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«Belfagor» XXXIII (1978), pp.607-10.

Sebastiano Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Bari, Later-


za, 1978, pp. 235.

Fino al 1955, anno della prima edizione di questo saggio di Seba-


stiano Timpanaro, la critica leopardiana soleva prestare poca attenzione
all’attività di Leopardi filologo. La inquadrava genericamente nel-
l’ambito dei precocissimi interessi eruditi degli anni recanatesi del poe-
ta, avanti la conversione letteraria, e in quanto tale la riconduceva, non
diversamente dal giudizio dato sull’analoga attività di altri poeti-
filologi del nostro Ottocento (dal Foscolo al Carducci, al Pascoli), a una
sorta di tirocinio obbligato sui classici, di ricerca per questa via di una
personale identità di linguaggio, insomma a una pratica marginale e
propedeutica all’esercizio della poesia. In relazione a questo problema
il saggio di Timpanaro segnò un radicale cambiamento di prospettiva.
Fin dalla prefazione Timpanaro indicava in modo sottilmente polemico
l’oggetto della sua ricerca, che «era e doveva restare il Leopardi filolo-
go», né «Leopardi e gli antichi» né «Classicismo e classicità nel Leo-
pardi»; e ne indicava anche i destinatari, che non erano soltanto gli stu-
diosi del Leopardi, ma (si direbbe soprattutto) gli storici della filologia
e i filologi classici. Già questi segnali erano sufficienti ad avvertire che
Timpanaro mirava a porre in primo piano, indipendentemente da ogni
considerazione di funzionalità rispetto ai momenti più noti e centrali
dell’attività di Leopardi, il problema della consistenza e della validità
della sua filologia: una filologia che Timpanaro identificava, stricto
sensu, con la lunga serie di note testuali o interpretative sui testi greci e
latini, e che - lo studioso si accingeva a dimostrarlo - non era soltanto il
frutto degli anni cosiddetti dell’erudizione, ma si distendeva salvo brevi
interruzioni, e segno di un interesse perdurante, fino alla piena maturità
del poeta. Questa revisione critica aveva richiesto un lavoro di primis-
sima mano sulle carte filologiche leopardiane e innanzitutto una com-
petenza da filologo classico di prim’ordine, che era sconosciuta a quan-
ti in precedenza si erano misurati sullo stesso terreno. Il saggio di Tim-
panaro aveva così le sue concretissime basi sulla verifica puntuale dei
risultati della filologia leopardiana, che erano sempre ed opportuna-
mente confrontati con il livello degli studi della filologia classica in Ita-
lia nella prima metà dell’Ottocento. Gli esiti sono noti. Sebbene Leo-
pardi fosse posto in condizioni oggettive di difficoltà dall’arretratezza
della filologia in Italia, disponendo per giunta di mezzi molto limitati,
riuscì a conseguire risultati di valore assoluto, rispetto ai quali ancora
oggi le edizioni correnti di alcuni autori sono in arretrato. Insomma Le-
opardi fu anche uno dei maggiori filologi classici del nostro Ottocento,
sicuramente dotato di maggior dottrina e ingegno di tanti suoi contem-
poranei che sarebbero stati, in questo campo, più noti e celebrati di lui:
ad esempio, Angelo Mai. Questa messa a punto, nei termini esaurienti
in cui Timpanaro l’aveva formulata, fu una acquisizione definitiva della
critica leopardiana; ed anche l’occasione perché venissero precisate
questioni di dettaglio (da Antonio La Penna, Scevola Mariotti, Claudio
Moreschini), individuati e svolti temi di ricerca collaterali, e soprattutto
perché si pubblicassero a cura di Giuseppe Pacella e dello stesso Tim-
panaro, e poi del Moreschini, gli scritti filologici del nostro autore.
Tuttavia, a rileggere oggi il saggio di Timpanaro, quando non è più
da difendere il valore originale della filologia leopardiana (da questo
punto di vista la ristampa laterziana, poiché alcuni suoi capitoli sono
stati completamente riscritti, ha anche il pregio di accogliere i punti
principali, non solo le referenze bibliografiche, delle discussioni seguite
alla prima edizione) ci si può disporre con un certo agio dal punto di vi-
sta del Leopardi maggiore (il poeta, il moralista, il filosofo) e conside-
rare da questa ottica il lavoro del filologo: non per riproporre quelle
questioni di propedeuticità che il saggio di Timpanaro ha spazzato via
definitivamente, ma per riconoscere all’esercizio della filologia il valo-
re di una esperienza integrale, autonoma ed originale sì, ma sempre col-
legata a fili molteplici con tutti gli aspetti della ricca personalità cultu-
rale dello scrittore. Forse è proprio questo il suggerimento più interes-
sante che emerge oggi dalla rilettura del saggio e, al di là della qualità
intrinseca della ricerca che resta esemplare, ne giustifica ampiamente la
riproposizione. Non può essere casuale, del resto, che proprio Timpana-
ro, dopo aver studiato la filologia leopardiana, abbia scritto sul pensiero
di Giacomo Leopardi alcune delle pagine più illuminanti dell’ultima
critica. In Leopardi, dunque, anche il filo della filologia conduce al
cuore del moralista e del poeta. Basta soffermarsi sui tempi secondo cui
Timpanaro scandisce i capitoli del suo libro: «i primi lavori eruditi»,
«gli studi filologici nel periodo della conversione letteraria», gli anni
dal ’18 al ’22, «Roma 1822-23», «dal ’23 al ’27», ecc. Le coupures
rappresentano anche i nodi e le svolte attraverso cui la critica di questo
dopoguerra riconosce unanimemente l’opportunità di scomporre
l’itinerario dell’ideologia e della poesia leopardiane. Le fasi di questo
itinerario sono dunque coincidenti con le tappe successive dell’attività
filologica, e non è detto che ne costituiscano sempre il riflesso. Le pro-
ve di ciò si possono cogliere distesamente nel saggio e negli altri con-
tributi leopardiani di Timpanaro (in Classicismo e illuminismo nel-
l’Ottocento italiano, Pisa 19692). In questa sede, nel riassumere i tempi
e i modi della filologia leopardiana, difficilmente si può andare al di là
di un ragguaglio sommario.
Assumiamo come punto di partenza gli anni compresi tra il ’13 e il
’15. La disposizione di lettura del giovane Leopardi nei confronti dei
testi antichi rivela fin da ora, nonostante i prevalenti interessi eruditi,
un’attitudine precocemente filologica, con la volontà di capire sempre
fino in fondo il testo, la tendenza a interrogarsi sui luoghi oscuri. Alla
fine di questi anni i Fragmenta patrum graecorum e il lavoro sui Cesti
di Giulio Africano rappresentano le prime prove di una attività filologi-
ca in senso proprio. In relazione ai Cesti, ad esempio, Leopardi ricono-
sce la necessità di rifarsi ai codici, pratica attuata soltanto dai maggiori
filologi precedenti o a lui contemporanei, e neanche da tutti. Ma il lavo-
ro sui Padri greci è anche il primo esempio di compenetrazione di inte-
ressi filologici ed interessi ideologici, seppure in un’ottica che è ancora
di conservazione. Attraverso il restauro dei Fragmenta il giovane Leo-
pardi, influenzato dalle idee religiose di Monaldo e dello zio Carlo An-
tici, coltiva un disegno di restaurazione della fede. Ma è importante che
fin da ora le mire ideologiche non influenzino in alcun modo i proce-
dimenti formali della sua filologia. Questo principio sarà una delle co-
stanti del metodo di Leopardi filologo.
Il 1815 è l’anno della prima svolta interessante nell’itinerario della
sua formazione. Gli interessi eruditi cedono il campo ad interessi di ti-
po retorico-letterario. È il momento delle traduzioni: Mosco, la Batra-
comiomachia, Frontone, il primo dell’Odissea, il secondo dell’Eneide.
Il lavoro filologico viene ora coperto da un eccesso di preoccupazione
letteraria, è inteso in qualche modo come «un esercizio di bella lettera-
tura». Tuttavia i discorsi di inquadramento storico premessi alle tradu-
zioni e le note esplicative del testo risultano di grande interesse; su sin-
goli punti questi lavori si dimostrano, in qualche caso, addirittura più
progrediti rispetto ai risultati cui sono giunti in seguito altri filologi, i-
gnorando Leopardi. Quando tra il ’17 e il ’19 la conversione da lettera-
ria diverrà anche ideologica - sono gli anni decisivi dell’amicizia con il
Giordani - il lavoro filologico continua con letture e annotazioni a Vel-
leio Patercolo, Floro, Cicerone, ecc. Contemporaneamente la filologia
leopardiana si esercita anche sul piano degli studi linguistici; anche se,
non conoscendo Leopardi quanto si andava elaborando in Germania nel
campo dell’indoeuropeistica, la prospettiva di questi studi denuncia
spesso inesattezze o imprecisioni. In questi anni, in concomitanza di
quella radicale trasformazione delle componenti filosofiche, religiose,
politiche, letterarie dell’ideologia leopardiana, cui si dà solitamente il
nome di crisi del ’21, gli interessi linguistici di Leopardi subiscono
anch’essi una profonda modifica, trasferendosi da un piano di filosofia
del linguaggio all’ambito apparentemente più ristretto delle ricerche
grammaticali e lessicali. Ciò avviene principalmente nel campo delle
lingue romanze e dell’italiano in particolare, ma tocca marginalmente
anche le lingue antiche. Il 1822 è l’anno del viaggio a Roma e della de-
lusione provata da Leopardi nei confronti degli ambienti culturali ro-
mani. Qui la passione per l’erudizione e l’antiquaria escludono quasi
del tutto lo studio del latino e completamente quello del greco. A Roma
Leopardi può finalmente vedere l’edizione di Angelo Mai del De repu-
blica ciceroniano: seguono delle note di pura critica testuale, alcune
delle quali poi accolte dai successivi editori. Avviene ora l’incontro con
il Niebuhr, che - scrive Timpanaro - «sentì subito tutta la distanza che
separava il Leopardi dagli altri letterati e antiquari romani, non solo per
tutta la sua personalità, ma anche nel campo strettamente filologico».
Leopardi ritorna a Recanati nel 1823. Poco prima aveva ricevuto
l’invito a tradurre tutto Platone. Nelle mire di Carlo Antici, fautore del
progetto, la diffusione del più grande pensatore spiritualista di tutti i
tempi, doveva esser parte di un disegno di restaurazione ideologica e
politica. Leopardi lesse sette dialoghi, da cui uscirono poche osserva-
zioni testuali, peraltro non sempre felici.
Ma gli anni della conversione alla prosa rappresentano, dal punto di
vista delle connessioni tra il Leopardi filologo e il Leopardi moralista e
filosofo, il momento più suggestivo. Ora al centro dell’attenzione sono
autori moraleggianti, soprattutto d’età ellenistica: Isocrate, Teofrasto,
Luciano, Epitteto, ecc. Leopardi si pone a volgarizzarne le opere. Come
sempre, nel tradurre, si preoccupa prima di ogni altra cosa di intendere
correttamente. Siamo ancora nel 1823, anno che ha una importanza ca-
pitale nello svolgimento della filosofia leopardiana. La scoperta che
una disposizione pessimistica fosse connaturata ai filosofi greci contri-
buisce a intaccare il mito della felicità degli antichi. È il momento del
passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico. Se la lettura
dei moralisti greci non fu l’unica causa di questo sostanziale cambia-
mento di visione del mondo, fu comunque fra le cause prime. Ma la let-
tura degli autori greci era per Leopardi anzitutto una esperienza di filo-
logia. La ricostruzione di Timpanaro può essere interrotta a questa al-
tezza. Le risultanze sono già indicative.
Ma il punto di vista seguito per illustrare il volume rischia per la
sua parzialità di travisare le intenzioni di Timpanaro e di falsare, di
conseguenza, l’identità del suo lavoro. Ad esempio, nessuna parola è
stata ancora spesa sull’interesse che Leopardi aveva alla filologia come
puro esercizio formale, indipendente dalla qualità artistica e concettuale
degli autori studiati: dato su cui Timpanaro insiste, e che è forse una
delle ragioni di fondo per cui Leopardi riuscì uno dei maggiori filologi
italiani dell’Ottocento. Certamente in Leopardi il lavoro filologico, co-
me ricostruzione ed esegesi di testi greci e latini, fu sempre indipenden-
te, mai condizionato nella sua specificità da altri interessi; e il libro di
Timpanaro, che dimostra proprio questo, era e resta uno studio di filo-
logia e di storia della filologia. Tuttavia, se questa è la caratteristica no-
ta del saggio, una ristampa è anche la reiscrizione in un contesto modi-
ficato di cultura, che pone altri interrogativi e sollecita nuove risposte.
E la prova più eloquente che il libro di Timpanaro conservi ancora tutta
intera la sua vitalità, è nel fatto che soltanto oggi, con allo sfondo gli
apporti degli ultimi venti anni di critica leopardiana, si leggono com-
piutamente le sottili reciproche incidenze, al tempo della prima edizio-
ne non del tutto decifrabili, tra la filologia e l’ideologia di Leopardi. Ma
questo è anche il segno che rispetto alla Filologia di Giacomo Leopardi
del 1955 le successive ricerche di Timpanaro sul pensiero leopardiano
non conoscono fratture, e che questo saggio, pur restando un documen-
to esemplare di critica filologica, oggi, più di quanto non avvenisse nel
1955, si attesta come un contributo di prima qualità anche sul-
l’ideologia leopardiana. La sua riproposizione, insomma, non è solo
l’omaggio a una voce obbligata della bibliografia di Leopardi.
Veniamo, finalmente, alla descrizione delle novità materiali di que-
sta riedizione. Come si è in parte anticipato, essa non ricalca passiva-
mente la precedente. Le linee generali dell’impianto sono mantenute;
ma sono state corrette qui e là alcune posizioni di dettaglio, soprattutto
in relazione all’enorme progresso degli studi sulla filologia leopardiana
seguito alla prima edizione. Le nuove risultanze sono interamente fuse
nel testo, che pertanto è corretto e arricchito dovunque. Sono stati am-
piamente riscritti i capitoli III, IV e VI. L’appendice originaria, che
conteneva un progetto per l’edizione degli scritti filologici leopardiani,
ad edizione ormai realizzata, è stata soppressa. È sostituita nella ri-
stampa da due saggi già apparsi in riviste: Il Leopardi e la pronuncia
del greco e Alcuni studi di codici greci barberiniani compiuti da Gia-
como Leopardi nel 1823. L’indice dei nomi e delle cose principali è ar-
ricchito in relazione alle nuove immissioni; è stato aggiunto un breve
indice lessicale e sintattico.

PASQUALE STOPPELLI

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