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John D. Zizioulas
Ortodossia
1. Introduzione
Di fronte alle realtà e alle richieste del nostro secolo, l'ortodossia è stata obbligata a
riflettere sulle proprie radici storiche e teologiche, per trarne ispirazione e guida. Ciò
ha portato a una rinascita del pensiero patristico e a una rinnovata considerazione,
sotto tutti gli aspetti, delle condizioni effettive dell'ortodossia. Nuove impostazioni
teologiche, che mettono l'accento sulla fedeltà al vecchio ἔϑος patristico, tentano di
fornire i criteri di questa considerazione. E benché la ‛nuova teologia' sia tuttora in
formazione e la Chiesa ufficiale non sembri tenerne molto conto nella prassi, diventa
ognora più chiaro che il futuro dell'ortodossia è strettamente legato a questi sviluppi.
Se, avendo presenti questi criteri, guardiamo ora all'attuale situazione canonica
dell'ortodossia, ci renderemo conto che essa si trova di fronte a certi problemi
fondamentali riguardanti la struttura canonica della Chiesa. Di questi problemi, alcuni
sono un'eredità del passato e sopravvivono tuttora; altri sono, invece, strettamente
dovuti alle condizioni storiche create dal XX secolo. Questi due generi di problemi
sono fondamentalmente interrelati, e non possono essere affrontati se non in una
comprensiva visione ecclesiologica.
II. Il più vecchio di tutti i problemi canonici ancora vivi nella Chiesa ortodossa è
forse quello determinato dall'esistenza della ‛parrocchia'. Quando la comunità
eucaristica diretta dal vescovo, originariamente unica, fu suddivisa, per ragioni
pratiche, in comunità eucaristiche minori - interne alla stessa diocesi episcopale -
poste sotto la presidenza di un presbitero (questo deve essere successo più o meno tra
il III e il IV secolo) si aprì la porta a una serie di problemi: a) il vescovo cessò a poco
a poco di essere primariamente associato alla presidenza dell'eucaristia - questo ruolo
diventò sempre più appannaggio del presbitero - per diventare di fatto
l'amministratore di una vasta diocesi. Cessò quindi di essere il pastore e il padre
spirituale del suo gregge e cercò di giustificare la sua autorità non più sulla base del
rapporto con la sua comunità, ma in riferimento alla nozione giuridica di potestas,
trasmessa semplicemente attraverso la successione apostolica e l'ordinazione. Lo
sviluppo della teologia ortodossa nei tempi moderni, sulla falsariga della Scolastica
medievale occidentale, rafforzò questa situazione; b) il fatto che il vescovo potesse
essere visto separatamente dalle sue funzioni eucaristiche ha avuto come effetto
anche la messa in questione dell'intera struttura della Chiesa locale. Se il presbitero
bastava per una celebrazione eucaristica valida, veniva con ciò messo in questione il
ruolo - nella Chiesa - non solo dei diaconi, ma anche dei laici. Indubbiamente, la
lunga pratica dei servizi eucaristici presbiteriali ha reso superfluo il diacono, sino al
punto da chiedersi perché mai si abbia bisogno di questa figura. Naturalmente, la
norma secondo cui i laici debbono essere in qualche modo rappresentati nella
celebrazione eucaristica è tuttora in vigore nella liturgia ortodossa e nel diritto
canonico (celebrazioni eucaristiche ‛private', effettuate dal solo clero, sono proibite
nella Chiesa ortodossa); senonché, a malapena sussiste una qualche consapevolezza
del perché di questa norma, e quindi del perché si debba continuare a osservarla.
Il primo riguarda il modo in cui l'autocefalia si pone nei confronti dell'unità della
Chiesa. Abbiamo già stabilito che l'ecclesiologia ortodossa è basata sull'idea che la
Chiesa, attraverso il suo carattere eucaristico e la cattolicità, trascende tutte le
divisioni: quelle naturali e sociali come quelle culturali. Come si può conciliare
questo trascendimento delle diversità culturali con l'affermazione delle identità
culturali in quanto elemento accettabile e qualificante dell'autocefalia? Questo è il
punto nel quale, specialmente nel nostro tempo, si palesano sia la forza che la
debolezza dell'ortodossia. Per fortuna, la celebrazione della stessa liturgia e la
comune tradizione di fede proteggono in vario modo l'unità dell'ortodossia. Bisogna
nondimeno sorvegliare molto attentamente i nemici dell'unità, celati sotto l'idea di
autocefalia. Ogniqualvolta il nazionalismo e il filetismo o l'identità culturale
rivendichino la priorità sull'unità della Chiesa, essi devono essere chiaramente
rifiutati e sacrificati. L'ecclesiologia ortodossa non può attribuire valore di realtà
ultima ad alcuna entità storica in quanto tale, ma solo a Cristo e alla ricapitolazione
escatologica di tutte le cose in Lui; questo è ciò che viene celebrato in ogni liturgia.
Canonicamente e storicamente, il ruolo del patriarcato ecumenico di Costantinopoli è
precisamente quello di mantenersi al di sopra di ogni interesse nazionalistico (le
condizioni esterne nelle quali oggi vive, sebbene per molti versi infelici, sono sotto
questo rispetto vantaggiose), e vigilare che anche le altre Chiese ortodosse facciano
altrettanto. Le esperienze delle Chiese ortodosse nel nostro secolo - si pensi in
particolare agli sforzi del defunto patriarca di Costantinopoli, Atenagora, per riunire
le Chiese autocefale mediante una serie di conferenze panortodosse a partire dal 1961
- illustrano sia le difficoltà che le speranze che si presentano a questo riguardo. Il
grande sinodo in preparazione mostrerà se l'ecclesiologia ortodossa sarà il fattore
decisivo in relazione alla struttura canonica dell' ortodossia.
V. Possiamo ora passare all'ultimo e forse più importante problema che riguarda la
struttura canonica dell'ortodossia nel nostro secolo, cioè il problema della ‛diaspora',
la diffusione degli ortodossi nell'Occidente. Questo fenomeno è così
caratteristicamente novecentesco, che è tuttora difficile situarlo in una prospettiva
storica e quindi darne una valutazione adeguata. Non sono, naturalmente, mancati
ortodossi in Occidente nei secoli precedenti, in specie alla fine dell'Ottocento in
seguito all'emigrazione ortodossa in America; ma è soprattutto durante il periodo fra
le due guerre mondiali che l'emigrazione in Occidente raggiunge dimensioni tali da
creare vaste comunità ortodosse in paesi fondamentalmente non ortodossi. Questi
gruppi di immigrati erano soprattutto Greci e Russi (questi ultimi emigrati in seguito
alla Rivoluzione), ma comprendevano anche persone di quasi tutti i paesi ortodossi:
Serbi, Bulgari, Rumeni, Albanesi, Ucraini e Arabi. Il maggior numero degli ortodossi
dispersi si trova in primo luogo in America e poi in Europa, dove si è verificato
l'incontro più significativo con la vita e il pensiero del cristianesimo occidentale. Una
grande comunità ortodossa, soprattutto di Greci, è in via di rapido sviluppo in
Australia.
L'importanza della ‛diaspora' ortodossa nel Novecento, pur non potendo essere
valutata oggi appieno, è però certamente considerevole. L'incontro dell'ortodossia con
il pensiero e la teologia occidentali ha immensamente favorito nuovi sviluppi creativi
della teologia ortodossa, la quale ha così potuto, a sua volta, essere di ausilio alle
Chiese occidentali nelle loro elaborazioni teologiche. Perfino un avvenimento così
importante nella storia delle Chiese occidentali come il Concilio Vaticano II, è stato
influenzato dalla teologia ortodossa della diaspora, e così il movimento ecumenico in
generale. Ma di notevole portata sono anche i problemi - in particolare per quanto
riguarda la struttura canonica - che la diaspora ha suscitato e che influenzeranno
probabilmente in modo decisivo il futuro dell'ortodossia anche al di là del nostro
secolo. Consideriamone brevemente alcuni.
In primo luogo, uno sguardo anche rapido agli sviluppi della diaspora ci mostra una
quantità di ‛scismi' che di essa sono la conseguenza diretta. La storia di questi scismi
è complessa, ma la situazione globale derivatane può essere riassunta come segue.
Mentre tutta la diaspora greco-ortodossa, dopo un breve periodo di difficoltà in
America negli anni venti e nei primi anni trenta, è rimasta unita sotto il patriarcato
ecumenico, la diaspora russa, nata principalmente dalla fuga di più di un milione di
russi dal loro paese dopo la Rivoluzione bolscevica, si è divisa in quattro gruppi o
‛giurisdizioni'. Essi sono: a) il ‛Sinodo della Chiesa russa in esilio' (conosciuto anche
come ‛Chiesa fuori della Russia' o ‛Sinodo Karlovsky' ecc.). Questa giurisdizione
ebbe inizio con il gruppo di vescovi russi esiliati che nel 1920 furono incaricati dal
patriarca Tikhon di Mosca di prendersi cura dei Russi rimasti tagliati fuori dalla
patria in seguito alla Rivoluzione. Quei vescovi si riunirono in sinodo, su invito del
patriarca di Serbia, a Karlovsky nel 1921. In seguito alla morte di Tikhon e agli
sviluppi sopravvenuti nella vita della Chiesa russa si rifiutarono di riconoscere
l'autorità del patriarcato di Mosca, che a sua volta li ripudiò come non canonici e
scismatici; b) l'‛Esarcato russo dell'Europa occidentale', con quartier generale a
Parigi, che ebbe origine dalla decisione del patriarca Tikhon, nel 1922, di revocare il
suo precedente decreto e ordinare al suo esarca nell'Europa occidentale, il metropolita
Evlogy, di elaborare, per la Chiesa russa in esilio, un nuovo schema che sostituisse
quello del Sinodo Karlovsky. Questo nuovo decreto di Tikhon non fu accettato dal
Sinodo Karlovsky, perché considerato un frutto delle pressioni delle autorità
sovietiche (Tikhon era allora in prigione). Ma Evlogy, benché fosse egli stesso
membro del Sinodo Karlovsky, diede attuazione al decreto creando la giurisdizione di
Parigi, che fu posta sotto gli auspici del Patriarcato ecumenico. Questa giurisdizione è
ora fondamentalmente integrata nella Metropoli greca di Francia, che è una diocesi di
Costantinopoli e conserva i propri vescovi, nominati da Costantinopoli e soggetti
canonicamente al metropolita greco di Francia; c) la ‛Giurisdizione del patriarcato di
Mosca', che derivò da un piccolo numero di vescovi russi esiliati i quali non
riconobbero la giurisdizione di Karlovsky e rimasero fedeli all'autorità ecclesiastica
di Mosca. Questa giurisdizione ha diocesi in America e soprattutto in Europa, con un
esarca per l'Europa occidentale; d) la ‛Chiesa russa ortodossa greca cattolica
d'America' o ‛Metropolia', costituita dal metropolita Platon di New York, che la
separò sia da Mosca che dal Sinodo Karlovsky nel 1924; dopo un breve periodo di
riunificazione con quest'ultimo (1935-1946), si è mantenuta indipendente. Questa
giurisdizione, inizialmente denunciata da Mosca come scismatica, e in tempi recenti
riconosciuta, sempre da Mosca, come autocefala, è ora chiamata ‛Chiesa ortodossa
d'America'. Ma il patriarcato ecumenico e una parte delle altre Chiese autocefale non
hanno riconosciuto la sua autocefalia, donde una situazione di scisma ‛nascosto' o
‛non riconosciuto' o ‛parziale'.
Ciò mostra come sia essenziale per la teologia ortodossa l'aspetto geografico del
ministero episcopale (dai tempi antichi ogni vescovo deve essere assegnato a una
particolare area geografica sin dal momento della sua ordinazione) e come sia
inammissibile avere vescovi esclusivamente per certi gruppi culturali o etnici.
Questi sono, dunque, i nuovi problemi che il Novecento pone all'ortodossia dal punto
di vista della struttura canonica. Sono problemi difficili, complicati da ogni sorta di
fattori e di influssi. Ma la loro soluzione può essere trovata, in definitiva, soltanto
nell'applicazione dei principi ecclesiologici che, risalendo alle radici stesse della
tradizione ortodossa, ne fondano la reale identità. Per questa ragione gli sviluppi
teologici dell'ortodossia contemporanea hanno una importanza cruciale per il futuro
stesso della Chiesa ortodossa.
3. Sviluppi teologici
Mentre la tradizione patristica subiva una tale sorte, i contatti di teologi ortodossi con
gli sviluppi della teologia in Occidente producevano una situazione nuova. Da una
parte, le grandi conquiste della Scolastica medievale attiravano molte menti
dell'ortodossia. Essendo pressoché assente ogni contatto creativo col ‛pensiero'
patristico, i Padri servivano soltanto come fonti ‛letterarie', da usare in dibattiti
teologici modellati sulla problematica e gli interessi della teologia scolastica
occidentale. La teologia ortodossa concentrò i suoi sforzi nel dare risposta a questioni
già poste dalla problematica occidentale, che era accettata senza discussioni. D'altra
parte, quando la Riforma protestante scosse l'Occidente nel sec. XVI e la
problematica teologica prese la forma di un dibattito cattolico romano-protestante, la
teologia ortodossa cercò disperatamente di delineare una posizione teologica propria,
con la produzione di proprie ‛confessioni'. Questi testi, conosciuti come ‛Confessioni
ortodosse', non erano che tentativi di creare una posizione ‛mediana' tra cattolicesimo
romano e protestantesimo attraverso l'uso di argomenti protestanti contro i cattolici
romani e viceversa. Accadde così che alcuni autori furono pesantemente influenzati
dalla Scolastica cattolica romana (per es. Pietro Moghila e Dositeo di Gerusalemme),
mentre altri lo furono dalla teologia protestante (per es. Cirillo Lukaris, Metrofane
Critopulo ecc.). Comune a tutti, comunque, è la responsabilità di dare inizio, nella
teologia ortodossa, a un ‛confessionalismo' che ha segnato l'ortodossia per secoli. È
soltanto nel nostro secolo, come vedremo appresso, che la teologia ortodossa sta
lentamente prendendo coscienza di quanto un approccio confessionale alla teologia
sia estraneo e quindi nocivo alla natura autentica dell'ortodossia.
Una forte reazione contro quello che fu etichettato come l'‛Occidente' si manifestò
nella Russia dell'Ottocento, forse come risultato della rinascita del monachesimo,
seguita al ritorno di Paisij Veličkovskij dal monte Athos e alla comparsa della
tradizione degli starec, che influenzò celebri scrittori come Dostoevskij e Gogol′. A
questo moto diede l'avvio il gruppo degli ‛slavofili', il cui più celebre rappresentante
fu il teologo laico A. Chomjakov. Il punto che questa scuola di pensiero si proponeva
di chiarire è che cattolici romani e protestanti, per quanto possano sembrare
contrapposti, sono di fatto ‛occidentali', cioè partecipi della medesima tradizione
occidentale, che pone le stesse domande. L'ortodossia, invece, è interamente un
‛nuovo mondo', il mondo orientale, dove non soltanto le risposte ma anche le
domande sono diverse da quelle dell'Occidente. Quest'impostazione, che intendeva
scuotere la dipendenza della teologia ortodossa dall'Occidente, poteva significare un
superamento creativo della polarizzazione, creata dalla teologia ortodossa
confessionale, tra un pensiero ortodosso ‛romanizzante' e uno ‛protestantizzante', e
cioè un ritorno alle fonti stesse della tradizione ortodossa. Poteva però anche
significare la creazione di una nuova polarizzazione, quella tra Occidente e Oriente,
ugualmente dannosa e altrettanto artificiosa. Con il nostro secolo è giunto il momento
per affrontare questo problema ed elaborare una giusta soluzione.
3. Bisogna infine menzionare il movimento ecumenico come uno dei fattori che
hanno dato un contributo decisivo allo sviluppo della teologia ortodossa nel nostro
secolo. Nei primi decenni della sua esistenza, il Consiglio ecumenico delle Chiese,
soprattutto nel primo periodo del movimento Fede e Costituzione, creò fra teologi
ortodossi, anglicani e protestanti legami tali da porre la teologia ortodossa di fronte a
problemi completamente nuovi, specialmente in campo ecclesiologico. I più influenti
teologi ortodossi di quel periodo, come il defunto H. Alivizatos e padre G. Florovskij,
non solo erano essi stessi sollecitati a dare il meglio di sé, ma incoraggiarono e
aiutarono anche molti loro studenti a elaborare creativamente una teologia ortodossa
che fosse in grado di rispondere ai bisogni del movimento ecumenico. Questo
significa che la teologia ortodossa odierna ha voluto cessare di essere il frutto
‛esotico' di un mondo totalmente ‛altro', per mettersi al servizio dell'intera Chiesa
cattolica del nostro tempo.
È comunque possibile delineare certi tratti della nuova teologia, riguardanti sia la
metodologia che la tematica.
2. Una delle conseguenze metodologiche più immediate di tale ritorno ai Padri è che
certe aree finora neglette dalla ricerca teologica diventano ‛fonti' basilari della
teologia. Tali aree sono connesse soprattutto con il culto, in particolare con la liturgia,
e con l'esperienza monastica o ascetica. Quindi, mentre nel passato nessun teologo
ortodosso avrebbe pensato a richiamarsi a ‛fonti' come l'eucaristia per fini dottrinali,
un intero ramo della teologia ortodossa moderna si è costituito sotto il titolo di
‛teologia eucaristica'. L'esperienza liturgica sta dunque cessando di essere la
specialità della ‛teologia pratica', per acquistare rilevanza anche riguardo ad
argomenti speculativi o teoretici come la dottrina della Santa Trinità, la cristologia,
l'ecclesiologia ecc. Nello stesso contesto, per la prima volta nel nostro secolo il
significato teologico dell'icona, è stato esplicitato e trattato in numerosi libri.
Parimenti, la tradizione ascetica dell'era patristica è stata sempre più ricompresa entro
la teologia dogmatica. Gli scritti dello pseudo-Dionigi l'Areopagita, Giovanni
Climaco, Massimo il Confessore, Simeone il Nuovo Teologo ecc., non sono quasi
mai stati citati nei manuali dogmatici ortodossi del genere ‛accademico'; oggi, la
maggior parte della teologia ortodossa è invece fondata su tali fonti (per es. l'opera
classica di Vl. Lossky, Théologie mystique de l'Église d'Orient, 1944), mentre
la Filocalia e i Detti dei Padri del deserto attirano sulla teologia ortodossa
un'attenzione senza precedenti.
1. Uno dei principali campi cui la teologia ortodossa ha dato nel nostro tempo un suo
peculiare contributo è la ‛pneumatologia'. Ciò non ha comportato però una rinascita
del vecchio problema del Filioque (la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal
Figlio), che segnò le relazioni fra ortodossi e cattolici romani al tempo dello scisma
d'Oriente. Certamente, la controversia del Filioque è stata nuovamente sollevata nel
nostro tempo come un problema dalle importanti implicazioni teologiche; ma il punto
sul quale si concentra principalmente l'attenzione della teologia ortodossa è quello del
posto che la pneumatologia occupa nella teologia in generale. Una delle critiche
avanzate oggi dagli ortodossi contro la teologia occidentale riguarda la sua tendenza a
essere eccessivamente cristocentrica, anzi cristomonistica, nelle sue formulazioni. E
questa, per esempio, la critica mossa alla teologia di K. Barth, il quale, secondo gli
ortodossi, ha costruito il suo sistema su una base esclusivamente cristologica. Una
critica analoga è stata avanzata anche nei confronti del Concilio Vaticano II, che - si è
ritenuto - ha inserito l'opera dello Spirito Santo nella sua concezione della Chiesa
‛dopo' averne interamente delineato la struttura in chiave cristologica. La teologia
ortodossa ha insistito quindi sul principio che la pneumatologia non dovrebbe
dipendere dalla cristologia ma avere un ruolo costitutivo nella teologia.
Eppure, uno studio più approfondito di questa concezione da parte dei teologi
ortodossi contemporanei ha portato alla conclusione ch'essa, seppure può essere
sostenuta, abbisogna di correzioni fondamentali. Florovskij ha notato che
l'ecclesiologia di Chomjakov fa della Chiesa un'entità sociologica, una ‛società
carismatica' più che il ‛Corpo di Cristo'; ha sostenuto ripetutamente e vigorosamente
che l'ecclesiologia non è altro che ‟un capitolo della cristologia". Tale posizione è
stata rafforzata da alcuni importanti lavori di teologi cattolici romani contemporanei,
in modo particolare dai due grossi volumi di E. Mersh sulla nozione di ‛Corpo
mistico' e dall'opera di H. de Lubac su quella di ‛cattolicesimo'. Queste opere sono
segnate da una forte impronta cristologica e, al pari della posizione di Florovskij, ci
hanno ricondotto al problema del rapporto tra cristologia e pneumatologia con
particolare riferimento all'ecclesiologia. Abbiamo quindi bisogno, andando oltre
Chomjakov e Florovskij, di creare, con riferimento alla dottrina della Chiesa, una
sintesi adeguata tra cristologia e pneumatologia.
Tutto ciò si collega anche con la dottrina della successione apostolica. Poiché ogni
ordinazione ha luogo nel contesto dell'eucaristia, non c'è ministero o sacramento che
possa essere concepito come un canale della Grazia, che muova semplicemente dal
passato al presente. La successione apostolica abbisogna della presenza della
comunità escatologica nella storia; è una successione di comunità piuttosto che di
individui; non è una trasmissione storica automatica di potere o Grazia ma richiede
un contesto ‛epicletico' di preghiera e speranza nell'avvento del regno. Attraverso
l'‛epiclesi' dello Spirito, la Chiesa vive chiedendo, come se non avesse ricevuto nulla,
ciò che ha già ricevuto in Cristo. La Grazia non può essere posseduta, ma soltanto
data e ridata.
Tutto ciò sembra sollevare problemi fondamentali, per esempio circa l'idea di storia.
Seguendo questa via, la teologia ortodossa si è infatti imbattuta in numerosi problemi
che rendono il suo lavoro più difficoltoso ma anche più stimolante.
Connesso con il tentativo di affrontare il problema gnoseologico nelle sue più vaste
implicazioni e conseguenze è lo studio dell'‛antropologia', che la teologia ortodossa
moderna persegue avvalendosi della nozione di persona. Tra coloro che hanno
lavorato prevalentemente in questa direzione figura Yannaras, che ha fatto ricorso
alla filosofia esistenzialista moderna (in particolare M. Heidegger) nel tentativo di
giustificare il pensiero personalistico dei Padri. Se Heidegger possa essere
effettivamente di aiuto a questo, 0vvero se debba essere accostato solo con molta
cautela, è un problema che va tenuto aperto. Sull'allontanamento di Heidegger dal
pensiero classico occidentale molto ci sarebbe da dire; rimane nondimeno dubbia la
sua effettiva utilità per la teologia ortodossa. Comunque, che la nozione di ‛persona'
sia centrale in teologia è indubbiamente cosa che i teologi ortodossi non possono più
ignorare e di cui sono anzi chiamati a fare un uso assai maggiore in una sintesi
creativa che abbracci anche gli altri aspetti della teologia.
4. Relazioni ecumeniche
I. Il XX secolo rimarrà nella storia come un periodo di intensi sforzi per riunire i
cristiani divisi e restaurare l'unità della Chiesa. Si parla a questo proposito di
‛ecumenismo' o ‛movimento ecumenico', nel senso lato del termine. A questo
movimento l'ortodossia ha dato subito non soltanto una risposta positiva, ma anche
una partecipazione immediata e profonda. Già agli inizi del secolo, infatti, il patriarca
ecumenico di Costantinopoli Gioacchino III, in risposta alle congratulazioni ricevute
per la sua elezione al trono nel 1902, indirizzò a tutti i capi delle Chiese ortodosse
una lettera enciclica nella quale li esortava a riflettere in quali modi si potesse
promuovere non soltanto l'unità dell'ortodossia ma anche le sue relazioni con la
Chiesa cattolica romana e con le Chiese protestanti. Replicando alle risposte ricevute,
in un'altra lettera enciclica, suggerì più concretamente, due anni dopo, che si dovesse
avviare il dialogo almeno con i vecchi cattolici, gli anglicani e i precalcedonesi.
Questa iniziativa non portò però, allora, ad alcun risultato.
Una più concreta e più vasta iniziativa fu presa dal patriarcato di Costantinopoli nel
1920. Nella famosa lettera enciclica A tutte le Chiese locali di Cristo, fu chiesto a
tutte le Chiese cristiane di vincere lo spirito di diffidenza e acrimonia, e di dimostrare
la potenza dell'amore creando una κοινωνία di Chiese, nel senso di una ‛lega di
Chiese', sul modello dell'allora felicemente costituita Società delle Nazioni. Questo
appello, pur non sortendo alcun risultato immediato e spettacolare, contribuì
indubbiamente alla costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese dopo la
seconda guerra mondiale. Nel frattempo, le Chiese ortodosse presero parte attiva ai
movimenti di Fede e Costituzione e di Vita e Azione, sino al loro finale assorbimento
in quello che diventò nel 1948 il Consiglio ecumenico delle Chiese. Allora, talune
Chiese ortodosse guidate dalla Chiesa di Russia rifiutarono di aderire al Consiglio,
nel quale dovevano però confluire a partire dalla terza assemblea nel 1961.
Questo storico evento ecumenico, senza precedenti nel passato, ha prodotto una
situazione che ha influito in vario modo sulla vita dell'ortodossia. Data la grande
prevalenza, nel Consiglio ecumenico, delle Chiese protestanti, e data la non
disponibilità della Chiesa cattolica romana a collaborare, gli ortodossi vennero a
trovarsi in rapporto con le più varie - e anche estreme - forme del cristianesimo
occidentale. La ‛base' originaria richiesta per l'adesione al Consiglio - costituita
semplicemente dalla fede in Gesù Cristo Signore e Salvatore - era naturalmente
motivo di disagio per gli ortodossi, disagio superato con la ridefinizione della base,
nel 1961, in termini trinitari. Ma non tutti i problemi sono per questo risolti. I
trent'anni di partecipazione ortodossa al Consiglio offrono una prospettiva sufficiente
per valutare sia i risultati positivi sia le difficoltà che oggi si presentano.
I risultati positivi non sono stati spettacolari se si guarda all'unità visibile; sono però
molto significativi se collocati in una prospettiva storica. Il semplice fatto che mutua
ignoranza e, su molti punti, incomprensione, prevalse per molti secoli tra protestanti e
ortodossi, abbiano ceduto il passo a una più profonda comprensione e anzi a un
reciproco interessamento, è di per sé una conquista. C'è ancora, naturalmente, molto
da fare in questa direzione, ma la strada percorsa finora è senz'altro notevole. Questo
processo, che ha avuto luogo sia sul piano teologico che su quello della
collaborazione pratica, ha giovato all'ortodossia facendola uscire dal suo isolamento
‛esotico' e dandole un posto centrale nella vita del cristianesimo; ma ha giovato anche
al Consiglio, cui ha conferito, sul piano estrinseco come su quello spirituale, un
carattere ecumenico che gli mancherebbe se non fosse presente l'ortodossia.
L'insistenza degli ortodossi sulla teologia trinitaria, sulla vita liturgica, sulla
tradizione patristica e su una visione del destino umano e cosmico in termini di
ϑέωσις, ha certo aiutato le Chiese della Riforma a dare alla loro fede un orizzonte più
vasto; non solo, ma l'accento posto dagli ortodossi sulla centralità dell'eucaristia nella
vita della Chiesa (un'idea non immediatamente familiare alla tradizione della
Riforma) sembra ora suscitare solo scarsi problemi, come risulta dai più recenti
documenti di Fede e Costituzione, e in particolare dall'Accordo su battesimo,
eucaristia e sacerdozio.
Questi importanti risultati (abbiamo ricordato soltanto gli esempi più significativi)
sono però accompagnati da molte difficoltà, dovute al fatto che quella ortodossa è per
molti aspetti una tradizione rimasta estranea al protestantesimo durante il suo periodo
di formazione. La realtà è che gli ortodossi, appunto sulla base della diversa
tradizione, hanno, sulla finalità del movimento ecumenico, un'opinione diversa da
quella della maggioranza del Consiglio. Ne conseguono certi problemi, sia pratici sia
teologici, che incideranno sulla partecipazione degli ortodossi al Consiglio negli anni
avvenire. I punti problematici possono essere così riassunti.
2. Un problema importante inerente alla natura stessa del Consiglio, è quello del suo
‛significato ecclesiologico'. Che il Consiglio sia un Consiglio ‛di Chiese' sembra
implicare non soltanto il mutuo riconoscimento di uno status ecclesiologico, ma
anche una dimensione ecclesiologica implicita nel semplice fatto dell'appartenenza.
Ma in che modo queste implicazioni possono conciliarsi con la diversità di opinioni,
in seno al Consiglio, sulla natura della Chiesa? Mancando tuttora un pieno accordo su
questo punto, è inevitabile la confusione sia circa il senso nel quale le Chiese membri
del Consiglio si chiamano tra loro ‛Chiese', sia circa la portata del significato
ecclesiologico implicito nella loro associazione.
È ovvio che questo problema sia di particolare rilievo per gli ortodossi, che alla
Chiesa attribuiscono tanta importanza. Particolarmente nei primi decenni, la
posizione ortodossa nel Consiglio è consistita nel riaffermare la Chiesa ortodossa
come la Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, soprattutto sul fondamento che ha
conservato intatte nei secoli la fede e la tradizione. Senonché, questo argomento può
essere avanzato da ogni Chiesa, e condurrebbe il tentativo di verificarne storicamente
la validità a discussioni sterili; inoltre, ove si potesse sostenere che quella ortodossa è
‛la' Chiesa, l'ortodossia si troverebbe a dover giustificare la sua partecipazione a un
Consiglio che, essendo composto di ‛Chiese', travalica evidentemente i limiti della
Chiesa ortodossa.
Varie sembrano essere state le risposte a questo problema. Per qualche tempo si
sostenne (sulla base di certe affermazioni di Chomjakov, nel secolo scorso) che, se
non possiamo esprimere giudizi su quanti non fanno parte della Chiesa ortodossa
perché solo Dio sa quale sarà il loro destino ultimo, possiamo però essere sicuri che
la Chiesa ortodossa è la vera Chiesa. Questo agnosticismo ecclesiologico riguardo ai
non ortodossi sembrava giustificare la partecipazione ortodossa al Consiglio come
anche l'uso del termine ‛Chiesa' nei confronti di quanti si trovassero fuori della
Chiesa ortodossa storica. Un'altra soluzione dello stesso problema fu, nello stesso
periodo, avanzata da Florovskij con la sua distinzione tra aspetti canonici e aspetti
carismatici della Chiesa. In contrasto con le ecclesiologie di Cipriano e Agostino,
Florovskij cercò di mostrare come gli aspetti canonici della Chiesa (l'attuale forma
storica della Chiesa ortodossa) non esauriscano la realtà dell'Una Sancta, che è la
sfera carismatica del Corpo di Cristo. Una simile concezione presenta serie difficoltà
alla teologia ortodossa (in particolare dal punto di vista dell'approccio eucaristico al
mistero della Chiesa, di cui si è parlato nel capitolo precedente); nel contempo, non
sembra offrire una soluzione alla questione dei criteri da applicare per stabilire il
carattere ecclesiale dei gruppi che affermino la propria inclusione nella sfera
carismatica del Corpo di Cristo.
In passato, tali criteri sono stati cercati dagli ortodossi nel solco confessionale (per
es., l'accettazione dell'insegnamento dei sette Concili ecumenici, la successione
apostolica ecc.); ma, con la graduale deconfessionalizzazione della teologia
ortodossa, diventa chiaro come criteri di tal sorta non siano appropriati. La fedeltà
degli ortodossi non va a una confessione ma all'Una Sancta, che è nello stesso tempo
una comunità realizzata nell'esperienza storica e una realtà escatologica che sorpassa
e trascende la storia. Perciò la risposta alla domanda ‛dov'è la Chiesa?' sembra essere
che c'è Chiesa ovunque una particolare comunità storica dispieghi e manifesti, nella
sua stessa struttura e fede, il destino escatologico del mondo, qual è implicito
nell'evento-Cristo. Tutte le Chiese storiche (comprese quelle ortodosse) dovrebbero,
ognuna nei confronti di se stessa e di ciascun'altra, porsi costantemente questo
interrogativo. Il movimento ecumenico è il ‛luogo' dove le Chiese avanzano, insieme
e non isolatamente, questo interrogativo. Con la partecipazione al movimento
ecumenico, non viene necessariamente abbandonata la concezione secondo cui la
Chiesa ortodossa personifica la comunità che, nella struttura e nella fede, esprime
fedelmente la visione escatologica dell'evento-Cristo. Questa concezione è comunque
soggetta a un triplice condizionamento: a) anche la Chiesa ortodossa dovrebbe
costantemente adattare la propria struttura e fede ai criteri escatologici offerti
dall'evento-Cristo (l'eucaristia come celebrazione dell'avvento del Regno può servire
da base per stabilire tali criteri, almeno per gli ortodossi che hanno una visione
escatologica dell'eucaristia); b) non tutto nella comunità storica della Chiesa
ortodossa dev'essere considerato essenziale per la presenza dell'Una Sancta nella
storia, ma soltanto quegli elementi che sono richiesti dall'applicazione dei criteri
summenzionati (una specie di ‛gerarchia delle verità' è quindi inevitabile); c) nessuna
comunità ecclesiale storica può pretendere di essere ‛la' Chiesa, se cessa di cercare
l'unità con le altre Chiese; ciò significa che, finché divisioni e scismi non siano sanati,
il carattere ecclesiale di ogni Chiesa che creda di essere ‛la' Chiesa è destinato a
sopportare un'incompleta o inadeguata applicazione dei criteri escatologici - che
includono l'unità - alla sua esistenza storica (in altre parole, le Chiese storiche devono
aspirare a essere il segno del Regno nel senso pieno, il che richiede la loro
cooperazione per il conseguimento dell'unità). La partecipazione dell'ortodossia al
movimento ecumenico non sembra dunque in contrasto (ne è anzi il frutto) con la
fedeltà alla Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, richiesta dalla sua
ecclesiologia.
Bisogna rendersi conto che gli ortodossi stanno sempre in guardia contro i reiterati
tentativi, da parte dei membri protestanti del Consiglio, di imporre un'ecclesiologia
che sottolinei l'unità ‛già' esistente piuttosto che l'unità cercata. Gli ortodossi temono
che questa corsa al ‛progresso ecumenico', e in particolare all'intercomunione,
avvenga a scapito della verace concezione della Chiesa Una, Santa, Cattolica e
Apostolica, alla quale essi devono fedeltà. D'altra parte, questa preoccupazione
sembra offuscare negli ortodossi la consapevolezza del fatto che non esiste atto ‛di
Chiese' che non sia anche, in qualche modo, un atto ecclesiologico. In particolare, se
si tiene conto del summenzionato principio della teologia ortodossa, secondo cui uno
stato di divisione della Chiesa incide sulla cattolicità e sul carattere escatologico di
tutte le Chiese coinvolte, è chiaro che ogni tentativo di sanare una situazione
scismatica ha una portata ecclesiologica. Le Chiese partecipanti al Consiglio non
sono impegnate soltanto nel dialogo tra loro ma, per molti aspetti, in una vita
comune. Questa è in se stessa una realtà ecclesiologica.
3. Uno specifico problema che l'ortodossia si trova dinanzi nel Consiglio è quello
dell'‛intercomunione'. Questo termine è stato usato nei circoli ecumenici per indicare
la libera comunione eucaristica tra le Chiese nonostante l'assenza di una piena unità.
Ora, i due motivi principali addotti per giustificare l'intercomunione offrono entrambi
agli ortodossi una particolare difficoltà. Anzitutto, si afferma che l'unità già esistente
tra le Chiese è sufficiente per permettere o anche imporre una comune partecipazione
alla mensa eucaristica. L'invito alla comunione eucaristica proviene da Cristo stesso,
nel quale siamo già uniti, altrimenti il movimento ecumenico sarebbe inconcepibile.
Il secondo motivo è che l'eucaristia è un mezzo per l'unità; partecipando a essa le
Chiese divise saranno assistite nel cammino verso la piena unità.
Gli ortodossi hanno finora unanimemente, e con un'insistenza che causa imbarazzo
agli altri membri del Consiglio, rifiutato di praticare l'intercomunione, adducendo le
seguenti ragioni.
In primo luogo essi sostengono che il termine stesso - oltre che l'idea - di
intercomunione sia estraneo all'intera tradizione della Chiesa e perfino contraddittorio
con l'eucaristia stessa. Il termine appropriato per designare la comunità eucaristica è
‛comunione', giacché la comunità eucaristica è qualcosa che ha luogo ‛all'interno'
dell'unica Chiesa. L'intercomunione presuppone la sussistenza di una certa divisione
nella Chiesa, il che contraddice l'intima essenza dell'eucaristia. Appunto in questa
linea di pensiero gli ortodossi incontrano difficoltà nel trattare l'eucaristia come un
‛mezzo' per un fine. Secondo loro, sia il concetto di Chiesa sia quello di eucaristia
implicano che in ogni celebrazione eucaristica la Chiesa ‛ricordi' la Chiesa Una,
Santa, Cattolica e Apostolica nella sua pienezza e condizione escatologica.
L'esistenza di divisioni nella Chiesa non può essere né ignorata né tollerata nella
celebrazione dell'eucaristia. L'intercomunione sembra appunto invitare, secondo gli
ortodossi, alla tolleranza della divisione, il che implica di fatto un concetto meno
elevato sia della Chiesa che dell'eucaristia. Gli ortodossi affermano che il loro
atteggiamento a questo riguardo non dovrebbe essere interpretato come segno di
arroganza; esso è anzi fonte di sofferenza, una sofferenza che d'altra parte non può e
non deve essere elusa con un facile aggiramento del problema.
In conclusione, bisogna dire che gli ortodossi devono avere piena facoltà di
intervento su tutte le materie, inclusi in particolare l'orientamento teologico e
spirituale e la guida del movimento ecumenico. Non basta chiedere loro di
commentare documenti e testi già preparati da non ortodossi. Sarebbe quindi
inopportuno considerare la presenza ortodossa irrilevante per gli interessi sociali e
politici del Consiglio e costringerla nel ‛ghetto' di Fede e Costituzione; ciò
equivarrebbe infatti a limitare l'interesse degli ortodossi al problema classico, che
rimane certo per loro capitale, dell'unità della Chiesa. Gli sviluppi futuri
dipenderanno in larga misura dalla capacità che dimostreranno sia i membri ortodossi
che quelli protestanti del Consiglio di modificare le loro posizioni, cosicché i primi
s'impegnino nel tentativo di portare alla luce le implicazioni esistenziali della loro
fede e struttura tradizionale, e i secondi si inducano ad ammettere che, senza la
prospettiva di una vera cattolicità (che includerebbe l'ἔϑος orientale) e senza un'unità
visibile è impossibile per la Chiesa in ogni epoca, e quindi anche nella nostra,
svolgere un ruolo storico. Nel Consiglio devono quindi verificarsi grossi mutamenti
sia sul piano teologico sia su quello costituzionale, se si vuol mettere gli ortodossi in
grado di dare in futuro un maggior contributo ai lavori ecumenici.
II. A parte il coinvolgimento diretto nel Consiglio ecumenico delle Chiese,
l'ortodossia si è impegnata in conversazioni bilaterali con i non ortodossi. I casi in cui
il dialogo ha fatto i maggiori progressi sono i seguenti.
I ripetuti incontri, dapprima non ufficiali e poi ufficiali, tra antiche Chiese orientali e
Chiese orientali ortodosse nel nostro secolo hanno finora rivelato molti elementi
positivi che lasciano bene sperare. I lunghi secoli di separazione e isolamento
avevano favorito la convinzione che la cristologia delle Chiese non calcedonesi fosse
monofisita nel senso della negazione della natura umana di Cristo. Questi incontri
hanno mostrato che in realtà le cose non stanno così. Le Chiese non calcedonesi
sembrano preferire piuttosto la formula cristologica di s. Cirillo di Alessandria: ‟una
sola natura del Verbo di Dio incarnato", che non era intesa da Cirillo in senso
monofisita. Viene così a mancare il sostegno a uno degli ostacoli più seri all'unità.
Rimangono però da risolvere ancora molti importanti problemi. Il primo è l'effettiva
accettazione di Calcedonia e dei Concili ecumenici successivi da parte dei non
calcedonesi, ai cui occhi Calcedonia appare come un Concilio non solo ‛bizantino',
influenzato cioè dalla politica bizantina del tempo, ma anche segnato, nella sua
cristologia, dalle influenze occidentali e in particolare dal Torno a Flaviano di papa
Leone Magno, che fu ampiamente usato nella definizione della formula calcedonese.
In verità, Calcedonia parrebbe offrire spazio alla formula cristologica di Cirillo come
a quella di Leone; ma certo il nocciolo della questione è costituito dalla loro
riconciliazione.
Il secondo problema che rimane ancora aperto è quello dell'autorità dei sette Concili
ecumenici che le antiche Chiese orientali propendono a considerare come costituenti
una unità dal punto di vista dell'autorità dottrinale. È questo un punto di particolare
importanza: si consideri, per esempio, il sesto Concilio ecumenico con la sua
insistenza sulle due volontà di Cristo. Ora, l'accettazione dei Concili postcalcedonesi
cruciale per le antiche Chiese orientali - presenta difficoltà particolari per i non
calcedonesi.
Ma ad onta di questi gravi problemi, sembra che ci sia da entrambe le parti la ferma
volontà di perseverare negli sforzi verso la comunione. Una volta chiarito,
fondamentalmente, il problema cristologico, si può guardare al futuro con un certo
ottimismo.
2. Il dialogo con la Chiesa anglicana ha una lunga storia nei tempi moderni; ma
soprattutto dopo la prima guerra mondiale i tentativi di riavvicinamento tra ortodossi
e anglicani cominciarono a prendere la forma di uno studio serio dei problemi
teologici che si pongono sulla via dell'unità. Durante il periodo tra le due guerre
mondiali i principali problemi sui quali s'incentravano le discussioni erano i seguenti.
Una delle principali nozioni teologiche impiegate dagli ortodossi a sostegno del
riconoscimento delle ordinazioni anglicane era quella di ‛economia' (in greco
οἰκονομία), che merita un cenno essendo stata ripetutamente presentata, in questo
secolo, come una soluzione tipicamente ortodossa del problema ecumenico. Alla sua
base sta una distinzione legalistica tra l'osservanza ‛stretta' di una prescrizione
canonica e un atteggiamento ‛indulgente' (una specie di ‛dispensa'), lecito in taluni
casi particolari. Si è cosi sostenuto che la Chiesa, che è la fonte del diritto canonico,
ha anche il diritto in certi casi, per ragioni di opportunità pastorale o d'altro genere, di
tralasciare o derogare alla sua stretta applicazione, ‛regolando' quindi o ‛adattando'
(οἰκονομεῖν) i canoni ai bisogni di un dato individuo o di una situazione particolare.
Ampiamente trattata nella letteratura teologica moderna, questa teoria rivelò infine
gravi carenze, che in pratica obbligarono la teologia ortodossa ad abbandonarla,
almeno riguardo alle relazioni ecumeniche. Se è vero, infatti, che la tradizione
orientale ha sempre lasciato al vescovo o al padre spirituale-confessore ampia libertà
di non applicare rigorosamente i canoni a singoli membri della Chiesa (abitualmente
in rapporto alla loro partecipazione all'eucaristia), l'applicazione dell'‛economia' ai
sacramenti di comunità separate dalla Chiesa ortodossa difficilmente poteva trovare
un sostegno nella tradizione. Ma ciò che, in ultima analisi, rese difficile l'applicazione
di questa teoria alle relazioni ecumeniche fu il distacco della teologia ortodossa dal
principio scolastico secondo il quale la Chiesa, in quanto istituzione, ‛fa' i sacramenti
e ha quindi il potere di amministrarli nei modi che ritiene appropriati, poiché sono
fondamentalmente ‛mezzi' di salvezza. Quando a questo principio subentrò una
concezione dei sacramenti di intonazione più ontologica ed ecclesiologica, nacque il
problema se la Chiesa potesse riconoscere una realtà sacramentale quando tale realtà
di fatto non esisteva. Ecumenicamente rilevante, pertanto, non era più una questione,
giuridica o pastorale, di amministrazione dei sacramenti, ma il problema se in una
data Chiesa esistesse in un modo o nell'altro una realtà ecclesiale, e quindi
sacramentale. La teoria dell'economia è dunque divenuta fondamentalmente inutile
nelle discussioni teologiche ortodosse degli ultimi anni.
Bisogna notare che, mentre il problema specifico delle ordinazioni anglicane è stato
lasciato fuori delle attuali conversazioni, l'elenco degli argomenti teologici in
discussione rimane fondamentalmente lo stesso del periodo fra le due guerre: è cioè
dominato dall'analisi scolastica della teologia accademica prenovecentesca. Ciò ha
condotto finora a dispute teologiche pressoché senza fine su ciascun singolo aspetto
della teologia, senza una effettiva messa a fuoco delle condizioni fondamentali ‛per
l'unità'. Il nuovo clima ecumenico emerso nel frattempo e il contesto ‛esistenziale'
dell'odierno lavoro teologico si sono bensì imposti all'attenzione della Commissione
del dialogo, senza però riuscire a influenzare l'agenda delle discussioni.
Uno studio della storia del dialogo mostra come ci sia stato sin dall'inizio un vivo
desiderio in entrambe le parti, soprattutto nei vecchio-cattolici, di arrivare all'unità e
alla comunione sacramentale. Fin dall'inizio si riscontrò un notevolissimo accordo
teologico, comprendente non solo un comune atteggiamento negativo nei confronti di
certe dottrine cattoliche romane (infallibilità papale e primato giurisdizionale, la
dottrina del Filioque, il dogma dell'Immacolata Concezione di Maria Vergine, il
celibato universale ecc.), ma anche un positivo consenso su quasi tutti gli argomenti
discussi. La tendenza principale, in entrambe le parti, era di mostrare che l'incontro
avveniva sul terreno comune dell'antica Chiesa indivisa e, per quanto riguardava la
dottrina, dei sette Concili ecumenici.
Nonostante l'ampia base di accordo teologico, il cammino verso l'unità è stato molto
lento, quasi inesistente. Ciò è dovuto in parte alle condizioni esterne, che
determinarono ripetute interruzioni del dialogo, ma forse più ancora all'estrema, quasi
scolastica, accuratezza degli ortodossi, che puntano a sottoscrivere particolareggiate
formule dottrinali sulla base di una teologia postbizantina confessionale e
accademica. In questo spirito, gli ortodossi hanno richiesto ai vecchio-cattolici una
‛confessione di fede' ufficiale, da questi ultimi sottomessa al patriarca ecumenico nel
1970. Si sono cosi chiariti, con soddisfazione degli ortodossi, la maggior parte dei
punti, eccetto i seguenti: a) il Filioque è rimosso dal Credo ma la sua interpretazione
teologica non è esattamente la stessa dell'Oriente. Comunque nella summenzionata
dichiarazione ufficiale al patriarca ecumenico, del 1970, i vecchio-cattolici
sottolineano che c'è soltanto una fonte della natura divina in Dio e che è solo il Padre;
ciò elimina il principale problema in gioco nell'interpretazione teologica del Filioque;
b) l'ecclesiologia dei vecchio-cattolici non è considerata dagli ortodossi pienamente
adeguata, specialmente per ciò che riguarda l'infallibilità della Chiesa, il posto del
clero in essa e soprattutto la ‛teoria delle branche', che sembra accettata dai teologi
vecchio-cattolici; c) la questione della successione apostolica, che presenta agli
ortodossi un duplice problema: da una parte lo status canonico dell'episcopato di
Utrecht, che è la fonte della successione episcopale dei vecchio-cattolici, e dall'altra
la prassi dell'ordinazione di vescovi solo a opera di singoli vescovi e non di due o tre
vescovi, come accade nell'ortodossia; d) riguardo ai sacramenti, gli ortodossi non
sono soddisfatti della dottrina dei vecchio-cattolici concernente la trasformazione
delle specie eucaristiche e il carattere sacrificale dell'eucaristia, con la separazione
della confermazione dal battesimo e dall'eucaristia ecc.
Questo dimostra che il dialogo si muove nel solco della teologia confessionale; si
mira cioè alla conclusione di un accordo su alcune ‛tesi' così come sono state
formulate nel passato, senza cercare una nuova comprensione della tradizione alla
luce dei problemi odierni e dei recenti sviluppi teologici. È difficile prevedere dove
condurrà questa via. Se si perverrà a un accordo dottrinale sui problemi in
discussione, si tratterà di un accordo di modesta rilevanza sia sul piano effettivamente
teologico che su quello della vita della Chiesa. Non si fa alcun tentativo, per esempio,
di mettere in relazione i problemi dottrinali con quelli della struttura della Chiesa,
come se questi ultimi potessero essere risolti a posteriori con una qualche sorta di
‛economia', né c'è alcun evidente interesse a esaminare, in quanto problemi teologici,
problemi più ‛esistenziali', pertinenti alla lex orandi e alla spiritualità. Soprattutto, il
futuro di questo dialogo dipenderà dalla misura in cui si svilupperanno le relazioni,
già avviate, tra cattolici romani e vecchio-cattolici. Ogni nuova interpretazione delle
controverse posizioni cattoliche romane, che sia tale da renderle più accettabili ai
vecchio-cattolici, attirerà naturalmente l'attenzione di questi ultimi su Roma, con la
quale condividono la stessa tradizione e mentalità occidentale. Ancora una volta, si
deve sottolineare che il dialogo tra ortodossi e vecchio-cattolici non potrà più
continuare senza un qualche riferimento a quello tra ortodossi e cattolici romani.
4. Degli altri dialoghi avviati dalle decisioni ufficiali panortodosse negli ultimi anni,
quelli con i luterani e i riformati sono appena all'inizio e, quindi, difficili da valutare
in questo momento. Lo stesso vale per il dialogo con la Chiesa cattolica romana, che
è ancora in fase preparatoria. In considerazione, tuttavia, del significato che
quest'ultimo dialogo ha per gli altri dialoghi con le Chiese occidentali, è importante
menzionare brevemente alcuni dei principali problemi che sembrano di particolare
importanza per il futuro.
Le relazioni tra cattolici romani e ortodossi hanno una lunga storia, nella quale gli
elementi negativi sembrano prevalere su ogni aspetto positivo. I tentativi di riunione
dopo lo scisma d'Oriente del 1054 hanno sempre dato agli ortodossi l'impressione che
l'intento di Roma fosse quello di assoggettare con ogni mezzo la Chiesa ortodossa al
suo potere. I Concili di Lione (1274) e Firenze (1438-1439), l'uniatismo ecc.
permangono nella coscienza degli ortodossi come simbolo della politica della Chiesa
di Roma. Di conseguenza, il clima psicologico delle relazioni tra cattolici romani e
ortodossi è stato appesantito dai sospetti di parte ortodossa. Nessun tentativo di
stabilire un genuino dialogo tra queste due Chiese potrebbe evitare lo scoglio di
questo atteggiamento sospettoso degli ortodossi verso Roma.
Questo cambiamento radicale del clima psicologico ha fornito il giusto contesto per
l'inizio del dialogo teologico. I vecchi sospetti non sono del tutto scomparsi,
specialmente per quanto concerne l'esistenza dell'uniatismo, che certe Chiese
ortodosse (per es. quella di Grecia) considerano ancora ufficialmente come un
ostacolo al progresso del dialogo teologico. Ma, come ha convenuto la Commissione
preparatoria panortodossa, tali ostacoli, per spiacevoli che possano sembrare, non
dovrebbero impedire la prosecuzione del dialogo, con l'intesa che ci si adopererà
affinché il predominante spirito dell'amore possa infine condurre alla loro rimozione.
In primo luogo bisogna sottolineare che, diversamente dalla maggior parte degli altri
dialoghi fin qui menzionati, sembra che in questo caso si sia evitato di disperdere
l'interesse su un'ampia gamma ditemi tratti dalla teologia accademica e si sia
concentrata l'attenzione sullo studio di un problema che incide sia sull'aspetto teorico-
dottrinale che su quello pratico della teologia. Ponendo il tema dei sacramenti al
centro delle discussioni, la Commissione preparatoria è riuscita ad associare due cose
importanti: a) l'avvio del dialogo con l'esame di argomenti positivi che già uniscono
le due Chiese (c'è, naturalmente, molto in comune tra loro sul problema dei
sacramenti), con l'effetto di esplicitare le differenze esistenti solo con riferimento a
questo punto focale; b) una costruzione del dialogo teologico tale che un accordo sul
piano teologico comporti nel contempo una convergenza su problemi pratici, come la
vita liturgica e spirituale, la struttura canonica della Chiesa ecc.
Ciò non sarebbe possibile senza un altro importante fattore che ha caratterizzato la
preparazione del dialogo, cioè il ricorso a orientamenti teologici sviluppatisi sia nella
teologia ortodossa (v. cap. 3) sia nel pensiero cattolico romano, i quali hanno cercato
entrambi di vincere la scolastica ‛cattività babilonese'. Ciò significa che il problema
dei sacramenti, scelto come punto focale, non sarà discusso dal punto di vista delle
preoccupazioni scolastiche che erano state nel passato al centro delle conversazioni
tra ortodossi e cattolici romani (per es. la trasformazione delle specie eucaristiche, gli
azzimi ecc.), ma soprattutto dal punto di vista dell'ecclesiologia: si discuterà cioè il
modo in cui ciascuna parte concepisce e mette in pratica i sacramenti e specialmente
il modo in cui la santa eucaristia influenza la comprensione e l'effettiva struttura della
Chiesa, ecc. Tali sembrano essere i problemi che formano oggetto dei documenti
preparatori comuni. E sono tutti problemi non sollevati in astratto e per se stessi, ma
unicamente in vista e in rapporto all'unità della Chiesa. Ciò aiuterà il dialogo a evitare
discussioni senza fine su differenze teologiche in generale e a concentrarsi sui
problemi che dividono le due Chiese non semplicemente nella teoria ma anche
nell'effettiva struttura e vita ecclesiale.
Sulla base di tale lavoro preparatorio i principali problemi da affrontare con decisione
sembrano essere questi: a) sia gli ortodossi che i cattolici romani hanno elaborato le
loro tradizioni separatamente gli uni dagli altri e in condizioni culturali diverse.
Ciascuna parte fu così condotta a elaborare numerose dottrine e pratiche che non
hanno riscontro presso l'altra (per es. diversi dogmi e pratiche liturgiche in Occidente
- inclusa l'infallibilità papale - nati come risposta a sfide culturali, o la tradizione
dell'esicasmo in Oriente, ecc.). In quale misura si può parlare a questo proposito di
‛idiosincrasie' storiche, alle quali si può permettere di sopravvivere senza pregiudizio
per la comunione? O bisogna invece rimuoverle in quanto ostacoli? Oriente e
Occidente hanno vissuto separatamente così a lungo che il recupero del vecchio ἔϑος
cattolico non può essere facilmente compiuto senza procedere - con l'assistenza della
Grazia - a distinguere tra ciò che riguarda e ciò che non riguarda l'unità della Chiesa;
b) tutti i problemi controversi che dividono le due Chiese, e anzitutto il problema del
papato, devono essere visti alla luce di certi principi che sono ‛comuni' a entrambe le
Chiese. C'è tra le due Chiese un terreno comune - o almeno si sta costituendo nel
nostro tempo - ad esempio per quanto riguarda l'eucaristia, la Chiesa locale,
l'episcopato, ecc. Il Concilio Vaticano II ha aperto la via a nuove interpretazioni
dell'ecclesiologia occidentale tradizionale e, in larghissima misura, ha aderito ai più
recenti sviluppi teologici dell'ortodossia. Certo, molto di quello che il Vaticano II ha
detto dev'essere ancora chiarito e valutato da parte della teologia cattolica romana
postconciliare; ma c'è già abbastanza da fornire il contesto adeguato nel quale
collocare i problemi controversi. Si può accennare, per esempio, all'immenso
problema del rapporto - ai fini dell'unità della Chiesa - tra Chiesa locale (e/o
‛particolare') e Chiesa universale; o al problema fondamentale della relazione tra
cristologia, pneumatologia e istituzioni ecclesiali, problema che emerge sia dal
Vaticano II che dalla teologia ortodossa novecentesca. È situando i problemi
controversi in un contesto più ampio che il dialogo potrà progredire fruttuosamente.
Tutto ciò sembra richiedere a entrambi i dialoganti una vigilanza costante in modo
non soltanto da eliminare le restanti divisioni del passato, ma anche da prevenire
decisioni unilaterali che potrebbero ostacolare l'unità riportando forzosamente i
problemi fondamentali in discussione sul terreno giuridico. Sotto questo aspetto la
promulgazione della Lex fundamentalis da parte della Chiesa cattolica romana
diventa rilevante per il destino del dialogo. Una collaborazione creativa tra teologia
ortodossa e teologia cattolica romana nello studio delle implicazioni
dell'ecclesiologia del Concilio Vaticano II può stimolare enormemente il progresso
sia del dialogo con i cattolici che, indirettamente, di tutti gli altri dialoghi nei quali
l'ortodossia è oggi impegnata.
5. L'ortodossia e il futuro
Le condizioni esterne nelle quali si trova oggi l'ortodossia sono estremamente
difficili. Una gran parte del mondo ortodosso vive in un contesto politico nel quale
alla religione in quanto tale non si riconosce ufficialmente un ruolo effettivo e
legittimo nella società. Predicazione e attività sociale al di fuori del culto non sono
possibili in questa situazione, e la Chiesa deve trovare un modus vivendi con lo Stato,
generalmente evitando le critiche e dando un appoggio morale ai suoi sforzi sul
terreno umano e sociale. C'è poi l'area esplosiva del Medio Oriente, dove l'ortodossia
viene gradualmente sradicata dal suo terreno storico e culturale e deve venire a patti
con nuove realtà, come Israele, la crescente autocoscienza degli Arabi e in particolare
la potenza rapidamente emergente dell'Islàm. Anche in Grecia, dove c'è l'unica antica
Chiesa ortodossa che sia rimasta ‛Chiesa ufficiale di Stato', si avverte una crescente
tensione nelle relazioni tra Chiesa e Stato, con conseguenze difficili da prevedere in
questo momento. E infine il centro spirituale e canonico dell'ortodossia, il patriarcato
ecumenico di Costantinopoli, è obbligato a operare in mezzo a continue pressioni,
dirette o indirette, da parte delle autorità turche che l'hanno privato di gran parte della
sua base locale. Con l'eccezione della Chiesa ortodossa di Finlandia, che sembra
godere di piena libertà e persino dei privilegi di una Chiesa ufficiale di Stato, è
soprattutto nella diaspora in Occidente che sembra doversi ravvisare la parte più
attiva dell'ortodossia contemporanea. In tali circostanze, quale contributo può dare
l'ortodossia alla storia dell'umanità negli anni a venire?
Sebbene non sia facile racchiudere in poche righe la ricchezza di una lunga tradizione
e di un'antica spiritualità, i seguenti - pochi - punti possono forse almeno servire di
esempio.
II. Un'altra caratteristica del pensiero e della spiritualità ortodossi che ha importanti
implicazioni esistenziali per il nostro tempo è la ‛considerazione escatologica' della
storia, da cui la tradizione liturgica e quella monastica dell'ortodossia sono state
segnate più di quanto lo sia stata la Chiesa occidentale. Si potrebbe dire che
l'Occidente, con il suo intenso interessamento per la storia, offre un condizionamento
storico dell'escatologia, mentre in Oriente si può parlare di un condizionamento
escatologico della storia. Le implicazioni di questo diverso orientamento sono
diventate particolarmente evidenti nel nostro secolo. L'uomo è stato indotto a credere
che, attraverso il suo operare nella storia, può costruire un mondo di felicità o ‛il
regno di Dio sulla terra'. Diverse forme di ‛millenarismo' hanno promesso utopie che
stanno creando gradualmente un abisso di disinganno, col risultato che il nichilismo
comincia a guadagnare terreno, specialmente fra i giovani (una forte ripresa di
Nietzsche nel pensiero europeo ne è oggi testimonianza). È difficile vedere quali
alternative a questa situazione possa offrire il futuro. Può darsi che la tradizione
occidentale offra risorse sufficienti per trovare una soluzione, e a questo proposito
l'ortodossia ha certamente il suo peso. Forse un Dostoevskij potrà essere proposto al
posto di Nietzsche, e un ‛nuovo realismo nei confronti della storia, che prenda
maggiormente sul serio la soggezione dell'uomo al male, sostituirà l'ottimismo
umanistico che ha posto le aspettative escatologiche fuori dell'esistenza storica. Sia il
monachesimo ortodosso, che oggi comincia a rivivere, sia l'attaccamento
dell'ortodossia alla resurrezione e all'eucaristia possono essere di particolare
importanza per il futuro.
III. Un elemento importante nella tradizione ortodossa è la sua visione cosmica del
destino umano. La salvezza non è mai stata intesa nell'ortodossia come qualcosa che
riguardi l'essere umano isolato. Sia in teologia che, in particolare, nell'esperienza
liturgica e nei sacramenti, l'ortodossia celebra la redenzione del cosmo e non
semplicemente dell'uomo. La salvezza dell'uomo e la trasformazione della natura e
della creazione sono una cosa sola, poiché l'uomo è, nel pensiero dei Padri greci, un
‛microcosmo', il cui destino è inseparabilmente connesso con quello della creazione.
Una tale visione dell'essere umano può avere un particolare significato in un'epoca in
cui l'uso della natura da parte dell'uomo è diventato dominio e sfruttamento, a tal
punto da determinare una crisi ecologica. Poiché ci sono scarsi dubbi che il problema
dell'ecologia, di fronte al quale l'umanità si trova alla fine di questo secolo, affondi le
radici nella tradizione cristiana occidentale, il contributo della visione ortodossa del
cosmo e del posto dell'uomo in esso diventa significativo per il nostro tempo.
IV. Un altro aspetto della vita riguardo al quale l'ortodossia può essere chiamata in
futuro a dare il suo contributo è quello dell'‛affermazione dell'identità culturale'. Ci
sono molti segni che l'uomo moderno sta tornando a cercare la sua identità nel solco
dell'omogeneità culturale anziché nell'immagine del mondo cosmopolitico e
universalistico in cui tecnologia e ideologia lo stanno oggi costringendo. L'ortodossia
ha storicamente plasmato popoli diversi in unità culturali omogenee. Come è oggi
evidente in molti casi, anche quando le sia ufficialmente negato un qualsiasi ruolo
nella società, in via segreta e non ufficiale si consente nondimeno alla Chiesa
ortodossa di sopravvivere, giacché in essa risiede la principale salvaguardia
dell'identità culturale di un popolo. Il sistema dell'autocefalia, del quale abbiamo fatto
ampio cenno, costituisce uno sprone in questa direzione e proprio per questo
rappresenta per l'ortodossia, nel contempo, una possibilità e un pericolo. Comunque,
il futuro mostrerà in qual misura ideologia e tecnologia possono spezzare le identità
culturali o etniche, e a questo proposito l'ortodossia può ben essere uno dei fattori che
influenzeranno il corso degli eventi.
V. L'ortodossia, infine, dovrà contribuire in modo decisivo all'unità della Chiesa. La
sua voce nel movimento ecumenico è di vitale importanza, se l'unità della Chiesa
deve abbracciare la dimensione della tradizione orientale. Perché una mutua creativa
fecondazione tra Oriente e Occidente abbia luogo, l'ortodossia deve aprirsi ai
problemi del nostro tempo e superare il suo sterile conservatorismo. Deve adattare la
sua struttura ai suoi principi ecclesiologici e intensificare gli sforzi, già avviati dalla
teologia ortodossa contemporanea, per indagare la sua tradizione e ‛ri-recepirla' alla
luce dei problemi di oggi. Ciò può esser fatto soltanto in stretta cooperazione con le
Chiese e la teologia dell'Occidente. Ogni contributo futuro dell'ortodossia dovrà
rapportarsi agli sforzi per l'unità della Chiesa: è soltanto attraverso una Chiesa unita,
infatti, che il cristianesimo può avere un significato per i bisogni e le aspirazioni
dell'umanità.
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