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Museo Archeologico
e d’Arte della Maremma
Museo d’Arte Sacra
della Diocesi di Grosseto

a cura di Mariagrazia Celuzza


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Città di Grosseto

Museo Archeologico e d'Arte della Maremma


Museo di Arte Sacra della Diocesi di Grosseto

Testi
Mariagrazia Celuzza

Redazione
Cristina Barsotti, Francesca Colmayer, Paola Spaziani,
Chiara Valdambrini

Progetto grafico
RovaiWeber design

Realizzazione grafica
Effigi

Fotografie
Archivio fotografico Museo Archeologico e d’Arte della Maremma,
Archivi Fotografici ex Soprintendenza Archeologia della Toscana ed ex
Soprintendenza Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico per le
Province di Siena e Grosseto – ora Polo Museale della Toscana e
Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di
Siena, Grosseto e Arezzo, e inoltre Agenzia Bieffe (GR), Archivio
Fotografico Fratelli Gori (GR), Carlo Bonazza, Paolo Nannini

Stampa

ISBN 978-8864338347

Con il contributo di

Regione Toscana

I versi di Wislawa Szymborska citati a p. 11 sono tratti da W. S., Discorso


all'Ufficio oggetti smarriti, Poesie 1945-2004, a cura di P. Marchesani,
Adelphi 2004, ora anche in W. S., La gioia di Scrivere, Tutte le poesie (1945-
2009), Adelphi 2009. La citazione di Luigi Meneghello a p. 21 è tratta
da L. M., Rivarotta, Moretti & Vitali editori, Bergamo 1992.
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Sommario

Presentazione
Antonfrancesco Vivarelli Colonna, Sindaco di Grosseto 4

Presentazione
Luca Agresti, Vicesindaco di Grosseto 5

Presentazione: un’eredità preziosa


Rodolfo Cetoloni, Vescovo di Grosseto 6

Presentazione
Anna Di Bene, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le
Province di Siena, Grosseto e Arezzo 8

Introduzione: le storie di un museo


Mariagrazia Celuzza 11

Introduzione: dieci anni dopo


Mariagrazia Celuzza 21

Un po’ di storia 27

Dalla collezione del canonico Chelli al Museo Civico 41

Roselle 51

Archeologia della Maremma 107

Il Museo d’Arte Sacra della Diocesi di Grosseto 205

Maremma medievale e moderna 245

Bibliografia 263

Il Museo in breve 279


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124_Archeologia della Maremma

SALA 14
L’Orientalizzante (720-580 a.C.)

La seconda metà dell’VIII secolo a.C. è un momento di particolare


importanza per gli Etruschi; nel corso di questa fase di transizione
fu infatti abbandonata definitivamente l’organizzazione sociale ed
economica dell’Età del Ferro. La società di età storica che si
andava delineando era caratterizzata dall’uso della scrittura, dalla
civiltà urbana, e dall’imporsi dell’aristocrazia con i suoi legami
familiari sulla vecchia organizzazione tribale. Questo complesso
processo innovativo ebbe un’accelerazione negli ultimi decenni del
secolo, intorno alla data in cui si pone, per convenzione, l’inizio del
periodo che va sotto il nome di Orientalizzante (720-580 a.C.).
L’Orientalizzante non è un fenomeno esclusivo degli Etruschi, ma
coinvolse in varia misura l’area mediterranea e l’Europa Centrale.
È caratterizzato dalla circolazione di grandi quantità di oggetti, di
maestranze, di modelli provenienti dal Vicino Oriente e dalla
Grecia, con il tramite dei navigatori fenici e greci, e dal diffondersi
di motivi orientali nell’artigianato, nell’arte, nell’architettura, nella
moda. Fra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. l’arrivo di
artigiani greci e orientali fece nascere nelle città etrusche botteghe
dove si formarono gli scultori, i ceramisti, gli orafi etruschi e dove
si produsse quella commistione fra motivi, stili e iconografie tipica
dell’Etruria di questo periodo.
Protagonisti indiscussi dell’Orientalizzante etrusco furono gli
aristocratici, che presero coscienza dei privilegi e degli spazi di
prestigio e di potere che potevano assicurarsi sfruttando le
innovazioni del periodo, e misero in atto quella che qualcuno ha
definito rivoluzione aristocratica. La ricchezza stessa che si
accumulava nelle loro mani poteva essere, attraverso la sua
esibizione fino dentro la tomba, uno strumento di propaganda.
Furono gli aristocratici, o principes, come spesso vengono
chiamati, a capire l’importanza della scrittura tanto da portarsi
nelle tombe abbecedari e strumenti per scrivere. Furono gli
aristocratici a scardinare la società tribale imponendo
l’ordinamento per famiglie e gentes che si affermerà
definitivamente nel corso dell’Orientalizzante.
Il segno di questo cambiamento è evidente nell’onomastica:
accanto al nome personale scompare il patronimico con
l’indicazione del nome del padre, sostituito dal nome di famiglia
o gentilizio che, a sua volta, va inteso come un patronimico
congelato che si riferisce a un antenato da cui si fa iniziare il
lignaggio. Il gentilizio è perciò ereditario e dietro la consuetudine
onomastica dobbiamo immaginare che si consolidi l’uso
dell’ereditarietà dei beni e quindi della terra, e che le forme di
possesso collettivo di matrice protostorica siano scomparse a
favore della proprietà privata.
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Luoghi: Vetulonia

Negli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C. predominano le sepolture


a fossa, inserite entro circoli di pietra bianca e sormontate da
limitati tumuli di terra, antenate delle monumentali tombe a
tumulo. Le tombe a circolo, come il II Circolo delle Pellicce qui
esposto, hanno restituito corredi funerari molto ricchi, con oggetti e
vasi importati dall’Oriente e dall’Egitto e raffinati prodotti della
metallurgia e dell’oreficeria locale. Sono invece della seconda metà
del VII secolo a.C. le grandi tombe monumentali coperte a falsa
cupola (tholos), come la tomba della Pietrera da cui proviene la
scultura esposta in calco. Nel VII secolo a.C. i due nuclei
villanoviani originari parrebbero sostituiti da un centro urbano
unico. È questo il periodo in cui Vetulonia conobbe il suo apogeo
economico, derivante dallo sfruttamento dei giacimenti minerari
delle Colline Metallifere e dagli scambi fra i prodotti locali (metalli
grezzi e semilavorati, oggetti di bronzo, oro, ambra) e i manufatti
pregiati importati. A queste attività erano presumibilmente in gran
parte preposti i villaggi distribuiti nel territorio rispettivamente
nell’area mineraria del massetano, in primo luogo il villaggio del
Lago dell’Accesa, lungo la costa (qui rappresentati dalla necropoli
di Val Berretta di cui è esposto un corredo) e intorno al lago Prile.
Le testimonianze dalla città sono però tutte relativamente
recenti: nessun edificio sembra più antico del VI secolo a.C.,
mentre il circuito murario, secondo le più recenti ipotesi,
andrebbe datato nel III secolo a.C. per confronto con esempi
laziali.

Vetulonia, scavo
della tomba
a circolo
delle Costiacce
in una foto
d’epoca
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126_Archeologia della Maremma

Grande coppa (kantharos) con alte anse decorate con anatre mobili, dalla necropoli di Val Berretta,
Castiglione della Pescaia, metà VII secolo a.C.

Elemento di bardatura equina di bronzo, Statua di donna piangente,


da Vetulonia, prima metà VII secolo a.C. dalla tomba della Pietrera,
Vetulonia, seconda metà
VII secolo a.C. (calco)
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Personaggi: la donna piangente della Pietrera

Il calco (il pezzo originale è conservato nel Museo Archeologico


Nazionale di Firenze) è stato tratto da una statua che appartiene
ad un complesso di sculture funerarie in frammenti, riproducenti
quattro personaggi maschili e quattro femminili, posto all’interno
della tomba della Pietrera. Questi esemplari, insieme a pochi altri
rinvenuti in altri siti d’Etruria, rappresentano la più antica
testimonianza della statuaria in pietra etrusca, eseguita da artisti
locali o da maestranze straniere immigrate: lo stile delle figure
rivela infatti una impronta orientale con influssi degli ambienti
siriano e cipriota.
Le statue, collocate verosimilmente nella parte terminale del
corridoio di accesso (dromos) o disposte intorno alle pareti della
camera funeraria, sono state interpretate come immagini di
quattro coppie di antenati. È possibile, secondo una
interpretazione, che queste statue rappresentino gli antenati
nell’atto di accogliere il defunto inscenando il pianto rituale, nello
stesso modo in cui i viventi si erano accomiatati dallo stesso
defunto durante la cerimonia funebre. La presenza di queste
immagini fa anche pensare che al funerale partecipassero forse
persone travestite da antenati, come è testimoniato più tardi nel
periodo romano. L’elemento certamente presente nel corso della
cerimonia era il pianto rituale: lo si può vedere chiaramente nella
figura qui esposta che è rappresentata nel gesto di battersi il
petto, tipico delle lamentatrici o prefiche e diffuso in tutta l’area
mediterranea.

Fibula a sanguisuga di bronzo e pasta vitrea, dal II Circolo delle Pellicce, Vetulonia,
675-650 a.C. circa
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128_Archeologia della Maremma

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Oggetti: collana e pendenti d’ambra da Vetulonia

L’ambra è una resina fossile considerata fin dalla preistoria un


bene di prestigio, ma anche una sostanza dai poteri magici e
curativi. In Italia cominciò a diffondersi fra Eneolitico ed Età del
Bronzo e continuò ad essere importata nei periodi successivi. Nel
corso dell’Orientalizzante le vie dell’ambra, consolidatesi nei secoli
precedenti, partendo dalle coste delle attuali Danimarca, Germania,
Lituania e Lettonia dove erano i giacimenti, attraversavano l’intera
Europa privilegiando il corso dei grandi fiumi navigabili. L’area di
arrivo in Italia e lo sbocco nel Mediterraneo erano poi il delta del
Po e l’Adriatico settentrionale.
Gli Etruschi apprezzavano l’ambra, esotica e preziosa, e ne
importarono notevoli quantità soprattutto nel corso
dell’Orientalizzante. La materia prima arrivava per lo più grezza e
veniva lavorata quando era già in area etrusca. Nel VII secolo a.C.
il più importante centro di lavorazione dell’ambra in Etruria era
Vetulonia, da cui provengono gli oggetti esposti.

Collana d’ambra, da Vetulonia, VII secolo a.C.


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Archeologia della Maremma_129

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Un oggetto egiziano da Vetulonia

Nelle tombe di Vetulonia sono stati trovati anche oggetti egiziani,


commercializzati sia dai Siro-fenici, che producevano anche
imitazioni, sia dai Greci. La maggior parte sono sigilli a forma di
scarabeo o oggetti di ornamento personale oppure figurine di dei.
Un piccolo gruppo di oggetti è formato da rappresentazioni,
realizzate in una particolare maiolica verde-azzurra, la faïence, di
una divinità minore del pantheon egiziano, Bes, di origini etiopiche
o asiatiche. Si tratta di un mostriciattolo nano con una maschera
leonina, gambe corte e storte, la coda e, spesso, la lingua di fuori
e un copricapo di piume. Gli Egiziani consideravano Bes protettore
del parto e in genere dell’infanzia, capace di scacciare i demoni
malvagi con il suo solo aspetto o con il canto e la danza. Per
Statuetta di Bes questo era oggetto di un diffuso culto domestico e per estensione
di faïence, da Vetulonia, le sue immagini erano considerate portafortuna.
VIII secolo a.C. Non sappiamo se anche gli Etruschi credessero nei poteri dei
piccoli Bes o li tenessero solo come oggetti strani ed esotici.
L’esemplare esposto (VIII secolo a.C.) fu rinvenuto negli scavi del
1907 che ebbero per oggetto le località Pietre Bianche, Pietrera e
Sagrona.

_
Luoghi: i centri minori e i territori delle città

La nuova e vivace società protourbana, spinta dalla necessità di


appropriarsi di nuove terre e di controllare le vie di penetrazione
per incrementare gli scambi, promosse la nascita di nuovi centri
abitati che spesso andarono a sovrapporsi alle sedi protostoriche
precedentemente abbandonate. Questo fenomeno è diffuso nei
territori circostanti i grandi centri protourbani e ben leggibile nel
Vulcente, dove, fra le ultime fasi del Villanoviano e l'inizio
dell'Orientalizzante, vennero rifondati numerosi centri. All’estremo
nord nacque Marsiliana, nell’interno Poggio Buco, Pitigliano – che
appare però legato all’area falisco-tiberina più che a Vulci,
Sovana, Saturnia, Castro; sulla costa Orbetello, Talamone. Non
sappiamo in quale misura i nuovi insediamenti fossero autonomi
rispetto al centro maggiore, anche se è evidente una dipendenza di
tipo culturale.
Il ruolo preminente di Vulci fin dalla fine dell’Età del Ferro è legato
al controllo degli scambi, come centro di ricezione e diffusione dei
beni di lusso orientali e di ceramica greca e insieme di
smistamento della produzione ceramica locale, italo-geometrica ed
etrusco-corinzia, ispirata a quella greca di importazione ed
eseguita nelle botteghe vulcenti da artigiani immigrati e da
apprendisti, e in seguito maestri, indigeni. Di questo periodo e in
particolare dei decenni 640-610 a.C. è l’attività del Pittore detto
della Sfinge Barbuta, caposcuola della produzione etrusco-corinzia
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vulcente, la cui espansione raggiunse, insieme con il bucchero, le


coste dell’intero bacino del Mediterraneo. Ma nel VII a.C. Vulci era
già attiva anche nella commercializzazione dei suoi prodotti
agricoli, in particolare il vino della valle dell’Albegna. I centri
minori, posti sul mare o su direttrici importanti verso l’interno,
erano evidentemente coinvolti in queste attività.
Meno chiaro è il quadro dei territori di Vetulonia e Roselle.
Vetulonia controllava direttamente i villaggi minerari dell’area
delle Colline Metallifere, uno dei quali, quello presso il lago
dell’Accesa, è stato indagato a lungo; di altri piccoli centri si
ipotizza l’esistenza solo sulla base dei gruppi di tombe sparsi nel
territorio; di recente è stato invece scavato l’abitato di Santa
Teresa di Gavorrano con le tombe collegate al sito. Quanto a
Roselle, non è del tutto escluso che in una prima fase,
corrispondente all’Orientalizzante, possa essere stata un centro
minore nell’orbita di Vetulonia. In alternativa potrebbe essere stata
un centro urbano autonomo, ma di importanza inferiore alle grandi
città con cui confinava.

_
Luoghi: Marsiliana d’Albegna

Marsiliana è un castello medievale posto su una collina che


domina la valle dell'Albegna pressochè in tutta la sua estensione,
da Talamone a Manciano. Alla base della collina è la confluenza
fra Elsa e Albegna, con un importante punto di guado e,
nell'antichità, un possibile approdo fluviale. Questa posizione
eccezionalmente favorevole è all'origine della nascita del centro
orientalizzante etrusco (metà VIII-seconda metà VI a.C.) che ha
restituito alcuni dei più noti documenti della civiltà etrusca, quale

Marsiliana d’Albegna, il castello e il panorama verso nord-ovest (foto P. Nannini)


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Archeologia della Maremma_131

la tavoletta scrittoria del Circolo degli Avori e la Fibula Corsini.


La scoperta del sito e lo scavo della più ricca delle necropoli,
Banditella, si deve al principe Tommaso Corsini (1835-1919),
proprietario della tenuta, che aveva curato fra 1897 e 1901 anche
il restauro del castello, aggiungendo in più parti un secondo piano
e costruendo ex novo la torre.
Al centro etrusco viene tradizionalmente attribuito il nome di
Caletra, ricostruito in base a fonti romane che citano un ager
Caletranus (territorio di Caletra) localizzabile nella valle
dell'Albegna e comprendente al suo interno Saturnia.
Scavi in corso dal 2002 (Università di Siena) stanno contribuendo
a ricostruire la storia di Marsiliana, che in precedenza si basava
quasi esclusivamente sulle ricerche di Tommaso Corsini e Antonio
Minto. La nascita del centro abitato, come nel caso di altri centri
minori del territorio delle metropoli etrusche, si colloca nella
seconda metà dell’VIII secolo su un sito che era stato abbandonato
nell’età del Bronzo Finale a seguito della formazione del centro
protourbano di Vulci, con il conseguente concentramento della
popolazione nell’area della futura città. L’abitato di Marsiliana si
estende, in base alle recenti ricerche, su 47 ettari, e comprende il
Poggio del Castello, la località Uliveto di Banditella e parte del
Poggio di Macchiabuia. Il controllo del territorio era comunque
capillare, come dimostra la topografia delle necropoli e delle
tombe sparse, distribuite nelle località Banditella, Macchiabuia,
Perazzeta, Poggio Petricci, ma anche più lontano verso la piana
dell’Albegna e il fosso Radicata, e la presenza di piccoli abitati di
sommità e di estesi edifici rurali, quali la Casa delle Anfore in
località Poggio Alto. La ricchezza dei corredi mostra come la
necropoli di Banditella fosse l’area cimiteriale del ceto
aristocratico di Marsiliana, culturalmente legato a Vulci, ma in
contatto anche con Vetulonia. Le tombe sono a fossa, spesso
raggruppate e circondate da un circolo di pietre infisse nel terreno,
a individuare i gruppi familiari.
Marsiliana viene quindi a configurarsi come un centro di frontiera
del territorio di Vulci, a cui era delegato lo sfruttamento agricolo
della valle dell’Albegna. Alla fine del VII secolo a.C. in questo ruolo

Piccola fibula di bronzo a forma di cervo e fibula a drago d’argento, dalla necropoli di Banditella, scavi Corsini,
Marsiliana d’Albegna, prima metà VII secolo a.C.
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132_Archeologia della Maremma

sarà affiancata dal grande insediamento di Doganella, sulla riva


destra dell’Albegna, colonia rurale e centro direzionale della
produzione e del commercio del vino di Vulci.

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Personaggi: l’uomo di Macchiabuia

La tomba 6 della necropoli di Macchiabuia conteneva i resti


ossei di un individuo adulto che era stato seppellito nell’ultimo
quarto dell’VIII secolo a.C. Si trattava di un uomo di non meno di
cinquanta anni, alto circa 170 cm e afflitto da varie patologie ai
denti e alle ossa. La ricostruzione della fisionomia è stata
ottenuta con metodi dell’antropologia forense, utilizzando 34
punti craniometrici relativi agli spessori dei tessuti molli e
considerando le inserzioni dei muscoli masticatori e mimici. Il
calco in resina della ricostruzione fisiognomica è poi passato
dal laboratorio di antropologia a quello di archeologia
sperimentale, dove la testa è stata inserita su un manichino
corrispondente alle caratteristiche fisiche dell’individuo. La pelle
è stata resa con silicone e lattice, i peli con crespo di lana,
mentre i capelli sono sintetici e la barba naturale.

Ricostruzione
dell’inumato
della tomba 6,
necropoli di
Macchiabuia,
Marsiliana
d’Albegna,
(Stefano Ricci,
Floriano Cavanna)
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Archeologia della Maremma_133

L’acconciatura si basa su confronti iconografici leggermente più


recenti (inizio VII secolo a.C.: Ceri, tomba delle Statue; Cerveteri,
tomba delle Cinque Sedie); indumenti e tecniche di lavorazione
della stoffa su confronti con la coeva tomba del Trono di
Verucchio. Gli stivaletti riprendono la forma dei vasi a stivaletto
d’impasto della fine dell’età del Ferro (Bologna e Vetulonia). La
fibula e il vaso sono riproduzioni di due elementi del corredo,
esposto nella vicina vetrina.

_
Oggetti: la tavoletta scrittoria del Circolo degli Avori

Gli Etruschi acquisirono l’alfabeto dai Greci delle più antiche


colonie in Campania, Pitecussa e Cuma, entro l’inizio del VII secolo
a.C., in base alla cronologia delle iscrizioni più antiche conservate.
Inizialmente gli Etruschi utilizzarono l’alfabeto senza variazioni;
con il tempo lo adattarono alle esigenze fonetiche della loro lingua
eliminando alcune lettere (b, d, o e alcune sibilanti) e
aggiungendone una (f). Frequenti sono i modelli, o alfabetari, il più
antico dei quali, riprodotto sulla parete della sala 14, è inciso sul
bordo della tavoletta d’avorio trovata nel Circolo degli Avori di
Marsiliana e risale al periodo 675-650 a.C. La tavoletta, che
doveva essere incerata e incisa, era uno strumento per
l’apprendimento della scrittura o forse un promemoria in un
momento in cui la scrittura era ancora una novità. L’alfabeto-
modello è uguale a quello in uso nella colonia greco-euboica di
Cuma, completo di ventisei lettere, e diverso da quelli documentati
in Etruria più tardi, come ad esempio l’altro alfabeto-modello
esposto nel Museo (Sala 1) dove mancano le lettere inutili alla
fonetica etrusca e compare invece la f a forma di 8.

Tavoletta scrittoria d’avorio, dal Circolo degli Avori, necropoli di Banditella, scavi Corsini, Marsiliana d’Albegna,
675-650 a.C. circa (Firenze, Museo Archeologico Nazionale)
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Poggio Buco, necropoli (foto C. Bonazza)

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Luoghi: Poggio Buco

Il sito noto come Poggio Buco, ma in realtà corrispondente a varie


località, una sola delle quali, sede della estesa necropoli etrusca,
corrisponde al toponimo, già segnalato nell’Ottocento come sede
di un abitato etrusco, è ubicato sulla sponda destra del medio
corso del fiume Fiora, nell’entroterra vulcente. L’abitato è situato
su un altopiano tufaceo a promontorio (Le Sparne/Carboniere del
Fiora), circondato dal Fiora ad ovest, e da due fossi, Bavoso e
Rubbiano, a nord e a sud, e congiunto a est all’altura di Poggio
Buco e al sistema collinare interno.
Sul pianoro, abitato sin dall’Età del Bronzo Finale e rioccupato,
nella prima metà dell’VIII secolo a.C., sono stati localizzati, in
aree adiacenti, l’insediamento protostorico e i resti di un palazzo
orientalizzante-arcaico (VII-VI secolo a.C.). Alcune tombe
monumentali coeve nelle necropoli di Selva Miccia e di Poggio
Buco potrebbero essere attribuite al gruppo aristocratico di cui il
palazzo è espressione. Dallo scavo del palazzo provengono i
proiettili di fionda (ghiande missili) iscritti che portarono alla fine
dell’Ottocento all'identificazione dell'abitato di Le Sparne con
Statonia, identificazione oggi abbandonata in quanto le iscrizioni
Staties/Statiesi non sono toponimi, bensì gentilizi.
Le aree cimiteriali sono distribuite su Poggio Buco, Insuglietti ,
Selva Miccia, Valle Vergara e Caravone.
Fin dall’Ottocento le necropoli in questione sono state oggetto
dell’attenzione degli scavatori clandestini, che hanno disperso
ingenti quantità di reperti. Se consideriamo quanto è conservato
nei musei, appare evidente che la maggior parte degli scavi e dei
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ritrovamenti a Poggio Buco e nelle località vicine ha avuto


carattere fortuito e incontrollato: solo in pochi casi è infatti
possibile associare con certezza i corredi e ricondurli alla
struttura tombale di rinvenimento.
Va infine ricordato che il nucleo di materiali da Poggio Buco (e da
Pitigliano) conservato nel Museo Archeologico e d’Arte della
Maremma, è formato da una parte dei reperti in origine esposti
nel vecchio Antiquarium di Pitigliano. Si presume, purtroppo in
assenza di qualsiasi documentazione d’archivio, che tali oggetti
siano stati depositati a Grosseto durante la Seconda Guerra
Mondiale. Da un secondo nucleo, formato da ritrovamenti degli
anni ’50 del Novecento, è stato possibile estrarre tre gruppi di
oggetti riferibili a singole tombe non più localizzabili. In un caso
si tratta della parte residua del corredo di una tomba già visitata
da clandestini, interessante per la presenza di due pezzi di
ceramica etrusco-corinzia attribuiti al Pittore della Sfinge Barbuta
(630-610 a.C. circa). Gli altri due gruppi, in base agli elenchi che
li accompagnavano al momento del deposito nel Museo,
proverrebbero da due tombe a fossa o a cassone semplice,
databile tra la fine dell’Età del Ferro e l’inizio dell’Orientalizzante
(ultimi decenni VIII-primi VII secolo a.C.).
Le testimonianze archeologiche da Poggio Buco, abitato e necropoli,
si interrompono poco dopo la metà del VI secolo a.C. La tomba a
dado di Selva Miccia, recentemente recuperata, è la tipologia più
tarda attestata nelle necropoli (terzo quarto VI secolo a.C.).

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Oggetti: un servizio da banchetto in una tomba
di Santa Maria in Borraccia

Nel corso dell’Orientalizzante gli Etruschi non si limitarono a


importare oggetti dall’Oriente, ma adottarono anche usi di quei
paesi, talvolta attraverso il filtro della Grecia o lo scambio con i
Fenici. Il banchetto da sdraiati è certamente una pratica di
origine orientale, e allo stesso modo lo è il bere vino.
Il banchetto, per l’aristocrazia etrusca, era un’occasione sociale
e poteva accompagnare la celebrazione di avvenimenti
importanti, compresi i funerali. Del rituale del banchetto, oltre al
cibo e al vino consumati in comune, facevano parte la musica,
le danze, i giochi e le gare sportive, come è documentato dalle
immagini (soprattutto pitture nelle tombe e su vasi, ma anche
opere di scultura e plastica). Anche l’aldilà era immaginato
come un banchetto, a giudicare dai vasi da mensa che si
trovano nei corredi funerari accompagnati da contenitori di vino.
La perdita della letteratura etrusca non permette invece di
conoscere il contenuto delle conversazioni e dei discorsi, né i
versi che venivano recitati o cantati, a differenza di quanto
invece si sa del simposio greco, che è argomento di numerosi e
ben noti testi poetici e filosofici conservati. Ma l’atmosfera di un
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136_Archeologia della Maremma

banchetto etrusco era certamente diversa, come era diversa la


società etrusca da quella greca. Alle origini di questa diversità
era la presenza delle donne accanto agli uomini, impensabile
per un Greco e dai Greci, per i quali il simposio era una occasione
esclusivamente e gelosamente virile, condannata come immorale.
Il vino entrò nelle abitudini etrusche rapidamente e iniziò anche
a essere prodotto in Etruria, che aveva clima e suoli adattissimi
alla coltivazione della vite.
La tomba a camera della necropoli di Santa Maria in Borraccia
ospitava due defunti, un uomo e una donna, a giudicare dalla
presenza di una punta di lancia e di una fuseruola.
Gli altri numerosi oggetti del corredo formavano un servizio da
simposio completo. Il vino era di provenienza greco-orientale,
sulla base della forma delle anfore che lo contenevano, tipiche
dell’isola di Chio. Per il resto il corredo era formato da brocche,
coppe, calici, attingitoi, piatti, e altri contenitori grandi e piccoli
che si immaginava dovessero servire ai defunti nel loro ultimo
banchetto.

Ceramiche etrusco-
corinzie, da un corredo
di Poggio Buco,
630-610 a.C. circa

Anfore vinarie di Chio,


dalla tomba A,
necropoli di Santa
Maria in Borraccia,
Magliano in Toscana,
625-600 a.C.
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Archeologia della Maremma_137

SALA 15
L’Età Arcaica (580-480 a.C.)

Con l'Età Arcaica si compie in Etruria il processo di formazione


della città iniziato nell'età del Bronzo Finale. Non mancano
scontri fra città confinanti per ampliare il territorio o per il
controllo di specifiche risorse.
Elemento comune a quasi tutti i centri nella prima fase dell’Età
Arcaica è la crescita economica e l’aumentata estensione delle
necropoli da imputare ad una curva demografica che proseguiva
la tendenza positiva dell’Orientalizzante.
Con il VI secolo a.C. i prodotti esotici di lusso tipici
dell’Orientalizzante scomparvero, sostituiti quasi
esclusivamente dall’importazione di ceramiche provenienti
dall’Attica. Anche l’artigianato locale assunse connotati diversi
con il precisarsi delle specializzazioni delle città. Il bucchero
veniva infatti fabbricato un po’ovunque, ma le produzioni di
Roselle e di Vetulonia ebbero solo breve durata e diffusione
locale mentre le officine di Vulci distribuirono i loro prodotti a
lungo e su un’area molto vasta (Sala 23). A Vulci si affermò in
Età Arcaica anche la produzione di manufatti in bronzo fuso e
laminato, che invece subì una progressiva diminuzione a
Vetulonia. Vulci continuò anche per altri aspetti ad essere una
città economicamente vivace: continuava a importare, produrre
e smistare verso l'Etruria interna e settentrionale beni di lusso,
mentre esportava nel Mediterraneo occidentale il vino prodotto
nel suo fertile territorio. Aree interne come le alte valli del Fiora
e dell’Albegna si svilupparono caratterizzandosi come tappe di
un asse di comunicazione che univa il territorio di Vulci con
l’area volsiniese e con i territori dell’Amiata e di Chiusi.
A partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. tutta l’Etruria
ebbe a risentire della situazione internazionale. L’ondata di
profughi, proveniente dalle colonie greche delle coste dell’Asia
Minore invase dai Persiani, fu all’origine di una nuova fase della
colonizzazione greca in occidente che alterò gli equilibri nel Mare
Tirreno, fino ad allora basati sull’accordo fra Etruschi e
Cartaginesi per una pacifica divisione delle aree di influenza.
Anche sul fronte commerciale si registrano cambiamenti: negli
ultimi decenni del VI secolo a.C. le importazioni via mare del vino
etrusco in Gallia diminuirono mentre aumentavano quelle della
greca Marsiglia. Da quel momento gli Etruschi potenziarono il
commercio via terra con la pianura padana e l’Europa
continentale. La scomparsa delle testimonianze da molti centri
minori del vulcente fra la fine del VI e la metà del V secolo a.C.
potrebbe anche essere collegata con questi mutamenti, che
coinvolsero particolarmente i territori produttori di vino, e che
imponevano l'apertura o il potenziamento di nuove vie
commerciali per compensare la perdita della precedente
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138_Archeologia della Maremma

supremazia. Non subisce alcuna interruzione, anzi sembra


svilupparsi l’esteso abitato fondato alla fine del VII secolo in
località Doganella nella bassa valle dell’Albegna, già indicato
come centro direzionale della produzione del vino di Vulci. Il
centro è atipico per la sua enorme estensione: 240 ettari, quasi il
doppio di Vulci. Scavi e indagini di superficie hanno mostrato un
impianto urbano abbastanza regolare, tipico delle città di nuova
fondazione, all'interno del quale erano compresi anche campi
coltivati e pascoli. Molti individuano in questi resti il centro di
Kalousion o Klousion, citato da Polibio nel corso della descrizione
degli avvenimenti precedenti la battaglia di Talamone del 225
a.C. fra Galli e Romani; di recente è stata proposta anche
l’identificazione con Oinarea, la ‘città dove scorre il vino’
ricordata dallo Pseudo Aristotele come esistente in Etruria.
Anche fuori del territorio di Vulci si registrano profondi mutamenti
nell'insediamento. Il centro di Vetulonia subì una crisi o almeno
un netto ridimensionamento con il VI secolo a.C. in parte
compensata da una certa continuità di vita nei centri minori
circostanti (Pian d'Alma, Val Berretta, San Germano, Selvello). La
decadenza della città potrebbe essere dovuta allo scontro con le
città di Roselle a est e di Populonia a nord, ma anche al
superamento del sistema arcaico di assetto sociale perpetuato
dalla classe dominante aristocratica. Sembra però certo che a
partire dal VI e soprattutto dal V secolo a.C. il controllo sulle aree
minerarie delle Colline Metallifere passò a Populonia, che già
poteva contare sui ricchi giacimenti di ematite dell'Isola d'Elba.
L'insediamento minerario del Lago dell'Accesa, legato a Vetulonia,
cessò di vivere proprio intorno alla fine del VI secolo a.C.
Nel caso di Roselle è stato ipotizzato un intervento di Chiusi che
l’avrebbe conquistata per assicurarsi uno sbocco al mare.

Testa di ariete di nenfro (parte di altare?), da Castro, Busto di cavaliere marino di nenfro,
seconda metà VI secolo a.C. da Castro, 530-520 a.C. circa
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Archeologia della Maremma_139

Gli ultimi decenni dell’Età Arcaica coincidono con una


accelerazione della crisi mediterranea già in atto. Furono i
Siracusani, per altro alleati con i Populoniesi, a vincere due
battaglie nel 480 e nel 474 a.C. sgominando così le potenze
navali cartaginese ed etrusca. Con la fine dell’Età Arcaica si
concluse così la thalassokrateia, ovvero il dominio sul mare
degli Etruschi.

_
Oggetti: sculture funerarie vulcenti

Dalla metà circa del VI secolo a.C. in area vulcente ha


particolare sviluppo la scultura funeraria. Il materiale utilizzato
è quasi sempre il nenfro, un tufo grigio scuro tipico delle aree
etrusche laziali, mentre il repertorio figurativo rimanda alle
ceramiche coeve, in particolare corinzia e ionica, con animali
reali e fantastici (arieti, leoni alati, sfingi, grifi, centauri) e
raramente la figura umana. Nello stile è possibile cogliere
influssi dell’arcaismo greco.
Queste sculture, quasi fossero guardiani delle tombe, venivano
collocate nel corridoio di accesso delle tombe (dromos) o nei pressi
dell’ingresso, per delimitare simbolicamente il mondo dei morti.
I due frammenti di nenfro esposti sono giunti al Museo
all’interno della collezione Lotti (Sala 23). La provenienza
indicata, Vulci o Castro, è attendibile per lo stile, il soggetto e il
materiale. Il frammento con la testa di ariete poteva essere
collocato presso una tomba o essere più probabilmente la
decorazione dello spigolo di un altare funerario. L’altro è
probabilmente quanto resta di un cavaliere marino simile ad
altri rinvenuti a Castro e si tratta certamente di una scultura
per una tomba. La terza scultura esposta, di calcare, è un leone
alato che trova precisi confronti nella ceramica corinzia del 550-
540 a.C. Il leone fa parte da almeno cento anni delle collezioni
del Museo: la provenienza da Pitigliano, per la mancanza degli
inventari più vecchi, non è del tutto certa, ma, come nel caso
precedente, è abbastanza attendibile. Tutti i pezzi esposti si
datano intorno al 550 a.C. o poco dopo.

Leone funerario alato


di calcare, da Pitigliano ?,
seconda metà
VI secolo a.C.
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Anfore attiche e etrusche a figure nere, dalla tomba VII degli Sterpeti,
Saturnia, inizi V secolo a.C.

_
Luoghi: Saturnia

Le fonti scritte antiche ricordano di Saturnia poche cose, ma


queste sono sufficienti ad ammantare il luogo di fascino.
Saturnia, secondo Dionigi di Alicarnasso, sarebbe stata una
città fondata dai Pelasgi, un popolo che si sarebbe spostato
dalla Grecia in Italia in una età precedente gli Etruschi. Il suo
nome più antico sarebbe stato secondo Plinio il Vecchio Aurina.
Livio, infine, ricordando la fondazione di Saturnia come colonia
romana, la colloca in agro caletrano, nel territorio di Caletra,
una città già allora scomparsa, il nome della quale si
conservava solo nella toponomastica.
Ma il passato prestigioso di Saturnia è probabilmente solo una
costruzione erudita degli antichi, influenzati dal nome stesso,
collegato a Saturno, che però, a sua volta, pare avere legami
ben più stretti con il Lazio e gli eventi precedenti la nascita di
Roma. Un mito infatti racconta che l’esule Saturno si sarebbe
rifugiato nel Lazio dove sarebbe diventato re, dando inizio a un
lungo e felice regno analogo alla greca Età dell’Oro. Avrebbe

Anfora attica a figure rosse,


dalla tomba VII degli Sterpeti
di Saturnia, 510 a.C. circa
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Archeologia della Maremma_141

anche dato il nome Saturnia ad una sua città, collocata sul


Campidoglio e ai piedi del colle; l’Italia stessa, per estensione,
sarebbe poi stata ricordata come terra di Saturno, Saturnia tellus.
Tornando a Saturnia in Etruria, niente di quello che fino ad ora ci
ha restituito l’archeologia la differenzia dagli altri centri minori
dell’area vulcente in misura tale da giustificare un’origine
diversa o un’antichità maggiore. In età tardo-orientalizzante e
arcaica in particolare il sito si segnala per l’ampliamento
dell’area delle necropoli (località Pian di Palma), probabile
indizio di un aumento di popolazione, e per una continuità di
occupazione del pianoro di travertino della città.
Il corredo esposto fu scavato nel 1901 nella necropoli degli
Sterpeti, posta sul fianco nord del poggio di Pancotta a poca
distanza dal centro. Si trattava di una tomba a camera con
banchine per le deposizioni lungo tre lati e loculi nel corridoio
(dromos) di accesso, scavata nel banco di travertino e nel
sottostante strato sabbioso-calcareo. La camera era crollata su
se stessa a seguito della sovrapposizione di un mausoleo di età
romana.

Tomba nella necropoli


del Puntone,
Saturnia,
fine VII- VI secolo a.C.
(foto C. Bonazza)
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142_Archeologia della Maremma

La tomba fu costruita e utilizzata una prima volta fra il 650 e il


600 a.C. Poi venne riutilizzata ininterrottamente fra la metà del
VI e il pieno V secolo a.C., come è dimostrato dalle numerose
ceramiche ritrovate all’interno (vasi di bucchero e di argilla non
dipinta di produzione etrusca, ceramiche attiche e etrusche a
figure nere, a figure rosse e sovradipinte, ceramiche attiche a
vernice nera). Si tratta in massima parte di vasellame da
banchetto e da simposio, decorato con scene che rinviano a quel
mondo dionisiaco che doveva avere un ruolo primario
nell’immagine etrusca dell’oltretomba. Fra i reperti di pieno V
secolo è però un contenitore di unguenti destinati alle pratiche
funerarie (lekytos a fondo piatto) che mostra la stretta adesione
dei ceti elevati di Saturnia ai modelli culturali greci del tempo e,
di conseguenza, a una diversa immagine dell’aldilà.

_
Oggetti: anfore e ancore

Nell’antichità erano disponibili solo fonti naturali di energia: la


forza di uomini e animali, il vento, l’acqua. Di conseguenza il
trasportare le merci per nave era molto più conveniente che su
strada: una nave equivaleva a varie centinaia di carri, era più
veloce e costava meno. La navigazione era però molto pericolosa:
era infatti impossibile, in mancanza di bussola e di carte nautiche
esatte, localizzare con sufficiente precisione bassifondi e scogli
affioranti. Si navigava solo in alcuni mesi all’anno e le navi
evitavano per quanto possibile il mare aperto, tenendosi in vista
della costa. I relitti dimostrano quanto fossero frequenti i naufragi.
Di fronte alle coste maremmane i punti più pericolosi risultano le
isole e i promontori: intorno al Giglio, a Giannutri, al Monte
Argentario, ma anche alle Formiche si affollano relitti di varie
provenienze ed età, segnalati in genere dagli elementi meno
deperibili del carico: i contenitori di terracotta e i ceppi delle
ancore, mentre il fasciame ligneo si conserva solo dove il carico
con il suo peso ne ha impedito la dispersione.
Sembra che siano stati gli Etruschi negli ultimi decenni del VII
secolo a.C. a introdurre il vino in Gallia. La nuova bevanda riscosse
immediato successo: i Galli divennero grandi consumatori e
importatori e gli Etruschi trovarono un mercato per la produzione
eccedente il consumo locale. Le rotte che dalle coste etrusche
raggiungevano le foci del Rodano appaiono perciò particolarmente
frequentate fin dall’Età Arcaica. Le navi etrusche attraversavano il
Tirreno navigando fra le isole dell’Arcipelago Toscano di fronte alle
coste maremmane, poi costeggiavano la Corsica, affrontavano un
tratto di mare aperto per raggiungere infine il Golfo del Leone. Le
merci trasportate (vino dai fertili territori di Vulci e Cerveteri, ma
anche vasellame bronzeo e ceramico) erano destinate alla Gallia
meridionale e, in misura minore, alla penisola iberica. In
alternativa le navi potevano costeggiare le coste dell’Etruria
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Archeologia della Maremma_143

Anfore e ancore di Età Arcaica, rinvenute in Maremma e nel Tirreno

Settentrionale dove il porto di Pisa aveva un ruolo importante già


in Età Arcaica. Sulle medesime rotte si potevano incontrare navi
provenienti dalla Grecia, dall’Italia Meridionale, dalla Sicilia. I
relitti noti di Età Arcaica contribuiscono efficacemente a delineare
un sistema di scambi vivace e aperto: nel caso del relitto arcaico
dell’isola del Giglio (conservato a Firenze) la nave doveva essere
reduce da varie soste (Samo, Corinto, Etruria Meridionale?) in cui
erano state caricate merci di diversa provenienza e, si può
immaginare, altre ne erano state scaricate. La sfortunata tappa
all’isola del Giglio era dovuta alla necessità di caricare i ceppi di
ancora fatti con il granito delle cave dell’isola.
Le anfore e le ancore esposte non si riferiscono a un unico relitto
ma sono frutto di ritrovamenti casuali o di sequestri della Guardia
di Finanza. Provengono tuttavia dalle acque comprese fra le coste
maremmane e le isole e documentano la varietà delle merci
trasportate: vino etrusco, ma anche della Magna Grecia e dell’area
di Marsiglia. Di forma completamente diversa e dal contenuto non
identificato è un’anfora fenicia, trovata nei pressi delle Formiche di
Grosseto. Una pietra forata documenta il tipo più arcaico di
ancora, la eunè omerica, mentre un ceppo di pietra è quanto
rimane di un’ancora di tipo evoluto.

Ricostruzione dello schema di carico da un relitto etrusco ideale


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144_Archeologia della Maremma

_
Luoghi: Kamarte, un villaggio nelle vicinanze di Saturnia?

Nel 1984 nel podere Il Bagno a sud-est di Saturnia, fu trovata a


pochissima distanza dalla sorgente termale una stele di
travertino sulla quale era incisa una lunga iscrizione etrusca
dall’andamento molto irregolare:
larth laucies thamequ larecesi kaiserithesi celeniarasi mini
zinece vethur kamartethi
I fratelli Larice e Kaiserithe hanno costruito questa tomba
(?) per Larth Laucie; Vethur mi (è l’iscrizione o il monumento
che parla) ha realizzato (?) a Kamarte
L’interesse dell’iscrizione, che si data nei decenni finali del VI
secolo a.C. o all’inizio del V, è nella presenza di due toponimi:
uno dei due fratelli viene chiamato Kaiserithe che significa ‘il
Ceretano’, da CISRA o CAISRA che è il più probabile nome
etrusco della città che i Latini chiamavano Caere. Non
conosciamo ovviamente le ragioni di questo nome a carattere
etnico, si può solo avanzare l’ipotesi che uno dei due fratelli
fosse stato adottato a Caere. L’altro toponimo, Kamarte, sembra
essere il luogo dove l’iscrizione è stata incisa o dove il
monumento è stato eretto ad opera dell’ultimo personaggio
citato, Vethur (probabilmente equivalente del diffuso nome
Velthur). Sull’individuazione di questo sito ci sono solo ipotesi.
Camars, secondo Livio, era il nome antico di Chiusi, ma la
località indicata nell’iscrizione non può essere così lontana,
neanche se si trattasse di quella Kalousion o Klousion, diversa
da Chiusi in Valdichiana, che viene in genere collocata in
località Doganella nella bassa valle dell’Albegna (Sala 16). Si
deve perciò trattare di un villaggio a poca distanza da Saturnia,
da cercare sul luogo stesso del ritrovamente se ‘a Kamarte’
indica la località dove è il monumento, oppure in un’area più
vasta se invece il toponimo si riferisce al luogo (la bottega?)
dove Vethur ha inciso la stele. Una ipotesi possibile, ma da
dimostrare, identifica il villaggio con un abitato molto
consistente, noto solo da ricognizioni di superficie, posto sul
Poggio Semproniano, a 6 km circa in linea d’aria da Saturnia,
già esistente in Età Arcaica e sopravvissuto in seguito fino a
dopo la conquista romana forse come rifugio di Etruschi
scacciati dalle loro sedi.

Iscrizione etrusca,
da Podere Il Bagno,
Saturnia,
fine VI-inizi
V secolo a.C.
(A. Maggiani)
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Archeologia della Maremma_145

Collana d’oro da una tomba,


località la Polverosa, Orbetello,
seconda metà V secolo a.C.

SALA 16
Il V e il IV secolo a.C.

Il periodo compreso tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C. è


caratterizzato in gran parte dell’Etruria da un impoverimento della
documentazione archeologica, sintomo di difficoltà politiche,
economiche e sociali, in genere indicate complessivamente come
‘crisi del V secolo’. Nell’area qui considerata, tutta costiera e
marittima, la crisi del V secolo si manifestò con la rarefazione
degli abitati nelle campagne e con una diffusa contrazione dei
consumi e della produzione.
Le città costiere etrusche già colpite dagli esiti della battaglia di
Cuma (474 a.C.), subirono pesanti incursioni da parte dei
Siracusani nel corso del 453 a.C., che ebbero come effetto il blocco
dei porti, con la sola eccezione di Populonia. Alla crisi delle città
tirreniche corrispose l’affermazione delle città dell’Etruria interna e
di quelle dell’Etruria padana, affacciate sull’Adriatico.
All’interno delle città il potere era in mano ad una ristrettissima
classe aristocratica (oligarchia), che evitava per scelta consumi di
lusso ed esibizione di ricchezze e controllava il possesso della
terra, con effetti negativi sull’economia. Situazioni di questo tipo si
verificarono in altri luoghi dell’area mediterranea; si possono
perciò tentare delle analogie con le situazioni meglio note e in
particolare con Roma, dove nel corso dello stesso V secolo a.C. si
attuava lo scontro fra patrizi e plebei che portò alla prima
redazione di leggi scritte (le XII tavole) e alla conquista di
importanti diritti civili da parte della plebe. Nel caso delle città
etrusche, nella mancanza quasi assoluta di fonti scritte,
l’archeologia mette in luce solo alcuni effetti degli scontri sociali
del periodo. Appare perciò sfuggente la lotta per i diritti civili, che
pure ci dovette essere, mentre è chiaro che nuovi ceti ebbero
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146_Archeologia della Maremma

accesso alla proprietà della terra, detenuta fino allora in


pochissime mani. Il sintomo di questo cambiamento è la nascita
di nuovi abitati intorno alla metà del IV secolo a.C.
Questo nuovo popolamento, definito da alcuni ‘colonizzazione
interna’, investe in primo luogo le campagne: piccoli abitati, o più
spesso piccole necropoli segnalano un ritorno all'insediamento
sparso che nel secolo precedente si era rarefatto. È questo il segno
del superamento dei problemi di carattere sociale attraverso
l’assegnazione di terre a famiglie di rango minore, che vengono
così a formare un nuovo ceto emergente. Il fenomeno pertanto non
può essere interpretato necessariamente come un segno generale
di ripresa.
Nel territorio di Vulci, come anche altrove, si può notare però che la
colonizzazione interna aveva anche la funzione di occupare i punti
strategici sulla costa o sui confini interni. Il fenomeno è
abbastanza generalizzato: contemporaneamente anche Roma
rafforzava i suoi confini fondando fortezze, le priscae latinae
coloniae, l'entroterra di Tarquinia veniva munito di centri fortificati
e nello stesso modo anche Populonia fortificava le alture dell’isola
d’Elba. L'immagine complessiva è quella di un momento storico di
grande tensione. Nel territorio di Vulci i centri di IV secolo a.C. non
sono tutti di nuova fondazione. Nell'interno vennero rivitalizzati i
centri di Saturnia e di Sovana, in aree che avevano subito una
forte battuta d'arresto nel V secolo, mentre fu fondato ex novo più
a sud, nella valle dell'Albegna presso Scansano su un sito dove
era già presente un santuario, il centro di Ghiaccioforte, delimitato
da una cinta di mura di ciottoli, con doppie porte di architettura
piuttosto complessa. Anche Talamone riprese vita ma su una sede,
il Talamonaccio, diversa da quella di Età Arcaica; a Orbetello
riprese l’utilizzo delle necropoli. Il centro in località Doganella,
sempre nel vulcente, continuò invece a svilupparsi
ininterrottamente nel corso del V e del IV secolo a.C. Come si è già
notato in precedenza, si trattava di una grande colonia preposta
alla produzione agricola nella valle dell’Albegna e allo stesso
tempo al controllo dell’asse di penetrazione verso l’interno
rappresentato dalla stessa valle.
Minori ma importanti sono i dati disponibili per Vetulonia. Un
ritrovamento di particolare rilievo (oggi diviso fra Firenze e Vienna)
è quello di un centinaio di elmi di bronzo tutti uguali trovati nel
1919 presso le mura della parte alta della città antica, in una fossa
dove erano stati gettati in antico. Circa una metà degli elmi, che si
datano fra i primi decenni e la metà del V secolo a.C., portavano un
nome inciso che è stato interpretato come un gentilizio: gli elmi
dimostrerebbero pertanto l’esistenza del piccolo esercito di un clan
familiare, un elemento che si inserisce bene nell’arcaico modo di
intendere i rapporti sociali che nel giro di qualche decennio si
sarebbe del tutto sgretolato. Dopo la metà del secolo Vetulonia non
restituisce pressoché nessuna testimonianza. Avrà poi una ripresa
dopo la conquista romana di Roselle (294 a.C.).
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Archeologia della Maremma_147

_
Luoghi: il Monte Amiata

Nell’antichità le montagne, come tutti i luoghi dove la natura


appariva selvaggia o impossibile da piegare alla volontà
dell’uomo, venivano considerate luoghi sacri. Molto spesso la
divinità a cui le vette erano dedicate era Giove (Iuppiter per i
Latini, Tinia per gli Etruschi) forse per l’attrazione che i luoghi
elevati esercitano sui fulmini, ma anche per la natura stessa di
questa divinità, allo stesso tempo atmosferica e terrestre. Una
conferma ci viene fornita involontariamente da Sant’Agostino in
un passo dove riporta una affermazione di Varrone, da un’opera
perduta, secondo la quale Giove governa ciò che sta in alto
Antefissa di terracotta (summa).
a testa femminile, dalla
Il Monte Amiata non conserva resti monumentali di santuari ma
località Pian delle Bandite,
Seggiano, metà V secolo a.C. molti elementi contribuiscono a dare forza all’ipotesi che fosse
sede di un importante culto di Giove. L’esistenza del toponimo
Montegiovi, la presenza di una dedica a Iuppiter Optimus
Maximus reimpiegata nelle murature della chiesa di San
Clemente a Montelaterone, un’altra dedica a Iuppiter sia pure
con attributi diversi, trovata a Castelnuovo dell’Abate all’inizio
della vicina Val d’Orcia, fanno pensare che più che a tracce di
vari culti locali siamo invece di fronte ad un unico importante
culto montano. I ritrovamenti archeologici ci portano nella
località di Poggio alle Bandite presso Seggiano, da cui proviene
un esemplare, qui esposto, di decorazione architettonica
(antefissa), che doveva essere posto sul tetto di un edificio
sacro di carattere monumentale. L’antefissa, di grandi
dimensioni, è ornata con una testa femminile dai capelli
fittamente ondulati che richiama modelli magnogreci di Stile
Severo (480-450 a.C. circa), filtrati attraverso l’Etruria
Settentrionale interna. Altre antefisse di questo tipo, uscite
certamente dalla stessa bottega, sono state trovate infatti ad
Arezzo e a Chiusi, dove si suppone fossero prodotte. L’origine
chiusina della decorazione mette in una luce particolare la
localizzazione dell’edificio sacro. Il santuario di Seggiano
verrebbe a porsi in un punto strategico sul confine fra Chiusi e
Roselle e potrebbe essere stato costruito in un momento in cui
Chiusi aveva manifestato la volontà di espandersi a danno di
Roselle; si configura perciò come un santuario di confine, luogo
dove popoli diversi potevano incontrarsi sotto la garanzia della
divinità, indipendentemente da eventuali mire espansionistiche
dell’uno o dell’altro.
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148_Archeologia della Maremma

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Oggetti: servizi da banchetto di V secolo a.C.
nei corredi funerari

Lo svolgimento di un banchetto prevedeva un complesso apparato:


gli schiavi dovevano essere numerosi anche perché i commensali,
in posizione distesa, avevano poca libertà di movimento e
dovevano essere serviti in tutto. Ciascun commensale aveva
accanto a sé un tavolino di servizio dove poggiare cibi e bevande
nella prima fase del banchetto e solo bevande nella seconda, il
simposio. I contenitori potevano essere di metallo o di ceramica, di
produzione locale o di importazione. Il consumo di vino richiedeva
un numero particolarmente ampio di contenitori e la forma diversa
di ciascun oggetto ne rivelava la funzione.
Il vino era conservato in un’anfora o in un orcio, ma non veniva mai
bevuto puro, usanza molto disprezzata sia dai Greci, sia dai Romani
e presumibilmente anche dagli Etruschi. Doveva essere versato in
un vaso largo e capace (crater) per poi essere allungato con acqua
in media nella proporzione di una parte di vino per due di acqua.
L’acqua a sua volta era contenuta in un vaso particolare: l’hydria. Il
vino diluito veniva servito con brocche (oinochoai, olpai) dopo
essere stato attinto con vasi appositi (kyathoi e kantharoi). In
alcuni casi (vini aromatizzati, ad esempio) il vino veniva filtrato con
colini. Si beveva in genere in vasi larghi (calici, kantharoi, kylikes),
più che in bicchieri stretti (skyphoi). Spesso presente era un alto
piedistallo di bronzo con in cima un piattino che serviva per il gioco
del kottabos: i commensali cercavano di lanciare le ultime gocce di
vino che avevano sul fondo delle coppe nel piattino.
Nel V e IV secolo a.C., a giudicare dai corredi funerari, si
diffondono particolarmante i servizi da simposio di bronzo e,
insieme, nuove forme di contenitori. Uno dei corredi qui considerati

Cratere attico a colonnette


a figure rosse con scena di colloquio,
Pittore di Firenze,
dalla località Poggio alle Lame,
Casal di Pari,
460-450 a.C.
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Servizio da simposio di bronzo, da una tomba presso la confluenza fra l’Orcia e l’Ombrone, seconda
metà V-inizi IV secolo a.C.

è stato recuperato fortuitamente in una località vicina al punto di


confluenza fra i fiumi Orcia ed Ombrone, nei pressi del confine
settentrionale del territorio di Roselle. I singoli elementi del
corredo, in uno stato di conservazione particolarmente buono,
rivelano confronti con prodotti di Populonia e con oggetti restituiti
da sepolture di Felsina (Bologna), confermando l’esistenza di una
rete di traffici che collegavano le aree tirrenica e adriatica. Oltre
allo specchio (che è estraneo al simposio ma frequente nei corredi
tombali) e al colino (colum), sono presenti un secchiello (situla) e
una brocca dalla forma sferoidale (oinochoe), entrambi usati per
servire il vino in tavola, e degli attingitoi a rocchetto (kyathoi),
utilizzati sia per misurare acqua e vino, sia per attingere. L’altro
corredo, rinvenuto in località Poggio alle Lame vicino a Casal di
Pari, ci permette di completare idealmente il servizio da simposio.
Infatti oltre alla situla, al colino e all’attingitoio di bronzo questo
corredo comprende anche ceramiche: un grande cratere attico a
figure rosse del tipo a colonnette, con scene dionisiache su un lato
e una scena di colloquio sull’altro, che doveva servire per
mescolare acqua e vino da servire poi nelle coppe (kylixes),
rappresentate da un esemplare, sempre a figure rosse. Il corredo è
completato da un oggetto di carattere personale, come lo specchio
nell’altro caso: si tratta di una specie di cucchiaio (strigile) con cui
gli atleti raschiavano l’olio e il sudore dalla pelle. Questa tomba
era segnalata all’esterno da un cippo a forma di clava, infisso nel
terreno con l’estremità più sottile, tipico dell’Etruria Settentrionale.
Frequenti nei corredi del periodo erano anche i candelabri e, molto
simili ai precedenti, i sostegni per il gioco del kottabos, e infine i
piatti di bronzo, con e senza manici, che servivano per le libagioni
ma anche per poggiare colini e attingitoi.
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150_Archeologia della Maremma

SALE 17, 18, 19


Dalla conquista romana alla fine dell’età repubblicana

Fra il 294 e il 273 a.C. i Romani conquistarono Roselle, Tarquinia,


Vulci, Volsinii, Caere. In alcuni dei territori conquistati fecero
ricorso alla colonizzazione, inviando in pochi anni varie migliaia di
coloni. La prima colonia fondata nel quadro della conquista della
costa etrusca fu Cosa (273 a.C.), nel territorio di Vulci, che
esprime, con il suo aspetto di fortezza posta in luogo impervio a
picco sul mare, il duplice scopo della colonizzazione romana: il
controllo del territorio conquistato e la vigilanza nei confronti di
pericoli che potevano arrivare dal mare. Nove anni dopo, infatti,
nel 264 a.C., sarebbe scoppiata la prima guerra punica.
La città di Cosa si presenta come un esempio tipico di colonia.
Fu edificata nel corso di vari decenni, dando la precedenza alle
imponenti mura di fortificazione, per la prima volta in Italia
rinforzate da torri, e agli edifici pubblici: il Capitolium, tempio
della triade Giove, Giunone e Minerva e simbolo della religione di
stato romana e il foro con gli edifici destinati all'attività politica
e commerciale. La colonizzazione romana investiva l'intero
territorio con una rete di infrastrutture: ponti, strade, porti e
soprattutto la delimitazione dei campi (centuriazione) che
serviva a controllare il regime idrogeologico dei terreni e a
distribuire lotti di terra da coltivare ai coloni. La centuriazione
romana aveva risolto il problema del drenaggio costiero,
problema permanente della zona, con la rete di canali
ne

Te ve re
b ro

VETULONIA
Om

lago
ROSELLE
Fior

Prile
294 a.C. VOLSINII
a

280 a.C.
g na
be
Al lago di
Bolsena
COSA
VULCI
273 a.C. 280 a.C.
fondazione
della colonia TARQUINIA
281 a.C.

CERVETERI VEIO 396 a.C.


273 a.C.
ROMA

0 50
km

Le tappe della conquista romana dell’Etruria (III secolo a.C.)


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Archeologia della Maremma_151

Mura poligonali di Cosa, III secolo a.C. (Foto Archivio Fratelli Gori, Grosseto)

perpendicolari tra loro che riproducevano con il loro


orientamento l'inclinazione dei principali corsi d'acqua della
zona e l'andamento della costa. Il territorio di Cosa conserva
ancora oggi tracce evidenti della sistemazione agrimensoria dei
terreni del periodo della colonia.
Il porto di Cosa fu costruito in più fasi a partire dal III secolo
a.C. e tutta l'area circostante fu attrezzata con imponenti opere
di ingegneria, in particolare canali di drenaggio scavati nella
roccia del promontorio di Ansedonia.
Fra il III e il II secolo a.C. fu completata la viabilità costiera,
formata dalla via Aurelia che raggiungeva già nel 241 a.C. il
Portus Pisanus (Calambrone, presso Livorno), poi prolungata e
raddoppiata in più punti (via Aurelia vetus e nova, via Aemilia
Scauri), dalla via Clodia del 183 a.C. che congiungeva Roma a
Saturnia, e infine dal raccordo Cosa-Saturnia e da numerose
altre strade minori che spesso ricalcavano strade etrusche.
Sappiamo molto poco della sorte del popolo vinto. In alcuni casi
(Ghiaccioforte, Doganella) gli abitati precedenti furono rasi al
suolo. In altri (Vulci, Talamone, Roselle) gli unici dati disponibili
sono l'improvviso impoverimento delle necropoli, la graduale
scomparsa delle iscrizioni etrusche o la mancanza di una
attività edilizia monumentale. Di Roselle sappiamo che dovette
contribuire con legname e grano alla campagna di Publio
Cornelio Scipione contro Annibale nel 205 a.C. A Vetulonia
vennero costruiti nuovi quartieri, soprattutto a partire dal III-
inizi II secolo a.C. Il dato più nuovo è però la moneta che
Vetulonia iniziò a coniare per la prima volta, in bronzo e argento,
su esempio e modello di Populonia che le coniava già da tempo.
Potrebbe questo essere il segno di una nuova e breve fase di
autonomia, forse concessa dagli stessi Romani conquistatori,
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152_Archeologia della Maremma

v ia A
u re l
ia

laguna
di Orbetello pi)
c am
d ei
io ne
i vis
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ria
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ce

laguna
COSA

0 1 porto
km

via Aurelia

COSA

La colonia di Cosa e il suo territorio, ricostruzione


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Archeologia della Maremma_153

terre lasciate
agli indigeni
centurie
non assegnate terre non divise
e di uso comunitario

centurie divise
e assegnate

laguna

porto
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154_Archeologia della Maremma

dovuta alla conquista di Roselle nel 294 a.C. A Populonia invece


il patto di alleanza con Roma costrinse la città etrusca a fornire
enormi quantità di metallo ai vincitori: con il III secolo a.C. iniziò
infatti quella che è stata definita ‘manifattura selvaggia’, a cui
si deve la formazione di strati di vari metri di scorie metalliche
su gran parte dell'area di Baratti. Una eccezione è poi costituita
dalle testimonianze dal santuario del Talamonaccio. Posto in un
punto di confine fra l'area colonizzata vulcente e il territorio di
Roselle, che era stato solo annesso allo stato romano, in una
zona dove convivevano quindi Etruschi superstiti e coloni
romani, il tempio venne ridecorato nel corso della seconda metà
del II secolo a.C. con un frontone in cui era raccontato il mito dei
Sette contro Tebe, l'ultima parte delle storie di Edipo, secondo
una iconografia greca rivista da un artigiano etrusco.
Porta romana, Nel II secolo a.C. lo stato romano si trovò a dover affrontare
Saturnia, III secolo a.C.
problemi di carattere sociale che tentò di risolvere con nuove
assegnazioni di terra. Probabilmente a questo scopo nacquero la
colonia di Saturnia (183 a.C., ma già fortificata nel III) e quella
di Heba (in una data collocabile intorno alla metà del II secolo
a.C.) presso l'attuale Magliano. Appare quindi significativo che
in questo periodo di tensioni sociali, e pressoché in
contemporanea con le riforme graccane il frontone del tempio
rappresenti il duello fra Eteocle e Polinice, figli di Edipo, la più
famosa lotta fratricida del mito antico.
Con il II secolo a.C. il processo di romanizzazione dei territori
conquistati era ormai completo: il paesaggio era caratterizzato
dalle città alleate, dalle colonie e dalle loro infrastrutture ed era
cosparso di piccole fattorie mentre nelle zone periferiche
sopravvivevano villaggi di origine etrusca. Nel corso del secolo,
ma soprattutto nel successivo, si formarono nei territori delle
colonie alcune proprietà più grandi, le ville, condotte facendo
ricorso a schiavi. Si trattava di aziende agricole specializzate
che commercializzavano ed esportavano i loro prodotti: nel
territorio di Cosa grandi fornaci di anfore accanto alle ville
producevano i contenitori per il vino, poi rinvenuti anche in
numerosi relitti nel Mediterraneo.
Nell'89 a.C. gli Etruschi alleati e i coloni latini ottennero la
cittadinanza romana. I decenni successivi furono segnati da
avvenimenti drammatici di carattere politico e militare. Nell'87
Mario sbarcò a Talamone dove arruolò schiavi e contadini, forse
anche di origine etrusca. La successiva guerra civile ebbe effetti
pesanti sulle città di origine etrusca che si erano schierate con
Mario. Venne distrutta definitivamente Talamone, ma tracce di
distruzione violenta sono state riconosciute anche a Roselle e
soprattutto a Vetulonia, che fu data alle fiamme, mentre a
Populonia la distruzione è ricordata dalle fonti. I mutamenti che
si registrarono nel territorio in questo periodo furono senz'altro
influenzati dagli eventi bellici. Le ville, sfruttando la crisi dei
piccoli proprietari-coloni, occuparono estesi terreni, in genere i
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Archeologia della Maremma_155

più fertili e meglio serviti da strade e altre infrastrutture.


La colonia testimoniata a Roselle fu forse istituita nel periodo
dei triumviri alla fine della Repubblica. In tal caso si può
supporre che abbia ricevuto come coloni un gruppo di veterani
di Ottaviano. Ma non si può scartare una datazione leggermente
più tarda in Età Augustea. In ogni caso l’evento coincise con
l'inizio della rinascita della città. La proposta recente di
retrodatare la colonia di Roselle a metà II secolo a.C.,
contemporaneamente a Heba, non appare per il momento
sufficientemente convincente e documentata.

SALA 17
Tradizione e continuità culturale etrusca
e conquista romana (IV-II secolo a.C.)

La cultura etrusca non fu immediatamente azzerata dalla


conquista romana: forti persistenze nell’uso della lingua, della
scrittura, negli usi funerari e nella produzione artigianale sono
documentate almeno fino all’inizio del I secolo a.C., al tempo
delle guerre civili. Più a lungo durarono alcune pratiche legate al
mondo del sacro, che i Romani avevano accolto all’interno delle
loro consuetudini religiose. La Sala 17 raccoglie testimonianze
della cultura e della lingua etrusca che si collocano
Terracotta votiva cronologicamente a ridosso della conquista romana. La scrittura
a testa femminile, etrusca non sembra sia stata più usata in quest’area dopo il II
dalla località Pantano,
Pitigliano, seconda metà secolo a.C.: a Orbetello, il piccolo centro portuale etrusco
III secolo a.C. probabilmente rifondato dai Romani dopo il 280 a.C., un Etrusco
incideva con uno strumento appuntito il suo nome, Larza Suplu,
su una tazza a vernice nera (III secolo a.C.); a Talamone, intorno
al santuario che almeno fino all’inizio del I secolo a.C. i Romani

Vasi a vernice nera da un corredo funerario, dalla località Poggio ai Fichi di


Monte Antico, fine III – inizi II secolo a.C.
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156_Archeologia della Maremma

Ciotola a vernice nera con


iscrizione
graffita, dalla laguna
di Orbetello,
inizi III secolo a.C.

Tegola iscritta,
dalla località San Donato,
Orbetello, II secolo a.C.

Tomba Ildebranda,
particolare, Sovana,
III secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_157

rispettarono, un Etrusco, forse il produttore, incideva a crudo in


una tegola il suo nome di famiglia Ketisna (II secolo a.C.).
Grandi opere d’arte ancora etrusche nello stile e nella concezione
sono il famoso frontone del tempio di Talamone della metà del
II secolo a.C. circa, che riflette il carattere di confine fra mondo
etrusco e romano del santuario, e le grandi tombe di Sovana,
città dove gli aristocratici si erano probabilmente alleati con i
Romani e ne avevano avuto in cambio un trattamento di favore.

_
Oggetti: un capitello da una tomba di Orbetello

Le necropoli di Orbetello si distribuivano lungo l’istmo che


unisce il paese attuale alla costa. Erano scavate nella fragile
arenaria del sottosuolo, la panchina, e nessuna tomba, dopo gli
scavi di rapina dell’Ottocento, è oggi conservata. Unica
testimonianza architettonica superstite è il capitello, acquistato
dal Comune di Grosseto all’inizio del Novecento, prodotto in una
bottega vulcente nella seconda metà del IV secolo a.C. Il
capitello, scolpito nel nenfro, il tufo grigio scuro tipico
dell’Etruria Meridionale, ha quattro facce con grandi volute
appiattite che nascono al centro da teste maschili e femminili
alternate. L’unica ben conservata è una testa femminile
acconciata con una treccia arrotolata sopra la fronte e vistosi
orecchini che rinviano alla moda del tempo, influenzata dalla
Magna Grecia e in particolare dalla sua capitale culturale,
Taranto. Superiormente agli spigoli sono quattro teste di ariete,
e fra queste un fregio vegetale. Su tutta la superficie sono
tracce di vivaci colori.

Capitello di nenfro, da Orbetello, seconda metà IV secolo a.C.


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158_Archeologia della Maremma

Urna cineraria di arenaria, dalla


località Zancona,
Montenero di Cinigiano,
fine IV-III secolo a.C.

Vaso cinerario con iscrizione Arnth


Zuni, dalla località Potentino,
Seggiano, III-II secolo a.C.

Vaso cinerario, dalla località Poggio


ai Fichi, Monte Antico,
fine III-inizi II secolo a.C.

_
Luoghi: il Monte Amiata

Il Monte Amiata nell’antichità era quasi tutto coperto da boschi,


interrotti da luoghi sacri (Sala 16) e da scarsi insediamenti, noti
per lo più dalle rispettive aree cimiteriali. È questo il caso della
necropoli in località Zancona, non lontano da Montenero (III-II
secolo a.C.) e di quella del Potentino di Seggiano (seconda metà
III-inizi II secolo a.C.), di cui sono esposti i reperti. In entrambi i
casi si tratta di tombe a incinerazione che recano sulle urne di
arenaria o sui vasi cinerari i nomi dei defunti scritti in etrusco.
Sul cippo di arenaria a forma di tetto che copriva la tomba della
Zancona era infatti inciso il nome Avle […] Pupunias , mentre
una delle urne del Potentino reca il nome inciso a crudo Arnth
Zuni. Il rito dell’incinerazione dimostra che il Monte Amiata
gravitava culturalmente sull’Etruria interna e su Chiusi in
particolare, dove, allo stesso modo, questo rituale funerario si
conservò a lungo.
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Archeologia della Maremma_159

SALA 18
La romanizzazione: le testimonianze delle iscrizioni

Il grado di sopravvivenza della lingua e della cultura etrusche


ebbe caratteristiche diverse nelle varie zone dell’Etruria: la
latinizzazione delle iscrizioni funerarie fu più precoce (fra il II e
gli inizi del I secolo a.C.) nelle città e nei territori etrusco-
meridionali che fra 294 e 241 a.C. subirono la conquista e le
successive condizioni punitive dei Romani, mentre nell’Etruria
Settentrionale, entrata nell’orbita di Roma attraverso alleanze,
le iscrizioni in etrusco sono diffuse fino alla metà del I secolo
a.C, con alcune eccezioni più recenti.
Nei territori di Roselle e di Vulci (conquistati rispettivamente nel
294 e nel 280 a.C.) le iscrizioni in latino compaiono
sporadicamente nel II secolo a.C. per poi sostituire del tutto
quelle in etrusco nel secolo successivo. Le lapidi funerarie,
l’esempio più diffuso di documenti iscritti a carattere privato,
dimostrano che le persone che le fecero incidere parlavano
latino; erano perciò coloni, o immigrati, oppure Etruschi che
avevano abbandonato la lingua e gli usi dei loro predecessori.
Le iscrizioni esposte nel Corridoio 18 sono funerarie, con
l’eccezione della tavola bronzea di Heba. Provengono da vari
luoghi della provincia di Grosseto, sono incise su pietra o marmo
e si concentrano nei secoli I e II d.C. All’età di Augusto risale un
altare funerario dalla località Peschiera di Saturnia con un vano
superiore per contenere le ceneri e un rilievo piuttosto rozzo,
dedicato da Valeria Edumele al figlio Ecutius, morto a
venticinque anni. Ecutius era cittadino di Saturnia, come
dimostra la citazione del distretto elettorale (tribus Sabatina) a

Iscrizione
funeraria
da Pian
di Palma,
Saturnia,
I-II secolo d.C.
MAAM_superdefinitivo_NO SILL:MAAM_Sezione 1 11/01/18 14:21 Pagina 160

160_Archeologia della Maremma

cui era iscritto, che era proprio, anche se non esclusivo, dei
Saturnini. Particolarmente importante è l’iscrizione funeraria
(I-II secolo d.C.) da Pian di Palma di Saturnia posta da Avedia
Severa in memoria del marito Publius Comicius Caletranus,
pretoriano in congedo, morto a quarantun anni. Il cognomen
Caletranus rinvia al nome della città di Caletra, nota solo da
citazioni di Livio e di Plinio il Vecchio e sicuramente già
scomparsa in età romana. Caletra sorgeva nella media valle
dell’Albegna, per cui viene identificata in genere con il centro
etrusco di Marsiliana, ma secondo alcuni potrebbe essere
identificata anche con Ghiaccioforte.
Ancora nelle vicinanze di Saturnia è stato rinvenuto anche il
cippo funerario di un liberto, Publius Quinctus Primitivus (I
secolo d.C.) con l’indicazione della larghezza (in fronte…) del
recinto sepolcrale espressa in piedi, l’unità di misura romana
pari a poco meno di 30 cm. Un secondo cippo doveva ripetere il
nome del defunto e indicare l’estensione in profondità (in
agro…) dell’area pertinente alla tomba. Nella località
Riparossa, non lontana da Marsiliana, è stata invece trovata la
stele funeraria di travertino (fine II-III secolo d.C.) con cui
Petronius Florus ricorda la moglie Valeria Clementina, carissima
e incomparabile; nella stessa località sono stati rinvenuti altri
frammenti di iscrizioni funerarie di membri della gens Valeria,
che doveva avere proprietà terriere nella zona, come è
testimoniato anche dal vicino toponimo Vallerana (= Valeriana).
Dalle vicinanze di Pitigliano (località Pantalla) viene la lapide
molto consunta di Novia Rufina, morta a ventotto anni lasciando
genitori e marito (II-III secolo d.C.).
Passando al territorio di Heba, va segnalata l’iscrizione funeraria
di Lucius Alius, morto a 25 anni, posta dalle sue sorelle. Lucius
Alius, per quanto si può capire dal testo piuttosto oscuro,
sarebbe morto mentre tentava di difendere (da un’offesa, da un
rapimento, da una violenza?) se stesso o le sorelle (I secolo a.C.);
è stata fatta anche l’ipotesi che questa iscrizione sia riferibile al

Iscrizione
funeraria di
Lucius Alius,
dal territorio
di Magliano in
Toscana,
I secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_161

Iscrizione funeraria di marmo, dalla località Serrata Martini,


Castiglione della Pescaia, II-III secolo d.C.

periodo delle guerre civili e delle violenze sillane. Sempre dal


territorio di Heba (Località Campo dei Diavoli-Poggio Salonne),
proviene un’iscrizione funeraria posta da Cn. Domitius Paris per
ricordare il figlio di Cn. Domitius Modestus, un bambino morto a
meno di due anni di età a cui era particolarmente affezionato
(ultimi decenni del I secolo d.C.). I due personaggi erano
probabilmente liberti dei Domitii Ahenobarbi, una potente
famiglia il cui ultimo rappresentante e membro più famoso fu
l’imperatore Nerone, che avevano proprietà nella zona.
Dalla località Preselle di Scansano, che ricade invece nel
territorio di Roselle, provengono un rilievo con fregio floreale e
una iscrizione funeraria incompleta, unici resti di un mausoleo
monumentale posto lungo una strada che congiungeva Roselle
ai territori di Heba e Saturnia. È conservata solo la parte finale
del nome del defunto, sappiamo tuttavia che era rosellano,
come è dimostrato dall’indicazione del distretto elettorale (tribus
Arnensis) proprio dei cittadini di Roselle. Da ultima, una
iscrizione funeraria di incerta origine ma presumibilmente
rosellana ricorda Salvus Calpurnius Capito (fine II-III secolo
d.C.). Il blocco iscritto era nella chiesa di San Pietro a Grosseto,
reimpiegato in un muro medievale.
Altre due iscrizioni funerarie sono esposte nella Sala 22 e
provengono dai dintorni di Castiglione della Pescaia. Una,
rinvenuta nella Serrata Martini, è un brevissimo commiato ad
una schiava dal nome greco, forse da parte di un suo
compagno: “Addio, sta’bene, Stratonica!” (have vale Stratonica:
I-II secolo d.C.), l’altra rinvenuta nel corso di lavori di
canalizzazione del Bruna, è ancora una volta l’epitaffio di una
donna, Aurelia Felicitas, probabilmente una liberta, morta a
cinquanta anni e ricordata dal compagno Agapomenus, schiavo
imperiale con il quale aveva vissuto per trentacinque anni,
undici mesi e dieci giorni in assoluta fedeltà (II-III secolo d.C.).
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162_Archeologia della Maremma

Iscrizione
funeraria,
dalla località
Cerriolo, Orbetello,
fine I secolo d.C.

_
Oggetti: l’iscrizione funeraria di una schiava

Dal territorio di Cosa (località Cerriolo) viene una iscrizione della


fine del I secolo d.C. che fa intravedere la complicata
organizzazione degli schiavi di una grande proprietà. La defunta
Hilara era conserva, cioè compagna nella schiavitù, di Felix che
la ricorda; l’indicazione del rapporto fra i due può significare
che la padrona tollerasse che gli schiavi, privi di diritti civili e
quindi anche di diritto al matrimonio, vivessero in coppia. In
questo modo la proprietà ne traeva comunque un guadagno: si
assicurava infatti attraverso l’eventuale prole la produzione di
nuovi piccoli schiavi. Felix specifica accuratamente quale era la
qualifica della sua compagna: Hilara era vicaria di un altro
schiavo, Crescens, che nella gerarchia dell’azienda aveva il
ruolo molto alto di dispensator, una specie di amministratore
della padrona. Questa è indicata con il semplice nomen Domitia,
come usava presso i Romani che non attribuivano alle donne un
praenomen o nome personale, ma le chiamavano con il nomen
della famiglia (o gentilizio, equivalente al nostro cognome) al
femminile, accompagnato eventualmente da un cognomen che
aiutava a distinguere le donne di una stessa famiglia. È perciò
chiaro che si tratta di una matrona di rango, proprietaria di
terreni nel territorio di Cosa, anche se non è possibile
individuarla con certezza. Sono stati fatti a questo proposito i
nomi di Domitia Lucilla e della figlia omonima, rispettivamente
nonna e madre dell’imperatore Marco Aurelio e eredi del grande
patrimonio che i Domitii, produttori di laterizi, avevano
accumulato in Età Flavia, o di Domitia Longina, moglie
dell’imperatore Domiziano, o ancora di Domitia, zia di Nerone,
della famiglia dei Domitii Ahenobarbi, titolari di grandi proprietà
nel territorio di Cosa.
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Archeologia della Maremma_163

_
Oggetti: la tavola bronzea di Heba

Germanico (15 a.C.-19 d.C.) era un personaggio molto popolare


a Roma. Augusto, che era diventato suo nonno a seguito del
matrimonio con Livia, lo avrebbe visto volentieri come
successore. Si lasciò tuttavia convincere dalla stessa Livia a
nominare Tiberio, con l’accordo che questi avrebbe adottato
Germanico e ne avrebbe fatto a sua volta il suo successore.
Quando Germanico, al culmine della sua popolarità di generale
vittorioso, morì ad Antiochia nel 19 d.C. si sospettò che fosse
stato avvelenato da Gn. Calpurnio Pisone, governatore della
Siria, istigato da Tiberio.

Tabula Hebana, dalla località Le Sassaie, Magliano in Toscana, 20 d.C.


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164_Archeologia della Maremma

Questa ipotesi fu sostenuta con forza dallo storico Tacito che ne


scrisse nei suoi Annali. Il ritorno delle ceneri di Germanico a
Roma, portate dalla vedova Agrippina Maggiore, fu
accompagnato da grandi manifestazioni di cordoglio popolare. Le
ceneri furono deposte nel mausoleo di Augusto e fu decretato un
lungo periodo di lutto e di celebrazioni a Roma e nelle province.
Tacito non è l’unica fonte su questi avvenimenti. Ci è infatti
pervenuto un numero relativamente alto di testi incisi su tavole
di bronzo che riguardano gli onori funerari da tributare a
Germanico (la Tabula Hebana e la Tabula Siarensis del 19-20
d.C.) o argomenti correlati (la condanna di Pisone nel Senatus
Consultum de Pisone Patre) o analoghi (gli onori funerari per
Druso nella Tabula Illicitana del 23 d.C.). La Tabula Hebana, qui
esposta, fu trovata nella località Le Sassaie (Comune di
Magliano in Toscana) nel 1946. L’area del ritrovamento
corrisponde alla città romana di Heba, allora come oggi
segnalata in superficie da pochi resti di muri e da grandi
quantità di rottami di cocci e laterizi (quelle ‘sassaie’ che
affiorano nei campi ad ogni aratura e che danno nome alla
località). La tavola, mancante del margine destro, reca, agli
angoli conservati, i fori per l’affissione nel foro della città,
probabilmente sotto un portico. Siamo di fronte ad un esempio
tipico di comunicazione della Roma imperiale: gli atti pubblici,
incisi su materiale durevole, venivano inviati anche nelle più
sperdute città dell’impero per essere esposti nei luoghi
frequentati. Lì gli alfabetizzati li avrebbero letti, mentre i molti
illetterati avrebbero potuto farseli eventualmente leggere
pagando un compenso agli scrivani che sempre si aggiravano
nei luoghi pubblici, vendendo i loro servizi.
Il contenuto della tavola di Heba non è ancora una legge, ma
una proposta (rogatio) che risale agli ultimi giorni dell’anno 19
d.C. L’interesse nel testo è nella possibilità che offre di
confrontare un atto pubblico con un testo storico corrispondente.
È però importante anche perché contiene alcune informazioni
sulle modalità di elezione dei magistrati di rango elevato, che,
anche in base alle Tabulae Siarensis e Illicitana, non venivano
più eletti dal popolo radunato nei comizi centuriati, bensì da un
gruppo ristretto di senatori e cavalieri organizzati in centurie.
Uno degli onori tributati a Germanico, che poi sarà riservato
anche a Druso, è infatti quello di dare il nome a cinque delle
centuriae in cui erano divisi i votanti. In questo modo siamo
venuti a conoscenza di una delle tante piccole e grandi riforme
che svuotarono di significato le istituzioni repubblicane di Roma
nel passaggio al Principato.
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Archeologia della Maremma_165

Rilievo marmoreo
con fregio
floreale, da un
mausoleo in
località Preselle,
Scansano,
I-II secolo d.C.

SALA 19
La romanizzazione
(III secolo a.C.-inizi I secolo d.C.)
_
Luoghi: Albinia

Tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. enormi quantità di anfore


contenenti vino prodotto in Italia giunsero in Gallia e in
particolare nei territori di Segusiavi, Sequani, Lingoni, Leuci, ma
soprattutto nell’oppidum di Bibracte, antica capitale degli Edui.
La composizione dell’impasto ceramico delle anfore e i marchi di
fabbrica (bolli) che compaiono su di esse hanno dimostrato che
uno dei più importanti centri di produzione delle anfore
rinvenute in Gallia era Albinia, le cui fornaci sono localizzate fra
il lato sinistro dell’Albegna (Albinia flumen) e la Via Aurelia
attuale. Era già noto come questo tratto di costa, corrispondente
all’antico territorio di Cosa, fosse attivo nel commercio vinario. I
Romani, che avevano conquistato e colonizzato il territorio di
Vulci nel III secolo a.C., ricalcarono le rotte che già gli Etruschi
dalla fine del VII secolo avevano contribuito a stabilire al fine di
scambiare il vino prodotto nei territori costieri (soprattutto di
Vulci e Cerveteri) che risultava assai gradito ai Galli, con merci
preziose nord- e centroeuropee. La produzione romana ebbe
inizio nel II secolo a.C., quando la nascita di grandi ville
schiavistiche, destinate a un intensivo sfruttamento agricolo del
territorio, portò alla produzione di grandi quantità di vino per
l’esportazione. Questo quadro è documentato sia dai resti delle
strutture produttive delle ville (ad esempio la villa di
Settefinestre non lontana da Cosa o quella di Banditella, presso
Marsiliana), sia dagli impianti portuali (il Portus Cosanus e
l’approdo di Albinia) e anche dagli innumerevoli relitti carichi di
anfore che sono stati localizzati nel Mediterraneo.
La vocazione vitivinicola di questi centri agricoli comportava
naturalmente la necessità di avere a disposizione officine che
producessero a livello industriale l’ingente massa di contenitori
Anfore frammentarie,
da Torre Saline, Orbetello, destinati al trasporto del prodotto finito. Il complesso di fornaci di
I secolo a.C. Albinia che producevano anfore di tipo greco-italico, Dressel 1 e
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166_Archeologia della Maremma

Dressel 2/4, è stato localizzato per la prima volta nel 1977. Gli
scavi condotti dal 1999 hanno documentato i resti di un esteso
quartiere artigianale riservato alla produzione di anfore vinarie,
ma anche, in misura minore, di laterizi e ceramica di uso comune.

_
Oggetti: i vasi iberici (sombreros de copa)
dei Monti dell’Uccellina

I due vasi (II-metà I secolo a.C.) erano parte del corredo di una
tomba, oggi non più localizzabile, scavata da clandestini su
Poggio Raso all’estremità sud dei Monti dell’Uccellina. Si tratta
di esemplari di una tipica classe ceramica iberica diffusa sulle
coste italiane dalla Liguria alla Campania. Testimoniano scambi
commerciali di Età Repubblicana fra la penisola Iberica e le
coste tirreniche e costituivano probabilmente il carico di ritorno
delle navi italiche che esportavano per lo più vino verso le coste
iberiche. Contenevano e trasportavano miele, conserve di frutta
o frutta secca.

_
Oggetti: gli ex voto di San Sisto

La localizzazione e la tipologia dei santuari nel mondo antico


sembrano in genere rispondere a una logica territoriale, ma anche
Vasi iberici, sviluppo
etnico-politica: nel caso di Roma arcaica è stato ad esempio
della decorazione notato che i limiti del più antico territorio della città (ager
Romanus antiquus) erano segnalati da una serie di luoghi sacri

Vaso iberico, da una tomba in località Poggio Raso, Vaso iberico, da una tomba in località Poggio Raso,
Monti dell’Uccellina, II-metà I secolo a.C. Monti dell’Uccellina, II-metà I secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_167

Terracotte votive, dalla località di San Sisto, Marsiliana, III-II secolo a.C.

Terracotte votive, dalla località di San Sisto, Marsiliana, III-II secolo a.C.
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168_Archeologia della Maremma

ai quali erano legate leggende molto antiche e feste religiose


sopravvissute fino alla fine dell’impero, quando quel confine
ormai da secoli non aveva che un significato ideale. I santuari
che sorgevano nei punti obbligati di passaggio, dove
convergevano più strade o presso i guadi, avevano poi spesso
carattere emporico cioè di luogo di scambio e di contatto fra
gruppi e popolazioni diversi. In questo tipo di santuari i culti
rinviavano a un ambiente multietnico, come nel caso di Ercole
presso il guado del Tevere, o di Lucus Feroniae, o di Uni
(assimilata sia a Astarte, sia a Ilizia-Ino-Leucotea) a Pyrgi, porto
di Caere, e di Vei-Demetra, Turan-Afrodite, Uni-Hera a Gravisca,
porto di Tarquinia.
La documentazione dell’area maremmana comprende sia
testimonianze monumentali riferibili a edifici di culto (Scoglietto
di Alberese, Talamonaccio, Cosa e Roselle), sia depositi votivi.
Le località interessate da questo ultimo tipo di ritrovamenti
sono: Vulci, Talamone (Poggio Talamonaccio), Ghiaccioforte,
Sovana, Saturnia, Poggio Buco, Marsiliana (varie località fra cui
località San Sisto), Cosa (Arx), Orbetello, Roselle, Paganico
(Cannicci). Tutti questi depositi votivi, con l’eccezione di quelli
del Genio Militare e Vivarelli di Talamone, sono riconducibili al
gruppo definito etrusco-laziale-campano, diffuso fra IV e II
secolo a.C. e caratterizzato dalla preponderanza degli ex voto
fittili sui bronzetti e dalla presenza di teste, statue (spesso
bambini in fasce, come l’esemplare esposto proveniente da
Vulci), statuette, parti anatomiche connesse alle sfere della
guarigione e della fertilità. Una presenza cospicua di bronzi
sembra però più tipica dell’ambiente etrusco, come conferma il
deposito di Ghiaccioforte (Scansano) che si chiude in modo non
casuale con la conquista romana del 280 a.C., mentre le teste
velate sembrano legate piuttosto alla tradizione romana.
Il deposito di San Sisto è di carattere pienamente latino. Gli ex
voto più antichi sono le teste velate e risalgono al III secolo a.C.:
questo consente di mettere in relazione il luogo di culto con la
colonia di Cosa fondata nel 273 a.C. In questa ottica anche la
localizzazione del ritrovamento appare significativa. San Sisto,
nella valle dell’Albegna, non lontano dal limite dell’area
colonizzata, aveva evidentemente un carattere di santuario di
confine, ma non si può escludere che avesse anche una funzione
di luogo di scambio e di contatto fra i due mondi contrapposti di
qua e di là dell’Albegna, dove un ambiente ancora
culturalmente etrusco o comunque non romanizzato aveva il suo
punto di riferimento nel santuario del Talamonaccio, in
opposizione al santuario ‘dei coloni’ a San Sisto.
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Archeologia della Maremma_169

Terracotte votive a forma di utero, dalla località Cannicci, Paganico, IV-III secolo a.C.

_
Oggetti: gli ex voto di Paganico

Il luogo di culto di Cannicci di Paganico si presenta come un


santuario rurale, posto su un importante asse di traffico fra la
costa, il Monte Amiata e l’Etruria settentrionale interna. Era
sede di un culto legato alla riproduzione e alla fertilità
femminile, e probabilmente a una sorgente salutare. Gli ex voto
sono infatti in massima parte uteri, tutti molto simili fra loro e
prodotti verosimilmente da una bottega del luogo.
La tipologia degli ex-voto permette di definire una datazione
compresa fra IV e III secolo a.C. Si tratta quindi di un luogo di
culto precedente o contemporaneo alla conquista romana, e
frequentato almeno fino al I secolo a.C., come testimonia il
ritrovamento di un piccolo gruzzolo di denari d’argento.
Similmente al santuario di San Sisto, anche Cannicci si colloca
strategicamente in un’area di confine dove si incontravano merci e
influssi culturali di aree diverse (Vetulonia, Chiusi, Volterra). Il
ritrovamento di monete può far pensare anche all’esistenza di un
mercato nei pressi del santuario, dove la popolazione delle
campagne poteva reperire merci provenienti dalle aree meglio
fornite della costa. Scavi recenti ancora inediti hanno messo in
relazione il santuario con un esteso villaggio (vicus) di età romana.
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170_Archeologia della Maremma

Busto dell’imperatore Adriano e busto femminile (Sabina?), dalla località Serrata Martini, Castiglione
della Pescaia, 117-138 d.C.

Busto dell’imperatore Adriano, particolare, dalla località Serrata Martini, Castiglione della Pescaia
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Archeologia della Maremma_171

SALA 20
L’Età Imperiale (I-II secolo d.C.)
_
Luoghi: il complesso di edifici in località
Le Paduline-Serrata Martini

In età romana ai piedi di Castiglione della Pescaia era un


insediamento, indicato in genere con il nome antico, oggi messo
in dubbio, di Salebrum, i cui resti sono attualmente divisi in due
dal canale del Bruna. Il settore a destra del canale è la località Le
Paduline, dove è in vista parte di un complesso architettonico di
Età Imperiale; quello a sinistra è la Serrata Martini, dove dal XVI
secolo si sono succeduti con continuità ritrovamenti a seguito dei
lavori di canalizzazione e bonifica. Nel corso dei lavori del 1880
furono messi in luce resti romani di grande imponenza, contigui
all’edificio ancora conservato delle Paduline, che furono
totalmente distrutti. Alfonso Ademollo, studioso locale che
ricopriva la carica di Ispettore dei Monumenti, seguì i lavori e
diede conto dei ritrovamenti in una relazione accurata, ma
purtroppo priva di documentazione grafica.
Il grande complesso architettonico non è oggi di facile
interpretazione proprio per le vicende dello scavo: a giudicare
dai resti conservati (località le Paduline) si suppone si sia
trattato almeno in una prima fase di una villa privata che

Base
di statua
di Artemide
del tipo ‘Diana
di Versailles’,
dalla località
Serrata
Martini,
Castiglione
della Pescaia,
I secolo d.C.
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172_Archeologia della Maremma

Statua di Artemide, dalla località Serrata Martini, Castiglione della Pescaia, I secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_173

all’inizio del II secolo d.C., forse a seguito del passaggio al


patrimonio imperiale, potrebbe essere stata ampliata
acquisendo anche funzioni pubbliche (ad esempio di stazione di
posta o mansio collegata alla viabilità costiera o agli approdi in
mare e nella parte navigabile del lago).
Alcuni dei reperti superstiti dello scavo della Serrata Martini sono
esposti in questa sala: la statua di Artemide, priva della testa, la
base di un’altra statua di Artemide riconducibile al tipo detto
Diana di Versailles, il busto dell’imperatore Adriano e un busto di
donna senza testa su cui era presumibilmente il ritratto della
moglie di Adriano, Sabina. Un raro vetro cristiano (IV secolo d.C.)
con la scena del sacrificio di Isacco in foglia d’oro e un’iscrizione
beneaugurante dallo stesso sito è stato conservato almeno fino
alla Seconda Guerra Mondiale per poi andare disperso.
In anni recenti è stato recuperato l’intonaco dipinto del soffitto
di una delle stanze del complesso delle Paduline, ricostruito da
numerosi frammenti su un pannello verticale.

_
Storia recente di una statua antica

Ademollo si rese subito conto che la piccola Artemide trovata a


Castiglione era un pezzo di pregio; ecco come la descrive nella
sua prima relazione di scavo:
Una statua al di sotto della naturale grandezza, mutilata
della testa e delle braccia […]. Tutta la persona dal collo ai
piedi è pudicamente avvolta e serrata in una sottil tunica il
di cui panneggiamento ricchissimo, le numerosissime e
tenui pieghe sono così stupendamente scolpite, da fermare
l’attenzione del più profano. La veste è così sottile e
vaporosa che non oscura le belle e virginee fattezze [...]. Ha
la faretra mutilata a traverso alle reni, sta in atto di
incedere con la gamba e il piede sinistro in avanti [...].
Manca a questa statua la parte più espressiva, la testa,
pure ritengo che essa altro non rappresenti che la Diana
Cacciatrice nell’atto in cui si slancia alle sue silvane
esplorazioni. È una stupenda e meritevolissima scultura. Né
alcuno deve maravigliarsi di aver rinvenuto presso
Castiglione della Pescaia […] una Diana Cacciatrice
squisitamente scolpita […] perché quei luoghi un giorno
tanto ameni avevano a contatto monti silvestri e ben
chiomati più assai che al giorno d’oggi onde la selvaggina e
la cacciagione di ogni maniera vi doveva abbondare…
L’Artemide fu poi fra gli oggetti che Luigi Adriano Milani volle
per il grande Museo Topografico dell’Etruria allora allo stato di
progetto (sarebbe stato poi inaugurato a Firenze nel 1897). Il 10
giugno 1891 l’Ispettore Sordini, per ordine del Ministero,
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174_Archeologia della Maremma

provvide perciò a ritirare da Grosseto l’Artemide insieme con un


altro prestigioso reperto, il frontone di Talamone, concesso in
deposito tre anni prima. La vicenda venne così riassunta dal
Milani nel 1899:
La nostra statua rimase trascurata lungo tempo in un angolo
buio del Museo di Grosseto e fu trasportata a Firenze nel 1891
in seguito ad un mio rapporto dell’aprile 1889 al Ministero
della P.I., nel quale rilevavo la particolare sua importanza
storica e artistica. Provvisoriamente è ora esposta nella Sala
di Talamone del Museo Topografico dell’Etruria.
Di diverso avviso fu la comunità grossetana che insorse contro il
provvedimento; proteste e prese di posizione non ebbero però
alcun effetto. La statua è poi tornata nel Museo di Grosseto
centodieci anni dopo, nel 2001.
Identificata in un primo momento come una copia dell’Artemis
Laphria di Calidone descritta da Pausania, sembra invece più
probabile, in base ad un più recente studio, che la statua sia la
rielaborazione arcaizzante di un famoso originale bronzeo (500-
480 a.C.) che era a Segesta in Sicilia e fu tra le opere trafugate
da Verre. Ne parla infatti Cicerone nelle sue orazioni contro Verre
e sarebbe stato proprio quel processo a rendere ancora più
famosa la statua e a far nascere la domanda di riproduzioni. Le
copie (ne sono note almeno quattro, compresa questa di
Castiglione) dovrebbero essere state realizzate fra il 50 e il 20
a.C. reinterpretando in senso arcaistico, secondo la moda di
quegli anni, l’originale classico.

SALA 21
Le testimonianze dei relitti
_
Oggetti: anfore e ancore

La Sala 21 è dedicata alle testimonianze sottomarine dei traffici e


dei commerci di età romana rinvenute di fronte alle coste della
Maremma e intorno alle isole dell’Arcipelago Toscano. Si tratta
(come nella precedente Sala 15) di anfore e di ancore recuperate
spesso in modo casuale o sequestrate dalla Guardia di Finanza.
Uno spazio a parte è invece dedicato alla ricostruzione di un
settore del relitto africano di Giglio Porto (III secolo d.C.), realizzata
con anfore e ceramiche autentiche e fasciame navale ricostruito.
Le anfore esposte permettono di ripercorrere un arco temporale
che va dall’Età Repubblicana al periodo tardoantico.
Il contenitore più antico attestato, l’anfora greco-italica, sostituì
le anfore etrusche di tipo arcaico nel IV secolo a.C. Era prodotta
Ricostruzione di un’ancora
in Sicilia e sulle coste delle regioni tirreniche (Campania, Lazio
romana di legno con ceppo
ed Etruria) che producevano vino. Gli esemplari di IV-III secolo di piombo
a.C. non riflettono ancora standard produttivi sufficienti ad una
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Archeologia della Maremma_175

Anfore e ancore romane rinvenute nel tratto di mare di fronte alle coste maremmane

commercializzazione su vasta scala. Più tardi, con la conquista


della Magna Grecia e della Sicilia a seguito della prima guerra
punica (264-241 a.C.), i Romani entrarono in contatto con realtà
agricole nettamente più avanzate di quella contemporanea del
Lazio, sia per le tecniche colturali, sia per i metodi di
conduzione dei fondi agricoli. I conquistatori assimilarono
rapidamente le nuove esperienze: nelle aree romanizzate, come il
territorio di Cosa in Maremma, comparvero insediamenti rurali
più estesi e complessi e fornaci che producevano anfore greco-
italiche di forma evoluta e capienza maggiore.
Abbiamo visto (Sala 19) che già nel II secolo a.C. la rete dei
traffici fra l’Italia e la Gallia Meridionale era fittissima. Il vino,
prodotto nelle ville schiavistiche della nobiltà senatoria e
municipale, veniva così ad essere una delle merci italiche più
esportate, anche in virtù di iniziative protezionistiche che
impedirono almeno per un certo periodo l’impianto di vigne al di
là delle Alpi. Le nuove aziende agricole a conduzione
schiavistica si diffusero fra II e I secolo a.C. sui terreni più fertili
nelle zone meglio collegate con Roma; molte nacquero in
Maremma, dove alla fertilità del terreno e alla abbondanza
d’acqua si aggiungeva la presenza di strade e di porti attrezzati,
infrastrutture indispensabili per la commercializzazione del vino.
L’espansione commerciale di II-metà I secolo a.C. è legata a una
nuova anfora, la Dressel 1. L’anfora Dressel 1 diventò l’emblema
delle esportazioni italiche di vino e fu adottata da tutti i
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176_Archeologia della Maremma

produttori: dalla Campania, dove era utilizzata per esportare i


famosi vini Cecubo e Falerno, all’Etruria, dove si rivivevano i
successi commerciali di Età Arcaica del vino vulcente. La
documentazione di quest’epoca è particolarmente ricca e
completa: archeologia terrestre e subacquea permettono infatti
di ricostruire tutto il ciclo, dalla produzione ai mercati di
destinazione, come nel caso esemplare di Albinia (Sala 19).
Nella seconda metà del I secolo a.C. la Dressel 1 fu sostituita da
una nuova anfora detta Dressel 2/4, che riproponeva la forma
dell’anfora dell’isola greca di Cos ed era, a parità di capienza, molto
più leggera della Dressel 1. Le presenze di questa anfora in Gallia
sono nettamente inferiori a quelle della Dressel 1: il monopolio del
vino italico era ormai finito e gli effetti della concorrenza fra le varie
aree di produzione si facevano sentire. Tuttavia la circolazione di
quest’anfora fu più ampia: le anfore Dressel 2/4 sono state
segnalate in India, ai confini del mondo allora conosciuto.
All’inizio dell’Età Imperiale le produzioni italiche erano ancora
prevalenti, ma non erano più le sole protagoniste del mercato.
L’olio giungeva in notevoli quantità dalla penisola iberica già nel
I secolo d.C.; nel II e III secolo le quantità crebbero
progressivamente a giudicare dagli ingenti ritrovamenti di
anfore iberiche (Dressel 20), tripolitane e tunisine (anfora
Africana I). Una delle voci più importanti dell’economia iberica
era rappresentata dalle salse e dalle conserve di pesce (il
garum o liquamen tanto usato nella cucina romana) che si
affermarono sui mercati mediterranei dall’inizio dell’Età
Imperiale (anfore Dressel 7/13, Beltràn IIB, Pelichet 46, Dressel
14), per essere in buona parte soppiantate da analoghi prodotti
africani nel III secolo d.C. Il caso della Gallia meridionale è
particolarmente significativo: dopo aver importato per secoli
vino dall’Italia, i Galli divennero fra la fine dell’Età
Repubblicana e l’Età Imperiale grandi viticultori e produttori di
vino. In Età Traianea a Ostia il vino proveniente dalla Gallia
(anfore Gauloise 4) era preponderante: nei depositi archeologici
di quel tempo le anfore vinarie italiche sono meno della metà
delle galliche. La produzione e l’esportazione dei vini gallici
proseguì senza interruzione almeno fino al IV secolo, ma dal II
secolo i relitti non possono più essere presi come indicatori
attendibili della entità della produzione totale: i Galli infatti
furono gli inventori della botte (cupa), un contenitore molto
conveniente, ma deperibile e quindi inesistente per
l’archeologia. I vini gallici vennero a colmare il vuoto lasciato
dalla grande produzione vinicola italica di Età Repubblicana:
segno di questo radicale cambiamento fu la scomparsa intorno
al 100 d.C. dell’anfora italica Dressel 2-4. Continuarono ad
essere prodotti in Italia centro-meridionale vini di qualità
contenuti in piccole anfore a fondo piatto (anfora Forlimpopoli
B) e forse in botti, e limitatamente esportati.
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Archeologia della Maremma_177

1 a-b) anfore greco-italiche 2 a-b) Dressel 1 5) Haltern 70 6) Dressel 7/11 7) Beltràn II b


Dressel 1 3) Dressel 2/4 italica, 8) Pélichet 46 9) Dressel 14
4) Dressel 2/4 tarraconese 10) Dressel 14 similis

11) Dressel 20 12) anfora ‘di Kos’ 17) Keay III 18) Keay IIIb
13) Camulodunum 184 14) Tripolitana I 19) Keay IV 20) Keay XXV
15) Gauloise 4 16) Ostia III 40
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178_Archeologia della Maremma

Dal III secolo d.C. furono le province africane a soddisfare gran


parte del fabbisogno dell’Italia di alimenti, ma anche di
manufatti, quali le ceramiche da mensa (sigillata africana) e da
cucina. Per le navi africane appare particolarmente importante
l’isola del Giglio dove sono stati individuati tre relitti provenienti
dall’Africa. È possibile che le rotte provenienti dall’Africa
puntassero verso la Sardegna, zona di antica influenza punica,
per trovare poi nel Giglio un punto di riferimento sia per il
traffico diretto a Roma sia per la distribuzione delle merci lungo
le coste verso nord. Il più antico relitto africano della zona
considerata è quello di Giglio Porto, qui parzialmente ricostruito,
scavato dalla Soprintendenza della Toscana fra il 1984 e il
1988. La nave trasportava anfore del tipo Africana Grande II A
contenenti conserve di pesce; anche il corredo di bordo era tutto
di provenienza africana con la sola eccezione dei vetri. In base
al tipo di anfore e agli oggetti del corredo di bordo, sono state
accertate la provenienza tunisina della nave e la sua datazione
all’inizio del III secolo d.C.
Ne IV secolo, dopo la fondazione di Costantinopoli, nuovi flussi
commerciali si attivarono fra il Mediterraneo orientale, Cartagine
e Roma e aumentò in occidente la presenza di vini orientali.
Questa nuova componente è testimoniata all’isola del Giglio dove
i recuperi effettuati sul fondale del porto hanno permesso di
ricostruire un quadro delle frequentazioni dell’isola e delle merci
che vi approdavano estremamente vivace e variegato. Accanto
agli ultimi prodotti ittici della penisola iberica, contenuti in
anfore Almagro 51 (IV-metà V secolo d.C.), si trovano ‘contenitori
cilindrici di medie dimensioni’ (IV-V secolo d.C.). Le anfore
africane più tarde attestate nella discarica portuale sono ‘grandi
contenitori cilindrici tardoromani’ (Keay LXII B e D) prodotti in
Tunisia fra metà V e VI secolo d.C. La componente orientale è
rappresentata da alcuni esemplari di anfora Late Roman 1 (Keay
LIII-Kellia 169) prodotta nella zona di Antiochia fra il V e tutto il
VI secolo d.C. che trasportava olio o vino.
La lunga stagione dei commerci mediterranei si chiuse con il VII
secolo: la diminuzione della produzione agricola azzerò le
esportazioni che necessitavano di una produzione eccedente il
consumo locale, la crisi demografica e la decadenza delle città
causarono il declino generalizzato delle relazioni commerciali a
lungo raggio. Da ultimo la conquista araba dell’Africa
settentrionale mise fine ad un sistema già fortemente in crisi.
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Archeologia della Maremma_179

Ricostruzione parziale del relitto africano di Giglio Porto, III secolo d.C.
(Studio Romatre, Roma)

Relitto della nave da trasporto africana di Giglio Porto in corso di scavo


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180_Archeologia della Maremma

SALA 22
L’Età Imperiale e Tardoimperiale
(II-VI secolo d.C.)
_
Un periodo di profondi mutamenti

Intorno al 100 d.C. estesi settori della costa dell’Etruria centro-


meridionale entrarono a far parte del patrimonio imperiale.
Questo cambiamento influì in modo tangibile sul paesaggio e
sull’uso del suolo. Ville preesistenti divennero centri direzionali
delle proprietà imperiali, sedi dei procuratores che le
amministravano, o cambiarono funzione, soprattutto quelle più
vicine alle strade e ai porti, trasformate ormai in mansiones e
luoghi di sosta e di ristoro per i viaggiatori.
Molti edifici vennero abbandonati, soprattutto verso la fine del II
secolo d.C. Alcune delle aziende agricole fiorenti fra la fine della
repubblica e i primi secoli dell'impero scomparvero e con esse lo
sfruttamento intensivo, basato sul modo di produzione schiavistico e
finalizzato all’esportazione, delle campagne. È il segno del profondo
cambiamento che investe l’economia della penisola italiana, ormai
sorpassata dalla concorrenza delle province dell'impero. Le
produzioni intensive (vite e olivo) furono in buona parte sostituite
dalla cerealicoltura e dalla pastorizia che necessitavano di minore
manodopera e che caratterizzeranno per secoli il paesaggio
maremmano. I prodotti del territorio avranno ormai come
destinazione Roma, la cui immensa popolazione per lo più
improduttiva dipendeva dall’organizzazione statale per sopravvivere.
Il calo della popolazione nelle campagne contribuì all'impaludamento
delle coste, facilitato dopo il V secolo anche da mutamenti del clima.
Il reticolo dei canali di drenaggio della centuriazione romana non
ricevette più sufficiente manutenzione e nel giro di pochi secoli
l'intero regime idrogeologico dell'area si avviò al degrado. Questi
fenomeni hanno lasciato anche tracce archeologiche: piante tipiche
dell'habitat della palude, assenti in precedenza, sono state
riconosciute nei depositi archeologici di età severiana (III secolo d.C.)
della villa di Settefinestre presso Orbetello.
Anche la via Aurelia, principale arteria costiera, venne lasciata a
se stessa. Non sappiamo dove cominciarono a manifestarsi le
prime interruzioni del tracciato viario, ma è certo che nel 417 d.C.
il poeta Rutilio Namaziano preferì affrontare d’inverno, in
stagione di mare clausum, un viaggio per mare da Roma alla
Gallia, piuttosto che lungo la via Aurelia, ridotta in cattivo stato
dalla recente invasione gota e dall'incuria:
Si sceglie il mare perché le vie di terra,
fradice in piano per i fiumi, sui monti sono aspre di rocce:
dopo che i campi di Tuscia, dopo che la via Aurelia,
sofferte a ferro e fuoco le orde dei Goti,
non domano più le selve con locande, né i fiumi con ponti,
è meglio affidare le vele al mare sebbene incerto.
Il ritorno I, 37-42 (trad. A. Fo)
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Archeologia della Maremma_181

Il quadro delle città completa il panorama. Cosa, che perderà in


seguito il suo nome sostituito dal medievale Ansedonia, era ancora
centro di una limitata vita civile, segnalata da iscrizioni di III e IV
secolo. Nel corso degli stessi secoli Heba e Saturnia vennero del
tutto abbandonate. Solo Roselle continuò a vivere, per essere
abbandonata molto più tardi, nel XII secolo.

_
Luoghi: il santuario di Diana Umbronensis
allo Scoglietto di Alberese

Diana era una divinità particolarmente popolare in questa parte di


Etruria: il culto della Artumes etrusca è testimoniato a Roselle nel V
secolo a.C., mentre in età romana si collocano le statue di
Castiglione della Pescaia e il sacello della Casa di Diana di Cosa.
Allo Scoglietto di Alberese alcuni anni fa è stata trovata una
iscrizione che ha indicato senza alcun dubbio la presenza di un
santuario di Diana sulla collina (lo Scoglietto) che in antico sorgeva
pressoché a picco sul mare e in vista della foce dell’Ombrone, oggi
avanzata di almeno 5 km. L’iscrizione, di marmo bianco, databile fra
la fine del I secolo a.C. e la fine del I d.C., è posta in dono a Diana
Umbronensis, cioè Diana del fiume Ombrone, da uno schiavo,
Dionysios, di proprietà della famiglia degli Haterii, una gens
piuttosto nota a Roma e in altri luoghi in Italia, ma fino ad ora non
testimoniata in Maremma, se non in modo dubbio a Saturnia.
Il santuario dello Scoglietto, molto vicino all’approdo fluviale romano
dell’Ombrone, era stato fondato nel II secolo a.C. ed ebbe una
durata molto lunga, almeno fino alla scomparsa dei culti pagani nel
territorio. Il primo edificio, di dimensioni ridotte, restò isolato fino

Statuetta di Diana, dal Iscrizione di dedica a Diana Umbronensis,


Santuario dello Scoglietto, dal Santuario dello Scoglietto, Alberese,
Alberese, I-II secolo d.C. fine I secolo a.C.-inizio I secolo d.C.
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182_Archeologia della Maremma

alla fine del I secolo d.C., quando il santuario acquisì maggiore


estensione e complessità architettonica. La seconda fase si esaurì
intorno alla fine del II secolo d.C. quando l’area appare abbandonata.
Entro il II secolo è databile anche la piccola statua di Diana mutila della
testa, ma rappresentata secondo una iconografia che rende certa
l’identificazione, e conferma la dedica del santuario.
Un nuovo e più grande tempio fu poi costruito in età severiana (III secolo
d.C.), forse dedicato a un’altra divinità, diversa da Diana. In un
momento che può essere messo in relazione con la promulgazione
dell’Editto di Tessalonica del 380 d.C. che metteva definitivamente fuori
legge i culti e i templi pagani, il tempio fu distrutto fino alle
fondamenta, mentre la cisterna che garantiva l'approvvigionamento
idrico al santuario fu riempita con macerie; a questa fase risale anche
un piccolo cimitero, legato forse a un diverso uso del sito.

_
Oggetti: il sarcofago di un ragazzo

Nel periodo romano una strada metteva in comunicazione la valle


dell’Ombrone e Roselle con la media valle dell’Albegna passando per
il guado di Istia. Lungo questa strada sono stati rinvenuti nel tempo
reperti riferibili a mausolei romani che tradizionalmente sorgevano
lungo gli assi viari, quali i frammenti di decorazione marmorea e di
iscrizione funeraria relativa ad un cittadino di Roselle, da Preselle di
Scansano (I secolo d.C.), esposti insieme alle altre iscrizioni nella
Sala 18, e il sarcofago marmoreo di un ragazzo (III secolo d.C.)
rinvenuto in località Voltina presso Istia d’Ombrone.
Il sarcofago, uno dei pochi rinvenuti in area maremmana e l’unico ad
essere pervenuto al Museo di Grosseto, è decorato solo sul lato frontale.
Alle estremità della cassa sono due geni funerari alati con le fiaccole
rovesciate simbolo della morte; al centro è il ritratto appena abbozzato
del ragazzo entro un cerchio (clipeo) sotto il quale sono due cornucopie
incrociate e legate insieme. Il resto della cassa è coperto con una
decorazione schematica detta ‘strigilata’ per la somiglianza degli

Sarcofago di marmo con coperchio, dalla località Voltina, Istia d’Ombrone, 270-280 d.C.
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Archeologia della Maremma_183

elementi a forma di S che la compongono con gli strigili, specie di


cucchiai usati dagli atleti per raschiare l’olio e il sudore dalla pelle
(strigili di bronzo sono esposti nella Sala 16 e nella Sala 23).
Il coperchio ha una alta fascia frontale con quattro geni distesi con vasi
e cornucopie pieni di frutti: si tratta delle quattro stagioni, simbolo del
tempo che passa, ma anche del ciclo della rinascita. L’iscrizione al
centro dell’alzata del coperchio è consunta e illeggibile.

_
Personaggi: il ferrivecchi di Poggio Rotigli
e il pretoriano in congedo Valerius Clemens

Tipico della situazione di incertezza e di difficoltà di approvvigionamenti


del tardo impero è il ritrovamento di Poggio Rotigli, località Granaione
(Campagnatico). In un complesso di quattro ambienti, che lo scavo di
emergenza nel 1958 non permise di definire meglio, furono trovati in
grande quantità oggetti interi, ritagli e frammenti di metallo, soprattutto
bronzo, ma anche ferro e piombo, di vari periodi, evidentemente
ammassati al fine di ricavarne metallo da utilizzare nuovamente. Molti
sono gli oggetti ancora riconoscibili, quali una testina femminile che
fungeva da peso di stadera (I secolo d.C.), grossi frammenti di paioli di
bronzo, una brocchetta di metà III secolo e il diploma del pretoriano
Valerius Clemens, rilasciato nel 306 d.C.
Il diploma militare è il pezzo più importante del contesto di Poggio Rotigli.
Si tratta del documento rilasciato a un pretoriano della IX Coorte Pretoria
al momento del congedo, dopo circa sedici anni di servizio. Sulle due
tavolette di bronzo vengono ricordati gli imperatori Costanzo e Galerio con
una titolatura che permette di risalire con precisione alla data del 7
gennaio 306 d.C. Valerio Clemente e i suoi commilitoni, in base al
documento, copia del quale in dimensioni maggiori era conservata a

Calderone di bronzo in frammenti, dalla località Granaione-Poggio Rotigli, Campagnatico, IV secolo d.C. ?
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184_Archeologia della Maremma

Diploma militare in bronzo, dalla località Granaione-Poggio Rotigli, Campagnatico, 306 d.C.

Roma, acquisivano il diritto di sposarsi e di trasmettere ai propri figli


la cittadinanza romana, anche se la madre fosse stata straniera.
Sigilli e una lista di testimoni sottolineano l’importanza del
documento. Non si sa da dove venisse Valerio Clemente, che nel
diploma è definito solo genericamente italus. La formazione casuale e
composita del contesto impedisce di fare ipotesi su una eventuale
provenienza rosellana del pretoriano.
Il ritrovamento, nel suo complesso, è il magazzino di un ferrivecchi
che svolgeva un’attività identica a quella che, sempre nei primi
decenni del IV secolo, aveva luogo negli ambienti della Domus dei
Mosaici di Roselle, dove un altro raccoglitore accumulava e riduceva
in piccoli pezzi bronzi etruschi e romani, un’attività di riciclaggio
delle materie prime che proseguirà a lungo nei secoli.

CORRIDOIO 22-23
_
Oggetti: una dedica all’imperatore Alessandro Severo

Uno dei reperti pervenuti più di recente nel Museo è una base
iscritta trovata nei pressi di Talamone. La base reca una lunga
iscrizione di dedica da parte della città di Heba all’imperatore
Alessandro Severo, appena salito al trono nell’anno 222 d.C.
IMP(eratori).CAES(ari).DIVI.SE/VERI.NEPOTI.DIVI.AUG(usti)/
ANTONINI.PII.FIL(io)/ M(arco).AURELIO.SEVERO /ALEXANDRO.
PIO/FEL(ici).AUG(usto).PONTIF(ici)/MAX(imo). TRIB(unicia).
POTEST(ate)/CO(n)S(uli).P(atri).P(atriae).RES.PUBL(ica)/
HEBAN(orum).DEVOTA/NUMINI.MAIESTA/TIQUE.EIUS.POSU/
IT.DECR(eto).DEC(urionum)/P(onendam).C(curavit).
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Archeologia della Maremma_185

L’oggetto dedicato non è però la base, ma una statua,


probabilmente di bronzo. Di essa non resta altro che, sul piano
superiore del blocco di travertino, le tracce in negativo dei sostegni
(tenoni) posti originariamente sotto i piedi, come accadeva in genere
nel caso di immagini di bronzo. Il significato dell’iscrizione è perciò:
All’imperatore Alessandro, nipote di Settimio Severo e figlio
[adottivo] di Caracalla, entrambi divinizzati, pio, felice,
augusto, pontefice massimo, insignito del potere dei tribuni,
console, padre della patria, la comunità degli Hebani, per
devozione alla sua maestà, pose questa statua con decreto
del governo cittadino
La base è stata rinvenuta 8-9 km a sud di Heba, nella località
Melosella, scavata su uno dei lati lunghi e riusata forse come
sarcofago. È perciò probabile che la base fosse originariamente
nel foro di Heba e che nel periodo tardoimperiale o altomedievale
la statua sia finita fusa per ricavarne preziosa materia prima
mentre la base sia stata portata via come pietra da riutilizzare.
Un’altra base trovata anni fa nell’area della città fa pensare che
la statua dell’imperatore fosse eretta accanto a quella della
madre Julia Mamaea. Nulla invece sappiamo di quello che gli
abitanti di Heba si aspettassero dal giovane Augusto e dalla
sua potente madre.

Base di statua
di travertino
con dedica
all’imperatore
Alessandro
Severo,
dalla località
Melosella,
Talamone,
222 d.C.
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186_Archeologia della Maremma

SALA 23
Archeologia della Maremma:
le collezioni e gli oggetti di interesse antiquario

La Sala 23 raccoglie ed espone ceramiche e, in misura minore,


bronzi, rinvenuti in massima parte negli anni ’50 del Novecento
e assicurati al Museo dall’opera dell’allora direttore Aldo
Mazzolai e del responsabile dell’Ufficio locale della
Soprintendenza Giuseppe Checcaglini. La registrazione dei dati
relativi a quei ritrovamenti non fu quasi mai accurata quanto gli
standard odierni richiederebbero: di molti reperti conosciamo
solo genericamente l’area di provenienza, di altri è noto il sito di
ritrovamento ma ignoriamo il punto preciso, le circostanze, le
eventuali associazioni con altri oggetti. Poteva risultare
fuorviante o almeno poco coerente collocare questi oggetti,
peraltro piuttosto numerosi, nel percorso espositivo principale
del Museo, in cui ogni pezzo è inserito secondo una logica
cronologica, territoriale e di contesto. Ma gli oggetti possono
avere anche pregi diversi dal valore strettamente storico-
archeologico: possono infatti avere una rilevanza estetica o
antiquaria per la bellezza, la rarità o l’eccezionale stato di
conservazione. Ed era questo il nostro caso: la collezione era
formata da vasi corinzi ed etrusco-corinzi, da ceramiche attiche
a figure nere e a figure rosse spesso attribuibili a noti pittori, da
numerosissimi vasi di bucchero, accomunati dalla generica

Veduta della Sala 23, dedicata alle collezioni e agli oggetti di interesse antiquario
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Archeologia della Maremma_187

provenienza dal territorio di Vulci, dalla probabile pertinenza a


corredi funerari (sono in gran parte interi), dalla cronologia fra il
VII e il VI secolo a.C., con poche eccezioni. L’interesse antiquario
e storico-artistico di questi oggetti ha condotto perciò alla
progettazione di uno spazio espositivo separato e diverso, la
Sala delle collezioni, che richiama l’aspetto degli antiquaria
ottocenteschi, con gli oggetti assiepati in armadi a vetro. Anche
l’ordinamento scelto è quello tipico antiquario: i reperti sono
divisi per materiali (bronzo, ceramica) e per classi e produzioni
(ceramica corinzia, etrusco-corinzia, etrusco-geometrica,
bucchero, etc.), con la sola eccezione della piccola collezione
Gori a cui è dedicata una vetrina separata.
Ma il ritrovamento di oggetti così numerosi in un ristretto
periodo di tempo ha anche ragioni storiche, legate alle vicende
più recenti della Maremma, che conviene ricordare.

_
Archeologia e Riforma Agraria

Negli anni ’50 del Novecento furono messe a coltura in Maremma


vaste aree, abbandonate da secoli. Fino ad allora boschi e pascoli
avevano protetto necropoli, tombe isolate, città, grandi siti rurali e
insediamenti minori che invece l’aratura a macchina in poco
tempo intaccò o distrusse, portando in superficie reperti di ogni
periodo. Le strutture di tutela non erano attrezzate per affrontare
una emergenza simile (le automobili erano ancora un bene di
lusso nell’Italia di quegli anni) e i pur numerosi recuperi allora
effettuati costituiscono solo una parte di quanto andò disperso.
Molti collaborarono a salvare il possibile in uno spirito di
entusiastico volontariato; altri divisero equamente la loro attività
fra recupero e commercio illegale, ma quel che è certo è che i
tombaroli vissero una stagione irripetibile. Ecco come descrive la
situazione un testimone oculare che si trovò ad operare a Vulci fra
il 1956 e il 1962:
[L’Ente Maremma] sta facendo le pratiche per l’aratura
profonda […]. Ci sarà da seguire il trattore attimo per attimo.
L’Ente è disposto a pagare mille lire l’ora per la sorveglianza,
più le eventuali spese per il recupero se verrà fuori qualcosa.”
[…] Così per un paio di mesi il mio grande nemico è stato
l’AF 8, il trattore da scasso dell’Ansaldo-Fossati di Genova.
[…] Questa enorme macchina trascina obliquamente un
aratro delle stesse proporzioni, collegato a una pesantissima
ruota. Ad ogni giro la ruota scende nel solco precedente,
permettendo così di affondare ancor più il vomere. A un
metro e venti si tocca la profondità massima […].
Il lavoro di sorveglianza si è rivelato, oltre che inutile come
prevedevo, estremamente faticoso. Un turno di sei ore sul
sedile dell’AF 8 con l’obbligo di star girati all’indietro per
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188_Archeologia della Maremma

vedere che cosa smuove l’aratro significa arrivare a sera


con la schiena a pezzi e il collo indolenzito. E poi resto
sveglio per ore, inquieto, a rimuginare su questa o quella
pietra vista affiorare, sull’angolo di un dromos che il vomere
ha scheggiato, sugli antichi canali d’irrigazione andati
all’aria, sui resti dei roghi funerari che l’aratro ha tirato su
[…]. Sulle buche che certamente qualche clandestino sta
facendo, in base alle tracce che l’aratura gli ha offerto.
[…] Poi, finalmente, dopo tanti giorni sconsolati, arriva un
momento di festa. […] Il rinvenimento è importante e ci
riempie di soddisfazione, ma le domande rimangono: quante
altre testimonianze sono andate perdute con l’aratura?
Erano, forse, ancora più straordinarie?
[…] Misteriose auto, con gente mai vista, hanno seguito
giorno per giorno, di lontano, il lavoro del trattore. E, nella
notte, le buche non hanno tardato a sbocciare.
Sergio Paglieri, Guerrieri di polvere.
Sei anni fra gli Etruschi, 1992

Grande attingitoio (kyathos) etrusco a figure nere con atleti in corsa,


fine VI- inizi V secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_189

_
Alcune provenienze: i reperti di Poggio Buco

L’origine dei reperti del Museo Archeologico e d’Arte della


Maremma può essere ricondotta a due nuclei maggiori, entrambi
riferibili all’antico territorio vulcente: il materiale proveniente da
Poggio Buco e la collezione Lotti.
I reperti da Poggio Buco affluirono al Museo fra il 1955 e il
1957, a seguito di lavori agricoli in un vasto podere posto nel
cuore della necropoli. Le consegne avvenivano presso l’Ufficio
staccato della Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria, che
aveva sede negli stessi locali del Museo; di conseguenza, questo
materiale è stato poi depositato stabilmente nel Museo. La
provenienza dei reperti è generica, anche se in qualche caso
brevi annotazioni manoscritte in margine agli elenchi
fornirebbero indizi per una eventuale ricostruzione di corredi
tombali. Non si esclude però che all’interno di questo nucleo
siano presenti anche reperti provenienti da necropoli vicine ma
ben distinte da Poggio Buco, quale quella in località Insuglietti.

_
Alcune provenienze: la collezione Lotti

Più composita è la collezione Lotti, acquistata dal Comune di


Grosseto fra il 1956 e il 1969 e formata da reperti rinvenuti
nell’area a nord-ovest di Vulci, in provincia di Viterbo. I primi
contatti fra Turiddo Lotti e il Museo di Grosseto risalgono al 1955;
un primo nucleo di oggetti fu acquistato già l’anno successivo, un
altro nel 1959. Questo secondo acquisto rimase a lungo in sospeso
a seguito di una indagine sulla legittimità del possesso dei reperti
da parte di Lotti. I contatti ripresero nel 1967, quando la collezione
fu interamente riconsegnata al proprietario; in questa occasione fu
acquistato il cratere euboico di Pescia Romana (Sala 13). Un
nuovo acquisto, questa volta accompagnato da un sommario
elenco, fu perfezionato nel 1969. Nel 1970 i reperti più belli furono
esposti in una mostra a Grosseto, con lo scopo di risvegliare
l’attenzione della cittadinanza e delle istituzioni sulla necessità di
una nuova sede per il museo.

_
Personaggi: Turiddo Lotti

Lotti è un uomo di media età e di bassa statura, asciutto,


abbronzato dal sole dei campi. Tiene il sigaro toscano ben
piantato tra i denti ma risulta ugualmente chiaro nella sua
bella parlata laziale, con qualche sfumatura toscana (il nome
siciliano è stato un ghiribizzo paterno, forse un omaggio alla
”Cavalleria” di Mascagni). Quando si parla di scavi, il sor
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190_Archeologia della Maremma

Turiddo ama fare non solo il ben informato, ma anche il


misterioso e ride con gli occhi a fessura quando lo incalzo,
inutilmente, per sapere altro oltre a quello che ha deciso di
dirmi. Se lo prego di indicarmi l’origine delle sue informazioni
sulle imprese dei clandestini o su qualche importante oggetto
offerto ai compratori, mi oppone seraficamente sempre la
stessa frase: “Me l’ha detto Radio Fante”.
Qualche volta mi viene il sospetto che le sue notizie siano
solamente voci incontrollate. Poi i fatti, in genere, gli danno ragione.
Sergio Paglieri, Guerrieri di polvere.
Sei anni fra gli Etruschi, 1992
Turiddo Lotti (Ischia di Castro, 1908-1984) è stato un
personaggio emblematico in una stagione dell’archeologia
italiana in cui gli eruditi locali avevano un ruolo di primo piano.
Lo zio, mons. Eraclio Stendardi, era un erudito con la passione
per la storia e l’archeologia del territorio castrense, passione
che passò al nipote insieme con la sua collezione archeologica.
Intorno a questo primo nucleo, Turiddo raccolse per tutta la vita
libri rari e oggetti archeologici. Le sue competenze di
archeologia erano eccellenti e questo, insieme con la conoscenza
capillare del territorio, gli facilitò i rapporti con l’archeologia
ufficiale: ebbe contatti con molte personalità del mondo
accademico e instaurò un rapporto di particolare stima e
amicizia con Ferrante Rittatore Vonwiller, l’instancabile
indagatore della valle del Fiora. I rapporti con gli organi di
tutela furono invece alterni; inizialmente fiduciario della
Soprintendenza, fu poi sospettato di attività illegali di ricerca,
accusa da cui fu del tutto prosciolto. Alla sua morte lasciò la
collezione di reperti e i libri al suo paese, permettendo la
nascita del museo che oggi porta il suo nome insieme con quello
del figlio Pietro e della biblioteca civica di Ischia di Castro.

La collezione
di Turiddo
Lotti,
a Ischia di
Castro,
anni ’50-’60
del Novecento
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Archeologia della Maremma_191

_
Una tomba di Vulci e gli scavi della Società Hercle

Fra il 1961 e il 1963 fu affidato a una società privata, la Hercle,


lo scavo della necropoli dell’Osteria, una delle più grandi della
metropoli etrusca di Vulci. I terreni interessati erano inclusi fra
quelli su cui stava operando l’Ente Maremma e lo scavo aveva
perciò un carattere di emergenza. Le tombe scavate furono circa
200 e una parte dei reperti andò all’Ente Maremma, come
‘premio di rinvenimento’. In seguito i beni del disciolto ente
passarono all’Ente Toscano Sviluppo Agricolo e Forestale (ETSAF)
e ancora più tardi alla Regione Toscana.
Il corredo (ora spostato per esigenze espositive nella Sala 15) fa
parte del nucleo attribuito all’Ente Maremma ed è stato
depositato dalla Regione nel Museo di Grosseto. Si tratta del
corredo funerario della tomba 109 Hercle della necropoli
dell’Osteria, una tomba a camera databile fra la fine del VII e
gli inizi del VI secolo a.C.
Il corredo è composto da reperti ceramici tra i quali spicca la
grande anfora commerciale del tipo detto ‘SOS’ di produzione
ateniese (così chiamata dal motivo decorativo a cerchi e linee
sinuose presente sul collo) che documenta l’importazione di vino
greco in Etruria e a Vulci in particolare, in un momento in cui la
produzione vinaria vulcente cominciava a decollare. Sono poi
presenti due brocche di produzione etrusco-corinzia, di botteghe
vulcenti: l’oinochoe a decorazione lineare e l’olpe a rotelle
riconducibile al cosiddetto Ciclo delle Olpai (580-560 circa a.C.).
Anche i buccheri sono di produzione vulcente: si tratta di due
vasi per bere e attingere con alte anse (kantharoi), un calice e
due brocche, tutti databili tra l’ultimo quarto del VII e il primo
quarto del VI secolo a.C.

Corredo della
tomba 109
Herkle,
necropoli
dell’Osteria,
Vulci,
inizi
VI secolo a.C.
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192_Archeologia della Maremma

_
Classi ceramiche: la ceramica protocorinzia e corinzia

La produzione ceramografica di Corinto, caratterizzata


dall’argilla estremamente depurata e molto chiara, con una
tonalità giallo-verdastra, si sviluppò durante l’orientalizzante e
l’arcaismo, tra la fine dell’VIII e la metà del VI secolo a.C. Viene
distinta in due fasi: Protocorinzio e, a partire dall’ultimo quarto
del VII, Corinzio.
Singoli pittori o botteghe sono stati talvolta individuati in base a
caratteristiche stilistiche, iconografiche o decorative. Uno di
questi è il Pittore della Sfinge che raggiunge, oltre alla Grecia
continentale e alle isole, Cartagine e le coste d’Etruria.
Inizialmente il decoro della ceramica corinzia era
essenzialmente geometrico e le poche figure presenti erano
rappresentate con stile miniaturistico, per lo più disposte in
fregi orizzontali dominati da animali. Dalla decorazione a fregio
animalistico si passa verso la fine della produzione a scene a
carattere narrativo tratte dalla mitologia, organizzate sempre
nello schema del fregio.

Cratere a colonnette medio-corinzio, primo quarto VI secolo a.C.


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Archeologia della Maremma_193

Tazza (kotyle) corinzia antica, ultimo quarto VII secolo a.C.

Vaso per l’acqua (hydria) corinzio del pittore della Sfinge,


ultimo quarto VII secolo a.C.
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194_Archeologia della Maremma

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Classi ceramiche: la ceramica etrusco-corinzia

La ceramica etrusco-corinzia è una produzione ceramografica fiorita


in Etruria fra il 630 ed il 540 circa a.C. ad imitazione dei prodotti
importati da Corinto in Etruria in questo periodo. Centro produttivo
principale è rappresentato da Vulci, anche se altre botteghe sorgono
nei centri etrusco-meridionali di Caere e di Tarquinia.
I vasi esposti provengono dal territorio vulcente e dai centri della
valle del Fiora ed attestano le diverse fasi della produzione,
articolata per convenzione in tre generazioni.
Gli esemplari appartenenti alla cosiddetta prima generazione
vulcente (630-600 a.C.) sono prodotti nella tecnica policroma che si
affianca alla tecnica a figure nere, utilizzata dal capostipite, noto
come Pittore della Sfinge Barbuta, e dai maestri che operano
all’interno dei Gruppi degli Archetti Intrecciati e delle Palmette
Fenice.
La seconda generazione (600-580 a.C.) è rappresentata
soprattutto dal Pittore di Feoli, una delle personalità di maggior
rilievo del periodo.
La terza fase della ceramografia vulcente (580-560 a.C.) si
articola principalmente nell’opera delle botteghe appartenente ai
due Cicli coevi delle Olpai e dei Rosoni, avviati a una produzione di
massa, stereotipata, su un numero limitato di forme vascolari e di
motivi figurativi.
La produzione del Gruppo di Grasmere rappresenta la variante
provinciale tarquiniese della ceramografia vulcente. Il Gruppo di
Poggio Buco, infine, specializzato nella decorazione di kylikes, è
caratterizzato da una produzione particolarmente modesta.

Unguentari etrusco-corinzi, 625-575 a.C. circa


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Archeologia della Maremma_195

Brocca (oinochoe)
etrusco-corinzia a
decorazione lineare,
fine VII-metà
VI secolo a.C.

Brocca (oinochoe)
etrusco-corinzia
a decorazione lineare,
da Castro,
fine VII-metà
VI secolo a.C.
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196_Archeologia della Maremma

Brocca (olpe) a rotelle etrusco-corinzia, Pittore Brocca (olpe) a rotelle etrusco-corinzia, Gruppo
dei Rosoni, da Castro, 580-560 a.C. delle Palmette Fenice, da Pitigliano,
inizi VI secolo a.C.

Anfora etrusco-corinzia, Gruppo degli Archetti Brocca (oinochoe) etrusco-corinzia, Pittore


Intrecciati, 630-600 a.C. circa della Herkle, 580-560 a.C. circa
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Archeologia della Maremma_197

Contenitori per profumi (alabastra), Pittore di Feoli, 600-580 a.C. circa

Contenitori di profumo (alabastra), Pittore di Bobuda, 600-580 a.C. circa


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198_Archeologia della Maremma

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Classi ceramiche: la ceramica attica a figure nere

Vasi attici a figure nere prodotti ad Atene nel corso della


seconda metà del VI secolo a.C. furono esportati dalla Grecia in
Etruria dove erano particolarmente apprezzati dalle facoltose
famiglie del tempo. Il vasellame, che era utilizzato durante i
banchetti, veniva anche deposto all’interno delle tombe e
costituiva un elemento di prestigio nei corredi che
accompagnavano il defunto nell’aldilà. La decorazione era quasi
sempre riconducibile a scene di carattere narrativo tratte dalla
Anfora attica a figure mitologia greca, accompagnate talvolta dai nomi dei personaggi
nere con Teseo e il presenti, ma potevano essere rappresentati anche duelli e scene
Minotauro, 540 a.C. circa di vita quotidiana.
La tecnica pittorica a figure nere si affermò ad Atene intorno al
640-630 a.C. La decorazione veniva realizzata a crudo sul corpo
del vaso quando questo aveva raggiunto la cosiddetta ‘durezza
cuoio’; figure e elementi decorativi venivano delineati con argilla
diluita, poi i particolari venivano incisi con una punta ed
eventualmente evidenziati con tocchi di bianco e di rosso
porpora. Successivamente il vaso subiva tre tipi di cottura: la
prima con ossigeno (a ossidazione) dava una colorazione rossa
a tutto il vaso; nella seconda, con legna verde che produceva
fumo e ridotta circolazione di ossigeno (a riduzione), la
superficie assumeva una colorazione nera; infine nel terzo stadio
l’aria poteva di nuovo circolare nella camera di cottura con il
risultato che solo le parti risparmiate dalla patina di argilla
diluita e le linee incise tornavano color terracotta, mentre le
figure restavano nere.

Particolare di coppa (kylix) attica a figure nere,


da Pitigliano, 530 a.C. circa
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Archeologia della Maremma_199

_
Classi ceramiche: la ceramica attica a figure rosse

Nel 530 a.C. la ricerca di una maggiore qualità artistica portò


alla tecnica delle figure rosse: la superficie dei vasi veniva
ricoperta dalla patina di argilla diluita risparmiando gli
elementi figurati che risultavano dopo la cotture rossi su fondo
nero. Questa tecnica non obbligava più all’incisione dei
particolari ma permetteva l’uso del pennello e di conseguenza
un disegno più fluido e particolareggiato: le figure acquistavano
rilievo e così gli atteggiamenti, le espressioni dei volti, il
movimento dei panneggi. La tecnica di cottura era invece la
stessa: alternando due passaggi di cottura a ossidazione e uno
di cottura a riduzione erano però le figure a restare del colore
arancione dell’argilla mentre il fondo e i particolari dipinti
diventavano neri.
Il repertorio decorativo si ampliò, anche per la maggiore libertà
espressiva che la nuova tecnica dava ai ceramografi. Alle scene
mitologiche si affiancarono gare sportive, banchetti, matrimoni,
aspetti del mondo femminile, scene di commiato.

Coppa (kylix) attica a figure rosse con corridore armato, 480-470 a.C.
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200_Archeologia della Maremma

_
Classi ceramiche: la ceramica etrusco-geometrica

Il termine ‘etrusco-geometrico’ individua una produzione ceramica


etrusca databile tra i decenni finali dell’VIII e la metà del VII secolo
a.C. La produzione, ispirata a modelli greci, avveniva inizialmente
in botteghe impiantate in territorio etrusco da artigiani immigrati
dalla Grecia o dalle colonie dell’Italia Meridionale dai quali i vasai
etruschi appresero le tecniche di depurazione dell’argilla, della
decorazione dipinta e dell’uso del tornio.
Il repertorio decorativo, è, nella fase iniziale, di matrice
Vaso cinerario etrusco- sostanzialmente greca e euboica in particolare (Sala 13); comprende
geometrico, da Pitigliano, motivi lineari, cerchi concentrici, tondi verniciati congiunti da motivi
prima metà
VII secolo a.C.
ad S e rari elementi figurativi fortemente stilizzati.

Vaso sferoidale (olla) etrusco-geometrico,


da Pitigliano, fine VIII-metà VII secolo a.C.

Coppa etrusco-geometrica,
prima metà VII secolo a.C.
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Archeologia della Maremma_201

_
Classi ceramiche: la ceramica di impasto ingubbiata e dipinta

Parallela alla produzione etrusco-geometrica in argilla depurata,


si sviluppò in Etruria nella prima metà del VII secolo a.C. una
produzione di impasto ugualmente caratterizzata da decorazione
geometrica, riprodotta sulla superficie dei vasi nella tecnica
rosso su bianco o bianco su rosso. Nel territorio vulcente e nei
centri minori della valle del Fiora, in particolare Poggio Buco,
Pitigliano e Castro, si affermò principalmente la prima tecnica,
impiegata per decorare vasi da banchetto di medie e grandi
dimensioni. Tipicamente vulcenti, le olle con decorazione a
scacchiera e quelle su alto piede decorate con motivi a zig-zag,
a triangolo e a meandro, ricorrono nei corredi tombali a fianco di
piatti e di coppe su piede, con orlo a tesa, tutti a decorazione
lineare.

Olla a scacchiera bianco su rosso, da Poggio Buco, prima metà VII secolo a.C.
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202_Archeologia della Maremma

_
Classi ceramiche: il bucchero

La produzione del bucchero, tipica ceramica etrusca nera e


lucida, nacque come imitazione del vasellame di metallo (oro,
argento, bronzo) decorato a sbalzo. Il colore nero del bucchero
non era dato da una vernice, ma si otteneva utilizzando un
impasto di argilla addizionata con piccole quantità di sostanze
organiche, come la paglia tritata, e seguendo un procedimento
di cottura a riduzione.
Le botteghe che producevano bucchero fra gli ultimi decenni del
VII e il VI secolo a.C. erano sparse in tutta l’Etruria; fra le
maggiori erano Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Chiusi, Orvieto, ma
botteghe minori erano anche altrove, come ad esempio a Roselle
e a Vetulonia.
Il nucleo qui presentato è attribuibile alla produzione vulcente
con pochissime eccezioni. Sono rappresentate tutte le forme più
tipiche dei vasi da banchetto: crateri, calici, coppe, brocche.

Grande attingitoio (kyathos) di bucchero, da Castro,


675-525 a.C. circa
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Archeologia della Maremma_203

Vaso per l’acqua


di bucchero,
575-550 a.C.
circa

Vasi di bucchero di produzione vulcente, fine VII–VI secolo a.C.


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della Diocesi
d'Arte Sacra

di Grosseto
Il Museo

Il Museo Diocesano, oggi associato nella sede e nella gestione al Museo Archeologico,
ebbe una genesi relativamente separata da quella della più antica istituzione civica,
di circa sessanta anni più antica.
Il più strenuo sostenitore della necessità di fondare un museo d’arte sacra fu
mons. Antonio Cappelli, che era fin dal 1923 anche direttore del Museo Civico e della
Biblioteca Chelliana. La proposta di aprire un piccolo museo di arte sacra a Grosseto,
avanzata anche dal R. Soprintendente Pèleo Bacci, fu esaminata per la prima volta
nell’adunanza del Capitolo della Cattedrale del 30 giugno 1928. Solo nel 1931 venne
però presentato un primo progetto che prevedeva la sopraelevazione della sacrestia del
Duomo per ricavare i locali per il nuovo museo. A partire dallo stesso anno mons.
Cappelli manifestò un interesse e un entusiasmo crescenti per il progetto e assunse un
ruolo trainante nei confronti del Capitolo, che lo invitava invece alla prudenza. Il
progetto definitivo − tre ampie sale illuminate da lucernari − fu presentato nel 1932.
I Capitolari, a fronte di una spesa preventivata di 40.000 lire, raggranellarono un
contributo di 5.000 lire da distribuire in cinque anni. Ma mons. Cappelli non aveva
alcuna intenzione di farsi ostacolare nella realizzazione di quello che era ormai il suo
museo e il 30 dicembre 1932, nell’assumere la carica di Operaio della Cattedrale,
dichiarò esplicitamente, secondo quanto è registrato nei documenti dell’Archivio
Vescovile, di essere disposto ad accollarsi parte delle spese.
Il Museo Diocesano fu inaugurato il 9 agosto 1933, in occasione delle festività di
S. Lorenzo, patrono della città, e nel corso delle celebrazioni del VII centenario della
visita di Papa Innocenzo II a Grosseto. L’inaugurazione avvenne alla presenza del nuovo
vescovo Paolo Galeazzi, ma anche dell’arcivescovo di Siena Gustavo Matteoni, presule
di Grosseto fino all’anno prima. Mons. Matteoni nel suo discorso definì l’apertura del
nuovo museo “un miracolo di concorde volontà cittadina”. Mons. Cappelli sorvolò sulle
difficoltà incontrate e descrisse così la nascita del museo:
In una bella sera di primavera, or sono cinque anni, mentre sui bastioni delle nostre
mura accompagnavo nel passeggio mons. Vescovo Matteoni, osservando un dorato
tramonto verso l’azzurro Tirreno, cadendo il discorso sulle opere d’arte possedute
dalla Cattedrale, formulai il voto di vedere istituito un piccolo museo dove si potesse
raccogliere non soltanto i tesori del Duomo ma anche oggetti d’arte appartenenti alle
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206_Il Museo d’Arte Sacra

La Sala delle Tavole del Museo Diocesano La Sala delle Tele del Museo Diocesano
nell’allestimento del 1932 nell’allestimento del 1932

chiese cittadine e al Comune. L’ottimo prelato di scatto


rispose: È il mio pensiero; ed il museo sorga. L’ora del tempo e
la dolce stagione fecondarono le nostre idee; così questo
primo fiore sbocciato nel giardino delle arti, coltivato
all’ombra della casa di Dio, ebbe la sua iniziativa.
Nel 1936 alla chiusura dei conti le spese totali per la realizzazione
del Museo ammontavano a 80.600 Lire e il debito di mons.
Cappelli alla somma di 75.600. Tale cifra non comprende però il
valore della collezione di opere d’arte con cui mons. Cappelli
arricchì la raccolta diocesana. La donazione non fu mai
formalizzata, anzi è stata recentemente messa in dubbio.
Questa situazione di incertezza trova origine nel carattere stesso
di mons. Cappelli che lo portava ad identificarsi con il Museo,
fino alla totale sovrapposizione fra istanze personali e
istituzionali. Per il momento l’unica traccia utile per ricostruire
l’entità della presunta collezione è la dizione “Dono Cappelli”
che compare nelle schede ministeriali redatte negli anni ’30 del
’900 da G. Vigni e E. Sandberg Vavalà.
La scarsezza di documenti ha reso finora impossibile rintracciare
l’origine di tali opere, con l’eccezione della pala d’altare di
Alessandro Casolani, Crocefissione e Santi, della quale è stata
accertata la provenienza senese. Lo stesso si può dire per le opere
di proprietà del Comune (la ‘Pinacoteca’ che nei documenti
comunali spesso affianca il Museo Civico) che furono da Cappelli
inserite nel nuovo Museo d’Arte Sacra senza alcuna attenzione per
la pertinenza patrimoniale delle stesse. Anche in questo caso sono
solo le schede degli anni ’30 a permettere l’attribuzione di alcune
opere alla Pinacoteca del vecchio Museo Civico.
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Il Museo d’Arte Sacra_207

Il Museo Diocesano restò aperto fino al 1939. Alla morte di


mons. Cappelli fu chiuso e sigillato, e la stessa sorte toccò
anche al Museo Civico, di cui, fino alla fine, mons. Cappelli
aveva conservato la direzione. Comune e Soprintendenza
progettarono una revisione inventariale al fine di distinguere
all’interno del Museo Diocesano le opere provenienti dal Museo
Civico, ma la guerra e le conseguenti distruzioni fecero passare
in secondo piano la questione.
La Biblioteca Chelliana, il Museo Civico e il Museo Diocesano
furono colpiti dalle bombe dell’incursione aerea del 29 novembre
del 1943 e subirono danni e spoliazioni. Le opere del Museo
Diocesano furono ricoverate in parte a Siena e in parte a Istia
d’Ombrone dove il parroco, don Omero Mugnaini, le custodì fino
alla fine della guerra.
Il Museo Civico poté riaprire nel 1955, il Museo Diocesano nel
1961, entrambi nelle vecchie sedi, ma in situazioni piuttosto
precarie per la sicurezza delle opere. Seguirono anni di sforzi
congiunti del Comune e della Diocesi che condussero alla scelta
di una sede comune per i due musei nel palazzo del vecchio
Tribunale, inaugurata nel 1975. L’allestimento attuale è del 1999.

Manifesto per l’inaugurazione Locandina del Museo Diocesano, anni ’60


del Museo Diocesano nel 1932 (Archivio Diocesi)
(Archivio Bibl. Chelliana)
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208_Il Museo d’Arte Sacra

A. Salvetti, Ritratto
di Mons. Antonio
Cappelli,
1929

Il Museo Diocesano nell’allestimento del 1961


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Il Museo d’Arte Sacra_209

IL PERCORSO ESPOSITIVO SALE 24, 25, 26/a


La Collezione Cappelli
L’esposizione è ordinata cronologicamente
ed è introdotta da un gruppo di opere di SALA 24
varia provenienza che, almeno in parte, _
potrebbero essere state donate o Personaggi: mons. Antonio Cappelli
depositate dal fondatore del Museo, mons. Antonio Salvetti
Antonio Cappelli (Sale 24-26/a). Data (Colle Val d’Elsa 1854-1931)
l’incertezza della documentazione è stata Ritratto di monsignor Antonio Cappelli
lasciata la dizione Collezione Cappelli. olio su tela, 1929
Seguono le opere dal XIII al XIX secolo
(tele, tavole, sculture in legno e marmo) Antonio Cappelli nacque a Grosseto nel
provenienti in massima parte dal Duomo 1868. Il padre Enrico rivestì un ruolo
di Grosseto, ma anche da chiese della culturale e politico di primo piano nella
città e della Diocesi (Sale 26/b-29), Grosseto del tempo. Enrico Cappelli
oreficerie e paramenti sacri (Sale 30-33), (1842-1902) fu infatti dal 1877 direttore,
corali miniati (Sala 34), ceramiche e altri e poco più tardi anche editore e
elementi di arredo (Sala 35). proprietario, de L’Ombrone. Periodico
All’interno dell’esposizione diocesana sono della Provincia di Grosseto, un giornale di
presenti anche oggetti e opere d’arte impostazione liberale, fautore della
sacra che facevano parte del più antico rinascita della Maremma e protagonista
Museo Civico, fondato nel 1860. La attivo del dibattito locale di quegli anni.
direzione comune dei due musei nelle Antonio, dopo aver terminato gli studi di
mani di mons. Cappelli e, in seguito, le teologia a Roma, fu ordinato sacerdote nel
vicende degli anni della guerra e del 1895 e si dedicò all’insegnamento.
dopoguerra hanno portato a una Nell’ottobre 1923 assunse la carica di
inestricabile confusione di proprietà e direttore della Biblioteca Chelliana, del
provenienze. Laddove è stato possibile Museo Civico e della Pinacoteca, allora
rintracciare notizie affidabili si è situati provvisoriamente in un magazzino
preferito perciò lasciare queste opere del Tribunale, oggi non più identificabile. Il
all’interno del Museo Diocesano, suo primo atto da direttore fu di traslocare
specificando però la provenienza ‘dal in quella che è ancora oggi la sede
vecchio Museo Civico’. ufficiale della biblioteca e lo è stata fino al
1975 anche per il Museo Archeologico: il
palazzo del vecchio seminario in via
Mazzini. Da quel momento Cappelli
divenne una figura centrale nella vita
culturale di Grosseto: nel 1922-23
risultava nel consiglio direttivo della
Società Amici dei Monumenti, nel 1924 era
anche presidente della Società Filarmonica
Grossetana e rappresentante della
Associazione Apolitica Pro Grosseto; nel
1925 era membro della Congregazione di
Carità. Nel 1924 fu fra i soci fondatori
della Società Storica Maremmana di cui
avrebbe assunto la presidenza nel 1927.
Il Museo Diocesano nell’allestimento del 1961 Dal 1928 al 1933 la sua occupazione
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210_Il Museo d’Arte Sacra

primaria fu il nuovo Museo d’Arte Sacra, fiammingo Bernardo Rantwyck. Gli arredi
che creò dal nulla e a sue spese. Non della cappella risultavano dispersi già
cedette tuttavia alcuno dei suoi molteplici nel XIX secolo; il palazzo fu poi
incarichi. A partire dal 1928-29 assunse il acquistato dal Comune di Siena per lotti
controllo e poi la effettiva direzione del fra il 1928 e il 1936. Non sono note la
Bollettino Maremma ormai solo data né le circostanze dell’acquisto;
formalmente organo della Società Storica questa resta tuttavia l’unica opera della
Maremmana ma in realtà legato all’Istituto presunta collezione Cappelli di cui è
Fascista di Cultura. Nel 1931 fu nominato accertata la provenienza.
R. Ispettore Onorario dei Monumenti, degli
Scavi ed Oggetti di Antichità e d’Arte per il
Mandamento di Grosseto e Scansano. Nel SALA 25
1935 preparò su incarico della Prefettura
un piano di ricovero dei beni culturali della Madonna col Bambino
provincia in previsione di eventuali legno intagliato e dipinto, XV secolo
attacchi aerei. Infine, solo negli
ultimissimi anni la sua attività subì un Santo Diacono
rallentamento. Morì il 28 Luglio 1939. legno intagliato e dipinto, XVI-XVII secolo
L’unica immagine di Antonio Cappelli che
ci resta è il ritratto di Antonio Salvetti Sant’Agostino
che lo ritrae a sessantuno anni nell’abito legno intagliato e dipinto, XVII secolo
corale da canonico: la cappa magna
rivestita di ermellino indossata sopra la
cotta bianca. Il ritratto è ambientato
nella Cattedrale di San Lorenzo,
riconoscibile dalla decorazione a fasce
realizzata nel tardo Ottocento.

Alessandro Casolani
(Mensano 1552-Siena 1606)
Crocifissione con la Madonna, i Santi
Gerolamo, Andrea e Francesco e il
donatore Francesco Maria Piccolomini,
Vescovo di Pienza e Montalcino
olio su tela, 1583
dalla Cappella di Sant’Andrea
nel Palazzo Piccolomini Patrizi a Siena

Questa pala d’altare è una delle opere


che Antonio Cappelli acquistò per poi
esporle nel Museo Diocesano. L’opera era
collocata in origine nel Palazzo
Piccolomini Patrizi di Siena, sull’altare
della cappella di Sant’Andrea per la
quale Francesco Maria Piccolomini
commissionò nel 1583 sei opere
pittoriche, una – questa pala d’altare – Alessandro Casolani, Crocifissione con Madonna
a Alessandro Casolani, le altre cinque al e Santi e ritratto del donatore, 1583
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Il Museo d’Arte Sacra_211

Bottega di Sano di Pietro Francesco Nasini (Piancastagnaio 1621-


Sant’Antonio Abate Castel del Piano 1695)
San Gerolamo Cristo che istituisce l’Eucaristia
pannelli laterali di un polittico, olio su tela, metà XVII secolo
tempera su tavola, 1450-1460 circa _
Personaggi: San Gerolamo
I due santi (Sant’Antonio a destra, San Pittore senese
Gerolamo a sinistra guardando) San Gerolamo penitente
costituivano i due pannelli di destra di copia da Beccafumi, olio su tela
un polittico che risultava già smembrato XVI secolo
e con le parti mancanti non più
rintracciabili nel 1910, quando i due San Gerolamo penitente
pannelli erano collocati nella chiesa di olio su rame, XVI secolo
San Francesco a Grosseto.
Astolfo Petrazzi (Siena 1580-1653)
Cristo deriso (Ecce Homo) San Gerolamo sorretto da un angelo
olio su tela, XVII secolo olio su tela, metà del XVII secolo

Maniera della Bottega degli Embriachi Nella collezione Cappelli San Gerolamo è
Reliquiario a cofanetto il santo rappresentato più di frequente.
legno e avorio, XIX secolo? Si può supporre che mons. Cappelli
avesse una particolare venerazione per
Coppia di angeli portacandelabro questo santo, ma non è da escludere che
legno intagliato e dipinto, XVII secolo il grande Padre della Chiesa

Pittore senese, San Gerolamo penitente, San Gerolamo penitente, XVI secolo
copia da Beccafumi, XVI secolo
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212_Il Museo d’Arte Sacra

(circa 347-420), la cui esistenza fu richiamano la credenza, infondata, che il


dilaniata dal conflitto interiore fra santo fosse stato cardinale.
l’attaccamento al mondo e il desiderio
dell’ascesi, sia stato per mons. Cappelli, Bernardino Mei (Siena 1612-Roma 1676)
così coinvolto nella vita pubblica della sua Santa Cecilia
città e così ricco di interessi laici, un olio su tela, metà XVII secolo
grande modello. La tela del Petrazzi, La santa, che in base ad una errata
esposta in origine in San Francesco interpretazione poi diventata tradizionale
insieme con i due dipinti di dimensioni di un brano della sua Passione, è ritenuta
minori, rappresenta San Gerolamo secondo protettrice della musica e dei musicisti, è
una delle più tipiche iconografie: un rappresentata mentre suona l’organo; un
vecchio eremita penitente davanti alle putto sulla sinistra sostiene lo spartito e
rocce di una grotta. Vi compaiono come di un altro, a destra, regge la palma,
consueto i simboli del suo lavoro simbolo del martirio.
intellettuale, culminato nell’edizione della
traduzione del Nuovo Testamento in latino, Luigi Garzi (Pistoia 1638-Roma 1721)
nota come Vulgata (i libri, le penne, il San Pio V
calamaio), della penitenza (il crocifisso), olio su tela, 1712
della vanitas e della meditazione sulla La scena rappresenta un fatto miracoloso
morte (il teschio). Sempre presente è infine attribuito a San Pio V (Michele Ghislieri
il leone, che allude a un episodio narrato 1504-1572), eletto papa nel 1566. Pio V
dalla Legenda Aurea, secondo cui San usava baciare i piedi di un crocifisso per il
Gerolamo avrebbe tolto una spina dalla quale aveva una particolare devozione.
zampa di un leone che non lo avrebbe più Qualcuno tentò pertanto di assassinarlo
lasciato, mentre drappi rossi e cappelli ponendo del veleno sui piedi del crocifisso
cardinalizi (vd. anche l’opera attribuita che, però, al momento del bacio, si
alla bottega di Sano di Pietro, precedente) ritrasse e salvò così il santo papa.

Bernardino Mei, Santa Cecilia, metà del XVII secolo


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Il Museo d’Arte Sacra_213

Luigi Garzi,
San Pio V, 1712

SALA 26/a Madonna Addolorata


cartapesta dipinta, XVII-XVIII secolo
Michelangelo Guidi?
(Siena circa 1630-1670) Pier Dandini (Firenze 1646-1712)
Rebecca al pozzo Cristo Flagellato
olio su tela, seconda metà XVII secolo olio su tela, seconda metà XVII secolo
L’episodio a cui il dipinto si riferisce è
narrato in Genesi 24, 11-25: Abramo Adorazione dei pastori
manda uno schiavo nella terra dei suoi olio su tela, XVIII secolo
avi a cercare una moglie per Isacco. Lo
schiavo capisce che la ragazza destinata Madonna col Bambino e San Giovanni
a Isacco è Rebecca perché lo lascia bere olio su tavola, XVIII-XIX secolo
dalla sua anfora.
Madonna col Bambino
Michelangelo Guidi? olio su tavola, XVI secolo
(Siena circa 1630-1670)
Agar e Ismaele Epifania
olio su tela, seconda metà XVII secolo olio su tavola, XVIII-XIX secolo
La tela rappresenta l’episodio narrato in
Genesi 21, 8-2: Agar, la schiava egiziana San Lorenzo
che aveva avuto il figlio Ismaele da olio su tela, inizi XIX secolo
Abramo, scacciata di casa si perde nel
deserto; un angelo le mostra un pozzo e
le conferma la profezia della futura
grande discendenza di Ismaele.
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214_Il Museo d’Arte Sacra

SALE 26/b-29 Bartolomeo Bulgarini (documentato a


Il Museo Diocesano: pittura e scultura Siena fra il 1337 e il 1378)
dal XIII al XIX secolo Madonna in trono col Bambino
tempera su tavola, dopo il 1370
SALA 26/b dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Scultore senese Ugolino di Nerio (documentato a Siena


Gesù Bambino fra il 1310 e il 1340)
legno intagliato e dipinto, XIV secolo San Michele Arcangelo
dalla Pieve di Santa Maria a Campagnatico tempera su tavola, XIV secolo
(deposito della Venerabile Confraternita dal vecchio Museo Civico
di Misericordia di Campagnatico)
Bottega di Simone Martini
Guido da Siena (1230-1290) e bottega Madonna col Bambino
Giudizio Finale valva centrale di trittico,
tempera su tavola, 1280 circa tempera su tavola, metà XIV secolo
dalla Chiesa della Misericordia, Grosseto dal vecchio Museo Civico
Questa tavola, attribuita a Guido da
Siena, una delle prime personalità Pittore senese
storiche della scuola senese, rappresenta Crocifissione
il Giudizio con una iconografia di tempera su tavola, prima metà XIV secolo
ispirazione francescana. Elemento dal vecchio Museo Civico
centrale della composizione è la croce con
i simboli della passione, affiancata da
due angeli, che ripartisce lo spazio della
tavola in modo simbolico in tre settori. Nel
settore in alto è Cristo Giudice in una
mandorla con i piedi poggiati sulla croce,
contornato da quattro angeli che suonano
le trombe del giudizio. Nel riquadro a
destra della croce è la resurrezione dei
morti con i beati accompagnati da San
Francesco che salgono alla porta del
paradiso; a sinistra è il risveglio dei
dannati, gettati nel buio e nelle fiamme
dell’inferno.
Non è noto dove fosse collocata in origine
la tavola. La cronologia, insieme con la
presumibile committenza francescana,
induce ad associare l’opera alla figura
del francescano Bartolomeo d’Amelia,
vescovo di Grosseto nel decennio 1278-
1288, al cui nome va legata anche la
realizzazione dei libri del coro della
Cattedrale di Grosseto (Sala 33).
Ugolino di Nerio, San Michele Arcangelo,
XIV secolo
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Guido da Siena e bottega, Giudizio Finale, 1280 circa


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216_Il Museo d’Arte Sacra

Attribuito a Giovanni di Nicola


Madonna col Bambino
(Madonna della Sanità)
tempera su tavola, metà XIV secolo
da un oratorio non più esistente presso
Porta Vecchia, poi dalla Chiesa distrutta
di San Michele, infine nella Cattedrale
di San Lorenzo a Grosseto

Pittore senese
Madonna con Bambino
tempera su tavola, XIV-XV secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Pittore senese
Madonna col Bambino in trono
tempera su tavola, fine XIV secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Agostino di Giovanni
(Siena, attivo fra il 1310 e il 1350)
Formella con testa di vecchio
Formella con testa di giovane
marmo scolpito, 1320-1330 circa
Bottega di Simone Martini, Madonna dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
col Bambino, XIV secolo Nelle tormentate vicende architettoniche
del Duomo di Grosseto, dopo l’avvio dei
lavori per la costruzione legato al nome di
Sozzo Rustichini (1294), si pensa che la
ripresa del cantiere potrebbe essere stata
affidata ad Agostino di Giovanni, di cui è
stata riconosciuta la mano in questi due
frammenti di decorazione scultorea, da
attribuire a una finestra non più esistente
sul lato verso Piazza Dante.
Non si sa quando le due formelle siano
state staccate, ma è probabile che sia
accaduto nel corso della grande fase di
ristrutturazione ottocentesca. È però
certo che erano esposte nel Museo
Diocesano fin dalla sua prima apertura.

Iscrizione frammentaria
marmo, XIV secolo
L’iscrizione nomina ‘Santa Maria’e ‘San
Giovanni’; non sembra si riferisca a
Agostino di Giovanni, Formella, 1320-1330 chiese, ma più probabilmente a opere
circa d’arte o a dediche di altari.
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Il Museo d’Arte Sacra_217

Scultore senese inseriti in manichini, per essere


Testa-ritratto maschile completati con abiti e mantelli. È
frammento di lastra tombale con tracce evidente nell’espressione e
di iscrizione, marmo scolpito, XV secolo nell’atteggiamento delle due teste, i cui
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto occhi convergono verso il basso, che i
due personaggi erano rappresentati in
Bottega del Vecchietta adorazione, ai lati di Gesù Bambino.
Sant’Andrea
legno intagliato e dipinto, XV secolo Sano di Pietro (Siena 1406-1481)
e bottega
Scultore senese Madonna con Bambino
Crocifisso tempera su tavola
legno intagliato e dipinto, inizi XV secolo seconda metà XV secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto dalla Chiesa di San Cerbone a Montorsaio
(deposito della Parrocchia di San
SALA 26/c Cerbone a Montorsaio)

Scultore senese Stefano di Giovanni detto il Sassetta


Busto di San Giuseppe (documentato a Siena fra il 1423 e il
Busto della Madonna 1450)
elementi di presepe, Madonna delle ciliegie
legno intagliato e dipinto, inizi XVI secolo tempera su tavola, 1440-1450 circa
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Questi due busti facevano parte di un La tavola come oggi ci appare è il
gruppo che rappresentava a grandezza risultato della riduzione di una
naturale una Natività o una Adorazione composizione più vasta, dovuta forse alla
dei Pastori. I busti dovevano essere necessità di eliminare parti

Scultore senese, Busto della Madonna, Scultore senese, Crocifisso, inizi XV secolo
inizi XVI secolo
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Stefano di Giovanni detto il Sassetta, Madonna delle ciliegie, 1440-1450 circa


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Il Museo d’Arte Sacra_219

irreparabilmente danneggiate. D’altra Andrea di Niccolò


parte già al momento della sua scoperta, (Siena 1440-dopo il 1514)
nel 1904 o poco prima, l’opera, già delle Cristo in Pietà
dimensioni attuali, si trovava in cattive testata di bara, tempera su tavola
condizioni che i restauri successivi hanno fine XV secolo
per quanto possibile rimediato. Questa dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Madonna, che prende il nome dalle La tavola è l’unica superstite di una serie
ciliegie tenute nella mano sinistra da cui di quattro, utilizzate come testate di
ha appena attinto il piccolo Gesù, è bara. I quattro pannelli dipinti venivano
l’immagine conservata nel Museo posti, accoppiati a due a due, alla testa
Diocesano più nota e amata fra la e ai piedi dei catafalchi durante i
cittadinanza di Grosseto. funerali di membri di confraternite. Si
tratta infatti di oggetti liturgici tipici
Pietro di Domenico (Siena 1457-1502) delle confraternite laicali e diffusi nel
Pietà con i Santi Crescenzio e Rocco territorio senese-grossetano dal 1450
olio su tavola, fine XV secolo circa in poi. Di solito vi erano
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto rappresentati il Cristo morto, la Madonna
La lunetta costituiva il coronamento di col Bambino, i Santi a cui la compagnia
una pala d’altare che fu, almeno secondo era dedicata e talvolta i confratelli. Tre
una notizia della fine dell’800, oggetto di esempi completi di testate di bara sono
rapina da parte dell’esercito napoleonico. esposti nella Sala 29.
Protagonista della composizione, oltre
alle figure, è il paesaggio in cui su vari Mariotto d’Andrea da Volterra ?
piani si riconoscono dirupi scoscesi, (notizie 1485)
colline coltivate e una rara Madonna col Bambino e Sant’Onofrio
rappresentazione delle aiuole tempera su tavola, XV secolo
geometriche di un giardino all’italiana. dal vecchio Museo Civico

Pietro di Domenico, Pietà con i Santi Crescenzio e Rocco, fine XV secolo


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220_Il Museo d’Arte Sacra

Jacopo del Sellaio San Francesco


(Firenze 1441 circa-1493) legno intagliato e dipinto, XVI-XVII secolo
Madonna col Bambino e San Giovannino dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
tempera su tavola
seconda metà XV secolo Bacile
dal Seminario Vescovile di Grosseto rame sbalzato e inciso, fine XVI secolo

Bottega di Neroccio di Bartolomeo Landi SALA 28


Madonna col Bambino,
la Maddalena e San Gerolamo Lorenzo di Cristofano Rustici
stucco e tempera su tavola (Siena 1596-1636)
fine XV secolo Croce dipinta
dal vecchio Museo Civico, poi nella olio su tavola, 1627
Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto presso l’altare della Madonna delle Grazie
nella Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Girolamo di Benvenuto
(Siena 1470-1524) Manifattura toscana
Madonna col Bambino, San Gerolamo Transenne
e San Bernardino da Siena legno intagliato, fine XIX secolo
tempera su tavola, inizi XVI secolo dalla Corte di Assise del vecchio
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Tribunale di Grosseto
La tavola è esposta entro: Le transenne sono l’unica testimonianza
Manifattura senese materiale della precedente funzione del
Cornice neorinascimentale Palazzo del Museo. Erano collocate in una
Legno intagliato e dorato delle due grandi aule in cui si
fine XIX secolo o primi anni del XX celebravano i processi, corrispondenti
alla Sala 1 con la attigua Sala delle
Pittore toscano Conferenze al piano terra e alla Sala 13
Madonna con Bambino, Santa Caterina al primo piano.
da Siena e Santa Caterina d’Alessandria
olio su tavola, inizi XVI secolo SALA 29/a
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Bartolomeo Neroni detto Il Riccio
Scultore pisano (Siena 1505 circa-1571)
Madonna con Bambino San Francesco, Madonna fra angeli e
copia di originale quattrocentesco di Nino cherubini, Cristo in pietà e il Beato
Pisano, legno intagliato e dipinto Gherardo da Villamagna
XVI-XVII secolo testate di bara, olio su tavola
metà XVI secolo
SALA 27 dalla Chiesa della Misericordia a Grosseto
Queste testate di bara, di più alta qualità
Scultore senese artistica fra quelle conservate nel
San Francesco Grossetano, vanno attribuite alla
legno intagliato e dipinto, XV secolo Confraternita dei Santi Gherardo e
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Ludovico che aveva un oratorio all’interno
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Il Museo d’Arte Sacra_221

del chiostro della chiesa di San Francesco, Madonna del sacco


poi trasferito nel 1794 nella chiesa del copia da Andrea del Sarto
convento delle Clarisse, che tutt’ora olio su tavola, XVII-XVIII secolo
viene definita ‘chiesa dei Bigi’ dal colore
delle cappe dei confratelli. G. Battista Paggi (Genova 1554-1627)
Matrimonio mistico di Santa Caterina
Busto di Cristo d’Alessandria
terracotta, seconda olio su tela, XVI secolo
metà XVII secolo dal Seminario Vescovile di Grosseto

Girolamo di Benvenuto, Madonna col Bambino, San Gerolamo e San Bernardino da Siena, inizi XVI secolo
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222_Il Museo d’Arte Sacra

Bartolomeo Neroni detto il Riccio,


San Francesco, Madonna fra
angeli e cherubini,
Cristo in pietà e il Beato Gherardo
da Villamagna,
metà XVI secolo

Testate di bara,
disegno ricostruttivo (F.Torchio)

_ giunta alle porte di Firenze. Il sud della


Luoghi: Grosseto nel 1630 regione fu poi effettivamente risparmiato e
l’epidemia ebbe fine nell’inverno dell’anno
Ilario Casolani (Siena 1588-1661) successivo. La pala d’altare potrebbe
Madonna in gloria con i Santi Rocco, essere interpretata perciò come un grande
Lorenzo, Sebastiano e Cipriano, ex-voto della popolazione grossetana per lo
e veduta della città di Grosseto scampato pericolo.
olio su tela, 1630 (firmato e datato) Ma l’interesse della tela è soprattutto nella
dall’altare della Sacrestia nella veduta della città racchiusa nelle mura
Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto tardocinquecentesche che ne occupa la
(l’opera è temporaneamente esposta parte inferiore. Grosseto è rappresentata a
in cattedrale) volo d’uccello, come fosse vista da una
Questa pala d’altare fu dipinta da Ilario immaginaria altura posta a est, alle spalle
Casolani, figlio del più noto Alessandro, del Bastione della Fortezza. Il paesaggio
nel 1630. I quattro protettori della città circostante è appena accennato, e
sono rappresentati in atto di supplica: si comunque del tutto vuoto di edifici e coltivi.
suppone che la preghiera rivolta alla Una strada rappresentata in chiaro segue
Madonna si riferisse all’epidemia di peste l’andamento delle mura lungo i lati
che aveva già funestato l’Italia compresi fra la Fortezza e Porta Vecchia: si
Settentrionale e, nell’estate del 1630, era tratta dell’ultimo tratto in comune delle
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Ilario Casolani, Madonna in gloria con i Santi Rocco, Lorenzo, Sebastiano e Cipriano e veduta della città di Grosseto, 1630
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224_Il Museo d’Arte Sacra

strade provenienti rispettivamente da orientati sia verso l’interno, sia verso


Siena-Batignano e da Scansano-Istia l’esterno della città. L’immagine nel suo
d’Ombrone; da Porta Vecchia esce un’altra complesso appare tuttavia influenzata dalle
strada che procede in direzione sud o sud- raffigurazioni di città ideali: il reticolo
est verso l’Ombrone e la via Aurelia; solo un stradale è più regolare che nella realtà e
sentiero, infine, ridotto nella una voluta ricerca di simmetria ha
rappresentazione pittorica ad un tratto provocato un sensibile spostamento del
sottilissimo, si avventura verso la costa in Duomo che si colloca così in una posizione
direzione sud-ovest, attraversando una quasi perfettamente centrale. Ampi settori
fascia indistinta di acquitrini. Una luce liberi circondano l’area edificata, che
livida, da ovest, illumina all’orizzonte il appare ancora ben lontana dal riempire lo
mare su cui si affollano, in totale spazio racchiuso nelle mura.
contraddizione con il deserto della costa e Particolarmente estese sono le aree verdi (il
della campagna, ben otto vele. “Prato di San Francesco” citato in vari
La topografia interna della città è documenti) comprese fra i conventi di San
accuratamente riprodotta, si può supporre a Francesco e di Santa Chiara, mentre gli orti
partire da una mappa in possesso del diffusi fra le case si spingono fin sul Corso
pittore (simile forse alla pianta Warren all’altezza della chiesa di San Pietro.
dell’Archivio di Stato di Firenze), integrata
da rilievi diretti. Gli edifici più importanti
sono rappresentati con cura e in qualche Bottega di Sebastiano Folli (1569-1621)
caso, come il Cassero Senese, un po’ più Madonna col Bambino, San Carlo
imponenti del reale; la cura per i particolari e Santa Caterina d’Alessandria
permette di distinguere una ventina di olio su tela,
cannoni disposti lungo tutto il perimetro seconda metà XVI-inizi XVII secolo
della Fortezza, equamente distribuiti e dal vecchio Museo Civico

O. Warren, Pianta di Grosseto, 1749 (Archivio di Stato di Firenze)


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Il Museo d’Arte Sacra_225

SALA 29/b
_
Personaggi: Sant’Anastasio

Testa di Sant’Anastasio
olio su tela, XVI-XVII secolo
dal vecchio Museo Civico
Il quadro è una copia dell’immagine di
culto dell’Abbazia dei SS. Vincenzo e
Anastasio alle Tre Fontane e rappresenta la
testa mozzata del santo martire.
Le reliquie di Sant’Anastasio, martire
persiano del 628, giunsero a Roma pochi
anni dopo la morte del santo e furono
ricoverate nell’Abbazia ad Aquas Salvias
sulla Via Laurentina, una fondazione
bizantina sorta sul luogo, in seguito noto Testa di Sant’Anastasio, XVI-XVII secolo
come ‘le Tre Fontane’, della decapitazione
di San Paolo. In poco tempo le reliquie
acquistarono grande fama: risale al 713 il venne commissionata una nuova
racconto di un miracolo in un caso di immagine di culto, forse, secondo quanto è
possessione diabolica particolarmente stato ipotizzato, ad un maestro francese. A
drammatica. Nel 787, nel corso del II differenza della più antica icona, che avrà
Concilio di Nicea, furono addotti fra le rappresentato il santo vivo e a figura
prove a favore della legittimità del culto intera, la nuova immagine propose
delle icone e contro l’iconoclastia i miracoli realisticamente il particolare della testa
di Sant’Anastasio. In questa occasione mozzata. Si ritenne tuttavia che i poteri
venne citata per la prima volta l’immagine taumaturgici della prima raffigurazione
di culto del Santo. Qualche anno dopo fossero passati nella seconda, perché vi fu
l’immagine probabilmente perì apposto un cartiglio con la scritta in
nell’incendio dell’Abbazia, ma non le latino: “Questa è l’immagine di
reliquie a cui nuovi miracoli dovevano Sant’Anastasio monaco e martire, che
essere attribuiti. Una controversa leggenda mette in fuga i demoni e cura le malattie,
infatti attribuisce al santo, la cui testa secondo quanto è testimoniato negli Atti
sarebbe stata portata sul campo di del II Concilio di Nicea”.
battaglia, il merito della vittoria di Carlo La fede popolare nel potere esorcistico
Magno sui Saraceni annidati ad Ansedonia dell’immagine portò, soprattutto fra Sei e
(l’antica Cosa, vicino Orbetello) nell’805. Settecento, alla produzione di copie, una
Dell’evento non c’è alcuna traccia storica, delle quali è quella conservata a Grosseto.
ma si suppone che i Cistercensi, stabilitisi L’opera è parte della collezione del vecchio
all’Abbazia intorno al 1140, abbiano Museo Civico, messa insieme dal Canonico
diffuso la narrazione per rivendicare la Chelli attraverso acquisti e donazioni, per
donazione di estesi territori che Carlo cui manca ogni indizio della sua
Magno avrebbe fatto in quella occasione provenienza. Bisogna ricordare però che la
all’Abbazia. fascia costiera fra l’Albegna e il Chiarone
Vicende non chiare allontanarono poi le (attuali comuni di Orbetello e Capalbio) fino
reliquie dall’Abbazia, che furono restituite al 1927 ebbe un’amministrazione
verso la metà del Quattrocento. Solo allora ecclesiastica particolare proprio in quanto
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226_Il Museo d’Arte Sacra

Tratto toscano dell’Abbazia delle Tre Fontane Giovanni Antonio Mazzuoli


per essere poi annessa alla Diocesi di (Siena 1639-1714)
Grosseto, e passare nel 1979, sempre con lo Cherubini
stesso antico titolo, alla Diocesi di Sovana e marmo scolpito, 1708-9
Pitigliano. È possibile pertanto che il quadro dall’Altare della Madonna delle Grazie
sia stato reperito nell’Orbetellano. nella Cattedrale di San Lorenzo, Grosseto
Nel corso dell’Ottocento il Duomo di
Martirio di Santo Stefano Grosseto fu soggetto a restauri radicali
olio su tela, XV secolo in ogni sua parte. Fra il 1816 e il 1845
copia da Cigoli fu restaurata la facciata; fra il 1857 e
il 1870 gli interventi si concentrarono
Luciano Borzone all’interno e, infine, fra il 1890 e il
Il ritrovamento della tazza nel sacco 1897 fu completata la facciata laterale
di Beniamino verso la piazza. Il restauro interno
olio su tela, XVII secolo portò alla distruzione di cinque altari
In Genesi 44, 1-17 si narra l’episodio barocchi posti nelle navate laterali.
rappresentato, a seguito del quale Uno di questi era l’altare della
Giuseppe, figlio di Giacobbe, diventato Madonna delle Grazie, posto nella
ricco e potente alla corte del faraone, si prima campata della navata di destra
farà poi riconoscere dai fratelli che anni e realizzato fra il 1708 e il 1709. Due
prima lo avevano venduto schiavo. grandi angeli di marmo, uno dei quali è
conservato ed esposto nel Museo,
Coppia di angeli portacandelabro reggevano l’immagine, mentre almeno
legno intagliato e dipinto, XVII secolo sei teste di cherubino (anch’esse in
parte conservate) si disponevano tutto
_ intorno. Anche l’altare maggiore,
Luoghi: Grosseto nell’Ottocento realizzato fra il 1648 e il 1649, fu
I restauri del Duomo alterato, semplificando il timpano nel
quale era inserita in origine una
Tommaso Redi (Siena 1602-1657) formella rettangolare con il busto di
Dio Padre benedicente Dio Padre qui esposto. Il bassorilievo
marmo scolpito, 1648-1649 con il Cristo Risorto ha la stessa
dall’Altare Maggiore nella Cattedrale provenienza: era stato infatti posto nel
di San Lorenzo a Grosseto 1692 a coronamento del grande
tabernacolo architettonico dell’altare
Giovanni Antonio Mazzuoli maggiore.
(Siena 1639-1714)
Cristo risorto San Giovanni Battista nel deserto
marmo scolpito e dorato, 1692 Testa di San Giovanni Battista
dall’Altare Maggiore nella Cattedrale Cristo in pietà
di San Lorenzo a Grosseto La Madonna con quattro confratelli
testate di bara, olio su tela
Bartolomeo Mazzuoli fine XVII secolo-inizi XVIII secolo
(Siena 1674-1748)
Angelo Santa Chiara
marmo scolpito, 1708-1709 San Francesco
dall’Altare della Madonna delle Grazie legno intagliato entro cornici lignee dorate
nella Cattedrale di San Lorenzo, Grosseto dall’ex Convento di Santa Chiara, poi
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Bartolomeo Mazzuoli, Angelo, 1708-1709


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228_Il Museo d’Arte Sacra

nella Cattedrale di San Lorenzo, Grosseto Giacinto Gimignani


fine XVII secolo-inizi XVIII secolo (Pistoia 1606-Roma 1681)
Tommaso Redi (Siena 1602-1657) Madonna del Carmine con Sant’Antonio,
Mortaio Elia Profeta e i Santi Francesco,
bronzo, 1637 (firmato e datato) Biagio e Rocco
dallo Spedale della Misericordia, Grosseto olio su tela, 1648 (firmato e datato)
dall’altare non più esistente della
Madonna Assunta Madonna del Carmine nella Cattedrale
marmo scolpito, XVII-XVIII secolo di San Lorenzo, Grosseto
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Crocifissione
olio su tavola, XVIII secolo
SALA 29/c
Reliquiario a busto
Pittore senese legno intagliato e dipinto, 1612
Isacco benedice Giacobbe
bozzetto, olio su tela, XVII secolo Sant’Antonio da Padova col Bambino
dal vecchio Museo Civico (?) poi nella legno intagliato e dipinto, XVII secolo
Cattedrale di San Lorenzo, Grosseto
In Genesi 27, 1-30: Giacobbe,
secondogenito di Isacco, dopo aver
acquisito i diritti di primogenitura dal
fratello Esaù, al prezzo di un piatto di
lenticchie, carpì con l’aiuto della madre
Rebecca la benedizione del padre ormai
cieco, che sarebbe toccata di diritto al
fratello maggiore. Per camuffarsi si coprì
le braccia e le spalle, che Esaù aveva
particolarmente villose, con pelli di
capretto.

Coppia di angeli portacandelabro


legno intagliato e dipinto, XVIII secolo

Pittore senese
Santa Caterina, Cristo in Pietà
San Michele Arcangelo,
La Madonna Assunta con due confratelli
testate di bara, tempera su tavola
fine XVII secolo-inizi del XVIII secolo
Parziale derivazione da: Francesco Vanni,
Cataletto della Compagnia di Santa
Caterina in Fontebranda a Siena, 1591.

Giacinto Gimignani, Madonna del Carmine con


Sant’Antonio, Elia Profeta e i Santi Francesco,
Biagio e Rocco, 1648
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Il Museo d’Arte Sacra_229

Sala 29: opere dal XVI al XIX secolo

Sala 30: arredi liturgici e paramenti sacri, XIV-XVII secolo


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230_Il Museo d’Arte Sacra

Coppia di reliquiari a braccio SALE 30-33


legno intagliato e dorato, XVIII secolo Il Museo Diocesano: arredi liturgici
e paramenti sacri
Scultore senese
San Giuseppe SALA 30
legno intagliato e dipinto, XVII-XVIII secolo
Orafo senese
Epifania Reliquiario di San Lorenzo
olio su tavola, XVIII secolo rame dorato, smalti champlevé e
Sacra Famiglia cristallo di rocca, 1325-1350 circa
olio su tavola, XVIII secolo dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Questo antico reliquiario è destinato a
Madonna col Bambino contenere una delle due reliquie di San
olio su tavola, XVIII secolo Lorenzo conservate nel Duomo. È tuttora
oggetto di culto e viene portato in
Cristo battezzato processione ogni anno la sera del 9 di
legno intagliato e dipinto, XVII-XVIII secolo agosto in occasione dei solenni
festeggiamenti per il patrono della città.
Reliquiario a ostensorio
legno intagliato e dorato, XVII-XVIII secolo Andrea del Maestro Michele e compagni
Pisside
rame dorato, smalti champlevé
e placchette d’argento, 1370-1380
(firmata alla giunzione della base col
fusto)
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Reliquiario di San Lorenzo, 1325-1350 circa Andrea del Maestro Michele e compagni,
Pisside, 1370-1380
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Il Museo d’Arte Sacra_231

Piviale con bordo e scudo figurati, XV-XVII secolo

Copricalice con ostensorio e due figure di beati dell’Ordine dei Gesuati, XVI-XX secolo
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232_Il Museo d’Arte Sacra

Pittore senese Manifattura toscana


San Giovanni Battista Pianeta, stola, copricalice,
sportello di trittichetto, tempera su tavola gros de Tour laminato d’argento e ricamato
seconda metà XIV secolo dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
1) ricamo della pianeta, della stola e del
Manifattura italiana manipolo, 1701-1703
Copricalice con ostensorio e due figure 2) ricamo del copricalice
di beati dell’Ordine dei Gesuati metà XVIII secolo
frammenti di recupero cuciti insieme 3) recupero e ricomposizione dei ricami
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto su un nuovo supporto di gros
1) frammenti con i Beati: raso di seta seconda metà XIX secolo
ricamato, XVI secolo
2) frammento con l’ostensorio: cannellato Orafo senese
di seta laminato d’argento e ricamato Calice
prima metà del XVII secolo rame e argento dorati, smalti champlevé
3) supporto e composizione: velluto di dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
seta e velluto di cotone, dopo il 1945 1325-1375 circa

Manifattura toscana Orafo senese


Piviale con bordo e scudo figurati Navicella portaincenso con
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto l’Annunciazione
secolo XVII rame dorato, smalti champlevé blu
1) bordo figurato: lampasso di seta dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
broccato d’oro, seconda metà XV secolo fine XIV secolo-inizi XV secolo
2) scudo figurato: broccatello di seta e lino
XVI secolo Orafo senese
3) piviale: damasco di seta, XVII secolo Pisside
rame dorato e niellato, argento e smalti

Navicella portaincenso con l’Annunciazione, Pace con la Flagellazione,


inizio XV secolo fine XVI secolo-inizi XVII secolo
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Il Museo d’Arte Sacra_233

Paliotto con medaglione raffigurante la Circoncisione, fine XVIII secolo (particolare)

champlevé, 1560 (datata sotto il piede) Orafo senese


dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Coppa per oli santi
rame dorato, seconda metà XV secolo
Pianeta con l’Annunciazione dalla Cattedrale di San Lorenzo
broccatello, XVI secolo a Grosseto
da Sticciano Sportello di tabernacolo con angeli
che reggono la croce, Cristo in pietà
Bottega toscana e iscrizione del donatore
Turibolo rame dorato, fine XV secolo
ottone fuso e traforato dalla Pieve di Santa Maria a
prima metà XV secolo Campagnatico
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto (deposito della Venerabile Confraternita
di Misericordia di Campagnatico)
Orafo senese
Navicella portaincenso con la Madonna Argentiere fiorentino
e San Bernardino Pace con la Flagellazione
rame e ottone dorati, fine XV secolo argento e ottone argentato
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto fine XVI secolo-inizi XVII secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Bottega toscana
Bossolo per votazioni con stemma dei Croce processionale con i quattro
Medici (?) Evangelisti
ottone sbalzato, XVI secolo bronzo, XVI-XVII secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Turibolo Argentiere toscano


bronzo, XVII secolo Calice
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto bronzo e rame dorati, inizi XVII secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Manifattura toscana
Paliotto con medaglione raffigurante Argentiere senese
la Circoncisione Calice
velluto di seta ricamato, fine XVIII secolo argento e argento dorato
argento sbalzato (medaglione) 1625-1650 circa
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
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234_Il Museo d’Arte Sacra

Manifattura fiorentina Argentiere toscano


Carteglorie Turibolo
legno intagliato, lamina d’ottone e argento, fine XVII secolo
d’argento, vetro colorato, bronzo e dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
argento
prima metà XVII secolo Argentiere toscano
dalla Cattedrale di San Lorenzo Calamaio
a Grosseto argento e ceramica
Argentiere senese 1712 (datato su un lato)
Pace con la Pietà dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
argento, metà XVII secolo
Tonacelle
Calice damasco di seta, XVI secolo
argento, fine XVII secolo da Gavorrano
dalla Pieve di Santa Maria
a Campagnatico Piviale con l’Assunta
(deposito della Venerabile Confraternita broccatello in giallo e rosa, XVII secolo
di Misericordia di Campagnatico) da Istia d’Ombrone

Manifattura senese
SALA 31 Mitria
gros de Tour di seta laminato d’oro e
Argentiere senese ricamato, inizio XVIII secolo
Pisside
ottone argentato, inizi XVII secolo Custodia di mitria con stemma Chigi
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Zondadari
marocchino dorato, struttura in legno
Argentiere senese fine XVIII secolo
Navicella portaincenso Probabile dono di Antonio Felice Chigi
argento, seconda metà XVII secolo Zondadari, arcivescovo di Siena dal 1795,
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto alla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto.

Cartagloria,
prima metà XVII secolo
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Il Museo d’Arte Sacra_235

Pietro Montini,
Reliquiario
a urna,
1678 circa

Copricalice base ai punzoni presenti, risultano prodotti


seta, XVIII secolo a Parigi fra il 1809 e il 1818. Potrebbero
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto però essere stati acquistati da mons. Selvi
che andò a Parigi due volte, nel 1811 e nel
Pietro Montini (Siena 1654-1728) 1813. Il vescovo donò i due oggetti al
Coppia di reliquiari a urna Duomo nel 1817, come è testimoniato
legno intagliato e dorato, 1678 circa dall’iscrizione sotto il piede del calice.
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Argentiere fiorentino
SALA 32 Calice
argento, argento dorato
Jean Baptiste Famechon 1842 (datato sotto il piede)
(notizie dal 1789 al 1820) dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Calice e patena
argento dorato, 1811-1813 Argentiere dell’Italia centrale
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Calice
Secondo alcuni storici locali questo calice argento, argento dorato
sarebbe stato donato personalmente da 1887 (datato sul bordo del piede)
Napoleone I a mons. Fabrizio Selvi, vescovo dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
di Grosseto dal 1793 al 1835. La notizia è
verosimile: Fabrizio Selvi faceva parte di un Argentiere dell’Italia centrale
gruppo di prelati filonapoleonici e fu anche Ostensorio
insignito dell’Ordre Impérial de la Réunion, argento, argento dorato
un ordine creato da Napoleone nel 1811, 1899 (datato sul fusto)
abolito poi nel 1815. Il calice e la patena, in dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
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236_Il Museo d’Arte Sacra

Manifattura toscana Argentiere toscano


Paliotto Calice
raso di seta ricamato in oro e seta policroma argento, argento dorato
XVIII secolo 1761 (datato sotto il piede)
dalla Chiesa di San Pietro a Grosseto dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Giuseppe Coppini (Siena 1765-1824)
Argentiere senese Reliquiario del Velo della Madonna
(Gerolamo o Giovanni Bonechi) argento, argento dorato, bronzo argentato
Grande reliquiario di San Lorenzo e dorato, legno intagliato e dorato
argento, legno intagliato e dorato 1817 (firmato e datato)
1710-1736 dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto Nel 1817 i Grossetani affidarono a
Questo reliquiario ospita una delle due Giuseppe Coppini, uno dei migliori orefici
reliquie di San Lorenzo conservate nel senesi del tempo, la realizzazione di questo
Duomo. È tuttora oggetto di culto e viene elaborato reliquiario che doveva ospitare
esposto in Duomo tutti gli anni ad agosto una reliquia mariana conservata nel
in occasione dei solenni festeggiamenti Duomo e oggetto di grande venerazione.
per il patrono della città. L’iscrizione sulla base permette di
interpretarlo come un ex voto di
Argentiere toscano ringraziamento per la fine di un’epidemia,
Calice da identificare con il tifo petecchiale che
argento, argento dorato, metà XVIII secolo colpì anche la Toscana fra 1816 e 1817,
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto secondo quanto è noto da numerose fonti.
Il reliquiario fino a qualche decennio fa
Argentiere romano veniva portato in processione in occasione
Calice delle feste quinquennali in onore della
argento, metà XVIII secolo Madonna delle Grazie, protettrice della
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto città e della Diocesi.

Giovacchino Belli,
Cartagloria, 1819
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Il Museo d’Arte Sacra_237

Giovacchino Belli (Roma 1756-1822)


Carteglorie
argento, legno intagliato, 1819
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto
Argentiere fiorentino
Ampolline per l’acqua e il vino
argento, vetro, 1837-1858
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

Argentiere italiano
Calice
argento, prima metà XIX secolo
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto

SALA 33

Frammenti di coperta di libro con Cristo


benedicente, San Pietro e San Paolo
rame sbalzato e dorato
fine VIII secolo-inizi IX secolo
rinvenuti nel 1915 presso la Chiesa
di San Francesco a Grosseto
I due frammenti di lamina, recuperati da
Antonio Cappelli, furono trovati nel 1915
durante scavi effettuati nel Prato di San
Francesco. Erano in origine parte di una
fascia di rame dorato e sbalzato con i
busti di San Pietro, Gesù Cristo e San
Paolo racchiusi entro tondi e indicati da
iscrizioni (PETRO, IHUS, SCS PAULUS). La
lamina era probabilmente posta a ricoprire
il piatto di una legatura di un manoscritto,
ma non è escluso che fosse il rivestimento
di un reliquiario.
Si tratta di un oggetto di grande interesse
per la storia di Grosseto e potrebbe aver
fatto parte della suppellettile della coeva
chiesa di San Pietro, sorta al margine
estremo del Prato di San Francesco. L’età
carolingia appare infatti un momento di
svolta per Grosseto: i poteri forti dell’epoca
cominciarono allora a manifestare
interesse per la prima volta per il villaggio
di capanne che sarebbe poi diventato città G. Bonechi, Grande reliquiario di San Lorenzo,
e, nello specifico, la dedica di una chiesa 1710-1736
a San Pietro potrebbe indicare un legame
diretto con Roma e il papato.
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238_Il Museo d’Arte Sacra

Frammenti di coperta di libro con Cristo benedicente, San Pietro e San Paolo, fine VIII secolo-inizi IX secolo

_ I libri di coro erano libri liturgici ufficiali


I corali della Cattedrale di San Lorenzo utilizzati nell’esercizio del culto. Si
distinguevano in antifonari, che erano
Miniatore di Sant’Alessio in Bigiano raccolte di testi da cantare nei vari uffici
Graduale “A PRIMA DOMINICA liturgici, ordinati secondo il calendario
ADVENTUS AD DOMINICAM ULTIMAM ecclesiastico: Avvento, Natale, Epifania,
POST PENTECOSTEN” Settuagesima, Quaresima, Tempo
Graduale “DE PROPRIO ET DE pasquale; e graduali, che erano invece
COMMUNE SANCTORUM” gli antifonari specifici della messa,
Antifonario “AB ADVENTU AD ordinati nello stesso modo.
DOMINICAM IN SEXAGESIMA” Gli esemplari grossetani sono superstiti
Antifonario “DE PROPRIO SANCTORUM A di un ciclo costituito da due graduali e
MENSE MAJO AD FESTUM OMNIUM da otto antifonari completi della fine del
SANCTORUM CUM OFFICIO XIII secolo. Si presentano, come è tipico a
SS. CORPORIS CHRISTI” partire dalla seconda metà di quel secolo
Antifonario “A FESTO S. ANDREAE soprattutto in Italia, come volumi di
APOSTOLIS AD ANNUNTIATIONEM SS. grande formato, completamente corredati
VIRGINIS MARIAE ET DE COMMUNE da notazione musicale quadrata su
SANCTORUM” tetragramma, e con iniziali riccamente
Antifonario “A DOMINICA IN SEXAGESIMA miniate, adatti alla lettura a distanza da
AD SABBATUM SANCTUM” parte dei cantori del coro.
Antifonario “A DOMINICA Il committente del ciclo di codici fu con
RESURRECTIONIS AD ADVENTUM” tutta probabilità il francescano
Antifonario “DE COMMUNE SANCTORUM” Bartolomeo d’Amelia, vescovo di Grosseto
membranacei; inchiostro, colori a tempera, nel decennio 1278-1288. Il contenuto dei
foglia d’oro, 1285-1290 codici e in particolare il rilievo che vi
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto hanno San Francesco e Santa Chiara
rivela infatti una committenza
Antifonario “IN FESTIVITATIBUS B. M. francescana. Il ciclo di codici fu ordinato
VIRGINEM ET IN EIUS OFFICIO” in previsione della fondazione della
membranaceo; inchiostro, colori Cattedrale di San Lorenzo, la cui prima
a tempera, fine XVI secolo pietra fu posta nel 1294. Se si considera
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Il Museo d’Arte Sacra_239

Miniatore
di Sant’Alessio
in Bigiano, Natività
della Madonna,
1285-1290

Miniatore
di Sant’Alessio
in Bigiano, Natività,
1285-1290
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240_Il Museo d’Arte Sacra

che Bartolomeo d’Amelia morì nel 1290, Gioacchino Corsi


la datazione dei corali andrà posta fra il (notizie fra il 1866 e il 1930)
1285 e il 1290. Cornice neorinascimentale
Il ciclo fu arricchito nella seconda metà Legno intagliato dipinto e dorato, 1904
del XVI secolo di un ulteriore antifonario
contenente i canti in onore della Vergine. Nelle fotografie del primo allestimento
del Museo Diocesano la Madonna di
Domenico Chiossone Bartolomeo Bulgarini (Sala 26/b) e la
(Genova 1810-1872) Madonna, attualmente conservata in
Gustavo Bonaini Palazzo Vescovile, di Segna di
(Livorno 1810-Firenze 1889) Bonaventura risultano inserite in cornici
Madonna delle Grazie incoronata dorate di gusto neogotico; la Madonna
acquaforte e bulino su rame su disegno delle Ciliegie del Sassetta (Sala 26/c) è
di Angiolo Tricca invece inserita in una voluminosa cornice
(San Sepolcro 1817-Firenze 1884) neorinascimentale a forma di
1844 tabernacolo. Queste cornici furono
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto commissionate alla fine del XIX o nei
primi anni del XX secolo a Siena, dove
Angiolo Tricca erano particolarmente attive botteghe di
(San Sepolcro 1817-Firenze 1884) intagliatori e doratori legati all’Istituto
Madonna delle Grazie incoronata delle Belle Arti. Solo nel caso della
lapis su pietra litografica, 1840-1850 cornice della Madonna delle Ciliegie si
dalla Cattedrale di San Lorenzo a Grosseto conosce l’occasione per cui fu fatta: si
tratta della Mostra dell’antica arte
Il rame inciso e la pietra litografica senese, organizzata nel 1904 nel Palazzo
rappresentano l’immagine della Madonna Pubblico di Siena, dove l’opera del
delle Grazie di Matteo di Giovanni, Sassetta fu esposta.
conservata nel Duomo di Grosseto. Una Le cornici erano già state eliminate
prima riproduzione dell’immagine, nell’allestimento del 1975 nella sede
oggetto di grande venerazione cittadina, attuale. Sono state invece inserite nel
fu realizzata nel 1759, in occasione della nuovo percorso espositivo, sia pure
solenne incoronazione della Madonna. separate dalle opere per cui erano state
Intorno al 1840 fu inciso un nuovo rame, realizzate, come testimonianze di quel
per l’impossibilità di continuare ad usare gusto purista che ha avuto una
quello precedente del tutto consunto. Lo particolare fortuna nel Senese e nel
stesso disegno fu poi anche litografato. Grossetano, come dimostrano, a
Si ha notizia di varie tirature della Grosseto, il neogotico Palazzo della
stampa, anche se non se ne conserva Provincia di Lorenzo Porciatti (1910) e i
alcun esemplare ottocentesco. restauri tardo-ottocenteschi dell’interno e
dell’esterno del Duomo. Nel Museo è
presente un’altra cornice
SALA 34 neorinascimentale, che, a differenza
Il Museo Diocesano: oggetti diversi delle altre, per le dimensioni più
contenute che non disturbano la lettura
Manifattura senese dell’opera, è stata riproposta insieme con
Due cornici neogotiche la Madonna di Girolamo di Benvenuto
Legno intagliato dipinto e dorato, 1904? (Sala 26/c) per la quale era stata
originariamente realizzata.
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Il Museo d’Arte Sacra_241

Manifattura senese, Cornice neogotica, 1904 ? Gioacchino Corsi,


Cornice neorinascimentale, 1904

Ceramiche
L’ultima Sala del Museo d’Arte Sacra si
chiude con una raccolta di oggetti di
ceramica. Si tratta di piatti e vassoi con
stemmi vescovili o cardinalizi, targhe
murali con stemmi e figure di santi, e
acquasantiere domestiche riferibili a
varie produzioni e datati nei secoli XVII
e XVIII.

Alzata con stemma di Cristoforo Palmieri,


Vescovo di Sovana dal 1728, Ceramiche della collezione del Museo Diocesano,
prima metà XVIII secolo XVIII-XIX secolo
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242_Glossario

Glossario

Ampolline vasi per il vino e l’acqua usati nella celebrazione


eucaristica
Borsa custodia quadrata del corporale; non più in uso
Bossolo per votazioni contenitore per raccogliere i voti, in uso
nelle confraternite
Calice vaso per la consacrazione del vino
Carteglorie tre tabelle con i testi invariabili della messa; sono
andate in disuso con le innovazioni liturgiche del XX secolo
Coppa per gli oli santi contenitore utilizzato per la preparazione
del crisma (olio e balsamo) nel rito del Giovedi santo; il crisma è
uno dei tre oli santi, insieme con l’olio degli infermi e l’olio dei
catecumeni
Copricalice (o velo da calice) quadrato di stoffa per coprire il
calice all’inizio e alla fine della celebrazione liturgica
Corporale quadrato di lino bianco su cui si poggiano il calice e
la patena durante la celebrazione eucaristica
Ex voto documento di varia natura che attesta il riconoscimento
da parte del fedele della grazia ricevuta
Manipolo corta striscia di tessuto del colore del resto del
paramento che il celebrante portava all’avambraccio sinistro;
non più in uso
Mitria copricapo cerimoniale di vescovi e alti prelati
Navicella contenitore per incenso
Ostensorio contenitore per l’esposizione solenne dell’ostia
consacrata
Pace strumento liturgico per il ‘bacio della pace’ prima della
comunione; le paci sono andate in disuso con le innovazioni
liturgiche del XX secolo
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Glossario_243

Paliotto rivestimento mobile del fronte dell’altare


Patena piattino usato per posarvi l’ostia prima e dopo la
consacrazione
Pianeta (o casula) sopravveste indossata dal sacerdote durante
la Messa
Pisside vaso con coperchio per la custodia delle ostie
consacrate nel tabernacolo
Piviale ampio mantello semicircolare attualmente in uso in
occasione di celebrazioni non eucaristiche e processioni
Reliquiario contenitore per conservare ed esporre le reliquie
Reliquie resti mortali dei santi, ma anche oggetti ad essi
collegati, strumenti di martirio, vesti; anche oggetti che la
tradizione riferisce alla Vergine e a Gesù Cristo
Scudo elemento decorativo del piviale che riproduce la forma
del cappuccio di cui gli esemplari più antichi erano dotati
Stola lunga striscia di stoffa dello stesso colore del paramento
del giorno. Vescovi e sacerdoti la indossano al collo sotto la
pianeta, i diaconi la portano invece a tracolla annodata sotto il
braccio destro.
Tabernacolo contenitore inamovibile chiuso da uno sportello per
custodire la pisside con le ostie consacrate non consumate
Tonacella paramento oggi indossato dai diaconi durante le
celebrazioni eucaristiche; in origine indossata senza stola anche
dai suddiaconi, figure abolite dalle riforme liturgiche del XX
secolo
Turibolo recipiente per bruciare l’incenso e diffonderne il fumo
profumato

Il Reliquiario
di San Lorenzo
in processione
il 9 agosto
2005
(foto Agenzia
Bieffe)
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Boccale di maiolica
di Montelupo con cavaliere,
da Grosseto,
prima metà XVI secolo
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e moderna
Maremma
medievale

L'ultima sezione del Museo è dedicata alle testimonianze archeologiche provenienti dalla
città di Grosseto e dal territorio circostante rinvenute entro il 2011, anno del più recente
recupero, dovuto a lavori di risanamento del Duomo durante i quali è stato scoperto il
cosiddetto ‘ambiente ipogeo’. Gran parte delle informazioni relative alla storia della città
sono riconducibili agli scavi condotti nel 1978 dall’Università di Siena sotto la guida di
Riccardo Francovich (1946-2007) nel Cassero Senese e al successivo progetto di
archeologia urbana, legato all’Università di Siena-Polo Universitario di Grosseto tra il
1997 e il 2005. In occasione della ripavimentazione e del rifacimento dei sottoservizi, fu
infatti possibile indagare il sottosuolo di gran parte delle strade e delle piazze cittadine,
permettendo così un ulteriore approfondimento e aggiornamento dei dati relativi alla
formazione e alla storia di Grosseto. Il progetto si concluse con l’indagine all’interno del
cantiere di restauro della chiesa di San Pietro, che si è dimostrata il più antico edificio in
pietra della città (fine VIII-inizi IX secolo).
La visita di questa sezione trova completamento nel Museolab della Città di Grosseto,
riaperto nel 2016 presso il polo espositivo Clarisse Arte. Fin dalla sua inaugurazione nel
2004 il Museolab è stato il luogo di esposizione e di comunicazione dei risultati dello
scavo urbano, narrati da grandi pannelli dedicati alle ricostruzioni storico-archeologiche
che seguono nel tempo l'evoluzione della città.

Frammento di catino di maiolica


arcaica senese con testa di cervo,
da Istia d’Ombrone,
fine XIV-metà XV secolo
MAAM_superdefinitivo_NO SILL:MAAM_Sezione 1 11/01/18 14:26 Pagina 246

246_Maremma medievale e moderna

Versatoio (acquamanile) di
maiolica arcaica
con lo stemma dei
Cavalieri Gerosolimitani
dall’Abbazia di Santa
Maria Alborense
(San Rabano) nei Monti
dell’Uccellina,
fine XIV-metà XV secolo

Piatto istoriato di maiolica con le rappresentazione di un episodio della vita di Alessandro Magno, XVIII secolo
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Maremma medievale e moderna_247

IL PERCORSO ESPOSITIVO

Il percorso espositivo si apre con la Sala 36 che raccoglie le


testimonianze di età classica provenienti dall’area urbana di
Grosseto. Nel Corridoio 35 sono invece reperti altomedievali,
per lo più da aree cimiteriali, che documentano la presenza nel
territorio di Roselle di abitati contemporanei alle fasi di vita più
antiche del villaggio di Grosseto. Le Sale 37 e 38 sono dedicate ai
ritrovamenti di età bassomedievale e moderna dal centro di
Grosseto; il nucleo più esteso è quello proveniente dagli scavi del
1978 nel cassero trecentesco inglobato nel ’500 nelle mura
medicee. Sono esposti anche elementi architettonici e frammenti
ceramici trovati casualmente nel corso del tempo all’interno del
centro storico. La parte terminale del Corridoio 35 conserva un palio
ottocentesco e alcuni manufatti di pietra dalle Terme Leopoldine di
Roselle. La Sala 39 raccoglie ritrovamenti di età medievale e
moderna da vari centri della Maremma e infine la Sala 40 espone
oggetti riferibili alle collezioni del vecchio Museo Civico.

SALA 36
Ritrovamenti di età etrusca e romana a Grosseto

È ormai accertato che nell’area urbana di Grosseto non ci fu un


insediamento stabile e continuo prima dell’Alto Medioevo.
Questo non vuol dire che l’area sia stata disabitata fino al
sorgere del primo villaggio di capanne nel VII secolo d.C.; nel
corso del tempo infatti, sia casualmente che a seguito di

Corredo di tomba a incinerazione, Grosseto, seconda metà VI-inizi del V secolo a.C.
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248_Maremma medievale e moderna

Fibula di bronzo a croce, dalla tomba 49 Fibula d’argento a disco, dalla tomba 72
del cimitero in località Grancia, del cimitero in località Grancia,
seconda metà VII secolo d.C. seconda metà VII secolo d.C.

indagini regolari, sono stati recuperati in punti diversi della


città reperti etruschi e romani che hanno permesso di localizzare
varie forme di abitazione o episodi di frequentazione.
Il sito più significativo è una necropoli scoperta nel 1955 nello
scavo delle fondamenta di un edificio su Via Umberto Giordano,
a poca distanza dall’incrocio con Via Mascagni. Nonostante la
casualità del recupero, documentato solo approssimativamente,
il piccolo gruppo di ceramiche e metalli pervenuto al Museo è
sufficiente a dimostrare l’importanza particolare del luogo di
ritrovamento: i reperti si distribuiscono infatti lungo un arco
cronologico di più di mille anni in cui sono documentate l’Età
Arcaica, l’Età Repubblicana, la prima e la tarda Età Imperiale.
Parrebbe pertanto che il cimitero sia stato frequentato in modo
continuo o almeno in numerosi episodi distribuiti nel tempo.
L’osservazione della topografia storica dell’area rafforza questa
impressione: il sito era a poca distanza dall’antico corso
dell’Ombrone, navigabile, e sorgeva probabilmente anche lungo
un asse viario, identificabile nel periodo romano con la via
Aurelia. È stata perciò avanzata l’ipotesi che vada identificato
con la stazione di posta nota come Umbro nelle fonti antiche. La
frequentazione continua sarà stata motivata dal traffico
terrestre e fluviale e dalle attività economiche connesse, in
particolare la commercializzazione del sale che avrà poi un ruolo
primario nella nascita e nello sviluppo di Grosseto.
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Maremma medievale e moderna_249

Impugnatura di spada di ferro (sax) con decorazioni Orecchino a cestello d’oro,


in agemina d’oro, dalla tomba 61 del cimitero da Grosseto, VI secolo d.C.
in località Grancia, seconda metà VII secolo d.C.

SALA 35
Da Roselle a Grosseto: centri abitati e necropoli
nell’Alto Medioevo

Nel VII secolo, quando a Grosseto comparve il primo abitato


stabile da cui si sviluppò in seguito la città, la bassa valle
dell’Ombrone era abitata con una relativa densità. Alcuni
insediamenti di origine romana sopravvivevano ancora o erano
stati appena abbandonati, come la villa di San Martino posta a
est della città, ma sono noti anche insediamenti di nuova
fondazione. Di questi conosciamo in genere le aree cimiteriali,
mentre ancora qualche dubbio sussiste sulla localizzazione degli
abitati corrispondenti. La maggiore di queste necropoli, dopo il
cimitero urbano di Roselle, è quella in località Grancia, di cui
sono esposti quasi tutti i corredi scavati. Il cimitero contava
circa 80 tombe con corredi databili fra la metà e la fine del VII
secolo. Il cimitero ebbe però probabilmente durata più lunga: le
tombe prive di reperti possono essere infatti riferite a periodi più
recenti in cui scomparve l’uso di porre oggetti nelle tombe o di
lasciare addosso ai defunti oggetti di ornamento personale.
L’abitato corrispondente non è stato rintracciato. Il vicino Poggio
Cavolo conserva solo resti a partire dal tardo IX secolo.
Un piccolo cimitero di circa 15 tombe coevo a quello di Grancia
era a Casette di Mota, vicino a Roselle. L’insediamento
corrispondente era una villa romana, una parte della quale era
usata ancora a fini residenziali nel VII secolo d.C.
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250_Maremma medievale e moderna

Un unico reperto viene infine da Grosseto: si tratta di un orecchino


d’oro a cestello della seconda metà del VI secolo ritrovato anni
fa nel corso dello scavo delle fondamenta di un edificio
in via Garibaldi, a circa cento metri dal sito dell’abitato di VII
secolo. L’orecchino potrebbe essere riferito ad una tomba
contemporanea alle prime attestazioni di frequentazione stabile
del villaggio; la cronologia leggermente anteriore non è
sufficiente a retrodatare l’abitato, perché oggetti di materiale
prezioso venivano conservati a lungo e tramandati.

SALA 37-38
Grosseto medievale e moderna:
il Cassero Senese, la Cattedrale e la Fortezza Medicea

Fra VIII e XIII secolo l’abitato di Grosseto crebbe e si sviluppò fino


a diventare il centro più importante dell’area, infeudata ai conti
Aldobrandeschi. Nel 1138 Grosseto ereditò dalla vicina Roselle la
funzione di sede vescovile e, con quella, il titolo di civitas: ormai
città a tutti gli effetti, acquisì una nuova fisionomia
caratterizzata da costruzioni di pietra e laterizio che
soppiantarono con la fine del XII secolo l’edilizia povera di origine
altomedievale. La comunità cittadina ottenne il riconoscimento
dei conti Aldobrandeschi che concessero nel 1204 ai Grossetani
una carta libertatis; nel 1224 un esercito senese attaccò
Grosseto, mentre fra il 1240 e il 1250 truppe dell’imperatore
Federico II occuparono l’intera contea aldobrandesca.
In questa nuova situazione storica si inserisce il Duomo,
intitolato a San Lorenzo martire in Santa Maria Assunta e
costruito a partire dal 1295 sotto la direzione dell'architetto
senese Sozzo Rustichini. L’intitolazione ricorda una precedente
chiesa, dedicata proprio a Santa Maria Assunta e testimoniata
almeno dal XII secolo, ma mai localizzata con certezza: posta
presumibilmente negli immediati dintorni o sotto la costruzione
attuale, avrebbe svolto la funzione di chiesa cattedrale fra il
trasferimento della sede vescovile (1138) e la fine della
costruzione dell’attuale Duomo, ultimata non prima del 1330-
1340. L’ipotesi più recente la colloca sotto il portico dell’attuale
Palazzo Comunale, costruito a partire dal 1870 su un’area dove
erano abitazioni e magazzini di proprietà privata o ecclesiastica,
fra i quali una piccola chiesa sconsacrata affidata alla
Confraternita della Misericordia nel 1563, ma preesistente.
Si trattò comunque per Grosseto di un periodo di grande vivacità
sociale ed economica: la città, posta in pianura, a pochi
chilometri dal mare e dalle redditizie saline, aveva a breve
distanza un fiume navigabile e importanti assi stradali, in una
situazione totalmente diversa da quella della vecchia Roselle,
arroccata sulle colline dell’interno.
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Maremma medievale e moderna_251

Nel XIV secolo la città subì una o due disastrose alluvioni (1308
e 1333) che allontanarono dalla città il corso dell’Ombrone,
privandola del suo porto fluviale. Negli stessi anni, fra il 1334 e
il 1336, lo stato cittadino di Siena conquistò definitivamente
Grosseto e estese il suo dominio su tutta la Toscana meridionale.
La serie negativa di eventi non si era però esaurita: la micidiale
epidemia di peste nera che devastò l’Europa fra il 1347 e il
1350 raggiunse nel 1348 la Toscana. È stato calcolato che i
morti furono fra il 30 e il 50% della popolazione delle zone
colpite. La Maremma, caratterizzata in tutti i tempi da una
densità demografica tendenzialmente bassa, subì un vero
tracollo demografico da cui non sarebbe riuscita a riprendersi
fino al XX secolo.
Gli scavi condotti dall’Università di Siena all’interno del
Bastione della Fortezza individuarono già nel 1978 tracce di
capanne o case di terra al limite settentrionale di quel villaggio,
poi localizzato nel corso degli scavi più recenti. Lo studio dei
suoli antichi ha dimostrato il ripetersi, fin dall’Alto Medioevo, di
episodi alluvionali particolarmente gravi; la vegetazione era
quella caratteristica degli ambienti palustri, in alternanza con
pineta e macchia mediterranea nei periodi più asciutti. Le
specie coltivate sembrano comparire nell’Alto Medioevo, in
connessione con la nascita dell’insediamento stabile nell’area
della futura città.
La costruzione del Cassero, conclusa nel 1345, è il segno

Il Cassero Senese, 1345, sul Bastione della Fortezza Medicea, fine XVI secolo
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252_Maremma medievale e moderna

monumentale della sottomissione della città a Siena. L’evento


segna infatti mutamenti documentati con evidenza dai reperti
ceramici e paleoambientali rinvenuti nello scavo. La città dopo la
conquista si trovò costretta a privilegiare il rapporto con Siena in
tutti i campi: la ceramica pisana, ad esempio, frequente fino a
metà XIV secolo, scomparve a favore di analoghi prodotti senesi.
Un campione molto rappresentativo di questo cambiamento è il
gruppo di ceramiche rinvenuto nel pozzo-cisterna, collocato
tramite un corridoio a lato del cosiddetto vano ipogeo, scavato
nel 2011 dalla Soprintendenza sotto il coro della Cattedrale.
L'insieme dei reperti recuperati risulta rappresentativo del
panorama formale tipico del Tardo Medioevo; siamo in un
momento in cui, del resto, la maiolica è un prodotto affermato e
la sua produzione si attesta anche nei centri minori,
affiancando i contenitori privi di rivestimento.
Fanno parte del recupero catini e boccali in maiolica arcaica,
due dei quali dotati di bollo in piombo, piatti ingobbiati e
graffiti, boccali invetriati, piccoli contenitori destinati a
contenere spezie, sempre inventriati, anfore e anforette
monoansate prive di rivestimento, olle ad arpione e coperchi in
acroma grezza. Il quadro delineato presenta i caratteri formali e
decorativi delle produzioni comunemente diffuse a Siena e nella
Toscana Meridionale nel XIV-XV secolo. Carattere assolutamente
eccezionale riveste un esemplare di zaffera a rilievo (prima metà
XV secolo), maiolica dal caratteristico decoro in blu-cobalto a
rilievo, raffigurante un uccello, probabilmente un'aquila,
circondato dal tipico decoro a foglia di quercia.
Le variazioni nelle percentuali di presenza nei vari periodi delle
ossa degli animali domestici dimostrano inoltre che Siena
impose la conversione a pascolo di aree precedentemente
destinate all’agricoltura intensiva.
Quando a metà del XVI secolo i Medici sottomisero Siena, anche

Boccale di maiolica arcaica blu di produzione Scodellone di maiolica arcaica senese


senese, dagli scavi nel Cassero, con cane rampante, dagli scavi nel Cassero,
metà XIV-metà XV secolo prima metà XV secolo
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Maremma medievale e moderna_253

Grosseto ne seguì la sorte. La città, vicina al mare e ai confini


del Granducato, aveva per i Medici grande importanza
strategica mentre il territorio circostante poteva diventare la
principale fonte di approvvigionamento di grano per Firenze. La
costruzione della cinta bastionata, in sostituzione delle obsolete
mura senesi, precedenti l’introduzione della polvere da sparo e
non adeguate alle nuove armi, fu per i Medici una priorità,
nonostante la spesa necessaria e le difficoltà di mandare avanti
un cantiere nelle proibitive condizioni grossetane. Si sa dai
documenti del tempo che nell’impossibilità di trovare lavoratori
liberi si fece ricorso alle ‘comandate’ cioè all’imposizione del
lavoro coatto, oppure direttamente all’uso di galeotti. Alcune
murature grossolane e fuori piombo all’interno del Cassero
dimostrano le scarse capacità tecniche di quelle maestranze
raccogliticce. Le stratigrafie archeologiche della Fortezza
restituiscono in questa nuova fase ceramiche senesi, di
Montelupo, di Pisa, della Tuscia. La diminuzione delle presenze di
suini e ovini mostra invece una contrazione delle superfici a
pascolo, a favore dei coltivi.
L’intervento mediceo non si limitò alle fortificazioni della città.
L’urbanistica fu ridisegnata, dandole l’aspetto che ha tutt’ora
entro le mura, e le strade interamente ripavimentate rialzando i
piani di calpestio medievali anche di quattro metri.

_
Luoghi:
le Mura di Grosseto e la Fortezza (Sale 37-38)

Grosseto ha avuto nel tempo varie cinte di mura. La più antica di cui si
possono riconoscere i resti è quella senese costruita fra il 1337 e il
1350. A questa fortificazione è riferibile il Cassero con la porta di Santa
Lucia, oggi inglobati nel Bastione della Fortezza. Si trattava di una torre

Ciotolone ingubbiato e graffito con profilo Scodella ingubbiata e graffita con motivo
maschile, produzione senese, dagli scavi a girandola, produzione senese, dagli scavi
nel Cassero, metà XV secolo nel Cassero, metà XV secolo
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254_Maremma medievale e moderna

Ceramiche rinvenute all’interno del pozzo-cisterna, Cattedrale di San Lorenzo,


produzione senese e fiorentina, XIV-XV secolo (foto P. Nannini)

su base a scarpa con accanto un’ampia porta doppia, con archi gotici.
Quando Grosseto con tutto lo Stato Senese fu assorbita nel
Granducato (1557), Cosimo I dei Medici affidò (1565) a
Baldassarre Lanci la costruzione di una nuova cinta muraria,
che fosse adeguata alle potenza delle armi da fuoco e alle
tecniche di assedio del tempo. La nuova cinta esagonale, con
sei bastioni a forma di freccia agli spigoli, era circondata da un
fosso navigabile in comunicazione con altri canali che
permettevano il trasporto di merci e di materiali da costruzione.
Una sola porta dava accesso alla città: la Porta Reale o Porta
Marina, oggi Porta Vecchia. La costruzione delle mura andò a
rilento: a partire da Porta Vecchia, in senso orario, il Bastione
dell’Oriuolo (oggi della Cavallerizza) fu completato nel 1575; il
successivo (di San Michele, oggi del Mulino a Vento) nel 1571;
poi il Bastione delle Monache (oggi Garibaldi) e quello di San
Francesco (Parco della Rimembranza) nel 1577; la Fortezza fu
conclusa solo nel 1593; e infine il Bastione delle Palle (oggi del
Maiano) nel 1566. Ma in realtà la costruzione non fu mai
completata definitivamente: il terreno intriso d’acqua causava
continui dissesti nelle cortine murarie e nei bastioni appena
completati o ancora in costruzione e nel 1594 le mura erano già
in restauro. Risultano di nuovo in cattivo stato nel ‘600, mentre
nel ‘700 i bastioni, in abbandono, erano usati come pascoli. Nel
1754 fu aperta Porta Nuova; all’inizio dell’800 le mura furono
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Maremma medievale e moderna_255

Il Cassero Senese
nel 1345
(Inklink Firenze
per Museolab)

La costruzione delle Mura Medicee alla fine del XVI secolo (Inklink Firenze per Museolab)
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256_Maremma medievale e moderna

Gallerie
di comunicazione
con le ‘piazze
basse’ nel
Bastione
della Fortezza

Rilievo romanico di travertino con animali fra tralci vegetali,


riusato nella costruzione della Fortezza Medicea, XII secolo
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Maremma medievale e moderna_257

smilitarizzate e destinate ad uso pubblico. Nel 1882 il Bastione


della Cavallerizza che sporgeva a protezione di Porta Vecchia, fu
tagliato per le esigenze della circolazione stradale. Per lo stesso
motivo nel dopoguerra sono stati aperti tre nuovi varchi nelle
mura.

La cappella di Santa Barbara e il Cassero Senese sul Bastione della Fortezza Medicea
(foto C. Bonazza)
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258_Maremma medievale e moderna

Palio di seta
con la
Madonna
Assunta,
lo stemma
di Grosseto
e lo stemma
dei
Granduchi
di Lorena
(1833)
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Maremma medievale e moderna_259

SALA 35
Un palio a Grosseto nell’Ottocento

Nell’Ottocento anche a Grosseto, come in altre città della


Toscana e ancora oggi a Siena, le contrade cittadine si
sfidavano in una corsa che aveva come premio un palio di seta
dipinta. L’unico palio superstite, recuperato alcuni anni fa a
Rimini sul mercato antiquario, riproduce l’immagine della
Madonna delle Grazie di Matteo di Giovanni conservata nel
Duomo, lo stemma dei Granduchi di Lorena e lo stemma di
Grosseto. Vi è anche dipinta una scritta
16 33
GROSSETO

che va però integrata: 16 (agosto 18) 33. Si suppone che parte


della data sia stata cancellata per aumentare l’antichità
dell’oggetto e quindi il suo valore. Una datazione nel 1633 è
resa d’altra parte impossibile da elementi certi di cronologia: lo
stemma dei Lorena che salirono al trono granducale
nel 1737 e la corona della Madonna, che fu posta sulla tavola
dipinta nel 1759.

Matteo
di Giovanni,
Madonna delle
Grazie, seconda
metà XV secolo
(Archivio F.lli Gori)
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260_Maremma medievale e moderna

_
Luoghi
le Terme Leopoldine di Roselle (Corridoio 35)

Le acque termali di Roselle, conosciute e sfruttate nell’antichità


e nel Medioevo, scaturiscono dalle pendici sud-occidentali del
Poggio di Moscona. Nel XV secolo le terme erano già certamente
dotate di impianti che ne permettevano l’uso che però dovevano
essere piuttosto rozzi se più tardi, nel 1790, consistevano in due
semplici recinti, uno scoperto, l’altro coperto, comunicanti fra
loro. Nel 1808 la Comunità di Grosseto ottenne dal Vescovo,
proprietario dell’area, l’uso dello stabilimento in cambio del
pagamento di un affitto annuo. La Comunità si assunse l’onere del
restauro e della manutenzione, garantendo al Vescovo l’uso delle
acque di scarico delle terme per il funzionamento dei suoi mulini.
I lavori iniziarono nel 1822 a seguito di un consistente contributo
granducale e proseguirono con alterne vicende fino al 1824,
quando le terme furono aperte al pubblico. La dizione tradizionale
‘Terme Leopoldine’ è perciò errata, in quanto furono inaugurate
sotto il granduca Ferdinando III, come è testimoniato dalla grande
iscrizione esposta nel Museo, mentre a Leopoldo II si deve solo
uno dei numerosi interventi di restauro.
L’edificio di stile neoclassico racchiude una grande piscina termale
di forma circolare (il ‘cratere’), in cui l’acqua calda fluiva dalle
bocche aperte di cinque leoni di marmo (due dei quali esposti)
rinvenuti nel 1822 negli scavi per la costruzione delle terme.
Le terme erano aperte al pubblico dal 1° maggio al 15 luglio;
l’ingresso era gratuito ed era prevista la presenza costante di un
medico per l’assistenza sanitaria ai frequentatori. Nel 1880 le
date di apertura del complesso furono spostate (10 giugno-18
agosto) e fu introdotto un biglietto d’ingresso. Ci si poteva
bagnare direttamente nel cratere circolare, dove erano state
costruite delle cabine in legno e tela per garantire la privacy dei
bagnanti, oppure nei bagnetti interni destinati a chi aveva
malattie infettive e agli utenti meno abbienti. Alla fine del secolo
le terme decaddero, forse per l’abbassamento del livello della
falda termale.
Il più recente reperto esposto è l’insegna dell’Ambulatorio
Antimalarico, che ebbe sede nelle Terme nel Novecento. Le terme
restarono aperte al pubblico fino al 1966, quando l’alluvione le
danneggiò irreparabilmente.

Insegna dellambulatorio antimalarico di Roselle, prima metà XX secolo


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Maremma medievale e moderna_261

Leoni di pietra dalle Terme Leopoldine di Roselle, età romana?

Le Terme Leopoldine di Roselle in una cartolina d’epoca


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Il Museo in breve_279

Il Museo
in breve

Sezione I
STORIA DEL MUSEO

1. Il primo Museo di Grosseto


Accoglienza, bookshop e guardaroba
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A
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Sezione 2
ROSELLE

2. Roselle etrusca-nascita della città


3. La collina nord e la Casa dell’Impluvium
4. Le necropoli
5. Le decorazioni degli edifici arcaici
6. L’età classica
7. La città etrusco-romana
8. Le necropoli etrusco-romane
9. Le terme di età imperiale
10. Roselle romana
11. La sede del culto imperiale-l’Aula dei Bassi
12. Roselle da sede vescovile a città abbandonata
A. Sala delle conferenze e delle mostre
B. Sala multimediale
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Sezione 3
ARCHEOLOGIA DELLA MAREMMA

13. Preistoria e protostoria della Maremma


14. L’età orientalizzante
15. L’età arcaica
16. Il V e il IV secolo a.C.
17. Gli Etruschi e la conquista romana
18. La romanizzazione: le iscrizioni
19. La romanizzazione
20-21. L’età imperiale
22. L’età tardoimperiale
23. Sala delle collezioni
C. Sala didattica
D. Biblioteca
E. Uffici
F. Terrazza
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Sezione 4
MUSEO D’ARTE SACRA DELLA DIOCESI DI GROSSETO

24-26a. La collezione Cappelli


26b-27. Opere dal XIII al XVI secolo
28-29. Opere dal XVI al XIX secolo
30-32. Oreficerie e arredi liturgici
33. Libri corali della Cattedrale
34. Ceramiche del Museo Diocesano
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G
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Sezione 5
STORIA DI GROSSETO-IL MEDIOEVO IN MAREMMA

35. I cimiteri altomedievali


36. Grosseto, prima della città medievale
37-38. Grosseto, dal XIV al XIX secolo
39. Maremma medievale e moderna
40. Ceramiche delle collezioni civiche
G. Ufficio
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284_Il Museo in breve

Informazioni

Museo Archeologico e d’Arte della Maremma


Museo di Arte Sacra della Diocesi di Grosseto
Palazzo del Vecchio Tribunale
Piazza Baccarini 3
58100 GROSSETO
Tel 0564 488750-488752 Fax 0564 488753
Email maam@comune.grosseto.it
Sito web http://maam.comune.grosseto.it

Accessibilità

Il Museo non ha barriere architettoniche ed è dotato di


ascensore e servizi a norma

Orari

Il museo è aperto tutti i giorni tranne i lunedì non festivi, il 25


Dicembre, il I Gennaio e il I Maggio.
Gli orari possono variare. Si prega di verificarli chiamando il
numero: 0564/488750 o 488752, oppure consultando il sito web:
http://maam.comune.grosseto.it

Tariffe (anno 2017)

Biglietto intero €5.00


Biglietto ridotto €2.50 (studenti universitari, minori di 18 anni e
maggiori di 65, militari in servizio, gruppi di 20 o più persone,
Vulci Card, soci FAI, soci ACI)
Biglietto ridotto per gruppi scolastici €1.00 a studente
Biglietto gratuito (minori di 6 anni, disabili con accompagnatore,
insegnanti accompagnatori di classi scolastiche, membri del
clero, guide turistiche, giornalisti, dipendenti MIBACT, membri
dell’ICOM, Edumusei Card)

Chi si presenta alla biglietteria del Museo Archeologico e d’Arte


della Maremma con il biglietto di ingresso degli scavi
archeologici di Roselle entra inoltre al Museo a soli €2,50. È
una iniziativa promossa dall’Amministrazione Comunale e dalla
Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio di Arezzo,
Siena e Grosseto con la collaborazione di Munus, azienda che
cura i servizi di custodia e accoglienza per il MAAM.
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Biblioteca

È possibile accedere al prestito lunedì, mercoledì e venerdì dalle


9.00 alle 14.00, il martedì e il giovedì dalle 9.00 alle 17.00.
Il catalogo della biblioteca è consultabile on line sul sito del
sistema bibliotecario provinciale http://bibliotechedimaremma.it/

Servizi didattici

L’organizzazione del Servizio Educativo del Museo propone


laboratori interattivi e visite tematiche pensati per soddisfare le
esigenze delle scuole dell’infanzia, primarie, secondarie e per le
famiglie.
La durata di ogni attività varia da una a due ore. L’elenco
completo e aggiornato delle attività è sul sito web
http://maam.comune.grosseto.it
I laboratori si svolgono dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.00.
Il costo di ciascuna attività didattica è di 1 €a studente.
Ogni anno in occasione di mostre temporanee vengono ideati
nuovi percorsi didattici legati al tema dell’esposizione.
Per partecipare è necessario prenotarsi telefonando al numero
0564/488752-760 dal lunedì al sabato dalle 8.30 alle 13.00,
oppure scrivere a didatticamuseo@comune.grosseto.it

Altri servizi

All’ingresso, nella prima sala del Museo sono la biglietteria e


il guardaroba.
Personale qualificato addetto all’accoglienza è sempre
disponibile a seguire l’utenza nel percorso espositivo. È anche
possibile fruire di visite guidate per piccoli gruppi su prenotazione.
Il costo della visita guidata è compreso nel biglietto d’ingresso.
Il Museo mette inoltre a disposizione l’applicazione Izi.TRAVEL per
scoprire l’esposizione su smartphone. L’applicazione
accompagna i visitatori in un tour guidato, attualmente
disponibile in italiano, inglese e francese. L’app si può scaricare
negli spazi forniti di wi-fi del Museo.
Un piccolo Bookshop permette di consultare e acquistare
merchandising e libri quali la Guida del Museo, cataloghi di
mostre e altri testi sul territorio.
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Finito di stampare
nel mese di Dicembre 2017
per conto di

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