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Karl Philipp Moritz: I viaggi in Italia di un tedesco.

[Titolo originale: Reisen eines Deutschen in Italien. In: Werke. Hrsg. von Horst
Günther. Insel, Frankfurt am Main, 1981, Bd. 2].

Civita Castellana

Ieri, verso mezzogiorno, siamo arrivati a Civita Castellana. Si trova su una rupe
scoscesa, attorno alla quale scorrono in basso tre fiumicelli che, non lontano dal
centro abitato, si gettano tutti assieme nel Tevere.
Ai piedi della città c’è un ponte sul fiume Cremera, dove i trecento impavidi romani
della famiglia fabia vennero massacrati dai veienti: sembra che l’antica Veio sia
dunque sorta nel luogo in cui è stata poi edificata Civita Castellana.
La città è circondata dall’acqua per tre lati, mentre nel quarto – al pari di una
penisola – è unita a una montagna sulla quale è stata fondata una cittadella alla quale
Civita Castellana deve il suo nome.
In direzione nord, quella rupe isolata è unita alla regione circostante da un ponte
sorprendentemente alto, il quale oltrepassa uno dei fiumicelli che circondano in basso
la città. Gli abitanti hanno ringraziato colui che ha deciso la costruzione di questa
opera caritatevole con un’iscrizione pubblica posta sul parapetto del ponte stesso.
La posizione fortificata della città, voluta dalla natura, ha indotto alcuni a sostenere
che qui sarebbe sorta l’antica Veio, i cui cittadini resistettero per oltre trecento anni
in maniera estremamente tenace e impavida, prima di essere soggiogati dai romani.
Nel frattempo ho però visto, su alcune iscrizioni pubbliche presenti in città, che gli
abitanti fanno derivare il proprio nome dai falisci la cui capitale, stando a una diversa
interpretazione storica, sarebbe sorta in questo luogo.
D’altra parte ho già osservato, avendo esaminato le iscrizioni pubbliche latine di
parecchie cittadine italiane, che gli abitanti continuano a far derivare il proprio nome
dagli antichi progenitori che, ai tempi dei romani – secondo un’interpretazione
largamente condivisa –, risiedevano sul luogo.
Civita Castellana, in sé e per sé, ha un aspetto triste. Le abitazioni sembrano fatte di
sassi ammucchiati, in certo qual modo, alla rinfusa, e sembrano nate più dal caso che
dall’abilità degli artigiani. Sembra che sulle rupi siano state scavate delle grotte, ora
abitate dai poveri.
Dopo Civita Castellana il cammino si fece piuttosto sgradevole. Attraversammo un
territorio desolato e incolto, costituito solo da collinette, fino a Castelnuovo, dove
giungemmo in tarda serata.
Il paesaggio però, nonostante la sua monotonia, aveva un che di grandioso, e
diventava bello soprattutto al tramonto.
Alla nostra sinistra, nelle vicinanze, c’era il monte Soratte, mentre in lontananza
splendevano le vette innevate degli Appennini, dalle quali aveva origine, nella luce
serotina, un autentico fulgore.
Quella regione, un tempo, era stata teatro di parecchie grandi imprese, nel corso delle
quali quasi ogni luogo venne conquistato versando sangue romano, e trasformato in
un tempio per i posteri.
Lì arrivammo anche all’antica Via Flaminia, le cui rovine continuano in parte a
sfidare il tempo.
Lisce pietre poligonali sono state congiunte, e formano un selciato estremamente
uniforme che però, nel corso del tempo, si è levigato ulteriormente, diventando così
quanto mai disagevole per i cavalli. Ragion per cui, pure il mio vetturino mi garantì
che malediceva quelle pietre ogniqualvolta ci passava con la carrozza. Nel contempo,
di pessimo umore, mi annunciò che a Castelnuovo avremmo trovato una cena
immangiabile e che quella sarebbe stata l’ultima – ma anche più sgradevole –, tappa
verso Roma.

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