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GIOVANNI PAOLO I
OPERA OMNIA
IV
A cura del
Centro di spiritualità e di cultura
«Papa Luciani»
32035 S. Giustina Bellunese, Belluno
ALBINO LUCIANI
GIOVANNI PAOLO I
OPERA OMNIA
Volume IV
ISBN 978-88-7026-834-8
ISBN 978-88-250-2886-7 (PDF)
ISBN 978-88-250-2887-4 (EPUB)
12 gennaio 1967
Cari diocesani,
Victor Hugo ha scritto, a suo tempo, un’opera poetica intito-
lata L’année terrible [L’anno terribile]. In essa rievocava le disgrazie
abbattutesi sulla Francia nel 1870. Per parecchi di voi, a causa
dell’alluvione, l’anno 1966 è stato terribile fra i terribili. Ora è
passato e bisogna pregare il Signore che da anni simili ci preservi,
ma, intanto, con il suo aiuto, vediamo di riprendere le nostre
attività sospese.
Tra queste è l’attività diocesana a favore del seminario. La
giornata annuale con la raccolta di offerte non s’è potuta fare in
novembre; sentito il parere del consiglio presbiterale, la trasporto
alla prossima domenica 29 gennaio.
Ricorre in quel giorno la festa di san Francesco di Sales,
patrono del nostro seminario e santo dell’ottimismo. È lui che
scriveva: «Una persona o un avvenimento può avere novantano-
ve aspetti cattivi e un solo aspetto buono: io considererò quello
buono e manterrò intatta la mia pace e fiducia, nonostante i no-
vantanove aspetti cattivi».
Io cerco di imitarlo. In questo affare della giornata ci sono
alcuni aspetti poco favorevoli: i miei fedeli, infatti, hanno già da-
to, di recente, per gli alluvionati; hanno dato per altre iniziative
e opere di bene; sono stanchi di dare; qualcuno è anche stanco di
leggere o sentir leggere lettere del vescovo, che ora chiede per uno
scopo ora raccomanda un altro scopo.
Questo è un verso della medaglia; vediamo anche il rovescio.
Primo: senza gli aiuti della giornata (8 milioni nel 1965), il
mio (e vostro!) seminario non può assolutamente vivere.
Secondo: il seminario, insieme alle missioni, gode tra di voi
di una simpatia veramente larga. L’esperienza dice che moltissimi
tra di voi, anche poveri, sentono l’aiuto al seminario come un
dovere. Essi vedono nel seminario il destino della diocesi futura e
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BVV, LV (1967), pp. 32-33.
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nell’offerta per il seminario il gesto della solidarietà, la mano tesa
al vescovo, il quale ogni anno è alle prese con bilanci, nei quali
le uscite si ostinano a superare le entrate e ha il continuo, intimo
tormento di dover rimandare migliorie, accrescimenti e restauri
indispensabili.
Terzo: se c’è chi si lamenta che il vescovo chiede troppo
spesso, c’è anche chi, oh! molto rispettosamente!, sostiene il con-
trario.
Un vescovo – dicono – che vescovo è, se non ha il coraggio,
l’arte, il prestigio di «far saltar fuori” i soldi necessari almeno per
il seminario!
Il nostro vescovo – continuano – che cita sempre san Paolo,
vada un po’ a leggere nella prima lettera ai Corinti, capo 16, ver-
setto 1 e seguenti, con che forza l’apostolo raccomanda le collette!
Il nostro vescovo, che cita sempre il concilio, ha mai pensato
di avvicinare, al tempo del concilio stesso, l’arcivescovo di Boston
per imparare qualcosa da lui? Sa che il suddetto, rispondente al
nome di cardinal Cushing, raccoglie per opere di carità venti-
cinquemila dollari al giorno? Sa che le «storie” sul di lui fiuto
finanziario-caritativo girano ormai il mondo? Egli è ancora vivo,
ma le «storie” lo danno morto. E, morto, sarebbe capitato, per
incomprensibile errore, all’inferno. E, all’inferno, dopo tre giorni
sarebbe arrivata una telefonata urgentissima di san Pietro: «Man-
date quassù Cushing; è un’anima santa; è costaggiù per sbaglio!».
«Che sia un’anima santa – avrebbe risposto il diavolo telefonista
– non lo so. Io so questo: che è qui da neppur tre giorni e ci ha
già procurato l’impianto per l’aria condizionata! Un uomo come
questo è troppo prezioso per “mollarlo”!».
Il nostro vescovo – continuano ancora – che è mezzo lette-
rato, veda un po’ quel che è capace di fare l’arcivescovo Glennon
nel romanzo di Robinson, Il cardinale. Oppure rilegga la novella
di Pierre l’Ermite intitolata «Come fu che un curato andò in pur-
gatorio!».
Miei cari diocesani, chi di voi non avesse letto la novella,
sappia che il sunnominato curato si buscò una grossa dose di pur-
gatorio unicamente per aver avuto troppa paura di disturbare la
gente, ovverosia per non aver educato i suoi cristiani a contribuire
alle necessità della chiesa!
Per tutti questi motivi dunque e cioè perché il seminario ha
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bisogno di voi, perché voi avete amore e simpatia per il seminario
e perché io non voglio andare in purgatorio, vi chiedo di dare il
vostro contributo nella prossima domenica 29 gennaio.
Sono sicuro che non mi darete una delusione e fin d’ora
ringrazio e benedico.
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LETTERA ALLA DIOCESI SULLA BESTEMMIA1
14 gennaio 1967
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simili alle seguenti: «Esiste ancora un Dio?», «Smettila di parlar-
mi di un Dio giusto e buono!», «Il diavolo ne sa più di Dio!»,
«La religione non è altro che una grande bottega!», «Dio ci ha
ingannati!».
Intendiamoci: queste espressioni sono blasfeme, solo se chi
le pronuncia ha una avvertenza piena. Quando m’è occorso di
sentirle sulle labbra di persone afflitte da disgrazie o dispiaceri
gravissimi, ho avuto l’impressione che l’accasciamento e la stra-
ordinaria depressione escludessero una vera attenzione e inten-
zione; quella che appariva e oggettivamente era bestemmia, forse
non lo era soggettivamente.
Altre volte la gravità è attenuata dalla sconsideratezza, dalla
preoccupazione, dalla paura, dall’ignoranza, come nel caso di Ire-
ne Papovna. Questa si presenta a Mosca per un esame di concorso
magistrale. Il tema da svolgere è: «Analizzate l’iscrizione scolpita
sulla tomba di Lenin». La maestrina non ricorda bene, le pare
e non le pare che l’iscrizione suoni «La religione è l’oppio del
popolo». Come cavarsela? Arrischia, fa l’analisi che può e, con-
segnato il compito, corre alla piazza Rossa, davanti al mausoleo
Leniniano, a verificare. Riscontrato di avere azzeccato, esclama
entusiasticamente: «Caro buon Dio e voi Vergine santa di Kazan,
grazie di avermi fatto ricordare l’iscrizione!».
Terzo inquilino, fratello delle precedenti è poco rispetto, il
quale non disonora Dio gravemente, ma tiene poco conto del
suo santo nome, pronunciandolo senza necessità o giusto motivo.
Poco rispetto rassomiglia al fanciullo, il quale per i suoi giochi
sulla riva, mescolandola con acque per certe sue poltiglie, adopera
la preziosa argenteria di casa senza il permesso di sua madre.
Turpiloquio in casa bestemmia è più fratellastro che fratel-
lo. Purtroppo, fratellastro gigante, tanto l’hanno cresciuto il lin-
guaggio sboccato del cinema e della stampa, tanto l’hanno favo-
rito i grandi assembramenti delle caserme, delle fabbriche e delle
scuole.
Sulle quattro persone presentate c’è tutto un vocabolario po-
polare, realistico, spesso icastico, ma non sempre indovinato.
Perché – ad esempio – chiamare mòccoli le bestemmie? I
moccoli fanno un po’ di luce; la bestemmia è parola nera, «morta
gora», acqua stagnante, gas asfissiante.
«Linguaggio da lavandaie» è chiamato il turpiloquio femmi-
nile. Oggi la frase è vera solo se il termine «lavandaia» è preso
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come parte per il tutto; se cioè, in grazia di quella figura reto-
rica che si chiama sinèddoche, esso significa anche studentesse,
anche operaie, anche dattilografe, ecc. Di tutte queste persone,
una volta si diceva: «Diventano rosse, perché si vergognano»; di
alcune tra esse oggi si deve dire: «Si vergognano, perché diven-
tano rosse».
La frase: «Bestemmia come un turco» è una calunnia: i tur-
chi, non bestemmiano. In Francia, in Svizzera, in Germania, in-
vece, usa dire, purtroppo con fondamento, «Bestemmia come un
italiano».
Pochi giorni fa un tedesco è venuto nella nostra diocesi con
alcuni emigranti, suoi compagni di lavoro: non parlava italiano,
ma bestemmiava in italiano! Quando me l’hanno riferito, ne ho
patito. La nostra Patria nel passato ha insegnato la civiltà, l’arte,
la religione; adesso si mette a insegnare le bestemmie? E tanto
più si patisce, quanto più si vede che la malattia della bestemmia
diventa da noi malattia cronica: un’inchiesta recente, promossa
dall’Una (Unione nazionale antiblasfema), calcola a quindici mi-
lioni i bestemmiatori abituali in Italia e opina che le bestemmie
siano circa un miliardo al giorno.
Si tratta davvero di un fenomeno spaventosamente esteso.
Quali le cause? Quale la cura?
È difficile dire giusto, tanto sono varie e complesse le circo-
stanze.
Nella Bibbia Dio rimprovera Eli sacerdote e David re e profe-
ta, perché con le loro colpe hanno gettato il discredito sull’ufficio
sacro (1Sam 3,13; 2Sam 12,14); san Paolo fa capire (Rm 2,24;
1Tm 6,1; Tt 2,5) che i cristiani possono dare ad altri occasione di
bestemmiare attraverso la mancata carità e la cattiva condotta. È
un avvertimento: causa lontana di parecchie bestemmie non po-
tremmo essere per avventura noi stessi? proprio noi che figuriamo
tra i praticanti? Questo è certo: se tutti quelli che si professano
cristiani fossero cristiani davvero, e cioè santi, il fervore religioso
ambientale aumenterebbe e la bestemmia diminuirebbe.
Altra causa: la grande leggerezza e la mancanza di riflessione.
Chi ragiona non bestemmia e chi bestemmia non ragiona, è stato
detto. O c’è, infatti, questo Dio bestemmiato o non c’è. Se non
c’è, il bestemmiarlo è vano; se c’è, bestemmiarlo è insano, perché
«raglio d’asino – come dice il proverbio – non penetra in cielo!».
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Si possono capire (non scusare!) altri peccati: il ladro in fin
dei conti mette le mani su un portafoglio pieno di soldi; l’ubria-
cone su una bottiglia di vin buono; ma il bestemmiatore cosa
guadagna?
Oltre Dio, c’è il prossimo. Caro padre di famiglia che be-
stemmi! Bestemmiando, tu addolori la moglie e la figlioletta,
scandalizzi il figlio, che viene spinto a copiare l’esempio del pa-
dre. Che guadagni?
«Ma sì, guadagno», mi son sentito dire, «guadagno, perché,
bestemmiando, protesto contro le cose che vanno male, do forza
al discorso, lascio esplodere l’ira».
Le proteste? Si fanno soltanto, se utili e ragionevoli. Ma il
motore dell’auto che prima non andava, si mette forse in moto
appena cominci a prendertela con Dio?
Sottolineare il discorso? D’accordo, a patto che si faccia con
frasi non irrispettose: «Orco cane! Orca l’oca!» e mille altre simili
sono insieme innocenti e dinamiche. Lo dimostrò a certi conta-
dini un bravo parroco australiano, che un bel giorno si presentò
nei campi, prese in mano l’aratro e, facendo schioccare la frusta,
gridò ai buoi con voce stentorea: «Sù, arcangeli dolcissimi! Da
bravi, miei sublimi cherubini! A voi, sfolgoranti serafini!». A que-
sti ordini mistico-celesti i buoi lentamente si alzarono e, benché
perplessi, cominciarono a tirare!
Quanto all’ira, essa va repressa e non fatta esplodere, se è vero
che dobbiamo essere non i servi, ma i dominatori delle nostre
passioni.
Terza causa, purtroppo influente su scuole, caserme e fab-
briche, è il rispetto umano, l’emulazione male intesa, la bravata!
Si arriva a fare a chi più bestemmia, a chi inventa bestemmie
nuove, a chi bestemmia in tedesco, eccetera. Cose incredibili, se
non fossero dolorosamente vere; cose – direi – di marchio diabo-
lico, come fece notare, quella volta, il fraticello della leggenda.
Il suddetto se ne stava nello scompartimento di un treno a sen-
tire – tutto silenzioso, impotente e addolorato – le bestemmie
pronunciate a gara da due giovani non educati, quando uno di
questi, scherzando, disse: «Padre, devo darle una brutta notizia: è
morto il diavolo!». «Mi dispiace tanto e vi porgo le mie più since-
re condoglianze!» rispose il fraticello. «Condoglianze! E perché?»
fecero insieme i due giovani. «Perché provo tanta compassione
per gli orfani!».
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Il buon fraticello si era lasciato andare all’ironia. Quello che
noi sentiamo per i bestemmiatori, specialmente giovani, non è
ironia, ma interessamento, comprensione, desiderio e offerta di
aiuto.
Quanti siamo ad essi compagni, amici, superiori, parenti,
con tatto e delicatezza, con rispetto alla personalità dobbiamo lo-
ro, secondo i casi, il consiglio amichevole, la garbata rimostranza,
il rimprovero, talvolta anche il castigo.
Sono però essi che devono soprattutto impegnarsi a togliersi
di dosso la cattiva abitudine con decisione ferma e perseverante.
Lo ricordate l’ortolano di Trilussa? «Se j’annava un pelo a l’in-
contrario / ...cominciava a biastimà: / “Corpo de...! sangue de...!
Mannaggia la...!”». Ma un giorno, mentre appunto bestemmiava,
«scappò fora er diavolo / che l’agguantò da dove l’impiegati / ci
hanno li pantaloni più logorati». Sentendosi trasportato per aria,
pieno di paura, «l’ortolano diceva l’orazzione / ... “Dio! Cristo
santo! Vergine Maria! / M’arricomanno a voi! Madonna mia!”».
«Er diavolo, a sti nomi, è naturale / che aprì la mano e lo
lasciò de botto: / l’ortolano cascò, come un fagotto / sopra un
pajone senza fasse male. / “L’ho avuta bòna!”, disse ner cascà /
“Corpo de...! sangue de...! Mannaggia la...!”» 3.
Trilussa, scherzando, dice efficacemente con quanta facilità
certi cristiani passano dal proposito emesso nel pericolo e nella
confessione, a nuove bestemmie. Parola data? Impegno preso?
Tutto dimenticato per debolezza, abulia e vigliaccheria!
È il contrario che bisogna attuare: prefissarsi la nobile meta
di avere la lingua moralmente netta e raggiungere la meta a costo
di qualunque sforzo! Da cristiani! Da italiani! Da uomini!
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L’ortolano e er diavolo, da Favole moderne.
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OMELIA PER LA FESTA DI SAN TIZIANO1
16 gennaio 1967
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sta cattedrale; in sacrestia cinque quadri di Pomponio Amalteo
raffigurano la sua vita e il trasporto del corpo da Oderzo a Por-
tobuffolè e Ceneda. L’ha patrono principale la diocesi; l’hanno
titolare la cattedrale e le chiese parrocchiali di Farrò, Francenigo
e Staffolo.
L’opera di san Tiziano a Oderzo, a difesa della fede, fu conti-
nuata da san Magno, ma quando nell’838 alla città si avvicinaro-
no, con scopo di conquista, i longobardi guidati da Rotari, ci fu
un’emigrazione collettiva: cittadini e vescovo lasciarono la città e
si portarono nelle terre lagunari opitergine, che, intersecate da ca-
nali e coperte da canneti e boscaglie, si stendevano tra il Piave e la
Livenza. Nelle nuove terre la vita si presentava più dura; in luogo
delle ben costruite case in mezzo al fertile «agro opitergino», c’e-
rano capanne appena coperte di canne e circondate da acque, c’e-
rano disagi e aspre fatiche. Tristi nuove venivano poi da Oderzo
che, assalita nel 667-668 dal duca Grimoaldo, cadeva distrutta.
San Magno, fu per lunghi anni in mezzo ai suoi a incoraggiare.
Insieme alle autorità bizantine egli incitò a costruire, a darsi ad
ogni proficua attività, a fare di Eraclea, nuova sede della diocesi,
una città notevole a quei tempi. Per questo motivo a Venezia è
fiorita su san Magno una leggenda gentile: egli avrebbe costruito
nelle isole rialtine ben otto chiese, di cui la prima (l’odierna San-
ta Maria Formosa) in onore della Madonna. Un’edizione veneta
(1493) del Legendario de’ santi di Iacopo da Varagine lo presenta
appunto come costruttore di chiese. Di conseguenza un decreto
del senato veneto (21 dicembre 1459) considerò la festa del santo
tra le più solenni della città e san Magno divenne – con san Tom-
maso – patrono della «scuola dei mureri». Per decreto sempre del
senato (1563) un reliquiario con un braccio del santo fu deposto
nel tesoro ducale, conservato fino ad oggi in San Marco, mentre
i resti del suo corpo, per disposizione del cardinal Roncalli, il 22
aprile 1956 sono ritornati a Eraclea nuova, nella chiesa parroc-
chiale. Essi hanno così compiuto a ritroso il viaggio del 1206,
quando da Eraclea erano stati trasferiti a Venezia nella chiesa di
San Geremia.
A questi tre si può collegare, per la fama di santa vita, Rodol-
fo Caroli, romano. Era da poco rettore del seminario lombardo,
quando nel 1913 Benedetto XV lo nominò vescovo di Ceneda.
Rimase tra noi appena tre anni, ma questi bastarono per lascia-
re di lui un ricordo e una venerazione, che durano tuttora. Nei
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primi anni di sacerdozio egli era stato segretario di legazione nel
Messico; per questo nel 1917 si pensò a lui come internunzio
in Bolivia. Arrivato appena sul nuovo campo di lavoro, visitò in
lungo e in largo il vasto paese, lavorando più da missionario che
da diplomatico, affrontando disagi senza nome, promovendo una
campagna contro i metodi schiavistici usati nelle vaste coltivazio-
ni di caucciù. Quando morì il 10 gennaio 1921, stroncato da ma-
lattia tropicale e dalle grandi fatiche, fu pianto da quella nazione
intera come «l’apostolo della Bolivia».
2. «Fu trovato giusto, in un periodo di sterminio divenne il
riconciliatore» (Sir 44,17). Quest’elogio riguarda Noè, ma anche
parecchi nostri vescovi, che hanno assistito il popolo in periodi
calamitosi. Oltre san Magno, già ricordato per la migrazione alla
laguna sotto la pressione longobarda, è il caso di accennare al ve-
scovo Matteo da Siena (1187-1217). Durante il suo episcopato
Ceneda fu occupata e devastata dai trevisani, che incendiarono
la cattedrale e portarono via le ossa di san Tiziano, restituite più
tardi per diretto intervento di papa Innocenzo III.
Altro famoso flagello fu la peste del 1631, descritta dal Man-
zoni con tanta efficacia; essa mieté circa settecentomila vittime
nei territori della Repubblica veneta: da noi infierì a Oderzo (700
morti su duemila abitanti), a Torre di Mosto; meno a Portobuf-
folè e a Motta; meno ancora a Ceneda, dove i decessi furono
relativamente poco numerosi. In quell’occasione san Rocco fu
proclamato patrono secondario della diocesi; da allora, ogni anno
la sera dell’Assunta, per speciale voto cittadino, si va in processio-
ne di ringraziamento dalla cattedrale alla chiesetta sul colle. Era
vescovo nel grave frangente Marco Giustiniani.
Durante le due ultime guerre mondiali i miei venerati pre-
decessori, Eugenio Beccegato e Giuseppe Zaffonato, furono di
esempio, aiuto e incoraggiamento alla popolazione invasa ed
esposta alle terribili vicende delle armi e delle discordie interne.
Il primo era venuto tra noi in piena guerra, in forma privatissima
il 22 giugno 1917, cinque soli giorni dopo la sua consacrazione
avvenuta a Treviso. Poco dopo succedeva il disastro di Caporetto,
la diocesi veniva invasa. Rifiutando qualsiasi trattamento di pri-
vilegio, egli divideva dignitosamente privazioni e rischi con il suo
popolo, che visitava di frequente incoraggiandolo. Del secondo è
vivissimo il ricordo per quanto fatto alla fine della seconda guerra
mondiale.
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3. «Egli custodì la legge» (Sir 44,20). Colui che custodisce
è Abramo, la legge custodita è la legge di Dio; per osservarla,
Abramo esemplarmente si sobbarcò a sacrifici non lievi.
Tra le diverse maniere, con cui un vescovo custodisce la leg-
ge di Dio è considerata di rilievo quella di emanare buone leggi
ecclesiastiche e di fondare e sostenere istituzioni utili alle anime
e durature.
Il vescovo Marco da Fiabane di Belluno tenne nel 1280 il
primo sinodo cenedese (che si sappia). Il cardinale Michele Dalla
Torre, ritornato dal concilio di Trento, si mise con coraggio a rin-
novare la diocesi un po’ decaduta (da molto tempo i vescovi non
risiedevano); all’uopo egli tenne successivamente ben tre sinodi.
Altri sinodi ebbero luogo in seguito fino agli ultimi di monsignor
Beccegato (1929) e Zaffonato (1956).
Aver fondato, incrementato e fatto prosperare il seminario è
stato pure mezzo efficace per l’osservanza della legge del Signore
in diocesi. Va per questo ricordato il vescovo Marcantonio Mo-
cenigo sotto il quale, nel 1587, tra difficoltà e incomprensioni
non lievi, il seminario sorse. In seguito a favore del seminario o
donarono o soffrirono od operarono specialmente i vescovi Mo-
dico, Squarcina, Brandolini e, in questi ultimi tempi, Beccegato,
Zaffonato e Carraro.
4. Ad Abramo si riferisce un altro passo: «...Dio gli promise
di farlo crescere» (Sir 44,21). Anche i nostri vescovi hanno sinora
visto a poco a poco crescere la loro diocesi.
Ceneda è stata, nel passato, diocesi più piccola di adesso. A
pochi chilometri dalla sede vescovile ha appartenuto – prima ad
Aquileia, poi a Grado2, poi a Venezia3 – la pieve di San Giovanni
Battista di San Fior di Sopra con le cinque cappellanie e rettorie
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In seguito a complicate circostanze storiche Aquileia e Grado erano state
rivali acerrime per 460 anni. La lotta finì con un compromesso segnato a Roma, alla
presenza di papa Alessandro III, tra i due patriarcati, il 21 luglio 1180. Uno degli
articoli della transazione contemplava appunto il passaggio da Aquileia a Grado
della pieve di San Fior di Sopra con tutte le cappelle dipendenti, con un quarto di
decima e ogni diritto parrocchiale e diocesano.
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Papa Nicolò V con bolla Regis aeterni dell’8 ottobre 1451 unì il titolo e tutti
i privilegi e diritti del patriarca gradense al vescovo di Venezia.
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curate di San Fior di Sotto, Pianzano, Bibano, Zoppè e San Ven-
demmiano4.
Ad Aquileia prima, e dal 1751 ad Udine5 hanno appartenuto
le otto parrocchie di Caneva (con Sarone e Fiaschetti), Castel
Roganzuolo, Godega, Orsago, Pinidello, Rugolo, San Cassiano
del Meschio, San Polo di Piave e Sacile.
Oderzo, culla della diocesi, nel 963 dall’imperatore Ottone
I è stata donata, insieme ad altre terre, a Giovanni II, vescovo di
Belluno. Si trattava di donazione civile, ma presto, secondo l’uso
di quei tempi, la giurisdizione civile si era convertita in spirituale6.
La curazia di San Martino di Torre di Mosto (comprendente
anche le attuali parrocchie di San Giorgio, Senzielli, Boccafossa
e Staffolo) nel secolo XV – pur essendo quasi incolta e disabitata
– era diventata pomo di discordia; se la contendevano, infatti,
il patriarca dí Grado, il vescovo di Venezia e quello di Ceneda.
Il primo argomentava che Torre era l’ultimo resto della diocesi
di Eraclea (o Cittanova) e questa, soppressa nel 1440, era stata
incorporata a Grado. Il secondo adduceva il motivo che le terre
lagunari non erano diventate appannaggio di vescovi di terrafer-
ma, se non per via di infiltrazioni e sconfinamenti. Il terzo eser-
citava di fatto la giurisdizione su Torre attraverso l’antica pieve di
Sant’Anastasio.
Un po’ alla volta, nel decorso dei secoli, le cose cambiano a
favore di Ceneda.
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Le dette curazie diventarono parrocchia in seguito: Pianzano e San Vende
miano nel 1487; Bibano nel 1511; Zoppè nel 1522; San Fior di Sotto nel 1552.
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Venezia e l’imperatrice Maria Teresa, a sanare contrasti secolari (l’Austria
impediva che i patriarchi di Aquileia – sudditi veneziani – esercitassero la
giurisdizione spirituale nella porzione non italiana del patriarcato di Aquileia)
propongono al papa di dividere il patriarcato in due arcivescovadi: Udine e Gorizia.
Benedetto XIV accetta e così, con bolla 6 luglio 1751, nasce l’archidiocesi di Udine,
erede parziale del patriarcato aquileiense.
6
Il diploma imperiale porta la data del 10 settembre 963 ed è datato da
Montefeltro, dove Ottone stava assediando nella Rocca di San Leo Berengario II
d’Ivrea. Papa Lucio III nella bolla Quotiens a Nobis del 18 ottobre 1185 conferma i
diritti del vescovo di Belluno Gerardo De Taccoli, donando il «Castello di Oderzo
con la corte, le ville e le sue campagne... il diritto di ordinazioni in plebe San
Joannis de Opitergio et Capelle Curtis Franconis (Colfrancui)». La bolla di Lucio III è
confermata da Urbano III nel 1186 e da Gregorio VIII nel 1187. In un documento
del 1286, invece, appare ritornato al dominio spirituale di Oderzo il vescovo di
Ceneda (E. Bellis, Annali Opitergini dal 900 al 1900, Oderzo 1958, pp. 7, 16, 17).
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