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La via Appia

L’Appia Antica può essere definita la prima autostrada della storia. Fu progettata nel 312 a.C. dal censore
Appio Claudio Cieco ed era un collegamento diretto fra Roma e Capua, che successivamente fu prolungato
fino a Brindisi, attraverso un tracciato rettilineo ed agevole, percorribile comodamente sia dai carri che dai
pedoni. Per realizzarla furono necessari un esoso sforzo economico e un progetto ingegneristico per
l’epoca rivoluzionario. Lo storico Livio ci informa che inizialmente la via Appia era lastricata saxo quadrato
ma che nel 189 a.C. si cambiò pavimentazione, sostituendo il tufo con la selce. Fu la prima volta che a Roma
comparve l’utilizzo dei “basoli”, pietre basaltiche di grosse dimensioni e ben levigate, poi divenute
caratteristiche di tutte le strade romane. Nel caso di questa via, l’estrazione del basalto avveniva nei pressi
del tracciato, poiché da Frattocchie di Marino fino alla tomba di Cecilia Metella si estendeva, per oltre 10
km, la cosidetta colata di Capo di Bove, una lava leucitica prodotta durante la fase eruttiva del Vulcano
laziale (il sistema montuoso noto con il nome di Colli Albani), avvenuta circa 260 mila anni fa. L’impianto
della strada si componeva di strati diversi per una profondità di circa un metro e mezzo. Quello inferiore
era formato da grossi ciottoli, su cui era posto uno strato di sabbia e ghiaia, sulla cui superficie erano
allineati i basoli, perfettamente combacianti secondo un profilo convesso, in modo da favorire lo
scorrimento dell’acqua piovana lungo i bordi della carreggiata. Questo sistema di drenaggio dell’acqua era
estremamente resistente al passaggio dei carri, tant’è che tutt’ora si conserva in diversi punti della strada,
dove sono ancora ben visibili i solchi lasciati dalle ruote dei mezzi che vi hanno transitato per secoli. La Via
Appia fu la prima delle grandi strade romane a prendere il nome non dalla funzione o dal luogo in cui era
diretta, ma dal magistrato che l’aveva costruita. Appio Claudio la fece realizzare per permettere il
movimento veloce delle truppe romane verso il meridione in occasione della seconda guerra sannitica (326-
304 a.C.); successivamente il tracciato fu prolungato fino al porto di Brindisi, che fornì a Roma un
collegamento diretto con la Grecia, l’Oriente e l’Egitto, fondamentale per le spedizioni militari, i viaggi e i
commerci. Questo intervento elevò l’Appia a strada più importante del mondo romano, la “regina delle
strade” o Regina Viarum, come la definì il poeta Stazio nel I secolo d.C..

La strada aveva inizio a Porta Capena, nei pressi del Circo Massimo, e proseguiva fino a destinazione con un
percorso interrotto soltanto nei pressi di Terracina, dove era necessario attraversare un canale navigabile
che fiancheggiava la via: chiamato decennovium perché era lungo 19 miglia, vi si procedeva tramite chiatte
trainate da animali da tiro. Ne offre una testimonianza Orazio, che in una delle sue satire descrive il suo
viaggio fino a Brindisi sulla via Appia, lamentandosi delle zanzare che infestavano le paludi Pontine, che
furono bonificate soltanto sotto Traiano, il quale fece lastricare anche questo tratto di strada. La strada era
larga circa 4,10 metri, una misura che permetteva la circolazione agevole nei due sensi, ed era affiancata da
marciapiedi laterali generalmente larghi 3,10 metri, contornati da numerosi monumenti funerari che i
passanti potevano ammirare durante il viaggio. La campagna circostante era caratterizzata da villaggi
contadini, che negli ultimi secoli della Repubblica avevano iniziato a scomparire per essere sostituiti dalle
grandi ville dei ricchi romani desiderosi di riposare in dimore di lusso lontani dal caos della città. Lungo il
tracciato si potevano trovare anche alberghi, osterie e piccoli impianti termali ottimamente organizzati e
gestiti da curatores che si occupavano di garantire la continuità dei collegamenti fra Roma e le province.

L’Appia è stata protagonista di numerose guerre e famose vicende, una fra tutte l’epilogo della rivolta di
Spartaco, in cui 6000 ribelli vennero catturati e crocefissi lungo la strada da Roma fino a Pompei. Era
frequentata non soltanto da viaggiatori, ma anche da moltitudini di pellegrini che si recavano nei santuari
cristiani appena fuori le mura cittadine, sorti nei pressi delle catacombe in cui erano custodite le tombe di
martiri e Papi. Infatti le catacombe di San Callisto, le più grandi di Roma, con 19 km di gallerie a 20 metri di
profondità, o quelle di San Sebastiano, da cui proviene il termine stesso catacomba (ad catacumbus, presso
la cavità), sono delle vere e proprie città sotterranee scavate nel tufo, ancora perfettamente conservate,
con loculi e tombe affrescate appartenenti sia a persone comuni che ad importanti personaggi del passato.

Verso il IV secolo però l’Appia cominciò a risentire del decadimento a cui si avviava tutta Roma: guerre ed
invasioni, come quelle di Alarico nel 410 e di Genserico nel 455, fecero sparire metalli ed ornamenti preziosi
dai monumenti, i terreni divennero inservibili a causa delle acque stagnanti, l’agricoltura regredì e si diffuse
la malaria portando abbandoni e saccheggi. Durante l’assedio del 537 d.C. i Goti tagliarono tutti gli
acquedotti che portavano acqua alla popolazione, i corpi dei martiri furono spostati all’interno della città e
si crearono nuovi santuari e basiliche, mentre per giungere a Roma da Brindisi si preferiva percorrere altre
strade, non osando avventurarsi su un tracciato così infido e paludoso. Questo stato di abbandono ha
caratterizzato l’Appia fino alla fine del VI secolo, quando la Chiesa ha acquistato il possesso della campagna
romana proveniente dai beni degli imperatori. Dall’VIII secolo vennero istituite le Domuscultae, piccoli
centri sparsi sulle strade consolari per difendere il Papato da eventuali attacchi nemici, costituiti da casali,
torri, chiese, stalle, mulini e orti che dipendevano direttamente dalla Chiesa di Roma, esercitata tramite i
propri funzionari.

Dopo il 1000 questi piccoli centri iniziarono a scomparire poiché la Chiesa, dilaniata da lotte interne, aveva
preferito cedere le proprietà alle grandi famiglie romane desiderose di vivere sulla via Appia, che cominciò
ad essere strutturata per la difesa e non più per il lavoro agricolo. I resti delle tombe continuavano a
costeggiare la strada ma venivano usati come torrette e posti di guardia armati da cui controllare il
territorio circostante, in abitazioni chiuse da mura. Un esempio di questo periodo è la valle della Caffarella,
che è costellata di torrette, chiese e mulini appartenenti ai villaggi fortificati del Medioevo chiamati castra.
Fu così che il Mausoleo di Cecilia Metella nel XIV secolo fu rialzato e trasformato in un torrione di difesa per
il castrum che la famiglia Caetani vi costruì intorno, con mura, case, chiesa e palazzo signorile; stessa sorte
toccò al ninfeo della Villa dei Quintili che tutt’oggi si presenta ancora come quando, nel XV secolo, venne
riutilizzato per costruire una torre di avvistamento.

Ai primi del 1300 la famiglia Caetani acquistò, grazie a Papa Bonifacio VIII Caetani, il dominio di Capo di
Bove, che includeva terre, casali e il Mausoleo di Cecilia Metella. I nuovi proprietari lo sfruttarono per
costruire un grande complesso fortificato: il Castrum Caetani, tutt’ora ben conservato. Questa famiglia
impose pesanti pedaggi su merci e viaggiatori: questo fatto e l’impraticabilità della via Appia nei pressi di
Terracina, furono i motivi per cui nacque il percorso alternativo dell’Appia Nuova, voluto da Gregorio XIII
nel 1574. La nuova strada partiva da Porta San Giovanni mentre la vecchia divenne una semplice strada che
attraversava le proprietà agricole della zona. Di nuovo gli edifici monumentali in rovina che costellavano
questa strada furono depredati da studiosi ed antiquari interessati sempre più ai reperti antichi. Ad
esempio nel 1589, per volere di papa Sisto V, il Mausoleo di Cecilia Metella avrebbe dovuto fornire
materiali da costruzione per Villa d’Este a Tivoli, ma l’espoliazione fu scongiurata grazie all’intervento del
conservatore Paolo Lancellotti.

La via Appia fu meta tra il XVII e il XVIII secolo di numerose tappe del Grand Tour: quei famosi viaggi in Italia
dei figli dell’aristocrazia europea, che, non potendo prescindere da una lunga tappa a Roma per visitare le
rovine del passato e acquistare opere d’arte e d’antiquariato, lasciarono testimonianza nei loro appunti di
viaggio. Numerosi studiosi ed eruditi decisero di intraprendere il tragitto percorso da Orazio nel 38 a.C. con
Mecenate e Cocceo lungo la via Appia per imbarcarsi a Brindisi alla volta di Atene. Grazie alle loro
descrizioni delle rovine che costeggiavano la strada, è stato possibile aggiungere importanti tasselli alla
definizione dell’aspetto originario di diversi monumenti. Un esempio fra tutti è quello di Sir Richard Colt
Hoare, un colto latinista e archeologo inglese che nel 1789 intraprese il viaggio lungo la regina viarum con il
pittore Carlo Labruzzi, incaricato di disegnare per lui i monumenti che avrebbero incontrato. Labruzzi eseguì
226 disegni, riproducento fedelmente ciò che vedeva e lasciandoci il ricordo di una campagna popolata di
contadini che lavoravano tra i ruderi ignari del loro valore storico e artistico e che si riposavano all’ombra
delle mura in rovina dei mausolei.

Il primo ad ipotizzare di progettare un grande parco archeologico che avrebbe dovuto comprendere tutta
l’area dalla Colonna Traiana ai Castelli Romani fu Napoleone. Ma chi lanciò un vasto piano di recupero
dell’Appia Antica, fu Pio IX nel 1851. I lavori furono diretti dall’architetto e archeologo Luigi Canina. Lo
scopo del progetto era quello di sistemare il primo tratto della via in modo tale che i visitatori potessero
passeggiare lungo la strada ammirando i monumenti ai suoi lati in una magnifica passeggiata archeologica.
Per fare questo fu necessario espropriare una doppia fascia di 10 metri per lato ai lati del tracciato stradale
e delimitare l’area costruendo due recinzioni in muro a secco (tipico della campagna romana) chiamato
“macera”. Lo spazio all’interno dei due muri fu sistemato a prato. Furono restaurati anche i monumenti che
si trovavano tra le due macere. Fu ricostruito il sedime stradale e per evitare che venisse rovinato dal
transito dei carri dei proprietari delle tenute limitrofe, furono collocati due cancelli alle estremità della via
con un guardiano posto a vigilare che venissero rispettate le disposizioni e che non vi fossero più atti di
vandalismo ai monumenti. Vennero conclusi accordi e convenzioni con i proprietari confinanti con i quali si
fissò anche un tributo da pagare per la concessione del transito. In seguito, per volere di Rodolfo Luciani,
furono piantati i primi cipressi e pini lungo la strada, e più tardi, Giacomo Boni si interessò di piantare altri
pini lungo la passeggiata.

Il museo all’aperto realizzato nella metà dell’Ottocento dal Canina, si mantenne in buone condizioni solo
per un breve periodo: seguì purtroppo un periodo di incuria e degrado, fatto di oltre un secolo di
abusivismo edilizio e atti di vandalismo che vennero combattuti con continui interventi di tutela e tenaci
battaglie per conservare il patrimonio archeologico della strada. Già durante gli ultimi vent’anni del XIX
secolo, infatti, non venivano più riscossi i tributi mentre si continuavano a costruire numerosi passaggi
senza che questi fossero stati concessi. Nacque così il lungo contenzioso tra il Ministero della Pubblica
Istruzione e i proprietari dei terreni limitrofi, cui era stato interdetto il traffico lungo la strada. Nel 1882
Rodolfo Lanciani, allora ingegnere dell’Ufficio tecnico degli Scavi d’Antichità di Roma, segnalava la sequela
di abusi e arbitri che stavano portando la via alla rovina. Il primo tentativo di tutela dell’area si ebbe
soltanto nel 1931, con un Piano Regolatore che individuava il Parco Archeologico dell’Appia Antica. Vi si
individuava una zona di rispetto dove era vietata qualunque costruzione, ma i successivi piani disattesero le
indicazioni e autorizzarono l’edificazione. Iniziò un nuovo periodo di costruzioni incontrollate di ville private
a volte ornate dalla presenza dei monumenti antichi. Durante la seconda guerra mondiale addirittura, la
strada fu utilizzata per il transito delle truppe alleate per la sua vicinanza all’aeroporto di Ciampino, e
questo costò, oltre all’ulteriore degrado, anche numerose ferite da bombardamenti. La manutenzione della
strada fu completamente abbandonata e non si provvide nemmeno a restaurare i monumenti danneggiati.
Solo ai primi degli anni Cinquanta vi furono piccoli interventi di pulizia e i monumenti furono chiusi con
cancelli per evitare che continuassero ad essere il rifugio di senzatetto piuttosto che di coppie di
innamorati.

Un primo segnale di difesa del parco si ebbe nel 1953, con un Decreto Ministeriale che dichiarò di pubblico
interesse il patrimonio paesaggistico-archeologico, tutta la zona compresa tra Porta San Sebastiano e il
territorio di Boville. Però ci fu chi, come il giornalista Antonio Cederna, evidenziò l’ipocrisia di questo
decreto che da una parte riconosceva l’Appia come luogo di interesse pubblico e dall’altra continuava a
concedere nulla osta a costruire definendo i criteri. L’anno successivo 15 personalità tra cui Alberto
Moravia, Ugo La Malfa e Ignazio Silone, firmarono un appello contro la rovina della strada mentre Cederna
continuava a battersi con numerose denunce; fu così presentata una proposta di legge per il totale
recupero dell’Appia, firmata da Ugo La Malfa e altri deputati, per demolire tutte le costruzioni abusive e
indennizzare quelle autorizzate ma almeno ad un km da un lato e dall’altro della strada. Nonostante
questo, si continuarono a rilasciare nulla osta e licenze di costruzione. Negli stessi anni veniva realizzata
l’autostrada del Grande Raccordo Anulare che tagliava l’Appia all’altezza del VII miglio, distruggendo
almeno 100 metri di basolato antico e alcune strutture di una villa romana con cisterna. Nel 1965 il Ministro
dei Lavori Pubblici approvò un decreto che destinò a parco pubblico i 2500 ettari del territorio dell’Appia
Antica con la previsione di acquisizione pubblica. Nel 1988 la Regione Lazio istituì il Parco Regionale
dell’Appia Antica, ma le aree di proprietà pubblica sono 50 ettari dello Stato (la strada, la villa dei Quintili, la
villa dei Sette Bassi) e 140 ettari del Comune di Roma (Caffarella, complesso di Massenzio). Il risultato delle
prescrizioni è stato che si sono moltiplicate le costruzioni abusive legittimate poi dai condoni edilizi. Nel
1997 la legge del Parco Regionale è stata modificata includendo la zona delle aree naturali protette. Nel
2002 e nel 2006 sono stati acquisiti anche i siti di Capo di Bove e Santa Maria Nova. Nel 2000, in occasione
del Grande Giubileo, è stata effettuata la ricucitura dell’Appia Antica nel punto in cui veniva attraversata dal
G.R:A. tramite il sottopassaggio del Raccordo.

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