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CENNI STORICI
Cirò è un comune italiano di 2 936 abitanti della provincia di Crotone, in Calabria. Fino al 1952 ha avuto come
frazione Cirò Marina.
I rilevanti reperti archeologici emersi, in specie, resti di armi , manufatti, mura e tombe, risalenti ad un periodo
compreso tra il XIII e X sec. a.c. ,venute alla luce nelle contrade "Cozzo Leone", "S. Elia" e "Serra Sanguigna",
fanno risalire l'origine della storia millenaria di Cirò, all'eta del Bronzo.
Ma è tra il VII e VI sec. a.c., con l'arrivo di coloni greci, verosimilmente crotoniati, che venne intensamente
popolato e fortificato l'antichissimo e preesistente centro italico, dando così vita alla città magno-greca di
[Psycròn] originariamente e in un secondo momento Krimisa (Crimisa o Crimissa).
Secondo il mito sarebbe stata fondata da Filottete: nella mitologia greca era un eroe che ottenne in premio da
Eracle l’arco e le frecce avvelenate con cui partì per Troia a capo di sette navi. Dopo la guerra di Troia,
scacciato dalla patria a seguito di una insurrezione, giunse in terra di Enotria e fondò le colonie Petelia,
Macalla, Krimisa (Cirò Marina) e Chone, odierna Cirò. Prima di morire, consacrò il suo arco e le frecce ad
Apollo, facendo costruire un tempio a Krimisa, il tempio di Apollo Aleo, sito in Punta Alice.
Durante le guerre puniche la città di Krimisa fu predata e saccheggiata ad opera dei Romani e dei Cartaginesi
e distrutta diverse volte durante le guerre greco-gotiche.
A causa di tali devastazioni e saccheggi, la città, nella parte costiera, fu gradualmente abbandonata al suo
destino e gli abitanti si rifugiarono sulle colline che rappresentavano un'ottima posizione strategica,
contribuendo, così, a ripopolare il nucleo antichissimo dell'attuale cittadina di Cirò.
STEMMA DI CIRO’
Cirò ha per stemma 3 monti verdi in campo azzurro. I monti alludono alla posizione del nostro paese che è tra
colli alberati. Nel centro, che sta ad indicare il colle sul quale Cirò fu costruita, è posata una gru che becca col
rostro ed immobilizza con la zampa un serpente nero screziato. Il serpente raffigura i saraceni e i turchi che
per secoli hanno tormentato la popolazione cirotana. La gru simbolo della vigilanza, invece, allude al popolo
di Crimissa-Paterno che, dopo avere abbandonato le pianure marittime, è salito sui colli dove continua,
appunto, a vigilare.
Pervigilat pede denota l' accortezza della gru che valicando il mare tiene in branca un sassolino che allora si
lascia scappare quando deve scandagliar sito fermo ove poter posarsi.
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DA VISITARE
La struttura dell'attuale centro antico è stata in buona parte disegnata agli inizi del Cin-quecento per opera dei
feudatari Carafa, i quali costruirono una cinta muraria con quattro porte: Mavilia, Scezzari, Cacovia, Falcone.
Quella principale era la porta Mavilia, che si trovava all'inizio dell'attuale corso Lilio (oggi rimane un
frammento dell'arco demolito). La seconda è detta Scezzari perché vi si sarebbe svolto uno scontro, in epoca
non precisata, con soldati svizzeri (si trova in via Casoppero). La terza detta Cacovia si trova nel rione Valle,
mentre l'ultima, la porta Falcone, di cui non rimane traccia, sorgeva nella parte bassa del paese, dove abitava
la comunità ebraica. L'abitato (sulla cresta di un colle) si estende dal rione Portello (il più antico di Cirò) al
rione Cannone; corso Lilio lo attraversa tutto. Sulla piazza principale si affaccia il castello Carafa e la chiesa
matrice di S. Maria de Plateis.
LE PORTE DI CIRO’
Lungo la cinta muraria che circondava l'antico abitato di Cirò, si aprivano quattro porte: porta Mavilia, porta
Scezzari, porta Cacovìa e porta Falcone.
PORTA MAVILIA: La Porta Mavilia, di cui rimangono frammenti dell'arco demolito, era la principale porta
di accesso al paese e sorgeva ove ha inizio l'attuale Corso Lilio. Nella parte interna, coperta a lamia, vi erano
dipinti i Santi protettori: San Francesco di Paola e Sant'Antonio; all'esterno vi erano raffigurati lo stemma del
Sovrano al centro, quello del Feudatario a destra e quello della Università (Comune) a sinistra.
PORTA SCEZZARI: La seconda porta, ubicata lungo via Casopero di fronte al palazzo Teti, prende il nome
dai soldati svizzeri detti volgarmente “scezzari” che, dopo avere cinto d'assedio il paese per lungo tempo, alla
fine vi irruppero. Si accese allora una violenta mischia ed i cittadini respinsero dall'abitato con veemenza i
nemici che si dettero a precipitosa fuga da tale porta. Sul prospetto esterno della porta vi erano dipinti gli
stemmi del Re e del Feudatario. Su quello interno lo Spirito Santo, San Rocco, San Leonardo, San Francesco
di Paola, Sant'Antonio e la Concezione.
PORTA CACOVÌA: è ubicata alla fine di via Dante Alighieri, a 50 m dall’inizio del borgo antico, nel rione
Valle. Prende il nome dalla stretta e malagevole strada che bisognava percorrere per giungervi. Infatti, sono
ancora visibili sulla porta due iscrizioni: una greca in mattone cotto, l'altra in latino su pietra. Una in relazione
alla cattiva e malagevole strada per giungervi, l'altra all'amenità (attrattiva, bellezza) del sito, da non cambiarsi
con altro.
Della quarta porta, quella di Falcone, che sorgeva nella parte più bassa del paese, un tempo abitata dagli Ebrei,
purtroppo non rimane alcuna traccia, essendo stata completamente demolita. Nella parte interna, coperta a
lamia, vi erano raffigurati San Francesco e Sant'Antonio.
Le porte, nei secoli bui, venivano vigilate di giorno e di notte dai soldati che le sbarravano nei momenti di
pericolo. Non sempre i difensori riuscivano a fermare i nemici che a volte irrompevano nel paese e, dopo averlo
saccheggiato, ritornavano carichi di preda alle navi che issavano i verdi vessilli.
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BASTIONE CANNONE
All’interno del sistema di difesa va citato sicuramente anche il bastione Cannone, l’antico bastione di guardia
medievale. E’ tra i pochi monumenti dell’architettura medievale del 1400 (XV secolo), rimasti in Calabria e
per la sua rara forma pentagonale ha un grande valore nazionale.
Strategica la posizione del bastione che occupa uno dei punti più alti del borgo. Proprio questa posizione
permetteva a Cirò di difendersi dagli attacchi dei barbari, prevedendone l’arrivo e difendendosi in caso di
arrivo imprevisto. Presente sul luogo c’è anche l’antico cannone utilizzato per la difesa.
CASTELLO CARAFA
Pare che il maniero fu edificato, almeno il piano terra, nel 1496 dal Conte Andrea Carafa, ma fu il nipote
Galeotto a far costruire tutto intorno il muro di cinta che lo avrebbe protetto dalle incursioni Saracene.
La costruzione del Castello Carafa risale al 1496, quando Andrea Carafa, conte di Santa Severina e feudatario
di Cirò, volle completare l’opera del precedente feudatario.
Il castello è situato nel centro cittadino e domina Cirò con la sua struttura. Venne costruito affinché Andrea
Carafa potesse trovarvi riparo in occasione delle frequenti guerre tra feudatari e Re e potesse resistere
all’interno in caso di incursioni barbariche.
Il castello presenta una forma trapezoidale e ai quattro vertici ci sono delle torri circolari. Esso è suddiviso in
tre livelli - parti, di cui una sotterranea e due fuori terra: il piano magazzini ed il piano superiore. Entrando vi
si trova un androne che ha una sua storia per avervi trovato la morte il 10 giugno 1707 il sacerdote don Giacomo
Casopero e sua sorella Albinia mentre tentavano di rifugiarsi nel castello e scampare ai Saraceni che avevano
invaso l’abitato. Per loro sfortuna, la catena del ponte levatoio si ruppe, ed i malcapitati, raggiunti, furono
trucidati.
Dall’androne di entra nell’ampio cortile intorno al quale c’è il piano superiore con due grandi appartamenti e
altre camere per la servitù.
Il lastricato del cortile, interamente costruito con pietra locale, presenta uno schema geometrico: una stella a
nove punte inscritta in un cerchio.
Attorno al cortile vi sono invece magazzini e stalle. Il piano sotterraneo si presenta come un labirinto al quale
si accede ad una porta che immette in una scala di passaggio, ora murata per preservare il luogo da atti
vandalici.
Questi ambienti sotterranei hanno sempre suscitato nel popolo un timore reverenziale. La tradizione narra di
corridoi segreti, prigioni lugubri, trabocchetti sparsi all’interno delle vie sotterranee ed un passaggio segreto
che collegava il castello con il Palazzo Sabatini che dista circa 10 km.
Il castello subì nel corso dei secoli, vari passaggi di proprietà da un barone ad un altro.
Nel 1526, morto senza eredi diretti a Napoli Andrea Carafa, gli successe il nipote Galeotto, figlio di Cola, il
quale venne ad abitare nel castello con la moglie la principessa Deianira d’Aquino. A Galeotto successero altri
due feudatari: Raffaele de Mari e Pino Spinola. Nel 1545 divenne signore di Cirò Pirro Antonio di Abenante,
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signore di Calopezzati. Successivamente fu venduto a Don Giovanni Vincenzo Spinelli, la cui famiglia ne ebbe
il possesso per due secoli fino alla sua ultima erede Mariantonia Spinelli.
Nel 1842 fu venduto per espropriazione forzata all’asta pubblica e acquistato dalla famiglia Giglio, che tuttora
lo possiede. Nel 1735 fu ospite del castello Re Carlo III di Borbone accompagnato dal principe Orsini, nipote
del papa regnate. Ci fu anche Lelio Carafa dei conti di Matalone che accompagnavano il Re a Palermo per
ricevere a corona di re di Sicilia. Ciò può far intendere quanto sia stato importante e attivo il Castello in quel
periodo.
POLO MUSEALE
E’ istituito il POLO CULTURALE a seguito del deposito dei beni storico archeologici provenienti
prevalentemente dal territorio relativo al comune di CIRO’ e i comuni limitrofi. Esso ha la sua prima sede a
Cirò Via Arenacchio, IL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO, di proprietà comunale, ristrutturato
appositamente a fini mussali CON FONDI PON SICUREZZA. Resta intesa la facoltà di individuazione di sedi
e/o sezioni distaccate in forma continuativa o temporanea. E’ altresì, istituito il MUSEO DEL VINO E DELLA
CIVILTA’ CONTADINA, a seguito del deposito di beni e macchinari di epoca utilizzati per la lavorazione e
la trasformazione del prodotto vitivinicolo, nonché altri beni e suppellettili della civiltà contadina Cirotana.
Esso ha la sua sede nell’ex Palazzo Storico appartenente alla famiglia Zito, oggi di proprietà Comunale sito in
Piazza della Repubblica, appositamente ristrutturato ed adeguato alle esigenze mussali con fondi Comunitari.
E’ stato istituito a seguito del deposito dei beni storico archeologici provenienti prevalentemente dal territorio
relativo al comune di CIRO’ e i comuni limitrofi.
Esso ha la sua sede a Cirò in Via Arenacchio ed è stato inaugurato il 18 dicembre 2009.
Il Museo – realizzato grazie ai fondi comunitari del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza del
Mezzogiorno d’Italia all’interno di un edificio demaniale sequestrato alla criminalità organizzata, e concepito
secondo moderni principi allestitivi - è stato progettato con la partecipazione del Ministero dell’Interno, del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, del Ministero
dell’Economia e Finanze e del Comune di Cirò.
Presso un Palazzo nobiliare del XVIII sec., realizzato grazie ai fondi comunitari del Programma Operativo
Nazionale per la Sicurezza del Mezzogiorno d’Italia, sorge la seconda parte del Polo Museale di Cirò.
Al piano terra propone un viaggio nella civiltà contadina attraverso usi, costumi, immagini e attrezzi di un
tempo con il Museo dell’Arte Contadina. Al primo piano il Museo Astronomico Aloysius Lilius rende
omaggio al padre della riforma del calendario Gregoriano: Luigi Lilio (vero nome, Aloysius Lilius), medico
di Cirò che ideò la riforma del calendario promulgata da Papa Gregorio XIII (da cui prese il nome) nel 1582.
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E’ stato istituito a seguito del deposito di beni macchinari di epoca utilizzati per la lavorazione e la
trasformazione del prodotto vitivinicolo, nonché altri beni e suppellettili della civiltà contadina Cirotana.
Esso ha la sua sede nell’ex Palazzo Storico appartenente alla famiglia Zito, oggi di proprietà Comunale sito in
Piazza della Repubblica, appositamente ristrutturato ed adeguato alle esigenze mussali con fondi Comunitari.
Il Cirò è un vino DOC, è il primo vino calabrese ad avere la Denominazione di Origine Controllata dal 1969.
Prodotto nei comuni di Cirò e Cirò Marina e in parte nei territori di Melissa e Crucoli nelle varianti:
• Cirò bianco
• Cirò rosato
• Cirò rosso
La storia del vino Cirò ha inizio nell'VIII secolo a.C. quando alcuni coloni giunti dalla Grecia approdarono sul
litorale di Punta Alice e fondarono Krimisa. La sua origine è legata alla leggenda di Filottete il quale, al ritorno
da Troia, consacrò le frecce donategli da Eracle nel santuario di Apollo Aleo.
“Krimisa”è il nome che probabilmente deriva da quello di una colonia greca, Cremissa, dove sorgeva un
importante tempio dedicato al dio del vino, Bacco. Si dice che il “Krimisa” (o Cremissa) fosse, nell’antichità,
il “vino ufficiale” delle Olimpiadi. Dall'antichità ad oggi, il Vino Cirò ha sempre goduto fama di essere dotato
di virtù terapeutiche. Infatti più di un medico garantiva che il Cirò è un "sicuro cordiale per chi vuole recuperare
le forze dopo una lunga malattia" ed inoltre è "tonico opulento e maestoso per la vecchiaia umana che vuole
coronarsi di verde ancora per anni".
La storia del vino Ciro', risale quindi ai primi sbarchi dei coloni greci sulle coste Calabresi, ove rimasero
talmente impressionati della fertilita' di questi vigneti che gli diedero il nome di "Enotria", "terra dove si coltiva
la vite alta da terra" e questo nome venne poi esteso in tutta Italia. I greci seppero dare un grande valore a
questi vigneti dicendo che un appezzamento di terra coltivata a vite valeva per sei volte un campo di cereali,
infatti alcuni tipi di vite presenti sul suolo Calabrese e in qualche zona dell'Italia si presume siano di origine
greca, come ad esempio il gaglioppo, il mantonico ed il greco bianco. Le due localita' Calabresi, Crotone e
Sibari situate lungo la costa jonica avevano una particolare importanza dopo aver dato origine alla produzione
del "Krimisa" antenato dell'attuale Ciro', che divento', il "Krimisa", il vino ufficiale dell' Olimpiade e
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probabilmente è stato il primo esempio di sponsor secondo l'attuale definizione. Lo stesso Milone di Crotone,
vincitore di ben sei olimpiadi, pare fosse un grande estimatore di questo vino che per tradizione veniva offerto
agli atleti che tornavano vincitori dalle gare olimpiche. La tradizione è stata riportata in auge alle Olimpiade
di Città del Messico nel 1968 dove tutti gli atleti partecipanti hanno avuto la possibilità di gustare il Cirò come
vino ufficiale, fra l'altro Cremissa era anche il nome della colonia greca, sede di un imponente tempio dedicato
a Bacco, situata più o meno dove oggi c'è Cirò Marina.
Talmente tanta era all'epoca, l'importanza della produzione del vino Ciro', che sembra addirittura fossero stati
costruiti degli "enodotti" con tubi in terra cotta che partivano dalle colline di Sibari fino ad arrivare al porto
dove il vino veniva direttamente imbarcato, per abbreviare cosi' tutte le operazioni di trasporto. Oggi il vino
Ciro' viene esportato in tutto il mondo, conosciuto per le sue grandi qualita'. In particolare il Cirò rosso, con
una gradazione di 13,5 gradi, può addirittura portare la qualifica di "Riserva".
Museo Astronomico dedicato ad Aloysius Lilius e la mostra bibliografica permanente multimediale ‘‘Visioni
Celesti - Aloysius Lilius e la Scienza degli Astri’’ realizzata a cura della Biblioteca Nazionale Centrale di
Roma, è situato al I piano del Palazzo dei Musei di Cirò.
E’ stato inaugurato il 18 GIUGNO 2010 dallo scienziato Prof. Antonino Zichichi, Professore Emerito di
Fisica Superiore all’Università di Bologna e Presidente della World Federation of Scientists.
Museo Astronomico dedicato ad Aloysius Lilius e la mostra bibliografica permanente multimediale ‘‘Visioni
Celesti - Aloysius Lilius e la Scienza degli Astri’’ realizzata a cura della Biblioteca Nazionale Centrale di
Roma, è situato al I piano del Palazzo dei Musei di Cirò.
E’ stato inaugurato il 18 GIUGNO 2010 dallo scienziato Prof. Antonino Zichichi, Professore Emerito di
Fisica Superiore all’Università di Bologna e Presidente della World Federation of Scientists.
Luigi Lilio nacque nel 1510 a Psycròn, Cirò, un ricco feudo che faceva parte della Calabria Latina. Cirò, nel
XVI secolo, fu signoria della potente famiglia dei Carafa della Spina che comprarono il feudo dalla famiglia
Ruffo. I Carafa dominarono il paese dal 1496 fino al 1540, quando il feudo fu ipotecato a favore di Spiuola
Genonese. Nel 1543 Cirò passò agli Abenante e infine nel 1569 agli Spinelli i quali governarono il feudo fino
all’abolizione.
I dati biografici di Luigi Lilio sono incerti perché i registri anagrafici dell’archivio comunale di Cirò risalgono
al 1809, mentre quelli parrocchiali, che sono i più antichi, risalgono al Seicento. Infatti, fu allora che i parroci
iniziarono a registrare gli atti di nascita, battesimo, cresima e morte come stabilito dal Concilio di Trento (1545
– 1563).
Luigi Lilio ebbe almeno un fratello, Antonio, con cui condivise l’interesse per gli studi scientifici. Sono poche
le vicende note della sua esistenza, tanto che in passato ne è stata persino messa in dubbio l'origine calabrese.
Per dissipare ogni dubbio che Cirò dette i natali a Luigi Lilio, è sufficiente leggere quanto scrisse nel 1603
Cristoforo Clavio (gesuita, matematico e astronomo tedesco) e membro della commissione istituita da
Gregorio XIII per studiare la riforma del calendario:
“E magari fosse ancora vivo Aloysius Lilius di Cirò uomo più che degno di immortalità,
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Hypsichronaeus citato da Clavio significa da Cirò o cirotano, perché Hypsichròn, classicamente Psychròn, nel
1500 era il nome da cui è derivata la parola Cirò: Ypsicròn, Psicrò, Psigrò, Zigrò, Zirò, Cirre, Cire, Cirò.
Altra prova inconfutabile che Cirò dette i natali a Lilio è fornita dall’umanista Giano Teseo Casopero nella
lettera che nel 1535 scrive all’amico Girolamo Tigano in cui indica tra le famiglie primarie di Cirò la famiglia
Giglio e, ancora, in un’altra lettera che invia allo stesso Luigi Lilio nella quale lo prega di porgere un saluto ai
compaesani che dimoravano in Napoli.
Nulla è noto delle condizioni sociali della sua famiglia di origine di cui si è persa ogni traccia. Secondo la
tradizione Lilio ricevette a Cirò una solida educazione umanistica da Giano Teseo Casopero, ma molto
probabilmente iniziò gli studi sotto la guida dello zio materno di Casopero, il decano Antonio Spoletino, dotto
umanista, canonico in S. Maria de Plateis.
Solo supposizioni possono essere fatte per gli anni della prima gioventù, poiché le uniche notizie certe
risalgono agli anni Trenta del 1500. Dalla lettera sopra citata, datata 28 gennaio 1532, a lui indirizzata da Giano
Teseo Casopero, si apprende che Lilio non era più in Calabria, ma a Napoli, dove stava conducendo degli studi
superiori di medicina.
Nella Città partenopea era al servizio dei Carafa, non essendo sufficienti le sostanze paterne per sostenersi agli
studi. Appresa la notizia, Casopero, che evidentemente aveva avuto modo di apprezzarne le precoci doti
scientifiche, gli inviò una lettera nella quale, con tono garbato ma deciso, ammonisce Lilio e gli consiglia di
dedicarsi solo agli studi.
La lettera, datata Psycrò, V Kalendas februarii MDXXXII (28 gennaio 1532), rappresenta uno dei due soli
documenti che attestano l’esistenza in vita di Luigi Lilio. Vi si legge:
“Non approvo affatto o Luigi, che tu faccia e l’uomo di studi e l’uomo di corte. Infatti l’animo occupato a due
cariche non può adempirne alcuna. Ma, se tu costretto dalla necessità insuperabile imprendesti di servire
nell’Aula Baronale, perché le sostanze paterne non basterebbero a sostentarti per attendere unicamente alle
lettere, sii cauto a non inciampare nelle reti della seduzione per non avertene tardi a pentire, e fa di tutto per
sottrarti quanto più presto puoi dagli amplessi di lei; poiché non potrai giammai dall’Aula ritrarre vira
felicità, ed il tempo che nella stessa consumerai sarà perduto, e non potrai più rinfrancarlo. Sarà tua cura
dare esca agli uomini e scoprire sempre qualcosa di nuovo, in modo che, col favore di Mercurio, tu possa
procurarti alquanto denaro e vendere a buon prezzo l’arte tua, essendo padrone di te stesso; ciò che ridonderà
in tua gran lode e gloria, come colui che occupato onestamente vivrà o con niuno, o col minimo dispendio del
tuo patrimonio famigliare. Conservati e porgi da parte mia, un saluto a tutti i nostri compaesani che dimorano
a Napoli. Da Psycro 28 gennaio 1532”.
Lilio a Napoli si trovò a studiare in una realtà molto stimolante. In quegli anni (1532 - 1540) nella città
partenopea si trovavano poeti e studiosi calabresi di notevole spessore culturale, accomunati dall’amore per i
classici.
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La maggior parte di essi proveniva dalla celebre scuola cosentina del Parrasio (scrittore, filosofo e umanista
cosentino) e frequentavano la splendida Villa Leucopetra (VILLA NOVA), edificata nel 1520 da Bernardino
Martirano (VEDI CASOPERO). La Villa, sede di una vera e propria Accademia, raccoglieva i migliori ingegni
dell’Italia meridionale, che ebbero a Napoli e a Roma un notevole ruolo nella vita politica, civile e religiosa.
Della presenza di Luigi a Napoli, in assenza di fonti documentarie, si possono fare solo ipotesi. Non è rimasta
traccia di Luigi e Antonio Lilio nemmeno nei registri dell’Università di Napoli perché nella prima metà del
Cinquecento all’Università di Napoli si accedeva senza obblighi di matricola e di frequenza. Soltanto nel 1562
il governo spagnolo ordinò di tenere un registro delle matricole.
Conseguita la laurea in medicina, Luigi Lilio si trasferisce a Roma dove, con l’esperienza scientifica maturata
a Napoli, concepì e maturò la riforma del calendario. Probabilmente gli spianarono la strada verso la capitale
dello Stato Pontificio le conoscenze che aveva acquisito nella Villa Leucopetra, oppure un ruolo decisivo fu
svolto da 1Guglielmo Sirleto che si trovava a Napoli negli stessi anni in cui vi dimorava Lilio.
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Guglielmo Sirleto
Nacque nel 1514 a Stilo in Calabria. All’età di 18 anni si trasferì a Napoli dove soggiornò fino al 1539
creandosi una solida reputazione di studioso. Si recò quindi a Roma dove entrò in contatto con le grandi
famiglie romane, quali i Carafa e i Farnese. L’incontro con il cardinale Marcello Cervini (1501 – 1555), di
nobile famiglia toscana, in seguito divenuto papa col nome di Marcello II, fu per lui decisivo. Il Cardinale lo
accolse al suo servizio affidandogli l’istruzione dei nipoti e nel 1554 lo fece nominare custode della Biblioteca
Vaticana.
S. Carlo Borromeo, Marcello II e Paolo IV ne proposero l’elezione papale per ben tre volte ma la candidatura
di Sirleto non ebbe successo perché i tempi non richiedevano un papa dotto, ma un uomo forte, pragmatico e
capace di difendere la Chiesa dalle minacce dei protestanti e dei Turchi”.
Sirleto ebbe una grandissima influenza sui lavori per la riforma del calendario condotta dalla Commissione
istituita da Gregorio XIII. Fu un vero mecenate dei suoi conterranei ed è ragionevole supporre che fu egli a
convincere Lilio a trasferirsi a Roma, dove lo introdusse negli alti ambienti ecclesiastici.
In mancanza di documenti certi non sappiamo nulla della vita di Lilio a Roma, al contrario, sappiamo che Lilio
nel 1552 si trovava a Perugia.
“Il piano che è alla base del calendario civile gregoriano fu escogitato non da Clavio o da un altro membro
della Commissione, ma da un professore di Medicina dell’Università di Perugia, che purtroppo non visse
abbastanza per vedere realizzato il suo progetto. Si chiamava Luigi Lilio latinizzato in Aloysius Lilius”.
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Sebbene nessun atto dell’Università di Perugia dimostri che Lilio sia stato docente a Perugia, una lettera
autografa datata 25 settembre 1552 e indirizzata dal cardinale toscano Marcello Cervini (futuro papa Marcello
II) a Guglielmo Sirleto, attesta che in quel periodo "messer Aluigi Gigli" era lettore di medicina presso lo
Studio perugino.
Al fine di garantire a Lilio un aumento di stipendio, che sarebbe stato concesso ai migliori lettori dello Studio,
il cardinale Marcello Cervini pregava Guglielmo Sirleto di intervenire personalmente presso il cardinale senese
Girolamo Dandini, potente esponente della Chiesa.
Diversi storici, hanno male interpretato la lettera, riferendo che Marcello Cervini interviene affinché Lilio
abbia un aumento di stipendio, lasciando intendere la scarsità di risorse economiche dello studioso. In verità
Cervini, informato della possibilità che ai migliori studiosi dell’Università sarebbe stato concesso un aumento
del compenso percepito, segnala Lilio come persona meritevole di questa concessione.
Le due lettere riportate: quella firmata da Giano Teseo Casopero e quest’ultima da Marcello Cervini, sono gli
unici documenti che riportano notizie certe sulla vita dello scienziato cirotano. In assenza di queste due lettere
si potrebbe persino affermare che Lilio non sia mai esistito se non nell’immaginazione di suo fratello Antonio.
Anche gli ultimi anni della vita di Luigi Lilio sono un mistero. Sappiamo soltanto che morì, in data imprecisata,
prima dell’attuazione della riforma, lasciando al fratello Antonio la cura di divulgare il suo lavoro. Si può
affermare che, con buone probabilità, la morte lo colse prima del 1574, anno in cui non era certamente in vita.
Infatti, è nel 1574 che Alessandro Piccolomini (letterato e astronomo di Siena) ebbe modo di farsi illustrare
l'ipotesi di riforma non da Luigi, ma da Antonio. Questa circostanza induce a pensare che Luigi fosse già
morto, ma non sappiamo dove perché la sua tomba non è stata mai trovata.
Dopo la chiusura del Concilio di Trento ( 1545-1563), dal quale uscì una cristianità purtroppo non più unita in
una sola fede, che aveva affrontato anche il problema della riforma del calendario ma, per la sua complessità,
i padri conciliari decisero di delegare la soluzione del problema alla Santa Sede, la svolta decisiva per avviare
la riforma del calendario, si ha il 14 maggio 1572 quando venne eletto papa Ugo Boncompagni di Bologna
con il nome di Gregorio XIII. Il papa, avendo premura di riformare il vecchio calendario giuliano, in vigore
dal 46 a.C., nominò una commissione, un’équipe di studiosi, col mandato di redigere un progetto di riforma
del calendario.
L’anno solare di 365 giorni e di 6 ore trascurava 11 minuti e 14 secondi che a distanza di due secoli portava
ad un errore di due giorni, infatti l’equinozio di primavera cadeva il 23 marzo anziché il 21 e quest’errore
creava confusione nel fissare le date delle feste religiose mobili. La Pasqua è una festività cosiddetta mobile:
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la sua data varia di anno in anno perché è correlata con il ciclo lunare. Ma l'osservazione diretta della luna
piena può dar luogo a errori (specie in caso di maltempo) e non si poteva prevedere in anticipo!
La Pasqua era così festeggiata a volte 5, a volte 8, fino a 35 giorni in ritardo rispetto a quanto stabilito dai
decreti dei Padri Conciliari. Il fatto che la Pasqua non fosse celebrata poi nel giorno dell’anno
astronomicamente corrispondente alla Resurrezione di Cristo poneva serie preoccupazioni alla Chiesa che,
avvertiva il pericolo di controversie e ulteriori scismi come era già successo in passato.
La cosa non passò inosservata soprattutto quando attorno al 1320, cominciarono a diffondersi gli orologi
meccanici con pesi e lancette e i vistosi errori del calendario così divennero noti a un maggior numero di
persone. La Chiesa si convinse che era ormai necessario porvi rimedio. Se ne occupò così papa Giovanni
XXIII, se ne parlò nel Concilio di Basilea (1436) e nel Quinto Concilio Laterano a Roma (1512), ma se ne
occupò anche papa Leone (1450-1533) però non si giunse ad una valida conclusione. Bisognava arrivare al
Concilio di Trento, iniziato da Paolo III nel 1545 per affrontare con più urgenza il problema, fino ad arrivare
a Gregorio XIII.
La data di inizio dei lavori della Commissione incaricata da Gregorio XIII, non è nota con esattezza. Cristoforo
Clavio, professore del Collegio Romano, afferma nella sua Explicatio, che i lavori della Commissione durarono
dieci anni. Se il 1585 è l’anno conclusivo dell’attività della Commissione, poiché in quell’anno muoiono
Sirleto e Gregorio XIII, si può affermare che essa è stata istituita nel 1575. Se invece consideriamo il 1582
come anno finale dei lavori, perché in quell’anno viene firmata la bolla Inter gravissimas 1, la Commissione è
stata costituita nel 1572.
La commissione, presieduta dal cardinale Guglielmo Sirleto, era composta da altri otto membri:
Tutti appartenevano al clero, tranne Antonio Lilio. Inoltre, fra i rappresentanti della Commissione, non figura
Luigi Lilio perché non più in vita.
La Commissione esaminò diversi progetti di riforma presentati dall’astronomo Pietro Pitati di Verona, Basilio
e Antonio Lupi di Firenze, da Giustino Ristori, e dall’astronomo veronese Giovanni Padovani. Ma queste
proposte furono respinte e l’attenzione si concentrò su un ingegnoso progetto di riforma del calendario che era
stato elaborato da Luigi Lilio.
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Del manoscritto di Luigi Lilio, purtroppo non resta alcuna traccia, ma ci rimane comunque un breve opuscolo
pubblicato dalla Commissione il 5 gennaio 1578, intitolato COMPENDIUM NOVAE RATIONIS
RESTITUENDI KALENDARIUM, ovvero una sintesi della soluzione di Lilio.
Il Compendium venne stampato a Roma nel 1577 a cura del cardinale Guglielmo Sirleto e numerose copie
furono inviate ai Principi cristiani e alle Università e Accademie più importanti con l’invito di esaminarlo,
correggerlo o approvarlo. Così è scritto nelle prime pagine del Compendium:
“Nonostante nel sacro Concilio di Trento la correzione del Breviario e del Messale fosse stata riservata al
pontefice romano, e fel. ric. Pio V nonostante si fosse preoccupato che ciò fosse portato a termine con la più
grande diligenza possibile negli anni precedenti e nonostante lo avesse pubblicato, tuttavia quel lavoro non
sembrò completo e terminato in tutte le sue parti se non si fosse aggiunta anche la riforma dell’anno e del
Calendario ecclesiastico. Dunque mentre Gregorio XIII con tutto l’animo e la mente si applicò a quell’attività,
gli fu portato il libro scritto da Luigi Lilio, che sembrava proporre una via e un modo di portare a termine
quella cosa né scomodo né difficile. Ma poiché quella correzione del Calendario comporta molte e grandi
difficoltà e ormai da lungo tempo è richiesta con insistenza da tutti gli uomini buoni, spesso considerata e
molto incitata da matematici dottissimi, tuttavia ancora non si è potuta assolutamente risolvere e portare a
termine, al prudentissimo pontefice sembrò opportuno che si dovessero consultare riguardo a quella cosa tutti
gli uomini più esperti di questa scienza affinché la cosa, che è comune a tutti, fosse condotta a termine anche
col parere comune di tutti. E perciò aveva pensato di mandare quel libro a tutti i principi cristiani affichè gli
stessi, chiamati i matematici più esperti, lo comprovassero o secondo il suo parere o, se sembrava mancare
qualcosa, lo sciogliessero del tutto o lo limassero. Non appena si troverà in qualche luogo un qualche modo
più adatto, cosa che non dispera, vogliate comunicarcelo. Ma dato che il libro non è ancora stampato (...)
stimò che fosse sufficiente, messe da parte tutte le altre cose, di indicare brevemente soltanto i punti principali,
che massimamente contengono il fatto e la spiegazione”.
Il Compendium venne ritenuto a lungo perduto. Merito di averlo scoperto nel 1975 è dello storico della scienza
Thomas Settle del Polytechnic Institute di New York che lo segnalò nel 1981 allo storico tedesco Gordon
Moyer, il quale, in un articolo pubblicato sulla rivista “Le Scienze” del 1982, annunciò la clamorosa scoperta.
Il Compendium, custodito nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, era inserito in un volume che
conteneva alcuni documenti sulla riforma ed era catalogato come opera di autore anonimo, anche se nelle
prime righe del testo è chiaro il riferimento all’autore “il libro scritto da Luigi Lilio”.
Dopo la segnalazione di Settle furono poi ritrovati altri esemplari nella Biblioteca Marucelliana e nella
Biblioteca Nazionale Centrale a Firenze, nella Biblioteca degli Intronati a Siena e nella Biblioteca Vaticana a
Roma.
Recentemente, Francesco Vizza(ricercatore, professore ed ora presidente onorario del museo) ha rinvenuto
una copia del manoscritto del Compendium in italiano e si trova in un fascicolo del 1670, appartenuto al
Senatore Carlo di Tommaso Strozzi (1587-1670), che raccoglie vari manoscritti ed è custodito nella Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze.
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Bolla inter gravissimas
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Il progetto di Luigi Lilio, presentato dal fratello Antonio, fu valutato dalla Commissione e infine approvato
nel marzo del 1582, con la Bolla Inter Gravissimas, firmata dallo stesso pontefice.
La ragione addotta dalla Chiesa, a sostegno delle proposte di Lilio è esposta da Gregorio XIII nella bolla Inter
gravissimas, bolla pontificia o papale (comunicazione ufficiale in forma scritta emanata dalla Curia romana
con il sigillo del Papa) nella quale si pose fine all'utilizzo del calendario giuliano in molte parti d'Europa,
sostituendolo con il maggiormente preciso calendario gregoriano.
La bolla recita:
“Per ciò che esige una corretta riforma del calendario, essa fu da tempo tentata dai nostri predecessori; ma
non si è potuto finora portarla al termine, perché i progetti di riforma del calendario, che gli esperti dei moti
celesti hanno proposto, per le grandi e inestricabili difficoltà che questa riforma ha sempre presentato, non
erano validi in perpetuo né lasciavano intatti, cosa che bisogna curare più di tutto, gli antichi riti ecclesiastici.
E mentre noi stessi, forti dell’autorità che a noi, benché indegni, è stata data da Dio, ci occupavamo di questa
preoccupazione, dal caro figlio Antonio Lilio, dottore di scienza e medicina, ci è stato dato il libro che il suo
defunto fratello Luigi aveva scritto, in cui, per mezzo del ciclo dell’epatta da lui inventato, e in relazione
diretta col numero d’oro, e adattato alla durata di qualunque anno solare, ha mostrato che tutti i difetti del
calendario possono essere corretti con un rapporto costante valido per tutti i secoli, in modo che il calendario
non sia soggetto a nessun altro cambiamento nel futuro”.
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Il giorno Sexto Calend. Martij Anno Incarnationis Dominae M.D.LXXXI, corrispondente al 24 febbraio 1582
del nostro calendario, Gregorio XIII nella Villa Mondragone firmò la bolla Inter gravissimas. Il 1° marzo 1582
il testo venne affisso alle porte della Basilica di S. Pietro, alle porte della Cancelleria Vaticana e nella piazza
Campo dei Fiori.
Romani calendarij a Gregorio XIII P.M. restituti explicatio. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. (SALA
LILIO)
Antonio Lilio svolse un ruolo da protagonista promuovendo ed esponendo dettagliatamente alla Commissione
il lavoro del fratello Luigi. Ma Antonio non si limitò solo a questo: egli infatti, collaborò attivamente alla
riforma, scrivendola insieme al fratello Luigi, come si legge dalle parole del vescovo senese Alessandro
Piccolomini:
"...molto spesso ebbi modo di parlare con l'esimio dott. Antonio Lilio, fratello di Aloisio Lilio; uomo anch'egli
assai esperto in questo tipo di studi; proprio questi fu suo socio nella composizione del libro in cui è contenuta
la nuova forma di calendario. Certamente del libro di lui questo compendio è stato fatto, trasmesso a noi dalla
tua serenissima altezza...”.
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Con il Breve papale (documento pontificio meno solenne della bolla papale), il 3 aprile 1582 papa Gregorio
XIII, per ricompensa del lavoro svolto, concede al Antonio Lilio per dieci anni i diritti di pubblicazione del
nuovo calendario.
Nel “Lunario Novo secondo la nuova riforma” (SALA LILIO) stampato nel 1582 da Vincenzo Accolti, uno
dei primi esemplari di calendari stampati in Roma dopo la riforma (ora custodito nell’Archivio segreto del
Vaticano) si osserva in calce la firma autografa di Antonio Lilio e l’autorizzazione pontificia “Con licentia
delli Superiori…et permissu Ant(oni) Lilij”.
Il Breve papale (SALA LILIO) venne successivamente revocato dal papa il 20 settembre 1582 per ritardi nelle
consegne, non essendo Antonio in grado di far fronte alla crescente richiesta di copie che gli pervenivano. Tolti
i diritti ad Antonio la stampa divenne libera.
Il 3 Aprile 1582 papa Gregorio XIII per ricompensa del lavoro svolto concede ad Antonio Lilio per dieci
anni i diritti di pubblicazione del nuovo calendario. Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.
Una testimonianza significativa del ruolo svolto da Antonio è la sua immagine scolpita nel bassorilievo del
monumento dedicato a Gregorio XIII situato nella basilica di San Pietro nel quale Antonio Lilio, genuflesso,
porge al pontefice il libro del nuovo calendario.
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Raffigurazione di Antonio che porge al Pontefice il libro del calendario. Scolpito da Camillo Rusconi nel
1723.
Archivio di Stato Siena. Tempera su tavola, cm 52,4 × 67,8. Il dipinto, di autore sconosciuto, rappresenta
Gregorio XIII che, assiso in trono, presiede la commissione del calendario.
La Biccherna, attiva dal secolo XII fino al 1786, fu una delle principali magistrature finanziarie della
Repubblica di Siena. Dal nome della magistratura senese, si chiamarono a Siena le tavolette dipinte con scene
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religiose, civili, ritratti, con le quali si rilegavano i libri dei conti. Ogni tavoletta è datata e spazia dal XIII al
XVII secolo. Si tratta di una serie di eccezionale valore documentario sulla storia e l'urbanistica cittadina, oltre
al pregio artistico dei dipinti in sé, opera di pittori senesi, talvolta tra i maggiori. Solo 124 tavolette e la n°72
è quella raffigurante la commissione di Gregorio XIII e Antonio Lilio che è intento a mostrare la riforma del
fratello Luigi.
Il calendario giuliano è un calendario solare, cioè basato sul ciclo delle stagioni. Fu elaborato dall'astronomo
greco Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare (da cui prende il nome), nella sua qualità di
pontefice massimo, nell'anno 46 a.C.
La riforma giuliana, in sostanza, riprendeva il calendario egizio (calendario composto da tre stagioni di quattro
mesi di 30 giorni ciascuno, per un totale, quindi, di 360 giorni) e fissava l'inizio dell'anno il 1° gennaio, mentre
prima era il 1° marzo (infatti i mesi di quintile – oggi luglio –, sestile – agosto –, settembre, ottobre, novembre
e dicembre derivavano i loro nomi dall'essere rispettivamente il quinto, sesto, settimo, ottavo, nono e decimo
mese dell'anno).
I nomi dei mesi del calendario giuliano sono quelli derivanti dall'antico calendario romano, con alcune
modifiche introdotte dagli imperatori:
1. Ianuarius: mese dedicato a Ianus (Giano), dio bifronte, che segnava simbolicamente il passaggio
dall'anno precedente a quello successivo. Inoltre Ianua in latino significa "porta", altro riferimento al
cambiamento dell'anno.
2. Februarius: deriva dalla parola sabina februa che significa "purificazione", in questo mese si
praticava la purificazione dei campi prima che venissero coltivati.
3. Martius: mese dedicato a Marte, dio della guerra.
4. Aprilis: deriva dall'etrusco Apru, cioè Afrodite, la dea greca e, prima ancora, fenicia: dea della forza
vitale, sotterranea, che induce le gemme a fiorire.
5. Maius: dedicato a Maia, dea della fertilità, in questo mese si praticava un rituale mirato alla fertilità
dei campi.
6. Iunius: dedicato alla dea Iuno, cioè Giunone.
7. Iulius: dedicato a Giulio Cesare.
8. Augustus: dedicato all'imperatore Ottaviano Augusto.
9. September: settimo mese dell'antico calendario di Romolo che vedeva marzo come primo mese.
10. October: ottavo mese del calendario di Romolo.
11. November: nono mese del calendario di Romolo.
12. December: decimo mese del calendario di Romolo.
Nel calendario giuliano si utilizzano gli anni bisestili per compensare il fatto che la durata dell'anno tropico (o
anno solare) NON è data da un numero intero di giorni. Il giorno in più si aggiunge dopo il 24 febbraio (sexto
die ante Calendas Martias nella lingua latina). Va ricordato che i romani avevano l'abitudine di contare i giorni
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mensili sottraendoli a determinate festività, come le Idi e le Calende, contando anche il giorno di partenza;
quindi tra il 24 febbraio e il 1º marzo (che coincide con le Calende di marzo) ci sono appunto sei giorni (24-
25-26-27-28-1).
Negli anni bisestili, con febbraio di 29 giorni, il giorno 24, che era "sexto die", sarebbe diventato "septimo
die". Ma dato che "septimo die" era il giorno 23, non potendo chiamare il 24 "septimo die" lo chiamarono "bis
sexto die". Di qui il nome di "anno bisestile".
Sosigene stabilì che un anno ogni quattro fosse bisestile: in questo modo la durata media dell'anno giuliano
risultava di 365,25 giorni. L’anno tropico era invece di 365,24231 giorni. La differenza tra l’anno giuliano e
quello topico risulta essere così di soli 11 minuti e 14 secondi circa (365,25 – 364,24231), una precisione molto
accurata per l'epoca.
Per questo motivo nel 1582 fu introdotto il calendario gregoriano, che riduce l'errore a soli 26 secondi (un
giorno ogni 3.323 anni circa). Secondo il calendario giuliano, dopo la nascita di Cristo, sono bisestili gli anni
il cui numero è divisibile per 4. Prima di Cristo, invece, non esisteva una regola fissa. Il primo anno bisestile
fu il 45 a.C.. Per compensare gli errori accumulati in passato e riportare l'equinozio primaverile al 25 marzo,
era però necessario introdurre 85 giorni. Allo scopo furono aggiunti due mesi fra novembre e dicembre all'anno
precedente, uno di 33 giorni e l'altro di 34; motivo per cui il 46 a.C., durato 445 giorni, fu soprannominato
annus confusionis ("l'anno della confusione").
Questa confusione ebbe varie ripercussioni nei successivi 50 anni fino a circa l'8 a.C., infatti, dopo la morte di
Giulio Cesare nel 44 a.C., fu Augusto nell'8 a.C. a sistemare l'errore ordinando che per un certo numero di anni
non ci fossero più anni bisestili.
ANNI BISESTILI
Veniva stabilito che degli anni secolari (anni terminati con due o più zeri)tre fossero comuni e uno BISESTILE.
Il criterio per riconoscere gli anni bisestili consisteva nel dividere l’indice secolare (ottenuto dalle date
togliendo gli ultimi due zeri) per 4; se il quoziente ottenuto era esatto, l’anno era bisestile, altrimenti no.
Esempio: consideriamo il 1900, il cui indice secolare è 19 e calcoliamo 19 : 4 = 4 con resto 3; poiché il 19
non è divisibile per 4, l’anno considerato non è bisestile.
Esempio: consideriamo il 2000, il cui indice secolare è 20 e calcoliamo 20 : 4 = 5; il quoziente è esatto e
pertanto tale anno è bisestile.
Per gli altri anni (non secolari), bastava dividere per 4 tutto il numero o soltanto le ultime due cifre a destra;
l’anno è bisestile se non si ottiene il resto nella divisione.
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Esempio: 2017 : 4 = 504, 25 oppure 17 : 4 = 4, 25 quindi il 2017 non è bisestile. Lo è stato il 2016 e lo sarà
il 2020.
“Bisogna ridurre l’equinozio di primavera al ventunesimo giorno di marzo, dove senza dubbio capitava al
tempo del Concilio di Nicea; infatti per questo motivo i limiti pasquali saranno gli stessi, e niente cambierà
nel Breviario o nel Messale. Poi ciò accadrà in maniera oltremodo opportuna grazie al calcolo nello stesso
tempo di 10 giorni di un solo anno, infatti è stato osservato in tanti giorni dal Concilio di Nicea fino ai nostri
tempi che l’equinozio ha prevenuto la propria sede, poiché è retrocesso dal ventunesimo giorno di marzo
all’undicesimo dello stesso mese. Quei dieci giorni poi con minore danno siano stimati dal mese di ottobre del
1581, e quello potrà dirsi anno della correzione, invero il 1582 che segue si chiami il primo anno corretto, in
cui anche negli anni futuri gli equinozi e i solstizi e un solo giorno di festa saranno stabili e mobili negli stessi
giorni, che ebbero al tempo del Concilio di Nicea. Affinché d’altra parte i giorni di festa siano celebrati
secondo il rito nell’anno della correzione, bisogna portare a termine il Calendario preciso di quell’anno, in
cui manchino 10 giorni del mese di ottobre. Se questa decisione del sommo pontefice tanto presto forse non
potesse giungere alle Indie da poco scoperte, che la correzione avvenga nell’anno 1581, si disponga un
calendario conveniente a quell’anno, in cui tale correzione potrà accadere in maniera opportuna presso gli
Indiani”.
Si stabilì quindi che l’equinozio di primavera cadeva in una data fissa e certa, il 21 marzo, e questo consentiva
di determinare con precisione la data della Pasqua.
QUALE REGOLA?
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Verso la fine del V secolo a.C., l’astronomo greco Metone scoprì che 235 lunazioni (mesi lunari) fanno quasi
esattamente 19 anni solari. Per tale ragione, dopo un ciclo di 19 anni (detto CICLO METONICO o ciclo
lunare) le fasi della Luna corrispondono esattamente agli stessi giorni dell'anno solare. Esso permette quindi
di mantenere un calendario sincronizzato sia al corso del Sole che della Luna (calendario lunisolare). Metone
divise poi la serie dei tempi in 19 anni e a ciascun anno di ogni periodo associò un numero naturale che va
dall’1 al 19, detto NUMERO AUREO (Numero d’Oro) che corrisponde quindi al numero dell’anno nel ciclo
lunare in corso.
Nel ciclo Metonico ad ogni numero d’oro veniva associata un’EPATTA, i cui valori possibili erano solo 19
mentre le lunazioni si compiono alternativamente ogni 29 e 30 giorni.
Ecco perché Lilio decide di rivedere il ciclo Metonico ed attribuisce all’epatta non più valore 19 ma 30 come
valori possibili, allo scopo di definire le posizioni delle lune nuove per ogni mese dell’anno. Dalla conoscenza
dell’epatta, e quindi dalla conoscenza delle lune nuove per ogni mese, si risale al plenilunio pasquale ed infine
alla data della Pasqua.
Sapendo che l’epatta è 3, poiché l’ultima Luna Nuova del 2016 è stata il 28 dicembre e da questa data al 31
dicembre ci sono 3 giorni, basterà fare questi calcoli:
30 (valore dell’epatta dato da Lilio) – 3 = 27 , 27 marzo è il giorno che precederà il novilunio (infatti il 28
marzo 2017 avremo Luna Nuova .
al giorno 27 si aggiungono 14 giorni, quindi 27 + 14 = il 10 aprile (giorno prima del’11 marzo: primo giorno
di plenilunio dopo il 21 marzo, equinozio di primavera)
si individua la domenica immediatamente seguente al 10 Aprile, che è il 16 Aprile che sarà il giorno di Pasqua.
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31 – 18 = 13 (epatta)
30 – 13 = 17 marzo (Novilunio)
IN SINTESI:
Con la riforma liliana furono:
1. eliminati dieci giorni dal calendario giuliano e solo gli anni secolari divisibili per quattro rimasero
bisestili.
2. Il ciclo Metonico per la determinazione della Pasqua venne invece sostituito con il ciclo delle epatte.
3. Da allora le date dell’equinozio di primavera e le date della Pasqua saranno sincronizzate per altri 5
miliardi di anni.
RICORDA:
I valori più attendibili dell’anno tropico noti a Lilio erano l’anno alfonsino, l’anno di Copernico e l’anno di
Reinhold. Lilio NON prese come riferimento l’anno copernicano, più lungo di quello alfonsino di 13 secondi,
né l’anno di Reinhold che era addirittura circa 7 minuti più lungo dei primi due, ma scelse come riferimento
l’ANNO ALFONSINO, come era esplicitamente riportato nel Compendium, nella relazione della
commissione e da Clavio nel suo “Romani calendarij a Gregorio XIII”P. M.
NUMERI DECIMALI
Molto probabilmente, Lilio riuscì a rappresentare la durata media dell’anno tropico alfonsino sotto forma di
numero decimale. In Europa la prima trattazione sistematica delle frazioni decimali risale al 1582 ad opera del
matematico olandese Stevin. L’uso della virgola, che rende completa la numerazione posizionale dei numeri
decimali, viene invece attribuita all’astrologo, astronomo e matematico padovano Giovanni Magini (1555-
1617) che la introduce nel suo De planis triangulis, oppure a Cristoforo Clavio che la riporta in una tavola dei
seni nel 1593. L’approvazione della riforma dovuta a Lilio è antecedente, anche se di poco, alle suddette
pubblicazioni
Per ANNO SIDERALE si intende l’effettivo periodo di rivoluzione della terra attorno al sole. Esso
corrisponde all’intervallo di tempo che passa tra i due ritorni consecutivi del sole nella stessa posizione rispetto
alle stelle. Tale intervallo di tempo è di 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 10 secondi.
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L’ANNO SOLARE invece, è il tempo che intercorre tra due passaggi successivi del sole allo zenit dello
stesso tropico, e cioè tra due solstizi con lo stesso nome (o tra due equinozi dello stesso nome). La durata
dell’anno solare è influenzata dal fenomeno della precessione lunisolare. A causa di questa precessione, gli
equinozi ed i solstizi si verificano ogni anno un po' prima che la terra abbia completato la sua rivoluzione
attorno al sole. Per questa ragione, l’anno solare è un po' più breve di quello sidereo: dura 365 giorni, 5 ore,
48 minuti e 46 secondi.
Generalmente quando si parla di anno, si fa riferimento a quello solare, ma dato che la sua durata non
corrisponde a un numero intero di giorni, si è resa necessaria l’introduzione dell’ANNO CIVILE, di 365 giorni
esatti, su cui si basano i calendari.
Per tenere conto delle 6 ore scarse in più non contate, ogni 4 anni tocca aggiungere un giorno, per convenzione
il 29 febbraio, e si avrà l’anno bisestile. Fu Giulio Cesare a introdurre nel 45 a.C. un calendario del genere, che
prese il nome di calendario giuliano.
Ma aggiungere un giorno ogni 4 anni è come dire 6 ore ogni anno, e si è visto in realtà che l’anno solare dura
di meno: 5 ore, 48 minuti e 46 secondi (11 minuti in meno delle 6 ore). Così, come ulteriore bilanciamento, si
decise che gli anni secolari (1200, 1300, 1400, 1500 ecc..) non siano bisestili, a meno che la cifra che precede
gli ultimi due zeri non sia divisibile per 4.
Il calendario così organizzato fu introdotto nel 1577 dal Papa Gregorio XIII e si chiama pertanto calendario
gregoriano.
EQUINOZIO e SOLSTIZIO
EQUINOZIO: (dal latino aequinoctium, ovvero «notte uguale, cioè periodo notturno uguale a quello diurno)
è quel momento della rivoluzione terrestre intorno al Sole in cui quest'ultimo si trova allo zenit (punto di
intersezione) dell'equatore. Abbiamo 2 equinozi annuali: 20 MARZO e 22 SETTEMBRE.
SOLSTIZIO: (dal latino solstitium, composto da sol-, "Sole" e -sistere, "fermarsi") è il momento in cui il sole
raggiunge, nel suo moto apparente lungo l'eclittica, il punto di declinazione massima o minima.[1] Questo
significa che i solstizi di estate e di inverno rappresentano rispettivamente il giorno più lungo e più corto
dell'anno. Saranno il 20/21 GIUGNO e 21/22 DICEMBRE.
Vincenzo Miotti
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La necessità per l’uomo di misurare fin dalle origini i fenomeni astronomici a lui più familiari, come il
succedersi del giorno e della notte o l’avvicendarsi delle stagioni, lo spinse ad ideare e realizzare apposite
strumentazioni concettualmente molto evolute e valide ancora oggi.
Un posto particolare è occupato da un determinato tipo di orologi, quelli solari, comunemente noti come
meridiane. La meridiana è uno strumento di misurazione del tempo basato sul rilevamento della posizione
del Sole. L'ago della meridiana è lo stilo, detto gnomone che, in presenza del sole, proietta ombra e la sua
lunghezza diviene un indice orario.
Numerose opere sono state pubblicate sull’argomento dal ‘500 al ‘600 con testi e stampe che illustrano
meridiane di epoche e tipologie differenti.
Nella sala sono presenti:
il monumentale obelisco-gnomone in Campo Marzio, fulcro dell’orologio solare di Augusto. È uno
dei 13 obelischi di Roma. Dall’Egitto fu portato a Roma da Augusto nel 10 a.C. insieme all’obelisco
Flaminio. Oltre ad esplicare la funzione di orologio solare, l’obelisco era orientato in modo da
proiettare la sua ombra sulla non lontana ARA PACIS (altare della pace dedicato ad Augusto).
Disegni acquerellati di Vincenzo Miotti, che contengono sorprendenti studi su orologi e macchine
astronomiche.
Linea Clementina di Francesco Bianchini nella Basilica di Santa Maria degli Angeli. È una meridiana
fatta costruire da papa Clemente XI con lo scopo di verificare ulteriormente la validità della riforma
gregoriana del calendario.
“albero della vita”, cioè una delle pagine dell’opera ARS MAGNA LUCIS ET OMBRAE di
Athanasius Kircher (1602-1680). È stato un gesuita e storico tedesco del XVII secolo. Kircher fu il
più celebre "decifratore" di geroglifici del suo tempo. Era inoltre affascinato
dalla sinologia (quell'insieme di studi e ricerche che riguarda la cultura cinese) e scrisse
un'enciclopedia della Cina. L'opera di Kircher sulla geologia comprendeva studi su vulcani e fossili.
Tra le prime persone ad osservare microbi attraverso un microscopio, fu talmente in anticipo sul suo
tempo da proporre la tesi che la peste era causata da un microrganismo infettivo.
Due disegni di Ferdinand Verbiest, astronomo, matematico e gesuita che svolse la sua attività in Cina.
Globo celeste di anonimo: il globo celeste, insieme a quello terrestre, nella seconda metà del XVII
secolo figuravano nel Museo creato da Kircher. Sulla sfera appaiono il monogramma dei Gesuiti con
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Dal latino Calendae, -arum (chiamare, convocare), la calenda era il primo giorno di ciascun mese secondo il
"calendario romano": ogni luna nuova scandiva un mese. Il primo giorno di ogni mese, la calenda appunto,
era un giorno importante, non solo perchè consacrato a Giunone i sacerdoti in questo giorno annunciavano la
data delle feste del mese, ma soprattutto era il giorno in cui chi teneva un debito doveva pagarlo. Esisteva
infatti un libro particolare, chiamato Calendarium, dove vi erano elencati debiti e debitori che in quel mese
dovevano saldare i propri conti in sospeso. Quindi possiamo dunque considerare il Calendario inizialmente
come un "libro dei conti".
La misurazione del tempo è stata fin dall’antichità, un problema legato sia al moto dei corpi celesti che alle
coordinate religiose culturali degli uomini. È quanto si percepisce dal passaggio dal calendario lunisolare
romano al calendario cristiano. Il primo, anche dopo la riforma di Giulio Cesare del 46 a.C., è basato su una
concezione ciclica del tempo, scandita solo dai giorni fasti e nefasti per le diverse attività lavorative. Invece il
calendario cristiano, pur essendo basato su quello giuliano, è incardinato sulla Pasqua, a sua volta stabilita,
dopo lunghe controversie, alla prima domenica successiva al plenilunio dopo l’equinozio di primavera. In base
a questo, lo schema da adottare era quello di collocare nel Calendario le feste di precetto che il credente era
tenuto obbligatoriamente ad osservare.
Solo con la fine dell’età moderna poi, insieme ad una concezione più laica del tempo, avremo i calendari come
li concepiamo ancora adesso.
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BREVIARIO
Da latino breviarium, estratto, catalogo, sommario. Nacquero a partire dal Medioevo. Il Breviario è un libro
liturgico contenente l'ufficio divino (suddivisione delle ore della giornata dedicate alla preghiera) secondo il
rito romano, che gli ecclesiastici dovevano recitare ogni giorno.
MESSALE
è un libro liturgico contenente tutte le informazioni (testi, orazioni, canti, gli stessi gesti e le rubriche)
necessarie al celebrante per la celebrazione della Messa.
SALTERIO
Il libro biblico che raccoglie i 150 salmi da bisognava recitare nei vari giorni della settimana secondo le ore
canoniche.
MARTIROLOGIO ROMANO
Libro della Chiesa cattolica nel quale sono registrati i nomi e le vicende dei Martiri per la fede e anche dei
Santi della Chiesa. Esso costituisce la base dei calendari liturgici che ogni anno determinano le feste religiose.
Il primo risale al XVI secolo e fu approvato da Papa Gregorio XIII nel 1586.
CARLO SIGONIO
(1520-1585) era uno storico italiano. Fu incaricato da Gregorio XIII di scrivere l’Historiae Ecclesiasticae,
rimaste incompiute.
“Rerum, consolum, dictatorum, ac censorum Romanorum Fasti” è una sua opera filologica.
I Fasti nell’antica Roma erano inizialmente Calendari annuali (Fasti Annales) organizzati dal Pontefice
Massimo, che regolavano la vita dei romani. Fissavano infatti, i giorni in cui era considerato lecito svolgere
attività pubbliche ( dies fasti) e quelli in cui non era possibile (dies nefasti).
a destra: 1) Cristoforo Clavio, Novi Calendari Romani apologia (fatto x giustific. la riforma gregoriana)
2) MANO DEL NUMERO AUREO di Serafino Campora (matematico e astronomo)
3) MANO DELL’EPATTA di Serafino Campora (matematico e astronomo)
4) Salterio con calendario
5) Calendario e Ufficio (preghiera) della Vergine Maria
6) Calendario e Ufficio (preghiera) della Vergine Maria
di fronte: 1) Breviario francescano
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E’ situato al I piano del Palazzo dei Musei di Cirò ed è stato inaugurato il 21 marzo 2015 in occasione della
III Giornata Regionale del Calendario Liliano e finanziato dalla Regione Calabria.
L’ALCHIMIA
L’alchimia è quindi l’arte che permette di liberare parti del Cosmo dell’esistenza temporale e raggiungere la
perfezione che per i metalli è oro, mentre per l’uomo è la longevità, poi l’immortalità e infine la redenzione.
La perfezione materiale è stata ricercata mediante l’azione di un preparato (la Pietra filosofale per i metalli
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Gli alchimisti consideravano i metalli vili e imperfetti, naturalmente predisposti a diventare oro e la loro
azione era finalizzata ad accelerare questo processo mediante la pietra filosofale o elisir.
Le radici teoriche della sperimentazione alchemica risalgono alla teoria dei quattro elementi (aria, acqua,
terra e fuoco), alla teoria umorale, alla tradizione aristotelica e pseudo-aristotelica.
È impossibile dire quando e dove ebbe origine l’alchimia. In ogni caso possiamo dire con esattezza che il
periodo di maggiore diffusione della scienza alchemica si colloca senza dubbio tra il IX e il XVI secolo d.C.
Il termine alchimia deriva dall'arabo al-kīmiyya, composto dell'articolo determinativo al- e della parola
kīmiyya che significa "chimica" e che a sua volta, sembrerebbe discendere dal termine greco khymeia che
significa "fondere", "colare insieme", "saldare", "allegare".
Un'altra etimologia collega la parola con Al Kemi, che significa "l'arte egizia", dato che gli antichi Egiziani
chiamavano la loro terra Kemi ed erano considerati potenti maghi in tutto il mondo antico. Il vocabolo potrebbe
anche derivare da kim-iya, termine cinese che significa "succo per fare l'oro.
L'alchimia è un antico sistema filosofico esoterico che si espresse attraverso il linguaggio di svariate discipline
come la chimica, la fisica, l'astrologia, la metallurgia e la medicina lasciando numerose tracce nella storia
dell'arte.
1. conquistare l'onniscienza, ovvero raggiungere il massimo della conoscenza in tutti i campi della
scienza;
2. creare la panacea universale, un rimedio cioè per curare tutte le malattie,
3. generare e prolungare indefinitamente la vita;
4. la trasmutazione delle sostanze e dei metalli;
5. la ricerca della pietra filosofale.
L'alchimia, oltre ad essere una disciplina fisica e chimica, implicava un'esperienza di crescita o, meglio, un
processo di liberazione spirituale dell'operatore. In quest'ottica la scienza alchemica viene a rappresentare una
conoscenza metafisica e filosofica, assumendo connotati mistici e soteriologici (studio della
salvezza,liberazione da uno stato non desiderato), nel senso che i processi e i simboli alchemici, oltre al
significato materiale, relativo alla trasformazione fisica, possiedono un significato interiore, relativo allo
sviluppo spirituale.
L'alchimia è una scienza esoterica (Esoterismo è il termine con cui si indicano le dottrine di carattere almeno
in parte segreto o riservato. Si contrappone a essoterico o exoterico, parola che indica una conoscenza aperta
a chiunque) il cui primo fine era trasformare il piombo, ovvero ciò che è negativo, in oro, ovvero ciò che è
positivo nell'uomo, per fargli riscoprire la sua vera “natura interna”, il proprio Dio.
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L’alchimista oltre ad avere come obiettivo la trasmutazione dei metalli in oro, si interessava a tutta la
trasmutazione della materia. Essa si presentava con una duplice essenza: una esteriore o essoterica ed una
interiore o esoterica. All’alchimia essoterica si riferiscono i tentativi di preparare una sostanza, la “pietra
filosofale” dotata del potere di trasformare i metalli vili come il piombo, lo stagno, il rame, il ferro e il
mercurio, in metalli preziosi come oro e argento.
L’alchimia si coniugava con attività artigianali ed artistiche di diverso genere quali l’oreficeria, la ceramica,
la lavorazione del vetro, della porcellana e della scultura in porfido (roccia vulcanica).
L’aspetto farmaceutico era assai rilevante, perché la ricerca della trasmutazione si accompagnava alla
ricerca dell’elisir, il farmaco universale al quale si attribuiva il potere di prolungare la vita. L’elisir poteva
purificare non solo i metalli vili in oro, ma anche l’uomo dalle impurità e dunque dalle malattie.
La supposizione che la pietra filosofale o elisir si potesse ottenere soltanto per grazia divina, portò
all’affermazione dell’alchimia esoterica che gradualmente evolve in un sistema mistico, nel quale, la
trasmutazione materialistica dei metalli divenne puramente simbolo della trasmutazione dell’uomo in essere
perfetto. Quindi, l’alchimista che cerca la purificazione della materia, deve compiere un evoluzione culturale
e spirituale per potersi avvicinare alla rivelazione dei segreti.
La trasmutazione dei metalli di base in oro (ad esempio con la pietra filosofale o grande elisir o quintessenza
o pietra dei filosofi o tintura rossa) simboleggia un tentativo di arrivare alla perfezione e superare gli ultimi
confini dell'esistenza. Gli alchimisti credevano che l'intero universo stesse tendendo verso uno stato di
perfezione, e l'oro, per la sua intrinseca natura di incorruttibilità, era considerato la sostanza che più si
avvicinava alla perfezione. Era anche logico pensare che riuscendo a svelare il segreto dell'immutabilità
dell'oro si sarebbe ottenuta la chiave per vincere le malattie ed il decadimento organico.
IMPORTANTE:
È da sottolineare che l’alchimia, tranne qualche caso isolato, è sempre stata esente da pratiche di magia nera
ed il livello morale degli alchimisti è sempre stato molto alto.
Per comprendere l'alchimia, bisogna considerare come la conversione di una sostanza in un'altra, veniva
spiegata, in una cultura poco interessata agli aspetti puramente materiali della fisica e della chimica, come un
elemento concatenato ad una dimensione simbolica o filosofica.
Gli alchimisti cercavano di nascondersi, di rendersi occulti usando allegorie (cioè qualcosa di astratto che viene
espresso attraverso un'immagine concreta) per preservare le loro conoscenze da quanti erano ancora
impreparati a comprenderle e risultavano perciò esposti al pericolo di farne un cattivo uso.
Gli alchimisti, fin dalle origini, si servirono di tutte le possibili espressioni allegoriche per “proteggere” con
un linguaggio oscuro i loro segreti. I primi simboli ad essere usati furono quelli che rappresentavano i quattro
elementi e i sette metalli. La loro fantasia arrivò al punto tale da rappresentare i processi alchemici con
animali reali e fantastici, figure prese dall’antica mitologia e dalle sacre scritture, disegni geometrici,
anagrammi, alfabeti segreti e persino formule matematiche.
L’alchimia è stata caratterizzata dunque, da un linguaggio simbolico che esprime in immagini e colori (rosso,
bianco, giallo e nero) le metamorfosi delle sostanze che avvengono nell’alambicco, nel forno e nel crogiuolo.
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PIETRA FILOSOFALE
La pietra filosofale o pietra dei filosofi (in latino: lapis philosophorum) è, per eccellenza, la
sostanza principale, simbolo dell'alchimia, capace di risanare la corruzione della materia.
La pietra filosofale sarebbe dotata di tre proprietà straordinarie:
1. fornire un elisir di lunga vita in grado di conferire l'immortalità, costituendo la panacea universale per
qualsiasi malattia;
2.
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3. far acquisire l'onniscienza, ovvero la conoscenza assoluta del passato e del futuro, del bene e del male,
secondo un'accezione che contribuisce a spiegare l'attributo di "filosofale";
4.
5. la possibilità infine di trasmutare in oro i metalli vili, proprietà che ha colpito maggiormente l'avidità
popolare.
Il "triplo potere" della pietra filosofale avrebbe radici profonde; essendo considerato l'oro un metallo
"immortale", capire come produrlo a partire da metalli vili significa comprendere come rendere immortale un
corpo mortale. L'oro inoltre è simile alla luce che è simile allo spirito. Trasformare tutti i metalli in oro significa
quindi trasformare la materialità in spirito.
Per Platone, tutti gli elementi dell’ universo risultavano essere composti della stessa sostanza aurea (etere,
quintessenza) primordiale, identica in ognuno di essi ma presente in proporzioni diverse. Per riportarli alla loro
purezza originaria appariva lecito variare tali proporzioni con l'intervento di un agente catalizzatore.
Quell'etere, o «quintessenza», era secondo gli alchimisti il composto principale della pietra filosofale, la cui
maggiore o minore presenza era ciò che determinava appunto la varietà e le mutazioni della materia.
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La fontana mercuriale
La complessa simbologia della Fontana mercuriale illustra, con le immagini e le scritte, il rapporto tra la
materia e i metalli, e le trasformazioni necessarie per ottenere la Pietra Filosofale o l’Elisir: la sua valenza di
farmaco è richiamata dalle tre figure di dottori in filosofia naturale e in medicina nella parte superiore della
miniatura. [Miniatura di Girolamo di Cremona, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale].
STORIA DELL’ALCHIMIA:
L'alchimista musulmano Jabir ibn Hayyan analizzò ciascuno dei quattro elementi aristotelici
(fuoco, acqua, terra, aria) nei termini delle quattro qualità di base: caldo, freddo, secco e umido.
Teorizzò inoltre che ogni metallo fosse una combinazione di questi quattro principi, contrapposti a coppie, e
spesso presenti in quantità più o meno variabile. L'oro, il più perfetto, scaturiva da una loro sintesi armonica.
Le dottrine alchemiche elaborate dagli Arabi, si diffusero in seguito attraverso la Spagna permeando
il Medioevo cristiano: la pietra filosofale venne allora assimilata a Cristo, disceso tra gli uomini nel mondo
della materia per trasmutarla attraverso la sua Morte e Risurrezione, e consentire la rinascita spirituale
dell'umanità.
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Attraverso queste operazioni la "materia prima", mescolata con lo zolfo ed il mercurio e scaldata nella
fornace, si trasformerebbe gradualmente, passando attraverso vari stadi, contraddistinti dal colore assunto
dalla materia durante la trasmutazione.
Il numero di queste fasi, variabile da tre a dodici a seconda degli autori di trattati alchimistici, è legato al
significato magico dei numeri.
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SIMBOLI ALCHEMICI
L'universo alchemico è pervaso di simboli. Così per esempio l'oro e l'argento acquisiscono nell'iconografia
alchemica i tratti simbolici del Sole e della Luna, della luce e delle tenebre e del principio maschile e femminile,
che si uniscono nella coniunctio oppositorum (unione degli opposti) della Grande Opera (rebis o rebis
alchemico: dal latino res bis «cosa doppia», è un termine alchemico usato per indicare il risultato di un
matrimonio alchemico e designa la pietra filosofale, intesa come unione degli opposti.
Gli elementi cosmici avevano grande importanza non solo per la loro influenza sui processi alchemici, ma
anche per il parallelismo che li legava agli elementi naturali, in base al principio analogico dell'ermetismo
secondo cui «ciò che sta in basso è come ciò che sta in alto.
SIMBOLI ASTROLOGICI:
Tradizionalmente, ognuno dei sette corpi celesti del sistema solare conosciuti dagli antichi era associato con
un determinato metallo.
Avremo quindi:
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Saturno ( ), Piombo
SIMBOLI ANIMALI:
Nelle illustrazioni dei trattati medievali e di epoca rinascimentale compaiono spesso figure animali e
fantastiche. I tre principali stadi attraverso i quali la materia si trasformava, la nigredo, l'albedo e la rubedo
erano rispettivamente simboleggiati dal corvo, dal cigno e dalla fenice. Quest'ultima, per la sua capacità di
rinascere dalle proprie ceneri, incarna il principio che «nulla si crea e nulla si distrugge», tema centrale della
speculazione alchimistica. Era inoltre sempre la fenice a deporre l'uovo cosmico, che a sua volta raffigurava il
contenitore in cui era posta la sostanza da trasformare.
Anche il serpente ouroboros, che si mangia la coda, ricorre spesso nelle raffigurazioni delle opere alchemiche,
in quanto simbolo della ciclicità del tempo e dell'"Uno il Tutto" ("En to Pan").
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UOVO FILOSOFICO
1
Albero dei Selphiroth o albero della vita: costituisce l’insieme degli insegnamenti della Cabala Ebraica
(insieme degli insegnamenti esoterici e mistici dell’ebraismo rabbinico). È un diagramma astratto e simbolico,
costituito da 10 entità, disposte su 3 pilastri verticali paralleli. Le 10 Sefirot sono collegate da 22 canali. I 3
pilastri verticali corrispondono alle 3 vie che ogni uomo ha davanti: l’amore (a destra), la forza (a sinistra) e
la compassione (al centro).
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Alla fine del XIII secolo l'alchimia si sviluppò in un sistema strutturato di credenze, grazie alle opere di
Raimondo Lullo (1235-1315), che divenne presto una leggenda per la sua presunta abilità alchemica.
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ERMETE TRISMEGISTO
Ermete Trismegisto (“il tre volte grande”) è un personaggio leggendario di età pre-classica, venerato come
maestro di sapienza e ritenuto l'autore del Corpus hermeticum. A lui è attribuita la fondazione di quella corrente
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Il teologo minorita e alchimista, Giano Lacinio nasce a Cirò tra il 1502 e il 1505. All’età di 10 anni entra come
semplice oblato (colui che nel Medioevo era consacrato a Dio fin dall’infanzia) nel Convento dei Minori
Conventuali di San Francesco d’Assisi di Cirò, dove compie i primi studi di grammatica. A 16 anni fu ammesso
al noviziato e dopo 9 anni di impegnativi studi di logica, filosofia, metafisica e teologia, all’età di 24 anni, fu
ordinato sacerdote.
In virtù delle sue particolari doti intellettuali, fu inviato nel Collegio Teologico del Convento del Santo di
Padova, dove divenne baccelliere (studente che aveva conseguito il primo grado accademico, inferiore a quello
di maestro o professore) di sentenziario, baccelliere biblico e il dottorato in Sacra Teologia. In seguito Lacinio
divenne professore e reggente e insegnò per altri 9 anni Studi di Teologia. Dopo 27 anni di studio e
insegnamento, ottenne il Magistero dell’Ordine. Non sappiamo dove e quando morì.
Giano Lacinio è una figura importante del ‘500 poiché pubblica una raccolta di testi alchemici di personaggi
come Michele Scoto, Raimondo Rullo, Petro Bono, Arnaldo da Villanova e Alberto Magno, autori di rilievo
della storia dell’Alchimia. L’opera, dal titolo “Pretiosa Margarita Novella de Thesauro, ac Praeciosissimo
Phylosophorum Lapide, Artis, Huius Divine Thypus et Methodus: Collectanea ex Arnaldo, Raymundo, Rhasi,
Alberto et Michaele Scoto”, fu stampata a Venezia nel 1546. Il libro è dedicato a Mercurio, al Sole e a tutti i
saggi che amano la virtù e la verità. La fortuna e l’importanza dell’opera di Lacinio, è testimoniata dalle varie
edizioni stampate nell’arco di quattro secoli: nel 1546 e nel 1557 a Venezia, nel 1554 a Norimberga, nel 1714
a Lipsia e nel 1894 a Londra. Altre edizioni che si richiamano all’opera di Lacinio sono poi stampate a Basilea,
a Mömpelgard e a Strasburgo.
Nel 2015, a cura di Francesco Vizza, è stata pubblicata la prima traduzione in italiano dell’opera con titolo
“La Nuova Perla Preziosa – un trattato sul tesoro e sulla pietra più preziosa dei filosofi”.
Lacinio riprende un concetto caro agli alchimisti francescani medievali: l’arte alchemica si fonde su una
profonda ispirazione divina. Essendo francescano, egli considera l’alchimia una visione generale del cosmo
che diventa una lode al Creatore. In questo contesto, la ricerca della Pietra Filosofale, non è un mezzo per
accumulare ricchezze, ma lo strumento per il rinnovamento dell’anima. L’alchimia riproposta da Lacinio, detta
un progetto di redenzione universale, di elevazione spirituale, in cui i metalli diventano simbolo di un
perfezionamento dell’uomo attraverso la Fede. La conoscenza dei segreti della natura deve servire ad alleviare
le sofferenze dei poveri: “il sapere e il fare al servizio dell’uomo”.
Egli utilizza un linguaggio allegorico che si basa sulla contrapposizione morte –resurrezione della materia,
secondo la visione cristiana della redenzione dell’uomo.
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Nell’atrio: Zolfo e Mercurio, i due componenti fondamentali della materia. Le tre cinte murarie simboleggiano
le tre fasi dell’Opera che comincia in primavera con il segno zodiacale dell’Ariete e il corpo morto in
putrefazione (opera al nero). Nella seconda cinta muraria, sotto il segno del Leone, si ha l’unione dello spirito
e anima (opera la bianco), mentre in dicembre sotto il segno del Sagittario, nasce il rosso e indistruttibile corpo
spirituale, l’Elisir o oro potabile dell’eterna giovinezza (opera al rosso). [Giano Lacinio, Norimberga, 1577-
1583].
Le immagini dalla n. 1 alla n. 7 rappresentano i sette metalli in forma di alberi: oro, argento, ferro, mercurio,
rame, stagno e piombo.
IMMAGINE n° 1
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IMMAGINE n° 2
IMMAGINE n° 3
Il secondo albero è
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IMMAGINE n° 4
Il terzo albero è
IMMAGINE n° 5
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IMMAGINE n° 6
IMMAGINE n° 7
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IMMAGINE n° 8
Le immagini dalla n. 9 alla n. 22 raccontano l’uccisione di un re, trafitto con la spada dal proprio figlio, e la
sua resurrezione dopo che si è unito al figlio stesso nel sepolcro. Il ciclo figurativo descrive le tappe della
trasmutazione alchemica della materia: il re allude all’oro che viene disciolto dal mercurio (il figlio) mediante
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il fuoco (la spada). Dall’unione dell’oro con il mercurio, attraverso le varie fasi del procedimento alchemico
detto “la grande Opera”, nasce l’elisir o pietra filosofale, che può trasformare in oro tutti i metalli vili. Il
sepolcro simboleggia il forno alchemico nel quale avviene la congiunzione dell’oro al mercurio. L’allegoria
delle xilografie si basa sulle dialettica contrapposizione morte – resurrezione della materia, attraverso la
redenzione del corpo umano, secondo la visione cristiana.
IMMAGINE n° 9
Abbiamo qui il re sul trono coronato con l’eccelso diadema,
tendendo in mano lo scettro di tutto il mondo. Davanti a
Sua Maestà ci sta il figlio, con cinque valletti vestiti con
vesti variegate, ed essi pregano in ginocchio il re perché si
degni di concedere il regno al figlio e ai servi. Nulla
risponde il re alle loro preghiere.
SPIEGAZIONE:
Il re simboleggia l’oro, lo scettro rappresenta il dominio e
il potere assoluto su tutto ciò che esiste. Oro in latino
significa “io prego”.
Il figlio rappresenta il mercurio e i cinque servitori i cinque
metalli imputi (argento, rame, ferro, stagno e piombo). I sei
metalli impuri aspirano anch’essi alla perfezione dell’oro,
dunque ad una parte del regno del re.
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IMMAGINE n° 11
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IMMAGINE n° 18 IMMAGINE n° 19
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IMMAGINE n° 20
IMMAGINE n° 21
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IMMAGINE n° 22
ALTRE INFO
Gian Teseo Casopero nasce il 10 aprile 1509 a Cirò (Psychròn), una cittadina della costa ionica poco distante
da Crotone, dal padre Agamennone, discendente di un’antica famiglia del luogo (ma originaria di Lecce), e da
Margherita Spoletino, appartenente ad una nobile famiglia di Spoleto. Teseo è il secondogenito di quattro
fratelli (Donato, Niccolò, Pietro e Pomponio) e di due sorelle (Aurelia e Jacoba). Il nome di “Giano” lo
aggiunse in seguito, seguendo l’esempio di altri celebri umanisti calabresi, come Aulo Giano
Parrasio (Giovanni Paolo Parisio, scrittore, filosofo e umanista cosentino). In particolare, i fratelli sono
ricordati nelle sue opere: Ad Divum Antonium e Sylvae, dove Teseo ricorda che il fratello Niccolò fu ordinato
sacerdote, mentre l’altro fratello, Pietro, si diede al mestiere delle armi, e prestò i suoi servigi presso la corte
del duca di Castrovillari, Ferdinando Spinelli.
Teseo rivela subito di possedere un precoce ingegno e, dietro le cure dello zio materno, esperto di diritto e
molto legato ai membri della famiglia Carafa (signori delle terre circostanti, comprese nelle provincia di
Crotone, che avevano come suo centro il feudo di Santa Severina) fu indirizzato nei suoi primi studi presso
l’umanista Niccolò Salerno, un letterato cosentino che teneva a Rovito una scuola di latino. Teseo ricorderà
più volte nei suoi scritti la figura di questo grande maestro, in particolare nelle Sylvae.
Inizialmente sollecitato dalla famiglia ad intraprendere la carriera giuridica, il giovane Teseo non riuscì a
raggiungere quest’obiettivo se non molti anni più tardi, iscrivendosi, più che venticinquenne, presso
l’università di Padova, date le precarie condizioni economiche in cui versavano i suoi familiari, ma anche per
la grave situazione sociale e politica che investì, nella seconda metà degli anni Venti, a ridosso del Sacco di
Roma (1527), le terre centro-settentrionali del Regnum Italicum.
1526. Dopo la morte di don Andrea Carafa, principe di Santa Severina, si interessarono al giovane Teseo il
nipote del defunto, Galeotto (figlio di Cola Carafa, fratello di Andrea) Ludovico Angeriano (esperto di diritto
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e consulente di Andrea Carafa) e soprattutto Marcantonio Magno (1480-1549, anch’egli segretario del
principe).
In memoria di Andrea Carafa, Casopero, appena diciassettenne, dedicò un’orazione funebre, oggi conservata
presso la Biblioteca Marciana di Venezia. L’orazione funebre risente dell’ingenuità retorica e dell’entusiasmo
del giovane poeta. Da questo momento in poi, comincia a saldarsi un legame di amicizia fra il Casopero e
Marcantonio Magno. A quest’ultimo, Casopero dedicherà il volume delle Sylvae.
Dopo aver trascorso un breve periodo presso Rocca Bernarda, esercitando la professione di insegnante,
Casopero si trova nuovamente a Cirò. Qui resta fino al 1529. Nell’agosto di quest’anno, dopo avere ricevuto
la notizia dell’avvenuta pace fra Francesi e Spagnoli, egli trascorre un altro periodo di studi fra Cirò e Santa
Severina, in compagnia del conterraneo Luigi Lilio.
Nel settembre del 1532, Casopero decide di recarsi a Roma, cercando in un primo momento l’appoggio di un
altro intellettuale cosentino, Francesco Franchini (umanista e poeta). Il viaggio a Roma però non diede molti
frutti, così, egli si traferisce a Napoli, trovando protezione presso i fratelli Martirano (Bernardino e Coriolano,
umanisti e poeti cosentini), che in quel tempo stavano allestendo i lavori di costruzione e abbellimento della
sontuosa villa di Leucopetra (villa Nava) sita a Portici. Sempre a Napoli, Casopero incontra Antonio Spoletino,
suo zio materno, che si stava occupando di rilevare Dejanira D’Aquino, promessa sposa di Galeotto Carafa,
per accompagnarla nel feudo di Santa Severina. Lo Spoletino, giunto a Napoli con un corteo di giovani nobili
calabresi, invitò suo nipote di accompagnarlo nel viaggio di ritorno in Calabria. Nell’occasione di questo
viaggio, Teseo potè confidare allo zio le sue antiche ambizioni di frequentare gli studi di diritto. Lo zio
acconsentì, allorché Casopero ripartì da Cirò per raggiungere l’università di Padova nell’ottobre del 1533.
Stabilitosi ormai definitivamente a Padova, Casoperò si preoccupò di dare alle stampe gli scritti poetici e
l’epistolario che nel corso di circa un decennio egli aveva composto.
Degli anni trascorsi a Padova, presso il Collegio Pratense, conosciamo poco, fatta eccezione di quel che si
evince dai suoi carmi ed epigrammi, dalle sue ultime lettere, che restano una testimonianza importante per la
storia dell’università di Padova, e di quel che si ricava dalla sua biografia. Con una certa attendibilità
conosciamo la data in cui conseguì il titolo di dottore in diritto, e cioè nel 1537.
Dopo questa data, non si hanno più notizie di lui, né di suoi eventuali spostamenti (era solito, nei periodi estivi,
recarsi a Venezia), né dell’anno della sua morte.
LUIGI SICILIANI
Luigi Siciliani nacque a Cirò da nobile famiglia il 15 febbraio 1881. Dopo avere studiato nel liceo di Catanzaro
si trasferì al Collegio Nazareno di Roma dove, ancora giovanissimo, iniziò la sua brillante attività letteraria.
Conseguì la laurea in giurisprudenza e quella in lettere.
Si unì in matrimonio con Ermelinda D’Angelo e nel 1907 si trasferì a Milano dove fondò l'Associazione
Nazionalista Italiana1 ed il settimanale interventista "Il Tricolore", grazie al quale esercitò un'attiva propaganda
patriottica.
Accorse volontario allo scoppio della prima guerra mondiale, visse in trincea e dopo aver raggiunto il grado di
capitano di fanteria fu chiamato al Comando supremo e destinato alla propaganda. A lui fu attribuito il
Bollettino della Vittoria del 4 novembre 1918 firmato da Armando Diaz2 . A guerra finita proseguì l'attività
politica nell'Associazione Nazionalista Italiana (che poi si fuse col Partito Nazionale Fascista), partecipò con
Gabriele D'Annunzio, al quale era legato da fraterna amicizia, alla leggendaria Impresa di Fiume3.
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Una preziosa miniera è costituita dalla sua corrispondenza con i letterati più eminenti del suo tempo, tra i quali
Gabriele d'Annunzio4, Giovanni Pascoli5 e Margherita Sarfatti.
1
Associazione Nazionalista Italiana: detta anche Partito Nazionalista - è stata l'espressione politico-
organizzativa del nazionalismo italiano, sorta a Firenze nel dicembre 1910. Nel 1923 confluì nel Partito
Nazionale Fascista (di Mussolini). All'associazione aderirono intellettuali come Gabriele D'Annunzio e
Giovanni Verga.
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Armando Diaz: è stato un generale italiano, capo di stato maggiore del Regio Esercito durante la prima guerra
mondiale, ministro della guerra e maresciallo d'Italia, e nominato Duca della Vittoria alla fine del conflitto.
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Impresa di Fiume: consistette nella ribellione di alcuni reparti del Regio Esercito al fine di occupare la città
adriatica di Fiume, contesa tra l'Italia e il neonato Regno di Jugoslavia. Organizzata da un fronte politico a
prevalenza nazionalista e guidata dal poeta Gabriele d'Annunzio, la spedizione raggiunse Fiume il 12 settembre
1919, proclamandone l'annessione al Regno d'Italia. l'Impresa fiumana raggiunse l'epilogo con l'approvazione
del Trattato di Rapallo (fu un accordo con il quale l'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni stabilirono
consensualmente i confini dei due Regni e le rispettive sovranità). L'opposizione dei dannunziani
all'applicazione del trattato portò il governo Giolitti ad intervenire con la forza, sgombrando Fiume durante le
giornate del Natale 1920.
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Gabriele d’Annunzio: la pioggia nel pineto, canto novo, l’innocente, il trionfo della morte.
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Giovanni Pascoli: “il fanciullino”, la cavalla storna, la mia sera, il gelsomino notturno, lavandare.
NICODEMO DA CIRÒ
Nicodemo da Cirò, o anche Nicodemo di Mammola (Cirò, X secolo – Mammola, 25 marzo 990), fu un monaco
calabrese del X secolo; è venerato come santo dalla Chiesa cattolica.
ul luogo esatto della sua nascita vi sono delle controversie, potrebbe infatti venir identificato con Ypsicron,
attuale Cirò (KR), oppure con la città commerciale (emporion) di Sikron, forse distrutta dai Saraceni durante
le scorrerie dell'emiro Abū l-Qāsim al-Hasan (950-952), di cui si parla nelle biografie di molti santi italo-greci
e che si trovava al centro della Turma delle Saline (circoscrizione amministrativa bizantina), identificata con
l'odierna Sicari o Sicri, contrada disabitata nei pressi di Melicuccà.
Cresciuto a Ypsicron/Sikron, Nicodemo volle intraprendere da giovanissimo la vita monacale, ma il maestro
da lui scelto, Fantino il Giovane che fu anche maestro di Nilo da Rossano, lo rifiutò più volte ritenendolo di
costituzione troppo gracile per la vita di rinunce e macerazioni imposta allora ai monaci. Quando venne
finalmente accettato impressionò i confratelli con la sua continua preghiera, protratta oltre i normali limiti
umani, i patimenti fisici e le esaltazioni mistiche. Costretto a fuggire (così come san Nilo) dal Mercurion (luogo
di studio del Monachesimo) dalle continue incursioni saracene trovò rifugio sul Kellerana (chiamato anche
monte Kellerano o monte Cellerano, oggi monte San Nicodemo, situato nel territorio dell'attuale comune di
Mammola, territorio del Parco nazionale dell'Aspromonte). Allora luogo completamente selvaggio ma nelle
cui vicinanze si trovava la strada della Seja che collegava il Tirreno con lo Ionio, attirando nel tempo, grazie
alla sua fama di santità, numerosi altri asceti e pellegrini, tutto ciò portò alla fondazione di un monastero,
attorno al quale costituì una comunità di monaci basiliani, in cui morì nell'anno 990.
L'insegnamento di san Nicodemo è avvicinabile a quello di san Francesco d'Assisi, infatti i racconti pervenutici
ce lo descrivono mentre difende un lupo dai contadini che lo vogliono uccidere dimostrandone la socievolezza,
impedisce ad un confratello di colpire una vipera in quanto anch'essa "creata da Dio per stare sulla Terra"
oppure in compagnia del cinghiale suo inseparabile compagno. San Fantino che era andato a visitarlo prima di
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ASSOCIAZIONE PRO LOCO LUIGI LILIO
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recarsi in pellegrinaggio in Grecia, alla vista della dura vita ascetica da lui condotta gli pronosticò fama di
santità.
Morì, a 90 anni, un'età ragguardevole per l'epoca.
Nella Chiesa Matrice Matrice di Mammola, nella Cappella di San Nicodemo, sono conservate le pregiate
reliquie in un'urna bronzea, inoltre si trovano nella Cappella, la statua in legno del Santo vestito in abito
basiliano, che viene portata in processione il 12 marzo, e un prezioso busto bronzeo del sec. XVI, di scuola
napoletana, dove all'interno è conservato il cranio del Santo, che viene portato con la statua lignea di angeli,
in processione nei festeggiamenti della prima domenica di Settembre e il sabato antecedente alla Grancia
Basiliana. Di pregio una tela del Santo del XVI secolo, restaurata alla fine del secolo scorso.
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