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Carlo Ossola

Dal «Cortegiano »
all' «Uomo di mondo»
Storia di un libro e di un modello sociale

Giulio Einaudi editore

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Indice

p. IX Minima moralia
xv Nota bibliografica

Dal Cortegiano all'Uomo di mondo

I. Una cultura del!' ordinario

«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario
5 1. «Bon ton»
7 2. Fondamenti dell'ordinario
11 3. «Distrazione, divertissement»

II. La nascita del modello

Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto
27 1. «Ammonitodaltitulo»
30 2. «Noi da noi stessi alienati»
34 3. «In altro spazio e tempo»

Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità

43 r. «Per una le~giadra usanza», «senza proposito»: testo e tradizione
del Cortegtano
46 2. «Formar con parole»: generi e luoghi di esemplarità
5' 3. «Uccellar sottilissimamente alle parole»: paradosso e catalogo
59 4. «Ogni di muti stile e modo»: l'«odot}> della mutazione
68 5. L' «orrida faccia della vera virtU»
75 6. «Il capriccio impregnò la chimera»

III. La rappresentazione
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'
I. Il 'luogo' della Corte
© 1987 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino 2. Il transito del principe
3. La rappresentazione
VIII Indice

Minima moralia
IV. Il compimento
L'Ho mm e accompli: dal Cortegiano ali' Uomo di mondo
P· 131 l, La «conversation politicque»
r36 2. La <fcivil conversazione»
r39 3. «Co1'tesan 1 un uomo di mondo}>

v. La lettura
«Rinascimento» e «Risorgimento»:
la Corte tra due miti storiografici «Il presupposto del tatto è la convenzione in sé compromessa ma an-
l 55 r. Un'ipotesi crociana? cora presente»': quando dall'esilio californiano, tra il 1944 ed il 1947,
157 2. Il <i medio evo in putrefazione»
Adorno compone quello che può essere considerato l'ultimo grande
63 3, Erasmo o Michelangelo
I
esemplare di filosofia per aforismi della tradizione borghese, già comme-
167 4. Solo «buone maniere»?
morata da Mann', dagli States un insorgente conformismo, una nuova
«cieca conformità»' già si prepara a sostituire l'unanimismo prono dei
183 Indice dei nomi fascismi al tramonto.
L'abolizione delle convenzioni consacra la rude esteriorità di «una
vita di dominio immediato»': losservazione, ancora di trasparente at-
tualità, lascia inalterata la stessa domanda: «una convenzione è ancora
presente?», o meglio: «quale convenzione si sta pattuendo?»'.
Il modo qui scelto per proporre storicamente la questione passa attra-
verso lanalisi di quei testi e di queila società - la società di corte in
Antico Regime - che a quella convenzione di «buone maniere» ha da-
to luogo e forma.
«Perché la Corte?», si domandava Alberto Tenenti introducendo la
versione italiana del libro di Norbert Elias, La società di corte'; da al-
tra, e contigua, prospettiva, ci eravamo domandati: perché far risorgere
il «cortegiano», quale scena storica egli calca e contempla?'. Da una
specola che approssima, almeno in forma introduttiva, il 'fuoco' verso
il presente, domando: quale 'convenzione' ha presieduto alla nascita di
«cortesia», che cosa rimane dei libri e dei trattati che hanno «formato»
l'uomo di corte, poi l' «uomo di mondo», e infine il «galantuomo»?
Rimangono soltanto svelti prontuari, chiamati ad ammorbidire di
doigté le falangi executive di una società sempre pili cruda?
Se i capitoli di questo libro sono inscritti in un progetto aperto an-
cora e operante, l'esigenza di raccoglierli e di proporli in questa sederi-
sponde tanto al fascinoso, e sempre vivo, disegno di Giulio Bollati di ri-
percorrere i libri che hanno modellato «un carattere per gli italiani»",
quanto alla necessità di evadere, verso una storicità di maggior sostan-
za, dal!' effervescenza di tanti florilegi e nuove massime di bon ton che
X Minima moralia Minilna moralia XI

invadono il nostro quotidiano, per suggerire comportamenti adeguati si sono dovuti contare pili anatemi" che studi. Quella civiltà si vorreb-
al successo, o promettere successi pari al portamento. be qui ripercorrere con !'antica discrezione":
Il quotidiano ne è affollato, non motivato. En effet, s' affranchir des règles de la civilité, n' est-ce pas chercher le
Questo libro ha l'ambizione di ritrovare, oltre la superficie del quo- moyen de mettre ses défauts plus à l' aise?
tidiano, la 'tradizione dell'ordinario': ciò che è (stato) ordinario per l'uo- La civilité vaut mieux, à cet égard, que la politesse. La politesse flatte les
mo; il rilevarlo e, per il possibile, definirlo è piu che un percorso à re- vices des autresi et la civilité nous empf:che de mettre les nòtres au jour: e' est
une barrière que les hommes mettent entre eux pour s' eropècher de se corrom~
bours lungo la storicità dei 'saper vivere'; sono «maniere d'essere» che pre1a.
situano appunto il nostro esserci (Dasein), configurano una dimora, un
abitare e un'abitudine, un patrimonio' irriducibile ai soli comporta-
menti.
Varcata la soglia, si delinea intanto (cfr. La nascita del modello, II.r
e 2) la struttura e la ricezione del primo e piu importante libro di 'for-
mazione' e di 'mariiere' dell'evo moderno, Il Libro del Cortegjano di Bal-
dassar Castiglione, un «modello europeo»'" che, per altro, i saggi di
Elias hanno quasi del tutto trascurato.
La letteratura di corte è poi studiata in due dei suoi generi esemplari
di rappresentazione lungo il Cinquecento: il pamphlet politico (nel se-
colo che piu ha articolato quel genere, dal nowhere della pasquinata al-
i' acronia del trattato utopico) ed il testo teatrale: qui la pastorale, per
genesi e cornice recita di corte.
Il modello inaugurato dal Cortegiano trova infine il suo compimento
nel!' Homme accompli, nel cortesan, <momo di mondo», sapidamente il-
lustrato e messo in scena dal Goldoni. Dal Cinquecento al Settecento,
dalla Civil conversazione di Stefano Guazzo ai «salons» parigini·della so-
cietà dei Lumi è un dispiegarsi delle «urbanità» nella conversazione,
un'arte che la corte comunica ai salotti come «agréable causerie», una
civiltà e un ceto che sa congedarsi, dal teatro della Rivoluzione, con
un'estrema 'sprezzatura': «nous nous ruiniùnes le plus aimablement du
11
monde» •

Nell'ultimo capitolo sono rievocate - quasi giustificazione stessa

del volume - ed enumerate le sfortune storiografiche della corte: ricet-
tacolo estremo, per il De Sanctis, del «carnevale italiano», del «medio
evo in putrefazione», essa ha patito un" esclusione dal canone' di una
letteratura a misura risorgimentale (il Rinascimento essendo quello di
profezia civile del Machiavelli), e una nuova esclusione, dopo il venten-
nio, dal!' esiguo - spesso - bagaglio dell'intellettuale engagé".
Accanto al disincantato omaggio crociano", gli interventi sulla cul-
tura di corte, a partire dagli anni Trenta sin agli anni Cinquanta e ol-
tre", si sono rarefatti: se si escludono i profili, pur cos! diversi, manu-
triti di storica capacità a comprendere, di Bacchelli, Macchia e Getto",

Minima moralia.
1 Th. Wiesengrund Adorno, Per una dialettica del tatto, in Minima moralia, Berlin-Frank-
_furt r95r; trad. it. Einaudi, Torino r954; cito dal reprint, ivi r974, p. 25. Il paragrafo
appartiene (con Asilo per senzatetto e Non bussare) a un trittico corrosivo dedicato alla
fine degli «Usi della cortesia». , 11 È il ritratto che del crepuscolo di quella società d'Ancien Régime lascia a George Sand
2 Commentando il «concetto di "Behagen", compiacenza e comodità» in Goethe; cfr. Th.
Mann, Goethe quale esponente dell'età borghese, 1932, poi in Ade! des Geistes, trad. it.
J'Jobiltà dello spirito. Saggi critici, Mondadori, Milano 1953, pp. 123-58. E si veda anche
il saggio: Spirito della borghesia, in Considerazioni di un impolitico, trad. it. De Donato,
Bari 1967, pp. 85-125.
~ Cosi' delinea Adorno la «scomparsa del momento cerimoniale»: «Oggi la convenzione
è irrimediabilmente crollata, e continua a vivere solo nella parodia delle forme, in un'e-
tichetta arbitrariamente escogitata o ripescata ad uso degli ignoranti, come quella che
certi consiglieri non richiesti insegnano sui giornali: mentre l'intesa che era alla base di
quelle convenzioni nella loro stagione umana si è trasformata nella cieca conformità dei
radioascoltatori e possessori d'automobile» (Adorno, Minima moralia cit., p. 25).
1 <~L'abolizione delle convenzioni come di un orpello inutile, antiquato ed esteriore, con-
sacra la realtà piU esteriore di tutte, una vita di dominio immediato. E che il venir meno
anche di questa caricatura del tatto nel cameratismo a base di spintoni renda ancor piU
insopportabile l'esistenza, non è che un altro segno della crescente impossibilità della
convivenza umana nelle attuali circostanze» (ibid., p. 2 7).
5 A partire dalla 'riproposizione' del Kant della Metafisica dei costumi (trad. it. La terza,
Bari 1970) si è accentuata in Italia l'attenzione al problema; segnalo qui soltanto i con-
tributi di H. Putnam, Meaning and the Mo1·al Sciences, 1978; trad. it. Verità e etica, Il
Saggiatore, Milano 1982; S. Veca, Questioni di giustizia, Pratiche, Parma 1985, e Una
filosofia pubblica, Feltrinelli, Milano 1986; J. N. Shklar, Vizi comuni, trad. it. Il M1ùino,
Bologna 1986.
6 A. Tenenti, Introduzione all'edizione italiana di N. Elias, Die hOfische Gesellschaft,
Darmstadt 1975 (trad. it. Il Mulino, B~Jogna 1980), p. 7. Il volume completa il grande
affresco tracciato dallo stesso Elias in Uber den Prozess der Zivilisation, 1936-37; trad.
it., in due volumi, Il Mulino, Bologna 1982-83 (I. La civiltà delle buone maniere; II. Po-
tere e civiltà).
7 Mi riferisco alle ricerche che, sin dal 1975, ha promosso il Centro Studi «Europa delle
Corti» su una porzione - cosi cospicua e significativa - della storia di Antico Regime
che, dopo la mirabile 'commemorazione' di Taine, era stata quasi rimossa dai «sacerdoti
di Clio». Di quel sodalizio questo libro è frutto e parte.
8 A. Alfani, Il carattere degli italiani, Firenze 1878 [«Carattete infatti, universalmente
considerato, è l'energia stessa della volontà, la forza suprema e piU nobile della nostra
natura; è il nome di galantuomo», ibid,, p. 1]; citato e riproposto da G. Bollati, L'italia-
no, in aa.vv., Storia d'Italia Einaudi, I. I caratteri originali, Torino 1972, p. 971; riedito
Minima moralia XIII
ora in: L'Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino
1983, pp. 34-123.
A questa storia chi scrive ha contribuito ripubblicando il primo 'romanzo d'emigrato'
dell'Italia unita: C. Cantll, Portafoglio d'un operaio, a cura di C. Ossola, Bompiani, Mi-
lano 1984.
? «La tecnicizzazione rende le mosse brutali e precise, e cosi gli uomini. Elimina dai gesti
ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo. Li sottopone alle esigenze spietate, vorrei
dire astoriche delle cose. Cosi si disimpara a chiudere piano, con cautela e pur saldamen-
te una porta. [... ]Tra le cause del deperimento dell'esperienza c'è, non ultimo, il fatto
che le cose, sottoposte aIIa legge della loro pura funzionalità, assumono una forma che
riduce il contatto con esse alla pura manipolazione, senza tollerare quel sutplus - sia in
libertà del contegno che in indipendenza de1la cosa - che sopravvive come nocciolo
dell'esperienza perché non è consumato dall'istante dell'azione>> (Adorno, Non bussare,
in Minima moralia cit., pp. 29-30).
1° Cfr. aa.vv., La Corte e il «Cortegj.ano», voi. II: Un modello europeo, a cura di A. Prospe-
ri, Bolzoni, Roma 1980.
la grand-mère, Marie-Aurore de Saxe, sposa poi a M. Dupin de Francueil; la suggestiva
rievocazione si legge in G. Sand, Histoire de ma vie, ora in CEuvres autobiographiques, a
cura di G. Lubin, Gallimard, Paris 1970, val I, pp. 40-41.
12 Sino a 'demolire' la corte dall'edificio della storia: «La nostra indagine sulla società fer-
rarese del tempo di Ercole I ci ha condotti a demolire molte delle sovrastrutture create
dagli Estensi e dalle famiglie dominanti» (A. Piromalli, Congedo da La cultura a Ferrara
al tempo dell'Ariosto, La Nuova Italia, Firenze 1953, p. 185).
13 B. Croce, Libri sulle corti, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Laterza,
Bari 1945, val. II, cap. XLIV.
14 Lo osservava rassegnato, invitando a risalire ancora ai benemeriti studi di Alessandro
Luzio e RodoHo Renier, l'editore princeps del Cortegiano, Vìttorio Cian, al momento di
segnalare - «destinato da piU che un quarantennio a riferire in questo Giornale intor-
no aIIe pubblicazioni castiglionesche» - una stanca biografia del Castiglione; cfr.
V. Cian, recensione a E. Bianco di San Secondo, Baldassarre Castiglione nella vita e ne-
gli scritti, edizioni «L'Albe1·0», Verona r941, in «Giornale Storico della Letteratura Ita-
liana;>, cxix (1942), fase. 355-56, pp. 49-53.
15 Rinvio alla ricostruzione storica, a tutto campo, di R. Bacchelli, La congiura di Don Giu-
lio d'Este, Treves, Milano 1931 [poi: Mondadori, Milano 1958]; al saggio di G. Mac-
chia, Il cortegiano francese, Parenti, Firenze 1943; alle proposte di metodo [ma cfr. qui
cap. v] di G. Getto, La corte estense luogo d'incontro di una civiltà letteraria, 1953, ora
in Letteratura e critica nel tempo, Marzorati, Milano 1968; ma non andrebbero dimen-
ticate le belle pagine di S. Battaglia, La letteratura del comportamento e l'idea del corti-
giano, 1937, poi in Mitografia del pefsonaggio, Rizzali, Milano 1968.
16 «La notizia contrasta con il vanto che la Ferrara secentesca ebbe il "Teatro della No-
biltà Europea" ed è l'eco del disfacimento di quella stessa nobiltà la quale conclude il
suo ciclo di decadenza senza prenderne coscienza e sognando l'autorità estense che l' a-
veva tenuta in piedi. La sua inefficienza di classe dirigente esala i miasmi della dissolu-
zione e si adatta al clima controriformistico i cui veleni porterà nell'Italia unificata in-
sieme con un ossessivo statalismo e con il peso di un particolare tipo di provincia cor-
rotta» (Pil'omalli, La cultura a Ferrara al tempo dell'Ariosto cit., p. 187).
17 A edificazione anche di coloro che ieri esaltavano la cultura gesuitica e oggi demoniz-
zano le corti: «Envoyez dans un royaume nouveIIement découvert unJésuite et unJa-
cobin: dans un an, vous apprendrez que leJésuite sera à la Cour, et leJacobin, parmi la
canaille» (Montesquieu, Mes pensées, I 335; ora in CEuvres complètes, a cura di G. Vedel
e D. Oster, Seuil, Paris 1964, p. 1001).
XIV Minima moralia

1s Montesquieu, De l'Esprit des Lois, Barillot, Genève I748, libro XIX (Des lois da?s le rap-
port qu'elles ont avec !es principes qui forment l'esprit général, !es mreurs et !es mantères d'u-
ne nation), cap. 16; ora in (Euvres complètes cit., p. 644. Sull'autore si veda il bel pro-
filo diJ. Starobinski, Montesquieu, Seuil, Paris 1953.
[<dn effetti, affrancarsi dalle regole di civiltà, non è forse cercar di offrire mag~or ~gi?
ai propri difetti? La civiltà pili giova, all'uopo, che il riguardo. Il riguardo blandisce 1 vi-
zi degli altri, mentre la civiltà ci impedisce di mettere a nudo i nostri: è uno schermo che
gli uomini fra di loro frappongono per evitare di corrompersi a vicenda»].

Nota bibliografica.

Dei capitoli che compongono il volume sono inediti il cap. I (Una cultura del-
l'ordinario), ed il cap. IV (Il compimento; in sintesi annunciato in: aa.vv., Civilisa-
tion, in «Le temps de la réflexion», IV, Gallimard, Paris 1983).
Gli altri saggi, ad eccezione di II. 1 [prima edito in «Lettere Italiane», XXXI
(r979), n. 4, pp. 517-33], appartengono alla storia ed alla collana del Centro Studi
«Europa delle Corti» presso l'editore Bulzoni, che desidero ringraziare per avermi
consentito di riprodurre qui una parte dei miei contributi; ed in particolare: il cap.
rr.2, prima in: aa.vv., La Corte e il «Cortegiano», voi. I: La scena del testo, a cura di
C. Ossola, Roma 1980, pp. 15-82; il cap. III, prima in: aa.vv., Le cortifarnesiane di
Parma e Piacenza: r545-r622, voi. II: Forme e istituzioni della produzione cultu-
rale, a cura di A. Quondam, Roma 1978, pp. 273-301; il cap. v, prima in: aa.vv.,
La corte nella cultura e nella storiografia. Immagini e posizioni tra Otto e Novecento,
a cura di C. Mozzarelli e G. Olmi, Roma 1983, pp. 205-36. Tutti sono stati rivisti
e, ove necessario, ulteriormente politi.
Alla cortese e paziente sollecitudine di Giulio Bollati e di Paolo Fossati il vo-
lume deve il suo esserci: il ringraziamento cordiale è insieme gradito dovere e te-
stimonianza di fedeltà a una cultura ed a un'impresa: quella che ci ha formati.

Le immagini riprodotte in copertina e contro il frontespizio appartengono al

manoscritto Cl. VIII. l della Biblioteca Querini-Stampalia di Venezia [fogli z 3r e
84r], scoperto e studiato da F. Saxl, Costumes and Festivals o/ Milanese Society un-
,, der Spanish Rute, British Academy («Annua! Italian Lecture»), London 1936. Si
tratta di uno splendido 'catalogo di costumi' che inizia dalla metà del Cinquecento
(per l'entrata di Filippo II in Milano, 1548). Uno stemma di frontespizio, riferibile
a Emanuele Filiberto o a Carlo Emanuele I rende verisimile <~ that the manuscript
was in Piedmont at the end of the 16th century» (ibid., p. 33). Il costume, che qui
illustra la copertina, appartiene a una delle Pmonalities o/ the Court (ibid., p. 36).
Il manoscritto sarà edito, a cura di Paolo Getrevi, per conto dell'Istituto di Studi
Rinascimentali di Ferrara.

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Dal Cortegiano all'Uomo di inondo

a Costanza, Irene, Marta:

sint nominum impleta omina.
r. Una cultura del!' ordinario
 «Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario

Celui-là a un bon ton, de qui on ne peut pas dire ce

qu'il est.
MONTESQUIEU,Mespensées, § 1721.

r. « Bon ton».

Quando Montesquieu definisce il bon ton nel modo sopra riportato,

egli mira a una cultura cosi universale che non abbia accento, che non sia
marcata da un luogo, ristretta da un'abitudine: il bon ton è la superficie
di un comportamento che si è reso cosi polito da parere indistinguibile:
Le bon ton - disais-je -, e' est ce qui se rapporte dans le discours et dans
les manières à ce qu'on appelle n'avoirpasd'accentdans le langage 1•
L'esprit che lo anima non s'inarca neppur piu nella «sprezzatura» del
Cortegiano, arte che richiede il lungo, difficile esercizio della dissimu-
lazione, il distacco nell'agire che talvolta si manifesta nell' «appartarsi
dalla moltitudine»', o nel «toccar» di sé qualche parola «dissimulata-
mente, come a caso e per transito» 1 , o nello scrivere con «acutezza re-
condita». Quella «gravità riposata»', quell' «avvertita dissimulazio-
ne»' si costruiscono a fatica, in un mondo non ancora 'urbano', tra
«tante pecoragini», «scherzi selvatichi», «stomacose e fetide cose»';
due secoli piu tardi le «maniere di corte» sono divenute le« buone ma-

l
I
niere» di un 'essere in società' illuminato dalla ragione; lesprit non 'di-
stingµe', ma si esercita nell'ordinario:
L'esprit, enlui-mSme, est le bon sens joint àla lumière 7 •
Quali che siano i «caratteri» delle nazioni, si è ormai affermata, co-
me scriverà l'Algarotti, una «scienza_~elle urbanit~j>'; e la «società
connaturale» degli uomini' si fonda su una comune sensibilità che è-
definirà lucidamente Voltaire - il Sens commun:
Sensus communis signifiait chez les Romains non seulement sens comrnun,
mais humanité, sensibilité 10 ,
Lungi dunque dal significare «distinzione»", il bon ton sceglie «l'e-
guaglianza per la sua comodità»"; Hippolyte Taine contemplerà con
stupefatta malinconia quell' «aristocrazia imbevuta di massime umani-
tarie e radicali, cortigiani ostili alla corte, privilegiati che danno una ma-
no all'eliminazione dei privilegi»"; citerà intere pagine dei Mémoires di

I
6 Una cultura dell'ordinario
Ségur, testimone di una giovane nobiltà che «marciava allegramente su
un tappeto di fiori che ci nascondeva un abisso», pronta a «godere i
vantaggi del patriziato e le dolcezze della filosofia plebea»", quella Po-
pularphilosophie promulgata da Diderot e da Ernesti a tutta l'Europa
dei Lumi".
Il risultato di quel processo contemplerà il Leopardi: e dal momento
che «la civiltà tira sempre, come altrove ho detto, ad uniformare»", e
«la civilizzazione per sua natura tende a conformare gli uomini e le cose
umane»", resta piu «niente di singolare né di curioso»", prevale I' «im-
pulso moderno di uguagliare ogni cosa»:
Eccetto le piccole differenze provenienti dal clima e dal carattere di cia-
schedun popolo, i quali però vanno sempre cedendo all'impulso moderno di
uguagliare ogni cosa, e certamente da per tutto, massime nelle classi colte, si
ha cura di allontanare tutto quello che e' è di singolare e di proprio nei costumi
della nazione, e di non distinguersi dagli altri se non per una maggior somi-
glianza col resto degli uomfili. E in genere si può dire che la tendenza dello spi-
rito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni una
sola persona 19 •
Distinzione è il «non distinguersi dagli altri se non per una maggior
somiglianza col resto degli uomini», è «l'uguaglianza per la sua comodi-
tà»; civiltà, al tramonto dell'Antico Regime, significa 'assenza d'accen-
to'; ha formato, uniformando i comportamenti nelle« buone maniere»,
un qrdinario del viYere. che supplisce alla caducità degli ordinamenti. Il
bon ton rimane l'unico fondamento e «anzi unica garanzia de' costumi»:
Ma bisogna pur confessare [. .. ] che effettivamente lo stato delle opinioni
e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il
buon tuono è, non solo il pili forte, ma l'unico fondamento che resti a' buoni
costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente par-
lando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono, e
che dove il buon tuono della società non v'è o non si cura, quivi la morale
manca d'ogni fondamento e la società d'ogni vincolo, fuor della forza, la quale
non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi.
Cosi nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la
maggiore anzi unica garànzia de' costumi sf pubblici che privati, che si possa
ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di se medesima 20 •
Ove cessi quella convenzione, venga meno il 'sistema d'onore' come
contratto e rimanga soltanto quale etichetta, ne affiorerà certo la «fri-
volezza», ma non subentrerà nuovo ordine, né altro patto sociale a dar
vita ed anima alla morale, alle «illusioni sociali», a stabilire dei minima
moralia:
Gli uomini politi delle dette nazioni si astengono da fare il male e fanno il
bene, non mossi dal dovere, ma dall'onore.[ ...] Le illusioni sociali cessano nel-
«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario 7
la solitudine, l'onore sparisce, perché tolto dagli occhi quello che le dava appa-
renza e una specie di realtà, se ne vede I1irragionevolezza, la vanità e la :&ivo-
lezza. Sparisce l'onore, e il dovere non gli sottentra 21 •
2. Fondamenti dell'ordinario.
Spesso nel giudicare la civiltà di corte, la società delle «buone ma-
niere», la fine stessa dell'Antico Regime, si è caduti nel paradosso già
?escritto dal Leopardi: non partecipando pili a quel 'sistema d'onore',
1 modi - ad esso propri - di regolare i rapporti di/in società son parsi
frivolezze, artifici, mero scenario teatrale.
Chi voglia davvero storicamente rileggere quel percorso di società e
di civiltà, dovrà intanto riconoscere (come sempre segnalò la cultura il-
luminata, da Montesquieu al Leopardi) che_guello fu il modo ordinario
e
di 'essere società'. Ordinario, nel senso forte normatlvci'cohe-CÌggÌ non
abbiamo pìu, il concetto leggendosi come sinonimo stinto di usuale.
Mentre ordinario non è né usuale né quotidiano (il quotidiano essendo
fatto tanto di ripetizione quanto di improvvisazione): è cfo che può assu-
mere o fornire un ordine, indicare una pratica codificata, e in ciò agibi-
le, abitabile, indicante cioè heideggeriànamente il das Wohnen («Abi-
tare è il modo in cui i mortali sono qui in terra, terreni»)". O, se si
vuole, è ciò soltanto che, in rapporto alla norma, ha reciprocità con uni-
versale:
Les seules règles universelles sont les lois du pays aux choses ordinaires, et
la pluralité aux autres 23 •
Potremmo chiosare: solo lordinario, il das Wohnen, tocca I' univer-
sale; il resto è, nei termini pascaliani, pluralità soggetta a pirronismo.
Ristabilire dunque la comprensione di una 'cultura dell'ordinario'
vuol dire contemplare la coazione dell' inJigni/icabile (insignificante) e del-
la morte". Assumere l'insignificabile e la morte è il solo modo di evade-
re radicalmente dalla nostra abitudine a considerare solo ciò che «ha si-
gnificato», ciò che è esprimibile come linguaggio: il «significato degli usi»
(il modo oggi usuale, etico e politico, di considerare non già lordinario
ma il quotidiano); di svincolarsi dall'intreccio, arbitrario insieme e con-
venzionale, di linguaggio ed etica, come già osservava Pascal.
Dire infatti, nella ricerca dell'universale, che:
Universel. Morale et langage sont des sciences particulières, mais univer-
selles25; -
8 Una cultura dell'ordinario
significa riconoscere lo statuto contraddittorio di scienze particolari,
che si ritrovano universalmente presenti, ma non universalmente valide.
T aie relatività sarà criticata da Pascal in uno dei passi pili problematici
e pili ricchi delle Pensées:
Ainsi les tableaux, vus de trop loin et de trop près; et il n'y a qu'un point
indivisible qui soit le véritable lieu: les autres sont trop près, trop loin, trop
haut ou trop bas. La perspective I' assigne dans l'art de la peinture. Mais, dans
la vérité et dans la morale, qui I' assignera?
Quand tout se remue également, rien ne se remue en apparence, camme
en un vaisseau. Quand tous vont vers le débordement, nul n'y semble aller.
Celui qui s'arrete fait remarquer l'ernportement des autres, camme un point
fixe.
Ceux qui sont dans le dérèglement disent à ceux qui sont dans l'ordre que
ce sont eux qui s'éloignent de la nature, et ils la croient suivre: comme ceux
qui sont dans un vaisseau croient que ceux qui sont au bord fuient. Le langage
est pareil de tous còtés. Il faut avoir un point fixe pour en juger. Le port juge
ceux qui sont dans un vaisseau; mais où prendrons-nous un port dans la mo-
rale?26.
«li faut avoir un point fixe pour enjuger», «Un point indivisible»,
un «punto fermo fuori» che sia «le véritable'lieu». Dentro i significati e
gli usi c'è soltanto la regressione ad infinitum del 'punto di vista' o la pe-
titio principii. È l'aporia classica, già in Leibniz, e ora riproposta daJan-
kélévitch, del vult velie". Uscire dall'arbitrarietà di linguaggio e mora-·
le, dalla loro precarietà sempre in cerca di un 'fondamento' regressivo,
è definire, per universale, lordinario come coazione dell'insignificabile
I insignificante (ciò che non arriva o non è definibile in linguaggio: dun-
que senza significato) e della morte (come sospensione, riposo pascalia-
namente, di ogni eticità):
Notte nature est dans le mouvement; le repos entier est la mort 2 s.
Per altro, «pensare l'ordinario» è impresa ardua, non solo per la dif-
ficoltà a definire positivamente I' «insignificabile» se non come il «Je ne
sais quai» (un non so che, tuttavia, di eletta ascendenza: da Monte-
squieu aJankélévitch)"; ma anche per l'impossibilità, - come ha osser-
vato Heidegger -, a pensare la morte (e pili dal momento che essere e
pensare sono separati).
Riservando al «je ne sais quai» la parte finale, e storica, di questo
capitolo, converrà sostare un poco ancora sulla morte come 'punto di
raccoglimento', per meglio chiarire la natura teorica (e anche storica,
seppure per noi perduta) cieli' ordinario.
Nel capitolo fondamentale La limitazione dell'essere della sua Ein-
«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario 9
fiihrung in die Metaphysik Heidegger osservava che noi patiamo la scis-
sione del detto parmenideo, di essere e pensare:
Cercando l'origine della scissione essere e pensare, noi risaliamo al detto di
Parmenide: -rò yi:Xp ixO-rò voe.tv la't(V 't'E xixl e.!va~. Attenendoci alla traduzione e al-
le concezioni ordinarie, questo vuol dire: essere e pensare sono la stessa cosa ' 0 •
La questione è radicale e su di essa Heidegger ritorna sia in Der Satz
vom Grund sia in Was heisst Denken": «Inwiefern "sind" Sein und ra-
tio das Selbe?»". Dopo aver osservato che pili propriamente la senten-
za significa: «In un legame di appartenenza reciproca sono 'apprensio-
ne' ed 'essere'»", concluderà, in un ulteriore saggio, che il detto di
Parmenide è da leggere come: «Lo stesso è infatti I'" attirare-alla-pro-
pria-attenzione" che I"' essere presente" (di ciò che è presente)»". In
tal senso «noi apprendiamo a pensare in quanto portiamo la nostra at-
tenzione su ciò che 1c'è da considerare', 'da pensare'» 3' . E ciò che 'c'è
da pensare' e 'dà da pensare' è appunto das Bedenkliche, il «Punto Criti-
co», le «point fixe» (Pascal), il «punto di pensabilità»: das Bedenkli-
che", 'che dà da pensare', che segnala la soglia critica estrema ...
Ora sin da Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), Heidegger ha: indi-
cato che tale 'punto di pensabilità', che riscatti il quotidiano della tri-
vialità (Alltiiglichkeit) dal «vortice della deiezione», che renda il quoti-
diano effettivamente ordinario (tatsiichlich)", è da riconoscere in quel
'punto critico' estremo che, assunto, ordina tutti gli altri, l'unico fisso,
ineludibile: la morte, das Bedenkliche.
Potremmo dunque dire conJankélévitch che «pensare dalla morte»
è «l'a priori létal qui englobe notre tout»": ma il fatto stesso che del
morire io sappia solo la sua 'pensabilità', il« savoir que, sans savoir quai
(ni où, ni quand, ni comment) » ":
Je vois ces effroyables espaces de l'univers qui m'enferment, et je me trou-
ve attaché à un coin de cette vaste étendue, sans que je sache pourquoi je suis
plutòt piacé en ce lieu qu'en un autre, ni pourquoi ce peu de temps qui m' est
donné à vivre m' est assigné à ce point plutòt qu'à un autre de toute I' éternité
qui m' a précédé et de toute celle qui me suit. Je ne vois que des infinités de
toutes parts, qui m' enferment camme un atome et camme une ombre qui ne
dure qu'un instant sans retour. Tout ce que je connais est que je dois bientOt
mourir, mais ce que j'ignore le plus est cette mort mème que je ne saurais évi-
ter4o;
obbliga a considerare che ogni istante è 'seriamente da pensare' (be-
denklich) come estremo. Da tale 'punto di vista' (il «point indivisible»
pascaliano) che confina (e in ciò definisce) l'esistenza già Montaigne
aveva potuto concludere: « Que philosopher, e'est apprendre à mourir»".
IO Una cultura del!' ordinario
Citando infatti, in uno dei capitoli memorabili degli Essais, un luogo
delle Tusculanes", ma significativamente elevandolo dall'esperienza
dei filosofi alla filosofia, Montaigne osserverà: « Cicero dit que Philo-
sopher ce n' est autre chose que s' aprester à la mort»". Il guardare dalla
morte:
Le but de nostre carriere, e' est la mort, c'est l'object necessaire de nostre
visée 44
fonda un 'guardare alla morte' («Le continue! ouvrage de vostre vie,
c'est bastir la mort»)" che tutto pareggia: «La premeditation de la
mort est premeditation de la liberté. Qui a apris à mourir, il a desapris
à servir»", che tutto rende ordinario, puntuale:
Où que vostre vie finisse, elle y est toute. L'utilité du vivre n'est pas en
l'espace, elle est en l'usage: [... ] attendez vous y pendant que vous y estes 47 •
Solo la «premeditation de la mort », I' «a priori létab rende possibile
non già il 'pensare a', ma il 'pensare'. Essere mortali significa, ripren-
derà Heidegger, partecipare del 'raccoglimento dell'essere' (das Gebirg
des Seins) nella morte:
I mortali sono gli uomini. Si chiamano i mortali perché possono morire.
Morire significa: essere capace della morte in quanto morte. L'uomo soltanto
muore. L'animale perisce. [.. .]La morte è lo scrigno del Nulla[. .. ]. La morte,
in quanto scrigno del Nulla, raccoglie in sé ciò che è essenziale dell'essere (das
Wesende des Seins). In tanto che scrigno del Nulla, la morte è rifugio dell'essere
(das Gebirg des Seins)".
Come possibilità estrema dell'esistenza mortale, la morte non è fine del
possibile, ma il rifugio supremo (das hOchste Ge-birg), la 'messa al riparo', il
'raccoglimento' [cioè: «l'accogliente ricetto»], nel quale risiede il segreto del di-
svelamento che ci chiama 49 •
Questo 'punto supremo' non solo 'dà da pensare' (das Bedenkliche),
ma è il «raccoglimento» stesso dell'essere: con gli stessi accentiJanké-
lévitch definirà la meditazione della morte come «Un vide recueillement
sans matière», un 'raccoglimento' puro del pensare e dell'essere che solo
la morte e la musica sanno offrire:
Nessuno può dunque sinceramente pretendere di pensare il tempo, come se
il tempo fosse complemento diretto o oggetto pensabile di un pensiero transi-
tivo [... ]; colui che crede di pensare il tempo pensa a degli avvenimenti nel
tempo, pensa ai contenuti che divengono, ma non già all'inafferrabile diveni-
re, per se stesso, ipsum, non già all'ipseità del tempo[ .. .].
La «meditazione» del tempo, come la meditazione della morte o la medi-
tazione della musica, è dunque un vuoto raccoglimento senza materia ' 0 •
«Du je ne sais quai»: una cultura dell'ordinario II
L'osservazione, piena di fascino e di risonanze, si aprirebbe a un
lunghissimo excursus: basti qui ricordare che allo stesso raccoglimento
«Sine materia», inestesa ed indefinibile, descritto - quale essenza della
musica - da Proust", attingeranno coloro che piu hanno cercato di
preservare - per il nostro Novecento - questo «vide recueillement
sans matière», nel 'ricettacolo' sine materia della musica: li- osservano
lo stesso J ankélévitch" non meno che Wittgenstein" e, su tutti, Ador-
no - il tempo «si addensa», si esprime improvviso morendo ...
Scopo della sua musica [scil.: di Anton von Webern] è unicamente e ine-
vitabilmente il momento nel quale il tempo si addensa e dilegua: per questo
non conosce sviluppo sia nel trascorrere da un'opera a un'altra, sia entro l'o-
pera singola[ ... ].
Solo quando il suono si spegne - «ver!Oschend» [morendo] è una delle indi-
cazioni di esecuzione a lui pi6 care - la creatura[. .. ] trova consolazione nel
suo dileguare 54 •
Un raccoglimento di tutto l'essere nel tempo che si addensa, dile-
guando: istante, e nascondimento", del «]e ne sais quoi».
3. «Distrazione, divertissement ».
Quando Pascal osservava che «ce iene sais quai, si peu de chose
qu'on ne peut le reconnaltre, remue tonte la terre»", la formula - li-
bratasi già in Gracian la «sprezzatura» «en una cierta airosidad»" -
aveva trovato nella Médée di Corneille la propria definizione: «Souvent
je ne sais quoi qu'on ne peut exprimer I Nous surprend, nous emporte,
et nous farce d' aimer»". Cent'anni piu tardi la stessa «sorpresa» porrà
Montesquieu a fondamento del «iene sais quai», tornando a riflettere
sulla natura di quel «charme invisible»:
Il y a quelquefois dans les personnes ou dans les choses un charme invisi-
ble, une grRce naturelle, qu'on n'a pu définir, et qu'on a été forcé d'appeler le
«iene sais quoi ». Il me semble que c' est un effet principalement fondé sur la
surprisen.
(La sorpresa, direbbe Heidegger, del 'venire in luce' dell' &À-ljìlew;, la
«non-latenza» [Unverborgenheit], il «prorompere-nella-non-latenza» [In-
die-Unverborgenheit-hervor-kommen], cosi che «l'apprensione e il racco-
glimento sono la regia del manifestarsi della non-latenza nell'essen-
te»)'". Il «iene sais quoi» è dunque il 'raccogliersi' dell'&À-ljil&ta< in un
punto che la manifesti: la sorpresa dell'apparire .in verità.
Le «plaisir de la surprise», continuava Montesquieu nell'Essai sur le
12 Una cultura dell'ordinario
GolJt, è nell'«apprensione», nella «manière de l'apercevoir»": eque-
st'apprensione 'dà da pensare': «Notre ame est faite pour penser, c'est-
à-dire pour apercevoir »".
L' esp1it, del resto, dal quale nasce la 'sorpresa' della grazia, è descrit-
to da Montesquieu quasi nei termini giovannei di una divina &À1jlleta.:
mais l'esprit ne se mentre que peu à peu, que quand il veut, et autant qu'il
veut: il peut se cachet pour paraltre, et donner cette espèce de surprise qui fait
les gràces 63 •
Ubi vult spirat... : il «iene sais quoi» è I' éclosion dell'&À1Jll•ta., dono
d'un istante di verità per chi 'sa ancora sorprendersi':
Ainsi les gràces ne s' acquièrent point: pour en avoir, il faut etre nall. Mais
comrnent peut~on travailler à erre na1f? 64 '
Come ci si può 'prodigare a essere ingenui', prodigare a sorprender-
si? La domanda di Montesquieu, nella sua disarmante nettezza, pone il
«je ne sais quoi» come l'istante stesso del!' apparire in verità: quis susti-
nebit?
Ed infatti il «prorompere-nella-non-latenza» di verità, il punto che
a ciascuno «dà da pensare»" non è sostenibile: l'uomo non lavora a sor-
prendersi, ma a distrarsi, a divertirsi, a sviarsi cioè da quel 'punto di
non-latenza'.
Tale infatti sarebbe la 'presa', l'apprensione di quel 'punto critico'
che non altro resterebbe da pensare se non I' immanenza e limminenza
della morte. Perciò l'uomo si distrae, si distoglie dal pensare, e tanto piu
quanto piu forte è la 'non-latenza' di quel 'punto critico'. L'aveva già
osservato Pascal: talmente ci sviamo, ci divertiamo che, per continuare
a divertirci, dobbiamo obliare la meta:
Nous ne cherchons jamais les choses, mais la recherche des choses 66 •
Divertissement. Les hommes n' ayant pu guérir la mort, la misère, l'ignorance,
ils se sont avisés, pour se rendre heureux, de n'y point penset 67 •
Divertissement. Si l'homme était heureux 1 il le serait d'autant plus qu'il serait
moins diverti 68 •
E lo osserverà, dallo stesso 'punto di vista', il Leopardi: I' «uso inte- ·
rodi ragione», ciò che «dà da pensare» è talmente infelice che possiamo
agire soltanto «in forza di una distrazione e di una dimenticanza»:
E qui voglio notare come la ragione umana di cui facciamo tanta pompa
sopra gli altri animali, e nel di cui perfezionamento facciamo consistere quello
dell'uomo, sia miserabile e incapace di farci non dico felici ma meno infelici,
anzi di condurci alla stessa saviezza, che par tutta consistere nell'uso intero
«Du je ne sais quai»: una cultura dell'ordinario lJ
della ragione. Perché chi si fissasse nella considerazione e nel sentimento con-
tinuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione
e varietà degli oggetti e dei casi non avesse forza di distarlo da questo pensie-
ro, sarebbe pazzo assolutamente e per ciò solo, giacché volendosi governare se-
condo questo incontrastabile principio ognuno vede quali sarebbero le sue
operazioni. E pure è certissimo che tutto quello che noi facciamo lo facciamo
in forza di una distrazione e di una dimenticanza, la quale è contraria diretta-
mente alla ragione 69 •
Si è persa oggi- dai modi di percezione della nostra 'mentalità' -
la traccia di quella acuta 'coscienza di reciprocità' tra divertimento e
morte. Abbiamo rimosso la morte, si è svuotato il divertimento. Ma sa-
rebbe impossibile affrontare uno studio, storico davvero, delle «manie-
re» nella società d'Antico Regime, obliando 'quanto di pensiero' do-
mandi 'distrarsi da ciò che dà da pensare':
La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement, et ce-
pendant e:' est la plus grande de nos misères. [... ]Mais le divertissement nous
amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort 10 •
Separarli è lasciar« appassire» (Pascal) il divertimento nel.frivolo e
crescere un'ingombrante economia della morte: è in effetti sintomatico
che accanto alle letture 'riduzioniste' della cultura di corte s'accentui
- nella storiografia contemporanea - il bisogno d'instaurare quasi una
'contabilità' della morte. La bibliografia è sterminata, e piu rari sono
coloro che - come Huizinga e sulla sua traccia Tenenti" - riescono an-
cora a cogliere insieme «il senso della morte e l'amore della vita»", la
reciprocità e codificata simmetria delle artes bene vivendi e delle artes be-
ne moriendi 73 •
Richiama a quell'affascinante specularità il percorso critico stesso di
colui che piu alacremente si è consacrato allo studio della società d1 cor-
te: se è vero che quella ricerca è stata alla fine attratta dalla Solitudine
del morente".
È uno spessore e un'inquietudine che non può essere risolta - co-
me pure hanno proposto recenti esegeti di Elias - soltanto nel cerimo-
niale"; lo chiede l'archetipo stesso di quella letteratura di corte, il Cor-
tegiano, il quale, sin «dal titulo», lungi dal proporre solo l'elogio e l'e-
pifanica celebrazione di un 'ceto n\]ovo'., ne è - già e insieme - com-
memorazione, fondamento e lascito, 'instituzione' mirabile e malinco-
nico congedo:
Cos{, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo [scil.: il Cor-
tegiano, in vista della pubblicazione]; e subito nella prima fr,onte, ammonito
dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual ancora nel passar piU avanti
molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono intro-

14 Una cultul-a dell'ordinario
dutti nei ragionamenti, esser già morti: ché, oltre a quelli de chi si fa menzione
nel proemio dell'ultimo [scil.: libro], morto è il medesimo messer Alfonso
Ariosto, a cui il libro è indrizzato, giovane affabile, discreto, pieno di suavis-
simi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. [... ] Messer
Bernardo, cardinal di Santa Maria in Portico, il quale per una acuta e piacevo-
le prontezza d'ingegno fu gratissimo a qualunque lo conobbe, pur è morto.
Morto è il signor Ottaviano Fregoso, omo a' nostri tempi rarissimo, magnani-
mo, religioso[ ... ]. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali
parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime
raccontar non si devria è che la signora Duchessa essa ancor è morta 76 •
È una civiltà, osserverà Montesquieu, che non ha bisogno di rifu-
giarsi nel «vacuum improprium» "; il cerimoniale, in Italia, è la «mate-
ria prima», non solo l'aspetto formale, della politesse:
En Italie, le cérémonial, qui· est précisément le matériel, non le forme!, de
la politesse, est une espèce de garde-fou. En France, au contraire, on n' ad' au-
tres règles que celles de la politesse et il faut prendre de ce fonds-là à chaque
instant 78 •
Proprio perché La società di corte studiata da Elias è essenzialmente
quella francese di Luigi XIV si è potuto insistere su un aspetto 'formale'
(e quasi solo 'scenico') della civiltà di corte: mentre Montesquieu ben
vedeva, almeno per l'Italia, il fondamento 'materiale' di quel cerimo-
niale: rituale di corte, feudalità, corporazioni ed arti, statuti cittadini;
ordini che secernono immunità e distanze, «parapetti» appunto che of-
frono una vista e serrano uno spazio. La corte è quella splendida balau-
strata.
Cosi dunque, mentre nuovi studi mostrano i nodi ed i fili lungo i
quali la vita di corte, nel secolo xvr, s'intreccia agli ordini della socie-
tà"; o il rayonnement che dal Cortegiano condurrà sino ali' ideale di hon-
nete homme delineato da David Hume"; o ancora come il ragionamen-
to di corte si prolunghi nella filosofia civile, l'esprit dei «salons »circoli
nella civiltà dei Lumi"; sia concesso a questo studio laver presunto di
suggerire quanto 'dia da pensare' lordinario, quanto il divertimento e
le buone maniere fossero cosi vicini, nell'Antico Regime, al 'luogo di ri-
fugio', allo 'scrigno' dell'esistenza. E se il Novecento nasce come 'figlio
della memoria' - la traccia mnestica che ricorre nella topica analitica
di Freud, nella filosofia di Bergson, nella 'scrittura del tempo' di Proust
- nasce anche dall'estrema commemorazione della vita e della morte
i"
!I
1
i!
«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario 15
'Ii (mentre già tutto attenua l'alone morbide del decadentismo) che Hip-
polyte Taine eleverà rievocando la società d'Antico Regime.
Citando affascinato i ricordi di Marie-Aurore de Saxe, posti ad
inaugurare quasi l' Histoire de ma vie di George Sand:
Et puis, ajoutait-elle, est-ce qu' on était jamais vieux dans ce temps-là!
C'est la révolution qui a amené la vieillesse dans le monde. Votre grand-père,
ma fille, a été beau, élégant, soigné, gracieux, parfumé, enjoué, aimable, affec-
tueux et d'une humeur égale jusqu'à l'heure de sa mort. [... ] Il était excellent
violon, et faisait ses violons lui-mème, car il était luthier, outre qu' il était hor-
loger, architecte, tourneur, peintre, serrurier, décorateur, cuisinier, poète,
compositeur de musique, menuisier, et qu'il brodait à merveille.Je ne sais pas
ce qu'il n'était pas. Le malheur, c'est qu'il mangea sa fortune à satisfaire tous
ces instincts divers, età expérimenter toutes choses; mais je n'y vis que du
feu, et nous nous ruinàmes le plus aimablement du monde. [. .. ].
C'est qu'on savait vivre et mourir dans ce temps-là, disait-elle encore;
on n'avait pas d'infirmités importunes. Si on avait la goutte, on marchait
quand mème et sans faire la grimace: on se cachait de souffrir par bonne édu-
cation. [... ] On savait se ruiner sans qu'il y parfrt, camme de beaux joueurs
qui perdent sans montrer d'inquiétude et de dépit. [...]On trouvait qu'il valait
mieux mourir au bai ou à la comédie que dans son lit, entre quatte cierges
et de vilains hommes noirs. On était philosophe, on ne jouait pas l' austéri-
té, on 11 avait parfois sans en faire montre. [... ] On jouissait de la vie, et quand
l'heure de la perdre était venue, on ne cherchait pas à dégofrter les autres
de vivre 32 j
lo storico non cesserà di ripetere: « C 'est qu' on savait vivre et mourir
dans ce temps-là», si farà ammirato pittore di figurini: «Anche senza
volerlo, non possiamo non attardarci a guardarli e ad ascoltarli! La gra-
zia è dovunque, nelle piccole teste, nelle mani esili[ ... ]. Abbandonate
la vostra fantasia a queste linee, a queste figure, e ritroverete nei loro
divertimenti le ragioni dell'interesse che vi provavano»". Ripeterà con
Talleyrand: «Chi non è vissuto prima del 1789 non conosce la dolcezza
di vivere» 84 •
Ma insieme a questi ritratti alla maniera di Watteau e di Frago-
nard ", alla celebrazione di quest' ar.s bene vivendi («il loro ozio non pe- I'
sa, giocano con la vita»), Taine commemora l'ar.s bene moriendi della so- 'I
cietà di Antico Regime, la dipinge nel supremo distacco del patibolo: i'
Davanti ai giudici, sulla carretta, conserveranno la loro dignità e il loro ,I
1'
sorriso; le donne, soprattutto, andranno al supplizio con l'eleganza e la sere~
nità che avrebbero avuto a una serata di gala. Tocco supremo dd saper vivere '
che, eretto a dovere unico e diventato per questa aristocrazia una seconda na-
tura, si ritrova nelle sue virtU come nei suoi vizi, nelle sue capacità come nelle
sue impotenze, nella prosperità come nella caducità, e l'adorna fino alla morte
dove l'ha condotta 86 • I
!
•'
\;
I'
r6 Una cultura dell'ordinario
In quel compimento, il lungo percorso che aveva condotto ~al «se:
cretum meum mihi» dell'umanesimo petrarches~o all~ co?versaz1one di
corte e da questa alla «civil conversazione», s1 offriva mteramente al
pubbllco. Nel vivere e nel morire, osservava Horace.Walpole, q':'ella so-
cietà aveva saputo «bruciare in pubblico la propria candela fmo alla
87
fine» •

«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario.

1 Montesquieu, Mes pensées, VIII. Éducation politique et économie politique, 1. Précepts,

§ 1720; in CEuvres complètes cit., p. 1030. Il corsivo è dell'Autore.
[«Il bon ton - osservavo - è ciò che si approssima, nd discorso e nelle maniere, a ciò
che, nella lingua, vien detto il non avere accento»].
2 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Aldo, Venezia 1528 [reprint: Bulzoni, Roma

1986], libro II, cap. VIII; cito dall'edizione a cura di B. Maier, Utet, Torino 1955 e
1973 3 , p. 200.
3 Ibid., II, VIII, p. 202.
4 Ibid.' XXXVII, p. 248.

' Ibid., XL, p. 253.

6 Ibid., XXXVI, p. 247.

7 Montesquieu, Mes pensées, VIII. Éducation politique et économie politique, 1. Précepts,

§ 174o;inCEuvrescomplètescit.,p. 103I.
8 Alla quale si associa la «compostezza delle maniere» {dr. F. Algarotti, lettera al Signor
~· '
Barone N. N. aHertzogenbruck, del 10 marzo 1752; riedita in Opere di Francesco Al-
garotti e di Saverio Bettinelli, a cura di E. Bonora, Ricciardi, Milano-Napoli 1969, p.
558).
Lettera e formule divenute subito cdebri: le trascriverà il Leopardi nel proprio Zibal-
done, il 28 novembre 1826 (cfr. ora: G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flo-
ra, Mondadori, Milano 1937 e 1973 8 ; tomo II, pp. 1055-56, § 4227).
9 L'espressione è nei versi La Ragione Felice di Tommaso Valperga di Caluso, citati e

commentati da M. Cerruti, La ragione felice e altri miti del Settecento, Olschki, Firenze
1973, pp. l 15-16. E si veda anche: R. Mauzi, L'idée du bonheurdans la littérature et la
pensée Jrançaise au xv11re siècle, Colin, Paris 1960.
io Voltaire, Sens commun, in Dictionnaire philosophique portati/, Londres e Amsterdam
1765 2; ora a cura di R. N aves e J. Benda, Garnier, Paris l 967, p. 388.
11 Cfr. P. Bourdieu, La distinction, Minuit, Paris 1979i trad. it. La distinzione. Critica so-
ciale del gusto, Il Mulino, Bologna 1983.
12 «La libertà, quale che fosse il suo linguaggio, ci piaceva per il suo ardimento; Pegua-

glianza per la.sua comodità. Si prova piacere a discendere, finché si crede di poter risa-
lire quando si vuole; e, senza alcuna preveggenza, godevamo i vantaggi del patriziato e
le dolcezze della filosofia plebea. [. .. ] Le forme dell'edificio restavano intatte, e noi non
ci accorgevamo che esse venivano minate dal di dentro. Ridevamo degli alla1'mi della
vecchia corte e del clero» (Paul-Philippe de Ségur, Histoire et Mémories, Firmin-Didot,
Paris 1873, 7 voll.; vol. I, p. 17; citato da H. Taine, Le origini della Francia contempo-
ranea. L'Antico Regime, 1876; trad. it. Adelphi, Milano 1986, p. 520)..

'
r8 Una cultura dell'ordinario
u Ibid. p. 518. La chiosa aderiva alle testimonianze dei protagonisti: <(Ridenti frondisti
dei ~odi antichi, dell'orgoglio feudale dei nostri padri e delle loro gravi etichette, tutto
ciò che era antico ci sembrava fastidioso e ridicolo» (ibid., p. 520).
14 E continuava Ségur: «l'eguaglianza cominciava a regnare nella società. In molte occa-
sioni i titoli letterari avevano la precedenza su quelli nobiliari. I cortigiani, servitori del-
la m~da, venivano a fare la corte a Marmontel, a Raynal, a d'Alembert. [...]Le istitu-
zioni restavano monarchiche, ma i costumi diventavano repubblicani. Preferivamo una
parola di elogio di d' Alembert, di Diderot, al piU segnalato favore di un principe» (Iiis-
toire et Mémoires cit., val. I: De I792 au 20 brumaire r799; citato da Taine, Le origini
della Francia contemporanea cit., p. 521).
u Era stato il motto di Diderot nelle Pensées sur t'interprétation de la nature («l-l8tons-nous
de rendre la philosophie populaire»), ed il programma di Johannes August Ernesti, De
philosophia papulari prolusio, Lipsia 1754; mi è caro rinviare, non solo per quel tema, a
F. Venturi, Settecento rifonnatore, val. IV: La caduta dell'Antico Regime (z776-z789), Ei-
naudi, Torino 1984, tomo I, pp. 462-63.
«Ora la civiltà tira sempre, come altrove ho detto, ad uniformare; e l'uniformità fra
t6
gl'individui di una nazione, e fra le nazioni è sempre in ragic;ine ~ei progre~si gei;e:a~ o
particolari delle civiltà» (Leopardi, nota del 18 agosto 182 l; in Zibaldone d1 penszert cit.,
tomo I, p. 999, § 1517).
Il Leopardi si richiama a un'osserva~~ne l?rece~~ntemente .cosi formulata: «!u!~e ~~se
[scil.: la lingua, la letteratura] tanto p1u tuuforrm 1n una nazione, quanto ella e p1u civile
o si va civilizzando di mano in mano» (ibid., 25 luglio 1821; tomo I, p. 929, § 1387).
11 Leopardi, Zibaldone di pensieri cit., 25 luglio 1821, tomo I, p. 929, § 1386.
1s «Perché la natura quando è piU libera, come anticamente e ora in gran ~arte al?p:esso
il popolo, è sempre varia. Ma certame~te nel moderno .non !rove:anno niente di smgo:
lare né di curioso, e tutto quello che c e da vedere negli altri paesi possono far conto di
averlo veduto nel proprio senza viaggiare» (ibid., 3 luglio 1820; tomo I, p. 165, § 147).
19 Ibid.
20 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degt'Italiani, 1824; ora in.Le poe-
sie e le prose, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano 1940 e 19689 , val. II, pp. 559-60.
Di quell'occorrenza arriva ancora eco, oggi, sin nel manualetto Bon ton, di Lina Sotis
(Mondadori, Milano I984, pp. 35-36, advocem). . 32
2 1 Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Itatiani cit., p. 560, nota 1.
22 M. Heidegger, Bauen, Wohnen, Denken, [Edifi~are, abitare, pensare], ~onferenza del
1951, poi in Vortrd'.ge und Au/s<ftze, ~eske, ~full1ngen 1954, p. 14~; e s1 veda.anche la
trad. fr. Essais et conférences, a cura di A. Preau e J. Beaufret, Gallimard, Parts 1958 e
1980, pp. 170-93. Il testo è sempre stato confrontato anche con la versione italiana, a
cura di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Mursia, Milano I976; la citazione a p. 98.
23 B. Pascal, Pensées, 2 38 [Brunschvicg, 299], in CEuvres complètes, a cura diJ. Chevalier,
Gallimard, Paris 1954, p. 1152.
24 In altri termini (nei termini descritti e proposti da S. Veca, La varietà dei nostri punti di
vista sul mondo in Una filosofia pubblica cit., pp. l 25-35): la coazione, cioè il «contem-
poraneo prend~re come presente», del «nessun punto di vista>> (che è irriducibile a un
punto di vista: l'insignificabile) e dell'«estremo punto di vista» (cioè la morte).
25 Pascal, Pensées, 20 [Brunschvicg, 912]; in <Euvres complètes cit., p. l09I.
26 Ibid., 85-87 (Brunschvicg, 381-83]; in CEuvres complètes cit., p. 1l12.
[«Cosi i quadri visti troppo da lontano o troppo da vicino; e non c'è che un punto in-
divisibile che c~stituisca il luogo esatto; gli altri sono troppo vicino, troppo lontano,
troppo in alto o troppo in basso. Lo determina la prospettiva, nell'arte della pittura. Ma
nella verità e nella morale, chi lo determinerà?
«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario 19
Quando tutto si muove egualmente, niente si muove in apparenza, come su una nave.
Quando tutti vanno verso il traboccare nell'eccesso, nessuno sembra andarvi. Colui che
si ferma rende visibile l'impeto degli altri, come un punto fisso.
Quelli che vivono nella sregolatezza rinfacciano a quelli che vivono nell'ordine di essere
loro ad allontanarsi dalla natura, mentre essi credono di seguirla: come coloro che sono
su una .nave credono che ad allontanarsi si_an~ quelli rimasti sulla riva. Il linguaggio è,
da ogni lato, della stessa natura. Il porto giudica quelli che sono su una nave· ma dove
prenderemo noi un porto nella mol'ale? »J. '
27
«Pour vouloir, il faut le vouloir; et pour vouloir vouloir il faut encore le vouloir c'est-
à-dire vouloir ce vouloir de vouloir, et ita in infinitum, camme Leibniz lui-mém~ le dit
de Dieu un jour où, cessant de s'arreter au perfectissimum qui est la raison supreme et le
dernier mot du choix divin, il semble accepter la régression à l'infini dans l'insondable
del' arbitraire divin: Vult velie eligere perfectissimum, et vult voluntatem volendi ... et de-
crevit decemere» (V. J ankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, III. La v~lonté de
vouloir, Seuil, Paris 1980, val. III, p. 55).
[«Per volere, occorre volerlo; e per voler volere bisogna ancora volerlo, vale a dire vo- ':
~re questa volontà di volere, e cosi all'infinito, come Leibniz stesso dice di Dio il giorno
tn c~, ~essand~ di attenersi al perfettissimo che è la ragione suprema e la parola ultima
del divino scegliere, sembra accettare la regressione all'infinito nell'insondabile dell 'ar-
bitrio divino: Vuol volere di scegliere il perfettissimo, e vuole la volontà di volere, ... e de-
cise di decidere»].
28
Pascal, Pensées 198 [Brunschvicg, 129]; in CEuvres complètes cit., p. l l 3 7.
29
Cfr. oltre,§ 3,
30
M. 1-Ieidegger, Einfiihrung indie Metaphyst'k, Max Niemeyer, Tiibingen l953i poi in
Gesamtausgp.be, val. XL, Klostermann, Frankfurt am Main 1983, p. 15 4. Il testo è stato
sempre confrontato con la versione francese, a cul'a di G. Kahn, Introduction à la méta-
physique, Gallimard, Paris 1967; e con quella italiana, a cura di G. Vattimo: Introduzio-
ne alla metafisica, Mursia, Milano 1968.
31
Id., Der Satz vom Grund, Neske, PfulHngen 1957, p. 175; ed anche: Was heisst Denken?
in Vortr(ige ~nd.Aufs~tz.e cit., pp. 141 sgg. (cfr. anche Essais et conférences cit., pp. 166
sgg.; e Saggt e discorsi cit., pp. 94-95).
Id-,; Der Satz vom Grund cit., p. 175 [«Come, e fino a qual punto, l'essere e la ratio "so-
no lo Stesso?»].
33
Id., Ein/iihrung indie Metaphysik cit., p. 154.
E piU sopra precisava: «Apprensione[ ... ] vuol dire un 'lasciar-pervenire-a-sé' [Zukom-
menlassen] nel quale non c'è semplicemente accettazione, ma è pre-occupata una linea
di 'resistenza' a fronte di ciò che si mostra» (ibid., p. 146).
H I?·• Moira, parte non esposta nel corso Was heisst Denken?, ora in Vortnige und Aufsiitze
c1t., p. 246. Cfr. Saggi e discorsi cit., p. 168.
Non diversamente Pascal: «L'homme, par exemple, a rapport à tout ce qu'il connait»
(Pensées 84 [Brunschvicg, 72]; in CEuvres complètes cit., p. 11 lo).
35
M. Heidegger, Was heisstDenken?, in Vortràge und Au/satze cit., p. 130. E cfr. Saggi e
discorsi cit., p. 86.
E quest~ tanto pill <\In unserer bedenklichen '!-eit», nel «nostro tempo che ci preoccupa
»,che dà da pensare sulla sua stessa natura (ib1d., p. 130). E cfr. Saggi e discorsi cit., p. 86.
36
Ibid., p. 130. Potremmo dire insomma che Das Bedenklichste («ciò che pili dà da_ pensa-
re)>, «Il Punto piU critico») è precisamente ciò che occorre pensare: Das zu-Denkende:
«Ma ."ciò che~ da pensare" si tiene da sempre da parte» (ibid., p. 134), è «l'a priori lé-
tal», il punto di vista dalla morte dal quale pili nulla è insignificante e tutto è ugualmen-
te ordinario.
--------------------- ----
20 Una cultura dell'ordinario
I
I
l7 Id., Sein und Zeit, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main r977; su
Alltiig!ichkeit e Tatsiilichkeit, si veda il cap. IV, PP· 442-91 e 52.0-2~. . .
Sulla questione, assai c~mmentata: ri~vio sinteticamente al profilo di G. Ste1ner, Martin
Heidegger, 1978; trad. it. Sansoru, Firenze 1980, pp. 73-86. . .
1s V, Jankélévitch, Le puref l'iff!pur, Fl.~~arion, Paris 1960, p. 216 (e s1 veda tutto il ca-
pitolo, pascaliano, IV: L équivoque tnftnte, pp. 207.-~2). , . . . 54
39 Id., Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, I. La maniere et l occaston, Seuil, Par1s 1980,
p~. . . h la ricchezza della l'iflessione di Adorno sull"essere della musica'; si vedano almeno: Fi-
4o Pascal, Pensées 335 [Brunschvicg, .194]; in CEuvr~s cor;zp!ètes c1t., p. 1175; Citato anc e
daJankélévitch, Le Je-ne-sais-quot et le Presque-nen ctt., P· 85 · , .
[«Vedo questi spaventevoli spazi dell'universo che mi r~nchiud?no, e m! ~ov:o confinato
in un angolo di questa sterminata distesa~ senza ,c~e 10 sa~p1a perche 10. s1jcolldcat?
piuttosto in questo luogo che in un altro, ne perche 1~ poco di te~po che ,rru è ,a~o a vi:
vere mi sia assegnato in questo punto piuttosto che in un alt.ro .d1. t~tta I etin1ta cJ;echi
ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Non vedo che mfirut1 ~a tutte. e part1bil e
m'inglobano come un atomo e come un'ombra che n?,n dur~ che un ~st?;t;: irrevoca e.
Tutto ciò che so è che debbo tra poco morire, ma c10 che ignoro di p1u e quella morte
stessa che non saprei evitare»). . ,
41 È il titolo stesso del cap. xx del libro I deg~ Essais di ~ontaigne, ora in CEuvres comple-
tes, a cura di A. Thibaudet e M. Rat, Galhmard, Pans 1962, PP· 79-95 ..
42 Cicero, Tusculanes, I, xxx (e vedi anche Montaigne, CEuvres complètes c1t., P· 1448).
43 Montaigne, Essais cit., I, xx, p. 79·
44 Ibid., p. 8 2 [«Il fine del nostro percorso è la morte, ed è l'oggetto necessario della nostra
mira»].
4:i Ibid., p. 91 . È un quotidiano 'costruirci la morte' che Montaig~e c?;i argo~enta: «Per:
ché temi il tuo ultimo giorno? Esso conduce alla tua m~rte. non ~1u c;he c1~si;uno degli
altri giorni. [ .. .1 Tutti i giorni approssimano alla morte, l ultlffio V1 arriva» (tbtd., P· 94).
46Jbid.,p.85. . L'
47 Ibid p [«Quale che sia il punto in cui la vostra vita finisce, in esso v1 è t~tta .. ~
93
tilità' d~l vivere non è nell'eStensione, ma nell'intensione (lett.: nell'uso): dedicatevi
essa mentre ci siete»].
4s Heidegger Das Ding, 1950 _195 1, ora in Vortriige und Aufsiitze dt., p. !-77 · Lo..stessJ
m'
concetto Bauen Wohnen Denken, [Edificare, abitare, pensare], sempre tn Vortrage un
Aufsiitze cit., p. 1 ; 0 ; e anco;a nel saggio « .. , dick~c? wohnet der Mensch ... »[«Da poeta
dimora l'uomo»], sempre in Vortriige und Aufsatze clt., P· 196.
49 È l'affascinante conclusione del saggio Moira, in Vortriige umi Aufsiitze cit., ~· 2 56. Nel
segno de4,Ge-bi11?,:, «ricettacolo che raccoglie e 'p<;'n~ riparo'» era~o pres:nt~~i, ne~a pr~
fazione dell'autore, gli stessi Saggi e conferenze (tbzd., ~· 7): Sul raccogliersi nel racco
glimento dell'essere', cfr. Einfiihrung indie M_etaphystk clt.'. ,P· 17~. . .
Jo Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-nen, I. La maniere et l occaston c1t., p. 78.
51 «Ma a un dato momento, senza poter distinguere nettamente un contorno, dar: un ~o­
me a quello che gli piaceva, incantato [charme1 tutto a un tratto, ave~a tentato di co,gli~­
re la frase 0 l'armonia_ non lo sapeva egli stesso - che passando gli aveva ae~at? ~~dt
ma come certi odori di rose vaganti nell'aria umida della sera hanno la propr1eta 1 -
lat~re le nostre narici. Forse perché non conosceva la musica, aveva pot~to pro~ar~
un'impressione tanto confusa, una di quelle che tuttavia ~o.no ~o~se. le s<?l: ~mpress~o~
puramente musicali, inestese [inétendues], intel'amente or1ginah, 1rr1du.c1bdi ~ ogru -
tro ordine di impressioni. Un'impressione di questo genere dm:ante un istante e, per co-
si dire sine materia» (M. Proust, Du cOté dechez Swann, 1913; 1n A la recherche du temps
perdu,' a cura di P. Clarac e A. Ferré, Gallimard, Paris 1954, val. I, PP· 208-9).
'
'
«Du je ne sais quai»: una cultura dell'ordinario 21
52 Si veda in particolare: V. Jankélévitch, Debussy et le mystère, La Baconnière, Neuchiltel
1949; Le Nocturne, Albin Michel, Paris 1957; La Musique et l'Ineffable, Armand Colin,
Paris 1961; De la musique au silence, Plon, Paris 1980; La rhapsodie, Flammarion, Paris
1 955·
53
L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp, Frankfurt aro Main 1977; trad.
it.: Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980, passim.
Th. W. Adorno, Anton van Webern, 1932, in Impromptus, Suhrkamp, Frankfurt am
Main 1968; trad, it,, Feltrinelli, Milano 1973 e 1979, p. 45. Ma non si può dimenticare
losofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1959; Il fido maestro sostituto. Studi sulla
comunicazione della musica, ivi 1969; Introduzione alla sociologia della musica, ivi 1971;
Wagner. Mahler. Due studi, ivi 1966; Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1979 3 •
55 «Tale "residuo" di mistero è la sola cosa che valga la pena, la sola che importerebbe co-
noscere, e che, per l'appunto, dimori inconoscibile. Il segreto- cosi per la morte - è
davvero ben conservato, l'ignoranza umana è davvero ben assortita! Molti nomi sono
stati assegnati a questo innominato innominabile, e molte definizioni proposte per que-
sto "qualchecos' altro" che non è precisamente come gli altri perché fondamentalmente
non è né 'una cosa' né 'qualcosa'» (Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi, in Le Je-ne-sais-quoi
et le Presque-rien, I. La manière et l'occasion cit., p. 12).
Pascal, Pensées 180 [Brunschvicg, 162}; in CEuvres complètes cit., p. 1133.
56
57 Per Gracian il «despeio» ['sprezzatura', 'disinvoltura'] «consiste en una cierta airosidad;
[. .. ]por robador del gusto le llamaron ga1·abato; por lo imperceptible, donaire; por lo
alentado, bdo; por lo galiin, despejo» (B. Gracian, El Héroe, ora in Obras escogidas de
fil6sofos [«Biblioteca de Autores Espafioles», tomo LXV], Rivadeneyra, Madrid 1873,
pp. 607-8).
53 P. Corneille, Médée, atto Il, scena v; in Thélitre complet, a cura di P. Lièvre e R. Caillois,
Gallimard, Paris 1950 e 1961, val. I, p. 583 [«Sovente un non so che inesprimibile I Ci
sorprende, ci rapisce, ad amor ci consegna»].
59 Montesquieu, Du je ne sais quai, in Essai sur le GoUt, edito nell'Encyclopédie, tomo VII,
1757; ora in CEuvres complètes cit., p. 849.
[«C'è talvolta nelle persone o nelle cose uno charme invisibile, una grazia naturale, che
non si è in grado di definire, e che si è obbligati a designare come il "non so che". Mi
sembra che sia principalmente un effetto fondato sulla sorpresa»].
60
Heidegger, Einfiihrung indie Metaphysik cit., p. 198.
61 Montesquieu, Des p/aisirs de la surprise, in Essai sur le Goflt, ora in CEuvres complètes dt.,
p. 848.
62 Ibid., De la curiosité, in Essai sur le Godt cit., p. 846.
Ibid., Du je ne sais quai, in Essai sur le GoUt cit., p. 849.
6-'
[«Ma lo spirito non si manifesta che poco a poco, e quando vuole, e quanto vuole: può
nascondersi per apparire, e procurare quella specie di sorpresa in che consistono le gra-
zie»].
64 Ibid. [«Perciò le grazie non possono essere acquisite: per averne, occorre essere ingenui.
Ma come ci si può prodigare a essere ingenui?»].
65
Rinvio, a conferma, non già al nostro presente, ma alla simbolica stessa della cultura qui
in esame, all'Uomo al punto di Daniello Bartoli (1668).
66
Pascal, Pensies 203 [Brunschvicg, 135]; in CEuvres complètes eit., p. 1I38. Il pensiero ap-
partiene, come i successivi, alla sezione Le divertissement (ibid., pp. 113 7-48),
67 Ibid., Pensées 213 [Brunschvicg, 168], p. 1147.
[«Divertimento. Gli uomini non avendo potuto risanare la morte, la miseria, l'ignoranza,
si sono dati pensiero, per rendersi felici, di non pensarci punto»].
22 Una cultura dell'ordinario
«Du je ne sais quoi»: una cultura dell'ordinario 23
68 Ibid., Pensées 2I6 [Btunschvicg, 170], p. 1147.
69 Leopardi, Zibaldone di pensieri cit., 20 gennaio 1820, voL I, pp. 129-30, §§ ro3-4.
~tbo, grazioso, p[ro]f~mato, gaio, amabile, affettuoso, e di umore costante sino all'ora
e a. sua.mor~e. ;.. ra un eccellente violinista, e costruiva da solo i suoi violini iché
70 Pascal, Pensées 217 [Brunschvicg, r7 1], in CEuvres complètes cit., p. 1147. era liutaio, e insieme ?rolog~aio, ~chitetto, tornitore, dipintore, fabbro, dec~~ore
71 Si ricordno i capitoli centrali (vrn-xr) diJ. Huizinga, Herfsttii der Midde!eeuwen, r919; cuoco, poeta, compositore di musica, falegname, e sapeva ricamare a meravi Ha No~
sod~1l:v vero che. cosa i:oi: sap~sse fare. La sfortuna è che consumò il suo patr~m~nio a
trad. it. Autunno del Medioevo, Sansoni, Firenze 19662 ; A. Tenenti, Il senso della morte
e l'amore della vita nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1957.
1
so _1s are t~ttl questi d1vers1 talenti, e a sperimentare ogni cosa.
n Un'articolazione e un'endiadi che Adriano Prosperi ha avuto ben presente nel comporre Ma10. non v~ trovai che ardore, ed andammo in rovina nel modo pili amabile che si po
tesse immaginare. [. .. ] -
la Premessa al volume collettivo: I vivi e i morti, in «Quaderni storici», XVII (1982), n.
50, pp. 391-410. Occorre altrimenti giustapporre e comporre perco~si che, dal Cinque !~~~~~~=t~i i:pev: vive3e e .morire,laa quel te~po, so_ggiungeva a!lcora; non si pati-
al Settecento, sempre pili sembrano divergere: si veda ad esempio: E. Callot, La phifo.. . d _por une. e si aveva gotta, s1 camminava tuttavia e senza smorfie·
sophie de la vie au xvrr1e siècle, Rivière, Paris 1965 1 con}. McManners, Morte e illumi- s1 nascon eva ~ vicenda ~ sofferenza per buona educazione. [. ..] Ci si sapeva rovinar~
nismo, 1981; trad. it. Il Mulino, Bologna 1984; senza contare i classici studi di Philippe ~enz~ nulldi~ lascrd~· traspanre, come dei buotrl giocatori che sanno perdere senza rivelare
Ariès, Miche I Vovelle, J acques Chiffoleau, Pier re Chaunu, Edga1· Mo rin, ecc. tnqruetu ne o 1sappunto. [. . .]
73 La natura ancipite di quell'arte è segnata, sin dalle origini, dal duplice abito di chi scrive: Si riteneva che fosse meglio morire al ballo 0 alla commedia i.uttosto eh nel ·
si pensi al De cardinalatu di Paolo Cortesi o al Relox de principes di Antonio de Guevara, ~ttf?• tr: quàttro ctri; brutti uomini in nero. Si era filosofi, ~on si soste~eva }f~t~~Ì~
insieme alMenosprecio de Corte; o ancora dalla duplice veste di chi può praticarla, come ,e au; ertt , e se o s1 ~ra non se n~ faceva sfoggio. [. .. ]Si godeva della vita, e uando
nel Principe cardinale di Fabio Benvoglienti. La simmetria, e reciprocità, si accentuerà I o~a d1 perderla era arnvata, non s1 cercava di togliere agli altri il gusto di viierla l
nel Seicento, soprattutto nella letteratura gesuitica: si pensi alla Ricreazione del Savio
33 T, at ne, Le orzgtnt 1·•- Francia contemporanea. L'Antico Regime cit p
· · · de"' »·
ed insieme all'Uomo al punto di Daniello Bartoli. E il di · ., · 2 75·
appena caso rtc~rdare quanto quest' «affresco» di Taine sia distante dalla prosa
74 N. Elias, Ueber die Einsamkeit der Sterbenden in unseren Tagen, Suhrkamp, Frankfurt as,ctut~a e ~~omentativ,a del.modell? che l'aveva preceduto: Alexis de Toc ueville
1982; trad. it. La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 1985. L 'Anczde?GRegzCmedet\la .Revolutto?, P~ts I856; traci. it. L'Antico Regime e la Rivdluzione'
n Cfr. aa. vv., Rituale, cerimoniale, etichetta, a cura di S. Bertelli e G. Crifò, Bompiani, a cura t . an e oro, Rizzali, Milano 198 1 . '
Milano l 98 5. :: !a~ne, Le origini della Franc~a contemporanea. L'Antico Regime cit., p, 246.
7 6 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., dedica Al reverendo ed lllustre Sifj1or Don Mi- E 1autore stesso ad evocare 1 paesaggi umani di Watteau e di Fragonard (ibid )
chelDe Silva, §I, pp. 69-7r.
86 Ibid., pp. 3
15 -1 6. "P· 2 74 ·
77 Al quale sembra tendere invece il profilo di G. Patrizi, «Il Libro del Cortegiano» e la trat-
87
Ibt'd., p. 22 9 .
tatistica sul comportamento, in aa. vv., Letteratura italiana, vol. III: Le fanne del testo, to-
mo II: La prosa, Einaudi, Torino 1984, pp. 855-90.
78 Montesquieu, Spicilège, § 439; ora in CEuvres complètes cit., p. 403. I

(«In Italia, il cerimoniale, che è precisamente la materia prima, e non l'aspetto formale,
della politesse, è una specie di pal'apetto. In Francia, al contrario, non ci sono altre regole
che quelle della politesse e bisogna attingere da quel fondo ad ogni momento»]. I
19 Cfr. W. Barberis, Uomini di corte nel Cinquecento tra il primato della famiglia e il governo

dello Stato, in aa.vv., Storia d'Italia Einaudi, Annali, voi. IV: Intellettuali e potere, a cura
di C. Vivanti, Torino I981, pp. 857-94; G. Fragnito, Un pratese alla corte di Cosimo I.
Riflessioni e materiali per un profilo di Pierfrancesco Riccio, Società Pratese di Storia Pa-
tria, Prato 1986.
3o È uno dei percorsi proposti nel volume: aa.vv., Ragione e «civilitas». Figure del vivere as~­
sociato nella cultura del Cinquecento europeo, a cura diJ.-C. Margolin, D. Bigalli, A. Te-'
nenti, A. Ingegno, C. Vasali, Franco Angeli, ivlilano I986. E già anche in D. Aricò, Re~
torica barocca come comportamento: buona creanza e civi! conversazione, in <,Intersezio-~
ni», I (I98I), n. 2, pp. 3I7-49.
81 Rinvio all'affascinante profilo di B. Craved, Madame du Deffand e il suo mondo, Adel-

phi, Milano 1982.

82 Il frammento è citato, con affettuosa ironia, da G. Sand, Histoire de ma vie, parte I, cap.

II; ora in CEuvres autobiographiques, a cura di G. Lubin, Gallimard, Paris I970, vol. I,
pp. 40-41; ed era integralmente citato da H. Taine, Le origini della Francia contempora-
nea. L'Antico Regime, l 876; trad. it. Adelphi, Milano I986, pp. 268-69.
[«E poi, aggiungeva, forse che a quel tempo si era mai vecchi? È la rivoluzione che ha
portato la vecchiaia nel mondo. Vostro nonno, figlia mia, è stato bello, elegante, accu-
IL La nascita del modello
T
l

J Il Libro del Cortegiano:

cornice e ritratto

Disse la signora Emilia: - Qui si vederà il vostro

ingegno; e se è vero quello ch'io già ho inteso, essersi
trovato omo tanto ingenioso ed eloquente, che non gli
sia mancato subietto per comporre un libro in laude
d'una mosca, altri in laude della febre quartana, un al-
tro in laude del calvizia, non dà il core a voi ancor di
saper trovar che dire per una sera sopra la cortegiania?
Il Libro del Cortegiano, Il, xvrr.

Les seules bonnes histoires sont celles qui ont esté

escrites par ceux mesmes qui commandoient aux af-
faires, ou qui estoient participans à les conduire, ou,
au moins, qui ont eu la fortune d' en conduire d' autres
de mesme sorte.
MONTAIGNE, Essais, II, x.

r. «Ammonito dal titulo».

Dei molti modi disponibili per approssimarci alla materia composita

che costituisce la trama dialogica del Cortegiano, assumerò quello che
sembra meglio convenire alla natura liminare di queste pagine, osser-
vando cioè la strategia stessa dei «preamboli» che vengono forniti al let-
tore quali segnali d'ingresso e d'avvertimento circa i parametri di gene-
re adottati dal!' autore per organizzare materiali che si offriranno poi
per temi entro la struttura del «ragionamento».
Si tratta sin dai primi capitoli di definire entro quale cornice di ve-
risimiglianza storica e retorica, nella/ictio della scenografia urbinate,
entro quale sistema di convenzione letteraria, tra i generi di scrittura,
verrà condotto ed omologato, pur proveniente da diverse tradizioni,
l'intreccio di citazioni e di argomentazioni che converge, come proprio
«luogo» di dispositio e di attualizzazione, come modo e «prodotto» stes-
so del trattato, nella cornice e nello statuto sociale della «conversazio-
ne» (II, XVIII). ,

I i
I
Ma questa cornice costituisce, essa stessa, l'architettura ingressiva
del trattato, la prima costruzione simbolica nella quale è orgaoizzata la
materia e orientata la lettura. Ad osservarla nella sua funzione retorica,
quale esordio e scena del trattato, essa si presenta in realtà come una
I quadruplice e concentrica «cortina», dalla periferia e dall'assenza al
centro ed al dialogo degli interlocutori.

La nascita del modello
Il primo sipario s'apre sul libro stesso, proprio nel cuore della
dedl.ca-postface al De Silva, e la cornice che si presenta è, per una calco-
lata anticipazione delle personae rispetto ai luoghi del dialogo, fornita
dall'elenco di coloro stessi che «sono introdutti nei ragionamenti»: ma
la lor «compagnia» (I, xn) non è di eletti viventi, bensi di «morti», «la
maggior parte»'.
La prima cornice non narra dunque un'azione ma com.menta un' as-
senza: non innesca un procedimento, ma evoca una memorià,. Situandosi
sotto il sigillo della morte, essa contravviene alla funzione, tradizionale
e medievale, di modulo incoativo, che era appunto quello di innescare
un processo di incombenza - fuga dalla morte, di impulso ad agire nar-
rativamente, sotto la spinta d'una tensione che lega il narrare al decide-
re, come osserva Harald W einrich:
La cornice stessa è narrazione. Come è mai possibile dare alla cornice, seb-
bene anch'essa sia raccontata, quella carica di drammaticità che altrimenti
spetta al mondo commentato? Ciò avviene grazie al motivo del costante peri-
colo di morte: sette giorni o addirittura mille e una notte! La minaccia di mor-
te è un motivo tematico al servizio della tensione; essa compensa ogni volta il
rilassamento proprio alla cornice in quanto mera cornice raccontata •
2
Il Castig]iQ!)e dunque co!jg_çgndo studiatamente !'anticipazione della
.c9tPk,e .e Ta propria «compagnia» nell'immobilità- iiu;Y.ocabi\it~ della
;;;ortej çlisiµnesca ogni «attesa.», segnala sin dall'inizio che la str~tegia,
dichiarata nella scrittura derlibro, e cioè la formazione d'un modellù e
d'.un ruolo so~, ·$i è esaurita avanti la lettura, nell'emblematica i;iorte
del primo déstinatario («morto è il medesimo Messer Alfonso Ariosto,
a cui il libro è indirizzato»), cosi che la funzione dell' instituere narrando,
del «formar con parole»', è rovesciata nella narratio institutionis; onde
il trattato si risolve in« ritratto»'.
E difatti tale narratio si istituisce proprio come reinvenzione della
cornice nel racconto che l'autore fa della propria rilettura:
Cosi, per eseguire questa deliberazione cominciai a rileggerlo; e sUbito nella
prima fronte, ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza[...] ricordan-
domi la maggior parte di coloro, che sono introdotti nei ragionamenti, esser
già mortij.
Il processo che trasforma !'incipit della cornice nella descrizione del-
!' explicit, segnala anche una seconda distanza (e non solo quella dell'i-
i.
nattualità della cornice), l'assenza cioè dell'autore dai destini del testo
- «ritrovandomi adunque in Ispagna»' -, cosicché la sua responsabilità
è come limitata da una duplice inconcludenza, dalle incompiute castiga-
i
I
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto
tiones, che lasciano a loro volta un testo ancor imperfetto inscriversi in
una cornice ormai perimée:
fui stimulato da quella memoria a scrivere questi libri del Cortegiano; il che io
feci_ in i:oc~i giorni, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal
des1der10 d1 pagar tosto questo debito erano nati 7 •
Ond'io, spaventato da questo periculoi diterminaimi di riveder sUbito nel
lib~o quel poco che mi comportava il tempo, con intenzione di pubblicarlo;
est1mando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lace-
rato per man d'altri 3 •
Tale doppia distanza, dell'imperfettibilità del testo nell'inattualità
della cornice, è del resto simmetrica all'inattualità del testo rispetto al
destinatario, il quale (anche qui contro ogni tradizione del topos) è alie-
no non solo dal cursus famae di quella vicenda, ma persino dalla stessa
« noticia » di quei nomi! '.
Ma queste assenze concentriche della dedica (cominciando dalla cor-
nice come descrizione della propria sparizione, dall'autore rimosso a let-
tore, sino al destinatario remoto dall'uno e dall'altro) non sono, a loro
volta, che la trasformazione narrativa, per il lettore, della costituzione
in absentia degli stessi «ragionamenti», l'estensione allo stesso 'invio'
di quella prima retorica assenza interposta, secondo il modello cicero-
niano, tra la materia del trattato ed il suo testimone, quale il prologo al i
I libro segnala:
rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali già pas-
sarono tra omini singularissimi a tale proposito; e benché io non v'intervenissi
presenzialmente per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli
poco appres~o il mio ritorno intesi da persona che fidelmente me gli narrò, li
sforzerommt a punto, per quanto la memoria mi comporterà, ricordarli 10 •
In conclusione dunque, per un elegante chiasmo di funzioni, la cor-
nice retorica del prologo (I, 1), istitutiva del trattato, invera testualmen-
te, fissando ab origine la necessità dell'assenza, e legittima come propria
reduplicazione la cornice 'postnma', 'esterna', della dedica; ma nello
stesso tempo quest'ultima trasforma la 'distanza retorica' stabilita dal
prologo al testo (I, 1) in distanza storica, in irreparabile divaricazione
che la 'chiusura' del libro apre tra autore e testo. . .
Prenderà cosi piu profondo significato la metafora che accompagna
il congedo dal testo e l'invio del libro come «ritratto di pittura». Non
solo la formula testimonia l'avvenuta «traslazione» del trattato in ritrat-
,to, ma questo poi si forma come «noticia dopo la mort(;,,, a quel modo
'stesso che la scrittura «testa ancor», al di là delle parole e delle voci,
preservando «quasi una imagine o piu presto vita delle parole»".

30 La nascita del modello
Nel gioco incrociato di «rimozione» della congruenza storica tra de-
stinatari e testo, messo in scena dalle cornici concentriche della dedica
e del prologo al I libro, si elidono le ragioni mimetiche, precettive,
maieutiche, I' «economicità» insomma della scrittura, che sola resta alla
fine misura, postuma offerta all'unica entità in grado di valutarla, al
tempo «padre della verità e giudice senza passione»".
Il testo traslava cosi le proprie ragioni di «formazione», e il proprio
destinatario, non pili nello spazio della corte, ma in quello «della v~ta.o
morte delle scritture» nelle mani di quel tempo che (con una vanatzo
sulla citazione classic;, sperimentata egualmente dal Machiavelli)" è
padre e garante della verità.
Veritas filia temporis: non compiuto e non «castigato» nel presente,
il testo si affidava alla pili «giusta sentenzia» del futuro: nel Tempo il
Castiglione trovava l'ultima e pili vera cornice al proprio libro, quella di
poterlo destinare come livre à venir.
2. «Noi da noi stessi alienati».
Ma ad arginare a posteriori, in «ritratto» per il Tempo, in calligram-
ma per la lettura, una struttura narrativa che si voleva in origine pre:
scrittiva, infarcita di exempla, non potrà certo bastare, una volta entrati
nel meccanismo della /ictio dialogica, il sigillo esterno di uno speculare
rinvio d' assenze e di distanze tra cornice e prologo dei «ragionamenti».
Occorre al Castiglione insinuare questi segnali di «distanza», i di-
spositivi di lenimento dell'attualità (attuabilità) del meccanismo narra-
tivo all'interno ancora del dialogo in quanto «pronunciato» e animato
da parvenze viventi in luoghi riconoscibili, in quanto codificato secon-
do criteri di verisimiglianza, di mimesis.
A ciò provvederanno, nel rimaneggiamento compiuto tra la seconda
redazione ed il testo dato alle stampe, le varianti indotte sulla terza cor-
nice, quella dedicata all'epifania della corte, come luog.o ?el Sign~re e
del cortegiano (I, III-Iv). Esse preparano la vera e propria mtroduz1one
del tema la «perfezion della cortegiania», che potrà darsi nella quarta
e pili impegnata cornice, solo quando sarà entrata e uscita di scena la
«perfezion» del potere, nel passaggio da Urbino di papa Giulio Il.
Converrà quindi, in questa sede, studiare - al di là dei segnali po-
stremi, 'esterni', per la lettura - il fi:~nzionamento di qu~ste. due 'cor-
nici interne' del libro, quelle messe m opera nella cod1frcaz1one della
materia, nella regia della dispositio.
L'inizio infatti del trattato rispetta i canoni del genere: precede !'in-
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto 31
t~oduzione del tema (I, I), segue la celebrazione del luogo (I, n) e del suo
S~gnor~ ~I, l.rr). Solo ,a questo punto lo sguardo può allargarsi al circolo
d1 cort1g1an1 che sara protagonista del dialogo.
Esso ci appare subito inscritto come entro un aulico «libro d'ore»
laico:.« Era~o. adunque tutte I' ore del giorno divise in onorevoli e pia-
cevoli eserc1z1 cosi del corpo come dell'animo»".
~~nella seconda redazione questo «libro d'ore» s'apre al vertice
mer1d1ano, al centro dell'attività, e dell' epifanica magnificenza del du-
ca intorno ''.alla tavo.la lauti~simamente preparata» (al luogo p~r lungo
te?'po ~porum? del ntrovars1 a corte), che chiude da un lato l'elogio de-
gli studi~ del S1g?or~, e prepara il succe~siv? encomio dedicato agli otia
et negotza delyrmc1p~,yer concludersi ali «inclinar» del giorno nella
ra~segna degli « exerc1z11 » del corpo - giostre e giuochi - , con i quali si
chiudevano !'ore (dentro le maniere d'una conosciuta «stampa») dedi-
cate alle «virtuose operazioni»:
né meno esso in questo altrui delettava che fosse da altrui delettato come
quello ~he era ~ottissimo ~l'una e l'altra lingua et avea cognizione de i~finite
cose 1 dil che p1u a.Jlt.~ngo 111 qualche altra parte averno di lui scritto. Ma sopra
tutto nella conversa~~one er~ so~vissimo e.nelli ragionamenti grato) piU che al-
cuno alti;o u?mo c~ io a~~~ mai cognosciuto. Cosi !'ore del giorno sempre in
onorev?lt. e ptacevolt ex~rc_tztt er~no divise: ché per el piU delle volte) quando nel
~ta~o si ritrovava, tutti l~ gen~iluomini alla tavola lautissimamente preparata
msieme con esso a mangiare si poneano, né ivi erano cibi che di modeste pia-
cevolez~e no~ fossero compos.ti, dopai in musica o in qualche gioco si dispen-
sava ':1~.01~a.. di. t.e~po. [. .. ~Poi quando el giorno ad inclinar comminciava) ad
exerc1z11 p1u v1rih ognun s1 mettea, chi di correr lance, chi di giuocar alla palla,
e sp~~se volt~ ~e.or si faceano torneamenti e giostre e tutte quelle cose che a
nobili cavagher1 s1 convengono. E benché questa vita non fosse sempre di una
medema stampa, pur mai d'altro che di vertuose operazioni non era variata 1'.
Il quarto capitolo (deputato nell'una e nell'altra redazione a fornire
la sce.na del di~ogo)yoteva ~_?si iniziare come una serale compieta,
comp1i;iento, d una giornata gia esemplarmente trascorsa in Jactis, e che
era lecito ora prolungare, reduplicare e perfezionare in verbis. Cosicché
l'annunci~t~ te~~ di voler ricavare la «forma_ perfetta di cortiggiania»
(I! l; GH) ~1 gi.ust1f1cava con;e 1'.rodotto da «una medema stampa», come
«~dea» d1 «Vltt~ose operaz1om» quotidiane, come compimento nel «ra-
g10namento» d1 quanto fornisce I' «exercizio».
M.a.?dl~ reda.zione definitiva si consuma, tram e rv capitolo, tra
exerc1z11 e d1scors1 quella rottura di continuità che restituisce anche alla
di
cornice «interna» la stessa distanza, distanza passato irrevocabile tra
parola e fat:o, quale P?co prim~ nelle due dediche giustapposte (quel-
la a Don Miche! De Silva che s aggiunge al prologo a Messer Alfonso

32
La nascita del modello
. . il
della composizione e il tempo del de-
Ariosto) si costttutva tra temp~ d' ella lettura «postuma» (quella
stinatario, ormai «altr~>>, partecip~. i q;i " nella cornice del Tempo.
del «giudice sei;iza passione») ~he b:'d~::;~he nella redazione finale,
A questa diversa econo.mta 0 • e d l me del IV capitolo· se in ori-
con rigorosa simmetr!a: la sistema~ione ~ collocava a chiusu;a del cap.
gine la cornice «corttgiand~> del di~og~ intorno a lui nel rito della ma-
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto 33
quali tuttavia non conviene ormai piu il «giudicio» dell' «esercitar !'o-
pere», mal' «ingegno e giudicio» del conversare; al duca, e per sempre
nella regia dell'argomentare e nel «senso» del trattato, si sostituirà, con
compiti non pili politici ma r~turici, Emilia Pio, la quale appunto «pa-
reva la maestra di tutti» (I, Iv)".
Su questi «soavi ragionamenti e oneste facezie» si costituisce dun-
que la cornice dei dialoganti e l'àmbito, ormai solo retorico, del dialogo

:ifl~:~~~a<~~ll~~~~~~aÌau~1;~::m~i~:::pt:~;;:;~~~da:::t~ ~r~:
entro una casistica di quaq,fiqnesfictae, puntigliosamente elencate nel
cap. v. Infatti come il cap.
IV aveva descritto con quali intenti si ritro-
della morte, verra espunto n~o mer ll'~gire ai negozii ed agli exer- vava a disputare la brigata dei cortigiani intorno alla duchessa, il quinto
tico, dei viventi, ed anche ~gnli accell~i~; delle ,:expedizioni delle cose fornirà gli argomenti di quelle retoriche dispute, i temi di quelle serate
cizii piu virili, al tempo socia e e po trascorse intorno al primato della parola.
del stato»"· l . ( p ml il solo elogio ormai elogio fu- I riti verbali di questa «consuetudine» (I, v) corrispondono ad al-
Cosicché da un ato rimane ca · d 'immobi'l~ presenza verba- trettanti generi e temi collaudati dalle dispute cortesi o dagli exempla
· · 1 ato a mera vox boia
nebre, d e1prmcipe, e ev
a
·-r'
omologa a quella occidua ficta della retorica, riproposti sotto nuovi «velami» per nuove <<im-

~~!;;d~al~d"~~lLi:nJai~:~· gf:~~~i~~~~~~::~~~:o~d ~~~;:1t~~~~»~~~~~

1 prese»:
0
talor si proponeano belle questioni, talor si faceano alcuni giochi ingenio si [. .. ]
ro e, ec .' . ne' quali sotto varii velami spesso scoprivano i circostanti allegoricamente i
stando che 1~ «coi:versazio~~~le di discorso, non preceduto da un p~- pensier sui a chi pii.i loro piaceva. Qualche volta nasceano altre disputazioni di
11 Cort~gi~no.vive sol? Pfi ... libro d'ore» si fa essenzialmente h- diverse materie, o vero si mordea con pronti detti, spesso si faceano imprese,
11 come oggidf chiamiamo 21 •
radigma di rifer1ment? zn actzs, '.', . ntrata intorno alla tavola del
bro, «civil convers~zioned» n?n pm :~~el salotto della duchessa e di «Belle questioni», «giochi ingeniosi», «disputazioni», «pronti det-
principe, del mangiare e e11 agire,
ti», «imprese»: dalle tradizionali dispute delle «corti d'amore» alle piu
Emilia Pio. . .. elle ore l'antica veglia ed ora recenti invenzioni d'imprese, è tutto l'arsenale della retorica che fa del-
Si contrappone cosi defimtlvame~te, n d ll: · l'ivi dei «cibi» la parola argomento ed epifania di se stessa, i «ragionamenti» involgen-
il sonno del principe, la p~esenza e 1assenza e agire,
dosi sul modo di proporli, .condurli, risolverli. Il sofisma ingegnoso go-
al quivi dei «ragionamenti»: . .. .. .
. l' p· eVoli exerciztt erano divise. ché verna come arte dell' <!ntretien l'assenza appunto degli «exercizii» del
tl
Cosi l'ore del giorno semdpre onotev_o :te t~~a tutti li gentiluomini alla ta-
per el pi6 delle volte, quan o ne. st~to s1 r1:~~so a' mangiare si poneano, né ivi
potere.
Come in questi «ragionamenti» potesse essere introdotto anche
vola lau;bi~simhamd1;nmtoedp::fearpr!~e~~Ì~~zee c~on fossero composti is; quello del perfetto cortigiano - qui davvero sospeso tra « exercizio » ed
eranoc1 1c e · l' ·"
, del . o divise in onorevoli e piacevo t exerczzzt «impresa», tra ruolo politico reale e funzione simbolica entro la corte
Brano adunque tutte,l ore . gio~rché il signor Duca continuamente, per
- era questione non altrimenti risolubile se non reintroducendo la pre-
cosl del corpo come dell ani.mo, ma p ,andava a dormire ognuno per or-
b
la infirmità, dopo ce?a assadpeh tem~l'se tta Gonzaga a qu~ll' ora si riduce- I senza e lo «splendido apparato» (I, VI) del potere.
dinario dove era la signo~a. uc essÌ ~sa e Emilia Pia[ .. .]. Quivi adunque Un secondo prologo, e una nuova cornice, sono cosf messi in scena,
va· dove ancor sempre si ritrovava a. s1g,no~a t?
subito all'inizio del cap. VI, come pili congruo apparato e giustificazione
i s~avi ragionamenti e l' oneste facezie s udivano .
all'imminente introduzione del tema retorico-politico che sarà materia
. , . ili 1 pedizioni delle cose del sta-
Rimossi gli «exercizii pm vir », e b't':na politico· e non potendo · del trattato. Se nell'assenza del duca, nella paralisi del potere, si dispie-
to», anche il duca sco'."par; co::,,e~m:ne «con le 'p;role», quasi a gano, .paradigma dell' otium, «giochi ingeniosi», risarcimento e confer-
l
«con la pe:son~ e~erclt:t ~piva i~ cui sta per situarsi la corni_ce de'.
preannunc1~re il piano e ~nlt ,. ragionamenti e oneste facezie», al
ma dell'inazione - inanità politica; all'arrivo di «papa Iulio Il», reduce
dall'impresa di Bologna del 1506, «non solamente si continuava nell'u-
dialogo, ad maugurare quel «soa\i
4

34 La nascita del modello
sato stile delle feste e piaceri ordinari, ma ognuno si sforzava d' accre-
scere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera
22
s'attendeva» •
L'entrata in scena della fonte reale del potere politico che controlla
l'Italia centrale, comporta non solo un allargamento della coi;-nice, _es~e­
sa a cortigiani pontifici", ma insieme un'adeguazione tematica dei gio-
chi di società. Il problema dunque del «perfetto cortegiano» nasce co-
me «luogo» di congiunzione tra funzione e simbolo, tra politica e reto-
rica tra «exercizii» e «ragionamenti». In studiata corrispondenza, co-
me ~ecessitato dalla «presenzia» della somma autorità politica, non può
essere proposto che il piu alto, ed il piu arduo, il piu retorico d~i giochi,
quello appunto «ch'ognun proponga secondo il parer suo un g10co non
piu fatto» (I, vr), il gioco d'inventare un gioco, modulo perfetto per
trarre da «belle que"stioni» piu belle «imprese», meta-gioco che inscrive
a priori la formazione del «cortegiano» entro que~a retorica che ne det-
ta anche il «Libro», cosi come la «meta-novella» di Madonna Oretta of-
friva nuovo esordio e prima decodifica allo scriver novelle del Decame-
ron24.
Ma a questo punto, le due inaugu~:azioni, le due «imp;~se», quel!~
della politica e quelle della retorica, divergono per non pm mcontrarsi,
né nelle vicende della storia né nella costruzione del libro.
Infatti solo «il giorno appresso la partita del Papa», nella nuova epo-
ché del potere, può ritornare - seppur richiamato a piu pertinente ade-
renza tra natura del gioco e statuto dei «giocatori» - il «giudicio» del-
le parole su «expedizioni» ormai tutte retoriche, «instituzioni» affidate
ai soli «ragionamenti».
In questafictio, in quest'assenza, l' «idea» (al modo d! «Platone, S~­
nofonte e Marco Tullio») di costruire il «perfetto cortegiano» potrà di-
spiegarsi sino alla perorazione finale del Bembo, là ove «noi da no~ stes-
si alienati» «in ultimo moriamo di felicissima e vita! morte»", m un
percorso solo piu garantito dal sigillo di un retorico ossi~oro, e dal!' e-
leganza «ingeniosa» di poter tutto coprire e tutte le aporie ornare con
quel!' arte che sa tessere persino !'elogio del niente, delle mosche e della
calvizie.
3. «In altro spazio e tempo».
Mentre il Bembo chiude il trattato «astratto e fuor di sé» (IV, LXXI),
l'autore è ormai lontano nella finzione scenica e nella storia politica. E
non solo perché nello 'spazio del testo' egli è lontano, negli onori d'In-
)
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto 35
g?il~erra, da qu~lle picciole imprese, ma anche perché 'nel tempo della
vita ne e ormai, almeno nel progetto e nelle speranze idealmente re-
moto, non piu ristretto intorno alle «conversazioni» urbinati ma forse
già ~nya;tenza per _Roma al séguito vagheggiato - per piu a~bite «ex-
ped1z10n1» - de1 «signor cardinali» e dei cortigiani di un piu ampio pa-
lazzo, della Curia romana. I
«Gran cosa è Roma!», scriveva sin dal 1503 il Castiglione", non
,I
solo.per rap~o;to_a Mantova, ma anche alle aspirazioni della propria
carne;a; ~os1 ~;,spiega,_ da q?el momento - segnalato come capitale già
dal D10rusott1 -, la cifra d un progetto che pur partendo alternativa-
?1ente da _Urbin? od~ Ma~tova, con?urrà sempre in un «altrove» piu
impegnativo: prima I Inghilterra, por la Roma del Papa, infine la Spa-
gna dell'Imperatore.
Cosi, sin dal rit?rno dall'Inghilterra, la storia del 'cortegiano' si se-
para da quella del hbro, le «expedizioni» della storia dagli «exercizii»
osserva con finezza Carlo Dionisotti, della scrittura: '
A Urbino, dal r507 in poi, la storia dd Castiglione necessariamente si
sdop:pia. Comincia per lui il tempo di edificare, e come di ogni artista la co~
struz1o?e è opera che si aggiunge diversa, in altro spazio e tempo, alla p~rsona
e alla vita 28 •
. E men~re il libro s' ag~lutinava per collage di citazioni, per collezione
?1
di prove;b1 ed exempla, fa_cezie e di motti, senza potersi mai adeguare
alla storia, senza potersi mai concludere nella scrittura a lungo incerto
tra Ovidio e Platone"; il cortigiano al contrario c~ntinuava il suo
viaggio d'esperienza nella storia, ver~o le radici dei potere.
9uella par?la ali.ora, pa;ola d'uso, parola negoziata, porta il peso e
'.a misura degh stessi negozi, si fa, è «commerzio», difficile bene d'uso
m mano al «mercatante»:
Io sono uno di quelli mercatanti che non posso dare altra mercantia che
quella che ho in bottega 10 •
Co~i sc~iveva n~I 152 l a Federico Gonzaga sulla complessa, e piu
~alte ~1ffenta,_ ~o.mma del marchese all'ufficio di capitano generale del-
! esercito ponttfrc10; e con la stessa metafora il Castiglione vorrà ancora
a posteri~ri, giustificare ~n nom~ dell'.uso e della consuetudine la lingu~
del propno Cortegiano, hngua viva di coloro «che trattano cose grandi
di governo de' stati, di lettere, d' arme e negaci diversi»:
. Non h~ ~ncor volu~o oblig.armi alla ~on~uetudine del parlar toscano d' og-
gidf, per,che il c?mmerzlo t.ra diverse naz1oru. ha sempre avuto forza di traspor-
t~e ~all una a1l altra, quasi come le mercanzie, cosf ancor navi vocabtùi, i qua-
li poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o re-
i
probati H.

La nascita del modello
La lingua delle Lettere", lingua d'uso e di storia, ci riporta cosi ora
il cortigiano nella sua professione, lingua di «expedizioni» e di ben altre
«sprezzature», lingua di carnevali per Papi" e di peste per villani", di
impiccagioni richieste per prestigio e puntiglio", di debiti e di giuppo-
ni", lingua economica, lingua di «ricordi», di« bonne histoire »: quella
che il Montaigne ascriveva soltanto (pensando al suo Guicciardini) a
«ceux mesmes qui commandoient aux affaires, ou qui estoient partici-
pans à !es conduire, ou, au moins, qui ont eu la fortune d'en conduire
d'autres de mesme sorte».
«Gran cosa è Roma!», ma anch'essa dal gennaio 1522, dall'elezione
al pontificato di Adriano VI, è da collocarsi ormai «in altro spazio e
tempo», sempre phi remota e in subordine rispetto alle matrici del nuo-
vo potere in ascesa, quello di Carlo V; un mondo finiva, ben prima del
sacco di Roma, ed il Castiglione, allontanandosene, ne prende malinco-
nicamente nota:
io sono, Dio gratia, sano, ma tanto confuso della mente et attonito che mi par
d'esser in un mondo novo, e parmi che Roma non sia pili dove la era, con tan-
ta mutatione 37 ,
Né a Roma phi tornerà se non per preparare la propria investitura,
con Clemente VII, a nunzio in Spagna, dal luglio I 524. Là, alla corte
imperiale, il cortigiano potrà finalmente misurare sé ed il proprio libro,
il valore della parola e la difficile arte della teorizzata «sprezzatura»:
quanta ormai fosse l'incongruenza tra libro e storia del cortigiano, l'uno
e l'altra ormai per sempre situati «in altro spazio e tempo» - cosi lon-
tani Urbino e le teorie del Bembo - dirà, con estrema chiarezza, l'ulti-
ma impresa del Castiglione, la Risposta al Valdés sulle responsabilità e
sul significato del sacco di Roma, scritta alla vigilia della morte, presu-
mibilmente tra l'agosto e l'ottobre del 1528.
In essa il politico richiamerà, orgogliosamente e polemicamente, di
fronte ai sottili veleni del dialogo valdesiano, il nitido argomentare del
proprio libro: «a noi altri ancora è nota la maniera academica dello scri-
vere in dialogo»; il Cortegiano è ormai, e sarà poi, nella fortuna e nella
lettura, «maniera academica» costruita secondo «il costume de' plato-
nici» nella fascinosa inconcludenza dialettica della contraddizione".
Ma nella storia del cortigiano, il costume platonico del ragionamen-
to come arte maieutica della conoscenza e della persuasione, cede ormai
a una nuova «sprezzatura», quella dell'intolleranza e dell'Inquisizione,
di cui il Castiglione è, ancora una volta, il primo a lasciarci dipinto e cu-
po «ritratto»:
Preparatevi pure, perché la giusticia divina non lascia impuniti cosf abo-
minabili peccati; e crediate che questi vostri malèfici occhi vi hanno da essere
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto 37
cavati dalla testa dai corvi prin1a che veggano quel tanto male che voi deside-
rate, e la nefanda lingua, che adoperate per instromento di accendere fuoco
nel mondo, prima sarà lacerata dai cani, che mai possa indurre l'Imperatore a
fru· cosa che non sia servizio di Dio 39 •
Cosi, in diversi «uffici» intenti, chiuderanno parallelamente la pa-
rabola e la vita, il «cortegianm> ed il suo «libro»: mentre l'uno dalla
Spagna ammoniva minaccioso che «non mancheranno dell'ufficio loro
i signori inquisitori»'"; in Italia, dove i simuÌacri subalterni del potere
perp.etuav~o, .attar~andosi c?n !lu~to un po' retro «in altro tempo. e
s~azio», an11cl11 «ragionamentl», il hbro cltludeva nelle mani di Emilia
Pio morente, e ancor fedele alla redta di quel laico ufficio" il conto
delle proprie ragioni, risolvendosi alla fine a toccare alme~o ~el desti-
natario, i temi d'origine, le «donne antiche, venend~ anchor fin ala età
nostra: che f~ssero state dare in qual si voglia cosa, o in lettere, o in ar-
me, o m castitate, o in constantia, o qualche atto generoso»".
L'inerzia del genere sembrava cosi avocare alla sua durata e alla fine
ricucire gli strappi della storia: ma dalle fisiche misure della' Corte Ca-
stiglioni a Casatico di Marcaria il fascinoso equivoco mostrava - e non
solo allora - tutta la sua provvisorietà; da quelle stanze, da quella ter-
r~, altra .co;te da quella urbinate si profilava, quella oeconomica di Aloi-
sia Castiglione, la donna altra dal Cortegiano, quella destinataria delle
Lettere e della storia di un «fastidito e fide! Servitor»".
Per un'abitudine disciplinare, son rimaste alla storia letteraria -
del ~~sti?o bifronte del Castiglione - troppo a lungo le sole ragioni di
Emilia Pio e del suo Libro; nella fascinazione di quei «ragionamenti» si
erano smarrite le «expedizioni», le vestigia del «camino d'Hispagna»
dell'autore".
Ma solo di là, da quella distanza che misurava la storia e in essa le
propor~i~ni di '.'n «ritratto» ormai remoto, Il Cortegiano poteva alla fine
inviarsi, librarsi nel tempo come, il primo giorno, Urbino nei «venti cbe
parlano»". ·

Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto.
1 «Cosf, per eseguire questa deliberazione c.ominci~i a rileggedo; e subito nella p1'ifl?~
fronte, ammonito dal titulo, presi non med1ocre.tr1stezza, l_a qual ancora nel ~assar p1u
avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte d~ ~oloro, eh~ sono mtrodu.t-
ti nei ragionamenti, esser già morti: ché, oltre a quelli ?e chi s1 f~ i_ne~1o~e.n~~roem10
dell'ultimo morto è il medesimo messer Alfonso Anosto, a cu1illtbl'oe1ndir1zzato»
(B. Castigli~ne, Il Libro del Cortegiano, a cut'a di Bruno Maier, Utet, Torin? ~973 3 , De-
dica al reverendo ed illustre signor Don Miche! De Silva, I, p. 69; da quest? e?izione sar~n­
no tratte tutte le altre citazioni). Va sottolineato che non solo a posterzort, nella dedica
post eventum, ma già in corso d'opera, come. segnala lo stess? Castiglione, il li~ro si :ap:
presenta come postumo alla materia, la scr1ttu1'a come residuo della memor~a: po1c.h~
non è morto solo «il medesimo messer Alfonso Ariosto, - ma ancora, - quelh de chi s1
fa menzione nel proemio dell'ultimo»; ed infatti il quarto libro cosi co~inciava: <'.~en:
sando io di scrivere i ragionamenti che la quarta sera dopo le narrate net precedenti libri
s'ebbero sento tra varii discorsi uno amaro pensiero che nell'animo mi percuote[ .. .].
Tornami' adunque a memoria che non molto t~mpo d~p?i ~he q:i-esti.t~gionament~ pas-
sarono privò morte importuna la casa nostra di tre rar1ss1mi gentilom1i:u, quando di pro-
spera età e speranza d'onore piU fiorivano>~ (Il Libro del Cortegia~o. ctt., IV, 1, P· 445).
Il cenno si riferisce a tre interlocutori del dialogo, Gaspare Pallavtctno, Cesare Gonza-
ga1 messer Roberto da Bari.
2 Cfr. H. Weinrich, Tempus. Besprochene und erziihlte Welt, Kohlliammer, Stutt~art
1 ~ 4 ; trad. it. Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Il Mulino, Bologna 1978; la cita-
zione a p. 183.
r-J< Vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse u.no della c~mpagnia ed a
questo si desse carico di formar con parole un perfetto corteg1ano» (Il Libro del Corte-
giano cit., I, XII, p. 100).
4 Sulla strategia di questa doppia articolazione ~el prolo,~o del C~rtegiano insistoi:io le f~
osservazioni di Eduardo Saccone, Trattato e ritratto: l introduzione del «Cortegtano», In
«MLN »,XCIII (1978), n. I, pp. I-2!.
' I/Libro del Cortegiano cit.; Dedica a Don MichelDe.Silva, I, p. ~9; ecfr. nota I. s~ mo-
dificarsi inoltre della distribuzione e del ruolo dei personaggi tra Seconda redazione e
testo definitivo,' si vedano le osservazioni di P. Floriani, I personaggi del «Cortegiano»,
in «GSLI», CLVI (1979), fase. 494, pp. 161-78.
6 «Ritrovandomi adunque in Ispagna ed essendo di Italia avvisato che la signol'a Vittoria
dalla Colonna marchesa della Pescara alla quale io già feci copia del libro, contra la p1'0-
1
messa sua ne avea '
fatto transcrivere una gran parte, non potei• non sentirne
•
qualchfe ~-
stidio, dubitandomi di molti inconvenienti, che in simili casi possono occorr~re)> ~Il Li-
bro del Cortegjano cit., Dedica a Don Michel De Silva, I, pp. 68-69). Anche qui la distan-
za è doppia, dell'autore dal libro, come prima del testimone dal dialogo (c_fr. nota ro).
1 Il Libro del Cortegiano cit., Dedica a Don Miche! De Silva, I, p. 68. Il corsivo è nostro.
Il Libro del Corlegiano: cornice e ritratto 39
8 Ibid., p. 69. Il corsivo è nostro.
9 «E poiché voi né della signora Duchessa né degli altri che son morti, fuor che del duca
!uliano e del Cardinale di Santa Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, acciò che,
per quanto io posso, l'abbiate dopo la morte, mandavi questo libro come un ritratto di
pittul'a della corte d'Urbino» (Il Libro del Cortegiano eit., Dedica a Don Miche! De Silva,
I, p. 7•).
10 Ibid., Il primo Libro del Cortegiano [. .. ]a messer Alfonso Ariosto, I, 1, p. 81; questa distan-
za «retorica» del testimone dai luoghi della conversazione si replicherà (ma nella lettura
sarà pteceduta) nella distanza storica dell'autore dal proprio testo (cfr. nota 6).
11 «La scrittura non è altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l'omo ha par-
lato, e quasi una imagine o pili presto vita delle parole» (ibid., I, xxix, p. 131).
12 «Il quale [scil.: tempo], pe1' esser padre della verità e giudice senza passione, suol dare
sempre deila vita o morte delle scritture giusta sentenzia» (ibià., Dedica a DonMichel
De Si/va, III, p. 78).
13 Entrambi gli autori rovesciano la formula classica: Veritas filia temporis (dr. Aulo Gellio,
Noctes Atticae, libro XII, cap. x1, 7), puntando sul valore conoscitivo della storia, sullo
scorl'el'e, non neutro, del tempo: «il tempo, il quale dicono esser padre d'ogni verità»,
asseriva con anche maggio!' impegno di generalizzazione il Machiavelli nei Discorsi sopra
la prima decadi Tito Livio, libro I, cap. 1n; cfr. l'edizione a cura di C. Vivanti, Einau-
di, Torino 1983, p. 28.
14 Il Libro del Cortegiano cit., I, IV, p. 85.
u B. Castiglione, La seconda redazione del «Cortegiano», edizione cl'itica per cura di Ghino
Ghinassi, Firenze, Sansoni 1968, libro I, cap. rn, pp. 7-8. Le citazioni da questa edizio-
ne saranno abbreviate nella sigla GH.
16 «Da questo si ritraeva el signor duca a riposarsi pe1' buon spacio, la qual cosa fare dalla
crudel infirmità spesso era necessitato; e medemamente in quel tempo attendea alle ex-
pedizioni delle cose del stato, benché da questa cura mai da niuna ora libel'o non fosse;
et in questo spacio ognuno a' suoi negozii quanto gli era di piacere attender potea)}
(GH, I, 111, p. 7). Quanto sia distante questa «infirmità» attiva nelle <iCose del stato»
dall'immobilità saporosa della redazione definitiva (inizio cap. IV), è confermato dalla
rimozione finale del duca dai luoghi serali dei ragionamenti: Il Libro del Cortegiano ini-
zia cosl (chiudendo il p1'oprio ciclo redazionale) lontano dal principe - di cui pure vo-
leva essel'e «institutore» -, là ove, in assenza di prassi, Emilia Pio «pareva la maestra
di tutti» (I, IV).
17 «Ancor che esso [scii.: duca] non potesse con la persona esercitar 1' opere della cavalleria,
come avea già fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vedel'le in altrui; e con le pa-
role, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava
quanto giudicio circa quelle avesse» (Il Libro del Cortegiano cit., I, rn, p. 84; il corsivo
è nostro); una volta ristretta la pertinenza del potere all'ambito della parola, al solo «giu-
dicio», il duca dsulterà cosl per attributi inferiore all'<dngegno e giudicio» di Emilia Pio
Q, IV), e dovrà dunque veni1' rimosso dalla scena, che - per altro - sarà solo pill teatro
di meri «ragionamenti».
ia Cfr. GH, I, n11 p. 7.
19 Il Libro del Cortegiano cit., libro I, incipit del cap. IV, p. 85.
20 Anche nella seconda redazione, s'intende, Emilia Pio funge da <i maestra de tutti» (GH,
I, IV, p. 8) ed il quarto capitolo, a parte la frase introduttiva - che è, abbiamo visto,
trasposta dal n1 capitolo - si snoderà senza altre significative differenze. Ma ciò che
qui importa notare, è la mutazione contestuale e funzionale di quella trasposizione, la
diversa valenza simbolica di quel «libro d'ore».
21 Il Libro del Cortegiano cit., I, v, p. 87. La seconda redazione insiste sull'aspetto «alle-
gorico» (quasi di reale costruzione di senso, anziché di dissimulata eleganza) di quei «ve-
 La nascita del modello
lami»: «ne li quali sotto varii velami, alcuna volta scoprivano i circumstanti allegorica-
mente i pensieri suoi a chi pill loro piacea» (GH, I, v, p. ro).
22 Il Libro del Cortegiano cit., I, VI, p. 89 ("' GH, I, v11 p. r r).
21 <(E furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il Papa e
la corte, restarono per molti giorni ad Urbino» (Il Libro del Cortegiano cit., I, VI, p.
89 == GH, I, VI, pp. ro-rr).
24 Cfr. Alan Freedman, Il cavallo del Boccaccio: fonte, struttura e funzione della metanovella
di Madonna Oretta, in <(Studi sul Boccaccio», IX (1975-76), pp. 225-41. Sulla predica-
bilità dell'artificio a una piri generale tipologia degli indici di costruzione e di destina-
zione della testualità, cfr, Maria Corti, Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semio-
tiche, Einaudi, Torino I978, pp. IO-I 1.
2:; Il Libro del Cortegiano cit., IV, LXX, p. 54I.
26 Cfr. lettera ad Aloisia Castiglione, da Roma, del I6 marzo I503; ora in B. Castiglione,
Le lettere, a cura di Guido La Rocca, tomo I (1497 - marzo I521), Mondadori, Milano
1978, p. 17 (lettera n. 13).
n Si veda la fondamentale recensione di Carlo Dionisotti a Vittorio Cian, Un illustre nun-
zio pontificio del Rinascimento: Baldassar Castiglione, Città del Vaticano 1951, in <,Gior-
nale Storico della Letteratura Italiana», cxxix (1952), pp. 31-57. Sulla funzione ideo-
logica e letteraria della visita del Castiglione a Roma nel 1503, si vedano in particolare
le pp. 41-45.
'" Ibid., p. 48.
29 Su queste progressive mutazioni interne di struttura, e di funzione dei materiali, nelle
varie redazioni e stratificazioni del Cortegiano, si vedano le fini osservazioni di Ghino
Ghinassi, Fasi dell'elaborazione del «Cortegiano;>, in <~Studi di Filologia Italiana», xxv
(1967), pp. 155-96; sul tema in questione, in particolare le pp. 173-75.
3o Castiglione, lettera a Federico Gonzaga, da Roma, del 30 marzo 1521, in Le lettere cit.
(lettera n. 539), alle pp. 766-67; la citazione alla p. 766.
31 Il Libro del Cortegiano, Dedica a Don Miche! De Si/va cit., p. 73, Sulla centralità di que-
sta teoria linguistica nel Cortegiano, insisteva già Giancarlo Mazzacurati, in Misure del
classicismo rinascimentale, Liguori, Napoli 1967, specie alle pp. 53 e sgg.
n Oltre ali' edizione ora procurata con grande scrupolo ed erudizione da Guido La Rocca,
occorrerà ancora rifarsi, per un buon gruppo di lettere familiari posteriori al marzo 1521
a: B. Castiglione, Lettere inedite e rare, a cura di Guglielmo Garni, Ricciardi, Milano-
Napoli 1969, Per le due edizioni si adotteranno, nelle note seguenti, le due sigle GLR
(ed. La Rocca), GG (ed. Gocni).
33 «Dirò adunque prima delle feste, le quali sono passate non con molta belleza né caldez-
za, ma si con grande frequentia di popolo, perché Roma è pienissima di gente. N."' S. 0 "'
è stato sempre in Castello insino al lune di sera, dove ha havuto piacere di vedere pas-
sare mascare, musiche e moresche, benché però cosa molto excellente non si è fatta. Il'
sabbato Sua S. 1ilà fece lottare nelle fosse dii Castello per un buon spatio. Forno lotta-
tor, gagliardi villani di questo paese, alcuni svizeri, guasconi et altri tali, pure tutti per-
sone di poco grado.[. .. ] La dominica di sera, in Castello, li Sanesi fecero una moresca
nel cortile, assai bella, la quale fu di questa sorte che, poi che fu notte, li morescanti, che
erano otto giovani sanesi, vennero in Castello accompagnati da circa cinquanta servi-
tori, tutti in giuppone di raso e calze ad una certa loro livrea, e gran torze in mano, et
cosi se misero nel cortile dii Castello et allargorno uno pavaglione di raso berrettino, sot-
to il quale erano li morescanti. El Papa stava con molti altri signori alle finestre che ri-
spondono sopra il cortile. La moresca fu di questa sorte, che prima use( una donna, la
quale con certe stantie in octava rima pregò Venere che gli volesse dare uno amante de-
gno, e, cosf detto, se ne tornò. Dipoi a suono di tamburino cominciò dal pavaglione
uscire la moresca, che era otto heremiti, li quali in habito griso, ballando, se menavano
Il Libro del Cortegiano: cornice e ritratto 41
in meggio incatenato uno Amore. [...] E cosl presero una spada da due mani per uno, et
fecero una bella moresca con quella. Apresso tolsero una targa da pugno, con la spada
da una mano, et fecero l'altra moresca, nella quale se ammazorno tutti, excetto che uno
il quale fu l'amante di quella donna. Et cosf fu finita la festa, assai bella invero» (Casti-
glione, lettera a Federico Gonzaga, da Roma, del 13 febbraio 1521; in GLR- n, 506-,
pp. 714-20; le citazioni allepp. 714, 716-17).
H «La peste invero fa pur gran danno, ma non è ancor entrata in persone nobili: gran cru-
deltà è, perché quasi tutti quelli che se amalano ancor d'altro male sono lassati morire
di fame e necessità, perché ognuno li rifuta [...].Io sto qui in Belvede1:e 1 loco remotis-
simo e sicurissimo, e non prattico se non con pochissimi» (Castiglione, lettera ad Aloisia
Castiglione, da Roma, del 12 agosto 1522; in GG- n. 27-, pp. 41-44; le citazioni alle
pp. 43 044).
«È vero che pochi homini di cunto sono morti, ma questi poveretti cascano come le fo-
glie de gli alberi quando vien l'invernoi> (Castiglione, lettera ad Aloisia Castiglione, da
Roma, del 24 ottobre 1522; in GG - n. 32 -, pp. 51-52; la citazione alla p. 51),
«La peste non fa troppo danno, almen in persone che se ne parli: pare che quasi tutta sia
ridutta tra li Giudei e Corsi che stanno Transtevere, pe1'ché son gente mal regolati» (Ca-
stiglione, lettera ad Aloisia Castiglione, da Roma, del 26 aprile 1524; in GG- n. 49-,
pp. 68-69; la citazione alla p. 68),
n «Al corso delle cavalle quella di Vostra Ex.ria subito se mise inanti, e quella dello Arci-
vescovo di Nicosia era seconda, et cosi vennero sempre. Quando forno a dirittura del
Borgo, quella di Vostra Ex. li prese tanto vantaggio che, quando e1'a al palio, quella di
Nicosia non era ancor alla fontana, et quando il paggio fu per tocare il palio, un bale-
striere di quelli dil barisello se interpose tra il palio e la cavalla, tanto che 'l paggio non
poté tocarlo, e sopragiunse quella di Nicosia e toccò, et fulli datto el palio.[ ...] Doppo
molte parole quel balestrero fu messo in pregiane, et èvvi ancor, et el Senatore et el Go-
vernatore mi hanno promesso che 'l non si partirà di là (prima} che 'l farà un palio a pon-
to, come quello~che l'ha impedito. Io deside1'avo piU che 'l fosse impicato, o almeno
quattro o cinque tratti di corda, e subito poi fosse messo in galea» (Castiglione, lettera
a Federico Gonzaga, da Roma, del 13 febbraio 1521; in GLR- n. 506-, p. 716).
36
«Et un'altra cosa vottei: questi gentilhomini tutti hanno un mantello da acqua alla spa- I
gnola, che è non troppo lungo, che basta che copra solamente el saio, con un bavaretto
et un collarino cusito dentro che se accosti al collo; el mantello vole esser tutto tondo,
e perché a Mantua ne sono molti, Mr 0 Ant(oni)o saprà molto bene come ha da esser.
Vorrei adonque che V.S. me facesse cercare d'un panno bon d'acqua, che fosse misto,
purché tendesse al scuro o tanè scuro, o come si fosse, e far che m.ro Ant(oni)o me lo fa-
cesse subito alla misura della lunghezza del saio, a quella foggia che ho detto; vorianle
intorno due listete de veluto negro larghe un detto, et intorno al bavaretto, e fosse ve-
luto novo e bono. [. .. ] E perché la mia vesta de zambellotto è troppo lunga, vorrei che
V .S. facesse che m."' Ant(oni)o ne tagliasse via un palmo de sotto, e eh' el non guardas-
se de stringerla, perché in ogni modo la è troppo larga». Questo scriveva il Castiglione,
stando «continuamente in motu» ed in battaglia, ancora alla madre, da Pianello, il 24
settembre 1523 (cfr. GG, pp. 59-60). Sulle disposizioni d'animo del Castiglione «in ca-
r
I
stris contra Gallos » si vedano anche le osservazioni di V, Cian, Un illustre nunzio pon-
tificio del Rinascimento; Baldassar Castiglione cit., pp. 99-101.
37 Castiglione, lettera ad Aloisia Castiglione, da Roma, dell'11 gennaio 1522; in GG -
n. 20-, pp. 32-33; la citazione a p. 32.
38 «Dico che a noi altri ancora è nota la maniera academica dello scrivere in dialogo e sap-
piamo che il costume de' platonici era sempre il contradire e non affermar mai cosa al-
cuna» (B. Castiglione, Risposta al Valdés, edita ora da Bruno Maier, in Castiglione,
Il Libro del Cortegiano con una scelta delle Opere minori cit., pp. 651-99; la citazione alla
p. 671; sulla datazione dell'opuscolo, si vedano le note del Maier, p. 652, nota 7, e p.
651note1-3).
42 La nascita del modello

"Ibid., p. 695. Il Libro del Cortegiano:

40 Ibid., p. 697.
41 Per l'episodio, si vedano le conclusioni del saggio di Guglielmo Garni, Il mito d'Urbi-
no dal Castiglione al Bembo, in aa.vv., La corte e il «Cortegiano», Bulzoni, Roma 1979,
val. I, pp. 175-90.
42 Il frammento autografo di lettera, sul tema di un canone - richiesto a un non identifi-
cato messer Paulo - de claris mulieribus (che prelude al nucleo consimile della Lettera
al Frisia in difesa delle donne, pubblicata dal Chinassi in Fasi dell'elaborazione del «Cor-
tegiano» cit., pp. 189-96), e da datare, secondo la proposta del Garni, «ai primi anni del
Cinquecento», è edito in GG, pp. 109-ro; la citazione alla p. 109.
43 Si tratta degli stessi epiteti con cui il Castiglione si firma nella citata lettera a Federico
Gonzaga, da Roma, dei 30 marzo 1521; cfr. GLR, p. 767.
44 Cfr. Castiglione, lettera ad Andrea Piperario, da Madrid, del 14 marzo 1525; in GG
- n. 66-, pp. 90-92.
45 Ibid., lettera ad Aloisia Castiglione, da Urbino, dell'S ottobre 1504; in GLR, pp. 31-32,
la citazione a p. 3 I.
Sul fascino e sul mito della corte urbinate, si veda ora l'eccellente, e felice, ricerca sto-
rica curata da G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini e P. Floriani in aa.vv., Federico di Mon-
tefeltro, Lo Stato, le Arti, la Cultura, Bolzoni, Roma 1986, 3 voll.
esemplarità e difformità
E se mi diceste che voi[... ] narrate il ragionamento
di due che parlano in contradizione l'uno dell'altro,
dico che a noi altri ancora è nota la maniera academi-
ca dello scrivere in dialogo e che sappiamo che il co-
stwne de' platonici era sempre il contradire e non af-
fermar mai cosa alcuna.
D. CASTIGLIONE, Lettera ad Alfonso de Valdés (1528) 1.
Egli ha letto il Cortigiano del Castiglione e lo ha
quasi a mente, e forse meglio che l' Epistole di Cicero-
ne o le Comedie di Terenzio; ma desidera d'intender
cose nuove, avendo udito dal nostro Sanminiato che
le corti si mutano a' tempi.
'r. TAsso, I/Malpiglio overo de la corte.

r. «Per una leggiadra usanza», «senza proposito»: testo e tradizione

del Cortegiano.
Non solo ogni libro è «destinato alla lettura» dai dispositivi introdot-
ti dall'autore nel «congedarsi» dal proprio testo (quelli, sopra esaminati
- dr. rr. r -, che il Castiglione affida, nella Dedica, alla evidenza eden-
sità del «ritratto»); ma è poi anche debitore dell' «artificiosa consuetu-
dine» (Cortegiano, IV, xrr) che la tradizione della lettura gli agglutina
come «abito» di ricezione.
Tentando cosf di ridisegnare il profilo di quel «ritratto», ora dalla
parte del destinatario - o meglio, delle prime generazioni di lettori
cinquecenteschi-, si è costretti intanto a riconoscere che il Cortegiano
è largamente tributario e insieme vittima della funzione di esemplarità
che, nella storia della critica, gli è stata attribuita entro i parametri di
definizione del classicismo rinascimentale, di un canone - estetico e
sociale - di codificata misura, di aurea medietà, se non armonia.
Associato talvolta a Raffaello, piu stabilmente al Bembo, il libro di
precetti e ricordi (ma nel senso narrativo di trascrizione, di registrato
record)' del Castiglione ha conosciuto una fortuna di normatività, certo
piu nella storia della critica contemporanea' che nella storia della sua
iniz!ale, e piu composita, «tradizione di lettura».
E inevitabile che oggi, ed anche in questo profilo, il riesame critico
della funzione ideologica dell' «esemplarità» del Cortegiano si accompa-
gni alla ricerca di una piu approssimata storicità del testo. T aie storia
 i
i
!
44 La nascita del modello
del testo si è svolta, già in buona parte per i benemeriti scavi del Ghi-
nassi ', come tracciato delle stratificazioni che si sono aggregate nella
«compagine» del libro, nella complicata vicenda di elaborazioni e pen-
timenti, da cui si ricava, ormai diffusamente, l'impressione critica di
una instabilità, di una frattura', di una marcata screpolatura che incri-
na la «polita» e studiata superficie del Cortegiano.
Le ricerche del Ghinassi ci documentano il progressivo stratificarsi
in «libro» di materiali tematici compositi, richiamati da repertori dif-
ferenti a formare un pa_radigma di exempla non univocamente ricondu-
cibili; già nella le!tura dei contemporaneL alla tipologia .d'un solo gene-
re: convivono insomma, nell'elaborazione del testo, registri e schemi to-
pici tributari a dispositivi nonomog~nei ~~]«formar trattati», altre ~s­
sendo le sequenze - e cadenze - dei ragionamenti nei trattati sulla don-
na, o sull' institutio del principe, o nelle raccolte di motti e facezie, o nel-
le dispute sulla lingua, tra Quattro e Cinquecento'.
Si tratta ora; conseguentemente, di studiare se tale assetto struttivo
del libro non abbia avuto qualche conseguenza anche sulle condizioni
della sua «lettura»; d'interrogarci se questi differenti_piani di codifica-
zione (e distribuzione) della testualità non abbiano anche influito, nel
canalizzare la loro ricezione, decodifica, sul «sistema della lettura» che
fa vivere un testo presso il destinatario. Conviene insomma domandarci
se la «tradizione di genere» non sia anche un «parametro di riferimen-
to» che attraversa il testo, in quanto cospira prima (e vistosamente per
il Cortegiano) a rendere funzionale alla nuova compagine testuale i co-
spicui materiali di riporto, le fondamenta necessarie della citazione',
ed a regolare poi come replicata memoria, e impressa traccia, liter signa-
tum della lettura.
È indubbio che questa pluralità di afferenti, e deferenti possibili,
del Cortegiano, vivamente presente - come vedremo - ai lettori con-
temporanei, si è poi contratta non solo entro gli stereotipi della critica
moderna, nella quale il Castiglione è stato associato (cfr. nota 3) essen-
zialmente al Bembo ad esemplare le linee del classicismo rinascimentale;
ma egualmente entro la concreta tradizione editoriale dei testi, nella
quale il Castiglione si trova stabilmente congiunto al Casa, ad inaugu-
rare ed a normare la lunga serie di trattati cinquecenteschi sul compor-
tamento'.
Al di qua della tradizione recente, soltanto col Tasso, nel Cinque-
cento, si afferma definitivamente la linea di lettura «platonica» del trat-
tato, centrata sul valore universale e immutabile dell'idea; alla osserva-
zione riportata qui in esergo, il «Forestiero Napolitano» risponderà au-
torevolmente che:
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 45
Chi forma l'idea non figura alcuna imagine che si muti con la mutazione
fatta de gli anni, ma, isguardando in cosa stabile e ferma, la ci reca ne' suoi
scritti quale nel pensiero l'ha formata. Né stimo già che 'l Castiglione volesse
scrivere a gli uomini de' suoi tempi solamente 9 •
Ma all'intemporalità del modello disegnato dal dormator de le cor-
ti» il Tasso stesso è costretto ad affiancare la storicità delle osservazioni
del Castiglione, il quale per primo si rendeva conto «che le corti si mu-
tano a' tempi», prendendo garbatamente le distanze dagli usi e dalle
norme del «tempo di Borsa», quando i cortigiani portavano «lo spara-
viero in pugno per una leggiadra usanza»".
Se nel protagonista tassiano la coscienza della «mutazione» è subito
rimossa, nell'interlocutore, Vincenzo Malpiglio, essa affiora con inquie-
ta urgenza, cosi che la sua richiesta di un'autorevole interpretazione sul
«valore» della corte si trasforma, in realtà, nella ammissione della diver-
sificazione della tradizione storica sulla, pur invocata, unità dei principi
teorici del Cortegiano:
F. N. Molte sono le cagioni per le quali onoro la memoria del Castiglione 1 e
mi riserbo di parlarne con maggiore opportunità.
v. M. Ma pur in questo libro alcune particelle furono già da voi notate, le
quali mio figliuolo non vorrebbe udire da alcun altro che da voi: perché la
verità de le cose le quali passano di lingua in lingua, molte volte si perde, co-
me l' altre che sono trasportate di luogo in luogo 11 •
Gli argomenti del Malpiglio coincidono cosi con [' excusatio del pro-
logo del Cortegiano, ove si oppongono nella stessa frase, e sin dal!' esor-
dio dei «ragionamenti», l'elezione artificiosa del «fior di questa corte-
giania» e la constatazione storica delle «tante varietà di costumi che
s'usano nelle corti di Cristianità»:
Però si vede chiaramente che l'uso piU che la ragione ha forza d'introdur
cose nuove tra noi e canc.ellar I' antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfe-
zione, spesso s'inganna 12 ,
«Comportamento», 11el!a _sua_st_orisi.tà, e «nnrmatività», nelle sue
esigenze teofìèhe;-sòno dunque, sin dal principio, nella struttura del
Cortegiano, i moduli di argomentazione entro unastrategi~ che, .fissan-
do i comportamenti entro una tradizione di exempla, li.possa ricondurre
dalla variabilità alla prevedibilità, dall'uso alla norma. Ma anche tale
processo argomentativo rischierebbe di situarsi, per «tante varietà», nel
novero delle «leggiadre usanze», se non si ancorasse, sin dall'inizio, a
quell'unico valore di riferimento stabile, per il cortigiano, che è la fonte
e l'esercizio del potere. Onde, come attesta la seconda redazione (poi
attenuata)", perfezione è innanzi tutto «perfettamente servirli», ma-
 La nascita del modello
nifestare di fronte al principe che la «normatività», che emana dal po-
tere trova il suo pili eletto paradigma nell' «esemplarità» di comporta-
me~to del cortigiano; ma questa «esemplarità», proprio per la sua «per-
fetta» adeguazione al potere, può insieme rivendicare un ruolo «forma-
tivo» nell' «instituzione» del principe, appunto come forma esemplare
di epifania del potere, cos( che:
formiamo un cortiggiano tale che quello pr~cipe che da ~ui.sarà ~ervito, ancor
che poco altro stato avesse, si passi però chiamar grandissimo signore .
14
Che il Castiglione abbia accentuato, nel suo trattato, quasi s~lta?to
la seconda funzione, quella del «formare», non ~olo n?n cela, anzi e~1g~,
come ad essa preliminare, la definizione del «vivere m corte de princi-
pi» equivalente al «perfettamente servirli con dignità»; ma la natura su-
bordinante del «servire» lascia poi al «formare», conseguentemente al-
l'ineluttabile primato storico del potere, un ~olo ambito dipredicab~tà,
quello tutto retorico della parola: cos( che 11.«formare» sarà es~enz1al­
mente «formar con parole un perfetto cortegiano» (I'. xn), ~~cm perfe-
zione s'eserciterà per arte omo1oga, nella «conversazione» , volta«ad
ornare e quasi ad~rare il principe» (Il, xvm) sino ai confini incerti del
«._'.>bile adulatore»".
z. «Formar con parole»: generi e luoghi di esemplarità.
Ma confine pili certo offriva la tradizione, poiché <<f,orm_ar ~~n Pa"!lle
un perfetto cortegiano » corrisponde? come ~nn?tava il Cia? , al cice-
roniano «oratione fingere»; cos( infatti, nella fmz1o~e del rag1onamen~o,
potrà aver luogo, autorizzata dal «genere» l~~terarlo e non dalla ~tona,
I'«instituzione» del principe", e concludersi m .un .voto che congm-?!le-
rà perfezione del cortigiano e formazione del prmc1pe entro le retonche
ipotesi del «dire»:
circa il fine della cortegiania si po dir che non solamente siate quel perfetto cor-
tegiano che noi cerchiamo, e bastante per instituir bene il.vostro pri~cipe;, ma, se
la fortuna vi sarà propizia, che debbiate ancor ~ss~re ?ttlmo pr1nc~pe, il eh~ sa-
ria con molta utilità della patria vostra-. Rise 11 signor Ottaviano e disse:
- Forse Signora s'io fussi in tal grado, a me ancor interverria quello che sòle
interve~ire a m~lti altri, li quali san meglio dire che fare 19 •
E tanto studiata è, nel IV libro, l'invocata prev:iJenza ?ell' oratio st1!la
storia della finzione del libro sullo spessore degli eventi, che anche 1 e-
vocazlone del «perfetto tiranno» si risolverà, come per l'«instituzione»
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 47
de?' ottin:o princ!p~, in metafora di scrittura, e la sua auspicata fine in
« lztura », m puntigliosa raschiatura da una storia fatta palinsesto:
Per lo medesimo modo della cortegiania Platone formò Dione Siracusano·
ed ave,ndo P?i tt;'~vato quel .Dionisio t~anno come un libro tutto pieno di men~
de ed .errori e piu presto bisognoso d una universal litura che di mutazione 0
correzione alcuna, per non esser possibile levargli quella tintura della tiranni~
de, de~la c;i.ual tanto te~po già era macchiato, non volse operarvi i modi della
cortegian1a, parendogli che dovessero esser tutti indarn0 20 •
Co~i, se !'e.sen:plru;ità dei fini si ~is.olve, nel Cortegiano, in progetto
oratori?, ~ 1 « mst1tu~1one » del cortigiano e del principe in istituzione
le.tterar1a, .m «for!11az1one >~ di scrit!ura: a pili forte ragione lesemplarità
di tale (ic~o d~vr.a fo~dars1 su de?li st~tuti canonici, ed «il fior di questa
cor~eg1ania» distillarsi quale sublimazione di exempla autorevoli di mo-
delli e repert?ri <;1etti, che !e?ittirnino: nei singoli paradigmi, i «rlcordi»
come memona di una trad1z1one che li autorizza quali materiali di scrit-
tura.
Se _il prop~sito è ~ui:ique. q':ello. di «formar con parole un perfetto
corteg1an,o>>, s1 trat.t~ra, ~n prllllfs, di fo~marlo ~ell.a pe;fezione delle pa-
r?le, nell e~emplar1ta ~e1. gei:ien avocati a formre il «fiore» di quei «ra~
g10namentl». In effetti, il Libro del Cortegiano si costituisce come tr~~'
tat~ esemplare, per~hé ci~scullo dei ~ìhri è tiha sorta di S!•IDmatica di
quei c.omportamen~1 c~e s1 possono. r;1u agevolmente «formar con paro-
le», <;li quelle questlom dì esemplar1ta pili adatte ad un disputar elegan-
te, d1 corte.
E già la lunga discussione che occupa la parte centrale del I libro
(capp. xxrx-xxxix), la questione della lingua, ha una funzione di esem-
pla;1tà, non solo perché si applica al primo concreto caso in cni il «cor-
teg1ano» è ch!amato a ri~uovere da! propriovocaJ)èiTarfola «dlsgrazìa
della aff~ttaz1~ne» («Sar~ adui:ique il nostro cortegiano stimato eccel-
l~nte ed 1? ogm ,7os~ ~vera grazia, massimamente nel parlare, se fuggirà
1 affettaz~one») '. v1z10 speculare alla grazia della «sprezzatura», appe-
na enuncr~ta teor1can_iente _(I, .xxvr); né sol!a~~-!:'_erché la scena e gli in-
terlocut.o!l del Cortegzano r1ch1edono, per la1oro comjiosìta provenienza .,
geografica e culturale, di trovare per quei comuni ragionamenti_e_nella
compagine dialogica stessa del libro, evitando «.fit1c-aiie <<difflcuith ·
una nuova koiné cortigiana;. ma ~opratti:tto tale_esemplarità sarà quell~
oj~~~ta_ al ~ene~e stesso, al dibattito ed a1 .trattati sulla lingua, arrivando .,
a posmlar~ contro l~ «pura t?scana aritica»-ìinalfugua"<<ifaliana, com-
n;iu~e, cop10~a e varia, e quasi come un delicioso giardino pien di diversi
f10r1 e _frutti»". Cosicché, nei futuri trattati, il Castiglione entrerà
spesso m scena, come nel Cesano, quale inventore della «cortigiana !in-
48 La nascita del modello Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
d ll . . 49
e o scrivere 1n dialogo», - aveva "à . . •
gua»" e quasi continuatore di quella favella «cortigiana illustre» che il gata a quelJa retorica capace di tess~~e sottol~neato il Castiglione-, le-
dialogo fa risalire, adattando la citazione, all'autorità di Dante «col suo « del calvizia», di sempre «contradi le lodff<della fehre quartana» o
se_ço1?-d.o quell' «acutezza» dei dial:r~i~ !'oh a ermru; mai cosa alcuna»,
libro della Volgare Eloquenzia»; e al Lenzoni ancora, la prosa del Ca-
per ~1?1llare in un «pieghevole artifici~>~ e alcora il Tasso invocherà
stiglione apparirà «una delle piu numerose, perfette, ed eccellenti prose
é:n'!o -lègga, d'uomini non toscani»"; un'esemplarità insomma che se- cort1g1ano, la sua cedevole «diss1"mul . paro a e comportamento del
gnerà, e per sempre per il Cinquecento - come ha osservato Mazzacu- eh . 1 . ,, . azione» la 'difficultà' d" 1
e vive so o pm di« contrasti" d'1" ngegno»:.. ' . I que ruolo
r.iifi -; «il momento dirimente e dec.isivo di un distacco [.... ] dal mito
trecentesco».", la nascita di una lingua d'uso, «perfettamente trasferi- F. N. Ciò che voi dite è vero· nondime h. d"
bile» di corte in corte, strumento ormai squisitamente sociale del comu- '!o. vago _de la gloria che de;idera il di~~t~i 1 !Shutd n~ le corti [... ]è piu to-
t1g1ano, d qual non solamente ne le di co, e ~ e 1onor cercato dal cor-
nicare. dovrebbe contender cedend . li spu~e, ma in tutte l'azioni de la vita
Non a caso dunque il «voler parlare alla cortigiana», inaugurato dal t~ri, i quali, piegandosi a queoll~n ~~~ dgu1sa ~h~ fat;no alcuni esperti lotta-
Castiglione, sarà rivendicafo proprio in quei trattati che alla corte sono p1eghevole artificio ph:i facilme:t ile .~ve gh tira 1avversario, con questo
destinati, come il Dialogo delle imprese del Giovio", sino alle drastiche G. M. Assai piacevoli d n e g~ tano per terra.
. . a' cortigiani B. u que saran que contrasti. d'.ingegno che son conve-
n1ent1
: •I

conclusioni del Gilio, per cui la lingua cortigiana è la sola «vera lin- . ·i'
gua»". Ma, piu in profondità, una lingua che per offrire «una certa
Se la lingua del Cortegiano co · ,
maggior autorità alla scrittura» arrivi a suggerire «un poco, non dirò di ca» della koiné che inaugurava /?;{~ attraverso la «maniera academi-
difficultà, ma d'acutezza recondita»", sarà strumento omologo e neces-
sario a quell'arte dell' «arguzia>>, della «dissimulazione» che, dalla re-
recondita» dei trattati d'i ' I J
e parabola che va dalla «acutezza
tassiana legando sm· dal!' mpr_ese «pieghevole artificio» della prosa
i
i
dazione definitiva del Cortegiano al Malpiglio tassiano, s'imporrà come · .' ongme teona c rt" · M . .
mmore mfluenza avranno er 1 il o 1g1ana e aruensmo. non I

essenziale «avvertenzìa·», regimen del vivere a corte, e norma implicita e le -sillogi che, per altre « spu~esvallppo ddei sinffg~li generi, i paradigmi
df
delle «Conversazioni». Una lingua allusiva per un comportamento sem- tegiano. · · · » a mo a, o manna i libri del Cor- ''
pre piu chiamato a «infinger» (Tasso): paradigmatiche sono, al riguar- I
'

Basti solo accennare ancora nel ri r

do, le varianti tra la seconda redazione e il testo definitivo del Cortegia- mato della pittura oppu;e della «staf ~o 1(bh, al{{con;rast~» sul pri-
no, quando, al momento piu importante del proprio apparire, «tornean- LIII): esso non è tanto una d1"gr . uariall» c e occupa 1 capitoli XLIX-
do» dovrà il cortigiano «pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose ess1one su e qualità ul · .
pe
al rf etto uomo di corte u nt . . tet1or1 necessarie
che gli parrà che possano aggiungergli grazia»". I «motti appropriati», rie di trattati che intantd ~ ff pmttosto la smtesi efficace di una se-
0

le «invenzioni ingeniose»" infatti culmineranno in una tattica, reticen-
te, della «dissimulazione», ben piu studiata che non l'iniziale «tanto
modestamente» con cui si chiudeva, in sobrio distacco, la «parata» del
cortigiano:
e se vorrà toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà dissimulata-
mente, come a caso e per transito e con quella discrezione ed avvertenzia, che
31
ieri ci mostrò il conte Ludovico ;
e se vorrà tocc~re qualche cosa che sia in laude sua propria, lo farà sempre-um-
to modestamente che chi udirà penserà che a caso e non a posta sia in tali ra-
gionamenti entrato, e spesso parerà che fuggire gli voglia, seben gli seranno
gratissimi 32 •
Una lingua della dissimulazione, disponibile alle «invenzioni ingenio-
se»,riiaaofata ancne aì quelr «acutezza recondita» ci>é fornisca concet-
ti e argomenti a «chi disputa ne le corti», come iiriverà a concludere il
Tasso; una lingua appunto plasmata secondo la «maniera academica
stiglione contribuirà con :ra o:mayano coi_ne ?e?er:"' al quale il Ca-
quecento, sino al Lomazzo'~ enti e soluz10ru c1tat1 per tutto il Cin-
Cos{, nel terzo libro il «formar d
°:o? risponde solo alle e;igenze di co'/i;;:st~ onna ~i palazzo,» (III, m)
s1z1one» che renda piu perfett I . nd~tas, alla figura dell «interpo-
d a a grazia 1 « cort · · "
e_un p~rcorso genetico del testo stesso d 1C eg!anta» ; ma conclu-
ch1este mtorno alle «donne antich e ortegtano, dalle prime in-
che fossero state dare in qual . ~venendo ~chor fin ala età nostra
castitate, o in constantia»J1 allavo_., a cosa, o in lettere, o in arme, o~
fesa delle donne" sino al éI pm ru:gomentata Lettera al Frisia in di-
«donna di palazzd,, con la c~kb e c?ngmng!mento delJa tematica sulJa
gno non piu d'Ovidio (o di B razi~ne dell ~more spirituale, sotto il se-
t~atta solo di sintetizzare mat~~i';ilic~?) mll d1 Pl~'.one. Anche qui non si
g10 all'Equicola"; ma piuttosto d" gll sv .uppat1 m prec~denza, dal Go-
' I r ancrare una tematica che proprio
 La nascita del modello
in quegli anni ritrovava, sotto il segno del platonismo, pili fiorente suc-
cesso" in un arco che va da Erasmo allo Speroni.
Non stupirà quindi di ritrovare il Cortegiano stesso, sin dalle sue pri-
me edizioni, dedicato e letto come libro per le donne, cosi che «a tempo
il possiate a vostro bello agio portare in seno, ed avere a mano», come
concludeva, sin dall'edizione del 1533, Francesco Asolano aggiungendo
al testo una vivace prefazione «alle Gentili Donne»", del Cortegiano
«prime e sole Autori» e insieme privilegiate destinatarie.
Anche la fortuna europea del Castiglione sarà spesso legata alla ricca
e sistematica collezione di esempi, alla paradigmatica casistica sulle don-
ne depositata in particolare nel III libro del Cortegiano, come mostrerà,
in pili luoghi, lo stesso Montaigne, citando direlttamente, tra l'altro,
l'incipit del capitolo xxv, osservando, nei suoi Essais, che «Le senat de
Marseille eut raison d' accorder la requeste à celuy qui demandoit per-
mission de se tuer pour s' exempter de la tempeste de sa femme »".
Ma se le questioni d'amore e le dispute sulla natura e sul ruolo della
donna, a lungo incerte tra la tipologia dell' ars amandi e la «maniera aca-
demica» dell'amor platonico, finirono per segnare, nell'aggregazione te-
matica del trattato la traccia di frattura tra l'origine cortese e la matu-
razione politica dei' fini del Cortegiano, distribuendosi infine tra il III ed
il IV libro (natura delle donne e funzione della «donna di palazzo», va-
lore della bellezza e dell'amor spirituale); ben altra compattezza e for-
tuna mostrerà quello che si costituisce veramente come «libro nel li-
bro », summa esemplare di un genere ormai giunto alla sua piena matu-
tazione, l'organico trattato su facezie, motti, bischizzi, burle, etc., che
\ occupa cospicua parte del libro II del Cortegiano (capp. XLII-XCIII), e fa
'èla cerniera all'introduzione della tematica specifica sulla donna.
Ora, anche qui, il Castiglione non compie soltanto una sintesi me-
morabile delle fonti classiche (Cicerone, Quintiliano) od umanistiche
(Pontano) sottolineata dai commentatori"; né si limita a divulgare per
tutto il Cinquecento, sino a Montaigne ", la raccolta pili elegante del
genere, il Facetiarum liber di Poggio Bracciolini giunto già a sei edizioni
alle soglie del Cinquecent_o", mentre intanto conoscevano nuovo suc-
cesso editodale, nei primi lustri del nuovo secolo, le raccolte del Cor-
i nazzano o di Arlotto Mainardi", Ma il Cortegiano opera, in questo
campo, anche una rigorosa opera di definizione teorica, come la celebre
distinzione tra «festività» e «arguzie»", per cui nella trattatistica reto-
rica del Cinquecento sarà dato di trovare il Castiglione piuttosto come
autorità «de ridiculis» che come teorico della lingua o dell' «instituzio-
ne» del principe, Il valore canonico, in tale materia, del Cortegiano sarà
presto stabilito dal Trissino:
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 51
Et a queste tali bruttezze si ridurranno tutte le burle e beffe che scrive il
Boccaccio et il Cortigiano, e parimente tutti i ridiculi e facezie e sali che sono
stati da Tullio, da Quintiliano, dal Boccaccio, da Poggio, e dal Cortigiano rac"
colti 48 ;
- e si noti che quella è l'unica volta in cui viene esplicitamente citato il
Castiglione in tutti i libri della Poetica trissiniana -, e poi ribadito, nei
loro trattati, dal Maggi" e definitivamente dal Riccoboni:
Et hoc modo tollatur difficultas illius quaestionis a Cicerone propositae,
utrum ridicula pertineant ad artem an ad solam naturam, quod eruditissi-
mus Vincentius Madius notavit in sua De ridiculis disputatione, guae legen-
da est illis qui copiosiorem hac de re doctrinam habere cupiunt, cum tracta-
tione Aristotelis lib. 3 Rbetoricae de urbana elocutione, et Ciceronis lib. 2
De oratore ubi sub persona Caesaris disputat de facetiis, et Macrobii lib. 2
Saturnaliorum, ubi multorum iocos ac dicteria colligit, et Balthesaris Casti-
lionei, et aliorum 50 •
Non si tratta qui, a nostro avviso, del consolidarsi di un canone e di
una fortuna legati a una lettura «di superficie» del Cortegiano: in realtà
se il cortigiano è espressamente da «formar con parole», esso si formerà
intanto con ed in quei generi in cùi la parola è la sostanza stessa (e non
solo veicolo o strumento), epifania della propria arte: la facezia, il mot-
to, il bischizzo sono per natura mera costruzione, ostensione, gioco di
paròle, manifestano insomma quei «contrastfd'ingegno» (teorizzati poi
dal Tasso) che sono ormai gli unici «convenienti» a chi serve e «conver-
sa» a corte. Essi soli sono in potere di chi sappia «instituirsi» nelle «ma-
niere academiche» della retorica, per trasformare la vanità di quel ruolo
«faceto e risibile»" in un artificio dissimulato, in un callido (e presto
manieristico) gioco di «arguzie».
3, «Uccellar sottilissimamente alle parole»: paradosso e catalogo,
Ma queste «facezie», «arguzie», hanno luogo, e cosi ampio spazio,
non solo perché sono pertinenti a quel modo peculiare dell' «essere a
corte» che è il «conversare», ma in primis perché rappresentano e signi-
fica~o! nella for~u~a pili letterale.' un «~armar con parole» (i.I per~ett'\
cortigiano) che e - e proposto e s1 deve inscenare come - «gwco mge- 1
nioso»". Ora, se si ritorna dalla ricezione cinquecentesca alla struttura I!
interna dei «giochi ingeniosi» del Cortegiano, si può agevolmente osser-
vare che - tra i generi eletti e le« belle questioni» evocate - l'unico in
cui i discorsi del dialogo si autopropongano già come paradigmi esem-
52 La nascita del modello
plari del libro, e l'esemplificazione altrove declinata in casi e citazioni
si formuli subito in ideale grammatica, è quello della «lingua»:
Io non sono qui - rispose el conte - per insegnarvi né a parlare né a scrive-
re; pur se a me si desse fede, direi che parlare e scrivere si devesse, come fac-
ciam or noi ~ 3 •
Essa potrà affermare la propria esemplarità (nel «gioco ingenioso»
che è il «formar con parole» il perfetto cortigiano), proprio perché il
«gioco di formare» sarà esso stesso in una lingua «di giochi, di motti e
di burle», entro una perfetta circolarità tra ruolo del cortigiano e fun-
zione della lingua che Io forma, e ch'egli articola:
Anzi da ognuno sarà inteso, - rispose il Conte-, perché la facilità non im-
pedisce la eleganzia. Né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose
piacevoli, di giochi, dì motti e di burle, secondo il tempo H.
Il gioco eleaQ_d_Ll<!ormar co1U2arole» (e il ruolo che ne consegue) si
comJ.>orrà dung~~A!Je nei) gioçhl.di J;>arQI~, «quegli [che] hanno bonis-
sima grazia», i «bischizzi», I' «interpretare i nomi»". La lingua della
«grazia» cosf non sarà piu, nella quete di un modello che sia anche mo-
dulo linguistico, quella del sublime, della rapita orazione del Bembo, del
suo icario/dedaleo volo platonico:
Voi - disse - tutti avete stimolato messer Pietro a dire, et or che egli è in-
trato in cose tanto excellenti e belle, non lo lassate parlare». Rispose ridendo
messer Cesare Gonzaga: «Signora, noi non vorrìmmo fare come Icaro; però la-
sciamo, per amor de Dio, queste altezzeì>. Soggionse la signora Duchessa:
«Tanto buone ali ce darà messer Pietro, che ce farà tutti Dedali; però non lo
interrompete' 6 ; · eloquente illustrazione dei suoi Paradoxia epidemica:
l I
ma, nonostante l'iperbole della seconda redazione, toccherà a Dedalo
discendere, tirato dalla signora Emilia «per la falda della robba»'', nei
regni piu congrui della «mediocrità» e di quella medietà linguistica che
si esprime nella quete misurata, e ironica, di un «motto argutissimo eri-
sibile»", nei sottili giochi dei «contrasti d'ingegno», là ove, nella selva
della lingua e dei comportamenti, «bisogna essere avvertito ed uccellar
sottilissimamente alle parole»".
Di piu, il «gioco» del Cortegiano non si manifesta e reàlizza solo nel-
le «sottilissim~» dispute di parole.che lo «formano» come libro e come
ruolo, ma già all'inizio s'impone su un paradigma piu largo di giochi
proposti, di possibilità enunciate e rimosse, che fungono sia da matrice
generativa che da chiave ermeneutica di tutto il trattato .. Lo schema
narrativo infatti, che muove tutto il Cortegiano, si fonda su un gioco (al-
la lettera e in metafora) di raddoppiamenti e sdoppiamenti, che inciderà
poi sulla funzione/finzione simulatrice di tutti i «giochi» proposti, e sul-
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 53
la celebrazione rituale (nella cornice di una «convenzione» retorica, en-
tro la «maniera academica» del darsi regole col solo fine di svolgerle in
discorso, in «gioco di parole») dell'unico che sarà prescelto come con-
gruo al patto iniziale, che cos{ dettava:
Signora mia, poiché pur a voi piace ch'io sia quella che dia principio ai gio-
chi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d'obedirvi, delibero
proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasmo e men fatica; eque-
sto sarà eh' ognun proponga secondo il parer suo un gioco non pid fatto; da poi
si eleggerà quello che parerà esser piU degno di celebrarsi in questa compagnia 60 •
' Se non si parte da questa richiesta a priori, di un raddoppiamento
che si finge e si smente (il gioco consiste nel proporre un gioco mai fat-
to, e che dunque gioco non è, se non come virtuale matrice d'«altro»
'gioco, quello che realizzi, in gioco, il gioco proposto), da questo «uccel-
:1ar sottilissimamente alle parole», non s'intende la natura paradossale, ,,
di calcolato paradosso, che sorregge la «maniera academica» di tutto il
trattato,-come corifermàìia: emblematicamente,. nella seconda redazione, ! :
il prologo al secondo libro, ove la natura, che è per essenza madre delle : !
mutazioni e della variabilità, giocava al paradosso di non variare - per
confermare la sua mutevolezza - (cosf come la miglior maniera di gio-
care sarà quella di giocare a propor giochi non piu fatti): I
Ma par che la natura, per mostrare meg1io quanto ami la varietà, non vo-
glia sempre essere varia, acciò che dir non si possa che sia stabilita e ferma in I
questo, di essere in tutte le cose varia 61 •
1:
A ragione dunque Rosalie Calie poneva il Cortegiano ad apertura e ad
Like the court of Urbino, Castiglione's book offers the proper environ- I,
ment for paradox, concerned as the book is with the rules of «games» for eve-
rything in !ife (from stone-throwing lo choosing and living with a wife). The
sprezzatura that informs the book is the very quality essential to a paradox's
life62.
'Il valore paradossale della «sprezzatura» (che consiste nel dissimulare
come «naturale» un atteggiamento costruito col massimo di artificio, ,I
,di studiato esercizio) emerge dal nucleo stes~o - che satura le contrad- ':I
I
dizioni nel neologismo della lingua - di quel gioco paradossale, propo-
sto all'inizio: !usus e laus da «celebrar.si» come altri giochi self-sufficient
della retorica:
Qui si vederà il vostro ingegno; e se è vero quello ch'io già ho inteso, esser-
si trovato omo tanto ingenioso ed eloquente, che non gli sia mancato subietto '!
per comporre un libro in laude d'una mosca, altri in laude della febre quarta-
na, un altro in laude del caJ.vizio, non dà il core a voi ancor di saper trovar che
dire per una sera sopra la cortegiania? 63 •
I'
 La nascita del modello
Solo in tale prospettiva «par~dossale», del resto, di un discorso di
totale «autoriferimento», come ostensione ma autocritica («Paradox as
an intellectual construct is self-critical, both of its technique and its
matter [ ... ] paradoxes are in one sense entirely self-sufficient in their
self-reference»)", si può intendere la perfetta e inquietante pertinenza
- al gioco di Emilia Pio e alla struttura retorica del libro - del propor-
si, come argomento e compimento, quella «perfezion di publica pazzia»
che «risvegliata possa multiplicar quasi in infinito»", quella follia che
sola condivide - tra i temi proposti - con il «formar il cortegiano» il
privilegio di «perfezione». L'enunciato stesso testimonia, al piu alto
grado ossimorico («perfezion /di pazzia»), la struttura paradossale del
gioco proposto, e contribuisce in maniera decisiva a collocare il gioco di
«formar con parole» un cortigiano tra la perfezione della follia e le lodi
del «calvizia», come prescriveva la tradizione del genere", e come ve-
niva in sostanza letto e associato, in quegli anni, lo stesso Encomion di .
Erasmo, secondo il testimonio, tra gli altri, dell'edizione frobeniana del
1522, appunto intitolata:
Stulticiae laus, cum Listrii commentario et epistula apologetica ad Martinum
Dorpium, una cum ludo L.A. Senecae de morte Claudii, Synesii libro de laudibus
calvitii, S. Phrea interprete} cum scholiis Beati Rhenani.
Ma la natura del paradosso richiede che i giochi siano non solo per-
fettamente speculari,_c9_ll)e.quclli- almeno secondo le sottili didascalie
apposte aa1 Dolce·--sµ_gll"-riti,_ neLcapp, X-XI del libro I, da Ottaviano
Fregoso e da Pietro Bembo:
Giuoco VI, proposto dal s. Ottaviano: per qual sorte di sdegno vorrebbe
l'amante, che la sua donna si adirasse seco.
Giuoco VII, propostò da m. Pietro Bembo: da qual cagione doverebbe vo-
ler lo amante che nascesse lo sdegno della Donna, che fosse seco adirata 67 ;
ma anche perfettamente reversibili. •Cosf la follia, che inaugura i giochi-
paradosso mostrandosi sìibtto self-critical e self-su/ficient («Però vorrei
che questa sera il gioco nostro fosse il disputar questa materia e che cia-
scun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia
si crede ch'io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per
le scintille di pazzia che ogni df si veggono di me uscite»)", potrà an-
che chiudere, in esemplare specularità e reversibilità, il gioco del Cor-
tegiano, nella divina alienazione perorata dal Bembo («e noi da noi stes-
si alienati, come veri amanti, nello amato possiam transformarsi, e le-
vandone da terra essere ammessi al convivio degli angeli, dove, pasciuti
d'ambrosia e nèttare immortale, in ultimo moriamo di felicissima e vita!
morte»)": pareggiate nello stess.? ossimoro- «perfezion di pazzia» cor-
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 55
rispondendo come figura a «vita! morte» - l'irresponsabilità dell'una
rifletterà l' astoricità dell'altra, l'una nell'altra rivolvendosi e risolven-
dosi come frutto di quell'«impazzire nel pensate»'" che distilla «ma-
nfa» e «maniera».
Il paradosso congiungeva cosf, ribaltandoli l'uno sull'altro, i discor-
si, i «ragionamenti» estremi del trattato: pazzia e contemplazione, dé-
raison terrena e follia divina; ed in questo rovesciamento non solo i di-
scorsi si permutavano, ma anche i loro portatori, le personae del dialogo
ed i loro ruoli sociali. Cosf il Bembo si farà emblema eloquente, e per
specularità vittima, del paradosso, se i suoi modelli ed egli stesso do-
vranno risolversi nella copia deforme, nella perfezione à l'envers, del
Grasso de' Medici:
credo che al mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande, che fosse
capace di tutte le cose, che voi volete che stiano in questo cortegiano -. Allor
il Conte: - Aspettate un poco - disse-, che molte altre ancor ve ne hanno da
essere -. Rispose Pietro da Napoli: - A questo modo il Grasso de' Medici
averà gran vantaggio da messer Pietro Bembo 11 •
L'arguzia (nel senso tecnico di II, XLIII) del paragone risolve ancora
una volta in discorso, in «maniera academica», la cifra essenziale del
trattato: atteso che, nell'economia del libro, la perfezione del «cortegia-
no »si sorregge su una paradossale finzione d'equivalenza, basandosi
appunto su una «sprezzatura» che tende a emarginare (se non elimina-
re), per ostentazione di «facilità» e naturalezza, il lungo catalogo di
esempi, giudizi, virru, citazioni, che la compongono e la «formano», fa-
cendo sf che il modulo del Cortegiano derivi da eletti J?J.rdfjjj, dal loro
·catalogo fatto paradigma, come già Zeusi, per fare <<Una sola figura ec-
cellentissima di bellezza», mise insieme i tratti'delle cinque fanciulle pili
belle di Crotone".
Ma la «sprezzatura» è paradossale neologismo, <mova parola», men-
tre il catalogo, come epifania della citazione, è il paradigma della tradi-
zione, il canone che costituisce e rende riconoscibile un genere, ed è
quindi dotato di ben pili forte esemplarità, attraverso la produzione de-
gli exempla, che quella precaria dissimulazione «che nasconda l'arte»",
ma che lascia alla fine trasparire lo «sforzo», la «fatica» di nasconderla,
la sforciatura, per il troppo «pensarvi» (come prima si poteva «impaz-
zire nel pensare»), che rende paradossale - e dunque reversibile
nell' «affettazione» - ogni «sforzo» di sprezzatura:
Non v'accorgete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprezzaM
tura, è vera affettazione? perché chiaramente si conosce che esso si sforza con
ogni studio mostrar di non pensarvi, e questo è il pensarvi troppo 74 •
 La nascita del modello
Poiché paradossale, rimane dunque precaria la normatività del Cortegia-
no, la sua «sprezzatura»; non, nei lettori contemporanei, il suo catalo-
go, la sua esemplarità, metanarrativa, di coagulo di trattati, la sua au-
torità di canone delle citazioni alla moda, degli argomenti da «conver-
sazione» di corte.
La «sprezzatura» insomma è cosi labile, cosl_cli~itJ:m!llta, cosi «no-
va» - rispetto alla consolidata tassonomia del catalogo - da non com-
parire neppure ad vocem, per la memoria e per il comportamento del-
l'uomo del Cinquecento, nella pili importante e nella pili ricca «Tavola
di tutte le cose notabili contenute in questi quattro libri deLConegia-
no», nelle 32 fitte pagine con cui il Dolce rubricò nel 1562 tutto il trat-
tato con un puntiglio di notomista e la virtuosità casistica d'un cerimo-
niere, tali da rendere il libro pili repertorio ormai che trattato, elenco
che si raccomanda alla consultazione, pili che alla 1ettura, man;,ale di
comportamento che sciorina una materia tutta classificata, catalogata,
sminuzzata in gesti e «maniere», in frammenti immediatamente dispo-
nibili tanto ali' occhio inquisitore dello scrupolo, quanto alla dilatazione
«maravigliosa» del cannocchiale barocco.
Proprio perché deputata a «nascondere l'arte», la «sprezzatura»,
emblema del Cortegiano, non può «aver luogo» tra le «Cose notabili»,
estensibili appunto alla memoria: di fronte alla triplice ricorrenza del
suo contrario, I' «affettazione», ed al richiamo alla «Discrezione condi-
mento d'ogni cosa»", alle «moralità belle»", la sprezzatura, specchio
paradossale, si frammenterà, senza pili la possibilità né il fascino della
mediazione, tra l' «affo_t_tazione» e la «discrezione», tra la pompa e lo
scrupolo. - ·
Né sono, quegli indici, «moralità belle» aggiunte dal Dolce alla vi-
gilia della conclusione del Tridentino: sin dal 1541 infatti il Cortegiano
viene ormai pubblicato come catalogo, «con la sua Tavola di nuovo ag-
giunta»", sino ai successivi interventi «dilatatori» del Dolce: del 1556
è la sua prima edizione del Cortegiano, postillata («e nel margine apostil-
lato, con la Tavola»)"; nel 1559 la ristampa «con l'Aggiunta degli Ar-
gomenti»", nel l 562 infine ledizione completa di postille, argomenti,
e della nuova «copiosissima Tavola».
Se si scorrono quelle 3 2 pagine di indici, troveremo intanto, in bel-
i' ordine registrati, qul'i ge_ned e quegli exemplq che abbiamo visto for-
nire nel Cortegiano il canone dell'esemplarità, e dunque la «Ambiguità
acutissima nelle facezie_» che ne regola il catalogo sino alle «F~cezie di
un detto solo»'"; la «bellezza delle donne» elencata copiosamente, poi-
ché appunto la «Bellezza-si può godere in esempi»"; e poi le «Burle e
la loro qualità», i «costumi», i «detti», gli «esercizii d'innamorati», gli
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 57
«esempi», la serie dei «giuochi» che si conclude nel «motteggiare» e nei
«motti», sino alla finale «Utilità del riso» con cui si chiude il catalogo
e si suggella il senso del libro".
Ma la «Tavola copiosissima» è ben pili che lapparato sommario per
paradigmi di memorabilità: essa fornisce alla lettura una traccia, dise-
gna, sotto e prima del «ritratto», una trama di ricorrenze e d'equivalen-
ze, entro le quali non solo la« sprezzatura» non «ha luogo», ma anche
la pili cauta «discrezione» si perde tra le rubriche, senza distinzione nel-
l'elenco (e nel nuovo «ordine» alfabetico) disponendosi «Grandezza
d'animo e mansuetudine; Grasso de' Medici; Grosseria d'un bresciano;
Guido Ubaldo duca di Urbino; Guido Ubaldo infermo di podagre; Gui-
do Ubaldo dottissimo»"'.
L'ordine del catalogo, per la lettura, ha cosi dissipato, nella stridula
dissonanza di tutto il «raccontato» come «enumerabile», la «maniera
academica» della scrittura; ma non si tratta solo del rovesciarsi dell'e-
semplarità nell'eccesso della difformità, per cui appunto l'unica citazio-
ne obliqua della «sprezzatura» è ormai sotto il segno della sua dismisu-
ra: «La troppa sprezzatura è affettazione»"; anzi, il catalogo del Dolce
insinua anche, ed oltre leccesso nomenclatorio, una nuova normatività,
quella del precetto e dello scrupolo. In verità moltissime rubriclle Clèlla
«tavola» rion ricordano ma prescrivono, non segnalano, piuttosto am-
moniscono: «Come si dee ... », «Deesi fuggire ... », «Donna non dee ... »,
«Giova alle volte ... », «In che consiste principalmente ... », «In che mo-
do si fugge ... », «lnsino a quanto si dee ... », «Non si conviene ... », «Non
si dee ... » «Non basta... », «Nella guisa, che si dee ... », «Per qual cagione
non si dee ... », «Quanto importi. .. », «Quanto si dee procurar ... »,
«Quello che si conviene ... », «Quello che si dee osservare ... », «Si
dee ... », «Si dee fugire ... »,«Tutti abbiamo qualche macchia»".
Certo anche nel Cortegiano esiste una diffusa P!'."§_crittj_yit~: .II!~ @e-
sta è velata sotto lenimenti s_intattici _di vario tipo («Qual di voi è che
non rida quando: .. », «Qual occhio è cosi cieco, che non vegga ... »,
«Poiché voi volete pur ch'io dica, dirò ancor dei vicii nostri», «Ma chi
scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usandole ... », «E parmi
che chi s'impone altra legge non sia ben-sicuro-dfoorì lrìcorrere in quella
affettazione tanto biasimata ... », «Non voglio già negar che non si tro-
vino ... », «Ma sia il cortegiano, quando gli vien in proposito ... »), miti-
. gata dalla considerazione dell'opportunità di adeguarsi alle «mutazio-
ni», di non trascurare «quanto la natura cosi nelle cose piccole come
nelle grandi sempre di varietà si diletti»".
Ma nel registro del Dolce tutto è pesato, contato, diviso: la norma
di un'elegante influenza, attraverso il paradosso della« sprezzatura>>,
 La nascita del modello
dell'abito culturale sul comportamento sociale, diviene precetto etico
da misurarsi non pili in base all'eletta novità, ma ad una prudente «con-·
venevolezza». Pesata tra «Quanto possano i denari» e «Quanto vaglia-
no le imperfezzioni>>, anche la «sprezzatura» è ormai operazione misu-
rabile e meritoria, purché «convenevole»: «Quanto è lodevole nna con-
venevole sprezzatura»". Nel divario e nella distanza tra la vaghezza di
quell'iniziale «una certa sprezzatura» (I, xxvi), e la cautela raccoman-
dabile di <rnna convenevole sprezzatura» registrata dal Dolce, mutava
semanticamente e si consumava ideologicamente, ali' altezza del Triden-
tino, la parabola di lettura, la «maniera» e I' <<idea» del Corte.ziano.
Cosf, nel nuovo contesto culturale cbe maturava con lapplicazione
dei decreti conciliari, la «convenevole sRrezzatura.&.B.ar.à.intanto quella
esercitat~ sul testo: da espurgare da allusioni .e facezie, di«ttQppa licen-
za» foriere, e da limare secondo I' «incomparabile prudenza de' ~uperio­
ri», alla quale si conformerà «con tanta diligenza e fedeltà» Antonio
Ciccarelli nella sua riedizione espurgata del Cortegiano del 1584 '".
La sua studiata lettera dedicatoria a Francesco Maria II Della Rove-
re, duca d'Urbino, mette in luce, intanto, il sottile lavoro di dissimula-
zione di quella ch'egli chiama «rammendatura» del testo, volta a far
emergere solo l' «artificiosa vaghezza»" del trattato, negli stessi termi-
ni cioè di «tanta vaghezza e leggiadria»'" che vedremo affiorare nella
lettura del Tasso, nella «leggiadra usanza» (qui evocata al primo para-
grafo), che farà del Cortegiano un remoto e astorico arazzo di «donne e
cavalieri», una commemorazione - neofeudale - dei tempi di «valore
e cortesia» 91 •
Ma il lavoro editoriale s'infittisce soprattutto intorno ai ragiona-
menti del quarto libro, trasformandolo, sempre per suggerimento dei
'.'medesimi» superiori, in epifania autorizzata della dottrina platonica,
m modo che «nel margine del quarto libro si notassero quelle parti nelle
quali l'Autore non secondo il parer proprio, ma secondo la scuola Pla-
tonica ragionasse»". Si consolidava cosf definitivamente, corroborato
dalla parallela lettura del Tasso, un canone interpretativo del Cortegia-
no, platonico e «leggiadro», classicamente composto a celebrare le virt~
di «cortesia» e le armonie spirituali dell'amor platonico, che durerà sino
al Cian, alla Prefazione del suo, ancor insostituito, c0 mmento, che s'i-
naugurava in esergo con la citazione del Tasso, del «valore e cortesia»
celebrati nel Cortegiano.
Di pili, ledizione del Ciccarelli sanciva anche l'operazione iniziata
~a Ludovico Dolce, trasformando il trattato in «bellissimo giardino»,
m catalogo copioso di «belle creanze» e di «maniere nobili»:
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 59
Perché da una parte è [scil.: il Cortegiano] ripieno di tanta vaghezza e leg-
giadria, che gli uomini dotti e scienziati della sua lezione, quasi di bellissimo
giatdinoi pet onesta ricreazione si possono servire; e dall'altra è di tanti avver-
timenti copioso, che al conversare con i grandi sono necessari, che niuno è il
quale di belle creanze e di maniere nobili si voglia adornare, che non se lo re-
puti altrettanto giovevole, quanto è piacevole e grazioso 'H.
Ma questo catalogo si disponeva ormai secondo due integrati e com-
plementari moduli di lettura, da un lato riducendo il memorabile agli
exempla moralizzati dell' «Onesta ricreazione», dall'altro enfatizzandò
èostentando nel libro le «arguzie», cosf che «da ogni sorte d(i:i~minl è
letto con incredibil gusto»''. Nell'edificazione e nello stupore, nel-
l'«onesta ricreazione» e nell' «incredibil gusto» si compendiava, nelle
letture dell'ultimo Cinquecento, nei «triboli»" della Controriforma, il
percorso editoriale ed ermeneutico del Cortegiano. S'acconciava la sua
lezione «quasi di bellissimo giardino», di scelto repertorio, ai Detti et
fatti piacevoli e gravi di diversi principi, filosofi et cortigiani. Raccolti eri-
dotti a moralità da Lodovico Guicciardini", o ai Concetti divinissimi di
Girolamo Garimberto". Il laico «libro d~» di Emilia Pio s'appaiava
cosi a L'hore di ricreazione'", dell'«onesta ricreazione» tridentina:
«quella che nei primi venti anni del Cinquecento - ci sia lecito conclu-
dere con le parole del Dionisotti - era stata la poesia delle corti diven-
tava la letteratura a un soldo delle amorose plebi italiane»".
4. «Ogni di muti stile e modo»: !'«odor» della mutazione.
Il catalogo, come «forma» del Cortegiano, non è soltanto il volgariz-
zamento, nei formulari della «letteratura a un soldo», di quel nucleo di
generi alla moda che fornisce la traccia tematica del trattato; e neppure
si costituisce solo come esito tardo di un ossessivo <rnccellar sottilissi-
màmente alle parole» che non sa piu coniugare nel paradosso gli opp~­
sti, ma si estenua in «scrupolose» notomie che disBociando e disti!J-
guendo producono elenchi d' «onesta ricreazione>>: il catalogo insomma
non è tanto l'ipertrofia della lettura quanto piuttosto l'aporia indotta
già nella scrittura dall'infinita variabilità della natura, dall'impossibilità
di ricavare dagli uomini altro che «differenzie», dai comportamenti e
dai costumi altro che «mutazioni»,_cosiccbé il prescrivere cede al descri-
vere, la norma all'elenco, l'esemplarità all'exemplumfictum . .
Non a caso, infatti, proprio quel capitolo (II, xvn) che si chiuderà
nella celebrazione di «cortegiania» come mera epifania della retorica,
come «subietto» prossimo alla «laude d'una mosca» o «della febre j I
il I
---------------------------------·--·------------~-----------·
60 La nascita del modello
quartana», inizia proclamando l'i111pos.sibilità di «dar regola alcuna».e
l'inanità del codificare anche solo la conversazione, poiché «tra tutti gli
omini del mondo non si trovano <lui, che siano d'animo totalmente si-
mili», onde non rimane chenn1tare «agni d( stile e.modo»:
e di questo credo veramente che sia difficile dar regola alcuna per le infinite e
varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del
mondo non si trovano dui, che siano d' animn totalmente simili._ Però chi ha da
acco1nmodarsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudici~
proprio e, conoscendo le differenzie dell'uno e dell'altro, ogni df muti stile.e.
modo, secondo la natura di qu~lli con chi a conversar si ?1~t5e, 100 •
La «laude de]çalvizio>>.diveniva cosi!' esito coerente di un'impresa
eh~., non potendo esemplare la storia, si colloca\la.p<!rsempr.enell'exem-
plum /ictum della retorka, in quell'elogio dç;lpf!f..adpssq,çhe, secondo «il
costume de' platonici», istituiva il gis.corso e il trattato nel «contradire
e non affermar mai cosa alcuna»'"', quasi a suggellare anche nella «diffe-
renzia» dei moduli teorici una materia che «ogni di muta stile e modo».
Ma questa «ryJ\lSaz.ipne», lungi dal rappresentare Io scacco della pa-
rola, "era, per il Castiglione, l'occasione .e la matrice della sua epifania;
non a caso alla vita della natura, rappresentata nel prologo al secondo
libro della seconda redazione qiwe uajversale mutazione, come ciclo di
perenne morte e rinascit~, come «9rdinaria va_ri~t~>~ di un incessante
«mutarsi e pigliare nuove forme», si ."PParent,erà-stn:ttamente, qµ]!s~fo­
gato da un unico circolo biologico, il,c_iclo della parola, rappresentato in
I, xxxvi, là dove si opporrà alla durata delle regole retoriche la labilità
delle parole sulle quali esse si esercitano:
Maravigliosa cosa patria parere a qualunque considerare volesse quanto la
natura cosi nelle cose piccole come nelle grandi sempre di varietà si diletti; che
comminciando da questa machina del mondo, veggiamo per el continuo vol-
gere del cielo ancor li continui successi della notte al giorno, le diverse staggio-
ni de l'anno, il freddo, caldo, pioggie, s.ereni; veggiamo la generazione e di-
struzzione de tante erbe} piante~ arbori e de tanti varii animali in terra et in
mare, la extrema diversità tra gli uomini del' aspetto., de' pensieri _e delle ope-
re; ma oltre qu~§te e molt'altre ordinarie varietà.che la natura per suo consueto
corso produce, veggiamo i siti de' paesi per lunghezza di tempo mutarsi e pi-
gliare nuove forme [. .. ]; ritrovasi ancor alcuna volta un legno farsi sasso e mol-
te altre simili mutazioni 102 •
Ma delle parole son alcune che durano bone un tempo, poi s'invecchiano
ed in tutto perdono la grazia; altre piglian forza e vengono in prezzo perché,
come le stagioni dell'anno spogliano de' fiori e de', frutti la terra e poi di 'novo
d'altri la rivesteno, cosf il tempo quelle prime parole fa cadere e l'uso altre di
novo fa rinascere e dà lor grazia e dignità, fin che, dall'invidioso morso del
tempo a poco a poco consumate, giungono poi esse ancora alla lor morte; per-
ciò che, al fine, e noi ed ogni nostra cosa è mortale 103 •
------·-----·--------~----·----------~
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 61
La mutazione, che governa la natura, regge anche le sorti della pa-
rola: la sua storia è omologa alla storia delle vicende naturali «fattosi
in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane; il che è inter-
venuto sempre ancor delle altre lingue»"', ribadirà il Castiglione nel-
la. redazione definitiva. Il Cortegjano dunque, proposto e nato nella cor-
nice della parola, frutto della «conversazione» e chiamato a «formar
con par?le», trarrà· li proprio registro e legittimerà la propria parola in '(
quella lmgua che l' «USO» assimila alle regole e leggi di natura, «perché :I
la forza e vera regula del parlar bene consiste piu nell'uso che in altro
e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine»'". Ed ali~
lingua d'uso corrisponderà, sull'altro versante di omologia all'organi-
smo vivente della natura, una concezione della scrittura non affidata ai
ca~oni ~temp?.rali dell'i.mit~zfoné; occorrerà anzi «b~n iii essa espdme-
re 1 suoi propt11 concetti ed m questo attendere, come insegna Cicero-
ne, allo instinto s_up,tmtwale » '".
La _par9]J)du.nqi:ie, orga~srn,o _yivente, bene d' «uso», trasportata
«tra diverse nazioni» «quasi come le mercanzie»"', richiede di atten-
dere ad essa con I' «instinto suo naturale», con «il suo proprio iudicio na-
turale» 108 • ; ;
Ma l'uso, nel regno della mutazione terrena, regno affidato al di- ,'
scernimento dell' «instinto», non ha altra regola che il suo riflesso spe-
culare, quella con.suetudine la quale tutto regola e tutto norma, persino
- come perentoriamente dettava la seconda redazione - la bellezza:
«La consuetudine fa parer bello ogni cosa e la dissuetudine 1:5ruttò » "'.
Del resto era proprio in nome della mutevolezza delle consuetudini che
il Castiglione giustificava, ad apertura del Cortegiano, la sua ritrosia e
la storica impossibilità ad «eleggere la piu perfetta forma e quasi il fior
di questa cortegiania »:
arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser tenuto temerario da tutti
quelli che conoscono come difficil cosa sia, tra tante varietà di costumi che s'u-
sano nelle co:ti ~i Cristi~ità, elegger: la pili perfetta forma e quasi il fior di
questa corteg1arua, petche la consuetudtJJe fa a poi spessa le medesime cose pia-
cere e dispiacere[ ... ].
Però si vede chiaramente che l'uso piU che lq raJ!)Qne ha forza d'introdur co-
se nove tra noi e cancellar l' antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfezione.
spesso s'inganna 110 • '
Il passo, nonostante le amplificazioni di chi è costretto «a fare un
poco di es~usazione», conserva il suo valore testimoniale, la sua perti-
nenza teorica: sarà dunque congruo che la «tanta varietà» dei costumi
vigenti nelle corti non solo sconsigli di «eleggere la piu perfetta forma
di cortegiania», di simulare cioè il modello, ma legittimi, anzi, solo il se-
62 La nascita del modello
condo polo dell'endiadi, «i(fior. di quest,a corte~ia~ia»: meglio corri-
spondendo alle «tante varieta» piuttosto I antologia, il fior appu~to: chi;
un astratto modello. Onde di fatto predetermina, questa «vaneta» di
costumi e di consuetudini, nell'antologia il catalogo, nella scdta l'elen-
co nella somma dei generi costituenti la materia del Cortegzano quella
fu~zione latente di «repertorio», alla quale sarà ridotto il tr~ttato ne~a
lettura tardo-cinquecentesca, nella Tavola del Dolce o negli <<avverti-
menti» del Ciccarelli.
Ma, piu ancora, è radicale la conclusione, v!sto eh~ «l'~so piu che I~
ragione ha forza d'introdur cose _no~e tra.no!»: cosicche c~l cerca di
«giudicar la perfezione», usando il discernimento della «ta~ion~>~, ~p­
punto s'inganna: poiché infatti- s_'è ?ra. n_otato - la vera_gm?a e I «lll-
stinto suo naturale» <di suo propr10 md1cio naturale» («mstmto natu-
rale» che v~rrà ~pp~na mitigato: nel qua.rto l~bro, o~e p~u forte.sarà l_a
spinta ali' astraz10ne, alla platonica ascesi, ali emanC!p~10ne dai sensi,
dal ricorso all'endiadi «della artificiosa consuetudme e della ra-
.
~~»
) "'
. . . . d I
Questa insufficienza della «rag10~e~ ad .1llummare ~a ~ce!t~, a et-
tare il comportamento fra «tante vaneta» di co;is,uetudmi'. ~1 i~d;ice a
porre la domanda di fondo per il Cortegi~no: ~ c!Oe _quella d_i md1v1du~­
re, nell'aporia della ragione, quale fac.olt,a as~1curera ~lo~~ il pr~nto d'.-
scernimento del valore fra «tante var1eta» di costumi, di mfmglnlenti,
od offrirà la capacità di applicare, fra tante « affetta.zioni», '.a cal~olata
eleganza della «sprezzatura». Quale è insomma, per il Cortegzano, il luo-
go del «giudicio»? . ,
Ancora una volta coerentemente alla teoria dell «USO» e della «con-
suetudine» esso co~sisterà negli strumenti di discerniniento cli quella
« commune 'opinione» che veicola quell'uso, che. in esso crea la consue-
tudine: alla «moltitudine» dunque, a quel suo «odore del bene e del ma-
le», il Castiglione affiderà destino e durata, discernimento e valore, del
suo stesso libro:
La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt' altre rimett~ io
per ora al parere della commune opinione; perché il piU delle volte la moltitu-
dine, anèor che perfettamente non conosca, sente però per instin~o di n~tura un
certo odore del bene e del male e, senza saperne rendere altra ra?1~ne, l ~no g~­
sta ed ama e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente 11 libro p1acera,
terrollo per bono e pensarò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per
malo e tosto crederò che se n'abbia da perdere la memoria 112 •
L' «instinto di natura» della moltitudine è quello stesso «instinto na-
turale» che guida lo scrittore nella scelta della prop~ia !ingua: scrittur.a
e giudizio sulla scrittura divengono dunque operazioni omologhe, gm-
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 63
; :date non piu dalla fallacia della ragione, ma dal «sentite» e dal «gusta-
. Te» di un altro «giudicio», quello dei sensi.
· -- Alle sottili, impalpabili, percezioni dell'olfatto, ai discernimenti del
«gusto» e di un «certo odore», meglio sensibili che la ragione alle sug-
ges:i~ni dell' «instinto di natura», non è affidato soltanto, quasi in una
anticipata «sprezzatura» delle «ragioni» dei letterati e dei pedanti il
giudizio ed il destino del Cortegiano; ma piu in generale ai «sensi» ~n­
cora è _tribµtario lo stile, quando voglia sceverare dagli studi;;J;i ricàlchi
dell'affettazione le «proprietà del natural parlare»:
. ~e .adunque degli omini Htterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidf tra
noi SI ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere del modo che
s'è detto in questa lingua cose degne d'esser lette, tosto la vederissimo culta ed
abundante ~e ~ermini e belle figure[ ... ]; e se ella non fosse pura toscana anti-
ca, sarebbe Italiana, commune, copiosa e varia, e quasi come un delicioso giar-
dino pie~ di diversi fiori e frutti. Né sarebbe questo cosa nova; perché de1le
quattro lingue che aveano in consuetudine, i scrittori greci, elegendo dacia-
scuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un' al-
tra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un solo nome chiamavano
lingua greca; e benché la ateniese fosse elegante, pura e facunda pili che l' altre
i boni scrittori che non erano di nazion ateniesi, non la affettavan tanto, eh~
nel modo dello scrivere e quasi al!'odor e proprietà del suo natural parlare non fos-
sero conosciuti; né per questo però erano sprezzati; anzi quei che volevan parer
troppo ateniesi, ne rapportavan biasimo Hl.
Il rinnovato impiego cli tale immagine in una impegnata sede teorica,
nella ripresa, entro il dibattito sulla lingua, delle ragioni addotte nella
prefazione («né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto
di farmi piu tosto conoscere per lombardo parlando lombardo, che per
non toscano parlando troppo toscano; per non fare come Teofrasto, il
qual, per parlare troppo ateniese, fu da 1ma simplice vecchierella cono-
sciuto per non ateniese»)'", ci conferma che il richiamo «all'odor e pro-
prietà del suo natural parlare» come prima a quel «certo odore del bene
e. del male» del proprio pubblico poggia non su una metafora, piu o meno
ncorrente, ma su un paradigma ermeneutico di grande rilevanza per il
Castiglione, poiché messo in opera nei momenti teorici piu delicati.
Ma loccorrenza avrebbe una pertinenza limitata, se non la ritrovas-
simo, nella stessa sede di «appello al lettore», di chiave per la lettura,
anche nel Prologe de l'auteur del Gargantua rabelaisiano, nel quale i
«beuveurs très illustreS>> cui il libro è dedicato, sono invitati a degustare
il libro come «onques chien rencontrant quelque os médulaire»:
A l' exemple d'icelluy vous convient estre saiges pour f!eurer, sentir et estimer
ces beaulx livres de haulte gresse, légiers au prochaz et hardiz à la rencontre·
puis par curieuse leçon et méditation fréquente, rompre l'os et sugcer la sus~
64 La nascita del modello
tantificque mouelle - e' est à dire ce que j' entends par ces symboles Pythago-
ricques avecques espoir certain d'estre faictz escors et preux à ladicte lecture:
car en icelle bien aultre goust trouverez et doctrine plus absconce 1 n.
Ancora una volta, il «luogo della lettura» sarà quel <<fleurer, sentir et
estimer», ancora una volta ciò che è promesso «en icelle» è «bien aultre
goust»; l'omologa funzione del ricorso alfleurer, all'odor, all'instinto suo
naturale ci conduce, al di là dei dispositivi della lettura, in trame di ri-
ferimenti culturali piu ampi, in quel!' episteme cinquecentesca cosi fine-
mente studiata da Lucien Febvre, e proiettata oltre il Seicento da Gas-
ton Bachelard.
«Nous sommes des hommes de serre; ils étaient des plein-vent»,
scriveva Febvre definendo contrastivamente i contemporanei di Rabe-
lais; l'appello al «parere della commune opinione» è, piu che un topos,
pili che un artificio di captatio benivolentiae rivolto al destinatario, è il
segnale specifico d'orientamento verso il punto di convergenza episte-
inoTogica, ove le «tante varietà» della natura, l'uso e la consuetudine,
l'«instinto naturale», l'odore e il gustare, trovano concordanza epos-
sibilità ermeneutica: in quel microcosmo fatto di un_a sola ragione, ma
di cinque sensi, che è l'uomo:
Je l'ai dit ailleurs: nous sommes des hommes de serre: ils étaient des plein-
vent. Des hommes proches de la terre et de la vie rurale. Des hommes qui,
dans leurs cités mème, retrouvaient la campagne, ses bètes et ses plantes, ses
odeurs et ses bruits. Des hommes de plein air, voyant mais sentant aussi, hu-
mant, écoutant, palpant, aspirant la nature par tous leurs sens:
Le gouster, le toucher, I' reil, l' oreille et le nez
Sans lesquels nostre corps seroit un corps de marbre 116
Ma prima delle, pur affascinanti, citazioni di Rabelais o Du Bellay, di
Ronsard, o di un Lutero che affermerà: So/ae aures sunt organa Christia-
ni"'; prima dei trattati di Joannes Bravus o di Hieronymus Fabri-
cius "', prima del trionfo della vista, come organo della scienza, cosi fi-
nemente studiato da Raimondi "'; nei primi decenni del Cinquecento
l' esperienza5 la pratica delle corti, la dimensione sociale e la comunica-
zione si affidavano alla sensibilità del tatiò appunto, virtu politica, al di-
scernimento dell'odorato, all'apprezzamento del gusto (parametro di
lunga durata, del resto, nel!' estetica moderna come negli stereotipi sco-
lastici):
Donc, lignes, couleurs, ordonnances, perspectives, tout le plaisir des yeux?
Non. Sons, bruits, voix, le plaisir des oreilles. [... ].
Ce XVIe siècle, qui ne voit pas cl' abord, qui entend et qui flaire, qui hume
les souffles et qui capte les bruits - ce n' est que tard, lorsque le xvlf siècle apM
pioche, qu'il s'occupe sérieusement, activement de géometrie 120 •
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 6
5
E sarà 1m caso, in qu~sta temperie culturale, che quella stessa dedica
de! Cortegiano al De Silva, la quale si chiuderà confidando il libro
ali «odor ?el be~e e dc;! male» del proprio pubblico, si aprisse, quanto , , ,
alla materia e ali occasione del trattato, proprio nelle prime righe ricor-
dando «come nell'animo mio era recente !'odor delle virtu del duca Guido
e la s~tis~azione che io ~ quegli anni aveva sentito della amorevole com-
p~gma _di cosi eccellenti persone, come allora si ritrovarono nella corte
di Ur?1?0>> onde lautore fu «stimulato da quella memoria a scrivere
questi hbri del Cortegiano »? "'.
~i~r.o,nato ~~ll'i~tensit~ della «memoria dei sensi», dedicato alla
se~s1b~ita e a~ «mstmto» di un pubblico disposto pili a «sentire» che
a sillogiz~are, il Cortegiano poco concederà ali' astrazione della vista alle
g~opietr1~ c~ncettuali, se persino l'invio del trattato offerto «com'e un , ,<
ritratto di pittura della co;te di Urbino», rifuggirà dall'equipararsi (e
n?n solo co?le calcolat~ re.t1cenza, come retorica pretermissione) ali' arte
_d1prospett1va,. a quell umca conq'1sta che la vista aveva regalato, al di \ F ~':,.,,,! ,'\
là dellapercez10ne «naturale», ali uomo del Quattrocento:
mando':i questo libro ~ome un ritratto di pittura della corte di Urbino, non di
~an? di Raf~ello o !'Ji?ie~ Angelo, ma di pittor ignobile e che solamente sap-
pia tt~are le lin~e pnnctpah, senza adornar la verità de vaghi colori o far parer per
arte dz prospettzva quello che non è 122 •
. Al primato d~i sensi si rip~rteranno i lu~ghi essenziali del Cortegia-
no. la stessa fun~i?i;e dell~ scrittura, operazione allegorica, 0 registrato
record ~ne~a defo~izione di ~ac~one), ancora si collocherà sotto il segno
della V!rt11 olfattiva> traccia di quella divinità ai sensi misticamente
ascosa ed in essi tuttavia percepibile:
. Vedete eh~ Salo,mone, v?lendo scrivere misticamente cose altissime e diM
v~ne, ~er coprirle d un grazioso velo finse un ardente ed affettuoso dialogo
d ~n? 1-??am?rato con la .s~a donna, parendogli non poter trovar qua.giU tra
noi similitudine alcuna piu conveniente e conforme alle cose divine che r aM
mar verso le do.nne;. ed in tal mo.do ~?lse dar? un.poco d' odar di quetta'divinità,
che esso per sc1enz1a e per grazia piu che gh altri conoscea 123.
Ai presentimenti del/leurerverranno insomma affidate le sensazioni
estreme, l'acme dell'esperienza, sia che questa si rivolga all'indietro co-
me nel ;ammemorare ?ei
vecchi, sia che si protenda, come nella fi;,ale
pero~azione neoplatomca, alla contemplazione delle bellezze celesti alle
quali certo sarà fatta «oculatissima» da una rinnovata vista illumi;,ata
~alla grazia, ma alle quali ancora potrà aderire solo in virtu di quel sen-
tire «un certo odor nascose della vera bellezza angelica»:
e, per cont.rario, recandosi a me~oria i passati piaceri, si arrecano [scii.: i vecM
chi] ancor il tempo nel quale avutt gli hanno, e però lo laudano come bono per-
6
66 La nascita del modello
ché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiamo quando era
presente 124 •
però lanima, aliena dai vicii, purgata dai studi della vera filosofia, [ ... ] apre
que_glj·o-C.él\i che tutti hanno e poco adoprano, e vede in se stessa un raggio di
quel lùme· Che è la vera imagine della bellezza angelica a lei communicata, della
quale essa poi communica al corpo una debil umbra; però, divenuta ciec~alle
cose terrene, si fa oculatissima alle celesti; e talor, quando le virtll mòtlve del
corpo si trovano dalla assidua contemplazione ~str~te, o vero dal sonno lega-
te,- nOn essendo da quelle impedita, sente un certc:f oéfOÌ) nascose della vera bel-
lezi!a ~~gelic~, e rapita _dal splender di quella lucècOinincia ad infiammarsi e
tanto avidamente la segue, che quasi diviene ebria e fuor di se stessa, per de-
siderio d 1unirsi con queJla 125 •
Persino il giudizio' etìcò, lappello velato al Tribunale dell'Inquisizione,
si produrrà, al chiudersi della parabola QQ!it_iça e letteraria del Castiglio-
ne, entro una metafora olfattiya, rimproverando il nunzio al V aldés di
seguire una dottrina «nella quale invero si sente molto QQQJ;~ di lutera-
nesimo» 126 •
Ma anche gli altri sensi, non astratti, vengono chiamati a fornire pa-
rametri di giudizio: cosi le orecchie che «avidamente attendono e gusta-
no»"' le perfette consonanze, cosi il tatto cui devono rendersi palpabili
le metafore, tangibile la loro trasposizione:
Talor vorrei che pigliasse alcune parole in altra significazione che la lor
propria e, trasportandole a proposito, quasi le inserisse come rampollo d' albe-
ro in piti felice tronco, per farle pili vaghe e belle, e quasi per accostar le cose
al senso degli_occhLproprii e, come si dice, farle toccar con mano, con diletto
di chi ode o legge 128 •
Ancora_ u11a volt~ il linguaggio dei sensi diviene, nel Cortegiano, mi-
sura dello stile: la verifica, anzi, della sua duttilità, osserva finemente
Mazzacurati, s'impone come nodale per la teoria linguistica del Casti-
glione, teoria che del resto è estensibile a tutti coloro per i quali, come
affermava I<lein, «"maniera i' e i' gusto,, sono complementari» 129 •
E la loro complementarità consiste appunto nel loro potere di «ap-
prossimare», di avvicinare ai sensi (contro la distanza della prospettiva,
o dell' «imitazione» classica) il referente e la scrittura; occorre cosi rile-
vare che la metafora stessa su cui è costruita la difesa dell'intera materia
del Cortegianp (nell'ipotesi di mirare al «perfetto cortegiano»), quella
celebre del bersaglio, metafora per eccellenza dell'4pprossimazion~, si ri-
trova bensi, come segnalò Mazzacurati "", nel Principe, ma agisce in
correlazione al simbolo della pili acuta delle approssimazioni, quella del-
!' olfatto:
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
cosi è ancora quella [scii.: «idea»] del perfetto cortegiano; alla imagine della
quale s'io non ho potuto approssimarmi col stik, tanto minor fatica averanno i
cortegiani d'approssimarsi con l' opere al termine e mèta, ch'io col scrivere ho lo-
ro proposto; e se con tutto questo non potran conseguir quella perfezion, qual
che ella sia, ch'io mi son sforzato d'esprimere, colui che piU se le avvicinerà sarà
ìl piU perfetto, come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno
è che dia nella brocca, quello che piU se le accosta senza dubbio è miglior degli
altri 131 •
Non si maravigli alcuno se, nel parlare ch'io farò de' principati al tutto
nuovi, e di principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli; perché, cammi-
nando gli uomini quasi sempre per le vie battute da altri, e procedendo nelle
azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie di altri al tutto tenere, né alla
virtU di quelli che tu imiti aggiugnere, debbe uno uomo prudente intrare sem-
pre per vie battute da uomini grandi, e quel1i che sono stati eccellentissimi imi-
tare, acciò che, se la sua virtti non vi aniva~ _aln;,~no ne renda.quakhe odore; e fa-
re come gli arcieri prudenti, a' quali parendo el loco dove disegnano ferire
troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtU del loro arco, pongono
la mira assai pili alta che il loco destinato, non per aggiugnere con la loro frec-
cia a tanta altezza, ma per potere, con lo aiuto di s:i' alta mira, pervenire al di-
segno loro a:.i,
«Gusto» e «maniera» coincidono dunque come procedure dell' « ap-
prossimazione», dell' «approssimarsi col stile» a una materia che è posta
sotto il dominio dei sensi, legata alle mutazioni cicliche della natura;
'jl:ruirri~i:a chç_ dey" y!!fi;;re_çpnJa IJ!l!tahilità, non riducibile a modello,
\ del proprio referente. Se si sono esplorate sin qui le metafore dell' affi-
·oarsi della scrittura all'intensità, alla sensibilità di «lettura» dei sensi,
occorrerà ora vedere quale è la «maniera» della loro emergenza teorica.
Già si è notato che nel regno della varietà e della mutazione, il discer-
nimento è affidato all' «instinto naturale»: ma anche dei concetti che la
teoria platonica preservava dalla provvisorietà degli usi, dall' edacità del
tempo, la definizione è data dal Castiglione per 'approssimazioni cor-
porali', per maniere che fanno appello ai sensi.
Cosi non solo la virtli essenziale del «cortegiano», I' «eccellente gra-
zia» sarà sin dall'inizio definita «una certa grazia e, come si dice, un
sangue»"'; ma ancora i poli opposti di vizio e di virtu, i vertici estremi
dell'uno e dell'altra, la plenitudine della perfezione e l'aporia della «ma-
licia», saranno rappresentati nel!' eccesso delle misure fisiche, I'ecceden-
za cedendo alla difformità:
-Anzi troppo [scil.: «Si è parlato»] - rispose il signor Ludovico Pio; - per-
ché credo che al mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande, che
,j fosse capace di tutte le cose, che voi volete che stiano in questo cortegiano -.
Allor il Conte, - Aspettate un poco, - disse, - che molte altre ancor ve ne
hanno da essere-. Rispose Pietro da Napoli: -A questo modo il Grasso de'
Medici averà gran vantaggio da messer Pietro Bembo 134 ;
 68 La nascita del modello
p~re che per testimonio della medesima natura l'uomo abbia qualche diffetto,
quasi per un sigillo e segno della sua malicia 135 •
Nelle fisiche disproporzionL quasi prima sanzione stilistica di quella
«sprezzatura» teorizzata dal Cortegiano, rifluiva dunque, per un'ulte-
riore convergenza di sensi e maniere, l'eccesso nel bene e nel male: co-
me, per converso, il «difetto della lingua», l'ineleganza stilistica s'ap-
"_ pros~imava alla fine, per omologia di corpo e parola, alla deformità cor-
' porea:
cosi in questo breve [scil.: parlare] devesi guardare il cortegiano di non parer
maligno e velenoso) e dir motti ed argtìzie solamente per far dispetto e dar nel
core, perché tali omini spesso per diffetto della lingua meritamente hanno ca~
stigo in tutto 'I corpo 136 •
Nel convergente eccedere·, fisica dismisura, della plenitudine del
Bembo e della ripienezza del «Grasso de' Medici», nell'omologo «siiillo
e segno» del «diffetto» del corpo come rinvio al «diffetto della lingua»,
il calcolo mediano della «sprezzatura» sarà appunto lo sforzo d'appros-
simazione ad una mi~urata equidistanza, «concatenata contrarietà» che
si costruisce, come paradossale «contrapeso» (ebbe a notare Rosalie Co-
lie), su una doppia e simmetrica negazione.
5. L'«orrida/accia della vera virtu».
La struttura paradossale della «sprezzatura>>, per altro, non mani-
festa, nel fortunato neologismo, che una costante piu generale dell'in-
tero trattato, come il Castiglione spiega, con puntigliosa dovizia di ar-
gomenti, nelle pagine proemiali del Il libro. Tutto è, nella natura come
nel trattato, legato da «concatenata contrarietà>>, tutto è regolato da un
universale gioco di forze e di pesi (come non ricordare qui Machiavel-
li?), ove spinte e controspinte, bene e male, a vicenda si «sostengono»
per reciproca «opposizione e per un certo contrapeso»:
Però, essendo le virtU state al mondo concesse per grazia e dono della na-
tura, sUbito i vicii, per quella concatenata contrarietà, necessariamente le fu-
rono compagni; di modo che sempre, crescendo o mancando l'uno, forza è che
cos{ l'altro cresca o manchi 117 ;
perché, essendo il male contrario al bene e 'l bene al male, è quasi necessario
che per la opposizione e per un certo contrapeso l'un sostenga e fortifichi l' al-
tro, e mancando o crescendo l'uno, cos{ manchi o cresca l'altro perché niuno
contrario è senza l'altro suo contrario 138 •
«Niuno contrario è senza l'altro suo contrario»: la natura parados-
sale dell'esperienza, e del trattato che !'«approssima» alla parola, trova
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
qui la sua piu esplicita affermazione, ed il suo piu eloquente catalogo,
esteso dalla «magnanimità» al «mangiare, bere e dormire»:
Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie?
la magnanimità, se non fossero li pusilanimi? la continenzia, se non fosse la in~
continenzia? la sanità, se non fosse la infirmità? la verità, se non fosse la bu-
gia? la felicità, se non fossero le disgrazie?[ ... ] Chi po aver caro il riposo, se
prima non ha sentito r affanno della stracchezza? chi gusta il mangiare, il bere
e 'l dormire, se prima non ha patito, fame, sete e sonno? H 9 .
Uno dei luoghi piu significativi di epifania di questo gioco di «Con-
trapesi» che regola la natura e la storia umana diverrà, nel passaggio
dalla seconda redazione a quella definitiva, la complessa sistemazione
della materia del IV libro culminante in quell'elogio del «mondo crea-
to» (del macrocosmo della «gran machina del mondo» come «della fi- ii
''' i
~
gura dell'omo, che si po dir picco! mondo»), per il quale il Castiglione
è andato lungamente celebre, nella storia della critica, come il vertice
p!U maturo di una concezione. umanistica antropocentrica nell'ambito
i
I!,,
del classicismo rinascimentale. Ebbene il passo, preparato nel capitolo 11
precedente dall'inno a Dio, nel quale «è la bontà come centro e la bel- "
lezza come circulo,» "", sarà nella redazfone àefinitiva inserito al cap. ji
LVm, ma dopo averlo infine temperato e coerentemente pareggiato nel ,I
«contrapeso» del suo contrario, nella «opposizione» della bruttezza e I
della deformità, cui è affidato lesordio del capitolo:
seconda redazione (III, XCVIII incipit):
E se considerate tutte le cose, trovarete che sempre quelle che sono bone
et utili, hanno ancor grazia di bellezza. Eccovi el stato di questa grande machina
del mondo, la quale per salute e conservazione d'ogni cosa creata è stata da Dio
fabricata. Il cielo rotondo, ornato de tanti divini lumi, e nel centro la terra,
circondata dalli elementi e dal suo peso istesso sostenuta e librata; [... ]. Queste
cose tra sé hanno tanta forza per la conexione d'un ordine composto cos{ ne-
cessariamente che, mutandole per un punto, non potriano stare insieme e rui-
narebbe il mundo; [... ].Pensate or della figura de l'omo, che se pò chiamare un
piccol mondo, nel quale vedesi ogni parte del corpo esser composta necessaria-
mente per arte e non a caso, e poi tutta la forma insieme essere bellissima 141 •
testo definitivo (IV, L vm):
I brutti adunque per lo piu sono ancor mali e li belli boni; e dir si po che la
l bellezza sia la faccia piacevole, allegra, grata e desiderabile del bene; e la brut-
tezza la faccia oscura, molesta, dispiacevole e trista del male; e se considerate
I tutte le cose, trovarete che sempre quelle .che son bone ed utili Panno ancor
grazia di bellezza. Eccovi il stato di questa gran machina del mondo\ la qual, per
salute e conservazion d'ogni cosa creata è stata da Dio fabricata. Il ciel roton-
do, ornato di tanti divini lumi[. .. ]. Queste cose tra sé han tanta forza per la
connession d'un ordine[ ... ]. Pensate or della figura dell'omo, che si po dir pic-
colo mondo [... ] 142 •
 70 La nascita del modello
L'anticipazione - e lamplificazione - (nella sede deputata alla
ostensione dell'armonia del creato) del volto speculare dei «contra-
ri», della <'.faccia piacevole» e della «faccia oscura», del bene e del
male, quasd'autore volesse ancora rammentare cbe «niuno contrario
è senza laltro suo contrario»; ci richiamano piu che mai alla natura
antinomica, paradossale, della costruzione del Cortegiano, entro la
quale la« sprezzatura» funziona appunto come misura di distanza e di
' iunctura tra opposte eccedenze. E già nel capitolo (I, XXVI) che la no-
. mina come neologismo, essa vive continuamente assediata, e conti-
gua, ed in ciò esaltata, dal suo simile-contrario che è laffettazione.
La «grazia» della <<Sprezzatura» dunque si rileva solo in virtu
d'essere circondata dal suo contrario, dalla «disgrazia della affetta-
zione» (I, XXVI): e cosf, ulteriormente, il/armare un «perfetto cor-
tegiano» avrà bisogno, per l'evidenza dell'esempio, per la percetti-
-;f,..-:1 bilità tattile e olfattiva del paradigma, dell'informe o del difforme;
n:iJia, nel r:;ortegiano., .s!lr~ affermato o prescritto senza una congrua
. ;Ì
d1m~straz1one ex negativo. Lo attestano, tra l'altro, moduli sintattici
del tipo «e noti far come» (su cui farà poi leva la Tavola del Dolce),
seguiti dall'esempio difforme; cosf, in primis, sarà costruito il passo
cbe teorizza in astratto l'arte di cortegiania come florilegio accurato
e distillato della grazia, seguito poi non già da una positiva elezione
di grazie, ma solo limitato negativamente dalla propria speculare dif-
formità, che sola si definisce in una smorfia deforme e «infirma»:
. E come la p~cchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosi
il nostro corteg1ano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che
la tenghino e da ciascun quella parte che pili sarà laudevole; e non far come un
amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re
Ferrando minore d'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo che nel
spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea
contratto cosi da infirmità 143 •
E il passo è poi seguito (come suo contrario) dalla definizione teorica
della sprezzatura («e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa
una certa sprezzatura, che nasconda!' arte e dimostri ciò cbe si fa e dice
venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»),.,, anch'essa calcolato
dosaggio di contrari (nasconda/dùµostri), e modello ritagliato, e conse-
gnato a memoria, tra due difformità, tra la smorfia che la precede e la
marionetta che la segue:
Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla
foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la
testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione che di certo pare che
vada numerando i passi? 145 • '
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 71
Parallelamente, nel III libro, il corrispettivo della «sprezzatura»
proposto alla donna di palazzo, sarà ancora, tra le difformità della
«grosseria» che precede o dei «costumi selvatichi» che seguono,« una
certa mediocrità difficile, e quasi composta di cose contrarie»'".
La difformità/deformità, quale segno fisico, tattile, della «differen-
zia» dei contrari, è cosf l'orizzonte del Cortegiano, il luogo dei «sensi»
cbe consente la «maniera» di sprezzatura. Tutta la materia del trattato,
del resto, ne è contaminata, sin dalle prime pagine, se è vero che quel
«ritratto di pittura» della corte urbinate s'incentra intanto sul ritratto
di un duca «impedito», impacciato, addirittura. «deformato e guasto
nella sua verde età» 147 •
Cosi accanto ai pochi «che par che non siano nati, ma che un qual-
che dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni
dell'animo e del corpo»'", s'accalcano i molti che «si veggono tanto
inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto ,,I '
o per ludibrio produtti gli abbia al mondo»"'.
Ed ancora la «grazia e 'l volto bellissimo» (I, xix) che si richiedono
al cortegiano si deformano poi nell'affettazione della moltitudine cbe
«pare che nello andare, nello stare ed in ogni altro lor atto siano tanto
teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l'uno dal!' altro»
(I, XIX).
Quale sia poi il confine tra questo slogarsi difforme e la «discioltura
d'ogni membro» prescritta poco oltre (I, XXII), forse può dire il dubito-
so diafranuna che separa (ma come contrari speculari) meraviglia e mo-
struoso, la «dispettosa maraviglia» che regna al di là della «mediocrità
difficile»:
Vegnendo dunque alla qualità della persona, dico bastar ch'ella non sia
estrema in piccolezza né in grandezza; perché e l'una e l'altra di queste condi-
cioni porta seco una certa dispettosa maraviglia e sono gli omini di tal sorte
mirati quasi di quel modo che si mirano le cose monstruoseu 0 •
Sempre piu, nel Cortegjano, la fissità deforme della maschera occupa
lo spazio fisico dell'esemplificazione, dalla donna «empiastrata tanto,
che paia aversi posto alla faccia una maschera [... ] e poi tutto il rema-
nente del giorno stia come statua di legno immobile» (I, XL), ai «mutoli
gozzuti» irrigiditi nella loro «foggia d'insensati»:
Cos{ ancora quando vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi
stupidi a foggia d'insensato, o che rida cos{ scioccamente come que' mutoli
gozzuti delle montagne di Bergamo, avvenga che non parli o faccia altro, non
lo tenete voi per un gran babuasso? u 1 •
La stessa proposizione delle facezie, la giustificazione delle dilatate
porzioni narrative che la burla ed i motti occupano nel libro II, si fon-
72 La nascita del modello
dano sull'ammissione del difforme, come modulo «risibile» della «dif-
ferenzia», sulla «disconvenienzia» (II, XLVI) delle parti, su una dispro-
porzione che la seconda redazione apparentava a «bruttezza e defor-
mità»:
seconda redazione:
«Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono gli ridiculi, consiste in una
certa bruttezza e deformità» 1n;
testo definitivo:
Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa
deformità 153 •
La «difformità» si costituisce dunque come orizzonte della parola,
della narrazione piacevole, cosi come, ad apertura del trattato, la follia
degli «atarantati» e l'ossessiva musica della loro terapia consigliava-
no di tentare su quei moduli l'ascesi a «perfezion di publica pazzia»
(I, vm). Atarantati e risibili, follia e deformità, mania e maniera percor-
rono dunque la scena del Cortegjano sino alla loro piu fisica eccedenza,
non quella discorsiva, sempre pareggiabile nel contrappunto della sprez-
zatura, ma quella storica della reale composizione della corte cinquecen-
tesca, della sua coacervazione di cuochi e cavalli, di armigeri e di scude-
rie, di buffoni e di musiche, di lazzi e di lezzi, quali sarà costretto con
«fastidio» ad evocare lo stesso Castiglione:
Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e faceti, in presenzia d'ono-
rate donne e spesso a quelle medesime, si mettono a dir sporchissime e disone-
ste parole; e quanto piU le veggono arrossire tanto piU si tengon bon cortigiani
[... ].Ma per niuna altra causa fanno tante pecoragini, che per esser estimati
bon compagni; questo è quel nome solo che lor pare degno di laude e del quale
pili che di niun altro essi si vantano; e per acquistarlo si dicon le pi6 scorrette
e vituperose villanie del mondo. Spesso s'urtano giU per le scale, si dande' le-
gni e de' mattoni l'un raltro nelle reni, mettonsi pugni di polvere negli occhi,
fannosi ruinare i cavalli addosso ne' fossi o gili di qualche poggio; a tavola poi,
minestre, sapori, gelatine, tutte si danno nel volto, e poi ridono[.,.]. Ma io vi
vo' dir peggio. Sono alcuni che contrastano e mettono il prezio a chi può man-
giare e bere piU stomacose e fetide cose; e trovanle tanto aborrenti dai sensi
umani, che impossibil è ricordarle senza grandissimo fastidio u4 •
Questi« bon compagni» occupano le corti, si esibiscono per «farri-
der sempre» (II, XLVI), il gran corteggio di «pazzi e gli imbriachi e i
sciocchi ed inetti, e<medesimamente i buffoni»: e sebbene non a questi
sia rivolto il trattato, è tuttavia rivolta la disponibilità ed il favore della
corte: «e benché nelle corti queste sorti d'omini par che si richieggano,
pur non meritano esser chiamati cortegiani»"'.
Ma «queste sorti d'omini» si richiedono, in realtà, perché sono per-
fettamente congrui a un potere che si specchia nella loro deformità, che
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 73
di essa partecipa ed in essa legittima la propria smisurata «eccedenza».
Non a caso infatti, proprio il N libro che si concluderà nella celebrazio-
ne estatica dello spirituale amor platonico, s'aprirà tuttavia (per quel-
l'obbligo di «contrapesi» e di «concatenata contrarietà» che formano
la vicenda della storia e del libro) nell'ostentazione di un apparato pro-
tervo e posticcio come un carnevale di cartapesta, dove i principi ruina-
no come colossi di stracci, la scena mostrando della corte tutta la vana
e teatrale pompa:
e col volto imperioso e costumi austeri, con veste pompose, oro e gemme, e col
non lassarsi quasi mai vedere in publico, credono acquistar autorità tra gliomi-
ni ed esser quasi tenuti dei; e questi sono, al parer mio, come i colossi che l' an-
no passato fur fatti a Roma il df della festa di piazza d'Agone, che di fori mo- :I
stravano similitudine di grandi omini e cavalli triunfanti e dentro erano pieni
di stoppa e di strazzi. Ma i principi di questa sorte sono tanto peggiori, quanto
11 !
che i colossi per la loro medesima gravità ponderosa si sostengon ritti; ed es-
si, perché dentro son mal contrapesati, e senza misura posti sopra basi inequa-
li, per la propria gravità ruinano da se stessi e da uno errore incorrono in infi- il
niti 06. 'I
Non si tratta qui di isolata licenza, di censura tanto piu «letteraria»
ed innocua quanto piu iperbolica: in realtà la versione definitiva costi-
tuisce già un lenimento rispetto alla sistematica amplificazione di defor-
mità denunciata dalla seconda redazione, ove quel «divengono superbi,
e col volto imperioso e costumi austeri» suonava molto piu cupamente:
«e divengano tanto superbi et insolenti che con una certa torvità di volto
e parlare imperioso»"'; ove ancora in luogo della finale «ignoranza loro
accompagnata da quella falsa opinion di non poter errare»"', si leggeva,
con piu esplicita condanna: «l'ignoranza loro accompagnata da quella
arrogante persuasione de non poter errare»"'.
Alla fine dunque tanto la fisicità arrogante e deforme occupa lo spa-
zio della corte, tanto ai colossi di stoppa o «pieni di terra e di legno e ca-
pecchio» (come recitava la seconda redazione) s'accompagnano principi
«inveterati nei vicii, come li ftisici nella infirmità» '", che davvero il
modello platonico s'allontanerà nell'utopia: «però dubito che sia come
la republica di Platone e che non siamo per vederne mai un tale [scii.:
«principe»] se non forse in cielo»"'.
E cosi in terra rimane, sulla scena della corte, il principe dei corpi,
quello che spende e dona «ad ognuno senza riservo» (IV, XXXVI), che
s'indebita, poiché comunque «Dio, come si dice, è tesauriero dei prin-
cipi liberali» (IV, XXXVI), ma che in tal modo trova l' «amabile e bona
maniera d'accarezzare e i sudditi e i stranieri discretamente»; rimane
l'esercizio di un potere che risarcisce la deformità nella pompa, che cela
74 La nascita del modello
la «torvità» nella festa, e divulga il proprio «eccesso» nel legittimare al
buffone e al nano, al pazzo e all'adulatore, il ruolo epifanico di emblemi
del beneficio, della partecipazione, graziosamente elargita, ad uno
«splendor regale» diffusivum sui, «liberalissimo e splendido» nel
far conviti magnifici, feste, giochi, spettacoli publici; aver gran numero di caM
valli eccellenti, per utilità nella guerra e per diletto nella pace; falconi, cani e
tutte I' altre cose che s'appartengono ai piaceri de' gran signori e dei populi;
come a' nostri df averno veduto fare il signor Francesco Gonzaga marchese di
Mantua, il quale a queste cose par piU presto re d'Italia che signor d'una
città 162 •
Alla fine del Cortegiano dunque il perfetto principe mostra la propria
opulenza da «re d'Italia» piuttosto con gli argomenti del Grasso de'
Medici che con quelli di Pietro Bembo: di fronte a quel fisico apparato
«la republica di Platone» si riduce ai tratti di una «risibile» difformità
rispetto al volto della storia, di una malinconica maschera che agita, tra
corpi intenti a «conviti magnifici», «quella orrida faccia della vera vir-
t1i»; ad essa, come concludeva la seconda redazione, al «severo filoso-
fo», i «principi de' nostri tempi» e la loro corte preferiranno sempre
<mn buffone scioco», od il volto della «sceleritate»:
Però se agli principi de' nostri tempi venisse inanti un severo filosofo, el
quale cosi apertamente e senza arte alcuna volesse mostrargli quella orrida facM
eia della vera virtU [... ] son certissimo che al primo aspetto lo aborririano come
un aspide, o vero se ne fariano beffe come di cosa vilissima, e piU estimariano
un buffone scioco o vero un nuovo inventore de qualche sceleritate che quello 161 •
Orrida pare la virtti, perché ormai inconsueta, «poiché oggidl i prin-
cipi son tanto corrotti dalle male consuetudini e dalla ignoranzia» (IV,
IX) che è difficile anche solo «dar loro notizia della verità» (IV, IX). E
poiché per tutto il Cortegiano l'uso e la consuetudine sono stati presi per
norma, è ovvio che alla fine la virtti, che non è praticata e cosi inconsue-
ta da non poterne quasi dar notizia, risulti - essa si - la vera difformi-
tà, il «contrapeso» vilissimo a «inventori de qualche sceleritate [de qual-
che tristizia] » '".
Cosi, nello scacco e nella beffa, si chiudeva, nel Cortegiano, quella
- piti volte ricordata - « instituzione che ha da far il cortegiano nel suo
principe»"': si chiudeva per lo spazio fisico e storico delle corti italia-
ne, per lo scenario sociale e politico ove «il nome italiano è ridutto in
obbrobrio» (IV, IV). Si esauriva certo quel progetto nello spazio degli
interlocutori del trattato, vanamente tesi a istituire un duca e un corpo
«deformato e guasto nella sua verde età»: ma non ancora per il cortigia-
no che aveva saputo scegliere loltre, che si collocava a distanza, che par-
lava dalle corti dei veri principi. Cosi infatti, da lontano, dalla corte
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 75
d'Inghilterra, a portare certezza e compimento alla materia del proprio
trattato, un'unica volta il Castiglione si farà citare nel proprio dialogo,
testimone di perfezione:
ché, come di là scrive il nostro Castiglione e pili largamente promette di dire
al suo ritorno, pare che la natura in questo signore [«il signor don Enrico,
principe di Vuaglia»] abbia voluto far prova di se stessa, collocando in un cor-
po solo tante eccellenzie, quante basteriano per adornarne infiniti 166 •
L'esemplarità del Cortegiano si realizzava dunque nell'esempio stes-
so addotto dal proprio autore: s'approssimava cosi al nucleo generatore
del trattato Vittoria Colonna quando insinuava il Castiglione aver vo-
luto in realtà proporre un autoritratto («Alcuni ancor dicono ch'io ho
creduto formar me stesso»)"'; ma s'approssimava non nel senso, limi-
tato e provvisorio, della mimesi storica (ove regnano «tante varietà» di
costumi e dunque di codificazioni e norme sociali), bensl sul terreno piti
congruo della scrittura. Quel «piti largamente promette di dire al suo ri-
torno» infatti non diventava soltanto la citazion!,', lanticipazione après
coup, dell'epistola Ad Henricum VII"', ma il piti prezioso inveramento
di quella «nova forma e figura di dire», di quella inusitata retorica del-
]' autocitazione che il Castiglione aveva celebrato nel trattato:
Parmi ancor ricordare che Cicerone in un loco introduca Mare' Antonio
dir a Sulpizio che molti sono i quali non imitano alcuno e nientedimeno per-
vengono al sommo grado della eccellenzia; e parla di certi, i quali aveano intro-
dutto una nova forma e figura di dire, bella, ma inusitata agli altri oratori di
quel tempo, nella quale non imitavano se non se stessi 169 •
La lunga vicenda redazionale del Cortegiano istituiva cosi, in quella
maniera «nella quale non imitavano se non se stessi», il proprio testuale
compimento: nella «nova forma» dell'autocitazione il «formar con pa-
role» trovava infine pertinenza e perfezione, quella dell' autoriflessività.
6. «Il capriccio impregnò la chimera».
L'unica «instituzione» praticabile, in uno spazio storico gremito di
II
difformità, tra principi «inveterati nei vidi, come li ftisici nella infir-
mità», era dunque rimasta quella letteraria dell'autocitazione: la virtù
''
che doveva «formare» si era, per «concatenata contrarietà», fatta spec-
chio e elenco del difforme. Il paradosso della sprezzatura viveva, spazio
di scrittura, tra contrarie negazioni.
Ma questo bilancio non è nella deformità della nostra lettura, ma nel
catalogo del Dolce, e piti ancora nel rifacimento che del Cortegiano farà
 La nascita del modello
il Gilio alla chiusura del Tridentino, entro ben altri canoni, della cui
mutata normatività basterebbe a dar misura lo svolgimento semantico
di un' endiadi del Cortegiano, trattandosi in questo «delle facezie e dei
motti» (II, XLIII) e di «motti e riprensioni»"' nel Dialogo del Gilio.
Il suo trattato De le parti morali appertenenti a' Letterati Cortigiani,
del 1564, sarà qui assunto come paradigmatico, e primo, emblema di
un'intera serie di rifacimenti, espurgazioni, correzioni, volte a «ri-
formare» il perfetto cavaliere cristiano, il cortigiano «catolico, devoto,
buon cristiano» (p. 19v), che saranno approntate nell'età della Contro-
riforma.
Ed il suo esempio sarà particolarmente significativo, non solo per la
nota acutezza e fortuna del Gilio come teorico d'arte e di retorica"',
ma per il puntiglio cori cui, volendo riscrivere la materia del Cortegiano, ·
seppe misurarne la distanza storica, traducendola in fascinosa distanza
semantica, moltiplicando l'elenco in «labirinto», !'<<idea» platonica in
«chimera», la difformità in coacervazione abnorme e portentosa.
E sin dalla Dedica, singolare mutazione che s'affermerà proprio con
la Controriforma, il principe del Gilio non sarà piu quello del Castiglio-
ne (quello da «condurre» sulla «strada della virtu», «or con musica, or
con arme e cavalli, or con versi, or con ragionamenti d'amore») 112 , ma
quello del Machiavelli, di cui si misura, sin dall'identico incipit, non la
«parità» ma lassoluta distanza:
Sogliono, el pili delle volte, coloro che desiderano acquistare grazia ap-
pressa uno Principe, farsegli incontro con quelle cose che infra le loro abbino
pili care, o delle quali vegghino lui pili dilettarsi; donde si vede molte volte es-
sere loro presentati cavalli, arme, drappi d'oro, pietre preziose e simili ornamenti
degni della grandezza di quelli"'.
Altri poi per fare gli amici, a Signori piU celebri et illustri, gli dedicano
opere latine o volgari, in prosa o in rima. Ma penso che a la maggior parte de
Prencipi pili grati di gran lunga siano i cavalli, le gioie, e gli altri presenti, che i
nobili e ricchi fanno, che gli epigrammi, le canzoni, i sonetti, e l' opere quanto
si vogliano belle e dotte 174 •
Cosi non si tratterà piu di formare il «perfetto cortegianm>, ma «forsi
castelli in aria, o vero formate nuove chimere» (p. iv), come propongono
le prime battute del dialogo. Di fronte insomma ad un principe sempre
piu assoluto e astratto nella «ragion di stato», sta ormai un «formar con
parole» simmetricamente astratto a «formar nuove chimere». Lo spazio
della mediazione storica, del paradosso e della sprezzatura, si è.dissolto,
vanificato il luogo della parola e della storia come «uso», come «com-
merzio»: rimane solo la norma e lo schema (il «sillogismo» spinto sino
al concetto), oppure il catalogo, I' in temporale sequela degli exempla.
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 77
Il Gilio sceglie il secondo percorso di scrittura («non ho io voluto di-
sputare per via di Silògismi, né risolvere per via di questioni come molti
hanno fatto, ma solo dimostrarle per via di essempi d'istorie antiche e
moderne»)"', e subito, e coerentemente, anche il Cortegiano non si
presenta piu che nella lista delle «istorie antiche e moderne» dopo le
corti celebrate dall'Ariosto: «Che diremo de la corte d'Urbino, ne la
quale fu quella hella scuola di si nobili e letterati Signori e gentiluomini,
tanto dal Castiglione nel suo Coitigiano celebrati?» (p. 6v).
Ma nel catalogo del Gilio lesemplarità non sarà piu la proporzione
della grazia ma l'esaustività dell'accumulo; il difetto non si presenterà
piu «risihile» ma ossessivo, non contrappesato dalla «sprezzatura»,
esorcizzabile solo nell'esaurimento degli attributi.
E per cominciare dagli elementi minimi, dai dettagli del vestire e
dell'apparire, anche là dove comune è la disapprovazione, nel Castiglio-
ne bastavano ca.librate dittologie come «I' andar in giornea con le calze
aperte e scarpette pulite» (II, m), mentre nel Gilio l'elenco si dilaterà
nel «bene ornare il corpo di vesti fregiate, di cappe listate, di calze
strinciolate, pompose, e piene di vanità» (p. rn).
E anche dove il ricalco è letterale, nella «disgrazia dell'affettazione»
che corrode chi si studia là di <<non guastarsi la zazzera», e qui di <<non
iscompigliar la zazzera», anche nella citazione piu diretta, il Gilio tra-
sforma il «vicim> in caricatura bestiale:
CASTIGLIONE Però non estimo io che minor vicio della affettazion sia nella
sprezzatura, la quale in sé è laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che
nella attillatura, che pur medesimamente da sé è laudevole, il portar il capo 'i'
cosi fermo per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della ber-
retta il specchio e 'l pettine nella manica, ed aver sempre drieto il paggio per
le strade con la spenga e la scopetta; perché questa cosi fatta attillatura e
sprezzatura tendono troppo allo estremo; il che sempre è vicioso (I, XXVII).
GILIO L'altra parte, che io vorrei in lui, è che non si dilettasse di andar pre-
fumato, ·unguentato, lisciato, e specchiato di maniera che un pelo de la bar-
ba non gli vada intorto; e s'una volta bisognasse toccarla non faccia piano
piano col dito picciolo per non iscompigliar la zazzera: e faccia anco il sacco
per attuffarvila la sera quando va a dormire, e rassomigli un mulo di viaggio
. ; I
con la gabbia al muso 176 •
!
':'I
Ma l'esempio piu eloquente è fornito dai modi della pur comune
condanna dell'adulazione ai potenti: nel Castiglione la requisitoria si
concludeva nella citazione classica da Plutarco, nel simbolo politico del
«fonte infettato», mentre nel Gilio si ingorgherà nell'accumulo del de-
forme, nel paradigma del mostruoso:
CASTIGLIONE Però non è ancora pena tanto atroce e crudele che fosse ba-
stante castigo a quei scelerati cortegiani, che dei modi gentili e piacevoli e
 La nascita del modello
delle bone condicioni si vagliano a mal fine, e per mezzo di quelle cercan la
grazia dei loro principi per corrumpergli e disviarli dalla via della virtli ed
indurgli al vicio; ché questi tali dir si po che non un vaso dove un solo abbia
da bere, ma il fonte publico del quale usi tutto 'l populo, infettano di mortai
veneno (IV, x).
GILIO O adulazion pessima, adulazion mascherata, adulazione nemica di
Dio, coritraria a la verità et a' buoni costumi, compagna de le bugie, amica
de le lusinghe, figliuola del Diavolo, signora de le corti, albergo de gli animi
vili, posseditrice di cose vane, serva del timore, guida de malvagi. Velo di
cuori doppi, colorata finzione, dessiderio insaziabile, offuscamento di ragio-
ne, pervertimento d'intelletto, cagione d'ogni vizio, sentina d'ogni male.
L'adulatore è occhio di basilisco, dente di lupo, rostro di corvo, artiglio d' a-
quila, cor di volpe, pelle di pantera, voce di iena, orma di ippopotamo, coda
di crocodillo, e di cane, camaleonte e polipo (p. 6rv).
Ma alla deformità dell'adulazione, declinazione di bestiario, fa del resto
da specchio, nel Gilio, la bestialità della natura del principe; e se nel
Cortegiano bastava una comparazione a dipingere la perversità («prin-
cipe di cosi mala natura, che sia inveterato nei vidi, come li ftisici nella
infirmità» - IV, XLVII-), qui occorrerà l'elenco, l'accumulo nomin'!le:
«Ma quando sia [scii.: "la natura del Prencipe "] altiera, bizzarra, super-
ba, traversa, bestiale, zotica e ritrosa, bisognerà usare altra maniera di
motti e di reprensioni» (p. zrv).
Quest'accumulo nella deformità trae del resto legittimità dalla uni-
versale presenza dell'ignoranza che, come nel Castiglione, è significata
dal difetto fisico (essendo, quella, cagione dei mali e dei vizi, e manife-
standosi questi ultimi fisicamente come deformità: «perché pare che
per testimonio della medesima natura l'uomo abbia quel diffetto, quasi
per un sigillo e segno della sua malicia» - IV, xr-). L'ignoranza è nel
corpo impronta della «disconvenienzia» dell'animo, e proprio per que-
sto, già nel Castiglione, essa si manifesta nell'inganno dei sensi, con
quelle reazioni corporee che la assimilano al vomito:
perché sempre quella cosa per la quale l'appetito vince la ragione è ignoranzia,
né po mai la vera scienzia esser superata dallo affetto, il quale dal corpo e non
dall'animo deriva[. .. ]; e questo ancora si conosce manifestamente in molti, li
quali, non sapendo, talora mangiano qualche cibo stomacoso e schifo, ma cosi
ben acconcio, che al gusto lor pare delicatissimo; poi risapendo che cosa era,
non solamente hanno dolore e fastidio nell'animo, ma 'l corpo, accordandosi
col giudicio della mente, per forza vomita quel cibo (IV, xvi).
Ma nel Gilio la degradazione dell'ignoranza non è mantenuta nel «con-
trapeso »dell'apologo, pur «stomacoso»; essa si declina in tutto lo spet-
tro dei suoi corrispettivi fisici, si riversa, ancora una volta «stomacosa»,
dal vomito sino alla deiezione anale:
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 79
perché non penso che ad un uomo si possa dir la maggior ingiuria, né la mag-
gior vergogna, che dirgli ignorante [. .. ]come nome per se stesso atto a far ver-
gognar la vergogna; e che ciò vero sia, pensa bene, che quando dici ignorante
ti pare di dir peggio assai che bufalo, asino, castrone, pecora; ti par che quella
parola ti caschi di bocca puzzolente, stomacosa, bassa, languida, insipida,
sconfatta, e pili fetida che la merda degli Ebrei, e pili noiosa che l' assa fetida,
nome sprezzato senza suono, senza considerazione, e senza riputazione al-
cuna 177 •
• ~e stesse marionette dell'affettazione cortigiana, gli emblemi tutti di
ignoranza e «disgrazia», contenuti nel Cortegiano dietro la smorfia ri-
sibile della maschera, nella legnosità del manichino, nel chiaroscuro del-
le empiastrature, ritornano qui in un «lambiccato» di difformità, in una
rassegna di contorti eccessi, di viluppi fisici e verbali, che.sempre si
compie nel sigillo fecale apposto su ogni elenco, su ogni nome:
Io ho veduto a le volte certuni che fanno il letterato recarsi in tanto con-
tegno che parlando par proprio che lambicchino le parole, e mentre studiano
di consertare i gesti del corpo con le parole, acciò non venga lor torto un deto
pili del dovere, paiono pili tosto scimie che uomini [... ]. Quando escono di ca-
sa, s'ingrugnano se castello non ne fa segno con I' artiglierie, se non si suonano
le campane, se ~on corrono i fanciulli e 'l volgo a gridar viva, viva, se non s'ac-
cendono le torc1e, se non si cavano fuora i baldacchini, se non si spazzano le
strade, e non sono come oracoli attesi e come Iddii adorati[. .. ]; e per il pili vo-
gliono sentirsi sanare intorno i terzi peli, vogliono parere ricchi, nobili, e ma-
gnifici, pomposi, eccellenti, favoriti e grandi. Si accattano le code de clientoli,
uccellano a le sberrettate, attendono a le riverenze, e quando sono lor fatte si
toccano con un deto la beretta, o vero danno una chinatella al capo[ ...]. E 'l
maggior segno di manifesta ambizione, e d'occulta superbia, è quando ne va
dietro a questi fumi, acciò si dica: Signor merda, Messer squacquara e mae-
stro stronzo, e buon santo e pudico 178 • '
Ugualmente, la disputa sulla lingua, che occupa larga patte anche del
trattato del Gilio, si articolerà, nel gioco speculare di eccedenze/eccezio-
ni, sino a coprire l'area dell'abnorme, dal «pomposo» al <<Sottile»; estre-
mi, questi, di un'anormalità che mina persin il toscano: «par che ricer-
chi uno stile pomposo, affettato, gonfio con le sottilità delle regole»
(p. 4rv). Cosi, «incapricciati ne loro concetti» (p. r8), sfileranno i pe-
danti, macerandosi a triturare nella lingua «la notomia di ciò che far
dessiderano, sottilizzare, bilanciare, lambiccare, ciò che far pensano»
(p. 62).
In questo sottilissimo gioco di maniere, di dosaggi da bilancino, la
«disconvenienzia» è molto pili prossima e incombente che nel Cortegia-
no, cosf che ad ogni pagina fadisproporzione, senza il contrappeso della
sprezzatura, s'ingorga nel disfacimento della lettera e della lingua. Là
si vede «pedantizzate» con «parole tanto vecchie, tarlate, e rancide, e
80 La nascita del modello Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 8r

mucide» (p. 37), con «stile pedantesco, che è cosa da sassate e da fi- la dim~ra a corte e l'inizio dell'arruolamento scolastico, questi balbet-
schiate»; e qua all'opposto tamenti trovano, nella prosa del Gilio, fascino e corpo, spazio ed esem-
quando parlano latino, par che vogliano sputare le parole, o masticarle, o plarità: poiché nell'autorità di Plinio (evocato dal Gilio), tutto il diffor-
squarciarle, o separare una lettera da l'altra, o le pronunziano con tanta goffez- me .~e~ scartato e «sprezzato» dai giochi del Cortegiano, atarantati ed
za che par che vi faccino cadere i denari (p. 36v). asp1d1, ritrovano la mostruosa meraviglia della gestazione nella parola.
'.'Il cap~ic~io impregnò la chimera» (p. 35v): un emblema fecondo per
Anche la parola, infine, preda di «spigolistri» o di «puzza papa»"',
il Man1er1smo, la conclusione del nostro itinerario tra i «sensi» e le
si fa oggetto deforme, bolo da masticare o da sputare, quanto lontano «maniere». -
da quel lieve rapprendersi delle voci, nelle terre di Moscovia, e «gelarsi
in aria» e infine «liquefarsi e descender gili mormorando» evocato nel
Cortegiano "'.
In realtà, per concludere un elenco che potrebbe ancora decomporsi
in altri grumi, in altre occorrenze, il Gilio bene aveva compreso, e signi-
ficava in una prosa ossessivamente notomizzatrice, che nella mutata si-
tuazione economica e politica dell'Italia la «sprezzatura» era stata una
felice giunta a «conviti magnifici, feste, giochi, spettacoli» (Cortegiano,
IV, xxxvr); ma che ora non era tempo neppur pili di «buone creanze»,
ma di povertà e sbirreria:
E se ben considerate, non è oggi sf trista sbirreria, che non si venda, e non
è pili quel tempo, nel quale la virtU, la prudenza, e le buone creanze .de l'uomo
si eleggevano. Però è forza che ogni povero dottoruzzo se vuol vivere faccia le
simonie, e rubbi in segreto et in palese, perché molto pili è quello che si paga
al sensale che quello che si guadagna (p. 24v).
L'amaro realismo del Gilio attestava la coscienza storica della fine
del ruolo privilegiato dell'intellettuale cortigiano, e insinuava, nel re-
taggio della cultura umanistica del pieno Cinquecento, una crisi di iden-
tità e di funzioni profonda e non pili rimarginata. Intanto, tale progres-
siva perdita dell' «uso politico» come del «commerzio» sociale della pa-
rola si manifesta nel Gilio per turgori subito lacerati in frammenti, sino
al balbettamento stentato di chi non spalanca pili la bocca nel riso e nel-
le gelatine, ma biascica il quotidiano «bus, base bos» di povero pedan-
te, destinato a «passeggiare e ragionar con Caronte», a ingoiar sentenze
· alla mensa dei nuovi parvenus:
E bene diceva Filippo Strozzi, che 'l ricco muore una volta sola: ma il po-
vero mille il giorno. Oltre di questo non credo che si trovi la pili sciagurata ca-
naglia de' letterati[ ... ]. Sono anco da pochi, muccicusi, vili, infermi per il pili,
a pena si sanno vestire, sciocchi, mal composti, e tolti da i libri, non sanno al-
tro fare che passeggiare e ragionar con Caronte. [... ]. E se non saprò dire bus,
base bos, al pane saprò dir pane, e al vino vino (p. 9v).
Al letterato ormai appartiene il «bus, base bos», la routine della de-
sinenza, la ripetizione dell'inarticolato: ma nell'intervallo tra la fine del-

7

Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità.
1
La lettera di risposta al dialogo di Alfonso de Valdés, Di.ilogo de las cosas ocunidas en
Roma, scritto nel 1527 con l'intento di mostrare la «provvidenzialità» del Sacco di Ro-
ma, si articolerà non solo come replica ufficiale del nunzio pontificio in Spagna, ma an-
che come rivendicazione personale 1 e teorica, di piena maftrise dell'arte «dello scrivere
in dialogo». Tale polemica precisazione del Castiglione non solo consente di definire a
posteriori, nel giudizio dell'autore, il genere di «pertinenza» del Cortegiano, ma anche
di meglio valutare argomenti già enunciati nel corpo del testo, come paradigmaticamen-
te dimostra la definizione stessa della «materia» dell'incipiente trattazione: «vorrei che
'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse uno della compagnia ed a questo si desse
carico di formar còn parole un perfetto cortegiano, esplicando tutte le condicioni e par~
ticular qualità, che si richieggono a chi merita questo nome; ed in quelle cose che non pa~
reranno convenienti sia lecito a ciascun contradire, come nelle scale de' filosofi a chi tien
conclusioni» (B. Castiglione 1 Il Libro del Cortegiano, con una scelta delle Opere Minori,
a cura di Bruno Maier, Utet, Torino 1973 3 , libro I, cap. xrr, alla p. 100; il corsivo è no-
stro).
2
La duttile abilità del Castiglione nel risolvere la mimesi in percorsp diegetico, l'«even-
to» in «ricordo», è esemplarmente attestata dalla formula stessa del «narrare il ragiona-
mento di due che parlano in contradizione»1 ed ulteriormente amplificata dal gioco delle
«assenze» dell'autore, che si presenta, al letto1·e, come scriba fedele di una testimonian·
za postuma: «Assente, dunque, e ora portavoce di un portavoce: registratore, recorden>,
conclude- assai a proposito-Eduardo Saccone [cfr. Trattato e ritratto: l'introduzione
del «Cortegiano», in <{MLN», XCIII (I978), n. l, pp. l-21; la citazione alla p. 4].
' L'esemplarità1 normativa per la lingua, del Bembo è stata precocemente associata, per
la definizione di un ideale canone della composta classicità del primo Cinquecento, al
codice comportamentale del Cortegiano, sin dai lavori del primo, e pii.I informato, edi-
tore moderno del Cortegiano, da Vittorio Cianche collegherà appunto il prezioso com-
mento al trattato del Castiglione a una fitta trama di rinvii eruditi, come ha osservato
Ca1'lo Dionisotti, all'attività ferrarese ed ai riferimenti mantovani di Pietro Bembo. Si
ved~o infatti: B. Castiglione, Il Cortegiano, annotato e illustrato da V. Cian, Sansoni,
Firenze 1894; il critico concludeva la propria Prefazione ai «giovani lettori)> (il volume
compariva infatti entro una collana scolastica) celebrando appunto: «il ritratto idealiz-
zato ma fedele, d'un' età e d'una società per molti riguardi gloriosa, frutto saporitissimo
di un innesto del nuovo pensiero sull'antico, dovuto ad uil cavaliere umanista, amico di
Raffaello e del Bembo, degno cortigiano d'Isabella Gonzaga» (ibid., pp. xv-XVI; il corsivo
è nostro); ed ancora, V. Cian, Pietro Bembo e Isabella d'Este Gonzaga, in «Giotnale Sto-
rico della Letteratura Italiana», IX (1887), pp. 81 sgg. Le osservazioni del Dionisotti
inaugurano la fondamentale recensione a V. Gian, Un illustre nunzio pontificio del Ri-
nascimento: Baldassar Castiglione, Città del Vaticano 1951, in GSLI, CXXIX (I952), pp.
31-57; la questione, qui evocata1 alla p. 3 l, Una quota, non trascurabile, di responsa-
bilità nel costitui.J:si del binomio critico Bembo~Castiglione (emblemi di un temperato
i
11
,
Il Libro del Cortegiano' esemplarità e difformità
classicismo) risale del resto già a A. Luzio e R. Renier, Mantova e Urbino, Isabella d'Este
ed Elisabetta Gonzaga, Roux, Torino 1893, e ad essi difatti rinviava il Cian (ibid., Pre-
fazione, p. IV). L'edizione del Cortegiano, a cura di G. Prezzolini, a decenni di distanza
(dr. B. Castiglione- G. Della Casa, Opere, Rizzoli, Milano-Roma 1937), non faceva che
incrementare polemicamente, e sul versante negativo, tale associazione Bembo-Casti-
glione, come osserva puntualmente Giancarlo Mazzacurati: «Si spiega forse cosf il di-
sagio di pagine come quelle del Prezzolini, che finiscono per trasformarsi in un verbale
di accusa contro lo scrittore, dove si perpetua lanacronistico tema di un Rinascimento
dimidiato tra brutalità realistiche (Machiavelli, Aretino) e vuoto idealismo platonico-
aristocratico (Castiglione, Bembo)» (in Misure del classicismo rinascimentak, Liguori,
Napoli 1967, p. 23).
Quanto la diarchia fosse legata alle ragioni esterne della polemica, tutta pertinente alla
critica e molto meno alla storia dei testi, sul classicismo mostrò ineccepibilmente Carlo
Dionisotti nella sua citata recensione al Cian; ricorderò qui soltanto due conclusioni del-
lo studioso che riconducono i due scrittori su due clivages assai distanti, se non proprio
divergenti, della storia culturale del Cinquecento. Sull'iniziazione poetica a Milano del
Castiglione, non esiterà il Dionisotti ad affermare: «E, sia detto subito, la sua vocazione
poetica non fa eccezione a quella di altri contemporanei lombardi che all'uscir della gio-
vinezza, incontratisi nello stil nuovo del Bembo, finirono, sfiduciati della poesia, col
cercar nella prosa la misura libera e propria del loro ingegno» (recensione citata, GSLI,
cxxrx, I952, p. 37); ed in termini conclusivi, cosf separerà le due espel'ienze culturali
e poetiche: «E questo risultato dell'Ariosto si appaia a quello dell'uomo cui si deve la
demolizione critica della letteratura cortigiana, cioè il Bembo. Vita e opera del Casti-
glione restano al di qua deila meta che per diversa via il Bembo e l'Ariosto attingono:
restano comprese fra i rischi e i miraggi di un'età avventurosa» (ibid., p. 4I).
Nonostante tali decise correzioni di prospettiva, la congiunzione Bembo-Castiglione
agi.J:il ancora a lungo come coagulo critico e filtro storiografico della letteratura proto-
cinquecentesc!_t, se i pii.I recenti studi sul classicismo rinascimentale nascono tuttavia nel
loro nome, pur con un impianto argomentativo che tende ormai a compararli per «dif-
ferenza>>; cfr. G. Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale cit. (cap. I: Baldassar
Castiglione e l'apologia del presente; cap. rr: Pietro Bembo e la barriera degli esemplari) e P.
Floriani, Betnbo e Castiglione. Studi sul classicismo del Cinquecento, Bulzoni, Roma I976.
È però vero che proprio Giancarlo Mazzacurati ha, già a partire da quel saggio, e negli
interventi successivi, riportato il Castiglione entro un piU mobile «mito di autorappre-
sentazione collettiva» (dr. G. Mazzacm·ati, Il Rinascimento dei moderni, Il Mulino, Bo-
logna 1985). Il richiamo del Dionisotti a ristudiare l'area cortigiana lombarda, lungo
una possibile congiuntui'a Castiglione-Bandella, è ancora nella citata recensione al Cian:
«Neppure il meraviglioso recupero operato in tarda età dal Bandella è valso a ridestare
il ricordo di una società che era cosf viva al tempo della sua giovinezza e di quella del
Castiglione. Sicché oggi chi studia la giovinezza dell'uno e dell'altro sa come accada di
dover procede1'e fra ombre suggestive e di 1'emota selvat> (id., Baldassar Castiglione e la
teoria cortigiana cit., p. 37). ·
Ora la nostra ricerca partirà proprio da qui, nella parabola significativamente allusa dal
Dionisotti per il Castiglione, dai luoghi estremi di quello sperimentare e distillare la
«mutazionei> che accomuna una generazione cresciuta tra «i miraggi di un'età avven-
turosai>i nell'arco che va da Milano a Roma, a quella Roma di Clemente VII, alla quale
convergerà anche il Guicciardini. Si formerà cosf il Cortegiano nel ricercato e sempre
sfuggente equilibrio tra il raccontare e il ricordare, tra quel «racconto» e quei «ricordh>,
tra il Bandella e il Guicciardini, i quali ritroveranno, ciascuno per proprio conto, le mi-
sure di generi e di funzioni (tra lo scenario del pubblico e la discrezione della memoria)
·che il Castiglione aveva fascinosamente tentato di congiungere in un'unica trama di «1'a-
gionamenti».
--------------------------------------------.-.-·-··~·
La nascita del modello
4
Si vedano in particolare: G. Ghinassi, Fasi dell'elaborazione del «:Cortegiano», in «Studi
di Filologia Italiana», xxv (1967), pp. 155-96; La seconda redazione del "Cortegiano ",
edizione critica per cura di G. Ghinassi, Sansoni 1 Firenze 1968; cui saranno da aggiun-
gere preliminari e postille, allegati in: L'ultimo revisore del "Cortegiano ", ancora in SPI,
XXI (1963), pp, 217-64, e Postille sull'elaborazione del "Cortegiano ",in «Studi e problemi
di critica testuale», IU (ottobre 1971), pp. 171-78.
5
Sottolineava già, prima ancora di ogni sondaggio filologico sul Cortegiano, l'acuto bilan-
! eiadel Dionisotti: «Solo von·ei aggiungere che si disegna qui una frattura tra l'esperien-
za storica che nelle sue implicazioni è, o sarà, esperienza politica e sociale da un lato, e
·un'esperienza intima, individuale, che si identifica nell'amore, dall'altro. Questa frat·
\tura, come è caratteristica di una zona ampia e centrale della cultura italiana del primo
,Cinquecento, cosl, e in ispecie, è caratteristica del Castiglione, e si ritrova approfondita
l
e inasprita, quanto piU è risoluto il tentativo di superarla, nella compagine stessa del
Cortegiano» (C. Dionisotti, recensione citata, p. 4r). E curioso che il Ghinassi, ripren·
dendo questa osservazione - cosf netta e radicale - del Dionisotti, ne limiti la po1'tata
(e la citazione) ai soli aspetti individuali, e quasi biografici, della vicenda del Castiglione:
«le incertezze compositive toccano motivi ben piU profondi e, nella loro forma piU ap·
pariscente, paiono riprodurre la fondamentale divaricazione, rilevabile pe1' altri indizi
nella personalità storica del Castiglione, tra "esperienza politica e sociale da un lato, e
un'esperienza intima, individuale, che si identifica nell'amore, dall'altro"» (in Fasi del·
l'elaborazione del "Cortegiano " cit., p. r 75), Già il Floriani osservava, a questo propo·
sito, che il Ghinassi si atteneva a un'interpretazione «forse un po' troppo timida» (ibid.,
p. r 77) rispetto ai materiali presentati e, aggiungo qui, rispetto alle stesse premesse de-
sunte dal saggio del Dionisotti.
6 lar sen~a toccar la man della donna, ed usar molti altri modi, i quali, come or sariano
Non è soltanto qui in gioco la complessa operazione di filtro delle fonti, del resto già be·
ne restituite da Vittorio Cian, nel suo esemplare commento del Cortegiano; ma piuttosto
la strategia stessa dispiegata dal Castiglione per far convergere, nel percorso narrativo
del dialogo, tradizioni di genere non omologhe e insubordinabili, come se (e qui sta la
/ictio e lappello alla complicità del lettore·spettatore) il Cortegiano ne fosse il compimen·
to. Accoglierei, come punto di partenza, l'osservazione di Arnaldo Di Benedetto: «Inol·
tre l'opera si configura coi caratteri della summa per la molteplicità dei temi trattati (per
es., il linguaggio, i motti e le facezie, il principe, l'amore) o accennati (come il vestire,
o il problema pedagogico toccato nel cap. xxx del quarto libro, preoccupazione preci·
pua, oltre che degli umanisti quattrocenteschi, del contemporaneo Sadoleto): temi tutti
concatenati fra loro all'insegna di quello dominante della cortegiania, che appunto de·
termina l'eclettica versatilità esibita nel dialogo» (Akuni aspetti della «fortuna;> del «Cor·
tegianoi> nel Cinquecento, r971, poi in Stile e linguaggio, Bonacci, Roma r974, pp.
103-r5; la citazione alle pp. ro4·5), · ,cere e dispiacere; onde talor procede che 1costunu, gli ab1t1, 1 l'lt1 e 1modi, che un tempo
7
Su questo punto, capitale per la «costituzione» del Cortegiano, si veda ora l'eccellente
lavoro teorico di Antoine Compagnon, La seconde main ou le travail de la citation, Seuil,
Paris r979.
8
È impossibile qui fornire una lista, o una geografia, della «disseminazione» del modello
del libro del Castiglione attraverso il Cinquecento ed il Seicento europei; converrà ri·
ferirsi intanto a: B. Croce, Libri sulle corti, in Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rina·
scimento, Laterza, Bari r958 2 , pp. 198·207; e ancora ad A. Di Benedetto, Trattatisti cin-
quecenteschi del comportamento (oltre al già citato Akuni aspetti della "fortuna" del «Cor·
tegiano» nel Cinquecento), in Stile e linguaggio cit., pp, 77·100; per la diffusione europea
del trattato si veda il saggio di A. Quondam in aa.vv., La Corte e il «Cortegiano>>, voi.
II: Un modello europeo, Bulzoni, Roma r980, pp. 15·68. La parabola del «vivere in cor·
te», lungo il Cinquecento, può essere seguita, in una sorta d'arco insieme cronologico
e bibliografico (e di evoluzione di giudizi critici), attraverso un ideale percorso, segnato
esemplarmente dal Calmeta e dal Liburnio (sui quali valgano le altrettanto esemplari os·
servazioni di F. Neri, Nota sulla letteratura cortigiana del Rinascimento, r906, poi in Let-
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
teratura e legg,ende, Chiantore, Torino r95 r, pp. I·9i e di C. Dionisotti, Niccolò Liburnio
e la letteratura cortigiana, in «Lettere Italiane», XIV, 1962, n. l, pp. 33.58), e concluso
nelle escursioni manieristiche dal Capaccio a Mare' Antonio Secco Comneno. Sull' ar·
ticolazione ideologica della teoria cortigiana, rinvio a A. Quondam, L'ideologia corti·
giana di Giulio Cesare Capaccio, in La parola nel labirinto. Società e scrittura .del Manie·
rismo a Napoli, Later~a, Roma·Bari 1975, pp. 187-225; ed a G. Mazzacuratl, Il «corte-
giano» e lo «scolare» nel «Dialogo delle lingue» di S. Speroni, in Confl#ti di culture nel
Cinquecento, Liguori, Napoli 1977, pp. r41-8r.
Se amplissima è stata la diffusione europea del trattato, pili stereotipa ne è stata, in tem-
pi recenti, la ripresentazione italiana; l'associazione, riduttiv.a, al Casa, f~ri;iul~ta d~l
Prezzolini (B. Castiglione" G. Della Casa, Opere, a cura d1 G. Prezzolin1, Rizzoh,
Milano-Roma r937) è stata recentemente ripresa ancora nei «Classici» Ricciardi: B.
Castiglione, G. Dell~ Casa, B. Cellini, Opere, a cura di C. Cordié, Ricciardi, Milano·
Napoli r960. ,
, T. Tasso, I/Malpiglio overo de la Corte, in Dialoghi, edizione critica a cura di Ezio Rai·
mondi, Sansoni, Firenze 1958, tomo II, pp. 547·65; la citazione alla p. 548.
10 Ibid. Ecco il contesto completo: «Né stimo già che 'l Castiglione volesse scrivere a gli
uomini de' suoi tempi solamente, tuttoch'egli alcuna volta faccia per g~oco .menzione di
que' pili vecchi cortigiani i quali al tempo di Borso portarono lo sparav1ero 1n pugno per
una leggiadra usanza». La citazione tassia~ si riferisce al Cort~gianc; (II, I·m),. alla lun~a
e appassionata difesa del presente contro 1 laudatores tempons actt delle antiche corti,
ove si vedevano appunto i cortigiani «andar in giornea con le calze aperte e scarpette
pulite e per esser galante, portare tutto df un spa1'vieri in pugno senza proposito, e bal.
goffissimi, allor erano prezzati assai» (Il Libro del Cortegia?~ ~it., II, m, p. r94~. ~osic·
ché il Castiglione poteva nuovamente concludere sulla stor1crta delle consuetudini: <(Pe·
rò sia lecito ancor a noi seguitar la consuetudine de' nostri tempi» (ibid.), insistendo cer·
to pili sulla «mutazione i> che. s~'<<idea)>, pel'ol'ata ~al Tasso. Si o~servi .ugua!mente co·
me il «portar[ ...] un sparvieri in pugno senza proposito» del Cortegtano s1 muti, nella let·
tura tassiana, nello «sparaviero in pugno per una leggiadra usanza».
11 Tasso, Il Malpiglio overo de la Corte cit., tomo II, pp. 548·49,
12, Il Libro del Cortegiano cit., I, 1, p. 80. Il contesto offre, in tutta evidenza, il contrasto
tra esemplarità e mutazione storica: «arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser
tenuto temerario da tutti quelli che conoscono come diffidi cosa sia, tra tante varietà
di costumi che s'usano nelle corti di Cristianità, eleggere la pili perfetta forma e quasi
il fior di questa cortegiania, perché la COfl;5uetu~e f~ a ~o~ sp~s~o ~e me~esime cose pia-
J, son stati in pregio, div~ngono vili, e pel' contrario i vili divengono pregiati)> [~egue i~
passo qui sopra citato]. E significativo notare come la centralità della «Consuetudine» nei
«ragionamenth> del Castiglione, proprio per il suo 1'elativistno, per la coscienza della
mutazione storica non sia stata rilevata nelle letture centrate sul «classicismo» del Cor-
tegianQ. Essa non'compare neppure, come area semantica, nella nutrita ~sta dei m~ts­
thème analizzati da Erich Loos, Baldassare Castigliones «Libro del Cortegzano». Studzen
zur Tugendauffasung des Cinquecento, Klostermann, Frankfurt am Main r955, nella par·
te II, cap. IV (Analyse des Libro del Cortegiano unter Auswahl von Einzelbegriffen).
u Alla forma transitiva del «s~vire», att~tata nella seconda redazi~ne («.Vo,i a4unque ~
ricel'cate ch'io scriva qual sta al parer mio quella forma perfetta di cortlggtarua, che pili
si convenga a gentiluomo che viva in corte de principi, e che possa e s~ppia perfettame?-
te servirli con dignità in ogni cosa lodevole» - cfr, La seconda redazione del «Cortegta·
no» cit. [di qui innanzi abbreviata in GHJ, I, 1, p. 3), il Castiglione sostituirà una tour:
nure pili indiretta, sotto specie di «ragionevolezza», nella formula«[. .. ] per la quale egli
possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole» Ul Libro del Cortegi.ano
cit., I, I, p. 79; il corsivo è nostro).
86 La nascita del modello
14 GH, 1, 11 p. 4. Anche qui la redazione finale avrà cura di lenire il rapporto di servaggio
diretto («quello principe che da lui sarà servito») accentuando il ruolo «formativo)> dd
cortigiano: <~formiamo un cortegian tale, che quel principe che sarà degno d'esser da lui ser-
vito, ancor che poco stato avesse, si possa però chiamar grandissimo signore)> (Il Libro
del Cortegiano cit., I, 1, p. 80; il corsivo è nostro).
u «lo estimo che la conversazione, alla quale dee principalmente attendere il cortegiano
con ogni suo studio per farla grata, sia quella che averà col suo principe; e benché questo
nome di conversare importi una certa parità, che pare che non possa cader tra 'l signore
e 'l servitore, pur noi per ora la chiameremo cosf» (Il Libro del Cortegiano cit., II, XVIII,
p. 2I6"'" GH, p. Ioo). Si noti come, nella stessa frase, la natura della «conversazione»
si affermi quale «congruità retorica» che comporta «una certa parità)>, e insieme quale
«discontinuità sociale» e scenica dei ruoli.
16 Il brano dedicato alle virtU della «conversazione i> cosf infatti si conclude: «Voglio adun-
que che 'l cortegiano [. .. ]si volti con tutti i pensieri e forze dell'animo suo ad amare e
quasi adorare il principe a chi serve sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e mo-
di tutti indrizzi a compiacerlo -. Quivi non aspettando piU, disse Pietro da Napoli:
- Di questi cortegiani oggidf trovarannosi assai, perché n1i pare che in poche parole ci
abbiate dipinto un nobile adulatore -» (Il Libro del Cortegiano cit., II, xvm, p.
2I6 ~ GH, p. 100).
17 Cfr. B. Castiglione, Il Cortegiano, annotato e illustrato da Vittorio Cian, Sansoni, Fi-
renze 1894, nota 21 alla p. 31.
18 In molteplici luoghi, nel quarto libro, nella struttura «academica» finale data dal Casti-
glione ai propri «ragionamenti», si insisterà su questo tema; basti qui una sommaria
campionatura:
«vorrei sapere se quella: instituzione che ha da far il cortegiano nel suo principe deve es-
ser cominciata dalla consuetudine e quasi dai costumi cottidianh> (IV, xxrx, p. 483);
«però bisogna che 'l cortegiano, per la instituzion del quale il principe ha da esser di tan-
ta eccellenzia, sia pill eccellente che quel pl'incipe; ed in questo modo sarà ancora di piti
dignità che 'l principe istesso, il che è inconvenientissimo» (IV, XLIV, p. 503);
«per rispondere adunque alle vostre obiezioni, dico ch'io non ho detto che la instituzio-
ne del cortegiano debba esser la sola causa per la quale il principe sia tale» (IV, XLV, p.
504);
«onde forse si poria dir che 'l divenir institutor del principe fosse il fin del cortegiano »
(IV, XLVII, p. 507).
19
Il Libro del Cortegiano cit., IV, XLIII, p. 502. È importante osservare che nella seconda
redazione l'irrealizzabilità dell' «instituzione» del principe è risarcita dalla sopravviven-
za del tema della «pompa delle donne», nella repressione della quale si realizza, in un
fru:e che è pari al dire, il concreto<~ buon governo di quella patria i>. Nell'edizione defi-
nitiva l'etica per le «donne)> è sostituita dalla «politica)> per il principe: e la praticabilità
di quella «repressione» cederà all'impraticabilità utopica di questa, vagheggiata e vana,
«instituzione». Recitava infatti la seconda redazione:
«si può dire che esso non solamente sia quel perfetto cortigiano che noi cerchiamo, bastante
per instituire bene el suo principe, ma se la fortuna gli sa1'à propizia, che debba ancor esser
degno et ottimo principe, il che a' df nostri è cosa tanto rara-. Disse allor Terpandro:
- Per vostra fé, signor Ottaviano, dite; davvi or il cuor di servm·, quando sarete duce di
Genova, tutti quegli modi e costumi che avete detto convenirsi a buon principe?-. Ri-
spose el signor Ottaviano: - Se mai giungo a quel grado, non so quello ch'io mi farò
del servargli; so ben forse quello che dover1·ei fare; ma se in ogn'altra cosa mancassi, non
mancarei almeno nel reprimere la pompa, arroganza et ambizione delle donne, ché gli
userei sempre ogni diligenzia per mettergli fi·eno; e questo credo saria tanto giovevole e
necessario al buon governo di quella patria quanto akun'altra cosa delle già dette o di quelle
che restano da dire, che sono molto piU» (GH, III, XLIII, p. 231). Il corsivo è nostro.
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
20 Il Libro del Cortegiano cit., IV, XLVII, pp. 509-10. Nella seconda redazione la metafora
relativa a «Dionisio til'anno» conclude la parabola «evangelica» della necessità di semi-
nare «in terren fertile» (ora compresa in IV, XLV), con minori responsabilità quindi ri-
spetto all' «operarvi i modi della co1'tegiania» (cfr. GH, III, xxx, pp. 2r6~17).
21 Il Libro del Cortegiano cit., I, XXVIII, p. 129. Il «parlare affettatissimo~> è, nella stessa oc-
casione, rip1'ovato in GH, I, xxxr, p. 42.
22
Il Libro delCortegiano cit., I, xxxv, p. 142. Cfr. GH, I, XXXII, p. 44: «et in tal modo ne
resulterà una lingua che si potrà dire italiana, comune a tutti, culta, fiorita et abondante
de termini e be1le figure». La polemica antitoscana è accentuata nella redazione finale,
dove la battuta contrastiva («e se ella non fosse pura toscana antica, sarebbe italiana,
commune, copiosa e va1'ia») è richiamata dal paragrafo seguente cui era confinata nella
seconda redazione: «E se non sarà in tutto pura toscana, non per questo meriterà essere
sprezzata, che già non fu rifiutato Tito Livio, avenga che colui dicesse avere trovato in
esso la patavinità» (GH, ibid.).
23 Cfr. C. Tolomei, Il Cesano. Dialogo nel quale si disputa del nome, col quale si dee chia1na-
re la volgar lingua, Giolito, Vinegia 1555, pp. 18 sgg.
24 Cfr. C. Lenzoni, In difesa della lingua fiorentina, per cura di C. Bartoli, Torrentino, Fio-
renza 1556, p. 25. Un elenco dettagliato delle citazioni del Castiglione nelle dispute sul-
la lingua lungo il Cinquecento è dato in appendice a B. Castiglione, Opere volfjlri e la-
tine, a cura di G. A. e G. Volpi, Comino, Padova 1733 (1732 1), pp. 401-14.
n «In questa fase, la polemica di cui il Castiglione ci è testimone segna il momento dit-i-
mente e decisivo di un distacco che se non è ancora rifiuto del mito trecentesco, segna
con1unque la consapevolezza d'una condizione intellettuale e d'una pressione socio-
politica incommensurabile ad esso. Il presidio di alcuni testi fondamentali basterà poi
a dar fondamento a questa lenta ribellione, perché essi (si chiamassero Arcadia, Corte-
giano od Orlando Furioso) creavano il senso d'una tradizione già adulta, diffusa, "comu-
ne", perfettamente trasferibile (a differenza di quanto era avvenuto per tante opere
quattrocentesche) da un centro all'altro» (Mazzacurati, La mediazione trissiniana, in Mi-
sure del classicismo rinascimentale cit., p. 264).
26 Si osservi la perentoria affe1'mazione del Giovio, ad apertura di trattato: <do vi rispon-
derò amorevoln1ente, purché non mi oblighiate alla severità delle leggi di questo scelto
parlar toscano perché io voglio in tutti i modi esser libero di voler parlare alla cortigia-
na» (P. Giovio, Dialogo de!l'imprese militari e amorose, Barre, Roma 1555; cito ora dalla
riedizione commentata da M. L. Doglio, Bulzoni, Roma I978, alla p. 34).
27 G. A. Gilio, De le parti morali appertenenti a' Letterati Cortigiani, et ad ogni altro gentil
uomo, in Due dialogi, Camerino, per Antonio Gioioso, 1564, p. 4ov: «Quanto a la lin-
gua cortigiana fu già di molti opinione, che fusse la ve1:a lingua». Nelle stesse pagine
(4ov-4I) è evocata l'autorità del Castiglione, per rapporto al Bembo ed al Calmeta.
28 Il Libro del Cortegiano cit., I, xxx, p. 132.
29 Ibid., II, vm, p. 201.
30 Ibid.: «procurerà esser nell'arme non meno attillato e leggiadro che sicuro, e pascer gli
occhi dei spettatori di tutte le cose che gli parrà che possano aggiungergli grazia; e porrà
cura d'aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, invenzio-
ni ingeniose, che a sé tirino gli occhi de' circonstanti, come calamita il ferro».
31 Ibid., II, VIII, p. 202.
32 GH, II, VIII, p. 90.
l 3 Tasso, Il Malpiglio overo de la Corte, in Dialoghi cit., tomo II, p. 561.
34 Segnalo soltanto due testi capitali, nell'arco delle possibili lettui'e o riferimenti del Ca-
stiglione: il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti, esce a Firenze nel 1485; ma le
fonti essenziali per il Cortegiano, e cioè i libri XXXV e XXXVI della Naturalis historia
di Plinio, erano già disponibili nella traduzione del Laudino sin dal 1476 (cfr. Historia
 ---------------------------------------------~----
88 La nascita del modello
naturak, traci. di C. Land.ino, Venezia 1476; e poi Venezia 1489, 1501, 1516). Del resto
nel r 521 uscirà il volgarizzamento del Cesariano del De architectura vitruviano, con nuo-
va traduzione a cura di F. Ludo Durantino, ancora nel 1524: il tema è dunque, negli an-
ni di composizione del Cortegiano, pienamente à la page.
35 Sin dalla Dedica dell'Idea del Tempio della Pittura il Lomazzo-ha osservato Roberto
Paolo Ciardi - riprendeva dal Cortegiano (I, LII) il motivo della «cognizione della pit-
tura» come miglior veicolo alla conoscenza della bellezza (e il Lomazzo: <~considerando
ch'io trattava d'un'arte tanto pregiata e nobile, che sola[ ...] la vera cognizion della bel-
lezza delle cose create ci apporta»; Idea del Tempio della Pittura, Ponzio, Milano r590;
ora in Scritti sulle arti1 a cura di R. P. Ciardi Marchi e Berto1li, Firenze r973, voi. I; la
1 42
citazione alla p. 244). Una citazione ancor piU diretta è nel cap. VII del medesimo trat-
tato, quando il Castiglione è allegato a proposito dell' «armonia del mondo», in un abito
insomma di pieno classicismo: «la vera bellezza in una donna et in un uomo [. ..] contie-
ne in sé, come compendio, tutta la proporzione e l'armonia del mondo. Il quale, come
dice il Castiglione nel suo Cortigiano, anch'egli non è altro che una pittura della natura,
veggendosi l'ampio cielo, di chiare stelle tanto splendido, e nel mezo la terra da i mari
cinta et adorna di monti, di valli, di fiumi e d'infinita varietà d'arbori, di fiori e d'erbe
ornatal> (Idea del Tempio della Pittura cit., p. 270).
36
Cosi infatti si giustifica, nella redazione definitiva, l'introduzione, nel III libro, del te-
ma della «donna di palazzo»: ~<cosi ancora il ragionar del cortegiano è sempre imperfet-
tissimo, se le donne, interponendovisi, non danno lor parte di que1la grazia, con la quale
fanno perfetta ed adornano la cortegiania» (Il Libro del Cortegiano cit., III, m, p. 340).
Si tratta di una «minuta autografa di lettera>>, databile intorno ai primi anni del Cinque-
37
cento (~<entro il primo decennio»), ed indirizzata a un non identificato «Messer Paulo»;
è stata edita da G. Garni, in B. Castiglione, Lettere inedite e rare, Ricciardi, Milano-
Napoli 1969 pp. 109-ro. Ecco il contesto completo del passo in questione: «Oltra ciò
1
vorrei sapere q(ual)che donne antiche, venendo anchor fin ala età nostra, che fossero
state dare in qual si voglia cosa, o in lettere, o in arme, o in castitate, o in constantia,
o qualche atto generoso, o greche, o romane, o externe, e me saria caro de intendere de
queste poco superiori a nui de cento, duecento o trecento anni, non pretermettendo
qualche Spartana recondita; basterami sapere li auctol'i, per poter cum min(or) faticha
vostra satisfarmi».
38
È ora pubblicata in Appendice al saggio di Ghinassi, Fasi dell'elaborazione del «Cortegia-
no» cit., pp. r89-96.
39
Su questi trattati rinvio a C. Fahy, Three Early Renaissance Treatises on Women, in «Ita-
lian Studies», XI (r956), pp. 30-55; ed a Ghinassi, Fasi dell'elaborazione del «Cortegiano»
cit., pp. 173-76.
40
Basti ricordare che proprio a ridosso dell'edizione del Cortegiano vennero pubblicati,
per esempio, il Libro de natura de amore di Mario Equicola (Venezia r 5 25, 1526; e poi
ancora 1531), già autore di un Perigynaecon; ed il trattato di Galeazzo Flavio Capella,
Della eccellenza et dignità delle donne, G. de Gregari, Vinegia r526. Altri elementi sulla
diffusione del genere annota V. Cian, nel suo commento al Cortegiano (ibid., p. 267).
41
Si tratta di una riedizione che utilizza lo stesso frontespizio e privilegio della prima edi-
zione del r 528: Il Libro del Cortegiano del conte Baldesar Castiglione, «In Venezia nelle
case delli eredi d'Aldo Romano e d'Andrea d'Asola suo suocero, nell'anno MDXXXIlI del
mese di Maggio». Ad essa è premessa una lettera di Francesco Asolano alle Gentili Don-
ne, di cui riproduco i passi essenziali:
« Veggendo io, Valorose Madonne, il Cortigiano del Conte B. Castiglione, altre volte
da me mandato fuori, esser stato dal mondo ricevuto, e con tale e tanto universale con-
sentimento abbracciato, con chente e quale niuno altro.al secol nostro; ed essendone da
piU lati anche stimolato da amici [... J emmi parso, doverlovi ancora di novo ridonare.
Perché indrizzolo a voi, e meritissimamente dedicolovi, Signore mie graziose? non solo
-_-_-,--
__ -_ ~--~~
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
per essere egli vosti·a fattura, e voi di lui prime e sole Autori, ma, e molto piU (essendo
il libro tutto ripieno di divini e cortegianissimi ammaestramenti) per convenire, e star
di gran lunga meglio in nobile Donzella un menomo atto leggiadro, che 'n chi sia gran
Cavaliero mille cortesissimi fatti. [. ..] Pigliatelovi dunque, nobilissime Donne, a cui sole
questa Opera è stata iscritta, ed abbiatelovi cru:o quello che sovra gli altri tutti ciò per-
fettamente v'insegna, aggiungendo alla vostra ottima e prontissima natura il sommo aiu-
to di questo artificiosissimo maestro. Il quale, eccolovi ch'io lo vi dò [. ..J ed in forma piU
picciola e maneggevole; acciò sempre in ogni luogo e tempo il possiate a vostro bello
agio portare in seno, ed avere a mano».
Cfr. Michel de Montaigne, Essais, libro III, cap. v; cito dalle CEuvres complètes, a cura
di A. Thibaudet e M. Rat, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade»), Paris 1962, la ci-
tazione alla p. 848. Il passo è traduzione dell'incipit di Cortegiano, III, xxv: «Allora il
signor Gasparo ridendo, - Io ancora mi ricordo, - disse - aver letto una orazione, nel-
la quale un infelice marito dimanda licenzia al senato di morire ed approva averne giusta
cagione, per non poter tollerare il continuo fastidio del cianciare di sua moglie» (ibid.,
p. 37r). Poiché non sono state trovate fonti precedenti all'episodio, è certa la deriva-
zione dal Cortegiano dell'osservazione di Montaigne, il quale del resto utilizza il trattato
del Castiglione ancora a proposito della «difformità» della parlata bergamasca (Essais
cit., I, xxvi, p. 169 = Cortegiano cit., I, xxx, p. r33) e dell'inopportunità di «desviare
dai comandamenti de' suoi maggiori» (Cortegiano cit., II, xxrv, p. 227 = Essais cit., I,
xvn, p. 73). Fitti rinvii sono elencati, per eccesso, da M. Ziino, Castiglione e Montaigne,
in «Convivium>>, x (r938), r, pp. 56-60.
0
Si vedano, per tutti, le osservazioni di B. Maier, nella citata edizione del Cortegiano, p.
255, nota 3; ricavate in larga parte dalle copiose citazioni del commento Cian, citato,
pp. 176-79 (note arr, XLII-XLIII).
44
La mediazione del Cortegiano si segnala in particolare per la ripresa, negli Essais, dell' e-
sempio di pertinace ostinazione di quella donna «che non potendo piU dir al marito
"forbeci" con le mani gli ne facea segno» (III, XXII, p. 368) tratto dalla facezia LIX del
Bracciolini (cfr. Cian, commento cit., p. 280), e utilizzato poi da Montaigne in un con-
testo che presuppone tanto la fonte del Bracciolini (soprattutto per l'insistenza nell'«ap-
peler son mary pouilleux»), quanto le conclusioni del Castiglione sull' «ostinazione»,
«opiniastreté des femmes» (Essais cit., II, XXXII, p. 703).
45
C&. P. Bracciolini, Facetiarum liber, Venice r470, Ferrarie 147r, Rome 1477, (Venezia)
1477, Rome r490, Venetiis 1500.
4
(, Cfr. A. Cornazzano, Proverbii, Zappino, Venezia 1525 e r526 (ma già prima autore
d'un trattato Quod de proverbiorum origine inscribitur, r503); A. Mainardi, Motti e fa-
cezie, Firenze l 5 r5; Facezie, piacevolezze, fabule e motti, Venezia r5r6 e r 518. Sulla tra-
dizione delle facezie lWlgo il Quattrocento, si vedano ahneno: G. Falena, Sulla tradizio-
ne dei "Detti piacevoli" attribuiti al Poliziano, in «Studi di Filologia Italiana», XI (1953),
pp. 431-48; G. Pullini, Burle e facezie del Quattrocento, Pisa r958; L. Sozzi, Le "Face-
zie" di Poggio nel Quattrocento francese, in aa.vv., Miscellanea di studi e ricerche sul Quat-
trocento francese, a cura di F. Simone, Torino r967.
47
Cfr. Il Libro del Cortegiano cit., II, XLIII, pp. 256-57 ("" GH, p. r30).
4
a G. G. Trissino, La Quinta e la Sesta Divisione della Poetica, in Venezia, appresso Andrea
Arrivabene, MDLXII; ora in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di
B. Weinberg, Laterza, Bari 1970, voi. II, p. 7r.
49
«Multa enim sic dicuntur ioci gratia quae dicenti vitlo verti possunt; quale forte fuit il-
lud civis mei de gemina tuba Venetiis visa, de quo l'idiculo vir nobilis et doctus Baltha-
sar Castilionius meminit» (cfr. V. Maggi, De ridiculis, Venetiis MDL; ora in Trattati di
poetica e retorica del Cinquecento cit., vol. II, pp. 1 r6-17).
'
0
A. Riccoboni, De re comica ex Aristotelis doctrina, apud Paulum Meiettum, Venetiis
r579; ora in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento cit., voi. III, r97 2, p. 276. La
 La nascita del modello
lezione del Cortegiano affiora poi anche nelle raccolte del Domenichi (del resto autore
di un trattato come La donna di corte, Busdrago 1 Lucca 1564), dalle Facezie et motti ar-
guti, Fiotenza 1548, alle Facezie, motti et burle (curate dal Porcacchi), Venezia 1574,
1575, 1576, r58r, 1584, 1588, Fano 1593, Venezia 1599.
n È questa la definizione che, nella seconda redazione, «messer Fedrico» dà di sé e della
compagnia: «Alar messe1· Fedrico pur ridendo: - Signore - disse - non è alcuno qui di
noi, al quale io non ceda in ogni cosa, ma molto piU ne l'esser faceto e risibile che nel re-
sto» (GH, II, XLIV, p. 131), poi attenuata nella redazione finale: «Allor messer Fede-
rico, pur ridendo, disse: - Non è alcun qui di noi al qual io non ceda in ogni cosa, e
massimamente nell'esser faceto» (Il Libro del Cortegiano cit., II, XLIV, pp. 257"58). Ma
la definizione del Castiglione ha valore antropologico, piU che di mera «conversazione»,
tanto che la ritroveremo poco piU avanti: «per descriver l'omo si suol dir che egli è un
animale risibile» (in senso attivo: capace di produr1·e e di manifestarsi nel riso) - Il Li"
bro del Cortegiano cit., II, XLV, p. 260.
' 2 Si tratta dell'incipit del quinto capitolo (del libro I), nel quale cos{ si introduce la «cor"
nice» delle itnminenti conversazioni: «consuetudine di tutti i gentilomini della casa era
ridursi sUbito dopo cena alla signora Duchessa; dove, tra 1' altre piacevoli feste e musiche
e danze che continuamente si usavano, talor si proponeano belle questioni, talor si fa-
ceano alcuni giochi ingeniosi» (Il Libro del Cortegiano cit., I, v, p. 87).
n GH, I, xxxv (incipit), p. 47. La redazione definitiva procederà a una revisione e ridistri-
buzione degli argomenti sulla questione della lingua in modo che il passo citato sparirà,
come pure l'elogio, che seguiva, delle «belle sentenzie, castigate, integre, senza fuco».
E la sicura identificazione della vera «lingua)> e dei suoi autentici produttori cederà a
un piU vago ottativo: «Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che
oggidf tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere del modo
che s'è detto in questa lingua cose degne d'esser lette, tosto la vederessimo culta ed
abundante de termini e belle figure» (Il Libro del Cortegiano cit., I, xxxv, p. 142).
54 Il Libro del Cortegiano cit., I, XXXIV, p. 140.
,j Si tratta delle definizioni teoriche fornite ai capp. LX"LXII del libro II, nei rispettivi in"
cipit: «Ma tra gli altri motti, quelli hanno bonissima grazia, che nascono quando dal ra"
gionar mordace del compagno l'omo piglia le medesime parole nel medesimo senso e
contra di lui le rivolge, pungendolo con le sue proprie arme» {II, Lx); «Un'altra sorte è
ancor, che chiamia1no '.' bischizzV'; e questa consiste nel mutare o vero accrescere o mi"
nuire una lettera o sillaba» (II, LXI); «È medesimamente bello interpretare i nomi e fin"
ger qualche cosa, perché colui di chi si parla si chiami cosi)> (II, LXII). Le citazioni dal-
l'edizione citata, pp. 279, 280, 2'82.
' 6 GH, III, CXIX, p. 314. Il passo sarà espunto dalla redazione definitiva.
57 L'equivalente piU elegante della citazione precedente è fornito dall'incipit del terzultimo
capitolo del libro IV e del trattato: «Avendo il Bembo insin qui parlato con tanta vee-
menzia, che quasi pareva astratto e fuor di sé, stavasi cheto e immobile, tenendo gli oc"
chi verso il cielo, come stupido; quando la signora Emilia, la quale insieme con gli altri
era stata sempre attentissima ascoltando il ragionamento, lo prese per la falda della rob"
ba e scuotendolo un poco disse: •e Guardate, messer Pietro, che con questi pensieri a voi
ancora non si separi l'anima dal corpo"» (Il Libro del Cortegiano cit., IV, LXXI, p. 54r).
5S Ibid., II, LVIII, p. 278.
' 9 Ibid., II, LIX, p. 278 (= GI-I, II, LVIII, p. r44): «Ma dei motti ambigui sono molte sorti;
però bisogna essere avvertito ed uccellar sottilissimamente alle parole».
60 Ibid., I, VI, p. 89 (= GH, I, VI, p. II). Il corsivo è nostro.
61 GHJ II, I, p. 77.
62
Cfr. R. L. Colie, Paradoxia epidemica. The Renaissance Tradition o/ Paradox, Princeton
University Press, Princeton {N .J.) 1966, p. 34.
Il Libro del Cartegiana: esemplarità e difformità 91
6
)Il Libro del Cortegiano cit., II, XVII, pp. 215-16 {= Gtl, II, xvu, pp. 99"100). Anche la
Calie citava e sottolineava questo passo del Cortegiano come segnale d'adesione alla tra"
dizione classica del paradosso (Paradoxia epidemica cit., p. 33).
6
~ Calie, Paradoxia epidemica cit., p. 35.
6' Il Libro del Cortegiano cit., I, VIII, p. 92 (= GH, I, VIII, pp. 13"14).
66
Si vedano ancora le osservazioni, sul genere, di Rosalie Calie: «The earliest, and the
most, Renaissance paradoxes were written within the international humanist circle, as
a ldnd of intellectual play practiced by a seH"defined coterie. When the rhetorical pa"
radox moved out of the dassical languages into the vernacular literatures, it remained
a sophisticated form, written far a learned and experienced coterie, an audience of men
and women in the know, who could be expected to understand the paradoxists' learned
wit and to admire the rhetorical skills demonstrated in the paradoxes themselves» (Pa·
radoxia epidemica cit" p. 33).
67 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, «revisto da M. Lodovico Dolce sopra l'esemplare
del proprio Autore; e nel margine annotato; con una copiosissima Tavola», in Lione, ap"
presso Guiglidmo Rovillio, 1562, pp . .32 e 34: didascalie a margine del testo. Sull'im"
portanza di questa edizione si vedano le note 75"85.
68 Il Libro del Cortegiano cit., edizione Maier, I, VIII, pp. 92"93 (= GH, I, VIII, p. 14).
69
Ibid., IV, LXX, p. 54r.
70 Ibid., I, VIII, p. 92 (= GH, I, vru, p. r4). Si osservi che la formula chiude, nel capitolo,
un catalogo nel quale molti degli «attributi» o dei giochi del perfetto «cortegiano» sono
visti, sin da prima della loro celebrazione, sub specie moriae, ancora una volta con anti·
cipazione, dissolvente, del paradosso erasmiano, cos{ che la «perfezion di publica paz"
zia)> produce nel suo manifestarsi «maravigliosi piaceri»: «poi, conosciuto lo umore, co-
sf ben l'abbiam agitato, che semp1·e s'è ridutto a perfezion di publica pazzia; e chi è riu"
scito pazzo in vetsi, chi in musica, chi in ainore, chi in danzare, chi in far 1noresche, chi
in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la miniera del suo metallo; onde poi,
come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri» (I, VIII, p. 92), Si congiungono qui, oltre
al modello erasmiano, la teoria degli umori e l'ipotesi, di ascendenza bacchico"orfica
del valore terapeutico dell' excessus. '
71
Il Libro del Cortegiano cit., I, XLVI, pp. 167"68 (= GH, I, XLVI, p. 64). Nelle varianti alla
seconda redazione è attestata una formula che ribadisce l'equivalenza (del Bembo e del
Grasso de' Medici) in termini di ancor pili marcato senno humilis: «A questo modo il
Grasso de' Medici avrà quel vantaggio da messer Pietro Bembo circa questo che ha una
botte da un barile» (GH, p. 64). La variante era già segnalata dal Ciao, nel commento
citato, alla p. ror.
72 Il Libro del Cortegiano eit., I, Lm, p. 181 ( = GH, p. 73).
73 «e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda
l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi»
(Il Libro del Cortegiano cit., I, XXVI, p. r24 = GH, I, xxix, p. 39).
74
Il Libro del Cortegiano cit., I, XXVII, p. 126 ( = GH, I, xxx, pp. 40"41),
71 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, «Revisto da M. Lodovico Dolce sopra l' esempla"
re del proprio Autore e nel margine annotato; con una copiosissima Tavola», in Lione,
appresso Guigliehno Rovillio, I562; in 16°. La «Tavola di tutte le cose notabili conte"
nute in questi quattro libri del Cortegiano)> occupa 32 pagine, dalla segnatura I a KS, dal-
la rubrica «A chi nasce aggraziato, non accadono ammaestramenti» alla rubrica finale
«Utilità del riso». Le citazioni relative all'affettazione alla pagina I, alla «discrezione»
alla p. I6.
76
Ibid., Tavola di tutte le cose notabili cit., p. K4.
77
B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, «nuovamente stampato, e con somma diligenza
revisto, con la sua Tavola di nuovo aggiunta», in Vinezia per Gabriel Iolito de' Ferrarii,
 ---------------------------,------------------------··-·-·-·--·-
92 La nascita del modello
MDXXXXI, in 8°. Gaetano Volpi, annotando il Catalogo di molte delle principali edizioni
del "Cortegiano" (al quale è ancora utile rinviare), in appendice alla sua edizione comi-
niana delle Opere volgari e latine del Conte Baldessar Castiglione, Padova 1733 2 (la prima
ed. è del 1732), pp. 415-22, osservava per questa edizione:
<i Le tavole che in questa edizione, e nelle seguenti fino alla nostra si trovano, sono di
pochissimo, o nessuno uso, per la negligenza con cui sono tessute; non essendo altro per
lo piU che le postille de' margini poste sotto le lettere dell'alfabeto» (Catalogo di molte
delle principali edizioni del "Cortegiano" cit., p. 417). Ma nella nostra prospettiva cen-
trata sulla ~<lettura», proprio queste <~negligenze» e queste «postille», questi filtri di se-
lezione del Cortegiano divengono preziosi testimoni di quella continuatio litterae che è
la «glossa» per la lettura.
78 Già nel 1552 un'edizione del Cortegiano, «Corretto e riveduto da M. Lodovico Dolce)),
era pubblicata in Vinegia, appresso li Gioliti, in 8°. Nel 1556 è edito con le prime po-
stille: Il Libro del Cortegiano del Conte B. C. nuovamente con diligenza revisto per M. Lo-
dovico Dolce secondo l'esemplare del proprio Autore1 e nel margine apostillato, con la Ta-
vola, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrarii, in 8°.
79 Si tratta di una ristampa dell'edizione del 1556; ulteriormente ampliata nell'apparato.
Si veda la descrizione del Volpi: «1559. Ristampa somigliante, ma con l'Aggiunta degli
Argomenti (forse quivi comparvero la prima volta) per ciascun libro, e nel margine a:postil-
lato (le postille sono forse diverse da quelle della superiore edizione) e con la Tavola delle
cose piU notabili (la quale è tessuta tutta delle stesse postille ordinate sotto le lettere del-
1'alfabeto [.. ,]), In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrarii, in 8 » (Cata/,ogo di mol-
te delle principali edizioni del "Cortegiano" cit., p. 418). L'edizione del 1562, presso il
Rovillio, che qui utilizziamo come vertice e compimento d'un processo di catalogazione
delle «maniere» del Cortegiano, comprende, per riconoscimento dello stesso Volpi: «Una
copiosissima Tavola (la quale è assai diversa da quella posta nell'edizioni precedenti)»
(Catalogo di molte delle principali edizioni del "Cortegiano "cit., p. 418).
8
° Castiglione, Il Libro del Cortegiano, ed. Dolce 1562 cit.; Tavola di tutte le cose notabili,
pp. 12 edIB.
81 Ibid., Tavola ... , p. 12.
s2 Ibid., Tavola ... , p. K8.
81
Cito l' «ordine» alfabetico delle «cose notabili» sotto la lettera G, nella citata Tavola ...
del Dolce, alla p. K.
84 Ibid., Tavola ... , p. K2.
8
' Le formule sono elencate alfabeticamente sotto la lettera iniziale di ciascun «ammoni-
mento», cosicché in luoghi diversi sempre ossessiva ritorna la stessa sostanza: «Come
si dee ..,», «Insino a quanto si dee ... », «Non si dee ... », «Quanto si dee procurar ... », «Si
dee ... », ben diversa ormai dai dispositivi di lenimento disseminati con cura dal Casti-
glione, come prima «discrezione» del suo trattato.
86
Si tratta dell'incipit del II libro, nella seconda redazione; cfr. GH, II, 1, p. 77.
87
B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano, ed. Dolce 1562 cit., Tavola di tutte le cose nota-
10
101
bili, p. K6.
102
88
Il Cortegiano del Conte Baldassarre Castiglione, riveduto e corretto da Antonio Ciccarelli
da Fuligni, Dottore in Teologia; con le Osseroazioni sopra il N Libro fatte dall'istesso. Al
Sereniss. Sig. Duca d'Urbino, in Venezia, appresso Bernardo Basa, MDLXXXIV, in 8°.
Una dettagliata descrizione dell'edizione è fornita da Gaetano Volpi, alle pp. 420-21 del
suo già citato Catalogo di molte delle principali edizioni del "Cortegiano" stampato in ap-
pendice alla ricordata edizione cominiana delle Opere volgari e kuine dcl Castiglione, nel-
la quale è pure edita, alle pp. i-iii, la Lettera dedicatoria del Ciccarelli, da cui citeremo.
Quanto ai criteri dell'edizione, il Volpi osservava:
«Dopo una tale Dedicazione, séguita la Tavola, quasi affatto simile a quella del Dolce.
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 93
Dipoi, alcuni Errori da emendarsi; finalmente una diligente Vita del Castiglione scritta
da Bernardino Marliani [... ]. Finalmente con troppa confidenza mescolò le sue colle pa-
role del gt·ande Autore; benché avesse l'esempio del Salviati [che era freschissimo: men-
tre nel 1582 comparve la ra edizione del Decamerone spurgato dal Salviati; e dopo due
anni il Ciccarelli spurgò il Cortegiano] che separò le sue da quelle del Boccaccio nello
spurgare il Decamerone di esso» (Catalogo di molte delle principali edizioni del "Cortegia-
no" cit., pp. 420-21).
Il Ciccarelli fu compilatore erudito e perfettamente allineato alla cultura del Tridentino,
pareggiando Le vite degli imperatori Ramani, Basa, Roma r 590, con le Vite de pontefici,
Basa, Roma 1588.
89
«[convenendosi] procurare, e stare molto avvertito, che non solo la rammendatura non
apparisse a tutti, ma ch'ella né anco fosse conosciuta da coloro che di pii.i acuta vista so-
no, e che intenti e solleciti la mireranno, e che al libro restasse la sua maestà, e artificio-
sa vaghezza» (Ciccarelli, Lettera dedicatoria cit., p. ii).
90
L'endiadi è ancora del Ciccarelli; per il contesto completo cfr. testo e nota 93.
91
Cosl scriveva infatti il Tasso nel Malpiglio: «e mentre dureranno le corti, mentre i prin-
cipi, le donne e i cavalieri insieme si raccoglieranno, mentre valore e cortesia avranno
albergo negli animi nostri, sarà in pregio il nome del Castiglione» (Tasso, Il Malpiglio
overo de la corte, in Dialoghi cit., val. II, p. 548). Il passo sarà poi riportato dal Cian in
esergo alla sua Prefazione alla cit. ed. del Cortegiano, p. 111.
92
Ciccarelli, Lettera dedicatoria cit., p. ii.
93 Ibid.,p.i.
94 Ibid.
'n «Ma come assai sovente tra l' erbe migliori si trova mescolata o ortica o triboli, o alcun
pruno, è stato dalla incomparabile prudenza de' superiori considerato, che alcune cose
seminate per esso [scil.: CortegianoJ, avrebbono potuto dare occasione ad alcuno di pren-
dersi troppa licenza)) (Ciccarelli, Lettera dedicatoria cit., p. i).
96
La raccolta fu pubblicata da Nicolini, Venezia 1565; Guerra, Venezia 1569; Zanetti,
Venezia 1571; Farri, Venezia 1581; Zaltieri, Venezia 1583; Bonibelli, Venezia 1596.
97
Il Garimberto, autore di trattati (Il capitano generale, Ziletti, Venezia r 556; De' regimen-
ti pub!ici de la città, Scotto, Vinegia 1544), raccolse il memorabile tanto nella Prima parte
delle vite overo fatti memorabili d'akuni papi et di tutti i cardinali passati, Giolito, Vinegia
1567, quanto nei fortunati Concetti divinissimi, che ebbero enorme diffusione: Comin
da Trino, Vinegia 1552 e 1562; Giolito, Vinegia 1563; Farri, Vinegia 1567; Rampazet-
to, Venezia 1579; Venezia 1585.
9s L. Guicciardini, L'ho re di ricreazione, Bellero, Anversa r 583; trad. fr. Les heures de ré-
création, par François de Belleforest, Paris 1636.
99
Cfr. C. Dionisotti, Niccolò Libumio e la letteratura cortigiana, in «Lettere Italiane», XIV
(1962), n. r, pp. 33-58; la citazione, alla p. 58, chiude anche il saggio del Dionisotti.
° Castiglione, I/Libro delCortegiano cit., II, xvn, p. 215 (= GH, II, xvn, p. 99).
Castiglione, Risposta al Valdés cit., p. 671.
GH, II, 1, p. 77. Lo stesso scenario di univetsal mutazione governerà i Ricordi del Guic-
ciardini: «Se voi osservate bene, vedrete che di età in età non solo si mutano e modi del
parlare degli uomini e vocaboli, gli abiti del vestire, gli ordini dello edificare, della cul-
tura e cose simili, ma, quello che è piU, e gusti ancora, in modo che uno cibo che è stato
in prezzo in una età è spesso stimato manco nell'altra» (F. Guicciardini, Ricordi, ed. cri-
tica a cura di R. Spongano, Sansoni, Ffrenze 195 l, p. 80).
Non minor peso avrà la teoria della «mutazione» presso Machiavelli: basterebbe ricor-
dare l'incipit del V libro delle !storie fiorentine: «Sogliono le provincie, il pii.i delle volte,
nel variare che le fanno, dall'ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine
94 La nascita del modello
all'ordine trapassare; perché, non essendo dalla -?atura conceduto a!~e mon~ane cos~ il
fermarsi, come le ari'ivano alla 101·0 ultima perfezione, no-? a_vend? J?lU da s.ahre, conv1e*
ne che scendine; e similmente, scese che le sono, e per .h d1sord1n1 a4 ultima bassezza
pervenute, di necessità, non potendo piU scendere, conviene che s~?h~no; .e cos{ sempre
da il bene si scende al male, e da il male si sale al bene». Ora tale_v1~1ss1~u?ine del tempo
come mutazione sembra collegare, nel Castiglione come nel Gutcctardin~ come ?el Ma~
chiavelli, esperienze politiche assai prossime, che solo la dive7s~ collocaz1one dei g~nert
letterari, ai quali sono state ascritte le !oro oper~, h? s?rr~tt~zt~ente. separato'. S1 ve-
dano, a questo proposito, le importantl osservaz1on1 dt G1;J10 Fe.rroru, «Mutazione» e
«riscontro» nel teatro di Machiavelli, Bulzoni, Roma 1972, 1n part1c?Iru.:e le pp. 17-13 7·
Va infine detto che tale teoria della mut~zione, .che ~ttta:'e1'sa tutto il Cinquecento «P~~
litico» avrà la sua ultima radicale, man1festaz1one in Giordano Bruno: «qualunque su
il punt~ di questa sera ch,'aspetto, si la tnutazione è vera, io che son ~e la notte, as~~tto
il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano ~a notte: tut~o quel eh è, o è equa o a, o
vicino, 0 lungi, o adesso o poi, o presto o tardt» (Candelato). . . . . 128
103 Castiglione Il Libro del Cortegiano cit., I, XXXVI, p. 145; quasi simile ladclmparaz1di
in GH, I, x~xVI, p. 48, dove semmai si insiste sull' «Uso, dal qual depen e a norma e
parlare». . . . .
104 Ib 'd I XXXII p 13 7 Lo stesso concetto era già enunciato sin dalla dedica a D?n Af.tchel
D; Silv~ dov~ si rico;da che «per le guerre e ruine d'Italia si son fatte le mutazioru della
lingua, degli edifici, degli abiti e costumi» (ibid., p. 75).
105 Ibid., Dedica, II, p. 73.
106 Ibid., I, XXXVIII, p. 15 l ( :=: GH, I, XXXVIII, p. 52).
101 Ibid., Dedica, II, p. 73·
1oa GH, I, xxxvII, p. 49 (:=: I/Libro del Cortegiano, I, XXXVII, p. 147).
109 GI-I, III, cxx, p. 315. . ,
110 Il Libro del Cortegiano cit., I, I, p. 80 (= GH, I, I, pp. 3-4). Il corsivo e nostro.
111 Ibid., IV, XIII, p. 462 (= GH, III, XII, p. 198). . '
112 Il Libro del Cortegiano, Dedica cit., III, pp. 77-78. ll corsivo e nostro.
113 Ibid., I, xxxv, pp. 142-43. ll corsivo è nostro.
114 Ibid., Dedica, II, p. 7.5· . to, 1961; poi in La forma e l'intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l'arte moderna; trad.
1u F. Rabelais, La Vie très horrificque du Grand Garf:antuapère de Pantaff!Ue~ (1535), ora in
CEuvYes complètes, a cura di Guy Demerson, Seuil, Part.s 1973; Premter livre, Prologe de
t'auteur, p. 39. · ·
116 L. Febvre, Le problème de t'incroyance au xv.t siècle: la religion de Rabelais, Albm Mi-
chel, Paris 19 622; si fa riferimento al paragrafo Odeurs, saveu~ et sons.,pp .. 461-71, la no-
stra citazione alle pp. 461-62. 1 versi che chiudono, e adempiono, la c1taz1~~e sono trat-
ti daJ. Du Bellay, Divers Jeux Rustiques; il saggio cui fa c~nn? Febvre, e 11 seguente:
L. Febvre, Une civilisation, la première Renaissance,(rançats<;, ,1n «Revue des C?urs ~t
Conférences», 1924-25, II; trad. it. Il problema del! zncredulzta nel secolo XVI, Einaudi,
Torino 1978. . .
Il saggio di Gaston Bachelard, cui si faceva riferimento, ,sop~att~tto.per il Se~cento, .è
il seguente: Le mythe de la digestion, in La formation del espnt scientifique, Vr1n, Par1s
1977 10 ,pp. 169-8r. . .
117 La citazione è ancora fornita da Febvre, Le problème de l'incroyance au xvr" stècle c1t.,
p. 466, nota 1. .. . F b ·
11s Joannes Bravus, De saporu.m et odon:.m differentiis, Venetns 1591; H1eronymus a rt-
cius De visione, voce, auditu, Patav11 1600.
119 Mi ;iferisco al capitolo introduttivo del saggio di Ezio Raimondi, Il romanzo senza idil-
lio, Einaudi, Torino 1976.
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità
95
1
2
° Febvre, Le problème de l'incroyanceau xv.I" siècle cit., pp. 464 e 467-68.
121
Il Libro del Cortegiano, Dedica cit., I, p. 68.
1
22
Ibid., Dedica cit., I, p. 71. Il corsivo è nostro.
12
1 Ibid., III, LII, p. 413 (,,,, GH, JII, LXXXV, p. 278). Sul rapporto tra percezione dei sensi
ed ascesi mistica, nel XVI secolo, mi sia consentito di rinviare a C. Ossola, Apoteosi ed
ossimoro. Retorica della «traslazione» e retorica deil'«unione» nel viaggio mistico a Dio:
testi italiani dei secoli xw-xv_rr, in aa.vv., Mistica e retorica, a cura di F. Bolgiani, Olschki,
Firenze 1977, pp. 47-103.
124
li Libro del Cortegiano cit., II, I, pp. 189-90 (:=: GH, II, I, p. So).
125 Ibid., IV, LXVIII, p. 536.
12
" Castiglione, Risposta al Valdés cit., p. 673.
121IlLibrodelCortegianocit.,I,xxvn,p.128.
Ibid., I, XXXIV, p. 142. Il passo era già citato da Mazzacurati, Misure del classicismo ri-
nascimentale cit., pp. l 20-21. Occorre rilevare che in GI-I (I, xxxv, p. 48) il paragone
era utilizzato, ma privo della parte relativa al tatto:«(. .. ] et accostare le cose quasi al
senso de li ochi proprii con diletto di chi ode o legge».
129
Scriveva infatti Robert Klein: «Questo processo di presa di coscienza critica ha alle sue
spalle fonti e modelli letterari: Poliziano, Giovanni F1'ancesco Pico, l'Aretino; ma non
sono i soli, come si può constatare considerando un'evoluzione semantica parallela a
qudla del ter1nine "maniera": il trasformarsi cioè del termine "giudizio" in qudlo di
"gusto". La scoperta dell'originalità individuale nell'espressione soilecitava, e presup-
poneva, quella della originalità individuale nella valutazione delle opere; "maniera" e
"gusto" sono complementari. Ma di questa comple1nentarità e delle ragioni profonde
di essa si parla poco nella critica letteraria ed esse non sono giunte alia critica artistica
per il canale tradizionale delle lettere; provengono da un terzo campo, quello della fi-
losofia natutale, e soprattutto dalle discipline di essa che piU da vicino riguardano l' a-
nima: astrologia, teoria dei temperamenti, magia e le loro forme pili mondane e sottili:
teorie dell'amore, pella bellezza femminile, della persuasione, dei modi musicali, del ge-
nio malinconico. E in. queste teorie che si trovano il principio e la spiegazione dell'af-
finità tra un'anima e una cosa» («Giudizio» e «gusto» nella teoria dell'arte nel Cù;quecenff
it. Einaudi, Torino 1975, pp. 373-86; la citazione alle pp. 374-75).
130
Mazzacurati, Misure del classicismo rinascimentale cit., pp. 9-10.
131
Castiglione, Il Libro del Cortegiano, Dedica cit., III, pp. 76-77. Il corsivo è nostro.
132
N. Machiavelli, Il Principe, a cura di F. Flora e C. Cordiè, Mondadori, Milano 1949;
cap. VI, p. 17. Ancora una volta, ritroveremo, nella stessa a1'ea metaforica, le riflessioni
del Guicciardini: «Diceva el duca Lodovico Sforza che una medesima regola serve a fare
conoscere e principi e le balestre. Se 1a balestra è buona o no, si conosce dalle freccie che
tira; cosi el valore de' prfncipi si conosce dalla qualità degli uomini mandano fuora»
(Guicciardini, Ricordi cit., p. 184). La metafora avtà ancora eco e fortuna, sempre as-
sociata al «gusto», ma rovesciata di valore simbolico, presso Campanella, nella prefaff
zione alla Metaphysica: «Novam condere metaphysicam statuimus, uhi[...] reducti su-
mus ad viam salutis et cognitionem divinorum, non per syllogismum, qui est quasi sagitta
qua scopum attingimus a longe absque gustu, neque modo per authoritatem quod est tan-
gere quasi per manum alienam, sed per tactum intrinsecum in magna suavitate» (il passo è
citato da Klein, La/orma e l'intelligibile cit., p. 383; il corsivo è nostro).
133
Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., I, XN, p. 105 ("" GH, I, XVII, p. 25).
134
lbid., I, XLVI, pp. 167-68 (,,,, GH, I, XLVI, p. 64). Per le varianti, e la natura paradossale
di tale «eccedenza», cfr., qui, la nota 71.
115
Ibid., IV, XI, p. 459·
 --------------~----------------------------------------------------------------------~
La nascita del modello
H6 Ibid., II, LVII, p, 277 (= GH, II, LVI, p. 143).
H7 Ibid., II, II, p. 192 (= GH, II, II, p, 82).
na Ibid., II, II, pp. 191-92 (= GH, II, 11,p. 82).
u 9 Ibid., II, II, p. 192 (,,,, GH, II, II, p. 82).
140 GH, III, XCVII, p. 291. Va notato che già qui, come accadrà piU vistosamente per l'e-
sempio successivo, la redazione finale fornirà «contrapeso » e lenimento all'incipit trop-
po «alto», facendo scivolare l'argomento e l'affermazione qualche riga oltre l'attacco
del capitolo introdotto ora da battute dialogiche di posata medietà: «Rise messer Pietro
e disse[ ... ]» (cfr. Il Libro del Cortegiano cit., IV, LVII, pp. 52 r-22).
141 GH, III, XCVIII, p. 292.
142 Il Libro del Cortegiano cit., IV, LVm, pp. 522-23. Anche qui il Castiglione, come nella
rielaborazione del capitolo precedente, ottiene il lenimento dell' «inno al creato», richia-
mando in testa di capitolo e amplificando brevi battute che nella seconda redazione ave-
va fatto rifluire in fondo, e in margine, al capitolo precedente XCVII: «Ma invero esten-
dersi molto in laude della bellezza, parmi superfluo, perché ognuno sa che al mondo cosa
non è che naturalmente tanto sia grata e desiderabile quanto la bellezza, né tanto molesta
quanto la bruttezza. [XCVIII] E se considerate tutte le cose, trovarete che sempre quelle
che sono bone et utili ... » (GH, III, XCVII-XCVIII, p. 29i).
14J Il Libro del Cortegiano cit., I, XXVI, pp. 123-24 (= GH, I, XXIX, p. 39). Il corsivo è nostro.
144 Ibid., I, XXVI, p. 124 (= GH, I, XXIX, p. 39).
14' Ibid., I, XX.VI, p. 125 (= GH, I, XXIX, p. 40).
146 Ibid., III, v, p. 343. Il corsivo è nostro.
!4 7 Ibid., I, III, p. 83 ("' GH, I, III, p. 6).
l4S Ibid., I, XIV, p. 104 (= GH, I, XVII, p. 24).
"' Ibid. (= GH, ibid.).
1' 0 Ibid., I, xx, p. 115 (= GH, I,xxnI, p. _32).
1'l Ibid., II, XXVIII, p, 234 (= GH, II, XXVIII, p. 113).
u 2 GH, Il, XLVJ, p. 134.
u 3 Il Libro del Cortegiano cit., II, XLVI, p. 261.
u 4 Ibi<i., II, XXXVI, pp. 246-47 (= GH, II, XXXVI, p. 123). Altro elenco di «pecoragini» da
evitare in Il, XXXVIII.
1" Ibid., II, XLVI, p. 262 (= GH, II, XLVI, p. 134).
15 6 Ibid., IV, VII, p. 454. Cospicue varianti, come vedremo, in GH, III, VIII, pp. 192-94.
157 GH, III, VIII, p. 193.
15 8 Il Libro del Cortegiano cit., IV, VII, p. 454.
1' 9 GH, III, VIII, p. 19.3·
160 Il Libro del Cortegiano cit., IV, XLVII, p. 510; e si tratta di amplificazione rispetto a GH,
III, xxx, pp. 216-17.
16l Ibid., IV, XLII, pp. 500-1 (= GH, III, XLII) p. 229).
162 Ibid., IV, XXXVI, p. 492 (= GH, III, XXXVI, p. 222).
163 GH, III, VIII, pp. 193-94. Nella redazione definitiva manca la parte conclusiva, qui ri-
portata in corsivo (cfr. Il Libro del Cortegiano cit., IV, VIII, p. 456). Ugualmente nella re-
dazione definitiva verrà ridotta la portata di quel «però se agli principi de' nostri tempi»
in un pii.i sfumato: «ma se ad alcuni de' nostri principi».
164 «Qualche tristizia» è attestata come variante di «qualche sceleritate» (GH, III, VIII,
p. 194).
Il Libro del Cortegiano: esemplarità e difformità 97
16~ L'insistenza su questi compiti di «instituzione» del principe, nei capitoli centrali del IV
libro, dovrebbe far meditare sulle intenzioni politiche del trattato (tanto che nel Gilio,
vedremo, il Castiglione è associato a Machiavelli). Se ne veda una breve campionatura,
oltre a quella suggerita alla nota 18: «però parmi che ancora che 'l cortegiano instituisca
il principe, non per questo s'abbia a dir che egli sia di pii.I dignità che 'l principe» (IV,
XLVI, pp. 505-6);
<<Però, se a me toccasse instituirlo [scii.: il principe]» (IV, XLI, p. 499);
«circa il fine della co1tegiania si po dir che non solamente siate quel perfetto cortegiano
l
che noi cerchiamo, e bastante per instituir bene il vostro principe» {IV, XLIII, p. 502) (e
anche IV, xuv, p. 503).
166 Il Libro del Cortegiano cit., IV, XXXVIII, p. 496. Anche piU marcato, nella seconda reda-
zione, questo ritratto della perfezione, annunciato dal Castiglione: «ché come di là scri-
ve il nostro Castiglione e piU largamente promette di dire al suo ritorno, non è corpo
l wnano oggidf nel qual piU chiaramente si conosca la natura aver voluto collocare tutte
le doti et excellenzie sue e mostrar al mondo quasi un virtuoso specchio delle cose divine
che in questo» (GH, III, XXXVIII, p. 225).
167 Il Libro del Cortegiano, Dedica cit., III, p. 77.
168 L'epistola, del giugno l 508, è ora edita in B. Castiglione, Le lettere, a cura di Guido La
Rocca, tomo I: I497 - marzo r52r, Mondadori, Milano 1978, pp. 162-98.
t69 Il Libro del Cortegiano cit., I, XXXVII, p. 149 ( = GH, I, XXXVII, pp. 50-51).
170 Cfr. G, A. Gilio da Fabriano, Dialogo de I.e parti morali appertenenti a' Letterati Cortigiani
et ad ogni altro gentiluomo, In Due dialogi, in Camerino, per Antonio Gioioso, l 564. La
citazione a p. 2I.
171 Per il rapporto tra la teoria dell'arte giliana ed i precetti del Tridentino sono ormai ca-
nonici gli studi di F. Zeri, P. Barocchi, P. Prodi, ai èi,uali richiamo in Autunno del Rina-
scimento, Olschld, Firenze 1971. Meno nota è l'attività del Gilio come teorico della re-
torica: per tale aspetto mi permetto di rinviare al mio intervento: La «Topica poetica»
di G. A. Gilio, in aa.vv., Retorica e poetica, a cura di G. Polena, Liviana, Padova 1979,
pp. 261-8,.
172 Il Libro del Cortegiano eit., IV, x, p. 457, Le altre citazioni saranno per lo piU indicate
nel corpo del testo.
in Machiavelli, Il principe cit.; dedica: Nicolaus Maclavellus ad Ma@iftcum Laurentium Me-
dicem; incipit. Il corsivo è nostro.
174 G. A. Gilio, Dialogo de le parti morali... cit.; dedica All'Illustrissimo et Reverendissimo
I Monsignor, il Cardinal Farnese, p. Aii. Il corsivo è nostro. Le altre citazioni saranno per
lo piU indicate nel corpo del testo. L'argomento è poi ripreso pro domo sua: «E se con-
siderassero i Prencipi l'utile che si cava dai letterati, buona parte di quello che spendono
'1 ne' cavalli, ne' cani et in altre cose tali, spenderebbono ne' virtuosi» (ibid., p. 3).
' 1 7' Ibi d., dedica All'illustrissimo et Reverendissimo Monsignor, il Cardinal Farnese, p. Aiii.
I 176 Ibid., p. 48v. Le «scopette» del Cortegiano sono poi citate nella pagina successiva: «E
se si va in camera loro, in cambio de gli Aristoteli, de' Platani, de' Demosteni, [. .. ]non
vi si trova altro che alberelli, fiaschettini d' acque nanfe, carafine d' olii, scattoline di pol-
vere di cipri, e di profumi. Altro ragionar non si sente, che di lisci, di pettini, di scopet-
I
te, di specchi, di guanti profumati, di ricette da far belle, di profumi, di misture, altro
non si vede per le tavole che sonettini, et ottavi amorosi, dialoghi d'amore, modi di
comporre lettere d'amore, et altre cose da lisciare e da cinguellare» (ibid., p. 49v).
' 177 Ibid., p. 10. Per altre forme di metaforica antisemita, in quel torno d'anni basterebbe
riferirsi all'Ospedale de' pazzi o al Teatro de' Cet'IJelli del Garzoni. L'ignorante è poi, su-
bito dopo, apostrofato sugli stessi toni: «ti morresti di fame in uno spedale, o striglie-
·1 resti i cavalli, o' meneresti a cacare i cani» (ibid., p. 1ov). Per il valore semantico, e sim-
I
'l.
 La nascita del modello

bolico, di assafetida, cfr. Rabelais, Pantagruel cit. (cap. r6: Des ma:urs et conditions de III. La rappresentazione
Panurge), p. 28r.
11s Ibid., pp. 27v-28.
179 «Né vorrei che fusse [scil.: il letterato cortigiano] di questi spigolistri, che ogni volta che

sentono, ancor che con garbo, volgarizzare una qualche parola latina, si stomacano, crol-
lano il capo, e fanno l'archipenzolo o 'I puzza papa» (ibid., p. 37).
mo Il Libro del Cortegiano cit., II, LV, pp. 274-7.5.
 La nascita del n1odello

bolico, di assafetida, cfr. Rabelais, Pantagruel cit. (cap. x6: Des ma:urs et conditions de III. La rappresentazione
· Panurge), p. 28x.
1n Ibid., pp. 27v-28.
179 «Né vorrei che fusse [sdl.: il letterato cortigiano] di questi spigolistri, che ogni volta che

sentono, ancor che con garbo, volgarizzare una qualche parola latina, si stomacano, crol-
lano il capo, e fanno l'archipenzolo o '1 puzza papa» (ibid., p. 37).
1so Il Libro del Cortegiano cit., II, LV, pp. 274-7,5.
 Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'

. I. Il 'luogo' della Corte.

Ma se 'l nostro cortegiano farà quello che averno

detto, tutte le [scii.: virttl] ritroverà nell'animo del suo
principe, ed ogni df ne vedrà nascer tanti vaghi fiori e
frutti, quanti non hanno tutti i deliciosi giardini del
mondo; [...] il che solo basteria per far gli omini felici
e ridur un'altra volta al mondo quell'età dell'oro, che
si scrive essere stata quando già Saturno regnava.
B. CASTIGLIONE, Il Libro del Cortegiano, IV, XVIII.
CORTE, lat. aula, curia. Boe.: corte di Roma, del Para-
diso.[...] Dan.: Curan di te ne la Corte del cielo; e
per la sbiraglia, vedi a 359.
CORTE, in vece della famiglia del Podestà, o del Bar-
gello, cioè Sbirri, Zaffi.
F. ALUNNO, Dellafabrica del mondo,
Venezia ~-588, §§ 386 e 359.

Tra sbirri ed età dell'oro, quale luogo assegnare alla Corte, un <<luo-
go» simbolico, un topos d'affabulazione mitica proteso ad una restau-
razione edenica, oppure la sede, architettonica e giuridica, del!' autorità
politica: «immagine» o luogo d'esercizio del potere?
Nel toccare uno dei nodi culturali e metodologici pili complessi della
storiografia dell'età moderna (dal XL.V al XVI!Cseoolu)._quello cioè dei
rapporti tra struttura e funzione, tra 'istituzioni' e morfologie di un fat-
to storico, tra gestione del potere ed organizzazione degli apparati e del-
!' apparire, balza evidente la difficoltà preliminare di «situare» la corte,
tra famiglia e signoria, tra il governo del palazzo e gli statuti cittadini,
tra corte residente e corte itinerante, tra committenza d'arte e campa-
gne di guerra. .
Tra i dati «anagrafici» cbe la lingua registra, primo è lo spessore se-
mantico che il nome stesso corte alla metà del Cinquecento testimonia,
nel sovrapporre, sotto lo stesso etimo, leredità di una tradizione feu-
dale e i primi tratti distintivi dei nuovi ruoli che la nascente 'società di
corte' va organizzando.
102 La rappresentazione
Se sotto il segno di Saturno e della sua «deliciosa» età dell'oro il Ca-
stiglione collocava il frutto, ritualmente utopico, di «cortegiania», ap-
pena pochi lustri piu tardi, sotto lo stesso pianeta Saturno, lAlunno
elencherà, nella sua Fabrica del mondo (in un vocabolario che è insieme,
partendo dal cielo e da Dio, teatro cosmologico delle «congiunture» tra
il mondo creato, le sue gerarchie, i suoi nomi) e sanzionerà - come piu
alto e antico dopo Dio - il lessico ed i simboli derivanti dal corteggio
di Saturno appunto, allegando dunque nell'ordine i paradigmi di Reli-
gione, Vecchiezza, Tempo, Agricoltura, Povertà, Avarizia, Prigione.
In fondo all'elenco, tra gli attributi e sinonimi di «PRIGIONE. Carcere,
Distretto, Laberinto, Gabbia, Calappio, Trappola, Stipa, Stiva, Rete, Cep-
pi, Catene, Legami, ecc.» aggiungerà la lista pertinente a quella «catena»
stabile che è la Servitti, includendovi: «servigio, servo, servente, sergen-
te, servile, cattività, schiavo, mancipio, soggetto, suddito, vassallo, li-
gio, famiglia, fante, valetto, paggio, ragazzo, scudiere, famiglia, birro,
corte, sbirraglia».
La «corte» chiude quindi e compendia, nella prima e primeva delle
sue occorrenze, tra «vassallo» e «sbirraglia», una serie di legami perso-
nali e servaggi, dopo i quali, nel corteggio saturnino - e prima di Gio-
ve -, troveranno posto solo piu i nomi della consunzione o del nascon-
dimento, il macerarsi nella «pallidezza, smorto, squallore, squallido, li-
vidore, macero, exhausto», ma anche il ripiegarsi nelle «tristizie, stan-
chezza, malinconia, spelonche, nascondimenti, celato, occulto, coverto,
secreto, secretario», entro cui- in un rinvio non coperto all'arte di go-
verno - si chiudono i nomi di Saturno, per dar luogo a quelli sovrani
di Giove.
La corte poi «in vece della famiglia del Podestà o del Bargello» te-
stimonia la tenace durata delle sue origini feudali, la secolare gerarchia
che serra il <<Soggetto, suddito» intorno al «vassallo», attraverso la corte
appunto del «famiglio, fante, valetto, paggio, ragazzo, scudiere», e lo
sottopone alla forza esecutiva del proprio diritto attraverso quel!' altra
«famiglia» (citata tanto nella definizione quanto nell'elenco dell' Alun-
no) che è il «birro», la «sbirraglia>;.
La corte dunque perdura nella sua funzione di epifania dell'autorità
quanto di paradigma dei modi rituali del «servaggio». Non a caso lo
stesso Castiglione ammetteva «che la principale e vera professione del
cortegiano debba esser quella del!' arme; la qual sopra tutto voglio che
egli faccia vivamente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e
fidele a chi serve» (I, xvm).
Accanto a questo primo significato lAlunno (del cui repertorio I' au-
torevolezza è per le corti confermata dall'aver incluso nella lista delle
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' 103
fonti da cui sono tratti gli esempi, oltre ai canonici Virgilio, Dante, Pe-
trarca, Boccaccio, appunto lAriosto ed il Bembo, di corti esperti) ag-
giunge, nel cielo di Giove, il senso piu attuale di corte, quello di sede del
potere regale o signorile, includendola in una serie che comprende: «re-
gno, reame, reggia, corte, aula, duca, duce, doge, signore, monsignore,
signoria, signoreggiare». Essa è il luogo ove si «signoreggia», ed è tale
esercizio che determina, come risultato corrispettivo della sua efficacia,
il «corteggiare» - secondo le giunte che il Porcacchi sarà in obbligo di
apporre nel I 584 alla riedizione del!' Alunno, allegando le nuove auto-
rità e citazioni del Caro, eccellente interprete del circolo farnesiano, e
ancora del Bembo: «Corteggiare significa far corte, cioè accompagnare
Principe e Signore per onore o per debito, o per altro. BEMBO, As.
"Gran senno faranno i suoi compagni, se essi questo Prence cortegge-
ranno"». «Per onore o per debito» - e si ricordi parallelamente il Ma/.
piglio del Tasso: «La corte dunque è congregazion d'uomini raccolti per
onore»-, o «per debito» (e sarà cura dei sovrani, e sviluppo delle cor-
ti, far passare dall'uno all'altro, da cortegiano a segretario, o magari solo
piu cifratore, se non infine misero grammatico costretto a declinare, ab-
biamo visto, il «bus, base bos» del pane quotidiano). In ogni modo il
nuovo rituale per «giuntarsi» intorno al potere, ed il suo codice piu ef-
ficace per manifestarsi, è «far corte», convenire ad un luogo ed a una
funzione.
Nel «signoreggiare» dunque il principe crea anche gli spazi per «cor-
teggiare»: la corte non è solo il 'luogo' saturnino, caro all'esecrazione
romantica, dei «nascondimenti, celato, occulto, coverto, secreto, secre-
tario» della nascente ragion di Stato, ma è insieme il luogo aperto della
rappresentazione e dell'esercizio 'festivo' del «corteggiare». A questo
campo semantico lAlunno ascriverà il terzo e ultimo significato di cor-
te, unendola dunque a «giardino, verziero, orto, brolo, cortile, corte»,
e cosi definendola: «CORTE, lat.: cavaedium, è il luogo piu spazioso del
palazzo, che alcuni lo chiamano cortile. BOCCACCIO: la corte del palazzo
[... ]Veduta lamplissima e lieta corte del palagio».
E che la corte sia proprio lo spazio pubblico deputato alla manifesta-
zione del «signoreggiare» e la «lieta corte» del!' entretien, degli esercizi
e dei giochi, è esemplarmente confermato proprio dal caso farnesiano,
dove il cortile, aperto al popolo, del gioco della «pilotta», diverrà epo-
nimo dello stesso palazzo di corte, testimoniando mirabilmente I' esem-
plarità della sua funzione: il palazzo della Pilotta che ancor indica, a
Parma, la residenza e la «politica» dei Farnese.
Nel «far corte» si compendia cosi l'intus e lextra delle sue funzioni,
il governo e lo spettacolo, il retaggio ancor feudale della struttura del
ro4 La rappresentazione
potere (con le sue gerarchie ed epifanie: da «vassallo» a «paggio», da
«scudiere» a «birro») ed insieme I' «amplissimo» scenario del suo rap-
presentarsi, corte e cortina della città.
2. Il transito del principe.
Insomma, chi vuol comprendere la qualità de la
prudenzia che rivolge il petto del felice imperadore,
pongavi mente; avenga che la testitnoniate col mo-
strarvi e occhio e orecchio e lingua di ciò che ne le fac-
cende di sua Maestà egli non vede, non ode e non
parla.
PIETRO ARETINO, lettera a Don Diego de Mendoza,
del 2. agosto 1542.
So che un vero Signor, ciecchi mortali
Sempre dee star con gli occhi aperti a i tanti
Casi celesti o pur diciam fatali
Che sovente mutar sogliono i canti.
G. cuccHETI, La pazzia. Favola pastorale,
Parma 1586; Intermedio secondo.
Le due citazioni - tratte da testi e contesti che esamineremo - vor-
rebbero segnalare i modi di quell' «occultarsi» e di quel «rappresentar-
si» del «signoreggiare», attestandoli proprio nei luoghi di quel princi-
pato «inusitado», artificiale, che fu la creazione del ducato farnesiano
di Parma e di Piacenza (1545). Ma nel pamphlet politico o nella favola
pastorale, qui prescelti, non è in questione soltanto la legittimazione o
la messa in scena di quel potere. Si tratta piuttosto di ricostruire - at-
traverso la tradizione e la traslazione dei testi - non già la storia delle
varianti, ma la storia nelle varianti, l'incidenza appunto di quei «Casi
celesti o pur diciam fatali I Che sovente mutar sogliono i canti», come
ammoniva, vestito di furie infernali, Plutone dal palcoscenico dei Lupi
di Soragna.
Certo, che la storia s'incida immediatamente nella testualità, è caso
piuttosto rado: le costanti del genere prevalgono sul variare di commit-
tenti e destinatari; ma le vicende redazionali possono talvolta meglio sug-
gerire le ragioni del« mutar dei canti» pili che non pacate filze d'archivio.
La corte, di pili, è - nell'Italia del Cinquecento - luogo del testo e
del destinatario, spazio redazionale ed insieme contesto di decodifica
di molti generi, dal poema epico alla favola pastorale, che in essa e per
essa si formano e si rappresentano.
Alla geografia delle 'mutazioni' tra testo e potere (come sarà il caso
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'
della nostra favola pastorale nella sua «traslazione» scenica da Ferrara
a Parma), vorrebbe qui congiungersi la storia del loro interferire, del va-
riare del testo non solo nello spazio, ma anche nel tempo, del potere: co-
me crediamo testimonierà la parabola delle varianti dello stesso dialogo
lucianesco antifarnesiano, quando il suo tempo sia quello del trionfo di
Carlo Ve delle speranze di riforma universale (1547), oppure solo pili
quello della lotta di successione a Paolo III e del ripiegamento sulla ri-
forma cattolica (1549).
I testi qui scelti infine insistono sul potere come Catabasi, come en-
tità descrivibile solo dai recessi infernali di Caronte e di Plutone, ma
anche come muta onnipresenza, come occhiuto incombere - cosf se-
gnalano le citazioni in esergo - dell'Invisibile.
Il potere si esercita e si ritrae muto: si fa lontano, remoto, «assolu-
to»; allora qualcuno lo deve «rappresentare», «mostrarsi e occhio e
orecchio e lingua», segno e scena dell'Occulto, come ripeterà, in specu-
lare metafora, il Tasso:
Splende il castel come in teatro adorno
suol fra notturne pompe altera scena,
ed in eccelsa parte Armida siede,
onde senz'esser vista e ode e vede 1 .
La corte sarà anche, alle soglie della ragion di Stato, il luogo di discorso
del potere e dei discorsi sul potere, pubblico e testo che solo s'interpreta
rappresentandosi. Ma essa diviene insieme lo spazio narrativo per dar
forma all'occulto, al silente, all'Incombente: il «luogo» di quei generi
che del potere cercano o fingono una, pur orrida, «riconoscibilità»: una
scena ove la follia del potere, come nell'incubo di Macbeth, si eserciti
solo per metafora, come «a dagger of the mind» (Shakespeare, Mac-
beth, atto II, scena r).
«La vita del tiranno non è altro che una sembianza della morte pie-
na di mille visioni, una grotta oscura di un aspro camino»': la sentenza
è pronunciata da Caronte apostrofando l'anima di Pier Luigi Farnese,
appena assassinato, che s'avvia - irriconoscibile - al regno dei morti.
Si tratta di una delle argomentazioni centrali del lucianesco Dialogo tra
l'anima di Pier Luigi Farnese e Caronte, testo manoscritto conservato,
nella versione italiana, alla Biblioteca Palatina di Parma'.
L'originale, spagnolo, è dovuto all'acre inventiva di don Diego Hur-
tado de Mendoza, nome prestigioso per lo scacchiere di Carlo V in Ita-
 ro6 La rappresentazione
lia ed altrettanto eminente nella geografia letteraria della Spagna del
Cinquecento': ambasciatore a Venezia dal luglio r539 al dicembre
r546, «veedor cesareo» per conto di Carlo V al Concilio di Trento, dal
dicembre 1545 al novembre 1546, ambasciatore a Roma dal 1547 al
r554, e nello stesso periodo Capitano della guardia spagnola in Siena,
fu non solo autore dei quattro libri della Guerra de Granada e traduttore
della Mechanica di Aristotele, ma per lungo tempo gli si attribuirono an-
che lanonimo Dialogo de Mercurio y Caron e sino a tempi recenti la pa-
ternità persino del Lazarillo de Tormes'.
Parlando di lui l'Aretino lo rappresenterà «occhio e orecchio e lin-
gua» dell'imperatore, e iperbolicamente «ora filosofo, ora legista, ora
teologo, ora poeta, ora isterico, ora gentiluomo, ora cavaliere e ora
ognuno»', mentre dieci anni piu tardi lo ritroveremo, in un pasquillo
senese, cosi dipinto:
Diego Urtado Mendozza, arcimarrano,
Nemico a tutt'Italia, al cielo e al mondo,
Pensando farsi in Siena a Dio secondo,
Fu privo de' favor ch'avea in mano.
Oggi depinto è qui, come ognun vede,
Senza favor, senz'arme e senza fede 7 ,
E la parabola della carriera è esemplarmente parallela a quella del-
!' iter culturale: allievo di Pietro Martire d' Angleria e poi di Agostino
Nifo, si distinse, nel periodo veneziano, per lattività di umanista bi-
bliofilo, paziente raccoglitore di codici e manoscritti greci (in partico-
lare di quelli provenienti dalla biblioteca del cardinal Bessarione), poi
donati alla biblioteca dell'Escorial", egualmente collezionando le opere
di Archimede e di Erone, come di San Basilio e San Gregorio N azian-
zeno, cosi che non stupirà vederlo destinatario della dedica delle opere
filosofiche di Cicerone per parte di Paolo Manuzio, come della Suma de
los concilios da parte del Carranza; terminati con la fine del 1554 i suc-
cessi pubblici in Italia, ebbe tempo a «vedere dall'interno» la storia di
Spagna, a giudicare e scrivere con occhio critico della politica di Filip-
po II nella Guerra de Granada contro i «moriscos» (r568-72), che rima-
se infatti inedita sino al r627, e forse anche a «vedersi dall'interno» co-
si bene da meritare le consolazioni epistolari di Santa Teresa'.
Nel Dialogo tra l'anima di Pier Luigi Farnese e Caronte lassunto del
Mendoza è quello da noi sopra descritto (cfr. qui§ r): la legittimità del
potere è proporzionale alla sua «riconoscibilità», mentre l'irriconosci-
bilità reduplica l'illegittimità del potere nella deformità, nella sua infer-
nale catabasi:
II 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'
CARONTE [. .. ] o che gli venghi il cancaro, uomo straniero deve essere costui.
Carnina senza piedi, e senza mani, la testa spartita, come si suol dire, da
un'orecchia all'altra, scannato, e con due stoccate nel petto 10 •
Il disfacimento fisico segnala la disfatta politica, l'inconsistenza dei ti-
toli che Pier Luigi Farnese adduce per farsi riconoscere e traghettare:
ANIMA Come non conosci il Duca di Castro, Principe di Parma, il Duca di
Piacenza, il Marchese di Novara, il Capitan generale [della Chiesa] I".
I gradi della carriera politica risultano tuttavia «tutti nuovi» a Caronte,
che invita allora lanima a farsi riconoscere per il nome di famiglia, ri-
conducendola alla dimensione «privata» della sua storia; ma nella gra-
datio delle «ragioni del potere», addotte dal Farnese, la stessa filiazione
trova la massima legittimazione proprio dall'eccezionalità della trasmis-
sione:
ANIMA O vecchio ignorante, o pazzo! È pur posibile che tu non conosci il fi-
glio del Papa/
La risposta di Caronte ribalta l'irriconoscibilità politica della situazione
nella sua piu radicale inammissibilità religiosa, riconducendo tuttavia
il caso farnesiano alla tipologia del «principato nuovo» machiavelliano,
quello già tentato da Alessandro VI per Cesare Borgia:
CARONTE Io non lo conosco, e sin ora io non pensavo che gli papi avessero fi-
gli; ma adesso mi ricordo d'un certo duca Valentino, che passò di qua non
so quant' anni sono tanto arrogante, come tu, e forse anca tanto ben ferito
e mal trattato, che disse esser figlio d'un altro Papa, e voleva pur come tu,
che gli portassi rispetto 12 •
Sin dall'inizio della sua parabola, I'«artificialità» dello stato farne-
siano è ricondotta dal Mendoza alle forme, già note, del nepotismo pa-
pale, con lucido scetticismo adombrando lesito lapidariamente traccia-
to dal Machiavelli per il prototipo borgiano: «Dall'altra parte Cesare
Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la for-
tuna del padre, e con quella lo perdé»".
L'unica legittimità ammessa da Caronte e solo titolo di riconosci-
mento son quelli anagrafici, debitamente scindendo famiglia e papato:
CARONTE Oh, oh, oh, or si che ti conosco come [me] stesso; non sei tu il co-
lonello Pier Luigi figlio di Alessandro Farnese, che al presente è Paolo 3°
sommo Pontefice Romano de' cristiani? Alla prima t'averei conosciuto se
mi avessi detto il tuo proprio nome; ma per questi altri titoli nuovi et inu~
sitati, appena t' avr[ebbe] conosciuto chi ti gli ha dati 14 •
Siamo dunque in grado di trarre qualche conseguenza sulla defini-
bilità della natura del potere di Pier Luigi: la distinzione sottile tra
ro8 La rappresentazione
persona e funzione, tra Alessandro (in quanto appartenente alla fami-
glia Farnese) e quel momentaneo ruolo «al presente Paolo III», insiste
sul carattere privato della donazione: si tratta di «titoli nuovi et inusi-
tati>>, noti solo a chi li ha elargiti, e non tali dunque da legittimare il
configurarsi di un «principato nuovo». La stessa distinzione tra Ales-
sandro Farnese e la natura del papato consente a Caronte di contestare
non solo la procedura ma lammissibilità stessa della donazione:
CARONTE [. .. ] quello che mi causa maraviglia grande è che tuo padre ti faces-
.se signor di quello che non era suo, [e] neanche poteva esser tuo.
ANIMA Come? Non puote il Papa far quello che gli pare e piace del patrimo-
nio della Chiesa? u.
Ovviamente il «patrimonio» non appartiene a chi lo anuninistra, è lari-
sposta di Caronte; anzi Piacenza è semmai «patrimonio dello Stato di
Milano», donde la necessità di ottenere non dal Papa la donazione, ma
dall'imperatore l'investitura:
CARONTE . [ ... ] e se riguardi bene il titolo della concessione vedrai che non v' e-
ra in quella sottoscritto alcun vassallo né affezionato di sua Maestà. Di dove
chiaramente si scorge che fu una concessione fatta per [aliamtiam], e come
dice lo spagnuolo, fu una concessione [di manica] 16 •
Gli argomenti di Caronte, ineccepibili dal punto di vista del diritto
d'investitura, della trasmissione del potere per «infeudamento», ven-
gono tuttavia messi in crisi dalle argomentazioni «nuove» di Pier Luigi,
dalla storica consapevolezza del «diritto della forza» contro il vano ar-
gomentare-della forza del diritto, dalla certezza del «possedere» e del
-«conqrustare »:
ANIMA Che m'importava a me 1 s'io era duca cli Piacenza o con gusto dell'Im-
peratore o a suo dispetto; e se il mio ius era buono o cattivo, io non aveva
bisogno cli porlo in disputa con nessuno; [... ] ma se andiamo con miglior cu-
riosità cercando la pretensione dal ius di ciascheduno, non è miglior di quel-
lo che ne tiene il possesso 17 ,
Il diritto è di chi «tiene il possesso», di chi stabilisce un «dominio
fermo»: all'evidenza della conclusione non può che convenire anche
Caronte, riconoscendo a Pier Luigi, pur come usurpazione, di aver fatto
«de la fuerza derecho», della forza diritto, o addirittura - come pro-
pone la versione italiana - di «avere fatto della forza giustizia». Ma le
ragioni della forza sono pili implacabili di quelle del diritto, e ad esse,
fatte proprie, si appoggia la replica di Caronte che, accettando e portan-
do alle estreme conseguenze il discorso di Pier Luigi, non solo rivela
l'insufficienza, in termini nettamente machiavelliani, della posizione
del Farnese, ma arriva per questa via a definire la natura del potere
nuovo che solo nella forza si legittima.
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'
Sin dalle prime battute solitudine e sospetto, tradimento e inganno.
sono le dimensioni del potere, il modo del suo affermarsi e del perdersi:
CARONTE Ma come, come, essendo tu tiranno stavi solo?
ANIMA 'Chi si può guardare da' traditori?
r
CARONTE Chi non la fa, non aspetta[. .. ]
ANIMA A quelli che mi amazzarono poco gli aveva levato, ma s'aspettavano
quatto ore ancora ...
CARONTE Già t'ho inteso, di modo tale che [. . .] se loro non ti avessero anti-
cipato, tu averessi anticipato loro 18 •
In questo groviglio cupo di macchinazioni e sospetti, la vita del tiranno
non è pili che una «sombra de la muerte», un incubo «pieno di mille vi-
sioni», un cammino crudele di disfacimento:
CARONTE [ ... ] atteso che essendo tiranno, e vivendo come vivevi, avesti ar-
dimento di fidarti di te medesimo, considerando che la vita del tiranno non
è altro che una sembianza della morte piena di mille visioni, una grotta
oscura di un aspro camino[ ...] ripieno di mille sorti d'inconvenienze, di lac-
ci e di pericoli, senza potersi accertare di non cadere in alcun di questi 19 •
Né serve a tutelarsi opprimere i piu deboli e risparmiare i pili poten-
ti («Nunca yo !es hice agravio particular :i ellos, que el pueblo no lo re-
cibiese muy mayor»), poiché il potere tirannico della forza è senza al-
leati, può solo farsi temere e temere, come ricorda Caronte cogliendo
il Farnese in fatale contraddizione:
. CARONTE [.,.]E se eri temuto da molti, come non temevi d'inganno? essendo
che di buona ragione quello debbia temere [che] di molti è temuto[ ... ]
ANIMA Perché non erano uomini da poter contender meco.
CARONTE Ah, ahi ah, questa è la maggior balordagine che io mai abbi inteso:
furono uomini a quali bastò l'animo per ammazzarti, e dici che non erano
bastanti a competer teca! 20 •
Chi sceglie la forza può solo esercitarla sino alla fine, assumere il po-
tere nella sua totalità distruttiva o soccombere vittima della propria esi-
tazione; il potere <muovo» che ha fatto della forza diritto, può eserci-
tarsi solo come epifania di morte, necessità di «disfare», tragico eccesso
(come aveva teorizzato Machiavelli, ben presente, parrebbe, alle con-
clusioni del Mendoza) nella rovina:
Perché, in verità, non ci è modo securo a possederle [scil:: le città di nuovo
acquisto], altro che la ruina. E chi diviene patrone di una città consueta a vi-
vere libera, e non la disfaccia, aspetti di essere disfatto da quella 21 •
Ed in un bagliore d'impotenza, nell'alternativa non assaporata di pote-
re o «tuina», si chiude infatti la vana congettura di Pier Luigi: «mi pi-

!IO La rappresentazione
gliò la morte quasi col fuoco nella mano, e se tardava due mesi, o io ab-
I I
brugiava l'Italia, overo il maggior principe d'essa diveniva»".
' \ Ma la stringente requisitoria del Mendoza, mostrata l'incapacità del
I beneficiario a trasformare la forza in diritto, il potere in «ragion di sta-
to», si rivolge, dalla metà del dialogo, alla fonte di quella «Usurpazio-
ne», al potere reale che permise la formazione del ducato, a Paolo III,
dipinto a tinte fosche come dedito alla negromanzia, circondato da ne-
mici, ed artefice della rovina morale della Chiesa.
E qui il Mendoza, per bocca di Caronte, inizia un lungo monologo
sulle speranze di riforma della Chiesa, di successo del Concilio, ma af-
fidate alla saggezza dell'imperatore, chiamato a «rimediare unitamente
al!' eresia del!' Alemagna e la vigliacheria di Roma»:
CARONTE Sai quel che temo Pier Luigi? che questo tuo sangue alla fine abbia
da venire sopra tuo padre, figliuoli e lignaggio; e perché sappi che ho spirito
profetico, e che non parlo senza fondamento, ti voglio dire quello che sento
di questo negozio: a tuo padre rincresce cioè della buona fortuna dell'impe-
ratore, come quello che ha inteso che non ha da consentire che duri tanto
tempo la dissoluzione del clero et il dissordine che è nella Chiesa di GesU
Cristo, e che ha da vincere l'impresa tanto santa che ha presa di convocare
il concilio, e rimediare unitamente all'eresia dell' Alemagna e la vigliacheria
di Roma 23 •
Di fronte all'impegno riformatore di Carlo V (secondo la lettura che
ne davano gli umanisti spagnoli dal V aldés al Mendoza, come ha osser-
vato Marce! Bataillon - cfr. nota 5), l'attività di Paolo III pare tutta
volta alla ricerca del «particulare», tepida nel promuovere il Concilio,
ma destinata a durare - come forza religiosa e politica - quanto «Un
pequeiio torbellino de polvo ante un viento recio y poderoso»:
Però Dio che non volse acconsentire a questa malignità, apri gli occhi a
quelli che ti ammazzarono, e gli aprirà all'Imperatore acciò tiri avanti il suo
buon proposito, per il quale tuo padre, che avanti aveva poca voglia del con-
cilio, ora ne avrà meno, e lasciando il negozio di Dio per avversario, vedrai che
ha da pigliare il tuo [per] principale, senza ricordarsi che è Vicario di Cristo
obligato a dar bene per male; vorrà, come tu speri, vendicare la tua morte, e
per questo non vedrà il danno della Cristianità, né si sdegnerà di farsi nemico
d'un Imperatore il quale conservava [lui] e tutto il resto della Chiesa con la
propria virtU, con la propria religione e spada; [... ] dal che seguirà che l'Impe-
ratore mosso con la sua giustissima colera tornerà a mettere insieme il Conci-
lio, e vorrà vedere l'effetto che d'esso riuscirà; e questo non si potrà fare senza
danno e vergogna di tuo padre, figli e lignaggio, li quali essendo pochi e soli
[dureranno] avanti la fu1·ia dell'Imperatore quello che suol durare un picciolo
24
venticello avanti un vento molto gagliardo et impetuoso •
La fine di Pier Luigi non è dunque tanto vista come lauspicato
eclissarsi di un'avventura politica, quanto piuttosto come il presuppo-
',
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' III
sto, fallito l'esempio piu vistoso di nepotismo papale, per riprendere
sotto l'impulso dell'imperatore la riforma della Chiesa attraverso il con-
cilio: nella perorazione finale di Caronte si uniranno cosi le cause della
divisione religiosa, da riparare, agli auspici dell'unità politica da ricom-
porre per far fronte (secondo uno schema ormai tradizionale) al pericolo
turco che incombe sull'Occidente: ma all'una e all'altra si potrà prov-
vedere solo <rnniéndose y reformandose la Iglesia», «mudada y reforma-
da la Iglesia»:
CARON'l'E [ ...]la prima occasione che mosse li primi Alemani a negare l'obbe-
dienza alla Chiesa nacque dalla dissoluzione del clero e dalle sceleragini che
in Roma si sofrivano e si commettevano ogni giorno. Pensi tu per avventura
che io voglia concilio e che io lo desideri? Sarà la maggior perdita che mi po-
tese venire, perché ravvedendosi e riformandosi il Clero, perdo il guadagno
di tanti alamani eretici, che passano di qua a branchi come i corvi, i quali di
loro propria volontà vogliono andare all'inferno; supposto che, per l'altra
parte, credo che unita e riformata la Chiesa, li principi cristiani si uniranno
medesimamente ad andare contro il Turco, donde io potrò far meglio il fat-
to mio 2' .
Ciò che colpisce, nelle conclusioni del dialogo, non è tanto il voto
cbe l'Occidente cristiano ritrovi la propria coesione rimuovendo dall'in-
terno all'esterno, contro i Turchi, le proprie lotte- motivo che percor-
re tutta la letteratura del Cinquecento"-; ma che, alla base della paci-
ficazione religiosa e dell'unità politica invocandosi la riforma della
Chiesa, questa sia cautamente smorzata nella versione italiana del l 549
rispetto al testo originale spagnolo del Mendoza, redatto verosimilmen-
te nell'autunno del 1547·
Si trattava allora di una speranza universale che inglobava tutta la
cristianità: <rnniéndose y reformandose la Iglesia»; in effetti il 13 di-
cembre l 545 il Concilio aveva iniziato ilavori a Trento, il colloquio di
religione di Ratisbona s'inaugurava il 27 gennaio 1546; nel frattem-
po sparivano dallo scenario politico i principali antagonisti politici e
religiosi delle mire <rnniversalistiche» di Carlo V: il 18 febbraio 1546
moriva Martin Lutero, il 28 gennaio 1547 Enrico VIII, ed il 31 mar-
zo Francesco I. Con la vittoria poi di Miihlberg sulla lega smalcaldi-
ca (24 aprile 1547) Carlo V pareva ormai, nell'autunno 1547, - colpi-
to direttamente anche il Papa con l'uccisione di Pier Luigi e l'occupa-
zione di Piacenza - signore d'Europa: «Nulla poteva piu impedirgli di
dare ora inizio al nuovo ordinamento dell'Europa secondo la sua idea
di un impero universale e di ristabilire l'unità della fede»".
Ma nello scorcio del 1549, l'anonimo che da Roma «in foro Bulgen-
si» volgeva- in funzione chiaramente antifarnesiana, nei giochi d'al-
II2 La rappresentazione
leanze e negli strumenti di propaganda e pressione per l'elezione del nuo-
vo Papa - il pamphlet ed il monologo finale di Caronte, si accontentava
ormai di dire« ravvedendosi e riformandosi il Clero», non potendosi piu
sperare né l'unità né la riforma della Chiesa, come mostrava il ripiega-
mento dello stesso Carlo V, dopo la sospensione anche del Concilio (3
febbraio r548), sulle formule separate dell'Interim di Augusta per i pro-
testanti e la Formula Reformationis per i cattolici (maggio-luglio r 548).
Ma c'è soprattutto, nell'anonimo traduttore, non solo la consapevo-
lezza del diverso peso semantico di quelle formule a due anni di distan-
za, ma l'attenzione - vigile e cautissima - a quel potere ed a quella cu-
ria che nel testo si voleva, troppo esplicitamente, «mudada y reforma-
da». In effetti, nella versione del r 549, sparisce intanto ogni riferimen-
to alle responsabilità avute da Pier Luigi nel comando delle truppe pon-
tificie (cosf che nel presentarsi l'anima di Pier Luigi si priverà del legit-
timo titolo, ed esercitata funzione, di «confalonier de la Iglesia»)" e
corrispettivamente si omette di segnalare ogni intervento di legittima-
zione del potere di Pier Luigi da parte delle gerarchie ecclesiastiche:
Y aun si miraras al tltulo de la concesion, vieras que no habia en él ninguna fir-
ma de cardenal ni de ningun vasallo ni aficionado asu majestad.
E se riguardi bene il titolo della concessione vedrai che non v'era in quella sot-
toscritto alcun vassallo né affezionato di sua Maestà 29 •
Quale che sia il peso semantico dell'omissione, è sempre la parola vesco-
vo o cardinale ad essere soppressa dai luoghi dell' «infrazione» o del «di-
sdoro»: cosi l' obispo (il vescovo di Fano) che nell'Inferno aveva infor-
mato Caronte delle procedure turpi e tiranniche dei Farnese:
CARONTE Antes, segun me dijo un obispo, mozo de buen gesto, que tU mar-
tirizaste diab6licamente [... ]
Avanti, secondo mi disse un giovinotto di buona grazia quale si diabolica-
mente martorizasti [... ] 30 •
Cosf anche alla fine, quando il Mendoza assaporava, nello spettacolo
di Paolo III vacillante e dei Farnese dispersi, il momento di arrivare, nel-
la riforma del concilio, a« tosare» le scandalose ricchezze dei cardinali (e
di Alessandro Farnese in primis), il traduttore alla sempre attuale meta-
fora preferirà sostituire l'ormai vana e spenta lettera del «riformare»:
CARONTE [., ,] el Papa es ya viejo, y corno dicen, vive de gracia, y corno yo
creo, es permision de Dios para que se enmiende. Moririise mafiana, y heri-
do el pastor, no te daria un higo por todas las ovejas de tu linaje, y si Octa-
vio queda en desgracia con el Emperador, y él lo desampara, dirne <_quien lo
favorecera 6 cual iirbol le hara sombra? Tanto massi se hace, corno se hara,
el concilio, que los cardenales, tus hijos, quedartin cercenados coma los otros.
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' IIJ
[...] il Papa è vli':cchio e, come dicon, vive di grazia, e, come credo, è permis-
sione di Dio acciò si emendi, perché morirà domani, e morto il pastore, non
darei un fico per le pecore del suo lignaggio, e se Ottavio resta in disgrazia
dell'Imperatore, ~lui!' abbandona, dimmi chi lo favorirà, chi allora gli farà
ombra( E tanto p1U se si fa, come si farà, il concilio, li cardenali tuoi figliuoli
saranno tanto riformati come gli altri 31 ,
Nello spègnersi della metafora è non solo l'emblematica parabola
(r547-49) dell'esaurirsi della riforma, ma il segno anche delle mutate
«condizioni di scrittura» di quell'area testuale: nell'intervallo delle va-
rianti inscrivendosi il potere e le sue parole: il testo della storia.
3 . La rappresentazione.
«Beata e dolce pace, allor ne' pianti I De' notturni teatri»": il luogo
scenico dell'evasione, la favola pastorale, è già, nel suo periodo di mag-
gior successo (tra la pubblicazione dell' Aminta, r 58 r, e quella del Pastor
fido, r590), «dura scena», eco cupa «ne' pianti de' notturni teatri»",
spettacolo che si chiude «nel crudo sen di Pluto»", nella catabasi di
una per sempre sottratta Primavera.
La parabola è esemplarmente attestata da La pazzia. Favola pastorale
di Giovan Donato Cuccheti (o Cucchetti), composta per le nozze di
Marfisa d'Este con Alderano Cybo, marchese di Carrara, nell'aprile del
r580, e pubblicata da Vittorio Baldini nel gennaio r58r ". La favola
pastorale fu poi ripresentata a Parma dalla celebre «Compagnia de' Pel-
legrini», nella riedizione procurata da Francesco Mammarello, nel
r 586, sotto l'impulso di Isabella Pallavicina Lupi, marchesa di Soragna
cui l'opera è dedicata. Per loccasione sono aggiunti il Prologo, gli In'.
termezzì, due sonetti a' Pellegrini, uno alla marchesa di Soragna, ed una
canzone del Cuccheti agli Accademici Fioriti". Le «giunte» e le corre-
zioni" possono cosf essere interpretate secondo un duplice e correlato
registro di lettura: da un lato misurando lincidenza della vicenda degli
Intermezzi (che rappresentano Utrionfo del potere degli Inferi su Pro-
serpina-Primavera) sulla trama, ad essi intercalata, della favola pasto-
rale; d'altro lato ricollocando la filigrana ideologica del testo (dalla città
viene l'inganno, il furto e la follia) nel contesto di una rappresentazione
non già allestita in Parma, alla corte del principe, ma alla corte parallela
- e che in quegli anni diviene vero centro di promozione delle novità
«p~storali» - dei marchesi di Soragna, feudatari assai potenti, ed il cui
solido potere è ben radicato nel tempo e nel territorio a differenza delle
concessioni «de manga», su cui si fonda il potere farnesiano.
9
 Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' "5
II4 La rappresentazione

Cosi per le insistenze di Isabella Lupi, I' ancor inedita pastorale Dan- La follia si scatena insomma come spia linguistica di una radicale impos-
za di Venere di Angelo Ingegneri viene affidata nel 1583 alla rappresen- sibilità ormai a far coincidere parole e cose, dissociate dall'arbitrio e dal
tazione della figlia Camilla Lupi, e l'anno dopo dedicatale dall'Ingegne- calcolo della nuova «ragion di stato», i cui «concetti», come teorizza
ri, nell'edizione di Vicenza del 1584". Poco prima, Girolamo Pallan- Branco nel suo monologo della scena terza nel secondo atto, servono so-
tieri aveva dedicato alla stessa Isabella Lupi la sua versione della Buco- prattutto a dissimulare l'inganno, «a tempo e loco I E celarsi, e sco-
lica virgiliana, accompagnata da un sonetto del Tasso". E la troveremo prirsi»:
infine allusa, col nome di Fiori, appunto nella Flori. Favola boscareccia Quanto vive felice astuto ingegno,
di Maddalena Campiglia, ed elogiata col nome di Calisa nei componi- Che sapendo mostrar per nero il bianco
Nel creder delle genti sia tenuto
menti poetici di Bernardino Baldi'". Da quel, che chiude in cor, tutto diverso;
Si tratta comunque di un'attenzione non isolata alla favola pastora- La faccia accomodando e le parole,
le, poiché semmai continua la tradizione inaugurata un decennio prima or liete, or meste; e sappia a tempo e loco
dal!' Accademia degli Innominati (in una sorta di emula concorrenza a E celarsi, e scoprirsi, e con laltrui
quell'atelier di favole pastorali che è nel secondo Cinquecento la corte Fatiche proveder al suo bisogno 46 .
di Ferrara)", nella quale il citato Girolamo Pallantieri figurava col no- Di fronte alla simulazione, al perfetto coincidere di volto e maschera
me di Solingo, ed i cui fondatori, dal Visdomini - in una linea cultura- nel monologo di Branco, sta in posizione rigorosamente speculare, nel
le che si riferisce concretamente al Sannazaro" - a Muzio Manfredi, parallelo monologo che inaugura il secondo atto, il dissociarsi dell' espe-
erano autori di celebrate pastorali, quali L'Erminia o La Semiramis". rienza e del discorso di Fileno, il vano rifrangersi della parola nella sua
In questo assai folto panorama La pazzia del Cuccheti spicca tutta- vacua eco:
via non solo per la lucida coerenza con cui porta agli estremi esiti la la- Chi con letizia, e con piacer immenso
tente «dissociazione» ideologica, la fuga dalla scena e nella scena della Ascolta il suon del dolce canto mio? io
corte implicita nel genere, e teorizzata quasi nell' Aminta, ma anche per E chi sei tu, che con voce suave
la sperimentazione linguistica di questa «follia», cosi che il Tasso stes- Mostri goder de la mia gioia meco? Eco
Eco sei dunque, che gioir dimostri
so, inviando ali' autore un sonetto d'elogio - poi compreso nella prima De lo stato felice in eh' ora i' sono? sono 47 .
edizione della Pazzia - lo includerà, con Virgilio, Teocrito, Guarini
(o forse Sannazaro) nell'eletto numero di coloro che si sono distinti Nell'ironica e drammatica dissociazione dell'ultimo verso («felice so-
«cantando pastorali I amori»: no»<-> «Eco sono»), nell'inanità di uno «stato felice» subito vanificato
dal!' eco ed in eco, prende avvio e si dilata lallucinata fissità ossirnorica
Ciò che ammirò già Manto e Siracusa
ne' duo fa1nosi, e ciò che al mio vicino del discorso di Fileno, sperimentato sino al nonsense:
dettò già spirto di celeste musa, FILENO Non ti posso parlar stammi ascoltare
puro in te trapassò, qual matutino [ ... ]
raggio in cristallo o in fonte onda transfusa Si che me lo diss' ella non parlando
od aura per fiorito alto camino 44 • Non vi fosti ancor tu? buon df buon anno 48 •
Nell'edizione ferrarese la trama è tutta giocata sul contrasto, prati- Il momento cosi dell'incontro con l'amata, al chiudersi del terzo at-
cato sino all'ossimoro, tra le astuzie della «ragione» cittadina (e corti- to, al centro esatto dell'azione scenica, non costituisce l'occasione del-
giana) rivendicate da Branco - l'intruso nella comunità arcadica - e le !'agnitio, della riparazione di follia, ma semmai la sua piu acuta espan-
«semplici ragioni» di Lupino e Fileno; contrasto esemplarmente denun- sione, il reduplicarsi del vuoto in discorso («ridir quel ch'io non dissi»),
ciato dall'incipit stesso della favola pastorale: dell'ombra in desiderio:
Queste tue folli e semplici ragioni FILENO Filen dov'è? Sf, sf, Io corrò bene,
che da lo stato vile ove tu sei Ascoltami di grazia: io fui per dirgli
Non s' alontanan punto, non han forza 4}. Che 'l corso del veloce e leggier Pardo

n6 La rappresentazione
Non è proprio d'alcun, che ancor ch'io sia
Senza piedi, non son sf trascurato
Che non sappia ridir quel ch'io non dissi 49 .
Le ardite slogature logiche e sintattiche consentiranno al discorso non
solo di rifrangersi e di dissociarsi in antitesi, ma di moltiplicarsi poi in
ossessive tautologie, in manieristici bisticci sospesi tra isteria e afasia:
FILENO Ardor non è [scii.: Amore], gl' è ben d' ardor pensiero,
Anzi non è pensier, per eh'el pensare
Dal pensier nasce, et io che ho già pensato
Quanto pensar si può, non ho pensiero,
Anzi pur ho pensier, che col pensare
Rinovo il mio piacer [.. .]
' ............... .
Dunque pensar vogl'io, ma che pensiero
Il mio sarà? sarà d'amor, sU dunque
Che tutto in preda mi darò al pensiero,
lo vo' pensar che la mia Donna è Donna 50 •
Ma questo impazzire nella fissità del nome, questo allucinato gioco
di specchi non è in fondo che la coerente conclusione d'un lontano gio-
co, il gioco che s'impone a primo argomento del Cortegiano del Casti-
glione, il gioco di pazzia, l' «impazzire nel pensare»:
Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia
e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di paz-
zia si crede ch'io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per le
scintille di pazzia che ogni df si veggono di me uscire[.. .]. Di questo gioco si ri-
se molto, né alcun era che si potesse tener di parlare; chi diceva- lo impazzi-
rei nel pensare-; chi - Nel guardare-; chi dicea, - lo già son impazzito in
amare-; e tali cose' 1 •
La pazzia, dilatazione all'infinito del medesimo: ossessivo ballo di
«atarantati» a corte, ridotti alfine, osservava il Castiglione, «a perfe-
zion di pubblica pazzia»:
Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di paz-
zia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infiniton.
«Multiplicar quasi in infinito» l'eco, fissando - «a perfezion di paz-
zia» - il nome: cosf nella fissione perfetta del segno, in Mar-fisa, si
moltiplicherà, di cielo in cielo, di nome in nome, e alfine si fisserà I' a-
scensione di follia nell'elogio, il concrescersi delle tautologie - nella
«lucente luce» del nome epifanico:
FILENO So di non esser vinto, e pur mi reggo
In piedi, in piedi no, ch'io son nell'aria?
Tu, sei nell'aria? s{ che s'io non fossi
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' II7
Nell'aria assunto, io non vedrei qui intorno
Tanto e sf bel paese; o tu vaneggi
Che sei nel ciel? io son nel cid? nel cielo,
Certo ch'io sono nel' ottava sfera,
O quante stelle rilucenti, o quanti
Superni lumi, una lucente stella
In Mar fisa ha la luce[ ... ]''.
L'apoteosi, ali' «Ottava sfera» celeste, di casa d'Este, la rivelazione
del nome «superno» di Marfisa avviene dunque come compimento ed
esaurimento del discorso di follia, come cifra letterale e sigillo del chiu-
dersi del circolo tautologico nel nome e sulla realtà stessa del destinata-
rio, del principe, in quella «perfezion di pubblica pazzia» che il rito del
«far corte» esige, quasi estrema catarsi della dissociazione del servire
nella specularità del contemplarsi servire, «sforzato efide!e a chi serve»
ad un tempo.
E la citazione di uno dei piu inquietanti luoghi del Cortegiano non
è affatto esterno richiamo di terni, poiché la definizione stessa del «ser-
vire» data da Fileno prima d'impazzire, è la letterale riproduzione, la
puntigliosa replica delle qualità del perfetto cortigiano secondo il trat-
tato del Castiglione:
FILENO L'util genera amor, onde chi serve,
E de la servitude util ne tragge,
Sforzato è fedelmente di servire".
[ ... ] e sia conosciuto (scii.: il cortegiano) tra gli altri per ardito e sforzato e fide le
a chi serve".
Nella perfetta equivalenza delle formule («sforzato e fidele a chi
serve», «sforzato è fedelmente di servire») si chiudeva cosf, da Urbi-
no a Ferrara, la parabola ideologica e letteraria che avea cercato -
lungo il Cinquecento - di fare della corte il luogo platonico, «la idea
della perfetta republica e del perfetto re e del perfetto oratore, cosf [... ]
del perfetto cortegiano»"; si serrava nella dissociazione ossimorica -
e nella restituzione retorica - del ruolo del letterato, di chi al servire
«sforzato è fedelmente», fedelmente sino alla follia, alla ritrovata coe-
renza dei segni nella tautologia.
Se nella prima edizione lo schema narrativo s'appunta tutto sul pro-
gredire della follia di Fileno, e il protagonista è collocato, secondo una
formula tipica del genere, come «vittima dell'inganno» (e delle arti cit-
tadine); nel riallestimento parmense, promosso dalla Pallavicini, l'ottica
assunta, attraverso la «giunta» degli Intermezzi e del Prologo, è risolu-
tamente quella dell'interrogare e del rispondere al potere, quella di non
eludere ma di svelare l'ideologia di Barco. E la mutazione è già esem-
II8 La rappresentazione
plarmente allusa nell'unica vistosa variante apportata al testo, nella ri-
scrittura dell'incipit della favola che ora (pur riferita alle seduzioni d' a-
more, - ma la ritraducibilità politica è trasparente-) sostituisce all'os-
simoro impotente delle «folli ragioni» del pastore Lupino la nuova e piu
scaltrita coppia d' «ingegno e inganno»:
LUPINO E pur ogniun mi dice: «o car Pastore,
E' dolce cosa Amore»,
Ma io nol credo e'dico: è fanciullino
Ch' alle man di Lupino
Avria la mala pasca et il malanno,
Ch'ingegno ho piU di lui, arte e inganno.
ELIGIO Queste tue folli e semplici canzoni
Che da lo stato vile ove tu sei
Non s' a1ontanan punto, non han forza n.
ELIGIO Queste tue folli e semplici ragioni
Che da lo stato vile ove tu sei
Non s'alontanan punto, non han forza' 8 •
E non è improbabile che lagguerrita dichiarazione di Lupino, non
suffragata da specifiche ragioni testuali, sia da ascrivere al calcolo ana-
grammatico che la dedica di Francesco Mammarello artificiosamente
esalta:
Cosi a voi, nostra PALLA, VICINA pili a questi nostri monti d'Arcadia, non
uno agno, non una damma, né un sol capretto, ma tutta la ricchezza d'armen-
ti, e nel te1npo apunto di pazzia, acciò sia giudicato quanto saviamente offero,
dono e dedico. [... ]Il che mi affida, udendo il gran nome di V.S. Ili. da LUPI
essere riverito, e dal dominio che meritevolmente tiene di SORAGNA, quasi
d' AGNA, essere riconosciuto 39 ;
e che si prolungherebbe dunque nella variante all'incipit, come riaffer-
mazione della capacità di rispondere alle insidie con maggior «ingegno,
arte e inganno» da parte del rinnovato Lupino, emblema- come la de-
dica suggerisce - dei LUPI di Soragna.
In questa sorta di «controcanto» alla follfa di Fileno, l'inserimento
degli intermezzi costituisce la ripresa e la risposta al «celarsi e scoprirsi»
esaltato dal monologo di Branco («Se ben a voi nascosto I Parà forse il
mio fare I Visibil fiala piaga, I Me invisibil, che 'l piaga»)", il manife-
starsi di «ingegno e inganno» parallelo all'«astuto ingegno» messo in
opera da Branco.
E che l'apparato degli intermezzi rappresenti la metafora del potere,
il suo infernale trionfo sulla follia del servire, è subito rivelato dall' In-
tennedio secondo, introdotto da questa didascalia:
Esce Plutone per la strada d'Etna sopra il carro, con il tridente in mano,
con doi de' suoi ministri, con le vesti di Furie infernali, e dice:
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' "9
So che un vero Signor, ciecchi mortali
Sempre dee star con gli occhi aperti a i tanti
Casi celesti, o pur diciam fatali,
Che sovente mutar sogliono i canti 61 •
Ed è tuttavia trionfo che si consuma in rogo, nei bagliori di una celebra-
zione che è forse anche vendetta in contumacia, abbruciamento in ef-
figie, epinicio ed epicedio del potere:
Et è ben di dovere che a lei, né ad altri, faccia dono di queste boscareccie
fiamme, non si potendo ella ritrovar presente, quando in publica scena con ap-
parenti Intramedii furono accese, e con non poco applauso spente; ella intanto
nelle pii.I fredde ore di questi giorni se ne accendi, nel cui di loro primo fiam-
meggiare vedrà, e scoprendo riconoscerà [... ] questo mio vivo e pronto deside-
rio di servirla 62 •
E cosi pare di dover leggere la simbolica degli intermezzi, poiché il
Prologo che li precede e li illustra, si chiude con l'immagine sinistra di
lacci e catene che soffocano le città, con la sete di «distruzione» che di-
vora i «prencipi», dai quali ormai Astrea è fuggita, solo piu commisu-
randosi la schiavitu e la crudeltà:
«Amico - dissi-, deh, per cortesia,
Dimmi se le città son cosi grandi
Et si pompose e belle, e cosi vaghe».
«Altro non ti so dir - disse-, o pastore,
Se non quanto è palese e fora inscritto;
April'orecchie, nota, ascolta~>, e disse:
«Quasi del mondo le città e i castelli
Di crudeltà son pieni e di rancore,
Di Circe, di Medee e di Meduse,
E di quei che portò l'aquila in cielo.
La servitU è con mille lacci al collo,
Mille catene e mille intorno ai piedi,
Invidia di regnar è distruzzione,
Et è fuggita Astrea con le bilancie,
Se dice anca de Prencipi, et è scritto» 63 ,
La metafora cortigiana di chi «sforzato è fedelmente di servire» si
dilata ora, nel nuovo testo e nella nuova corte di Parma, alle proporzio-
ni collettive di una servitu che «è con mille lacci al collo I Mille catene
e mille intorno ai piedi», nell'affermarsi di un potere («invidia di re-
gnar») che è «distruzione» soltanto. La risposta di Plutone, nell'Inter-
medio secondo, non smentirà il prologo: il potere è distruzione, e solo lo
può esercitare - in una definizione che è quasi l'atto di nascita dell' as-
solutismo moderno - chi sa operare «sottratto e solo»:
E in ver Sicilia me ne vado, e solo
per veder ch'uom può far sottratto et solo 64 •
120 La rappresentazione

Nella scommessa di Plutone - «solo I per veder ch'uom può far sot-
tratto et solo»-, il potere esce finalmente di scena, non avrà piu biso-
gno di rappresentarsi a corte: già s'avvia a cercare - «sottratto e solo »
- l'imm~gine'. presto ossessiva, della sua tragica ineluttabilità, già «to-
wards his design I Moves like a ghost »".

ll 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni'.

t T. Tasso, Gerusalemme liberata, VII, 36. E poco prima, fuor di metafora, segnalava le
pieghe di «inganno occulto» di quella <(altera scena»: «Dubita alquanto poi eh' entro si
forte I magione alcuno inganno occulto giaccia» (VII, 30). Corrispettivamente la <(cor-
tigiana prudenza» consisterà nell' «occultare», nello schivate, «occultando», le «occul-
te» arti del potere, come il Tasso dbadirà nel Malpiglio: «Dunque occultando il corti-
giano schiva la noia del principe, e occultando ancora par eh' egli possa celarsi da l'invi-
dia cortigiana»; «Dunque appari il cortigiano piU tosto d'occultare che di apparere» (Il
Malpiglio overo de la Corte, ora in T. Tasso, Dialoghi, a cura di E. Raimondi, Sansoni,
Firenze 1958, voi. II, tomo II, pp. 547-65; le citazioni rispettivamente a pp. 559 e 557).
2 La versione anonima (Dialogo tra l'anima di Pier Luigi Farnese e Caronte) è conservata al-
la Biblioteca Palatina di Parma, sotto la segnatura Ms 963, è costituita da 11 carte, per
22 pagine complessive, ed è datata (si vedrà poi perché) 1549. La citazione a c. 4v. Se-
gnalo ancora la Vita di Pier Luigi Farnese Duca di Parma e Piacenza manoscritta, anch'essa
anonima, contenuta nel Ms 3749, cart., sec. XVIII, in 4°, costituita da 89 carte "(pp.
177), ancora alla Biblioteca Palatina di Parma.
3 Il dialogo citato è la versione letterale, con qualche fraintendimento lessicale e seman-
tico, del Didlogo entre Caronte y el dnima de Pedro Luis Farnesio, composto da Diego
Hurtado de Mendoza subito dopo la morte di Pier Luigi (10 settembre 1547), e pubbli-
cato per la prima volta da Adolfo de Castro, Curiosidades bibliof}"dficas, «Biblioteca de
autores espafioles », voi. XXXVI, Madrid 1855, pp. 1-7. Tuttavia è probabile che il ma-
noscritto parmense sia piU precisamente riferibile al Ms 8755 [= X53] della Biblioteca
Nacional di Madrid (ove il dialogo è compreso nei ff. 22-40), come confermano i con-
simili explicit, non attestati altrove che nei due manoscritti citati. Il Ms 8755 (Madrid)
cosi termina infatti: « ... no te valdrà tu padre aqui, quia in infetno nulla est redemptio.
Rame apud Parrochiwn in foro Bulgensi anno 1549· Pauli iij quintodecimo sub correc-
tione sanctae Matris Ecclesiae»; e quello di Parma, Ms 963: «non ti valerà tuo padre,
quia in inferno nulla est redemptio. Romae apud Parochianum in foro bulgansi anno
1549. Pauli 3' quintodecimo sub corectione» (c. 11v). Il testo pubblicato da Adolfo-de
Castro termina con redemptio e presenta «valdria» in luogo di «valdrà», su cui sarà ap-
punto esemplato il <(valerà» della versione italiana. La giunta nell'"explicit delMs 8755
madrileno è stata segnalata da R. Foulché-Delbosc, Les reuvres attribuées à Mendoza, in
«Revue Hispanique», XXXII (1914), pp. 1-86; la citazione a p. 8.
4 Un recente profilo critico del Mendoza è tracciato da Bernardo Blanco-Gonzalez, nel-
1' ampia Introducci6n biografica y critica a D. Hurtado de Mendoza, Guerra de Granada,
Castalia, Madrid 1970, pp. 7-86. Sull'attività, non esigua, del Mend.oza sul versante della
«satira» vale ancora il rinvio ai saggi di A. Mord-Fatio, in particolare Poésies burlesques
et satiriques inédites de Diego Hurtado de Mendoza, in «J ahrbuch fiir romanische und en-
glische Sprache und Literatur», Neue Folge, II (1875), pp. 63-81e186-210. Opera di ri-
ferimento complessiva è quella di A. Gonzalez Palencia e E. Mele, Vida y obras de don
Diego Hurtado de Mendoza, lnstituto de Valencia de donJuan, Madrid 1941-43, 3 voll.
I22 La rappresentazione
' Il Dialogo de Mercurio y Caron fu tradotto in italiano e pubblicato a Venezia, per cura
di G. A. Clario, nel 1 545 con il titolo Due dialoghi. L'uno di Mercurio et Caronte, l'altro
di Lattanzio et di uno archidiacono; I' opera usci anonin1a (anche se è ormai attribuita ad
Alfonso de Valdés) e poté quindi indurre a confusioni con il successivo, ed altrettanto
anonimo, dialogo del 1547, co1ne ancora attesta nel 1761 Juan dc Iriarte (la testimo-
nianza è riportata da R. Foulché-Delbosc, Les ceuvres attribuées à Mendoza cit., p. 9). La
possibilità di ascrivere anche il Lazarillo tra le opere attdbuibili al Mendoza parve le-
gittimata dai comuni accenti corrosivi di matura e umanistica ironia, di ascendenza era-
smiana, che segnano le due opere; cosi già indicava il Morel-Fatio, e ipotizzava poi an-
cora Luis FernUn Cisneros, nell'edizione del Lazarillo de Tormes (Kier, Buenos Aires
1946, pp. _38-43). L'improbabilità dell'attribuzione è discussa, con ricchezza di riferi-
menti, da Marcel Bataillon, Erasmo y Espafia, Fondo de Cultura Econ6rnica, México-
Buenos Aires I 9663 , pp. 609- I 2, che conferma tuttavia la sostanza di una trasmissione
indiretta di nuclei di <'erasmismo » attraverso il veicolo, tipicamente attestato nella cul-
tura spagnola, del dialogo lucianesco.
Ma ciò che accomuna, nel I535 come nel I546, l'atteggiamento e la <i distanza critica)>di
Valdés come poi del Mendoza, è precisamente l'inserimento della prospettiva della«ri-
forma» spirituale entro il rinnovamento politico che può derivare piU da Carlo V che dal
Papa, piU dalla «pacificazione» attraverso la ricomposizione dell'impero che dal dibattito
teologico. In questo senso insistono le osservazioni di Marcel Bataillon, e che è oppor-
tuno ribadire ancora per valutare correttamente l'incidenza politico-religiosa del movi-
mento valdesiano in Italia, come pure la co1·rosività critica del Mendoza: «Asi corno Juan
de Valdés, en I535i cuenta muchos mas con el Emperador que con el Papa para la paci-
ficaci6n del munda y la reforma dc la Iglesia, asi también, en I 546, los humanistas espa-
fioles cuentan menos con el Concilio que con el nuevo Coloquio convocado en Ratisbona,
La correspondencia de PUez de Castro, secretario del embajador imperial Don Diego
Hurtado de Mendoza, es muy instructiva desde es te punto de vista» (ibid., p. 497).
6
P. Aretino, lettera a Don Bernardino de Mendoza del I.3 agosto I542, da Venezia; in
essa parlando enfaticamente delle virtU dei due fratelli, Bernardino e Diego de Mendo-
za, li proclaQ1erà «tiranni della gloria», secondo una amplificatio già sperimentata nella
lettera di pochi giorni prima a don Diego, da noi citata in frontespizio (cfr, ora P. Are-
tino, Lettere. Il primo e il secondo libro, a cura di F. Flora, Mondadori, Milano I96o, ri-
spettivamente pp, 937-38, e pp. 928-30). Altl'e lettere dell'Aretino a Diego de Mendoza
confermano gli interessi e la sensibilità di quest'ultimo come collezionista d'arte: cosi
nella lettera del ro febbraio r540, nella quale gli l'accomanda il Sansovino (ibid,, pp.
627-28) ed in quella, soprattutto, del r 5 agosto 1542, nella quale invia all'ambasciatore
spagnolo il sonetto richiestogli sul ti tratto di donna che Tiziano esegui' su commissione
del Mendoza:
«Furtivamente Tiziano e Amore, I presi a gara i pennelli e le quadrella, I duo essempi
han fatto d'una donna bella I e sacrati al Mendozza, aureo signore, Il Ond'egli altier di
si divin favore, I per seguir cotal dea come sua stella, I con cerimonie apartenenti a
quella, I l'uno in camera tien, l'altro nel core I[... ]» (ibid., pp. 942-43).
7 a c. 3 e 3v). Si noti che il testo spagnolo del I547 concede: «habérmelo yo conquistado»
La citazione, tratta da Il successo delle rivoluzioni della cità di Siena (Siena 1577) di Ales-
sandro di Girolamo Sozzini, è riportata da B. Blanco-GonzUlez, Introducci6n biografica
y critica cit., p. 19.
8
Cfr. l'elenco inJuan de Iriarte, Regiae Bibliothecae matritensis codices graeci MSS, Ma-
drid r769, p. 2n
9
Una lettera indirizzata al Mendoza da Santa Teresa è pubblicata nella traduzione di
Orazio Quaranta, in Lettere della Serafica Madre S. Teresa di GiesU, presso Paolo Baglio-
ni, Venezia 1671: lettera XI, «All'Illustriss. Sig. D. Diego di Mendoza del Consiglio di
Stato di S, Maestà», avente per argomento: «Mostra grande stima di sue lettere e con-
tento dell'ottime ispirazioni, che scopre nell'anima di lui con desiderio di libertà eri-
tirata dal Mondo» (ibid., pp. 2I-22),
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' 123
10
Tutte le citazioni dal Dialogo tra l'anima di Pier Luigi Farnese e Caronte saranno tratte
dalMs 963 della Palatina di Parma, citato. Tra parentesi quadre sono segnati gli inter-
venti del curatore, di cui si darà ragione di volta in volta. La citazione a c. 1.
11 Ibid., c. r. L'integrazione tra parentesi è deducibile dal testo spagnolo:<<. .. marqués de
Novara, capitan genera! y confalonier de la Iglesia» (Dialogo entre Caronte y el dnima de
Pedro Luis Farnesio cit., p. 1). Si assiste qui a un fenomeno tipico di soppressione dei ri-
ferimenti o delle allusioni alle funzioni politiche (od alle gerarchie religiose) dell' ammi-
nistrazione papale: e questo si spiega (e si vedrà meglio in seguito) con il ricordare che
la versione italiana è del I549 da Roma, e che il bersaglio non è piU il ducato farnesiano,
ma il partito farnesiano nell'elezione del nuovo pontefice (Paolo III muore il 10 novem-
bre I549).
12 Ibid,, c. IV.
u N. Machiavelli, Il principe, cap. VII (~De principatibus no vis qui alienis armis et fo1·tuna
acquiruntur ))) ,
14 La versione italiana (c, IV) fraintende in due punti il testo spagnolo: «01· s{ che ti cono-
a
sco, come stesso» («Aora si que te conozco coma ml»); ed alla fine: <ima per questi al-
tri titoli navi et inusitati appena t'avrei conosciuto. Chi ti gli ha dati?» («pero por esos
otros tfrulos nuevos é inusitados apenas te conociera quien te los di6»).
Si tratta di <(titoli nuovi et inusitati» che i Farnese, non solo dal punto di vista della
legittimazione del «dominio», ma anche da quello del consolidamento dei gradi di
nobiltà, avranno cura di assicurarsi, soprattutto di fronte a feudatari <dmperiali» co-
me i Lupi di Soragna od i Pallavicina; tanto che Girolamo Muzio non mancherà di
notare «Che l'esser gentiluomo viniziano è di tanto pregio, che i Prencipi illustrissi-
mi et eccellentissimi procurano di esser di quel numero: et a nostl'i giorni da una
succession di Pontefici è stata impetrata quella nobiltà alle famiglie loro nobilissime.
Et qual può esser nobiltà maggior che la romana? Et pur Paolo Terzo a gli illustrissi-
mi suoi Farnesi procurò anche la viniziana» (G. Muzio, Il Gentiluomo del Muzio Iu-
stinopolitano, In questo volume distinto in tre dialoghi si tratta la materia della nobiltà,
Venezia MDLXXV, p. I9l).
I:.> Anche qui la versione italiana (c. 2) è approssimativa: <c .. tuo padre ti facesse signor di
quello che non era suo, ne anche poteva esser tuo» (: <(. ,, tu padre te hiciese seiior de lo
que no era suyo ni podia ser tuyo»).
16
Anche qui si è dovuto correggere il testo italiano: <1Di dove chiaramente si sco~ge che
fu una concessione fatta per li anciani, e come dice lo spagnuolo, fu una concessione de
manga», secondo l'edizione spagnola: «Donde se ve claro que fué concesion injusta, he-
cha per aliamtiam y de manga, coma se suele decir» (Dialogo entre Caronte y el dnima de
Pedro Luis Farnesio cit., p. 2),
17
L'unica differenza è nell'ordine del possesso: <dn modo tale che solo in questo po triana
superarmi gli altri principi, in che io l'ho acquistato e loro ereditato» (le due citazioni
(Dialogo entre Caronf,e y e! dnima de Pedro Luis Famesio cit,, p. 2) mentre la versione ita-
liana del 1549 precisa e sfuma in «acquistato i> - il potere - appunto piU per <(conces-
sione» che di forza. È un ulteriore segnale deila diversa destinazione ormai del dialogo,
non piU rivolto ai Farnese del ducato, ma a quelli del papato,
18 <(A quelli che mi ammazzarono poco gli aveva levato», e dunque di essi meno temeva,
poiché - privilegio nell'oppressione- <inunca yo les hice agravio particolar a ellos, que
el pueblo no lo recibiese muy mayor; y sufriéndolo este, pensaba yo que aquellos lo su-
fririan1> (la versione italiana qui fraintende: <i Non gli ho fatto mai aggravi, se non che
il premio non fosse molto maggiore i> - c. 4). È la conferma che nell'esercizio della for-
za non ci può essere gradazione (come invece nel diritto}, ma solo, machiavellianamente,
una tragica e totale alternativa tra potere e <(ruina»,

124 La rappresentazione
19 Migliore gradatio è nella sequenza originale spagnola: «considerado que la vida del ti-
rano no es otra cosa que una sombra de la muerte, una gruta obscura Ilena de mil malas
visiones, un camino a.spero y estrecho}> (Dialogo entre Caronte y et dnima de Pedro Luis
Farnesio cit., p. 3).
20 Anche qui il te.sto italiano (c. 5v) ftaintende l'originale spagnolo: «y si eras temido de
mucho.s, l~6mo no temias de ninguno?» (Dialogo entre Caronte y el dnima de Pedro Luis
Farnesto c1t., p. 3).
21 1'.1-achiavell~, Il principe cit., cap. v: «Quomodo administrandae sunt civitates vel prin-
c1patus, qui, antequam ocuparentur, suis legibus vivebant».
22 C. 9v della versione italiana citata.
21 Ibid., c. 8.
24 Ibid., c. Sv. Le integrazioni sono ricavabili dal testo spagnolo: nel secondo caso «dura-
riin» è erroneamente tradotto <<dovranno».
2
' Ibid.' c. I I.
26 Cfr. almeno C. Dionisotti, La guerra d'Oriente nella letteratura veneziana del Cinquecento
ora in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, pp. 163-82. '
27 E. Iserloh! Riforma e conf:1?riforma, in aa.vv., Storia della Chiesa, a cura di H. Jedin, val.
VI; trad. 1t. Jaca Book, Milano I975, p. 346.
28 Trascrivo le due ~edazioni: «~No conoces al d~que de Castro, al principe de Parma, al
duque de Plasenc1a, al marques de Novara, cap1tan generai y confalonier de la Iglesia? »;
«Come non conosci il Duca di Castro, Principe di Parma, il Duca di Piacenza il Mar-
chese di Novara, il Capitano generale» (cfr. anche nota 11). ' quelle sembrando vera Diana, cinta delle sue vaghe cacciatrici: o piutosto chiarissima
29 Il testo spagnolo a p. 2 dell'ed. cit.; la versione italiana a c. 3. Cfr. anche nota I6.
Jo Il testo spagnolo a p. 3 dell'ed. cit.; la versione italiana a c. 4v.
31 Il testo spagnolo a p. 7 dell'ed. cit.; la versione italiana a c. II.
32 G. D. Cuccheti, La pazzia. Favola pastorale. Di nuovo.recitata in Parma nella Compa-
gnia de' Pelleg1'ini. Et aggiontovi il Prologo et Intermedii. Con·una canzone del medesi-
mo, in Ferrara, appresso Giulio Cesare Cagnacini e fratelli MDLXXXVI ad istanza di
Francesco Mammarello, Librato in Parma. La citazione è t'ratta dal so~etto d'elogio
Sc;hiera leggiadra, che .ne l'apre illustri, dedicato A' Pellegrini, compagnia assai nota e
dtrett.a da quel <~saggio Verato» (come ricorda il sonetto), dal quale presero nome le
du.e difese del Pastor fido (cfr. G. B. Guarini, Il Verrato, ovvero difesa di quanto ha scritto
~t~son Denores contra le tragicomedie, Caraffa e Galdura, Ferrara I588; e G. B. Gua-
r1n1, Il Verato.s~condo,, ov~ero .replica dell'ATTIZ~ATO Accademico ferrarese in difesa del
Pastor.Ji.do, Filippo Giunti, Firen~e 1592). Tah sonetti non sono compresi nella pri-
ma ed1z1one ferrarese (quella allestita per Marfisa d'Este) stampata in Ferrara per Vit-
torio Baldini, nel l58I. '
13 A;nche l'imma~ne d~a «~ura s.cena» è tr att?, .come la seguente, dal sonetto Schiera leg-
gta~ra, che ,ne_ i apre ~!lustri, ag.g1unto nell ed1z1one «parm~nse» a lode della compagnia
1
de Pellegr1n1; ma prima traccia anche del nuovo contesto ideologico in cui la favola pa-
storale viene chiamata a «significare».
34 G. D. quccheti, La pazzia, 1586, Interm~dio primo: è Cupido che parla e sin da principio
annuncia che '<nascosto», occulto, sarà il suo modo di operare: «Se ben a voi nascosto
I Parà forse il :nio fare I Visibil fiala piaga, I Me invisibil, che 'l piaga» (ibid.).
35 La favola non fu tuttavia terminata in tempo per le celebrazioni della circostanza e fu
lo stampatore a dedicarla nel gennaio successivo a Marfisa d'Este: «L'autore dell~ pre-
~ente Favola (IJlustrissima Signora) la compose con animo ch'ella fosse rappresentata
~n scena alle felici nozze di V.E., et per certi suoi impedimenti egli non sodisfece alla sua
intenzione, ma però gli restò vivo il desiderio, poi ch'ella non l'aveva veduta in scena
ch'ella la vedesse in scritto; e di già egli ne avea fatto una copia con questa intenzione;
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' 125
della qual cosa essendone io informato [. ..], io presi sicurtà di persuaderlo a contentarsi
ch'io la dessi alle mie stampe, promettendogli ch'io la dedicarei a V.E. come a quella per
cui egli l'aveva composta» (Dedica «all'Illustrissima et Eccellentissima Signora D. Mar-
fisa da Este»). Sarà da paragonare alla dimessa storia editoriale di questa dedica, lo stu-
diato elogio, tessuto di sapienti giochi anagrammatici, del Mammarello a Isabella Lupi,
nel riallestimento parmense.
36 Soltanto il sonetto del Tasso, Queste, che fur già voci a l'aria sparte, è comune alle due
edizioni; la canzone «Agli Accademici Fioriti» - l'unica che è con certezza attribuibi-
le al Cuccheti - è una sorta di autobiografia in versi, una lamentazione il cui tema è
già enunciato nei primi versi: «Lasso, sempre smarito per la via I De la disgrazia mia
son caminato I Dal mio destin n:ienato». Le restanti «giunte» paiono tutte da attribuire
all'ambiente parmense che commissionò la riedizione.
37 Il testo rimane, nelle due edizioni, sostanzialmente invariato, tranne l'incipit, che sarà,
come vedremo, ampiamente rimaneggiato.
' 8 Cfr. la Danza di Venere. Pastorale di Angelo Ingegneri. Nel/' Academia de' Sig. Olimpici di
Vicenza detto il Negletto. Et l'Innestato in quella de' Signori Innominati di Parma. All'il-
lustriss. S. Camilla Lupi, in Vicenza, nella Stamperia Nova, MDLXXXIII!. Converrà ripor-
tate integralmente la dedica «All'illustrissima Signora Camilla Lupi», per gli elementi,
che da essa emergono, di «lettura» del contesto, di dosaggio delle gerarchie e della fama
nelle concorrenti iniziative - e nel disporsi in esse dell'intellettuale - tra nobili e prin-
cipe, tra corte e accademia:
<,Illustrissima Signora, il gran favore et il singolare ornamento che ricevè questo mio
poema da V .S. illustrissima, quand'ella in compagnia d' altre nobili Damigelle (fra di
luna nel mezzo di tante rilucenti stelle) si degnò di recitarne la parte di ninfa piU prin-
cipale: mi mette in obligo (pubblicandol'io al presente) di non dedicarlo ad altri che a
lei. Tanto piU che, se bene io mi diedi a comporlo già a contemplazione dell' Academia
Olimpica, oggidi famosissima e gloriosa, et a particulru: richiesta d'un Academico di es-
sa, Signor mio molto caro e segnalatamente qualificato, ch'è il Signor Giacomo Ragona,
non l' arrei però mai (per le mie indisposizioni, e per gli tanti altri travagli) ridotto a fine,
se dall'illustrissima vostra madre, la Signora Donn'Isabella, non m'en fosse sopravenuto
commandamento; di cui so poi, ch'io non sarei stato da lei favorito, s'ella non avesse
avuto pensiero d' essercitar con tale occasione, la pronta memoria, il felicissimo ingegno
e la grazia, incomparabilmente leggiadra, di V.S. Illustrissima, la quale, s'ebbe virtU
(spiegando si dolcemente i concetti miei, et accompagnando le mie parole di tanto af-
fetto) di render pastorale e rozza Musa, grata ali' orecchie d'una Corte quasi regale, co-
m'è quella di Parma, et al piU che regale aspetto d'un Principe, in età tenerella si valo-
roso, com'è l'eccellentissimo Sig. R.AINUTIO FARNESE: ragion ben è ch'ella vaglia ancora
a far prezzar dal mondo il medesimo componimento. Et dritto è dunque ch'io 'l mandi
fuori inscritto dd vostro Illustrissimo nome; et che ciò alla fine mi sia perdonato, non
pur dall' Academia mia suddetta e dall' Academico, ma dall'istessa Signora Donn'Isabel-
la: cui so che soverchiamente ricordarei che chi voi onora, onora insieme la madre vo-
stra. Ora, cosf facendo, io non vo' già pormi (come per aventura si ricchiederebbe) a cer-
car di far palesi altrui i merti di V.S. infiniti, s( perché malagevole fora l'impresa, come
perché quel eh'ella può da sé far in un solo cenno, egli è vano che per altri faticosamente
si tenti; senza che, quand'ho nominato l'Illustrissima Casa LUPI, ho detto in una parola
la vostra nobiltà pareggiarsi a quella di qualunque piU principal figlia d'Italia; potendosi
della famiglia vostra dir anca questo: eh' ella sia annoverata fra le patrizie veneziane, e
sopra tutto ch'ella si trovi nd vostro nascimento congiunta alla PALLAVICINA Illustrissi-
ma pure, e antichissima al par d'ogn'altra [. .. ].Da Vicenza, l'ultimo giorno dell'anno
MDLXXXIII. Oi V.S. Illustrissima, Affezionatissimo Servitore Angdo Ingegnerh>.
Ora, tra le iperboliche e stereotipe formule della dedica, emergono tuttavia alcuni cle-
menti di preciso, storico rilievo: cosf per esempio, Isabella Lupi commissiona, o riesce
r26 La rappresentazione
ad avere la prelazione su testi destinati in origine al circuito intellettuale dell'accademia;
di pili, le rappresentazioni da essa allestite, e recitate dalla figlia, sono date alla presenza
di Ranuccio Farnese, probabilmente alla corte stessa: rispetto alla quale («Corte quasi
regale») pili risplende l'antica nobiltà dei Lupi, ascritta a quel patriziato veneziano, al
quale invece - secondo la testimonianza del Muzio sopra riportata - Paolo III deve
chiedere, per la famiglia, tardivo accoglimento.
>9 Il sonetto del Tasso «A Isabella Pallavidni Lupi, marchesa di Soragna, per la dedicazio-
ne de la "Bucolica" tradotta da Girolamo Pallantieri» appartiene al periodo 1579-82 e
fu pubblicato dal Solerti; è ora riedito in T. Tasso, Opere (Aminta, Amor fuggitivo, In-
termedi, Rime), a cura di B. Maier, Rizzali, Milano I963, vol. I, p. 757.
40 La notizia è fornita da A. Solerti, Le rime di Torquato Tasso, Bologna I898-I902, voi.
III, p. 354. La Fiori di Maddalena Campiglia fu pubblicata in Vicenza, per gli eredi di
Pedn e T. Brunelli, nel I588. Angelo Pezzana infine, nella sua Continuazione delle me-
morie degli scrittori e letterati parmigiani (ora nella ristampa anastatica di Forni, Bologna
I973), nel supplemento al tomo IV delle Memorie degli scrittori e letterati parmigiani di
Ireneo Affò (Parma I793i ma ora Forni, Bologna 1969) segnala che Anton Maria Ga-
rofani dedicò a Isabella Pallavicini Lupi, con lettera del I 0 gennaio I584, la sua riedi-
zione de Il Beffa, Commedia di Niccolò Secchi (in Parma, per gli eredi di Seth Viotti,
I584). Si tratta evidentemente della commedia Gl'inganni, pubblicata la prima volta a
Fiorenza, i Giunti, I 562. Un primo allestimento della commedia del Secchi fu promosso
dai duchi nel I569 (almeno secondo annota G. Drei, I Farnese. Grandezza e decadenza
di una dinastia, Libreria dello Stato, Roma I9542 ): di quella rappresentazione è conser-
vata manoscritta alla Biblioteca Palatina di Parma (Hl-I. V. 94, Drammatica, Ms 763)
una anonima Descrizzione detti intermedi fatti nelli Inganni Comedia del signore Nicolò
Secchi l'anno MDLXIX, alti XXII di febraio il giorno di Carnovale. Del manoscritto e del-
1' Accademia degli Amorevoli parla il Pezzana nelle sue Giunte e comzioni al tomo quar-
to cit., dell'Affò, pp. 459-60, ed infine, senza aggiungere nuovi elementi, Michele May-
lender, Storia delle Accademie d'Italia, Cappelli, Bologna 1926-30 (ed ora riedizione ana-
statica: Forni, Bologna I976), vol. I, p. 175.
4 1 Sull'Accademia degli Innominati, si veda il Discorso preliminare su le Accademie di Par-
ma dell' Affò, nelle citate Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, vol. IV, pp. I-XXIII;
e Maylender, Storia delle Accademie d'Italia cit., vol. III, pp. 292-98. Il prin1ato di Fer-
rara, nell'«invenzione» e nella rappresentazione di azioni teatrali di tipo pastorale è sto-
ricamente accertato sin dal profilo critico che ne tracciava il Tiraboschi: ferrarese è Ago-
stino Beccati, il cui Sacrifizio fu rappresentato due volte a Ferrara nel I554 in presenza
del duca Ercole II e con le musiche di Alfonso dalla Viola; e già prima Giambattista Gi-
raldi aveva allestito la sua Egle (con scenografie di Girolamo Carpi) nel I545i e ancora
ferraresi furono i primi cultori del nuovo «genere»: cosl Alberto Lollio che rappresentò
la sua Aretusa nel 1563 al palazzo Schifanoia, ed Agostino Argenti che pubblicò nel
1568 lo Sfortunato (cfr. G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena 1779, to-
mo VII, parte III, cap. LXVI, pp. 149-57). E tutte estensi furono ovviamente poi l'Amin-
ta e il Pastor fido. E pur tuttavia l'attività degli Innominati si muoverà in una direzione
non semplicemente ripetitiva, puntando, per esempio, al recupero dell'esperienza del
Sannazaro.
42 Nel I 575 Eugenio Visdomini pubblica infatti Il Parto della Vergine di M. Giacomo San-
nazaro fatto in ottava rima per E. V. nell'Accademia de' Signori Innominati di Parma il Ro-
co, presso Seth Viotti, Parma I575· Ed è anche la prima opera riferita all'attività del-
1' Accademia (cfr. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani cit., vol. IV, p. m).
PiU tardi un altro Innominato, Giambattista Massarengo, pubblicò delle Annotazioni
all'Arcadia del Sannazaro, Venezia I6r6. Ad imitazione dell'Arcadia fu anche composta
la Leucadia di Antonio Droghi (Bologna, presso gli eredi di Gioanni Rossi, I598) an-
ch'essa dedicata a Isabella Pallavicini (cfr. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmi-
giani cit., vol. IV, p. 300).
Il 'luogo' della Corte e le sue 'rappresentazioni' r27
43 L'Erminia. Favola pastorale di Eugenio Visdomini è segnalata nelle lettere di Muzio
Manfredi, e dall'Affò è registrata come «manoscritto originale in-foglio della Reale Bi-
blioteca di Parma)> (Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani cit., vol. IV, p.
323), che tuttavia non mi è stato possibile identificare. Nel I 580 era principe dell'Ac-
cademia Muzio Manfredi, il quale pubblicherà poi La Semiramis boscareccia a Bergamo,
C. Ventura, I593· Vicina al Manfredi, e all'Accademia degli Innominati - essendo
anche cugina di Pomponio Torelli-, fu Barbara Torelli Benedetti, la cui favola pasto-
rale Partenia, elogiata anche dall'Ingegneri, e pronta per le stampe nel I593 1 era già ir-
:[ reperibile per I' Affò (Memorie degli scrittori e letterati parmigiani cit., vol. IV, p. 297).
44 T. Tasso, Queste, che fur già voci a l'aria sparte, sonetto «A messer Giovan Donato Cuc-
cheti per "La pazzia", sua favola pastorale. Risposta», attestato sia nell'edizione del
I58I che in quella del I586; si veda ora Tasso, Opere cit., p. III 2. In nota il curatore
discute della plausibilità del riferimento a Guarini od a Sannazaro nell'allusione tassiana
al «mio vicino)>.
4 ~ G. D. Cuccheti, La pazzia, Ferrara 1581, atto I, scena 1, p. I. Il corsivo è nostro.
46 Ibid., atto II, scena rr1; monologo di «Branco solo», p. 14.
47 Ibid., atto II, scena 1; monologo di «Fileno solo», p. I rv.
48 Ibid., atto III, scene II e 111, rispettivamente; a p. 26v.
49 Ibid., atto III, scena v, p. 29.
! 'o Ibid., atto IV, scenarr, p. 32.
i,1
n B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., libro I, cap. v111, pp. 92-93.
n Ibid., p. 92.
53 Cuccheti, La pazzia cit., atto IV, scena IV, p. 34v. Il corsivo è nostro.
' 4 Ibid., atto I, scena n1, p. 9v.
55 Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., libro I, cap. XVII, p. 109. La finale parabola della
«follia» della corte si concluderà ne La pazzesca pazzia de gl'uomini e donne di corte in-
namorati, trattato di Gabriel Pascoli (G. Somasco, Venezia I592), autore insieme, per
una sorta di edificante concinnitas, de Il perfetto ritratt:o dell'uotno formato da Dio, Viani,
Pavia I592.
56 B. Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., dedica «.Al reverendo ed illustre signor Don
Miche! De Silva vescovo di Viseo», III, p. 76.
H G. D. Cnccheti, La pazzia dt., Ferrara e Parma I586, a:tto I, scena I, pp. I-Iv. Il corsivo
è nostro.
' 8 Ibid., Ferrara 1581, p. r. Il corsivo è nostro.
59 Ibid., I586: dedica di Francesco Mammarf;"Jlo «All'Illustrissima Signora D. Isabella Pal-
lavicina Lupi, Marchesa di Soragna)>.
60 Ibid., Intermedio primo [s.p.].
61 Ibid., Intermedio secondo, p. I I.
62 Ibid., dedica «All'Illustrissima Signora D. Isabella Pallavicina Lupi, Marchesa di Sora-
gna».
63 Ibid., Prologo [s.p.].
64 Ibid., versi finali dell'Intermedio secondo, a chiusura del monologo di Plutone; a p. I I.
0 W. Shalcespeare, Macbeth, atto II, scena 1, monologo di Macbeth.
IV. Il compimento
 L' Homme accompli:
dal Cortegiano all'Uomo di mondo

KING HENRY 6 Kate1 nice customs curtsy to great

kings. Dear Kate, you and I cannot be confined
within the weak list of a country's fashion: we
are the makers of manners, Kate *.
SHAKESPEARE, The Li/e o/King Henry the Fifth,
atto V, scena II.

· r. La «conversation politicque».

«Conversare, per praticare insieme»'. Nella piena stagione rinasci-

mentale la «conversazione» indica soprattutto una «frequentazione co-
mune»; si oppone ormai alla vita solitaria, alla «secretior habitatio et so-
litaria conversatio»' che il Petrarca aveva raccomandato citando Johan-
nes Egiptius. L'intervallo semantico che separa quella !iterata solitudo,
la «solitaria conversatio» del Petrarca dalla «conversation politicque»
evocata da Rabelais, è analogo al processo che demarca, sul piano sto-
rico, la fine di una civiltà che all'Uno riconduceva e nell'Uno fondava
- «sicut de causa omnium»' - la pluralità dei nomi e delle parvenze, e
la nascita di una società di scambio, dove «il commerzio tra diverse na-
zioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una ali' altra, quasi co-
me le mercanzie, cosi ancor navi vocabuli» 4, dove insomma «nous ne
faisons que nous entregloser»'.
Essere separati da quellà «conversation politicque» significa perdere
di valore e di funzioni, rappresentare la « part maudite » della. società,
il suo residuo imbarazzante, come insinuerà Rabelais nel suo linguaggio
scatologico:
La raison péremptoire est parce qu'ilz [scil.: les moines] mangent la merde
du monde, c'est-à-dire les péchez, et comme machemerdes l'on les rejecte en
leur retraictz, ce sont leur conventz et abbayes, séparez de conversation poli-
ticque camme sont les retraictz d'une maison 6 •
Il luogo privilegiato di questa «conversation politicque» diverrà, in
maniera sempre piu visibile lungo il Cinquecento, la corte: ogni diar-
chia e 'dislocazione' di emanazione autorevole di parola che ancora ave-
va contemplato la teoria dei «due soli»' si restringe e si uniforma, nel
farsi il «servo de' servi» esso stesso sovrano'. Nell'un caso e nell'altro
i'«imperii aula»' è illuogo dal quale si tende a ridurre e ad accentrare

132 Il compimento
i poteri e le autonomie locali salvaguardate dalla sedimentazioi:ie stari~~
di privilegi e di esenzioni, di diritti feudali o, per altro verso, di benef1c1
10
e rendite •
Centralizzare i poteri è insieme accentrare le consuetudini, e dunque
i modelli di comportamento: solo il principe, assoluto, può mostrare che
la particolarità delle tradizioni è la loro stessa relatività; ricondurre
al centro significa situarsi al di sopra della «weak list of a country's
fashion».
Trovare un modello di comportamento che fosse universale quanto
il potere che il principe 'nuovo' del Rinascimento pretendeva fu certo
il progetto del Castiglione: non si trattava soltanto di riconoscere che
«il regno del bon principe[ ... ] è pili simile a quello di Dio, il qual uno e
solo governa l'universo»", ma da questa 'divina analogia' far discende-
re non soltanto legittimazione politica ma altresi imitazione civile, en-
tro un unico «commandamento regio e civile»".
L'esemplarità dunque, rappresentata dal principe, è modello in atto:
«la vita del principe è legge e maestra dei cittadini, e forza è che dai co:
stumi di quello dipendan tutti gli altri»"; di tal processo la formula di
Shakespeare, posta a suggello di un mirabile gioco scenico, ironicamen-
te commentato dall'alternanza delle lingue, di etichetta e protocollo, di
formalità e civetterie, di courtoisies ed equivoci di senso e dei sensi, è
l'emblematica sintesi: «we are the makers of manners».
Se la vita del principe si fa «legge e maestra» dei sudditi, lo scopo
del cortegiano - quale è disegnato nel procedere del IV libro del trat-
tato - sarà quello di «instituire» il principe in quell'àmbito nel quale
comune è la frequentazione, in quella quotidiana 'conversazione' alla
quale è ammesso, e che situa nel discorso, il_co;tegiano: «Quella !ns~i­
tuzione che ha da far il cortegiano nel suo prmc1pe deve esser comincia-
ta dalla consuetudine e quasi dai costumi cottidiani »". Cominciare tale
esercizio dalla «consuetudine» significa, nel vocabolario del XVI secolo,
dar corso nella conversazione alla 'dimestichezza' dell' entretien: «Con-
versare. Lat.: conversari, consuetudine uti»".
L' institutio principis tuttavia, dettata secondo i modelli dei celebri
trattati degli umanisti, dal Platina ad Erasmo, prende forma soltanto
nell'ultimo libro, nella conclusione platonica del trattato, situata ormai
«in altro spazio e tempo» (Dionisotti), quando la corte di Urbino non
sarà piu che spazio di memoria, «il ritratto di pittura» d'un tempo con-
chiuso.
Ali' origine, nei primi abbozzi del trattato, il rapporto tra il principe
ed il cortigiano s'istituiva ancora a tavola, compartendo le portate e le
L' Homme accompli 133
«expedizioni delle cose del stato»", nella forma del convito somman-
dosi, secondo la tradizione, il pensare ed il deliberare, delibando gli
«exercizii» del potere che lo scambio alimentare, nella sua enfatica co-
pia Oa «tavola lautissimamente preparata»), collocava sotto il sigillo del-
la vita attiva".
Una traccia 'meridiana' che già nel Tasso sopravviverà come me-
ro residuo carnevalesco", e che ben prima, sin dalla stesura definitiva
del Cortegiano, retrocederà a sinopia (<<né ivi erano cibi che di modeste
piacevolezze non fossero composti») di un affresco 'composto' di sole
«piacevolezze»". Dalle «expedizioni» si passa ai «ragionamenti», dalla
tavola del principe alla «banda del palazzo» ove declinano le conversa-
zioni crepuscolari con la signora Duchessa e le dame di corte.
Questo glissement dai negotia agli otia si produce nel mutare di uno
scenario che occorre aver presente se si vuol cogliere, anche per i tratti
a venire, la natura di questa «conversazione» che caratterizza lo statuto
e l'attività del cortigiano. Essa s'intreccia infatti, nel Cortegiano, nel
luogo di una duplice assenza, quella del principe che si è ritirato in si-
lenzio, e quella del Papa che, nel partirsi", ha lasciato quasi uno stra-
scico della corte, un desiderio «d'accrescere qualche cosa, e massima-
mente nei giochi».
Il ruolo, lo spazio del cortigiano si situa, dalla propria origine, nel-
!' alone di un potere che la parola rimuove e invoca, nell'esercizio di una
simulazione (nel suo senso tecnico - e non ancora etico - di «rappre-
sentazione in assenza») e di una dissimulazione (nel nascondimento, e
quasi revoca nella conversazione, di quella distanza), esattamente «si co-
me ne le pitture - chioserà il Tasso - con I' ombre s'accennano alcune
partilontane »".
Se gli storici hanno insistito, lasciandosi sovente fuorviare da ca-
tegorie romantiche, sulla 'non-sincerità' (e dunque 'non-genuinità', fal-
sificazione - una moneta storica 'fuori corso' -) posticcia di quella
cornice di simulazione-dissimulazione, su una lettura a forti tinte che
conduce da Machiavelli a Torquato Accetto", per culminare poi nel-
la «cortigiana Politica» del cardinal Mazzarino"; gioverà ora sottoli-
neare piuttosto tali «virtu del conversare», la virtualità allusiva di quel-
!' entretien, in cui consiste «quella che si chiama cortesia con proprio
nome»:
Non tutte egualmente [scil.: le virtU] né sempre si manifestano, [...] ma la
magnificenza, la liberalità e quella che si chiama cortesia con proprio nome e
la modestia è dipinta con piU fini colori eh' abbia l'artificio del cortigiano, anzi
viva piU tosto: parimente le virtU del conversare, io dico la verità, l'affabilità
e la piacevolezza 24 •
 134 Il compimento
In quella raffinata "summa protocollare" dei rapporti e degli affetti
di società rappresentata nei Dialoghi del Tasso, ed in particolare in quel
'sistema dell'onore' che è dispiegato nel Malpiglio non meno che nel
Forno overo de la nobiltà, nel Beltramo overo de la cortesia ed in quello
De la dignità il modo di essere a corte che è appunto cortesia si dispiega
nell' esercizi~ della conversazione, cioè nella sua etimologica disposizio-
ne, !'affabilità. Cosf nel dialogo eponimo, nel Beltramo, la definizione
stessa di cortesia si produce come risoluzione in discorso d'un problema
· di cortesia: «Quanto la vostra ragione ci fa la cortesia, tanto piu volen-
l tieri dee essere udita» 2'.
La cortesia dunque non è solo «virru di corte», ma compendio delle
virtu di corte: «poi che abbiam conchiuso che la cortesia è non una sola
ma tutta la virtu di corte»", ed assume come esercizio proprio tutto ciò
che dei rapporti di società può risolversi in dialogo:
A voi ne dimando che sete cosl bon cortigiano e eh' avete uditi ragionar
tanti filosofi: perché diolti stimano che 'I ragionar de la nobiltà sia ufficio de
cortigiano piU tosto che di filosofo 27 •
Il «ragionare» si trasferisce a corte, e di li «trasporta !'usanze lode-
voli ne le scuole e ne' ragionamenti de' filosofi»": la «conversation po-
liticque » si forma àcorte e, non piu per il proprio oggetto ma nel modo
di «ragionare», si diffonde in società- lungo tutto il Seicento- sino a
divenire il distintivo stesso della cultura:
La cortesia è l'elemento principale della cultura, e quasi una sorta di incan-
tamento che concilia il favore di tutti 29 •
Se ancora« è virtu perfetta la cortesia e consiste principalmente ne
l'uso verso gli altri»'", e se «consuetudine uti» significa principalmente
conversare, l'affabilità allora «che concilia il favore di tutti» tanto piu
studiatamente deve esercitarsi nei riguardi del sovrano:
Qui sait parler aux rais, e' est peut-etre où se termine toute la prudence et
toute la souplesse du courtisan 31 •
Di questa «conversation politicque», dominio di cortesia, il fonda-
mento ed il punto culminante è nell' entretien con il principe, nel 'trat-
tenerne' la parola e l'attenzione, nello «schivarne la noia» (Tasso), in
una trama sospesa di sguardi e parole, di attese ed epifanie, che dà al-
l'incontro il sembiante, tragico e sacrale, di un'agnizione nello specchio
specioso («spécieux») della corte:
Qui considérera que le visage du prince fait toute la félicité du courtisan,
qu'il s'occupe et se remplit pendant toute sa vie de le voir et ~'en étre vu,
comprendra un peu comment voir Dieu peut faire toute la glotre et tout le
bonheur des saints 32 •
L' Homme accomp!i 135
Tale attrazione assorbente l'arte della «sprezzatura»" dovrà co-
stantemente controllare, cadenzare nell'impassibile routine del tempo,
ritmato « sans bruit »dal monarca:
Les roues, les ressorts, les mouvements, sont cachés; rien ne para'ìt d'une
mentre que son aiguille, qui insensiblement s'avance et achève son tour: image
du courtisan, d' autant plus parfaite qu' après avoir fait assez de chemin, il re-
vient souvent au méme point d' où il est parti 34 •
L' autorité royale est un grand ressort qui doit se mouvoir aisément et sans
bruit 3
j.
Il carattere allusivo, dal movimento alla 'macchina' che lo produce
- quasi gioco d'automi" -, dell'immagine risiede in quel 'rinvio di si-
gnificazione', in quel ritorno di una stessa replica, all'infinito elusiva di
'riconoscimento':
Se dérober à la cour un seul moment, c'est y renoncer: le courtis~ qui r a
vue le matin la voit le soir pour la reconna:ìtre le landemain, ou afin que lui-
méme y soit connu 37 •
In questo riconoscimento differito «si trattiene» la corte, tra «une
.conversation interrompue et des distractions fréquentes»": in un trat-
tenimento che non ha principio («personne à la cour ne veut entamer»)
e teme la fine, sta il «jeu sérieux, mélancolique» della vita di corte:
La vie de la cour est un jeu sérieux, mélancolique, qui applique: il faut ru·-
ranger ses pièces et ses batteries, avoir un dessein, le suivre, parer celui de son
il
adversaire, hasarder quelquefois, et jouer de caprice; et après toutes ses réve- I
ries et ses mesures, on est en échec, quelquefois mat 39 ,
! .I
I E tuttavia prima che - con citazione erasmiana" - il sipario cali '
sulla melanconica pantomima: «Mille gens à la cour y trainent leur vie
à embrasser, serrer et congratuler ceux qui reçoivent, jusqu'à ce qu'ils
y meurent sans rien avoir» ",anche La Bruyère aveva ammirato la mo-
bilità cangiante della corte". Se nella rappresentazione crepuscolare
dei Caractères il cortigiano finisce « tyran de la société et martyr de son
ambition» ", la scena - ove per due secoli si è intrecciata la «conversa-
tion politicque» della corte - aveva 'dato luogo', messo in rapporto e
in scambio il reale e il simbolico, le «cirimonie» ed il «salario», come già
•.'. aveva annotato Giovanni Della Casa"; aveva 'formato' nuovi modelli
sociali, dei saperi che non consistono piu nel maneggiare oggetti ma nel
padroneggiarsi", non nel condurre, ma nel condursi; aveva riprodotto
in un palazzo «un regno che servisse da palcoscenico»", si da suggerire
quasi «un nouveau monde» 47 •
La 'lunga durata' di quel mondo - dal XVI al XVIII secolo - ed il suo
fascino emanano da quella facoltà di razionalizzare le differenze, d' «in-

Il compimento
corporare» il conflittuale rappresentandolo a corte sotto la forma del-
!' etichetta, dissimulando le differenze dei ruoli entro lo 'spazio comune'
dei loro discorsi, sino a far talvolta obliare che «service n'est pas héri-
48
tage » •
2. La «civil conversazione».
Se si è qui disegnato, sino al proprio fondale, il drappeggio della
quinta che esibisce la «conversation politicque» della corte lungo il XVI
ed il xvn secolo, occorre tuttavia aggiungere che almeno per la parte
meridiana del Cinquecento il nucleo costante dei trattati di corte" mi-
ra a stabilire delle maniere, a 'dar regola' e codice ai rapporti tra il volere
del principe e le «consuetudini», a 'ben disporre' i modi di comunica-
zione tra il Palazzo e la Città, tra il nuovo «compartir gli onori e le gra-
zie»'" e gli antichi statuti cittadini e diritti feudali. Non per caso infat-
ti, la nuova «regula» e «arte» richiesta dal Castiglione a una conversa-
zione di corte si condensa nelle <rnrbanità», nelle maniere di essere ur-
bano, di conversare con un «parlar piacevole», che si offra come «festi-
va narrazione», come «festività»'', sf da lasciar trasparire quale vacatio
il difficile 'entretien' che si gioca a corte.
Confermerà il processo Francesco Alunno che nella sua Fabrica del
mondo identificherà il concetto stesso di «civiltà» con la versione urba-
na di «cortesia»", delle maniere di corte: «Urbanità, la civilità»'', pro-
ponendola - secondo i dettami del Castiglione - come paradigma di
ogni 'ritrovarsi nel discorso', di ogni conversare cittadino:
Urbanitas,facetiae, dicteria, ioci, sales, lepores, cavillatio, dica~
URBANITÀ. Lat.
citas, argutiae, delitiae; è graziosa conversazione di cittadini'~.
La «graziosa conversazione di cittadini» è dunque il luogo ed il mo-
do «urban0>> d' épanouissement della «civilità», modellata sulla «corte-
sia», sulla civiltà di corte; tutto il II libro del Cortegiano è in effetti de-
stinato a regolare questo regimen conversationis, a intessere «quella fe-
stiva narrazione» di «gentil modi», sf che da quel composto di «elegan-
ze» si produca quella Civiltà delle buone maniere, della quale Norbert
Elias" ci ha lasciato un suggestivo affresco.
L'apporto specifico che la civiltà delle corti italiane e la loro rappre-
sentazione in modello, dal Castiglione al Casa a Stefano Guazzo, ha for-
nito all'Europa d'Antico Regime, consiste precisamente (ed è aspetto la-
sciato in ombra da Elias) in quel vigile proposito di associare, intorno
L' Homme accompli 137
alle «maniere» di corte, assetto politico e comportamenti civili, l'inu-
sitato che producono i « makers of manners » ed i costumi urbani; di
proporre e situare come corollario ed epifania del potere monarchico lo
spazio di mediazione del nuovo ceto di segretari e consiglieri, artisti e
artigiani, in modo che la corte sia il luogo d'eccellenza degli artifici e de-
gli artefici".
Lo spazio di tale <rnrbanità» contempla dunque, e distribuisce al
proprio interno con studiate sfumature, secondo i tempi e le opportu-
nità, facezie, motti piacevoli, arguzie, burle, eleganze, bugiette, interpre-
tationes nominum"; ma tale ventaglio <rnrbanm> dovrà essere aperto di-
8
scretamente, «con una certa avvertita dissimulazione»' , con un gioco
di miroitements che faccia intravedere, dietro queste «festività», il «jeu
.sérieux, mélancolique» di corte, la «conversation politicque» che fonda
e inscrive questa «civil conversazione».
Ma tali riverberi, allusivi ai rinvii dall'uno ali' altro dei piani della
«conversazione», se danno inquieta profondità di campo, dalla «dis-
simulazione» alla «sprezzatura», al Cortegiano del Castiglione, si stem-
perano nella superficie piana del Galateo: la rinuncia espressa ali' in-
stitutio principis lascia in bella vista, e analizza con pragmatismo di-
sincantato, i soli luoghi ove realmente si dispiega il proprio del corti-
giano: la sua funzione decorativa del banchetto e della conversazio-
ne, cornice che definisce e margine in cui termina la corte. Di essa
ormai i ruoli sono fissati, le gerarchie consolidate, le asperità «ram-
morbidite»:
E queste parole di signoria e di servitU e le altre a queste somiglianti, come
io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, s! come al-
cune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbite dimorando ndle
bocche degli uomini ' 9 •
La conversazione macera e distilla le parole del potere, e la corte è
I,,I•
I'
il luogo e «maniera» d'infusione e d'effusione: il Galateo diverrà cosi, '
per antonomasia, il modello e la regola di praticabilità degli apparati so-
ciali del potere, il manuale e lo speculum rituale al quale i ceti emergenti
dovranno attingere, per partecipare di questa epifania della «cortesia»,
per 'dimorare' urbani.
Tale diffusione delle «buone maniere» verso la periferia, verso la
piccola nobiltà di provincia intanto - ed il suo contorno di cavalieri e
. giureconsulti - troverà il proprio compimento nella Civil conversazione
di Stefano Guazzo da Casale", trattato che godette di un grande pre-
stigio e di una larga diffusione in Europa". L'autore precisa, sin dalle
prime pagine, che l'aggettivo civile non rimanda piu all'àmbito della
 I.
I
il
Il compimento
«conversation politicque» della città, ma principalmente ai «costumi»
e alle «maniere» che danno agio alla vita in società:
Cosf intendo la conversazione civile, non per rispetto solo della città, ma
in considerazione de' costumi e delle maniere, che la rendono civile 62 .
Riprendendo la classica opposizione conversatio I vita solitaria, Ste-
fano Guazzo potrà affermare che la conversazione è piu profittevole
della lettura, poiché meglio si apprende dalle orecchie che dagli occhi,
dai vivi che dai morti": si da concludere che non c'è presenza umana
senza conversazione", e che tutto il sapere è conversazione: «laonde
mi pare assai manifesto che 'I sapere comincia dal conversare, e finisce
nel conversare» ~. 6
Nel suo slancio enfatico, esaltante la conversazione, lautore non
esiterà ad attribuire la sua preferenza alle istituzioni nelle quali i pareri
si formano per mutuo concerto: al sapere dunque pubblicato nelle Uni-
versità, al maneggio degli affari politici del Principe soppesato nelle
Corti, agli articoli di fede meglio maturati nei Concilii che emanati dal-
!' autorità del Papa".
Tutto l'uomo dunque si esprime nella conversazione, al punto che
lesempio stesso, e classico, che commisurava I' intus e lextra di questo
microcosmo: il volto è specchio dell'anima, si ridurrà alle movenze del
solo organo che dirige la conversazione; l'uomo non è che lingua ed essa
«suona», autentica o falsa, come moneta:
Chi desidera adunque usar felicemente della civil conversazione, ha da
considerare che la lingua è lo specchio e 'l ritratto dell'animo suo; e che sf coH
me dal suono del denaio conosciamo la bontà e falsità sua, cos( dal suono delle
parole comprendiamo a dentro la qualità dell'uomo et i suoi costumi 67 •
Sembrerebbe apparire, in quest'esempio estremo, una sorta di rei-
ficazione dell'uomo in valore di scambio, la conversazione divenuta mo-
neta corrente, tinnulo small talk. Nel diffondersi, lungo il XVII secolo,
di quel liquido 'discorrere' anche l'ardua orazione mentale, anche la so-
litaria conversatio" con il divino o si inabissa - varco e privilegio di po-
chi - nell'annihilatio mistica", o si concede ai «charmans discours,
dont mon Sauveur faict resonner la melodie jusques dans le Ciel»'". La
«sacra conversazione» esposta alla pietà e ali' imitazione da un secolo di
quadreria d"affetti' arriverà persino a formularsi come domestico 'en-
tretien', puntigliosa applicazione nel dialogo col Signore - come vorrà
il gesuita Boutauld - dei principi di conversazione in vigore a corte:
Ne laissez point passer les heures et les jours sans le regarder, et sans pen·
set à lui, ou sans lui dire aucun mot: entretenez.le [scil.: Dieu] de quelques
discours, si vous avez un peu de dévotion; les sujets et les paroles ne vous
L' Homme accompli 1 39
manqueront pas. Dites·lui ce que vous savez de votre famille, et ce que vous
ne manqueriez pas de dire à un autre ami qui seroit chez vous, et auprès de
vous 71 •
La Civil conversazione nutrirà dunque, in specie nel XVIII secolo, pie-
tà e politesse, cosi che il «parfait honnete-homme» sarà un equilibra-
to mélange «de religion et de politesse» ". La «politesse» diverrà dun-
que la virtu principale di colui che vive nella polis, lessenza di quelle
<<Urbanità» nelle quali consiste, secondo Castiglione e Alunno, la «ci-
vilità».
Nella politesse si dispiega non solo la «cortesia» della società di corte
ma anche l'illuminata arguzia che anima, nel xvm secolo, i salons ed i
philosophes: basterebbe leggere la Troisième partie, parigina, dei Mémoi-
res di Goldoni o quelli di Voltaire, o la rievocazione che di quel!' epoca
seppe riproporre, cent'anni dopo, Hyppolite Taine". L'Antico Regime
si congeda nella politesse, ed in essa si vagheggia il Nuovo; con grazia la-
vora a disfarsi: come una svagata ars moriendi il parfilage occupa le ore
e le mani aggraziate delle dame". La società d'Antico Regime decline-
rà e la borghesia s'affermerà pienamente quando le loro «maniere» ap-
parterranno allo stesso manuale, quando I' étiquette diverrà diziona-
rio", e la massima del moralista potrà sentenziare: «la bonne grace et
la politesse conviennent à tout le monde»"; quando infine, nei chiaro-
scuri dello storico lambito dalla 'feccia'" lasciata dal nuovo,
il volto compassato del cortigiano diventa dapprima la faccia allegra dell'uomo
di mondo, poi su quella bocca sorridente i contorni si alterano, e scoppia la ti·
sata sfrontata e irrefrenabile dd ragazzo di strada 78 •
3. «Cortesan, un uomo di mondo».
Guadagnando in estensione, moltiplicando i riti e le formule di ap-
plicazione, ripetendosi senza posa, queste maniere e queste politesses si
irrigidiranno in clichés, in «phrases toutes faites», da far proprie o di-
smettere come un campionario che si accumula in fondi di magazzino,
ove l'impoverimento simbolico degli scambi e delle relazioni sociali-
come osservava già La Bruyère - lascerà poco a poco depositare pan-
neggi e frasario:
Il y a un certain nombre de phrases toutes faites, quel' on prend camme
dans un magasin et dont l' on se sert pour se féliciter les uns les autres sur les
événements. Bien qu'elles se disent souvent sans affection, et qu'elles soient
reçues sans reconnaissance, il n' est pas permis de les omettre 7').

140 Il compimento
L'adesione al protocollo diviene convenzionale, le politesses condi-
zionano e assicurano i gesti, ben presto automatici, d'un mondo frivolo,
ove «cent petites choses vous amusent ou vous attachent»:
]e ne suis pas étonné des douceurs qu'on trouve à la cour et de l'impossi-
bilité de changer de vie. On est plus ensemble à tous les moments. Cent peti-
tes choses qui vous amusent ou vous attachent, et qui entrent dans le petit
pian d' ambition que vous vous etes fait; d' ailleurs, plus de part à cette loterie
qui se fait des gràces du prince sur-la nation; le plaisir de voir que, qudque pe-
tit poste qu'on y tienne, il est envié; enfin, cette vie active ne saurait se rem-
placer par le repos 80 ;
colmando un nécessaire come una nevrosi", un maquillage disteso sul
vuoto ... «li y a si peu qu'on puisse dire ... On dit tout ... Tout ce qu'on
peut ... Et pas un mot de vrai nulle part»".
Prossimità assediante di quelle « cent petites choses qui vous amu-
sent »,parvenze" che ci lambiscono ... Certo la «discrezione» del Cor-
tegiano non avrebbe raccomandato una simile citazione, se non dissimu-
lata, se non lasciata cadere «per transito» ...
Altri testi in effetti caratterizzano, al tramonto del!' Antico Regime,
un sistema di politesses che si è fatto koiné, patrimonio di identità di
una società che si conosce rappresentandosi. Le 'buone maniere' rag-
giungono il teatro, va in scena La donna di garbo", emblema quasi di
una civiltà che nel 'riformarsi' o nell' <<adattarsi alle congiunture»", pili
«non si misura dalla nascita, né dal sangue».
Di questi nuovi attori della scena 'cortese', della natura eminente-
mente 'scenica' di quella conversazione 'garbata' Carlo Goldoni avrà,
al crepuscolo stesso della civiltà di corte, una coscienza e una maztrise
profonde. Il suo teatro saprà accogliere e rendere 'virtuosi' tutti i sedi-
menti di una tradizione che ha fatto del «cortegiano» un «homme ac-
compli», nel corso di tre secoli, un modello che non realizza pili il pote-
re ma l'uomo.
Nessuna definizione potrebbe meglio significare il sentimento d'ap-
partenenza a una civiltà pienamente realizzata che il ritratto che il Gol-
doni proporrà, nei suoi Mémoires", giustificando il titolo della sua pri-
ma commedia, il Momolo cortesan:
Je fis donc une Comédie de caractere dont le titre étoit Momolo Cortesan.
Momolo en Vénitien est le diminutif de Girolamo (Jéròme). Mais il n'est pas
possible de rendre I' adjectif Cortesan par un adjectif françois. Ce terme Corte-
san n'est pas une corruption du mot courtisan; mais il dérive plutOt de courtoi-
sie et courtois. Les Italiens eux-memes ne connoissent pas généralement le Cor--
tesan Vénitien; aussi quand je dannai cette Piece à la presse, je l'intitolai l'Uo-
mo di mondo; et si je devois la mettre en François, je crois que le titre qui pour-
roit lui convenir, seroit celui del' Homme accompli.
L'Homme accompli 141
Voyons si je me trompe. Le véritable Cortesan Vénitien est un homme de pro-
bité, serviable, officieux. Il est généreux sans profusion, il est gai sans etre
étourdi, il aime les femmes sans se compromettre, il aime les plaisirs sans se
ruiner' il se mele de tout pour le bien de la chose, il préfere la tranquillité, mais
il ne souffre pas la supercherie, il est affable avec tout le monde, il est ami
chaud, protecteur zélé. N'est-ce pas là l'Homme accompli? 87 •
E nelle Prefazioni preposte ali' edizione Pasquali l'autore precise-
rà questi tratti in un vivace profilo: «ho intitolato la commedia l'Uo-
mo di mondo, ch'è la vera significazione del Cortesan veneziano, cioè
un uomo onorato, accorto, vivo, frizzante e gioviale»". Nell'avver-
timento al lettore, infine, il Goldoni tornerà con puntiglio a distin-
guere le virtu di quest'«uomo di mondo», la civiltà, tutta veneziana,
del cortesan:
Momolo Cortesan. Questo titolo Veneziano, che pronunciamo noi corte~
san, e in Toscano direbbesi Cortigiano, non suona lo stesso che altrove in-
tenderebbesi, né in forza di addiettivo, né in forza di sostantivo. Intendesi
da noi per Cortesan un uomo di mondo, franco in ogni occasione, che non
si lascia gabbare sl facilmente, che sa conoscere i suoi vantaggi, onorato e
civile, ma soggetto però alle passioni, e amante anzi che no dd diverti~
mento 8').
In questa identificazione, sotto il sigillo storico del modello «corti-
gianm>, dell'Homme accompli con l'Uomo di mondo, la civiltà di corte
raggiungeva ad un tempo il suo perfetto «compimento» e la sua <mni-
versalità»; essa si compie appunto negli uomini di mondo, cittadini del
mondo, che sanno 'mettere al mondo', rappresentare i ruoli multipli e
mutevoli richiesti dal teatro della vita. Con l'opera ed i Mémoires di
Goldoni la civiltà di corte si offre alla sua ultima rappresentazione,
scende dal proscenio, là dove la conversazione si fa pubblico ... E men-
tre nuove voci già s'intendono dalle quinte, ancora risuona, luminoso,
lavvertimento di Momolo:
Chi va sul teatro ha da usar civiltà con tutti 90 •
Cosf si chiudeva la parabola secolare della civiltà di corte: e prima
che il Parini quel declinante giorno sempre limando lasciasse dissolversi
nei «nocenti vapor ch'Espero mena», nella vana profusione di adipe e
ventagli", poco prima il ritmo di corte, impercettibile ressort, aveva an-
cora saputo compartire le ore del giorno, i tempi della società, «sans ge-
ne, sans confusion », come mirabilmente aveva dipinto il Goldoni:
 r 42 Il compimento

Je voyais tous les jours la Famille Royale, les Princes du Sang, les Grands
du Royaume, les Ministres François, les Ministres Etrangers. Tout le monde
se rassembloit au Chàteau, on alloit aux levers, aux dìners dans les apparte-
mens, on suivoit la Cour à la Messe, à la chasse, aux Spectacles sans embarras,
sans gene, sans confusion 92 •
E come dal centro della tela emanando e riproducendosi il disegno
verso la periferia, cosi ogni rapporto sociale che fosse intessuto, a quel
centro si riferiva: «J' ai vu les autres, je leur ai fait ma cour»". O alme-
L' Homme accompli: dal Cortegiano all'Uomo di mondo.
no cosi aveva vagheggiato Montesquieu essere, nello spazio sconfinato
e mentale della Cina, il modello di ogni corte, di ogni Stato:
* ENRICO O Caterina, le buone maniere s'inchinano ai grandi re! Cara Caterina voi ed
Le palais de l'Empereur est une toile d' araignée et il est au milieu comme
1 io non possiamo lasciarci confinare entro i deboli limiti delle usanze di un paese: 'noi sia-
l'araignée. Il ne peut remuer que tout ne remue, et on ne peut remuer qu il ne mo i creatori delle usanze, Caterina.
remue aussi 94 • 1 È la definizione di «conversazione» quale propone, alla metà del secolo XVI, Francesco
La lancetta al centro di un orologio (La Bruyère), il ragno al centro Alunno nel suo dizionario cosmologico Della fabrica del mondo r 548. Cito dall'edizione
Uscio, Venezia 1588, Tavola (ed anche p. 213a), n. 1574· '
di una tela (Montesquieu): senza brusio tutto muoveva la corte, sans 2 F. Petrarca, De vita solitaria, libeJ: II, 1; cito dall'edizione a cura di G. Martellotti Ric-
bruit compiendo e consumando il corso: «La mort et l'amour se con- ciardi, Milano-Napoli 1955, p. 410 [e in reprint: Einaudi, Torino 1977, p. r 261'.
llii somment par !es memes moyens, l'expiration»". 3 Secondo la formulazione sintetica di S. Tommaso: «Praterea, omnia nomina quae com-

' muniter de Dea et creaturis dicuntur, dicuntur de Dea sicut de causa omnium ut dicit
: •'I Dionysius»; poco oltre cosf motivata: «Respondeo dicendwn quod in omnib~s nomi-
nibus guae de plu_ribus analogice dicuntur, necesse est quod omnia dicantur per respec-
I tum ad unum: et ideo illud unum oportet quod ponatur in definitione omniwn» (Sancti
Thomae de Aquino, Summa Theologiae, Prima Pars, Quaestio XIII, art. 6, 3; Editiones
I Paulinae, Alba-Roma 1962, p. 65).
4 B. Casti~lione,,Il ~i~ro del Corte~iano, ~ldo, Venezia 1528 [1'eprint: Bulzoni, Roma
1986]; etto dall edizione a cura di B. Mater, Utet, Torino 1973 3 , p. 73.
~ Montaigne, Essais, libro III, cap. xrir: De l'expérience; in CEuvres complètes, a cura di
I A_. Titlbaudet e M. Rat, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade»), Paris 1962, p. 1045.
: :: S1 veda, su questo punto, J. Starobinski, Montaigne en mouvement Gallimard Paris
I ',I., 1982 [trad. it. Montaigne, Il Mulino, Bologna 1984]. ' '
6 ~· Rabelais, Gargantua, cap. XLi in CEuvres complètes, a cura di G. Demerson, Seuil, Pa-
I ns 1973, p. 161.
[«La ragione indiscutibile è che essi (scil.: i monaci) mangiano la merda del mondo, vale
I a dire i peccati, e nella loro qualità di ruminamerda sono rigettati nelle loro ritirate cioè
I': i loro conventi e abbazie, separati dalla pubblica frequentazione come lo sono le l~trine
di una casa»l.
1:. , Rabelais vol~e in ironia un veJ:setto di Osea («Peccata populi comedetis») ripreso da
Erasmo negli Adagia, III, 11, 3 7: Pontificalis coena.
'

I':! ''
1,1
il
7 «Soleva Roma, che 'l buon mondo feo, I due soli aver, che l'una et l'altl'a strada I fa-
cean vedere, e del mondo e di Dea. Il L'un l'altro ha spento; ed è giunta la spada I col
pasturale, e l'un con l'altro insieme I per viva forza mal convien che vada» (Dante Pur-
gatorio, XVI, vv. 106-11). '
8 S~a corte di Roma ed il suo funzionamento, si veda lo studio fondamentale di P. Pro-
'" di, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moder-
na, Il Mulino, Bologna 1982; in particolare qui il cap. II: Il sovrano: principe e pastore,
pp. 4"79·
9 La definizione è di Giovan Battista De Luca (1614-83) nella sua Relatio romanae curiae
citata e commentata da P, Prodi, Il sovrano pontefice cit., p. 75. '
 '44 Il compimento
10 Il rapporto tra accentramento dei poteri_, ~ei 9uali la ~ort_e ~ l'ostensione, e na~dta dello
stato moderno è stato tema di ricerca pr1vileg1at? nell attività del Centro St~di <(Europa
delle Corti» sin dagli interventi di A. Tenenti, A ..Stegm~nn, G: Ferroni, A. ,Quon-
d m C O~sola E Battisti in aa.vv. Le corti famestane di Parma e Piacenza
(r~ 5-r622 ) Bul;oni. Roma 1 ~ 8, val. I, Ì>P· IX-LV. E si veda poi anc~e il volume m~­
4 7
nografico Ld corte in Éuropa. Fedeltà, favori, pratiche di govern~, a cura d~ M. A. Romani,
in «Cheiron», 1 (19 s3), n. 2; e C. Vasali, La cultura delle corti, Cappelli, B~logna 1980.
Il problema è ora, da diverse prospettive, discusso i~ H. A. Ll?yd, La nascita del/~ s::o
moderno nella Francia del Cinquecento, 1983; trad. tt. Il M~hno, Bologna 19.86, e in
J. A. Maravall, Potere, onore, étites nella Spagna del Secolo doro, 1979; trad. 1t. Il Mu-
lino, Bologna r984. . , . . . fl' d.
Sulle figure che pili hanno nutrito il mito di tale 'assoluta centralità , i:nv10 al ~ro 11 1
G, Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di ~pag1!fl, l 978; tra1. 1t; Il 1'.lulino, _Bo:
logna 19s5 ; G. Treasure, La vertigine del potere. R_tc?e!teu e l~ Fran~ta d Anczen Rég)m~,
trad. it. Il Mulino, Bologna, 1986; J.-M. Apostohdes, Le roi-machzne. Spectacle et polt-
tique au tempsde Louis XN, Minuit, Paris 1981. . .
Ma in tale processo, occorre notare, ~a Cu:i~ ro~an~ si. era da te~po distlnt~, quant~
meno nei deliberati: «Et cum cardinalis off1c1u~.1n prums versetur ~frequenti Romaru
pontificis assistentia et sedis apostolicae .~egotus, propterea statmm~s, ut .ox~Bc/~
dinales in Romana curia resideant» (Conctlzum Latera_nense V! ~512-17, Sess10. I · u
re/ormationis curiae, De cardinalibus; ora riprodotto In Co~czl~orum oecumenzcorum de-
creta, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1973, la citazione alle PP· 620, 39-41).
11 Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., IV, XIX, P· 470.
12 Ibid., XXII, p. 473·
!I .I D Ibid., XXIII, pp. 475-76.
14 Ibid., XXIX, p. 483.
::., u F. Alunno, Della/abrica del mondo cit., p. 213a, n. 1574· . . . 29
16 Cfr. La seconda redazione del «Cortegiano» di B. Castiglione, a cura di G. Gh1nass1, San-
',, i!
:'! soni, Firenze 1968; I, III, p. 7. . .
11 Sulle funzioni ed i significati simbolici dello scamb~o alime~tare nel Rinas~unento, rin-
vio a M. Jeanneret, Quand la/able se metà ta_bl~, 1n «P~éuqi:e?>, 54, aprile 1983, PP·
163-8o. Riassumo qui rapidamente argomenti gtà esposti analiticamente sopra, al cap.
II, pp. JO·J4· I ali .
1s «E de I' adunanze alcune son fatte per diletto, come quelle del carnevale, ;ie e qu.
scun porta la sua parte de la cena e si s~or~a di super~ .ciascuno ne la bonta ?e l~ v1van e
e de' vini preziosi; altre sono raccolte insieme P~.utilità, con;e le comp.a~e di mercan~
ti; ma questa de la corte, quantunque ad a~cun1 sta mo!to utile, a molti piacevole,. non~
dimeno non è congregata per utile o l?er d~letto ~e~phcemente, ma per altra cagione»
(Tasso, Il Malpiglio overo de la Corte, in Dtaloghz ctt., voi. II, tom<;> II, R· 557): La «et:
!'
gione» preciserà il Tasso, è l'onore: «La corte dunque è congregaz10~ d'ed1uomG1ru
per on~re)> (ibid.). Sullo sviluppo del ~e~a, dal Castiglione~ Ta~so, st v a: · · eri
Ba:b
,, Squarotti, L'onore in corte. Dal Casttgltone al Tasso, Angeli, .Milano l 986 ·
19 II termine ritorna a suggellare il compiersi dei «ragionamenti»: «A~ora ognuno s1 !ev;?
.
' Jean de La Bruyère, Les Caractères, De la Courcit., remarque 65, pp. 217-18 [«Le rotel-
in piedi con molta maraviglia, perché non pareva che i ragi~namentl fosser<;> dura11 plu
del consueto i ma per l'essersi incominciati molto piU tardi. e per la l;ird ~~acev(I/i~
aveano ingannato quei signori tanto, che non s'erano accorti del fuggir e ore)>
bro del Cortegiano cit., IV, LXXIII; pp. 543-44).
20 Cfr. Il Libro del Cortegiano cit., I, VI, pp. 88-89.
21 «Non tutte egualmente [scil.: le virtU] né sempre si manifestano ma si. c~1!1-e .ne le pit-
1 complètes, Seuil, Paris 1964, p. 606.
ture con l'ombre s'accennano alcune parti lontane, altre sono da colori ptu vivamente
espresse, cosf avverrà p~im~nte d~ l~ virtU che sono con la prudenza» (T. Tasso, Il Mal-
piglio overo de la corte, 1n Dialoghi clt., vol. II, tomo II, p. 560).
L' Homme accompti 1 45
22
T. Accetto, Della dissimulazione onesta, Napoli 1641; si veda ora edizione a cura di S.
Nigro, Costa & Nolan, Genova 1983. Un libro di scabra essenzialità, quasi «aplogra-
fico» - osserva giustamente Nigro-, «esangue» «per le continue ferite»: «Si conosce-
ranno le cicatrici da ogni buon giudizio, e sarò scusato nel far uscir il mio libro in questo
modo, quasi esangue, perché lo scriver della dissimulazione ha ricercato ch'io dissimu-
lassi, e però si scemasse molto di quanto da principio ne scrissi» (L 'autora chi /ey,ge cit.,
pp. 31-32).
Ciò che rimane dunque è un libro di massime: «La dissimulazion è una industria di non
far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è» (ibid.,
cap. VIII: Che cosa è la dissimulazione cit., pp. 50-51; e sulla storia del termine, si veda
la nutrita nota di S. Nigro, ibid.).
21
Cfr. Breviarium Politicorum secundum rubricas Ma~arinicas, Coloniae 1684; e poi in vol-
gare: Epilogo de' dogmi politici I Secondo i dettami rimastine dal Cardinal Mazzarino,
Gio. Selliba, Colonia 1698; cito dalla riedizione, per cura di Giovanni Macchia: Brevia-
rio dei Politici secondo il Cardinale Mazzarino, Rizzoli, Milano 1981. La formula è tratta
dall'indirizzo al lettore (Lo stampatore a chi legge cit., p. 4).
E per il nostro tema, si veda soprattutto la «rubrica»: Vestir qualsisia affetto (ibid.,
p. 88).
24
T. Tasso, I/Malpiglio overo de la corte, in Dialoghi cit., voi. II, tomo II, p. 560.
25
Id., Il Beltramo overo de la cortesia, in Dialoghi cit., vol. II, tomo I, p. 123.
26 Ibid., p. 124.
27
Id., I/Forno overo de la nobiltà, in Dialoghi cit., vol. II, tomo I, p. 22.
26
«Pratico cortegiano è il signore Antonio: perché da le buone corti trasporta I' usanze lo-
devoli ne le scuole e ne' ragionamenti de' filosofi» (Il Forno overo de la nobiltà, in Dia-
loghi cit., vol. II, tomo I, p. 30).
B. Gracian, Oraculo Manual y Arte de Prudencia, 1647; trad. it. Oracolo manuale e arte
di prudenza, a cura di A. Gasparetti, Guanda, Parma 1986, p. 85 (§ 118: Acquistarsi/a-
. ma d'uomo cortese).
30
T. Tasso, Il Beltramo overo de la cortesia, in Dialoghi cit., vol. II, tomo I, p. 124.
11
Jean de La Bruyère, Les Caractères de Théophraste traduits du grec con i Caractères ou !es
Maurs de ce siècle, 1688, 1689, 1692; ed ora: Flammarion, Paris 1965; De la Cour, re-
marque 79, p. 220 [«Il saper parlare ai re, è forse il culmine di tutta la prudenza e di tut-
ci3- ta la souplesse del cortegiano »].
32
Id., De la cour cit., remarque 75, p. 220 [«Chi vorrà considerare che il viso del principe
è tutta la felicità del cortigiano, il quale si studia e si sazia per tutta la vita di vederlo e
di offrirsi alla sua vista, potrà un poco comprendere come il veder Dio può fare tutta la
gloria e pieno il gaudio dei santi»].
t~ 33
«E, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda
larte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (Il
14
Libro del Cortegiano cit., I, xxvi, p. 124).
le, le molle, i movimenti sono nascosti; nulla appare di un orologio che la sua lancetta,
t- che insensibilmente avanza e compie il suo giro: immagine del cortigiano, tanto piU cal-
zante poiché, dopo aver fatto un bel po' di cammino, ritorna spesso al punto stesso da
cui era partito»].
.
H Montesquieu, De l'esprit des lois, libro XII, 25; Barillot, Genève 1748; ora in <Euvres
% «Ils ne viennent d'aucun endroit, ils ne vont nulle part: ils passent et ils repassent. Ne
les retardez pas dans leur course précipitée, vous démonteriez leur machine» (Id., De
n

Il compimento
la coureit., remarque I9, p. 205; «Non vengono da nessuna pa7t7 e non vanno in.alcun
luogo: passano e ripassano. Non ritardateli nella loro corsa prec1p1te, smontereste il loro
ingranaggio»).
n Id., De la Cour cit., remarque 4, p. 202 [«Sottrarsi alla corte anche un s.ol momento è
rinunciarvi: il cortigiano che l'ha vista il mattino, la rivede la sera per nconosceda al-
l'indomani, o per esserne riconosciuto)>).
}s Ibid., remarque 62, p. 216.
39 Ibid., remarque 64, p. 2r7 [«La vita di corte è un gioco serio e melanconie~, che ~ede
applicazione: bisogna dis~orr.e i pr?Pri,pez~i, le batterie, ~vere un.~ strate~ta e seguirla!
neutralizzando quella dell avversario, nschiare talvolta e ~tocare d impulso, e dopo tuttt
questi divisamenti e misure, ci si trova in scacco, magari matto»).
4o «Già s'avanzano sulla scena altri uomini, che reciteranno la stessa commedia, copren?o
i medesimi ruoli· si dissolveranno a loro volta; e coloro che ancora non sono sul proscenio,
un giorno nonl~ saranno pili: nuovi.attori avranno pres;> .il l'?ro posto» (Id., De la ~ou~
cit., remarque 9, p. 224). L'immagine traduce ed amplifica 11 c~lebr~ passo e~?sn_i~ano.
«Porro mortalium 9 vita omnis quid aliud est, quam fabula quaeptam, 1n qua alu alits ob-
tecti personis procedunt, aguntque suas quisq1:1e partes, donec.~hora]!Us educate prosce-
nio?» {D. Erasmus, Morias Encomium, in aedibus Io. Frobenit, Basileae MDXV, p. r 10).
41 Jean de La Bruyère, Les Caractères, De la Cour cit., remarque 47, p. 212 ~<(A migliaia alla
corte passano la loro vita ad abbracciare, pressare e congratulare quelli che sono bene-
ficati, sino a morirvi senza nulla aver ottenuto)>].
42 «Chi può dar nome preciso a certi colori cangianti, e che variano al variare dei gio~ni nei
quali li si guarda? Allo stesso modo, chi può definire la corte?» (Id., De la Courcit., re-
marque 3, p. 202).
H Id., De la Cour cit., remarque 62, p. 216.
44 «Né vendere si deono le cirimonie e le carezze a guisa che le meretrici fanno, s{ come i~
ho veduto molti signori fare nelle corti loro, sforzando~i di con.s~gnru;le agli sventurati
servitori per salario)> (G. Della Casa, Galateo ovvero de costumi, in Rime epr;ise, Vene:
zia 5 8, cap. XVII; ora in Opere di B. Castiglione, G. Della Casa, B. Celltnt, a cura d1
1 5
C. Cordié, Ricciardi, Milano-Napoli 1960, p. 401).
45 La corte sarà come già nel Tasso un «sapere» e una «disciplina)>: «Un homme quisait
la Cour est ~aìtre de son geste, de ses yeux et de son visage» Gean de La,Bruyère, Le~
Caractères, De la Cour cit., remarque 2, p. 202: <(Un uomo che sa la Corte e padrone de1
propri gesti, dei propri occhi, del proprio volto»).
46 È il prologo emblematico dell'Enrico V: <(CORO: Oh, aver qui una M~sa di fuoco che
sapesse salire al pili luminoso cielo ~ell'invenzi'?ne; un regno.c~e servisse da palcos:e-
nico, principi che facessero da atton e monarchi da spettat?ri di questa scen~ gr~nd10-
sal i> (W. Shakespeare, Enrico V, Prof.ogo, in Opere, a cura di M. Praz, Sansoru, Firenze
1964, p. 551).
41 Jean de LaBruyère, Les Caractères, De la Courcit., remarque 9, p. 203.
48 Cfr. La Doctrine des Princes et des Servans en court, testo anonimo del XVI secolo, in
Recueil de poésies françoises des xv" et xvf siècles ~ ré~nies et annotées par An~t?le de
Montaiglon, Paris 1856, tomo IV, pp. 31-35, la cttaz1one all~ p. 33· N?n sfuggi;a ~La
Bruyère questa <~struttura pro~o~~a )> d:~a corte, que~ta soglia .dura ~et rapporti di poM
tere: «La Cour est camme un edtfice bau de marbre: Je veux dire quelle est composée
d'hommes fort durs, mais fort polis» (Les Caractè~s,,De la Courcit., ref!larque 10, P;
: «La Corte è come un palazzo di marmo: voglio intendere che essa e composta di
203
uomini ben duri, ma ben polith>).
49 Questa breve esposizione suppone la lettura ed il rinvio al volume: a~. vv., ~a corte e i~
«Cortegiano>>, vol. II: Un modello europeo, Bulzoni, Roma 1?80 (ed m pa~ucolare agh
argomenti sviluppati nei saggi di Amedeo Quondam ed Adriano Prospen).
L' Homme accompli 147
50 Secondo la coscienza acuta che già ebbe il Tasso, sottolineando: «Molti nobilissimi ba-
roni ancora, ch'anticamente in quegli stati medesimi [scil.: ferraresi] prendevano !'in-
vestiture da l'imperatore, ora la prendono dal duca; e fra questi sono i Rangoni, i Mon-
tecuccoli, i Fogliani, a' quali tutti il duca, come prudentissimo principe, compatte gli
onori e le grazie; e ciascun di loro, non che tutti insieme, son tali ch'adornerebbono un
regno}> (T. Tasso, Il Forno overo de la nobiltà, in Dialoghi cit., vol. Il, tomo I, p. 84).
n Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., II, XLIII, p. 256.
52 «Cortesia[ ... ] è umana e graziosa liberalità con destri e moderati costumi, cosi detta dal-
le corti de buoni Principh> (F. Alunno, Della/abrica del mondo cit., p. 92, n. 674).
'' Id., Tavola, alla voce «urbanità)>.
' 4 Ibid., p. l2ob, n. 892.
55, N. Elias,. Uber den Prozess der Zivilisation, 1936; trad. it. La civiltà delle buone maniere,
Il Mulino, Bologna 1982; e: Potere e civiltà, Il Mulino, Bologna 1983; da integrare con:
Die hii/ische Gesellschaft, 1975; tl'ad. it. La società di corte, Il Mulino, Bologna 1980.
~ 6 Secondo il proposito già illustrato nel Malpiglio: «For. Nap.: "Tutti gli artefici dunque
sono ne la corte?" Giov. Mal.: "Parimente". For. Nap.: "Dunque il sartore sarà non so-
lamente sartore ma cortigiano, e 'l calzolaio e l'orafo e 'l pittore e lo scultore e ciascun
altro". Giov. Mal.: "In questo modo stesso"[... ] Far. Nap.: "La corte dunque è una rac-
colta di tutte l'eccellenze di tutte I' arti e tutte l'opcre le quali sono fatture")> (T. Tasso,
Il Malpiglio overo de la Corte, in Dialoghi cit., voi. II, tomo II, pp. 562-63).
Su quest'epifania della moda e del moderno a corte, l'invio allo studio di G. Mazzacu-
rati, Il Rinascimento dei moderni, Il Mulino, Bologna 1985 (in particolare cap. 1v: Per-
corsi dell'ideologia cortigiana, pp. 209-35).
57 Cfr. Castiglione, Il Libro del Cortegiano cit., Il, XL-XCIII.
'8 Ibid., II, XL, p. 253.
G. Della Casa, Galateo ovvero de' costumi cit., cap. xvi, p. 396.
59
S. Guazzo, La civil conversazione, divisa in quattro libri, Sabbio, Brescia 1574; poi:
60
Salicato, Venezia 1575, I579, 1580, 1586 (dalla quale citiamo); Perchacino, Venezia
1581, ecc. Il libro ebbe numerose altre ristampe in Italia, una decina in versione latina,
molte altre in francese, inglese, spagnolo. Il primo libro del trattato celebra i benefici
della ~onversazione; il secondo propone i differenti tipi di conversazione, appropriati
alle diverse persone e circostanze; il terzo è dedicato alla «conversazione domestica»
(tra marito e moglie, genitori e figli, padrone e servitori); il quarto illustra la «forma pei·-
fetta)> della «civil conversazione», descrivendo un banchetto esemplare, officiato na-
turalmente a Casale.
61 Sulla fortuna del trattato (conosciuto e utilizzato, tra gli altri, da Shakespeare) rinvio
agli studi diJ .-L. Lievsay, Stefano Guazzo and the English Renaissance (r575-r675), The
University of North Carolina Press, Chapd Hill 1961; E. Benfatti, La «Civil conversa-
zione» di Stefano Guazzo in Germania, Del Bianco editore, Udine 1980; R. Auernhei-
mer, Gemeinschaft und Gespriich. Stefano Guazzos Begri/f der «Conversazione civile»,
Wilhelm Fink, Mi.inchen 1973; A. Quondam, Nel cuore della <iforma del vivere»: la
«Civil conversazione» di Stefano Guazzo, in aa.vv ., La Corte e il «Cortegiano», val. II:
Un modello europeo cit., pp. 58 sgg.
62 Guazzo, La civil conversazione cit., libro I, p. 30.
61 «Meglio s'apprende la dottrina per l'orecchie, che per gli occhi»; «dal che potete rico-
noscere quanto pili util cosa sia il parlar coi vivi, che coi morti» (Guazzo La civil con-
versazione cit., I, p. 20). '
64 «Non si può essere vero uomo senza conversazione; perché chi non conversa, non ha
sperienza, chi non ha sperienza, non ha giudicio, chi non ha giudicio è poco men che be-
stia)> (ibid., p. 24).
6' Ibid., p. 19.

Il compimento
66«Ma lasciando le favole non siamo noi certi che le importanti et ammirabili instituzio-
ni di' santa Chiesa non Procedono da un solo Pontefice, ma dai sacrosanti Concilii gç_-
nerali dove sono state maturatamente considei·ate et approvate?» (ibid., I, p. 2ob). E
verisi:nile che l'autore voglia qui unirsi all'elogio rituale del concilio di Trento; mal' ar-
gomento, se non è maldestro, sottintende una tesi pii.i generale e pili ar~ita che ~embr~
raccogliere l'eco ancora dd concili~ di Cost~nza (in speci: ne~ ~ua Sessto N,. s~ poteri
dd concilio: «Et primo [scil: statuit], quod 1psa synodus in ~pn:tu san~to leg1tlme co~­
gregata, generale concilium faciens, [...] yotestatem a ~hnsto i~~ed1ate habeat» (1n
Conciliorum Oecumenicorum decreta, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1972,
p. 4o8). Era davv:ero una 'teori~ conc~liare', c~: si es~rimeva come cultura: <~~requens
generalium conciliorum celebrat10, agri donumc1 praecrpua cultura est» (Concilium Con-
stantiense, Sessio XXXIX cit., p. 438).
67 Guazzo, La civil conversazione cit., II, p. 75b.
68 Sulla tradizione medievale della fqrmula, mi permetto di rinviare al mio saggio: 'Ver-
1. bum' et 'Secretum' (Des Pères de l'Eglise et de Pétrarque), in« Versants», III (1982), PP·
' 23-43.
i: 69 Cfr. M. de Certeau, Lafable mystique, Gallimard, Paris 1982; trad. it. Il Mulino, Bo-
logna 1987.
10 È quanto contempla Le Brevière des courtisans di Jean Puget de La Serre, Bruxelles,- chez
François Vivien, l63I.
11 M. Boutauld, Méthode pour converser avec Dieu, 1679? «nouvelle édition.» ~ma .13a],
i
chez Labbey, Rouen 1788, cap. IV, pp. 39-4~ [«Non l?sc1ate p~sare le ore e 1 gi~rru s~n­
za guardarlo e senza pensare a luii o s~~za n~olgergl~ paro~a: intrat~enetelo (sc1L: Dio~
I con qualche discorso, se avete un br1c1olo di devoz~o~e; l s?ggettl e le parole non v~
I mancheranno. Ditegli ciò che sapete della vostra fatrugha, e ciò che non manchereste di
Il riferire a un altro amico che fosse da voi, e a voi vicino»].
"i Nella sua prima parte il 'metodo' proposto ricorda da vicino la «remarque» 75 di La
'I Bruyère relativa al «guardare» il principe e offrirsi d~l cortigiano alla sua vista.
72 È il compendio proposto, tra gli altri, dall' Abbé Dupreaux, Le Chréti~n parfait honn~te­
homme ou l'artdiallier la piété avec la politesse, Huart et Moreau, Par1s 1750, 2 totn1: la
il citazio~e al tomo I, p. 303. Tutto il trattato è diviso in «conve~sazionii> che hanno la
'I
I il misura di capitoli; e, con una perfetta mise en abime i la Conversatton centrale ha appunto
I' per soggetto la «conversazione» (si veda il tomo I, Conversation VI-VII, pp. 257 sgg.).
I
i ji
I n H. Taine Les Origines de la France contemporaine. L'Ancien Régime, 1876~ trad. it. L.e
,f origini deita Francia contemporanea. L'Antico Reg~me, a cura di~· ~acch1a! Adelph1,
Milano 19 86, da cui citiamo. L'intero libro II, dedicato a I.costun:i et caratt~ ~drebbe
qui citato, per la seduzione delle testimonial!z~ evo.cate, il fascrn~ partecipe ~1 quella
scrittura. Mi limito a riportare un passo che dipinge il modo con cui il <{meccarusmo so-
ciale» si risolve appunto in conversazione e politesse:
<<Ricevere, dare pranzi, intrattenere piacevolmente i propri ospiti,. il. compito di un ~ran
signore è tutto qui, ed è questa la ragione per cui il governo e la religione sono per lm so-
lo argomenti di conversazione» (ibid., p. 490).
Ma la politesse ormai è di tutti e - per distinguersi - <<essere a~fabile no°: basta piU, ?i-
sogna ad ogni costo apparire amabili» (<;3aston du~ de ~év1s~ SouvC?1'zrs ~t portrazts,
Il8o~I 7 89, Beaupré, Paris 1815, p. 321; citato da Taine, L Antico Regime c1t., p. 245).
H <{In questo momento è [scil.: alla moda] il parfilage, la sfilacciatura, e a Parigi e nei ~a­
stelli tutte quelle mani bianche sfilaccian~ galloni, sp~lli.n~ e vecchie stoffe'. per fare ~n­
1 «Mi potrebbero opporre in risposta, che se è difficile che si dia una Femmina dotta, cre-
cetta di fili d'oro e d'argento. Trovano 1n quest attlvita una parvenza d1 e.conOf?la,
un'apparenza di impegno, in ogni caso un modo per tenere occupate le manH> (Tru.ne,
L'Antico Regime cit., p. 277).
L' Homme accompli 1 49
u Stéphanie-Félicité Ducrest de Saint-Aubin, C. tm•e de GenlJ-s, Dictionnaire critique et rai-
sonné des étiquettes de la cour, Mongie, Paris 1818, 2 voll. E fonte primaria nell'affresco
che Taine ci propone dell'Antico Regime.
76 F. de La Rochefoucauld, De l'air et des manières, in Maximes et réf!exions mora/es, 1665,
1666, ecc.; con l; aggiunta delle Réflexions diverses, in ffiuvres inédites de La Rochefou-
cauld, a cura di Edouard de Barthélemy, Hachette, Paris 1863; ed ora in Maximes, La-
rousse, Paris 1975, p. 115.
77 «L'allegria è una specie di ebbrezza che attinge fino al fondo della botte, e dopo il vino
beve la feccia» (Taine, L'Antico Regj,me cit., p. 294). TI Taine si riferisce evidentemente
all'esperienza storica della Rivoluzione ed a quella biografica della Comune. L'assunto
è esplicito nella Prefazione: «Perciò, quando vogliamo comprendere la nostra situazione
presente, i nostri sguardi devono sempre appuntarsi sulla crisi terribile e feconda me-
diante la quale l'antico regime produsse la Rivoluzione e la Rivoluzione il nuovo regi-
me» (ibid., p. 49).
78 Ibid., libro II: I costumi e i caratteri, cap. n, pp. 294-95.
79 Jean de La Bruyère, Les Caractères, De la Courdt., remarque 81, p. 221 [«C'è un pron-
tuario di frasi bell'e fatte, che si tira fuori come da uno scaffale di magazzino e di cui ci
si serve per congratularci gli uni gli altri a seconda degli avvenimenti. Benché esse si
pronuncino spesso senza partecipazione, e siano accolte senza gratitudine, non è tutta-
via consentito ometterle»].
80 Montesquieu [Charles-Louis de Secondat], Mes pensées: I720-I755, in Pensées et frag~
ments inédits de Montesquieu, a cura di Henri-Auguste Barckhausen, Bordeaux 1899-
1901; ora in ffiuvres complètes, a cura di D. Oster, Seuil, Paris 1964, p. 999, n. 1296
[«Non sono stupito delle attrattive che si trovano a corte e dell'impossibilità di cambiar
vita. Non si sarebbe pii.i insieme ad ogni istante. E le cento piccole cose che vi divertono
o vi appassionano, ed entrano nd piccolo piano di ambizioni che vi siete proposto; e an-
cora, non prender pili parte a questa lotteria di premi che dalle grazie dd principe s'ef-
fonde sulla nazione; e infine il piacere di vedere che, per piccolo che sia il posto occu-
pato, è comunque oggetto d'invidia; in fondo questa vita attiva non saprebbe essere so-
stituita dalla quiete)>].
81 «Je pensais autrefois - je dis, je pensais autrefois - que toutes ces choses - remises
dans le sac - si trop tOt - remises trop tOt - qu'on pouvait les reprendre - le cas
échéant - au besoin - et ainsi de suite - indéfiniment - temises - reprises» (S. Bec-
kett, Oh !es beaux jours, Minuit, Paris 1963 e 1974, p._53). Frasi 'tutte fatte', memoria
- di ciascuno e ddla storia- dei 'bei giorni':
«Pensavo una volta - pensavo, dico, una volta- che tutte queste cose - riposte nella
borsetta - cosi in fretta - riposte troppo presto - si potessero ritirar fuori - se nel caso
-per un'evenienza- e cosi di volta in volta- all'infinito - riposte - riprese».
82 Ibid., p. 61 [«C'è cosi poco che si possa dire ... E si dice tutto ... Tutto ciò che si può ...
E non una parola di vero da nessuna parte»].
83 ~Les hommes, ne pouvant guère compter les uns sur les autres pour la réalité, semblent
etre convenus entre eux de se contenter des apparences )) Oean de La Bruyère, Les Ca-
ractères, De la Cour cit., remarque 81, p. 22 li «Gli uomini non potendo in realtà per
nulla contare gli uni sugli altri, sembrano essersi accordati per accontentarsi delle appa-
renze»).
84 C. Goldoni, La donna di garbo, 1743; ora in Tutte le opere, a cura di G. Ortolani Mon-
dadori, Milano 1935, vol. I, pp. l013 sgg. Si legga l'eloquente giustificazione dei titolo
nell'indirizzo al lettore:
sce la difficoltà, essendo la mia Donna di Garbo una povera figlia di una miserabile la-
vandaia. Ma io replicherei francamente che gl'intelletti non si misurano dalla nascita,
 L' Homme accompli 151
Il compimento
Mi . An . c .
cortesia è, al declinare ddJ.A.nci~~~~aim~o~':np~~:1eon:t1ntrfa~tenere un rapporto
nel dicembre 1785 - del n
né dal sangue, e che anche una Femmina abbietta e vile, la quale abbia il comodo di stu- di
diare ed il talento disposto ad apprendere, può erudirsi, può farsi dotta, può diventare M . f>" • e«a1resacour».
una Dottoressa; il che suppongo io essere accaduto nella mia Rosaura» (L'Autore a chi
94 l'I ontesquieu~ Spicilège, 443-47; or~ ii:t CEuvres complètes cit., p. 404 [«Il palazzo del-
mperhtore e una ragnatela ed egh siede al centro come il ragno Non può fare una
legg,e, in Goldoni, La donna di garbo cit., val. I, p. 1018). m~ssa c e tutto non muova, e non c'è movimento che non lo facci.a muovere»]
8' Ibid., vol. I, atto III, p. 1081. ,, {~lien Offroy de ILa Mettrie, Systéme d'Épicure, LXIX; in CEuvres philosophiques. à Ber
86 Sui Mémoires ed il loro scenario europeo, rinvio almeno a F. Fido, Da Venezia all'Euro- l~ 1775, tomo , p. 264 [«La morte e l'amore si consumano ad un modo, 1·n' un so--
spiro»].
pa. Prospettive sull'ultimo Goldoni, Bulzoni, Roma 1984; non meno che ai molti, affa-
scinanti capitoli goldoniani (e qui Il francese di Goldoni) di G. Falena, L'italiano in Eu-
ropa. Esperienze linguistiche del Settecento, Einaudi, Todno 1983.
87 Goldoni, Pifémoires, parte I, cap. XL, Paris 1787; ora in Tutte le opere cit., val. I, p. 185
[«Scrissi dunque una commedia di carattere, il cui titolo era Mamo lo Cortesan. Momolo
in veneziano è il diminutivo di Girolamo. Ma non è possibile tradurre l'aggettivo Cor-
tesan con un aggettivo francese adeguato. Il termine Cortesan non è una corruzione di
cortigjano, bensf deriva da cortesia e cortese. Gli stessi italiani in genere non conoscono
il Cortesan veneziano; cosf, quando diedi alle stampe quest'opera, l'intitolai l'Uomo di
mondo; e se dovessi volgerla in francese, credo che il titolo che potrebbe esserle adatto
sarebbe quello di Homme accompli.
Vec!iamo se m'inganno. Il vero Cortesan veneziano è un uomo probo, premuroso, zelan-
te. E generoso senza scialacquare, allegro senza essere sventato, ama le donne senza la-
sciarsi andare, ama i piaceri senza dissiparsi, fa tutto il possibile per il bene di una causa,
e tuttavia preferisce la tranquillità, ma non sopporta soperchieria; è affabile con tutti,
è amico cordiale, patrocinatore disinteressato. Non è forse tale l' Homme accompli?i>].
Su L'Uomo di mondo si vedano ancora le osservazioni di Falena, L'italiano in Europa
cit., pp. 163-66.
88 C. Goldoni 1 Prefazione al tomo XV delle Commedie edite a Venezia da G. B. Pasquali,
1761-78; riprodotta ora in Tutte le opere cit., val. I, p. 739.
89 Id., L'Uomo di mondo, L'autore a chi /egg,e, in Tutte le opere cit., val. I, p. 781. Su questo
punto si veda: M. Baratto, La letteratura teatrale del Settecento in Italia, Neri Pozza, Vi-
cenza 1985, p. 68.
9o Id., L'Uomo di mondo, atto I, scena xvi, in Tutte le opere cit., val. I, p. 809.
Si concludeva cosf, «en cette eschole du commerce des hommes» che è il teatro goldo-
niano, la parabola che aveva unito, per tre secoli, cotte e civilità: un percorso di reciproca
assimilazione già notato da Montaigne, al quale si deve il conio della formula «§tre ci-
vilisé à la courtisane» (cfr. Essais, libro I, cap. xxv; ora in CEuvres complètes, a cura di A.
Thibaudet e M. Rat, Gallimard, Paris 1962 1 p. 139). Debbo la segnalazione a L. Feb-
vre, Civilisation: évolution d'un mot et d'un groupe d'idées, 1930, in Pour une histoire à
part entière, Sevpen, Paris 1962. E si veda ora il finissimo saggio diJ. Starobinsld, Le
mot «civilisation», nel volume collettivo, a cura dello stesso Starobinski, Civilisation, in
«Le temps de la réflexion», IV (1983), pp. 13-5 r.
91 «Già il mobile de' seggi ordine augusto I Sovra i tiepidi strati in cerchio volge: I E fra
quelli eminente i fianchi estende I Il grave Canapè. Sola da un lato I La matrona del lo-
co ivi si posa; I E con la man, che lungo il grembo cade I Lentamente il ventaglio apre e
socchiude» (G. Parini, La notte, parte conclusiva de Il giorno, a cura di D. !sella, Ric-
ciardi, Milano-Napoli 1969, val. II, vv. 260-66).
92 C. Goldoni Mémoires, parte III, cap. 1n; ora in Tutte le opere cit., val. I, p. 450 [«Ve-
1
devo· ogni giorno la Famiglia Reale, i Principi di Sangue, i Grandi del Regno, I Ministri
di Francia, i Ministri stranieri. Tutti si ritrovavano al Castello, si rendeva visita di pri-
ma mattina e, per i desinati, negli appartamenti; si faceva ala alla corte alla Messa, alla
caccia, agli spettacoli, senza impaccio, senza disagio, senza confusione»],
9 3 Ibid., parte III, cap. xxxrx, val. I, p. 600; è il modo nel quale Goldoni riassume i suoi
rapporti. con gli ambasciatori veneziani succedutisi a Parigi, in occasione dell'arrivo-
v. La lettura
 «Rinascimento» e «Risorgimento»:
la Corte tra due miti storiografici

1. Un'ipotesi crociana?
Ad autorizzare l'endiadi che il titolo propone, provvide - sin dal
1942 - il celebre saggio introduttivo di Benedetto Croce a Poeti e scrit-
tori del pieno e del tardo Rinascimento, prefazione appunto dedicata a
La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgi-
mento', la quale infatti si concludeva con le seguenti osservazioni e
proponimenti:
La passione del Risorgimento, come di sopra si è accennato, trasferendo
nel passato i suoi amori e i suoi odi, contribui non solo a porre un hiatus tra Ri-
naschnento e Risorgimento, ma soprattutto a rendere reciprocamente estranee
le due età; sicché, quando si ricercò un riattacco ideale lo si trovò, con maggio-
re consenso dell'immaginazione, nel medioevo e nell'età comunale, e il Rina-
scimento parve l'età del paganesimo e del materialismo italiano, di un'Italia
sensuale e gaudente e letterata e rettorica, contro la quale gli italiani nuovi
avevano il dovere di reagire. Dimostrare che il Risorgimento fu, sostanzialmente,
la ripresa del Rinascimento, ossia del suo motivo razionale e insieme religioso,
e che anche il hiatus tra i due nella intermedia età di decadenza non è da inten-
dere come distacco e decadenza totale, è stato l'oggetto di queste mie conside-
razioni 2 •
Che poi l'opposizione tra l' «Italia sensuale e gaudente e letterata e
rettorica» del Cinquecento e l'Italia delle libertà comunali si compen-
diasse nel vituperato modello / flagello delle corti, ricordava lo stesso
Croce riprendendo un tipico modulo storiografico desanctisiano:
!
La precettistica politica non andava oltre i consigli dell'astuzia, non coro-
nati pili nemmeno, come nel Machiavelli, dalla poetica visione di un uomo del-
\! la astuzia e della violenza, che scacciasse dall'Italia gli stranieri e la raccogliesse
"H in un potente stato. Al cittadino era succeduto il cortigiano, al desiderio dico-
mandare e governare quello di servire con proprio utile privato, virtU capitale
a tal fine la prudenza con gli altri annessi avvedimenti e infingimenti; e copiosi
3
manuali vennero stampati De re aulica e Del servire nelle corti •
Ma questa lettura del Macliiavelli, teorico di una violenza «che scac-
ciasse dall'Italia gli stranieri e la raccogliesse in un potente stato», non
è che la ricomposizione dialettica ("cittadino" versus "cortigiano") del-

La lettura
l'interpretazione desanctisiana che aveva fatto del Machiavelli l'ante-
signano del Risorgimento italiano:
C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile, e di un
popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquen-
te ne 1 suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme
alla realtà[ .. .]. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo, è l'ironia. La
sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono co-
me uomo del Risorgimento 4 .
Lo sforzo, e la novità, di Benedetto Croce furono quelli di suggerire
e tracciare le linee portanti di una continuità ideale tra il «razionalismo
del Cinquecento»' e il Risorgimento: a tal fine egli puntò su quegli ele-
menti, cari anche alla propria filosofia, dell'autonomia della politica ri-
spetto alla morale', del legame del razionalismo rinascimentale con la
Riforma, della libertà di coscienza nella ricerca, eh' egli vide compendia-
ti, attraverso l'eredità della "diaspora" degli eretici nella dimensione
laica e progressista, ed europea, della nuova cultura "risorgimentale";
la quale prendeva inizio, nell'emblematica parabola che vi costru! il
Croce, dalla vicenda esemplare del Giannone:
I" Ma lo stretto legame col razionalismo e coi bisogni spirituali che con la Ri-
forma e attraverso la Riforma si erano avvivati nel Rinascimento italiano, si
vide nella ripresa che il Giannone fa e nella soluzione che viene dando del pro-
blema religioso, perché l'autore della Storia civile fu anche l'autore del Trire-
gno. E volle fortuna che egli, nell'esilio che ebbe in comune coi riformati ita-
liani del cinquecento (come poi ebbe in comune il martirio che lo attendeva
della lunga prigionia e della morte nel carcere), fosse condotto a Ginevra, dove
tante memorie rimanevano del pensiero, degli sforzi e dell'opera di quei suoi
precursori, dove erano tra le altre famiglie i discendenti di Francesco Burla-
macchi, i quali tutti, intrinsecamente correggendo o approfondendo il disegno
che fu di lui, invece di escogitare combinazioni politiche per la libertà italiana,
avevano intrapreso la via lunga e faticosa di essa libertà, il rinnovamento re-
ligioso; e donde, un secolo piU tardi, un altro di quei discendenti di esuli, il Si-
smondi, doveva, in un famoso libro di storie, rimettere nella memoria e nel
cuore degli italiani le glorie delle loro libertà comunali e il fato che le colpi nel
cinquecento e la crisi che segui della forza e della civiltà italiana nell'età della
Controriforma, e cosl pungerli di taciti rimproveri e confortarli nel già iniziato
loro risorgimento 7 •
La lunga citazione, meglio di ulteriori allegazioni o commenti, fornisce,
in eloquente sintesi, la linea di connessione proposta da Benedetto Cro-
ce tra il Rinascimento della ragione ed il Risorgimento della libertà: vir-
tu l'una e l'altra «liberali», perché se è vero che «iniziato fu questori-
sorgimento nell'età giannoniana »•, esso «non fu piu da allora intermes-
so» compiendosi infine appunto nel «trionfo della concezione liberale»:
«Rinascimento» e «Risorgimento» 157
sicché l'Italia[ ... ] passò per tutti gli stadi che la storia europea percorse dalla
monarchia antipapale e laica alla monarchia riformatrice e da questa al giaco-
binismo e alle repubbliche democratiche, e poi alle richieste di costituzioni li-
berali e alla lotta contro la potenza straniera che voleva mantenerla nelle vec-
chie costituzioni assolutistiche, peggiorate dal nuovo ultramontanismo; finché
col trionfo della concezione liberale si giunse a una di quClle conclusioni ideali
di là dalle quali non si può andare, né di fatto si è andati, perché esse son tali
che ammettono l'infinità delle innovazioni, degli svolgimenti e degli avanza-
menti, e anzi ne danno la formala 9 •
Non si tratta ora di ripercorrere, informa storiografica, la varia for-
tuna e l'enorme bibliografia riguardante il concetto di «Rinascimento»;
ma piuttosto osservare - come già suggeriva Delio Cantimori" - che
in tale esegesi, condotta in termini simmetrici alla specola politico-
nazionale di «Risorgimento», cioè secondo una categoria (quest'ultima
appunto) egemone dal De Sanctis almeno sino al Croce, proprio la cul-
tura di corte sia costantemente risultata il polo negativo di commisura-
zione di una " scrittura in assenza di libertà" .
Ora, tanto si associ l'idea di «Risorgimento» a quella di «popolo»,
come nel De Sanctis, e quindi se ne vedano le radici nelle libertà comu-
nali; quanto si faccia risalire il primo embrione del pensiero risorgimen-
tale alla "ragione", alla libertà di coscienza del Cinquecento riformato,
come nel Croce; sempre la civiltà di Corte rimane il momento negativo,
espressione - piu precisamente - di una cultura cattolico-imperiale, in-
trisa appunto di assolutismo e di dogmi: tutto quello insomma che piu
ripugnava allo spirito laico, libertario, anticlericale, della cultura risor-
gimentale:
Quanto alle classi colte, ritirate da gran tempo nella vita privata, negli ozi
letterari e ne' piaceri della città e della villa) niente parve loro mutato in Italia,
perché niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i letterati a' quali non
mancava il pane delle corti e l'ozio delle accademie. Questa Italia spagnuola-pa-
pale aveva anche un aspetto piu decente. A forza di gridare che il male era nel-
la licenza de' costumi, massime fra gli ecclesiastici, il Concilio di Trento si die-
de a curare il male riformando i costumi e la disciplina. Si non caste tamen cau-
te. AI cinismo succede l'ipocrisia 11 •
2. Il «medio evo in putrefazione».
Nella visione desanctisiana la civiltà di corte è in sostanza quella dei
letterati, prima di tutti, che si sono ritrovati a coltivare!' «utile priva-
to»; è un giudizio etico, prima che estetico, e soprattutto politico:
«Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipen-

La lettura
<lenza» - ma nella condanna un elemento, allora negativo, prendeva
forza per fruttificare poi in altra temperie storica: il «cosmopolitismo»
della civiltà cortigiana (non assenza o disamore di patria, bensi una pa-
tria piu lata, quella - almeno - delle lingue neo-latine). Ma nelle pagi-
ne della Storia della letteratura italiana la valutazione di quella cultura re-
stava severa, e si ripeteva negli stessi termini (e perfino nelle stesse tour-
nures stilistiche), tanto si applicasse ali' età della Controriforma (come
nella citazione sopra addotta), quanto sin dall'inizio si volgesse a con-
siderare la società nella quale si era prodotto il pensiero machiavelliano:
Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e
letterari, erano cosmopolite, animate dagl'interessi generali dell'arte e della
scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani
perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stra-
nieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de' 12modi; poi la vinsero
con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza •
È questo, mitigato «dagl'interessi generali dell'arte e della scienza»,
il passo meglio disposto nei confronti della cultura delle Corti. In verità
tuttavia il giudizio di fondo sulla civiltà letteraria dell'Umanesimo e del
Rinascimento rimarrà, nel De Sanctis, saldamente vincolato alla sintesi
lapidaria dettata subito ad inaugurare il capitolo Xl dedicato alle Stanze
del Poliziano e alla società quattrocentesca:
Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimen-
to è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O per
dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le 1·epubbliche; mancata è ogni lotta
intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstizio-
sa, la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati, esaltata
in versi latini. A' letterati fama, onori e quattrini; a' principi incensi, tra il fu-
mo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, .Alfonso il magnanimo, Cosimo pa-
dre della patria, e piU tardi Lorenzo il magnifico, e Leone X e i duchi d'Este.
I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio; il
nemico dell'oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si ven-
devano all'incanto 13 •
La «rumorosa gioia delle corti» copre la voce della plebe, maschera,
per poco, lo spegnersi di «ogni lotta intellettuale»: in effetti nella lunga
durata, nella «grand'epoca, detta il Risorgimento, che dal Boccaccio si
stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto», la letteratura di
corte rappresenta la parte in ombra di quella civiltà "borghese" e laica,
segna il degenerare in «cinismo» di quell'ironia; non sarà un caso, nella
prospettiva desanctisiana, che proprio il genere portato a maturazione
dal Boccaccio, la novella, muoia appunto a corte, nel!' «artificio mecca-
nico» del Baudelio:
«Rinascimento» e «Risorgimento» 159
~iò che rimane. di vivo in questa letteratura, non è il fantastico, e non il
trag.1c~, ma un c.om1co, spesso osceno e di bassa lega e superficiale che non va
al di la della .c,ar1catura e talo.ra è piU nella qualità del fatto che ne' colori. Al-
cuna volta c1 e pur sentore d1 un mondo piU gentile soprattutto nell'Erizzo e
nel Bandella, c?me è nella novella di costui della reina Anna· ma in generale
c.ome ~elle corti anche piU civili sotto forme decorose e amabili giace un fond~
hcenz1.oso e g.rossolano, la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con
u~o. stil:-?obile. e mae~toso, p~~o artificio meccanico. È un comico che a forza
di ri~et1z1one s1 esaurisce e d~v1ene sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col
Bern1 e la novella col Lasca. E il Decamerone in putrefazione 14.
È ~nsomma, in una visione a tratti anticipatrice quamvis invita del
~achtm, u~a gran~e cele~razione carnevalesca dietro la quale appunto
si sgretola il «med10 evo m putrefazione»:
Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano giudi-
cava quell~ corru~tela da un punto di vista piU alto. Essa non era altr~ che lo
stesso medio ~v~ in ~ut:efazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle
f orme e nelle istltuzioni 15.
E infatti, I' enor~e ~ sinistra risata rabelaisiana nella quale il De Sanctis
vede affondare il Cmquecento italiano si compendia nel «vuoto» lascia-
to dalla «clamorosa risata» del Folengo:
d" La nuo~a arte, uscita dalla dissoluzione religiosa, politica e morale del me-
io ~vo e rimasta n~l vuoto, innamorata di solo sé stessa come Narciso va a
morire p~r mano di un frate sfratato, di Teofilo Folengo: muore ridendo di
tutto e di se stessa 16 •
In q~esta «~isso~uzione» del Medioevo, nella quale - come ha os-
serv~to il Ca~ti~~n - non c'è davvero spazio per il« concetto del Ri-
nascrm_ento » , il r~so ~ella M~ccaronea e quello di Margutte risuonano
enormi là dove stridera sfacciato anche il ghigno dell'Aretino:
Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo l'ultimo atto del
Dec~~erone, ;in ~ondo sfacciato e cinico, i cui protagonisti sono cortigiani e
cortigiane, e il c1;11 centr? è la corte di Roma, segno a' flagelli dell'uomo che
nella sua rocca di Ve~e~ia erasi assicurata l'impunità.
Sd_~ondo un~ tr~d1z1one popolare molto espressiva, Pietro [scil.: Aretino]
morf 1 soverchio ridere, come mori Margutte, e come moriva l'Italia u,
I? qu_ella conclusione emblematica del capitolo dedicato a Pietro
Arettno si com~endia~o tutti i filoni della lettura desanctisiana del Cin-
quecento: I~ dis~oluzione ~el Medioevo si compie nella carnevalesca
mas~herata il c~i «centro di gravità» è nelle corti, e di esse è vertice e
sentm.a, specchio e m?dello, la corte di Roma. Nel momento in cui il De
Sanctis celebrava la fme del potere temporale del papato", vedeva an-

160 La lettura
che riassumersi in esso, nella sua "corte universale", tutti i germi di cor-
ruzione che avevano portato al disfacimento politico e morale d'Italia:
La Chiesa lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena
20
e a tutta quella vita licenziosa, della quale era esempio la corte di _Leone •
La licenza accompagnata con l'empietà e l'incredulità aveva a suo princi-
pal centro la corte romana, protagonisti Alessandro VI e Leo.ne X. Fu la vista
di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lu-
tero e i suoi concittadini ;
21
Il tema prediletto de' poeti italiani e de' protestanti, erano gli scandali del-
la corte romana. Roma, la meretrice di Dante, la Babilonia del Petrarca, era
stata assalita da' protestanti nel suo lato piU debole, e pili efficace sulle gros-
22
solane moltitudini, nella sua scostumatezza •
Cosi il Tridentino, nella prospettiva desanctisiana, segnerà il pietri-
ficarsi, immobile, di quella consunzione, «una stagnazione nelle idee,
uno studio di fissare e immobilizzare le forme»". L'Italia si esauriva,
al compiersi di un lungo Medioevo: «le altre nazioni entravano pure al-
lora in via; essa giungeva al termine del suo cammino, stanca e scettica.
Rimase papale con una coltura pagana e antipapale»". Da «questa son-
-nolenza» letale la desterà appunto solo il Risorgimento, il ridestarsi del
concetto di «patria»- contro il cosmopolitismo intellettuale e "mer-
cenario" delle corti -, del quale la storia del Cinquecento offre al piu,
qua e là, qualche profeta quale il Machiavelli:
Risecati tutti gli elementisopraumani e soprannaturali, pone [scil.: il Machia-
velli] a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra,2 il
suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria ' .
il mondo desanctisiano è l'epifania del «dover essere», che ha i suoi
apici nel Medioevo e nel Risorgimento: «Quel "dover essere", a cui
tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, dee far
luogo all'essere, o com' egli [sci!.: il Machiavelli] dice, alla verità "effet-
tuale"»"; in mezzo il vuoto, nel quale si sospende la «pura immagina-
zione» dell'Ariosto: «Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella
esteriorità non ci è nulla. Al di sotto ci è Mamo, ci è lo spirito di Gio-
vanni Boccaccio»". Quel poco insomma che si salva della letteratura
del Cinquecento è quanto risale, nella sua matrice ideologica, alla «nuo-
va letteratura» inaugurata dal Boccaccio", e che appunto si compirà
nel Risorgimento", annunciato - nella letteratura - dal Foscolo, non a
caso restauratore appunto di Dante e Petrarca:
Foscolo ti dà la formala della nuova letteratura. La sua forza non è al di
fuori, ma al di dentro, nella coscienza dello scrittore, nel suo mondo 10
interiore.
Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di nuova luce .
«Rinascimento» e «Risorgimento» i61
Nella let.t;ir~ desan~tisiana il Rinascimento rappresenta dunque il mo-
mento p!U fievole d1 presenza di una «coscienza nazionale»: dal Polizia-
no~ Tasso, dal!' e~~ dell'~manesimo a quella della Controriforma, la
I funzione delle c~rt1 e doppiamente negativa (e ancor piu pernicioso ta-
le .ruolo, ~erché il. modello delle corti è individuato nella Roma papale
'\ n:iscela d1 assol;i~1smo e di corruzione): sia nell'esaltazione del mecena'.
I t;smo che ~e~c1fica que~a che dovrebbe essere, per il De Sanctis, la mi-
litanza. degli 1~tellettuah («Erranti per le corti, si vendevano all'incan-
to»): sia nel!~ mfauste conseguenze che quel!' «errare» ha sulla caritas
patria~, soppia~tat~ da un cosmopolitismo volto a considerare gli «in-
tere~sl g~nerali del! arte» o - piu spesso - !"'utile particolare" «finito
e chiuso 1n sé»n. '
~ale prospe.ttiva etico-storica sarà destinata a lunga durata e non
stupirà ~edere il Gra~sci, ~he già a"'.eva accolto nella periodizdazione
(e nelle mterferenze Risorgunento-Rmascimento) la prospettiva di lun-
ga dura;~ della "civil~à comunale" (quella, inaugurata dal Bettinelli ",
eh~ sara ~llust~~ta nei Quaderni sulla scorta del De Sanctis"), aderire
P?l, ~a.b1part1z1one desanctisiana, alla distinzione insomma tra la" sa-
n_it~ d1 una l~tteratura «nazionale-popolare» e l'inanità del filone «cor-
tigiano, anaz1onale»:
È inte~essante notare questo doppio filone nel Cinquecento: uno vera-
m~nte nazionale-popolar~ {nei dialetti, ma anche in latino) legato alla novelli-
s~1ca precedente: ~spress1one de~a bo:gh~sia, e r altro aulico, cortigiano, ana-
zionale, che pero e portato sugli scudi dai retoriH.
È ben vero che il Gramsci introdusse nel "sistema ideologico" appli-
cato.alla corte, a~:anto allo stereotipo del mecenatismo l'idea nuova (e
destmata a frutt1f1care molto piu tardi) della "nascita del funzionario":
. Il lett.er~to ~ivend!ca il di:itto di stare in «ozio» {«otiurn et non nego-
t1~m»), di viaggiare, ~i fantastl~are, senza preoccupazioni di carattere econo-
mico. Questo modo di P~1;1sare e ~egato al .mecenatismo delle corti, male inter-
fretato del :esto, petche i grandi letterati del Rinascimento, oltre a scrivere,
.avoravano in qua!c?e m~do (anc~~ l'Ario~to, letterato per eccellenza, aveva
in~ombenze amnun1strative e politiche): un'immagine del letterato del Rina-
scimento falsa e sbagliata 15 ;
ma è pur~ innegab,il~ che, corretta l'immagine scioperata e venale tut-
ta «oi:ion e quattr~m» del let~erato di corte quale aveva dipinto il De
~anct1s, nean~he 1acume stonco del Gramsci riusciva a rimuovere dal-
! uom? del Cmquecento quella patina d'indifferenza («mancata è ogni
lotta l~tellettuale, ogni passione politica», nel lapidario giudizio del-
la Stona della letteratura), quel disincantato désengagement che il De
"

162 La lettura
Sanctis rimproverava alla generazione del Guicciardini, e che Antonio
Gramsci addebiterà addirittura - partendo dall'alto parametro de-
sanctisiano dell' «impegno» machiavelliano - al pensiero di Erasmo:
Questa posizione giustifica il loro [scil.: degli «intellettuali»] non «itnpe~
gnarsi» nell'atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di
36
Erasmo nei confronti della Riforma •
In verità, a ben osservare, la posizione gramsciana si situa in una li-
nea mediana tra quella espressa dal De Sanctis, di cui condivide l'avver-
sione per il "disimpegno" degli intellettuali cortigiani, e quella teoriz-
zata dal Croce, del quale apprezza laccentuazione storiografica della
funzione "progressiva" espressa dai Riformati. Proprio le note dedica-
te sulla scorta di una recensione di Arminio Janner", a comparare l'i-
d~a di Rinascimento in De Sanctis ed in Burckhardt si concludono sin-
teticamente nella bivalenza di quel "cosmopolitismo" rinascimentale,
una negativa - desanctisiana - di tipo cortigiano-papale, l'altra - in
termini crociani - positiva per la sua tendenza "critica":
(Il Rinascimento può essere considerato come l'espressione culturale di un
processo storico nel quale si cos~it~i~ce .in Italia u~a nuova cla~se ~ntelle.ttuale
di portata europea, classe che sl d1v1se 1n due rami: uno eserc1~ò 1n ~tah~ una
funzione cosmopolitica, collegata al papato e di carattere reaz1onar10, 1 ~tro
si formò all'estero, coi fuorusciti politici e religiosi, ed esercitò una funzione
[cosmopolita] progressiva nei diversi paesi in cui si s~abili o par~~c~pò all' orga-
nizzazione degli Stati moderni come elemento tecnico nella milizia, nella po-
litica, nell'ingegneria ecc.) }s.
Anche per Gramsci come per Benedetto Croce, il "secondo ramo",
nella congiunzione Riforma protestante - Rivoluzione francese, è il vet·
tor e della "filosofia della praxis" moderna (condividendo in questo un
principio storiografico "europeo" espresso, per altri versi, nel decennio
precedente anche da Max W eber)", e corrisponde al!' altra polarità che
distingue (ancora crocianamente)'" «cultura popolare e alta cultura»:
La filosofia della praxis presuppone tutto questo passato culturale, la Ri-
nascita e la Riforma, la filosofia tedesca e la rivoluzione francese, il calvinismo
e la economia classica inglese, il liberalismo laico e lo storicismo che è alla base
di tutta la concezione moderna della vita. La filosofia della praxis è il corona-
mento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, dialettiz-
zato nel contrasto tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Ri-
41
forma protestante+ Rivoluzione francese •
Ma il primo "ramo", quello negativo, anzi «regressivo», r~mane
quello espresso dall'accolita di «parvenus» congregata nelle corti; cosf
nelle molteplici note gramsciane sul Rinascimento, ed in particolare nel-
le chiose ad un articolo sul tema, del 1929, di Vittorio Rossi:
«Rinascimento» e «Risorgimento»
Il Rossi non sa liberarsi dalla concezione retorica del Rinascimento e per-
ciò non sa valutare il fatto che esistevano due correnti: una progressiva e una
regressiva e che quest'ultima trionfò in ultima analisi, dopo che il fenomeno
generale raggiunse il suo massimo splendore nel Cinquecento [... ]
Politicamente domina un'aristocrazia in gran parte di pai·venus, raccolta
nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa produce la
cultura del Cinquecento e aiuta le arti, ma politicamente è limitata e finisce
sotto il dominio straniero 42 •
Posto tuttavia di fronte - al di là dei dosaggi "crociani" tra cor-
renti "progressive" e "regressive,, nel Rinascimento - all'alternativa
netta tra l'interpretazione in toto negativa del De Sanctis e quella pa-
lingenetica del Burckhardt", il Gramsci finirà, in ultima istanza, per
aderire ancora alla "pregiudiziale nazionale", alla latente avversione
risorgimentale contro quel mondo cosmopolita, «anazionale», rappre-
sentato dalle corti, e per rifugiarsi anch'egli nel mito del Machiavel-
li: «Il Machiavelli è rappresentante in Italia della comprensione che
il Rinascimento non può essere tale senza la fondazione di uno Stato
nazionale»". In fondo il Rinascimento tornava a spiegarsi dal Risor-
gimento 4~.
3. Erasmo o Michelangelo.
Almeno su un punto tutta la tradizione storiografica risorgimentale,
dal De Sanctis sino alla "rilettura" crociana o gramsciana concordava,
sul fatto cioè che la <<nuova Italia» avesse conosciuto i primi alhori del
proprio Rinascimento (o Risorgimento) o nel pensiero di coloro che ave-
vano vagheggiato, come il Machiavelli, la «fondazione di uno Stato na-
zionale» (al di là dunque, e contro, la «casta cosmopolita» di intellettua-
li «anazionali» nutrita dalle corti signorili); o almeno nella testimonian-
za critica, nel dissenso religioso, di coloro che si erano opposti allo spi-
rito "regressivo" del Cinquecento, rappresentato dal!' assolutismo (l' a-
borrita «corte di Roma») papale e spagnolo, come già aveva dettato il
De Sanctis:
E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia, che si vada lentamente
elaborando, dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a Spagna e papa. La sto-
46
ria di questa opposizione è la storia della nuova vita •
Era, nella voce degli eterodossi, dei rifugiati nelle terre della Rifor-
ma, dei martiri della Controriforma, il percorso della «razionalità» che
porterà il Croce, come abbiamo visto, a tracciare una parabola ideale tesa
a congiungere i «discendenti di Francesco Burlamacchi», attraverso Gi-

La lettura
nevra, al Sismondi ed al Giannone, al «risorgimento nell'età gianno-
niana».
Questa linea tuttavia, come osserverà con acume il Gramsci, sarà
il
espressa - in Italia - da una ristretta élite: essa, in certo modo, sta alla
Riforma luterana o calvinista (riforma di popolo) come la «cultura di
corte» all'asse papale-spagnolo: per questo l'una e l'altra, come dirà a
pili riprese nei Quaderni, «sterili». Esemplare, da tale punto di vista, il
giudizio irritato, spesso aprioristico, riservato ad Erasmo:
Nel volume di G. De Ruggiero su Rinascimento e Riforma si può vedere
quale sia stato l'atteggiamento di moltissimi intellettuali, con a capo Erasmo:
essi piegarono dinanzi alle persecuzioni e ai roghi. Il portatore della Riforma
è stato perciò proprio il popolo tedesco nel suo complesso, come popolo indi-
stinto, non gli intellettuali. Appunto questa diserzione degli intellettuali di-
nanzi al nemico spiega la «Sterilità)> della Riforma sulla sfera immediata del-
1' alta cultura, finché dalla massa popolare, rimasta fedele, non si seleziona len-
tamente un nuovo gruppo di intellettuali 47 •
In questa sorta di corrispondenza implicita di élites (gli intellettuali
cosmopoliti rispetto alle corti, come gli intellettuali italiani eterodos-
si rispetto alla Riforma), di rifiuto o di impossibilità loro ad «andare
al popolo» (poiché l'assioma gramsciano recita che «senza un perio-
do di andata al popolo non c'è "Rinascimento"»'"), la funzione e il
giudizio su Erasmo finiranno per collimare, nelle note dei Quaderni,
con quelli riservati a Croce, proprio perché visto come «ultimo uomo
del Rinascimento»:
Si potrebbe dire che il Croce è l'ultimo uomo del Rinascimento e che
esprime esigenze e rapporti internazionali e cosmopoliti •
49
Croce rimprovera alla filosofia della praxis il suo «scientismo)>, la sua su-
perstizione «materialistica», un suo presunto ritorno al <{medioevo intellettua-
le)>. Sono i rimproveri che Erasmo, nel linguaggio del tempo, muoveva al lu-
teranesimo. L'uomo del Rinascimento e l'uomo creato dallo sviluppo della Ri-
forma si sono fusi nell'intellettuale moderno del tipo Croce, ma se questo tipo
sarebbe incomprensibile senza la Riforma, esso non riesce pili a comprendere
il processo storico per cui dal <{medioevale» Lutero si è necessariamente giunti
allo Hegel e perciò di fronte alla grande riforma intellettuale e morale rappre-
sentata dal diffondersi della filosofia della praxis riproduce meccanicamente
latteggiamento di Erasmo [... ]
Ma il Croce non è <{andato al popolo», non è voluto diventare un elemen-
to <{nazionale» (come non lo sono stati gli uomini del Rinascimento, a diffe-
renza dei luterani e calvinisti) 50 •
Per questo la finale assimilazione di Croce ad Erasmo non si porrà
sotto segno positivo, anzi parteciperà del carattere "regressivo" di quel-
la mancanza di «coraggio civile»:
«Rinascimento» e «Risorgimento»
Croce fu alleato prezioso dei gesuiti contro il modernismo[ ...] Anche in
questo appare 1'uomo.del Rin~sci~~n;?' il tipo di Erasmo, con la stessa man-
canza di carattere e di coraggio civile .
Sono gli stessi attributi di «inerzia e passività», «quell?.stato di ac:
quiescenza passiva» che già il De Sanctis rimprover~va ag.h i~!ellettuali
italiani di fronte al <muovo splendore del papato» tridentmo . In certo
modo anzi, nelle pungenti conclusioni gramsciane, la storia delle due
élites, quella cosmopolita cortig~ano-pap~e e quell~ eter~dossa "era-
smiana" e sterile si fondono infine proprio nel magistero intellettuale
del Croce, «pap~ laico» di un Rinascimento «da signori»:
La funzione del Croce si potrebbe paragonare a quella del papa cattoli-
Croce è realmente una specie di papa laico, ma Ia moraIe deI Croce e'
co[ ...]
troppo da intellettuali, troppo del tipo ~nascimento, non può diyentar~ po-
polare, mentre il papa e la sua dottr~n~ 1n~uenzano masse sterm1i;~te di po-
polo con massime di condotta che sl riferiscono anche alle cose p1u elemen~
tarin.
Non giovò dunque ali~ cm.npre~sione della «civ~tà di,;or~e», .~ella
storiografia letteraria dali Uruta ali avve?to de! fascismo , ne .la pre-
giudiziale risorgimentale" della «~onda~ione di u~o St~~.o n~z1onale »,
legittimata nel Cinquecento dalla funzione Machiavelli ; n: ancora lo
sviluppo del "razionalismo critico" della Riforma, delimita~o. -. an-
ch'esso - o dallo scetticismo (il «tipo Erasmo», secondo la defm1z10ne
gramsciana) o dall'inevitabil~ ~osmopol~t~smo degli esuli. .
Ora proprio il «cosmopoht1smo.», criticato dalla s~ecola desanctl-
siana (poi gramsciana) come <<anazionale », era tut~avia stato e~a!tat?
dal Burckhardt con intendimenti opposti, quale t1Sultato dell «indi-
vidualismo por~ato al suo pili alto grado»''. Nella lettura della ~ivil­
tà rinascimentale al "tipo Machiavelli" s'opporrà, sin dal «profetismo
visionario» di William Blake", il "tipo" romantico di Micbelangel?,
il "titanismo" dell'individualità "prigione" e in lotta con la materia
e il tempo. . . . . .
Nessuno meglio di Baudela1re saprà riassumere in M'.c~elangelo I
«fantòmes puissants» suscitati nel suo nome dal Romanticismo ed al-
lungare, nella sua luce obliqua, le imminenti o~bre d7l "?ec~dentismo"
europeo («les crépuscules I déchirent leur surure»), d1 cm Michelangelo
sarà uno dei Phares:
Michel-Ange, lieu vague où l'on voit des I:Iercules
se meler à des Christs, et se lever tout dro1ts
des fantòmes puissants qui dans les crépuscules
déchirent leur suaire en étirant leurs doigtsn.

166 La lettura
E nessuno, dopo i calligrafici compiacimenti dannunziani'", saprà
meglio di Ungaretti affidare al mito di Michelangelo la" rinascita" di
Roma occupata, la «cupola I Febbrilmente superstite» e l' <rnmile spe-
ranza I Che travolgeva il teso Michelangelo»:
Appresero cosi le braccia offerte
- I carnali occhi
Disfatti da dissimulate lacrime,
L'orecchio assurdo, -
1
Quel1 umile speranza
Che travolgeva il teso Michelangelo
A murare ogni spazio in un baleno
Non concedendo all'anima
Nemmeno la risorsa di spezzarsi.
Per desolato fremito ale dava
A un'urbe come una semenza, arcana,
Perpetuava in sé il certo cielo, cupola
Febbrilmente superstite 59 •
Michelangelo dunque: non l'artista conteso dalle grandi committenze
di corte, sino al cimento della Sistina, ma il titanico emblema dell' «in-
f:i: dividuo» del Rinascimento, il "faro" dei poeti, ma anche la "sintesi"
!lili 1
per tanti storici, "lieu vague" di rifugio per un Rinascimento sfuggente
I.!!,!(li nei propri limiti e nella stessa definibilità.
Il mito troverà la sua massima espansione negli anni Trenta, fatto
emblema e veicolo della "risorgente" grandezza di Roma; negli stessi
anni, potrà apparire a Gramsci profeta "appartato" con Machiavelli, ed
a Ungaretti, sintomaticamente, «atletico miscuglio» della «potenza del-
1' idea romana» unita ali' «idea cristiana»:
Il libro del Burckhardt [sci!.: La civiltà del Rinascimento] fu interpretato
diversamente in Italia e fuori d'Italia. Uscito nel 1860 ebbe risonanza euro-
pea, influenzò le idee del Nietzsche sul superuomo e per questa via suscitò tut-
ta una letteratura, specialmente nei paesi nordici, su artisti e condottieri del
Rinascimento, letteratura in cui si proclama il diritto alla vita bella ed eroica,
alla libera espansione della personalità senza riguardi a vincoli morali. Il Rina-
scimento si riassume cosi in Sigismondo Malatesta, Cesare Borgia, Leone X, 60
l'Aretino, con Machiavelli come teorico e a parte, solitario, Michelangelo ,
Quest'atletico miscuglio di cupidigia e di pietà e di contemplazione indica
in Michelangelo un Cristiano nel quale l'idea greca rinasceva da quella potenza
dell'idea romana che la stessa idea greca aveva in parte suggerita, e si perfezio-
nava nell'urto coll'idea cristiana, portando l'idea cristiana alla sua pienezza
drammatica 61 • •
Ma la "funzione Michelangelo", il grande mito catalizzatore di pla-
tonismo e cristianesimo, di evangelismo e riforma, di titanismo dell'in-
«Rinascimento» e «Risorgimento»
dividualità, di tutte le contraddizioni e le aporie ermeneutiche del cliché
storiografico «Rinascimento» si estendeva ben oltre: proprio nel 1929
a uno deì padri della storiografia contemporanea, a Lucien Febvre, la vi-
cenda umana di Michelangelo apparirà come l'esemplare compendio del-
la diffusa" esigenza di Riforma" nell'uomo del Rinascimento:
se, per esempio, con l'aiuto di una recente monografia'\ si cerca di districare
e seguire nella sua evoluzione il ricco pensiero religioso di Michelangelo, anche
qui, direttamente o indirettamente, si incontra ancora una volta il movimento
delle stesse dottrine e degli stessi pensieri; anche qui ci si trova di fronte a una
complessità infinita d'influssi, in presenza di un uomo il cui pensiero, la cui
opera debbono qualcosa, volta per volta, all'estetismo neoplatonico di un An-
gelo Poliziano, al paolinismo di tutto un secolo, agli apostoli della giustifica-
zione, come l'Ochino o quelJuan de Valdés, che gli fece conoscere la sua gran-
de amica Vittoria Colonna e la cui azione spiega quelle parole dagli accenti lu-
terani, che ritroviamo talvolta sotto la penna del maestro della Sistina: c'è tut-
to questo - se non altro - dietro quelle stupefacenti traduzioni di un Dio crea-
tore e sempre attivo o di un uomo schiacciato sotto il peso del suo peccato, at-
testato nel palazzo stesso dei papi. No, nel Cinquecento il modo di sentire e
pensare illustrato dalla Riforma, non era l'invenzione di qualche teologo ribel-
le, né, meno ancora, il monopolio di una razza o di un particolare tempera-
. mento 62 •
a H. w. BEYER, Die Religion Michelangelos, Bonn 1926.
E se dal versante religioso, si volesse passare agli «ideali» politici,
anche li - in altro tempo e temperie culturale - la scuola lukacsiana sa-
rà in grado di offrirci un Michelangelo titanico, il quale «portò a termi-
ne una vera fatica d'Ercole nel compendiare definitivamente gli ideali
del Rinascimento»".
In verità proprio l'interpretazione del Rinascimento come esaltazio-
ne dell'individualità finirà, negli anni Trenta, come Crono con i propri
figli, per divorarne la fama. Dopo l'Erasmo gramsciano ridotto ad em-
blema, con Croce, della «trahison des clercs» ", anche il Michelangelo di
Blake e di Baudelaire, o di Ungaretti, o di Febvre, arriverà a incarnare
- come aveva con altro intento profetizzato Michelet - «lo slancio
eroico di un'immensa volontà»", dalle svenevoli esaltazioni di Giovan- 'i
ni Bonacci alla tronfia Bonifica fascista della cultura di De Vecchi di V al ,I
Cismon 66 •
4. Solo «buone maniere»?
In «individuo» piu che in «cosmo» - per riprendere una celebre
endiadi di quegli anni" - non poteva infatti che risolversi una storia

168 La lettura
del Rinascimento fatta quasi sempre come «storia degli intellettuali»
(del loro impegno civile o della loro trahison, della loro egemonia o mar-
ginalità). Eppure, se è vero che il Burckhardt dedica un capitolo intero
della sua opera allo Svolgimento dell'individualità (e che da quest'accen-
tuazione potrà trarre nutrimento il mito nietzschiano del "superuomo",
come annotava il Gramsci), occorre ricordare che questo capitolo è solo
il secondo della sua Civiltà del Rinascimento in Italia, preceduto come
ouverture proprio da quel saggio Lo stato come opera d'arte", che inau-
gurò in effetti un canone tutto nuovo, e positivo, di lettura della società
signorile in Italia e della sua civiltà di corte.
Basterebbe, per misurare la radicale divergenza di prospettive cri-
tiche rispetto alla linea etico-statuale che sarà propria del De Sanctis,
confrontare semplicemente il giudizio ammirato del Burckhardt sulla
corte di Leone X (quella «corte romana» centro di «empietà» nella let-
tura desanctisiana):
Nelle corti principesche la vita sociale dipendeva naturalmente dalle ten-
denze personali del regnante. Di esse, per vero, al principiare del secolo XVI ce
n'erano poche, e queste poche erano anch'esse sotto codesto aspetto pressoché
senza importanza. Roma faceva un'eccezione colla corte veramente unica di
Leone X: una società tanto speciale, quale non si vide ripetersi piU nella storia
del mondo 69 •
Donde, immediato, l'elogio del Cortegiano proprio come "modulo so-
ciale" della vita di corte: al trattato del Castiglione sono infatti dedicate
le pagine centrali del capitolo consacrato dal Burckhardt alla Vita sociale
e le feste:
Ed ora si vien formando per le corti, ma pili ancora per se medesimo, il
Cortegiano, quale ci vien descritto dal Castiglione. Egli è propriamente l'uomo
ideale, quale lo domanda la cultura di quel tempo a modo di suo piu bel fiore
e la corte sembra pili fatta per lui, che egli per la corte. [. . .]Il movente princi-
pale d'ogni sua azione non è, benché l'autore lo dissimuli, il servizio del prin-
1cipe1 bens{ il suo proprio perfezionamento[ ... ]
' Tra le qualità esteriori, quelle che innanzi tutto si esigono in grado perfet"
to in un Cortigiano, sono i cosi detti esercizi cavallereschi; ma, oltre a questi,
richiedevansi anche parecchie altre cose, che veramente non avrebbero potuto
pretendersi se non in Corti colte, regolarmente organizzate e basate tutte sul-
1' emulazione personale, quali allora non esistevano se non in Italia: altre cose
ancora si fondano evidentemente soltanto sopra un'idea puramente generale
e quasi astratta della perfezione individuale 10 •
È indubbio che questi passi, in sé considerati, sembrano avviare -
come osserverà Federico Chabod - «verso la pura valutazione cultura-
le» della società di corte, inaugurare insomma quella Civiltà delle buone
maniere, non a caso recentemente riproposta proprio dalla scuola storica
169
tedesca". Se anche cosi fosse, questo solo basterebbe - come già sot-
tolineava lo Chabod - ad aver caratterizzato, con tratti specifici e po-
sitivi, la civiltà del Rinascimento, ad averla «distinta» insomma tanto
da un «medio evo in putrefazione» (di cui non rappresentava piu la crisi
agonica), quanto da un ricercato Risorgimento del quale non sapeva of-
frire che isolati e dubitasi profeti:
Ad avviare pili decisamente gli studiosi verso la pura valutazione culturale,
indipendentemente dai legami con la vita politica e sociale, sopravvennero al-
cuni fattori decisivi. E primo fu, senza dubbio, l'influsso della concezione
burckhardtiana. La civiltà del Rinascimento in Italia, apparsa nel 1860, preci-
sando e affinando idee già espresse dal Michelet, presentava infatti il Rinasci-
mento come un blocco organico, un tutto conchiuso, abbracciante i secoli XIV,
xv e parte del XVI; ora, il Rinascimento diveniva effettivamente un «periodo»,
una categoria storica, ben precisata cronologicamente, un tutto unico, che su-
perava la primitiva distinzione alfieriana, foscoliana, balbiana, fra Due e Tre"
cento e Quattrocento. [... ] Il comune fu ributtato nel Medioevo e il Rinasci-
mento ebbe inizio con le signorie: e qui il contrasto con il modo di vedere del
Romanticismo non poteva essere piU netto 72 •
E certo la «pura valutazione culturale» della civiltà del Rinascimen-
to rischiava di tracciare del Quattro-Cinquecento un portrait di sole éli-
tes, come in qualche passo ammette lo stesso Burckhardt (<<Finalmente,
per bene intendere la vita sociale dei circoli piu elevati del Rinascimen-
to, è da sapere che ... »)", e come comunque vorrà circoscrivere - ben
separandola dall' «età deilumi»" - la «civiltà di corte» lo stesso Cha-
bod, che pure di essa è stato in Italia il lettore meno prevenuto:
Si deve solo notare questo: che la humanitas richiesta dagli uomini del Ri-
nascimento esige tali doti culturali e morali, tale maturità di pensiero da non
poter attuarsi se non in una piccola parte degli uomini. Essa, cioè, non è adatta
per le moltitudini: di qui il carattere di cultura aristocratica che la cultura del
Rinascimento mantiene; di qui il suo raggio sociale assai piU limitato nei con-
fronti sia della civiltà cattolica del Medioevo, sia anche della posteriore civiltà
della Controriforma. «Civiltà di corte» è stata chiamata la civiltà del Rinasci-
mento: esatto, ma non perché le principali corti italiane - da Milano a Ferrara
a Urbino a Roma a Napoli - furono i centri del movimento intellettuale (Fi-
renze solo non era sede di corte principesca nello stretto senso della parola),
bens{ - e molto piU - perché fu una civiltà che disdegnò le masse e mirò all' e-
levazione di pochi. Fu il trionfo della intelligenza, della cultura, del genio crea-
tore: ma, perciò appunto, un trionfo riserbato ad una classe di «eletti» n.
In verità se la «civiltà di corte» si limitasse alla sua piu immediata e
visibile "epifania culturale", il giudizio sarebbe ineccepibile; ma lopera
del Burckhardt offriva anche altre chiavi di lettura di quella civiltà, che
sono sovente rimaste in ombra. È parso, prevalentemente presso gli sto-
rici, che la concezione dello «Stato come opera d'arte» nascondesse una
motivazione sostanzialmente estetica, una carica utopica o neo-plato-

170 La lettura
nica pari a quella espressa nell'ultimo libro del Cortegiano o nella teoria
politica del Principe, rivelasse i limiti di una lettura troppo aderente ed
imitativa delle proprie res describendae.
Non mancavano tuttavia in quel capitolo osservazioni, sul rapporto
Stato-Corte, sull'organizzazione di questa come "specchlo" del!' archi-
tettura statuale, che già indirizzavano a una possibile lettura della corte
come " rappresentazione" dell'incipiente "disciplinamento" della nascen-
te società d' Ancien Régime. E non sarà un caso che proprio quelle osser-
vazioni siano applicate alla corte che pili avanti il Burckhardt avrebbe
celebrato come cornice splendida e raffinata del Cortegiano. Ma nelle
pagine introduttive del saggio essa è soprattutto un «organismo in ogni
senso egregiamente architettato e condotto»:
Ma non solamente lo Stato, bensl anche la corte era un organismo in ogni
senso egregiamente architettato e condotto. Federigo [scil.: di Montefeltro]
intratteneva cinquecento persone: le cariche di corte vi erano complete quanto
neppure nelle corti dei maggiori monarchi; ma nulla vi si sprecava, tutto aveva
76
uno scopo, e un severo sindacato vegliava su tutto • conosce il vicino senza qualche riserva; lo stesso colpo di fortuna che ha servi-
La corte insomma non è solo "civiltà": "rappresentazione di rapporti
sociali", modello dell"' organizzar", con una funzione non diversa in-
somma a quella che Gramsci assegnerà allo Stato «educatore»". Essa
piuttosto, nell'acuta visione burckhardtiana dei principati italiani, rap-
presenta - nel modo pili efficace- la sostanziale «artificialità» struttu-
rale delle "entità territoriali e statuali" dei principi italiani, risarcisce
l'intrinseca debolezza di quel potere con un rapporto quasi" contrattua-
le", e in ciò "consorziale", con i propri sudditi. Si vedano, in questa lu-
ce, le significative - e mirabili- pagine dedicate agli Estensi:
Egli è innegabile che la stessa loro posizione perpetuamente minacciata su-
scitò in questi principi una grande abilità personale: in una esistenza tanto ar-
tificiale non poteva muoversi con successo che un uomo accorto, il quale dove-
va provare coi fatti di esser degno della signoria che teneva. I caratteri di cia-
scuno hanno in generale dei lati deboli assai evidenti, ma pure in tutti vi era
qualche cosa di ciò che allora costituiva il tipo ideale di un principe, secondo
gl'Italiani [... ]
I principi d'Italia non si limitano, come i loro c~ntemporanei del nord, a
trattare esclusivamente con una nobiltà, la quale si crede l'unica classe degna
di considerazione a questo mondo e trascina anche il principe in questo errore:
in Italia il regnante può e deve conoscere ognuno[ ... ]
I sentimenti dei Ferraresi verso questa casa regnante sono il pili strano mi-
scuglio di un tacito terrore, di una devozione secondo puro spirito italiano ben
calcolata e riflessa, di una fedeltà e sudditanza intese affatto nel senso moder-
no: ali' ammirazione personale si sostituisce già un nuovo sentimento del do-
vere 78.
«Rinascimento» e «Risorgimento» 171
Che poi questo «sentimento del dovere» emanasse da un ben radi-
79
cato «tacito terrore», come è stato recentemente mostrato , pili che
dal «senso moderno» ascrivibile alla visione dello storico; e che questo
rapporto quasi "contrattuale" tra principe e sudditi fosse pili la proie-
zione del programma politico burckhardtiano, come documentano le
sue lettere'", che la natura del potere estense, sono osservazioni che
confermano l'adagio historia (ut veritas) filia temporis, e nulla tolgono
alla novità e alla ricchezza della proposta storiografica del Burckhardt.
L'«artificialità» della corte rappresenta dunque, secondo lo storico
basileese, verso lo "scenario" interno, quello che l'invenzione della
"politica estera" inscena verso l'esterno: l'una e l'altra sono due mira-
bili artifici prodotti da principati dall'«esistenza artificiale»:
A quel modo che la maggior parte degli Stati italiani erano all'interno ope-
re d'arte, vale a dire creazioni coscienti, emanate dalla riflessione e fondate su
basi rigorosamente calcolate e visibili, artificiali dovevano essere anche i rap-
porti che correvano tra di loro e con gli Stati esteri. L'essere quasi tutti fondati
sopra usurpazioni di data abbastanza recente è cosa per essi sommamente pe-
ricolosa tanto nelle relazioni esterne, quanto nella politica interna. Nessuno ri-
to a fondare e rafforzare la propria signoria, può valere anche per il vicino[...].
Per tal modo l'Italia diventa la patria di una «politica esteta}>, che poi a poco
a poco anche in altri paesi prevale al diritto riconosciuto, e la trattazione degli
affari internazionali, completamente oggettiva e libera da pregiudizi e da ogni
ritegno morale, vi raggiunge talvolta una perfezione, che le dà apparenza di
decoro e di grandezza, mentre l'insieme suscita l'impressione di un abisso sen-
za fondo 81 •
La lettura burckhard tiana insomma non solo sposta (e in maniera
profonda e definitiva) la "funzione della corte" dall'àmbito prevalen-
temente etico - e connotato negativamente come "servitU" - della
«storia degli intellettuali» (prospettiva che ·dominerà invece la storio-
grafia italiana almeno sino allo Chabod) a quello, pili proprio, dei "mo-
di" della gestione del potere e della sua "rappresentazione". Ma anco-
ra, nell'interpretazione del Burckhardt prendono corpo tre nuclei prin-
cipali della "dimensione corte" nella storia italiana del Rinascimento:
- il primo, ed è quello che ha avuto poi maggiore successo storiogra-
fico, fa della corte il fulcro di rappresentazione e regolazione dei
rapporti sociali tra ceti, la matrice di codificazione del" discipli-
namento" della società d' Ancien Régime, il luogo di nascita insom-
ma, a partire dalla prodigiosa fortuna del Cortegiano, di una nuova
civilisation, della civiltà delle «buone maniere»;
- il secondo attribuisce alla corte la funzione di filtro e di scambio
verso la società, di promozione sociale", e di partecipazione, pur

,I '72 La lettura
mediata, al potere: è insieme la nascita del« funzionario» e la "so-
cializzazione" del potere;
- il terzo e certo non meno fascinoso, fa della corte il calcolato "ar-.
tificio di rappresentazione" del potere, coessenziale alla natura
tutta artificiale dello stato principesco italiano: in questa reciproca
artificialità sta la costruzione della corte e dello stato del Rinasci-
mento come «opera d'arte».
Se è indubbio che nella" gestazione" del nostro Centro Studi «Eu-
ropa delle Corti» è proprio quest'ultima l'ipotesi storiografica che pili
ha agito, come infatti attesta il primo caso studiato, quello tutto "arti-
ficiale" di nascita dello stato e della corte Farnese"; è altrettanto vero,
tuttavia, che nella storiografia italiana soltanto il primo filone interpre-
tativo ha avuto successo", e qualche timido sviluppo il secondo,
Tanto meno la visione burckhardtiana del Rinascimento, la sua
"comprensione" ed in certo modo legittimazione dello stato assoluto
dei principi italiani, potevano aver séguito presso gli storici dell'Ita-
lia unita almeno finché durò l'ipoteca "risorgimentale", Un decen-
nio prim'a semmai, al politico teso ad elaborare una diversa strategia
d'unificazione dell'erigendo Stato italiano, dopo il fallimento dell'i-
potesi federativa espressa nel Primato morale e civile degli Italiani, ,al
Gioberti che componeva, da Parigi, il nuovo progetto raccolto nel Rin-
novamento civile d'Italia, non spiacque pensare - da quella specola -
alle monarchie europee d' Ancien Régime come a dei veicoli necessari
lI di "socializzazione" del potere, non altrimenti che il liberalismo "con-
trattuale" del Burckhardt argomentava essersi disegnato il principa-
to estense.
.,' È ben vero che il Gioberti non risparmiava alla «pestilenza delle
corti»" una delle pili veementi requisitorie che la storiografia del XIX
;I 11
secolo abbia ad esse riserbato:
I'I!I 1
!I Ma la scuola degli uguali è poca cosa per corrompere i potenti a rimpetto
i i! !
di quella dei subalterni, che alberga nel loro proprio seno. Tali sc;>n? le cort~,
',j ' nel cui vituperio la religione e la filosofia insieme si accordano. Ivi s1 ved.e «~­
:i f; vor ne' cuori, simulazione ne' volti, dolcezza nelle parole, veleno ne' des1der1:
»I vilipesa la semplicità e celebrata l'astuzia, insidiata l'innocenza e temuta la
1 lf scellerataggine, sublimato il favore e depresso il merito», come disse un Ge~ui­
I i'. ta a. Il male è antico e già rAlighieri scriveva a' suoi tempi che «Cortesia e
I[
,t onestade è tutt'uno; e perocché nelle corti anticamente le virtudi e li bellico-
,'lf I stumi si usavano (siccome oggi si usa il contrario) si tolse questo vocabolo d~~
corti· e fu tanto dire cortesia quanto uso di corte; lo qual vocabolo se oggi s1
',.i 11
togli~sse dalle corti, massimamente d'Ital~a, non s~re~be .~tro a dire.che t~r~
'I pezza»b. Cosicché la voce di cortigiano viene 0~~1 a ~ign1f1care negli ~om1n1
una qualità poco onorevole, e nelle donne un uff1c10 vituperoso. Le corti, oltre
l!'
•• 1':
.·Ilil li ,i
I
' '
«Rinascimento» e «Risorgimento»
1 73
al pervertire le idee, effeminare e corrompere i costumi, favorir l'ignoranza, la
falsa e frivola scienza, l'ozio, le delizie, la superbia, la cupidità del principe, e
segregarlo dalla vita cittadinesca, spesso intralciano e disviano i pubblici affari,
contrapponendo al governo giuridico e palese un governo occulto e illegale, al-
terando la giustizia distributiva dei gradi e degli splendori, cacciando di seggio
i buoni ministri, facendo prevalere i dappochi ai valenti, i raggiratori ai leali,
i cattivi ai virtuosi, preparando le rivoluzioni di stato con quelle di palazzo, e
tramando insomma una congiura continua, operosa, efficace contro la bontà
del principe e la felicità della patria, Ma il riformare e abolire le corti (benché
non sia impossibile) è piU facile a desiderare che ad eseguire; onde di rado in-
contra che non sopravvivano al dominio assoluto, ond'ebbero il nascimento;
tanto piU che a parere di alcuni prudenti esse si richieggono pel decoro e la
maestà del principe. Ora la corte innestata alla monarchia civile è un verme
che la rode, una peste che l'ammorba e ne rende l' esizio inevitabile e fatale 86 •
a Segneri, Quares. XXIII, 5. Vedi intorno alle corti la mia Introduzione
(cap. v, 6), Paolo Courier e i passi dei predicatori francesi da lui riferiti (Simp/e
discours, -Procès de Paul-Louis).
b Conv. II, n.
Ma è altres! da riconoscere ch'egli attribu! ai «pdncipi» una funzio-
ne positiva di allargamento della base di consenso, di collegamento di-
retto con il popolo, non dissimile da quella che il Burckhardt assegnerà
ai «principi d'Italia»", La monarchia insomma come fase aurorale del
" socialismo "! :
Cosicché se da un lato i principi allevarono i popoli, questi dall'altro lato
fondarono e limitarono la potenza dei principi. E mutando prima i benefizi in
feudi, poscia subordinando i feudi allo stato, e in fine mutandoli in possessioni
mobili e vive, i sovrani furono i socialisti (se mi è lecito usar questa voce) dei
tempi barbari e dei principii dell'età moderna 88 •
Una volta ammesso tale principio, lo svolgimento poi delle «condi-
zioni d'Italia nel periodo del rinnovamento» (come si legge negli abboz-
zi inediti al cap, rv: Della monarchia e della repubblica)" si disegnerà
appunto come «opera d'arte», esattamente con quella terminologia e
con quella misura - «la civiltà» - quali daranno titolo alia Civiltà del
Rinascimento burckhardtiano, al suo stato come «opera d'arte»:
Il governo dee seguire lo stesso progresso; e a mano a mano che il convive~
re cresce, e l'aggregazione si amplia, cosi esso dee complicarsi. E si complica
per mezzo dell'arte; perché l'arte figliuola del pensiero è anch'essa natura; è
una seconda natura, che svolge e compie la prima. E non solo è natura, ma in
certo modo soprannatura; perché è natura piU che perfetta, ed elevata dallo
spirito a superiore potenza. Onde le opere dell'arte verso la natura sono veri
miracoli [Segnato a margine: La civiltà è un moltiplicare]. E l'arte in ordine al
consorzio è la civiltà [,,,] Onde il legittimo artificiale è eziandio naturale[,,,]
Ciò è vero in tutte le parti del pensiero e dell'azione umana; e però anche nella
politica 90 •
1 74 La lettura
Le «opere dell'arte» dunque in ordine al consorzio umano si defini-
scono «civiltà»: in altra temperie, pensando all'unità italiana condenda,
il pensiero di Gioberti non divergeva dunque da quello del Burckhardt.
Di piu: «la civiltà è un moltiplicare»: e in questo compito di produzione
di civiltà, di socializzazione se non dei poteri certo della "gestione" del-
lo Stato, la corte avrà un ruolo primario, sarà - per riferire il processo
in termini gramsciani - uno «strumento di accelerazione»".
«Rinascimento» e «Risorgimento»: la Corte tra due miti storiografici.

1 Il saggio, che dava t~tolo all'Introduzione a Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinasci-
Se l' «artificialità» dello Stato farnesiano segnò i primordi« burck- mento. (Laterza, Bari 1945,; 2• e~., da cui :i~amo, 195 8, voL I, pp. r-6), era già stato
hardtiani» dell'attività di ricerca del nostro Centro Studi, è indubbio pu~bhcato, con lo stesso titolo, tn «La Critica>>, xxxvn (1939 ),
che anche quest'altro filone di lettura della "funzione-corte", la possi- 2 Ibtd., vol. I, p. 16; il corsivo è nostro.
bilità di interpretare nei termini gramsciani sopra descritti l'ipotesi sto- 3 Ibid., vol. I, p. ro.
rica del Burckhardt e politica del Gioberti (la corte insomma "moltipli- 4 ~ Dh· Sa~l~tis, Storia della letteratura italiana, Morano, Napoli 1370_71 2 voli . cap xv·
ac tave~, t, ora a cura di N. Gallo, Einaudi, Torino 19 58· 4~ ed. da c~i citia~ · ·
catore di civiltà" e «strumento di accelerazione», nelle società d' Ancien vo. II, p.
1 . ' • o, 1971,
594
Régime, nella " socializzazione" dei processi decisionali e delle forme di 5 Croce, La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinascimento col Risorgimento cit.
rappresentazione dello Stato - "opera d'arte") può dare ulteriori frutti. p.12. '
Era il voto già espresso, sin dal 1953, da Giovanni Getto proprio ri- 'Ibid.
leggendo, lungo la traccia di metodo di Antonio Gramsci e di Lucien 1 Ibid., pp. 14-1 .
5
Febvre, la «corte estense» quale «luogo d'incontro di una civiltà»: "Ibid., p. 15.
D~ altra parte, non si tratta, in questa sede, di dare una soluzione esaurien- ' Ibid.
10 «~enché ,~w;qu: il .De Sanctis adoperi a piri riptese i tetmini "Risorgimento", "Rina-
te, ma piuttosto di porre qualche problema, di invitare alla chiarificazione di
qualche elemento, di avanzare delle ipotesi di lavoro (e magari di determinare il
~c1mento s1 puo dit:e che 1~ 9uestione C: il problema o il concetto del Rinascimento non
mteressa nost~o gran~e crttlc~, è fu1?11 del suo orizzonte mentale cos{ ampio e rofon-
eventualmente delle ideali «équipes» cli lavoro, di un lavoro svolto su base ve- do. ~a formulazione e 1mpostaz1one d1 tipo "burckhardtiano" e le altre che da efsa n
ramente europea, con la collaborazione e l'esperienza di studiosi appartenenti segtU'te, o per~araf~asi o per ~od.ifica~ioni .della tesi, o per antitesi, gli rimangonoe:~~
a culture diverse: offrendo cosi un esempio di quella organizzazione del lavoro nee ~(D. Canumort, De Sanctts e ti «Rtnasczmento» 1953· ora in Studi di t · E'
Torino • d d · · · ' • sorta, 1naudi,
intellettuale su cui da noi ritornava a meditare cosi insistentemente quel genia- . 1959. . , 3 e .. , ~ cu1 c1t1amo, 19 6 9, pp. 321-39; la citazione alla p. 329).
le sperimentatore di cultura che fu Antonio Gramsci, e a cui ormai concreta- ~gh.stud~ d1 Ca?t1mor1, Chabod ~ Febvre è specialmente debitrice questa lettura· mi
mente da parte degli stranieri - si pensi solo a Lucien Febvre - sempre pili si r~fensco, l~ partic.olar~, per la st?r1a della storiografia sul Rinascimento, a: D. Canti~o­
r1, Uman~szmo1 Rtnascimen_to, R_iforma, dal Burckhardt al Garin, in Studi di storia cit., p.
attende) 92 •
277-553, F ..cha?od, Il Rznasczment? n_elle ~ecenti Rinascime~to
interpretazioni (r9 33 ),
Che quel voto si vada lentamente realizzando, e proprio intorno alla ~?36)'. Il Rtnaset?71ent°. (194~), Studt dz stona del Rinascimento (1950); ora in Scritti sul
tnasctmento, E1naud1, Tonno 1967 (3a ed., da cui citiamo 19 31 pp 5 . 219)· L
corte estense, e per opera di quelle «ideali "équipes" di lavoro» - ora Febvre, Com~ Ju~s Mic~elet i.nventò il Rinascimento; ora in Studi su Rifo~a e Rin~sci~
non piu tanto pfatoniche -, sia segno di fedeltà a chi lo previde e felice mento, ttad. tt. E1naud1, Tonno 19 66, pp. 435 _45 .
fondamento e auspicio a chi lo va compiendo. S?1Je interpretazioni del Rin~sci~ento nel secolo xrx, rinvio in particolare allo studio
dB1 W allace K. Ferguson, Il Rznasctmento nella critica storica (194 8)· trad it Il Mulino
o1ogna r969. ' · · •
" De Sa?ctis, Storia della letteratura italiana cit., cap. xvrr: Torquato Tasso val II p 647
11corsivo è nostro. ' · ' ' '
12 Ibid., cap. xv: Machiavelli, vol. Il, p. 592 .

13 Ibid., cap. x1: Le «Stanze», vol. I, p.

397 .
14 Ibid., cap. xn: Il Cinquecento, vol. I, pp. 481-82.
 I~
:I I 176 La lettura
1' Ibid., cap. xv: Machiavelli 1 vol. II, p. 563.
16 Ibid., cap. xn: Il Cinquecento, vol. I, p. 482. . val III, p. 1913). E altrove distingue tra un «Rinascimento spontaneo (del Duecento
11 «Sicché, a volerci esprimere con qualche proprietà di t.ermini, no~ si può ~arl~e di un
concetto del Rinascimento del De Sanctis» (Cantimor1, De Sanctts e tl «Rtnasczmento»
cit., P· 33o). · · I II 6 sul carattere <(anazionale e cosmopolita» dei nostri intellettuali del Rinascimento
is De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., cap. XVI: Pietro Aretino, vo · , P· 44·
19 «Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte
dell'antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna ~arte ~el nuovd lgl~.q~~st~
momento che scrivo le campane suonano a distesa, e annunziano 1 ~ntr~ta e , 1t iant
a Roma. Il potere te~porale crolla. E si grida il v.iva.all'u~tà d'Italia. Sta gl?rta ~Ma­
chiavelli» (F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana c1t., cap. xv: Machiavelli, vol.
Il, p. 607).
20 Ibid., cap. xu: Il Cinquecento, vol. I, P· 483.
21 Ibid., cap. xv: Machiavelli, vol. II, p. 562.
22 Ibid., cap. xvn: Torquato Tasso, vol. II, P· 648.
" Ibid., p. 652.
24 Ibid., p. 651.
25 Ibid., cap. xv: Machiavelli, vol. Il, p. 566.
16 Ibid.
21 Ibid., XIII: L'<tOrlandofurioso;>, vol. Il, p. 529. . ,
2s «La vita del Boccaccio è in compendio la vita lettetaria it~a~a, ~ot?e si andrà sv~up­
ando. [. .. ] Questa vita ne' suoi tentennamenti, nelle sue. 11?1taz1om, ne~e ~ue pe an-
ferie, ne' suoi ideali, è la stotia della nuova letteratura}> (ibzd., cap. X: L ultimo trecen-
tista, vol. I, pp. 393-94). , · · d d'
29 Come infatti argomenterà l'ultimo capitolo della Start.a della l~tteratura tti-ltana,ll d~ f.
cato appunto a La nuova letteratura (cap. xx). Su questi concetti, .es? JuC l P.ara ~ lD 1
«uomo nuovo}>, «uomo moderno», si vedano ancora le osservaz1001 1 anumon, e
Sanct:is e il «Rinascimento;>, pp. 333-34.
10 De Sanctis) Storia della letteratura italiana cit., cap. xx: La nuova letteratura, vol. Il, P·
937· · · ll l M h" n·
n È la severa conclusione desanctisiana a suggello del ~rad1z1onale para e_ ~ dc ~ave 1-
Guicciardini: «Lui [scil.: Machiavelli], è un punto di part~nza n~la s~orta, ~s~1nato a
svilupparsi; l'altro [scil.: Guicciardini] è un bel quadro, finito e chiuso in sé» (tbtd., cap.
xv: Machiavelli, vol. Il, p. 619). . . .
32 s Bettinelli Risorgimento d'Italia negli studi, nelle arti e ne' costumi dopo~~Mtlii Re-
~ondini Ba~sano 1775 (ed ora, a cura di S. Rossi, Longo,_R~venn~ 1976). ~ro em~
del Rina~cimento e della sua petiodizzazione rinvio alla b1bhograf1a s~onca ra?10?-ata ~:h
F Chabod in Scritti sul Rinascimento cit.' pp. I 10-44; ed a Cantlmon, La perzodizzazzo-
ne. dell'età del Rinascimento, in Studi di storia cit., pp. 340-65. . . ull
.. del
,3 «Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le affermaz1on1aii, a .q!-11-stlo?e .al -
l'origine del Risorgimento in senso proprio cioè del moto c?e portò u~ta. terr1~ort e
e politica dell'Italia, ricordando che m~lti ch~am~no Risorgimento a~che il rt~vegffildel~
le forze "indigene" italiane dopo il Mille, cioè 11 moto che portò at Comum 7 ~ na
scimento}> (A. Gramsci, Il Risorgimento ital.iano, in Qua~em! del carcere, edd .6cri§uc: a
radi V. Gerratana, Einaudi, Totino 1975, 4 voli.; la c1taz1o~e dal Qua · , . 7 'vo ·
II p ) E pili particolarmente il rapporto con quel «movimento progressivo ~opo
747è ·altrove meglio illustrato: <~L'Umanesimo e il Rin~cime11;to come esp_res~one
il Mille»
letteraria di questo movimento storico europeo hanno a~uto 1~ Italia la sede ~rincrpal~,
ma il movimento progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia gran parte coi Comuru,
«RinasCimento}> e «Risorgimento» '77
proprio in Italia è decaduto e proprio coll'Umanesimo e il Rinascimento che in Italia so-
no stati regressivh> (Quaderni del carcere cit., Quad. r 7, § 8: Umanesimo e Rinascimento,
specialmente))> e «Rinascimento in senso culturale», quello umanistico e retorico, "re-
gressivo" (cfr. Quad. 17, § 33: Umanesimo. Rinascimento, val. III, p. 1936).
34 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 5, § 104: Il Cinquecento, val. I, p. 633. Ancora
(secondo una formula dunque tutta desanctisiana) si veda ancora il Quad. 5, § 123:
Rinascimento, val. I) p. 653. Poco sopra, nello stesso paragrafo, il Gramsci parla di «ca-
sta cosmopolita», di umanisti «apolitici e anazionali» (ibid., p. 652).
n Ibid., Quad. 6, § 29: I nipotini di padre Bresciani, val. II, p. 707.
36 Ibid., Quad. lo,§ 6: Croce e la tradizione storiografica italiana, vol. II, p. 1222. Il riferi-
mento a Eras1no come all'emblema della «diserzione degli intellettuali» è una costante
polemica dd pensiero gramsciano (cfr., in particolare, Quad. 16, § 9, val III, p. 1862;
e qui, il par. 3: Erasmo o Michelangelo). Non deve stupire che la nota riguardante Era-
smo conchiuda, nella citazione, la nota gramsciana dedicata a Croce: in verità, come :ve-
dremo, proprio Croce parrà a Gramsci un Erasmus redivivus.
J7 A. Janner, recensione a E. W alser, Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte der Renais-
sance) Benna Schwabe, Basel 1932; in«Nuova Antologia» del 1° agosto 1933·
38 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 17, § 3: Umanesimo e Rinascimento, val. III,
p. 1910.
J<J Cfr. M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, [Gesammelte
Aufsiitze zur Religionssoziologie1, Mohr, Ti.ibingen 1922 (trad. it. L'etica protestante e lo
spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1945, ecc.).
40 Si ricordino le osservazioni di Benedetto Croce: «Il movimento della Rinascita erari-
masto aristocratico, di circoli eletti, e nella stessa Italia, che ne fu madre e nutrice, non
usci dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo, non divenne costume o "pregiudi-
zio", ossia collettiva persuasione~ fede» (in Storia dell'età barocca in Italia, Laten:a, Bari
1929, p. r r, il corsivo è nostro). E la stessa citazione che il Gramsci riportava e· faceva
propria inaugurando le note relative ad Akuni problemi per lo studio dello svolgimento
del/a filosofia della praxis (cfr. Quaderni del carcere cit.; Quad. 16, § 9, val. III, p. 1858).
Non diverso sarà, nd 1941, il giudizio di Chabod sulla «Civiltà di corte»: «Un trionfo
riserbato ad una classe di "eletti"» (cfr. ora Scritti sul Rinascimento cit., pp. 64-65).
41 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 16, § 9: Akuni problemi per lo studio dello svol-
gimento della filosofia della praxis, val. III, p. 1860. Non dissimile era stata la posizione
di Benedetto Croce, soprattutto in Storia dell'età barocca in Italia cit.; ripresa e difesa,
dieci anni dopo, nd citato saggio La crisi italiana del Cinquecento e il legame del Rinasci-
mento col Risorgimento, sopra citato.
42 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 5, § 123: Rinascimento, val. I, pp. 648-49.
Gramsci fa riferimento ali' articolo di Vittorio Rossi, Il Rinascimento, apparso in «Nuo·
va Antologia» del 16 novembre 1929.
4 ' «Il De Sanctis accentua nel Rinascimento i colori oscuri della corruzione politica e mo-
rale; nonostante tutti i meriti che si possono ticonoscere al Rinascimento, esso disfece
l'Italia e la condusse serva dello straniero. Insomma, il Burckhardt vede il Rinascimento
come punto di partenza di una nuova epoca della civiltà europea, progressiva, culla dd-
l'uomo moderno: il De Sanctis dal punto di vista della storia italiana, e per l'Italia il Ri-
1· nascimento fu il punto di partenza di un regresso ecc.» (Gramsci, Quaderni del carcere
cit.; Quad. 17, § 3: Umanesimo e Rinascimento, voi. III, p. 1909).
44 Ibid., Quad. 17, § 8: Umanesimo e Rinascimento (continuazione), val. III, pp. 1913-14.
4 ' Si pensi all'interpretazione complessiva che Gramsci proponeva, in una nota apposita,
dci termini Rinascimento, Risorgimento, Riscossa, ecc.: «Sono [scil.: espressioni] difficili
 La lettura
da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di
una continuità essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all'unità
dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana "nata" o "sorta" con Ro-
ma, si pensa che la cultura greco-romana sia "dnata", la nazione sia "risorta", ecc.»
(Quaderni del carcere cit.; Quad. 26, § II, vol. III, p. 2306). La nota riprende quasi alla
lettera un appunto del Quad. 5, § I36, vol. I, p. 667.
46 De Sanctis, Storia della- letteratura italiana cit., cap. xvrr: Torquato Tasso, vol. II, p. 652.
47 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 16, § 9, vol. III, p. 1862. La nota amplia un
appunto precedente dove l'autore parla di «"vigliaccheria" degli intellettuali» (cfr.
Quad. 4, § 3, vol. I, pp. 424-25).
4s Ibid., Quad. 8, § I45: Carattere non popolare-nazionale della- letteratura italiana: «Anche
se si dovesse cominciare con lo scrivere "romanzi d'appendice" e versi da melodramma,
senza un periodo di andata al popolo non c'è "Rinascimento" e non c'è letteratura na-
zionale» (ibid., vol. II, p. 1030).
49 Ibid., Quad. Io,§ 4I, val. II, p. 1302.
:;o Ibid.: Punti di riferimento per un sag,gio sul Croce, vol. II, pp. 1293-94. Poche righe sopra,
il parallelo con Erasmo riusciva tutto a danno della posizione <~falsa e reazionaria)> di
Benedetto Croce: «La posizione del Croce è quella dell'uomo del Rinascimento verso
la Riforma protestante con la differenza che il Croce rivive una posizione che storica-
mente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso [...1ha contribuito a dimostra-
re falsa e reazionaria. Che Erasmo potesse dire di Lutero: "dove appare Lutero, muore
la cultura" si può capire. Che oggi il Croce riproduca la posizione di Erasmo non si ca-
pisce, poiché il Croce ha visto come dalla primitiva rozzezza intellettuale dell'uomo del~
la Riforma è tuttavia scaturita la filosofia classica tedesca e il vasto movimento culturale
da cÙi è nato il mondo moderno» (ibid., p. I293).
51 Ibid.' p. I 304.
52 De Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., cap. xvn: Torquato Tasso, val. II, p. 651.
'J Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. lo, § 41, vol. II, pp. 1303 e 1307.
H Entro questi precisi limiti cronologici si colloca anche la nostra "lettura".
55 <dl cosmopolitismo, che si manifesta negli esuli pili colti, è l'individualismo portato al
suo pill alto grado» (J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, I86o; trad. it.,
per cura di Domenico Valbusa, 1877; ed ora Sansoni, Firenze I96I, p. Io4).
56 Lo osserva con il solito acume, Mario Praz: «Si dirà che quei contorcimenti di Rodin
vengono d;lla lontana ispirazione michelangiolesca che influi anche su artisti assai an-
teriori allo scultore francese, quali il Fuseli e il Blake; [.. .1 il michelangiolismo, reincar-
nandosi in artisti di epoche posteriori, prese il tono del gusto dominante. Con Fuseli e
Blake codesto manierismo si fuse con elementi neoclassici» (in Bellezza e bizzarria, Il
Saggiatore, Milano 1960, p. 68). E lo notava, sin dal I946, Ungaretti nel suo Discorsetto
su Blake, seppure per procedimenti analogici: «La Rivoluzione dell'89, Blake fu il solo
poeta che l'intese appieno, che la previde, che intese gli avvenimenti che ne avevano
preparato la deflagrazione, i rivolgimenti che ne sarebbero derivati; co~e a intendere
un'altra rivoluzione fu Michelangelo» (apparso come Nota del tradu#ore, 1n «Le Tre Ar-
ti», Roma, 11, I946, n. 1; ora in Sag,gi e interventi, a cura di M. Diacono e L. Rebay,
Mondadori, Milano I974. p. 598).
57 Ch. Baudelaire, Les phares, ora in <Euvres, a cura di Y.-G. Le Dantec, Paris I935, val.
I, p. 25. E altrove Baudelaire definirà l' «art de Michel-Ange» <(précis camme une sden-
ce, prodigieux camme le reve» (da Sculpture, in Curiosités esthétiques, Calmann Lévy,
Pru·is I889, p. 343). Ungaretti non mancherà di attribuire allo stesso Ba~dela~e quel
«miscuglio» di cielo e d'inferno, che già l'autore francese aveva celebrato in Michelan-
gelo: <~la sua [scii.: di Mallarmé) poesia era la manifestazione dello spirito olimpico con-
tro quel miscuglio michelangiolesco di cielo e d'inferno ch'è l'opera di Baudelaire. [...]
«Rinascimento» e «Risorgimento» '79
(Un Italiano dell'8oo che avesse sentito i propri tempi con quel martoriante impeto col
quale afferrava i suoi Michelangelo, avrebbe avuto con Baudelaire una somiglianza di
fratello)» (in Per Mallarmé, in «Il Tevere», 28-29 settembre I929' ora in Saggi e inter-
venti cit., p. 208). '
' 8 Puntualmente registrati da Mario Praz: «Anche le figure di Michelangelo alla Sistina
son piene di gesti. Per questo piacevano tanto al D'Annunzio: "Ciascuno la sua ossatura
I creato avea dall'interno! del suo spirto, artefice ardente I del suo simulacro vitale; I e
dal tarso allo sterno, I dal cllbito al ginocchio, I dall'òccipite al tallone, I dalle vèrtebre
alle falangi I la compagine era eloquente I come uno spirto che parli I di sé con un fremi-
to d' ale; I si che il triste pondo animale I in verbo mutavasi eterno" i> (in Bellezza e biz-
zarria cit., p. 68).
n G. Ungaretti, Folli i miei passi, I944 (dalla sezione Roma occupata), nel Dolore; dr. ora
Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano I970, pp. 223-24. Pill tardi an-
che allo Hocke Michelangelo parrà incarnare il mito di Roma: <(In tempi indifesi, di cri-
si, di drammatici rivolgimenti di ogni specie, perciò anche di alta civiltà come ad Ales-
sandria, nell'età di Adriano, nell'alto medioevo, nel Quattrocento borgo~none, nella Fi-
renze del Ficino e nella Roma di Michelangelo, nei decenni prima e dopo Shalcespeare
[...], fuggono i "senza tetto", liberandosi dalle strapotenti apparizioni "nelle immagini
create"» (G. R. Hocke, Lode dell'ambigµo, in Il manierismo nella leueratura I959' trad.
it. Il Saggiatore, Milano I965; poi Garzanti, Milano I975• p. 88). ' '
60 Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. I7, § 3: Umanesimo e Rinascimento, val. III,
p. 1908.
61 G. Ungaretti, Poesia e civiltà, I933-36; ora in Saggi e interventi cit., p. 3I r. Pochi anni
prima, nel I930, il poeta replicava, introducendo la propria tl"aduzione delle Notes et
pens~t;s [de Giacomo Leopar~i], il mito baudela!riano di Michelangelo: «Michel Ange,
auss11ncapable de renoncer a Platon qu'au Chrtst, pris d'un amour égal pour la chair il-
lusoire et l'esprit racheté, s'efforce en vain de découvrir la face de la divinité dans un
monde, plein de germes de corruption. Il ne saura que déchainer, dans le cri de ses Pietà
son enfer intérieur» (ora in Saggi e interventi cit., pp. 22I-22). Sono prospettive e imma~
gini non diss~. da quelle ~ontemporaneamente espresse da Lucien Febvre, quelle «di
un uomo sch1acc1ato sotto il peso del suo peccato» (cfr. qui, nota62).
62 L. Febvre, Une question mal posée: les ori gin es de la Ré/orme française et le problème des
causes de la Réforme, in «Revue historique», CLXI (I929); raccolto e tradotto in Studi su
Riforma e Rinascimento cit., pp. 63-64.
6 } <(La preponderanza del soggettivismo in rapporto all'oggettività, che separa Michelan-
gelo dal credo estetico del periodo che lo precede, mostra anch'essa il desiderio di con-
.,i servare la bellezza, di conservru·e gli antichi valori fiorentini e rinascimentali in genere
[...]. La presenza dominante del soggettivismo accentuato e della bellezza soggettiva e piti
astratta rispetto all'universo dell'oggettualità quotidiana era, in quel momento, l'unico modo
i in cui l'artista, che in gioventU era stato un entusiastico patriotta fiorentino, poteva restare
fedele ai suoi ideali giovanili, pur seguendo con molta sensibilità i nuovi conflitti del tempo.
Con la soggettivizzazione della bellezza e con la concezione piU astratta della bellezza
oggettualizzata, Michelangelo portò a termine una vera fatica d'Ercole nel compendiare
definitivamente gli ideali del Rinascimento» (cfr. Agnes Heller, A Renesztinsz Ember
Budapest I967; trad. it. L'uomo del Rinascimento, La Nuova Italia, Fitenze 1977, pp'.
377-78).
64 Cfr. Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. Io,§ 4I, val. II, p. I303. L'espressione
riprendeva il titolo di un celebre saggio di Julien Benda.
6' Lo ricorderà ancora Lucien Febvre: «Ma il Rinascimento di Michelet non fu una restau-
razione della purezza medievale. Fu una negazione del Medioevo. Rottura della tradi-
zi~ne. Non ~iunse un anello alla catena. Usci dal nulla. Tabula rasa. O, se si preferisce,
mtracolo. Michelet, a modo suo, lo disse magnificamente: "Lo slancio eroico di un'im-
 Ij 180 La lettura
!
mensa volontà")> (L, Febvre, Come Ju!es Miche/et inventò il Rinascimento, in Studi su Ri-
forma e Rinascimento cit., p. 444).
66 Il mito di Michelangelo instauratore della potenza italica, titanica, della Roma papale
e imperiale penetrò fin anche nelle antologie per la scuola fascista: si veda, per esempio,
G. Bonacci, Energia umana. Da Virgilio a Marconi, Firenze I932, p. II. Nello stesso
tempo De Vecchi celebrava nella Cappella Sistina «la pill grande visione di assieme che
l'umanità possegga» (cfr. C. M. De Vecchi di Val Cismon, Bonifica fascista della cultura,
Mondadori, Milano I937, pp. 34-35).
67 Mi riferisco ai saggi di Ernst Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Re-
naissance, Teubner, Leipzig 1927 (trad. it. Firenze 1935).
68 E anche la proporzione tra i due capitoli è, nel saggio burckhardtiano, tutta a vantaggio
del primo; citando dalla traduzione italiana: cap. I: Lo stato come opera d'arte, pp. 5-99;
cap. n: Lo svolgimento dell'individualità, pp. 101-27.
69 Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., cap. v: La vita sociale e le feste,
p. 282. E si ricordi, al confronto, il severo giudizio del De Sanctis: «La licenza accom-
pagnata con l'empietà e l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana, pro-
tagonisti Alessandro VI e Leone X» (Storia della letteratura italiana cit., cap. xv: Machia-
velli, voi. II, p. 562).
10 Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., cap. v: La vita sociale e le feste, pp.
282-83.
n Cfr. N. Elias, Uber den prozess der Zivilisation (1936) e Die hOfische Gesellschaft (1969);
trad. it. La civiltà delle buone maniere e Potere e civiltà; e prima La società di corte, Il Mu-
lino, Bologna 1982 e 1983; 1980.
12 F. Chabod, Studi di storia del Rinascimento (1950); ora in Scritti sul Rinascimento cit., pp.
155-56.
n Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., p. 287 e passim.
14 A proposito della <<civiltà del Rinascimento» preciserà lo Chabod in nota: «Che è [scil:
questa «civiltà del Rinascimento»] una Hofkultur non nel senso ch'essa sia rimasta ma-
terialmente limitata alle corti principesche, ma nel senso che i suoi ideali richiedono, per
.1I l'attuazione, una élite. Nulla è piU istruttivo, al riguardo, del paragone fra i due concetti
)' di humanitas e humanité, del Rinascimento e dell'Illuminismo: la prima postulante uno
"~
' sforzo di autoelevazione, morale e spirituale, un processo di conquista che conduce alla
'I
digJtitas sui, ma che appunto per questo è retaggio di pochi; la seconda invece "sentiment
de bienveillance pour tous les hommes" (siccome la definisce l' Encyclopédie) che, seppur
è insito solo in una "àme grande et sensible", è però un sentimento che ha per suo ca-
rattere specifico il senso della fratellanza degli uomini, e postula l'avvicinamento agli
esseri umani[ ... }: postula cioè l'abolizione di ogni barriera di casta, di nazione, di dot-
trina» (in Il Rinascimento nelle recenti interpretazioni, l933i ora in Scritti sul Rinascimen-
to cit., p. 17, nota l).
1' F. Chabod, Momenti e forme del Rinascimento, 1941; ora in Scritti sul Rinascimento cit.,
pp. 64-65.
76 Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., cap. 1: Lo stato come opera d'arte,
p. 38.
n «In realtà lo Stato deve essere concepito come "educatore", in quanto appunto tende
a creare un nuovo tipo o livello di civiltà; come ciò avviene? Per il fatto che si opera es-
senzialmente sulle forze economiche, che si riorganizza e si sviluppa l'apparato di r,ro-
duzione economica, che si innova la struttura, non deve trarsi la conseguenza che i atti
di soprastruttura siano abbandonati a se stessi, al loro sviluppo spontaneo, a una germi-
nazione casuale e sporadica. Lo Stato è una "razionalizzazione" anche in questo campo,
è uno strumento di accelerazione e taylorizzazione, opera secondò un piano, preme, in-
cita, sollecita, ecc.» (Gramsci, Quaderni del carcere cit.; Quad. 8, § 62: Machiavelli, voi.
«Rinascimento» e «Risorgimento»
II, p. 978). Il corsivo è nostro. La corte insomma funzionerà certo come luogo di epifania
del "mecenatismo" del principe, ma soprattutto come apparato intellettuale deputato
a controllare, e comunque a promuovere, l'organizzazione della cultura, il programma
di legittimazione - talvolta - del nuovo principato (come osservava acutamente il
Burckhardt).
1s Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., cap. I: Lo stato come opera d'arte,
p. 42.
1 9 L. Chiappini, Gli Estensi, Dall'Oglio, Milano 1967, pp. 71 sgg.; ed aa.vv., La Corte e lo
spazio: Ferrara estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Bulzoni, Roma 1982, in
specie il vol. I.
80 È una militanza politica sulla quale poneva giustamente l'accento il Cantimori, ripor-
tando un passo di una lettera dd Burckhardt del 28-29 gennaio 1844: «Sorgerà un nuo-
vo liberalismo, una opinione pubblica generale, sempre piU purificata da stravaganze
d'ogni tendenza, e allora la vittoria dovrà finalmente venire. Solo a tale liberalismo so-
stenuto dal popolo si piegherà anche il potere1 e contrarrà un nuovo patto» (ora in Can-
timori, Lettere del Burckhardt, in Studi di storia cit., p. 293; il corsivo è nostro). La cita-
zione del Cantimori era tratta daJ. Burckhardt, Briefe, Schwabe, Basel 1950, voi. I, e
1952, vol. II; la citazione da Briefe, n. 106, voi. II, p. 78.
81 Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., cap. r: Lo stato come opera d'arte,
pp. 71-72.
32 Si vedano, per Mantova e Ferrara, i documenti addotti da M. Cattini e M. A. Romani,
Le corti parallele: per una tipologia delle corti padane dal XIII al XVI secolo, in aa.vv.,
La Corte e lo spazio: Ferrara estense cit., val. I, pp. 4 7-82.
33 Cfr. ora aa.vv., Le Cortifarnesiane di Parma e Piacenza: I545-I622; voi. I: Potere e società
nello Stato farnesiano, a cura di M. A. Romani; val. II: Forme e istituzioni della produzio-
ne culturale, a cura di A. Quondam, Bulzoni, Roma 1978.
84 Un bilancio di questa linea storiografica è ora tracciato da C. Ossola, L '«Homme accom-
pli». La civilisation des Cours camme art de la conversation, in «Le temps de la réflexion»,
IV (1983). Numero monografico dedicato a Lacivilisation.
8 ' <'Ai re assoluti di una volta era di scusa il fascino dell'onnipotenza, la pestilenza delle
corti, gl'influssi del ceto splendido; ma oggi la signoria soggiace alla legge, i popoli non
soffron le corti e la democrazia ha d'uopo la virt6 civile» CV. Gioberti, Del rinnovamento
civile d'Italia, libro II; ora a cura di Luigi Quattrocchi, Abete, Roma 1969, 3 voli.; la ci-
tazione nel val. Il, p. 129).
86 Ibid., libro II, val. II, pp. 60-61.
B7 Si riconsideri, da quest'ottica, un passo burckhardtiano già citato: «I principi d'Italia
non si limitano, come i loro contemporanei del nord, a trattare esclusivamente con una
nobiltà la quale si crede essere l'unica classe degna di considerazione a questo mondo e
trascina anche il principe in questo errore: in ltalia il regnante può e deve conoscere
ognuno» (La civiltà del Rinascimento in Italia cit., p. 42).
88 Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia cit., libro II, val. II, p. 52.
89 Ibid., voi. III, Inediti, p. 505.
90
Ibid., p. 507.
91 Il testo gramsciano è qui riportato alla nota 77.
92 G. Getto, La corte estense luogo d'incontro di una civiltà letteraria, 1953; ora in Lettera-
tura e critica nel tempo, Marzorati, Milano 1968, pp. 325-57; la citazione alle pp. 327-28.