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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI

“ROMA TRE”

ANNO ACCADEMICO 2006-2007

ABSTRACST DELLA TESI DI LAUREA IN LETTERE

SETTORE STORICO ARTISTICO

“Il Parco degli Acquedotti”


DI : PAOLA SOZIO

RELATRICE: PROF.SSA GIULIANA CALCANI

CORRELATORI: DOTT.SSA CATERINA ROSSETTI

PROF.GIULIO VOLPE
La scelta di incentrare la mia tesi sull’Area dei Sette Acquedotti, collocata

all’interno del vasto comprensorio del Parco Regionale dell’Appia Antica,

nasce, in primo luogo, da un amore personale.

Sono nata e cresciuta nel quartiere di Cinecittà e per me, come per tutti gli

abitanti della zona, quel lembo residuo di Campagna Romana, seppur

maltrattato e tanto misconosciuto nelle sue rilevanze archeologiche da essere

da tutti chiamato semplicemente “S. Policarpo”, con riferimento alla

mastodontica ed antiestetica chiesa che insiste sul territorio del Parco, ha

rappresentato, per anni, l’unico rifugio di verde in una sempre più opprimente e

disordinata periferia.

Motivata, quindi, da istanze personali, ho voluto, innanzitutto,

concentrarmi sulle rilevanze archeologiche più evidenti presenti nell’area: gli

acquedotti.

Il Parco, le cui caratteristiche geomorfologiche facilitavano il

mantenimento della graduale ed adeguata pendenza dei condotti, è infatti

attraversato da sei acquedotti Romani, ovvero dalla maggior parte delle undici

imponenti strutture idriche che, a partire dall’anno 441 dalla fondazione della

città, come ricorda Tito Livio nel IX libro della sua colossale opera

storiografica, portarono a Roma un quantitativo di acque tale da trasformare

l’Urbe nella “Regina Aquarum”.

L’imponenza, la funzionalità, l’eccezionalità tecnica dei complessi idrici

realizzati dai Romani sono ben delineate dalle parole di Plinio il Vecchio che,

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nei libri XXXI e XXXII della Naturalis Historia afferma: “Chi vorrà

considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le

terme, le piscine ,le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza

da cui l’acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati

perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto

il mondo è mai esistito di più meraviglioso”.

Fondamentale, nella ricostruzione della storia, delle tecniche di

costruzione e manutenzione, della individuazione topografica, nonchè della

legislazione vigente in epoca imperiale sulla gestione e distribuzione delle

acque e di quel complesso di attività amministrative e di strutture politico-

istituzionali preposte, nel mondo romano, alla cura degli acquedotti e

riunificato nella denominazione di “cura aquarum”, è stata l’analisi del testo di

Frontino “De Aquaeductibus urbis Romae”, redatto dall’autore nel 97 quando,

per volontà dell’imperatore Nerva, ricoprì le mansioni di “curator aquarum”,

ovvero di magistrato preposto all’ approvvigionamento idrico della città.

Delineato uno studio generale sulla presenza e sulla storia degli

acquedotti romani e constatata ed approfondita la presenza di altre strutture

idriche relative ad epoche successive, come il fosso dell’Acqua Mariana, o

“marrana”, realizzato da papa Callisto II nel 1122 e l’acquedotto Felice, voluto

da papa Sisto V e sovrapposto alle strutture del Marcio, mi sono, quindi,

concentrata sull’analisi delle altre rilevanze storico-archeologiche presenti

nell’area, arrivando progressivamente a convincermi che la stessa

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denominazione di “Parco degli Acquedotti” sia il riflesso di una lettura miope e

riduttiva che, da sempre, ha penalizzato questa zona ed ha comportato la

drastica riduzione del territorio del Parco ad una sorta di espansione delle fasce

di rispetto presenti in epoca romana lungo i condotti.

L’ intera area, abitata ed utilizzata fin dal Paleolitico, come dimostrano i

numerosi siti rinvenuti presso la Fattoria di Lucrezia Romana, su via di Roma

Vecchia e tra il Casale di Roma Vecchia e via delle Capannelle, venne

intensamente interessata, in epoca repubblicana, da una serie di abitazioni

rurali ascrivibili alla “Tribù Lemonia” ed ubicate lungo il tracciato della via

Latina, asse viario antichissimo, che, insieme alla via Appia, collegava i

Romani con il sud d’Italia.

Lungo questa via, che aveva visto incrociare le armi agli Orazi ed ai

Curiazi, ed accamparsi gli eserciti del re di Albalonga Cluilio e di Coriolano, si

trovavano una serie pressochè ininterrotta di costruzioni, sepolcri e monumenti

funerari, di cui oggi restano pochi e mal conservati resti, per lo più sepolti sotto

le decine di campi sportivi e di costruzioni abusive che infestano l’area del

Parco. Tra le molteplici strutture funerarie rinvenute, degna di una particolare

nota è la piccola catacomba, conosciuta come “Grotta dei 100 scalini”

abbandonata e dimenticata per anni ed interessata solo di recente

dall’ammirevole studio di Fiocchi Nicolai.

Al V miglio della strada, inoltre, si ergeva il tempio della Fortuna

Muliebre, costruito, secondo la tradizione, in memoria delle donne che avevano

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indotto Coriolano a togliere l’assedio a Roma. Al di là della corretta

individuazione del santuario, le indagini archeologiche preventive che, tra

il1987 ed il 1993, hanno preceduto l’inizio dei lavori di quadruplicamento

della tratta Roma Casilina-Ciampino della ferrovia Roma-Cassino, si sono

rivelate straordinariamente proficue. Il complesso di strutture rinvenute è

risultato talmente ampio ed articolato da provocare l’intervento della

Soprintendenza che ha bloccato i suddetti lavori, richiedendo alle FS lo studio

di soluzioni alternative.

Intensamente abitata fin dalle origini della storia di Roma, la zona su cui

oggi insiste il Parco degli Acquedotti assistette, in epoca imperiale, ad una

sorta di monumentalizzazione delle unità abitative presenti, dovuta alla

trasformazione di questo settore del suburbio romano in un’ area riservata alle

ville suburbane dell’élite romana. A questa fase risalgono le imponenti

costruzioni della Villa delle Vignacce e della Villa dei Sette Bassi, collocata

immediatamente al di fuori dell’area del Parco.

L’evoluzione topografica dell’area continuò anche dopo la caduta

dell’impero romano, quando ad una prima fase di abbandono seguì una

progressiva fase di riscoperta promossa dalla chiesa di Roma, ed in particolare

da papa Zaccaria ed Adriano I, attraverso l’istituzione delle Domus Cultae,

ovvero di particolari unità abitative autosufficienti di vocazione agricola.

Del processo evolutivo e topografico interessato dall’intero suburbio in

epoca medievale restano come testimonianze, all’interno del Parco e nelle aree

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limitrofe ad esso, il bellissimo Casale di Roma Vecchia, attualmente ancora

inspiegabilmente di proprietà dei principi Galliani-Gerini, e la superba Torre

del Fiscale.

Mai del tutto abbandonata, l’area subì solo nell’800 una vera e propria

riscoperta, ad opera di una rinnovata sensibilità artistica che nel decadente e

malinconico paesaggio della Campagna Romana trovò il luogo più congruo

alla propria ispirazione romantica.

Sono gli anni del “Grand Tour”, del “Voyage en Italie” e dell’ “Italienische

Reise”, che portarono in Italia e, particolarmente a Roma, centinaia di

viaggiatori attratti da quella che a buon diritto veniva riconosciuta come la

culla della cultura europea.

Viaggiatori illustri, come il Goethe, che lasciarono ritratti immortali di un

paesaggio ed un territorio percepito giustamente come unico.

Diceva Luigi Ehlert, musicista di Ronigsberg, tra gli osservatori più sensibili di

questo periodo: “…la campagna romana nel suo genere è una cosa unica come

il mare, non conosco nessun paesaggio che abbia una simile forza di

sentimento. Il tono marrone dorato ed opaco del terreno le dona un’ indicibile

tranquillità ed unità di colore…Qui e non in Svizzera ho capito che cosa è il

colore: man mano che si procede è sempre un nuovo spettacolo ed ogni

variazione è sempre più bella dell’altra”.

É grazie ad artisti del calibro di Goethe,di Stendhal, di Piranesi,di

Chataubriand,di Luigi Rossini,di Lory, del Caffi e del Biseo, nonchè, a partire

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da metà ottocento, agli esponenti della nascente arte fotografica quali Giacomo

Caneva, Carlo Baldassarre Simelli, Robert Macpherson, Giovacchino Altobelli,

James Anderson e Filippo Belli che la Campagna Romana, per lungo

considerata solo come cornice dell’Urbe, viene ad essere riscoperta per il suo

valore estetic o costituito, principalmente dall’inscindibile connubio del

paesaggio naturale con la “bella rovina”.

Riconoscimento di fondamentale importanza in quanto alla base di quel

lungo e tortuoso percorso culturale ed istituzionale che, attraverso

l’individuazione di un sostanziale legame tra il rudere ed il contesto naturale

circostante, avrebbe infine portato all’ideazione dei parchi archeologici.

Ai primordi di questa evoluzione, primariamente concettuale, possono

collocarsi le sette lettere indirizzate da Antoine-Chrysostome Quatremère de

Quincy al generale Francisco de Miranda in forza nell’armata napoleonica,

pubblicate nel 1796 sul Redacteur.

Redatte in aperta polemica con la disastrosa incetta di opere d’arte compiuta a

Roma dalle truppe napoleoniche, le lettere sottolineano l’importanza della

conservazione del contesto d’origine delle opere d’arte nella difesa “dei

modelli e delle lezioni che la natura, per sua volontà onnipotente, ha posto in

Italia, e sopratutto a Roma”.

L’ideare, il concepire ed il recepire un’opera d’arte sono, per Quatrèmere

de Quincy, attività legate intimamente al contesto originario. Per tale ragione

egli paragona il collezionista d’arte ad “un ignorante che strapasse dal libro i

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fogli in cui trova delle vignette” e l’opera d’arte, sottratta da stranieri, ad un

albero che muore per una “potatura indiscreta”.

L’aperto ed aspro contrasto con la corte napoleonica, intrattenuto da

Quatremère de Quincy su questo tema inaugurò un dibattito mai sopito che

può considerarsi centrale nella storia della tutela del Parco degli Acquedotti e

dell’Appia Antica.

La contrapposizione tra esponenti del mondo intellettuale, che

consideravano il paesaggio della campagna romana un bene culturale da

conservare ad ogni costo ed i rappresentanti dei molteplici gruppi che, in nome

di una sorta di difesa “mistica” della proprietà privata, ne proponevano un

devastante sfruttamento, fu da sempre al centro della questione sulla

salvaguardia di questo territorio.

Già nell’Ottocento, divenne così evidente che la sopravvivenza del

patrimonio archeologico sarebbe potuta passare solo attraverso l’intervento

della pubblica autorità.

Non a caso, nel 1881, Rodolfo Lanciani, “ingegnere per gli Scavi”, propose al

Ministero della Pubblica Istruzione l’esproprio della tenuta della Caffarella, di

proprietà della famiglia Torlonia.

L’ acquisizione non avvenne ed, ancora per tutto l’800, l’Appia ed il

settore di suburbio ad essa limitrofo furono interessati solo da saltuari e

devastanti “scavi privati”, come quelli di Giulio Torlonia, al quale

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appartengono le richieste di autorizzazione del 1878-1879 e del 1893 per

effettuare “ricerche” presso la tenuta di Roma Vecchia.

I devastanti sfaceli e le spoliazioni che si andavano regolarmente

perpetuando per alimentare il lucroso mercato del collezionismo d’ antichità

determinarono la convinzione che, al fine di preservare il vasto patrimonio del

suburbio romano, fosse necessario uno strumento in cui registrare tutte le

rilevanze archeologiche presenti nell’area.

A partire dal 1850, Pietro Rosa, spinto da papa Pio IX che, in quegli

stessi anni, aveva commissionato a Luigi Canina gli interventi di restauro e

ricostruzione della Via Appia Antica, cominciò ad ideare la “Carta dell’Agro”,

una sorta di “mappa” composta dalle rilevazioni dell’Appia, dei suoi

monumenti e della regione che attraversava fino ai Colli Albani.

Il constatare che la “ Carta dell’Agro”, approvata dalla Delibera

Consiliare del Comune di Roma n. 959 del 18 marzo 1980, dopo un lungo e

complesso iter, sia stata definitivamente realizzata oltre cento anni più tardi

mostra lo scarso interesse da sempre riservato dagli organi istituzionalmente

preposti alla tutela di questo territorio.

Fortunatamente, il totale abbandono del suburbio romano ed il

conseguente tentativo di cementificazione selvaggia, verificatosi negli anni ’50

ed inaugurato dalla costruzione, nel 1950, dell’ imponente ed abusiva Pia Casa

S. Rosa, non fu altrettanto in differente al mondo culturale che, a partire da

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quegli anni, divenne promotore di una strenua battaglia per la difesa del

patrimonio artistic o ed archeologico della città.

In particolare, Antonio Cederna, archeologo e giornalista, si rese

protagonista della vigorosa polemica incentrata sul problema dell’Appia,

promovendo una vasta campagna per la realizzazione del Parco Regionale

dell’Appia Antica, istituito, infine, con l’approvazione della Legge Regionale

n. 66 del 10 novembre 1988.

Al pari di quella che concerne il Parco dell’Appia Antica, la storia della

“creazione istituzionale” del Parco degli Acquedotti o, per meglio dire, della

sua inclusione nei confini del Parco dell’Appia Antica è un ammirevole

esempio di coscienza civica e di consapevolezza culturale.

Sensibilizzati al problema del grave stato di abbandono dell’area, infatti,

alcuni cittadini della X circoscrizione si organizzarono fondando, nel 1986, il

Comitato per la salvaguardia del Parco degli Acquedotti e di Roma Vecchia,

con il dichiarato intento di difendere l’area dalla speculazione edilizia e dal

degrado.

Appoggiati in questa battaglia da intellettuali dell’importanza di Quilici,

il quale propugnava la creazione di un Parco che includesse tutte le

testimonianze storico-archeologiche della Via Latina, i volenterosi cittadini del

Comitato riuscirono ad ottenere l’inserimento dell’area degli Acquedotti nel

grande Parco dell’ Appia Antica, ratificato dalla legge n. 66 del 1988.

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Attualmente, il problema più evidente nella gestione del Parco dell’Appia

Antica e, conseguentemente, del Parco degli Acquedotti risiede nella natura

normativa del Parco ed è fortemente connesso all’attuazione istituzionale dei

Parchi Archeologici.

Sebbene, infatti, vada riconosciuto che la legge n. 394 del 1991 e la successiva

legge regionale n. 29 del 1997, inerenti la gestione delle aree naturali protette,

abbiano svolto un ruolo di tutela fondamentale, va tuttavia rilevato come

l’applicazione di parametri prevalentemente naturalistici nella gestione di un

territorio la cui rile vanza archeologica e antropica è preponderante, risulti

inadatta e fortemente penalizzante per un’area archeologica di un così grande

valore.

La possibilità di trasformare il Parco regionale dell’Appia Antica in un

Parco Archeologico trova un enorme ostacolo nella considerazione che, a

tutt’oggi, la definitiva attuazione di tali entità territoriali risulti piuttosto ostica.

Azzardando una lettura estremamente semplificata della questione potrei

individuare quali problematiche principali le ripartizioni di competenze tra

Stato e Regioni, con relativo scontro sugli strumenti amministrativi da

considerarsi prevalenti e la controversia inerente il giusto equilibrio tra

tutela,valorizzazione e fruizione.

Dal 1991, infatti, si è andata elaborando, rispetto al tema dei Parchi

Archeologici, una visione più ampia che, accanto alla tutela, esercitata

attraverso una graduazione di prescrizioni, e alla valorizzazione integrata delle

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aree archeologiche, tenesse conto dell’esigenza di riconversione dell’uso del

territorio al di fuori dei limiti della proprietà demaniale mediante il

coinvolgimento dei soggetti competenti alla pianificazione territoriale.

La legge n. 490 / 99 propose, inoltre, all’art. 94 ,una nuova definizione di

“Parco Archeologico”: “ si intende per parco archeologico l’ambito

territoriale caratterizzato da importanti evidenze archeologiche e dalla

compresenza di valori storici, paesaggistici o ambientali, attrezzato come

museo all’aperto in modo da facilitarne la lettura attraverso itinerari ragionati

e sussidi didattici”. Tale formula sembra postulare quale fondamento del parco

archeologico la connessione intercorrente tra la tutela dei beni e la promozione

delle attività culturali, ponendo spiccatamente l’accento sull’elemento della

fruibilità.

Il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio, elaborato sulla scia

della Convenzione di Firenze, ha aperto la strada ad ulteriori nuove evoluzioni

del concetto di Parco Archeologico, nello stabilire il riconoscimento formale

del paesaggio come bene meritevole di tutela giuridica, ma anche nel

prevedere una pianificazione paesaggistica che introduca nella gestione del

territorio da parte delle Regioni il concetto di “tutela e valorizzazione”.

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