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PONTE DEI SARACENI

Il "Ponte dei Saraceni" è una delle opere civili più belle e storicamente più interessanti del
Medioevo siciliano. Il ponte resiste da circa mille anni alle sollecitazioni non indifferenti del
maggior fiume della Sicilia, "il Simeto", caratterizzato da una variegata struttura geologica che
prevede l'alternanza di cascate, gole e colate laviche. Il fiume precipita per un buon tratto nelle
cosiddette "Gole" creando un naturale gioco d'acqua di grande suggestione. La contrada è
denominata "Salto del Pecoraio" in omaggio ad una antica leggenda secondo la quale un pastore
innamorato saltava dall'una all'altra sponda per recarsi dalla sua amata. Nella limitrofa contrada
del Mendolito si trova l'area della più estesa, e forse più evoluta, città ellenica della Sicilia: la Città
Sicula del Mendolito, del IX- V sec. a.C.. Di questa città è stata individuata la cinta muraria e messa
in luce recentemente la monumentale Porta Sud. Dai ritrovamenti archeologici nella città del
Mendolito, possiamo dedurre che nel luogo dove oggi sorge il ponte, già in età neolitica, poteva
esistere una struttura, possibilmente un passaggio, costituito da una passerella in legno, per
esigenza di commercio e scambi fra le città sorte sulle vie del Simeto, frequentata da numerosi
viaggiatori che batterono sempre le stesse vie per poter attraversare il Simeto. E' probabile che
durante la dominazione romana sull'isola, si ritiene opportuno sostituire con una solida
architettura in pietra, il vecchio passaggio siculo-greco sul Simeto. Nasceva così una delle "viae
frumentariae" che servivano a trasportare le considerevoli derrate frumentarie dalla Sicilia centro-
orientale, ai porti della costa ionica, per l'uso e l'alimentazione degli abitanti della capitale. Quindi
il ponte faceva parte di un'antichissima strada, che dalla Sicilia nord-orientale, lungo il corso dei
fiumi Alcantara e Simeto portava alla piana di Catania, con diramazioni per Regalbuto, Troina,
Agira, Centuripe, Adernò, Paternò, Catania e Lentini. Esso collega il territorio di Adrano con quello
di Centuripe. Costruito in epoca romana in muratura, della quale ci rimangono le basi dell'arco
maggiore, successivamente con l'occupazione islamica, gli Arabi lo rifecero probabilmente per
ripristinare l'attività del ponte a seguito di un crollo dovuto forse ad una piena del Simeto. Così
sostituirono all'arte romana i canoni della loro architettura, curando gli effetti cromatici, con
l'alternanza di pietre chiare e scure nelle ghiere degli archi. La struttura che ne viene fuori, ad arco
acuto, tipica di tutta l'architettura islamica, aquisterà così snellezza e leggerezza. Il ponte, in epoca
normanna, faceva parte di un importante asse viario che collegava la città di Troina, prima capitale
del regno di Ruggero I di Altavilla, con Catania. Con l'arrivo dei Normanni e fino al XVIII sec., il
ponte e tutto il vasto territorio attorno ad esso, faceva parte di vari feudi, tra cui il feudo dei Duca
di Carcaci. Il terremoto del 1693 causò forti danni al ponte, facendo crollare l'ultima arcata verso
levante e lasciando malconci l'arcata principale e l'altra arcata piccola ad ogiva a fianco dalla
maggiore. Nel corso del '700 molti furono i lavori di restauro e di riparazione e fino alla prima metà
del '700 l'unica viabilità esistente per recarsi a Catania passava proprio per il Ponte dei Saraceni.
Solo alla fine del '700, il ponte fu declassato ad un semplice "sentiero" e perdette la sua
importante funzione di raccordo tra interno e sbocco a mare. Anche la nascita di nuove vie di
comunicazione, più comode, contribuirono a far perdere la sua importanza. In seguito, la
costruzione del ponte-acquedotto di Biscari (1761-66, 1786-91) che attraversava il Simeto lungo il
Guado della Carruba, contribuì maggiormente a far perdere l'originaria funzione del Ponte dei
Saraceni. Dell'antica struttura oggi se ne conserva solo l'arcata maggiore centrale, in stile gotico. Le
altre arcate, una più piccola anch'essa gotica e un'altra romana, andarono distrutte durante
l'alluvione del 1948 e ricostruite in seguito. Sotto il ponte, il fiume scava profonde gole nel basalto
lavico a causa delle acque turbolente.
SALTO PECORAIO
A pochi metri dal Ponte del Saraceno (vedi), dove il fiume Simeto scava profonde e strette gole, si
trova il Salto del pecoraio (Sautu du picuraru). Il luogo deve il suo fascino oltre che ad un'indubbia
bellezza, alle leggende di cui è circonfuso. Secondo una versione, avallata da Paternò Castello
(1907) in �Nicosia, Triona, Sperlinga, Adernò�, il nome nasce dal "salto" delle sponde del fiume
di un pastorello per ritrovare l'amata ("... E' questo il �salto del pecoraio� così nominato perché
narra la tradizione che un pastore, per raggiungere più celermente la sua innamorata, soleva
spiccare il salto...). Una versione più prosaica vede invece il pastorello costretto a scappare dalle
forze dell'ordine che lo inseguivano per arrestarlo. Trovandosi il fiume davanti e i carabinieri dietro
il pastore, armatosi di coraggio, spicca un salto sull'altra sponda riuscendo così a seminare i militi
fermi sul greto del fiume. Giuseppe Recupero (1817) in "Storia Naturale e Generale dell'Etna" si
mantiene sul vago preferendo descrivere la geografia del posto: "... Poco prima di arrivare al ponte
di Carcaci, si restringe molto il letto del fiume e si chiama il passo del Pecoraro, perché dicono che
con un salto un bifolco sia passato da una all'altra ripa. Non è qui forse largo una canna e si
profonda in maniera che non si vedono le sue acque né si ode il suo rumoreggiare, come se qui il
fiume si nascondesse ...". Foto di Salvo Nicotra

MENDOLITO
Il sito archeologico di Mendolito è considerato particolarmente importante per il cospicuo
ripostiglio bronzeo e per l'unica iscrizione in lingua sicula di carattere monumentale ad oggi
pervenuta. La frequentazione dell'area si è ipotizzata a partire dal XI-IX secolo a.C., sebbene più a
est e più in alto in quota si trovi la Grotta del Santo (vedi), frequentata già in età castellucciana
(prima metà del III millennio a.C.). Una serie di capanne relative alla facies etnea della cultura
sicula iniziarono a costituire un villaggio certamente nel corso dell'VIII secolo a.C, periodo a cui
appartengono i ritrovamenti più antichi rinvenuti negli scavi compiuti presso le aree abitative. La
formazione di una cittadella si potrebbe ipotizzare quale conseguenza al sorgere delle prime poleis
sicheloe, ossia le città fondate dai coloni greci in Sicilia durante la fine del secolo. L'accrescimento
del potere, la conquista di porzioni sempre più consistenti di territori e la fondazione di sub-
colonie da parte delle città greche porta il villaggio alla realizzazione di una massiccia opera di
fortificazione in emplekton nel corso della seconda metà del VI secolo a.C., di cui ci rimane una
maestosa porta stretta tra due profonde torri "a ferro di cavallo", quasi certamente rifatta in più
parti, come testimonia una parete della torre ovest da cui emerge una struttura precedente dagli
angoli a blocchi ben squadrati, inglobata dal resto del fortilizio a grosse pietre poligonali. Il villaggio
conosce l'abbandono nel corso del V secolo a.C., forse a seguito della fondazione di Adranon. Nel
corso dei secoli il sito, ormai spopolato, assume un carattere decisamente rurale: mai del tutto
abbandonato - resti di tegole ellenistiche e frammenti di ceramica romana possono far pensare
alla presenza di una comunità contadina - divenne tappa obbligata per il passaggio del fiume
Simeto, mediante un ponte edificato originariamente in età romana. Tale struttura venne
ricostruita nel corso della dominazione normanna dell'Isola e prese il nome di Ponte dei Saraceni
(vedi) . Poco più a sud in contrada Sciarone è invece attestata la presenza di un culto a Santa
Domenica, in un tempio forse di epoca bizantina ricostruito al tempo del Conte Ruggero e di sua
nipote Adelicia, e il culto di Santa Maria, forse tempio normanno che nel XVII secolo assumerà il
titolo di Santa Domenica (vedi) sostituendo definitivamente il precedente, nella contrada Santa
Domenica. Relativo al periodo normanno il Mendolito è chiamato casale Bulichel e viene ceduto
dalla contessa Adelicia con tutti i villani saraceni che lo popolavano al costruendo monastero di S.
Lucia in Adernione nel 1158. Nel 1631 viene fondato poco oltre il borgo rurale di Carcaci, in
seguito parte del territorio di Centuripe, dove venne realizzato tra il 1765 e il 1777 il ponte
acquedotto del principe di Biscari Ignazio Paternò Castello (vedi). Tra il XVIII e il XIX secolo la
contrada Mendolito viene lottizzata e vengono realizzati imponenti terrapieni disposti in filari
ortogonali e regolari, alimentati da saie, mentre notevoli residenze rurali riempivano i campi
coltivati. La campagna appare piuttosto popolosa se nel 1826 venne istituita con real decreto una
fiera da tenersi per la ricorrenza di Santa Domenica presso la chiesa omonima, evento protratto
fino la metà del XX secolo. La metà meridionale del sito veniva acquistato dalla famiglia Sanfilippo,
cui ancora appartiene. Negli anni 1920 venne realizzata una piccola chiesetta che sostituiva il
vecchio luogo di culto, ormai pericolante. Tra il XIX e il XX secolo iniziarono le prime indagini
archeologiche in senso moderno della cittadella sicula.
ACQUEDOTTO BISCARI
L'acquedotto Biscari è chiamato dagli adraniti "il Ponte Biscari". Costruito a circa 1 km dalle
campagne del Mendolito, convoglia in un condotto chiuso le acque delle sorgenti delle "Favare",
presso �Santa Domenica� e, attraverso la contrada � della Carrubba� e di altre terre, le
incanala verso il feudo di contrada � Ragona� o �Aragona�. Notizie tratte dal �Dizionario
topografico della Sicilia� (Amico, 1865), citano come la contrada Aragona era "Casale un tempo
esistente nel territorio detto oggi volgarmente di Ragona, tra Centorbi ed Adernò, con una torre.
Appartenevasi nel 1408 a Giovanni Eschisano, come si rileva dal censo di Re Martino; a Perollo di
Modica nel 1479, che il vendette ad Artale Mincio, donde pervenne a Giovanni Paternò, ed oggi
per dritto dei padri suoi ad Ignazio Paternò Castello Principe di Biscari." In esso "Ci ha una sorgiva
di acqua puzzolente nerastra e zolfurea." Ancora oggi sono visibili i fabbricati ed i ruderi della
masseria ubicata nel mezzo della Piana d'Aragona, adiacente alla strada. L'acquedotto attraversa il
fiume Simeto nel �Passo della Carruba�, in contrada �Cimino�, nel territorio tra i comuni di
Adrano e Centuripe. DESCRIZIONE DELL'ACQUEDOTTO La realizzazione dell'acquedotto presentò
notevoli difficoltà tecniche legate ai forti dislivelli e alla distanza tra le due sponde laviche che
fiancheggiano il fiume Simeto. Difficoltà che furono superate attraverso la realizzazione
dell'acquedotto che aveva come obiettivo il miglioramento delle condizioni igieniche sanitarie
degli abitanti del territorio. L'acquedotto attraversava l'antico feudo dei Biscari e la parte superiore
ha un camminamento di tipo mulattiero e pedonale. La condotta è costituita da 31 archi uniformi a
sesto acuto che si sviluppano per centinaia di metri, di varia grandezza e altezza che attraversano
le ripe del fiume per una lunghezza di circa 1330 piedi (400 metri) e con un altezza di circa 40
metri.. L'arco principale, infatti, appena ogivato, ha un altezza di �130 piedi� (40metri).
Sull'acquedotto e sulle sponde venne appoggiato un secondo ordine di archi che raggiunse la
lunghezza di 360 canne (circa 740 metri). Il costo complessivo dell'opera fu calcolato in 100.000
scudi. Negli anni trenta crollò la parte centrale, a causa di una forte piena, e il passaggio dell'acqua
fu garantito da una grande arcata in cemento. L'acquedotto, secondo il mio modesto parere,
merita di essere restaurato e riportato al suo aspetto originario. E' un documento "vivente" della
Contea adornese dei Moncada, l'ultima architettura di età aragonese e "precircondariale" di età
borbonica. Simboleggia la fine di un secolo di splendore urbanistico e architettonico, che non ha
riscontro nei secoli passati nella cittadina etnea. In questo secolo di "ripresa architettonica" si deve
inquadrare anche quella economica, basata sull'agricoltura e sul commercio, che furono il vero
motivo per cui fu costruito l'acquedotto, per iniziativa del Principe Biscari, Ignazio Paternò Castello,
di cui rimane il nome. L'acquedotto-ponte fu costruito per la prima volta nel 1761-1776 e in una
seconda volta nel 1786-1791. La fabbrica e altri dieci archi ad ogiva nella prima parte di esso, ci
spiegano come questo settore sia il più antico. Forse era già presente un antichissimo ponte al
quale, in un secondo tempo, fu addossato l'acquedotto. Non appena completato, il ponte-
acquedotto Biscari divenne meta di scrittori e viaggiatori, anche stranieri. Jean Houel, pittore ed
architetto francese, in Sicilia tra il 1776 ed il 1780, osservò l'opera già compiuta e nel suo �Voyage
pittoresque...� scrisse: "Egli [il principe] ha fatto costruire un acquedotto che per ardimento e
dovizia è degno di rivaleggiare con quelli romani...Si tratta di una costruzione di utilità immensa
che tanto più è costata al generoso Principe in quanto ha dovuto superare difficoltà di ogni
genere". Interessante si presenta il disegno dal tema �Vue de l'Aquedue d'Aragona� nel quale,
oltre ad essere raffigurato l'acquedotto in tutta la sua lunghezza, l'Houel mise in risalto la fiumara
dalla quale si diparte un canale (saja) che porta l'acqua ad un mulino. Il marchese di Villabianca,
nel trattato sui ponti della Sicilia del 1791, definì l'opera "...un de' ponti più superbi e magnifici
della Sicilia, per non dirsi il primo tra i medesimi...[avendo] fatto di sè comparsa così superba in
Regno, come di uno de' più eccelsi ornamenti della Sicilia...". Ed ancora, il geografo francese Elisée
Reclus, nella relazione di viaggio del 1865 sulla Sicilia, citò la struttura: "Seguendo un piccolo e
grazioso sentiero mi trovai ben tosto davanti ad uno dei più grandi monumenti della Sicilia. E' un
ponte acquedotto che meriterebbe di essere chiamato il ponte per eccellenza". Il 5 febbraio del
1781 "un colpo di furioso vento" o meglio "un violento turbine...forse accompagnato da
tremuoto", abbattè la superba struttura e "...andar videsi tutto in rovina, strascinato dalla
tempesta di una fiera illuvione d'acqua, che diè furia alle onde di involarlo al mare." (Villabianca,
1791). Dei trentuno archi di cui si componeva l'opera, ne rimasero in piedi soltanto sette minori.
Cinque anni dopo, alla morte del principe avvenuta nel 1786, si diede inizio alla riedificazione
dell'acquedotto ad opera del figlio Vincenzo, degno successore, secondo i disegni del francese
Pierre Francois Léonard Fontaine, uno dei più illustri architetti del periodo neoclassico.
L'esecuzione venne affidata invece all'architetto catanese Salvatore Arancio che portò a
compimento l'opera nel 1791. Sul prospetto nord della grande costruzione venne addossato un
ponte, del tutto simile a quelli presenti in altri fiumi della Sicilia, il quale permetteva il passaggio da
una sponda all'altra alle persone ed alle bestie da soma L'acquedotto, presente ancora al giorno
d'oggi, monco in alcune parti e con vistose deturpazioni effettuate a causa dell'impiego del
cemento, rimane nel territorio se non in tutta la Sicilia, un'opera ammirabile per l'applicazione
delle leggi d'idraulica e per la solidità della costruzione. Il terreno accidentato e i non pochi
dislivelli fecero sorgere negli adornesi molto scetticismo nell'esito dell'opera, ignorando in gran
parte il principio, in idraulica, dei vasi comunicanti (a). Le critiche sull'opera non distolsero
l'architetto Arancio dal proseguire e portare a termine l'acquedotto. A questo punto, per
tradizione orale che si trasmette di generazione in generazione (penso che si debba accettare
come vera), nella giornata ufficiale dell'inaugurazione, presenti molti curiosi, autorevoli persone e
tecnici di gran fama, avvenne la tragedia. Immessa l'acqua nell'acquedotto, si aspettò a lungo.
L'acqua non arrivava nella contrada �Ragona�. L'atmosfera diventò ricca di ilarità e di critiche e
l'umiliazione, a causa dell'insuccesso, depresse a tal punto Arancio, da spingerlo al suicidio. Subito
dopo, per un tragico destino, l'acqua abbondantissima, venne fuori, dando ragione al povero
architetto Arancio, che non potè raccogliere a causa del suo gesto, i giusti meriti per il successo
dell'opera.. L'acquedotto e la coltivazione del riso La realizzazione dell'acquedotto, da parte del
Principe Ignazio Paternò Castello, deve essere collocata nel piano di risanamento e di sviluppo del
territorio. Il piano fu quello di garantire occupazione per le masse popolari in continua crescita.
L'intervento era destinato all'ammodernamento dell'agricoltura che diventò, grazie alla
disponibilità dell'acqua, sempre più specializzata. La costruzione dell'acquedotto, di mulini ad
acqua, di strade, vasche e bevai favorì lo sviluppo di una fertile agricoltura e come conseguenza
l'occupazione per le masse popolari. Ma è soprattutto la coltivazione del riso, pianta esigente in
fabbisogno d'acqua, che spinse il principe nella realizzazione dell'acquedotto. Fin oltre la metà
dell'Ottocento il riso, cereale a semina primaverile, veniva coltivato in quasi tutte le pianure fluviali
della Sicilia. Centri di produzione erano Lentini, la Piana di Catania, i territori del Simeto,
Centuripe, Paternò, ed ancora Calatabiano, Vittoria e Bivona. Anche la terra di Carcaci, limitrofa al
feudo di Ragona, assieme ad altri piccoli centri della Sicilia era conosciuta in questo periodo per la
coltivazione del riso: "...hanno molto nome quelli di Carcaci a occidente dell'Etna e quello di
Roccella nel lato settentrionale." (Ferrara, 1834). Pianta coltivata con successo nella nostra Isola
poiché fornisce rese elevate ed un reddito di molto superiore a quello del frumento "...sino al
centuplicare il suo fruttato in quei siti abbondanti di sorgive di acqua o contigui ai fiumi ove
possano facilmente congegnarsi delle prese..." (La Via, 1845). La sua coltivazione durerà fino al
1877, sempre più delimitata in zone lontane dai centri abitati ed, infine, proibita per motivi di
carattere sanitario. Un Regio Decreto del 1820 ne proibiva già la diffusione nei luoghi prossimi
all'abitato e lungo le strade principali, incoraggiandone la coltivazione cosiddetta a �secco�. Le
tecniche colturali e l'elevato fabbisogno idrico di questa pianta fecero sì che i territori dove era
diffusa diventarono ben presto malarici: "Pianta paludosa ricerca acque abbondanti e stagnanti
onde nudrisce la gente lontana, e ammazza quella che coltiva o che abita i paesi vicini..." (Ferrara,
1834). Tentativi di coltivare il riso a �secco�, cioè mediante sistemi di irrigazione simili a quelli
impiegati per gli ortaggi, didero scarsi risultati, soprattutto nelle rese. Nel territorio di Carcaci,
dunque, a metà Settecento "...vi si numerano circa 100 case e 345 abitanti...l'aria è malefica
perlochè la gente non può prosperarsi, infatti vi si contavano nel 1798 soli 251 abitanti, diminuiti
sino al 1831 a 134, ed a 90 nel fine del 1852, onde è imminente un dissolvimento." (Amico, 1856).
Nel 1853 le superfici coltivate a riso erano circa 650 ettari. La stessa Adernò, situata più a monte,
risentì di quest'aria malsana: pur essendo "posta sopra elevato sito ha buono aere dalla parte
dell'Etna, pessimo dalla parte del fiume per le piantaggioni di riso e per la macerazione dei lini e
canapi nelle sottoposte pianure bagnate da copiose acque." (Ferrara, 1834). In questi luoghi di
produzione, alcune piste, mulini idraulici impiegati nella brillatura del riso, ubicate lungo il corso
del Simeto, pestavano in appositi recipienti, mediante piedi di legno foderati di sughero, i chicchi
di riso al fine di distaccarne la pula. Il Principe Biscari, Ignazio Paterno' Castello Ô stato descritto
come il personaggio più prestigioso della nobiltà siciliana, gentiluomo, archeologo e mecenate.
Accolse ed ospitò molti viaggiatori stranieri tra i quali Riedesel, Brydone, Milnter, Bartels,
Swinburne, Dolomieu, guidandoli attraverso le sue collezioni. Così lo ricorda Munter: "Incoraggiò i
Catanesi allo zelo e all'operosità, fu amico e padre dei poveri, mecenate delle scienze e fece di
tutto per rendere florida Catania". Contribuì alla ricostruzione di Catania, bonificò una valle
paludosa, studiò lo sfruttamento della lava. Nel suo palazzo, oltre al bizzarro laboratorio, oggetto
di curiosità per i visitatori, aveva un teatro privato e un museo, nella sua collezione si trovano
strumenti e mine�rali, quali campioni di lava, zolfo, ecc. definiti "frutti dell'Etna". Molti reperti
sono attualmente custoditi nel castello Ursino di Catania. Impiantò inoltre un giardino detto Villa
Scabrosa nella Sciara che affascinò particolarmente Houel. Il principe, con merito, fu considerato
uno dei personaggi più prestigiosi della nobiltà siciliana. Nato a Catania nel 1719, progettò e
realizzò l'acquedotto �Biscari� nel suo feudo �Ragona�. Un altro acquedotto, adoperato per
portare l'acqua da un suo pozzo di Cifali (Catania) al giardino di Villa Laberinto (oggi, Villa Bellii), fu
costruito a Catania dallo stesso principe. L'acquedotto ha contribuito per secoli a dare vita a
migliaia di famiglie di agricoltori oltre a rimanere una gigantesca architettura artisticamente ed
esteticamente tra le più belle della Sicilia Orientale.
CARCACI
La prima testimonianza della presenza umana nel luogo risale all'XI secolo, quando i normanni,
venuti in Sicilia, nel 1061 qui si accamparono per organizzare la presa di Centuripe. A quell'epoca
risale la prima costruzione di cui si ha testimonianza: una torre quadrangolare successivamente
inglobata in altri edifici. Il primo feudatario di Carcaci fu Giovanni de Raynero nel 1200 circa. Nel
1453 Giovanni Spatafora ebbe l'investitura dal re Alfonso della baronia di Carcaci. Sul finire del XVI
secolo vennero realizzati dei lavori idraulici per opera del barone Ruggero Romeo. Successivi
feudatari di Carcaci furono Nicola Mancuso nel 1602 e Gonsalvo Romeo Gioieni nel 1630. Questi
ottenne nel 1631 la licentia populandi e fondò il borgo. Dopodiché, Carcaci passò alla Casa Paternò
Castello che da allora sono i Duchi di Carcaci. Il borgo venne realizzato con pianta regolare e con
gusto barocco spagnoleggiante: venne realizzato un monumentale ingresso, una chiesa, dedicata a
santa Domenica, ormai in stato di abbandono, un castello.

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