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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
Prof. Vittorio Viola Ofm.
1a Lezione.
- Sacramento dell'Ordine -
INTRODUZIONE GENERALE
In ultima analisi, ciò spiega che ci sono modi diversi di guardare l’unico oggetto del
ministero ordinato, tanto che – da una parte – ci sono teologi che sottolineano in detto
ministero ordinato, la sua identità, sottolineando il dato teologico, mentre – dall’altra –
ci sono altri autori, invece, che sottolineano l’origine stessa, cioè Cristo, quale unica
fonte da cui promana il sacerdozio ministeriale della Chiesa. Ci sono anche coloro che
sottolineano maggiormente la relazione del ministero ordinato. Certamente, è
importante evitare di rendere assoluta una di queste visioni, anche se ognuna di esse
dice una verità fondamentale.
3) il dato della spiritualità del ministro ordinato, in modo particolare del presbitero
diocesano. In effetti, la riscoperta della Chiesa locale ha messo in luce una riscoperta
di una spiritualità più specifica, dando una risposta all’identità del presbitero, che
comporta anche una dimensione pastorale. In tal senso si trova una buona letteratura,
anche se non manca l’esigenza di giungere ad una completezza e ad una pienezza del
ministero ordinato.
Su questi tre orientamenti si richiama il Concilio Vaticano II: noi ci collochiamo a partire
dalla celebrazione del sacramento dell'Ordine. Una cosa che i teologi non fanno è quella di
pensare che nella Chiesa il ministero ordinato è reso presente attraverso la sua stessa
celebrazione: essi non fanno una teologia che parta dalla celebrazione liturgica, che costituisce
il momento fontale del sacramento dell’Ordine. C'è, dunque, la presunzione di fare teologia che
parta dal momento in cui la Chiesa, ordina i diaconi, i presbiteri ed i vescovi. Ciò cambia il
modo di comprensione di questo sacramento.
Questo modo di affrontare l'oggetto del sacramento dell'Ordine, può avere il vantaggio di
non essere unilaterali, mediante la celebrazione, con la quale si ha una sintesi viva e sinfonica
dell'ambito teologico del ministero ordinato. Si ha così una sintesi viva della comprensione
della Chiesa e ciò allontana anche il rischio di una visione parziale delle realtà che rendono
dinamico il ministero ordinato. Si studia, dunque, una realtà viva nel momento in cui si studia la
celebrazione della Chiesa, dal momento che i Sacramenti celebrati non sono morti, ma vivi e
dinamici, anche se la celebrazione stessa è uno tra gli aspetti che li caratterizzano.
In merito al terzo orientamento, circa la comprensione della spiritualità del ministero
ordinato, il limite non sta nella figura del diocesano, anche se la letteratura attuale predilige la
figura del presbitero diocesano e la sua spiritualità. Il nocciolo della questione sta
esclusivamente nella sua dimensione pastorale .
In merito alla finalità di questo corso, c'è una teologia in vista della Liturgia e non soltanto
dalla Liturgia. Tale concetto è presente nella SC 7 del Concilio Vaticano II, quando parla della
natura stessa della Liturgia, come fonte e culmine. Si tratta di una comprensione teologica che è
al servizio della celebrazione, perché da lì tutte le attività della Chiesa raggiungono il loro
culmine.
Senza dubbio, la riflessione sul sacramento dell'Ordine è strettamente legata alla riflessione
sulla Chiesa: è un argomento di grande attualità che va di pari passo con la riflessione sulla
Chiesa, in orientamento alla lex vivendi che con la lex credendi e la lex orandi, costituisce la
griglia fondamentale del nostro percorso.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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1 I passi evangelici sono i seguenti: Mt 10,1; 10,2; 10,5; 11,1; 19,28; 20,17; 26,14; 26,20; 26,47.
2 I passi evangelici sono i seguenti: Mc 3,14; 3,16; 4,10; 6,7; 8,19; 9,35; 10,32; 11,11; 14,10; 14,17; 14,43.
3 I passi evangelici sono i seguenti: Lc 6,13; 8,2; 9,1; 9,12; 18,3; 22,3; 22,47.
4 I passi evangelici sono i seguenti: Gv 6,67; 6,70 (due volte il termine “Dodici”); 20,24.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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piena coscienza dell'origine e del contenuto del suo ministero (1Cor 1,1ss.). Il suo essere
apostolo si spiega nell'iniziativa di Dio che lo ha scelto (v. anche Gal 1,1; Col 1,1). Paolo ha
anche la coscienza (1Cor 1,17) del suo essere chiamato a predicare (1Cor 9,16). Il contenuto è
chiaramente l'annuncio del Vangelo.
Questi sono i primi due dati molto evidenti. Questo annuncio del Vangelo dà a Paolo un
diritto sulle comunità da lui fondate. Si tratta di una potestas (1Cor 9,4-5): questo diritto non è
tirannia, ma è (1Cor 4,15) il richiamo di essere generati mediante il Vangelo, cioè mediante
l'esercizio del ministero di Apostolo. Ciò dice un elemento importante nella relazione tra il
ministro ordinato e la comunità: il contenuto è proprio la paternità che Paolo è chiamato ad
esercitare e a manifestare. Quello che Paolo dice nella 1Cor 4,14-16 è molto bello e conferma la
caratteristica di questa potestas, con la quale viene a generarsi la Comunità cristiana:
«Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come
figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo,
ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù,
mediante il Vangelo. Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!».
Da ciò viene a stabilirsi un vincolo particolare tra la Comunità e lo stesso Paolo, il cui
contenuto è proprio la paternità.
Andando avanti, nella comunità del periodo apostolico, c'è anche l'esercizio dei collaboratori
degli Apostoli. Paolo ha con lui diverse persone, che cita spesso nei saluti, soprattutto quando
specifica il mittente. Nei saluti Paolo indica, dunque, la ministerialità dei suoi collaboratori
(1Cor 9,6). Un passo molto significativo, dove si nota anche un carattere forte da parte di queste
persone, è proprio la 1Cor 16,12, dove Paolo parla di Apollo:
«Quanto poi al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi con i
fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia
quando gli si presenterà l’occasione».
Attorno al ministero di Paolo c'è una ministerialità di altri collaboratori più stretti, ma anche
di persone laiche che hanno con lui una relazione particolare (v. 1Cor 16,15-19, dove Paolo usa
parole di elogio verso la famiglia di Stefana, ritenuta al servizio dei Santi della Chiesa di
Corinto).
Altri esempi li si possono dedurre dalle Lettere di Timoteo e di Tito. Il ruolo di questi
collaboratori è indicato con nomi diversi: ciò testimonia la varietà di questa ministerialità
diffusa. A volte si trovano i termini "diaconoi" (1Cor 3,5), "collaboratori" (1Cor 3,9), "ministri
di Cristo ed amministratori dei misteri di Dio" (1Cor 4,1). C'è un ruolo, dunque, di servizio, di
collaborazione e di amministrazione del contenuto del ministero di Paolo. Tali collaboratori non
si appropriano del ministero loro affidato. La varietà di questi nomi indica la ricchezza della
ministerialità della Chiesa apostolica: questi nomi hanno la denominazione di un'azione
concreta, all'interno della Comunità cristiana. C'è anche la dimensione concreta del lavoro
pastorale come opera che si fa a nome di Dio per il bene della Chiesa stessa. Ciò indica
l’impegno e la fatica del lavoro apostolico.
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2a Lezione.
Come è già stato detto nella lezione scorsa, Paolo spesso fa un riferimento ai carismi presenti
all'interno della Chiesa. Egli parla della diffusione e della varietà della ministerialità (1Cor
12,7-11) 5, accompagnata da una descrizione della ministerialità per l'utilità comune. Questi
carismi sono indicati anche come manifestazione dello Spirito (v. anche 1Cor 14), mediante i
quali si può intravedere sia l’azione dello Spirito nella Comunità, sia una certa gerarchia, che è
sempre frutto dell'azione dello Spirito. Dunque, si affaccia già nella Comunità una gerarchia di
questi ministeri.
Nelle Chiese fondate da Paolo, c'è una Comunità molto variegata ed una ministerialità
diffusa: all'interno di essa, Paolo inizia a fare un certo ordine dei diversi ministeri (1Cor12,28)6,
secondo una certa successione. Come è già stato visto, Paolo riconosce questa trilogia, dove
alcuni ministeri o carismi sono posti in sequenza (gli Apostoli, i Profeti, i Dottori). Tra l’altro
5 Il testo della 1Cor 12,7-11 così recita: «E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per
l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo
dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far
guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il
dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma
tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole».
6 Il testo della 1Cor 12,28 dice: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in
secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i
doni di assistenza, di governare, delle lingue».
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questa trilogia, secondo il parere degli esegeti, è originaria della zona di Antiochia e non è da
vedersi tanto come invenzione di Paolo (At 13,1: «C’erano nella comunità di Antiochia profeti
e dottori: Barnaba, Simenone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno
d’infanzia di Erode tetrarca, e Saulo»). Si nota comunque una sintonia di termini e di
linguaggio nell’ambito di questi ministeri ricevuti. Che questi nomi vogliano indicare una
funzione specifica, lo si nota dal fatto che Paolo li presenta come ministeri diffusi e meno
specifici. In particolare, Paolo ci dice alcune cose che ci aiutano qual'è il senso ed il valore della
profezia: Paolo si sofferma su alcuni dati che riguardano i profeti. Egli però non procede
secondo una certa sistematicità, perché non è nel suo interesse farlo. La 1Cor 14,22-23.287 dice
che la profezia è per i credenti, a differenza delle lingue che sono per gli infedeli. Paolo fa
riferimento al contesto in cui si muove l'azione dei profeti: si tratta di un contesto liturgico (la
Comunità che si raduna per celebrare il mistero di Cristo). Il contenuto del ministero esercitato
dai profeti, cioè la sua finalità, è l'edificazione e l'esortazione e conforto (1Cor 14,3)8, che
descrivono il ministero della Parola, all'interno dell’Assemblea liturgica. Allora, il ruolo dei
profeti si colloca tra l'annuncio dell’Apostolo e dei suoi collaboratori e l'attività o ministero
compiuto da chi presiede la Comunità.
Paolo descrive anche alcune regole pratiche per l’esercizio del ministero di questa profezia e
lo fa sempre al capitolo 14 della 1Cor, dal v. 23 al v. 26 9, dove ci sono alcune indicazioni e dove
si nota sempre una finalità. Se uno non riconosce il Signore nell'esercizio di questo ministero
neanche lui viene riconosciuto. E’ interessante questo atteggiamento molto deciso di Paolo che
dice anche le caratteristiche per verificare l'autenticità dell'azione profetica. Paolo regola tale
attività con una certa autorità. Dunque, quello che Paolo ha stabilito deve essere osservato.
L’accogliere e il riconoscere le regole che Paolo dà nell’esercizio del ministero della profezia, è
garanzia della verità dell’esercizio di quel ministero. Chi non osserva queste regole non è
neppure riconosciuto come profeta.
7 Si legge nella 1Cor 14,22-23.28: «Quindi le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti,
mentre la profezia non è per i non credenti ma per i credenti. Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità,
tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse
che siete pazzi? Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso e a Dio».
8 La 1Cor 14,3 afferma: «Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto».
9 La 1Cor 14,23-26 dice: «Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle
lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi? Se invece tutti
profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti,
giudicato da tutti; sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio,
proclamando che veramente Dio è fra voi.Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un
salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per
l’edificazione». A tale riguardo, rimane interessante quello che dice Paolo nella 1Cor 14,36-40, dove dice: «Come
in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano
invece sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro
mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.Forse la parola di Dio è partita da voi? O è
giunta soltanto a voi? Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto
scrivo è comando del Signore; se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto. Dunque, fratelli miei,
aspirate alla profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. Ma tutto avvenga
decorosamente e con ordine».
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Tutto questo ci aiuta a capire come la Comunità di Corinto era organizzata. Di fatto, c'è a
capo della Comunità un gruppo di persone, le quali mantengono un certo legame con l'apostolo
Paolo, a motivo anche di alcuni fatti scandalosi avvenuti dentro la Comunità. C’è da dire che
Paolo ha continuato a predicare il Vangelo e non si è fermato ad esercitare il suo ministero.
Questo è un dato significativo che permetterà a Paolo, di essere informato di questi fatti
negativi, per i quali manifesta non solo il suo consiglio, ma dà anche delle precise disposizioni.
Egli decide per la Comunità di Corinto, a fronte di problemi di natura morale e spirituale. Da
questi dati si delinea già una struttura della prima Comunità cristiana. Anche nel confronto del
ministero della profezia, egli stabilisce le modalità di esercizio (1Cor 14,26-33). Anche Timoteo
esercita questo ministero come volta tra Paolo e la Comunità, ben sapendo che è stato inviato
direttamente da Paolo.
Lasciando per un po’ la Comunità di Corinto, il momento successivo che ci interessa è il
periodo post-apostolico.
A noi interessano queste lettere pastorali, perché fotografano un momento particolare del
ministero. Si tratta di una fase nuova, nella quale bisogna gestire la Comunità, quando Paolo
non c’è già più. In effetti, per esse dobbiamo seguire un passaggio delicato: in tal caso, è
importante il riferimento normativo, cioè l'Apostolo che mantiene i contatti con le Comunità. Il
venir meno degli Apostoli comporta delle problematiche, tra le quali la conservazione della
sana dottrina (v. il rischio delle eresie).
In questa situazione mutata, emerge come il ministero, all'interno della Comunità, ha uno
stretto legame con la necessità di conservare l'ortodossia della fede e della dottrina. Emerge così
il legame stretto tra il ministero e la dottrina, dal quale il ministero stesso è al servizio della
dottrina. In questo ambito è centrale la Lettera di Tito 1,5-910: Paolo ci dice qual'è il compito di
Tito, chiamato a continuare e completare l'opera dell'apostolo, stabilendo dei presbiteri. Paolo si
accorge che il custodire la sana dottrina è legato con il modo di essere con la Comunità e alla
presenza di ministri veri e non di pseudo profeti o apostoli. Questi presbiteri sono stabiliti
secondo le disposizioni di Paolo: le loro qualità (v. 6) sono di carattere morale e spirituale, ma
non manca il carattere pastorale (v. 7). Ancora una volta appare l’autorità e l’autorevolezza
dell’Apostolo nell’ambito dell’esecuzioni delle sue direttive da parte dei suoi collaboratori.
Queste persone, secondo i termini "anziani" "presbiter" ed "episcopus", non sono diverse
dalle altre della comunità, come appare dal contesto. A tale riguardo si nota una terminologia
piuttosto fluttuante. In effetti, si tratta di un unico ministero esercitato in maniera stabile dalle
10 La Lettera a Tito 1,5-9 afferma: «Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e
perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato: il candidato deve essere
irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano
insubordinati. Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, dev’essere irreprensibile: non arrogante, non
iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma ospitale, amante del bene,
assennato, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmesso, perché sia
in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono».
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persone scelte. Non si tratta più di ministri itineranti, ma di ministri che agiscono all’interno
della Comunità. Dunque, c'era il bisogno di organizzare la presenza stabile di un ministero per
la Comunità stessa. Al v. 9, sempre del primo capitolo della Lettera di Tito, si parla dell'attività
del presbiter, cioè l'esortazione alla sana dottrina e l'ammonizione degli eretici (v. la
confutazione di false dottrine). Questo vescovo-presbitero, deve avere anche delle precise
qualità morali e spirituali.
Se si guarda, poi, alla testimonianza di Timoteo, ci sono altri dati importanti: Timoteo è
rimasto ad Efeso contro il pericolo di diffusione di false dottrine. In questo ambito, troviamo il
termine "diacono" (ci sono dei termini che hanno la radice “diacon” per indicare questo tipo di
ministero, ben in otto versetti). Questa diaconia che Timoteo esercita nella comunità efesina, è
un prolungamento della diaconia di Paolo (1Tm 1,12; 2,7)11. Paolo, facendo riferimento alla sua
diaconia, fa riferimento ad un momento costitutivo per lui, in cui gli viene consegnata questa
diaconia (il verbo greco è Titemi). Questo modo di parlare di Paolo, fa riferimento ad un
momento in cui lui è stato stabilito dentro questa diaconia.
Il punto di partenza, che dice il passaggio ad una nuova posizione o condizione, può essere
l'imposizione delle mani (At 13), oppure al momento della sua conversione. A Timoteo viene
data questa diaconia in un preciso momento costitutivo (1Tm 4,6)12. Egli viene posto al servizio
e all’esercizio di questo ministero.
C'è anche un'indicazione relativa al contenuto e alla funzione della diaconia che da Paolo
continua nell'esercizio della diaconia di Timoteo: l'opera principale è proprio l'evangeliz-
zazione, legata alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento. Ancora una volta si tratta di un
ministero della Parola. A lui gli è stato dato il dono della profezia: è il momento nel quale
Timoteo ha ricevuto, con l'imposizione delle mani dei presbiteri, un preciso incarico ed un
carisma particolare, per mezzo della profezia. Ciò costituisce un momento particolare, nel quale
Timoteo ha ricevuto un mandato esplicito. Si tratta del nucleo rituale, attorno al quale si è
sviluppata tutta la ritualità del sacramento dell’Ordine. Il contesto è pienamente liturgico,
perché ha un carattere rituale. E' una parola detta da chi ha imposto le mani, in un contesto
liturgico. Ci sono, dunque, degli elementi rituali:
a) la profezia (una parola detta sulla persona interessata in ambito liturgico);
b) l'imposizione delle mani.
11La 1Tm 1,12 dice: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato
degno di fiducia chiamandomi al ministero». Invece, la 1Tm 2,7 afferma: «Questa testimonianza egli l’ha data nei
tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo - dico la verità, non mentisco -, maestro dei
pagani nella fede e nella verità».
12 La 1Tm 4,6 dice: «Proponendo queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito come sei
dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito». Ai versetti successivo dice ancora: «Rifiuta invece
le favole profane, roba da vecchierelle. Esèrcitati nella pietà, perché l’esercizio fisico è utile a poco, mentre la
pietà è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente come di quella futura. Certo questa parola è
degna di fede». Infine, dal v. 13 sino al v. 16 dice: «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura, all’esortazione e
all’insegnamento. Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti,
con l’imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse
interamente perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così
facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano».
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Viene anche detto quale è il ruolo dei presbiteri dentro la Comunità (1Tm 5,17-25) 13. Essi
vengono riconosciuti per quello che hanno fatto all’interno della Chiesa. Il loro ruolo è descritto
da Paolo in modo attento, sottolineando il ruolo dell’insegnamento, ma – ancora una volta –
l’Apostolo dà delle norme precise di come Timoteo deve organizzare il ministero di questi
presbiteri. La cosa che più interessa è proprio il ruolo di presidenza che i presbiteri hanno
all’interno della Comunità. E’ una presidenza che fino ad ora si è manifestata come una
presidenza dell’Assemblea riunita, accompagnata dall’esercizio di un ministero, che è la Parola.
Inoltre, nella terminologia di Paolo, ricorrono termini che sono molto vicini tra loro, che
spesso vengono scambiati per le stesse persone (si tratta della duplice terminologia, vescovi e
presbiteri. C’è anche la coppia vescovi e diaconi 1Tm 3,1-13 14): in effetti, è difficile stabilire se
le persone alle quali sono applicati, siano proprio le stesse. La descrizione che Paolo fa del
vescovo e del diacono è caratterizzata da qualità molto simili, tra il vescovo ed il diacono.
Dunque c'è una terminologia ancora non tecnicizzata, che non è ancora in grado di specificare
bene i ruoli all’interno della Comunità, ma che esprime una funzione di servizio, in un ambito
ministeriale.
Gli stessi dati, poi, si trovano sia per la diaconia di Paolo e sia per quella di Timoteo.
L'ultima citazione richiama all'autorità di Paolo che gestisce un gruppo di persone, che sono
itineranti. Esse hanno il compito di stabilire dei ministri. Tale argomento lo ritroviamo nella
2Tm 4,9-13, dove si parla della diaconia dei collaboratori di Paolo. Essa così si esprime:
«Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo
preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in
Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con
te, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico a Efeso.
13 La 1Tm 5,17-25 afferma: «Presbiteri che esercitano bene la presidenza siano trattati con doppio onore,
soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento. Dice infatti la Scrittura: Non metterai
la museruola al bue che trebbia e: Il lavoratore ha diritto al suo salario. Non accettare accuse contro un
presbitero senza la deposizione di due o tre testimoni. Quelli poi che risultino colpevoli riprendili alla presenza di
tutti, perché anche gli altri ne abbiano timore. Ti scongiuro davanti a Dio, a Cristo Gesù e agli angeli eletti, di
osservare queste norme con imparzialità e di non far mai nulla per favoritismo. Non aver fretta di imporre le mani
ad alcuno, per non farti complice dei peccati altrui. Conservati puro! Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di
un po’ di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni.Di alcuni uomini i peccati si manifestano
prima del giudizio e di altri dopo; così anche le opere buone vengono alla luce e quelle stesse che non sono tali
non possono rimanere nascoste».
14 La 1Tm 3,1-13 dice: «È degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro.
Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale,
capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia
dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la
propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di
montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. È necessario che egli goda buona reputazione
presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo. Allo stesso modo i diaconi
siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino né avidi di guadagno disonesto, e conservino il
mistero della fede in una coscienza pura. Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili,
siano ammessi al loro servizio. Allo stesso modo le donne siano dignitose, non pettegole, sobrie, fedeli in tutto. I
diaconi non siano sposati che una sola volta, sappiano dirigere bene i propri figli e le proprie famiglie. Coloro
infatti che avranno ben servito, si acquisteranno un grado onorifico e una grande sicurezza nella fede in Cristo
Gesù».
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Da questo passo si può vedere ancora più chiaramente come Paolo gestisce questo gruppo di
persone. Si nota anche un grande movimento che dimostra, ancora una volta, l’itineranza di
questi stretti collaboratori dell’Apostolo, i quali, però, nelle comunità – soprattutto nel periodo
post-apostolico – hanno il compito di stabilire dei ministri fissi che hanno, come si è già detto,
il ruolo di presiedere la Comunità cristiana.
Conclusione.
Una tra le prime fonti, in questa prima epoca, come oggetto privilegiato, è la Traditio
Apostolica che non si può dire fonte liturgica propriamente detta, ma – certamente – una fonte
di interesse liturgico dal momento che in essa si trovano elementi liturgici e giuridici che
dicono l’organizzazione stessa della Comunità cristiana. Nell’ambito di questo corso, a noi
interessa anche cogliere in altre fonti altri elementi, per i quali si trova la testimonianza sulla
ministerialità: esse hanno il privilegio dell’antichità e della vicinanza al Nuovo Testamento. La
prima fonte che verrà trattata è quella della Didaché: di essa il Docente ha messo nella colonna
a sinistra il testo tradotto in italiano, mentre la colonna destra è stata lasciata intenzionalmente
vuota per facilitare lo studente ad inserire i suoi appunti personali. Tali fotocopie verranno
utilizzate nell’ambito di questa pro-dispensa e non verrà nuovamente riportato il testo nella
medesima.
1. La Didaché.
PARTE PRIMA
- Istruzioni morali (cc. 1-6): le due vie.
1. La via pratica pratica dell’amore di Dio e del prossimo (c.1), fuga dal peccato
(cc. 2-3), adempimento dei nostri doveri (cc. 3-4).
2. La via della morte peccati che la caratterizzano (c. 5), esortazione alla vigilanza
(c. 6).
PARTE SECONDA
- Istruzioni liturgiche (cc. 7-10).
1. Il Battesimo forma, materia e modo di amministrarlo, preparazione al
battesimo (c. 7).
2. Il digiuno, i giorni di digiuno (c. 8,1).
3. La preghiera il Pater tre volte al giorno (c. 8,2-3).
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La parte che più interessa al nostro corso riguarda i capitoli 10, 11, 12, 13, 14, 15 e 16. Per i
capitoli sopra accennati ci può riferire alle pagine 1 e 2 delle fotocopie del Docente.
OSSERVAZIONI
Circa i testi si può dire:
- 10,7: c'è un rendimento di grazie, che interviene nell'azione eucaristica (c’è un
riferimento alla preghiera eucaristica).
- 11,1: c'è il riferimento alla sana dottrina che esprime la fedeltà a quanto è stato
annunziato.
- 11,2: c’è un richiamo al pericolo delle false dottrine ed al criterio per riconoscere la vera
dalla falsa dottrina.
- 11,3-12: si trova, dunque, la terminologia "apostoli" e "profeti". Sono degli itineranti
che non sono conosciuti nella comunità. Anche in questo ambito ci sono dei criteri per
riconoscere il vero profeta da quello falso. Essi sono: il fermarsi nella comunità per un
giorno o al massimo due giorni, perché oltre dimostra la falsità del ministero esercitato;
l'attaccamento al denaro (v. 2Cor 11,1315), cioè servirsi del ministero per il proprio
vantaggio personale, il non pensare a sé stessi (non devono ricevere il denaro), la
coerenza della vita (se ha i modi del Signore), nello stesso tempo la comunità ha il
dovere di riconoscere i veri profeti. Quando li riconosce deve loro tributare onore e a
loro si deve sottomettere. Si nota qui una certa vicinanza con il pensiero di Paolo sulla
realtà ministeriale e sulla sua finalità.
- 12,1-5: c’è un richiamo all’origine del ministero, cioè Cristo (12,1: «Chiunque venga
nel nome del Signore sia ricevuto»), ma anche in questo caso si trova un accenno alla
distinzione tra il falso ed il vero discepolo di Cristo. Si trovano anche le norme per
accogliere un forestiero, il quale, se intende fermarsi, deve praticare un mestiere. Coloro
15La 2Cor 11,13 afferma: «Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di
Cristo».
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che non si sottomettono a questa regola sono “mercanti di Cristo”, cioè falsi cristiani,
dai quali la Comunità si deve guardare.
- 13,1: in questo caso si trova la terminologia "sommi sacerdoti" che sono riferiti ai
profeti. Viene anche specificato un caso particolare, cioè quando un profeta intende
fermarsi. Il suo ministero è l’insegnamento. Egli è maestro (didascalos), al quale deve
essere attribuito lo stesso onore che veniva attribuito ai sommi sacerdoti dell’AT,
riservandogli le primizie dei prodotti locali (vino, olio, denaro, vestiario ed ogni altro
bene). C’è qui un passaggio interessante perché questa identificazione dei ministri
cristiani con le categorie veterotestamentarie segna l’inizio di un percorso che si porterà
ai nostri giorni e dimostra la continuità tra l’AT ed il NT.
dottori, in assenza di quelli che sono deputati a compierli. Si tratta di un ruolo di presidenza
dell’Assemblea riunita, tanto che il verbo greco è leiturgheio (leiturghia). Ciò richiama al
contesto che offre la 1Cor, dove i profeti ed i dottori hanno il compito di insegnare, di esortare,
di ammaestrare e di interpretare la Parola ed il dono delle lingue.
Da parte della comunità c’è un riconoscere il ministero dei vescovi e dei diaconi.
Essenzialmente, si può notare l’assenza del termine presbiteroi, che si trova molto di più in altri
documenti, anche se più tardivi, come ad esempio la Traditio Apostolica, attribuita ad Ippolito.
Questo spiega anche l’origine giudeo-cristiana, ma di origine ellenica della Didaché. Dunque,
come la Didaché ci descrive l’organizzazione della vita della Comunità, si può notare la
presenza di due categorie di ministri: quelli itineranti e quelli eletti dalla comunità stessa. Essi
ci forniscono già un quadro di una certa organizzazione ministeriale, dal momento che il ruolo
del ministro diventa essenziale per la comunità stessa al quale riconosce un certo onore.
Clemente di Roma
La Lettera ai Corinti
PROLOGO
- Indirizzo e saluto situazione della Chiesa di Corinto prima e dopo la sedizione (cc.1-3).
LA GRANDE PREGHIERA.
Clemente loda e ringrazia Dio per la sua potenza e la sua bontà, e lo supplica di venire in
soccorso dell’uomo nelle necessità e nelle realtà concrete della vita (cc. 59-61).
CONCLUSIONE
Riepilogo degli argomenti trattati, menzione dei messaggeri di pace, esortazione alla
concordia e benedizione finale (cc. 62-65).
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Dagli elementi che si possono raccogliere in questo importante documento, si può dire che
affronta una questione che riguarda direttamente l’organizzazione del ministero; in secondo
luogo c’è una tradizione antica del II secolo, che mostra già l’uso di alcuni termini, in
particolare di presbiter, usato in senso tecnico, come una traslitterazione del greco. Si tratta di
un neologismo attraverso il quale la Comunità vuole indicare un qualcosa di preciso.
Dalla struttura e dal contenuto, trapela una situazione drammatica della Chiesa, come si può
vedere già ai numeri 1 e 2.
Certamente prima che la crisi scoppiasse la Chiesa di Corinto è ricordata come una
Comunità coerente con i principi cristiani ed esemplare sotto il profilo della comunione nella
fede in Cristo. L’espressione, «Facevate ogni cosa, senza eccezione di persona e camminavate
secondo le leggi del Signore, soggetti ai vostri capi e tributando l’onore dovuto ai vostri
anziani», è per noi un dato interessante, perché è sottolineata la sottomissione a coloro che
presiedono la comunità. Lo stesso aspetto lo si trova nella 1Cor 16,16, dove si parla
dell’atteggiamento verso i ministri, ed anche nella 1Tm 5,17. Ci sono anche dei termini che
riprendono dei termini presenti negli scritti neotestamentari, ad indicare, in maniera precisa,
delle persone che all’interno della comunità svolgono un ruolo preciso.
Dinanzi a questa situazione molto positiva, si è venuta a verificare una situazione molto
grave, come lo stesso Clemente riferisce sempre al n. 1 (v. fotocopie p. 1):
«Per le improvvise disgrazie ed avversità capitatevi, l’una dietro l’altra, o
fratelli, crediamo di aver fatto troppo tardi attenzione alle cose che si discutono da
voi, carissimi, all’empia e disgraziata seduzione, aberrante ed estranea agli eletti
di Dio. Pochi sconsiderati e arroganti l’accesero, giungendo a tal punto di pazzia
che il vostro venerabile nome, celebre e amato da tutti gli uomini, è fortemente
compromesso».
Sono parole molto forti che Clemente rivolge a questa Chiesa. In effetti, si tratta di un
problema che mina alle fondamenta la struttura stessa della Comunità di Corinto. Ma cosa era
accaduto? Come si può leggere al n. 44/6, si comprende che alcuni sono stati rimossi dal loro
incarico, malgrado la loro correttezza e la loro rettitudine morale (v. fotocopia a p. 4). Già al n.
3 Clemente afferma:
«1 Ogni onore e abbondanza vi erano stati concessi e si era compiuto ciò che
fu scritto: “Il diletto mangiò e bevve, si fece largo e si ingrassò e recalcitrò”. 2.
Di qui gelosia e invidia, contesa e sedizione, persecuzione e disordine, guerra e
prigionia. 3. Così si ribellarono i disonorati contro gli stimati, gli oscuri contro
gli illustri, i dissennati contro i saggi, i giovani contro i vecchi. 4. Per questo si
sono allontanate la giustizia e la pace, in quanto ognuno ha abbandonato il
timore di Dio ed ha oscurato la sua fede; non cammina secondo i comandamenti
divini, non si comporta come conviene a Cristo, ma procede secondo le passioni
del suo cuore malvagio, in preda alla gelosia ingiusta ed empia attraverso la
quale anche “la morte venne nel mondo».
Il problema riguarda direttamente i presbiteri posti a capo della comunità, come si può
notare anche al n. 47/6:
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«E’ turpe, carissimi, assai turpe e indegno della vita in Cristo sentire che la
Chiesa di Corinto, molto salda e antica, per una o due persone si é ribellata ai
presbiteri».
In altre parole si è verificata una ribellione, per la quale Clemente lancia una condanna
precisa contro gli autori di questa sedizione, dal momento che ribadisce un concetto importante:
la ribellione a questi presbiteri è da considerarsi un’offesa gravissima contro Cristo e la sua
Chiesa.
La soluzione che Clemente propone la si può notare al n. 21,5-6:
«5 E meglio urtare gli uomini stolti, ignoranti, superbi, vanagloriosi nella
spavalderia della loro parola che urtare Dio. 6. Veneriamo il Signore Gesù Cristo il cui
sangue fu dato per noi, rispettiamo quelli che ci guidano, onoriamo gli anziani,
educhiamo i giovani al timore di Dio, indirizziamo al bene le nostre donne».
L’intervento che Clemente fa per dirimere questa situazione, non è semplicemente di buon
ordine, ma da alcune motivazioni teologiche precise del perché non si possono destituire i
presbiteri all’interno di una Comunità, ed anche il perché bisogna sottomettersi a loro. Ciò è
messo accanto all’adorare e venerare il Signore Gesù.
Ancora, al 38/1 dice ancora:
«1. Si conservi dunque tutto il nostro corpo in Cristo Gesù e ciascuno si
sottometta al suo prossimo, secondo la grazia in cui fu posto».
C’è, dunque, una grazia che è stata conferita, alla quale bisogna rispondere per garantire un
buon ordine all’interno della struttura della Comunità. Leggendo, poi il n. 42, si possono
scorgere altri elementi:
«1. Gli apostoli predicarono il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu
mandato da Dio. 2. Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose
ordinatamente dalla volontà di Dio. 3. Ricevuto il mandato e pieni di certezza nella
risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo e fiduciosi nella parola di Dio con
l’assicurazione dello Spirito Santo andarono ad annunziare che il regno di Dio era
per venire. 4. Predicavano per le campagne e le città e costituivano le loro primizie,
provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. 5. E questo non
era nuovo; da molto tempo si era scritto intorno ai vescovi e ai diaconi. Così, infatti,
dice la Scrittura: “Stabilorono i loro vescovi nella giustizia e i loro diaconi nella
fede”».
In questo caso Clemente cita Is 60,17, con alcune variazioni, ma proseguendo al n. 44
aggiunge:
«1. I nostri apostoli conoscevano da parte del Signore Gesù Cristo che ci sarebbe
stata contesa sulla carica episcopale. 2. Per questo motivo, prevedendo esattamente
l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla
loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. 3. Quelli che finirono da
essi (apostoli) stabiliti o dopo da altri illustri uomini con il consenso di tutta la
Chiesa, che avevano servito rettamente il gregge di Cristo con umiltà, calma e
gentilezza e che hanno avuto testimonianza da tutti e per molto tempo, li riteniamo
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che non siano allontanati dal ministero. 4. Sarebbe per noi colpa non lieve se
esonerassimo dall’episcopato quelli. che hanno portato le offerte in maniera
ineccepibile e santa. 5. Beati i presbiteri che, percorrendo il loro cammino, hanno
avuto una fine fruttuosa e perfetta! Essi non hanno temuto che qualcuno li avesse
allontanati dal posto loro stabilito. 6. Noi vediamo che avete rimosso alcuni,
nonostante la loro ottima condotta, dal ministero esercitato senza reprensione e con
onore».
In questi due numeri, si nota la fermezza di Clemente con alcune motivazioni di capitale
importanza. Egli richiama al quadro apostolico, secondo il quale la destituzione non può
avvenire, dal momento che non può venire meno quella successione tra gli Apostoli. Questo
essere mandati da Cristo, come Cristo stesso è stato mandato da Dio, è un fatto teologico
costitutivo che non può essere violato. Questa successione viene dalla volontà di Dio, mediante
la quale verrà costituita la Chiesa. L’origine dell’elezione dei presbiteri e dei vescovi sta
piuttosto in Dio e non nella Comunità che li elegge. C’è ancora una terminologia fluttuante.
Anche in Clemente viene riportato come esempio il ruolo che Mosè ha avuto nei confronti
del suo popolo (v. il n° 51,3-5).
Il n. 44, sempre su questa linea, completa il dato dell’inviolabilità dei presbiteri istituiti, con
la norma della successione, insieme al quale si aggiunge, in questa fase, il riconoscimento ed il
consenso di tutta la Comunità. Si tratta di un elemento determinante. La stessa volontà di Dio
non rende estranea la Comunità all’elezione di questi capi.
Il dato di partenza che Clemente usa è proprio il fatto che questi presbiteri sono stati
destituiti, malgrado abbiano agito sempre bene verso la Comunità. Certamente, Clemente
intende dare una soluzione al problema come riferisce al n. 54:
«1. Tra voi c’è qualcuno generoso, misericordioso e pieno di amore? 2. Dica: se
per colpa mia si sono avuti sedizione, lite e scismi vado via. Me ne parto dove volete
e faccio quella che il popolo comanda perché il gregge di Cristo viva in pace con i
presbiteri costituiti. 3. Ciò facendo si acquisterà una grande gloria in Cristo e ogni
luogo lo riceverà. “Del Signore è la terra e quanto essa contiene”. 4. Così hanno
fatto e faranno quelli che con una condotta senza rimorsi, sono cittadini di Dio».
Appare molto chiaro, chiedendo se è lui è stata l’origine di questa sedizione. Al n. 51/1-2
aggiunge:
«1. Voi che siete la causa della sedizione sottomettetevi ai presbiteri e
correggetevi con il ravvedimento, piegando le ginocchia del vostro cuore. 2.
Imparate ad assoggettarvi deponendo la superbia e l’arroganza orgogliosa della
vostra lingua. È meglio per voi essere trovati piccoli e ritenuti nel gregge di
Cristo, che avere apparenza di grandezza ed essere rigettati dalla sua speranza».
Qual’è, allora la soluzione che Clemente indica alla Chiesa di Corinto? E’ quella di
riconoscere questi capi e sottomettersi a loro. Coloro che sono stati causa di questa ribellione, è
bene che lascino la Comunità stessa, per non essere nuovamente motivo di divisione. Il dato
importante è il ruolo fondamentale ai presbiteri: la sottomissione a loro non è schiavitù, ma un
rendere onore a coloro che svolgono le funzioni di Cristo e manifestano la paternità di Dio.
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Negli ultimi numeri, Clemente conclude dicendo che sono stati inviati uomini saggi e fedeli,
vissuti in mezzo alla Comunità, come autentici testimoni di Cristo, nell’augurio che la
Comunità ritrovi presto la pace che aveva prima della crisi (v. n. 63).
Ad Ignazio Eusebio dedica il cap. 3, ed ancora, dice che egli succede ad Evodio; nel
Chronicon precisa che inizia il suo episcopato l’anno primo di Vespasiano (ca. 70 d.C.). E’
naturale che Ignazio conobbe ed ebbe relazioni con gli Apostoli, come affermano S. Giovanni
Crisostomo nella sua Omelia su Sant’Ignazio (PG 50,588) e S. Girolamo nella traduzione del
Chronicon di Eusebio.
Ignazio per avere testimoniato la propria fede in Cristo Gesù, come attesta lo stesso S.
Eusebio, fu inviato a Roma sotto una severa scorta di guardie per essere martirizzato nell’arena
ad opera delle belve. Egli aveva combattuto contro i giudaizzanti che negavano la divinità di
Gesù Cristo e sostenevano la necessità della pratica dei riti giudaici; combatté anche i doceti
che negavano la natura umana di Cristo. L’attaccamento alla tradizione apostolica Ignazio lo
dimostrerà nelle lettere, anche se queste, avendo un carattere puramente occasionale, non hanno
un vero e proprio scopo dottrinale. Egli le scriverà in diverse tappe, prima di giungere a Roma
dove morirà l’anno decimo di Traiano, cioè il 107 d.C., secondo anche la testimonianza di S.
Eusebio. Il Martyrium Antiochenum (Colbertinum) precisa il giorno 20 dicembre. La Chiesa
pone il dies natalis di S. Ignazio al 17 ottobre.
- La prima tappa è Smirne, dove si trova S. Policarpo vescovo: lì scrisse una lettera alla
Chiesa di Efeso, di cui ricorda il vescovo Onesimo, poi alla Chiesa di Magnesia, alla Chiesa di
Tralli. Scrisse, secondo la testimonianza di Eusebio, anche ai Romani per scongiurarli di non
privarlo del martirio, unico suo desiderio e unica sua speranza.
- La seconda tappa è Troade, dove scrive altre tre lettere ai Filadelfiesi, ai Smirnesi ed una
particolare al vescovo Policarpo, al quale, conoscendolo per uomo interamente apostolico, da
vero e buon pastore affida il suo gregge di Antiochia. A Troade viene raggiunto da due diaconi,
Filone della Cilicia e Reo Agatopodo di Antiochia, i quali gli annunciarono che la persecuzione
in Antiochia era cessata. Ignazio dovrà partire improvvisamente per Neapolis, in Macedonia.
- L’ultima tappa è Roma che egli raggiunse per mare, partendo da Neapolis, anch’essa
precedentemente raggiunta per mare. A lui si aggiunsero altri due martiri, Zosimo e Rufo.
certezza ed una garanzia della fede contro il pericolo delle prime eresie che iniziarono ad
affacciarsi in quel periodo.
I particolari delle sue lettere si possono notare in uno schema (v. fotocopia p. 3), dove sono
anche riportati i termini greci indicanti la figura dei diversi ministri all’interno della Comunità,
nelle diverse lettere scritte da Ignazio.
Facendo una lettura di sintesi di queste lettere, un elemento importante riguarda la
dimensione normativa della Scrittura: sembra che essa non sia ancora un’importanza
determinante anche se Ignazio stesso conosceva già uno o più Vangeli. Invece, appare più
importante la struttura ministeriale della Chiesa primitiva (vescovo – presbiterio - diaconi) che
da lui è presentata in modo chiaro. Ad essa dà un ruolo fondamentale all’interno della Chiesa.
Ad esempio, l’espressione, “senza vescovo non c’è Chiesa”, indica un’affermazione molto forte
con la quale si intende dire che la Chiesa si costituisce nella comunione con il vescovo. Tale
sottolineatura supera la stessa normativa.
Con Ignazio si ha la prima testimonianza di una struttura gerarchica ben definita. Adesso si
può dire che il vescovo di Antiochia abbia chiara la distinzione tra vescovo e presbitero. Questa
struttura ben definita diventa criterio anche di verifica della dottrina e della Chiesa stessa.
Egli non insiste molto sul tema della successione, come ha fatto Clemente, ma piuttosto
manifesta una concezione mistica della Chiesa, tanto che vede nel ministero visibile una
riproduzione di un archetipo invisibile. Ad esempio, alla Lettera ai Magnesi, al n. 3/2 dice:
«Per il rispetto di chi ci ha voluto bisogna obbedire senza ipocrisia alcuna,
poiché non si inganna il vescovo visibile, bensì si mentisce a quello invisibile.
Non si parla della carne, ma di Dio che conosce le cose invisibili».
Dunque, se non si è in comunione con il vescovo visibile, si inganna il vescovo invisibile.
C’è qui una verità di fondo che richiama alla disposizione dell’animo che non rimane nascosta a
Colui che conosce il segreto più recondito del cuore dell’uomo. Questo archetipo è il Padre che
guida la Chiesa, per mezzo del Vescovo, del Figlio, mediante il servizio dei diaconi. Anche in
Ignazio si può notare una continuità attraverso il Collegio degli Apostoli. Il richiamo che spesso
Ignazio fa dell’unità, tra l’altro, indica la necessità di fare questo appello, probabilmente per il
pericolo che le prime comunità cristiane incontrano, a motivo di eresie. C’è la sottolineatura di
un valore che probabilmente non sempre è stato osservato. Ciò rende evidente anche la
presenza di una certa tensione tra presbiteri e diaconi, che si può notare dal fatto che nelle
lettere ignaziane c’è un richiamo frequente alla sottomissione dei diaconi verso il vescovo ed i
presbiteri.
Questa visione della Chiesa, è un’icona che Ignazio presenta per esprimere la necessità di
una unità ad immagine dell’unico corpo di Cristo. Nella Lettera ai Magnesi, al n. 6, parla
dell’incorrutibilità, quale segno inequivocabile di unità dei membri della Chiesa:
«1. Poiché nelle persone nominate sopra ho visto e amato tutta la comunità vi
prego di essere solleciti a compiere ogni cosa nella concordia di Dio e dei
presbiteri. Con la guida del vescovo al posto di Dio, e dei presbiteri al posto del
collegio apostolico e dei diaconi a me carissimi che svolgono il servizio di Gesù
Cristo che prima dei secoli era presso il Padre e alla fine si è rivelato. 2. Tutti
avendo una eguale condotta rispettatevi l’un l’altro. Nessuno guardi il prossimo
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secondo la carne, ma in Gesù Cristo amatevi sempre a vicenda. Nulla sia tra voi
che vi possa dividere, ma unitevi al vescovo e ai capi nel segno e nella
dimostrazione della incorruttibilità».
C’è qui un’immagine molto bella, secondo la quale il vescovo è visto al posto del Padre,
mentre il presbiterio al posto del Collegio Apostolico, ed i diaconi rendono visibile il servizio di
Cristo. C’è qui un elemento di continuità che garantisce l’unità della Chiesa.
Nella Lettera ai Trallani n. 1 dice ancora:
«Similmente tutti rispettino i diaconi come Gesù Cristo, come anche il
vescovo che è l’immagine del Padre, i presbiteri come il sinedrio di Dio e come il
collegio degli apostoli. Senza di loro non c’è Chiesa. 2. Sono sicuro che intorno a
queste cose la pensate allo stesso modo, infatti ho accolto ed ho presso di me un
esemplare della vostra carità nel vostro vescovo, il cui contegno è una grande
lezione, come la sua dolcezza una forza. Credo che anche gli atei lo rispettino. 3.
Poiché vi amo mi trattengo, potendo scrivere con più severità sulla cosa. Non
arriverei col pensiero a tanto da comandarvi come un apostolo essendo, invece,
un condannato».
In questo passo i diaconi sono visti come immagine di Cristo servo, il vescovo è visto come
l’immagine del Padre, mentre i presbiteri come il sinedrio di Dio e – nuovamente – come
collegio degli Apostoli.
Nella Lettera agli Smirnesi 8,1-2 afferma:
«1. Come Gesù Cristo segue il Padre, seguite tutti il vescovo e i presbiteri
come gli apostoli; venerate i diaconi come la legge di Dio. Nessuno senza il
vescovo faccia qualche cosa che concerne la Chiesa. Sia ritenuta valida
l’eucaristia che si fa dal vescovo o da chi è da lui delegato. 2. Dove compare il
vescovo, là sia la comunità, come là dove c’è Gesù Cristo ivi è la Chiesa cattolica.
Senza il vescovo non è lecito né battezzare né fare l’agape; quello che egli
approva è gradito a Dio, perché tutto ciò che si fa sia legittimo e sicuro».
Sui diaconi viene detto ancora qualcosa di più preciso. Ad esempio, nella Lettera ai
Filadelfiesi c’è una descrizione più precisa del ruolo di diacono. Di loro si dice che sono legati
alla propria Chiesa locale; essi occupano un grado che è subalterno alla gerarchia, e svolgono la
particolare funzione di collegamento con le varie chiese, come si può vedere nella Lettera ai
Romani 9,1ss.:
«Ricordatevi nella vostra preghiera della Chiesa di Siria che in mia vece ha
Dio per pastore. Solo Gesù Cristo sorveglierà su di essa e la vostra carità. 2. lo
mi vergogno di essere annoverato tra i suoi, non ne sono degno perché sono
l’ultimo di loro e un aborto Ma ho avuto la misericordia di essere qualcuno, se
raggiungo Dio. 3. Il mio spirito vi saluta e la carità delle Chiese che mi hanno
accolto nel nome di Gesù Cristo e non come un viandante. Infatti, pur non
trovandosi sulla mia strada fisicamente mi hanno preceduto di città in città».
Ignazio si riconosce in ruolo che va al di là della Chiesa di Antiochia, perché si sente pastore
di più comunità. Ciò è testimoniato chiaramente anche dalle sue lettere. Anche qui c’è il
concetto dell’invisibilità che si rende visibile. I diaconi stessi sono, tra l’altro ministri itineranti
ad un contatto ancora più diretto con il Vescovo, perché lo aiutano nel suo ministero per il
servizio della Parola. Essi hanno un po’ le caratteristiche dei collaboratori di Paolo, che
abbiamo visto in precedenza (v. At 19,22; At 20, 4-5).
Un altro dato importante è il servizio che il ministero fa all’ortodossia, a motivo dell’eresia
che inizia a manifestarsi. Dunque, la comunione tra il vescovo, i presbiteri ed i diaconi, fa si
che ci sia la garanzia a sostegno dell’ortodossia della Chiesa. Di fronte al diffondersi degli
errori di fede, tale criterio si rivelerà vitale per la Chiesa.
Ignazio non parla mai dei maestri e dei profeti, ma li accenna con un certo accento polemico.
Secondo questo grande maestro, alcuni maestri e profeti, anziché diffondere la vera fede,
diffondevano gli errori e, quindi, l’eresia. In più Ignazio dà un’immagine di Chiesa, dove le
singole Chiese hanno un rapporto tra loro, non sono separate, ma vivono in comunione tra loro.
Ciò è dimostrato dal fatto stesso che lui si definisce non soltanto vescovo della Chiesa di
Antiochia, ma anche vescovo della Chiesa di Siria.
Quando scrive a Policarpo dice così:
«Non ho potuto scrivere a tutte le Chiese dovendo imbarcarmi
improvvisamente da Troade a Neapoli, come impone l’ordine ricevuto. Scriverai
tu alle Chiese (che ti sono) davanti, conoscendo la volontà di Dio, che facciano la
stessa cosa, di mandare cioè messaggeri, potendolo, o di spedire lettere a mezzo
dei tuoi inviati per essere glorificati con un’opera eterna, come tu ne sei
meritevole» (Policarpo 8,1).
Parlando così a Policarpo, lo incarica appunto di mantenere questo contatto con le Chiese.
Ciò diventa vincolo di unità tra le Chiese. In questa prospettiva, Ignazio, dà una maggiore
chiarezza di struttura non solo gerarchica, ma anche ministeriale.
Dallo schema del Docente (v. fotocopia p. 3) sono sottolineati i termini greci che Ignazio usa
per indicare le figure dei diversi ministri, secondo tutte le sue Lettere.
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LA TRADITIO APOSTOLICA
Questo importante scritto dell’Antichità ci fornisce il primo rituale completo delle
ordinazioni, oltre al fatto che ha esercitato una grande influenza sull’Oriente e sull’Occidente.
Ancora adesso, le ordinazioni nella Chiesa sia d’Oriente, sia d’Occidente, vengono fatte con
questo testo: ciò è da considerarsi un buon segno di comunione. Si tratta, quindi, di un testo
base.
Questa opera sarebbe attribuita ad Ippolito Romano, ma non ci sono elementi sufficienti per
dimostrare la paternità del testo che non si trova più nell'originale greco. Tuttora è una
questione aperta perché ci sono diverse ipotesi.
Circa la paternità, c'è da dire che ci sono almeno tre Ippoliti contemporanei, tra i quali uno di
questi dovrebbe essere un martire, morto insieme a Papa Ponziano: di lui non si sa se era
vescovo o sacerdote. Recentemente è stata rivenuta una statua: sul trono dove appoggia si trova
l'elenco delle opere di Ippolito, nonché si trova una scritta che riferisce della Tradizione
Apostolica e dei carismi.
Il testo greco originale è sostituito da una versione parziale in latino, seguita da altre
versioni, che tentano di ricostruire il medesimo testo originale della Traditio Apostolica.
Ma cosa si può dire concretamente di quest’opera? Chi sarebbe questo Ippolito?
Si tratta di uno scrittore di lingua greca, morto intorno al 235: era probabilmente vescovo,
dal momento che ce ne danno testimonianza, sia Eusebio, sia Girolamo, anche se non hanno
precisato la sua sede vescovile. Egli può essere collocato a fianco dell’eminente suo
contemporaneo Origene, per quanto riguarda la versatilità dell’ingegno e il numero delle opere
da lui composte. Per l’originalità del pensiero teologico Ippolito è tuttavia molto inferiore
all’alessandrino; si può dire in linea generale che egli fu un dotto e diligente raccoglitore,
preoccupato più delle questioni pratiche che dei problemi scientifici. Numerosi quesiti, che si
presentavano in passato agli studiosi intorno alla sua persona e alla sua attività, hanno trovato
risposta solo dopo la pubblicazione della sua opera principale i Philosophumena (1851).
Forse Ippolito (discepolo di Ireneo?) non fu di nascita romano, né latino, ma oriundo
dell’Oriente ellenistico. Combattendo appassionatamente i Modalisti e i Patripassiani (Noeto,
Cleomene, Sabellio) espresse una dottrina subordinazionista intorno al Logos. Nelle questioni
relative alla penitenza e alla disciplina ecclesiastica, il prete Ippolito, ambizioso e rigorista,
entrò in conflitto con il papa Callisto (217-222) che accusò di sabellianesimo e di eccessiva
indulgenza verso i peccatori. Eletto antipapa, Ippolito fu capo di uno scisma che si protrasse
anche sotto i pontificati di Urbino e di Ponziano, appoggiandosi ad una cerchia stretta di
persone influenti per nascita e per cultura. Durante la persecuzione di Massimino il Trace, i due
capi della Chiesa, il legittimo e l’illegittimo, Ponziano e Ippolito, vennero entrambi deportati in
Sardegna. Poiché Ippolito si riconciliò con la Chiesa e morì in esilio (nel 235) venne sepolto
sulla via Tiburtina e venne subito onorato come martire nel giorno stesso di papa Ponziano (13
agosto).
Il testo che esamineremo, è del IV, per la sua datazione è più tardiva di quella della Traditio
Apostolica, fissata intorno al 215.
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In merito al contenuto e alla struttura si può dire che la parte centrale parla della costituzione
della Chiesa (dal cap. 2 al cap. 21): in particolare si trova il rituale dell’Ordinazione, per i
vescovi, i presbiteri, i diaconi, i confessori, le vedove, i lettori, le vergini, i suddiaconi, nonché i
doni di guarigione. Dal cap. 15 al cap. 21 c’è il catecumenato e l’iniziazione. Più avanti si
trovano alcuni regolamenti comunitari, come le prescrizioni per i banchetti comuni. Ci sono
anche alcuni riferimenti terminologici che ci aiutano a capire a che punto siamo nello sviluppo
storico della celebrazione dell’Ordine. Alcuni riferimenti terminologici li ritroviamo anche per i
Confessori che hanno testimoniato la fede e si sono esposti al martirio.
Prima di leggere i testi, è bene fare alcune precisazioni terminologiche:
1) l’imposizione delle mani (epitesis tov keiron = è in uso il verbo ceirotone‹n; in latino è
impositio manus);
2) ordinare (Ordinatio; Ordinabitur);
Questi sono termini importanti che sempre più saranno usati in senso tecnico; già nell’uso
che fa la Traditio Apostolica. Il primo termine è già attestato nel Nuovo Testamento, in At 6,6:
«Li presentarono agli Apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le
mani».
4a Lezione.
accanto all’espressione greca già vista (in latino “impositio”), il verbo greco ceirotone‹n, che è
un altro termine tecnico che ha un significato molto preciso. Anche questo verbo (in latino si
traduce con “Ordinabatur”) è già testimoniato nel NT e precisamente in At 14,23:
«Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere
pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto».
Dunque il verbo ceirotone‹n assume il significato preciso di costituire. Lo ritroviamo anche
in 2Cor 8,19 dove dice:
«Egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest’opera di
carità, alla quale ci dedichiamo per la gloria del Signore, e per dimostrare anche
l’impulso del nostro cuore».
In latino corrisponde al termine “ordinatus”. Originariamente, il significato di questo verbo
era l’elezione per alzata di mano, da parte di un’Assemblea che sceglie alcune persone
nell’adempimento di alcuni uffici. La versione latina della Traditio Apostolica, come è già stato
detto, traduce il verbo greco con l’espressione “ordinare”.
Di per sé il greco aveva un altro verbo che indicava la stessa cosa: precisamente si tratta di
katistatai. In questo senso la Traditio opera una scelta precisa che a noi interessa perché,
facendo una distinzione nell’uso dei termini, dice chiaramente che il verbo ceirotone‹n ha un
significato prettamente tecnico e preciso. Il fatto che distingua l’uso di ceirotone‹n da caq…
statai lo si nota al n. 10 dove parla delle vedove, al n. 11, dove parla del lettore e al n. 12 dove
parla delle vergini. Al n. 10 dice:
«Quando si istituisce una vedova, non riceve l’ordinazione, ma solo istituita.
Se il marito è deceduto da molto tempo, si faccia l’istituzione».
Al n. 11 dice:
«Il lettore viene istituito nell’atto in cui il vescovo gli consegna il libro:
infatti, non gli sono imposte le mani».
Al n. 12 afferma:
«Non s’imponga la mano su una vergine: è la sua decisione che fa la vergine».
Su questa distinzione la Traditio Apostolica, dal momento che questa sottolinea un gesto
nell’ordine dell’azione sacramentale.
Sempre in riferimento a questo gesto, del ceirotone‹n delle mani, c’è una precisazione
interessante che l’autore fa della Traditio, a proposito dei Confessori, cioè coloro che avevano
manifestato la loro fede, rischiando il martirio. L’autore della Traditio dice che ai Confessori (v.
n. 9) non devono essere imposte le mani perché hanno lo stesso onore dei presbiteri:
«Se un confessore è stato imprigionato per il nome del Signore, non gli siano
imposte le mani per il diaconato o per il presbiterato dal momento che, per la sua
confessione, possiede l’onore del presbiterato. Ma se viene nominato vescovo, gli
siano imposte le mani. Se c’è un confessore che non è stato condotto davanti
all’autorità, che non è stato arrestato, né incarcerato, né condannato ad altra
pena, ma è stato soltanto occasionalmente deriso per il nome del Signore e
vessato dai propri familiari, se ha confessato, gli sia imposta la mano per
qualsiasi ordine, di cui è degno».
Questo passo, anche se è molto discusso, appare interessante, perché chi si è posto al
rischio del martirio o ha sofferto la prigionia a motivo della sua fede, viene considerato
all’interno della Comunità con lo stesso onore che viene attribuito ad un diacono o a un
presbitero. Solo se viene eletto vescovo è bene imporre le mani su di lui. Questo ci fa
comprendere come la Comunità sentisse l’onore del diaconato, del presbiterato e
dell’episcopato, che sono legati al dono della vita, ad una disponibilità ad offrire sé stessi per
una testimonianza forte della fede. Qui si nota una comprensione profonda esistenziale e
teologica del presbiterato, del diaconato e dell’episcopato.
Questi gesti di ordinazione hanno un riferimento diretto con la Liturgia: l’ordinazione
avviene in un contesto liturgico e ciò si distingue dal momento in cui viene fatta un’istituzione
o della vergine, o del lettore, o delle vedove. In realtà questa distinzione tra “ordinare” e
“istituire” avrà un seguito anche dopo. Intorno all’VIII secolo ci sarà anche una distinzione tra
“Kirotonia” e Kirotesia”, dove la prima è un gesto di istituzione riferito agli Ordini veri e
propri, mentre la seconda dizione si riferisce alle funzioni subalterne al cursus clericale (v. gli
ordini minori che oggi sono precisati con il termini di “ministeri”, come il Lettorato e
l’Accolitato).
Ciò che a noi interessa è vedere come questo termine ha evidentemente un significato
tecnico molto preciso. Su questo argomento ci sono molti studi.
Nella traduzione che ci presenta Botte, che sicuramente più tardiva rispetto al testo
originale, i termini “Ordo” e “Ordinatio” sono divenuti termini scelti per indicare
specificatamente il Sacramento dell’Ordine. Essi non hanno un’origine biblica, ma hanno
soltanto un’origine dal latino della Società Romana del tempo; anzi, hanno un senso specifico
chiaro e preciso che rimanda alle istituzioni dell’antica Roma. Ad esempio, il termine “Ordo”
designava un collegio o una classe di persone, come l’Ordo senatorialis, l’Ordo dei Cavalieri.
All’interno dell’ordinamento romano questo gruppo di persone godeva di precisi privilegi e
si distingueva dalla plebs. Tra l’altro ricopriva, determinate cariche governative di un certo
prestigio. Questa situazione la si può trovare anche fuori Roma, come ad esempio nelle colonie,
dove l’Ordo (il gruppo) indica la funzione di governo all’interno di una comunità. Questi pochi
dati ci permettono di intuire il perché questi termini sono stati scelti in riferimento al gruppo dei
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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ministri, dei diaconi, dei presbiteri e dei vescovi. Questi termini, tra l’altro, indicano anche una
distinzione e una relazione con il popolo, perché, in primo luogo, è un gruppo che si distingue
dal resto della Comunità ed, in secondo luogo, si pone in una relazione di servizio rispetto al
popolo. Non c’è qui una logica di potere, ma un governo inteso come servizio. Certamente il
termine “ordo” è di origine laica, perché non aveva un riferimento diretto con la religione
pagana.
Già nel IV secolo, esso viene utilizzato ad indicare i diversi ministri nella Comunità
cristiana. L’Ordo Ecclesiasticus, che viene affiancato – da Costantino in poi – all’Ordo dei
Senatores, avrà il compito di individuare il gruppo o collegio dei presbiteri o dei ministri della
Comunità cristiana. Ciò lo si può notare anche in altri documenti antichi, come ad esempio
nella Lettera di Teodosio (510), che viene indirizzata al clero, al Senato e al popolo romano.
Questo uso fu presto accolto anche nell’uso civile. In particolare è evidente la dimensione
di collegialità, che è sempre stata sottolinea con forza, in modo particolare per quanto riguarda i
presbiteri. Già il NT parla di presbiteri al plurale e le fonti antiche preferiscono al termine
astratto “presbiteratum” il termine più concreto “presbiterium”, che indica il gruppo dei
presbiteri.
Più avanti ci saranno altre distinzioni, intorno al XII secolo, in Pietro Lombardo e in Ugo di
San Vittore, che introdussero una specificazione tra “dignitates” ed “ordo”. Essi parlano di
“Ordines” dall’ostariato al presbiterato, mentre usano la dizione “dignitates in ordinem”
parlando dell’episcopato e dell’arcidiaconato. Tale distinzione ebbe un certo successo, tanto che
i termini “ordinare” e “ordinatio” venivano usati per i re, gli abati e le abatesse. In qualche
modo soppiantarono i termini “benedicere” e “soppiantare” che nella letteratura venivano
usati come sinonimo di “ordinare” e “ordinatio”. Più avanti ancora il Pontificale di Innocenzo
III, userà questo vocabolario, secondo la distinzione del Vittoriani, tra “Ordine” e “potere
giurisdizionale”.
Il termine “ordinatio” era il termine che nell’antica Roma, indicava la cerimonia di
istituzione, come ad esempio, la nomina dei funzionari. Anche per la Comunità cristiana poteva
andare bene questo significato, tanto che la nomina comportava anche una consacrazione.
Un’altra caratteristica di questo termine, è il fatto che le fonti antiche non parlano mai di
“ricevere un ordo”, ma piuttosto di “essere ammessi in un ordo”, cioè l’entrare a far parte di
un gruppo.
Dunque, questi termini dicono un uso tecnico di alcune parole che ci interessano da vicino,
dal momento che individuano una realtà molto precisa: il termine ordinare (ceirotone‹n), indica
già nella Traditio Apostolica una realtà sacramentale che ritualmente si manifesta con
l’imposizione delle mani, il cui contenuto è l’invocazione ed il dono dello Spirito, al quale
consegue un preciso ruolo che la persona “ordinata” sarà chiamata a svolgere all’interno della
Comunità cristiana.
Detto questo, che ci serve come strumento per leggere la Traditio Apostolica, è bene
procedere all’evidenziazione degli elementi relativi al rito di ordinazione. C’è da dire che la
Traditio Apostolica non si preoccupa di fornirci delle rubriche, tanto meno dei testi, ma si limita
a fornire la base per la costruzione dei testi eucologici.
Guardando al n.2 della Traditio, si afferma:
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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«Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da tutto il popolo, che è
irreprensibile (3). Quando sarà stato fatto il suo nome e sarà bene accetto, il
popolo si radunerà insieme con i presbiteri e con i vescovi presenti nel giorno di
domenica. Col consenso unanime, gli impongano le mani e i presbiteri assistano
senza far nulla. Tutti tacciano e preghino in cuor loro per la discesa dello Spirito.
Uno dei vescovi presenti, a richiesta di tutti, imponendo la mano sull’ordinando,
preghi dicendo: ».
Si tratta di un’introduzione alla preghiera di consacrazione del vescovo, che contiene molti
elementi rituali. Quali sono? Il primo elemento da evidenziare è il die domenica (giorno del
Signore). Non è semplicemente un’indicazione temporale, ma manifesta un’attenzione
particolare verso questo tipo di celebrazione nel giorno del Signore, che – nel tempo – andrà
sempre più affermandosi. Il motivo di questa scelta la si può notare anche in documenti più
tardivi, come ad esempio nel Sacramentario Gelasiano, dove si trova, in una rubrica,
l’avvertenza di ordinare nei giorni di sabato dei mesi di digiuno (1°, 4° e 7°). Il contesto che
offre la Traditio è il momento di preghiera, di veglia e di digiuno. Il Gelasiano stabilisce che al
termine della veglia delle dodici letture, all’alba del giorno del Signore venga celebrata
l’ordinazione. Questa prassi è stata poi codificata ed espressamente voluta da Papa Gelasio e,
precedentemente testimoniata da San Leone Magno. Anzi, quest’ultimo, scrivendo a Dioscoro,
vescovo di Alessandria, lo esorta affinché le ordinazioni vengano sempre fatte il giorno di
domenica. L’argomento che egli presenta per dimostrare la validità dell’opportunità teologica di
ordinare nel giorno del Signore è il compimento dei più grandi fatti della Storia della Salvezza,
proprio nel giorno di domenica, dalla creazione (il compimento pieno avviene il 7° giorno,
detto del Signore e giorno di riposo), alla Risurrezione di Cristo, alla Pentecoste.
Dunque, il sacramento dell’Ordine viene a trovarsi in linea con queste grandi manifestazioni
dello Spirito: la domenica, per San Leone Magno, è il giorno dove sono riuniti i doni di grazia.
Come lo spirito ha scelto questo giorno per manifestare la sua forza e la sua potenza, così è
opportuno che la Chiesa celebri questa manifestazione dello Spirito in questo stesso giorno. Ciò
esprime anche una certa continuità con la medesima opera dello Spirito. In questo senso
l’ordinazione nel giorno di domenica diventa anamnesi di tutte le opere dello Spirito e di tutte
le epiclesi; è memoriale ed attuazione sacramentale di tutte le “epiclesi” che lo Spirito ha
compiuto nella Storia della Salvezza.
Allora, scegliere il giorno della domenica, come momento di ordinazione, assume un preciso
valore teologico che dice anche una comprensione del sacramento, con il quale si compie una
nuova “epiclesi”. C’è qui un chiaro riferimento all’azione dello Spirito.
Un altro elemento forte è il convenire del popolo: è il fare Assemblea. Si tratta di
un’Assemblea solenne, dove tutti sono presenti. Ciò sta a significare che anche i membri di
altre Chiese si recavano in quella comunità dove avveniva l’ordinazione. Ciascuno dei
componenti dell’Assemblea esercitano un ruolo preciso. Oltre al convenire, c’è un’azione
precedente dell’elezione del candidato, che viene nominato dall’Assemblea riunita.
Un’altra azione è descritta dal compito del presbiterio che tace, nella fase di preghiera e di
veglia. E’ una partecipazione importante che il presbiterio compie: il suo significato teologico si
evidenzia dal fatto che, non solo il presbiterio, ma tutti quanti sono presenti in silenzio, che
nella celebrazione non è assenza di gesti e di parole, ma è segno efficace della presenza e
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dell’azione dello spirito. Non per niente, viene sottolineato con forza che da questo silenzio di
tutta l’Assemblea, nasce la preghiera di consacrazione. Si tratta di un silenzio che invoca lo
Spirito. Allora la preghiera di consacrazione, che verrà dopo, avrà la forza del silenzio tutta
l’Assemblea, dove ciascuno è impegnato ad invocare lo Spirito. Si tratta di un silenzio rituale.
Tutti i vescovi impongono le mani sull’eletto ed uno, a nome di tutti, impone le mani e dice
la preghiera di consacrazione, che indica anche un significato specificatamente sacramentale.
Di questa duplice imposizione delle mani, ci sono diverse interpretazioni: alcuni sostengono
che si tratta della sovrapposizione di due schemi rituali, mentre altri vedono nella prima
imposizione un’epiclesi, mentre nella seconda, vede un atto sacramentale vero e proprio. Altri
ancora, sostengono, invece, un unico momento epicletico, anche se è distinto in due fasi.
Tutto questo costituisce il centro dell’Ordinazione episcopale.
Un altro elemento rituale lo si scorge con i diaconi, i quali – subito dopo la preghiera di
consacrazione – presentano l’offerta, come riferisce la Traditio Apostolica n. 4 (riga 18 della
fotocopia). Ritualmente c’è un crescendo all’interno dello stesso ordinamento rituale di
consacrazione, che fa parte della celebrazione dell’Eucaristia. Questo crescendo consiste nel
fatto che parte dall’elezione del candidato, arriva all’assenso, da parte del popolo, e
all’imposizione delle mani, per giungere poi alla preghiera silenziosa che è il punto di arrivo al
gesto dell’imposizione delle mani e della stessa preghiera di consacrazione. Questo silenzio fa
si che al suo interno nasca la preghiera di consacrazione che si espliciterà, dopo, con il bacio di
pace, l’acclamazione dell’Assemblea che lo proclama vescovo, e con l’inizio vero e proprio
della concelebrazione eucaristica.
A questo fatto è importante prestare particolare attenzione, perché spesso siamo abituati a
pensare all’Eucaristia come ad una scatola dentro la quale si fanno diverse cose. In realtà la
celebrazione eucaristica non può trovarsi in un contenitore neutro, quasi che fosse a sé. Se
all’interno del segmento rituale dell’ordinazione c’è un punto culminante dell’imposizione delle
mani, insieme alla preghiera di consacrazione, questo culmine, dal punto di vista teologico,
rimanda al culmine di tutta la celebrazione, che è la preghiera eucaristica. Si nota, dunque, una
unità tra i diversi momenti rituali: per comprendere il contenuto ultimo dell’ordinazione,
occorre andare al significato profondo della preghiera eucaristica che ci illumina su ciò che è
stato celebrato e ci illumina su tutte le celebrazioni sacramentali che vengono fatte all’interno di
una medesima celebrazione eucaristica. In effetti, l’epiclesi eucaristica rappresenta il culmine di
tutte le epiclesi. Se la celebrazione dell’Ordine è un’invocazione dello Spirito, anche
l’invocazione specifica, fatta allo Spirito, ha il suo culmine nell’invocazione eucaristica. Allora
ci sono degli accenti che vanno rispettati: il primo riguarda è la preghiera di consacrazione che
nasce da questo silenzio, ma il culmine di questo culmine è la preghiera eucaristica.
Di questo fatto ne terrà conto anche la stessa Riforma Liturgica.
Detto questo, è interessante il testo di consacrazione (v. fotocopia – versione in latino):
«Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di
ogni conforto, che abiti nell’alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole, che
conosci tutte le cose prima che esistano, che hai dato le norme della Chiesa per la
parola della tua grazia, che fin dal principio hai predestinato la stirpe dei giusti
di Abramo, costituendo capi e sacerdoti, e non lasciando il tuo santuario senza
ministri, che fin dall’inizio del mondo hai voluto essere glorificato in coloro che ti
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sei scelto: ora effondi la potenza dello Spirito sovrano, che da te viene, e che hai
dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli, che
in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode incessante del
tuo nome.
Concedi, Padre, che conosci i cuori, a questo tuo servo che hai scelto per
l’episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di esercitare senza biasimo davanti a
te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio notte e giorno, di rendere
incessantemente propizio il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa e
per virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere il potere di rimettere i peccati
secondo il tuo comando, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine e di
sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli apostoli, di piacerti per
la dolcezza e la purezza del suo cuore offrendoti un soave profumo per mezzo del
tuo servo Gesù Cristo, per il quale a te gloria, potenza e onore con lo Spirito
Santo, ora e nei secoli dei secoli. Amen».
Come ogni preghiera cristiana, ha una struttura chiara: la prima parte riguarda l’anamnesi,
mentre la seconda parte – quella centrale – è quella dell’epiclesi; la terza parte riguarda
l’intercessione, mentre la quarta conclude con la dossologia. Da qui si nota lo schema classico
di ogni preghiera di consacrazione: anamnesi, epiclesi, intercessione e dossologia. Questa
preghiera di consacrazione della Traditio la possiamo considerare come modello di preghiera di
consacrazione dal momento che manifesta una Chiesa che fa memoria, attualizza, chiede e
rende lode. Tale schema è presente anche nel Breviario.
Tutto questo ha origine dal silenzio, di cui si diceva prima. La prima parola che il vescovo
consacrante dice, indica una contemplazione di Dio e della sua grandezza. Dunque, l’inizio di
ogni preghiera ci dice subito un modo di contemplare Dio: le apposizioni, che vengono date al
nome di Dio, dicono sempre quale aspetto dell’agire di Dio la Chiesa sta contemplando, per le
quali è presente l’ispirazione biblica. Infatti, è chiaro il riferimento alla 2Cor 1,3 (Dio e Padre di
nostro Signore Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni conforto) al Salmo 112,5
(che abiti nell’alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose piccole). C’è qui un’immagine della
Chiesa che contempla Dio che dall’alto si china sulle cose umili. In realtà sta invocando Dio
perché venga dentro la storia dell’uomo.
Nell’anamnesi c’è sempre un richiamo ad alcune figure tipologiche che poi si attualizzano
nell’epiclesi: diventa fondamentale coglierle per capire che cosa la Chiesa sta per chiedere. Ad
esempio, l’espressione “che abiti in alto” anticipa la richiesta di chinarsi sulle cose piccole e di
entrare nella storia. La tipologia evidente la si coglie nell’espressione “che hai dato le norme
della Chiesa per la parola della tua grazia” che è vista come il segno della Provvidenza di Dio.
Un’altra tipologia la si coglie nel riferimento alla stirpe di Abramo (la stirpe dei giusti),
predestinata sin dall’inizio. In sostanza questa preghiera di consacrazione prende alcuni
momenti della storia della salvezza per dire che questi si stanno attualizzando. Un altro
elemento tipologico riguarda la scelta, all’interno del popolo eletto, di principes sacerdotes (v.
per esempio il sacerdozio nell’AT), seguito dal fatto che Dio non ha lasciato abbandonato il suo
Santuario, né ha fatto mancare il culto (ministerio non derelinquens). C’è una contemplazione
di Dio provvidente che pone lo sguardo verso la storia della Chiesa. Il santuario è luogo del
culto perenne. Questi elementi li dobbiamo ritrovare poi nell’epiclesi.
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A questo punto, si svolge l’epiclesi: la Chiesa chiede lo Spirito Santo (emitte). In questo
modo Ippolito, o chi per lui, nell’invocare questo spirito, specifica la visione che ha dello
Spirito medesimo, vista come Persona. Invocato sul testo, però, viene contemplato in maniera
diversa. Per il vescovo, per esempio, viene invocato lo Spirito principale (Spiritus principalis),
che si può tradurre come “Spirito Sovrano”. E’, senza dubbio, lo Spirito del Princeps, di colui
che è a capo. E’ uno Spirito di autorità, come anche l’espressione della preghiera esprime in
maniera chiara: «che da te viene, e che hai dato al tuo diletto figlio, Gesù Cristo, che ne ha fatto
dono ai santi apostoli, che in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a gloria e lode
incessante del tuo nome».
Dunque, all’interno di questa epiclesi si trova la soluzione delle figure tipologiche invocate
nell’anamnesi, nel senso che la stirpe di Abramo è diventata la Chiesa, mentre i principes
sacerdotes dell’AT, sono i vescovi che vengono ordinati e il culto, che non è venuto meno, si
esplicita nella Chiesa che continua a rendere a Dio attraverso la Lode perenne. C’è anche una
comprensione della successione molto bella: c’è un riferimento al dono dello Spirito che il
Figlio ha ricevuto dal Padre e che il Padre ha fatto agli Apostoli. Secondo Ippolito, non si tratta
di una semplice consegna da Cristo agli Apostoli ai vescovi, ma c’è la richiesta di un
rinnovamento del dono che il Figlio ha fatto agli Apostoli. In altre parole, si chiede a Dio di
rendere presente lo stesso dono che il Figlio ha fatto agli Apostoli. Si tratta di un nuovo gesto
costitutivo per il quale il nuovo vescovo entra a far parte realmente di quel collegio apostolico.
C’è, dunque, una riattualizzazione del medesimo dono dello Spirito che gli Apostoli avevano
ricevuto dal Figlio.
Un altro elemento importante sono i sacerdotes: esso lo ritroviamo nelle intercessioni che
sono altrettanto importanti. Dicendo le conseguenze dell’azione dello Spirito, viene espressa
anche la comprensione che la Chiesa ha di quel dono che è stato fatto. Come il vescovo è
sacerdos all’interno della Chiesa lo si deduce dall’espressione: «Concedi, Padre, che conosci i
cuori, a questo tuo servo che hai scelto per l’episcopato, di pascere il tuo santo gregge, di
esercitare senza biasimo davanti a te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio notte e giorno,
di rendere incessantemente propizio il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa e per
virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere il potere di rimettere i peccati secondo il tuo
comando, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine e di sciogliere ogni legame in virtù del
potere che hai dato agli apostoli, di piacerti per la dolcezza e la purezza del suo cuore offrendoti
un soave profumo per mezzo del tuo servo Gesù Cristo». Il vescovo è princeps pascolando il
gregge ed esercita il sommo grado di sacerdozio servendo Dio giorno e notte, offrendo le
offerte, rimettendo i peccati e di assegnare gli incarichi secondo la volontà di Dio. In tutto
questo il vescovo è sacerdos, evocato nell’anamnesi.
Guardando alle singole invocazioni, si nota anche il tema del governo, anche se esplicita in
maniera più ampia il tema del sacerdozio.
Un primo rilievo importante che ci dà un’idea fondamentale, è che la Chiesa – nel momento
in cui chiede il dono dello Spirito e con l’espressione latina quem elegisti ad episcopatum –
dice a Dio che è Lui che ha eletto quel candidato. Questo fatto fa comprendere che il verbo
“eligere” è rivolto sia al popolo, sia a Dio: afferma una comprensione che la Chiesa ha di quella
elezione. Qui si ribadisce il concetto espresso da Ignazio nelle sue lettere, con la particolarità
secondo la quale si accentua l’intervento di Dio nella Comunità cristiana. Si riconosce, dunque,
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che l’attore primo è il Padre. Dal punto di visto teologico, questo concetto ha una forza
indiscutibile. In tutto questo non mancano i riferimenti al governo della Chiesa, ma – nello
stesso tempo – c’è un accenno alle qualità del vescovo che viene eletto: essere mite e umile di
cuore. Ora, l’esegesi che nasce dai testi eucologici, proprio perché sono ricchi dell’ispirazione
biblica, è l’esegesi prima che la Chiesa ha fatto che ci fa comprendere il valore ed il senso dei
medesimi testi eucologici.
Dunque, la preghiera della Chiesa, lasciandosi ispirare dai testi della Scrittura, fa una prima
esegesi di quei testi: si tratta di un’esegesi pregata. Tutto questo ci fa comprendere anche che la
conoscenza dei testi biblici che hanno ispirato un testo eucologico – come questa preghiera di
consacrazione episcopale – sono importanti per una comprensione più profonda del testo stesso,
perché è la preghiera stessa della Chiesa che li interpreta.
Andando avanti, ogni intercessione che viene fatta, richiama continuamente ai brani della
Scrittura, sia per quanto riguarda l’AT ed il NT.
Il secondo testo, relativo all’ordinazione del presbitero, è distinta dal quella del vescovo.
Così si esprime la Traditio Apostolica al n. 7:
«Quando viene ordinato un presbitero, il vescovo imponga la mano sul suo
capo, mentre i presbiteri lo toccano, e si esprima nel modo che abbiamo già detto,
come abbiamo indicato a proposito del vescovo, pregando e dicendo: “Dio, Padre
del Signore nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo tuo servo e donagli
uno spirito di grazia e di saggezza sacerdotale, affinché aiuti e governi il tuo
popolo con cuore puro, come volgesti lo sguardo sul popolo che hai eletto e
ordinasti a Mosè di scegliere degli anziani che ricolmasti del tuo spirito che avevi
dato ai tuo servo16 . Ed ora, Signore, concedi che non venga mai meno in noi lo
spirito della tua grazia17 e rendici degni, ripieni (dei tuo spirito), di servirti con
un cuore semplice lodandoti per il tuo figlio Gesù Cristo, per il quale a te gloria e
potenza, con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli e dei secoli.
Amen”».
Secondo Botte, questa preghiera di consacrazione non manca di alcun elemento, dal
momento che contiene l’anamnesi. Una cosa che si può vedere è che questa preghiera è poco
organica dal momento che l’epiclesi si trova prima dell’anamnesi. Si nota qui la mancanza di
16 Il Cattaneo traduce: «Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo sopra questo tuo servo e
rendilo partecipe dello spirito di benevolenza e di consiglio del presbiterato, perché sostenga e governi il tuo
popolo con cuore puro, così come volgesti lo sguardo sul popolo da te eletto e ordinasti a Mosè di eleggere
presbiteri, che tu riempisti del tuo Spirito, di cui avevi fatto dono al tuo servo».
17 Il Cattaneo traduce, invece, così: «Ed ora, Signore, concedi che lo spirito della tua benevolenza sia conservato
in noi indefettibilmente, e rendici degni che, ricolmi [di esso], ti serviamo in semplicità di cuore, lodandoti per
mezzo del tuo Figlio, Gesù Cristo per il quale a te gloria e potenza, (Padre e Figlio) con lo Spirito Santo, nella
santa Chiesa, e ora e nei secoli dei secoli. Amen». La traduzione riportata sopra nel testo principale è stata presa
dallo PSEUDO-IPPOLITO, Tradizione Apostolica, a cura di A. QUACQUARELLI, COLLANA TESTI PATRISTICI, Città
Nuova Editrice, Roma 1996, 113-114. La fonte di origine del testo della Traditio, in questo caso non è stata presa
dal Botte, ma da E. C. Ratcliff, Apostolic Tradition. Questions concernine the Appointment of the Bishop, StudPatr
8/2 [Texte u. Untersuch., 937], Berlin 1966, 406. Ciò lo si nota dalla diversità di traduzione. La stessa
considerazione va fatta anche per la nota n. 16 di questa pro-dispensa.
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una preoccupazione di dare una preghiera ben strutturata, ma Ippolito mira a fare avere tutti gli
elementi, come è avvenuto per la preghiera di consacrazione del vescovo.
Ancora una volta, c’è il principale riferimento all’imposizione delle mani che dimostra la
costitutività di tale gesto. E’ un gesto che viene compiuto anche dai presbiteri. Se per il vescovo
i presbiteri non impongono le mani, ma solo i vescovi presenti, per la consacrazione e
l’ordinazione del presbitero, anche i presbiteri impongono le mani. Lo Spirito che il presbitero
ha ricevuto nell’ordinazione non lo abilita a darlo quando c’è un’ordinazione episcopale,
mentre partecipa pienamente all’invocazione dello Spirito, quando viene ordinato un nuovo
presbitero, perché è lo stesso Spirito del quale è partecipe.
5a Lezione.
Le parole di introduzione alla preghiera di ordinazione del presbitero indica che compie il
gesto dell’imposizione delle mani. Il Vescovo è presente insieme a tutto il presbiterio. Abbiamo
già visto per l’ordinazione dei vescovi, la presenza di altri vescovi che impongono le mani
sull’ordinando. Il testo latino del Botte è il seguente:
«Deus meus, pater domini nostri et salvatoris nostri Iesu Christi, respice
super hunc servum tuum et impertire ei spiritum gratiae et consilium
praesbyterii ut sustineat et gubernet plebem tuam in corde mundo, sicut
respexisti super populum clectum et praecpisti Moysi ut eligeret praesbyteros
quos replevisti de spiritu quem donasti famulo tuo et servo tuo Moysi.
Et nunc, domine, praesta huic famulo tuo (illum) qui non deficit, dum
servas nobis, spiritum gratiac tuae et tribue nobis, implens nos, ministrare tibi
in corde in simplicitate, glorifìcantes et laudantes te per fìlium tuum Iesum
Christum, per quem tibi gloria et virtus patri et fìlio et spiritui sancto in tua
sancta ecclesia in saecula saeculorum. Amen»18 .
Completando il quadro dell’imposizione delle mani, nell’introduzione della preghiera per
l’ordinazione del diacono, la Traditio Apostolica, esponendo i motivi, solo il vescovo impone le
mani sull’ordinando, dà alcune interpretazioni ed alcuni significati di questo gesto di
imposizione. A tale riguardo, possiamo subito vedere l’introduzione all’ordinazione, secondo la
traduzione del Cattaneo:
«Quando invece viene ordinato un diacono, sia scelto secondo quanto è stato
detto in precedenza; parimenti solo il vescovo imponga le mani, come noi lo
18 Per la traduzione del testo latino vedi nota n. 16 e la pagina 34 di questa pro-dispensa.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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Dal testo sono evidenti, in modo chiaro, i motivi per i quali solo il vescovo può ordinare un
diacono. Essenzialmente li possiamo sintetizzare in tre ragioni, incluse in un unico concetto:
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19 La LG 29, sui diaconi, dice così: « In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte
le mani “non per il sacerdozio, ma per il servizio”. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “diaconia”
della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e con il suo
presbiterio. È ufficio del diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare solennemente il
battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il
viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto e alla
preghiera dei fedeli, amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura. Essendo dedicati agli
uffici di carità e di assistenza, i diaconi si ricordino del monito di S. Policarpo: “Essere misericordiosi, attivi,
camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di tutti”. E siccome questi uffici, sommamente
necessari alla vita della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte regioni difficilmente
possono essere esercitati, il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della
gerarchia. Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi, nelle loro diverse forme, di
decidere, con l'approvazione dello stesso sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti
per la cura delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo diaconato potrà essere conferito a uomini di
età matura anche viventi nel matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve rimanere ferma la
legge del celibato».
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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20 Nel testo di Botte, in riferimento alla traduzione del Cattaneo, c’è una variante relativa al testo della preghiera di
ordinazione: nella prima parte, è stata presa la lectio L, mentre nella seconda parte, dopo l’ «offerre…» è stata
presa la lectio T. Cfr. fotocopie del Docente, p. 26 (testo del Botte).
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una dimensione collettiva. Già nel Nuovo Testamento, è usato il termine di presbitero non al
singolare, ma al plurale. Infatti, è rara l’espressione “presbyteratus”.
La finalità della preghiera di ordinazione è la richiesta dello Spirito di Consiglio, affinché
l’ordinando sia capace di svolgere le mansioni di presbitero, ma quali sono? Esse sono
suggerite dai termini latini sustineat, adiubet e gubernet. Essi nel testo greco sono resi dal verbo
¢ntilamb£nomai. Esso ha un significato particolare nel senso che all’origine significa
“dominare”, “afferrare” e “tenersi a qualcosa”; invece, in senso traslato vuol dire “aiutare” o
“sostenere”. In particolare, questo significato di aiuto acquista nel NT il senso di un’attitudine
che è carità al servizio della Comunità: è quasi una “compassione” del presbitero verso la
Comunità; è un aiuto dato in solidarietà con la comunità. E’ una sincera preoccupazione verso
la propria Chiesa. Propriamente è una carità pastorale che esprime una considerazione verso i
più deboli.
L’altro termine latino “gubernare” fa riferimento al termine greco kàbern£w: è un altro
termine molto preciso e tecnico che si trova anche nel NT. Precisamente indica l’opera che
compie il timoniere (colui che sta al timone della barca). E’ un termine usato in senso figurativo
che indica un preciso ruolo. Esso dice anche una capacità tecnica che il presbitero ha all’interno
della Comunità. Si tratta di una guida intelligente (v. 1Cor 12,28 – dove Paolo parla dei carismi:
egli nomina le “gubernationes” come dono o carisma dello Spirito). La barca non si muove in
forza del timoniere, ma stare al timone vuol dire armonizzare tutto quello che si trova nella
barca che è la Chiesa stessa: si tratta di prendere la giusta direzione del vento, cioè dello Spirito
che soffia sempre sulla Chiesa.
Questa epiclesi, dunque, rende partecipi dello stesso spirito del vescovo, cosa che non
avviene per l’ordinazione diaconale. Come è già stato detto, nell’ordinazione presbiterale,
subito dopo si trova l’anamnesi: il riferimento tipologico è la figura dei settanta anziani che
partecipano allo spirito di Mosè (Nm 11,17-25). E’ interessante che venga fatta l’anamnesi di
questo episodio, perché la Scrittura dice che Jahvé prende lo spirito di Mosè e lo distribuisce sui
settanta anziani. Questa immagine tipologica si addice ai presbiteri che partecipano dello stesso
spirito del vescovo. Lo stesso ufficio presbiterale non possiamo, dunque, pensarlo come una
derivazione dell’ufficio episcopale, ma è dono dello Spirito che abilita ad un ufficio di governo
e di aiuto, in dipendenza dal vescovo.
L’immagine dello spirito di Mosè che viene fatto partecipare agli anziani è particolarmente
felice perché specifica anche il tipo di relazione che c’è tra Mosè ed i 70 anziani. Se nella
preghiera di ordinazione episcopale c’era un riferimento alla dimensione sacerdotale (princeps
et sacerdos = Sommo Sacerdote), nella preghiera di ordinazione presbiterale non si trova.
Anche l’ordinazione sacerdotale è «propter liturgiam»: ciò lo si nota se si guarda all’istituzione
delle vedove, perché in quest’ultima non c’è l’imposizione delle mani.
Seguono poi le intercessioni, con una precisa finalità: il vescovo associa al suo “ministrare”,
anche il “ministrare” dei presbiteri. E’ il ministero comune. Viene, dunque, sottolineato il
comune servizio, sia da parte del vescovo, sia da parte del presbiterio, a motivo della
partecipazione dell’unico spirito (Ef 6,5; Col 3,-1-2). Questa preghiera si conclude con la
dossologia.
Prima di passare a parlare della preghiera di ordinazione diaconale (v. p. 37 di questa pro-
dispensa), si può dire che la preghiera di ordinazione sacerdotale è meno precisa di quella
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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SINTESI FINALE.
Di fatto, abbiamo per la prima volta un rituale completo delle ordinazioni episcopale,
sacerdotale e diaconale.
In un quadro generale, in linea di una certa comprensione teologica, sembra che la Traditio
Apostolica ha una visione teologica unica, perché l’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei
sacerdoti è sempre vista come un intervento di Dio (v. il concetto di elezione e di scelta dei
candidati) che dall’alto si china per rendersi presente nella vita della Chiesa.
Alcuni punti essenziali, oltre a quello relativo all’intervento di Dio all’interno della Chiesa,
sono:
1) nella Chiesa e attraverso la Chiesa – sono gli elementi rituali come il
“convenire” di tutto il popolo, la “partecipazione” del popolo e nell’elezione e
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Spirito ed il servizio liturgico che, a sua volta, fa riferimento all’Assemblea che celebra. Si
tratta di una dimensione sacerdotale del ministero ordinato. C’è sempre un riferimento cultuale.
«I vescovi riuniti a Nicea, per il grande e santo concilio, alla grande e, per grazia
di Dio, santa chiesa di Alessandria e ai carissimi fratelli d’Egitto, di Libia e della
Pentapoli, salute nel Signore.
Per grazia di Dio il piissimo imperatore Costantino ci ha riuniti dalle diverse e
numerose province per la celebrazione del santo e grande sinodo di Nicea; in questa
occasione è sembrato assolutamente necessario che il santo concilio inviasse anche a
voi una lettera perché possiate conoscere ciò che fu proposto, esaminato e deciso.
Anzitutto venne presa in esame, alla presenza del piissimo imperatore Costantino,
l’empietà e la perversità di Ano e dei suoi se A ‘unanimità abbiamo deciso di
condannare la sua empia dottrina e le espressioni blasfeme con cui si esprimeva a
proposito del Figlio di Dio: sosteneva infatti2 che questi veniva dal nulla e che prima
della nascita non esisteva, che era capace di bene e di male, insomma che il Figlio di
Dio è una creatura. Il santo concilio ha condannato tutto ciò, non volendo
nemmeno ascoltare questa empia e folle dottrina, né le parole blasfeme. Voi già
conoscete o conoscerete ciò che è stato decretato contro di lui, perché non sembri che
noi insultiamo un uomo giustamente colpito per il suo peccato. La sua empietà ha
avuto una tale forza diffusiva che si sono associati a lui Teona di Marmarica e
Secondo di Tolemaide, meritando entrambi la stessa sorte.
Dopo che la grazia di Dio ha liberato l’Egitto da questo empio errore e dalle
persone che avevano osato introdurre turbamento e false dottrine tra il popolo un
tempo pacifico, non ci resta che comunicarvi, dilettissimi fratelli, ciò che è stato
stabilito a proposito della temerarietà di Melezio e di quelli da lui ordinati. Avendo
scelto di usare clemenza e umanità - anche se certamente non meritava nessuna
indulgenza - il santo concilio ha stabilito che Melezio potesse rimanere nella sua
città, senza però avere il potere né di proporre, né di consacrare dei vescovi, né di
andare nelle campagne o in qualunque altra città, accontentandosi del titolo e
dell’onore [di vescovo].
Coloro che sono stati da lui ordinati,’ dopo essere stati confermati con una
ordinazione fatta da mani più sante, possono essere ammessi alla comunione a
condizione che, pur conservando lo stato clericale e l’esercizio del ministero, siano
di rango inferiore rispetto a tutti coloro che nelle parrocchie e nelle chiese sono stati
approvati dal nostro carissimo confratello Alessandro; inoltre non potranno
proporre o ordinare quelli che vogliono, né fare alcunché senza il consenso LeI
vescovo della chiesa cattolica sottomessa a Alessandro. Solo coloro che per la grazia
di Dio e le vostre preghiere non sono stati coinvolti in alcuna eresia, ma hanno
perseverato immacolati nella Chiesa cattolica e apostolica, abbiano il potere di
proporre, nominare e eleggere chierici degni e infine di compiere tutte le cose
secondo la legge e le norme ecclesiastiche.
Se qualcuno di coloro che rivestono una dignità nella chiesa viene a morire, sia
sostituito nel suo ruolo da uno di quelli recentemente ricevuti, purché ne sembri
degno, il popolo lo voglia e sia confermato dal vescovo della chiesa cattolica e
apostolica di Alessandria. Questo è concesso anche a tutti gli altri, ma non a
Melezio a causa della sua radicata indisciplina e del suo comportamento violento e
temerario; a lui infatti non è stato attribuito nessun potere e nessuna autorità
perché è uomo prepotente capace di provocare ancora gli stessi disordini.
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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6a Lezione.
Il testo del Concilio di Nicea è di natura legislativa, per cui ci si pone sul piano del diritto e
della relazione oggettiva che c’è tra i membri della Chiesa. Dal modo con cui viene trattata la
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materia, si può comprendere la concezione del Sacramento dell’Ordine ed il modo come esso
viene celebrato. Senza soffermarci nei dettagli, si nota come la Chiesa affronta il problema
dell’organizzazione al suo interno, ribadendo – ancora una volta – il gesto costitutivo
dell’imposizione delle mani. C’è qui anche il discorso della validità e della non validità
dell’Ordine. Diventa, dunque, importante regolare l’esercizio delle diverse funzioni.
Certamente, i canoni del Concilio di Nicea dovevano affrontare altre questioni, come ad
esempio il passaggio da una Chiesa all’altra, visto dai canoni 15 e 16 che affermano
rispettivamente:
Can. 15. «Per i molti tumulti e agitazioni verificatisi, è sembrato bene
stroncare assolutamente la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede,
contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi, né presbiteri, né diaconi
si trasferiscano da una città all’altra. E se qualcuno agisse contro questa
disposizione del santo e grande concilio e seguisse l’antico costume, il suo
trasferimento sarà nullo e dovrà ritornare alla chiesa per cui fu ordinato
vescovo, o presbitero, o diacono».
Can. 16. I presbiteri, i diaconi o i chierici che temerariamente, senza santo
timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria
chiesa, non devono essere accolti in un’altra chiesa; bisogna obbligarli a far
ritorno alla propria diocesi, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Se poi
uno tentasse di sottrarre qualcuno ad un altro vescovo e di consacrano nella
propria chiesa contro la volontà del vescovo da cui si è allontanato, tale
ordinazione sia considerata nulla».
Da questi canoni si evince una forte comprensione del legame tra il ministro ordinato e la
sua Chiesa di appartenenza. Il ministro viene ordinato per la sua Chiesa, tanto che
un’ordinazione fatta senza il consenso del vescovo della Chiesa di appartenenza, è nulla. In
effetti, questo “nulla”, come riferisce il Concilio stesso, non è molto chiaro anche se si pensa
che il presbitero interessato a questo fatto, non possa esercitare il suo ministero, mentre la sua
ordinazione resta valida. Chi ha infranto il legame di comunione con il vescovo, vive la
medesima condizione.
Anche i canoni 4 e 6, in riferimento al potere del Metropolita, parlano della funzione di
controllo e di sopraintendenza alla celebrazione dell’Ordine da parte del vescovo. Anche in
questo caso c’è una situazione simile dove si prevede un’interdizione dall’ufficio di presbitero o
di diaconato. Questi canoni, infatti affermano:
Can. 4. «Si abbia la massima cura che un vescovo sia consacrato da tutti i vescovi
della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per motivi d’urgenza o per la distanza,
almeno tre, radunandosi nello stesso luogo e con il consenso scritto degli assenti,
celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto spetta in ciascuna
provincia al vescovo metropolita».
Can. 6. «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli sia mantenuta l’antica
consuetudine per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province,
come è consuetudine anche per il vescovo di Roma. Ugualmente ad Antiochia e nelle
altre province siano conservati alle chiese i loro privilegi. Inoltre sia chiaro che, se
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qualcuno è divenuto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo
stabilisce che costui non debba essere vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro
personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme al le norme ecclesiastiche degli
altri, prevalga la maggioranza».
Ci sono, poi, altri canoni che trattano di casi particolari, come ad esempio, il canone 1 21 che
parla di quelli che si mutilano o permettono ad altri di farlo su di loro, ed il canone 2 che parla
dei neofiti subito ammessi nel Clero. Quest’ultimo canone è molto importante; infatti dice:
«Molte cose per necessità o per la pressione di qualcuno sono state fatte in contrasto
con le norme ecclesiastiche. Infatti alcuni, venuti da poco alla fede dal paganesimo e
istruiti in tempo troppo breve, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono
stati promossi all’episcopato o al sacerdozio. E bene che in futuro non accada nulla di
simile perché è necessario 4e1 tempo a chi viene catechizzato e una prova più lunga
dopo il battesimo. E chiara infatti la parola dell’Apostolo: non sia un neofita, perché
non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. Se
in seguito un chierico fosse trovato colpevole di una mancanza grave e accusato da due
o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste
disposizioni e disobbedisse a questo grande concilio metterebbe in pericolo la sua
dignità sacerdotale».
Seguono, poi i canoni 10 e 17 che affrontano il problema dei lapsi e dei presbiteri usurai. Si
tratta di questioni molto gravi che non permettevano agli interessati di svolgere le funzioni alle
quali erano stati abilitati con il Sacramento dell’Ordine.
In sintesi, le notizie forniteci dal Concilio di Nicea, ci fanno comprendere che non ci
troviamo dinanzi ad un testo eucologico, ma parlano di alcune questioni sul piano oggettivo
secondo tre punti particolari:
1) si afferma quando un vescovo o un presbitero è legittimamente stabilito nel
suo incarico e quando lo può esercitare (potere di regolare il Sacramento
dell’Ordine) – La Chiesa ha la comprensione della stabilità dell’Ordine: anche
dinanzi a fatti gravi, il Sacramento dell’Ordine non cessa nella sua validità e
nel suo carisma, anche se c’è un intervento preciso della Comunità. C’è anche
una comprensione forte dell’imposizione delle mani come gesto costitutivo,
che specifica anche il tema del carattere;
2) la Chiesa non solo regola l’esercizio delle funzioni, ma può anche stabilire
le condizioni per la validità dell’Ordinazione – C’è una questione di
interpretazione dinanzi all’espressione “nulla” (ordinazione invalidata?), per
la quale non si può essere sicuri se si riferisca all’invalidazione totale
dell’Ordine, oppure si riferisca all’impedimento del suo esercizio. In effetti il
Concilio di Nicea prova a dare delle norme che regolano la validità del
sacramento dell’Ordine. C’è qui un fondamento scritturistico, secondo cui si
21 Il canone 1 dice: «Se qualcuno è stato mutilato dai medici per una malattia o menomato dai barbari, può
restare nel clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è evirato da sé, costui, se appartiene al clero, conviene che
ne sia escluso e in futuro nessuno che abbia agito così sia ordinato. E evidente, che quello che è stato detto
riguarda coloro che deliberatamente compiono ciò e osano mutilarsi; se poi qualcuno fosse stato evirato dai
barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto gli altri aspetti, i canoni lo ammettono nel clero».
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parte dalla realtà della Chiesa Apostolica che aveva la libertà di stabilire e
regolare nuove strutture di ministero o ne ha definite altre;
3) viene confermata l’importanza dell’impositio manuum, con una
considerazione particolare, a proposito di questo gesto – Essi deve essere
sempre accompagnato da una parola che ne dice il contenuto. Ciò permette
una giusta interpretazione dell’imposizione stessa (v. il caso dei Catari:
l’imposizione delle mani non indica una nuova ordinazione, ma soltanto una
riconciliazione con la Chiesa).
Da questi elementi o dati significativi, si può comprendere come nella lex vivendi ci sia una
conferma dell’importanza di ciò che la Chiesa celebrava. Quindi, diventa indiscutibile lo stesso
gesto delle imposizioni delle mani, come pure il dono dello Spirito Santo.
Conclusione: in questa prima fase di sviluppo, dal I secolo al Concilio di Nicea del 325, si è
potuto individuare una unità, dove molti elementi sono stati posti in evidenza, a partire dalla
struttura ministeriale della Chiesa. Dagli scritti dei Padri al Concilio di Nicea si nota sempre di
più una struttura chiara, secondo un’evoluzione che si nota dai medesimi testi analizzati, come
ad esempio i tre gradi del Sacramento dell’Ordine. C’è già un quadro abbastanza chiaro,
accompagnato da un certo sviluppo di comprensione. C’è qui la presenza di germi per uno
sviluppo più ampio.
Anche qui si può accentuare una certa distinzione-accentuazione della lex vivendi per la lex
credendi. In questo caso c’è un riferimento preciso alle Costituzioni Apostoliche. Un altro
aspetto riguarda direttamente la Lex Orandi, per la quale vedremo le fonti liturgiche romane.
Questa epoca si rivela fondamentale, tanto che lo stesso Concilio Vaticano II ha attinto alle
fonti di questa epoca.
Le Costituzioni Apostoliche
Con il nome di “Costituzioni Apostoliche” si intendono diversi documenti canonici. Sono
delle compilazioni che hanno lo scopo di adattare le tradizioni alle nuove situazioni che la
Chiesa si trova a vivere. Spesso si tratta di testi che mettono in evidenza la stessa autorità agli
Apostoli per garantire e legittimare l’autorità stessa della Chiesa e dei suoi ministri. Con questi
documenti si nota una duplice finalità:
a. attualizzare il diritto delle precedenti tradizioni;
b. accreditare il diritto autorevolmente sottomettendolo sotto l’autorità
degli Apostoli.
Dunque, le Costituzioni Apostoliche sono da considerarsi la prima tra le Collezioni
canoniche psedo-apostoliche. Ci troviamo alla fine del secolo IV, e nell’ambito della Siria del
Nord – come ambiente geografico-storico. Dentro a questo documento si trovano testi sia
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canonici, sia liturgici: nel libro I e nel libro VI si trova la Didascalia degli Apostoli, mentre nel
libro VII c’è la Didaché; invece nell’ottavo si trova la Traditio Apostolica. Tali testi non si
sovrappongono, ma si integrano tanto che in alcune parti ci sono delle amplificazioni e delle
attualizzazione vere e proprie. C’è dunque una rielaborazione dei testi con la finalità di dare
delle risposte concrete alla situazione attuale della Chiesa del tempo.
Il testo si trova nelle SC 320, 329 e 336, come edizioni critiche. Nel nostro caso ci interessa
la SC 336, dove si trovano i libri Settimo ed Ottavo delle Costituzioni.
In merito al contesto ecclesiologico, più volte viene mostrato come il compilatore abbia
un’immagine della Chiesa:
▪ la Corte celeste (Libro II, 56.1) che canta incessantemente la lode
(Libro VII, 35.4);
▪ la Corte celeste come modello della Chiesa terrena (il nuovo
Israele);
▪ la Chiesa è vista come vigna, come campo, come nave che dice
quello che la Comunità pensa del ministero ordinato (il suo ruolo).
Tutte queste immagini servono a descrivere bene, secondo l’intenzione del compilatore, il
buon funzionamento delle istituzioni ecclesiali. La Chiesa è la tradizione terrena della Chiesa
Celeste che vive sottomessa a Dio. Queste immagini ci permettono di vedere l’istituzione della
Chiesa, come finalità di una vita ben ordinata ed organizzata. Questo è un contesto
ecclesiologico fondamentale che si trova in linea con la Tradizione e verrà assunto anche dallo
stesso Concilio Vaticano II.
In riferimento al rituale per l’ordinazione, che si trova nelle Costituzioni Apostoliche, si
possono fare alcuni rilievi, secondo 13 elementi del Libro VIII, dove è Pietro che parla
dell’ordinazione del vescovo, mentre per i presbiteri è Giovanni che parla del sacramento
dell’Ordine; invece per i diaconi è Filippo che parla del medesimo sacramento. Tutto è figurato
per dare un’autorevolezza alla normativa della Chiesa, in merito al tema dell’Ordine. Questi
elementi rituali sono:
1) (VIII, 4) scelta da parte del popolo;
2) la presentazione del candidato all’episcopato;
3) il gradimento che il popolo manifesta per il candidato scelto;
4) convocazione solenne dell’Assemblea (popolo – presbiterio – vescovi e
diaconi);
5) consacrazione nel giorno di Domenica;
6) per tre volte viene chiesto l’assenso al popolo per l’avvenuta elezione (è un
elemento nuovo rispetto alla Traditio Apostolica di Ippolito). Si tratta di
un’interrogazione vera e propria;
7) il silenzio (è un elemento rituale costitutivo della celebrazione);
8) nomina della terna dei vescovi ordinandi, dei quali uno pronuncia la
preghiera di ordinazione, mentre gli altri due assistono all’ordinazione stessa
(v. la Traditio Apostolica) – Si nota una certa Collegialità che rimane un dato
importante;
9) è l’imposizione dell’evangeliario sulla testa del candidato, tenuto da due
Diaconi;
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Ci troviamo dinanzi ad una struttura non nuova del rituale, anche se presenta elementi nuovi
cioè delle amplificazioni come, ad esempio, la triplice interrogazione fatta al popolo, il
gradimento del candidato, la citazione della terna e l’imposizione dell’evangeliario sulla testa
del candidato. Ciò lo si può vedere come un ampliamento della stessa Traditio Apostolica di
Pseudo-Ippolito.
Facendo alcune considerazioni conclusive, si possono affermare tre punti:
a) c’è una ritualizzazione sempre più crescente, fino ad essere, in certi momenti,
pesante tanto da perdere di vista gli elementi essenziali della celebrazione
dell’Ordine, come l’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione;
b) vi è il nuovo gesto dell’imposizione del Vangelo, che si ritroverà nelle
epoche successive. Sorprende, forse, il fatto che non si parla del gesto
dell’imposizione delle mani, non che questo gesto non fosse conosciuto.
Infatti, nel Libro VIII si parla del vescovo ordinato, come colui che sta
ricevendo la cheirotonia. Ma qual è il significato dell’imposizione del Libro, in
riferimento a questa citazione non diretta dell’imposizione delle mani? Lo
amplifica, lo sostituisce? Severiano di Gabala (Laodicea) in un’omelia sulla
Pentecoste, dice che l’imposizione sulla testa dell’Evangeliario avveniva
perché gli Apostoli erano venivano ordinati come Dottori del mondo intero.
L’ordinazione avviene sempre sulla testa, come l’uso esige ai nostri giorni. La
presenza delle lingue sulle loro teste è, dunque, il segno di un’ordinazione.
Infatti, essendo la discesa dello Spirito Santo invisibile, si pone sul capo di chi
deve essere ordinato, il libro del Vangelo. Quando si fa questa imposizione
non bisogna vedere altro che una lingua di fuoco che si posa sul capo, una
lingua a causa della predicazione del Vangelo; una lingua di fuoco a causa
delle parole (sono venuto a portare il fuoco sulla terra). Dunque la
comprensione del Vangelo sul capo è di tipo epicletico: non è un gesto che si
sostituisce all’imposizione delle mani, ma lo amplifica. Attorno a questo
significato, se ne trova un altro, per il quale Gabala – in un’altra omelia –
afferma ancora che per «questo anche nella Chiesa, nelle ordinazioni dei
sacerdoti, si pone il Vangelo sul capo del candidato affinché apprenda che egli
riceve la vera tiara del Vangelo, perché pur essendo capo di tutti, anch’egli è
soggetto a questa legge. Comanda tutti, ma è comandato a sua volta dalla
legge. Legifera su tutto, ma è retto, a sua volta dalla Parola di Dio. Di
conseguenza l’imposizione del Vangelo sul Sommo Sacerdote significa che egli
è sottomesso ad un’autorità». In questa seconda omelia c’è già un significato
diverso, per cui inizia a farsi strada una comprensione del Libro del Vangelo
come segno di un’autorità alla quale il vescovo stesso soggiace. Si tratta della
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Parola di Dio. Dunque, nelle Costituzioni il gesto del Vangelo sul capo del
candidato comporta l’amplificazione del gesto dell’imposizione delle mani;
c) il testo della Traditio Apostolica viene amplificato molto nel protocollo
iniziale – Viene notevolmente amplificata l’anamnesi con molti più riferimenti
veterotestamentari che usano con maggior frequenza una terminologia
sacerdotale. Di fatto la Chiesa ha voluto sottolineare il sacramento dell’Ordine
in modo particolare. C’è, dunque, una lettura eminentemente sacerdotale. Ciò
si rifletterà anche nei documenti posteriori. Rimane, invece, identica l’epiclesi
del testo della Tradizione Apostolica.
C’è da dire anche che si nota un punto di sviluppo tra le Costituzioni e gli Statuta Ecclesiae
Antiqua. La datazione di questo documento è da fissarsi intorno al 480. Il Testo si trova sul
Corpus Christianorum n. 148. Anch’esso è una compilazione attribuita a Gennaio di Marsiglia
(siamo alla fine del V secolo). Essi hanno come fonti le Costituzioni degli Apostoli, i Concili
Gallo-Romani, le opere e le regole di origine monastica, come pure le decretali papali. In
questo modo, il compilatore ha voluto rielaborare questi documenti che, in gran parte, sono
canoni e statuta. Alla fine del secolo IV e all’inizio del V, le decretali papali parlano spesso
dell’accesso agli ordini. Papa Siricio, Papa Innocenzo I e, dopo, Papa Zosimo, tracciano le linee
di un’organizzazione ecclesiastica e di una struttura del clero. Si stabiliscono, dunque, i tempi
per passare da un grado all’altro. C’è una strutturazione sempre più definita, fino a quando nel
secolo V, la sequenza (cursus), diacono – presbitero – vescovo, verrà formalizzata. Gli Statuta
Ecclesia Antiqua, sono la prima testimonianza di questo cursus: le decretali di questi papi ne
sono una prova chiara.
Certamente la testimonianza degli SEA caratterizza bene l’epoca di transizione che fu la fine
del V secolo, tra l’era aurea patristica e l’Alto Medioevo. Lo slancio teologico e mistico non
anima più il popolo cristiano, preso, almeno così pare, da preoccupazioni terrene e coinvolto in
responsabilità materiali di ogni genere; il clero a malapena assolve ai suoi doveri. La stessa
cultura sembra già volersi rifugiare nei monasteri, che prepareranno i vescovi di domani.
Risvegliare la fede assopita del popolo cristiano, guadagnare il barbaro alla verità, mettere al
servizio di tutte le avversità le ricchezze relativamente ancora intatte della Chiesa, furono, in
grande linea, le direttive offerte dagli Statuta Ecclesiae Antiqua all’episcopato provenzale. Fin
dai primi anni del VI secolo, i concili presieduti da Cesario di Arles, tenteranno ogni sforzo per
attuarli nel popolo e nel clero.
Non c’è più il concetto di una ministerialità diffusa poco definita, ma la struttura avrà dei
lineamenti molto più chiari che indicano un’evoluzione storica e liturgica del sacramento
dell’Ordine. Circa la struttura di questo documento si esplica nel seguente modo:
- parte da una professione di fede del candidato all’episcopato;
- ci sono 89 canoni disciplinari, dove è evidente la questione dei rapporti tra i
diversi gradi dell’Ordine;
- ci sono 14 canoni (terza parte: Ricapitulatio ordinationis officialum Ecclesiae)
che ricapitolano i tre gradi dell’Ordine.
E’ un documento segnato da una tendenza presbiterialista che tende a far prevalere il ruolo
del presbiterio sul ruolo del vescovo. Ad esempio, al canone 2, quando dice che il Vescovo –
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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quando è in casa – presiede, indica un qualcosa che tenda a minimizzare la figura del vescovo,
rispetto a quella dei presbiteri. Un altro esempio sono i canoni 56, 57 e 58, dove anche i diaconi
appaiono al servizio del vescovo, ma devono essere sottomessi ai presbiteri. In questo caso si
nota una comprensione forte del ruolo del presbitero.
In merito agli elementi rituali, si può dire che:
- nella prima parte c’è un esame dell’ordinando vescovo (è un esame dettagliato
che punta a valutare le qualità personali del candidato e a verificarne la fede.
Ciò dice un contesto un po’ problematico, dove è presente il pericolo di
ordinazioni non legittime di candidati non degni di ricevere l’episcopato);
- c’è il consenso dei chierici e dei laici (è un elemento che indica la riunione
solenne di tutti i vescovi della regione, più il metropolita. Ciò indica che
l’ordinazione del vescovo non è un fatto solo di quella Chiesa, ma è un fatto
soprattutto ecclesiale);
- c’è l’osservanza dei canoni (89 canoni), in riferimento all’organizzazione del
ministero sacerdotale. Nel nostro contesto sono importanti gli ultimi 14 canoni,
i quali hanno avuto una grande fortuna nella Chiesa e si ritrovano nel
Gelasiano Antico, anche se ci sono alcune modifiche. I canoni 90, 91 e 92
parlano rispettivamente del vescovo del presbitero e del diacono; i canoni 93,
94, 95, 96, 97 e 98 parlano rispettivamente del suddiacono, dell’accolito,
dell’esorcista, del lettore, dell’ostiario, del salmista. La Traditio Apostolica
parlava già di ministeri, ma non in questa sequenza di cursus. Ciò dice una
visione chiaramente gerarchica dei diversi gradi.
Questa formalizzazione del cursus non è da vedersi in senso negativo, ma esprime un modo
come la Chiesa ha pensato di strutturare i gradi del sacramento dell’Ordine. Essa porta a due
distinzioni:
a) una distinzione tra vescovo, presbiteri e diaconi;
b) una distinzione degli Ordini minori.
Si nota qui,anche la necessità di precisare i diversi rapporti tra vescovo e presbitero, tra
vescovo e diacono, e così via. I tre canoni, sopra accennati, che trattano del vescovo, del
presbitero e del diacono, ci offrono alcuni elementi della celebrazione:
- l’imposizione del libro del Vangelo con l’imposizione delle mani sulla
cervice del candidato da parte di due vescovi e non da parte di due diaconi (la
differenza, rispetto a prima è che il Libro del Vangelo non è più posto sulla testa
ma sul collo del candidato: l’interpretazione, che si farà strada successivamente,
dà l’immagine del giogo da portare, rispetto alla discesa dello Spirito). Il rischio
che verrà dopo è quello di soffocare il medesimo gesto dell’imposizione delle
mani;
- la consegna degli strumenti che in questo documento, rispetto alla Traditio,
acquista maggiore significato (v. il can. 93). Ad esempio, per coloro che sono
ordinati, c’è la consegna degli strumenti per svolgere il loro ministero, come ad
esempio, il suddiacono che riceve il calice e la patena vuoti, o l’accolito che
riceve la candela accesa, o l’esorcista che riceve il libretto degli esorcismi.
Dunque, il gesto di consegna indica l’istituzione di quel ministero. Anche qui
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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Il Sacramentario Veronense
In questa seconda epoca, il testo eucologico di riferimento è certamente il Veronese, perché i
testi contenuti in esso, sono i documenti che la Chiesa Occidentale Latina ha celebrato il
sacramento dell’Ordine. Tali testi, anche oggi, sono usati per l’ordinazione dei presbiteri e dei
diaconi, anche se diversi cambiamenti. In questo senso, vedremo anche il perché è stata fatta
questa scelta. Per l’ordinazione del vescovo, invece, il riferimento è la Traditio Apostolica. Il
Veronese è una fonte importante che risale alla seconda metà del secolo VI (550-590), anche se
il materiale precedente è anteriore. Di esso ci sono dei formuli importanti per la fortuna che
hanno riscosso nel tempo. Testi simili si trovano nel Sacramentario Gelasiano, dove essi
vengono ripensati in un ambiente franco germanico, aggiungendo delle parti in più a quelle che
c’erano già nel Sacramentario Veronese. C’è, ad esempio, un embolismo gallicano che il
Gelasiano introduce nei testi di ordinazione del Veronese. Un altro esempio è la consummatio
presbiteri (che alcuni sostengano essere un’altra preghiera di ordinazione). In questo ambito,
però, è importante capire perché è avvenuto questo ripensamento dei testi eucologici: si tratta di
una comprensione teologica segnata dal linguaggio e dalla terminologia che differisce tra il
Veronese ed il Gelasiano.
Nel Veronese si trova tutto un vocabolario che viene applicato al sacramento dell’Ordine,
come dignitas, honor e gradus, la cui derivazione è di ambito civile. Si tratta di termini che non
sono sinonimi tra di loro, ma indicano un posto preciso all’interno di un ordinamento. Il
termine “gradus” dice esattamente uno stato all’interno di un cursus che prevede diversi gradi.
C’è, dunque, una struttura gerarchica che viene adattata alla struttura sacramentale dell’Ordine:
si tratta, in effetti, di una scelta presa con decisione dalla Chiesa che indica una certa
comprensione. Si tratta di capire, infine, il significato di questa struttura nell’ambito del
sacramento dell’Ordine.
7a Lezione.
Il Sacramentario Veronense
Per entrare nella seconda fase dello sviluppo del Sacramento dell’Ordine, ci riferiamo alla
tarda antichità, dal secolo V al secolo IX. Lo scopo è di arrivare al Pontificale Romano
Germanico. Questo Sacramentario, come è già stato detto, è importante per il fatto di contenere
dei formulari che la Chiesa Romana Latina ha sempre utilizzato. Questi tre formulari relativi
all’ordinazione del vescovo, del presbitero e del diacono sono stati usati sino al 1968, mentre -
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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sino a nostri giorni - sono stati usati quello per il diacono e del presbitero, anche se con delle
varianti. Invece, il formulario per la consacrazione episcopale è stato sostituito dal testo della
Traditio Apostolica di Ippolito.
Di questi formulari ci sono quattro recensioni che si trovano nel GeV, nel Gregoriano (?), nel
Missale Francorum. E’ interessante vedere la riforma e la modifica che il Vaticano II ha
compiuto, ma per il momento è bene vedere questi formulari sotto il profilo linguistico.
Essi, infatti, presentano un vocabolario piuttosto definito e di natura tecnica: sovente
risuonano parole come “dignitas”, “ordo”, “gradus” e “honor”. Essi hanno un riferimento
preciso nel linguaggio dell’ordinamento statale romano. Pensando al Sacramento dell’Ordine,
la Chiesa ha voluto adottare questo tipo di linguaggio per descrivere la struttura dell’Ordine.
Questi termini nell’ambito civile hanno un significato preciso, che sembra essere capace di
spiegare, appunto, la struttura ministeriale della Chiesa. In questo tentativo viene compiuta
un’operazione molto precisa, di inculturazione, anche se è stata svalutata e considerata come un
impoverimento ed un compromesso con una struttura politica e amministrativa di potere. In
effetti, però, si potrebbe notare come la Chiesa ha inteso l’utilità di questa terminologia per
descrivere la struttura dei tre gradi dell’Ordine. Naturalmente, ciò comporta soltanto la
descrizione della struttura medesima e non il contenuto teologico. Come sempre, queste
operazioni comportano il rischio di confondere lo specifico cristiano con gli elementi che
vengono assunti dentro la cultura nella quale la Chiesa è immersa.
Il contenuto del Sacramento dell’Ordine è filtrato attraverso questo linguaggio e questa
terminologia; quest’ultima può rappresentare una traccia valida per uno studio dell’Ordine. Ad
esempio, i termini con i quali si indicano i ministri ordinati (vescovo, presbitero e diacono). Ci
sono anche i termini che si riferiscono più in generale all’ordinazione, come “consacratio” e
“benedictio”, “munus” e “ufficium”. C’è, dunque, una gamma di termini che dicono qualcosa
sul sacramento dell’Ordine. Un altro aspetto importante è la chiave di lettura da adottare,
secondo una precisa gamma terminologica.
Certamente, lo studio dei termini si riferisce alla realtà dell’Ordine, ponendo in questione un
aspetto preciso ed una storia alla quale il termine si riferisce. Ad esempio, dire “dignitas”,
“ordo”, gradus” e “honor”, indicano anche il contesto storico della Chiesa, nel quale essi sono
stati concepiti.
Andando più nel particolare, il termine “dignitas” deriva da “dignus”: dal punto di vista
etimologico, vuol dire ciò che fa degno. Indica, dunque, un valore o una qualità che rende il
candidato degno di... Ad esempio, l’espressione “dignitas imperatoria”, indica le qualità
richieste per coprire una carica di governo militare. Allora, il passaggio tra la realtà e la
conseguenza diventa immediato, per cui “dignitas” indica la capacità di compiere determinate
azioni. Oltre a questo aspetto, si aggiunge il fatto che tale termina indica il grado assunto e la
posizione nella vita pubblica nell’ambito dell’ordinamento civile romano. Da questa
comprensione si ha un accezione più tecnica, che indica una carica onorifica. Si tratta anche di
un termine tecnico-giuridico, con il quale si indica una posizione precisa nell’Impero Romano:
ad esempio, la “dignitas senatoria” indica la classe dei “senatores” (o Senatori). Vicino al
termine “dignitas” si trova “honor”: quest’ultimo ha un significato più generale di “onore” e di
“prestigio” nella Societas romana. Però, in ambito più specifico - è quello che a noi interessa di
più - di “carica”, di “magistratura”. Tale significato si trova proprio nei testi eucologici, perché
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si vuole indicare un preciso ruolo ed un grado precisi all’interno della Comunità cristiana. Un
medesimo significato lo ha il termine “gradus”, secondo diverse accezioni: la prima indica il
passo o al marciare militare; in senso traslato indica il compimento di una determinata azione
per raggiungere un preciso scopo. Può anche indicare “il gradino” di una scala, per cui si può
accedere al senso di gradualità, che diventa “dignitas” assunta, cioè una posizione assunta. In
questo modo arriverà ad indicare le diverse tappe del “cursus honorum”, cioè i diversi livelli
della carriera dei pubblici funzionari dello Stato romano. Nell’ambito della vita ecclesiale,
viene a stabilirsi un significato equivalente, che descrive la struttura ministeriale della Chiesa.
Ciò indica una comprensione gerarchica di questi ministeri ordinati, che non avrà più una
terminologia fluttuante, ma un uso di termini precisi che stabiliscono una precisa gerarchia
all’interno della Chiesa.
Guardando il Ve 947, il testo dice:
«O Dio (fonte) di ogni onore e di ogni dignità che servono con i sacri ordini alla
tua gloria; o Dio, che nel tuo segreto dei colloqui familiari con Mosè tuo servo, tra
gli altri insegnamenti circa il culto e la veste sacerdotale gli hai ordinato che
Aronne fosse rivestito nelle sacre funzioni di questo misterioso abito, affinché i
posteri, istruiti dagli esempi delle età precedenti, conservassero perennemente i
tuoi insegnamenti; così che la verità simboleggiata nelle figure trovi presso di noi
una riverenza maggiore di quella che trovavano le figure presso gli antichi. Infatti
l’abito di quel primitivo sacerdozio rappresenta l’ornamento dell’anima nostra; e lo
splendore delle anime, e non il fasto delle vesti, dà ormai gloria al pontificato:
poiché tutta questa esteriore magnificenza non risplendeva davanti allo sguardo
degli uomini se non per far comprendere i misteri che adombrava. Ti preghiamo,
perciò, Signore, di concedere a questo tuo servo, che hai eletto al ministero di
sommo sacerdote, la grazia di far risplendere nei suoi costumi e nelle sue opere
tutto ciò che è figurato in questi abiti preziosi variamente lavorati e risplendenti di
oro e di gemme. Compi nel tuo sacerdote l’opera suprema del ministro e, rivestilo
degli ornamenti di tutta la gloria, santificalo con l’effusione della celeste unzione.
Concedi o Signore, che questa unzione scenda sul suo capo, scorra sul suo volto,
giunga fino alle estreme parti del corpo, affinché la virtù del tuo Spirito ne riempia
l’interno e ne circondi tutto l’esterno. Abbondino in lui la costanza della fede, la
purezza dell’amore, la pace sincera.
Concedigli, o Signore, la cattedra episcopale per reggere la tua Chiesa e il
popolo universale (sec. XIII: a lui affidato). Sii tu stesso a lui autorità, potestà e
fermezza. Moltiplica sopra di lui la tua benedizione e la tua grazia, così che per tuo
dono possa essere sempre idoneo ad implorare la tua misericordia e per la tua
grazia sia sempre Devoto. Per».
Come si può vedere, si tratta di una preghiera di ordinazione del vescovo che viene fatta con
l’imposizione delle mani. Questo testo è un po’ problematico. Nel suo interno c’è una certa
comprensione che esprime un insieme unitario, ma se lo si confronta con i testi dell’ordinazione
del diacono e del presbitero che si trovano nella Traditio, rimane la difficoltà di comprensione
linguistica. Questo fatto è stato attutito dalla Riforma Liturgica, in quanto questi testi sono stati
ripensati per una differente comprensione. Su questo testo la Riforma ha voluto intervenire. Se
si fa un confronto con il GeV, dopo l’epiclesi, quando dice, «Concedigli, o Signore, la cattedra
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episcopale...», si nota che nel GeV si trova l’inserimento di un embolismo, che è un insieme di
citazioni della Sacra Scrittura (v. le lettere pastorali di Paolo), per dare una certa sostanza al
testo stesso. La struttura di questa preghiera è quella di sempre: anamnesi, epiclesi e
intercessione.
Una prima osservazione che si può fare sul testo del Ve è la problematicità della prima parte
di questa preghiera, cioè l’anamnesi. Guardando all’incipit, si può vedere che l’espressione
«Deus honorum omnium, deus omnium dig- /nitatum...» contempla Dio come colui che concede
tutti gli onori e la dignità. Chiede qualcosa di specifico all’interno dell’ordinamento; chiede una
capacità precisa. Il problema sta nell’ampiezza di questa anamnesi che è caratterizzata ad un
vocabolario veterotestamentario molto ampio. Nello stesso tempo si nota la mancanza di un
riferimento al NT. Infatti, è chiaro il riferimento al capitolo ottavo del Levitico, dove si parla
delle vesti sacre di Aronne. C’è una tipologia di Aronne sotto il profilo dell’unzione e delle
vesti. L’anamnesi, poi, sconfina nell’epiclesi perché il tema dell’unzione sacerdotale lo si
ritrova anche in quest’ultima quando dice: «Conple in sacerdotibus tuis mysterii tui summam, et
ornamentis totius glorificationis instructos caelestis unguenti fluore sanctifica». C’è una
tipologia sacerdotale e non di governo che richiama il sacerdozio levitico. Il concetto che viene
espresso è che nel sacerdozio di Aronne veniva già annunciata, sotto gli “enigmata figurarum”,
la realtà sacerdotale del vescovo. E’ una realtà che supera e sostituisce lo stesso sacerdozio di
Aronne, dove questi elementi delle vesti e dell’unzione vengono spiritualizzati, nel senso che
non importa più il loro splendore, ma è importante lo splendore dell’anima, la sua bellezza. La
vita del vescovo è la realtà che l’oro e le gemme annunciavano in figura.
Certamente, questa tipologia non appare completa per esprimere pienamente chi è il
vescovo. L’insistenza delle vesti fa capire che la figura del vescovo è vista come il compimento
di quello che Aronne era per l’Antico Testamento. Ciò dimostra, quindi, un ambito strettamente
sacerdotale del ministero episcopale. E’ un momento in cui la Chiesa del tempo pensa il
vescovo in questo modo, per cui il dettaglio delle vesti va visto in senso più generale, perché la
realtà che il simbolo adombrava permette uno sguardo più penetrante rispetto alla figura del
vescovo nel Nuovo Testamento.
Nell’epiclesi, che inizia alla riga 30 con “Conple” si nota il tema dell’unzione regale e
dell’unzione sacerdotale. Qui è sottolineata l’invocazione dello Spirito (v. Salmo 132), in
riferimento anche ad un’unzione mistica che solo più tardi verrà introdotta come unzione
materiale. Questa immagine troverà una sua traduzione materiale non prima dell’VIII secolo,
tanto che il rituale non ne parla ancora. Dunque nel Ve il riferimento è unicamente mistico che
esprime una realtà figurata.
Certamente, anche l’unzione ha un carattere prettamente sacerdotale: l’ambito è quello
cultuale del sacerdozio levitico (v. la Traditio Apostolica in riferimento allo Spirito sui
Settanta). Uno dei limiti grossi, come è già stato accennato, un assoluta mancanza di
riferimento alla persona di Cristo e al Nuovo Testamento.
In merito, alle intercessioni, si nota un’esplicitazione di richiesta di consegna della cattedra
episcopale, anziché un’esplicitazione di tipo sacerdotale. Questa “Cattedra” ha, poi, due aspetti:
colui che presiede (funzione di governo) ed il luogo dal quale viene dato un insegnamento (è la
cattedra del maestro). Dunque, il vescovo è colui che presiede ed insegna. Questa funzione non
è, però, presente nella prima parte della preghiera, cioè nell’anamnesi, anche se
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Concedi loro, o Signore, il ministero della riconciliazione nella parola, nelle opere e
nella potenza dei segni dei prodigi. Sia il loro parlare e la loro predicazione non nelle
persuasive parole della sapienza umana, ma nella manifestazione dello Spirito e
della potenza. Dona a loro Signore le chiavi del regno dei cieli, perché usino senza
gloriarsi del potere per edificare e senza distruggere. Tutto ciò che verrà legato sulla
terra verrà legato anche nei cieli e tutto che verrà sciolto nella terra sarà sciolto
anche nei cieli. A chi avranno ritenuto i peccati siano ritenuti; a chi li avranno
rimessi tu rimettili. Chi li avrà benedetti sia benedetto; chi li avrà maledetti sia
pieno di maledizioni. Siano servi fedeli, prudenti che tu, o Signore, metti a capo
della tua famiglia, perché ne diano cibo in tempo opportuno e rendano perfetto ogni
uomo. Siano operosi nella sollecitudine, siano ferventi nello spirito, (aborriscano) la
superbia, amino l’umiltà e da questa non si allontanino, illusi dalla lode o dal
timore. Non confondino la luce con le tenebre, né le tenebre con la luce; non dicano
male il bene, né bene il male. Siano debitori ai sapienti e agli ignoranti e traggano
frutto dal progredire di tutti. Concedi loro, o Signore, la cattedra episcopale...».
Un testo simile si trova nel Pontificale Romano Germanico 35, dove è presente un
embolismo gallicano:
«Per tuo dono siano pronti i tuoi piedi nel condurlo ad annunciare la tua pace e i
tuoi beni. Concedigli, o Signore, il ministero della riconciliazione con le parole e con
le opere, nella virtù dei segni e dei prodigi. Sia il suo parlare e la sua predicazione
non nella vana sapienza umana, ma nella manifestazione dello spirito e delle virtù.
Donagli, o Signore, le chiavi del regno dei cieli, perché usi, senza gloriarsene, del
potere che gli concedi per edificare e non per distruggere. Tutto ciò che legherà sulla
terra sia sciolto anche nei cieli. A chi riterrà i peccati, siano ritenuti; a chi li
rimetterà, tu rimettili. Chi lo maledirà sia maledetto; chi lo benedirà, sia benedetto.
Sia egli quel servo fedele e prudente che tu metti a capo della tua famiglia, o
Signore, affinché le dia cibo nel tempo opportuno e renda perfetto ogni uomo. Sia
sollecito ed operoso, sia fervente nello spirito, aborrisca la superbia, ami l’umiltà e la
verità e da questa non si allontani, illuso dalla lode o dal timore. Non confonda la
luce con le tenebre, né le tenebre con la luce; non dica male il bene, né il bene il
male. Sia debitore ai saggi e agli stolti, così che tragga frutto dal progredire di
ognuno. Concedigli, o Signore, la cattedra episcopale...».
Come si può notare c’è un’ampia citazione della Scrittura non solo dell’ambito
veterotestamentario, ma anche di quello neotestamentario, che completa, in un certo qual modo,
la descrizione della figura del vescovo, come Sommo Sacerdote.
Questo testo, sostanzialmente conservato nel PRG, non ha ancora la forma di prefazio che
sarà data alle formule consacratorie solo dagli «Ordines» del sec. X. In esso, non vi si trova
l’interpolazione «Accipe Spiritum sanctum» (Ricevi lo Spirito Santo) che accompagnerà nel
Pontificale di Durando una imposizione della mano. Questa preghiera così recita:
«Dio onnipotente, origine e fonte di ogni ordine e ministero manifesta la tua
presenza in mezzo a noi (lett.: «che doni la dignità, distribuisci gli ordini e
ripartisci le funzioni»).
Tu vivi in eterno e tutto disponi e rinnovi con la tua provvidenza di Padre. Per
mezzo del Verbo tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, tua potenza e sapienza,
compi nel tempo l’eterno disegno del tuo amore (lett.: «prepari e distribuisci in
ogni epoca ciò che conviene»).
Tu hai formato la Chiesa corpo del Cristo, varia e molteplice nei suoi carismi,
articolata e compatta nelle sue membra, e hai disposto che, mediante i tre gradi del
ministero da te istituito, cresca e si edifichi come tuo tempio vivente, in comunione
di fede e di amore (lett: «per il perfezionamento del tuo tempio»).
In antico scegliesti i figli di Levi, eredi della tua benedizione (lett.: «eterna») a
servizio del tabernacolo santo.
Ora, o Padre, ascolta la nostra preghiera: guarda con bontà questi tuoi figli, che
noi consacriamo come diaconi perché servano al tuo altare nella Santa Chiesa.
(Noi che non siamo che uomini, ignorando il pensiero divino e le ragioni
profonde, apprezziamo la loro vita come possiamo. Ma a te, Signore, non sfugge ciò
che ci è sconosciuto, e ciò che è nascosto non ti inganna. Tu conosci i peccati e scruti
gli spiriti; tu puoi loro applicare con veracità il giudizio celeste e donare anche agli
indegni ciò che domandiamo).
Ti supplichiamo, o Signore, effondi in loro lo Spirito Santo, che li fortifichi con i
sette doni della tua grazia, perché compiano fedelmente l’opera del ministero.
Siano di esempio in ogni virtù (testo aggiunto Rm 12,9; 2Cor 6,6) sinceri nella
carità, premurosi verso i poveri e i deboli (nel Ve), umili nel loro servizio, retti e
puri di cuore, vigilanti e fedeli nello spirito.
La loro vita, generosa e casta, sia un richiamo costante al Vangelo e susciti
imitatori nel tuo popolo santo. Sostenuti dalla coscienza del bene compiuto, forti e
perseveranti nella fede, siano immagine del tuo Figlio (testo aggiunto: Mt 20,28),
che non venne per essere servito ma per servire, e giungano con lui alla gloria del
tuo regno (traduzione letterale: Ogni specie di virtù abbondi in essi:
un’autorità modesta, un pudore costante, la purezza dell’innocenza,
l’osservanza della disciplina spirituale. I tuoi precetti risplendano nei loro
costumi, per l’esempio della loro castità provochino l’imitazione del popolo
santo. Perseverino fermi e stabili nel Cristo con la testimonianza di una
buona coscienza, progrediscano come conviene, e meritino per la tua grazia
di passare dal grado inferiore a un grado elevato) Per Cristo Nostro Signore».
Anche in questo caso si nota la triplice struttura, anamnesi, epiclesi ed intercessione.
Nell’anamnesi c’è un’immagine molto bella di questa varietà della Chiesa, identificandola con
la realtà del Corpo di Cristo, ricco nei suoi diversi carismi, articolato e compatto nelle sue
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
Prof. Vittorio Viola Ofm.
membra. Questa comprensione della Chiesa fa si che venga inserito il ministero diaconale. Il
richiamo tipologico è l’immagine dei leviti chiamati al servizio del tabernacolo santo. Questo
elemento tipologico fa comprendere che quando in questo Sacramentario si trova il termine
“levita” si indica proprio il diacono: levita è colui che compie un servizio accanto al sacerdos.
Un inciso interessante che si trova in questo testo è quando dice che il Signore conosce i
peccati e scruta gli spiriti, parlando dell’indegnità di coloro che sono stati scelti per la
consacrazione al diaconato. E’ tutta una perorazione dell’intervento divino, dichiarando la
propria impossibilità di conoscere i segreti dei cuori e la profondità dell’animo umano. Questa
parte è stata, poi, tolta nel Nuovo Rituale.
In merito all’epiclesi, essa appare molto chiara, secondo l’espressione latina: «Emitte in eos,
domine, quaesumus, spiritum sanctum». Si parla anche dello Spirito che porta con sé i sette
doni: anche questo è un chiaro elemento epicletico contraddistinto dall’espressione latina «quo
in opus ministerii fideliter exequendi munere septiformi tuae gratiae roborentur». Sono i sette
doni che abilitano i diaconi a compiere il loro ministero.
Tutto questo viene esplicitato con le intercessioni: vengono infatti richieste, l’autorità
modesta, il pudore costante, la purezza dell’innocenza, l’osservanza della disciplina spirituale,
lo splendore dei costumi. Queste intercessioni si concludono con il riferimento ad una possibile
promozione: ciò significa un indicazione esplicita del grado diaconale. Se per il vescovo ed il
presbitero si parla rispettivamente di “summus” e di “secundus”, per il diacono c’è l’uso del
termine “inferior”. Ma oltre, a questo elemento, che richiama al Cap. VIII della Traditio
Apostolica, c’è un accenno importante al fatto che se il diacono svolgerà bene la sua missione,
avrà la possibilità di essere elevato ad un grado superiore, con un preciso riferimento a 1Tm
3,13.
8a Lezione.
Mettendo da parte altri dati, relativi al Veronense, necessari - tra l’altro - per la ricostruzione
del rito, è interessante soffermarci sull’Ordo XXXIV che è datato nella prima metà dell’VIII
secolo, anche se riporta usi e prassi di un periodo precedente, probabilmente la fine del V
secolo.
Sulla sua struttura rituale si possono fare alcuni rilievi, con alcuni riferimenti ad altri
Ordines, con lo scopo di capire in quale contesto rituale sono collocati i testi delle preghiere di
ordinazione. Si tratta, dunque, di un elemento importante che rileva ancora il valore ed il
significato del gesto dell’imposizione delle mani. Leggendo questo rituale si può vedere come
gradualmente si va sempre più organizzando sia la fase preparatoria, che acquisirà con il tempo
caratteri sempre più definiti e sempre più chiari, sia la stessa ordinazione. Ad esempio, per
quanto riguarda l’Ordinazione episcopale, nell’ambito della prassi romana, ci viene descritta la
preparazione distribuita in tre giorni, dal venerdì alla domenica. Il venerdì precedente alla
domenica di Ordinazione, la prassi romana prevedeva che i delegati della Diocesi del candidato
si recassero a Roma per incontrare insieme al candidato il Papa. Questo incontro si svolge
attraverso l’esame del candidato, nel quale si affrontano alcuni impedimenti relativi alla stessa
ordinazione episcopale. Una descrizione la si trova negli Ordines Romani di M. Andrieu al n.
16, pagina 607, dove l’Arcidiacono interroga il candidato sui quattro impedimenti che sono:
1. la sodomia;
2. l’attentato ad una vergine consacrata;
3. la bestialità e l’adulterio;
4. le seconde nozze.
Questi erano i peccati per i quali veniva chiesto un cammino penitenziale: chi è iscritto nel
gruppo di persone che sono chiamate a fare questo cammino penitenziale non può essere
ammesso all’ordinazione episcopale (v. l’iscrizione all’Ordo Paenitentiae). Su questo
argomento il candidato fa un giuramento dinanzi all’Arcidiacono che lo ha interrogato e alla
delegazione che lo ha rappresentato.
Il giorno successivo, il sabato, c’è un dialogo tra il Papa ed i rappresentanti della Diocesi del
candidato: essi ripresentano al Papa l’istanza dell’avvenuta elezione, da parte del popolo e del
clero, del candidato alla dignità episcopale. A questo punto, il Papa stesso esamina il candidato
e lo ammonisce nei suoi futuri doveri. Si nota una struttura ritualizzata di questo esame, che
non è un vero e proprio interrogatorio. Esso si conclude con il bacio del candidato da parte del
Papa, come segno di accoglienza. E’ interessante vedere come avveniva la preparazione dei
candidati al presbiterato e del diaconato, la cui ordinazione avveniva sempre di domenica, fin
dal tempo di Leone Magno (440-461). Una delle motivazioni principali, come abbiamo già
visto, è che nel giorno di Domenica, giorno della risurrezione del Signore, si concentrano tutti i
doni di grazia, facendo memoria ed anamnesi di tutte le epiclesi avvenute nel corso di tutta la
Storia della Salvezza. Da Papa Gelasio (fine V secolo) in poi, l’ordinazione verrà fissata al
termine della Veglia del Sabato, la veglia delle 12 Letture, che più tardi corrisponderanno alle
quattro Tempora. Come avveniva questa preparazione all’ordinazione, al termine di questa
veglia notturna? Nelle stazioni o celebrazioni stazionali del Mercoledì e del Venerdì il Papa
rendeva nota la sua intenzione di ordinare nel giorno di domenica. Dunque, la preparazione si
distribuiva nell’arco della settimana: il lunedì i candidati venivano interrogati sugli
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95026 – Il Sacramento dell’Ordine: Introduzione Generale e descrizione del programma.
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Questo dato dice che la preghiera eucaristica sul Pane e sul Vino ha la forza di leggere e di dare
il significato sull’altra epiclesi che viene fatta per l’ordinazione dei candidati all’episcopato, al
presbiterato e al diaconato. Si nota, quindi, una profonda teologia eucaristica dell’Ordinazione.
Allora, si può rilevare un importante principio epistemologico liturgico: tutte le epiclesi che
avvengono nella Chiesa hanno sempre riferimento e il proprio culmine nell’epiclesi eucaristica.
Ora, il luogo dell’ordinazione è proprio la celebrazione eucaristica domenicale che
conferisce un taglio fortemente eucaristico all’Ordinazione stessa.
Un secondo elemento è che c’è un forte sviluppo rituale, a partire dalla stessa prassi di
preparazione. L’esame stesso che viene fatto al candidato dice la preoccupazione della Chiesa
sulla sua fedeltà alla dottrina e all’ortodossia. Anche all’interno del rito di ordinazione si nota
questo crescendo rituale (v. ad esempio la vestizione seguita dal canto litanico). Nella città di
Roma, almeno sino al VIII secolo, la vestizione non ha mai avuto un grande significato, anche
se è bene notare che avrebbe avuto più senso collocare la vestizione stessa dopo l’ordinazione e
non prima. Si tratta di un gesto esteriore, ma che prepara al momento centrale dell’ordinazione,
per la quale la stessa partecipazione dell’Assemblea viene amplificata dalla Litania,
accompagnata dalla prostrazione. Quindi, intorno al nucleo centrale (imposizione delle mani e
preghiera consacratoria) viene ad esserci sempre più un crescendo rituale. Gli Ordines, qui
raramente parlano di imposizione delle mani, ma usano i termini “consecrare”, “benedictio” e
“ordinatio”, con i quali intendono parlare del gesto dell’imposizione delle mani. Nell’Ordo
XXXVI, ai nn. 18-37 si usa il termine “impositio manuum”, anche se in modo meno frequente
rispetto ai termini sopra accennati.
Un altro rilievo, sempre intorno al nucleo centrale, è legato al fatto che sembra non sia
evidente la dimensione collegiale dell’imposizione delle mani. Se nel Concilio di Nicea, in
merito all’ordinazione del Vescovo, era prevista la presenza di tre vescovi, di cui uno
consacrante, a Roma, intorno al secolo VI, il Papa può ordinare anche da solo i vescovi (v. Ordo
XXXVI n. 37). Così, anche più tardi l’Ordo XXXV al n. 65, all’inizio del X secolo, riferisce
che viene a mancare questa dimensione collegiale. In effetti, questo Ordo, appena menzionato,
prevede la presenza di tre vescovi per la consacrazione episcopale non conferita dal Vescovo di
Roma. Quindi, quello che era un minimo richiesto dal Concilio di Nicea, è divenuto un
massimo secondo gli Ordines.
Prevale piuttosto la dimensione della parola che accompagna il gesto dell’imposizione delle
mani, cioè la preghiera di consacrazione. In sintesi c’è ancora un nucleo essenziale, posto al
centro dell’ordinazione.
Visto questo quadro rituale, dentro il quale si inseriscono questi testi eucologici, si possono
rendere presenti tre aspetti:
1. l’ordinazione nei testi del Veronense e degli Ordines accennati, è pensata
soprattutto come una “benedictio” o “consecratio”, che sono termini che
indicano propriamente il gesto epicletico. Questa invocazione dello Spirito
indica un certo dinamismo secondo i tre movimenti dell’elezione,
dell’invocazione e dell’effusione-infusione. L’epiclesi si manifesta come
costitutivo essenziale dell’ordinazione che ha delle conseguenze precise: l’eletto
viene inserito in un Ordo e a lui viene affidato un munus, un ufficium o compito
all’interno della Comunità. Dunque, l’ordinazione manifesta tre dimensione: è
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deve leggere nella direzione del compimento di quello che l’Antico Testamento ha
preannunziato sin dall’inizio. Allora la comprensione della dimensione
sacerdotale non può essere vista solo da un punto di vista rituale, come di fatto
avviene quando si registrerà una certa crisi della Liturgia in seno alla Chiesa,
dove c’è il rischio di vedere nel ministro ordinato come un semplice funzionario
del sacro. Ancora oggi, il problema si pone, quando c’è questa sorta di
riduzionismo. Ciò non vuol dire che bisogna leggere il dato relativo alla
dimensione sacerdotale dell’Antico Testamento come un dato involutivo, dal
momento che manifesta una dimensione recisa del sacerdozio di Cristo e dice
come Cristo stesso ha esercitato il suo sacerdozio (v. il Praefatio V di Pasqua:
Cristo Altare, Vittima e Sacerdote). In sostanza, il contenuto sacerdotale della
missione di Cristo è da ritenersi essenziale, dentro il quale si ricapitolano le altre
funzioni di Gesù (ad es., Maestro, Pastore, Profeta).
A riguardo di quanto è stato detto, c’è un testo all’interno del GeV che porta il titolo:
Consummatio presbyteri. Botte dice che questo testo è una preghiera di consacrazione
alternativa, di origine gallicana. In realtà è un testo che porta a compimento il contenuto della
stessa preghiera di consacrazione, perché al suo interno si scorge un crescendo di figure
retoriche che porta a considerare il compito sacerdotale come culmine di tutte le altre funzioni,
quella di governo e quella dell’insegnamento. Non si tratta più del sacerdozio esteriore che
veniva esercitato nel Tempio, ma è il sacerdozio di Cristo, per cui non c’è un semplice recupero
delle categorie veterotestamentarie. Il riferimento è proprio il sacerdozio di Cristo che non si
limita alla comprensione esteriore del sacerdozio, per la quale un punto di riferimento
principale è proprio al Lettera agli Ebrei, dove viene dimostrata la superiorità e la completezza
del sacerdozio di Cristo, rispetto a quello veterotestamentario (sacerdozio levitico e sacerdozio
secondo la dinastia di Aronne), ma nello stesso tempo rileva una continuità tra la tradizione
veterotestamentaria e quella neotestamentaria, che offre una visione completa di quello che è il
ministero sacerdotale.
Da tutto questo si rileva che il vescovo è sacerdos all’interno della Chiesa ed è Princeps e
Maestro che siede in Cattedra. Gesù porta a compimento quello che erano le figure
veterotestamentarie. Ciò fa comprendere che l’esteriorizzazione del culto levitico è stata
soprattutto una degenerazione di quello che il Culto era e rappresentava. La causa primaria di
questa distonia sta soprattutto nella spaccatura tra la vita ed il Culto che ha segnato
profondamente la storia di Israele. In questo senso è significativo ricordare il Salmo 49, insieme
al Salmo 50, dove il popolo è accusato di non essere più fedele all’Alleanza. Il Salmo 50 finisce
con un contenuto cultuale che, visto con il Salmo 49 fa comprendere l’esperienza negativa di
Israele che è chiamato ad offrire il sacrificio della lode. Il problema sta in questa frattura che
verrà risolta nell’atto redentivo di Cristo che unisce l’offerta con la sua vita. In origine la
vocazione del popolo era l’osservanza dell’Alleanza che Cristo compirà una volta per tutte,
rendendo unico anche il suo stesso sacrificio.
Certamente in questi testi, si può tracciare una linea fondamentale, grazie alla quale si
affacciano altri riti. Si tratta di un ampliamento rituale che nel tempo, attorno al nucleo
fondamentale, apparirà sempre più pesante, con il rischio di perdere di vista gli elementi
essenziali e principali della stessa ordinazione. Questi riti che si aggiungono ed appaiono
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ancora più evidenti nei Pontificali, riguardano il discorso delle unzioni, la consegna delle vesti
(in Gallia questo momento è più espressivo) e delle insegne. Questi gesti vengono
accompagnati dall’eucologia. Il nucleo essenziale rischia, in un qualche modo, di essere
soffocato.
In relazione a questo nuovo dato si registra un punto di svolta che lo possiamo identificare
con il Pontificale Romano Germanico: non c’è questione liturgica che possa essere trattata
senza far riferimento a questa fonte principale della Liturgia. Anche nella nostra struttura di
sviluppo, quello che si trova in maggiore movimento è proprio questa dimensione rituale sopra
accennata, accompagnata dai testi eucologici. E’ certamente impressionante pensare che la
Chiesa abbia continuato ad ordinare con questi testi eucologici che rimangono, bene o male,
invariati. Essi riguardano i testi che abbiamo visto finora. C’è, però, da dire che i Pontificali
“maltratteranno” proprio questi testi eucologici. Più in precisione riferendoci al Pontificale
Romano Germanico (risale intorno al 950) esso diventa la chiave per vedere gli altri Pontificali
che seguiranno. In merito alla struttura dell’ordinazione del vescovo, si può dedurre questo
schema:
1. elezione - presentazione;
2. esame del candidato sempre più ritualizzato;
3. le Letture, il Graduale;
4. la vestizione degli ornamenti pontificali;
5. la Litania con la prostrazione;
6. l’imposizione dell’Evangelario (è tenuto da due vescovi sul Capo e tra le scapole,
mentre tutti impongono le mani);
7. la preghiera di consacrazione (si nota, al momento dell’epiclesi, in essa
l’inserimento dell’anamnesi in riferimento all’unzione con il crisma sul capo del
Salmo 124: questo richiamo tipologico di anamnesi viene tradotto con un gesto
materiale per cui non si tratta più dell’unzione mistica soltanto. Ciò dimostra che
l’unzione, rispetto alla Parola, è molto più forte da un punto di vista rituale);
8. l’unzione delle mani, in particolare quella del pollice (il vescovo con il pollice
unge, consacra e conferma. C’è anche qui un valore rituale);
9. la benedizione dell’anello e del pastorale;
10.la consegna della Traditio di queste insegne;
11.il bacio di Pace come segno di accoglienza nella Comunità.
In questa struttura si notano degli elementi rituali in più, rispetto alle strutture rituali
precedenti. E’ importante notare come all’interno del testo della preghiera di consacrazione
viene posto il gesto dell’unzione, che segna una frattura all’interno del testo medesimo: è
un’unzione mistica che viene ad essere un’unzione materiale.
Con il Pontificale Romano del XII secolo, ci saranno alcune giunte, sulla base dello stesso
Pontificale Romano Germanico del X secolo. Infatti, c’è la giunta del rito della consegna
dell’Evangeliario e terminata la Messa avviene l’acclamazione da parte del neo ordinato. In
questa linea di sviluppo, il Pontificale di Durando prevede in più una formula esplicativa
dell’imposizione delle mani, per rendere chiaro il significato del gesto: «Accipe Spiritum
Sanctum ad robur et ad resistendum diabolo et tentationibus eius». Lo stesso avviene per la
consegna della stola.
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Questo bisogno di dire, mentre si impongono le mani, può indicare il fatto che il gesto stesso
dell’imposizione delle mani ha perso della sua forza originale. Mentre, viene fatta l’unzione,
c’è anche l’aggiunta Veni Creator Spiritus. In questo modo il nucleo essenziale rischia di essere
appesantito ulteriormente. Si nota anche, a partire dal Pontificale Romano Germanico,
l’aggiunta della consegna della Mitra e dei guanti, oltre al Te Deum e al fatto che il nuovo
vescovo benedica, alla fine l’Assemblea Liturgica. Ciò lascia intendere una comprensione
sempre più scarsa degli elementi centrali del rito di ordinazione del Vescovo, cioè l’impositio
manuum e la preghiera consacratoria, perdendo, così, la forza stessa del silenzio che li
accompagna. Ciò suggerisce anche una sensibilità diversa che esprime il bisogno di una
comprensione del gesto.
Per quanto riguarda i presbiteri si nota un medesimo sviluppo rituale(v. PRG cap. XVI):
l’introito, la Colletta, la postulazione dei fedeli e l’elezione dopo l’interrogazione, la
prostrazione con la Litania, c’è la presentazione dei doni al vescovo, prima delle letture, una
successiva interrogazione (Est dignus? Est iustus?), le promesse, una allocuzione ed una
monitio (che per la prima volta si trova nel Missale Francorum), l’imposizione delle mani con
l’invitatorio, la preghiera di consacrazione, la vestizione (la stola sacerdotale con la pianeta (nel
Pontificale di Durando si dirà la “Pianeta piegata sulle spalle”), il testo della consummatio del
GeV, l’unzione delle mani e non del pollice (Durando inserisce anche il Veni Creator per
indicare una certa comprensione dello Spirito che agisce. L’unzione avviene con l’olio dei
catecumeni: per gli esperti pare che sia una svista dei rubricisti), la consegna degli strumenti (la
Patena ed il Calice che indicano una funzione prettamente sacerdotale), seguita da una formula
esplicativa: «Accipe Potestatem offerre sacrificium». Seguono, poi, la benedizione ed il bacio di
Pace. Le preghiere antiche che si trovano risalgono già al Gelasiano.
C’è da dire, che in merito alla struttura celebrativa, Durando aggiunge, dopo la comunione,
un’altra serie di riti: gli ordinati recitano il Credo, seguita da un’imposizione delle mani,
secondo la citazione di Gv 20,23 in relazione alla remissione dei peccati. Ciò prevede lo
srotolamento della Casula per indicare la piena potestas sacerdotale. C’è anche il gesto
dell’imixtio manuum (l’ordinato mette le sue mani nelle mani del vescovo: è un gesto che ha la
sua origine nell’istituto del vassallaggio ed indica la consegna di sé nelle mani del Vassallo o
Padrone), seguito dal gesto del bacio di pace. Tutto questo blocco rituale viene messo dopo la
comunione.
Il rito che si mantiene più sobrio è quello dei Diaconi: ci sono le litanie, come per
l’ordinazione del presbitero, solo il vescovo impone le mani, c’è la preghiera di consacrazione,
la consegna della stola e dell’evangeliario. Durando aggiunge un breve discorso ai candidati, la
formula esplicativa per l’imposizione delle mani, al centro della preghiera di ordinazione. Ciò
dimostra la poca comprensione della stessa preghiera di consacrazione.
In sintesi, la complessità rituale rischia di soffocare il nucleo essenziale, come abbiamo già
detto prima. Ci sono anche delle espressioni rituali che dicono forse quello che la prex
consecratoria e la stessa impositio manuum non erano più in grado di dire. La loro non
comprensione fa si che vengano stabiliti dei riti che hanno lo scopo di dire il significato dei
gesti di ordinazione. Rimane, comunque, centrale il riferimento all’azione dello Spirito che
sottolinea Dio come l’attore primo dell’ordinazione.
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Prof. Vittorio Viola Ofm.
Il punto di arrivo della serietà di questa situazione lo si ha con il Concilio di Firenze nel
Decretum pro Armenis del 22 novembre 1439, dove si dice al cap.VI:
«Materia di esso è ciò la cui consegna conferisce l’Ordine. Così il presbiterato
è trasmesso con la consegna del calice con il vino e della patena con il pane. Il
diaconato con la consegna del Libro dei Vangeli; il suddiaconato con la consegna
del calice vuoto e della patena vuota. E così per gli altri gradi del sacerdozio vale
la consegna delle cose inerenti al ministero relativo. La forma del sacerdozio è la
seguente: “Ricevi il potere di offrire il sacrificio nella Chiesa per i vivi e per i
morti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Dunque, per questo decreto, il nucleo essenziale dell’Ordine è la consegna degli strumenti.
Ci vorrà Pio XII, nel 1948 per riportare il nucleo stesso dell’ordinazione allo stato originario,
indicando un punto di partenza: l’imposizione delle mani e la preghiera di consacrazione, dai
quali riparte la comprensione del sacramento dell’Ordine.
9a Lezione.
offrire il vero Corpo ed il vero Sangue del Signore, di perdonare i peccati, ma semplicemente
una funzione ed un semplice ministero di predicare il Vangelo o di coloro che non predicano
non sono sacerdoti, sia anatema. Se qualcuno afferma che oltre al sacerdozio, nella Chiesa non
ci sono altri Ordini maggiori e minori, attraverso i quali si accede al sacerdozio, sia
anatema» (can. 1 e can. 2). Il canone 6 aggiunge: «Se qualcuno afferma che nella Chiesa
Cattolica non c’è gerarchia istituita per una disposizione divina, la quale è formata da Vescovi,
presbiteri, diaconi e ministri, sia anatema».
Con queste dichiarazioni il Concilio di Trento intende rispondere con fermezza contro le
affermazioni di Lutero che minano alla base la sacramentalità dell’Ordine. In sintesi, si può dire
che era necessario di riaffermare una Chiesa strutturata, all’interno della quale vengono a
designarsi i diversi ministeri, la cui origine si trova nel Nuovo Testamento. Un secondo
elemento, è quello secondo cui - affermando la realtà sacramentale dell’Eucaristia - il Concilio
di Trento fonda l’esigenza di un sacerdozio che ha il potere di consacrare e di offrire il Corpo ed
il Sangue del Signore per la remissione dei peccati, anche se non viene meno la medesima
funzione di predicare e di insegnare. Questo fa comprendere che non sempre si deve rispondere
ad un’esasperazione di una risposta unilaterale.
Certamente il sacrificio eucaristico è fortemente sottolineato, probabilmente per indicare con
più chiarezza la natura del sacerdozio ministeriale.
Una terzo elemento parte dal fatto che Trento si occupa anche dell’aspetto pastorale del
sacramento dell’Ordine: non poteva non riconoscere che determinate obiezioni della Riforma
Protestante erano più che legittime, dal momento che la Chiesa stava registrando una forte crisi
spirituale, teologica e sacramentale, nonché disciplinare e pastorale (v. gli abusi del tempo:
l’accumulo di benefici, a scapito del Popolo di Dio). Un dato forte parte proprio dalla
costituzione dei Seminari, come ambienti di formazione dei futuri sacerdoti. Si nota, quindi,
un’attenzione della Chiesa verso una situazione critica.
Questi risvolti che abbiamo nella lex credendi, ci danno delle indicazioni di quello che la
Chiesa intende celebrare per il medesimo sacramento dell’Ordine.
Guardando, adesso, allo sviluppo rituale - attraverso i Pontificali - questa amplificatio dei riti
comporta la conseguenza di appesantire il nucleo centrale dell’imposizione delle mani e della
preghiera di consacrazione. Si giunge ad un momento nel quale il nucleo viene spostato verso la
consegna degli strumenti, ma in realtà non sono gli strumenti stessi ad ordinare il sacerdote, ma
il nucleo centrale originario.
Perché la situazione cambi e giunga all’origine, bisognerà aspettare Pio XI che il 30
novembre 1947, con la Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis, riaffermerà il nucleo
centrale dell’imposizione delle mani e della preghiera di consacrazione. Essa è anche frutto di
un lungo dibattito, che permetterà una corretta ermeneutica che ricupererà il senso dei
sacramenta ordinis. Viene affrontata anche la questione dello sviluppo storico.
Di fatto, Pio XII fa un’affermazione di natura dottrinale, dal momento che afferma
l’imposizione delle mani e la preghiera di consacrazione come punto di partenza e come il
cuore dell’Ordine. Tutto questo è importante perché permette di riorganizzare l’ordinazione ed
avrà un certo eco nella stessa Riforma promossa dal Vaticano II. Quello che Pio XII ha detto è
stata un’indicazione importante che ha stabilito una linea principale di condotta da parte di tutta
la Chiesa. Ci fu, quindi, una riforma del Sacramento dell’Ordine (v. l’editio typica del 1968 e
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l’editio typica altera del 1989). La prima edizione corrisponde tra le prime pubblicazioni della
Riforma. Sin da subito ci si rese conto della necessità di ripensare l’Ordine che tra l’altro era
privo dei Praenotanda, perché alcune questioni non erano ancora chiare. C’era anche la
necessità di riformare il rito e modificarlo anche in base ad alcune osservazioni che erano state
fatte, dal 1968 in poi, da alcune Conferenze Episcopali.
Dal 1973 si iniziò un nuovo lavoro di revisione, che fu ripreso, poi, nel 1985, sino a quando
del 1989 uscì l’Editio Typica altera del Pontificale Romano con il seguente titolo: De
Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum.
Dando uno sguardo d’insieme, è importante avere presente alcuni riferimenti per un’ulteriore
approfondimento: gli Studi della Rivista Liturgica, (gen. - feb. 1969) che sono dedicati allo
studio dei nuovi riti. I primi quattro articoli sono interessanti. In merito all’Editio Typica Altera
ci sono altri studi monografici, uno dei quali ha il seguente titolo: I riti di Ordinazione nella
nuova editio typica (sempre in Rivista Liturgica) che riporta alcuni contributi di dell’Oro
(L’Editio Typica Altera del Pontificale Romano delle ordinazioni, c’è qui un commento ai nuovi
Praenotanda), di Magnoli che fa un confronto tra il rito ed i testi delle ordinazioni, comprese le
variazioni tra le due editio, e di Citrini che fa delle belle sintesi (v. L’apporto del rituale alla
teologia del ministero ordinato).
Su questa necessità di uniformare questo volume del rituale con gli altri volumi della
Riforma, si poterono accogliere molte osservazioni sul testo già riformato del 1969. E’
emblematico il cambiamento del titolo, nel senso che la prima editio aveva questa dizione: De
ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopi, mentre la seconda editio, presenta un titolo quasi
invertito. A tale riguardo ci sono due differenze sostanziali:
a. si preferisce, alla successione ascendente, quella discendente per recuperare la
linea antica. Essa è ripresa anche dalla Lumen Gentium;
b. viene usato il plurale anziché il singolare. C’è qui l’idea della Chiesa locale, dove
c’è un solo vescovo, più presbiteri e più diaconi. Dunque, si nota la presenza di
una comprensione teologica ben precisa che sottolinea la strutturazione del titolo
dell’Editio Typica Altera.
Tutto il testo del Pontificale Romano delle Ordinazioni è organizzato in cinque capitoli:
■ Caput I: De Ordinatione Episcopi;
■ Caput II: De Ordinatione presbyterorum;
■ Caput III: De Ordinatione Diaconorum;
■ Caput IV: De Ordinatione diaconorum et de ordinatione presbyterorum in una actione
liturgica simul conferendis;
■ Caput V: Textus in celebratione Ordinationum adhibendi.
Oltre a questi capitoli ci sono i Praenotanda generalia ed un Appendice. Naturalmente
all’inizio sono riportati il Decreto di Promulgazione della Sacra Congregazione dei Riti e la
Constitutio Apostolica di Paolo VI. Si trova anche l’edizione italiana di questo testo.
Dunque, si può notare un unico schema formato dai primi tre capitoli. Ciascuno di essi si
apre con dei Praenotanda che sono suddivisi ed organizzati in base all’importanza della
ordinazione, degli Uffici e dei ministeri, nonché delle cose da preparare. Poi c’è da notare che
segue il rito stesso dell’Ordinazione, secondo questa struttura:
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1. Riti iniziali;
2. Liturgia della Parola;
3. Ordinazione;
4. Liturgia Eucaristica;
5. Riti di conclusione.
Tale schema si trova in ciascun capitolo relativo all’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e
dei diaconi. Infine, vengono riportati dei testi con delle varianti in cui ci sia l’ordinazione di più
vescovi o per un solo presbitero o per un solo diacono.
Facendo una lettura analitica di questo rituale delle ordinazioni, ci sono alcune novità
evidenti: la prima è proprio l’introduzione di questi Praenotanda Generalia che soddisfano la
necessità di ordine metodologico e l’esigenza di mettere in luce la dottrina del rito
dell’Ordinazione. Lo stile è essenziale ed il linguaggio richiama quello della Lumen Gentium e
di altri documenti del Concilio Vaticano II. Questi Praenotanda sono divisi in 3 parti:
■ De Sacra Ordinatione;
■ De structura celebrationis;
■ De aptationibus ad varias regiones et adiuncta.
Nella prima parte, viene tracciato, in sintesi, il quadro teologico dentro il quale si viene a
svolgere la stessa celebrazione del sacramento dell’Ordine. Con la celebrazione del sacramento
vengono istituiti nel nome di Cristo e ricevono il dono dello Spirito alcuni membri della
Comunità, assumendo, così la missione di pascere la Chiesa con la Parola e la Grazia di Dio.
Qui non si tratta di una delega, ma in primo luogo un intervento diretto di Dio che conferisce il
dono dello Spirito Santo perché i candidati siano in grado di svolgere il loro futuro ministero.
Essi vengono posti in stretto rapporto con la Persona di Cristo. Come il Padre ha mandato ed ha
consacrato il Figlio, così il Figlio ha reso partecipi gli Apostoli della medesima consacrazione e
missione. Quindi, il riferimento teologico è, sin dall’inizio, molto netto. Questo stretto rapporto
con la Persona di Cristo avviene con la consacrazione, con l’unzione e con la missione del
Cristo storico, alle quali partecipano i successori degli Apostoli, come afferma anche la LG 28
che recita:
«Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre (cfr. Gv 10,36), per mezzo
degli apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro
successori, cioè i vescovi a loro volta i vescovi hanno legittimamente affidato a
vari membri della Chiesa, in vario grado, l'ufficio del loro ministero. Così il
ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da
quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I presbiteri,
pur non possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai vescovi nell'esercizio
della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti nella dignità sacerdotale e in
virtù del sacramento dell'ordine ad immagine di Cristo, sommo ed eterno
sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24; 9,11-28), sono consacrati per predicare il
Vangelo, essere i pastori fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del
Nuovo Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell'ufficio dell'unico
mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti la parola di Dio.
Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico o sinassi, dove,
agendo in persona di Cristo e proclamando il suo mistero, uniscono le preghiere
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dei fedeli al sacrificio del loro capo e nel sacrificio della messa rendono presente e
applicano fino alla venuta del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del
Nuovo Testamento, quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se
stesso al Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il
ministero della riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli penitenti o
ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei fedeli (cfr. Eb
5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità, l'ufficio di Cristo, pastore e
capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale insieme di fratelli animati da un solo
spirito, per mezzo di Cristo nello Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro
gregge lo adorano in spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella
predicazione e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e
meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò che
insegnano. I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine episcopale e suo aiuto e
strumento, chiamati a servire il popolo di Dio, costituiscono col loro vescovo un
solo presbiterio sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità locali
di fedeli rendono in certo modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore
confidente e generoso, ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la
sollecitudine e li esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità del
vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata,
nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un grande
contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef 4,12).
Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro zelo nel contribuire
al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di tutta la Chiesa. In ragione di questa
loro partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti
riconoscano in lui il loro padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo,
poi, consideri i sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo
chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione quindi
dell'ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi, sono
associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione e grazia, servono al bene
di tutta la Chiesa. In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti i
sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che deve spontaneamente e
volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e materiale, pastorale e
personale, nelle riunioni e nella comunione di vita, di lavoro e di carità. Abbiano
poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che hanno spiritualmente generato col
battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor 4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti
spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt 5,3) presiedano e servano la loro
comunità locale, in modo che questa possa degnamente esser chiamata col nome
di cui è insignito l'unico popolo di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr.
1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1). Si ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e
con la loro sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici,
l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a tutti la
testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori ricercare anche quelli
(cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella Chiesa cattolica, hanno abbandonato
la pratica dei sacramenti o persino la fede. Siccome oggigiorno l'umanità va
sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più
bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei
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vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto
il genere umano sia ricondotto all'unità della famiglia di Dio».
Qui si trovano tutti gli elementi teologici fondamentali che suggeriscono un’atmosfera
ecclesiologica particolare del Vaticano II, dove c’è una Chiesa che - secondo Vagaggini - pone
in primo piano il suo essere comunione ontologica, soprannaturale e sacramentale, che viene
animata dalla vita divina all’interno della Santissima Trinità. Si tratta di un’ecclesiologia di
comunione, all’interno del quale è compresa l’ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei
diaconi.
A questa comunione è finalizzata ogni struttura all’interno della Chiesa, tanto più la struttura
ministeriale. Il ministero è al servizio di questa comunione. L’azione di Cristo Chiesa, l’unzione
dello Spirito e l’assunzione specifica di una funzione, indica una nuova triplice dimensione
scaturente proprio da questa prospettiva teologica ed ecclesiologica. Sono elementi che già nel
passato erano già presente, nel senso che, richiamando la struttura classica, è Cristo Chiesa che
elegge, mentre l’essenza di questa ordinazione è l’unzione dello Spirito (epiclesi dello Spirito)
che comporta l’assunzione di una funzione ben precisa.
La seconda parte dei Praenotanda tratta della struttura della celebrazione dove si nota un
ritorno dell’imposizione delle mani e della preghiera di consacrazione come nucleo essenziale e
centrale dell’Ordinazione. Tutta la celebrazione è rivolta a questo nucleo, sia nei riti che
preparano il momento centrale, sia nei riti che seguono subito dopo. Questi riti manifestano la
loro natura esplicativa e non sono assolutamente da ritenersi costitutivi del rito di ordinazione.
Tutta l’Assemblea partecipa con la supplica silenziosa con l’ascolto e l’acclamazione del suo
assenso a questo momento centrale che trova nella celebrazione eucaristica il massimo culmine
e l’epifania massima della Chiesa, soprattutto nel giorno del Signore. L’indicazione di un
giorno diverso dalla domenica, per la relativa ordinazione, ha come elemento primario una
finalità pastorale con la quale assicurare la massima partecipazione da parte dell’Assemblea,
cioè del popolo riunito intorno al Vescovo e a coloro che stanno per ricevere il Sacro Ordine.
Questo fatto sottolinea anche l’intimo legame che c’è tra il Sacramento dell’Ordine e la
celebrazione eucaristica.
In merito agli adattamenti, c’è un riferimento alle necessità delle singole regioni. Si entra in
un quadro più generale legato al problema dell’inculturazione e degli adattamenti che ogni
Conferenza Episcopale è chiamata ad adottare in base alle esigenze della Chiesa locale.
Andando avanti, la struttura della celebrazione, secondo la Editio Typica Altera, possiamo
vederla in modo sincronico, a partire dall’Ordinazione episcopale:
■ riti iniziali e liturgia della Parola;
■ rito di ordinazione.
Si tratta di un primo elemento che soggiace al principio secondo cui è evidente un forte
legame tra la celebrazione del Sacramento dell’Ordine e la Chiesa. Non c’è semplicemente
un’indicazione funzionale. Come si può vedere, in tutti i riti l’ordinazione viene collocata dopo
la proclamazione della Parola: è un dato fondamentale che dice il luogo esatto della
celebrazione che richiama al principio del Vaticano II che sottolinea lo stretto legame tra la
Parola di Dio ed il Sacramento. Quanto viene annunciato e proclamato ha poi il suo seguito
nella celebrazione sacramentale. Questo dato non è funzionale, perché la celebrazione
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eucaristica dà la chiave di lettura per comprendere al meglio ciò che sta avvenendo o è già
avvenuto nel Sacramento dell’Ordine.
C’è anche una scelta appropriata delle letture adeguate proprio per ciascuna ordinazione.
Dunque, dopo la proclamazione della Parola, l’elemento centrale resta proprio il rito
dell’Ordinazione che si apre con dei riti preparatori. Per quanto riguarda il vescovo c’è, in
primo luogo, la presentazione, mentre per gli altri candidati si parla di elezione. Segue, poi, la
richiesta di ordinazione rivolta al vescovo consacrante; per il vescovo che deve essere ordinato
c’è il mandato apostolico della Santa Sede. L’Assemblea partecipa rendendo grazie a Dio. E’
importante dire che questa presentazione / elezione è un segno importante secondo cui
l’Assemblea vede nel vescovo ordinato e nei presbiteri o diaconi ordinati un dono di Dio.
Certamente è la Chiesa che presenta ed elegge il candidato. Quella stessa elezione fa parte di
questo intervento di Dio, anche se passa attraverso l’Assemblea stessa. Se è la Comunità sceglie
i suoi ministri, è altrettanto vero che essa è conscia del fatto che c’è una manifestazione
dell’intervento di Dio, quale elemento costitutivo22. E’ Dio stesso ad essere l’autore primo della
chiamata dei nuovi candidati al Sacramento dell’Ordine.
Subito dopo segue l’omelia del Vescovo ordinante, che dice la comprensione che la Chiesa
ha del Sacramento dell’Ordine. Una particolarità che si deve notare è che, subito dopo la Parola
proclamata, avviene la presentazione e/o la elezione del candidato o dei candidati, che sta a
significare che la Parola, appena proclamata, illumina ciò che la Chiesa sta per fare. Questo
fatto va contestualizzato: la Parola è accolta dall’Assemblea che elegge e presenta i nuovi
ministri. Si vede così come la Parola di Dio entra nel cuore dei credenti e viene interiorizzata.
Una medesima struttura la si nota anche per quanto riguarda l’ordinazione presbiterale. Il
vescovo riconosce che la scelta del presbitero avviene per opera di Dio, mediante la
partecipazione dell’Assemblea. L’omelia stessa deve illuminare quello che sta avvenendo in
quel momento e deve guidare i fedeli al senso vero e proprio dell’ordinazione, in modo da
favorire la sensibilità secondo cui non è il candidato ad essere messo al centro, ma l’azione
dello Spirito che opera. Nella Chiesa antica questa sensibilità era molto forte, dove la stessa
preparazione che prevedeva il digiuno e la veglia di preghiera di tutta la Chiesa, insieme al
candidato o ai candidati.
Dopo l’omelia seguono le promesse dei candidati che sono invitati a manifestare la propria
volontà ad assumere degli impegni precisi all’interno della Comunità. Queste promesse si
concludono con la seguente affermazione: «Dio che ha iniziato in te questa la sua opera la
porti a compimento» 23. Ancora una volta, viene manifestata la coscienza della Comunità che è
Dio che opera nel candidato, affinché riceva il dono dello Spirito per compiere la missione che
gli verrà affidata. Dunque, la stessa ordinazione è dono di Dio, al quale viene annesso un altro
elemento importante: l’impegno che dovrà essere assunto dal candidato o dai candidati. La
22Questo aspetto lo si nota ancora di più nell’ordinazione di nuovi presbiteri, secondo quanto riferisce la rubrica n.
122 dell’Editio Typica: «Auxiliante Domino Deo et Salvatore nostro Iesu Christo, eligimus hos fratres nostros in
Ordinem presbyterii» («Con l’aiuto di Dio e di Gesù Cristo Nostro Salvatore, noi scegliamo questi nostri fratelli
per l’ordine del presbiterato»).
23E’ il momento in cui, al termine delle promesse il vescovo conclude: «Qui coepit in te opus bonum, Deus, ipse
perficiat».
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24 La traduzione del testo latino è la seguente: «Ascolta o Padre la nostra Preghiera. Effondi la benedizione dello
Spirito Santo e la Potenza della Grazia sacerdotale su questi tuoi figli. Noi li presentiamo a Te, Dio di
Misericordia perché siano consacrati e ricevano l’inesauribile ricchezza del tuo Dono. Per Cristo Nostro
Signore».
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Con questa preghiera siamo giunti al momento culmine dell’ordinazione, che raggiunge la
sua pienezza e la sua completezza con la stessa celebrazione eucaristica, dentro la quale si
celebra lo stesso Sacramento dell’Ordine. Il segmento rituale dell’ordinazione fa, dunque, parte
dell’Eucaristia, il cui culmine è la stessa preghiera eucaristica, che chiede lo Spirito per
trasformare il Pane ed il Vino in Corpo e Sangue di Cristo. Tutto questo si svolge all’interno di
questo clima di preghiera di cui si è detto prima, il cui segno massimo è, ancora una volta,
anche a livello rituale, il silenzio. La stessa prece eucaristica dà la chiave di quello che è
veramente avvenuto all’interno dell’ordinazione, compresa l’epiclesi dell’ordinazione
medesima. Nel Pane e nel Vino noi vediamo realizzata, in modo reale, anche se simbolica,
l’opera dello Spirito Santo. C’è da aggiungere anche dentro la prece eucaristica si ritrovano le
intercessioni per coloro che hanno ricevuto l’epiclesi dell’ordinazione, dal momento che la
stessa preghiera eucaristica è il modello di ogni preghiera della Chiesa. Tutto questo, a livello
spirituale, ha delle fortissime conseguenze.
La stessa imposizione delle mani è fatta nel silenzio, quale segno rituale della presenza dello
Spirito che agisce sul candidato. La medesima preghiera di ordinazione non rompe questo
silenzio, ma è riempita da quel silenzio che dice tutta la Chiesa orante. La stessa invocazione
dello Spirito attualizza ciò che nell’arco della Storia della Salvezza ha già fatto, in riferimento a
quello che Cristo ha compiuto, contro il sacerdozio rituale ed esteriore. C’è, dunque, un’azione
paracletica (paraclesi) che trasforma il candidato in capo del suo popolo. Questo fatto è
soprattutto evidente nell’ordinazione episcopale, dove il candidato assume il sacerdozio di
Cristo nel suo sommo grado. Gli stessi officia assegnati ai candidati sono azione dello Spirito
Santo che poi ritorna al Padre (anaclesi). Tutto questo è conseguenza diretta dell’epiclesi, il cui
compimento definitivo è contrassegnato dall’anaclesi o ritorno al Padre, da parte dello Spirito.
Questo fa comprendere che gli stessi riti esplicativi (v. la vestizione e la consegna degli
strumenti) hanno solo il ruolo di manifestare quello che è avvenuto: ad essi non si può dare
importanza capitale, altrimenti si cade negli errori del passato.
Infine, seguono i riti d conclusione che sono stati snelliti e rimessi come in origine erano: si
tratta della benedizione solenne che conclude la celebrazione eucaristica. I testi del nuovo rito
sono quelli che la Tradizione ci ha consegnato, anche se con le opportune varianti.