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Johann Jacob Volkmann: Cenni storico-critici sull’Italia.

[Titolo originale: Historisch-kritische Nachrichten von Italien. Zweyte, viel


vermehrte und durchgehends verbesserte Auflage. Drei Bände.
Caspar Fritsch, Leipzig, 1777-1778. Bd. 3].

Trentaduesimo capitolo

Viaggio da Roma a Spoleto passando per Civita Castellana


e Terni. Una curiosa cascata

Una volta oltrepassato il Ponte Molle, iniziano due strade maestre: una, diretta a
nord-ovest, è l’antica Via Cassia, che arriva a Firenze passando per Viterbo e della
quale ho diffusamente parlato alla fine del primo volume. L’altra, ovvero la Via
Flaminia[1], diretta a nord, giunge a Foligno attraverso Civita Castellana e Spoleto.
Lì torna a dividersi, raggiungendo Firenze via Arezzo oppure, da Foligno,
dirigendosi verso Loreto, Ancona e oltre. È il momento di parlare dei due ultimi
itinerari, e in primo luogo di quello che attraversa Perugia, Cortona e Arezzo il quale,
pur essendo assai poco frequentato dai viaggiatori, presenta parecchie curiosità.
Nelle vicinanze di Rignano, ecco mostrarsi i ruderi dell’antica Via Flaminia: si tratta
di grosse pietre che sono però molto lisce, e dunque disagevoli per i cavalli.
Civita, ovvero Civita Castellana, si trova lungo tale strada: su un monte scosceso, a
trentaquattro miglia da Roma. Nelle rupi, sulle quali sorge la città, sono state scavate
delle grotte che vengono abitate dai poveri. Gli abitanti sono all’incirca tremila. La
città ha una porta in ognuno dei quattro punti cardinali ma, al pari di una penisola, è
unita al monte solo dal lato della cittadella, giacché è circondata per tre lati da
fiumicelli che le scorrono attorno trecento braccia più in basso. Due sfociano nel
terzo, chiamato Treia: il quale, tre miglia più avanti, si getta nel Tevere.
Sull’antico nome della città, gli studiosi continuano a discutere. Alcuni sostengono
che qui sarebbe sorta l’antica Veio, conquistata da romani dopo dieci anni di assedio
condotto da Furio Camillo. I veienti si opposero in maniera tenacissima, per oltre
trecento anni, alla dominazione romana. Gli abitanti [di Civita, N.d.T.] sono molto
orgogliosi dei loro impavidi progenitori, e indicano il luogo, situato nei pressi del
ponte sulla Cremera, ai piedi della città, in cui i veienti uccisero trecento fabi[2].
Altri studiosi sono invece dell’opinione che qui fosse situata l’antica Fescennium, la
capitale dei falisci.
La posizione della città, circondata per tre lati dall’acqua e per il quarto da una
montagna le cui alture appaiono agevolmente difendibili, induce a considerare
probabile che qui sia sorta Veio, e anche che abbia potuto resistere a un assedio così
lungo. Presumibilmente, una volta che i Goti avevano devastato l’Italia, questa
montagna vide la fondazione di una cittadella che diede al centro abitato il nome di
Civita Castellana. Oggi la cittadella è fortificata, e dotata di spesse mura costruite
utilizzando un tipo di tufo che si sfalda facilmente in presenza del gelo. Venne fatta
edificare da Alessandro VI° (che non aveva grande fiducia nel prossimo). Di
conseguenza, c’è pure un palazzo papale. Il pavimento del corpo di guardia è un
mosaico policromo. Attualmente, essendo adibita a carcere, vi sono imprigionati
diversi detenuti politici, sorvegliati da una guarnigione di trenta uomini. Gli spagnoli
vi si insediarono nel 1744, quando si stabilirono nei pressi di Velletri, e resero di
nuovo efficiente l’intero apparato difensivo. L’acqua arriva agli abitanti attraverso
l’alto arco che dalla montagna porta in città.
La torre della cittadella offre una magnifica veduta sulla Sabina. Si vede anche il
castello di Caprarola, distante dodici miglia – di cui ho diffusamente parlato nel
primo volume –, il Monte di S. Oreste, chiamato da sempre Soracte[3], sul quale si
trovano un maniero e alcuni eremi, e infine le gradevoli colline della Sabina, feconde
e ben coltivate. Tra l’altro, si tratta delle stesse colline che ospitano il paese di
Magliano, nei cui dintorni c’è un grosso banco di gusci d’ostrica pietrificati e di altre
conchiglie.
La montagna sulla quale è stata edificata Civita Castellana è di tufo rosso, ricco di
pomici scure che sono a volte così piccole, e a volte così dure quanto un uomo nel
pieno delle forze. A un miglio da qui si trovano le mura in rovina di un’antica città,
che i più ritengono siano quelle dell’antica Falerium. Sono formate da grandi
blocchi, per l’appunto, di tale tufo, che sono stati poi messi l’uno sull’altro senza
malta.
La rupe che sorregge Civita Castellana, verso nord, è unita ai campi da un bel ponte,
i cui pilastri raggiungono un’altezza straordinaria. Lo ha fatto costruire il cardinale
Imperiali, nel 1712 Prefetto del Buon Governo oppure Custode delle Strade. Il fiume
che gli scorre al di sotto si chiama Rio Maggiore, o Remicci.
Dopo aver lasciato Borghetto, si oltrepassa una volta ancora, grazie al bel Ponte
Felice, il Tevere. Esso porta il nome di colui che volle edificarlo: papa Sisto V°. Nei
dintorni di Otricoli, un borgo misero, intere colline sono ricoperte di ciottoli rotondi,
uguali a quelli presenti nei fiumi, nel caso siano stati trasportati a lungo dalla
corrente. Ciò sembra suggerire che qui, un tempo, la configurazione del terreno ha
subito delle grandi trasformazioni. A un miglio da Otricoli, sulla sinistra del Tevere,
si vedono delle rovine, che vengono ritenute quelle dell’antica città sabina di Ocrea o
di Otriculum. Poco più avanti, nei pressi di Calvi, il terreno è calcareo, e quando
piove diventa così fangoso da costringere i battellieri – che portano l’olio a Roma e
fanno trainare le proprie imbarcazioni – a camminare sempre a piedi nudi. La pioggia
provoca, al principio, una tale quantità di polvere calcarea che essi devono fermarsi
un momento e chiudere gli occhi fino a quando tale polvere non si abbassa un po’[4].
È stato Virgilio a descrivere la regione compresa da Otricoli a Viterbo, quando
elenca i luoghi dai quali Messapo raduna i popoli alleati di Turno.

“At Messapus equum domitor, Neptunia proles.


Agmina in arma vocat subito, ferrumque retractat.
Hi Fescenninas acies, aerosque Faliscos
Hi Socratis habent arces, Flaviniaque atva
Et Cimini cum monte lacum, Lucosque Capenos”.[5]
Prima di giungere a Narni, si incontra qualche bella veduta. La strada è di tanto in
tanto molto sassosa, mentre su di un versante appaiono dei veri e propri precipizi.
Una grotta su un monte viene spacciata per la casa del gigante Orlando. È stata
rivestita di ciottoli e pietre calcaree. In qualche punto, attraverso i muri, vi gocciola
dell’acqua, e viene considerata da altri l’antro di una Sibilla.

[1] Che è subito visibile, una volta oltrepassato il Ponte Molle. Ci sono diversi ruderi, che vengono spacciati
per monumenti sepolcrali. Uno dei quali è chiamato “la Guglia”, anche se non somiglia affatto a un obelisco.
[2] Scrive perciò Metastasio nella Morte di Catone:
“E di Cremera l’acque
Di sangue, di sudore bagnati e tinti
Trecento Fabii in un suol giorne estiati”.
[3] “Vides vt alta stet nive candidum
Soracte”. Orazio, I, Od. 9.
Apollo ebbe un appellativo che gli derivò da questa montagna. Vi veniva venerato, e i sacerdoti camminavano
sui carboni ardenti senza procurarsi ustioni. Virg., Eneide, XI. 787; Plin., Storia Naturale, VII, 2.
Il monte ha fornito l’occasione per la nascita del culto di un santo. Un tempo il nome veniva forse scritto
‘S. Oracte’: da ciò, in epoche ingenue, sarebbe nato il culto di un santo, e alla fine proprio di S. Oreste. In
maniera analoga (osserva Mabillon a p. 143 del suo Itinerarii Ital.) avrebbe ben presto avuto origine la
venerazione di un certo S. Viarus perché fu rinvenuta una pietra che recava la scritta ‘S.Viar’. Fortunatamente,
uno studioso dimostrò che si trattava del frammento di un’antica iscrizione che portava il titolo ‘praefectuS
VIARum’.
[4] Già Marziale e Silio Italico parlano delle bianche acque calcaree della Nera, che scorre a nord di Otricoli.
[5] Settimo libro dell’Eneide, v. 691. Di Falerium, la capitale falisca, si è parlato sopra. Il Lacus Cimini si chiama
oggi ‘Laco di Vico’: vi si trova la città di Viterbo.

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