esigenze della struttura conciliare dell’unica chiesa, e del ministero di Pietro
(primato), temi verso i quali questi dialoghi ora si stanno orientando; inoltre
i dialoghi tra ortodossi e ortodossi orientali, e tra ortodossi e cattolici, hanno
conseguenze dirette anche per i rapporti tra cattolici e ortodossi orientali.
Nell’area della Riforma si costatano poi altre novità di rilievo. Anglicani
e luterani, allo scopo di giungere alla piena comunione, nel 1983
raccolgono nel rapporto di Cold Ash le principali conclusioni e
raccomandazioni pastorali, incoraggiando la reciproca ospitalità eucaristica,
e nel 1986 istituiscono un comitato congiunto. Anche luterani e riformati
istituirono una commissione congiunta nel 1985, la quale nel rapporto del
1989 sollecitò a dichiarare la piena comunione reciproca fra chiese luterane
e riformate nel mondo. Discepoli e riformati, che avevano iniziato nel 1984
il dialogo, dichiararono nel rapporto di Birmingham (1987) il reciproco
riconoscimento «come espressioni visibili dell’unica chiesa di Cristo».
Benché con obiettivi più limitati, ebbero inizio nel 1984 i dialoghi dei
battisti con i cattolici e con i luterani, e continuarono regolarmente quelli
dei cattolici con discepoli, riformati, metodisti, pentecostali. Metodisti e
riformati iniziarono delle consultazioni nel 1985 e 1987. Il deciso impegno
del pentecostalismo per l’unità dei cristiani fa parlare di «quarto
ecumenismo», come fase ulteriore del cammino ecumenico (M. Introvigne).
Le due grandi serie di dialoghi tra anglicani e cattolici (ARCIC II) e tra
cattolici e luterani sono proseguite con metodicità e impegno. L’ARCIC II
ha trattato i temi della salvezza e della chiesa, della chiesa come
comunione, dell’eucaristia, del ministero e della morale; sul fondamento
della «comunione reale, sebbene ancora imperfetta» fra anglicani e cattolici,
ha ricordato gli ostacoli legati alla questione dell’autorità e alla ordinazione
di donne all’episcopato e al presbiterato. Nel 2004 è stato pubblicato, quale
approfondimento auspicato da ARCIC II nel 1981, il Rapporto congiunto di
studio sul tema Maria: grazia e speranza in Cristo, e nel 2011 è iniziata la
terza serie di incontri (ARCIC III) sul tema della Chiesa come comunione.
In modo analogo sono proceduti i dialoghi fra cattolici e luterani: dopo il
documento congiunto del 1984 «L’unità davanti a noi», iniziò la terza fase
del dialogo (1986-1993), che trattò di «Chiesa e giustificazione», nella
prospettiva della realizzazione della comunione ecclesiale cattolico-
luterana; questioni che ancora originano divisioni (episcopato e papato,
santi e mariologia, scrittura e tradizione, numero dei sacramenti, problemi
etici) verranno ora prese in considerazione, ed è stata già avanzata la
proposta di istituire la Commissione luterano-cattolica per l’unità.
I dialoghi regionali e locali sono pure continuati, e tra i frutti degli studi
ecumenici non ufficiali va segnalato il contributo del gruppo cattolico-
protestante di Dombes, Pour la conversion des Eglises (1991), che
sottolinea il «grande processo di conversione e di riconciliazione delle
diversità nella ricerca della comunione tra le identità confessionali», in atto
nel movimento ecumenico contemporaneo.

Il Consiglio ecumenico dopo Lima

Nel periodo più recente le iniziative del Consiglio ecumenico proseguono


nei settori della preghiera comune, della missione, dell’impegno nel mondo
e, attraverso l’opera di Fede e costituzione, della riflessione teologica. Per
quanto riguarda le reazioni delle chiese e dei teologi al BEM, il testo è stato
valutato come una tappa fondamentale per il consenso tra le chiese,
espressione di una concordanza non compromissoria, ma sulla radice
dell’unità già esistente, e sulla quale si intende costruire (W. Kasper). La
chiesa cattolica, nella sua risposta del 1987, ha dichiarato che «se alcune
proposte del BEM sul ministero fossero accolte in generale, questo
costituirebbe il passo più importante verso l’unità dei cristiani»; nello stesso
tempo, pur esprimendo un apprezzamento di fondo, ha segnalato la
necessità di ulteriori approfondimenti in vari campi.
Nel 1989 il CEC organizzò a San Antonio, Texas, la quarta Conferenza
sulla missione e evangelizzazione, sul tema «Sia fatta la tua volontà: la
missione secondo Cristo», cui parteciparono anche venti delegati ufficiali
cattolici. L’anno seguente a Seul ebbe luogo il convegno su «Giustizia, pace
e salvaguardia del creato», cui pure parteciparono venti osservatori cattolici.
A Camberra, Australia, si tenne la settima assemblea del CEC, dal 7 al 20
febbraio 1991, sul tema «Vieni, Spirito Santo e rinnova l’intero creato», con
la partecipazione di 842 delegati di 317 chiese membri. Fra gli ospiti vi
erano anche dieci credenti di altre fedi. Le discussioni toccarono ancora i
temi del Convegno di Seul, ma fu sollevata la critica che un’accentuazione
dell’impegno mondano faceva passare in secondo ordine la finalità
ecumenica originaria e specifica del ristabilimento dell’unità cristiana, e il
rischio del sincretismo fu vivamente avvertito. In effetti la questione dei
rapporti che intercorrono fra la missione specifica – l’evangelizzazione – e
il servizio «secolare» nel mondo, resta all’ordine del giorno, sia come
problema teorico che come prassi pastorale delle chiese.
A Camberra fu presentato il sesto rapporto del gruppo misto di lavoro
con la chiesa cattolica, nel quale sono enunciati gli ambiti della
collaborazione che sono considerati prioritari: ecclesiologia, formazione
ecumenica, testimonianza e missione, pensiero e azione sociale. In un
documento allegato al rapporto, su «Chiesa locale e universale», sono stati
indicati segni di progresso nella comprensione reciproca dell’ufficio del
papato, che «rimane una questione controversa nell’ecumenismo», e si è
trattato della «forma della futura unità».
Dopo Camberra il Segretariato del Consiglio ecumenico è stato
ristrutturato in quattro unità programmatiche: Unità e rinnovamento,
Missione educazione e testimonianza, Giustizia pace e creato, Condivisione
e servizio. Nel 1993 il Gruppo misto con la chiesa cattolica ha pubblicato il
documento di studio su «La formazione ecumenica», dove si afferma che
tale formazione deve comprendere anche il problema del dialogo
interreligioso e del secolarismo, benché il dialogo ecumenico vada
nettamente distinto da quello interreligioso.
Fede e costituzione. La Commissione Fede e costituzione, che si compone
attualmente di 120 membri, di cui 12 cattolici, a pieno titolo partecipanti
con diritto di voto, prese parte a Camberra alla preparazione della
dichiarazione «L’unità della chiesa come Koinonia: dono e vocazione», ove
viene detto che «la meta della piena comunione sarà raggiunta quando tutte
le chiese potranno riconoscere pienamente l’una nell’altra la chiesa una,
santa, cattolica e apostolica». In un altro studio importante che Fede e
costituzione pubblicò nel 1990 su «Chiesa e mondo: l’unità della chiesa e il
rinnovamento della comunità umana», fu espressa la convinzione
ecumenica che la vocazione delle chiese all’unità visibile è anche vocazione
«alla testimonianza e al servizio comuni per il rinnovamento della comunità
umana», rigettando così la contrapposizione tra unità della chiesa e servizio
all’unità del mondo. Un terzo studio fu nel 1991 «Confessando l’unica fede:
una spiegazione ecumenica della fede apostolica come è confessata nel
Credo niceno-costantinopolitano (381)»; in esso si auspica che almeno in
occasioni speciali ci si possa riunire nella professione di questo Credo come
testimonianza di comunione nella fede della chiesa (una tale professione
comune era stata celebrata il 6 dicembre 1987 da Giovanni Paolo II e
Demetrio I).
A Santiago de Compostela, in Spagna, Fede e costituzione convocò la
quinta conferenza mondiale, dal 3 al 14 agosto 1993, che discusse il tema
«Verso la Koinonia nella fede, nella vita e nella testimonianza»,
riprendendo la dichiarazione di Camberra. Dei 260 partecipanti, 26 erano i
cattolici delegati con diritto di voto, e il cardinale E.I. Cassidy parlò su «Il
futuro del movimento ecumenico», auspicando che Fede e costituzione
accresca i rapporti con la terza unità del CEC (Giustizia pace e creato). Il
tema della chiesa come «comunione» (Koinonia) si è rivelato centrale per
esprimere la condivisione delle chiese nella fede, nell’annuncio, nel
servizio, nella difesa di giustizia pace e creato. Osservando che «esiste una
crescente convergenza tra le chiese sulla necessità di un ministero di
supervisione (episcopé) a tutti i livelli della vita della chiesa», l’assemblea
ha, infine, raccomandato di iniziare uno studio «sulla questione di un
ministero universale dell’unità cristiana».

I consigli di chiese
I consigli di chiese, libere associazioni che permettono di condividere e
confrontare riflessioni e azione comune, sono passati da 30 nel 1948 a circa
90 nel 1991, a livello nazionale; i consigli locali poi sono decine di
migliaia. Nel 1986 la chiesa cattolica era presente in 33 consigli nazionali, e
in tre conferenze regionali (Caraibi, Pacifico, dal 1990 Medio Oriente), e
l’interesse cattolico a partecipare ai consigli è manifesto e crescente. Nel
1993, alla terza consultazione internazionale dei consigli nazionali di
chiese, i cattolici erano presenti in 41 consigli, e la loro importanza per lo
sviluppo del movimento ecumenico è sempre più chiaramente riconosciuta.
Tra le numerose iniziative recenti, va ricordata l’assemblea ecumenica
europea «Pace giustizia e salvaguardia del creato» (Basilea, 15-21 maggio
1988), convocata dalla Conferenza delle chiese europee (KEK) e dal
Consiglio delle conferenze episcopali europee (CCEE), cui parteciparono
700 delegati. Consapevoli della «responsabilità decisiva» dei cristiani e
delle chiese in Europa, i partecipanti hanno fatto ogni sforzo per vedere
nelle diverse tradizioni non più motivo di separazione, ma di arricchimento
reciproco, e hanno invocato la grazia della conversione per «dimorare nella
comunione fraterna e nella solidarietà».

L’ecumenismo nel diritto canonico, nella catechesi e nella


pastorale cattolica

Dal 1983 la chiesa cattolica prende iniziative del più alto livello giuridico e
dottrinale, che confermano e danno nuovo impulso alla sua azione
ecumenica, iniziata con il Concilio vaticano secondo: «La promulgazione
del nuovo Codice di diritto canonico per la chiesa latina (1983) e quella del
Codice dei canoni delle chiese orientali (1990) hanno creato, in materia
ecumenica, una situazione disciplinare in parte nuova per i fedeli della
chiesa cattolica. Allo stesso modo il Catechismo della chiesa cattolica,
pubblicato nel 1992, ha posto la dimensione ecumenica nell’insegnamento
di base per tutti i fedeli della chiesa». Questo è il giudizio, esposto nella
premessa al Direttorio ecumenico (1993), che costituisce il documento più
recente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, nel quale sono dati
norme, orientamenti e motivazioni per la pratica dell’azione ecumenica. Nel
primo capitolo, il Direttorio afferma che Dio «attira tutta la famiglia umana
e anche l’intera creazione all’unità in lui» (n. 11), e questa unità è, nel
popolo di Dio, una comunione trinitaria e universale (n. 13), quindi tratta
dell’organizzazione ecclesiale, della formazione, della comunione tra i
battezzati, della collaborazione, del dialogo e della testimonianza comune.
Il pontificato di Giovanni Paolo II appare sempre più segnato dalla
vocazione ecumenica, dalla sollecitudine per la pace e per i poveri, dallo
slancio dell’evangelizzazione rinnovata, in vista del grande giubileo del
2000. Nel 1986, nella visita alla sinagoga di Roma e nella grande preghiera
per la pace ad Assisi, si vide come un’icona anticipatrice della prospettiva
papale; l’anno seguente l’enciclica sociale Sollicitudo rei socialis rivolgeva
l’appello conclusivo a tutti i cristiani, agli ebrei, ai musulmani, a tutti i
seguaci delle grandi religioni del mondo. L’enciclica missionaria
Redemptoris missio (1990) afferma anzitutto che «l’impulso missionario
appartiene all’intima natura della vita cristiana e ispira anche
l’ecumenismo» (Introduzione): molti di questi argomenti vengono ripresi e
applicati al contesto europeo durante il Sinodo convocato dal papa a Roma
nel 1991; la dichiarazione sinodale Tertio millennio iam tratta della nuova
evangelizzazione dell’Europa e riconosce la necessità del dialogo e della
collaborazione con gli altri cristiani, con gli ebrei e con tutti coloro che
credono in Dio. Finalmente, nella lettera apostolica di preparazione al
giubileo Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II propone di
sottolineare la dimensione ecumenica e universale del santo giubileo con un
incontro pancristiano, e addita tre tappe preparatorie (caratterizzate dalla
riflessione su Cristo, lo Spirito, il Padre), orientate a un incontro a
Betlemme, Gerusalemme e al Sinai, e accompagnate dal dialogo
interreligioso, in particolare con ebrei e fedeli dell’Islam. Questa
prospettiva inclusiva e globale trova espressione organica e completa
nell’Enciclica sull’ecumenismo Ut Unum Sint (30 maggio 1995) –
indirizzata dal papa non più solo ai cattolici ma a tutti i cristiani del mondo
– nella quale Giovanni Paolo II si rivolge alle Chiese ortodosse d’Oriente
chiamandole “chiese sorelle”, e pone la fede e il servizio all’umanità come
fondamenta della fraternità cristiana che unisce tutti i fedeli. Un ulteriore
complemento e sviluppo in questa stessa direzione si coglie nell’Enciclica
del santo padre Francesco Laudato si’ sulla cura del mondo quale “casa
comune” (24 maggio 2015), a partire dalla “preoccupazione di unire tutta la
famiglia umana” (n. 13) e con riferimento al messaggio del patriarca
ecumenico Bartolomeo.
La Dichiarazione di Augusta sulla Giustificazione (1999)

Nel 1999 ad Augusta (Augsburg) si tenne una liturgia comune luterano-


cattolica, con la firma della Dichiarazione ufficiale congiunta sulla
Giustificazione, nella quale si afferma che «L’insegnamento della Chiesa
Luterana presentato in questa dichiarazione non è più toccato dalle
condanne del Concilio di Trento. Le condanne delle Confessioni di fede
luterane non riguardano più l’insegnamento della Chiesa cattolica romana
presentato in questa dichiarazione». La Federazione Luterana Mondiale nel
2012 ha poi pubblicato il documento di studio sui Fondamenti biblici della
dottrina della Giustificazione.
Sempre nel 1999, l’arcivescovo di Canterbury, G. Garey, e il presidente
del Pontificio Consiglio per l’Unità, cardinale E.I. Cassidy, hanno
convocato a Missisauga (Toronto) un incontro di vescovi cattolici e
anglicani, concluso da una Dichiarazione comune che esprime i tratti
distintivi «di questo nuovo stadio di comunione nella missione», secondo
l’idea cara a L.-M. Tillard, di una koinonia (comunione) già visibile e che
ora richiede decisioni coraggiose.

Relazioni ebraico-cristiane

Sin dal 1948, dopo la catastrofe della Shoà in Europa che segnò la morte
atroce per milioni di ebrei e la fine di gran parte della millenaria tradizione
ebraica europea, il Consiglio Ecumenico delle Chiese costituitosi a Ginevra
riconobbe la fondamentale importanza del rapporto fra la chiesa e il popolo
ebraico, come già aveva chiaramente indicato Karl Barth. Nella chiesa
cattolica, la consapevolezza del legame tra ecumenismo e relazioni con
Israele ha trovato una manifestazione istituzionale fin dal 1966, con
l’istituzione di un Ufficio vaticano per i rapporti cattolico-ebraici, collegato
con il Segretariato per l’unità e diretto dal cardinale Bea. Nel 1970 le
principali istituzioni ebraiche mondiali, riunitesi nel Comitato
internazionale ebraico per le relazioni interreligiose (IJCIC), dettero vita,
insieme con delegati della Santa Sede, al Comitato internazionale di
collegamento cattolico-ebraico (ILC). Quest’organo congiunto dal 1970 al
2016 ha tenuto 23 riunioni, la più recente della quali a Varsavia nell’aprile
2016 sul tema de L’Altro nella tradizione ebraica e cattolica: i rifugiati nel
mondo di oggi. Nel 1974 Paolo VI istituì la Commissione della Santa Sede
per i rapporti religiosi con l’ebraismo, come organismo distinto ma
collegato al Segretariato; questa Commissione ha finora pubblicato quattro
importanti documenti, gli Orientamenti per l’applicazione di Nostra aetate
(n. 4) nel 1974, i Sussidi per l’educazione cattolica su ebrei ed ebraismo nel
1985, il testo su antisemitismo e genocidio ebraico Noi ricordiamo. Una
riflessione cristiana sulla Shoà nel 1998, e nel 2015 il documento “Perché i
doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11, 29). Riflessioni su
questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione
del 50º Anniversario di Nostra aetate (n. 4). Anche il Consiglio ecumenico
delle chiese ha promosso analoghe iniziative di collegamento con le
istituzioni ebraiche. Alcuni recenti esempi possono confermare i progressi
dei rapporti tra chiesa ed ebraismo: nel 1993, la rinuncia definitiva a erigere
un Carmelo nel campo di sterminio di Auschwitz, ove venne sterminato
oltre un milione di ebrei; nello stesso anno, l’avvio di piene relazioni
diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele; nel 1994, a
Gerusalemme, una prima significativa dichiarazione congiunta del
Comitato misto (ILC) sul tema della famiglia. Anche l’ortodossia si è
incamminata con decisione nel dialogo con l’ebraismo, e nel 1993 si è
tenuto ad Atene un incontro accademico – il terzo – su «Continuità e
rinnovamento», per arrivare a una sincera collaborazione «dinanzi ai
problemi comuni che opprimono l’uomo contemporaneo» (Metropolita
Damaskinos e G. Riegner). Nel 2002 è stata costituita a Gerusalemme la
Commissione bilaterale israelo-vaticana con il Gran Rabbinato dello Stato
d’Israele, che ha finora tenuto 13 riunioni, il più recente dei quali nel 2015
sul tema Amerai lo straniero come te stesso. Migranti e rifugiati: un
pericolo o un vantaggio?.

Bilancio e prospettive

Vissert ’t Hooft riassumeva l’ecumenismo nelle tre tappe dei pionieri, degli
architetti e dei costruttori; capovolgendo l’immagine, potremmo pensare
all’ecumenismo che cerca di distruggere i muri di separazione fra le chiese:
non erano muri portanti, essenziali, ma sono stati consolidati nei secoli così
da sembrare struttura irrinunciabile della chiesa; a questi muri le chiese si
sono appoggiate, sì che se venissero tolti di colpo, ne verrebbero danni
gravi, per cui occorre un paziente lavoro di restauro strutturale
interpretativo del reale progetto architettonico originario. O, più
radicalmente, si tratta non di restauro, ma di nuova fedeltà a un progetto che
risponde al futuro di Dio.
C’è chi ha avanzato l’idea che «forse finora, per l’ecumenismo d’ogni
provenienza, è stato solo tempo di preistoria […] un ecumenismo
dell’esodo: come di carovane cioè aggirantisi nel deserto alla ricerca della
terra promessa ecumenica» (A. Asnaghi, 1977). Forse la teologia attuale
potrebbe mirare a essere una «interpretazione ecumenica dell’Esodo», al cui
vertice sta il pellegrinaggio di tutte le genti a Sion, sorgente della Torà del
Messia. A questo pellegrinaggio stanno partecipando già tutti i popoli: il
popolo di Dio che è Israele, il popolo di Dio che è la chiesa di Cristo nello
Spirito, i popoli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Oggi forse non è sempre
facile vedere il pellegrinaggio ecumenico di tutti i popoli, ma l’enorme
sviluppo di strumenti tecnologici di comunicazione e di organismi
internazionali e mondiali di coordinamento, conferma che l’umanità aspira
all’unità pur nell’innumerevole pluralità di culture e tradizioni diverse, e
nelle violente contraddizioni di una storia che sembra simile a una danza
sull’orlo dell’abisso.
Nel pellegrinaggio ecumenico delle chiese, inoltre, si assiste a un moto
circolare ascendente – tipico della celebrazione liturgica – che, a opera di
semplici laici, teologi, pastori, fa entrare nella vita pastorale e nella
riflessione teologica della chiesa istanze di salvezza emergenti dal popolo di
Dio e dall’umanità nel suo cammino storico. In questo cammino, che è
ecumenico grazie alla convergenza in esso di tutti i cristiani e di tutte le
chiese, si attua una comunione che è insieme ecclesiale, universale e
cosmica, e che esige una risposta morale. La compresenza di questi
molteplici aspetti dell’unica comunione fa sì che alcuni si preoccupino per
la possibile confusione fra ecumenismo e aspetti secolari e cosmici quali
l’impegno per la pace, la giustizia, l’integrità del creato, e questa
preoccupazione non va dimenticata o sottovalutata.
In questo orizzonte ecumenico aperto verso una pienezza, si può cercare
di situare un bilancio che individui punti fermi, limiti e nuove frontiere
dell’ecumenismo.
Punti fermi dell’ecumenismo. Il movimento ecumenico affermatosi durante
il secolo XX si è messo in luce come una realtà complessa, nella quale
agiscono protagonisti di natura diversa: Dio Padre Figlio e Spirito, e la
chiesa suo popolo; ma anche il popolo di Dio che è Israele, l’intera famiglia
umana, la storia e il cosmo sono entrati e sono in rapporto, in vario modo,
con la chiesa nel suo cammino verso l’unità. Si è chiarito che l’ecumenismo
ha un aspetto spirituale che è generale e fondamentale, e corrisponde
all’iniziativa unificante dello Spirito Santo che procede dal Padre, ed è
donato da Gesù Cristo nella Pasqua. Il Consiglio ecumenico delle chiese,
ponendo a proprio fondamento la confessione delle chiese sul Cristo, nel
1948, più tardi arricchita nel 1961 del riferimento alla Trinità e alle
Scritture, ha mostrato di aderire alla sottolineatura della centralità di Cristo,
sostenuta in modi diversi da teologi eminenti tra cui Karl Barth e Karl
Rahner. Il cardinale Joseph Ratzinger vede nell’affermazione «Gesù è
risuscitato» il vero articolo che sorregge la chiesa e che deve determinare la
fede e la teologia. Riconoscendo questo fondamento di fede cristologica, e
pur ammettendo l’incompiutezza di ogni formula dottrinale o elaborazione
teologica, rimane, anzi viene accentuato con maggiore evidenza, il primato
assoluto dell’azione di Dio per la redenzione dell’umanità, per realizzare il
fine e la fine della storia, o escatologia. Si può dire che nel suo complesso la
riflessione teologica, esegetica e pastorale nel secolo attuale è stata
largamente influenzata dall’azione e dalla dottrina ecumenica, e viceversa
queste si sono avvantaggiate dei risultati di quella. A questi chiarimenti
dottrinali si è accompagnato come elemento complementare ed egualmente
necessario il costante atteggiamento di conversione personale e
comunitaria, senza il quale la dottrina ecumenica resta insufficiente e
infruttuosa.
1. Chiarimenti dottrinali. In molti casi l’ecumenismo si è affermato grazie a
sottolineature o accentuazioni diverse di precedenti affermazioni dottrinali,
ma si sa bene quanto appunto le diverse intonazioni e i diversi ritmi possano
influenzare una sinfonia, una danza, una disposizione armonica della verità
secondo una «gerarchia», come affermato dal decreto Unitatis redintegratio
(n. 11). Al primo posto si colloca l’atto di fede in Dio padre e creatore: «La
confessione del cristianesimo resta, come per Israele, una confessione del
Dio unico», legata direttamente all’obbligazione etica (J. Ratzinger),
all’ortoprassi, che è imitazione della vita divina, supremo modello e
principio dell’unità della chiesa (vedi UR, n. 2).
Dalla esperienza-verità fondamentale dell’unicità e unità di Dio e della
sua azione per l’uomo nella storia e nel cosmo, deriva la certezza della
continuità della sua elezione e alleanza nei riguardi di Israele e della Chiesa.
Uno solo è Dio e Padre – Shema’ Israel: A… Ehad – perciò unico il suo
popolo, unica la storia della salvezza; uno solo è Signore e Cristo, Gesù
«nato dalla stirpe di Davide, quanto alla carne, stabilito Figlio di Dio con
potenza secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti» (Romani
1, 4), «una sola fede, un solo battesimo» (Efesini 4, 5), un solo culto di
rendimento di grazie (eucaristia) che è celebrazione del Pesah definitivo.
Karl Barth sottolinea l’unità del piano di salvezza: «Dio si determina ad
essere il Signore d’Israele e della chiesa e, come tale, il Signore del mondo
e dell’umanità intera; di conseguenza ha voluto la vocazione d’Israele e
della chiesa e poi la creazione del mondo e dell’uomo. Ecco quanto ci dice
la Bibbia» (Dogmatica ecclesiastica II/2, § 32.3). La comunità eletta, tutta
intera, Israele e la chiesa, in due forme, è chiamata a servire Dio
manifestando la presenza della sua gloria (ibidem, § 34.3).
Nella sua forma universale, che è la chiesa, questo popolo ha una unità
interiore, invisibile, data dalla presenza e dalla azione dello Spirito (Ruah)
di santità, e un’unità corporea, visibile, data dal suo essere corpo di Cristo;
esso ha quindi una reale personalità corporativa, tipica della famiglia, cui
corrisponde una struttura organica, sacramentale (i sacramenti e i ministeri)
a carattere apostolico, e in essa il servizio di Pietro ha un ruolo particolare
per l’unità, la carità, la missione della chiesa, la continuità con la tradizione
degli apostoli.
2. La chiesa come «Koinonia» (comunione). Riscoperta così la
fondamentale unità dei cristiani e delle chiese nella confessione del Dio uno
e trino, come è espressa negli antichi simboli di fede della chiesa indivisa, e
l’impegno etico conseguente a essere una sola chiesa, il movimento
ecumenico si è trovato di fronte a diverse concezioni della chiesa, che
giustificavano ciascuna la propria legittima esistenza. Dopo una prima fase
di studi comparativi delle varie dottrine ecclesiologiche, ci si è resi conto
che occorreva riflettere insieme sui fondamenti di una comune concezione
della chiesa. Già H. de Lubac invitava a riconoscere che «Il mistero della
Trinità ci ha aperto una prospettiva del tutto nuova: il fondamento
dell’essere è comunione», la comunione delle tre persone divine che
insieme sono e agiscono. L’unica chiesa santa cattolica apostolica, nella
quale si riversa la vita divina così come la chiesa stessa confessa nel credo,
è ora sempre più considerata come una «Chiesa di chiese» (J.-M.-R. Tillard)
sorelle e riconciliate, nella quale le singole chiese sono unite senza essere
assorbite. Non si tratta di unire le chiese in una federazione o in una «super-
chiesa», ma di camminare verso una comunione piena, poiché per il
momento essa è parziale, non è ancora perfetta. Su questa strada, la tappa di
un concilio ecumenico di tutte le chiese rimane tuttora un obiettivo
significativo. Nell’attuale dibattito ecumenico, «il modello dell’unione
organica che include una integrazione strutturale delle chiese rimane un
punto di riferimento» (J. Vercruysse).
Nel documento del dialogo cattolico-luterano, L’unità davanti a noi
(1984), è accolto il concetto di chiesa come «comunità conciliare»,
elaborato da Fede e costituzione, e si propone l’idea dell’«unità in una
diversità riconciliata», di una «comunità ecumenica vincolante, che
conserva in se stessa anche articolazioni confessionali». In vista di un
futuro concilio ecumenico, L. Vischer ne aveva indicato nel 1989 quattro
pre-condizioni (accettazione della comune fede apostolica, accordo su
battesimo, eucaristia e ministero, reciproco riconoscimento ecclesiale,
accordo sulla natura e l’autorità del concilio), e J. Vercruysse suggerisce di
considerare l’intero movimento ecumenico come una fase «pre-conciliare».
Gli elementi costitutivi essenziali della comunione della chiesa sono
riassunti nel documento del dialogo anglicano-cattolico, La chiesa come
comunione (1990), ove si riconosce una comunione, anche se imperfetta, tra
le due chiese anglicana e cattolica-romana: «Gli elementi costitutivi
essenziali per la comunione visibile della chiesa derivano e sono
subordinati alla comune confessione di Gesù Cristo come Signore […]. È
ora possibile descrivere quali sono gli elementi essenziali che costituiscono
la comunione ecclesiale. Essa è basata sulla professione di una sola fede,
rivelata nelle Scritture, e fissata nei simboli. È fondata su un solo battesimo.
Una sola celebrazione dell’eucaristia è la sua espressione e il suo centro
preminente. Trova necessariamente espressione nella condivisione
dell’impegno alla missione affidata da Cristo alla sua chiesa. È una vita di
reciproca sollecitudine dei membri l’uno per l’altro […]. Sono costitutivi
della vita di comunione anche l’accettazione degli stessi valori morali
fondamentali, la condivisione della stessa visione dell’umanità creata a
immagine di Dio e creata di nuovo in Cristo, e la professione comune di una
sola speranza nel compimento finale del regno di Dio. Per alimentare e far
crescere questa comunione, Cristo Signore ha fornito un ministero di
supervisione, la pienezza del quale è affidata all’episcopato, che ha la
responsabilità di mantenere ed esprimere l’unità delle chiese [locali] […].
Nel contesto della comunione di tutte le chiese, il ministero episcopale di un
primate universale ha il ruolo di essere il centro visibile dell’unità» (IV, 45).
Il medesimo documento tratta ampiamente (III, 25-41) delle altre
caratteristiche di quest’unica chiesa di Dio, che sono la santità, la cattolicità
(universalità), l’apostolicità, anche nel senso della missionarietà. Queste tre
note richiamano all’impegno etico, personale e comunitario,
all’orientamento necessario e al rapporto intrinseco riguardo al mondo e
all’umanità, all’unità nella missione, nel dialogo, nella testimonianza
cristiana, di cui si parla a proposito dell’Unità e comunione ecclesiale (IV,
45).
Anche il documento allegato al sesto rapporto dei lavori congiunti della
chiesa cattolica e del Consiglio ecumenico (1990), tratta del medesimo
argomento: «La chiesa: locale e universale»; vi si riconosce che «sempre di
più il concetto di Koinonia o comunione è considerato di grande valore per
la comprensione della molteplicità delle chiese locali nell’unità dell’unica
chiesa» (n. 5), e si afferma che «gli elementi ecclesiali necessari per la
piena comunione in seno a una chiesa visibilmente unita – l’obiettivo del
movimento ecumenico – sono: la comunione nella pienezza della fede
apostolica, nella vita sacramentale, in un ministero realmente unico e
riconosciuto reciprocamente, nella struttura conciliare dei rapporti e delle
sedi decisionali, nella testimonianza comune e nel servizio del mondo» (n.
25).
3. Verso una teologia ecumenica. I chiarimenti dottrinali ormai affermati e
condivisi dalle chiese permettono di comprendere meglio anche il valore di
una ricerca teologica che si qualifica come «teologia ecumenica», e di cui
G.R. Evans ha riassunto la metodologia (Method in ecumenical theology:
the lesson so far). Di questa riflessione teologica, così importante per il
progresso del movimento ecumenico, sono state messe in rilievo le
caratteristiche, l’intrinseca dimensione storica, la problematica del
linguaggio che vi è congiunta, la relazione con le comunità che vivono nella
fede ricevuta in tradizioni diverse. La prima caratteristica della teologia
ecumenica, che Evans riprende da Congar, è la disponibilità a studiare in
collaborazione con fratelli cristiani di altre chiese, senza che alcuno abbia
autorità su altri, ma su un piano di completa parità, sotto l’autorità dello
Spirito Santo. Altre due caratteristiche sono: il rispetto per la realtà e il
valore ecclesiale delle altre comunità, il rifiuto di metodi polemici o ostili
frequenti nelle controversie del passato.
Le diverse dottrine e i diversi sistemi teologici vengono esaminati sia
con metodo comparativo – come era uso nelle prime fasi degli studi
ecumenici – sia ricercandone le correlazioni, le consonanze, la
complementarità, e muovendo dai dialoghi bilaterali verso quelli
multilaterali, più complessi e profondi. Nel corso dei dialoghi ecumenici è
emersa l’importanza dei riferimenti storici, sia per la storia della dottrina,
sia per la storia della chiesa: in generale, poiché «tutte le domande e le
risposte teologiche hanno senso solo nel contesto della storia» (W.
Pannenberg), e inversamente, perché «la storia ha senso solo alla luce della
fede» (G.R. Evans). In particolare, poi, considerando l’influsso dei fattori
non teologici sull’elaborazione dottrinale e sulle divisioni della cristianità,
occorrerebbe sviluppare una storiografia ecumenica della intera cristianità,
facendo attenzione «a evitare centrismi geografici, classismi, etnocentrismi,
sessismi e culti della personalità» (O.C. Edwards), nonché la tentazione del
revisionismo. Una storia ecumenica della teologia e della chiesa dovrebbe
aiutare a non dare valore assoluto a discipline locali o a categorie teologiche
determinate da condizionamenti storici particolari. Sovente, in questa
prospettiva storica, le comunità appaiono distinte non da dissensi di fede,
ma da percorsi storici differenti, da secoli di incomprensioni.
Anche la problematica specifica del linguaggio teologico si pone
all’interno del quadro, sia storico che contemporaneo, del pluralismo dei
linguaggi della fede e delle culture. Si sta quindi affinando la ricerca di un
linguaggio, né univoco né equivoco, ma analogico, conforme alla natura
della teologia, che cerca le consonanze e non l’esclusività rispetto ad altre
formulazioni possibili. Il rapporto tra l’elaborazione di una teologia
ecumenica e il cammino ecumenico delle chiese colloca questa teologia nel
contesto della Koinonia, sicché sottolinea l’esigenza della comunione con i
simboli di fede delle comunità cristiane che sono vissute nel passato, con le
generazioni che sono inseparabilmente unite agli apostoli e a Israele. La
Koinonia appare così insieme sincronica e diacronica, sensibile
all’elemento simbolico ed estetico, al tono di un linguaggio che rivela la
tensione etica verso la carità e la verità. La ricerca di questa sinfonia di
chiese e di dottrine fa percepire che occorre essere disposti alla ricezione
anche nei confronti delle altre tradizioni, accogliendo, in una diversità
riconciliata, sia dottrine espresse in termini o toni polemici, sia dottrine
comuni espresse in termini antichi anteriori alle divisioni, sia formulazioni
nuove ma fedeli alla tradizione della fede. Sarebbe infatti imprudente
dimenticare il passato e rinunciare a interpretarlo: esso va ricordato, anche
perché vi sia spazio per il perdono domandato ed elargito, perché non si
perpetui l’inimicizia, e si possa procedere verso la piena e completa
comunione dottrinale e istituzionale, nel pluralismo legittimo di forme e
tradizioni distinte ma non separate, consapevoli che tuttavia l’unità perfetta
è insieme storica e metastorica.
In questo cammino di rinnovamento la teologia ecumenica sta ormai
avanzando decisamente, e in alcuni settori, come l’ecclesiologia, sono stati
proposti perfino dei «catechismi ecumenici», come quello di H. Schütte, La
chiesa nella comprensione ecumenica (1993), che riassume punti di
importanza centrale per l’ecumenismo contemporaneo.
4. Conversione permanente. Il legame necessario tra teologia ecumenica,
etica ecumenica e conversione si è imposto con sempre maggior vigore, in
sintonia anche con la reazione generale alla teologia puramente
intellettualistica che si era sviluppata sotto l’influsso di illuminismo,
idealismo e romanticismo. È così divenuta comune la convinzione che le
migliori formule teologiche di unione non bastano, senza che siano
accompagnate da una continua opera di conversione personale, comunitaria,
istituzionale, che faccia spazio all’irruzione dello Spirito Santo. Anche le
istanze di rinnovamento tipiche dei movimenti neo-catecumenali,
pentecostali ed evangelici, interpretano in vari modi questa convinzione di
riforma spirituale. Le stesse divisioni tra cristiani, che tuttora permangono,
sono divenute un argomento per richiamare tutti alla conversione: «La
disunione dei cristiani è la confutazione del Vangelo della signoria di Gesù
Cristo da parte dei cristiani stessi. È essa l’ostacolo più grave alla diffusione
del Vangelo nel mondo di oggi. Come possiamo superare questa vergogna
della cristianità?» (E. Schlink).
Nell’atteggiamento e nel cammino personale di conversione ecumenica
vengono messe in evidenza alcune virtù, come l’umiltà, la pazienza e la
carità, necessarie per ripercorrere in senso opposto gli itinerari della
divisione, e procedere insieme nella testimonianza cristiana. A proposito
dell’aspetto istituzionale della conversione, conviene ricordare
l’osservazione di Congar riguardo alle «impalcature» della chiesa, sempre
provvisorie e pur necessarie, ma che devono essere costantemente adeguate
alla vocazione universale della salvezza; nella prospettiva storica
dell’incarnazione, l’istituzione ha un aspetto di intrinseca mutevolezza
continua, e un criterio perenne di rinnovamento nello Spirito, che è insieme
garanzia di continuità con la tradizione (il Vangelo) e di fedeltà al futuro del
regno cui Dio chiama l’umanità e il mondo. In questo orizzonte universale
della storia della salvezza si sta superando la dialettica tra clericalizzazione
medievale e secolarizzazione moderna – già si parla di desecolarizzazione –
e sembra ora più opportuno riportare l’accento sui temi originari della
sacralità (nel senso di «consacrazione», in rapporto a Dio) e della laicità
(nel senso di «fraternità», in rapporto all’umanità), connotazioni essenziali
del popolo di Dio in cammino.
Quanto poi all’aspetto comunitario della conversione, che riguarda le
chiese e la chiesa nella sua totalità, ritorna sempre valido il principio di
Lutero «Ecclesia indiget reformatione» che anche il concilio tridentino
cercò di attuare «in capite et in membris», e J. von Lodenstein nel 1675
riprese con il motto celebre «Ecclesia reformata semper reformanda».
In questo impegno di continua conversione un posto eminente occupa il
culto o la preghiera in comune – espressa anche in forma solenne nella
settimana di preghiera per l’unità – e la collaborazione nella missione, nel
dialogo, nel servizio della carità, della giustizia e della pace, per la salvezza
del mondo.
Un caso particolare di conversione personale e comunitaria, che
coinvolge tutto il popolo di Dio, può essere considerato quello della
«recezione» dei documenti ecumenici: le chiese, come è avvenuto ad
esempio per il documento di Lima (BEM), sono richieste di esprimersi sul
rapporto fra questi e la fede della chiesa attraverso i secoli. In questo
processo di recezione ecumenica il senso tradizionale, canonico e giuridico,
che ortodossi e cattolici danno al termine «recezione», si estende al dibattito
che coinvolge l’intero popolo di Dio nelle diverse chiese locali; perché una
tale recezione possa compiersi occorrono tempi, metodi e strumenti
appropriati, adatti alle varie situazioni e culture, e questi per ora non sono
ben sperimentati ovunque.
Il gruppo di dialogo cattolico-protestante di Dombes, nel suo studio più
recente Per la conversione delle chiese, ha trattato ampiamente dei vari
aspetti della conversione, cercando di conciliarla con la preoccupazione di
custodire l’identità ecclesiale: «Noi scorgiamo nel movimento ecumenico
un grande processo di conversione e di riconciliazione delle nostre
diversità, nella ricerca della comunione tra le identità confessionali, che una
volta purificate dai loro elementi non evangelici o di peccato, possono
accogliersi, diventare complementari e arricchirsi mutualmente» (n. 153).
5. Pastorale ecumenica. Le chiese, specialmente a livello locale, hanno
sviluppato diverse forme di collaborazione e di vita comune, a volte
anticipando le iniziative di livello internazionale o di carattere ufficiale,
anche spinte da necessità urgenti. Sovente l’accresciuto numero di
matrimoni interconfessionali, tra sposi credenti e praticanti impegnati in
chiese diverse, ha suscitato riflessioni, richiesto normative comuni, creato
necessità di scambi di beni sacramentali. Le esigenze della catechesi e della
testimonianza cristiana hanno indotto ministri e membri delle chiese a
collaborare in forme varie, che non raramente divenivano in qualche modo
istituzionali assumendo la struttura di consigli pastorali misti o di organismi
simili più o meno stabili. L’uso comune di luoghi sacri per celebrazioni di
comunità diverse in orari distinti è divenuto in certe regioni più frequente, e
ha facilitato il clima di amicizia e di fiducia reciproca fra le chiese.
Limiti attuali dell’ecumenismo. Sia nel corso dell’esposizione storica, sia
nella breve sintesi delle principali acquisizioni ecumeniche, sono stati
menzionati limiti e ostacoli al movimento ecumenico, che si possono
riassumere in due categorie: i punti dottrinali controversi e le angustie
ecclesiali che frenano la conversione all’ecumenismo. Ma questi ostacoli in
sé racchiudono anche cariche positive; il loro effetto negativo
potenzialmente disgregante, che può arrivare a generare perfino nuovi
scismi, si rivela solo in presenza di altri fattori, tra i quali principalmente va
sottolineata la scarsa preoccupazione per la comunione, anche visibile, di
tutte le chiese. Quando poi la già debole passione per l’unica e indivisa
chiesa di Cristo è soverchiata da condizionamenti storici, culturali, politici o
di altro genere, il cammino per mantenere l’unità o per ricomporla diviene
particolarmente arduo.
1. Punti dottrinali controversi. Tra le espressioni di fede controverse, la
formula Filioque riassume un punto che tuttora non è chiarito e che separa
la cristianità delle due tradizioni, quella orientale o greca, e quella latina o
occidentale. Nonostante i progressi compiuti da ambo le parti, in dialoghi
bilaterali tra varie chiese e con iniziative solenni e significative, un accordo
completo non è ancora stato raggiunto, benché si possa vederlo
all’orizzonte. L’importanza di questo punto è primaria, perché si tratta della
comprensione dei rapporti tra le persone divine, che sono all’origine della
chiesa, e quindi anche della sua unità.
Anche la riflessione sulla sacramentalità della chiesa e sui sacramenti ha
condotto a notevoli convergenze, riconoscendo la centralità dell’eucaristia e
il valore comune del battesimo, ma permangono divergenze che ancora non
consentono, in via normale, a molte chiese il pieno e reciproco scambio dei
rispettivi beni sacramentali.
Quanto alla struttura ecclesiale comune, sta sì emergendo un
riconoscimento generale della funzione del ministero di «supervisione»
(episkopé), e perfino del ruolo del vescovo di Roma per l’unità visibile
(«ministero petrino»); però i termini cattolici tradizionali relativi al
«primato» di giurisdizione diretta e universale rimangono un grave ostacolo
per le altre chiese e richiederanno ulteriori interpretazioni e chiarimenti,
anche in rapporto con l’autorità dei concili nell’unica chiesa.
Un punto dottrinale e pastorale particolarmente critico concerne il ruolo
delle donne nel ministero ecclesiale: varie posizioni si contrappongono in
proposito, sotto l’evidente influsso di diverse concezioni culturali della
femminilità, e in relazione alla natura dei sacramenti. Il femminismo, nelle
varie e talora opposte correnti contemporanee, è ben presente nel
movimento ecumenico, ma il modo in cui trova espressione, nella
consacrazione episcopale o sacerdotale femminile, suscita contrasti e forti
riserve da parte di ortodossi e cattolici.
2. Angustie ecclesiali. Ristrettezze e chiusure di mente e di cuore si possono
sempre manifestare, a volte animate da sincero amore evangelico, e si
verifica quindi il caso di gruppi o chiese che non si aprono all’ecumenismo,
ma restano centrati sul proprio particolare credo: in tali casi i
confessionalismi non sviluppano la pienezza universale di cui sono
potenzialmente portatori.
Su questi atteggiamenti di rifiuto, accompagnati non di rado da un
marcato zelo per l’evangelizzazione e da proselitismo presso membri delle
altre chiese, agiscono inoltre fattori sia culturali sia sociali. Talora la scarsa
conoscenza storica e teologica dei motivi che hanno portato alla divisione
della chiesa è un elemento determinante, così che mediante opportuni studi
è possibile rimuovere ostacoli prima ritenuti insormontabili e iniziare un
dialogo. In altre circostanze i condizionamenti delle polemiche appena
sopite sono così vivi, da creare un clima sociale di sospetto, talora di odio:
si ricordano, dopo la fine dell’Unione Sovietica nel 1989, le tensioni
frequenti nelle chiese dell’Europa orientale, motivate dalla questione della
restituzione alle chiese di quei beni confiscati dal potere pubblico dopo il
1918 o dopo il 1946. Il conflitto tra cattolici e protestanti in Irlanda si
intreccia con le vicende, antiche e recenti, della lotta sanguinosa per
l’indipendenza irlandese; in America latina l’impegno ecumenico si unisce
spesso alla lotta per la libertà e la giustizia, mentre l’anticomunismo e i
governi autoritari volentieri si associano con correnti fondamentaliste e
settarie, o le strumentalizzano ai propri fini.
Di tipo ben diverso sono invece i contrasti fondati su contrapposizioni
dialettiche, di carattere ideologico, che suscitano divisioni sia all’esterno
che all’interno del movimento ecumenico, e possono facilmente combinarsi
con i fattori di contrasto di altra natura: così ci si scontra opponendo il
dialogo alla missione, il servizio del mondo all’evangelizzazione, la
secolarizzazione alla clericalizzazione, la libertà dello spirito alla sclerosi
dell’istituzione. Due esempi, infine, tratti l’uno dall’interno del movimento
ecumenico, l’altro dall’esterno, possono ben mostrare la complessità delle
resistenze al cammino verso l’unità. Il primo è quello che Evans chiama
«recezione negativa», ovvero la reazione di apatia, di critica, di rifiuto o di
difesa, nei confronti delle iniziative di dialogo ufficiale e dei documenti fatti
circolare ampiamente fra le chiese per suscitare l’allargamento della base
ecumenica. Questo processo di consultazione e di coinvolgimento
dell’intera comunità, secondo un modello nuovo di conciliarità, non sempre
è ben compreso e accettato; il linguaggio teologico complesso dei
documenti ecumenici fa nascere il timore di confusione, a paragone con la
semplicità popolare delle proprie tradizioni distintive.
Un secondo esempio, ad extra, è costituito dalla sfida alle chiese da parte
di sette, movimenti religiosi e nuovi culti, che con il loro proliferare
pongono interrogativi e provocano risposte ecumeniche. Si tratta di
fenomeni con caratteri assai vari, che esprimono netto dissenso dalle chiese
(sette), oppure esigenze di rinnovamento (movimenti), o, ancora,
sostanziale alterità (nuovi culti). Sul piano dei contenuti, si va da dottrine
che hanno analogie con il cristianesimo (come i testimoni di Geova, o i
mormoni), a forme di gnosi o di ricorso a energie psichiche, fino a casi
estremi di esperienze chiaramente opposte alla dignità della persona umana
e al messaggio di Cristo, come il moonismo. L’impressionante diffusione di
questi nuovi gruppi rivela l’ansietà religiosa presente in ampi strati sociali,
ma anche l’inadeguatezza delle chiese nel ricercare e nel proporre modi di
testimonianza fraterna e luoghi di accoglienza rispettosi della libertà
personale e delle tappe di maturazione religiosa, anche oltre gli schemi
pastorali tradizionali.
Verso nuove frontiere dello Spirito. Sul finire di questo primo secolo di
ecumenismo moderno, un punto fermo rimane la fiducia e fedeltà nei
confronti di Dio che prepara il suo regno di amore, giustizia e pace per tutti
i popoli, in un cosmo rappacificato, secondo la visione dei profeti d’Israele,
in una Gerusalemme rinnovata che scende dall’alto, quale sposa di Cristo.
Questa fiducia e fedeltà è atto insieme personale e comunitario, che assume
connotazioni distinte nei «due generi di fede», che sono all’origine, secondo
M. Buber (Zwei Glaubensweisen, 1950), delle comunità di fede ebraica e
cristiana, chiamate a servire Dio «spalla a spalla» (Sofonia 3, 9).
D. Flusser, nella sua riflessione che muove dal pensiero di Buber, ritiene
che il cristianesimo non possa «fare a meno del primo genere di fede, che è
comune al Cristianesimo, all’Ebraismo e all’Islam», e che «fino a oggi la
frattura tra i due generi di fede essenzialmente differenti non è stata
superata all’interno del Cristianesimo». A questo genere di fede ebraica, e
alla ricomposizione di questa frattura, sembra alludere Giovanni Paolo II
allorché saluta gli ebrei come fratelli e sorelle «nella fede di Abramo» (31
dicembre 1986).
Già F. Rosenzweig ne La stella della redenzione (Der Stern der
Erlösung, 1921) vedeva nell’ebraismo e nel cristianesimo «una
complementarità necessaria che si proietta fino al futuro della redenzione»
(G. Bonola), quando dichiarava: «Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e
cristiano, sono lavoratori intenti a una stessa opera. Egli non può fare a
meno di nessuno dei due». K. Barth, come si è ricordato sopra, poneva
l’elezione eterna del popolo di Dio in rapporto con la predestinazione come
elezione in Gesù Cristo: in Gesù Cristo sta l’origine dell’unità e della
dualità della comunità eletta da Dio; «secondo il decreto eterno di Dio,
questo popolo esiste in quanto Israele (in tutto lo sviluppo della sua storia,
ante et post Christum natum!), ma anche in quanto chiesa composta di
giudei e di pagani» (Die kirchliche Dogmatik II/2, § 34, 1A). L’identità di
Israele fonda oggettivamente la fraternità e la solidarietà con la chiesa, ed
esclude ogni antisemitismo «che, dall’esterno, nega e combatte l’elezione
d’Israele» (ibidem, 1B).
Il cammino ecumenico delle chiese è chiamato perciò a esercitarsi in
varie direzioni: per sviluppare fraterne relazioni religiose con il popolo
ebraico, per crescere verso la piena comunione di tutti i cristiani nell’unica
chiesa santa, cattolica e apostolica, per approfondire il dialogo con le
religioni, per servire l’umanità e il mondo testimoniando Cristo risorto e
vivificatore per mezzo del suo Spirito. Proseguendo lungo la strada tracciata
nel secolo XX, occorrerà rispondere alle sfide e superare i limiti attuali; tra
gli argomenti da approfondire per conseguire un consenso di fede nell’unica
chiesa sono stati individuati: 1) le relazioni tra Scrittura e Tradizione; 2)
l’Eucaristia; 3) l’Ordinazione; 4) il Magistero; 5) la Vergine Maria (Ut
unum sint, n. 79). L’imperativo ecumenico, oltre che in questo campo
dottrinale, si declina nell’imperativo etico, e tra i molti temi morali stanno
emergendo nettamente la «reverenza per la vita», l’ingegneria genetica, e
molti altri che sono all’ordine del giorno del Consiglio ecumenico delle
chiese. Infine, per ciò che riguarda l’aspetto fondamentale dell’ecumenismo
spirituale e della conversione del cuore, si profila la fioritura di un
ecumenismo esteso al mondo evangelico e pentecostale.
Un’altra forma caratteristica in cui l’ecumenismo sarà sempre più
chiamato a esprimersi sarà quella del dialogo interreligioso, in particolare
nei confronti dell’Islam, ma non solo di esso. L’esplosione di integrismo,
fanatismo e fondamentalismo religioso, costituisce un nuovo campo nel
quale è urgente che tutti i credenti nell’unico Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe, il Padre di Gesù Cristo Signore, il Misericordioso adorato dai
fedeli dell’Islam, entrino in dialogo armati solo della propria fede.
Rimarrà sempre essenziale ricordare quanto il vescovo Eusebio di
Cesarea scriveva poco prima della sua morte (339), commentando la
preghiera di Gesù: «Che siano una cosa sola (Giovanni 17, 21): questo il
fine gioiosissimo, per il quale il Dio che sta sopra tutte le cose, il Padre del
nostro Salvatore, elargirà il regno dei cieli promesso e confermato dallo
stesso Salvatore a quanti ne sono degni; questo il bene altissimo destinato a
quanti si sottomettono al Figlio suo, quando diventerà tutto in tutti» (La
teologia ecclesiastica 3, 18). Contemplando questa mèta di perfetta unità
escatologica, nel mezzo delle nostre storiche divisioni e delle grandi
tragedie contemporanee, è possibile condividere la prospettiva del vescovo
di Roma Francesco che considera l’ecumenismo nel quadro dell’amicizia
con Israele, del dialogo con l’Islam, della collaborazione con le religioni,
per un servizio di unità e pace dell’intera famiglia umana, per curarne le
ferite con la medicina della misericordiosa tenerezza e dell’amorevole
compassione. Gli storici incontri di Francesco con il pastore pentecostale
Giovanni Traettino, con il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, con la Chiesa
Valdese, con il Patriarca di Mosca e della Russia Kirill, aprono una «nuova
stagione ecumenica di riconciliazione, di testimonianza e di missione»
(Walter Kasper). Ne è conferma l’annunciata partecipazione del papa alla
commemorazione ecumenica congiunta con la Federazione luterana
mondiale, a Lund, il 31 ottobre 2016, per il quinto centenario della Riforma
protestante. Vale sempre anche nell’ecumenismo il principio fondamentale
dell’Evangelo, che la carità è la via della verità.
Bibliografia e sitografia

Bibliografie, collezioni di testi, dizionari

Internationale Ökumenische Bibliographie, 1962-1977, 16 voll., Mainz-


München, Grünewald-Kaiser, 1962-1983.
Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, voll. 1-28,
Bologna, EDB, 1965-2014 (in continuazione) e Supplementum 1, Indici
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Enchiridion oecumenicum. Documenti del dialogo teologico
interconfessionale, voll. 1-10, Bologna, EDB, 1986-2010 (in
continuazione): 1. Dialoghi internazionali, 1931-1984; 2. Dialoghi
locali, 1965-1987; 3. Dialoghi internazionali, 1985-1994; 4. Dialoghi
locali (1988-1994); 5. Consiglio ecumenico delle chiese. Assemblee
generali 1948-1998; 6. Fede e Costituzione. Conferenze mondiali (1927-
1993); 7. Dialoghi internazionali 1995-2005; 8. Dialoghi locali (1995-
2001); 9/1. Fede e Costituzione, Meeting 1967-1982; 9/2. [Fede e
Costituzione, Meeting 1984- in preparazione]; 10. Dialoghi locali, 2002-
2005; a cura di G. Cereti e S.J. Voicu (voll. 1-2), G. Cereti e J.F. Puglisi
(voll. 3-4; 7-8; 10), S. Rosso e E. Turco (voll. 5-6), G. Ceronetti e S.
Rosso (vol. 9/1).
Dizionario del movimento ecumenico, a cura di N. Lossky, J.M. Bonino,
J.S. Pobee, T.F. Stransky, G. Wainwright, P. Webb, ed. it. a cura di G.
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Queriniana, 1986.
R. Beaupère, L’ecumenismo (1991), tr. it. P. Crespi, a cura di R. Laurita,
Brescia, Queriniana, 1993.
E. Bromuri, L’ecumenismo. Chiese in cammino verso la piena comunione,
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G. Cereti, Molte chiese cristiane, un’unica Chiesa di Cristo. Corso di
ecumenismo, Brescia, Queriniana, 1992.

Storia

Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948 (1953), voll. I-III, a cura
di R. Rouse e St. Ch. Neill, Bologna, EDB, 1973-1982.
Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1968 (1970), vol. IV, a cura di
H.E. Fey, Bologna, EDB, 1982.

Collane

Atti delle Sessioni ecumeniche del Segretariato attività ecumeniche (SAE),


1964-2015, 52 Sessioni (in continuazione) cfr.
<http://www.saenotizie.it/sae/sessioni.html>.
Figli di Abramo. Profilo delle comunità ebraiche, cristiane e musulmane,
diretta da J. Longton e R. F. Poswick, Roma, Interlogos - Libreria
Editrice Vaticana, 1991-.

Riviste

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«Il Regno» dal 2015 anche online: www.ilregno.it, Bologna, EDB.
«Istina» (dal 1934 al 1953 «Russie et chrétienté», Paris, Centre d’Études
Istina.
Information Service/Service d’Information» (1967-2005; dal 2005 online),
Città del Vaticano, Segretariato (dal 1988 Pontificio Consiglio) per
l’unità dei cristiani, cfr.
<http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/index_
it.htm>.
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Istituto di teologia ecumenico-patristica “S. Nicola”, e dal 2015 a cura
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