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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
Prof. Vittorio Viola Ofm.

1a Lezione.
- Sacramento dell'Ordine -
INTRODUZIONE GENERALE

DESCRIZIONE DEL PROGRAMMA.


In questo corso si cercherà di fare una teologia che parta soprattutto dalla celebrazione e
venga desunta dai testi ecologici e dai riti. Questa è la caratteristica, o meglio la peculiarità di
fare teologia da parte del nostro Istituto.
Lo schema del programma di questo anno, che nella prossima lezione verrà dato, si articola
nel modo seguente:
1. SI PARTE DA UNO SGUARDO SULLA SITUAZIONE ATTUALE DELLA TEOLOGIA DEL
SACRAMENTO DELL’ORDINE. Tale passo è necessario per capire dove noi dobbiamo
situarci e per vedere lo spazio che il panorama attuale ci lascia. E’ uno sguardo
d'insieme per capire la finalità di questo corso e la sua stessa finalità.
2. SEGUE IL DATO DELLA SACRA SCRITTURA, SECONDO LA TESTIMONIANZA DEL NT
SULLA MINISTERIALITÀ (v. Sacerdoti antichi e sacerdoti nuovi: è uno studio molto
interessante di Benoit. E’ la lettura del sacerdozio antico visto con gli occhi del
sacerdozio di Cristo e secondo la novità evangelica) o del MINISTERO ORDINATO. Non
si partirà dal sacerdozio levitino dell’AT, né si partirà dalla novità dal sacerdozio di
Cristo. Si partirà, invece, dai testi del NT per giungere sino a nostri giorni. La
domanda principale è che cosa la Chiesa ha fatto circa il ministero Ordinato, secondo
una linea cronologica. La testimonianza della Sacra Scrittura rimane, comunque,
privilegiata per lo stesso ambito liturgico-teologico, perché nel NT si trovano alcune
linee fondamentali di comprensione teologica che illuminano tutto il percorso che la
Chiesa ha fatto e continua a fare sull’Ordine.
3. SEGUONO LE PRIME TESTIMONIANZE DELLA CHIESA: SI PARTE DAI PADRI DELLA
CHIESA SINO AL CONCILIO DI NICEA DEL 325. In tal senso si trovano i primi scritti
dei Padri della Chiesa, nei quali ci sono le testimonianze utili per un giusto discorso
teologico del ministero ordinato. Un esempio concreto sono la Lettera di Clemente ai
Romani, la Didaché e la Traditio Apostolica. Quest’ultimo lo si può considerare il
primo testo che ci fornisce le preghiere di consacrazione e di ordinazione dei diaconi,
dei presbiteri e dei vescovi. Qui si esaminano soltanto delle campionature.
4. SI OSSERVERÀ LA TARDA ANTICHITÀ DAL SECOLO IV-V SINO AL SECOLO IX, DOVE
SI TROVANO LE TESTIMONIANZE DEI SACRAMENTARI. Un esempio concreto è il
Veronese, con le aggiunte del Gelasiano. Dunque, oltre alla testimonianza della Lex
Orandi, troveremo la testimonianza della Lex credendi, soprattutto nei documenti
ecclesiastici, che ci dicono il sacramento dell’Ordine dal nostro punto di vista, o
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meglio da come noi ci mettiamo a guardare il ministero ordinato. In questo modo si


può notare come la testimonianza della lex orandi è vissuta dalla dalla lex credendi.
5. S EGUE L ’ EPOCA DEI GRANDI P ONTIFICALI DAL P ONTIFICALE R OMANO
GERMANICO, SINO AL PONTIFICALE DEL 1596. In quest’epoca viene segnata una
svolta che segna una nuova fase di sviluppo del Sacramento dell’Ordine, secondo
alcune argomentazioni specifiche.
6. METTENDO INSIEME LA LEX ORANDI ALLA LEX CREDENDI, SI SEGUE IL PERCORSO
DEI DOCUMENTI DELLA CHIESA (v. il Concilio di Firenze ed il Concilio di Trento),
per vedere come si esprime la lex orandi nella lex credendi della Chiesa.
7. SI GIUNGE POI ALLA RIFORMA DEL CONCILIO VATICANO II: con essa avviene un
ritorno ed un superamento delle fonti, nonché il recupero della coerenza con la
tradizione della Chiesa e dei suoi documenti. In questo modo si giunge alla visione
promossa della Riforma conciliare sul sacramento dell’Ordine, come è stato celebrato
e come verrà celebrato. Certamente il Concilio Vaticano II ha saputo superare alcuni
empass di uno sviluppo non corretto: in tal senso si cercherà di vedere come la riforma
ha ridato al ministero ordinato la sua coerenza con la Tradizione e con la sua verità
teologica, per poi tradurla in una celebrazione rinnovata. Se il tempo lo permette si
cercherà di vedere e di dire alcune cose di come la lex credendi è testimoniata dalla
lex orandi della riforma, e come tutto questo sia presente nella lex vivendi della
Chiesa.
8. INFINE SEGUE UNA VISIONE TEOLOGICO SISTEMATICA DEL SACRAMENTO
DELL’ORDINE, INSIEME AD ALCUNE LINEE CONCLUSIVE. Si cercherà di individuare
alcune attualizzazioni sulla pastorale liturgica sull’Ordine.
Come si può ben vedere, è stato appena tracciato un percorso storico-teologico del corso. In
particolare, per ciascuna epoca, individuando delle testimonianze, si cercherà di leggere le fonti
stesse e non solo i commenti: per ogni fonte ci sarà un'introduzione sintetica e si metteranno a
fuoco gli elementi rituali. Ci si soffermerà, poi, sui testi ecologici (in particolare le preghiere di
ordinazione) – con un’analisi più dettagliata – per cercare di capire la teologia che ispira il testo
preso in considerazione.
In merito alla bibliografia, ci sarà un quadro complessivo generale, che rispecchia l'ampiezza
dell'argomento ed una grandissima produzione di testi ed opere sul sacramento dell'Ordine. Ciò
sottolinea un grande interesse per il sacerdozio ministeriale da parte della Chiesa, che vuole
rendere attuale la dimensione ministeriale di Cristo.
Per quanto i manuali, c'è ne uno di ottima sintesi, dal punto di vista storico: La liturgia della
Chiesa (n° 9). In esso si trova una buona bibliografia per ogni argomento. Inoltre, ci sono molti
dati relativi ai riti ed il loro relativo sviluppo.
Ci sono anche alcuni studi che implicano la scelta di alcuni testi, anche se ci sono dei limiti
determinati da precise posizioni di lettura, che possono rischiare di dare una visione un po’
parziale del Sacramento dell’Ordine. Comunque, il loro contributo è determinante.
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1. SGUARDO SULLA SITUAZIONE ATTUALE E RECENTE DEL SACRO ORDINE.


Il Concilio Vaticano II con la riscoperta fondamentale, che sta alla base di tutto il
rinnovamento dell’ecclesiologia e di comunione, non poteva non ripensare al sacramento
dell'Ordine, dal momento che viene ripensata la Chiesa nella sua realtà intrinseca. In tal senso
non viene detto nulla di straordinariamente nuovo, ma più si è vicini alla Tradizione, più si è in
grado di dire cose nuove, proprio perché leggendo i Padri, si scorge in loro un’attualità
notevole: il rifocalizzare la tradizione della Chiesa, ci ha messo in condizione di ripensare il
sacramento dell'Ordine e come la Chiesa organizza e vive la sua ministerialità, ad esempio i
diversi gradi dell'Ordine, il rapporto tra essi, la spiritualità e l'identità degli Ordinati. Tutto
questo è profondamente legato a come noi vediamo realmente la Chiesa.
Dal Concilio in poi, le diverse rassegne bibliografiche hanno posto in essere la questione:
qual'è l'identità del ministro ordinato? Anche la letteratura degli anni ‘ 70 risente ancora della
crisi del ministero ordinato. C'è una crisi contingente del ministro ordinato: ciò lo si avverte dai
documenti del tempo. In effetti, non è mancato l'approfondimento dottrinale (v. il Sinodo dei
Vescovi del 1971), ma nella prima fase post-conciliare, non si è riusciti a dare una risposta
all'identità del ministro ordinato. In una seconda fase c'è stata quasi una risposta teologico-
dogmatica secondo tre punti:
1) la connotazione ecclesiale del ministero, il suo ruolo ed il suo rapporto con il popolo
di Dio (relazione tra il sacerdote ed i fedeli). Predilige, dunque, la connotazione
ecclesiale del ministero, leggendo l’identità del ministro ordinato in un stretto legame
con la Comunità cristiana. Ciò comporta, però, un rischio quando c'è una riduzione alla
semplice funzione del ministro ordinato (visione funzionalistica del ministro ordinato),
quasi che sia la Comunità a giustificare e legittimare il ministero ordinato. In realtà, il
ministro ordinato ha un suo preciso fondamento teologico, dal momento che la scelta
del ministro viene da Dio nella sua Chiesa;
2) la predilezione del dato teologico-dogmatico, secondo tre piste:
a) l'ontologizzazione;
b) la genesi cristologica;
c) la genesi o deduzione ecclesiologica.
La prima è il domandarsi qual'è il valore ontologico che sostiene la figura del ministro
ordinato e le sue specifiche funzioni, per distinguerlo dagli altri membri del popolo di
Dio. Tale visione, da solo è piuttosto limitata, ma ha bisogno delle altre due visioni.
La seconda ha un riferimento preciso nella persona di Cristo, ma non deve mancare
l'ottica ecclesiale, che pone l’attenzione sul piano della relazione tra i presbiteri ed il
Popolo di Dio.
La terza richiama alla Chiesa, ma non può trascurare l'origine del ministero ordinato.
Ciò spiega le diverse visuali presenti nella Chiesa, anche se non manca il rischio di una
assolutizzazione di una di queste tre piste che comporta anche una lettura pregiudiziale
del ministero ordinato. Tutto questo spiega che la lettura in chiave più teologico-
dogmatica sottolinea la profonda relazione tra il ministero ordinato e l’essere ed il
divenire della Chiesa. Certamente Cristo rimane l’origine del Sacramento dell’Ordine.
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In ultima analisi, ciò spiega che ci sono modi diversi di guardare l’unico oggetto del
ministero ordinato, tanto che – da una parte – ci sono teologi che sottolineano in detto
ministero ordinato, la sua identità, sottolineando il dato teologico, mentre – dall’altra –
ci sono altri autori, invece, che sottolineano l’origine stessa, cioè Cristo, quale unica
fonte da cui promana il sacerdozio ministeriale della Chiesa. Ci sono anche coloro che
sottolineano maggiormente la relazione del ministero ordinato. Certamente, è
importante evitare di rendere assoluta una di queste visioni, anche se ognuna di esse
dice una verità fondamentale.
3) il dato della spiritualità del ministro ordinato, in modo particolare del presbitero
diocesano. In effetti, la riscoperta della Chiesa locale ha messo in luce una riscoperta
di una spiritualità più specifica, dando una risposta all’identità del presbitero, che
comporta anche una dimensione pastorale. In tal senso si trova una buona letteratura,
anche se non manca l’esigenza di giungere ad una completezza e ad una pienezza del
ministero ordinato.
Su questi tre orientamenti si richiama il Concilio Vaticano II: noi ci collochiamo a partire
dalla celebrazione del sacramento dell'Ordine. Una cosa che i teologi non fanno è quella di
pensare che nella Chiesa il ministero ordinato è reso presente attraverso la sua stessa
celebrazione: essi non fanno una teologia che parta dalla celebrazione liturgica, che costituisce
il momento fontale del sacramento dell’Ordine. C'è, dunque, la presunzione di fare teologia che
parta dal momento in cui la Chiesa, ordina i diaconi, i presbiteri ed i vescovi. Ciò cambia il
modo di comprensione di questo sacramento.
Questo modo di affrontare l'oggetto del sacramento dell'Ordine, può avere il vantaggio di
non essere unilaterali, mediante la celebrazione, con la quale si ha una sintesi viva e sinfonica
dell'ambito teologico del ministero ordinato. Si ha così una sintesi viva della comprensione
della Chiesa e ciò allontana anche il rischio di una visione parziale delle realtà che rendono
dinamico il ministero ordinato. Si studia, dunque, una realtà viva nel momento in cui si studia la
celebrazione della Chiesa, dal momento che i Sacramenti celebrati non sono morti, ma vivi e
dinamici, anche se la celebrazione stessa è uno tra gli aspetti che li caratterizzano.
In merito al terzo orientamento, circa la comprensione della spiritualità del ministero
ordinato, il limite non sta nella figura del diocesano, anche se la letteratura attuale predilige la
figura del presbitero diocesano e la sua spiritualità. Il nocciolo della questione sta
esclusivamente nella sua dimensione pastorale .
In merito alla finalità di questo corso, c'è una teologia in vista della Liturgia e non soltanto
dalla Liturgia. Tale concetto è presente nella SC 7 del Concilio Vaticano II, quando parla della
natura stessa della Liturgia, come fonte e culmine. Si tratta di una comprensione teologica che è
al servizio della celebrazione, perché da lì tutte le attività della Chiesa raggiungono il loro
culmine.
Senza dubbio, la riflessione sul sacramento dell'Ordine è strettamente legata alla riflessione
sulla Chiesa: è un argomento di grande attualità che va di pari passo con la riflessione sulla
Chiesa, in orientamento alla lex vivendi che con la lex credendi e la lex orandi, costituisce la
griglia fondamentale del nostro percorso.
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Il Sacramento dell’Ordine nella Storia della Salvezza.

2.1. IL DATO DELLA SCRITTURA (IL NT).


Tale dato è importante per capire che cosa la Chiesa primitiva ha compreso nella sua
tradizione. Esso è la prima testimonianza di quello che la Chiesa ha capito e vissuto la
ministerialità e i suoi fondamenti. Dunque, è bene mettere in luce alcuni dati, non solo per
essere fedeli alla Tradizione, ma anche per cercare e mettere in luce alcuni principi generali.
Una prima struttura ministeriale è quella dei Dodici, organizzata e voluta da Gesù: il gruppo
dei Dodici ha una sua visibilità nella Chiesa primitiva, tanto che ricorre nove volte in Matteo1,
undici in Marco2, sette in Luca 3, quattro in Giovanni4, una volta sola negli Atti ( At 6,2), nella
Lettera ai Corinti (15,5) e nell’Apocalisse di San Giovanni (Ap 21,14). Si tratta degli anni dal
30 al 43 - 44. E' venuto meno Giuda per il suo tradimento, ma che verrà sostituito da Mattia: ciò
indica un senso forte della struttura dei Dodici e della sua comprensione. C’è, dunque, una
forma che il ministero degli Apostoli assume e che viene poi mantenuta.
Un'altra struttura è quella dei sette diaconi ad indicare che la Chiesa si sente autorizzata a
promuovere una nuova realtà ministeriale per la Comunità del tempo, a motivo di nuove
esigenze di natura pastorale ed organizzativa, oltre a quello che Gesù stesso aveva già fatto.
Siamo, perciò, davanti ad una forma istituzionale di ministero.
A questo punto della vita della Chiesa, quando questo gruppo verrà disperso, a motivo delle
persecuzioni, in modo particolare quella del re Erode Agrippa, non verrà più ricostituito. Cosa
vuol dire? Ci sono due dati importanti:
1) i Dodici creano una struttura ministeriale nuova, i Sette;
2) tale nuovo gruppo non viene più ricostituito.
Ciò dimostra che la Chiesa, nell’organizzare le sue forme ministeriali, agisce con una certa
libertà che viene dall’ispirazione dello Spirito. Certamente, mancando quella nuova struttura,
non vuol dire che mancasse il ministero dei diaconi. Però, la forma del ministero ordinato,
varia secondo l'azione dello Spirito Santo e fa si che la Chiesa ha il potere di intervenire su
queste forme.
Passando al secondo periodo, da Agrippa alla morte di Paolo (43-67 ca.), detto apostolico, si
possono notare le diverse strutture ministeriali, in modo particolare dalle Lettere di Paolo.
Quest'epoca è caratterizzata dall'espansione del cristianesimo che raggiunge anche i pagani, con
la nascita di nuove Chiese - che non sono più di natura giudaica. In questo periodo si nota una
grandissima varietà di ministerialità nella Chiesa.
Procedendo per campionature, la 1Corinti offre - come primo elemento – Paolo come
Apostolo: qual'è la comprensione che Paolo ha del suo essere apostolo? In primo luogo, c'è una

1 I passi evangelici sono i seguenti: Mt 10,1; 10,2; 10,5; 11,1; 19,28; 20,17; 26,14; 26,20; 26,47.

2 I passi evangelici sono i seguenti: Mc 3,14; 3,16; 4,10; 6,7; 8,19; 9,35; 10,32; 11,11; 14,10; 14,17; 14,43.

3 I passi evangelici sono i seguenti: Lc 6,13; 8,2; 9,1; 9,12; 18,3; 22,3; 22,47.

4 I passi evangelici sono i seguenti: Gv 6,67; 6,70 (due volte il termine “Dodici”); 20,24.
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piena coscienza dell'origine e del contenuto del suo ministero (1Cor 1,1ss.). Il suo essere
apostolo si spiega nell'iniziativa di Dio che lo ha scelto (v. anche Gal 1,1; Col 1,1). Paolo ha
anche la coscienza (1Cor 1,17) del suo essere chiamato a predicare (1Cor 9,16). Il contenuto è
chiaramente l'annuncio del Vangelo.
Questi sono i primi due dati molto evidenti. Questo annuncio del Vangelo dà a Paolo un
diritto sulle comunità da lui fondate. Si tratta di una potestas (1Cor 9,4-5): questo diritto non è
tirannia, ma è (1Cor 4,15) il richiamo di essere generati mediante il Vangelo, cioè mediante
l'esercizio del ministero di Apostolo. Ciò dice un elemento importante nella relazione tra il
ministro ordinato e la comunità: il contenuto è proprio la paternità che Paolo è chiamato ad
esercitare e a manifestare. Quello che Paolo dice nella 1Cor 4,14-16 è molto bello e conferma la
caratteristica di questa potestas, con la quale viene a generarsi la Comunità cristiana:

«Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come
figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo,
ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù,
mediante il Vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!».
Da ciò viene a stabilirsi un vincolo particolare tra la Comunità e lo stesso Paolo, il cui
contenuto è proprio la paternità.
Andando avanti, nella comunità del periodo apostolico, c'è anche l'esercizio dei collaboratori
degli Apostoli. Paolo ha con lui diverse persone, che cita spesso nei saluti, soprattutto quando
specifica il mittente. Nei saluti Paolo indica, dunque, la ministerialità dei suoi collaboratori
(1Cor 9,6). Un passo molto significativo, dove si nota anche un carattere forte da parte di queste
persone, è proprio la 1Cor 16,12, dove Paolo parla di Apollo:
«Quanto poi al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi con i
fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia
quando gli si presenterà l’occasione».
Attorno al ministero di Paolo c'è una ministerialità di altri collaboratori più stretti, ma anche
di persone laiche che hanno con lui una relazione particolare (v. 1Cor 16,15-19, dove Paolo usa
parole di elogio verso la famiglia di Stefana, ritenuta al servizio dei Santi della Chiesa di
Corinto).
Altri esempi li si possono dedurre dalle Lettere di Timoteo e di Tito. Il ruolo di questi
collaboratori è indicato con nomi diversi: ciò testimonia la varietà di questa ministerialità
diffusa. A volte si trovano i termini "diaconoi" (1Cor 3,5), "collaboratori" (1Cor 3,9), "ministri
di Cristo ed amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1). C'è un ruolo, dunque, di servizio, di
collaborazione e di amministrazione del contenuto del ministero di Paolo. Tali collaboratori non
si appropriano del ministero loro affidato. La varietà di questi nomi indica la ricchezza della
ministerialità della Chiesa apostolica: questi nomi hanno la denominazione di un'azione
concreta, all'interno della Comunità cristiana. C'è anche la dimensione concreta del lavoro
pastorale come opera che si fa a nome di Dio per il bene della Chiesa stessa. Ciò indica
l’impegno e la fatica del lavoro apostolico.
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2.1.1. L'ORGANIZZAZIONE E LA DISCIPLINA NELLA CHIESA APOSTOLICA.


Paolo spesso fa un riferimento ai carismi presenti all'interno della Chiesa di Corinto, che
sottolinea la vivacità ed il dinamismo della Comunità cristiana primitiva: le liste che Paolo fa,
danno uno spaccato della diffusione e della varietà della ministerialità (1Cor 12,7-11). Esse
indicano la manifestazione dello Spirito e vengono indicate, a volte, con il termine di
“carisma”, sempre in riferimento a quello che lo Spirito suscita nella Comunità. C'è, dunque,
una descrizione della ministerialità per l'utilità comune. Questi carismi sono indicati anche
come manifestazione dello Spirito (v. anche 1Cor 14). Tutti questi aspetti hanno in comune
l'azione dello Spirito nella Comunità: dentro a questa ministerialità c'è, però un ordine, una
gerarchia, che è sempre frutto dell'azione dello Spirito. Dunque, si affaccia già nella Comunità
di Corinto una gerarchia di questi ministeri. Si nota, allora, una trilogia: Apostoli, Profeti e
Dottori.

2a Lezione.

L'ORGANIZZAZIONE E LA DISCIPLINA NELLA CHIESA APOSTOLICA (2a parte).

Come è già stato detto nella lezione scorsa, Paolo spesso fa un riferimento ai carismi presenti
all'interno della Chiesa. Egli parla della diffusione e della varietà della ministerialità (1Cor
12,7-11) 5, accompagnata da una descrizione della ministerialità per l'utilità comune. Questi
carismi sono indicati anche come manifestazione dello Spirito (v. anche 1Cor 14), mediante i
quali si può intravedere sia l’azione dello Spirito nella Comunità, sia una certa gerarchia, che è
sempre frutto dell'azione dello Spirito. Dunque, si affaccia già nella Comunità una gerarchia di
questi ministeri.
Nelle Chiese fondate da Paolo, c'è una Comunità molto variegata ed una ministerialità
diffusa: all'interno di essa, Paolo inizia a fare un certo ordine dei diversi ministeri (1Cor12,28)6,
secondo una certa successione. Come è già stato visto, Paolo riconosce questa trilogia, dove
alcuni ministeri o carismi sono posti in sequenza (gli Apostoli, i Profeti, i Dottori). Tra l’altro

5 Il testo della 1Cor 12,7-11 così recita: «E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo
dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far
guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il
dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma
tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole».

6 Il testo della 1Cor 12,28 dice: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in
secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i
doni di assistenza, di governare, delle lingue».
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questa trilogia, secondo il parere degli esegeti, è originaria della zona di Antiochia e non è da
vedersi tanto come invenzione di Paolo (At 13,1: «C’erano nella comunità di Antiochia profeti
e dottori: Barnaba, Simenone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno
d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo»). Si nota comunque una sintonia di termini e di
linguaggio nell’ambito di questi ministeri ricevuti. Che questi nomi vogliano indicare una
funzione specifica, lo si nota dal fatto che Paolo li presenta come ministeri diffusi e meno
specifici. In particolare, Paolo ci dice alcune cose che ci aiutano qual'è il senso ed il valore della
profezia: Paolo si sofferma su alcuni dati che riguardano i profeti. Egli però non procede
secondo una certa sistematicità, perché non è nel suo interesse farlo. La 1Cor 14,22-23.287 dice
che la profezia è per i credenti, a differenza delle lingue che sono per gli infedeli. Paolo fa
riferimento al contesto in cui si muove l'azione dei profeti: si tratta di un contesto liturgico (la
Comunità che si raduna per celebrare il mistero di Cristo). Il contenuto del ministero esercitato
dai profeti, cioè la sua finalità, è l'edificazione e l'esortazione e conforto (1Cor 14,3)8, che
descrivono il ministero della Parola, all'interno dell’Assemblea liturgica. Allora, il ruolo dei
profeti si colloca tra l'annuncio dell’Apostolo e dei suoi collaboratori e l'attività o ministero
compiuto da chi presiede la Comunità.
Paolo descrive anche alcune regole pratiche per l’esercizio del ministero di questa profezia e
lo fa sempre al capitolo 14 della 1Cor, dal v. 23 al v. 26 9, dove ci sono alcune indicazioni e dove
si nota sempre una finalità. Se uno non riconosce il Signore nell'esercizio di questo ministero
neanche lui viene riconosciuto. E’ interessante questo atteggiamento molto deciso di Paolo che
dice anche le caratteristiche per verificare l'autenticità dell'azione profetica. Paolo regola tale
attività con una certa autorità. Dunque, quello che Paolo ha stabilito deve essere osservato.
L’accogliere e il riconoscere le regole che Paolo dà nell’esercizio del ministero della profezia, è
garanzia della verità dell’esercizio di quel ministero. Chi non osserva queste regole non è
neppure riconosciuto come profeta.

7 Si legge nella 1Cor 14,22-23.28: «Quindi le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti,
mentre la profezia non è per i non credenti ma per i credenti. Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità,
tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse
che siete pazzi? Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso e a Dio».

8 La 1Cor 14,3 afferma: «Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto».

9 La 1Cor 14,23-26 dice: «Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle
lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi? Se invece tutti
profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti,
giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio,
proclamando che veramente Dio è fra voi.Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un
salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per
l’edificazione». A tale riguardo, rimane interessante quello che dice Paolo nella 1Cor 14,36-40, dove dice: «Come
in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano
invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro
mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.Forse la parola di Dio è partita da voi? O è
giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto
scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto. Dunque, fratelli miei,
aspirate alla profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. Ma tutto avvenga
decorosamente e con ordine».
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Tutto questo ci aiuta a capire come la Comunità di Corinto era organizzata. Di fatto, c'è a
capo della Comunità un gruppo di persone, le quali mantengono un certo legame con l'apostolo
Paolo, a motivo anche di alcuni fatti scandalosi avvenuti dentro la Comunità. C’è da dire che
Paolo ha continuato a predicare il Vangelo e non si è fermato ad esercitare il suo ministero.
Questo è un dato significativo che permetterà a Paolo, di essere informato di questi fatti
negativi, per i quali manifesta non solo il suo consiglio, ma dà anche delle precise disposizioni.
Egli decide per la Comunità di Corinto, a fronte di problemi di natura morale e spirituale. Da
questi dati si delinea già una struttura della prima Comunità cristiana. Anche nel confronto del
ministero della profezia, egli stabilisce le modalità di esercizio (1Cor 14,26-33). Anche Timoteo
esercita questo ministero come volta tra Paolo e la Comunità, ben sapendo che è stato inviato
direttamente da Paolo.
Lasciando per un po’ la Comunità di Corinto, il momento successivo che ci interessa è il
periodo post-apostolico.

2.1.2. Il periodo post-apostolico (67-95 d.C.).

A noi interessano queste lettere pastorali, perché fotografano un momento particolare del
ministero. Si tratta di una fase nuova, nella quale bisogna gestire la Comunità, quando Paolo
non c’è già più. In effetti, per esse dobbiamo seguire un passaggio delicato: in tal caso, è
importante il riferimento normativo, cioè l'Apostolo che mantiene i contatti con le Comunità. Il
venir meno degli Apostoli comporta delle problematiche, tra le quali la conservazione della
sana dottrina (v. il rischio delle eresie).
In questa situazione mutata, emerge come il ministero, all'interno della Comunità, ha uno
stretto legame con la necessità di conservare l'ortodossia della fede e della dottrina. Emerge così
il legame stretto tra il ministero e la dottrina, dal quale il ministero stesso è al servizio della
dottrina. In questo ambito è centrale la Lettera di Tito 1,5-910: Paolo ci dice qual'è il compito di
Tito, chiamato a continuare e completare l'opera dell'apostolo, stabilendo dei presbiteri. Paolo si
accorge che il custodire la sana dottrina è legato con il modo di essere con la Comunità e alla
presenza di ministri veri e non di pseudo profeti o apostoli. Questi presbiteri sono stabiliti
secondo le disposizioni di Paolo: le loro qualità (v. 6) sono di carattere morale e spirituale, ma
non manca il carattere pastorale (v. 7). Ancora una volta appare l’autorità e l’autorevolezza
dell’Apostolo nell’ambito dell’esecuzioni delle sue direttive da parte dei suoi collaboratori.
Queste persone, secondo i termini "anziani" "presbiter" ed "episcopus", non sono diverse
dalle altre della comunità, come appare dal contesto. A tale riguardo si nota una terminologia
piuttosto fluttuante. In effetti, si tratta di un unico ministero esercitato in maniera stabile dalle

10 La Lettera a Tito 1,5-9 afferma: «Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e
perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato: il candidato deve essere
irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano
insubordinati. Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, dev’essere irreprensibile: non arrogante, non
iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene,
assennato, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia
in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono».
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persone scelte. Non si tratta più di ministri itineranti, ma di ministri che agiscono all’interno
della Comunità. Dunque, c'era il bisogno di organizzare la presenza stabile di un ministero per
la Comunità stessa. Al v. 9, sempre del primo capitolo della Lettera di Tito, si parla dell'attività
del presbiter, cioè l'esortazione alla sana dottrina e l'ammonizione degli eretici (v. la
confutazione di false dottrine). Questo vescovo-presbitero, deve avere anche delle precise
qualità morali e spirituali.
Se si guarda, poi, alla testimonianza di Timoteo, ci sono altri dati importanti: Timoteo è
rimasto ad Efeso contro il pericolo di diffusione di false dottrine. In questo ambito, troviamo il
termine "diacono" (ci sono dei termini che hanno la radice “diacon” per indicare questo tipo di
ministero, ben in otto versetti). Questa diaconia che Timoteo esercita nella comunità efesina, è
un prolungamento della diaconia di Paolo (1Tm 1,12; 2,7)11. Paolo, facendo riferimento alla sua
diaconia, fa riferimento ad un momento costitutivo per lui, in cui gli viene consegnata questa
diaconia (il verbo greco è Titemi). Questo modo di parlare di Paolo, fa riferimento ad un
momento in cui lui è stato stabilito dentro questa diaconia.
Il punto di partenza, che dice il passaggio ad una nuova posizione o condizione, può essere
l'imposizione delle mani (At 13), oppure al momento della sua conversione. A Timoteo viene
data questa diaconia in un preciso momento costitutivo (1Tm 4,6)12. Egli viene posto al servizio
e all’esercizio di questo ministero.
C'è anche un'indicazione relativa al contenuto e alla funzione della diaconia che da Paolo
continua nell'esercizio della diaconia di Timoteo: l'opera principale è proprio l'evangeliz-
zazione, legata alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento. Ancora una volta si tratta di un
ministero della Parola. A lui gli è stato dato il dono della profezia: è il momento nel quale
Timoteo ha ricevuto, con l'imposizione delle mani dei presbiteri, un preciso incarico ed un
carisma particolare, per mezzo della profezia. Ciò costituisce un momento particolare, nel quale
Timoteo ha ricevuto un mandato esplicito. Si tratta del nucleo rituale, attorno al quale si è
sviluppata tutta la ritualità del sacramento dell’Ordine. Il contesto è pienamente liturgico,
perché ha un carattere rituale. E' una parola detta da chi ha imposto le mani, in un contesto
liturgico. Ci sono, dunque, degli elementi rituali:
a) la profezia (una parola detta sulla persona interessata in ambito liturgico);
b) l'imposizione delle mani.

11La 1Tm 1,12 dice: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato
degno di fiducia chiamandomi al ministero». Invece, la 1Tm 2,7 afferma: «Questa testimonianza egli l’ha data nei
tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo - dico la verità, non mentisco -, maestro dei
pagani nella fede e nella verità».
12 La 1Tm 4,6 dice: «Proponendo queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito come sei
dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito». Ai versetti successivo dice ancora: «Rifiuta invece
le favole profane, roba da vecchierelle. Esèrcitati nella pietà, perché l’esercizio fisico è utile a poco, mentre la
pietà è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente come di quella futura. Certo questa parola è
degna di fede». Infine, dal v. 13 sino al v. 16 dice: «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e
all’insegnamento. Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti,
con l’imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse
interamente perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così
facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano».
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Viene anche detto quale è il ruolo dei presbiteri dentro la Comunità (1Tm 5,17-25) 13. Essi
vengono riconosciuti per quello che hanno fatto all’interno della Chiesa. Il loro ruolo è descritto
da Paolo in modo attento, sottolineando il ruolo dell’insegnamento, ma – ancora una volta –
l’Apostolo dà delle norme precise di come Timoteo deve organizzare il ministero di questi
presbiteri. La cosa che più interessa è proprio il ruolo di presidenza che i presbiteri hanno
all’interno della Comunità. E’ una presidenza che fino ad ora si è manifestata come una
presidenza dell’Assemblea riunita, accompagnata dall’esercizio di un ministero, che è la Parola.

Inoltre, nella terminologia di Paolo, ricorrono termini che sono molto vicini tra loro, che
spesso vengono scambiati per le stesse persone (si tratta della duplice terminologia, vescovi e
presbiteri. C’è anche la coppia vescovi e diaconi 1Tm 3,1-13 14): in effetti, è difficile stabilire se
le persone alle quali sono applicati, siano proprio le stesse. La descrizione che Paolo fa del
vescovo e del diacono è caratterizzata da qualità molto simili, tra il vescovo ed il diacono.
Dunque c'è una terminologia ancora non tecnicizzata, che non è ancora in grado di specificare
bene i ruoli all’interno della Comunità, ma che esprime una funzione di servizio, in un ambito
ministeriale.
Gli stessi dati, poi, si trovano sia per la diaconia di Paolo e sia per quella di Timoteo.
L'ultima citazione richiama all'autorità di Paolo che gestisce un gruppo di persone, che sono
itineranti. Esse hanno il compito di stabilire dei ministri. Tale argomento lo ritroviamo nella
2Tm 4,9-13, dove si parla della diaconia dei collaboratori di Paolo. Essa così si esprime:
«Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo
preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in
Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con
te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico a Efeso.

13 La 1Tm 5,17-25 afferma: «Presbiteri che esercitano bene la presidenza siano trattati con doppio onore,
soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento. Dice infatti la Scrittura: Non metterai
la museruola al bue che trebbia e: Il lavoratore ha diritto al suo salario. Non accettare accuse contro un
presbitero senza la deposizione di due o tre testimoni. Quelli poi che risultino colpevoli riprendili alla presenza di
tutti, perché anche gli altri ne abbiano timore. Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di
osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favoritismo. Non aver fretta di imporre le mani
ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Conservati puro! Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di
un po’ di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni.Di alcuni uomini i peccati si manifestano
prima del giudizio e di altri dopo; così anche le opere buone vengono alla luce e quelle stesse che non sono tali
non possono rimanere nascoste».

14 La 1Tm 3,1-13 dice: «È degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro.
Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale,
capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia
dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la
propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di
montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona reputazione
presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo. Allo stesso modo i diaconi
siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino né avidi di guadagno disonesto, e conservino il
mistero della fede in una coscienza pura. Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili,
siano ammessi al loro servizio. Allo stesso modo le donne siano dignitose, non pettegole, sobrie, fedeli in tutto. I
diaconi non siano sposati che una sola volta, sappiano dirigere bene i propri figli e le proprie famiglie. Coloro
infatti che avranno ben servito, si acquisteranno un grado onorifico e una grande sicurezza nella fede in Cristo
Gesù».
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Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e


anche i libri, soprattutto le pergamene».

Da questo passo si può vedere ancora più chiaramente come Paolo gestisce questo gruppo di
persone. Si nota anche un grande movimento che dimostra, ancora una volta, l’itineranza di
questi stretti collaboratori dell’Apostolo, i quali, però, nelle comunità – soprattutto nel periodo
post-apostolico – hanno il compito di stabilire dei ministri fissi che hanno, come si è già detto,
il ruolo di presiedere la Comunità cristiana.

Conclusione.

Queste lettere pastorali che tipo di organizzazione della comunità post-apostolica


testimoniano? Parlano dei presbiteri-vescovi che presiedono alla comunità; essi insegnano e
conservano la sana dottrina. Tra Paolo e i responsabili locali ci sono anche i collaboratori di
Paolo che fanno da tramite tra Paolo e questi ministri stabili e sorvegliano l’organizzazione
della Comunità muovendosi all’interno di una regione. Timoteo, in particolare, viene presentato
come il successore di Paolo, per il dono delle imposizioni delle mani. Tra l’altro, nella 2Tm 4,5,
egli viene chiamato “evangelista”, che indica la continuazione del ministero dell’Apostolo.
Più difficile, invece, è stabilire il ruolo dei diaconi (v. anche le Lettere di Ignazio). Essi sono
certamente collaboratori dell’apostolo e responsabili del centro missionario della regione dove
risiedono. Anch’essi sono itineranti: di essi troviamo una testimonianza anche in Sant’Ignazio
di Antiochia, nelle sue lettere, prima del suo martirio. C'è, dunque, un quadro dove non tutto è
descritto con precisione, ma si nota una struttura organizzativa sempre più crescente. Paolo
regola l'esercizio del ministero e stabilisce delle norme che riguardano il contenuto del
ministero e stabilisce le qualità dei ministri scelti.
A conclusione di questo excursus, ci sono dei punti fermi da prendere in considerazione:
1) non c'è comunità cristiana neotestamentaria nella quale non ci sia una
ricchezza di ministeri ed una vivacità della ministerialità. La natura della
Chiesa è dunque ministeriale, senza la quale non può esserci la comunità
stessa che va sempre più strutturandosi. C’è qui l’idea di con naturalità tra
Chiesa e ministero;
2) c'è la fluidità dei ministeri, perché non c'è ancora una chiara struttura
ministeriale. Ci troviamo in una fase di sviluppo caratterizzata da una certa
varietà di forme. In effetti, il fatto stesso che il ministero non è frutto di
necessità (diversamente sarebbe funzionalismo), ma rimanda alla persona di
Gesù ed esprime una precisa ragione teologica. Il riferimento alla persona di
Gesù non va cercato solo nelle sue parole, ma soprattutto nelle sue azioni, che
sono normative, quanto il suo dire. Era talmente chiaro - per quanto riguarda
il gruppo dei Dodici - che mancando uno degli apostoli, la Chiesa ha sentito la
necessità di reintegrare i 12. C'era anche il bisogno di creare altre strutture
ministeriali, come i 7 diaconi. C’è una genesi cristologica. Certamente non si
può non tener conto della realtà della Comunità. Di questa radice teologica del
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ministero, si ha una chiarissima evidenza nelle parole di saluto di Paolo, che si


trovano in tutte le sue lettere. Ciò ci garantisce dalla logica del funzionalismo e
ci assicura nella fedeltà al dato originale. Altro è organizzare una Comunità,
quando ci sono gli Apostoli, altro è organizzare una comunità, quando
mancano già gli Apostoli. In effetti, c’è una risposta ministeriale diversa, la cui
origine, però, non parte dal bisogno contingente della comunità, ma sta in Dio
che manda ai suoi ministri a rispondere ad una necessità contingente;
3) questi scritti del NT, ci danno il nucleo primario del Sacramento
dell'Ordine. Essi offrono alcuni elementi che costituiscono il nucleo rituale
della celebrazione del medesimo sacramento dell’Ordine, che sono: la profezia
(cioè la preghiera fatta in ambito liturgico) e l'imposizione delle mani come
atto costitutivo vero e proprio (At 13).

In atto nella vita della Chiesa.

2.2.1 Dal secolo I al Concilio di Nicea (325).

Una tra le prime fonti, in questa prima epoca, come oggetto privilegiato, è la Traditio
Apostolica che non si può dire fonte liturgica propriamente detta, ma – certamente – una fonte
di interesse liturgico dal momento che in essa si trovano elementi liturgici e giuridici che
dicono l’organizzazione stessa della Comunità cristiana. Nell’ambito di questo corso, a noi
interessa anche cogliere in altre fonti altri elementi, per i quali si trova la testimonianza sulla
ministerialità: esse hanno il privilegio dell’antichità e della vicinanza al Nuovo Testamento. La
prima fonte che verrà trattata è quella della Didaché: di essa il Docente ha messo nella colonna
a sinistra il testo tradotto in italiano, mentre la colonna destra è stata lasciata intenzionalmente
vuota per facilitare lo studente ad inserire i suoi appunti personali. Tali fotocopie verranno
utilizzate nell’ambito di questa pro-dispensa e non verrà nuovamente riportato il testo nella
medesima.
1. La Didaché.
PARTE PRIMA
- Istruzioni morali (cc. 1-6): le due vie.
1. La via pratica pratica dell’amore di Dio e del prossimo (c.1), fuga dal peccato
(cc. 2-3), adempimento dei nostri doveri (cc. 3-4).
2. La via della morte peccati che la caratterizzano (c. 5), esortazione alla vigilanza
(c. 6).
PARTE SECONDA
- Istruzioni liturgiche (cc. 7-10).
1. Il Battesimo forma, materia e modo di amministrarlo, preparazione al
battesimo (c. 7).
2. Il digiuno, i giorni di digiuno (c. 8,1).
3. La preghiera il Pater tre volte al giorno (c. 8,2-3).
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4. L’Eucaristia preghiera per il calice, per il pane spezzato, dopo la comunione,


condizioni per ricevere l’Eucaristia (cc. 9-10).
PARTE TERZA
- Istruzioni disciplinari (cc. 11-15).
1. Condotta da tenere verso i ministri carismatici del Vangelo, gli apostoli ed i
profeti (c. 11), verso i pellegrini (c. 12), verso i profeti e i dottori (c. 13).
2. Istruzioni sulla sinassi eucaristica domenicale, confessione dei peccati (c. 14),
gerarchia locale; correzione fraterna, esortazione a vivere secondo il Vangelo (c.
15).
CONCLUSIONE ESCATOLOGICA
- Invito a vegliare nell’attesa della seconda venuta del Signore (parusia - c. 16).

La parte che più interessa al nostro corso riguarda i capitoli 10, 11, 12, 13, 14, 15 e 16. Per i
capitoli sopra accennati ci può riferire alle pagine 1 e 2 delle fotocopie del Docente.

OSSERVAZIONI
Circa i testi si può dire:
- 10,7: c'è un rendimento di grazie, che interviene nell'azione eucaristica (c’è un
riferimento alla preghiera eucaristica).
- 11,1: c'è il riferimento alla sana dottrina che esprime la fedeltà a quanto è stato
annunziato.
- 11,2: c’è un richiamo al pericolo delle false dottrine ed al criterio per riconoscere la vera
dalla falsa dottrina.
- 11,3-12: si trova, dunque, la terminologia "apostoli" e "profeti". Sono degli itineranti
che non sono conosciuti nella comunità. Anche in questo ambito ci sono dei criteri per
riconoscere il vero profeta da quello falso. Essi sono: il fermarsi nella comunità per un
giorno o al massimo due giorni, perché oltre dimostra la falsità del ministero esercitato;
l'attaccamento al denaro (v. 2Cor 11,1315), cioè servirsi del ministero per il proprio
vantaggio personale, il non pensare a sé stessi (non devono ricevere il denaro), la
coerenza della vita (se ha i modi del Signore), nello stesso tempo la comunità ha il
dovere di riconoscere i veri profeti. Quando li riconosce deve loro tributare onore e a
loro si deve sottomettere. Si nota qui una certa vicinanza con il pensiero di Paolo sulla
realtà ministeriale e sulla sua finalità.
- 12,1-5: c’è un richiamo all’origine del ministero, cioè Cristo (12,1: «Chiunque venga
nel nome del Signore sia ricevuto»), ma anche in questo caso si trova un accenno alla
distinzione tra il falso ed il vero discepolo di Cristo. Si trovano anche le norme per
accogliere un forestiero, il quale, se intende fermarsi, deve praticare un mestiere. Coloro

15La 2Cor 11,13 afferma: «Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di
Cristo».
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che non si sottomettono a questa regola sono “mercanti di Cristo”, cioè falsi cristiani,
dai quali la Comunità si deve guardare.
- 13,1: in questo caso si trova la terminologia "sommi sacerdoti" che sono riferiti ai
profeti. Viene anche specificato un caso particolare, cioè quando un profeta intende
fermarsi. Il suo ministero è l’insegnamento. Egli è maestro (didascalos), al quale deve
essere attribuito lo stesso onore che veniva attribuito ai sommi sacerdoti dell’AT,
riservandogli le primizie dei prodotti locali (vino, olio, denaro, vestiario ed ogni altro
bene). C’è qui un passaggio interessante perché questa identificazione dei ministri
cristiani con le categorie veterotestamentarie segna l’inizio di un percorso che si porterà
ai nostri giorni e dimostra la continuità tra l’AT ed il NT.

Le testimonianze raccolte da questo antico documento sono molto preziose perché si


pongono in una fase intermedia tra l’era del Nuovo Testamento e le prime testimonianze
dell’epoca apostolica e post-apostolica, che sono di carattere più prettamente liturgico.
A tutto questo ci si pone una domanda: cosa questi documenti dicono del Sacramento
dell’Ordine e come era organizzata la ministerialità nella Chiesa primitiva. Per quanto riguarda
la Didaché abbiamo potuto notare la presenza del binomio apostoli-profeti, con alcune
indicazioni preziose che essa ci dà per distinguere i veri dai falsi profeti. Ci sono anche delle
indicazioni per una verifica di questi ministri itineranti che passano da una comunità all’altra,
secondo alcuni criteri fondamentali, come la coerenza della vita, il non essere legati ad una
ricompensa specifica e al denaro, il non fermarsi per più di due giorni, il non pretendere alcun
beneficio per il proprio ministero.
Guardando al n° 13 (v. fotocopia a p. 2) si nota come venga ribadita la necessità di rendere ai
profeti lo stesso onore attribuito agli Apostoli, una volta riconosciuti come tali. Questo è un
dato interessante, perché in questo documento del I secolo, si affaccia una rilettura che la
Comunità cristiana fa del sacerdozio levito dell’Antico Testamento, applicando alcune categorie
di questo sacerdozio a quello cristiano. Si tratta di un’operazione molto delicata con tutta la
consapevolezza della novità che il cristianesimo ha comportato nell’ambito del sacerdozio
ministeriale. Questo passaggio, sarà più chiaro e più evidente nello sviluppo storico
dell’esperienza della Chiesa.
Un’altra terminologia presente nella Didaché è il binomio vescovi-diaconi, come si può
notare al n° 15, che richiama al testo di Fil 1,1. Quali differenze ci sono tra vescovi e diaconi e
rispetto al binomio precedente? Ci troviamo dinanzi ad una terminologia piuttosto fluida per cui
non è facile fare delle distinzioni. Ad ogni modo, questi vescovi e diaconi vengono eletti dalla
Comunità, per cui sono delle persone non itineranti che sono conosciute all’interno della
Comunità. Tutti quei criteri che si sono visti prima, erano dovuti al fatto che i ministri iteneranti
non erano conosciuti dalla comunità.
Ora, il verbo è Keirotoné, che vuol dire elezione per alzata di mano, da parte di tutta
l’assemblea, con alcune caratteristiche che si trovano già nelle lettere pastorali di Paolo. Cosa
fanno questi vescovi e diaconi all’interno della Comunità? Essi esercitano il ruolo di profeti e di
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dottori, in assenza di quelli che sono deputati a compierli. Si tratta di un ruolo di presidenza
dell’Assemblea riunita, tanto che il verbo greco è leiturgheio (leiturghia). Ciò richiama al
contesto che offre la 1Cor, dove i profeti ed i dottori hanno il compito di insegnare, di esortare,
di ammaestrare e di interpretare la Parola ed il dono delle lingue.
Da parte della comunità c’è un riconoscere il ministero dei vescovi e dei diaconi.
Essenzialmente, si può notare l’assenza del termine presbiteroi, che si trova molto di più in altri
documenti, anche se più tardivi, come ad esempio la Traditio Apostolica, attribuita ad Ippolito.
Questo spiega anche l’origine giudeo-cristiana, ma di origine ellenica della Didaché. Dunque,
come la Didaché ci descrive l’organizzazione della vita della Comunità, si può notare la
presenza di due categorie di ministri: quelli itineranti e quelli eletti dalla comunità stessa. Essi
ci forniscono già un quadro di una certa organizzazione ministeriale, dal momento che il ruolo
del ministro diventa essenziale per la comunità stessa al quale riconosce un certo onore.

Clemente di Roma
La Lettera ai Corinti

PROLOGO
- Indirizzo e saluto situazione della Chiesa di Corinto prima e dopo la sedizione (cc.1-3).

PARTE PRIMA (TEORETICO-PARENETICA).


- La condotta del Cristiano (cc. 4-38).
I mali provocati dalla gelosia e dall’invidia (cc. 4-6) ed esortazione alle virtù cristiane del
pentimento, dell’ospitalità, dell’umiltà, della pace e della concordia (cc. 4-22). Il grande premio
dei buoni, la risurrezione (cc. 23-30). Le vie della benedizione divina: fede, Carità, buone
opere, sottomissione nella Chiesa, corpo mistico di Cristo (cc. 31-38).

PARTE SECONDA (PRATICA).


- Consigli per sedare la discordia dei Corinti (cc. 39-58).
Ogni potere viene da Dio: gerarchia nell’AT (cc.39-41) e nel NT (cc. 42-44); esempi antichi
e recenti di insubordinazione (cc. 45-47); esortazione all’unione ed elogio della carità (cc.
48-50). Gli istigatori dello scisma facciano penitenza; prendano volontariamente la via
dell’esilio affinché ritorni la pace. Preghiamo perché so ravvedano, si sottomettano ai presbiteri,
ritornino al gregge e siano salvi (cc. 51-58).

LA GRANDE PREGHIERA.
Clemente loda e ringrazia Dio per la sua potenza e la sua bontà, e lo supplica di venire in
soccorso dell’uomo nelle necessità e nelle realtà concrete della vita (cc. 59-61).

CONCLUSIONE
Riepilogo degli argomenti trattati, menzione dei messaggeri di pace, esortazione alla
concordia e benedizione finale (cc. 62-65).
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Dagli elementi che si possono raccogliere in questo importante documento, si può dire che
affronta una questione che riguarda direttamente l’organizzazione del ministero; in secondo
luogo c’è una tradizione antica del II secolo, che mostra già l’uso di alcuni termini, in
particolare di presbiter, usato in senso tecnico, come una traslitterazione del greco. Si tratta di
un neologismo attraverso il quale la Comunità vuole indicare un qualcosa di preciso.
Dalla struttura e dal contenuto, trapela una situazione drammatica della Chiesa, come si può
vedere già ai numeri 1 e 2.
Certamente prima che la crisi scoppiasse la Chiesa di Corinto è ricordata come una
Comunità coerente con i principi cristiani ed esemplare sotto il profilo della comunione nella
fede in Cristo. L’espressione, «Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona e camminavate
secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri
anziani», è per noi un dato interessante, perché è sottolineata la sottomissione a coloro che
presiedono la comunità. Lo stesso aspetto lo si trova nella 1Cor 16,16, dove si parla
dell’atteggiamento verso i ministri, ed anche nella 1Tm 5,17. Ci sono anche dei termini che
riprendono dei termini presenti negli scritti neotestamentari, ad indicare, in maniera precisa,
delle persone che all’interno della comunità svolgono un ruolo preciso.
Dinanzi a questa situazione molto positiva, si è venuta a verificare una situazione molto
grave, come lo stesso Clemente riferisce sempre al n. 1 (v. fotocopie p. 1):
«Per le improvvise disgrazie ed avversità capitatevi, l’una dietro l’altra, o
fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da
voi, carissimi, all’empia e disgraziata seduzione, aberrante ed estranea agli eletti
di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia
che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente
compromesso».

Sono parole molto forti che Clemente rivolge a questa Chiesa. In effetti, si tratta di un
problema che mina alle fondamenta la struttura stessa della Comunità di Corinto. Ma cosa era
accaduto? Come si può leggere al n. 44/6, si comprende che alcuni sono stati rimossi dal loro
incarico, malgrado la loro correttezza e la loro rettitudine morale (v. fotocopia a p. 4). Già al n.
3 Clemente afferma:
«1 Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che
fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. 2.
Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e
prigionia. 3. Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro
gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. 4. Per questo si
sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il
timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti
divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni
del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la
quale anche “la morte venne nel mondo».
Il problema riguarda direttamente i presbiteri posti a capo della comunità, come si può
notare anche al n. 47/6:
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«E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la
Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si é ribellata ai
presbiteri».

In altre parole si è verificata una ribellione, per la quale Clemente lancia una condanna
precisa contro gli autori di questa sedizione, dal momento che ribadisce un concetto importante:
la ribellione a questi presbiteri è da considerarsi un’offesa gravissima contro Cristo e la sua
Chiesa.
La soluzione che Clemente propone la si può notare al n. 21,5-6:
«5 E meglio urtare gli uomini stolti, ignoranti, superbi, vanagloriosi nella
spavalderia della loro parola che urtare Dio. 6. Veneriamo il Signore Gesù Cristo il cui
sangue fu dato per noi, rispettiamo quelli che ci guidano, onoriamo gli anziani,
educhiamo i giovani al timore di Dio, indirizziamo al bene le nostre donne».
L’intervento che Clemente fa per dirimere questa situazione, non è semplicemente di buon
ordine, ma da alcune motivazioni teologiche precise del perché non si possono destituire i
presbiteri all’interno di una Comunità, ed anche il perché bisogna sottomettersi a loro. Ciò è
messo accanto all’adorare e venerare il Signore Gesù.
Ancora, al 38/1 dice ancora:
«1. Si conservi dunque tutto il nostro corpo in Cristo Gesù e ciascuno si
sottometta al suo prossimo, secondo la grazia in cui fu posto».
C’è, dunque, una grazia che è stata conferita, alla quale bisogna rispondere per garantire un
buon ordine all’interno della struttura della Comunità. Leggendo, poi il n. 42, si possono
scorgere altri elementi:
«1. Gli apostoli predicarono il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu
mandato da Dio. 2. Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose
ordinatamente dalla volontà di Dio. 3. Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella
risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con
l’assicurazione dello Spirito Santo andarono ad annunziare che il regno di Dio era
per venire. 4. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le loro primizie,
provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. 5. E questo non
era nuovo; da molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti,
dice la Scrittura: “Stabilorono i loro vescovi nella giustizia e i loro diaconi nella
fede”».
In questo caso Clemente cita Is 60,17, con alcune variazioni, ma proseguendo al n. 44
aggiunge:
«1. I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe
stata contesa sulla carica episcopale. 2. Per questo motivo, prevedendo esattamente
l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla
loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. 3. Quelli che finirono da
essi (apostoli) stabiliti o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la
Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e
gentilezza e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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che non siano allontanati dal ministero. 4. Sarebbe per noi colpa non lieve se
esonerassimo dall’episcopato quelli. che hanno portato le offerte in maniera
ineccepibile e santa. 5. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno
avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse
allontanati dal posto loro stabilito. 6. Noi vediamo che avete rimosso alcuni,
nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con
onore».
In questi due numeri, si nota la fermezza di Clemente con alcune motivazioni di capitale
importanza. Egli richiama al quadro apostolico, secondo il quale la destituzione non può
avvenire, dal momento che non può venire meno quella successione tra gli Apostoli. Questo
essere mandati da Cristo, come Cristo stesso è stato mandato da Dio, è un fatto teologico
costitutivo che non può essere violato. Questa successione viene dalla volontà di Dio, mediante
la quale verrà costituita la Chiesa. L’origine dell’elezione dei presbiteri e dei vescovi sta
piuttosto in Dio e non nella Comunità che li elegge. C’è ancora una terminologia fluttuante.
Anche in Clemente viene riportato come esempio il ruolo che Mosè ha avuto nei confronti
del suo popolo (v. il n° 51,3-5).
Il n. 44, sempre su questa linea, completa il dato dell’inviolabilità dei presbiteri istituiti, con
la norma della successione, insieme al quale si aggiunge, in questa fase, il riconoscimento ed il
consenso di tutta la Comunità. Si tratta di un elemento determinante. La stessa volontà di Dio
non rende estranea la Comunità all’elezione di questi capi.
Il dato di partenza che Clemente usa è proprio il fatto che questi presbiteri sono stati
destituiti, malgrado abbiano agito sempre bene verso la Comunità. Certamente, Clemente
intende dare una soluzione al problema come riferisce al n. 54:
«1. Tra voi c’è qualcuno generoso, misericordioso e pieno di amore? 2. Dica: se
per colpa mia si sono avuti sedizione, lite e scismi vado via. Me ne parto dove volete
e faccio quella che il popolo comanda perché il gregge di Cristo viva in pace con i
presbiteri costituiti. 3. Ciò facendo si acquisterà una grande gloria in Cristo e ogni
luogo lo riceverà. “Del Signore è la terra e quanto essa contiene”. 4. Così hanno
fatto e faranno quelli che con una condotta senza rimorsi, sono cittadini di Dio».
Appare molto chiaro, chiedendo se è lui è stata l’origine di questa sedizione. Al n. 51/1-2
aggiunge:
«1. Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e
correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. 2.
Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della
vostra lingua. È meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di
Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza».
Qual’è, allora la soluzione che Clemente indica alla Chiesa di Corinto? E’ quella di
riconoscere questi capi e sottomettersi a loro. Coloro che sono stati causa di questa ribellione, è
bene che lascino la Comunità stessa, per non essere nuovamente motivo di divisione. Il dato
importante è il ruolo fondamentale ai presbiteri: la sottomissione a loro non è schiavitù, ma un
rendere onore a coloro che svolgono le funzioni di Cristo e manifestano la paternità di Dio.
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Negli ultimi numeri, Clemente conclude dicendo che sono stati inviati uomini saggi e fedeli,
vissuti in mezzo alla Comunità, come autentici testimoni di Cristo, nell’augurio che la
Comunità ritrovi presto la pace che aveva prima della crisi (v. n. 63).

ALCUNI ELEMENTI DI SINTESI


DELLA LETTERA AI CORINTI DI CLEMENTE
C’è, dunque, un quadro dei componenti della Comunità che più volte viene ripreso. Ci sono i
capi, guida del popolo; ci sono gli anziani ed i giovani (alcuni studiosi hanno voluto vedere in
essi i diaconi, come se questa ribellione partisse da loro. Anche se non ci sono elementi
sufficienti per dimostrarlo, potrebbe essere considerata giusta). Clemente parla anche delle
donne e dei figli. In questo modo Clemente ci parla di persone della Comunità con dei ruoli
specifici, ma c’è anche una precisa distinzione dal momento che, all’interno della Comunità, la
tranquillità e la pace dipendono dal rispetto verso una certa categoria di persone. Questi capi
hanno il servizio dell’episcopé, come riferisce Clemente al n. 44/5.
Ancora una volta, si deve dire che presbiteroi ed episcopoi, sono parzialmente sinonimi (v.
54/2), verso i quali ci deve essere un atteggiamento di sottomissione. Essi hanno il compito di
sorvegliare sul gregge, oltre al ruolo di presentare le offerte (v. n. 44/4) che sottintende un
preciso ministero liturgico.
C’è anche una struttura che si individua con la presenza di ministri particolari che hanno,
appunto, il compito dell’episcopé (ministero pastorale e liturgico).
Il secondo elemento è proprio la norma della successione sulla quale Clemente insiste molto.
Questi ministri sono istituiti per precisa volontà di Dio (v. nn. 42, 43 e 44), rispetto alla quale
interviene la Comunità, ma sovvertire l’ordine della Comunità stessa, non è solo un atto di
ribellione e di divisione, bensì è anche un sovvertire l’ordine costituito da Dio stesso. Ciò
giustifica il gravissimo grado di colpevolezza. Proprio per evitare che accadesse questo fatto gli
stessi Apostoli hanno stabilito delle norme per custodire i ministri che sono dono di Dio. Queste
norme vanno dalla scelta di uomini provati nella fede e con precise caratteristiche al consenso
della Comunità.
Il terzo elemento è proprio il fatto che nessuno può destituire questi ministri scelti, non solo
per ragioni organizzative, ma soprattutto per motivi di natura teologica.
In Clemente, comunque, rimane ancora questa imprecisione nella terminologia, che si
dimostra ancora molto fluttuante, anche se alcune differenze tra episcopoi e presbiteroi
potrebbero già delinearsi.
Oltre a questi elementi, ce ne sono altri importanti: Clemente, in primo luogo, va sulla linea
degli elementi fondamentali già visti nel Nuovo Testamento, mostrando una certa continuità tra
la Chiesa premeva e quello che Gesù Cristo ha fatto. Si tratta di evidenziare la fedeltà alla
Tradizione. In Clemente non c’è un intento sistematico nel descrivere la Comunità, ma dice
quello che gli interessa alla questione che sta per affrontare.

IGNAZIO DI ANTIOCHIA E LE SUE LETTERE


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Ad Ignazio Eusebio dedica il cap. 3, ed ancora, dice che egli succede ad Evodio; nel
Chronicon precisa che inizia il suo episcopato l’anno primo di Vespasiano (ca. 70 d.C.). E’
naturale che Ignazio conobbe ed ebbe relazioni con gli Apostoli, come affermano S. Giovanni
Crisostomo nella sua Omelia su Sant’Ignazio (PG 50,588) e S. Girolamo nella traduzione del
Chronicon di Eusebio.
Ignazio per avere testimoniato la propria fede in Cristo Gesù, come attesta lo stesso S.
Eusebio, fu inviato a Roma sotto una severa scorta di guardie per essere martirizzato nell’arena
ad opera delle belve. Egli aveva combattuto contro i giudaizzanti che negavano la divinità di
Gesù Cristo e sostenevano la necessità della pratica dei riti giudaici; combatté anche i doceti
che negavano la natura umana di Cristo. L’attaccamento alla tradizione apostolica Ignazio lo
dimostrerà nelle lettere, anche se queste, avendo un carattere puramente occasionale, non hanno
un vero e proprio scopo dottrinale. Egli le scriverà in diverse tappe, prima di giungere a Roma
dove morirà l’anno decimo di Traiano, cioè il 107 d.C., secondo anche la testimonianza di S.
Eusebio. Il Martyrium Antiochenum (Colbertinum) precisa il giorno 20 dicembre. La Chiesa
pone il dies natalis di S. Ignazio al 17 ottobre.
- La prima tappa è Smirne, dove si trova S. Policarpo vescovo: lì scrisse una lettera alla
Chiesa di Efeso, di cui ricorda il vescovo Onesimo, poi alla Chiesa di Magnesia, alla Chiesa di
Tralli. Scrisse, secondo la testimonianza di Eusebio, anche ai Romani per scongiurarli di non
privarlo del martirio, unico suo desiderio e unica sua speranza.
- La seconda tappa è Troade, dove scrive altre tre lettere ai Filadelfiesi, ai Smirnesi ed una
particolare al vescovo Policarpo, al quale, conoscendolo per uomo interamente apostolico, da
vero e buon pastore affida il suo gregge di Antiochia. A Troade viene raggiunto da due diaconi,
Filone della Cilicia e Reo Agatopodo di Antiochia, i quali gli annunciarono che la persecuzione
in Antiochia era cessata. Ignazio dovrà partire improvvisamente per Neapolis, in Macedonia.
- L’ultima tappa è Roma che egli raggiunse per mare, partendo da Neapolis, anch’essa
precedentemente raggiunta per mare. A lui si aggiunsero altri due martiri, Zosimo e Rufo.

Certamente le lettere di S. Ignazio sono da considerarsi di grande valore storico, perché


riflettono non solo la più antica tradizione, ma anche l’anima di una delle più spiccate
personalità della Chiesa primitiva, il terzo vescovo della Chiesa, ove per la prima volta i fedeli
si chiamarono cristiani. In queste lettere vi sono anche affermati i principali dogmi di fede, cioè
l’unità e trinità di Dio, la divinità di Gesù Cristo, la realtà dell’incarnazione, la passione e la
morte di Cristo, la sua risurrezione, la concezione verginale di Maria santissima, gli effetti della
redenzione, il battesimo, l’eucaristia e il matrimonio. Nelle sue lettere non mancano riferimenti
all’unità della Chiesa e in esse dimostra di essere il vero assertore dell’episcopato monarchico.
Egli è un grande mistico dal temperamento eccezionale che non si cura delle forma letteraria,
ma da grande orientale è l’immagine che domina i suoi pensieri.
Di queste lettere rimane aperta, però, la questione della datazione, che nell’ambito di questo
corso non affronteremo. A noi, invece, interessa la testimonianza di Ignazio per la caratteristica
del suo pensiero. Queste lettere sono bellissime per la testimonianza che egli dà della sua fede.
Quello che ci interessa da vicino è la descrizione che Ignazio ci dà della struttura ministeriale
della Chiesa di Antiochia. Il suo pensiero è fortemente cristologico e kerigmatico. L’annuncio
della persona di Cristo ed il continuo riferimento alla sua persona, esprime un fondamento, una
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certezza ed una garanzia della fede contro il pericolo delle prime eresie che iniziarono ad
affacciarsi in quel periodo.
I particolari delle sue lettere si possono notare in uno schema (v. fotocopia p. 3), dove sono
anche riportati i termini greci indicanti la figura dei diversi ministri all’interno della Comunità,
nelle diverse lettere scritte da Ignazio.
Facendo una lettura di sintesi di queste lettere, un elemento importante riguarda la
dimensione normativa della Scrittura: sembra che essa non sia ancora un’importanza
determinante anche se Ignazio stesso conosceva già uno o più Vangeli. Invece, appare più
importante la struttura ministeriale della Chiesa primitiva (vescovo – presbiterio - diaconi) che
da lui è presentata in modo chiaro. Ad essa dà un ruolo fondamentale all’interno della Chiesa.
Ad esempio, l’espressione, “senza vescovo non c’è Chiesa”, indica un’affermazione molto forte
con la quale si intende dire che la Chiesa si costituisce nella comunione con il vescovo. Tale
sottolineatura supera la stessa normativa.
Con Ignazio si ha la prima testimonianza di una struttura gerarchica ben definita. Adesso si
può dire che il vescovo di Antiochia abbia chiara la distinzione tra vescovo e presbitero. Questa
struttura ben definita diventa criterio anche di verifica della dottrina e della Chiesa stessa.
Egli non insiste molto sul tema della successione, come ha fatto Clemente, ma piuttosto
manifesta una concezione mistica della Chiesa, tanto che vede nel ministero visibile una
riproduzione di un archetipo invisibile. Ad esempio, alla Lettera ai Magnesi, al n. 3/2 dice:
«Per il rispetto di chi ci ha voluto bisogna obbedire senza ipocrisia alcuna,
poiché non si inganna il vescovo visibile, bensì si mentisce a quello invisibile.
Non si parla della carne, ma di Dio che conosce le cose invisibili».
Dunque, se non si è in comunione con il vescovo visibile, si inganna il vescovo invisibile.
C’è qui una verità di fondo che richiama alla disposizione dell’animo che non rimane nascosta a
Colui che conosce il segreto più recondito del cuore dell’uomo. Questo archetipo è il Padre che
guida la Chiesa, per mezzo del Vescovo, del Figlio, mediante il servizio dei diaconi. Anche in
Ignazio si può notare una continuità attraverso il Collegio degli Apostoli. Il richiamo che spesso
Ignazio fa dell’unità, tra l’altro, indica la necessità di fare questo appello, probabilmente per il
pericolo che le prime comunità cristiane incontrano, a motivo di eresie. C’è la sottolineatura di
un valore che probabilmente non sempre è stato osservato. Ciò rende evidente anche la
presenza di una certa tensione tra presbiteri e diaconi, che si può notare dal fatto che nelle
lettere ignaziane c’è un richiamo frequente alla sottomissione dei diaconi verso il vescovo ed i
presbiteri.
Questa visione della Chiesa, è un’icona che Ignazio presenta per esprimere la necessità di
una unità ad immagine dell’unico corpo di Cristo. Nella Lettera ai Magnesi, al n. 6, parla
dell’incorrutibilità, quale segno inequivocabile di unità dei membri della Chiesa:
«1. Poiché nelle persone nominate sopra ho visto e amato tutta la comunità vi
prego di essere solleciti a compiere ogni cosa nella concordia di Dio e dei
presbiteri. Con la guida del vescovo al posto di Dio, e dei presbiteri al posto del
collegio apostolico e dei diaconi a me carissimi che svolgono il servizio di Gesù
Cristo che prima dei secoli era presso il Padre e alla fine si è rivelato. 2. Tutti
avendo una eguale condotta rispettatevi l’un l’altro. Nessuno guardi il prossimo
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secondo la carne, ma in Gesù Cristo amatevi sempre a vicenda. Nulla sia tra voi
che vi possa dividere, ma unitevi al vescovo e ai capi nel segno e nella
dimostrazione della incorruttibilità».
C’è qui un’immagine molto bella, secondo la quale il vescovo è visto al posto del Padre,
mentre il presbiterio al posto del Collegio Apostolico, ed i diaconi rendono visibile il servizio di
Cristo. C’è qui un elemento di continuità che garantisce l’unità della Chiesa.
Nella Lettera ai Trallani n. 1 dice ancora:
«Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il
vescovo che è l’immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il
collegio degli apostoli. Senza di loro non c’è Chiesa. 2. Sono sicuro che intorno a
queste cose la pensate allo stesso modo, infatti ho accolto ed ho presso di me un
esemplare della vostra carità nel vostro vescovo, il cui contegno è una grande
lezione, come la sua dolcezza una forza. Credo che anche gli atei lo rispettino. 3.
Poiché vi amo mi trattengo, potendo scrivere con più severità sulla cosa. Non
arriverei col pensiero a tanto da comandarvi come un apostolo essendo, invece,
un condannato».

In questo passo i diaconi sono visti come immagine di Cristo servo, il vescovo è visto come
l’immagine del Padre, mentre i presbiteri come il sinedrio di Dio e – nuovamente – come
collegio degli Apostoli.
Nella Lettera agli Smirnesi 8,1-2 afferma:
«1. Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri
come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il
vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida
l’eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. 2. Dove compare il
vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica.
Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l’agape; quello che egli
approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro».

Si nota qui un fondamento teologico ed ecclesiologico, che non è un semplicemente esortare


all’unità per garantire una certa organizzazione all’interno della Comunità. C’è qui un grosso
riferimento all’obbedienza a Cristo, seguendo il vescovo ed i presbiteri. Tra l’altro, l’immagine
del vescovo richiama agli Apostoli: è un’immagine che rimanda all’Assemblea cultuale, cioè
all’Assemblea che celebra l’Eucaristia, dove il diacono che proclama il Vangelo è la Parola di
Cristo presente.
Il modo di argomentare di Ignazio, sottolinea la comunione che ci deve essere tra vescovo,
presbiteri e diaconi: ciò non vuol dire che questa visione manchi della dimensione giuridica.
Questa visione mistica della Chiesa ha, comunque, delle conseguenze pratiche in campo
giuridico, secondo il criterio della comunione con i ministri ordinati, il quale rimane
fondamentale nel pensiero ignaziano.
Ciò rende presente la gerarchia ecclesiastica, dove attorno ai presbiteri viene sempre
sottolineata la dimensione comunitaria. Questo giustifica il perché venga usato di più il termine
di presbiterio, al posto di presbiteri (essi sono sempre visti nell’ambito della collettività).
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Sui diaconi viene detto ancora qualcosa di più preciso. Ad esempio, nella Lettera ai
Filadelfiesi c’è una descrizione più precisa del ruolo di diacono. Di loro si dice che sono legati
alla propria Chiesa locale; essi occupano un grado che è subalterno alla gerarchia, e svolgono la
particolare funzione di collegamento con le varie chiese, come si può vedere nella Lettera ai
Romani 9,1ss.:
«Ricordatevi nella vostra preghiera della Chiesa di Siria che in mia vece ha
Dio per pastore. Solo Gesù Cristo sorveglierà su di essa e la vostra carità. 2. lo
mi vergogno di essere annoverato tra i suoi, non ne sono degno perché sono
l’ultimo di loro e un aborto Ma ho avuto la misericordia di essere qualcuno, se
raggiungo Dio. 3. Il mio spirito vi saluta e la carità delle Chiese che mi hanno
accolto nel nome di Gesù Cristo e non come un viandante. Infatti, pur non
trovandosi sulla mia strada fisicamente mi hanno preceduto di città in città».

Ignazio si riconosce in ruolo che va al di là della Chiesa di Antiochia, perché si sente pastore
di più comunità. Ciò è testimoniato chiaramente anche dalle sue lettere. Anche qui c’è il
concetto dell’invisibilità che si rende visibile. I diaconi stessi sono, tra l’altro ministri itineranti
ad un contatto ancora più diretto con il Vescovo, perché lo aiutano nel suo ministero per il
servizio della Parola. Essi hanno un po’ le caratteristiche dei collaboratori di Paolo, che
abbiamo visto in precedenza (v. At 19,22; At 20, 4-5).
Un altro dato importante è il servizio che il ministero fa all’ortodossia, a motivo dell’eresia
che inizia a manifestarsi. Dunque, la comunione tra il vescovo, i presbiteri ed i diaconi, fa si
che ci sia la garanzia a sostegno dell’ortodossia della Chiesa. Di fronte al diffondersi degli
errori di fede, tale criterio si rivelerà vitale per la Chiesa.
Ignazio non parla mai dei maestri e dei profeti, ma li accenna con un certo accento polemico.
Secondo questo grande maestro, alcuni maestri e profeti, anziché diffondere la vera fede,
diffondevano gli errori e, quindi, l’eresia. In più Ignazio dà un’immagine di Chiesa, dove le
singole Chiese hanno un rapporto tra loro, non sono separate, ma vivono in comunione tra loro.
Ciò è dimostrato dal fatto stesso che lui si definisce non soltanto vescovo della Chiesa di
Antiochia, ma anche vescovo della Chiesa di Siria.
Quando scrive a Policarpo dice così:
«Non ho potuto scrivere a tutte le Chiese dovendo imbarcarmi
improvvisamente da Troade a Neapoli, come impone l’ordine ricevuto. Scriverai
tu alle Chiese (che ti sono) davanti, conoscendo la volontà di Dio, che facciano la
stessa cosa, di mandare cioè messaggeri, potendolo, o di spedire lettere a mezzo
dei tuoi inviati per essere glorificati con un’opera eterna, come tu ne sei
meritevole» (Policarpo 8,1).
Parlando così a Policarpo, lo incarica appunto di mantenere questo contatto con le Chiese.
Ciò diventa vincolo di unità tra le Chiese. In questa prospettiva, Ignazio, dà una maggiore
chiarezza di struttura non solo gerarchica, ma anche ministeriale.
Dallo schema del Docente (v. fotocopia p. 3) sono sottolineati i termini greci che Ignazio usa
per indicare le figure dei diversi ministri, secondo tutte le sue Lettere.
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LA TRADITIO APOSTOLICA
Questo importante scritto dell’Antichità ci fornisce il primo rituale completo delle
ordinazioni, oltre al fatto che ha esercitato una grande influenza sull’Oriente e sull’Occidente.
Ancora adesso, le ordinazioni nella Chiesa sia d’Oriente, sia d’Occidente, vengono fatte con
questo testo: ciò è da considerarsi un buon segno di comunione. Si tratta, quindi, di un testo
base.
Questa opera sarebbe attribuita ad Ippolito Romano, ma non ci sono elementi sufficienti per
dimostrare la paternità del testo che non si trova più nell'originale greco. Tuttora è una
questione aperta perché ci sono diverse ipotesi.
Circa la paternità, c'è da dire che ci sono almeno tre Ippoliti contemporanei, tra i quali uno di
questi dovrebbe essere un martire, morto insieme a Papa Ponziano: di lui non si sa se era
vescovo o sacerdote. Recentemente è stata rivenuta una statua: sul trono dove appoggia si trova
l'elenco delle opere di Ippolito, nonché si trova una scritta che riferisce della Tradizione
Apostolica e dei carismi.
Il testo greco originale è sostituito da una versione parziale in latino, seguita da altre
versioni, che tentano di ricostruire il medesimo testo originale della Traditio Apostolica.
Ma cosa si può dire concretamente di quest’opera? Chi sarebbe questo Ippolito?
Si tratta di uno scrittore di lingua greca, morto intorno al 235: era probabilmente vescovo,
dal momento che ce ne danno testimonianza, sia Eusebio, sia Girolamo, anche se non hanno
precisato la sua sede vescovile. Egli può essere collocato a fianco dell’eminente suo
contemporaneo Origene, per quanto riguarda la versatilità dell’ingegno e il numero delle opere
da lui composte. Per l’originalità del pensiero teologico Ippolito è tuttavia molto inferiore
all’alessandrino; si può dire in linea generale che egli fu un dotto e diligente raccoglitore,
preoccupato più delle questioni pratiche che dei problemi scientifici. Numerosi quesiti, che si
presentavano in passato agli studiosi intorno alla sua persona e alla sua attività, hanno trovato
risposta solo dopo la pubblicazione della sua opera principale i Philosophumena (1851).
Forse Ippolito (discepolo di Ireneo?) non fu di nascita romano, né latino, ma oriundo
dell’Oriente ellenistico. Combattendo appassionatamente i Modalisti e i Patripassiani (Noeto,
Cleomene, Sabellio) espresse una dottrina subordinazionista intorno al Logos. Nelle questioni
relative alla penitenza e alla disciplina ecclesiastica, il prete Ippolito, ambizioso e rigorista,
entrò in conflitto con il papa Callisto (217-222) che accusò di sabellianesimo e di eccessiva
indulgenza verso i peccatori. Eletto antipapa, Ippolito fu capo di uno scisma che si protrasse
anche sotto i pontificati di Urbino e di Ponziano, appoggiandosi ad una cerchia stretta di
persone influenti per nascita e per cultura. Durante la persecuzione di Massimino il Trace, i due
capi della Chiesa, il legittimo e l’illegittimo, Ponziano e Ippolito, vennero entrambi deportati in
Sardegna. Poiché Ippolito si riconciliò con la Chiesa e morì in esilio (nel 235) venne sepolto
sulla via Tiburtina e venne subito onorato come martire nel giorno stesso di papa Ponziano (13
agosto).
Il testo che esamineremo, è del IV, per la sua datazione è più tardiva di quella della Traditio
Apostolica, fissata intorno al 215.
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In merito al contenuto e alla struttura si può dire che la parte centrale parla della costituzione
della Chiesa (dal cap. 2 al cap. 21): in particolare si trova il rituale dell’Ordinazione, per i
vescovi, i presbiteri, i diaconi, i confessori, le vedove, i lettori, le vergini, i suddiaconi, nonché i
doni di guarigione. Dal cap. 15 al cap. 21 c’è il catecumenato e l’iniziazione. Più avanti si
trovano alcuni regolamenti comunitari, come le prescrizioni per i banchetti comuni. Ci sono
anche alcuni riferimenti terminologici che ci aiutano a capire a che punto siamo nello sviluppo
storico della celebrazione dell’Ordine. Alcuni riferimenti terminologici li ritroviamo anche per i
Confessori che hanno testimoniato la fede e si sono esposti al martirio.
Prima di leggere i testi, è bene fare alcune precisazioni terminologiche:
1) l’imposizione delle mani (epitesis tov keiron = è in uso il verbo ceirotone‹n; in latino è
impositio manus);
2) ordinare (Ordinatio; Ordinabitur);

Questi sono termini importanti che sempre più saranno usati in senso tecnico; già nell’uso
che fa la Traditio Apostolica. Il primo termine è già attestato nel Nuovo Testamento, in At 6,6:
«Li presentarono agli Apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le
mani».

La stessa espressione la si ritrova in 1 Tm 4,14, dove si trova nuovamente l’espressione


“imposizione delle mani” (™piqšsewj tîn ceirîn) che è un gesto costitutivo che dà un carisma
preciso o dono dello Spirito Santo. Ma questo gesto era già presente nell’Antico Testamento,
con un significato ancora più ampio, rispetto al NT. Il suo significato poteva essere benedizione
e maledizione, guarigione e offerta. E’ presente anche come gesto che dice lo stabilire qualcuno
in un ufficio particolare. Si tratta di un conferimento di un ufficio, come ad esempio in Num
27,18 o Dt 34,9, dove Mosè impone le mani su Giosuè perché prosegua la sua missione. Questo
medesimo gesto, nella tradizione ebraica, veniva compiuto quando si dovevano istituire dei
nuovi “Rabbì” o “Maestri”: ciò avveniva a livello giuridico come investitura ufficiale.
Nel Nuovo Testamento, c’è una linea di continuità, ma c’è anche un significato nuovo: si
tratta di vedere nell’imposizione delle mani il dono dello Spirito. Non è semplicemente la
proclamazione di un’investitura ufficiale, ma si tratta di un’investitura in forza del dono dello
Spirito. C’è la trasmissione di un mandato, ma nello stesso è anche invocazione e dono dello
Spirito.

4a Lezione.

TRADITIO APOSTOLICA (2a PARTE).


Parlando del gesto dell’imposizione delle mani, potremmo dire la trasmissione di un
mandato in forza di questo dono dello Spirito.
La Traditio Apostolica ce ne parla in abbondanza, sia quando questo gesto bisogna farlo, sia
quando non bisogna farlo, precisando anche chi lo deve compiere. Dunque, si deve vedere
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accanto all’espressione greca già vista (in latino “impositio”), il verbo greco ceirotone‹n, che è
un altro termine tecnico che ha un significato molto preciso. Anche questo verbo (in latino si
traduce con “Ordinabatur”) è già testimoniato nel NT e precisamente in At 14,23:
«Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere
pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto».
Dunque il verbo ceirotone‹n assume il significato preciso di costituire. Lo ritroviamo anche
in 2Cor 8,19 dove dice:
«Egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest’opera di
carità, alla quale ci dedichiamo per la gloria del Signore, e per dimostrare anche
l’impulso del nostro cuore».
In latino corrisponde al termine “ordinatus”. Originariamente, il significato di questo verbo
era l’elezione per alzata di mano, da parte di un’Assemblea che sceglie alcune persone
nell’adempimento di alcuni uffici. La versione latina della Traditio Apostolica, come è già stato
detto, traduce il verbo greco con l’espressione “ordinare”.
Di per sé il greco aveva un altro verbo che indicava la stessa cosa: precisamente si tratta di
katistatai. In questo senso la Traditio opera una scelta precisa che a noi interessa perché,
facendo una distinzione nell’uso dei termini, dice chiaramente che il verbo ceirotone‹n ha un
significato prettamente tecnico e preciso. Il fatto che distingua l’uso di ceirotone‹n da caq…
statai lo si nota al n. 10 dove parla delle vedove, al n. 11, dove parla del lettore e al n. 12 dove
parla delle vergini. Al n. 10 dice:
«Quando si istituisce una vedova, non riceve l’ordinazione, ma solo istituita.
Se il marito è deceduto da molto tempo, si faccia l’istituzione».
Al n. 11 dice:
«Il lettore viene istituito nell’atto in cui il vescovo gli consegna il libro:
infatti, non gli sono imposte le mani».
Al n. 12 afferma:
«Non s’imponga la mano su una vergine: è la sua decisione che fa la vergine».

Il verbo latino corrispondente è “Instituantur”. Allora il contenuto di ceirotone‹n richiama


soltanto all’ordinazione, mentre “Instituantur” indica soltanto una nomina, la cui funzione è
quella di dare una collocazione precisa alla persona che riceve quella determinata nomina. In
effetti il verbo greco caq…statai rimanda all’azione di collocare, equivalente al significato di
“istituire”.
Un’altra precisazione è il fatto che non si debbano imporre le mani sulla vedova, ma venga
semplicemente nominata o istituita, perché non compie un ufficio come quello del presbitero.
Questa differenza tra i due verbi è di natura tecnica: chi viene ordinato, riceve il gesto
dell’imposizione delle mani, con il quale viene abilitato al compimento di un determinato
ufficio, che ha un riferimento diretto con la celebrazione Eucaristica. Tale distinzione, come si
può vedere, è presente anche quando parla dell’istituzione del Lettore, che non viene ordinato.
Lo stesso avviene per le vergini e per il suddiacono (v. n. 13). Qui si notano, dunque, gesti
diversi che istituiscono un ministero, ma non sono da confondersi con l’azione dell’ordinare.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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Su questa distinzione la Traditio Apostolica, dal momento che questa sottolinea un gesto
nell’ordine dell’azione sacramentale.
Sempre in riferimento a questo gesto, del ceirotone‹n delle mani, c’è una precisazione
interessante che l’autore fa della Traditio, a proposito dei Confessori, cioè coloro che avevano
manifestato la loro fede, rischiando il martirio. L’autore della Traditio dice che ai Confessori (v.
n. 9) non devono essere imposte le mani perché hanno lo stesso onore dei presbiteri:
«Se un confessore è stato imprigionato per il nome del Signore, non gli siano
imposte le mani per il diaconato o per il presbiterato dal momento che, per la sua
confessione, possiede l’onore del presbiterato. Ma se viene nominato vescovo, gli
siano imposte le mani. Se c’è un confessore che non è stato condotto davanti
all’autorità, che non è stato arrestato, né incarcerato, né condannato ad altra
pena, ma è stato soltanto occasionalmente deriso per il nome del Signore e
vessato dai propri familiari, se ha confessato, gli sia imposta la mano per
qualsiasi ordine, di cui è degno».
Questo passo, anche se è molto discusso, appare interessante, perché chi si è posto al
rischio del martirio o ha sofferto la prigionia a motivo della sua fede, viene considerato
all’interno della Comunità con lo stesso onore che viene attribuito ad un diacono o a un
presbitero. Solo se viene eletto vescovo è bene imporre le mani su di lui. Questo ci fa
comprendere come la Comunità sentisse l’onore del diaconato, del presbiterato e
dell’episcopato, che sono legati al dono della vita, ad una disponibilità ad offrire sé stessi per
una testimonianza forte della fede. Qui si nota una comprensione profonda esistenziale e
teologica del presbiterato, del diaconato e dell’episcopato.
Questi gesti di ordinazione hanno un riferimento diretto con la Liturgia: l’ordinazione
avviene in un contesto liturgico e ciò si distingue dal momento in cui viene fatta un’istituzione
o della vergine, o del lettore, o delle vedove. In realtà questa distinzione tra “ordinare” e
“istituire” avrà un seguito anche dopo. Intorno all’VIII secolo ci sarà anche una distinzione tra
“Kirotonia” e Kirotesia”, dove la prima è un gesto di istituzione riferito agli Ordini veri e
propri, mentre la seconda dizione si riferisce alle funzioni subalterne al cursus clericale (v. gli
ordini minori che oggi sono precisati con il termini di “ministeri”, come il Lettorato e
l’Accolitato).
Ciò che a noi interessa è vedere come questo termine ha evidentemente un significato
tecnico molto preciso. Su questo argomento ci sono molti studi.
Nella traduzione che ci presenta Botte, che sicuramente più tardiva rispetto al testo
originale, i termini “Ordo” e “Ordinatio” sono divenuti termini scelti per indicare
specificatamente il Sacramento dell’Ordine. Essi non hanno un’origine biblica, ma hanno
soltanto un’origine dal latino della Società Romana del tempo; anzi, hanno un senso specifico
chiaro e preciso che rimanda alle istituzioni dell’antica Roma. Ad esempio, il termine “Ordo”
designava un collegio o una classe di persone, come l’Ordo senatorialis, l’Ordo dei Cavalieri.
All’interno dell’ordinamento romano questo gruppo di persone godeva di precisi privilegi e
si distingueva dalla plebs. Tra l’altro ricopriva, determinate cariche governative di un certo
prestigio. Questa situazione la si può trovare anche fuori Roma, come ad esempio nelle colonie,
dove l’Ordo (il gruppo) indica la funzione di governo all’interno di una comunità. Questi pochi
dati ci permettono di intuire il perché questi termini sono stati scelti in riferimento al gruppo dei
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ministri, dei diaconi, dei presbiteri e dei vescovi. Questi termini, tra l’altro, indicano anche una
distinzione e una relazione con il popolo, perché, in primo luogo, è un gruppo che si distingue
dal resto della Comunità ed, in secondo luogo, si pone in una relazione di servizio rispetto al
popolo. Non c’è qui una logica di potere, ma un governo inteso come servizio. Certamente il
termine “ordo” è di origine laica, perché non aveva un riferimento diretto con la religione
pagana.
Già nel IV secolo, esso viene utilizzato ad indicare i diversi ministri nella Comunità
cristiana. L’Ordo Ecclesiasticus, che viene affiancato – da Costantino in poi – all’Ordo dei
Senatores, avrà il compito di individuare il gruppo o collegio dei presbiteri o dei ministri della
Comunità cristiana. Ciò lo si può notare anche in altri documenti antichi, come ad esempio
nella Lettera di Teodosio (510), che viene indirizzata al clero, al Senato e al popolo romano.
Questo uso fu presto accolto anche nell’uso civile. In particolare è evidente la dimensione
di collegialità, che è sempre stata sottolinea con forza, in modo particolare per quanto riguarda i
presbiteri. Già il NT parla di presbiteri al plurale e le fonti antiche preferiscono al termine
astratto “presbiteratum” il termine più concreto “presbiterium”, che indica il gruppo dei
presbiteri.
Più avanti ci saranno altre distinzioni, intorno al XII secolo, in Pietro Lombardo e in Ugo di
San Vittore, che introdussero una specificazione tra “dignitates” ed “ordo”. Essi parlano di
“Ordines” dall’ostariato al presbiterato, mentre usano la dizione “dignitates in ordinem”
parlando dell’episcopato e dell’arcidiaconato. Tale distinzione ebbe un certo successo, tanto che
i termini “ordinare” e “ordinatio” venivano usati per i re, gli abati e le abatesse. In qualche
modo soppiantarono i termini “benedicere” e “soppiantare” che nella letteratura venivano
usati come sinonimo di “ordinare” e “ordinatio”. Più avanti ancora il Pontificale di Innocenzo
III, userà questo vocabolario, secondo la distinzione del Vittoriani, tra “Ordine” e “potere
giurisdizionale”.
Il termine “ordinatio” era il termine che nell’antica Roma, indicava la cerimonia di
istituzione, come ad esempio, la nomina dei funzionari. Anche per la Comunità cristiana poteva
andare bene questo significato, tanto che la nomina comportava anche una consacrazione.
Un’altra caratteristica di questo termine, è il fatto che le fonti antiche non parlano mai di
“ricevere un ordo”, ma piuttosto di “essere ammessi in un ordo”, cioè l’entrare a far parte di
un gruppo.
Dunque, questi termini dicono un uso tecnico di alcune parole che ci interessano da vicino,
dal momento che individuano una realtà molto precisa: il termine ordinare (ceirotone‹n), indica
già nella Traditio Apostolica una realtà sacramentale che ritualmente si manifesta con
l’imposizione delle mani, il cui contenuto è l’invocazione ed il dono dello Spirito, al quale
consegue un preciso ruolo che la persona “ordinata” sarà chiamata a svolgere all’interno della
Comunità cristiana.
Detto questo, che ci serve come strumento per leggere la Traditio Apostolica, è bene
procedere all’evidenziazione degli elementi relativi al rito di ordinazione. C’è da dire che la
Traditio Apostolica non si preoccupa di fornirci delle rubriche, tanto meno dei testi, ma si limita
a fornire la base per la costruzione dei testi eucologici.
Guardando al n.2 della Traditio, si afferma:
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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«Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, che è
irreprensibile (3). Quando sarà stato fatto il suo nome e sarà bene accetto, il
popolo si radunerà insieme con i presbiteri e con i vescovi presenti nel giorno di
domenica. Col consenso unanime, gli impongano le mani e i presbiteri assistano
senza far nulla. Tutti tacciano e preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito.
Uno dei vescovi presenti, a richiesta di tutti, imponendo la mano sull’ordinando,
preghi dicendo: ».
Si tratta di un’introduzione alla preghiera di consacrazione del vescovo, che contiene molti
elementi rituali. Quali sono? Il primo elemento da evidenziare è il die domenica (giorno del
Signore). Non è semplicemente un’indicazione temporale, ma manifesta un’attenzione
particolare verso questo tipo di celebrazione nel giorno del Signore, che – nel tempo – andrà
sempre più affermandosi. Il motivo di questa scelta la si può notare anche in documenti più
tardivi, come ad esempio nel Sacramentario Gelasiano, dove si trova, in una rubrica,
l’avvertenza di ordinare nei giorni di sabato dei mesi di digiuno (1°, 4° e 7°). Il contesto che
offre la Traditio è il momento di preghiera, di veglia e di digiuno. Il Gelasiano stabilisce che al
termine della veglia delle dodici letture, all’alba del giorno del Signore venga celebrata
l’ordinazione. Questa prassi è stata poi codificata ed espressamente voluta da Papa Gelasio e,
precedentemente testimoniata da San Leone Magno. Anzi, quest’ultimo, scrivendo a Dioscoro,
vescovo di Alessandria, lo esorta affinché le ordinazioni vengano sempre fatte il giorno di
domenica. L’argomento che egli presenta per dimostrare la validità dell’opportunità teologica di
ordinare nel giorno del Signore è il compimento dei più grandi fatti della Storia della Salvezza,
proprio nel giorno di domenica, dalla creazione (il compimento pieno avviene il 7° giorno,
detto del Signore e giorno di riposo), alla Risurrezione di Cristo, alla Pentecoste.
Dunque, il sacramento dell’Ordine viene a trovarsi in linea con queste grandi manifestazioni
dello Spirito: la domenica, per San Leone Magno, è il giorno dove sono riuniti i doni di grazia.
Come lo spirito ha scelto questo giorno per manifestare la sua forza e la sua potenza, così è
opportuno che la Chiesa celebri questa manifestazione dello Spirito in questo stesso giorno. Ciò
esprime anche una certa continuità con la medesima opera dello Spirito. In questo senso
l’ordinazione nel giorno di domenica diventa anamnesi di tutte le opere dello Spirito e di tutte
le epiclesi; è memoriale ed attuazione sacramentale di tutte le “epiclesi” che lo Spirito ha
compiuto nella Storia della Salvezza.
Allora, scegliere il giorno della domenica, come momento di ordinazione, assume un preciso
valore teologico che dice anche una comprensione del sacramento, con il quale si compie una
nuova “epiclesi”. C’è qui un chiaro riferimento all’azione dello Spirito.
Un altro elemento forte è il convenire del popolo: è il fare Assemblea. Si tratta di
un’Assemblea solenne, dove tutti sono presenti. Ciò sta a significare che anche i membri di
altre Chiese si recavano in quella comunità dove avveniva l’ordinazione. Ciascuno dei
componenti dell’Assemblea esercitano un ruolo preciso. Oltre al convenire, c’è un’azione
precedente dell’elezione del candidato, che viene nominato dall’Assemblea riunita.
Un’altra azione è descritta dal compito del presbiterio che tace, nella fase di preghiera e di
veglia. E’ una partecipazione importante che il presbiterio compie: il suo significato teologico si
evidenzia dal fatto che, non solo il presbiterio, ma tutti quanti sono presenti in silenzio, che
nella celebrazione non è assenza di gesti e di parole, ma è segno efficace della presenza e
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dell’azione dello spirito. Non per niente, viene sottolineato con forza che da questo silenzio di
tutta l’Assemblea, nasce la preghiera di consacrazione. Si tratta di un silenzio che invoca lo
Spirito. Allora la preghiera di consacrazione, che verrà dopo, avrà la forza del silenzio tutta
l’Assemblea, dove ciascuno è impegnato ad invocare lo Spirito. Si tratta di un silenzio rituale.
Tutti i vescovi impongono le mani sull’eletto ed uno, a nome di tutti, impone le mani e dice
la preghiera di consacrazione, che indica anche un significato specificatamente sacramentale.
Di questa duplice imposizione delle mani, ci sono diverse interpretazioni: alcuni sostengono
che si tratta della sovrapposizione di due schemi rituali, mentre altri vedono nella prima
imposizione un’epiclesi, mentre nella seconda, vede un atto sacramentale vero e proprio. Altri
ancora, sostengono, invece, un unico momento epicletico, anche se è distinto in due fasi.
Tutto questo costituisce il centro dell’Ordinazione episcopale.
Un altro elemento rituale lo si scorge con i diaconi, i quali – subito dopo la preghiera di
consacrazione – presentano l’offerta, come riferisce la Traditio Apostolica n. 4 (riga 18 della
fotocopia). Ritualmente c’è un crescendo all’interno dello stesso ordinamento rituale di
consacrazione, che fa parte della celebrazione dell’Eucaristia. Questo crescendo consiste nel
fatto che parte dall’elezione del candidato, arriva all’assenso, da parte del popolo, e
all’imposizione delle mani, per giungere poi alla preghiera silenziosa che è il punto di arrivo al
gesto dell’imposizione delle mani e della stessa preghiera di consacrazione. Questo silenzio fa
si che al suo interno nasca la preghiera di consacrazione che si espliciterà, dopo, con il bacio di
pace, l’acclamazione dell’Assemblea che lo proclama vescovo, e con l’inizio vero e proprio
della concelebrazione eucaristica.
A questo fatto è importante prestare particolare attenzione, perché spesso siamo abituati a
pensare all’Eucaristia come ad una scatola dentro la quale si fanno diverse cose. In realtà la
celebrazione eucaristica non può trovarsi in un contenitore neutro, quasi che fosse a sé. Se
all’interno del segmento rituale dell’ordinazione c’è un punto culminante dell’imposizione delle
mani, insieme alla preghiera di consacrazione, questo culmine, dal punto di vista teologico,
rimanda al culmine di tutta la celebrazione, che è la preghiera eucaristica. Si nota, dunque, una
unità tra i diversi momenti rituali: per comprendere il contenuto ultimo dell’ordinazione,
occorre andare al significato profondo della preghiera eucaristica che ci illumina su ciò che è
stato celebrato e ci illumina su tutte le celebrazioni sacramentali che vengono fatte all’interno di
una medesima celebrazione eucaristica. In effetti, l’epiclesi eucaristica rappresenta il culmine di
tutte le epiclesi. Se la celebrazione dell’Ordine è un’invocazione dello Spirito, anche
l’invocazione specifica, fatta allo Spirito, ha il suo culmine nell’invocazione eucaristica. Allora
ci sono degli accenti che vanno rispettati: il primo riguarda è la preghiera di consacrazione che
nasce da questo silenzio, ma il culmine di questo culmine è la preghiera eucaristica.
Di questo fatto ne terrà conto anche la stessa Riforma Liturgica.
Detto questo, è interessante il testo di consacrazione (v. fotocopia – versione in latino):
«Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di
ogni conforto, che abiti nell’alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole, che
conosci tutte le cose prima che esistano, che hai dato le norme della Chiesa per la
parola della tua grazia, che fin dal principio hai predestinato la stirpe dei giusti
di Abramo, costituendo capi e sacerdoti, e non lasciando il tuo santuario senza
ministri, che fin dall’inizio del mondo hai voluto essere glorificato in coloro che ti
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sei scelto: ora effondi la potenza dello Spirito sovrano, che da te viene, e che hai
dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli, che
in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode incessante del
tuo nome.
Concedi, Padre, che conosci i cuori, a questo tuo servo che hai scelto per
l’episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di esercitare senza biasimo davanti a
te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio notte e giorno, di rendere
incessantemente propizio il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa e
per virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere il potere di rimettere i peccati
secondo il tuo comando, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine e di
sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli apostoli, di piacerti per
la dolcezza e la purezza del suo cuore offrendoti un soave profumo per mezzo del
tuo servo Gesù Cristo, per il quale a te gloria, potenza e onore con lo Spirito
Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen».
Come ogni preghiera cristiana, ha una struttura chiara: la prima parte riguarda l’anamnesi,
mentre la seconda parte – quella centrale – è quella dell’epiclesi; la terza parte riguarda
l’intercessione, mentre la quarta conclude con la dossologia. Da qui si nota lo schema classico
di ogni preghiera di consacrazione: anamnesi, epiclesi, intercessione e dossologia. Questa
preghiera di consacrazione della Traditio la possiamo considerare come modello di preghiera di
consacrazione dal momento che manifesta una Chiesa che fa memoria, attualizza, chiede e
rende lode. Tale schema è presente anche nel Breviario.
Tutto questo ha origine dal silenzio, di cui si diceva prima. La prima parola che il vescovo
consacrante dice, indica una contemplazione di Dio e della sua grandezza. Dunque, l’inizio di
ogni preghiera ci dice subito un modo di contemplare Dio: le apposizioni, che vengono date al
nome di Dio, dicono sempre quale aspetto dell’agire di Dio la Chiesa sta contemplando, per le
quali è presente l’ispirazione biblica. Infatti, è chiaro il riferimento alla 2Cor 1,3 (Dio e Padre di
nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni conforto) al Salmo 112,5
(che abiti nell’alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole). C’è qui un’immagine della
Chiesa che contempla Dio che dall’alto si china sulle cose umili. In realtà sta invocando Dio
perché venga dentro la storia dell’uomo.
Nell’anamnesi c’è sempre un richiamo ad alcune figure tipologiche che poi si attualizzano
nell’epiclesi: diventa fondamentale coglierle per capire che cosa la Chiesa sta per chiedere. Ad
esempio, l’espressione “che abiti in alto” anticipa la richiesta di chinarsi sulle cose piccole e di
entrare nella storia. La tipologia evidente la si coglie nell’espressione “che hai dato le norme
della Chiesa per la parola della tua grazia” che è vista come il segno della Provvidenza di Dio.
Un’altra tipologia la si coglie nel riferimento alla stirpe di Abramo (la stirpe dei giusti),
predestinata sin dall’inizio. In sostanza questa preghiera di consacrazione prende alcuni
momenti della storia della salvezza per dire che questi si stanno attualizzando. Un altro
elemento tipologico riguarda la scelta, all’interno del popolo eletto, di principes sacerdotes (v.
per esempio il sacerdozio nell’AT), seguito dal fatto che Dio non ha lasciato abbandonato il suo
Santuario, né ha fatto mancare il culto (ministerio non derelinquens). C’è una contemplazione
di Dio provvidente che pone lo sguardo verso la storia della Chiesa. Il santuario è luogo del
culto perenne. Questi elementi li dobbiamo ritrovare poi nell’epiclesi.
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A questo punto, si svolge l’epiclesi: la Chiesa chiede lo Spirito Santo (emitte). In questo
modo Ippolito, o chi per lui, nell’invocare questo spirito, specifica la visione che ha dello
Spirito medesimo, vista come Persona. Invocato sul testo, però, viene contemplato in maniera
diversa. Per il vescovo, per esempio, viene invocato lo Spirito principale (Spiritus principalis),
che si può tradurre come “Spirito Sovrano”. E’, senza dubbio, lo Spirito del Princeps, di colui
che è a capo. E’ uno Spirito di autorità, come anche l’espressione della preghiera esprime in
maniera chiara: «che da te viene, e che hai dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto
dono ai santi apostoli, che in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode
incessante del tuo nome».
Dunque, all’interno di questa epiclesi si trova la soluzione delle figure tipologiche invocate
nell’anamnesi, nel senso che la stirpe di Abramo è diventata la Chiesa, mentre i principes
sacerdotes dell’AT, sono i vescovi che vengono ordinati e il culto, che non è venuto meno, si
esplicita nella Chiesa che continua a rendere a Dio attraverso la Lode perenne. C’è anche una
comprensione della successione molto bella: c’è un riferimento al dono dello Spirito che il
Figlio ha ricevuto dal Padre e che il Padre ha fatto agli Apostoli. Secondo Ippolito, non si tratta
di una semplice consegna da Cristo agli Apostoli ai vescovi, ma c’è la richiesta di un
rinnovamento del dono che il Figlio ha fatto agli Apostoli. In altre parole, si chiede a Dio di
rendere presente lo stesso dono che il Figlio ha fatto agli Apostoli. Si tratta di un nuovo gesto
costitutivo per il quale il nuovo vescovo entra a far parte realmente di quel collegio apostolico.
C’è, dunque, una riattualizzazione del medesimo dono dello Spirito che gli Apostoli avevano
ricevuto dal Figlio.
Un altro elemento importante sono i sacerdotes: esso lo ritroviamo nelle intercessioni che
sono altrettanto importanti. Dicendo le conseguenze dell’azione dello Spirito, viene espressa
anche la comprensione che la Chiesa ha di quel dono che è stato fatto. Come il vescovo è
sacerdos all’interno della Chiesa lo si deduce dall’espressione: «Concedi, Padre, che conosci i
cuori, a questo tuo servo che hai scelto per l’episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di
esercitare senza biasimo davanti a te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio notte e giorno,
di rendere incessantemente propizio il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa e per
virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere il potere di rimettere i peccati secondo il tuo
comando, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine e di sciogliere ogni legame in virtù del
potere che hai dato agli apostoli, di piacerti per la dolcezza e la purezza del suo cuore offrendoti
un soave profumo per mezzo del tuo servo Gesù Cristo». Il vescovo è princeps pascolando il
gregge ed esercita il sommo grado di sacerdozio servendo Dio giorno e notte, offrendo le
offerte, rimettendo i peccati e di assegnare gli incarichi secondo la volontà di Dio. In tutto
questo il vescovo è sacerdos, evocato nell’anamnesi.
Guardando alle singole invocazioni, si nota anche il tema del governo, anche se esplicita in
maniera più ampia il tema del sacerdozio.
Un primo rilievo importante che ci dà un’idea fondamentale, è che la Chiesa – nel momento
in cui chiede il dono dello Spirito e con l’espressione latina quem elegisti ad episcopatum –
dice a Dio che è Lui che ha eletto quel candidato. Questo fatto fa comprendere che il verbo
“eligere” è rivolto sia al popolo, sia a Dio: afferma una comprensione che la Chiesa ha di quella
elezione. Qui si ribadisce il concetto espresso da Ignazio nelle sue lettere, con la particolarità
secondo la quale si accentua l’intervento di Dio nella Comunità cristiana. Si riconosce, dunque,
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che l’attore primo è il Padre. Dal punto di visto teologico, questo concetto ha una forza
indiscutibile. In tutto questo non mancano i riferimenti al governo della Chiesa, ma – nello
stesso tempo – c’è un accenno alle qualità del vescovo che viene eletto: essere mite e umile di
cuore. Ora, l’esegesi che nasce dai testi eucologici, proprio perché sono ricchi dell’ispirazione
biblica, è l’esegesi prima che la Chiesa ha fatto che ci fa comprendere il valore ed il senso dei
medesimi testi eucologici.
Dunque, la preghiera della Chiesa, lasciandosi ispirare dai testi della Scrittura, fa una prima
esegesi di quei testi: si tratta di un’esegesi pregata. Tutto questo ci fa comprendere anche che la
conoscenza dei testi biblici che hanno ispirato un testo eucologico – come questa preghiera di
consacrazione episcopale – sono importanti per una comprensione più profonda del testo stesso,
perché è la preghiera stessa della Chiesa che li interpreta.
Andando avanti, ogni intercessione che viene fatta, richiama continuamente ai brani della
Scrittura, sia per quanto riguarda l’AT ed il NT.

Il secondo testo, relativo all’ordinazione del presbitero, è distinta dal quella del vescovo.
Così si esprime la Traditio Apostolica al n. 7:
«Quando viene ordinato un presbitero, il vescovo imponga la mano sul suo
capo, mentre i presbiteri lo toccano, e si esprima nel modo che abbiamo già detto,
come abbiamo indicato a proposito del vescovo, pregando e dicendo: “Dio, Padre
del Signore nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo tuo servo e donagli
uno spirito di grazia e di saggezza sacerdotale, affinché aiuti e governi il tuo
popolo con cuore puro, come volgesti lo sguardo sul popolo che hai eletto e
ordinasti a Mosè di scegliere degli anziani che ricolmasti del tuo spirito che avevi
dato ai tuo servo16 . Ed ora, Signore, concedi che non venga mai meno in noi lo
spirito della tua grazia17 e rendici degni, ripieni (dei tuo spirito), di servirti con
un cuore semplice lodandoti per il tuo figlio Gesù Cristo, per il quale a te gloria e
potenza, con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli e dei secoli.
Amen”».
Secondo Botte, questa preghiera di consacrazione non manca di alcun elemento, dal
momento che contiene l’anamnesi. Una cosa che si può vedere è che questa preghiera è poco
organica dal momento che l’epiclesi si trova prima dell’anamnesi. Si nota qui la mancanza di

16 Il Cattaneo traduce: «Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo sopra questo tuo servo e
rendilo partecipe dello spirito di benevolenza e di consiglio del presbiterato, perché sostenga e governi il tuo
popolo con cuore puro, così come volgesti lo sguardo sul popolo da te eletto e ordinasti a Mosè di eleggere
presbiteri, che tu riempisti del tuo Spirito, di cui avevi fatto dono al tuo servo».

17 Il Cattaneo traduce, invece, così: «Ed ora, Signore, concedi che lo spirito della tua benevolenza sia conservato
in noi indefettibilmente, e rendici degni che, ricolmi [di esso], ti serviamo in semplicità di cuore, lodandoti per
mezzo del tuo Figlio, Gesù Cristo per il quale a te gloria e potenza, (Padre e Figlio) con lo Spirito Santo, nella
santa Chiesa, e ora e nei secoli dei secoli. Amen». La traduzione riportata sopra nel testo principale è stata presa
dallo PSEUDO-IPPOLITO, Tradizione Apostolica, a cura di A. QUACQUARELLI, COLLANA TESTI PATRISTICI, Città
Nuova Editrice, Roma 1996, 113-114. La fonte di origine del testo della Traditio, in questo caso non è stata presa
dal Botte, ma da E. C. Ratcliff, Apostolic Tradition. Questions concernine the Appointment of the Bishop, StudPatr
8/2 [Texte u. Untersuch., 937], Berlin 1966, 406. Ciò lo si nota dalla diversità di traduzione. La stessa
considerazione va fatta anche per la nota n. 16 di questa pro-dispensa.
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una preoccupazione di dare una preghiera ben strutturata, ma Ippolito mira a fare avere tutti gli
elementi, come è avvenuto per la preghiera di consacrazione del vescovo.
Ancora una volta, c’è il principale riferimento all’imposizione delle mani che dimostra la
costitutività di tale gesto. E’ un gesto che viene compiuto anche dai presbiteri. Se per il vescovo
i presbiteri non impongono le mani, ma solo i vescovi presenti, per la consacrazione e
l’ordinazione del presbitero, anche i presbiteri impongono le mani. Lo Spirito che il presbitero
ha ricevuto nell’ordinazione non lo abilita a darlo quando c’è un’ordinazione episcopale,
mentre partecipa pienamente all’invocazione dello Spirito, quando viene ordinato un nuovo
presbitero, perché è lo stesso Spirito del quale è partecipe.

5a Lezione.

TRADITIO APOSTOLICA (Seconda Parte)

Testi di ordinazione del presbitero e del diacono.

Le parole di introduzione alla preghiera di ordinazione del presbitero indica che compie il
gesto dell’imposizione delle mani. Il Vescovo è presente insieme a tutto il presbiterio. Abbiamo
già visto per l’ordinazione dei vescovi, la presenza di altri vescovi che impongono le mani
sull’ordinando. Il testo latino del Botte è il seguente:
«Deus meus, pater domini nostri et salvatoris nostri Iesu Christi, respice
super hunc servum tuum et impertire ei spiritum gratiae et consilium
praesbyterii ut sustineat et gubernet plebem tuam in corde mundo, sicut
respexisti super populum clectum et praecpisti Moysi ut eligeret praesbyteros
quos replevisti de spiritu quem donasti famulo tuo et servo tuo Moysi.
Et nunc, domine, praesta huic famulo tuo (illum) qui non deficit, dum
servas nobis, spiritum gratiac tuae et tribue nobis, implens nos, ministrare tibi
in corde in simplicitate, glorifìcantes et laudantes te per fìlium tuum Iesum
Christum, per quem tibi gloria et virtus patri et fìlio et spiritui sancto in tua
sancta ecclesia in saecula saeculorum. Amen»18 .
Completando il quadro dell’imposizione delle mani, nell’introduzione della preghiera per
l’ordinazione del diacono, la Traditio Apostolica, esponendo i motivi, solo il vescovo impone le
mani sull’ordinando, dà alcune interpretazioni ed alcuni significati di questo gesto di
imposizione. A tale riguardo, possiamo subito vedere l’introduzione all’ordinazione, secondo la
traduzione del Cattaneo:
«Quando invece viene ordinato un diacono, sia scelto secondo quanto è stato
detto in precedenza; parimenti solo il vescovo imponga le mani, come noi lo

18 Per la traduzione del testo latino vedi nota n. 16 e la pagina 34 di questa pro-dispensa.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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prescriviamo. Nell’ordinare un diacono solo il vescovo imponga le mani, per il


motivo che [il diacono] non è ordinato al sacerdozio, ma al servizio del vescovo,
per eseguire quanto sarà da lui comandato.
Infatti non è partecipe del consiglio nel clero, ma si prende cura
dell’amministrazione e indica al vescovo ciò che occorre, dato che non riceve lo
spirito comune del presbiterio, di cui sono partecipi i presbiteri, ma quello che
gli è conferito sotto l’autorità del vescovo. Perciò soltanto il vescovo ordini il
diacono. Sul presbitero invece anche i presbiteri impongano le mani, a motivo
del comune e simile spirito del [loro] ufficio. Il presbitero infatti ha solo il
potere di [riceverlo], ma non ha il potere [di darlo]. Per questo non ordina il
clero; tuttavia, nell’ordinazione di un presbitero, fa il gesto [dell’imposizione],
mentre è il vescovo che ordina. Sul diacono [il vescovo] dica così:».
Il testo latino corrispondente del Botte, al quale si riferisce lo stesso Cattaneo, è il seguente:
«Diaconus vero cum ordinatur, eligatur secundum ea quae praedicta sunt,
similiter inponens manus episcopus solus Sicuti praecipimus. In diacono ordi-
nando solus episcopus inponat manus, propterea quia non in sacerdotio
ordinatur, sed in ministerio episcopi, ut faciat ea quae ab ipso iubentur.
Non est enim particeps consilii in clero, sed curas agens et indicans episcopo
quae oportet, non accipiens communem praesbyteri <i> sp(iritu)m cum cuius
participes praesbyteri sunt, sed id quod sub potestate episcopi est creditum.
Qua de re episcopus solus diaconurn faciat; super praesbyterum autem etiam
praesbyteri super inponant manus propter communem et similem cleri
sp(iritu)m. Praesbyter enim huius solius habet potestatem ut accipiat, dare
autem non habet potestatem. Quapropter clerum non ordinat; super praes-
byteri vero ordinatione consignat episcopo ordinante. Super diaconum autem
ita dicat:».

Dal testo sono evidenti, in modo chiaro, i motivi per i quali solo il vescovo può ordinare un
diacono. Essenzialmente li possiamo sintetizzare in tre ragioni, incluse in un unico concetto:
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a) il diacono non è ordinato al sacerdozio, ma soltanto al servizio (ministero) del vescovo


[non in sacerdotio ordinatur, sed in ministerio episcopi]. Questa espressione avrà
molta fortuna, tanto che la si ritroverà nella LG 2919;
b) il diacono non partecipa al consiglio del clero [Non est enim particeps consilii in
clero];
c) il diacono non ha e non riceve lo spirito comune dei presbiteri [non accipiens
communem praesbyteri <i> sp(iritu)m cum cuius participes praesbyteri sunt].
Si notano, dunque, tre sfumature diverse di un’unica ragione. C’è da dire che la Traditio
insiste anche sul fatto che i presbiteri ricevono lo spirito di ordinazione, ma non sono capaci di
donarlo. Essi partecipano all’unico spirito che il vescovo dà a loro, ma non è uno spirito che a
loro volta possono donare. Il significato dell’imposizione delle mani che il presbiterio fa, nel
momento in cui viene ordinato un presbitero è, quindi, di partecipazione alla imposizione delle
mani del vescovo, dal momento che si tratta del comune spirito del presbiterio. Chi ordina,
però, è il vescovo soltanto. Il presbitero ha il potere di riceverlo e non di darlo. C’è, dunque,
una sottolineatura della ministerialità del diacono, al punto di distinguere l’ordinazione
diaconale da quella presbiterale.
Il presbiterio non ha la capacità di ordinare. Invece, per il diacono, c’è un riferimento diretto
al vescovo, dal momento che il neo ordinato ha il compito di servire il vescovo stesso.
Per quanto riguarda il testo di ordinazione del diacono, Cattaneo traduce così:
«Dio, che tutto creasti e ordinasti con la [tua] parola,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che tu mandasti per servire [secondo] il tuo volere e per manifestarci il tuo disegno,
dona lo Spirito di grazia, zelo e operosità
a questo tuo servo
che hai scelto per servire la tua Chiesa e presentare
nel tuo santuario ciò che ti viene offerto da chi è stato costituito
tuo sommo sacerdote, a gloria del tuo nome.
Fa’ che, servendoti in modo irreprensibile e con coscienza pura
possa conseguire un grado di ordine superiore e ti lodi e ti glorifichi
per mezzo del tuo figlio, Gesù Cristo, Signore nostro,

19 La LG 29, sui diaconi, dice così: « In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte
le mani “non per il sacerdozio, ma per il servizio”. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “diaconia”
della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo
presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il
battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il
viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla
preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli
uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: “Essere misericordiosi, attivi,
camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti”. E siccome questi uffici, sommamente
necessari alla vita della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente
possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della
gerarchia. Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di
decidere, con l'approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti
per la cura delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a uomini di
età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la
legge del celibato».
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per il quale a te gloria e potenza e lode,


con lo Spirito Santo,
ora e nei secoli dei secoli. Amen».
Il testo latino del Botte, è il seguente:
«D(eu)s, qui omnia creasti et verbo perordinasti, pater d(omi)ni nostri Ie(s)u
Chr(ist)i, quem misisti ministrare tuam voluntatem et manifestare nobis tuum
desiderium, da sp(iritu)m s(an)c(tu)m gratiae et sollicitudinis et industriae in
hunc servuum tuum, quem elegisti ministrare ecclesiae tuae et offerre in sancto
sanctorum tuo quod tibi offertur a constituto principe sacerdotum tuo ad
gloriam nominis tui, ut sinc rcprehensione et puro more ministrans, gradurn
maioris ordinis assequatur, et laudet te et glorificet te per filium tuum Iesum
Christum dominum nostrum, per quem tibi gloria et potentia et laus, cum
spiritu sancto, nunc et semper in saecula saeculorum. Amen»20 .
Per avere un quadro teologico più chiaro e più completo, è bene ritornare al contesto della
preghiera di ordinazione presbiterale (v. pp. 34 e 35 di questa pro-dispensa), comparandola, poi,
con quella dell’ordinazione diaconale, qui sopra riportata. In questo senso si può già notare una
diversa impostazione ed una diversa interpretazione dell’espressione latina sicut prediximus. A
tale riguardo alcuni sono dell’idea che si deve aggiungere la prima parte dell’ordinazione del
vescovo, nella preghiera di ordinazione del presbitero, ma – di fatto – Botte si mostra più
ragionevole, perché, pur notando una composizione un po’ insolita, in quanto l’epiclesi precede
l’anamnesi, sostiene che sono presenti tutti gli elementi della preghiera. L’incipit della
preghiera di ordinazione manifesta, come sempre, un’ispirazione biblica tanto che l’espressione
latina Deus meus, pater domini nostri Iesu Christi rimanda a Rm 15,6, 2Cor 1,3, Ef 1,3 e Ef
1,17 (v. il saluto di introduzione). Una volta che ci si rivolge una preghiera a Dio con delle
apposizioni, già suggerisce un modo di contemplare Dio come Padre del Signore Nostro Gesù
Cristo, sottolineando il dono del Figlio all’umanità intera. La preghiera presbiterale inizia
subito con l’invocazione dello spirito, indicando un testo chiaramente epicletico, come si è già
visto in precedenza. In merito alla terminologia abbiamo l’espressione: spiritum gratiae et
consilium presbyterii (versione etiopica). Essa è di ispirazione biblica (Eb 10,29). Non si tratta
di un dono dello Spirito, ma si tratta del fatto del dono che è lo Spirito (la persona dello Spirito)
che viene invocato. Egli è qualificato dal genitivo “consilii presbyteris (la versione L di Botte).
Il termine “consilium” corrisponde a quello greco sumbouloj, ou, Ð, ¹. Cosa vuol dire? Ha un
duplice significato: lo si può intendere come suggerimento che si dà a qualcuno, per cui viene
mandato lo Spirito che renda capaci di partecipare con un discernimento (opera di consiglio);
ma lo si può intendere anche come “Assemblea” o “Consiglio”. Dunque, si parla dello Spirito
che è proprio del gruppo dei presbiteri, i quali esercitano una funzione nei riguardi del vescovo
che è di consiglio. Partecipano, allora, all’azione di governo che il vescovo esercita sul popolo
cristiano. In questa direzione, viene indicato il ruolo preciso dei presbiteri, che fa riferimento ad

20 Nel testo di Botte, in riferimento alla traduzione del Cattaneo, c’è una variante relativa al testo della preghiera di
ordinazione: nella prima parte, è stata presa la lectio L, mentre nella seconda parte, dopo l’ «offerre…» è stata
presa la lectio T. Cfr. fotocopie del Docente, p. 26 (testo del Botte).
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una dimensione collettiva. Già nel Nuovo Testamento, è usato il termine di presbitero non al
singolare, ma al plurale. Infatti, è rara l’espressione “presbyteratus”.
La finalità della preghiera di ordinazione è la richiesta dello Spirito di Consiglio, affinché
l’ordinando sia capace di svolgere le mansioni di presbitero, ma quali sono? Esse sono
suggerite dai termini latini sustineat, adiubet e gubernet. Essi nel testo greco sono resi dal verbo
¢ntilamb£nomai. Esso ha un significato particolare nel senso che all’origine significa
“dominare”, “afferrare” e “tenersi a qualcosa”; invece, in senso traslato vuol dire “aiutare” o
“sostenere”. In particolare, questo significato di aiuto acquista nel NT il senso di un’attitudine
che è carità al servizio della Comunità: è quasi una “compassione” del presbitero verso la
Comunità; è un aiuto dato in solidarietà con la comunità. E’ una sincera preoccupazione verso
la propria Chiesa. Propriamente è una carità pastorale che esprime una considerazione verso i
più deboli.
L’altro termine latino “gubernare” fa riferimento al termine greco kàbern£w: è un altro
termine molto preciso e tecnico che si trova anche nel NT. Precisamente indica l’opera che
compie il timoniere (colui che sta al timone della barca). E’ un termine usato in senso figurativo
che indica un preciso ruolo. Esso dice anche una capacità tecnica che il presbitero ha all’interno
della Comunità. Si tratta di una guida intelligente (v. 1Cor 12,28 – dove Paolo parla dei carismi:
egli nomina le “gubernationes” come dono o carisma dello Spirito). La barca non si muove in
forza del timoniere, ma stare al timone vuol dire armonizzare tutto quello che si trova nella
barca che è la Chiesa stessa: si tratta di prendere la giusta direzione del vento, cioè dello Spirito
che soffia sempre sulla Chiesa.
Questa epiclesi, dunque, rende partecipi dello stesso spirito del vescovo, cosa che non
avviene per l’ordinazione diaconale. Come è già stato detto, nell’ordinazione presbiterale,
subito dopo si trova l’anamnesi: il riferimento tipologico è la figura dei settanta anziani che
partecipano allo spirito di Mosè (Nm 11,17-25). E’ interessante che venga fatta l’anamnesi di
questo episodio, perché la Scrittura dice che Jahvé prende lo spirito di Mosè e lo distribuisce sui
settanta anziani. Questa immagine tipologica si addice ai presbiteri che partecipano dello stesso
spirito del vescovo. Lo stesso ufficio presbiterale non possiamo, dunque, pensarlo come una
derivazione dell’ufficio episcopale, ma è dono dello Spirito che abilita ad un ufficio di governo
e di aiuto, in dipendenza dal vescovo.
L’immagine dello spirito di Mosè che viene fatto partecipare agli anziani è particolarmente
felice perché specifica anche il tipo di relazione che c’è tra Mosè ed i 70 anziani. Se nella
preghiera di ordinazione episcopale c’era un riferimento alla dimensione sacerdotale (princeps
et sacerdos = Sommo Sacerdote), nella preghiera di ordinazione presbiterale non si trova.
Anche l’ordinazione sacerdotale è «propter liturgiam»: ciò lo si nota se si guarda all’istituzione
delle vedove, perché in quest’ultima non c’è l’imposizione delle mani.
Seguono poi le intercessioni, con una precisa finalità: il vescovo associa al suo “ministrare”,
anche il “ministrare” dei presbiteri. E’ il ministero comune. Viene, dunque, sottolineato il
comune servizio, sia da parte del vescovo, sia da parte del presbiterio, a motivo della
partecipazione dell’unico spirito (Ef 6,5; Col 3,-1-2). Questa preghiera si conclude con la
dossologia.
Prima di passare a parlare della preghiera di ordinazione diaconale (v. p. 37 di questa pro-
dispensa), si può dire che la preghiera di ordinazione sacerdotale è meno precisa di quella
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dell’ordinazione episcopale, ma – come indica il Botte – ha tutti gli elementi, accompagnati


dagli effetti dell’azione dello Spirito, oltre a presentare le figure tipologiche ed il comune
spirito tra il vescovo ed i presbiteri.
Diversamente accade nella preghiera di ordinazione dei diaconi: in essa si ritrova la struttura
tipica di anamnesi – epiclesi – intercessione. Quale riferimento tipologico si trova in questa
preghiera? E’ il riferimento alla figura di Gesù come servo (mandato dal Padre per servire e non
per essere servito: è un servizio di obbedienza). Ciò richiama già al contesto di Ignazio nel
paragone Padre/Vescovo, Apostoli/presbiterio, servizio di Gesù Cristo/diaconi. C’è un
riferimento diretto alla persona del vescovo (vedi le lettere ignaziane, dove il diacono ha il
compito di mantenere il contatto tra le Chiese).
Allora, il diacono è colui che serve, sull’esempio del maestro. Le espressioni latine
sp(iritu)m s(an)c(tu)m gratiae et sollicitudinis et industriae lo indicano in modo chiaro. Esse
indicano uno zelo nel ministero, più che un discernimento. Si tratta di un’operosità nel servire.
E’ una sfumatura importante che sottolinea lo Spirito per il servizio della Chiesa, per cui si
notano due riferimenti principali:
a) la persona del vescovo;
b) il servizio della comunità.
In particolare, viene ricordato il servizio dell’offrire o presentare le offerte durante la
celebrazione liturgica. C’è un riferimento esplicito all’Eucaristia. Non si dimenticano gli altri
aspetti di servizio (visita agli ammalati, cura degli infermi, ecc.), ma nel nostro ambito c’è il
riferimento specifico al servizio cultuale.
Nella parte relativa alle intercessioni, c’è un richiamo alla 1Tm 3,13: probabilmente intende
evidenziare le qualità morali del candidato al diaconato. Sembra che ci sia riferimento anche ad
una possibile promozione ad un grado superiore per il diacono che avrà ben servito. Tra l’altro
c’è da dire che questo ministero cultuale del diacono lo si può considerare come rappresentativo
degli altri ministeri che il diacono stesso deve svolgere. In effetti, sembra che la Traditio
Apostolica non sia preoccupata di scrivere un testo esaustivo di tutti gli aspetti, ma soltanto
fornire una struttura sulla quale, questo rendimento di grazie e questa invocazione dello spirito,
l’anamnesi e l’intercessione venivano poi sviluppate.

SINTESI FINALE.
Di fatto, abbiamo per la prima volta un rituale completo delle ordinazioni episcopale,
sacerdotale e diaconale.
In un quadro generale, in linea di una certa comprensione teologica, sembra che la Traditio
Apostolica ha una visione teologica unica, perché l’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei
sacerdoti è sempre vista come un intervento di Dio (v. il concetto di elezione e di scelta dei
candidati) che dall’alto si china per rendersi presente nella vita della Chiesa.
Alcuni punti essenziali, oltre a quello relativo all’intervento di Dio all’interno della Chiesa,
sono:
1) nella Chiesa e attraverso la Chiesa – sono gli elementi rituali come il
“convenire” di tutto il popolo, la “partecipazione” del popolo e nell’elezione e
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nella proclamazione del candidato, l’accoglienza dopo l’ordinazione. Ciò


dimostra che l’intervento di Dio avviene nella Chiesa e attraverso la Chiesa,
anche se Dio stesso rimane l’autore principale. E’ un’epifania solenne della
Chiesa, che esprime una fortissima dimensione ecclesiale.
2) L’ordinazione è dono dello Spirito – è una epiclesi. Si tratta di un elemento
costitutivo. Ciò lo si nota soprattutto nei testi eucologici, dove si trova
un’esplicita invocazione della persona dello Spirito. Questa invocazione abilita
e delle funzioni specifiche all’episcopato, al presbiterato e al diaconato. Il
comprendere l’ordinazione come dono dello Spirito, suggerisce la dimensione
teologica dell’ordinazione, lungi dalla visione “funzionalistica”.
In merito al dono dello Spirito, la prima cosa che si deve dire è che si tratta dello stesso
Spirito, anche se viene chiamato con nomi diversi, in relazione al tipo diverso di ordinazione.
Di esso viene contemplato una sua azione particolare, differente rispetto ai tre tipi di
ordinazione, secondo queste differenti espressioni:
▪ lo Spirito viene chiamato Spiritus principalis e Princeps et sumno
sacerdos nell’ordinazione episcopale (azione di governo e di
presidenza della celebrazione eucaristica);
▪ lo Spirito viene chiamato Spiritus gratiae et consilii presbyterii
nell’ordinazione presbiterale (partecipazione di consiglio alla
funzione del vescovo e di governo);
▪ lo Spirito viene chiamato Spiritus gratiae et sollecitudinis et industriae
nell’ordinazione diaconale (il servizio, l’operatività industriosa ed
il ministero cultuale nella celebrazione eucaristica).
Questa distinzione la si può comprendere con la categoria della relazione: è lo stesso Spirito
che ha agito nel Battesimo. L’invocazione dello Spirito ha senso nella richiesta di una relazione
diversa attraverso la quale i candidati ai tre gradi dell’Ordine siano poi capaci a svolgere una
funzione all’interno della Chiesa.
E’ utile anche comprendere il tipo di relazione tra questi tre gradi dell’Ordine: come si
relazionano tra di loro? Invocare lo Spirito con un nome particolare dice anche quale sarà la
relazione tra vescovo, presbiterio e diaconi. Questa chiarezza di relazione è evidente attraverso
l’imposizione delle mani e dalla tipologie bibliche che vengono utilizzate. Con esse si dà
un’immagine di quello che sta accadendo nell’ordinazione sacra, indicando ad una
partecipazione specifica ad ogni grado dell’Ordine. La Traditio Apostolica non è un trattato di
norme canoniche, ma descrive le funzioni dei singoli gradi.
Un altro elemento importante è il mettere in evidenza un nucleo rituale fondamentale della
celebrazione dell’Ordine, in profonda sintonia con quanto si è già potuto dire rispetto al NT. In
effetti, rimane, viene affermato ed amplificato il dato fondamentale di questo nucleo rituale che
è costituito dall’imposizione delle mani e dalla preghiera di ordinazione. Dunque, c’è un gesto
ed una parola che lo interpreta.
Un ultimo elemento, è il riferimento che c’è tra l’imposizione delle mani e la celebrazione.
Si tratta del propter liturgiam. Dunque, l’ordinazione (la cheirotonia), l’imposizione delle mani
si fa per il clero, in vista della Liturgia, per cui c’è un riferimento particolare, fra il dono dello
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Spirito ed il servizio liturgico che, a sua volta, fa riferimento all’Assemblea che celebra. Si
tratta di una dimensione sacerdotale del ministero ordinato. C’è sempre un riferimento cultuale.

Il Concilio di Nicea del 325 (Prima Parte)


La nostra presunzione ci porta a dire che vogliamo sempre vedere di guardare gli elementi
della lex orandi, anche in riferimento alla lex credendi e lex vivendi. Il riferimento principale
rimane come la Chiesa celebra e in che cosa veramente crede, secondo una certa visione
teologica. A completare il quadro è il riferimento alla lex vivendi, per chiederci come la Chiesa
regola il sacramento dell’Ordine. Per quanto riguarda il Concilio di Nicea, i suoi testi non sono
preoccupati di dare delle indicazioni semplicemente rituali, ma intervengono su alcune
questioni che suggeriscono una comprensione del Sacramento dell’Ordine. In questo modo, si
può meglio vedere, nella lex vivendi il percorso che è stato fatto fino ad ora.
Il Concilio di Nicea del 325 fu convocato a seguito della tensione prodotta dalla controversia
ariana. Il Concilio stesso si preoccupò di dare una definizione della fede attraverso il Credo. In
ambito liturgico, a noi interessa il canone 19 che dice:
«Quanto ai paulanisti, che intendono passare alla chiesa cattolica, bisogna
osservare l’antica prescrizione che essi siano senz’altro ribattezzati. Se qualcuno
di essi, in passato, era appartenuto al clero, purché del tutto irreprensibile, una
volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della chiesa cattolica. Ma se
l’esame dovesse far concludere che si tratta di indegni, è bene déporli. Questo
modo d’agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti hanno un
ministero nella chiesa. Quanto alle diaconesse che sono nella stessa situazione, in
particolare ricordiamo che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle
mani, devono essere computate senz’altro fra i laici».
Si tratta della questione dello scisma provocato da Paolo di Samosata, che era già stato
condannato dal Concilio di Antiochia. Siamo dinanzi al problema di un’eresia trinitaria che
parla di tre energie e di tre forme diverse dell’azione di un’unica persona, minando alle
fondamenta la realtà di Dio Uno e Trino. In questo modo Cristo non è Dio, né il Figlio di Dio,
ma un semplice uomo abitato dalla potenza di Dio. L’essere ribattezzati e riordinati, parte dal
fatto che sia il Battesimo, sia l’Ordine non potevano essere conferiti nel nome della Santissima
Trinità. Tra l’altro, ci deve essere una nuova keirotonia: per coloro che erano stati ritenuti
indegni non vi era il bisogno di procedere oltre la destituzione, perché la loro ordinazione era
invalida. In riferimento al canone 19 del Concilio Niceno, c’è da dire che riappare la questione
della distinzione tra cheirotonia (per l’ordinazione dei vescovi, sacerdoti e diaconi) e cheirotesia
(per gli Ordini minori, oggi chiamati ministeri, come il lettorato e l’accolitato) che sarà più
chiara a partire dall’VIII secolo.
Questo fatto ci dice che l’ordinazione viene compresa come un unicum nella vita di chi la
riceve e nella stessa vita della Chiesa. In riferimento, sempre al canone 19, le mani si possono
imporre nuovamente perché l’ordinazione precedente non c’è mai stata. Questo fatto conferma
in pieno l’irripetibilità dell’ordinazione stessa.
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Se si legge il canone numero 8 del Concilio di Nicea, si nota la presenza di un altro


problema, quello dei cosiddetti Catari. Il testo dice infatti:
«Questo santo e grande concilio stabilisce che coloro che si definiscono càtari,
cioè puri, se vogliono entrare nella chiesa cattolica e apostolica, ricevuta
l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero. E necessario però, prima
di tutto, che essi promettano per iscritto di accettare e seguire gli insegnamenti
della chiesa cattolica e apostolica, cioè di rimanere in comunione con chi si è sposato
due volte e con chi è venuto meno durante la persecuzione, ma osserva il tempo e le
circostanze della penitenza. Essi saranno dunque tenuti a seguire in ogni cosa le
decisioni della chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città,
non sì trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nel loro grado. Se
però qualcuno di essi si avvicina a una chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o
un prete, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che
presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di prete, a meno che piaccia al
vescovo associano alla stessa dignità. Se poi egli non vuole, gli procurerà un posto o
di corepiscopo o di prete, perché appaia che egli appartiene veramente al clero e che
non vi sono due vescovi nella stessa città».
Si tratta della questione dei cosiddetti “puri” che si mostravano intransigenti nei confronti
dei lapsi e delle persone risposate. C’è un riferimento all’imposizione delle mani. Il Concilio fa
presente che se alcuni vogliono ritornare nella Chiesa e fanno parte del clero, ad essi bisogna
imporre le mani. In effetti, sembra che ci sia una certa contraddizione con il canone 19, visto
prima, perché se l’ordinazione è irripetibile, la stessa ordinazione dei catari, aveva – di per sé –
tutti gli elementi per essere valida. Cosa s’intende dire, per “ricevuta l’imposizione delle
mani”? Si tratta di una nuova ordinazione? In realtà, questa imposizione sia piuttosto un gesto
di una nuova riammissione e non un gesto di nuova ordinazione. E’ un rito di riconciliazione,
mediante il quale si intravede una piena reintegrazione di questi catari con la Chiesa Cattolica.
Questo elemento dell’imposizione delle mani, di per sé stessa, è importante perché può subire
diverse interpretazioni. Il contenuto essenziale vista nella Traditio Apostolica, è proprio questa
unità profonda che dice il senso vero dell’imposizione delle mani. Dunque, la parola che
accompagna il segno dice il valore del segno stesso ed interpreta il gesto delle imposizioni delle
mani in quel momento. Allora, l’imposizione delle mani, che è un gesto polivalente, deve
sempre essere accompagnato dalla parola. In questo senso si comprende questo canone 8 che
contiene un’altra indicazione precisa: i catari vivono la stessa fede cattolica ed una volta
riconciliati con la Chiesa, vengono reintegrati, ma se un vescovo cataro rientra nella Chiesa
Cattolica, allora assumerà l’ufficio di presbitero, a meno che il vescovo della città non lo associ
a vescovo di campagna. Al di là della normativa pratica, c’è il fatto che l’esercizio delle
funzioni viene regolamentato dalla Chiesa stessa, che riconosce la validità dell’Ordinazione dei
catari. In qualche modo, questo fatto lo si nota già nel NT, quando gli Undici sentono l’esigenza
di reintegrare la struttura dei Dodici, ma dopo le diverse persecuzioni quella struttura non viene
più reintegrata. Al suo posto ci sarà il presbiterio ed il collegio dei vescovi.
Un’altra questione che appare interessante è la lettera che i Padri del Concilio di Nicea
scrivono alla Chiesa di Egitto. Tale lettera così recita:
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«I vescovi riuniti a Nicea, per il grande e santo concilio, alla grande e, per grazia
di Dio, santa chiesa di Alessandria e ai carissimi fratelli d’Egitto, di Libia e della
Pentapoli, salute nel Signore.
Per grazia di Dio il piissimo imperatore Costantino ci ha riuniti dalle diverse e
numerose province per la celebrazione del santo e grande sinodo di Nicea; in questa
occasione è sembrato assolutamente necessario che il santo concilio inviasse anche a
voi una lettera perché possiate conoscere ciò che fu proposto, esaminato e deciso.
Anzitutto venne presa in esame, alla presenza del piissimo imperatore Costantino,
l’empietà e la perversità di Ano e dei suoi se A ‘unanimità abbiamo deciso di
condannare la sua empia dottrina e le espressioni blasfeme con cui si esprimeva a
proposito del Figlio di Dio: sosteneva infatti2 che questi veniva dal nulla e che prima
della nascita non esisteva, che era capace di bene e di male, insomma che il Figlio di
Dio è una creatura. Il santo concilio ha condannato tutto ciò, non volendo
nemmeno ascoltare questa empia e folle dottrina, né le parole blasfeme. Voi già
conoscete o conoscerete ciò che è stato decretato contro di lui, perché non sembri che
noi insultiamo un uomo giustamente colpito per il suo peccato. La sua empietà ha
avuto una tale forza diffusiva che si sono associati a lui Teona di Marmarica e
Secondo di Tolemaide, meritando entrambi la stessa sorte.
Dopo che la grazia di Dio ha liberato l’Egitto da questo empio errore e dalle
persone che avevano osato introdurre turbamento e false dottrine tra il popolo un
tempo pacifico, non ci resta che comunicarvi, dilettissimi fratelli, ciò che è stato
stabilito a proposito della temerarietà di Melezio e di quelli da lui ordinati. Avendo
scelto di usare clemenza e umanità - anche se certamente non meritava nessuna
indulgenza - il santo concilio ha stabilito che Melezio potesse rimanere nella sua
città, senza però avere il potere né di proporre, né di consacrare dei vescovi, né di
andare nelle campagne o in qualunque altra città, accontentandosi del titolo e
dell’onore [di vescovo].
Coloro che sono stati da lui ordinati,’ dopo essere stati confermati con una
ordinazione fatta da mani più sante, possono essere ammessi alla comunione a
condizione che, pur conservando lo stato clericale e l’esercizio del ministero, siano
di rango inferiore rispetto a tutti coloro che nelle parrocchie e nelle chiese sono stati
approvati dal nostro carissimo confratello Alessandro; inoltre non potranno
proporre o ordinare quelli che vogliono, né fare alcunché senza il consenso LeI
vescovo della chiesa cattolica sottomessa a Alessandro. Solo coloro che per la grazia
di Dio e le vostre preghiere non sono stati coinvolti in alcuna eresia, ma hanno
perseverato immacolati nella Chiesa cattolica e apostolica, abbiano il potere di
proporre, nominare e eleggere chierici degni e infine di compiere tutte le cose
secondo la legge e le norme ecclesiastiche.
Se qualcuno di coloro che rivestono una dignità nella chiesa viene a morire, sia
sostituito nel suo ruolo da uno di quelli recentemente ricevuti, purché ne sembri
degno, il popolo lo voglia e sia confermato dal vescovo della chiesa cattolica e
apostolica di Alessandria. Questo è concesso anche a tutti gli altri, ma non a
Melezio a causa della sua radicata indisciplina e del suo comportamento violento e
temerario; a lui infatti non è stato attribuito nessun potere e nessuna autorità
perché è uomo prepotente capace di provocare ancora gli stessi disordini.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
Prof. Vittorio Viola Ofm.

Queste sono le decisioni che riguardano l’Egitto e la santa chiesa di Alessandria.


Se qualche altra decisione è stata presa in presenza del nostro carissimo confratello
Alessandro, egli stesso vi riferirà in quanto ha avuto una parte considerevole in tali
deliberazioni.
Noi vi diamo il lieto annuncio dell’unità che è stata ristabilita intorno alla festa
della Pasqua. Tutti i fratelli dell’oriente, che prima celebravano la pasqua con gli
ebrei, d’ora in poi la celebreranno con i romani, con noi e con tutti gli altri che
l’hanno sempre celebrata con noi.
Pieni di gioia e di allegrezza per la felice conclusione degli avvenimenti, per il
raggiungimento della pace e della concordia generale e l’avvenuta eliminazione
dell’eresia, accogliete con grande onore e benevolenza il confratello nostro e vostro
vescovo Alessandro, che ci ha riempiti di grande consolazione con la sua presenza e,
malgrado la sua età avanzata; ha sopportato tante fatiche per il ristabilimento tra
noi della pace. Pregate infine per tutti noi perché ciò che a noi è parso giusto si
conservi immutato, per Dio onnipotente e il nostro signore Gesù Cristo con lo
Spirito santo. A lui la gloria per tutti i secoli. Amen».
Essa affronta la questione relativa allo scisma di Melezio. Che cosa era successo? Pietro
d’Alessandria, Patriarca, durante la persecuzione (dal 303 al 312), caratterizzata da diverse
vicende, si era allontanato dalla sua Chiesa. Melezio era intervenuto ordinando nuovi vescovi e
nuovi presbiteri e, in alcuni casi, anche sostituendo altri vescovi con dei suoi vescovi. Quando
Pietro ritornò in Alessandria, indisse un sinodo e depose Melezio, creando di fatto uno scisma,
all’interno della Chiesa d’Egitto, tanto che lo stesso Melezio fondò una Chiesa che sarà detta
“dei martiri”. Il Concilio di Nicea prese una posizione al riguardo, stabilendo che Melezio
potesse «rimanere nella sua città, senza però avere il potere né di proporre, né di consacrare dei
vescovi, né di andare nelle campagne o in qualunque altra città, accontentandosi del titolo e
dell’onore di [vescovo]». In altre parole, fa riferimento alla validità dell’ordinazione di
Melezio: coloro che sono stati ordinati sono validamente ordinati? Da quello che dice la lettera
si evince che un certo valore ed una certa validità si notano già nelle ordinazioni fatte da
Melezio, ma c’è la necessità di una nuova imposizione fatta da “mani più sante”. Si tratta una
cheirotonia più mistica. In realtà, anche in questo caso, si tratta dell’imposizione delle mani,
non per fare una nuova ordinazione, ma per riconfermare un’ordinazione che già
precedentemente era valida. Melezio non viene deposto dal suo essere vescovo, ma viene
regolata sua funzione di essere vescovo. Anche in questo caso la Chiesa regolamenta l’esercizio
delle funzioni che derivano dalla celebrazione del sacramento dell’Ordine.

6a Lezione.

Il Concilio di Nicea del 325 (Seconda Parte)

Il testo del Concilio di Nicea è di natura legislativa, per cui ci si pone sul piano del diritto e
della relazione oggettiva che c’è tra i membri della Chiesa. Dal modo con cui viene trattata la
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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materia, si può comprendere la concezione del Sacramento dell’Ordine ed il modo come esso
viene celebrato. Senza soffermarci nei dettagli, si nota come la Chiesa affronta il problema
dell’organizzazione al suo interno, ribadendo – ancora una volta – il gesto costitutivo
dell’imposizione delle mani. C’è qui anche il discorso della validità e della non validità
dell’Ordine. Diventa, dunque, importante regolare l’esercizio delle diverse funzioni.
Certamente, i canoni del Concilio di Nicea dovevano affrontare altre questioni, come ad
esempio il passaggio da una Chiesa all’altra, visto dai canoni 15 e 16 che affermano
rispettivamente:
Can. 15. «Per i molti tumulti e agitazioni verificatisi, è sembrato bene
stroncare assolutamente la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede,
contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi, né presbiteri, né diaconi
si trasferiscano da una città all’altra. E se qualcuno agisse contro questa
disposizione del santo e grande concilio e seguisse l’antico costume, il suo
trasferimento sarà nullo e dovrà ritornare alla chiesa per cui fu ordinato
vescovo, o presbitero, o diacono».
Can. 16. I presbiteri, i diaconi o i chierici che temerariamente, senza santo
timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria
chiesa, non devono essere accolti in un’altra chiesa; bisogna obbligarli a far
ritorno alla propria diocesi, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Se poi
uno tentasse di sottrarre qualcuno ad un altro vescovo e di consacrano nella
propria chiesa contro la volontà del vescovo da cui si è allontanato, tale
ordinazione sia considerata nulla».
Da questi canoni si evince una forte comprensione del legame tra il ministro ordinato e la
sua Chiesa di appartenenza. Il ministro viene ordinato per la sua Chiesa, tanto che
un’ordinazione fatta senza il consenso del vescovo della Chiesa di appartenenza, è nulla. In
effetti, questo “nulla”, come riferisce il Concilio stesso, non è molto chiaro anche se si pensa
che il presbitero interessato a questo fatto, non possa esercitare il suo ministero, mentre la sua
ordinazione resta valida. Chi ha infranto il legame di comunione con il vescovo, vive la
medesima condizione.
Anche i canoni 4 e 6, in riferimento al potere del Metropolita, parlano della funzione di
controllo e di sopraintendenza alla celebrazione dell’Ordine da parte del vescovo. Anche in
questo caso c’è una situazione simile dove si prevede un’interdizione dall’ufficio di presbitero o
di diaconato. Questi canoni, infatti affermano:
Can. 4. «Si abbia la massima cura che un vescovo sia consacrato da tutti i vescovi
della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per motivi d’urgenza o per la distanza,
almeno tre, radunandosi nello stesso luogo e con il consenso scritto degli assenti,
celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto spetta in ciascuna
provincia al vescovo metropolita».
Can. 6. «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli sia mantenuta l’antica
consuetudine per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province,
come è consuetudine anche per il vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle
altre province siano conservati alle chiese i loro privilegi. Inoltre sia chiaro che, se
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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qualcuno è divenuto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo
stabilisce che costui non debba essere vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro
personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme al le norme ecclesiastiche degli
altri, prevalga la maggioranza».
Ci sono, poi, altri canoni che trattano di casi particolari, come ad esempio, il canone 1 21 che
parla di quelli che si mutilano o permettono ad altri di farlo su di loro, ed il canone 2 che parla
dei neofiti subito ammessi nel Clero. Quest’ultimo canone è molto importante; infatti dice:
«Molte cose per necessità o per la pressione di qualcuno sono state fatte in contrasto
con le norme ecclesiastiche. Infatti alcuni, venuti da poco alla fede dal paganesimo e
istruiti in tempo troppo breve, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono
stati promossi all’episcopato o al sacerdozio. E bene che in futuro non accada nulla di
simile perché è necessario 4e1 tempo a chi viene catechizzato e una prova più lunga
dopo il battesimo. E chiara infatti la parola dell’Apostolo: non sia un neofita, perché
non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. Se
in seguito un chierico fosse trovato colpevole di una mancanza grave e accusato da due
o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste
disposizioni e disobbedisse a questo grande concilio metterebbe in pericolo la sua
dignità sacerdotale».
Seguono, poi i canoni 10 e 17 che affrontano il problema dei lapsi e dei presbiteri usurai. Si
tratta di questioni molto gravi che non permettevano agli interessati di svolgere le funzioni alle
quali erano stati abilitati con il Sacramento dell’Ordine.
In sintesi, le notizie forniteci dal Concilio di Nicea, ci fanno comprendere che non ci
troviamo dinanzi ad un testo eucologico, ma parlano di alcune questioni sul piano oggettivo
secondo tre punti particolari:
1) si afferma quando un vescovo o un presbitero è legittimamente stabilito nel
suo incarico e quando lo può esercitare (potere di regolare il Sacramento
dell’Ordine) – La Chiesa ha la comprensione della stabilità dell’Ordine: anche
dinanzi a fatti gravi, il Sacramento dell’Ordine non cessa nella sua validità e
nel suo carisma, anche se c’è un intervento preciso della Comunità. C’è anche
una comprensione forte dell’imposizione delle mani come gesto costitutivo,
che specifica anche il tema del carattere;
2) la Chiesa non solo regola l’esercizio delle funzioni, ma può anche stabilire
le condizioni per la validità dell’Ordinazione – C’è una questione di
interpretazione dinanzi all’espressione “nulla” (ordinazione invalidata?), per
la quale non si può essere sicuri se si riferisca all’invalidazione totale
dell’Ordine, oppure si riferisca all’impedimento del suo esercizio. In effetti il
Concilio di Nicea prova a dare delle norme che regolano la validità del
sacramento dell’Ordine. C’è qui un fondamento scritturistico, secondo cui si

21 Il canone 1 dice: «Se qualcuno è stato mutilato dai medici per una malattia o menomato dai barbari, può
restare nel clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è evirato da sé, costui, se appartiene al clero, conviene che
ne sia escluso e in futuro nessuno che abbia agito così sia ordinato. E evidente, che quello che è stato detto
riguarda coloro che deliberatamente compiono ciò e osano mutilarsi; se poi qualcuno fosse stato evirato dai
barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto gli altri aspetti, i canoni lo ammettono nel clero».
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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parte dalla realtà della Chiesa Apostolica che aveva la libertà di stabilire e
regolare nuove strutture di ministero o ne ha definite altre;
3) viene confermata l’importanza dell’impositio manuum, con una
considerazione particolare, a proposito di questo gesto – Essi deve essere
sempre accompagnato da una parola che ne dice il contenuto. Ciò permette
una giusta interpretazione dell’imposizione stessa (v. il caso dei Catari:
l’imposizione delle mani non indica una nuova ordinazione, ma soltanto una
riconciliazione con la Chiesa).

Da questi elementi o dati significativi, si può comprendere come nella lex vivendi ci sia una
conferma dell’importanza di ciò che la Chiesa celebrava. Quindi, diventa indiscutibile lo stesso
gesto delle imposizioni delle mani, come pure il dono dello Spirito Santo.
Conclusione: in questa prima fase di sviluppo, dal I secolo al Concilio di Nicea del 325, si è
potuto individuare una unità, dove molti elementi sono stati posti in evidenza, a partire dalla
struttura ministeriale della Chiesa. Dagli scritti dei Padri al Concilio di Nicea si nota sempre di
più una struttura chiara, secondo un’evoluzione che si nota dai medesimi testi analizzati, come
ad esempio i tre gradi del Sacramento dell’Ordine. C’è già un quadro abbastanza chiaro,
accompagnato da un certo sviluppo di comprensione. C’è qui la presenza di germi per uno
sviluppo più ampio.

Seconda Epoca di sviluppo


Dalla Tarda Antichità all’Alto Medioevo (secc. V-IX).

Anche qui si può accentuare una certa distinzione-accentuazione della lex vivendi per la lex
credendi. In questo caso c’è un riferimento preciso alle Costituzioni Apostoliche. Un altro
aspetto riguarda direttamente la Lex Orandi, per la quale vedremo le fonti liturgiche romane.
Questa epoca si rivela fondamentale, tanto che lo stesso Concilio Vaticano II ha attinto alle
fonti di questa epoca.

Le Costituzioni Apostoliche
Con il nome di “Costituzioni Apostoliche” si intendono diversi documenti canonici. Sono
delle compilazioni che hanno lo scopo di adattare le tradizioni alle nuove situazioni che la
Chiesa si trova a vivere. Spesso si tratta di testi che mettono in evidenza la stessa autorità agli
Apostoli per garantire e legittimare l’autorità stessa della Chiesa e dei suoi ministri. Con questi
documenti si nota una duplice finalità:
a. attualizzare il diritto delle precedenti tradizioni;
b. accreditare il diritto autorevolmente sottomettendolo sotto l’autorità
degli Apostoli.
Dunque, le Costituzioni Apostoliche sono da considerarsi la prima tra le Collezioni
canoniche psedo-apostoliche. Ci troviamo alla fine del secolo IV, e nell’ambito della Siria del
Nord – come ambiente geografico-storico. Dentro a questo documento si trovano testi sia
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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canonici, sia liturgici: nel libro I e nel libro VI si trova la Didascalia degli Apostoli, mentre nel
libro VII c’è la Didaché; invece nell’ottavo si trova la Traditio Apostolica. Tali testi non si
sovrappongono, ma si integrano tanto che in alcune parti ci sono delle amplificazioni e delle
attualizzazione vere e proprie. C’è dunque una rielaborazione dei testi con la finalità di dare
delle risposte concrete alla situazione attuale della Chiesa del tempo.
Il testo si trova nelle SC 320, 329 e 336, come edizioni critiche. Nel nostro caso ci interessa
la SC 336, dove si trovano i libri Settimo ed Ottavo delle Costituzioni.
In merito al contesto ecclesiologico, più volte viene mostrato come il compilatore abbia
un’immagine della Chiesa:
▪ la Corte celeste (Libro II, 56.1) che canta incessantemente la lode
(Libro VII, 35.4);
▪ la Corte celeste come modello della Chiesa terrena (il nuovo
Israele);
▪ la Chiesa è vista come vigna, come campo, come nave che dice
quello che la Comunità pensa del ministero ordinato (il suo ruolo).

Tutte queste immagini servono a descrivere bene, secondo l’intenzione del compilatore, il
buon funzionamento delle istituzioni ecclesiali. La Chiesa è la tradizione terrena della Chiesa
Celeste che vive sottomessa a Dio. Queste immagini ci permettono di vedere l’istituzione della
Chiesa, come finalità di una vita ben ordinata ed organizzata. Questo è un contesto
ecclesiologico fondamentale che si trova in linea con la Tradizione e verrà assunto anche dallo
stesso Concilio Vaticano II.
In riferimento al rituale per l’ordinazione, che si trova nelle Costituzioni Apostoliche, si
possono fare alcuni rilievi, secondo 13 elementi del Libro VIII, dove è Pietro che parla
dell’ordinazione del vescovo, mentre per i presbiteri è Giovanni che parla del sacramento
dell’Ordine; invece per i diaconi è Filippo che parla del medesimo sacramento. Tutto è figurato
per dare un’autorevolezza alla normativa della Chiesa, in merito al tema dell’Ordine. Questi
elementi rituali sono:
1) (VIII, 4) scelta da parte del popolo;
2) la presentazione del candidato all’episcopato;
3) il gradimento che il popolo manifesta per il candidato scelto;
4) convocazione solenne dell’Assemblea (popolo – presbiterio – vescovi e
diaconi);
5) consacrazione nel giorno di Domenica;
6) per tre volte viene chiesto l’assenso al popolo per l’avvenuta elezione (è un
elemento nuovo rispetto alla Traditio Apostolica di Ippolito). Si tratta di
un’interrogazione vera e propria;
7) il silenzio (è un elemento rituale costitutivo della celebrazione);
8) nomina della terna dei vescovi ordinandi, dei quali uno pronuncia la
preghiera di ordinazione, mentre gli altri due assistono all’ordinazione stessa
(v. la Traditio Apostolica) – Si nota una certa Collegialità che rimane un dato
importante;
9) è l’imposizione dell’evangeliario sulla testa del candidato, tenuto da due
Diaconi;
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10) la preghiera di consacrazione che è la preghiera della Traditio Apostolica con


delle variazioni;
11) l’Amen dell’Assemblea che partecipa alla consacrazione episcopale;
12) intronizzazione al mattino del nuovo vescovo – L’ordinazione è, dunque,
avvenuta nella veglia del sabato sera, in preparazione alla celebrazione
domenicale;
13) il bacio di pace che tutti scambiano con il neo consacrato.

Ci troviamo dinanzi ad una struttura non nuova del rituale, anche se presenta elementi nuovi
cioè delle amplificazioni come, ad esempio, la triplice interrogazione fatta al popolo, il
gradimento del candidato, la citazione della terna e l’imposizione dell’evangeliario sulla testa
del candidato. Ciò lo si può vedere come un ampliamento della stessa Traditio Apostolica di
Pseudo-Ippolito.
Facendo alcune considerazioni conclusive, si possono affermare tre punti:
a) c’è una ritualizzazione sempre più crescente, fino ad essere, in certi momenti,
pesante tanto da perdere di vista gli elementi essenziali della celebrazione
dell’Ordine, come l’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione;
b) vi è il nuovo gesto dell’imposizione del Vangelo, che si ritroverà nelle
epoche successive. Sorprende, forse, il fatto che non si parla del gesto
dell’imposizione delle mani, non che questo gesto non fosse conosciuto.
Infatti, nel Libro VIII si parla del vescovo ordinato, come colui che sta
ricevendo la cheirotonia. Ma qual è il significato dell’imposizione del Libro, in
riferimento a questa citazione non diretta dell’imposizione delle mani? Lo
amplifica, lo sostituisce? Severiano di Gabala (Laodicea) in un’omelia sulla
Pentecoste, dice che l’imposizione sulla testa dell’Evangeliario avveniva
perché gli Apostoli erano venivano ordinati come Dottori del mondo intero.
L’ordinazione avviene sempre sulla testa, come l’uso esige ai nostri giorni. La
presenza delle lingue sulle loro teste è, dunque, il segno di un’ordinazione.
Infatti, essendo la discesa dello Spirito Santo invisibile, si pone sul capo di chi
deve essere ordinato, il libro del Vangelo. Quando si fa questa imposizione
non bisogna vedere altro che una lingua di fuoco che si posa sul capo, una
lingua a causa della predicazione del Vangelo; una lingua di fuoco a causa
delle parole (sono venuto a portare il fuoco sulla terra). Dunque la
comprensione del Vangelo sul capo è di tipo epicletico: non è un gesto che si
sostituisce all’imposizione delle mani, ma lo amplifica. Attorno a questo
significato, se ne trova un altro, per il quale Gabala – in un’altra omelia –
afferma ancora che per «questo anche nella Chiesa, nelle ordinazioni dei
sacerdoti, si pone il Vangelo sul capo del candidato affinché apprenda che egli
riceve la vera tiara del Vangelo, perché pur essendo capo di tutti, anch’egli è
soggetto a questa legge. Comanda tutti, ma è comandato a sua volta dalla
legge. Legifera su tutto, ma è retto, a sua volta dalla Parola di Dio. Di
conseguenza l’imposizione del Vangelo sul Sommo Sacerdote significa che egli
è sottomesso ad un’autorità». In questa seconda omelia c’è già un significato
diverso, per cui inizia a farsi strada una comprensione del Libro del Vangelo
come segno di un’autorità alla quale il vescovo stesso soggiace. Si tratta della
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Parola di Dio. Dunque, nelle Costituzioni il gesto del Vangelo sul capo del
candidato comporta l’amplificazione del gesto dell’imposizione delle mani;
c) il testo della Traditio Apostolica viene amplificato molto nel protocollo
iniziale – Viene notevolmente amplificata l’anamnesi con molti più riferimenti
veterotestamentari che usano con maggior frequenza una terminologia
sacerdotale. Di fatto la Chiesa ha voluto sottolineare il sacramento dell’Ordine
in modo particolare. C’è, dunque, una lettura eminentemente sacerdotale. Ciò
si rifletterà anche nei documenti posteriori. Rimane, invece, identica l’epiclesi
del testo della Tradizione Apostolica.

C’è da dire anche che si nota un punto di sviluppo tra le Costituzioni e gli Statuta Ecclesiae
Antiqua. La datazione di questo documento è da fissarsi intorno al 480. Il Testo si trova sul
Corpus Christianorum n. 148. Anch’esso è una compilazione attribuita a Gennaio di Marsiglia
(siamo alla fine del V secolo). Essi hanno come fonti le Costituzioni degli Apostoli, i Concili
Gallo-Romani, le opere e le regole di origine monastica, come pure le decretali papali. In
questo modo, il compilatore ha voluto rielaborare questi documenti che, in gran parte, sono
canoni e statuta. Alla fine del secolo IV e all’inizio del V, le decretali papali parlano spesso
dell’accesso agli ordini. Papa Siricio, Papa Innocenzo I e, dopo, Papa Zosimo, tracciano le linee
di un’organizzazione ecclesiastica e di una struttura del clero. Si stabiliscono, dunque, i tempi
per passare da un grado all’altro. C’è una strutturazione sempre più definita, fino a quando nel
secolo V, la sequenza (cursus), diacono – presbitero – vescovo, verrà formalizzata. Gli Statuta
Ecclesia Antiqua, sono la prima testimonianza di questo cursus: le decretali di questi papi ne
sono una prova chiara.
Certamente la testimonianza degli SEA caratterizza bene l’epoca di transizione che fu la fine
del V secolo, tra l’era aurea patristica e l’Alto Medioevo. Lo slancio teologico e mistico non
anima più il popolo cristiano, preso, almeno così pare, da preoccupazioni terrene e coinvolto in
responsabilità materiali di ogni genere; il clero a malapena assolve ai suoi doveri. La stessa
cultura sembra già volersi rifugiare nei monasteri, che prepareranno i vescovi di domani.
Risvegliare la fede assopita del popolo cristiano, guadagnare il barbaro alla verità, mettere al
servizio di tutte le avversità le ricchezze relativamente ancora intatte della Chiesa, furono, in
grande linea, le direttive offerte dagli Statuta Ecclesiae Antiqua all’episcopato provenzale. Fin
dai primi anni del VI secolo, i concili presieduti da Cesario di Arles, tenteranno ogni sforzo per
attuarli nel popolo e nel clero.
Non c’è più il concetto di una ministerialità diffusa poco definita, ma la struttura avrà dei
lineamenti molto più chiari che indicano un’evoluzione storica e liturgica del sacramento
dell’Ordine. Circa la struttura di questo documento si esplica nel seguente modo:
- parte da una professione di fede del candidato all’episcopato;
- ci sono 89 canoni disciplinari, dove è evidente la questione dei rapporti tra i
diversi gradi dell’Ordine;
- ci sono 14 canoni (terza parte: Ricapitulatio ordinationis officialum Ecclesiae)
che ricapitolano i tre gradi dell’Ordine.
E’ un documento segnato da una tendenza presbiterialista che tende a far prevalere il ruolo
del presbiterio sul ruolo del vescovo. Ad esempio, al canone 2, quando dice che il Vescovo –
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quando è in casa – presiede, indica un qualcosa che tenda a minimizzare la figura del vescovo,
rispetto a quella dei presbiteri. Un altro esempio sono i canoni 56, 57 e 58, dove anche i diaconi
appaiono al servizio del vescovo, ma devono essere sottomessi ai presbiteri. In questo caso si
nota una comprensione forte del ruolo del presbitero.
In merito agli elementi rituali, si può dire che:
- nella prima parte c’è un esame dell’ordinando vescovo (è un esame dettagliato
che punta a valutare le qualità personali del candidato e a verificarne la fede.
Ciò dice un contesto un po’ problematico, dove è presente il pericolo di
ordinazioni non legittime di candidati non degni di ricevere l’episcopato);
- c’è il consenso dei chierici e dei laici (è un elemento che indica la riunione
solenne di tutti i vescovi della regione, più il metropolita. Ciò indica che
l’ordinazione del vescovo non è un fatto solo di quella Chiesa, ma è un fatto
soprattutto ecclesiale);
- c’è l’osservanza dei canoni (89 canoni), in riferimento all’organizzazione del
ministero sacerdotale. Nel nostro contesto sono importanti gli ultimi 14 canoni,
i quali hanno avuto una grande fortuna nella Chiesa e si ritrovano nel
Gelasiano Antico, anche se ci sono alcune modifiche. I canoni 90, 91 e 92
parlano rispettivamente del vescovo del presbitero e del diacono; i canoni 93,
94, 95, 96, 97 e 98 parlano rispettivamente del suddiacono, dell’accolito,
dell’esorcista, del lettore, dell’ostiario, del salmista. La Traditio Apostolica
parlava già di ministeri, ma non in questa sequenza di cursus. Ciò dice una
visione chiaramente gerarchica dei diversi gradi.
Questa formalizzazione del cursus non è da vedersi in senso negativo, ma esprime un modo
come la Chiesa ha pensato di strutturare i gradi del sacramento dell’Ordine. Essa porta a due
distinzioni:
a) una distinzione tra vescovo, presbiteri e diaconi;
b) una distinzione degli Ordini minori.
Si nota qui,anche la necessità di precisare i diversi rapporti tra vescovo e presbitero, tra
vescovo e diacono, e così via. I tre canoni, sopra accennati, che trattano del vescovo, del
presbitero e del diacono, ci offrono alcuni elementi della celebrazione:
- l’imposizione del libro del Vangelo con l’imposizione delle mani sulla
cervice del candidato da parte di due vescovi e non da parte di due diaconi (la
differenza, rispetto a prima è che il Libro del Vangelo non è più posto sulla testa
ma sul collo del candidato: l’interpretazione, che si farà strada successivamente,
dà l’immagine del giogo da portare, rispetto alla discesa dello Spirito). Il rischio
che verrà dopo è quello di soffocare il medesimo gesto dell’imposizione delle
mani;
- la consegna degli strumenti che in questo documento, rispetto alla Traditio,
acquista maggiore significato (v. il can. 93). Ad esempio, per coloro che sono
ordinati, c’è la consegna degli strumenti per svolgere il loro ministero, come ad
esempio, il suddiacono che riceve il calice e la patena vuoti, o l’accolito che
riceve la candela accesa, o l’esorcista che riceve il libretto degli esorcismi.
Dunque, il gesto di consegna indica l’istituzione di quel ministero. Anche qui
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c’è un rischio che è quello di soffocamento del gesto essenziale dell’imposizione


delle mani (v. il Concilio di Firenze del 22.11. 1839 dove viene detto che la
materia del sacramento dell’Ordine è la consegna degli strumenti. Ci vorrà Pio
XII che definirà la materia e la forma dell’Ordine – imposizione delle mani e
preghiera di consacrazione nel 1948). Qui è evidente l’importanza della
codificazione degli elementi rituali che negli Statuta appare ancora più chiara.

Il Sacramentario Veronense
In questa seconda epoca, il testo eucologico di riferimento è certamente il Veronese, perché i
testi contenuti in esso, sono i documenti che la Chiesa Occidentale Latina ha celebrato il
sacramento dell’Ordine. Tali testi, anche oggi, sono usati per l’ordinazione dei presbiteri e dei
diaconi, anche se diversi cambiamenti. In questo senso, vedremo anche il perché è stata fatta
questa scelta. Per l’ordinazione del vescovo, invece, il riferimento è la Traditio Apostolica. Il
Veronese è una fonte importante che risale alla seconda metà del secolo VI (550-590), anche se
il materiale precedente è anteriore. Di esso ci sono dei formuli importanti per la fortuna che
hanno riscosso nel tempo. Testi simili si trovano nel Sacramentario Gelasiano, dove essi
vengono ripensati in un ambiente franco germanico, aggiungendo delle parti in più a quelle che
c’erano già nel Sacramentario Veronese. C’è, ad esempio, un embolismo gallicano che il
Gelasiano introduce nei testi di ordinazione del Veronese. Un altro esempio è la consummatio
presbiteri (che alcuni sostengano essere un’altra preghiera di ordinazione). In questo ambito,
però, è importante capire perché è avvenuto questo ripensamento dei testi eucologici: si tratta di
una comprensione teologica segnata dal linguaggio e dalla terminologia che differisce tra il
Veronese ed il Gelasiano.
Nel Veronese si trova tutto un vocabolario che viene applicato al sacramento dell’Ordine,
come dignitas, honor e gradus, la cui derivazione è di ambito civile. Si tratta di termini che non
sono sinonimi tra di loro, ma indicano un posto preciso all’interno di un ordinamento. Il
termine “gradus” dice esattamente uno stato all’interno di un cursus che prevede diversi gradi.
C’è, dunque, una struttura gerarchica che viene adattata alla struttura sacramentale dell’Ordine:
si tratta, in effetti, di una scelta presa con decisione dalla Chiesa che indica una certa
comprensione. Si tratta di capire, infine, il significato di questa struttura nell’ambito del
sacramento dell’Ordine.

7a Lezione.

Il Sacramentario Veronense

Per entrare nella seconda fase dello sviluppo del Sacramento dell’Ordine, ci riferiamo alla
tarda antichità, dal secolo V al secolo IX. Lo scopo è di arrivare al Pontificale Romano
Germanico. Questo Sacramentario, come è già stato detto, è importante per il fatto di contenere
dei formulari che la Chiesa Romana Latina ha sempre utilizzato. Questi tre formulari relativi
all’ordinazione del vescovo, del presbitero e del diacono sono stati usati sino al 1968, mentre -
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sino a nostri giorni - sono stati usati quello per il diacono e del presbitero, anche se con delle
varianti. Invece, il formulario per la consacrazione episcopale è stato sostituito dal testo della
Traditio Apostolica di Ippolito.
Di questi formulari ci sono quattro recensioni che si trovano nel GeV, nel Gregoriano (?), nel
Missale Francorum. E’ interessante vedere la riforma e la modifica che il Vaticano II ha
compiuto, ma per il momento è bene vedere questi formulari sotto il profilo linguistico.
Essi, infatti, presentano un vocabolario piuttosto definito e di natura tecnica: sovente
risuonano parole come “dignitas”, “ordo”, “gradus” e “honor”. Essi hanno un riferimento
preciso nel linguaggio dell’ordinamento statale romano. Pensando al Sacramento dell’Ordine,
la Chiesa ha voluto adottare questo tipo di linguaggio per descrivere la struttura dell’Ordine.
Questi termini nell’ambito civile hanno un significato preciso, che sembra essere capace di
spiegare, appunto, la struttura ministeriale della Chiesa. In questo tentativo viene compiuta
un’operazione molto precisa, di inculturazione, anche se è stata svalutata e considerata come un
impoverimento ed un compromesso con una struttura politica e amministrativa di potere. In
effetti, però, si potrebbe notare come la Chiesa ha inteso l’utilità di questa terminologia per
descrivere la struttura dei tre gradi dell’Ordine. Naturalmente, ciò comporta soltanto la
descrizione della struttura medesima e non il contenuto teologico. Come sempre, queste
operazioni comportano il rischio di confondere lo specifico cristiano con gli elementi che
vengono assunti dentro la cultura nella quale la Chiesa è immersa.
Il contenuto del Sacramento dell’Ordine è filtrato attraverso questo linguaggio e questa
terminologia; quest’ultima può rappresentare una traccia valida per uno studio dell’Ordine. Ad
esempio, i termini con i quali si indicano i ministri ordinati (vescovo, presbitero e diacono). Ci
sono anche i termini che si riferiscono più in generale all’ordinazione, come “consacratio” e
“benedictio”, “munus” e “ufficium”. C’è, dunque, una gamma di termini che dicono qualcosa
sul sacramento dell’Ordine. Un altro aspetto importante è la chiave di lettura da adottare,
secondo una precisa gamma terminologica.
Certamente, lo studio dei termini si riferisce alla realtà dell’Ordine, ponendo in questione un
aspetto preciso ed una storia alla quale il termine si riferisce. Ad esempio, dire “dignitas”,
“ordo”, gradus” e “honor”, indicano anche il contesto storico della Chiesa, nel quale essi sono
stati concepiti.
Andando più nel particolare, il termine “dignitas” deriva da “dignus”: dal punto di vista
etimologico, vuol dire ciò che fa degno. Indica, dunque, un valore o una qualità che rende il
candidato degno di... Ad esempio, l’espressione “dignitas imperatoria”, indica le qualità
richieste per coprire una carica di governo militare. Allora, il passaggio tra la realtà e la
conseguenza diventa immediato, per cui “dignitas” indica la capacità di compiere determinate
azioni. Oltre a questo aspetto, si aggiunge il fatto che tale termina indica il grado assunto e la
posizione nella vita pubblica nell’ambito dell’ordinamento civile romano. Da questa
comprensione si ha un accezione più tecnica, che indica una carica onorifica. Si tratta anche di
un termine tecnico-giuridico, con il quale si indica una posizione precisa nell’Impero Romano:
ad esempio, la “dignitas senatoria” indica la classe dei “senatores” (o Senatori). Vicino al
termine “dignitas” si trova “honor”: quest’ultimo ha un significato più generale di “onore” e di
“prestigio” nella Societas romana. Però, in ambito più specifico - è quello che a noi interessa di
più - di “carica”, di “magistratura”. Tale significato si trova proprio nei testi eucologici, perché
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si vuole indicare un preciso ruolo ed un grado precisi all’interno della Comunità cristiana. Un
medesimo significato lo ha il termine “gradus”, secondo diverse accezioni: la prima indica il
passo o al marciare militare; in senso traslato indica il compimento di una determinata azione
per raggiungere un preciso scopo. Può anche indicare “il gradino” di una scala, per cui si può
accedere al senso di gradualità, che diventa “dignitas” assunta, cioè una posizione assunta. In
questo modo arriverà ad indicare le diverse tappe del “cursus honorum”, cioè i diversi livelli
della carriera dei pubblici funzionari dello Stato romano. Nell’ambito della vita ecclesiale,
viene a stabilirsi un significato equivalente, che descrive la struttura ministeriale della Chiesa.
Ciò indica una comprensione gerarchica di questi ministeri ordinati, che non avrà più una
terminologia fluttuante, ma un uso di termini precisi che stabiliscono una precisa gerarchia
all’interno della Chiesa.
Guardando il Ve 947, il testo dice:
«O Dio (fonte) di ogni onore e di ogni dignità che servono con i sacri ordini alla
tua gloria; o Dio, che nel tuo segreto dei colloqui familiari con Mosè tuo servo, tra
gli altri insegnamenti circa il culto e la veste sacerdotale gli hai ordinato che
Aronne fosse rivestito nelle sacre funzioni di questo misterioso abito, affinché i
posteri, istruiti dagli esempi delle età precedenti, conservassero perennemente i
tuoi insegnamenti; così che la verità simboleggiata nelle figure trovi presso di noi
una riverenza maggiore di quella che trovavano le figure presso gli antichi. Infatti
l’abito di quel primitivo sacerdozio rappresenta l’ornamento dell’anima nostra; e lo
splendore delle anime, e non il fasto delle vesti, dà ormai gloria al pontificato:
poiché tutta questa esteriore magnificenza non risplendeva davanti allo sguardo
degli uomini se non per far comprendere i misteri che adombrava. Ti preghiamo,
perciò, Signore, di concedere a questo tuo servo, che hai eletto al ministero di
sommo sacerdote, la grazia di far risplendere nei suoi costumi e nelle sue opere
tutto ciò che è figurato in questi abiti preziosi variamente lavorati e risplendenti di
oro e di gemme. Compi nel tuo sacerdote l’opera suprema del ministro e, rivestilo
degli ornamenti di tutta la gloria, santificalo con l’effusione della celeste unzione.
Concedi o Signore, che questa unzione scenda sul suo capo, scorra sul suo volto,
giunga fino alle estreme parti del corpo, affinché la virtù del tuo Spirito ne riempia
l’interno e ne circondi tutto l’esterno. Abbondino in lui la costanza della fede, la
purezza dell’amore, la pace sincera.
Concedigli, o Signore, la cattedra episcopale per reggere la tua Chiesa e il
popolo universale (sec. XIII: a lui affidato). Sii tu stesso a lui autorità, potestà e
fermezza. Moltiplica sopra di lui la tua benedizione e la tua grazia, così che per tuo
dono possa essere sempre idoneo ad implorare la tua misericordia e per la tua
grazia sia sempre Devoto. Per».
Come si può vedere, si tratta di una preghiera di ordinazione del vescovo che viene fatta con
l’imposizione delle mani. Questo testo è un po’ problematico. Nel suo interno c’è una certa
comprensione che esprime un insieme unitario, ma se lo si confronta con i testi dell’ordinazione
del diacono e del presbitero che si trovano nella Traditio, rimane la difficoltà di comprensione
linguistica. Questo fatto è stato attutito dalla Riforma Liturgica, in quanto questi testi sono stati
ripensati per una differente comprensione. Su questo testo la Riforma ha voluto intervenire. Se
si fa un confronto con il GeV, dopo l’epiclesi, quando dice, «Concedigli, o Signore, la cattedra
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episcopale...», si nota che nel GeV si trova l’inserimento di un embolismo, che è un insieme di
citazioni della Sacra Scrittura (v. le lettere pastorali di Paolo), per dare una certa sostanza al
testo stesso. La struttura di questa preghiera è quella di sempre: anamnesi, epiclesi e
intercessione.
Una prima osservazione che si può fare sul testo del Ve è la problematicità della prima parte
di questa preghiera, cioè l’anamnesi. Guardando all’incipit, si può vedere che l’espressione
«Deus honorum omnium, deus omnium dig- /nitatum...» contempla Dio come colui che concede
tutti gli onori e la dignità. Chiede qualcosa di specifico all’interno dell’ordinamento; chiede una
capacità precisa. Il problema sta nell’ampiezza di questa anamnesi che è caratterizzata ad un
vocabolario veterotestamentario molto ampio. Nello stesso tempo si nota la mancanza di un
riferimento al NT. Infatti, è chiaro il riferimento al capitolo ottavo del Levitico, dove si parla
delle vesti sacre di Aronne. C’è una tipologia di Aronne sotto il profilo dell’unzione e delle
vesti. L’anamnesi, poi, sconfina nell’epiclesi perché il tema dell’unzione sacerdotale lo si
ritrova anche in quest’ultima quando dice: «Conple in sacerdotibus tuis mysterii tui summam, et
ornamentis totius glorificationis instructos caelestis unguenti fluore sanctifica». C’è una
tipologia sacerdotale e non di governo che richiama il sacerdozio levitico. Il concetto che viene
espresso è che nel sacerdozio di Aronne veniva già annunciata, sotto gli “enigmata figurarum”,
la realtà sacerdotale del vescovo. E’ una realtà che supera e sostituisce lo stesso sacerdozio di
Aronne, dove questi elementi delle vesti e dell’unzione vengono spiritualizzati, nel senso che
non importa più il loro splendore, ma è importante lo splendore dell’anima, la sua bellezza. La
vita del vescovo è la realtà che l’oro e le gemme annunciavano in figura.
Certamente, questa tipologia non appare completa per esprimere pienamente chi è il
vescovo. L’insistenza delle vesti fa capire che la figura del vescovo è vista come il compimento
di quello che Aronne era per l’Antico Testamento. Ciò dimostra, quindi, un ambito strettamente
sacerdotale del ministero episcopale. E’ un momento in cui la Chiesa del tempo pensa il
vescovo in questo modo, per cui il dettaglio delle vesti va visto in senso più generale, perché la
realtà che il simbolo adombrava permette uno sguardo più penetrante rispetto alla figura del
vescovo nel Nuovo Testamento.
Nell’epiclesi, che inizia alla riga 30 con “Conple” si nota il tema dell’unzione regale e
dell’unzione sacerdotale. Qui è sottolineata l’invocazione dello Spirito (v. Salmo 132), in
riferimento anche ad un’unzione mistica che solo più tardi verrà introdotta come unzione
materiale. Questa immagine troverà una sua traduzione materiale non prima dell’VIII secolo,
tanto che il rituale non ne parla ancora. Dunque nel Ve il riferimento è unicamente mistico che
esprime una realtà figurata.
Certamente, anche l’unzione ha un carattere prettamente sacerdotale: l’ambito è quello
cultuale del sacerdozio levitico (v. la Traditio Apostolica in riferimento allo Spirito sui
Settanta). Uno dei limiti grossi, come è già stato accennato, un assoluta mancanza di
riferimento alla persona di Cristo e al Nuovo Testamento.
In merito, alle intercessioni, si nota un’esplicitazione di richiesta di consegna della cattedra
episcopale, anziché un’esplicitazione di tipo sacerdotale. Questa “Cattedra” ha, poi, due aspetti:
colui che presiede (funzione di governo) ed il luogo dal quale viene dato un insegnamento (è la
cattedra del maestro). Dunque, il vescovo è colui che presiede ed insegna. Questa funzione non
è, però, presente nella prima parte della preghiera, cioè nell’anamnesi, anche se
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nell’intercessione è evidente il ruolo di vescovo come maestro e presidente dell’Assemblea.


Nell’anamnesi, invece, c’è solo un visione univoca del sacerdozio levitico. In altre parole, la
richiesta fatta dall’intercessione che sottolinea la funzione del vescovo, arriva quasi a sorpresa.
C’è anche da dire che, per quanto riguarda la terminologia, relativa all’espressione “ad
regendam aeclesiam tuam et plebem universam”, nel Pontificale Romano del XII secolo ed in
quello della Curia del XIII, si trova “plebem sibi conmissam”, mentre “plebem universam”
verrà usata solo per la consacrazione episcopale del vescovo di Roma. Si tratta, però, di una
preoccupazione successiva. C’è piuttosto da domandarsi: a che cosa si riferisce questa “plebem
universam”? Si riferisce a tutta la Chiesa locale o alla Chiesa a cui il vescovo viene destinato?
All’interno del testo si intuisce il popolo che viene a lui affidato (la sua Chiesa e non tutta la
Chiesa). La preoccupazione dei Pontificali successivi, per distinguere l’autorità del vescovo di
Roma da quella degli altri, giustificherà la variante terminologica sopra accennata.
Un altro aspetto lo si può raccogliere dall’espressione latina “exorandam semper
misericordiam tuam” che chiede l’idoneità di invocare la misericordia.
In questa preghiera si notano dunque dei limiti: Santantoni ha da poco pubblicato una tesi
molto interessante sul tema relativo alla consacrazione episcopale (v. Studia Anselmiana 69); in
essa si trovano molti riferimenti ai rituali.
In merito a questa preghiera, Santantoni individua cinque difetti:
1. la tipologia veterotestamentaria è sproporzionata;
2. alcuni uffici del vescovo non vengono nominati, come ad esempio la
predicazione;
3. l’episcopato non viene inserito nel pieno contesto della Storia della
Salvezza, ma c’è una lettura quasi allegorizzante della figura del vescovo,
tramite l’immagine delle vesti e dell’unzione;
4. manca un riferimento al sacerdozio di Cristo, alla sua Persona;
5. non c’è una coesione tra la tipologia cultuale dell’anamnesi e la
sottolineatura di governo che si trova nell’intercessione. Non c’è neppure lo
sviluppo di un’idea sacerdotale.
Certamente, l’utilizzo delle categorie veterotestamentarie del sacerdozio levitico per la
comprensione del nuovo sacerdozio, è già presente nel Nuovo Testamento, come si può notare
nella Lettera agli Ebrei che supera il vecchio facendo presente che il sacrificio del Sommo
Sacerdote, cioè Cristo, avviene una volta per tutte (v. il prefatio V della Pasqua), rispetto ai
sacrifici compiuti dai sacerdoti leviti che dovevano essere sempre rinnovati. Ciò fa
comprendere che il ministero ordinato non è un’invenzione neotestamentaria, ma ha le sue
radici nell’Antico Testamento. Né si può dire che si tratta di un’invenzione post-costantiniana.
Dunque, questa preghiera deve essere vista con gli occhi dell’epoca del V secolo, quando si
registra un recupero della visione cristiana, in merito al tempio e alle vesti sacre, come elementi
significativi dell’ambito cultuale e liturgico, nonché dell’ambito cerimoniale degli ambienti di
Corte.
Andando avanti, nel GeV 669-670, dopo l’epiclesi e prima di parlare della Cattedra,
aggiunge:
«Abbondi in loro la costanza della fede, la purezza dell’amore, la sincerità della
pace. Per tuo dono siano belli i loro piedi nell’annunciare la tua pace e i tuoi beni.
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Concedi loro, o Signore, il ministero della riconciliazione nella parola, nelle opere e
nella potenza dei segni dei prodigi. Sia il loro parlare e la loro predicazione non nelle
persuasive parole della sapienza umana, ma nella manifestazione dello Spirito e
della potenza. Dona a loro Signore le chiavi del regno dei cieli, perché usino senza
gloriarsi del potere per edificare e senza distruggere. Tutto ciò che verrà legato sulla
terra verrà legato anche nei cieli e tutto che verrà sciolto nella terra sarà sciolto
anche nei cieli. A chi avranno ritenuto i peccati siano ritenuti; a chi li avranno
rimessi tu rimettili. Chi li avrà benedetti sia benedetto; chi li avrà maledetti sia
pieno di maledizioni. Siano servi fedeli, prudenti che tu, o Signore, metti a capo
della tua famiglia, perché ne diano cibo in tempo opportuno e rendano perfetto ogni
uomo. Siano operosi nella sollecitudine, siano ferventi nello spirito, (aborriscano) la
superbia, amino l’umiltà e da questa non si allontanino, illusi dalla lode o dal
timore. Non confondino la luce con le tenebre, né le tenebre con la luce; non dicano
male il bene, né bene il male. Siano debitori ai sapienti e agli ignoranti e traggano
frutto dal progredire di tutti. Concedi loro, o Signore, la cattedra episcopale...».
Un testo simile si trova nel Pontificale Romano Germanico 35, dove è presente un
embolismo gallicano:
«Per tuo dono siano pronti i tuoi piedi nel condurlo ad annunciare la tua pace e i
tuoi beni. Concedigli, o Signore, il ministero della riconciliazione con le parole e con
le opere, nella virtù dei segni e dei prodigi. Sia il suo parlare e la sua predicazione
non nella vana sapienza umana, ma nella manifestazione dello spirito e delle virtù.
Donagli, o Signore, le chiavi del regno dei cieli, perché usi, senza gloriarsene, del
potere che gli concedi per edificare e non per distruggere. Tutto ciò che legherà sulla
terra sia sciolto anche nei cieli. A chi riterrà i peccati, siano ritenuti; a chi li
rimetterà, tu rimettili. Chi lo maledirà sia maledetto; chi lo benedirà, sia benedetto.
Sia egli quel servo fedele e prudente che tu metti a capo della tua famiglia, o
Signore, affinché le dia cibo nel tempo opportuno e renda perfetto ogni uomo. Sia
sollecito ed operoso, sia fervente nello spirito, aborrisca la superbia, ami l’umiltà e la
verità e da questa non si allontani, illuso dalla lode o dal timore. Non confonda la
luce con le tenebre, né le tenebre con la luce; non dica male il bene, né il bene il
male. Sia debitore ai saggi e agli stolti, così che tragga frutto dal progredire di
ognuno. Concedigli, o Signore, la cattedra episcopale...».
Come si può notare c’è un’ampia citazione della Scrittura non solo dell’ambito
veterotestamentario, ma anche di quello neotestamentario, che completa, in un certo qual modo,
la descrizione della figura del vescovo, come Sommo Sacerdote.

La preghiera di consacrazione del presbitero nel Veronense.


Essa viene tratta dal Ve 952-954 ed accompagna l’imposizione delle mani da parte del
vescovo. Essa così recita:
«Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, origine e fonte do ogni ordine
e ministero, manifesta la tua presenza in mezzo a noi.
Tu fai vivere e sostieni tutte le creature, e guidi l’umanità in una continua
crescita secondo un piano mirabile di sapienza e amore.
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Nell’antica alleanza furono istituiti e presero forma e figura i gradi del


sacerdozio e gli uffici dei leviti per il servizio liturgico. Ai sommi sacerdoti, pastori e
guide del tuo popolo, associasti collaboratori che li seguivano nel grado e nella
dignità.
Nel cammino dell’esodo comunicasti a settanta uomini saggi e prudenti lo spirito
di Mosè tuo servo, perché egli potesse guidare con il loro aiuto l’immensa
moltitudine del popolo.
Tu rendesti partecipi i figli di Aronne (Eleazaro e Itamar: Ve) della pienezza
sacerdotale del padre, perché, mediante il loro ministero, non mancasse mai l’offerta
dei sacrifici e della lode.
Infine, nella pienezza dei tempi, hai unito agli apostoli del tuo Figlio altri maestri
nella fede, che li aiutassero ad annunziare il Vangelo nel mondo intero.
Ora, o Signore, concedi anche a noi i necessari collaboratori che, nella coscienza
dei nostri limiti, invochiamo numerosi dalla tua misericordia.
Dona, Padre onnipotente, a questi tuoi figli la dignità del presbiterato. Rinnova
in loro l’effusione del tuo Spirito di santità; adempiamo fedelmente, o Signore, il
ministero del secondo grado sacerdotale da te ricevuto e con il loro esempio guidino
tutti a un’integra condotta di vita.
Siano fedeli cooperatori del nostro ordine. Splenda in essi ogni forma di giustizia,
perché al momento di rendere conto della buona amministrazione del compito loro
affidato, ricevano in eredità il premio dell’eterna felicità».
In questa preghiera, pur essendo stata presa da un medesimo sacramentario, si nota una
comprensione più equilibrata del ministero presbiterale. Anche in questa preghiera si nota la
solita struttura: anamnesi - epiclesi - intercessione. Anche in questo caso, la preghiera inizia con
l’espressione «Domine Sancte Pater, omnipotens aeterne deus, honorum omnium et omnium
dignitatum quae tibi militant distributor»: in questo modo, Dio - nel momento in cui viene
invocato - è visto come il distributore di tutti gli onori e di tutte le dignità che si trovano al suo
servizio. Si tratta di una comprensione di Dio che ordina e che dà un ordine al creato e
all’universo. All’interno, poi, di questo ordine generale vengono compresi anche i diversi gradi
ministeriali. Infatti, dopo la preghiera dirà: «Nell’antica alleanza furono istituiti e presero
forma e figura i gradi del sacerdozio e gli uffici dei leviti per il servizio liturgico». Di questa
attività e di questa organizzazione, c’è già un’ampia anticipazione nell’Antico Testamento.
Anche la struttura veterotestamentaria del sacerdozio levitico, è frutto di questa organizzazione
che Dio opera nel tempo. L’anamnesi è, dunque, molto più ricca e molto più precisa.
Gli elementi tipologici che la caratterizzano sono:
a. Nell’espressione,“Sic in heremo per septuaginta virorum prudentium mentos Mosè
spiritum propagasti”, c’è il riferimento al libro dei Nm 11, dove lo Spirito di Mosè
viene diffuso sui Settanta Anziani. L’espressione, “quibus ille adiutoribus usus
populo, innumeras multitudines facile gubernavit” esprime il perché della
propagazione dello spirito di Mosè; in sostanza avviene perché il popolo possa
più facilmente essere governato. Ciò fa riferimento alla funzione di governo da
parte di Mosè e dei Settanta anziani;
b. “Sic Eleazaro et Ithamar, filiis Aharon, paternae plenitudinis abundantiam transfudisti,
ut ad hostias salu-/teres et frequentiores officii sacramenta sufficeret meritum
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sacerdotum” fa riferimento a Nm 8,9, dove si parla della consacrazione di Eleazaro


e di Itamar. Anche qui si parla della diffusione dell’abbondanza dello spirito di
Aronne perché i figli di Aronne partecipano dell’abbondanza dello spirito del
padre e perché ci fosse un numero sufficiente di sacerdoti in grado di offrire
costantemente o in maniera continuata il sacrificio. Dunque, c’è un preciso
riferimento cultuale;
c. “Ac providentia, domine, apostolis filii tui doctores fidei comites addedisti, quibus illi
orbem totum secundis praedicatioribus impleverunt” parla degli Apostoli di Cristo
(Apostoli del Figlio tuo). Questa parte della preghiera, ribadisce il fatto che il
Signore ha associato agli Apostoli altre persone che fossero in grado di fare quello
che facevano gli Apostoli stessi (v. il termine Doctores), come secondi predicatori.
Ciò richiama precisamente ad At 14,23 e a Lc 10. Chiaramente lo scopo è quello
della diffusione dell’annuncio e della predicazione.
Da questi tre tipologie si possono avere tre precisi riferimenti: governo, culto e predicazione.
L’epiclesi, che inizia con le parole «Da, quaesumus, pater, in hos famulos tuos presbyteri
dignitatem...» sottolinea la richiesta della dignità del presbiterio, indicando una collocazione
precisa nella scala gerarchica. Inoltre, c’è un richiamo ad un epiclesi che viene fatta secondo
una categoria di relazione, che abbiamo visto già nella Traditio Apostolica, perché si tratta di
una epiclesi che viene fatta su chi ha ricevuto il dono dello Spirito con il Battesimo. Dunque, lo
Spirito viene invocato per rinnovare, per fare nuova una cosa, per una nuova relazione.
La parte finale della intercessione, insiste ancora sulle conseguenze di questa richiesta: viene
attualizzato il discorso dell’anamnesi quando viene invocato lo Spirito. Allora, i presbiteri
ricevono un munus, cioè un ufficio che saranno poi in grado di esercitare pienamente. Questo
ufficio o munus compete solo chi è collocato al secondo grado dell’ordine, cioè colui dalle
provate doti morali e spirituali.
Un altro elemento che si può rilevare dal testo a pagina 122 del Ve è la presenza di alcune
sottolineature, come ad esempio, adiumentum sequentis ordinis, viros et secundae dignitatis
elegiris, quibus ille adiutoribus usus in populo, secundi peccatoribus, haec adiuventa largire,
secundi meriti munus, cooperatores ordinis nostri. Non poteva essere più chiaro questo testo
nel collocare il presbiterio, rispetto all’ufficio del vescovo. Lo si nota da questa insistenza di
termini. In effetti, il presbiterio viene a trovarsi in una chiara subordinazione, rispetto all’ufficio
episcopale, dal momento che i sacerdoti sono collaboratori del vescovo. Questa subordinazione
non è, però, sudditanza. Questo aspetto lo si nota nell’anamnesi, dove le immagini tipologiche
usate rendono chiara il concetto. C’è sempre l’idea di una sorgente alla quale partecipano i
diversi gradi dell’Ordine che, esprime allo stesso tempo, la relazione che sussiste tra il vescovo
ed il presbitero. Chi viene associato al vescovo compie le sue stesse funzioni in grado
subalterno, ma di collaborazione.
Ciò fa pensare che quando il vescovo chiedeva la collaborazione dei sacerdoti non fosse
esente dalla coscienza di sapere che lui in primo è chiamato al governo, al culto e alla
predicazione. Questi elementi mancano nella preghiera di ordinazione del vescovo che abbiamo
visto prima.
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Preghiera di ordinazione del Diacono.

Questo testo, sostanzialmente conservato nel PRG, non ha ancora la forma di prefazio che
sarà data alle formule consacratorie solo dagli «Ordines» del sec. X. In esso, non vi si trova
l’interpolazione «Accipe Spiritum sanctum» (Ricevi lo Spirito Santo) che accompagnerà nel
Pontificale di Durando una imposizione della mano. Questa preghiera così recita:
«Dio onnipotente, origine e fonte di ogni ordine e ministero manifesta la tua
presenza in mezzo a noi (lett.: «che doni la dignità, distribuisci gli ordini e
ripartisci le funzioni»).
Tu vivi in eterno e tutto disponi e rinnovi con la tua provvidenza di Padre. Per
mezzo del Verbo tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, tua potenza e sapienza,
compi nel tempo l’eterno disegno del tuo amore (lett.: «prepari e distribuisci in
ogni epoca ciò che conviene»).
Tu hai formato la Chiesa corpo del Cristo, varia e molteplice nei suoi carismi,
articolata e compatta nelle sue membra, e hai disposto che, mediante i tre gradi del
ministero da te istituito, cresca e si edifichi come tuo tempio vivente, in comunione
di fede e di amore (lett: «per il perfezionamento del tuo tempio»).
In antico scegliesti i figli di Levi, eredi della tua benedizione (lett.: «eterna») a
servizio del tabernacolo santo.
Ora, o Padre, ascolta la nostra preghiera: guarda con bontà questi tuoi figli, che
noi consacriamo come diaconi perché servano al tuo altare nella Santa Chiesa.
(Noi che non siamo che uomini, ignorando il pensiero divino e le ragioni
profonde, apprezziamo la loro vita come possiamo. Ma a te, Signore, non sfugge ciò
che ci è sconosciuto, e ciò che è nascosto non ti inganna. Tu conosci i peccati e scruti
gli spiriti; tu puoi loro applicare con veracità il giudizio celeste e donare anche agli
indegni ciò che domandiamo).
Ti supplichiamo, o Signore, effondi in loro lo Spirito Santo, che li fortifichi con i
sette doni della tua grazia, perché compiano fedelmente l’opera del ministero.
Siano di esempio in ogni virtù (testo aggiunto Rm 12,9; 2Cor 6,6) sinceri nella
carità, premurosi verso i poveri e i deboli (nel Ve), umili nel loro servizio, retti e
puri di cuore, vigilanti e fedeli nello spirito.
La loro vita, generosa e casta, sia un richiamo costante al Vangelo e susciti
imitatori nel tuo popolo santo. Sostenuti dalla coscienza del bene compiuto, forti e
perseveranti nella fede, siano immagine del tuo Figlio (testo aggiunto: Mt 20,28),
che non venne per essere servito ma per servire, e giungano con lui alla gloria del
tuo regno (traduzione letterale: Ogni specie di virtù abbondi in essi:
un’autorità modesta, un pudore costante, la purezza dell’innocenza,
l’osservanza della disciplina spirituale. I tuoi precetti risplendano nei loro
costumi, per l’esempio della loro castità provochino l’imitazione del popolo
santo. Perseverino fermi e stabili nel Cristo con la testimonianza di una
buona coscienza, progrediscano come conviene, e meritino per la tua grazia
di passare dal grado inferiore a un grado elevato) Per Cristo Nostro Signore».
Anche in questo caso si nota la triplice struttura, anamnesi, epiclesi ed intercessione.
Nell’anamnesi c’è un’immagine molto bella di questa varietà della Chiesa, identificandola con
la realtà del Corpo di Cristo, ricco nei suoi diversi carismi, articolato e compatto nelle sue
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membra. Questa comprensione della Chiesa fa si che venga inserito il ministero diaconale. Il
richiamo tipologico è l’immagine dei leviti chiamati al servizio del tabernacolo santo. Questo
elemento tipologico fa comprendere che quando in questo Sacramentario si trova il termine
“levita” si indica proprio il diacono: levita è colui che compie un servizio accanto al sacerdos.
Un inciso interessante che si trova in questo testo è quando dice che il Signore conosce i
peccati e scruta gli spiriti, parlando dell’indegnità di coloro che sono stati scelti per la
consacrazione al diaconato. E’ tutta una perorazione dell’intervento divino, dichiarando la
propria impossibilità di conoscere i segreti dei cuori e la profondità dell’animo umano. Questa
parte è stata, poi, tolta nel Nuovo Rituale.
In merito all’epiclesi, essa appare molto chiara, secondo l’espressione latina: «Emitte in eos,
domine, quaesumus, spiritum sanctum». Si parla anche dello Spirito che porta con sé i sette
doni: anche questo è un chiaro elemento epicletico contraddistinto dall’espressione latina «quo
in opus ministerii fideliter exequendi munere septiformi tuae gratiae roborentur». Sono i sette
doni che abilitano i diaconi a compiere il loro ministero.
Tutto questo viene esplicitato con le intercessioni: vengono infatti richieste, l’autorità
modesta, il pudore costante, la purezza dell’innocenza, l’osservanza della disciplina spirituale,
lo splendore dei costumi. Queste intercessioni si concludono con il riferimento ad una possibile
promozione: ciò significa un indicazione esplicita del grado diaconale. Se per il vescovo ed il
presbitero si parla rispettivamente di “summus” e di “secundus”, per il diacono c’è l’uso del
termine “inferior”. Ma oltre, a questo elemento, che richiama al Cap. VIII della Traditio
Apostolica, c’è un accenno importante al fatto che se il diacono svolgerà bene la sua missione,
avrà la possibilità di essere elevato ad un grado superiore, con un preciso riferimento a 1Tm
3,13.

8a Lezione.

Sviluppo del rito dell’Ordinazione dagli Ordines ai Pontificali


Perdita del senso originario del nucleo centrale dell’Ordinazione
(Imposizione delle mani e preghiera di consacrazione)
Come si è visto nell’ultima lezione, i testi del Veronense hanno manifestato la loro
importanza perché hanno segnato la celebrazione dell’Ordine per molti secoli sino al 1968 ed
ancora oggi vengono impiegati per le ordinazioni.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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Mettendo da parte altri dati, relativi al Veronense, necessari - tra l’altro - per la ricostruzione
del rito, è interessante soffermarci sull’Ordo XXXIV che è datato nella prima metà dell’VIII
secolo, anche se riporta usi e prassi di un periodo precedente, probabilmente la fine del V
secolo.
Sulla sua struttura rituale si possono fare alcuni rilievi, con alcuni riferimenti ad altri
Ordines, con lo scopo di capire in quale contesto rituale sono collocati i testi delle preghiere di
ordinazione. Si tratta, dunque, di un elemento importante che rileva ancora il valore ed il
significato del gesto dell’imposizione delle mani. Leggendo questo rituale si può vedere come
gradualmente si va sempre più organizzando sia la fase preparatoria, che acquisirà con il tempo
caratteri sempre più definiti e sempre più chiari, sia la stessa ordinazione. Ad esempio, per
quanto riguarda l’Ordinazione episcopale, nell’ambito della prassi romana, ci viene descritta la
preparazione distribuita in tre giorni, dal venerdì alla domenica. Il venerdì precedente alla
domenica di Ordinazione, la prassi romana prevedeva che i delegati della Diocesi del candidato
si recassero a Roma per incontrare insieme al candidato il Papa. Questo incontro si svolge
attraverso l’esame del candidato, nel quale si affrontano alcuni impedimenti relativi alla stessa
ordinazione episcopale. Una descrizione la si trova negli Ordines Romani di M. Andrieu al n.
16, pagina 607, dove l’Arcidiacono interroga il candidato sui quattro impedimenti che sono:
1. la sodomia;
2. l’attentato ad una vergine consacrata;
3. la bestialità e l’adulterio;
4. le seconde nozze.
Questi erano i peccati per i quali veniva chiesto un cammino penitenziale: chi è iscritto nel
gruppo di persone che sono chiamate a fare questo cammino penitenziale non può essere
ammesso all’ordinazione episcopale (v. l’iscrizione all’Ordo Paenitentiae). Su questo
argomento il candidato fa un giuramento dinanzi all’Arcidiacono che lo ha interrogato e alla
delegazione che lo ha rappresentato.
Il giorno successivo, il sabato, c’è un dialogo tra il Papa ed i rappresentanti della Diocesi del
candidato: essi ripresentano al Papa l’istanza dell’avvenuta elezione, da parte del popolo e del
clero, del candidato alla dignità episcopale. A questo punto, il Papa stesso esamina il candidato
e lo ammonisce nei suoi futuri doveri. Si nota una struttura ritualizzata di questo esame, che
non è un vero e proprio interrogatorio. Esso si conclude con il bacio del candidato da parte del
Papa, come segno di accoglienza. E’ interessante vedere come avveniva la preparazione dei
candidati al presbiterato e del diaconato, la cui ordinazione avveniva sempre di domenica, fin
dal tempo di Leone Magno (440-461). Una delle motivazioni principali, come abbiamo già
visto, è che nel giorno di Domenica, giorno della risurrezione del Signore, si concentrano tutti i
doni di grazia, facendo memoria ed anamnesi di tutte le epiclesi avvenute nel corso di tutta la
Storia della Salvezza. Da Papa Gelasio (fine V secolo) in poi, l’ordinazione verrà fissata al
termine della Veglia del Sabato, la veglia delle 12 Letture, che più tardi corrisponderanno alle
quattro Tempora. Come avveniva questa preparazione all’ordinazione, al termine di questa
veglia notturna? Nelle stazioni o celebrazioni stazionali del Mercoledì e del Venerdì il Papa
rendeva nota la sua intenzione di ordinare nel giorno di domenica. Dunque, la preparazione si
distribuiva nell’arco della settimana: il lunedì i candidati venivano interrogati sugli
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impedimenti(v. Ordo XXXIX n. 1), mentre il mercoledì ed il venerdì, durante la celebrazione


delle Stationes, veniva manifestata proprio questa intenzione di ordinare nella domenica
successiva, per invitare tutta la Comunità all’ordinazione e per manifestare, eventualmente
degli impedimenti all’ordinazione medesima. Queste ulteriori indicazioni si trovano nell’Ordo
XXXVI al n. 9. Si tratta, quindi, di una fase preparatoria piuttosto ampia. Per quanto riguarda il
candidato all’episcopato, gli venivano chiesti canoni delle letture che si usavano nella sua
Chiesa e veniva esaminato anche per quanto riguarda la dottrina della Chiesa.
In merito all’ordinazione, essa avveniva di domenica: si tratta di una prassi consolidata, già
attestata dalla Traditio Apostolica di pseudo-Ippolito, che indica un dato teologico molto
preciso e che più volte abbiamo ricordato. L’ordinazione del candidato non romano, veniva
conferita tra il Salmo graduale ed il versetto dell’Alleluia, prima della proclamazione del
Vangelo. La stessa struttura prevista per il Vescovo, la si ritrova anche per i Diaconi ed i
Presbiteri. C’è l’introito, non c’è il canto con la litania con il Kirie, perché viene fatto, dopo,
seguito dalla Colletta, dalla Lettura apostolica della Prima Lettera a Timoteo e dal Salmo
graduale. Subito dopo il Salmo, avviene la vestizione, seguita dall’invito della preghiera e della
prostrazione davanti all’altare, che viene fatta sia da coloro che devono essere ordinati, sia da
tutto il clero presente, compresi coloro che devono ordinare. Poi, seguono la benedizione, la
preghiera di consacrazione e il bacio come segno di accoglienza.
Questa struttura che troviamo descritta dal n. 32 in avanti, sempre dell’Ordo XXXIV,
sottolinea dei passaggi significativi: la stessa vestizione è vista come un gesto che precede
l’ordinazione e non la segue. La stessa prostrazione sia dei candidati, sia del clero presente, è
seguita dalla Litania che contiene il canto del Kirie. Si nota qui un crescendo rituale perché la
litania si manifesta come un’amplificazione di quella partecipazione dell’Assemblea convocata.
Questo crescendo era già stato notato nella Traditio Apostolica, quando si è parlato del silenzio,
dentro il quale un vescovo dice la preghiera di consacrazione. Il clima orante nel quale è
immersa l’Assemblea si esplicita con il canto litanico, insieme al gesto della prostrazione, come
gesto di supplica che manifesta la propria indegnità.
Facendo alcune osservazioni su questo apparato rituale, un primo dato è il giorno
dell’Ordinazione, il cui tema non è semplicemente funzionale, ma manifesta un assunto
teologico. Per esempio, San Leone Magno parla del giorno del Signore, della Pasqua
settimanale. Si tratta di un giorno teologico nel quale si manifesta lo Spirito in azione. Dunque,
l’Ordinazione diventa anamnesi di tutte le manifestazioni dello Spirito nell’arco di tutta la
Storia della Salvezza. Sarebbe più reciso riferire l’ordinazione all’interno della celebrazione
eucaristica: questo fatto non è privo di significato, perché si riscontra una pienezza nella quale
tutta l’Assemblea è presente. Ora se l’ordinazione è un’epiclesi, un’invocazione dello Spirito, il
fatto che viene collocata dentro la struttura rituale dell’Eucaristia che ha un suo culmine nella
preghiera eucaristica, vuol dire che quello che si compie, in merito al Sacramento dell’Ordine,
non può essere pensato o collocato al di fuori dall’ambito rituale nel quale è inserito.
Il segmento rituale dell’ordinazione ha un suo culmine che lo possiamo identificare con
l’imposizione delle mani e con la preghiera consacratoria, mentre tutto il resto è preparazione,
ma inserito all’interno della celebrazione eucaristica, acquisisce un grande significato nel senso
che nella stessa celebrazione eucaristica trova la sua massima espressione. La stessa
ordinazione rimanda proprio all’epiclesi della prece eucaristica, quella sul Pane e sul Vino.
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Questo dato dice che la preghiera eucaristica sul Pane e sul Vino ha la forza di leggere e di dare
il significato sull’altra epiclesi che viene fatta per l’ordinazione dei candidati all’episcopato, al
presbiterato e al diaconato. Si nota, quindi, una profonda teologia eucaristica dell’Ordinazione.
Allora, si può rilevare un importante principio epistemologico liturgico: tutte le epiclesi che
avvengono nella Chiesa hanno sempre riferimento e il proprio culmine nell’epiclesi eucaristica.
Ora, il luogo dell’ordinazione è proprio la celebrazione eucaristica domenicale che
conferisce un taglio fortemente eucaristico all’Ordinazione stessa.
Un secondo elemento è che c’è un forte sviluppo rituale, a partire dalla stessa prassi di
preparazione. L’esame stesso che viene fatto al candidato dice la preoccupazione della Chiesa
sulla sua fedeltà alla dottrina e all’ortodossia. Anche all’interno del rito di ordinazione si nota
questo crescendo rituale (v. ad esempio la vestizione seguita dal canto litanico). Nella città di
Roma, almeno sino al VIII secolo, la vestizione non ha mai avuto un grande significato, anche
se è bene notare che avrebbe avuto più senso collocare la vestizione stessa dopo l’ordinazione e
non prima. Si tratta di un gesto esteriore, ma che prepara al momento centrale dell’ordinazione,
per la quale la stessa partecipazione dell’Assemblea viene amplificata dalla Litania,
accompagnata dalla prostrazione. Quindi, intorno al nucleo centrale (imposizione delle mani e
preghiera consacratoria) viene ad esserci sempre più un crescendo rituale. Gli Ordines, qui
raramente parlano di imposizione delle mani, ma usano i termini “consecrare”, “benedictio” e
“ordinatio”, con i quali intendono parlare del gesto dell’imposizione delle mani. Nell’Ordo
XXXVI, ai nn. 18-37 si usa il termine “impositio manuum”, anche se in modo meno frequente
rispetto ai termini sopra accennati.
Un altro rilievo, sempre intorno al nucleo centrale, è legato al fatto che sembra non sia
evidente la dimensione collegiale dell’imposizione delle mani. Se nel Concilio di Nicea, in
merito all’ordinazione del Vescovo, era prevista la presenza di tre vescovi, di cui uno
consacrante, a Roma, intorno al secolo VI, il Papa può ordinare anche da solo i vescovi (v. Ordo
XXXVI n. 37). Così, anche più tardi l’Ordo XXXV al n. 65, all’inizio del X secolo, riferisce
che viene a mancare questa dimensione collegiale. In effetti, questo Ordo, appena menzionato,
prevede la presenza di tre vescovi per la consacrazione episcopale non conferita dal Vescovo di
Roma. Quindi, quello che era un minimo richiesto dal Concilio di Nicea, è divenuto un
massimo secondo gli Ordines.
Prevale piuttosto la dimensione della parola che accompagna il gesto dell’imposizione delle
mani, cioè la preghiera di consacrazione. In sintesi c’è ancora un nucleo essenziale, posto al
centro dell’ordinazione.
Visto questo quadro rituale, dentro il quale si inseriscono questi testi eucologici, si possono
rendere presenti tre aspetti:
1. l’ordinazione nei testi del Veronense e degli Ordines accennati, è pensata
soprattutto come una “benedictio” o “consecratio”, che sono termini che
indicano propriamente il gesto epicletico. Questa invocazione dello Spirito
indica un certo dinamismo secondo i tre movimenti dell’elezione,
dell’invocazione e dell’effusione-infusione. L’epiclesi si manifesta come
costitutivo essenziale dell’ordinazione che ha delle conseguenze precise: l’eletto
viene inserito in un Ordo e a lui viene affidato un munus, un ufficium o compito
all’interno della Comunità. Dunque, l’ordinazione manifesta tre dimensione: è
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un’epiclesi, un dono dello Spirito che costituisce il candidato all’interno di un


gruppo e affida un munus, reso ancora più visibile dalle intercessioni all’interno
della preghiera di consacrazione. Questa comprensione è importante perché non
indica semplicemente un’assegnazione di un compito da parte di una Comunità
che elegge il candidato, ma ciò che lo rende capace di questo compito è il dono
dello Spirito che avviene con l’epiclesi consacratoria. Ciò diventa fondamentale
per la comprensione del Sacramento dell’Ordine. Tutto il formulario, in relazione
ai termini “benedictio” o “consacratio” presenta altri termine come “effunde” ed
“innova” che indicano propriamente l’azione dello Spirito di Dio nel momento
dell’ordinazione. Dunque, Dio è il soggetto primo dell’ordinazione (v. gli incipit
dei testi analizzati). L’altra dimensione è suggerita dalla fase di preparazione: si
tratta della dimensione ecclesiale, perché la Chiesa è per eccellenza il luogo
teologico dell’ordinazione che è un epiclesi che ha, come conseguenza,
l’immissione in un Ordo, l’affidamento di un munus con il dono dello Spirito.
2. C’è chiaramente un’influenza, nella comprensione della struttura ministeriale
della Chiesa, della struttura politica della Società Romana. E’ un dato
importante che dice come la Chiesa ha ritenuto utile assumere quelle categorie
(dignitas, ordo, gradus, ecc.) per descrivere quella struttura ministeriale ed il
relativo contenuto teologico che sottolinea, al tempo stesso, la comprensione dei
testi della Scrittura da parte della Chiesa. Come abbiamo già visto al Vescovo
spetta la dignitas summa, mentre al presbitero spetta la dignitas secunda; al
diacono, invece, c’è la dizione del grado inferior. In questo modo, appare
evidente una struttura per grado, il cui apice è il vescovo che partecipa in sommo
grado del sacerdozio di Cristo. Questa struttura sottolinea una dimensione che
riguarda il governo della Chiesa che specifica chi è il Capo della Chiesa e chi sono
i suoi collaboratori. Dunque, la ministerialità, all’interno della Chiesa dice
dunque la funzione di governo della Comunità ecclesiale. Non è, comunque,
l’unica dimensione.
3. Nell’anamnesi c’è il recupero di tutta una dimensione sacerdotale
veterotestamenta-ria. Questa struttura che dice necessariamente la struttura di
governo, viene affiancata da una tipologia veterotestamentaria che parla del
sacerdozio. In maniera un po’ maldestra lo abbiamo notato nell’anamnesi relativa
alla consacrazione episcopale, dove c’è un dato parziale che parla esclusivamente
delle vesti. Alla fine, però, chiede la cattedra episcopale. Ciò lo si nota anche nella
tipologia relativa all’ordinazione presbiterale (ad es., Mosè ed i Settanta anziani),
nella quale c’è l’elemento del governo, seguito ed accompagnato dalla
dimensione sacerdotale (Aronne ed i suoi figli). C’è qui anche la dimensione
dell’annuncio, della predicazione e dell’insegnamento. Per i diaconi, c’è un
richiamo tipologico che indica la loro specifica funzione. In merito a questa
dimensione sacerdotale, alcuni la interpretano come una involuzione, a fronte del
ministero secondo le categorie del Nuovo Testamento: c’è qui una critica della
stessa Riforma Liturgica che vede nel recupero della tipologia veterotestamentaria
la “sacerdotalizzazione” dei ministri del Nuovo Testamento. In realtà, è una
lettura un po’ sacerdotale, perché tra l’AT ed il NT esprime una certa continuità,
insieme ad una certa discontinuità sul piano della realtà sacerdotale. Dunque, si
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deve leggere nella direzione del compimento di quello che l’Antico Testamento ha
preannunziato sin dall’inizio. Allora la comprensione della dimensione
sacerdotale non può essere vista solo da un punto di vista rituale, come di fatto
avviene quando si registrerà una certa crisi della Liturgia in seno alla Chiesa,
dove c’è il rischio di vedere nel ministro ordinato come un semplice funzionario
del sacro. Ancora oggi, il problema si pone, quando c’è questa sorta di
riduzionismo. Ciò non vuol dire che bisogna leggere il dato relativo alla
dimensione sacerdotale dell’Antico Testamento come un dato involutivo, dal
momento che manifesta una dimensione recisa del sacerdozio di Cristo e dice
come Cristo stesso ha esercitato il suo sacerdozio (v. il Praefatio V di Pasqua:
Cristo Altare, Vittima e Sacerdote). In sostanza, il contenuto sacerdotale della
missione di Cristo è da ritenersi essenziale, dentro il quale si ricapitolano le altre
funzioni di Gesù (ad es., Maestro, Pastore, Profeta).
A riguardo di quanto è stato detto, c’è un testo all’interno del GeV che porta il titolo:
Consummatio presbyteri. Botte dice che questo testo è una preghiera di consacrazione
alternativa, di origine gallicana. In realtà è un testo che porta a compimento il contenuto della
stessa preghiera di consacrazione, perché al suo interno si scorge un crescendo di figure
retoriche che porta a considerare il compito sacerdotale come culmine di tutte le altre funzioni,
quella di governo e quella dell’insegnamento. Non si tratta più del sacerdozio esteriore che
veniva esercitato nel Tempio, ma è il sacerdozio di Cristo, per cui non c’è un semplice recupero
delle categorie veterotestamentarie. Il riferimento è proprio il sacerdozio di Cristo che non si
limita alla comprensione esteriore del sacerdozio, per la quale un punto di riferimento
principale è proprio al Lettera agli Ebrei, dove viene dimostrata la superiorità e la completezza
del sacerdozio di Cristo, rispetto a quello veterotestamentario (sacerdozio levitico e sacerdozio
secondo la dinastia di Aronne), ma nello stesso tempo rileva una continuità tra la tradizione
veterotestamentaria e quella neotestamentaria, che offre una visione completa di quello che è il
ministero sacerdotale.
Da tutto questo si rileva che il vescovo è sacerdos all’interno della Chiesa ed è Princeps e
Maestro che siede in Cattedra. Gesù porta a compimento quello che erano le figure
veterotestamentarie. Ciò fa comprendere che l’esteriorizzazione del culto levitico è stata
soprattutto una degenerazione di quello che il Culto era e rappresentava. La causa primaria di
questa distonia sta soprattutto nella spaccatura tra la vita ed il Culto che ha segnato
profondamente la storia di Israele. In questo senso è significativo ricordare il Salmo 49, insieme
al Salmo 50, dove il popolo è accusato di non essere più fedele all’Alleanza. Il Salmo 50 finisce
con un contenuto cultuale che, visto con il Salmo 49 fa comprendere l’esperienza negativa di
Israele che è chiamato ad offrire il sacrificio della lode. Il problema sta in questa frattura che
verrà risolta nell’atto redentivo di Cristo che unisce l’offerta con la sua vita. In origine la
vocazione del popolo era l’osservanza dell’Alleanza che Cristo compirà una volta per tutte,
rendendo unico anche il suo stesso sacrificio.
Certamente in questi testi, si può tracciare una linea fondamentale, grazie alla quale si
affacciano altri riti. Si tratta di un ampliamento rituale che nel tempo, attorno al nucleo
fondamentale, apparirà sempre più pesante, con il rischio di perdere di vista gli elementi
essenziali e principali della stessa ordinazione. Questi riti che si aggiungono ed appaiono
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ancora più evidenti nei Pontificali, riguardano il discorso delle unzioni, la consegna delle vesti
(in Gallia questo momento è più espressivo) e delle insegne. Questi gesti vengono
accompagnati dall’eucologia. Il nucleo essenziale rischia, in un qualche modo, di essere
soffocato.
In relazione a questo nuovo dato si registra un punto di svolta che lo possiamo identificare
con il Pontificale Romano Germanico: non c’è questione liturgica che possa essere trattata
senza far riferimento a questa fonte principale della Liturgia. Anche nella nostra struttura di
sviluppo, quello che si trova in maggiore movimento è proprio questa dimensione rituale sopra
accennata, accompagnata dai testi eucologici. E’ certamente impressionante pensare che la
Chiesa abbia continuato ad ordinare con questi testi eucologici che rimangono, bene o male,
invariati. Essi riguardano i testi che abbiamo visto finora. C’è, però, da dire che i Pontificali
“maltratteranno” proprio questi testi eucologici. Più in precisione riferendoci al Pontificale
Romano Germanico (risale intorno al 950) esso diventa la chiave per vedere gli altri Pontificali
che seguiranno. In merito alla struttura dell’ordinazione del vescovo, si può dedurre questo
schema:
1. elezione - presentazione;
2. esame del candidato sempre più ritualizzato;
3. le Letture, il Graduale;
4. la vestizione degli ornamenti pontificali;
5. la Litania con la prostrazione;
6. l’imposizione dell’Evangelario (è tenuto da due vescovi sul Capo e tra le scapole,
mentre tutti impongono le mani);
7. la preghiera di consacrazione (si nota, al momento dell’epiclesi, in essa
l’inserimento dell’anamnesi in riferimento all’unzione con il crisma sul capo del
Salmo 124: questo richiamo tipologico di anamnesi viene tradotto con un gesto
materiale per cui non si tratta più dell’unzione mistica soltanto. Ciò dimostra che
l’unzione, rispetto alla Parola, è molto più forte da un punto di vista rituale);
8. l’unzione delle mani, in particolare quella del pollice (il vescovo con il pollice
unge, consacra e conferma. C’è anche qui un valore rituale);
9. la benedizione dell’anello e del pastorale;
10.la consegna della Traditio di queste insegne;
11.il bacio di Pace come segno di accoglienza nella Comunità.
In questa struttura si notano degli elementi rituali in più, rispetto alle strutture rituali
precedenti. E’ importante notare come all’interno del testo della preghiera di consacrazione
viene posto il gesto dell’unzione, che segna una frattura all’interno del testo medesimo: è
un’unzione mistica che viene ad essere un’unzione materiale.
Con il Pontificale Romano del XII secolo, ci saranno alcune giunte, sulla base dello stesso
Pontificale Romano Germanico del X secolo. Infatti, c’è la giunta del rito della consegna
dell’Evangeliario e terminata la Messa avviene l’acclamazione da parte del neo ordinato. In
questa linea di sviluppo, il Pontificale di Durando prevede in più una formula esplicativa
dell’imposizione delle mani, per rendere chiaro il significato del gesto: «Accipe Spiritum
Sanctum ad robur et ad resistendum diabolo et tentationibus eius». Lo stesso avviene per la
consegna della stola.
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Questo bisogno di dire, mentre si impongono le mani, può indicare il fatto che il gesto stesso
dell’imposizione delle mani ha perso della sua forza originale. Mentre, viene fatta l’unzione,
c’è anche l’aggiunta Veni Creator Spiritus. In questo modo il nucleo essenziale rischia di essere
appesantito ulteriormente. Si nota anche, a partire dal Pontificale Romano Germanico,
l’aggiunta della consegna della Mitra e dei guanti, oltre al Te Deum e al fatto che il nuovo
vescovo benedica, alla fine l’Assemblea Liturgica. Ciò lascia intendere una comprensione
sempre più scarsa degli elementi centrali del rito di ordinazione del Vescovo, cioè l’impositio
manuum e la preghiera consacratoria, perdendo, così, la forza stessa del silenzio che li
accompagna. Ciò suggerisce anche una sensibilità diversa che esprime il bisogno di una
comprensione del gesto.
Per quanto riguarda i presbiteri si nota un medesimo sviluppo rituale(v. PRG cap. XVI):
l’introito, la Colletta, la postulazione dei fedeli e l’elezione dopo l’interrogazione, la
prostrazione con la Litania, c’è la presentazione dei doni al vescovo, prima delle letture, una
successiva interrogazione (Est dignus? Est iustus?), le promesse, una allocuzione ed una
monitio (che per la prima volta si trova nel Missale Francorum), l’imposizione delle mani con
l’invitatorio, la preghiera di consacrazione, la vestizione (la stola sacerdotale con la pianeta (nel
Pontificale di Durando si dirà la “Pianeta piegata sulle spalle”), il testo della consummatio del
GeV, l’unzione delle mani e non del pollice (Durando inserisce anche il Veni Creator per
indicare una certa comprensione dello Spirito che agisce. L’unzione avviene con l’olio dei
catecumeni: per gli esperti pare che sia una svista dei rubricisti), la consegna degli strumenti (la
Patena ed il Calice che indicano una funzione prettamente sacerdotale), seguita da una formula
esplicativa: «Accipe Potestatem offerre sacrificium». Seguono, poi, la benedizione ed il bacio di
Pace. Le preghiere antiche che si trovano risalgono già al Gelasiano.
C’è da dire, che in merito alla struttura celebrativa, Durando aggiunge, dopo la comunione,
un’altra serie di riti: gli ordinati recitano il Credo, seguita da un’imposizione delle mani,
secondo la citazione di Gv 20,23 in relazione alla remissione dei peccati. Ciò prevede lo
srotolamento della Casula per indicare la piena potestas sacerdotale. C’è anche il gesto
dell’imixtio manuum (l’ordinato mette le sue mani nelle mani del vescovo: è un gesto che ha la
sua origine nell’istituto del vassallaggio ed indica la consegna di sé nelle mani del Vassallo o
Padrone), seguito dal gesto del bacio di pace. Tutto questo blocco rituale viene messo dopo la
comunione.
Il rito che si mantiene più sobrio è quello dei Diaconi: ci sono le litanie, come per
l’ordinazione del presbitero, solo il vescovo impone le mani, c’è la preghiera di consacrazione,
la consegna della stola e dell’evangeliario. Durando aggiunge un breve discorso ai candidati, la
formula esplicativa per l’imposizione delle mani, al centro della preghiera di ordinazione. Ciò
dimostra la poca comprensione della stessa preghiera di consacrazione.
In sintesi, la complessità rituale rischia di soffocare il nucleo essenziale, come abbiamo già
detto prima. Ci sono anche delle espressioni rituali che dicono forse quello che la prex
consecratoria e la stessa impositio manuum non erano più in grado di dire. La loro non
comprensione fa si che vengano stabiliti dei riti che hanno lo scopo di dire il significato dei
gesti di ordinazione. Rimane, comunque, centrale il riferimento all’azione dello Spirito che
sottolinea Dio come l’attore primo dell’ordinazione.
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Il punto di arrivo della serietà di questa situazione lo si ha con il Concilio di Firenze nel
Decretum pro Armenis del 22 novembre 1439, dove si dice al cap.VI:
«Materia di esso è ciò la cui consegna conferisce l’Ordine. Così il presbiterato
è trasmesso con la consegna del calice con il vino e della patena con il pane. Il
diaconato con la consegna del Libro dei Vangeli; il suddiaconato con la consegna
del calice vuoto e della patena vuota. E così per gli altri gradi del sacerdozio vale
la consegna delle cose inerenti al ministero relativo. La forma del sacerdozio è la
seguente: “Ricevi il potere di offrire il sacrificio nella Chiesa per i vivi e per i
morti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Dunque, per questo decreto, il nucleo essenziale dell’Ordine è la consegna degli strumenti.
Ci vorrà Pio XII, nel 1948 per riportare il nucleo stesso dell’ordinazione allo stato originario,
indicando un punto di partenza: l’imposizione delle mani e la preghiera di consacrazione, dai
quali riparte la comprensione del sacramento dell’Ordine.

9a Lezione.

Conclusione del Corso


Il Concilio di Trento e il Sacramento dell’Ordine.
«Si è pensato che il Papa i monaci ed i preti debbano essere definiti lo Stato
ecclesiastico, mentre i principi, i signori, gli operai ed i contadini sarebbero lo
Stato laico. Questa è una bella invenzione e un bell’imbroglio, ma nessuno deve
lasciarsi ingannare. Ecco la ragione: tutti i cristiani partecipano dello Stato
ecclesiastico e non esiste fra di loro nessuna differenza se non quella della
funzione. Unicamente con il Battesimo siamo tutti consacrati sacerdoti secondo
le parole di San Pietro, «Voi tutti siete un sacerdozio regale, un regno
sacerdotale». Se un gruppo di buoni cristiani venisse fatto prigioniero e venisse
confinato in un deserto, senza che ci sia all’interno un sacerdote consacrato da
un vescovo, se tutti insieme si mettessero d’accordo ed eleggessero uno, sposato o
meno, e gli chiedessero la funzione di battezzare, dire messa, assolvere e
predicare, allora l’eletto sarebbe davvero sacerdote come se fosse stato consacrato
da tutti i Papi e da tutti i vescovi.
Nella cristianità una classe sacerdotale altro non dovrebbe essere ciò che è un
funzionario. Finché egli è in funzione, ha la precedenza sugli altri, ma quando è
destituito è un contadino o un borghese come gli altri. Così, in verità un
sacerdote non è più sacerdote quando è destituito».
Sono queste le parole di Martin Lutero nella sua opera, Il Manifesto. In esso, c’è con
chiarezza una comprensione dell’ordine in un’ottica esclusivamente funzionale. Uno è
sacerdote in quanto un popolo gli affida degli incarichi. Viene qui, meno, la dimensione
sacramentale. Questo documento è importante per capire al meglio la risposta del Concilio di
Trento ha dato, in merito all’ordinazione, nella Sessione 23 (1563), che replicò con altrettanta
forza e chiarezza, a Lutero. In questo Concilio si dice che «se qualcuno dice che nel Nuovo
Testamento non c’è il sacerdozio visibile ed esteriore o che non c’è potere di consacrare e di
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offrire il vero Corpo ed il vero Sangue del Signore, di perdonare i peccati, ma semplicemente
una funzione ed un semplice ministero di predicare il Vangelo o di coloro che non predicano
non sono sacerdoti, sia anatema. Se qualcuno afferma che oltre al sacerdozio, nella Chiesa non
ci sono altri Ordini maggiori e minori, attraverso i quali si accede al sacerdozio, sia
anatema» (can. 1 e can. 2). Il canone 6 aggiunge: «Se qualcuno afferma che nella Chiesa
Cattolica non c’è gerarchia istituita per una disposizione divina, la quale è formata da Vescovi,
presbiteri, diaconi e ministri, sia anatema».
Con queste dichiarazioni il Concilio di Trento intende rispondere con fermezza contro le
affermazioni di Lutero che minano alla base la sacramentalità dell’Ordine. In sintesi, si può dire
che era necessario di riaffermare una Chiesa strutturata, all’interno della quale vengono a
designarsi i diversi ministeri, la cui origine si trova nel Nuovo Testamento. Un secondo
elemento, è quello secondo cui - affermando la realtà sacramentale dell’Eucaristia - il Concilio
di Trento fonda l’esigenza di un sacerdozio che ha il potere di consacrare e di offrire il Corpo ed
il Sangue del Signore per la remissione dei peccati, anche se non viene meno la medesima
funzione di predicare e di insegnare. Questo fa comprendere che non sempre si deve rispondere
ad un’esasperazione di una risposta unilaterale.
Certamente il sacrificio eucaristico è fortemente sottolineato, probabilmente per indicare con
più chiarezza la natura del sacerdozio ministeriale.
Una terzo elemento parte dal fatto che Trento si occupa anche dell’aspetto pastorale del
sacramento dell’Ordine: non poteva non riconoscere che determinate obiezioni della Riforma
Protestante erano più che legittime, dal momento che la Chiesa stava registrando una forte crisi
spirituale, teologica e sacramentale, nonché disciplinare e pastorale (v. gli abusi del tempo:
l’accumulo di benefici, a scapito del Popolo di Dio). Un dato forte parte proprio dalla
costituzione dei Seminari, come ambienti di formazione dei futuri sacerdoti. Si nota, quindi,
un’attenzione della Chiesa verso una situazione critica.
Questi risvolti che abbiamo nella lex credendi, ci danno delle indicazioni di quello che la
Chiesa intende celebrare per il medesimo sacramento dell’Ordine.
Guardando, adesso, allo sviluppo rituale - attraverso i Pontificali - questa amplificatio dei riti
comporta la conseguenza di appesantire il nucleo centrale dell’imposizione delle mani e della
preghiera di consacrazione. Si giunge ad un momento nel quale il nucleo viene spostato verso la
consegna degli strumenti, ma in realtà non sono gli strumenti stessi ad ordinare il sacerdote, ma
il nucleo centrale originario.
Perché la situazione cambi e giunga all’origine, bisognerà aspettare Pio XI che il 30
novembre 1947, con la Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis, riaffermerà il nucleo
centrale dell’imposizione delle mani e della preghiera di consacrazione. Essa è anche frutto di
un lungo dibattito, che permetterà una corretta ermeneutica che ricupererà il senso dei
sacramenta ordinis. Viene affrontata anche la questione dello sviluppo storico.
Di fatto, Pio XII fa un’affermazione di natura dottrinale, dal momento che afferma
l’imposizione delle mani e la preghiera di consacrazione come punto di partenza e come il
cuore dell’Ordine. Tutto questo è importante perché permette di riorganizzare l’ordinazione ed
avrà un certo eco nella stessa Riforma promossa dal Vaticano II. Quello che Pio XII ha detto è
stata un’indicazione importante che ha stabilito una linea principale di condotta da parte di tutta
la Chiesa. Ci fu, quindi, una riforma del Sacramento dell’Ordine (v. l’editio typica del 1968 e
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l’editio typica altera del 1989). La prima edizione corrisponde tra le prime pubblicazioni della
Riforma. Sin da subito ci si rese conto della necessità di ripensare l’Ordine che tra l’altro era
privo dei Praenotanda, perché alcune questioni non erano ancora chiare. C’era anche la
necessità di riformare il rito e modificarlo anche in base ad alcune osservazioni che erano state
fatte, dal 1968 in poi, da alcune Conferenze Episcopali.
Dal 1973 si iniziò un nuovo lavoro di revisione, che fu ripreso, poi, nel 1985, sino a quando
del 1989 uscì l’Editio Typica altera del Pontificale Romano con il seguente titolo: De
Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum.
Dando uno sguardo d’insieme, è importante avere presente alcuni riferimenti per un’ulteriore
approfondimento: gli Studi della Rivista Liturgica, (gen. - feb. 1969) che sono dedicati allo
studio dei nuovi riti. I primi quattro articoli sono interessanti. In merito all’Editio Typica Altera
ci sono altri studi monografici, uno dei quali ha il seguente titolo: I riti di Ordinazione nella
nuova editio typica (sempre in Rivista Liturgica) che riporta alcuni contributi di dell’Oro
(L’Editio Typica Altera del Pontificale Romano delle ordinazioni, c’è qui un commento ai nuovi
Praenotanda), di Magnoli che fa un confronto tra il rito ed i testi delle ordinazioni, comprese le
variazioni tra le due editio, e di Citrini che fa delle belle sintesi (v. L’apporto del rituale alla
teologia del ministero ordinato).
Su questa necessità di uniformare questo volume del rituale con gli altri volumi della
Riforma, si poterono accogliere molte osservazioni sul testo già riformato del 1969. E’
emblematico il cambiamento del titolo, nel senso che la prima editio aveva questa dizione: De
ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopi, mentre la seconda editio, presenta un titolo quasi
invertito. A tale riguardo ci sono due differenze sostanziali:
a. si preferisce, alla successione ascendente, quella discendente per recuperare la
linea antica. Essa è ripresa anche dalla Lumen Gentium;
b. viene usato il plurale anziché il singolare. C’è qui l’idea della Chiesa locale, dove
c’è un solo vescovo, più presbiteri e più diaconi. Dunque, si nota la presenza di
una comprensione teologica ben precisa che sottolinea la strutturazione del titolo
dell’Editio Typica Altera.
Tutto il testo del Pontificale Romano delle Ordinazioni è organizzato in cinque capitoli:
■ Caput I: De Ordinatione Episcopi;
■ Caput II: De Ordinatione presbyterorum;
■ Caput III: De Ordinatione Diaconorum;
■ Caput IV: De Ordinatione diaconorum et de ordinatione presbyterorum in una actione
liturgica simul conferendis;
■ Caput V: Textus in celebratione Ordinationum adhibendi.
Oltre a questi capitoli ci sono i Praenotanda generalia ed un Appendice. Naturalmente
all’inizio sono riportati il Decreto di Promulgazione della Sacra Congregazione dei Riti e la
Constitutio Apostolica di Paolo VI. Si trova anche l’edizione italiana di questo testo.
Dunque, si può notare un unico schema formato dai primi tre capitoli. Ciascuno di essi si
apre con dei Praenotanda che sono suddivisi ed organizzati in base all’importanza della
ordinazione, degli Uffici e dei ministeri, nonché delle cose da preparare. Poi c’è da notare che
segue il rito stesso dell’Ordinazione, secondo questa struttura:
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1. Riti iniziali;
2. Liturgia della Parola;
3. Ordinazione;
4. Liturgia Eucaristica;
5. Riti di conclusione.
Tale schema si trova in ciascun capitolo relativo all’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e
dei diaconi. Infine, vengono riportati dei testi con delle varianti in cui ci sia l’ordinazione di più
vescovi o per un solo presbitero o per un solo diacono.
Facendo una lettura analitica di questo rituale delle ordinazioni, ci sono alcune novità
evidenti: la prima è proprio l’introduzione di questi Praenotanda Generalia che soddisfano la
necessità di ordine metodologico e l’esigenza di mettere in luce la dottrina del rito
dell’Ordinazione. Lo stile è essenziale ed il linguaggio richiama quello della Lumen Gentium e
di altri documenti del Concilio Vaticano II. Questi Praenotanda sono divisi in 3 parti:
■ De Sacra Ordinatione;
■ De structura celebrationis;
■ De aptationibus ad varias regiones et adiuncta.
Nella prima parte, viene tracciato, in sintesi, il quadro teologico dentro il quale si viene a
svolgere la stessa celebrazione del sacramento dell’Ordine. Con la celebrazione del sacramento
vengono istituiti nel nome di Cristo e ricevono il dono dello Spirito alcuni membri della
Comunità, assumendo, così la missione di pascere la Chiesa con la Parola e la Grazia di Dio.
Qui non si tratta di una delega, ma in primo luogo un intervento diretto di Dio che conferisce il
dono dello Spirito Santo perché i candidati siano in grado di svolgere il loro futuro ministero.
Essi vengono posti in stretto rapporto con la Persona di Cristo. Come il Padre ha mandato ed ha
consacrato il Figlio, così il Figlio ha reso partecipi gli Apostoli della medesima consacrazione e
missione. Quindi, il riferimento teologico è, sin dall’inizio, molto netto. Questo stretto rapporto
con la Persona di Cristo avviene con la consacrazione, con l’unzione e con la missione del
Cristo storico, alle quali partecipano i successori degli Apostoli, come afferma anche la LG 28
che recita:
«Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo
degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro
successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi hanno legittimamente affidato a
vari membri della Chiesa, in vario grado, l'ufficio del loro ministero. Così il
ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da
quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri,
pur non possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio
della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in
virtù del sacramento dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno
sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il
Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del
Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell'ufficio dell'unico
mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la parola di Dio.
Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove,
agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere
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dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente e
applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del
Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se
stesso al Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il
ministero della riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o
ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb
5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l'ufficio di Cristo, pastore e
capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo
spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro
gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella
predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e
meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò che
insegnano. I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine episcopale e suo aiuto e
strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo un
solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità locali
di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore
confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la
sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità del
vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata,
nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un grande
contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12).
Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel contribuire
al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In ragione di questa
loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti
riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo,
poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo
chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi
dell'ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono
associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene
di tutta la Chiesa. In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i
sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che deve spontaneamente e
volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e
personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità. Abbiano
poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col
battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti
spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro
comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome
di cui è insignito l'unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr.
1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e
con la loro sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici,
l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la
testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori ricercare anche quelli
(cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato
la pratica dei sacramenti o persino la fede. Siccome oggigiorno l'umanità va
sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più
bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei
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vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto
il genere umano sia ricondotto all'unità della famiglia di Dio».
Qui si trovano tutti gli elementi teologici fondamentali che suggeriscono un’atmosfera
ecclesiologica particolare del Vaticano II, dove c’è una Chiesa che - secondo Vagaggini - pone
in primo piano il suo essere comunione ontologica, soprannaturale e sacramentale, che viene
animata dalla vita divina all’interno della Santissima Trinità. Si tratta di un’ecclesiologia di
comunione, all’interno del quale è compresa l’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei
diaconi.
A questa comunione è finalizzata ogni struttura all’interno della Chiesa, tanto più la struttura
ministeriale. Il ministero è al servizio di questa comunione. L’azione di Cristo Chiesa, l’unzione
dello Spirito e l’assunzione specifica di una funzione, indica una nuova triplice dimensione
scaturente proprio da questa prospettiva teologica ed ecclesiologica. Sono elementi che già nel
passato erano già presente, nel senso che, richiamando la struttura classica, è Cristo Chiesa che
elegge, mentre l’essenza di questa ordinazione è l’unzione dello Spirito (epiclesi dello Spirito)
che comporta l’assunzione di una funzione ben precisa.
La seconda parte dei Praenotanda tratta della struttura della celebrazione dove si nota un
ritorno dell’imposizione delle mani e della preghiera di consacrazione come nucleo essenziale e
centrale dell’Ordinazione. Tutta la celebrazione è rivolta a questo nucleo, sia nei riti che
preparano il momento centrale, sia nei riti che seguono subito dopo. Questi riti manifestano la
loro natura esplicativa e non sono assolutamente da ritenersi costitutivi del rito di ordinazione.
Tutta l’Assemblea partecipa con la supplica silenziosa con l’ascolto e l’acclamazione del suo
assenso a questo momento centrale che trova nella celebrazione eucaristica il massimo culmine
e l’epifania massima della Chiesa, soprattutto nel giorno del Signore. L’indicazione di un
giorno diverso dalla domenica, per la relativa ordinazione, ha come elemento primario una
finalità pastorale con la quale assicurare la massima partecipazione da parte dell’Assemblea,
cioè del popolo riunito intorno al Vescovo e a coloro che stanno per ricevere il Sacro Ordine.
Questo fatto sottolinea anche l’intimo legame che c’è tra il Sacramento dell’Ordine e la
celebrazione eucaristica.
In merito agli adattamenti, c’è un riferimento alle necessità delle singole regioni. Si entra in
un quadro più generale legato al problema dell’inculturazione e degli adattamenti che ogni
Conferenza Episcopale è chiamata ad adottare in base alle esigenze della Chiesa locale.
Andando avanti, la struttura della celebrazione, secondo la Editio Typica Altera, possiamo
vederla in modo sincronico, a partire dall’Ordinazione episcopale:
■ riti iniziali e liturgia della Parola;
■ rito di ordinazione.
Si tratta di un primo elemento che soggiace al principio secondo cui è evidente un forte
legame tra la celebrazione del Sacramento dell’Ordine e la Chiesa. Non c’è semplicemente
un’indicazione funzionale. Come si può vedere, in tutti i riti l’ordinazione viene collocata dopo
la proclamazione della Parola: è un dato fondamentale che dice il luogo esatto della
celebrazione che richiama al principio del Vaticano II che sottolinea lo stretto legame tra la
Parola di Dio ed il Sacramento. Quanto viene annunciato e proclamato ha poi il suo seguito
nella celebrazione sacramentale. Questo dato non è funzionale, perché la celebrazione
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eucaristica dà la chiave di lettura per comprendere al meglio ciò che sta avvenendo o è già
avvenuto nel Sacramento dell’Ordine.
C’è anche una scelta appropriata delle letture adeguate proprio per ciascuna ordinazione.
Dunque, dopo la proclamazione della Parola, l’elemento centrale resta proprio il rito
dell’Ordinazione che si apre con dei riti preparatori. Per quanto riguarda il vescovo c’è, in
primo luogo, la presentazione, mentre per gli altri candidati si parla di elezione. Segue, poi, la
richiesta di ordinazione rivolta al vescovo consacrante; per il vescovo che deve essere ordinato
c’è il mandato apostolico della Santa Sede. L’Assemblea partecipa rendendo grazie a Dio. E’
importante dire che questa presentazione / elezione è un segno importante secondo cui
l’Assemblea vede nel vescovo ordinato e nei presbiteri o diaconi ordinati un dono di Dio.
Certamente è la Chiesa che presenta ed elegge il candidato. Quella stessa elezione fa parte di
questo intervento di Dio, anche se passa attraverso l’Assemblea stessa. Se è la Comunità sceglie
i suoi ministri, è altrettanto vero che essa è conscia del fatto che c’è una manifestazione
dell’intervento di Dio, quale elemento costitutivo22. E’ Dio stesso ad essere l’autore primo della
chiamata dei nuovi candidati al Sacramento dell’Ordine.
Subito dopo segue l’omelia del Vescovo ordinante, che dice la comprensione che la Chiesa
ha del Sacramento dell’Ordine. Una particolarità che si deve notare è che, subito dopo la Parola
proclamata, avviene la presentazione e/o la elezione del candidato o dei candidati, che sta a
significare che la Parola, appena proclamata, illumina ciò che la Chiesa sta per fare. Questo
fatto va contestualizzato: la Parola è accolta dall’Assemblea che elegge e presenta i nuovi
ministri. Si vede così come la Parola di Dio entra nel cuore dei credenti e viene interiorizzata.
Una medesima struttura la si nota anche per quanto riguarda l’ordinazione presbiterale. Il
vescovo riconosce che la scelta del presbitero avviene per opera di Dio, mediante la
partecipazione dell’Assemblea. L’omelia stessa deve illuminare quello che sta avvenendo in
quel momento e deve guidare i fedeli al senso vero e proprio dell’ordinazione, in modo da
favorire la sensibilità secondo cui non è il candidato ad essere messo al centro, ma l’azione
dello Spirito che opera. Nella Chiesa antica questa sensibilità era molto forte, dove la stessa
preparazione che prevedeva il digiuno e la veglia di preghiera di tutta la Chiesa, insieme al
candidato o ai candidati.
Dopo l’omelia seguono le promesse dei candidati che sono invitati a manifestare la propria
volontà ad assumere degli impegni precisi all’interno della Comunità. Queste promesse si
concludono con la seguente affermazione: «Dio che ha iniziato in te questa la sua opera la
porti a compimento» 23. Ancora una volta, viene manifestata la coscienza della Comunità che è
Dio che opera nel candidato, affinché riceva il dono dello Spirito per compiere la missione che
gli verrà affidata. Dunque, la stessa ordinazione è dono di Dio, al quale viene annesso un altro
elemento importante: l’impegno che dovrà essere assunto dal candidato o dai candidati. La

22Questo aspetto lo si nota ancora di più nell’ordinazione di nuovi presbiteri, secondo quanto riferisce la rubrica n.
122 dell’Editio Typica: «Auxiliante Domino Deo et Salvatore nostro Iesu Christo, eligimus hos fratres nostros in
Ordinem presbyterii» («Con l’aiuto di Dio e di Gesù Cristo Nostro Salvatore, noi scegliamo questi nostri fratelli
per l’ordine del presbiterato»).

23E’ il momento in cui, al termine delle promesse il vescovo conclude: «Qui coepit in te opus bonum, Deus, ipse
perficiat».
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dimensione dell’impegno viene esplicitata dalla manifestazione del candidato di assumerla


pienamente. Si ha così la consapevolezza del Sacramento dell’Ordine stesso che coinvolge la
persona e cambia radicalmente la sua vita, attraverso il ministero sacerdotale che dovrà essere
compiuto per il bene del Popolo di Dio e per la salvezza di tutti: il compito primario è quello di
chiedere o implorare la misericordia di Dio a favore del popolo. Il dono compromette la vita di
chi lo riceve, sull’esempio di Cristo che si è offerto totalmente al Padre.
In questo ambito, il culto non semplicemente come ritualità, perché - altrimenti - sarebbe
estremamente limitante e riduttivo. In questa ottica, si pone in primo piano il sacerdozio di
Cristo con il quale si investe il candidato all’Ordine. Indica una precisa qualità del sacerdozio di
Cristo, cioè la piena offerta della propria vita. Qui riemerge nuovamente la dimensione del dono
che vive un continuo dialogo con la dimensione dell’impegno radicale. Questa duplice grado è
presente in tutti i gradi del Sacramento dell’Ordine.
La promessa d’obbedienza, richiamando all’immagine del suddito che si affida e si offre al
servizio del vassallo, dice un doppio aspetto: se da una parte il candidato promette fedeltà,
obbedienza e filiale rispetto al vescovo, dall’altra è il vescovo che si prende cura del candidato
stesso, diventandone, in prima persona, responsabile. Se il candidato si consegna, il vescovo
deve garantirgli di vivere tale consegna.
Seguono poi le litanie (supplicatio litanica), dove l’Assemblea partecipa pienamente al
momento vero e proprio dell’ordinazione e si rende conto della grandezza del mistero che
caratterizza il momento dell’ordinazione. Un altro aspetto non meno significativo parte proprio
dal fatto che l’Assemblea si rende conto che il candidato deve essere sostenuto dalla preghiera
di tutta la Chiesa: è il significato proprio della litania che è l’amplificazione silenziosa di tutta
quella preghiera dentro la quale nella Traditio Apostolica veniva pronunciata la preghiera di
consacrazione. Il gesto della prostrazione che accompagna il canto litanico, oltre ad essere un
profondo gesto di umiltà, indica la supplica intensa di tutta la Chiesa che sente il bisogno di
sostenere il candidato. In questo momento è come se l’Assemblea presente diventasse
l’Assemblea di tutta la Chiesa. Questa supplica si caratterizza con le intercessioni presso la
Vergine e presso i Santi che vengono ascoltati dal Padre: ciò indica l’intensità e la forza della
preghiera, che indica il luogo relativo al momento dell’imposizione delle mani e della preghiera
di consacrazione, dal momento che è la Vergine, insieme ai Santi e a tutta l’Assemblea riunita, a
pregare per quel candidato. Qui si scorge anche una dimensione fortemente ecclesiologica del
sacramento dell’Ordine.
Al termine del canto litanico quando il candidato si alza, il vescovo dice:
«Exaudi nos, quaesumus, Domine Deus noster,
ut super hos famulos tuos benedictionem Sancti Spiritus
et gratiae sacerdotalis effunde virtutem:
ut, quos tuae pietatis aspectibus offerimus consecrandos,
perpetua muneris tui largitate prosequaris.
Per Christum Dominum nostrum»24.

24 La traduzione del testo latino è la seguente: «Ascolta o Padre la nostra Preghiera. Effondi la benedizione dello
Spirito Santo e la Potenza della Grazia sacerdotale su questi tuoi figli. Noi li presentiamo a Te, Dio di
Misericordia perché siano consacrati e ricevano l’inesauribile ricchezza del tuo Dono. Per Cristo Nostro
Signore».
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Con questa preghiera siamo giunti al momento culmine dell’ordinazione, che raggiunge la
sua pienezza e la sua completezza con la stessa celebrazione eucaristica, dentro la quale si
celebra lo stesso Sacramento dell’Ordine. Il segmento rituale dell’ordinazione fa, dunque, parte
dell’Eucaristia, il cui culmine è la stessa preghiera eucaristica, che chiede lo Spirito per
trasformare il Pane ed il Vino in Corpo e Sangue di Cristo. Tutto questo si svolge all’interno di
questo clima di preghiera di cui si è detto prima, il cui segno massimo è, ancora una volta,
anche a livello rituale, il silenzio. La stessa prece eucaristica dà la chiave di quello che è
veramente avvenuto all’interno dell’ordinazione, compresa l’epiclesi dell’ordinazione
medesima. Nel Pane e nel Vino noi vediamo realizzata, in modo reale, anche se simbolica,
l’opera dello Spirito Santo. C’è da aggiungere anche dentro la prece eucaristica si ritrovano le
intercessioni per coloro che hanno ricevuto l’epiclesi dell’ordinazione, dal momento che la
stessa preghiera eucaristica è il modello di ogni preghiera della Chiesa. Tutto questo, a livello
spirituale, ha delle fortissime conseguenze.
La stessa imposizione delle mani è fatta nel silenzio, quale segno rituale della presenza dello
Spirito che agisce sul candidato. La medesima preghiera di ordinazione non rompe questo
silenzio, ma è riempita da quel silenzio che dice tutta la Chiesa orante. La stessa invocazione
dello Spirito attualizza ciò che nell’arco della Storia della Salvezza ha già fatto, in riferimento a
quello che Cristo ha compiuto, contro il sacerdozio rituale ed esteriore. C’è, dunque, un’azione
paracletica (paraclesi) che trasforma il candidato in capo del suo popolo. Questo fatto è
soprattutto evidente nell’ordinazione episcopale, dove il candidato assume il sacerdozio di
Cristo nel suo sommo grado. Gli stessi officia assegnati ai candidati sono azione dello Spirito
Santo che poi ritorna al Padre (anaclesi). Tutto questo è conseguenza diretta dell’epiclesi, il cui
compimento definitivo è contrassegnato dall’anaclesi o ritorno al Padre, da parte dello Spirito.
Questo fa comprendere che gli stessi riti esplicativi (v. la vestizione e la consegna degli
strumenti) hanno solo il ruolo di manifestare quello che è avvenuto: ad essi non si può dare
importanza capitale, altrimenti si cade negli errori del passato.
Infine, seguono i riti d conclusione che sono stati snelliti e rimessi come in origine erano: si
tratta della benedizione solenne che conclude la celebrazione eucaristica. I testi del nuovo rito
sono quelli che la Tradizione ci ha consegnato, anche se con le opportune varianti.

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