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MIRABILI PRESENZE

Storie e luoghi nel Municipio XI di Roma Capitale


“Arvalia – Portuense”
A cura di Mauro Martini Prefazione di Guido Dell’Aquila

Giuseppe Caltabiano ‒ Maria Gabriella Cimino ‒ Guido Dell’Aquila


Patrizio di Nezio ‒ Alessandro Di Silvestre ‒ Vincenzo Giorgi
Mauro Martini ‒ Paola Rossi ‒ Guendalina Salimei
Maurizio Vacca
MIRABILI PRESENZE
Storie e luoghi nel Municipio XI di Roma Capitale
“Arvalia – Portuense”
A cura di
Mauro Martini

Prefazione di
Guido Dell’Aquila

Giuseppe Caltabiano ‒ Maria Gabriella Cimino ‒ Guido Dell’Aquila


Patrizio di Nezio ‒ Alessandro Di Silvestre ‒ Vincenzo Giorgi
Mauro Martini ‒ Paola Rossi ‒ Guendalina Salimei
Maurizio Vacca
Gli autori intendono ringraziare tutti coloro che hanno collaborato a questo lavoro ponendo a disposizione
testimonianze, suggerimenti, atti e documenti in loro possesso.

Copyright 2016, Edizioni Efesto ©

Libreria Efesto
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A norma di legge è vietata la riproduzione,


anche parziale, del presente volume
o di parte di esso con qualsiasi mezzo

Copertina realizzata da Libreria Efesto ©

Roma, dicembre 2016


ISBN 978-88-94855-06-7

In copertina: Particolare della ‘Tavola Esatta dell’antico Lazio e Nova Campagna di Roma’ di Innocenzo Mattei, stampata nel 1666.
Si distinguono il toponimo ‘Casetta de’ Mattei’ ed il contiguo tracciato della via Portuense
MIRABILI PRESENZE
Storie e luoghi nel Municipio XI di Roma Capitale “Arvalia – Portuense”

Prefazione di Guido Dell’Aquila 5

Maria Gabriella Cimino


Fratres Arvales
Un collegio sacerdotale romano sulla sponda portuense 11

Mauro Martini
Casetta de’ Mattei
Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 17

Maurizio Vacca
Sacre presenze religiose lungo l’antica via Campana
Santa Passera e le Catacombe di Generosa 47

Mauro Martini
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale
Due storie mai raccontate 73

Paola Rossi
Ostiense-Marconi
Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 93

Giuseppe Caltabiano
Casa Vittoria
Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 105

Alessandro Di Silvestre
Funamboli sul Tevere
Il Ponte della Scienza dall’idea all’inaugurazione 119
Guendalina Salimei
Corviale: il rilancio dell’Utopia
Progetti di riqualificazione in atto 139

Patrizio Di Nezio
Scene da un municipio
Il territorio portuense nel cinema 155

Guido Dell’Aquila
Con lui il municipio ha una marcia in più
A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich, il più
grande marciatore italiano di tutti i tempi 175

Vincenzo Giorgi
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 195

Notizie sugli autori


Prefazione

Il grande Tonino Guerra, sceneggiatore di film indimenticabili e uomo di umanità e di cultura


profonde (peccato che molti giovani lo ricordino soprattutto per un felice spot televisivo di una
catena di negozi di elettronica, girato in tarda età) diceva che la toponomastica delle città non deve
attingere dalla storia ma deve guardare dentro ai propri quartieri. Via Mario Bianchi, barbiere, o
vicolo Giovanna Neri, postina – diceva Tonino Guerra – hanno la stessa dignità di corso Garibaldi
o di piazza Cavour. E in più esprimono l’anima della comunità, ne tramandano la memoria, ne
preservano le radici. Tonino Guerra l’ho conosciuto nella seconda metà degli anni ’80 e questi
pensieri me li esprimeva durante i lunghi viaggi in macchina che facevamo frequentemente verso
la Romagna (andavo spesso a Rimini per lavoro e gli davo volentieri un passaggio; si faceva trovare
davanti al suo appartamento romano di piazzale Clodio e lo accompagnavo fino alla sua residenza di
Pennabilli o alla natìa Santarcangelo di Romagna). Erano – ovviamente per suo esclusivo merito –
conversazioni bellissime che avvolgevano di acuta leggerezza gli argomenti più vari e che azzeravano
lo stress del viaggio. Erano spunti e intuizioni a tutto campo di un visionario geniale che aprivano
sempre spazi e orizzonti inaspettati alle nostre discussioni. Spesso erano provocazioni. Come si
conviene a un poeta.
Le sue parole di trent’anni fa sulla toponomastica mi sono tornate alla mente leggendo gli
articoli che compongono questo libro. I personaggi della storia del nostro municipio escono dalle
pagine, ci indicano fatti, ci danno interpretazioni, ci riportano stati d’animo personali e collettivi,
ci regalano un senso di appartenenza che ci sorprende e ci conforta. Suor Vittorina Tudino, che ha
mandato avanti per oltre mezzo secolo il mendicicomio (oggi casa per anziani) di via Portuense; il
soldato Antonio Bitti che ha prestato servizio al Forte Portuense; Aldo Montagnani che in quella
struttura militare ha vissuto da piccolo col padre archivista e che ci racconta ciò che della guerra
vedevano i suoi occhi di bambino, chi sono se non la nostra memoria di cittadini? Chi sono se non
le voci che danno ragione alla poesia di Tonino Guerra?
Ma questo volume non si limita a mettere in fila nomi, ricordi, circostanze. Ha anche un
altro merito. Cuce con un filo rosso – e tiene assieme – la storia autentica del nostro territorio,
i suoi legami con il passato, la voglia di un presente dignitoso, gli slanci e i progetti verso un
futuro migliore. Una cosa del genere è già difficile da pensare su una scala territoriale vasta.
Realizzarla nella piccola dimensione di un municipio rappresenta quasi un miracolo. Voi
avete tra le mani questo miracolo. In queste pagine rivivono infatti i nostri progenitori di
duemila anni fa attraverso la descrizione del bosco sacro alla dea Cerere o della via Campana
o delle Catacombe di Generosa. Si attraversano i secoli accompagnando la vicenda singolare
della chiesa di Santa Passera, che è sempre rimasta attiva per due millenni e che è dedicata a
una santa mai esistita. Si aprono finestre sul Rinascimento ripercorrendo la storia della Caset-
ta de’ Mattei. Si fa conoscenza con Monaldo Leopardi, padre del grande poeta di Recanati,
che nel primo Ottocento tentò – senza successo – di mettere a coltura e a reddito la zona
con l’aiuto di 70 contadini marchigiani. Si avverte il fervore dell’era industriale. Si sentono
i rumori delle fabbriche insediate sulla riva destra del Tevere. Ci si specchia nell’attualità
scoprendo i segreti del discusso palazzone di Corviale o del moderno Ponte della Scienza. Si
scoprono raffinatezze architettoniche inaspettate come la chiesa di Nostra Signora di Valme.
Si riavvolgono pellicole cinematografiche che sono venute a catturare nel nostro municipio
gli scorci e le ambientazioni più adatti al racconto dell’Italia e degli italiani dal dopoguerra ad
oggi. Si fa conoscenza con inquilini della porta accanto dalle storie pubbliche e private stra-
bilianti, come il campione olimpico di marcia Abdon Pamich che – bambino – si è ritrovato
straniero nella sua natìa Fiume e che cinquant’anni fa si è stabilito sulle nostre strade conclu-
dendo il suo lungo e sofferto peregrinare di migrante. E seguendo questo filo rosso, pagina
dopo pagina, si ricompongono le tessere di un unicum bello e importante. Dove ognuno può
riconoscersi. E sentirsi cittadino.
Nel suo articolo sull’archeologia industriale l’autrice definisce un po’ ingenerosamente «tra i
più anziani» coloro che ricordano «gli odori, i fumi, le fiamme che uscivano costantemente dalla
ciminiera» della ex Purfina. Ebbene sì. Sono anagraficamente reo confesso. Ricordo tutto questo
molto bene. Ho ancora nelle narici l’odore, niente affatto gradevole (un misto tra zolfo e uova
marce), che avvolgeva la zona adiacente all’attuale via Majorana. Ricordo il fumo giallastro che
stazionava sull’impianto e che nei giorni ventosi raggiungeva e penetrava i palazzi più vicini.
Ricordo la fiamma con le sfumature rosso-bluastre che faceva da pennacchio al traliccio-cimi-
niera che a sua volta dominava da una posizione centrale l’intero stabilimento. E ricordo bene
un altro ambiente descritto in questo libro (nell’articolo Scene da un Municipio): l’Istituto di
correzione di via Nicola Pellati. Un ex reclusorio per minori che proprio per la sua struttura
di tipo carcerario è stato il set di numerosi film ambientati a Regina Coeli. Lo ricordo bene
perché lì dentro, nel 1964, ho fatto la terza media. In quell’istituto, già dismesso come carcere
e adattato a succursale della vicina scuola pubblica Vigna Pia, per nove mesi ho studiato in un
orario che eufemisticamente possiamo definire insolito: dalle 10 del mattino alle 3 del pome-
riggio. Sì perché nel nostro quartiere, negli anni del boom economico, non c’erano scuole a
sufficienza. E mentre gli amministratori capitolini rincorrevano altre priorità, gli insegnanti e
gli studenti della mia età erano costretti a fare i doppi e i tripli turni. Un altro tassellino della
storia di questo municipio che forse è bene non dimenticare.

Guido Dell’Aquila

Fig. 1 – L’edificio di Vigna Pia in un’incisione realizzata a seguito della terribile esplosione della vicina ‘Polveriera
Portuense’, che avvenne accidentalmente il 23 aprile 1891 e che fu avvertita in tutta Roma. L’edificio, come i casali
circostanti, riportò notevoli danni
A(nte) d(iem) IIII k(alendas) Iunias / Taurus Statilius Corviṇus,
promagister collegii fratru[m Arvalium] / nomine in luco deae Diạe
vaccam immolavit. 1

Il 29 maggio (del 38 d.C. - n.d.r.), il vice-presidente Taurus Statilius


Corvinus, a nome del Collegio dei Fratelli Arvali, ha immolato nel
bosco sacro una vacca alla dea Dia.

1
Tratto da un’iscrizione su tavola marmorea recante il verbale delle cerimonie arvaliche dell’anno 38 d.C. - J. Scheid, Commentarii fratrum
Arvalium qui supersunt. Les copies épigraphiques des protocoles annuels de la confrérie arvale (21 av. - 304 ap. J.-C.), Rome 1998, p. 28, nr. 12.
Fratres Arvales
Un collegio sacerdotale romano sulla sponda portuense

Maria Gabriella Cimino

1
Rinvenimenti archeologici che a par-
tire dal periodo Rinascimentale sono prose-
Il territorio dell’XI Municipio, sito nel quadrante sud occi- guiti nei secoli successivi, intensificandosi,
soprattutto a partire dalla seconda metà del
dentale della città, a destra del Tevere, fu in età romana sede di secolo scorso, con la massiccia urbanizzazione
insediamenti a carattere abitativo (rurale e residenziale), religioso dell’area (L. Cianfriglia et alii, Il Municipio
XI (già XV) di Roma. Il Sitar a supporto della
e cimiteriale, nonché di una importante rete di infrastrutture tutela del territorio, in Archeologia e Calcolatori,
idrauliche (acquedotti, cisterne, pozzi) e stradali 1. Due grandi 7, 2015, pp. 341-352).

Fig. 1 – Ponte Galeria. Tratto glareato (ossia costruito con ghiaia e ciottoli di piccole e medie dimensioni, pressati nel terreno) della
via Campana (da L.Cianfriglia, Portuense Magliana (Municipio XV). Inquadramento topografico, in M.A. Tomei (a cura
di) Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980/2006 (catalogo della mostra), Roma 2006
12 M.G. Cimino

2
La via Campana, attestata fin da età arterie, la via Campana (Fig. 1) e la via Portuense 2, strategiche
arcaica, collegava il Foro Boario, dove le fonti
collocano le salinae Romanae, con il Campus sa-
per i collegamenti tra Roma e l’area portuale alla foce del Tevere,
linarum, le saline prossime al mare nell’attuale costituirono, infatti, la ‘spina dorsale’ della zona che, suburbio di
comune di Fiumicino. Sul tracciato della via, Roma in età antica 3, ebbe un considerevole ruolo economico per
probabilmente utilizzata per operazioni di alag-
gio almeno fino al XIX secolo, gli studiosi non lo sviluppo della città 4.
sono concordi. Con buon margine di sicurezza Ancora oggi la toponomastica moderna evoca il passato del
possiamo affermare, però, che essa partiva dal
ponte Sublicio e da qui seguiva la sponda del luogo facendo riaffiorare alla mente antichi paesaggi, vicende,
Tevere. La strada non fu più citata dalle fonti personaggi, che oggi consentono di rendere la sua storia ‘viva e
a partire dal III secolo d.C., da allora in poi la
via menzionata è la Portuense (J. Scheid, s.v.
forte per chi la vuole cercare e ha desiderio di conoscerla’ 5.
Campana Via, in Lexicon Topographicum Urbis È proprio in questa prospettiva che si colloca la scelta della
Romae. Suburbium, vol. II, Roma 2004, pp.
56 ss.). Tale tracciato che prende il nome dal
denominazione Arvalia oggi attribuita al Municipio; il nome,
porto realizzato dall’imperatore Claudio nel I fortemente legato ai miti sulla nascita di Roma, è stato seleziona-
secolo d.C. doveva seguire lo stesso percorso to a seguito di un concorso di idee voluto dall’Amministrazione
della Campana fino al I miglio (attuale via E.
Quirino Majorana) dove le due strade si sepa- Capitolina nel 1996 6.
ravano: la Campana seguiva il fiume, mentre la Nel territorio in esame si trovava, infatti, il bosco sacro
Portuense si dirigeva all’interno verso le colline
con percorso più breve. Dopo Ponte Galeria i (lucus) della dea Madre, venerata con il nome dea Dia (Fig. 2).
due tracciati tornavano a coincidere (E.M. Lo- Successivamente identificata con Cerere, Dia era la dea della
reti, s.v. Portuensis via, in Lexicon Topographi-
cum Urbis Romae. Suburbium, vol. V, Roma
terra, della natura, dei campi e delle messi. Al culto della divinità
2008, pp. 223 ss.). si dedicavano gli Arvali (o Ambarvali) nella cui etimologia del
3 Con il termine suburbium gli antichi
nome (amb ‘intorno’ e arva ‘campi’) 7 è il ricordo della ritualità
indicavano generalmente la fascia di territorio
sub Urbe, la zona che si estendeva subito fuori romana primitiva. Il collegio sacerdotale, difatti, secondo la
delle Mura Aureliane (III secolo d.C.) di cui tradizione, fu istituito da Romolo 8 ed ebbe come prerogativa
però non sono certi i limiti precisi (A. La Re-
gina, Presentazione, in Lexicon Topographicum esclusiva il termine fratres.
Urbis Romae. Suburbium, vol. I, Roma 2001).
4
Secondo il mito, riportato da fonti del I e II secolo d.C.
Fin dalle origini la fortuna di Roma di-
pese infatti dalla sua vicinanza al mare e dalla
(Plinio il Vecchio e Aulo Gellio), gli Arvali rappresentavano i figli
presenza del fiume che rappresentò da sempre di Acca Larenzia, leggendaria nutrice di Romolo, e del pastore
un binomio inscindibile con la città determi- etrusco Faustolo. Il sodalizio era composto da 12 membri a vita,
nandone lo sviluppo economico. Tale vocazio-
ne dell’ambito territoriale preso in esame rimase il cui numero poteva variare in quanto, a volte, venivano aggiunti
inalterata nel corso dei secoli come testimonia ai sodali alcuni imperatori o membri della famiglia imperiale.
in ultima analisi la destinazione industriale della
zona formalizzata, per la prima volta, nel Piano L’ammissione avveniva per cooptatio, ossia per scelta autonoma
Regolatore Generale di Roma del 1931.
5
da parte dei membri della corporazione, ovvero per rescritto
E. Giovannini, Nel nome, la storia:
toponomastica del Suburbio di Roma. Nomina
imperiale. Sappiamo anche che il collegio, completamente
sunt consequentia rerum, (a cura di E. Coccia), restaurato dall’imperatore Augusto, fu particolarmente prestigio-
Roma 2014.
6
A. Anappo, Arvalia (Municipio), Roma
so, pur non essendo tra i più importanti 9, e che i suoi membri
2002. appartenevano ai ranghi sociali più elevati. Le celebrazioni sacre
7
In generale sugli Arvali cfr. G. Mancini, in onore della divinità, come già detto connesse con la vita agra-
M. Lauchantin De Gubernatis, s.v. Arvalia,
in Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1929. ria delle origini 10, gli Ambarvalia, si svolgevano annualmente,
8
Cfr. G. Mancini, M. Lauchantin De nella seconda metà mese di maggio per tre giorni anche non
Gubernatis 1929, art. cit., nota 7. Secondo
gli antichi il numero degli Arvali rappresentò
consecutivi (17, 19 e 20 o 27, 29 e 30), con lo scopo di purificare
anche i dodici mesi dell’anno. le messi e allontanare i cattivi influssi. Durante tali cerimonie gli
Fratres Arvales. Un collegio sacerdotale romano sulla sponda portuense 13

Fig. 2 – Il tempio della dea Dia secon-


do una ricostruzione dell’ingegnere ed
archeologo romano Rodolfo Amedeo
Lanciani (1845-1929)

9
L. Calabi Limentani, Epigrafia Latina,
Milano 1985, p. 389 ss.
10
Caratterizzato dall’uso di rituali e for-
mulari arcaici come, ad esempio, l’esclusione
dalle cerimonie dell’uso del ferro.
11
Il carmen fu trovato nella forma attua-
le nel 1778 inciso in una tavola, oggi conserva-
ta ai Musei Vaticani, contenente gli atti di una
cerimonia del 218 d.C., periodo in cui già non
era più compreso dai membri del sodalizio che
lo intonavano: E nos, Lases iuvate! (ter)/ Nevelue,
rue, Marmar, sins incurrere in pleores! (ter)/ Satur
fu, fere Mars, limen sali, sta ber ber (ter)/ Semu-
nis alternei advocapit conctos (ter)/ E nos, Marmor,
iuvato! (ter) Triumpe triumpe! (ter) [Corpus In-
scriptionum Latinarum, VI, 2104] la cui tradu-
zione dovrebbe essere: Oh! A noi! Lari, aiutateci!
(tre volte)/ No, pestilenza e rovina, o Marmar, (tre
volte)/ non permettere che trascorrano tra il popolo!
(tre volte)/ Sii sazio, o feroce Mars; (tre volte)/ bal-
za sulla soglia, fermati là, (tre volte)/ I Semòni, sei
alla volta, li chiamerà tutti a parlamento. (tre volte)/
Oh! a noi! Marmor [di incerta spiegazione, forse
Arvali circoscrivevano a passo di danza il perimetro degli arva ulteriore appellativo di Marte], aiutaci! (tre volte)/
Trionfo, trionfo [ossia: ‘battete il piede tre volte’]! (tre
della città e intonavano il carmen Arvale ‘con lo scopo di rendere volte) cfr. http://www.documentacatholicaomnia.
il territorio ivi compreso invalicabile sia da nemici esterni che da eu/03d/0000-0400,_Absens,_Carmina_Alte-
ra,_IT.pdf; J. Scheid, Recherches Archèologiques á
attacchi infettivi interni (malattie e pestilenze)’. Tale carmen era la Magliana. Commentarii Fratrum Arvalium qui
una composizione solenne, incisiva, in versi saturni, redatto in lati- supersunt. Les copies èpigraphiques des protocoles an-
no arcaico di difficile comprensione, che denuncia nell’impianto nuels de la confrérie arvale (21 a.c.-304 ap. J.C.), in
(Roma Antica, 4), Roma 1998; John Scheid, nato
lessicale e nella formulazione, assimilabile a un’invocazione magica in Lussemburgo nel 1946, è uno dei maggiori stu-
secondo alcuni studiosi, la sua antichità11. diosi della religione e della storia sociale romana.
Nel 1972 discusse la tesi di dottorato a Parigi e
Sebbene gli autori antichi citino pochissime volte gli Arvali 12, l’anno successivo ottenne la cittadinanza francese.
una cospicua quantità di documenti epigrafici pertinenti ai Da allora iniziò la sua collaborazione con l’École
Française de Rome e seguì le indagini archeologi-
resoconti delle adunanze annuali del collegio compensano egre- che nel bosco sacro degli Arvali dal 1975 al 1988
giamente la scarsità di fonti a disposizione sul sodalizio. Questi e dal 1997 al 1998 con l’archeologo H. Broise.
Dal 2001 è docente di ‘Religione, istituzioni e so-
protocolli 13 (acta), oggi conservati nel Museo Nazionale Romano cietà’ di Roma antica presso il Collège de France
e nei Musei Vaticani, furono trovati, a partire dal 1570 fino ai (J.M. Montremy, La patience de John Scheid, in
giorni nostri, nell’area del lucus. Solo alcune lastre furono scoper- «L’Histoire», n. 380, ottobre 2012, pp. 18-19; cfr.
https://it.wikipedia.org/wiki/John_Scheid).
te in località lontane dal sito originario (chiesa di San Crisogono 12
M.V. Varrone, De lingua latina, V, 8.
13
a Trastevere o al Teatro di Marcello). Si tratta di testi epigrafici Oggi si conservano circa 250 esemplari
interi o frammentari degli acta ascrivibili ad un
incisi su tavole di marmo lunense, compilati per ogni cerimonia periodo compreso tra il 21 e il 304 d.C. (cfr. J.
sacra, collocati sugli edifici che costituivano il complesso sacro. Scheid 1998, op. cit, nota 8).
14 M.G. Cimino

Da questa documentazione, sebbene parziale 14, apprendiamo, ad


esempio, una serie di notizie relative all’organizzazione del culto,
alla gerarchia sacerdotale, a capo della quale era un magister eletto
annualmente e al tipo di sacrificio praticato 15.
Il culto, attestato da alcune fonti letterarie fin dal periodo
regio sul colle Palatino, venne trasferito in epoca non deter-
minabile allo stato attuale delle ricerche 16 nell’area sita al V
miglio della via Campana, corrispondente oggi alla borgata
della Magliana, o meglio, nell’area di circa 5 ettari che dall’ansa
fluviale della Magliana Vecchia risaliva la collina di Monte delle
Piche (Fig. 3).
Fig. 3 – Planimetria del santuario del-
la dea Dia alla Magliana (da Scheid
2004). Si possono riconoscere – come
riferimenti per la localizzazione del sito
– il tracciato (tratteggiato) della ferrovia
Roma-Fiumicino con accanto la stazione
ferroviaria di Magliana (detta Magliana
vecchia) e più in alto piazza Madonna di
Pompei con la chiesa omonima

14
A partire dall’età post antica, con l’ab-
bandono del sito, molte lastre andarono perdute.
15
Qui la presenza di numerosi rinvenimenti archeologici con-
Mancini, Lauchantin De Guberna-
tis, art. cit., nota 8, descrive in dettaglio tutte fermano l’esistenza di un complesso cultuale molto articolato,
le cariche del sodalizio e i sacrifici che venivano sviluppatosi tra il I e il III secolo d.C. e abbandonato, come
celebrati anche in riferimento al culto dell’im-
peratore, della famiglia imperiale o in occasione
provano le testimonianze epigrafiche del periodo dioclezianeo
della consacrazione dello stesso, ovvero alla (304 d.C), quando venne costruita la catacomba di Generosa.
triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva).
16 Il declino del luogo proseguì inesorabile nei secoli successivi.
Anche se Varrone accenna alla presenza
del lucus sulla via Campana già in età repubbli- Nonostante ciò le indagini archeologiche, condotte sistematica-
cana (Varro, op. cit., nota 12), le testimonianze mente negli ultimi decenni dall’École Française de Rome, hanno
delle fonti sono scarsissime sull’argomento e i
rinvenimenti risalenti a tale periodo non per- permesso di delineare con certezza la topografia del sito in età
mettono di delineare la topografia del sito (J. severiana (secondo quarto del III secolo d.C.) quando il lucus
Scheid, s.v. Dea Dia, in Lexicon Topographicum
Urbis Romae. Suburbium, vol. II, Roma 2004,
e gli edifici che si trovavano al suo interno vennero definitiva-
pp. 189 ss.). mente organizzati secondo un asse est-ovest, perpendicolare alla
Fratres Arvales. Un collegio sacerdotale romano sulla sponda portuense 15

collina: sulla sommità era il tempio dedicato alla dea, a pianta


circolare del diametro di 25 metri (Fig. 4); una serie di are e altre
costruzioni si trovavano lungo le pendici (Figg. 5-6) e tra queste
rivestono particolare interesse il Caesareum, dedicato agli impe-
ratori defunti o divinizzati, il tetrastylum, un portico colonnato
destinato ai banchetti e al riposo dei sacerdoti, un balneum e un
circo dove, dopo i banchetti, avevano luogo le corse.
Oggi purtroppo il luogo è impraticabile e molte delle strut-
ture interrate dopo lo scavo Basterebbe, però, farsi avvolgere
dalla suggestione che, almeno in alcuni punti, ancora la sacralità
Fig. 4 – Pianta del basamento circolare
dell’area suggerisce (Figg. 7-8) per dimenticare il caos e i ‘rumori del tempio della dea Dia, in parte an-
della modernità’. cora esistente sotto un edificio in via del
Tempio degli Arvali n. 17, secondo una
ricostruzione del Lanciani

Fig. 5 – Antefissa in marmo di epoca imperiale proveniente Fig. 6 – L’antefissa arvalica è stata scelta dal Municipio XV
dal Santuario di Dea Dia, che sorgeva presso l’attuale via (attualmente XI) come logo dopo che dal 1996 ha adottato
del Tempio degli Arvali alla Magliana. (Museo Nazionale la denominazione Arvalia – Portuense. L’opera in bronzo
Romano, inv. n. 587758). (Su concessione del Ministero rappresentata è stata realizzata dall’artista Giuliano Giganti
dei beni e delle attività culturali e del turismo - Soprin-
tendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale
Romano e l’Area archeologica di Roma)
Fig. 7 – I sec. d.C. Frammento di lastra relativa ad una cerimonia arvalica con sacrificio di bovino (da Scheid 1998, pp. 74-75,
fig. 38, n. 28 def)

Fig. 8 – III sec. d.C. Frammento di lastra relativa ad una


cerimonia arvalica con citazione di suovetaurilia, il sacri-
ficio dei tre animali domestici, maiale (sus), pecora (ovis),
toro (taurus), offerti a scopo purificatorio (da Scheid 1998,
pp. 298-299, fig. 146, n.100)
Casetta de’ Mattei
Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario

Mauro Martini

Circa nell’anno 121 dalla fondazione di Roma – dunque


circa nel 632 a.C. – Anco Marzio (Fig. 1), quarto re di Roma,
affrontò in battaglia e sconfisse l’esercito etrusco dei Vejenti pres-
so il Campus Salinarum, toponimo con il quale in epoca antica
erano chiamate le saline allora esistenti alla foce del Tevere, più o
meno nell’area oggi occupata dall’aeroporto Leonardo da Vinci.
Fu per i romani una vittoria importante che consentì loro di
dominare la foce del Tevere, strategica per la sicurezza dell’urbe
e di entrare in possesso di molte terre situate sulla sponda destra
del fiume, tra cui il grande bosco denominato ‘Selva Mesia’.
Fig. 1 – Testa di Anco Marzio, quarto
Narra Tito Livio nel suo Ab Urbe Condita - Liber I - XXXIII:
re di Roma, in un ‘denario’ del 56 a.C.
«Tolta ai Veienti la Selva Mesia, il dominio fu esteso fino al mare,
e alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia».
Ma dove era localizzata la ‘Selva Mesia’? Nel XIX secolo l’ar-
chitetto Luigi Canina (1795-1856), studioso di monumenti anti-
chi e di archeologia, offrì il suo contributo ad una sua puntuale
localizzazione:
«si viene a determinare la situazione della stessa selva
in quel tratto di paese che corrisponde lungo il corso del
Tevere tra il designato termine, lungi cinque miglia da
Roma ed il mare, ossia tra il luogo ora detto la Magliana
e Porto» 1.

Ebbene una prima considerazione da fare è la seguente: alcuni


frammenti di quella vastissima e antichissima zona boschiva – che
si estendeva dal Tevere a Maccarese, fino alla via Aurelia ed oltre
– sopravvivono sorprendentemente ancora oggi sia all’interno che
all’esterno del Grande Raccordo Anulare.
Uno di questi è il bosco attraversato dalla via Portuense 1
L. Canina, Esposizione Storica della
presso il fosso della Magliana – per chi esce da Roma poco dopo Campagna Romana Antica, Roma 1839, p. 254.
18 M. Martini

Fig. 2 – Il bosco attraversato dalla via


Portuense l’incrocio con via del Ponte Pisano – attualmente conosciuto
come ‘Bosco Somaini o Macchia Mattei’ (Fig. 2).
La discendenza diretta di questo bosco dall’antichissima
‘Selva Mesia’ venne confermata esplicitamente dall’autorevole e
famoso professore di archeologia Antonio Nibby in un suo passo
scritto agli inizi dell’Ottocento:
«[…] la strada entra nella selva de’ Mattei, la quale
continua da questo punto per tutta da salita della
Casetta, e per la spianata del dorso seguente, lasciandosi
dove comincia la discesa detta della Muratella, perché
conduce ad un tenimento di questo nome. Questa selva è
la celebre Sylva Maesia nominata da Livio, tolta da Anco
Marzio ai Veienti verso l’anno 121 di Roma: essa però
in origine era più vasta, e forse prendeva dal Tevere fino
all’Arrone […]» 2.
2
A. Nibby, Della via Portuense e dell’anti-
ca città di Porto. Ricerche di Antonio Nibby, pub-
blico professore di archeologia nella Università
Gli esemplari di farnetto, sughera, cerro, che incontriamo
di Roma. Roma 1827, p. 25. oggi attraversando questa macchia di circa 30 ettari – che ancora
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 19

ospita animali selvatici di notevole interesse quali ad esempio


istrici, volpi, tassi – rappresentano dunque una memoria vivente
di quelli dell’antica Selva.
Per cercare di capire come questo frammento di bosco si sia
potuto conservare attraverso i secoli è però opportuno ripercor-
rere le vicende storiche della porzione di Agro Romano che oggi
lo include, per secoli conosciuta come Tenuta della Casetta de’
Mattei e solo in anni relativamente recenti come Tenuta Somaini.
Ad iniziare dalle sue origini (Fig. 3).

Fig. 3 – Il ‘fosso della Magliana’ e una


parte del bosco
Nel 1907 il prof. Luigi Amilcare Fracchia (1872-1922), allo-
ra titolare della Cattedra d’Agricoltura Pratica di Roma, nel suo
saggio dal titolo Le leggi agrarie sull’agro romano così descrive l’or-
ganizzazione del territorio attorno a Roma in epoca imperiale:

«Noi possiamo figurarci l’economia agricola del


tempo, per un ampio raggio intorno a Roma (centro di
consumo e di relativa scarsa produzione), constare di una
prima zona di orti e frutteti, di una seconda zona divisa
in poderi e di una terza ed ultima zona adibita in gran
parte a pascoli».

Questa suddivisione fondiaria del territorio operata dai Romani


si è poi mantenuta nei secoli, nonostante la caduta dell’impero
d’occidente. L’invasione dei Longobardi, verso la fine del VII seco-
lo, determinò la scomparsa delle grandi ville rustiche che la nobiltà
romana si era fatta costruire per soggiornare piacevolmente, ma
soprattutto per vigilare – quando i doveri militari non tenevano
20 M. Martini

il proprietario lontano dalle sue terre – sulla gestione delle gran-


di aziende agricole connesse alle ville e così da quel periodo la
campagna attorno a Roma cessò di essere regolarmente coltivata.
Nell’XI secolo questo territorio divenne sempre più insicuro, sede
di frequenti scontri armati tra le fazioni feudali. Ciò determinò la
definitiva scomparsa dei latifondi e delle medie proprietà di ori-
gine romana e favorì la coltivazione solo delle terre relativamente
più sicure, quelle più vicine alla cinta delle mura urbane. Si andò
così consolidando la prima zona periurbana di Roma, che aveva
un particellare agrario minuto ed una conformazione morfologi-
ca molto riconoscibile, quella che il Prof. Fracchia definì «zona
di orti e di frutteti», che comprendeva recinzioni anche murate,
moltissimi vigneti e persino la coltivazione dei fiori e che, fin
dall’epoca di Augusto, venne denominata ‘Suburbio’.
Lungo la via Portuense il limite esterno del ‘Suburbio’ cor-
rispondeva circa con l’attuale ‘via delle Vigne’. Oltre tale limite,
dall’Alto Medioevo in poi, iniziava la seconda zona periurbana,
che comprendeva – abbandonati e soggetti ad impaludamenti
malarici – quelli che in precedenza erano stati i possedimenti
agricoli della Roma imperiale: le cosiddette ‘Tenute’.
Nel XV secolo l’abbandono dell’agricoltura attorno a Roma
determinò la diffusione della pastorizia, sicché prese progressiva-
mente forma quel tipico paesaggio di pascolo, caratterizzato da
vastissimi e luminosi orizzonti, senza alberature, ma con ruderi
di acquedotti e grandi silenzi, per il quale lo storico ed umanista
rinascimentale Flavio Biondo (1392-1463) ripristinò il termine
‘Agro Romano’, che poi la cultura del romanticismo esaltò come
di sublime e maledetta bellezza (Fig. 4).

Fig. 4 – Ruins in the Campagna di


Roma – Thomas Cole. Anno 1842. Olio
su tela
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 21

Fig. 5 – Il ‘Casale della Magliana fuori


L’abbandono delle campagne favorì in qualche misura la Porta Portese alle sette miglia’. Litografia
di Eugenio Landesio. Anno 1835
conservazione della zona boschiva dell’antica ‘Selva Mesia’, anche
se le necessità di disboscamento per legnatico e pascolo ne dimi-
nuirono enormemente l’estensione. Tuttavia la ragione primaria
della sopravvivenza del frammento boschivo, quanto meno in
epoca rinascimentale, può essere ricondotta alla presenza, sul
margine orientale del bosco stesso, lungo via della Magliana,
della cosiddetta ‘Villa dei Papi’.
Questo pregiato complesso architettonico di antica origine
medioevale, che dal 1957 è diventato sede dell’Ospedale San
Giovanni Battista del S.O.M. dei Cavalieri di Malta, fu oggetto
di ristrutturazioni prima sotto il pontificato di papa Sisto IV e
poi – nella seconda metà del Quattrocento – sotto quello di papa
Innocenzo VIII e di papa Giulio II, fino a divenire la residenza
preferita per le attività di caccia dei papi e della loro corte (Fig. 5).
Ciò fu possibile proprio in virtù della sua poca distanza da
Roma, della vicinanza alle sponde del Tevere, con le relative paludi
22 M. Martini

– habitat ideale per molti animali – ma soprattutto grazie alla


contigua area boscata, ricca di selvaggina, che divenne riserva di
caccia ed in quanto tale, si presume, oggetto di tutela e regola-
mentazione dell’uso.
La ‘Villa dei Papi’ o ‘Casale della Magliana’, ricompresa
nell’omonima tenuta ecclesiastica, ebbe così un periodo di gran-
de utilizzazione sotto papa Leone X, che fu pontefice dal 1513
al 1521, il quale amava l’arte venatoria e particolarmente quel
luogo, così vicino alla città eppure così affascinante dal punto di
vista ambientale e ricco di selvaggina (Fig. 6).
Ed in effetti nella prima metà del Cinquecento di animali da
cacciare, sulle colline e lungo le sponde pianeggianti del Tevere,
se ne trovavano ancora molti. Su questo argomento abbiamo
alcune indiscutibili certezze in quanto possiamo avvalerci delle
Fig. 6 – Ritratto di Papa Leone X descrizioni lasciate da un testimone del tempo, decisamente
competente ed informato. Si tratta di Domenico Boccamazza
che fu capocaccia di papa Leone X e che nel 1548 scrisse e
fece stampare otto libri sulla caccia, nei quali indicò le parti di
territorio romano, con relativi toponimi, dove dovevano essere
condotte le battute venatorie ed inoltre descrisse le tecniche più
idonee per catturare i vari tipi di selvaggina. In uno dei suoi libri
egli trattò proprio la caccia che doveva condursi nel fitto bosco
della ‘Casetta’ (non ancora dei Mattei), che lui chiamò infatti «La
caccia del forte de la Casetta», dove il termine «forte» deve qui
intendersi nell’accezione del tempo, cioè come aggettivo sostan-
tivato usato al posto di ‘bosco’, ad indicare una selva fittissima,
come ad esempio quella descritta da Dante nei primi, celebri versi
dell’Inferno: «[...] esta selva selvaggia e aspra e forte, che nel pensier
rinova la paura!».
Riportiamo di seguito un brano tratto del testo cinquecentesco
del Boccamazza:
«Si Escha da Porta santo Panchratio, o vero da porta
portese & si vadi a fare alto (cioè a fermarsi n.d.r.) al
passo della acqua che va alla Casetta (il ponte di via della
Pisana sul fosso della Magliana n.d.r.), l’qual passo va ha
Castel mal nome, & si scioglino li Bracchi a mano dritta
passato il fuosso, & si cerchi tutto el forte della Casetta
fino alla Magliana […]» (Fig. 7).

La battuta di caccia, secondo le sue ulteriori indicazioni,


doveva poi proseguire percorrendo varie tenute contigue alle due
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 23

Fig. 7 – Il cortile interno del Castello


della Magliana

prima citate, delle quali egli segnala i toponimi ancora oggi in


uso: Casale Saracino, Pantanello, Campo de’ Merli, la Lupara,
Pisciarello, ecc.
Dunque la battuta doveva essere lunga e impegnativa. Quello
che incuriosisce maggiormente, scorrendo oggi le cronache del
Boccamazza, è la quantità e qualità della selvaggina che allora si
poteva incontrare.
Eccone la descrizione originale, comprensiva delle imperfezioni
grammaticali dell’epoca

«In questa Caccia si a d’avertire che in nel forte della


Casetta si sogliono alcune volte trovare porci (cinghiali
n.d.r.) & alcuna volta (in passato n.d.r.) vi si solevano
trovare Cervi, per questo le armate (cioè i dispositivi di
barriere, reti, trappole, necessari per cacciare n.d.r.) di
dette fiere sono diverse, perché quando vi erano Cervi,
si armava in un’modo, e trovandosi porci si de armare in
un’altro, pertanto se dirà l’armata che sia da fare essendo-
vi Porci e Caprii (caprioli n.d.r.) e poi si dirà l’armata che
si faceva quando vi erano cervi […]».

Già nella prima metà del Cinquecento i cacciatori rimpian-


gevano dunque ‘i bei tempi andati’, quando il bosco era pieno di
pregiati e nobili cervi. Il Boccamazza, con evidente rammarico,
sembra invece costretto a doversi accontentare di cacciare ‘solo’
cinghiali e caprioli. Del resto occorre dire che i cinghiali non
sono mai mancati attorno a Roma e le recenti cronache narrano
di alcune loro spudorate incursioni, in cerca di cibo, persino
24 M. Martini

nelle periferie urbanizzate a nord della capitale.


La ‘Carta della Campagna Romana’, una mappa di quell’epo-
ca, particolarmente precisa e dettagliata, ci permette poi di cono-
scere la conformazione del territorio ed anche il relativo paesaggio.
Venne redatta nel 1547 dal cartografo fiorentino Eufrosino della
Volpaia sotto il pontificato di Paolo III (Fig. 8).
Si tratta dunque di un elaborato grafico prodotto circa negli

Fig. 8 – Particolare della ‘Carta della


Campagna Romana’ redatta da Eufro-
sino della Volpaia nel 1547. Si possono
individuare la ‘Casetta’, con simboli di
alberature al contorno e la ‘Villa dei
Papi’ detta ‘Magliana’ in prossimità del
Tevere

stessi anni dei libri del Boccamazza, sicché consultando questa


antica carta è possibile seguire, luogo dopo luogo, gli itinerari di
caccia da lui descritti. In particolare in questa ‘Carta’ si trovano
localizzati, con un disegno e con la vicina scritta del relativo
toponimo, sia ‘la Casetta’, cioè quella che diventerà ‘Casetta
Mattei’, con attiguo bosco, sia la ‘Villa dei Papi’ alla ‘Magliana’.
A partire dal XVI secolo si rintraccia una buona documenta-
zione relativa alla tenuta di ‘Casetta Mattei’, una vasta proprietà
rurale situata nel territorio portuense subito oltre il limite del
‘Suburbio’. Ed è proprio di questa tenuta, mantenutasi in gran
parte ancora oggi, che intendiamo approfondire alcuni aspetti
storici e paesaggistici.
Come per le altre tenute dell’‘Agro Romano’ appare vero-
simile ipotizzare anzitutto che la sua estensione territoriale ed i
suoi confini si siano formati in epoca imperiale e poi – per l’iner-
zia delle trasformazioni dell’‘Agro Romano’ – si siano conservati
integri nei secoli successivi, fino al Cinquecento.
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 25

Lo storico Giuseppe Tomassetti (1848-1911) nel suo sesto


volume sulla Campagna Romana, in cui tratta della via Portuense
e dei territori circostanti, dedica un paragrafo proprio alla sto-
ria della ‘Casetta Mattei ’ 3. Apprendiamo così che è posta a «5
miglia e mezzo da Roma». Nello Stato Pontificio ‘un Miglio’
(pari a 1000 passi geometrici) corrispondeva a metri 1.489,479.
Dunque la tenuta distava da Roma poco più di 8 km.
All’inizio del Cinquecento apparteneva al Capitolo Vaticano.
Ciò potrebbe far ritenere che la proprietà fondiaria in questione
sia divenuta una proprietà ecclesiastica in epoca remota, così
come accaduto per molte altre parti dell’‘Agro Romano’, quan-
do Costantino I, che governò dal 306 al 337 e che fu il primo
imperatore ad abbracciare la fede cristiana, donò gran parte dei
beni terrieri del Demanio Imperiale alla Chiesa di Roma. Inoltre
l’appartenenza di quella che ancora si chiamava solo ‘Tenuta della
Casetta’ e del relativo bosco direttamente al patrimonio della Chiesa
può spiegare il motivo per cui nel rinascimento – e almeno fino al
1521, anno in cui morì papa Leone X – i papi fecero largo uso del
bosco stesso come riserva di caccia per loro e la numerosa corte.
Nel 1527 – sempre secondo quanto segnalato dal Tomassetti
– il Capitolo Vaticano decise però di alienare la tenuta con il suo
bosco, forse perché i papi che succedettero a Leone X non erano
poi molto interessati alla caccia. Certamente non lo doveva essere Fig. 9 – Stemma araldico della nobile fa-
il successore, l’olandese Adriano VI, eletto a 63 anni e morto nel miglia Mattei di Giove: aquila al natu-
1523 dopo un solo anno di pontificato, né il successivo papa rale coronata di oro su oro. Banda di oro
su scaccato di azzurro e di argento
Clemente VII. Quest’ultimo, dopo il ‘Sacco di Roma’ attuato dai
lanzichenecchi, venne fatto prigioniero il 5 giugno del 1527, per
essere poi liberato nel successivo mese di dicembre dietro il paga-
mento di un pesante indennizzo che dovette versare a Filiberto di
Chalons, principe d’Orange. Dunque il pontefice, in quell’anno,
ebbe necessità immediata di fare cassa – è noto che dovette pagare
per la sua liberazione 400.000 ducati di cui 100.000 subito ed il
resto in tre mesi – e fu in tale circostanza che il Capitolo Vaticano,
vendette la tenuta della ‘Casetta’ al nobiluomo Pietro Antonio
Mattei, che era in buoni rapporti con la curia ed intenzionato ad
acquistare terreni in ‘Agro Romano’.
Il Tomassetti stesso ci conferma questa versione dei fatti quando 3
L. Chiumenti e F. Bilancia, La Cam-
scrive che la ‘Casetta Mattei’ «pervenne ai Mattei (Fig. 9) per com- pagna Romana Antica, Medioevale e Moderna.
Edizione redatta sulla base degli appunti la-
pera, nella liquidazione forzata fatta dopo il sacco del Borbone». sciati da Giuseppe e Francesco Tomassetti, VI,
In questo caso «il Borbone» è Carlo III di Borbone, conosciuto Roma 1977, pp. 378 ss.
26 M. Martini

come ‘Il Connestabile’, che guidò l’assalto dei luterani di Carlo V


d’Asburgo conto le mura di Roma e che proprio in tale assalto fu
ferito a morte, mentre i termini «liquidazione forzata» esprimono
pienamente la modalità di alienazione alla quale fu costretto il
Pontefice per reperire risorse finanziarie.
La famiglia Mattei, che apparteneva al più antico nucleo del
patriziato romano, proprio nei primi decenni del XVI secolo
aveva raggiunto i massimi livelli di potenza e ricchezza, dunque
era nelle condizioni di poter investire ingenti capitali nell’acqui-
sto di beni terrieri e nell’edificazione di residenze in campagna.
Da quell’anno 1527 e per quasi tre secoli la proprietà della tenuta
presso la via Portuense – che nel frattempo aveva preso il nome di
‘Casetta de’ Mattei’ – rimase così di proprietà di quella famiglia
Fig. 10 – La facciata di Palazzo Mat- che aveva stabilito la sua residenza principale a Roma nel cele-
tei verso Santa Caterina de’ Funari nel
Rione Sant’Angelo a Roma, delineata ed bre Palazzo Mattei, progettato dal Maderno e situato nel rione
incisa da G.B. Falda, in una stampa del Sant’Angelo, tra via Caetani e via dei Funari (Figg. 10-11).
1638 ca.
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 27

Nel 1801 la linea maschile dei Mattei si estinse con la morte


del principe Filippo. Tuttavia quando quest’ultimo morì era
ancora vivo l’anziano padre, duca Giuseppe Mattei che per qual-
che anno resse il casato e le relative proprietà fino alla morte,
avvenuta nel 1809. Dopo la morte del vecchio duca il palazzo
e la tenuta della ‘Casetta’ furono ereditati dalla figlia Marianna
che sposò Carlo Teodoro Antici di Recanati, fratello di Adelaide
madre di Giacomo Leopardi. Il poeta stesso soggiornò dagli zii
nel Palazzo Mattei tra il novembre 1822 e l’aprile 1823. Ma
della famiglia Leopardi e dei suoi rapporti con gli Antici Mattei
parleremo più avanti.
Torniamo ora ad occuparci della tenuta (Fig. 12), per cono-
scere la sua estensione, la sua articolazione interna, la sua diversa
utilizzazione nel corso del tempo.
In questo risulta per noi di grande aiuto l’iniziativa del papa
Alessandro VII che, con lo scopo di trovare le risorse fiscali utili
Fig. 11 – Il cortile interno del Palazzo
a contribuire alla manutenzione delle strade consolari, promosse Mattei
nel XVII secolo la redazione di un catasto dell’‘Agro Romano’,
per un’estensione territoriale corrispondente circa alla superficie

Fig. 12 – Particolare della ‘Tavola Esatta


dell’antico Lazio e Nova Campagna di
Roma’ di Innocenzo Mattei, stampata nel
1666. Si distinguono il toponimo ‘Caset-
ta de’ Mattei’ ed il contiguo tracciato della
via Portuense
28 M. Martini

dell’attuale Comune di Roma e che da lui prese il nome di


‘Catasto Alessandrino’. Tutti i proprietari di terre furono costretti
ad attivarsi subito per consegnare i rilievi e la misura delle loro
proprietà in conformità a quanto disposto dal pontefice (Fig. 13).
In quella circostanza l’agrimensore M.A. Qualeatto venne
incaricato dal nobiluomo Muzio Mattei e dai suoi fratelli,
Giovanni e Francesco, di rilevare, in ottemperanza al bando per
la raccolta degli elaborati catastali, la ‘Misura e Pianta della tenu-
ta della Casetta Mattei’. Incarico che il tecnico portò a termine
in tempo utile il 15 aprile del 1660.
La bellissima pianta a colori della tenuta, che l’agrimensore
disegnò con la dovuta abilità e competenza, è oggi conservata
Fig. 13 – Ritratto di Papa Alessandro presso l’Archivio di Stato di Roma (Presidenza delle Strade, t. 433
VII
bis, f. 6). Nella catalogazione dell’ASR – a conferma della sua pre-
gevole fattura e della ricchezza di particolari – è definita: «Pianta
acquerellata con disegno del casale, torre, fontanili, peschiera, ruderi,
arborei, prati, vigna, macchia e cippi di confine» (Fig. 14).
Grazie a questo prezioso elaborato veniamo a sapere che la
tenuta aveva in quegli anni una estensione di rubbia 685 e 2
‘quarte’. Poiché un rubbio nello Stato Pontificio equivaleva a
mq. 18.484 ed ‘una quarta’ di rubbio era conseguentemente pari
a mq. 4.621, se ne deduce che l’estensione della tenuta nel 1660
era pari a circa 1.267 ettari. Un’estensione considerevole se, ad

Fig. 14 – Catasto Alessandrino, ‘Misura


e Pianta della tenuta della Casetta Mat-
tei’. Aprile 1660. (Su concessione del
Ministero dei Beni e delle Attività Cul-
turali e del Turismo, ‘ASRM 57/2016’)
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 29

esempio, confrontata con alcune delle Riserve Naturali regionali


oggi esistenti attorno e dentro Roma: Tenuta dei Massimi (774
ha), Valle dei Casali (466 ha), Insugherata (740 ha).
La ‘Tenuta dei Mattei’ risultava attraversata – con anda-
mento ortogonale tra loro – dalla via Portuense, allora chiamata
‘via di Porto’ e dalla cosiddetta ‘Marana’, ossia l’attuale fosso
della Magliana. Era suddivisa catastalmente in quattro parti: Il
‘Quartaccio’, con un fontanile; il quarto della ‘Pisana’ con ‘Il casale
detto Casetta de’ Mattei ’, che nel disegno (Fig. 15) mostra, in con- Fig. 15 – Catasto Alessandrino, ‘Mi-
sura e Pianta della tenuta della Ca-
tiguità all’edificio, un’antica torre di origine medioevale, una vasca setta Mattei’. Aprile 1660. Particolare
di raccolta acque ed una muratura a tre arcate con vasca sottostan- dell’edificio principale della tenuta.
(Su concessione del Ministero dei
te, che poi ritroveremo in una successiva stampa ottocentesca; il Beni e delle Attività Culturali e del
quarto di ‘Valle Lupara’, posto sulla sinistra della via Portuense per Turismo, “ASRM 57/2016”)
chi esce da Roma; infine il quarticciolo della ‘Torre’, quello più
piccolo, contiguo all’attuale ‘Via delle Vigne’, che prende il nome
da una torretta a due finestre oggi non più esistente.
Anche il bosco è chiaramente rappresentato nella mappa.
A giudicare dalle sue proporzioni e dalla localizzazione sem-
bra avere un’estensione corrispondente circa a quella attuale.
Evidentemente la vegetazione si era andata riducendo nei 140
anni successivi alle battute di caccia di Leone X. Parte del terreno
è pianeggiante e parte è collinare. La tenuta si mostra poi ricca
di acque, i fontanili sono di certo collegati a sorgenti poste nelle
vicinanze. Il bosco viene disegnato con confini ben definiti.
Un’altra immagine del bosco e del casale, datata anch’es-
sa 1660, si coglie dal dettaglio di un secondo elaborato del
Catasto Alessandrino, la cosiddetta ‘Pianta delle strade fuori
Porta Portese, da pozzo Pantaleo verso Magliana e verso Porto’
(Presidenza delle Strade, t. 433 bis/II), nella cui legenda si indi-
vidua anche un fabbricato detto Hosteria della Casetta di Matthei
contraddistinto dal numero romano XVIII e situata lungo la via
Portuense in prossimità del bosco (Fig. 16).
Le difficoltà a gestire e rendere produttiva la tenuta non
diminuirono col passare dei secoli ed anzi furono aggravate dal
progressivo diffondersi della malaria.
Risulta dagli atti che i Mattei si impegnarono per assicurare la Fig. 16 – Catasto Alessandrino, ‘Pianta
delle strade fuori Porta Portese, da pozzo
buona gestione dei terreni affidando diverse volte in enfiteusi parti Pantaleo verso Magliana e verso Porto’.
della tenuta. Il contratto di enfiteusi assegnava al contraente un Anno 1660. Particolare del bosco della
Casetta Mattei. (Su concessione del Mi-
pieno diritto di godere della produzione dei terreni a lui assegnati, nistero dei Beni e delle Attività Culturali
che rimanevano comunque di proprietà dei Mattei. In cambio e del Turismo, ‘ASRM 57/2016’).
30 M. Martini

Fig. 17 – L’edificio della ‘Casetta Mattei’ visto da via del Ponte Pisano. Anno 1983

Fig. 18 – L’edificio della ‘Casetta Mattei’ ed il suo intorno. Anno 1983


Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 31

l’enfiteuta s’impegnava a migliorare le condizioni del fondo ed a


pagare al proprietario un canone annuo. Tuttavia i risultati non
furono buoni.
Sull’edificazione della ‘Casetta’, ossia del casale principale
della tenuta che annette un’antica torre del XIII secolo, non
si hanno molte informazioni storiche. Il Tomassetti riporta la
notizia, tratta dalle ‘istruzioni per la missione nella diocesi di
Porto’ (l’attuale Fiumicino), che nel 1691 la ‘Casetta’ dei signori
Mattei, «lontana dalla Pisana circa due miglia», aveva al suo
interno una cappella dove nei giorni di festa si celebrava messa.
Questo particolare ci permette di intuire l’ampiezza e l’agio di
questa dimora rurale, che i nobili Mattei certamente ristruttura-
rono in modo adeguato al loro rango, e che è ancora oggi è visi- Fig. 19 – Ritratto di Papa Benedetto
bile osservando attentamente sulla sinistra per chi, provenendo XIV
dalla via Portuense, percorre via del Ponte Pisano verso via della
Pisana (Figg. 17-18).
Questa dimora rurale dei Mattei doveva essere molto cono-
sciuta e stimata, al punto che nel XVIII secolo persino un papa
la utilizzò come luogo ove fermarsi, con tutto il suo folto seguito,
per il cambio dei cavalli della sua carrozza. L’episodio è citato
da Gaetano Moroni, nel suo famoso Dizionario di Erudizione
Storico-Ecclesiastica 4
«A’ 29 aprile 1745 Benedetto XIV partì da Roma e
andò a Porto, avendo seco in carrozza il cardinal Valenti
segretario di stato e Colonna pro-maggiordomo; nelle
due mute che lo seguivano, presero luogo nella 1.* i
prelati segretario de’ memoriali, pro-maestro di camera,
elemosiniere e medico archiatro; nella 2.* i cappellani
segreti e gli aiutanti di camera. Gli altri si recarono prima
o dopo. La guardia svizzera l’accompagnò sino a porta
Portese. A’ lati della carrozza pontificia cavalcavano il
foriere maggiore e il cavallerizzo maggiore. Si cambiarono
i cavalli alla casetta di Mattei della muta pontificia, ed a
Porto fu ricevuto dal cardinal vescovo; quindi inviossi
verso Fiumicino, alla foce del Tevere. Tornato a Porto vi
pranzò, e nella sera si restituì a Roma» (Fig. 19).

Un bel disegno ottocentesco del ‘Casale di Macchia Mattei’


è giunto fino a noi, opera del pittore Eugenio Landesio (1809-
1879). Il disegno, che nel 1837 fu litografato da Agostino Wieller
nei suoi laboratori romani di via del Corso 193, evidenzia in 4
G. Moroni, Dizionario di Erudizione
primo piano sulla sinistra quelli che, pur ricoperti da vegetazione Storico-Ecclesiastica da S. Pietro ai nostri giorni.
spontanea, sembrano i resti di un acquedotto e di una fonte di XCVII, Venezia 1860, p. 205.
32 M. Martini

Fig. 20 – Il vialetto di ingresso dalla via Fig. 21 – ‘Casale di Macchia Mattei. Sette miglia da Roma sulla strada di Fiumicino’.
Portuense ed ‘Casale di Macchia Mattei’ Litografia di Eugenio Landesio. Anno 1836
o ‘Casetta Mattei’. Anno 1983

acqua sorgiva che sembra abbia generato un piccolo stagno entro


cui si aggira un pescatore, probabilmente di rane. Si tratta dello
stesso elemento murario, contraddistinto da arcate, come detto
già presente nella mappa del ‘Catasto Alessandrino’.
L’edificio della ‘Casetta’ invece appare un poco diverso
dall’immagine riportata nel predetto catasto. Presumibilmente
doveva essere stato ristrutturato e ampliato dai Mattei nel corso
del ’700 (Figg. 20-21). È visto di fianco, come poteva apparire
a chi vi si avvicinava percorrendo la stradina di accesso dalla
via Portuense, maestosamente immerso in un paesaggio rurale,
aspro e silenzioso, molto in sintonia con i canoni estetici del
romanticismo allora in auge. Da notare un muro di recinzione
e la doppia rampa di accesso al fabbricato, la torre merlata che
spunta dal retro ed una piccola propaggine sul tetto, una mura-
tura porta-campana sovrastata da una croce, a conferma della
presenza di una cappella interna. Quest’ultimo elemento, così
come l’edificio, la torre, la scalinata sono rimasti sostanzialmente
immutati fino ad oggi.
L’immagine disegnata dal Landesio doveva essere certamente
la stessa che si era mostrata, circa trenta anni prima – esattamente
l’11 gennaio del 1802 – agli occhi di un visitatore d’eccezione: il
conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo.
Questo fatto merita di essere approfondito, non solo per la
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 33

Fig. 22 – Retroprospetto dell’edificio della


‘Casetta Mattei’. Anno 1983

curiosità che suscita l’idea del conte Monaldo in persona che


percorre in carrozza la via Portuense e poi visita il casale (Fig. 22) e
passeggia tra i campi e nel bosco, ma per gli aspetti, anche dram-
matici, connessi a questa sua storia e non ultimo perché il conte
stesso, in un suo diario, ci fornisce – da testimone oculare e da
abile scrittore – la descrizione di come si presentava la tenuta in
quel tempo, regalandoci così un’immagine molto verosimile del
paesaggio di allora.
Ma procediamo con ordine.
Come si è detto, nel 1801 con la morte, a soli 31 anni, di
Filippo si estinse la discendenza maschile della famiglia Mattei,
anche se in quell’anno era ancora vivo il sessantaseienne padre
Giuseppe, duca di Giove. Poiché i due fratelli del duca Giuseppe
– il cardinale Alessandro e monsignor Lorenzo – avevano
entrambi intrapreso con successo la carriera ecclesiastica, fu pale-
se subito a tutti che alla morte del vecchio duca, avvenuta poi
nel 1809, la figlia Marianna Mattei, sorella di Filippo, sarebbe
diventata l’erede ufficiale della famiglia, nel nome ed in tutti i
titoli, diritti e prerogative, compresa la ‘Tenuta della Casetta’.
Nel 1801 Marianna aveva conosciuto a Roma Carlo Teodoro
34 M. Martini

Fig. 23 – Il palazzo della nobile famiglia


Antici Mattei a Recanati (MC)

Antici di Recanati, fratello di Adelaide, a sua volta sposata con il


conte Monaldo Leopardi di Recanati, di cui Carlo era amico fin
dall’infanzia. Marianna e Carlo si sposarono nel febbraio 1802,
dando inizio al ramo nobile degli Antici Mattei (Figg. 23-24).
Tutto questo complicato intreccio di parentele ed amicizie
è necessario soprattutto per capire come in quegli anni ci fosse
familiarità e stima tra i Mattei, gli Antici ed i Leopardi, tanto è
vero che Monaldo nei suoi ripetuti soggiorni romani era soli-
to frequentare casa Mattei ancor prima che Marianna e Carlo
Antici si sposassero.
Monaldo Leopardi era conosciuto come persona colta e dai
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 35

molteplici interessi. Lui stesso si considerava intenditore – ed


a ragione – di agricoltura e di economia, anche per l’esperien-
za maturata nella buona gestione delle terre di famiglia nelle
Marche. E le Marche di allora erano oggettivamente terre che i
contadini locali avevano rese assai produttive dal punto di vista
agricolo, a differenza dell’‘Agro Romano’. Per questo Monaldo
fu contattato sul finire dell’anno 1800 da un certo Basilio Salvi
di Roma, interessato a prendere in gestione la ‘Tenuta di Casetta
Mattei’ e metterla a reddito. Fig. 24 – Targa toponomastica nel piaz-
zale antistante il palazzo Antici Mattei a
È lo stesso Monaldo che, in un suo diario, ci racconta come Recanati (MC)
tutto ebbe inizio:

«Anno del Signore 1802,


3 Gennaro. — Quest’ oggi è stato verbalmente con-
cluso l’affare della enfiteusi colla Casa Mattei. Eccone il
fatto.
In casa Rignano, ossia Cesi, dove vado qualche sera,
si è più volte discorso della agricoltura marchegiana,
paragonandola con quella dell’Agro Romano. Ogni
Marchegiano può facilmente in queste parti passare per
maestro su tal proposito, onde il Sig. Basilio Salvi, ed
il Sig. Avvocato Pio Ciampelletti, si immaginarono che
io sarei stato a proposito per essere secoloro in società
in una enfiteusi che cercavano di prendere. Me ne disse
alla lontana una parola il Sig. Salvi; ma, molte sere dopo,
quando io nemmeno ci pensava, mi replicò che l’affare
era concluso se io il volevo, e, quindi, in varii abbocca-
menti fra noi, ci combinammo bene, talché, questa sera,
il Sig. Avvocato ed io, siamo andati in casa Mattei, ove
nella camera del Sig. Card.(Alessandro Mattei n.d.r.), alla
sua presenza e di Monsig. Mattei, suo fratello, nonché
un curiale per loro parte e del loro Mas. di Casa, si sono
combinati i capitoli, in vigore dei quali la casa Mattei
ci dà in enfiteusi perpetua una sua tenuta chiamata la
Casetta con una piccola vigna della estensione di circa
700 rubbia romane, equivalente a circa 1.000 rubbia di
misura recanatese; e noi, viceversa, ci obblighiamo di dar-
gli L. 10 mila in due mesi, L. 2.000 in 7 mesi, L. 9.000 in
due anni, ed un annuo canone di L 1.550 e di 35 rubbia
di biada, con più la vendita di 64 carrette di fieno a L.
4.50 la carretta, con tutti gli altri patti che si rileveranno
dalli stessi capitoli. Tutto combinato, prendemmo la
minuta de’ Capitoli onde esaminarli e quindi venirne alla
sottoscrizione 5».
5
A. Teatersi, Documenti e notizie intorno
alla famiglia Leopardi per servire alla compiuta
Come spesso accade nelle vicende umane non fu un caso che biografia del poeta, Firenze 1888, pp. 91 ss.
36 M. Martini

i Mattei, proprio nel gennaio 1802, decisero di dare in enfiteusi


la ‘Tenuta della Casetta’ e che Basilio Salvi e Monaldo Leopardi
(Fig. 25) si proposero per prenderla in carico. Infatti pochi mesi
prima, esattamente il 4 novembre 1801 papa Pio VII, preoccupato
per lo stato di abbandono dell’‘Agro Romano’ ed auspicando che
venisse davvero applicata una precedente norma sulla coltivazione
obbligatoria delle campagne, in modo che le coltivazioni stesse
prevalessero sul pascolo, emanò uno speciale Motu Proprio. Con
questo provvedimento riportò in vigore tutte le precedenti prescri-
zioni impartite a questo scopo. In particolare stabilì che, ad iniziare
dal 1802, i proprietari dei terreni situati nell’‘Agro Romano’ e
suscettibili di coltivazione, ma tenuti abbandonati, oltre ad esse-
re soggetti al pagamento della cosiddetta ‘Dativa Reale’, che era
Fig. 25 – Ritratto di Monaldo Leopardi: un’imposta papale sui fondi rustici, dovessero pagare anche una
Recanati. Pinacoteca Comunale sovrattassa annuale di 4 paoli per rubbio, da imporsi secondo la
misura catastale. E che tale sovrattassa sarebbe raddoppiata per
l’anno successivo in caso di inadempienza. Inoltre, a titolo d’incen-
tivo pubblico, col medesimo provvedimento Pio VII stabilì che chi
avesse riattivato la coltivazione delle terre lasciate al pascolo doveva
essere retribuito con un premio di 8 paoli a rubbio. In sostanza,
per essere chiari, con la messa in produzione della tenuta i Mattei
avrebbero evitato di pagare sovrattasse ed incassato i proventi
dell’enfiteusi, mentre gli enfiteuti si sarebbero accaparrati comun-
que un cospicuo incentivo pubblico. Cosa che puntualmente
avvenne. Nulla di nuovo, a quanto pare, sotto il sole.
Per pura curiosità segnaliamo che quando Monaldo accettò
di impegnarsi e di investire proprie risorse economiche nella
‘Tenuta della Casetta’ suo figlio Giacomo, nato il 29 giugno del
1798, aveva circa tre anni e mezzo.
Ma lasciamo che sia lo stesso Monaldo, proseguendo con il
suo diario, a raccontarci la prima visita alla ‘Tenuta dei Mattei’ e
soprattutto a tramandarci lo stato di quei luoghi nel 1802.

«11 Gennaro. — Questa mattina, in compagnia del


Sig. Avvocato Ciampelletti e del Sig. Basilio Salvi, sono
stato a visitare la tenuta, la quale resta fuori di Porta Portese
a 4 o 5 miglia lungi da Roma. È tagliata dalla strada con-
solare, e, perpendicolarmente a questa, intersecata da un
grosso torrente o fiumicciattolo. Sembra generalmente di
ottimo fondo, quantunque pessimamente tenuta e piena
di sterpi, macchie ecc. É ricca di acque, avendo molte e
buone fontane. Il casale è grande, e non in cattivo stato
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 37

quanto ai muri, sebbene pessimamente riguardato e


manomesso affatto quanto alle porte, finestre ecc.
Vi è un’altra gran fabbrica per uso di fienile, granaro e
stalla; ma, nel mezzo, è caduto in parte. La Tenuta è sparsa
di varie collinette ottime per piantarvi delle case. L’aria
non deve esserne cattiva, perché nel casale attuale, il quale
è piantato nel sito peggiore della tenuta, vi abita continua-
mente un guardiano, colla sua famiglia, anche nei mesi più
caldi, e non ne risente alcun danno. Siamo ritornati la sera.
Questa sera sono stato ad abboccarmi con Severi per
aver maggiori dettagli delle disposizioni di Mattei, e mi ha
ripetuto che domattina mi attende e che ha promesso di
dare dentro domani stesso la sua relazione. Che però ha
convenuto accennargli altro piccolo regalo, il quale anche
io gli dovrò far travedere. Ecco cosa sono gli uomini, e da
chi dipende l’esito degli affari».
Fig. 26 – Veduta attuale di una parte del
bosco
I soci provarono ad insediare nella tenuta (Figg. 26-27) una
colonia di contadini marchigiani, per mettere a coltura quelle terre a
lungo abbandonate e malariche. I contadini si impegnarono molto,
costruirono casali di bonifica, impiantarono vigneti, regolarono in

Fig. 27 – L’edificio della ‘Casetta Mattei’


visto da nord. Anno 1983
38 M. Martini

qualche modo il regime delle acque, avviarono un disboscamento


e una vendita di legname, ma l’impresa non andò a buon fine.
Il Tomassetti 6 nel 1899 scrive a questo proposito:

«E’ stato del resto un vano sforzo (quello) fatto nel


1802 da Basilio Salvi e da altri speculatori, che vollero,
in occasione del motu-proprio di Pio VII, fondarvi una
colonia di agricoltori. Ebbe luogo allora un disbosca-
mento, di cui rimane tuttora la memoria nel vocabolo
macchia Mattei. Ma l’isolamento dell’impresa, la solita
deficienza di rete stradale e di fornitura d’acqua, che
sono e saranno sempre gli ostacoli della colonizzazione,
mandarono a vuoto la cosa in genere, salvo qualche pian-
tagione di vigne, ma senza potere mantenervi l’abitato.
Ha la Casetta Mattei una superficie di 1163 ettari, un
ragguardevole casale […] vi è pure una torre merlata del
secolo XIII rettilinea, molto ristaurata».
Fig. 28 – Ritratto del cardinale Alessandro
Mattei L’epilogo della vicenda fu drammatico, come ci narra Cesare
De Cupis (1845-1928), uno dei massimi studiosi ed esperti di
politiche agrarie e di agricoltura dell’‘Agro Romano’:

«I due soci condussero in quel luogo 70 lavoratori dalle


Marche, e con essi convennero patti colonici indubbiamente
molto più vantaggiosi di quelli che i medesimi marchegiani
avessero avuto coi loro padroni, nella loro regione. Ma,
purtroppo, quei contadini non riuscirono a bonificare quel
tenimento, allora deserto, poiché ben presto furono vittime
e della malaria e delle febbri, onde alcuni morirono, e gli
altri vollero ritornare nei loro paesi nativi.
Indubbiamente fu grave errore quello di voler creare
un’oasi in mezzo al deserto circostante, poiché essendo
allora una località malarica non poteva divenire salubre, sol
perché venne occupata da un certo numero di abitanti 7».

Questo increscioso episodio, che si andò ad aggiungere


alle reiterate difficoltà di gestione della tenuta, spinse qualche
anno più tardi gli Antici-Mattei a disfarsene definitivamente.
Certamente i motivi che spinsero i Mattei ad alienare questo
bene, che possedevano da circa 280 anni, non furono solo quel-
li relativi alla difficoltà della messa a reddito, sempre presente
6 anche in passato. È molto probabile invece che la vendita si rese
G. Tomassetti, in «Archivio della R.
Società Romana di Storia Patria», 22, 1899, necessaria per la situazione di grande difficoltà in cui nel 1809 si
pp. 476-482.
7
venne a trovare il cardinale Alessandro Mattei (Fig. 28).
C. De Cupis, Le vicende dell’agricoltura
e della pastorizia nell’Agro Romano, Roma 1911,
Infatti il 10 giugno 1809 Pio VII emanò una bolla di scomu-
pp. 375- 376. nica contro Napoleone Bonaparte, colpevole di essersi annesso
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 39

i territori dello Stato Pontificio e l’imperatore, per ritorsione,


arrestò ed esiliò il Papa ed altri prelati tra cui anche il cardinal
Alessandro Mattei, che fu espulso da Roma ed esiliato a sua
volta prima a Bologna e poi a Parigi. La situazione per il cardi-
nal Mattei si complicò ulteriormente quando, sempre a Parigi,
insieme ad altri 12 cardinali dei quali era il decano, si rifiutò di
presenziare al matrimonio tra l’imperatore Napoleone e Maria
Luisa d’Austria, celebrato il 12 aprile 1810. I cardinali vollero
in tal modo manifestare la loro contrarietà alle nozze, in quanto
Napoleone era già sposato con Giuseppina di Beauharnais ed il
pontefice non aveva invalidato questo matrimonio.
Il gesto dei cardinali fece infuriare Napoleone che tolse il
sussidio che aveva assegnato a ciascuno di loro, la cosiddet- Fig. 29 – Ritratto di Papa Pio VII
ta ‘dote cardinalizia’ pari a trentamila franchi, confiscò i loro
beni ed inoltre tolse loro il rango cardinalizio, disponendo che
dovessero vestire come normali sacerdoti, ragione per cui furono
soprannominati i ‘cardinali neri’. L’ira di Napoleone si estese poi
non solo ai cardinali rei dell’offesa imperiale, ma anche a tutti i
membri delle loro famiglie. Cosicché anche monsignor Lorenzo
Girolamo Mattei, fratello del ‘cardinale nero’ Alessandro, seb-
bene non coinvolto direttamente nel caso, si ritrovò a vivere a
Roma in ristrettezze economiche, assieme alla nipote Marianna
ed al marito Carlo, privato di tutte le sue sostanze.
Ma gli eventi precipitarono per Napoleone che il 19 ottobre
1813 fu sconfitto a Lipsia e poi costretto ad abdicare. Roma fu
liberata dal dominio francese ed anche Pio VII (Fig. 29) fu lascia-
to libero di tornare al suo posto. Il 24 maggio 1814 il Papa fece
il suo trionfale ingresso a Roma.
Tra i vari atti di normalizzazione che seguirono al ritorno del
Papa ci fu anche il dissequestro dei beni della famiglia Mattei
coinvolti nella vicenda dei ‘cardinali neri’. Però è evidente che
tutte le ristrettezze subite resero necessario per la famiglia stessa il
reperimento di risorse economiche. Dunque in quella circostanza
optarono per la vendita della ‘Tenuta della Casetta’.
La tenuta, con un’estensione di 685 rubbia, vale a dire la
stessa superficie che aveva nel 1660, fu venduta, nel 1815, all’O-
spedale di Santo Spirito in Sassia il quale, con il sostegno del
Banco di Santo Spirito, era divenuto nel tempo uno dei maggiori
proprietari dell’‘Agro Romano’. Tutta questa vicenda potrebbe
essere interpretata anche nel seguente modo: quando nel 1527
40 M. Martini

fu il Papa ad essere in difficoltà economiche la famiglia Mattei


si offrì di aiutarlo acquistando la ‘Tenuta della Casetta’, rimpin-
guando così le finanze pontificie; quando al contrario nel 1815
furono i Mattei ad avere bisogno di realizzare in fretta, ecco che il
Papa in carica restituisce il favore e fa muovere il Banco di Santo
Spirito in aiuto dei Mattei. Così dopo quasi tre secoli la ‘Casetta’
tornò ad essere una proprietà ecclesiastica.
Circa trenta anni dopo questo passaggio di proprietà un altro
Papa si interessò alla tenuta: Pio IX. Il pontefice aveva in animo
di realizzare nei dintorni di Roma uno stabilimento agrario che
servisse in primo luogo come Istituto di accoglienza e di formazio-
ne, morale e professionale, per recuperare ed avviare all’agricoltura
i molti ragazzi poveri e senza famiglia che vagabondavano per la
città, spesso andando incontro a guai con la giustizia. In seconda
istanza, nei piani del pontefice, la formazione di giovani contadini
avrebbe favorito anche il recupero produttivo dell’‘Agro Romano’.
La sua prima idea fu ovviamente quella di utilizzare allo scopo un
terreno di proprietà ecclesiastica.
Sul finire del 1846 si aprì dunque tra il Pontefice, eletto solo da
pochi mesi ed i suoi più stretti collaboratori una discussione su quale
fosse il luogo più adatto per impiantare un simile Istituto ed in par-
ticolare se l’idea di Pio IX di realizzarlo nella ‘Tenuta della Casetta’
fosse fattibile dal punto di vista logistico ed igienico-ambientale.
I pareri furono contrastanti. In particolare il dott. Agostino
Cappello, un medico che fu magistrato superiore di sanità, mostrò
Fig. 30 – Prospetto principale dell’edi-
ficio della ‘Casetta Mattei’. Anno 1983
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 41

al Papa tutte le sue perplessità poiché considerava quel luogo


insalubre. Il Papa allora decise di effettuare personalmente una
visita della tenuta e volle farsi accompagnare dal medesimo
medico, unitamente al professor Pietro Carpi ed al filantropo e
religioso don Carlo Torlonia. La visita ebbe luogo il 30 dicem-
bre 1846 ed il Papa, partito dal Quirinale, fu accolto all’arrivo
nella tenuta dal Commendatore Enrico Orfei che, in quanto
responsabile del Pio Ospedale di Santo Spirito, faceva in quella
circostanza gli onori di casa (Fig. 30).
Il Papa ed i suoi accompagnatori esaminarono attentamente
la tenuta ‘percorrendone il vasto terreno, assaporando le acque
che vi scaturiscono in abbondanza’ 8. A ricordare l’importanza
dell’evento fu in seguito apposta sul casale – come ci segnala il
Tomassetti – una lapide commemorativa in lingua latina. Tornati
al Quirinale il Papa (Fig. 31) ordinò al dott. Cappello ed al prof. Fig. 31 – Ritratto di Papa Pio IX
Carpi di predisporre subito un formale parere medico, da loro
sottoscritto, in cui si valutassero le reali condizioni del sito e le
probabilità di riuscita dello stabilimento agrario.
I due si mossero immediatamente – come era logico aspettar-
si – ed ultimarono il parere in due soli giorni. Quel loro resocon-
to può risultare oggi interessante, in quanto vi si descrive lo stato
dei luoghi all’inizio del 1847 e per tale ragione ne riportiamo
alcuni stralci significativi.

«Il tenimento in o di circa 600 rubbia romane,


compreso in pianure ed in varie colline, è dominato dai
venti meridionali, e confina colle tenute dette di Pisone
(Pisana n.d.r.), di Torretta , di Pantanella, di Monte delle
Piche e della Magliana, dividendosi in vocaboli chiamati
di Torretta, Quartaccio, Ortaccio, Casali e Valle Lupara.
Diversi sono gli appezzamenti boschivi che si osservano,
situati per lo più nelle colline e frammezzati da terreni
seminativi e prativi. Gli alberi che vi sono compresi appar-
tengono a quelli di alto fusto: ma abusivamente e da lunga
pezza si ridusse il bosco alla natura delle macchie cedue.
Tali parimenti, con danno gravissimo della pubblica salute,
sono divenute le macchie adiacenti e quelle più lontane sul
lido del mare, ridondanti poscia di paduli. Si tolse in tal
guisa la barriera ai venti meridionali, che scorrendo libera-
mente su quei Paduli, sono reputati con ragione insalubri
non meno da li antichi che dai moderni: e si rendono
perniciosi ne le stagioni estiva ed autunnale, nelle quali 8
Memorie Istoriche di Agostino Cappello
predominano nella campagna romana. dal 1 maggio 1810 a tutto l’anno 1847, Roma
A cotesto sinistro si aggiugne l’incostanza pressoché 1848. Note, pp. 567-573.
42 M. Martini

incessante del cielo, precipuamente in dette stagioni, la


quale fassi palese ai sensi ed ai fisici istromenti. Spesso si
scorge che all’eccessiva e svariata temperatura del giorno suc-
cede un abbassamento notabile nella notte e nelle prime ore
del mattino: nè poca è la umidità assai nocevole che comin-
cia a manifestarsi all’imbrunire del giorno. Dal complesso
di queste nocive cagioni svolgesi quell’elemento della
mal’aria, produttore delle febbri di accesso, le quali quando
ancora sono domate co’ presidi dell’arte, di sovente danno
campo a recidive, ed a postumi mali che lentamente ucci-
dono, abbreviando il corso della vita. Quest’infortunio
si osserva in ragion composta della incostanza delle sta-
gioni, delle località più esposte all’ azione di quei venti, e
de‘ luoghi umidi e deserti. E se più o meno l‘intero agro
romano prova i tristi effetti della mal’aria, ne conseguita
che la tenuta della Casetta de‘ Mattei , se non è la prima
a risentirci malefici influssi della medesima, per le cose
sopra discorse puossi considerare la seconda».

Le loro conclusioni – come si legge – furono comunque


negative, anche in riferimento a precedenti esperienze di bonifica
della tenuta che non erano andate a buon fine. Evidentemente
l’impresa fallimentare di Monaldo Leopardi era nota a molti e
rimasta nelle loro memorie.
«[…] La più vetusta e recente medica istoria confer-
ma che tentativi di agrarie istituzioni mercè di raccolti
coloni, anche con cautele, come fu dato ai sottoscritti
di verificare, praticati in località consimili alla tenuta
della Casetta de’ Mattei, e in essa medesima ripetuti nel
principio del corrente secolo, ebbero triste e breve dura-
ta. Il quale infortunio chiarito per le cose superiormente
indicate, induce nell’animo una diffidenza tale, per la
quale, malgrado dei più accorti sanitarii provvedimenti,
dubitasi della buona riuscita dell’agrario stabilimento
progettato nella suddetta tenuta. Di Roma 2 gennaio
1847 - Agostino Cappello - Pietro Carpi».

E così Pio IX desistette dall’idea di utilizzare la ‘Tenuta della


Casetta’ e fece continuare le ricerche per individuare un sito più
idoneo. Finché nel maggio 1847 decise di accettare la proposta
avanzata dal card. Luigi Vannicelli Casoni di utilizzare per l’in-
sediamento dell’Istituto agrario una sua vigna di circa 17 ettari,
comprensiva di un edificio, posta ben all’interno del ‘Suburbio’,
con accesso diretto dalla via Portuense, uscendo dalla città poco
dopo la località Pozzo Pantaleo e la diramazione di via della
Magliana antica. Fu così che con circa un anno di ritardo rispetto
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 43

Fig. 32 – La nuova sede dell’Ospizio


agricolo Vigna Pia, inaugurata da papa
Pio IX il 10 ottobre 1868, in un’incisione
della seconda metà del XIX secolo

alla sua decisione, per via dei noti fatti rivoluzionari che in quei
mesi crearono non poche difficoltà al pontefice, il 16 maggio
1848 la ‘Vigna Casoni’ fu acquistata da Pio IX per la somma
di scudi 3.750. L’Ospizio agricolo – narra il Tomassetti 9 – fu Fig. 33 – L’interno dell’Ospizio agricolo
aperto però nel 1850, con una sede provvisoria a Santa Prisca Vigna Pia in un’incisione della seconda
metà del XIX secolo
sull’Aventino e fu poi trasferito nel 1851 sul colle prossimo a
via Portuense. Pio IX lo affidò alla Congregazione dei ‘Fratelli
di San Giuseppe’ dediti all’insegnamento. L’Ospizio – o Istituto
Fig. 34 – Una immagine dell’Ospizio
agricolo Vigna Pia alla fine del XIX secolo

9
Tomassetti, in «Archivio della R. Società
Romana di Storia Patria», cit., pp. 476-482.
44 M. Martini

– in onore del pontefice prese la denominazione di Vigna Pia


ed ebbe poi varie gestioni. Lo stesso Pio IX, il 12 ottobre 1868,
inaugurò la nuova sede, realizzata dopo circa dieci anni di lavori
(Figg. 32-33).
Il bel fabbricato è ancora oggi raggiungibile dalla via
Portuense percorrendo fino in fondo via di ‘Vigna Pia’ ed è
splendidamente affacciato sull’ansa del Tevere 10 (Fig. 34).
Una singolare connessione venne dunque a collegare verso la
metà del XIX secolo ‘Vigna Pia’ con ‘Casetta Mattei’, due impor-
tanti presenze di valore storico-architettonico situate nel territorio
del Municipio XI.
Le vicende della ‘Tenuta della Casetta’ si trascinarono, tra tenta-
tivi di coltivazione e frazionamenti di proprietà fino a dopo l’unità
d’Italia, quando si avviò la definitiva bonifica dell’‘Agro Romano’.
Ai primi del Novecento – secondo il Tomassetti – l’antica
tenuta risultava suddivisa tra 7 proprietari, ma la vera svolta
Fig. 35 – Un casale dell’Azienda Agricola
di Francesco Somaini

avvenne tra il 1922 ed il 1930, nell’ambito delle iniziative per la


bonifica dell’‘Agro Romano’ sostenute dal regime fascista.
In quegli anni Francesco Somaini (1865-1939), un anziano
industriale tessile di Como, divenuto deputato, decise di acquistare
Fig. 36 – La chiesetta realizzata nel circa 600 ettari dell’antica ‘Tenuta della Casetta’, bosco compreso, e
villaggio dell’Azienda agricola Somaini s’impegnò notevolmente nel risanamento ambientale e produttivo,
anche con la costruzione di vari casali destinati all’agricoltura ed alla
produzione zootecnica (Fig. 35). Venne da lui insediato un nucleo
10
di colonizzatori, costituito da 90 famiglie venete e si organizzò quella
Per maggiori informazioni storiche
su ‘Vigna Pia’ si consulti l’ottimo sito www.
che divenne la ‘Casetta Somaini’ in forma di impresa agricola, con
vignapia.com attività anche vivaistiche e con l’allevamento di bovini da latte, che
Casetta de’ Mattei. Vicende e forme di una storica tenuta e di un bosco trimillenario 45

Fig. 37 – L’Azienda Agricola Somaini


in un particolare della Carta IGM del
1949

per lungo tempo rifornirono la Centrale del Latte di Roma.


Fu progressivamente realizzato un vero e proprio borgo per
le abitazioni dei coloni, comprensivo di piccola chiesa (Fig. 36),
edifici comunitari, stalle, capannoni, fienili, silos etc. Da allora e Fig. 38 – Veduta (ottobre 2016) del
ancora oggi l’antico bosco viene denominato ‘Bosco Somaini’. complesso edilizio denominato ‘Corviale’,
di proprietà dell’ATER, posizionato sulla
L’‘Azienda Agraria on. F. Somaini, vivai selezionati – Roma’ sommità di una collina per secoli inclusa
(Fig. 37), fu poi attiva fino al 1954, quando venne sciolta. Occorre nella Tenuta di Casetta Mattei. Il forte
‘segno’ architettonico lineare – lungo un
ricordare che una parte dei terreni anticamente ricadenti nel km – ideato dall’arch. Mario Fiorentino
quarto della tenuta denominato ‘il Quartaccio’, prossimo all’at- negli anni ’70 come limite simbolico tra
tuale via di ‘Casetta Mattei’ – furono espropriati dall’IACP circa l’espansione urbana e la campagna sem-
bra assolvere ancora, magnificamente,
questa sua funzione
46 M. Martini

nel 1972 per la realizzazione del Piano di Zona n. 61 di edilizia


residenziale pubblica sovvenzionata (cioè interamente realizzata
con finanziamento pubblico) denominato ‘Corviale’ (Fig. 38).
L’edificio storico della ‘Casetta’ è stato ristrutturato in tempi
recenti ed è attualmente di proprietà di una società immobiliare,
che vi ha ricavato alcuni prestigiosi appartamenti offerti in affitto
(Fig. 39).
Una grande parte dell’antica tenuta, sfuggita miracolosa-
mente all’espansione edilizia e che ha mantenuto elevati valori
paesaggistici, è oggi tutelata dal punto di vista ambientale poiché
ricompresa nel perimetro della ‘Riserva Naturale Tenuta dei
Massimi’.

Fig. 39 – Lo stato attuale della “Casetta Mattei” dopo il suo recupero ed il riuso a fini residenziali. (Immagine tratta dal sito web
‘Portuense – Borgo dei Massimi’)
Sacre presenze religiose lungo la via Campana
Santa Passera e le Catacombe di Generosa

Maurizio Vacca

La via Campana

Fra le prime e più importanti strade dell’antica Roma vi era


la via Campana, il cui tracciato può essere ricondotto, anche se
molto parzialmente, all’attuale via della Magliana.
Di origine antichissima, la via Campana traeva il suo nome
e la sua funzione dalla sua meta, le saline alle foci del Tevere che
costituivano il Campus Salinarum Romanarum, collegate attraverso
questa strada al Foro Boario e al deposito di sale fuori porta Trigemi-
na, che si apriva nel tratto di mura serviane alla base dell’Aventino.
La via Campana nacque e si sviluppò nel corso dei secoli so-
prattutto per la sua funzione commerciale. Sorta come un sem-
plice tratturo lungo la riva destra del Tevere, fin dal IX secolo a.C.
era utilizzata come via di alaggio per la sua vicinanza al fiume,
per il trasporto del sale e successivamente di altre merci dirette
a Roma, che erano caricate su imbarcazioni e chiatte trainate da
coppie di buoi per risalire il fiume controcorrente (Fig. 1).
La sua vicinanza col Tevere la rendeva soggetta ai danni causati Fig. 1 – Copia moderna di bassorilievo
del I secolo d.C, conservato ad Avignone,
dalle frequenti piene. Inoltre il suo percorso era molto accidentato raffigurante un traino all’alzaia di una
e tortuoso, dovendo seguire le anse del fiume. barca su fiume
Sull’altra riva del Tevere il collegamento coll’antico Porto di
Ostia era assicurato dalla via Ostiense che, come la via Campana,
aveva origine dalla Porta Trigemina.
Lo sviluppo degli scambi commerciali legati all’espansione
dell’Impero Romano portò l’imperatore Claudio (41-54 d.C.) a
costruire un secondo bacino marittimo, situato sull’argine destro
del Tevere a nord di quello di Ostia, proprio a ridosso delle antiche
Saline esistenti alla foce del Tevere e di conseguenza a potenziare
il sistema viario di collegamento al mare. Venne così realizzata, a
48 M. Vacca

servizio del nuovo porto, quella che sarà chiamata in seguito la via
Portuense, che integrava di fatto l’antica via Campana con un nuovo
percorso più diretto, evitando i meandri tortuosi del Tevere.
Il nuovo tratto lasciava in località Pozzo Pantaleo (all’altezza
circa dell’attuale via Quirino Majorana) il vecchio tracciato della
via Campana, per poi ricongiungersi con essa a Ponte Galeria,
dopo aver attraversato le colline, con una sensibile riduzione della
percorrenza. Ulteriore trasformazione viaria nella zona si ebbe con
l’imperatore Traiano, che alla fine del I secolo d.C., vista l’inade-
guatezza del porto di Claudio, creò un nuovo e più efficiente baci-
no marittimo, di forma esagonale e conseguentemente potenziò a
sua volta i collegamenti stradali lungo il Tevere, realizzando anche
tratti sopraelevati, per assicurarne la fruibilità tutto l’anno anche in
caso di esondazioni. Questi interventi, di ottima tecnica costruttiva,
si rivelarono duraturi nel tempo e consentirono comunque, anche
nel periodo medioevale di decadenza della Campagna Romana, la
sopravvivenza di questo sistema viario.
Caratteristica delle strade extra urbane nell’antica Roma era la
presenza di sepolture lungo i loro lati, a partire dai primi tratti oltre le
mura. Tombe, mausolei, aree e sarcofagi si allineavano lungo i mar-
gini stradali ed invitavano il viandante, attraverso le epigrafi poste sui
manufatti, a soffermarsi e meditare (Fig. 2). Le vie Portuense e Cam-
Fig. 2 – Drugstore Gallery, tomba A, II pana non si sottraevano certo a questa usanza, come testimoniano le
secolo d.C. Foto di M. Vacca (2016)
aree necropolari dell’ex Purfina, di Vigna Pia, di Pozzo Pantaleo, di
quella custodita nella Drugstore Gallery (Fig. 3) presso il sottopasso

Fig. 3 – Particolare dell’area necropo-


lare del I e II secolo d.C, posta sotto la
sede stradale di via Portuense (di fronte
all’area archeologica di Pozzo Pantaleo)
rinvenuta nel 1996 nel corso di lavori
dell’Enel e attualmente rinterrata. Foto
di M. Vacca (1996)
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 49

Fig. 4 – Facciata della chiesa di Santa


ferroviario della via Portuense e ancora di quelle recentemente rinve- Passera (1998)
nute nel 2014-2015 insieme ad altri importanti strutture, durante gli
scavi per i lavori di ampliamento del sottopasso predetto.
Dimensioni e ricchezza delle tombe variavano in base alle
possibilità economiche della famiglia del defunto, mentre la scel-
ta fra incinerazione e inumazione mutò più volte nel corso dei
secoli. Caratteristica degli edifici funerari, che si affermò dalla
fine del I secolo d.C., fu la tomba a tempietto in laterizio, con un
piano sotterraneo per le tombe ed uno superiore per l’agape e il
culto funerario. Per motivi economici si realizzeranno in seguito
anche ipogei sotterranei per ampliare gli spazi di sepoltura.

Santa Passera: le sue origini tra storia e leggenda

‘Santa Passera’ (Fig. 4) posta sulla riva destra del Tevere all’al-
tezza della basilica di San Paolo fuori le Mura, con la facciata
rivolta al vicino Tevere e le spalle alla moderna via Magliana, è un
50 M. Vacca

esempio significativo di riutilizzo di un’originaria tomba familia-


re della seconda metà del II secolo d.C. La chiesa ha il nome di
una santa che non è mai esistita, ma è dedicata in realtà ai martiri
Ciro e Giovanni, un medico di Alessandria di Egitto e un soldato
di Edessa divenuto suo discepolo, che secondo la tradizione furo-
no crocifissi e decapitati a Canopo in Egitto nel 303, durante le
persecuzioni ordinate da Diocleziano. I loro corpi furono portati
a Menouthis (l’odierna Abukir) da San Cirillo, Patriarca di Ales-
sandria e in seguito a Roma per metterli al sicuro. La loro festa
ricorre il 31 gennaio e probabilmente ricorda il giorno dell’arrivo
dei corpi a Roma.
Sull’origine dell’attuale nome ‘Passera’, l’ipotesi più probabile,
come intuì fra i primi il Tomassetti, è che esso sia il risultato di
una distorsione fonetica popolare. Partendo dalla denominazione
iniziale di Abba Cyrus (padre Ciro) con il passare del tempo si
sono affermate progressivamente alcune varianti quali Abbaciro,
Appaciro, Appacero, Pacero, Pacera ed infine ‘Passera’ 1.
La chiesa è importante non solo per l’architettura o i suoi
affreschi, ma anche perché è l’unico edificio nel territorio del Mu-
nicipio XI che, fin dalla sua origine in epoca imperiale romana,
sia sopravvissuto al corso dei secoli senza essere mai abbandonato.
Ha continuato ad esistere, ad essere frequentato ed utilizzato, pur
tra tante difficoltà, per circa due millenni.
Non è dunque una testimonianza archeologica rimasta a lun-
go sepolta e casualmente riportata alla luce a seguito di qualche
1
G. Tomassetti, La campagna romana, scavo fortunato, ma una realtà architettonica che ha sfidato i se-
vol. VI, Roma 1977, p. 348 ss.
2 coli, ancora oggi viva, dopo tante vicissitudini e trasformazioni e
C. Moccheggiani Carpano, Tevere.
Premesse per una archeologia fluviale, in «Bollet- che continua ad ergersi ostinatamente come memoria di un pas-
tino Archeologia Subacquea», Suppl. 4, 1982, sato e di una tradizione religiosa che meritano di essere ricordati.
pp. 151-165. Lo studioso francese Joël Le
Gall, in Il Tevere, fiume di Roma nell’antichità ‘Santa Passera’ ci può perciò aiutare nel tentare di compren-
(rist.), Roma 2005, ritiene che anticamente il dere la storia antica di questa parte della periferia romana e le sue
Tevere dovesse avere una portata maggiore ed
un regime più regolare degli attuali. Le acque
trasformazioni.
fluviali, inoltre, raggiungevano il livello di pie- L’edificio sorge in quell’ampia area extra-urbana dell’antica
na molto più velocemente di adesso, superan- Roma che, a seguito della riforma amministrativa di Augusto, era
dolo assai frequentemente e provocando così
più spesso esondazioni. Un clima in generale stata denominata XIV Regio Transtiberim e che comprendeva il
più freddo dell’attuale e maggiori precipitazio- territorio posto lungo la riva destra del Tevere. Dal punto di vista
ni, nevose in inverno e piovose d’estate, assicu-
ravano al fiume un’alimentazione più costante socio-economico, soprattutto a partire dall’età imperiale, questa
di oggi, estesa in parte anche al periodo estivo. Regio si presentava come una delle più popolose della città, in cui
Pertanto, le piene potevano avvenire durante
tutto l’arco dell’anno, anche in estate e, ancor
convivevano sia l’aspetto residenziale (specie nelle zone collinose
più spesso, in primavera. più alte) sia quello commerciale. Soprattutto l’odierno territorio
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 51

Portuense, posto lungo l’omonimo asse viario di collegamento


col porto di Claudio e delimitato a sud dal Tevere, che costituiva
un fondamentale mezzo di comunicazione, si distinse per lo svi-
luppo di molte attività commerciali. Molti depositi e magazzini
furono perciò costruiti in questa zona.
All’altezza di ‘Santa Passera’ vi era in antichità un porto sul Te-
vere, a conferma dell’importanza che questo tratto del fiume aveva
per i commerci del tempo (Fig. 5). Sono stati qui ritrovati i resti
della fondazione di banchine di attracco, realizzata in opus coemen-
ticium, ora sommersi a seguito dello spostamento per erosione del
Fig. 5 – Resti della fondazione di ban-
fiume da est verso ovest. A difesa dalle inondazioni, tutta l’area di chine di attracco nel Tevere all’altezza
‘Santa Passera’ limitrofa al fiume era provvista di argini 2. di Santa Passera. Foto satellitare da
Google Earth (2007)
Non mancavano botteghe di artigiani e significativa era la
presenza di operai che lavoravano nelle vicine cave di tufo dei
versanti di Monteverde e Colli Portuensi. Per la sua vicinanza
col porto marittimo questo territorio era molto frequentato dagli
stranieri che giungevano a Roma. Numerose erano le colonie di
orientali presenti, in particolare di ebrei che favorirono il diffondersi
di culti religiosi orientali, non ultimo il Cristianesimo.
Considerato che il nucleo originario di ‘Santa Passera’ si ricolle-
ga alla tipologia di edificio funerario pagano della seconda metà del
II secolo d.C., si può supporre che la famiglia proprietaria dell’edi-
ficio sia stata di origini orientali e che, convertitasi successivamente
al Cristianesimo, lo abbia trasformato in un luogo di culto dedi-
cato a due martiri egiziani come Ciro e Giovanni. Una conferma
potrebbe venire dall’antica epigrafe in greco dedicata da un tale
Dionisio ai suoi familiari, che in passato era conservata a ‘Santa
Passera’ e che ora è a Santa Maria in via Lata. Se la leggenda che
narra la traslazione dei resti dei due martiri a Roma, di cui par- Fig. 6 – Cippo funerario rinvenuto nei
pressi di Santa Passera e ora conserva-
leremo appresso, ha qualche fondamento, si può ipotizzare che to nel piazzale esterno della chiesa, da
intorno al V secolo nell’edificio funerario, divenuto una piccola Salvetti - Vacca, Santa Passera: il
complesso monumentale e le pitture
cappella, fosse già venerato, in qualche misura, il culto di Ciro (1983). Dell’iscrizione originaria sono
e Giovanni, anche senza la presenza fisica delle spoglie (Fig. 6). ora leggibili solo le parole delle ultime
tre righe “...ALLUSA PARENTES
FILIABUS PIENTISSIMIS, FECE-
RUNT”. Il testo completo, in memoria
Le fonti storiche di due fanciulle morte a diciotto e tre-
dici anni, così recitava: Diis Manibus
– Fabiae Paulinae – vixit annos XIIX
Non vi sono fonti o notizie attendibili sull’origine della chie- menses III et – Fabiae Pollittae – vixit
annos XIII – Fabius Onesimus et –
sa. Secondo una leggenda trascritta, durante il pontificato di Fabia Thallusa – parentes – filiabus
Innocenzo III (1198-1212), da un tale Gualtiero, due monaci, pientissimis – fecerunt.
52 M. Vacca

Grimoaldo ed Arnolfo, nel 407, durante il regno degli imperatori


Arcadio ed Onorio, dopo un sogno premonitore, prima dell’in-
vasione dell’Egitto da parte dei saraceni prelevarono le salme dei
due martiri e le portarono per custodirle a Roma, dove furono
accolti e ospitati nella casa dalla ricca Teodora, in Trastevere. Du-
rante la notte i due martiri apparvero in sogno alla padrona di
casa e le ordinarono di trasportare i loro corpi fuori città, nella
chiesetta che aveva fatto costruire, in onore della vergine Prasse-
de, nei suoi possedimenti lungo l’antica via Portuense (Fig. 7).

Fig. 7 – Iscrizione dell’XI secolo posta


all'ingresso della chiesa inferiore che ri-
corda la sepoltura dei martiri Ciro e Gio-
vanni a Santa Passera. Foto M. Vacca
(1983)

Secondo la leggenda i resti furono trasportati a ‘Santa Passera’ con


una processione solenne, a cui partecipò papa Innocenzo I (401-
417) per essere sepolti in un luogo segreto, affinché non potessero
essere più trovati. Solo la testa di San Ciro fu posta sull’altare della
3
chiesa dentro un’urna d’argento.
Una chiesa era San Abbaciro ad ele-
phantum, nella zona detta elephantum erba-
Al di là della leggenda, che presenta alcune contraddizioni,
rium (dal mercato delle erbe che si svolgeva lì non abbiamo, come detto, documenti o notizie sull’origine della
anticamente), vicino al Foro Olitorio (Piazza
Montanara); sotto papa Leone IV si chiamava
chiesa. È molto probabile che il culto dei martiri Ciro e Giovanni
Santa Maria in Cyro. Un’altra, San Abbaciro de sia stato introdotto a Roma durante il VII secolo (come attesta fra
Militiis, era probabilmente alla salita di Ma- l’altro l’affresco che raffigura San Ciro in una nicchia nella chiesa
gnanapoli, vicino alla torre delle Milizie; nel
secolo XVI era detta S. Pacera delle Milizie. Vi di Santa Maria Antiqua realizzato in quel periodo) e che si sia
erano poi altri tre oratori: al quinto miglio del- diffuso sempre più nel secolo successivo, come testimoniano le
la Via Tiburtina ve ne era uno dedicato a Santa
Cecila, San Ciro e Giovanni; un altro al Celio, molte chiese e oratori che furono loro dedicati, di cui oggi non si
era detto San Abbaciro nello Xenodochium Va- conserva che il nome. Solo ‘Santa Passera’, la più antica, è rimasta
lerii, perché costruito nella zona delle case dei
Valeri Severi, vicino San Erasmo; un terzo era
in piedi a ricordare tanta devozione 3.
a Trastevere, tra le chiese di Santa Cecilia e San Il primo documento certo in cui si fa accenno alla chiesa è
Benedetto (vedi M. Armellini, Le Chiese di del 1059. Da quanto in esso riportato apprendiamo che in quel
Roma dalle origini al secolo XVI, Roma 1891).
4
Per la completa raccolta dei documenti periodo l’edificio era di proprietà delle monache benedettine di
relativi a ‘Santa Passera’ contenuti nell’archivio San Ciriaco in via Lata, ma non sappiamo quando e a che titolo
di Santa Maria in via Lata, si veda: L. Cavazzi,
La Diaconia di S. Maria Lata e il monastero di
ne fossero venute in possesso 4.
S.Ciriaco, Roma 1908, pp. 278-307. Sempre nello stesso periodo storico venne apposta l’iscrizione
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 53

in marmo all’ingresso del piano inferiore, che ricorda la traslazio-


ne dei resti dei martiri. È un segno evidente che allora la chiesa
era viva, come era vivo nel cuore della gente il culto dei martiri.
Certamente era anche molto frequentata, soprattutto da contadini,
gente umile, che viveva nella zona.
Nella prima metà del XIII secolo ‘Santa Passera’ desta ancora
un certo interesse come luogo di culto. È di questo periodo la
trascrizione della leggenda della traslazione dei martiri, fatta da
Gualtiero. Di poco posteriore è la nuova decorazione dell’abside
e dell’arco, realizzata da committenti diversi, desiderosi di veder
raffigurati i loro patroni sulle pareti della chiesa. Anche nel livello
inferiore e nell’ipogeo sono realizzati nuovi affreschi, a conferma
di come la chiesa fosse ancora attiva e frequentata.
In una pergamena del 1317 per la prima volta il luogo in cui
sorge la chiesa è chiamato S. Pacera ed ancora in un altro documento
del 1321 si legge «in loco quid dicitur vulgaliter S. Pacera». Nel 1325
la chiesa comincia ad essere indicata semplicemente col nome di S.
Pacera, senza più alcun riferimento a Ciro e Giovanni. Infine in un
documento del 1376 la chiesa viene denominata S. Passere e da
questo periodo sarà chiamata col nome di S. Pacera o Passera.
Nel 1435 essa passò sotto la giurisdizione della chiesa di Santa
Maria in via Lata e i canonici tentarono di rilanciare questa chie-
setta suburbana tornando a festeggiare solennemente il giorno
dedicato a Ciro e Giovanni: il 31 gennaio. Ma a partire dalla
metà del ’500 i due martiri nella devozione popolare vennero
progressivamente soppiantati dal culto di Santa Prassede, che era
comunque anch’essa già presente nella chiesa e già raffigurata nella
decorazione dell’arco dell’abside.
Nel corso dei decenni successivi e ripetutamente si realizza-
rono lavori di restauro e consolidamento della struttura muraria,
in particolare nel 1521, nel 1582, nel 1645, nel 1659, nel 1699.
Gli ultimi secoli della storia di ‘Santa Passera’ furono però
contrassegnati dal progressivo abbandono e impoverimento. È
un processo che si accompagna al graduale e inarrestabile deca-
dimento e spopolamento della campagna circostante, che dopo
un rilancio economico avvenuto nel periodo rinascimentale, pre-
cipita in una crisi sempre più grande. Nel ’600 e nel ’700 l’unico
interesse che apparentemente suscita ‘Santa Passera’ è riscontrabile
nei due tentativi, non riusciti, di ritrovare i corpi dei due martiri.
Gli scavi si svolsero nel 1608 e poi nel 1706, all’interno dell’ipogeo,
54 M. Vacca

Fig. 8 – Sezione longitudinale dei tre


livelli della chiesa di Santa Passera,
da Salvetti - Vacca, Santa Passera: il
complesso monumentale e le pitture
(1983)

alla ricerca delle reliquie da riutilizzare per consacrare altre chie-


se. Abbandonate definitivamente le ricerche, l’ipogeo, rinterrato e
dimenticato, sarà riscoperto solo nel 1904 (Fig. 8).
Il 23 aprile 1891 vi fu lo scoppio della ‘polveriera di Monte-
verde’, ubicata a Vigna Pia, in prossimità della via Portuense, non
molto distante dalla chiesa di ‘Santa Passera’. Fu un’esplosione
devastante, che si udì in tutta Roma, causò 4 morti e numerosi
feriti, fece crollare tante case coloniche nella zona e danneggiò
anche alcuni monumenti come le vetrate della Basilica di San
Paolo. Anche ‘Santa Passera’ subì danni consistenti, che costrin-
sero alla demolizione e ricostruzione della parete destra crollata in
gran parte. L’edificio nel suo complesso riuscì comunque a superare
anche questa difficile prova.

Le fasi costruttive dell’edificio

Vista la carenza di fonti, la storia edilizia della chiesa deve essere


ricostruita attraverso l’analisi della sua struttura muraria e della de-
corazione pittorica. Il primo utilizzo come edificio funerario, for-
mato da due livelli, databile alla seconda metà del II secolo d.C.,
è confermato dalla facciata (Fig. 9) in cui è visibile una cortina in
Fig. 9 – Particolare della facciata di laterizio molto regolare, con mattoni gialli e rossi e sottili ed uni-
Santa Passera. Foto M. Vacca (2016) formi strati di malta. Ai lati della porta sono inserite due tabelle
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 55

Fig. 10 – Abside della chiesa di Santa


Passera (1995)

rettangolari in terracotta con il margine decorato a dentelli e ri-


empite con ghirlande appese a bucrani. In origine l’edificio era
articolato in un livello inferiore, formato da tre ambienti tra loro
collegati per le sepolture, ed uno superiore composto da un’aula
quadrangolare usata per l’agape e il culto funerario.
L’edificio, come detto, subì nel corso dei secoli numerose tra-
sformazioni ed ampliamenti. Un primo intervento fu la creazio-
ne dell’ipogeo, databile circa al III secolo, quando era ancora un
luogo di sepolture pagano. In seguito, con l’affermarsi del cri-
stianesimo, tutti gli ambienti iniziarono ad essere utilizzati come
luogo di culto, in particolare dedicato ai due martiri e la diffusa
convinzione che i loro corpi fossero stati sepolti fra quelle mura,
rafforzò ancor di più la loro venerazione.
Importanti interventi successivi sulla struttura muraria sono
databili all’VIII secolo: venne ampliata l’aula superiore, costruita
l’abside (Fig. 10) e innalzata la facciata, realizzandovi un timpa-
no, così da delineare l’attuale chiesa. Gli interventi compiuti in
seguito probabilmente risposero anche all’esigenza di fronteggia-
re il riporto di detriti e i rischi di crolli e smottamenti causati
dalle frequenti piene del Tevere. Del IX secolo sono i lavori che
portarono alla creazione di un vano d’ingresso al livello inferiore
verso il fiume. Qui è inserita un’iscrizione, ricavata da una lastra di
marmo di spoglio, che ricorda la sepoltura dei due martiri. Nel X
secolo si realizzò il porticato sul lato sinistro, su cui furono creati i
56 M. Vacca

Fig. 11 – Lato vicolo di Santa Passera


con il porticato e ingresso al livello in-
feriore (1982)

locali della sagrestia, con la conseguente chiusura di due finestre.


In seguito all’interramento, il porticato fu chiuso per creare locali
di servizio (Fig. 11).
L’ultimo intervento portò alla tamponatura della bifora dell’ab-
side. A questo punto si concludono le trasformazioni: ‘Santa Passera’
ha assunto le sue forme attuali.

La chiesa e le sue pitture

La chiesa è articolata su tre livelli a cui si accede attraverso due


rampe di scale che immettono in un piazzale. Quella di sinistra
è stata modificata dopo il 1915 e, rompendo l’originaria simme-
tria, non immette più direttamente su vicolo di Santa Passera
come in precedenza. L’interno del piano superiore si presenta a
navata unica, con l’abside in fondo rialzata di un gradino. L’ori-
ginaria bifora posta nell’abside fu in passato murata. Un’apertura
sulla sinistra conduce ad un locale adibito a sacrestia.
Agli ambienti posti al livello inferiore si accede attualmente
dall’ingresso in vicolo di Santa Passera. Il livello inferiore, nucleo
dell’originaria tomba (metà II - inizio III secolo d.C.), è composto
da tre ambienti. Il primo e più ampio è un’aula di forma quadrango-
lare con volta a botte. Un arco immette in un corridoio trasver-
sale e successivamente in un ambiente stretto e allungato da cui
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 57

Figg. 12-13 – Disegni degli affreschi ori-


ginari della volta e della curva dell’absi-
de, da C.R. Morey, The Frescoes in the
tribune of S. Passera (1915)

si accede, attraverso una ripida scala in muratura, al sottostante


ipogeo. Tale ambiente è preceduto, sul lato prospiciente il fiu-
me, da un altro piccolo vano (ora chiuso da un portoncino mo-
derno). Sull’architrave, che un tempo doveva costituire l’ingres-
so al livello inferiore, è posta l’iscrizione in marmo CORPORA
SANCTA CYRI RENITENT HIC ATQUE IOHANNIS / QUAE
QUONDAM ROMAE DEDIT ALEXANDRIA MAGNA che ri-
corda la sepoltura dei martiri. L’ipogeo, costruito nel III secolo dopo
gli ambienti superiori, al fine di ampliare gli spazi per le sepolture,
potrebbe essere il luogo segreto di sepoltura dei resti dei martiri e che
fu danneggiato dai tentativi di ricerca dei corpi.
I tre livelli della chiesa erano decorati con affreschi, a testimo-
nianza di come, almeno fino al XIV secolo, essa rivestisse una cer-
ta importanza nel panorama delle chiese extra-urbane di Roma.
Purtroppo la superficialità di alcuni interventi di manutenzione
realizzati nel corso dei secoli, unita all’abbandono in cui sono
stati lasciati il livello inferiore e l’ipogeo, hanno fatto sì che gran
parte delle pitture siano state molto danneggiate o perdute.
Ciò appare evidente negli affreschi dell’abside e dell’arco. La
copia della composizione originale di queste pitture è contenuta
nei disegni realizzati da Antonio Eclissi, un pittore attivo a Roma
nella metà del ’600, raccolti nella Collezione di Cassiano dal Poz-
zo, ora conservata nella Royal Library del Castello di Windsor 5
Copie dei disegni sono pubblicati in
vicino Londra 5 (Figg. 12-13). Recenti restauri hanno consentito C.R. Morey, The Frescoes in the tribune of S.
Passera in Lost mosaics and frescoes of Rome of the
di restituire in gran parte la visione degli affreschi. mediaeval period, Princenton 1915, pp. 55 ss.
Nella volta sono raffigurate cinque figure, con al centro il Salva- Nel libro di Morey sono pubblicate anche le
foto di come apparivano gli affreschi nel 1915,
tore benedicente, incorniciato fra due palme, che stringe nella mano che evidenziavano i forti rimaneggiamenti in
sinistra un rotolo. A sinistra San Giovanni Battista e San Paolo, a stile barocco effettuati.
58 M. Vacca

destra San Pietro e San Giovanni Evangelista.


Al disotto vi è un secondo ordine di affreschi composto da due
pannelli distinti. Al centro vi è la Vergine col Bambino, seduta in
trono, con a destra l’Arcangelo Michele e a sinistra Sant’ Antonio da
Padova. Ai loro piedi vi sono due piccole figure inginocchiate, con
lo sguardo rivolto alla Vergine, che rappresentano i devoti che fecero
eseguire l’affresco. Era presente anche una terza figura, inginocchiata
sotto l’Arcangelo, che purtroppo non è più visibile. Il secondo pan-
nello raffigura il Salvatore benedicente con San Ciro a sinistra e San
Giovanni sul lato opposto (Fig. 14). Entrambi sorreggono la borsa
delle medicine con una mano e la spatola con l’altra, simboli della
loro professione di medico, come ricordato dalla tradizione.
La decorazione dell’arco presenta in origine un Agnus Dei in-
corniciato in un medaglione, con ai lati quattro candelieri e i
simboli degli Evangelisti. Ai lati dell’arco invece sono raffigurati
i patroni della chiesa, a sinistra Giovanni, a destra Ciro e sotto di
loro rispettivamente le Sante Pudenziana e Prassede.
Questo complesso di affreschi è stato eseguito verso la metà
del XIII secolo. Appartengono ad autori diversi ed è ragionevole
supporre che non fossero i primi ad essere realizzati nell’abside,
considerato che al centro vi è una bifora tamponata su cui sono sta-
te dipinte le figure della Vergine e dell’Arcangelo. Questo affresco
aveva subìto pesanti manipolazioni nel ’600, con la sovrapposizione
di un dipinto che celava l’originaria impostazione.
Molto più antiche sono le pitture che si trovano lungo la parete

Fig. 14 – Santa Passera particolare de-


gli affreschi dell’abside: Il Salvatore fra
Ciro e Giovanni e l’Arcangelo Michele
(1997)
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 59

Fig. 15 – Particolare dell’affresco del-


la parete laterale sinistra di Santa
Passera: San Giovanni Crisostomo e
Sant’Epifanio (VIII secolo). Foto M.
Vacca (2016)

sinistra, che sono state riportate alla luce nel 1934, nel corso di al-
cuni restauri e che ci offrono fondamentali elementi per ricostruire
le varie fasi dell’evoluzione della chiesa.
Nel pannello situato a destra della porta che conduce alla sagre-
stia sono raffigurati cinque santi orientali, ognuno con la sua iscrizio-
ne: da sinistra San Giovanni Crisostomo, Sant’Epifanio, San Basilio,
San Gregorio di Nazianzio e San Nicola Vescovo di Mira (Fig. 15).
60 M. Vacca

Fig. 16 – Affresco della chiesa inferiore


– ‘Traslazione delle spoglie di Ciro e
Giovanni?’ (XIII secolo), (1981)

Questo tipo di rappresentazione era un elemento caratteristico


della decorazione di stile bizantino delle antiche chiese. Le figure,
secondo i canoni dell’iconografia bizantina, sono poste su un me-
desimo piano, in uno sfondo scuro compatto, tutte in posa fron-
tale e immobili con una fissità d’espressione nei volti. In origine
tutta la parete doveva essere decorata con tre ordini di affreschi
ed è presumibile che, per analogia, lo fosse stata anche l’altra pa-
rete, quella demolita nel 1891. Tali decorazioni pittoriche furono
eseguite da un artista locale, probabilmente intorno alla seconda
metà dell’VIII secolo.
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 61

Ben poco è rimasto delle pitture che decoravano la chiesa


inferiore. Nel vano più ampio, sulla parete dove vi è una porta
tamponata, vi sono tracce di un affresco (cinque figure di cui tre
vescovi) (Fig. 16) databile alla fine del XIII secolo, che occupava
in origine l’intera parete. Si ritiene possa raffigurare la cerimonia
di traslazione dei corpi dei martiri, cosi come narra la leggenda
e ciò conferma come questo livello della chiesa in quel periodo
fosse ancora frequentato ed importante.
Anche l’ipogeo presentava un’interessante decorazione pitto-
rica. Come ricordato in una testimonianza del 1706, in occa-
sione dei lavori di ricerca delle reliquie dei martiri, sulle pareti
del piccolo vano erano ancora visibili le figure della Vergine col
Bambino, San Ciro e San Giovanni e Santa Prassede, ora sparite,
probabilmente databili al XIII secolo. L’affresco di Santa Prasse-
de, di cui restano per fortuna testimonianze fotografiche, è stato
maldestramente trafugato intorno al 1960. Maggiore importanza
è attribuibile ai resti delle pitture più antiche qui presenti. Su un
fondo d’intonaco chiaro si intravedono partiture semicircolari e
quadrati rossi, con soggetti caratteristici della decorazione fune-
raria romana e dovrebbero risalire al III secolo d.C., a conferma
che l’ipogeo fosse il nucleo più inferiore di una tomba pagana. Si
possono scorgere la dea Dike (Fig. 17), che regge una bilancia, un
uccello e un pugile. Sotto la scala sono dipinte una pecora e delle
linee rosse, mentre nella volta vi sono grandi stelle a sei e otto Fig. 17 – Pitture funerarie del III se-
colo d.C. nell’ipogeo di Santa Passera
punte e motivi decorativi. raffigurante la dea Dike, da Salvetti
- Vacca, Santa Passera: il complesso
monumentale e le pitture (1983)
Santa Passera e l’assedio della Repubblica Romana del 1849

Merita di essere ricordato che l’area intorno a ‘Santa Passera’


rivestì un ruolo strategico in occasione delle operazioni militari
che le truppe francesi condussero contro la Repubblica Romana
nel 1849. In particolare il porto fluviale di ‘Santa Passera’ divenne
il punto di arrivo di tutti i rifornimenti e delle truppe di rinforzo
che giungevano via mare dalla Francia al porto di Civitavecchia
e da lì proseguivano fino alla foce di Fiumicino. Con battelli e
tartane le merci e i soldati risalivano poi il Tevere fino al porto di
‘Santa Passera’. Da qui venivano a loro volta imbarcati i feriti per
riportarli in Francia.
Fin dal mese di maggio del ’49, mentre era in vigore la tregua
62 M. Vacca

Fig. 18 – La zona di Santa Passera,


col ponte di barche e il vicino deposito
di artiglieria. Mappa dello Stato Mag-
giore Francese, da Vaillant, Siège de
Rome en 1849 (1851)

fra i due contendenti, i Francesi, consapevoli del valore strategi-


co, si impossessarono della zona di ‘Santa Passera’ e realizzarono
subito adeguate opere di difesa. Per proteggere il porto costruiro-
no più a monte un ponte di barche per collegare l’altra sponda,
che venne protetta con una testa di ponte difesa dall’artiglieria.
Il ponte di barche venne protetto a sua volta contro possibili
attacchi di imbarcazioni incendiarie da parte dei Garibaldini con
due catene tese da una riva all’altra. Vicino a ‘Santa Passera’ fu
sistemato anche il deposito dei materiali per l’artiglieria, dotati
anche di officina per le riparazioni, laboratori per costruire le mu-
nizioni e la polveriera. Il Quartier Generale del Comandante in
capo dell’esercito Francese, il generale Oudinot fu collocato non
lontano da ‘Santa Passera’ a Villa Santucci (ora Villa Maraini)
6
Il resoconto dell’assedio dei Francesi alla sulla via Portuense 6 (Fig. 18).
Repubblica Romana del 1849 è pubblicato in
Vaillant, «Siège de Rome en 1849 par l’Armèe
Française. Journal des opérations de l’Artillerie
et du Génie», Paris 1851. Un’interessante ri- Le Catacombe di Generosa: origine del cimitero
costruzione dei riflessi sull’assetto attuale del
territorio dei Municipi XI e XII prodotti dalle
operazioni militari legate a quell’assedio è con- La località in cui l’antico cimitero cristiano di Generosa sor-
tenuta nell’opuscolo I luoghi dei Francesi, a cura
di G. Monsagrati, C. Balzarro e C. Benveduti,
geva era denominata in epoca romana ad sextum Philippi, forse
Roma 2006. dal nome di un grande possidente terriero, dove sextum indicava
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 63

il sesto miglio dell’antica via Campana. L’area è situata attual-


mente nella zona chiamata Magliana Vecchia, sulla sommità di
un colle che si erge di circa 45 metri sul livello del mare e che un
tempo dominava la via Campana. Le gallerie che compongono
questo cimitero, si estendono in un’area di circa 2.600 mq. ad
una profondità di circa 8 metri rispetto alla cima del colle. Il
complesso archeologico include all’esterno anche i resti di una
basilica denominata ‘Oratorio Damasiano’.
Nella Basilica di Santa Maria Maggiore è conservato un sar-
cofago in cui si legge una dedica che ricorda il suddetto cimitero
(Fig. 19). Esso conteneva i resti dei martiri Simplicio e Faustino,

Fig. 19 – Sarcofago in cui furono con-


servate le reliquie dei Martiri Simplicio e
Faustino ora conservato in Santa Maria
Maggiore, da Venditti, Le Catacombe
di Generosa (2000)

sepolti in Cimiterium Generoses super Filippi. Questo, fino alla secon-


da metà del XIX secolo, fu l’unico riferimento disponibile. Altre no-
tizie sull’esistenza di questo cimitero, dimenticato per oltre un mil-
lennio, non se ne avevano, né vi erano indizi di dove effettivamente
si potesse trovare, fino alla sua casuale riscoperta, avvenuta nel 1868
durante la campagna di scavi avviata dall’archeologo Wilhem
Henzen, che voleva rintracciare il tempio dedicato alla dea Dia
nell’ambito delle sue ricerche sulle memorie dei Fratres Arvales.
Fu l’archeologo Giovan Battista De Rossi che, per primo, nel-
lo stesso anno, intuì l’importanza dei reperti rinvenuti e avendo
immediatamente compreso come ci si trovasse di fronte ad una 7
G.B. De Rossi, Il cristiano sepolcreto
chiesa risalente al periodo di papa Damaso (366-384), con attiguo presso il V miglio della via Portuense, in «Bul-
lettino Archeologia Cristiana», 7, Roma 1869;
cimitero sotterraneo ricollegabile alla sepoltura di qualche martire, Id., La Roma sotterranea cristiana descritta e
ne avviò il primo e fondamentale studio sistematico7. illustrata, III, Roma 1877.
64 M. Vacca

L’origine di queste Catacombe è legata dunque alla sepoltura


al suo interno dei corpi dei martiri Simplicio e Faustino, due
fratelli che, secondo la tradizione, furono uccisi durante le perse-
cuzioni ordinate da Diocleziano, dopo essere stati torturati. Il 29
luglio del 303 d.C. i loro corpi, gettati nel Tevere e spinti dalle
correnti fin sulle sponde di quella che oggi si chiama la Magliana
Antica, furono tratti a riva dalla loro sorella Beatrice. Quest’ul-
tima, aiutata dai presbiteri Crispo e Giovanni, provvide alla loro
sepoltura in una cava di tufo situata nelle vicinanze, di proprietà di
una matrona romana di nome Generosa. In seguito anche Beatrice
fu uccisa e il suo corpo, recuperato dalla nobile Lucina, fu sepolto
accanto a quello dei fratelli.
Intorno a questo nucleo originario contenente i resti dei mar-
tiri si sviluppò un piccolo cimitero di campagna con gallerie sot-
terranee, utilizzato dalla popolazione circostante che era formata

Fig. 20 – Pianta delle Catacombe di


Generosa, da Marucchi, Catacombe
romane (1905)
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 65

soprattutto da poveri contadini. Dal punto di vista strutturale que-


sta catacomba nasce dal riutilizzo di una cava di tufo esaurita già
da tempo, per cui la dimensione e conformazione degli ambienti
e delle gallerie deriva in parte dall’originario utilizzo (Fig. 20). Il
cimitero sorgeva appena fuori i limiti del Lucus, il bosco sacro,
luogo di culto pagano dei Fratres Arvales, che era ormai in via di
progressiva decadenza e perciò sempre meno frequentato.

La costruzione della Basilica di papa Damaso

Momento fondamentale per lo sviluppo di tutto il complesso


fu la realizzazione, voluta da papa Damaso nel 382, di un oratorio
attiguo alle tombe dei martiri. Questa costruzione, addossata su
tre lati al banco di tufo della collina, sbancata a tale scopo, era a
pianta basilicale, con tre navate di diversa ampiezza divise da co-
lonne. In corrispondenza della tomba dei martiri fu costruita l’ab-
side, su cui, furono rinvenute, al momento della scoperta, tracce di
mosaico con al di sopra resti di un affresco dove, su fondo rosso,
erano rappresentate figure riconducibili ad angeli con girali d’uva in
mano, alternati a delfini e conchiglie. Una piccola apertura posta in
una nicchia al centro dell’abside, la cosiddetta fenestella confessionis,
consentiva ai fedeli di osservare direttamente le tombe dei martiri.
Ricerche avvenute negli anni ’80 del novecento hanno consen-
tito di portare alla luce tutto il perimetro della basilica, che alla fine
è risultata molto più ampia di quanto lo stesso De Rossi ritenesse,
così che l’Oratorio Damasiano può essere considerato una basilica di
media grandezza8. Le sue dimensioni infatti erano di m. 20x14, con
ingresso dal lato ovest ed era preceduta da un avancorpo largo m.
2,70 (una sorta di nartece sulla fronte) e con un’abside deformata
e decentrata rispetto all’asse longitudinale della basilica, risultan-
do così leggermente obliqua. Tale scelta era dettata dall’esigenza di
adattarsi al preesistente sepolcro dei martiri situato nella catacomba.
Durante gli scavi il De Rossi rinvenne, nei pressi dell’absi-
de, un frammento marmoreo lungo circa un metro, sicuramente
proveniente dall’architrave della basilica, attualmente conservato
in una galleria della catacomba. Su di esso, in belle lettere inci- 8
Ph. Pergola, La Magliana. Basilique ci-
se con tutta probabilità da Furio Dionisio Filocalo, incisore dei metériale de Generosa, Mélanges École Française
de Rome, 1984-1986; Id., La fouille du sanctuai-
carmi di papa Damaso, si legge un frammento della dedica ai re de la Catacombe de Generosa in «Bulletin Société
martiri «/STINO VIATRICI/», che può così essere completata: Nationale des Antiquaires de France, 1987».
66 M. Vacca

«Beatis Martyribus Simplicio fauSTINO VIATRICI et Rufinianus


Damasus Episcopus fecit». Oltre a costituire un riferimento preciso
al periodo di costruzione della basilica, il frammento consente
di stabilire inequivocabilmente che il cimitero è proprio quello
dedicato ai martiri Simplicio e Faustino (Fig. 21).

Fig. 21 – Disegno dei ruderi dell’Ora-


torio Damasiano al termine degli scavi
del 1868, da G.B. De Rossi, La Roma
sotterranea cristiana descritta e illu-
strata (1877)

Il pavimento non è stato trovato, mentre gli scavi svolti negli


anni ’80, prima ricordati, hanno portato alla luce sotto il piano
della basilica i resti di numerose tombe a fossa, scavate direttamen-
te nell’argilla, in alcuni casi coperte da tegole disposte in piano o a
cappuccina. Alcune sepolture poste in prossimità dell’abside erano
costruite in muratura e chiuse da lastre marmoree, che fungevano
da pavimento della chiesa stessa, a conferma che la basilica svolse
soprattutto una funzione cimiteriale.
Fra le epigrafi marmoree che fungevano da pavimento della
chiesa fu rinvenuta, in prossimità dell’area absidale antistante l’al-
tare, quella dedicata ad un certo Elio Olimpio, incisa con caratte-
ri rozzi, risalente al 382, che riconduce nuovamente l’inizio della
costruzione all’epoca damasiana.
L’ingresso alle Catacombe era garantito da una porta posta
sulla destra dell’abside, attualmente murata, che immetteva nella
galleria cimiteriale situata sul retro, che costituiva il cosiddetto
introitus ad martyres, da cui i devoti potevano accedere alle tombe
per avere un contatto diretto coi luoghi che conservavano i corpi.
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 67

La basilica fu costruita sull’area del colle della Magliana che


da secoli, come accennato in precedenza, faceva parte del Lucus,
il bosco sacro in cui i Fratres Arvales svolgevano le loro feste e i
riti dedicati alla dea Dia, cerimonie che affondavano le loro radici
nella tradizione religiosa più antica di Roma. Uno degli obiettivi
perseguiti da papa Damaso con la costruzione di questo orato-
rio, proprio nel cuore di uno dei più importanti luoghi di culto
pagani, fu quello di sancire, anche dal punto di vista simbolico e
monumentale, la vittoria definitiva del cristianesimo. Non a caso
nello stesso anno l’imperatore Graziano aveva abolito le sovven-
zioni statali a tutti i collegi sacerdotali pagani, fra cui gli Arvali.
Graziano ordinò anche la confisca dei beni appartenenti a tutti
i culti pagani, con la soppressione dei collegi sacerdotali. Papa
Damaso ebbe così gli strumenti giuridici per impossessarsi dei luo-
ghi da secoli dedicati alle cerimonie degli Arvali e poter tagliare il
Bosco Sacro.
Alla fine del IV secolo, in concomitanza con la costruzione
della basilica che sanciva la vocazione esclusivamente cristiana
dell’area, si cessò di seppellire i defunti nelle gallerie sotterranee e si
utilizzarono la chiesa e le sue immediate adiacenze come cimitero
all’aperto per gli abitanti della zona.
La basilica mantenne la sua destinazione funeraria almeno
sino alla fine del V secolo o inizi del VI secolo, mentre la ca-
tacomba certamente continuò ad essere visitata ancora nel VII
secolo fino alla traslazione definitiva dei martiri.
La progressiva decadenza di Roma si accentuò all’inizio del
VI secolo, quando la città fu assediata a più riprese dai barbari.
Nel 546 Totila, re degli Ostrogoti, pose il suo accampamento a
Campo Merlo, molto vicino alle Catacombe di Generosa, con
conseguente saccheggio delle zone limitrofe. In tale occasione av-
venne probabilmente una prima traslazione temporanea dei corpi
dei martiri per metterli al sicuro. Di questo restava testimonianza
in un’epigrafe marmorea, purtroppo perduta, risalente ai tempi
di papa Vigilio (537-555), che eseguì alcuni restauri dei luoghi
che più avevano patito le incursione degli Ostrogoti.
Papa Leone II (682-683) decise di trasportare definitivamente
i corpi dei martiri dal Cimitero di Generosa nella chiesa di Santa
Bibiana all’Esquilino. L’obiettivo era di porli al sicuro all’interno
delle mura di Roma, per preservarli dai pericoli di profanazione,
ma ciò comportò il progressivo abbandono del Cimitero stesso,
68 M. Vacca

che, privato della capacità attrattiva costituita dalla presenza dei


corpi dei martiri e circondato da una campagna sempre più spopo-
lata e pericolosa, ben presto venne abbandonato e successivamente
completamente dimenticato.

Il cimitero sotterraneo

Sull’area esterna alle Catacombe sono ora ancora visibili i ru-


deri della basilica di Damaso e l’antico ingresso originario, introi-
tus ad martyres, che consentiva ai fedeli l’accesso alle gallerie, ora
chiuso (Fig. 22). L’attuale ingresso è all’interno di un casotto in

Fig. 22 – Resti dell’abside dell’Oratorio


Damasiano, da Venditti, Le Cata-
combe di Generosa (2000)

mattoni, con accanto una croce in ferro alta 7 metri, posta nel
1980 (Fig. 23). Attraverso una breve rampa di scale si scende
Fig. 23 – Attuale ingresso alle Cata- nella galleria principale scavata nel tufo, con la volta a botte, la
combe di Generosa e la moderna croce
in ferro, da www.arvaliastoria.it. Foto più antica e larga del cimitero. Con lo scopo di sostenere la spinta
di A. Anappo delle adiacenti murature della basilica, la volta fu rinforzata già in
epoca antica con la costruzione di un muro di sostegno e di alcuni
archi a mattoni. All’ingresso si nota un pozzo scavato per raccoglie-
re l’acqua di una piccola falda, usata per le necessità del cimitero,
anche se non è da escludere del tutto che possa risalire al periodo
in cui la cava era attiva e fosse utilizzato dagli operai. Proseguendo
il cammino si incontra sulla destra una tomba ad arcosolio, addos-
sata immediatamente alle spalle dell’abside della basilica e molto
vicina alla tomba dei martiri. Considerato che era consuetudine
riservare questa tipologia di tomba alla personalità più importante
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 69

di un complesso funerario, si è ipotizzato che possa essere quella


della matrona Generosa proprietaria della cava. La tomba presenta
alcuni affreschi: nella lunetta, al momento della scoperta, era visi-
bile la figura dell’Orante; sulla parete laterale destra ci sono invece
i resti di una scena che raffigura un pastore tra due pecore, appog-
giato ad un bastone, che tiene nella mano destra un flauto a canne
di lunghezza diversa. Il pastore è rivolto verso una delle pecore e
veste una corta tunica ornata all’estremità inferiore con due croci
gammate, al di sopra della scena la scritta «PASTOR» (Fig. 24).
Sul lato sinistro dell’arcosolio è rappresentata un’altra scena pa-
storale, (scoperta nel 1936) da collegare evidentemente con la
scena prima descritta della parete opposta.

Fig. 24 – Particolare dell’affresco del


pastore tra le pecore, con la tunica de-
corata con croci gammate, da www.ar-
valiastoria.it. Foto di A. Anappo

Anche la parete frontale presentava in origine affreschi oggi


perduti, riuniti in quattro scene, disposte sul fornice che corona
l’arcosolio. Solo due erano visibili al momento della scoperta di
De Rossi ed erano stati interpretati come raffiguranti Abramo che
immola il figlio Isacco sormontata dalla scritta «ABRAHAM» e la
Misericordia del Signore per Isacco.
Continuando per la galleria che fiancheggia il muro dell’ab-
side si accede, attraverso uno stretto passaggio, in una camera
sepolcrale di forma quadrata con resti di loculi. Questo ambiente
era murato quando fu scoperto ed al suo interno fu ritrovato uno
scheletro composto su un loculo aperto come un letto, a ricordo
di un’usanza di inumazione etrusca. Tale particolarità, unica a
Generosa, si trova raramente nelle altre catacombe romane.
70 M. Vacca

La Tomba dei Martiri e la Coronatio Martyrum

Il nucleo principale del cimitero è costituito dalla Tomba dei


Martiri le cui dimensioni, poco più grandi della galleria che vi dà ac-
cesso, sembrano modeste. In realtà vi sono due finte pareti che cela-
no i due ambienti segreti destinati alla sepoltura dei martiri. In quella
di sinistra, su cui poggia l’affresco della Coronatio Martyrum, vi
erano nascosti i corpi di Simplicio e Faustino. La loro tomba è bi-
soma, cioè atta a contenere due corpi e conferma dell’avvenuta se-
poltura contemporanea dei due martiri. Anche la parete di destra
celava altre sepolture ed è stato ipotizzato che potesse contenere i
resti di Beatrice, mai rinvenuti e forse anche dei presbiteri Crispo
e Giovanni. La Coronatio Martyrum (Fig. 25) occupa quasi l’intera
parete misurando m. 1,50×2 e raffigura il Salvatore benedicente
al centro, Santa Beatrice e San Simplicio a sinistra, San Faustino e
San Rufiniano a destra, così come indicano i nomi scritti in latino
posti verticalmente ai lati di ogni santo (Fig. 26). La presenza del
martire Rufiniano resta di difficile spiegazione, perché di lui non
abbiamo alcuna notizia da fonti che lo colleghino col culto di
questa catacomba. L’affresco è stato eseguito tra la fine del VI e
l’inizio del VII secolo e quindi in epoca molto più tarda rispetto
alla sepoltura dei martiri. La sua parte inferiore, così come ap-
parve al De Rossi al momento della scoperta, mostrava evidenti
i segni degli scavi realizzati nel 682 quando la tomba dei santi fu
aperta per traslare i resti nella chiesa di San Bibiana.

Le gallerie

Dall’ambiente che custodiva la Tomba dei Martiri si diparte


tutta una serie di gallerie cimiteriali scavate nel tufo, strette ed ir-
regolari, con loculi di varie grandezze, posti su tre o quattro piani,
per poter sfruttare al massimo lo spazio disponibile (Fig. 27). I
defunti venivano deposti orizzontalmente in cavità scavate nel
tufo, che venivano chiuse con semplici pezzi di tegole riutilizzate
per lo scopo, tenuti insieme dalla calce. In genere non vi erano
indicazioni del nome del defunto, né la data della sepoltura, con-
siderato che la popolazione locale era quasi tutta povera ed anal-
fabeta. Poche le incisioni simboliche presenti, fra cui il mono-
gramma di Cristo accompagnato dalle lettere alfa e omega, molto
Sacre presenze religiose lungo la via Campana: Santa passera e le Catacombe di Generosa 71

Fig. 25 – Catacombe di Generosa Coronatio Martyrum, da J. Wilpert, Roma Sotterranea. Le pitture delle catacombe
romane (1903)

Fig. 26 – Santa Beatrice e San Simplicio: particolare dell’affresco Coronatio Martyrum, da www.arvaliastoria.it. Foto di
A. Anappo
72 M. Vacca

diffuso anche nelle altre catacombe. Solo per le tombe risalenti


all’ultimo periodo di utilizzo delle gallerie è possibile rintracciare
nomi e iscrizioni incise nei loculi. Sulle pareti, specie vicino agli
incroci e agli angoli, vi sono piccole nicchie scavate nel tufo e pic-
cole mensole di tegole, che servivano per depositarvi le lampade ad
olio destinate ad illuminare le gallerie. La percorrenza in galleria,
dopo una serie di curve, ci porta alle spalle della Tomba dei Mar-
Fig. 27 – Galleria principale d’ingresso tiri, in una galleria cieca che prende il nome di ‘Cimitero degli
alle Catacombe di Generosa, da www.
arvaliastoria.it. Foto di A. Anappo Infanti’, per la presenza di tombe di piccole dimensioni riservate
alla sepoltura dei bambini. Il loro numero, in rapporto al totale
delle sepolture, è elevatissimo a testimoniare la forte mortalità
infantile dell’epoca.
Le ultime diramazioni delle gallerie non hanno tombe e confer-
mano che, con la costruzione dell’Oratorio Damasiano, iniziarono le
sepolture all’aperto.
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale
Due storie mai raccontate

Mauro Martini

La storia del Forte Portuense’ e più in generale dei 15 forti


più 4 batterie, che tra il 1877 ed il 1891 vennero realizzati per
formare quello che venne definito il ‘campo trincerato’ per la
difesa militare della capitale, è stata più volte narrata da auto-
revoli studiosi. Gli aspetti militari, economici, architettonici e
politici che furono all’origine di questa vicenda, così come le
cronache più attuali che parlano – per molti di loro – di pro-
gressiva dismissione dal demanio militare, per un riuso sociale
ed una integrazione nel contesto urbano, sono stati documentati
nelle pubblicazioni specialistiche e nei siti web 1 e dunque non è
il caso di riproporli in questo contesto.
Per quanto riguarda il ‘Forte Portuense’ (Fig. 1) – realizzato
tra la fine del 1877 e la fine del 1881 – ci sono però aspetti ancora
poco approfonditi.

Fig. 1 – Pianta originaria del Forte Por-


tuense. (Conservata presso l’Istituto
Storico e di Cultura dell’Arma del
Genio – Roma)

1
Si veda ad esempio nel sito ‘Arvalia Sto-
ria’ l’ottimo lavoro di documentazione storica sul
‘Forte Portuense’ svolto da Antonello Anappo:
http://www.arvaliastoria.it/public/post/for-
te-portuense-15.asp. Inoltre si segnala il libro Il
sistema dei forti militari a Roma a cura di Elvira
Cajano, 2006. In esso viene presentato il lavoro
di studio e ricerca promosso e curato dalla So-
printendenza per i Beni Architettonici e per il
Paesaggio di Roma sulla vicenda del sistema dei
quindici forti militari ottocenteschi della città, sia
sotto il profilo storico, che tecnico e progettuale.
74 M. Martini

Uno di questi riguarda la vita che si svolgeva nel ‘Forte’ vista


con gli occhi dei militari e dei civili che lo frequentarono negli anni
del fascismo e durante il secondo conflitto mondiale. Un punto di
vista che si potrebbe definire ‘dal basso’, ‘partecipato’, comunque
diverso dalla narrazione delle fonti ufficiali e basato invece sulla
memoria tramandata oralmente da chi fu presente all’epoca dei
fatti. Forse si tratta di fonti non pienamente attendibili in termi-
ni di analisi storica, perché il tempo e l’età spesso confondono il
ricordo, ma certamente possono essere testimonianze ricche di
suggestioni e suggerimenti per chi è interessato a conoscere le
Fig. 2 – Aldo Montagnani il giorno
storie, anche umane, di questo territorio portuense, così come per
dell’intervista chi intendesse eventualmente verificarne l’attendibilità storica con
successivi, specifici riscontri.
Chi scrive ha avuto l’opportunità di incontrare ed interro-
gare, peraltro a distanza di molto tempo l’uno dall’altro, due
testimoni che vissero la vita del ‘Forte’ e furono spettatori e pro-
tagonisti di alcune vicende accadute al suo interno a cavallo degli
anni ’40. Quelli che seguono sono i loro racconti, che riportiamo
tenendo ben presente, come detto, che alcuni dei dettagli narrati
potrebbero risultare contraddittori, perché sfumati nella memo-
ria, al punto che, nelle due testimonianze, anche i medesimi fatti
a volte presentano qualche diversità.
La prima testimonianza è stata raccolta grazie all’inte-
ressamento di Maurizio Veloccia, in quel periodo presidente
del Municipio XI, il quale, durante uno dei suoi numerosi
incontri con gli abitanti, aveva avuto modo di conoscere Aldo
Montagnani (Fig. 2), un signore di 89 anni, con uno sguardo

Fig. 3 – Foto aerea del Forte Portuense


e del suo intorno. Anno 1980 ca. (Foto
S.A.R.A. Nistri – Roma)
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 75

vivace, una memoria invidiabile ed una giovinezza trascorsa


presso il ‘Forte Portuense’ (Fig. 3). Il presidente, preso atto della
gentilezza e disponibilità di questo signore, lo ha invitato a nar-
rare i suoi ricordi, cosa poi avvenuta presso la sede municipale
di Villa Bonelli il 12 gennaio 2016. Chi scrive era interessato a
raccogliere storie e testimonianze e fu invitato ad essere a sua
volta presente. Il testo che segue è la trascrizione del racconto:

«Mi chiamo Aldo Montagnani e sono nato il 6 dicembre del 1926


in una casa al civico 543 della via Portuense, proprio dentro il Forte,
ma dopo soli due giorni la mia famiglia si spostò di due numeri civici,
trasferendosi ad abitare al n. 545, oggi diventato 547, dove c’era un Fig. 4 – La targa posta attualmente
grande capannone militare di 72 metri di lunghezza – ancora esistente all’ingresso dell’Archivio Militare
– che fungeva da sede dell’Archivio Generale di Deposito del Ministero
della Guerra. “L’Archivio di Deposito” (Fig. 4) era il luogo dove veni-
vano inviati e conservati quei documenti ministeriali che, trascorsi 5
anni, non erano più considerati d’interesse lavorativo e si trasferivano in
modo da non oberare gli archivi specifici delle varie direzioni militari.
Nel capannone era stato ricavato anche un appartamento di servizio,
con un piccolo orto-giardino, che fu assegnato a mio padre Adelindo. Lui
era un reduce della Grande Guerra e dopo aver lavorato per un certo
tempo allo spolettificio di via Guido Reni, aveva accettato di trasferirsi Fig. 5 – La via Portuense all’altezza
della ‘Parrocchietta’ in un’immagine
con mia madre in quella zona periferica per assumere l’incarico di “con- della prima metà del XX secolo
segnatario” dell’archivio stesso. Sono vissuto in quella casa fino al 1958.
In contiguità con questo primo capannone i militari ne costru-
irono poi un secondo che fu a lungo utilizzato come autocentro ed
officina per le riparazioni dei motori.
Negli anni ’30 la vita in quel tratto della via Portuense, scorreva
tranquilla. Le case erano poche e sembrava di essere in un paesino.
La strada era asfaltata, ma il traffico veicolare era limitato a qualche
camion, qualche rara autovettura e un torpedone che quando ero
piccolo effettuava il servizio di trasporto pubblico con due sole corse Fig. 6 – Una tipica ‘barozzetta’ dell’A-
gro Romano in un’incisione della fine
giornaliere (Fig. 5). Molto più spesso vedevamo passare le famose dell’800
“barozzette” (Fig. 6), ossia i carretti a due ruote trainati da un mulo
su cui da secoli venivano caricati i vari prodotti e materiali che dalla
campagna romana si dovevano trasportare in città. Era ancora fre-
quente vedere il passaggio di persone che viaggiavano in sella a muli.
Io ed i figli del maresciallo potevamo giocare senza pericoli: col 2
Si tratta di un vecchio gioco a squadre
cerchio, con le palline, alla guerra francese 2. Ricordo che dietro al poco conosciuto, ma ancora oggi a volte praticato
Forte, dalla parte dei due capannoni, c’era una bella pineta dove dagli scout.
76 M. Martini

andavamo a raccogliere i pinoli ed i funghi. Un paio di quei pini


mi sembra che ci siano ancora.
Anche i negozi erano pochissimi. Il fornaio ed il tabaccaio si affac-
ciavano sulla via Portuense, in un edificio poi demolito che era situato
dove oggi c’è il Todis, circa al civico 556, in prossimità di vicolo degli
Orti Portuensi e di via Silvestrini. Il macellaio più vicino era davanti
all’ingresso del Forlanini. La “fruttarola”, la sora Settimia, era all’inizio
di via degli Irlandesi, davanti al Forte. Farmacie non esistevano in
zona. Quella più vicina era a Porta Portese. C’era un sanatorio militare
in via Ramazzini. La scuola elementare, l’unica scuola pubblica della
zona, dove anche io ho studiato, era in via Gaetano Rappini, davanti
all’ospedale. Anche questo edificio credo che oggi non ci sia più.
In compenso circa dalla fine del 1939 avevamo un cinemato-
grafo. Infatti nel piano terra della Casa del Fascio (Fig. 7), posta
sulla via Portuense non lontana dal Forte ed ancora oggi esistente,
era stata allestita una saletta per proiezioni, piccola ma che a noi
ragazzini sembrava importante e molto frequentata, alla quale, per
celebrare l’avvenuta occupazione militare dell’Albania, fu dato dal
regime il nome di “Cinema Tirana”.
Prima della guerra, per chi abitava dal lato del Forte rispetto alla
via Portuense, la parrocchia storica di riferimento era a Vigna Pia,
mentre per chi abitava sul lato opposto era la Parrocchietta, servita

Fig. 7 – Lo stato attuale, molto degrada-


to, dell’edificio ex ‘Casa del Fascio’, situa-
to lungo la via Portuense in prossimità di
Largo La Loggia
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 77

Fig. 8 – La chiesa parrocchiale di San-


ta Maria del Carmine e San Giuseppe
al Casaletto, detta ‘La Parrocchietta’, in
un’incisione del XIX secolo

dai frati cappuccini. Noi però sul finire degli anni ’30 frequentava-
mo soprattutto la vicina chiesetta di San Francesco di Sales situata
ancora oggi al civico 524 di via Portuense. Ci recavamo invece
alla Parrocchietta in occasioni particolari, come la grande festa per
sant’Eurosia che si teneva a maggio (Fig. 8).
L’ingresso principale del Forte Portuense era dove è ancora oggi,
su via degli Irlandesi, difeso da un ponte levatoio teso sul sottostante
fossato, che però già in quei tempi era stato bloccato e non si alzava
più (Fig. 9).

Fig. 9 – Il portone d’ingresso del ‘Forte


Portuense’
78 M. Martini

Inoltre c’era un ingresso secondario, con un cancello sulla via


Portuense, da dove accedevano macchine e camion con i materiali
diretti all’Archivio militare.
Noi ragazzini eravamo conosciuti dai militari per via di mio
padre che custodiva l’archivio e così ci lasciavano entrare nel fossato e
nelle parti verdi, ma non frequentare i locali interni, pericolosi perché
pieni di recessi, gallerie e soprattutto materiali esplosivi (Fig. 10).
In tempo di pace il servizio di guardia al Forte era assicurato
da una guarnigione militare di bersaglieri e da una di granatie-
ri, comandate da un sergente, che si alternavano ogni 15 giorni.
D’inverno, dopo le ore 16, dei cani da guardia venivano legati con
un anello scorrevole ad una lunga fune d’acciaio tesa tra due pali
prossimi alla garitta, in modo tale che potessero, all’occorrenza, muo-
versi e correre per impedire intrusioni. Alla garitta restava sempre un
militare di sentinella. L’interno era presenziato da un guardia-forte,
Fig. 10 – Il fossato che circonda il ‘Forte’ ossia un maresciallo di artiglieria, di cognome Recanati, che era a
tutti gli effetti il responsabile del manufatto militare (Fig. 11).
Il Forte negli anni ’30 era usato principalmente come deposito di
munizioni. C’era una polveriera interrata, con un piano abitabile
interamente rivestito in legno per assicurare la difesa delle polveri da
sparo dall’umidità. La polveriera, una volta svuotata degli esplosivi e
resa sicura, venne poi usata dai civili, durante la guerra, come rifugio
dai bombardamenti. Sopra la polveriera c’era una camera di scoppio e
sopra ancora uno strato protettivo di terra. Infatti quando il Forte fu
costruito, una volta completate le parti strutturali in muratura, venne

Fig. 11 – Interno del ‘Forte’ in prossimità


del suo ingresso
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 79

Fig. 12 – Il ‘Forte Portuense’ e il suo


intorno territoriale in una foto aerea
ricoperto tutto con uno spesso strato di terra per protezione da bombe del 1938
e cannoneggiamenti. La grande quantità di terra che si rese neces-
saria per ricoprire il Forte fu prelevata dalla vallata allora situata
sul lato opposto della via Portuense, che mostrava ancora tracce dello
sbancamento (Fig. 12).
Mio padre era un uomo tranquillo e pieno d’interessi. Suonava
il trombone a tasti nella banda militare e conosceva tutti i maestri
delle bande militari di Roma: maestro Cirenei dei Carabinieri;
maestro Marchesini della Polizia, ecc. Poi era appassionato di storia
e così fu molto contento quando nel 1926 gli assegnarono la custo-
dia dell’Archivio. Dopo qualche tempo, durante le giornate passate
a riordinare e classificare i vari faldoni, tra la grande mole di carte
accatastate, notò la presenza di documenti che ritenne storicamente
importanti, firmati in originale da Garibaldi, da Cavour e da altri
personaggi del periodo post-unitario.
Col passare del tempo, anche l’Archivio di Deposito, che era rimasto
80 M. Martini

sempre attivo, esaurì la sua capacità di contenere documenti cartacei.


Si decise così, come si faceva periodicamente, di fare spazio negli scaffali
mandando al macero una parte di quanto conservato.
Per individuare quali documenti distruggere e quali tenere fu
nominata una commissione di alti funzionari ministeriali, che evi-
dentemente si rivelarono interessati più alla sicurezza militare che alla
cultura storica e dunque non dettero molta importanza ai vecchi docu-
menti ottocenteschi, orientandosi per una loro distruzione. Mio padre,
che aveva consapevolezza del valore di quegli atti, ma non l’autorità
sufficiente per opporsi alla loro distruzione, iniziò a preoccuparsi mol-
tissimo e poiché era da tempo entrato in contatto con il comm. Emilio
Re, Soprintendente del Regio Archivio di Stato di Roma, che l’aveva
preso a benvolere per l’attenzione che mostrava verso l’Archivio mili-
tare, si recò da lui e gli raccontò la vicenda. Il Soprintendente rimase
incredulo di fronte alla gravità di quanto quei funzionari ministe-
riali stavano per attuare, così prese immediatamente contatto con il
Direttore Generale del personale civile del Ministero della Guerra,
che allora sovrintendeva all’operazione di svuotamento dell’Archivio,
facendogli presente quanto stava accadendo (Fig. 13).
La decisione fu allora sospesa e si formò una commissione congiun-
ta costituita dal dott. Re in persona, da alti funzionari del Ministero
della Guerra e dal personale dell’Archivio di Stato che effettuò un
sopralluogo. Aprendo le varie cartelle risultò subito palese l’importanza
storica di molti degli atti visionati. Così dopo soli due giorni arrivò
al Forte Portuense un camion che caricò e portò via i documenti che,

Fig. 13 – Uno dei fronti esterni con


feritoie a difesa del fossato
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 81

invece di finire al macero, furono consegnati all’Archivio di Stato di


Roma, dove credo ancora oggi si trovino.
Ricordo poi, come fatto curioso, che in una stanza di questo
capannone erano state accantonate molte banconote di marchi fuori
corso che il governo tedesco aveva stampato in grande quantità,
inflazionando i mercati e che i turisti tedeschi venivano a spendere
in Italia. Pur essendo autentiche quelle banconote non erano di fatto
coperte, come controvalore, dal Ministero del Tesoro tedesco e dunque
erano state ritirate.
Nella seconda metà degli anni ’30 i Forti che costituivano il
campo trincerato di Roma, come Portuense, Bravetta, Braschi, ecc. Fig. 14 – Il cappello in dotazione ai
erano stati armati per la difesa dal cielo riutilizzando dei cannoni volontari della Milizia per la Difesa
Contraerea di Roma (MDICAT) nel
antiaereo “da 75”, in realtà già molto obsoleti poiché utilizzati 1941
nella Grande Guerra sui sottomarini della Regia Marina Militare 3.
Il ‘Forte Portuense’ fu così dotato di quattro di quei cannoni,
subito affidati alla cosiddetta “Milizia per la Difesa Contraerea
Territoriale (MDICAT)”, che aveva camicie nere e cappelli simili a
quelli degli alpini 4 (Fig. 14).
A giudicare dalle apparenze mi sembravano militari richiamati,
non più giovani, di circa 40 anni. Insomma, a noi ragazzini sem-
bravano dei vecchi. Seppi poi che erano per lo più tranvieri, bancari
e impiegati. Questi militi, per molti mesi prima della dichiarazio-
ne di guerra, si erano esercitati all’uso di quei cannoni recandosi
al Forte Portuense circa una volta al mese, di solito la domenica
mattina, al seguito di un comandante. In quelle circostanze veniva
fatto alzare in volo un palloncino rosso, che simulava la presenza di
un aereo nemico e poi il comandante, dopo aver impartito le indi-
cazioni per il rapido puntamento dei cannoni, ordinava il fuoco.
Sentivamo gridare l’ordine ma poi non seguiva nessun boato, solo un
click, perché anche i tiri erano simulati.
La notte del 14 giugno 1940, quattro giorni dopo che Mussolini 3
In effetti l’Ansaldo durante la prima
aveva pronunciato la dichiarazione di guerra, arrivarono in volo su guerra mondiale aveva prodotto un cannone
Roma degli aerei francesi e lanciarono manifestini diretti alla popo- antiaereo di progettazione italiana, il 75/30
RM a canna accorciata, che fu installato su
lazione, con l’invito a ripudiare la guerra (Fig. 15). Quella notte sommergibili di piccola crociera come quelli
dalle postazioni antiaeree situate attorno a Roma furono sparati molti definiti Classe F e Pacinotti. Tuttavia è assai
colpi. I quattro cannoni della batteria del Forte Portuense spararono probabile che nel caso specifico fossero invece
cannoni per contraerea da 75/46 C.A. mod.
un colpo ciascuno, però al momento della prima ricarica tre cannoni 34, sempre realizzati nei cantieri liguri Ansal-
s’incepparono e solo uno continuò a sparare. Verità sacrosanta! do, con cui vennero armati i reggimenti della
Milizia DICAT.
Ho sentito dire che quella notte fatti analoghi accaddero anche 4
Però senza nappina e senza penna. La
nei Forti vicini e – cosa più grave – forse per l’inesperienza dei militi cosiddetta ‘vedova’.
82 M. Martini

Fig. 15 – Uno dei volantini lanciati da


aerei francesi su Roma la notte del 14
giugno 1940

Fig. 16 – Postazione italiana di con-


traerea. Cartolina postale illustrata da
Manlio D’Ercoli. Anno 1940 ca.
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 83

Fig. 17 – Veduta del piazzale interno

nel caricamento delle spolette, ossia nel calcolare la giusta altezza per
l’esplosione del colpo, i proiettili invece di esplodere in cielo spesso
ricadevano a terra intatti, scoppiando nell’impatto col suolo. Ci
furono feriti e danni nelle campagne e nelle parti urbane circostanti
per colpa dei nostri stessi proiettili (Fig. 16).
Di quanto accaduto fu informato Benito Mussolini, il quale rimase
molto contrariato e decise di effettuare un’ispezione nei Forti coinvolti,
per controllare di persona lo stato dei cannoni e per adottare le neces-
sarie contromisure. La notizia dell’imminente visita del duce al Forte
Portuense si sparse subito tra i militari e così anche io lo venni a sapere.
Avvertito da mio padre, con qualche minuto di anticipo, dell’arrivo
del duce saltai il fossato che cingeva il Forte in un punto prossimo alla
mia abitazione, dove era crollato un pezzo di muro, mi arrampicai velo-
cemente sul pendio del terrapieno, passando tra le acacie e mi affacciai
in un punto vicino alla piazzola delle mitragliere (Figg. 17-18). Il duce
arrivò seguito da un folto gruppo di accompagnatori che comprendeva

Fig. 18 – La sommità del terrapieno dove


erano posizionati i cannoni della contrae-
rea e da dove si poteva osservare il piazzale
interno in tutta la sua estensione
84 M. Martini

alti ufficiali dello Stato Maggiore ed anche alcuni ingegneri della


Breda, la fabbrica romana di armi voluta da Mussolini stesso, con
sede sulla via Casilina. Subito il duce chiese spiegazioni di quanto
accaduto. Contestò ai tecnici della Breda – i quali evidentemente
avevano avuto in precedenza l’incarico di revisionare quei cannoni
– che seppure fossero armi riformate dalla Marina, erano comunque
state oggetto di manutenzione e dunque il loro inceppamento era da
considerare inammissibile. Il duce pretese un’immediata riparazione
e così dopo due giorni si vide arrivare al Forte una fila di camion
con moltissimi operai della Breda che smontarono e portarono via
i quattro cannoni. In seguito furono reinstallati, ma mi sembra di
ricordare che il anche il loro successivo funzionamento non fu privo
di difetti, forse per la poca esperienza di chi li maneggiava (Fig. 19).

Fig. 19 – Mussolini controlla l’alzo di un


mortaio da 81 mm durante un’esercita-
zione alla vigilia della guerra (Archivio
EMI)

Durante la guerra la vita anche per noi civili divenne difficile. Nel
fossato del Forte e tra le acacie furono ricavati orti di guerra dove si
coltivavano broccoli e zucchine e dove si allevavano, in gabbia, conigli
per integrare le scarse cibarie che le tessere annonarie potevano fornire.
Tuttavia almeno nei primi mesi di guerra non vi furono episodi
di particolare allerta e la vita del Forte trascorreva in relativa quiete.
Ricordo che di fronte al Forte, in un fabbricato ormai demolito che
sorgeva circa dove oggi è la sede di una banca, vicino all’incrocio della
via Portuense con via Arese, c’era l’osteria della “Sora Italia”, una
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 85

velletrana che vendeva vino di produzione propria e cucinava molto


bene. Nei periodi di minore allerta, i militari del Forte frequentavano
l’osteria per bere e giocare a carte. Quando arrivava un allarme aereo
gli uomini della batteria rimasti nel Forte battevano con un bastone
un grosso bossolo di proiettile, a mo’ di campanaccio, come segnale di
richiamo convenzionato per quelli che erano all’osteria, che avvertiti
dalla sora Italia rientravano precipitosamente (Fig. 20).
Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 i militi italiani
abbandonarono il Forte in preda al disorientamento ed al risentimento
per lo sfaldamento della catena di comando e la mancanza di infor-
mazioni ed ordini precisi. Quello stesso 8 settembre – non avevo ancora
Fig. 20 – Interno del ‘Forte’
compiuto 17 anni – mi trovavo ad attraversare il cortile del Ministero
della Guerra dove avevo trovato lavoro come “mobilitato civile” in
sostituzione dei richiamati alle armi e così ebbi modo di apprende-
re, quasi in tempo reale, dei bombardamenti anglo-americani che
proprio quel giorno colpirono pesantemente la cittadina di Frascati,
sede del comando tedesco che aveva alle dipendenze tutte le truppe
dell’Italia centro meridionale. Dopo tre o quattro giorni da quel
bombardamento, durante i quali il Forte Portuense rimase totalmente
abbandonato, vidi arrivare le truppe tedesche, che sotto la pressione del
nemico stavano lentamente ripiegando verso il nord-ovest. I tedeschi pre-
sero possesso del Forte con un notevole contingente di soldati (Fig. 21).
Trovandolo deserto chiesero chi fosse l’autorità militare responsa-
bile. Fu allora convocato il locale maresciallo dei carabinieri che si
chiamava Ribaldoni. I tedeschi comunicarono al maresciallo la loro

Fig. 21 – Interno del ‘Forte’


86 M. Martini

intenzione di appropriarsi anche dei due capannoni contigui al Forte,


intimandogli di trovare subito persone per ripulire quello destinato ad
autocentro ed officina. Il povero carabiniere non sapeva dove cercare
le persone richieste. Aveva al suo comando solo tre carabinieri, però a
cavallo [ride compiaciuto n.d.r.].
Era il tempo delle tessere annonarie e quella mattina dal vicino
tabaccaio c’era una fila di persone che attendevano la distribuzione
delle sigarette. Il maresciallo con due carabinieri si avvicinò ed ordinò
a quegli uomini di seguirlo, ma loro, che avevano visto arrivare i
tedeschi ed immaginavano il peggio, presi da grande spavento rimasero
immobili. Il maresciallo li rassicurò per quanto possibile, in realtà lui
Fig. 22 – Interno del ‘Forte’
stesso, che non parlava tedesco, non era certo di aver ben capito le reali
intenzioni dei nazisti. Comunque circa venti persone furono costrette
forzatamente a seguirlo e con ramazze e stracci ripulirono il capan-
none. Poi, per fortuna, furono lasciati liberi di andare via. Il giorno
seguente arrivarono molte auto tedesche ed un camion-officina.
Iniziò così il periodo di occupazione tedesca del Forte. Ricordo che
tra i militari ce n’era uno di capelli e carnagione scura, originario di
Monaco di Baviera, un meccanico molto temuto dai suoi stessi came-
rati per i modi duri ed autoritari, sebbene non fosse un graduato. Un
altro tedesco, di nome Franz, cercando di entrare nel Forte guidando
la sua motocicletta col sidecar si ribaltò su una rampa e fu soccorso da
un suo commilitone che era anche medico. Non ricordo che nel Forte
Portuense sia mai stato imprigionato qualcuno e neppure che ci siano
state fucilazioni, come invece purtroppo avvenne nel vicino Forte
Bravetta. Ricordo infatti che a volte, la mattina presto, si udivano
scariche di colpi provenire in lontananza da quel lato (Figg. 22-23).
I tedeschi rimasero a presidiare il Forte ed a svolgervi lavori di
officina per la riparazione di veicoli, fino al 5 Giugno 1944 quando
Roma fu liberata dalle truppe alleate.
Alcuni soldati tedeschi in quegli ultimi giorni avevano deciso
di dormire dentro il capannone dell’Archivio. Ricordo che uno di
loro, che capiva bene l’italiano, aveva una piccola radio con cui si
sintonizzava su “Radio Londra”. Anche io spesso restavo ad ascoltare
ed ero l’unico – oltre a lui – a capire il significato di quelle trasmis-
sioni in italiano. Gli altri tedeschi non capivano e non sapevano
che lui capiva. Tanto è vero che appena apprese dell’ingresso degli
anglo-americani in città quel soldato, la sera stessa, si allontanò
furtivamente dall’Archivio e venni poi a sapere che si rifugiò in un
vicino canneto, circa dove oggi è la chiesa di Santa Silvia. Gli altri
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 87

militari tedeschi si ritirarono abbandonando il forte. La mattina


dopo lui invece si consegnò spontaneamente agli alleati e lo vidi
portare via prigioniero su una camionetta americana. Credo che così
si salvò la pelle.
Nel fuggire precipitosamente i tedeschi abbandonarono nel Forte
vari fucili, bombe a mano, elmetti etc. ed appiccarono il fuoco
al capannone sede dell’autofficina, posizionando alcuni inneschi
incendiari cilindrici verdi. Le fiamme che si sprigionarono fecero
crollare il trave principale. Mio padre pregò intensamente un uffi-
ciale tedesco di nome Karl, con cui aveva avuto buoni rapporti, di
non incendiare anche l’Archivio di Deposito e riuscì a convincerlo a
Fig. 23 – Interno del ‘Forte’
desistere quando quello aveva già posizionato gli inneschi in un foro
della muratura. Si salvarono così molti documenti. Poi finalmente
la guerra terminò. E fu un grande sollievo per noi tutti.
Subito dopo la guerra io e due miei amici, investendo una discreta
somma, allestimmo in un terreno prossimo alla Casa del Fascio una
sala da ballo chiamata “Il Trocadero”. Nell’edificio dove era il cinema
c’era anche un bar gestito dal sor Aldo, un toscano che era anche il
proprietario dell’appezzamento di terreno dove avevamo realizzato la
nostra pista da ballo. Così quel luogo, tra musica, balli e consumazioni,
per qualche tempo attirò i giovani in cerca di divertimento.
Ricordo però bene che un frate, padre Luciano, durante una pre-
dica nella vicina chiesa di San Francesco di Sales esortò i fedeli a non
andare in quel “luogo di perdizione”. Ma uno dei presenti, Donato,
un abruzzese dai modi rudi, contestò subito duramente le parole del
frate, lasciando i parrocchiani ammutoliti. Si creò un piccolo guaio,
poi faticosamente ricomposto con la mediazione di alcuni personaggi
che godevano di una certa autorevolezza in zona. Donato alla fine
offrì bucatini all’amatriciana a tutti.
Insomma gli anni bui della guerra erano passati e la vita rico-
minciava a scorrere, come al solito, anche lungo la via Portuense».

La seconda testimonianza è stata raccolta molti anni prima


della precedente. Precisamente il 13 ottobre 1994. In quel periodo
l’architetto Vincenzo Giorgi, appassionato conoscitore della storia
del territorio portuense, coltivava un rapporto di amicizia con il
signor Antonio Bitti, che all’epoca aveva 82 anni ben portati. Il
signor Bitti aveva sempre vissuto nel quartiere Portuense-Villini e
ne conosceva ogni vicenda, da quando tutt’attorno c’erano vigne ed
osterie e si vedevano transitare greggi e cacciatori, fino ai giorni
88 M. Martini

della grande espansione edilizia che ha determinato l’attuale con-


formazione del quartiere ed alle conseguenti trasformazioni del
tessuto sociale (Fig. 24). Inoltre aveva un’altra originale preroga-
tiva: l’aver vissuto, come militare, nel ‘Forte Portuense’ durante
l’ultima guerra. Era dunque un prezioso testimone in grado di
fare luce su alcune vicende e sui modi d’uso del ‘Forte’ stesso.
L’architetto Giorgi chiese al signor Bitti la cortesia di ricordare
per noi quel periodo e lui cortesemente si prestò ad un’intervista.
All’inizio degli anni ’90, ed in verità anche nei decenni successivi,
non era difficile introdursi clandestinamente nel ‘Forte’ scavalcando
Fig. 24 – Via Prospero Colonna in un’
il fossato dal lato di via degli Irlandesi, così in previsione dell’inter-
immagine del 1962. I lotti non ancora vista si fecero diversi sopralluoghi e fotografie di documentazione.
edificati accanto ad edifici appena ter- Ecco dunque il racconto del signor Bitti, che ovviamente con-
minati ed il marciapiede con i platani da
poco messi a dimora sono testimonianza tiene anche interessanti riferimenti allo stato di conservazione del
della rapida crescita edilizia avvenuta ‘Forte’ come appariva nel 1994.
nei primi anni sessanta in prossimità del
‘Forte Portuense’ (Foto Dolis)
Tra il 1940 ed il 1943 ero stato richiamato alle armi ed assegnato al
5° gruppo di difesa contraerea di Roma 5, il cui comando era situato pro-
5
prio nel Forte Portuense (Fig. 25). Controllavamo direttamente quattro
Quasi certamente si trattava della
M.D.I.C.A.T., ossia la Milizia per la Difesa
batterie contraeree dislocate nella campagna circostante ed eravamo in
Contraerea Territoriale. contatto permanente con altri Forti: certamente Bravetta e Ostiense.

Fig. 25 – Planimetria originaria del ‘Forte


Portuense’ (Conservata presso l’Istituto
Storico e di Cultura dell’Arma del Genio
– Roma)
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 89

Fig. 26 – Veduta del Fossato che cir-


conda il ‘Forte’, attualmente infestato
da alberi di acacia e rampicanti

Il Forte Portuense era già allora poco utilizzato come struttu-


ra militare. Forse fu usato a pieno solo fino alla Grande Guerra.
Principalmente serviva da magazzino, essendo dotato di numerosi
ed ampi ambienti interni, ben protetti dalle intemperie. Lo stato
delle murature era senz’altro buono, come del resto lo è attualmente;
ricordo stanze asciutte ed anche luminose. La differenza più evidente
rispetto allo stato attuale è rappresentata dalla manutenzione e dalla
pulizia, che allora erano buone ed oggi, ovviamente, inesistenti.
L’immagine complessiva del Forte era dunque assai diversa. Non
sembrava, come adesso, di essere in un bosco. Oggi le acacie hanno
infestato tutto (Fig. 26). Invece allora i terrapieni, per necessità di
avvistamento e tiro non erano ricoperti di alberature, c’era una vege-
tazione a scopo mimetico solo lungo il fossato, in tal modo lo sguardo
poteva spaziare dai camminamenti più elevati sulla campagna circo-
stante e sulle poche case d’abitazione – tra cui quella della mia famiglia
– che esistevano vicino al Forte, sul lato opposto della via Portuense.
Il 5° Gruppo era composto soltanto da 9 ufficiali e 20 soldati.
Ricordo che le stanze situate sul lato nord, quelle che originaria-
mente servivano da camerate, erano vuote. Il Forte, come detto, era
utilizzato solo in parte, principalmente come deposito di materiali
vari ed anche di armamenti, Alcune stanze continuavano comun-
que ad essere usate secondo la loro primitiva destinazione: quelle del
posto di guardia, situate dopo il portone d’ingresso; la sala convegno
e le stanze dove alloggiavano gli ufficiali (Fig. 27). I soldati invece
alloggiavano subito all’esterno del Forte, in appositi fabbricati ad un Fig. 27 – Le latrine per i militari
90 M. Martini

piano fatti costruire vicino alla via Portuense. Un altro fabbricato


militare, che conteneva la mensa dei soldati e l’infermeria con la
postazione dell’ufficiale medico erano dove attualmente c’è il centro
anziani, lungo via degli Irlandesi. Il resto delle aree verdi è rimasto
come allora. I depositi di munizioni ed armamenti erano nei locali
interrati della polveriera e vi si accedeva dal fossato. Altre armi erano
custodite all’interno.
Il Forte aveva un armamento di tipo leggero, costituito da
quattro cannoni. Erano modelli vecchi, che avevano fatto la guerra
del ’15-’18 e che venivano ancora usati per la difesa contraerea. Io
ero aiuto caricatore. Ricordo che i proiettili erano molto pesanti. La
funzione del Forte Portuense era prevalentemente di avvistamento e
coordinamento delle varie batterie.
I cannoni erano posizionati sulla sommità dei terrapieni, su
piattaforme di cemento. Avevano un basamento girevole con un
ingranaggio dentato che ruotava facendo leva su una bullonatura
circolare ancorata a terra. Credo che la bullonatura sia ancora là,
magari sotto uno strato di terriccio. Nelle garitte poste sulla capo-
niera centrale c’era il posto di avvistamento; ogni tre ore due soldati
cambiavano la guardia (Fig. 28).
Durante un attacco aereo francese, che ci fu nel giugno del 1940,
sparammo un paio di colpi, poi alcuni cannoni s’incepparono. Li
smontammo e li inviammo al deposito militare di San Lorenzo. I
tedeschi ce ne fornirono di nuovi. Ricordo che durante quell’attacco
alcuni colpi di contraerea sparati dal Forte Bravetta, ricaddero sui

Fig. 28 – Due militi della MDICAT


addetti alla difesa contraerea di Roma in
un’immagine del 1941
Il Forte Portuense nella II Guerra Mondiale. Due storie mai raccontate 91

tetti di un gruppo di casali a Corviale provocando danni.


Dopo l’8 settembre 1943, da una postazione situata sulla collina
dell’EUR i tedeschi, che stavano accerchiando Roma, spararono tre
colpi di cannone verso il Forte Portuense (Fig. 29) e colpirono alcuni
casali vicino a Villa Bonelli. Questo episodio determinò il definitivo
abbandono del Forte, giudicato dagli ufficiali ormai indifendibile 6
Nel clima di confusione e sbandamento di quei giorni molti soldati
tornarono a casa.
Io, che abitavo di fronte al Forte e che già quasi sempre tornavo
a dormire a casa, ovviamente rimasi. Ma la popolazione, che aveva
bisogno di tutto a causa delle ristrettezze imposte dalla guerra, prese Fig. 29 – Interno del ‘Forte’
d’assalto il complesso dei manufatti militari rimasti per alcuni gior-
ni abbandonati e li saccheggiò. Furono portati via materassi, reti
da letto, viveri, utensili, lumi, una stufa, l’intera cucina a carbone,
tutti gli arredi e naturalmente le armi rimaste.
Qualcuno mi disse poi che con i fucili sottratti l’8 settembre al Forte
Portuense si armò la Resistenza romana che due giorni dopo, in quel
tragico 10 settembre 1943, affrontò eroicamente le truppe tedesche che
volevano entrare a Roma nella la battaglia di porta San Paolo.
Credo che almeno sotto questo aspetto il Forte abbia dato un
suo contributo importante alla costruzione della nostra Repubblica
(Figg. 31-32). Fig. 30 – L’atto eroico di Amerigo
Sterpetti presso il ponte della Magliana
rappresentato in una cartolina postale
commemorativa

6
La sera dell’8 settembre 1943 le forze te-
desche provenienti dall’EUR decisero di attra-
versare il Tevere presso il ponte della Magliana
per entrare nel territorio portuense. Un reparto
di paracadutisti tedeschi intimò ai Granatieri
di Sardegna, di presidio ai posti di blocco, di
lasciare transitare le colonne della Wermacht.
Al loro rifiuto si scatenò un furioso combat-
timento che continuò fino al giorno seguente
per tutte le aree circostanti, con gravi perdite
da parte italiana. In quei combattimenti pres-
so il Ponte della Magliana il 9 settembre cadde
anche la Guardia di Polizia Amerigo Sterpetti
di ventuno anni, che per l’eroismo mostrato
nel resistere coraggiosamente fino alla morte
fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valor
Militare, alla memoria (Fig. 30).
92 M. Martini

Fig. 31 – Planimetria del ‘Forte Portuense’ alla fine XX secolo. Da notare i due lunghi capannoni militari adiacenti al ‘Forte’
nel lato sud-ovest

Fig. 32 – Veduta aerea del ‘Forte Portuense’ e del suo intorno edificato. Anno 2016. Foto satellitare da Google Earth
Ostiense-Marconi
Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere

Paola Rossi

Ai viaggiatori del XVIII e XIX secolo che giungevano a Porta


San Paolo per andare principalmente alla Basilica Ostiense, la
zona appariva decisamente rurale, come una grande distesa di
orti e vigne (Fig. 1) cosparsa di casali e ruderi, frequentata da
contadini e bovari che portavano le merci in città (Fig. 2).
Fig. 1 – La Campagna oltre le Mura
nella seconda metà del secolo XIX

Fig. 2 – Entrata dei contadini in città


da Porta San Paolo, Rossini, 1819
Poi dalla seconda metà del XIX secolo lo scenario cambiò
radicalmente. Tutto il quadrante di campagna a sud della città 1
Dopo un mese dalla sua elezione Pio
fu interessato da un processo di grandi trasformazioni, legato IX aveva nominato la Commissione Consultiva
strettamente da una parte alla presenza del fiume e dall’altra alla delle Strade Ferrate che come primo atto pub-
blicò la Notificazione (7 novembre 1846) «che
creazione della linea ferroviaria Roma-Civitavecchia. disciplinava la concessione delle future linee
Pio IX (1846-1878) infatti già dai primissimi giorni di dello Stato Pontificio». Per uno studio appro-
fondito sulle Strade Ferrate dello Stato Pontifi-
pontificato restò affascinato dal progetto strade ferrate 1 che il cio si veda: M. Pancolesi, Le ferrovie di Pio IX,
suo predecessore Gregorio XVI aveva accantonato, al contrario, Cortona 2005.
94 P. Rossi

Fig. 3 – Ponte di ferro, inaugurato nel


1863. Foto del 1908: ACS, Ministero
dei Lavori Pubblici, f. 10, n. 6.
Il Ponte, originariamente ferroviario, fu costru-
ito con la funzione di raccordo tra la Stazione
Termini e la Roma-Civitavecchia. Fu proget-
tato dall’ingegnere Louis Hach nel 1861 e co-
struito interamente in ferro con tecniche molto
innovative. La campata centrale era mobile per
permettere il passaggio dei battelli verso il porto
fluviale di Ripa Grande. Diventò presto insuf-
ficiente per il traffico ferroviario notevolmente
aumentato e venne quindi declassato nel 1911
a ponte stradale e affiancato a monte dal Ponte
San Paolo a sei binari

con molta diffidenza anche a causa della grave crisi economica


dello Stato Pontificio 2. Così il nuovo papa durante il soggiorno
a Gaeta (24 novembre 1848-12 aprile 1850) sperimentò perso-
2 nalmente il treno compiendo l’8 settembre del 1849 su invito e
Emblematica e chiarificatrice a propo-
sito della ostilità di Gregorio per la ferrovia è in compagnia di Ferdinando II di Borbone il suo primo viaggio
la disamina estremamente piacevole che Mau- sulla linea da Portici a Nocera-Pagani 3. Tornato a Roma nel 1850
rizio Panconesi compie sulle satire dell’epoca
riportando il sonetto di Gioacchino Belli (so-
Pio IX concretizzò le iniziative già avviate prima del suo esilio
netto 15 novembre 1843, Le carrozze a vapo- nel Regno dei Borbone. Così il 7 luglio 1856 venne inaugura-
re) e i versi di Pasquino che morto il papa (1
giugno 1846) viene accolto da San Pietro con
ta la ferrovia ‘del papa’, la Roma Frascati, e l’8 ottobre furono
la frase «Se tu avessi fatto le strade ferrate, a iniziati i lavori della Roma-Civitavecchia, volta anche a scopi
quest’ora saresti già in Paradiso».
3 commerciali e strategici in quanto, con le due stazioni di testa
La prima ferrovia italiana fu infatti proprio
quella di Napoli Portici. L’autorizzazione a costru- di Porta Portese, non a caso nei pressi dell’antico porto fluviale
ire a proprie spese la linea Napoli-Nocera fu con- e dell’Arsenale Pontificio, e di Civitavecchia, costituiva una via
cessa nel 1836 all’ingegnere Armando Giuseppe
Bayard de le Vingtrie da Ferdinando di Borbone. diretta verso il mare.
Già il 3 ottobre 1839 ne venne inaugurato il pri- Per il progetto ‘strade ferrate’ e per i raccordi delle linee
mo tratto fino a Portici. La sua innovazione rispet-
to a quella che viene considerata la prima ferrovia
ferroviarie tra loro ancora una volta Pio IX, lo stesso papa, fece
del mondo, la Manchester-Liverpool, fu l’aver costruire il ponte di ferro sul Tevere, altamente innovativo per
previsto già all’origine la presenza delle carrozze l’epoca dal punto di vista ingegneristico, inaugurato il 24 ottobre
viaggiatori che si aggiungevano a quelle per il tra-
sporto delle merci. Del resto anche la ferrovia bri- 1863 (Fig. 3).
tannica già dopo un anno dalla sua inaugurazione È chiaro che questi furono i presupposti da cui prese avvio
del 1830 era stata adeguata al trasporto passeggeri.
Il primo tratto della Napoli-Portici fu inaugurato sulle due sponde del fiume la grande trasformazione della campa-
il 3 ottobre del 1839 e ancora, nel tempo, la linea gna, indirizzata ormai a integrarsi nel costruito. A questo punto
venne prolungata e dal 1844 si poteva ormai rag-
giungere Pagani e poi, per tappe successive, ma già
erano già state predisposte le prime infrastrutture che avrebbero
nel 1866, la linea Napoli-Salerno fu completata. condizionato e indirizzato le scelte progettuali dei successivi
Ostiense-Marconi. Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 95

Piani Regolatori, sancendo la localizzazione del futuro polo


industriale romano in questa area sulle due rive del Tevere, avva-
lendosi anche dell’altra via di collegamento, il fiume, da sempre
legame diretto con il mare e quindi trasporto privilegiato per le
merci delle industrie che si sarebbero attestate in questo settore
della città.
Nel passaggio di Roma dallo Stato Pontificio a capitale d’Ita-
lia infatti proseguì la trasformazione della città. Dopo la grande
alluvione del 28 dicembre 1870 vennero progettati e poi realiz-
zati i muraglioni del Tevere con i lungotevere fino all’altezza di
Porta Portese 4. Da qui certamente il fiume restava sempre un
grave pericolo per le sue inondazioni, ma costituiva nello stesso
tempo la grande risorsa per questo territorio che rimaneva in
comunicazione diretta con il mare per i trasporti dei prodotti
delle industrie (Fig. 4).

Fig. 4 – Ponte di ferro, inaugurato nel


1863. Foto del 1908: ACS, Ministero
dei Lavori Pubblici, f. 10, n. 6

4
«Il lavoro del Tevere urbano, cioè la
sistemazione del Tevere in tutta la parte che
appartiene alla città sarà un lavoro importan-
tissimo. Questo lavoro ridurrà il fiume per
modo che, invece di quel Tevere minaccioso,
devastatore, che spaventa i due terzi della po-
polazione romana, e le porta di volta in volta
danni enormi, avremo un Tevere benefico, un
Tevere che sarà una grande arteria che attra-
verserà e darà nuova vita alla città, coi suoi
magnifici lungoteveri, e che migliorerà l’igiene
pubblica, e compierà una linea di navigazione
a vantaggio dell’industria e del commercio».
Anche la questione della delocalizzazione delle fabbriche veniva Così argomentava Garibaldi nel presentare la
sua Proposta di legge sulle opere idrauliche per
da lontano e ancora una volta dal governo pontificio che già si era preservare Roma dalle inondazioni e per la navi-
posto ripetutamente il problema dello spostamento delle industrie gabilità del Tevere, Legislatura XII, Tornata del
26 maggio 1875 (Archivio Storico Camera dei
insalubri dal centro abitato verso luoghi più esterni alla città. Nel Deputati, ASCD, Disegni e proposte di legge
1864 il Regolamento edilizio aveva infatti ratificato ufficialmente e incarti delle commissioni, 213, fasc. 138).
5
la scelta di Trastevere come sito idoneo all’insediamento di queste Cfr. A.L. Palazzo, B. Rizzo, La desti-
nazione industriale del quadrante Ostiense, in
attività in quanto il rione stava già assumendo spontaneamente «Roma moderna e contemporanea», XII, 1-2,
una caratterizzazione ‘industriale’ (concerie, saponifici…)5. 2004, p. 129; M. Marcelli, Le industrie ro-
mane dall’occupazione francese all’avvento del
Subito dopo l’istituzione di Roma capitale si ripose il pro- Fascismo. Un’analisi GIS, in «Geostorie», XXII,
blema. La Giunta provvisoria costituì una Commissione per 1, 2014, pp. 7-53.
96 P. Rossi

l’ampliamento della città e la individuazione di aree industriali:


«Oltre l’attuale stazione delle ferrovie dovrà preveder-
6
Cfr. I. Insolera, Storia del primo piano si altra nella località di Testaccio, specialmente destinata
regolatore di Roma: 1870-1874, in «Urbanistica», al servizio merci, intorno alla quale verranno a stabilirsi
XXIX, 1959, 27, pp. 74 ss.
7
i magazzini generali, i depositi delle principali derrate e
La vecchia Stazione di Porta Portese era vettovaglie, il Campo Boario, i Pubblici Macelli, ed ogni
stata inaugurata nel 1859 e già nel 1869 anco- altra dipendente costruzione, nonché le industrie affini.
ra con il Governo Pontificio era stato aperto un
dibattito sulla proposta di un nuovo raccordo
Questo quartiere, opportunamente segregato dal resto
all’altezza del ponte di ferro tra la linea Ro-
della Città ed in immediato contatto delle vie di terra
ma-Civitavecchia e una nuova stazione che a e di acqua, avrà nondimeno facili comunicazioni colla
quel tempo si pensava di localizzare nella zona parte centrale» 6.
di Trastevere. Dal 1877 anche il Ministero dei
Lavori Pubblici e il Comune congiuntamente
portarono avanti l’idea cercando una soluzio-
Così decretava la relazione stesa dalla Commissione per le linee
ne idonea, individuata prima in un’area vicino guida del Piano Regolatore.
a San Cosimato ma scegliendo poi per proble- Era una scelta determinata dalle aree pianeggianti, dal Tevere
mi di acquisizione di lotti, la zona tra piazza
Ippolito Nievo e la via Portuense. La Stazione e dalla ferrovia con la nuova stazione di Trastevere, di cui già si
fu costruita nel 1889 ed è ancora esistente. Già discuteva in sostituzione di quella a Porta Portese 7, e fu applicata
nel 1907 vennero però iniziati i lavori per una
Nuova Stazione Trastevere più a sud, in piazza nel 1873 nel Piano Regolatore di Viviani che proponeva l’espan-
Flavio Biondo, terminati nel 1910. sione industriale della città verso Testaccio dove sarebbe sorto un

Fig. 5 – Piano Regolatore di Roma, 1883


Ostiense-Marconi. Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 97

quartiere con infrastrutture di servizio, opifici e residenze operaie;


divenne poi operativa nel 1883 con l’approvazione del Nuovo
Piano che prevedeva per gli insediamenti industriali un ulteriore
ampliamento di terreni a Testaccio (Fig. 5).
Il progetto stentò comunque a decollare per la crisi edilizia e 8
In quegli anni molte furono le iniziati-
per i contrastanti interessi che si erano andati focalizzando in con- ve e le proposte capitoline portate avanti con
temporanea sull’area da parte dell’amministrazione capitolina ma l’appoggio di società e istituti privati, volte a
anche del governo e dell’aristocrazia romana. intensificare servizi e infrastrutture. Paolo Or-
lando (1858-1943) per esempio fu una delle
Se infatti le iniziative comunali erano volte alla richiesta di maggiori figure di rilievo nel dibattito sull’in-
inserire Roma tra le città usufruttuarie dei privilegi per l’incre- dividuazione dell’area sud-ovest della città
come centro di industrializzazione. Aveva già
mento dell’industria auspicando in questa ottica, anche un nuovo proposto nel 1896 la costruzione di un canale
Porto in sostituzione di quello di Ripa Grande 8, «la posizione del navigabile tra San Paolo e il mare, indipenden-
te dal fiume e fondò nel 1904 con rappresen-
Governo sullo sviluppo industriale appare in questa fase piuttosto tanti dell’imprenditoria e della finanza romana
ambigua, presumibilmente anche in relazione ai provvedimen- il Comitato Pro Roma Marittima finalizzato
ti assunti con le leggi di bonifica agraria» (legge sulla bonifica alla questione della realizzazione di un porto
di Roma ad Ostia che portava con sé quasi
dell’‘Agro Romano’, n. 4642 dell’11 dicembre 1878) 9. automaticamente il progetto della relativa
Nonostante tutto, anche se molto lentamente, la zona si andò ferrovia di collegamento. Consigliere comuna-
le, tra il 1914 e il 1919 assessore con delega per
urbanizzando, la campagna e la città si avvicinarono progressiva- l’Agro Romano e Annona, a Roma e dal 1919
mente e dal 1884 una linea tramviaria collegava la basilica di San al 1923 presidente dell’Ente Autonomo per
lo Sviluppo Marittimo ed Industriale di Roma
Paolo al centro. Tra i casali e le vigne che continuarono a essere (SMIR), promosse anche la fondazione di un
la costante della zona per tutto il primo trentennio del ’900 si ‘quartiere del lavoro’ fuori Porta San Paolo. Nel
inserirono i primi insediamenti industriali: il Mattatoio di Ersoch 1934 fu nominato senatore a vita. Sull’argomen-
to si veda: M.T. De Nigris, C. Ferrantini, P.
(tra 1888 e 1891) sulla riva sinistra e conseguentemente alla Buia, in «Roma porto di mare»: la suggestione di
fine dell’800 sulla riva destra anche la Società Prodotti Chimici un ideale nelle carte dello Studio di Paolo Orlando,
e Inventario delle carte dello Studio di Paolo Or-
colle e concimi che utilizzando come materia prima gli scarti del lando, Il Quadrante Ostiense tra Otto e Novecento,
Mattatoio venne spostata dal Centro storico alle aree a sud fuori in «Roma moderna e contemporanea», XII, 1,2,
2004, pp. 261-289; 291-346.
le Mura (Figg. 6-7) 10. 9 Cfr. A. Cazzola, I paesaggi nelle campa-
Quindi già dai primi anni del ’900, si cominciava a delineare gne di Roma, Firenze 2005, p. 127; E. Novello,
sempre più chiaramente l’esigenza del decollo industriale di Roma: La bonifica in Italia: Legislazione, credito e lotta
alla malaria dall’Unità al fascismo, Milano 2003.
le aree a sud della città storica a questo punto erano state in qualche 10
Per una chiara sintesi sulla trasforma-
modo prescelte come zone a carattere produttivo e si avanzavano zione di tutto questo quadrante di città si veda
in particolare C.M. Travaglini, Tra Testaccio
proposte che ne avrebbero permesso il progressivo inserimento nel e l’Ostiense i segni di Roma produttiva. Un pa-
sistema ferroviario e progetti sulla riattivazione della navigabilità esaggio urbano e un patrimonio culturale per la
del fiume con la creazione di un nuovo porto e sulla realizzazione città, in «Roma moderna e contemporanea»,
XIV, 2006, 1-3, pp. 343-380: 351-360; sull’ar-
di un collegamento stradale tra la città e il mare. gomento si veda anche E. Torelli Landini, Il
L’esigenza di un nuovo porto fluviale era sentita da tempo, quartiere Ostiense-Testaccio fra attualità e storia,
in catalogo di mostra presso gli ex-Magazzini
legata anche alla volontà di ripristinare un traffico fluviale di generali, Roma 2003; E. Torelli Landini,
un certo rilievo. Aveva alimentato accesi dibattiti ma divenne Nathan e il sistema misto di gestione dei pubblici
servizi, Il Quadrante Ostiense tra Otto e Novecen-
un problema reale con la costruzione nel 1889 della Stazione to, in «Roma moderna e contemporanea», XII,
Trastevere, che andava a sostituire quella vecchia di Porta Portese, 1-2, 2004.
98 P. Rossi

Figg. 6-7 – Società Prodotti Chimici


Colla e Concimi, poi Società Anonima
Fabbrica Candele Steariche Mira, fusa
in seguito con la Lanza (datazione: dal
1899 al 1949).
Il complesso attuale venne edificato in più
fasi, a partire dalla fine del secolo XIX, in
un’area di circa nove ettari nei campi di Pietra
Papa fuori porta Portese, sulla riva destra del
Tevere. La richiesta al Comune di Roma nel
1899 per la realizzazione di uno stabilimen-
to «nell’ex vigna Ceccarelli nella località detta
Pietra Papa» fu presentata nel 1899 dalla So-
cietà Prodotti Chimici, Colla e Concimi che,
come anche altre industrie chimiche sorte nei
pressi, sfruttava per la produzione gli scarti
provenienti dal vicino mattatoio. Questo pri-
mo stabilimento fu progettato dall’ing. Giu-
lio Filippucci (1899) e ampliato già nel 1907
dall’ing. Nazareno Giorgetti. A seguito di un
incendio (1913), lo stabilimento Colle e Con-
cimi fu ceduto, dopo varie vicende, nel 1918
alla Società anonima Fabbriche Candele Stea-
riche di Mira che produceva oltre a candele e
saponi anche glicerina per esplosivi. In questa
occasione fu ampliato su progetto dell’ing.
Costantino Moretti nel 1919-1920. La So-
cietà Mira venne poi fusa con la Lanza, dando
vita alla Società anonima Mira Lanza, attiva
fino agli anni ‘50. Alcuni edifici del complesso
sono oggi stati restaurati e utilizzati dal Teatro
India. Faceva parte della Mira anche l’attuale
autoparco della Croce Rossa in via Pacinotti,
progettato sempre da Moretti nel 1919 come
Stazione per autocarri della Società con vari
annessi, aggiunti anche in tempi successivi.
Oltre all'autoparco in cemento armato e a vol-
ta ribassata e ai servizi connessi (officine, ma-
gazzini, spogliatoi) furono costruiti una scude-
ria per cavalli con fienile, magazzini, palazzine
per uffici e alloggi e anche una segheria con
deposito legname, oggi demolita per costruire
le palazzine di piazzale della Radio

e che si rese necessaria per i nuovi collegamenti ferroviari con


Termini, incompatibili a loro volta con il ponte di Pio IX che
supportava solo un traffico ferroviario limitatissimo. Pertanto la
necessità di erigere, a monte del vecchio, un nuovo ponte ferro-
viario che essendo a travata fissa avrebbe impedito il passaggio di
grossi battelli fino al porto di Ripa Grande, rese improcrastinabile
la decisione relativa alla costruzione del nuovo porto fluviale a
Ostiense-Marconi. Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 99

valle del vecchio ponte. Nel 1904 il Ministero dei Lavori Pubblici
autorizzò e diede il via al progetto e nel 1912 il porto era attivo
e attrezzato su tutte e due le sponde 11 (Fig. 8).

Fig. 8 – Il Porto Fluviale in una cartolina


del 1921

Cominciava intanto anche a delinearsi il nuovo quartiere ope-


raio previsto nel Piano Regolatore: nel 1903 fu istituito l’Istituto
Case Popolari che dal 1907 intervenne a Testaccio, nel 1905 fu
costruita la chiesa, fondato il Comitato delle refezioni scolastiche,
la biblioteca…12.
Negli stessi anni venne eletto sindaco Ernesto Nathan (1907)
che come priorità pose la riorganizzazione dei servizi. I progetti
furono tanti. Tutti finalizzati allo sviluppo produttivo della città
e «nel giro di pochi anni si concretizzarono o si avviarono grandi
opere e nuovi imponenti insediamenti, alcuni dei quali, anche
a causa della Grande Guerra, sarebbero poi stati inaugurati nei
primi anni del regime fascista» 13.
Fu redatto nel 1909 da Edmondo Sanjust il Nuovo Piano
Regolatore che segnò finalmente l’avvio definitivo allo sviluppo
produttivo della zona Portuense-Ostiense.
Il Tevere venne nuovamente proposto come la via d’acqua 11
Cfr. G. Stemperini, I Magazzini ge-
più possibile rispetto ad altre ipotesi presentate nel tempo e come nerali di Roma: dai progetti ottocenteschi al de-
diretta conseguenza lungo le due rive tra Ostiense e Portuense clino, in «Roma moderna e contemporanea»,
prolificarono le attività connesse al nuovo insediamento indu- XX, 2012, 1, pp. 65-109.
12
Sull’argomento: C. Mazzarelli, Il
striale, facilitate dalla vicinanza della linea ferroviaria e dalla primo Novecento: da Nathan al fascismo, in «Un
possibilità di un rapido trasporto fluviale. Nel 1907 erano poi patrimonio urbano tra memoria e progetti.
Roma. L’area Ostiense-Testaccio», catalogo di
iniziati i lavori per il nuovo ponte, premessa obbligata, come mostra 26 giugno - 15 ottobre 2004, p. 10 ss.
già detto, al nuovo porto fluviale, compiuto poi nel 1912 con la 13 Travaglini, 2006, p. 353.
100 P. Rossi

Fig. 9 – La Dogana di Porto Fluviale


in riva sinistra del Tevere. Foto Alinari
1920

Fig. 10 – Società Anonima Oliere dell'I-


talia Centrale, 1900 ca.-1920, oggi Casa
Vittoria.
Costruita agli inizi del ’900, restaurata nel 1912
dall’ing. Canevari e ampliata nel 1920 dall’ing.
Sebastiano Bultrini

Dogana e la Capitaneria (Fig. 9). Il Tevere era diventato finalmente


la via d’acqua tanto attesa.
La riva sinistra fu prescelta per i servizi: le prime case popolari
in via del Commercio (1909); i Mercati Generali, il cui progetto
fu approvato nel 1910 anche se poi furono inaugurati nel 1924;
l’Azienda Elettrica Municipale Montemartini (1911-1913); le
nuove officine per la produzione del gas della Società Anglo-
Romana (1910-1916); i Magazzini Generali (1912)14.
14
Sulla destra si localizzarono invece opifici privati in comunica-
Sull’argomento si veda Torelli Landi-
ni, 2004; G. Stemperini,Via Ostiense, catalogo
zione più o meno diretta con la ferrovia o con il fiume (Fig. 15):
di mostra 2004, p. 110; Travaglini, 2006. la Società Anonima Oliere tra il 1900 e il 1920 (Fig. 10); la
Ostiense-Marconi. Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 101

Fig. 11 – Molini Biondi 1905-1925


(foto prima della ristrutturazione).
Nel 1905 la Società Italiana Molini e Pastifi-
cio Biondi rilevò un molino della ditta Städ-
lin probabilmente già localizzato dalla fine
dell’800 sul terreno agricolo fuori Porta Por-
tese. Un primo progetto di ristrutturazione e
ampliamento della struttura, a firma dell’ing.
Fiory prevedeva la costruzione di un silos e
il raccordo ferroviario diretto con la stazione
San Paolo. Già nel 1907 lo stabilimento fu
dotato di alloggi per operai e impiegati e poi,
nel 1912, di depositi e magazzini per farine.
Nel periodo bellico la società entrò in crisi ma
poi, successivamente, nel 1920, a seguito di un
parziale crollo fu presentato un nuovo proget-
to di ristrutturazione e ampliamento dell’ing.
Scarlatti. Lo stabilimento restò in uso fino alla
fine degli anni ’60

Fig. 12 – Granaio dell’Urbe, 1936 (foto


prima della ristrutturazione).
Nel 1922 venne completato in riva sinistra, su
progetto di Tullio Passarelli, il primo Consorzio
Agrario di Roma, con lo scopo di ‘industrializza-
re’ l’agricoltura romana. Pochi anni dopo fu av-
viato il progetto per costruire un grosso silos per
contenere i prodotti, visto il forte incremento che
c’era stato nella produzione cerealicola, sempre
più incoraggiata. Nel 1934 infatti venne espro-
priato per pubblica utilità il terreno per il Granaio
dell’Urbe, in riva destra, cioè dalla parte opposta
del fiume rispetto alla prima sede all’ostiense. An-
che questa struttura fu progettata dallo studio
Passarelli e poi ampliata con l’aggiunta di un
corpo allungato a due e a tre piani.
Attualmente è stato fortemente ristrutturato e
alterato nelle sue superfici

Molini Biondi, dal 1905 insediata su una più vecchia struttura


ma in quegli anni ampliata e dotata di servizi e alloggi per gli
operai (Fig. 11); la Mira, che nel 1918 rilevò la vecchia ‘Colla
e Concimi’ della fine dell’800 e che poi dal 1924 si associò alla
Lanza (Figg. 6-7; 14); il Granaio dell’Urbe, edificato solo nel
1936 ma la cui costruzione era da tempo prevista dal Consorzio
Agrario, posizionato in riva sinistra dal 1919 e che già dal 1927
aveva deliberato la realizzazione di un silos ‘comune’ (Fig. 12).
Anche dopo la caduta di Nathan e in piena guerra andò avanti
il progetto ‘quartiere industriale’, e vennero portati a termine molti
dei progetti iniziati sotto la precedente amministrazione. Continuò
102 P. Rossi

Fig. 13 – La Purfina, olio su tela di


Antonietta Lande, 1960.
Dalla fine degli anni ’20 sul sito di via Quiri-
no Maiorana si produceva asfalto da parte della
ABCD (asfalti, bitumi, catrami e derivati). Nel
1946 divenne Permolio e poi, nel ’50, Purfina,
trasformandosi in una vera e propria raffineria
tra le rimostranze del quartiere, nel frattempo
popolato. Lo stabilimento fu chiuso nel ’70 e
l’attività trasferita a Malagrotta. Il terreno la-
sciato libero dall’abbattimento della fabbrica
fu destinato a nuova edilizia intensiva che nella
toponomastica non ufficiale venne identificata
come ‘l’isola’ o anche come ‘ex purfina’. L’ul-
timo spazio bonificato è stato adibito a parco
giochi Gianni Rodari

l’interesse per l’espansione della città verso il mare prima con


Paolo Orlando assessore con delega per l’‘Agro Romano’ tra il
1914 e il 1919 e presidente dell’Ente Autonomo per lo Sviluppo
Marittimo ed Industriale di Roma (SMIR) dal 1919 al 1923 15,
poi con lo stesso Mussolini.
Dagli anni ’40 gli interessi delle Amministrazioni si concentra-
rono verso altri settori di Roma: sull’E-42, sull’espansione verso il
mare e quindi sullo spostamento a est della città industriale nella
15
16
Cfr. n. 8. nuova direttrice Tiburtina-Tor Sapienza16, poi sancito dal Piano
Cfr. S. Amadio, La guerra, il dopoguer-
ra e il declino, catalogo di mostra 2004, p. 26;
Regolatore del 1962.
Travaglini 2006, p. 357. Tutto questo portò anche sulla sponda destra del Tevere alla
Ostiense-Marconi. Un polo di Archeologia Industriale presso il Tevere 103

graduale chiusura delle attività industriali e all’occupazione del


territorio con lotti residenziali. Il quartiere Marconi andò dunque
perdendo tra gli anni ’50 e ’60 la sua connotazione di area produt-
tiva verso una più marcata definizione residenziale a edilizia inten-
siva, che non impedì comunque, per circa venti anni, l’anomala e
inspiegabile attività di una raffineria tra le abitazioni.
Ormai fuori contesto, sicuramente fuori tempo rispetto all’epo-
ca in cui il quartiere era ancora caratterizzato da una forte valenza Fig. 14 – Le ex fabbriche Mira Lanza e
industriale, nel 1946 la Permolio, subentrata al vecchio stabilimen- sullo sfondo i palazzi del quartiere Mar-
to ABCD (asfalti, bitumi, catrami e derivati), impiantò qui, tra il coni in un’immagine di fine anni settanta
malumore generale della popolazione, una raffineria che, acquisita
poi nel 1954 dalla Fina, diventò così la ‘Purfina’ (Fig. 13).
Tra gli abitanti più anziani del quartiere resta ancora oggi
vivo il ricordo degli odori, dei fumi e delle fiamme che uscivano
costantemente dalla ciminiera dello stabilimento, rimasto attivo
in mezzo alla città fino agli anni ’70 quando l’attività fu trasferita
a Malagrotta e l’impianto a Marconi demolito 17.
Nella primavera del 1999, come anticipazione del processo
di pianificazione dell’area ex industriale Ostiense-Marconi (Figg.
14-16), formalizzato poi dall’Amministrazione Capitolina tra il 1999
ed il 2000 con la redazione del Progetto Urbano Ostiense-Marconi,
Fig. 15 – L’area industriale sulla sponda
destra del Tevere, 1971. ICCD.A, volo
Fotocielo

17
Sulla Purfina si veda: M. Ugazzi, Prossi-
ma a Spegnersi la fiamma della vecchia “Purfina”,
in «Capitolium», 1965, 3, pp. 134-142.
104 P. Rossi

Fig. 16 – Il Gazometro sulla sponda


ostiense in un disegno di Renzo Ve-
spignani. China acquerellata. 1977.
(Collezione privata)

una parte consistente dell’ex stabilimento Mira Lanza fu acquistata


dal Comune di Roma e restaurata come seconda sede del Teatro di
Roma, dopo quella di via di Torre Argentina. Nacque così il Teatro
India, inaugurato il 7 settembre del 1999. È oggi un importante
centro di produzione culturale per il quartiere e la città (Fig. 17).

Fig. 17 – Esterno del Teatro India


nell’ex stabilimento Mira Lanza.
L’intervento artistico raffigurante il volto di
Pasolini è stato realizzato nell’ottobre 2015, in
occasione di alcuni spettacoli teatrali dedicati
al poeta, scrittore e regista, dallo street artist
portoghese Frederico Draw
Casa Vittoria
Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza
per anziani

Giuseppe Caltabiano

Chi percorre via Majorana in direzione via Oderisi da


Gubbio potrà notare alla sua destra, all’altezza della sottostante
via Portuense, un gruppo di edifici da cui spicca un serbatoio
idrico, esempio e residuo di archeologia industriale (Fig. 1).
È il complesso edilizio ‘Casa Vittoria’, di proprietà comunale,
oggi adibito a struttura di accoglienza provvisoria, a titolo gra-
tuito, per anziani autosufficienti o parzialmente autosufficienti,
privi di un reddito per mantenersi. La struttura edilizia esiste dai
primi del ’900 in una zona urbana – denominata ‘Piano di Pietra
Papa’ – che i Piani Regolatori del 1909 e 1931 avevano destinato
ad Area Industriale, regolarizzando così una vocazione funzionale
definitasi spontaneamente già alla fine del XIX secolo. A quel
periodo risalgono infatti anche la costruzione del Mattatoio in
sponda sinistra del Tevere, della futura Mira Lanza e dei Mulini
Biondi nella contigua sponda destra. Fig. 1 – L’ex serbatoio idrico visibile da
Nel Piano Regolatore del 1931 era già prevista anche la via Quirino Majorana
realizzazione di via Quirino Majorana, poi costruita trenta anni
dopo in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960. Tale
realizzazione stradale determinò, come si vedrà, un importante
cambiamento legato alla storia di ‘Casa Vittoria’.
Il complesso edilizio poi denominato ‘Casa Vittoria’ nasce
dunque nei primi anni del ’900, come stabilimento industriale
per la spremitura delle olive, realizzato per la Società Anonima
‘Oliere dell’Italia Centrale’, con sede in Roma, in località Pozzo
Pantaleo. Lo stabilimento viene restaurato ed ampliato una
prima volta nel 1912, a seguito di un incendio e successivamente
nel 1920, su progetto dell’ing. Sebastiano Bultrini, quando viene
dotato di impianti di estrazione e stoccaggio, oltre che di officine
106 G. Caltabiano

e di un edificio a uso uffici-abitazioni.


Negli anni successivi alla prima guerra mondiale Roma vive
condizioni di forte disuguaglianza sociale e tanta gente è costretta
ad una grama esistenza, al limite della miseria. Molti sono gli indi-
vidui costretti ad elemosinare e numerosi anche gli accattoni ‘pro-
fessionisti’ che affluiscono nella città in cerca di un obolo, finché
Mussolini nel 1928 decide di ‘ripulire’ Roma da quello sconcio che
la deturpa e che appare, ai suoi occhi, sempre più intollerabile per
il prestigio del Centro della cristianità e del futuro impero. Ordina
quindi al Governatorato di approntare un luogo di raccolta di tutti
gli accattoni e mendicanti che girovagano per Roma.
Caso vuole che proprio in quel periodo la Società ‘Oliere
dell’Italia Centrale’, nel frattempo disciolta, abbia messo in
vendita l’area e lo stabilimento, che aveva cessato l’attività pro-
duttiva. Il Governatorato coglie immediatamente l’occasione per
ottemperare a quanto richiesto da Mussolini e cavarsela anche a
buon prezzo (Fig. 2).
Asportati i macchinari ed effettuata una prima, sommaria
pulizia dei luoghi, agenti di P.S. e vigili metropolitani iniziano le

Fig. 2 – Planimetria di progetto degli


anni trenta del novecento per la trasfor-
mazione dell’opificio ‘Oliere Centrali’
in ‘ricovero per gli sfrattati’
Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 107

retate di chiunque trovato a mendicare per le vie della Capitale


e così, in breve tempo, l’ex opificio di via Portuense, ribattezzato
per la circostanza ‘Mendicicomio’, viene riempito di un mondo
di pezzenti e miserabili, ammassati in locali che al più si sarebbe-
ro potuti utilizzare come scuderie o magazzini; le rassicurazioni
dell’Autorità sulla natura temporanea della soluzione sono solo
pretesti per salvare la faccia.
Il Governatorato affida la gestione del ‘Mendicicomio’ alla
‘Congregazione della Carità’, che aveva la casa madre a Santa Maria
in Cosmedin; le Superiori accolgono di buon grado la richiesta e
inviano subito al civico 220 di via Portuense tre suore ed altrettante
dopo sei mesi.
Si disse allora che le suore andarono lì ad ‘accamparsi’ e l’espres-
sione può sembrare esagerata, ma non lo è. Le prescelte si presen-
tano infatti sul posto con i soli effetti personali, immaginando
di trovare alloggi convenientemente arredati, ma non trovano
neanche un letto. Sono perciò costrette ad arrangiarsi con paglie-
ricci e vecchie coperte. La loro è da subito una condivisione
piena con la miseria di quel luogo, racchiusa e al tempo stesso
pudicamente nascosta allo sguardo dei passanti da un alto muro.
Ma quelle poche suore, nonostante sia presente anche personale
civile, rimarranno a lungo l’unico riferimento di umanità e carità
per quella povera comunità, che in poco tempo diventa sempre
più numerosa: 200 uomini e 120 donne assistiti in permanenza,
più 200 presenze giornaliere nel dormitorio pubblico, che nel
frattempo viene allestito in due nuovi capannoni contigui.
Nel 1929 viene istituito in loco anche un posto fisso di poli-
zia, per vigilare e mantenere una sufficiente disciplina e un’accet-
tabile convivenza tra la gente del ‘Mendicicomio’. Eppure non si
ricordano fatti criminosi apprezzabili, al contrario persone finite
ai margini per mera sfortuna in quella circostanza si rivelano di
buon cuore e grande disponibilità. Ad esempio alcuni artigiani
si rendono disponibili ad aiutare la Direttrice di turno a sanare
le tante mancanze e necessità di manutenzione della struttura.
E così, grazie anche a loro, si costruiscono alcune baracchette
e si adattano a luoghi di lavoro alcune stanzette e locali inutilizza-
ti: sorgono come d’incanto la falegnameria, la sartoria, l’officina
del fabbro e dello stagnino.
Tutta la produzione viene impiegata a totale beneficio del
‘Mendicicomio’ e dei suoi ospiti, mentre gli artigiani ricevono
108 G. Caltabiano

una piccola gratifica settimanale.


Appena riparate le falle più vistose, vecchi manovali e mura-
tori si dedicano ad un rilevante lavoro di sterro, per collegare i
due principali cortili che presentano un dislivello di tre metri. In
tale circostanza è realizzata anche un’ampia gradinata per render-
ne più agevole l’accesso ed in seguito, nell’orto, sono costruiti il
pollaio e la porcilaia, così da integrare i pasti e le stesse entrate
del ‘Mendicicomio’.
Si può affermare che nel periodo che va dal 1928 al 1940
– inizio della seconda guerra mondiale – tutti gli ambienti ven-
gono lentamente ma progressivamente migliorati, fino ad acqui-
stare un indubbio decoro per merito precipuo dei ricoverati e
delle suore (Fig. 3) a loro e ai cappellani, nel tempo succedutisi,

Fig. 3 – La cappella interna

va ascritta anche una graduale bonifica morale, che convince


parecchi individui dal passato intollerante e malevolo ad accetta-
re la disciplina ritenuta dalla Direzione indispensabile a garantire
un’ordinata convivenza nella struttura.
I ricoverati, una volta randagi e sbandati, cacciati ed umiliati, si
sentono così rinascere ad altra vita e riconquistano a poco a poco
la loro personalità e dignità; si sentono in famiglia, in una sorta di
paese tutto loro, con pane e tetto assicurati: quanto indispensabile
per l’anima ed il corpo.
La seconda guerra mondiale arriva però a colpire pesantemen-
te anche il Lazio ed a coivolgere direttamente il ‘Mendicicomio’,
Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 109

che diviene ricovero di sfollati, rifugiati, profughi, arrivati fin lì


stanchi e denutriti, allo stremo delle forze.
Le suore, ancora una volta, moltiplicano il loro impegno per
garantire l’igiene e la sopravvivenza di queste persone rassegnate,
che hanno perso tutto, costrette a dormire per terra coprendosi
come possono.
La lotta contro le avversità è impari. Sono anni di privazioni
e grandi sofferenze. Ne subiscono le conseguenze le stesse strutture
del ‘Mendicicomio’, che si deteriorano per il sovraccarico di ospiti
e per la carenza di materiali ed attrezzi utili alla manutenzione
ordinaria. Ma si tira avanti ugualmente (Fig. 4).
A guerra finita e Roma liberata, nonostante rifugiati e sfol-
lati siano in gran parte andati via, il numero degli assistiti dal
Mendicicomio’ rimane sempre alto: 250/300 presenze, oltre agli
ospiti giornalieri del dormitorio. I più volenterosi di loro iniziano
però a riparare i danni del periodo bellico, mentre l’Amministra-
zione Comunale interviene direttamente con i lavori più urgenti
Fig. 4 – L’ingresso di Casa Vittoria
110 G. Caltabiano

di manutenzione edilizia. Contestualmente l’Ente Comunale di


Assistenza si prende cura della preparazione dei pasti, sollevando
le suore da quella gravosa incombenza.
L’Amministrazione Comunale decide a questo punto di
abolire il dormitorio pubblico e ciò appare al momento un cosa
buona, poiché in tal modo si viene a liberare maggiore spazio per
gli assistiti e possibilità di accogliere altri candidati all’assistenza.
Ma queste aspettative presto vengono deluse ed i sogni restano
sogni: Roma sta per ospitare i Giochi Olimpici del 1960 e tra le
opere programmate viene inserita anche un’importante strada di
collegamento diretto tra il Foro Italico e l’EUR.
Il progetto comprende anche il tratto – tra la Circonvallazione
Fig. 5 – Planimetria del complesso edili- Gianicolense e via Oderisi da Gubbio – che poi avrebbe assunto
zio in una cartografia del 1934. Si può l’attuale denominazione di via Quirino Majorana (Figg. 5-6).
notare il tracciato tratteggiato di previsio-
ne della futura via Majorana che impatta Questo nuovo tratto stradale va ad impattare in pieno con
con alcuni degli edifici del mendicicomio

Fig. 6 – Planimetria catastale della metà degli anni Sessanta. La via Majorana appare già realizzata con il conseguente
ridimensionamento del complesso edilizio di ‘Casa Vittoria’
Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 111

l’area del ‘Mendicicomio’, non solo spazzando via i due capannoni


appena liberati dal dormitorio pubblico, ma sconvolgendo la
fisionomia e la distribuzione planimetrica dell’intera struttura, al
punto da ridurne drasticamente la capacità ricettiva a non più di
150 assistiti (Figg. 7-8).
In queste condizioni una nota positiva è la nomina a Direttrice
di Suor Vittorina Tudino, entrata al ‘Mendicicomio’ come novizia
nel 1940, all’età di diciotto anni e formatasi condividendo per circa
un ventennio le vicende di questa struttura. Viene perciò considera-

Fig. 7 – Veduta attuale del comples-


so edilizio dal cavalcavia con cui via
Majorana sovrappassa la via Portuense

Fig. 8 – Prospetto su via Portuense


112 G. Caltabiano

ta, a 37 anni, pienamente in grado di assumerne la direzione.


Suor Vittorina, che oltre all’assistenza dei ricoverati aveva prov-
veduto per anni, da sola, al lavoro d’ufficio, di contabilità, dispensa
e mercato, diviene la principale responsabile della struttura, confi-
dando nell’aiuto delle consorelle e dei soliti volenterosi.
Negli anni ’60 il crescente e diffuso benessere economico
contribuisce a ridurre, almeno a Roma, la miseria e l’accatto-
naggio, di conseguenza il ‘Mendicicomio’ di via Portuense è sul
punto di non avere quasi più ragione di esistere, ma proprio in
quegli anni cambia ulteriormente e repentinamente la tipologia
dell’ospite: l’Autorità di Pubblica Sicurezza trova il modo di
mandare a via Portuense una nuova umanità sofferente.
A Roma, come altrove, ci sono uomini e donne che vengono
dimessi da manicomi per guarigione reale o presunta , così come
ci sono uomini e donne che escono di galera per pena scontata,
Fig. 9 – Una rappresentazione grafica buona condotta, amnistia. Molti di costoro non hanno più una
del complesso edilizio come appariva famiglia o parenti disposti ad accoglierli. La Questura considera
dopo la realizzazione di via Majorana:
(Disegno di A. Bertozza) allora il ‘Mendicicomio’ la migliore soluzione per alloggiare questi
Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 113

casi (Fig. 9).


Cala così in quegli anni il numero dei ricoverati, ma conse-
guentemente anche di quelli disponibili ad aiutare la Superiora
nella manutenzione della casa. I più si sentono rassicurati in fatto
di bisogni primari come cibo, alloggio, cure mediche e pensano
opportunisticamente che non valga la pena di sprecare fatica.
Inoltre, quali ‘ex’ di quelle categorie che la Questura affidava a par-
ticolare tutela, non vi è neppure certezza che le vecchie attitudini a
delinquere si siano in alcuni di loro del tutto sopite.
Ad ogni modo, nonostante le molteplici e ricorrenti diffi-
coltà in termini di scarsità di braccia e penuria di mezzi, Suor
Vittorina non si perde d’animo (Fig. 10).
Un po’ alla volta, un poco per anno, la struttura riacquista una
sua appropriata fisionomia, viene arredata convenientemente ed Fig. 10 – Suor Vittorina Tudino mostra
il complesso edilizio ad alcuni visitatori
inizia a disporre di tutti i servizi. in un’immagine degli anni ’70
Anche i vecchi assistiti progressivamente riacquistano serenità e
fiducia, si torna così alla normalità. Normalità però ‘sui generis’: gli
oriundi del Santa Maria della Pietà e i devoti delle vicine taverne
114 G. Caltabiano

vivacizzano a loro modo le giornate del ‘Mendicicomio’ e le locali


guardie hanno il loro bel da fare per mantenere l’ordine. Ma in
questi casi di solito interviene più efficacemente Suor Vittorina
e col suo indiscusso ascendente riesce a dominare e ricomporre
ogni situazione, per quanto difficile ed imbrogliata.
Parallelamente alla struttura edilizia e all’umanità che ci
vive col tempo riprende forma e vita anche il piccolo ‘zoo’ del
Fig. 12 – Il dormitorio con fronte su ‘Mendicicomio’: suini e conigli, colombi e pollame, tacchini e
via Majorana
paperi richiedono molto lavoro, divorano quintali di mangime,
ma al momento giusto rinforzano le misurate razioni alimentari
previste dalla tabella dietetica o comunque la loro vendita va ad
integrare le entrate della casa.
Progressivamente la campagna che circonda la struttura di
accoglienza lascia il posto ai nuovi quartieri intensivi. Grazie
anche alla dismissione del vicino stabilimento petrolifero della
‘Purfina’ in pochi anni il ‘Mendicicomio’ ed il suo piccolo ‘zoo’
rurale si trovano circondati da nuovi, numerosi, alti palazzi e da
altrettanti abitanti che protestano per la presenza, non proprio
inodore, di quel regno animale.
E allora occorre ampliare tetti, costruire steccati, coprire
i cortiletti affinché gli animali non si vedano, pulire, ripulire,
mimetizzare la piccola arca, ma Suor Vittorina è decisa a resiste-
re, perché tanto più il cibo che si dà al povero costa sacrificio, più
sarà meritevole di altre ricompense.

Fig. 11 – Il dormitorio interno


Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 115

Quella del piccolo ‘zoo’ caparbia Direttrice ha combattuto


sempre a favore dei suoi ospiti. Poi ancora: l’impianto di riscal-
damento del ‘Mendicicomio’; la sua lotta affinché nel 1969 il
Questore desistesse dalla decisione di sopprimere il posto di
polizia; quella con l’Amministrazione Comunale perché curasse
con maggiore impegno la manutenzione della casa (Figg. 11-12),
infine, negli anni ’70, la decisione di costruire un nuovo padi-
glione-dormitorio da 40 posti, decisione sostenuta e finanziata,
come in altre occasioni, da mani caritatevoli e provvidenziali che
solo lei conosceva.
Suor Vittorina non voleva nessun premio/riconoscimento
per questa sua opera, sicché si oppose fermamente all’idea del
Consiglio di Amministrazione dell’ECA (Ente Comunale di
Assistenza) – che sovrintendeva alla Casa – di voler sostituire il
nome ‘Mendicicomio’ con ‘Casa di riposo Suor Vittorina’.
La Direttrice, confortata anche dalla sua Congregazione,

Fig. 13 – Suor Vittorina col suo cane


pastore Diana, in una delle ultime ap-
parizioni in pubblico
116 G. Caltabiano

rifiutò fermamente questo riconoscimento. Si arrivò così ad un


compromesso e dalla fine degli anni ’60 la struttura venne denomi-
nata prima ‘Casa di riposo Vittoria’, infine semplicemente: ‘Casa
Vittoria’.
Suor Vittorina Tudino ha lasciato la struttura il primo otto-
bre 1999 e si è trasferita a Civitavecchia, dove è deceduta il 27
settembre del 2001 (Fig. 13).
Ma torniamo agli anni ’80 del secolo scorso. In quel periodo
la manutenzione edilizia ed i lavori di pronto intervento di ‘Casa
Vittoria’ sono di competenza all’Ufficio Tecnico di quella che
allora si chiamava Circoscrizione XV del Comune di Roma ed
oggi si chiama Municipio XI.
Per la vastità e per l’avanzata età degli edifici che compone-
vano la ‘Casa’ sarebbe stata necessaria una squadra di operai da
dedicare esclusivamente alla sua manutenzione, ma ciò non era

Fig. 14 – Viale d’ingresso con dormitorio


su via Majorana
Casa Vittoria. Origini e trasformazioni di una struttura comunale di accoglienza per anziani 117

ovviamente possibile. Le tante scuole ed alloggi comunali in carico


al Municipio richiedevano altrettanta attenzione ed i fondi disponi-
bili non erano illimitati: grandi e piccoli guasti, emergenze del fine
settimana, riparazioni miracolose di tubature ormai consunte dal
tempo, ma anche interventi più importanti, in questo caso finanziati
direttamente dai Dipartimenti Lavori Pubblici e Sanità del Comune
di Roma, per sostituire coperture o adeguare gli impianti (Fig. 14).
Entrando a ‘Casa Vittoria’ si percepiva la determinazione della
Direttrice a spendersi, come sempre, per proteggere la dignità dei
suoi assistiti, affinché quel luogo ricevesse sufficiente attenzione;
a volte dalla sua voce, un po’ meno pacata del solito, traspariva
l’indignazione per un intervento tardivo o insufficiente, altre volte
erano gli anziani che ci dimostravano diretta gratitudine per la
soluzione delle loro piccole grandi esigenze.
Poi gradatamente la manutenzione di ‘Casa Vittoria’ fu assunta
direttamente dal ‘Dipartimento Igiene e Sanità’ del Comune di
Roma, anche se il Municipio continuò comunque, da parte sua,
nell’opera di riqualificazione e bonifica dell’intorno.
Si ricordano ad esempio tre interventi degni di menzione.
Il primo riguarda il recupero dei due piccoli edifici contigui, ad
un piano, che al tempo ospitavano gli animali di Suor Vittorina;
con il loro riuso ed ampliamento il Municipio ha realizzato un
Asilo Nido, quello di Via Majorana 135, tra i più confortevoli per
la sua luminosità ed il tanto verde che lo circonda.

Fig. 15 – La ex lavanderia ora trasfor-


mata in Centro diurno per malati di
Alzheimer
118 G. Caltabiano

Il secondo è il recupero ed adeguamento del vecchio teatro, che


da uso esclusivo della ‘Casa’ ora è divenuto un servizio culturale
pubblico, che offre le sue attività al territorio, anche oltre i confini
del Municipio XI.
Il terzo riguarda la trasformazione della ex lavanderia in
Centro diurno per malati di Alzheimer. Tutti interventi realizzati
su iniziativa del Municipio (Fig. 15).
Oggi ‘Casa Vittoria’, alla cui gestione provvede direttamente
il ‘Dipartimento Comunale alle Politiche Sociali, Sussidiarietà e
Salute’, accoglie, in numero variabile tra le 35 ed le 50, persone
segnalate dai Servizi Sociali del Municipio, di età compresa tra i
62 e i 65 anni, nullatenenti, che attendono l’età della pensione,
raggiunta la quale vengono dimesse.
Dagli anni del ‘Mendicicomio’ a quelli di ‘Casa Vittoria’ la
città e le istituzioni sono profondamente mutate per dimensioni
e qualità; il vecchio ricovero del 1928 non esiste più, ma dietro
le sue alte mura, dentro i vari edifici, anche in un periodo di
limitate risorse pubbliche quale quello che stiamo vivendo, si
continuano comunque ad offrire servizi di qualità ai cittadini: ai
più piccoli, ai malati, alle persone con più bisogno d’aiuto.

Si ringrazia per la collaborazione:


Dipartimento alle
Politiche Sociali, Sussidiarietà e Salute di Roma Capitale
Direzione Servizi alla Persona
Direttore di Direzione: D.ssa Ginevra Baroncelli
Funamboli sul Tevere
Il Ponte della Scienza – dall’idea all’inaugurazione

Alessandro Di Silvestre

Certo, anche prima che il ponte ci sia, esistono lungo il fiume


numerosi spazi che possono essere occupati da qualcosa. Uno di essi
diventa a un certo punto un luogo, e ciò in virtù del ponte. Sicché
il ponte non viene a porsi in un luogo che c'è già, ma il luogo si
origina solo a partire dal ponte.
Martin Heidegger
COSTRUIRE ABITARE PENSARE
(da Saggi e Discorsi)

Il ‘Ponte della Scienza’, dedicato a Rita Levi-Montalcini, è


attualmente l’ultimo ponte in ordine di tempo realizzato sul
Tevere a Roma, tra la sponda destra del quartiere Marconi e quel-
la sinistra del quartiere Ostiense. Si tratta di un ponte pedonale
che assolverà pienamente alla sua funzione quando il complesso
‘Progetto Urbano Ostiense-Marconi’, ancora in via di attuazione,
sarà completato e le aree ex industriali coinvolte saranno tra-
sformate con nuove funzioni urbane. È da rilevare che il nuovo
ponte è collocato proprio in prossimità di quello che fu il primo
ponte realizzato sul Tevere nel territorio dell’attuale Municipio
XI: il ‘Ponte dell’Industria’, meglio noto come ‘ponte di ferro’,
voluto da Pio IX e realizzato tra il 1862 ed il 1863.
La vicinanza ed il confronto tra questi due manufatti di eccel-
lente qualità architettonica rappresentano, quasi simbolicamente,
la continuità storica delle modificazioni nel territorio (Fig. 1). Ciò
conferisce un valore aggiunto al ‘Ponte della Scienza’ del quale, per Fig. 1 – L’ambiente e il territorio fluvia-
il mio ruolo di tecnico pubblico in servizio all’interno dell'Ammi- le visto dal Ponte della Scienza (2014),
in lontananza il Ponte dell’Industria
nistrazione di Roma Capitale, ho avuto l’opportunità di seguire (1863)
tutte le articolate vicende realizzative in un felice rapporto di
collaborazione con i progettisti.

Il Concorso di Progettazione

Ho conosciuto i Funamboli nel 2003, subito dopo il mio tra-


sferimento dall’Ufficio Programmazione e Pianificazione a quello
120 A. Di Silvestre

dell’Ufficio Concorsi di Architettura, nel Dipartimento Urbanistica


del Comune di Roma.
Erano gli anni della seconda Giunta Rutelli (1997-2001),
anni in cui erano stati riordinati i Dipartimenti e gli uffici comu-
nali, e proprio nel Dipartimento dell’Urbanistica si stava proce-
dendo al disegno del Master Plan del Nuovo Piano Regolatore
che il Sindaco Francesco Rutelli e l’Assessore all’Urbanistica
Domenico Cecchini avevano fortemente voluto. In tale occasio-
ne fu coniato – mediandolo dall’espressione inglese planning by
doing – il motto «Pianificar Facendo», a significare l’intenzione di
non subordinare gli interventi urgenti di riqualificazione urbana
alla preventiva approvazione del nuovo strumento urbanistico
generale, cosa che avrebbe comportato anni di attesa se non di
immobilismo, si decise di realizzarli subito.
Mentre avanzava la nuova definizione per lo sviluppo della
città, venivano dunque decise ed individuate alcune opere pub-
bliche strategiche, che facessero da traino alla cosiddetta ‘manovra
urbanistica’ (Figg. 2-3).
Fig. 2 – Galleria Comunale Arte Moder- L’obiettivo era trovare dei landmarcks, ossia delle opere pubbli-
na e Contemporanea – Mostra George
Segal 2002 che, funzionali e di forte impatto visivo, che segnassero il territorio
per indicarne la trasformazione in atto, anticipando – ome già
detto – la pianificazione urbanistica che avrebbe necessitato tempi
più lunghi.
Con questa buona intuizione, quindi, si decise di formare uno
specifico Ufficio che si occupasse di mettere a bando una serie di
concorsi di architettura, secondo due livelli di intervento: il primo,
denominato ‘Cento Piazze’, per la riqualificazione diffusa delle
piazze romane, dal centro alla periferia, attraverso un bando nazio-
nale aperto ai soli progettisti italiani; il secondo dedicato ad alcune
‘opere speciali’ di importo oltre la soglia comunitaria, destinato a
gruppi di progettazione europei.
Fig. 3 – Luxometro - Estate Romana Per questa seconda serie, l’Ufficio Concorsi di Architettura,
2007
allora diretto dall’arch. Francesco Ghio, riuscì, in tempi rapidi,
a lanciare i bandi di gara e ad istituire le commissioni giudicanti
composte, tra l’altro, da grandi firme dell’architettura interna-
zionale, quali gli architetti Zaha Hadid, Sir Norman Foster, e
da significative figure della cultura italiana (ed europea?), come
il regista teatrale Mario Martone e il critico d’arte Philippe
Daverio, oltre ed altre importanti figure professionali specialisti-
che e tecniche.
Fig. 4 – Manifesto – Ideazione e grafica a cura dell’Ufficio Qualità Architettonica
122 A. Di Silvestre

In seguito furono selezionati i progetti e i gruppi vincitori e, in


particolare, si prefigurarono i futuri incarichi di progettazione del
Programma delle Opere Pubbliche da realizzare, così come pensato
nel «Pianificar Facendo». A lato si riporta il manifesto dell’esito del
concorso di progettazione dei Due Ponti pedonali (Fig. 4).
Era il 2000, stava per iniziare il nuovo Millennio, ed era
vivo un nuovo fermento nell’ambiente culturale e nella Pubblica
Ammistrazione, che proiettava verso il futuro.
Il Comune di Roma, con la nuova Giunta Rutelli-bis caval-
cava l’onda di interesse che aveva generato, annunciando i nuovi
progetti, non futuri, ma prossimi: la trasformazione del già esi-
stente Museo d’Arte Contemporanea all’interno della recuperata
ex Fabbrica della Birra Peroni con il progetto di ampliamento
di via Nizza di Odile Decq; da lì a poco sarebbe stato coniato
il nuovo logo del MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di
Roma (Fig. 5). Inoltre la realizzazione di due nuovi ponti pedo-
Fig. 5 – Odile Decq – MACRO - Ren- nali sul fiume Tevere. Dopo un lunghissimo periodo di assenza di
dering di concorso
interventi venivano ricollegate significative parti della città, una a
nord attraverso il Ponte della Musica con il progetto degli studi
inglesi Buro Happold Ltd e Powell-Williams Architects, a com-
pletare un percorso continuo tra il Villaggio Olimpico realizzato
Fig. 6 – Buro Happold Ltd, Powell-Wil- per le Olimpiadi del 1960 e il Foro Italico del 1940 (Fig. 6); l’altra
liams Architects - Ponte della Musica,
Rendering di concorso
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 123

parte di città veniva ricollegata a sud con il ‘Ponte della Scienza’,


ai piedi del Gazometro, teso a ricongiungere l’area di archeologia
industriale della ex Fabbrica Romana del Gas dell’Ostiense e la
dirimpettaia area del quartiere Marconi, ricca di emergenze sto-
riche e fabbriche sorte nei primi decenni dello scorso secolo. Per
quest’ultimo ponte venne scelto e dichiarato vincitore il progetto
dello studio romano APsT Architetti ed il loro motto era appunto
‘Funamboli’ (Fig. 7).
Da segnalare anche che in quegli anni di particolare fer-
vore organizzativo furono avviati anche i progetti del Centro
Culturale a Sarajevo per la ricostruzione di quella martoriata
città, oltre i due importanti progetti per la nuova Teca dell’Ara
Pacis di Richard Meier e la Nuvola del nuovo Centro Congressi
di Massimiliano Fuksas.
Fig. 7 – APsT Architetti – Ponte della
Scienza, Rendering di concorso
124 A. Di Silvestre

Per il progetto del ‘Ponte della Scienza’, esaurita la fase di aggiu-


dicazione del concorso di progettazione, fu avviata la redazione del
‘Documento Preliminare alla Progettazione’, previsto dalla allora
vigente cd. Legge sui Lavori Pubblici, contenente l’insieme delle
indicazioni e informazioni che l’Amministrazione Pubblica doveva
dare ai progettisti (vincoli, pareri degli uffici competenti a vario tito-
lo, indicazioni di dettaglio), fino alla compilazione del quadro eco-
nomico di spesa da rispettare, affinché il progetto non si discostasse
dalle risorse disponibili assegnate.
Questa fase, a cura del Rup (Responsabile unico del procedi-
mento), è di fatto la linea che separa il tempo dell’ideazione da
quello della realizzazione.
Proprio in quella circostanza, una volta redatto il documento
tecnico, incontrai per la prima volta il gruppo di progettazione
dei ‘Funamboli’, cogliendo l’occasione per fare con loro alcune
riflessioni sul progetto: mettere i cosiddetti ‘paletti irrinunciabili’
per i progettisti e per l’amministrazione pubblica, sistematizzando
in una griglia i tempi, le azioni e gli obiettivi comuni.
Sottoscritto il ‘Documento Preliminare alla Progettazione’
e diventato questo l’allegato al contratto d’incarico, nell’ormai
lontano anno 2004 i progettisti iniziarono la redazione del pro-
getto vero e proprio del ‘Ponte della Scienza’, conforme alla loro
sintetica proposta uscita vincitrice dal concorso, ma questa volta
redatto secondo le modalità previste dalla normativa vigente sui
Lavori Pubblici.

Le fasi di progettazione e la gara d’appalto

La vigente Normativa sui Lavori Pubblici prevedeva (e lo pre-


vede tutt’ora) ben tre fasi distinte dedicate alla progettazione di
un’opera pubblica: la ‘preliminare’, fase abbastanza veloce, che rap-
presenta nel caso in questione, il completamento degli elaborati del
concorso di architettura; la ‘definitiva’, che definisce puntualmente
il progetto attraverso un insieme di elaborati che vengono approvati
con specifiche conferenze di servizi (approvazione amministrativa);
infine la terza fase, quella ‘esecutiva’, che conclude puntualmente la
progettazione architettonica, strutturale e impiantistica in ogni det-
taglio dell’opera e, dopo la necessaria validazione da parte del Rup,
rende l’opera stessa perfettamente realizzabile ed appaltabile.
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 125

Viste le caratteristiche del tipo specifico dell’opera pubblica,


si decise di bandire la gara d’appalto con le modalità dell’allora
denominato ‘appalto integrato’, ovvero ponendo a base di gara il
progetto definitivo e ricercando la migliore soluzione attraverso la
procedura dell’offerta economicamente più vantaggiosa; tradotto
più semplicemente, l’appalto sarebbe stato aggiudicato al soggetto
che, insieme al prezzo più conveniente avesse definito la miglio-
re soluzione ingegneristica per la realizzazione, completando la
restante fase esecutiva attraverso l’affiancamento di figure profes-
sionali nominate direttamente dall’appaltatore, con una soluzione
integrata appalto/progetto.
Tale modalità garantì al Comune di Roma tre condizioni favo-
revoli: permise una notevole riduzione dei tempi d’appalto; assi-
curò ai progettisti ideatori del ‘Ponte della Scienza’ il controllo tec-
nico anche sulla delicata fase di progettazione esecutiva; consentì
infine all’appaltatore minori incertezze per la futura realizzazione.
Rimanendo sui tempi, si può ricostruire il seguente timing:

-- a vvio della progettazione 2004


-- approvazione del progetto definitivo 2006
-- aggiudicazione della gara d’appalto 2007
-- validazione progetto esecutivo 2008
-- inizio dei lavori novembre 2008

L’avvio dei lavori, le forti avversità atmosferiche, il fermo dei lavori

Con tempestività, le aree di cantiere furono sistemate a partire


dal settembre 2008 e la consegna dei lavori fu rilasciata dall’Ufficio
Direzione Lavori incaricato dall’Amministrazione comunale nel
novembre dello stesso anno.
L’incarico di Direzione Lavori fu affidato agli stessi progettisti
ideatori del Ponte, che costituirono una associazione temporanea
tra professionisti così strutturata:
-- APsT Architetti: arch. Gianluca Andreoletti, Maximiliano
Pintore e Stefano Tonucci;
-- Soc. d’Ingegneria E.D.IN.Srl - prof. ing. Fabio
Brancaleoni
-- prof. ing. Giorgio Monti.
La soluzione ingegneristica del ponte prevedeva la costruzione
126 A. Di Silvestre

Fig. 8 – ‘Ponte della Scienza’ - Progetto


Definitivo di tre parti strutturali ben distinte: ‘la spalla in cemento armato’
aggettante sul fiume per 25 metri dalla riva Ostiense, a ridosso
del Gazometro (preesistenza pregiatissima di archeologia indu-
striale della Romana Gas dei primi del ’900); ‘la grande stampella
in acciaio’, aggettante dalla riva Marconi per ben 52 metri verso
il centro del fiume, costituita da una trave scatolare metallica
appoggiata su una spalla in cemento armato e su una serie di 4
puntoni, sempre in acciaio, questi ultimi poggianti sulla sotto-
fondazione in argine; la terza parte strutturale, formata da un
‘impalcato in cemento armato precompresso’ (successivamente
realizzato in acciaio) appoggiato, attraverso apposite selle, alle
estremità delle prime due strutture in aggetto. Quest’ultima
parte di circa 43 metri, completa l’attraversamento del fiume per
una luce totale del ponte pari a 120 metri (Fig. 8).
Sulla sponda Marconi, era inoltre inserita la rampa ciclabile e
pedonale di collegamento tra il Lungotevere Vittorio Gassman e
Fig. 9 – ‘Ponte della Scienza’ - Progetto
Definitivo. La pista ciclabile sulla sponda la sottostante pista ciclabile che correva lungo l’argine di magra
Marconi del fiume (Fig. 9).
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 127

Avviate le opere di sistemazione stradale sulle due spon-


de, necessarie per recuperare le aree di cantiere, iniziarono gli
sbancamenti sull’argine per predisporre le fondazioni dei grandi
plinti di appoggio, sia in destra che in sinistra fluviale, aventi le
dimensioni di circa 30 metri per 20 metri, proprio sulla quota di
scorrimento del fiume.
Per circa 6 mesi le aree di fondazione furono interessate
dagli scavi stratigrafici eseguiti sotto l’alta sorveglianza da parte
della Soprintendenza Archeologica del MIBAC, tesi a ricerca-
re eventuali piani archeologici posti sul fiume, sia per la parte
destra fluviale, vista la vicinanza con l’area archeologica di Pietra
Papa in riva Marconi, che per la parte in sinistra fluviale, molto
ravvicinata alla foce del sacro fiume Almone in riva Ostiense.
Per ambedue i siti, accertati gli esiti negativi delle ricerche, nella
primavera del 2009, furono infine rilasciati i relativi nulla osta
ministeriali alla libera prosecuzione dei lavori.
Pur essendo il Tevere un fiume calmo e lento, la sua particola-
rità è quella di ricevere un rilevante apporto idrologico dai vicini
bacini laziale e umbro. La pur utile diga mobile, posta a monte
della città, in prossimità di Castel Giubileo, realizzata per la pro-
tezione e il controllo idraulico della città nel suo tratto urbano,
non esclude ancora oggi, in caso di necessità per sovraccarico, la
possibilità di una sua parziale apertura, in grado di scolmare il
bacino di raccolta e con ciò di far salire repentinamente il livello
idrometrico del fiume (Fig. 10).
Così accadde nell’inverno del 2008-2009, quando, a causa Fig. 10 – La piena del dicembre 2008
- gennaio 2009
delle forti piogge il livello del Tevere nel tratto urbano salì di
ben 6 metri circa, inondando pesantemente le aree di cantiere
poste sulle banchine di magra, determinando un lungo fermo
di cantiere per inagibilità e per i necessari ripristini delle opere
provvisionali andate completamente distrutte. La piena fu così
improvvisa, che riuscì a sommergere una grande pala meccanica
che rimase in acqua per circa 10 giorni (Fig. 11).
Passarono quasi tre mesi in attesa degli essiccamenti dei fan- Fig. 11 – Esondazione nelle aree di
cantiere
ghi, per gli allontanamenti dei detriti accumulati e per la rico-
struzione degli apprestamenti necessari alla sicurezza del cantiere.
128 A. Di Silvestre

Fig. 12 – Esecuzione dei pali di fonda-


zione

La Ripresa delle lavorazioni

Aggiornato il crono-programma, in seguito ai ritardi subiti, le


lavorazioni ripresero con rapidità a partire dalla primavera 2009.
Vennero eseguite le importanti trivellazioni dei pali di sotto-
fondazione, poste al di sotto delle future piastre di appoggio delle
spalle del ponte (Fig. 12).
Furono realizzati, su ogni lato come prevedeva il progetto
strutturale, 16 pali del diametro di 1,2 metri, fino alla profon-
dità di -52 metri, secondo una precisa modalità esecutiva che
prevedeva contemporaneamente la trivellazione, l’inserimento
di tubolari un acciaio, saldati in opera e spinti progressivamente
in profondità con grandi macchinari vibranti, inserite le gabbie
di armatura all’interno saldate anche queste in un unico corpo,
e infine l’esecuzione dei getti di calcestruzzo a riempimento dei
tubolari, fino a raggiungere il piano di campagna (Fig. 13).
Fig. 13 – Palificata di fondazione in Maturati i pali di sottofondazione, la fase successiva prevede-
sponda destra (Marconi)
va la costruzione delle gabbie di fondazione, imponenti piastre
orizzontali delle dimensioni di 20x20 metri e di circa 2 metri di
spessore, su cui si sarebbero poggiate le future opere in elevazione
(spalle e sostegni).
Questa fase, prima in sponda destra poi in sinistra, impegnò le
maestranze per ulteriori 6-8 mesi. Si passò, quindi, alla realizzazione
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 129

delle gabbie di armatura dei plinti, costruendo un reticolo con


barre di acciaio talmente fitto che alla fine dell’opera, pronta per la
fase di ‘getto’, ci si poteva tranquillamente camminare sopra.
Per contenere la spinta dei futuri getti di calcestruzzo, sul
perimetro delle gabbie furono previste importanti paratie in
ferro, controventate da puntelli sempre in acciaio (Fig. 14).
Completati gli assemblaggi secondo gli schemi progettuali di
armatura, ci si preparò ad organizzare ogni area di cantiere per
le fasi di ‘getto’, predisponendo a monte dell’argine, le corsie di Fig. 14 – Esecuzione dei plinti di fon-
dazione in sponda sinistra (Ostiense)
arrivo e di uscita delle betoniere, fino al punto di posizionamento
delle pompe di rilancio del calcestruzzo.
Nei giorni prefissati un carosello di auto-betoniere animò il
cantiere e, per colmare quelle grandi piastre di appoggio, si scaricò
una eccezionale quantità di calcestruzzo, prima in riva sinistra
per circa 800 mc, poi in destra per circa 600 mc.
La soddisfazione al disarmo delle paratie fu grande: final-
mente le basi del ponte erano realizzate e, da quel momento, si
sarebbe passati alla nuova fase dei lavori, quella di costruzione ed
elevazione del futuro ‘Ponte della Scienza’.

La Spalla Marconi e la Spalla Ostiense

La spalla d’appoggio sul lato Marconi, consisteva nella rea-


lizzazione di un grosso prisma armato a sezione triangolare che,
dal sottostante piano in argine, si elevava fino alla quota stradale
del Lungotevere Vittorio Gassman, superando i circa 8 metri di
dislivello.
Pur essendo una struttura abbastanza semplice, le sue dimen-
sioni ne accentuarono le difficoltà di realizzazione, inoltre per la
parte antistante il fiume doveva rispettare due condizioni proget-
tuali: mantenere l’inclinazione e l’allineamento con le opere argi-
nali esistenti e essere realizzata in modo tale da ospitare la futura
rampa ciclo-pedonale a sbalzo che, come una lunga ‘V’, si sarebbe
raccordata tra la quota superiore stradale e quella inferiore della
pista ciclabile esistente (Fig. 15).
La realizzazione del cosiddetto ‘muro parasassi’, fu un ulterio-
re elemento impegnativo della realizzazione del progetto. Doveva
essere geometricamente perfetto, per ospitare nella sua sella Fig. 15 – Esecuzione dei plinti di fon-
l’appoggio della struttura del ponte, denominata ‘la stampella in dazione in sponda sinistra (Ostiense)
130 A. Di Silvestre

acciaio’, che si sarebbe protesa verso il fiume per circa 52 metri.


Non meno impegnativa fu la demolizione e ricostruzione
dell’argine esistente, per circa 120 metri, da monte a valle del
ponte, che impegnò mezzi e maestranze con lunghe lavorazioni di
armatura, proprio per realizzare il piano della pista ciclo-pedonale
a sbalzo.
A differenza del lato Marconi, ‘la realizzazione della spalla
Ostiense’ consisteva nell’esecuzione di un grande elemento volu-
metrico a facce non ortogonali, che appoggiato alla fondazione,
si andava rastremando mentre si elevava, fino a realizzare una
sorta di trampolino a sbalzo sul fiume raggiungendo circa 25
metri di lunghezza (Fig. 16).
Fig. 16 – Spalla in c.a. - Banchinaggio Questo elemento molto pesante, in quanto eseguito con
della parte in aggetto (Ostiense)
getto monolitico in calcestruzzo, ebbe bisogno di un importante
progetto di banchinaggio metallico contrastato da opportune
controventature di pareti e puntelli in acciaio; la costruzione di
quest’opera provvisionale, richiese uno studio approfondito e
qualche mese per la sua intera costruzione (Fig. 17).
Inoltre il progetto architettonico aveva stabilito l’esecuzione
del cemento a faccia vista, quindi bisognò interporre una fodera-
tura in pannelli di legno tra il banchinaggio e le facce del volume.
Si iniziò quindi la costruzione del piede del ‘trampolino’
e non appena raggiunta (si fa per dire!) la quota dello sbalzo,

Fig. 17 – Preparazione del banchinaggio


in aggetto
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 131

venne innalzata la struttura provvisionale metallica che, come un


gigantesco ‘meccano’, permise la prosecuzione della posa delle
armature e la realizzazione della struttura a sbalzo che andava via
via rastremandosi.
Il volume, per le sue dimensioni, risultò in grado di ospitare
al suo interno, un grande locale tecnico.
Altra notevole difficoltà di realizzazione fu quella di mante-
nere con precisione l’allineamento con l’altro elemento costruito
sulla riva Marconi. Difficoltà superata dalla perfetta misurazione
strumentale eseguita in corso d’opera.
Queste particolari fasi di costruzioni degli elementi in cemen-
to armato vennero affrontate con successo grazie all’impegno
e alla grande capacità di tutte le figure professionali coinvolte,
che – sospendendo qui la narrazione della cronistoria di cantiere
– vorrei citare nel dettaglio, ad iniziare dal Direttore dei Lavori
l’ing. Vittorio Enrico Sismondo e dal suo ufficio di direzione
lavori, composto dai Direttori operativi per le strutture e gli
impianti, l’arch. Gianfranco Iachini e l’ing. Fabrizio Bargoni e
dal Coordinatore per la sicurezza in fase esecutiva l’ing. Giovanni
Pierangeli, efficacemente supportati dai progettisti dello Studio
APsT Architetti, già citati, e dai redattori del progetto esecutivo
dell’appaltatore, coordinato dallo Studio di ingegneria dell’ing.
Valter Maria Santoro.
Tutti professionisti romani!
Da citare ancora, per la passione dimostrata nel lavoro
appaltato, l’Impresa di Aniello e Lorenzo Toriello di Santa Maria
del Sole (AV) e il Direttore di Cantiere, Geometra Maurizio
Scardino (NA) e non da ultime, le diverse squadre di maestranze
e carpentieri che contribuirono con la loro professionalità ed il
duro lavoro alla costruzione delle opere edilizie (Fig. 18).
Ultimato il getto della spalla a sbalzo, si passò al delicato Fig. 18 – I tecnici in cantiere: da sx:
Geom. Maurizio Scardino, ing. Vit-
momento del disarmo e ripiegamento del banchinaggio provvisio- torio Enrico Sismondo, geom. Lorenzo
nale, solo allora le due sponde potevano essere considerate defini- Toriello, arch. Stefano Tonucci
tivamente avvicinate e raccordate, pronte per la fase di esecuzione
dell’impalcato metallico posto ad unione tra le due sponde.

Naturalmente l’abilità nel superare le difficoltà tecniche non


mise al riparo le maestranze dalle avversità atmosferiche e così
ulteriori pesanti inondazioni giunsero a stravolgere la vita del
cantiere. Come per un appuntamento non concordato, varie
132 A. Di Silvestre

piene ‘controllate’ dalla diga di Castel Giubileo investirono per


ben tre volte le aree di lavoro, producendo altrettanti fermi cantie-
re e successivi ripristini necessari alla sicurezza dei lavoratori stessi.
Un altro tipo di difficoltà, questa volta ben più grave, colpì
poi il cantiere: la repentina uscita per malattia e la dolorosa scom-
parsa del giovane appaltatore Lorenzo Toriello, che determinò un
parziale quanto improvviso fermo dei lavori, infine superato con
la cessione dell’appalto ad altra società, la MAEG Costruzioni
Spa di Trezzano (VI), la quale si dedicò alla costruzione in car-
penteria metallica delle due parti strutturali dell’impalcato, la
grande trave appoggiata posta in riva Marconi e la parte centrale
di completamento.

L’Impalcato Metallico in Acciaio

Per questa quarta e ultima fase dei lavori, il gruppo di progetta-


zione e il nuovo appaltatore della carpenteria metallica, attraverso
numerose riunioni tecniche, misero a punto una serie di migliorie
e adeguamenti per entrambe le parti strutturali in acciaio ed i loro
conseguentii comportamenti statici, pur mantenendo inalterata
l’originale idea progettuale.
Come è noto, le costruzioni metalliche vengono prodotte ed
assemblate in stabilimento, premontate sempre in stabilimento
per accertare la perfetta compatibilità tra i diversi elementi strut-
turali, quindi smontate e trasportate in pezzi più piccoli a piè
d’opera in cantiere, per poi, con una sequenza ben organizzata,
essere rimontate in sito per la definitiva posa in opera (Fig. 19).
Fig. 19 – Stoccaggio delle lastre in acciaio Proprio questa progressione del lavoro fu esplicitata nell’ulti-
mo crono-programma operativo, suddiviso per la messa in opera
dei due elementi strutturali:
1. la ‘Trave Stampella’ a sbalzo, lunga 52 metri, con i progressivi
‘vari’ delle travi che componevano l’impalcato di 10 metri di
larghezza;
1.1 l’elemento ‘Puntone’ di appoggio della stampella, costituito
da quattro travature di contrasto tra la sottostante fondazio-
ne e la trave stessa, individuato con una forma a W;
2. l’‘Impalcato Centrale’, di 43 metri di lunghezza e 10 metri
di larghezza, da assemblare a piè d’opera e posizionare con
varo unico, tra le selle della stampella metallica della riva
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 133

Marconi e della mensola in cemento armato della spalla in


riva Ostiense.
Al cronoprogramma operativo era affiancato un documento
grafico che rappresentava le diverse fasi di costruzione e di varo, le
azioni di ausilio dei mezzi di sollevamento, il coordinamento delle
fasi di lavorazione per garantirne la sicurezza, considerando tali lavo-
razioni molto rischiose perché molte di queste eseguite nel vuoto.
Solo allora, come un perfetto organismo ad orologeria, iniziò
la ultima e più delicata fase di costruzione del ‘Ponte della Scienza’.
Il primo trimestre del 2011 fu impiegato per la costruzione
in officina dei pezzi principali, nel successivo semestre si passò
a trasportare gli elementi in cantiere e all’assemblaggio in opera
degli stessi, saldando ed imbullonando tutto ciò che man mano
arrivava dall’officina (Fig. 20).
Sicuramente questa fu la parte più spettacolare: il montaggio Fig. 20 – Preparazione dei pezzi da
assemblare
avveniva a vista, seguito in situ sia dai tecnici che dai carpentieri
meccanici, ognuno impegnato nelle proprie specifiche attività, sia
dai numerosi gruppi di cittadini curiosi, che con attenzione ed
interesse, avevano seguito nel corso di quei mesi, il crescere della
struttura, trave dopo trave, elemento dopo elemento (Fig. 21).
Per un lungo periodo di tempo il cantiere fu monitorato
anche da una chat sul sito http://www.skyscrapercity.com, dove
un gruppo di cittadini anonimi e con nickname stravaganti,

Fig. 21 – Trasporto in cantiere, montag-


gio delle parti pre-lavorate e posa in opera
134 A. Di Silvestre

facevano previsioni, lasciavano commenti, documentavano l’a-


vanzamento con foto piratate del cantiere. Tra questi ‘l’Ingegnè’
risultava il più esperto e, utilizzando un circostanziato linguaggio
tecnico, comunicava le diverse progressioni del cantiere, svolgen-
do per certi versi una sorta di servizio pubblico on line; credo
che questa chat sia ancora consultabile in rete all’indirizzo http://
www.skyscrapercity.com/showthread.php?t=933304 e, ai lettori
più curiosi, ne consiglio la visione.
Fig. 22 – Stampella in acciaio, comple- Lentamente la struttura sul fiume cresceva, le potenti gru gom-
tamento del montaggio
mate, poste sulle rive e sul ponte stesso, sollevavano dall’alto le deci-
ne di tonnellate di acciaio, mentre dal basso le maestranze con capar-
bietà saldavano e imbrigliavano i pezzi, uno ad uno (Figg. 22-23).
Finalmente, nel febbraio 2012, le istituzioni comunali diedero
ai mezzi di informazione l’annuncio tanto atteso dell’imminente

Fig. 23 – Vista dalla Riva Marconi della


Stampella in acciaio e della Spalla in c.a.
sulla Riva Ostiense

Fig. 24 – Varo dell’Impalcato centrale


in acciaio

posizionamento dell’ultimo elemento centrale del ponte: gli ultimi


45 metri di impalcato! (Fig. 24). Una piccola folla eterogenea
composta da politici, giornalisti e cittadini poté assistere al varo
di questo ultimo elemento da interporre tra i due già realizzati.
Fu il coronamento di un’importante opera di ingegneria, saldata
frutto ad una visione di architettura creativa. Per i ‘Funamboli’, il
loro team di progettisti, e per tutti quelli che avevano contribuito
Fig. 25 – L’impalcato centrale, dal basso ai lavori vedere il fiume scorrere al di sotto del ponte oramai vara-
la vista dei tiranti in acciaio to significò aver vinto una scommessa non indifferente (Fig. 25).
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 135

Le opere di completamento, I Collaudi e Le Opere Complementari

Il ponte era lì, sospeso sul Tevere, ma ulteriori parti rimane-


vano ancora da realizzare. I mesi successivi vennero così impie-
gati per eseguire canalizzazioni elettriche, griglie di raccolta delle
acque, posa in opera delle ringhiere metalliche di protezione,
getti di solaio e giunti di dilatazione; ancora, posa dei lampioni
di illuminazione pubblica, dei rivestimenti delle superfici pedo-
nali e ciclabili, dei dettagli di arredo come il lucido mancorrente
in acciaio e le panchine monolitiche in cemento prefabbricato.
Alla fine dell’anno 2012 il ponte era definitivamente ultimato
(Fig. 26).

Fig. 26 – Panoramica dalla Riva Ostiense


Terminate le opere, il testimone passò alle figure tecniche
che avrebbero certificato la buona esecuzione statica e la corretta
spesa pubblica.
Queste attività furono affidate al Collaudatore statico ing.
Fabio Rocchi, nominato all’interno dell’organico dell’Ammi-
nistrazione Comunale, per l’esecuzione delle prove di carico e
la verifica del modello teorico degli abbassamenti, mentre al
Responsabile Unico del Procedimento, che scrive questo testo,
insieme al citato ing. Fabio Rocchi in qualità di Collaudatore
tecnico amministrativo e al Direttore dei Lavori, competerono
la verifica amministrativa e contabile della spesa sostenuta dal
Comune di Roma, ovvero la raccolta dei documenti tecnici e
136 A. Di Silvestre

contabili emessi in corso d’opera.


Ambedue le attività vennero svolte e concluse positivamente
all'interno di una tempistica soddisfacente per l’Amministrazione,
vista la peculiarità e la complessità dell’opera.
Contemporaneamente alla redazione delle predette certifi-
cazioni, negli ultimi 15 mesi vennero ultimate le opere com-
plementari del ponte, affidate con separato appalto riguardante
le opere di arredo urbano antistanti il nuovo ponte. Sulla riva
Ostiense vennero realizzati i giardini pubblici e la sostituzione dei
malandati lampioni di illuminazione, mentre sulla riva Marconi
fu realizzato il giardino pubblico attrezzato con le sistemazioni a
verde, panchine e lampioni, l’installazione dei giochi per bambini
e la sistemazione di una fontanella di acqua pubblica con relativo
recupero dell’acqua per l’innaffiamento, oltre alla posa in opera
di una cancellata a protezione del piccolo giardino di quartiere.

Inaugurazione e Apertura al pubblico

L’8 luglio 2014, alla presenza dell’allora Sindaco Ignazio


Marino, di Maurizio Veloccia e Andrea Catarci, rispettivamente
presidenti pro-tempore del Municipio Roma XI (sponda destra)
e del Municipio Roma VIII (sponda sinistra del fiume), il ‘Ponte
della Scienza’ venne ufficialmente inaugurato (Fig. 27).
Come stabilito dall’Amministrazione Capitolina, e in recepi-
mento delle deliberazioni dei Municipi Roma XI e Roma VIII,

Fig. 27 – Inaugurazione e titolazione


del Ponte
Funamboli sul Tevere. Il Ponte della Scienza - dall’idea all’inaugurazione 137

il ponte fu titolato alla illustrissima figura della prof.ssa Rita Levi


Montalcini, scienziata e senatrice, insignita del Premio Nobel per
la medicina nel 1986.
Il taglio del nastro fu quindi l’occasione per riunire idealmente
cultura, scienza, architettura e ingegneria al servizio della società.
Nonostante la caldissima giornata estiva, le fatiche furono
compensate dalla incredibile frescura che il Tevere regalò ai
partecipanti, che in quella circostanza poterono attraversarlo,
ripetendo così la consuetudine millenaria della città di Roma con
il suo fiume, dal primo Ponte Sublicio, a quest’ultimo: il ‘Ponte
della Scienza-Rita Levi Montalcini’ (Figg. 28-29)
Fig. 28 – Inaugurazione del Ponte - At-
traversamento

Fig. 29 – Il Rup con i Funamboli, da sx:


architetti Maximiliano Pintore, Alessan-
dro Di Silvestre, Gianluca Andreoletti e
Stefano Tonucci

Dedicato con profondo affetto e gra-


titudine all’ideatore dell’Ufficio Concorsi
di Architettura del Comune di Roma,
l’architetto prof. Francesco Riccardo Ghio,
prematuramente scomparso, attento cono-
scitore della città e delle sue trasformazioni.
Ciao Francesco.

Un sincero ringraziamento alle decine


di figure tecniche ed amministrative che
hanno partecipato al comune lavoro e che
per brevità non ho potuto citare, un grazie
comunque a tutti.
138 A. Di Silvestre

Fig. 30 – Il ‘Ponte della Scienza’ – Rita Levi Montalcini, veduta attuale


Corviale: il rilancio dell’Utopia
Progetti di riqualificazione in atto

Guendalina Salimei

Siamo nel 1978 quando esce un numero di Casabella dedi-


cato a Roma e le periferie, nel quale vengono prese in esame le
periferie e le borgate che, come suggerisce Tomas Maldonado
nel suo editoriale, sono due elementi della struttura urbana di
Roma fondamentali. Le periferie, continua, non possono essere
più considerate come il punto d’avvio di un’illimitata espansio-
ne territoriale e di un incremento numerico della popolazione
ma piuttosto si deve operare qualitativamente al loro interno
ridefinendole nel loro assetto formale e funzionale. E questo vale
altrettanto, se non di più, anche per tutte quelle periferie abusive e
spontanee, che vengono chiamate l’espansione senza progetto, per le
quali si deve pensare ad un completo riscatto. Queste devono assu-
mere la stessa dignità abitativa degli altri quartieri urbani e devono
essere organicamente collegate con l’intero sistema della città.
All’interno di questo quadro vengono descritti e analizzati i
Piani di Zona, ossia i quartieri di Edilizia Residenziale Pubblica,
fino allora progettati e costruiti dal 1964 al 1978 tra i quali
emerge per la sua forza e per la sua carica utopico progettuale
l’intervento guidato dall’architetto Mario Fiorentino denomi-
nato ‘Corviale’ (Fig. 1). Dalla relazione di progetto si legge «Il
nuovo ‘Corviale’ è una grande ‘unità residenziale’ un unico com-
plesso edilizio che si sviluppa con continuità per la lunghezza di
circa 1 km e che pur potendosi considerare dal punto di vista
veramente fisico un solo gigantesco edificio in realtà contiene ed
esprime anche “nella sua architettura la complessità e la ricchezza
di relazioni propria della città”».

Il progetto rientra nelle ricerche per una nuova dimensione


dell’habitat, che si pone come radicale alternativa alla dispersione
140 G. Salimei

Fig. 1 – Il complesso di Edilizia Re-


sidenziale Pubblica sovvenzionata di degli insediamenti nella periferia. L’intervento si colloca in quel
‘Corviale’. Stato attuale
filone di tentativi finalizzati a trovare una nuova scala di disegno
per la città. L’ambizione è di tradurlo in realtà, una città di cui si
accetta l’alta concentrazione edilizia contro vecchi e nuovi miti
sociologici e populistici. Una città, continua Fiorentino, «dove
1
però il rapporto tra spazi pieni e concentrati e spazi vuoti abbia un
Dalla relazione di progetto allegata
al Piano di zona n° 61 Corviale coordinato
rapporto differente annullando così la cesura tra urbanistica e archi-
dall’architetto Mario Fiorentino «Il proget- tettura nella prospettiva di un possibile disegno urbano nel quale la
to del Corviale rientra nelle ricerche per una priorità sia data, come sempre, nella storia, all’architettura, l’unica
nuova dimensione dell’habitat, che si pone
come radicale alternativa alla dispersione degli capace di costruire paesaggi artificiali complessi» 1.
insediamenti nella periferia, al ruolo subalter- Concepito come una macchina per abitare, contro il con-
no a livello d’uso e di immagine che riveste nei
confronti del centro urbano, alla disaggrega- sumo di suolo e il costruire dilatato nel territorio, il progetto
zione tra residenze e servizi e al declassamento originario immaginato come un grande ‘acquedotto contem-
sociale che la caratterizzano e coniugando il
tema dell’abitare con la presenza di servizi e
poraneo’ inserito nella campagna romana per accogliere circa
attività pubbliche integrate». 6.300 abitanti, è un vero e proprio sistema integrato tra i bisogni
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 141

Fig. 2 – Veduta d’assieme con evidenziata


dell’abitare e i servizi pubblici per il quartiere, prevede anche un la parte edilizia interessata dal ‘Quarto
piano per la localizzazione di servizi d’interesse comune (Fig. 2). Piano’ attualmente occupato da residenze
spontanee ed oggetto di riqualificazione
Nel tempo il ‘grattacielo orizzontale’ più lungo d’Europa, come
è stato più volte definito, è diventato un simbolo delle periferie
urbane, ma anche un controverso elemento in bilico tra un espe-
rimento avanzato e utopico di architettura, un monumento e un
‘opera mostruosa’.
Il ‘Corviale’ ha una sezione molto interessante e complessa,
attraversata al centro da un piano libero che divide il corpo in
due ‘edifici sovrapposti’ che hanno due distribuzioni tipologiche
diverse: la più bassa in linea e quella in alto a ballatoio; questo
piano, pensato come luogo pubblico, attraversa orizzontalmente
tutto l’edificio, prevede spazi per attività pubbliche, negozi, bot-
teghe artigianali, spazi sociali e d’incontro. Nel tempo purtroppo
i servizi e le attività pubbliche previste per il piano ‘libero’ non
sono mai decollati, la città non ha saputo sfruttare la possibilità
di inserire attività complementari all’abitazione rendendo questo
intervento un frammento di città vivo e multifunzionale. Il piano
è stato occupato da nuovi abitanti che hanno, man mano, realizza-
to abusivamente una serie di alloggi in modo spontaneo, alterando
in alcune parti i caratteri del progetto e creando, almeno in un
142 G. Salimei

Fig. 3 – Stato attuale. Da notare la fascia


di attrezzature sportive e servizi pubblici
che si sviluppa parallelamente al corpo
edilizio principale

primo periodo, un conflitto sociale tra gli abitanti di ‘Corviale’


aventi diritto, ossia gli inquilini dell’IACP (oggi ATER), e quelli
insediatisi abusivamente (Fig. 3).
Scrive Purini «Ma il Corviale sta alla residenza popolare ita-
liana di massa come il Lingotto sta all’edilizia industriale» e poi
«ben poche opere hanno, infatti, la stessa energia programmatica
di quest’edificio. Le soluzioni che si possono trovare per risol-
vere il “caso” Corviale sono della stessa intensità». L’alternativa
al ‘Corviale’ è il ‘Corviale stesso’ 2 ovvero per avviare un pro-
cesso di riqualificazione bisogna guardare, osservare, ascoltare
il modo in cui il ‘Corviale’, nella sua inaspettata permeabilità,
ha accolto forme di abitare e stare nel modo più eclettico, ed
ha interpretato, anche in modo discontinuo, i bisogni del vivere
contemporaneo. Forse basterebbe capire e reinterpretare quella
varietà d’usi e di attività che si sono realizzati grazie ad una serie
d’interventi spontanei e autogestiti, nelle relazioni di vicinato
tra famiglie e gruppi eterogenei, nell’uso spontaneo degli spazi
comuni, nell’inserimento di artisti che attraverso l’occupazione
di spazi, hanno introdotto il tema del ‘laboratorio’. Tutto questo,
nato dalla sperimentazione spontanea di nuove forme innovative
2
e condivise dell’abitare, è proprio ciò che in questo momento
F. Purini, Un’idea per Corviale in F. Coc-
cia e C. Costanzo (a cura di), Recupera Corviale,
storico ci sembra interessante reinterpretare, perché capace di
Roma 2002, p. 129. attivare processi di partecipazione e di responsabilizzazione in
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 143

Fig. 4 – Dettaglio del corpo edilizio


residenziale detto “Sesto Lotto”, che si
stacca con andamento diagonale ri-
spetto al fabbricato principale. Il piano
terreno è caratterizzato da un percorso
pubblico coperto affiancato da locali che
in origine dovevano essere destinati ad
attività commerciali ed invece sono an-
ch’essi attualmente occupati da residenze
spontanee

grado di coinvolgere gli abitanti del complesso e divenire, in qual-


che misura, la chiave di lettura del rinnovamento del ‘Corviale’.
Infatti, da un’attenta analisi e da un riscontro sul campo è emerso
che la coesione fra gli abitanti e l’unità di vicinato sono oggi molto
sentite anche grazie alla presenza di una serie di spazi che sono stati
trasformati in spazi privati condivisi, dove, alla funzione di sempli-
ce distribuzione degli alloggi, di mero connettivo, si affianca quella
della socializzazione delle famiglie, luogo di gioco per i bambini,
spazio per cene estive, spazi per stare insieme e condividere qualco-
sa (Fig. 4). Esiste un fortissimo senso detto vicinidad, sono forme
di vicinato divenute parte integranti del modo di abitare, anche
grazie alla presenza di una serie di spazi d’uso collettivo. Questi
spazi, che attualmente costituiscono gli unici luoghi di relazione
sociale (una volta che non c’è più il piano libero) nell’intero edifi-
cio di ‘Corviale’, sono una delle più importanti novità tipologiche
prodotte dall’auto-organizzazione, da recuperare e sviluppare come
elemento positivo per il nuovo progetto.

Il progetto del ‘Chilometro verde’: Riqualificazione del piano libero


del Corviale

A seguito del ‘Contratto di Quartiere Corviale’ predisposto


congiuntamente nel 2004 dal Comune di Roma, dall’ATER e dal
144 G. Salimei

Municipio XV (oggi XI) ed approvato dalla Regione Lazio, con


conseguente stanziamento di 10 milioni di euro per gli interventi
edilizi di riqualificazione, fu stabilito, tra l’altro, di trasformare il
cosiddetto ‘Quarto Piano’, originariamente con destinazione non
residenziale – ma da anni ormai tutto occupato abusivamente –
in un piano effettivamente residenziale, totalmente riprogettato
secondo corrette tipologie abitative. Il ‘Contratto di Quartiere’
oltre a questo cambio di destinazione d’uso prevedeva che negli
alloggi ristrutturati si sarebbero dovute reinsediare quelle stesse
famiglie presenti che, pur avendo occupato abusivamente, aves-
sero avuto i requisiti per il diritto ad una casa popolare. Sono
passati da allora diversi anni pieni di scelte politiche a volte
contraddittorie che hanno determinato lunghissimi ritardi. Ora
però il bando per le graduatorie relative alla riassegnazione dei
nuovi alloggi è stato emesso dal Comune di Roma Capitale ed il
termine per la presentazione delle domande da parte degli attuali
occupanti è scaduto il 31 luglio 2016. Le domande pervenute
sono all’esame del Dipartimento per le Politiche Abitative di
Roma Capitale. Il progetto esecutivo del nuovo ‘Quarto Piano’
è stato predisposto ed approvato, in accordo con i tecnici dell’A-
ter, dal gruppo di progettisti Tstudio 3. Infine la Regione Lazio
ha stanziato le somme necessarie alla realizzazione dell’opera.
Fig. 5 – Il Concept, ovvero l’espressione
sintetica e comunicativa della proposta
progettuale elaborata per la riqualifi-
cazione del ‘Quarto Piano’ di Corviale

Sembrerebbe dunque che non ci siano più ostacoli.


Ma vediamo nel dettaglio i contenuti di questo importante
intervento.
Il progetto del ‘KM verde’ per la riqualificazione del piano
libero, anche detto ‘quarto piano’ prevede, oltre alla realizzazione
3
di una serie di alloggi ricavati all’interno della maglia strutturale
Il gruppo vincitore del Concorso Inter-
nazionale indetto dall’ATER a fine anni 2000 esistente, studiati all’interno di un programma di sperimentazio-
è: T studio-Guendalina Salimei architettura, ne legato all’uso condiviso, eco-sostenibile ed economicamente
Eutecnesrl. strutture, Ingegneria d’impianti, im-
pianti, EBSG, territorio e ambiente, G. Fantilli
sostenibile degli ambienti, un certo numero di aree comuni per
paesaggio, P. Luttazzi computi. la socializzazione, recuperando quel senso della vicinidad che,
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 145

come abbiamo accennato, rappresenta un’importante novità


tipologica prodotta dall’auto-organizzazione, novità che non solo
si è inteso recuperare, ma anche reinterpretare (Fig. 5).
Il fine è l’interazione tra le persone, questi, infatti, immaginati
come spazi per stare e comunicare, sono pensati come antidoto
contro la solitudine e l’individualità. Il progetto prevede la valoriz- Fig. 6 – Uno spazio comune interno al
zazione di tali spazi come luoghi in grado di migliorare la qualità ‘Quarto Piano’ come si mostrerà dopo l’in-
della vita. Pensati come luoghi di mediazione tra un dentro e un tervento di riqualificazione
fuori, tra privato e collettivo costituiscono un’opportunità per far
interagire tra di loro i componenti della comunità, importanti per-
ché ipotizziamo possano costituire dei momenti di consapevolezza,
dei momenti dove il fatto di appartenere ad una comunità rende
possibile la valorizzazione dell’ambiente stesso (Fig. 6).
Gli alloggi beneficiano molto dalla presenza degli spazi
condivisi perché si percepiscono come più grandi e più belli e
stimolano un senso di identità collettiva, si relazionano gli uni
con gli altri e con l’esterno. Il rapporto socialità/intimità si raf-
forza tramite la presenza di questi nuovi spazi che concepiti come
spazi di transizione sono percepiti sia come spazi semi-privati che
come spazi semi-pubblici. La riqualificazione del piano libero
si trasforma così in un’occasione davvero strategica d’interven-
to perché è in grado di costituire un elemento di interruzione
‘positiva’ nella vita degli abitanti, nelle relazioni tra di loro e nel
modo in cui si sentono di appartenere ad una comunità. In un
certo senso si trasforma in una ‘ossatura’ che produce una nuova
energia in grado di contaminare tutto l’edificio (Fig. 7).

Fig. 7 – Dettaglio del fronte esterno, con


evidenziata la fascia del ‘Quarto Piano’
che il progetto di riqualificazione prevede
di trasformare nel ‘Kilometro verde’
146 G. Salimei

Il trattamento dei prospetti intende non solo comunicare


la riconoscibilità del nuovo intervento, ma anche aumentare il
benessere all’interno degli alloggi, schermandoli dalle radiazioni
solari nei mesi estivi e creando uno spazio filtro nei mesi inverna-
li. Per quanto riguarda lo studio dell’immagine esterna il proget-
to mantiene il piano libero come elemento di interruzione nella
facciata e di rottura nella linearità del prospetto e contribuisce a
rafforzare il sentimento di appartenenza ad un’identità collettiva
di comunità del ‘Corviale’.
La riconoscibilità del segno orizzontale, pensata da Fiorentino
per il piano libero, infatti, continua a essere riletta anche succes-
sivamente a questo intervento, seppur attraverso diversi mezzi
espressivi. E così come l’acquedotto, nel corso dei secoli, si è
integrato con la natura circostante formando un paesaggio unico,
il ‘Corviale’, nella sua nuova immagine, prevede l’inserimento al
suo interno dell’elemento natura, un taglio ‘verde’ inserito al suo
interno, al fine di sottolineare il taglio orizzontale e l’originale
funzione di luogo collettivo. Per enfatizzare questo carattere origi-
nario si propone di interpretare il piano come ‘piano verde’, anche
caratterizzato dal colore verde, visibile dalle parti in aggetto del
solaio soprastante.
A tal fine il soffitto di tutto il piano visibile dalla strada, per-
ché in aggetto, viene pensato di colore verde. Il piano pubblico si
caratterizza così dall’introduzione dell’elemento naturale e dallo
studio delle variazioni cromatiche del verde; l’uso del colore è un
elemento cruciale in architettura, i colori conferiscono leggibilità
ai volumi rendendoli di chiara comprensione. La scelta cromatica
deriva dall’incontro con il luogo, con la sua luce e con la sua per-
cezione e contribuisce fortemente alla riconoscibilità collettiva
del complesso (Fig. 8).
Fig. 8 – Il ‘Logo’ del progetto di riqualifi-
cazione del ‘Quarto Piano’ Nelle ore notturne questa scelta viene esaltata da un’illumina-
zione lineare celata nella veletta della lastra che funge da balau-
strata al piano superiore, che mantiene ed evidenzia il nastro/
linea orizzontale.

In realtà per riqualificare interamente l’edificio del ‘Corviale’ gli


interventi da fare sono molteplici e riguardano tutto il complesso,
a partire dal suo attacco a terra per finire alla possibilità di vivere il
grande tetto, alla reinterpretazione di tanti spazi oggi inutilizzati o
abbandonati. Il progetto, che riguarda la riqualificazione solo del
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 147

quarto piano, è in realtà un progetto pilota, il primo di tanti altri,


ma che si spera sia in grado di innescare energia a tutto l’edificio
e non solo, anche all’intorno del quartiere, attivando un processo
virtuoso che faccia capire l’alto valore di questo complesso spe-
rimentale e ne sappia recuperare e rilanciare il senso utopico 4 e
fortemente innovativo che lo connota e lo fa divenire una grande
eterotopia urbana 5.
In fondo quest’opera ha magistralmente recuperato il proget-
to contro il consumo di suolo pensato e avviato da Le Corbusier
e lo ha magistralmente reinterpretato, inserendolo nel paesaggio
romano come se fosse esistito da sempre.

Il futuro del ‘Corviale’ è insito nelle sue anomalie, nell’inaspetta-


ta penetrabilità ad accogliere forme di vita eclettiche ed eterogenee,
nella capacità a gestire processi di adattabilità nel tempo, alla possibi-
lità di sviluppare la compresenza di più usi e di più modi di abitare6.
Ciò che non si era realizzato nel progetto originario, si sta in realtà
avverando solo grazie ad un intervento non programmato, infor-
male e spontaneo, la sua utopia ha nel tempo trasformato la realtà.
L’idea è che una megastruttura residenziale immaginata
sul solco delle autostrade abitate di Algeri e sul concetto di
un’immensa macchina dell’abitare come porzione di città, abbia
bisogno, come tutte le città, di sviluppare parti spontanee e par-
tecipate, di accogliere spazi di lavoro, di commercio, spazi per
esposizioni, spazi per artisti sperimentando ciò, che senza un
programma rigido, sappia coesistere 7.
A ben pensarci l’unico futuro per queste grandi case pensate
4
come città ma rimaste immense dormitori, sta forse nel rilanciare la S. Boeri, Dinosauri di cemento, «A ben
pensarci l’unico futuro per queste grandi case
loro utopia: riprogettarle come vere ‘spugne di cemento’. Gli unici pensate come città ma rimaste immense dor-
luoghi della città contemporanea dove sia possibile sperimentare la mitori, sta forse nel rilanciare la loro utopia:
riprogettarle come vere ‘spugne’ di cemento.
libera combinazione dei modi di vita8. Gli unici luoghi della città contemporanea
dove sia possibile sperimentare la libera com-
binazione dei modi di vita», in F. Coccia e C.
Costanzo (a cura di), Recupera Corviale, Roma
Il Plesso Scolastico di via Mazzacurati. Cronaca di una radicale 2002, p. 136.
trasformazione 5 Purini, Un’idea per Corviale, cit., p. 132.
6
G. Corbellini, Housing is Back in
All’interno del ‘Piano di Zona di Corviale’ si trovano town. Breve guida all’abitazione collettiva, Sira-
cusa 2012, p. 71.
due strutture edilizie di servizi molto simili che sono rispet- 7 G. Salimei, Il Corviale: una declina-
zione lecorbuseriana a Roma, in AA.VV., Con-
tivamente un centro culturale-biblioteca e una struttura tributi per Le Corbusier, (in corso di stampa).
scolastica (Figg. 9-10). 8 Boeri, Dinosauri di cemento, cit., p. 136.
148 G. Salimei

Fig. 9 – Veduta del ‘Centro’ di Cor-


viale. È riconoscibile l’edificio a pianta
quadrata con una corte interna dove è
inserito il volume a pianta semicirco-
lare che corrisponde alla Sala del Con-
siglio del Municipio XI. Si individua,
poco sopra la piscina comunale scoper-
ta, anche il volume del plesso scolastico
di via Mazzacurati prima dei lavori
di ristrutturazione e riqualificazione
in corso

Fig. 10 – Veduta del ‘Centro’ di Cor-


viale con inserito il volume del plesso
scolastico come risulterà dopo i lavori
di ristrutturazione e riqualificazione

La struttura scolastica, un capannone largo quasi trenta


metri costruita a fine anni ’80, subisce un forte e progressivo
degrado e già nei primi anni 2000 è sottoutilizzato rispetto
alle sue potenzialità e ha bisogno di una riorganizzazione.
L’occasione per la sua completa trasformazione si presenta
all’indomani della decisione dell’Amministrazione di procedere
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 149

Fig. 11 – Il prospetto sud-est del plesso


scolastico comunale di via Mazzacurati
prima dei lavori in corso. Si riconosce
sullo sfondo il fronte del cosiddetto ‘Sesto
Lotto’ residenziale di proprietà dell’ATER

Fig. 12 – Il prospetto sud-est del plesso


scolastico come si mostrerà al termine dei
lavori

alla messa a norma dell’edificio, e questo primo passo divie-


ne la spinta per realizzare una struttura totalmente nuova,
attraverso un’azione partecipata di tutti gli attori coinvolti:
il gruppo di progettazione, l’Amministrazione comunale, il
corpo docente e gli alunni stessi della scuola (Figg. 11-12).
Il progetto di trasformazione del complesso scolastico
150 G. Salimei

prevede una completa ristrutturazione dell’immobile che


avviene attraverso una serie d’interventi volti, non solo a
ridare una maggiore funzionalità alla scuola con una forte
attenzione al risparmio energetico, ma anche a imprimere
al Plesso scolastico una nuova vita sia in termini spaziali,
tipologici ma anche strategici all’interno del quartiere 9.
Il progetto interviene sulla struttura esistente utilizzando
la possibilità offerta dal sistema costruttivo di prefabbrica-
zione per compiere una serie d’interventi radicali quali la
sottrazione e lo spostamento di alcune parti, l’ampliamento
di altre e più in generale una completa riqualificazione.
Gli interventi previsti sono: la sottrazione di parti del
solaio di copertura per creare un patio interno al posto
dell’attuale area di gioco al fine di migliorare l’illuminazione
e la ventilazione del corpo di fabbrica in origine troppo pro-
fondo; la completa riorganizzazione di una parte del corpo
Fig. 13 – Schema degli interventi pre-
visti dal progetto di ristrutturazione e
riqualificazione

9
Nel 2005 il Programma di ‘Recupe- centrale al fine di introdurre un teatro con circa 200 posti;
ro Corviale’, che prevede al suo interno la
riqualificazione e l’adeguamento del plesso
la costruzione di un nuovo corpo di fabbrica da adibire a
scolastico di via Mazzacurati, viene approva- laboratori; la riqualificazione completa di tutti gli spazi di
to e finanziato dal Consiglio Comunale e nel
2006 il Dipartimento Promozione, Sviluppo connessione interni come luoghi di ritrovo e d’incontro; la
e Riqualificazione delle Periferie del Comu- completa riorganizzazione delle varie sezioni, dell’area della
ne di Roma decide di avviare una procedura
aperta per la ristrutturazione e messa a norma mensa e dei servizi annessi alla palestra; la riqualificazione
del plesso scolastico. Il gruppo vincitore è: dell’alloggio del custode per inserire un micro-nido; la valo-
T studio Guendalina Salimei architettura e
Giancarlo Fantilli paesaggio; Studio Lombardi rizzazione delle facciate con l’introduzione di nuovi involu-
Massimo Traversari e Valeriano Vallesi struttu-
re; Ingegneria d’impianti e Energy Project s.r.l.
cri e di piccole micro-serre per la crescita di rampicanti e,
impianti e Evandro Ranaldi computi. infine, la riqualificazione del giardino di pertinenza con aree
Corviale: il rilancio dell’Utopia. Progetti di riqualificazione in atto 151

per il gioco, lo sport, la didattica all’aperto e la coltivazione


a orto (Fig. 13).
La demolizione di parte della copertura dell’atrio della
scuola per creare un patio, spazio verde aperto centrale, ha
lo scopo di rendere l’attuale area-atrio che ora soffre di un
malfunzionamento e si presenta come ‘una cassa di risonan-
za acustica’, un luogo piacevole da utilizzare come punto di
ritrovo, svago e gioco all’aperto. Il patio è in grado di miglio-
rare le prestazioni bioclimatiche dell’edificio stesso, e grazie
alle grandi pareti vetrate rende più luminosi e gradevoli molti

Fig. 14 – Rendering di progetto del patio


interno

spazi che ivi vi si affacciano quali la mensa, la scuola materna,


l’atrio e il corridoio della scuola media (Fig. 14).
La riorganizzazione della scuola è basata sulla realizzazio-
10
La costruzione di una scuola pone all'ar-
ne di spazi di socializzazione: la serie di percorsi, la rampa, i chitetto un problema che non è solo di ordine
gradoni, non servono solo a mettere in comunicazione tutte costruttivo ma è anche di ordine pedagogico: egli
non solo deve conoscere i regolamenti in vigore,
le parti del plesso tra loro con il parco ma sono anche punto ma in eguale misura deve conoscere le ragioni
di incontro ‘per persone con interessi comuni’10. Sul piano e i comportamenti dello studente, il suo modo
particolare di vivere e di considerare la vita. Ana-
tipologico, il corridoio è trasformato in una strada-percorso lizzato ciò, il suo compito è poi di coniugare di-
un luogo di ritrovo, una spina dorsale dell’intervento che rac- versi bisogni, psicologici e biologici dei ragazzi
in età scolare e di concretizzarli attraverso le for-
coglie tutti gli altri spazi; una sorta di ‘via centrale’ adibita alle me architettoniche, ossia mediante la concezio-
attività comuni organizzate con pareti attrezzate quasi delle ne di uno spazio significativo e funzionalmente
organizzato per la migliore conduzione delle
vere e proprie bacheche-vetrine dove gli studenti possono attività scolastiche e non.
152 G. Salimei

esporre lavori, prodotti, oggetti e altro realizzati in classe11.


Le singole classi si arricchiscono di altri spazi all’esterno, e
insieme ai laboratori veri e propri, compongono una varietà
di spazi per stare quali le aule all’aperto, la strada percorso
per esporre, l’atrio, piazza interna a doppia altezza, aree
all’aperto per rappresentazioni e spazi più raccolti per le
attività da svolgere in piccoli gruppi.
In queste aree i ragazzi hanno l’opportunità di vivere
delle realtà più specifiche che sono quelle complementari
alle attività didattiche in ambiti più ristretti e vivere delle
attività più pubbliche d’incontro negli spazi collettivi che
sono le strade-percorso interne, il patio, il giardino d’inver-
no e il parco stesso con una serie di spazi all’aperto, offrono
la possibilità di partecipare ad attività sportive e attività
didattiche all’esterno quali la creazione e la cura degli orti.
Il complesso scolastico è circondato da un parco giardino
che viene completamente riorganizzato. Quest’area verde,
oltre a proteggere gli edifici, li arricchisce di molteplici spazi
vivendo di un intenso rapporto con il paesaggio circostante.
Il giardino è organizzato attraverso una serie di ambiti spaziali
che possono essere utilizzati per diverse attività: alcuni più
attrezzati formano un leggero invaso spaziale caratterizzato da
lievi gradoni, che può ospitare spettacoli e rappresentazioni,
altri, nei periodi di bella stagione, divengono ‘stanze a cielo
aperto’, vere e proprie propaggini all’esterno per le attività
ricreative (Fig. 15).
Il parco-giardino nel suo complesso è, in questo modo,
11
Già all'inizio del XX secolo Maria
Montessori sviluppa un nuovo modello peda-
integrato alla scuola; le attività degli insegnanti e degli alunni
gogico per le scuole, la sua filosofia, un’atmosfe- riguardano la valorizzazione dello spazio naturale e agricolo
ra chiara e riconoscibile all'interno della scuola
stimola l’agire autonomo dei singoli rafforza nei
con le sue peculiarità quotidiane, storico-culturali e umane;
giovani l'autostima ed il senso di responsabilità; il territorio circostante con le sue caratteristiche naturali e
nel momento in cui si respira questo concetto
gli studenti non hanno difficoltà ad ambientarsi urbane diviene un’estensione dello spazio della scuola.
nei nuovi spazi della scuola. La scuola è, infat-
ti, un luogo dove gli studenti creano un’unità,
uno spazio d’identificazione dove essi si sen-
tono parte integrante di una comunità e dove
si sentono di appartenere ad un luogo. H.
Hertzberg, Space and the Architect: Lessons in
Architecture 2, Publisher 010, 1999.
Fig. 15 – Rendering di progetto del plesso scolastico comunale di via Mazzacurati. Al centro si evidenzia la sagoma della
nuova sala per spettacoli che sarà fruibile dalla scuola e dal pubblico

Fig. 16 – Cantiere dei lavori per la riqualificazione del plesso scolastico comunale di via Mazzacurati. Prospetto principale
Fig. 17 – Cantiere dei lavori per la riqualificazione del plesso scolastico comunale di via Mazzacurati. Particolare della copertura della sala
per spettacoli con circa 200 posti

Figg. 18-19 – Cantiere dei lavori per la riqualificazione del ples-


so scolastico comunale di via Mazzacurati. Stato attuale del patio
interno. Il cantiere è attualmente fermo in attesa di essere portato a
termine con i finanziamenti richiesti dal Comune di Roma Capitale
attraverso il Bando per la Riqualificazione Urbana e la sicurezza
delle Periferie del 2016. I fondi sono stati recentemente concessi dal
Governo e saranno resi disponibili entro il 2017
Scene da un municipio
Il territorio portuense nel cinema

Patrizio Di Nezio

Il fiume Tevere e la via Portuense sono i due elementi che


mettono in comunicazione la città di Roma con il mare e, nel
loro andamento sinuoso in direzione sud-ovest verso la costa,
delimitano il territorio dell’undicesimo municipio. Nel settore
più vicino al centro il contesto urbano, come ci appare oggi, è
frutto delle trasformazioni edilizie che si sono susseguite negli
anni a partire dalla realizzazione del Ponte di Ferro, costruito nel
1863, con una caratterizzazione territoriale tipica dell’extraurba-
no. La linea ferroviaria Roma-Civitavecchia, nella sua congiun-
zione con la zona di Roma-Termini, attraversava il fiume con il
suddetto ponte ferroviario, elemento avveniristico per l’epoca,
realizzato in metallo con strutture reticolari dall’immagine for-
temente funzionale. Attorno a esso, declassato a ponte stradale
in occasione dell’ampliamento della linea ferroviaria Roma-Pisa
(con la costruzione del nuovo ponte ferroviario San Paolo ad esso
affiancato) si assiste allo sviluppo di numerosi manufatti di servi-
zio, soprattutto magazzini, che sfruttavano i binari di congiungi-
mento per lo stoccaggio delle merci o fabbriche che si avvalevano
della vicinanza alla ferrovia, al fiume e alla via Portuense per il
trasporto di materie di lavorazione o di commercializzazione.
Nasce così il carattere industriale di questa zona, aspetto che
manterrà in gran parte anche fino ai nostri giorni, non cancel-
lato nemmeno dalla imponente urbanizzazione degli anni cin-
quanta e sessanta del secolo scorso che, a partire dalla Stazione
di Trastevere, si è sviluppata in direzione di viale Marconi per
colmare tutto il territorio della ex Piana di Pietrapapa.
Ancora oggi per chi percorre la riva destra del fiume a partire
dal Ponte di Ferro, lungo l’attuale Lungotevere Gassman, si ha
l’impressione di essere fuori dal contesto urbano convenzionale
156 P. Di Nezio

della città. Le Mura Aureliane sono a poca distanza eppure


siamo in un luogo ‘altro’, ci siamo lasciati alle spalle monumenti
di epoca romana, come la Piramide Cestia, o di età medievale,
come Porta San Paolo, e ci troviamo a stretto contatto con ‘altri
monumenti’ che ci appagano la vista già sollecitata dalle acque
del fiume che qui forma un’ampia ansa intorno alla Piana di
Pietrapapa. I ‘monumenti altri’ sono proprio le fabbriche che
s’innalzano sul livello pianeggiante di questo territorio: i Mulini
Biondi, la Fabbrica della Mira-Lanza, il Granaio dell’Urbe, e su
tutti incombe la mole del grande Gazometro che riflette nell’ac-
qua del Tevere la maglia rugginosa della sua struttura metallica.
Il fascino di questo brano di città sta proprio nella sua con-
notazione funzionale, aspra, asciutta, oggi arricchita dal valore
storico che le riconosciamo e dal richiamo che alcuni manufatti
di archeologia industriale suscitano intorno alle strutture dismesse
abbandonate al degrado. Un habitat seduttivo che non poteva
essere ignorato dal cinema, da chi cerca luoghi particolari, lontano
da contesti convenzionali, in cui ambientare storie di vita, in una
scenografia ‘diversa’, particolarmente apprezzata da chi rifugge la
rappresentazione classica della città eterna, come è sempre stata
descritta nei libri di storia e nelle raffigurazioni artistiche.
A partire dal periodo più interessante della nostra storia cine-
matografica italiana, il neorealismo, il set cinematografico esce
dagli studi di posa per cercare situazioni reali nell’ambito urbano,
attraverso un’operazione culturale nella quale è l’ambiente stesso
ad assumere un’importanza notevole nella storia rappresentata.
Il luogo delle riprese assume un’importanza tale da prevaricare il
ruolo degli attori protagonisti, spesso volutamente sconosciuti. La
città, Roma in questo caso, assurge al ruolo di vera protagonista
delle vicende narrate mentre gli attori sono individuati come entità
1
corale che si muove al suo interno con storie riconducibili a espe-
Gli stabilimenti di Cinecittà erano sta-
ti occupati negli ultimi due anni di guerra dai
rienze comuni a tutta la collettività. Negli anni del secondo dopo-
nazisti come luogo di concentramento di civili guerra l’abbandono dei set tradizionali negli studi cinematografici
in attesa di essere deportati in Germania. Nel
maggio del 1944 il complesso fu requisito da-
è motivato anche da ragioni di carattere tecnico1: la carenza di pel-
gli alleati e utilizzato, successivamente, come licola per la macchina da presa, la scarsa qualità del materiale e la
rifugio degli sfollati. Nel frattempo i tedeschi poca sensibilità della pellicola stessa impongono di girare all’aperto
in ritirata depredarono gli stabilimenti privan-
do gli studi di tutta la strumentazione tecnica, per ‘catturare’ una maggiore luminosità nella scena, ed è proprio
dalle cineprese ai proiettori, alle pellicole; un’ul- in questa occasione che la città diviene protagonista e fa da sfondo
teriore perdita riguarda il materiale d’archivio
bruciato dagli sfollati: ‘Qui ricoverati dopo la
alle singole storie uniformandone la narrazione.
guerra’ come fonte di riscaldamento. Il film in cui la città di Roma è protagonista in maniera assoluta
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 157

è sicuramente Ladri di biciclette 2. È la tragica storia di Antonio,


interpretato da un attore non professionista, che derubato della
bicicletta – strumento indispensabile per l’assegnazione di un
nuovo lavoro nell’Italia disastrata del dopoguerra – spinto dalla
disperazione, per non perdere quell’unica possibilità di lavoro, a
sua volta tenta di rubarne una. Naturalmente è subito individua-
to e mortificato davanti al figlio che, nell’inquadratura finale, gli
stringe la mano e lo allontana dalla folla insultante.
In tutto il film i percorsi in tram, sulle auto o sulla bicicletta
mettono in evidenza visuali sempre ricche di panoramiche e
‘piani sequenza’ che descrivono la città in tutte le sue visuali,
prediligendo la periferia. Il film di Vittorio De Sica, considerato
uno dei capolavori del neorealismo, è il prodotto riuscitissimo di
un forte sodalizio tra il regista e Cesare Zavattini che teorizzava la
ripresa diretta senza finzioni sceniche, con la macchina da presa
che segue i protagonisti in una sorta di ‘pedinamento’, quasi un
raccontare oggettivo, una cronistoria senza interferenze stilisti-
che. Non a caso in tutta la seconda parte del film non ci sono
salti temporali nella narrazione, quelli che vengono chiamati
ellissi nel linguaggio del montaggio cinematografico.
Eppure in tanto rigore stilistico il film contiene al suo interno
espedienti tecnici che deviano dalla realtà oggettiva dei luoghi: il
montaggio della famosa scena del mercato di Portaportese, alla
ricerca della bicicletta rubata, è girata in differenti luoghi: il con-
trocampo di Porta Portese è distante circa due chilometri ed è in
realtà la vasta pianura dei Prati dei Papa, lungo la riva destra del
Tevere, zona poco riconoscibile per chi non è del luogo, ma con
uno sfondo oltre il fiume ben distinguibile ad uno sguardo atten-
2
to: il transetto della basilica di San Paolo fuori le mura (Fig. 1). Il film diretto da Vittorio De Sica nel
1948, su un soggetto di Cesare Zavattini, trat-
Nella lunga sequenza dell’inseguimento nel terreno fangoso, senza to dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini,
alcun tentativo di mistificazione o di schermatura per nascondere vinse il Premio Oscar nel 1949 come Miglior
film straniero, oltre ad altri premi tra i quali il
la finzione scenica, la cinepresa intercetta tutti gli elementi emer- Golden Globe e sei Nastri d’Argento. È con-
genti della zona: il Gazometro, allora ancora perfettamente in siderato un capolavoro del Neorealismo dalla
critica cinematografica mondiale.
uso 3, le tramogge dell’area Italgas oltretevere, le ciminiere della fab- 3
Il fotogramma mostra la calotta telesco-
brica Mira-Lanza e il Granaio dell’Urbe (Fig. 2). La localizzazione pica che, in funzione della quantità di gas conte-
del set infatti è proprio tra viale Marconi ed il Tevere, nella piana nuto, scorre all’interno della griglia metallica del
gazometro, assicurando col suo peso una pressio-
chiamata dei Prati dei Papa, anticamente densa di vigne poi sosti- ne costante del gas. L’elemento cilindrico, scorre-
tuite da manufatti industriali. A margine di questi luoghi, a partire vole all’interno rispetto allo scheletro tuttora esi-
stente, in quegli anni raggiunge ancora un’altezza
dagli anni ’50 del secolo scorso, inizia una netta trasformazione notevole, poi ridotta per un parziale cedimento
consistente in una edificazione intensiva che stravolge l’immagine della grande struttura metallica.
158 P. Di Nezio

Fig. 1 – Ladri di biciclette, regia di


Vittorio De Sica (1948). Area presso
l’attuale lungotevere di Pietra Papa.
Dietro i finti banchi di vendita di ma-
teriale per biciclette si scorge oltretevere
il transetto della basilica di San Paolo
fuori le Mura. Si tratta di un ‘contro-
campo’ della famosa scena della ricerca
della bicicletta rubata, girata a Porta
Portese, in un montaggio cinematografico
alternato tra le due zone

Fig. 2 – Ladri di biciclette, regia di


Vittorio De Sica (1948). La Piana di
Pietra Papa con la sagoma del Grana-
io dell’Urbe, costruito nel 1936; sullo
sfondo il Gazometro e l’area Italgas

4
Girato in bianco e nero tra il 1955 e il
1956 con la regia di Pietro Germi, prodotto da
Carlo Ponti su un soggetto di Alfredo Gian-
netti. Vinse due Nastri d’argento: al regista e dell’ampia pianura nell’ansa destra del Tevere lungo tutta viale
al produttore.
5
Marconi a cominciare da via Antonio Pacinotti.
Germi si distacca dal neorealismo. Di-
plomato al Centro Sperimentale di Cinemato- La stessa zona è ben distinguibile anche in un altro capolavoro
grafia ha una tecnica rigorosa del montaggio, della cinematografia italiana: Il ferroviere 4 diretto da Pietro Germi
dei movimenti di macchina, e un’attenzione
particolare al cinema americano e francese,
nel 1956. Il regista 5, anche attore nella parte del protagonista
con una predilezione per il genere noir. Andrea, imposta la sua struttura narrativa sulle problematiche
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 159

sociali dell’Italia povera del dopoguerra: i conflitti familiari nella


gestione della vita quotidiana, le differenze generazionali, le dif-
ficili condizioni di lavoro, le lotte sindacali e gli scioperi. Tra le
varie scene del film una locomotiva inquadrata in primo piano, con-
dotta dal regista/attore, scorre lentamente tra scenografiche nuvole
di vapore lungo via Pacinotti in direzione di Piazza della Radio
(Fig. 3). La manovra del mezzo, diretto verso la zona retrostante la
Fig. 3 – Il ferroviere, regia di Pietro
Germi (1956). Una locomotiva a va-
pore, proveniente da via Pacinotti,
guidata dal regista/attore Pietro Ger-
mi, attraversa piazza della Radio sui
binari ancora in funzione

Stazione di Trastevere, era resa possibile dalla persistenza di alcu-


ni binari ferroviari che, nonostante la trasformazione urbanistica
in atto nel quartiere, da industriale a residenziale, erano ancora
attivi a servizio delle rimanenti fabbriche e anche per il collega-
mento con la vecchia stazione di Trastevere in piazza Ippolito
Nievo, declassata a scalo merci dopo la costruzione della nuova
stazione in piazza F. Biondo. L’aspetto ancora industriale dell’area
è confermato anche dall’inquadratura in controcampo della stessa
locomotiva che, entrata in piazzale della Radio, arriva a compren-
dere le fabbriche dietro la stazione di Trastevere (Fig. 4).
Una fitta rete di binari, nelle strade comprese tra via del Porto
6
Fluviale e le due stazioni di Trastevere, era ancora presente anche In questo sito sorgevano i vecchi Consor-
zi Agrari, costruiti nel 1919 su progetto dell’ing.
dopo l’urbanizzazione massiccia della zona. Oggi un residuo di Tullio Passarelli, demoliti recentemente per far
binari è ancora visibile in riva sinistra del fiume, ma ancora per poco, posto a un enorme complesso residenziale, ti-
pologicamente estraneo all’ambito industriale
vista l’inopportuna edificazione di un complesso volumetricamente storicizzato, che mortifica i residui gioielli di ar-
rilevante all’angolo tra via del Porto Fluviale ed il Tevere6. cheologia industriale insistenti sull’area.
160 P. Di Nezio

Fig. 4 – Il ferroviere, regia di Pietro


Germi (1956). Piazza della Radio.
L’inquadratura, in controcampo rispetto
alla scena della figura precedente, com-
prende alcune costruzioni industriali
situate presso la piazza, a sud della Sta-
zione di Trastevere. Si distinguono sulla
sinistra il serbatoio idrico ancora pre-
sente all’interno dell’ex oleificio, attuale
‘Casa Vittoria’, al centro un pastificio e
sulla destra il traliccio della raffineria di
petrolio Purfina

A distanza di due anni Germi torna sui temi delle difficoltà


della classe operaia, con un altro melodramma popolare: L’uomo
di paglia. Il protagonista è Andrea 7, un operaio specializzato,
che vede sommarsi ai problemi lavorativi e familiari le forti
complicazioni derivate da una relazione extraconiugale. Il filo
conduttore della storia non è più incentrato soltanto sulle dif-
ficoltà economiche; l’introduzione dell’adulterio, fino ad allora
poco frequente nelle sceneggiature relative alla classe lavoratrice,
sposta l’argomento sul piano etico personale e familiare, sulle
complicazioni generate da un rapporto passionale vissuto fuori
dal matrimonio.
Andrea lavora in una fabbrica poco distante dal set della
scena precedentemente descritta de Il ferroviere. Si tratta in realtà
dell’area dell’ex raffineria di petrolio della Permolio/Purfina com-
presa tra via Portuense, via Q. Maiorana e la ferrovia Roma-Pisa,
dietro la stazione di Trastevere (Figg. 5-7). La struttura, visibile
in diverse inquadrature del film, è rimasta in attività fino all’ini-
zio degli anni ’70, con la sua fiamma perennemente accesa sulla
sommità di un traliccio metallico, nonostante le problematiche
dell’inquinamento atmosferico in una zona pienamente centrale
7
I due film hanno molte affinità: pre-
sentati entrambi al Festival di Cannes, il ruolo
della città. Dopo la demolizione della raffineria la considerevole
principale è interpretato dallo stesso regista, edificazione tra via Q. Majorana e via Ricci Curbastro ha reso
e anche in questa seconda storia il nome del ancora più saturo il tessuto urbano del quartiere.
protagonista è Andrea, per sottolineare una
continuità tematica con Il Ferroviere. Nel film Bellissima, girato da Luchino Visconti nel 1951 8,
8
Oltre alla regia di Luchino Visconti, va ancora una volta su un soggetto di Cesare Zavattini, basato su
menzionato Francesco Rosi come aiuto regista,
la scenografia di Gianni Polidori e la fotografia
una storia realmente accaduta, viene narrata la vicenda di una
di Piero Portalupi e Paul Roman. popolana romana che, in risposta ad un concorso indetto da una
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 161

casa cinematografica per la ricerca di una giovanissima protago-


nista, propone sua figlia con insistenza sostenendola bellissima.
In realtà si tratta di una storia di cinema sul cinema che, negli
anni della rinascita dell’industria cinematografica di Cinecittà,
denuncia gli inganni e le illusioni del mondo della celluloide,
crudele e cinico anche nei confronti della sensibilità degli affetti

Fig. 5 – L’uomo di paglia, regia di Pie-


tro Germi (1958). Franca Bettoja presso
la Purfina nel suo lato verso via Oderisi
da Gubbio, come si intravede nella targa
toponomastica. Il passaggio di un mezzo
di trasporto della SCHELL conferma la
piena attività della raffineria e la com-
presenza nello stesso sito di costruzioni
residenziali e industriali

Fig. 6 – L’uomo di paglia, regia di Pietro


Germi (1958). Pietro Germi esce dalla
raffineria di petrolio della Purfina situa-
ta fino agli anni ’70 tra via Portuense,
via Q. Maiorana e la ferrovia Roma-Pisa

Fig. 7 – L’uomo di paglia, regia di


Pietro Germi (1958). Pietro Germi e
Franca Bettoja nei pressi del recinto del-
la Purfina. Si notano dietro due palaz-
zi costruiti su via Ulisse Dini in angolo
con via Grimaldi, ora occultati da altre
costruzioni realizzate ad angolo tra via
Oderisi da Gubbio e via Grimaldi
162 P. Di Nezio

materni; una condanna all’ambiente corrotto dello spettacolo


ed allo scarso rispetto dei sentimenti veri a fronte della finzione.
Visconti sceglie di girare la scena in cui Anna Magnani si
apparta con Walter Chiari lungo l’argine del fiume all’interno
di un ristorante ancora esistente sulla via Ostiense: il ‘Biondo
Tevere’; da questo punto di vista, nelle inquadrature dalla sponda
sinistra del fiume, si vede la riva opposta nella quale spiccano gli
ex Mulini Biondi, il Granaio dell’Urbe e la ex Fabbrica Mira-
Lanza, edifici isolati nel territorio ancora non compromesso dalla
costruzione dei fabbricati intensivi lungo viale Marconi che oggi
costituiscono una quinta muraria dietro gli elementi industriali
suddetti (Fig. 8).

Fig. 8 – Bellissima, regia di Luchino


Visconti (1951). L’inquadratura com-
prende Walter Chiari in riva sinistra
del Tevere con le strutture dell’Italgas
sulla destra. Sullo sfondo, in riva sini-
stra, il Granaio dell’Urbe, la fabbrica
Mira-Lanza e i Mulini Biondi

Europa ‘51 di Roberto Rossellini si avvale della magistrale


interpretazione di Ingrid Bergman alla sua seconda esperienza
cinematografica italiana 9. Si tratta del percorso interiore di una
donna dell’alta borghesia che – reduce dalla tragica esperienza del
suicidio del figlio – comprende l’inutilità del contesto familiare
e sociale in cui vive e si dedica totalmente alla cura dei poveri,
degli emarginati, prendendo le distanze da una società malata e
consacrando il resto dei suoi giorni alla sofferenza e all’espiazio-
9
Il film riceve il Premio Internazionale ne, fino ad essere internata, per volontà del marito, in una clinica
alla Mostra del Cinema di Venezia del 1952 e il
Nastro d’Argento alla Bergman come Migliore
psichiatrica, senza opporre alcuna resistenza. Dal punto di vista
Attrice Protagonista. tecnico Rossellini sceglie di girare la quasi totalità delle scene in
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 163

Fig. 11 – Europa ‘51, regia di Roberto


Rossellini (1952). Ponte Marconi in
costruzione e la basilica di San Paolo
fuori le mura visibile oltre il Tevere

Fig. 9 – Europa ‘51, regia di Roberto Rossellini (1952). La piana di Pietra Papa.
Al centro il Granaio dell’Urbe, sullo sfondo, oltre il fiume, il gazometro sulla sinistra
e le tramogge dell’Italgas sulla destra

Fig. 10 – Europa ‘51, regia di Rober-


to Rossellini (1952). Ingrid Bergman
nell’area dell’attuale lungotevere di Pietra
Papa vicino a Ponte Marconi. Sul retro
si notano le poche costruzioni attorno a
viale Marconi, oltre via Blaserna

un ambiente spoglio e asettico; con una luce abbagliante riprende


luoghi allora periferici e quasi deserti, nei quali spicca, ancora una
volta, il già citato Granaio dell’Urbe; la cinepresa è situata nella Piana
di Pietrapapa, quasi nello stesso punto del set di Ladri di biciclette, e,
con una panoramica allargata, l’inquadratura arriva a comprendere
il Gazometro sulla riva opposta del Tevere (Figg. 9-11).
164 P. Di Nezio

Fig. 12 – Gli italiani si voltano, di


Alberto Lattuada (1953). Dal percorso
in autobus si scorge tutto il carattere in-
dustriale dell’area presso viale Marconi.
Sono distinguibili sulla sinistra il fianco
ovest del Granaio dell’Urbe e, più dietro
oltre il Tevere, la facciata della Centrale
Montemartini

Fig. 14 – Gli italiani si voltano, di Alberto Lattuada (1953). L’edificio in angolo tra
piazza Meucci e Lungotevere degli Inventori è ancora isolato. Si vedono all’orizzonte
la Basilica di San Paolo fuori le mura e in fondo a destra la chiesa di Santa Maria
Regina degli Apostoli presso la Garbatella. Sulla terrazza del palazzo incombe l’insegna
‘Borzelli’, falegnameria non più attiva nella zona

Gli italiani si voltano di Alberto Lattuada fa parte di un film del


1953 suddiviso in sei episodi di altrettanti registi: L’amore in città,
nato da un’idea di Cesare Zavattini 10. Alternando storie di vita
sociale, passando dal drammatico alla commedia, il film analizza
il comportamento del maschio italiano nei confronti della visione
del corpo femminile, affrontando il tema in forma quasi docu-
Fig. 13 – Gli italiani si voltano, di mentaristica. L’episodio di Lattuada ci porta a scoprire, attraverso
Alberto Lattuada (1953). L’autobus n° un percorso in autobus11, alcuni edifici della zona ancora in parte
228, con capolinea alla Stazione di Tra-
stevere, mentre percorre piazza Meucci, industriale, tra i quali i Granai dell’Urbe (presso l’attuale lungote-
ancora priva di costruzioni, in direzione vere Gassman) già incontrato nei films sopradescritti (Fig. 12). Nei
Lungotevere degli Inventori fotogrammi finali viene ripresa un’immagine interessante dell’u-
nica palazzina presente nel 1953 sul lungotevere degli Inventori,
all’angolo con piazza Meucci (Fig. 13), prima che venga costruita
la lunga serie di edifici sul Lungotevere, si percepisce infatti sullo
10
Gli altri episodi sono diretti da Miche- sfondo la basilica di San Paolo fuori le mura (Fig. 14).
langelo Antonioni, Federico Fellini, Carlo Liz- Nel 1954, su un soggetto di Vitaliano Brancati, Luigi Zampa
zani, Francesco Maselli con Cesare Zavattini, e
Dino Risi. gira L’arte di arrangiarsi nel quale Alberto Sordi interpreta un
11
L’autobus è il n° 228 che, già dal 1952, personaggio a lui congeniale: l’opportunista che in ogni situa-
con capolinea a piazza Biondo (Stazione di
Trastevere) percorreva v. Oderisi da Gubbio, v. zione sociale o politica tira avanti nella vita quotidiana con mille
Pozzo Pantaleo, v. della Magliana, v. Portuense. inganni e stratagemmi, fino a improvvisarsi, con un accento
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 165

Fig. 15 – L’arte di arrangiarsi, di Lu-


igi Zampa (1954). Inquadratura in
‘campo lungo’ verso ponte Marconi con
le prime palazzine già completate. Viale
Marconi è quasi irriconoscibile, com-
pletamente sgombra, senza auto, senza
alberi, ne’ lampioni, con i cavi elettrici
sospesi su tralicci al centro della strada

Fig. 16 – L’arte di arrangiarsi, di Luigi


Zampa (1954). Nella stessa posizione
dell’inquadratura precedente, giran-
do la cinepresa verso la destra di viale
Marconi, le piccola quantità di case co-
struite consente un’ampia visione fino a
comprendere la sagoma del Gazometro

falsamente teutonico, venditore ambulante di lamette da barba 12


L’esatta posizione del set è al centro
tedesche. È la scena finale del film che ci mostra viale Marconi di viale Marconi all’altezza dall’attuale Largo
Bortolotti, con una inquadratura in ‘campo
com’era nel 1954 (Fig. 15). La cinepresa è posizionata fissa al lunghissimo’ verso ponte Marconi, le palazzine
centro della strada 12, si distinguono soltanto pochissime palaz- sulla sinistra sono già completate, mentre sulla
destra, nella rotazione della cinepresa, si scor-
zine in costruzione e, con un ‘piano-sequenza’ che fa ruotare la gono palazzi in costruzione fra i quali si vede
macchina da presa verso destra, mette in evidenza il gazometro, benissimo il gazometro. Nella carrellata indie-
tro della macchina da presa, prima della fine del
in una visuale oggi resa impossibile dalla quantità di edifici film, viale Marconi è completamente sgombra,
costruiti successivamente (Fig. 16). senza auto, senza lampioni, ne’ alberature.
166 P. Di Nezio

Per chi risiede nella zona di via Grimaldi-via Oderisi da


Gubbio, strade oggi completamente occultate dalle auto par-
cheggiate senza soluzione di continuità, sarà curioso rivedere nel
film Il Mattatore gli stessi luoghi sgombri da parcheggi e da un
invasivo arredo urbano, con l’asfalto delle strade appena fatto
(nessuna buca) e la sola presenza di due ‘apette’ a tre ruote davan-
ti ai negozi. Si tratta di un film a carattere episodico, girato da
Dino Risi nel 1960, con un Vittorio Gassman che si destreggia
tra truffe e piccoli imbrogli insieme ad altri ladruncoli del calibro
di Peppino De Filippo e Luigi Pavese (film di genere molto diffu-
so anche tra i registi più noti). La cinepresa per la scena del furto
a una gioielleria è posizionata in angolo tra via O. M. Corbino e
via A. Garbasso e le inquadrature arrivano a comprendere tutti gli
altri edifici, appena costruiti in quegli anni, fino a via Cardano.
Poco distante da questo sito incontriamo la periferia scelta
da Pier Paolo Pasolini per il suo primo film Accattone del 1961.
È una storia appartenente al sottoproletariato romano visto nella
sua purezza espressiva, girato con attori non professionisti, con
un uso attento del dialetto non filtrato dalla lingua letteraria.
Accattone vive di sfruttamento della prostituzione e appartiene
al mondo dei vinti, protagonisti senza speranza di riscatto da una
esistenza condotta esclusivamente con l’obiettivo della sopravvi-
venza, nella quale l’unica via di redenzione è rappresentata dalla
morte. Il film è altamente innovativo dal punto di vista tecni-
co per il linguaggio cinematografico con il quale Pasolini crea
un’atmosfera altamente drammatica mediante un forte contrasto
nell’uso del bianco e nero. Un montaggio lento e prolungato,
inquadrature fisse, soprattutto nei primi piani, ispirate all’icono-
grafia classica masaccesca, e l’uso del sonoro, nel quale irrompe
spesso la Passione secondo San Matteo di Bach, determinano quel-
la forte carica drammatica che contraddistingue anche i films
successivi del regista 13.
È girato tutto in zone fuoriporta, in quella periferia che il
13 regista definiva «la corona di spine che cinge la città di Dio»; il
Pasolini si avvale del giovane Bernardo
Bertolucci come aiuto regista. Il film avrebbe set più utilizzato è al Pigneto, ma in più occasioni viene ripresa la
dovuto essere prodotto da Federico Fellini che si zona di via Portuense (Fig. 17), dove la strada viene sormontata
sottrasse all’impegno spaventato dall’inesperien-
za di Pasolini, la produzione venne quindi affi- con un cavalcavia costituito da via Quirino Majorana, in uno
data ad Alfredo Bini. Alla prima al cinema Bar- slargo antistante un vecchio oleificio poi trasformato in casa di
berini grandi contestazioni determinarono un
interruzione di un’ora sulla proiezione; è il primo
riposo per anziani (‘Casa Vittoria’). Altre inquadrature riguarda-
film italiano vietato ai minori di diciotto anni. no piazza della Radio, in ‘campo lungo’ fino a comprendere sul
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 167

Fig. 17 – Accattone, di Pier Paolo


Pasolini (1961). Via Portuense nel suo
tratto dopo piazza della Radio, presso
l’attuale ‘Casa Vittoria’ Si nota sulla
sinistra, in alto, via Quirino Majorana

Fig. 18 – Accattone, di Pier Paolo Pasolini (1961). Piazza della Radio. Sullo
sfondo, in direzione di via Pacinotti, si vedono i Mulini Biondi

Fig. 19 – Accattone, di Pier Paolo


Pasolini (1961). Tracce di un vigneto
sulla collina di Vigna Pia. Sulla destra
si vedono le ciminiere della Purfina e
sulla sinistra il complesso del San Ca-
millo Forlanini; sul fondo lo sky line
di Monteverde

fondo i Mulini Biondi (Fig. 18), e l’ex Purfina (Fig 19).


Io la conoscevo bene, un film del 1965 di Antonio Pietrangeli 14
Il film vince due Nastri d’Argento per
(anche sceneggiatore insieme a Ettore Scola), vede Stefania la regia e la sceneggiatura e un terzo a Ugo
Sandrelli nel suo primo ruolo da protagonista e un cast di attori Tognazzi, miglior attore non protagonista.
Affiancano la Sandrelli: Nino Manfredi, Ugo
incredibilmente ricco 14. È un ritratto incisivo e pungente dell’Italia Tognazzi, Enrico Maria Salerno, Mario Adorf,
degli anni ’60, con le illusioni e le speranze confuse che gravitano Franco Fabrizi, Turi Ferro e Franco Nero.
168 P. Di Nezio

Fig. 20 – Io la conoscevo bene, di


Antonio Pietrangeli (1965). La zona
industriale dell’Ostiense vista dalla casa
di Adriana/Stefania Sandrelli. Oltre
Ponte Testaccio, Ponte San Paolo e Pon-
te dell'Industria, si nota il livello alto
del serbatoio del Gazometro ancora in
funzione

Fig. 21 – Io la conoscevo bene, di An-


tonio Pietrangeli (1965). Via Luca Va-
lerio. Il garage in cui entra la 500 FIAT,
guidata dalla Sandrelli
attorno al mondo del cinema e dello spettacolo. Nelle vicende
che si susseguono – accompagnate da dischi a 45 giri con i successi
di Mina che la protagonista cambia come le parrucche che indossa
ad ogni avventuretta – si legge un senso di critica esteso all’ambien-
te superficiale e a volte volgare degli imprenditori improvvisati,
quell’ ‘italietta’ del boom economico, priva di cultura di fondo e
15
di valori morali 15.
Il tema delle illusioni gravitanti attorno
al mondo del cinema – in quegli anni e ancora
A conclusione del film un lungo piano sequenza ci mostra
oggi la prima industria a Roma – rimanda alle la protagonista, Adriana, che percorre strade libere e senza traf-
stesse atmosfere dei film di Fellini: La Dolce vita”
sempre ambientato in città, 8 e ½, o ancora al già
fico, partendo dal centro per dirigersi nella zona che stiamo
citato Bellissima di Visconti. analizzando (Fig. 20). Mentre verificavo i luoghi percorsi nella
16
Si tratta di una ripresa di due luoghi lunga passeggiata della protagonista a bordo di una 500 FIAT, ho
diversi e distanti fra loro: l’abitazione di Adria-
na, interpretata dalla Sandrelli, è in realtà sullo bloccato la scena con un ‘fermimmagine’ per constatare una strana
stesso lato destro del lungotevere, ma di fronte coincidenza: la rampa nella quale la Sandrelli scende per rientrare
a Ponte Testaccio, mentre il garage, che nella
storia dovrebbe essere nello stesso edificio, è
a casa16 è il garage dell’edificio in cui abito, un complesso situato
invece in via Luca Valerio. tra lungotevere Pietrapapa e via Luca Valerio (Fig. 21). La casualità
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 169

della scoperta mi ha portato a riflettere sulla datazione dell’edifi-


cio che credevo del 1967, mentre il film è del ’65; a volte il potere
documentario del cinema non si ferma a dati puramente artistici,
ma può essere anche utilizzato a fini scientifici.
Nel gioco degli ‘inganni’ del cinema questo salto di inqua-
drature tra luoghi differenti viene utilizzato spesso tra esterno e
interno di un edificio che non necessariamente appartengono
allo stesso elemento. È il caso di una delle strutture più utilizzate
come set per film a tema carcerario: l’Istituto Vigna Pia in via
Nicola Pellati, in fondo a via di Vigna Pia al Portuense. Il manu-
fatto domina dall’alto la valle del Tevere, in corrispondenza di
via Belluzzo e via della Magliana. Nato come scuola di agraria e
divenuto riformatorio al tempo di Pio IX, è caratterizzato al suo
interno da un ampio salone a tutta altezza sul quale si affacciano
due livelli di ballatoi per l’accesso alle celle. La similitudine tipo-
logica con i bracci del carcere romano di Regina Coeli ne ha fatto
uno dei set preferiti per molti films17 con scene di detenzione, nei
quali l’interno di questo salone corrisponde alle immagini esterne
del vero carcere di Regina Coeli visto dalla terrazza del Gianicolo.
Spingendoci verso ovest nel territorio dell’undicesimo munici-
pio riscontriamo locations cinematografiche in zone che ancora oggi
mantengono l’aspetto paesaggistico della periferia, senza essere state 17
All’interno dell’Istituto Vigna Pia ven-
inglobate nella morsa di cemento dell’espansione urbana. Parliamo gono girati molti films tra i quali: Il bigamo, L.
della zona del Trullo, tra Monte delle Capre e Montecucco, dove Emmer ’55; Ladro lui, ladra lei, L. Zampa ’58;
Nella città l’inferno, R. Castellani ’59; La marcia
si aggirano Totò e Ninetto Davoli, padre e figlio nelle scene di su Roma, D. Risi ’62; Le quattro giornate di Na-
Uccellacci e uccellini, un film di Pier Paolo Pasolini del 196618. È poli, N. Loy, ’62; Operazione San Gennaro, D.
Risi ’66; Confessione di un commissario di polizia
una storia allegorica nella quale un corvo parlante, rappresentante al procuratore della Repubblica, D. Damiani, ’71.
un intellettuale incontrato dai due lungo il cammino, espone le 18
Assistente alla regia è un giovanissimo
problematiche della sinistra negli anni del dibattito ideologico alla Vincenzo Cerami, la colonna sonora è di Ennio
Morricone.
ricerca di un incontro tra fede marxista e cristianesimo19. 19
«Totò e Ninetto rappresentano gli ita-
L’estrema povertà che si presenta agli occhi di Totò e Ninetto è liani innocenti che sono intorno a noi, che sono
coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il
raffigurata dalle scene che si svolgono presso il casale Kock (Fig. 22), primo jota di coscienza: questo quando incon-
manufatto agricolo del 1607 oggi diruto, nel quale i due si recano trano il marxismo nelle sembianze del corvo».
Pier Paolo Pasolini, Capolavori italiani, 1995.
(questa volta uccellacci) a pretendere l’affitto da una donna che 20
La torre, costruita su resti di epoca
non ha di che sfamare i propri figli. L’inquadratura che rivela mag- romana e riutilizzata come cisterna, è una co-
giormente il contesto in cui si svolge la storia è quella ambientata struzione di forma circolare che sormonta un
basamento anch’esso circolare in tufo e lateri-
sull’altura di Montecucco, con la cosiddetta Torre di Papa Leone zio, venne trasformata in casino di caccia dal
(Fig. 23) che campeggia sulla collina erbosa20. L’ampia panora- banchiere Righetti che fece affiggere sul ma-
nufatto una targa che cita: «Fui luogo ignoto e
mica successiva riprende i due attori in un campo arato presso inospito. E s’or rallegro e incanto ha di Rigetti
la torre, in un’immagine quasi metaforica: oltre l’orizzonte del il vanto, l’arte, l’ingegno e l’or».
170 P. Di Nezio

Fig. 22 – Uccellacci e uccellini, di Pier


Paolo Pasolini (1966). Il casale Kock,
costruito sulla collina di Montecucco
presso il Trullo

Fig. 23 – Uccellacci e uccellini, di Pier Paolo Pasolini (1966). Totò e Ninetto


Davoli davanti alla Torre di Papa Leone sulla collina di Montecucco

Fig. 24 – Uccellacci e uccellini, di Pier


Paolo Pasolini (1966). Totò e Ninetto
Davoli in una inquadratura in ‘campo
lunghissimo’ con il palazzo della Civil-
tà Italiana sulla sinistra e la chiesa dei
Santi Pietro e Paolo sulla destra

colle altri simboli della modernità si confrontano con l’antica


torre cilindrica, l’inquadratura si apre a comprendere, in direzio-
ne dell’EUR, le metafisiche forme della chiesa dei Santi Pietro
e Paolo e del Palazzo della Civiltà Italiana (Fig. 24). Le nuove
architetture a confronto con le vecchie sembrano suggerire che
anche le ideologie devono tener conto della modernità.
Proseguiamo questo percorso tra i set cinematografici del
Municipio XI con il Corviale, il complesso situato in via Poggio
Verde, presso la via Portuense. Quello che comunemente i roma-
ni chiamano il ‘Serpentone’ è stato costruito nel 1972 su pro-
getto dell’architetto Mario Fiorentino per l’ATER, ex ‘Istituto
Autonomo Case Popolari’. Nei programmi di progetto avrebbe
dovuto costituire una nuova tipologia di sviluppo abitativo in
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 171

contrasto con la parcellizzazione sparsa sul territorio, per concen-


trare in un unico elemento i 1200 appartamenti affacciati sulla
campagna romana. Le unità abitative sono allineate in due ‘stec-
che’ affiancate per la lunghezza di un chilometro, intervallate da
corpi scala, ballatoi e spazi comuni; un corpo più basso disposto
planimetricamente a 45°, contenente sempre abitazioni, avrebbe
dovuto essere integrato, anche a livello architettonico, da vari
servizi di quartiere, laboratori artigianali, strutture commerciali e
culturali, ma di essi è stato realizzato all’origine solo un anfiteatro
all’aperto; è chiaro quindi che il complesso deve il suo insuccesso
anche all’incompletezza della realizzazione.
A dieci anni dalla costruzione del Corviale è il cinema a
occuparsi di questo edificio che nel 1983 compare in Sfrattato
cerca casa equo canone, storia, purtroppo non nuova, della truffa
ai danni di una famiglia alla ricerca di un alloggio. Il protagonista
è un sarto in cassa integrazione che deve rilasciare una ‘mazzetta’
per essere inserito fra gli aventi diritto ad un alloggio a canone
agevolato e l’appartamento è nel lungo edificio del Corviale.
La truffa avviene proprio davanti ad una grande planimetria
del piano tipo del ‘Serpentone’ affissa alla parete e il protago-
nista viene invitato a scegliere il suo appartamento (Fig. 25).

Fig. 25 – Sfrattato cerca casa equo


canone, di Pier Francesco Pingitore
(1983). Pippo franco e Gigi Reder nella
scena della scelta dell'appartamento da-
vanti ad una planimetria del piano-tipo
del complesso del Corviale

Naturalmente scoprirà, troppo tardi, che la stessa soluzione era


stata proposta ad altri malcapitati e l’unica alternativa, è la casa 21
Il film di Pier Francesco Pingitore è
del custode di un cimitero 21. ispirato al più riuscito Totò cerca casa.
22
La regia è di Riccardo Milani, i pro-
Il complesso del Corviale è presente anche in un film più tagonisti sono Paola Cortellesi, Raoul Bova,
recente: Scusate se esisto 22 (2014), nel quale una donna di origine Lunetta Savino, Marco Bocci.
172 P. Di Nezio

abruzzese decide di lasciare il suo studio di architetto a Londra


per tornare in Italia e proporsi come progettista per la riqualifica-
zione dell’edificio residenziale presso la via Portuense. Riuscirà a
far accettare la sua proposta per la realizzazione di un percorso verde
lungo la terrazza – che corre a mezza altezza per tutto l’edificio –
soltanto spacciandosi per un uomo (Figg. 26-28).
Con chiari riferimenti al maschilismo, e più velati rimandi
alle problematiche della cementificazione selvaggia, il film sem-
bra sostenere che anche il ‘Serpentone’, al pari del trasformismo
della protagonista, potrebbe essere suscettibile di cambiamenti in
grado di ribaltarne la percezione e la fruibilità effettiva.
Scrivilo sui muri di G. Scarchilli ci introduce nel colorato
mondo dei writers che, nelle loro scorribande notturne impron-
tate alla disobbedienza civile e generazionale, esprimono la loro
creatività su ogni cosa, primi fra tutti i luoghi industriali già
incontrati nei films precedentemente descritti: Mulini Biondi,
fabbrica Mira-Lanza e altri siti. Il film è del 2007 e da lì a qualche
anno la street art avrebbe invaso il quartiere connotando artisti-
camente molti edifici industriali, creando un notevole interesse
intorno a tutta l’area dell’ex porto fluviale.
Anche i registi di ultima generazione non sfuggono alla ten-
denza alla ricerca di luoghi diversi dal consueto contesto urbano,
allontanandosi progressivamente in zone sempre più periferiche
della città. È il caso delle Cave della Magliana 23 nelle quali nel
2010 vengono girate le scene di deserto del film di Aureliano
Amadei 20 sigarette, tratto dal romanzo 20 sigarette a Nassirya
dello stesso Amadei, coinvolto nell’attentato del 2003 in Iraq.
Lo stesso luogo, scelto per il suo aspetto arido, vede Massimo
Lopez come il memorabile condannato a morte che fa un’ultima
telefonata all’interno di un fortino della Legione Straniera, nello
spot di Alessandro D’Alatri per la campagna Sip-Telecom 24.
Perfino l’ultimo remake di Ben hur, nelle sale cinematografiche
a partire dall’agosto 2016 con la regia di Timur Bekmambetov,
23
In realtà le cave della Magliana erano
viene ambientato per gli esterni nelle ex cave della Magliana.
già state utilizzate da molti registi come set di Vorrei concludere questo ‘itinerario’ sui luoghi del cinema del
films di genere western.
24 Municipio XI rilevando che uno degli edifici più inquadrati dalle
Lo spot ‘Una telefonata allunga la
vita’, girato nel 1993, ha vinto molti premi tra cineprese dei registi italiani più autorevoli è il Granaio dell’Urbe
i quali il premio per la miglior regia al Festival situato tra via E. Fermi, lungotevere Gassman e via Blaserna.
Internazionale della pubblicità di Cannes, la
Targa d’argento della comunicazione, l’Agorà
Si tratta di un magazzino per il grano, progettato dall’ing.
d’oro e il Grand Prix Pubblicità Italiana. Tullio Passarelli e costruito nel 1936, dove successivamente ha
Scene da un municipio. Il territorio portuense nel cinema 173

trovato collocazione la cosiddetta ‘Città del gusto’ con la catena


di ristorazione Gambero Rosso e relativo canale televisivo. In
questa nuova sistemazione (anche se discutibile dal punto di
vista architettonico) erano ubicate, al margine dell’ampia piazza,
strutture commerciali e di servizio al quartiere e soprattutto una
multisala cinematografica (UCI Cinema).
Per uno strano scherzo del destino, all’interno di un edi-
ficio molto presente in diverse pellicole d’autore, era tornato
l’argomento ‘cinema’, questa volta a gran forza con ben sette
sale cinematografiche. Ebbene tutto questo non ci sarà più, uno
dei pochi servizi culturali all’interno del quartiere sta per essere
demolito. In virtù di un ‘Piano Casa’ il grande granaio diverrà
un contenitore di miniappartamenti, la piazza sarà occupata da
un altro enorme edificio a carattere residenziale e anche il cinema
sarà distrutto e sostituito da ulteriori abitazioni.
Ci resteranno le riprese cinematografiche sopradescritte a
testimoniare la validità di questi luoghi, aggrediti dalla sconsi-
derata cementificazione che, in un tessuto già intensivo, sta per
saturare anche quest’ultimo frammento di territorio.

Fig. 26 – Scusate se esisto, di Riccar-


do Milani (2014). Paola Cortellesi nei
panni di ‘Serena Bruno’ illustra il pro-
getto di riqualificazione del ‘Corviale’
Figg. 27-28 – Scusate se esisto, di Riccardo Milani (2014). Paola Cortellesi sul set del film, in largo Tabacchi, uno dei cinque
varchi di ingresso al Corviale

Fig. 29 – Individuazione planimetrica delle posi-


zioni dei set cinematografici nel quartiere Marconi
e dintorni:

1 - Ladri di Biciclette, di Vittorio de Sica (1948)


2 - Il Ferroviere, di Pietro Germi (1956)
3 - L’uomo di paglia, di Pietro Germi (1958)
4 - Bellissima, di Luchino Visconti (1951)
5 - Europa 51, di Roberto Rossellini (1952)
6 - Gli italiani si voltano, di Alberto Lattuada
(1953)
7 - Accattone, di Pier Paolo Pasolini (1961)
8 - Il Mattatore, di Dino Risi (1960)
9 - Io la conoscevo bene, di Antonio Pietrangeli
(1965)
Con lui il municipio ha una marcia in più
A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich, il più grande marciatore
italiano di tutti i tempi

Guido Dell’Aquila

Se incontrate un gagliardo signore di 83 anni che si allena


sulla pista pedonale di via Frattini, a Villa Bonelli, e non riu-
scite a stargli dietro, non vi avvilite troppo. Non è che state
crollando fisicamente. Avete solo incontrato il più grande mar-
ciatore che l’atletica italiana abbia mai avuto: Abdon Pamich,
da Fiume, nato nel 1933 quando la città della costa liburnica
era ancora italiana. Per i più giovani qualche numero che aiuta
a inquadrarne la statura. Una medaglia d’oro olimpica a Tokyo Fig. 1 – Abdon Pamich, con il nume-
nel 1964. Una medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Roma nel ro 279 a Belgrado nel 1962, impegnato
nella gara vittoriosa con la quale si è ag-
1960. Recordman mondiale della 50 chilometri di marcia nel giudicato per la prima volta il titolo di
1961. Due titoli di campione d’Europa (Fig. 1). Quaranta – si Campione Europeo di marcia sui 50 Km
176 G. Dell’Aquila

avete letto bene, quaranta – titoli di campione italiano nelle varie


specialità della marcia, tra il 1955 e il 1971. Un’infinità di altri
successi sulle strade di tutto il mondo che non sarebbe neanche
possibile elencare per intero. Da mezzo secolo Abdon Pamich è
anche un cittadino del Municipio XI (ex XV). Ha messo le radici
a Villa Bonelli nel 1967 dopo aver attraversato una guerra, dopo
aver visto la propria città natale cambiare Patria, dopo aver fatto
– adolescente – il migrante per mezz’Italia, con la famiglia fram-
mentata logisticamente ma salda e unita dall’affetto reciproco e
dall’orgoglio di appartenenza. E mentre parla con tono fermo e
cortese nella sua bella casa di via Antonio Mosto ti sorprendi a
chiederti se questo anziano signore sia stato più campione nello
sport o più campione nella vita (Fig. 2). Il suo è un racconto che
colpisce. E che a tratti commuove. Ma che sa anche ironizzare e
divertire. è un racconto stimolato da molte domande ma che vale
la pena raccogliere così, tutto d’un fiato, direttamente dalla sua
viva voce. La voce del signore della marcia.

Fig. 2 – Alla scrivania con alle spalle il


certificato dell’oro olimpico conquistato
a Tokio nel 1964
Andavo alle elementari quando nella mia vita ha fatto irru-
zione la guerra. Ricordo soprattutto i bombardamenti. All’inizio
c’era più preoccupazione che rischio reale. L’Italia aveva invaso
la Jugoslavia e ci dicevano di sfollare da Fiume perché lì eravamo
in prima linea. E invece non è successo niente di particolarmen-
te grave (Figg. 3-4). Il brutto è arrivato dopo l’8 settembre del
’43, quando si è accesa la speranza che fosse tutto finito e invece
quello era proprio il momento in cui tutto cominciava. I tedeschi
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 177

Fig. 3 – Uno scorcio della città di Fiume


in una cartolina del 1943

Fig. 4 – Il ponte sull’Eneo che tra le due


guerre mondiali ha rappresentato il con-
fine tra la Fiume italiana e la Fiume
jugoslava, in una cartolina del 1928
in ritirata dal resto del paese hanno presto occupato il Nord
Italia. Tutta la nostra zona, il Carnaro, la Dalmazia, era invasa
dalle truppe di Hitler. E poi sono arrivati i bombardamenti veri.
Quante bombe! Io facevo la quinta, avevo dieci anni. A ogni
allarme correvamo tutti con la mamma verso i rifugi. Per fortuna
avevamo ricoveri seri, scavati nella roccia del Carso, indistrut-
tibili. Se la sirena ci coglieva mentre eravamo in giro, ognuno
correva per sé e ci ritrovavamo tutti lì. Il giorno che ci hanno
bombardato casa, come per istinto, per presentimento, siamo
schizzati tutti fuori dal rifugio e siamo corsi a vedere. E infatti
l’abbiamo trovata distrutta. Era saltato tutto l’ultimo piano. Sul
178 G. Dell’Aquila

pavimento ricordo un tappeto di vetri e cristalli. Abbiamo dovu-


to abbandonarla (Fig. 5). Siamo stati più di un anno ospiti della
nonna Giuliana. Poi la guerra è finita ed è arrivata la grande ama-
rezza del passaggio sotto il controllo jugoslavo. Di quel periodo
ricordo le truppe dei soldati di Tito vestiti nei modi più diversi
e più improbabili. I loro modi autoritari e sprezzanti. Entravano
Fig. 5 – La vecchia casa fiumana dei
nelle case, prendevano quello che volevano e se c’era dello spazio
Pamich in viale delle Camicie Nere, 32 libero lo occupavano. Sono flash, sono ricordi di ragazzo. Mi ha
impressionato in modo particolare vedere i soldati di Tito che
scortavano colonne di prigionieri tedeschi. Erano soldati della
Wehrmacht con le divise tutte stracciate, mezzi spogliati. Ricordo
che un prigioniero, ferito, che non riusciva a camminare, a un
certo momento è caduto a terra. Una donna, intuendo quanto
sarebbe successo di lì a poco, si è lanciata verso di lui gridando
«me ne occupo io». È stata allontanata a colpi di calcio di fucile.
Al prigioniero ancora lì a terra hanno sparato alla nuca, davanti
a tutti. Quei soldati tedeschi sono rimasti poi lì a lungo. Non gli
è stato consentito di andare via subito dopo la guerra. Li hanno
tenuti lì fino quasi al 1950.
Il dramma per la nostra popolazione non è stato tanto il non
essere più sotto il controllo italiano. Quanto piuttosto quello di
passare sotto un regime autoritario che avrebbe poi annientato
qualsiasi aspirazione di autonomia. Perché c’è da considerare
che Fiume era una città cosmopolita. Nei secoli avevamo avuto
il dominio dell’Austria, dell’Ungheria, di Napoleone, ma anche
sotto di loro avevamo sempre conservato una certa autonomia.

Fig. 6 – Barricate nella città di Fiume


durante i moti irredentisti del dicembre
1920
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 179

Con un editto Maria Antonietta aveva dichiarato Fiume «Corpus


separatum» dell’impero delle due corone. La città aveva libertà
di commercio e tante altre particolarità. Anche all’epoca di quel
pasticcio degli accordi di Parigi dopo la prima guerra mondiale
e dei moti irredentisti di D’Annunzio (Fig. 6), la popolazione
in un referendum aveva votato quasi all’unanimità per lo stato
indipendente. Avevamo uno degli otto porti più importanti d’Eu-
ropa. Vivevamo tutti assieme, croati, sloveni, tedeschi, boemi.
Convivevano in pace tutte le religioni. Da noi non c’era il ghetto,
gli ebrei vivevano nei nostri pianerottoli e non c’è mai stato alcun
problema. Questo per dire della mentalità dei fiumani, aperti al
mondo (Fig. 7). Anche il fascismo si era dovuto adeguare all’ani-
mo della città. Da noi era un fascismo un po’ sui generis. Non
abbiamo avvertito l’oppressione che c’è stata nel resto del paese. Fig. 7 – Galea Veneziana in un fran-
Dicevano che il fascismo avrebbe italianizzato i cognomi ma da cobollo emesso il 23/3/1924 con la di-
citura POSTE DI FIUME. La città
noi non l’hanno mai fatto. Mio padre non si è mai iscritto al fu denominata ‘Stato libero di Fiume’
partito fascista ma nessuno gli ha mai detto niente, non ci sono dal 1920 al 1924, fu poi italiana dal
state le repressioni e le violenze scatenate invece altrove. In quel 1924 al 1947 (capoluogo dell’omonima
provincia), dal 1947 al 1991 fece parte
1945, se non ci fosse stato quel regime comunista nessuno se ne della Jugoslavia; è croata dal 1991
sarebbe andato, saremmo rimasti lì a convivere con gli stati vicini
dentro la nostra sfera di autonomia. E invece improvvisamente ci
hanno estirpato tutto. A cominciare dalla lingua. Prima un anno
di finto bilinguismo, poi neanche quello, solo la lingua slava.
E poi le epurazioni e il terrore. I primi a essere portati via sono
stati gli autonomisti, gli intellettuali, gli insegnanti, poi i preti,
i parroci. Sparivano e non si sapeva dove finissero. Possiamo
immaginarlo ora. Delle foibe abbiamo saputo solo tanto tempo
dopo. Mio padre era il direttore di una società multinazionale
quando siamo passati sotto il controllo della Jugoslavia. Loro
hanno nazionalizzato tutto e gli hanno dato l’incarico di accorpa-
re le grandi imprese edili in un’unica azienda nazionale. Doveva
fare inventari e bilanci. Usciva di casa alle 6 di mattina e rinca-
sava a mezzanotte. Avevamo paura che gli accadesse qualcosa di
brutto, che non tornasse più. Nonostante lavorasse tante ore al
giorno gli imponevano ritmi sempre più stretti, sempre più serrati
e un giorno gli hanno detto chiaro e tondo che se non ce la faceva
a stare al passo con le esigenze nazionali avrebbe fatto meglio ad
andarsene via. E non era neanche una minaccia, era un consiglio
di chi voleva evitargli l’etichetta di reazionario, di affamatore del
popolo, perché quelle erano le accuse di allora. Insomma rischiava
180 G. Dell’Aquila

di avere guai seri. E allora ha deciso di andarsene. Ha pensato


subito a Milano, perché lì era stato spesso prima della guerra e
aveva aiutato diverse persone, quindi sperava di trovare ricono-
scenza e aiuto. Ma non li ha avuti. In particolare il direttore della
filiale di Milano, che era stato nominato proprio da mio padre,
gli ha voltato le spalle. Sono stati tempi molto duri. Dopo mesi
senza alcun sostegno, mia madre non ce la faceva più. Un giorno
ha detto a mio fratello più grande, Giovanni (fu battezzato col
nome di mio padre, allora si usava) e a me che gli rendevo un
anno, di raggiungere il babbo. Lei sarebbe restata con i nostri
fratelli più piccoli. La nostra fuga da Fiume è stata rocambole-
sca. Era una bella giornata calda di ottobre. Dopo aver passato
la mattinata al mare, facendo anche il bagno, abbiamo deciso di
varcare clandestinamente il confine. Mia madre e gli altri due
fratelli più piccoli avrebbero aspettato tempi migliori e le neces-
sarie autorizzazioni. Nel pomeriggio Giovanni e io, così come ci
trovavamo, senza bagagli e in maglietta e calzoncini, siamo saliti
sul treno per San Pietro del Carso (Fig. 8). Lì avremmo dovuto

Fig. 8 – Il centro abitato di San Pie-


tro del Carso in una foto d’epoca. La
cittadina (in sloveno Pivka, prima del
1918 Sv. Peter na Kranjskemo, Šemp-
eter na Krasu, in tedesco Sankt Peter in
Krain) dopo la prima guerra mondiale
passò, come tutta la Venezia Giulia, al
Regno d'Italia; dopo la seconda guerra
mondiale passò alla Jugoslavia; è oggi un
comune di 5.958 abitanti della Slovenia
sud-occidentale
proseguire per Trieste, ma il convoglio è stato diviso in due tron-
coni. Noi così a caso abbiamo scelto quello sbagliato che ci stava
per riportare indietro verso Fiume. Quando ce ne siamo accorti
ci si è gelato il sangue. Siamo scesi alla prima fermata e abbiamo
ripercorso a ritroso di corsa lungo i binari i cinque chilometri
verso San Pietro del Carso. Cinque chilometri col cuore in gola.
Ma lo spezzone di treno che andava a Trieste era già partito e
abbiamo dovuto aspettare la sera. Sul Carso la temperatura era
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 181

Fig. 9 – Il centro abitato di Divaccia in


una foto del periodo italiano. La cittadi-
na (in sloveno Divača, in tedesco Waa-
tsche o Divazza) ha seguito sorti ana-
loghe a quelle di San Pietro del Carso
ed oggi è un comune di 3.889 abitanti
della Slovenia sud-occidentale

rigida, nulla a che vedere con il clima temperato di Fiume. Con


i vestiti del mare abbiamo preso tutto il freddo del mondo. Un
calvario. E non era neanche finita lì. Siamo arrivati in treno fino
alla frontiera di Divaccia (Fig. 9). Pensavamo di poter sgusciare
fuori in qualche modo per arrivare a Trieste. Siamo andati anche
al commissariato a chiedere un permesso che ci è stato negato.
Allora ci siamo aggregati a dei triestini che stavano tornando dalla
Dalmazia dov’erano stati a cercare notizie di loro parenti scom-
parsi. Li abbiamo seguiti fino alla stazione (Fig. 10). Il personale
ci ha chiuso tutti a chiave nella sala d’aspetto. Chiamavano loro
i passeggeri e li facevano salire sul treno sulla base della lista che

Fig. 10 – La stazione ferroviaria di Di-


vaccia - San Canziano posta sulla linea
da Vienna a Trieste
182 G. Dell’Aquila

avevano in mano. Quando hanno visto Giovanni e me ci hanno


chiesto il nome. Abbiamo inventato lì sul posto due nomi di
fantasia e mentre loro controllavano la lista noi siamo filati via e
siamo saliti in carrozza. Una coppia di triestini ha capito al volo
la situazione e letteralmente ci ha salvato. Ci hanno fatto pas-
sare per loro figli. Arrivati a Trieste ci hanno poi accompagnato
al Silos, un centro di rifugiati, e ci hanno dato anche 500 lire
che all’epoca erano una somma importante. Così emozionati e
scombussolati, né io né mio fratello abbiamo pensato di chiedere
i loro nomi. Avrei tanto voluto rintracciarli, ringraziarli, abbrac-
ciarli ma non è mai stato possibile. Li ho portati nel cuore tutta
la vita. E li penso ancora spesso.
Al campo profughi di Trieste ci hanno dato un foglio di via
fino a Milano. Lì abbiamo scoperto la situazione di papà, che
non aveva trovato ciò che sperava. Il suo domicilio era una stan-
za che aveva affittato presso una famiglia, per risparmiare. Non
poteva ospitarci. Allora ci hanno portato in un campo profughi
di Udine e di lì ci hanno smistato a Novara. Gli smistamen-
ti erano casuali, avremmo potuto essere mandati ovunque, a
Chiavari, a Monfalcone, a Brindisi, e invece ci hanno mandato
a Novara dove siamo rimasti un anno. Siamo anche andati a
scuola, dopo aver saltato il primo trimestre. Mio fratello era
arrivato al primo liceo. A me hanno trovato un posto per il corso
da geometra. Fosse stato per me neanche ci sarei andato a scuo-
la, ma mio fratello era serio e scrupoloso e così per mia fortuna
sono stato costretto a studiare. Finito l’anno scolastico siamo
andati a Genova dove mio padre aveva finalmente trovato lavoro.
Mamma Irene con Raoul e Irma ci hanno raggiunto qualche mese
più tardi. È stata una vera gioia ritrovarci dopo tanto tempo di
nuovo tutti insieme. Siamo stati una famiglia divisa dagli eventi
ma molto unita negli affetti. Mio padre era un uomo di una cor-
rettezza esemplare. Non parlava molto ma ci insegnava tante cose
attraverso i comportamenti. Mia madre si occupava di noi figli.
Lavorava tanto in casa. Non era molto espansiva e io ero anche
un po’ geloso di mio fratello Giovanni che come primogenito
mi sembrava ricevesse più attenzioni di me. Ma sono dinamiche
comuni a quasi tutte le famiglie, ci siamo amati molto l’uno con
l’altro. Ero geloso di Giovanni, ma con lui ho avuto un rapporto
speciale. Stavamo sempre insieme. Facevamo le marachelle insie-
me. Rubavamo la frutta dall’orto di mio nonno che poverino
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 183

non è mai riuscito a vedere le pesche mature. Gliele mangiavamo


noi tutte prima. Ci stavano anche antipatici i bambini bene, un
po’ viziati. Una volta a un bambino antipaticissimo vestito come
un figurino (la mamma lo chiamava ‘oro mio’) abbiamo fatto un
gavettone colossale. Oggi lo chiamerebbero un atto di bullismo
ma all’epoca eravamo così. Altre volte è toccato a noi subire gli
scherzi degli amici. Alla fine del ’51 abbiamo anche provato ad
emigrare in Australia. È stato un tentativo molto sfortunato
durante il quale non solo non abbiamo trovato il nuovo mondo,
ma ci siamo imbattuti negli intrallazzi della burocrazia e nel
malaffare. Il centro di smistamento verso l’Australia, il Canada
e gli Stati Uniti era a Bagnoli, in Campania. Il personale ci ha
sottoposto tutti e sei a visita medica. A me hanno diagnosticato
un soffio al cuore e a mio padre, che aveva un dente devitalizza-
to, hanno detto che avrebbe dovuto sostituirlo con un impianto
nuovo. Ci hanno dato il nome di due specialisti, un cardiologo
e un dentista, ovviamente a pagamento e altrettanto ovviamente
loro compari. Alla fine mio padre ha fatto anche questo. Ma il
dentista – ammesso che lo fosse davvero – lo ha massacrato. Gli
ha assassinato la bocca. Al termine ci hanno detto che solo io e
mio fratello Giovanni saremmo potuti partire. Gli altri sareb-
bero dovuti tornare a casa.Tutti scartati. Li abbiamo mandati a
quel paese e siamo tornati tutti e sei a Genova dopo aver speso
un sacco di soldi in biglietti ferroviari e visite mediche. Io sono
rimasto scombussolato per qualche tempo. Ma come, mi dicevo,
faccio tutto, nuoto, gioco al calcio, corro, e mi dicono che ho il
soffio al cuore? La confusione è durata qualche giorno, poi sono
tornato a fare tutto quello che facevo prima.
Questa condizione di migrante però me la porto ancora
dentro. Quando vedo certe immagini di profughi nei telegior-
nali mi emoziono. Penso alla loro tragedia. Almeno di quelli
che scappano dalla fame e dalla guerra. C’è differenza tra loro
e chi vuole solo un’occupazione migliore. Però sono contento
quando vedo che vengono accolti. So cosa si prova a vedere
l’ostilità di quelli da cui ti aspettavi accoglienza e solidarietà.
Noi fiumani non siamo stati accolti così. A noi non davano
neanche l’acqua minerale. Ricordo che a Bologna i ferrovieri
hanno addirittura impedito la fermata di un treno che portava
profughi dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. La Croce Rossa
era lì con i viveri per rifocillarli e i ferrovieri non hanno fatto
184 G. Dell’Aquila

fermare il treno. Perché era un treno di traditori, così dicevano.


I problemi sono stati anche altri. Aver scelto la patria italiana è
costata a tutti i profughi fiumani anni e anni di tribolazioni con
la pubblica amministrazione. Quando è stato introdotto il codice
fiscale, nel 1973, siamo diventati tutti improvvisamente stranieri.
Il sistema informatico non distingueva tra prima del passaggio
di Fiume alla Jugoslavia e dopo. Semplicemente essendo nati
a Fiume risultavamo jugoslavi. E ci hanno assegnato un codice
fiscale da straniero. Fino a pochissimo tempo fa quando andavo
agli ambulatori del San Camillo per qualche accertamento, mi
trovavo davanti impiegati che mi dicevano: le conviene dichiara-
re che è nato a Fiume Veneto, in provincia di Pordenone, sennò
non posso autorizzarle la prestazione. Insomma avrei dovuto fare
una dichiarazione falsa. E così per acquistare un cellulare. Per
fare un documento. Non parliamo poi dei problemi fiscali che
questa anomalia ci ha procurato. Ancora oggi vado in giro con
il testo della legge in tasca per farlo leggere agli impiegati degli
uffici pubblici che pongono problemi.
Veniamo allo sport. Ho cominciato a correre nel 1952 quan-
do avevo poco meno di 19 anni. Mio fratello aveva cominciato
l’anno prima. Si era iscritto e medicina e alcuni amici lo hanno
portato in palestra. Lo hanno indirizzato alla marcia. Non l’ha
scelta lui, lo hanno indirizzato loro. Io ho cominciato in modo
simile. Sono andato a fare una corsa campestre e c’era lì un pro-
fessore che mi ha chiesto «come ti chiami?», Pamich ho risposto.
Bene, allora fai la marcia. Diciamo che quel professore ha visto
lungo. Sentivo proprio un bisogno incontenibile di fare sport.
Avevo una carica addosso che dovevo incanalare in qualche modo
in attività fisica. La domenica facevamo camminate in montagna
anche di 50-60 chilometri. Partivamo alle due di notte e tornava-
mo anche alle dieci di sera. C’era una predisposizione fisica e men-
tale a uno sport come questo. La mia prima corsa ufficiale è stata
la selezione regionale per partecipare al Trofeo Pavesi di Roma. Io
sono arrivato molto dietro rispetto al primo. Ma si è presentato un
allenatore, che si chiamava Giuseppe Malaspina, che mi ha detto:
non ti preoccupare, tu quello lì la prossima volta non lo vedi nem-
meno. Giuseppe Malaspina mi avrebbe accompagnato per tutta la
carriera (Fig. 11). Tutti i miei successi hanno avuto la sua mano.
Era una persona per bene, piena di buon senso. Gli devo molto.
Le sue parole di incoraggiamento sono state profetiche. Dopo un
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 185

Fig. 11 – Pamich con il suo allenatore e


mentore Giovanni Malaspina

mese mi sono migliorato di 6 minuti sui cinque chilometri, dopo


pochi mesi ho fatto la finale nazionale di questo Trofeo Pavesi e
l’ho vinta. Dodici anni dopo avrei vinto la medaglia d’oro olim-
pica. Me l’hanno fatta raccontare tante volte quella giornata per-
ché tutti pensano che lì sulle strade di Tokyo io abbia vissuto la
mia giornata sportiva più bella. È un ricordo fantastico certo ma
io rammento con un piacere ancora maggiore un altro successo,
quello alla Praga-Podebrady di 50 chilometri nell’agosto del ’56.
Una classica prestigiosissima che oggi purtroppo non si corre
più. Diciamo che è paragonabile alla Parigi-Roubaix del ciclismo.
L’ho vinta poi altre due volte. In quell’agosto del ’56 ho avuto
186 G. Dell’Aquila

finalmente piena consapevolezza delle mie possibilità. C’erano


tutti i migliori specialisti del mondo. Al via mi sono detto che se
fossi arrivato tra i primi quindici mi sarei potuto considerare sod-
disfatto. Sono arrivato primo. Ne vado ancora oggi molto fiero.
E adesso Tokyo. C’è un filmato che mi riprende mentre spez-
zo con le mani il filo di lana. E in effetti avevo una gran carica
nervosa in quel momento. Era il riscatto dopo le due delusioni
delle olimpiadi precedenti. A Melbourne nel novembre del ’56
dopo essere partito con i favori del pronostico ero arrivato solo
quarto, per un errore di allenamento (ci avevano fatto fare una
tirata di 60 chilometri due giorni prima della gara). A Roma
nel ’60 idem. Ero partito gran favorito, anche perché correvo in
casa, ma al traguardo ero arrivato solo terzo, anche qui a causa
di un errore di allenamento (avevo corso troppo poco prima
delle Olimpiadi e non ero riuscito a entrare in forma). Dunque
a Tokyo quando sono giunto sul traguardo della 50 chilometri
c’era sì la soddisfazione dell’oro (Fig. 12) conquistato dopo le
Fig. 12 – Pamich con al collo la meda- due precedenti esperienze non positive, ma anche la coscien-
glia d’oro olimpica conquistata a Tokio
nel 1964 za che in fondo si trattava di un atto dovuto, di una cosa che
sarebbe dovuta arrivare ben prima di quel momento. E sì che
a un certo punto ho rischiato di vedermi sfuggire per la terza
volta consecutiva il grande sogno. L’allenamento non c’entrava.
A Tokyo a rischiare di giocarmi un brutto tiro è stato l’intestino.
Una situazione a dir poco insolita. E decisamente imbarazzante.
Ero in testa ma la crisi è arrivata improvvisa attorno al 35° chi-
lometro, probabilmente per un the ghiacciato bevuto al riforni-
mento. Marciavo tra due ali di folla che applaudiva entusiasta.
Tutt’intorno militari che facevano il servizio d’ordine. Quando
ho sentito i crampi alla pancia ho cercato di resistere il più pos-
sibile ma l’inglese Paul Nihill mi ha raggiunto. Mi sono sentito
davvero a un passo dalla terza clamorosa delusione olimpica.
Al 38° chilometro ho adocchiato un cespuglio lungo la strada e
sono andato lì dietro a liberarmi. I militari mi hanno circondato
un po’ per garantire la privacy – ricordiamoci che il Giappone
è uno dei paesi più formali al mondo e cinquant’anni fa lo era
ancora di più – un po’ per impedire che la gente vedendomi in
difficoltà mi toccasse, magari per soccorrermi. Nella marcia basta
che un corridore venga a contatto con un estraneo per venire
squalificato. Fatto sta che dopo pochi secondi avevo risolto tutti
i miei problemi intestinali. Ho ripreso Nihill, l’ho staccato e sono
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 187

Fig. 13 – La sequenza fotografica che


immortala Pamich e il suo strappo del
filo di lana nella 50 km di marcia alle
Olimpiadi di Tokio

volato verso il Jingu National Stadium. Ho strappato quel filo


con le mani mentre stavo pensando «ti ho agguantato finalmen-
te, mi stavi scappando un’altra volta» (Fig. 13). Una sensazione
bellissima certo, ma anche la consapevolezza di aver raggiunto
tardi un traguardo che avrei dovuto centrare diversi anni prima.
Comunque debbo dire che non mi sono mai esaltato troppo per
le vittorie. Nello sport, come nella vita, ci vuole molto equilibrio.
Se non si è equilibrati si ragiona male, si comincia ad aver paura
di perdere, si comincia a cercare scappatoie.
Tra Roma e Tokyo c’è stato un altro successo importante. Il
record del mondo della 50 chilometri, il 19 novembre 1961. L’ho
fatto allo Stadio Olimpico di Roma, davanti a 40 mila spettatori.
All’epoca i record si facevano – o comunque si tentavano – in
modo serio. In pista. 125 giri. Per strada ci sono troppe variabili.
Salite, discese, distanze ballerine che nessuno potrà mai accertare
con precisione. I tempi segnati su due percorsi diversi non saran-
no mai paragonabili tra loro. Come per la maratone. In pista
no. In pista è tutto matematico. 125 giri di 400 metri. In quel
periodo stavo benissimo. Sentivo che avrei potuto tentare qual-
siasi impresa. Mi sono detto: facciamo questo record. Pasquale
Stassano, che era l’eminenza grigia della Fidal, la Federazione di
atletica, aveva raggiunto un accordo con l’AS Roma, la squadra
di calcio. Quel giorno – il 19 novembre, una domenica – era
in programma una gara di campionato (Roma-Torino, risultato
finale 2-2 n.d.r.) e il biglietto, scontato, dava diritto ad assistere
anche al mio tentativo di record programmato per le 9 di mattina.
188 G. Dell’Aquila

Giuseppe Dordoni, un grande campione anche lui, ma già avvia-


to sul viale del tramonto, aveva l’incarico di fare ‘la lepre’ come
si dice in gergo, di tenere un’andatura alta, per favorire il mio
tentativo di record. In realtà si è lanciato subito su ritmi sfrenati.
A un certo punto mi ha doppiato e ha preso un vantaggio di 600
metri. Il pubblico calcistico ha cominciato a sfottermi. Ogni
tanto sentivo «A Pamich ma ‘ndo vai?». Ma io avevo la mia tabel-
la in testa. Non mi sono scomposto. E dopo due ore è cambiato
tutto. Dordoni si è ritirato (qualcuno poi mi ha detto che aveva
finto di aiutarmi; che il ritmo eccessivamente elevato era teso più
che a farmi fare il record, a sfiancarmi per impedirmi di farlo,

Fig. 14 – Pamich il 19 novembre 1961,


impegnato sulla pista dello Stadio Olim-
pico di Roma nella conquista del record
del mondo della 50 km, che otterrà con
il tempo di 4h 14' 02" 4
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 189

ma io non ci ho mai creduto). Fatto sta che Dordoni è uscito


di scena e in campo a fare riscaldamento sono entrati i giocatori
della Roma che avrebbero giocato di lì a poco. Il pubblico si è
rivitalizzato. Subito dopo, lo speaker dello stadio ha annunciato
che stavo girando sotto al limite del record del mondo (Fig. 14).
È stata la svolta. Il portierone della Roma Fabio Cudicini, di
Trieste, l’attaccante italo argentino Francisco Lojacono, il cen-
travanti cannoniere Pedro Manfredini e gli altri mi incitavano
dal campo. Tutto il pubblico ha preso a gridare il mio nome in
modo diverso da come lo aveva fatto prima. Mi ha incoraggiato
incessantemente fino alla fine. Ho tagliato il traguardo tra i bat-
timani e i cori degli spettatori in piedi e tra gli applausi e le grida
di tutti i giocatori della Roma schierati a ridosso del traguardo.
Ho il nastro della telecronaca fatta in diretta da Paolo Valenti.
Quando la risento mi emoziono ancora oggi ma lui sembra addi-
rittura più emozionato di me. Sì quella è stata proprio una gran
bella giornata.
Ho fatto anche due volte la 100 chilometri di marcia. La
prima – siamo partiti alle 4 del mattino – l’ho fatta con gli
indumenti di lana che pesavano due chili e mezzo. Alla fine
bagnati ne pesavano 5. Gli inglesi invece partivano mezzi nudi.
L’ho fatta per esperimento, sono arrivato quarto. La seconda
volta ero partito per fare solo 50 chilometri ma quando mi sono
fermato Vittorio Torriani, l’organizzatore, ha insistito tanto per-
ché continuassi: dai, non ci sono italiani, fai la 100 chilometri
sennò questa gara muore. Sono ripartito e ho finito la gara con
una vescica enorme sotto il metatarso. Sono arrivato secondo. La
cento chilometri è una gara massacrante. Per le corse di grande
resistenza bisogna avere una testa particolare. Qualcosa dentro
che ti spinge. Motivazioni inconsce e tratti caratteriali speciali.
Per fare uno sport così ripetitivo bisogna avere un certo tratto
masochistico, una capacità di soffrire fuori del comune. In psico-
logia avere tratti masochistici non vuol dire essere un masochista
ma avere l’attitudine a soffrire. Così come bisogna essere un po’
ossessivi (Fig. 15). Ripetere lo stesso gesto per moltissime volte
è possibile solo se si è internamente predisposti. Poi ci sono le
motivazioni consce, come voler sempre migliorare se stessi. E
infine viene la parte ludica. Nello sport guai se non si coglie la
parte del divertimento. Senza l’elemento ludico non si può parlare
di sport. Dimenticavo, c’è anche l’incertezza del risultato. Se tutto
190 G. Dell’Aquila

Fig. 15 – Una gara con la maglia della


‘Esso Club - Roma’ a Riccione nel giugno
1967

fosse scontato non ci sarebbe gusto, non ci sarebbe motivo di


impegnarsi così tanto. Comunque io ricordo sempre a tutti che
l’importante non è vincere ma battere i propri limiti. Tanti pur
non ottenendo risultati importanti nella loro vita si sono costan-
temente migliorati. Quello è un grande traguardo. Se poi così
facendo vengono anche i risultati è meglio. Danno soddisfazione.
Ma non sono quelli a contare davvero. Sennò non ci spiegherem-
mo perché alle gare partecipino tanti atleti mentre a vincere sono
in pochi. L’attenzione di chi guarda è attratta dai primi (Fig. 16).
Ma dietro alle prestazioni di chi sta nelle retrovie ci sono magari
tante bellissime storie personali. Ecco perché sono favorevole a

Fig. 16 – La sfida Italia-Usa disputata a


Viareggio nel 1967
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 191

cancellare dal vocabolario di ogni atleta la parola sacrificio. Che


vuol dire sacrificio? Pensiamo ai professionisti, pensiamo all’in-
gaggio di un calciatore che guadagna cifre enormi: che senso ha
dire faccio una vita sacrificata? E gli altri allora? Chi va al lavoro
all’alba che deve dire?
Quando senti affievolirsi tutte queste motivazioni vuol dire
che è arrivato il momento di chiudere. Per me questo momento
è arrivato nel 1976, dopo 23 anni di corse. Fisicamente sarei
potuto andare avanti ancora a lungo. Ma sono diminuite le moti-
vazioni. E ho lasciato senza rimpianti. Qualcuno ha calcolato che
fra gare e allenamenti avrò percorso più di centomila chilometri,
forse 120 mila, tre volte il giro dell’equatore a piedi. Qualche
volta ci rifletto ma il pensiero non mi crea particolari emozioni.
Ho corso per seguire il mio istinto, per cercare i miei limiti, non
per realizzare qualcosa di grandioso. Se ho fatto qualcosa di gran-
dioso sono contento ma non era questo il mio obiettivo e non
posso vendere una cosa che non mi appartiene. Lo sport mi ha
dato tanto. Ma mi ha anche tolto qualcosa. Non posso dire che
lo sport mi abbia preso dalla strada e mi abbia dato lo spirito di
sacrificio, i giusti valori. Quelli credo che li avessi già. Lo sport
mi ha dato soddisfazioni che magari altri non hanno avuto. Sono
arrivato dove mai avrei potuto pensare di arrivare. Quando sono
partito guardavo a me e ai miei limiti non ai grandi traguardi.
Questo mi ha aiutato a tenermi sempre lontano dalle facili ten-
tazioni di alterare le prestazioni. Quando gareggiavo vedevo gli
atleti di alcuni paesi ottenere risultati strabilianti. Sapevamo, o
comunque avevamo la percezione, che in alcuni paesi si ricorresse
a pratiche non corrette. Non si usava ancora il termine ‘doping
di stato’ ma avevamo intuito che nella Rdt e in altre nazioni si
stavano adoperando metodi strani. Capitava di perdere contro
atleti che poi improvvisamente in un’altra gara prendevano
paghe incredibili. Era il segno evidente di squilibri nelle dosi.
E l’amarezza oggi è constatare che i progressi nei controlli poco
hanno risolto in questo campo.
Ho avuto occasioni straordinarie (Fig. 17), non solo nel
campo dello sport ma anche in quello umano. Ho conosciuto
Giuseppe Malaspina, l’ho ricordato prima, che è stato il mio
primo allenatore e il mio mentore. Era un uomo di non grande
cultura ma di una psicologia incredibile, sapeva veramente come
si educa un atleta. A lui debbo la mentalità sportiva che ho
192 G. Dell’Aquila

Fig. 17 – Pamich ricevuto da Giulio An-


dreotti, all’epoca ministro dell’Industria,
nella primavera del 1967

acquisito. Ho conosciuto Fidel Castro. Ho potuto guardare negli


occhi il generale Tito, nella sua residenza privata, vestito con
eleganti abiti di sartoria, anche se non ho potuto dirgli in faccia
quello che avevo nell’animo. Sono stato ricevuto dall’imperatore
d’Etiopia Hailé Selassié. Ho gareggiato nelle stesse olimpiadi
di Abebe Bikila che vinse l’oro nella maratona sia a Roma sia a
Tokyo. Con Bikila non ho parlato molto ma ricordo un episo-
dio ad Addis Abeba, la sua città. Lui aveva già vinto le sue due
olimpiadi e in patria era più che un eroe, era un dio. Ci incro-
ciammo vicino allo stadio. Io ero con un gruppo di altri atleti,
ci stavamo allenando e intorno a noi la gente ci prendeva in giro
– talvolta è capitato anche in altri paesi, anche in Italia – rideva,
scimmiottava l’andatura dei marciatori. Lui ha fatto arrestare la
vettura dall’autista e vestito di tutto punto è sceso e ha ammonito
i presenti puntando contro di loro il dito indice. Sono ammuto-
liti tutti e hanno smesso di sbeffeggiarci. Con un semplice gesto
aveva chiesto e ottenuto rispetto per noi atleti. Un grande uomo.
A Villa Bonelli sono arrivato nel 1967, perché la sede della
Esso, società in cui lavoravo, in quell’anno si era trasferita a
Roma. Noi impiegati siamo venuti al seguito della società e io
ho trovato casa qui a Villa Bonelli (Fig. 18). È stato difficile
integrarsi perché non c’erano mezzi, non c’erano scuole. Non
c’era niente. Era tutta campagna. Ci avevano detto quando
siamo arrivati che avrebbero portato i servizi e invece niente.
Con lui il municipio ha una marcia in più. A Villa Bonelli da mezzo secolo Abdon Pamich 193

Fig. 18 – Pamich nel terrazzo di casa


affacciato sul quartiere di Villa Bonelli

Mia figlia è andata a scuola all’Eur, le medie le hanno portate


qui quando mia figlia è andata all’Università. L’autobus alla
Magliana passava ogni mezz’ora. Io andavo alla Magliana a piedi,
passavo il ponte e andavo a sinistra verso l’Eur. Alla Esso ero
all’ufficio tecnico, mi occupavo degli impianti sulle autostrade
come geometra, poi ormai grande ho continuato a studiare e
oggi ho due lauree, una in psicologia con specializzazione nello
sport e una in sociologia. Quando ho smesso di correre sono
andato via dalla Esso, sono entrato in Fincantieri e poi nel 1994
all’ufficio pubbliche relazioni della Sip, all’epoca la compagnia
telefonica si chiamava ancora così. Non posso dire che il mondo
del lavoro abbia avuto nei miei confronti un occhio di riguardo.
Alla Esso il direttore mi ha fatto prendere le ferie per partecipare
alla preolimpica di Tokyo. Se le concedessi il permesso i suoi
colleghi potrebbero obiettare, mi ha detto lasciandomi di stucco.
Poi quando ho vinto la medaglia d’oro il marchio Esso era dietro
tutte le mie foto. Non c’è peggiore individuo di quello che da
giovane ha avuto voglia di fare lo sport e non è riuscito a emer-
gere. Un altro era il direttore commerciale. Recriminava con me
per non aver potuto fare l’alpinista. Io dicevo, ho rinunciato alla
carriera per poter fare lo sport. Sono rimasto impiegato e non
mi dispiaccio per questo. Io viaggiavo di notte, appena finita la
gara prendevo il treno, arrivavo a casa alle cinque del mattino, il
tempo di farmi una doccia e andavo in ufficio. Ognuno è fatto
194 G. Dell’Aquila

a modo suo. Sono venuto qui a Villa Bonelli che avevo già due
figli. Tamara di nove anni e Sennen (Sennen e Abdon sono i
nomi di due prìncipi cristiani di origine persiana martirizzati a
Roma) di due. Mia moglie Maura è genovese e mi ha sostenuto
in tutta questa mia vita avventurosa. Ci siamo sposati nel 1957.
Nel quartiere le persone mi conoscono, qualcuno mi saluta, ma
io parlo poco (fig. 19). Sono un po’ riservato come tutti quelli
della mia zona di origine. C’è differenza nel modo di esprimere
l’umanità. Ancora oggi a 83 anni mi alleno cinque o sei volte a
settimana per un’oretta qui sulla pista pedonale di via Frattini.
Una volta, come ho detto, andavo ogni giorno all’Eur a piedi.
Con i miei nipoti Natalia e Gabriele, che sono in America come
il loro babbo Sennen, ci sentiamo poco. Mi addolora di non
averli potuti frequentare di più.
A Fiume sono tornato due anni fa. Ma non ho provato la
gioia dell’emigrante che torna nel paese d’origine. È stata una
ferita. È scomparsa la Fiume della mia infanzia. Parlano una lin-
gua diversa. È cambiato quasi tutto. Molti documenti sono stati
distrutti dai nuovi padroni. Hanno voluto cancellare ogni traccia
della cultura italiana. Ma io sono Abdon Pamich, ci tornerò.

Fig. 19 – Pamich mostra la foto del


battesimo del nipote Gabriele celebrato
da papa Wojtyla
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI
Vincenzo Giorgi

A partire dagli anni Sessanta alcune opere di architettura


moderna cominciano ad apparire nelle aree comprese fra via
Portuense ed il Tevere più o meno corrispondenti ai limiti dell’at-
tuale XI Municipio. Si presentano nelle zone meno interessate
dalla speculazione edilizia che imperversa nel Quartiere Marconi
e poco più tardi a Magliana, mentre l’abusivismo procede a
macchia di leopardo soprattutto nelle zone di Corviale ed oltre.
A Marconi l’unica opera degna di segnalazione è la chiesa di
Gesù Divino Lavoratore in via Oderisi da Gubbio, completata
nel 1960 su progetto di Raffaele Fagnoni, che tenta di emergere
nell’edilizia intensiva del quartiere con un perfetto campanile
cilindrico alto 44 metri (Fig. 1). In via della Magliana si deve
menzionare il Padiglione sperimentale dell’ing. Pier Luigi Nervi. Fig. 1 – Chiesa di Gesù Divino Lavoratore nel Quartiere
Marconi
Negli anni Settanta vari interventi di qualità si notano a
Villa Bonelli e nell’area Portuense. Viene costruita la ‘stecca’ di
Corviale che fa subito notizia in campo nazionale e internazio-
nale, mentre al Castello della Magliana sorge il centro direzionale
con edifici efficienti di sapore razionalista-tecnocratico. A partire
dagli anni Ottanta inizia un’opera di riqualificazione del territorio
che in più casi dà buoni risultati.
È possibile delineare un interessante percorso della moder-
nità nel nostro territorio ove evidenziare la ricerca stilistica, il
linguaggio architettonico delle opere più significative da portare
alla conoscenza di tutti i cittadini. Una trama qualificante che
può contribuire insieme agli altri valori di storia, di paesaggio,
di lavoro e di cultura a definire un sentimento di identità e di
appartenenza di cui si sente estremo bisogno nelle aree urbane di
recente costruzione.
Si possono segnalare opere, ma anche architetti e ingegneri,
progettisti, imprenditori e lavoratori che con lungimiranza e
196 V. Giorgi

cultura hanno sperimentato, finanziato e realizzato opere non


consuete, che si propongono alla nostra attenzione per l’attività
di ricerca messa in campo per generare ambiti pubblici e privati
ben curati nel disegno, nella funzionalità e nella rispondenza
alle esigenze sociali. Sarebbe giusto delineare profili di tecnici e di
costruttori che non si chiudono nella rappresentazione del proprio
oggetto di lavoro ma puntano il proprio obiettivo alla costruzione
della città generando bellezza, senso e riconoscibilità dei luoghi.
In questa occasione non posso fare altro che segnalare alcune
opere, a mio avviso esemplari, ed alcuni autori rinviando ad altri
e ad altre occasioni il completamento del lavoro di ricerca che
sarebbe giusto proseguire. Inoltre il mio parere non può andare
oltre l’indicazione di alcuni valori estetici e stilistici e di impressio-
ni sui caratteri delle opere scelte, non avendo la documentazione
necessaria né lo spazio per più approfondite analisi.
Mi sembra giusto partire dagli aspetti estetici, non solo per
il mestiere di architetto che esercito, ma soprattutto perché è
divenuta patrimonio generale l’acquisizione della ‘utilità della
forma’, della ricerca della bellezza estesa a tutta la città e non
solo ai centri storici ed ai patrimoni del passato. La ricerca della
bellezza deve essere considerata come componente migliorativa
delle funzioni, delle economie, della gestione del territorio, del
traffico urbano, dal dettaglio alle grandi strategie.
A Roma si è registrata una maggiore attenzione ai temi della
qualità estetica a partire dagli anni Ottanta, da quando sono state
immaginate e poi realizzate opere fondamentali pubbliche come le
strutture espositive rinnovate del Palazzo delle Esposizioni (arch.
Costantino Dardi), la Teca dell’Ara Pacis (arch. Richard Meier),
l’Auditorium (arch. Renzo Piano), le strutture museali del MAXXI
(arch. Zaha Hadid) e del MACRO (arch. Odile Decq), le stazioni
delle linee metropolitane (Studio Transit), la chiesa di Tor Tre Teste
(arch. Richard Meier), solo per citare le più famose.
Anche nel nostro Municipio, come nelle altre aree urbane, il
contributo maggiore alla realizzazione di opere di architettura è
stato fornito dagli interventi pubblici. Penso ai Ponti sul Tevere
e alle loro valenze paesaggistiche, all’edilizia pubblica più nota
come la ‘stecca’ di Corviale, ma anche a quella meno pubbli-
cizzata come la Borgata del Trullo ed il quartiere ex INCIS di
Montecucco. Penso alle piazze costruite in questi ultimi anni, ad
alcune scuole esemplari, quasi sempre frutto di concorsi pubblici
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 197

Fig. 2 – Il plesso scolastico di via Marino


che hanno consentito di scegliere i prodotti migliori dei migliori Mazzacurati in corso di riqualificazione
professionisti. Fra queste l’intervento di riconfigurazione della
scuola di via Mazzacurati opera dell’arch. Guendalina Salimei
(Fig. 2) che, con l’inserimento tra l’altro di un patio e di uno spa-
zio teatrale nel plesso esistente e con il nuovo design dei prospetti,
inserisce componenti architettoniche di grande attualità nel sistema
Corviale. In particolare l’edificio scolastico prende forma e rico-
noscibilità dall’involucro del teatro, che viene rifinito con lamiere
traforate singolari che giocano con la luce e con i suoi riflessi fino a
diventare una lampada urbana con l’illuminazione notturna.
Ma non sono pochi gli interventi privati che emergono per la
ricerca estetica e la sperimentazione esercitata nelle loro costruzioni.
Oltre la ex sede della ESSO, cito l’Ospedale San Giovanni Battista
al Castello della Magliana, alcune palazzine di Villa Bonelli, opere
significative di Marconi e Corviale, gli edifici direzionali dell’Alitalia
198 V. Giorgi

e della Toyota a Muratella lungo l’autostrada Roma-Fiumicino.


Anche la chiesa ha fornito un contributo importantissimo alla
qualità architettonica da quando, in preparazione del Giubileo
del 2000, fin dagli anni Ottanta/Novanta ha sentito il dovere
di realizzare nella periferia romana chiese di alto valore estetico
oltre che religioso, abbandonando una linea di trascuratezza
culturale e rappresentativa che per lungo tempo aveva relegato
i centri ecclesiastici contemporanei nel magma dell’anonimato
dell’edilizia romana. Nel nostro Municipio alcune chiese si pre-
sentano con la decisa volontà di accettare la sfida di configurarsi
come nuova icona emergente nel tessuto urbano circostante per
valorizzarlo o riscattarlo: il Santo Volto a Magliana, Santi Aquila
e Priscilla a Marconi, Nostra Signora di Valme a Villa Bonelli.
Vorrei cominciare l’excursus proprio dalle iniziative intrapre-
se dal Vicariato di Roma che ha voluto inserire alla Magliana
uno dei pezzi più pregiati, di valore internazionale come quello
dello Studio degli architetti Piero Sartogo e Nathalie Grenon
che hanno progettato la chiesa del Santo Volto, realizzata fra il
2003 e il 2006, e dello Studio dell’ing. Antonio Michetti che ne
ha progettato le ardite strutture portanti. Come nella migliore
tradizione delle antiche chiese romane, grandi artisti contempo-
ranei in questa circostanza sono stati chiamati ad allestire opere
pensate per dialogare con gli spazi architettonici progettati: Carla
Accardi, Ignazio Breccia, Chiara Dynys, Eliseo Mattiacci, Mimmo
Paladino, Pietro Ruffo, Marco Tirelli e Giuseppe Uncini.
Dal punto di vista architettonico ‘la frattura’ è l’idea fonda-
tiva del complesso. La chiesa del Santo Volto si configura come
gruppo di solidi strettamente connessi tra cui spicca la sezione
sferica della sala liturgica, una sorta di cupola, che viene tagliata
e divaricata nettamente da un attraversamento a cuneo (Fig. 3),
il ‘percorso luminoso’, che svela lo spazio interno ed esalta la
presenza di un crocifisso di dimensione urbana, meta religiosa
e spaziale del percorso che dalla città entra nel cuore dell’area
di culto. Un rosone a tutta altezza in vetro e acciaio ci mostra la
misura della sfera tagliata (Fig. 4). La cupola rivestita in traver-
tino nella superficie esterna e in finiture intonacate all’interno,
contiene una struttura (Fig. 5 ) in acciaio con calotte sagomate:
sia il rosone che la struttura della cupola sono state eseguite
dalla Società Cos.mo. Acciaio, la stessa Società che ha realiz-
zato la copertura della Sala del Marco Aurelio al Campidoglio.
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 199

Figg. 3-4 – Chiesa del Santo Volto via


della Magliana

Gli eventi liturgici e le attività parrocchiali si svolgono in un


intreccio di interni ed esterni, in un paesaggio architettonico
concepito come ambito micro-urbano, disegnato per essere
goduto anche semplicemente rimanendo seduti sul sagrato, entro
l’esemplare recinzione di Giuseppe Uncini.
Fig. 5 – Chiesa del Santo Volto via della
Nel quartiere Marconi l’apertura del centro religioso alla Magliana. La cupola in acciaio in fase
città ci viene mostrata invece sotto forma di architettura diffusa di costruzione
200 V. Giorgi

Fig. 6 – Chiesa dei Santi Aquila e Pri-


scilla. Veduta dal Lungotevere Gassman

ad imitazione di un paesaggio urbano molto raffinato distri-


buito lungo via Blaserna e sul Lungotevere Vittorio Gassmann
(Fig. 6). Si tratta del nuovo complesso della Parrocchia Santi
Aquila e Priscilla, costruito su progetto dell’ing. Ignazio Breccia
Fratadocchi, inaugurato nel 1992. In questo caso la distribuzio-
ne delle funzioni e dei corpi edilizi lungo un asse disarticolato
mostra la volontà del progettista di allontanarsi da tentazioni
monumentalistiche per accogliere i fedeli ed i cittadini in modo
semplice e diretto, senza diaframmi ed ostacoli (Fig. 7). L’area
urbana circostante, ex zona di fabbriche, è stata ristrutturata
con un piano urbanistico di qualità – il cosiddetto Programma
Urbano Ostiense-Marconi – che privilegia il rapporto umano

Fig. 7 – Chiesa dei Santi Aquila e Pri-


scilla. Veduta lungo via Blaserna
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 201

fra cittadini, edifici e tessuto urbano, favorisce il dispiegarsi della


struttura ecclesiastica organica e coerente con i concetti fondativi.

Merita un discorso più approfondito il caso della chiesa di


Nostra Signora di Valme, inserita nell’area di Villa Bonelli, un
piccolo ambito urbano cresciuto entro i resti di un sistema di
parchi e preminenze naturalistiche sulle colline del Tevere, con
tessuti rurali pregiati sviluppatisi negli anni Trenta e Quaranta
sotto la guida attenta della Famiglia Bonelli. Negli anni Sessanta,
abbandonata l’agricoltura, l’urbanizzazione di Villa Bonelli ha
seguito i classici schemi redatti per villini e palazzine dei piani
urbanistici del 1931, generando tessuti residenziali densi e sca-
denti. Successivamente, con il miglioramento delle normative
urbanistiche, la crescita del quartiere è avvenuta per sfrangiature
e significativi diradamenti dell’edilizia che hanno permesso di
inglobare residui importanti del tessuto agrario e di preservare
tutta l’area della Villa Bonelli per una estensione di almeno dieci
ettari. L’acquisto del prestigioso edificio della Villa e del bel parco
circostante (Fig. 8) da parte del Comune di Roma alla fine degli
Fig. 8 – Il Parco di Villa Bonelli

anni Settanta ha completato un programma di valorizzazione di


un paesaggio prestigioso da mettere a disposizione della cittadi-
nanza in modo permanente. L’istituzione della Riserva Naturale Fig. 9 – La Riserva Naturale della Valle
della Valle dei Casali (Fig. 9) ha completato il coronamento del dei Casali. Veduta da via Frattini
202 V. Giorgi

quartiere con un sistema di verde pubblico e privato di dimensio-


ni inimmaginabili ancora negli anni Ottanta. Infatti la Riserva,
di oltre quattrocentocinquanta ettari, si spinge da Bravetta alla
Magliana preservando tutte le aree del paesaggio agrario storico,
comprese quelle dell’Imbrecciato a ridosso di Villa Bonelli. Nelle
frange del tessuto urbano si sono insediate strutture residenziali
di elevata portata architettonica e la sagoma imprevedibile della
chiesa di Nostra Signora di Valme. Questo dimostra che il tessu-
to urbano di qualità genera innesti di architetture di valore che
allontanano i processi degenerativi.
La chiesa di Nostra Signora di Valme, realizzata su progetto
dell’arch. Giuseppe Spina e inaugurata dal cardinale Camillo
Ruini il 23 marzo 1996, appare improvvisa (Fig. 10) su via di
Vigna Due Torri con un poderoso prospetto inclinato, tutto
vetrato per accentuare la sensazione di accoglienza e di trasporto
nell’interno sacro dove si svolgono le funzioni pubbliche religio-
se. Al confronto con le altre Chiese balza all’attenzione l’origi-
nale sala liturgica che invece di elevarsi verso il cielo si ripiega
su se stessa per proiettare l’attenzione del fedele verso l’esterno
e verso l’altare. Vista di lato sorprende l’implosione centrale che
fa ruotare le strutture in cemento armato e deforma il volume
schiacciando lo spazio interno (Fig. 11). La struttura portante
in cemento armato viene ruotata per rispondere al meglio al
compito di scaricare a terra i carichi e le tensioni impresse dalla
copertura costituita con due enormi lastre inclinate. Le due lastre
di copertura, sbilanciate e confluenti al centro sono state realizza-
te con struttura in cemento armato, ma con tessitura a cassettoni
esibiti per modulare e riflettere dinamicamente la luce (Fig. 12).
Anche la parete a valle risulta inclinata per accompagnare le rota-
zioni delle lastre di copertura. Attorno alla componente centrale
assembleare una serie di corpi di fabbrica rispondenti alle esigen-
ze del centro ecclesiastico commentano con la loro disposizione
l’andamento della collina, il fluire delle strade, gli affacci verso
la città. Dal punto di vista architettonico il complesso partecipa
ad un esteso movimento culturale che fa della deformazione il
fulcro del proprio linguaggio espressivo. Ritroviamo compo-
nenti espressioniste e brutaliste, angoli acuti, ottusi, materiali da
costruzione esibiti senza mediazioni o rivestimenti, pareti incli-
nate e volumi diversamente orientati per guardare il paesaggio
urbano amplissimo.
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 203

Fig. 10 – Chiesa di Nostra Signora di


Valme. Villa Bonelli. Veduta da via Vi-
gna Due Torri

Fig. 11 – Chiesa di Nostra Signora di


Valme. Villa Bonelli. Veduta dal giardino

Oltre la chiesa anche alcune architetture residenziali hanno


contribuito a dare riconoscibilità all’area di Villa Bonelli, come ad
esempio le palazzine realizzate su progetto dello Studio Tauarch
di Roma degli arch. Pier Giorgio Stefani, Maria Salvaggio, Fiora Fig. 12 – Chiesa di Nostra Signora di
Lulli e Giorgio Romoli, che negli anni Settanta operano fra via Valme. Villa Bonelli. L’interno
204 V. Giorgi

Fig. 13 – Palazzina in via di Enrico Albanese Fig. 14 – Palazzina in via Vigna Due Torri

di Vigna Due Torri, via Albanese (Fig. 13) e l’ultimo tratto di via
Frattini. Questi architetti riescono ad ideare un sapiente gioco
di facciate sovrapposte, con andamenti curvilinei quelle esterne
e rettificati quelle interne, dal carattere così vigoroso da imporsi
nell’immagine del tessuto urbano (Fig. 14). Le superfici curvili-
nee si sviluppano liberamente nello spazio dando luogo ad ogive,
inviluppi contrastanti, forme concave e convesse in drammatiche
successioni che reinterpretano, proiettandole nel futuro, le forme
plastiche borrominiane e le ultime realizzazioni dell’arch. Luigi
Moretti (vedi la palazzina di Monte Mario, la sede della Banca
di Milano a Piazzale Flaminio…). L’evoluzione del pensiero
architettonico dello Studio Tauarch avviene, altrettanto brillante-
mente, con altre palazzine costruite in fondo a via di Vigna Due
Torri. La posizione acropolica di queste ultime, affacciate sulla
valle del Tevere, suggerisce allo Studio Tauarch una composizione
architettonica che pur rispettando lo spirito libero e gestuale delle
precedenti realizzazioni, ricerca la continuità con le masse tufacee
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 205

Fig. 15 – Palazzine a Largo La Masa

tipiche del paesaggio naturale romano (Fig. 15). Le palazzine,


che utilizzano materiali ed intonaci molto vicini al colore bruno
del tufo romano, appaiono come proiezioni tufacee nello spazio,
con pareti sconnesse, zigzaganti e balconi fortemente aggettanti
mai ripetuti e mai uguali fra loro. La loro vicinanza spaziale alla
chiesa di Nostra Signora di Valme fanno di questo ambito urba-
no un tutt’uno abbastanza coerente ed omogeneo, dovuto ad
una fortunata compresenza di architetti che praticano principi
compositivi anticlassici anche se espressi in periodi distanti nel
tempo e che sanno stabilire un rapporto dialettico con il tessuto
agrario del passato, con i casali storici della campagna romana, da
cui traggono ispirazione per forme e colori, con i viali di palme e
cipressi assecondandone le direzioni e gli attraversamenti.
Se a Villa Bonelli la riconoscibilità e la cifra stilistica di alto
livello sono frutto di combinazioni fortunate, in altri ambiti del
Municipio questi valori di qualità urbana sono stati raggiun-
ti in seguito ad una attenta programmazione e progettazione
206 V. Giorgi

degli Uffici Comunali, a convenzioni Comune/privati ed a


concorsi di progettazione indetti per la realizzazione di singole
opere. Parliamo del Progetto Urbano Ostiense-Marconi con la
riqualificazione delle aree industriali della ex Mira Lanza e dei
Mulini Biondi, dei Programmi di Recupero Urbano (i cosiddetti
‘articoli 11’) di Magliana e Corviale, dei progetti di valorizza-
zione e completamento della ‘stecca di Corviale’, della più volte
nominata convenzione dell’Alitalia a Muratella, che hanno dato
luogo ad interessanti opere di architettura presenti in tanti libri
di architettura, nelle riviste specializzate e nelle guide di Roma
contemporanea. Nel quartiere Marconi un’altra convenzione
Comune-costruttori dà luogo ad un complesso polifunzionale
progettato dallo Studio Antonio e Delia Molinari, che ha risolto
un nodo urbano compreso fra viale Oderisi da Gubbio e viale
Marconi con una esplosione di oggetti architettonici ardita e
raffinata (Fig. 16).
Del Progetto Urbano Ostiense-Marconi si è scritto molto e ha
dato molti frutti positivi, sul versante Marconi ricordo il Teatro
India e la trasformazione dell’ex ‘Consorzio Agrario’ in una struttura

Fig. 16 – Centro polifunzionale in via


Oderisi da Gubbio
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 207

polifunzionale, a firma dello Studio Petruccioli, con ristorazione


e cinema-teatri, che ha preso il nome di ‘Città del Gusto’ (Figg.
17-18). Fondata nel 2002 per il Gambero Rosso e per il mondo
dell’enogastronomia la ‘Città del Gusto’, che prende il posto
dell’ex Deposito del Grano progettato dall’arch. Tullio Passarelli,

Fig. 17 – Sale cinematografiche in via


Enrico Fermi

Fig. 18 – L’edificio della Città del Gusto


(ex Consorzio Agrario)
208 V. Giorgi

ha mantenuto la veste originaria dell’edificio-fabbrica, a cui ha


aggiunto tutte le aggettivazioni tipiche: le strutture in acciaio in
vista, i rivestimenti metallici alternati ai rivestimenti in granito
gres bianco, le grandi vetrate affacciate sul Tevere. Parlo al pas-
sato perché ora si trova in via di smantellamento per un’altra
trasformazione a destinazione residenziale di cui non conosco il
progetto: penso solo che la demolizione della Città del Gusto,
lasci un gran vuoto nel quartiere.
Oltre la Città del Gusto e la Chiesa dei Santi Aquila e Priscilla,
della quale già abbiamo scritto, il Progetto Urbano ha prodotto un
percorso pedonale architettonico concepito come spina dorsale su
cui si attestano varie nuove architetture e che partendo dal cuore
del quartiere si conclude con il Ponte ciclopedonale della Scienza,
costruito fra il 2008 e il 2014, su cui vorrei soffermarmi.

Lo ‘spirito del tempo’, che nel mondo, almeno dagli anni


Novanta, vede prevalere in architettura la complessità oltre alla
deformazione e alla scomposizione dei volumi architettonici,
permea il Ponte della Scienza (Fig. 19) esito della volontà di
indagare le interrelazioni multidisciplinari tra ingegneria, archi-
tettura ed arte. Non a caso si è aggiudicato il primo posto nella
sezione ‘Intervento in uno spazio esterno’ del premio Inarch/
Ance V edizione 2014, premiando i Progettisti e il Committente,
in questo caso il Comune di Roma, con un riconoscimento che
conferma il valore dell’opera in sé ma anche del suo rapporto con
il contesto urbano.
I progettisti vincitori di Concorso, gli architetti dello studio
APsT Architettura (Andreoletti, Pintore, Tonucci) e gli ingegne-
ri dello studio del prof. Giorgio Monti e della Società EDIN,
manipolano l’evento plastico in funzione diretta degli sforzi
che la struttura deve sopportare e passano dall’acciaio al cemen-
to armato con felice disinvoltura. Un racconto appassionante
che affronta il tema assegnato del ponte con leggerezza, rigore
costruttivo ed espressività architettonica. Le strutture portanti
non sono più orizzontali o verticali ma inclinate, secondo forme
geometriche complesse a mensola con forti sbalzi. Tutto è asim-
metrico e drammatico: alla ‘mensola’ in acciaio ardita e lunghis-
sima, ancorata sulla sponda in destra del Tevere, è contrapposta
un’altra mensola in cemento armato, tozza, priva di articolazioni
in sinistra del fiume. Sulle due mensole poggia un tratto di ponte
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 209

Fig. 19 – Il Ponte della Scienza, dedicato


a Rita Levi Montalcini. Particolari

rimovibile, una piastra in acciaio di travi rinforzate con puntoni


e tiranti di varie fogge ognuna diversa e direttamente derivata
dalle funzioni di calcolo. L’ossatura fondamentale viene realizzata
con una serie di lame di acciaio principali assemblate con altre di
rinforzo esibite senza mediazioni e senza l’uso di profilati indu-
striali di serie. I pilastri portanti divergenti non hanno direzioni
gratuite ma strettamente funzionali. I nodi strutturali vengono
esaltati da un disegno maniacale del dettaglio, scolpiti e fissati nel
proprio ruolo indispensabile e logico.

Fra i Concorsi di architettura recenti, relativi al Municipio


210 V. Giorgi

XI, che hanno dato luogo a opere di grande impatto sociale e


urbano mi sembra interessante ricordare quello di piazza De
Andrè alla Magliana e quello del Ponte dei Congressi ancora da
realizzare a valle del Ponte della Magliana.
Nel primo i progettisti di Piazza De Andrè, architetti
Marcello Piras, Stefano Vallini, Gregorio Santilli, seguono una
scelta stilistica molto simile a quella degli artefici del Ponte della
Scienza. L’intervento, finanziato nell’ambito del Programma
Centopiazze promosso nel 1995 dal Sindaco Francesco Rutelli,
viene realizzato nel 2002 su viale Vicopisano. Si tratta di un’area
di 5000 metri contornata da muraglie di palazzi di nove piani,
sottratta prima alla speculazione edilizia e poi al caos dei parcheg-
gi e della viabilità con l’intento di creare un catalizzatore sociale e
un punto di partenza per imprimere senso urbano al quartiere. Il
linguaggio scelto dai progettisti è di netta contrapposizione alla
‘strada corridoio’ ed ai blocchi edilizi anonimi che la delimitano.
La scelta progettuale è antagonista alla struttura squadrata del
disegno urbano, ai blocchi edilizi che saturano tutto lo spazio
disponibile con una ‘regolarità’ tutta protesa al massimo sfrutta-
mento del suolo e dei volumi edilizi. Si tratta di una regolarità
non intesa nel senso dell’arte classica, del nostro rinascimento, di
creazione di modelli di perfezione e di armonia, ma di regolarità
brutalmente indirizzata al raggiungimento del massimo profitto
con il minimo di impegno intellettuale ed economico.
Fig. 20 – Piazza Fabrizio De Andrè alla Piazza Fabrizio De André, per contrasto, è animata dai principi
Magliana
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 211

dell’irregolarità e della deformazione di volumi e superfici (Fig. 20).


Viene ‘difesa’ da una serie di murature irregolari immuni da paral-
lelismi e orizzontalità, inclinati e proiettati nello spazio con cuspidi
inaspettate. Il suolo procede per piani leggermente inclinati, è segna-
to da cigli di travertino annegati nel conglomerato che assumono
andamenti tortuosi indipendenti fra loro e dai limiti della piazza,
mentre alberature e cespugli rampicanti formano macchie discon-
tinue a protezione di arredi urbani e aree di sosta. Un solo piccolo
volume in cemento armato deformato emerge da un ingresso
laterale della piazza. I materiali esibiti nella loro natura essenziale
variano dai cementi lavati delle pavimentazioni ai pali in acciaio
inox che sorreggono i pergolati o i lampioni, alle griglie in acciaio
zincato che sostengono le fontanelle. A distanza di anni la piazza,
interamente pedonale, è frequentatissima, ha dimostrato di aver
migliorato la qualità della vita, di aver contribuito ad avviare un
‘processo di rafforzamento dell’identità urbana’, di aver centrato
gli obiettivi fissati dall’Amministrazione di Roma.
Qualità costruttiva ed eccellenza della composizione contrad-
distinguono il progetto del Ponte dei Congressi, affidato ad un
gruppo di progettisti ingegneri ed architetti di fama internazio-
nale che nel 2001 vinsero il Concorso indetto dal Comune di
Roma: lo Studio del prof. ing. Enzo Siviero, lo Studio Transit
dell’arch. Ascarelli, lo Studio dell’ing. Juan Josè Arenas de Pablo
e dei Fratelli Roberto e Fabio De Marco. Il ponte è parte di
un nodo infrastrutturale fra i più importanti di Roma previsto

Fig. 21 – Ponte dei Congressi in una


veduta di progetto
212 V. Giorgi

per riconnettere i quartieri separati dal Tevere, per avvicinare il


nuovo Centro Congressi, l’Acquario Romano, il futuro Stadio
della Roma, il quartiere Fieristico, l’Aeroporto di Fiumicino. Il
ponte, in struttura mista acciaio e cemento armato, è composto
da due archi inclinati e convergenti verso l’alto, a cui sono appesi
con tiranti in acciaio i sistemi sottostanti della viabilità autostra-
dale e dei percorsi pedonali e ciclabili (Fig. 21). Particolare atten-
zione è riservata al disegno concettuale del ponte, alla ricerca
estetico-formale che privilegia lo studio dei materiali innovativi
e del rapporto architettura-strutture. Il colore bianco, che lo farà
emergere nel panorama della Valle del Tevere, come dice l’arch.
Ascarelli dello Studio Transit, riporta alla memoria l’Arco, mai
costruito, progettato dall’arch. Adalberto Libera per l’Esposizio-
ne del 1942. Da sottolineare infatti che i progettisti nascondono
la natura dei materiali impiegati sotto la patina bianca della ver-
niciatura e dei trattamenti di finitura, per ricercare l’apparenza di
un evento plastico omogeneo e monomaterico in assonanza con
gli edifici monumentali dell’EUR. Un elegante gioco di superfici
curve genera gli archi portanti ed i loro collegamenti, dando leg-
gerezza persino ai poderosi attacchi a terra che si rastremano fino
ad annullarsi nella cerniera di ancoraggio del basamento.
Il confronto del Ponte dei Congressi con il vicino Ponte
Fig. 22 – Ponte dell’autostrada Ro-
ma-Fiumicino
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 213

dell’autostrada Roma-Fiumicino (Fig. 22) posto nell’ansa del


Tevere presso Magliana Vecchia diviene obbligatorio, anche se di
questo ponte – che per il suo portale monumentale rimane facil-
mente impresso nella mente di tutti coloro che vi transitano sotto
quasi fosse una porta della città – molto si è scritto. Al contrario
del Ponte dei Congressi, l’opera, progettata dall’ing. Morandi e
realizzata nel 1965 dall’ANAS, usa il cemento armato privo di
ogni velatura o finzione. Mostra la pesantezza dei piloni centra-
li portanti e la novità strabiliante degli stralli realizzati non in
acciaio, come sarebbe sembrato naturale, ma nella sua accezione
particolare di acciaio applicato al cemento armato precompresso.
Il risultato è una struttura formale brutale e ardita, apparente-
mente contraddittoria, sorprendente nell’uso della tecnologia,
monomaterica per celebrare il cemento armato non per inseguire
affinità con il passato in particolare con i monumenti dell’EUR.
Sarà interessante a costruzione avvenuta del Ponte dei Congressi
vedere come si confronteranno due opere così diverse ma ugual-
mente dense di ‘attività creativa e sintesi espressiva’, di sicuro ne
guadagnerà il paesaggio ridisegnato.
Un altro Concorso che vede al centro dell’attenzione il
quartiere Magliana, è stato bandito, per chiamata diretta, dalle
Società di costruzioni Federici e Di Stefano nell’ambito del
Programma di Recupero Urbano Magliana, in accordo con gli
Uffici del Piano Regolatore di Roma. Le vedute di progetto
pubblicate (Fig. 23) fanno ben sperare perché promettono la rea-
lizzazione di una bella opera di architettura destinata ad attività
alberghiera e commerciale privata. Il Concorso, per chiamata,
vinto dallo Studio dell’arch. Stefano Cordeschi vede prevalere la
torre alberghiera sottile e slanciata, alta 70 metri e ortogonale a
via della Magliana Nuova. Il suo orientamento dirige lo sguar-
do verso la Valle dei Casali, mentre l’altezza ne caratterizzerà la
valenza di segnale urbano, eretto per dialogare con l’EUR e le
sue emergenze. Nella forma l’edificio fonde vari piani verticali,
sovrapposti in una stratificazione sofisticata di paramenti filtran-
ti, superfici avvolgenti polimateriche, lastre volumetriche sottili
distanziate ed evidenziate esili lame di luci ed ombre profonde. A
terra la torre si radica su una piazza pubblica elegante, tagliata da
aiuole e pavimentazioni allineate secondo una trama geometrica
dai ritmi incalzanti, che allude all’antico disegno agrario. Gli altri
volumi, a prevalete destinazione commerciale con la presenza di
214 V. Giorgi

Fig. 23 – Programma di Recupero


Urbano Magliana. Proposta di Torre
alberghiera

una stazione della ferrovia Roma - Aeroporto di Fiumicino, sono


avvolti da superfici tecnologiche spettacolarizzate con schermi e
piani per proiezioni.
Peraltro tutti gli undici Programmi di Recupero Urbano, tra
cui quelli relativi ai quartieri Corviale e Magliana, elaborati dagli
Uffici del PRG di Roma nella seconda metà degli anni Novanta,
come anticipazione di scelte di trasformazione urbana poi con-
fermate ed acquisite dal nuovo Piano Regolatore Generale, sono
stati oggetto di confronto concorrenziale tra varie imprese private
che hanno inteso presentare delle loro proposte edificatorie in
conformità con i criteri del relativo Bando pubblico. I PRU si
sono conclusi con Accordi di Programma e Convenzioni che
hanno posto in primo piano la riqualificazione dei quartieri
periferici con presenza di edilizia residenziale pubblica, con
investimenti pubblici e attraverso edifici e interventi privati che
dovevano preventivamente dimostrare alta qualità architettonica
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 215

Fig. 24 – Edificio direzionale in via Trequanda Fig. 25 – Edificio direzionale in via Trequanda. Particolare

Fig. 26 – Edificio direzionale in via


della Magliana

e formale per essere accettati e licenziati.


Del PRU Magliana purtroppo sono stati realizzati solo alcuni
edifici direzionali e commerciali, tra cui due progettati dal sotto-
scritto e proposti dalle Società Serenellini (Figg. 24-25) e Due Torri
(Fig. 26), mentre un’altra proposta è stata realizzata dalla Società
216 V. Giorgi

Figg. 27-28 – Ciclostazione in via


Frattini

Camad su progetto dell’arch. Giancarlo Toccaceli (Fig. 27).


Il tema architettonico di Toccaceli è la costruzione di un edi-
ficio commerciale ad un solo piano con sottostante locale autori-
messa sito in via Frattini. La soluzione è un perfetto prisma dalle
misure armoniche, posto alla quota stradale, con bucature limitate
al minimo indispensabile legate al funzionamento dell’attività. La
scelta linguistica ci riporta ad un razionalismo estremo e mini-
male, che dà all’edificio il dono della lucidità e dell’immediata
comprensione di forma e misura. Misura commentata dal rivesti-
mento modulato in lastre di gres e locali modanature in acciaio
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 217

grigio scuro. Si dice che l’eccezione conferma la regola, in questo


caso l’eccezione è rappresentata da una significativa apertura
che attraversa il volume in prossimità di via Frattini ed esalta,
per contrasto, la purezza del solido primario. Il varco riporta in
copertura una serie di lunghe lame acuminate in acciaio, appa-
rentemente inutili, che invece vengono teatralizzate per stimolare
l’attenzione dell’osservatore e una sensazione ricercata di pericolo
e di paura giocata in contrapposizione alla sensazione di serenità
impressa a tutto il volume (Fig. 28).
A Corviale la Regione Lazio, il Comune di Roma, l’ATER
ed il Municipio hanno speso non poche energie e investimenti
per la ristrutturazione del grande edificio di residenze pubbliche
lungo un chilometro. Con vari Concorsi pubblici sono stati vara-
ti interventi di indubbio valore architettonico, come quelli pro-
gettati dell’arch. Guendalina Salimei. L’argomento, molto vasto,
è stato oggetto di studio di molte Università italiane e straniere
che hanno prodotto libri, saggi e filmati. Bisogna comunque
ricordare che l’edificio ha rappresentato la materializzazione di
un mito della modernità consacrato dalla cultura e dall’architet-
tura moderna. La concentrazione delle volumetrie nella ‘stecca’
alta nove piani ha consentito di lasciare vaste aree libere per la
realizzazione di parchi e servizi, un patrimonio a disposizione
di tutto l’ambito urbano, dal Casale degli Inglesi al quartiere
Bravetta. Gli architetti guidati dal prof. Mario Fiorentino hanno
realizzato un magnifico segnale territoriale che si staglia sulle
colline della Riserva Naturale della Tenuta dei Massimi fino a
divenire una sorta di moderne mura della città. Per completare
il finanziamento del programma di interventi, l’ambito urbano
di Corviale è stato poi oggetto di un Programma di Recupero
Urbano specifico che, come abbiamo visto per Magliana, pre-
vede investimenti pubblici e privati in servizi, parchi e viabilità,
che peraltro saldano le smagliature lasciate dall’urbanizzazione
degli anni Novanta ed oltre. Per quanto riguarda la descrizione
dei progetti rimando alla rivista «Capitolium» n. 19 del giugno
2001, che ha dedicato ampi spazi al tema del rinnovo urbano
attraverso i PRU. Del Programma di Recupero Urbano Corviale
fanno parte tre complessi residenziali realizzati, su progetto del
mio studio, dalla Società Abitare in via degli Orseolo (Fig. 29),
dalla Società Sviluppo Edilizio in via dei Mazzanti, dalla Società
MA.DO. in via del Casale degli Inglesi (Fig. 30). Fig. 29 – Residenze in via degli Orseolo
218 V. Giorgi

Fig. 30 – Residenze in via del Casale


degli Inglesi

Concluderei questo testo con le architetture di Julio Lafuente


e con il Liceo Scientifico Statale Giovanni Keplero.
Julio Lafuente, architetto spagnolo ma molto noto ed attivo a
Roma, ha iniziato la sua attività di progettista all’interno del famo-
so Studio Vincenzo Monaco-Amedeo Luccichenti, ha proseguito
poi per proprio conto progettando fra l’altro l’Ippodromo di Tor di
Valle, la Clinica Pio XI, e nel nostro Municipio due interventi uno
a carattere ‘vernacolare’, per certi versi volutamente mimetico, l’al-
tro invece più sperimentale ed eloquente. Ambedue i progetti sono
stati eseguiti con l’Ing. Gaetano Rebecchini nell’area del Castello
della Magliana, il primo riguarda l’ampliamento dell’Ospedale San
Giovanni Battista, il secondo la sede della Multinazionale ESSO.
L’ampliamento dell’Ospedale sito in via Dasti, avviene fra gli
anni 1960-1962 per conto del Sovrano Ordine di Malta a stretta
vicinanza con il cinquecentesco Castello della Magliana, antica resi-
denza pontificia, di cui i progettisti recuperano anche componenti
edilizie un tempo utilizzate per attività agricola (Fig. 31). L’Ospedale
si snoda in un bel parco con volumi edilizi non più alti delle nobili
preesistenze, distaccato dal Castello con coperture a tetto e con
murature che alludono all’idea della pesantezza tipica della tradizio-
ne romana. Le bucature, continue o discontinue che siano, tendono
a creare sensibili distacchi dal tetto che appare così quasi sospeso.
Delle strutture in cemento armato vengono mostrati prevalente-
mente tratti di pilastri e di travi come se gravassero sui paramenti
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 219

Fig. 31 – L’Ospedale di San Giovanni


Battista presso il Castello della Magliana

murari, ora intonacati ora rifiniti a mattoni, ad imitazione degli usi


antichi delle travi in legno.
A breve distanza sorge la ex sede italiana degli uffici della ESSO,
che si distingue in tutta la sua forza espressiva lungo l’autostrada
Roma-Fiumicino. Progettata e realizzata per la multinazionale del
petrolio fra il 1977 e il 1978 non ha nulla dei riferimenti alla tradi-
zione che caratterizza l’Ospedale dei Cavalieri di Malta, al contrario
utilizza ed espone le soluzioni tecnologiche più innovative nelle spa-
zialità, nelle strutture portanti, nelle finiture dei paramenti esterni
(Fig. 32). Materia di invenzione e di ricerca è la necessità di con-
centrare in pochi punti le strutture di fondazione, che in un luogo
un tempo paludoso debbono essere realizzate con pali spinti fino a
toccare gli strati ghiaiosi, a circa 60 metri sotto il piano campagna.
I progettisti scelgono tre punti resistenti per un edificio lungo 180
metri. Su questi tre punti vanno a scaricare i pesi di tutto l’edificio.
Le strutture verticali e orizzontali vengono realizzate in acciaio per
ridurre al minimo il peso dell’edificio. L’immagine potente e singo-
lare deriva dall’interpretazione in senso architettonico degli elemen-
ti appena accennati e si traduce in tre ventagli di strutture portanti
in tubolari d’acciaio gravanti sui tre punti di fondazione prescelti.
La leggerezza e la raffinatezza contraddistingue l’insieme, i para-
menti avvolgenti, i solai e i dettagli. La forma a triangoli rovesciati
genera aggetti vertiginosi esaltati dalle scale di sicurezza sospese nel Fig. 32 – La ex sede della ESSO veduta
vuoto e ancorate ai piani con cerniere quasi impercettibili (Fig. 33). dall’autostrada Roma-Fiumicino
220 V. Giorgi

Fig. 33 – La ex sede della ESSO. Le


scale di sicurezza

Le superfici rigate in alluminio brunito dei parapetti si alternano


alle fasce delle finestre continue in vetro, disegnano l’orizzontali-
tà dei piani e smaterializzano il volume del complesso. Due gran-
di varchi triangolari spinti fino al quarto piano formano due corti
limitate dai solai e dai balconi aggettanti rafforzando la sensazione
di leggerezza e l’immagine dei ventagli strutturali (Fig. 34).
Il Liceo, realizzato in via delle Vigne angolo via di Vigna
Girelli, ci impressiona per il senso civico che anima il progetto. Il
prospetto principale interpreta gli intenti del progettista con una
grande parete curva di accoglienza che genera uno spazio pensato
per abbracciare tutti come nella migliore tradizione romana. Ne
nasce un luogo dedicato non soltanto alla scuola ma anche ad un
sistema di comunione con la collettività circostante, di elevazione
culturale, di aggregazione sociale. Un grande gesto architettonico
costruito volutamente con materiali ‘poveri’, i blocchetti cemen-
tizi montati a fasce orizzontali di due colori alternati, per dare la
sensazione alleggerimento della materia. Uno schermo di estre-
ma semplicità e riconoscibilità che come un paramento teatrale
nasconde gli eventi complessi del centro scolastico e della sua
attività di ricerca proiettata verso la città (Figg. 35-36).
Riflessioni sulle architetture contemporanee nel Municipio XI 221

Fig. 34 – La ex sede della ESSO. Gli attraversamenti


222 V. Giorgi

Figg. 35-36 – Il Liceo Scientifico Keplero, succursale di via delle Vigne


Notizie sugli autori

GUIDO DELL’AQUILA – Giornalista e autore televisivo. È stato direttore responsabile dell’Unità. È


stato vice-direttore del Tg3 e della Rete Tre della Rai. Ha ideato e lanciato le trasmissioni televisive
Agorà e Linea Notte. È autore della trasmissione televisiva diMartedì in onda su La7.

MARIA GABRIELLA CIMINO – Archeologa. Attualmente in servizio presso La Sovrintendenza


Capitolina ai Beni Culturali. Svolge la sua attività professionale nella Direzione Monumenti
di Roma: scavi, restauri. Siti Unesco. Attualmente si occupa dei progetti scientifici legati alla
salvaguardia delle Mura Aureliane e della Villa c.d. dei Gordiani sulla via Prenestina. Fa parte
dal 2000 del comitato di redazione del Bullettino della Commissione Archeologica di Roma.

MAURO MARTINI – Architetto. È stato Dirigente Tecnico del Comune di Roma Capitale. Si è
occupato principalmente di riqualificazione delle periferie e partecipazione dei cittadini. Ha di-
retto l’Unità Organizzativa Tecnica del Municipio XV, ora XI. Suoi scritti sono stati pubblicati
su varie riviste specializzate tra cui «Capitolium» e «Urbanistica Informazioni». Cura attualmente
ricerche storiche sulle modificazioni dei territori.

MAURIZIO VACCA – Laureato in Filosofia, lavora nel Municipio XI di Roma Capitale. Re-
sponsabile fino al 2001 dell’Ufficio Cultura, è stato coautore di una pubblicazione sulla chiesa
di Santa Passera alla Magliana. Si è occupato, tra l’altro, della comunicazione istituzionale del
Municipio XI curando per oltre dieci anni il periodico di informazione «Arvalia News» e più
recentemente il sito internet municipale.

PAOLA ROSSI – Storica dell’Arte in servizio presso La Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
nell’Ufficio Territorio, Carta dell’Agro e Forma UrbisRomae dove si occupa di gestione del terri-
torio, di progetti urbanistici, di recupero ambientale e di censimento e catalogazione. È autrice
di saggi e articoli legati principalmente alle problematiche del territorio. Ha lavorato molti anni
alla Treccani nella Redazione dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale.
GIUSEPPE CALTABIANO – Architetto, dipendente del Comune di Roma Capitale dal
1/12/1981 al 28/2/2015, è stato per oltre trent’anni il Responsabile del Servizio manu-
tenzione del patrimonio edilizio del Municipio XV, ora XI. Si è occupato, tra l’altro, della
manutenzione edilizia di ‘Casa Vittoria’.

ALESSANDRO DI SILVESTRE – Architetto. Ha iniziato la sua ‘carriera pubblica’ nel Co-


mune di Roma dal 1979 su progetti urbanistici della periferia romana. È stato progettista
e ha curato l’esecuzione di Piazza Capelvenere ad Acilia. Ha svolto funzioni di Responsa-
bile del Procedimento per i recenti interventi a Roma del Macro di via Nizza, dei nuovi
Ponti pedonali della Musica e della Scienza. Attualmente dirige l’Area Lavori Pubblici del
Comune di Fiumicino.

GUENDALINA SALIMEI – Docente di progettazione architettonica presso la facoltà di


Architettura dell’Università Sapienza di Roma. Svolge, contemporaneamente all’attività
di ricerca, un’intensa attività progettuale, attraverso la partecipazione a concorsi nazionali
e internazionali. I suoi progetti sono stati pubblicati in Italia e all’estero.

PATRIZIO DI NEZIO – Architetto e Storico dell’Arte in servizio presso la Sovrintendenza


Capitolina nell’ambito organizzativo della promozione dei beni culturali con interventi
di salvaguardia e valorizzazione ambientale. All’interno dell’Ufficio Tecnico di Sovrinten-
denza svolge attività progettuale per mostre e allestimenti museali. Ha lavorato diversi
anni nel campo della scenografia televisiva. È autore di saggi e articoli, in particolare sulle
problematiche legate all’archeologia industriale a Roma.

VINCENZO GIORGI – Architetto. Svolge attività professionale nel settore della progetta-
zione architettonica e urbana a Roma. È stato Docente di Architettura degli interni presso
la Facoltà di Architettura dell’Università Sapienza di Roma. È autore di saggi e articoli nel
settore dell’architettura contemporanea e sul territorio Portuense del quale è un esperto
conoscitore. Le sue realizzazioni sono state pubblicate in Italia.
Stampato nel mese di dicembre 2016
Libreria Efesto
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“…. questo volume non si limita a mettere in fila nomi, ricordi, circostanze. Ha anche un
altro merito. Cuce con un filo rosso - e tiene assieme - la storia autentica del nostro territorio,
i suoi legami con il passato, la voglia di un presente dignitoso, gli slanci e i progetti verso un
futuro migliore. Una cosa del genere è già difficile da pensare su una scala territoriale va-
sta. Realizzarla nella piccola dimensione di un Municipio rappresenta quasi un miracolo.”

ISBN 978-88-94855-06-7

9 788894 855067

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