Sei sulla pagina 1di 3

Adolf Stahr: Un anno in Italia.

[Titolo originale: Ein Jahr in Italien. Zweite durchgesehene Auflage. W. Berndt,


Oldenburg, 1854].

[I termini in corsivo sono italiani nell’originale]

Viaggio di ritorno da Roma a Venezia

Civita Castellana, 29 aprile 1846. Sera.

Al sorgere del sole, passò a salutarci pure qualche altro amico. Il nostro bravo signor
Santini venne a portarci l’ultimo bicchiere della colazione con le lacrime agli occhi.
La signora Lucia piangeva nella sua cameretta, e non si fece più vedere. Onde evitare
di partire da Roma in compagnia di estranei, avevo riservato una carrozza fino a La
Storta, giacché Fanny Lewald[1] aveva espresso il desiderio di accompagnarmi fin lì.
Il fido amico Hettner, che aveva deciso di scortarmi fino a Firenze, sarebbe arrivato
in seguito assieme con i bagagli.
A Piazza di Spagna, i getti d’acqua della Navicella scintillavano allegri nella luce
dell’aurora. Gettai un ultimo sguardo alla magnifica scalinata nonché alla chiesa di
Trinità dei Monti e poi, mentre la percorrevamo in discesa, alla lunga Via del
Babuino, dove abitavano parecchi amici. Arrivai in Piazza del Popolo: passai davanti
ai leoni dell’obelisco, che spruzzano acqua dalla bocca, e attraversai la Porta del
Popolo, raggiungendo quindi il Ponte sul Tevere.
Era accaduto! Avevo lasciato Roma!
Nella locanda, situata al di là del ponte, la gentile ostessa stava sulla soglia. Il suo
buon viaggio, al quale non fece seguire alcun a rivederci – un’espressione che di
solito, in Italia, viene rivolta alle persone che partono – mi ha spezzato il cuore.
Due ore dopo, nei pressi del cosiddetto mausoleo di Nerone, dove le colline della
Campagna romana consentono di guardare Roma per un’ultima volta, decidemmo di
fermarci, e di attendere il vetturino passeggiando lì attorno. Finalmente, la stracarica
carrozza, trainata da quattro cavalli, arrivò chiassosa: dopodiché, pronunciammo
l’addio definitivo alla Città Eterna!
La Campagna offriva ovunque dei paesaggi assolutamente ameni. Una antica torre,
verso la quale scendeva un gregge di pecore, sembrava il soggetto principale di
un’opera di Poussin. Dappertutto, sulle alture rupestri e nelle gole, fioriva dorata
l’alta ginestra, mentre sui pendii pascolavano alcune candide capre, lucenti come
seta. I butteri ci passavano davanti, i pastori, precedendo le greggi, venivano seguiti
dalla pecora guidaiola[2] che portavano legata a una corda. Un paesaggio che era
incorniciato, sullo sfondo, da monti freschi e profumati. La bellezza racchiude una
forza consolatrice che è possibile percepire anche laddove la tremenda sofferenza
causata dalla separazione ci abbia trafitto l’anima.
Nelle vicinanze di Baccano incontrammo una schiera di detenuti che, su alcuni carri,
venivano condotti ai penitenziari di Civita Castellana e Spoleto. Si trattava, per lo
più, di condannati a seguito dell’ultima rivolta in Romagna: venivano trasferiti in
quelle carceri spaventose delle quali un avvocato di Spoleto, nostro compagno di
viaggio, ci fece una descrizione raccapricciante. I presenti, assistendo alla scena,
provarono tutti una comune avversione nei confronti di quella severità draconiana,
che costituisce l’unico strumento utilizzato dal potere pretesco per combattere la
miseria dilagante.
Dirigendoci verso Nepi, che con le sue antiche fortificazioni e condotte dell’acqua
offre un panorama grandioso, attraversammo qualche leggiadro querceto. Le pietre
tufacee sparse in gran numero sul terreno sono state frantumate dai terremoti. Nelle
profonde fessure, tra le pareti a strapiombo, scrosciano i ruscelli finché, nei pressi di
Civita Castellana, non confluiscono in un grosso fondovalle in corrispondenza del
quale, su una rupe scoscesa, si innalza la città. Mi recai subito alla posta per sapere
quando sarebbe partito il corriere cui intendevo affidare qualche riga da consegnare
al più presto a Roma. Il corriere, purtroppo, stava per partire. “Scrivete subito!”,
disse l’impiegato della posta che, notando il mio sgomento, mi offrì cortesemente
l’occorrente e il sedile. “È probabile che avrete il tempo per dire un ultimo Addio
agli amici di Roma!”. Era romano a sua volta, e quello slancio di simpatia ebbe su di
me un effetto estremamente benefico.
Facemmo poi, nelle splendida luce della sera, una passeggiata per la città, nella quale
la piacevole animazione che caratterizza le strade delle cittadine italiane si dispiega
in tutta la sua riposante allegria, e passammo per il magnifico ponte che, al di sopra
del profondo e verdeggiante precipizio, poggiando su altissimi pilastri, unisce il
centro abitato alla sponda opposta. Bisogna riconoscerlo: i papi meritano davvero il
titolo di Pontifices maximi. Nello Stato della Chiesa, tutti i ponti sui fiumi e i burroni
sono magnifici, e oltretutto non ce n’è uno in cui si paghi un pedaggio o un
pontatico[3]. In compenso, però, i vicari di Dio si fanno pagare moltissimo il transito
sul loro ponte più importante, quello che porta dalla vita terrena all’aldilà: di
conseguenza, il pedaggio o il pontatico per il cielo comincia pian piano a diventare
un peso insostenibile, per il genere umano.
Dalla strada militare, bestie da soma e asinai[4] affluivano verso il ponte seguiti da
parecchie ragazze che, rincasavano cantando dal lavoro nei campi, e camminavano
tranquille tenendosi a braccetto. Della loro canzone, che possedeva l’allegra melodia
di un canto popolare, ho afferrato solo il ritornello:

La gioia del mondo


È il Signor Gesù!

Ero appunto intento ad annotare sulla mia lavagna quella canzone, un po’ sacra un
po’ profana, grazie alle indicazioni di una bellissima bambina, quando il mio sguardo
venne attirato da una scena d’altro tipo. Sul fondo della gola, coperta dalla boscaglia
e dalla vegetazione, vicinissimo ai piedi della rupe sulla quale spiccava la colossale
polveriera con tanto di parafulmine, divampò improvvisamente una fiammata.
Crepitando, il gigantesco serpente fiammeggiante guizzò oltre la boscaglia e la
vegetazione, per superare con un balzo le mura in rovina e spingersi verso la
polveriera.
Credemmo dapprima, in preda al terrore, che avremmo sentito, da un momento
all’altro, le urla dei presenti e lo scoppiettio delle fiamme: la città, invece, se ne restò
quieta, mentre le persone che stavano attraversando il ponte si fermarono giusto un
attimo per dare un’occhiata alle masse infuocate, che si innalzavano sempre più
violente e pericolose. Venimmo a sapere che, nelle vicinanze della polveriera, c’era
un immondezzaio, nel quale probabilmente erano state gettate delle ceneri accese. “È
già successo, che un incendio sia scoppiato per questo motivo?” “No Signor, mai!”
Dopodiché, l’uomo oltrepassò tranquillo il ponte ed entrò in città. Gli abitanti, in
effetti, si sentono al sicuro, nelle loro costruzioni in pietra totalmente prive di legno,
mentre le spesse mura della polveriera, larghe dieci piedi, scoppiano in una risata,
dinanzi allo scatenarsi di quell’elemento. È proprio inutile, che si dia tanto da fare!
Al caffè incontrammo una coppia di giovani: il duca Strozzi e la sua novella sposa,
una bella principessa di diciotto anni che egli portava da Roma a Firenze. La
cameriera della duchessina era seduta allo stesso loro tavolo, davanti alla sua
limonata, e veniva trattata, con assoluta naturalezza, come fosse una componente
dell’alta società.

[1] Si tratta della scrittrice tedesca il cui diario di passaggio a Civita Castellana è stato già riportato su questo
giornale nel n. 11 del 2003.
[2] Che guida le altre pecore precedendole.
[3] Nel medioevo era il pedaggio pagato per passare su alcuni ponti.
[4] Coloro che guidano gli asini.

Potrebbero piacerti anche