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Sentieri 9

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Stampato con fondi di ricerca del
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno.

© 2021 Della Porta Editori

www.dellaportaeditori.com

isbn 978-88-96209-42-4

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Antonio La Penna

La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi
Con una bibliografia
degli scritti dell’autore (1995-2021)

A cura di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Della Porta Editori

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indice

.    11
p Congedo esopico, di Antonio La Penna
15 La via esopica di Antonio La Penna,
di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini
57 Avvertenza editoriale
61 Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

La favola antica: Esopo e la sapienza degli schiavi

67 1. Origine, sviluppo e funzione della favola esopica


nella cultura antica
1. Origini mesopotamiche della favola esopica, 67  2. La favola
nella letteratura greca da Esiodo ad Aristofane, 70  3. Il romanzo
di Ah.īqār e la nascita del «personaggio Esopo», 72  4. Retorica,
diatriba e formazione delle prime raccolte esopiche, 76  5. Esopo
in latino: Fedro e la poetica della brevitas e dell’urbanitas, 80 
6. Il favolista agghindato: Babrio o della morale senza unghie, 81 
7. La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società, 84

89 2. Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente


1. Culture a contatto, 89  2. Tradizione esopica e favolistica sumero-
babilonese, 90  3. Il romanzo sapienziale di Ah.īqār, 96 
4. Favole in viaggio: dalla Grecia all’India o dall’India
alla Grecia?, 101  5. Favolistica esopica in terra d’Egitto?, 106 
6. Tipologia geografica della favola esopica, 111  Addendum
bibliografico 2009, 114

115 3. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese


1. Una favola di Archiloco e il poemetto di Etana, 115  2. Il romanzo
di Esopo e un dialogo babilonese, 125  3. Un’altra favola esopica di
origine babilonese, 128

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8 Indice

p. 132 4. Il romanzo di Esopo



1. Le redazioni G e W e la ricostruzione della fonte comune, 132 
2. Il nucleo primitivo della Vita e il Volksbuch di Esopo, 141 
3. La sezione babilonese della Vita e il racconto di Ah.īqār, 151 
4. «Bere il mare»: gare di sapienza nelle culture arcaiche, 157 
5. La Vita come biografia sapienziale, 161  6. Lo schiavo portatore
di antisapienza, 165  7. Cultura filosofica alla berlina, 168 
8. L’individualismo rassegnato di una mentalità cinica, 172 
9. Misoginia: la donna e le angustie di un’economia precaria, 175 
10. La Vita come letteratura amena, 177  Appendice Esopo
a Delfi, 179

183 5. Fedro, la voce amara della favola esopica



1. Tracce biografiche, 183  2. Una vita per la poesia: ansia di gloria
ed emarginazione, 193  3. Nel solco della morale esopica: verità
e rassegnazione, 199  4. Le favole di animali: qualificazione
morale e azione dialogata, 204  5. Le strutture narrative: conflitto
e svolgimento dell’azione, 208  6. Il favolista «didattico» e
l’interpretazione del racconto, 216  7. Vie nuove: la rappresentazione
realistica della vita contemporanea, 219  8. Urbanitas: lo stile medio
del realismo comico, 226

236 6. Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica


1. Gli azzardi di un approccio strutturalistico, 236  2. Un’analisi
strutturale della recensione Augustana, 241  3. Questioni di storia
della tradizione esopica, 252

257 7. La morale della favola esopica come morale


delle classi subalterne nell’antichità
1. Genere letterario e interpretazione della realtà, 257  2. Sulla via
di una cultura laica popolare, 261  3. Demistificazione: la verità sotto
le apparenze fallaci, 265  4. La legge dell’astuzia e della forza, 274 
5. Giustizia: né da Dio né dagli uomini, 282  6. L’utile ben calcolato
in un mondo senza sorriso, 288  7. Sopravvivere: preveggenza,
prudenza, operosità, 293  8. Empiricità: un pragmatismo senza
prospettive, 301  9. Il potere della Fortuna e l’immutabilità della
società umana, 303  10. La maschera comica di un pessimismo senza
amarezza, 317  11. La favola come voce delle plebi antiche, 322 
12. Il razionalismo empirico delle plebi antiche, 327 
13. Verso una cultura cosmopolitica, 329  14. Favola esopica
e socialismo scientifico, 330  Addendum bibliografico 2009, 332

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Indice 9

Appendici

p. 335 A. Marginalia Aesopica


1. Phaedriana, 335  2. In fabellas Latinas Medii quod dicitur
Aevi, 338  3. In Aesopica Graeca adnotationes tres, 344 
4. In Vitam Aesopi, 345  5. In Vitam Lollinianam, 349

352 B. Minima Aesopica


1. La favola esopica e il suo inventore, 352  2. Mao Tse-tung
come Esopo moderno, 354  3. Attualità della morale esopica, 355 
4. Marchesi ed Esopo, 356  5. Contro la rassegnazione esopica,
il socialismo, 358

359
Indice dei nomi
1. Autori e personaggi storici antichi e medievali, 361  2. Personaggi
mitologico-religiosi, letterari e di incerta storicità, 365  3. Autori
e personaggi storici moderni, 367

373
Indice delle favole

399
Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

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Congedo esopico 11

Congedo esopico
Antonio La Penna

L’idea e la realizzazione di questa raccolta dei miei scritti sulla favola


esopica è iniziativa personale, di cui sono molto grato, dei miei allievi
Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli. Di alcuni di questi scritti non
ricordavo neppure l’esistenza… In compenso già nei primi anni Cin-
quanta avevo messo in cantiere il progetto, che mi ha accompagnato
per decenni per poi restare senza seguito, di una storia complessiva
della tradizione esopica in Grecia e a Roma.
Come è stato riconosciuto anche da molti altri studiosi, i classici,
benché ormai lontane e logore radici della nostra cultura, ci forniscono
– assieme a tutte le altre fonti della storia – strumenti per affrontare le
sfide e i cambiamenti del nostro tempo. Ho speso la vita a levare la
polvere dai testi dell’antichità per renderli meglio utilizzabili oggi, nel-
la scuola, nell’università, nel circuito della cultura generale. Ho inoltre
insistito più volte, in passato, sul fatto che la storia è contatto attivo e
fecondo, lotta dell’uomo col mondo: il mondo dell’esperienza umana.
Il poeta, lo scrittore, l’intellettuale possono dare voce alla storia se
ascoltano e osservano l’esperienza umana nel corso della sua formazio-
ne – un processo che porta a fertilizzare le stesse esperienze che sono
state il punto di partenza del percorso.
Ora la favola esopica, con i suoi messaggi asciutti, in cui anche gli
dei si trovano a dover fare i conti con l’inesorabile dinamica dei pro-
cessi di causa ed effetto, azione e reazione, vita e morte, ci dice che la
cultura deve spesso, se non sempre, misurarsi con i problemi e le solu-
zioni connesse alla cosiddetta vita materiale. Ci dice che in ultima
analisi sono le questioni cruciali dell’esistenza – vincere o perdere, pen-
sare o agire al momento giusto, saper giocare di forza o di astuzia –
quelle che occupano la mente di coloro che sono obbligati a lavorare.
Come si sa, nelle società antiche questi soggetti erano prevalentemen-
te gli schiavi. Sotto questo riguardo, il titolo della raccolta è quanto

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12 Antonio La Penna

mai azzeccato, indicando con chiarezza l’orientamento e il senso ulti-


mo, anche politico-culturale, della mia ricerca, la quale, senza rinun-
ciare a riprendere su basi nuove il problema delle origini orientali
– mesopotamiche molto più che indiane, come in passato si ipo-
tizzò – della favolistica di stampo esopico, ha avuto il suo perno nella
ricostruzione del sistema di valori e della Weltanschauung, insomma
della «sapienza», degli schiavi: una sapienza che, sebbene priva – per-
fino superfluo ricordarlo – di qualunque connotato rivoluzionario, di
qualunque carica eversiva dell’assetto sociale esistente, e anzi impre-
gnata di un’amara e fatalistica rassegnazione che ha contribuito al con-
solidamento dello stato di subalternità, si impone come «illuministica-
mente» altra rispetto al modello dominante.
In effetti, come avevo evidenziato già nel 1961 nel saggio La morale
della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità, in
questo particolare genere letterario sviluppatosi dall’Oriente al mondo
romano ai margini della cultura alta delle classi superiori si sono accu-
mulate le scintille di un razionalismo empirico-materialistico in cui si
può ravvisare il germe di una ricerca positiva e di un’analisi scientifica
della realtà effettuale. Non a caso in Grecia la prima fioritura della
favola esopica cade tra il VII e il V secolo a. C. ed è quindi coeva alla
grande stagione della scienza ionica. Queste scintille, originate appun-
to dal confronto con un duro stato di necessità, hanno finito poi, nella
maggior parte dei casi, per essere soffocate e spente dall’opposizione di
sacerdoti e intellettuali organici al sistema di potere. Così, negli svi-
luppi successivi della favolistica antica – cioè nella tradizione retorica,
diatribica e scolastica e poi in continuatori senza nerbo come Babrio e
Aviano fino alle raccolte medievali derivate da Fedro e dallo stesso
Babrio –, dell’originaria lezione esopica sono stati ripresi ed elaborati
gli elementi divertenti, o moralmente istruttivi, o tragicomici, funzio-
nali all’esercizio di quell’opera di persuasione che è tipica di tutti i
progetti di egemonia culturale.
Come ho detto, nelle società antiche il lavoro era svolto in preva-
lenza da schiavi e la favola d’impronta esopica fu il luogo in cui si de-
positò la visione del mondo e della vita che essi maturarono lungo i
secoli attraverso questa esperienza. Oggi miliardi di esseri umani de-
privati di storia e identità – braccianti, impiegati, lavoratori addetti alle
macchine – sperimentano, benché in modo totalmente diverso, una
condizione non dissimile. Ma dove si nascondono i messaggi che essi

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Congedo esopico 13

trasmettono ai loro discendenti e all’umanità intera? Qualcosa soprav-


vive sempre ma, come è regola nella storia umana, non basta una vita
intera per scoprire e valorizzare queste tracce disperse. Del resto, si
tratta di un lavoro in cui si mette in gioco solo uno sparuto manipolo
di ricercatori «eretici», spesso costretti a muoversi in un ambiente dif-
ficile se non ostile.
Mi auguro che questa mia raccolta di studi possa, indicando una
direzione e un metodo di indagine, servire da punto di riferimento per
non ripartire da zero in questa impresa titanica e spesso solitaria.

Firenze, agosto 2020

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La via esopica di Antonio La Penna 15

La via esopica di Antonio La Penna


Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini1

1. In casa Einaudi: la fruttuosa gestazione di un’opera incompiuta2

Il 31 gennaio 1952 Carlo Muscetta, direttore della sede Einaudi di


Roma, scrive a Giulio Bollati, destinato di lì a breve a diventare il
braccio destro dell’editore Giulio Einaudi, per caldeggiare una pro-
posta ricevuta «dal nostro amico e compagno La Penna», un saggio
«del più alto interesse» su un «argomento antico e nuovo e sempre
affascinante»3. La lettera non fornisce altri particolari, ma il progetto
allegato soddisfa la nostra legittima curiosità:
L’ANTICA SAPIENZA DEGLI SCHIAVI (circa 200 pagine)
(Breve storia della favola greco-romana)
Parte prima
Interpretazione e storia
i.  Interpretazione della favola esopica
 Cogliere i motivi fondamentali della favola esopica. Il pessimismo nella
natura umana che la ispira. La natura umana messa a nudo come egoismo,

1
  Nell’ambito di una stretta collaborazione, si deve la prima parte a Giovanni Niccoli, la
seconda a Stefano Grazzini.
2
  Per la ricostruzione della vicenda sono stati utilizzati, senza peraltro un’esplorazione siste-
matica, i materiali documentari conservati nell’Archivio storico Einaudi (AE), in deposito
presso l’Archivio di Stato di Torino: a) i verbali dei Consigli editoriali degli anni 1943-1963,
raccolti e pubblicati in I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi, a cura di Tommaso
Munari, prefazione di Luisa Mangoni, 2 voll., Einaudi, Torino 2011 e 2013 (vol. 1, 1943-1952;
vol. 2, 1953-1963); b) la corrispondenza editoriale intercorsa tra La Penna e l’Einaudi e tra i
diversi funzionari e consulenti Einaudi implicati nella vicenda (Giulio Bollati, Cesare Cases,
Carlo Muscetta, Daniele Ponchiroli, Paolo Serini): AE, Autori italiani, cart. 109, fasc. 1645,
intestato a La Penna; ivi, cart. 141.2, fasc. 2134.5, intestato a Muscetta; ivi, cart. 195, fasc. 2795,
intestato a Serini. Ringrazio il presidente della casa editrice Einaudi, Walter Barberis, per
aver autorizzato la consultazione e l’uso della documentazione.
3
  AE, fasc. Muscetta, f. 1371.

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16 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

violenza, prepotenza, ipocrisia, ecc. Il favolista si rassegna al male. Ogni


velleità di ribellione al più forte manca.
ii. La nascita della favola
La favola nasce in quel periodo tra l’VIII e il VI secolo av. Cristo, che
prepara il razionalismo della sofistica. Il periodo in cui una nuova clas-
se politica si sostituisce al feudalesimo di tipo omerico. La favola come
razionalismo popolare. Rapporti con la favola indiana ed egiziana.
iii. Il significato della favola antica
Il notevole significato della favola come razionalismo popolare, conser-
vatosi negli strati umili, di fronte all’idealismo e alla morale eroica del-
la cultura antica greca (da Socrate in poi). La rassegnazione della favo-
la e la rassegnazione cristiana.
iv. La diffusione della favola nella cultura greca
v. La diffusione della favola nella cultura latina
vi. Fedro
vii. Babrio
viii. La favola greca dopo Babrio
ix. La favola latina dopo Fedro
x. Conclusioni. Accenni sui rapporti con la cultura medioevale

Parte seconda
Ricerche particolari
i. La Vita Aesopi
ii. Redazioni retoriche della favola esopica
iii. Tentativi di localizzare le favole
iv. Le favole politiche
v. La favola e la novellistica
vi. La favola e la diatriba filosofica
vii. La favola e la parabola cristiana
viii. Promitio ed epimitio
ix. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola greca
x. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola latina
xi. 
Specchietto raggruppante le favole secondo la loro morale (repertorio
comodo)4

4
  Ivi, ff. 1372-1373.

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La via esopica di Antonio La Penna 17

Malgrado la differenza di età, La Penna e Muscetta, di lui più an-


ziano di quasi quindici anni, erano legati da un’amicizia «nutrita e
cementata dalle comuni origini irpine» (tra l’altro erano stati entrambi
allievi del Liceo classico «Pietro Colletta» di Avellino)5 e soprattutto
dalle «comuni ascendenze desanctisiane» e dalla «condivisione, in linea
di massima, delle stesse posizioni politiche» con militanza attiva nel
Partito comunista6. Del resto, proprio grazie alla mediazione di Mu-
scetta, già nel giugno 1951 La Penna si era visto affidare, per la pubbli-
cazione nell’«Universale», la curatela di un’edizione italiana della
Guerra civile di Cesare7 che vedrà la luce nel 1954, corredata di un
lungo saggio introduttivo – «fatto con molto scrupolo ed intelligenza»
(Bollati) – che riscuoterà il plauso plenario del Consiglio, con tanto di
«rallegramenti» personali da parte dello stesso Einaudi8.

5
  Si veda il caldo ricordo di La Penna della sua esperienza giovanile al «Colletta»: «La
scuola a cui debbo il fondamento decisivo della mia istruzione è il Liceo classico
“Pietro Colletta”, in cui entrai nel 1939. […] Qui ebbi la fortuna di essere allievo di
Enrico Freda, mio professore di italiano e latino. […] Nella mia esperienza Freda si
segnalava in modo particolare, ma anche i suoi colleghi erano tutti all’altezza del loro
compito. Tra gli altri c’era sua moglie, che mi pare si chiamasse Angelina Petrone,
insegnante di filosofia, che era stata allieva di Gentile, cui era rimasta molto legata».
A. La Penna, Io e l’antico, conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Editori,
Pisa 2019, pp. 22-23 e cfr. p. 28. Su Angelina Petrone e il suo ruolo nell’orientare verso
la Normale di Pisa il giovane La Penna cfr. Stefano Grazzini, Riflessioni e ricordi a
proposito della Conversazione di Antonio La Penna con Arnaldo Marcone, «Athenaeum»,
vol. 108, 2020, n. 1, p. 242.
6
  Tra l’altro La Penna, subito dopo la liberazione, fu segretario della sezione di Bisaccia
del Pci. Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit., pp. 40 e 32; Id., Memorie e discorsi irpini di un in-
tellettuale disorganico, a cura di Nino Gallicchio e Paolo Saggese, introduzione di Salvato-
re Frullone, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, pp. 82 e 79.
7
  Consiglio editoriale del 23-24 maggio 1951: «Muscetta ha proposto di affidare, per la
pubblicazione nell’“Universale”, la Guerra civile di Cesare al prof. La Penna. Il Consiglio
è senz’altro favorevole» (I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, pp. 267-268); Ubaldo Scassellati
a La Penna, 18 giugno 1951: «Sono molto contento di comunicarti che, a seguito delle tue
conversazioni con Muscetta, la casa editrice è d’accordo di affidarti la preparazione della
Guerra civile di Cesare per la sua collana “Universale”» (AE, fasc. La Penna, f. 1; Scassel-
lati, arruolato da pochi anni nella redazione Einaudi, era stato allievo della Normale di
Pisa negli stessi anni di La Penna, Bollati e Ponchiroli).
8
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 434 (riunione del 27 agosto 1952). Il saggio, Tendenze
e arte del Bellum civile di Cesare, era già apparso in «Maia», vol. 5, 1952, pp. 191-233 e in-
tendeva proporsi come «frutto di un […] primo approccio alla parte più stimolante dei
Commentari» (A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, Einaudi, Torino 1978, p. 145,
nota 1). Sarà poi ripubblicato in Aspetti, cit., pp. 145-185.

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18 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Non stupisce quindi, con questo precedente, la particolare solle-


citudine con cui Muscetta spinge la proposta relativa a L’antica sa-
pienza degli schiavi, raccomandando a Bollati di scrivere «due righe
di incitamento a La Penna, perché lavori al volume e ci faccia legge-
re presto il suo lavoro compiuto»9. Neppure una settimana più tardi,
nel Consiglio editoriale del 6 febbraio, Paolo Serini, all’epoca consu-
lente della casa editrice, «informa […] della proposta di La Penna di
scrivere per noi una breve storia della favola greco-romana e dà let-
tura del sommario dell’opera». Con la benedizione di Bollati, che
«conosce La Penna da tempo come studioso serio e intelligente»
(i due, come si è detto, erano stati compagni alla Normale), e di Ita-
lo Calvino, che ha letto «qualche suo bell’articolo», il Consiglio, «pur
riservando una decisione al momento in cui il lavoro potrà essere
letto», si dichiara «favorevole alla proposta» e «decide di incoraggia-
re l’autore a mettersi all’opera»10.
Ha inizio così la lunga e travagliata gestazione di un progetto che, nel
mettere a tema, quale suo nucleo costitutivo, una questione squisita-
mente gramsciana come la cultura e la concezione del mondo delle clas-
si subalterne nell’antichità, non solo promette di smuovere le acque degli
studi classici italiani, ma collima con l’orientamento «militante» dell’Ei-
naudi; ma quel progetto, come vedremo, per l’accavallarsi di altri impe-
gni in parte suscitati dal maturare nello studioso di nuovi interessi e
obiettivi, non troverà una sua via verso una conclusione positiva.
Consiglio editoriale del 1° e 3 giugno 1955: Daniele Ponchiroli, per
autori e colleghi «il Redattore», anche lui normalista negli stessi anni
di Bollati e La Penna, informa che quest’ultimo «sta preparando uno

9
  AE, fasc. Muscetta, f. 1371.
10
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 350. Cfr. anche la lettera di Serini a Muscetta, in
data 11 febbraio 1952: «Per il saggio del La Penna, che a me sembra molto interessante […],
ti scriverà Bollati» (AE, fasc. Serini, f. 488). Nessuna traccia di questa lettera nel fascicolo
einaudiano intestato a Muscetta. In compenso Bollati, in data 13 febbraio, scriverà a La
Penna con cordialità affettuosa: «Caro Antonio, Muscetta ci ha mandato da Roma l’indi-
ce del tuo lavoro sui favolisti, accompagnandolo con un giudizio molto favorevole. Anche
l’accoglienza dei torinesi è stata buona, ed io ho avuto l’incarico di incoraggiarti a prose-
guire nel lavoro in modo che tu possa inviarcene presto almeno una parte in lettura. La
consuetudine vuole che non si prendano impegni editoriali se non dopo aver visto e toc-
cato il libro, ma già il progetto ha suscitato vivo interesse e credo che tu non abbia a teme-
re un rifiuto. All’incoraggiamento, per così dire, ufficiale unisco il mio privato, invitandoti
anche a far presto» (AE, fasc. La Penna, f. 6).

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La via esopica di Antonio La Penna 19

studio che avrà come titolo Sallustio e la formazione dell’ideologia augu-


stea» e che, «sebbene abbia già trattative per la pubblicazione con l’e-
ditore D’Anna, preferirebbe dare a noi il volume»11. Incaricato dal
Consiglio, Ponchiroli, in data 6 giugno, scrive a La Penna conferman-
do l’interesse della casa editrice per la proposta:

I due saggi che stai preparando (Sallustio e la formazione dell’ideologia augustea


e La favola nell’antichità) ci interessano – come già ti abbiamo detto – mol-
tissimo: Einaudi è senz’altro d’accordo nel pubblicarli entrambi nella collana
«Saggi». Dunque, appena saranno pronti, ti preghiamo di inviarceli senz’altro
e subito. Facci sapere se desideri avere i contratti, o se preferisci aspettare
ancora un po’12.

In realtà – e il dato aiuta a mettere a fuoco la funzione culturale


assegnata all’Einaudi ai progetti di un autore come La Penna – proprio
in quel periodo, lungi dall’essere una partita pacificamente chiusa, la
questione della collocazione nei «Saggi» dei due titoli, e in particolare
del Sallustio, aveva finito per impigliarsi nell’acceso dibattito sorto
all’interno della casa editrice attorno al varo della nuova collana «Studi
e ricerche»: una collana che, nelle intenzioni di Einaudi (ma non di
altri collaboratori come per esempio Delio Cantimori), avrebbe dovu-
to ospitare «alcune opere di giovani studiosi che, per il loro carattere di
ricerca specializzata», non trovavano spazio nelle collezioni esistenti,
«ormai destinate a un largo pubblico»13. Insomma, opere che, come il
saggio di La Penna su Sallustio, espressamente menzionato da Einau-
di in una lettera indirizzata a Cantimori in data 14 luglio 195514, affron-
tassero (così Bollati) «argomenti che ci sembrino rivestire maggiore
interesse per la cultura italiana di oggi», e che in questo modo permet-
tessero di evadere da un lato dalle strettoie di un’editoria di partito,

11
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 211.
12
  AE, fasc. La Penna, f. 15.
13
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 220 (Consiglio editoriale del 28 giugno 1955).
14
  Scrive Einaudi: «Si tratta di libri di giovani, che stanno molto bene insieme e che
dall’essere pubblicati a brevissima distanza di tempo l’uno dall’altro, e con la stessa presen-
tazione, acquistano un maggior risalto editoriale e un più preciso significato culturale;
mentre se uscissero disseminati, e forzatamente a intervalli piuttosto lunghi, nelle collane
esistenti, finirebbero per disperdersi nel mucchio con svantaggio di tutti». AE, fasc. Can-
timori, cit. in Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta
agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 808, nota 724.

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20 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

dall’altro dalla politica accademica dei «prodotti già scientificamente


collaudati»15; in altre parole, opere capaci, con la messa in gioco di te-
matiche culturali vive e l’apertura ad approcci metodologici aggiornati,
di rinnovare dall’interno il panorama, spesso desolante, della produzio-
ne universitaria nei vari campi delle discipline umanistiche.
Almeno stando alla documentazione consultata, per vari anni di
entrambe le proposte lapenniane si perdono le tracce: definitivamente
per il Sallustio, che uscirà da Feltrinelli, con il titolo Sallustio e la «rivo-
luzione» romana, nel 1968 (ma con prefazione datata dicembre 1966);
fino al 1960 per il progetto esopico. Basta però dare un’occhiata alla
bibliografia di La Penna del quinquennio in questione, e il lungo si-
lenzio cessa di stupire: proprio in questo arco di tempo, infatti, cade
tra l’altro l’impegnativo lavoro di preparazione dell’edizione critica,
con ampio saggio introduttivo e commento, dell’Ibis di Ovidio (1957)
e dei relativi scoli (1959). Può forse stupire invece che il progetto di una
storia della tradizione esopica, incentrata sul tema della Sapienza degli
schiavi, si presenti ora in altra veste. Bollati al Consiglio editoriale del
16 novembre 1960: «La Penna, a proposito di Esopo, darebbe: il ro-
manzo di Esopo, le favole, la favolistica da Fedro alla tarda latinità.
Tradurrebbe tutto lui. Farebbe anche uno studio che propone per
“Studi e ricerche”»16. Dunque, oltre al volume non meglio precisato,
un’edizione completa della favolistica esopica greco-latina, dagli inizi
fino alle rielaborazioni delle raccolte medievali; un’edizione, si noti,
comprensiva anche di quella Vita Aesopi che in realtà si colloca ai mar-
gini del vero e proprio genere esopico (si tratta di una tarda biografia
sapienziale fortemente romanzata, modellata in parte su un racconto
di origine assiro-babilonese noto come Storia di Ah.īqār) e su cui La
Penna pubblicherà nel 1962 su «Athenaeum» un memorabile contribu-
to, punto fermo nella storia dell’indagine critica in proposito17.
Con questo, che è ancora solo un progetto, prende l’avvio – per
dispiegarsi lungo l’intero decennio – la prima stagione concretamente

15
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, pp. 110-111 (Consiglio editoriale del 9 giugno 1954).
Sulla «accademizzazione» (e connessi rischi) della casa editrice, «la cui produzione ordi-
naria tendeva sempre più [in questo periodo] a esprimersi nelle consolidate certezze della
cultura accademica, la sola a sfuggire ai veti incrociati, prodotto di conflitti irrisolti», cfr.
Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 806-807.
16
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 433.
17
  Qui, cap. 4.

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La via esopica di Antonio La Penna 21

produttiva della ricerca esopica lapenniana. Nel 1961 appare il grande


saggio complessivo La morale della favola esopica come morale delle clas-
si subalterne nell’antichità che, pur senza «approfondire problemi stori-
ci singoli»18, costituisce con ogni evidenza il nucleo portante di quella
Sapienza degli schiavi che La Penna aveva proposto all’Einaudi nel
1952. Lo studio – e la circostanza ha un suo significato – vede la luce in
«Società»19, la rivista fondata nel 1945 da Ranuccio Bianchi Bandinelli
che, senza essere diretta emanazione del Pci e organo di diffusione dei
suoi orientamenti politico-culturali, dà spazio e voce al confronto e alle
interrogazioni della parte più viva e aperta dell’intellettualità italiana
di estrazione marxista: quella «Società» su cui, nel 1946-1947, un La
Penna poco più che ventenne aveva ripercorso – quasi in un esame di
coscienza capace di sollevarsi a biografia intellettuale di un’intera ge-
nerazione – le tappe del suo «lungo viaggio attraverso il fascismo» ver-
so la democrazia20. Poi, attorno all’asse costituito dal saggio su La mo-
rale della favola esopica, si aggrega una serie di altri contributi intesi a
far luce su aspetti diversi della «questione esopica»: la storia delle reda-
zioni e della diffusione della citata Vita Aesopi (Il romanzo di Esopo,
1962), problemi di critica testuale (Coniectanea e Marginalia Aesopica,
1962-1963)21, la questione delle origini mesopotamiche (Letteratura eso-
pica e letteratura assiro-babilonese, 1964)22, il confronto con un approccio
– quello strutturalistico – alternativo al tradizionale metodo storico-
filologico (recensione a La fable antique di Morten Nøjgaard, 1966)23 e
soprattutto il posto occupato da Fedro nella storia del genere favolisti-
co (Introduzione alle Favole, 1968)24.
Quest’ultimo lavoro, un ritratto a tutto tondo di ben 60 pagine
dell’autore della prima raccolta di favole esopiche in poesia (di qui, tra
l’altro, la sua importanza per lo studio della tradizione esopica nel suo

18
 Cfr. infra, p. 258, nota 3.
19
 Vol. 17, 1961, n. 4 (lug.-ago.), pp. 459-537 (qui, cap. 7).
20
  A. La Penna, I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, «Società», vol. 2, 1946,
nn. 7-8, pp. 678-690 e vol. 3, 1947, n. 3, pp. 380-405, ora ristampato, con scritti di Antonio
Gramsci, Concetto Marchesi, Carlo Morandi e Luigi Russo e con un’esauriente ricostru-
zione della vicenda, in Arnaldo Marcone, Dopo il fascismo. Antonio La Penna e la questione
giovanile, Della Porta Editori, Pisa 2020 (il testo di La Penna alle pp. 43-110, da cui si cita).
21
  Qui, app. A.
22
  Qui, cap. 3.
23
  Qui, cap. 6.
24
  Qui, cap. 5.

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22 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

insieme)25, era stato commissionato a La Penna in occasione di una sua


visita all’Einaudi, collocabile tra gli ultimi mesi del 1965 e l’inizio del
1966. «Io accettai volentieri – scrive La Penna a Ponchiroli in data
17 aprile 1966 –, perché dalla conversazione mi parve di capire che il
lavoro andasse fatto entro l’anno, ma non certo entro giugno», come
pretendeva ora Einaudi26. «Entro giugno, ahimè!, io non potrei asso-
lutamente: ho per le mani un libro su Sallustio27 e vari articoli, recen-
sioni, ecc. Io promisi, mi pare, per la fine di settembre e potrei man-
tenere tale impegno». Ma se la scadenza fosse stata quella voluta
dall’editore, allora al fido Ponchiroli, «mio interprete e […] nume
tutelare presso Einaudi», sarebbe toccato intervenire e scusare («so
quanto buono e benevolo intercessore tu sia»)28. Il Redattore rassicura:
«Quanto alla tua prefazione per le Favole di Fedro, l’editore ha fretta,
ma io penso che la data da te fissata (se puoi fare uno strappo e arriva-
re per settembre-ottobre tanto meglio) vada bene»29. In realtà, ci vorrà
un anno e mezzo abbondante, costellato di continue promesse di pron-
ta consegna, accompagnate da altrettanti rinvii, «dovuti alle solite noie
ed alla solita pigrizia, che cresce con gli anni»30: La Penna chiude a fine
novembre 196731; il finito di stampare del libro reca la data 18 maggio
1968. In compenso il volume esce corredato, oltre che del saggio intro-
duttivo, di un’appendice, Fedro in prosa, in cui sono presentate «a un
pubblico più largo della cerchia degli specialisti» una trentina di favo-

25
  Osservava La Penna in proposito: «In queste pagine su Fedro presuppongo quel saggio
[La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità]: senza tener
conto della tradizione esopica nel suo complesso non si può, ovviamente, interpretare
Fedro. Necessaria sarebbe una discussione sulla tradizione esopica nell’età ellenistica, cioè
sulla tradizione presupposta immediatamente da Fedro» (qui, p. 199, nota 19).
26
  Giulio Einaudi a La Penna, 31 marzo 1966: «Ponchiroli mi fa sapere che Lei sarebbe
disposto a prefare la nuova edizione delle Favole di Fedro nella versione del Richelmy,
destinata a comparire col testo a fronte nella “Nuova Universale”. […] Tenga conto che le
pagine introduttive a noi servirebbero per la fine di giugno: e veda in ogni caso di venirci
incontro» (AE, fasc. La Penna, f. 90).
27
  Come già ricordato (supra, p. 20), la prefazione è datata dicembre 1966.
28
  AE, fasc. La Penna, f. 91.
29
  Ivi, f. 92 (21 aprile 1966).
30
  La Penna a Ponchiroli, 16 maggio 1966 (ivi, f. 94). La lista dei successivi rinvii, sempre
notificati al «benevolo» Ponchiroli, è martellante: 13 gennaio, 10 marzo, 8 maggio, 25 set-
tembre 1967 (ivi, ff. 96, 102, 106, 108).
31
  Ponchiroli a La Penna, 30 novembre 1967: «Ho ricevuto oggi la tua bella prefazione a
Fedro. Te ne ringrazio» (ivi, f. 90).

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La via esopica di Antonio La Penna 23

le fedriane «conservate solo in parafrasi della tarda antichità o dell’alto


Medioevo»32. Operazione che al sicuro interesse culturale associa un
suo valore filologico, poiché il testo latino riprodotto a fronte della
traduzione, senza pretendere di essere un’edizione critica, è però il
frutto di un’accurata revisione della tradizione manoscritta, sfigurata
da errori e lacune: una revisione in cui si riconosce la mano dello stu-
dioso che nei citati Coniectanea e Marginalia Aesopica ha già dato una
serie di notevoli contributi di critica testuale esopica.
Un passo indietro, al 1962, e ritroviamo traccia non solo della
Sapienza degli schiavi – che però, come vedremo, ora ha mutato titolo
in un notarile La favola esopica greca e latina – ma di altro ancora. Nel
Consiglio editoriale del 7 marzo Cesare Cases, anche lui consulente
einaudiano, «a nome di Muscetta propone due lavori di La Penna: un
saggio su Orazio e uno su Esopo, e inoltre un’edizione di Esopo. Il
Consiglio è in linea di massima favorevole»33. Evidentemente piccato
all’idea di essere stato scavalcato nelle sue funzioni di braccio destro
dell’editore, Bollati maschera il suo dispetto nei confronti di La Penna,
giocando la carta dell’ironia: «La tua proposta ha destato qualche sor-
presa perché già nota (per avermi tu parlato direttamente di quei lavo-
ri) e, soprattutto, perché già accettata in linea di massima. Senza gira-
re nuovamente per la via Cases-Muscetta ti comunico ancora una
volta a nome di Einaudi, e col consenso caloroso di tutti i colleghi, che
tutto quello che ci manderai sarà accolto con tutti gli onori»34. Ferma,
non meno che rispettosa, la replica di La Penna in data 17 marzo:

Caro Bollati,
non è che io abbia scelto deliberatamente la via Muscetta-Cases: gli è che,
avendo negli ultimi tempi visto più volte il Muscetta (mio conterraneo ed
amico) a Firenze, gli ho chiesto consiglio e fatto delle proposte. Non dubita-
vo minimamente del tuo appoggio e ti ringrazio del consenso caloroso, che
spero di non raggelare collo scarso interesse dei miei prodotti. Poiché non so
se Cases ti abbia trasmesso i tre progetti dettagliati, te ne mando una copia.

32
  Fedro, Favole, versione di Agostino Richelmy, Einaudi, Torino 1968, p. 319.
33
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 558. Il riferimento al «saggio su Esopo» va ovviamen-
te inteso nel senso di «saggio sulla favola esopica», come risulta da un successivo interven-
to di Franco Venturi al Consiglio del 28 marzo e da una lettera di Bollati a La Penna in
data 17 aprile (cit. infra, p. 29).
34
  AE, fasc. La Penna, f. 26 (lettera del 9 marzo 1962).

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24 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

[…] Se lo credi opportuno, fa’ pure stipulare i contratti. Ritengo superfluo


discutere sulle condizioni: non mi sono mai interessato di tali problemi.
Un affettuoso ringraziamento e saluto dal tuo35

Come annunciato, alla lettera è allegata copia dei tre progetti, la cui
mancata trasmissione a lui in via prioritaria ha indispettito Bollati:

Primo progetto: Orazio e l’ideologia del principato


i. La lirica civile e l’ideologia del principato.
ii. Orazio, Augusto e la questione del teatro latino.
iii. Τίς ἄριστος βίος; Interpretazione della prima ode.
Forse un altro capitolo. Il volume, indici compresi, dovrebbe aggirarsi intor-
no alle 150-200 pagine.
Purtroppo si tratta di saggi già comparsi in riviste specializzate, che dovrei
ritoccare. Mi sono impegnato (e pare che il progetto sia in via di realizzazio-
ne) a pubblicare il volumetto in traduzione tedesca in una collana dell’Acca-
demia di Berlino est36. Il progetto è un po’ vago e non so se la traduzione (di
cui dovrebbe occuparsi coi suoi scolari un certo Piacentini, lettore d’italiano
all’Università Humboldt) sarà soddisfacente. Comunque il funzionario
dell’Accademia che mi ha chiesto la pubblicazione in tedesco, mi assicura che
non v’è nessun ostacolo ad una contemporanea edizione italiana. S’intende
che occorrerebbero trattative ufficiali. Io adotterei alternis annis il libro per i
miei studenti.

Secondo progetto: La favola esopica greca e latina


i. La morale esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità.
ii. Le origini della favola esopica.
iii. La favola esopica nella cultura ionica e attica.
iv. Il romanzo di Esopo.
v. La favola esopica fra diatriba e retorica.
vi. La favola latina prima di Fedro.
vii. Fedro.
viii. Babrio.
ix. La favola nella tarda cultura latina.
x. La favola nella tarda cultura greca.
Appendici su questioni singole e sulla favola latina medievale e umanistica.
Indici, di cui uno delle favole antiche con relative fonti e bibliografia.

35
  AE, fasc. La Penna, f. 27.
36
  In realtà, mai pubblicato.

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La via esopica di Antonio La Penna 25

Il primo capitolo (introduttivo) è uscito in «Società» 1961; il quarto dovrebbe


uscire in una rivista specializzata, il quinto in «Belfagor»37; tutto il resto sarà
inedito. Il volume dovrebbe arrivare a 600 pagine circa e forse più.

Terzo progetto
Una traduzione, con breve introduzione, del romanzo di Esopo e delle rac-
colte antiche di favole esopiche, ordinate in modo da evitare, il più possibile,
i doppioni di singole favole. Penso ad una traduzione senza testo, perché l’e-
dizione dei testi greci e latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non
è richiesta dallo stato attuale degli studi.
Accompagnata da riproduzioni di miniature, la traduzione potrebbe essere
pubblicata in edizione di lusso.
Questo progetto non attira molto me personalmente, ma per la Casa potreb-
be costituire un compenso alla pubblicazione dei due lavori scientifici.

Il primo progetto si può realizzare subito quest’anno: almeno così io spero.


Il secondo lavoro dovrebbe essere pronto tra la fine del 1963 e il principio del ’64.
Il terzo potrebbe essere pronto per la fine del 196538.

Se si prendono le mosse dalla seconda proposta, che è quella per cui


si dà un preciso termine di riferimento39, colpisce anzitutto, nel pas-
saggio dal primo al secondo indice, la dilatazione della mole prevista,
letteralmente triplicata (da «circa 200 pagine» a «600 pagine circa e
forse più») e, alla base di questo dato quantitativo, il drastico muta-
mento di tipologia editoriale, ben rilevato dal cambiamento di titolo:
da L’antica sapienza degli schiavi. Breve storia della favola greco-romana
a La favola esopica greca e latina. Come dire: un volumetto di veloce
introduzione generale e taglio saggistico-divulgativo, che si trasforma
in un ponderoso studio accademico, con tanto di «indici, di cui uno
delle favole antiche con relative fonti e bibliografia» (significativamen-
te nel primo progetto nessun riferimento a indici, ma in compenso,

37
  In realtà, mai pubblicato.
38
  AE, fasc. La Penna, ff. 28-29; ai ff. 30-31, copia dei tre progetti a suo tempo trasmessa a
Cases, sostanzialmente identica, nel contenuto, a quella inviata a Bollati. Uniche varianti:
rispetto al primo progetto, la presenza di una indicazione più precisa circa i tempi di lavo-
razione e consegna («Il libro è pronto: mi occorrono un paio di mesi per i rimaneggiamen-
ti. Conterei di stampare entro l’anno»); rispetto al secondo progetto, un’inversione nell’or-
dine di successione dei capitoli ix-x («ix. La favola nella tarda cultura greca; x. La favola
nella tarda cultura latina»).
39
 Cfr. supra, pp. 15-16.

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26 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

come capitolo xi della Parte seconda, uno «specchietto raggruppante


le favole secondo la loro morale», ben a ragione definito «repertorio
comodo»).
Quanto alla struttura dell’opera, non si colgono mutamenti sostan-
ziali di impianto: in entrambi i progetti (ma i titoli delle parti sono solo
nel primo) la sequenza dei capitoli si snoda secondo un modello orga-
nizzativo a dittico, con una prima sezione di «interpretazione e storia»
seguita da una serie di «ricerche particolari»40. Invariata resta anche, a
quanto si può giudicare dalla catena dei nudi titoli e dalle stringate indi-
cazioni di contenuto allegate nel primo progetto, sia l’interpretazione del
significato fondamentale della favola esopica «come razionalismo popo-
lare, conservatosi negli strati umili» («classi subalterne» nel secondo pro-
getto, con una presa di posizione ideologica più forte), sia la scansione
temporale e concettuale delle varie «stazioni» in cui si articola la ricostru-
zione storica. E si noti: tanto nell’indice del 1952 quanto in quello del
1962 il momento interpretativo – la ricomposizione sistematica della
Weltanschauung che emerge dalla favolistica esopica e l’enucleazione del
suo significato culturale e sociale, anche per l’oggi – precede il momento
storico, quasi a dargli una cornice di senso valoriale. Che si debba rico-
noscere in questa scelta organizzativa, un poco anomala per uno studio-
so come La Penna, sempre rigoroso nell’ancorare saldamente il giudizio
assiologico al lavoro critico di accertamento della «verità» storico-testua-
le; che si debba riconoscere in tale scelta, dicevamo, il segno di un pro-
fondo coinvolgimento personale dell’autore nell’oggetto della sua inda-
gine? Come sia, il modello non sarà replicato nella grande sintesi
Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica (1996)
con cui si chiude la ricerca di La Penna in questo campo: qui, infatti, la
sezione su La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società ri-
sulta collocata al termine del saggio, dopo il quadro storico41, e ne costi-
tuisce per così dire l’epilogo in cui l’autore deposita il succo ideologico-

40
  Il modello sarà sperimentato da La Penna anche in altri volumi, per esempio in Orazio
e l’ideologia del principato, dove il lungo saggio sulla lirica civile, cuore dell’opera, è accom-
pagnato da altri scritti e appendici su temi e questioni connesse, e in L’integrazione diffici-
le (1977), dove il Profilo di Properzio è completato da una rosa di Esplorazioni diagonali,
«brevi ricerche su problemi singoli, che nell’analisi della prima parte, condotta libro per
libro, non potevano essere messi abbastanza a fuoco» (p. vii).
41
 Cfr. infra, pp. 84-88.

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La via esopica di Antonio La Penna 27

esistenziale che a suo parere l’esperienza della tradizione esopica ha


trasmesso alla cultura europea.
Dunque, una robusta linea di continuità tra un progetto e l’altro, sia
nell’assetto organizzativo della trattazione, sia nell’interpretazione del
fenomeno «favola antica». Solo su un paio di punti specifici sembra
darsi un possibile «aggiornamento» di prospettiva e visione da parte
dello studioso, un «aggiornamento» che sarà maturato nel corso di un
decennio di silenziose ricerche preparatorie (tanto il saggio più volte
citato del 1961 su La morale della favola esopica quanto quello dell’anno
successivo su Il romanzo di Esopo presuppongono un enorme lavoro di
scavo con un sistematico esame dell’intera letteratura esopica – fonti
primarie e bibliografia critica). Primo punto: come attestato dalle ri-
cordate chiose esplicative e dal confronto con il saggio appena men-
zionato del 1961, i tre capitoli iniziali dell’indice del 1952 sono per la
massima parte conglobati nel capitolo d’apertura del nuovo progetto,
ma il titolo ora è quello del saggio del 1961, qui formulato, con varia-
zione minima, come La morale esopica come morale delle classi subalterne
nell’antichità: un titolo – quasi una dichiarazione di intenti – che, oltre
a circoscrivere con precisione il campo tematico considerato, esplicita
al futuro lettore, con sicurezza perentoria, l’orizzonte politico-cultura-
le da cui l’indagine è scaturita. Quale differenza di tono rispetto all’a-
nonima e asettica terna di titoli della proposta originale, Interpretazio-
ne della favola esopica, La nascita della favola e Il significato della favola
antica! Di segno opposto – secondo punto – i­l movimento che investe
la questione dei rapporti tra favola esopica e letteratura cristiana antica:
ben rappresentata nel progetto del 1952 con due sezioni (La rassegna-
zione della favola e la rassegnazione cristiana, pt. 1, cap. iii; La favola e
la parabola cristiana, pt. 2, cap. vii), essa, a quanto sembra, scompare
nel progetto del 1962 e non lascia tracce neppure negli scritti editi. Una
cancellazione che porta a interrogarsi, sia perché la forma «favola» ha
una notevole diffusione anche nella letteratura cristiana dei primi se-
coli e in generale il tema delle relazioni di genere con la parabola è una
presenza classica in ogni discussione di teoria letteraria, sia soprattutto
perché il motivo della rassegnazione ha un rilievo strategico nel quadro
interpretativo lapenniano della tradizione esopica e del fondo antropo-
logico che essa esprime.

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28 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Guardando ora al terzo progetto, quello che nel contratto sarà bat-
tezzato Romanzo di Esopo e favole complete, e tenendo l’occhio puntato
alla tipologia editoriale, lo si può pensare come la controparte antologi-
ca di quello saggistico appena considerato: dunque, con i problemi di
interpretazione testuale che vengono in primo piano e sopravanzano
quelli di ricostruzione storica. Aveva riferito Bollati al Consiglio del
16 novembre 1960: «La Penna, a proposito di Esopo, darebbe: il roman-
zo di Esopo, le favole, la favolistica da Fedro alla tarda latinità. Tradur-
rebbe tutto lui»42. Avverte ora cauto La Penna che, come abbiamo visto,43
proprio in questo torno di anni si occupa di critica testuale esopica e ben
conosce lo stato disperante di almeno parte della tradizione manoscritta:
«Penso ad una traduzione senza testo, perché l’edizione dei testi greci e
latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non è richiesta dallo
stato attuale degli studi». Siamo nel 1962: a questa altezza, oltre che a
edizioni di singoli autori, spesso invecchiate e condotte senza sufficien-
ti preoccupazioni critiche44, La Penna poteva fare riferimento solo agli
Aesopica (1952) di Ben Edwin Perry, che presentano, insieme alla Vita
Aesopi e ad altro materiale documentario, l’intero corpus delle favole
esopiche greche e latine di tradizione antica, tardo-antica, bizantina e
medievale: «opus – sentenzia La Penna – magnae molis non sine auda-
cia inceptum, magna cum constantia et φιλοπονίᾳ perfectum», ma – in
cauda venenum – «il Perry non si è mai distinto per rigore» e «raro
Perryum in corrigendo felicem expertus sum»45. Dunque, stando così le
cose, inevitabile ripiegare su un’edizione divulgativa, con «breve intro-
duzione» e un ordinamento delle favole che permetta di «evitare, il più
possibile, i doppioni»; anzi, «un’edizione di lusso accompagnata da ri-
produzioni di miniature» (un «Millenni»?) che – soggiunge La Penna,
con curiosa sollecitudine per le sorti einaudiane –, pur non attirando

42
 Cfr. supra, p. 20.
43
 Cfr. supra, pp. 21, 23.
44
  Carenti soprattutto l’ed. Westermann della Vita Aesopi (1845), definita dallo stesso La
Penna «non egregia» (qui, p. 96 e cfr. p. 132) e l’ed. Hervieux dei favolisti medievali in
latino (18942), sui cui limiti cfr. infra, p. 338. In ogni caso invecchiata e bisognosa di re-
visione quella di Babrio curata da Crusius (1897); sarà proprio La Penna, in collabora-
zione con Maria Jagoda Luzzatto, a curare nel 1986 la nuova edizione teubneriana dei
Mythiambi.
45
 Cfr. infra, pp. 191 e 340.

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La via esopica di Antonio La Penna 29

molto lui personalmente, possa «costituire per la Casa un compenso alla


pubblicazione dei due lavori scientifici».
Possiamo chiudere qui la diversione e tornare alla cronaca. Nuova-
mente discussi nel successivo Consiglio editoriale del 28 marzo 1962 (il
referente è Franco Venturi, altro consulente einaudiano), i tre proget-
ti lapenniani questa volta sono approvati senza riserve: «Il Consi-
glio è decisamente favorevole a tutte e tre le proposte»46. Così in data
17 aprile un Bollati ora conciliante e perfino affettuoso può annunciare
a La Penna il positivo esito della vicenda:

Caro La Penna,
accettiamo con piacere i tre progetti per i quali ti proponiamo le seguenti
condizioni:
a) Orazio e l’ideologia del principato: anticipo di lire 200 000 a valere su una
percentuale dell’8%;
b) La favola esopica greca e latina: ut supra;
c) Romanzo di Esopo e favole complete: lire 1000 a cartella dattiloscritta di testo
più 400 000 lire per introduzione, eventuali note, indici, eccetera.
Dimmi se sei d’accordo, ed io ti farò mandare i contratti per la firma. […]
Sono molto lieto che si sia finalmente arrivati con te alla fase degli accordi
concreti. Fare gli editori delle opere degli amici è la cosa più piacevole del
nostro lavoro.
Cordialmente47

L’arrivo dei contratti mette però La Penna in allarme: le date di


consegna a suo tempo concordate risultano pericolosamente anticipa-
te e le nuove scadenze «fanno un po’ paura»: «Per Orazio – spiega La
Penna a Bollati – potrò essere pronto entro questa estate; ma per il
volume sulla favola esopica io avevo indicato la fine del 1963 (nel con-
tratto, invece, 30 giugno 1963), per la traduzione degli Aesopica la fine
del 1965 (invece nel contratto 30 giugno 1964!)». E anche sulla corre-
zione delle bozze non c’è da stare tranquilli: «Ritengo che per libri di
questo genere sia indispensabile affidare all’autore la revisione anche
delle seconde bozze»48. Colpi di mano che non stupiscono nessuno che

46
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 570.
47
  AE, fasc. La Penna, f. 32.
48
  La Penna a Bollati, 29 maggio 1962, ivi, f. 36.

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30 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

abbia una conoscenza, anche solo rapsodica, della pratica di lavoro,


ondivaga e talora «vessatoria», degli editori, sempre alle prese con i
vincoli della programmazione produttiva e commerciale, quando non
con il capestro dei loro capricci. In ogni modo, con un suo pronto in-
tervento Bollati rassicura La Penna su entrambi i fronti49 e la macchi-
na potrebbe rimettersi in moto senza sussulti e raggiungere spedita-
mente la meta prestabilita con la pubblicazione – finalmente, dopo un
tiremmolla decennale! – almeno dell’ormai mitica Sapienza degli schia-
vi o Favola esopica greca e latina, che dir si voglia. Ma così non è.
In realtà l’ansia di La Penna non era immotivata: ma forse, più che
nelle condizioni contrattuali imposte dall’editore o nei gravosi obblighi
connessi all’esercizio del mestiere universitario, la causa si annidava in
una tendenza dell’autore alla moltiplicazione e disseminazione centri-
fuga dei suoi progetti di ricerca, sempre più orientati all’esplorazione
delle aree culturali addentellate al tumultuoso processo di transizione
dall’ormai deflagrato assetto repubblicano al nuovo regime augusteo.
Questa, almeno, è la «diagnosi» che sembra suggerire una semplice
scorsa alla bibliografia dei principali lavori messi in cantiere e pubbli-
cati da La Penna nel corso degli anni Sessanta: quel che si evidenzia,
infatti, è un restringimento della ricerca esopica (ai titoli già indicati
sono da aggiungere solo la recensione a Nøjgaard e l’Introduzione a
Fedro) direttamente proporzionale alla dilatazione degli studi, da un
lato su Sallustio e in generale sulla storiografia dell’età repubblicana
(Storiografia di senatori e storiografia di letterati, 1967), dall’altro sulla
prima stagione poetica augustea, con in testa i fondamentali saggi
Orazio e l’ideologia del principato (1963), Virgilio e la crisi del mondo an-
tico (1966) e Orazio e la morale mondana europea (1968)50.
I rapporti di collaborazione di La Penna con l’Einaudi si mantengono
vivi e produttivi ancora fino ai primi anni Novanta, con libri e contributi
di peso: il saggio Properzio ovvero l’integrazione difficile premesso alle
Elegie tradotte da Gabriella Leto (1970), quindi rifuso nel volume L’inte-
grazione difficile. Un profilo di Properzio (1977); i due contributi alla

49
  Bollati a La Penna, 12 giugno 1962, ivi, f. 37.
50
  Per un elenco completo e relativi dati bibliografici si rimanda alla Bibliografia degli
scritti di Antonio La Penna 1943-1994, in A. La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi,
note, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci e Alessandro Perutelli, Sansoni, Milano
1995, pp. 350 ss.

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La via esopica di Antonio La Penna 31

Storia d’Italia (1973) su La tradizione classica nella cultura italiana e Univer-


sità e istruzione pubblica; le due raccolte Aspetti del pensiero storico latino
(1978) e Fra teatro, poesia e politica romana (1979); i tre contributi alla Storia
di Roma su La cultura letteraria (1989), La cultura letteraria nel secolo degli
Antonini (1992) e Il «lusus» poetico nella tarda antichità (1993)51. Ma, almeno
a giudicare dalla documentazione conservata nell’Archivio Einaudi, i pro-
getti esopici escono dall’orizzonte degli impegni operativi, della casa edi-
trice non meno che dell’autore. Le ultime battute, e sono fuochi fatui che
si accendono lungo l’accidentato percorso di preparazione del saggio in-
troduttivo alle Favole di Fedro, cadono nel 1967, destinatario Ponchiroli:

Fedro. Sono in ritardo […]. Ma conto di darvi l’introduzione in febbraio:


adatterò, eliminando le note e operando qualche taglio, il capitolo su Fedro
che penso di scrivere per il libro sulla favola esopica.
Libro sulla favola esopica. Finito il libro su Sallustio, lavorerò innanzi tutto alla
favola esopica: è il primo progetto che intendo realizzare. In seguito vi preparerò
la traduzione degli Aesopica, che potrà essere un’opera piacevole. [13 gennaio]
Per l’introduzione [a Fedro] userò, come ti scrissi, il capitolo su Fedro del
mio libro sulla favolistica esopica […]. Purtroppo il capitolo è ancora da
scrivere, benché ci stia lavorando da qualche tempo. Quanto al resto, sarà
meglio tener fermo agl’impegni già presi con chiarezza: libro sulla favola
esopica, traduzione degli Aesopica […] [10 marzo]
Ora lavoro innanzi tutto al volume sulla favola esopica: spero di essere pron-
to entro l’anno prossimo. [8 maggio]
In questi giorni a La Spezia ho finito di stendere il capitolo su Fedro che fa
parte dell’opera sulla favola esopica. Il capitolo, adattato, potrebbe servire
come introduzione al lavoro poetico del Richelmy. Si capisce che fra ripuli-
tura, battitura a macchina e adattamento ci vogliono ancora delle settimane.
L’ampiezza è di una cinquantina di cartelle. […] Ora lavoro parecchio alla
favola esopica. [25 settembre]
Io ora sto lavorando per voi sulle favole esopiche. [2 gennaio 1968]52

51
  E inoltre diversi altri progetti, rimasti anche loro sulla carta: un volume di Considerazio-
ni attuali su filologia e storia, forse da identificare con altri due progetti intitolati rispettiva-
mente Considerazioni sulla storia della cultura e Considerazioni sulla storia della cultura clas-
sica e della scuola seguite da due discorsi sull’umanesimo; edizioni delle poesie di Carducci e
delle opere di Cicerone, Cesare e Tacito. Cfr. AE, Inventario, a cura di Sara Anselmo
e altri, 2005, vol. 2, p. 385, ad vocem La Penna.
52
  AE, fasc. La Penna, ff. 96-97, 102, 106, 108, 116.

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32 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Si legge nel testo a stampa dell’introduzione a Fedro che, come


abbiamo ricordato, vede la luce il 18 maggio 1968 ma è stata consegna-
ta all’editore a fine novembre dell’anno precedente53: «Per questo pro-
blema [la tradizione esopica nell’età ellenistica], complicato e di solu-
zione incerta, rimando ad un libro sulla favola greca e latina che sto
preparando per l’editore Einaudi»54. Dopo quest’ultimo fugace cenno,
silenzio tombale tanto sulla Sapienza degli schiavi, di cui dunque pos-
siamo leggere oggi solo il torso del capitolo su Fedro, quanto sul
Romanzo di Esopo e favole complete, che nessuna traccia tangibile ha
lasciato di sé. Nell’immediato, a scompigliare i piani (e le promesse)
dello studioso è la proposta einaudiana, comunicata dal solito Ponchi-
roli in data 17 maggio 1968, di scrivere la citata prefazione alle Elegie di
Properzio55. Ma, più in generale, si può immaginare che lo spostamen-
to degli interessi di La Penna, a partire dagli anni Settanta sempre più
marcato, verso l’esplorazione del problema dei rapporti tra cultura,
modelli etici e prassi politico-sociale in Roma tra II-I secolo a. C. e
I-II d. C., abbia finito per scalzare ed emarginare i vecchi progetti.
Con le parole stesse dell’autore, dettate per la prefazione alla raccolta
Aspetti del pensiero storico latino e riassuntive degli scopi critici di un’in-
tera stagione di indagini: «La ricerca dei modi in cui la classe domi-
nante romana, o questo o quel gruppo politico di essa, elabora la sua
egemonia culturale, è tema dominante di questi scritti»56.
A parte un occasionale ritorno con la pubblicazione nel 1977 delle
brevi voci Esopo e Favola nell’Enciclopedia europea Garzanti57, per
avere una concreta ripresa da parte di La Penna della tematica eso-
pica58 occorrerà attendere la prima metà degli anni Novanta, quando
vedranno la luce, oltre al contributo Un’altra favola esopica di origine
babilonese (1991)59, due saggi di sintesi che ci danno almeno un’idea

53
 Cfr. supra, p. 22.
54
  Fedro, Favole, cit., p. xxvi, nota 1. Il riferimento è stato tagliato nella versione del testo
qui ristampata (cfr. infra, p. 199, nota 19).
55
  AE, fasc. La Penna, f. 129.
56
  La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi.
57
  Qui, pp. 352-354.
58
  Ripresa saggistica, naturalmente: nel 1986, infatti, aveva visto la luce l’importante e già
ricordata edizione teubneriana di Babrio, realizzata in collaborazione con Maria Jagoda
Luzzatto e corredata di amplissimi prolegomeni. Cfr. supra, p. 28, nota 44.
59
  Qui aggregato al vecchio articolo Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (1964),
cfr. infra, pp. 128-131.

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La via esopica di Antonio La Penna 33

del profilo che avrebbe potuto assumere la promessa storia della


Sapienza degli schiavi: Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia
verso occidente (1994), relazione tenuta nel 1992 al Congresso interna-
zionale AICC di St. Vincent, e Origine, sviluppo e funzione della fa-
vola esopica nella cultura antica (1996), ampia introduzione all’edizio-
ne mondadoriana delle Favole di Esopo, curata da Cecilia Benedetti
(1996). Si legge in apertura a Vie: «Per questo mio intervento ho
utilizzato studi già da me pubblicati, ma anche i risultati di ricerche
successive condotte in vista di un progetto, non ancora realizzato, di
una storia della favola esopica nell’antichità greca e latina»60. È l’ul-
timo accenno rintracciato all’antico progetto: vorrebbe essere, con
quel «non ancora», di fiducioso rinvio a tempi migliori, ma è l’an-
nuncio dell’abbandono definitivo.

2. La «morale della favola esopica», tra Gramsci e Marchesi

Quando, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, La


Penna avvia il suo programma di ricerche sulla tradizione della favo-
la esopica, ha sì e no venticinque anni ma è già uno «studioso matu-
ro da ogni punto di vista»61, che può mettere in campo un formi-
dabile bagaglio di strumenti tecnici acquisiti nel corso del suo ap-
prendistato storico-filologico, anzitutto con Giorgio Pasquali alla
Normale di Pisa e poi a Parigi, all’École pratique des hautes études,
con Alfred Ernout, Alphonse Dain e Pierre Courcelle. La spinta
decisiva a orientare l’indagine nella direzione prescelta non sembra
però, almeno in via prioritaria, di tipo accademico-culturale ma po-
litico-ideologico: essa proviene infatti da quello che potremmo chia-
mare il «meridionalismo irpino» di La Penna, radice prima, e vitale,
della sua interpretazione del mondo esopico e del particolare genere
letterario che lo rispecchia.
Nato in una piccola comunità rurale in Alta Irpinia, un grappolo
«di povere case, prive di servizi igienici e di qualsiasi forma di comfort»
dove, se «quasi nessuno pativa la fame», «si viveva a contatto stretto

  Qui, p. 90.
60

  Così, pochi anni più tardi, lo definirà Delio Cantimori in una lettera a Giulio Einaudi
61

del 17 luglio 1955. Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 808.

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34 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

con gli animali», e cresciuto in una famiglia di agricoltori proprietari


della terra che lavoravano – madre analfabeta e padre che, pur lettore
appassionato dei classici europei, non aveva neppure terminato le ele-
mentari –, il giovane La Penna si trova a confrontarsi con la realtà di
«condizioni di vita […] del tutto inimmaginabili ai nostri giorni»62. È
un’esperienza cruciale che segna i suoi anni di formazione e dà fonda-
mento e slancio a un suo «mito», tutto laico, di redenzione terrena:
restituzione alle masse dei diseredati e dei vinti della dignità di sogget-
ti storici titolari di diritti e artefici del proprio destino; rifiuto delle vie
religiose di salvezza oltremondana, in nome di una ragione critica ben
radicata nel terreno della realtà effettuale. Sono, come vedremo, i due
pilastri portanti che sorreggono l’edificio dell’interpretazione lapen-
niana della favola esopica e della sua morale. Il precoce incontro con il
marxismo63 e la conseguente adesione al Pci, già nella prima metà degli
anni Quaranta, forniranno la struttura teorica e organizzativa per tra-
sformare un insieme di generiche aspirazioni di giustizia sociale in un
concreto programma di lotta politica. Ricorda La Penna: «Io aderii
appena potei al Partito comunista, perché mi sembrava indispensabile
trovare un punto di riferimento solido per svolgere un’azione signifi-
cativa sul piano politico e, soprattutto, sociale. Ho sempre avvertito
l’urgenza di misure radicali a sostegno della condizione dei lavoratori,
in particolare di quella dei contadini, che conoscevo per esperienza
diretta»64.
L’osservazione finale ha un rilievo strategico nel quadro del nostro
discorso: una volta di più, infatti, i momenti della riflessione politico-
ideologica e dell’attivo impegno sociale risultano connessi al fondo
originario di esperienza autobiografica che ha alimentato il «mito»
identitario e vocazionale di cui s’è detto, secondo un movimento cir-
colare che include anche, come terzo momento, il lavoro critico di
interpretazione delle produzioni letterarie. La Penna dimostra sempre
una eccezionale e quasi istintiva capacità di introspezione, impastata
insieme di empatia e distacco, nelle rappresentazioni del mondo con-

62
 Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit. pp. 19-20 e 83.
63
  Un incontro, però, intriso fin dall’inizio di diffidenza per il marxismo come ideologia e
filosofia della storia, cfr. ivi, p. 34.
64
  Ivi, pp. 23-24 e cfr. pp. 25, 32-34.

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La via esopica di Antonio La Penna 35

tadino antico che si trovano in alcuni testimoni privilegiati, da Esiodo


ai favolisti esopici fino all’anonimo autore del Romanzo di Esopo:

Senza dubbio nella letteratura greca il mondo più vicino a quello esopico
resta quello contadinesco di Esiodo, con la sua preoccupazione del guadagno,
la sua aridità, la sua angustia: solo che al mondo esopico è estranea la vera e
propria problematica della Dike, la sussunzione e la disciplina dell’utile sotto
il segno della Giustizia divina, che fa di Esiodo la base del pensiero greco. La
gioia della bellezza o l’aspirazione alla bellezza sono estinte sul nascere dal
senso dell’utile65.
L’uomo di campagna, come già sappiamo da Esiodo, è tutto chiuso nella sua
economia domestica, tutto preso dalla preoccupazione di crearsi un minimo di
stabilità economica, di alzare un muro contro la miseria sempre incombente.
Su questo terreno non poteva nascere una solidarietà fra gli oppressi: questo
sentimento manca del tutto nella Vita [Aesopi] e quasi del tutto nelle favole:
esso meglio poteva nascere e fiorire, anche se con ben poche conseguenze pra-
tiche per l’ordinamento sociale, nel terreno religioso66.

Quando poi si sale di scala e si guarda all’interpretazione lapennia-


na della favola esopica come fenomeno storico-culturale complessivo,
vi si riconosce, operante sottotraccia, una dialettica tra un momento
analitico-descrittivo e uno ideologico-valutativo, a loro volta correlati
alle due componenti fondamentali della formazione umana e intellet-
tuale dello studioso, la matrice biografica irpina, che per prima ha
acuito il suo sguardo empatico sulla miseria delle plebi della sua terra,
e la «conversione» al marxismo, con l’esigenza di una militanza attiva
in vista della costruzione di una società più giusta e più libera. Sul
primo fronte, semplificando a buon mercato, le spinte in gioco all’in-
terno della Weltanschauung esopica sono, nella prospettiva di La Pen-
na: da un lato, un sia pure elementare razionalismo empirico-materia-
listico che rende possibile un’analisi demistificante dei rapporti sociali,
e la rinuncia alle illusioni salvifiche e provvidenzialistiche di tipo reli-
gioso; dall’altro, uno scetticismo rassegnato che sbarra la strada a qua-
lunque speranza di mutamento delle strutture della società e delle con-
dizioni di vita delle classi subalterne. Dal secondo fronte, quello

  La morale della favola esopica, qui, p. 291.


65

  Il romanzo di Esopo, qui, p. 175.


66

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ideologico-valutativo, proviene però la controspinta che permette di


ridurre il fossato, in apparenza incolmabile, tra le due opposte istanze
del razionalismo e della rassegnazione, ed è la forza del socialismo
scientifico che, grazie a un’indagine appunto scientifica delle leggi del-
la storia e della società, offre lo strumento con cui scardinare l’assetto
sociale esistente e riportare le masse al centro della scena.
Ancora in anni recenti, quando ha dismesso ormai da tempo i pan-
ni del militante per rifugiarsi in quelli dell’«intellettuale disorganico»,
e la ferocia neocapitalista, allargando la forbice delle disuguaglianze,
ha accresciuto il suo pessimismo, La Penna è però restato fedele alle
ragioni del suo «mito» originario e con esse alla sua interpretazione
della favola esopica che in quel «mito» aveva avuto il suo nucleo gene-
ratore. Si legge in un’appendice alla ristampa 2009 dello studio Le vie
della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente (1994) che, insieme
a Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica,
posteriore di due anni, conclude la parabola della sua ricerca in questo
ambito:

Quasi mezzo secolo fa, nel saggio La morale della favola esopica come morale
delle classi subalterne nell’antichità [1961], interpretai la favola esopica antica,
greca e latina, come un’analisi della società e delle forze che la dominano:
violenza, astuzia, frode, accortezza e prudenza del più debole per difendersi
dalla violenza e dall’astuzia e sopravvivere. Il debole, cioè il povero, per lo più
viene sconfitto, oppresso o schiacciato; può riuscire, tuttavia, a sottrarsi alla
violenza e all’inganno: ciò che è impossibile è mutare le regole in cui sono
costretti i rapporti sociali, regole che sono come leggi di natura; quindi l’anali-
si razionale dei rapporti sociali portava a una lucida rassegnazione. La filosofia
della favola esopica antica era un materialismo rudimentale, che riteneva im-
mutabile l’ingiustizia della società. Auspicavo, allora, che il socialismo non uto-
pistico moderno, riprendendo e approfondendo quella concezione materiali-
stica, superasse la rassegnazione e liberasse i ceti subalterni dall’ingiustizia,
dall’oppressione, dalla mistificazione. La storia, per ragioni sulle quali qui non
mi propongo di indagare, ha bloccato e cerca di strozzare quella speranza, che,
tuttavia, non è ancora distrutta; ma la mia interpretazione della favola esopica
antica non ha subito cambiamenti rilevanti e resta sostanzialmente immutata67.

67
  Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358. Cfr. anche La morale della favola
esopica, § 14, Favola esopica e socialismo scientifico (qui, pp. 330-332); Attualità della morale
esopica, qui, pp. 355-356.

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La via esopica di Antonio La Penna 37

Qui il cerchio si chiude: grazie alla convergenza tra l’esperienza


personale dello studioso, le sue opzioni metodologiche e le sue convin-
zioni politico-ideologiche, l’analisi storico-critica delle produzioni let-
terarie, nel nostro caso esopiche, può riportare in vita le voci del pas-
sato perché svelino la verità su di esso e insieme parlino al nostro
presente.

Come si è detto, alcuni degli studi qui riprodotti hanno la loro


gestazione negli anni Cinquanta ed escono all’inizio dei Sessanta: è
dunque almeno un decennio che La Penna studia la favola esopica e la
sintesi a cui arriva in La morale della favola esopica come morale delle
classi subalterne nell’antichità, che è il primo dei suoi saggi esopici e
l’ultimo di questo volume, rimarrà sempre un punto di riferimento
nella sua ricerca in questo campo. Nonostante non sia finora mai stato
ristampato, si tratta di uno degli scritti più fortunati di La Penna, dal
momento che la sua interpretazione del genere è ancora oggi conside-
rata generalmente valida, almeno in Italia, e fornisce le coordinate
fondamentali per la storia e l’evoluzione di uno dei rarissimi esempi di
«letteratura popolare» che l’antichità ci ha trasmesso68.
Osservando la produzione di La Penna dal precocissimo esordio
fino all’inizio degli anni Sessanta si può notare da un lato l’attenzione
ai grandi autori (Properzio, Cesare, Orazio, Catullo, Sallustio), dall’al-
tro il lungo tirocinio filologico di impronta pasqualiana che, come si è
visto, lo portò all’edizione critica dell’Ibis (1957) e dei relativi scoli
(1959). In questo stesso periodo, tuttavia, il giovane studioso dedicò
una parte delle sue letture e delle sue meditazioni alla favola esopica,
che gli offriva un campo privilegiato per l’analisi dello sguardo sul
mondo di classi sociali che non trovano facilmente gli strumenti per
far sentire la loro voce. Le ragioni di questo interesse sono spiegate da
La Penna stesso nel profilo autobiografico scritto in terza persona in
occasione del conferimento del Premio Feltrinelli nel 198769:

Dal marxismo è venuto anche lo stimolo alla reinterpretazione della favola


esopica, vista specialmente come espressione di un rudimentale materialismo
delle classi subalterne, materialismo non rivoluzionario, accompagnato anzi

  Su questo cfr. infra, pp. 41-42.


68

  Lo si può ora leggere in La Penna, Io e l’antico, cit., pp. 90-91.


69

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da sostanziale rassegnazione alla violenza della società. Lo studio della favo-


la esopica ha portato il critico, senza nessuna influenza da parte della storio-
grafia francese contemporanea, a valorizzare tradizioni di mentalità collettiva
e di forme letterarie che si stendono per oltre un millennio.

Può sembrare stonata, o eccessivamente ruvida, l’affermazione sul-


la storiografia francese contemporanea – che dovrebbe essere ovvia-
mente quella delle «Annales» –, ma io credo che si tratti soprattutto
della rivendicazione di un percorso autonomo sviluppatosi nel solco
del pensiero marxista e approdato alla definizione di una «filosofia
popolare» che ha prodotto forme letterarie di lunga durata. Ma partia-
mo dal principio.
Come è consueto nel La Penna, il saggio chiarisce subito il proprio
intento dimostrativo. Molti dei suoi scritti più impegnati esplicitano
nel titolo il loro obiettivo attraverso l’accostamento al nome di un au-
tore di una parola chiave, talvolta connotata, che condensa il tema
della trattazione; in questo caso La Penna dichiara non solo la sua tesi
fondamentale, ma anche le istanze primarie che lo hanno mosso e i
presupposti da cui è partito: non è difficile riconoscere infatti l’allusio-
ne a una figura centrale nel suo percorso intellettuale come Antonio
Gramsci70 e, in misura minore e in modo diverso, a Concetto Marche-

70
  Il pensiero di Gramsci, come è ben noto, ha rappresentato per La Penna un interesse e
un punto di riferimento costanti a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta; ancor
prima dell’uscita dell’edizione Einaudi delle Opere, a cura di Felice Platone e Palmiro
Togliatti (Lettere dal carcere, 1947; Quaderni del carcere, 6 voll., 1948-1951), già nel saggio
I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo (1946-1947, cit. supra, p. 21, nota 20),
La Penna mostra di conoscere il contenuto di alcune analisi gramsciane (si veda in partico-
lare a pp. 98 ss.) su Croce e la cultura borghese italiana: «La lettura e la meditazione di Marx
doveva portare il chiarimento definitivo anche su quella crisi della cultura che noi avvertiva-
mo da lungo tempo e di cui tanto si è discusso recentemente. Gramsci ha messo a fuoco la
cultura crociana come la cultura della borghesia italiana, cultura con prodigiose facoltà di
assimilare e digerire e accomodare nei suoi schemi e smussare tutte le correnti culturali
dell’Ottocento e talvolta del Novecento: la cultura della vecchia borghesia italiana pacifica e
ben educata». Altri cenni nettamente gramsciani sono alle pp. 100-101, ma da p. 107 si capisce
che la conoscenza è ancora solo indiretta (cfr. anche quanto osserva Marcone, Dopo il fasci-
smo, cit., p. 31 e nota 48). Qualcosa tuttavia già allora si sapeva: come ricorda Valentino
Gerratana nella Prefazione all’edizione critica Einaudi dei Quaderni (1975, vol. 1, p. xxxii,
note 1 e 3), una prima descrizione sommaria dei materiali era apparsa in un articolo (non
firmato, ma scritto probabilmente da Togliatti) uscito su «l’Unità» nel 1944, mentre la pri-
ma descrizione analitica si trova nell’intervento di Felice Platone, L’eredità letteraria di
Gramsci. Relazione sui Quaderni del carcere, «Rinascita», a. 2, 1946, n. 4 (a p. 21), pp. 81-90.

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La via esopica di Antonio La Penna 39

si, studioso da lui ammirato, di cui sembra evocare qui il saggio La


morale della favola71, anche se, come vedremo, si tratta di una sugge-
stione esteriore, il punto di partenza di un tragitto destinato ad appro-
dare a nuovi lidi72.
La morale della favola esopica è infatti un saggio fondamentalmente
e dichiaratamente gramsciano giacché con «classi subalterne» – è qua-
si superfluo notarlo – La Penna non indica un vago perimetro sociale,
ma allude a una categoria fondamentale a cui l’autore dei Quaderni del
carcere fa ricorso più volte, intitolando addirittura il 25° Ai margini del-
la storia (Storia dei gruppi sociali subalterni). Nel saggio La Penna fa
riferimento diretto a Gramsci una sola volta, anche se per un concetto
centrale come quello di «letteratura popolare»73, ma il suo titolo ha il
valore di un’insegna, un vero e proprio squillo di tromba per il lettore
di «Società» di quegli anni74.

Inoltre, è più che possibile una diffusione dei contenuti, se non la circolazione degli scritti
prima della loro pubblicazione, all’interno del gruppo dirigente del Pci, di cui faceva parte
Muscetta, legato a La Penna, come abbiamo visto, da uno stretto vincolo di amicizia.
Sull’importanza della lettura di Gramsci si veda anche quanto La Penna scrive nella Prefa-
zione ad Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi e in Luigi Capogrossi, Andrea Giardina e
Aldo Schiavone (a cura di), Analisi marxista e società antiche, Editori Riuniti – Istituto
Gramsci, Roma 1978, p. 195. Ancora di recente, a più di settant’anni di distanza dal suo primo
contatto con il pensatore sardo, a proposito della validità teoretica del marxismo, La Penna
osserva: «È immaginabile che ci possa essere, anche abbastanza presto, una rivalutazione
delle componenti meno caduche della teoria marxiana della storia. Sotto questo aspetto
credo che una rilettura del pensiero di Gramsci possa essere importante. L’attualità della
lezione di Gramsci mi sembra innegabile» (Io e l’antico, cit., p. 35).
71
  C. Marchesi, La morale della favola, in Id., Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946,
pp. 225-234; il pezzo era uscito in «Mercurio», vol. 2, 1945, nn. 7-8, pp. 91-97 e ancora prima
in «Settegiorni», 9 maggio 1942.
72
  Sullo scritto si veda il giudizio di La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come
scoperta dell’uomo, con un saggio su Tommaso Fiore, La Nuova Italia, Firenze 1980,
pp. 47-48 (qui, pp. 356-358).
73
 Cfr. infra, pp. 41-42.
74
  All’uso dell’aggettivo subalterno e alle diverse sfumature di significato che le espressioni
classi e ceti subalterni assumono negli scritti di Gramsci ha dedicato attenzione Guido
Liguori, Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, «Critica marxista», n. 6, 2011, pp. 33-41;
«Classi subalterne» marginali e «classi subalterne» fondamentali in Gramsci, «Critica marxi-
sta», n. 4, 2015, pp. 41-48; Subalterno e subalterni nei «Quaderni del carcere», «International
Gramsci Journal», vol. 2, 2016, n. 1, pp. 89-125 (http://ro.uow.edu.au/gramsci/vol2/iss1/24):
agli studi di Liguori rimando anche per l’immensa bibliografia sul tema; cfr. inoltre
Gianni Francioni e Fabio Frosini, Quaderno 25 (1934- 1935). Nota introduttiva, in Qua-
derni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. F., Istituto dell’Enciclope-
dia Italiana, Roma – L’Unione Sarda, Cagliari 2009, vol. 18, pp. 203-211.

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40 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Ben al di là, ovviamente, del titolo, il saggio è gramsciano perché


cerca di ricostruire, in un corpus di testi di origine sicuramente po-
polare e nei quali la figura dell’autore è del tutto evanescente, un
pensiero, una morale (intesa come disciplina e pratica di vita), che sia
espressione del mondo che lo ha prodotto. Così facendo La Penna
rispondeva a quella che Gramsci, nelle Osservazioni sul folclore, avver-
tiva come un’urgenza metodologica75; movendo infatti da una recen-
sione di Raffaele Ciampini ai Problemi fondamentali del folklore di Gio-
vanni Crocioni (Bologna 1928), osservava:

Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come
elemento pittoresco […]. Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione
del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati
(determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione
(anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del
mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storica-
mente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo
stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico).
Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popo-
lo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di socie-
tà finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, siste-
matiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur
contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso,
e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno
grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di
frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedu-
te nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trova-
no i superstiti documenti mutili e contaminati76.

75
  Su questo tema, come su tutto ciò che riguarda Gramsci, la bibliografia è nutritissima;
si veda comunque Giovanni Battista Bronzini, Come nacquero le Osservazioni sul fol-
clore di Gramsci, «Lares», vol. 68, 2002, pp. 195-224; Silvia Pieroni, Antonio Gramsci e il
folclore. I contributi gramsciani allo sviluppo dell’antropologia italiana attraverso «Lettere» e
«Quaderni», «Antrocom», vol. 1, 2005, n. 2, pp. 185-190; Neil Novello, Il sentimento del
folclore. La cultura subalterna nei «Quaderni del carcere», «Rivista di studi italiani», vol. 34,
2016, pp. 133-143.
76
  Quaderno 27 (xi), § (1), pp. 2311-2312 (ed. Gerratana, da cui si cita); una prima e ridotta
versione risale alla fine degli anni Venti ed è nel Quaderno 1 (xvi), § 89, pp. 89-90. Tutti
i riferimenti bibliografici si trovano nell’apparato critico di Gerratana, in Gramsci,
Quaderni, cit., vol. 4, p. 3027.

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La via esopica di Antonio La Penna 41

In questa celeberrima pagina, in cui il grande pensatore indica la


necessità di usare un metodo d’indagine che dia al folclore l’inquadra-
mento storico in categorie che aveva acquisito nei suoi studi di lingui-
stica, troviamo delimitati gli ambiti nei quali anche La Penna incardi-
nerà la sua analisi: un’analisi mirata da un lato a individuare nella
favola una forma di letteratura popolare, forse l’unica utilizzabile fra
quelle che l’antichità ci ha trasmesso77, dall’altro a delimitarne, insieme

77
  Sulla peculiarità della favola esopica e sui limiti entro i quali la si può definire popolare
si sofferma La Penna all’inizio del saggio e in vari passaggi successivi (cap. 7, pp. 262-263,
277). Nelle sue parole si avverte l’eco lontana del dibattito sul mito romantico della lette-
ratura popolare come creazione collettiva a cui anche Pasquali si era mostrato fortemente
ostile in varie osservazioni sparse nei suoi scritti. Il suo antiromanticismo, che si era for-
mato soprattutto a partire dalla questione del primitivismo omerico, era ampiamente con-
diviso alla fine degli anni Venti sia in Italia che in Germania, ma aveva la propria radi-
ce nello storicismo tedesco di primo Novecento piuttosto che in Croce (Sebastiano
Timpanaro, Giorgio Pasquali, «Belfagor», vol. 28, 1973, pp. 195-196 e nota 20 = Storicismo di
Pasquali, in Per Giorgio Pasquali. Studi e testimonianze, a cura di Lanfranco Caretti, Nistri-
Lischi, Pisa 1972, pp. 137-138; il passo è già nel profilo Giorgio Pasquali, in I critici. Storia
monografica della filologia e della critica moderna in Italia, diretta da Gianni Grana, vol. 3,
Marzorati, Milano 1970, pp. 1821-1822). Su queste prese di posizione piuttosto radicali di
Pasquali, La Penna aveva espresso notevoli riserve già all’inizio degli anni Cinquanta: «Io
temo che, come tante volte nel nostro secolo, la scoperta di una verità ne abbia annebbia-
ta un’altra. È vero che la poesia è sempre individuale e non collettiva; ma innanzitutto i
rapporti dell’individuo con la massa variano da civiltà a civiltà e da epoca a epoca; in se-
condo luogo l’élite colta, se trasmette la sua cultura ai ceti più bassi, ne assorbe a sua volta
elementi culturali. […] Le relazioni culturali fra élite colta e ceti inferiori non vanno viste
solo come una cascata dall’alto in basso, ma piuttosto come un circolo» (Lo scrittore stra-
vagante, «Atene e Roma», vol. 2, 1952, p. 229; poi in Per Giorgio Pasquali, cit., pp. 77-78). Se
queste riserve riguardano la poesia, pochi dubbi potevano sussistere sull’essenza popolare
di un genere umile e antichissimo come la favola e in questo la distanza dal maestro è
notevole, dal momento che in qualche occasione la concezione antiromantica di Pasquali
aveva investito anche forme d’arte più umili: si vedano in particolare il ritratto di Dome-
nico Comparetti, «Aegyptus», vol. 8, 1927, nn. 1-2, pp. 117-136, poi in Pagine stravaganti di un
filologo, Carabba, Lanciano 1933, pp. 3-42 (= Pagine stravaganti di un filologo, a cura di Car-
lo Ferdinando Russo, Le Lettere, Firenze 1994, vol. 1, pp. 3-25, in particolare pp. 15-16) e
Congresso e crisi del folklore, «Pegaso», vol. 1, giugno 1929, pp. 750-753, poi in Pagine meno
stravaganti, Sansoni, Firenze 1935, pp. 49-56 (= Pagine stravaganti di un filologo, cit., vol. 1,
pp. 276-280). Sui limiti dell’interpretazione «romantica» di Comparetti e sulla prospettiva
neo-idealistica di Pasquali si vedano anche le osservazioni di Timpanaro, assai vicine a
quelle espresse da La Penna, nel ritratto di Domenico Comparetti, in I critici, cit., vol. 1, 1969,
pp. 496-499 (saggio ristampato in S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca,
Nistri-Lischi, Pisa 1980, cap. 9, pp. 349-370); in particolare, a p. 499 si legge: «L’imposta-
zione generale dei rapporti tra popolare e letterario è nel Pasquali, direi, meno soddisfa-
cente che nel Comparetti. Su questo punto […] Pasquali era troppo influenzato dal neo-
idealismo e troppo tendente, quindi, a riconoscere soltanto un processo a senso unico, di

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42 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

all’arco cronologico, i presupposti filosofici (sia pure di filosofia popola-


re) legati al momento in cui si diffonde in Grecia e, soprattutto, il con-
testo sociale nel quale pare svilupparsi la morale che guida il comporta-
mento del debole, inerme di fronte alla prepotenza del più forte. Dalla
ricognizione dei testi si ricavano tendenze di lunga durata nel genere
della favola, che rivelano la visione del mondo di una categoria di sog-
getti sociali che solitamente non ha voce. La Penna dà così una risposta
organica in campo letterario alla domanda che Gramsci riprendeva da
Ciampini: «“E che vuol dire una morale popolare? Come studiarla scien-
tificamente?”», e a cui aveva a sua volta tentato di rispondere:

Così è vero che esiste una «morale del popolo», intesa come un insieme de-
terminato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di
costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente le-
gata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli impe-
rativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della «mo-
rale» ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli
fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e
reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e pro-
gressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in pro-
cesso di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla
morale degli strati dirigenti78.

Come si diceva, La Penna non lascia nel vago la dimensione popo-


lare del genere, ma arriva a identificare nella classe schiavile l’ambito
di riferimento e di sviluppo della favolistica greca. Questa è forse la sua
scommessa più ardita, una scommessa che egli fonda su elementi soli-
di come la condizione servile dei due autori principali, Esopo e Fedro,
e in cui, pur nella consapevolezza dell’aleatorietà di molte notizie an-
tiche, mette la ricostruzione biografica al servizio della comprensione
dell’opera79. Il tema della schiavitù era stato toccato solo tangenzial-

discesa di invenzioni dotte in seno al popolo, e a negare l’altro processo, di utilizzazione di


motivi popolari da parte dei poeti colti».
78
  Quaderno 27 (xi), § (1), p. 2311.
79
  La Penna rivendicherà la sua attenzione per la biografia nel citato profilo autobiografi-
co del 1987: «Negli stessi anni Cinquanta si fece sempre più viva l’esigenza di scavare
nell’opera letteraria, oltre le tradizioni culturali (tematiche, compositive, stilistiche), l’espe-
rienza viva dello scrittore nel suo tempo. Sempre lontano da ogni tentazione di usare l’o-
pera come documento biografico, egli ha ritenuto e ritiene la ricostruzione biografica

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La via esopica di Antonio La Penna 43

mente da Gramsci nell’ambito della storia dei «gruppi subalterni»80,


ma era ovviamente fondamentale nella riflessione marxiana e marxi-
sta sulla società antica ed è naturale che La Penna nell’analisi tenga
ben presente questo dibattito, soprattutto a proposito di quella ten-
denza alla rassegnazione nutrita di pessimismo e per nulla incline alla
ribellione che attraversa questi testi: «A giudicare dalla favola antica
si potrebbe ben accettare la definizione marxiana del proletariato an-
tico come piedistallo immobile della società, sul quale si muove la
lotta di classe. Ma la favola esopica non esprime certo tutta l’anima
del proletariato antico né in tutti i suoi momenti storici»81. La de-
finizione è tratta dalla prefazione alla seconda edizione (1869) del
18 brumaio di Luigi Bonaparte, dove si legge: «Specialmente nell’an-
tica Roma, la lotta di classe si svolgeva soltanto all’interno di una
minoranza privilegiata, tra i ricchi e i poveri che erano liberi cittadi-
ni, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi,
costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti»82. In realtà
il riferimento serve a La Penna non solo per precisare l’affermazione
di Marx, ma anche come mossa retorica per non assolutizzare, sul
piano storico, l’atteggiamento morale esopico, giacché la vicenda
delle classi subalterne nell’antichità non fu sempre e solo improntata
a una sottomessa rassegnazione:

Giusta e utile contro chi ammoderna la storia antica, contro chi assimila le
lotte di classe nell’antichità alla lotta del proletariato industriale moderno
contro la borghesia, la riflessione di Marx minaccia di rendere incomprensi-
bile non poca parte della storia antica (del resto essa è implicitamente supe-
rata dalla storiografia sovietica su Roma antica, che anzi sopravvaluta il peso

utile per capire il testo e non nutre per la biografia il disprezzo oggi di moda» (Io e l’an-
tico, cit., p. 89). Sul rapporto fra biografia e letteratura si vedano anche le riflessioni di
La Penna, Introduzione a Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno,
Nistri Lischi, Pisa 1991, pp. 26-29.
80
  Si vedano le scarne riflessioni sul tema della schiavitù antica nel Quaderno 25 (xxiii),
§ (1), p. 2286, e § (6), p. 2290, su cui cfr. anche Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scrit-
ti di Antonio Gramsci, Edizioni Paguro, Mercato San Severino 2019, pp. 103-112; su un
aspetto specifico cfr. infra, p. 44.
81
  La morale della favola esopica, qui, p. 326.
82
  Cito dall’edizione a cura di Giorgio Giorgetti con traduzione di Palmiro Togliatti, Edi-
tori Riuniti, Roma 2001, p. 40.

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44 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

della struttura schiavistica per la comprensione di certi mutamenti storici)83.


Quel piedistallo della società antica (parlo degli schiavi e ancora più dei pro-
letari liberi delle campagne e delle città) ebbe i suoi sussulti e anche le sue
scosse terribili e i riassestamenti politici della società antica (per esempio la
fondazione del principato romano) furono determinati in parte dagli effetti
di quelle scosse e dalla paura di altre scosse più gravi84.

Il pensiero corre subito, ovviamente, a quei «moti di plebi pastora-


li del sud al tempo del senatusconsultum de Bacchanalibus» e alle «rivol-
te di schiavi da Euno a Spartaco», cui lo stesso La Penna farà esplicito
riferimento l’anno successivo nel suo studio su Il romanzo di Esopo
(1962). Ma non solo di questo si tratta. Anzi, le istanze ideologiche
attive dietro quei moti e quelle rivolte, suscitati da speranze che «non
trovavano alcun appoggio […] nella religione dei dominatori» e ali-
mentati da un «impasto di magia, di superstizione, di religioni miste-
riche e soteriologiche», rappresentano, nella prospettiva di La Penna,
un regresso rispetto alla concezione del mondo e della vita della tradi-
zione esopica85. Qui, tra le costanti di «filosofia popolare» isolate e
analizzate, emerge infatti un duplice nucleo di pensiero critico che
rompe con il sistema di valori di «gran parte della cultura aulica
antica»86. Da un lato, un processo di laicizzazione che sfiora l’irreligio-
sità e rimuove dal proprio orizzonte ogni ancoraggio alla trascendenza
e ogni fede in garanzie provvidenziali:

83
  Pur in assenza di riscontri diretti negli scritti di La Penna si possono ricordare, a titolo
di semplice riferimento, la Storia di Roma [1949] di Sergej I. Kovaliov e il Principato
di Augusto [1949] di Nikolaj A. Maškin, pubblicati entrambi nelle Edizioni Rinascita di
Roma, rispettivamente nel 1953 e nel 1956; dello stesso Maškin nel 1953 era uscita in tradu-
zione tedesca la sua Römische Geschichte [1947] (Volk und Wissen Volkseigener, Berlin).
Certa invece, e databile al più tardi al 1959, la lettura di Der weltanschaulich-politische
Kampf in Rom am Vorabend des Sturzes der Republik [1952] di Sergej L. Utčenko (Akade-
mie-Verlag, Berlin 1956); La Penna ne discute infatti nello studio sulla congiura di Catili-
na, apparso in rivista appunto nel 1959 e quindi rifuso in Sallustio e la «rivoluzione romana»,
cit., pp. 81-82.
84
  La morale della favola esopica, qui, p. 326. Sulla questione della formazione del proletariato
antico, sempre partendo dall’esigenza di puntualizzare l’immagine marxiana del proletariato
come piedistallo immobile della classe dominante, La Penna tornerà molti anni dopo, nel
suo intervento pubblicato in Capogrossi, Giardina e Schiavone (a cura di), Analisi marxista
e società antiche, cit., p. 191 (La Penna discute in questa parte del suo contributo la relazione
di Mario Mazza, Marx sulla schiavitù antica. Note di lettura, ivi, pp. 107-145).
85
  Il romanzo di Esopo, qui, pp. 171-172.
86
  La morale della favola esopica, qui, p. 303.

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La via esopica di Antonio La Penna 45

La favola esopica […] è un passo decisivo nel distacco dalla cultura religiosa
e nell’elaborazione di una cultura laica popolare, […] anzi in questa direzione
essa è, senza dubbio, […] il passo più decisivo prima della sofistica. […] Di
una rivolta antireligiosa, di una critica approfondita della religione e di un
forte soffio illuministico non si può parlare […]. In ogni modo l’interpreta-
zione della realtà umana nelle favole esopiche si pone al di fuori di qualsiasi
interesse religioso: ciò che regola i rapporti umani viene spiegato quasi sem-
pre senza ricorso alla divinità.

Dall’altro lato, una forte spinta in direzione di un razionalismo de-


mistificatore associato a un pragmatico materialismo utilitaristico:

Vi si nota [nella favola esopica] uno spirito consono alla polemica contro il
mito che percorse l’età ionica, alla ricerca positiva che è alle radici della scien-
za europea: non per niente […] la prima fioritura greca della favola cade
nell’età ionica. Si è parlato, per quell’età e per la sofistica, di un illuminismo
greco: e quel termine approssimativo, ma significativo, va mantenuto contro
tendenze recenti a sentire in quei secoli solo un affinamento della teologia.
Di un illuminismo esplicito nella favola non sarebbe giusto parlare; ma, in-
somma, in essa vive un rudimentale razionalismo87.
Demistificazione, scoperta della realtà effettuale, valorizzazione di una prudenza
pragmatica che conta generalmente sulle forze dell’uomo e su effetti limitati con-
figurano una sorta di razionalismo empirico e rudimentale materialismo, che, al
di fuori della letteratura esopica, trova pochi riscontri nella cultura antica88.

Entrambe le tendenze avranno uno sviluppo e un’articolazione ben


più maturi e vigorosi nel pensiero greco dall’atomismo alla sofistica
all’epicureismo, ma vedono la loro manifestazione germinale e il loro
primo radicamento nel terreno della favola esopica: la forza razionale
della sua ricerca positiva e disincantata è un lascito che, «attraverso i
secoli dell’antichità e, si badi, del Medioevo, […] non ha mancato di
agire nel mondo moderno»89:

87
  La morale della favola esopica, qui, pp. 263-265 e 274. Sulle «tendenze recenti» della sto-
riografia sul pensiero ionico qui polemicamente chiamate in causa da La Penna e rappre-
sentate in modo esemplare dall’opera classica di Werner Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci [1953], trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1961, cfr. ivi, qui, p. 328.
88
  Origine, sviluppo e funzione della favola esopica, qui, p. 88.
89
  La morale della favola esopica, qui, p. 328.

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46 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

La letteratura esopica resta uno degli antecedenti non trascurabili dell’utili-


tarismo e del materialismo moderno: e dico questo non nella prospettiva di
una storia ideale, astratta, ma in quella dell’effettiva storia del pensiero euro-
peo. Si deve tener conto dell’importanza che hanno avuta nel corrodere e
demolire la morale ascetica (o religiosa in genere) del Medioevo la letteratu-
ra dei fabliaux e la novellistica90.

Ora – e in questo riconoscimento è una delle intuizioni più inno-


vative e scandalose di quel saggio davvero epocale che è La morale
della favola esopica – questo lascito ci viene non dalla grande tradizione
di pensiero della classe dominante, ma dagli strati più deboli della
popolazione, generalmente visti come portatori di irrazionalità e su-
perstizione: «la favola esopica» – conclude La Penna, con chiaro rife-
rimento a una delle categorie fondamentali della meditazione
gramsciana – «è voce popolare sostanzialmente autonoma, che perdu-
ra per tutti i secoli accanto alla letteratura aulica: già questo basterebbe
a darle un rilievo enorme nella cultura antica»91. La Penna, d’altra par-
te, era ben consapevole del fatto che la condizione schiavile nell’anti-
chità classica non apparteneva necessariamente a una massa indistinta
di soggetti sociali culturalmente omogenei, ma poteva essere straordi-
nariamente varia e multiforme, perché varia e multiforme era l’origine
di chi, nel corso della propria vita, poteva trovarsi a perdere all’improv-
viso la libertà. Il fatto che l’Esopo storico potesse essere un uomo di
cultura elevata ben lontano dalla figura comica e cinicheggiante del
Romanzo non cambia la prospettiva rispetto alla visione del mondo che
emerge da una «struttura profonda» ben più antica come la favola gre-
ca, che mostra chiaramente l’elaborazione di una visione della vita da
parte di chi è costretto a subire la legge del più forte92.

L’altra figura di cui nel saggio lapenniano resta una traccia abba-
stanza visibile è, come abbiamo accennato, quella di Concetto Mar-
chesi, personalità controversa e culturalmente rilevante nell’Italia del
dopoguerra a cui La Penna dedicherà nel 1980 uno dei suoi ritratti

90
  La morale della favola esopica, qui, pp. 292-293.
91
  Ivi, qui, p. 328.
92
  Sulla questione si veda comunque il punto di vista critico di Maria Jagoda Luzzatto,
Plutarco, Socrate e l’Esopo di Delfi, «Illinois Classical Studies», vol. 13, 1988, pp. 427-445,
in particolare pp. 437 ss.

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La via esopica di Antonio La Penna 47

intellettuali più riusciti93. Per Marchesi, traduttore di Esopo94, autore


di un profilo di Fedro95 e cultore appassionato del genere, la favola
rappresentò sempre, oltre che un argomento di studio e di riflessione,
un serbatoio prezioso a cui attingere esempi per gli scritti stravaganti
o di polemica politica96. In certe parti del suo discorso, La Penna sem-
bra avere in mente alcune intuizioni felici, anche se non sistematiche,
di Marchesi, che aveva colto – con disappunto – il rischio che la mo-
rale esopica celasse un atteggiamento di rassegnazione e di pessimi-
smo. Nell’analizzare la morale del re travicello egli osserva infatti:
«L’incertezza e la confusione degli interpreti pure modernissimi di
quest’apologo rivelano il suo difetto di chiarezza e di proprietà. Vuol
dire che ci si deve contentare sempre dello stato presente, qualunque
esso sia, per timore che non abbia a capitare di peggio? Ma questo
sarebbe l’elogio vile e insensato della inerzia e della paralisi»97. L’elogio
dello stato presente non poteva essere facilmente accettato da chi, de-
scrivendo l’inquietudine giovanile che lo aveva portato ad aderire a
idee anarchiche, aveva scritto di sé stesso: «avevo l’animo dell’oppresso
senza averne la rassegnazione»98. E Marchesi prova addirittura, con

93
  La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo, cit.
94
  Favole esopiche, tradotte da Concetto Marchesi, con tutte le xilografie «deltuppiane», For-
miggini, Roma 1930; quindi, con nuova prefazione, Universale economica, Milano 1951
(= Feltrinelli, Milano 19762, 19833): sul significato della ristampa del 1951 cfr. Luciano Can-
fora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Laterza, Bari-Roma 2019, p. 561.
95
  C. Marchesi, Fedro e la favola latina, Vallecchi, Firenze 1923.
96
  La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48: «Gli scritti di Marchesi sulla favola esopica non
danno un’idea piena dell’amore che egli nutriva per questa letteratura: bisogna tener con-
to dell’uso che ne fa nelle sue riflessioni e nelle sue polemiche: il vecchio Esopo poteva
sempre fornire esempi adatti alla sua ironia e al suo sarcasmo». Un caso celebre dell’uso
retorico e polemico di Esopo è la citazione della favola dell’albero e dell’uomo che vuole
fabbricarsi una scure (Zand. 16), nel celebre discorso tenuto da Marchesi all’8° Congresso
del Pci, del 1956, all’indomani dei fatti d’Ungheria: cfr. Canfora, Il sovversivo, cit.,
pp. 896-899. Un altro esempio celebre è citato anche da La Penna, infra, p. 266.
97
  Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola richiamata è ovviamente Le rane
che chiedevano un re (44 H.).
98
  C. Marchesi, L’animo dell’oppresso, «Vie nuove», vol. 4, 1949, n. 42, p. 12. Può essere
interessante riportare il contesto della citazione: «Nessuno – diceva Catilina ai compa-
gni – può difendere la causa degli oppressi se non sia un oppresso anche lui. Io direi: se
non abbia l’animo dell’oppresso. Io l’avevo, l’animo dell’oppresso, senza averne la rassegna-
zione». Una parte significativa dello scritto, ma senza l’allusione a Catilina, verrà ripresa in
Perché sono comunista, discorso tenuto al Teatro Nuovo di Milano il 5 febbraio 1956 su in-
vito del gruppo milanese «Amici della rivista Rinascita», pubblicato in Id., Umanesimo e
comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 30.

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48 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

risultati dubbi, a reinterpretare la morale della favola: «Se una morale


s’ha da ricavare dall’apologo, potrebbe essere questa: che il sommo
Dio vuole che gli uomini si governino da sé, a loro rischio; e, con que-
sto esempio, dichiara la sua incompetenza nello stabilire i regni sulla
terra»99.
Siamo dunque molto lontani dall’orizzonte ermeneutico di La Pen-
na, che, come abbiamo visto, proprio nel pessimismo rassegnato coglie
una delle costanti del mondo esopico100; ma neppure mancano, come
è ovvio in uno studioso dell’acume critico di Marchesi, bagliori inter-
pretativi che potevano anticipare o favorire l’intuizione del rapporto fra
genere letterario e contesto in cui si è prodotto. Scrive Marchesi con-
nettendo l’origine della favola a uno stato di asservimento – si direbbe
esistenziale – che si manifesta anzitutto sotto forma di costrizione al
silenzio e necessità della dissimulazione:

Fedro esalta la sua origine e il suo talento poetico in un’ora di triste risenti-
mento non già contro gl’invidiosi ma contro i maligni interpreti dell’opera
sua, i quali hanno voluto trovare in essa i profili delle loro persone, mentre il
poeta ha voluto esprimere il profilo dell’umanità: colpa della loro mala co-
scienza. Egli vuole esser creduto: se la favola delle bestie contiene la storia
degli uomini, ciò non avviene per colpa sua, ma per la natura stessa di quel

99
  Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola è richiamata anche da La Penna,
ma con interpretazione virata in senso opposto rispetto a quella suggerita da Marchesi:
«In questa tematica dei rapporti tra il forte e il debole, tra il potente e l’umile l’ispirazione
politica e sociale non lascia dubbi […]. Il convincimento che la propria condizione non
può essere mutata, che il tentativo di mutarla porta, se mai, al peggio si riferisce esplicita-
mente anche al governo. Su tale convincimento si fonda la celebre favola delle rane che
chiedono un re» (La morale della favola esopica, qui, p. 314).
100
  Osserva La Penna, con motto gramsciano, nell’aforisma Attualità della morale esopica:
«La rassegnazione è, come si sa, conclusione frequente ed evidente del rudimentale razio-
nalismo e materialismo esopico: non si può certo affermare che nella favola esopica antica
al pessimismo dell’intelletto si unisca saldamente un ottimismo della volontà» (qui,
p. 355). A chiarimento del contesto, conviene ascoltare la testimonianza di Sebastiano
Timpanaro: «All’inizio degli anni Cinquanta era difficile parlare di pessimismo coi marxisti
italiani, quasi tutti troppo pieni di fiducia storicistica nel progresso umano e troppo ten-
denti, per le loro origini crociane, a disinteressarsi del rapporto uomo-natura. Poche erano le
eccezioni: c’era Antonio La Penna, che, come prima di me era arrivato al marxismo, così
prima di me aveva provato insoddisfazione per un modo troppo generico ed equivoco di
appellarsi allo “storicismo” e all’“umanesimo”» (Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970,
p. xiv). Qui Timpanaro fa riferimento all’«ottimismo storico-sociale» dei tanti marxisti di
allora, convinti del «comunismo come meta ormai sicura della storia umana».

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La via esopica di Antonio La Penna 49

genere letterario che, scattato fuori dall’anima di uomini asserviti e costretti al


silenzio o alla finzione, porta con sé l’indole amara della sua origine. Egli, cultore
della favola, ha dovuto seguirne lo spirito: ma non ha pensato a nessun uomo:
la vita umana per sé stessa ha voluto rappresentare101.

Il critico siciliano non s’interroga sulla ragione dell’asservimento,


un po’ perché tende a vedervi un connotato antropologico più che il
prodotto di una dinamica sociale determinata da uno squilibrio nei
rapporti di forza, ma soprattutto perché considera l’origine popolare
del genere di per sé sufficiente a rappresentare la condizione di quelle
masse umane impotenti e rassegnate. Eppure il tema della servitù e
della libertà si affaccia alla sua mente, sia pure in forma di notazione
aneddotica e non come oggetto di riflessione consapevole, fin dalla
Prefazione a Esopo, un testo risalente al 1929, in cui osserva:

La bestia, anche la più agile, se è lasciata in pace, non fa niente: e quando ha


trovato da mangiare si riposa da quella grande fatica che è l’esser nati. Nel
mondo animale i più agitati e affaccendati sono gli uomini e gl’insetti: ma gli
uomini molto più, perché l’umanità è quasi tutta una enorme servitù, costi-
tuita da servi che si credono padroni e da servi che amano o devono sempli-
cemente servire102.

Marchesi, come è ben noto, dimostrerà sempre, a partire dagli


scritti giovanili e poi nel corso della sua vita, un profondo disprez-
zo nei confronti delle masse. Può sembrare, e forse è, un elemento
paradossale in un uomo capace di grandi slanci emotivi al ricordo
dell’esistenza dura dei giornalieri siciliani103 e curioso della vita del

101
  Marchesi, Fedro e la favola latina, cit., pp. 40-41 (corsivo mio); in termini quasi iden-
tici la riflessione tornerà in La morale della favola, cit., pp. 225-226 e nella Storia della lette-
ratura latina, Principato, Milano 19828, vol. 2, p. 84.
102
  Cito da C. Marchesi, Il libro di Tersite, con una nota di Luciano Canfora, Sellerio,
Palermo 1993, p. 144. Sulla genesi dello scritto, cfr. Canfora, Il sovversivo, cit., p. 317 e nota 23.
103
  È uno dei brani più famosi di Marchesi (citato da Togliatti nell’esordio della celebre
commemorazione tenuta in Parlamento all’indomani della sua morte) pubblicato in L’a-
nimo dell’oppresso, cit., e poi in Perché sono comunista, cit., pp. 29-30 (da cui si cita): «Perché
sono diventato comunista? Altre volte mi è stata fatta questa domanda. È un perché di
anni lontani, che mi riporta alle vendemmie e alle falciature della mia campagna catanese.
Filari e filari di viti dentro un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi e un suono di corno che
radunava le vendemmiatrici. Vigilavano i guardiani con mille occhi: ed esse sparivano
curve nel folto dei pampini, da cui rispuntavano colmi canestri ondeggianti su invisibili

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50 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

popolo al punto da dedicare la sua traduzione di Esopo «a Giovan-


ni Sbisà, accalappiacani municipale», facendone l’interlocutore fit-
tizio del suo discorso. Eppure proprio quest’uomo, militante comu-
nista fin dalla fondazione del partito al congresso di Livorno del
1921, era anche intriso di paternalismo professorale e aristocratica
sfiducia nei confronti delle masse, viste come soggetto passivo, pri-
vo di una chiara coscienza di classe e dunque bisognoso della guida
sicura di un ceto intellettuale di alto profilo culturale104. È possibi-
le che a questo atteggiamento, senza dubbio originario e dovuto sia
alla condizione sociale di partenza sia alla temperie culturale tardo-
ottocentesca in cui Marchesi si era formato, avessero contribuito le
esperienze tragiche delle masse festanti sotto certi balconi105, ma è
comunque un fatto che esso impregni di sé e colori l’interpretazio-
ne della favola esopica e della sua morale, orientandola in una di-
rezione che non potrebbe essere più divergente rispetto alla via
seguita da La Penna.

teste. All’Ave Maria l’ultimo suono di corno: e la giornata finiva con un segno di croce. Ma
i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove
era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vede-
vo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la
piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino
inacidito, destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della pueri-
zia cresceva in me un rancore sordo verso l’offesa che sentivo mia, che era fatta a me e
gravava su di me come una insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi pare-
vano le ragioni addotte a giustificarla».
104
  Sull’«atteggiamento aristocratico-elitistico» di Marchesi ha insistito Canfora, Il sov-
versivo, cit., p. 377, dove è richiamata un’osservazione di La Penna, Concetto Marchesi, cit.
p. 43, a proposito di uno scritto oraziano del 1908 (altri cenni nel ritratto di La Penna alle
pp. 51 e 66-67); cfr. anche S. Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, «Belfagor»,
vol. 35, 1980, n. 6, pp. 660-661 (in un profilo complessivo tanto antipatizzante nei confron-
ti di Marchesi quanto benigno era stato quello di La Penna). Bisogna anche considerare,
però, che in uomini come Marchesi l’assenza di ogni accondiscendenza nei confronti del-
le masse era compensata dalla fiducia cieca nell’educazione come forza liberatrice, nella
prospettiva della formazione di una coscienza di classe che riscattasse la situazione di
svantaggio originaria.
105
 Così La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 51: «Il senso aristocratico della distinzione
spirituale potrà stupire chi pensa al comunismo di Marchesi, ma non stupisce chi conosce
le sue opere. Tuttavia va tenuto presente, io credo, il clima in cui il saggio su Arnobio fu
scritto [Il pessimismo di un apologista cristiano (Arnobio), «Pegaso», vol. 2, 1930, pp. 536-550,
ristampato in Voci di antichi, cit., pp. 159-187]: la resistenza morale degli antifascisti isolati
trovava forza talvolta anche nel disprezzo per il gregge asservito, gregge che non si iden-
tificava con la povera gente».

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La via esopica di Antonio La Penna 51

Si legge nella pagina conclusiva del saggio attorno al cui asse si è


dipanato il nostro discorso:

Lo studio della favola esopica oggi non può non risvegliare problemi etico-
politici attuali. La separazione […] tra la lucidità rassegnata e l’aspirazione
utopistica nelle classi subalterne è superata solo dal socialismo, anzi solo dal
socialismo non utopistico […]106. È grande compito del socialismo eliminare
con l’educazione, oltre le illusioni oltremondane, questa sfiducia, portare le
masse a capire che è venuta l’età in cui esse stesse debbono costruire il loro
assetto economico, sociale, politico, in cui esse cessano di subire la storia e ne
diventano protagoniste: solo la partecipazione diretta e non illusoria allo sta-
to può eliminare la sfiducia nello stato. […] La libertà muore, se non sa
estendersi: il che vuol dire, se non sa sostanziarsi di eguaglianza. Ora in que-
sto suo grande compito di educazione il socialismo non può costruire niente
sulle illusioni oltremondane; ma può ricavare qualche cosa dallo scetticismo
rassegnato [della favola esopica], perché in quello scetticismo c’è pur sempre
un nucleo sano di analisi della realtà sociale, una forza della ragione107.

Alla luce di questo appello, che ha i toni vibranti della perorazione


più che quelli dichiarativi di un programma etico-politico, ben si col-
gono anche le ragioni e il senso del giudizio con cui La Penna suggel-
la il suo capitolo su «Marchesi ed Esopo», marcando la distanza, ideo-
logica e culturale, dal suo più anziano compagno di strada: «La sua
inclinazione verso il pessimismo esopico rende più comprensibile, io
credo, la sua indulgenza verso lo stalinismo: l’autogoverno delle masse
è una grande aspirazione di chi ha fiducia nelle masse: chi ha sfiducia
profonda nell’uomo, o nella grande maggioranza degli uomini, può
essere portato facilmente al disprezzo delle masse, che è un presuppo-
sto importante dello stalinismo»108.
Eppure il pessimismo esopico di Marchesi è anche l’aspetto che La
Penna sente come più attuale, almeno nel momento in cui ne traccia

106
  Cfr. anche La morale della favola esopica, qui, p. 327: «Le aspirazioni sociali degli strati
subalterni dell’antichità cercano espressione […] per varie vie utopistiche. La loro menta-
lità presenta così due aspetti inconciliabili: da un lato un’analisi acuta del mondo umano
che porta a un’accettazione passiva dell’oppressione, dall’altra le aspirazioni utopistiche
alla libertà, alla giustizia, all’uguaglianza. L’inesistenza di una prospettiva reale di libera-
zione tenne sempre separati e inconciliabili i due aspetti».
107
  Ivi, pp. 331-332. Cfr. anche l’aforisma Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358.
108
  La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48 (qui, pp. 357-358).

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52 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

il profilo intellettuale109. Di Esopo Marchesi aveva il pessimismo, ma


non la rassegnazione. Lo si vede chiaramente nell’interpretazio-
ne della favola Il beccaio e i castrati conservata nella tarda raccolta
del Romulus: l’uomo ogni giorno macella un castrato, mentre il re-
sto del gregge osserva il malcapitato di turno pensando che toccherà
sempre a un altro, finché l’ultimo, prima di morire, si lamenta perché,
se si fossero coalizzati quando erano in molti, lo avrebbero fracassato
a testate. Chiosa Marchesi: «Anche Seneca ad ammonimento dei pa-
droni domandava: “E se i servi si contassero?” dimenticando che i ser-
vi non si contano mai da sé; a far questo avrebbero bisogno di un altro,
venuto da fuori, e non servo, ma uomo libero, che insegnasse loro
l’addizione»110. Qui c’è spazio solo per una valutazione elitistica e irri-
tante della massa dei subalterni111, ben lontana dalla lettura storica e
priva di pregiudizi di La Penna, che sottolinea peraltro la coloritura
«antidemocratica» della favola112. Il problema che questa favola lascia
intravedere è tuttavia un punto sensibile della riflessione sull’inerzia,
tendenziale, non assoluta, della classe schiavile nell’antichità: un’iner-
zia a cui aveva contribuito una visione del mondo pessimistica e conser-
vatrice, incoraggiata programmaticamente dalla classe dominante, come
dimostra il passo di Seneca ricordato da Marchesi (De clementia I 24):
Dicta est aliquando a senatu sententia, ut servos a liberis cultus distingueret;
deinde adparuit, quantum periculum inmineret, si servi nostri numerare
nos coepissent 113.

109
 Cfr. ivi, p. 95.
110
  Marchesi, La morale della favola, cit., p. 228; la medesima interpretazione tornerà in
Uomini e bestie nella favola antica, in Id., Divagazioni, Neri Pozza, Venezia 1951, p. 11, un
saggio usato anche, con tagli e una diversa disposizione degli argomenti, come nuova
prefazione alla traduzione di Esopo ripubblicata per i tipi della Colip, Milano 1951 (dal
1976 ristampata nell’Universale economica Feltrinelli).
111
  Sul passo e sulla visione «cesarista» del pensiero politico di Marchesi cfr. Canfora,
Il sovversivo, cit. pp. 317-318.
112
  «In una favola come questa si sarebbe tentati di sentire una tendenza degli oppressi a
unirsi contro gli oppressori; ma un’interpretazione del genere non è sicura né in questo
caso né in altri» (La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 316).
113
  Trad.: «Una volta il Senato deliberò che fosse l’abbigliamento a distinguere gli schiavi
dai liberi; poi risultò chiaro quanto pericoloso fosse se i nostri servi avessero cominciato a
contarci». Viene in mente, anche se i due testi sono ovviamente indipendenti, un appunto
di Gramsci trascritto nel Quaderno 3 (xx), § 99, con il titolo La legge del numero (base psi-
cologica delle manifestazioni pubbliche: processioni, assemblee popolari, ecc.), e quindi ripreso
con aggiunta dell’ultimo periodo nel Quaderno 25 (xxiii), § 6.2, p. 2290, da cui cito:

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La via esopica di Antonio La Penna 53

La lettura di Marchesi può aver fornito qualche altro spunto alla ri-
flessione di La Penna. Il siciliano aveva notato l’assenza dell’amore nel-
la favola, imputandola all’incompatibilità del sentimento con la condi-
zione animalesca: «A proposito di amore. Esso ha scarso rilievo nel
mondo animalesco esopiano: dove manca la passione amorosa»114. La
Penna, cogliendo in prospettiva sociologica l’affinità con il mondo esio-
deo e lo squallore della dimensione lucrativa a cui l’eros viene ridotto,
osserva: «Come il mondo esiodeo, questo esopico non conosce l’amore.
L’amore è una maschera dell’avidità di lucro»115. Marchesi concorre alla
definizione della favola esopica come teatro della lotta per la sopravvi-
venza secondo il principio dell’homo homini lupus: «La favola esopiana
riflette massimamente la lotta dell’uomo contro l’uomo, dell’uno contro
l’uno, in un mondo dove domina l’astuzia e la forza, senza pietà né spe-
ranza: un mondo, dunque, anticristiano e antisociale; dove alla reden-
zione non si giunge né con la fede né con la lotta»116. Una definizione a
cui La Penna dà forma solenne e universale riprendendo a più riprese la
celeberrima metafora animalesca del capitolo xviii del Principe: «La re-
altà effettuale dei rapporti umani così svelata è già per la favola esopica
la realtà della golpe e del lione, dell’astuzia e della forza»; «Questo mon-
do della golpe e del lione non conosce la pietà per il povero e per il de-
bole»; «La favola esopica antica constata con lucidità nella vita umana il
dominio del lione e della golpe, della forza e dell’astuzia»117.

«A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti esteriormente come tali. Quando un
senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato
fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora po-
tessero rendersi conto del loro grande numero (cfr. Seneca, De clem. I 24 e Tacito,
Annali, IV 27). In questo episodio sono contenute le ragioni politico-psicologiche che deter-
minano una serie di manifestazioni pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee
popolari, le parate di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione alle elezioni
di alcuni gruppi) e i plebisciti». L’appunto fa riferimento alla trascrizione di una nota della
Storia economica di Roma di Tenney Frank (Vallecchi, Firenze 1924, p. 147), che si conclude
con i passi citati di Seneca e Tacito. Cfr. Gerratana, Quaderni, cit., vol. 4, Apparato critico,
p. 2910; Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Antonio Gramsci, cit., pp. 110-112.
114
  Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 12.
115
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 291.
116
  Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 15; uno stralcio di questo brano fu
citato fra l’altro da La Penna, Concetto Marchesi, cit. p. 47 (qui, p. 357).
117
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 279 e Attualità della morale esopica,
qui, p. 355.

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54 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Come si vede, si tratta nel complesso di semplici spunti e suggestio-


ni sparse che – è da credere per scelta di Marchesi, spesso tentato dal
gusto del lampo definitorio e della battuta lapidaria – vivono di vita
propria nel corpo del testo, senza ambire a sollevarsi a segmenti di un
discorso articolato118. La strategia è opposta a quella adottata da La Pen-
na che, nel raccogliere quelle impressioni e quelle formule felici, le as-
soggetta al governo di una interpretazione sistematica e unificante, pun-
tellata con le categorie di un coerente armamentario concettuale. Sono
categorie eminentemente filosofiche come razionalismo, materialismo,
empirismo, pragmatismo, utilitarismo, demistificazione, irreligiosità,
ecc., ma va subito chiarito che esse sono assunte e messe alla prova nel
lavoro di analisi con una valenza debole, detecnicizzata, che le pone al
riparo da rischi di forzatura, peraltro ben presenti allo stesso La Penna:

Si è parlato, per l’età ionica e per la sofistica, di un illuminismo greco: e quel


termine approssimativo, ma significativo, va mantenuto […]. Di un illumi-
nismo esplicito nella favola non sarebbe giusto parlare; ma, insomma, in essa
vive un rudimentale razionalismo.
Parlare di empirismo e di pragmatismo a proposito della favola esopica è un
modo d’intendersi, i termini sono eccessivi […]. La favola esopica […] igno-
ra i problemi della cultura filosofica ed è quindi inerme di fronte a essa.
La favola esopica […] è un passo decisivo nel distacco dalla cultura religiosa
[…]. Di una rivolta antireligiosa, di una critica approfondita della religione e
di un forte soffio illuministico non si può parlare.119

Dunque, un orizzonte filosofico temperato. In effetti, le categorie


concettuali utilizzate da La Penna per sviluppare la sua interpretazione
della favola esopica come voce – critica e laica – delle classi subalter-
ne120 sono chiamate a operare entro la cornice di un’antropologia so-
ciologica che si propone di inquadrare la visione del mondo e della vita
di quelle classi all’interno delle dinamiche strutturali di lungo periodo
della storia sociale: un terreno su cui Marchesi, l’umanista che inten-

118
  Su questo aspetto del procedere argomentativo di Marchesi cfr. Luciano Canfora,
Il «Marchesi» di La Penna, «Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 109, 1981, p. 236.
119
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 303, 263 e 265.
120
  Ivi, § 11, La favola come voce delle plebi antiche (qui, pp. 322 ss.).

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La via esopica di Antonio La Penna 55

deva «la critica letteraria come scoperta dell’uomo»121, ed era ostentata-


mente avverso alla filosofia, anche per una sua posa intellettuale, face-
va fatica a scendere e dunque non poteva avere, da questo punto di
vista, influenza sostanziale su uno studioso come La Penna, sempre
attento da un lato a risalire dalle forme letterarie alle strutture del-
la società e ai conflitti che l’attraversano e dall’altro a non cedere alla
tentazione di dedurre le prime dalle seconde122.
C’è forse un ultimo aspetto che unisce, sia pure con filo sottile,
Marchesi e La Penna alla rappresentazione tradizionale di Esopo.
Nella leggenda biografica il favolista viene descritto con tratti carica-
turali che lo accostano alla figura del plebeo omerico Tersite:

La deformazione caricaturale deve essersi fissata presto. Massimo Planude,


nel suo proemio alla Vita [Aesopi], accostava Esopo a Tersite, il plebeo ribel-
le e deforme, la cui deformità è essenziale nel contrasto con l’ideale eroico;
ma già la tradizione popolare può aver fatto dello schiavo portatore della sa-
pienza degli umili un tipo simile a Tersite, l’opposto dell’ideale del καλὸς
κἀγαqός. Il contrasto fra la bruttezza esterna e la saggezza interiore, tra l’ap-
parenza e la forma è troppo essenziale nella mentalità esopica perché sia fa-
cile ammettere una formazione tarda del ritratto di Esopo123.

L’accostamento si trova anche in Vico («e ci fu narrato brutto [Eso-


po] […]; appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere

121
  Così recita il sottotitolo del libro di La Penna a lui dedicato.
122
  Viene in mente quanto osservava Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, cit.,
p. 632: «A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse più ovvio e com-
prensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione
positiva. Gran parte dell’opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della
società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustap-
posizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere
l’opera letteraria nell’ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimen-
to, di intendere storicamente, non come pure “illuminazioni” prive di antecedenti, anche i
valori stilistici, formali della poesia, e l’esigenza marxista di collegare i fatti letterario-
culturali e ideologici con la struttura economico-sociale e con le istituzioni e le vicende
politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l’eredità hege-
liana, ad accentuare l’istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo disgregato e
agnosticizzante)». Sul paradosso (l’ennesimo) della coesistenza in Marchesi di una profes-
sione di marxismo militante con l’irrazionalismo di fondo della sua Weltanschauung cfr.
Canfora, Il «Marchesi» di La Penna, cit., pp. 235-236.
123
  La Penna, Il romanzo di Esopo, qui, p. 148; cfr. anche La morale della favola esopica, qui,
p. 323.

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de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana»), come segnala
La Penna, che illumina affinità e differenze tra le due figure che con-
dividono lo sguardo lucido e spietato sulla realtà, ma non l’atteggia-
mento verso l’autorità, che in Esopo è guardingo e attento a evitare
l’attrito, nella ricerca delle migliori strategie per la riduzione del dan-
no: «Tersite è, […] come già […] aveva pensato il Vico, “il primo
demagogo”. Esopo non è demagogo affatto, non è un ribelle: egli in-
vita alla prudenza e all’accettazione; pur conoscendo meglio di Ter-
site l’egoismo e l’iniquità dei grandi, egli non avrebbe affrontato i col-
pi di Ulisse, avrebbe cercato di non causare l’ira di Ulisse»124. Nel
fascino e nell’immedesimazione con una figura antieroica, provocato-
ria e demistificatrice come Tersite si può riconoscere un ultimo moti-
vo di affinità tra il futuro «intellettuale disorganico» e l’autore del Libro
di Tersite. La Penna, la cui attenzione per l’eroe omerico potrebbe es-
sere stata accesa da un articolo di Pasquali pubblicato nel 1940, Omero,
il brutto e il ritratto125, scriverà nella prefazione al suo Tersite censurato:
«Il titolo del libro è preso da uno degli studi raccolti; ma il tema di
quello studio è presente anche in altri che lo precedono […]. L’atten-
zione verso personaggi come Eumolpo e Tersite potrebbe spiegarsi
con la mia biografia intellettuale, ma questo è problema trascurabile»126.

124
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 325; cfr. p. 323, dove è anche citato il
passo di Vico.
125
  G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, «Critica d’arte», vol. 5, 1940, pp. 25 ss., quindi
in Id., Terze pagine stravaganti, Sansoni, Firenze 1942, pp. 139 ss. (= Pagine stravaganti di
un filologo, cit., vol. 2, pp. 99-118). Lo scritto è citato da La Penna (La morale della favola
esopica, qui, p. 323, nota 118) che rileva come un cenno a Tersite sarebbe stato appropriato;
ma del plebeo dell’Iliade Pasquali aveva dato un giudizio fortemente limitativo nella voce
Omero dell’Enciclopedia italiana: «Già l’attitudine rispetto alla religione basterebbe a mo-
strare che l’Iliade non è un poema popolare. Si può dire anzi che popolo e plebe per l’Ilia-
de non esistono: il solo plebeo, Tersite (e sarà figura inventata dal poeta, non già traman-
data dalla leggenda), è dipinto a colori tra foschi e ridicoli, ed è introdotto, si direbbe, solo
per farlo maltrattare da Ulisse» (G. Pasquali, Rapsodia sul classico. Contributi all’Enciclo-
pedia italiana, a cura di Fritz Bornmann, Giovanni Pascucci, Sebastiano Timpanaro, Isti-
tuto della Enciclopedia italiana, Roma 1986, p. 172).
126
  La Penna, Tersite censurato, cit., p. 9.

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Avvertenza editoriale 57

Avvertenza editoriale

Gli scritti raccolti in questo volume1 non solo si scaglionano su un arco tem-
porale lungo (il nucleo maggiore risale agli anni Sessanta, con una ripresa
nella prima metà dei Novanta e sporadici interventi nei Settanta), ma rispec-
chiano sollecitazioni culturali e istanze metodologiche diverse: dall’analisi
sociologica d’impianto gramsciano del saggio più antico, quello su La morale
della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità (1961), all’a-
nalisi filologica e storica dell’indagine su Il romanzo di Esopo (1962), allo stu-
dio folclorico delle origini remote del genere in Letteratura esopica e letteratu-
ra assiro-babilonese (1964), fino alla presa di distanza (peraltro ancora non
aggressiva) dallo strutturalismo nella recensione-saggio di Nøjgaard, La fable
antique (1966). Del resto, non meno marcata è l’eterogeneità di genere dei
vari scritti, che vanno dal contributo di ricerca, come i già ricordati lavori
sulla Vita Aesopi e le origini mesopotamiche della favolistica esopica, a testi
di presentazione generale, come l’ampia introduzione a Fedro (1968), la «ra-
pida sintesi divulgativa» (p. 90) Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia
verso occidente (1994) e il saggio complessivo Origine, sviluppo e funzione della
favola esopica nella cultura antica (1996). Una compresenza di generi che a sua
volta produce inevitabilmente varietà di stili espositivi in funzione dei diver-
si pubblici di destinazione, insieme a un certo numero di (anche estese) so-
vrapposizioni di contenuto e formulazione tra un testo e l’altro. In altre pa-
role, i materiali inclusi nella raccolta fanno sì, nel loro insieme, libro, ma non
quella storia organica della favola esopica greca e latina cui, come abbiamo

1
  In quanto non pertinenti con la tematica esopica vera e propria, sono stati esclusi soltan-
to una breve nota su Virgilio fonte di La Fontaine (in Marginalia, «Maia», vol. 7, 1955,
pp. 142-143) e il contributo Una favola esopica e l’interpretazione di Catullo 96, apparso in
«Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2, 1997, pp. 246-249. Escluse per
il loro carattere strettamente filologico anche le sezioni a firma di La Penna incluse nei
prolegomeni all’edizione teubneriana di Babrio (1986) realizzata in collaborazione con
Maria Jagoda Luzzatto (pp. vi-xxii: 1. De Babrii nomine atque aetate, 2. De Babrii fabula-
rum origine et cognationibus).

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58 Avvertenza editoriale

visto, La Penna pensava già nei primissimi anni Cinquanta e a cui tornava a
fare riferimento, alla metà dei Novanta, in Le vie della favola esopica (p. 33).
Così stando le cose, e nell’ovvia impossibilità di mettere mano a un rim-
pasto radicale degli scritti nella pretesa di trasformarli in capitoli di un’opera
unitaria, va da sé che ai curatori non restava che riprodurli nella loro forma
originale, ripetizioni comprese, unicamente con gli indispensabili interventi
di carattere editoriale, atti a dare uniformità e coerenza formale alla trattazio-
ne lungo tutto il corso del libro. Ci si è dunque limitati all’unificazione dei
criteri redazionali dei vari contributi – come detto, disparati per carattere e
provenienza –, alla omogeneizzazione del sistema dei riferimenti bibliografi-
ci (sia delle fonti primarie che della letteratura secondaria) e al completamen-
to di alcune indicazioni date nell’originale in forma sommaria. In particolare,
nei riferimenti alle favole esopiche, ci si è conformati di norma al testo e alla
numerazione del Corpus Fabularum Aesopicarum di Hausrath. Solo nel capi-
tolo 6 (cfr. p. 240, nota 2) e nei rari casi in cui la redazione citata da La Pen-
na non era inclusa nel Corpus, si è rimandato all’edizione Chambry o agli
Aesopica di Perry. A ogni modo, per comodità di riscontro, nell’Indice delle
favole si è data la corrispondenza tra le numerazioni di tutte e tre le edizioni.
Per riparare in qualche misura alla cicatrice della mancata organicità
dell’opera, è parso opportuno evitare di disporre gli scritti in sequenza crono-
logica secondo la data di pubblicazione – una soluzione più adatta a una
raccolta di contributi di argomento eterogeneo e di carattere specialistico – e
attenersi all’ordinamento storico-tematico seguito da La Penna, da un lato
nel saggio di introduzione generale alla favola esopica, con cui si apre il vo-
lume e che segna il punto terminale della sua ricerca in questo campo, e
dall’altro nei due progetti einaudiani già discussi2, in cui, come abbiamo visto,
il discorso si articola secondo una struttura ternaria: interpretazione del signi-
ficato culturale e sociale della favola esopica come «razionalismo popolare» e
«morale delle classi subalterne»; ricostruzione storica delle varie fasi dello
sviluppo del genere esopico dalle sue origini mesopotamiche fino alla tarda
antichità e nel Medioevo; vaglio critico di problemi specifici, marginali ri-
spetto all’asse centrale della trattazione. Certo, basta un’occhiata all’indice
della raccolta per toccare con mano lo stato effettivo dei pieni e dei vuoti. Se
sul fronte dell’analisi critica il momento dell’interpretazione sociologico-an-
tropologica della «filosofia» esopica risulta illuminato di vivida luce ed è al-
meno messa a fuoco la questione della tipologia e delle strutture compositive
della narrazione, ben diversamente stanno le cose all’interno del quadro sto-
rico delineato: qui, di fatto, le uniche presenze oggetto di indagine approfon-

2
 Cfr. supra, pp. 15-16 e 24.

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Avvertenza editoriale 59

dita sono il problema dei rapporti con la favolistica assiro-babilonese, il


romanzo di Esopo e il ruolo di Fedro nella tradizione esopica, mentre
– assunto a termine di riferimento l’indice del secondo progetto einaudiano –
mancano all’appello una serie di capitoli fondamentali che ci sarebbe piaciuto
leggere e a cui purtroppo dobbiamo rinunciare3. E tuttavia, sia pure con queste
lacune e solo per alcune tappe, la mappa disegnata orienta il lettore nel suo
viaggio di esplorazione storico-interpretativa del mondo esopico e rende
meno dolorosa la mancata realizzazione di quella Sapienza degli schiavi che
La Penna aveva progettato già all’inizio degli anni Cinquanta.
Nella stessa logica sono stati fatti alcuni accorpamenti di scritti diversi:
così l’articolo Un’altra favola esopica di origine babilonese (1991) è stato integra-
to come terza sezione in Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese
(1964), la recensione della ricerca di Anton Wiechers Aesop in Delphi (1961) è
stata data in appendice allo studio su Il romanzo di Esopo (1962), il manipolo
di proposte di emendamento In «Vitam Aesopi» e In «Vitam Lollinianam»,
apparse in Coniectanea et marginalia I (1962), è stato aggregato, come quarta
e quinta sezione, a una specifica raccolta di Marginalia Aesopica (1963) e infi-
ne le «due appendici di aggiornamento bibliografico» che corredavano la
stampa 2009 di Vie della favola esopica sono state collocate rispettivamente,
la prima al termine di Vie (p. 114), la seconda in parte al termine del capitolo 7
(p. 332) e in parte nell’appendice B (p. 358). Infine, per rendere esplicita e
immediatamente evidente l’intelaiatura del discorso sviluppato nei singoli
capitoli, l’originaria divisione in paragrafi, scandita dal solo numero, è stata
corredata di titoli esplicativi.
Quanto alla Bibliografia essenziale che accompagnava il saggio d’apertura
Origine, sviluppo e funzione della favola esopica, essa è apparsa troppo selettiva
e invecchiata per risultare ancora funzionale nel nuovo contesto senza un
aggiornamento che non fosse un radicale rifacimento, ed è stata pertanto
soppressa. Per un’informazione completa si rinvia a due recenti bibliografie
sistematiche, accessibili in rete:
ARLIMA (Archives de littérature du Moyen Âge), Fable ésopique: Recueils
de fables; Bibliographie générale, https://www.arlima.net/eh/fable.html.
Niklas Holzberg, Bibliographien zur antiken Literatur: Äsoproman; Babrios;
Antike fiktionale Erzälliteratur, 2. Die antike Fabel, http://www.niklasholz-
berg.com./Homepage/Bibliographien.html.

3
  Precisamente: «la favola esopica nella cultura ionica e attica», «la favola esopica fra dia-
triba e retorica», «la favola latina prima di Fedro», «Babrio», «la favola nella tarda cultura
latina e greca» e «la favola latina medievale e umanistica».

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Edizioni di riferimento. Abbreviazioni 61

Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

Tradizione esopica
Ben Edwin Perry, Aesopica. A series of texts relating to Aesop or ascribed to
him or closely connected with the literary tradition that bears his name, col-
lected and critically edited with a commentary and historical essay, I, Univer-
sity of Illinois Press, Urbana 1952 (abbr.: P.).
Oltre al corpus delle favole esopiche greche e latine di tradizione antica,
tardo-antica, bizantina e medievale (per Esopo viene presentata la recensione
Augustana), l’opera contiene: la Vita Aesopi nelle redazioni W e G (quest’ul-
tima in editio princeps) (Vita); le testimonianze antiche su Esopo e le favole
esopiche (Test.); i detti sentenziosi (Sent.) e i proverbi (Prov.) attribuiti al
medesimo Esopo. In particolare si fa riferimento a questa edizione e alla sua
numerazione per i progymnasmata dei retori (Ermogene, Pseudo-Dositeo,
Aftonio), i tetrastici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori, la rac-
colta di Sintipa, le parafrasi prosastiche fedriane del Romulus e di Ademaro,
le favole latine medievali, nonché per le favole tratte dalle raccolte anonime e
pseudonime e per le narrazioni riprese da diversi autori.

Esopo
Aesopi fabulae, recensuit Aemilius Chambry, I-II, «Collection des Universités
de France», Belles Lettres, Paris 1925-1926, con presentazione di tutte le re-
dazioni di ogni favola (abbr.: Ch.).
Editio minor, con scelta di una sola redazione per ogni favola e numera-
zione leggermente diversa: Ésope, Fables, texte établi et traduit par Émile
Chambry, Les Belles Lettres, Paris 1927 (abbr.: Ch.2).

Corpus Fabularum Aesopicarum, I, fasc. 1-2, Fabulae Aesopicae soluta oratione


conscriptae, edidit Augustus Hausrath, «Bibliotheca scriptorum Graecorum
et Romanorum Teubneriana», Lipsiae 1940, 1956; ed. alteram curavit Herbert
Hunger, fasc. 1, 1970, fasc. 2, 1957 (abbr.: H.).
Sono comprese in questa edizione anche le favole dei retori e di altra
provenienza (Papiro Rylands 493, Pseudo-Dositeo, Tavolette di Assendelft,

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62 Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

Aftonio, Sintipa), ma non tutte le diverse redazioni di una stessa favola ripor-
tate nell’ed. Chambry.

Babrio
Babrii Fabulae Aesopeae, recognovit, prolegomenis et indicibus instruxit Otto
Crusius. Accedunt fabularum dactylicarum et iambicarum reliquiae. Ignatii
et aliorum tetrasticha iambica recensita a Carlo Friderico Mueller, «Biblio-
theca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana», Lipsiae 1897.
Si fa riferimento a questa edizione e alla sua numerazione per le favole
dattiliche e giambiche e le parafrasi in prosa (nn. 145-254; abbr.: Crus.) non
comprese nell’ed. Luzzatto – La Penna cit. subito sotto, nonché per i tetra-
stici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori (abbr.: M.).

Babrii Mythiambi Aesopei, ediderunt Maria Jagoda Luzzatto et Antonius La


Penna, «Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana»,
Lipsiae 1986.

Fedro
Babrius and Phaedrus, newly edited and translated into English, together
with an historical introduction and a comprehensive survey of Greek and
Latin fables in the Aesopic tradition by Ben Edwin Perry, «Loeb Classical
Library», Harvard University Press, Cambridge (MA) 1965.

Phaedrus solutus, vel Phaedri fabulae novae xxx, quas fabulas prosarias
Phaedro vindicavit, recensuit metrumque restituit Carolus Zander, «Acta
Societatis humaniorum litterarum Lundensis», Lund 1921 (abbr.: Zand.).

Aviano
Fabulae Aviani, recensuit Antonius Guaglianone, «Corpus scriptorum Lati-
norum Paravianum», Augustae Taurinorum 1958.

Favolisti medievali in latino


Léopold Hervieux, Les fabulistes latins depuis le siècle d’Auguste jusqu’à la fin du
Moyen Âge, 2e éd. entièrement refondue, I-V, Firmin-Didot, Paris 1893-1899
(rist. Franklin, New York 1965) (abbr.: Herv.).
I-II Phèdre et ses anciens imitateurs directs et indirects (1893-1894).
III Avianus et ses anciens imitateurs (1894).
IV Études de Cheriton et ses derivés (1896).
V Jean de Capoue et ses derivés (1899).

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Edizioni di riferimento. Abbreviazioni 63

Altre abbreviazioni
CGL 
Corpus Glossariorum Latinorum, a Gustavo Loewe incohatum
[…] composuit, recensuit, edidit Georgius Goetz, I-VIII, Teubner,
Lipsiae 1888-1923 (rist. anast. Hakkert, Amsterdam 1965), III,
Hermeneumata pseudodositheana…, 1892.
CIL 
Corpus Inscriptionum Latinarum, I-XVII, consilio et auctoritate
Academiae Litterarum Regiae Borussicae edidit Theodorus
Mommsen et alii, Berolini 1863-.
CPG 
Corpus Paroemiographorum Graecorum, ediderunt E. L. a Leutsch
et F. G. Schneidewin, I-II, Vandenhoeck-Ruprecht, Gottingae
1839-1851 (rist. anast. Olms, Hildesheim 1965), I, Zenobius, Dio-
genianus, Plutarchus, Gregorius Cyprius cum Appendice Prover-
biorum, 1839.
DK Hermann Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker. Griechish und
Deutch, sechste verbesserte Auflage herausgegeben von Walther
Kranz, I-III, Weidmann, Berlin 1951-1952.
FGrHist 
Felix Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, I-XVI,
Weidmann, Berlin 1923-1958.
FHG 
Fragmenta Historicorum Graecorum, collegit, disposuit, notis et
prolegomenis illustravit, indicibus instruxit Carolus Mullerus,
I-V, Didot, Parisiis 1841-1873.
PG Patrologiae Graecae cursus completus, Parisiis 1857-1866, XXXVII
3, Gregorii Theologi opera quae extant omnia, accurante denuo et
recognoscente J.-P. Migne, 1862.
RE 
Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neue
Bearbeitung, herausgegeben von Georg Wissowa und andere,
Metzler-Duckenmüller, Stuttgart 1893-1972.
Rhet. Gr. Spengel  Rhetores Graeci, ex recognitione Leonardi Spengel, I-III,
«Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubne-
riana», Lipsiae 1853-1856 (rist. anast. Minerva, Frankfurt am
Main 1966).
Rhet. Gr. Walz  Rhetores Graeci, emendatiores et auctiores edidit, suis
aliorumque annotationibus instruxit indices locupletissimos
Christianus Walz, I-IX, Cotta, Stuttgartiae et Tubingae 1832-
1836 (rist. anast. Zeller, Osnabrück 1968).

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Ringraziamento
Con abnegazione, occhio d’aquila e rilievi sempre puntuali, Daniela Gallo ha
provveduto alla revisione del testo e al completamento degli indici. A lei va il
sentito grazie dell’autore e dei curatori.

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 65

La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 67

Capitolo 1

Origine, sviluppo e funzione della favola


esopica nella cultura antica1

1. Origini mesopotamiche della favola esopica

Fino a meno di un secolo fa, fino a grandi storici della letteratura e del
pensiero greco come Wilamowitz e Jaeger, rimase vigoroso il culto,
risalente all’antichità, della cultura greca come autoctona, cioè come
nata e sviluppatasi, almeno prima dell’età ellenistica, quasi interamen-
te dalla Grecia stessa, senza influenze significative di altre culture; tale
visione oggi non è rovesciata, ma certo modificata in misura non tra-
scurabile: senza nulla togliere all’originalità della cultura greca, si sa
che anche prima dell’età ellenistica i Greci non poco assorbirono, spe-
cialmente nelle arti figurative e nella religione, da popoli stranieri, so-
prattutto del Vicino Oriente. Proprio la favola esopica, benché prenda
il nome da un «saggio» dell’età ionica, è un genere di letteratura che ha
le sue radici fuori della Grecia.
Ancora un secolo fa al centro dell’attenzione erano i rapporti tra la
favola esopica greca e l’analoga favola indiana, presente specialmente
nella raccolta di racconti intitolata Pañcatantra («I cinque libri»); oggi
la prospettiva è del tutto mutata: è dimostrato che i primi esempi di
quel genere di letteratura la cultura greca li conobbe, nell’età ionica,
dalla cultura dell’Asia Minore e che in quella parte del mondo le ori-
gini risalgono fino alla cultura dei Sumeri, ereditata e continuata dalla
cultura babilonese e assira: quella direzione, del resto, era indicata già
da alcune, sia pur rare, testimonianze antiche2.

1
  [Introduzione a Esopo, Favole, a cura di Cecilia Benedetti, Mondadori, Milano 1996,
pp. vii-xxxv; quindi in La favola antica, a cura di Cecilia Benedetti (Esopo) e Fernando
Solinas (Fedro), «Meridiani (I Classici Collezione)», Mondadori, Milano 2007, pp. 3-31].
2
  Per un primo orientamento su questi problemi mi permetto di rimandare a due miei
studi: Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (qui, cap. 3); Le vie della favola esopi-
ca dalla Mesopotamia verso occidente (qui, cap. 2); ma soprattutto rimando alla bibliografia

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68 Capitolo primo

I casi di favole che noi collochiamo nel genere esopico sono ormai
numerosi nei testi in scrittura cuneiforme scoperti nella Mesopotamia;
in alcuni di essi si sono trovate favole poi diffuse nella cultura greca.
Da circa mezzo secolo (e forse anche prima) si sa che risale a un rac-
conto babilonese una delle favole esopiche greche più antiche, quella
dell’aquila e della volpe, narrata già da Archiloco. L’aquila e la volpe si
mettono in società; probabilmente il patto viene sancito da un giura-
mento per Zeus. L’aquila, tradendo il patto, rapisce i cuccioli della
volpe e li dà in pasto ai suoi aquilotti. Dai frammenti di Archiloco il
racconto non riesce del tutto chiaro; comunque, con l’aiuto di Zeus, la
volpe riesce a ottenere giustizia: da un altare di Zeus l’aquila ruba un
pezzo di carne, ma alla carne resta attaccata un po’ di brace; il fuoco si
appicca al nido, gli aquilotti cascano giù, e ora è la volpe a cibarsi dei
figli dell’empia nemica. Press’a poco lo stesso racconto, e ancora più
dettagliato, ricorre in un poemetto epico babilonese, in cui si narra
come l’eroe Etana tentò di salire al cielo montato su un’aquila: i con-
tendenti sono qui l’aquila e il serpente, che in Grecia è stato sostituito
dalla volpe; anche qui il serpente si vendica seguendo i consigli di
Shamash, il dio Sole, che tutto vede e garantisce la giustizia. In un’al-
tra favola babilonese la mosca si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratel-
lo, ti ho affaticato con il mio peso? Vicino all’abbeveratoio volerò via!».
Risponde l’elefante: «Che tu ti fossi posata su di me, non m’ero nep-
pure accorto». La stessa favola si ritrova in Babrio (84), solo che alla
mosca viene sostituita la zanzara, all’elefante il toro, animale familiare
nel mondo greco; naturalmente la morale è la stessa, cioè la satira con-
tro chi si dà importanza e in realtà non conta niente. In una favola
sumerica compresa in una collezione «retorica», cioè in una collezione
di testi usati come esercizi nelle scuole babilonesi (un po’ come, fino a
poco tempo fa, Fedro veniva usato nelle nostre scuole per imparare il
latino), troviamo un leone che, acchiappata una capra, si lascia persua-
dere a liberarla, perché la capra gli promette di offrirgli una grassa
pecora; tornata, però, nel suo recinto e messasi al sicuro, non mantiene
la sua promessa e irride la stoltezza del leone. Da questa favola, secon-
do me, deriva una favola greca (Esopo 137 H.): la narrazione è molto

ivi indicata, alla quale aggiungo qui Fr. R. Adrados, El tema del águila de la épica acadia a
Esquilo, «Emerita», vol. 32, 1964, pp. 267-282.

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 69

simile, la morale la stessa, ma personaggi sono il lupo e il cane. La


collezione «retorica» in cui è contenuta questa favola risale fino alla
prima metà del secondo millennio a. C. Come si vede, nelle letteratu-
re dell’area mesopotamica v’erano sia narrazioni dettagliate, condotte
con finezza artistica, come nella favola dell’aquila e del serpente, sia
narrazioni più brevi, talvolta ridotte al dialogo, in cui la battuta finale
enuncia la morale, quasi equivalenti, quindi, a sentenze o proverbi, con
cui, infatti, si trovano mescolate nelle collezioni.
Le nuove scoperte di testi in scrittura cuneiforme nell’Asia Minore
vanno arricchendo le nostre conoscenze di letteratura «esopica» ante-
riore a quella greca: brevi narrazioni con personaggi animali affini a
quelle delle favole esopiche greche, miranti a dimostrare una morale,
ricorrono anche in testi bilingui in hurrita e ittita scoperti negli archi-
vi di Boğazköy (l’antica Hattusa, capitale del regno degli Ittiti)3. Per
esempio, in una di queste favole la capra selvaggia maledice la monta-
gna e questa risponde con altre maledizioni; nel testo si spiega che
questa è un’allegoria: la capra selvaggia è un uomo esiliato, che male-
dice ingiustamente la propria città. In un’altra favola la capra selvaggia
è ammonita da una divinità benigna ad accontentarsi del pascolo che
le è stato accordato, senza cercare di oltrepassarne i confini. Un metal-
lo prezioso si lamenta contro il fabbro che lo lavora: non capisce che
solo grazie ai colpi del fabbro può diventare una coppa di pregio: un
ammonimento contro i figli che si ribellano ai padri. In altri due testi
compaiono un cane e un maiale, che rubano un pezzo di pane e lo
condiscono con olio o grasso: viene spiegato che la bestia è un’allegoria
del governatore ingordo di una città, che si arricchisce estorcendo doni
ai governati.
È possibile che qualche favola, come quella dell’aquila e del serpen-
te, sia passata dall’Asia Minore alla Grecia e, per via inversa, dall’Asia
Minore all’India4. Più tardi alcune favole passarono dalla cultura gre-
ca a quella indiana, ma non si può escludere che in qualche caso il

3
  I testi a cui mi riferisco, scoperti nel 1983 e nel 1985, sono stati pubblicati e interpretati
da Erich Neu, Das Hurritische. Eine altorientalische Sprache in neuem Licht, «Abhandlun-
gen der Mainz Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 3, Stuttgart 1988, e
ripubblicati da Heinrich Otten e Christel Rüster, Keilschrifttexte aus Boğazköy,
fasc. 32, Berlin 1990. Ringrazio Ruggero Stefanini per la segnalazione. L’interpretazione
dei testi presenta qua e là difficoltà gravi e non è sempre sicura.
4
  Cfr. il mio studio Le vie della favola esopica, pp. 178-179 ss. (qui, pp. 105-106).

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70 Capitolo primo

passaggio sia inverso. Non bisogna però credere che tutta la favola
«esopica» sia nata nell’area mesopotamica: non solo in India, ma anche
in Cina e in altre parti del mondo, racconti con personaggi animali
possono essere stati usati a fini gnomici: la monogenesi non sarebbe
ipotesi convincente.

2. La favola nella letteratura greca da Esiodo ad Aristofane

Esiodo, prima di Archiloco, ricorse alla favola con personaggi anima-


li per dimostrare efficacemente ciò che accade fra gli uomini. Egli
definisce il breve racconto come αἶνος, e la definizione rimase nella
cultura greca: αἶνος ha la stessa radice di αἴνιγμα, «enigma», e si rife-
risce alla favola in quanto allusione sottile a personaggi e circostanze
del mondo umano, allusione che richiede acume per essere spiegata.
Ecco l’αἶνος di Esiodo (Le opere e i giorni 202-212):

Ora ai re, per quanto saggi essi siano, racconterò una favola. Così lo sparvie-
ro disse all’usignuolo dal collo variopinto, portandolo, dopo averlo ghermito
con i suoi artigli, molto in alto fra le nuvole: quello, trafitto dagli artigli ricur-
vi, gemeva; e a lui lo sparviero parlò con superba violenza: «Sciagurato, perché
gridi? Sei in potere di uno molto più forte di te: tu andrai esattamente dove
io vorrò menarti, anche se sei un cantore; farò di te il mio pasto, se vorrò, o
ti lascerò libero. Stolto chi vuole resistere ai più forti di lui: non ottiene vit-
toria e oltre la vergogna patisce il dolore». Così disse lo sparviero dal rapido
volo, l’uccello dalle lunghe ali spiegate.

L’αἶνος consiglia al debole di non lamentarsi; ma innanzi tutto con-


stata la feroce ingiustizia che domina nella società umana, dopo che è
entrata nell’età del ferro; e tuttavia la constatazione non è accettazione,
anzi è protesta contro la violenza portatrice d’iniquità: infatti seguono
gli ammonimenti di Esiodo al fratello Perse perché ascolti la giustizia
(δίκη) e non coltivi la ὕβρις, cioè la prevaricazione, sostenuta dalla
forza: dunque l’analisi lucida della società umana è ispirata dall’amore
della δίκη e il valore della δίκη è garantito da Zeus. Ora, gli esempi per
dimostrare la verità ed esortare il destinatario non si attingono solo dai
miti degli dei e degli eroi, ma da brevi racconti allegorici diffusi, per
tradizione orale, fra il popolo e portatori di una nuova saggezza popo-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 71

lare. Nel testo di Esiodo troviamo anche la struttura narrativa più co-
mune e più caratteristica della favola «esopica», cioè il contrasto-dialogo
fra due personaggi animali (o anche provenienti dal mondo vegetale), di
cui uno enuncia (esplicitamente o implicitamente) la «morale».
Ha la stessa ispirazione, ma è svolta con arte più fine, la favola
dell’aquila e della volpe in Archiloco (anche qui il termine per indi-
care la favola è αἶνος); ma al grande lirico di Paro la favola serve
anche per irridere la stoltezza degli uomini e per svelare la realtà
sotto le illusioni e la vanagloria. In un epodo di cui conserviamo tre
frammenti (81-83 D.) vediamo la scimmia che si aggira solitaria e,
incontrata la volpe, vanta la nobiltà del proprio casato; «basta guar-
darti le natiche!» risponde la volpe. Dunque l’αἶνος ha, tra le altre
funzioni, quella di demistificare: un compito tra i più caratteristici
della futura favola esopica. È difficile, invece, avere la certezza che
Archiloco narrasse un’altra favola sulla volpe, che troviamo svolta
con ricchezza di dettagli da Babrio (95): la volpe, solleticando la va-
nità del cervo, facendogli credere che il vecchio leone malato voglia
nominarlo suo successore come re degli animali, lo induce ad acco-
starsi al letto del leone, che lo sbrana e lo divora. Comunque al tem-
po di Archiloco, cioè nel VII secolo a. C., la volpe è già il personag-
gio più familiare nel mondo della favola gnomica.
Che la favola venga usata non raramente nella riflessione morale
greca del VII e VI secolo a. C., è dimostrato da accenni di Solone,
Semonide di Amorgo, Teognide. Nel pensiero antico la morale si con-
fonde con la politica, e anche nella lotta politica, fra demos e nobiltà,
fra demos e tirannia, la favola viene usata talvolta come arma opportu-
na: per esempio, sappiamo dalla Retorica di Aristotele (II 20) che il
poeta Stesicoro (104 Page), per ammonire i suoi concittadini di Imera
a non accettare la protezione del tiranno Falaride, raccontò la favola,
divenuta poi famosa, del cavallo, del cervo e dell’uomo: il cavallo, per
cacciare il cervo dal pascolo, si allea con l’uomo, si fa cavalcare e poi
resta schiavo del suo alleato.
Questi usi della favola si ritrovano anche nella cultura attica del
V secolo a. C. Nella tragedia, però, l’uso è molto raro: di favole con
personaggi animali si può segnalare un solo esempio, che ricorre in
un frammento dei Mirmidoni di Eschilo (139 Nauck): l’aquila con-
stata amaramente di essere stata ferita da una freccia fatta con una

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72 Capitolo primo

penna dell’aquila stessa (la stessa morale della favola in cui l’albero
viene tagliato con la scure fatta del suo stesso legno). L’uso politico
della favola si può ricavare, come abbiamo visto, dalla Retorica di
Aristotele, che prende gli esempi da tempi di lui più antichi: nello
stesso passo in cui cita la favola di Stesicoro contro il tiranno, ne cita
un’altra, adattabile a molte epoche, contro i politicanti avidi, che è
meglio sopportare per evitare guai anche peggiori: una volpe, attra-
versando un fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto diru-
pato, da cui non può tirarsi fuori; le zecche la coprono e le succhiano
il sangue; capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle
zecche: «Ti prego di no» risponde la volpe. «Queste qui sono già
rimpinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora
affamate».
In luce diversa, con funzione diversa appare la favola esopica nelle
vive testimonianze del grande poeta comico Aristofane. Egli conosce
favole già narrate da Archiloco, come quella dell’aquila e della vol-
pe (Uccelli 652-654) e quella della volpe e della scimmia vanagloriosa
(Acarnesi 120-121), e accenna anche ad altre: per esempio, alla favola del-
la guerra fra l’aquila e lo scarafaggio, dove lo scarafaggio vola in cielo fino
a Zeus (Pace 127-130), e a una, che forse non ci è conservata, in cui per-
sonaggi erano il topo e la donnola (Vespe 1181-1182). Il commediografo
non narra le favole, ma le richiama per accenni: si tratta, dunque, di
racconti ben noti al pubblico a cui si rivolge; del resto a proposito della
favola del topo e della donnola dice esplicitamente che si tratta di una di
quelle storielle comunemente raccontate nelle case. Nell’uso di Aristo-
fane il sapore ludico prevale nettamente su quello gnomico e c’è ragio-
ne di credere che ciò non sia dovuto solo all’assimilazione da parte del
poeta comico: già nelle case degli ateniesi e negli incontri della gente
fuori di casa le favole si raccontavano per divertimento, mescolate con
altri aneddoti e specialmente con motti di spirito.

3. Il romanzo di Ah.īqār e la nascita del «personaggio Esopo»

Aristofane già cita Esopo considerandolo comunemente noto al pub-


blico: a lui attribuisce la favola dell’aquila e della volpe e quella dell’a-
quila e dello scarafaggio; ma per il poeta comico Esopo non è autore
specifico delle favole che noi chiamiamo esopiche, bensì anche di mot-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 73

ti spiritosi e divertenti, fra cui le favole trovano il loro posto naturale.


Facezie di Esopo ricorrono nelle chiacchiere con cui gli accusati intrat-
tengono un giudice per divertirlo e placare la sua ira (Vespe 566-567); il
favolista compare in un aneddoto come questo, che solo molto appros-
simativamente si potrebbe dire una favola esopica (Vespe 1401-1405):

Mentre Esopo tornava una sera da cena, una cagna sfrontata e ubriaca gli
abbaiò contro. Allora le disse: «Cagna, cagna, se, per Zeus, invece della tua
cattiva lingua, tu comprassi da qualche parte del frumento, credo che saresti
molto più saggia».

Storielle del genere, il cui sale era nelle battute spiritose, si raccon-
tavano per divertimento anche nei conviti (Vespe 1259-1262). Di Esopo
Aristofane conosceva anche vicende biografiche: accenna, infatti,
all’accusa, che gli abitanti di Delfi gli mossero, di aver rubato un vaso
appartenente ad Apollo e al modo in cui Esopo li ammonì, raccontan-
do la favola dell’aquila e dello scarafaggio (Vespe 1446-1448). Da un
altro passo (Uccelli 471 ss.) si è voluto anche ricavare che Aristofane
conoscesse una biografia scritta di Esopo, in cui erano inserite alcune
favole come narrate in determinate occasioni: l’interpretazione non è
assurda ma, tuttavia, la formulazione non è abbastanza chiara da ri-
chiedere il riferimento a opera scritta: a rigore se ne ricava solo la fre-
quente pratica di narrazioni esopiche, che potrebbero anche essere
trasmesse solo oralmente.
Comunque nell’Atene del V secolo a. C. si parlava di Esopo come
di un personaggio realmente esistito. Non ci sono ragioni decisive per
negarne la realtà storica (anche se la negava, per esempio, Vico, che
vedeva in Esopo una figura-simbolo analoga a quella di Omero e a essa
contrapposta: il simbolo, cioè, della saggezza plebea); ma ben presto,
e poi sempre più nei secoli seguenti, gli sono stati attribuiti caratteri e
azioni che non hanno fondamento storico: Esopo, sia o no realmente
esistito, divenne presto un simbolo.
Erodoto, uno dei più importanti mediatori fra la cultura ionica e la
cultura attica, attingendo probabilmente da tradizioni locali dell’isola
di Samo, conosceva Esopo come schiavo, a Samo, di un certo Iadmo-
ne (in altre fonti Idmone) e lo collocava nel tempo di Saffo (cioè dal-
la fine del VII alla prima metà del VI secolo a. C.); un erudito del
III secolo a. C., Eraclide Pontico, indicava Xanto come primo padrone

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74 Capitolo primo

di Esopo, che sarebbe poi stato liberato da Idmone5. Anche se non lo


ricaviamo da Erodoto, è certo che la fama di Esopo nel V secolo a. C.
era dovuta alla sua originale «sapienza» (egli era già uno dei σοφοί
della cultura greca arcaica) ed è probabile che già allora la sapienza
dello schiavo venisse messa in contrasto con la stoltezza del padrone,
cioè che la saggezza del padrone venisse sgonfiata, demistificata. Già
nel V secolo a. C. lo schiavo Esopo veniva rappresentato come defor-
me: su una kylix attica di quell’età, conservata nel Museo Vaticano,
vediamo dipinto un uomo dalla testa grossissima e sporgente in avan-
ti, dai lunghi capelli e lungo pizzo neri, dai mustacchi ben visibili, dal
lungo naso un po’ aquilino, dal ventre prominente, che, seduto, con-
versa con una volpe, anch’essa seduta e con le zampe anteriori gestico-
lanti: è la stessa raffigurazione che troviamo nella biografia di Esopo
di età imperiale e l’identificazione con il favolista è molto probabile. Si
tratterà di una caricatura, dietro la quale non è detto che ci fosse una
realtà storica. Era corrente già nel V secolo a. C., giacché vi accenna,
come abbiamo visto, Aristofane, la tradizione sulla sua morte: entrato
in conflitto con i sacerdoti di Delfi, veniva da essi accusato, condanna-
to e ucciso.
Dal IV secolo a. C. in poi la biografia di Esopo si arricchì di altri
elementi, dietro cui sarebbe vano cercare una realtà storica: egli sog-
giorna per un certo tempo alla corte di Creso, re di Lidia; inoltre viene
messo in contatto con i sette saggi greci: accanto a essi lo troviamo nel
Convito dei sette saggi di Plutarco, ma in una condizione d’inferiorità,
seduto su uno sgabello bassissimo. Il contatto con i sette saggi viene
escluso dall’ampia biografia di età imperiale, forse perché l’autore non
accettava il declassamento di Esopo; in compenso, però, vi è inserito
un pezzo relativamente ampio, che ricalca un racconto di lontana ori-
gine assiro-babilonese, il «romanzo» di Ah.īqār. Il protagonista di que-
sto racconto è un alto funzionario della corte del re di Babilonia, che
nella Vita di Esopo prende il nome greco di Licurgo (oggi è accertata
la sua realtà storica: ci fu effettivamente un ummanu, cioè un alto con-
sigliere, di questo nome alla corte del re assiro Esarhaddon, che regnò

5
  Qui e in seguito, per quanto riguarda la figura di Esopo, attingo dal mio studio
Il romanzo di Esopo (qui, cap. 4); ora si possono vedere gli studi di vari autori raccol-
ti da N. Holzberg in Der Äsop-Roman. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübin-
gen 1992.

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 75

dal 681 al 669 a. C.). Egli adottò come figlio un suo nipote, ma questi,
di indole malvagia, calunniò il padre adottivo presso il re; Ah.īqār fu
condannato a morte, ma l’ufficiale incaricato dell’esecuzione, ricono-
scente per i benefici ricevuti, gli risparmiò la vita e lo nascose con cura
(motivo, come si sa, diffuso nelle fiabe di molti paesi). Poco dopo il re
di Babilonia si trovò in grave difficoltà, perché ricevette una sfida dal
faraone d’Egitto; la guerra, però, si combatteva senza spargimento di
sangue: consisteva in una gara di indovinelli, al termine della quale il
vinto doveva pagare un tributo al vincitore. Il re di Babilonia è dispe-
rato, ma l’ufficiale gli rivela che il sapiente Ah.īqār è vivo e che può
affrontare tranquillamente la sfida. Il figlio adottivo viene condannato
per la sua calunnia, ma il padre ottiene che egli non venga ucciso. Il
racconto ha, sì, un suo fascino per l’intreccio fantastico, ma ancora più
serve da cornice a due prediche, a due serie di precetti: l’una tenuta
quando il figlio viene introdotto a corte, l’altra, molto aspra, dopo che
il figlio è stato condannato (ma in alcune redazioni le prediche si ridu-
cono a una sola e la collocazione varia); il malvagio calunniatore,
schiacciato dall’ultima predica, muore. Nella serie di precetti compa-
iono, almeno in alcune redazioni, anche favole «esopiche».
Di questo «romanzo» erano note nell’Ottocento varie redazioni,
risalenti al basso Medioevo, in diverse lingue (siriaca, armena, turca,
slava, etiopica), ma gli studiosi congetturarono, anche in base al con-
fronto con la Vita Aesopi, che dovevano esserci redazioni molto anti-
che; frammenti di una di queste, in lingua aramaica, furono scoper-
ti all’inizio del nostro secolo su un papiro in una colonia ebraica di
Elefantina, in Egitto, e pubblicati nel 1907; il papiro viene datato al
V secolo a. C.; è molto probabile, dato il contenuto e l’onomastica, che
la prima redazione fosse in accadico (risalisse, cioè, alla cultura babilo-
nese). Ora, tutta la parte della biografia di Esopo che narra le vicende
del «sapiente» alla corte del re Licurgo si può considerare una redazio-
ne greca del «romanzo» di Ah.īqār.
La Vita Aesopi è, dunque, un conglomerato di vari elementi, alcuni
dei quali risalenti fino al VI secolo a. C., altri aggiunti in età ellenistica,
altri, infine, all’inizio dell’età imperiale romana. Delle varie redazioni
correnti nell’antichità due, molto affini tra loro, ci sono state conser-
vate quasi intere: l’una già nota da secoli e pubblicata nell’Ottocento,
l’altra scoperta in un codice di Grottaferrata, che, dopo essere scom-

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76 Capitolo primo

parso, è riapparso nella Pierpont Morgan Library di New York, e poi


pubblicata nel 1952 da Ben Edwin Perry. La seconda è più vicina all’o-
riginale, redatto, probabilmente, nel I secolo d. C.: in questa vediamo
Esopo protetto dalla dea, di origine egiziana, Iside. Nella prima vedia-
mo Iside sostituita da Tyche (cioè la Fortuna): anche se la dea egiziana
era entrata da secoli nella religione greca e poi romana, il redattore
aveva voluto «ellenizzare» il testo.
Dunque, anche se mutato e molto arricchito, l’Esopo del V secolo a. C.
restava pur sempre nella biografia romanzata corrente negli ultimi
secoli dell’antichità; va però ricordato che nella cultura attica la favola
«esopica», sebbene fosse un elemento di spicco nella saggezza di Eso-
po, non costituiva un elemento separato e che, d’altra parte, non tutta
la favola «esopica» si faceva risalire a lui: Eschilo, per esempio, ritene-
va «libica» la favola da lui citata; alcuni aneddoti sentenziosi affini alle
favole esopiche, ma in cui parlavano gli uomini, rientravano in un ge-
nere proveniente da Sibari e come sibaritici vengono citati da Aristo-
fane; già in età attica o più tardi vediamo citate favole come provenien-
ti da regioni del Vicino Oriente, dalla Lidia, dalla Caria, da Cipro.
L’Asia Minore, vicina alla Mesopotamia, fu certamente l’area attraver-
so cui più spesso la favola «esopica» penetrò nella cultura greca; invece
il genere attecchì raramente nella cultura ebraica (pochissimi sono gli
esempi nella Bibbia) e nell’Egitto, dove i pochi esempi sono quasi
tutti di età ellenistica.

4. Retorica, diatriba e formazione delle prime raccolte esopiche

Aristotele nella Retorica pensava che le favole potessero riuscire utili


agli oratori come παραδείγματα, cioè come esempi di certi comporta-
menti degli uomini; ma la presenza di favole esopiche negli oratori
attici del IV secolo a. C., negli oratori greci delle età seguenti e negli
oratori latini è molto scarsa, irrilevante: questo è un indizio, a cui altri
si aggiungeranno, che già nel IV secolo a. C. la favola esopica è un
genere di letteratura inferiore. Essa però entra, anche se non in larga
misura, in quel genere di filosofia etica divulgativa che noi compren-
diamo sotto il nome di «diatriba» e che a volte è più vicino alla conver-
sazione, a volte più alla predica: ciò si vede dall’uso non tanto raro da
parte di Plutarco, di Luciano, di Massimo Tirio e prima, anche se in

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 77

minor misura, da parte di Dione Crisostomo. Fu attraverso la diatriba


che la favola esopica entrò dapprima nella cultura latina: una, narrata
distesamente, con ricchezza e finezza di dettagli, si trovava già nelle
Saturae di Ennio (noi possiamo leggerla nella parafrasi, abbastanza
vicina all’originale, di Gellio, Noctes Atticae II 29); con arte non mino-
re, e forse con vena comica plautina, era narrata da Lucilio (980 Marx)
la favola del leone malato, da cui la volpe non si lascia ingannare;
poche altre sono narrate, o brevemente richiamate, da Orazio nelle
Satire e nelle Epistole (le più note sono quelle del topo di campagna e
del topo di città e quella della volpe entrata nel granaio che, rimpinza-
tasi, non può uscirne).
Nella retorica la favola esopica troverà una diversa collocazione e
funzione, una funzione tale che poteva essere affidata, già prima della
scuola di retorica, alla scuola del grammatico: essa troverà posto fra i
testi da usare nei προγυμνάσματα, cioè negli esercizi che preparano
alla composizione. Se ne può avere un’idea chiara dall’Institutio oratoria
di Quintiliano (I 9, 2): ecco uno dei consigli che il grande retore dà al
grammatico:

Dunque [i ragazzi] imparino a narrare in stile corretto – che non si innalzi


neppure di un gradino sopra la misura [cioè che non abbia nessuna pretesa di
stile elevato] – le favolette di Esopo [Aesopi fabellas], che vengono subito
dopo le favole delle nutrici, e imparino poi a mantenere per iscritto la stessa
gracilità stilistica: dapprima scioglieranno i versi [cioè disporranno le parole
come se fossero prosa], poi muteranno le parole con altre dello stesso senso,
infine parafraseranno il testo più liberamente, con licenza di abbreviare certe
parti e di ornarne altre, rispettando, però, il pensiero del poeta.

Come già Aristotele, anche Quintiliano (V 11, 19) dà un posto alle


favole esopiche fra gli exempla, ma è evidente che la loro dignità è ri-
dotta al minimo:

Anche quelle favolette che, anche se non hanno avuto origine da Esopo (in-
fatti il primo inventore sembra Esiodo), sono tuttavia note soprattutto sotto
il suo nome, influiscono molto sull’animo specialmente di persone rozze e
ignoranti [praecipue rusticorum et imperitorum], che ascoltano più ingenua-
mente i racconti inventati e che, conquistati dal piacere, si lasciano persuade-
re facilmente da ciò che suscita in loro diletto.

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78 Capitolo primo

E ricorda l’esempio dell’apologo di Menenio Agrippa, così efficace


sulla plebe, e la favola della volpe e del leone malato in Orazio. Anche
al di fuori della scuola del grammatico la favola esopica è letteratura
elementare per gente incolta. Certamente la dottrina di Quintiliano
sulla favola esopica proviene dalla retorica greca: la collocazione fra i
προγυμνάσματα la troviamo in retori greci a partire dall’età di Quin-
tiliano: in Elio Teone, suo contemporaneo, in Ermogene di Tarso,
della seconda metà del II secolo d. C., in Aftonio, del IV secolo d. C.;
ma si può considerare certo che essi continuino una tradizione scola-
stica ellenistica. Nella scuola, se la scelta delle favole esopiche è dovu-
ta soprattutto alla scarsa complessità, alla facile intelligibilità dei testi
e alla semplicità (ἀφέλεια) dello stile, anche la funzione educativa in
senso morale viene messa tuttavia in conto.
Un altro processo, molto più importante per la trasmissione della
favola esopica, ha inizio verso la fine dell’età attica e continua nell’età
ellenistica: la formazione di raccolte di favole che, fossero o no prece-
dute da una biografia di Esopo, erano indipendenti dalla biografia che
noi conosciamo. È attendibile la notizia che una prima raccolta fu re-
datta da Demetrio di Falero, un dotto ed elegante allievo di Teofrasto,
che per una quindicina d’anni (dal 322 al 307 a. C.) governò Atene; ma
non abbiamo nessuna possibilità di ricostruirne alcuna parte; aleatoria
è l’ipotesi che una parte di quella raccolta ci sia conservata in un papi-
ro della collezione di John Rylands (n. 493), scritto probabilmente all’i-
nizio del I secolo d. C., contenente i resti di quattordici favole, di cui
solo cinque o sei leggibili. Riesce anche impossibile scegliere fra le
varie congetture tentate sul carattere della raccolta di Demetrio: se
fosse destinata agli oratori, se avesse funzione etica e parenetica,
se assolvesse solo un compito di ricerca erudita nel campo del folklore.
Le raccolte a noi conservate in codici risalgono all’età imperiale o al
Medioevo bizantino: sono, dunque, tutte posteriori all’età ellenistica.
Lunghe e pazienti ricerche hanno portato a fissare tre redazioni (recen-
siones) diverse:
a) Augustana (prende nome da uno dei codici in cui è conservata,
che appartiene alla biblioteca statale di Monaco di Baviera). Com-
prende 178 favole, di cui una parte si ritrova anche nelle altre due re-
censioni. Le si affianca una recensione I a, cui, però, alcuni studiosi
danno una collocazione diversa;

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 79

b) Vindobonense (da uno dei codici in cui è conservata, che appar-


tiene alla biblioteca statale di Vienna);
c) Accursiana, così detta da Buono Accorso, un umanista pisano,
che la pubblicò per la prima volta a Milano nel 1479; detta anche Pla-
nudea, perché la si ritiene, non senza valide ragioni, compilata dal
dotto bizantino Massimo Planude nel XIV secolo. Al suo interno si
distinguono quattro sottorecensioni.
Oggi non è ancora possibile sapere (forse lo sarà dopo ricerche ap-
profondite sulla lingua e lo stile) quando siano state compilate e redat-
te le recensioni che conserviamo: la datazione oscilla per l’Augustana
dal I-II secolo d. C. al IX (dunque non è neppure sicuro che sia la più
antica, anche se questa è l’opinione prevalente); per la Vindobonense
dal IV-V secolo al IX; per l’Accursiana dal III secolo al IX. Che queste
raccolte ne presuppongano altre, a noi ignote, viene comunemente
ammesso; ed è molto probabile che le favole fossero stese in prosa, non
in versi. Le favole che correvano nel V secolo a. C. sotto il nome di
Esopo, e anche le altre che si facevano derivare da altri paesi, erano
indicate come λόγοι, cioè come racconti in prosa, ed Esopo era un
λογοποιός, uno che componeva in prosa, il più antico, forse, dei pro-
satori greci. Indizi di raccolte ellenistiche di favole in versi (trimetri
giambici e coliambi) sono stati segnalati nelle redazioni in prosa a noi
conservate, ma indizi del genere si possono ricavare, con un po’ di
pazienza e con qualche adattamento, da molte pagine di prosa greca,
dietro le quali sicuramente non c’è alcun testo poetico. Non abbiamo
prove serie per pensare che esistessero raccolte di favole greche in ver-
si prima di Babrio (cioè prima del II secolo d. C.); naturalmente erano
stese in versi le favole inserite in altre opere di poesia.
Quando si parla di tradizione manoscritta di testi come le favole
esopiche è opportuna qualche precisazione. In parte la tradizione è
simile a quella comune dei testi letterari (di Euripide, Platone, Virgi-
lio, Livio), cioè avviene per opera di copisti che si propongono di ri-
produrre fedelmente il loro testo (chiamiamoli copisti-riproduttori).
In parte, però, la tradizione passa per copisti che si ritengono liberi di
modificare il testo, di abbreviarlo, di ampliarlo, di ornarlo (chiamia-
moli copisti-redattori o, addirittura, nuovi autori). In parte la tradizio-
ne delle favole esopiche è quella dei racconti popolari o dei commenti
o di certi manuali: si tratta, cioè, di testi in continua trasformazione.

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80 Capitolo primo

5. Esopo in latino: Fedro e la poetica della brevitas e dell’urbanitas

È nella letteratura latina che troviamo la prima raccolta di favole eso-


piche in poesia. Fedro, l’autore di tale opera, oltre a ricreare in latino
le favole esopiche, attraversò esperienze amare, che quasi ne facevano,
nella vita, un nuovo Esopo. Nelle inscriptiones e subscriptiones dei suoi
libri è indicato come liberto di Augusto: dunque era stato schiavo; c’è
qualche indizio che provenisse dalla Tracia e che, fatto schiavo, fosse
portato a Roma ancora fanciullo. Un liberto a quell’epoca poteva tro-
varsi in buone, e persino ottime, condizioni economiche e aspirare a
una buona carriera in qualche grande casato; ma Fedro, a causa di al-
cune favole scritte, fu perseguitato da Seiano, il potentissimo collabo-
ratore di Tiberio: subì un processo, non sappiamo sotto quale accusa,
e fu condannato. Questa calamitas fu una ferita profonda, che lo umi-
liò per il resto della vita; da alcuni suoi testi lo vediamo alla ricerca
della protezione di liberti che avevano qualche potere. Scrisse la mag-
gior parte dell’opera quando era vicino alla vecchiaia o già vecchio,
stanco, sconfitto; né l’opera valse a consolarlo, anzi si aggiunse l’ama-
rezza per lo scarso successo, dovuto, secondo lui, all’ostilità di alcuni
invidiosi. Non è azzardato supporre che queste esperienze personali
abbiano dato un impulso alla scoperta della favola esopica come voce
degli schiavi oppressi (servitus obnoxia), che, non osando parlare aper-
tamente, ricorrono al velo dell’allegoria (III prol. 33 ss.).
Fedro intende scrivere narrazioni piacevoli, divertenti, ma alla fun-
zione comica unisce strettamente quella etica, che consiste nell’offrire
consigli di prudenza per la vita quotidiana (I prol. 3 ss.): questi debbo-
no servire a salvarsi, se possibile, dalla forza, dalla violenza, dalla frode,
che operano normalmente nella società umana e che, se talvolta appa-
iono ineluttabili e non si possono eliminare, si possono tuttavia per lo
più eludere o addirittura punire. La forte urgenza etica limita l’interes-
se del poeta per la narrazione attenta, minuta, illuminata dalla grazia e
per la fine cesellatura descrittiva e si associa bene con la poetica della
brevitas; il gusto per la brevità e rapidità narrativa è condizionato, però,
e in misura maggiore, da una tendenza retorica sviluppatasi in età el-
lenistica in questo genere di letteratura, tendenza che privilegia la bre-
vità unita con la chiarezza e l’eleganza (un effetto non immediato, e
abbastanza misurato, si può scorgere nella recensio Augustana). La fe-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 81

deltà alla brevitas, mai rinnegata dal poeta, non è però tale da non
permettere, dopo il primo libro, qualche narrazione più distesa, detta-
gliata, vivace, specialmente in aneddoti con personaggi umani, diversi
dalle favole esopiche vere e proprie. Il ricorso sporadico a tali aneddo-
ti s’inquadra nella tendenza, dichiarata dopo il primo libro, ad accre-
scere la varietà di temi: nel primo libro Fedro dev’essersi servito di una
raccolta di favole esopiche in senso stretto, poi ha cercato di ampliare
l’orizzonte, ricorrendo ad altre fonti e anche ad altri generi di narra-
zione, puntando su una varietà piacevole (II prol. 9 ss.). Comunque le
qualità migliori di Fedro, vivacità e naturalezza nello sviluppo dell’a-
zione, senza interesse accentuato per la descrizione, e particolare feli-
cità nel dialogo, si manifestano già chiaramente nel primo libro.
Con la scelta della brevitas ben si accorda lo stile. Questo coincide
con quello che vediamo operante anche nella favolistica greca in prosa,
cioè con la scelta dello stile semplice (ἀφελής, ἁπλοῦς) e chiaro (σαφής);
ma Fedro deve di più a uno dei filoni stilistici della poesia latina, quel-
lo che va da Terenzio all’Orazio del sermo: lingua e stile sono vicini, sì,
all’uso quotidiano, ma all’uso delle persone colte (vale a dire che c’è una
scelta netta in favore dell’urbanitas); su questo fondo l’arte, ispirata
dalla saggezza e dalla misura, opera per evitare fiacchezza e prolissità
e per tessere una narrazione e un dialogo che si caratterizzino per vi-
vacità mimica, agilità, eleganza.
Fedro, rielaborato stilisticamente con molta libertà, è in Occidente
la fonte principale della favolistica esopica in latino nella tarda antichi-
tà e nel Medioevo, svolta ora in prosa, ora in versi; tuttavia già il
Romulus, una raccolta tardo-antica di favole latine in prosa, contiene
anche materiale non proveniente da Fedro; altro materiale arriverà da
altre fonti nelle raccolte medievali, sino alle favole indiane del Pañca-
tantra, passate attraverso traduzioni arabe. Questa ricca fioritura si
colloca oltre i limiti che ci siamo posti.

6. Il favolista agghindato: Babrio o della morale senza unghie

Nella cultura greca la prima raccolta di favole esopiche in versi che noi
conosciamo è quella scritta da Babrio. Anche se il nome proviene
dall’Italia, Babrio è uomo di cultura interamente greca: sarà stato di-
scendente di una di quelle famiglie trasferitesi dall’Italia in Oriente

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dall’ultimo secolo della Repubblica romana in poi. Visse in Siria, o in


paesi vicini, nel II secolo d. C. (ma altri, non senza importanti indizi,
lo collocano nella seconda metà del I secolo d. C.).
In parte Babrio, che ignora Fedro, batte anche lui la via del favolista
latino, cioè mira a una elegante brevità, il cui succo è nella gnome argu-
tamente espressa dalla battuta finale, con un effetto un po’ simile a quel-
lo degli epigrammi satirici. Ne do, in traduzione, qualche esempio:

L’arabo e il suo cammello (8)


Un arabo, che aveva posto un grave carico sul suo cammello, gli chiese se
preferiva prendere la via in salita o in discesa. E il cammello, non senza ispi-
rata arguzia: «La via diritta è forse preclusa?».
Il gatto e il gallo (17)
Un gatto, appostatosi per acchiappare dei polli domestici, si lasciò penzolare
da certi pioli come un sacco vuoto. Lo vide il gallo dagli adunchi sproni, e
così lo dileggiò con acuta voce: «Molti sacchi ho già visti e conosco, ma nes-
suno, dico a te!, aveva denti!».
L’eunuco e l’indovino (54)
Un eunuco andò da un sacerdote indovino per consultarlo sui figli che voleva
avere. Il sacerdote, disteso il sacro fegato della vittima: «Quando guardo que-
sto fegato, pare che diventerai padre, ma quando guardo il tuo viso, non mi
sembri neppure un uomo».

Anche da qualche punto di queste favole brevi (ne ho contate una


trentina, cioè circa un quinto delle favole conservateci direttamente) si
vede che Babrio punta sull’ornamento letterario. Tale proposito, del
resto, è enunciato alla fine del primo prologo (17-18): egli vuole rende-
re più fiorite, attingendo dalla sua cultura poetica, le favole e deposi-
tare dolce miele, come in un favo, nella mente del suo discepolo; ciò
ben si accorda con il proposito di togliere asprezza, di rendere molli e
gradevoli i suoi coliambi, benché il metro nella tradizione fosse ritenu-
to più adatto a una poesia aggressiva, mordace; e questo secondo pro-
posito viene ribadito alla fine del secondo prologo (13 ss.), collocato
fra 107 e 108.
Ma la tendenza propria di Babrio va verso un’ornamentazione
stilistica che conferisca decoro letterario, e grazia, ancora più che
decoro. Posso dare un’idea del suo Kunstwollen traducendo l’inizio

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 83

della sua lunga favola sul gracchio che si riveste delle penne di vari
altri uccelli (72):

Una volta Iride, purpurea messaggera del cielo, annunziò agli uccelli che era
indetta una gara di bellezza da tenersi nelle dimore degli dei: l’annunzio fu
subito udito da tutti, e tutti furono presi dal desiderio dei premi divini. Una
fonte sgorgava da una roccia che anche per una capra era difficile a raggiun-
gersi, e l’acqua sotto era raccolta, lucente come l’estate e trasparente; e là ar-
rivarono uccelli di ogni specie, e si lavavano la faccia e le gambe, scuotevano
le zampe, si pet­tinavano le chiome. A quella fonte arrivò anche un gracchio...

Un’ornamentazione un po’ più sobria si trova nella favola del topo di


campagna e del topo di città (il cui svolgimento il lettore potrà confron-
tare con quello di Orazio); anche di questa (108) traduco solo l’inizio:

Di due topi l’uno viveva in campagna, l’altro aveva la sua tana nella dispensa
di una ricca famiglia. Decisero di menare vita in comune. Il topo domestico
per primo andò a pranzo nella campagna, che da poco aveva incominciato a
fiorire verdeggiante. Mentre rodeva magre radici di grano, bagnate e mesco-
late con nera zolla, disse: «Tu vivi la vita di una misera formica, mangiando
tenui chicchi nella profondità della terra. Io, invece, ho a disposizione molti
cibi e me ne avanzano: in confronto a te abito nel corno di Amaltea [la dea
dell’abbondanza]. Se venissi con me, scialacquerai come vuoi: lascia che que-
sta terra se la scavino le talpe».

Un vero exploit Babrio ci ha dato nella favola del leone malato,


della volpe e del cervo (95), la più lunga (più di cento versi), accurata
nella descrizione e nel dialogo. La debolezza di Babrio, però, non è
nella prolissità della narrazione (neppure la favola più lunga riesce pro-
lissa), ma piuttosto nella mancanza di vis mimica e di vis comica: le sue
qualità non vanno al di là del garbo letterario. Garbata è anche la sua
morale, priva di profonda amarezza, non aggressiva, tollerante, talvol-
ta venata di scetticismo.
Furono forse il garbo, la misura, la colta urbanitas a procurare alle
favole di Babrio un immediato e largo successo: ce ne parla lui stesso
nel secondo prologo (9 ss.); papiri e tavolette cerate ci hanno restituito
poche favole di Babrio, ma dimostrano la sua fortuna nella scuola. Per
tradizione diretta ci sono conservate 144 favole (123 ne contiene il co-
dice Athous, della prima metà del X secolo, proveniente dalla biblio-

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84 Capitolo primo

teca del Monte Athos, oggi nella biblioteca del British Museum a
Londra): esse costituiscono solo una parte di un’edizione antica ordi-
nata alfabeticamente (secondo la lettera iniziale di ciascuna favola).
Altre si possono ricavare da parafrasi in prosa, talvolta anche in versi
dodecasillabi bizantini: le parafrasi in prosa devono essere state redat-
te nella tarda antichità, fra il IV e il VI secolo. Per una ventina di fa-
vole possiamo ricostruire frammenti del testo babriano; altre derive-
ranno da Babrio nel contenuto, ma distinguerle completamente dalle
favole di origine diversa non è possibile: non tutte le 148 favole del
codice Bodleiano (XIII sec.), il più importante tra quelli che ci tra-
mandano la parafrasi in prosa, risalgono al favolista siriaco6. Da Babrio
derivano quasi tutte le favole svolte in distici elegiaci, con stile un po’
troppo carico, dal tardo poeta latino Aviano, della fine del IV secolo
(solo per quattro di esse l’origine babriana non è dimostrabile)7.

7. La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società

Nel corso di millenni, cioè fin dalle prime manifestazioni che cono-
sciamo nella cultura sumerica e accadica, la favola esopica è stata svol-
ta in forme artistiche molto diverse, che vanno dalla secchezza del
proverbio fino a narrazioni distese e minute, come quelle icasticamen-
te vivide di Archiloco o quelle morbide e piacevoli di La Fontaine;
meno varie sono le strutture di fondo, in cui prevale il contrasto fra due
personaggi, risolto dalla prevalenza dell’uno sull’altro, con la forza o
l’astuzia o la saggezza, attraverso l’azione e il dialogo o uno solo di
questi due svolgimenti; meno comune è la struttura con tre personag-
gi, di cui il terzo interviene come arbitro o a danno degli altri due o di
uno di essi; non mancano, tuttavia, varie modifiche, che qui non è
possibile seguire8. Press’a poco costante è il metodo di confronto: la
favola esopica è un’allegoria indeterminata, cioè rimanda non a deter-

6
  Tutti i problemi relativi alla tradizione di Babrio sono trattati ampiamente e lucidamen-
te nei prolegomeni all’edizione critica teubneriana (1986) da Maria Jagoda Luzzatto.
7
  Sui rapporti fra Aviano e Babrio rimando alla mia trattazione nei prolegomeni della
citata edizione teubneriana di Babrio (pp. vi-xxii).
8
  Una trattazione ampia, e anche troppo minuta, in M. Nøjgaard, La fable antique, 2 voll.,
Copenhague 1964 e 1967. Sul primo volume cfr. la mia recensione in «Athenaeum», 1966
(qui, cap. 6).

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minati personaggi, eventi, situazioni, ma a comportamenti costanti o ge-


nerali di una generica società umana. Tralasciando questi aspetti, che pure
sono fondamentali, aggiungerò solo qualche breve considerazione sul-
la morale che si esprime nella favola esopica antica, greca e latina.
Va premesso che, in quanto semplice struttura letteraria, la favola
esopica può servire a qualunque morale e che, di fatto, orientamenti
morali ben diversi fra loro vi hanno trovato espressione nel corso dei
millenni; tuttavia nella favola esopica antica, greca e latina, vi sono
orientamenti, che implicano interpretazioni della società umana, par-
ticolarmente frequenti, e scarsamente presenti, invece, nelle altre tra-
dizioni della cultura antica; ciò, del resto, è comunemente recepito
nell’idea che si ha della favola esopica. Cercherò di delineare gli orien-
tamenti più comuni9.
Un compito che la favola esopica spesso si attribuisce è quello di
svelare crudamente la realtà sotto l’apparenza, di demistificare: emble-
matica la favola notissima dell’asino che si è coperto della pelle del
leone (Esopo 199 H.; Babrio 139, favola forse proveniente da Cuma, in
Asia Minore); non meno nota la favola del gracchio rivestito delle
penne del pavone o di altri uccelli (Fedro I 3; Babrio 72, di cui ho tra-
dotto poco sopra l’inizio). Smascherati, per esempio, sono i falsi bene-
fattori: la donnola pretende dall’uomo salva la vita, perché, dice, lo ha
beneficato ammazzando topi e lucertole; ma l’uomo le ricorda che
ha ammazzato anche le galline (Babrio 27; cfr. Fedro I 22). Smascherati
i vili che ostentano coraggio quando sono al sicuro: la volpe insulta il
leone prigioniero: «Non tu mi insulti, ma la sciagura che mi ha colpito»
(Sintipa 17 = 409 P.); i cani dilacerano la pelle del leone morto (Sintipa
19 = 406 P.). Smascherata spesso la vanagloria: ho già accennato, a
proposito dell’origine babilonese, alla favola della zanzara e del toro;
simile la favola, tra le migliori di Fedro (III 6), in cui la mosca, seduta
sul timone del carro, vuole far da guida alla mula e la minaccia; a propo-
sito di Archiloco ho ricordato la favola della volpe e della scimmia che
vanta la propria nobiltà (ricorre, modificata, in Babrio 81); il mulo si
vanta di non essere inferiore alla madre nella corsa, ma, non facendoce-
la più, si ferma di botto e rivela così di avere un asino per padre (Ba-
brio 62); crudelmente punita la vanagloria fondata sulla bellezza: baste-

9
  Mi servo qui del mio vecchio saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7).

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86 Capitolo primo

rà ricordare la favola del cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43;
Fedro I 12) e quella della volpe e del corvo (Fedro I 13; Babrio 77).
La demistificazione rivela la realtà effettuale della società umana,
fatta di rapporti fondati generalmente sulla forza e sull’astuzia. A pro-
posito del dominio della forza tutti conoscono la favola del leone che
fa le parti (Babrio 67; Fedro I 5); ne ricorderò altre due meno note,
anche perché sono attestate fuori delle raccolte di cui ho parlato. Ari-
stotele nella Retorica (III 13, 2, 1284 a) riferisce una favola del filosofo
cinico Antistene: le lepri si riuniscono in assemblea per reclamare
uguaglianza politica e sociale con i leoni; e i leoni: «Signori dai piedi
pelosi, i vostri discorsi mancano di unghie e di denti quali noi abbia-
mo». Ecco l’aneddoto che il raffinato Silla raccontò per far capire ai
nemici sconfitti nelle guerre civili che cosa dovevano aspettarsi (Ap-
piano, Bellum civile I 101): i pidocchi pizzicavano un povero bifolco;
due volte egli interruppe il lavoro e si pulì la camicia; la terza volta, per
non avere troppi fastidi, la bruciò. La realtà dei rapporti sociali, oltre a
essere brutale, è anche complicata, perché non sempre la forza si pre-
senta come tale; a volte vuole giustificarsi come diritto: la favola em-
blematica è, a questo proposito, quella del lupo e dell’agnello, che
Fedro scelse come inizio della sua opera. Lo sparviero di Esiodo ucci-
de l’usignuolo proclamando senza mezzi termini la legge del più forte;
in una favola che forse risale a Fedro (è conservata dal favolista medie-
vale Ademaro, 39 = 567 P.) lo sparviero è più sofisticato e perfido: pro-
mette all’usignuolo che lo risparmierà, se canterà bene; ma l’usignuolo
non canterà mai abbastanza bene da convincere lo sparviero.
Quando la forza manca o non basta, si ricorre all’astuzia: così fa il
leone fingendosi malato e invitando gli animali a entrare nella sua
tana. Ma non inganna la volpe (Esopo 147 H.; Babrio 103): l’astuzia, se
a volte sostituisce la forza, più spesso si oppone alla forza e la supera.
Non starò qui a citare le tante favole in cui la volpe inganna gli scioc-
chi, forti o deboli che siano.
Non sempre la frode e la violenza, la golpe e il lione, hanno succes-
so: può anche accadere che a punirle intervenga la divinità; ma nor-
malmente nel mondo esopico, se forza e frode vengono vanificate e
punite, ciò accade per effetto di altra forza o di altra astuzia: nella fa-
vola risalente a Fedro che ho citato poco fa, lo sparviero, mentre ucci-
de l’usignuolo, viene colpito da un cacciatore; il topo ha già fra i denti

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 87

l’ostrica, ma l’ostrica lo chiude nella sua morsa e lo ammazza (epigram-


ma di Antifilo, Antologia Palatina IX 86); un gallo, in lite con un altro
gallo, chiede come giudice lo sparviero; mentre arrivano davanti al
giudice, questi ghermisce l’accusatore, che per primo gli cade a porta-
ta di artigli: «Non sono io il colpevole! È quello che scappa!». «Credi
di farla franca, proprio tu che preparavi questa fine al tuo collega?»
(Ademaro 6 = 558 P., da Fedro).
Questi comportamenti si fondano su leggi naturali, cioè su leggi
immutabili; la favola esopica non giunge a questo livello di astrazione
scientifica, ma il concetto è implicito. Zeus sceglie la volpe come re
degli animali e vuol provare se, investita di tale compito, ha perduto la
sua ribalderia: mentre il nuovo re è portato in lettiga, gli fa volare vici-
no uno scarafaggio; il re, senza nessun ritegno, balza su per acchiap-
parlo (Esopo 109 H.). La donnola, innamorata di un giovanotto, viene
mutata da Afrodite in ragazza e lo sposa; la prima notte di nozze vede
un topo e gli salta su per divorarlo (Babrio 32). L’etiope a forza di la-
varsi e strofinarsi può ammalarsi, ma non diventerà mai bianco (Esopo
274 H.). Data l’immutabilità della natura umana non serve a niente
cambiare governo. È agghiacciante, in Fedro (I 15), la favoletta dell’a-
sino e del vecchio pastore: mentre un vecchierello pauroso pascola un
asino, si sentono le grida dei nemici che arrivano: «Scappiamo, ci ac-
chiappano!»; ma l’asino, senza scomporsi: «Perché scappare? Il nuovo
padrone non mi metterà mica due basti!». Non c’è solo l’indifferenza
verso il potere: c’è anche la giustificazione, più o meno rassegnata, del
potere costituito. La morale del famoso apologo di Menenio Agrippa
(attestato in Egitto poco meno di mille anni prima di Cristo) si ritrova
in alcune favole esopiche: per esempio, in una favola già nota a Seno-
fonte (Memorabilia II 7, 13): la pecora si lamenta con il pastore perché
lei che dà tutto è trattata parcamente, il cane, invece, con abbondanza;
e allora il cane le spiega la necessità di avere un esercito (Babrio 128);
l’asino selvatico vanta contro l’asino domestico la propria libertà; arri-
va il leone: l’asino domestico, difeso dal padrone, si salva, l’asino sel-
vatico viene sbranato (Sintipa 30 = 411 P.). In senso contrario, però, si
può citare la favola del lupo e del cane (Fedro III 7), dove il lupo
esalta la propria condizione di libertà.
Nell’opinione comune il mondo della favola esopica appare come un
mondo di lucida rassegnazione; l’opinione è tutt’altro che infondata, ma

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88 Capitolo primo

resta, tuttavia, unilaterale. La volpe conosce e accetta le leggi del mondo


in cui vive, ma con l’astuzia riesce a difendersi contro la forza e a soprav-
vivere in modo più che tollerabile: l’astuzia può servire al debole come
arma contro il forte; è notevole che nella favola dell’aquila e della volpe
secondo Archiloco è Zeus a procurare la vendetta e la giustizia, secondo
la redazione greca in prosa (Esopo 1 H.) sono ancora le maledizio­ni
della volpe ad agire (ma è l’aquila stessa che causa l’incendio), mentre
secondo Fedro (I 28) è la volpe stessa ad appiccare le fiamme. La favola,
insegnando a prevedere il pericolo, è una scuola di prudenza per la so-
pravvivenza: non può, anzi non è degno di sopravvivere il cervo che per
tre volte si fa persuadere a entrare nella tana del leone malato (Ba-
brio 95). La favola è anche una scuola di laboriosità (il termine latino è
industria), di energia, di tenacia, qualità senza cui il povero non può
sopravvivere. Alla notissima favola della cicala e della formica (Babrio
140) è affine quella della formica e dello scarafaggio (Esopo 114 H.): lo
scarafaggio se ne sta tranquillo, mentre la formica lavora sodo; ammira
tanta laboriosità, piglia in giro; con l’inverno lo sterco, nutrimento dello
scarafaggio, si squaglia e lo scarafaggio ricorre alla formica: si può im-
maginare la risposta. La tartaruga può vincere in velocità la lepre, se la
tartaruga, conscia della sua debolezza, cammina senza sosta e la lepre,
sicura di sé, si addormenta al margine della strada (Esopo 254 H.).
Demistificazione, scoperta della realtà effettuale, valorizzazione di
una prudenza pragmatica che conta generalmente sulle forze dell’uomo
e su effetti limitati configurano una sorta di razionalismo empirico e
rudimentale materialismo, che, al di fuori della letteratura esopica, trova
pochi riscontri nella cultura antica: in parte nella prima sofistica, in par-
te nella demistificazione dei cinici. Rispetto alla sofistica, l’elaborazione
della favola esopica è più elementare, molto meno «scientifica», e resta
lontana dalle punte più radicali della sofistica; la rassegnazione non ne
fa un pensiero rivoluzionario. Se nella demistificazione la favola esopica
converge con il cinismo, la soluzione etica resta ben diversa: la filosofia
cinica pone come valore l’autosufficienza (l’αὐτάρκεια) perché crede nel-
la libertà interiore dell’uomo, non asservito al mondo esterno; la pruden-
za esopica, se si contenta di poco, è perché ritiene impossibile rovescia-
re i rapporti sociali o solo modificarli, impossibile instaurare una socie-
tà giusta: consiglia, con pragmatica flessibilità, l’adattamento alla società
ingiusta per arrivare a una tollerabile sopravvivenza.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 89

Capitolo 2

Le vie della favola esopica


dalla Mesopotamia verso occidente1

1. Culture a contatto

Si afferma una banalità, ma una banalità vera e gradita, quando si ri-


corda che la diffusione della cultura ha dato il contributo maggiore a
unire i popoli fra loro o, se non a unirli, a renderli meno estranei l’uno
all’altro; naturalmente la diffusione della cultura è stata favorita, nel
corso di secoli e millenni, dalla formazione di vasti imperi, come quel-
lo persiano, quello di Alessandro Magno, quello, più duraturo, di
Roma; ma, per fortuna, la cultura si è diffusa e si diffonde anche senza
guerre devastatrici e conquiste; d’altra parte l’unità si è dimostrata ef-
fimera quando non è diventata unità di civiltà e di cultura: l’impero di
Alessandro Magno avrebbe avuto poche conseguenze storiche, se non
avesse creato le condizioni per la cultura ellenistica; l’eredità più dura-
tura e più benefica dell’impero romano fu l’unificazione dell’Europa
occidentale nella cultura latina, che era anche cultura greca; ma anche
l’unità culturale del mondo ellenistico fu mantenuta, continuata, favo-
rita e rinsaldata sotto il dominio romano.
Quando, per l’antichità, si parla di diffusione della cultura, in senso
stretto, si pensa innanzi tutto alla diffusione della religione o delle
religioni, della mitologia; in secondo luogo si pensa alla diffusione

1
  [Relazione tenuta al Congresso internazionale AICC (Associazione Italiana di Cultura
Classica), Delegazione valdostana, St. Vincent 17-18 ottobre 1992. Apparsa nei relativi atti:
Vie di comunicazione e incontri di culture dall’antichità al medio evo tra Oriente e Occidente, a
cura di Mariagrazia Vacchina, Assessorato regionale della Pubblica Istruzione, Aosta 1994,
pp. 162-186; quindi in Favolisti latini medievali e umanistici, XIV, a cura di Ferruccio Ber-
tini e Caterina Mordeglia, D.AR.FI.CL.ET., Genova 2009, pp. 9-34, «con ritocchi quasi
solo tipografici» e «due appendici di aggiornamento bibliografico», queste ultime colloca-
te rispettivamente, la prima (Addendum bibliografico 2009) al termine di questo capitolo
(p. 114), la seconda (Postilla 2009) in parte al termine del capitolo 7 (p. 332), in parte
nell’Appendice B (p. 358)].

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90 Capitolo secondo

della letteratura scritta, dei grandi generi letterari come l’epica, il tea-
tro, l’oratoria, la storiografia; ma, rispetto alla diffusione di questa let-
teratura scritta, ha importanza non molto minore la diffusione, più
orale che scritta, di forme varie di narrativa, generalmente in prosa,
più raramente in poesia: fiabe, novelle e altre forme ancora meno de-
finibili. Io darò una breve trattazione sull’origine e la prima diffusione
della favola esopica: ho scelto questo tema perché me ne occupai una
trentina di anni fa e, più sporadicamente, anche in seguito. Per questo
mio intervento ho utilizzato studi già da me pubblicati, ma anche i
risultati di ricerche successive condotte in vista di un progetto, non
ancora realizzato, di una storia della favola esopica nell’antichità greca
e latina. Naturalmente partii da acquisizioni e tentativi anteriori di
altri studiosi, e il debito è riconosciuto nei miei studi; accennerò, ma
senza sistematicità, anche a pubblicazioni più recenti: tutta la mia trat-
tazione vuole avere il carattere di una rapida sintesi divulgativa, non di
un nuovo contributo di ricerca.

2. Tradizione esopica e favolistica sumero-babilonese

Nell’Ottocento gli studiosi che si occuparono dei viaggi del folklore


narrativo fra Oriente e Occidente, batterono soprattutto la via fra Gre-
cia e India: dopo oltre un secolo sono ancora famosi gli studi di Theo-
dor Benfey sul Pañcatantra, la più diffusa raccolta indiana di novelle,
di cui egli pubblicò una delle redazioni più importanti2. Tra le novel-
le di questa raccolta sono comprese non poche di quelle favole che noi
chiamiamo esopiche. Per il Medioevo la via dall’India all’Occidente ha
ancora una sua validità; poiché di questa via non mi occupo, basterà
accennare a un tramite ben noto: dal testo sanscrito di una delle reda-
zioni del Pañcatantra si arrivò, attraverso passaggi intermedi, a un tra-
vestimento arabo, che circolò anche in Spagna; in questo paese, dove
culture varie (araba, ebraica, latina) s’incontrarono nel Medioevo, il

2
  Das Pantschatantra, Leipzig 1859. Una breve trattazione aggiornata sulla favola indiana
di tipo esopico si trova ora nella comunicazione di G. U. Thite nel volume collettaneo
La fable, a cura di Fr. R. Adrados e O. Reverdin, «Entretiens de la Fondation Hardt»,
30 (Vandœuvres-Genève, 22-27 agosto 1983), Vandœuvres-Genève 1984, pp. 33-53 (discus-
sione nelle pp. 54-60).

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 91

testo arabo fu adattato in latino: di qua la diffusione in Italia, attraver-


so adattamenti in latino medievale (Giovanni da Capua) e in volgare
(Agnolo Firenzuola). Ma questa è storia della cultura medievale: per
l’antichità i tramiti sono più incerti, e non è illegittimo seguire, col
Benfey, la via dalla Grecia verso l’India.
Già nell’Ottocento l’attenzione, oltre che all’India, fu rivolta alla
più vicina area del Medio Oriente, in particolare alla cultura assiro-
babilonese; ma ci si fondò su analogie e indizi troppo tenui; per esem-
pio, una favola esopica di tori in guerra col leone (Babrio 44) fu acco-
stata a un bassorilievo assiro, dove due liocorni combattono con un
leone; in un bassorilievo di un obelisco di Salmanassar, dove si rappre-
senta un cervo assalito da un leone, si credette di ritrovare la favola del
cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43; Fedro I 12); la favola del le-
one e dell’asino che vanno a caccia insieme (Esopo 156 H.; Fedro I 11)
era di origine assira solo perché i re assiri avevano l’abitudine di anda-
re a caccia3.
L’ipotesi dell’origine assiro-babilonese della favola esopica inco-
minciò a poggiare su basi più solide all’inizio del nostro secolo. Un
rapporto concreto fu indicato dapprima in un genere di letteratura che
non coincide con la favola esopica, ma che nelle raccolte greche di
favole esopiche ha una sua presenza: i contrasti verbali, le tenzoni fra
animali o fra piante. Il primo passo fu fatto da un cultore famoso di
filosofia greca, Hermann Diels4. In un nuovo testo di Callimaco sco-
perto in papiri, precisamente in uno dei Giambi (fr. 194 Pf.), si svolge
una tenzone fra l’alloro e l’olivo, che vantano ciascuno i propri meriti:
il Diels giustamente la accostò a tenzoni analoghe fra alberi che erano
state scoperte in testi babilonesi, per esempio una fra il tamerisco e la
palma da datteri, e acutamente indicò che il tramite fra la cultura ba-
bilonese e Callimaco doveva trovarsi in folklore dell’Asia anteriore,
precisamente della Lidia, perché Callimaco riferisce il racconto come
narrato dai Lidi, che ponevano la scena sul monte Tmolo. Io indicai
un’altra analogia fra quel genere di racconti babilonesi e la tenzone

3
  Indicazioni su tali labilissime congetture sono date da M. Marchianò, L’origine della
favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali, Trani 1900, da me utilizzato in Letteratu-
ra esopica e letteratura assiro-babilonese, pp. 24-25 (qui, pp. 115-116).
4
  Orientalische Fabeln in griechischem Gewande, «Internationale Wochenschrift für
Wissenschaft Kunst und Technik», vol. 4, 1910, coll. 993-1002.

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92 Capitolo secondo

riferita da Callimaco5. Nel contrasto fra l’alloro e l’olivo interviene


come paciere il rovo, personaggio ridicolo, perché vuole attribuirsi un
ruolo troppo superiore alla sua condizione di plebeo; nelle tenzoni
babilonesi come conciliatore interviene di solito una divinità: dunque
nel racconto dei Lidi, o in un precedente babilonese, il rovo pretende-
va di assumersi il ruolo che spettava a un dio! A questo punto è oppor-
tuno ricordare che da scoperte successive il genere letterario delle ten-
zoni risulta anteriore alla cultura babilonese: rientra tra le forme di
letteratura che i Babilonesi ereditarono dalla cultura sumerica.
Oggi la conoscenza dei testi assiro-babilonesi conservati dalle tavo-
lette cuneiformi è molto più ricca, e molto si è ampliata la disponibi-
lità di testi contenenti brevi racconti di tipo esopico e proverbi: le fa-
vole che noi diciamo esopiche, che servono a dimostrare una morale,
si mescolano a sentenze in cui si allude a brevi racconti, che ai lettori
dovevano essere noti, o a semplici sentenze prive di esempio6. La
presenza di favole di tipo esopico nella letteratura babilonese fu già
messa in rilievo dall’assiriologo tedesco Erich Ebeling, che ben com-
prese l’importanza di quest’area culturale come fonte di quel genere di
letteratura7. Torno a riferire qui alcuni dei testi da lui tradotti e illu-
strati. Un cavallo ardente monta una mula e nella voluttà le mormora
all’orecchio: «Il figlio che avrai sarà focoso come me, non sarà come il
vile asino che porta il giogo». Si sa che la mula non genera: forse irri-
sione delle promesse stolte che si fanno in amore, o, più semplicemen-
te, delle illusioni umane. Una pulce e una mosca litigano fra loro; so-
praggiunge una mosca di un’altra specie per fare da paciere, ma viene
gettata in ceppi dai due litiganti e divorata, a quanto pare, da un topo:
la morale sarà che chi vuol fare da paciere a volte piglia le botte. Il
ragno tende un agguato alla mosca; il camaleonte si adira contro il
ragno: proprio lui (forse questa è riflessione implicita dell’autore) che
è più furfante del ragno! L’Ebeling riuscì anche a indicare con certez-
za un caso di favola esopica greca derivata da una favola babilonese. In

5
 Cfr. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese, p. 26 (qui, p. 117).
6
  Su questo genere di letteratura indicazioni bibliografiche detti in Letteratura esopica e
letteratura assiro-babilonese, cit.; cfr. ora R. S. Falkowitz, Discrimination and Condensation
on Sacred Categories. The Fable in Early Mesopotamian Literature, in Adrados e Reverdin
(a cura di), La fable, cit., pp. 1-24 (discussione alle pp. 25-32).
7
  Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte, Leipzig 1927.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 93

una di queste favole i personaggi sono la mosca e l’elefante. La mosca


si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratello, ti ho affaticato col mio peso?
Vicino all’abbeveratoio volerò via». Risponde l’elefante: «Che tu ti fos-
si posata su di me, non m’ero neppure accorto». La stessa azione, lo
stesso dialogo troviamo in una favola di Babrio (84); naturalmente la
stessa è la morale, cioè la satira contro chi si dà importanza e in realtà
non conta nulla; ma sono diversi i personaggi: la mosca viene sosti-
tuita alla zanzara, il toro, animale più familiare ai Greci, prende il
posto dell’elefante. Babrio, dunque, si atteneva a una tradizione giusta,
quando nel proemio al secondo libro (proemio collocato fra 107 e 108)
affermava che la favola era invenzione degli antichi Siri, vissuti al tem-
po di Nino e di Belo (cioè degli Assiri, non distinti dai Babilonesi);
oggi dobbiamo solo aggiungere che i veri inventori erano stati i Sume-
ri, più antichi degli Assiri e dei Babilonesi.
Di confronti probanti come quello indicato dall’Ebeling oggi non
ne abbiamo molti, ma uno ha particolare importanza, un’importanza
che si potrebbe dire clamorosa. Una delle favole più famose, quella
dell’aquila e della volpe, ci è nota da uno degli epodi di Archiloco, che,
come vediamo dai frammenti (89-95 D.), la narrava con arte finissima,
oltre che con viva passione per la giustizia. Quasi trent’anni fa ho di-
scusso della ricostruzione del testo di Archiloco8, ma qui mi limito a
pochi punti essenziali. La volpe e l’aquila fecero società; probabilmen-
te il patto veniva sancito con un giuramento per Zeus, garante della
giustizia. L’aquila, violando il patto, rapisce i cuccioli della volpe e li
dà in pasto agli aquilotti. La povera volpe protesta, recrimina contro
l’aquila, ma ne riceve in cambio irrisione e disprezzo; vendicarsi non
può, perché il nido dell’aquila è collocato a un’altezza sicura, inacces-
sibile. Allora invoca Zeus, perché trovi lui la via della giustizia e della
vendetta. Zeus esaudisce l’animale debole, ingiustamente ed empia-
mente colpito dal più forte. È lui, probabilmente, ad architettare l’in-
sidiosa punizione: da un altare l’aquila ruba un pezzo di carne, ma alla
carne resta attaccata un po’ di brace; il fuoco si appicca al nido; gli
aquilotti cascano giù, e ora è la volpe a cibarsi dei figli dell’empia ne-
mica. Notevole e sorprendente è la coincidenza con una favola inserita
in un poemetto epico babilonese, il poemetto di Etana, un eroe che

  Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese, pp. 29-30 (qui, pp. 119-120).


8

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94 Capitolo secondo

tentò di salire al cielo sul dorso di un’aquila9. Qui l’aquila fa amicizia


con un serpente; il patto è sancito da un giuramento solenne in nome
di Shamash, dio del sole e della giustizia: una punizione tremenda è
invocata su chi lo violi. Il narratore si sofferma a lungo su quest’amici-
zia e i suoi vantaggi: ogni preda viene lealmente divisa. Dopo un lungo
periodo l’aquila concepisce il perfido disegno di divorare i figli del
serpente; invano un saggio aquilotto ammonisce la madre a rinunziare
alla malvagia azione, ricordandole la punizione riservata da Shamash
all’empietà. L’aquila scende e divora i teneri serpenti. Torna il serpen-
te col cibo per i suoi piccoli e non li trova: allora invoca Shamash,
lamenta la propria miseria e chiede la giusta vendetta. Il dio gli indica
la via: il serpente squarcerà il ventre di un toro selvatico già morto, vi
si appiatterà dentro e aspetterà l’aquila; quando questa arriverà cer-
cando il pasto, le si avventerà sopra, le strapperà ali e artigli e la gette-
rà, disarmata, in una fossa, abbandonandola al suo destino. Il serpente
esegue minutamente le raccomandazioni, senza lasciarsi sedurre dalle
suppliche e dalle promesse dell’aquila: il serpente deve ormai eseguire
la punizione voluta dal dio della giustizia. La narrazione, che ho rias-
sunta, è ancora più dettagliata che nell’epodo di Archiloco.
Che questa favola di Archiloco sia arrivata alla cultura greca dalla
cultura mesopotamica, non c’è dubbio: le forti affinità parlano da sé. Al
serpente è stata sostituita la volpe, che sarà poi il personaggio più popo-
lare nella favola esopica. Il poemetto di Etana ci è conservato in tre re-
dazioni incomplete; la più antica è una redazione antico-babilonese, cioè
della prima metà del secondo millennio a. C.: dunque la favola ci è testi-
moniata un millennio circa prima di Archiloco. Il caso sta un po’ a sé
perché il racconto proviene da un testo epico, cioè dal mito, mentre,
come abbiamo già visto, generalmente le favole di quest’area provengo-
no da raccolte di letteratura gnomica, spesso di tono satirico o giocoso,
da una letteratura, quindi, più affine a quella esopica. Tale derivazione,
però, non toglie affatto alla favola dell’aquila e del serpente la sua ispira-
zione gnomica, consistente nella protesta del debole contro la prepoten-
za del più forte e nella fede in una giustizia divina che difende gli umili;
va solo notato che la fede nella giustizia coincide con la fiducia nella
divinità, cioè resta radicata nella religione, mentre tali radici spesso non

9
  Indicazioni bibliografiche ivi, pp. 30 ss. (qui, pp. 120 ss.).

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 95

si conservano salde nella tradizione esopica10. Gli stessi elementi sono


legati in modo analogo nella favola di Archiloco: naturalmente non bi-
sogna dimenticare, anche se ora io tralascio questo aspetto importante,
che la trasmissione del folklore narrativo è anche trasmissione di concet-
ti e sentimenti etici, che vengono reinterpretati e adattati ai problemi
delle varie società.
Alla conclusione dell’origine babilonese della nota favola di Archi-
loco arrivai per conto mio, ma, mentre pubblicavo il mio studio, mi
accorsi che studiosi americani l’avevano indicata pochi anni prima e
feci in tempo a segnalare la coincidenza; credo, però, che il rapporto
fosse stato scorto anche prima da uno studioso di egittologia11: l’indi-
pendenza dei percorsi si spiega anche con l’appartenenza degli studio-
si ad aree diverse di ricerca; probabilmente neppure oggi la collabora-
zione fra latinisti e grecisti da un lato e studiosi delle civiltà antiche del
Medio Oriente dall’altro si può ritenere soddisfacente. Nelle mie ricer-
che di allora mi capitò un altro caso di affinità notevole tra una favola
delle collezioni esopiche greche e una favola sumerica compresa in una
di quelle collezioni di testi che si usavano nelle scuole babilonesi (la
nostra memoria ritorna ai tempi in cui traducevamo Fedro per impa-
rare il latino); solo recentemente, però, sono tornato sull’argomento
per segnalare la coincidenza12. Rimandando al mio articolo, mi limito
qui a una parafrasi dei due testi. Il testo sumerico dà il dialogo fra un
leone e una capra; dal dialogo dobbiamo ricostruire la situazione, che
non è tracciata nel racconto. Il leone ha catturato la debole capra; que-
sta, per farsi liberare, gli promette che, se la lascia tornare all’ovile, gli

10
  Tentai un’interpretazione della morale esopica in un saggio di una trentina d’anni fa: La
morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità (qui, cap. 7). Per
interpretazioni diverse si possono vedere M. Nøjgaard, La fable antique, 2 voll., Copen-
hague 1964 e 1967; Fr. R. Adrados, Historia de la fábula greco-latina, 2 voll., Madrid 1979
e 1985 [nuova ed. rivista, aggiornata e accresciuta dall’autore e da G.-J. van Dijk, History of
the Graeco-Latin Fable, 3 voll., Leiden-Boston-Köln 1999, 2000 e 2003]; S. Jedrkiewicz,
Sapere e paradosso nell’antichità. Esopo e la favola, Roma 1989.
11
 Cfr. G. Franzow, Zu der demotischen Fabel vom Geier und der Katze, «Zeitschrift für
Ägyptische Sprache und Altertumskunde», vol. 66, 1930, pp. 46-49. Il Franzow si occupò
di una trasformazione egiziana tarda della favola dell’aquila e della volpe e rimandò già
(p. 48) alla favola babilonese dell’aquila e del serpente.
12
  Un’altra favola esopica di origine babilonese (qui, pp. 128-131); naturalmente rimando a
questo articolo anche per la bibliografia. Ho potuto poi vedere alcuni studi da me citati
indirettamente: la coincidenza non mi risulta notata.

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96 Capitolo secondo

offrirà in pasto una pecora sua compagna. Il leone si lascia convincere e


chiede alla capra il nome per ritrovarla; il nome che la capra gli dà è
«Io-ti-renderò-saggio». La capra rientra nell’ovile; dopo qualche tempo
il leone si presenta e chiede che la promessa sia mantenuta; ma la capra,
al sicuro dall’altra parte della palizzata, gli risponde: «In cambio delle
varie pecore che qui non ci sono, tu sei diventato saggio». È molto faci-
le ricavare la morale. Parafraso ora il testo greco (Esopo 137 H.). Un
cane, acchiappato da un lupo, supplica di essere risparmiato; per convin-
cere il lupo gli promette che si lascerà riprendere e divorare più in là,
quando sarà ingrassato nel prossimo banchetto di nozze che i padroni
daranno per celebrare un matrimonio. Il lupo acconsente e torna dopo
il banchetto per chiedere che il patto sia rispettato; il cane, accovacciato,
al sicuro, sul tetto della casa, gli risponde: «Ma, lupo, se mi trovi un’altra
volta accovacciato e a portata di zampa, non stare ad aspettare le nozze».
Il leone è stato sostituito dal lupo, la capra dal cane; sono cambiate anche
le situazioni; ma lo svolgimento del racconto e la morale, attraverso mol-
ti secoli, non sono cambiati. Io spero che altri casi del genere vengano
scoperti attraverso una migliore collaborazione di studiosi dell’area gre-
ca e latina e studiosi dell’area orientale; comunque abbiamo già prove
sufficienti per concludere che la favola esopica è arrivata alla cultura
greca dopo Omero dalla cultura mesopotamica; restano ignoti o incerti
i tramiti: in parte i racconti sono passati attraverso popolazioni dell’Asia
Minore, con cui entrarono in contatto i colonizzatori greci; ma non
vanno esclusi contatti più ravvicinati.

3. Il romanzo sapienziale di Ah.īqār

Già prima che si rintracciasse l’origine babilonese o sumerica di alcune


favole esopiche, si era messa su una via convergente la ricerca sul ro-
manzo di Esopo, cioè la Vita Aesopi in greco, opera antica nota nel
Medioevo bizantino e passata anche in Occidente, diffusa nella secon-
da metà dell’Ottocento soprattutto nella nuova (non egregia) edizione
che Anton Westermann ne aveva data nel 1845. Si sa che una parte del
romanzo (capitoli 101-123) ricalca un racconto antico di cui è protago-
nista Ah.īqār, alto funzionario della corte del re d’Assiria. Il nucleo del
racconto è una vicenda che ricordiamo da fiabe di varie parti del mon-
do. L’alto funzionario, consigliere fedele del re, prende come figlio

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 97

adottivo un nipote, Nadan, che cresce con indole pessima; Ah.īqār lo


disereda, e allora Nadan si vendica calunniandolo presso il re. Purtrop-
po la calunnia viene creduta: il re condanna Ah.īqār a morte e affida
l’esecuzione a un suo ufficiale; questi, però, è grato ad Ah.īqār per be-
nefici ricevuti e, invece di ucciderlo, lo nasconde accuratamente. È una
fortuna per il re: poco dopo egli riceve una sfida dal faraone d’Egitto.
Secondo il costume presupposto nel racconto la guerra, senza spargi-
mento di sangue, consiste in una gara di indovinelli (come si vede,
certi giochi della nostra televisione hanno radici antichissime): chi non
risolve gli indovinelli posti dall’avversario si dichiara vinto e paga un
tributo. Il re d’Assiria è disperato; ma viene in suo aiuto l’ufficiale
annunziandogli che il sapiente Ah.īqār è vivo e che può accettare la
sfida con tranquillità. Ah.īqār viene riabilitato, il nipote calunniatore
condannato, ma il padre adottivo ottiene che non sia ucciso. Il faraone
viene sconfitto grazie al genio di Ah.īqār; al ritorno il saggio consiglie-
re chiama il nipote e lo schiaccia con i suoi rimproveri: il nipote è così
sconvolto che non riesce a riprendersi e muore (dunque è l’unico morto
del racconto). La fiaba ha come funzione non marginale quella di servi-
re da cornice a una serie di precetti; secondo lo svolgimento più diffuso
Ah.īqār tiene al figlio adottivo due prediche: l’una si colloca quando lo
introduce alla vita di corte, l’altra dopo il ritorno dalla gara d’Egitto; la
prima contiene precetti di prudenza sia per la vita di corte sia per la vita
in generale, la seconda è una serie di condanne del comportamento
scellerato di Nadan, che viene confrontato con molti esempi di ingra-
titudine e malvagità; specialmente nella seconda predica vengono in-
trodotte rapidamente favole di tipo esopico, ai cui personaggi (per
esempio, il serpente, lo scorpione) viene assimilato il calunniatore.
Nel Medioevo e in seguito questa fiaba circolò in varie redazioni e
in varie lingue dell’Asia anteriore, arrivando anche a sud fino all’Etio-
pia e a nord fino alla cultura slava: si conoscono una versione siriaca,
due armene, una turca, una slava, un frammento etiopico; tutte le re-
dazioni note furono raccolte e studiate da specialisti inglesi delle varie
culture; vivo fu l’interesse in Germania e anche in Francia13. A parte il

  Tralascio le indicazioni bibliografiche, che si possono trovare nel mio studio Il romanzo di
13

Esopo, pp. 286 ss. (qui, pp. 153 ss.). Per un’informazione aggiornata rimando a N. Oettinger,
Achikars Weisheitssprüche im Licht älterer Fabeldichtung, in N. Holzberg (a cura di), Der
Äsop-Roman. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübingen 1992, pp. 3-22.

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98 Capitolo secondo

pezzo della Vita Aesopi, la documentazione di cui si disponeva non ri-


saliva più indietro del basso Medioevo: nei secoli XII-XIII viene da-
tato il codice più antico della redazione siriaca. Ma gli acuti e beneme-
riti studiosi del problema videro con certezza che l’origine della fiaba
risaliva molto più indietro. Le stesse redazioni medievali partivano
dalla tarda antichità: alcuni indizi portavano a datare nel V secolo d. C.
una delle redazioni armene. Oltre che nella Vita Aesopi tracce della
fiaba di Ah.īqār furono scorte in uno dei testi apocrifi del Vecchio Te-
stamento, il racconto di Tobit, non posteriore al II secolo a. C.: dun-
que il racconto di Ah.īqār esisteva in qualche redazione ebraica o ara-
maica prima di quel secolo. E proprio di una redazione aramaica si
trovano frammenti in papiri scoperti a Elefantina in Egitto e pubbli-
cati nel 1907. A Elefantina era stanziata, sotto il dominio persiano, una
colonia ebraica: abbiamo a che fare, è ovvio, con un frutto non della
cultura egiziana, ma dell’Asia anteriore; la data della redazione fu col-
locata fra il 550 e il 450 a. C. e alcuni indizi, ricavati specialmente dai
nomi, portarono alla congettura che la versione aramaica presuppone-
va un originale babilonese. Uno studio famoso di Eduard Meyer rica-
vò dai papiri di Elefantina molta luce per un quadro dei rapporti fra
culture semitiche ed Egitto e fra culture orientali e cultura greca.
Sulle origini e sulla diffusione della fiaba di Ah.īqār in aree diver-
se da quella greca non credo che siano emerse novità importanti
dopo i grandi passi avanti fatti nel primo quarto del nostro secolo;
delineare con esattezza i rapporti fra le varie redazioni sarebbe diffi-
cile anche se la redazione aramaica ci fosse giunta intera, ma va ri-
cordato che ne abbiamo solo dei pezzi, non sempre collocabili nello
svolgimento; la derivazione del pezzo babilonese della Vita Aesopi
dalla redazione presente nel papiro di Elefantina resta, secondo me,
una congettura debole. Ma sulla presenza di Ah.īqār nella cultura
greca prima dell’età ellenistica le diffidenze si sono oggi molto atte-
nuate rispetto all’inizio del secolo, anzi si sono mutate quasi in cer-
tezze14. Ah.īqār oggi non è più solo un nome fiabesco, bensì un per-

  Oltre che allo studio cit. di Oettinger mi riferisco a due contributi recenti: H. Wilsdorf,
14

Der weise Achikaros bei Demokrit und Theophrast. Eine Kommunikationsfrage, «Philologus»,
vol. 135, 1991, pp. 191-206; M. J. Luzzatto, Grecia e Vicino Oriente. Tracce della «Storia di
Ah.iqar» nella cultura greca tra VI e V secolo a. C., «Quaderni di storia», n. 36, 1992, pp. 5-84
(quest’ultimo studio molto ricco e approfondito).

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 99

sonaggio storico: ci fu un Ah.īqār ummanu, cioè alto consigliere, del


re assiro Esarhaddon (681-669 a. C.). In alcune redazioni, compresa
quella aramaica, il racconto è dato in forma autobiografica; l’esempio
della grande iscrizione autobiografica di Dario I rende accettabile la
notizia che Ah.īqār lasciasse ricordo di sé su una stele, inserendo an-
che precetti nel racconto; il racconto che fa da cornice a pezzi gno-
mici è uno schema compositivo corrente nell’Oriente vicino e lonta-
no, dall’Egitto faraonico all’India. In Egitto nacquero già nell’Antico
Regno, cioè nella seconda metà del terzo millennio a. C., autobiogra-
fie di grandi personaggi e serie di insegnamenti che andavano sotto
il nome di questo o quel saggio (e non è detto che il nome fosse fit-
tizio). Che il testo di Ah.īqār, tradotto e magari rielaborato, ampliato,
arrivasse a Democrito e a Teofrasto, non appare oggi inverosimile.
La conoscenza dei rapporti fra la cultura greca e le culture del Vicino
Oriente in età ionica e attica per quanto riguarda religione, folklore,
filosofia, arti figurative si è molto arricchita nel nostro secolo, sì da
incoraggiare anche per l’influenza di Ah.īqār ipotesi ardite. Fu già
supposto che Aristofane attingesse dalla biografia di Esopo la fanta-
sia della città che gli uccelli costruiscono in aria; l’ipotesi non regge-
va, perché l’inserzione della parte babilonese nella Vita Aesopi è po-
steriore al IV secolo a. C. (infatti il faraone egiziano si chiama
Nectanebo, e i due faraoni di questo nome regnarono in quel secolo);
però è possibile che Aristofane conoscesse, come Democrito, la sto-
ria di Ah.īqār. Le affinità non sono tali da rendere necessaria l’ipote-
si, e, d’altra parte, la costruzione di una torre o di una città in cielo
era un motivo folkloristico che poteva circolare anche senza la storia
di Ah.īqār; tuttavia vi sono anche serie possibilità che l’ipotesi sia
giusta. Maria Jagoda Luzzatto, studiosa ben nota della letteratura
esopica greca, ha rilevato alcune coincidenze fra massime raccolte
nella storia di Ah.īqār e massime della silloge teognidea e propone di
vedere influenza di Ah.īqār anche in Teognide; su questo punto ho
più dubbi: è ovvio che, quando si tratta di sentenze conservate in
redazioni tarde, come quella siriaca e armena, non è meno valida
l’ipotesi che esse provengano dalla cultura greca, senza contare che
certi atteggiamenti gnomici molto generali possono essere nati indi-
pendentemente in varie culture. Comunque la conoscenza di massi-

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me di Ah.īqār, nella cultura greca, almeno da Democrito in poi, si


può ammettere senza le difficoltà che si sollevavano un tempo.
Progressi più ampi e più sicuri sono stati compiuti, nella seconda
metà del nostro secolo, sulla conoscenza della Vita Aesopi. Nel 1952
lo studioso americano Ben Edwin Perry, uno dei più grandi esperti
di letteratura esopica antica, pubblicò una nuova redazione greca del-
la Vita Aesopi in cui come divinità protettrice dello schiavo sapiente
appare Iside, una divinità egiziana, il cui culto ebbe una diffusione
enorme nel mondo greco e romano; essa era stata scoperta in un
codice proveniente da Grottaferrata, scomparso in età napoleonica e
ricomparso nel nostro secolo nella Pierpont Morgan Library di New
York: anche i codici, come i racconti delle fate, fanno lunghi viaggi,
seguendo talora padroni più ricchi. Non è qui il caso di riprendere le
discussioni sui rapporti fra le due redazioni della Vita e sulla loro
origine, anche perché, dopo essermene occupato una trentina di anni
fa, non ho cambiato opinione (parlo di opinioni, non di granitiche
certezze, che lo stato della ricerca non permette). Il problema si è
ampliato dopo che dai papiri di Ossirinco è stato pubblicato un non
piccolo frammento di un’altra redazione della Vita; il frammento si
colloca nella parte babilonese e comprende anche la predica di Esopo
al nipote calunniatore15. La nuova redazione pare indipendente dalle
due già note, ma è evidente che tutte e tre dipendono da un testo
unico: le variazioni sono minime nel racconto, un po’ più rilevanti
nella parte gnomica; l’apporto dei papiri è modesto. Ciò nonostante,
gli studi sulla Vita Aesopi non languiscono: vi si è dedicato con impe-
gno e alacrità un ellenista greco, Manolis Papathomopoulos, che per
ora ha riesaminato a fondo il codice di Grottaferrata, anche in rap-
porto con le altre redazioni, e ha pubblicato con apporti nuovi la
redazione in esso contenuta16. Auguriamo buona fortuna al viaggio
del nostro collega di Giannina.

15
  Oxyrinchus Papyri, XLVII, Oxford 1980, pp. 53-56; LIII, Oxford 1986, pp. 149-172; l’edi-
zione e il commento sono opera molto accurata di M. W. Haslam.
16
  M. Papathomopoulos, Aesopus revisitatus. Recherches sur le texte des vies ésopiques, vol. 1:
La critique textuelle, Ioannina 1989; la nuova edizione della redazione del codice di Grot-
taferrata è uscita a Giannina nel 1990 [M. Papathomopoulos, O Bios του Αισώπου ή
παραλλαγή Γ, Κριτική έκδοση με Εισαγωγή και Μετάφραση, Ioannina 1990].

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 101

4. Favole in viaggio: dalla Grecia all’India o dall’India alla Grecia?

Poiché nel nostro secolo l’attenzione degli studiosi della favola esopica
si è rivolta, giustamente, verso le culture mesopotamiche, il problema
dei rapporti tra favola esopica greca e favola indiana ha perduto molto
dell’interesse e del fascino che ebbe nell’Ottocento; ma il problema
non è per questo eliminato. In trattazioni di storia culturale di questo
genere si corre il rischio di sopravvalutare il problema delle origini;
bisognerebbe ricordarsi qualche volta che la vita è più importante del-
la nascita: una volta accertato che la prima larga fioritura di favole di
animali si ebbe nella cultura sumerica e babilonese, non sarebbe meno
importante sapere per quali vie precisamente si diffuse e capire a qua-
li interessi, a quali bisogni etici e intellettuali rispondeva, quale conce-
zione della vita sociale voleva esprimere.
Una trentina di anni fa, affrontai in modo molto limitato il proble-
ma partendo dalle ricerche tedesche e italiane svoltesi fino al primo
quarto del nostro secolo17; qui riassumerò drasticamente le opinioni
che allora mi formai; non ho potuto aggiornare la mia informazione,
ma, da alcune letture, ho l’impressione che su questo problema speci-
fico non si siano fatti grandi passi avanti.
Che tra alcune favole esopiche greche e alcune favole indiane ci
siano dei rapporti storici, cioè che in alcuni casi non si possa parlare di
reciproca indipendenza, è una certezza che non si può eliminare. Si sa
che in ricerche di questo genere spesso ci si appiglia ad analogie trop-
po limitate o superficiali e futili; in questo caso, però, anche dopo va-
glio prudente e rigoroso, alcune certezze resistono. Io esaminai 40 casi:
in 19 le analogie sono certe, in 14 meno sicure, ma degne di attenzione;
cito pochissimi esempi dell’una e dell’altra categoria. Incomincerò con
qualche favola famosa. L’asino nella pelle del leone (Esopo 199 H.;
Babrio 139), una favola probabilmente già conosciuta da Platone, si

  Molto più che il libro già citato di Marchianò, lavoro di un dilettante, è utile l’opera
17

dell’indianista F. Ribezzo, Nuovi studi sulla origine e la propagazione delle favole indo-elle-
niche, Napoli 1901; una trattazione più succinta in M. Winternitz, Geschichte der indi-
schen Litteratur, vol. 3, Leipzig 1920, pp. 307 ss. La comunicazione, già citata, di G. U. Thite
sulla favola indiana negli Entretiens della Fondation Hardt del 1983 non si occupa dei
rapporti con la favola greca; scarsa è anche la letteratura recente che egli cita sulla favola
indiana. Per la storia del dibattito nell’Ottocento rimando al libro del Ribezzo.

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ritrova nel Pañcatantra (IV 7)18, solo che invece della pelle del leone c’è
quella di tigre; è curioso che in un racconto buddista, di quelli compre-
si nella raccolta che va sotto il titolo di Jātaka (189 Cowell), la pelle è
di leone, ma nei versi citati nel corso del racconto si parla di pelle di
tigre e di leopardo. La favola del leone malato e della volpe (Esopo 147
H.; Babrio 103), già nota a Platone, si chiude con la famosa battuta
della volpe: non entro nella spelonca del malato, perché vedo che tutte
le orme di animali portano verso di essa, nessuna in senso contrario (il
leone ha divorato tutti gli animali che gli hanno fatto visita); nel Pañca-
tantra (III 14) la favola è notevolmente variata, ma lo sciacallo, che
sostituisce la volpe, adduce la stessa ragione per rifiutarsi di entrare. In
un’altra favola, forse già narrata da Archiloco e dettagliatamente svolta
da Babrio (95), il leone malato fa venire al suo letto il cervo, fingendo di
voler nominarlo suo erede come re degli animali; il cervo sciocco sfugge
per due volte al tentativo del leone di afferrarlo, ma torna una terza vol-
ta e viene afferrato e sbranato. Il leone agisce dietro consiglio della volpe.
L’ossatura del racconto è la stessa nel Pañcatantra (IV 2), solo che l’astu-
to consigliere è lo sciacallo e l’animale stupido è l’asino. Tutti ricordano
da Fedro (I 13) la favola del corvo appollaiato su un albero con un pezzo
di formaggio in bocca, che la volpe gabba con le sue adulazioni; affine
uno dei racconti della raccolta buddista (Jātaka 214), dove i protagonisti
sono la cornacchia e lo sciacallo (cfr. anche 295, dove i personaggi sono
gli stessi, ma le parti sono invertite).
Aggiungo ora qualcuno dei casi in cui le differenze sono tali da
suscitare dubbi e in cui la reciproca indipendenza è possibile. Anco-
ra da Fedro (I 2) ci viene la famosa favola delle rane che chiedono un
re. In uno dei racconti del Pañcatantra (III 15) vediamo che un ser-
pente, fingendosi inviato dagli dei per servire da veicolo alle rane,
ispira loro piena fiducia, sicché esse gli montano tranquillamente
addosso senza che egli ne mangi nessuna; il re delle rane si commuo-
ve per la sua astinenza e gli permette di mangiare alcune rane della
plebe; il serpente ci prende gusto, e alla fine elimina tutte le rane,
plebee e nobili. Nel racconto indiano non ci sono le rane che chiedo-
no un re; probabilmente abbiamo sviluppi autonomi, in cui di comu-
ne c’è solo il serpente che divora le rane. La massima che l’unione fa

  Per il Pañcatantra viene data la numerazione del Benfey.


18

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 103

la forza sarà nata indipendentemente in varie parti del mondo; in una


favola greca (Babrio 47; Esopo 53 H.) il contadino convince i suoi
figli con l’esempio delle verghe; in uno dei racconti della collezione
buddista (Jātaka 74) l’esempio è preso dagli alberi deboli, che, se
uniti, resistono al vento meglio degli alberi forti. Non è detto che
l’un esempio presupponga l’altro. La ben nota favola della serpe
scaldata in seno che uccide il suo benefattore (Esopo, 62, 186 H.;
Fedro IV 20), si trova anch’essa nella collezione buddista (Jātaka 43):
qui un eremita nutre una vipera e poi ne viene ucciso. In questo caso
l’indipendenza pare meno probabile.
Nei casi in cui il rapporto è sicuro, si apre, naturalmente, il proble-
ma della priorità: la redazione greca presuppone quella indiana o vice-
versa? La soluzione è quasi sempre spinosa, ed è ben comprensibile che
studiosi di grande competenza sostenessero tesi opposte: il nostro Ri-
bezzo si batté con passione e accanimento per la priorità della favola
indiana, sostenuta già da studiosi tedeschi come Wagener e Keller; ma
il Benfey pensava che generalmente la trasmissione andasse dalla Gre-
cia all’India, pur ammettendo in qualche caso la priorità della redazio-
ne indiana. La cronologia ci offre appigli meno solidi di quanto non ci
si aspetti: per esempio, la redazione più nota del Pañcatantra è tarda,
databile nel IV o V secolo d. C.; ma con altre redazioni si risale più
indietro di secoli, anche se non oltre il 300 a. C. Le favole buddistiche
risalgono in parte al III secolo a. C., ed è possibile che i buddisti usas-
sero favole già diffuse prima, come poi fecero certi nostri predicatori
medievali con le favole esopiche antiche. Si può indicare quando una
favola è attestata per la prima volta, ma spesso è impossibile fissare
quando sia nata. Ancora più labili sono altri criteri: il confronto stili-
stico o il grado di verosimiglianza con la realtà zoologica o la coerenza
interna del racconto. Tuttavia anche con questi criteri si può arrivare
in qualche caso a una probabilità.
Quando si tratta di favole già note ai Greci nell’età ionica o nell’età
attica, la priorità greca è molto probabile: dall’VIII o VII secolo al IV
va ammessa la penetrazione culturale dai paesi dell’Asia anteriore, ma
è molto difficile una penetrazione dall’India; in questi casi le favole
avranno viaggiato dall’area di cultura greca verso oriente, arrivando
fino al Pañcatantra o al Mahābhārata (anche questo poema è di epoca
tarda, dal II al IV secolo d. C.). Se in questi casi è il criterio storico a

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104 Capitolo secondo

orientarci, in altri anche criteri di coerenza o di verosimiglianza po-


tranno portarci, sia pure raramente, a conclusioni probabili: per esem-
pio, in una favola greca (Babrio 36; Esopo 71 H.) la canna, che sa
piegarsi al vento, riesce a sopravvivere, la quercia viene schiantata; nel
Mahābhārata (XII 4198 ss.) la forza ostile è la corrente del fiume; ma
la corrente del fiume sradica, e ci riesce meglio con la canna che con la
quercia. Prendiamo un altro caso di analogia probabile. In una favola
greca attestataci tardi (Esopo 51 H.) il serpente uccide il figlio del con-
tadino; questi cerca di vendicarsi, ma riesce solo a mozzare la co­da
dell’animale (secondo altre versioni colpisce solo una pietra accanto);
poi cerca una conciliazione, ma il serpente risponde che ogni concilia-
zione è impossibile finché l’uno vede la tomba del figlio, l’altro la coda
mozza (o la pietra colpita). In una favola del Pañcatantra (III 5) il
racconto è in parte lo stesso, in parte diverso: il serpente è un genio
tutelare del podere, che regala ogni giorno una moneta d’oro al ragaz-
zo; il ragazzo lo uccide per impadronirsi di tutto il tesoro. Nel raccon-
to indiano si capisce la causa dell’uccisione (uccisione inversa rispetto
a quella del racconto greco); inoltre la figura del serpente donatore si
spiega bene nelle credenze indiane. È ben nota da Fedro (I 8; Babrio
94; Esopo 161 H.) la favola della gru che salva il lupo con un’operazio-
ne alla gola, e, quando chiede la ricompensa per il servizio medico, si
sente rispondere che è già molto se ha salvato il proprio collo; in un
racconto indiano della collezione buddista (Jātaka 308) i personaggi
sono il leone e il picchio; è evidente che la gru dal lungo collo sta mol-
to meglio nel suo ruolo. In una favola bizantina (435 P.) la donnola si
tinge di nero e si finge dedita a vita monastica per meglio acchiappare
i topi; nel Mahābhārata (V 5421 ss.) è il gatto che si finge dedito a vita
ascetica e così riesce a farsi eleggere re dai topi: così coglie varie occa-
sioni per rimpinzarsene. Nell’area greca questa favola ci è nota solo da
uno storico medievale bizantino, Niceforo Gregora: il criterio storico
rende probabile l’origine indiana.
Come si vede, la questione va affrontata caso per caso; come con-
clusione generale la più vicina al vero pare quella del Benfey, cioè l’o-
rigine indiana è l’eccezione, non la regola. Il libro del Ribezzo, però,
non è fatto solo di argomentazioni sofistiche poco persuasive; resta
probabile una sua convinzione di fondo, cioè che il procedimento del-
la favola esopica, il breve racconto con personaggi animali e con inten-

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 105

to gnomico, compare nella cultura indiana molto presto. Gl’indizi che


egli scorge nel decimo libro del Rigveda sembrano dimostrarlo; anche
se il libro è in parte fra i più recenti, si risale pur sempre a prima del
V secolo a. C. Le singole favole hanno viaggiato dall’area greca al-
l’India e viceversa, lo schema narrativo sarà nato indipendentemente
nelle due culture. A questo proposito viene in mente che esempi di
favole esopiche si presentano anche nella cultura cinese almeno dal
IV-III secolo a. C.: il problema si amplia, e sarà meglio lasciarlo ai
competenti; piuttosto sarà opportuno notare che in tutte queste aree,
cinese, indiana, mesopotamica, non abbiamo la favola esopica come
genere a sé: essa va insieme con racconti di altro genere o con senten-
ze, proverbi senza racconto. All’inizio è così anche in Grecia: Esopo è
un saggio a cui si attribuiscono favole, sentenze, battute spiritose; solo
in età ellenistica si formano raccolte costituite, almeno in massima
parte, da racconti gnomici con personaggi animali o vegetali; è bene
ricordarsi che la prima raccolta di questo genere conservataci è quella
di Fedro.
Prima di lasciare la questione dei rapporti tra favola greca e favola
indiana, vorrei indicare una via nuova, a cui ci portano le scoperte
nell’area mesopotamica. Finora siamo rimasti chiusi nell’alternativa:
dalla Grecia all’India o dall’India alla Grecia? Ma c’è un’altra possibi-
lità: in qualche caso la stessa favola dall’area della Mesopotamia si sarà
diffusa verso occidente, cioè nella cultura greca, e verso oriente, cioè
nella cultura indiana. È di nuovo la favola dell’aquila e della volpe a
farci da guida. La ritroviamo, infatti, nel Pañcatantra (I 6): il serpente
divora i figli di una coppia di corvi che ha posto il nido su un grande
fico; i corvi si vendicano seguendo i consigli dello sciacallo (il corri-
spondente indiano, come abbiamo visto, della volpe). Con personaggi
mutati il racconto ritorna nell’opera più volte (I 15; 19; 20). Che qui il
serpente sia il predatore, che i ruoli fra uccelli e serpente siano inverti-
ti rispetto alla favola greca, non basta certo a indebolire il rapporto. La
favola è passata dalla Grecia all’India? Non è impossibile; ma la pre-
senza del serpente, che compariva nella redazione babilonese, m’indu-
ce a credere che la favola sia arrivata all’India piuttosto dal Medio
Oriente, senza intermediario greco; può darsi, però, che a contamina-
zione con la versione greca sia dovuta la presenza dello sciacallo (cor-
rispondente alla volpe greca) come astuto consigliere. L’apologo di

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106 Capitolo secondo

Menenio Agrippa, uno dei più diffusi nel mondo, si trova anche in In-
dia, nel Mahābhārata (XIV 652 ss.); solo che al ventre della versione
greca e latina è sostituito un personaggio molto più nobile, Manas, che
è lo spirito vitale. Non è detto che l’apologo sia arrivato in India dalla
cultura greca: una redazione diversa, con la testa al posto del ventre, è
stata trovata in un testo scolastico egiziano risalente a poco meno di
mille anni a. C. A giudicare dal frammento pervenutoci, che costituisce
solo l’inizio del racconto, la disputa fra la testa e le parti del corpo ribel-
li, era dettagliata e sottile19; naturalmente già in Egitto serviva a dimo-
strare che il governo è necessario e che chi governa è un benefattore dei
governati. Nel corso delle mie ricerche inedite tentai anche di stabilire,
sia pure attraverso rapidi sondaggi, un’analogia con altri elementi cultu-
rali, che vanno dal folklore e dalla religione alle arti figurative, emigrati
probabilmente dall’Asia anteriore non greca e dalla Persia sia verso ovest
sia verso est. Mi limito qui a un esempio. Erodoto (III 119) racconta che
la moglie del satrapo persiano Intaferne, essendole concesso di salvare
uno tra il marito, il figlio e il fratello, condannati a morte, scelse il fra-
tello; l’argomentazione con cui giustificò la scelta fu usata da Sofocle
nell’Antigone (909-910); una trasformazione del racconto si trova nella
collezione buddista (Jātaka 67), e l’argomentazione della donna anche
nel Rāmāyan.a (VI 39, 5-6). La mia opinione è che il racconto sia arriva-
to alla Grecia e all’India direttamente dalla Persia.

5. Favolistica esopica in terra d’Egitto?

Prima di finire torniamo un momento dalla lontana India al Vicino


Oriente. Già una o due volte, nel corso di questa trattazione molto
sommaria, abbiamo incontrato l’Egitto; ma la mia opinione è che l’E-
gitto, che pure ebbe una civiltà e una cultura così importanti, conobbe
pochissimo la favola esopica in senso stretto. Fu diffusa in quella cul-
tura, come abbiamo già visto, fin dagli inizi, una letteratura gnomica
consistente in serie di consigli, ammonimenti, massime che si presen-
tavano come pronunciati da illustri personaggi; in tali serie ricorrono
talvolta esempi presi dal comportamento degli animali: per esempio,

  Il frammento è tradotto e illustrato da Edda Bresciani, Letteratura e poesia dell’antico


19

Egitto, Torino 1969, pp. 339-340.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 107

nel testo attribuito ad Any, il cui papiro più antico risale alla XIX di-
nastia, vale a dire a tredici secoli a. C., il comportamento di vari ani-
mali, toro, leone, cavallo, cane, scimmia, oca, è evocato per inculcare
la docilità e l’obbedienza (anche bestie feroci e forti riescono ad am-
mansirsi). Ne cito due righe:

Il leone selvaggio lascia la sua ferocia e supera l’asino timido.


Il cavallo va sotto il giogo, è ubbidiente quando è uscito fuori20.

Fra testi sapienziali egiziani e testi sapienziali sumerici o babilone-


si esistono affinità: un problema di rapporti si pone, ma tanti problemi
che si pongono sui passaggi culturali fra le due grandi aree vanno la-
sciati ai competenti. Niente di strano, comunque, che qualche proce-
dimento dei libri di insegnamenti morali, nella seconda metà del se-
condo millennio a. C., venisse suggerito da testi babilonesi; ciò che
importa a questo punto è che confronti come questi che ho citato non
sono favole esopiche, cioè narrazioni di vicende con personaggi anima-
li o vegetali e con intento gnomico. Per l’origine babilo­nese propende-
rei (ma senza certezza) nel caso delle tenzoni fra alberi. Dalla lettera-
tura egiziana non ci è conservato nessun testo del genere, ma su una
tavoletta di maiolica è conservato un indice di testi, probabilmente
contenuti in una cassetta di legno a cui la tavoletta era attaccata, e fra
questi è segnalata la tenzone fra il sicomoro e l’olivo21: la tavoletta è del
tempo di Amenophis III, del XIV secolo a. C., un faraone che sposò
una principessa babilonese. Viceversa può darsi che, come supposi nel
mio studio sulla Vita Aesopi22, provenga dall’Egitto la finzione letteraria
della sfida fra sovrani a colpi di indovinelli: conosciamo nella lettera-
tura egiziana guerre del genere, per esempio fra un re degli Hyksos
(invasori del Basso Egitto) e un faraone di Tebe, fra un re di Etiopia e
Ramses II; una contesa dello stesso tipo fra un re di Etiopia e il farao-
ne Amasi era nota anche ai Greci. Va ricordato che la gara di indovi-
nelli è un gioco diffuso in varie culture sin da epoche remote, presso

20
  Ivi, p. 295.
21
 Cfr. H. R. Hall, An Egyptian Royal Bookplate. The Ex Libris of Amenophis III and Teie,
«Journal of Egyptian Archaeology», vol. 12, 1926, nn. 1-2, pp. 30-33. Lo Hall sostiene l’ori-
gine egiziana di questo genere di componimenti.
22
  Il romanzo di Esopo, pp. 292 ss. (qui, pp. 159 ss.).

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108 Capitolo secondo

gl’Indiani già nel Rigveda, presso i Germani: probabilmente bisogna


ammettere origini autonome; nel caso, però, dell’Egitto e dell’Assiria
caratteristiche particolari dimostrano un rapporto d’influenza. Ma
neppure queste gare hanno a che fare con la favola esopica.
A presupporre una diffusione notevole della favola esopica nella
cultura egiziana antica ha indotto talvolta la larga fioritura in Egitto di
una moda di rappresentazioni figurative di animali con funzioni e at-
teggiamenti umani. Alcune sono date su papiri, ma la massima parte
è stata ritrovata su ostraka (cioè su cocci) a Deir-el-Medina23. Scorrere
questi disegni è un grande divertimento. Vediamo topi che assaltano
una fortezza difesa da gatti, il gatto e la capra in preghiera davanti al
topo, il bue e il gatto che sacrificano all’asino, il gatto o la scimmia o
la volpe che custodiscono le oche, la volpe che custodisce le capre,
l’asino o la scimmia o la volpe o il coccodrillo che suonano l’arpa, la
scimmia che suona il doppio oboe, la volpe che suona il flauto, il bec-
co o il leone che suonano la lira, animali che bevono birra, animali
seduti a un tavolo a giocare (famosa specialmente la scena del leone e
della gazzella che giocano a scacchi), il cane che sale una scala per
entrare in un tempio, la rondine che sale una scala per arrivare su un
fico dove abita l’ippopotamo, la scimmia montata sul cavallo, scimmie
che remano in un battello, sciacalli sacerdoti che portano in processio-
ne un dio in figura, sembra, di gatto, e così via. Gli ostraka sono data-
bili nei secoli del Nuovo Regno, cioè nella seconda metà del secondo
millennio a. C.; il materiale vile su cui le scene sono state disegnate fa
pensare a diffusione popolare, non a cultura di élite. Alcuni accosta-
menti con favole esopiche greche sono stati tentati, ma le analogie,
poco stringenti, non convincono.
Di interpretazione sicura di questa moda non si può parlare, ma più
convincente riesce l’accostamento a letteratura del genere della Batraco-
miomachia e al Tierepos giocoso, a noi più noto dal Medioevo francese e
germanico, ma presente nel folklore di quasi tutti i popoli primitivi.
Anche in questo caso si pone il problema del rapporto con l’area cultu-
rale dell’Asia anteriore, dove compaiono ancora prima che in Egitto, ma
raramente, piccole sculture raffiguranti animali con funzioni e atteggia-

23
  Eccellentemente pubblicati e illustrati da J. Vandier d’Abbadie, Catalogue des ostraca
figurés de Deir-el-Medineh, Il Cairo, vari fascicoli dal 1936 in poi.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 109

menti umani, specialmente animali che suonano strumenti di musica.


Non abbiamo prova che le raffigurazioni parodiassero, come la Batraco-
miomachia, raffigurazioni o racconti di tono serio; è prudente limitarsi a
vedervi un intento giocoso, fantastico, più che satirico24. Alcune scene,
come quella dei gatti assediati dai topi, del gatto o della volpe che custo-
discono le oche, del gatto che fa da cameriere al topo, della rondine che
usa la scala per salire sull’albero, mentre l’ippopotamo vi è già sopra, ecc.,
hanno indotto a trovare nell’antico Egitto una rappresentazione del
«mondo alla rovescia»; e forse di «mondo alla rovescia» si può parlare.
Più azzardato sarebbe scorgervi un sentimento qualsiasi di rivolta, reli-
giosa o morale: si sa che il rovesciamento del mondo rientra comune-
mente nei riti del carnevale; non è, comunque, impossibile che la gente
umile, a cui quella produzione si rivolgeva, nel divertimento fantastico
sognasse talvolta che i perseguitati diventassero i padroni.
Dunque l’apparizione della favola esopica nella cultura egiziana è, più
che sporadica, eccezionale. Ho già accennato alla favola della testa e delle
membra del corpo, cioè la versione egiziana dell’apologo di Menenio
Agrippa; il dibattito fra la testa e le membra non è molto diverso, nell’im-
postazione, dalle tenzoni fra animali o fra alberi. Per trovare alcuni rari
esempi di favole bisognerà arrivare a testi demotici del I o II secolo d. C.
In un papiro di quest’epoca è conservata la leggenda di Tefnut; ne riferisco
qui il minimo necessario al nostro tema. Tefnut, dea figlia di Phrê, irata
verso il padre, si è ritirata in un deserto della Nubia Superiore, dove abita
in forma di leonessa o di gatto etiopico. Viene incaricato di ricondurla al
padre il dio Thoth, una specie di Hermes egiziano. Negli ammonimenti
di Thoth troviamo anche un paio di favole: la favola dell’avvoltoio e del
gatto selvatico e quella del leone che risparmia un topolino e ne viene poi
degnamente ricompensato, perché il topolino, rodendo la corda, libera il
leone dalla trappola, tesa dall’uomo, nella quale è caduto. Ambedue i rac-
conti sono ampliati e complicati. Un altro testo della stessa epoca ci tra-
manda, in narrazione anch’essa dettagliata, la favola della rondine che

 Un’interpretazione prudente e persuasiva in Emma Brunner-Traut, Ägyptische


24

Tiermärchen, «Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde», vol. 80, 1955,
pp. 12-32, che ha dato una trattazione più breve e divulgativa in Tiermärchen im alten
Ägypten, «Universitas» (Stuttgart), vol. 10, 1955, pp. 1071-1078. Cfr. anche R. Würfel, Die
ägyptische Fabel in Bildkunst und Literatur, «Wissenschaftliche Zeitschrift der Universität
Leipzig», vol. 3, 1952-1953, pp. 63-77 e 153-160.

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110 Capitolo secondo

punisce il mare bevendone l’acqua e prosciugandolo25. Data l’epoca, non ci


sarebbero difficoltà ad ammettere che queste favole provengano dalla cul-
tura greca; eppure anche l’analisi della favola dell’avvoltoio e del gatto
selvatico ha suggerito altre derivazioni. Do un rapido riassunto del raccon-
to ricostruito dal papiro demotico. All’inizio, dopo il patto di amicizia
sancito con un giuramento per il dio Phrê, è il gatto selvatico che uccide
un figlio dell’avvoltoio. Pare che il piccolo morendo invochi sullo spergiu-
ro la vendetta di Phrê. Poi è l’avvoltoio che rapisce i gattini, e la partita
potrebbe considerarsi chiusa; invece il gatto protesta, lui che è stato il
primo fedifrago, presso Phrê, e allora il dio giusto manda un genio puni-
tore, che architetta la rovina dell’avvoltoio. La vicenda è press’a poco quel-
la narrata da Archiloco: l’avvoltoio ruba un pezzo di carne, senza accorger-
si che a esso è attaccata una scintilla, e provoca l’incendio della propria
dimora e dei propri figli. Io non credo che sia difficile dipanare la matassa
di questo racconto un po’ complicato: l’autore ha contaminato due reda-
zioni che conosceva; secondo l’una il colpevole era l’uccello rapace (aquila
o avvoltoio), secondo l’altra l’animale terrestre; dalla contaminazione è
nato un piccolo pasticcio. Ora abbiamo visto che nella versione arrivata in
India i ruoli sono già invertiti, giacché i colpevoli non sono i corvi, ma il
serpente (l’inversione dei ruoli è procedimento non raro nelle trasforma-
zioni di racconti); e io ho congetturato che la versione indiana non pro-
venga dalla cultura greca, ma da quella dell’Asia anteriore non greca e,
indirettamente, da quella babilonese, dove compare il serpente; ma dalla
stessa area proverrà la prima delle due versioni contaminate dall’autore
egiziano (cioè quella in cui è l’animale terrestre a violare il giuramento e
a divorare i figli dell’uccello rapace). Già un indizio orientava verso la
stessa area: anche se il testo è rovinato, pare che l’avvoltoio rubi il pezzo
di carne a un siro che sta cuocendo una preda di caccia: ciò indusse il
Franzow, un egittologo che studiò questo testo, a congetturare origine
siriaca26. Dunque torniamo di nuovo alla fonte più antica e più ricca.

25
  Per questi testi demotici rimando alla traduzione di Bresciani, Letteratura e poesia
dell’antico Egitto, cit., pp. 677-681; della prima favola è dato solo l’inizio, più leggibile
nel testo demotico; quindi bisogna rifarsi alle opere ivi citate di W. Spiegelberg e di
M. Pieper. Sulle affinità fra la leggenda di Tefnut, la storia di Ah.īqār e il romanzo
di Esopo cfr. Rolf Kussl, Achiqar, Tinuphis und Äsop, in Holzberg (a cura di), Der
Äsop-Roman, cit., pp. 23-30, da cui si potrà raccogliere altra bibliografia.
26
 Cfr. Franzow, Zu der demotischen Fabel vom Geier und der Katze, cit. Lo Spiegelberg,
confrontando con un disegno su coccio, che rappresenta una scena con gatto, scimmia,

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 111

Tralascio altre congetture sulla presenza di favolistica esopica in


Egitto, specialmente in età ellenistica e romana, ma già in età faraoni-
ca; per evitare equivoci voglio tuttavia aggiungere che neppure io credo
che i pochissimi esempi offertici da testi demotici siano le sole favole
esopiche diffuse in Egitto. Vi sono varie favole esopiche menzionate
da autori greci e da Fedro e collocate in Egitto: in alcuni casi, per
esempio quando si tratta di favole in cui compaiono scimmie danzan-
ti o coccodrilli, l’origine egiziana è probabile. Mi limito qui a un solo
esempio. Luciano nell’opuscolo Il pescatore (36), a proposito di falsi
amici che rinnegano l’amicizia appena hanno da spartirsi qualche sol-
do, richiama la favola della scimmia che un re d’Egitto faceva danzare
e che interruppe subito la danza quando uno spettatore le gettò sulla
scena delle noci. In un altro opuscolo (Apologia 5) Luciano narra la
stessa favola per denunciare l’ipocrisia: invece delle noci vi sono fichi
secchi e mandorle e, ciò che interessa di più, invece di un ignoto re
d’Egitto compare la regina Cleopatra; ma è ben possibile che la favola
sia più antica di Cleopatra. In questo caso il confronto con disegni
degli ostraka mi pare convincente: raffigurazioni della scimmia che
suona il doppio flauto o l’arpa o che balla, sono fra le più frequenti, e
frequente è l’associazione della scimmia con le noci di palma dum.
Anche in un caso come questo, però, non è detto che la favola sia in
tutto egiziana: potrebbe darsi che egiziano sia l’adattamento; una fa-
vola greca e indiana certamente affine è, per esempio, quella della don-
nola che, innamoratasi di un giovane, viene trasformata da Afrodite in
fanciulla, ma svela la sua vera natura quando nella camera nuziale vede
passare un topo (Babrio 32; Esopo 50 H.; cfr. Pañcatantra III 12).

6. Tipologia geografica della favola esopica

Grammatici ed eruditi della tarda antichità classificano le favole eso-


piche (indicate col nome generico, usato in questo senso già in età
ionica, di λóγοι) secondo la provenienza: oltre le favole egiziane elen-
cavano le libiche (cioè africane), le sibaritiche, le frigie, le cilicie, le
carie, le ciprie. Le differenze che talvolta cercano di fissare secondo i

avvoltoio, congetturò che questa favola egiziana risalga all’epoca dei Ramessidi o a epoca
più antica; ma l’interpretazione del disegno è molto aleatoria.

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112 Capitolo secondo

contenuti si dimostrano fallaci, ma le provenienze non sono inventate:


alcune risalgono fino all’età attica, giacché compaiono in Eschilo, Ari-
stofane, Aristotele27. In una tragedia perduta Eschilo citava come libi-
ca la favola dell’aquila che viene colpita da una freccia munita di una
penna tratta dall’aquila stessa; Aristotele conosceva favole esopiche e
favole libiche: è evidente che certe favole erano conosciute come tali
dal pubblico ateniese; non c’è ragione di negare che esse fossero arri-
vate effettivamente da aree culturali africane a ovest dell’Egitto. Era
tramandato anche il nome dell’inventore di questo genere di favole,
Κύβισσος, o, al femminile, Κύβισσα.
Un tardo grammatico greco, lo Pseudo-Diogeniano, cita come
esempio di favola cipria una narrata dal poeta Timocreonte di Rodi in
un carme che scagliò contro Temistocle: egli paragonava il vincitore di
Salamina finito in esilio a due colombe che, sfuggite a chi voleva sacri-
ficarle a Adone, andarono a cascare su un rogo (3 a D.). L’origine ci-
pria è verosimile, poiché a Cipro esisteva un culto di Afrodite e
Adone; può darsi che essa fosse indicata dallo stesso poeta rodio. An-
cora lo Pseudo-Diogeniano (425 P.) c’informa che una favola caria fu
usata da Timocreonte e, ancora prima, da Simonide: vi compare un
pescatore affamato che d’inverno scorge dalla spiaggia un polipo e non
sa che fare; se non pesca, muore di fame; se si spoglia per pescare,
muore di freddo.
In Caria siamo sulla costa dell’Asia Minore; ricordiamo che Calli-
maco conosceva da folklore della Lidia la tenzone fra l’olivo e l’alloro;
forse dalla stessa regione proveniva una favola che Plutarco cita, attri-
buendola a Esopo, nel Convito dei sette saggi (4, 150 a-b  =  315 a P.; Test.
36 P.) e che leggiamo, con qualche variazione, anche in Babrio (62): il
mulo si specchia in una fonte, ammira la sua bellezza, s’inorgoglisce e,
ricordandosi che è figlio di una cavalla, vuole imitare il cavallo nella
corsa; ma presto, stanco, si ferma, riflettendo sul fatto che è figlio di
un asino. Plutarco dà il mulo come «lidio»: congetturo che la favola
venga di là; forse anch’essa risale alla saggezza babilonese, in cui tro-
viamo giochi satirici del genere sul ruolo ambiguo del mulo.

  Tralascio le citazioni, rimandando agli Aesopica del Perry, che raccoglie i passi utili nella
27

sezione dei testimonia.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 113

Aristofane, che dimostra una certa familiarità con favole esopiche,


cita nelle Vespe anche alcuni motti satirici: motti spiritosi, più che fa-
vole, probabilmente in voga fra il pubblico ateniese. Timocreonte, che,
come abbiamo visto, amava questo genere di letteratura, introduce an-
che (4 D.) un Σικελὸς κομψὸς ἀνήρ, cioè un siciliano di elegante ar-
guzia, che parla con la madre (ma non ci è conservata la sua battuta).
Questo tipo di elegante dicitore è noto anche a Platone (Gorgia 493 a),
che però aggiunge: «forse siciliano o italico». Un commentatore antico
di Platone lo identificò, un po’ avventatamente, con Empedocle. Si
cominciava a gustare anche in Grecia un po’ di aceto italico; ma, ripe-
to, non si tratta veramente di favole. Anche questo conferma che l’area
feconda per la favola esopica è quella che va dal Mediterraneo orien-
tale all’India e alla Cina e che il centro di quest’area è la Mesopotamia.
Tra le grandi culture fiorite in questa vasta area ve n’è una che ha
contato particolarmente nella storia del mondo, cioè la cultura ebraica;
ma, per ragioni che non sarebbe facile indagare, la cultura ebraica restò
estranea alla fioritura esopica: nell’Antico Testamento, che è così ricco
di testi gnomici, sermoni, proverbi, ricorrono solo due favole esopiche.
A questo proposito mi limito a ricordare che questo genere di lettera-
tura, pur avendo avuto qualche contatto con la sfera religiosa, ne rima-
se sostanzialmente al di fuori: al centro non fu il rapporto con Dio, ma
i difficili rapporti tra gli uomini, specialmente fra deboli e potenti;
generalmente la favola esopica fu elaborata da cultura laica, e del pen-
siero laico fu, si può dire, la più antica manifestazione28.
A questo punto della mia ricerca fui preso dalla tentazione di uscire
da questa grande area per vedere se una favolistica di tipo esopico sia
nata presso popoli indipendenti dalla cultura greco-latina e da quelle
collocate dall’Asia anteriore alla Cina. Naturalmente bisogna ricordare
che le propaggini di queste culture arrivano lontano: per esempio, l’apo-
logo di Menenio Agrippa si ritrova fra i Galla dell’Africa e presso una
popolazione dell’Oceania29; ma presso i Galla sarà arrivata dall’Egitto o
dalla Grecia, in Oceania dall’India. Nel folklore di molti popoli si trova
un Tierepos più o meno legato alla religione, più o meno giocoso. Non
raramente il racconto con eroi animali ha funzione eziologica; qualche

  Per questo problema rimando al mio saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7).
28

  Cfr. nella grande collana di Miti e leggende curata dal Pettazzoni, vol. 1, Torino 1948,
29

pp. 342-343 per l’Africa; vol. 2, 1963, p. 11 per l’Oceania.

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114 Capitolo secondo

rara volta viene assunto a dimostrare una morale: in questo senso limi-
tato favole di tipo esopico appaiono anche altrove; ma a questo punto
è prudente non imbarcarsi sull’ocea­no del folklore mondiale o della
Weltliteratur, un oceano che, si può dire, non ha confini.

Addendum bibliografico 2009


Per l’edizione delle favole esopiche greche antiche, a parte edizioni divulga-
tive e parziali, va segnalato Fr. R. Adrados, Nuevos testimonios papiráceos de
fábulas esópicas, «Emerita», vol. 67, 1999, pp. 1-11.
Quanto alle origini e alla diffusione delle favole esopiche, in una mia in-
troduzione a Esopo, Favole, Milano 1996, pp. ix-x (qui, p. 69), segnalai
brevi narrazioni allegoriche in lingua hurrita e ittita, simili a favole esopiche,
di cui appresi l’esistenza da uno scritto rimasto inedito del glottologo Rugge-
ro Stefanini, che fu mio allievo al liceo e successivamente professore di studi
mediorientali all’Università della California a Berkeley; i testi a lui noti erano
stati pubblicati da Erich Neu, Das Hurritische. Eine altorientalische Sprache
in neuem Licht, «Abhandlungen der Mainz Akademie der Wissenschaften
und der Literatur», 3, Stuttgart 1988, e ripubblicati da Heinrich Otten e
Christel Rüster, Keilschrifttexte aus Boğazköy, fasc. 32, Berlin 1990. Non
mi pare che siano emersi documenti nuovi. Nessun contributo nuovo nello
studio di Valeria Castrucci, Elementi orientali nella letteratura ellenistica.
Per una lettura di Callimaco, fr. 194 Pfeiffer, «Quaderni di storia», n. 43, 1996,
pp. 279-293, utile per l’informazione e la bibliografia; si può vedere inoltre
A. Pérez Jiménez e G. Cruz Andreotti (a cura di), «Y así dijo la zorra».
La tradición fabulística en los pueblos del Mediterráneo, Madrid 2002.
Attenzione notevole ha richiamato il romanzo di Esopo. La redazione del
codice di Grottaferrata (ora negli Stati Uniti) è stata ripubblicata con buoni
progressi da Franco Ferrari; è uscita in una collana divulgativa (Bur, Milano
1997), ma è di alto valore filologico; si veda anche la recensione di Enzo
Degani, «Eikasmós», vol. 8, 1997, pp. 395-402. Sulla Vita Aesopi nel comples-
so un’analisi accurata si deve a Niklas Holzberg (a cura di), Der Äsop-Ro-
man. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübingen 1992; più recente Ioannis
Theophanis A. Papadimitriou, Aesop as an Archetypal Hero, Athens 1997.
La storia delle redazioni e della diffusione di questo «romanzo» andrà ripresa,
perché pezzi di altre redazioni sono apparsi in papiri.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 115

Capitolo 3

Letteratura esopica
e letteratura assiro-babilonese1

1. Una favola di Archiloco e il poemetto di Etana

Accanto al problema dei rapporti tra favola esopica e favola indiana


già nel secolo scorso ebbe un posto rilevante quello dei rapporti tra
favola esopica e favola assiro-babilonese: il che apparirà naturale, se
solo si pensa che Babrio nel prologo del secondo libro proclamava la
favola «invenzione degli antichi Siri, che furono al tempo di Nino e di
Belo», dunque degli Assiri e Babilonesi. Fu appunto uno studioso
di Babrio, il francese Eugène Lévêque2, a spalancare le più larghe por-
te attraverso cui la favolistica assiro-babilonese sarebbe entrata nella
cultura greca. Ma la dimostrazione fu molto fragile e trovò ben poco
credito: il Marchianò, anche se ispira in genere poca fiducia, ebbe cer-
tamente ragione nel confutare Lévêque, che si aggrappava ad analogie
troppo generiche, insignificanti. La favola del cervo e del cavallo asser-
vito all’uomo, da Aristotele (Rhet. II 20) attribuita a Stesicoro (104
Page), deriverebbe da una assiro-babilonese, perché nella letteratura
assiro-babilonese c’è una tenzone tra il cavallo e il bue, in cui il cavallo
rimprovera al bue la sua schiavitù3; la favola del leone innamorato della
figlia del contadino (Esopo 145 H.) avrebbe la stessa origine, perché
nel poemetto babilonese di Izdubar si trova il leone ammaliato dalla
dea Ishtar4. Altrove bastano a Lévêque analogie anche più tenui: per
dimostrare l’origine assiro-babilonese, la favola dei tori in guerra col

1
  [Le prime due sezioni sono apparse in «Rivista di filologia e di istruzione classica»,
ser. 3, vol. 92, 1964, pp. 24-39; la terza in «Maia», n. s., vol. 43, 1991, pp. 163-165].
2
  Les fables ésopiques de Babrios, Paris 1890. Gli argomenti sono largamente riassunti e di-
scussi da M. Marchianò, L’origine della favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali,
Trani 1900, pp. 318 ss.
3
  Marchianò, L’origine della favola greca, cit., p. 327.
4
  Ivi, p. 328.

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116 Capitolo terzo

leone (Babrio 44) è messa a confronto con un bassorilievo assiro, dove


due liocorni combattono con un leone; la favola del cervo alla fonte
(Esopo 76 H.; Babrio 43; Fedro I 12) con un bassorilievo di un obelisco
di Salmanassar, dove un cervo viene assalito da un leone; la favola del
cervo nascosto nella vigna (Esopo 79 H.) con un bassorilievo che rap-
presenta un cervo appiattato in un canneto5. In altri casi il termine di
confronto assiro o babilonese manca del tutto6 e l’origine assiro-babi-
lonese è supposta in base a lontanissimi indizi. Il metodo d’induzio-
ne è a volte ameno: la favola del leone e dell’asino che vanno a cac-
cia (Esopo 156 H.; Fedro I 11) è assira, perché i re assiri avevano
l’abitudine di andare a caccia7. Tuttavia l’ipotesi di una favolisti-
ca babilonese, formulata da assiriologi illustri, come lo Smith e lo
Hommel8, e basata sulla frequenza di animali parlanti in leggende o in
una letteratura, per lo più d’ispirazione gnomica, come quella delle
tenzoni, era fondata, anche se i testi per allora interpretati non pote-
vano dirsi rigorosamente favole di tipo esopico, cioè favole in cui, oltre
al dialogo, come quello delle tenzoni, tra animali o piante o esseri
inanimati, vi fosse un’azione e in cui personaggi e azione alludessero al
mondo umano.
Nel nostro secolo l’ipotesi dell’origine assiro-babilonese della favo-
la greca acquistava basi più solide. In un campo attiguo a quello della
favola di tipo esopico, cioè in quello delle tenzoni tra animali o piante,
il Diels dimostrò in modo pienamente persuasivo che la tenzone tra
l’alloro e l’olivo, con successivo intervento del rovo, in un giambo di
Callimaco (fr. 194 Pf.) presuppone, mediatamente, le tenzoni tra albe-
ri della letteratura assiro-babilonese, come, per esempio, quella fra il
tamerisco e la palma da datteri9. Callimaco riferisce la tenzone come
narrata dai Lidi, che la ponevano sul monte Tmolo: indicazione pre-

5
  Ivi, p. 329.
6
  Ivi, pp. 330 ss.
7
  Ivi, pp. 331-332.
8
  G. Smith, The Chaldean Account of Genesis, London 1876, pp. 137 ss.; Fr. Hommel, Storia
di Babilonia e Assiria, trad. it., Milano 1887, p. 508. Contro di loro polemizza, a torto, il
Marchianò, L’origine della favola greca, cit., pp. 345 ss.
9
  H. Diels, Orientalische Fabeln in griechischem Gewande, «Internationale Wochenschrift
für Wissenschaft, Kunst und Technik», vol. 4, 1910, coll. 993-1002. Per la tenzone citata cfr.
ora Erich Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte,
Leipzig 1927 («Mitteilungen der altorientalischen Gesellschaft», II 3), pp. 6 ss.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 117

ziosa, perché ci fa scorgere nella Lidia una delle zone attraverso cui
folklore assiro-babilonese si diffonde verso le colonie greche. La cono-
scenza più larga che oggi abbiamo di questa letteratura di tenzoni10,
risalente fino ai Sumeri, permette di illuminare meglio l’ultima parte
della poesia di Callimaco. È noto che nella disputa fra l’alloro e l’olivo,
dopo che le due piante hanno celebrato le loro qualità, interviene qua-
le paciere il rovo, pigliandosi, per questa sua protesta, gli insulti dell’al-
loro (fr. 194, 95 ss.). Ora nelle tenzoni sumerico-assiro-babilonesi,
dopo l’introduzione e la disputa, si ha l’arbitrato di una divinità e una
riconciliazione11. Con questo presupposto si capisce meglio l’interven-
to del rovo come arbitro e, soprattutto, si gusta meglio la satira: la vile
pianta pretende di assumersi la parte che di solito spetta a un dio!
Probabilmente Callimaco non aveva più coscienza del fatto che il vile
rovo sostituisse una divinità (l’alloro si sdegna solo perché il rovo si
considera pari ai due litiganti); ma in qualche fase, o assiro-babilonese
o lidia, della storia della tenzone tale coscienza dev’esserci stata.
Il Diels nel suo articolo lamentava che gli ellenisti s’interessassero
troppo poco di culture orientali, che considerassero ancora troppo au-
toctona la cultura greca. Oggi le cose stanno diversamente. Tuttavia
nel campo della favola esopica i progressi fatti nella conoscenza dei
rapporti con la letteratura assiro-babilonese si debbono a un assiriolo-
go, Erich Ebeling12. Innanzi tutto egli ha dimostrato che in questa
letteratura, oltre che di tenzoni fra animali o piante, oltre che di
Tierepos, i cui personaggi sono il lupo, il cane, il leone, la volpe, si deve
parlare anche di vere e proprie favole esopiche, con un’azione e una
morale o implicita o contenuta nella battuta spiritosa di uno dei per-
sonaggi. Il lupo, che non conosce l’entrata della città, viene inseguito
per le strade dai porci; morale: quando si è in terra nemica meglio
tornare indietro13 oppure non praticare luoghi che non si conoscono o

10
 Dopo Ebeling, Die babylonische Fabel, cit., cfr. ora J. J. van Dijk, La sagesse suméro-ac-
cadienne, Leiden 1953 («Commentationes orientales», I), pp. 29 ss.; W. G. Lambert,
Babylonian Wisdom Literature, Oxford 1963, pp. 150 ss. (da vedere, naturalmente, anche per
il Tierepos e per le favole sparse tra i detti popolari e i proverbi). Per una breve informazio-
ne divulgativa cfr. G. Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, Milano 1957,
pp. 99 ss.
11
 Cfr. van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., pp. 39-40.
12
  Die babylonische Fabel, cit.
13
  Ivi, p. 46.

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118 Capitolo terzo

non fare cose di cui non si è pratici. L’uccellatore che non ha pesci non
acchiappa uccelli, ma va a immergere le sue reti nei canali della città;
morale, forse: in caso di bisogno occorre saper adattarsi ad altri mestie-
ri14. Un cavallo ardente monta una mula e nella voluttà le mormora
all’orecchio: «Il figlio che avrai sarà focoso come me, non sarà come il
vile asino che porta il giogo» (si sa che la mula è infeconda): irrisione,
forse, delle promesse stolte che si fanno in amore15. Una pulce e una
mosca litigano tra loro; sopraggiunge una mosca di un’altra specie per
fare da paciere, ma viene gettata in ceppi dai due litiganti e divorata, a
quanto pare, da un topo; morale: chi vuol fare da arbitro a volte piglia
le botte16. Il ragno tende un agguato alla mosca; il camaleonte si adira
contro il ragno17: proprio lui, voleva forse dire il favolista, che è più
furfante del ragno! Esempi del genere confermano quanto già lasciava
chiaramente supporre la redazione aramaica del racconto di Ah.īqār,
scoperta a Elefantina nel 1907: il pezzo sapienziale del racconto faceva
largo uso di favole (dai frammenti di Elefantina l’esistenza di favole già
nella redazione aramaica risulta sicura, benché sia molto difficile rico-
struirle singolarmente); ora personaggi e situazioni fanno ritenere di
origine babilonese il racconto.
L’Ebeling ha potuto anche indicare con precisione una favola babi-
lonese passata nella favolistica greca: si tratta della favola della mosca e
dell’elefante18. La mosca si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratello, ti ho

14
  Ivi, p. 45.
15
  Ivi, p. 48.
16
  Ibid.
17
  Ivi, p. 49.
18
  Ibid. Dei frammenti fanno sospettare la favola del topo di città e del topo di campagna, ma
la ricostruzione resta incerta (ivi, p. 45). Un’altra favola racconta di un cane arrabbiato che in-
furia contro una città: un lupo gli salta alla gola e sta per strangolarlo. Il cane allora: «Perché
non afferri dei buoi? Io non basterò a saziarti» (ibid.; la fine risulta da un’interpretazione non
sicura). Il cane è un furfante che non si rende conto della sua colpa? O la morale è che non si
lascia una preda già acchiappata per una da acchiappare? In questo secondo caso la favola fa-
rebbe pensare a quella esopica (4 H.; forse in Babrio 212) dello sparviero che, acchiappato
l’usignuolo, non si lascia persuadere a mollarlo per la prospettiva di acchiappare un uccel-
lo più grosso, o a quella analoga del pescatore e del pesciolino (18 H.; Babrio 6). B. E.
Perry, Fable, «Studium generale», vol. 12, 1959, p. 27, mette a confronto una favola della
redazione aramaica del racconto di Ah.īqār (A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth
Century B. C., Oxford 1923, p. 226) con la celebre favola, attribuita a Stesicoro (104 Page),
del cavallo e l’uomo; solo che nella favola del racconto aramaico l’asino selvaggio non si
lascia ingannare dall’uomo.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 119

affaticato col mio peso? Vicino all’abbeveratoio volerò via». Risponde


l’elefante: «Che tu ti fossi posata su di me, non m’ero neppure accorto!».
È la stessa azione, lo stesso dialogo, che troviamo in una favola di Babrio
(84): solo che la mosca è sostituita dalla zanzara, l’elefante da una bestia
meno orientale, il toro. Dunque Babrio nel suo prologo aveva ragione:
qui tocchiamo con mano la prova dell’origine babilonese.
Ora io ritengo che già una favola famosa, attestata in epoca molto più
antica, si possa ritenere con forte probabilità di origine babilonese: si
tratta della favola, nobilitata dall’arte archilochea, dell’aquila e della vol-
pe. Citazioni antiche e frammenti recenti di papiro ci permettono di
scorgere abbastanza bene le linee del racconto in Archiloco19. Il poeta
di Paro usava la favola per ammonire Licambe che la violazione del
giuramento prestato non rimane impunita da parte degli dei. La volpe e
l’aquila fecero società (fr. 89 D. = 168 L.). Seguiva qui forse (e il paralle-
lo babilonese, come vedremo, appoggia questa congettura) il solenne
giuramento per Zeus, che consacrava la ξυνωνίη: la favola archilochea
non s’intende bene senza presupporre questo valore religioso del patto.
L’aquila viola il giuramento, rapisce i cuccioli della volpe e li dà in pasto
agli aquilotti (fr. 90 D. = 169 L.). La volpe, venuta a conoscenza dell’or-
ribile danno, è costernata; ma è impossibile per lei vendicarsi, data l’al-
tezza inaccessibile del nido dell’aquila; e l’aquila, sprezzante e beffarda,
le racconta come ha compiuto l’impresa e la invita a rassegnarsi e non
illudersi (fr. 170 L., che include fr. 92 b D.; date le lacune del papiro,
l’interpretazione non è del tutto certa). A questo punto forse la volpe
recrimina contro l’aquila e le ricorda che ha giurato di subire una pena,
se violasse il giuramento (fr. 91 D. = 167 L.)20. Allora la volpe ricorre a
Zeus: e abbiamo qui la celebre preghiera al dio che regge il cielo, che
dall’alto vede le opere giuste e ingiuste degli uomini, ma che ha a cuore
anche la giustizia e ingiustizia tra gli animali (fr. 94 D. = 171 L., 1-4).

19
 Cfr. fr. 89 ss. D.; ma ora è da vedere, con la dovuta cautela, la ricostruzione di Fr.
Lasserre, Les épodes d’Archiloque, Paris 1950, pp. 38 ss., e soprattutto l’edizione dello stesso
Lasserre (Paris 1958), fr. 168-174, che utilizza i papiri recenti. Il Lasserre utilizza anche tarde
versioni siriache della favola, tradotte da Sœur Bruno Lefèvre, Une version syriaque des
fables d’Ésope, Paris 1941, n. xxv, pp. 36-37, che io non ho potuto vedere.
20
  Mi pare che anche dopo la ricostruzione del Lasserre il frammento si possa collocare a
questo punto; il Lasserre preferisce metterlo prima della favola, nelle recriminazioni di
Archiloco contro Licambe. Le due possibilità si equivalgono. Del resto non è neppure
certo che il frammento appartenga all’epodo.

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120 Capitolo terzo

Forse a Zeus la volpe addita il picco roccioso, inaccessibile, dove l’aqui-


la ha il suo nido, irridendosi di minacce e assalti (fr. 92 a D.  =  171 L., 5-7);
o forse è Zeus che l’addita alla volpe, per farle capire che la via della
punizione dev’essere un’altra21. La punizione è, probabilmente, architet-
tata da Zeus. Da un altare, dove si celebra un sacrificio, l’aquila ruba
della carne (forse un agnello, ma la lezione è troppo incerta) (fr. 173 L.);
ma alla carne è attaccata una scintilla (fr. 94 D. = 174 L.), che appicca il
fuoco al nido dell’aquila e lo fa bruciare insieme con gli aquilotti. Questi
cascano a terra, e ora è la volpe a cibarsi dei figli dell’aquila22.
Il racconto in buona parte coincide notevolmente con una ben nota
favola babilonese, inserita nel poemetto di Etana23. Il poemetto narra
del tentativo che Etana fece di salire al cielo sul dorso di un’aquila per
prendere la pianta della vita eterna. L’aquila di cui Etana si serve è
andata a finire in un fosso per la vendetta di un serpente. Ed ecco come
e perché. L’aquila e il serpente fecero società. Il patto è sancito con un
giuramento solenne da ambo le parti in nome di Shamash, dio del sole
e della giustizia24: la punizione tremenda di Shamash è invocata su chi
trasgredisca il giuramento. A lungo è descritta la fruttuosa amicizia:
ciascuno dei due fa parte all’altro di ogni preda conquistata. Ma dopo
un periodo piuttosto lungo (gli aquilotti sono ormai cresciuti) l’aquila
concepisce il malvagio pensiero di divorare i figli del serpente. Invano

21
  È ingegnosa, ma m’ispira poca fiducia la ricostruzione di Lasserre. Egli colloca fr. 92 a D. su-
bito dopo 94, cioè come seguito della preghiera. L’ipotesi di Lasserre offre il vantaggio di con-
servare la lezione κάqηται di Attico-Eusebio (se fosse l’aquila a parlare alla volpe, bisognerebbe
scrivere, con Diehl, κάqημαι); ma, certo, pare assurdo che la volpe dica a Zeus: «l’aquila non fa
nessun conto del tuo assalto»; una μάχη, un assalto di Zeus contro l’aquila, non c’è ancora e
l’affermazione non pare né misurata né riverente. Per conservare κάqηται si può supporre che la
volpe, scomparsi i suoi cuccioli, chieda a un altro animale e questo le indichi il nido dell’aqui-
la; ma di una tale piega del racconto non abbiamo indizio. Perciò l’ipotesi più plausibile mi
pare quella che i tre versi del fr. 92 a D. debbano attribuirsi a Zeus, conservando κάqηται.
22
  La conclusione si trova nelle redazioni delle tarde raccolte esopiche (1 H.), ma proba-
bilmente era già in Archiloco. Correggo così una svista in cui sono caduto nel mio saggio
La morale della favola esopica, p. 489 (qui, p. 286), dove resta però vero quanto è scritto di
Fedro e, quindi, la sostanza dell’argomentazione.
23
  Seguo la ricostruzione e traduzione di E. A. Speiser in Ancient Near Eastern Texts Re-
lating to the Old Testament, a cura di J. B. Pritchard, Princeton 1950, pp. 114 ss. In italiano
abbiamo una traduzione, con brevissimo commento, di G. Furlani, Poemetti mitologici
babilonesi e assiri, Firenze 1954, pp. 5 ss.
24
  Su questa divinità trattazione ampia in G. Furlani, La religione babilonese-assira, Bo-
logna 1928-1929, vol. 1, pp. 162 ss.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 121

un aquilotto, particolarmente saggio, ammonisce la madre a non com-


piere l’azione malvagia, ricordandole la punizione di Shamash. L’aqui-
la scende e divora i figli del serpente. Torna il serpente con il cibo per i
suoi piccoli, e non li trova. Allora in lacrime protesta presso Shamash,
lamenta la propria miseria, invoca la vendetta del dio. Shamash gli in-
dica la via della vendetta: darà al serpente un toro selvatico morto, il
serpente ne squarcerà il ventre, vi si appiatterà dentro e, quando l’aqui-
la scenderà dal cielo per divorare il toro, le si avventerà addosso, le
strapperà ali e artigli e la getterà in una fossa. Il serpente esegue con
precisione e con successo gli ordini. L’aquila, acchiappata, fa promes-
se per evitare la vendetta; ma il serpente non si lascia sedurre: egli deve
ormai eseguire la punizione voluta dal dio della giustizia.
Come si vede, solo nella conclusione i due racconti divergono, e
non del tutto, giacché la punizione è ideata dal dio e attuata profittan-
do della fame dell’aquila: fino alla preghiera i due racconti coincidono
perfettamente25.
Mi pare (mi esprimo con riserva, perché il campo dell’assiriologia è
ormai tanto vasto che un non specialista difficilmente può essere sicu-
ro di un’informazione esauriente) che né ellenisti né assiriologi abbia-
no notato questa coincidenza importante26: essa dimostra un chiaro

25
  La preghiera della volpe in Archiloco (fr. 94 D.) mi richiama alla mente un tratto di una
preghiera del re ittita Muwatalli al dio del sole: «O dio del sole del cielo, mio signore,
giornalmente tu siedi a giudizio dell’uomo, del cane, del maiale e delle bestie selvagge dei
campi» (riferita da O. R. Gurney, Gli Ittiti, trad. it., Firenze 1957, p. 185). La protesta do-
veva essere nella favolistica un luogo comune tradizionale sin dall’epoca sumerica: pianto
del lupo presso Utu, dio, come Shamash, del sole e della giustizia, in un proverbio-favola
interpretato da E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs and Fables, «Journal of Cunei-
form Studies», vol. 12, 1958, p. 53.
26
  La favola dell’aquila e del serpente venne richiamata dal Lévêque solo per essere messa
a confronto con la similitudine omerica di Il. XII 200 ss., dove viene descritta una lotta
dell’aquila col serpente (cfr. Marchianò, L’origine della favola greca, cit., p. 322): il raffron-
to è insignificante. Per il poemetto di Etana ho considerato, oltre le due traduzioni citate,
Smith, The Chaldean Account of Genesis, cit., pp. 137 ss.; E. T. Harper, Die babylonischen
Legenden von Etana, Zu, Adapa und Dibbarra, «Beiträge zur Assyriologie», vol. 2, 1894,
pp. 391 ss.; Ch.-F. Jean, La littérature des Babyloniens et des Assyriens, Paris 1924, pp. 37,
192 ss.; Furlani, La religione babilonese-assira, cit., vol. 2, pp. 46 ss.; S. Langdon, The
Legend of Etana and the Eagle, «Babyloniaca», vol. 12, 1931, pp. 1 ss.; E. Ebeling, Ein mittel-
assyrisches Bruchstück des Etana-Mythus, «Archiv für Orientforschung», vol. 14, 1941-1944,
pp. 298 ss.; Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., pp. 135 ss.; ho visto
inoltre Chr. Johnston, Assyrian and Babylonian Beast Fables, «American Journal of
Semitic Languages and Literatures», vol. 28, 1911-1912, pp. 81 ss. La mia riserva era giusti-

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122 Capitolo terzo

influsso babilonese già agli inizi della favola esopica greca; probabil-
mente il genere stesso proviene ai Greci dalla cultura assiro-babilo-
nese. Impossibile supporre un rapporto inverso: il poemetto ci è per-
venuto in tre redazioni incomplete, una antico-babilonese, un’altra
medio-assira e una terza neo-assira, ma l’esistenza della favola dell’a-
quila e del serpente è già sicura nella redazione antico-babilonese. La
favola è inserita abbastanza bene nel poemetto; eppure sorge il sospet-
to che in origine essa fosse indipendente e che non provenisse da ispi-
razione puramente narrativa: l’ispirazione gnomica, la fede in una giu-
stizia divina che protegge l’umile contro il potente, la stessa, in fondo,
che ispira l’epodo di Archiloco, pare troppo consustanziale al racconto
per essere nata dopo il racconto stesso e venirvi appiccicata in un se-
condo momento.
Del resto si può ritenere ormai certo che la favola di tipo esopico
era già sorta in età sumerica. Abbiamo testi sumerici di tenzoni27, in
cui i personaggi sono per lo più animali ed esseri inanimati: il bestiame
e il grano, l’ascia e l’aratro, il legno e la canna, il pesce e l’uccello, l’e-
state e l’inverno, un metallo prezioso e il rame. È venuto alla luce an-
che qualche testo sumerico di Tierepos28. Di favole di tipo esopico fino
a pochi anni fa non avevamo testi sumerici certi: il brevissimo testo
sulla volpe dall’orecchio malato e dalla zampa rotta29 potrebbe appar-

ficata: da Perry, Fable, cit., p. 26, che solo recentemente sono riuscito a trovare, ho appre-
so che la derivazione della favola archilochea da quella babilonese fu già scorta alcuni anni
fa da R. J. Williams, The Literary History of a Mesopotamian Fable, «Phoenix», vol. 10, 1956,
pp. 70 ss. Williams richiama anche una redazione egiziana, ma di origine siriaca, della
favola, in cui sono personaggi l’avvoltoio e il gatto. Credo che alla redazione siriaco-egi-
ziana si debba avvicinare Fedro II 4, Aquila, feles et aper, che incomincia appunto dal con-
tubernium dell’aquila e della feles.
27
  Enumerati da van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 41.
28
  Si veda il testo illustrato da G. Meier, Keilschrifttexte nach Kopien von T. G. Pinches,
«Archiv für Orientforschung», vol. 11, 1936-1937, pp. 363-364, su cui è tornato più recente-
mente E. Ebeling, Ein neuer Beitrag zur Kenntnis der akkadischen Fabelliteratur, «Journal
of Cuneiform Studies», vol. 4, 1950, n. 4, pp. 220 ss. Quest’ultimo articolo di Ebeling, in-
sieme con E. Weidner, Zur Tierfabel-Sammlung aus Assur, «Archiv für Orientforschung»,
vol. 16, 1952-1953, p. 80, completa quanto si sa del Tierepos mesopotamico. Troppi dubbi
restano sul testo che cerca di interpretare J. Nougayrol, Une fable babylonienne?, in
Mélanges Dussaud, vol. 1, Paris 1939, pp. 73-74.
29
  Segnalato da V. Scheil, Notes d’épigraphie et d’archéologie assyriennes, «Recueil de tra-
vaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes», vol. 19, 1897, p. 55,
n. 12, e poi da E. Weidner, Sumerische Apotropaia, «Orientalistische Literaturzeitung»,
vol. 17, 1914, coll. 305 ss.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 123

tenere a un Tierepos o ad altro. Incerta resta anche l’interpretazione di


due minuti dipinti su una piastra di conchiglia attaccata sotto la bocca
di una testa di toro, che forse decorava un’arpa30; i due dipinti sono
collocati fra altri due che raffigurano episodi dell’epopea di Gilgamesh,
e si è quindi sospettato che si riferiscano a episodi a noi ignoti della
medesima epopea; hanno fatto pensare anche alla favola, perché raffi-
gurano animali in atteggiamenti umani, come certi disegni che cono-
sciamo in papiri e ostraka egiziani. Tuttavia l’accenno contenuto in una
lettera di Shamshi-Addu31 («si tratta di una situazione simile a quella
espressa nel detto: una cagna, battendosi per il cibo, partorì cagnolini
sciancati»), che fa pensare al modo in cui vengono introdotte le favole
nel racconto di Ah.īqār, era già un indizio meno incerto. Né le tenzoni
in cui il dialogo, non l’azione, è essenziale, né il Tierepos, in cui non è
essenziale il fine gnomico, vanno identificati con la favola di tipo eso-
pico; e tut­tavia, data la frequenza di animali e di esseri inanimati nelle
tenzoni, dato che il Tierepos, anche se nato dentro la sfera mitico-reli-
giosa, se ne stacca poi nettamente32, ci siamo già molto vicini. Più si
conosce di letteratura sumerica, più si vede che la letteratura assiro-
babilonese ne è una continuazione e uno sviluppo. Oggi anche l’origi-
ne sumerica della favola di tipo esopico è dimostrata dall’esplorazione,
ancora incompleta, delle raccolte sumeriche, d’uso scolastico, di sen-
tenze e proverbi: un proverbio come «Ero appena sfuggito al bue sel-
vaggio / ed ecco mi trovai di fronte la vacca selvaggia»33 è già una favo-
la esopica. Anzi si vede che la brevità arguta, succosa, ch’era già, per

30
  La testa proviene dalla tomba n. 789, detta «del re». Illustra­zione di G. Contenau,
Manuel d’archéologie orientale, vol. 3, Paris 1931, pp. 1537-1538.
31
  Cfr. bibliografia relativa in van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 13.
32
  Il testo illustrato da Ebeling (Ein neuer Beitrag, cit., pp. 215 ss.) e ancora più quello il-
lustrato da Weidner (Zur Tierfabel-Sammlung aus Assur, cit.), dove sembra che il lupo
venga beffato dalla volpe, hanno molto più il tono del divertente Tierepos medievale che
della leggenda religiosa o della fiaba fantastica.
33
  Riferito da S. N. Kramer, I Sumeri agli esordi della civiltà (trad. it. di From the Tablets of
Sumer, 1956), Milano 1958, p. 127. Una parte delle raccolte di proverbi e favole è ora inter-
pretata ampia­mente da un discepolo del Kramer, E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs
and Fables, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 12, 1958, pp. 3, 10 ss.; Sumerian Proverbs,
Philadelphia 1959, spec. pp. 215 ss.; Sumerian Proverbs, «Journal of the American Oriental
Society», vol. 77, 1957, pp. 73 ss. Dopo la pubblicazione di questa raccolta di proverbi l’esi-
stenza presso i Sumeri di brevi favole di tipo esopico con un’azione che si svolge, con o
senza dialogo, è fuori dubbio. Anche la gnomica dei proverbi trova più volte riscontro in
quella della favola esopica.

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124 Capitolo terzo

esempio, nella favola della mosca e dell’elefante illustrata da Ebeling,


quella brevitas che sarà tanto cara a Fedro, fu già una conquista dei
Sumeri. Ma il Tierepos, forse, diede alla favola quell’ampiezza e minu-
ziosità del racconto che troviamo nella favola del poemetto di Etana e
che sarà cara ad Archiloco. L’importanza del dialogo sia nel Tierepos
sia nella favola di tipo esopico proviene, forse, dalle tenzoni34.
Più di questi problemi compositivi importa l’ispirazione gnomica.
La derivazione della favola archilochea da letteratura babilonese è in-
teressante, perché ci fa vedere che anche problemi e tendenze morali
provengono in parte di là. La ricerca di una Δίκη oggettiva che proteg-
ga l’umile contro il potente e sia garantita dalla divinità, ricerca che è
al centro dell’etica greca dagli ῎ Eργα di Esiodo in poi (e colpisce che
essa fosse ancora estranea alla Teogonia), riceve una spinta da etica
orientale, che ha le sue radici in quella babilonese. La protesta del
debole innocente, che è oppresso malgrado la sua innocenza, mentre
l’uomo di condizione elevata è ascoltato e riverito, anche se è un assas-
sino, risuona in un testo babilonese35; ed è notevole che già nelle ten-
zoni sumeriche sia, a quanto pare, il più umile dei due contendenti ad
aver ragione nel giudizio del dio, rivelandosi il più utile36.
Altra considerazione importante: alcune favole che ho citato dal-
l’Ebeling, altre sumeriche studiate dal Gordon mostrano già quella
tendenza a svelare la verità sotto le apparenze, sotto l’ipocrisia o la
vanagloria, quella ricerca della «realtà effettuale» che è fondamentale
nella favola esopica37. Dunque dall’Oriente la Grecia ha tratto non solo
ispirazioni religiose e, più tardi, mistiche, ma anche spinte ad analiz-
zare spregiudicatamente la realtà: dall’Oriente ha alimentato anche il
suo razionalismo, che nella favola esopica ha avuto una manifestazione
rudimentale, ma non trascurabile. Del resto dall’Oriente la Grecia ha
nutrito in parte le sue scienze, specialmente la matematica e l’astro-
nomia, insieme con la sua magia e le sue superstizioni mantiche. La

34
  Forse le tenzoni erano, in origine, delle vere e proprie rappre­sentazioni mimiche: cfr.
B. Landsberger, Jahreszeiten im Sumerisch-Akkadischen, «Journal of Near Eastern Stud-
ies», vol. 8, 1949, n. 4, p. 296, nota 153; van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 38.
35
  Tradotto da B. Meissner, Babylonien und Assyrien, Heidelberg 1925, vol. 2, p. 432.
36
 Cfr. Landsberger, Jahreszeiten im Sumerisch-Akkadischen, cit., pp. 295-296. Il tema del-
la crudezza della povertà è importante nei proverbi sumerici pubblicati dal Gordon: cfr.,
per esempio, il vol. Sumerian Proverbs, cit., pp. 188 ss.
37
  Cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 468 ss. (qui, pp. 266 ss.).

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 125

Grecia è la culla della ragione europea, ma sarebbe assurdo contrap-


porre l’Occidente all’Oriente come la ragione alla religione o supersti-
zione: né quanto alla religione né quanto alla ricerca razionale esiste un
diaframma tra Occidente e Oriente.

2. Il romanzo di Esopo e un dialogo babilonese

Qualche tempo fa, studiando il romanzo di Esopo, mi sono chiesto se


il tipo dello schiavo che contrappone la verità alla sciocchezza o all’ipo-
crisia del padrone comparisse già in letterature orientali preelleniche38.
Niente di veramente analogo ho saputo né saprei indicare adesso. Tut-
tavia credo che vada almeno menzionato un curioso testo babilonese,
che consiste nel dialogo di uno schiavo col suo padrone39 (il dialogo ri-
entra probabilmente nel genere, già sumerico, dei contrasti).
Lo schiavo accetta e giustifica con suoi argomenti tutti gli ordini
del padrone, anche se il padrone a un ordine fa seguire quello esatta-
mente contrario. Il padrone ordina di preparare un carro, perché vuo-
le andare al palazzo: lo schiavo trova lodevole il proposito; subito dopo
il padrone disdice l’ordine: lo schiavo trova lodevole la nuova decisio-
ne. Il padrone ordina dell’acqua, perché vuole lavarsi le mani e man-
giare: lo schiavo esalta i benefici del mangiare: «rimettersi a mangiare
apre il cuore: quando si mangia con gioia e con mani pulite, Shamash
stesso viene alla tavola»; il padrone decide di non mangiare e lo schia-
vo approva: fame e sete non sono necessità immutabili (l’interpretazio-
ne della risposta del servo è però dubbia). Il padrone ordina di prepa-
rare il carro per la caccia: lo schiavo descrive le attrattive della caccia;
il padrone disdice l’ordine: lo schiavo descrive gli inconvenienti della
caccia. Il gioco si ripete quando il padrone decide di restare in silenzio
di fronte al suo nemico e quando decide di parlare, quando esprime il
proposito di suscitare una rivolta e quando lo ritira, quando gli viene
voglia di amare una donna («Sì, ama, signore mio, ama: l’uomo che

 Cfr. Il romanzo di Esopo, p. 299 (qui, p. 165).


38

  Interpretazione e traduzione parziale in Meissner, Babylonien und Assyrien, cit., vol. 2,


39

pp. 432 ss., e in Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., pp. 160 ss., che
a p. 294 dà la bibliografia relativa; traduzione completa e altra bibliografia a opera di
R. H. Pfeiffer in Ancient Near Eastern Texts, cit., pp. 437-438. Da ultimo Lambert,
Babylonian Wisdom Literature, cit., pp. 139 ss.

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126 Capitolo terzo

ama una donna dimentica dolore e inquietudine») e quando la voglia


gli passa («Non amare, signore mio, non amare: la donna è un pozzo,
la donna è un pugnale di ferro, un pugnale affilato, che taglia il collo
dell’uomo»), quando il padrone chiede dell’acqua per lavarsi e fare un
sacrificio al suo dio e quando abbandona il pio proposito («Non fare
l’offerta, signore mio, non farla: così insegnerai a un dio a trottarti
dietro come un cane»), quando il padrone decide di dare cibo al suo
paese e quando ritira il proposito generoso («ti malediranno; mange-
ranno il tuo orzo e ti distruggeranno»), quando il padrone aspira a
diventare un benefattore del popolo e quando se ne pente («Non lo
fare, signor mio, non lo fare: sali sugli spalti di antiche rovine e gira
intorno; guarda i crani di morti antichi e recenti: chi di loro è un
malfattore, chi un benefattore?»)40. La fine del dialogo non è molto
chiara. Pare che il padrone sia convinto che il massimo bene è taglia-
re la propria testa e quella dello schiavo e gettarle nel fiume41; lo
schiavo ribatte: «Chi è abbastanza alto da salire al cielo? Chi è abba-
stanza largo da abbracciare tutta la terra?»; forse vuol dire che nessu-
no può sapere davvero ciò che è bene. Il padrone ci ripensa ed espri-
me il proposito di ammazzare prima lo schiavo; ma lo schiavo: «In
questo caso vivrebbe il mio padrone tre giorni dopo la mia morte?».
L’interpretazione dell’ultima battuta è incerta: forse, come ha inter-
pretato lo Ungnad42, lo schiavo, per spaventare il padrone, gli pre-
dice che morirà tre giorni dopo di sé, come l’astrologo di corte di
Luigi XI di Francia, nel Quentin Durward di Walter Scott, al re che,
avendo intenzione di ammazzarlo, gli chiede se prevede la data della
sua morte, risponde di sapere soltanto che morirà ventiquattro ore
prima del re.
Non solo in parecchi dettagli (anche a causa di lacune), ma anche
nell’ispirazione generale il testo è d’interpretazione incerta. Prevaleva
un tempo l’opinione che il dialogo fosse d’ispirazione pessimistica43,

40
  Vale a dire: dopo la morte nessuno distingue più furfanti e galantuomini; quindi a
niente serve far bene.
41
 Il Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., p. 161, attribuisce queste
parole allo schiavo, ma Meissner e Pfeiffer, in modo più persuasivo, le danno al padrone.
42
  A. Ungnad, Zur babylonischen Lebensphilosophie, «Archiv für Orientforschung», vol. 15,
1945-1951, p. 75. Dello Ungnad è il richiamo di W. Scott.
43
  Cfr., per esempio, Meissner, Babylonien und Assyrien, cit., vol. 2, pp. 432 ss.; Ungnad,
Zur babylonischen Lebensphilosophie, cit., pp. 72-73.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 127

tale da far pensare all’Ecclesiaste: l’autore avrebbe voluto significare l’in-


differenza, e quindi l’annullamento, di tutti i valori, giacché ogni azio-
ne vale quanto il suo contrario, un sentimento della vanità di tutto che
sbocca in un proposito di suicidio. Ma la fine sembra calzare poco con
una tale interpretazione. Più recentemente lo Speiser44 ha visto nel
dialogo un pezzo non di grave e amara filosofia, ma di satira diverten-
te, di umorismo (ha richiamato la coppia di Bertie Wooster e del suo
imbattibile servo, l’imperturbabile Jeeves): il servo, accondiscendendo
sempre al padrone, appoggiandone con un banale moraleggiare tutti i
volubili propositi, lo prenderebbe in giro; con la spiritosa battuta fina-
le spaventerebbe chi credeva di averlo spaventato. Quest’interpretazio-
ne è molto più convincente. Forse non è azzardato sospettare che il
servo col suo banale moraleggiare pigli in giro non solo il padrone, ma
la letteratura sapienziale, in cui si raccomandava di tutto, anche pre-
cetti contrari fra loro.
Ora, se quest’interpretazione è giusta, siamo in un genere di let-
teratura simile a quello della Vita Aesopi. Parte essenziale già nel
nucleo più antico di questa Vita era il dialogo tra il servo acuto e il
padrone sciocco45: e il padrone, si capisce, faceva le spese del diverti-
mento. Per esempio, l’elogio della donna e l’invettiva contro la don-
na sono trovate dello stesso genere di quelle di Esopo, che prima
dimostra come la lingua sia la cosa migliore e poi come la lingua sia
la cosa peggiore (Vita 51-55)46: parodia della retorica in Esopo come,
forse, della letteratura sapienziale nel dialogo babilonese. Ovviamen-
te, nessuno pretende di trovare nel dialogo babilonese una fonte del
romanzo di Esopo: solo si vuole affermare che il dialogo giocoso tra
servo e padrone, in cui lo schiavo si dimostrava più furbo e più spiri-
toso del padrone, era un genere già nato nell’Oriente e che di là
provenne, forse, ai Greci.

44
  E. A. Speiser, The Case of the Obliging Servant, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 8,
1954, n. 3, pp. 98 ss., in particolare 104-105. Allo Speiser ha reagito, ma non senza incertez-
ze, comunque senza convincere nella soluzione delle aporie, il Lambert, Babylonian
Wisdom Literature, cit., p. 141.
45
 Cfr. Il romanzo di Esopo, p. 170 (qui, p. 144).
46
  Nel mio articolo cit., p. 304, nota 102 (qui, p. 170, nota 104), ho richiamato a confronto
il susseguirsi di un elogio delle donne e di un’invettiva contro le donne nel Dialogo di
Salomone e Marcolfo, di origine orientale.

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128 Capitolo terzo

3. Un’altra favola esopica di origine babilonese

Sulla favola esopica fu tenuto nel 1983 uno degli Entretiens annuali
della Fondation Hardt. Una delle relazioni fu, giustamente, assegnata
a un assiriologo, Robert Seth Falkowitz, dell’Università di Chicago47.
Nel nostro secolo si sono venute arricchendo le conoscenze sui rappor-
ti tra la favola esopica greca e un tipo di narrazione affine (sia nei
personaggi – per lo più animali, talvolta piante – sia nell’azione e nel
dialogo, sia nella funzione morale), di ampiezza molto varia (talvolta
ridotta alla brevità della massima o del proverbio), diffusa nella cultu-
ra sumerica e babilonese; questa cultura, ormai, si presenta come la
culla più antica di questo genere di letteratura, che di là si diffuse
verso occidente, nel mondo mediterraneo, e forse anche verso oriente,
cioè verso l’India: quando parlo di diffusione mi riferisco al genere,
non alle singole favole, benché talvolta anche di singole favole si siano
rintracciati gli archetipi in tavolette babilonesi48.
Nella sua comunicazione il Falkowitz utilizza una piccola parte del
materiale di cui dispone, contenuto generalmente in collezioni di ta-
volette provenienti da Nippur e da Ur e risalenti alla prima metà del
secondo millennio a. C.; di venticinque collezioni, di cui sei già pub-
blicate prima da altri studiosi, egli viene curando la pubblicazione, dal
1980 in poi, negli Stati Uniti49; si tratta di testi usati nelle scuole babi-
lonesi per imparare il sumerico, un po’ come le favole di Fedro vengo-
no ancora usate per imparare il latino. Purtroppo non ho potuto anco-
ra vedere i testi pubblicati dal Falkowitz: non so, quindi, se alcuni di
essi siano interessanti per la favola greca; per questa breve nota mi ri-

47
 Cfr. R. S. Falkowitz, Discrimination and Condensation of  Sacred Categories. The Fable
in Early Mesopotamian Literature, in Fr. R. Adrados e O. Reverdin (a cura di), La fable,
«Entretiens de la Fondation Hardt», 30 (Vandœuvres-Genève, 22-27 agosto 1983),
Vandœuvres-Genève 1984, pp. 1-32.
48
  Per la questione rimando a un mio vecchio articolo Letteratura esopica e letteratura assi-
ro-babilonese (qui, pp. 115-127); un’informazione aggiornata in Cr. Grottanelli, Aesop in
Babylon, in H. J. Nissen e J. Renger (a cura di), Mesopotamien und seine Nachbarn. Politi-
sche und kulturelle Wechselbeziehungen im alten Vorderasien vom 4. bis 1. Jahrtausend v. Chr.,
Berlin 1987 («Berliner Beiträge zum Vorderen Orient», 1), pp. 555-572.
49
  R. S. Falkowitz, The Sumerian Rhetoric Collections, Winona Lake (Indiana), dal 1980
in poi.

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 129

ferisco alla suddetta comunicazione50; superfluo aggiungere che io non


ho nessuna competenza di sumerico né di accadico e che, per il testo
in questione, mi servo della traduzione in inglese del dotto americano.
Ecco, in traduzione italiana, il primo dei testi citati dal Falkowitz51:

Quando il leone prese la debole capra, (la capra disse): «Liberami e io ti conse-
gnerò la mia compagna, la pecora, quando tornerò (all’ovile)». «Se ti rilascio,
dimmi il tuo nome» (disse il leone). La capra rispose al leone: «Non conosci il
mio nome? Il mio nome è Io-ti­-renderò-saggio». Quando il leone andò all’o-
vile, disse: «Io ti ho rilasciata!». Essa rispose dalla parte opposta della palizzata:
«In cambio delle varie pecore che qui non ci sono, tu sei diventato saggio!».

Come spesso in queste narrazioni sumeriche e babilonesi, il testo


omette alcuni passaggi che il lettore può facilmente integrare; oltre
qualche indicazione di interlocutore, tutta una parte dell’azione: evi-
dentemente il leone ha lasciata libera la capra, che è ritornata all’ovile52.
Ora io credo che tra le favole esopiche greche a noi conservate ce
n’è una che deriva da questa favola sumerica; nel corpus in prosa più
noto essa è tramandata in tutte e tre le recensioni, l’Augustana, la Vin-
dobonense e l’Accursiana: è la 137 dell’ed. Hausrath. Do la traduzione
del testo conservato nell’Augustana:

Un cane era accovacciato davanti a una fattoria; un lupo lo vide, lo afferrò ed


era in atto di divorarlo. Il cane gli chiese di lasciarlo andare per il momento,
dicendogli: «Ora sono magro e sottile. I miei padroni stanno per celebrare un
matrimonio. Se ora mi lasci andare, mi divorerai più tardi, quando sarò di-
ventato più grasso». Quello si lasciò persuadere e per allora lo lasciò libero;

50
  Tuttavia la favola di cui qui mi occupo, appartenente alla collezione quinta (testo n. 55),
era stata già pubblicata, sempre in traduzione inglese, dal Falkowitz nella sua dissertazio-
ne di dottorato, The Sumerian Rhetoric Collections, University of Pennsylvania 1980
(xerografia ricavata da microfilm), p. 99. Il testo sumerico era stato pubblicato prima da
E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs and Fables, «Journal of Cuneiform Studies»,
vol. 12, 1958, n. 2, pp. 46-48, all’interno dell’edizione di tutta la collezione quinta (ivi,
pp. 1-21, 43-73); sulla stessa favola anche (citati dal Falkowitz) B. Alster, Paradoxical
Proverbs and Satire in Sumerian Literature, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 27, 1975,
pp. 213-214; W. Römer, Sumerische «Königshymnen» der Isin-Zeit, Leiden 1965, p. 243.
Non avendo potuto consultare questi studi, non escludo del tutto che quanto sto per dire
sia già noto.
51
 Cfr. Falkowitz, Discrimination and Condensation of Sacred Categories, cit., pp. 6-7.
52
  Per questo aspetto e altri rimando al commento del Falkowitz.

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130 Capitolo terzo

dopo pochi giorni tornò e, vistolo accovacciato sulla casa, lo chiamò a sé ri-
cordandogli i patti. L’altro gli rispose: «Ma, lupo, se mi vedi un’altra volta
accovacciato davanti alla fattoria, non stare più ad aspettare le nozze».
Così gli uomini accorti, quando sfuggono a un pericolo che hanno corso,
dopo se ne guardano bene.

Le diversità di testo nelle altre due recensioni sono irrilevanti per il


nostro scopo. Per quanto ne so, l’affinità fra il testo greco e il testo
sumerico non è stata notata (a meno che la segnalazione non mi sia
sfuggita: in queste zone di confine la cosa è più facile); ma a me la
derivazione pare certa. Solide sono le coincidenze nella struttura e nel
senso del racconto. Quanto alla struttura: 1) un animale forte vuole di-
vorarne uno più debole; 2) il debole riesce a sopravvivere approfittando
della stoltezza del più forte: lo induce a rinunciare alla preda imme-
diata promettendogli, con un patto, una preda più lauta; 3) quando il
forte torna per reclamare la preda più lauta in base al patto, il debole
si è premunito rendendosi inafferrabile e fa notare al forte la sua stol-
tezza. La sostituzione del lupo al leone e del cane alla capra parrà poco
felice, perché lo scarto tra il forte e il debole viene ridotto; tuttavia non
viene eliminato. I cambiamenti di personaggi sono tra i processi più
comuni nella tradizione della favola esopica: limitandomi al passaggio
dall’area babilonese all’area greca, ricorderò che nella famosa favola
dell’aquila e della volpe, già nota ad Archiloco, la volpe sostituiva il
serpente del mito babilonese; in Babrio 84 i personaggi sono il toro e
la zanzara, nell’originale babilonese l’elefante e la mosca: la sostituzio-
ne del leone col lupo è simile a quella dell’elefante col toro, cioè l’ani-
male esotico viene sostituito con uno più familiare ai Greci. Non è
differenza rilevante che la pecora sumerica prometta una preda diversa
da sé, il cane greco prometta sé stesso una volta divenuto più pingue;
né la chiara affinità è eliminata dalle diverse trovate della capra (il
gioco sul proprio nome) e del cane (la storia del banchetto di nozze).
Nel testo sumerico il senso della favola si ricava dal racconto stesso: è
la dimostrazione di quanto sia sciocco mollare una preda già afferrata
lasciandosi lusingare dalla promessa di una preda migliore; l’epimitio
delle redazioni greche è, come non raramente accade, un po’ sovrap-

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Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese 131

posto (ma non assurdo): il saggio che è sfuggito a un pericolo si guar-


da dal cadervi un’altra volta53.
Sull’età delle redazioni greche non è necessario addentrarsi: risal-
gono all’età dell’impero romano; questa favola non ci è attestata prima.
La scoperta del testo scolastico sumerico ci dimostra, ancora una volta,
che le favole esopiche sono passate talvolta per tradizioni millenarie.
Non abbiamo indizi, che io sappia, per rintracciare, questa volta, i
tramiti seguiti: passeranno, come al solito, attraverso paesi dell’Asia
sporgente sul Mediterraneo.

  Su qualche favola greca e babilonese di morale affine cfr. il mio studio Letteratura esopi-
53

ca e letteratura assiro-babilonese, p. 28, nota 1 (qui, p. 118, nota 18).

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132 Capitolo quarto

Capitolo 4

Il romanzo di Esopo1

1. Le redazioni G e W e la ricostruzione della fonte comune

La tradizione antica della biografia romanzata di Esopo si è arricchita


in tempi recenti di un documento interessante: in un codice del X o
XI secolo, che fino al tempo delle campagne napoleoniche in Italia si
trovava nel monastero basiliano di Grottaferrata e che attraverso vi-
cende ignote, ma immaginabili (portato via da qualche militare fran-
cese, dovette passare di mercato in mercato), andò a finire nella Pier-
pont Morgan Library di New York, è stata trovata una redazione
prima ignota della Vita Aesopi2. Della Vita, oltre a brevi riassunti, si
conoscevano già due redazioni ampie, quella pubblicata, con poche
preoccupazioni critiche, da Anton Westermann nel 1845 e quella, da
essa derivata, che intorno al 1300 elaborò il monaco bizantino Massi-
mo Planude3; ma la redazione del codice di Grottaferrata è un po’ più
ampia, è nella maggior parte più antica e offre nel racconto e nella
lingua differenze di qualche interesse. Poiché la rielaborazione planu-
dea non dà sostanzialmente niente di più della redazione nota al
Westermann e poiché di altre redazioni antiche non abbiamo che bre-
vi frammenti papiracei e pochi elementi penetrati per contaminazione
in alcuni codici appartenenti alla stessa famiglia di quelli usati dal

1
  [«Athenaeum», n. s., vol. 40, 1962, pp. 264-313. L’appendice Esopo a Delfi è apparsa in
«Helikon», vol. 2, 1962, pp. 697-699, come recensione di Anton Wiechers, Aesop in
Delphi, Meisenheim am Glan 1961 («Beiträge zur klassischen Philologie», 2)].
2
  Per la storia del codice cfr. B. E. Perry, Aesopica, I, Urbana 1952, pp. xiv ss. Il volume
contiene l’editio princeps di questa redazione della Vita.
3
  La redazione planudea fu edita da A. Eberhard, Fabulae Romanenses Graece conscriptae,
Lipsiae 1872. Le varie redazioni, le loro relazioni, la tradizione manoscritta di ciascuna di
esse sono state studiate dettagliatamente dal Perry, che a queste indagini ha dedicato
sinora la sua vita: cfr. The Text Tradition of the Greek Life of Aesop, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association», vol. 64, 1933, pp. 198-244; Studies
in the Text History of the Life and Fables of Aesop, Haverford 1936; Aesopica, cit., pp. 1 ss.

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Il romanzo di Esopo 133

Westermann4, noi abbiamo a che fare quasi sempre con due redazioni,
quella del codice di Grottaferrata (G del Perry), che originariamente
accompagnava la recensio Augustana delle favole5, e quella Westerman-
niana (W del Perry). In che rapporto sono le due redazioni? Ecco il
problema che si pone per primo a chi ripercorra a ritroso la tradizione
antica della Vita.
A prima vista due caratteri distinguono W da G: da un lato una
certa «correttezza» della lingua, che pare dovuta non proprio a una
pretesa di eleganza letteraria, ma solo alla preoccupazione di evitare
anomalie e volgarismi, dall’altro una leggera riduzione del racconto.
Opporre il linguaggio popolare e un po’ prolisso di G al linguaggio
epurato e più sobrio di W è grosso modo giusto6, anche se qualche
riserva va fatta7, sia perché in G affiora una tendenza maldestra a un
certo preziosismo letterario (il caso più vistoso è il pezzo da sofistica
nuova del capitolo 6, la descrizione idilliaca e leziosa del prato in cui
Esopo si addormenta nell’ora di più violenta calura), come tante volte
avviene nella letteratura popolare, che subisce il fascino di quella dotta
(nel nostro caso, tuttavia, può anche trattarsi di diversità di autori), sia
perché il redattore di W ha proceduto con qualche negligenza e senza
sistematicità nel lavoro di epurazione stilistica8. I tagli hanno in qual-
che caso peggiorato il racconto9, perché certi dettagli non riescono
bene illuminati e giustificati come in G. Per esempio, in 24 Xanto,
rifiutando il consiglio e l’aiuto dei suoi discepoli, non vuol piegarsi a
comprare uno schiavo brutto e ributtante come Esopo: «La mia mo-
gliettina ch’è così linda – dice tra l’altro – non sopporterà di essere
servita da un nanerottolo schifoso!» (così press’a poco in W; G presen-
ta lacuna a questo punto). La battuta ha tutto il suo sapore se si pre-
suppone che la moglie di Xanto ha raccomandato al marito di com-

4
  Si veda lo stemma dato dal Perry, Studies, cit., p. 38, e quelli più precisi di Aesopica, cit.,
pp. 22 e 28.
5
  Perry, Studies, cit., p. 157.
6
  Perry, Aesopica, cit., pp. 14-15.
7
  Eccessive sono però le riserve di Fr. R. Adrados, rec. agli Aesopica, «Gnomon», vol. 25,
1953, pp. 324-325.
8
  A questa conclusione giusta arriva W. H. Hostetter, A Linguistic Study of the Vulgar
Greek Life of Aesop, Diss. University of Illinois 1955, pp. 129-130 (questa utile dissertazione
è inedita, ma consultabile in microfilm).
9
  Perry, Studies, cit., pp. 21-22.

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134 Capitolo quarto

prargli «uno schiavetto tutto lindo»: ora la raccomandazione si trova in


22 G, ma W, che riassume, omette completamente il dialogo del filo-
sofo e della moglie alla partenza per il mercato. In 37 l’ortolano, quan-
do Esopo ha dato risposta soddisfacente al problema che né lui né
Xanto sapevano risolvere, esclama: «Mi hai alleggerito da un tormen-
to!» (così W; G ha anche qui lacuna). La battuta suona eccessiva; ma
il tono riesce commisurato alla situazione se si presuppone l’inizio del-
la conversazione qual è in 35 G: l’ortolano si rivolge pateticamente a
Xanto: «Padrone, mi darai un grande aiuto: c’è un piccolo problema
che mi tormenta e non mi lascia dormire la notte». Anche in 107 la
battuta di Licurgo («Oh, potessi far eterno questo giorno che tu dici
essere per te l’ultimo!» G; «Potessi far eterno il giorno d’oggi!» W)
s’illumina meglio col precedente dialogo di G, dove Ermippo, il mini-
stro, incomincia dicendo al re: «O mio re, oggi è per me l’ultimo gior-
no, lo so bene!», battuta che manca in W.
Queste considerazioni, che restano ancora marginali, bastano già a
convincere che W, come ritiene il Perry, altro non è se non una riela-
borazione corretta e abbreviata della redazione tramandataci in G. Ma
in queste tradizioni di testi popolari raramente i rapporti tra le reda-
zioni sono semplici. Poiché anche tra G e la comune origine di GW
v’è un processo di rielaborazione compiuto in fasi diverse (una di que-
ste fasi più recenti si riflette in varianti, talora provenienti dalla reda-
zione W, inserite nel testo), si tratta di vedere se non si diano casi in
cui W rifletta meglio di G l’origine comune. Molto non c’è, ma, tutto
sommato, W merita una considerazione più benevola di quella che gli
è stata accordata. Per ora mi manterrò nell’ambito delle divergenze di
minor conto.
Decisivo è il confronto della fine del capitolo 3 nelle due redazioni:
dall’episodio dei due schiavi che, avendo teso un tranello a Esopo,
vengono da Esopo smascherati e quindi puniti dal padrone, si ricava la
banale massima che chi prepara trappole agli altri non si accorge di
prepararle a sé stesso: ora in W la massima è espressa da due trimetri
giambici non ineleganti, in G i due trimetri sono parafrasati. In 43,
quando Esopo, a proposito del piede di porco, ha sventato l’insidia del
padrone e lo ha confuso con una delle sue trovate scherzose, Xanto
esclama agli amici filosofi, secondo la redazione W: «Ve lo avevo det-
to! Questo servo presto mi farà impazzire!». Egli si riferisce a una sua

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Il romanzo di Esopo 135

battuta precedente: giocato con la pedanteria sulla lenticchia, aveva


esclamato (41 fine): «Amici sapienti, questo servo presto mi farà im-
pazzire!». In G non abbiamo niente alla fine di 41, in 43 abbiamo
press’a poco la battuta che W dà a 41: aggiunta di W? negligenza di G?
Una soluzione certa non si può dare, ma il racconto di W, molto coe-
rente, mi pare in questo caso originario. In 51 incomincia la beffa delle
pietanze di lingua. Alla prima portata i filosofi sono entusiasti: «Per-
dinci, Xanto! Anche il pranzo in casa tua è pieno di filosofia: niente c’è
che non sia predisposto con cura. Ecco subito all’inizio del pranzo le
lingue!». Così G; W in questo caso è più diffuso: «Maestro, da te an-
che il pranzo è pieno di filosofia. Subito ci hai servito la lingua, per
mezzo della quale ogni filosofia viene divulgata, e, quel ch’è meglio,
bollita in acqua: ogni lingua, infatti, ha la sua sede nell’umido».
Quest’ultimo dettaglio del particolare legame della lingua coll’umido
manca, come si vede, in G: più che nel caso precedente io credo che
qui un dettaglio originario sia stato tralasciato in G. In 40, secondo G,
Xanto si decide a liberare Esopo dopo che il magistrato di Samo ha
disposto di liberarlo a nome della città, pagando a Xanto il prezzo;
secondo W il magistrato vuol liberarlo consacrandolo a Era10: l’impor-
tanza del culto della dea a Samo è notorio e il particolare sembra ori-
ginario. Un altro particolare originario conservatoci da W e deformato
in G è forse il nome del figlio adottivo di Esopo: Αἶνος in W (103),
῞Hλιος in G (104); un’incertezza non lieve però resta, giacché, ricorren-
do il particolare nel pezzo proveniente dal racconto di Ah.īqār, di in-
dubbia origine babilonese, nasce il sospetto che il nome Sole fosse in
una versione del racconto orientale, mentre è possibile anche che un
redattore orientale sostituisse il nome Sole al nome Favola. In 108,
quando il re vorrebbe uccidere il figlio ingrato di Esopo per punirlo
della sua calunnia, Esopo preferisce lasciarlo in vita e adduce, secondo
W, questa ragione: «Lo vedrai morto lo stesso: ché dalla vergogna
della sua coscienza dà morte a sé stesso»; in G Esopo si regola allo

  Sulla liberazione di schiavi attraverso la consacrazione a qualche divinità e il passaggio


10

al suo servizio in qualche tempio cfr. Th. Thalheim, s. v. Freigelassene, in RE VII 1, 1910,
coll. 97 ss., e ora l’ampia trattazione di F. Bömer, Untersuchungen über die Religion der
Sklaven in Griechenland und Rom, pt. 2: Die sogenannte sakrale Freilassung in Griechenland
und die (δοῦλοι) ἱερoί, «Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften und der Lite-
ratur in Mainz», Geistes- und sozialwissenschaftliche Klasse, 1960, 1 (una iscrizione del
346/5 a. C. relativa a uno schiavo sacro addetto al tempio di Era in Samo a p. 158).

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136 Capitolo quarto

stesso modo, «dicendo che morto egli avrebbe la morte a velo della
vergogna della sua vita, vivo egli sarà il segno della vittoria della sua
coscienza». W vuol dire la stessa cosa di G, cioè che il rimorso della
coscienza sarà una punizione peggiore della morte, o che il figlio si
infliggerà la morte da sé per il rimorso? Questa seconda interpretazio-
ne pare più aderente al testo, e, poiché effettivamente il figlio si uccide
per il rimorso, può darsi che anche qui la battuta di W sia più vicina a
quella originaria. La predica che Esopo tiene al figlio in 109-110 pare
da G modificata più che da W, specialmente nello spirito: G contiene
una massima come «Se hai buona fortuna, non serbare rancore ai ne-
mici, anzi fa’ loro del bene, perché si pentano ricordando a quale uomo
fecero torto», massima assente in W, che non pare molto in armonia
con la massima precedente «Prega che i nemici siano deboli e poveri,
perché non possano assolutamente nuocerti»11. Un dettaglio di W pro-
babilmente originario è quello della κίδαρις, della tiara persiana che si
mette in testa Nectanebo (112). Dopo queste considerazioni non si può
escludere che certi nomi mancanti in G e presenti in W siano conser-
vati fedelmente da quest’ultima redazione: quello del luogo di nascita
di Esopo in Tracia, Amorio, quello del padre di Xanto, Dexicrate,
quello dell’amico che va a trovare Esopo prigioniero in Delfi, Demea.
Insomma W non serve soltanto a colmare le lacune prodottesi in G,
ma, anche là dove G è integro, non va sempre trascurato per la rico-
struzione della fonte comune.
Ma veniamo alle divergenze più importanti, quelle che implicano
tendenze generali diverse delle due redazioni. Nella redazione G han-
no un posto preminente Iside e le Muse. È per un miracolo di Iside
che Esopo, originariamente muto, acquista la parola (G 4-8). Per lo
schiavo intercede presso la dea una sua sacerdotessa, a cui egli ha indi-
cato la strada e usato molte gentilezze; allo schiavo che dorme appare
in sogno Iside accompagnata dalle Muse e fa che le Muse gli accordi-
no i loro doni; quando si sveglia, Esopo si accorge, stupito, di saper

  Più coerentemente il codice Vindobonense 128 ha eliminato la massima della preghiera


11

contro i nemici. Il testo della predica in G è molto corrotto e perciò il Perry lo dà in ap-
parato, seguendo nel testo il Vindobonense, che pare una rielaborazione ancora più lonta-
na dall’origine: il procedimento non è molto giustificabile. Nella massima «Onora Dio»
è difficile dire se il qεόν di G e del Vindobonense sia più antico di τὸ qεῖον di W che ha
sapore di filosofia greca.

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Il romanzo di Esopo 137

parlare. In W il racconto è molto più breve: Esopo indica la via ai sa-


cerdoti (non alla sacerdotessa) di Iside; in sogno però gli appare non
Iside, bensì la Tyche, senza le Muse, e alla Tyche si deve il miracolo.
Esopo, tornato dalla corte di Creso a Samo, vi innalza, secondo G
(100), un sacello alle Muse e in mezzo alle loro statue pone quella di
Mnemosine, «ma non di Apollo. E Apollo si adirò contro di lui come
contro Marsia». In W niente di tutto questo. In 123 il re di Babilonia
innalza una statua a Esopo e, secondo G, gli mette accanto le Muse;
in W nessuna menzione delle Muse. In 127 G accenna all’ira di Apol-
lo contro Esopo, perché questi a Samo ha eretto statue alle Muse, ma
non al dio: nessun accenno in W. Per sfuggire alla morte Esopo a
Delfi si rifugia, secondo G, nel tempio delle Muse (134) e ammonisce
i Delfi ad aver timore di Zeus Xenio e Olimpio (139); poiché i Delfi
sono inesorabili, Esopo, prima di gettarsi dalla rupe, li maledice invo-
cando a testimone il προστάτης delle Muse (142). In W nessuna men-
zione delle Muse e di Zeus: Esopo si rifugia nel tempio di Apollo
(134), ammonisce i Delfi ad aver timore di Apollo (139) e nella maledi-
zione invoca gli dei (142). L’oracolo che comanda ai Delfi di espiare
l’uccisione di Esopo proviene da Zeus secondo G, mentre nessuna
origine è indicata in W (142). In 33 è narrato un apologo da cui risulta
che l’origine dei sogni falsi si deve, sia pure con il consenso di Zeus, al
προστάτης delle Muse, cioè, sebbene non sia nominato, ad Apollo:
non per caso quest’apologo è eliminato in W.
Ci sono pochi dubbi che in questa tendenza antiapollinea G riflet-
ta la fonte comune delle due redazioni: la prova è che W, per elimina-
re Iside e le Muse, cade in qualche incongruenza. Se Esopo ha indica-
to ai sacerdoti di Iside la strada, perché è poi Tyche a fare il miracolo?
Esopo, rifugiato nel tempietto delle Muse, racconta ai Delfi la favola
dell’aquila, della lepre e dello scarafaggio: come l’aquila fece male a
disprezzare l’intercessione dello scarafaggio, così i Delfi farebbero
male a disprezzare l’umile tempietto: «non disprezzate questo luogo
sacro dove mi sono rifugiato, anche se piccolo è il tempio» (139 G);
W riesce assurdo: «non disprezzate questo dio [Apollo] solo perché
piccolo è questo suo tempio». Se qualche dubbio si può nutrire sulla
presenza, nella fonte comune, delle Muse e di Mnemosine nell’Esopeo
di Samo (100), giacché, dopo l’onore accordato dai Sami a Esopo,
nessun bisogno si sente dell’onore di Esopo alle Muse e a Mnemosine

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138 Capitolo quarto

e tanto meno dell’esclusione di Apollo, e quindi sul richiamo di


quell’offesa al dio per spiegare la sua ira contro Esopo (127), in genera-
le la priorità della tendenza antiapollinea è sicura. Tutt’al più è utile
precisare che l’autore della redazione W, geloso nel salvaguardare l’o-
nore di Apollo, non oppone un pari odio contro le divinità dell’altra
redazione. I sacerdoti (errore per la sacerdotessa) di Iside compaiono
anche in W: semplice negligenza del revisore? Potrebbe darsi. Ma si noti
che la sostituzione di Tyche (non di Apollo) a Iside più che a bandire
quella divinità mira a tradurre, per così dire, in greco: io suppongo che
la Tyche è richiamata perché con la Tyche, già nel I secolo a. C. ad
Alessandria, e poi con la Fortuna viene identificata non raramente
Iside12. Più sistematica è l’esclusione delle Muse; ma, comparendo
Apollo, di queste divinità minori, e a lui legate, non si sentiva più bi-
sogno: non è necessario, dunque, presupporre decisa avversione.
A quale epoca risalirà la fonte comune antiapollinea? C’è un ele-
mento linguistico abbastanza comune alle due redazioni, cioè la pre-
senza di non pochi latinismi13, che ha permesso al Perry una datazione
abbastanza certa: non si può risalire più in su del I secolo d. C. D’altra
parte un papiro che conserva un frammento della Vita, il papiro berli-
nese 11 628, del II-III secolo d. C., presuppone già la fonte comune
delle redazioni GW: quindi non si può scendere più in giù del II seco-
lo d. C. e, se tra il papiro e la fonte comune si vuol porre, per le riela-
borazioni, un congruo intervallo, il I secolo d. C. parrà più opportuno
del II14.

12
  Per Isis-Tyche cfr. G. Herzog-Hauser, s. v. Tyche, in RE VII A 2, 1948, col. 1682; per
Isis-Fortuna nel Lexicon del Roscher cfr. R. Peter, I 2, coll. 1530 ss.; W. Drexler, I 2, coll.
1549 ss.; II 1, coll. 545-546. In Apuleio (specialmente Met. XI 12: cfr. B. Lavagnini, Studi sul
romanzo greco, Messina-Firenze 1950, pp. 135-136) compare anche un’opposizione di
Iside e Fortuna, ma si tratta probabilmente di costruzione dello scrittore. Forse non per
puro caso la Tyche ricompare in W 89, ma manca nel passo corrispondente di G.
13
  Sui latinismi cfr. Hostetter, A Linguistic Study, cit., pp. 118 ss. Forse un calco sul
latino è μελέτη nel senso, mai attestato altrove, di «scuola» (luogo) in G 22: penso infatti a
un calco dal latino ludus.
14
  Questa è la conclusione a cui arriva il Perry, Aesopica, cit., p. 5, nota 16; prima, Studies,
cit., p. 25, inclinava piuttosto per il II secolo. La data più opportuna per la nascita della
redazione G (non quale, naturalmente, la conosciamo noi dopo altre interpolazioni) pare
il II secolo d. C. (Perry, Studies, cit., p. 25); la redazione W è, secondo il Perry (Aesopica,
cit., pp. 13-14), presupposta da Libanio e Imerio, quindi anteriore alla metà del IV secolo:
ciò non è improbabile, ma gli argomenti del Perry a questo proposito sono, come vedremo,
deboli.

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Il romanzo di Esopo 139

Molto più lontani dalla certezza si è circa il paese dove la fonte


comune di GW è nata. Perry è molto sicuro sull’Egitto, ma le prove
da lui addotte non convincono molto15. L’unica di qualche peso è che
solo in Egitto si ha qualche tenue testimonianza su Iside accompagna-
ta dal corteo delle Muse16, ma è prova che da sé dice poco: il culto di
Iside è uscito dall’Egitto già in età preellenistica (è documentato in
Siria già nel VII, in Sicilia, a Catania, già nel V secolo a. C.)17, ha avu-
to in età ellenistica e romana una diffusione enorme; la dea μυριώνυμος
ha attribuzioni innumerevoli, come sa anche chi abbia letto solo Apu-
leio: nel I secolo d. C. una venerazione di Iside quale appare in G è
possibile quasi in ogni paese del Mediterraneo. Indizio di origine egi-
ziana è poi secondo Perry la presenza di Nectanebo nella parte deriva-
ta dal racconto di Ah.īqār. Io credo che da questo si può indurre con
qualche probabilità solo che la Vita presuppone il romanzo di Alessan-
dro, dove, com’è noto, il re egiziano Nectanebo è fatto padre di Ales-
sandro. Il romanzo di Alessandro è, esso sì, di origine egiziana, ma si
è diffuso ben al di là dell’Egitto. Se poi si considera che nella parte
derivata dal racconto di Ah.īqār Nectanebo non è il vincitore, ma il
vinto dal re di Babilonia, si è spinti piuttosto a non ritenere egiziana la
redazione; e più ancora se ne è convinti, quando si vede che la religione
egiziana in qualche punto è messa in ridicolo: per un suo stratagemma
Esopo fustiga un gatto, animale sacro alla dea Bubasti, sollevando pro-
teste indignate del popolo egiziano (Vita 117-118); anche dei solenni
profeti di Heliopolis, convocati da Nectanebo, Esopo si beffa abbastan-
za chiaramente (119): se la religione apollinea è avversata, quella egiziana
non ci fa bella figura! Secondo Perry la contrapposizione dell’ingegno
nativo di Esopo alla falsa dottrina delle scuole nasce dall’avversione po-
polare egiziana alla cultura dei dominatori greci. Una tendenza antiapol-
linea poteva nascere in Egitto come in qualunque popolazione orientale
non greca a contatto con Greci. Del resto almeno il contrasto con i sa-
cerdoti di Delfi era all’origine stessa della leggenda e da esso la tendenza
antiapollinea poteva svilupparsi senza difficoltà. Il contrasto tra inge-

15
 Cfr. Perry,  Aesopica, cit., pp. 2 ss. Dubbi sono stati già espressi da qualche recensore; cfr.
per esempio H. J. Rose, «Classical Review», n. s., vol. 3, 1953, p. 154.
16
 Iside Μουσαναγωγός a Canopo in Oxyr. Pap. 1380, col. iv, l. 62 (II sec. d. C.); Iside come
prima delle Muse a Hermopolis secondo Plutarco, De Is. et Osir. 3, 352 a-b.
17
 Cfr. G. Roeder, s. v. Isis, in RE IX 2, 1916, col. 2101.

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140 Capitolo quarto

gno nativo e cultura aulica è coessenziale alla tradizione esopica fin


dalle origini: altrimenti Esopo non sarebbe uno schiavo; in questo
certamente il redattore della fonte comune di GW ha continuato un’i-
spirazione preesistente.
Un tempo il Perry, per datare nel II secolo d. C. la fonte comune
di GW, richiamò, tra altri, Babrio, Luciano, Massimo di Tiro18: que-
sta è cultura siriaca. Ciò che vale per la data non dovrebbe valere
anche per il luogo? Senza avere una certezza minimamente parago-
nabile a quella del Perry, io propenderei per la Siria: lì c’è una forte
tradizione di letteratura favolistica, risalente fino alla cultura babilo-
nese. Il racconto di Ah.īqār, a cui ha attinto il redattore della Vita,
poteva essere noto anche in Egitto. Tuttavia la redazione del V seco-
lo a. C., che fu trovata a Elefantina, è una redazione aramaica e fu
trovata lì solo perché c’era una colonia militare giudaica: la sua area
naturale, per così dire, era in Siria e Palestina. C’è poi un particolare
del racconto che incoraggia a questa congettura. Mentre Esopo con-
dannato sta per precipitarsi dalla rupe, si rivolge ai Delfi e dice con
odio e amarezza: «Avrei preferito girare 〈tra gli stenti〉19 tutta la Siria,
la Fenicia, la Giudea piuttosto che crepare qui 〈in questa maniera
assurda per opera vostra〉» (141)20. Così secondo G; la stessa battuta
ricorre in W, ma invece di Siria, Fenicia, Giudea c’è la Sicilia. Se
queste regioni fossero particolarmente vaste o particolarmente diffi-
cili e pericolose ad attraversarsi, la loro menzione sarebbe compren-
sibile: dire che si preferirebbero sopportare pene inenarrabili girando
l’Africa o attraversando le Ande, avrebbe un senso; ma che senso ha
per la Siria o la Sicilia? Dunque la menzione di quei paesi è dovuta a
causa diversa, forse a una causa molto semplice: cioè al fatto che il
redattore di G parla a Siriaci, Fenici, Giudei, il redattore di W a
Siciliani: avremmo cioè una redazione orientale e una redazione occi-
dentale più ellenizzata. C’è ancora un dettaglio che mi sembra indica-
re differenza tra mentalità orientale e occidentale: nella predica di Eso-
po al figlio ingrato si raccomanda di onorare Dio e di onorare il re
(109): così in ambedue le redazioni; ma in G e nel codice Vindobonen-
se si aggiunge che il potere del sovrano deve avere lo stesso onore di

18
 Cfr. Perry, Studies, cit., p. 25.
19
  Prima di κυκλεῦσαι bisogna secondo me supplire κακοπαqῶν dall’altra redazione.
20
  Supplemento del Perry da W.

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Il romanzo di Esopo 141

Dio21, in W questa giustificazione manca: ora è noto che il culto del


sovrano vivente come dio al principio dell’impero era diffuso in Orien-
te per eredità ellenistica, era irregolare e sporadico in Occidente, dove
si venerava comunemente il sovrano divinizzato dopo la morte.

2. Il nucleo primitivo della Vita e il Volksbuch di Esopo

Non c’è dubbio che il redattore del I secolo d. C. aveva dietro di sé una
lunga tradizione e che questa tradizione risaliva fino a un nucleo pri-
mitivo già esistente nel V secolo a. C.: due testimonianze fondamen-
tali, Erodoto II 134-135 (Test. 13 P.) e Aristofane, Vesp. 1446 ss. (Test.
20 P.), eliminano ogni dubbio. Ma quali elementi appartenevano a
questo primitivo nucleo?
Probabilmente, ma non sicuramente, nel nucleo primitivo era già
indicata l’origine frigia dello schiavo22. Vero è che esistono testimo-
nianze più antiche, e anche autorevoli, che indicano origine diversa.
Eraclide Pontico, nel III secolo a. C., in un opuscolo Sulla costituzione
dei Sami (FHG II, pp. 215-216 = Test. 5 P.), riferiva origine trace; e,
poiché il frammento presenta una notevole coincidenza con uno di
Aristotele (573 Rose) tratto da un opuscolo che si occupava anch’esso
Della costituzione dei Sami, molto probabilmente l’origine trace era in-
dicata già da Aristotele. C’è di più: la Suda attesta che un certo storico
Εὐγείτων faceva provenire Esopo dalla città trace di Mesembria; ora
sappiamo che in Aristotele-Eraclide notizie sui Sami provengono da
uno storico samio stesso, un certo Εὐάγων, il cui nome si trova an-
che corrotto in Εὐγαίων oppure in Εὐγείων: non è improbabile che

21
  Καὶ πρῶτον μὲν qεὸν σέβου, ὡς δεῖ. Βασιλέα τίμα· τὸ γὰρ κράτος ἰσότιμόν ἐστι
cod. Vindobon.; πρότερον μὲν qεὸν σέβου. Βασιλέα τίμα· τὸν κρατοῦντα ἴσω qεῲ  τὸν
υἱὸν ποιούμενος G. Penso sia da leggere: qεῷ ἰσότιμον ποιούμενος (o da eliminare qεῷ
anteriormente scritto su ἰσότιμον come glossa).
22
  Tutte le testimonianze su Esopo e la letteratura esopica sono accuratamente ordinate
dal Perry, Aesopica, cit., pp. 209 ss. Le testimonianze sull’origine frigia sono indicate a
p. 215 (Test. 4): le redazioni lunghe della Vita (all’inizio); alcune redazioni brevi (Test. 1 a-b, 2);
Suda, s. v. Αἴσωπος (Test. 3); Fedro III prol. 52; App. 13, 2; Dione Crisostomo, Or. 32, 63;
Gellio II 29, 1 (Test. 99); Luciano, Ver. hist. II 18 (Test. 54); Zenobio V 16 (CPG I,
p. 122 = Test. 37); Massimo di Tiro 32, 1 a (p. 367 Hob.); Eliano, Var. hist. X 5; Libanio,
Socrat. apol. 181 (V, pp. 118-119 F.  = Test. 29); Epist. 764 (X, p. 689 F.); Isidoro, Etym. I 40
(Test. 64); Costantino Porfirogenito, De them. I 4 (Corp. Hist. Byz. XI, p. 25 Bekker).

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142 Capitolo quarto

Εὐγείτων sia ancora lo stesso storico23: la notizia, quindi, sull’origine


trace risalirebbe a uno storico vissuto in Samo in epoca (come risulta
da Dionigi di Alicarnasso, De Thuc. 5 = Test. 6 P.) anteriore alla guer-
ra del Peloponneso. Eppure questa notizia di origine così veneranda
ha scarsa attendibilità. Nel famoso passo di Erodoto si viene a parlare
di Esopo a proposito di Rodopi, una famosa concubina del faraone
Amasi, che in Samo fu compagna di schiavitù di Esopo sotto un certo
Iadmone; ora Rodopi è indicata come trace di stirpe: si è sospettato
giustamente24 che l’origine trace di Esopo provenga di là.
Almeno fino al III secolo a. C. risale la tradizione sull’origine lidia
di Esopo, giacché di Sardi lo dice Callimaco (fr. 192, 16 Pf.)25. Ma
anche questa notizia è sospetta, poiché può essere dovuta semplice-
mente al soggiorno presso Creso che si attribuì a Esopo. La notizia,
invece, sull’origine frigia pare genuina perché, oltre a non riuscire so-
spetta per altre ragioni, è confermata dall’onomastica frigia, per esem-
pio dal nome del fiume Αἴσηπος26. Naturalmente molto più dubbie
sono le indicazioni della località frigia in cui Esopo sarebbe nato,
Amorio secondo la redazione W della Vita, Kotiaeon secondo la Suda;
tuttavia non è neppure certo che la notizia di W sia recente.
Parte essenziale del nucleo primitivo era certamente il soggiorno di
Esopo a Samo: su questo punto le biografie concordano con Erodoto
e con Aristotele (Rhet. II 20)27. Neppure della storicità della notizia ci
sono ragioni serie di dubitare. In un certo senso si potrebbe persino
affermare che il romanzo di Esopo è nato da una leggenda locale, in
questo caso da una leggenda samia. Ma questo significa poco e fa cor-

23
  Sull’intricata questione cfr. F. Jacoby, s. v. Euagon, in RE VI 1, 1909, coll. 819-820; FGrHist
III B 535, col relativo commento: Jacoby, tuttavia, conserva qualche dubbio, e giustamente,
sull’identificazione di Εὐγείτων con Εὐάγων – Εὐγαίων; più sicuro è il Perry (Test. 6).
Poiché Εὐγαίων si è corrotto anche in Εὐταίων, può darsi che Εὐγείτων provenga da un
Εὐγείων.
24
  L’ipotesi è di H. Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, «Aegyptus», vol. 16, 1936,
pp. 225-255, in particolare p. 229, nota 2. L’analisi dello Zeitz è ancora di non poca utilità e
sarà tenuta spesso presente in questa mia indagine.
25
  La notizia è riferita anche dalla Suda; lidio è Esopo secondo una delle vite minori (Test.
1 P.) e secondo un passo di Massimo di Tiro (36, 1 a, p. 412 Hob.), che altrove, come abbia-
mo visto, lo ritiene anche lui frigio.
26
  Qualche altra prova in A. Hausrath, s. v. Fabel, in RE VI 2, 1909, col. 1707.
27
  Samio è Esopo secondo una tradizione riferita dalla Suda, secondo un epigramma dell’Anth.
Plan. IV (AP XVI) 332 (Test. 50 P.) e Giuliano l’Apostata, Or. 7, 207 c (Test. 58 P.).

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Il romanzo di Esopo 143

rere il rischio di impoverire il senso della grande tradizione esopica


(questo va detto per tutta la teoria, di cui si è abusato, sull’origine del
romanzo greco da leggende locali, giacché quello che interessa non è
tanto che una certa leggenda sia nata e cresciuta in un determinato
luogo, ma che si sia plasmata secondo certe influenze di determinate
aree culturali e secondo certe tendenze o interessi: una tradizione lo-
cale non è quasi mai alcunché di isolato).
Meno chiaro si vede quali fossero nel nucleo del V secolo le vicen-
de di Esopo nell’isola. Erodoto racconta che Esopo, insieme con Ro-
dopi, fu schiavo di un certo Iadmone (Idmone), figlio di Hephaisto-
polis: prova ne è che solo un nipote di Iadmone si presentò a ricevere
il risarcimento per la morte di Esopo, quando i Delfi bandirono di
voler pagarlo. Ma di questo Iadmone non resta traccia nella biografia,
dove il solo padrone samio è Xanto (fa eccezione la biografia della
Suda, che è, naturalmente, una compilazione dotta)28. Interessante è la
testimonianza, già ricordata, di Eraclide Pontico: qui troviamo ambe-
due le tradizioni, e non giustapposte, ma ben concatenate: Esopo fu
liberato da Idmone il κωφός, che può significare «il muto», «il sordo»,
ma più probabilmente significa «lo sciocco»29, ma prima fu schiavo di
un certo Xanto. Abbiamo visto come le notizie di Eraclide risalgano
probabilmente sino a uno storico samio del V secolo, Euagon. Ma
anche questa notizia sui padroni, come quella sull’origine trace, susci-
ta sospetto: nel passo di Erodoto è menzionato un certo Xanto di
Samo come colui che portò in Egitto Rodopi, liberata poi da Carasso,
il fratello di Saffo: lo Xanto delle biografie non proverrà anche lui da
una confusione delle notizie erodotee?30 In questo caso qualche riser-
va in più è da fare, perché le due tradizioni non si escludono: la rico-
struzione di Eraclide, o della sua fonte, non è incoerente in sé stessa.

  Oltre che in Eraclide Pontico, di cui dirò subito, Iadmone (Idmone) è menzionato da
28

Fozio, Bibl. cod. 190 (PG CIII, col. 628 = Test. 14 P.), che cita Tolemeo di Efestione; Fozio,
Lex., s. v. Ῥοδώπιδος ἀνάqημα = Suda, sotto la stessa voce (Test. 17 P.); Strabone XVII 1, 33
(Test. 18 P.); Eliano, Var. hist. XIII 33 (Test. 18 P.); Ateneo XIII 596 b-c (Test. 19 P.). Nelle
ultime quattro testimonianze Rodopi è identificata con la Dorica di Saffo, liberata dal
fratello di Saffo, Carasso (su Carasso e Rodopi già Erodoto II 134-135); su Rodopi compa-
gna di schiavitù di Esopo anche Plinio, Nat. hist. XXXVI 12, 82 (Test. 15 P.); Plutarco, De
Pyth. orac. 14, 400 e (Test. 16 P.).
29
  Giustamente è stata rifiutata la congettura del Gelenio, poi accolta dal Coraës, σοφοῦ.
30
  Così secondo Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., p. 229.

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144 Capitolo quarto

Tuttavia io condivido il sospetto dello Zeitz: si noti che Xanto è nella


Vita, di fronte a Esopo, appunto «lo sciocco» come Idmone e che alla
fine, sia pure di malavoglia, libera Esopo, appunto come Idmone31.
Quel che resta di concordante fra la Vita ed Eraclide è tuttavia di gran-
de importanza: prima di Eraclide, cioè prima del III secolo, ma forse
già nel V prima di Euagon (la cui epoca però non va collocata troppo
alta, se si ammette che egli presuppone Erodoto), dunque in quello che
chiamiamo il nucleo primitivo, esisteva il contrasto tra lo schiavo acu-
to e il padrone sciocco: e il contrasto comportava dialoghi, soluzione
di indovinelli o di difficoltà, nel genere, se non nella misura, che ritro-
viamo nella Vita.
La parte del nucleo primitivo di cui s’intravedono meglio i lineamen-
ti è quella relativa al soggiorno delfico32. Sicuramente vi si narrava del
viaggio di Esopo a Delfi, di un suo contrasto coi sacerdoti del santuario
e con gli abitanti del luogo, dello stratagemma calunnioso con cui Esopo
veniva accusato del furto della fiala sacra di Apollo, della sua condanna
a morte (Esopo viene precipitato dalla rupe Hyampeia33; una fonte rife-
risce, accanto a questa tradizione, l’altra secondo cui egli fu lapidato)34,
della peste scoppiata a Delfi, dell’oracolo del dio che imponeva la ripa-
razione, della riparazione pagata; in questo racconto era inserita qualche
favola: la coincidenza di Aristofane, Vesp. 1446 ss. con Vita 134 ss. sulla
collocazione della favola dell’aquila e dello scarafaggio è preziosa. Non
è eccessivo credere che questa parte della narrazione contenesse, nel
V secolo, non poco di storicamente vero35.

31
  Una delle biografie minori (Test. 1 P.) dà come padrone di Esopo, in Atene, un certo
Timarco detto Korasio (?): notizia di origine oscura, ma di scarsa importanza.
32
  Le testimonianze (raccolte in Perry, Aesopica, cit., pp. 220 ss.) sono: Aristofane, Vesp.
1446 ss. con relativo scolio (Test. 20-21); Eraclide Pontico, De reb. publ. XXII 2 (Magnetum),
FHG II, p. 219 (Test. 22); Callimaco, fr. 192 Pf., 35 ss. (Test. 23); Plutarco, De sera num. vind.
12, 556 f (Test. 24); Pap. Oxyr. 1800 (ed. Grenfell e Hunt, XV, pp. 139-140 = Test. 25); Schol. ad
Callim., fr. 191 Pf., 26 ss., riportati dal Pfeiffer nell’ed. di Callimaco (I, p. 165 = Test. 26);
Zenobio I 47 (CPG  I, p. 18 = Test. 27) e altri paremiografi (cfr. anche la Suda, s. v. Αἰσώπειον
αἷμα e s. v. ἀναβιῶναι = Test. 45); Libanio, De Iuliani vind. 31 (II, p. 528 F. = Test. 28);
Socrat. apol. 181 (V, pp. 118-119 F. = Test. 29); Imerio, Or. 13, 5-6 (Test. 30); Suda, s. v. ἔωσεν
(Test. 31); Luciano, Phalar. 1, 6 con relativo scolio (Test. 32).
33
 Plutarco, De sera num. vind. 12, 556 f (Test. 24 P.); Schol. ad Lucian. Phalar. 1, 6.
34
  Schol. ad Callim., fr. 191 Pf., 26 ss.
35
  Recentemente un’analisi accurata e ingegnosa della parte delfica della Vita è stata con-
dotta da Anton Wiechers, Aesop in Delphi, Meisenheim am Glan 1961 (se ne veda la mia
recensione in «Helikon», vol. 2, 1962, pp. 697-699 [infra, pp. 179-182]). Che il contrasto tra

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Il romanzo di Esopo 145

Ma come veniva giustificato nel nucleo antico il viaggio a Delfi?


Rimane questo un punto oscuro. Secondo Plutarco36 Esopo per inca-
rico di Creso portava dell’oro per fare un magnifico sacrificio ad Apol-
lo e distribuire quattro mine a ciascuno dei Delfi; ma non è sicuro che
il soggiorno di Esopo presso Creso si trovasse già nel nucleo primitivo.
Più interesserebbe sapere quale causa veniva data dell’inimicizia coi
Delfi, in che cosa consisteva questo particolare «anticlericalismo» eso-
pico. Molto convincente pare la ragione verso cui convergono varie
testimonianze: Esopo irritò i Delfi con una satira sferzante, colpendo
l’avidità con cui sfruttavano i sacrifici al dio, la loro infingardaggine, la
loro inutilità; era la satira contro i preti parassiti, in cui già allora si
esprimeva la protesta di ceti umili, o anche meno umili, dediti alle
fatiche. Secondo lo scolio ad Aristofane, Vesp. 1446 Esopo avrebbe
bollato i Delfi perché non avevano terra da cui ricavare il nutrimento
col lavoro, ma aspettavano il nutrimento dai sacrifici di Apollo37. Una
breve biografia tramandataci da un papiro della fine del II secolo d. C.,
il papiro di Ossirinco 1800, racconta che Esopo avrebbe bollato i Del-
fi perché, quando il sacerdote si recava a sacrificare una vittima, cir-
condavano l’altare portando ciascuno un coltello e, quando la vittima
era stata uccisa e scuoiata, ciascuno si tagliava via la parte che poteva,
sicché spesso il sacerdote restava a mani vuote: la stessa notizia ci è
data dallo scolio a Callimaco, fr. 191 Pf., 26 ss. Ma questa satira contro
i Delfi che, senza faticare, campavano dei sacrifici era già diffusa nel
V secolo: Acheo in un dramma satiresco, l’Alcmeone, irrideva i Delfi
sempre occupati in sacrifici e banchetti (fr. 13 N.2) e forgiava per loro

Esopo e i Delfi sia ricalcato su quello dei Delfi con i Crisei nella prima guerra sacra (ma
nel calco i Delfi prenderebbero il posto dei Crisei) è ipotesi tanto ingegnosa quanto in-
credibile. Qualcosa di vero può esserci nella congettura che l’uccisione di Esopo fosse un
sacrificio di φαρμακός (seguisse, cioè, un rito, abbastanza diffuso nei paesi del Mediterra-
neo orientale e centrale e particolarmente legato alle feste Targelie in onore di Apollo,
consistente nell’immolare un uomo, in genere di condizione vile, lapidandolo o precipitan-
dolo da una rupe o in acqua o sotterrandolo vivo per purificare la comunità): può darsi che
il modo dell’esecuzione rientri in un rito apollineo; ma riesce difficile credere che la morte
di Esopo (così come quella, parallela secondo il Wiechers, di Neottolemo) fosse un αἴτιον
foggiato per spiegare un rito delfico (del resto ignoto) di φαρμακός.
36
  Passo citato supra, p. 144, nota 32.
37
  Secondo il Wiechers, Aesop in Delphi, cit., pp. 17-18, la battuta satirica di Esopo pre-
supporrebbe le condizioni dei Delfi anteriori alla prima guerra sacra, cioè al 590; ma la
dimostrazione è fragile.

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146 Capitolo quarto

l’appellativo di καρυκοποιοί, cucinieri di una salsa lidia speciale, che


naturalmente preparavano con le carni delle vittime (fr. 12 N.2); e Febo
veniva invocato una volta da Aristofane (fr. 684 K.) come colui che
affila sulla cote i coltelli dei Delfi. Ione, nella tragedia di Euripide
che prende il nome da lui, dichiara (323) che, come inserviente nel
tempio delfico, è nutrito dai sacrifici e dai visitatori. Del resto alle
battaglie per le carni vi era già un accenno in Pindaro, Nem. 7, 42; e
forse una lieve irrisione all’avidità e all’infingardaggine dei Delfi non
mancava neppure nel discorso che si faceva loro tenere dal dio nell’inno
pseudo-omerico ad Apollo o, per meglio dire, nella giunta delfica dell’in-
no (534 ss.), di poco posteriore al 59038. Non ci sarebbe da meravigliar-
si che tale motivo satirico ricorresse nel nucleo antico della Vita; pur-
troppo le redazioni attuali della Vita non ci offrono una conferma; ma,
comunque giustificato, il contrasto con i Delfi (e non solo con i sacer-
doti, ma con gli abitanti, tutti parassiti del dio) appartiene ai primi
elementi essenziali della biografia popolare.
A questo punto ci si pone un altro problema importante: il contra-
sto con i Delfi significava anche avversione al dio, alla religione apol-
linea? la tendenza antiapollinea che noi conosciamo in G, ma che era,
abbiamo visto, già nella fonte comune a GW, risale fino al nucleo del
VI-V secolo? Non credo che di questo problema si possa dare soluzio-
ne certa: indizi diversi portano in direzioni opposte. Un indizio posi-
tivo è nella favola dell’aquila, della lepre e dello scarafaggio, la cui
esistenza nel nucleo primitivo è sicura. Nella Vita, secondo la narrazio-
ne dataci da G, che certamente, come si è visto, qui riflette meglio la
fonte comune, la favola è legata alla situazione con molta coerenza:
allo scarafaggio della favola, all’umile intercessore, corrispondono nel-
la situazione le Muse, le dee minori entro il cui tempietto lo schiavo si
è rifugiato. In origine come veniva connessa la favola alla situazione?
È difficile immaginare una connessione diversa: per esempio, non si
può escludere del tutto, ma calza molto meno con la situazione, una
corrispondenza tra lo scarafaggio ed Esopo stesso, l’umile delle cui

  Cfr. anche Ferecide, FGrHist I 3 F 64 a. Callimaco, nel giambo a cui è apposto lo scolio,
38

assimilava i Delfi di ritorno dal sacrificio a sciami di mosche e di vespe. C’era poi un pro-
verbio che diceva: «Se sacrifichi per i Delfi, non ti toccherà un pezzo di carne» (CPG I,
p. 393 [App. Prov. I 95]). I passi sono citati dal Pfeiffer, comm. al giambo cit. di Callima-
co, e dal Wiechers, Aesop in Delphi, cit., pp. 16 ss.

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Il romanzo di Esopo 147

preghiere non si tien conto. Ora, se nel nucleo antico la situazione pre-
supposta dalla favola era la medesima, già in esso vi era una certa con-
trapposizione tra le Muse e Apollo (naturalmente il legame delle Muse
con Iside appartiene a uno degli strati più recenti). Tuttavia si può op-
porre che il rispetto richiesto per queste divinità minori non implica
necessariamente vilipendio del dio maggiore. E la congettura sulla ten-
denza antiapollinea del nucleo primitivo è scossa dal fatto che è un ora-
colo del dio a imporre ai Delfi la riparazione: naturalmente in G l’ora-
colo proviene da Zeus, ma in origine probabilmente proveniva da
Apollo e dallo stesso tempio delfico39. Del resto anche nella sistematica
tendenza antiapollinea di G rimane un’incoerenza: nella maledizione
contro i Delfi (142) Esopo invoca come testimone τὸν προστάτην τῶν
Μουσῶν, cioè Apollo stesso40. Quest’incoerenza non può provenire
che da tradizione anteriore alla comune fonte antiapollinea: anche se
facessimo risalire fino al nucleo antico la tendenza antiapollinea, do-
vremmo poi concludere che essa venisse controbattuta abbastanza pre-
sto dalla tradizione. Pensare, quindi, come fa il Perry41, che le testimo-
nianze di Imerio, Or. 13, 5-6 (Test. 30 P.) e Libanio, Socrat. apol. 181
(V, pp. 118-119 F. = Test. 29 P.) presuppongano W non è necessario:
già prima della fonte comune di GW Apollo poteva apparire come
fautore e vindice di Esopo.
Un elemento importante, che non escluderei facilmente dal nucleo
antico, è il ritratto di Esopo deforme. È vero che letterariamente la
deformità è attestata tardi; ma la fonte comune di GW mostra il pro-
cesso caricaturale arrivato già, nel I secolo d. C., alla sua esasperazione:
dalla testa ai piedi lo schiavo non ha quasi niente che non sia deforma-
to (e tuttavia non compare la gobba); è scuro, con grossi mustacchi; è
quasi muto42 (G vi aggiunge di suo anche la sordità). Un torso statua-
rio di gobbo di Villa Albani (n. 964), databile nel II secolo d. C., dif-

39
  Erodoto non lo dice esplicitamente, ma non altro si può ricavare dal contesto; esplicito
riferimento ad Apollo nella biografia del papiro di Ossirinco 1800: cfr. inoltre Imerio,
Or. 13, 6 (Test. 30 P.); Zenobio I 47 (CPG I, p. 18 = Test. 27 P.).
40
  Cfr., infatti, 33. Curioso che la redazione filoapollinea di W in 142 menzioni solo gli dei
in generale.
41
  Aesopica, cit., pp. 13-14.
42
  Κωφός, cioè «muto» – ma la parola può significare anche «sciocco» – è, nella notizia di
Eraclide, Idmone, il padrone di Esopo: che sia avvenuta una confusione? Cfr. supra,
p. 143.

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148 Capitolo quarto

ficilmente è da identificare con Esopo; ma a Esopo è da riferire pro-


babilmente la figura di una kylix del Museo Vaticano: un uomo dalla
testa grossissima rispetto al resto del corpo, fortemente sporgente in
avanti (προκέφαλος nella Vita), dai lunghi capelli e dal lungo pizzo
neri, dai mustacchi ben visibili (μυστάκων nella Vita), dal lungo naso
un po’ aquilino, dal ventre prominente (προγάστωρ nella Vita) è sedu-
to a conversare con una volpe, anch’essa seduta e con le zampe ante-
riori gesticolanti: ora questa kylix attica è del V secolo a. C.43. Si tratta,
naturalmente, di una caricatura, dietro la quale sarebbe arrischiato
cercare una realtà storica; ma la deformazione caricaturale deve essersi
fissata presto. Massimo Planude, nel suo proemio alla Vita, accostava
Esopo a Tersite, il plebeo ribelle e deforme, la cui deformità è essen-
ziale nel contrasto con l’ideale eroico; ma già la tradizione popolare
può aver fatto dello schiavo portatore della sapienza degli umili un tipo
simile a Tersite, l’opposto dell’ideale del καλὸς κἀγαqός. Il contrasto
fra la bruttezza esterna e la saggezza interiore, tra l’apparenza e la for-
ma è troppo essenziale nella mentalità esopica perché sia facile ammet-
tere una formazione tarda del ritratto di Esopo; ma, certo, la prova
inconfutabile non l’abbiamo.
Più avanti non credo si possa andare nel ricostruire il nucleo antico.
Non oserei escludere che elementi già vivi nel IV secolo, come i con-
tatti con Solone (e già con altri dei sette saggi? con Creso?), si fossero
già formati nel V secolo: voglio solo dire che possibilità non significa
probabilità, o di probabilità si può parlare tutt’al più per il soggiorno
presso Creso (che talora è presupposto dai contatti con i sette saggi).
Non c’è da supporre che la biografia popolare si preoccupasse di collo-
care cronologicamente Esopo. Tuttavia una collocazione cronologica
abbastanza precisa è stata fissata dalla dottrina alessandrina e forse già
prima dalla ricerca peripatetica: Ermippo, il famoso biografo scolaro di
Callimaco, poneva l’ἀκμή di Esopo nella 52a olimpiade (572-569 a. C.)44.
Con questa notizia non si concilia male quella data dal Chronicon

43
  Su questa scarsissima iconografia esopica cfr. O. Jahn, Archäologische Beiträge, Berlin
1847, p. 434 e tav. 12, 2; J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, München 1901, vol. 1,
pp. 54 ss. e tav. 7; K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker,
Basel 1943, p. 57; L. Laurenzi, s. v. Esopo, in Enciclopedia dell’arte antica, vol. 3, Roma
1960, p. 443 (la figura vascolare è riprodotta ivi, vol. 2, 1959, p. 343).
44
  Presso Diogene Laerzio I 3, 72 (Test. 8 P.).

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Il romanzo di Esopo 149

Romanum (cioè IG XIV 1297, un’iscrizione greca, proveniente proba-


bilmente dal Lazio, che attinge anche a fonti greche e risale all’inizio
del 16 d. C.)45, secondo cui Esopo sarebbe stato ucciso nel 564 a. C.; è
la stessa data riferita da Eusebio46 e dalla biografia della Suda. La data
di morte proviene da documentazione delfica? Se si risale a ricerca
peripatetica, la congettura non è poi assurda. È strano poi che, nono-
stante la libertà in cui di solito si muovono le tradizioni popolari, i
personaggi con cui Esopo viene messo in contatto, Creso, Solone,
Pisistrato, i sette saggi, Ibico47, sono vissuti effettivamente nella sua
epoca. Difficoltà cronologiche non mancano (per esempio, se Esopo
morì nel 564, difficilmente poté tenere agli Ateniesi la predica sulla
tirannia di Pisistrato), ma non s’incontrano spostamenti cronologici
grossolani: della cronologia di Esopo si è avuta sempre una coscienza
abbastanza chiara.
Finora ho parlato di nucleo primitivo, di nucleo antico. Ma si tratta-
va di una biografia scritta, del celebre Volksbuch di Esopo? A lungo lo
si è creduto48; io dubito, col Perry49, della sua esistenza nel VI-V se-
colo a. C. Una delle ragioni addotte dal Perry non ha, veramente, mol-
to peso: egli non riesce a persuadersi che «severioris illius aevi homi-
nes», fossero Ateniesi o Ioni o Dori, solessero perdere il loro tempo
con un libro leggero, in prosa, mentre la restante letteratura prosastica
era così grave. Ma è ben noto che la storiografia ionica non disdegna-

45
  Riprodotta e commentata in FGrHist II 252: la notizia su Esopo è in col. II, ll. 16-18
(Test. 10 P.). Certamente questo pezzo della cronaca presuppone indirettamente una ricer-
ca sulla cronologia dei sette saggi: prima di Esopo ci sono notizie cronologiche su Solone,
Anacarsi, Creso, i sette saggi; segue la data della sconfitta di Creso, poi notizie ateniesi. La
morte di Esopo è posta nell’anno in cui Pisistrato divenne tiranno ad Atene.
46
  Chron. II p. 94 Schöne (versione armena) all’anno 1452 di Abramo (= Ol. 54, 1); la data
è riprodotta nella traduzione di Girolamo (Test. 9 P.).
47
  Per Creso cfr. biografia della Suda (Test. 5 P.); Plutarco, De sera num. vind. 12, 556 f (Test.
24 P.); Solon 28 (Test. 35 P.), donde Tzetzes, Chil. V 382-383 (Test. 35 P.); Sept. sap. conv. 4,
150 a (Test. 36 P.); Zenobio V 16 (CPG I, p. 122 = Test. 37 P.), il cui proverbio, oltre che ad
altri paremiografi e alla Suda, è noto a Eronda 5, 14 (Test. 37 P.); per Solone cfr. Alessi, fr. 9
K. (Test. 33 P.); i Test. 35 e 36 già cit.; Suda, s.v. μᾶλλον ὁ Φρύξ; per i sette saggi cfr. Diodo-
ro Siculo IX 28 (Test. 34 P.); l’opuscolo di Plutarco, Sept. sap. conv.; per Chilone Diogene
Laerzio I 3, 69 (Sent. 9 P.); per Ibico Gnom. Vat. 366 Stern. (riferito da Perry nell’apparato
a Sent. 24); per Pisistrato Fedro I 2, 1 ss. (Test. 39 P.).
48
  Basti qui citare A. Hausrath, s. v. Fabel, in RE VI 2, 1909, col. 1711, dove si troveranno
le indicazioni bibliografiche necessarie.
49
  Aesopica, cit., p. 5.

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150 Capitolo quarto

va le narrazioni piacevoli e persino piccanti50: e certamente esse rispon-


devano a un gusto, a un’esigenza del pubblico. Più importante è l’altra
ragione addotta, e cioè che per quell’epoca non è provata l’esistenza di
biografie staccate. Io sono indotto nel dubbio soprattutto dalla troppa
fluidità di certe notizie: se alla fine del V secolo o nel IV l’origine tra-
ce di Esopo e il nome Xanto del suo padrone sono venuti fuori, come
si è congetturato, da una confusione delle notizie erodotee, se i risul-
tati della confusione sono passati in parte nella Vita che noi possedia-
mo, vuol dire che una tradizione biografica autonoma, fissata per
iscritto, non c’era. Si dirà: ma non si trattava di una vera e propria
biografia: si trattava di una raccolta di λόγοι, a cui la biografia serviva
da cornice. Ciò è giustissimo: ma proprio nel rapporto tra biografia e
favole o sentenze abbiamo una fluidità tale da accrescere i dubbi. Del-
le favole citate al di fuori della Vita come legate a episodi della biogra-
fia esopica51 solo una, quella dell’aquila e dello scarafaggio, è collocata
dalla Vita nella stessa circostanza; ancora più strano è che delle dodici
favole inserite nella Vita solo due, quella dell’aquila e dello scarafaggio
e quella sul comportamento della natura con le piante coltivate e con
le piante selvagge (Vita 37), che a malapena può dirsi una favola, ricor-
rono nelle raccolte esopiche (rispettivamente 3 H. e 121 H.): le altre
dieci52 non hanno paralleli. Che se ne deve dedurre? Innanzi tutto che
difficilmente il primo redattore della Vita ha avuto a disposizione un
Volksbuch scritto diffuso già nel V secolo, che probabilmente egli ha
messo insieme notizie di varia origine e tradizioni orali53; in secondo
luogo che la tradizione orale, quando legava una favola a un episodio

50
  Cfr. fra le trattazioni recenti S. Trenkner, The Greek Novella in the Classical Period, Cam-
bridge 1958, pp. 23 ss.; Q. Cataudella, La novella greca, Napoli s.d. (ma 1957), pp. 46 ss.
51
  Le favole date come narrate da Esopo sono (cfr. Test. 60 P.), oltre la favola dell’aquila
e dello scarafaggio, Fedro I 2; I 6; IV 16; IV 18; App. 12; Pseudo-Dositeo 15 (Hermen.,
CGL III, pp. 45-46; cfr. 284 P.); Esopo 8 H., data come narrata da Esopo anche in Aristo-
tele, Meteor. II 3; Luciano, Herm. 84 (429 P.); Diogene Laerzio II 5, 42 (424 P.); Plutarco,
Sept. sap. conv. 13, 156 a (453 P.); Aristofane, Av. 471 ss. (447 P.). In altre favole Esopo è il
protagonista (cfr. Test. 61 P.): Aristofane, Vesp. 1401 ss. (423 P.); Fedro II 3; III 3; 5; 14; 19;
IV 5; App. 9; 13; 17; 20.
52
  Sono quelle a cui il Perry nella raccolta delle favole dà i numeri da 379 a 388.
53
  F. Ribezzo, Nuovi studi sulla origine e la propagazione delle favole indo-elleniche, Napoli
1901, p. 65, trovava in Aristofane, Av. 471 Αἴσωπον πεπάτηκας il riferimento a una raccolta
scritta di favole di Esopo, intendendo «non hai neppure scartabellato Esopo»; ma il rife-
rimento non è sicuro: si può intendere «e non hai pratica di narrazioni esopiche».

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Il romanzo di Esopo 151

della vita esopica, non si riferiva a una biografia fissata, definita, ma a


un racconto di poche linee vaghe, collocandovi ciò che voleva, aggiun-
gendo altre linee: così Esopo non solo si recava a Sardi, ma ad Atene54,
a Corinto55, in Italia56.
Tuttavia anche la fluida tradizione orale dei secoli VI-V presuppone-
va alcune realtà storiche. Dell’esistenza di Esopo oggi nessuno più du-
bita, benché ne dubitasse Lutero57 e la negasse il Vico58. S’intende che il
dubbio di Lutero è un segno non inutile dello spirito critico moderno,
giacché, se Esopo è esistito, di lui certamente si può dire, e con maggior
ragione, ciò che Wilamowitz disse di Ippocrate: neppure una riga di ciò
che è tramandato come esopico è stata scritta da lui; quanto al Vico, se
Esopo non si può ridurre a «un genere fantastico, ovvero un carattere
poetico de’ soci ovvero famoli degli eroi», è pur vero che il carattere po-
etico elaborato dalla cultura greca, specialmente delle classi umili, conta
molto più dell’esistenza di Esopo in carne e ossa.

3. La sezione babilonese della Vita e il racconto di Ah.īqār

Dal nucleo antico vorrei passare al pezzo che nella Vita più immedia-
tamente ed evidentemente si avverte come estraneo, sia per l’estrema
debolezza dei legami narrativi col resto sia, soprattutto, per lo spirito:
cioè al pezzo babilonese (101-123). È noto da lungo tempo che questo
pezzo è un adattamento, con modificazioni non profonde, di un rac-
conto orientale molto fortunato, il racconto di Ah.īqār. Questo raccon-
to era intessuto di alcuni tra i motivi folkloristici più diffusi59. Ah.īqār
era scrivano e consigliere del re assiro Sennacherib60; senza figli, adot-

54
  Fedro I 2, 1 ss. (Test. 39 P.); III 14; IV 5; una biografia minore (Test. 1 P.).
55
  Diogene Laerzio II 5, 42 (Test. 40 P.); Plutarco, Sept. sap. conv. 4, 150 a (Test. 36 P.;
Periandro, l’ospite, è tiranno di Corinto).
56
  Esichio, s. v. Συβαριτικοί λόγοι (Test. 42 P.).
57
  Nella prefazione alla traduzione di alcune favole esopiche (1530). Cfr. ed. di Weimar, vol.
50, 1914, p. 452.
58
  Una breve illustrazione dei passi vichiani relativi a Esopo nel mio saggio La morale della
favola esopica, pp. 527-528 (qui, pp. 322-323).
59
  Per la diffusione di questi motivi nel folklore mondiale bibliografia in S. Thompson,
Motif-Index of Folk-Literature, vol. 4, Copenhagen 1957, p. 473 sotto la sigla K 2101.
60
  Nelle varie versioni c’è una certa confusione tra Sennacherib (705-681 a. C.) e il figlio e
successore Assarhaddon (681-669). Originariamente il re del racconto era Assarhaddon

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152 Capitolo quarto

tò un nipote, un certo Nadan. Il figlio adottivo, introdotto alla corte


del re, cresce arrogante e arriva a maltrattare aspramente familiari
e servi. Ah.īqār lo disereda, Nadan lo calunnia presso il re. Ah.īqār è
ingiustamente condannato a morte; ma l’ufficiale incaricato dell’ese-
cuzione, un certo Nabusemakh, è amico di Ah.īqār e gli è grato per
certi benefici: invece di ucciderlo lo nasconde; al posto suo ammazza
uno schiavo. Il faraone d’Egitto, saputa la notizia della morte di
Ah.īqār, lancia al re assiro una sfida che era nel costume dei re di quel
tempo: si trattava di una guerra combattuta con indovinelli e proble-
mi difficili da risolvere; se l’avversario non trovava la soluzione, si
dichiarava vinto e pagava tributo. Il re assiro è disperato, perché,
senza Ah.īqār, non potrà che perdere; ma Nabusemakh rivela che lo
scriba è vivo. Sotto falso nome Ah.īqār si reca dal faraone, risolve
tutti i problemi proposti e procura così la vittoria al proprio re. Al
ritorno si fa consegnare il nipote ingrato e lo schiaccia sotto una mole
di duri rimproveri: la violenta predica causa (in un modo facilmente
comprensibile) la morte di Nadan. Ma l’interesse del narratore non
era tanto nella narrazione quanto nelle massime, nei precetti, nelle
favole di tipo esopico: il racconto voleva essere, insomma, un libro
sapienziale. La «sapienza» era concentrata in due prediche tenute
da Ah.īqār al figlio adottivo: l’una si colloca, nelle versioni che con-
serviamo complete, al momento in cui il figlio incomincia la vita
di corte, l’altra al ritorno dall’Egitto; la prima consiste in una serie di
precetti che non si riferiscono particolarmente alla vita di corte, ma
alla vita in genere; la seconda consiste in una serie di favole introdot-
te con la formula «Ti sei comportato con me, figlio mio, come...»
(per esempio, «come uno scorpione che morde una roccia»: è un’in-
troduzione della similitudine-favola che conosciamo per altre vie
antichissime): naturalmente i paragoni servono a mettere in rilievo
l’indegnità del figlio ingrato.
Nella Vita il re di Babilonia è Licurgo, Esopo prende il posto di
Ah.īqār, il figlio adottivo si chiama Αἶνος (in W, ῞ Hλιος in G). La
parte narrativa ha qui uno sviluppo molto maggiore che non la parte
sapienziale (limitata a 109-110, due capitoli su ventitré), anzi delle due

(così la versione aramaica e un codice berlinese della versione siriaca); ma per lo più viene
sostituito da Sennacherib, anzi diventa padre di Sennacherib.

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Il romanzo di Esopo 153

prediche è rimasta una sola, la serie dei precetti, e questa è collocata


prima dell’impresa egiziana, cioè in un posto che non corrisponde a
nessuno dei due occupati dalle prediche delle altre versioni. È strano
che in una biografia di Esopo venga tralasciata proprio la serie delle
favole: non riesco a trovare una ragione convincente. L’autore pensava
di collocare le favole in altro posto, cioè dopo la biografia, che serviva
d’introduzione, appunto, a una raccolta di favole61? Ma in altri punti
della Vita sono rimaste altre favole. O l’autore aveva una redazione del
racconto orientale in cui le favole erano già omesse? Può anche darsi
che l’autore non intendesse le favole: le favole sono date per accenni,
che ne presuppongono già nel lettore la conoscenza, non ci sono veri
sviluppi narrativi.
Gli studi sul racconto di Ah.īqār sono stati tali da suscitare grande
fiducia nelle possibilità della filologia. Sino ai primi anni di questo seco-
lo se ne conoscevano parecchie versioni: una versione siriaca, una araba,
due armene, una turca, una slava, un frammento etiopico62. Fissare una
genealogia sicura di queste versioni è difficile: probabilmente la versione
araba deriva dalla siriaca (o per meglio dire da una fase di questa ante-
riore all’attuale), la turca dall’araba (in una fase più antica dell’attuale);
delle versioni armene l’una proviene dalla siriaca, l’altra forse da una
greca a noi ignota; la slava dalla siriaca, ma forse attraverso la greca63:
certamente sono avvenute, come in genere nelle tradizioni popolari,
contaminazioni che impediscono di scoprire tutti i tramiti. Il codice più
antico della versione siriaca, che, come si vede, ha un posto d’onore, è
del XII-XIII secolo; ma i ricercatori scorsero che il racconto era di
un’antichità remota. Già alcuni indizi facevano datare con probabilità al
V secolo d. C. una delle versioni armene64. C’era molto di più: il raccon-
to di Ah.īqār doveva considerarsi presupposto da un racconto ebraico,
il racconto di Tobit, non posteriore al II secolo a. C.; si risaliva, quindi,

61
  Questa è la spiegazione data da R. Smend, Alter und Herkunft des Achikar-Romans und
sein Verhältnis zu Aesop, «Beihefte zur Zeitschrift für die Alttestamentliche Wissenschaft»,
13, Giessen 1908, pp. 98-99.
62
  Studio e traduzione inglese delle varie redazioni in The Story of Ah.ikar..., a cura di
F. C. Conybeare, J. Rendel Harris e A. Smith Lewis, London 1898; la seconda edizione
uscì a Cambridge nel 1913, quando era stato già edito il papiro di Elefantina, contenente
frammenti della versione aramaica.
63
 Cfr. The Story of Ah.ikar, cit., ed. 1913, pp. lxxiii-lxxiv (Rendel Harris).
64
  Ivi, ed. 1913, p. 176 (Conybeare).

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154 Capitolo quarto

a una versione ebraica o aramaica65. D’altra parte il nome di Ah.īqār non


era ignoto alla cultura greca. Era noto a Strabone XVI 2, 39 (p. 762), il
che può voler dire ch’era noto a Posidonio66. Clemente Alessandrino,
Strom. I 15, 69 (I, p. 43 St.-Fr.), riferiva che Democrito (68 B 299 DK)
tradusse in greco una stele di Ah.īqār67. Citazioni di Strabone e Demo-
crito suscitano molto sospetto ed è stato certamente rischioso costrui-
re su somiglianze incerte fra sentenze del racconto di Ah.īqār e senten-
ze attribuite a Democrito68; ma minor diffidenza merita una notizia di
Diogene Laerzio (V 2, 50), secondo cui Teofrasto avrebbe scritto un
libro intitolato ̓Aκίχαρος69.
L’ipotesi dell’antica redazione aramaica è stata splendidamente
confermata da una scoperta di papiri a Elefantina nel 1907: uno dei
papiri ha restituito appunto dei frammenti (purtroppo solo dei fram-
menti) della redazione aramaica del racconto: lo studio di questo pa-
piro del V secolo a. C. e dell’ambiente a cui apparteneva, cioè una co-
lonia militare ebraica dimorante a Elefantina sotto il regime persiano,
l’esame filologico del testo portano a datare la redazione aramaica fra
il 550 e il 450 e a presupporre un originale babilonese anteriore al
550 circa; fra l’originale babilonese e la redazione aramaica ci fu forse
una redazione persiana70. Lo stato frammentario della redazione ara-

65
  Ivi, ed. 1898, pp. xii ss., spec. xx (Rendel Harris). L’ipotesi della originaria versione ebrai-
ca è attribuita dallo Harris (p. xviii) a M. Lidzbarski, Zum weisen Achikâr, «Zeitschrift der
Deutschen Morgenländischen Gesellschaft», vol. 48, 1894, pp. 671-675; Smend, Alter und
Herkunft des Achikar-Romans, cit., pp. 65 e 109 ss. (il racconto opera giudaica); F. Nau, Histoi-
re et sagesse d’Ah.ikar l’Assyrien, Paris 1909, pp. 55 ss. e 110 (presupposto l’originale aramaico).
Dopo la pubblicazione del papiro di Elefantina cfr. The Apocrypha and Pseudepigrapha of the
Old Testament, a cura di R. H. Charles, vol. 2, Oxford 1913, pp. 715 ss.
66
 Cfr. Smend, Alter und Herkunft des Achikar-Romans, cit., p. 66. Per il passo di Strabone
è generalmente e giustamente accettata la congettura di S. Fraenkel, Βορσιππήνοις per
Βοσπoρηνοῖς, s. v. Borsippa, in RE III 1, 1897, col. 735.
67
  Cfr. poi Eusebio, Praep. evang. X 4, 23.
68
 Cfr. Nau, Histoire et sagesse d’Ah.ikar l’Assyrien, cit., pp. 39 ss.; contro di lui A. Hausrath,
Achiqar und Aesop. Das Verhältnis der orientalischen zur griechischen Fabeldichtung,
«Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Hi-
storische Klasse», 1918, Abh. 2, pp. 10 ss.
69
  Una testimonianza tarda, ma indicativa per la diffusione e la popolarità della figura,
è la presenza quasi certa di Acicarus accanto a Polinnia in un mosaico di Treviri. Cfr.
W. Studemund, Zum Mosaik des Monnus, «Jahrbuch des kaiserlich deutschen archäolo-
gischen Instituts», vol. 5, 1890, pp. 1-5.
70
  I papiri furono trovati da O. Rubensohn tra il dicembre 1906 e il febbraio 1907 e pub-
blicati la prima volta da E. Sachau, Drei aramäische Papyrusurkunden aus Elephantine,

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Il romanzo di Esopo 155

maica non permette di rispondere a vari problemi, la cui soluzione


interesserebbe anche il pezzo babilonese e gli studi esopici in genere:
il racconto, che conserviamo sino alla finta uccisione di Ah.īqār e che
per la parte conservata è abbastanza d’accordo con quello delle versio-
ni prima note, restava d’accordo anche dopo? la redazione aramaica
conosceva l’impresa dello scriba in Egitto? conteneva anche le predi-
che? e in quali punti del racconto le collocava? L’impresa egiziana mi
pare difficile che mancasse, perché solo il pericolo incombente dal-
l’Egitto sul re assiro poneva la necessità della reintegrazione di Ah.īqār
e causava la punizione del figlio ingrato. Dall’ultima e più attendibile
ricostruzione, quella del Cowley71, pare che per la prima predica non ci
sia posto; c’era la seconda, anzi prendeva uno sviluppo amplissimo,
poiché la massima parte del testo conservato (le colonne vi-xiv) si ri-
ferisce a essa, ma non sappiamo che posto occupasse nel racconto:
veniva prima (come nella Vita) o dopo l’impresa egiziana? Il fatto che
sia nella Vita sia nel papiro di Elefantina le prediche siano ridotte a una
è bastato al Perry72 per concludere che la redazione presupposta dalla
Vita dipende da quella rappresentata dal papiro egiziano: ancora una
prova che la Vita fu composta in Egitto. Il rapporto potrebbe restare
lo stesso, se ammettessimo l’origine siriaca della Vita, poiché, ripeto,
la redazione del papiro di Elefantina è importata in Egitto, non dovu-
ta a cultura egiziana. Ma la congettura del Perry resta dubbia. Non
sappiamo quale posto la predica avesse nel papiro; in ogni caso essa è
ben diversa dalla predica della Vita: contiene parecchie favole (pur-
troppo quasi mai riusciamo a coglierne lo schema narrativo); conserva
in qualche punto, come riconosce anche il Perry, il carattere di rimpro-
vero (che il carattere obiurgatorio ceda di fronte a quello genericamen-
te precettistico, che, cioè, l’occasione narrativa venga spesso dimenti-

«Abhandlungen der Königlichen Preussischen Akademie der Wissenschaften», Berlin


1907. Trattazione ampia sul papiro del racconto in Id., Aramäische Papyrus und Ostraka
aus einer jüdischen Militär-Kolonie zu Elephantine, Leipzig 1911, pp. xxii ss. e 147 ss.;
E. Meyer, Der Papyrusfund von Elephantine. Dokumente einer jüdischen Gemeinde aus der
Perserzeit und das älteste erhaltene Buch der Weltliteratur, Leipzig 19122 (opera molto sugge-
stiva sui rapporti fra culture semitiche ed Egitto e fra culture orientali e cultura greca); A. E.
Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B. C., Oxford 1923, pp. 205 ss. Qui non importa
se la colonia militare risalga a epoca anteriore all’occupazione persiana; comunque la diaspo-
ra giudaica in Egitto, anche se intensificatasi nel periodo persiano, è certamente anteriore.
71
  Aramaic Papyri of the Fifth Century B. C., cit., pp. 220-221.
72
  Aesopica, cit., pp. 5 ss., spec. 10.

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156 Capitolo quarto

cata nella composita raccolta di massime, è processo che in qualche


misura si verifica anche nelle altre versioni), mentre esso manca del
tutto nella Vita: parrebbe che la redazione del papiro contaminasse la
prima e la seconda predica, che la redazione presupposta dalla Vita
ignorasse del tutto la seconda predica; inoltre è forte il contrasto tra la
brevità della predica nella Vita, a cui interessa molto più la narrazione,
e l’ampiezza nel papiro. Se, infine, la versione slava ne presuppone una
greca e se tra il pezzo babilonese della Vita e la versione slava ci sono
coincidenze particolari73, è difficile credere che la versione greca pre-
supposta dalla Vita e quella greca presupposta dalla slava non siano la
stessa: ora la versione slava conosce ambedue le prediche. Non si può
escludere che la rimanipolazione della Vita e quella della redazione
aramaica a noi nota siano indipendenti. Abbiamo troppo pochi ele-
menti per ancorare il pezzo babilonese della Vita alla genealogia delle
versioni del racconto.
All’oscuro siamo anche sul periodo in cui il pezzo babilonese è sta-
to introdotto nella Vita. È posteriore alla parte samia e alla parte del-
fica (s’intende, però, che all’interno di queste grandi divisioni possono
esserci benissimo ritocchi successivi al pezzo babilonese). Decidere se
la parte presamia sia anteriore o no al pezzo babilonese è impossibile:
dal fatto che il pezzo babilonese sia il più estraneo quanto a spirito,
non si possono ricavare conseguenze cronologiche. L’unico termine
post quem sicuro è la menzione di Nectanebo. I faraoni di questo nome
sono due, il primo dal 378 al 360, il secondo dal 359 al 341: si tratterà di
quest’ultimo, lo stesso che è entrato nel romanzo di Alessandro. Dun-
que erriamo tra il III secolo a. C. e il I d. C.: risultato molto magro.
Comunque il termine post quem dovrebbe servire almeno a eliminare
un’ipotesi azzardata, che sposta al V secolo a. C. la presenza del pezzo
babilonese nella Vita74. Quintino Cataudella (riprendendo, del resto,

73
  Notevole mi pare soprattutto la coincidenza nell’ordine delle prove: problema su chi
assomiglino il re e la sua corte, costruzione del castello in aria, problema circa le cavalle di
Babilonia, indovinello dell’anno; nella Vita c’è il problema della cosa mai vista né udita,
che manca nella versione slava; in questa c’è il problema della fune di sabbia, che manca
nella Vita; in ambedue le versioni manca la rivelazione dell’incognito di Ah.īqār. Anche
nella soluzione del primo problema ci sono coincidenze particolari.
74
  L’ipotesi ingegnosa è stata costruita da uno studioso molto competente di narrativa
e folklore greco, Q. Cataudella, Aristofane e il cosiddetto «romanzo di Esopo», «Dioniso»,
vol. 4, 1942, pp. 5-14 (per il problema che qui si affronta cfr. pp. 10-11).

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Il romanzo di Esopo 157

un’ipotesi anteriore75) ritiene che la costruzione della città in aria negli


Uccelli di Aristofane presupponga la prova della costruzione del castel-
lo in aria nel pezzo derivato dal racconto di Ah.īqār (cfr. Vita 110). Io
credo che i due pezzi abbiano ben poco a che fare tra loro: in Aristo-
fane sono gli uccelli a costruire la città; nella Vita sono dei ragazzi (o
schiavi) montati su aquile che dovrebbero costruire il castello, ma lo
stratagemma serve a Esopo per dimostrare al faraone che, se il castello
non si costruisce, la colpa è sua (il faraone ai ragazzi sollevati in alto
dalle aquile non sa fornire il materiale necessario). Anche se si dovesse
ammettere che il racconto orientale fosse presupposto da Aristofane,
non sarebbe certo nel travestimento della Vita: che ragione abbiamo di
credere che in origine nella Vita il nome del faraone fosse diverso e
venisse poi sostituito con quello di Nectanebo? Strano che il Cataudel-
la non abbia scorto questa difficoltà.

4. «Bere il mare»: gare di sapienza nelle culture arcaiche

Ho detto che il pezzo babilonese è quello che più chiaramente si mostra


come intruso. L’arguzia festosa, ma anche acre e penetrante, che si av-
verte per lo più nel resto della Vita, manca del tutto in questo pezzo,
sostituita da un giuoco d’ingegnosità insipida: qui siamo nella letteratu-
ra fiabesca, senza che vi sia rimasto il fascino della fiaba. Una volta che
Esopo da schiavo è diventato potente segretario di un re, ciò che v’è di
più tipico della tradizione esopica è perduto. E tuttavia anche fra il pez-
zo babilonese e il resto della Vita v’è una certa identità, di genere folklo-
ristico: essa è evidente soprattutto nel gusto degli indovinelli, dei proble-
mi difficili, ora teorici ora pratici, delle trovate ingegnose. Se cerchiamo
nella letteratura e nel folklore mondiale delle analogie su cui fondare
delle connessioni di storia culturale, ci vediamo sperduti: il gusto è in
tutte le culture primitive (e dura anche in fasi non primitive). Esso è
stato illustrato in maniera, come al solito, affascinante da Johan Hui-
zinga76: rientra nell’aspetto agonistico e ludico che è particolarmente

75
  Ch. Rosenthal, Aristophanis Aves quatenus secundum populi opiniones conformatae sint,
«Eos», vol. 29, 1926, p. 183.
76
  Homo ludens, trad. it., Torino 1946, pp. 112 ss., ma spec. 138 ss. Lo Huizinga non è né vuol
essere completo: restano trascurate l’area babilonese e l’area egiziana.

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158 Capitolo quarto

accentuato nelle culture arcaiche. Una parte cospicua della letteratura


religiosa indiana, sin dal Rigveda, è legata a gare di sapienza che rientra-
no nelle consuetudini del culto: i sacerdoti sacrificatori si sfidano in gare
di indovinelli che vertono sulla dottrina religiosa e specialmente sulla
cosmogonia e cosmologia77. Questo gusto continuò nella cultura buddi-
stica: esempio insigne uno scritto in lingua pali dell’inizio dell’era volga-
re, il Milindapañha, le Domande di Menandro, cioè le conversazioni a
colpi di indovinelli, in materia di religione e di filosofia, tra il re della
Battria Menandro, del II secolo a. C., e il gran sapiente arhat Nāgasena:
ognuno scorge le analogie tra questo scritto e il famoso dialogo di Ales-
sandro coi gimnosofisti nel romanzo di Alessandro. La sfida può anche
essere mortalmente rischiosa: nel Mahābhārata (III 313) ai Pandava er-
ranti nella foresta il genio dell’acqua vieta di bere in una vasca se non
sanno rispondere a certe sue domande: chi beve senza rispondere cade
morto al suolo. Qui si avverte il relitto di una credenza magica primitiva,
secondo cui chi sa possiede una forza magica speciale. Ugualmente ri-
schiose si presentano alcune gare di indovinelli, sempre in materia reli-
giosa e cosmologica, in canti probabilmente recenti dell’Edda germani-
ca: nel Vafthrudhnismál, gara tra Odino e il gigante onnisciente
Vafthrúdhnir che ha come posta la vita; nell’Alvissmál, gara fra Thor e il
nano Alvíss che ha come posta la mano di una figlia di Thor: il nano,
persistendo nella gara, si lascia sorprendere dalla luce del giorno e si
trova pietrificato; nel Fjölsvinnsmál il re Heidreks ha fatto voto che sal-
verà la vita di qualsiasi colpevole, purché sappia proporgli un enigma che
egli non sappia risolvere. Una scommessa meno rischiosa, ma nello stes-
so stile, viene impegnata tra Gangleri e Hár davanti al re Gylfi nel trat-
tato Gylfaginning della Edda di Snorri. In area più vicina alla greca in-
contriamo la conversazione di Zarathustra coi sessanta saggi del re
Vištāspa78 e di Salomone con la regina di Saba. Dell’Egitto dovrò dire
tra poco: non si tratta di un fenomeno particolarmente indoeuropeo79.

77
 Cfr. Rigveda I 157; 158; 164; VIII 29; X 129; ma anche letteratura religiosa più tarda, per
esempio Atharvaveda X 7; 8.
78
  Forti tracce di questo procedimento per interrogatorio nell’Avesta e specialmente negli
Yasna, i testi liturgici: l’esposizione dottrinale procede per domande e risposte tra Zarathu-
stra e Ahura Mazdā.
79
  Per la diffusione nel folklore mondiale si può ricorrere alla bibliografia in Thompson,
Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, Copenhagen 1956, pp. 423 ss. (H530-H899,
Riddles).

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Il romanzo di Esopo 159

Si vede che l’agonismo non distingue, come voleva Burckhardt, lo


spirito greco: anzi in questo genere di agonismo la cultura greca ha
forse meno di altre; ha tuttavia parecchio, e sin da epoca remota: il
mito della Sfinge, il mito di Calcante e di Mopso, una leggenda sulla
morte di Omero per il dolore causato dal non aver saputo rispondere
a un indovinello posto da bambini contengono il motivo della sfida
mortale; lasciando da parte questo motivo, si pensi alla presenza di
γρῖφοι in Esiodo, alla sofistica (ma anche a Zenone ed Eraclito), alla
formulazione dei προβλήματα scientifici nella tradizione peripatetica,
al gusto della poesia alessandrina per i γρῖφοι (anche il filosofo Clear-
co scrisse un trattato Sugli indovinelli), al Certame di Omero e di Esiodo:
tutto ciò è notissimo ed è stato ben illustrato80.
Finché consideriamo questo gusto solo in generale, è impossibile
rintracciare precisi tramiti e contatti di culture; ma la considerazione
di una di queste prove potrà darci un orientamento più preciso: parlo
della prova che consiste nel bere il mare (Vita 69-73). Durante un ban-
chetto (è una delle occasioni più solite per questi giuochi di indovinel-
li e problemi) Xanto ubriaco si vanta di poter bere tutto il mare e
nella scommessa impegna tutti i suoi beni. Il giorno appresso, smalti-
ta la sbornia, saputo da Esopo della folle scommessa, non sa come fare
e chiede aiuto allo scaltro schiavo, promettendogli la libertà, e sarà
lo schiavo a evitargli la rovina con una delle sue trovate ingegnose:
Xanto si proclamerà pronto a bere il mare, secondo i patti, ma non i
fiumi che vi entrano; gli avversari arrestino dunque l’afflusso delle ac-
que e lui berrà il mare. Ora è noto81 che questo stesso problema, con
la stessa soluzione, si trova nel Convito dei sette saggi di Plutarco
(6, 150 f - 151 d), convito a cui prende parte anche Esopo. Ma qui Esopo
col problema e con la sua soluzione non ha niente a che fare: il proble-
ma è posto dal re d’Etiopia al re d’Egitto Amasi, e Amasi, non sapen-
do risolverlo, manda un ambasciatore a Biante, che ora si trova insieme
cogli altri saggi presso Periandro, perché gli trovi la soluzione. Il mo-

80
  Ampia trattazione di K. Ohlert, Rätsel und Rätselspiele der alten Griechen, Berlin 19122;
per un particolare aspetto cfr. Ingrid Waern, Γῆς Ὀστέα. The Kenning in Pre-Christian
Greek Poetry, Uppsala 1951, di cui discute proficuamente Fr. Bornmann, Kenning in gre-
co?, «Athenaeum», n. s., vol. 30, 1952, pp. 85-103.
81
  Cfr., per esempio, Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 236-237. Per l’ul-
teriore diffusione nel folklore cfr. bibliografia in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature,
cit., vol. 3, p. 442 sotto la sigla H 696.1.

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160 Capitolo quarto

tivo della guerra a colpi di problemi proviene qui effettivamente dall’E-


gitto: nei racconti egiziani esso compare più di una volta, a partire da
un papiro della XIX dinastia (1314-1200 a. C., ma naturalmente la com-
posizione può essere anche anteriore) contenente l’inizio di una con-
tesa del genere tra il re hyksos Apopi e il re egiziano Seqenenrê, e in
qualche caso lo sfidante è proprio il re d’Etiopia, del resto tradizional-
mente nemico dell’Egitto82: conosciamo da un testo demotico la sfida
del re etiope a User-maat-Ra, cioè Ramses II83. Nella contesa di Apo-
pi e Seqenenrê il primo si lamenta col secondo perché gli ippopotami
di uno stagno vicino a Tebe, nel regno d’Egitto, gli impediscono di
dormire nella propria capitale, Avaris, che è al nord-est del delta; noi
conserviamo solo l’inizio del racconto, ma con tutta probabilità Seqe-
nenrê ribatteva con un’altra lamentela assurda, che serviva a ridicoliz-
zare la fondatezza della lamentela di Apopi. È lo stesso procedimento
con cui Esopo (e cioè Ah.īqār) ridicolizza nel pezzo babilonese della
Vita (117-118) una lamentela del faraone: il faraone s’era lamentato che
certe sue cavalle abortivano al sentir nitrire i cavalli di Babilonia; Eso-
po afferra un gatto e lo fustiga; agli Egiziani che protestano per il loro
animale sacro spiega che la bestia la notte passata ha ucciso il gallo del
re di Babilonia: questa lamentela è tanto giustificata quanto l’altra84.
Ma anche al di fuori del pezzo babilonese qualche problema e indovi-
nello proviene dalle culture orientali, che in alcune epoche e in ultimo
sotto l’impero persiano si arricchirono dalla Mesopotamia all’Egitto di
scambi reciproci: purtroppo, tranne che per il problema del mare da
bere, mancano gli indizi per decidere dove ciò si verifichi. Verso la

82
 Cfr. Romans et contes égyptiens de l’époque pharaonique, a cura di G. Lefebvre, Paris 1949,
pp. 131 ss.; G. Maspéro, Les contes populaires de l’Égypte ancienne, Paris 19114, pp. 155-156,
163-164.
83
 Oltre Maspéro, Les contes populaires, cit., cfr. S. Donadoni, Storia della letteratura egi-
ziana antica, Milano 1957, pp. 320 ss.
84
  Un indovinello del pezzo babilonese, quello sulla figura simbolica dell’anno (Vita 120),
si trova già, anche se diversa è la figura simbolica, nel Rigveda I 164, 48 e nell’Atharvaveda
X 8, 4; l’indovinello del giorno e della notte, unito nella Vita con quello dell’anno, nel-
l’Atharvaveda X 7, 6 e 42. Poiché non sappiamo quanto negli indovinelli dell’impresa
egiziana vi sia di babilonese o aramaico, quanto di più recente, non possiamo escludere
origine indiana. Sulla diffusione di questi indovinelli nel folklore indicazioni bibliografi-
che in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, p. 444 sotto le sigle H 721, 722;
per l’indovinello sul re e la corte cfr. sotto H 731; per il castello che non è né in cielo né in
terra p. 461 sotto H 1036; p. 464 sotto H 1077; p. 460 sotto H 1133.2.

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Il romanzo di Esopo 161

stessa area parrebbe orientare un motivo che appartiene già al nucleo


antico: era ovvio accostare lo stratagemma con cui viene calunniato
Esopo a quello con cui viene calunniato Giuseppe nel racconto biblico;
ma precisare le vie del rapporto è impossibile85.

5. La Vita come biografia sapienziale

Si è visto che la soluzione di un problema, in Plutarco attribuita a Bian-


te, nella Vita è attribuita a Esopo: questo non è certamente il solo caso
che indica un influsso della tradizione dei sette saggi sulla tradizione
biografica di Esopo86. Forse una tradizione su alcuni dei saggi è da pre-
supporre già dietro un pezzo importante della Vita, quello che narra
come Esopo interpretasse ai Sami un prodigio annunziante il pericolo
lidio e come riuscisse, con la sua opera personale presso Creso, a impe-
dire la loro sottomissione (81-100). Erodoto (I 26-27) conosceva già una
tradizione secondo cui o Biante o Pittaco, dopo la sottomissione a Cre-
so delle colonie greche dell’Asia Minore, avrebbe salvato la libertà delle
isole greche vicine e questo avrebbe ottenuto con una battuta spiritosa
(molto più spiritosa del dialogo di Esopo col re): Creso, che ha pronta
la spedizione navale, chiede al saggio che succede in Grecia, e il saggio:
«Comprano cavalleria per venire ad assalirti a Sardi»; allora il re: «Così
volessero gli dei!» (naturalmente in un combattimento di cavalleria egli
riteneva sicura la propria vittoria); e il saggio ribatte: «Bene fai a pregare
così; ma che cosa credi che preghino gli isolani se non che tu vada ad
assalirli per mare?». Dopo Erodoto (non si può escludere prima, ma è
più prudente ritenere dopo) Esopo è stato messo accanto a Biante o
Pittaco come salvatore della libertà del suo popolo.
Erodoto (I 28 ss., spec. 29) conosce anche la tradizione del soggior-
no dei sapienti greci (οἱ πάντες ἐκ τῆς Ἑλλάδος σοφισταί), e in parti-
colare di Solone, presso Creso87: notizia che ritroviamo presso Diodo-
ro IX 26 ss., ma Diodoro vi aggiunge (IX 28 = Test. 34 P.) che Esopo

85
  Per altri paralleli cfr. la bibliografia indicata da Thompson, Motif-Index of Folk-Litera-
ture, cit., vol. 3, pp. 287-288 sotto H 151.4.
86
  Sull’argomento già utilmente Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 242 ss.
87
  Le testimonianze sui sette saggi sono raccolte e illustrate da B. Snell, Leben und Mei-
nungen der Sieben Weisen, München 1938. Per Talete presso Creso cfr. Erodoto I 75.

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162 Capitolo quarto

avrebbe rimproverato loro di non saper frequentare i potenti, giacché coi


potenti bisogna viverci il meno possibile o il più piacevolmente possibile.
Questa battuta di Esopo rientrava in un dialogo che Plutarco (Solon
28 = Test. 35 P.) ci riferisce più esaurientemente: a Esopo, alla morale vol-
gare, ribatteva Solone, la morale della vera filosofia: «No, per Zeus: o il
meno possibile o il più virtuosamente possibile». Ora Plutarco colloca lo
scontro a Sardi. Creso, i sette saggi, Esopo non per caso si trovano accosta-
ti nel già riferito Chronicon Romanum (Test. 10 P.). Si deve concludere che
Erodoto conosceva anche il legame Esopo-Creso?88 Non è impossibile, ma
io dubito: se Erodoto avesse conosciuto un legame di Esopo con Creso,
avrebbe conosciuto anche l’opera di Esopo per la salvezza della libertà di
Samo; questa pare la via di unione più naturale del soggiorno samio col
soggiorno lidio; ma Erodoto in I 26-27 non fa nessuna menzione di quest’o-
pera di salvezza: è un argomento ex silentio non decisivo, ma di cui va tenu-
to conto, una volta che non abbiamo la prova per affermare. Comunque, se
il legame Esopo-Creso e l’incontro di Creso coi saggi non risalgono con
sicurezza a tradizione anteriore a Erodoto, si può dire con una certa proba-
bilità che risalgono al IV secolo: il comico Alessi (fr. 9 K.) nel suo Esopo
faceva conversare il suo protagonista con Solone, il quale gli spiegava, mot-
teggiando sugli Ateniesi, perché questi non bevono vino puro; il comme-
diografo avrà variato su un soggetto di una certa popolarità: il pubblico già
sapeva di conversazioni di Esopo con i sapienti o con questo o quello di essi.
Il legame Esopo-Creso quale si presenta nella Vita, cioè la media-
zione per la libertà di Samo senza il contatto con i sapienti, parrebbe
più antico del contatto con i sapienti o qualcuno di essi presso Creso o
altrove; se si dovesse decidere quale dei due motivi ha più probabilità
di appartenere al nucleo antico, si deciderebbe senz’altro in favore del
primo: il pezzo della Vita in questione con l’inserzione di tre favole
presenta una certa analogia col pezzo delfico. Ripeto, però, né per il
legame Esopo-Creso quale è nella Vita né per il legame Esopo-saggi
presso Creso si raggiunge certezza né forte probabilità89. Neppure

88
 Così Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., p. 244: «Erodoto […] testimonia
in definitiva anche il legame Esopo-Creso».
89
  Cataudella, Aristofane e il cosiddetto «romanzo di Esopo», cit., pp. 9 ss., sente un’eco
della Vita nella parabasi degli Acarnesi di Aristofane: come nella Vita (95-96) Creso chiede
che i Sami gli consegnino Esopo, il loro sagace consigliere, così Aristofane finge (646 ss.) che
i Lacedemoni vogliano sottrarre agli Ateniesi il loro consigliere migliore, cioè il poeta
stesso. A me non sembra che il motivo narrativo sia così singolare da dimostrare deriva-

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Il romanzo di Esopo 163

all’interno del racconto della Vita c’è una coerenza che elimini le per-
plessità: con la favola dei lupi, dei cani e delle pecore Esopo ha con-
vinto i Sami a non consegnarlo a Creso, ma poi parte ugualmente. Mi
viene il sospetto (intendiamoci, non più di un sospetto) che in un
primo momento Esopo salvasse i Sami avvertendoli in tempo del pe-
ricolo e inducendoli a preparare la difesa e solo in un secondo tempo
fosse introdotto il motivo del viaggio presso Creso. Se il sospetto fos-
se giusto, nell’accostamento Esopo-Creso-saggi avremmo tre fasi, di
cui solo le prime due riflesse nella Vita.
Stupisce un po’ che di un motivo già diffuso nel IV secolo quale il
contatto (o contrasto) con i saggi o qualcuno di essi non sia rimasta
traccia nella Vita; eppure è avvenuto lo stesso di un motivo risalen-
te con sicurezza fino al IV secolo, quello, cioè, della resurrezione
(ἀναβίωσις) di Esopo: lo conosceva già il commediografo Platone90, la
Vita lo ignora. Dobbiamo pensare che nel IV secolo si fosse già fissato
un nucleo scritto a cui risale la Vita? Per le ragioni dette prima ci credo
poco: in queste tradizioni popolari la fluidità è consueta: molto viene
aggiunto, qualche cosa viene tralasciata. Comunque questa tradizione
sull’ἀναβίωσις è interessante: la Suda (s. v. ἀναβιῶναι = Test. 45 P.) ac-
costa Esopo a Tindaro, Eracle, Glauco. Il modello dev’essere stato un
altro, Pitagora: dunque ancora influsso di una tradizione relativa, se
non ai sette saggi, a un grande saggio della Grecia su quella esopica.
Esiste persino una tradizione che fa combattere Esopo redivivo alle
Termopili: forse fu ghiribizzo di qualche dotto, forse fu il proletariato
greco che non seppe rassegnarsi alla morte del suo eroe e amò imma-
ginarlo combattente dove si difendesse la libertà, quasi a sottolineare
il contributo che a questa lotta gli umili hanno sempre dato.
Anche per la contaminazione con elementi derivati dalle biografie
dei saggi capita di osservare quanto si è detto per la contaminazione
con il racconto di Ah.īqār: sono stati contaminati elementi che già ave-
vano una somiglianza di fondo; in questo caso, anzi, la somiglianza era

zione. Vero è che spesso negli studi di folklore ci si contenta di analogie ben più labili: vuol
dire che questi studi hanno bisogno di molto maggior rigore.
90
 Fr. 68 K. da Schol. in Aristoph. Av. 471 (Test. 45 P.). Le altre testimonianze sono: Ermippo
presso Plutarco, Solon 6 (FHG III, p. 39, fr. 10 = Test. 46 P.), il quale riferisce che un certo
Pataikos, forse un favolista, proclamava di avere in sé l’anima di Esopo; Tolemeo di Efestio-
ne (Chenno) presso Fozio, Bibl. cod. 252 (Test. 47 P.), secondo cui Esopo redivivo avrebbe
combattuto alle Termopili. Molto discutibile Test. 48 P. (Schol. in Aristoph. Vesp. 566).

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164 Capitolo quarto

più notevole. La Vita Aesopi era già nata come una biografia di saggio,
come un’opera tra narrativa e sapienziale. Questa forma di biografia,
dove il racconto è poco più di una cornice ai detti memorabili, è certa-
mente una delle più antiche esistenti, radicata nella religione e nell’e-
tica primitiva. Anche in Grecia essa precede, naturalmente, i tipi di
biografia fissati dalla scuola peripatetica e dalla scuola alessandrina
(comunque si debbano intendere i loro rapporti), si contamina con
essi, vive accanto a essi, fino all’agiografia cristiana: ha una vitalità
soprattutto popolare, ma non solo popolare, dati i servizi che, rielabo-
rata, può rendere alle scuole di retorica. Gli accostamenti con la lette-
ratura sapienziale egiziana, babilonese, giudaica (penso soprattutto al
libro di Giobbe, le cui ascendenze babilonesi sono probabili) sono
ovvi, ma, almeno per lo schema di fondo (per singoli elementi, si ca-
pisce, le cose stanno diversamente), non è certo da pensare a deriva-
zione. E più delle somiglianze contano certe differenze. Nei libri sa-
pienziali egiziani l’elemento narrativo è ridotto per lo più al minimo,
all’indicazione del personaggio che tiene le ammonizioni, del perso-
naggio a cui furono indirizzate, dell’occasione in cui furono tenute:
nelle biografie greche di saggi l’interesse narrativo deve essere stato fin
dalle origini più vivace, anche se è fuori di dubbio che nella nostra Vita
Aesopi lo sviluppo narrativo è fortemente ampliato rispetto alle origini.
Ma più conta un altro aspetto, che senza dubbio, però, compare anche
in una parte della letteratura sapienziale egiziana: questo tipo di bio-
grafia nella cultura greca è portatore di una cultura laica, autonoma
dalla cultura sacerdotale, a volte in contrasto con essa: i sette saggi non
sono profeti o santi, non si propongono di ravvivare la religione tradi-
zionale o di portarne una nuova: sono maestri di vita, esempi e propa-
gandisti di una nuova etica. Né essi somigliano a un tipo di filosofo che
è di là da venire, cioè al tipo del filosofo assorto nella meditazione e
nella contemplazione, indifferente alla vita che intorno a lui si svolge:
i sette saggi assomigliano di più ai fondatori e ordinatori di città91.
Entro certi limiti di cui dirò subito, la biografia esopica porta il segno
di questa tendenza.

91
  Naturalmente già nell’antichità le interpretazioni variano né è impossibile trovare spun-
ti per interpretare questo o quel saggio come puro filosofo; ma l’aspetto di cui parlo fu
colto felicemente da Aristotele e Dicearco: cfr. Snell, Leben und Meinungen der Sieben
Weisen, cit., p. 73 e le fonti e la bibliografia ivi citate.

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Il romanzo di Esopo 165

6. Lo schiavo portatore di antisapienza

Accanto ai sette saggi, ma in una posizione d’inferiorità: accanto a So-


lone sdraiato sul suo seggio Esopo siede su uno sgabello bassissimo: così
piacque immaginarlo a Plutarco92 (o alla sua fonte). La disputa con So-
lone sul modo migliore di comportarsi con i potenti, alla quale ho accen-
nato prima, ce lo mostra in contrasto con i saggi: ed è questa la sua luce
caratteristica, quella che ne ha fatto nei secoli un tipo di così potente
originalità, un simbolo fondamentale della cultura umana: di saggi greci
ce ne sono parecchi, Esopo è unico, perché lui è il solo a portare l’anti-
sapienza, la visione della vita elaborata dagli schiavi e dai reietti.
Naturalmente fuori della Grecia conosciamo tipi analoghi. Ciò che
più interesserebbe sapere è se il tipo si affacciasse in letterature orien-
tali antiche, l’egiziana, la babilonese, l’ebraica. Non mi sembra (ma, è
ovvio, lascio ai competenti la risposta definitiva). Uno dei testi più
famosi e più interessanti della letteratura egiziana (anche se un critico
di esigenze estetiche lo troverà certamente noioso) è la lunga protesta
tenuta in nove discorsi da un abitante di un’oasi (forse un contadino)
presso un alto funzionario93: è la protesta probabilmente più antica che
possiamo leggere94 dell’umile contro i capricci del potente, lo sfogo, in
una tipica eloquenza primitiva e pur raffinata, del bisogno di giustizia
di gente che lavora e che attende la giustizia da altri, lontana da ogni
pensiero che essa possa dipendere dalla propria lotta. L’alto funziona-
rio e il faraone ammirano l’eloquenza inaspettata di questo povero dia-
volo: nella sapienza egiziana non manca la consapevolezza che la gen-
te umile porta con sé tesori celati di verità. Un passo di un libro
sapienziale antichissimo, l’Insegnamento di Ptahhotep, dice: «Per celata
che sia la buona parola più che lo smeraldo, / pure la si può trovare
presso la schiava alla macina»95. Ma c’è molta distanza da questa con-
cezione all’altra, veramente esopica, che lo schiavo o il povero afferma
la verità contro la pretesa sapienza dei filosofi, mette a nudo la realtà

92
  Sept. sap. conv. 4, 150 a (315 a P.; Test. 36 P.).
93
 Cfr. Romans et contes égyptiens, cit., pp. 41 ss.; cfr. Donadoni, Storia della letteratura
egiziana antica, cit., pp. 95 ss.
94
  La lingua è quella della XII dinastia (2000-1785 a. C.).
95
  Il passo tradotto in Donadoni, Storia della letteratura egiziana antica, cit., p. 56.

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166 Capitolo quarto

sotto l’apparenza sciocca o interessata, l’egoismo e la prepotenza sotto


la pretesa giustizia: c’è molta distanza tra l’interesse paternalistico per
la saggezza popolare e la satira plebea della filosofia dotta. Qualche
cosa dello spirito esopico ci si presenta in testi molto più tardi, per
esempio nella famosa disputa di Salomone e Marcolfo, divenuta po-
polare attraverso la rielaborazione di Giulio Cesare Croce nel Bertoldo.
Della disputa si hanno tracce nel X secolo e forse già nel V. Può darsi
persino che vi siano precedenti giudaici remoti: Giuseppe Flavio, at-
tingendo a fonti che possono risalire fino al II secolo a. C., riferisce di
una guerra d’indovinelli tra Salomone e il sovrano di Tiro, in cui Salo-
mone veniva sconfitto dall’ingegnosità di un certo Abdemon96, ma
questo Abdemon sarà stato solo un confratello di Ah.īqār, insipido
quanto lui; niente ci assicura che egli fosse il portatore di una sapida
saggezza volgare contrapposta a quella salomonica: quando nella sa-
pienza antisalomonica il tipo di Marcolfo sia nato non sappiamo. Co-
munque in questo caso c’è una vera polemica, ora semplicemente far-
sesca, ora veramente acuta, contro la saggezza del signore, che viene
sgonfiata, messa in ridicolo, rovesciata (ed è noto come la polemica
continui in un certo tipo del villano della letteratura medievale, un po’
anche nel tipo del furfante ingegnoso della letteratura picaresca). An-
che qui, in un dialogo serrato di botte e risposte, sentenze e indovinel-
li s’intrecciano; s’intrecciano farsa e verità, ma il gusto farsesco inde-
bolisce non poco la ricerca della verità. Ciò che ricorda meglio il tipo
di Esopo è il ritratto caricaturale di Marcolfo, la cui orrida deformità
vien messa in contrasto con l’ingegno; eppure nel dialogo niente di
notevole ho trovato che faccia presupporre la Vita Aesopi: e questo è
importante, sia che il tipo di Marcolfo risalga, come inclinerei a cre-
dere, alla cultura volgare dell’Oriente giudaico o siriaco sia che lo si

96
  Ant. Iud. VIII 5, 3 (da un certo Dios: FGrHist III 785); Contra Apion. I 115-116 (da Me-
nandro di Efeso: FGrHist III 783 F 1). Sulla disputa cfr. Gina Cortese Pagani, Il Bertol-
do di G.C. Croce ed i suoi fonti, «Studi medievali», vol. 3, 1911, pp. 533-602. Per Bertoldo si
credette un tempo ad ascendenze indiane: F. Pullé, Un progenitore indiano di Bertoldo,
Venezia 1888, ritenne di scoprire nei tipi di Mahausadha e di Rohako di narrazioni rife-
rentisi alle vite anteriori di Budda, precisamente nell’Antarakathāsaṃgraha di Rājaśekhara
(tradotta in parte dal Pullé in «Studi italiani di filologia indo-iranica», vol. 1, 1897, pp. 1 ss.;
vol. 2, 1898, pp. 1 ss.); ma questo testo è del XV secolo: il tipo può essere indipendente o
può essere influenzato dalla cultura dell’Asia anteriore. Contro Pullé cfr. M. Winternitz,
Geschichte der indischen Litteratur, vol. 2, Leipzig 1920, p. 326.

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Il romanzo di Esopo 167

debba alla cultura occidentale dell’alto Medioevo. Questi raffronti, più


che a ricostruire trasmissioni di culture, servono a delineare un certo
tipo sociologico, nato indipendentemente in culture diverse: ma qui
non voglio entrare tam vastum in aequor.
Nella cultura greca il tipo che più ovviamente si accosta a Esopo è
lo schiavo della commedia. L’ingegnosità dello schiavo è un valore
fondamentale del mondo comico antico, e non è raro che lo schiavo sia
più furbo del padrone: già in un’età in cui forse non è propriamente
formato il tipo destinato a durare nei millenni, nelle Rane di Aristofa-
ne compare sulla scena lo schiavo Xantia più furbo del suo padrone
Dioniso a far ridere il pubblico sul suo padrone. Ma, se conta molto
l’effetto comico ricavato dal trovare l’astuzia e la sciocchezza dove
meno la si aspetterebbe, l’astuzia nel povero diavolo, la sciocchezza nel
padrone (per lo più nel vecchio padrone), la commedia non si preoc-
cupa, ch’io sappia, di contrapporre la verità dello schiavo alla verità del
padrone: qui la ricerca della verità non ha nessuna parte nella farsa o
accanto alla farsa. Anche la sofferenza dello schiavo resta in complesso
molto in ombra nella commedia antica. Non mancano, certo, casi spo-
radici: per riferirmi ancora una volta all’età in cui il tipo non è banaliz-
zato, il Pluto di Aristofane incomincia con la lamentela dello schiavo
Carione; lo schiavo deve sopportare tutte le pazzie del suo signore: egli
non può disporre del proprio corpo, che è di chi l’ha comprato. In una
commedia di Plauto che non ha la forza farsesca delle altre, i Captivi
(200), è il sorvegliante di schiavi a sottolineare la durezza della loro
situazione, ma solo per invitarli benevolmente a rassegnarsi: Indigna
digna habenda sunt herus quae facit 97. Il brano della commedia antica
dove il mondo del lavoro emerge più crudamente con la sua pena e la
sua fame, è probabilmente il famoso coro di pescatori nella Rudens
(290 ss.). Ma in genere il rapporto padrone-schiavo è nella commedia
un rapporto di sorridente paternalismo: lo schiavo può essere un ribal-
do, non è mai un ribelle, e le sue ribalderie suscitano un sorriso di
simpatia e ammirazione; il padrone può essere, nella sua spilorceria,
poco generoso, di rado è crudele (un caso particolare è il lenone, il
padrone di meretrici, come quello dello Pseudolus). Questo non è tutto
falso: anche questo rispecchia un lato della realtà sociale antica.

  Un po’ con lo stesso tono incomincia il mercante di schiavi in Vita 17.


97

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168 Capitolo quarto

Si rifletta, del resto, che lo schiavo della commedia è in genere lo


schiavo cittadino di famiglia: la crudeltà dello schiavismo antico si
manifesta soprattutto nella campagna, nelle miniere, nelle fabbriche, e
nel mondo greco-romano tocca la sua punta feroce in Occidente alla
fine del II secolo e nel I a. C., cioè in epoca posteriore alla grande fio-
ritura della commedia. Tuttavia indubbiamente questo lato riflesso
nella commedia ne nasconde un altro oscuro e penoso: un po’ come la
tradizione bucolica per secoli e secoli ha nascosto nella cultura la chiu-
sa miseria della vita dei campi. Nella favola esopica la condizione del-
lo schiavo emerge senza veli, e anche in questa Vita mostra in parte la
sua crudezza. Xanto non è solo un padrone sciocco: è un padrone
sleale, che promette la liberazione e non mantiene, finché non vi è
costretto dalla pressione pubblica. Nella parte presamia, che incomin-
cia in campagna, in una fattoria, la miseria e l’iniquità della vita dello
schiavo sono, accanto alla sua astuzia, motivo di primo piano98; né lo
schiavo trova conforto nella solidarietà dei compagni di schiavitù, ché
anzi deve difendersi dal loro egoismo e dalle loro insidie. Al di fuori
della Vita è tramandata come di Esopo una battuta (Sent. 13 P.), che è
la satira più tagliente del paternalismo schiavistico. Un padrone mena
Esopo alla macina. Lo schiavo: «A che cosa vuoi menarmi?». Il padro-
ne: «Voglio renderti utile» (ma è impossibile rendere la sfumatura del-
la parola greca χρήσιμος, dove il senso di «utile» si confonde con quel-
lo di «buono»). E lo schiavo: «Perché non vi meni anche i tuoi figlioli?».

7. Cultura filosofica alla berlina

Più che il contrasto tra l’astuzia dello schiavo e la sciocchezza del pa-
drone interessa nella Vita il contrasto della rudimentale filosofia dello
schiavo con la filosofia del padrone, cioè con la filosofia aulica tradi-
zionale. Il brano in cui tale contrasto risalta meglio è l’episodio presso
l’ortolano (35 ss.). L’ortolano è tormentato perché non sa spiegarsi
come mai le erbe selvatiche crescano più presto di quelle piantate da
lui, e chiede la spiegazione al filosofo. Xanto non sa risolvere il proble-
ma e se la cava col rispondere: «Tutto è amministrato dalla divina
provvidenza (πρόνοια)». Esopo ride; Xanto, impermalito, chiede se

98
  Cfr. soprattutto la protesta di Esopo in Vita 13.

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Il romanzo di Esopo 169

non si faccia beffe di lui. «Non di te, ma del tuo maestro». «Maledetto,
osi bestemmiare contro tutta la Grecia! Ad Atene sono stato a scuola
di filosofi, retori, grammatici: oseresti tu salire sull’Elicona delle Muse?
Si può trovare altra soluzione al problema? I filosofi non possono in-
dagare le cose amministrate dalla divina provvidenza». Rivolgendosi
poi all’ortolano gli dice: «Gentilissimo amico, io che discuto nelle sale
di filosofia non posso discutere ora in un orto: non sarebbe dignitoso!»,
e lascia la soluzione allo schiavo. Xanto, come si vede, cerca di coprire
la propria ignoranza, e ciò lo rende più ridicolo. La spiegazione data
da Esopo, che si ritrova poi nel corpo delle favole (121 H.), è che la
natura è come una donna già sposata, che passa a seconde nozze: i figli
del primo marito li sente come figli propri, ma è matrigna dei figli che
trova già nella casa del secondo marito; la natura è madre delle erbe
selvatiche, matrigna delle erbe piantate dall’uomo (37)99. Non dico che
qui la scienza sostituisce il ricorso alla spiegazione (o non spiegazione)
filosofico-religiosa, ma evidente, efficace è l’irrisione di chi spiega tut-
to ricorrendo alla provvidenza: se non c’è la scienza, c’è un passo im-
portante verso la scienza100.
Non la filosofia aulica in particolare, ma tuttavia una superstizione
che la filosofia aulica, e specialmente la stoica, ha fatta propria, cioè la
mantica, viene derisa in un altro episodio comico (77). Xanto prima di
uscire vuol trarre un auspicio e comanda a Esopo di vedere se dinanzi
all’anticamera c’è qualche uccello di malaugurio; se invece c’è una cop-
pia di cornacchie, segno eccellente di buon augurio, chiami il padrone.
Esopo esce e per caso vede una coppia di cornacchie; va a chiamare il
padrone, ma, quando i due escono, è rimasta una cornacchia sola. Ire
di Xanto, che hanno come conseguenza la flagellazione dello schiavo.
Quando il povero diavolo è ben scuoiato, arriva per Xanto un messag-
gio che lo invita a pranzo: Esopo gli fa notare allora quale buon augu-
rio porta la coppia di cornacchie: lui, Esopo, che le ha viste tutte e due,

99
  Nel testo del Perry τὰ γὰρ ἴδια ὡς φύσει φιλεῖ, τὰ δὲ τοῦ ἀνδρὸς ξένα μισεῖ. Nel testo del
Westermann invece di ξένα c’è qέσει, interessante perché risale all’opposizione φύσις/
qέσις. Ma nessuna variante nell’apparato del Perry.
100
  Non so se nella sentenza tramandata come esopica da Diogene Laerzio I 3, 69 e Stobeo
IV 41, 61 (Sent. 9 P.) ci sia la ripetizione di un luogo comune esiodeo o l’irrisione della
provvidenza: a Chilone che gli chiede che cosa fa Zeus, Esopo risponde: «Abbassa le cose
alte, innalza quelle basse»: un futile giuoco?

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170 Capitolo quarto

è stato flagellato, Xanto, che ne ha vista una sola, ha ricevuto un invi-


to a pranzo101.
Un altro aspetto della filosofia, il vanto del dominio di sé, viene
deriso, pur senza asprezza, là dove Esopo cerca di rianimare il padrone,
che, disperato per non poter risolvere il problema del mare da bere, ha
deciso di impiccarsi (85): «Padrone, dov’è la tua filosofia? dove l’or-
goglio datoti dalla cultura? dove il tuo principio del dominio di sé?
(ποῦ σου τὸ τῆς ἐγκρατείας δόγμα;)102.
Alla satira contro la filosofia si accompagna la satira contro la reto-
rica. La parodia di un esercizio sofistico, più che un esercizio sofistico,
si deve vedere, io credo, nello scherzo sulle pietanze di lingua (51-55).
Xanto, per un banchetto da offrire ai suoi amici filosofi, raccomanda
allo schiavo di cucinare ciò che v’è di meglio nella vita; e lo schiavo
serve tutte portate di lingua. Alle proteste dei filosofi e del padrone egli
risponde che niente c’è di più utile, più dolce, più buono nella vita:
«Grazie alla lingua è nata ogni filosofia, ogni educazione. Senza la
lingua non accade nulla, non si dà, non si prende, non si compra nulla.
Grazie alla lingua si risanano gli stati, si definiscono decreti e leggi»103.
Xanto per riparare invita gli amici a un nuovo pranzo e, visto che con
i suoi ordini ottiene l’effetto contrario, ordina allo schiavo di cucinare
quel che c’è di peggio nella vita. Esopo anche questa volta serve tutte
portate di lingua; e spiega: «Che c’è di peggio che non avvenga per
colpa della lingua? Per colpa della lingua inimicizie, per colpa della
lingua complotti, insidie, battaglie, gelosie, discordie, guerre»104.

101
  Per l’irrisione della mantica nella favola esopica cfr. il mio saggio La morale della favola
esopica, p. 467 (qui, p. 265).
102
  Irrisione per lo scarso dominio di sé che Xanto mostra nel convito, in Vita 68.
103
 Cfr. Sent. 11 P.: alla domanda qual è la più forte tra le cose umane, Esopo risponde: «il
λόγος» (presso Nicolao Sofista, Rhet. Gr. III, p. 461 Spengel).
104
 Nel Dialogo di Salomone e Marcolfo Salomone, dopo un elogio delle donne (cap. 12), è
indotto a un’invettiva contro le stesse (cap. 16): siamo nello stesso genere di trovate. L’in-
dovinello del superlativo (qual è la cosa migliore? quale la peggiore? quale la più antica?
quale la più veloce?, ecc.) è dei più comuni nelle letterature arcaiche di indovinelli: cfr.
bibliografia in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, pp. 436 ss. sotto la
sigla H 630 (Riddles of the superlative), in particolare p. 440 sotto H 659.18 Quali sono le cose
più maledette?. L’autore sembra ignorare quasi sempre la Vita Aesopi. Si ricordi che Aristo-
fane, Av. 471 ss. attribuisce a Esopo una tradizione secondo cui l’allodola sarebbe il più
antico degli uccelli (la tradizione ha un riscontro in India: cfr. Ribezzo, Nuovi studi sulla
origine e la propagazione delle favole indo-elleniche, cit., pp. 63 ss.). Non paia irriverente ac-
costare a questo indovinello arcaico la ricerca della cosa più antica, dell’ἀρχή, nella filoso-

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Il romanzo di Esopo 171

Forse un’irrisione della retorica è anche nella conclusione dell’epi-


sodio del piede di porco. Xanto vuole calunniare lo schiavo e ruba un
piede del porco che lo schiavo sta cucinando. Esopo, per non trovarsi
in colpa, taglia un piede a un porco che si trova nel cortile. Ma succe-
de che Xanto, per paura che lo schiavo calunniato scappi, rimette il
piede al suo posto: così il porco vien servito con cinque zampe. Il pa-
drone impallidisce e domanda la ragione dello strano fenomeno; ma
Esopo senza scomporsi spiega che il conto torna, giacché se il porco
cotto ha cinque zampe, quello che si trova in cortile ne ha tre. La ri-
sposta non ha certo la piacevolezza di quella di Chichibio (non so se
fra le due storielle vi sia una connessione), ma è arguta la lezione che
Esopo ne ricava per Xanto: «Imparerai a non sbagliare nelle tue con-
ferenze di filosofia: coll’aggiungere parole superflue e toglierne di uti-
li si commettono errori non trascurabili»105.
Questo spirito satirico, quest’irrisione della filosofia orgogliosa e
della superstizione ben si conciliano con lo spirito dominante nella
favola esopica; contrasta, invece, col culto di Iside e con la tradizione
del miracolo in cui Esopo acquista la parola, motivi già presenti, ab-
biamo visto, nella fonte comune di GW. Tuttavia in questo racconto
della parte presamia, la cui recenziorità è indubbia e che può risalire,
eccetto l’indicazione del luogo di nascita e il ritratto, al redattore stes-
so della fonte comune, v’è un altro aspetto importante dell’anima del-
le classi subalterne: la speranza della salvezza religiosa, per cui culti
come quello bacchico e quello isiaco ebbero fortuna nelle classi subal-
terne prima che nelle altre. Con la leggenda isiaca della Vita106 ricadia-
mo dal rudimentale razionalismo esopico in quell’impasto di magia, di
superstizione, di religioni misteriche e soteriologiche di cui si alimen-
tarono i moti di plebi pastorali del sud al tempo del senatusconsultum
de Bacchanalibus e le rivolte di schiavi da Euno a Spartaco: speranze
che venivano di lontano e non trovavano alcun appoggio nella religio-

fia ionica: filosofia e cosmogonia primitiva non sono separate da un taglio netto. Indovi-
nelli dello stesso tipo in Sent. 11-12 P.
105
  Una sferzata più chiara contro la retorica in Sent. 22 a P. (da Massimo Confessore): i
retori sono paragonati a rane: queste gracidano nell’acqua, quelli davanti alla clessidra
(sentenza attribuita a diversi personaggi).
106
  Un’analogia con le guarigioni miracolose a opera di Asclepio in Epidauro in Zeitz,
Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 227-228. Cfr. anche Thompson, Motif-Index
of Folk-Literature, cit., vol. 3, p. 243 sotto la sigla F 954.

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172 Capitolo quarto

ne romana e italica, nella religione dei dominatori. Ripeto, però, que-


sto è un altro aspetto essenziale della mentalità delle classi subalterne
antiche107.

8. L’individualismo rassegnato di una mentalità cinica

Un altro aspetto essenziale di questa mentalità (ma un aspetto sensibile,


sia pure marginalmente, anche nelle favole esopiche) è nell’esasperazio-
ne della tendenza a richiudersi in sé stesso nell’indifferenza e nel disprez-
zo verso il mondo circostante, nell’orgoglio della saggezza fondato su un
esasperato pessimismo circa la capacità dell’uomo di raggiungere la virtù:
insomma in quel complesso più psicologico che dottrinale per cui la
letteratura esopica confluisce col cinismo108. Nella Vita quest’aspetto re-
sta tanto marginale quanto nella favola; e ancora più evidente è la defor-
mazione del nucleo fondamentale di quella filosofia.
Che alcuni episodi della Vita Aesopi siano variazioni di episodi della
vita di Diogene, è stato già visto109. Xanto comanda allo schiavo di an-
dare a vedere se nelle terme ci sono molti uomini. Esopo va e vede una
folla entrare al bagno. Davanti alla porta c’è un sasso: tutti v’inciampano
e lanciano maledizioni; finalmente uno, dopo aver lanciato anche lui la
maledizione contro chi ha messo lì il sasso, lo mette da un lato: Esopo
riferisce al padrone di avere incontrato un solo «uomo» (il che, natural-
mente, gli fa credere che il bagno sia libero) (Vita 65-66). Tutti ricorda-
no il celebre episodio di Diogene che in pieno giorno con la lampada in
mano va cercando l’uomo (Diogene Laerzio VI 2, 41: si sa che l’episodio
si trova applicato a Esopo in Fedro III 19); meno noto è l’altro episodio
su cui questo della Vita è ricalcato: a Diogene che esce dal bagno uno
domanda se ci sono molti uomini: «C’è molta folla – risponde Dioge-
ne –, uomini nessuno» (Diogene Laerzio VI 2, 40)110. È costruito analo-
gamente un episodio proveniente da una redazione in certi punti più

107
  Cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 531-532 (qui, pp. 326-327).
108
  Ivi, pp. 516 ss. (qui, pp. 312 ss.). La confluenza, come ho creduto di dimostrare, è più
superficiale che sostanziale.
109
  Cfr., per esempio, Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 230 ss.
110
  Nella vita di Diogene opposizione tra «folla» e «uomini» ancora in Diogene Laerzio VI
2, 60; sui veri «uomini» ancora VI 2, 48.

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Il romanzo di Esopo 173

ricca di quella di G e W111. Xanto organizza uno dei suoi soliti banchet-
ti, ma raccomanda a Esopo di lasciar entrare solo i «sapienti». Lo schia-
vo pone a ognuno la domanda: «che cosa dimena il cane?». Tutti si
credono insultati coll’appellativo «cane», in quanto si ritengono presi per
cinici, per filosofi straccioni, e si rifiutano di entrare; uno solo risponde:
«la coda» e vien lasciato entrare (Vita 77 b). L’episodio vuol essere un’al-
tra irrisione della boria e della sciocchezza dei retori e filosofi.
Una parentela col cinismo, in particolare con il suo disprezzo per la
famiglia, la nobiltà dell’origine, con il suo cosmopolitismo non è esa-
gerato avvertire nel dialogo tra Xanto ed Esopo che precede la compe-
ra dello schiavo. «Donde provieni?». «Dalla carne». «Non dico questo,
ma dove fosti generato». «Nel ventre di mia madre». «Maledetto! Non
ti chiedo questo, ma in quale luogo fosti generato». «Non so se nel
letto o nel triclinio: mia madre non me lo ha detto»112. Le risposte di
Esopo sono messe di proposito in contrasto con quelle pretenziose dei
due schiavi bellissimi che gli sono stati collocati a fianco. Del resto
tutta questa scena della vendita di Esopo (Vita 22-27) presenta analogia
con La vendita di Diogene (come schiavo), un opuscolo perduto di
Menippo (Diogene Laerzio VI 2, 29)113: poiché la scena è nella parte
presamia, cioè in una parte recente, vi sono pochi dubbi sulla priorità
della tradizione intorno a Diogene.
Per l’affinità col cinismo va segnalato, secondo me, anche un lun-
go episodio della parte samia, la ricerca del perfetto ἀπερίεργος (Vita
56-64). Chi è il perfetto ἀπερίεργος? È l’uomo che ha raggiunto l’in-
differenza completa a ciò che si svolge intorno a lui, che ha ucciso
anche la sua curiosità, sino a non chiedere ragione assolutamente di
niente. Xanto, in cerca di pretesti per staffilare Esopo, gli impone
di trovare un tale tipo. Il primo tentativo di Esopo fallisce (57-58, solo

111
  Le tracce di questa redazione restano in tre codici della redazione W, precisamente S
(Mosquensis 436, XIV sec.), B (British Museum Add. 17015, XV sec.), P (Vaticanus Graecus
269, XV sec.): su questo ramo della tradizione cfr. Perry, Studies, cit., pp. 35 ss., 174 ss.
112
  Somiglianze notevoli, ma non decisive, con un dialogo tra il re e Bertoldo (cap. 4);
meno forti le analogie tra il passo della Vita e quello del Dialogo di Salomone e Marcolfo
(2 b-c) a cui corrisponde il passo del Bertoldo in questione.
113
 Cfr. Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 230-231. Risaltava nella vendi-
ta di Diogene il contrasto tra la condizione servile e il valore reale. Forse un’analogia c’è
anche con altri punti della Vita. Diogene dice al banditore: «Annunzia se qualcuno vuol
comprarsi un padrone»; Xanto più volte (per esempio, Vita 28) si lamenta di essersi com-
prato con Esopo un padrone.

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174 Capitolo quarto

in W). Egli crede di aver trovato il tipo che gli conviene in un uomo
che se ne sta tranquillamente seduto a leggere mentre sulla piazza si
svolge una lite. Ma costui, invitato in casa di Xanto, non sa tacere né
quando viene servito per primo (egli obietta che primo dovrebbe esse-
re servito Xanto, poi la signora, poi gli amici) né quando Xanto accusa
ingiustamente questo o quel servo di aver preparato male questo o quel
cibo. Ma la seconda ricerca di Esopo ha pieno successo (59-64): trova
il suo tipo in un campagnolo «rozzo all’aspetto, ma urbano nei modi»,
che mena un carretto carico di legna e conversa con la sua bestia facen-
do i conti di quel che potrà ricavare dalla vendita del carico. Il campa-
gnolo resiste brillantemente a tutte le prove; non si meraviglia mini-
mamente che Xanto gli faccia lavare i piedi dalla moglie (una prova a
cui la signora si assoggetta pur di vincere Esopo e farlo staffilare), non
protesta contro tutte le accuse false che Xanto lancia contro i servi per
le pietanze. L’ultima prova è addirittura un trionfo per il contadino:
quando la colpa per il dolce mal preparato ricade sulla moglie stessa di
Xanto e il filosofo per bruciare viva la moglie fa innalzare una pira, il
contadino non solo non si scompone e continua a versarsi da bere, ma,
rivolgendosi a Xanto, propone: «Signore, giacché hai giudicato così,
aspetta per favore un momentino: corro in campagna, piglio anche mia
moglie e le bruciamo tutte e due insieme».
Mi sono soffermato brevemente su quest’episodio, che nella Vita ha
uno sviluppo considerevole, giacché l’ideale dell’ἀπερίεργος è, per così
dire, la deformazione volgare dell’ideale dell’αὐτάρκεια: si perde ciò
che dell’αὐτάρκεια è essenziale, cioè la fede orgogliosa nella propria
libertà interiore che da nessuna circostanza esterna, da nessun muta-
mento per quanto fortuito può essere violata, ci si riduce a un’aspira-
zione puramente utilitaristica al quieto vivere, alla tranquillità senza
fastidi, al «farsi i fatti propri»114: ma c’è un comune particolare fondo di
ἀπάqεια che lega i due atteggiamenti115: orgoglio della propria autosuf-

114
  Infatti il contrario del περίεργος è (Vita 55) l’ἰδιοπράγμων, colui che bada solo ai fatti
propri. Dopo l’episodio delle pietanze a base di lingua (51-55) uno dei filosofi amici di
Xanto inveisce contro Esopo, ed Esopo lo accusa di essere un περίεργος: da ciò l’ordine
di Xanto di trovare il perfetto ἀπερίεργος. Forse ambedue gli episodi (quindi da 51 a 64)
sono frutto di un’aggiunta tardiva.
115
  Meno importante, ma non trascurabile, mi pare il legame con motivi folkloristici come
quelli elencati da Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, pp. 509-510 sotto
la sigla H 1554 (Test of curiosity).

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Il romanzo di Esopo 175

ficienza e gelosa indifferenza per i fatti altrui sono come due toni diver-
si, a due gradi molto diversi di cultura, di un medesimo impotente e in
fondo rassegnato individualismo. Non è un caso che Esopo trovi
l’ἀπερίεργος perfetto in un contadino piuttosto che in un uomo di città:
l’uomo di città è in genere curioso e loquace, l’uomo di campagna, come
già sappiamo da Esiodo, è tutto chiuso nella sua economia domestica,
tutto preso dalla preoccupazione di crearsi un minimo di stabilità eco-
nomica, di alzare un muro contro la miseria sempre incombente. Su
questo terreno non poteva nascere una solidarietà fra gli oppressi: questo
sentimento manca del tutto nella Vita e quasi del tutto nelle favole: esso
meglio poteva nascere e fiorire, anche se con ben poche conseguenze
pratiche per l’ordinamento sociale, nel terreno religioso.

9. Misoginia: la donna e le angustie di un’economia precaria

In chiara armonia sia con la favolistica esopica sia col cinismo è un’altra
ispirazione dominante della Vita, cioè l’ispirazione misogina116. Subito
dopo Esopo e Xanto il personaggio più in vista è la moglie di Xanto.
Quando il marito parte per il mercato, lo prega di comprarle uno schia-
vetto bello e lindo (22). Xanto torna invece con uno spauracchio come
Esopo: sfuriata della signora, che minaccia di tornarsene dai genitori
prendendosi la sua dote. E qui Esopo smaschera la voglia non troppo
segreta della signora: ella vuole uno schiavo bello che l’accompagni al
bagno, che prenda i vestiti quand’ella si spoglia, che al ritorno dal bagno
le metta il cappello e la calzi, che scherzi con lei e l’accenda con gli occhi
e poi col tatto. Mutevole e perfida, la donna è il male più terribile: veri-
tà poco peregrina che viene nobilitata con la citazione di versi famosi di
Euripide (32). A Xanto, che è dominato dalla moglie e crede nel suo
amore, Esopo dimostra che la sua cagna gli vuole molto più bene della
moglie (44-46 col seguito in 49-50)117. Vanitosa, sensuale, impudente118,

116
  In qualche misura l’ispirazione misogina della tradizione esopica partecipa del pessimi-
smo e realismo della favola: cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 526-527 (qui,
pp. 321-322).
117
  Una certa somiglianza, ma non tale da assicurare la dipendenza, con una favola medie-
vale (Herv. II, p. 315, n. 47 = 719 P.). [Cfr. infra, La morale della favola esopica, p. 292, nota 69].
118
  Per l’impudenza cfr. anche l’episodio buffonesco e osceno di Vita 77 a conservato solo in
SBP. Un latinismo come κῶλος (non il latinismo in sé, ma il suo particolare solecismo) mi

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176 Capitolo quarto

la moglie di Xanto tocca anche una punta di perversione; la sua libidine


bestiale vince la ripugnanza fisica ispiratale da Esopo: la donna è sedot-
ta dalla particolare potenza virile dello schiavo e la mette a dura prova,
sicché alla fine lo schiavo, per guadagnare la scommessa, deve ricorrere
ancora una volta alla sua furbizia (W 75-76)119. La padrona ha intorno a
sé un degno coro di ancelle: una delle scene più comiche e più vivaci è
quella in cui le ancelle, prima di vedere il compagno nuovo arrivato,
aspettandosi l’efebo dei loro sogni, se lo contendono fra loro (29-30).
Non oserei escludere che il personaggio della moglie di Xanto fos-
se già nel nucleo antico: il misoginismo nella letteratura greca è antico
almeno quanto Esiodo ed esso nella mentalità esopica è vivo per la
stessa ragione che gli dà vita nel mondo esiodeo, cioè per l’angustia di
un mondo di economia tenue o addirittura precaria, quasi sempre
chiuso alla bellezza e al godimento, giacché il problema del sopravvi-
vere è ancora il problema dominante. Ma forte è il sospetto che le
novelle piccanti della parte samia siano aggiunte più o meno recenti.
Discorso diverso è da fare per favole di tono analogo nella parte delfi-
ca. Wiechers120 ha dimostrato con una certa probabilità che la novel-
letta di Vita 131, quella della ragazza che si fa mettere il senno dal
contadino, presuppone il giuoco di parole ὄνος - νόος, quindi la forma
ionica di νοῦς. Si sa che nella parte delfica (129) compare anche una
novelletta coincidente fino a un certo punto con quella famosa della
matrona di Efeso. Nella Vita la vedova piangente nel sepolcro del ma-
rito si lascia consolare da un bifolco, che finge di piangere anche lui per
la perdita della moglie: mentre si consolano reciprocamente, i buoi
vengono rubati, e allora il bifolco piange, questa volta sul serio. La
novella della matrona di Efeso ha un finale più inaspettato e più acre.
Decidere sulla priorità è difficile; comunque la stesura nella Vita non
contiene nessun indizio di recenziorità121.

sembra indicare origine occidentale (il che dovrebbe valere per la redazione da cui SBP
ricavano le loro aggiunte).
119
  L’episodio piccante manca nella redazione G: qualche mano pia e pudica deve avere
strappato un foglio in uno dei codici progenitori di G. È noto che, per non so quali trami-
ti, il racconto è giunto, rimanipolato, in uno dei Contes drolatiques di Balzac (Comment feut
basty le chasteau d’Azay).
120
  Aesop in Delphi, cit., p. 9, nota 5.
121
  Come c’era da aspettarsi, il misoginismo compare in sentenze attribuite tardi a Esopo
(e già a Diogene e ad altri personaggi): una volta Esopo vede una donna impiccata a un

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Il romanzo di Esopo 177

10. La Vita come letteratura amena

Con la novellistica piccante siamo già al limite oltre il quale la letteratu-


ra esopica perde il suo vigore di analisi cruda della realtà e diviene lette-
ratura amena, letteratura d’intrattenimento. Ben inteso, il riso è luce
essenziale dell’arte esopica: ma è luce violenta, tagliente, che scopre la
realtà celata; si confonde con la gioia dell’intelligenza che lacera le mi-
stificazioni122. Il pericolo di scadere in semplice letteratura amena dev’es-
sere stato presente sin dagli inizi: la favola si presentava spesso non come
uno sviluppo narrativo da cui si dovesse cavare una morale, ma come
l’occasione narrativa per un detto arguto, fulminante; con questo si re-
stava ancora nella tendenza alla scoperta della realtà umana, ma l’inte-
resse per il finale arguto poteva arrivare facilmente al gusto gratuito
dall’inaspettato farsesco. Tra il pubblico popolare ateniese del V secolo
certamente le favole esopiche erano narrate insieme con aneddoti per
ridere e insieme con racconti destinati a svegliare solo il diletto dell’im-
maginazione; e favole esopiche insieme con barzellette d’ogni genere
avranno narrate al pubblico nei loro spettacoli di varietà i γελωτοποιοί123.
Comunque la favolistica lascia al riso gratuito (e a volte insulso) una
parte veramente marginale. Non si può dire lo stesso della Vita: nella
redazione che possiamo ricostruire da GW essa vuol essere soprattutto
un libro popolare ameno: anche là dove noi abbiamo scorto le tracce
dell’analisi esopica, l’autore vedeva probabilmente solo delle trovate in-
gegnose e bizzarre. Che le trovate siano sempre spiritose, nessuno ose-
rebbe affermare. Certo è spiritosa la risposta che Esopo dà quando i fi-
losofi gli chiedono come potrebbe avvenire tra gli uomini il più grande
scombussolamento: «Se i morti levatisi richiedessero i propri beni» (Vita
47); qui resta non poco dello spirito esopico: il mondo è pieno di iniqui-
tà sconosciute, perché i morti non possono reclamare. Nell’episodio del-
la scoperta del tesoro si può sentire (ma senza certezza) la parodia di
fiabe popolari: il tesoro viene scoperto da Esopo decifrando un’iscrizio-

albero; si ferma ammirato ed esclama: «Portassero tutti gli alberi così bei frutti!» (Sent. 20
P. e apparato). Contro i giovani effeminati e ambigui cfr. Sent. 15 P.
122
  Su questo aspetto cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 522 ss. (qui, pp. 317 ss.).
123
 Vivacemente illuminata è sotto questo aspetto la vita ateniese del V secolo da
Trenkner, The Greek Novella in the Classical Period, cit., pp. 16 ss.

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178 Capitolo quarto

ne in cui sono date solo le iniziali delle parole, ma, per spaventare
Xanto che vuol pigliarsi tutto lui, cambia un paio di volte l’interpreta-
zione (78-80): la magia di Esopo non ha dommi! La storiella eziologi-
ca sul principe che emise insieme con le feci il proprio cervello (67) è
di una fantasia bizzarra e può essere gustata come una parodia delle
ricerche eziologiche dei filosofi. L’espediente con cui Esopo, in un
viaggio con altri schiavi da un mercato all’altro, sceglie un carico che
sembra dapprima il più pesante, ma si rivela poi il meno fastidioso, dà
luogo a una narrazione alquanto festosa (17-19), ma la forza comica
rimane stentata; e ben altra arte ci vorrebbe per far digerire l’episodio
iniziale, in cui Esopo, ancora muto, accusato perfidamente da due
compagni di schiavitù di aver mangiato dei fichi, riesce a indurre il
padrone a far bere loro dell’acqua calda e farli vomitare (2-3). Non
bisogna farsi della letteratura popolare un idolo sino a negare ciò ch’es-
sa ha d’insulso: nella Vita resta poco sapida la trovata sul piede di
porco (42-43), ma il colmo dell’insulsaggine è toccato da quello scher-
zo che Esopo giuoca al padrone e agli invitati, quando Xanto gli ordi-
na di cuocere φακόν (cioè lenticchie, ma il greco e il latino possono
usare in questo caso il singolare) ed Esopo, fingendo di voler interpre-
tare alla lettera, cuoce e serve una lenticchia sola (39-41)124. Esopo vuol
dare dei punti alla pedanteria degli uomini di scuola? Non pare che
l’autore persegua un tale intento; comunque anche la pedanteria va
combattuta con armi ben più efficaci. Quanto più insipida ancora rie-
sca la parte babilonese, ho già avuto occasione di dire; il redattore
della Vita ha avuto il merito di risparmiarci lunghe filze di precetti, ma
nella breve predica riesce già abbastanza pesante; a confronto riesce più
arguta, nella parte samia (68), la spiegazione sui tre effetti del vino.
Neppure nelle novelle del Boccaccio tutte le trovate sono spiritose,
tutti i detti sono arguti; ma questo diventa trascurabile, quando c’è la
stoffa del narratore. Purtroppo proprio questa stoffa manca nella Vita.
Ci sono qui tipi preconcetti, non personaggi creati, crescenti col rac-
conto stesso; non sono evocati ambienti. In quest’opera composita le
parti si possono togliere e aggiungere a piacere, senza che il resto ne
soffra: il che è proprio delle opere che non sono corpi organici, unita-

  Per motivi simili nel folklore cfr. la bibliografia data in Thompson, Motif-Index of Folk-
124

Literature, cit., vol. 4, pp. 215 ss. sotto la sigla J 2461.1; p. 218 sotto la sigla J 2469.

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Il romanzo di Esopo 179

ri. Solo nella parte delfica affiora un personaggio di Esopo, carico di


amarezza, in fondo alla quale resta tuttavia il piacere di guardare nel
cuore delle cose e di gettare la verità in faccia agli uomini, e si profila
il ritmo di un’azione drammatica: ma sono ombre, dovute probabil-
mente a mani precedenti quella del redattore.
Anche i più fanatici credenti nella potenza ingenua dell’arte popola-
re si sentirebbero imbarazzati di fronte a questa Vita: la popolarità della
lingua nella redazione G è interessante, ma molto più per il linguista che
per il critico. Esopo è l’εὑρεσίλογος, l’escogitatore di battute spiritose, e
quest’interesse impedisce alla fantasia narrativa di crescere: così il rac-
conto resta senza potenza fantastica e senza potenza comica. Pur di in-
trodurre una trovata spiritosa il redattore rompe anche quella coerenza
prefabbricata che hanno i personaggi: in un’occasione (28) è Xanto, il
padrone sciocco, a spiegare perché, durante una marcia sotto la canicola,
egli soddisfi un suo minor bisogno naturale senza fermarsi (per non
farsi scottare i piedi dalla terra, per non sentire il puzzo, per non farsi
bruciare la testa dal sole). Chi è rimasto stuccato dalla retorica dei ro-
manzieri greci apprezzerà la sobrietà del racconto: effettivamente qui le
sbavature retoriche (se si fa eccezione per il brano di G sullo scenario
campestre in cui si è addormentato Esopo) mancano; tuttavia non ogni
esilità, ma solo la semplicità robusta e succosa, che presuppone molto
travaglio e molte rinunzie, è arte notevole. Chiederemo dunque a questa
Vita non un’opera narrativa interessante, ma i resti non trascurabili di
una grande tradizione di pensiero popolare.

Appendice  Esopo a Delfi


Questa breve ricerca125 è un’interpretazione dettagliata e sottile, guidata pre-
valentemente da interesse per la storia delle religioni, dei capitoli finali della
Vita Aesopi, quelli, cioè, che narrano il soggiorno di Esopo in Delfi e la sua
morte a opera degli abitanti del luogo. Nelle prime pagine viene confermato
con una dimostrazione esauriente che questa parte della Vita (nei suoi ele-
menti narrativi, s’intende, non nella stesura) appartiene al nucleo primitivo,
al Volksbuch di Esopo già esistente nel V secolo a. C. Già queste prime pagine,
tuttavia, danno l’impressione che il Wiechers voglia dimostrare un po’ trop-

 [Anton Wiechers, Aesop in Delphi, cit. supra, p. 132, nota 1].


125

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180 Capitolo quarto

po. Egli non sembra nutrire alcun dubbio sull’esistenza, già nel V secolo, di
un Volksbuch scritto su Esopo: ciò è possibile, ma tutt’altro che certo. Comun-
que nel V secolo, orale o scritta, una biografia di Esopo esisteva, e nel raccon-
to erano incastrate delle favole, che si fingevano narrate ciascuna in una de-
terminata occasione, a un determinato proposito. In qualche caso siamo più
che sicuri: la notissima favola dell’aquila, della lepre e dello scarafaggio (Vita
135-139 = 3 H.) già da Aristofane (Vesp. 1448) era conosciuta come raccontata
da Esopo ai Delfi prima della morte; ma si può essere altrettanto sicuri in
altri casi? Nonostante la certezza del Wiechers (p. 14) io ne dubito. A favore
dell’antichità si può aggiungere, certo, che le inserzioni di favole, frequenti
nell’ultima parte della Vita, cioè nella parte delfica, sono molto più rare nel
resto; ma si ottiene tutt’al più una qualche probabilità.
Anche altri elementi biografici tramandati al di fuori della Vita il Wie-
chers tende ad ancorare a un’antichità remota: per esempio, a proposito della
sferzata di Esopo contro i Delfi trasmessaci da Schol. in Aristoph. Vesp. 1446
egli argomenta (pp. 17-18) che essa presuppone le condizioni del santuario
anteriori alla prima guerra sacra, cioè al 590. Esopo bolla i Delfi perché non
hanno terra da cui trarre il nutrimento lavorando, ma aspettano il nutrimen-
to dal dio. Ora prima del 590 il santuario non aveva che un po’ di terreno
roccioso: solo dopo la prima guerra sacra e la conquista di Crisa la fertile
pianura circostante, fino al mare, fu consacrata al dio. Dopo il 590, argomen-
ta il Wiechers, quando era chiaro a tutti che la pianura consacrata al dio
nutriva i Delfi, l’accusa di Esopo avrebbe sfondato un uscio aperto: dunque
essa presuppone le condizioni anteriori al 590. Quanti resteranno convinti da
un’argomentazione così sottile?
Nel resto del primo capitolo (pp. 18 ss.) il Wiechers tenta di mettere in
rilievo una serie di analogie tra la parte delfica della Vita e la tradizione sulla
prima guerra sacra: simile sarebbe il modo in cui vennero decise dagli Amfi-
zioni l’inchiesta contro i Crisei e quella contro Esopo (p. 21), simili le accuse
dei Delfi contro i Crisei e quelle di Esopo contro i Delfi (pp. 21-22), simili la
maledizione degli Amfizioni contro la terra dei Crisei e quella di Esopo con-
tro i Delfi (p. 24), siccità e profluvium ventris colpiscono i Crisei, una peste
colpisce i Delfi (pp. 23-24), e via di questo passo. Conclusione: la Vita rispec-
chia gli avvenimenti della prima guerra sacra; la tradizione, però, avrebbe
confuso e messo i Delfi al posto dei Crisei. Ma le analogie sono per lo più
forzate; quando effettivamente sussistono, rientrano in motivi tra i più comu-
ni del folklore: che cosa di più comune della peste inflitta da un dio per pu-
nire l’empietà di qualche persona o di qualche popolo? Il motivo non ricorre-
va, per esempio, già nel primo dell’Iliade? Questa è la parte più debole del
libretto del Wiechers.

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Il romanzo di Esopo 181

Nel secondo capitolo il Wiechers cerca di far rientrare la condanna a mor-


te di Esopo e l’esecuzione nel rito del φαρμακός, in quel rito, cioè, partico-
larmente diffuso intorno al Mediterraneo orientale, che consiste nell’immo-
lare un individuo, per lo più lapidandolo o precipitandolo da una rupe, per
purificare la comunità. Anche qui la dimostrazione si fonda su una serie di
analogie: la vittima del rito è di genere ignobile e di aspetto ripugnante, ap-
punto come Esopo (p. 25; volentieri seguo il Wiechers, p. 32, nel far risalire
già al V secolo il ritratto di Esopo deforme); Esopo, come a volte il φαρμακός,
viene precipitato da una rupe (p. 36); la condanna a morte deriva anche per
Esopo da una decisione della comunità; sia il φαρμακός sia Esopo sono im-
molati ad Apollo; particolarmente importante è poi per il Wiechers una tra-
dizione riferita da Istro (FGrHist 344 F 50), secondo cui il nome φαρμακός,
cioè il nome della vittima sacrificata ad Apollo nelle feste Targelie, era in
origine il nome proprio di un povero diavolo che, avendo rubato delle coppe
sacre ad Apollo, fu preso e lapidato dagli uomini di Achille: ora Esopo fu
appunto calunniosamente incolpato del furto di coppe preziose di Apollo
(pp. 33, 36). Ma Esopo è vittima innocente: non è questa una grossa difficol-
tà? L’autore se ne rende conto, ma non si spaventa, e molto ingegnosamente
spiega questa conformazione della leggenda attraverso un complesso di psi-
cologia religiosa che chiama dell’«Unschuldkomödie», un complesso radicato
nell’ambiguità stessa del sacrificio, che, pur sentito come necessaria espiazio-
ne, non cessa tuttavia di esser sentito come un delitto. Anche se si accettasse
di seguire il Wiechers per questa via infida, resterebbe la difficoltà che nien-
te nella morte di Esopo fa pensare a una espiazione, come succede nei casi
analoghi richiamati dall’autore: ora il rito del φαρμακός si distingue per il suo
carattere espiatorio e purificatorio (il legame essenziale con le Targelie lo
indica come un rito purificatorio che prepara il raccolto), oltre che per il
modo incruento della morte (la vittima è lapidata o precipitata da una rupe o
in mare o in un fiume o seppellita viva, ecc., non trafitta o sgozzata).
I tratti della leggenda in cui il Wiechers trova analogie col rito del
φαρμακός sono suscettibili di spiegazione diversa: la bruttezza di Esopo è
semplicemente la bruttezza dello schiavo e del plebeo (era ovvio accostare
Esopo a Tersite)126 e il suo senso è nel contrasto con l’interiore saggezza (que-
sto è un motivo dominante della Vita e di tutta la letteratura esopica); la
trama per far ricadere su Esopo l’accusa di furto e il ritrovamento degli og-
getti preziosi nel suo bagaglio rientrano in un notissimo motivo del folklore,
reso famoso dalla leggenda biblica di Giuseppe; il modo dell’esecuzione as-

  Vero è che, come ricorda il Wiechers (p. 44, nota 2), anche in Tersite si è sospettato si
126

celasse un φαρμακός ma quest’interpretazione dell’Usener ha fondamenta labili.

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182 Capitolo quarto

somiglia certamente al rito del φαρμακός, ma si lapida e si precipita da rupi


anche al di fuori di questo rito: se manca, ripeto, il carattere di rito espiatorio
per la comunità, è azzardato parlare di φαρμακός. Comunque si può concedere
che il modo dell’esecuzione fosse influenzato da un rito di φαρμακός esistente
a Delfi: su questa esistenza, si badi, non abbiamo nessuna testimonianza, ma,
trattandosi di un rito particolarmente legato alle Targelie apollinee, l’ipotesi si
può accettare; da questo a supporre che il racconto della morte di Esopo fosse
un αἴτιον costruito per spiegare il rito del φαρμακός, ci corre molto.
Non più che un’influenza del rito del φαρμακός sul modo dell’uccisione si
può concedere a proposito della morte di Neottolemo, a cui il Wiechers dedica
il terzo capitolo. Anche questa leggenda sarebbe, secondo l’autore, un αἴτιον
costruito per spiegare il rito del φαρμακός; anzi la tradizione sulla morte di
Esopo e quella sulla morte di Neottolemo si sarebbero influenzate reciproca-
mente (p. 47). Nel caso di Neottolemo si tenga però presente che di lapidazio-
ne parla solo Euripide (Andr. 1097, 1127-1128) e che questo non basta a rendere
sicura l’esistenza di una tradizione popolare a proposito. Ci si chiede infine
perché verso la fine del VI secolo o nel V ci si affannasse tanto a giustificare il
rito del φαρμακός quando il Wiechers (p. 49) ritiene probabile che a Delfi esso
venisse abolito «vielleicht bei der Neuordnung unmittelbar nach dem heiligen
Krieg», cioè, se ben capisco, subito dopo la prima guerra sacra.
Questa ricerca ingegnosa non dà, dunque, risultati probabili. Ma da essa
si vede anche che il Wiechers è studioso di notevole acume, oltre che di larga
dottrina letteraria e folkloristica. Ciò si manifesta ancora meglio in alcune
interpretazioni e discussioni del testo della Vita: acuta, per esempio, e quasi
certa è l’interpretazione di Vita 131, dove la favola non si capisce senza sup-
porre un giuoco tra ὄνος e νόος e senza presupporre, quindi, la forma ionica
per νοῦς (cfr. p. 9, nota 5); una congettura non certa, ma interessante è anche
in Vita 136 G ἐπιπτὰς πάλιν per ἐπιστὰς πάλιν (cfr. p. 11, nota 11). Se le rico-
struzioni sono troppo labili, lo si deve anche a un andazzo che hanno preso,
almeno da un secolo in qua, gli studi di storia delle religioni e di folklore: il
rigore logico manca troppo spesso, si connettono fenomeni lontani per ras-
somiglianze vaghe, si sospettano dappertutto relitti di credenze e riti remo-
tissimi. La storia letteraria ha tratto da quegli studi non pochi vantaggi, ma
sarebbe tempo di procedere con più cautela e rigore. Per quanto riguar-
da la morte di Esopo, il problema importante, sia in sé sia per il senso della
letteratura favolistica, è quello del contrasto con i sacerdoti di Delfi e (nel-
la misura in cui se ne può parlare) con la religione apollinea: se i sacerdoti del
tempio lo abbiano ammazzato come φαρμακός o no, è problema non privo
d’interesse, ma tuttavia marginale.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 183

Capitolo 5

Fedro, la voce amara della favola esopica1

1. Tracce biografiche

Fedro è uno dei tanti scrittori antichi la cui biografia è molto esile. Nel
suo caso ciò si spiega più facilmente che in altri: egli coltivava un genere
letterario umile che né gli uomini del mestiere, i docti, les gens de lettres,
né il pubblico colto prendevano sul serio o a cui si rivolgevano tutt’al
più come a mezzo d’intrattenimento. Dai letterati contemporanei fu
ignorato: è ben noto che Seneca, scrivendo nel 43 o 44 d. C., parlava
della favolistica esopica come di un genere non ancora tentato dai Ro-
mani (Cons. ad Pol. 8, 27)2; lo ignorava ancora probabilmente Quintilia-
no (I 9, 2) anche se già lo conosceva e lo gustava il contemporaneo
Marziale (III 20, 5). I pochi elementi biografici vanno ricavati dall’opera
stessa e dalla tradizione manoscritta (inscriptio dei libri primo e terzo,
subscriptio del terzo e del quinto). Oggi essi vanno isolati da una conge-
rie enorme di ipotesi e di congetture a volte acute, ma fragili3, a volte
costruite con un giuoco d’incredibile futilità4. Ciò che resta di certo o di
probabile è importante per capire l’opera. La tradizione esopica non ri-

1
  [Introduzione a Fedro, Favole, versione di Agostino Richelmy, Einaudi, Torino 1968,
pp. vii-lxviii].
2
  La spiegazione più semplice e più convincente è pur sempre che egli non conoscesse
l’opera di Fedro (o la parte di essa già pubblicata): ciò s’accorda pienamente sia con le la-
mentele di Fedro sul proprio insuccesso (sulle quali tornerò in seguito) sia col silenzio, più
tardi, di Quintiliano. Non c’è nessuna ragione di supporre silenzio deliberato; e nemmeno
si può dedurre che, quando Seneca scriveva, Fedro non avesse ancora pubblicato nulla di
ciò che aveva scritto (la deduzione è, per esempio, di L. Havet nella sua celebre edizione
Hachette, Paris 1895, pp. 243 ss.).
3
  Mi riferisco soprattutto a Havet, ed. cit., pp. 259 ss.
4
  Tuttavia non discuterò, perché non mi pare che ne valga la pena, né la costruzione
mirabolante di L. Herrmann, Phèdre et ses fables, Leiden 1930, né quella insulsa di A. De
Lorenzi, Fedro, Firenze 1955. Purtroppo non ci sono ineptiae che non trovino qualche
credito nella dabbenaggine o nel giuoco ozioso di altri: cfr. A. Maiuri, Fedro a Miseno, «La
parola del passato», vol. 11, 1956, pp. 32-37, e persino B. E. Perry, edizione di Babrio e Fe-
dro, London 1965, p. lxxxi.

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184 Capitolo quinto

vive in terra latina per opera di un letterato qualsiasi, ma di un uomo che


le condizioni di vita, lo stato sociale, le ingiustizie sopportate, le amarez-
ze sofferte rendono particolarmente predisposto a far propria quella mo-
rale, a usarla come metro nella sua esperienza quotidiana, a sentirvi non
tanto un’interpretazione del mondo in astratto quanto un’interpretazio-
ne della vita ch’egli vive e soffre. Forse non è esagerato dire che la mo-
rale esopica è per Fedro qualche cosa di meno astratto e libresco che non
la morale epicurea e stoica per Orazio, il quale già dà a tutta la sua cul-
tura filosofica il sapore della vita. Il sapore vitale della morale esopica di
Fedro (che richiama quello di Archiloco e di Callimaco, ma non si ritro-
va certo nelle raccolte esopiche greche a noi conservate, compresa quel-
la di Babrio) è ben comprensibile in una tradizione latina, tra Lucrezio
e Orazio da un lato, Seneca dall’altro: anche in questo lo schiavo stranie-
ro è veramente latinizzato.
Inscriptiones e subscriptiones, che ci danno il suo nome5, ce lo indica-
no anche come liberto di Augusto. La schiavitù, che non per caso ac-
comuna il primo elaboratore sistematico della favola esopica latina con
l’auctor celebrato di quella greca, è il primo dato biografico essenziale
per capire l’opera: vedremo presto che la favola è, secondo Fedro, il
simbolo necessario per esprimere la verità scoperta e denunziata dagli
schiavi. Più o meno direttamente egli ha conosciuto le miserie, le sof-
ferenze, le ingiustizie che la schiavitù comporta; e ha imparato la ras-
segnazione, giacché per lo schiavo non c’è nessuna alternativa miglio-
re. Egli ha rielaborato (App. 20) la favola agghiacciante dello schiavo
fuggitivo e di Esopo: allo schiavo che è scappato per i maltrattamenti
con cui sono ricompensati il suo lavoro e la sua fedeltà, il saggio ri-
sponde: «Ora che non hai fatto niente di male, provi questi bei vantag-

5
  La forma del nome al nominativo non è ricavabile con sicurezza: la tradizione manoscrit-
ta ci dà il genitivo Phaedri, che può presupporre sia Phaeder sia Phaedrus (la forma Phaedrus
è attestata, per il nome del poeta, solo da Aviano nel proemio alle sue favole). Non credo di
poter riprendere con frutto la lunga discussione. Carisio (22, 17 ss. Barw.), che difende per i
nomi di questo tipo provenienti dal greco il nominativo in -er, cita la teoria del grammatico
Aurelio Opilio, che difendeva il nominativo in -us (fr. 25 Fun.). Probabilmente le forme in
-er prevalevano nell’uso, mentre la letteratura (Carisio si faceva forte degli esempi di Virgilio,
Teucrus, Evandrus) tendeva a far prevalere le forme, più vicine al greco, in -us (cfr. anche
F. Della Corte, Favolisti latini [corso universitario], Genova 1958, p. 56). In favore di
Phaeder Havet (ed. cit., pp. 259-260) citò CIL VI 20 181 C. Iulius C. filius Phaeder. Non è una
prova decisiva; ma il nome gentilizio Iulius fa pensare che possa trattarsi di un discendente
del liberto di Augusto e che, quindi, questo si chiamasse effettivamente Phaeder.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 185

gi; figurati come sarai trattato quando ti sarai reso colpevole con la
fuga!». Lo schiavo tali consilio est a fuga deterritus.
Da dove proveniva questo schiavo? Com’era caduto in schiavitù?
Dal prologo del terzo libro, che è quasi l’unica fonte per la biografia di
Fedro, si può ricavare con buona probabilità l’origine tracia. Il prologo
non ha certo la chiarezza desiderabile, sicché le discussioni degl’inter-
preti non si possono dire, in questo caso, oziose. Fedro si proclama
quasi nato nella casa delle Muse (III prol. 17 ss.):

Ego, quem Pierio mater enixa est iugo,


in quo Tonanti sancta Mnemosyne Iovi,
fecunda novies, artium peperit chorum,
quamvis in ipsa paene natus sim schola...6

Se quest’indicazione si potesse prendere come rigorosa, dovremmo


ritenere Fedro nato in Macedonia, molto vicino al monte Pierio. Ma
un altro passo dello stesso prologo fa sospettare che Pierio […] iugo sia
una comprensibile amplificazione retorica. Pur non essendo né greco
né latino, Fedro non si ritiene indegno di aspirare alla gloria (52 ss.):

Si Phryx Aesopus potuit, si Anacharsis Scythes


aeternam famam condere ingenio suo,
ego litteratae qui sum propior Graeciae,
cur somno inerti deseram patriae decus,
Threissa cum gens numeret auctores deos,
Linoque Apollo sit parens, Musa Orpheo,
qui saxa cantu movit et domuit feras
Hebrique tenuit impetus dulci mora?

Dunque più vicino alla dotta Grecia di quanto non lo fossero Eso-
po o Anacarsi, ma non più vicino che Lino o Orfeo: la tradizione di
cui Fedro si fa forte è la tradizione che risale a Lino e Orfeo, i poeti
mitici, figli delle divinità del canto; in questo consiste il decus che Fe-
dro considera come quello della propria patria. Se fosse nato ancora

6
  Quest’ultimo verso è uno dei tanti di Fedro il cui testo, pur essendo tollerabile, suscita
sospetto di corruzione; naturalmente non solo il rimedio, ma l’esistenza stessa della corru-
zione sono incerti: Phoebi di Havet per paene è attraente, Paeanis di Postgate pare troppo
raffinato (nei codici paene è posto accanto a schola, ma chi conserva la parola accetta gene-
ralmente la trasposizione di Berger).

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186 Capitolo quinto

più vicino alla Grecia, Fedro avrebbe ragionato diversamente. Dunque


concluderei che egli era nato in Tracia, vicino alla Macedonia, e che
solo per amplificazione retorica si dicesse nato nella dimora delle
Muse, «quasi nella scuola stessa».
Anche l’origine tracia faceva sì che Fedro si sentisse vicino a Eso-
po , il semibarbaro, collocato ai margini del mondo dotto, che tuttavia
7

nel mondo della cultura e della sapienza tradizionale aveva aggiunto


una voce nuova per esprimere la protesta degli schiavi. Il fascino della
litterata Graecia era inevitabile; ma il vanto di essere «quasi greco» non
va staccato troppo dal contesto e reso assoluto: in realtà Fedro condi-
vide in una certa misura il disprezzo dei Latini per i Greci. Si ricorde-
rà la punta satirica contro i Graeci loquaces a proposito del nome del
castoro, fiber per i Latini (App. 30, 2-4):
Graeci loquaces quem dixerunt castorem
[…]
illi qui iactant se verborum copia.

Questo è uno dei segni della notevole romanizzazione di Fedro,


sulla quale tornerò un momento in seguito.
Da una zona della Tracia Fedro fu portato via come schiavo in età
infantile: da ragazzo ha letto Ennio in una scuola romana (III epil. 33-
35). È convincente, abbastanza calzante con altri dati cronologici pro-
babili, la congettura che egli fosse tra la popolazione tracia resa schia-
va dopo la feroce repressione di una rivolta da parte di L. Calpurnio
Pisone Frugi negli anni fra il 13 e l’11 a. C.8 S’intende che non si può
andare al di là della congettura: gli schiavi non provenivano solo dai
prigionieri di guerra, bastava che genitori affamati lo vendessero. La
favola (III 15) dell’agnello che dimostra al cane come la madre vera sia
non quella che partorisce e abbandona il figlio, ma quella che lo nutre,
potrebbe anche riflettere un’esperienza terribile dell’infanzia di Fedro.

7
  Naturalmente Fedro ignorava la tradizione che considerava trace Esopo, tradizione che
avrebbe accresciuto le sue ragioni di sperare nella gloria.
8
  Dione Cassio LIV 34, 6-7; Velleio II 98; Antipatro di Tessalonica, AP VI 335; IX 428;
App. Plan. 184; Floro II 27; Livio, Per. 140; Tacito, Ann. VI 10, 3; Seneca, Epist. 83, 14. La
congettura è stata avanzata da F. Della Corte, Phaedriana, «Rivista di filologia e di
istruzione classica», n. s., vol. 17, 1939, pp. 136 ss. [= Id., Opuscola, IV, Genova 1973, pp. 107
ss.]; Favolisti latini, cit., pp. 53 ss. (ringrazio l’autore per avermi reso possibile la consulta-
zione di questo corso universitario).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 187

Avrà conosciuto il padre, ma non è certo possibile ricavarlo, come pre-


tende Havet9, dalla favola in cui l’avvoltoio bolla il cane avaro come
trivio conceptus, educatus stercore (I 27, 11).
Lo schiavo andò a finire, non sappiamo attraverso quali vicende,
nella familia di Augusto, che a una certa età lo liberò. I liberti, come si
sa, potevano arrivare già in quell’epoca a incarichi amministrativi im-
portanti. Probabilmente la carriera del liberto nella casa imperiale, per
esempio in mansioni educative, fu un’aspirazione di Fedro. Riuscì egli
a soddisfarla almeno in parte? Ovviamente la calamitas, di cui trattere-
mo fra poco, lo collocò in una condizione più umile, più infelice, più
amara di quella precedente: vedremo che Fedro lamenta una decaden-
za nella vecchiaia non dovuta semplicemente all’età; ma non ci sono
ragioni serie per pensare che la condizione precedente fosse resa felice
da onori e ricchezze. La mansione a cui si pensa più facilmente per un
liberto della cultura di Fedro è l’insegnamento; ma non ci sono prove
che l’abbia effettivamente esercitato10.
L’altro dato biografico essenziale per capire l’opera è la calamitas.
Nella disgrazia Fedro cadde, a quanto ci riferisce lui stesso, a causa di
certe sue favole. Ai fatti accenna con allusioni volutamente oscure, che
hanno affaticato a lungo gl’interpreti e che difficilmente potranno es-
sere chiarite in modo da eliminare i dubbi (III prol. 38 ss.):

Ego illius [scil. Aesopi] pro semita feci viam,


et cogitavi plura quam reliquerat,
in calamitatem deligens quaedam meam.
Quodsi accusator alius Seiano foret,
si testis alius, iudex alius denique,
dignum faterer esse me tantis malis,
nec his dolorem delenirem remediis.

9
  Ed. cit., pp. 261-262. Havet pensava pure (p. 260) che Fedro conoscesse poco la Tracia: in
III prol. 59 crede, come Virgilio (Aen. I 317), rapido il fiume Ebro che invece è lento. Que-
sto, da sé, non basterebbe a provare che Fedro fosse menato via bambino: poteva aver
abitato a lungo in Tracia, vicino alla Macedonia, senza aver mai visto l’Ebro, così come
molti saranno vissuti in Sicilia senza vedere mai l’Etna.
10
  Della Corte (Phaedriana, cit., pp. 141 ss.) ricava le prove dall’erudizione di cui Fedro fareb-
be sfoggio nelle favole, per esempio a proposito di Simonide; ma non riesco proprio a senti-
re lo sfoggio di erudizione. In buona parte gli aneddoti di Fedro relativi a Simonide e Socra-
te provengono da una tradizione diatribica già da tempo imparentata con quella esopica.

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188 Capitolo quinto

L’interpretazione tradizionale resta pur sempre la più convincente.


Alcune favole dei libri precedenti11, cioè del primo e/o del secondo,
sono state interpretate da Seiano e dai suoi seguaci come satire o at-
tacchi contro di loro. Seiano per vendicarsi ha fatto processare Fe-
dro, non sappiamo sotto quale accusa; il processo è stato, secondo
Fedro, una farsa: l’onnipotente ministro di Tiberio si serve dei suoi
scherani come prestanome, ma in realtà è lui che fa tutto il processo:
lui è l’accusatore, lui il testimone, lui il giudice. Evidentemente Fedro
è stato condannato: la farsa è stata per lui una tragedia. Egli nega
decisamente nelle sue favole riferimenti particolari a persone: è la vita,
i costumi degli uomini in generale che egli vuol mostrare (49-50):
Neque enim notare singulos mens est mihi,
verum ipsam vitam et mores hominum ostendere 12.

In che cosa consistesse l’accusa, o la calunnia, è impossibile preci-


sare13. Probabilmente non si trattava di accusa politica: dopo la caduta

11
  Dal passo credo si possa ricavare, anche se non con sicurezza, che le favole incriminate
erano tra quelle non ricavate dal primo repertorio esopico, quindi tra quelle del secondo
libro. Se l’epilogo di questo libro, come credo, presuppone già la calamitas, questa si pone
durante la sua composizione: non è difficile ammettere che nell’ambito della casa imperia-
le favole singole circolassero prima di essere raccolte in volume. Una favola incriminabile
poteva essere anche II 5, se lo schiavo zelante era un uomo di Seiano.
12
  Altre interpretazioni affacciate convincono meno. Tanto ingegnosa quanto debole è, per
esempio, quella di F. Vollmer, Lesungen und Deutungen III, «Sitzungsberichte der Bayeri-
schen Akademie der Wissenschaften», Abh. 5, 1919, pp. 9 ss., spec. 14-15: Fedro, riferendosi a
una favola, per noi perduta, dei libri precedenti, in cui comparivano sotto vesti animali
un accusatore, un testimone e un giudice, direbbe che essi altro non sono se non Seiano: un
personaggio morto, non un personaggio vivo. Come Giovenale, Fedro sosterrebbe che egli
non attacca personaggi viventi, quindi nessuno deve ritenersi offeso. Il ricorso a una favola
perduta non è certo procedimento da convincere; ma soprattutto Vollmer non riesce a spie-
gare in modo tollerabile in che consistano la calamitas e i tanta mala: per lui si tratta solo
della guerra dei nemici letterari (contro Vollmer già K. Prinz, Zur Chronologie und Deutung
der Fabeln des Phaedrus, «Wiener Studien», vol. 43, 1922-1923, pp. 62-70). Non è una difficol-
tà l’uso di foret per fuisset: si sa che in età classica e più tardi l’imperfetto congiuntivo nel
periodo ipotetico, oltre a esprimere l’irreale del presente, conserva il suo valore primitivo di
potenziale del passato (esempi in A. Ernout - F. Thomas, Syntaxe latine, Paris 19642,
p. 378). Si può anche fare a meno di menzionare la spiegazione di R.C.W. Zimmermann,
Zu Phädrus, «Berliner Philologische Wochenschrift», vol. 54, 1934, coll. 476-480: Seiano
sarebbe dativo; Fedro direbbe che contro Seiano uno solo è stato accusatore, testimone e
giudice, cioè Tiberio; Fedro sarebbe stato implicato nella rovina di Seiano come suo lon-
tano amico e gettato in carcere: qui sarebbe stato composto il terzo libro delle favole. Del
tutto improbabile, ovviamente, l’accusa, sia pure velata, contro Tiberio.
13
  Havet (ed. cit., p. 264) suppone furto, fondandosi su I 17 (la pecora condannata di furto
per testimonianza del lupo).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 189

di Seiano Fedro avrebbe potuto lavarsi facilmente da una simile colpa.


Dovette trattarsi di un’accusa per delitto comune (come cattiva ammi-
nistrazione, furto, adulterio, ecc.), abbastanza infamante: Fedro non ci
tiene affatto a rivelarla; è molto probabile che dalla condanna non ri-
uscisse mai a riaversi seriamente, neppure dopo la rovina e la morte di
Seiano.
Se è giusta l’interpretazione del prologo del terzo che qui seguo,
Fedro nell’anno della caduta di Seiano, cioè nel 31 d. C., aveva scritto i
primi due libri, pur non avendo, forse, ancora pubblicato il secondo; il
terzo dev’essere successivo, non sappiamo di quanto, al 31.
Nel nuovo stato di umiliazione e, probabilmente, di bisogno Fedro
cercò la protezione dei liberti che avevano acquistato ricchezza e potenza.
È probabilmente un liberto quell’Eutico a cui egli si rivolge nel prologo e
nell’epilogo del terzo libro14: un liberto potente, da cui Fedro spera la
riabilitazione dalla condanna. Il tono è di supplica: Fedro si appella al
suo senso di giustizia, ma ancora più alla sua misericordia (III epil. 20 ss.):

Stultum admovere tibi preces existimo,


proclivis ultro cum sis misericordiae.
Saepe impetravit veniam confessus reus:
quanto innocenti iustius debet dari?
Tuae sunt partes; fuerunt aliorum prius;
dein simili gyro venient aliorum vices.
Decerne quod religio, quod patitur fides,
ut gratuler me stare iudicio tuo.

L’interesse di Eutico per l’opera poetica di Fedro dev’essere stato


tiepido: carico di occupazioni, prometteva di leggerla durante le vacan-
ze; Fedro, come vedremo, richiedeva un interesse più serio, che sapes-
se sacrificare alle Muse anche qualche ora sottratta ai negotia: nel pro-
logo lo fa capire con una franchezza, una fierezza, una dignità che
contrasta col tono supplice dell’epilogo, ma che non stupisce quando
Fedro sente in giuoco il suo destino di poeta. Il dedicatario del quarto

  Veramente nell’epilogo non compare nessun nome; ma il destinatario dev’essere lo stes-


14

so del prologo, come accade nel quarto libro. L’identificazione di questo Eutico con un
auriga favorito di Caligola (Svetonio, Cal. 55) è improbabile: l’Eutico del prologo di Fedro
è tutto impegnato in negotia amministrativi, che non possono lasciargli tempo per uno
sport a sua volta così impegnativo. Cfr. da ultimo Perry, ed. cit., p. lxxvi.

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190 Capitolo quinto

libro, un certo Particulone (non sappiamo se anche lui liberto), subiva


di più il fascino delle favolette in versi; comunque Fedro è con lui
meno insistente (IV prol. 10 ss.):

… Particulo, quoniam caperis fabulis


[…]
quartum libellum cum vacarit perleges.

L’ultima favola del quinto libro a noi nota si chiude rivolgendosi a


un certo Fileto (V 10, 10):

Hoc cur, Philete, scripserim pulchre vides.

Si tratta, probabilmente, di un altro liberto. Il tono è più confiden-


ziale che ossequioso: forse non un nuovo protettore, ma un amico. Pro-
babilmente Fedro con le sue favole non ha ottenuto molto dai suoi
protettori: è passato dall’uno all’altro senza trovare mai il suo Mecenate.
L’opera di Fedro è stata scritta in gran parte o sulla soglia della vec-
chiaia o in vecchiaia: questo è il terzo dato biografico essenziale per ca-
pirla. Quando chiude il terzo libro, si sente sulla soglia della vecchiaia:
si affretti Eutico ad accordargli il beneficio promesso, altrimenti il
poeta potrà goderne per poco tempo (III epil. 15 ss.):

Languentis aevi dum sunt aliquae reliquiae,


auxilio locus est: olim senio debilem
frustra adiuvare bonitas nitetur tua,
cum iam desierit esse beneficio utilis,
et Mors vicina flagitabit debitum.

La prima favola dello stesso libro è quella dell’anfora vuota che


emana ancora l’odore del vino nobile di un tempo; il riferimento per-
sonale è sicuro dall’epimitio (Hoc quo pertineat dicet qui me noverit):
l’interpretazione più probabile resta pur sempre che Fedro lamenti una
sua decadenza, ma forse di questa decadenza l’età è solo una compo-
nente. Una collocazione del terzo libro pochi anni dopo la morte di
Seiano, mettiamo verso il 35 d. C., calzerebbe con una datazione della
nascita di Fedro verso il 20 a. C. o poco dopo e dell’inizio della sua
schiavitù dalla fine della guerra di Calpurnio Pisone, cioè nell’11 a. C.;
ma s’intende che nessuna di queste date è fissabile con certezza e tutte

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Fedro, la voce amara della favola esopica 191

si possono spostare di alcuni anni più in giù, non potendosi ritenere per
certo che egli diventasse schiavo come prigioniero di guerra. Gli altri
dati cronologici sono molto vaghi; comunque calzano con l’ipotesi cro-
nologica qui data. Una favola del terzo libro (III 10) si riferisce a una
causa criminale giudicata dai centumviri e decisa dietro parere di Augu-
sto: Fedro dà il fatto come avvenuto «a sua memoria» (8). Di Tiberio
ricorda la battuta con cui raggelò lo schiavo troppo zelante (II 5). È
chiaro che Fedro ha vissuto la giovinezza e l’età matura sotto Augusto
e Tiberio15.
L’ultima favola dell’opera (V 10), una delle più belle, esprime con
misura e incisività l’amarezza di un uomo che si sente finito, che si ag-
grappa solo all’orgoglio del suo passato: è il vecchio cane che riesce ad
azzannare la preda, ma se la lascia sfuggire perché i denti sono cariati:

Quod fuimus lauda, si iam damnas quod sumus.

Che Fedro sia arrivato fino all’impero di Claudio, è probabile; se sia


veramente arrivato sino all’impero di Nerone o di Vespasiano, come
alcuni suppongono o sostengono con certezza, nessuno può dire.
Ecco, press’a poco, tutto quello di cui, secondo me, dobbiamo con-
tentarci a proposito della vita di Fedro: è poco, ma quel poco è prezioso,
perché è utile per capire l’opera; non mancano scrittori, anche antichi, di
cui sappiamo troppo, perché una parte di ciò che sappiamo è superfluo
per intenderne la pagina. I particolari legami con la Campania sono
molto ipotetici. L’episodio di Tiberio e dello schiavo zelante nella villa
del Capo Miseno può benissimo averlo sentito raccontare nella casa

15
  All’episodio in cui si rese ridicolo il flautista Principe (V 7) non saprei dare una colloca-
zione cronologica precisa: la collocazione di Havet (ed. cit., p. 117) nel 9 d. C., durante
giuochi dati per celebrare il ritorno di Tiberio dalla campagna di Pannonia, è forse possi-
bile (dubbi mi restano perché non so se con princeps nel 9 d. C. si potesse intendere ine-
quivocabilmente Tiberio, anche se ricevette allora il titolo di imperator), ma non è affatto
l’unica possibile: di ritorni a Roma di Augusto e di Tiberio ce ne sono parecchi nell’ambi-
to di alcuni decenni; né è detto che l’occasione fosse un ritorno: poteva essere anche, per
esempio, una guarigione. Il fatto che il flautista fosse accompagnatore del celebre attore di
pantomime Batillo, la cui fortuna si affermò dal 20 a. C. circa, indurrebbe a non spostare
troppo in giù l’episodio e a preferire Augusto a Tiberio. Ancora più incerto è che Fedro
assistesse personalmente all’episodio: potrebbe anche averlo sentito raccontare (sia per III
10 sia per II 5 è propenso ancora a credere a esperienza diretta Perry, ed. cit., pp. lxxiv-
lxxv; ma il Perry non si è mai distinto per rigore).

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192 Capitolo quinto

imperiale e anche fuori. Si dice che sia solo campano l’uccello chiamato
terraneola dai rustici (App. 32): ammesso che sia vero (ma il nome non ha
nulla di campano), non basta certo questo a dimostrare un soggiorno in
Campania. La favola (App. 21) del glorioso cavallo da corsa che, rubato,
è costretto a girare la macina e piange la sua sorte nel vedere i compagni
di un tempo avviarsi alle gare, sembra avere un sapore autobiografico:
probabilmente Fedro piange l’oscurità e la miseria in cui è ridotto dopo
la calamitas. Ma se ne può dedurre che Fedro avesse vinto, nel 34 o nel
38 o nel 42, i ludi quinquennali di Napoli, istituiti nel 2 a. C.?16
La ricerca di allusioni a vicende personali o a fatti contemporanei
non ha un punto di partenza del tutto arbitrario, giacché il punto di
partenza è nel sapore personale che la favola di Fedro indubbiamente
ha: l’autore preme nell’interpretazione del racconto con i suoi senti-
menti e le sue situazioni; si direbbe che fatica a non scoprirsi. A chi
viene rivolta la favola (III 12) del pollo che trova la perla nel letame?

Hoc illis narro, qui me non intellegunt.

L’epimitio della favola (III 13) che racconta la disputa fra api e fuchi
sembra riferirla a un’esperienza personale del narratore:

Hanc praeterissem fabulam silentio,


si pactam fuci non recusassent fidem.

La favola dell’asino che trova, inutilmente, la lira (App. 14) sembra


riflettere la sorte di Fedro, che non ha potuto esplicare la sua vocazio-
ne di poeta:

Sic saepe ingenia calamitate intercidunt.

Nel prologo del terzo libro Fedro protesta, come abbiamo visto, che
egli non scrive per colpire questa o quell’altra persona, che l’interpre-
tazione di alcune sue favole come attacchi personali è una calunnia:
forse l’interpretazione non era del tutto infondata; comunque le favole
si prestavano a tali interpretazioni.

16
  La congettura è una delle tante di Havet (ed. cit., p. 265).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 193

Allusioni del genere sarebbero certamente difficili a chiarirsi anche


se avessimo una biografia dettagliata: chi può illudersi di chiarirle nel-
le condizioni in cui ci troviamo con Fedro? Nella maggior parte dei
casi è già difficile essere sicuri che un’allusione qualunque vi sia. Che
elemento abbiamo per dimostrare che nella favola del lupo e dell’a-
gnello (I 1) il lupo sia Seiano o nella favola delle rane che chiedono un
re (I 2) il travicello sia Tiberio, il serpente Seiano? Seiano è stato scor-
to ancora nella cornacchia consigliera malefica dell’aquila (II 6), Tibe-
rio nel leone morente percosso dal cinghiale, dal toro e dall’asino (I 21).
Una delle interpretazioni più belle e più fantastiche è quella che Havet
diede della favola del cane grasso e del lupo magro (III 7): il lupo sa-
rebbe Arminio, il principe germanico ribelle, il cane il fratello Flavo,
asservito ai Romani17. Interpretazioni del genere non solo sono uno
spreco d’acume, ma minacciano di far smarrire quel significato d’inter-
pretazione generale dell’uomo e della vita che Fedro ha tuttavia con-
servato dalla tradizione esopica: il fatto che egli le abbia dato nuove
linfe dalla sua dolorosa esperienza personale non significa che egli ne
abbia limitato l’orizzonte, che l’abbia immiserita.

2. Una vita per la poesia: ansia di gloria ed emarginazione

Tra le lotte di una vita particolarmente difficile Fedro non fece della
poesia un lusus a cui dedicare le ore di ozio, e neppure un compito
marginale; anzi vi cercò il senso e la ragione della sua vita: da essa
sperava la gloria, la ricompensa alle pene e alle ingiustizie sofferte.
Almeno a partire dal secondo libro egli aspira a un compito paragona-
bile a quello dei poeti augustei: questi non hanno solo tradotto o imi-
tato i poeti greci: li hanno emulati; anche il suo atteggiamento di fron-
te a Esopo è di aemulatio (II epil. 7); egli si propone di elaborare in
latino un genere nuovo, che i Latini possano contrapporre al corrispon-
dente greco (8-9):

Quodsi labori faverit Latium meo,


plures habebit quos opponat Graeciae.

  La fable du loup et du chien, «Revue des études anciennes», vol. 23, 1921, pp. 95-102.
17

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194 Capitolo quinto

Quanto forte sia la suggestione della poesia augustea sul senso che
Fedro ha del proprio compito poetico, non è inutile, credo, sottolineare.
Gli Ateniesi hanno innalzato a Esopo una statua, gli hanno decretato
una gloria eterna: hanno voluto così dimostrare come la via della gloria è
aperta alla virtù, indipendentemente dalla nobiltà (II epil. 1 ss.). L’oscuro
liberto accetterebbe la morte di Socrate, se potesse conquistare la gloria;
accetterebbe la persecuzione dei vivi, se fosse sicuro di essere assolto e
onorato dai posteri (III 9, 3-4): a proposito della gloria il poeta tocca le
punte più alte del suo pathos. È significativo il fascino che hanno avuto su
Fedro gli aneddoti relativi a Simonide (IV 23; 26): egli vi trova la dimo-
strazione dell’onore in cui uomini e dei tengono la cultura e specialmente
la poesia. Ha fiducia nella durata della propria opera e conta di consegna-
re all’eternità il nome del suo protettore Particulone (IV epil. 5-6):

Particulo, chartis nomen victurum meis,


Latinis dum manebit pretium litteris.

Questo sentimento della gloria non è in contrasto col senso della vita
che Fedro accetta dalla favola esopica? Alla morale esopica il sentimento
della gloria è estraneo: vi domina la rassegnazione, la convinzione che è
vano o ridicolo cercare di uscire dal proprio stato. Io credo che il contrasto
sia innegabile. Ma qui non si tratta, ovviamente, di andare in cerca, ma-
gari con pedanteria ridicola, di contraddizioni logiche: ciò che importa
rilevare è che Fedro non è un rassegnato per vocazione, così come Lucre-
zio, che teorizza l’atarassia epicurea, non è un uomo placato: la rassegna-
zione di Fedro va sentita, io credo, nella sua tensione con la spinta a libe-
rarsi, per la via della gloria, dalla propria vita oscura e penosa.
La brama di gloria si risolse per Fedro in un’altra acuta sofferenza.
Da vari punti della sua opera è chiaro che il successo gli mancò e che
le denigrazioni lo amareggiarono: il carattere sospettoso e tormentato,
che alcune espressioni fanno sentire, lo rendeva ancora più vulnerabile.
Già nel prologo del primo libro si preoccupa che alcuni possano attac-
carlo (calumniari) perché fa parlare non solo gli animali, ma anche le
piante. Nell’epilogo del secondo libro si sente osteggiato da un Livor,
a cui oppone la coscienza incrollabile dei propri meriti (II epil. 10-11):

Si Livor obtrectare curam voluerit,


non tamen eripiet laudis conscientiam.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 195

È sicuro del successo presso uomini dal gusto fine; se il suo doctus
labor finirà nelle mani di gente poco dotata, occupata solo a denigrare
chi è migliore di sé, egli sopporterà con cuore indurito (18-19):

fatale exilium corde durato feram,


donec Fortunam criminis pudeat sui.

Non ascoltiamo qui una semplice eco di un motivo comune nei


proemi e commiati della poesia augustea (e anche precedente): queste
sono parole di un uomo che si sente perseguitato dai denigratori e
umiliato ingiustamente dalla fortuna (può darsi che quest’epilogo sia
successivo alla condanna nel processo).
Il successo non arrise neppure al secondo libro: il prologo del terzo
è caratterizzato dalla tensione fra l’amarezza dell’insuccesso e un’orgo-
gliosa sicurezza nel futuro. Lui ch’è nato nella dimora delle Muse, lui
che ha dato alla poesia tutta la sua vita e per essa ha cancellato dal suo
cuore ogni cura di lucro, è accolto con disdegno nella consorteria dei
poeti (III prol. 23):

fastidiose tamen in coetum recipior.

Un liberto danaroso e indaffarato non trova il tempo per leggerlo:


ma non è tanto il tempo che gli manca, quanto l’interesse genuino per
la poesia, il quale non può essere relegato nei ritagli di tempo libero.
Fedro sa, però, che lo leggeranno i posteri (32); lui, il trace, continuerà
la tradizione gloriosa di Lino e di Orfeo; stia lontano il Livor (60-61):

Ergo hinc abesto, Livor, ne frustra gemas,


quom iam mihi sollemnis dabitur gloria.

Ma i nemici sono implacabili. Nel prologo del quarto libro sentia-


mo ancora Fedro sotto l’attacco dei denigratori: li tratta con disprezzo,
ma non riesce a celare l’amarezza (15-16). Non ottenendo un largo
successo, conta sulla buona accoglienza di uomini dal gusto fine, come
Particulone: così, paradossalmente, il poeta di un genere popolare si
appella anche lui, come Orazio, al giudizio di un’élite colta (17 ss.; cfr.
II epil. 12 ss.). Il quarto libro contiene un attacco, molto più irritato che
scherzoso, contro un critico nasutus, che arriccia il naso davanti ai suoi

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196 Capitolo quinto

ioci: ma è un critico che troverebbe da ridire anche su un pezzo su-


blime di Ennio (IV 7, 1 ss.). Altri critici maligni trovavano, sì, qual-
che cosa di buono, ma ne davano il merito a Esopo; quello che piaceva
meno, lo attribuivano a Fedro: questo è il modo di giudicare del Livor
(IV 22). La brevitas, così importante nella poetica di Fedro, non pia-
ceva a tutti (III 10, 59-60). Anche dalla favola del pollo che trova la
perla (III 12) abbiamo sentito l’isolamento di Fedro.
In queste polemiche, che devono avere accompagnato e amareggia-
to Fedro in tutta la sua attività letteraria, colpisce la quasi completa
mancanza di ironia: Fedro, che talora è finemente ironico nel raccon-
to, nelle polemiche è troppo risentito e irritato per arrivare alla calma
dell’ironia. Stupisce inoltre che Fedro si ponga molto poco il problema
della dignità del suo genus poetico. Sappiamo quanto questo proble-
ma fosse stato vivo in età augustea, soprattutto per Orazio. A leggere
Fedro, se si eccettua IV 7, dove allo stile piano delle fabellae pare sia
contrapposto quello sublime del pezzo tragico di Ennio, non si direb-
be che egli considerasse il suo genere esopico da meno dell’epica e
della tragedia.
Tra i favolisti Fedro è, dopo l’auctor, colui che ha sentito meglio la
favola come espressione degli schiavi: espressione del modo in cui essi
interpretano la vita, della verità da loro scoperta, della loro denuncia.
Il velo simbolico non nasce da un giuoco, ma da una necessità della
condizione servile: gli schiavi non osano esprimere direttamente e
apertamente la verità (III prol. 33 ss.):

Nunc, fabularum cur sit inventum genus,


brevi docebo. Servitus obnoxia,
quia quae volebat non audebat dicere,
affectus proprios in fabellas transtulit,
calumniamque fictis elusit iocis.

Riscoprire questa radice della favola esopica, dopo le elaborazioni


retoriche, dopo le influenze di forze culturali diverse, non era facile:
come ho già accennato, in questo ha contato non poco l’esperienza
personale di Fedro. Se ci fosse bisogno di prove, si potrebbe richiama-
re la fine dell’epilogo del terzo libro. Nel proclamare con passione la
propria innocenza ha l’impressione di essere uscito troppo dall’argo-
mento e di essersi dilungato: ma come contenersi quando, consapevo-

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Fedro, la voce amara della favola esopica 197

li della propria onestà, si è premuti dalla prepotenza dei disonesti? Chi


sono questi noxii? Lo dirà chiaro a suo tempo: per un povero diavolo
parlare è un sacrilegio; finché ha senno, Fedro si ricorderà bene di un
verso sentenzioso dal Telefo di Ennio, appreso a scuola (III epil. 34):

Palam muttire plebeio piaculum est.

È soprattutto attraverso la calamitas che ha riscoperto il senso dell’al-


legoria esopica. Sul pericolo che comporta il dire la verità, tornano alme-
no due favole. L’una è quella, molto felice, conservataci solo attraverso
parafrasi (i codici di Fedro conservano solo il promitio) dei due compa-
gni arrivati nel regno delle scimmie (IV 13; cfr. Zand. 17): l’adulatore
viene colmato di doni, colui che ha detto il vero viene fatto a pezzi. Nel
promitio Fedro non nega l’utilità, affermata da una sentenza comune, di
dire il vero, ma constata a quali conseguenze porta la sinceritas. L’altra
(App. 17) rievoca un episodio della vita di Esopo: lo schiavo paga caro
l’aver detto alla padrona la verità sulla sua bruttezza. L’insegnamento che
se ne ricava non è, naturalmente, eroico (dire la verità a ogni costo, di-
sprezzando il pericolo), ma ispirato alla rassegnazione esopica: meglio
tacere. Che l’allegoria comporti una sua oscurità, è ovvio; ma l’oscurità
aguzza l’acume: la verità la scopre il sapiens, sfugge al rudis. A prima vista
le favole possono sembrare futili; ma quanta utilità vi scopre chi sa guar-
darci dentro! Così è, del resto, spesso nella vita (IV 2, 5 ss.):

Non semper ea sunt quae videntur: decipit


frons prima multos, rara mens intellegit
quod interiore condidit cura angulo.

Fedro trova una riconferma alla validità del procedimento nell’in-


terpretazione allegorica che già da secoli la filosofia dà dei miti, in
particolare delle pene infernali (App. 7).
Verità scoperta dagli schiavi non significa verità valida solo per gli
schiavi: che per Fedro essa abbia un significato umano universale è fuo-
ri dubbio. Ma, si capisce, la verità è quella esopica, la cui funzione, al di
qua della «teoria», resta quella pragmatica. Accingendosi a conferire bel-
lezza poetica alla verità utilitaria, Fedro trova calzante al suo scopo una
teorizzazione, sia pure rudimentale, dell’unione peripatetica dell’utile e
del dulce, teorizzazione divenuta ormai, specialmente dopo Orazio, una

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198 Capitolo quinto

banalità. L’utilità è nella saggezza pratica che la favola insegna, la dol-


cezza negli ioci che la rendono divertente e che sono molto più di un
ornamento esterno, di un condimento aggiunto da ultimo. Fedro ha
avuto chiara quest’impostazione sin dall’inizio (I prol. 3-4):

Duplex libelli dos est: quod risum movet


et quod prudenti vitam consilio monet.

Scopo del genere esopico è correggere gli errori dei mortali, acuirne
la diligens industria; ma per avvincere l’orecchio (capere aurem) occorre
un racconto divertente (narrandi iocus) (II prol. 1 ss.). Nello scopo uti-
litario trova una giustificazione (ma non la sola) la ben nota brevitas:
poiché ciò che importa è ricavare il succo utile alla vita, meglio evitare
lungaggini e fronzoli. La brevitas presuppone senza dubbio un orien-
tamento retorico che ha influenzato la favola esopica già in età elleni-
stica e che si riflette in una certa misura nella recensio Augustana, ma,
paradossalmente, nella brevitas confluisce anche una certa polemica
antiretorica che nella favola esopica aveva trovato una sua espressione.
Neppure in questo caso, però, va dimenticata la personalità di Fedro:
la sua brevitas si spiega anche con la prevalenza dell’interesse morale
all’inizio della sua carriera poetica, con l’interesse per la sentenza inci-
siva, penetrante, a volte lacerante.
Col bisogno del dulce si collega in qualche modo la ricerca della va-
rietas. Fedro la persegue già subito dopo l’esperimento del primo libro:
il prologo del secondo verte sul problema di conciliare nel nuovo libro la
varietas, fonte importante di diletto, con la brevitas18 (la cui accezione è
duplice: brevitas dei singoli racconti, brevitas del libellus). Ed è, in fondo,
lo stesso problema che si presenta, anche se meno acutamente, nell’epi-
logo del quarto: la materia è vasta e varia; ma bisogna contenersi entro
certi limiti, altrimenti si fallisce lo scopo del dulce:

Adhuc supersunt multa quae possim loqui,


et copiosa abundat rerum varietas;
sed temperatae suaves sunt argutiae,
immodicae offendunt…

  L’interpretazione di questo prologo è difficile e incerta, forse anche per guasti della
18

tradizione: cfr. il mio Marginalia Aesopica, p. 228 (qui, p. 336).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 199

Quindi è in un equilibrio di varietas e brevitas che il fine della


delectatio viene veramente raggiunto.
Ma questo problema non è il più importante nella poetica di Fedro.
Quello che lo ha più tormentato (e vi hanno concorso, anche se in
misura che non va esagerata, sollecitazioni di suoi critici) è il problema
di uscire dalla brevitas non tanto per arricchire il repertorio esopico,
che poteva riuscire alla fine monotono, quanto per rappresentare, e
non solo correggere, la vita: la brevitas, cioè, viene a urtare contro il
bisogno di un’arte realistica. Credo più opportuno affrontare questo
secondo problema in seguito, quando tratterò della narrativa meno
strettamente esopica di Fedro (anche se il problema, beninteso, non
riguarda solo questa parte della sua opera). Per ora aggiungo sulla po-
etica di Fedro due considerazioni. L’una riguarda la forza della sua
coscienza letteraria: dall’arte augustea egli ha assimilato la grande con-
quista di Callimaco: dal lavoro assiduo e fine dell’artista nulla deve
uscire che sia informale o casuale: senza raffinatezza, Fedro osserva il
suo culto del doctus labor (II 9, 15). L’altra riguarda la notevole presen-
za della critica e del pubblico nell’opera di questo favolista. Benché,
come vedremo, la tendenza a chiudersi orgogliosamente in sé stesso
fosse per lui abbastanza forte, egli in realtà non si chiuse mai: ascoltò
i suoi critici, per lo più con doloroso risentimento, ma non rinunziò
mai a un dialogo col pubblico, che ebbe la sua utilità.

3. Nel solco della morale esopica: verità e rassegnazione

Non credo che sarebbe fruttuosa la ricerca di una particolare morale in


Fedro nell’ambito della tradizione esopica. Già per una ricerca del genere
mancano i presupposti, cioè le raccolte (esopiche e non esopiche) su cui
Fedro ha lavorato. Tuttavia sono convinto che, anche se le avessimo, Fe-
dro risulterebbe sostanzialmente fedele alla morale che noi possiamo rico-
struire dalle raccolte esopiche greche19: scoperta di una verità effettuale

  Alcuni anni fa ho cercato di darne una visione quanto più possibile sistematica nel
19

saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7). In queste pagine su Fedro presuppongo
quel saggio: senza tener conto della tradizione esopica nel suo complesso non si può, ov-
viamente, interpretare Fedro. Necessaria sarebbe una discussione sulla tradizione esopica
nell’età ellenistica, cioè sulla tradizione presupposta immediatamente da Fedro; ma si trat-
ta di un problema complicato e di soluzione incerta.

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200 Capitolo quinto

oltre i veli stesi dalle illusioni, dalla vanagloria, dal diritto che viene usato
per mascherare la forza; interpretazione della vita come fondata sulla for-
za, la violenza e l’astuzia, sul lione e sulla golpe; valorizzazione dell’astuzia,
dell’accortezza, della saggezza che, senza pretendere di mutare le leggi
della vita, adatta l’individuo a quelle leggi e ne rende possibile la sopravvi-
venza e la soddisfazione dei bisogni elementari; un utilitarismo arido; la
rassegnazione alle leggi di una natura senza giustizia e senza pietà; la ras-
segnazione all’immutabilità delle strutture sociali, il disinteresse per i mu-
tamenti politici, che non possono cambiare nulla per gli strati inferiori
della società. Certi temi paiono più insistenti o più marcati: l’irrisio-
ne della vanagloria, la denuncia della forza che vuole giustificarsi col
diritto (non per niente il primo posto è dato alla favola del lupo e dell’a-
gnello); ma anche alla proclamazione brutale, ripugnante della forza è
forse Fedro che ha dato l’espressione più vigorosa e più amara: mi rife-
risco alla favola della cornacchia appollaiata sulla pecora (App. 26, 5-7):

Despicio inermes, eadem cedo fortibus;


scio quem lacessam, cui dolosa blandiar.
Ideo senectam mille in annos prorogo.

Ma, insomma, per quanto riguarda l’interpretazione della vita e la


condotta da ricavarne, il merito di Fedro è quello di aver vissuto con
impegno, con intensità la tradizione esopica, non quello di averne mu-
tato o arricchito i principi.
Tuttavia è utile, anche se non importante, rilevare alcuni casi in cui
Fedro reagisce con particolare interesse all’interpretazione tradizionale
del racconto o la mette in discussione. La prima favola del secondo libro
ci mostra un leone giusto che rifiuta di regalare un pezzo della preda a
un brigante, ma l’accorda a un viandante timido: l’esempio indurrebbe
ad aver fiducia nella giustizia umana; ma Fedro commenta (II 1, 11-12):

Exemplum egregium prorsus et laudabile;


verum est aviditas dives et pauper pudor.

La sacerdotessa dell’oracolo di Delfi bandisce una morale nobilis-


sima (App. 8); ma il commento è di un’ironia sconsolata:

Haec elocuta concidit virgo furens;


furens profecto, nam quae dixit perdidit.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 201

Queste riflessioni, come si vede, mirano a rendere più coerente il


pessimismo di Fedro; nello stesso senso è rivolta la discussione contro
la massima comune nel promitio alla favola sullo scimmione re (IV 13),
a cui ho già accennato. Quest’orientamento caratterizza bene Fedro,
ma non bisogna credere che sia costante. Dalla favola dell’asino che
rifiuta l’orzo lasciato dal porco, perché ha visto come va a finire chi è
stato nutrito con quell’orzo (il porco, infatti, è stato sacrificato), Fedro
ricava la morale che bisogna evitare il periculosum lucrum: una massima,
egli dichiara, che ha sempre seguito (può darsi che egli qui si discolpi
contro la calunnia per cui fu processato) (V 4, 7-8):

Huius respectu fabulae deterritus,


periculosum semper vitavi lucrum.

Si sente obiettare che i ladri sono ricchi; ma, ribatte Fedro, ancora di
più sono quelli puniti. Difficile dire quali ragioni particolari abbiano
ispirato questa momentanea e riservata fiducia nella giustizia umana.
Altrove (III 4) reagisce energicamente a una conclusione che porterebbe
a unire costantemente la bellezza e la saggezza. Il macellaio, che ha ap-
peso nella sua bottega una scimmia ammazzata, risponde a chi gli chie-
de che sapore ha quella carne: «Quale la testa, tale il sapore»20. Ma Fedro
obietta, con qualche risentimento, che si tratta solo di uno scherzo:

Ridicule magis hoc dictum quam vere aestimo;


quando et formosos saepe inveni pessimos,
et turpi facie multos cognovi optimos.

Come poteva accettare quella conclusione chi ricordava la figura di


Esopo, lo schiavo deforme e pieno di saggezza?
Anche in Fedro il pessimismo si accompagna alla rassegnazione,
all’accettazione, cioè, delle leggi della natura e delle condizioni della
società come immutabili; questa rassegnazione, però, non esclude,
come si è visto, la ricerca di quella prudenza che insegna come adat-
tarsi e come sopravvivere eludendo la forza e l’astuzia altrui. Ora, se in
Fedro il pessimismo è particolarmente accentuato, forte è però anche

  Naturalmente va tenuto conto del doppio senso del latino sapere: «avere sapore» e
20

«avere senno».

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202 Capitolo quinto

l’accento posto sull’industria, sulla sollertia (e forse va in esso sentita


un’inflessione particolarmente romana). La volpe si vendica dell’aqui-
la non con l’aiuto di Giove, ma grazie alla sua docilis sollertia (I 28). La
fame acuisce l’ingegno anche a un bestione stolto come l’orso (App. 22).
È proprio la sollertia che caratterizza l’uomo rispetto agli altri animali
(App. 3, 8); e acuire la diligens industria è uno dei fini essenziali della
favola esopica (II prol. 4). Insomma anche in Fedro il pessimismo del-
l’intelligenza lascia un margine all’ottimismo della volontà.
Ripeto, il margine lasciato alla volontà consiste nell’adattamento,
non certo nel mutamento dell’ordine sociale o politico. Non c’è nessu-
na ragione di credere che Fedro aspirasse a un regime migliore di quel-
lo imperiale o che rimpiangesse, come certamente non pochi a Roma
nelle classi elevate, la libertà repubblicana. La libertas, di cui egli pro-
clama la dolcezza nella favola famosa del lupo magro e del cane grasso
(III 7), può benissimo non avere niente a che fare con la repubblica.
Del resto Fedro non aveva mai conosciuto la repubblica romana né
altre città in cui parvenze di repubblica sopravvivessero. La convinzio-
ne in lui dominante è che i mutamenti di regime, anche nei casi mi-
gliori, non cambiano niente per i poveri: proprio lui ha narrato in
modo così efficace la favola dell’asino e del vecchio pastore (I 15). La
ricerca di un governo più efficace porta alla tirannia (I 2, Le rane che
chiesero un re); e succede spesso che le guerre dei potenti si risolvono in
batoste per gli umili (I 30, Le rane preoccupate delle battaglie dei tori). Si
aggiunga che il favolista liberto non ha nessuna fiducia nel popolo:
considera il volgo come stupido, incapace di andare oltre le apparenze.
Nella favola del ciabattino medico (I 14), il re riunisce il popolo e gli
dimostra la sua idiozia:

Quantae putatis esse vos dementiae,


qui capita vestra non dubitatis credere
cui calceandos nemo commisit pedes?

Quanto il volgo sappia distinguere il vero dal falso, si vede dalla


favola del buffone e del contadino (V 5). Invece è chiara l’ammirazione
per Augusto e per Tiberio: non c’è dubbio che Fedro sentisse il regime
imperiale come il migliore dei regimi possibili, data la natura degli
uomini. Da questo sarebbe errato concludere che Fedro sentisse come
suoi i valori tradizionali della romanità. No, egli eredita il cosmopoli-

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Fedro, la voce amara della favola esopica 203

tismo proprio della tradizione esopica. La favola dell’agnello che con-


sidera sua madre vera non la pecora che l’ha partorito, ma quella che
l’ha allattato (III 15), non è certo un omaggio al sentimento romano
della famiglia; la favola della vespa e della farfalla (App. 31) irride la
vanagloria gentilizia, sempre forte tra i Romani; e il commento alla
predica della Pizia (App. 8), a cui ho già accennato, è una denuncia del
contrasto fra i valori proclamati e la realtà sociale, denuncia che investe
certamente anche la società romana contemporanea.
Il cosmopolitismo in Fedro è accentuato anche dalla forte influen-
za che ha avuto su di lui la filosofia cinica, già penetrata da tempo
nella letteratura esopica21. La trasposizione esopica, in verità non mol-
to felice, dell’aneddoto di Diogene che cerca l’uomo con la lanterna
(III 19; trasposizione naturalmente anteriore a Fedro, come quella
di aneddoti tratti dall’episodio della vendita di Diogene nel romanzo di
Esopo), non è cosa molto significativa; ma è significativa l’importanza
data all’αὐτάρκεια, alla conquista della libertà nella rinuncia alle ric-
chezze. Simbolo dell’attaccamento superstizioso e sciocco alle ricchez-
ze è il drago che custodisce il tesoro senza toccarlo e viene perciò irri-
so dalla volpe (IV 21). L’epimitio di questa favola ha uno sviluppo
insolito: è una predica quasi solenne, che ricorda molto i filosofi cinici
ritratti da Orazio, anzi ha stile più elevato; l’enfasi è più forte dell’iro-
nia mordente (IV 21, 16 ss.):

Abiturus illuc quo priores abierunt,


quid mente caeca miserum torques spiritum?
Tibi dico, avare…

La scena di Ercole, che, accolto in cielo, volta gli occhi al soprag-


giungere di Pluto (IV 12), proviene, come si sa, dall’interpretazione
cinica di questo eroe. Non solo Socrate, a cui il cinismo si riattaccava
direttamente, ma anche Simonide era divenuto per i cinici un modello

 Cfr. La morale della favola esopica, pp. 516 ss. (qui, pp. 312 ss.). Sulle favole d’ispirazione ci-
21

nica in Fedro diede una trattazione ampia G. Thiele, Phaedrus-Studien, I, «Hermes»,


vol. 41, 1906, pp. 562 ss. Sui legami di Fedro con la diatriba in generale è utile anche la trat-
tazione di N. Terzaghi, Per la storia della satira, Messina 1944 (rist.), pp. 99 ss. (ma il Terza-
ghi crede troppo a dipendenza diretta da Orazio); più giusta in complesso, anche se discuti-
bile in alcuni punti, la trattazione di A. Hausrath, Zur Arbeitsweise des Phaedrus, «Hermes»,
vol. 71, 1936, pp. 82 ss., spec. 89 ss. (che corregge il Terzaghi circa i rapporti con Orazio).

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204 Capitolo quinto

di αὐτάρκεια: dal naufragio egli si salva rinunciando ai suoi beni, men-


tre gli altri naufraghi che non sanno rinunciare o affogano o vengono
spogliati dai pirati; Simonide è più ricco degli altri, perché ha in sé la
cultura, che gli procura onori e agi (IV 23). Ancora al cinismo si può
riattaccare lo svolgimento diatribico sui pregi di ciascun animale, che
si conclude con l’invito ad accontentarsi dei doni di Giove, senza ten-
tare più di quanto la condizione mortale non conceda (App. 3; press’a
poco la stessa conclusione in III 18, la favola del pavone che protesta
ingiustamente presso Giunone); forse cinico è anche il modo in cui
viene sgonfiata la predica della Pizia (App. 8; in questo caso si potreb-
be pensare anche alla polemica antiapollinea e antidelfica dell’origina-
ria tradizione esopica, ma è da escludere che Fedro ne fosse cosciente
e intendesse continuarla; e in genere il suo atteggiamento verso la re-
ligione è rispettoso, come dimostra IV 11, anche se lo spirito religioso
gli è estraneo); il cinismo può essere richiamato a proposito della po-
lemica antinobiliare.
Naturalmente non è il caso di parlare di un’adesione a una scuo-
la cinica (del resto inesistente in quel tempo) e neppure alla tradizione
cinica; del resto l’αὐτάρκεια è soprattutto, ma non soltanto cinica. An-
che qui l’occhio deve tornare alla personalità di Fedro: l’αὐτάρκεια
cinica è il terreno in cui la rassegnazione esopica e l’orgoglio di Fedro
per la sua saggezza e la sua cultura possono più facilmente coesistere;
nell’αὐτάρκεια la rassegnazione non è più la rinuncia del debole, anche
se accorto, ma è la rinuncia di chi è forte e libero, padrone di sé e,
quindi, al di sopra della fortuna: qui veramente Fedro, che aveva spe-
rimentato l’ingiustizia e la miseria, trovava la sicurezza e la quiete. Ci
si accorge che anche per questa via egli è imparentato con la cultura
latina del tempo, fra Orazio e Seneca.

4. Le favole di animali: qualificazione morale e azione dialogata

Quando Fedro inizia la sua attività di favolista, il suo interesse morale


è, se non proprio soffocante, certo prevalente. Nessun contrasto, in
questo, con le tarde raccolte esopiche in prosa che noi conosciamo: è
molto probabile che anche nella raccolta esopica usata in un primo
tempo da Fedro il racconto fosse succinto e arido. Ma colpisce il con-
trasto con poeti precedenti, sia latini sia greci, che avevano usato la

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Fedro, la voce amara della favola esopica 205

favola occasionalmente: Archiloco, Ennio, Lucilio, Orazio. Proprio


Orazio, certamente noto a Fedro, aveva dato nella favola del topo di
campagna e del topo di città un esempio finissimo di rappresentazione
dell’animale: senza descrizioni esornative, aveva rappresentato l’animale
nell’azione, con le sue mosse caratteristiche e il suo particolare colore.
Per Fedro la trasposizione della favola sul piano umano è diretta: quasi
tutto ciò che non è essenziale all’azione e all’interpretazione morale
dell’azione viene trascurato: il racconto viene a mancare quasi sempre di
autonomia. Alla rappresentazione «oggettiva» dell’azione animale si so-
stituisce l’intervento del narratore col suo giudizio, che si manifesta so-
prattutto nell’aggettivazione e negli astratti, indicanti per lo più qualità
morali. Nella prima favola niente caratterizza icasticamente il lupo e
l’agnello; ma la caratterizzazione, anzi la condanna morale del lupo è
insistente: latro, fauce inproba, iniusta nece. Nella favola del gracchio va-
naglorioso che si mescola al gregge dei pavoni (I 3), il colore manca del
tutto: il gregge di pavoni è formosus: questo è tutto; invece la condanna
morale del gracchio risalta ben diversamente: tumens inani graculus su-
perbia / […] impudenti […] avi. Il cane che attraversa il fiume col pezzo
di carne in bocca (I 4) è carat­terizzato solo dalla qualità morale astratta:
decepta aviditas. Nella favola del corvo e della volpe (I 13) il corvo diven-
ta un’immagine nella battuta adulatoria della volpe; ma nel racconto vero
e proprio è la qualificazione morale e psicologica che prevale: stultus (il
corvo), dolosa vulpes, avidis dentibus, corvi deceptus stupor. Il gallo è por-
tato in lettiga da gatti selvatici e ammonito dalla volpe (App. 18): solo il
gallo è caratterizzato psicologicamente: gloriosus. La cornacchia è appol-
laiata sul dorso della pecora (App. 26): nessuno sforzo di arricchire la
scena di particolari, di ravvivarla; si insiste, invece, nella condanna della
cornacchia: odiosa cornix, pessima. Della terraneola (App. 32) si richiama
l’abitudine di fare il nido in terra, dato essenziale all’azione: Fedro non
si preoccupa di distinguere con qualche particolare fisico questo uccello
non familiare al suo pubblico. È inutile dilungarsi su un aspetto già ab-
bastanza noto, che risalta facilmente alla lettura: che l’asino sia una vol-
ta l’auritulus (I 11, 6) o che il cavallo sia sonipes (IV 4, 3) non basta a eli-
minare questo carattere di fondo.
La brevitas calzava bene con una tale impostazione narrativa: perso-
naggi nudi, azione essenziale, risalto dell’interpretazione morale rapida-
mente raggiunta. Fedro sentì presto, già nel primo libro ma specialmen-

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206 Capitolo quinto

te dopo questo, forse anche in seguito a critiche rivoltegli, che una fonte
d’interesse importante mancava al racconto. Dopo il primo libro la qua-
lificazione morale dell’animale si fa più rara, senza che per questo cresca
la caratterizzazione icastica; ma è l’azione che diviene più dettagliata e
viva, e il movimento è qualche volta caratterizzante. Qualche caso non
trascurabile è già nel primo libro. La favola delle rane che chiedono un
re (2) non è arida. Ranae vagantes liberis paludibus, anche per la scelta
opportuna dei suoni (ricchezza di a), apre un orizzonte spazioso di liber-
tà. La singola rana che tacite profert e stagno caput e, esaminato ben bene
il travicello, chiama tutte le altre, la turba petulans che salta (insilit) sul
travicello, e altri tratti di questo genere, formano un quadro che ha il suo
movimento e la sua grazia. L’asino e il leone a caccia (I 11), Il cervo alla
fonte (I 12), La volpe e la cicogna (I 26), La pantera e i pastori (III 2) sono
narrazioni dove una caratterizzazione icastica sobria ed efficace si unisce
a una grande naturalezza di sviluppo dell’azione e della scena. Tra le
favole con personaggi animali merita una segnalazione quella della gat-
ta selvatica che porta alla rovina l’aquila e la scrofa del cinghiale (II 4):
qui non solo le battute e i passaggi da scena a scena sono condotti con
arte sicura, ma anche la gatta e i suoi movimenti sono rappresentati
con notevole finezza. Dapprima si arrampica fino all’alto nido del-
l’aquila (ad nidum scandit volucris). Dopo aver messo in allarme l’aquila
(terrore offuso et perturbatis sensibus) striscia giù verso la tana della scrofa
(derepit ad cubile setosae suis); quando ha riempito di paura anche questo
luogo, si appiatta insidiosa nel suo buco (dolosa tuto condidit sese cavo). Di
notte esce con passo sospeso e si procura cibo in abbondanza; la gior-
nata intera, fingendo di aver paura, sta a spiare dal suo buco.

Inde evagata noctu suspenso pede,


ubi esca se replevit et prolem suam,
pavorem simulans prospicit toto die.

Un racconto come questo può non sfigurare accanto a quelli di


Archiloco e di Orazio.
Comunque non è tanto per la finezza della rappresentazione che
l’arte narrativa di Fedro va rivendicata anche nelle favole di animali:
sotto questo aspetto molti lettori potranno restare insoddisfatti. Ma
essa può essere rivendicata con sicurezza per quello che meglio traspo-
ne la favola sul piano umano, cioè per il dialogo. Non mi riferisco in

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particolare alle battute finali, dense ed efficaci che, talora con sarcasmo,
stringono il senso della favola. Naturalmente neppure questo aspetto
della brevitas di Fedro va dimenticato: la battuta della volpe davanti alla
maschera tragica (I 7), la risposta minacciosa della cagna, circondata dai
suoi cuccioli ormai ben armati di denti, alla collega che le ha prestato il
covo e lo reclama (I 19), la risposta del cane al coccodrillo gentile (I 25),
la battuta sprezzante dell’avvoltoio sul cane morto a guardia del tesoro
(I 27), la risposta altrettanto sprezzante del cinghiale all’asino che l’insul-
ta (I 29), la battuta con cui il topo vecchio ed esperto svela l’insidia della
donnola (IV 2), quella della volpe sull’uva non ancora matura (IV 3), la
risposta dell’asino che rifiuta l’orzo del porcello (V 4), quella della scrofa
partoriente che rifiuta l’assistenza del lupo (App. 19), la sentenza con cui
la vespa sgonfia la vanagloria della farfalla (App. 31), sono manifestazio-
ni di un’arguzia tutt’altro che gratuita, la quale affonda le radici da un
lato nella tradizione esopica, dall’altro nell’amarezza di Fedro, portata
molto più al sarcasmo che alla pacata ironia. Ciò che fa sentire meglio la
stoffa del narratore o del poeta comico è il dialogo vivo e naturale fra i
personaggi. Già il dialogo fra il lupo e l’agnello ne è una prova non tra-
scurabile. Un bell’esempio di dialogo breve, naturale, succoso è nella
favola dell’asino che il vecchio pastore cerca d’indurre a fuggire al so-
praggiungere dei nemici (I 15). Il vecchio è atterrito dalle grida; ma la
bestia, senza scomporsi (lentus):

... «Quaeso, num binas mihi


clitellas impositurum victorem putas?»

Naturalmente no.

... «Ergo quid refert mea


cui serviam, clitellas dum portem unicas?»

L’invito della volpe alla terraneola (App. 32) si svolge, mellifluo, con
una certa ampiezza; la risposta dell’uccello è più breve e più secca,
colorita di una calma ironia.
Ma Fedro sa sostenere l’azione dialogata con tutto il respiro necessa-
rio, in un vero svolgimento mimico. La favola del cervo rifugiatosi pres-
so i buoi (II 8) sarà povera dal punto di vista descrittivo, ma dialogo e
movimento scenico si svolgono con una naturalezza perfetta. Il capola-

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208 Capitolo quinto

voro mimico di Fedro è, almeno nell’ambito dei racconti con personag-


gi animali, il dialogo del lupo magro e del cane grasso (III 7). Altro
mimo felice è la favola della cicala e della civetta (III 16): preghiere della
civetta, rifiuti dispettosi della cicala; allora la civetta, architettando l’in-
sidia, procede a un invito mellifluo, piena di gentilezze, di lusinghe e
d’ironia: le scelte stilistiche in questa battuta sono ammirevoli. Un mimo
rapido, che procede per scambi di brevi battute, accompagnate da gesti
significativi, è la favola della lepre e del bifolco (App. 28). Nel moralista
si rivela chiaramente la vena di un poeta comico misurato e fine.

5. Le strutture narrative: conflitto e svolgimento dell’azione

L’opera di Fedro è la più antica raccolta di favole esopiche che noi


abbiamo. È chiaro, però, che dalla lunga tradizione precedente egli
attinge non soltanto un’interpretazione generale della vita e il partico-
lare tipo di allegoria (cioè l’allegoria dell’umanità in generale, non di
singoli personaggi effettivamente esistiti o di avvenimenti reali), ma
anche determinate strutture narrative. Si può escludere che egli vi si
attenesse come a norme codificate; tuttavia è indubbio che esse hanno
agito nella sua composizione e che egli, pur sentendole a volte come
un ostacolo, non se ne è veramente liberato.
Il tipo di struttura più semplice, e anche più comune, consiste nel
conflitto di due personaggi22. L’uno dei due personaggi è sconfitto per
una scelta errata: la sconfitta consiste o nel fatto che la natura negativa
(egoismo, avidità, ipocrisia, vanagloria, ecc.) viene messa a nudo e de-
nunciata o nel fatto che la stoltezza viene punita. La sconfitta si deve
spesso all’astuzia dell’altro personaggio, ma può essere dovuta anche a
circostanze diverse; talora la sconfitta è messa in luce dalla battuta fina-
le di uno dei due personaggi, talora risulta dall’azione stessa. La combi-
nazione di queste forme tra loro dà luogo a vari sottotipi, che non è il
caso di precisare con inutile pedanteria23. Basterà dare qualche esempio.

22
  Personaggio vale qui anche per gruppo collettivo: per esempio le rane, le pecore, i lupi,
i gatti selvatici, ecc.
23
  Per un’analisi minuta e pedantesca delle strutture nella recensio Augustana si può vedere
M. Nøjgaard, La fable antique, vol. 1: La fable grecque avant Phèdre, Copenhague 1964, e
la mia recensione in «Athenaeum», 1966 (qui, cap. 6).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 209

L’asino e il leone vanno a caccia; l’asino ritiene di aver fatto molto


coi suoi ragli; il leone ne irride la vanagloria con una sarcastica battuta
finale (I 11). Il falso medico imbroglia la gente; il re lo mette alla prova,
ne svela la ciarlataneria (I 14). A questo punto la struttura essenziale si
può ritenere conclusa; ma Fedro, o altri prima di lui, ha aggiunto la
denuncia davanti al popolo, dove il re accusa anche la dabbenaggine
del popolo stesso. La donnola, acchiappata dall’uomo, per essere ri-
sparmiata adduce pretesi benefici in suo favore: l’uomo svela la futilità
dei suoi discorsi e l’ammazza (I 22). Lo schiavo s’affaccenda nel giar-
dino per farsi meritevole agli occhi di Tiberio; l’imperatore, con una
sarcastica battuta finale, ne irride lo zelo (II 5). La mosca minaccia la
mula troppo lenta; la mula la mette a posto irridendo la sua vanità
(III 6). Il cane ben pasciuto cerca di attrarre il lupo alle comodità del-
la vita domestica; il lupo scopre la miseria della vita servile (III 7). La
donnola avvoltolatasi nella farina attira i topi e li ammazza; un vecchio
topo scaltro non stenta a ben riconoscerla (IV 2). La mosca vanta con-
tro la formica i suoi meriti; la formica ne svela la vita schifosa e misera
(IV 25: la favola è un contrasto ancora abbastanza vicino al tipo meso-
potamico). Il vitello vuol fare da maestro al toro; il toro, con una breve
battuta, ne fa risaltare la presunzione (V 9). Tocca specialmente a Eso-
po la funzione di sgonfiare le pretese dell’interlocutore (App. 13; 17). Il
lupo si offre come levatrice alla scrofa, la scrofa ne svela ironicamente
l’ipocrisia (App. 19). La favola più concentrata e più famosa di questo
tipo è quella della volpe e della maschera (I 7: la maschera è qui un
interlocutore)24. Il gracchio vanaglorioso entra nel gregge dei pavoni:
viene scacciato prima dai pavoni, poi anche dai gracchi (I 3). Il cervo
ammira le proprie corna e proprio a causa delle corna trova la morte
(I 12). Il corvo sciocco ascolta le lusinghe della volpe e ci rimette il
formaggio (I 13). La cicala persiste a dar noia alla civetta; la civetta
l’attira nell’insidia e l’ammazza (III 16). Il cavallo, pur di vendicarsi del
cinghiale, ricorre all’aiuto dell’uomo: ci rimette la sua libertà (IV 4). La
zanzara sfida il toro e il toro accetta la sfida: non capisce che così smi-
nuisce la sua gloria (Zand. 10)25. Può darsi anche che il personaggio
sconfitto non sia particolarmente stolto, ma sia un personaggio malva-

24
  Si possono confrontare ancora I 15, 23, 25, 29; III 3, 11; IV 8; V 2, 3, 10; App. 9, 10, 23, 24,
28, 29, 31, 32; Zand. 4, 19, 20, 23, 25, 26, 27.
25
  Cfr. ancora I 2, 9, 27; III 15; IV 6, 7, 19; V 7; App. 18; Zand. 3, 5, 7, 8, 11, 16, 18, 21, 24, 28, 29.

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210 Capitolo quinto

gio punito da uno più furbo di lui: così l’aquila punita dalla volpe (I 28),
la volpe punita dalla cicogna (I 26), il serpente costretto a mollare la lu-
certola che ha già in bocca (App. 25). Qualche rara volta lo sciocco non
ha commesso nulla di male, e paga solo la pena della propria sciocchez-
za: è il caso del caprone che la volpe invita a scendere nel pozzo e ve lo
lascia, dopo essersi salvata saltando sulle sue corna (IV 9). Ma non man-
ca neppure il caso del personaggio che paga per la propria bontà ma-
laccorta: è la favola famosa del viandante che si scalda la serpe in seno
(IV 20).
Sono piuttosto rare le favole che riflettono il conflitto più semplice,
quello, cioè, in cui il personaggio più forte sconfigge il più debole e gli
fa riconoscere la legge della forza, come la famosa favola esiodea dello
sparviero e dell’usignolo: questo è un segno della relativa complessità
raggiunta dalla riflessione della favola esopica. Si può far rientrare in
questo gruppo la favola della gru che fa l’operazione nella gola del lupo
e poi chiede la ricompensa promessa: il lupo le fa osservare che è già
molto se ha tirato fuori salvo il collo dalla gola (I 8). La cornacchia si
appollaia sul dorso della pecora e le dichiara brutalmente ch’ella rispet-
ta i forti, opprime i deboli (App. 26). Le colombe si affidano alla custo-
dia del nibbio e vengono divorate a una a una (I 31). La cagna che deve
partorire si fa prestare la dimora da un’altra cagna; quando i cuccioli
sono cresciuti e sono ben armati di denti, si tiene la casa (I 19). Neppure
in queste favole è in giuoco puramente e semplicemente la forza; nella
favola del lupo e della gru è in giuoco anche la dabbenaggine della gru;
in quella della cornacchia e della pecora la cornacchia unisce alla prepo-
tenza l’accortezza, che le fa evitare il conflitto col più forte; in quella
delle colombe e del nibbio l’accento è posto soprattutto sulla stoltez-
za delle colombe; e il nibbio, che si offre come protettore, è non solo
violento, ma anche astuto. Nella favola delle due cagne c’entra un po’
anche l’ingenuità della cagna che presta la sua casa. Nella favola di Eso-
po e dello schiavo fuggitivo (App. 20) il conflitto tra il più forte e il più
debole, cioè tra il padrone e lo schiavo, è solo un antefatto: la narrazione
verte sul confronto del più saggio, Esopo, col meno saggio, lo schiavo,
da cui scaturisce l’ammonimento ad accettare la legge del più forte. Re-
lativamente semplice è la favola dei sacerdoti di Cibele che, dopo aver
ammazzato il loro asino di fatica e di botte, ne utilizzano anche la pelle
per i tamburi: così l’oppressione dura anche dopo la morte (IV 1); qui la

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Fedro, la voce amara della favola esopica 211

legge del più forte si manifesta in tutta la sua crudezza e immensità.


Invece è tra le più complesse, quanto a struttura narrativa e quanto a
morale, proprio la favola del lupo e dell’agnello (I 1), perché il lupo non
si contenta di esplicare la sua prepotenza, ma vuol darle con cavilli una
giustificazione: la violenza si organizza come diritto.
Non bisogna però credere che tutte le favole a due personaggi siano
riconducibili, anche con molte forzature, allo schema del conflitto in cui
il più astuto o il più forte vince. Che conflitto c’è nel pollo che trova la
perla nel letame (III 12)? C’è solo la constatazione della cecità della sor-
te. L’asino che rifiuta i resti dell’orzo con cui è stato nutrito il verro sa-
crificato (V 4) è certo un saggio; ma è difficile parlare di un conflitto tra
l’asino e il padrone che gli offre l’orzo. Un caso a sé è la favola del calvo
che trova un pettine (V 6): si delinea un conflitto tra il calvo che ha tro-
vato e l’altro calvo che pretende parte del guadagno; si potrebbe anche
sostenere che qui il secondo calvo mette in rilievo l’invidia del fato, che
li colpisce tutti e due. La volpe si rifiuta di cedere parte della sua lunga
coda alla scimmia che ha le natiche scoperte (App. 1): c’è conflitto in cui
vince la volpe, ma non per la sua astuzia, bensì solo per la sua malvagità
gratuita (maligna)26.
Alcune favole sono riconducibili allo schema secondo il quale il
saggio scopre l’errore dell’altro personaggio o risolve un problema dif-
ficile o semplicemente ammonisce chi gli chiede consiglio. Esopo sve-
la al contadino il mistero delle pecore che figliano agnelli dalla testa
umana e ne indica la causa nella stoltezza del contadino stesso (III 3).
Socrate spiega, a uno che gli pone la domanda, come mai si costruisca
una casa così stretta: anche così piccola, è difficile riempirla di amici
veri (III 9). Giunone ammonisce amabilmente il pavone a contentarsi
delle proprie qualità (III 18). Giove convince i caproni che protestano
perché ha dato la barba alle capre: le capre hanno l’ornamento virile,
non la virilità (IV 17)27. È questo lo schema più diffuso nelle chreiai, ma
esso è molto antico, naturalmente, anche nella tradizione esopica.

26
  Si possono aggiungere I 6 (dove Fedro ha però deformato, probabilmente, la struttura
narrativa originaria: cfr. Marginalia Aesopica, p. 227 [qui, p. 335]), 18; Zand. 22, 25, 30. Nello
Zander si possono segnalare anche due favole (6, Il topo e il leone; 9, Il leone e il pastore) che
svolgono il motivo della gratitudine dell’animale beneficato verso il benefattore.
27
  Si possono aggiungere III 17 (Giove loda la saggezza di Minerva, che ha scelto l’albero
più utile), 19 (Esopo che cerca l’uomo con la lanterna).

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212 Capitolo quinto

Le favole a tre personaggi sono senza dubbio più rare, senza che
le si possa, però, considerare eccezionali (naturalmente vanno escluse le
favole in cui un terzo personaggio compare solo nell’antefatto, non
nell’azione vera e propria). Fedro risente di una tendenza, certo già
sviluppatasi prima di lui, ad avvicinare la struttura al conflitto di due
personaggi: un esempio insigne è la favola dell’aquila e della volpe,
dove il terzo personaggio, Giove, è scomparso (I 28). Ne è un segno,
io credo, il fatto che spesso, anche là dove il terzo personaggio è essen-
ziale all’azione, il racconto effettivo lo relega in secondo piano (tra
l’altro è spesso un personaggio muto). Prendiamo, per esempio, la fa-
vola del passero che irride la lepre sopraffatta dall’aquila (I 9): mentre
irride, viene acchiappato e ucciso dallo sparviero; lo sparviero, più che
un personaggio, è lo strumento di punizione dello stolto passero (l’a-
zione sarebbe poco diversa se la causa della morte fosse una forza della
natura). Direi press’a poco lo stesso della favola del topo e della rana
(Zand. 1, probabilmente da Fedro), dove la funzione del nibbio è simi-
le a quella dello sparviero nell’altra favola. Nella favola dei due muli
(II 7), l’uno carico di danaro, l’altro carico d’orzo, l’assalto dei briganti
è necessario all’azione, ma il conflitto si svolge tra i due muli: i brigan-
ti sono un elemento della situazione. Nella favola delle rane che chie-
dono un re (I 2), il conflitto si svolge fra le rane e Giove: il travicello e
la serpe sono solo elementi di due situazioni diverse (è questo uno dei
pochi casi di favola raddoppiata, cioè con due fasi diverse, di cui cia-
scuna comporta una situazione e una scelta). Nella favola delle rane
preoccupate per le battaglie dei tori (I 30), il conflitto che interessa è
quello fra i tori e le rane, fra i potenti e gli umili; ma nella formulazio-
ne narrativa si ha discussione fra due rane, di cui l’una dimostra all’al-
tra i pericoli derivanti agli umili dalle lotte dei potenti. Sembra diverso
il caso della favola della pantera e dei pastori (III 2): qui i personaggi
sono tre, la pantera, i pastori malvagi e i pastori misericordiosi, tutt’e
tre essenziali; eppure nel racconto di Fedro il rapporto di gratitudine,
cioè quello fra la pantera e i pastori misericordiosi, diventa preminen-
te rispetto al rapporto di vendetta (quello fra la pantera e i pastori
malvagi)28.

  Considerazioni simili si potrebbero adattare a III 4; IV 12; Zand. 13 (simile a I 9 e Zand. 1);
28

Zand. 16 e 18.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 213

I casi opposti a questi, cioè i casi in cui anche il terzo personaggio


resta in primo piano, sono specialmente le favole in cui un personaggio
mette discordia fra gli altri due (II 4, L’aquila, la gatta e la scrofa del
cinghiale) o col suo consiglio determina la vittoria di uno dei due per-
sonaggi in conflitto (II 6, L’aquila e la cornacchia; la vittima è la tarta-
ruga) e le favole che svolgono il motivo antichissimo (già mesopotami-
co) dell’arbitrato e del processo in cui, quindi, uno dei tre personaggi
fa da giudice o, più raramente, da testimone (I 10, Il lupo e la volpe
davanti al tribunale della scimmia; 17, La pecora, il cane, il lupo, dove il
lupo fa da testimone falso; III 8, Il fratello e la sorella, dove fa da arbitro
il padre; 13, Le api e i fuchi davanti al tribunale della vespa; Zand. 2,
I due galli litiganti e lo sparviero)29.
Nelle favole a tre personaggi i tipi di svolgimento dell’azione resta-
no press’a poco gli stessi. Per lo più la favola verte intorno a un con-
flitto in cui la natura negativa di uno dei personaggi viene messa a
nudo o elusa o in cui la stoltezza viene sconfitta. La scimmia giudice
mette a nudo la furfanteria sia del lupo sia della volpe (I 10). La pe-
cora mette allo scoperto l’inganno sia del cervo sia del lupo (I 16). La
vespa trova un modo sicuro per sgonfiare le pretese dei fuchi ignavi
(III 13). Il contadino dimostra al volgo quanto esso sia stolto (V 5,
Il buffone e il contadino; qui la folla spettatrice è il terzo personag-
gio essenziale)30. Sconfitta della stoltezza o dell’imprudenza: la rana
che scoppia per imitare il bue (I 24: il bue è personaggio muto e il dialo-
go si svolge tra la rana e i ranocchi); il mulo vanaglorioso col suo carico
d’oro, che non sa di portare su di sé la sua rovina (II 7); l’uomo di mezza
età che ha due amanti, l’una giovane, l’altra vecchia, e viene reso calvo
(II 2); il cervo che si rifugia nella stalla dei buoi e s’illude di sfuggire alla
vigilanza del padrone (II 8); le due donne inospitali che Mercurio puni-
sce esaudendo i loro desideri stolti (App. 4); la rana che cerca di affogare
il topo non sa guardarsi dall’attacco del nibbio (Zand. 1)31. L’astuto e mal-

29
  Alle favole di questo tipo si può avvicinare I 16 (La pecora, il cervo e il lupo), dove il lupo
vorrebbe fare da garante al cervo in una operazione di prestito.
30
  Si possono aggiungere IV 12; App. 5-6. Un caso particolare è App. 11 (Giunone, Venere e
la gallina): qui Venere mette a nudo il vizio della gallina, ma la gallina non c’entra nel
conflitto: essa serve di simbolo a Venere nella sua disputa; quindi la favola rientra piuttosto
in quelle con conflitto di due personaggi, di cui l’uno è più accorto dell’altro.
31
  Si possono aggiungere Zand. 13 (lo sparviero sta per ammazzare l’usignolo; promette di
risparmiarlo se canterà bene; ma, naturalmente, il canto non sarà mai giudicato abbastan-

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214 Capitolo quinto

vagio vince anche se l’avversario non è particolarmente sciocco: la gat-


ta selvatica che rovina l’aquila e la scrofa del cinghiale (II 4), la cornac-
chia che consiglia all’aquila il modo di sfracellare la tartaruga (II 6).
Anche nelle favole a tre personaggi i casi di malvagità punita sono
rari: il lupo testimone falso punito dagli dei (I 17), i pastori malvagi
puniti dalla pantera (III 2; ma questo motivo, come abbiamo visto, è
secondario rispetto a quello della gratitudine); il ladro sacrilego am-
monito dalla Religio, che gli preannunzia il castigo (IV 11: è una favola
eziologica e, come per lo più le favole eziologiche, rientra con difficol-
tà nella struttura normale)32.
C’è qualche raro caso difficilmente riconducibile allo schema del
conflitto. Per esempio, nella favola del toro e del giovenco ribelle, con
cui Esopo ammonisce il padrone di un ragazzo indomabile (App. 12),
il conflitto fra il padrone e il giovenco non dà la struttura al racconto,
che mette in primo piano il compito educativo del toro. Nella favola
del leone che manda via il brigante e tratta bene il viandante timido
(II 1), si può forse parlare di un conflitto brigante-viandante, in cui
vince il personaggio più riservato; comunque nella favola domina il
terzo personaggio, il leone giusto. Nella favola dello scimmione re,
che, invece, tratta bene l’adulatore, punisce chi dice la verità (IV 13),
riesce più chiaro il conflitto fra il bugiardo e il veritiero, in cui, pur-
troppo, è il bugiardo ad avere la meglio.
La validità di queste strutture formatesi nella tradizione anteriore a
Fedro è confermata dalla rarità di favole con più di tre personaggi. Un
caso è la favola famosa del leone che fa le parti (I 5): personaggi il leo-
ne, la vacca, la capra, la pecora. È noto che nella favola corrisponden-
te di Babrio (67) i personaggi sono due soli, il leone e l’onagro. La
versione di Fedro sembra dovuta a una «occidentalizzazione» della
favola: probabilmente la versione «orientale», con lo schema più nor-
male del conflitto fra due personaggi, è la più antica. Non si può né
dimostrare né negare con sicurezza che l’innovazione sia dovuta a
Fedro; si può ritenere, tuttavia, improbabile, perché il primo libro è
quello in cui Fedro è più fedele alla raccolta esopica utilizzata. L’altro
caso è la favola del leone morente contro cui si vendicano il cinghiale,

za bello; intanto sopraggiunge un cacciatore e acchiappa lo sparviero), 18, 15. Ma nei primi
due casi l’origine da Fedro è dubbia.
32
  Si possono aggiungere Zand. 12, 14 (quest’ultimo caso di dubbia origine fedriana).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 215

il toro e l’asino (I 21): essa è attestata, nell’antichità, solo da Fedro,


sicché è impossibile tracciare l’evoluzione della struttura. Un’altra fa-
vola che rientra a malapena nelle strutture normali è quella dei cani che
mandano ambasciatori a Giove (IV 19): oltre Giove e il popolo dei cani
si hanno due ambascerie di cani. A rigore la favola si può analizzare
in due parti, ciascuna con tre personaggi; ma è evidente che Fedro (o
altri prima di lui; qui, comunque, può darsi che molto dello sviluppo
narrativo si debba a Fedro) ha proceduto in senso contrario alla sem-
plificazione strutturale: la favola poteva ridursi a una fase sola e a due
personaggi, come quella del pavone e Giunone (III 18)33.
La relativa libertà di Fedro di fronte a strutture tradizionali (anche
senza tener conto, per ora, delle favole aneddotiche e novellistiche)
appare più chiaramente dalle favole a un solo personaggio, tra le quali
hanno un posto particolare quelle che illustrano figure allegoriche (per
esempio, V 8 che spiega la rappresentazione allegorica dell’Occasio)34.
Certo, anche nelle favole a un solo personaggio la struttura più comu-
ne del conflitto di due personaggi esercita una certa attrazione: per
esempio, nella favola della volpe e della maschera (I 7) la maschera
diventa quasi un personaggio interlocutore; nella favola del cervo alla
fonte (I 12) c’è quasi uno sdoppiamento del personaggio che ammira le
proprie corna e poi riconosce il proprio errore. Ma l’attrazione non è
molto forte: non si sente, per esempio, né nella favola del cane che
attraversa il fiume con la carne in bocca (I 4), né in quella dei cani af-
famati che vogliono bere il fiume per prendere il cuoio (I 20), né in
quella della volpe e dell’uva (IV 3), né in quella dell’asino che trova la
lira (App. 14). Neppure nella favola del vecchio cavallo ridotto a girare
la macina (App. 21) c’è uno sforzo a fare dei cavalli fortunati un perso-
naggio antagonista. Le favole eziologiche, come al solito, sfuggono più
facilmente alla struttura normale: quella, per esempio, di cui è perso-
naggio unico Prometeo, che, ubriaco, fabbrica per sbaglio tribadi e
pederasti (IV 16). Fedro non ha avuto nessuna difficoltà a inserire tra

33
  Quanto al tipo di azione, I 5 è un conflitto in cui il prepotente vince, I 21 un conflitto
che svela la viltà dell’asino, IV 19 un conflitto in cui viene punita la stoltezza dei cani.
34
  Cfr. anche l’allegoria delle due bisacce (IV 10). Alle favole allegoriche si possono acco-
stare quelle in cui il comportamento di un animale è preso come prova di una qualche
massima: per esempio, il comportamento dell’orso affamato (App. 22) o quello del castoro
inseguito dai cacciatori (App. 30).

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216 Capitolo quinto

le favole una predica della Pizia (App. 8) e persino un’interpretazione


allegorica delle pene infernali, una favola, per così dire, senza perso-
naggi (App. 7).

6. Il favolista «didattico» e l’interpretazione del racconto

Più che dalle strutture interne del racconto Fedro si sente legato dalle
strutture relative all’interpretazione della favola. Innanzi tutto egli ac-
cetta il principio che l’interpretazione della favola non va lasciata al
lettore, ma che il favolista deve dargliela già interpretata: il favolista si
pone di fronte al suo pubblico come uno che spiega e consiglia; viene
quindi a sparire quell’atteggiamento, tutt’altro che raro nelle figure dei
«sapienti», di chi insegna la verità per allusioni ed enigmi. In qualche
modo il procedimento didattico è in contrasto col principio più antico,
ma ancora sentito da Fedro, per cui la favola è un simbolo che deve
aguzzare l’ingegno.
Le eccezioni, cioè i casi in cui la narrazione è autosufficiente in
quanto contiene già in sé la sua interpretazione (specialmente perché
essa è data nella battuta finale di uno dei personaggi), sono già molto
rare in Fedro; e in qualche caso non si può escludere che il promitio o
l’epimitio sia perduto35. Un eunuco litiga con un insolente, e questi gli
rinfaccia la sua impotenza; l’eunuco gli obietta che la colpa è solo del-
la fortuna, e conclude (III 11, 7):

Id demum est homini turpe quod meruit pati.

Il senso della favola è già più chiaro. Analogamente la favola, raccon-


tata da Esopo, del nocchiero che ammonisce i viaggiatori a non ralle-
grarsi troppo per il sereno e a non affliggersi troppo per le tempeste
(IV 18), sopporterebbe difficilmente un’altra morale. La favola dei cani
che protestano presso Giove e vengono puniti (IV 19) non ha una
morale, ma l’interpretazione eziologica (la cui autenticità è stata però
messa in dubbio) sostituisce la morale (il che si può dire anche di qual-
che altra favola eziologica, come IV 16). Più strano riesce (anche se ai

  Naturalmente non si può tener conto delle favole dell’Appendix Perottina, i cui promiti
35

o epimiti sono andati per lo più perduti.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 217

lettori moderni non dispiace affatto) che sia lasciato senza interpreta-
zione il grazioso aneddoto su Menandro e Demetrio (V 1).
All’inizio della sua attività poetica Fedro ricorre più volentieri al
promitio (nel primo libro ben 26 casi su 31): è probabile che questo
fosse il procedimento del suo modello esopico. In seguito il promitio
diviene più raro, ma non sparisce (nel secondo libro 3 casi su 8, nel
terzo 7 su 19). Per lo più contiene una verità generale di utilità pratica
(tipo Numquam est fidelis cum potente societas, I 5, 1) o, più di rado, un
ammonimento (tipo Nulli nocendum, I 26, 1 oppure Ne gloriari libeat
alienis bonis, I 3, 1)36. Invece è molto raro (anche nel primo libro) il
promitio, già in uso in Grecia, «la favola è scritta per questo o per
quello», «la favola si applica a questo o a quello» (I 27, 1-2, Haec res
avaris esse conveniens potest / et qui humiles nati dici locupletes student;
altro caso in IV 8). Anche l’epimitio è spesso sentenzioso: o si enuncia
la verità generale ricavata dal racconto (per esempio, II 3, 7, Successus
improborum plures allicit ; IV 6, 11-13, Quemcumque populum tristis even-
tus premit, / periclitatur magnitudo principum, / minuta plebes facili prae-
sidio latet) o si dà la favola come esempio o come prova di una verità
generale (per esempio, II 4, 25-26, Quantum homo bilinguis saepe con-
cinnet mali, / documentum habere hinc stulta credulitas potest ; II 7, 13-14,
Hoc argumento tuta est hominum tenuitas, / magnae periclo sunt opes ob-
noxiae) o si passa al consiglio o all’ammonimento (per esempio, III 14,
12-13, Sic lusus animo debent aliquando dari, / ad cogitandum melior ut
redeat tibi; III 17, 13, Nihil agere quod non prosit fabella admonet ; III 18,
14-15, Noli adfectare quod tibi non est datum, / delusa ne spes ad querelam
reccidat). Ma nell’epimitio il tipo «la favola si rivolge», «si applica a
questo o a quello» è più frequente che nel promitio, anche se non tan-
to da poter dirsi prevalente (per esempio, I 1, 14-15, Haec propter illos
scripta est homines fabula / qui fictis causis innocentes opprimunt ; I 7, 3-4,
Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam / Fortuna tribuit, sensum
communem abstulit; III 6, 10-11, Hac derideri fabula merito potest / qui
sine virtute vanas exercet minas)37.

36
  Credo inutile pedanteria ricorrere a distinzioni più precise; comunque chi ne ha voglia
può vedere la classificazione degli epimiti della recensio Augustana in Nøjgaard, La fable
antique, cit., vol. 1, pp. 359 ss.
37
 IV 5 presenta sia il promitio sia l’epimitio. Un caso particolare, su cui tornerò in seguito,
è III 10 (novella), con un promitio e due epimiti.

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218 Capitolo quinto

Verrebbe fatto di pensare che nell’interpretazione della favola Fedro


si sentisse più libero che nel racconto vero e proprio, nella scelta dei
personaggi e nello svolgimento dell’azione, ma in genere non è così.
Fedro non solo si sente obbligato dalle strutture tradizionali a interpre-
tare la favola, ma dalla tradizione resta soffocato nel formulare l’inter-
pretazione stessa: l’ironia brillante o il sarcasmo di alcune battute finali
del racconto mancano o sono più fiacchi nel commento; il narratore, così
vivace nei dialoghi, riesce arido e persino sciatto nei promiti ed epimiti.
Non più arido e più sciatto, comunque, delle raccolte esopiche greche.
Non va negata, innanzi tutto, la brevità efficace di alcune sentenze. D’al-
tra parte la rigidità si scioglie in quei promiti ed epimiti (che in parte ho
già segnalati) dove il favolista interviene più direttamente, con allusioni
autobiografiche o con discussioni38. Forse Fedro stesso ha avvertito l’a-
ridità e ha cercato, sia pure troppo di rado, di avviare nel commento
(oltre che nei prologhi e negli epiloghi) un colloquio col lettore: oltre
l’epimitio di IV 21 (a cui ho già accennato39) si può vedere, per esempio,
il promitio di IV 2, dove Fedro adatta al suo procedimento favolistico
(con opportunità, veramente, discutibile) la favola della donnola infari-
nata e dei topi. Anche l’introduzione di favole «anormali» (favole ezio-
logiche, allegorie, aneddoti, novelle) costringeva Fedro, nell’adattamen-
to, a uno sforzo d’interpretazione che non poteva chiudersi nelle
formule usuali (su questo dirò qualche cosa più in là).
Capita qualche volta anche in Fedro, ma molto meno spesso che
nelle raccolte esopiche greche, di sentire qualche incongruenza fra
la morale e il racconto. L’aneddoto di Diogene che cerca l’uomo con la
lanterna, applicato a Esopo (III 19), viene interpretato come se Esopo
volesse dire che non è un uomo colui che ha posto inopportunamente
la domanda (l’aneddoto originario voleva significare una verità più ge-
nerale e ben più importante, cioè che l’uomo vero è raro); ma è molto
dubbio che l’interpretazione restrittiva e falsa si debba a Fedro.
Dall’aneddoto di Esopo che risolve l’indovinello del testamento (IV 5)
si ricava, sia nel promitio sia nell’epimitio, la morale che spesso un
uomo solo vede più in là di molti. La favola dei due soldati assaliti dal
brigante, di cui l’uno combatte e uccide il brigante, l’altro scappa e, a

38
 Cfr. supra, pp. 200-201.
39
 Cfr. supra, p. 203.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 219

cose fatte, offre la sua opera (V 2), mette in ridicolo quelli che vantano
qualità, mentre non sanno dimostrarle al momento giusto (e questo
senso risulta anche in Fedro dalla battuta del soldato valoroso); ma la
morale che ne ricava Fedro (Illi adsignari debet haec narratio, / qui re
secunda fortis est, dubia fugax), pur non essendo sfasata, è troppo restrit-
tiva. Altre riserve certamente si potrebbero fare indagando più sottil-
mente; ma in generale la morale di Fedro, pur essendo spesso super-
flua, è aderente al racconto.

7. Vie nuove: la rappresentazione realistica della vita contemporanea

Tutti i lettori di Fedro sanno come dopo il primo libro egli abbia cerca-
to di arricchire e variare la sua opera, scostandosi da quello che egli rite-
neva l’Esopo autentico e attingendo ad altre raccolte di favole e aneddo-
ti. Nel prologo del secondo libro, però, egli s’impegna a osservare omni
cura morem… senis: la maniera resta quella esopica. Ma proprio nel se-
condo libro (che conserviamo solo in parte) abbiamo il passo avanti
forse più audace sulla via dell’innovazione: il grazioso episodio di Tiberio
e dello schiavo zelante (II 5) non è attinto da libri, bensì dalla viva vita
contemporanea. Nell’epilogo del secondo libro Fedro non si presenta
come rielaboratore di Esopo, ma come il suo emulo latino. L’orgoglio è
salito nel prologo del terzo: del sentiero di Esopo egli ha fatto una via,
ha arricchito molto il repertorio del suo auctor greco. Il concetto torna
nel prologo del quarto (11 ss.): il genere letterario è quello di Esopo, le
res, gli argomenti sono nuovi; le sue favole sono «esopiche» (Aesopiae),
ma non di Esopo. Gl’invidiosi non sanno riconoscere l’arricchimento e
la perfezione che Fedro ha apportati al genere (IV 22); ma

sive hoc ineptum sive laudandum est opus,


invenit ille, nostra perfecit manus.

Nel prologo del quinto ancora un passo avanti nella proclamazione


della propria originalità: il nome di Esopo è solo un’etichetta messa lì
per dare all’opera prestigio (auctoritas) agli occhi del pubblico; nuovo è
il contenuto, nuova è l’arte. Richiamo quanto ho detto a proposito
della poetica: nella ricerca di una propria originalità va tenuto conto
del pungolo dei critici malevoli.

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220 Capitolo quinto

Le direzioni in cui Fedro si muove in questa ricerca non sono però


estranee alla tradizione che noi conosciamo. Esopo non figurava solo
come narratore di favole, ma anche come interprete di indovinelli e
come saggio dalle battute spiritose e mordaci; favole a un solo personag-
gio e con poco o nessuno sviluppo dell’azione erano figure allegoriche,
mentre, al contrario, favole con personaggi umani e con un’azione mol-
to sviluppata si avvicinavano a ciò che noi intendiamo per novella. Nel
primo libro Fedro avrà usato una raccolta ristretta quasi solo al tipo di
favola che noi comunemente chiamiamo esopica, cioè con due o tre
personaggi animali e con azione consistente in un conflitto; ma certa-
mente in altre raccolte trovava i vari tipi che noi conosciamo dalle tarde
raccolte esopiche greche; resta però vero che, su vie già aperte, Fedro è
andato più in là degli altri favolisti antichi, sia anteriori sia posteriori.
Le favole eziologiche sono poche: quella che spiega perché sia proi-
bito accendere il lume dal fuoco degli altari (IV 11), quella sull’origine
degl’invertiti e delle invertite (IV 16), quella delle due ambascerie dei
cani a Giove (IV 19)40. Negli ultimi due casi Fedro non cerca neppure
di ricavare una morale; nell’altro caso sente la difficoltà, dà un’inter-
pretazione ampia e finisce per ricavare dall’aneddoto anche troppi in-
segnamenti (nella fonte, se l’aveva41, Fedro trovava solo l’interpreta-
zione eziologica): quelli che tu allevi ti diventano spesso nemici; i
delitti, anche se non vengono puniti subito, vengono puniti col tempo;
il buono non abbia a che fare in niente col malvagio.
Tra le favole semplificate fino ad avvicinarsi all’allegoria è probabil-
mente coniazione fedriana quella della vecchia e dell’anfora (III 1).
Proviene da raccolte precedenti la favola del castoro (App. 30) e, pro-
babilmente, anche quella dell’orso affamato (App. 22). Vera e propria
allegoria, attinta a tradizione secolare42, è il quadro graziosissimo della
Occasio, il Kairós greco (V 8). Novità più audaci in una raccolta esopica
erano svolgimenti diatribici come l’interpretazione allegorica delle
pene infernali (App. 7) e la predica della Pizia (App. 8). Casi del gene-
re accrescono la varietà dell’opera, come l’autore voleva, ma aggiungo-
no ben poco alla sua arte: la via dell’allegoria e della diatriba, benché

40
  Si potrebbe aggiungere Zand. 28, se fosse di origine fedriana.
41
  Quot res contineat hoc argumentum utiles / non explicabit alius quam qui repperit: se ne può
concludere con probabilità che Fedro non aveva una fonte scritta.
42
  Per la storia di questo motivo cfr. Thiele, Phaedrus-Studien, cit., pp. 577 ss.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 221

Fedro l’imboccasse per un interesse reale e non caduco, soffocava, in-


vece di svilupparla, la sua originalità di artista.
Era, invece, nella rappresentazione realistica del mondo umano,
mondo già urgente sotto il velo della favola, che quest’originalità do-
veva manifestarsi interamente. Tra le favole aneddotiche abbiamo al-
cuni racconti dove tutto è vivo e naturale, a cominciare dai personaggi.
Se gli animali sono per lo più incolori, ognuno ricorderà come è carat-
terizzato felicemente lo schiavo zelante della villa del Miseno (II 5,
11 ss.): pronto al servizio (e perciò alte cinctus), attillato ed elegante (una
tunica di lino di Pelusio gli casca giù mollemente dalla spalla, ornata
di frange); col suo secchiello di legno lo vediamo correre di viale in
viale, di aiuola in aiuola ad annaffiare la terra polverosa, oppressa dal-
la calura estiva e assetata (senza che Fedro si fermi a descrivere, ci
suggerisce il paesaggio di un ampio giardino romano, ben ordinato e
ben tenuto, sotto la luce e la calura di una giornata estiva meridionale).
Nel suo zelo è chiara l’ostentazione. Quando Tiberio lo chiama, arriva
d’un balzo (adsilit), leggero della sua gioia infondata. Ancora più feli-
ce, nella sua brevità, è il ritratto di Menandro, accodato, tra gli ultimi,
al corteo che rende omaggio a Demetrio di Falero (V 1, 12-13):

unguento delibutus, vestitu fluens,


veniebat gressu delicato et languido.

La battuta di Demetrio precisa e colorisce il ritratto:

quisnam cinaedus ille in conspectu meo


audet cevere?

Molto più che dalla letteratura, Fedro è stato aiutato dall’esperien-


za della grande città, con le sue mollezze e i suoi vizi.
Forse il capolavoro narrativo di Fedro è l’aneddoto del soldato di
Pompeo (App. 10). La raffigurazione di questo soldato è un bellissimo
ritratto, che gioca soprattutto sugli effetti di contrasto. Contrasto fra
la grande corporatura e i modi chiarissimi da cinedo:

Magni Pompeii miles vasti corporis


fracte loquendo et ambulando molliter
famam cinaedi traxerat certissimi.

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222 Capitolo quinto

Quest’inizio è di un’arte molto fine: non deve sfuggire il contrasto


fra il tono solenne, epico del primo verso e la mollezza, un po’ ridicola
e un po’ disgustante, del seguente. Secondo un tipo psicologico che nel
costume e nella letteratura romana ha un grande rilievo (è il tipo di
Silla, di Catilina, di Petronio), quest’uomo penetrato dal vizio fin nel-
le midolla cela dentro di sé energia indomabile, coraggio sicuro: cinae-
dus habitu, sed Mars viribus. Con la mollezza del portamento contra-
stano non solo queste qualità, ma anche l’efficace rozzezza dei modi
che egli serba nel suo fondo popolano e militare e che si rivela nel
gesto con cui risponde a Pompeo: si sputa sulla sinistra, spande lo
sputo colle dita e giura: «così mi caschino a goccia a goccia gli occhi,
se ho mai visto o toccato il tesoro»: gesto e giuramento che vengono
poi ripresi argutamente da Pompeo e sono come il sigillo icastico di
questa narrazione, oltre che viva, perfettamente equilibrata.
Ben caratterizzato con la sola mimica (senza descrizione e senza dialo-
go) è il vanitoso flautista Principe (V 7): getta baci al pubblico; al rinno-
varsi del cantico degli spettatori, che crede rivolto a sé, si prosterna tutto
per ringraziare. Riesce però qui difficile separare il personaggio, che pure,
con la sua vanità ridicola, resta in primo piano, dal movimento della scena
di massa, che è condotto con una misura e una vis comica felicissima: l’at-
tesa nel teatro per il flautista, l’intrecciarsi di voci contraddittorie («è mor-
to!», «è già sulla scena!»), l’inizio dello spettacolo, il coro degli spettatori
che causa l’illusione del divo, il riso dei cavalieri, la beffa, lo scatenarsi
della folla, la cacciata violenta del divo nel suo magnifico vestito bianco.
Un’altra memorabile scena di massa, anche questa volta di spettatori (for-
se anche qui l’esperienza della grande città, in cui teatri e circhi erano al
centro dell’interesse generale, ha ispirato Fedro), è quella a cui assistiamo
nella favola del buffone e del contadino (V 5). Il narratore è molto attento
allo spettacolo che offre il pubblico: questo personaggio collettivo, di cui
si vede l’insipienza, è il personaggio più importante della favola. La notizia
del nuovo spettacolo mette sottosopra la città (11):
Dispersus rumor civitatem concitat.

I posti in teatro vanno a ruba. Quando lo scurra appare, solo, sulla


scena, un vasto silenzio domina il teatro (il senario che lo esprime è
uno dei più felici di Fedro):
silentium ipsa fecit exspectatio.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 223

Le reazioni del pubblico allo spettacolo sono sempre clamorose,


appassionate, smodate e, naturalmente, sciocche. Anche la novelletta
dei due proci (App. 16), l’uno ricco l’altro povero, deve molto della sua
grazia al movimento rapido e festoso della scena, al personaggio col-
lettivo, la folla, che circonda i protagonisti: il corteo affollato dietro
l’asinello che porta la sposa, la tempesta improvvisa, lo scompiglio nel
corteo, l’arrivo dell’asinello alla casa del pretendente povero, il gran
raglio (voce magna) con cui si annunzia, l’accorrere dei ragazzi che re-
stano incantati davanti alla bellezza della sposa. Anche nell’aneddoto
di Simonide salvato dai Dioscuri (IV 26), oltre al dialogo, sono molto
felici il colore e il movimento generale della scena: splendore e letizia
del convito, il palazzo che risuona della festa, il sopraggiungere im-
provviso dei due giovani meravigliosi, sudati, polverosi, frettolosi, il
crollo improvviso della sala, la sparizione miracolosa dei Dioscuri.
L’inclusione di aneddoti e novelle in una raccolta di favole esopiche
poneva, si capisce, dei problemi di adattamento. Fedro ha risolto abba-
stanza bene, senza troppo sforzo, l’adattamento delle strutture narrative:
l’azione resta imperniata su due o tre personaggi e comporta un conflit-
to con la sconfitta di uno dei personaggi. Uno dei racconti più difficili a
essere adattati era quello del marito che, ingannato dal liberto, uccide il
figlio e poi sé stesso (III 10). Fedro svolge il racconto in due fasi (favola
raddoppiata): nella prima i personaggi sono il marito, il liberto, la mo-
glie: il marito precipita nella rovina per la sua credulità; nella seconda i
personaggi sono il liberto, la moglie, Augusto giudice: la perfidia del
liberto viene punita. Nell’aneddoto di Simonide salvato dai Dioscuri
(IV 26), personaggi sono Simonide, il committente, i Dioscuri; sconfit-
to è il committente. Aneddoto su Menandro (V 1): Demetrio, gli uomi-
ni del suo seguito che l’informano, Menandro; lo sconfitto è Demetrio,
costretto a ricredersi. Novella del buffone e del contadino (V 5): tre
personaggi: il buffone, il contadino, il pubblico; si svela l’idiozia del pub-
blico. Nella novella dei due proci (App. 16) i personaggi possono ridursi
a due: la sposa è personaggio muto, che non decide nulla (piuttosto si
potrebbe considerare terzo personaggio l’asino); battuto è il pretendente
ricco, che s’illude di aver vinto grazie alle sue ricchezze. Anche nella
novella della matrona e del soldato (App. 15) i personaggi si riducono a
due (a meno che non si voglia considerare terzo personaggio il cadavere
sacrificato del marito): anche se non si può parlare di un personaggio

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224 Capitolo quinto

sconfitto, viene tuttavia svelata la natura debole e ipocrita della donna.


Nella favola del testamento enigmatico (IV 5) personaggi veri sono la
vedova ed Esopo: le tre figlie sono solo oggetto dell’azione, che porta a
svelare l’interpretazione errata della vedova. Nell’aneddoto del flautista
Principe (V 7) personaggi sono il flautista e il pubblico, sconfitto il flau-
tista (tutt’al più si può sdoppiare il pubblico fra cavalieri e popolo). I
pochi casi restanti sono più semplici: nell’aneddoto del soldato di Pom-
peo (App. 10) i personaggi si riducono a due (i consiglieri di Pompeo, il
nemico sfidante sono personaggi secondari che non turbano la struttura
del «conflitto»); l’azione svela la menzogna del soldato; nel primo aned-
doto su Simonide (IV 23) l’azione si svolge fra Simonide e gli altri viag-
giatori, il cui errore è svelato nel corso dell’azione.
Uno sforzo maggiore si avverte nel ricavare la morale dal racconto
aneddotico o novellistico. In qualche caso, come in quello dell’aned-
doto su Menandro (V 1), Fedro sembra avervi rinunciato (ma il caso
non si presentava particolarmente difficile). Alcuni casi importanti
ricorrono nell’Appendix Perottina: il giudizio (per la perdita di quasi
tutti i promiti e gli epimiti in quella parte) ci è impossibile. Lo sforzo
è visibile nella favola del marito ingannato dal liberto (III 10). Nel
promitio Fedro ne ricava una morale ambigua: Periculosum est credere
et non credere. Il favolista deve aver sentito che una morale così ambi-
gua e generica era poco utile; nell’epimitio ricava altre due massime:
non bisogna né prestare né negare fede immediatamente, ma indagare
con cura, senza fidarsi delle apparenze; bisogna giudicare da sé, col
proprio cervello, senza lasciarsi trascinare dal giudizio altrui, che può
essere dettato dalla passione o dall’interesse.
Se la morale appiccicata a questi racconti può lasciare in qualche caso
insoddisfatti, sarebbe però errato trarne la conclusione che questi rac-
conti sono solo narrazioni piacevoli, estranee agl’interessi morali di Fe-
dro. Ciò si può ammettere solo in qualche caso: quasi sempre aneddoti
e novelle sono permeati dalla stessa riflessione amara che conosciamo
nelle favole in senso stretto; non esiste una frattura tra il favolista e il
novellista: c’è solo uno sviluppo della vena narrativa, certo più ricca e più
libera nelle novelle. La comicità di racconti come quelli del flautista
vanitoso, del buffone e del contadino, della matrona sedotta facilmente
dal soldato non è comicità piacevole e gratuita: è sempre un modo di
scavare nei vizi dell’uomo. È, anzi, una comicità che arriva più di una

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Fedro, la voce amara della favola esopica 225

volta al sarcasmo. La novella della matrona non è tra le prove migliori di


Fedro novellista (ciò sia detto senza lasciarsi fuorviare dal confronto
schiacciante con Petronio), anche se il personaggio del soldato (nella
scena dove dallo spiraglio della porta vede la donna in pianto, s’accende
immediatamente di brama e aguzza l’ingegno a cercare pretesti per farle
visita) rivela la stoffa solita; ma c’è un epiteto sarcastico di una forza
espressiva non comune: quando la matrona risponde al soldato atterrito
proponendogli di sostituire il cadavere asportato col cadavere del marito,
Fedro introduce la battuta con un sancta mulier. L’episodio dello schiavo
zelante (II 5) è introdotto dal ritratto della genia degli ardaliones: un ri-
tratto pieno di ripugnanza, incisivo nelle sue antitesi brillanti:

Est ardalionum quaedam Romae natio,


trepide concursans, occupata in otio,
gratis anhelans, multa agendo nil agens,
sibi molesta et aliis odiosissima.

La speranza di correggerla non è molta:

Hanc emendare, si tamen possum, volo...

Questo quadro è giustamente famoso. Ma voglio ricordarne un al-


tro che meriterebbe di esserlo anche di più: il quadro della folla che si
precipita a baciare la mano al tiranno Demetrio (V 1, 3 ss.):

Ut mos est vulgi, passim et certatim ruit;


«Feliciter!» succlamant. Ipsi principes
illam osculantur qua sunt oppressi manum,
tacite gementes tristem fortunae vicem.
Quin etiam resides et sequentes otium,
ne defuisse noceat, repunt ultimi.

Quadro di viltà, di miseria morale, che suscita il disprezzo, senza


escludere la compassione: questi sentimenti niente tolgono alla precisio-
ne, alla nitidezza del quadro: si noti il contrasto fra ruit e repunt. In
certi momenti il realismo di Fedro, come quello di Petronio e di Giove-
nale, si mantiene a stento nei limiti del realismo comico antico: il pessi-
mismo che è al fondo di quella comicità, lo porta al limite di esperienze
letterarie nuove. D’altra parte si deve all’interesse morale di Fedro se

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226 Capitolo quinto

queste vicende attinte o dall’aneddotica storica o dalla narrativa piacevo-


le o dal mondo contemporaneo, non restano dei casi curiosi, ma diven-
tano dei casi tipici, segni della universale natura umana: se, cioè, il reali-
smo di Fedro non è solo fedeltà al reale, ma tipizzazione del reale stesso.

8. Urbanitas: lo stile medio del realismo comico

In una tradizione retorica che già da secoli (sia pure in una misura da
non sopravvalutare) aveva agito sulla favola, l’esigenza della brevitas fa-
ceva tutt’uno con l’esigenza di uno stile semplice (ἁπλοῦς) e chiaro
(σαφής). Fedro s’è messo decisamente su questa strada; ma la felicità del
risultato non dipende, si capisce, da questa scelta, bensì dalla risponden-
za di questa scelta con la misura e col gusto realistico di Fedro. Del resto
il presupposto culturale che più ha giovato a Fedro per la formazione
dello stile non è la tradizione retorica a cui ho accennato, ma una grande
tradizione latina di stile poetico medio che ha il suo punto di partenza
in Terenzio. Non è per caso che da tempo alcuni critici fini, per esempio
Gian Vincenzo Gravina43, hanno avvertito il livello e il colore terenziano
dello stile di Fedro: è soprattutto la fusione felice della semplicità e chia-
rezza con l’urbanità, l’eleganza, il nitore che induce a richiamare Teren-
zio. E tuttavia il richiamo a Terenzio, da solo, rischia di dare un’im-
magine falsa dello stile di Fedro: il richiamo dello stile satirico, e
specialmente di Orazio, metterebbe meglio a fuoco lo stile poetico me-
dio, ma vario, e non del tutto semplice, del favolista latino.
Il colore di fondo, sì, è dato dallo stile medio: chiaro, succinto,
elegante. Questo narratore, che ha raggiunto tanta naturalezza nel dia-
logo, si tiene ancorato abbastanza saldamente alla lingua viva della
conversazione44. Nelle battute dialogiche questo è più ovvio45; ma l’im-

43
  Ragion poetica, I, 25, a cura di P. Emiliani Giudici, Firenze 1857, p. 63 (segnalato da
Della Corte, Favolisti latini, cit., p. 76).
44
  La preferenza di Fedro per gli usi comuni, usuali, fu messa bene in rilievo da C.
Causeret, De Phaedri sermone grammaticae observationes, Parisiis 1886. Per la conoscenza
del sermo familiaris di Fedro elementi utili sono raccolti da J. Bertschinger, Volkstümliche
Elemente in der Sprache des Phaedrus, Diss. Bern 1921, che però dà un’interpretazione gene-
rale piuttosto errata dello stile di Fedro: tra l’altro egli crede che certi usi popolari si
spieghino con lo scarso possesso del latino da parte del liberto straniero.
45
  Mi limiterò a citare sodes (App. 11, 5), ais (IV 7, 17, ait P.), mehercule (I 25, 7; III 5, 4; V 5,
22), mehercules (III 17, 8; App. 14, 3), e modi ellittici come licet? (App. 10, 20), licetne paucis?
(App. 17, 5), tanto melior (III 5, 3).

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Fedro, la voce amara della favola esopica 227

pronta della lingua in uso è chiara anche nella narrazione, specialmen-


te nel lessico. Ardalio (II 5, 1), raramente attestato, proviene certa-
mente dalla lingua viva (si ritrova poi in Marziale); certamente anche
alapa (V 3, 2: non attestato prima di Fedro, ma alapari già in Plauto);
della lingua familiare anche basium (V 7, 28). Della lingua viva Fedro
non si è lasciato sfuggire alcuni verbi espressivi, estranei o quasi alla
lingua letteraria: lucubrare (App. 15, 14), che ricorre solo in Livio (I 57,
9; elucubrare: Cic., Ad Att. VII 19, 1), ma che ha lasciato tracce nelle
lingue romanze; baiulare (IV 1, 5), che meglio dei più comuni ferre
o portare esprime la fatica massacrante dell’asino; tricari (III 6, 9)
«indugiare», «tergiversare» (solo due casi prima di Fedro, in Cicerone,
Ad Att. XIV 19, 4; XV 13, 5). Meno si sente un’altra tendenza propria
del sermo familiaris, la preferenza, cioè, per il verbo generico (tuttavia
III 16, 3-4, convicium / faciebat; I 23, 8, facias […] lucrum: cfr. IV 21, 26;
diverso è il caso di V 5, 15, silentium […] fecit). Tra i segni più eviden-
ti dell’espressività della lingua parlata è la netta prevalenza di ille (oltre
dieci casi) e ipse (quasi trenta casi) rispetto a is (una ventina di casi). In
un paio di casi ricorre quis per uter (I 24, 8; IV 25, 2)46. Propter (sette
volte) ha cacciato via del tutto ob. Numerosi sono i casi di avverbi am-
plificativi come pulchre (I 10, 10; III epil. 35; IV 21, 6; 22, 2; V 10, 10) e
validius (I 19, 8; III 11, 4; 16, 6; IV epil. 9; App. 4, 13).
Proviene dall’uso, e non dalla letteratura, la maggior parte dei gre-
cismi: antidotum (I 14, 8), cithara (III 16, 12), xystus (II 5, 18), cathedra
(III 8, 4), pycta (IV 26, 5), pegma (V 7, 7), che sono termini tecnici;
cadus (IV 5, 25), apotheca (ibid.), charta (IV prol. 18; IV epil. 5), plaga
(IV 1, 6; App. 20, 6), gyrus (III epil. 25), zona (IV 23, 11), smaragdus
(III 18, 7), pera (IV 10, 1)47, sarcophagus (App. 15, 2), moecha (IV 5, 21; ma
adultera III 3, 9), ecc. La resistenza puristica di Fedro non è forte: egli
accoglie i grecismi ormai diffusi nell’uso latino in una misura non di-
versa da quella di Marziale.
L’uso dei diminutivi è misurato (la lingua di Fedro non è partico-
larmente affettiva), ma notevole. Lasciando da parte alcuni diminutivi
«banalizzati», come libellus, alveolus, hortulus, agellus, tigillum, capella,

46
  Attribuirei meno importanza alla discreta presenza di alter (quat­tordici volte) accanto
ad alius (venticinque volte): essa si deve alla frequenza delle favole con due personaggi.
47
 Catullo 22, 21, riferendosi allo stesso proverbio, usa mantica; ma pera doveva essere
nell’uso perché troviamo prima di Fedro il composto sacciperium (Plauto).

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228 Capitolo quinto

porcellus, catulus, surculus, ecc., resta pur sempre un buon numero di


diminutivi più o meno espressivi: asellus (I 11, 3; 15, 4; 29, 4; App. 16, 11
e 21), vulpecula (IV 9, 10; App. 32, 3), servulus (IV 26, 24), ancillula (App.
15, 12), vetulus (App. 12, 6), parvulus (V 3, 3), meliusculus (App. 17, 7),
bellus (App. 14, 3), il graziosissimo auritulus (I 11, 6). Se non d’intensità
affettiva, questi diminutivi sono segno di grazia icastica, di amoroso
lavoro di cesello.
Meno risente della lingua parlata la sintassi; comunque fugere con
de e l’ablativo (I 16, 6), ancora raro nel I secolo d. C., proviene di là;
probabilmente anche casi di coepi e l’infinito con senso ingressivo
molto attenuato (I 12, 11; 2, 25; 3, 10); forse anche alius con l’ablativo
(III prol. 41), gratulari usato senza complemento (V 7, 29)48.
L’urbanità del sermo esclude quasi del tutto drastiche espressioni
volgari: benché i soggetti scabrosi non manchino (è probabilmente a
essi che Marziale si riferisce, applicando giocosamente a Fedro un epi-
teto da Fedro stesso usato in senso diverso)49, il lessico scabroso si ri-
duce a poco (I 29, 7 demisso pene, in una delle rare favole di robusto
esprit gaulois; IV 19, 11, 36: non c’è ragione di espungere gli ultimi due
versi della favola). Ma l’urbanità può essere mantenuta anche con una
sostanziale povertà e sciattezza espressiva; ora è importante rilevare
che Fedro non è né stilisticamente monotono né sciatto.
Ho già accennato alla presenza insistente che il narratore fa sentire
nel racconto col suo giudizio morale: questo procedimento può dare
fastidio a chi cerca la rappresentazione nitida e il colore, ma questo
sensibile impegno morale non è la stessa cosa che la sciattezza. L’uso
dell’astratto per il concreto, così diffuso in Fedro, quasi mai è un arti-
ficio stilistico gratuito: per lo più è la qualità essenziale dell’azione che
viene rilevata, qualità che all’interprete del racconto importa più del
personaggio stesso: la decepta aviditas del cane che attraversa il fiume
con la carne in bocca (I 4, 5); la improbitas del leone che fa le parti
(I 5, 11); il deceptus stupor del corvo gabbato dalla volpe (I 13, 12); l’avi-
ditas dives, i ricchi avidi e sfrontati nel chiedere, contrapposta al pauper
pudor, ai poveri timidi (II 1, 12); la credulitas del marito ingannato dal

48
  Meno importanza attribuirei alle forme verbali perifrastiche con fueram o fuero, perché
non si limitano al sermo familiaris (cfr. I 2, 23; IV 4, 1; 5, 45; App. 16, 8).
49
  Naturalmente nel verso di Marziale (III 20, 5) è da leggere iocos.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 229

liberto (III 10, 33), ecc.50. C’è tuttavia qualche caso in cui l’astratto per
il concreto contribuisce all’efficacia icastica: la longitudo del collo della
gru (I 8, 8), la longitudo del naso della donna che Mercurio punisce
(App. 4, 16), la tenuitas delle gambe del cervo (I 12, 6), la levitas putris
della farfalla (App. 31, 6), la tanta maiestas di Tiberio (II 5, 23)51.
Questo, naturalmente, non basterebbe a provare una forza espres-
siva e rappresentativa dello stile di Fedro. Ma a un lettore anche non
molto attento non dovrebbero sfuggire quei momenti, tutt’altro che
rari, in cui lo stile semplice e piano di Fedro si fa più pregnante e in-
cisivo, dà un colpo d’ala o scava più a fondo. Qualche caso ho avuto già
occasione di notare52. Guardiamo, per esempio, lo sparviero che affer-
ra il passero (I 9, 6-7):

... ipsum accipiter necopinum rapit


questuque vano clamitantem interficit.

Prima il fulmineo attacco di sorpresa, poi, con più agio, l’uccisione


fra un vasto alzarsi di strida. L’asino che alza i suoi ragli e spaventa le
fiere (I 11, 6-8):

... Hic auritulus


clamorem subito totis tollit viribus
novoque turbat bestias miraculo.

L’asino è piccino, ma che alto fragore di ragli! Forse l’accostamen-


to di totis e tollit non è casuale: esprime le iterazioni possenti del raglio.
Nella stessa favola (10) la strage spaventosa del leone:

leonis adfliguntur horrendo impetu.

La rana presa da invidia per il bue (I 24, 3):

... tacta invidia tantae magnitudinis.

50
  Cfr. ancora I 22, 11; 30, 11; III 5, 9; epil. 17; IV prol. 8; 6, 12; 21, 5; V 7, 3; App. 15, 20.
51
  Resta qualche caso difficilmente classificabile: I 3, 16; II 7, 13; III epil. 3; App. 5-6, 20
(in quest’ultimo caso si tratta di metonimia usuale).
52
 Cfr. supra, p. 206.

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230 Capitolo quinto

Il quadrisillabo alla fine del verso fa sentire la presenza schiacciante del


bue. Il lupo magro e il cane grasso (III 7, 2-3):

Cani perpasto macie confectus lupus


forte occucurrit.

Nella stessa favola (14) il piacere di vivere tranquilli e ben pasciuti:

... otiosum largo satiari cibo.

Le donnole vittoriose che divorano i topi rapidamente e riempiono


il ventre immenso e tenebroso (IV 6, 9-10):

quos immolatos victor avidis dentibus


capacis alvi mersit tartareo specu.

Il serpente con la gola spalancata che cerca di divorare la lucertola


(App. 25, 2):

quam devorare patula cum vellet gula

E si potrebbe continuare53.
Anche il metro serve talora sottilmente l’espressione. La ricchezza
di spondei sottolinea (in funzione scherzosa) la maestà di Pompeo e la
statura gigantesca del soldato (App. 10, 1):

Magni Pompeii miles vasti corporis

e la maestà del leone, piantato sulla preda abbattuta (II 1, 1, con tre
spondei):

Super iuvencum stabat deiectum leo

o il diletto sublime che può dare la musica della lira (App. 14, 6):

divinis aures oblectasset cantibus.

  Tralasciando casi di cui tratterò in seguito, vorrei segnalare ancora: I 6, 8; 13, 11; 18, 3;
53

II 1, 1; 6, 12; III 2, 14.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 231

Un metro più leggero, con due dattili, sembra accompagnare, inve-


ce, la fuga della lepre (App. 28, 1):
Cum venatorem celeri pede fugeret lepus...;

il verso successivo, che descrive lo strisciare della lepre sotto il cespu-


glio, è più lento:
et a bubulco visus veprem inreperet...

O in vista di un effetto espressivo più accentuato o, più spesso, per


variare il tono e accentuare l’eleganza del sermo, Fedro usa con discrezio-
ne i mezzi della poesia aulica: plurali poetici54, singolari disusati55, meta-
fore e metonimie56, costruzioni ardite57, vocaboli rari o propri dello stile
elevato58, ecc. Contribuisce alla patina poetica l’uso di qualche composto
(I 1, 6, laniger; IV 4, 3, sonipes)59 e di qualche grecismo aulico (IV 23, 7,
pelagius; come grecismo poetico, piuttosto che tecnico, interpreterei an-
che melos in III 18, 11; IV 23, 2)60. Ma la misura che Fedro ha saputo
mantenere su questa via è provata dalla estrema rarità di arcaismi (IV 7,
11, Graium et barbarum genitivo plurale, ma in una parafrasi di Ennio;

54
  Fata (I 9, 10; App. 19, 8; 21, 9, ecc.), fletūs (I 9, 3), auxilia (I 31, 2), freta (IV 7, 19), aquae
(App. 7, 10), frigora (IV 25, 19), praesepia (V 9, 2), freni (III 6, 7), saltūs (I 5, 4), ecc.
55
  Faux (I 1, 3; 8, 4), nex (I 1, 13; 2, 25; 22, 1; 31, 4; IV 2, 14, ecc.), daps (II 4, 24; 6, 15), cervix
(II 7, 4), ecc. Un singolare per il plurale è pennae (gen.) in I 31, 4.
56
  Cinis «morto» (III 9, 4), calamus «lo scrivere» (IV 2, 2), sudor «fatica» (App. 7, 5), spiritus
«vita» (II 8, 7), caelum «gli dei» (IV 21, 24; 7, 26), ferrum «spada» (II 7, 8; III 10, 33; App. 8, 10),
cornea domus «il guscio della tartaruga» (II 6, 5), ecc. Troppo poco: in verità l’uso di metafore
e metonimie è scarso in Fedro.
57
  Per esempio, decurro (IV 1, 2), excedo (III epil. 28), evado (IV 6, 4) costruito con l’accusativo;
l’ablativo semplice di modo: I 25, 6, otio; II 9, 13, arte; IV 5, 37, luxu. Meno importanza ha la
costruzione con l’infinito di verbi come suadeo (I 15, 6), opto (V 3, 10), delector (V 3, 9), quaero
(III prol. 25), capto (IV 8, 6), mereo (III 11, 7) (cfr. anche III prol. 6, causa est con l’infinito), per-
ché questa maggiore libertà sintattica è tanto dello stile aulico quanto della lingua parlata.
58
 Per esempio, ferus sostantivato per «fiera» (I 12, 9; 21, 8; II 1, 6; 8, 14; IV 4, 3), senecta (IV 2,
10), ignotus in senso attivo (I 11, 2), liquor «acqua» (I 1, 8: tutto il verso, con il difficile ad meos
haustus, è raffinato), lymphae «acqua» (I 4, 3), sidera (I 6, 4; IV 26, 9), astra (II 6, 12), aevum
«vita» (I 31, 7), caelites (App. 16, 33), superi (IV 21, 19; 26, 3; App. 28, 3), numina (IV 26, 32), pater
deorum (I 2, 13), deorum genitor atque hominum sator (III 17, 10), genitor deorum (IV 19, 22).
59
  Forse anche alticinctus (II 5, 11), attestato dal Pithoeanus e accolto nelle loro edizioni
fedriane da Müller e Guaglianone (in Perry alte cinctus).
60
 Invece sophus per indicare «il sapiente» Esopo (congettura probabile in III 14, 9; IV 18,
8; App. 13, 2), sebbene attestato prima solo da Lucilio 1236 M., non doveva essere una rari-
tà: erano già introdotti in latino sophia e forse anche l’avverbio σοφῶς «bravo!» (cfr. Marx
nel commento a Lucilio).

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232 Capitolo quinto

V 6, 5, superum genitivo plurale; IV 11, 12 e 18, deum genitivo plurale,


come in IV 25, 4; ma deum è arcaismo molto comune; IV 19, 14, revertier;
ma forme come queste ricorrevano anche nelle satire di Orazio)61.
Con finezza non trascurabile gli elementi aulici sono usati per la
parodia: un procedimento già sviluppato nella satira latina e, con mol-
ta finezza, da Orazio satiro. Qualche accenno ve n’è già nel primo li-
bro: per esempio, nella favola delle rane che chiesero un re (I 2, 13 ss.;
da notare il contrasto fra la maestà del padre degli dei e il parvum ti-
gillum, e poi ancora fra il parvum tigillum e il gran fragore che produce:
vadi / motu sonoque terruit pavidum genus); nella favola del leone a cac-
cia (I 11). Un po’ più diffuso e, soprattutto, più affinato è l’uso nell’arte
più matura. La favola dei cani che mandano ambascerie a Giove (IV 19)
punta molto sul contrasto fra la maestà tonante di Giove e la fetida
viltà dei cani: si vede come lo stile è maneggiato duttilmente in questa
funzione (22-25):

Consedit genitor tum deorum maximus


quassatque fulmen; tremere coepere omnia.
Canes confusi, subitus quod fuerat fragor,
repente, odore mixto cum merdis, cacant 62.

Un contrasto analogo, a cui ho già accennato, nell’aneddoto del


soldato cinedo di Pompeo (App. 10). Allo stile aulico si ricorre per la
caricatura: per esempio, il mulo vanitoso carico d’oro (II 7, 4-5):

Ille onere dives celsa cervice eminet


clarumque collo iactat tintinnabulum

(nello stile aulico rientra anche l’allitterazione); la montagna nelle do-


glie del parto (IV 24, 1-2):

Mons parturibat 63, gemitus immanes ciens,


eratque in terris maxima exspectatio

61
  Nella parafrasi dell’apertura della Medea enniana (IV 7, 6 ss.) l’arcaismo è nettamente
temperato rispetto all’originale.
62
  In qualche punto della favola (per esempio nella serie rapida di presenti storici a 20-21)
forse è parodiato lo stile della storiografia o dei poemi storici.
63
  Può darsi che sia aulico anche questo imperfetto in -ibam; ma, com’è noto, la forma è
anche popolare.

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Fedro, la voce amara della favola esopica 233

(da notare le due parole ampie con cui si chiude il secondo senario). A
stile aulico o parlato ricorre la volpe per lusingare la vanità del corvo
(I 13, 6-7); in stile aulico e solenne si vanta la mosca nel suo contrasto
con la formica (IV 25, 6 ss.):

Ubi immolatur, exta praegusto omnia;


[…]
et matronarum casta delibo oscula64

(uno stile aulico che poi la mosca a sua volta canzona, quasi mimicamen-
te: 13, Reges commemoras et matronarum oscula); la Pizia invasata (App. 8,
3 ss.) è descritta con tono che riecheggia Virgilio, Aen. VI 98 ss.
Ma Fedro innalza talvolta lo stile anche senza funzione caricatura-
le: lo fa quasi sempre senza tumor e quasi mai gratuitamente. Per
esempio, si apre con stile patetico e solenne la favola del vecchio leone
morente (I 21, 3 ss.):

Defectus annis et desertus viribus


leo cum iaceret spiritum extremum trahens,
aper fulmineis65 spumans venit dentibus

(con la gravitas del primo senario contrasta la rapidità del terzo).


Qualche tono elevato e patetico anche nella favola del cavallo carico
di gloria ridotto a girare la macina (App. 21). L’accenno alla tempesta e
alle angosce che provoca, richiama tono solenne e patetico (IV 18, 3-4):

Vexata saevis navis tempestatibus


inter vectorum lacrimas et mortis metum

Con tono meno patetico, ma con maggiore grandiosità epica è narrato


lo scoppiare della tempesta nella novella dei due proci (App. 16, 15 ss.). Il
solenne inizio dello spettacolo teatrale (V 7, 23 ss.):

Aulaeo misso, devolutis tonitribus66,


di sunt locuti more translaticio.

64
 Per delibare oscula cfr. Virgilio, Aen. XII 434.
65
  Per quest’uso metaforico di fulmineus cfr. Virgilio, Aen. IX 441-42; Orazio, Carm. III 16,
10-11; Ovidio, Ars II 374, ecc.
66
  Notare i tre spondei in prima sede.

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234 Capitolo quinto

Tono festoso, ma anche solenne, ha la descrizione del convito nel


palazzo del principe protettore di Simonide (IV 26, 20-21). La gran-
dezza dei principi è rappresentata con parole ampie e solenni (IV 6, 12,
senario formato da tre parole):

periclitatur magnitudo principum.

Se entra in scena Augusto, va usato il tono che gli si conviene (III 10,
39 ss.). L’elogio che Giunone fa del pavone, richiede stile alto e forbito
(III 18, 7-8). Altrove è il pathos morale della diatriba che richiede l’innal-
zamento del tono: per esempio, nell’ammonimento che la Religio rivolge
al ladro (IV 11, 5 ss.), nell’ammonimento che il favolista rivolge all’avaro
(IV 21, 16 ss.); un tono meno solenne, ma pur sempre sostenuto, è nello
svolgimento diatribico che costituisce V 2. Particolarmente solenne è
l’apertura della favola che dimostra la dolcezza della libertas (III 7, 1):

Quam dulcis sit libertas breviter proloquar 67.

Nei prologhi e negli epiloghi Fedro discute, ma esprime anche le


sue passioni: il dolore, l’orgoglio, la speranza di gloria: quindi in vari
punti il tono s’innalza. È facile notarlo nel prologo più impegnativo,
quello del terzo libro, specialmente là dove esalta la gloria della sua
terra natale (17 ss., 52 ss.); ma un tono più alto del solito è anche nell’e-
pilogo del secondo libro; più chiara la sublimità nell’apostrofe a Parti-
culone, il destinatario del quarto libro (epil. 4 ss.):

... vir sanctissime,


Particulo, chartis nomen victurum meis,
Latinis dum manebit pretium litteris...

In qualche punto del prologo del terzo, nello stile elevato agiscono
reminiscenze virgiliane (cfr. 56 ss. con Buc. 4, 55 ss.). Sono Virgilio ed
Ennio, due poeti di stile sublime, che dominano nella cultura poetica
di Fedro68.

  Proloquor non è di uso comune: è arcaico e poetico, estraneo a Cicerone, Cesare, Quintiliano.
67

  Oltre paralleli già dati (p. 233) cfr. I 12, 5, ramosa cornua con Buc. 7, 30; III 17, 2 ss. con
68

Buc. 7, 61-62; App. 7, 13-14 con Aen. VI 393 ss.; inoltre Virgilio (Aen. II 77) è citato in III
prol. 27. Di Ennio, Sc. 246 ss. V.2 c’è una parafrasi poetica, com’è noto, in IV 7, 6 ss.; inoltre
Ennio è citato in III epil. 34 (dal Telefo, 331 V.2); probabilmente un’allusione a Ennio

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Fedro, la voce amara della favola esopica 235

Egli tuttavia, con coscienza e vigilanza stilistica notevole, non se n’è


lasciato suggestionare fino a smarrire la sua via; anzi ne ha attinto quel
poco che serviva a variare il fondo terso del suo stile medio. Special-
mente dal terzo libro in poi la complessità dello stile di Fedro è note-
vole69: nel prologo del terzo, in aneddoti e novelle, il livello stilistico
varia più volte, e senza stridori. Fedro ha realizzato felicemente l’ide-
ale stilistico del sermo proposto da Orazio (Sat. I 10, 9 ss.):

Est brevitate opus ut currat sententia neu se


inpediat verbis lassas onerantibus auris,
et sermone opus est modo tristi, saepe iocoso,
defendente vicem modo rhetoris atque poetae,
interdum urbani...

Lo stile medio non era una scelta arbitraria: era lo stile del realismo
comico che corrispondeva al modo di guardare la vita umana da parte
di Fedro. Variarlo non significava affatto tradire il realismo: oltre che
evitare la monotonia, oltre che cercare una sobria eleganza, Fedro ha
voluto una maggiore duttilità del tono. Bisogna leggerlo tenendo l’o-
recchio attento a questa sua ricerca e a questa sua conquista.

(Sc. 321 V.2) è in III prol. 38; forse enniano anche App. 10, 5, cum veste et auro et magno ar-
genti pondere (cfr. Marginalia Aesopica, p. 229 [qui, p. 338]). Non mi pare che siano provate
reminiscenze precise da Orazio (una somiglianza, ma troppo debole, mi pare di scorgere
fra IV 25, 19, mori contractam cum te cogunt frigora e Orazio, Epist. I 7, 10 ss., quodsi bruma
nives Albanis inlinet agris […] vates tuus […] contractus leget; certe non mi sembrano nep-
pure le derivazioni da Carm. II 3 e Sat. II 3 in Fedro IV 21 segnalate da Dora Bieber,
Studien zur Geschichte der Fabel in den ersten Jahrzehnten der Kaiserzeit, Diss. München
1905, p. 51, accettate da A. Hausrath, Zur Arbeitsweise des Phaedrus, «Hermes», vol. 71,
1936, pp. 91-92: le derivazioni da Sat. II 3, che sono le più notevoli, possono anche spiegar-
si con luoghi comuni diatribici). Anche alcune supposte derivazioni da Ovidio (a propo-
sito cfr. soprattutto H. von Sassen, De Phaedri sermone, Diss. Marburg 1911) mi sembrano
dubbie: la scena di III 10, 24 ss. deriverebbe da Fast. II 347 ss.; Fedro III 18, 7 ss. presup-
porrebbe Med. fac. 33-34; Met. I 723; Fedro II 2, 7, capillos […] legere riecheggerebbe Ars II
666; Fedro I 18, 5; III 15, 5 (onus per indicare il feto nel ventre) non sarebbero possibili
senza l’analoga metafora ovidiana (Met. VI 224; X 506; Her. 11, 64, ecc.); persino simula-
crum per indicare l’immagine nell’acqua (Fedro I 4, 3) sarebbe attinto da Ovidio (Met. III
432); e così via. Come si vede, o le analogie sono di contenuto senza reminiscenze for-
mali precise o sono formali, ma vertono su espressioni abbastanza solite. Crederei piut-
tosto a reminiscenza (e parodia) dall’Ibis 387 in IV 6, 10.
69
  Elementi utili si ricavano dalla dissertazione citata di von Sassen, di cui mi sono servi-
to in parte delle pagine precedenti.

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236 Capitolo sesto

Capitolo 6

Strutture compositive
e leggi narrative della favola esopica1

1. Gli azzardi di un approccio strutturalistico

Questo volume massiccio è la prima parte di una vasta opera sulla favo-
la esopica greca e latina; il secondo volume abbraccerà Fedro, Babrio,
Aviano. L’opera si presenta come nuova già nell’impostazione generale:
è infatti in gran parte un’analisi strutturale della favola greca, che parte
da metodi già affermatisi nello studio delle letterature popolari (parti-
colare influenza sull’autore hanno avuto le ricerche del danese Axel
Olrik sull’epica). Lo strutturalismo è oggi una moda. Non voglio dire
con questo che sotto la sua etichetta non corrano cose molto serie. Non
essendo questo il momento opportuno per una discussione generale di
teorie e di metodi, dirò solo che proprio lo studio dei generi letterari è
uno dei campi in cui l’analisi strutturale appare più legittima e fruttuosa:
in tanto esiste genere letterario in quanto esiste una tradizione in cui
sono fissati alcuni elementi che le innovazioni individuali, almeno
nell’ambito di una determinata civiltà, utilizzano, tutt’al più modificano,
ma non distruggono. Il rapporto fra innovazione individuale e tradizio-
ne è cambiato notevolmente dal romanticismo in poi, giacché da allora
l’individuo si sente più libero rispetto alla tradizione; e tuttavia siamo
ben lontani dal poter affermare che il genere sia sparito: proprio il frutto
più nuovo del romanticismo, il romanzo, si è affermato come un nuovo
genere o, piuttosto, come una serie di generi, ciascuno con sue proprie
strutture, valide almeno per determinate epoche della narrativa.
Secondo lo strutturalismo la condizione prima per l’analisi struttu-
rale è la sincronicità degli elementi da analizzare in quanto costituisco-

  [Recensione di Morten Nøjgaard, La fable antique, vol. 1, La fable grecque avant


1

Phèdre, Nyt Nordisk Forlag – Arnold Busck, Copenhague 1964, «Athenaeum», n. s.,
vol. 44, 1966, pp. 354-369. Titolo redazionale].

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 237

no un sistema (lo studio diacronico è affidato alla storia). Questo prin-


cipio è pienamente accettato dal nostro autore (pp. 9 ss., spec. 14).
Vedremo in seguito che proprio esso crea nella ricerca le difficoltà
più serie.
Ciò che noi intendiamo, genericamente e vagamente, per «favola
esopica», cioè un racconto fittizio, che ha come personaggi prevalen-
temente animali e piante, che nell’azione è immagine di eventi umani
e che dimostra una morale valida per gli uomini, è tramandato, presso
Greci e Latini, in raccolte che contengono confusamente elementi
vari: immagini allegoriche con concetti astratti personificati, aneddoti,
cioè brevi racconti di fatti realmente avvenuti o ritenuti tali, racconti
eziologici, ecc. Ciò che accomuna questi elementi è che sempre, con
più o meno sforzo, se ne ricava una morale. Di fronte a un tale stato
di cose il maggiore tra i recenti studiosi della favola, l’americano B. E.
Perry, ha cercato di evitare definizioni rigorose e restrittive e ha rite-
nuto che il carattere distintivo si trova, tutt’al più, nello scopo a cui il
racconto serve o sembra servire, cioè appunto nello scopo di ricavare
una morale. Con accanimento e pedanteria forse eccessivi il Nøjgaard
(pp. 41 ss.) torna a una delimitazione rigorosa. La favola è innanzi
tutto un racconto fittizio, dove «fittizio» si oppone a «reale» non
in quanto «impossibile», ma in quanto «immaginario» (pp. 49 ss.). In
quanto richiede il confronto col mondo umano reale in generale, la
favola rientra nella parabola, il cui racconto, però, non è necessaria-
mente fittizio (può usare, infatti, anche una comune azione ripetuta,
come, per esempio, la parabola del seme di senape nel Vangelo)
(pp. 52 ss.). Il confronto col mondo umano reale è in un certo senso un
procedimento allegorico: contro Lessing e d’accordo con La Motte,
l’autore conclude giustamente che un certo carattere allegorico alla
parabola va riconosciuto (pp. 57, 62-63). Evidentemente i personaggi
della favola rappresentano altro da sé: i personaggi, dunque, sono alle-
gorici, ma non l’azione (p. 62). C’è nella favola un meccanismo gene-
rale che ne impedisce l’interpretazione letterale (pp. 63 ss.): perciò il
Nøjgaard parla di allegoria meccanica. Non so quanto il termine sia
felice: si potrebbe parlare semplicemente di presupposto generale alle-
gorico, per cui il racconto deve intendersi non come reale, ma come
immagine del reale. Dubito pure che si possa opporre un’allegoria dei
personaggi a una mancanza di allegoria dell’azione: credo piuttosto

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238 Capitolo sesto

che l’allegoria, sia dei personaggi sia dell’azione, si riferisca al mondo


umano in generale, non a questa o quella persona e a questo o quel
fatto: la lonza, il leone, la lupa, il veltro di Dante si riferiscono a deter-
minate istituzioni o a determinati personaggi, il lupo della favola eso-
pica si riferisce all’uomo prepotente (o all’uomo sciocco, secondo i casi)
in generale: ha, cioè, sempre qualche cosa di tipico, anche se il parago-
ne a volte (quando le favole sono usate in altri contesti) è stabilito con
un caso particolare; ma il procedimento allegorico di questo genere
coinvolge, oltre i personaggi, anche l’azione: se il lupo divora l’agnello,
il «divorare» sarà l’uccidere o l’opprimere o il danneggiare gravemente,
ma il confronto generico con un’azione umana in generale c’è. Non
capisco, poi, perché l’allegoria meccanica implichi necessariamente
l’impossibilità dell’azione (p. 64): le favole con personaggi umani per
lo più non offrono azioni impossibili; basterà dire che il racconto è
fittizio, immaginario, secondo quanto l’autore ha scritto prima (p. 50).
L’azione della favola non è un’azione qualsiasi: partendo da Batteux e
rifiutando la critica di Lessing, il Nøjgaard limita (sulla legittimità
della limitazione tor­nerò in seguito) l’azione della favola a quella che
implica una scelta fra due alternative (pp. 73 ss.): la scelta può consiste-
re in un’azione finale o in una battuta, una replica finale (p. 79). Perché
si abbia favola esopica, è però necessario che la scelta venga, almeno
implicitamente, valutata (p. 77): ed è questa valutazione la morale del-
la favola, a volte falsata nelle considerazioni appiccicate dall’esterno,
nel promitio e nell’epimitio. Dopo queste argomentazioni ampiamen-
te svolte la favola viene definita (pp. 82, 86) come un «racconto fittizio
di personaggi meccanicamente allegorici con un’azione morale accom-
pagnata da valutazione».
La definizione permette di distinguere la favola esopica da elemen-
ti con cui spesso si accompagna nelle raccolte e con cui viene spesso
confusa. La favola si distingue dal proverbio apologico (pp. 80 ss.),
perché questo non contiene scelta e valutazione. L’aneddoto è diverso
perché, anche quando è fittizio, è ancorato a una realtà storica (pp. 87
ss., spec. 90-91). Nel racconto fantastico, quello che noi chiamiamo
«fiaba», manca l’allegoria meccanica, cioè il presupposto per cui l’azione
impossibile è immagine del reale (pp. 97 ss.); il racconto fantastico si
presenta come un caso isolato, la favola esopica come assoluta, valida
in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo (p. 99); la favola esopica è ana-

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 239

litica, volta all’interpretazione, da cui vuol ricavare un insegnamento


razionale, la fiaba è sintetica, mira solo a narrare, descrivere, affascina-
re (specialmente coll’elemento magico) (p. 100). Nelle prime due di
queste distinzioni anche il fabliau realistico si colloca accanto alla fiaba
contro la favola esopica. Infine sono assimilabili, sotto questo riguar-
do, alla favola esopica, il mito e la leggenda (p. 101); ma l’autore trala-
scia del tutto il senso religioso e morale, e non soltanto fantastico, che
ha il mito, e talvolta anche la leggenda, anche se tale senso è ben di-
verso da quello della favola esopica. Tralascio qui altre distinzioni che
l’autore, di una imperterrita prolissità, svolge in seguito. Naturalmen-
te è giusto sottolineare che non può essere la brevità, come voleva
Lessing, a caratterizzare la favola (pp. 112 ss.): la brevità è un carattere
stilistico, non strutturale ed essenziale. Più interessante è la trattazione
dedicata alla terminologia usata dai Greci per indicare la favola esopi-
ca (pp. 122 ss.). Il senso dell’arcaico αἶνος resta oscuro; comunque la
spiegazione del Nøjgaard (pp. 123 ss.) della parola come fabula, passa-
ta da «racconto» a «racconto fittizio», pare più ragionevole di altre
spiegazioni affacciate, come «sentenza ricavata da un paragone»
(Hofmann), «discorso elogiativo in forma sentenziosa» (Thiele), «nar-
razione favolosa con significato profondo e recondito» (Ribezzo). La
connessione supposta con αἴνιγμα non sembra al Nøjgaard necessaria.
Μῦqος è «racconto inventato», mentre λόγος comprende anche il rac-
conto vero (p. 127).
In questa prima parte che riguarda la teoria della favola si trova mol-
to di utile sulla storia della teoria stessa (per il campo tedesco la ricerca
è molto facilitata da una dissertazione di Max Staege, Die Geschichte der
deutschen Fabeltheorie, discussa nel 1929). Larga è l’informazione
dell’autore; e ancora più importa la rivalutazione della teoria di Lessing
contro le posizioni preromantiche e romantiche, anche se più volte
alcune sue formulazioni sono discusse.
Ma, se la storia della teoria dall’illuminismo al romanticismo susci-
ta non poco interesse, molti, forse, si chiederanno oggi se sia ancora
utile cercare con tanta ampiezza e pedanteria entro quali limiti costrin-
gere la definizione di favola. Io non mi pongo in una posizione, per
così dire, empiriocriticista: non ritengo, cioè, che i tipi di narrazione
siano solo degli schemi di comodo foggiati da noi per ordinare la selva
della narrativa: i tipi di narrazione sono formazioni storiche dovute a

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240 Capitolo sesto

determinate civiltà, epoche della cultura, rispetto della tradizione, ecc.


(Nessuno, neppure il Nøjgaard, crede oggi che i generi letterari siano
idee platoniche secondo cui le opere si sono plasmate, anche se deter-
minate opere hanno agito nella cultura come modelli; tanto meno si
potrà parlare di idee come modelli ancora validi). Tuttavia noi possia-
mo pur sempre scegliere nell’applicazione dei termini, decidere, cioè,
fino a quali tipi estendere un determinato termine applicato a un ge-
nere letterario; non voglio dire con questo che nella scelta procedere-
mo del tutto arbitrariamente: ci lasceremo guidare dall’utilità ai fini
dell’interpretazione dei fatti storici, in questo caso delle opere letterarie.
Un tale procedimento mi pare particolarmente opportuno nel caso
della favola esopica, perché essa è sempre stata un genere fluido, con de-
terminazioni approssimative, scarsamente regolato, almeno nella struttu-
ra, da teorie retoriche. Escluderemo noi dalla favola esopica gli aneddoti
inclusi nelle raccolte esopiche antiche, perché l’aneddoto si riferisce a un
solo avvenimento storico e si colloca in un mondo familiare al lettore
(pp. 90-91)? Evidentemente una differenza fra la favola dell’aquila e della
volpe (3 Ch. = 1 H.)2 e quella, mettiamo, dell’uomo di mezza età reso
calvo dalle due amanti (52 Ch. = 31 H.; Fedro II 2) o tra queste due e l’a-
neddoto dell’atleta vanaglorioso (51 Ch. = 33 H.) c’è; ma gli antichi hanno
assimilato parecchi aneddoti alle favole esopiche di animali e piante, per-
ché hanno considerato che l’essenziale fosse la possibilità di ricavarne una
massima morale generale. Perché si abbia tale possibilità, occorre solo che
il caso particolare vada oltre sé stesso, cioè che valga come caso di un
comportamento umano generale (anche il confronto con un altro caso
particolare rimanda, almeno tendenzialmente, a qualche cosa di generale
comune ai due casi confrontati). Accanto a questi due elementi, che sono
poi uno solo, io considererei essenziale solo un minimo di azione, senza
cui non si ha neppure racconto. La favola eziologica, se non usata tanto
per spiegare l’origine di qualche cosa quanto per ricavarne una massima
generale, è favola esopica anch’essa. Mi fermerei qui, senza cadere nella
generalizzazione eccessiva del Perry, che richiede solo il fine della mora-
lità. Le delimitazioni del Nøjgaard fondate sulle strutture dell’azione mi
paiono ancora più inopportune; ma su di esse ritornerò fra poco.

  Cito dall’ed. Chambry (editio maior, 1925-1926) perché è quella usata dal Nøjgaard,
2

ma per comodità di riscontro do anche la corrispondenza con la numerazione dell’ed.


Hausrath (H.).

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 241

Il mio criterio vuole tenere maggior conto dell’opinione degli anti-


chi stessi, opinione che è alla base della tradizione esopica: dell’impos-
sibilità implicita in ciò che il Nøjgaard chiama l’allegoria meccanica,
essi non hanno mai tenuto conto. Certo, nessuno se la sentirebbe di
chiamare esopica una raccolta in cui mancassero favole con animali o
piante come personaggi. Che fare? Piuttosto che ricercare regole
astratte per discriminare raccolte esopiche da non esopiche il meglio,
io credo, sarà limitarsi a riconoscere che da un paio di millenni secon-
do l’opinione comune si considerano esopiche raccolte di favole ri-
spondenti ai criteri or ora esposti, in una parte delle quali compaiono
come personaggi animali e piante; da questo, però, non dedurrei che
favole esopiche siano solo quelle con animali e piante come personag-
gi, ma continuerei a chiamare esopiche anche quelle a esse assimilate,
nella funzione e nel metodo, siano i personaggi uomini o dei o concet-
ti astratti personificati. Insomma, serve a poco una definizione della
favola che non tenga conto di ciò che è stato considerato favola nelle
culture che l’hanno creata e continuata.

2. Un’analisi strutturale della recensione Augustana

La seconda parte, la più ampia, dell’opera è un’analisi strutturale del-


le favole comprese nella recensio Augustana (così chiamata dal codex
Augustanus, cioè il Monacensis 564, del XIII secolo, che però non è il
rappresentante più autorevole della classe). Come abbiamo visto, se-
condo lo strutturalismo l’analisi strutturale deve prendere in esame un
sistema sincronico e lasciare alla storia ogni esame diacronico. Perché
la recensio Augustana possa essere oggetto di analisi strutturale, bisogna
che sia un complesso sincronico. Perciò il Nøjgaard tende ad accertare
nella recensio la personalità del compilatore, facendone una personalità
artistica paragonabile a quella di Fedro o di Babrio (p. 134). Credo che
ben pochi resteranno convinti di tale opinione: in genere si ritiene,
giustamente, che ai compilatori di queste recensioni si debba poco più
di una patina stilistica, provenga essa o meno dalle scuole di retorica:
proprio gli elementi strutturali, che sono oggetto dell’analisi, sembra-
no, grosso modo, già formati nella tradizione, anche se non possiamo
dire quando e come, giacché le fonti anteriori a Fedro non sono nu-
merose; per convincere del contrario bisognerebbe mostrare in che

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242 Capitolo sesto

cosa essi differiscano da quelli delle altre raccolte. Si ha l’impressione


che il Nøjgaard abbia forzato la sua tesi per non vedere franare il pre-
supposto stesso del suo lavoro strutturalistico. Bisognerebbe del resto
aggiungere che, a rigore, l’esigenza della sincronia renderebbe impos-
sibile l’applicazione dello strutturalismo a molte opere letterarie: eccet-
tuate brevi liriche, per le quali dello sviluppo è superfluo tener conto,
quale opera letteraria manca di sviluppo e non è, quindi, a suo modo
diacronica? La critica strutturalistica viene a cadere in un’assurdità
analoga a quella della critica intuizionistica, che a rigore dovrebbe ri-
durre ogni opera artistica al lampo di un’intuizione e rinunciare a ogni
storia delle attività artistiche. La difficoltà si può evitare solo intenden-
do per sincronia il rapporto degli elementi in sistema, come, per esem-
pio, nella lingua quale presupposto del parlante; ma, a rigore, nessun
discorso è sincronico. Comunque intendo tralasciare, ripeto, una di-
scussione generale sullo strutturalismo.
Sulla data della recensio Augustana è impossibile, per ora, arrivare
alla certezza; il Nøjgaard, in forte contrasto con l’Adrados, inclina per
una data piuttosto antica, anteriore addirittura al I secolo d. C., ed è
comunque sicuro che la maggior parte degli elementi strutturali siano
anteriori a Fedro (p. 138). Ritenendo il terreno sgombro da difficoltà
pregiudiziali, egli passa all’analisi delle strutture della favola quale si
presenta nell’Augustana. È inevitabile che egli ripeta qui in parte ciò
che ha detto nella sezione dedicata alla teoria della favola: la divisione
dell’opera in tre sezioni – teoria, analisi dell’Augustana, storia – pre-
senta l’inconveniente di troppe ripetizioni. In ogni modo è in questa
seconda sezione che l’analisi delle strutture narrative è portata a fondo
col massimo impegno.
La favola dell’Augustana si divide in tre parti: un’introduzione che
consiste in dei dati e/o in una situazione; un nucleo narrativo che si
raggruppa intorno a un’azione di scelta; una conclusione che compor-
ta un’azione e/o una replica finale (p. 141). Per dati («données») l’auto-
re intende «l’insieme delle informazioni necessarie alla comprensione
o alla verosimiglianza della situazione»; per situazione «il rapporto
dell’attore o degli attori col mondo che li circonda e/o dell’uno con
l’altro, immediatamente prima dell’azione di scelta» (p. 142). A volte
l’introduzione contiene un’azione a sé («action de cadre», secondo la
nomenclatura dell’autore), in cui compaiono anche personaggi assenti

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 243

poi dal nucleo narrativo: per esempio, la 356 Ch. (= 261 H.) Il pappa-
gallo e la donnola incomincia: «Un tale comprò un pappagallo e lo lasciò
aggirarsi liberamente per la casa»; in seguito il padrone non compare
più (pp. 144-145). Veramente bisognerebbe aggiungere che tutta la di-
scussione dei due animali riguarda l’atteggiamento dei padroni verso
di loro. Ci sono casi in cui l’introduzione ha uno sviluppo troppo am-
pio, casi in cui manca (pp. 145-146). La seconda parte, il nucleo narra-
tivo, consiste in un conflitto di due personaggi, causato dagl’interessi
divergenti (pp. 147-148); anche dove il personaggio è unico, c’è un con-
flitto interiore del personaggio con sé stesso (p. 148). L’azione del nu-
cleo narrativo comporta un’azione di scelta del personaggio più debole:
per esempio, nella favola del corvo e della volpe (166 Ch. = 126 H.) il
corvo «sceglie» di cantare e di aprire la bocca, lasciando cadere inav-
vertitamente il formaggio (pp. 148 ss.). L’azione di scelta è struttural-
mente al centro; ciò non vuol dire che lo sia anche materialmente:
qualche volta si trova al principio o alla fine. La parte finale della fa-
vola contiene la valutazione dell’azione di scelta (pp. 151-152); la va-
lutazione è essenziale alla favola: senza di essa non si ha più favola. La
valutazione è enunciata o indirettamente per mezzo dell’azione stessa
o direttamente ed esplicitamente per mezzo di una replica (pp. 152-
153); e qui ancora distinzioni di azioni finali – per esempio l’azione fi-
nale assoluta, cioè quella che implica la morte di un personaggio, l’a-
zione finale a riassunto, cioè una formula che si limita a riassumere il
corso dell’azione precedente, senza aggiungere nuovi elementi attivi
(pp. 153 ss.) – e di repliche finali – quella precettorale, che indica la na-
tura dell’errore, senza veramente biasimarlo, quella gnomica, che enun-
cia una massima e rompe il corso dell’azione portandoci al di fuori di
essa, quella autocritica, quella in forma di lamento (plaintive) del perso-
naggio sconfitto (pp. 161 ss.) –.
Dentro questo schema non si possono costringere tutte le favole
dell’Augustana: bisogna perciò escogitarne di nuovi. Ci sono favole
senza conflitto, perché il personaggio è uno solo e manca il conflitto
interiore (se c’è conflitto interiore, la favola è assimilabile a quella con
due personaggi): esse vengono poste sotto l’etichetta di favole sempli-
ficate (pp. 170 ss.): per esempio, quella delle mosche che restano impi-
gliate nel miele e vi muoiono, dopo aver lamentato il loro errore (241
Ch. = 82 H.). Ci sono invece altre favole in cui le azioni scelte sono

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244 Capitolo sesto

due, compiute ora dai medesimi personaggi ora da personaggi in


parte cambiati (pp. 176 ss.): per esempio, quella del cane e del lupo
(185 Ch. = 137 H.), in cui il cane, sorpreso dal lupo, lo convince ad
aspettare di mangiarlo, perché dopo il banchetto di nozze del padrone
sarà più grasso, e naturalmente irride il lupo, quando questo ritorna per
ricordargli l’impegno: essa rientra nel tipo della favola composta.
Dopo le strutture compositive l’autore enuclea le leggi narrative
(pp. 186 ss.): è soprattutto qui che egli si riattacca al folklorista danese
Olrik, teorizzatore di «leggi epiche» valide per la fiaba. Per la favola
più che le analogie contano le differenze: al contrario della fiaba la
favola esopica non dà un posto fisso al «personaggio più importante»,
anzi, a rigore, non ha neppure un «personaggio più importante»
(p. 188); inoltre la favola in quanto tale non obbedisce alla «legge del
tre», che si manifesta nella ripetizione di tre personaggi, azioni, quali-
tà, ecc. o nella tripartizione del racconto e nel numero di tre personag-
gi attivi (pp. 189 ss.). La favola in quanto tale; ma nelle raccolte che
abbiamo, compresa l’Augustana, favole tripartite e, soprattutto, favole
con tre personaggi non mancano, e l’autore s’industria per ridurre,
giustificare, eliminare le eccezioni. Anche in questo caso le favole più
imbarazzanti sono quelle composte, tra cui le favole a tre personaggi
non sono rare; ma l’autore fa notare che in esse resta rispettata un’altra
delle leggi formulate da Olrik, la legge del due scenico, per cui non agi-
scono mai più di due personaggi alla volta (pp. 193-194). Fanno ecce-
zione a quest’ultima legge le favole eziologiche (p. 194). I due perso-
naggi che agiscono contemporaneamente sono opposti nel carattere e
nell’azione: in questa legge del contrasto dei personaggi la favola non
differisce dalla fiaba (pp. 196 ss.).
Nelle leggi che riguardano strettamente l’azione, le coincidenze
sono forti: vale per la favola come per la fiaba (anzi per tutta l’epica,
compreso Omero) la legge per cui i caratteri non sono illuminati o
analizzati in sé, ma si manifestano solo nell’azione, legge che l’autore
indica come quella della meccanizzazione psicologica (p. 200). Nella fa-
vola l’azione non solo è genericamente unitaria (unità d’azione), ma
anche rigorosamente concatenata, in modo che ogni momento è con-
seguenza di quello che precede e l’azione è ordinata secondo una serie
sempre progressiva (linearità dell’azione) (pp. 200 ss., spec. 201). La
favola rispetta l’unità di luogo; nella favola composta c’è maggiore liber-

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 245

tà, ma il luogo non cambia più di una sola volta (pp. 203-204). Carat-
terizza la collezione Augustana la tendenza alla brevità; ma il NØjgaard,
convinto delle qualità artistiche del compilatore, vuol mostrare come
l’abbreviazione nell’Augustana non sia meccanizzazione: il compilatore
non ha interesse esclusivo per la morale, in modo da ridurre l’azione a
un’immagine morta, ma conserva all’azione una sua vita interpretan-
dola moralmente e mettendo in rilievo la valutazione (pp. 204 ss., spec.
205). Il tempo della favola non è fissato con dati esterni; il senso del
tempo non viene neppure dato da uno sviluppo psicologico, quasi sem-
pre assente nella favola, bensì dallo sviluppo stesso dell’azione (tempo
d’azione) (pp. 211 ss., spec. 216). Bisogna però considerare che nell’Au-
gustana lo scrittore non mira a raccontarci l’azione nel suo sviluppo e
nei suoi momenti, bensì nel suo complesso, come totalità e continuità
logica (pp. 218-219); dalla mancanza d’interesse per i momenti risulta
un racconto sempre eguale a sé stesso (égalité de l’exposé) (pp. 223-224).
La scarsa importanza delle circostanze esterne, il fatto che l’azione
contenga in sé caratteri e tempo significano un forte predominio
dell’azione: la conseguenza sul piano stilistico è il forte predominio del
verbo (stile verbale) (pp. 225-226). Riferimenti a un tempo esterno all’a-
zione stessa sono rarissimi sia nell’Augustana sia in altre collezioni, più
frequenti in favole citate altrove (pp. 225-226); essi snaturano la favola,
ci portano alla novella o all’aneddoto (pp. 226 ss.). Anche la colloca-
zione dell’azione in luoghi geograficamente determinati è estranea alla
favola, comune, invece, nell’aneddoto (pp. 231 ss.). Nell’Augustana il
senso dello spazio è attenuato: lo spazio ha un colore d’irrealtà, senza
diventare per questo lo spazio fantastico (pp. 234-235); il paesaggio è
ridotto a elementi generici e fissi (pp. 235 ss.), il che rientra nella tec-
nica dell’abbreviazione (p. 242): i rapporti dei personaggi tra loro non
sono rapporti materiali nello spazio, ma rapporti spirituali creati dai
sentimenti reciproci (p. 241) (qui l’autore è infelice sia nel pensiero sia
nei termini: l’azione della favola è collocata nello spazio comunemen-
te noto al lettore, solo che esso è ridotto per lo più, e non sempre, alla
massima genericità possibile).
Le forze che la favola fa agire non seguono le leggi di natura: il
narratore si concede l’arbitrio di dare agli animali attributi umani o
attributi zoologici errati (pp. 246 ss.); tuttavia l’arbitrio non esclude le
leggi naturali: piuttosto mantiene con esse un delicato equilibrio

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246 Capitolo sesto

(pp. 252 ss., spec. 252). Quali sono queste forze? Domina l’interesse
(pp. 256-257); il disinteresse è solo apparente: l’animale che aiuta un
altro non lo fa per carità, ma in vista di un suo vantaggio futuro
(pp. 257 ss.); l’amicizia non è mai sentimentale, è solo comunanza d’in-
teressi (p. 259). L’interesse si serve ora della forza ora dell’astuzia: i
conflitti fondamentali si aprono tra forza e debolezza, tra astuzia e
sciocchezza (pp. 261 ss.), conflitto materiale il primo, spirituale il se-
condo: si ha spiritualizzazione del conflitto quando esso passa dal pri-
mo piano al secondo, in parole povere quando la forza viene sconfitta
dall’astuzia (p. 264); la spiritualizzazione esclude la conclusione me-
diante azione finale (l’azione non può essere che materiale) e richiede
la conclusione mediante replica finale (p. 265). Se le forze agenti nella
favola fossero le leggi naturali col loro carattere di necessità e se la
forza materiale vincesse ineluttabilmente, senza poter essere dominata
dalla forza spirituale dell’astuzia, non ci sarebbe più posto per la liber-
tà di scelta: ma questa viene assicurata dalla posizione arbitraria che il
narratore assume di fronte alle leggi naturali, e dalla possibilità per
l’astuzia di dominare la forza, possibilità che pone i due personaggi in
conflitto su un piano di eguaglianza (pp. 268 ss.).
La forza, materiale o spirituale, agisce come personaggio, e il per-
sonaggio è solo espressione della forza stessa: perciò il favolista non
conosce un cane, ma il cane che s’identifica con tutta la sua specie
(pp. 284 ss., spec. 286-287): la mancanza di articolo davanti al nome
dell’animale o della pianta (l’articolo compare solo a partire da Aristofa-
ne, ma non è usato nell’Augustana) non è una prova in senso contrario,
perché in realtà il nome dell’animale o della pianta è sentito come un
nome proprio (pp. 287 ss.). Tale funzione del personaggio spiega anche
come, tranne in Babrio, esso manchi di ogni carattere individuale. L’Au-
gustana manca di analisi psicologica: abbiamo già visto, infatti, che il
carattere e i sentimenti si manifestano solo nell’azione (pp. 294 ss.). Con-
tro l’opinione comune il Nøjgaard sostiene che i caratteri dei perso-
naggi non sono umanizzati (pp. 296 ss.); ma egli si fonda sull’argo-
mento che l’Augustana non fa riferimenti espliciti ai rapporti sociali
umani; ora, a parte il fatto che riferimenti alla gerarchia sociale non
sono rari, come l’autore stesso riconosce (p. 299), l’opinione comune
parte dalla considerazione che in genere l’attribuzione arbitraria di cer-
ti caratteri ad animali o piante, a cominciare dalla facoltà di parlare, è

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 247

per lo più un’assimilazione all’uomo: non mi pare che l’opinione co-


mune sia infondata. Si può invece essere d’accordo sulla staticità dei
caratteri, cioè sulla loro immutabilità dal principio alla fine di ciascuna
favola (p. 304); abbiamo già visto che non c’è evoluzione psicologica
(uno spunto di evoluzione c’è soltanto nei casi di morale autocritica).
L’immutabilità del carattere vale però solo per la singola favola: da
favola a favola il carattere può essere diverso: non c’è costanza di carat-
tere del singolo animale valida per tutte le favole (pp. 309 ss.). A rigo-
re la conclusione è giusta, giacché per ogni personaggio animale, anche
tra i più noti, è possibile trovare qualche favola in cui il carattere è
diverso da quello solito (può darsi anche che la diversa provenienza
delle favole abbia la sua influenza); comunque, se dalla tradizione eso-
pica gli animali sono passati nella cultura popolare con dei caratteri
press’a poco fissi, ciò si deve ovviamente al fatto che ciascun animale
ha nelle raccolte un carattere predominante, più o meno forte secondo
i casi. Sotto questo riguardo è eccezionale, secondo il Nøjgaard, il ser-
pente, che nell’Augustana ferisce sempre non per interesse, ma per
malvagità gratuita (p. 318).
Tempo, spazio, forza, personaggio sono categorie, funzioni di un
ordine superiore complessivo che si potrebbe chiamare il «mondo»
dell’opera d’arte; trovando il termine troppo vago, il Nøjgaard preferi-
sce quello di universo (pp. 320-321). L’universo dell’opera d’arte si de-
finisce ulteriormente secondo tre rapporti fondamentali: quello tra
l’opera e l’autore, quello tra l’autore e il lettore, quello tra il lettore e
l’opera (p. 321). Nella favola esopica l’autore è assente: egli elimina ogni
intervento: il racconto è presentato come oggettivo, la morale è espres-
sa da un personaggio e scaturisce dall’azione stessa; essendo l’assenza
assoluta, il punto di vista da cui si colloca l’autore non cambia mai
(p. 323). Una delle conseguenze dell’assoluta mancanza d’intervento
dell’autore è la mancanza del presente storico (pp. 331-332); altra con-
seguenza più importante è la mancanza nell’Augustana di comicità e
d’ironia (pp. 332 ss., 336 ss.). Ben inteso, il Nøjgaard non nega che vi si
possano trovare espressioni comiche: egli però esclude la comicità che
è nella situazione stessa: c’è la comicità verbale, stilistica, manca quella
strutturale (pp. 335-336). Per rendere accettabile una tale conclusione
bisognerebbe capire meglio in che rapporto sono per il Nøjgaard strut-
tura ed espressione: l’espressione in un’opera letteraria è solo una spe-

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248 Capitolo sesto

cie di vernice? La mancanza d’ironia come punto di vista dell’autore non


esclude l’ironia intorno al racconto stesso, cioè quella che si manifesta
nella battuta di un personaggio (p. 338): un tipo particolare è l’ironia del
personaggio verso sé stesso, che il Nøjgaard chiama ironia interiore (pp.
338-339). Forse la conclusione è accettabile; mi pare tuttavia poco felice
chiamare tale ironia «verbale» solo perché espressa nella battuta di un
personaggio: «verbale» potrebbe far pensare a un’opposizione a «struttu-
rale», che non mi pare sia nel pensiero del Nøjgaard.
Il rapporto fra l’autore e il lettore non ha bisogno di molte conside-
razioni: l’autore evita ogni contatto diretto col lettore: è solo il raccon-
to oggettivo della favola che guida il lettore, il quale si trova nella
stessa posizione di osservatore esterno dell’autore (p. 339). Il rapporto
del lettore con l’opera consiste nella scelta, che l’opera fa, tra le possi-
bilità di collocarsi di fronte al mondo o alla comune esperienza del
lettore (pp. 339-340). Nonostante un presupposto generico d’irrealtà la
favola esopica non si presenta, abbiamo visto, come un mondo fanta-
stico opposto al comune mondo del lettore. Essa non si presenta
neppure come una parte della realtà, bensì come un mondo in sé
completo e concluso, indipendente da ogni influenza esterna, che il
Nøjgaard definisce come universo immanente (pp. 340 ss., spec. 342): in
questo mondo tutti i personaggi, animali, uomini, dei, hanno una cer-
ta uniformità: non si guarda al mondo degli animali o al mondo degli
dei riferendoli al mondo umano e facendone risaltare, implicitamente
o esplicitamente, le differenze, ma manca ogni punto di riferimento
(p. 344). Indipendente da influenze esterne, questo mondo agisce se-
condo spinte proprie, in un modo osservabile per i sensi e comprensi-
bile per la ragione: perciò il Nøjgaard, oltre che di universo immanente,
parla di immanenza logica (p. 346).
Ciò che in un’opera assicura l’unità degli elementi, dai minimi par-
ticolari all’insieme, è il principio strutturale (p. 348). Qual è il principio
strutturale dell’Augustana? Il Nøjgaard lo fissa nell’astrazione. Tutto
nelle favole è osservabile coi sensi, ma esse non vogliono parlare ai
sensi, bensì solo alla mente (pp. 349-350). Un aspetto importante
dell’astrazione è l’anonimato dei personaggi (pp. 350 ss.). L’animale
non è uno dei tanti individui della sua specie: è la specie, anche se nel
racconto figura come un personaggio individuale, quasi, abbiamo vi-
sto, come un nome proprio: il nome senza articolo colloca il personag-

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 249

gio ai confini fra il tipo e l’individuo (p. 351). L’analisi dello stile non
rientra nei compiti propostisi dall’autore, perché essa «trascinerebbe
troppo lontano dall’analisi strutturale» (p. 355), ma egli caratterizza
brevemente lo stile dell’Augustana dalla sua semplicità (scarsezza di
epiteti, mancanza di figure stilistiche eccetto l’antitesi), dalla sua pre-
cisione, dalla sua trasparenza, che consiste nel tralasciare quanto non
riguarda immediatamente la struttura (pp. 355-356). Lo stile dell’Au-
gustana si distingue anche per l’uso del discorso indiretto all’interno
della narrazione e l’uso del discorso diretto nella replica finale. Il pro-
cedimento è voluto e mira a dar risalto alla funzione particolare di tale
replica (pp. 356-357).
Vengono poi analizzati i vari tipi formali di epimitio (pp. 359 ss.):
parenetico, paradigmatico (introdotto da «così» oppure «la favola dimo-
stra che...»), sarcastico (sotto questa etichetta l’autore mette gli epimiti
introdotti con la formula «La formula si adatta a...» e simili). A pro-
posito degli epimiti, come in altre occasioni, il Nøjgaard nega l’origine
retorica, scolastica dell’Augustana (pp. 363-364). Quanto al suo conte-
nuto, la morale sempre «vise une personne» (p. 366), cioè, direi, un
determinato tipo umano. In genere la morale è rivolta contro il perso-
naggio più debole, cioè contro quello che viene sconfitto con la for-
za o con l’astuzia (pp. 366-367), ma i casi contrari non sono pochi
(pp. 367-368). Nell’Augustana, come nelle altre raccolte, non mancano
epimiti in contraddizione con la morale implicita nella favola: ciò non
basta a dimostrare che essi non risalgano all’autore stesso dell’Augu-
stana (pp. 370 ss.). Tralascio qui la trattazione non breve dei «generi
secondari», cioè dei tipi di narrazione che nell’Augustana, come in
altre raccolte, sono stati utilizzati e assimilati alla favola esopica: aned-
doto (pp. 384 ss.), immagine allegorica (pp. 397 ss.), novella (pp. 400 ss.),
favola eziologica (pp. 402 ss.), mito (pp. 410 ss.), fiaba (pp. 413 ss.).
Tutta la trattazione è condotta con sottigliezza instancabile.
Ho cercato di dare un’idea sommaria di questa lunga analisi dell’Au-
gustana. Data la sottigliezza e la prolissità, anche un riassunto è im-
presa complicata e faticosa; difficilmente restano le forze per discutere
molti dettagli. Anche qui mi limiterò a qualche considerazione riguar-
dante il metodo strutturalistico. Il Nøjgaard nutre per il nuovo metodo
un entusiasmo che può suscitare simpatia, ma che può apparire an-
che ingenuo: «la critica, antica e moderna, non si è proposta o non ha

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250 Capitolo sesto

condotto un’analisi letteraria, ma un lavoro di legislazione letteraria»


(p. 303). In realtà il Nøjgaard, senza volerlo, non riesce a sfuggire alla
tentazione normativa. In sostanza, che cosa ha fatto? Dalla maggioran-
za delle favole ha ricavato uno schema che è predominante, ma non
certo assoluto. Lo schema comporta dei dati, un conflitto di due perso-
naggi, un’azione di scelta, una valutazione, un epimitio. Questo schema
diventa per lui una struttura essenziale, secondo cui l’autore dell’Augu-
stana costruisce le sue favole. Più probabile è che questa struttura fosse
abbastanza diffusa (ma non necessaria, né operante normativamente)
nella tradizione esopica: il compilatore dell’Augustana tutt’al più le avrà
dato un’applicazione più larga; dello schema sarà stato cosciente; che
esso avesse una validità assoluta e normativa, non avrà mai pensato.
Accorgendosi che lo schema era troppo ristretto, il Nøjgaard lo ha allar-
gato in qualche punto (per esempio, a proposito dei tre personaggi);
dove non ci è riuscito, ha bandito il racconto dal campo della favola,
facendolo rientrare tutt’al più nei «generi secondari».
Nell’Augustana, come, del resto, nelle altre raccolte, l’azione di scel-
ta e la valutazione sono molto spesso i punti più importanti della favola;
eppure nemmeno lì sono sentite come necessarie. Nella 22 Ch. (= 21 H.)
dei pescatori, dopo essersi affaticati a lungo inutilmente, siedono scorag-
giati nella loro nave; intanto un tonno, inseguito e spinto dalle ondate,
va a finire nella loro nave senza che essi se ne accorgano; dopo lo ac-
chiappano e lo vendono. Né conflitto né azione di scelta da valutare: la
favola vuol dire, come interpreta giustamente l’epimitio, che a volte si
ottiene per caso ciò che non si è potuto ottenere con la fatica e con l’arte.
Il Nøjgaard se la caverebbe forse collocando la favola tra gli aneddoti. In
42 Ch. (= 10 H.) la volpe una prima volta ha paura del leone, la seconda
un po’ meno, la terza, assuefattasi, gli si avvicina e gli parla. Con qualche
sforzo si potrebbe anche ricavare un’azione di scelta e una valutazione:
la volpe ha avuto torto a spaventarsi le prime due volte; ma l’interpreta-
zione più naturale (data, del resto, nell’epimitio) è che la favola voglia
dimostrare come con l’abitudine anche le cose terribili divengono sop-
portabili. Zeus dà alla volpe il regno degli animali; per metterla alla
prova le fa volare accanto uno scarafaggio; la volpe con un balzo cerca
di afferrarlo; allora Zeus fa tornare la volpe nelle condizioni di prima
(120 Ch. = 109 H.). Con sforzo si può anche cercare un’azione di scelta
della volpe, che non sa rinunziare alla preda; ma più chiara è l’inelutta-

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 251

bilità della natura, che non lascia veramente scelta; e questa inelutta-
bilità la favola vuole dimostrare. Il noce cresciuto accanto alla strada,
preso a sassate dai passanti, lamenta l’ingratitudine di cui è vittima
(153 Ch. = 141 H.; forse il Nøjgaard obietterà che la favola è in pochi
codici della recensio Augustana). Non c’è azione di scelta: solo la con-
statazione del male. I sacerdoti di Cibele che usano l’asino per traspor-
tare i loro strumenti, quando è morto, ne usano la pelle per fare tam-
buri (237 Ch. = 173 H.): non è in questione l’azione di scelta dei
sacerdoti, ma la miseria ineluttabile e senza fine dell’asino. E potrei
continuare, pur non avendo condotto un’analisi sistematica. Ma già
questi pochi casi indicano che la favola non porta necessariamente a
valutare un’azione di scelta: essa porta a constatare un comune compor-
tamento umano; nell’accettare la constatazione il narratore può anche
far sentire il suo pessimismo, e si può allora parlare di una valutazione
implicita, ma la valutazione può anche mancare del tutto.
Se lo schema strutturale viene così allargato, non abbiamo bisogno
di relegare tra le allegorie la favola famosa della volpe e della maschera
tragica (43 Ch. = 27 H.) e quella della volpe che vede il serpente porta-
to dal fiume su un fascio di spine (116 Ch. = 98 H.): nel primo caso la
volpe constata che la bella apparenza copre la stupidità (solo artificio-
samente potremmo andare a cercare un’azione di scelta di chi nascon-
de la propria stupidità), nel secondo che i malvagi sono spesso uniti.
Ci può essere valutazione senza conflitto: i casi sono più comuni
di quanto il Nøjgaard non ammetta. Nella favola della volpe e l’uva
(32 Ch. = 15 a H.) c’è valutazione dell’ipocrisia della volpe; ma mi pare
puro schematismo andare a cercare conflitto tra la volpe e l’uva. I buoi
tirano il carro senza lamentarsi, l’asse, invece, geme forte; «siamo noi a
portare tutto il peso, e tu ti lamenti?», obiettano i buoi (70 Ch. = 45 H.).
C’è valutazione del vano gemere dell’asse, ma dov’è il conflitto? Le
lepri, coscienti della propria viltà, vorrebbero ammazzarsi; vi rinuncia-
no, quando constatano che le rane sono ancora più vigliacche di loro
(192 Ch. = 143 H.). Si può parlare di una valutazione negativa del primo
proposito delle rane, ma non vedo nessun conflitto. La mosca che affo-
ga nel brodo è contenta di morire sazia (240 Ch. = 177 H.): dov’è il con-
flitto? L’asino carico di sale, scivolato nell’acqua, ne esce sollevato, per-
ché il carico si è sciolto; fa lo stesso con un carico di spugne e resta
soffocato sotto il peso (266 Ch. = 191 H.). Si potrebbe escogitare un

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252 Capitolo sesto

conflitto tra l’asino e il padrone; in altre redazioni il padrone ha qualche


rilievo, ma proprio in quella accolta nell’Augustana non compare nep-
pure. La gallina cova le uova del serpente; la rondine le fa osservare la
sua stoltezza (287 Ch. = 206 H.); non so dove sia il conflitto. Anche fa-
vole con tre personaggi, in cui il numero tre non è giustificabile con la
casistica sottile del Nøjgaard (terzo personaggio relegato nella situazione
iniziale o presente solo nell’intervento finale necessario alla soluzione
ammesso solo sotto la legge del due scenico), mi paiono meno rare di
quanto egli non creda. Per esempio, nella favola del leone, dell’asino e
della volpe (210 Ch. = 154 H.) i tre personaggi sono necessari dal princi-
pio alla fine; aggiungerei 218 Ch. = 158 H. (I lupi, i cani e il gregge),
255 Ch. = 66 H. (I due viandanti e l’orso, dove i due viandanti figurano
come personaggi separati), 271 Ch. = 203 H. (L’asino, la volpe e il leone,
dove il due scenico vale solo alla fine, quando l’asino è stato ammazzato).
Ho citato un po’ a caso tra le ultime centocinquanta favole: non ne
mancano certamente altre. E tralascio di discutere di altre leggi, il cui
rigore mi lascia scettico. Non voglio però trascurare un caso clamoro-
so: la favola famosa del lupo e dell’agnello (222 Ch. = 160 H.) riesce
anormale nella recensio Augustana (pp. 266-267). Non rientra negli
schemi del Nøjgaard il fatto che nel medesimo personaggio coesistano la
forza materiale e la forza spirituale, cioè l’astuzia con cui egli cerca di
giustificare la sua prepotenza (nella favola le due forze possono coesi-
stere, ma non nello stesso personaggio). Né il racconto né l’epimitio
fanno difficoltà alcuna: l’epimitio intende, giustamente, che, quando il
prepotente vuole commettere ingiustizia, non c’è argomentazione che
valga a difesa. La forza del lupo non è solo forza bruta, ma la forza
che vuole ammantarsi di diritto, pronta a rinunciare al suo paravento
se questo si dimostra fragile: più che di valutare si tratta di constatare
una legge del comportamento dei potenti. Le difficoltà sono negli
schemi troppo stretti e rigidi che il Nøjgaard ha costruiti: egli ha tes-
suto una rete sottile in cui alla fine resta impigliato lui stesso.

3. Questioni di storia della tradizione esopica

Si potrà sbrigare più facilmente la terza parte dell’opera, quella che


contiene una storia della favola esopica. Dappertutto l’autore si mostra
bene informato; c’è qualche lacuna poco importante, mancano, forse,

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 253

contributi nuovi, ma in più punti corregge in modo convincente con-


clusioni errate di studiosi anteriori, in particolare del Perry, che ha
dedicato all’argomento quasi tutta la sua attività. Gli studi degli ultimi
decenni, e in particolare degli anni recenti, hanno allargato notevol-
mente le nostre conoscenze della favola mesopotamica e messo in ri-
lievo la sua importanza per la letteratura favolistica successiva, com-
presa quella greca. Oggi si può formulare l’ipotesi che sia la favola
greca sia quella indiana abbiano una origine mesopotamica: anche il
Nøjgaard vi arriva per parte sua (p. 433). Favola mesopotamica oggi
significa non solo babilonese, ma anche sumerica. Riesce però strana,
anzi stupefacente, l’ipotesi, formulata in base a pretese affinità struttu-
rali, che la favola greca e quella babilonese risalgano per vie indipen-
denti a quella sumerica (pp. 434, 441). La civiltà sumerica era scompar-
sa da oltre un millennio ai tempi di Esiodo e di Archiloco: ciò che
della cultura sumerica è giunto alla cultura greca (se qualche cosa è
giunto) proviene dalla cultura babilonese o direttamente o attraverso
le civiltà dell’Asia anteriore. Nella diffusione della favolistica l’Egitto
ha scarsa importanza, ma qualche cosa andava detto. Dove il Nøjgaard
vi accenna, lo fa a sproposito: per il famoso contrasto dell’olivo e del-
l’alloro nei Giambi di Callimaco (fr. 194 Pf.) richiama la cultura egi-
ziana (p. 441), quando dall’introduzione stessa di Callimaco si ricava
l’origine lidia.
A proposito della diffusione della favola nella cultura ionica e attica
è interessante la conclusione (p. 461) che la favola ionica è di carattere
epico, quella attica di carattere aneddotico; temo però che anche qui l’a-
more degli schemi trascini il Nøjgaard troppo oltre e che egli generaliz-
zi im­pressioni ricavate da Archiloco e da Aristofane. A ragione l’autore
nega l’esistenza di un Volksbuch di Esopo, cioè di una biografia popola-re
di Esopo in cui le favole sarebbero state inserite, senza con questo ac-
cettare certe argomentazioni infondate del Perry (pp. 469 ss.)3. Troppo
fiducioso, invece, mi pare nell’ammettere che già nel V secolo esistes-
se ad Atene una collezione scritta di favole esopiche (pp. 471 ss.): credo
che valgano in senso contrario argomentazioni già da me svolte contro
l’ipotesi del Volksbuch4; non credo che Aristofane, Uccelli 471, implichi

  Cfr. il mio studio Il romanzo di Esopo, pp. 282 ss. (qui, pp. 149 ss.).
3

  Ivi, pp. 283-284 (qui, pp. 150-151).


4

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254 Capitolo sesto

necessariamente lettura; Platone, Fedone 60 c, dimostra ancora meno.


Circa la tradizione sulla favola libica, il Nøjgaard sospetta che essa si
basi tutta sull’accenno di Eschilo (p. 476); non capisco perché: Eschilo
avrà sentito parlare in Atene di favole libiche, così come Aristofane
sentiva parlare di favole sibaritiche. Altre indicazioni interessanti sulla
favola ateniese si trovano nel capitolo sulle idee della favola (pp. 535
ss.). La tradizione della favola esopica dall’età di Alessandro a Fedro
resta oscura. Il Nøjgaard demolisce con argomentazioni efficaci ipote-
si deboli. Egli tende a limitare (giustamente, secondo me) l’influsso
della retorica. Non è dimostrato, né da Perry né da altri, che la raccol-
ta di Demetrio di Falero avesse scopo retorico (p. 478): il fine retorico
è improbabile anche per l’Augustana (pp. 480 ss.); il fine del compi-
latore non pare sostanzialmente diverso da quello di Fedro e di Ba-
brio (p. 487). Forse a proposito dell’Augustana bisognerebbe distin-
guere tra un fine retorico, improbabile, e un influsso formale retorico:
né la storiografia, per esempio, né il romanzo hanno fine retorico, ma
sono elaborati retoricamente (si capisce che l’indirizzo retorico
dell’Augustana è di carattere diverso).
Si collega in parte col problema dell’influsso della retorica quello
della funzione e dell’antichità dell’epimitio. Perry, soprattutto sotto
l’impressione di alcune favole conservate in un papiro Rylands, ha
ritenuto che l’epimitio sia elemento relativamente tardo, forse nato
poco prima di Fedro e di Babrio: infatti le favole del papiro, in cui
Perry è incline a vedere un frammento della collezione stessa di De-
metrio, hanno solo epimiti, introdotti con la formula πρός e l’accu-
sativo, cioè «(la favola si applica) a questo o quel tipo». Con buone
argomentazioni il Nøjgaard (pp. 487 ss.) dimostra che gli epimiti
sono più antichi e che il papiro Rylands non ci restituisce affatto una
sistemazione più antica di Fedro o dell’Augustana: per esempio, i
promiti di Fedro nel primo libro, cioè nel libro derivato da una rac-
colta esopica, non hanno la formula del πρός, sono anzi paradigma-
tici (con la formula «la favola dimostra che...»), vale a dire sono ri-
calcati su epimiti; alcuni epimiti dell’Augustana conservano formule
arcaiche, come ἀτὰρ οὖν καὶ ἡμᾶς (ὑμᾶς) (antica è anche la formula
con οὕτως). Se si considera che la favola nasce come un paragone, è
naturale che l’epimitio comparativo sia molto antico. Giustamente
scettico è il Nøjgaard nell’accogliere l’ipotesi del Perry che identifica

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Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica 255

la raccolta Rylands con quella stessa di Demetrio (p. 508). Altrettan-


to cauto però sarei nell’accogliere la supposizione, affacciata da
Nøjgaard (p. 490), che il papiro di Ossirinco X 1249 sia l’autografo
di Babrio! Una conclusione accettabile di questa discussione del
Nøjgaard è che la prima raccolta greca di favole aveva già un ordine
alfabetico (p. 513).
Sono stato particolarmente lieto di leggere il capitolo sulle idee
della favola antica. Perry ha negato che dalle favole esopiche antiche si
possa ricavare un sistema di idee, una visione della vita. La conclusio-
ne è valida per la favola esopica nell’insieme della letteratura mondiale,
non per la favola esopica greca e latina: questa, se non offre un sistema,
una filosofia, si fonda su una concezione generale della vita o, almeno,
su delle tendenze dominanti: io stesso ho cercato di delinearle5, e i ri-
sultati coincidono in larga parte con quelli indipendenti del Nøjgaard
(pp. 514 ss.). La favola esopica greca ci dà una concezione della vita
laica, rudimentalmente razionalistica, con punte antireligiose. La recensio
Augustana attenua da parte sua il razionalismo con una tendenza mora-
lizzante, accentuando l’intervento della giustizia nel giuoco implacabile
delle forze (pp. 519 ss.), rimanipolando ed eliminando le favole oscene
(pp. 523 ss.). Tuttavia c’è una conclusione capitale che non posso acco-
gliere: il Nøjgaard, polemizzando contro Marchesi, nega che si possa
parlare di pessimismo della favola esopica (pp. 545-546). Con termini
vaghi come ottimismo e pessimismo si discute male. Certo, la favola
esopica non invita al suicidio: insegna a usare l’astuzia, l’abilità contro
la forza, a combattere per il proprio interesse e per la sopravvivenza;
ma il pessimismo è nella visione della vita dominata dalle leggi dell’e-
goismo, dalla forza, dall’astuzia e nel ritenere immutabili queste leggi,
il dominio del più forte, quasi sempre ingiusto, l’ordine sociale in
cui il povero e il debole sono oppressi6: la favola esopica insegna a so-
pravvivere nel mondo della forza bruta, ma a sopravvivere adattandosi
e rassegnandosi. Giustamente Nøjgaard nega (p. 557) il significato ri-
voluzionario della favola greca7.
Infine, a quale pubblico si rivolge la favola antica? Il Nøjgaard ten-
de a limitare l’uso scolastico e retorico della favola: essa è soprattutto

5
  La morale della favola esopica (qui, cap. 7).
6
  Ivi, pp. 508 ss. (qui, pp. 303 ss.).
7
  Ivi, pp. 529-530 (qui, pp. 324-325).

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256 Capitolo sesto

un genere popolare e ancora l’Augustana è destinata a un pubblico


popolare (pp. 549 ss., spec. 552-553). Nella Ionia la favola non pare
legata in particolare agli strati bassi e sembra diffusa in tutte le clas-
si sociali (pp. 555 ss.); ma in Attica essa proviene dagli strati inferiori
della società e della cultura (pp. 554-555). L’indirizzo di questo capi-
tolo sociologico è abbastanza giusto. Volentieri io avrei visto più svi-
luppata questa parte storica, e in particolare gli ultimi due capitoli
(quello sulle idee e quello sul pubblico), e ridotta al minimo la secon-
da, quella sull’analisi strutturale dell’Augustana; ma pretenderlo si-
gnificherebbe pretendere che l’autore fosse del tutto diverso da quel-
lo che è. Anche così com’è, con la sua prolissità e le sue sottigliezze,
il suo schematismo e il suo entusiasmo strutturalistico, l’opera, impe-
gnata, fondata su ricca informazione e vigore dialettico non comune,
si presenta molto utile. Essa dovrebbe interessare anche per la discus-
sione sullo strutturalismo. Questa tendenza, in quanto aiuti a superare
uno storicismo che pone come conoscenza vera solo la conoscenza del
particolare, dell’individuum, del concreto, in quanto ponga il problema
della conoscenza storica come un tipo particolare di astrazione, può
essere benefica; ma può anche coltivare una nuova illusione della
scienza storica come scienza esatta e schematica. Bisognerà, forse, che
lo strutturalismo (o le varie manifestazioni che vanno sotto questa eti-
chetta) faccia ancora i conti con la conoscenza storica: una nuova epi-
stemologia storica, al di là dello storicismo e dello strutturalismo, potrà
nascere nei prossimi anni o nei prossimi decenni.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 257

Capitolo 7

La morale della favola esopica come


morale delle classi subalterne nell’antichità1

1. Genere letterario e interpretazione della realtà

Ancora vent’anni fa, prima di cominciare una storia della favola esopi-
ca, difficilmente si sarebbe sfuggiti al problema se abbia senso e utilità
la storia di un genere letterario. Oggi un problema di questa sorta non
preoccupa quasi più nessuno: naturalmente nessuno tenterebbe oggi di
ordinare i poeti di un dato genere come momenti di quel genere stesso,
sull’arco che va dalla nascita alla perfezione e dalla perfezione alla de-
cadenza; ma quasi tutti, anche i continuatori più pedissequi dell’este-
tica allora in voga, si son resi conto che il genere letterario è una tradi-
zione culturale che il poeta presuppone, assume in sé, a cui si sente
legato più o meno secondo le civiltà e le epoche letterarie, più prima
del romanticismo, meno dopo, e che questo legame è un momento più
o meno importante per capire strutture e tecniche e anche ispirazioni
e motivi della poesia; ancora più importa rendersi conto che la fioritu-
ra di un genere letterario (e lo stesso si può dire, ovviamente, per le
arti) è condizionata da una determinata forma di civiltà e che il legame
del poeta col genere ci riporta a quello più complesso del poeta con la
cultura e la civiltà che lo hanno nutrito2. Come per tanti altri problemi,
per quello dei generi letterari la nostra cultura dall’inizio del secolo ha
fatto un passo avanti e due indietro.
Nel caso della favola esopica, poi, la continuità del genere va molto
al di là che nel caso, mettiamo, della tragedia o della commedia o del

1
  [«Società», vol. 17, 1961, n. 4 (lug.-ago.), pp. 459-537. L’Addendum bibliografico è apparso in
appendice (p. 34) alla stampa 2009 del cap. 2].
2
  Su quest’ultimo punto è utile seguire le riflessioni svolte da Antonio Banfi nell’artico-
lo postumo Osservazioni sui generi artistici, «Società», vol. 15, 1959, pp. 1033-1068 [quindi in
Id., Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza,
Reggio Emilia 1988, pp. 273-310].

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258 Capitolo settimo

poema epico: nella favola esopica non solo son fissi i tipi, l’impostazio-
ne allegorica, la struttura, ma abbastanza solido è il nocciolo d’inter-
pretazione della realtà umana che si conserva immutato: in questa in-
terpretazione la differenza è molto più forte, per esempio, tra Eschilo
ed Euripide che non tra le raccolte esopiche e Fedro; ed è quasi super-
fluo notare che la fissità della favola esopica greca e latina è maggiore
che quella della favola esopica moderna: anche tra l’amaro Fedro e
l’agghindato Babrio v’è certo minore differenza che tra La Fontaine
e Lessing. La favola esopica ha una fissità accentuata anche rispetto ad
altri generi che si rivolgono a un largo pubblico e che non richiedono nel
pubblico un livello di cultura particolarmente elevato, per esempio ri-
spetto alla fiaba o alla commedia antica o alla nostra commedia dell’arte
o al romanzo antico o ai romanzi e film polizieschi o western: anche
questi generi si servono di tipi fissi, di situazioni e azioni che ritornano
in quasi tutte le opere; ma è ugualmente chiaro che ciascuna di quelle
opere vuole cucire i pezzi soliti in una trama nuova, giacché è essenziale
lo scopo di tener desta la curiosità del lettore o ascoltatore. Lo sforzo
della varietà e della novità non è mancato, naturalmente, neppure nei
favolisti antichi, o almeno in quelli della cui personalità possiamo farci
un’idea non del tutto incerta, come Fedro o Babrio; ma questa preoccu-
pazione è di gran lunga meno viva che quella di conservare racconti
tramandati: l’arte finissima e semplice, deliziosa e conversevole di La
Fontaine potrà trovare confronto in una o due favole di Orazio e forse
anche in qualche passo di Babrio; ma la mania innovatrice di Houdar de
la Motte è, nella favola esopica greca e latina, inconcepibile: più si scava
alle origini della favola, più indietro si riescono a spostare le prime ma-
nifestazioni di alcuni racconti: una favola di Babrio è stata ritrovata, tra
parecchie altre favole, in tavolette babilonesi3 e una scoperta del genere
induce a sospettare origine remota per gran parte delle favole che con-
serviamo: del resto nessuno ha mai pensato che le favole a noi note at-
traverso Esiodo o Archiloco o Semonide di Amorgo fossero le sole che
si raccontassero al loro tempo. I favolisti antichi si curavano più di tra-
mandare una certa interpretazione della vita e certe massime che di evi-
tare con vari espedienti la noia del lettore.

 Cfr. Erich Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte,
3

Leipzig 1927, p. 49. Sia chiaro che in questa introduzione non mi propongo di approfon-
dire problemi storici singoli.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 259

Ma c’è veramente nella favola esopica greca e latina una determi-


nata interpretazione della realtà umana, una determinata morale?
Oppure bisogna concludere che tutte le morali possibili o almeno
morali varie e opposte si possono ritrovare in quelle congerie di rac-
conti, che è lecito dire delle favole ciò che si dice dei proverbi, cioè
che non v’è proverbio di cui non si possa trovare il contrario? Se così
si concludesse, le sole costanti di una tradizione di tanti secoli sareb-
bero nella struttura narrativa, nel legame della narrazione con una
morale e in alcuni tipi allegorici: quelle costanti formali, cioè, per
definire le quali tanto si polemizzò in Francia, in Svizzera, in Ger-
mania nel Settecento e tanto lucido acume impiegò il Lessing4. Oggi
quelle discussioni non hanno nessun interesse se non per lo storico
della cultura del Settecento e se non per qualche spunto che va al di
là della teoria formalistica: la sola costante (o il solo sviluppo) che
possa interessarci è quella di una Weltanschauung e di un’etica: questa
costante c’è o non c’è?
Con qualche pedanteria non è impossibile trovare, come appunto
nei proverbi, favole la cui morale contraddice quella di altre. Babrio
(126) narra di un viandante che incontra la Verità in un luogo deserto:
la Verità si è rifugiata lì perché la Menzogna si è sparsa tra tutti gli
uomini; Fedro (App. 5-6), una volta tanto ottimista, ci riporta l’apolo-
go di Prometeo e dell’Inganno, dove l’Inganno è raffigurato senza
gambe, incapace di procedere e come tale, quindi, che solo per breve
tempo può farsi scambiare per la Verità, la quale incede modesto gressu
sancta. Ricorre un paio di volte il caso del terzo che gode tra i due liti-
ganti: il leone e l’orso si battono per un cervo fino a restare mezzo
morti e la volpe, passando di lì, vedendoli in quello stato, si porta via
la preda (Esopo5 152 H.; forse anche in Babrio 244); il leone e il cin-
ghiale si battono furiosi per disputarsi una fontanella, mentre gli av-
voltoi stanno ad attendere per divorare chi dei due cada ammazzato
(Babrio 149); ma può anche succedere che il serpente e la donnola

4
  Cfr. soprattutto Abhandlungen über die Fabel (1759), in G. E. Lessing, Gesammelte Werke
in zehn Bänden, a cura di P. Rilla, vol. 4, Berlin 1955, pp. 5-85. [trad. it. Trattati sulla favola,
a cura di Lucia Rodler, Roma 2004]. Per la storia di queste discussioni è utile Max Staege,
Die Geschichte der deutschen Fabeltheorie, Bern 1929, pp. 19 ss.
5
  Superfluo avvertire che Esopo qui significa solo le tarde raccolte esopiche. In alcuni casi
Babrio è anteriore alla redazione esopica o questa deriva addirittura da Babrio.

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260 Capitolo settimo

smettano di duellare per rivolgersi ambedue contro i topi, i quali, ve-


dendoli occupati a combattere, passeggiano per una volta tanto tran-
quilli (Esopo 212 H.). Ma c’è poi davvero contraddizione tra l’irridere
chi, accecato dall’odio, non vede il proprio interesse e il notare come la
cupidigia sia talora più forte dell’odio? Nel mondo della favola dire
la verità, specialmente per i poveri diavoli, è lusso che si paga caro:
lo schiavo Esopo sconta sotto la sferza il coraggio di aver detto bru-
talmente la verità sulla bruttezza della padrona, che non riesce ad
allettare né carica di belletti e di gioielli né senza (Fedro, App. 17); ed
è nota la fantasiosa e graziosa favola dei due compagni, l’uno veritie-
ro, l’altro bugiardo, che arrivano nel regno delle scimmie: il bugiardo
viene premiato per aver coperto di adulazioni menzognere il re scim-
mione, il veritiero viene malmenato dalle scimmie (Fedro IV 13, mu-
tila, da integrare con Ademaro 51 = Romulus IV 8 = 569 P.). Ma può
anche accadere che il lupo ammiri nell’agnello il coraggio di dire il
vero e lo premi lasciandolo libero (Esopo 164 H.)6 o che l’abitudine
del pastore di giocare alla menzogna, di gridare al lupo quando il
lupo non c’è, venga punita con un atroce scherzo della sorte (Esopo
226 H.)7.
Le contraddizioni ora notate non sono molte e già per questo po-
trebbero considerarsi irrilevanti in una tradizione composita, vasta, che
corre attraverso tanti secoli; ma l’ultima contraddizione può essere ac-
costata a una più larga e importante, anzi essenziale, che può sembra-
re a molti lettori come un grosso problema: talora il dominio della
forza, dell’iniquità, dell’egoismo appare incontestato, talora ingiustizia
e malvagità sono punite; talora l’ingratitudine è legge, talora si mani-
festa in maniera commovente la gratitudine. È ovvio che non c’è da
aspettarsi dalla favola esopica un’interpretazione sistematica, critica-
mente approfondita dei rapporti umani, in cui questa grossa contrad-
dizione sia conciliata: si può, anzi, persino negare che del contrasto vi
sia chiara coscienza; eppure io credo di poter mostrare attraverso que-
sta mia indagine che una mentalità generale sia grosso modo definibi-
le nella favola esopica greca e latina.

6
  Parallela è Babrio 53, dove l’agnello è sostituito dalla volpe; ma qui manca il finale della
liberazione; il succo della favola è nell’arguta sincerità della volpe.
7
  Cfr. anche Esopo 75 H., dove il delfino che ha salvato la scimmia dal naufragio la fa poi
affogare irato per le sue bugie.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 261

Alcune contraddizioni troverebbero forse una soluzione dialettica,


se delle favole esopiche noi potessimo dare una storia esauriente, se per
ciascuna o per ciascun gruppo eventuale potessimo fissare l’età e la
società in cui nacque: favole contraddittorie potrebbero capirsi in mo-
menti storici diversi, esprimere esigenze diverse. Ma bisogna dire su-
bito che a una storia esauriente non si può arrivare proprio perché
della grandissima maggioranza delle favole la nascita ci è ignota; né ho
alcuna intenzione di tracciare una storia ideale, giacché una storia ide-
ale fuori del tempo è giuoco arbitrario e futile. Ciò non vuol dire che
al di fuori di quel poco di storia che è ricostruibile non ci sia niente da
fare: credo che sia utile, preliminarmente, caratterizzare, appunto, la
mentalità generale di quella letteratura. È un compito che si pone per
molte manifestazioni di letteratura primitiva e popolare: anche chi,
come me, è convinto che non ci fu un poeta unico dell’Iliade o del-
l’Odissea ammetterà che entro una certa misura si possano descrivere
una sensibilità e una mentalità comune agli aedi dell’uno o dell’altro
poema; e forse sarebbe stato utile battagliare di meno tra analisti e
unitari e dedicarsi di più a questo non facile compito; e anche per cer-
te tradizioni letterarie meno primitive e meno popolari, dove si riesco-
no a distinguere gli autori, per esempio per il romanzo greco, tale
compito ha senso e utilità. Si tratta di una specie di fenomenologia
dell’atteggiamento etico: ora, se la fenomenologia ha torto quando
vuole sostituirsi alla storia ed eliminarla, ha pur sempre una sua ragio-
ne di essere fin dove la storia non è ancora possibile.

2. Sulla via di una cultura laica popolare

Si può considerare la favola esopica una letteratura primitiva? Non c’è


caratterizzazione più relativa di questa: la poesia omerica è primitiva ri-
spetto alla lirica, specialmente per la elementarità di certi processi psicolo-
gici, per il procedimento narrativo, per la ricchezza di formule, ma oggi
nessuno nega che essa presupponga una lunga epoca di affinamento lette-
rario e di civiltà non solo letteraria: la sua enorme superiorità estetica ri-
spetto alla poesia epica primitiva di altri popoli è dovuta a questo processo
di civiltà che la condiziona più che a un genio nativo del popolo greco
(molto di più c’entra il genio di singoli aedi): il mito romantico della poe-
sia omerica come poesia «ingenua» è oggi tramontato. In ogni modo la

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262 Capitolo settimo

favola esopica greca (diversamente stanno le cose per quella latina) può
dirsi primitiva nel senso che, anche se ebbe la sua fioritura in quel muta-
mento profondo di strutture sociali e politiche, di costumi, di pensiero, di
cultura che la Grecia, e specialmente le colonie ioniche, vissero nei secoli
VII e VI a. C., si può ritenere nata anche prima; e soprattutto nel senso
che in quel mutamento di pensiero e di cultura resta fedele a una certa
elementarità, semplicità di elaborazione razionale: la favola è un esempio
fantasioso, un breve racconto arguto che sostiene una massima, ma man-
ca, anche nell’ambito etico, quel processo di astrazione concettuale per cui
quel movimento di cultura è considerato giustamente come la nascita
dello spirito europeo. Benché di favole dell’età ionica ci siano conserva-
ti troppo scarsi esempi, non è azzardato affermare che anche l’intreccio
narrativo fu povero e semplice, anche rispetto alla novellistica del tempo.
Con riserve analoghe la favola esopica può essere considerata pure
una letteratura popolare. Pochi termini, com’è noto, si prestano quanto
questo a interpretazioni disparate. Poiché qui non è minimamente
possibile condurre una discussione sul concetto di letteratura popolare,
mi riferirò a certe formulazioni essenziali. Si può parlare di letteratura
popolare nel senso che essa, pur essendo elaborata da una élite colta,
ha larga diffusione tra gli strati inferiori in quanto risponde a certi loro
modi di sentire e a certe loro esigenze (è in fondo il concetto gramscia-
no di letteratura nazionale-popolare); o nel senso che nella sua elabo-
razione hanno parte notevole artisti degli strati inferiori che rimango-
no legati alle loro esigenze; o infine nel senso che all’artista della
letteratura popolare mancano la coscienza e il bisogno di esprimere
una sua individualità, che egli si sente, anonimo o no che sia, interpre-
te di sentimenti collettivi o largamente diffusi, il che ha come conse-
guenza lo scarso interesse per la personalità dell’autore, la facile modi-
ficabilità del testo, il peso notevole della tradizione orale (questo è,
credo, quanto resta di valido, ma non è poco, della concezione
romantica)8. La favola esopica può ben dirsi letteratura popolare in

8
  Che anche la letteratura popolare sia prodotta da singoli artisti, non dal popolo o dalla
collettività poetante, è obiezione certamente giusta contro il concetto romantico; ma ciò
che importa è vedere se e in che misura l’artista è o si sente interprete di sentimenti col-
lettivi: questo legame, più che la maggiore o minore elaborazione artistica, importa per
definire la letteratura popolare. Anche per questo problema la nostra cultura della prima
metà del secolo ha fatto un passo avanti e due indietro.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 263

questi ultimi sensi riconducibili alla concezione romantica; nella sua


elaborazione hanno parte importante schiavi, che hanno coscienza di
esprimere sentimenti di schiavi o di altri strati umili. L’alta cultura ha
dato in alcuni casi alla tradizione delle favole l’elaborazione retorica, ai
fini dell’insegnamento (nei progymnasmata o praeexercitamenta), elabo-
razione che ha peso minore di quanto in genere non si creda; talora le
ha fornito (è il caso di Fedro, di Aviano e specialmente di Babrio)
certi procedimenti di eleganza letteraria; ma in complesso l’élite colta
greca e latina attraverso la retorica e la diatriba ha ricevuto dalla tradi-
zione favolistica popolare molto più di quanto non abbia dato. Non
potrà dirsi lo stesso, probabilmente, per l’età bizantina.
Nell’ambito della letteratura che può considerarsi in questo senso
primitiva e popolare, la favola esopica va collocata più particolarmente
in quella che segna un distacco, se non una rottura violenta, dalla cul-
tura religiosa. Anche quando la cultura non è elaborata più solo da una
casta religiosa, essa resta per una lunga fase (che nello sviluppo lento
della civiltà primitiva significa secoli o millenni) influenzata dalla reli-
gione, di cui è superfluo ricordare i legami essenziali con le strutture
della società: la cultura degli aedi, per esempio, non è elaborata da una
casta sacerdotale, ma è ideologicamente ancora legata alla religione e
alla casta aristocratica, anche se la religione in qualche passo dell’Iliade
e dell’Odissea sia già semplice materia di un diletto fantastico, quasi
novellistico. Già diverso è il caso della fiaba: essa conserva larghe trac-
ce di stadi religiosi primitivi, come l’animismo, ma la religione non è
più fede: alla fede e al terrore è succeduta la pura gioia dell’immagina-
zione. Le tracce di stadi religiosi primitivi scompaiono poi nella novel-
la, in cui si fa luce talora, almeno implicitamente, la concezione di un
mondo dominato dal caso, senza, quindi, presenza divina. Lo studio
delle civiltà primitive, molto avanzato da un paio di secoli in qua, ha
prestato (ed era naturale e giusto) una grande attenzione alle credenze
religiose primitive; ma mi sembra che troppo poca attenzione si sia
prestata al distacco della cultura dal sacro, alla nascita del pensiero
laico: il folklore dovrebbe occuparsi un po’ meno della fantasia popo-
lare e un po’ più della nascita della ragione nel popolo.
La favola esopica è già importante perché essa è un passo decisivo
nel distacco dalla cultura religiosa e nell’elaborazione di una cultura
laica popolare, più decisivo di quello compiuto dalla novellistica, per-

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264 Capitolo settimo

ché la favola esopica molto più della novellistica è dominata dal biso-
gno di capire la realtà sociale: anzi in questa direzione essa è, senza
dubbio, anche al di fuori della cultura popolare, il passo più decisivo
prima della sofistica (la quale rimase cultura di élite). Che favole di
tipo esopico siano state usate da predicatori buddistici o nel Medioevo
da predicatori cristiani ha poca importanza, sia perché quest’uso ha
arricchito e modificato poco la tradizione esopica9 sia perché esso in-
dica piuttosto un adattamento del predicatore alla mentalità del suo
pubblico popolare, adattamento che porta talora a interpretazioni for-
zate di favole note, a veri giochi di prestigio. In rari casi, di cui avrò a
parlare in seguito10, la punizione giusta è attribuita alla giustizia divi-
na: la divinità è quasi sempre assente da questo mondo che è fatto di
rapporti di forza, di egoismi, di astuzie, di accortezze. Rari sono pure
i casi in cui l’empietà è punita. C’è una favola in cui gli dei puniscono
con un tranello un poveraccio che, malato, aveva promesso loro un’e-
catombe in cambio della sua salvezza e che, una volta sano, aveva sa-
crificato i cento buoi, ma effigiati in pasta (Esopo 28 H.). Tuttavia
l’episodio rientra in quel processo di ritorsione dell’inganno con l’in-
ganno che è normale nella favola esopica. Altrove compare Horkos, il
Giuramento, che per lo più prende tempo a punire i trasgressori, ma a
volte sa colpire prontamente e inaspettatamente (Esopo 214 H.). Fedro
(I 27) ci racconta del cane che, scavando un tesoro, viola gli dei Mani
e da essi viene punito con la malattia tremenda dell’avarizia: per non
abbandonare un momento il tesoro scoperto muore di fame; ma qui
l’attenzione è posta sulla malattia dell’avarizia e ancora più sull’im-
prontitudine del cane che, trivio conceptus, educatus stercore, ha osato
aspirare d’un tratto a regales opes: la punizione dei Mani pare solo un
espediente narrativo11. Invece non manca il caso che la prodigalità nei
sacrifici sia garbatamente derisa come stoltezza (Esopo 112 H.; un po’
diverso Babrio 63); non manca neppure una beffa alla divinità poco
benevola: un viandante affaticato prega Hermes di fargli trovare qual-

9
 L’origine buddistica del Pañcatantra è ipotesi oggi caduta: cfr. M. Winternitz,
Geschichte der indischen Litteratur, vol. 3, Leipzig 1920, p. 282, nota 1.
10
 Cfr. infra, pp. 285 ss.
11
  Naturalmente non ha nessuna importanza che nel Medioevo sia stato inserito tra le
favole esopiche un aneddoto sulla punizione divina di Giuliano l’Apostata (Herv. IV,
p. 296, n. 81 = 632 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 265

che cosa di buono, promettendo al dio la metà; invece del tesoro trova
una bisaccia con delle mandorle e dei datteri: allora offre al dio le bucce
delle mandorle e i noccioli dei datteri (Esopo 188 H.). Una favola di
Babrio (119) pare quasi un’esaltazione dell’empietà: un tale che possiede
e venera una statua lignea di Hermes, con molte libazioni e sacrifici non
ottiene nulla; alla fine, persa la pazienza, afferra la statua per una gamba
e la butta per terra: dalla testa spaccata esce un tesoro: insensibile alle
preghiere, Hermes ha premiato la violenza. Ancora Babrio (2) ci ha
tramandato la favola del contadino che ha perduto la vanga e va in città
a chiedere aiuto agli dei per scoprire il ladro, ma in città si accorge che
gli dei non sanno scoprire neppure i ladri dei propri arredi. Ancora più
notevoli sono le favole che irridono la magia e la mantica: la maga crede
di saper stornare la morte dagli altri, ma non sa evitare la condanna a
morte per sé (Esopo 56 H.); un indovino sulla piazza predice agli altri il
futuro, mentre gli rubano in casa (Esopo 170 H.); il corvo divinatore non
ha saputo evitare di farsi accecare un occhio (Esopo 227 H.); più avve-
duto e meno imbroglione è un aruspice presso il quale un eunuco si
reca per invocare prole: spiegato il fegato sacro, «quando guardo le
viscere – dice – risulta che tu sarai padre, ma, quando guardo la tua
faccia, non mi sembri neppure uomo» (Ba­brio 54).
Il contrasto, probabilmente storico, di Esopo con i sacerdoti di
Delfi ha un valore simbolico che le favole giustificano entro una certa
misura: dico entro una certa misura, perché di una rivolta antireligiosa,
di una critica approfondita della religione e di un forte soffio illumini-
stico non si può parlare (e vedremo poi perché): su questa via la sofi-
stica è andata certamente più in là. In ogni modo l’interpretazione
della realtà umana nelle favole esopiche si pone al di fuori di qualsiasi
interesse religioso: ciò che regola i rapporti umani viene spiegato qua-
si sempre senza ricorso alla divinità.

3. Demistificazione: la verità sotto le apparenze fallaci

Cerchiamo ora di tracciare le tendenze essenziali di questa concezione


laica della realtà umana12.

  Una classificazione utile e accurata delle favole esopiche greche e latine secondo la
12

morale e i tipi morali è data da W. Wienert, Die Typen der griechisch-römischen Fabel,

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266 Capitolo settimo

Uno degli atteggiamenti più comuni nella favolistica è quello di chi


svela crudamente la verità sotto le apparenze fallaci, mette a nudo il vizio
sotto le pretese inconsistenti. La celebre favoletta della volpe e della
maschera (Fedro I 7 O quanta species...; Esopo 27 H.) potrebbe essere
assunta a motto di tutta la favola esopica. Tra le favole più taglienti sono
quelle che smascherano l’egoismo, l’avidità, la frode o la violenza di chi
si presenta come benefattore o porge amicizia. Il boscaiolo nasconde la
volpe e ai cacciatori che l’inseguono nega di averla vista, ma intanto
cerca di indicare con la mano il nascondiglio; per fortuna i cacciatori non
si accorgono del cenno; e alla fine il boscaiolo vuole presentarsi alla
volpe come il suo salvatore (Esopo 22 H.; Babrio 50). Notissima è la
favola del lupo, che, non potendo raggiungere la capra pascolante su
una rupe, la invita con molta liberalità ai fiorenti pascoli che sono in
basso (Esopo 162 H.). La donnola pretende dall’uomo salva la vita,
perché, dice, lo ha beneficato ammazzando topi e lucertole; ma l’uomo
le ricorda che ha ammazzato anche le galline (Babrio 27; un po’ diver-
samente Fedro I 22). Il lupo vuol fare da medico all’asino e gli chiede
in quali punti senta dolore; «Dove tu tocchi», risponde l’asino (favola
conservata negli Hermeneumata dello Pseudo-Dositeo, 13, CGL III,
p. 45 = 392 P.); del tutto simile a questa è una favoletta di cui Concet-
to Marchesi ebbe a ricordarsi a proposito del Patto atlantico: una scro-
fa giace nelle doglie del parto; accorre il lupo a fare da ostetrico;
«Mi basta – dice la scrofa – che tu stia un po’ lontano» (Satis est […] si
recedis longius: Fedro, App. 19); e molto vicina è quella del gatto che
si traveste da medico per curare galline malate: «Come vi sentite?»
«Magnificamente, se tu te ne vai via di qua» (Esopo 7 H.; Babrio 121).
Le prefiche, che piangono per lucro, gridano molto più delle donne di
famiglia (Esopo 221 H.)13.
Le gentilezze, le carezze, le cure per il benessere altrui sono quasi
sempre schermi della frode. L’orso si vantava di essere amico dell’uo-

Helsinki 1925 («Folklore Fellows Communications», 56). Una caratterizzazione breve ed


elegante, che non è e non vuol essere esauriente, in C. Marchesi, La morale della favola,
in Id., Voci di antichi, Roma 1946, pp. 225-234 (già in «Mercurio», vol. 2, marzo-aprile 1945,
pp. 91 ss.); Uomini e bestie nella favola antica, in Id., Divagazioni, Venezia 1951, pp. 9-20.
13
 Cfr. inoltre Il bifolco e il lupo (Esopo 38 H.); La volpe che bacia l’agnello, e il cane
(Esopo 41 H.); Il lupo e il cavallo (Esopo 159 H.); Le vespe, le pernici e il contadino (Esopo
235 H.); Diogene viandante (Esopo 65 H.); Il cacciatore e il cavaliere (Sintipa 49 = 402 P.);
La volpe e il contadino (p. 507 P.); I cani e i coccodrilli (Fedro I 25).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 267

mo: infatti non ne strascina mai il cadavere: «Meglio sarebbe – ribatte


la volpe – se lo trascinassi morto e non lo toccassi vivo» (Babrio 14). Il
cane si vanta di manifestare il suo affetto a Hermes leccandone la sta-
tua: la statua del dio delle palestre è unta d’olio; «Ti sarò grato – ri-
sponde il dio – se non leccherai l’olio e non mi piscerai addosso» (Ba-
brio 48). L’uccello chiamato terraneola perché fa il suo nido in terra,
all’avvicinarsi della volpe vola via; «Perché scappi? Qui c’è ogni ben di
Dio, grilli, scarafaggi, locuste; e ci sono io che ti voglio bene per il tuo
carattere calmo e la tua vita onesta»; «Nel piano – risponde l’uccello –
non saprei essere tuo pari, ma in alto sì: vieni quassù e ti affiderò la mia
salvezza» (Fedro, App. 32)14.
In parecchie favole è smascherata la viltà che si copre di vanterie o si
fa forte di particolari circostanze. Il capretto, stando sul tetto, copre
d’ingiurie il lupo che passa: «Non tu mi insulti, ma il luogo dove sei»
(Esopo 100 H.). È superfluo ricordare l’asino nella pelle del leone (Eso-
po 199 H.; Babrio 139). Il toro, inseguito dal leone, si rifugia in una caver-
na, dove si trovano delle capre selvatiche; le capre lo pigliano a cornate, e
il toro sopporta: «Non siete voi a farmi paura, ma colui che è davanti alla
bocca della caverna» (Esopo 242 H.). I cani dilacerano la pelle del leone
morto (Sintipa 19 = 406 P.). La volpe insulta il leone prigioniero: «Non
tu mi insulti, ma la sciagura che mi ha colpito» (Sintipa 17 = 409 P.)15.
Altrove si smaschera l’incapacità che cerca di celarsi o si spaccia, ora
in buona ora in mala fede, per competenza. La favoletta della volpe e
dell’uva è la più celebre di questa tendenza (Esopo 15 H.; Babrio 19;
Fedro IV 3). Particolarmente colpiti sono i medici incapaci o imposto-
ri, come quello che durante un funerale spiega con quale cura si sareb-
be dovuto salvare il morto (Esopo 116 H.) o quell’altro ch’è protagoni-
sta di una graziosa novelletta di Babrio (75) o il ciabattino medico di
Fedro (I 14). L’orso, il leone e la volpe vanno a caccia: la volpe, per
vantare anche lei la sua preda, porta in giro un cammello che ha trova-
to morto (tetrastico bizantino, II 7 M., p. 288 Crus. = 416 P.)16.

14
  Cfr. inoltre Il pastore e il cane (Esopo 222 H.); Il lupo e l’agnello rifugiato nel tempio (Eso-
po 168 H.); Il cavallo e lo stalliere (Babrio 83); Il cacciatore e il cane (Sintipa 21 = 403 P.).
15
  Cfr. ancora Il cane che insegue il leone, e la volpe (Esopo 135 H.); Il cacciatore vile (Babrio 92);
Il cavallo, il leone e i becchi (Romulus IV 16 = 578 P.); I due soldati e il brigante (Fedro V 2).
16
 Cfr. Il millantatore, ispirata all’apoftegma Hic Rhodus, hic salta (Esopo 33 H.); Il serpente,
la biscia d’acqua e le rane (Esopo 92 H.).

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268 Capitolo settimo

È naturale, quindi, che sia deriso chi con molto gridare o molto
affaccendarsi non conclude niente. Sono i buoi a tirare il carro, ma è
l’asse che geme come se la fatica fosse sua (Esopo 45 H.; Babrio 52). Le
rane coi loro tremendi gracidii riescono a impressionare, ma per un
momento, il leone (Esopo 146 H.). Fedro (II 5) ha voluto inserire tra
le sue favole l’episodio dello schiavo giardiniere di Tiberio, che strafà
per meritare l’elogio dell’imperatore e ne ottiene un sarcasmo degno di
ambedue i personaggi. Non ha bisogno di essere ricordata la favoletta
della montagna nelle doglie del parto (Fedro IV 24).
A un vizio del genere si può accostare quello delle facili promesse.
All’asino che gli chiede un po’ d’orzo, il cavallo promette per la sera,
quando saranno tornati alla mangiatoia, un sacchetto di farro; e l’asi-
nello: «Se mi neghi l’orzo, come credere che mi darai il farro, che vale
tanto di più?» (Ademaro 58 = 571 P., probabilmente di origine fedria-
na). Il corvo, preso nella trappola, prega Apollo per la sua salvezza e gli
promette dell’incenso; liberato, se ne scorda; acchiappato una seconda
volta, vorrebbe giocare lo stesso tiro a Hermes, ma il dio gli rinfaccia
la sua menzogna (Babrio 152).
Maschera dell’egoismo e dell’avidità può essere anche la giustizia.
Il lupo stabilisce una legislazione sociale, secondo cui tutti dovrebbero
mettere i beni in comune, perché siano poi distribuiti a ciascuno in
parti eguali; ma l’asino gli domanda come mai abbia nascosto nel suo
giaciglio la preda del giorno avanti (Babrio 154). Il lupo vede sotto una
tenda dei pastori che mangiano una pecora: «Quanto chiasso, se l’aves-
si fatto io!» (Plutarco, Sept. sap. conv. 13, 156 a  =  453 P.). Il ladro a ga-
rante delle proprie promesse chiama un altro ladro: così fa il cervo col
lupo, nel chiedere in prestito del grano a una pecora (Fedro I 16).
L’ipocrisia vera e propria, quella di chi indossa l’abito della virtù per
ingannare, appare di rado: forse perché è vizio troppo ovvio. Fedro
(IV 2, 10 ss.) ci conserva la favola della donnola che, vecchia e ormai
incapace di dare la caccia ai topi, si avvolge di farina per attirarli; uno
storico bizantino, Niceforo Gregora (Hist. Byzant. VII 1 = 435 P.), ri-
chiama in una pagina di satira antimonastica una favola della donnola
tintasi di nero. Questo tema sembra più caro ai favolisti medievali17.

 Cfr. Il gatto vescovo (Herv. II, p. 646, n. 132 = 692 P.); Il topo, la figlia, il gallo e il gatto
17

(Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.: il gatto eremita è probabilmente di origine indiana). Forse
si può accostare la favola del lupo penitente, che, per mangiare la carne di quaresima, la
battezza pesce (Herv. II, p. 557, n. 14 = 655 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 269

Forse il vizio più colpito è la vanagloria, insieme con la pretesa, di


cui avremo a riparlare in seguito18, a occupare un rango per cui non si
è nati o per cui non si hanno le capacità. Niente di più comune dello
scarto tra il concetto di sé e il valore effettivo. La zan­zara, dopo essere
stata a lungo su un corno del toro, gli chiede se vuole che ella levi il
fastidio; il toro non si è neppure accorto della sua presenza (Esopo
140 H.; Babrio 84). Notissima è la favola dell’asino, che, alleato col leo-
ne nella caccia, vorrebbe riconosciuti i meriti dei suoi ragli (Esopo
156 H.; Fedro I 11). Tra le più note e le più felici è la favola dell’asino
tutto orgoglioso di portare gli arredi sacri (Esopo 193 H.; Babrio 163).
Il figlio della talpa dice alla mamma: «Ci vedo»; la mamma piglia un
grano d’incenso, glielo mette sotto il naso e gli domanda che cos’è; «È
un sassolino»; «Figlio mio, non solo non ci vedi, ma non senti neppu-
re gli odori» (Esopo 234 H.; Babrio 170). Superfluo ricordare la favola
della mosca, che, seduta sul timone, vuol far da guida alla mula e mi-
naccia, una delle migliori di Fedro (III 6). Tra le arguzie più felici at-
tribuite a Esopo è il sarcasmo contro il pessimo scrittore che gli chiede
un giudizio su di sé e intanto già esalta il proprio ingegno: Confectus
ille pessimo volumine, / «Ego – inquit – quod te laudas vehementer pro-
bo; / namque hoc ab alio numquam continget tibi» (Fedro, App. 9)19.
La vanagloria nasce a volte da una pretesa nobiltà. Della loro no-
biltà disputano la volpe e la scimmia; quando arrivano a un cimitero,
la scimmia scoppia in pianto, perché, dice, ha visto le tombe dei suoi
avi; «Nessuno di questi si alzerà per confutarti», ribatte la volpe (Eso-
po 14 H.; Babrio 81). Il mulo si vanta di essere nato da una cavalla e di
non essere inferiore alla madre nella corsa; ma, non facendocela più, si
ferma di botto e rivela così di avere un asino per padre (Babrio 62)20.
In contrasto con la cornacchia la rondine vanta la propria nobiltà ri-
chiamando la leggenda di Tereo; la cornacchia si ricorda della lingua
mozzata: «Con la lingua mozzata chiacchieri tanto; che sarebbe, se ce
l’avessi intera?» (Esopo 258 H.; Babrio 148). Per capire i limiti della

18
 Cfr. infra, pp. 308-309.
19
  Cfr. inoltre Hermes e il fabbricatore di statue (Esopo 90 H.); Il citaredo (Esopo 123 H.); La
scrofa e la cagna (Esopo 250 H.; forse anche in Babrio 218); La rondine e la cornacchia (Eso-
po 258 H.); Il lume a olio (Babrio 114). Merita di essere ricordata la felicissima favoletta di
Lorenzo Abstemio (16 = 724 P.) sulla mosca, che, stando su una quadriga, nel tumulto
della corsa esclama: Quam magnam vim pulveris excitavi!.
20
 Cfr. La volpe e il coccodrillo (Esopo 20 H.); Il pesce di fiume e la phycis marina (Aviano 38).

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270 Capitolo settimo

favola esopica è però da notare che s’irride la vanagloria fondata su una


falsa pretesa di nobiltà, non, come pure fu fatto talora dai cinici o dagli
homines novi in Roma, la vanagloria nobiliare in sé. Si irride tutt’al più
chi rimpiange la propria gloria di un tempo nella miseria dell’oggi: la
farfalla, che ritiene trasmigrata in sé l’anima di un uomo, paragona
lamentosamente la sua nullità alla gloria dei guerrieri e politici in
cui la sua anima albergò un tempo, mentre la vespa, che ha accolto
in sé l’anima di un mulo, è forte del suo pungiglione; e la vespa: Non
qui fuerimus, sed qui nunc simus, vide (Fedro, App. 31).
Tra le favole più famose sono quelle in cui la vanagloria è fondata
sulla bellezza, considerata nei casi migliori inutile, a volte dannosa: su-
perfluo ricordare Il cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43; Fedro I 12)
o La volpe e il corvo (Esopo 126 H.; Babrio 77; Fedro I 13). Nella guer-
ra fra topi e donnole i topi vengono sconfitti: i soldati semplici si rifu-
giano nei loro buchi, i capi, ornati di pompose corna, non ce la fanno
a entrare e vengono divorati (Esopo 174 H.; Babrio 31). Il pavone si
vanta davanti alla gru scuotendo le sue ali dorate: ma con quelle ali il
pavone resta a terra, con le sue la gru vola vicino agli astri (Babrio 65).
I becchi si lagnano con Giove perché egli ha accordato anche alle capre
la barba: «L’importante – risponde Giove – è che esse non abbiano il
vostro coraggio» (Fedro IV 17).
Si capisce che la vanagloria può fondarsi su tante altre ragioni in-
consistenti o magari su qualità che dovrebbero essere motivi di vergo-
gna. L’uomo e il leone, viaggiando insieme, vantano ognuno i propri
meriti; arrivano davanti a una stele, su cui è effigiato un leone strozza-
to da un uomo: «Vedi che noi siamo più forti?»; «Se i leoni sapessero
scolpire, quante statue avresti visto di uomini abbattuti dai leoni!» (Ba-
brio 194). A un cane pericoloso il padrone ha messo al collo un cam-
panello; e il cane va in giro pavoneggiandosi di quell’ornamento e fa-
cendolo tintinnare (Babrio 104). La colomba d’allevamento si vanta
con la cornacchia della numerosa figliolanza: «Più figli avrai, più pian-
gerai schiava» (Esopo 218 H.). A un atleta orgoglioso Esopo chiede se
ha vinto perché è più vigoroso dell’avversario; «Naturalmente!». «Al-
lora che ragione hai di vantarti? Si potrebbero sopportare i tuoi vanti,
se avessi saputo vincere uno più vigoroso di te» (Fedro, App. 13). Alle
vanterie della mosca la formica risponde dimostrandole nei suoi moti-
vi di vanto altrettanti motivi che ne fanno una creatura spregevole e

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 271

schifosa (Fedro IV 25)21. O, infine, il millantatore rimanda ad altro


tempo la prova, come il famoso atleta a Rodi (Esopo 33 H.), o come la
volpe nella graziosa favola, probabilmente ionica, delle volpi che vo-
gliono attraversare il Meandro (Esopo 231 H.). Peggio è se la pretesa
superiorità su altri fa tutt’uno con l’ignoranza della propria incapacità
o del proprio male. Il giovenco ozioso compiange il bue che crepa di
fatica, perché non sa di essere destinato al macello (Babrio 37); così
l’abete si vanta di fronte al povero rovo, perché s’è dimenticato della
scure che lo colpisce (Babrio 64); il granchio vuole insegnare alla mam-
ma a camminare diritto (Babrio 109)22. Inutile ricordare la favola delle
due bisacce (Esopo 229 H.; Babrio 66).
La vanagloria c’induce a innalzarci a un rango che non ci tocca: la
favola esopica è senza pietà contro le ambizioni sbagliate; si può, anzi,
dire che non conosce ambizioni nobili. Il gracchio che, più grande dei
suoi compagni, ha voluto mettersi insieme coi corvi viene cacciato in
malo modo appena scoperto (Esopo 125 H.). Anche un lupo, essendo
superiore ai suoi tanto da essere chiamato leone, vuole mettersi in mez-
zo ai leoni davvero; ma la volpe lo ammonisce che, se pare un leone tra
i lupi, tra i leoni sarà un lupo (Babrio 101). Un re d’Egitto ha fatto di
certe scimmie delle danzatrici da teatro così abili che il pubblico ne è
entusiasta e non fa caso alla loro natura; ma un giorno un tale getta sul-
la scena delle noci e le scimmie, dimentiche della danza, si buttano a
raccoglierle: le maschere vengono spezzate, le vesti stracciate, le scimmie
si picchiano tra loro (presso Luciano, Pisc. 36 = 463 P.). L’avvoltoio che
ha allevato un aquilotto non potrà farsi passare a lungo per suo padre: di
fronte a una burrasca la paura lo svela (favola medievale presso Herv. II,
pp. 395-396, n. 7 = 648 P.). Ancora peggio se, per innalzarsi, ci si veste
delle penne altrui, come il famoso gracchio che si veste delle penne degli
altri uccelli per diventare re (Esopo 103 H.; Babrio 72) o delle penne del
pavone per mettersi tra i pavoni (Fedro I 3).
La valutazione gonfiata di sé porta ad affrontare compiti per cui
non si hanno le forze e le capacità. Forse già Archiloco (fr. 81-83 D.)
conosceva la favola della scimmia eletta re degli animali, che non sa
evitare una trappola e subisce il sarcasmo della volpe (Esopo 83 H.). Il

21
  Forse di origine fedriana è anche la favola L’ortolano e il calvo (Ademaro 24 = 560 P.): un
ortolano irride un calvo che passa; il calvo lo trafigge afferrandolo proprio per i capelli.
22
  Cfr. anche la favola medievale Pictor et uxor (Herv. II, p. 611, n. 68 = 677 P.).

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272 Capitolo settimo

leone scappa al canto del gallo; l’asino, ringalluzzito, si dà a inseguirlo


e viene sbranato (Esopo 84 H.). L’ariete, vestito della pelle del cane,
riesce a far scappare più volte il lupo; una volta, però, nell’inseguimen-
to la pelle resta attaccata a una siepe; il lupo si accosta all’ariete: «Per-
ché mi hai spaventato?». «Per iocum faciebam»; ma il lupo gli fa pagare
caro il gioco (favola medievale in Herv. II, pp. 296-297, n. 5 (15) = 705
P.)23. Nel motivo, probabilmente di origine babilonese, del contrasto
tra due piante o animali s’inserisce l’intervento del terzo, un povero
diavolo che si crede degno di fare da arbitro fra i due: già Callimaco
conosce questo svolgimento (fr. 194 Pf.) nella favola dell’alloro, dell’u-
livo e del rovo; analogo è il caso del rovo che interviene nel litigio fra
il melograno e il melo (Esopo 233 H.)24 o del gobbio, che pretende di
fare il paciere tra i delfini e le balene (Esopo 73 H.).
Già in alcuni casi s’è visto che la vanità porta, oltre che al ridicolo, alla
rovina: non sono i soli casi. La zanzara, che si vanta di aver battuto in
duello il leone, incappa un momento dopo nella rete del ragno (Esopo
267 H.; Achille Tazio II 22). Il lupo si vanta di avere la forza, così lungo
e grosso com’è, di affrontare il leone e ne viene sbranato (favola giambi-
ca, p. 236 Crus. = 260 P.). Fedro ha inserito tra le sue favole un altro
episodio di vita romana, quello del flautista Principe, che crede rivolti a
sé gli applausi per l’imperatore e viene cacciato malamente dal teatro
(V 7). Una volta gli uccelli trovano un nido fatto di rose e di fiori profu-
mati: l’aquila lo destina al più nobile degli uccelli; poiché la cucula attri-
buisce a sé tutti i primati, per punizione viene costretta a porre le sue
uova sempre in un nido altrui (favola medievale in Herv. IV, p. 251,
n. 76 = 626 P.)25. Più prudente la zanzara che, sfidato il toro, raccoglie
una folla enorme per lo spettacolo; senza incominciare il torneo, se ne
vola via: «Mi basta che tu sia venuto di fronte a me», par tibi sum factus
iudicio tuo; male ha fatto il toro ad accettare la sfida di un nemico così
insignificante (Ademaro 36 = 564 P., probabilmente di origine fedriana).
Può darsi anche che l’apparenza inganni nascondendo i valori po-
sitivi. Una favoletta teorizza la superiorità intellettuale degli uomini

23
 Cfr. La cornacchia e il corvo (Esopo 127 H.); forse accostabile anche Il cacciatore e il lupo
(Sintipa 6 = 404 P.).
24
  Nella raccolta esopica la favola si ferma all’intervento del rovo, senza risposta dei liti-
ganti; ma la favola dev’essere monca: l’epimitio corrisponde alla mia interpretazione.
25
  Cfr. anche I galletti di Tanagra (Babrio 5).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 273

corti: Zeus ordinò a Hermes di versare in tutti gli uomini una misura
uguale di noûs; nei corti questo si diffonde in tutto il corpo, nei lunghi
no (Esopo 110 H.); ma oltre questo apologo c’è poco, fra tanti attacchi
contro la vanità.
Oltre che di sgonfiare la vanità la favola si preoccupa di spazzare via i
giudizi superficiali e illusori. Da lontano i sarmenti sembrano navi (Esopo
187 H.). Il cane inghiotte una lumaca per uovo e si accorge così che non
tutto ciò ch’è rotondo è uovo (Esopo 265 H.). L’uccellatore, impressiona-
to dallo strepito della cicala, spera una grossa preda e si trova in mano un
povero insetto (favola riportata da Aftonio 4 = 397 P.). Una delle più gra-
ziose novelle di Fedro (V 5) è quella del buffone e del contadino: il buffo-
ne imita così bene il grugnito del porcello che gli spettatori credono
nasconda l’animale sotto il mantello; al contadino, che tiene davvero la
bestia nascosta e la fa grugnire, rinfacciano di non imitare bene; il
contadino allora scopre il porcello: En hic declarat quales sitis iudices26.
Non bisogna fermarsi alla prima esperienza. La prima volta che
vedono il cammello, gli uomini scappano dalla paura; a poco a poco
osano avvicinarglisi e alla fine gli mettono il freno (Esopo 210 H.);
persino col leone, alla volpe l’abitudine toglie la paura (Esopo 10 H.).
Un senso analogo si potrebbe attribuire alla favola medievale (720 P.)
degli uccelli che hanno paura della statua armata d’arco e, dopo che un
passero ha osato avvicinarsi senza che la statua si sia mossa, ne ornano
il viso coi loro escrementi: ma l’epimitio (Sic faciunt subditi prelatis suis
negligentibus) suggerisce piuttosto il senso che, se te ne stai fermo e
non usi la forza, ti copriranno di sterco.
Al bisogno del giudizio chiaro è riconducibile anche la diffidenza
contro l’ambiguità. Il cane da caccia, acchiappata la lepre, ora la morde
ora la lecca; e la lepre: «Basta: voglio sapere se mi sei amico o nemico»
(Esopo 139 H.; Babrio 87); press’a poco lo stesso dice la volpe alla iena,
che ora è maschio ora è femmina (Esopo 241 H.). Nella guerra degli
uccelli e delle fiere lo struzzo vuole farsi passare per uccello e per fiera
nello stesso tempo (tetrastico giambico, I 22 M., p. 272 Crus. = 418 P.)27.
Il satiro diffida dell’amicizia dell’uomo, il quale usa il fiato tanto per

26
  A queste favole si può forse accostare La schiava di Afrodite (Babrio 10). Lorenzo Ab-
stemio (5 = 723 P.) ha conservato o inventato la favola del contadino che vuole passare il
fiume e, dove il fiume è calmo, lo trova profondo e pericoloso, dove strepita, guadabile.
27
  Analoga la favola medievale Il tasso fra i porci (Herv. II, pp. 639-640, n. 119 = 685 P.).

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274 Capitolo settimo

riscaldarsi le mani quanto per raffreddare la pietanza (Esopo 35 H.;


Babrio 192)28.
Ho sottolineato questi motivi, di cui alcuni dovranno essere ripresi in
seguito, perché da essi meglio risalta come la favola esopica sia a suo modo,
in maniera rudimentale, una ricerca (e, si badi, una ricerca polemica) del-
la realtà effettuale. Vi si nota uno spirito consono alla polemica contro il
mito che percorse l’età ionica, alla ricerca positiva che è alle radici della
scienza europea: non per niente, ripeto, la prima fioritura greca del-
la favola cade nell’età ionica. Si è parlato, per quell’età e per la sofistica, di
un illuminismo greco: e quel termine approssimativo, ma significativo, va
mantenuto contro tendenze recenti a sentire in quei secoli solo un affina-
mento della teologia. Di un illuminismo esplicito nella favola non sareb-
be giusto parlare; ma, insomma, in essa vive un rudimentale razionalismo.
Perciò ingiustamente il preromanticismo (per esempio lo svizzero
Breitinger)29 e il romanticismo (specialmente Jacob Grimm30 dopo qual-
che spinta di Herder) accentuarono nella favola esopica la ricerca del me-
raviglioso, la vicinanza dell’uomo alla natura e la sentirono poco stac-
cata dal mito di animali e dalla fiaba; il Lessing si accostò molto più al
vero notando che gli antichi cercarono di attenuare nella fa­vola esopi-
ca la tendenza al fantastico31 e sentendo in essa una ricerca etica razio-
nale pur nella concretezza intuitiva degli esempi. Se un’interpretazione
passata può esserci di aiuto, è quella ispirata dall’illuminismo, in quel
secolo in cui, non certo per caso, la favola esopica conobbe la maggio-
re diffusione. I miti di animali e le fiabe sono per la favola esopica un
semplice presupposto, che può avere condizionato forme e simboli,
non la ricerca persino spietata di verità che la caratterizza.

4. La legge dell’astuzia e della forza

La realtà effettuale dei rapporti umani così svelata è già per la favola
esopica la realtà della golpe e del lione, dell’astuzia e della forza. Per

28
  Si possono accostare Il lupo e la vecchia (Esopo 163 H.); Il contadino e i passeri
(Babrio 33).
29
  La polemica sulla teoria della favola nel Settecento si può seguire abbastanza bene at-
traverso Staege, Die Geschichte der deutschen Fabeltheorie, cit., pp. 19 ss.
30
  Si veda sin dall’inizio l’introduzione al Reinhart Fuchs, Berlin 1834.
31
  Abhandlungen über die Fabel, cit., pp. 26 ss., in polemica contro Breitinger.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 275

un caso che potrebbe essere assunto a simbolo, il dominio della forza


è teorizzato brutalmente nella favola greca più antica che noi conoscia-
mo, quella dello sparviero e dell’usignuolo in Esiodo (Op. 202 ss.);
naturalmente è il più forte a enunciare la teoria, lo sparviero che tra-
figge con le grinfie l’usignuolo dal collo di colore cangiante: «Sciagu-
rato, perché stridi? Uno molto più forte di te ti tiene nelle grinfie:
anche se sei abile cantore, andrai dove io ti voglia menare; a mio arbi-
trio ti farò mio pasto o ti lascerò. Stolto chi voglia contrastare, da pari
a pari, coi più forti: non ottiene la vittoria e aggiunge alla vergogna il
dolore». Tra le altre favole attestateci a data più antica è quella brevis-
sima e felicissima che Aristotele nella Politica (III 13, 2, 1284 a  =  450 P.)
attribuisce ad Antistene: le lepri si riuniscono in assemblea per recla-
mare uguaglianza politica e sociale coi leoni; e i leoni: «Signori dai
piedi pelosi, i vostri discorsi mancano di unghie e di denti, quali noi
abbiamo». Erodoto (I 141) fa raccontare da Ciro il Grande agli Ioni e
agli Eoli la favola, forse effettivamente di origine asiatica, del pescato-
re che suona il flauto: poiché non riesce ad attirare i pesci con la mu-
sica, li piglia con la rete; i pesci prigionieri guizzano; e il pescatore:
«Smettetela di ballare adesso: quando suonavo, non volevate»; solo la
forza ha costretto i Greci a staccarsi da Creso, mentre a niente erano
servite prima le preghiere di Ciro (cfr. Esopo 11 H.).
Nella celebre favola delle parti del leone (Babrio 67; Fedro I 5) la
prepotenza cerca prima di mascherarsi con varie false giustificazioni,
ma presto anche della maschera si stanca e si scopre brutalmente: Malo
adficietur si quis quartam tetigerit. D’una breve e chiara ed efficace fa-
voletta di sapore rustico si racconta si servisse una volta persino il raf-
finato Silla (Appiano, Bell. civ. I 101 = 471 P.): i pidocchi pizzicavano
un povero bifolco; due volte egli interruppe il lavoro e si pulì la cami-
cia; la terza volta, per non avere troppi fastidi, la bruciò: era abbastan-
za perché gli sconfitti della guerra civile capissero. Inutile richiedere
ciò che è tuo, se non hai la forza di riprendertelo: la cagna cede il suo
tugurio alla collega per il parto; nascono i cuccioli; la puerpera chiede
ancora un pochino di tempo; quando i cuccioli hanno messo i denti,
«se vuoi il tuo tugurio, avrai da fare con me e la mia numerosa figlio-
lanza» (Fedro I 19). Faccia il padrone chi ha la forza per tenere sog-
getti i sudditi: il gallo si fa portare in lettiga, tutto pettoruto dai gatti;
appena i gatti hanno fame, lo fanno a pezzi (Fedro, App. 18). Mala fine

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276 Capitolo settimo

anche per il becco, che, visto l’asino mansueto, vuole cavalcarlo: l’asino
lo scaraventa giù e l’ammazza: Si asinus est dominus tuus, ne equites
ipsum (favola medievale in Herv. IV, p. 244, n. 73 = 623 a P.).
Naturalmente chi, per una ragione o per un’altra, si priva delle sue
armi è destinato alla sconfitta. Il leone, innamorato della figlia del
contadino, per essere accettato come sposo si lascia togliere le zanne:
dopo di che viene cacciato a botte (Esopo 145 H.; Babrio 98). Peggio
capita al rinoceronte, che si lascia convincere dal leone a prestargli il
suo unico corno (favola medievale in Herv. IV, pp. 445-446 = 645 P.)32.
Prudente chi riconosce questa legge della forza, disgraziato chi re-
siste o s’illude di essere il più forte. Il leone, l’asino e la volpe vanno a
caccia; il leone ordina all’asino di fare le parti; scontento della sparti-
zione, salta addosso all’asino e lo sbrana; ora la spartizione tocca al-
la volpe: la volpe mette quasi tutto in un grosso mucchio e conserva
per sé qualche pezzetto. «Chi ti ha insegnato a fare le parti così bene?».
«La fine dell’asino» (Esopo 154 H.). Le lepri combattono contro le
aquile, chiamano in aiuto le volpi: «Verremmo, se non sapessimo chi
siete e contro chi combattete» (Esopo 169 H.). Particolarmente peri-
coloso il potente quando è in collera (Il leone infuriato e il cerbiatto:
Babrio 90). Un giovanotto è montato su un cavallo furioso, che si
mette a correre pazzamente: «Dove vai?». «Dove pare a lui», e indica il
cavallo (Luciano, Cynic. 18 = 457 P.). Invece il becco, specchiandosi
nell’acqua, si trova bello e forte e si dichiara pronto a battersi col lupo:
il lupo, che l’ha sentito, non gli perdona questo bel proposito e se lo
mangia (favola medievale in Herv. II, pp. 278-279, n. 32 = 695 P.)33.
È assurdo pretendere dal più forte, come da uno qualsiasi, giustizia
e gratitudine: è già troppo se si salva la pelle (cfr. Il lupo e la gru: Esopo
161 H.; Babrio 94; Fedro I 8); ed è pericoloso chiedergli protezione
(Il nibbio e le colombe: Fedro I 31).
La legge della forza è così dominante che se ne può diventare stru-
menti anche senza volerlo: la parete al dado che gli è scagliato contro:
«Perché mi picchi così? che ti ho fatto?», «Non sono io a picchiarti, ma
chi mi butta» (Esopo 296 H.); e la pentola di bronzo può frantumare
quella di coccio se il fiume gliela butta contro (Babrio 193).

  Cfr. anche Il fiume e il pezzo di cuoio (Babrio 172).


32

  Cfr. pure Il toro ingannato dal leone (nel retore bizantino Niceforo Basilace, Rhet. Gr. I,
33

pp. 423-424 Walz = 469 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 277

La forza non è solo accusata come strumento d’oppressione: talora


è giustificata come mezzo di governo. Nell’assemblea degli uccelli il
pavone si presenta candidato al trono; gli uccelli sono orientati per lui,
ma il gracchio gli chiede: «Se l’aquila c’insegue, come ci difenderai?»
(Esopo 244 H.)34. È l’aquila con la sua forza che assicura tranquillità e
ordine agli uccelli: così dimostra la favola medievale dell’aquila, dello
sparviero e delle colombe (Herv. II, p. 600, n. 52 = 672 P.). Solo la
paura della morte fa cantare il cigno (Esopo 247 H.).
L’interpretazione del mondo sarebbe sconsolante, ma abbastanza
semplice, se la violenza si manifestasse sempre apertamente, brutal-
mente; ma essa vuole la sanzione della giustizia, «fa nomarsi dritto». È
qui una delle prove migliori della profondità di analisi di quest’antica
letteratura popolare. Non è certo per caso che Fedro, come il più ama-
ro così il più acuto dei favolisti antichi a noi noti, fa incominciare con
la favola del lupo e dell’agnello la sua raccolta (cfr. Esopo 160 H.;
Babrio 89). Accuse analoghe a quelle del lupo inventa il gatto, acchiap-
pato il gallo; il gallo ribatte con copia di argomenti, allora il gatto: «Se
hai sempre argomenti a iosa, dovrò io rinunziare a mangiarti?» (Esopo
16 H.; Babrio 17). Il leone vuole procurarsi la fama di re giusto e veni-
re in odore di santità; ma la vecchia tentazione lo ripiglia. Un re giusto,
tuttavia, deve ammazzare con una ragione: chiama ciascun animale in
segreto e gli chiede se il suo fiato puzza; sia la risposta sì o no, il leone
sbrana e mangia. Viene la scimmia e si profonde in adulazioni smac-
cate: il suo fiato è profumato come cinnamomo, come gli altari degli
dei. Il leone arrossisce, non vuole mangiarla dopo quell’elogio. Studia
una via più sottile: si finge malato; vengono i medici, gli consigliano
una carne leggera, che sgravi lo stomaco: «Non conosco la carne di
scimmia: l’assaggerei volentieri»; e la scimmia viene ammazzata (Fedro
IV 14, da integrare con la parafrasi). Lo sparviero di una favola forse
fedriana (Ademaro 39 = 567 P.) è più sottile di quello di Esiodo: pro-
mette all’usignuolo di risparmiarlo, se canterà bene; ma l’usignuolo
non canterà mai abbastanza bene per convincere lo sparviero. Lo stes-
so fa il corvo con la colomba che gli richiede il suo piccolo (favola
medievale in Herv. IV, p. 213, n. 40 = 606 P.). Una delle invenzioni più

  Molto simile a questa la favola medievale del cuculo e degli uccelli (Herv. II, pp. 553-554,
34

n. 10 = 652 P.).

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278 Capitolo settimo

gustose è quella del giudizio del lupo e dell’asino (anonimo in Rhet. Gr.
I, pp. 597 ss. Walz = 452 P.), dove ogni assassinio del lupo diventa una
cosa da nulla e una mosca scacciata dall’asino diventa un delitto nefan-
do (giudice il lupo, che vuole giustificare l’uccisione dell’asino)35. È
ovvio che il violento si sente vittima dell’ingiustizia, quando uno più
forte gli sottrae la preda (Il lupo e il leone: Babrio 105).
L’astuzia non è disprezzata di fronte alla forza: giacché la forza non è
quasi mai sentita come nobiltà, generosità, eroismo; sentimenti come
quelli del Neottolemo sofocleo sono in genere estranei a questo mondo
esopico. Anzi la frode, in quanto ingegnosità, è spesso ammirata, anche se
nella favola esopica antica molto meno viva è quella gioia della furbizia
come arte indiavolata, quello slancio vitale e comico che ispira l’epopea
medievale di Renardo e richiama piuttosto le trovate degli schiavi nella
commedia antica (in ogni modo vi siamo vicini, per esempio, con una
favola come quella della volpe e del becco nel pozzo: Esopo 9 H.; Babrio
182)36. Neppure il leone disdegna di ricorrere all’astuzia quando non ha più
forze (Esopo 147 H.; Babrio 103); anche il vigoroso e stupido orso trova in
un lampo d’astuzia la risorsa nei casi più disperati: quando tutto manca
nella foresta, corre al mare, si appende a uno scoglio, lascia che i granchi
si appendano ai peli e poi salta a terra: il pasto è pronto (Fedro, App. 22).
Oltre la volpe ha un piccolo posto, già nell’antichità, il gatto: una
volta finge un compleanno e invita le galline a pranzo: chiusele dentro,
se le mangia a una a una (negli Hermeneumata dello Pseudo-Dositeo,
5, CGL III, p. 42 = 389 P.)37.

35
  Da questa invenzione deriva quella, anch’essa felice, della confessione della volpe e
dell’asino presso il lupo (Herv. IV, p. 255, n. 81; II, p. 313, n. 39 = 628 P., con un’altra varian-
te, 628 b P.).
36
  Inutile dire che, come la leggenda di Renardo presuppone la favola esopica antica, così
la favola esopica medievale è in stretto rapporto con essa: cfr. La volpe e il lupo nel pozzo
(Herv. IV, p. 192, n. 19 = 593 P.); La volpe che confessa i suoi peccati al gallo (Herv. IV, p. 198,
n. 25 = 597 P.); La volpe e le galline (Herv. II, p. 221, n. 50 = 611 P.); Il lupo pescatore (Herv. II,
pp. 282-283, nn. 35 e 35 a  =  698 P.).
37
  Cfr. nelle favole medievali Il gatto monaco (Herv. IV, p. 188, n. 15 = 592 P.). Nelle favole
medievali qualche parte hanno il riccio (Il riccio, il cervo e il cinghiale: Herv. II, pp. 755-756,
n. 34 = 649 P.; Il lupo e il riccio: Herv. II, p. 608, n. 62 = 675 P.), il corvo (L’aquila e il corvo
medico: Herv. IV, p. 204, n. 29 = 599 P.), la capra (La capra e il lupo: Herv. II, p. 613,
n. 72 = 680 P.), persino l’asino (Il lupo e l’asino: Herv. II, pp. 279-280, n. 33 = 696 P.). Qualche
volta l’animale astuto è l’uomo (La rondine e i passeri: Herv. II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.). In
una novella greca (Il ladro e l’oste: 301 H. = 419 P.) è narrato festivamente un colpo di un
ladro; in novelle medievali inserite tra le favole esopiche si celebra l’astuzia di donne che

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 279

Quando alla forza si aggiunge l’astuzia, non c’è niente da fare: la


corazza della tartaruga non basta a difenderla, quando all’aquila soc-
corre l’astuzia malvagia della cornacchia (Fedro II 6). Ma l’astuzia può
essere rintuzzata dall’astuzia: niente di più comune, come vedremo, di
questa lotta di inganno contro inganno. L’astuzia, se da un lato è stru-
mento di frode, dall’altro confina con quella che è la virtù principale
del mondo esopico, con la prudenza.
E l’astuzia può essere anche più efficace della forza o batterla nello
scontro. Nella sfida tra Borea e il Sole a chi riuscirà a fare spogliare l’uomo,
l’azione accorta e lenta del Sole è più efficace dell’impeto di Borea (Esopo
46 H.; Babrio 18). La lingua molle dell’asino riesce a domare le spinose
marruche (Babrio 133). Con una piccola astuzia la lucertola riesce a sfug-
gire all’ampia gola del serpente (Fedro, App. 25). La vespa, fiera della sua
velocità, sprezzante, cede all’invito insidioso del ragno e incappa nella
sua rete (favola medievale in Herv. IV, p. 202, n. 28 = 598 P.).
Questo mondo della golpe e del lione non conosce la pietà per il pove-
ro e per il debole. Si ispirano a questo motivo alcune tra le favole più
mordenti di Fedro. Se i potenti litigano, per gli umili si preparano guai
(Le rane preoccupate per le battaglie dei tori: Fedro I 30; nel Sud è ancora
diffuso il proverbio «Se litigano gli asini, si scassano i barili»). L’odiosa
cornacchia si è installata sul dorso della pecora: «Se ti fossi messa sul dor-
so del cane l’avresti pagata cara»; e la cornacchia: «Sai perché campo mille
anni? Perché conosco la legge di questo mondo: disprezzo i deboli, cedo
ai forti; so chi provocare e chi carezzare» (Fedro, App. 26).
Fedro (III 5) ci ha conservato un grazioso aneddoto su Esopo. Un
insolente gli scaglia un sasso; «Bravo» fa Esopo, e gli regala una mo-
netina. «Mi dispiace di non avere di più; ma ecco lì una persona
ricca e potente: lanciagli un sasso, e avrai un grosso premio». L’inso-
lente finisce crocifisso. Il promitio di Fedro dice: Successus ad perni-
ciem multos devocat; ma la favola ha anche un senso più profondo: si
può colpire impunemente un povero diavolo, un ricco e potente no:
la giustizia non è la stessa per il ricco e per il povero38. Talora il po-

mettono le corna ai mariti (Il contadino e la moglie: Herv. II, p. 553, n. 9 = 651 P.; La donna e
l’amante: Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.).
38
  Cfr. ancora L’asino che gioca (Babrio 125): ciò ch’è permesso alla scimmia non è permes-
so all’asino; Il lupo e i pastori (già citata, supra, p. 268); L’allodola capelluta (Esopo 271 H.):
basta il furto d’un chicco di grano per condannare a morte un povero diavolo.

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280 Capitolo settimo

vero, oppresso tutta la vita, non riposa neppure morto: l’asino, dopo
avere servito i sacerdoti di Cibele portando in giro i loro arnesi, pic-
chiato in vita, viene picchiato morto, perché fornisce la sua pelle per
i loro tamburi (Esopo 173 H.; Babrio 141; Fedro IV 1): favola di un’ar-
guzia che raggela.
Peggiore la sorte che tocca alla vecchiaia: peggiore, perché la fa più
amara il confronto con la potenza di un tempo. Altro motivo caro a
Fedro: si tratta ora del leone vecchio, sfinito, che deve sopportare an-
che il calcio dell’asino (I 21), ora del vecchio cane da caccia, che, ad-
dentata un’orecchia del cinghiale, si lascia scappare la preda per la carie
dei denti e deve subire i rimbrotti del padrone (V 10), ora del vecchio
cavallo da corsa (App. 21), ora dell’anfora vuota, che conserva qualche
profumo del Falerno di buona marca (III 1).
La conseguenza naturale di questa constatazione è che non bisogna
allearsi col debole. La cicogna si vanta coll’anatra di avere più forza
dello sparviero; l’anatra ci crede, fa alleanza e alla prima battaglia viene
divorata dal nemico (Ademaro 53 = 570 P., forse di origine fedriana).
Rarissima la compassione: ricorderò il caso del povero, che mentre dà
la caccia alle cavallette, acchiappa una cicala: la cicala vanta la sua in-
nocenza e i suoi meriti verso l’uomo e lo convince a lasciarla andare
(Vita Aesopi 99). In ogni modo qui entrano in giuoco anche l’utilità
della cicala e lo scarso vantaggio che darebbe la sua morte: non si può
neppure parlare di pietà pura e semplice.
Del resto questo mondo non conosce neppure il disinteresse dell’a-
micizia: l’amicizia o è impossibile o si spezza al primo urto o è un im-
broglio. Impossibile, per esempio, l’amicizia tra il contadino e il serpen-
te, dopo che il serpente ha ucciso il figlio del contadino e il contadino ha
mancato per poco con la scure il serpente (Esopo 51 H.)39; fidandosi, pur
dopo un’ostinata diffidenza, del serpente, il contadino di una favola me-
dievale paga con la perdita del suo unico figlio (Herv. II, pp. 280-281,
n. 34 = 697 P.)40. Fedro inserisce tra le sue favole una battuta spiritosa
di Socrate sulla rarità degli amici veri (III 9). Alla prima prova l’amicizia
è sopraffatta dall’inganno. Due amici viaggiano insieme. Incappano

39
  Una rielaborazione di questa favola pare quella, forse derivata da Fedro, del serpente
allevato in casa (Ademaro 65 = 573 P.).
40
  Si possono accostare, sia pure con qualche sforzo, Il carbonaio e lo scardassiere (Esopo 29
H.); Il leone e l’aquila (Babrio 99); Il serpente nel seno dell’uomo (Herv. IV, p. 231, n. 59 = 617 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 281

nell’orso: l’uno si rifugia su un albero, l’altro si butta a terra facendo il


morto; l’orso si accosta a quest’ultimo, fiuta, lo crede veramente morto e
se ne va (l’orso non mangia i morti). «Che ti ha detto l’orso all’orec-
chio?». «Di non accompagnarsi con amici che se la squagliano al primo
pericolo» (Esopo 66 H.; Babrio 195). Due scarafaggi campano magra-
mente su un’isoletta; all’avvicinarsi dell’inverno uno dei due decide di
emigrare sul continente: «Se troverò molto letame, ne porterò anche a
te». Sul continente fa fortuna: trova un letamaio grasso. Allo spirare
dell’inverno torna ben pasciuto sull’arida isoletta, ma senza niente per
l’amico. «E la promessa che mi avevi fatta?». «Non pigliartela con me,
gli è che quel posto è fatto così: puoi ingrassarci, ma a portar via non ci
devi pensare» (Esopo 86 H.)41. A considerare quello che capita al cervo
malato, meglio non avere amici. Con le gambe paralizzate il cervo giace
nel suo prato erboso; torme di animali variopinti gli fanno visita: è un
vicino che non fa male a nessuno, e tutti gli vogliono bene. Ma ogni
visitatore, scordandosi del malato, si rimpinza di quella bell’erba: il
cervo, che avrebbe potuto campare ancora per secoli, muore di fame
(Babrio 46). Più preoccupante è che l’amicizia serve spesso a maschera-
re la frode. L’alleanza tra i lupi e le pecore, che si lasciano persuadere
a consegnare i cani, porta naturalmente al macello delle pecore (Eso-
po 158 H.); ma anche l’alleanza dei lupi e dei cani porta questi ultimi
al macello (Babrio 159). Il lupo che si fida dell’affetto della volpe per
poco non finisce nella trappola (Babrio 130)42.
Molto più costante dell’amicizia è l’odio. Trovandosi due nemici
nella stessa barca, nell’imminenza del naufragio, l’uno accetta volen-
tieri la morte, pur di vedere prima affondare l’altro (Esopo 69 H.);
il serpente, non potendo sbarazzarsi della vespa che gli si è attacca-
ta sul capo, mette il capo sotto la ruota di un carro (Esopo 236 H.). E
più facile a trovarsi dell’amicizia è l’invidia43. Anche l’amore materno è

41
 Accostare I viandanti e la scure (Esopo 68 H.); Il drago che affida il tesoro all’uomo
(Herv. II, p. 595, n. 42 = 663 P.); L’eremita che mette il servo alla prova (Herv. II, pp. 595-596,
n. 43 = 664 P.).
42
  Cfr. ancora le favole già citate La scrofa nelle doglie del parto e il lupo (Fedro, App. 19);
La terraneola e la volpe (Fedro, App. 32); Il leone e il rinoceronte (Herv. IV, pp. 445-446,
n. 65 = 645 P.); infine Il bacio del lupo e della pecora (Herv. IV, p. 361, n. 1 (35) = 636 P.).
43
  Cfr. gli apologhi Momo e Afrodite (presso Elio Aristide, Or. 28, 136 Keil = 455 P.); Il cu-
pido e l’invidioso (Aviano 22); tra le favole medievali Il lupo e il corvo appollaiato sull’ariete
(Herv. II, p. 598, n. 49 = 670 P.); Il cane alla mangiatoia dei buoi (702 P.), quest’ultima par-

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282 Capitolo settimo

visto nei suoi eccessi morbosi invece che nella sua forza di sacrificio e
nella sua grandezza. Una scimmia ha due figli: l’uno è odiato e messo
da parte, l’altro carezzato senza fine; l’uno cresce vigoroso, l’altro muo-
re dalle troppe carezze (Esopo 243 H.). Non è proprio sicuro se sia
considerata con indulgenza o con ironia la cecità della madre che vede
sempre nel figlio il più bello di tutti (La madre dello scimmiotto e Zeus:
Babrio 56; Il rospetto e la sua mamma: Herv. IV, p. 187, n. 14 = 591 P.; in
Babrio probabilmente l’indulgenza c’è)44.
È per lo meno arrischiato credere di poter fondare l’amicizia con la
benevolenza e il beneficio: l’ingratitudine è comunissima in questo mon-
do esopico. Le favole del serpe scaldato in seno (Esopo, 62, 186 H.;
Fedro IV 20) e della gru che fa l’operazione al lupo45 sono solo le più
note. Il cane azzanna l’ortolano che cerca di tirarlo fuori dal pozzo (Eso-
po 122 H.). I viandanti, dopo essersi ristorati all’ombra del platano, gli
rimproverano la sterilità (Esopo 185 H.; forse in Babrio 223); il noce, che
invece è fecondo, poiché è capitato vicino a una via è preso a sassate
(Esopo 141 H.; Babrio 151). Il pastore per cibare le sue pecore scuote le
ghiande da una quercia e per raccoglierle vi stende sotto il suo mantello:
le pecore, che forniscono i vestiti agli altri, mangiano il mantello del loro
benefattore (Esopo 224 H.). Merita di essere ricordata almeno qualcuna
delle favole medievali: quella della volpe che, per ricompensare il noc-
chiero dopo il traghetto del fiume, piscia sulla propria coda e se ne serve
come di aspersorio (Herv. IV, p. 218, n. 46 = 610 P.); o quella della rana
che dà l’acqua al rospo e si vede rifiutare un po’ di terra (Herv. IV,
p. 239, n. 67 = 622 P.); o l’altra della lezione che il lupo dà al traghet-
tatore (Herv. II, pp. 640-641, n. 121 = 687 P.).

5. Giustizia: né da Dio né dagli uomini

Un motivo fiabesco e leggendario dell’animale che dimostra la sua


gratitudine46 è entrato anche nella favola esopica, ma vi ha un’impor-
tanza del tutto marginale. Tralasciando quelle favole che vogliono di-

ticolarmente felice; ma bisogna tener conto anche di varie favole che richiamerò più in là,
pp. 297 ss.
44
  La diffusione di questo motivo nel folklore è stata studiata da O. Dähnhardt, Natur-
sagen, vol. 2, Leipzig-Berlin 1909, pp. 242 ss.
45
 Cfr. supra, p. 276.
46
 Cfr. A. Marx, Griechische Märchen von dankbaren Tieren und Verwandtes, Stuttgart 1889.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 283

mostrare come il riguardo del potente verso l’umile procura la gratitu-


dine dell’umile e può riuscire utile anche al potente, favole di cui tratte-
rò in seguito47 perché vanno collocate in una prospettiva diversa, le favo-
le della gratitudine si limitano a quella dell’aquila verso l’uomo (Il conta-
dino che libera l’aquila: Babrio 144 Crus. = Esopo 79 Ch., che ricorda la
leggenda di Simonide e dei Dioscuri; Il serpente e l’aquila: Aftonio
28 = 395 P.) e al motivo comunissimo della fedeltà del cane (Herv. II,
p. 310, n. 28 = 709 P.; Herv. II, p. 311, n. 29 = 710 P.)48. Tutt’al più può
fermare l’attenzione la favola, tramandataci da Fedro (III 2), della pan-
tera che si vendica contro i pastori crudeli e risparmia i benefattori; ma
al centro dell’attenzione non è la gratitudine, ammesso che se ne possa
parlare, bensì la legge dell’occhio per occhio, dente per dente.
La giustizia di questa legge è, in fondo, quasi la sola che s’incontra
nel mondo esopico: l’astuzia può essere punita dall’astuzia, la violenza
dalla violenza o dall’astuzia. La volpe cerca di attrarre nella sua rete il
gallo, ma il gallo attrae la volpe sotto le zanne del cane (Esopo 268 H.).
Il lupo cerca di calunniare la volpe presso il leone malato; quando la
volpe arriva presso il letto del re, è accolta con un ruggito. «Di che sono
colpevole? Proprio io che ho girato il mondo in cerca presso i medici di
una cura per te!». Il leone ha un sussulto di speranza: «L’hai trovata?».
«Bisogna che tu scuoi il lupo e ti rivesta della sua pelle ancora calda». E
il lupo viene ammazzato (Esopo 269 H.)49. Può accadere che un ladro
venga gabbato da un ragazzetto furbo (Aviano 25). E la lotta di astuzia
contro astuzia continua, ancora più frequente, nella favola medievale50.
Il prepotente può incappare in uno più forte di lui. Nella favola
esiodea lo sparviero spaccia l’usignuolo; in una favola forse fedriana51 lo
sparviero, mentre fa la festa all’usignuolo, è colpito da un uccellatore.
Il topo ha già fra i denti l’ostrica; l’ostrica lo chiude nella sua morsa e

47
 Cfr. infra, pp. 313-314.
48
  Forse in Fedro penetrò anche la leggenda di Androclo e del leone (Ademaro 35 = 563
P.). Tra le favole medievali si può accostare quella dell’aspide domestico, che punisce il
figlio perché ha avvelenato il padroncino (Herv. IV, p. 363, n. 4 (38) = 637 P.).
49
  Con la sostituzione dell’orso la favola è svolta ampiamente da Paolo Diacono (585 P.).
50
 Cfr. L’asino col privilegio, la volpe e il lupo (Herv. IV, p. 365, n. 7 (41) = 638 P.); la novellet-
ta Il mercante e la moglie (Herv. II, pp. 379-380, n. 9 = 647 P.); La rondine e i passeri (Herv.
II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.); Il lupo e il riccio (Herv. II, p. 608, n. 62 = 675 P.); Il lupo cascato
nel laccio e il riccio (Herv. II, p. 640, n. 120 = 686 P.).
51
 Citata supra, p. 277.

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284 Capitolo settimo

l’ammazza (epigramma di Antifilo, AP IX 86 = 454 P.). Il toro, sorpre-


so il leone nel sonno, lo ammazza a cornate; arriva la leonessa madre e
scoppia in pianto; ma il cinghiale: «Quante madri piangono, a cui voi
avete ammazzato i figli!» (Sintipa 11 = 414 P.). Un contadino ha il pa-
dre vecchio e malato, che non finisce di tossire; lo butta fuori di casa,
coperto solo di una pelle di pecora e lo lascia crepare. Il figlio del con-
tadino raccatta la pelle e l’appende al muro: «Che vuoi farne?» chiede
il contadino: «La serbo per quando tu sarai vecchio» (Herv. IV, p. 245,
n. 73 b  =  624 P.)52. E può darsi che il prepotente incappi in uno più
furbo. Già Semonide di Amorgo (fr. 11 D.) conosceva la favola dello
scarafaggio che vendica la lepre contro l’aquila, benché il re degli uc-
celli sia protetto dal re degli dei: poiché lo scarafaggio distrugge le sue
uova, l’aquila le depone nel grembo di Zeus; lo scarafaggio butta nel
grembo una pallina di sterco e Zeus, per scuotere via lo sterco, butta
giù anche le uova (Esopo 3 H.). Nelle favole medievali la prepotenza
del lupo è punita con stratagemmi dalle sue vittime (cfr., per esempio,
Il lupo e l’asino: Herv. II, pp. 279-280, n. 33 = 696 P.).
La frode può restare punita perché l’astuzia non vede abbastanza
lontano. La volpe e l’asino vanno a caccia insieme; incappano nel leone.
La volpe, per salvare la sua pelle, si mette d’accordo col leone: in cambio
della vita farà cascare per lui l’asino in una trappola; ma, una volta che
l’asino dalla trappola non può più scappare, il leone pensa bene di sbra-
nare prima la volpe (Esopo 154 H.; forse in Babrio 222). Un gallo in lite
con un altro gallo chiede come giudice lo sparviero; mentre arrivano
davanti al giudice, questi ghermisce l’accusatore, che per primo gli cade
a portata di artigli: «Non sono io! È quello che scappa!». «Credi di farla
franca, proprio tu che preparavi questa fine al tuo collega?» (Ademaro
6 = 558 P., di origine fedriana). Nella elaborazione, probabilmente fe-
driana, di una favola simile a quella già citata (p. 273) dello struzzo, il
pipistrello, che nella guerra tra uccelli e animali terrestri si fa passare per
uccello o per animale terrestre secondo che le cose vanno per gli uni o
per gli altri, è alla fine condannato a non vedere la luce (Ademaro
38 = 566 P.)53. Il fraudolento non arriva a capire che proprio la sua con-

52
  Questa favola latina è certamente in relazione col fabliau La housse partie, su cui cfr.
J. Bédier, Les fabliaux, Paris 19113, pp. 201 ss., 463-464.
53
  Cfr. ancora Il ladro e Satana (Herv. II, p. 593, n. 39 = 662 P.); Il cane, il lupo e il padrone
avaro (Herv. II, pp. 287-290, n. 39 = 701 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 285

dotta, facendo mancare la fiducia, può causare la sua rovina o rende


inefficace la sua fraudolenza. La pernice vorrebbe essere risparmiata
dall’uomo perché gli ha consegnato tante volte le altre pernici: «Pro-
prio per questo ti ammazzerò» (Esopo 205 H.). Né il lupo né la volpe
possono trovare credito presso la scimmia che siede come giudice (Fe-
dro I 10).
A volte è per circostanze fortuite, imprevedibili o quasi, che la frode
si ritorce contro di sé. La capra invidia l’asino perché mangia meglio:
perciò lo fa cascare in una fossa; ma l’asino ferito dovrà essere curato con
polmone di capra (Babrio 142 Crus.). Il lupo per divorare il gregge si
veste da pecora; ma, una volta che il gregge è rinchiuso, succede che il
pastore, per far carne, ammazzi proprio lui (presso Niceforo Basilace in
Rhet. Gr. I, p. 427 Walz = 451 P.). Il lupo fa da testimone al cane, che
reclama dalla pecora il pagamento di un debito mai contratto: qualche
giorno dopo la pecora vede il lupo cascato nel fondo d’una fossa (Fedro
I 17). La volpe consegna il lupo ai pastori, ma poco dopo viene dilaniata
dai cani da caccia (Ademaro 40 = 568 P., forse da Fedro)54.
Come la frode e per le stesse vie, per impreveggenza o per caso,
potrà essere punita l’ingratitudine o l’ignavia o la sciocca irrisione. Un
cervo, scappando davanti ai cacciatori, si nasconde in una vigna e man-
gia proprio le foglie della vite che lo coprono: poco dopo è trafitto
(Esopo 79 H.; Babrio 203)55. Lo specchio che si lascia montare la
chiocciola sopra è ben degno di essere insudiciato (Ademaro 8 = 559 P.,
forse da Fedro). Il passero che irride la lepre afferrata dall’aquila cade
poco dopo sotto gli stessi artigli (Fedro I 9).
Mi sono soffermato un po’ a lungo su questi casi di violenza o di
astuzia punita, perché si veda come la giustizia, anche quando sembra
realizzarsi, non rompe la catena dei rapporti di forza e di frode: quella
giustizia, a volte del tutto casuale, che si può vedere, resta all’interno del
regno della golpe e del lione, non lo supera. Esiodo richiama la favola
dello sparviero e dell’usignuolo, ma per mostrare subito dopo come la
legge bestiale della forza debba essere superata dalla legge umana della
giustizia, che si fonda poi sulla giustizia di Zeus. Quest’orientamento è

54
  Cfr. inoltre Il brigante e il sicomoro (Esopo 157 H.); la novelletta Il medico, il ricco e la figlia
(Herv. II, pp. 635-636, n. 114 = 684 P.).
55
  Un lungo racconto sulla punizione dell’ingratitudine è entrato nella favolistica medie-
vale: Il soldato e il serpente (Herv. IV, pp. 381 ss., n. 24 (58) = 640 P.).

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286 Capitolo settimo

raro e resta del tutto marginale nella riflessione esopica: qui l’umanità
quasi mai riesce a instaurare un ordine superiore di rapporti. Certo, in
una delle favole più antiche della letteratura greca, in quella archilochea
dell’aquila e della volpe (fr. 89-95 D.), la giustizia che l’umile ottiene
contro il potente è invocata in una preghiera a Zeus e pare dovuta al suo
favore; ma proprio le elaborazioni successive di questa favola sono istrut-
tive. Nelle elaborazioni greche posteriori (Esopo 1 H.; Babrio 186, ma-
lamente ricostruibile) l’aiuto divino si riduce alla circostanza che la volpe
si procura da un altare il tizzone per mettere l’incendio all’albero dell’a-
quila; in Fedro (I 28), probabilmente anteriore alle raccolte esopiche a
noi note, anche questa circostanza scompare: la volpe si fa giustizia gra-
zie alla sua docilis sollertia, all’energia e all’ingegno che sa escogitare se-
condo le situazioni56. Le favole che si riferiscono alla punizione divina
delle colpe sono ben poche e a malapena si possono dire favole. Due
(Esopo 67 H., 214 H.) si riferiscono alla punizione dello spergiuro, anzi
nella seconda Horkos, il Giuramento, appare di persona. Una favola di
Babrio (127) spiega scherzosamente con la confusione degli ostraka, su
cui sono scritte le sen­tenze, come mai la giustizia divina arrivi a volte
tardi e a volte presto. Una favola di Fedro (IV 11) contiene una piccola
predica della Religio a un ladro, che ha rubato col lume acceso a un alta-
re di Giove, e gli minaccia la sicura punizione; ma si legga il lungo epi-
mitio di Fedro per vedere quali insegnamenti si debbano trarre da questa
favola poco gustosa. Infine c’è la novelletta di Fedro (App. 16) dei due
pretendenti, l’uno ricco, l’altro povero, dove la misericordia di Venere
favorisce il povero: novelletta più piacevole per la stranezza della vicenda
(da breve romanzo sentimentale) che sapida di riflessione. Naturalmen-
te nella favolistica medievale si è insinuata qualche leggenda religiosa,
che mostra le vie, a volte strane per gli uomini, della giustizia divina57;
ma questo non significa niente per la favola esopica antica e poco, del
resto, anche per quella medievale. Invece è degna di menzione, sempre
a proposito della giustizia divina, una favoletta di Babrio (117), quella di
Hermes e dell’uomo morso dalla formica. Un tale, vedendo una nave
affondare, accusa gli dei: per un empio ch’era sulla nave, quanti innocen-
ti sono periti! Mentre dice così, s’imbatte in un gruppo di formiche; una

 [Cfr. supra, p. 120, nota 22].


56

  I giudizi di Dio mostrati dall’angelo (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115 = 635 P.); L’uomo in
57

barca che si affida a Dio (Herv. II, pp. 645-646, n. 130 = 690 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 287

lo morde ed egli allora schiaccia quasi tutto il gruppo. Hermes lo richia-


ma con un colpo della sua bacchetta e gli fa osservare che gli dei giudi-
cano gli uomini come gli uomini le formiche: un elogio della giustizia
divina che a chiunque di noi richiamerà un ben noto passo del Leopardi.
Che dire di quella giustizia che dovrebbe essere assicurata dall’or-
ganizzazione degli uomini? Fedro (V 4) usa una favola, quella dell’asi-
no e dell’orzo del porcello, a dimostrare che chi si appropria della ric-
chezza indebitamente non sfugge alla punizione: la favola racconta
che, dopo il sacrificio di un verro a Ercole, i resti dell’orzo vengono
dati a un asinello; e l’asinello: «Volentieri mangerei di codesto cibo, se
non avessi visto che chi se n’è nutrito è stato sgozzato». Forse origi-
nariamente la risposta dell’asino voleva significare solo la diffidenza
verso la liberalità dell’uomo. Una gustosa favola medievale (Herv. II,
p. 559, n. 18 = 657 P.) rappresenta i buoi che protestano contro il padro-
ne, perché li costringe a portare il letame fuori della stalla: «Dopo che
ti abbiamo arricchito di frumento e d’orzo, ci tratti in questo modo?».
«Ma forse la stalla non l’avete riempita voi di letame?». Come si vede,
qui si vuole colpire l’improntitudine dei buoi, che non vogliono ripa-
rare il male di cui sono responsabili. Qualche rarissima volta compare
il leone come dispensatore giusto e come sovrano saggio. Fedro (II 1)
ci tramanda la favola del giovenco, del leone e del brigante, dove il
leone scaccia in malo modo il brigante e fa invece parte della preda a
un viandante modesto che non pretende nulla; ma Fedro nell’epimitio
si affretta a dissipare le illusioni che il racconto può avere alimentate.
Babrio (102) favoleggia di un leone clemente, sotto il cui regno l’inimi-
cizia tra le bestie è scomparsa; ma alla lepre non basta: «Volevo il
giorno in cui i deboli facessero paura ai violenti»; probabilmente si
tratta di una satira contro gli utopisti predicatori di eguaglianza: in
realtà non l’eguaglianza vogliono i deboli, ma sostituirsi nel dominio.
Il leone come amministratore della giustizia è figura piuttosto della
favolistica medievale, dove la corte del leone è la corte del re o del
feudatario, non della favolistica antica58: per questa si può ben dire che
la giustizia non è garantita da nessuno, né da Dio né dagli uomini.

58
  Il leone re e giudice dell’epos di Renardo compare, per esempio, nella favola Le pecore che
si lagnano contro il lupo (Herv. IV, p. 196, n. 23 = 596 P.); analoga la figura dell’aquila nella
favola Il cuculo e gli uccelli (già citata, p. 277, nota 34). Invece una specie di giustizia di po-
polo si ha nella favola La cicogna adultera (Herv. II, p. 312, n. 34 = 713 P.).

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288 Capitolo settimo

6. L’utile ben calcolato in un mondo senza sorriso

Qualche favola che mi è capitato di richiamare59 potrebbe far credere a una


gratuità dell’inimicizia, dell’odio; e a tale credenza potrebbe indurre, per
esempio, la favola fedriana (App. 1) della scimmia e della volpe: una scim-
mia senza coda pregava la volpe che le desse una parte della sua coda,
voleva coprirsi almeno le natiche: «Anche se la coda mi diventasse più
lunga la strascinerei tra il fango e tra le spine piuttosto che darne un pez-
zetto a te». Ma quasi mai nell’animale esopico la malvagità è gratuita;
neppure nell’astuzia, come ho già accennato, c’è il gusto della beffa, dell’ar-
te per l’arte così caratteristico del medievale Renardo: forza e astuzia sono
strumenti di un egoismo che è legge. Abbiamo già incontrato60 la favola
del lupo che proclamava la comunità dei beni, ma dopo aver nascosto la
propria preda nel suo giaciglio. L’asino e il cane fanno strada insieme;
trovano una tavoletta sigillata; viva la curiosità, l’attesa: l’asino dissigilla,
apre, legge; vi si parla di pascoli, fieno, orzo, crusca. «Va’ un po’ avanti,
caro: guarda un po’ se vi si dice qualcosa di carne e ossa». «Niente».
«Allora buttala via: è tutto falso!» (Esopo 295 H.). Il cane che dorme
nella bottega dei fabbri non si sveglia per il rumore dei metalli che fa
rintronare la stanza; ma si sveglia appena i fabbri vanno a tavola (Sintipa
16 = 415 P.). Gli animali in corteo fanno a Isengrino un pittoresco splen-
dido funerale; dopo la messa e la sepoltura, un magnifico banchetto:
et consimile funus desideraverunt (Herv. IV, p. 216, n. 43 = 607 P.)61.
Come l’astuzia, l’egoismo può fallire o essere punito perché non sa
vedere abbastanza lontano. Il soldato tratta magnificamente il cavallo
finché dura la guerra; con la pace cominciano per il cavallo gli stenti.
Scoppia di nuovo la guerra: il soldato prepara il cavallo, ma la bestia
casca dalla debolezza: «Dovevi pensarci prima! Da cavallo mi hai fatto
asino: entra dunque in fanteria!» (Babrio 76). L’asino e il mulo portano
due some eguali; ma il povero asino, arrivati che sono in una salita
dura, non ce la fa e prega il compagno di pigliargli una parte della

59
 Cfr. supra, p. 281.
60
 Cfr. supra, p. 268.
61
  Si possono accostare ancora Il topo e i fabbri (Ignazio Diacono, Tetrast. iamb. I 8 M.,
pp. 266-267 Crus. = 354 P.) e, tra le favole medievali, L’uomo che prega Dio solo per sé
(Herv. II, pp. 596-597, n. 45 = 666 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 289

soma. Il mulo non ci pensa neppure: l’asino precipita e crepa, e il mulo


deve portare tutte e due le some (Esopo 192 H.). Ma il vizio che, in-
sieme con la vanagloria, si trova più spesso frustrato e punito è l’avidi-
tà, la manifestazione più istintiva e cieca dell’egoismo, al di qua dell’in-
telligenza e del calcolo. Si ispirano a questo motivo alcune delle favole
più famose, già tra gli antichi: quella della volpe che si è rimpinzata e
non può uscire dal buco per cui è entrata (Esopo 24 H.; Babrio 86;
Orazio, Epist. I 7, 29 ss.); quella della vedova che ingrassa la gallina per
avere più uova e la rende sterile (Esopo 58 H.), a cui assomiglia l’altra
dell’oca dalle uova d’oro (Esopo 89 H.); quella del cane che attraversa
il fiume con la carne in bocca (Esopo 136 H.; Babrio 79; Fedro I 4; già
nota a Democrito, 68 B 224 DK); quella dei cani che vogliono bere il
fiume per raggiungere il cuoio (Esopo 138 H.; forse in Babrio 226;
Fedro I 20; molto simile la favola medievale La volpe e l’immagine del-
la luna: Herv. II, p. 598, n. 48 = 669 P.); quella delle mosche che s’at-
taccano al miele e non riescono più a tirarne le zampe (Esopo 82 H.).
Qualche altra meriterebbe di essere ricordata: per esempio, quella del
ragazzo che vomita le viscere. In campagna si sacrifica un bue e al
banchetto s’invitano i vicini; tra gli altri una donna povera, che porta
con sé il suo ragazzo. Il ragazzo si rimpinza delle viscere del bue e di
vino; a un certo momento vomita: «Mamma, sto vomitando gl’intesti-
ni!». «Non sono i tuoi, figlio mio, ma quelli che hai ingozzati!» (Esopo
47 H.; Babrio 34)62. S’intende che in alcuni casi non tanto l’avidità è
colpita quanto l’illusione o la sciocchezza63. Così come nella favola di
Hermes e del taglialegna (Esopo 183 H.) non tanto è colpita l’avidità
quanto la frode; ma l’avidità è sempre la radice.
Meno, invece, di quanto si crederebbe, la favola rivolge l’attenzione
a quella forma morbosa dell’avidità che è l’avarizia e che tanta parte ha
nella commedia e nella diatriba antica (data l’importanza dell’usura
nell’economia antica ciò è del tutto naturale). A questo proposito ri-
corrono pochi casi a cui richiamarsi. Uno di questi è giustamente fa-
moso: l’avaro compra un massello d’oro e lo sotterra davanti al muro

62
  Cfr. ancora La colomba assetata (Esopo 217 H.); Il nibbio che vuole imitare lo sparviero
(Herv. IV, p. 211, n. 38 = 604 P.); Il contadino che chiede a Dio un altro cavallo (Herv. II, p. 596,
n. 44 = 665 P.).
63
  La ricerca del lucro causa di menzogna anche nella favola, molto arguta, dell’ateniese
debitore (Esopo 5 H.).

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290 Capitolo settimo

di casa, sotto sorveglianza assidua; ma dopo qualche tempo trova il


buco vuoto e incomincia un pianto disperato; gli dice un vicino: «Non
affliggerti: mettici una pietra e fa conto che sia oro; quando c’era l’oro,
mica te ne servivi!» (Esopo 253 H.). La volpe compiange il drago che
custodisce il tesoro senza poter toccarlo (Fedro IV 21). Un’altra favola
ci dà il monologo di un avaro che ha trovato un leone d’oro: la fortuna,
invece di allietarlo, gli dilania l’anima di dubbi (Esopo 72 H.).
Di questo principio fondamentale dell’egoismo non c’è nella favola
una vera negazione sul piano assiologico: all’avidità cieca, illusa si con-
trappone solo il senso dell’utile ben inteso, ben calcolato. È l’interesse
che suscita la vigilanza e le energie: il cervo nascosto nella stalla dei
buoi potrà sfuggire ai servi, non al padrone (Fedro II 8). Non diciamo
la prodigalità, ma la semplice liberalità è sentita come pericolosa. Il
leone diviene una volta clemente e liberale: invita una folla di bestie;
un vecchio scimmione fa da scalco: tutti sono ben trattati, tutti hanno
parte eguale. Solo alla volpe tocca un pezzo più piccolo, e, quel ch’è
peggio, di carne rancida. Il leone la vede silenziosa e corrucciata, le
chiede gentilmente la ragione: «Maestà, non mi preoccupo tanto per
quel che mi capita oggi; ma, se va di questo passo, ospiti oggi, ospiti
domani, questa storia diventa un’abitudine e a me non toccherà nep-
pure la carne rancida» (Babrio 106). Il pavone, mansuetus et curialis, va
all’assemblea degli uccelli; ognuno chiede qualcuna delle sue penne: il
pavone non sa rifiutare e resta nudo; l’inverno lo uccide e a malapena
i figli, abbandonatolo, riescono a salvare la pelle (favola medievale in
Herv. IV, p. 238, n. 66 = 621 P.).
L’interesse (e ancora meno, naturalmente, il bisogno, la neces­sità)
non può essere eliminato con le chiacchiere. L’uccellatore ha un ospi-
te; prende una pernice per ammazzarla: la pernice vanta i suoi meriti e
il padrone finisce per risparmiarla. Piglia allora un galletto e anche
questo attacca un discorso sui propri meriti: «I tuoi meriti non li nego;
ma bisogna pure che al mio amico dia qualche cosa da mangiare!»
(Babrio 124). Una cagna insolente e ubriaca abbaia contro Esopo che
torna da una cena: «Se coi latrati potessi comprare un po’ di frumento,
potrei capire tanto chiasso!» (Aristofane, Vesp. 1401-1405 = 423 P.).
Questo utilitarismo potrebbe far accostare la favola alla mentalità
epicurea; in realtà la distanza è grande. Il senso dell’utile e il piacere
hanno radice nei medesimi istinti; ma, perché il piacere possa venir

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 291

posto come ideale di vita, occorre che la vita stessa sia assicurata nei suoi
bisogni essenziali. Nel mondo esopico il problema, così importante nel-
la filosofia antica, del modo migliore di vita si pone appena, perché
domina ancora il problema di vivere, di non essere eliminati o sopraffat-
ti in questi urti fitti di violenze e di frodi. Oltre il topo cittadino di
Orazio ricordo solo una mosca che ragiona alla maniera dell’epicureismo
volgare: mentre sta per affogare nel brodo, dice a sé stessa: «Ho mangia-
to, ho bevuto, ho fatto il bagno: se devo morire, me ne frego!» (Esopo
177 H.). Perciò questo mondo esopico è senza sorriso di bellezza, arido
e desolato: conosce solo, come vedremo, il sorriso dell’arguzia. Senza
dubbio nella letteratura greca il mondo più vicino a quello esopico resta
quello contadinesco di Esiodo, con la sua preoccupazione del guadagno,
la sua aridità, la sua angustia: solo che al mondo esopico è estranea la
vera e propria problematica della Dike, la sussunzione e la disciplina
dell’utile sotto il segno della Giustizia divina, che fa di Esiodo la base del
pensiero greco. La gioia della bellezza o l’aspirazione alla bellezza sono
estinte sul nascere dal senso dell’utile. Ho già avuto occasione di ricor-
dare la favola del cervo alla fonte, quella dei topi e delle donnole in
guerra64, quella del pavone candidato al trono65; non c’è bisogno di ricor-
dare quella notissima e significativa della cicala e della formica (Babrio
140). A questa si può accostare quella dell’asino e della cicala (Esopo 195
H.; forse in Babrio 224): l’asino è incantato dalle cicale: «Quale nutri-
mento vi dà cotesto canto dolcissimo?». «La rugiada»: l’asino si mette a
mangiare rugiada e muore di fame. Il contadino che sta abbattendo
l’albero sterile non si commuove per le preghiere di cicale e passeri; solo
quando nel tronco trova un alveare, posa l’accetta (Babrio 187)66.
Come il mondo esiodeo, questo esopico non conosce l’amore.
L’amore è una maschera dell’avidità di lucro; tutti ricordano il gra-
zioso racconto di Fedro (II 2) sull’uomo di mezza età che ha due
amanti, l’una vecchia, l’altra giovane: la vecchia gli strappa i capelli
neri, la giovane i bianchi, finché egli non resta calvo (cfr. Eso­po 31
H.; Babrio 22)67. L’infedeltà è vizio naturale della donna: puoi dare alla

64
 Cfr. supra, p. 270.
65
 Cfr. supra, p. 277.
66
 Cfr. La rosa e l’amaranto (Babrio 178); Gli alberi sotto la protezione degli dei (Fedro III 17).
67
  Nel corpo esopico l’epimitio interpreta la favola diversamente («la diseguaglianza è
dannosa»); ma il misoginismo è indubbio.

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292 Capitolo settimo

gallina tutto il cibo che vuole, essa non potrà fare a meno di andare
razzolando in cerca di altro cibo (Fedro, App. 11). Nella satira misogina
la favola veniva a incontrarsi colla novellistica milesia (cfr. La vedova e
il soldato, cioè la novella della matrona di Efeso, in Fedro, App. 15); ma
la favola pigliava ciò che rispondeva a una sua esigenza remota. La
grazia dell’amore sembra spuntare, tutt’al più, in una favola di Fedro:
dice la meretrice, di provatissima infedeltà, all’amante: «Mi offrano
pure gli altri tutto l’oro del mondo, io pongo te al di sopra di tutto!».
«È un piacere, amor mio, sentirti parlare così: non credo una sillaba,
ma è bello lo stesso» (Fedro, App. 29)68. Probabilmente dal misogini-
smo è ispirata anche la favola della donna insopportabile dagli schiavi:
il marito la manda un po’ dal padre per vedere se là succede la stessa
cosa; al ritorno le chiede come gli schiavi l’hanno accolta; «i bifolchi e
i pastori mi guardavano storto»; «e sono gli schiavi che vanno via di
mattina: figuriamoci quelli che stanno tutto il giorno in casa!» (Esopo
97 H.). Nella favola medievale la satira misogina si attacca anche alla
litigiosità incorreggibile della donna69.
La sofistica e l’epicureismo, e poi un filone importantissimo del
pensiero moderno, partendo dal senso dell’utile hanno cercato di spie-
gare la complessa esperienza etica e politica dell’umanità, senza ricor-
rere a un principio diverso o opposto a quello dell’utile. Alla favola
esopica non bisogna chiedere tanto: il mondo esopico è in una squal-
lida immobilità, senza sviluppo, senza storia, senza dialettica (del resto
anche nella sofistica e nell’epicureismo non si è andati molto avanti e
abbastanza presto il pensiero antico ha ucciso i germi pericolosi): il
favolista non si chiede come al senso dell’utile si colleghino il senso del
giusto, l’organizzazione della società e dello stato, il senso del bello, la
ricerca disinteressata (o che tale si sente e si crede) del vero. Pur con
questi limiti la letteratura esopica resta uno degli antecedenti non tra-
scurabili dell’utilitarismo e del materialismo moderno: e dico questo
non nella prospettiva di una storia ideale, astratta, ma in quella dell’ef-

68
  L’interpretazione dell’ultimo verso resta dubbia: est del Perottino non s’impone sicura-
mente di fronte ad es delle parafrasi.
69
 Cfr. La moglie litigiosa (Herv. II, p. 614, n. 73 = 681 P.); La donna della contraddizione
(Herv. II, pp. 614-615, n. 74 = 682 P.). Dati i contatti più numerosi della favola con la no-
vellistica l’infedeltà della donna vi è ancora più comune; ricordo qui la favola Il cane che
chiede un osso al padrone (Herv. II, p. 315, n. 47 = 719 P.) perché forse non è indipendente da
Vita Aesopi 45-46.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 293

fettiva storia del pensiero europeo. Si deve tener conto dell’importanza


che hanno avuta nel corrodere e demolire la morale ascetica (o religio-
sa in genere) del Medioevo la letteratura dei fabliaux e la novellistica.
L’ispirazione della favolistica esopica e quella della favolistica e novel-
listica indiana confluivano senza difficoltà: quella letteratura indiana
non era nata tanto dalle classi subalterne quanto dalle corti e dai ceti
mercantili, ma essa elaborava, appunto, una elementare scienza della
politica (nītiśāstra), una saggezza mondana (arthaśāstra, «scienza dei
vantaggi mondani»), fondata sul senso dell’utile, del conveniente70.
Tutti ricordano l’ammirazione per la prudenza, l’accortezza, la saggez-
za che domina nella novellistica medievale. Favolistica e novellistica
preparavano, sia pure in maniera rudimentale, la riflessione moderna
della scienza politica e della economica.

7. Sopravvivere: preveggenza, prudenza, operosità

Che nella favola esopica l’interpretazione della realtà umana stia in


funzione di un avvio all’accortezza, alla prudenza, alla saggezza, è sta-
to sempre evidente. Anzi proprio questa evidenza ha lasciato in ombra
il momento teoretico, il momento dell’analisi lucida e acuta, che oggi
per noi risulta il più importante e duraturo. Giacché su questo mo-
mento credo di avere insistito abbastanza, cercherò ora di fissare in che
consiste questa prudenza esopica.
Si capisce che in un mondo in cui il benessere, per quanto scarso, e
la vita stessa sono continuamente insidiati dalla frode, oltre che dalla
violenza, la virtù più necessaria è saper prevedere il pericolo, che l’astu-
zia cela in mille modi: nessuna virtù è elogiata e raccomandata più
spesso di questa. I topi non si lasciano gabbare dal gatto, che, penzo-
loni da un piolo, fa il morto (Esopo 81 H.; forse in Babrio, p. 241
Crus.). Una delle favole più antiche e diffuse dell’antichità è quella
della volpe che non si lascia indurre a entrare nella tana del leone ma-
lato (Esopo 147 H.; Babrio 103; compare già nel platonico o pseudo-
platonico Alcibiade maggiore 123 a). Il lupo ferito dai cani non sa come
trovare da sfamarsi; vede una pecora: «Porgimi un po’ d’acqua del fiu-

 Cfr. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, cit., vol. 3, spec. p. 273 (per altri
70

passi cfr. l’indice s. v. nītiśāstra).

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me vicino: se tu mi dai da bere, io ti troverò da mangiare». «Se ti do da


bere, mangerai anche me» (Esopo 166 H.). Il cinghiale non aspetta
l’ora del pericolo per affilare le sue zanne (Esopo 252 H.). Dione Cri-
sostomo (Or. 12, 7-8 de Budé; 72, 14-15) ci ha tramandato un elogio
della civetta che, pur­troppo invano, indica agli uccelli a una a una le
insidie preparate dall’uomo. Alcuni uccelli, mentre si godono nei loro
nidi l’inizio della primavera, scorgono un uomo che mette a posto
certe cannucce e inserisce una festuca nel vischio; l’uomo è cisposo e
gli si vedono le lacrime sul viso: «Che uomo pio e buono! Ogni volta
che ci vede, gli scorrono le lacrime!». Ma un uccello più esperto e più
ac­corto: «Alzatevi subito a volo! Se volete sapere il vero, guardate bene
che cosa fa!» (Romulus IV 7 = 576 P.). Il corvo, appollaiato su un albe-
ro accanto a una strada, tiene ai suoi figlioletti una lezione sui pericoli
da evitare; passa un uomo: «Ecco il pericolo più brutto per noi: se lo
vedete piegarsi a terra, scappate subito!». Uno dei piccoli: «Anche se
non si piega, al suo avvicinarsi io scappo!». E il padre: «Dici bene!
Quanto a te sono tranquillo: ora istruirò i tuoi fratelli» (fa­vola medie-
vale in Herv. II, p. 612, n. 70 = 679 P.)71.
Le minacce possono essere anche vane: ma è compito della pruden-
za capire quando dalle minacce vane si passa alle minacce serie. Le gru
non si muovono finché il contadino agita la fionda a vuoto per impau-
rirle; ma, appena il contadino passa alle sassate, capiscono che debbo-
no raggiungere i Pigmei (Babrio 26).
La vita è instabile, precaria e difficile anche senza la frode che l’in-
sidia: la prudenza presuppone questa fondamentale consapevolezza.
Due rane, seccatosi il loro stagno, vanno in cerca di una dimora; arri-
vano a un pozzo: «Buttiamoci senz’altro giù» dice l’una; ma l’altra: «E
se anche il pozzo si dissecca, come faremo a rimontar su?» (Esopo 43

71
  Si possono accostare Il contadino e i cani (Esopo 52 H.); Il leone e il toro (Esopo 148 H.;
Babrio 97); La cicala e la volpe (Esopo 245 H.); Il leone e l’arciere (Babrio 1); Il lupo maestro
di scuola e la gallina (tetrastico bizantino, II 28 M., p. 293 Crus. = 417 P.); Le scimmie che
vogliono costruire una città (Ermogene, Progymn. 1, in Rhet. Gr. II, p. 3 Spengel = 464 P.);
L’asino e l’orzo del porcello (Fedro V 4); Il giovenco e il bue anziano (Fedro, App. 12); Le noz-
ze del Sole e le rane (Babrio 24; Fedro I 6); Il leone infuriato e il cerbiatto (Babrio 90); La
terraneola e la volpe (Fedro, App. 32); La nottola, il gatto e il topo (Ademaro 25 = 561 P.);
Il topo ubriaco e il gatto (Herv. IV, p. 227, n. 56 = 615 P.); La scimmia e il mercante (Herv. IV,
p. 410, n. 13 (48) = 643 P.); La volpe e la colomba (Herv. II, p. 599, n. 51 = 671 P.); La cerva che
istruisce il cerbiatto (Herv. II, pp. 611-612, n. 69 = 678 P.); Il topo, la figlia, il gallo e il gatto
(Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.).

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H.). Scampati alla tempesta, i naviganti si danno a ballare e far baldo-


ria; ma il nocchiero ammonisce: «Cari amici, godiamoci il sereno sen-
za dimenticarci che la tempesta può ritornare» (Esopo 80 H.)72.
Una favola come questa ricorda molto le prediche filosofiche e dia-
tribiche sull’incostanza della fortuna. Potrebbero ricordare un noto
motivo epicureo, ma sono in realtà ben radicate nel tipico utilitarismo
esopico, certe favole che raccomandano un ponderato calcolo dell’uti-
le. Il castoro butta via i suoi preziosi testicoli per salvare la vita (Esopo
120 H.). Una giumenta partorisce durante un viaggio; il puledro pena
a tener dietro alla madre e al cavaliere e spiega a quest’ultimo: «Vedi,
ora sono piccino e non posso viaggiare: se mi lasci qui, sono subito
spacciato; se mi meni lentamente con te e mi allevi, avrai un giorno
una magnifica cavalcatura» (Sintipa 45 = 401 P.). Il calcolo può consi-
stere, naturalmente, anche solo nella scelta del male minore. Un cane
soddisfa i suoi bisogni su certi giunchi; uno dei giunchi punzecchia
posteriora ipsius; allora il cane si allontana e abbaia; e il giunco: «Abba-
ia pure da lontano, purché non m’insozzi da vicino» (favola medievale
in Herv. IV, p. 217, n. 44 = 608 P.). Ma il calcolo presuppone, sia pure
nell’ambito utilitario, una prospettiva che al mondo esopico manca;
vedremo presto che l’utilitarismo esopico punta molto più sul vantag-
gio immediato che sul calcolo dei vantaggi. Non manca, del resto,
qualche caso in cui il calcolo è disperato, impossibile, come nella favo-
la caria (425 P.), già nota a Simonide di Ceo e a Timocreonte di Rodi,
del povero pescatore che, d’inverno, scorto un polipo, esita tra il peri-
colo di tuffarsi nell’acqua ghiaccia e il pericolo di lasciare affamati i
figlioletti.
Naturalmente il peccato dell’impreveggenza, più o meno stolta, è il
peccato capitale di questo mondo. La viltà non è un peccato che si
possa mettere a confronto per gravità: in questo mondo lontano dall’e-
roico, e antieroico, la viltà è colpita non per sé stessa73, ma in quanto
si traveste talora da coraggio. Alla debolezza possono porre rimedio
l’astuzia, la preveggenza, l’accortezza: all’impreveggenza e alla stoltez-
za non c’è rimedio. La favola esopica, che manca in genere di pietà, è
spietata soprattutto verso la stoltezza. Tra le più significative sotto

 Cfr. Le iene (Esopo 240 H.).


72

  Solo una favola medievale ricordo in cui la viltà sia condannata per sé stessa: Il falco e il
73

nibbio (Herv. IV, p. 225, n. 54 = 612 P.).

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questo riguardo e forse tra le più antiche, se veramente era già nota ad
Archiloco (96-97 D.), è la favola con tanta ricchezza ricamata da Ba-
brio (95) e dal Pañcatantra (IV 2) del cervo che per ben tre volte si la-
scia gabbare dalla volpe e menare dinanzi al leone, e la terza volta è
sbranato74. La volpe riesce a tirarsi fuori dal pozzo inducendo a scen-
dervi il becco e arrampicandosi sulla schiena e sulle corna; il becco
resta giù e recrimina: «Se avessi tanto cervello quanta barba, non sare-
sti sceso senza prima vedere come tornar su» (Eso­po 9 H.; Babrio 182;
Fedro IV 9)75. La rana che vive nelle pozzanghere della strada non cede
agli inviti della rana che vive nella palude: è abituata al posto, le fa fatica
il trasferirsi: fino a che resta sotto la ruota di un carro (Esopo 70 H.).
Una cerva cieca d’un occhio pascola lungo il mare e con l’occhio sano
vigila dal lato della terra; viene invece colpita da certi naviganti di pas-
saggio (Esopo 77 H.). Il serpente, calpestato da parecchi uomini, se ne
lagna con Zeus; e Zeus: «Se il primo lo avessi addentato, il secondo
non si sarebbe azzardato a metterti il piede sopra» (Esopo 213 H.). Ha
avuto fortuna l’aneddoto del ladro che, condannato, mentre viene me-
nato in prigione, con un morso stacca un orecchio alla madre, perché
a suo tempo non ha corretto, anzi ha favorito l’inclinazione del figlio
(Esopo 216 H.). Altro aneddoto fortunato è quello del pastore che,
ingannato dalla serenità del mare, vende le pecore e si dà al commercio
di datteri; con la tempesta perde tutto; torna il sereno: «Che splendido
mare calmo!» dice uno sulla spiaggia; «vuole altri datteri» ribatte il
pastore (Esopo 223 H.). Altrettanto celebre la favola del contadino
che, per vendicarsi della volpe devastatrice, le appicca il fuoco alla
coda: la volpe va a finire nel suo campo e brucia il raccolto (Babrio 11).
Non per puro caso le favole dell’impreveggenza derisa e punita sono
tra le più popolari: esse sono veramente tra le più rappresentative del
mondo esopico76. Tipico dello stolto è non cogliere le differenze da

74
  Il particolare della mancanza di cuore nel senso di mancanza di giudizio ricorre in
contesto analogo nella favola di Aviano (30) Il cinghiale senza cuore, che non può essere
indipendente.
75
  Simile, specialmente nella battuta finale, la favola della lepre nel pozzo e della volpe
(Sintipa 10 = 408 P.).
76
  Cfr. ancora Il tordo nel boschetto di mirti (Esopo 88 H.); I lupi, i cani e il gregge (Esopo 158
H.); Il viandante e la Fortuna (Esopo 184 H.; Babrio 49); Il cane, il gallo e la volpe (Esopo
268 H.); La lepre e la volpe (Esopo 193 Ch.; Babrio 158); Il pastore che ha chiuso il lupo con le
pecore (Babrio 113); Il gatto che invita le galline a pranzo (Pseudo-Dositeo 5, Hermen., CGL

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 297

situazione a situazione, applicare meccanicamente il risultato di un’e-


sperienza. L’asino carico di sale casca in un fiume: il sale si squaglia,
l’asino s’alza leggero. Durante un altro viaggio, carico e affaticato, ap-
pena vede un fiume, vi si butta dentro; ma il carico questa volta è di
spugne (Esopo 191 H.; Babrio 111).
L’irrisione può essere particolarmente accentuata dal fatto che lo
stolto pretende di dare consigli agli altri (Il passero che dà consigli alla le-
pre: Fedro I 9) e dal fatto che egli si procura il danno nel macchinare
insidie agli altri (Il pastore e i lupatti, Esopo 225 H., a cui somiglia alquan-
to Il pastore che alleva il lupo, Babrio 175; L’uccellatore e l’aspide, Esopo 117
H., forse in Babrio 214)77. Particolarmente ridicolo riesce pure chi tira
fuori il rimedio troppo tardi o chi molto grida senza agire in tempo. Un
usignolo (veramente un uccello bubalis o botalis che non si riesce a iden-
tificare) è appeso, prigioniero, a una finestra e canta di notte; passa una
nottola: «Come mai canti di notte e stai zitto di giorno?». «Perché fu
mentre cantavo di giorno che fui acchiappato». «Dovevi pensarci pri-
ma!» (Esopo 48 H.). Un ragazzo durante un bagno sta per affogare;
chiama in aiuto un passante. Questi si mette a fargli la predica: «Ora
aiutami: una volta salvatomi, mi farai la predica!» (Esopo 230 H.).
Peggio ancora se non solo il male non è evitato in tempo, ma si
provvede a sproposito. Un alveare viene saccheggiato da un ladro; al
ritorno le api cercano di vendicarsi sul padrone: «Disgraziate, il ladro
l’avete lasciato scappare, me che vi curo con amore mi malmenate!»
(Esopo 74 H.): alla stoltezza si unisce l’ingratitudine.
Particolarmente grave è l’impreveggenza di chi fornisce lui stesso i
mezzi per la propria rovina. Si tratta anche in questo caso di favole

III, p. 42 = 389 P.), sulla quale pare ricalcata Il corvo e gli altri uccelli a pranzo (Romulus IV
11 = 577 P.); Il nib­bio e le colombe (Fedro I 31); L’aquila, la gatta e la scrofa del cinghiale (Fedro
II 4); Il gallo portato in lettiga dai gatti (Fedro, App. 18); La gallina, i pulcini e il nibbio (Herv.
IV, p. 208, n. 34 = 601 P.); Il cavallo e il campo di messi (Herv. II, p. 600, n. 53 = 673 P.). Come
nella favola citata del cane, del gallo e della volpe, così in favole medievali la volpe non è
sempre abbastanza preveggente da non lasciarsi gabbare a sua volta: cfr. La pernice e la
volpe (Ademaro 30 = 562 P.), che sviluppa La volpe e il corvo (Fedro I 13); L’asino col privi-
legio, la volpe e il lupo (Herv. IV, p. 365, n. 7 (41) = 638 P.). Come c’era da aspettarsi, nelle
favole medievali, è il lupo, è Isengrino l’animale più spesso gabbato: cfr. Il lupo pescatore e
la volpe (Herv. IV, p. 245, n. 74 = 625 P.); Il lupo infelice, la volpe e il mulo (Herv. II, p. 272,
n. 26 = 693 P.); La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.).
77
 Cfr. Il corvo e il serpente (Esopo 130 H.; Babrio 150). Forse si può avvicinare Il montone e
il padrone calvo (Herv. II, p. 311, n. 31 = 711 P.).

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notissime: quella dell’aquila che nella freccia, da cui è colpita a morte,


riconosce le proprie penne (Esopo 273 H.; Babrio 185; già nota a Eschi-
lo, fr. 139 N.); quella delle querce che forniscono il legno per le scuri
(Esopo 99 Ch.; Babrio 142) o per i cunei (Esopo 262 H.; Babrio 38);
quella del contadino che scalda la serpe in seno (Esopo, 62, 186 H.;
Fedro IV 20), a cui si può accostare l’altra, meno nota, della gallina che
cova le uova del serpente (Esopo 206 H.). Il motivo è presente anche
nella favola fedriana (IV 11) del ladro e della lucerna: per rubare gli
arredi sacri il ladro accende la lucerna all’ara dello stesso Giove. Quasi
lo stesso è l’errore di chi compensa l’azione malvagia, incoraggiando la
malvagità: per esempio, di quello che, morso dal cane, gli getta un
pezzo di pane bagnato di sangue, perché ha sentito dire che così si cura
la ferita (Fedro II 3; Esopo 64 H.: si noti la punta satirica contro la
superstizione). È facile vedere che la ricompensa al malfattore è scon-
sigliata non per un sentimento di giustizia, ma in quanto causa di altri
danni: perciò non c’è da stupirsi se altra volta il calcolo utilitario rac-
comanda la ricompensa al malfattore perché non rinnovi l’azione mal-
vagia. Un’aquila, acchiappata da un tale, ne ebbe le ali tagliate e fu ri-
dotta a campare tra gli uccelli da cortile. Ma dal dolore non vuol
mangiare: «era simile a un re prigioniero», dice il favolista, con un tono
patetico che è raro nelle fa­vole esopiche. L’aquila viene comprata da
un altro, che le medica le ali, la guarisce e le ridà la libertà. L’aquila,
riconoscente, rapisce una lepre e la porta in dono al benefattore; ma la
volpe: «Non a costui devi donare, ma all’altro, perché non ti acchiappi
e non ti tagli un’altra volta le ali» (Babrio 176).
La vigilanza deve partire dal presupposto che la natura malvagia è
immutabile: nessun atto generoso del malvagio deve rassicurarci. Zeus
accetta regali di nozze da tutti gli animali, non dal serpente (Esopo 248
H.; Babrio 197). Il lupo che il pastore ha allevato tra i suoi cani resta
lupo, e il pastore se ne accorge dopo averci rimesso una parte del greg-
ge (Esopo 276 H.). Anche le galline scontano caro l’aver creduto, pur
dopo tante diffidenze, al pentimento della volpe (favola medievale in
Herv. IV, p. 221, n. 50 = 611 P.). In una favola medievale capita anche
che la diffidenza si riveli eccessiva: i lupi sono sinceramente pentiti ed
escono dal bosco per aiutare i mietitori; appena visti i lupi, i contadini
danno loro addosso; e i lupi, giacché nessuno crede alle loro buone
azioni, tornano alla vita di prima (Herv. II, p. 610, n. 65 = 676 P.). Ma

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nella favola classica e in genere nella favola medievale la diffidenza non


è mai eccessiva ed è la credulità che è crudelmente punita: si ricordi,
per esempio, la novella fedriana (III 10), in verità infelice, de credere et
non credere; ognuno ha in mente le crudeli beffe che la sciocca creduli-
tà procura a Isengrino78. Del resto non solo la fiducia nel malvagio,
ma anche solo la sua compagnia è da evitarsi. Niente vale alla cicogna,
presa dall’uccellatore in compagnia della gru, vantare i propri meriti
verso gli uomini: all’uccellatore basta la compagnia per giudicarla e
condannarla (Esopo 208 H.). Così al contadino, per giudicare l’asino
comprato, basta il fatto che questo nella stalla si è messo subito in
compagnia del più sfaticato e mangione (Esopo 200 H.). È bene che
col malvagio stia il malvagio: un serpente è portato giù dal fiume su un
fascio di spine: «nocchiero degno della nave» commenta la volpe (Eso-
po 98 H.; Babrio 173).
La stoltezza nel mondo esopico è quasi sempre pacchianamente
manifesta, come in tanti casi ricordati, come nel caso, per esempio,
dello sciocco che vuol tappare i buchi del vaglio (Galeno, De meth.
med. I 9 [X, p. 68 Kühn] = 456 P.); quasi ignota è la stoltezza che si
nasconde nelle pieghe di una falsa prudenza, che si rivela in un detta-
glio, ma tale da far crollare tutta la costruzione. Si potrebbe citare
tutt’al più la favola medievale dei topi a consiglio, che, per difendersi
dal gatto, escogitano il magnifico piano di appendergli al collo un
campanello; solo che non si trova chi si avvicini al gatto (Herv. IV,
p. 225, n. 54 a  =  613 P.). Ma la favola pare colpire, più che la stoltezza
del piano, la viltà dei topi. Per un’analisi del genere occorreva, tra l’al-
tro, un interesse psicologico che nei favolisti antichi è assente e che
spunta tutt’al più in Fedro. Anche l’anima dell’ipocrita è per i favolisti
antichi tutta d’un pezzo.
In un mondo dove non c’è posto per la fiducia, l’uomo deve conta-
re solo sulle sue forze. È famosa, perché svolta con ricchezza di detta-
gli e di colorito da Ennio (Var. 21-22 V.2), la favola dell’allodola che ha
fatto il nido nel campo di grano: finché il padrone del campo conta per
la mietitura sull’aiuto di vicini o di amici o di parenti, l’allodola non si
scomoda a trasferire il nido; quando sa che il padrone conta finalmen-

  Cfr. anche, per l’irrisione della credulità, Filomela e l’arciere (Herv. IV, p. 252, n. 77 = 627
78

P.), una delle più graziose e festose favole medievali, degna di un’antologia.

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300 Capitolo settimo

te sulle braccia dei suoi, capisce che è venuta l’ora di andarsene (un po’
diversamente Babrio 88). Né si fa assegnamento sull’aiuto divino. Un
naufrago ateniese invoca a ogni momento Atena e fa ingenti promesse;
ma un compagno di naufragio: «Con Atena muovi anche le braccia!»
(Esopo 30 H.). Simile la favola del bifolco e di Eracle: cascato il carro
in un fosso, il bi­folco se ne sta con le mani in mano e invoca Eracle; e
il dio: «Spingi le ruote, pungola i buoi! Prega gli dei solo se fai qualco-
sa anche te!» (Babrio 20)79. Non si direbbe che, neppure in queste fa-
vole, la provvidenzialità dell’aiuto divino sia sentita vivamente. In ogni
modo, divino o umano, l’aiuto non serve a niente se chi è aiutato non
compie nessuno sforzo. Questo è il succo di una graziosa favola me-
dievale (Herv. IV, p. 209, n. 36 = 603 P.): l’oca prega il corvo di tirarla
in alto perché possa godersi il panorama; il corvo tenta, ma il peso
inerte dell’oca grassa tira in giù e bilancia ogni sforzo.
Ma nella laboriosità dell’uomo che fa assegnamento sulle proprie
forze, la mentalità esopica ha fiducia: di una religione del lavoro, fon-
data sulla religione della Dike, quale sentiamo, alle prime fondazioni
del pensiero greco, in Esiodo, sarebbe errato parlare; ma una fiducia
nel lavoro, un’affinità col mondo esiodeo c’è. È notissimo l’apologo del
contadino che, per indurre i figli a vangare bene la vigna, morendo fa
credere loro che nella vigna è nascosto un tesoro (Esopo 42 H.). Alla
notissima favola della cicala e della formica (Babrio 140) è affine quel-
la della formica e dello scarafaggio (Esopo 114 H.): lo scarafaggio se ne
sta tranquillo, mentre la formica lavora sodo; ammira tanta laboriosità,
piglia in giro; con l’in­verno lo sterco, nutrimento dello scarafaggio, si
squaglia e lo scarafaggio ricorre alla formica: si può immaginare la ri-
sposta80. La tartaruga può vincere in velocità la lepre, se la tartaruga,
conscia della sua debolezza, cammina senza sosta e la lepre, sicura di
sé, s’addormenta al margine della strada (Esopo 254 H.; Babrio 177).
Nella favola dei due cani (Esopo 94 H.; forse in Babrio 220), di cui
l’uno va a caccia, l’altro sta in casa e mangia parte della preda, si accen-

79
  Forse si può ricordare a questo proposito anche la favola medievale del ladro e di Sata-
na (Herv. II, p. 593, n. 39 = 662 P.): arrivato sulla forca, il ladro deve contare solo sulle sue
forze.
80
  Si ricordi anche la favola, a cui accenna Plutarco (Sept. sap. conv. 14, 157  b), del cane che
d’inverno, raggomitolato dal freddo, pensa di costruirsi nell’estate una casa, ma, venuta
l’estate, trova il progetto troppo grosso e faticoso.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 301

na, senza andare troppo in là, al problema dell’ozio che vive di sfrutta-
mento.
Il lavoro paziente, costante, metodico, assolve a volte compiti che
parevano impossibili. La cornacchia assetata non riesce ad attingere
l’acqua da un vaso né a rovesciarlo; allora vi butta dentro, a uno a uno,
tanti sassolini sino a far traboccare l’acqua (Pseudo-Dositeo 8, Hermen.,
CGL III, p. 43 = 390 P.). Non c’è, d’altro lato, un culto fanatico del
lavoro: ozio e gioco devono rilassare le energie umane per conservarle.
Fedro (III 14) attribuisce a Esopo il trito confronto delle energie uma-
ne con l’arco, che, se sempre teso, si spezza. In ogni modo il problema
della misura, nel lavoro come in altre manifestazioni umane, non è
importante per la mentalità esopica: la prudenza esopica differisce da
quella di tanta parte della filosofia antica e anche di tanta parte della
novellistica medievale perché non mira a realizzare, nelle difficoltà del
mondo, un ideale di tranquillità e di decoro, ma, come ho già detto, in
un mondo dove la vita stessa e i bisogni elementari sono minacciati,
vuole assicurare la possibilità di sopravvivere.

8. Empiricità: un pragmatismo senza prospettive

Questa morale mondana, laica è tutta fondata sull’esperienza: i para-


deigmata, gli exempla della favola esopica non tanto sono, come nell’o-
ratoria e nella storiografia, esempi del passato da imitare o da fuggire
quanto generalizzazioni tipiche di comuni esperienze umane. Dell’em-
piricità v’è talora una coscienza abbastanza chiara. In alcune favole già
richiamate la preveggenza è acquistata con l’esperienza a volte amara:
per esempio, nella favola della spartizione della preda tra il leone, l’a-
sino e la volpe81, in quella del pastore e del mare82, in quella della cica-
la e della volpe83, in quella fedriana (V 4) dell’asino e del porcello. Il
macellaio, al quale un cane ha rubato un cuore, si consola pensando
che la lezione gli servirà: «Non mi hai rubato il cuore, ma me lo hai
dato» (cioè il senno) (Esopo 134 H.). Una favola sibaritica già nota ad
Aristofane (Vesp. 1427 ss.) ammoniva: «Faccia ognuno l’arte che cono-

81
 Cfr. supra, p. 276.
82
 Cfr. supra, p. 296.
83
 Cfr. supra, p. 294, nota 71.

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302 Capitolo settimo

sce». E il toro di una favoletta di Fedro (V 9) ammonisce il vitello che


vuole insegnargli a passare attraverso un’entrata stretta: «Sta’ zitto! So
queste cose da prima che tu nascessi!»84. La prova fa sfumare le pretese
vane: così è dei fuchi che pretendono, contro le api, di avere costruito
i favi (Fedro III 13). Capitare sotto le mani di uno che non conosce il
mestiere è uno strazio; la pecora al tosatore inetto: «Se vuoi la mia lana,
taglia più su; se vuoi la mia carne, ammazzami una buona volta e fac-
ciamola finita!» (Esopo 232 H.). Né l’esperienza deve fidarsi di una
prova sola: male capita a chi crede che una rondine faccia primavera e
butta via l’unico mantello che gli resta (Esopo 179 H.; Babrio 131).
L’empiricità è però anche un limite della mentalità esopica. Già più
di una volta ho accennato che l’esperienza esopica non crea una pro-
spettiva, non costruisce un ideale di vita: dà singole massime per singo-
le occasioni. Non solo la generalizzazione non fissa leggi assolute, ma
ne disdegna la ricerca come qualcosa che minaccia il carattere utilita-
rio, pragmatico di questa mentalità. Inutile dire che la ricerca teoretica
pura è ignorata; quando non è ignorata, è derisa: non è un caso insi-
gnificante che tra le favole esopiche sia penetrato l’aneddoto di Talete
(nella favola si tratta, però, di un astronomo anonimo) che, mentre
contempla il cielo, casca nel fosso (Esopo 40 H.). Naturalmente la
favola accoglie quell’irrisione volgare contro cui così appassionatamen-
te polemizza Platone.
Anche il calcolo utilitario punta soprattutto sul guadagno imme-
diato: varie favole ammoniscono a non lasciarsi scappare il guadagno
sicuro oggi per inseguire un guadagno incerto nel domani. In questo
intento viene rimanipolata la celebre favola esiodea dello sparviero e
dell’usignuolo (Esopo 4 H.; forse in Babrio 212). L’usignuolo per sal-
varsi fa presente allo sparviero che un uccello così piccolo non può ri-
empirgli lo stomaco: acchiappi qualche uccello più grosso; ma lo
sparviero preferisce la preda presa a quella da prendere. Identica con-
clusione nella favola del pescatore e del pesciolino (Esopo 18 H.;
Babrio 6). Invece il lupo che ha acchiappato il cane dormiente si lascia
convincere a lasciarlo finché non si sia ingrassato al banchetto di noz-
ze del padrone; passato il tempo stabilito, il lupo ricorda al cane la

84
  Sulla temerità di chi non ha acquistato esperienza cfr. le favole medievali Il volpacchio
sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296, n. 3 (14) = 704 P.), che presuppone il Roman de
Renart, e L’uomo, il leone e il leoncino (Herv. II, pp. 297-300, n. 5 (16) = 706 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 303

promessa: «Un’altra volta non aspetterò le nozze» (Esopo 137 H.). Il


gracchio affamato aspetta che i fichi maturino; ma la volpe: «La spe-
ranza non ha mai riempito la pancia a nessuno» (Esopo 128 H.). Il le-
one che lascia la lepre già acchiappata per acchiappare il cervo resta con
gli artigli vuoti (Esopo 153 H.).
L’aspetto per così dire pragmatistico di questa mentalità è chiaro
soprattutto in una favola citata da Luciano (Herm. 84): un tale, seduto
sulla spiaggia, cerca di contare le onde; ma ogni tanto perde il conto e
si affligge terribilmente; allora la volpe: «Che t’importa delle onde pas-
sate? Comincia a contare dalle onde che hai davanti!».
Parlare di empirismo e di pragmatismo a proposito della favola
esopica è un modo d’intendersi, i termini sono eccessivi: empirismo,
pragmatismo sono delle concezioni generali della realtà che distruggo-
no altre concezioni sistematiche, ma affrontando e risolvendo i proble-
mi che esse pongono. Si può negare la purezza e l’assolutezza della
conoscenza, svelando la radice pratica più o meno lontana, ma bisogna
spiegare come il valore della conoscenza pura sia nato nell’uomo. La
favola esopica, pur contenendo in nuce una concezione diversa e in una
certa misura opposta a quella di gran parte della cultura aulica antica,
ignora i problemi della cultura filosofica ed è quindi inerme di fronte
a essa: inutile dire quanto ciò abbia limitato la sua efficacia, anche se
ciò ha fatto sì che essa non incontrasse quella resistenza accanita in-
contrata, per esempio, dall’epicureismo. Per il suo pragmatismo fram-
mentario, spicciolo la mentalità esopica resta indietro anche a quella
esiodea. Il contadino esiodeo ha pur sempre una sua piccola attività
economica organizzata, che è il centro della precettistica; nella favola
esopica, malgrado l’esempio della formica che fatica e mette in serbo
per l’inverno, malgrado la stima per il lavoro, un centro del genere, cioè
la continuità data dalla piccola economia agricola, non esiste: essa
sembra affondare le radici in strati sociali di economia più precaria.

9. Il potere della Fortuna e l’immutabilità della società umana

Il pragmatismo spicciolo, la mancanza di larghe prospettive, il senso


di angustia ben si accordano con un’altra caratteristica essenziale della
mentalità esopica: la rinuncia a modificare la realtà. La morale esopica
consiste quasi sempre nell’adattarsi, in modo da non perire, a un mon-

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304 Capitolo settimo

do sostanzialmente immutabile nei suoi vizi: accettazione, rassegna-


zione sono apparse sempre evidenti in questo mondo esopico. Anche
la fiducia nell’educazione è molto rara: queste favole che dovevano
andare a finire tra i progymnasmata retorici, non infondono la minima
fiducia pedagogica, sicché si è indotti a non negare ogni ragione a
Rousseau nella sua troppo pedantesca polemica contro La Fontaine:
domina in esse la convinzione che i vizi sono naturali e immutabili.
Zeus elegge la volpe a re degli animali e vuol provare se essa con la
nuova sorte ha perduto la sua ribalderia: mentre il nuovo re è portato
in lettiga, gli fa volare vicino uno scarafaggio; il re, senza nessun rite-
gno, balza per acchiapparlo (Esopo 109 H.). Le favole che svolgono lo
stesso motivo non sono poche, né nell’antichità né nel Medioevo. L’e-
tiope a forza di lavarsi e strofinarsi può ammalarsi, ma non diventerà
mai bianco (Esopo 274 H.). La donnola che, innamorata di un giova-
notto, è stata mutata da Afrodite in ragazza e ha sposato il giovanotto,
appena vedrà un topo gli salterà su per mangiarselo (Esopo 50 H.;
Babrio 32)85. L’uovo di un bozzagro, anche se covato da uno sparviero,
produrrà sempre un bozzagro (favola medievale in Herv. IV, pp. 437-
438, n. 51 = 644 P.). Una delle novelle più divertenti penetrate fra le fa-
vole esopiche è quella della donna col marito ubriacone (Esopo 278 H.).
Trovatolo una volta ubriaco fradicio da parere morto, se lo carica sulle
spalle e lo porta in una camera mortuaria. Quando pensa che sia rin-
venuto, bussa alla porta. «Chi è?». «Sono colui che porta da mangiare
ai morti». «Non da mangiare devi portarmi, ma da bere!». Sull’immu-
tabilità dei vizi umani si fonda anche il saggio e complicato calcolo
dell’autore del testamento enigmatico (Fedro IV 5)86.
Un apologo, a spiegare la malvagità incorreggibile di tanti uomini,
immagina che Prometeo in principio creasse troppi animali feroci e trop-
po pochi uomini e che allora Zeus gli facesse cambiare in uomini una
parte degli animali feroci: ma le anime erano le stesse (Esopo 228 H.).

85
  La favola presenta qualche somiglianza, che può essere anche casuale, con una del
Pañcatantra, la quale si ritrova, abbreviata, nella favola medievale La topolina che cerca ma-
rito (Herv. IV, p. 234, n. 63 = 619 P.).
86
  Cfr. ancora La formica (Esopo 175 H.); Il pastore e il lupo allevato insieme con i cani (Eso-
po 276 H.); Le scimmie danzatrici (Luciano, Pisc. 36 = 463 P.); Giunone, Venere e la gallina
(Fedro, App. 11); Isengrino monaco (Herv. IV, p. 195, n. 22 = 595 P.); Il lupo che si confessa
(Herv. IV, p. 406, n. 2 (37) = 641 P.); Il soldato e il frate (Herv. IV, p. 407, n. 6 (41) = 642 P.);
Il lupo che impara a leggere (Herv. II, p. 642, n. 124 = 688 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 305

È una delle tante illusioni che si muti la natura cambiando luogo.


Il motivo si trova nella favolistica medievale, non ancora in quella clas-
sica, ma è inutile dire che è pienamente consono con l’ispirazione di
questa. Una delle più divertenti favole medievali (Herv. II, p. 556,
n. 13 = 654 P.) racconta di una specie di guerra scoppiata tra lo sparvie-
ro da una parte e l’aquila e gli altri uccelli dall’altra. Lo sparviero si
rifugia in un buco scavato in una rupe. L’aquila e i suoi baroni tengono
consiglio per decidere chi debba tirar fuori dal buco lo sparviero; si
sceglie la gru a causa del suo lungo collo. Ma quando la gru introduce
il collo nel buco, lo sparviero lo serra tra gli artigli: la gru dalla paura
se la fa addosso e sporca anche l’aquila e gli altri uccelli vicini. Dalla
vergogna decide di andarsene in esilio in una regione lontana e scono-
sciuta. Durante il viaggio incontra in alto mare il gabbiano, al quale
racconta la disavventura; ma il gabbiano: «Forse che andando in esilio
lasci in patria il sedere?», e la convince a tornarsene in patria87.
Scarsissima, come dicevo, la fiducia nell’educazione, nei consigli. Il
serpente e il granchio vivono insieme. Il granchio non risparmia sforzi
per rendere il serpente semplice e leale; giacché la fatica è sprecata, il
granchio si sdegna e un giorno, mentre il serpente dorme, lo afferra
alla gola e lo ammazza. Il serpente morto è steso diritto, non fa una
piega: «Non ora che sei morto dovevi abbandonare la tortuosità, ma
quando mi affannavo a consigliarti» (Esopo 211 H.). Naturalmente già
la favola antica conosce la figura dell’asino testardo, che va a finire nel
precipizio malgrado gli sforzi del padrone (Esopo 197 H.; Babrio 162)88.
La condizione in cui ciascuno si trova a vivere è una seconda natu-
ra, immutabile quanto la prima. Gli asini mandano un’ambasciata a
Zeus perché li liberi una buona volta da quelle fatiche incessanti. Zeus
risponde con una beffa: li libererà quando con le loro orine formeran-
no un fiume; perciò, spiega il favolista, quando un asino vede orinare
un altro, orina anche lui (Esopo 196 H.). Ancora più beffarda la puni-
zione che colpisce i cani, i quali anch’essi mandano ambasciatori a Gio-
ve per liberarsi dall’oppressione e dagli insulti degli uomini (Fedro IV

87
  Simile, e certamente in qualche rapporto con questa, la favola La cicogna e il suo becco
(Herv. IV, p. 185, n. 11 = 590 P.).
88
  Si confronti anche Il contadino e il giovenco (Aviano 28); Il vitello e il cervo (Babrio 156):
anche se il cervo si sa più veloce dei cani, a sentirli smarrisce il senno.

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306 Capitolo settimo

19). Abbiamo già visto89 quanto giusta sia riconosciuta la punizione del
cane, che, nato e cresciuto nel letame, ha osato desiderare regales opes
(Fedro I 27). La favolistica medievale irride senza pietà il villano por-
tato fuori del suo ambiente. Un contadino invitato dal padrone a ban-
chetto arriva davanti alla porta assetato, vi trova dell’acqua sporca e la
beve, benché consigliato di astenersene; entrato, non tocca nessuno dei
cibi deliziosi e vomita sulla mensa (Herv. IV, p. 266, n. 3 = 629 P.). Un
altro contadino, venuto in città, sviene per gli odori delle spezie; i me-
dici non sanno come farlo rinvenire: ci riesce solo un tale mettendogli
sotto il naso un po’ di letame (Herv. IV, p. 283, n. 47 = 630 P.).
Invece nel mondo esopico ha debole eco un motivo che si può con-
siderare il più importante, il più diffuso e il più trito della cultura an-
tica, quello della ineluttabilità del fato. E ciò si spiega facilmente: il
ricorso al fato porta in una sfera religiosa che è estranea, come abbiamo
visto, alla mentalità esopica. È penetrata anche tra le favole esopiche
qualche rara fiaba tragica, come quella del bambino che non si riesce a
sottrarre alla profezia secondo la quale egli sarebbe morto a causa di un
corvo (Esopo 171 H.; forse in Babrio 230), e l’altra, molto simile, del
ragazzo che non riesce a evitare la profezia della morte a causa di un
leone (Esopo 279 H.; Babrio 136): troppo poco, e poco esopico.
Posto più importante ha la mutevole Fortuna. I pescatori, dopo lun-
ghe fatiche inutili, siedono scoraggiati nella barca, quando all’improv-
viso un tonno inseguito cade loro a portata di mano (Esopo 21 H.). Un
contadino, scavando, ha trovato dell’oro: ne ringrazia la Terra; ma la
Tyche protesta e lo rimprovera: «Quando le cose vanno bene, ringrazi
la Terra; quando vanno male, te la pigli con la Fortuna!» (Esopo 61 H.).
Delle accuse ingiuste la Fortuna si lagna col viandante, che, stanco, si
è addormentato sull’orlo di un pozzo: «Svegliati! Se fossi cascato, non
avresti accusato la tua infingardaggine, ma la Fortuna!» (Esopo 184
H.). Ma in altri casi la colpa è veramente della Fortuna: per colpa
della Fortuna l’eunuco è quello che è, ed è stolto rinfacciargli la sua
impotenza (Fedro III 11). Il sorriso ironico e maligno della Fortuna
spunta in varie favole di Fedro: il pettine è trovato da due calvi
(V 6), la perla dal pollo (III 12), la lira dall’asino (App. 14). Non è ca-
suale l’insistenza di Fedro su questo motivo.

89
 Cfr. supra, p. 264.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 307

Questo concetto banale della fortuna può apparire contraddittorio:


ora essa è colpevole, ora non lo è. Una concezione coerente della for-
tuna è difficile a trovarsi anche negli storici: tanto meno possiamo
aspettarci la coerenza, in questo caso, dalla mentalità esopica, tanto
lontana da esigenze sistematiche. In ogni modo si può dire che, come
in parecchi storici antichi, così nella favolistica né il potere della fortu-
na né quello degli impulsi umani è assoluto: il mondo umano è
quest’urto molteplice e imprevedibile dei bisogni umani e di forze con-
trollabili solo in parte: in un caso la responsabilità è della stoltezza
umana, in un altro no; lungi dall’escludersi, attività umana e fortuna
sono correlative in questa concezione non religiosa della vita. In un
mondo controllabile solo in parte, che ci sfugge continuamente, ha
grande importanza la percezione del momento giusto, dell’occasione,
del kairós: la più bella immagine dell’occasione che sia mai stata data
si trova forse in una delle più brevi e succose favole di Fedro (V 8).
Anche l’adattamento alle varie situazioni, come quella, per esempio,
del pipistrello che per salvare la vita ora si fa passare per uccello ora per
topo (Esopo 182 H.; vi si riferisce Varrone in una delle Menippee,
Agath. fr. 13 B.), nasce da questo spirito pragmatistico.
All’accettazione di una natura sostanzialmente immutabile, alla ras-
segnazione si unisce spesso l’irrisione degli sforzi di contrastare col più
potente o di mutare il proprio stato (cioè, soprattutto, la propria condi-
zione sociale): la mentalità esopica, che non apprezza l’eroismo in ge-
nere, è spietata verso l’eroismo inutile. Anche all’accorta volpe incoglie
male, se vuole afferrare il rovo (Esopo 19 H.; forse in Babrio 202). Tut-
ti ricordano la favola della donnola (o della vipera) che vuol leccare (o
mordere) la lima (Esopo 59 H.; 95 H.; Fedro IV 8). L’asino che sfotte
il cinghiale la passa liscia solo perché il cinghiale non si degna, con una
troppo facile vendetta, di sporcarsi del suo sangue di vigliacco (Fedro
I 29). Molto più cauto il montone di una favola medievale (Herv. II,
p. 312, n. 36 = 714 P.). Il lupo trova aperta la porta ed entra nell’ovile.
«Maledetto colui che avrebbe dovuto chiudere la porta!» mormora il
montone. «Dici a causa mia?» chiede il lupo. «Absit hoc, domine mi! Ma
avrebbe potuto entrare qualchedun altro»90. Chi si piega al potente si

90
  Cfr. ancora La gara di Zeus e di Apollo (Esopo 106 H.; Babrio 68); Il leone chiuso nella
stalla e il contadino (Esopo 149 H.); la novella dei due adulteri tratta dal cod. Laur. 57, 30
(= 420 P.).

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salva, chi resiste è distrutto: il vento non distrugge la canna, sradica la


quercia (Esopo 71 H.; Babrio 36).
Tra le più significative per la mentalità esopica e giustamente cele-
bre è la favola della rana e del bue (Babrio 28; Orazio, Sat. II 3, 314 ss.;
Fedro I 24). Strettamente affini sono quelle del verme (Esopo 237 H.)
e della lucertola (Babrio 41) che vogliono raggiungere la lunghezza del
serpente. Il gracchio che vuol predare come l’aquila viene acchiappato
e finisce zimbello dei bambini (Esopo 2 H.; Babrio 137). Lo scarafaggio
di una favola medievale (Herv. II, pp. 551-552, n. 7 = 650 P.), che disde-
gna il suo letame e vuole imitare l’aquila, viene buttato dal vento in
terra ignota e per lui sterile e rimpiange il suo letamaio91.
Usurpare la condizione non propria porta alla rovina. Il gracchio
che si è insinuato tra le colombe, riconosciuto dalla voce, viene caccia-
to; torna allora fra i gracchi ma questi lo cacciano a loro volta (Esopo
131 H.). La semplice ambizione di uno stato diverso può essere amara-
mente punita. Poiché il cammello chiede le corna del toro, Zeus non
solo gli nega le corna, ma gli accorcia anche le orecchie (Esopo 119 H.;
Babrio 161)92.
I tentativi di assolvere compiti diversi da quelli propri o troppo
gravi per le proprie forze nel miglior caso restano inutili, per lo più si
concludono infelicemente. Lo abbiamo già visto a proposito della va-
nagloria93; ma l’irrisione resta anche dove vanagloria non c’è: giacché,
anche se non c’è vanagloria, è degna di riso la semplice illusione di
superare i propri limiti. Il cammello che vuol ballare come la scimmia
è preso a botte (Esopo 85 H.). Il capretto, inseguito dal lupo, sul pun-
to di essere acchiappato, lo prega di suonare un po’ di flauto e di farlo
ballare prima di morire; al suono del flauto accorrono i cani: «Ben mi
sta! Se sono macellaio, non dovevo fare il flautista!» (Esopo 99 H.).
Affine la favola del lupo che vuole far da medico all’asino (Esopo 198
H.; Babrio 122). La tartaruga non vuole convincersi che non può vola-
re come l’aquila, e alla fine l’aquila la butta a sfracellarsi su un sasso
(Esopo 259 H.; Babrio 115). Piangono gli occhi che vogliono attribuir-
si le funzioni della bocca (Dione Crisostomo, Or. 33, 16 de Budé = 461 P.;

91
  Cfr. anche due favole di Aftonio, I nibbi e i cigni (3 = 396 P.); Il corvo e il cigno (40 = 398 P.).
92
  Affine, sia pure con sviluppo e conclusione diversa, la favola medievale La lepre che
chiede le corna (Herv. II, pp. 559-560, n. 19 = 658 P.).
93
 Cfr. supra, pp. 269 ss.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 309

ognuno nota l’affinità col famoso apologo dello stomaco e delle mem-
bra). Nulla stringe il nibbio che vuole predare con la stessa misura
dello sparviero (favola medievale in Herv. IV, p. 211, n. 38 = 604 P.)94.
Saggio, invece, il cammello che il suo padrone vorrebbe costringere
a ballare: «Come posso essere bello nella danza, se sono brutto an-
che a camminare!» (Esopo 142 H.; Babrio 80).
Certe volte il solo abbandonare il proprio ambiente porta a rovina.
Il granchio abbandona il mare per la spiaggia e finisce fra le mascelle
della volpe (Esopo 118 H.; forse in Babrio 208). Il laro scoppia nella
gola per un pesce inghiottito e casca stecchito sulla spiaggia: «Giusta
morte» commenta il nibbio. «Nato volatile, hai voluto trovare cibo sul
mare!» (Esopo 144 H.)95.
Giacché è assurda la pretesa di assolvere compiti diversi dai propri,
è assurda anche la pretesa di essere trattato come chi assolve compiti
più alti. L’asino invidia il trattamento riservato al cane e si vendica a
calci; ma il padrone lo fa caricare di botte (Esopo 93 H.; Babrio 129).
L’asino protesta perché il mulo riceve razione doppia di cibo; ma un
po’ più avanti nel viaggio l’asino non ce la fa più e il carico va a finire
tutto sul mulo: «Ti pare ora che il mio trattamento sia immeritato?»
(Esopo 204 H.)96.
Oltre a irridere la ribellione la favola esopica cerca talora, in vari
modi, di presentare questo mondo come tollerabile, se non piacevole.
Bene serve a questo intento la riflessione su condizioni peggiori della
propria. È nota la favola delle lepri che, disperate per la loro debolezza
e paura, vorrebbero ammazzarsi, ma ci rinunziano quando constatano
che le rane sono più vili di loro (Esopo 143 H.; Babrio 25). Molto affi-
ne la favola dell’asino e delle rane (Esopo 201 H.). L’asino, carico di
legna, è cascato in uno stagno e, non potendo rialzarsi, geme e piange;

94
  Cfr. anche Il leone e il delfino alleati (Esopo 150 H.); La scimmia e i pescatori (Esopo 219 H.;
Babrio 157); L’asino che gioca (Babrio 125); Il lupo infelice, la volpe e il mulo (Herv. II, p. 272,
n. 26 = 693 P.); Il giovane verro (Herv. II, pp. 273-274, n. 27 = 694 P.); Gli infortuni del lupo
(Herv. II, pp. 284 ss., n. 36 = 699 P.); Il volpacchio sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296,
n. 3 (14) = 704 P.). In alcune di queste favole si mette in rilievo anche l’inesperienza.
95
  Il racconto parrebbe più logico, se le parti del nibbio e del laro fossero invertite: che il
laro (o il gabbiano) si nutra di pesce, non dovrebbe essere strano. Ma non si può andare al
di là di una supposizione.
96
  Cfr. anche La volpe che fa da aiutante al leone (Aftonio 20 = 394 P.); Il pappagallo e la
donnola (Esopo 261 H.).

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310 Capitolo settimo

e le rane: «Per un po’ che resti nello stagno piangi tanto: che avresti
fatto se avessi dovuto restarci quanto noi?». Il leone si lamenta con
Prometeo perché, pur avendolo armato al meglio, l’ha fatto tale da aver
paura del gallo; ma si consola quando constata che l’elefante può mo-
rire per una mosca, se gli si ficca nell’orecchio (Esopo 292 H.). Anche
la pernice prigioniera, maltrattata, picchiata dai galli, si consola quan-
do vede che i galli si picchiano anche tra di loro (Esopo 23 H.; forse di
origine babriana 213). Graziosa è la favola di età carolingia del vitello
che si lagna perché da tre giorni non succhia latte: «Io – dice la cico-
gna – non ne succhio da tre anni». Vero è che il vitello ribatte: «Di che
cibo ti nutri lo dimostrano le tue gambe!» (586 P.). O ci si può consola-
re a vedere il malfattore trascinato con noi nella rovina, come il tonno
che, inseguito dal delfino, lo vede perire insieme con sé (Esopo 115 H.).
Con l’abitudine il male diventa sopportabile. Un ricco, che ha pre-
so casa accanto alla bottega di un calzolaio, non riesce a sopportarne il
puzzo e preme per farlo trasferire; il calzolaio promette e tergiversa:
alla fine il ricco si è abituato al puzzo e non sta più a seccarlo (Esopo
220 H.; Babrio 146).
Il dolore, il male vanno accettati, perché inseparabili dalla gioia e
dal bene. La verità, che già il Socrate platonico (Fedone 60 b) illustra
con una graziosa favola esopica, ritorna poi più volte, quale argomento
consolatorio, nei favolisti (I pescatori che hanno pescato un sasso: Esopo
13 H.; forse da Babrio 209; I beni e i mali: Babrio 184; forse si può av-
vicinare la favola medievale L’uomo che vende il cavallo insieme col capro-
ne: Herv. II, pp. 600-601, n. 54 = 674 P.).
La polemica contro la mempsimoiria, che ha tanta parte nella dia-
triba e nella satira antica, non è comune nella favola esopica, ma non
ne è assente, e ben si accorda con questa tendenza consolatoria. Il
cacciatore e il pescatore si scambiano il mestiere; per un po’ di tempo
va meglio, ma presto l’abitudine fa tornare la noia e ciascuno desidera
il mestiere precedente (Babrio 61). Al pavone che si lagna della sua
sorte e desidera il canto dell’usignuolo Giunone spiega con quanta
giustizia siano distribuiti i pregi tra gli uccelli (Fedro III 18). La famo-
sa storiella dell’uomo dalle due figlie, l’una sposata a un ortolano, l’al-
tra a un vasaio, che dimostra l’inconciliabilità dei desideri degli uomi-
ni, ci proviene dalla favolistica esopica (Esopo 96 H.; forse anche in
Babrio 228, dove c’è la madre al posto del padre). Che i desideri degli

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 311

scontenti non possano essere esauditi dev’essere considerato un bene:


se per un miracolo lo fossero, chi sa quali strani guai gli scontenti si
procurerebbero! Si ricordi la favola fedriana (App. 4) di Mercurio e
delle due donne, che ha qualche affinità col famoso fabliau Les quatre
souhaits Saint-Martin e con gli affini racconti orientali97 (il fabliau si
ritrova poi anch’esso nella novellistica latina medievale: Tres optationes
in Herv. II, pp. 597-598, n. 47 = 668 P.).
Accontentarsi del proprio stato è consigliabile, perché il tentativo
di migliorarlo non solo è illusorio, ma può portare a peggiorarlo. Que-
sto è già evidente in alcune favole richiamate prima; ma vale la pena
ricordarne qualche altra. Le ancelle che la padrona esigente fa alzare al
canto del gallo, pensano di poter dormire più a lungo torcendo il collo
al gallo; ma senza il gallo la padrona le sveglia ancora più presto (Eso-
po 55 H.). Il cervo per fuggire i cacciatori va a finire nella tana del leo-
ne (Esopo 78 H.; forse di origine babriana 210). Il gracchio che un
bambino tiene legato a un filo riesce a scappare; ma il filo resta salda-
mente impigliato a certi rami e il gracchio muore: «Me sciagurato, che
per liberarmi dalla schiavitù ho perduto anche la vita!» (Esopo 133 H.).
L’asino di un ortolano prega Zeus di farlo passare ad altro padrone;
passa a un vasaio, poi a un calzolaio, ma solo per accorgersi che ogni
padrone è peggiore del precedente (Esopo 190 H.; da Babrio 201). I
buoi preparano una battaglia per ammazzare i macellai; ma un vecchio
tra loro, che ha arato molta terra: «Questi almeno conoscono l’arte di
ammazzarci; morire per la mano di un inesperto significa morire due
volte» (Babrio 21). In alcune di queste favole l’autore ammonisce gli
schiavi: più esplicito l’ammonimento in una favola di Fedro (App. 20).
Uno schiavo si lamenta con Esopo delle sue fatiche incessanti, dei
maltrattamenti che subisce senza colpa, della sua fame: ha deciso di
scappare; ma Esopo: «Ora che sei senza colpa, ti trattano in codesto
modo; quando ti sarai reso colpevole della fuga, come ti tratteranno?».
È una favola agghiacciante98.

97
 Cfr. Bédier, Les fabliaux, cit., pp. 212 ss., 471-472.
98
  Cfr. anche L’alcione (Esopo 25 H.; forse in Babrio 225); Il bifolco che ha perduto il vitello,
e il leone (Esopo 49 H.; Babrio 23); Il contadino che chiede a Dio un altro cavallo (Herv. II,
p. 596, n. 44 = 665 P.), alquanto simile alla precedente; I pesci saltati dalla padella nella brace
(Abstemio 20 = 725 P.).

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312 Capitolo settimo

S’intende che nella morale del contentarsi di poco, nell’elogio della


vita povera, senza ambizioni, ma senza pericoli la favola esopica si
incontra con larghe correnti della filosofia antica, sia aulica che popo-
lare, e specialmente col cinismo, con la «filosofia degli straccioni»:
quasi inutile dire che a quest’incontro soprattutto si deve il favore del-
la favola nella diatriba e, quindi, in non piccola parte la diffusione
della favola nella cultura antica. Non c’è bisogno di ricordare la favola
del topo di campagna e del topo di città (Orazio, Sat. II 6, 79 ss.; Ba-
brio 108) o quella del lupo e del cane (Fedro III 7; Babrio 100; cfr.
anche L’asino selvatico e l’asino domestico: Esopo 194 H., del tutto ana-
loga; Il cane da caccia e gli altri cani: Esopo 180 Ch., forse di origine
babriana 153; cfr. 329 P.). L’asino invidia il trattamento sontuoso riser-
vato al cavallo finché il cavallo non affronta i pericoli della guerra
(Esopo 272 H.; da Babrio 7). Il pastore vuole impadronirsi del miele,
ma deve affrontare le api: «Me ne vado: meglio senza miele che avere
a che fare con le api» (Aftonio 27 = 400 P.)99.
Ma l’incontro nasconde una differenza essenziale di ispirazione: per
il cinismo e per altre filosofie il valore della vita povera sta nell’affer-
mazione del valore dell’αὐτάρκεια, dell’autosufficienza dell’uomo, del-
la sua indipendenza dal mondo esterno, della sua autonomia spiri-
tuale; tutto ciò è estraneo alla mentalità esopica: per i favolisti la
superiorità della vita povera e tranquilla si fonda solo su un calcolo
utilitario, sulla considerazione che lo stato sociale è immutabile, che il
tentativo di mutarlo può portare rovina sì, vantaggio mai. Il calcolo
utilitario, si obietterà, non manca nella filosofia: ma lì non è l’essenzia-
le. Lo stesso si dica per il principio dell’adattabilità a varie situazioni:
nella filosofia (di un Aristippo, per esempio) esso si fonda sulla libertà
dell’uomo, che si adatta a varie situazioni senza lasciarsi dominare da
nessuna; nella versatilità esopica si tratta solo di un gioco di astuzia di
chi sa che non può affrontare di petto e mutare certe situazioni. Ora-
zio, come tanti altri, ha fatto tutt’uno del suo amore per l’angolo beato
e della rassegnazione del contadino: ma è un’illusione di Orazio e del-
la cultura aulica antica, rimasta fortissima in tutta la letteratura euro-
pea fino, si può dire, a un secolo fa; la favola esopica sa l’amarezza di
questa rassegnazione: si noti, tra l’altro, come in queste favole che per

99
  Cfr. anche la favola medievale dell’asino e del porco (Herv. IV, p. 207, n. 33 = 600 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 313

lo più hanno scenario campestre, il fascino idilliaco della campagna,


così potente nella cultura antica ed europea, non estraneo, in qualche
raro momento, neppure al contadino esiodeo, delizioso in certe descri-
zioni di La Fontaine, non si avverte mai. Il cliente dei potenti di Roma
conosce della campagna gli ozi e gli agi, per quanto modesti; il topo
rustico, cioè il contadino, ne conosce la fatica, le angustie economiche,
gli stenti.
Che l’elogio della vita povera abbia ispirazione utilitaria è chiaro
pure dall’insistenza sul motivo (anch’esso comune con la diatriba) che
il potente è colpito più facilmente dell’umile. I pesci piccoli sfuggono
dalla rete, i pesci grossi ci restano (Babrio 4). Dei due muli assaliti dai
briganti si salva quello carico di orzo, viene ammazzato quello che,
tutto orgoglioso, porta l’oro (Fedro II 7). Assalite dai cacciatori, le gru
si salvano grazie alla loro magrezza, le oche per la loro pinguedine
vengono acchiappate (Esopo 256 H.; Babrio 196)100.
Se i rapporti tra gli umili e i potenti non possono essere rovesciati
né modificati, può pur succedere, per una specie di paradosso della
natura, che il piccolo incuta paura al grande o che sia invulnerabile
proprio perché piccolo e inafferrabile. Il cammello non può essere elet-
to re degli animali, perché, pur grosso com’è, non ha fegato, l’elefante
perché ha paura del porcellino (Esopo 246 H.). Né l’atleta né Eracle
suo protettore possono nulla contro la pulce (Esopo 260 H.; forse in
Babrio 216); il toro non può nulla contro il topo (Babrio 112). Una favo-
la medievale di salace comicità narra la guerra perduta da lupi e bestie
feroci contro scarafaggi e vespe (Herv. II, p. 560, n. 20 = 659 P.)101.
Questa considerazione, la quale in parte coincide con l’altra che la
forza del potente è pur sempre esposta all’astuzia dell’umile o che il
potente può essere superato dalla diligenza e dall’accortezza dell’umi-
le102, serve a esortare il potente alla moderazione, alla clemenza, al pa-

100
  Cfr. le favole già citate La quercia e la canna (supra, p. 308); I topi e le donnole (supra,
p. 270). Fedro (IV 23) introduce fra le sue favole un aneddoto su Simonide volto a illustra-
re la massima mecum mea sunt cuncta. La punizione dell’orgoglio del ricco è affidata alla
divinità in Sintipa 31 = 413 P. (Il fico e l’olivo).
101
  Cfr. anche la favola medievale di origine indiana, già citata (p. 304), della topolina che
cerca marito: il topo è il più forte di tutti, perché buca la montagna. In alcune di queste
favole, s’intende, sono esaltate l’astuzia e l’agilità contro la forza bruta.
102
  Oltre alle favole già citate come quella dell’aquila e della volpe (supra, p. 276), dell’aqui-
la e dello scarafaggio (supra, p. 284), della tartaruga e della lepre (supra, p. 300) cfr. Il basi-

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314 Capitolo settimo

ternalismo: non bisogna sentirci (tranne forse agli inizi della favola
greca, in Archiloco, in Semonide di Amorgo) un’affermazione vigoro-
sa dei diritti dell’umile: affiora insomma nella favola esopica, senza
scuotere la fondamentale convinzione che la violenza non può essere
eliminata dal mondo, una certa tendenza a mutare i rapporti di forza
in rapporti paternalistici. Ciò è più chiaro in quelle rare favole dove la
clemenza del potente viene compensata dalla gratitudine dell’umile. Il
leone preso dai cacciatori viene salvato dal topolino a cui un giorno ha
risparmiato la vita (Esopo 155 H.; Babrio 107). Quasi altrettanto nota
è la favola della formica che, salvata dalla colomba mentre stava per
affogare, salva a sua volta la colomba mordendo al piede il cacciatore
che sta per colpirla (Esopo 176 H.).
In questa tematica dei rapporti tra il forte e il debole, tra il potente
e l’umile l’ispirazione politica e sociale non lascia dubbi; ma non ab-
biamo ancora toccato le favole in cui essa è più marcata. Il convinci-
mento che la propria condizione non può essere mutata, che il tenta-
tivo di mutarla porta, se mai, al peggio si riferisce esplicitamente anche
al governo. Su tale convincimento si fonda la celebre favola delle rane
che chiedono un re (Esopo 44 H.; Babrio 174; Fedro I 2). La più inte-
ressante è una citata da Aristotele nella Retorica (II 20). Una volpe,
attraversando un fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto
dirupato, donde non può uscire; le zecche la coprono e le succhiano il
sangue. Capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle
zecche: «Ti prego di no» risponde la volpe: «queste qui sono già rim-
pinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora affa-
mate». Tra le favole che ci fanno sentire l’infinita forza di sopportazio-
ne e l’assenza di ogni speranza delle classi umili antiche ha rilievo
quella fedriana (I 15) dell’asino e del vecchio pastore. Un vecchierello
pauroso pascola un asino. Si sentono le grida dei nemici che arrivano.
«Scappiamo, ci acchiappano!». Ma l’asino, senza scomporsi: «Perché
scappare? Un nuovo padrone non mi metterà mica due basti!». Il servo
sarà sempre oppresso dal padrone: cambiar padrone è, quindi, del tut-
to indifferente. Può accadere, se mai, che delle lotte fra i dominanti
subiscano le conseguenze dolorose gli oppressi (Le rane preoccupate per

lisco sopra l’aquila (Plutarco, Praec. reip. ger. 12, 806 e  =  434 P.); La gara dell’aquila e del topo
circa la forza della vista (Herv. IV, pp. 378-379, n. 23 (57) = 639 P.).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 315

le battaglie dei tori: Fedro I 30): ma neppure in questo caso gli oppres-
si possono farci niente.
Sul terreno politico molto più decisamente che nel resto dalla ri-
nunzia alla lotta si passa alla giustificazione dell’ordine costituito: la
giustificazione si fonda soprattutto sul concetto che senza chi governa
o chi difende tutto va in rovina. Le pecore che fanno alleanza coi lupi
e consegnano loro i cani preparano il proprio macello (Esopo 158 H.).
La pecora si lamenta col pastore perché lei che dà tutto è trattata par-
camente, il cane con abbondanza; e allora il cane le spiega la necessità
dell’esercito (Senofonte, Mem. II 7, 13 = 356 a P.; Babrio 128). La volpe
che serve il leone per avvistare o scovare la preda si lagna della disegua-
glianza nella distribuzione delle parti e si mette a cacciare da sé: finisce
presto nelle mani dei cacciatori (Aftonio 20 = 394 P.). L’asino selvati-
co vanta contro l’asino domestico la propria libertà; arriva il leone:
l’asino domestico, difeso dal padrone, si salva, l’asino selvatico viene
sbranato (Sintipa 30 = 411 P.); è la favola contraria a quella fedriana,
ricordata sopra, del lupo e del cane. Al famoso apologo di Menenio
Agrippa, che naturalmente non manca nelle raccolte esopiche (132 H.),
somiglia in tutto tranne che nei personaggi la favola babriana (134) che
racconta la rivolta della coda del serpente contro le membra; e press’a
poco lo stesso significato doveva avere l’apologo che Plutarco (Themi-
st. 18 = 462 P.) attribuisce a Temistocle: il giorno di lavoro si lagna
contro il giorno di festa: «Io sono carico di noie e di fatiche, tu riposi
e mangi quello che io produco»; e il giorno di festa: «È vero; ma, se
non ci fossi stato prima io, non ci saresti neppure te!». L’epimitio spu-
rio di Babrio 40 non sembra interpretare male la favola del cammello
che traversa il fiume. Nel traversare il fiume violento il cammello sca-
rica il peso del ventre e si vede passare avanti i propri escrementi: «Va
male! La mia parte posteriore è diventata anteriore». L’epimitio la ri-
ferisce alle città in cui la feccia è al potere. Un’ispirazione contraria mi
pare di sentire solo nella favoletta medievale del gatto, del topo e del
cacio (Herv. IV, p. 194, n. 21 = 594 P.): un tale vede nella sua dispensa
un topo che mangia il formaggio; allora ci fa entrare il gatto che spaz-
za via topo e formaggio.
In queste favole è implicito che l’uguaglianza è un’assurdità: il che
già sapevamo da favole come L’asino e il mulo, I leoni e le lepri, Il regno

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316 Capitolo settimo

clemente del leone103; ed è implicito pure che l’optimum politico è la con-


cordia delle classi, che la discordia dei cittadini, la lotta delle classi
rovinano lo stato. Questa banalità del pensiero politico antico, a cui è
stato quasi sempre estraneo il concetto positivo di rivoluzione, che ha
avuto sempre paura delle res novae, ritorna più volte. Proviene a noi
dalla favola esopica, dov’è attribuito a un contadino che ammonisce i
figli in lite, l’esempio delle verghe che, unite in fascio, nessuno può
spezzare (53 H.). I cani, così vari di razza e di colore, non possono
battersi contro i lupi tutti uguali e uniti (Babrio 85); il leone riesce a
vincere i tre tori mettendoli astutamente in discordia (Esopo 321 H.;
Babrio 44). La più mordente in questo gruppo è una favola probabil-
mente fedriana conservataci in una parafrasi (Romulus IV 6 = 575 P.). I
castroni raccolti assieme vedono entrare tra loro il macellaio, ma fin-
gono di non vederlo. Il macellaio ne acchiappa uno, poi un altro, e così
via, sempre uno alla volta; i castroni ancora liberi intanto dicono l’uno
all’altro: «Me non tangit, te non tangit: trascini pure via chi vuole!». E
così il macellaio arriva all’ultimo castrone, che solo, e troppo tardi,
capisce: «Ben ci sta! Tutti insieme, appena ti vedemmo, avremmo do-
vuto spezzarti a cornate!»104. In una favola come questa si sarebbe ten-
tati di sentire una tendenza degli oppressi a unirsi contro gli oppresso-
ri; ma un’interpretazione del genere non è sicura né in questo caso né
in altri.
A questi temi in conclusione antidemocratici non poteva non ac-
compagnarsi la polemica contro i demagoghi e i tiranni, tema solito
dei conservatori e dei moderati nell’antichità come in tutti i tempi.
La famosa favola del cervo (o del cinghiale), del cavallo e del caccia-
tore che Aristotele (Rhet. II 20) attribuisce a Stesicoro di Imera,
vuole mettere in guardia i cittadini contro il tiranno sorgente (Esopo
238 H.; Fedro IV 4). Dell’altra favola riferita da Aristotele nello stes-
so passo, quella della volpe coperta di zecche, anch’essa di ispirazio-
ne antidemagogica, ho detto poco fa. Per la polemica antidemagogi-
ca sono interessanti anche alcuni degli epimiti, di solito così insipidi,
quando non sballati. Una favola (Esopo 26 H.; forse di origine ba-
briana 219) narra di un pescatore che, non essendo riuscito a prende-

 Cfr. supra, rispettivamente pp. 309, 275 e 287.


103

  Cfr. ancora Eracle e Atena (Babrio 145), sulla rapida crescita della discordia; Polemos
104

marito di Hybris (Babrio 70).

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 317

re niente, con una pietra legata a una fune si mette a picchiare l’acqua
per fare scappare i pesci e farli incappare nella rete. Alcuni dei vicini
si lamentano perché egli intorbida il fiume; ma il pescatore: «Se non
turbo a questa maniera le acque, bisogna che io crepi di fame». L’e-
pimitio interpreta la favola (forse senza ragione, ma l’interpretazione
è interessante) come rivolta contro i demagoghi, che per campare
hanno bisogno di mettere sottosopra le città. Anche la favola del
serpente, della donnola e dei topi105 è riferita dall’epimitio ai dema-
goghi, che si lacerano tra loro, ma poi si uniscono per sfruttare il
popolo che li ascolta106.

10. La maschera comica di un pessimismo senza amarezza

In complesso il mondo esopico, che quasi non conosce il piacere, che


non ha nessuna prospettiva di liberazione, è uno dei più aridi e deso-
lati che si possano immaginare; ma questo pessimismo, che conosce
l’arida e chiusa amarezza, non è quasi mai querulo. Se non v’è l’accet-
tazione serena e vigorosa della vita da cui traggono così alti accenti
poetici Archiloco e Orazio e che presuppone una più approfondita
consapevolezza della necessità delle cose, un più forte interesse specu-
lativo, anche il termine di rassegnazione non traduce esattamente lo
spirito esopico. Le riflessioni pessimistiche sull’uomo, così frequenti e
così frequentemente insipide nella cultura antica, mancano quasi del
tutto: si possono ricordare tutt’al più la favola babriana (58) di Zeus e
del vaso dei beni, che è un rifacimento del mito esiodeo di Pandora,
un apologo riferito da Temistio (Or. 32, p. 434 Dind. = 430 P.), secon-
do cui Prometeo non avrebbe impastato l’uomo di fango e acqua, ma
di fango e lacrime, l’aneddoto fedriano (III 19) su Esopo che sulla
piazza in pieno giorno cerca con la lucerna il vero uomo, evidentemen-

 Cfr. supra, pp. 259-260.


105

106
  Una polemica contro i tiranni, che favoriscono solo i malvagi, è nella favola medievale
del cappone e dello sparviero (Herv. II, p. 350, n. 61 = 646 P.). Una favola contro i reggito-
ri di Corinto è attribuita da Diogene Laerzio II 5, 42 a Socrate, ma dai due versi introdut-
tivi citati non se ne può arguire l’argomento. Appare qualche volta anche la satira, di
senso ben diverso, contro l’amministrazione inetta o corrotta della giustizia: cfr. La rondi-
ne e il serpente (Esopo 255 H.; Babrio 118); Il processo per l’uccisione della gazza (Herv. II,
p. 597, n. 46 = 667 P.).

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318 Capitolo settimo

te ricalcato sull’aneddoto riferito a Diogene107. Il pessimismo esopico


non si effonde in querele né in banalità diatribiche, ma si cela sotto la
maschera del riso, ama la sapida arguzia. Promiti ed epimiti, dove il
lavoro di manipolazione più si fa sentire108, spesso con effetti fastidiosi,
hanno spesso nascosto questo carattere; ma ognuno sente ancora in
tante favole il gusto della risposta arguta, pronta e densa. Il sapore ri-
corda talvolta quella sentenziosità ancora tutta fremente di esperienza
di un Teognide, ancora lontana dall’astrazione esangue: anche questa
cultura del volgo ama le sentenze a colpi di stiletto che nella poesia e
filosofia greca arcaica entusiasmavano Nietzsche.
Non poche ancora sono le favole da cui è difficile cavare una
morale precisa: esse vogliono valere solo o quasi solo per il lampo
della battuta finale o per l’arguzia del dialogo o per la comica stra-
nezza della situazione. Prendiamo la novelletta della vecchia malata
e del medico (Esopo 57 H.). Una vecchia malata d’occhi si fa curare
da un medico; questi approfitta della sua debolezza di vista e a poco
a poco ruba tutto quello che c’è in casa. Guarita la vecchia, il medi-
co chiede il compenso. La vecchia nega, la cosa finisce davanti ai
magistrati: «Avevo promesso di pagarlo – argomenta la vecchia – se
fossi tornata a vederci; ma sto peggio di prima: vedevo tutta la sup-
pellettile della mia casa; ora non vedo niente». Il medico imbroglio-
ne è personaggio di un’altra novelletta divertente (Esopo 180 H.). Il
medico chiede al malato come sta. «Ho sudato un po’ più del neces-
sario». «Buon segno». Alla seconda visita il malato ha brividi di feb-
bre: «Buon segno anche questo». Alla terza visita il malato ha la
diarrea: «Buon segno anche questo», e se ne va. Uno dei familiari
chiede al malato come sta: «A forza di star bene sono crepato!». C’è
in queste favole, si capisce, la satira contro i medici avidi, ladri o
incompetenti, ma non è che questa satira si possa formulare in mas-
sime gnomiche.

107
  A queste favole si può contrapporre quella di Zeus, degli animali e degli uomini (Ba-
brio 155), che svolge il banalissimo luogo comune della superiorità dell’uomo, in quanto
provvisto di ragione, sugli animali. Alla superiorità dell’anima sul corpo può far pensare la
favola della volpe e del leopardo (Esopo 12 H.; Babrio 180); ma essa si riferisce più proba-
bilmente alla superiorità della sostanza sull’apparenza.
108
  Sulla questione cfr. lo studio esauriente di B. E. Perry, The Origin of the Epimythium,
«Transactions and Proceedings of the American Philological Association», vol. 71, 1940,
pp. 391-419. Cfr. anche Marchesi, La morale della favola, cit., pp. 228 ss.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 319

Lite della scrofa e della cagna. La scrofa giura per Afrodite che, se
la cagna non la smette, la farà a pezzi con le sue zanne. «Che dici? Per
Afrodite?! Ma se la dea vi detesta a tal punto che non fa entrare nel suo
tempio chi ha mangiato carne di scrofa!». «Non lo fa mica per odio,
mia cara! Lo fa perché nessuno mi sacrifichi» (Esopo 250 H.). Dioge-
ne a un calvo che lo insulta: «Io non ti insulto, non sia mai! Lodo solo
i capelli che hanno abbandonato il tuo cranio» (Esopo 65 a H.). La
volpe alla leonessa: «In tutto hai fatto un solo figlio!». «Ma leone!»
risponde la leonessa (Esopo 167 H.). Giusta l’interpretazione dell’epi-
mitio: la qualità conta più della quantità; ma il sapore della favola sta
tutto nella prontezza della risposta azzeccata. Un calvo, mentre caval-
ca, il vento gli porta via la parrucca: la gente intorno ride; e il cavaliere,
fermatosi: «Che c’è di strano se scappano i capelli non miei, quando
m’hanno abbandonato i capelli con cui nacqui?» (Babrio 188). Xanto
una volta chiede al suo schiavo Esopo perché mai, quando scarichiamo
il peso del ventre, siamo intenti a guardare quello che esce. Ed Esopo
risponde con una barzelletta. Nei tempi antichi ci fu un re con un figlio
crapulone, il quale naturalmente sedeva a lungo per questi bisogni. Un
giorno mise fuori anche il cervello: da allora guardiamo per paura di
mettere fuori il cervello anche noi. «Ma tu – aggiunge Esopo – non
preoccuparti: il cervello non ce l’hai» (Vita Aesopi 67). Nella risposta ar-
guta molto più che nella morale è il sapore della favola fedriana (I 18)
sulla donna nelle doglie del parto, che non crede si possa curare il male
là dove è stato concepito. Per non dilungarmi aggiungerò solo un aned-
doto penetrato tra le favole medievali (Herv. IV, p. 242, n. 70 a  =  623 P.).
Era costume ad Atene che chi volesse essere considerato filosofo do-
veva sottoporsi a una bastonatura e sopportarla con pazienza. Un tale
si sottopone alla prova, la sopporta bene e alla fine esclama: «Eccomi
veramente degno di essere chiamato filosofo!». Ribatte uno presente:
Frater, si tacuisses, philosophus esses109.

109
  Do in nota un elenco, che non pretende di essere completo, di favole il cui senso è solo
o prevalentemente nell’arguzia e nella vis comica: Il leone che ha paura del topolino (Esopo
151 H.; Babrio 82), dove tuttavia ha peso anche la morale che la grandezza non deve tolle-
rare il più piccolo affronto; L’uccellatore e il cardellino (Esopo 207 H.; forse di origine ba-
briana 215); Le volpi che vogliono passare il Meandro (Esopo 231 H.); L’ateniese e il tebano
(Babrio 15); L’arabo e il cammello (Babrio 8); Il cane invitato a pranzo (Babrio 42); Il cane e
il padrone (Babrio 110); Il padrone di casa e i marinai (Pseudo-Dositeo 4, Hermen., CGL III,
pp. 41-42 = 391 P.); Il marinaio e il figlio (novella tratta dal cod. Laur. 57, 30 = 421 P.);

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320 Capitolo settimo

Il gusto ludibondo della trovata spiritosa, bizzarra si sente anche


nelle favole eziologiche, in cui però di rado la comicità ha mordente;
non ne mancano, anzi, di veramente insipide; del resto esse provengo-
no in parte da filosofi, sofisti, eruditi, e hanno poca parte nelle raccol-
te esopiche vere e proprie. Con una storiella per ridere è spiegata la
particolare mendacità dei ciabattini. Zeus ordinò a Hermes di distri-
buire il farmaco della menzogna fra tutti gli artigiani; all’ultimo mo-
mento Hermes si trovò ad aver dimenticato il ciabattino: e allora gli
versò tutto ciò che rimaneva del recipiente e che faceva una razione
abbondantissima (Esopo 105 H.; forse in Babrio 221). Un ortolano
spiega perché le erbe selvatiche crescono così rigogliose, quelle colti-
vate così a stento: «Delle prime la terra è madre, delle altre matrigna»
(Esopo 121 H.; Vita Aesopi 37). La nottola, il rovo e la folaga, viaggian-
do per mare insieme, perdono in un naufragio la prima del danaro
preso in prestito, il secondo dei vestiti, la terza un carico di bronzo: ora
la nottola non si fa vedere di giorno per evitare i creditori, il rovo si
afferra ai vestiti, la folaga si tuffa cercando in fondo al mare il suo ca-
rico di bronzo (Esopo 181 H.). La mendacità e la furfanteria degli
Arabi è spiegata con la storiella secondo cui essi saccheggiarono il ca-
rico di menzogne, inganni e ribalderie che Hermes portava in giro su
un carro per dividerlo tra gli uomini (Babrio 57)110.

Lo schiavo fuggitivo (Plutarco, Coniug. praec. 41, 144 a  =  440 P.); Il cuculo e gli uccelli (Plutar-
co, Arat. 30 = 446 P.); L’asino che si china a guardare dalla porta (Zenobio V 39, CPG I,
p. 137 = 459 P.); L’ombra dell’asino (Plutarco, Vit. X orat. 848 a  =  460 P.); Pompeo e il soldato
(Fedro, App. 10); Il viandante e il corvo (Fedro, App. 23); Socrate e lo schiavo farabutto (Fedro,
App. 27); Il re di Grecia e il fratello (Herv. IV, p. 294, n. 75 = 631 P.); La spada e il viandante
(Romulus IV 20 = 579 P.); Il filosofo che sputa sulla barba del re (Herv. II, p. 304, n. 102 = 634
P.); Il contadino che ha venduto il cavallo (Herv. II, pp. 554-555, n. 11 = 653 P.); Il cacciatore e il
bifolco (Herv. II, p. 286, n. 37 = 700 P.); Il soldato e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301,
n. 6 (17) = 707 P.); La volpe e la scimmia malata (Herv. II, p. 312, n. 37 = 715 P.). Il gusto
della oscenità salace appare in Esopo e il contadino (Fedro III 3), nella storiella Il giovanot-
to e la vecchia (Sintipa 54 = 410 P.).
110
  Cfr. ancora Il cavallo, il bue, il cane e l’uomo (Esopo 107 H.; Babrio 74); Zeus e la Vergogna
(Esopo 111 H.); Zeus e la tartaruga (Esopo 108 H.); Le api e Zeus (Esopo 172 H.; Babrio
183); Gli asini che mandano l’ambasceria a Zeus (Esopo 196 H.); I sogni (Vita Aesopi 33);
L’aquila e l’uomo (Pseudo-Aristotele, Hist. anim. IX 117 = 422 P.); Apollo, le Muse e le Dria-
di (Imerio, Or. 20, pp. 86-87 Dübner = 432 P.); L’origine del rossore (Gregorio Nazianzeno,
Poem. moral. 29, PG XXXVII 3, col. 898 = 442 P.); Eros tra gli uomini (Imerio, Ecl. 10, 6,
pp. 22-23 Dübner = 444 P.); I cani musici (Dione Crisostomo, Or. 32, 66 de Budé = 448 P.);
L’asino e la dipsade (Eliano, De nat. anim. VI 51 = 458 P.); Il dono toccato al Dolore (Plutarco,
Cons. ad Apoll. 19, 112 a  =  462 P.); Poros e Penia (Platone, Conv. 203 b-e  =  466 P.); Il satiro e

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 321

Non c’è niente in queste favole eziologiche per lasciar supporre una
canzonatura della scienza. Esse si spiegano piuttosto con una certa
curiosità primitiva, che non ha niente a che fare con la magia e la reli-
gione, col gusto primitivo degli indovinelli che è così diffuso nel ro-
manzo di Ah.īqār, di origine babilonese, nel romanzo di Esopo, senza
parlare della letteratura indiana111; in esso si può cogliere persino un
barlume di spirito scientifico: e in ogni modo siamo anche qui nella
tendenza che distacca la cultura primitiva dal sacro. Questo gusto era
ancora diffuso nella cultura greca classica112.
Il gusto per l’arguzia e per la trovata ingegnosa fu certamente una
ragione per l’incontro tra la favolistica e la novellistica di tipo milesio;
ma sarebbe ingiusto non tener conto di una ragione forse più impor-
tante, cioè della tendenza, che v’è anche nella novellistica milesia, a
scavare nella natura umana, a lacerare le apparenze e a mettere a nudo
le vere forze che fanno agire l’uomo, a illuminare le bassezze dell’ani-
mo e i bassifondi della società, insomma del realismo e del pessimismo
che ispirano anche la novellistica milesia e un Petronio e che vanno al
di là del gusto farsesco. Soprattutto in Fedro, e soprattutto in favole
come quella della vedova e del soldato (App. 15: è la novella della ma-
trona di Efeso) o quella molto meno felice del testamento enigmatico
(IV 5), l’incontro s’illumina bene a questa luce113. I favolisti antichi,

il fuoco (Plutarco, De cap. ex inim. util. 2, 86 e-f  =  467 P.); Le cicale (Platone, Phaedr.
259 b-c  =  470 P.); Prometeo (Fedro IV 15); Prometeo ubriaco (Fedro IV 16); I cani che manda-
no l’ambasceria a Giove (Fedro IV 19); La pulce e la podagra (favola latina dell’età carolingia:
587 P.); L’aquila marina e le colombe (Herv. IV, p. 179, n. 2 = 588 P.); Il gufo e gli altri uccelli
(Herv. IV, p. 226, n. 55 = 614 P.); La cucula e l’aquila (Herv. IV, p. 251, n. 76 = 626 P.).
111
 [Cfr. Il romanzo di Esopo, qui, pp. 151 ss.].
112
  Alle favole eziologiche avvicinerei per una certa affinità Esopo nell’arsenale (Esopo 8 H.,
già nota ad Aristotele, Meteor. II 3, 356 b) e la favola dell’allodola che, anteriore alla stessa
terra, avrebbe seppellito il proprio padre nella testa (Aristofane, Av. 471 ss. = 447 P., che
cita Esopo). Un altro elemento strutturale che lega notevolmente la favola a letterature
primitive e orientali (specialmente babilonesi: cfr. Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre
Bedeutung für die Literaturgeschichte, cit.) è il contrasto. Cito i casi più evidenti: Contrasto
dell’inverno e della primavera (Esopo 297 H.); La rondine che si vanta e la cornacchia (Babrio
148); Apollo, le Muse e le Driadi (Imerio, Or. 20 = 432 P.); L’alloro e l’olivo (Callimaco, fr. 194
Pf. = 439 P.); La formica e la mosca (Fedro IV 25); La pulce e la podagra (favola medievale:
587 P.); Il lupo e la colomba che raccolgono ramoscelli (Herv. IV, p. 644, n. 128 = 689 P.).
113
  Come favole dallo sviluppo novellistico segnalo L’adultera e il marito (Babrio 116); La
vedova e il bifolco (Vita Aesopi 129: la novella coincide in parte con quella della matrona di
Efeso); Il ladro e l’oste (nel cod. Laur. 57, 30 = 301 H. = 419 P.); I due adulteri (ibid. = 420 P.);
Il marinaio e il figlio (ibid. = 421 P.); Pompeo e il soldato (Fedro, App. 10); I due proci (Fedro,

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322 Capitolo settimo

però, come ho già detto, non hanno veramente gusto per l’intreccio né
per la coloritura psicologica; in una letteratura formatasi attraverso
secoli e secoli non si vede venir fuori un vero narratore: tra il racconto
lampo che serve a tramandare una risposta bene azzeccata e il raccon-
to che crea delle persone e degli ambienti, la favola antica resta deci-
samente attaccata al primo polo. D’altra parte anche la preoccupazione
gnomica era un ostacolo su questa via: anche nelle favole dalla punta
arguta, a proposito delle quali ho detto che è difficile ricavare una
morale precisa, la preoccupazione gnomica non è sempre assente: essa
è piuttosto rinserrata nella punta conclusiva, come doveva essere gene-
ralmente alle origini della favola (è ovvio che la favola ben riuscita si
spiega da sé, senza bisogno di sbavature didascaliche). Perciò anche il
gusto gratuito della beffa, così potente nella narrativa medievale, man-
ca quasi del tutto, abbiamo già notato, nella favola antica: nella favoli-
stica medievale, nei tempi del Roman de Renart, dei fabliaux, della
grande fioritura di narrativa piacevole, anche il gusto della beffa si fa
sentire non raramente114.

11. La favola come voce delle plebi antiche

«Nella Logica poetica si troverà Esopo non essere stato un particolar


uomo in natura, ma un genere fantastico, ovvero un carattere poetico
de’ soci ovvero famoli degli eroi, i quali certamente furon innanzi a’
sette saggi di Grecia». Il Vico115 non aveva tanta ragione di dubitare

App. 16). Non minore, e forse maggiore, la contaminazione nella favolistica medievale: Il
re di Grecia e il fratello (Herv. IV, p. 294, n. 75 = 631 P.); L’angelo che dimostra la giustizia
divina (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115; pp. 376-377, n. 22 (56) = 635, 635 a P.); Il soldato e il
serpente (Herv. IV, pp. 381-384, n. 24 (58) = 640 P.); Il contadino e la moglie (Herv. II, p. 553,
n. 9 = 651 P.); Il ladro e lo scarafaggio (Herv. II, p. 590, n. 35 = 660 P.); La moglie e l’amante
(Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.); Il medico, il ricco e la figlia (Herv. II, pp. 635-636, n. 114 = 684
P.); I tre figli che debbono spartire l’eredità (Herv. II, pp. 291-292, n. 2 (13) = 703 P.); Il soldato
e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301, n. 6 (17) = 707 P.).
114
  Oltre alla novella, già citata nella nota precedente, del contadino e della moglie, cfr. Il
lupo pescatore e la volpe (Herv. IV, p. 245, n. 74 = 625 P.); Il lupo infelice, la volpe e il mulo
(Herv. II, p. 272, n. 26 = 693 P.); Il lupo e la volpe affamata (Herv. II, p. 311, n. 33 = 712 P.);
La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.). Superfluo rilevare la parentela col
Roman de Renart.
115
  La scienza nuova I 1, 32 (p. 93 Niccolini). Il Vico rimanda a II 2, 9 (pp. 263 ss. Nicc.)
della propria opera.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 323

dell’esistenza di Esopo quanta di dubitare dell’esistenza di Omero: ab-


biamo testimonianze abbastanza vicine a Esopo per credere che egli sia
veramente esistito, che fosse schiavo, probabilmente di origine non gre-
ca, che desse grande sviluppo a un genere di letteratura popolare già
vitale nell’Asia anteriore. Ma ciò poco toglie alla solidità della felice in-
tuizione storica del Vico: non tanto conta che Esopo sia veramente esi-
stito e abbia composto delle favole quanto ciò che ha significato per i
Greci e per l’antichità in genere: e per gli antichi egli fu effettivamente
il tipo dello schiavo, del proletario, del plebeo, che illumina, sia pure
sotto il velo della favola, la verità proibita dell’ingiustizia e dell’oppres-
sione116. I tratti essenziali della sua biografia, alcuni risalenti almeno al
V secolo, sono significativi: la schiavitù, la morte a opera dei sacerdoti di
Delfi, cioè il contrasto con l’organizzazione religiosa tradizionale, il con-
trasto con il padrone Xanto, filosofo, cioè il contrasto con la cultura
aulica117. Significativo (anche di questo si erano accorti gli antichi) è già
il suo ritratto, uno dei più antichi ritratti greci: ché il ritratto, come si sa,
nasce come ritratto del brutto, il bello da principio dà luogo solo a tipiz-
zazione ideale118. Egli è il ritratto antieroico: «e ci fu narrato brutto, per-
ché la bellezza civile era stimata dal nascere de’ matrimoni solenni,
che contraevano i soli eroi […]; appunto come fu egli brutto Tersite, che
dev’essere carattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra
troiana»119. La favola esopica, diremmo noi, è la mitologia razionale di
Tersite, succeduta alla mitologia fantastica degli aedi.
Analogamente non tanto ha importanza che Fedro fosse schiavo e
liberto, come certamente fu, ma che egli sentisse la favola come la voce

116
  Il Vico (La scienza nuova, cit., p. 264 Nicc.; cfr. anche II 4, 2, p. 467 Nicc.) sentiva la
denunzia dell’iniquità soprattutto nella favola «della società lionina», dove soci sono «i
plebei […] dell’eroiche città», i quali «venivano a parte delle fatighe e pericoli nelle guerre,
ma non delle prede e delle conquiste». A parte l’ingenuità filologica sui soci, è tutto giusto.
117
  Interessante sotto questo riguardo anche la contrapposizione di Esopo e dei sette saggi.
Le testimonianze sono raccolte dal Perry, Aesopica, cit., pp. 223 ss.; cfr. anche Agazia,
Anth. Plan. IV 332 (Test. 50 P.). Di qualche interesse anche le riflessioni di Filostrato, Vita
Apollon. V 14 (Test. 100 P.).
118
  Cfr. G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, in Id., Terze pagine stravaganti, Firenze
1942, pp. 139 ss. (già in «Critica d’arte», vol. 5, 1940, pp. 25 ss.), dove un accenno a Esopo
non sarebbe stato fuori luogo.
119
  Vico, La scienza nuova, cit., p. 264 Nicc. L’accostamento a Tersite già nel proemio alla
Vita Aesopi composto da Massimo Planude (Test. 2, p. 215 P.): forse di là ha preso la spinta
il Vico.

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324 Capitolo settimo

degli schiavi, della servitus obnoxia, la quale quae volebat non audebat dice-
re e perciò affectus proprios in fabellas transtulit / calumniamque fictis elusit
iocis (III prol., 33 ss.), che nella statua innalzata a Esopo egli sentisse l’o-
nore reso allo schiavo per il suo valore, indipendentemente dal genus
(II 9, 1 ss.). Ancora Giuliano l’Apostata (Or. 7, 207 c  =  Test. 58 P.) vede in
Esopo lo schiavo «non meno nel deliberato proposito che nella sorte», il
quale adombra quelle verità che la legge non permette di dire aperta-
mente. La favola oraziana dei due topi è narrata fra gente di campagna.
Ci si è spesso meravigliati che Fedro fosse ignoto agli scrittori contem-
poranei. Ci si sarebbe dovuti meravigliare se fosse capitato il contrario:
Fedro è ignoto ai letterati del tempo, perché ormai fra letteratura dotta e
letteratura popolare c’è un diaframma: se Fedro fosse vissuto al tempo di
Plauto, egli non sarebbe stato probabilmente un ignoto. Al tempo di Eso-
po quel distacco non c’era (esso si aprirà nel IV secolo), ed egli era già fa-
moso nel V secolo: la favola esopica era citata da poeti, da filosofi, da
oratori; senza l’uso dell’oratoria non si capirebbe la raccomandazione
nella retorica aristotelica di usare la favola tra gli esempi (Rhet. II 20).
Ma nell’oratoria successiva la favola esopica è assente: essa è relegata
nelle scolette dei retori tra gli esercizi preparatori agli studi di retorica
vera e propria: lo hiatus tra cultura volgare e cultura aulica si è aperto.
Il fatto che la prima fioritura letteraria della favola esopica in Grecia
si sia avuta nei secoli dal VII al V è apparso sempre, e giustamente,
come importante: sono i secoli del primo slancio della ragione, i seco-
li in cui si fondano la scienza, la filosofia, la storia; come la scienza, la
filosofia, la storia, la favola esopica greca è figlia della curiosità ionica,
che poi non è curiosità gratuita, ma quasi sempre sete di analisi razio-
nale della natura e degli uomini. E questo slancio della ragione fa
tutt’uno con il crollo di quel tipo di feudalesimo che conosciamo dai
poemi omerici e con l’ascesa politica di strati sociali inferiori nelle
campagne e nelle città. «Nello stile di Nietzsche – scriveva Otto Cru-
sius – si potrebbe dire: le favole accompagnarono la rivolta contadina
nella morale»120. Per l’età ionica una tale interpretazione potrà anche

120
  Nell’introduzione premessa all’antologia di favole (Das Buch der Fabeln) compilata da
C. H. Kleukens, Leipzig 1913, p. ix. Le belle pagine in cui il Crusius, uno dei più impor-
tanti studiosi della favolistica greca, traccia la nascita della favola nell’età ionica, sono no-
tevoli anche per il loro calore democratico, poi attenuatosi e ormai spento nella filologia
classica tedesca.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 325

essere in parte accettata, benché della favolistica di quel tempo noi


abbiamo solo preziose briciole: l’importanza che il problema della
Dike ha in Esiodo, Archiloco, Semonide di Amorgo lo lasciano alme-
no supporre. Ma l’interpretazione non vale, purtroppo, per la favola
esopica nel suo sviluppo: quanto in essa è acuta l’analisi della società
umana tanto è chiara la rinunzia alla rivolta. Tersite è, come dice il
Crusius121 e come già prima aveva pensato il Vico, «il primo demago-
go». Esopo non è demagogo affatto, non è un ribelle: egli invita alla
prudenza e all’accettazione; pur conoscendo meglio di Tersite l’egoi-
smo e l’iniquità dei grandi, egli non avrebbe affrontato i colpi di Ulis-
se, avrebbe cercato di non causare l’ira di Ulisse.
La favola esopica non accoglie i fremiti di rivolta che in certi momen-
ti storici scossero il proletariato antico: essa esprime piuttosto i senti-
menti di strati subalterni che sono ancora tagliati fuori dalla lotta di
classe, degli strati subalterni che subiscono e non fanno la storia. La
lotta dei potenti interessa gli umili solo perché a volte le conseguenze
possono ricadere anche su di loro, come nella favola fedriana delle rane
preoccupate per le battaglie dei tori; a parte questo, i cambiamenti di
governo non interessano gli strati subalterni, perché nessun sollievo essi
possono sperare. La favola della volpe coperta di zecche e del riccio e
quella fedriana dell’asino e del vecchio pastore sono indicative della
mentalità esopica quanto quella del lupo e dell’agnello o quella delle
parti del leone. La favola dell’asino e del vecchio pastore richiama certe
considerazioni di Sallustio (che si possono poi risentire dal Monte-
squieu) secondo cui non sono i nullatenenti che possono difendere la
patria o curarsi dell’ordine e della solidità dello stato, perché essi non
hanno niente da perdere. Non c’è quindi da aspettarsi di sentire dai fa-
volisti rivendicazioni ardenti di libertà: la libertà di cui essi parlano, e
molto raramente, è la vita povera che offre il vantaggio della tranquillità,
della mancanza di pericoli, non la libertà che si difende anche contro il
pericolo e a costo della vita, non la libertà, insomma, di Catone. In real-
tà, poi, anche la libertà di Catone (e lo sa chi abbia letto bene Cicerone
e Sallustio) era l’ideale del potere politico di una élite aristocratica e
della securitas dei ceti proprietari: ma che cosa avevano da difendere gli
schiavi? Il primo contenuto da dare al loro ideale di libertà non poteva

  Ivi, p. xvii.
121

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326 Capitolo settimo

non essere la libertà dal bisogno e dal padrone: ma per il favolista an-
tico questo sarebbe stato un contenuto illusorio.
A giudicare dalla favola antica si potrebbe ben accettare la definizio-
ne marxiana del proletariato antico come piedistallo immobile della so-
cietà, sul quale si muove la lotta di classe. Ma la favola esopica non
esprime certo tutta l’anima del proletariato antico né in tutti i suoi mo-
menti storici. Giusta e utile contro chi ammoderna la storia antica, con-
tro chi assimila le lotte di classe nell’antichità alla lotta del proletariato
industriale moderno contro la borghesia, la riflessione di Marx minaccia
di rendere incomprensibile non poca parte della storia antica (del resto
essa è implicitamente superata dalla storiografia sovietica su Roma anti-
ca, che anzi sopravvaluta il peso della struttura schiavistica per la com-
prensione di certi mutamenti storici). Quel piedistallo della società an-
tica (parlo degli schiavi e ancora più dei proletari liberi delle campagne
e delle città) ebbe i suoi sussulti e anche le sue scosse terribili e i riasse-
stamenti politici della società antica (per esempio la fondazione del prin-
cipato romano) furono determinati in parte dagli effetti di quelle scosse
e dalla paura di altre scosse più gravi. Ma dove si espressero le aspirazio-
ni sociali più o meno confuse degli strati subalterni antichi? Uno sbocco
è già da vedere negli effetti di quelle aspirazioni sulle ideologie delle
classi dominanti che in certi periodi storici, nei loro conflitti reciproci,
sfruttarono l’appoggio degli strati subalterni. Dietro la legislazione agra-
ria e sumptuaria, dietro la rara legislazione contro l’usura si sente la spin-
ta delle masse proletarizzate. L’ideale che viene offerto alle masse prole-
tarizzate è il regime dei modesti, parchi piccoli proprietari, il tempo di
Licurgo per gli Spartani, il tempo dei Fabrizi, dei Curi Dentati, dei
Catoni per i Romani: un ritorno utopistico, ma che aveva la parvenza di
un programma politico-sociale realizzabile, e in ogni modo è la sola
spinta del proletariato che in qualche misura incidesse sulla legislazione.
L’altro grande sbocco è nella religione. Non parlo, naturalmente, della
religione come salvezza dell’anima, come evasione illusoria dal mondo,
ma degli ideali sociali che pure le religioni accolgono, che colorano e
definiscono le prospettive messianiche, che inducono i capi religiosi a
teorizzare nuovi assetti della società e nuovi rapporti tra gli uomini, che
rafforzano decisamente le ideologie dei capi carismatici. I salvatori atte-
si sono innanzi tutto i liberatori dall’oppressione dello straniero e dall’op-
pressione dei ricchi; aspettazioni di giustizia e d’uguaglianza, ideali co-

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 327

munistici penetrano negli oracoli sibillini. Le grandi rivolte di schiavi


contro Roma si alimentarono di credenze magiche ed ebbero a volte
come capi dei maghi122. Altro sbocco è nelle utopie filosofiche e letterarie
come quelle di Evemero o di Iambulo che dalla sofistica in poi fiorirono
nel mondo greco e romano123. I legami di queste costruzioni romanze-
sche con la realtà sociale non vanno esagerati, ma neppure sono inesi-
stenti: non si sognano regimi di eguaglianza economica, sociale, politica
senza spunti in problemi reali; utopistiche sono le soluzioni, i problemi
sono reali.
Le aspirazioni sociali degli strati subalterni dell’antichità cercano
espressione, dunque, per varie vie utopistiche. La loro mentalità pre-
senta così due aspetti inconciliabili: da un lato un’analisi acuta del
mondo umano che porta a un’accettazione passiva dell’oppressione,
dall’altra le aspirazioni utopistiche alla libertà, alla giustizia, all’ugua-
glianza. L’inesistenza di una prospettiva reale di liberazione tenne
sempre separati e inconciliabili i due aspetti.

12. Il razionalismo empirico delle plebi antiche

La rassegnazione in cui si conclude la ricerca esopica non deve far di-


menticare e sottovalutare la forza razionale di quella ricerca. La civiltà
greca ci ha dato la nascita dello spirito razionale europeo, ma la storia
della civiltà greca e latina è anche la sconfitta della ragione e della
scienza. Le poleis greche hanno conosciuto gli esperimenti più avanza-
ti di democrazia che il mondo abbia visti prima dell’età moderna; ma
la storia dell’antichità è anche la sconfitta della democrazia: la conqui-
sta romana, con l’appoggio che diede ai regimi conservatori, fu la li-
quidazione totale di ogni lontana possibilità che i guizzi della demo-
crazia antica diventassero fuoco di una civiltà diversa. Se non ci si
rende conto di questa verità fondamentale, lo studio della civiltà greca
e latina diventa prima o poi pascolo di retorica o puntello della super-

122
  Per lo studio della storia antica e medievale sotto questo riguardo non è senza interes-
se il confronto con le ideologie bizzarramente composite dei popoli coloniali di oggi; cfr.
V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano 1960.
123
 Cfr. R. von Pöhlmann, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt,
München 1925, vol. 2, pp. 274 ss., il quale esagera il significato storico di questa letteratura.

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328 Capitolo settimo

stizione religiosa (funzioni che possono andare benissimo insieme).


Purtroppo oggi chi segua gli studi sul pensiero presocratico dal tempo
di Gomperz al tempo dei Reinhardt e degli Jaeger (e in Jaeger il cam-
mino dagli studi aristotelici a quelli sui presocratici) sente come anche
la gran luce della razionalità greca sia stata a poco a poco oscurata: la
gloria dei primi secoli del pensiero greco non sarebbe nell’aver fondato
la scienza, ma nell’aver fondato la teologia; il pensiero greco culmine-
rebbe in Platone, e platonico sarebbe il messaggio essenziale del mon-
do antico al mondo moderno. Ora la favola esopica, per quanto addo-
mesticata e infiacchita dai retori, ha tramandato attraverso i secoli
dell’antichità e, si badi, del Medioevo un vigore di razionalità che non
ha mancato di agire nel mondo moderno.
L’accettazione, in definitiva, dell’ordine costituito è comune alle
correnti razionalistiche del pensiero antico ben più approfondite e fer-
rate della favolistica esopica. Noi giustamente celebriamo il contributo
che al trionfo della ragione diedero gli atomisti, Epicuro, Lucrezio.
L’epicureismo condusse una lotta ben più esplicita contro la supersti-
zione religiosa, fu animato da un illuminismo molto più adulto di
quello della favola esopica. Ma è un grossolano errore considerare epi-
cureismo e democrazia come termini congiunti124: è ben noto che l’u-
nico sbocco dell’epicureismo è l’indifferenza politica, che lascia lo sta-
to e la società così come sono e può adattarsi a regimi politici ben
diversi tra loro.
E infine: il razionalismo della favola esopica ci viene dalle plebi
antiche. Ora le voci delle plebi antiche per noi sono rare; nel mondo
antico la cultura aulica ha soffocato la cultura popolare molto più che
nel mondo moderno. Ci sono state età (specialmente l’età ionica e
l’età classica) in cui la letteratura dotta si è potentemente nutrita di
linfe popolari, ma neppure qui si tratta di voci autonome degli strati
subalterni: tutt’al più si tratta di una profonda consonanza di popolo e
classe dominante nell’ascesa democratica. La favola esopica, invece, è
voce popolare sostanzialmente autonoma, che perdura per tutti i seco-
li accanto alla letteratura aulica: già questo basterebbe a darle un rilie-
vo enorme nella cultura antica.

  Questo grossolano errore guasta il noto libro di B. Farrington, Science and Politics in
124

the Ancient World, London 1939 [trad. it. Scienza e politica nel mondo antico, Milano 1960],
che però giustamente delinea la sconfitta del pensiero scientifico nella civiltà greca e latina.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 329

13. Verso una cultura cosmopolitica

Bédier125 vide giustamente che le favole di animali, come le fiabe, sono


in gran parte narrazioni non legate a particolari luoghi, a particolari
credenze e costumi: ciò fa sì che esse possano passare senza imbarazzo
da un paese all’altro, facilmente travestirsi, ma nel nucleo narrativo
restare attaccate tenacemente alla tradizione: il che le distingue netta-
mente dalle leggende religiose e dalle leggende storiche126. Nella lette-
ratura di puro diletto e intrattenimento questa disponibilità universale
non è difficile a capirsi; non altrettanto facile a capirsi è per me la di-
sponibilità della favola di tipo esopico: essa porta con sé una morale,
insegna, più o meno esplicitamente, un modo di vivere: si può conce-
pire una morale al di fuori di certi costumi e di certe tradizioni sociali?
La favola non implica, ovviamente, credenza nei fatti narrati, ma im-
plica credenza in una certa morale. Sta però di fatto che nella favola
esopica i tratti locali mancano quasi del tutto; anche là dove ci sono,
come, per esempio, nella favola delle volpi che vogliono traversare il
fiume Meandro (Esopo 231 H.) o in quella dell’asino di Cuma coperto
dalla pelle del leone (Luciano, Pseudol. 3: ma la localizzazione manca
nella raccolta esopica, 199 H.), non è affatto detto che essi siano origi-
nari. Ora questo aspetto della favola esopica implica, io credo, il di-
stacco della riflessione gnomica da una particolare organizzazione po-
litica e sociale: il favolista non si preoccupa di salvaguardare deter-
minati valori tradizionali su cui si fondano la famiglia, la società, lo
stato, ma mira a rendere possibile la vita all’uomo in genere. La rifles-
sione della favola esopica, insomma, non segna solo un distacco dal-
l’influenza religiosa, ma anche dall’organizzazione politico-sociale,
esprime, cioè, già prima del cinismo, una tendenza implicitamente
cosmopolitica. Non è arrischiato supporre che questo distacco fosse
per le classi subalterne molto più facile che per le classi dominanti,
appunto perché esse erano molto meno interessate alla conservazione
dei valori etico-politici tradizionali. Anche le tendenze religiose sote-
riologiche, che staccano il problema della salvezza dell’anima dall’or-
ganizzazione statale, si sono diffuse dall’Oriente all’Occidente soprat-

  Les fabliaux, cit., pp. 254 ss., spec. p. 259.


125

  Cfr. anche E. Bethe, Mythus, Sage, Märchen, Leipzig 1922.


126

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330 Capitolo settimo

tutto attraverso le plebi. Insomma già nell’antichità sono preva-


lentemente le plebi che creano larghe unità culturali. Bisogna però
aggiungere che questa cultura cosmopolitica, come tutte le culture co-
smopolitiche, può distaccare da organizzazioni politico-sociali ristret-
te, ma non è poi capace di costruirne di più ampie.
C’è qualche favola che illumina più esplicitamente questo aspetto
della mentalità esopica? Forse sì. Un uccellatore prepara una rete a
delle colombe selvatiche legando i fili ai piedi delle sue colombe do-
mestiche. Le colombe selvatiche, cadute nella trappola, insultano le
colombe domestiche come traditrici della stirpe; e le colombe dome-
stiche: «Meglio per noi custodire i padroni che far piacere alla nostra
parentela!» (Esopo 209 H.)127. In una favola di Fedro (III 15) l’agnello
riconosce recisamente come propria madre non la pecora che l’ha con-
cepito, buttandolo giù come un fardello, ma quella che ha avuto com-
passione di lui e l’ha nutrito: Facit parentes bonitas, non necessitas. Per
sentire il peso di questa favola bisogna pensare all’importanza dei le-
gami familiari nella società romana. Altrove Fedro (App. 8) fa tenere
una predica dalla Pizia di Delfi: nella predica si raccomandano il culto
degli dei, la difesa della famiglia e della patria, l’assistenza degli amici
e dei miseri, la giustizia, la prudenza; dopo la predica concidit virgo
furens; / furens profecto, nam quae dixit perdidit. Fedro sente che questi
valori tradizionali sono pure chiacchiere all’età sua; ma non s’accorge
che la favolistica niente ha fatto per tenerli in piedi.

14. Favola esopica e socialismo scientifico

Quale interesse può presentare la favola esopica per gli studiosi di


folklore in genere? Essa, come ho detto, è il passo più decisivo nel
distacco della cultura primitiva dalla sfera religiosa e dall’egemonia
statale. Inoltre essa è il migliore ammonimento contro la sopravva-
lutazione dell’influenza della cultura aulica su quella popolare, contro
l’estensione oltre i giusti limiti della Rezeptionstheorie di John Meier
e seguaci, la quale riduce la cultura popolare a riflesso della cultura
dotta e alla creatività del popolo concede solo qualche ritocco e adat-

  Invece una favola medievale, Il giovane verro (Herv. II, pp. 273-274, n. 27 = 694 P.), am-
127

monisce di stare coi suoi sia nella buona che nella cattiva fortuna.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 331

tamento128. La favola esopica greca e latina è sostanzialmente creazio-


ne autonoma delle classi subalterne, espressione della loro mentalità.
La storia della favola esopica, come, del resto, di altri filoni di cultura,
della poesia drammatica, per esempio, mostra che la Rezeptionstheorie
può essere in una certa misura rovesciata: quanta è l’influenza della
cultura popolare su quella aulica?
Ma lo studio della favola esopica oggi non può non risvegliare pro-
blemi etico-politici attuali. Quella separazione, di cui ho parlato, tra la
lucidità rassegnata e l’aspirazione utopistica nelle classi subalterne è
superata solo dal socialismo, anzi solo dal socialismo non utopistico:
essa vale per le classi subalterne delle età anteriori al socialismo scien-
tifico129 e vale per le classi subalterne di oggi nella misura in cui non
sono toccate dal socialismo. Accanto all’illusione religiosa perdurano
in esse uno scetticismo rassegnato, la sfiducia in qualunque tentativo
di costruire una società più giusta e più libera, la considerazione che
tutti i governi si equivalgono perché tutti egualmente rubano, o che
magari i governanti di domani, come nella favola della volpe coperta
di zecche, ruberanno di più perché più affamati. Superfluo ricordare
quanto una tale mentalità, lasciando le cose come stanno, giovi alla
classe dominante e venga perciò da questa alimentata. È grande com-
pito del socialismo eliminare con l’educazione, oltre le illusioni oltre-
mondane, questa sfiducia, portare le masse a capire che è venuta l’età
in cui esse stesse debbono costruire il loro assetto economico, sociale,
politico, in cui esse cessano di subire la storia e ne diventano protago-
niste: solo la partecipazione diretta e non illusoria allo stato può elimi-
nare la sfiducia nello stato. Il proletario che Sallustio e Montesquieu
accusavano aveva in fondo ragione di non difendere uno stato che non
era casa propria. Un grande ammonimento che dalla crisi del mondo

128
  Per una breve esposizione di questa teoria cfr. G. Cocchiara, Storia del folklore in Eu-
ropa, Torino 1952, pp. 558 ss. Inutile dire che la teoria ha non pochi contatti con Bédier e
con Croce.
129
  La favola esopica posteriore al Medioevo è lontana dall’essere tutta espressione delle
classi subalterne. Spiriti illuministici, rivoluzionari l’hanno animata qualche volta nel
Settecento, ma in genere bisogna essere molto cauti nel credere a questo carattere della
favola esopica: poco persuadono le pagine di Saint-Marc Girardin (La Fontaine et les
fabulistes, Paris 18762, vol. 2, pp. 61 ss.) sullo spirito rivoluzionario di La Fontaine (forse
la paura di moderato faceva vedere al critico rivoluzionari dappertutto); e quello che
potremmo chiamare il qualunquismo scettico della mentalità esopica resta, per esempio,
in un Trilussa.

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332 Capitolo settimo

antico viene al mondo moderno è che uno stato si disgrega, se non


riesce a suscitare l’interesse, la fiducia, l’impegno delle masse. Si è det-
to che l’impero romano crollò, perché le isole di civiltà urbane erano
premute dalle masse contadine: ma che cosa fece la civiltà urbana per
far sentire alle masse contadine lo stato come casa propria? Che cosa
fa oggi la borghesia dominante per portare le masse proletarie alla di-
rezione dello stato o i popoli coloniali all’autonomia? La libertà muore,
se non sa estendersi: il che vuol dire, se non sa sostanziarsi di egua-
glianza. Ora in questo suo grande compito di educazione il socialismo
non può costruire niente sulle illusioni oltremondane; ma può ricavare
qualche cosa dallo scetticismo rassegnato, perché in quello scetticismo
c’è pur sempre un nucleo sano di analisi della realtà sociale, una forza
della ragione.

Addendum bibliografico 2009


Dopo la pubblicazione del mio saggio del 1961, un’esposizione molto più
breve della favola esopica antica è stata data da me nell’introduzione del 1996
all’edizione Mondadori delle Favole di Esopo (qui, cap. 1).
In tempi meno lontani interpretazioni in qualche modo affini alla mia
sono quelle di Juan Cascajero Garcés, Lucha de clases e ideología. Introduc-
ción al estudio de la fábula esópica como fuente histórica, «Gerion», vol. 9, 1991,
pp. 11-58; vol. 10, 1992, pp. 23-63; Alexander Demandt, Politik in den Fa-
beln Aesops, «Gymnasium», vol. 98, 1991, pp. 397-419, che raccoglie e illustra i
casi in cui la favola esopica fu usata nella politica. Cfr. inoltre Christos A.
Zafiropulos, Ethics in Aesop’s Fables. The Augustana Collection, Leiden-
Boston 2001; Kenneth S. Rothwell, Aristophanes’ Wasps and the Sociopo-
litics of Aesop’s Fables, «Classical Journal», vol. 90, 1995, pp. 233-254.

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La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità 333

Appendici

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Marginalia Aesopica 335

Appendice A

Marginalia Aesopica1

1. Phaedriana
I 6, 3 sqq.  
 xorem quondam Sol cum vellet ducere,
U
clamorem ranae sustulere ad sidera.
Convicio permotus quaerit Iuppiter
causam querellae.
In fabella quae inter Aesopias tradita est (128 Chambry) et apud
Babrium (24) ranae non querentes convicium tollunt, sed laetae festivo
cum clamore nuptias prosequuntur: Aes. 128 Ch. Γάμοι τοῦ Ἡλίου
qέρους ἐγίγνοντο· πάντα δὲ τὰ ζῷα ἔχαιρον ἐπὶ τούτῳ, ἠγάλλοντο δὲ
καὶ οἱ βάτραχοι. Apud Aesopum et Babrium una ex ranis ipsis genus
vecors et clamosum monet neque Iuppiter ullas partes agit. Comicam
Graecae narrationis vim Phaedrus (aut Phaedri auctor) enervavisse
videtur: nam ranarum, quae suo ipsarum malo gaudent, stultitia quanto
facetius in Graeca narratione elucet! Equidem suspicor aut Phaedrum
aut Phaedri auctorem narrationem pristinam non recte intellexisse et
festivum ranarum clamorem pro querentium convicio interpretatum
esse.

 [Lanx satura Nicolao Terzaghi oblata. Miscellanea philologica, Istituto di filologia classi-
1

ca e medioevale, Genova 1963, pp. 227-236. La quarta e quinta sezione, In «Vitam Aesopi»
e In «Vitam Lollinianam», sono apparse originariamente in Coniectanea et marginalia I,
«Philologus», vol. 106, 1962, pp. 267-271. Dato il carattere strettamente filologico di
questo contributo, il testo e la numerazione delle favole di Fedro sono conformi all’edi-
zione Bassi («Corpus Paravianum», 1918, 19363), utilizzata da La Penna per l’occasione,
con alcuni scostamenti (qui non segnalati) nella riproduzione dell’apparato. Per como-
dità di riscontro, in caso di discrepanza viene data tra parentesi quadre la corrispon-
denza con la numerazione dell’edizione Perry (P.), di regola citata negli altri scritti del
volume].

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336 Appendice A

I 21, 5  
Aper fulmineis venit ad eum (scil. leonem) dentibus
ad eum venit P, venit ad eum D

Illud ad eum flaccidum et supervacaneum esse recte sensit Postgate,


qui e paraphrastarum indiciis spumans coniecit; sed vocem desidero
unde perversa lectio (si pro perversa, quod non certum est, habeamus)
facilius derivari possit: fortasse ardens (nulla causa indicata, cum satis
e contextu perspicua sit: cf. Verg. Aen. I 423 instant ardentes Tyrii;
II 41 Laocoon ardens… decurrit; VI 5 sq. iuvenum manus emicat
ardens / litus in Hesperium; alia exempla inspice in Thes. l. L. II
col. 485, v. 27 sqq.) aut frendens (cf. Ov. A. am. I 46 frendens aper)
scripsit Phaedrus. In verborum ordine P (ardens vel frendens venit)
sequi malim.

II prol., 9 sqq.  
 ed si libuerit aliquid interponere,
S
dictorum sensus ut delectet varietas,
bonas in partes, lector, accipias velim
ita, si rependet illi brevitas gratiam.
12 si Heinsius, sic P Rv   illi P Rv, † Illi Havet («possis Tilli, Cilli, Iuli...»),
illam Heinsius. Multa alia conati sunt et editores et viri docti, etiam quod
pertinet ad priorem versus partem, quae adferre supervacaneum puto.

Dominici Bassii apparatum ex editione Paraviana transcripsi.


Locum desperatum (nam, cum vix me inducere possim ut credam
brevitatem varietati gratiam rependere, quo vox illi referri possit non
perspicio) paene pudet novo remedio vexare. Si non prorsus inutile
videatur dubitantis temptamina proferre, liceat mihi proponere ita,
si rependet libri brevitas gratiam (scil. pro tua lectoris cura). Phaedrus
inter fabellas Aesopias aliquid novi generis se interpositurum nuntiat,
sed, veritus ne lector magnum librum quasi magnam calamitatem
fugiat, illius benevolentiam brevitate se repensurum promittit.
Libellus, non liber apud Phaedrum usitatum; sed nonne libri brevitas
brevitatem satis declarat? Liber secundus inter Phaedrianos brevis-
simus; fortasse aliquot fabellae perierunt aut in appendice Perottina

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Marginalia Aesopica 337

exstiterunt; sed credere licet fata non illi tantum libello membra
amputavisse.

III prol., 20 sqq.  


 uamvis in ipsa natus sim † pene † schola,
Q
curamque habendi penitus corde eraserim,
et † laude invita in hanc vitam † incubuerim,
fastidiose tamen in coetum recipior.
20 pene P (R), Phoebi Havet 22 sic P (R) invicta Desbillons, vitam in hanc
Prasch, in vitam hanc haut invita Havet, nec Pallade hanc invita in vitam
Postgate (nec iam Heinsius, Pallade iam Bentley)

Suspicor invita per dittographiam ortum esse neque ulla pristinae


lectionis vestigia servare: ergo et laudem quaerens (vel sectans vel aliquid
simile) vitam in hanc incubuerim scribere malim.

III 6, 9  
Ubi sit tardandum (saltandum V) et ultro currendum scio N V, Nam ubi
tricandum et ubi currendum est scio P (tricandum et etiam R)

Longum est omnia doctorum temptamina referre: Bentley Nam et


ubi tricandum et ubi currendum sit scio restituit, Postgate Nam ubi sit
strigandum aut ultro currendum scio (strigandum iam Gruter, Salma-
sius). Nam ubi sit tricandum et ubi currendum sat scio vel ego scio olim
temptavi; sed est fictum videtur, postquam sit excidit, non ex alia lec-
tione corruptum; fortasse Nam ubi sit tricandum, ubi ultro currendum
scio temptare licet. Sed nam fortasse ex interpolatione ortum: numquam
enim apud Phaedrum vocalis in ea sede eliditur.

App. Perott. 4, 1  


Mercurium hospitio mulieres <olim> duae
Olim suppl. Iannelli, qui tamen quondam mallet; viduae Chauvin, Postgate

Olim in initio versus locum aptiorem forsitan habeat: cf. enim III
17, 1 sq. Olim quas vellent esse in tutela sua / divi legerunt arbores; App.
Perott. 5 [5-6 P.], 1 sq. Olim Prometheus... / …fecerat.

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338 Appendice A

App. Perott. 10, 5


Cum veste et auro et magno argenti pondere
An auri? Argenti pondus et auri et Horatiana (Sat. I 1, 41) et Vergiliana
(Aen. I 359) clausula est, in qua Alexander Ronconi, collato Cic. De rep.
I 27, Enniana vestigia suspicatus est.

App. Perott. 10, 17  


Sibi quisque metuit; primi <quin> mussant duces.
primi quin L. Mueller, et primi Iannelli, primi iam Postgate  mussitant
Orelli, mussarunt Buecheler  duces ] ordines Havet

Nullum certum remedium; primi <ipsi> minime contemnendum


mihi videtur.

Sed de Phaedro satis: fabellae exiles et lepidae tam foede corruptae


extant in codicibus quos saecula avarissima nobis servaverunt, a tot doc-
tis et acutis viris temptatae sunt ut certa remedia iam praesto non sint,
ad dubitandum aut desperandum ansam paene omnis versus praebeat.

2. In fabellas Latinas Medii quod dicitur Aevi


Fabellae Aevi Medii Aesopiae editionem quae critica iudicari possit
pleraeque etiam nunc desiderant. Nam Leopoldus Hervieux miro cum
amore et diligentia ingentem molem congessit, sed textum definire
critica cum arte excussum nec voluit nec potuit. Hunc morem servavit
ut inter multos quos enumeraverat codices unum ex suo arbitrio eligeret
et transcriberet; menda modo in textu indicavit, modo in apparatu
correxit, sed de plerisque tacuit. Quare facillimum est et ludimagistro
magis dignum quam critico errata apud Hervieux corrigere; liceat tamen
spinosa Phaedri frutecta egresso per aperta prata ambulare. Paucas
fabellas tangam, emendationes nimis obvias neglegam.

Hervieux II p. 134, x (Ademari)


Viri frequentabant nuptias.
Ex Phaedri I 6. Legendum: Vicini qui erant furi frequentabant
nuptias, quod iam habet G. Thiele, Der lateinische Äsop des Romulus,
Heidelbergae 1910, pp. 28 et 29.

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Marginalia Aesopica 339

II p. 135, xiii (Ademari)  


Hospitio quondam mus urbanus exceptus est rustici et humili glande
coenavit. Causam perfecit.
Mendum indicavit, non correxit Hervieux, servavit Thiele (p. 45).
Scribendum puto coenam perfecit.

II p. 136, xvi (Ademari)  


Asinus, ut vidit ferum (scil. leonem) impune laedi, calcibus coepit.
Legendum: calcibus contundere coepit. Cf. in Romuli recensione
vetere (apud Thiele, p. 63) Hocque asinus cernens calcibus illi frontem
contundit.

II p. 142, xxxi (Ademari)  


Rapidius igitur currens ex Nilo, cum bibere coepisset canis, dixit ei
crocodillus: Quod libet labio tuo, noli vereri.
Sic etiam Thiele, p. 116. Textus fortasse tolerabilis; sed suspicor:
Quod libet <lambe> labio tuo: noli vereri. Cf. Phaedr. I 25, 6 Quamlibet
lambe otio.

II p. 280, xxxiii (= 696 P.) (apud Romulum Monacensem)  


Lupus autem, stans in monte, contradicebat: Certe non tanta folias
(sic), ut amplius me colligas.
folias cod., folleas Perryus, folia (scil. insania) sum ego.

II p. 331, xxxii (epimythium fabulae de musca et calvo Gualteri Anglici)


Iure potest laedi ludens ut laedat; inprimum
unde brevis coepit laesio, magna redit.
Pro inprimum fortasse scribendum in ipsum.

II p. 337, xlii (Gualteri Anglici)


Quod non es, non esse velis; quod es, esse fatere:
est male quod non est, qui sinit esse quod est.
qui sinit ] qui negat alii codd.

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340 Appendice A

Nullam tolerabilem sententiam efficere potui. Fortasse ineptus


scriptor primum voluit Est male quod non est, qui sinit esse, sed, cum
versus mancus esset, postea temptavit qui negat esse quod est, et, qui
negat supra qui sinit scripto, quod non est in versu reliquit: ex duabus
contaminatis sententiis tale monstrum in lucem editum est.

II p. 347, lix (Gualteri Anglici)


Ut quemquam perimas, nullum sibi suadeat aurum.
sibi ] tibi.

II p. 560, xx (= 659 P.) (apud Romulum Anglicum)  


Congressu autem inito, cervum in yliis (sic) ictu pupugit amarissimo
quaedam vespa.
in yliis ] aculei Perryus  pupugit et cod. Paris. Lat. 347 b (teste Hervieux)
quem (scil. cervum) oester et vespa velud acutissimis iaculis figunt in pectore cod.
Bruxellensis 536 (teste Hervieux II p. 602), cervum asilus ictu pupugit <et>
amarissima quaedam vespa A. C. M. Robert (Fables inédites des XII e, XIII e et
XIV e siècles, Parisiis 1825, II p. 559), une wespe s’est desrée, si puint le cerf par les
costez Marie de France (apud K. Warnke, Die Fabeln der Marie de France,
Halis 1898, p. 65)

Aculei parum probabile (raro Perryum in corrigendo felicem expertus


sum). Non dubito quin primus lepidissimae fabellae narrator oester,
alius asilus scripserit; deinde alius, lectione asilus aut non intellecta aut
consulto neglecta, in iliis (Italice nei fianchi vel nell’inguine) scripsit,
quod etiam Maria in suo codice repperit.

II p. 606, lx (apud Romulum Anglicum)  


Sed vulpes, ursam effugere non valens, inter spinas acutissimas et virecta,
coepit hac et illac discurrere. Sed hostis, per omnes viarum difficultates,
animus fractus est eius, insecuta, donec inter ipsas spinas et lenta numina
(sic) implicita resedit.
Certum verborum ordinem restituere non ausim: fortasse sed hostis
per omnes viarum difficultates insecuta <nec> animus fractus est eius
donec... aut sed hostis per omnes viarum difficultates insecuta <est> donec
animus fractus est eius <et> inter… Sed vimina pro numina facillima
emendatio est, sive codex sive editor in legendo erravit.

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Marginalia Aesopica 341

IV p. 291, lxviii (Odonis de Ceritona)  


Ipse (scil. senex), iudicium Domini timens, ipsam (scil. peccatricem)
introduxit. Diabolus coepit agratare (sic) cor eius. Qui cum intellexisset
esse stimulos diaboli, dicebat…
Agratare non intellecto Hervieux mendum indicavit. Puto scri-
bendum esse aggratare: gratare, scil. scabere, unde apud nos grattare,
iam ex Du Cangio notum.

IV p. 298, lxxxiv (Odonis de Ceritona)  


…quaedam puella, quia quidam lechator infamiam sibi imposuerat,
cum prius posset nubere cum melioribus villae, ita vilipendebatur propter
infamiam quod etiam tibaldi ipsam contempnebant.
tibaldi ] an ribaldi? (de cuius significatu cf. Du Cangium).

IV p. 300, xc (Odonis de Ceritona)  


Si ambiciosus es, respice vitam sancti illius, qui pro magno coram popu-
lo habebatur; sed, ut fatuus reputaretur, se nudum expoliavit, et coram
populo vestimenta sua lavit.
Textum mutare non audeo, sed laniavit suspicor.

IV p. 301, xciv (Odonis de Ceritona)  


Quaedam meretrix, quia fuit inveterata, [et] amplius lucrari non potuit.
Et seclusit Hervieux; at quam saepe ὑποτάξις et παρατάξις in sermo-
nibus vulgaribus contaminatae sint nemo ignorat: ergo et tolerandum.

Habuit tamen pulcram filiam et dixit clamatrici: Homines non curant


de vino meo, quoniam vetus est; clamo vinum de altero dolio, scilicet de
filia mea, ut precio dato sufficienter bibant.
Clama conicio dubitanter.

IV p. 313, cxxvi (Odonis de Ceritona)  


Qui respondens (sic) quod asperitatem cibi tolerare non posset. Et dixit
ei alius…
Posset, et dixit interpungendum neque aliud quicquam mutandum:
huiusmodi syntaxis in vulgari sermone toleranda.

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342 Appendice A

IV p. 330, clxviii (Odonis de Ceritona)  


Dicitur, licet non sit autenticum, quod beata virgo, quando parvulum
suum portavit, [quod] hospitata fuit in domo cuiusdam mulieris, quae
habuit filium, qui (quae cod.) semper flevit.
Alterum quod seclusit Hervieux; sed utrumque quod in vulgari sermo-
ne tolerandum: si exempla desideras, sescenta in Decamerone invenies.

IV p. 331, clxix (Odonis de Ceritona)  


Et ostendit fornacem ardentem et matrem in fornace usque ad collum,
dentibus stridentem, et vermes eam corroderunt.
Corroderunt ne in tam vili quidem sermone tolerabile: ergo corrodentes.

IV p. 341, cxci (Odonis de Ceritona)  


Quidam senex narravit se vidisse angelos levantes manus et gaudentes,
quando loquebantur de aedificatione animarum; quando vero loquebantur
de rebus saecularibus, videbat porcos sordidos volitantes et sordidantes eos qui
de his rebus loquebantur.
volitantes ] an volutantes?

Sed fieri potuit ut senex porcos sicut angelos volitantes videret.

IV p. 421 sq., xiii (Iohannis de Schepeya)  


Cervus … dum biberet, audivit tumultum venatorum et canum
propium, quantum et fugit in densiorem silvam…
propium quantum ] propinquantium

Nullum mendum hic Hervieux indicavit: miror eum talem textum


intellexisse!

IV p. 426, xxiv (Iohannis de Schepeya)


Et sic tercio, et nihil alias receperunt emendae (sic).
Hervieux emendae pro errata lectione habuit; sed recta est lectio,
idem quod Italicum ammenda significans, sicut apud Du Cangium
legimus. Amenda pro emenda rara est vox.

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Marginalia Aesopica 343

IV p. 428, xxx (Iohannis de Schepeya)  


Duo socii ibant per viam, et dixit alter alteri: Firmabo tecum, quam
plus lucrabor per mendacium quam tu per veritatem.
quam plus ] quod plus.

IV p. 433, xxxix (Iohannis de Schepeya)  


Hoc bene verificat[ur] illud Senecae…
verificatur cod., verificat Hervieux

Nihil mutandum: hoc ablat. Cf. in eadem pagina, xl Hic verificatur


illud Boecii…

IV p. 437, l (Iohannis de Schepeya)  


Lupus vero non audivit tantum … vel, si audivit, tradidit ipse gulam
oblivioni, quae, ut dicit Augustinus, aufert memoriam...
ipse gulam ] per vel propter gulam.

IV p. 440, lv (Iohannis de Schepeya)  


Circuivi arbores et flores, prata et nemora; sed nusquam inveni tam
amoenum et tam odoriferum locum, sicut istum. Hic requies mea,
quoniam elegi eam.
Nihil mutare ausim, sed suspicor elegi eum (scil. locum).

IV p. 447, lxvii (Iohannis de Schepeya)  


Et surgens (scil. gallus) induxit eam (scil. vulpem) in domum ad locum
secretum, ut audiret eius confessionem. Videns enim vulpes sibi competere
tempus et locum, gallum sumens per collum, strangulavit eum…
enim ] fortasse autem.

IV p. 448, lxx (Iohannis de Schepeya)  


Lupus, obvians una die lepori, [et] dixit ei…
Et seclusit Hervieux; sed tolerandum est: cf. quae adnotavi ad IV
p. 301, xciv.

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344 Appendice A

IV p. 448, lxx (Iohannis de Schepeya)  


…audeo tecum certare, et vadiabo quod vindicam te.
vindicam ] vincam
Nescio utrum candidus Hervieux an typotheta neglegens erraverit.

3. In Aesopica Graeca adnotationes tres


353 Ch. (II p. 557)  Χελώνη καὶ λαγωός
Ὁ δὲ λαγωὸς ποσὶ qαρρῶν ἐφύπνου·
μετὰ δὲ ταῦτα ἐξαναστὰς τῆς κοίτης
δρομαῖος ἧκεν εἰς τὸν τόπον τοῦ ὅρου,
ὅστις καὶ εὗρε τὴν χελώνην ὑπνοῦσαν.
In tam vili sermone paene nil admirandum; ὅπου tamen pro ὅστις
suspicor.

359 Ch. (II p. 564 sq.)  Ψύλλα καὶ βοῦς


Ψύλλα δέ ποτε τὸν βοῦν οὕτως ἠρώτα·
«Τί δὴ [παqὼν], ἀνqρώποις ὁσημέραι δουλεύεις,
καὶ ταῦτα ὑπερμεγέqης καὶ ἀνδρεῖος [τυγχάνων],
μοῦ σάρκας αὐτῶν οἰκτίστως διασπώσης
καὶ τὸ αἷμα <αὐτῶν> χανδόqεν πινούσης;»
αὐτῶν suppl. Chambryus   χανδόν cod., χανδόqεν Chambryus

αὐτῶν post tam exiguum intervallum iteratum etiam in tam vili


sermone displicet: ἅδην, scil. ad satietatem, malim; sed fortasse χανδόν
servandum et aliud remedium exquirendum.

Sententiae 19 P. (p. 252) (ex Maximo Confessore)  


Ὁ αὐτὸς (scil. Aesopus) πυνqανομένου τυράννου τί δήποτε οὐχ οἱ
πλούσιοι πρὸς τοὺς σοφοὺς ἀπίασιν, ἀλλ’ ἀνάπαλιν, εἶπεν ὅτι οἱ
σοφοὶ μὲν ἴσασι ὧν ἐστιν, αὐτοῖς χρεία πρὸς τὸν βίον, οἱ δὲ οὐκ
ἴσασιν, ἐπεὶ σοφίας μᾶλλον ἢ χρημάτων ἐπεμελοῦντο.
Perryi apparatum partim transcribo:
Codd. 12, 20, 29, 35, quibus Anton. [Antonius Monachus, saec. xii] in Melissa
I 50 (p. 933 d) fons esse videtur: (…) ἐπεὶ σοφίας (σοφοί 20) μᾶλλον (μ. σοφίας

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Marginalia Aesopica 345

Ant.) ἢ χρ. ἐπεμελοῦντο codd. 12, 20, Ant.   χρημάτων γὰρ ἀλλ’οὐχὶ (οὐ
35) σοφίας ἐπεμ. (ἐπιμελοῦνται 35) codd. 29, 35  malim σοφίας <ἂν>

Sed in Gnomologio Vaticano quod edidit Leo Sternbach (cf.


«Wien. St.», 9, 1887, p. 180 sq.), legimus μᾶλλον χρημάτων ἢ σοφίας,
quae sententia nihil habet absurdum. Textum quem Perryus tolerat
non intellego: scribendum χρημάτων μᾶλλον ἢ σοφίας: «ignorant,
quoniam divitias magis quam sapientiam curaverunt».

4. In Vitam Aesopi
Quam bene de studiis Aesopicis vir doctus Americanus Ben E.
Perryus meritus sit non est quod dicam: nam opus magnae molis
non sine audacia inceptum, magna cum constantia et φιλοπονίᾳ
perfectum2 multi et docti viri satis laudaverunt. Primus Perryus
ignotam, etsi iam notae satis similem, Aesopi Vitam in lucem protulit
ex codice quodam Cryptoferratensi, qui Napoleonis temporibus
surreptus abhinc fere tria decennia ultra Oceanum quasi altera
Arethusa in Americana bibliotheca emersit, scilicet ultimum et
ditissimum dominum secutus3. Textus in codice Cryptoferratensi tam
foede corruptus exstat ut plerumque frustra remedia quaeras; multam
diligentiam multumque acumen Perryus insumpsit, sed hic illic non
satis prudenter coniecturas pro certis in textum recepit, quas in
apparatum inter dubia remedia reicere malis. Incerta cum incertis
commutare ingratus labor: quare incertas coniecturas, quae mihi
legenti multae occurrerunt, cautus omittam; liceat tamen mihi quoque
aliquando prudentiae leges violare et nova remedia exquirere, quae non
certa, sed ne futilia quidem spero.

16 (p. 40)  
ἐπεισέρχεται οὖν ὁ Αἴσωπος καὶ qεωρεῖ παίδας καλλίστους, πάν-
τας καqαιρέτους, ὡς Διονύσους καὶ ̓Aπόλλωνας.
καqαιρέτους ] falso, suspicor, pro ἐξαιρέτους

2
  B. E. Perry, Aesopica, I, Urbanae (Illinois) 1952. [Fanno riferimento a questa edizione sia
la numerazione dei capitoli, sia le indicazioni di pagina relative tanto alla Vita Aesopi
quanto alla Vita Lolliniana (cfr. infra, § 5)].
3
  Codicis fortunas Perryus narravit, ibid., p. xiv sqq.

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346 Appendice A

Ita Perryus; ego suspicor καqαρωτάτους. Cf. 22 G4 (p. 42)


παρελqὼν εἰς διακονίαν καqαρόν μοι σωμάτιον ἀγόρασον. 24 W5
(p. 85, 13 sq. apud Perryum) καqαρὸν ὂν τὸ γύναιον οὐκ ἀνέξεται ὑπὸ
αἰσχροῦ δουλεύεσqαι σωματίου. 29 G (p. 45) ὁ Ξάνqος λέγει αὐτῷ·
«Αἴσωπε, ὅτι μου τὸ γύναιον καqαρόν ἐστιν, περίμενε πρὸ τοῦ πυλῶνος
μέχρις οὗ πρὸς τὴν γυναῖκα καταγγείλω, ἵνα μὴ ἐξαίφνης τὴν σαπρίαν
σου ἰδοῦσα τὴν προῖκα ἀπαιτήσασα φύγῃ» (quae aliquam lucem
accipiunt ex eis quae paulo post Xanthi uxor effutit: κοιμηqεῖσα …
εὐqὺς ὄνειρον εἶδον ᾧ πάγκαλον σωμάτιον ὠνησάμενος ἐχαρίσω μοι).
31 G (p. 46) ἐπιστάμενός μου τὸ φιλοκαqάριον ἤνεγκάς μοι τοῦτον
ἐπίτηδες… Quibus locis, nisi fallor, καqαρός pulchritudinem munditiis
ornatam significat.

19 (p. 41)  
ἐξελqὼν γὰρ εἰς τὴν ὁδὸν περιπατεῖν τὸν γούργαqον ἐδίδασκεν.
Si contextum inspicis, non γάρ, sed δέ desideras, quod exstat in W;
cum paulo post γάρ bis occurreret, scriba in errorem inductus est.

19 (p. 41)  
καὶ κακηγκάκως ἤλqον εἰς πανδοχει̃ον· καί φησιν ὁ <σωματέμπο-
ρος>· [πανδοχεύς· δὸς ἑκάστῳ προσφάγην· ἀσσαρίου ἄρτους γάρ
ἔχομεν] «Aἴσωπε, δὸς ἑκάστῳ ἀνὰ ζεῦγος ἄρτον».
Verbis quae Perryus seclusit, nihil in W respondet: fortasse in Vita
quam et G et W refinxerunt, nondum apparuerant; sed non pro certo
habeo ea ex G pro spuriis reicienda: ex ipso enim auctore, qui primus
Vitam, qualis extat in G, refinxit, induci potuerunt: si πανδοχεύς (vel
πανδοχεῦ), δὸς… scribis, in verbis mercatoris, qui prius cauponem,
postea Aesopum compellat, nihil salebrosum displicet. προσφάγη pro
προσφάγημα in huius Vitae sermone tolerabile; sed utrum lectionem
auctori primo an indocto alicui scribae debeamus diiudicare non ausim.
In qua ἐποχῇ et alibi haereo: in 71 quis diiudicet cui πάντα πεπλήρωνται
(pro πεπλήρωται) debeamus? Quis in 102 ὥστε οὐ μόνον τά βάρβαρα
τών ἐqνῶν6 κατειληφέναι, ἀλλὰ καὶ τὰ πλείονα μέρη ἕως Ἑλλάδος

4
  G est codex Cryptoferratensis.
5
  W est recensio quam A. Westermann Brunsvigae 1845 edidit.
6
  τῶν ἐqνῶν Perryus dubitanter, αὐτῶν G, αὐτόν Perryus in apparatu fortasse recte.

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Marginalia Aesopica 347

ὑποσέτακται, tolerabile quidem, servandum sit an ὑποτετάχqαι praelato


concinnitas restituenda?

30 (p. 45)  
ἄλλη· «ἄλλη πιqανωτέρα λήψεται».
De textu Perryus ipse dubitat et ἄλλη· ἄλλ’ἡ… in apparatu proponit;
fortasse ἄλλη· [ἄλλ] «ἡ πιqανωτέρα...». Comparativum pro superlativo
et alibi occurrit: 18 (p. 41) τὸ πάντων ἐλαφρότερον.

52 (p. 52)  
τὸ γὰρ ἁλυκὸν τῷ δριμυτέρῳ συγκέκραται τῆς γλώσσης ἵνα τὸ
εὔστομον καὶ τὸ δάκνον ἐπιδείξῃ.
ἐπιδείξῃ vix tolerabile: ἐπιδέξηται desideras: ἐπιδέξεται W, quod
optimam efficit sententiam. Sed hic fortasse primus ipse sartor Vitae
Cryptoferratensis erravit.

71 (p. 58)  
ἀλλ’ ἅπερ παροινῶν ἔqου…
ἀλλαπερι παροινῶν ἔση G (post ἔση aliqua exciderunt). Etsi συνέqου
legitur in W, lectio codicis G ἔqηκας commendare videtur.

76 (p. 59)  
ἕως τὰ πρὸς τὸ δεῖπνον γένηται ἐλqὲ σὺν ἐμοὶ ἔξω τῆς πύλης <ἴνα>
διακινήσωμεν.
Equidem ἴνα non desidero: in tali sermone παράταξιν rectius
requiras quam reicias.

77 (p. 59)  
νῦν μὲν καὶ νῦν ἥμαρτες.
De textu iure dubitat Perryus, qui νῦν μὲν καινόν, suadente Post,
vel simplicius νῦν μὲν [καὶ νῦν] scribere malit; sed aliud remedium
praesto est: σὺ μὲν καὶ νῦν.

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348 Appendice A

106 (p. 68)  


ἐπελάβετο δὲ τὴν ὄψιν ἑαυτοῦ τύπτων καὶ <ἤρξατο> κατατίλλεσqαι
καὶ ὀδύρεσqαι τὸν Αἴσωπον.
Nihil supplendum, sed τύπτων in τύπτειν corrigendum: simile
mendum, ὑπάρχων pro ὑπάρχει, occurrit in 115 (p. 70). Ἐπιλαμβάνεσqαι
cum infinito rarum, cum participio autem numquam occurrisse
videtur.

110 (p. 69)  


εὐπροσήγορος καὶ κοινὸς γίνου τοῖς συναντῶσί σοι…
Codex Vindobonensis quo hic Perryus utitur, pro εὐπροσήγορος ex
foeda corruptione ἴσος ἐν τέκνοις habet, G, a Perryo in apparatum
relegatus, vocem nihili σύπεπτος. Perryus εὐπροσήγορος ex W
derivavit; sed pro certo habeo sub corruptis in codice Vindobonensi et
G lectionibus aliquid obscurius latere, quod eruere nequeo: σύμπνοος
mihi excogitanti occurrit, sed ne mihi quidem ipsi placuit.

131 (p. 75)  


<ἀνήρ τις> μακρὸν πυρρὸν νευρῶδες ἔξω καὶ ἔσω τρέχον μοι ἐνέβαλεν.
ἔξω ἔασω G

Etsi ἔξω καὶ ἔσω exstat in W, vix dubito quin legendum sit ἔξω
ἔσω: contraria ἀσυνδέτως saepe inter se opposita occurrunt: ἄνω
κάτω, ἄνδρες γύναικες, ἐώqουν ἐωqοῦντο, etc. (cf. E. Schwyzeri
Griechische Grammatik, Monaci in Bavaria, II, 1950, p. 701); nec tantum
apud Graecos hoc pervulgatum.

141 (p. 77)  


ἄνδρες Δέλφιοι, ἠβουλόμην Συρίαν, Φοινίκην, Ἰουδαίαν μᾶλλον
κυκλεῦσαι ἢ ἐνqάδε … ἀποqανεῖν.
Comparatio paene insulsa videtur: cui sensum suum reddes, si W
collato προῃρούμην Σικελίαν ὅλην κακοπαqῶν κυκλεῦσαι ἢ ἐνqάδε
… ἀποqανεῖν, ante κυκλεῦσαι suppleveris κακοπαqῶν: vix credo
primum Vitae G auctorem vocem omisisse: scribam parum diligentem
τὸ ὁμοιόαρκτον in errorem induxit.

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Marginalia Aesopica 349

5. In Vitam Lollinianam
Solitam Perryus diligentiam in Vita Lolliniana edenda remisisse
videtur: nam in hac vasti operis particula modo textum acutis oculis
scrutatur, modo in transcribendo contentus est.

9 (p. 112)  
ego pergam antea ad dominum meum et anunciem ei antequam iste
vadat.
Lege ut anunciem; pergam futurum est: cf. enim in textu Graeco
(9 W, p. 82): ἀλλ’ ἐγὼ τῷ δεσπότῃ ἀπαγγελῶ ἅπαντα.

24 (p. 116)  
Et discipuli, ut viderent eum separare, dixerunt…
Viderent pro viderunt vix corrigere licet, quia etiam paulo antea
occurrit: ut viderent Esopum ridere; sed ante separare supplendum est se:
cf. enim paulo antea separavit se ab eo.

25 (p. 116)  
Cur ego tristor?
e cod., e (enim) malit Perryus; τί γάρ; textus Graecus (25 G, p. 43 = 25 W,
o i

p. 85); ego malim ergo.

25 (p. 116)  
Non <id> dico, sed ubi fuisti natus?
Supplere malim hoc: cf. paulo post: Non ex hoc te interrogo, sed in quo
loco fuisti natus; non hoc dixit mihi mater mea…

43 (p. 120)  
porcus qui ambulat per † currē † habet tres (scil. pedes).
cursum Perryus (cursus est, secundum Du Cangium, «pastio seu glandatio
porcorum in silvis, quas pascendo percurrunt»), curtem ego

Nimis exquisitam Perryi doctrinam admiror, non sequor. Curtis


(Francogallice cour, Italice corte, cortile) idem significat quod in textu

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350 Appendice A

Graeco τὸ περιαύλιον (42 W, p. 88, 29 sqq. Αἴσωπος … κατελqὼν εἰς τὸ


περιαύλιον … τοῦ σιτουμένου χοίρου τὸν πόδα κόψας … εἰς τὴν χύτραν
ἔρριψε …). In 42 (p. 120) codex Vitae Lollinianae de curte nullam
mentionem servat; sed suspicor, ubi traditum est Esopus … vidit porcum
ambulantem, supplendum esse porcum <per curtem> ambulantem.

45 (p. 120)  
Clamavit canem et ait «Veni, Linge, et manduca».
Quamquam textus Graecus Λύκαινα canis nomen habet, fortasse
linge non nomen est, sed imperativus modus ex lingere. Mihi excogitanti
etiam lynx occurrit, sed non inducor ut recipiam.

45 (p. 121)  
Revertente autem Sancto a cena, ceperunt unus ad alterum interrogare
quomodo sunt littere in omnibus. Esopus stabat retro et dixit: «Si
autem resurgunt mortui et sua propria tollunt, tandem fit littere».
47 W (p. 89, 18 sqq.)  ἑνὸς δὲ εἰπόντος «πῶς ἔσται μεγάλη ταραχὴ
ἐν ἀνqρώποις;» Αἴσωπος ὄπισqεν ἑστὼς ἔφη «ἐὰν οἱ νεκροὶ
ἀνιστάμενοι τὰ ἴδια ἀπαιτήσωσι».

Quam perspicua est Graeca narratio, tam obscura interpretatio


Latina. Pro omnibus scribendum est hominibus; sed quid sibi velint
istae litterae non intellego: lites conieci, quod Graecae voci ταραχή non
male respondet, sed remedium pro certo adhibere non ausim.

53 (p. 122)  
pro lingua omnia in mundo laborantur, humiliantur, exaltantur.
In sermonem quamvis barbarum laborantur pro laborant recipere
dubito: voces sequentes scribam in errorem induxerunt.

54 (p. 122)  
Ecce lingue peiores sunt nobis apposite quam hesterno die stomachus <et>
palatus noster manducant; disscipatus est et linguas non duramus.
Cum Perryo locum pro desperato habeo; si temptare licet, hoc
proponere ausim: lingue … palatus nostros manducant, stomachus
dissipatus est et linguas non duramus.

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Marginalia Aesopica 351

55 (p. 123)  
Pro lingua inimicicia, superbia, altitudo, homicida, invidia, traditio
civitatis…
Homicida pro homicidia (in Graeca narratione φqόνοι exstat, sed
fortasse ignotus interpres φόνοι legit et verbum invidia pro Graeco
ζηλοτυπίαι posuit) Du Cangio non ignotum; sed vix dubito quin
homicidia restituendum sit. An homicida pro singulari inter singularia
habendum? Credere nequeo.

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352 Appendice B

Appendice B

Minima Aesopica1

1. La favola esopica e il suo inventore

La favola è una narrazione con personaggi immaginari (sovente ani-


mali o piante), dalla cui azione si ricava una massima sul modo conve-
niente di comportarsi, oppure una constatazione di carattere generale
sul comportamento umano. A differenza dell’aneddoto ha carattere
allegorico, ma l’allegoria si riferisce all’umanità in generale (allegoria
indeterminata), non a precisi personaggi e fatti storici (allegoria deter-
minata). Ciò che essenzialmente caratterizza la favola rispetto alla fia-
ba è il fatto che essa ci è pervenuta per il tramite di una tradizione
scritta pressoché ininterrotta (non senza apporti di provenienza orale,
ma casuali e difficilmente documentabili); di conseguenza, a partire
dal greco Esopo, la favola si è costituita come un genere letterario
autonomo (favola esopica), tramandatosi in forme stabili da genera-
zione a generazione. Sicuramente i Greci derivarono l’idea della favo-
la esopica e molti materiali relativi dal folklore dell’Asia Minore; l’ori-
gine prima a noi nota è nella letteratura dei Sumeri, donde l’uso passò
nella letteratura babilonese. Oggi non si pensa più a un’origine india-
na, è accertato anzi che l’India attinse a sua volta al folklore dell’Asia
anteriore. La tradizione indiana in questo campo è d’altronde ricchis-
sima; bisogna specialmente ricordare le raccolte Pañcatantra (ossia

1
  [La prima sezione (titolo redazionale) è costituita dalle voci Favola ed Esopo redatte per
l’Enciclopedia europea Garzanti, vol. 4, Milano 1977, pp. 785 e 618-619; le successive due,
datate rispettivamente 1969 e 1973, sono estratte da A. La Penna, Aforismi e autoschedia-
smi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005, pp. 68-69 e 123-124; la quarta proviene da
A. La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo, con un saggio
su Tommaso Fiore, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 47-48; la quinta, qui data con titolo
redazionale e il taglio di una breve nota bibliografica riprodotta a p. 332, è apparsa come
Appendice II (p. 34) nella stampa 2009 del cap. 2].

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«I cinque libri», secc. II-VI d. C.) e Hitopadesha (cioè «Il buon amma-
estramento», secc. X-XIV d. C.), nonché quella di Kalīlah e Dimnah (il
titolo allude a due sciacalli protagonisti di un racconto), che fu poi tra-
dotta in arabo (sec. VII), ebraico, latino (Giovanni da Capua, sec. XIII)
e si diffuse così nell’intera area mediterranea.
Quanto alla favola esopica, già a partire dal III secolo a. C. circola-
vano raccolte di tali materiali scritte in prosa greca. Un’ampia raccolta
di narrazioni concise e succose fu redatta nel I o II secolo d. C. (recen-
sio Augustana); altre raccolte furono composte in età bizantina: una di
narrazioni meno succinte e più ornate (recensio Vindobonensis) fu mes-
sa insieme forse già nei secoli VI-VII d. C. (secondo altri nell’XI o
XII); un’altra in prosa più letteraria ed elegante (recensio Accursiana)
nel Medioevo, comunque non dopo il XIII secolo. Nella seconda metà
del I secolo d. C. il poeta siriaco Babrio scrisse una raccolta (in tri-
metri giambici scazonti) che influì su posteriori raccolte in prosa. I
Latini conoscevano favole esopiche fin dal tempo di Ennio. Il genere
fu importato ed elaborato in senari giambici da Fedro. Alcune favole
di Babrio furono rielaborate in distici elegiaci da Aviano. Nella tarda
antichità, su Fedro e su raccolte greche, si formò una raccolta latina in
prosa, il cosiddetto Romulus, sfruttato poi in numerose rielaborazioni
medievali.
Nell’oratoria antica a noi nota la favola esopica non ebbe fortuna
(ne ebbe di più nella filosofia popolare); tuttavia i retori antichi, a co-
minciare da Aristotele, se ne occuparono e per secoli le diedero posto
nella formazione retorica, compilando in greco brevi raccolte per uso
delle loro scuole.
La favola esopica dovette molto della sua vitalità alla diffusione fra
gli strati subalterni della società antica (non per caso dei due massimi
autori, Esopo e Fedro, l’uno fu schiavo e l’altro fu ritenuto tale): da essi
questo genere attinge una visione utilitaristica e pessimistica della vita,
la cui conservazione è affidata tutta alla forza, all’astuzia, all’accortezza.
I rapporti umani si fondano su una natura immutabile, che bisogna
accettare: il suo rudimentale razionalismo e materialismo sfociano in
una desolata rassegnazione.

Esopo, favolista greco (secc. VII-VI a. C.), fu considerato da Greci


e Latini l’inventore della favola detta appunto esopica, in realtà nata

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354 Appendice B

vari secoli prima di lui. In altri tempi si dubitò della sua esistenza
(Lutero, Vico); ma oggi non si nutrono più dubbi in proposito. Nel
V secolo a. C. era diffusa una sua biografia, nota a Erodoto e ad Ari-
stofane, che conteneva notizie attendibili (anche se non è facile sepa-
rarle dalle invenzioni); in essa venivano inoltre inserite alcune favole
come narrate da Esopo in determinate occasioni. È ben credibile che
egli sia stato uno schiavo di origine frigia, vissuto a Samo avendo come
padroni un certo Xanto e un certo Iàdmone; che abbia fatto un viaggio
al santuario di Apollo a Delfi e che lì, inimicatosi con la sua satira i
sacerdoti e gli abitanti del luogo, sia stato da essi ucciso (564?). Entrò
presto nel folklore e nella letteratura come un tipo particolare di sag-
gio, a cui si attribuirono contatti con Creso, Solone, i sette savi, viaggi
ad Atene e in varie parti del mondo greco, poi anche un lungo soggior-
no alla corte di un re di Babilonia. Una parte notevole di queste tradi-
zioni costituisce un’ampia Vita, messa insieme già nel I secolo a. C. e
conservata in due redazioni diverse. Fu immaginato anche zoppo
e deforme. È sicuro che Esopo contribuì a diffondere il tipo di favola
a lui attribuito; ma certamente, senza farne un genere a sé, egli vi me-
scolava sentenze prive di racconto e motti spiritosi. Che l’esperienza di
schiavo fosse alla base della sua morale è probabile; anche lo spirito
«anticlericale» che avrebbe causato la sua morte può essergli plausibil-
mente attribuito.

2. Mao Tse-tung come Esopo moderno

La morale che più spesso vien fuori dalla favolistica esopica greca e
latina è una morale illuminata da un rudimentale razionalismo e ma-
terialismo, ma nello stesso tempo dominata da un’amara rassegnazio-
ne: nel mondo degli uomini il potere è nelle mani dei più forti, dei più
violenti o dei più astuti, che mirano tutti al loro utile, non dei più
giusti; e questa situazione è immutabile: l’astuzia, l’abilità, l’energia
servono per adattarsi in un mondo siffatto, per sopravviverci, ma è il-
lusoria ogni speranza di mutarne le leggi fondamentali; anzi, guai a chi
disconosce quelle leggi!
Nella favolistica moderna (su cui quella antica ha conservato sem-
pre una forte influenza) si potranno trovare certamente interpretazio-
ni della vita e orientamenti diversi. Il completo superamento, anzi il

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rovesciamento della morale esopica si trova nell’ideologo moderno che


più volentieri si serve di favole, attingendole nel vasto repertorio della
tradizione letteraria e popolare cinese (dove la frequenza di favole di
tipo esopico si deve per molta parte all’influenza del buddismo). Mi
riferisco soprattutto alla bellissima favola Come Yu Kung rimosse le mon-
tagne2. Il vecchio Yu Kung coi suoi figli si mette a spianare le due
montagne che sono davanti alla porta di casa sua. Un sapientone scet-
tico irride i loro sforzi, ma Yu Kung è sicuro che il lavoro paziente
vincerà: se non arriverà lui allo scopo, ci arriveranno le generazioni
future, continuando, senza stancarsi, il suo lavoro. Dio, impietosito,
manda due angeli a rimuovere le due montagne. Per Mao Tse-tung il
vecchio paziente è il Partito comunista cinese, le due montagne sono
l’imperialismo e il feudalesimo, il Dio pietoso il popolo cinese. Dun-
que non la rassegnazione, ma la fiducia nel lavoro instancabile e me-
todico, che si continua nella storia e alla fine, raccogliendo il consenso
di larghe masse umane, riesce a rimuovere qualunque ostacolo; e que-
sta fiducia, contrapposta allo scetticismo dei «vecchi saggi», è la sag-
gezza vera: com’era saggezza la follia dei cristiani.

3. Attualità della morale esopica

La rassegnazione è, come si sa, conclusione frequente ed evidente del


rudimentale razionalismo e materialismo esopico: non si può certo
affermare che nella favola esopica antica al pessimismo dell’intelletto
si unisca saldamente un ottimismo della volontà. È tuttavia anche vero
che il pessimismo esopico non porta all’inerzia e ciò dà un minimo di
giustificazione a chi interpreta la morale esopica addirittura come ot-
timistica. In realtà la favola esopica antica constata con lucidità nella
vita umana il dominio del lione e della golpe, della forza e dell’astuzia,
e concepisce il mondo degli uomini come retto da leggi immutabili: la
speranza di mutare quelle leggi porta o alla propria sconfitta e distru-
zione o alla rassegnazione e alla disperazione. Ma, presa coscienza di
quelle leggi, accettatele, l’uomo può, usando l’astuzia, l’energia, la pa-
zienza, riuscire a sopravvivere e a crearsi una situazione tollerabile. Noi

  La si può leggere, nella fonte più accessibile, tra le Citazioni dalle opere del Presidente Mao
2

Tse-­tung, Casa editrice in lingue estere, Pechino 1967, pp. 213-214.

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356 Appendice B

siamo cresciuti nella convinzione che la realtà è mutamento, storia, o


che, comunque, si può mutare, e abbiamo anche nutrito speranze di
mutamenti profondi, di palingenesi sociali e morali. Nessuno può tor-
nare ragionevolmente a credere, come i favolisti antichi, in una natura
umana immutabile: ce lo impediscono, oltre la coscienza storica, anche
le scienze. Ma decenni di esperienza, dopo la seconda guerra mondia-
le, ci hanno fatto sentire, e non solo capire, quali potenti forze di resi-
stenza possano opporre ai mutamenti le strutture della società e quan-
to sia breve la vita umana rispetto ai grandi mutamenti storici
nell’epoca del neocapitalismo e della coesistenza pacifica. Ci siamo
trovati a vivere in condizioni di immobilità storica, di relativa immu-
tabilità: a poco a poco ci siamo accorti di essere immersi in una palude.
In questa situazione la morale esopica riacquista una sua validità: o
farsi schiacciare nell’oscurità, tutt’al più in un luminoso eroismo inuti-
le, o sopravvivere ricorrendo all’accortezza del debole. Ciò non signi-
fica necessariamente piegarsi, umiliarsi, scendere al servilismo, e, co-
munque, non comporta l’abdicazione all’intelligenza, a cui seguono
stupide illusioni di vario genere e l’idiozia del conformismo.

4. Marchesi ed Esopo

Nei suoi studi sulla letteratura latina del I secolo dell’impero il Mar-
chesi incontrò Fedro; Esopo e Fedro furono poi autori sempre presen-
ti nel bagaglio di Tersite. Il saggio su Fedro3, anche se ha meno fasci-
no di quelli su Marziale, Giovenale e Petronio, è un profilo elegante,
scritto con amore e nello stesso tempo con giudizio molto misurato;
nella storia della favola latina viene dato, giustamente, un posto d’ono-
re a Orazio, e l’analisi della favola dei due topi è, probabilmente, la
parte più bella del libro. Ma non è la grazia dell’arte che attira Mar-
chesi verso la favola esopica.
Una ragione di attrattiva è nel fatto che in queste favole la natura
permanente dell’uomo appare in chiara luce, nella sua nudità: questo
terreno universale è il loro terreno: perciò il legame con lotte politiche
contingenti è per la favola una condizione sfavorevole: «La protesta
politica uccide la favola. La quale per essere vitale ha bisogno di cose

3
  Fedro e la favola latina, Vallecchi, Firenze 1923.

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durevoli: di ciò che è immutabile o almeno immutato nella natura


dell’uomo, non di ciò che è nella vicenda della storia. Essa deve scatu-
rire dall’unica servitù che ci ha imposto la natura, nostra padrona. L’a-
pologo politico ha la durata di un giorno; e se resta, resta quale como-
da o piacevole malignità. La favola non ha vita tra le fazioni. Essa deve
respirare all’aperto, libera e inafferrabile»4.
Altra ragione non meno valida è il pessimismo che ispira la visione
esopica della vita: «La favola esopiana riflette massimamente la lotta
dell’uomo contro l’uomo, dell’uno contro l’uno, in un mondo dove
domina l’astuzia e la forza, senza pietà né speranza: un mondo, dun-
que, anticristiano e antisociale»5. Tuttavia Marchesi non può accettare
del tutto un pessimismo così ferreamente chiuso: altrimenti anche la
speranza del socialismo sarebbe vana; né si sente a suo agio in quell’u-
tilitarismo squallido. Perciò, in uno di quei piacevoli e appassionati
dialoghi che ogni tanto impegna con Esopo, difende la cicala, onorata
dai poeti antichi, e vitupera senza riserve la formica: «quest’insetto
immondo e indistruttibile che rappresenta da secoli la parte della labo-
riosità previdente: insetto odioso e tormentoso che accorre in folla a
rodere il boccio che deve fiorire, il frutto che deve maturare, l’agoniz-
zante che deve morire, che in folla contamina la casa e la sepoltura; e
che può essere perciò esempio e conforto a quanti uomini nel formi-
caio hanno trovato molte buone leggi e molti buoni costumi della so-
cietà nostra»6. Si direbbe che un soffio della scapigliatura giovanile duri
ancora nel vecchio Marchesi; eppure quali formicai egli esaltò senza
saperlo!
Gli scritti di Marchesi sulla favola esopica non danno un’idea piena
dell’amore che egli nutriva per questa letteratura: bisogna tener conto
dell’uso che ne fa nelle sue riflessioni e nelle sue polemiche: il vecchio
Esopo poteva sempre fornire esempi adatti alla sua ironia e al suo sar-
casmo. La sua inclinazione verso il pessimismo esopico rende più com-
prensibile, io credo, la sua indulgenza verso lo stalinismo: l’autogover-

4
  Voci di antichi, Leonardo, Roma 1946, p. 226. La morale della favola, da cui il brano è
tratto, prima che in Voci di antichi, uscì in «Settegiorni», 9 maggio 1942 e in «Mercurio»,
vol. 2, 1945, nn. 7-8, pp. 91 ss.
5
  Uomini e bestie nella favola antica, in C. Marchesi, Divagazioni, Neri Pozza, Venezia
1951, p. 15.
6
  Voci di antichi, cit., p. 231.

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358 Appendice B

no delle masse è una grande aspirazione di chi ha fiducia nelle masse:


chi ha sfiducia profonda nell’uomo, o nella grande maggioranza degli
uomini, può essere portato facilmente al disprezzo delle masse, che è
un presupposto importante dello stalinismo.

5. Contro la rassegnazione esopica, il socialismo

Quasi mezzo secolo fa, nel saggio La morale della favola esopica come
morale delle classi subalterne nell’antichità [1961], interpretai la favola
esopica antica, greca e latina, come un’analisi della società e delle for-
ze che la dominano: violenza, astuzia, frode, accortezza e prudenza del
più debole per difendersi dalla violenza e dall’astuzia e sopravvivere. Il
debole, cioè il povero, per lo più viene sconfitto, oppresso o schiaccia-
to; può riuscire, tuttavia, a sottrarsi alla violenza e all’inganno: ciò che
è impossibile è mutare le regole in cui sono costretti i rapporti sociali,
regole che sono come leggi di natura; quindi l’analisi razionale dei
rapporti sociali portava a una lucida rassegnazione. La filosofia della
favola esopica antica era un materialismo rudimentale, che riteneva
immutabile l’ingiustizia della società. Auspicavo, allora, che il sociali-
smo non utopistico moderno, riprendendo e approfondendo quella
concezione materialistica, superasse la rassegnazione e liberasse i ceti
subalterni dall’ingiustizia, dall’oppressione, dalla mistificazione. La
storia, per ragioni sulle quali qui non mi propongo di indagare, ha
bloccato e cerca di strozzare quella speranza, che, tuttavia, non è an-
cora distrutta; ma la mia interpretazione della favola esopica antica
non ha subito cambiamenti rilevanti e resta sostanzialmente immutata.

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Indice dei nomi

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Indice dei nomi 361

Autori e personaggi storici antichi e medievali

Abdemon, re di Tiro, 166 Aristotele, 71-72, 76-77, 86, 112, 115, 141-142,
Abstemio, Lorenzo, 269, 273, 311 150, 164, 275, 314, 316, 321, 324, 328, 353
Acheo di Eretria, 145 Arminio, principe germanico, 193
Achille Tazio, 272 Arnobio, 50
Ademaro di Chabannes, 61, 86-87, 260, Assarhaddon, re assiro, 151
268, 271-272, 277, 280, 283-285, 294, Ateneo di Naucrati, 143
297, 338-339 Attico, filosofo platonico, 120
Aftonio, 61-62, 78, 273, 283, 308-309, 312, Augusto, imperatore, 24, 62, 80, 184, 187,
315 191, 202, 223, 234
Agazia Scolastico, 323 Aviano, 12, 62, 84, 184, 236, 263, 269, 281,
Ah.īqār, ummanu assiro, 20, 72, 74-75, 283, 296, 305, 353
96-100, 110, 118, 123, 135, 139-140,
151-157, 160, 163, 166, 321 Babrio, 12, 16, 24, 28, 32, 57, 59, 62, 68, 71, 79,
Alessandro Magno, 89, 139, 156, 158, 254 81-88, 91, 93, 101-104, 111-112, 115-116,
Alessi, commediografo, 149, 162 118-119, 130, 140, 183-184, 214, 236, 241,
Alighieri, Dante, 238 246, 254-255, 258-260, 263-291, 293-294,
Amasi, faraone, 107, 142, 159 296-300, 302, 304-321, 335, 353
Amenophis III, faraone, 107 Batillo, attore, 191
Antifilo di Bisanzio, 87, 284 Biante, 159, 161
Antipatro di Tessalonica, 186 Boccaccio, Giovanni, 178, 342
Antistene, 86, 275
Antonio Monaco, 344-345 Caligola, imperatore, 189
Apopi, faraone, 160 Callimaco, 91-92, 112, 116-117, 142, 144-146,
Appiano, 86, 275 148, 184, 199, 253, 272, 321
Apuleio, 138-139 Carisio, Flavio Sosipatro, 184
Archiloco, 68, 70-72, 84-85, 88, 93-95, 102, Catilina, Lucio Sergio, 44, 47, 222
110, 115, 119-122, 124, 130, 184, 205-206, Catone, Marco Porcio, l’Uticense, 325
253, 258, 271, 286, 296, 314, 317, 325 Catullo, Gaio Valerio, 37, 227
Aristide Retore (Publio Elio Aristide), Cesare, Gaio Giulio, 17, 31, 37, 234
281 Chilone, 149, 169
Aristippo, 312 Cicerone, Marco Tullio, 31, 227, 234, 325,
Aristofane, 70, 72-74, 76, 99, 112-113, 141, 338
144-146, 150, 157, 162, 167, 170, 180, Ciro il Grande, 275
246, 253-254, 290, 301, 321, 354 Claudio, imperatore, 191

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362 Indice dei nomi

Clearco di Soli, 159 209-211, 214, 216, 218-220, 224, 231,


Clemente Alessandrino, 154 240, 253, 259-260, 264-286, 288-325,
Cleopatra Filopatore, 111 329-330, 332, 335, 344-346, 348-350,
Costantino Porfirogenito, 141 352-354, 356-357
Creso, re di Lidia, 74, 137, 142, 145, 148-149, Euagon, storico samio, 141-144
161-163, 275, 354 Eugheiton, storico, 141-142
Euno, 44, 171
Dario I, re persiano, 99 Euripide, 79, 146, 175, 182, 258
Demetrio di Falero, 78, 217, 221, 223, 225, Eusebio di Cesarea, 120, 149, 154
254-255 Evemero, 327
Democrito, 99-100, 154, 289
Dicearco, 164 Falaride, 71
Diodoro Siculo, 149, 161 Fedro, 12, 16, 20-24, 28, 30-32, 42, 47-48,
Diogene Cinico, 172-173, 176, 203, 218, 57, 59, 62, 67-68, 80-82, 85-88, 91, 95,
318-319 102-105, 111, 116, 120, 122, 124, 128, 141,
Diogene Laerzio, 148-151, 154, 169, 172-173, 149-151, 172, 183-209, 211-212, 214-229,
317 231, 233-236, 240-242, 254, 258-260,
Dione Cassio, 186 263-264, 266-273, 275-292, 294,
Dione Crisostomo, 77, 141, 294, 308, 320 296-299, 301-302, 304-308, 310-317,
Dionigi di Alicarnasso, 142
319-321, 323-325, 330, 335-339, 353, 356
Dios, storico, 166
Ferecide, 146
Filostrato, Flavio, 323
Eliano, Claudio, 141, 143, 320
Flavo, fratello di Arminio, 193
Elio Teone, 78
Floro, Lucio Anneo, 186
Empedocle, 113
Fozio, 143, 163
Ennio, Quinto, 77, 186, 196-197, 205,
231-232, 234, 299, 338, 353
Epicuro, 328 Galeno, 299
Eraclide Pontico, 73, 141, 143-144, 147 Gellio, Aulo, 77, 141
Eraclito, 159 Giovanni da Capua, 62, 91, 353
Ermippo di Smirne, 134, 148, 163 Giovenale, Decimo Giunio, 188, 225, 356
Ermogene di Tarso, 61, 78, 294 Girolamo, santo, 149
Erodoto, 73-74, 106, 141-144, 147, 150, Giuliano l’Apostata, 142, 264, 324
161-162, 275, 354 Giuseppe Flavio, 166
Eronda, 149 Gregorio di Cipro, 63
Esarhaddon, re assiro, 74, 99 Gregorio Nazianzeno, 320
Eschilo, 71, 76, 112, 254, 258, 298 Gualtiero Anglico, 339-340
Esichio di Alessandria, 151
Esiodo, 35, 53, 70-71, 77, 86, 124, 159, Iambulo, 327
175-176, 210, 253, 258, 275, 277, 283, 285, Ibico di Reggio, 149
291, 300, 302-303, 313, 317, 325 Ignazio Diacono, 61-62, 288
Esopo, 16, 20-21, 23-25, 28, 33, 35, 42, 46-48, Imerio, 138, 144, 147, 320-321
50-53, 55-57, 59, 61, 67-68, 72-80, Iohannes de Schepeya, 342-344
85-88, 91, 96, 98-105, 110-112, 114-116, Ippocrate di Coo, 151
118, 120, 125, 127, 129, 132-153, 157, 159-182, Isidoro di Siviglia, 141
184-187, 193-194, 196-197, 201, 203, Istro di Cirene, 181

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Indice dei nomi 363

Libanio, 138, 141, 144, 147 Plauto, Tito Maccio, 167, 227, 324
Licurgo, 74-75, 134, 152, 326 Plinio il Vecchio, 143
Livio, Tito, 79, 186, 227 Plutarco, 63, 74, 76, 112, 139, 143-145,
Luciano di Samosata, 76, 111, 140-141, 149-151, 159, 161-163, 165, 268, 300,
144, 150, 271, 276, 303-304, 329 314-315, 320-321
Lucilio, Gaio, 77, 205, 231 Pompeo Magno, 221-222, 224, 230, 232
Lucrezio Caro, Tito, 184, 194, 328 Posidonio, 154
Properzio, Sesto, 26, 32, 37
Maria di Francia, 340 Pseudo-Aristotele, 320
Marziale, Marco Valerio, 183, 227-228, 356 Pseudo-Diogeniano, 63, 112
Massimo Confessore, 171, 344 Pseudo-Dositeo, 61, 150, 266, 278, 296,
Massimo di Tiro, 76, 140-142 301, 319
Massimo Planude, 55, 79, 132, 148, 323
Menandro di Efeso, 166, 217, 221, 223-224 Quintiliano, Marco Fabio, 77-78, 183, 234
Menandro, re della Battria, 158
Menenio Agrippa, 78, 87, 106, 109, 113, 315 Rājaśekhara, 166
Menippo di Gadara, 173 Ramses II, faraone, 107, 160
Muwatalli, re ittita, 121
Saffo, 73, 143
Nectanebo, faraone, 99, 136, 139, 156-157 Sallustio Crispo, Gaio, 19, 22, 30-31, 37,
Nerone, imperatore, 191 325, 331
Niceforo Basilace, 276, 285 Salmanassar III, re assiro, 91, 116
Niceforo Gregora, 104, 268 Seiano, Lucio Elio, 80, 188-190, 193
Nicolao Sofista, 170 Semonide di Amorgo, 71, 258, 284, 314, 325
Seneca, Lucio Anneo, 52-53, 183-184, 186,
Odone di Cheriton, 62, 341-342 204
Omero, 55-56, 73, 96, 121, 159, 244, 261, 323 Sennacherib, re assiro, 151-152
Opilio, Aurelio, 184 Senofonte, 87, 315
Orazio Flacco, Quinto, 23-24, 29, 37, Seqenenrê, faraone, 160
77-78, 81, 83, 184, 195-197, 203-206, Shamshi-Addu, re assiro, 123
226, 232-233, 235, 258, 289, 291, 308, Silla, Lucio Cornelio, 86, 222, 275
312, 317, 324, 338, 356 Simonide di Ceo, 112, 187, 194, 203-204,
Ovidio Nasone, Publio, 20, 233, 235, 336 223-224, 234, 283, 295, 313
Sintipa, 61-62, 85, 87, 266-267, 272, 284,
Paolo Diacono, 283 288, 295-296, 313, 315, 320
Pataikos, favolista (?), 163 Socrate, 16, 187, 194, 203, 211, 280, 310, 317
Periandro, tiranno di Corinto, 151, 159 Sofocle, 106, 278
Petronio Arbitro, 222, 225, 321, 356 Solone, 71, 148-149, 161-162, 165, 354
Pindaro, 146 Spartaco, 44, 171
Pisistrato, 149 Stesicoro, 71-72, 115, 118, 316
Pisone Frugi, Lucio Calpurnio, 186, 190 Stobeo, Giovanni, 169
Pitagora, 163 Strabone, 143, 154
Pittaco, 161 Svetonio, 189
Platone, 79, 101-102, 113, 254, 293, 302,
310, 320-321, 328 Tacito, Publio Cornelio, 31, 53, 186
Platone, commediografo, 163 Talete, 161, 302

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364 Indice dei nomi

Temistio, 317 User-maat-Ra (Ramses II), 107, 160


Temistocle, 112, 315
Teofrasto, 78, 99, 154 Varrone, Marco Terenzio, 307
Teognide, 71, 99, 318 Velleio Patercolo, Marco, 186
Terenzio Afro, Publio, 81, 226 Vespasiano, imperatore, 191
Tiberio, imperatore, 80, 188, 191, 193, 202, Virgilio Marone, Publio, 57, 79, 184, 187,
209, 219, 221, 229, 268 233-234, 336, 338
Timocreonte di Rodi, 112-113, 295
Tolemeo di Efestione (Chenno), 143, 163 Zenobio, 63, 141, 144, 147, 149, 320
Tzetzes, Giovanni, 149 Zenone di Elea, 159

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Indice dei nomi 365

Personaggi mitologico-religiosi, letterari e di incerta storicità

Abramo, 149 Eumolpo, 56


Achille, 181 Eutico, dedicatario fedriano, 189-190
Adone, 112
Afrodite (Venere), 87, 111-112, 213, 286, Favola (Ainos), figlio di Esopo, 135, 152
304, 319 Febo, vedi Apollo
Ahura Mazdā, 158 Fileto, dedicatario fedriano, 189
Alvíss, mitico nano germanico, 158 Fortuna, vedi Tyche
Anacarsi, sapiente scita, 149, 185
Androclo, 283 Gangleri, mitico re germanico, 158
Apollo, 73, 137-139, 144-147, 181-182, 268, 354 Gilgamesh, 123
Asclepio, 171 Giobbe, 164
Atena (Minerva), 211, 300 Giove, vedi Zeus
Giunone, vedi Era
Bacco, vedi Dioniso Giuseppe, patriarca biblico, 161, 181
Belo, mitico re assiro, 93, 115 Glauco, 163
Bertoldo, 166, 173 Gylfi, mitico re germanico, 158
Bubasti, dea egiziana, 139
Budda, 166 Hár, epiteto di Odino, 158
Heidreks, mitico re germanico, 158
Calcante, 159 Hephaistopolis, padre di Iadmone, 143
Carasso, fratello di Saffo, 143 Hermes (Mercurio), 109, 213, 229, 264-265,
Carione, personaggio aristofanesco, 167 267-268, 273, 286-287, 289, 311, 320
Chichibio, 171
Cibele, 210, 251, 280 Iadmone (Idmone), padrone di Esopo,
73-74, 142-144, 147, 354
Demea, amico di Esopo, 136 Intaferne, satrapo persiano, 106
Dexicrate, padre di Xanto, 136 Ione, eroe greco, 146
Dioniso (Bacco), 167, 171 Isengrino, 288, 297, 299
Dioscuri, 223, 283 Ishtar, dea, 115
Dorica, etera egiziana, 143 Iside, 76, 100, 136-139, 147, 171
Izdubar, 115
Era (Giunone), 135, 204, 211, 215, 234, 310
Eracle (Ercole), 163, 203, 287, 300, 313 Jeeves, servo di Bertie Wooster, 127
Etana, mitico re sumerico, 68, 93-94, 115,
120-121, 124 Kybissos (Kybissa), mitico favolista, 112

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366 Indice dei nomi

Licambe, nobile pario, 119 Sfinge, 159


Lino, 185, 195 Shamash, 68, 94, 120-121, 125
Sole, dio, 68
Mahausadha, 166 Sole (Helios), figlio adottivo di Esopo,
Manas, spirito vitale, 106 135, 152
Marcolfo, 166
Marsia, 137 Tefnut, dea egiziana, 109-110
Mercurio, vedi Hermes Tereo, 269
Minerva, vedi Atena Tersite, 55-56, 148, 181, 323, 325, 356
Mnemosine, 137 Thor, divinità germanica, 158
Mopso, 159 Thoth, dio egiziano, 109
Muse, 136-139, 146-147, 169, 185-186, 189, Timarco (Korasio), padrone di Esopo,
195 144
Tindaro, mitico re di Sparta, 163
Nabusemakh, amico di Ah.īqār, 152 Tobit, personaggio biblico, 98, 153
Nadan, nipote di Ah.īqār, 97, 152 Tyche (Fortuna), 76, 137-138, 306
Nāgasena, saggio buddista, 158
Neottolemo, 145, 182, 278 Ulisse, 56, 325
Nino, mitico re assiro, 93, 115 Utu, dio sumerico del sole e della
giustizia, 121
Odino, divinità germanica, 158
Orfeo, 185, 195 Vafthrúdhnir, mitico gigante germanico,
158
Pandora, 317 Venere, vedi Afrodite
Particulone, dedicatario fedriano, 190, Vištāspa, mitico re iranico, 158
194-195, 234
Perse, fratello di Esiodo, 70 Wooster, Bertie, 127
Phrê, dea egiziana, 109-110
Pluto, 203 Xantia, personaggio aristofanesco, 167
Polinnia, 154 Xanto, padrone di Esopo, 73, 133-136,
Principe, personaggio fedriano, 191, 222, 143-144, 150, 159, 168-176, 178-179, 319,
224, 272 323, 346, 354
Prometeo, 215, 259, 304, 310, 317
Yu Kung, 355
Regina di Saba, 158
Renardo, 278, 287-288 Zarathustra, 158
Rodopi, compagna di schiavitù Zeus (Giove), 68, 70, 72, 87-88, 93,
di Esopo, 142-143 119-120, 137, 147, 169, 202, 204,
Rohako, 166 211-212, 215-216, 220, 232, 250, 270,
273, 284-286, 296, 298, 304-305, 308,
Salomone, 158, 166, 170 311, 317-318, 320, 335

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Indice dei nomi 367

Autori e personaggi storici moderni

Accorso, Buono, 79 Cantimori, Delio, 19, 33


Adrados, Francisco Rodríguez, 68, 90, Capogrossi, Luigi, 39, 44
92, 95, 114, 128, 133, 242 Carducci, Giosuè, 31
Alster, Bendt, 129 Caretti, Lanfranco, 41
Anselmo, Sara, 31 Cascajero Garcés, Juan, 332
Cases, Cesare, 15, 23, 25
Balzac, Honoré de, 176 Castrucci, Valeria, 114
Banfi, Antonio, 257 Cataudella, Quintino, 150, 156-157, 162
Barberis, Walter, 15 Causeret, Charles, 226
Bassi, Domenico, 335-336 Chambry, Émile, 58, 61-62, 240, 344
Batteux, Charles, 238 Charles, Robert Henry, 154
Bédier, Joseph, 284, 311, 329, 331 Chauvin, Jules, 337
Benedetti, Cecilia, 33, 67 Ciampini, Raffaele, 40, 42
Benfey, Theodor, 90-91, 102-104 Citroni, Mario, 30
Bentley, Richard, 337
Cocchiara, Giuseppe, 331
Berger de Xivrey, Jules, 185
Comparetti, Domenico, 41
Bernoulli, Johann Jacob, 148
Contenau, Georges, 123
Bertini, Ferruccio, 89
Conybeare, Frederick Cornwallis, 153
Bertschinger, Jakob, 226
Coraës, Adamantios, 143
Bethe, Erich, 329
Cortese Pagani, Gina, 166
Bianchi Bandinelli, Ranuccio, 21
Bieber, Dora, 235 Courcelle, Pierre, 33
Bömer, Franz, 135 Cowley, Arthur E., 118, 155
Bollati, Giulio, 15, 17-20, 23-25, 28-30 Croce, Benedetto, 38, 41, 331
Bonaparte, Napoleone, 100, 132, 345 Croce, Giulio Cesare, 166
Bornmann, Fritz, 56, 159 Crocioni, Giovanni, 40
Breitinger, Johann Jakob, 274 Crusius, Otto, 28, 62, 324-325
Bresciani, Edda, 106, 110 Cruz Andreotti, Gonzalo, 114
Bronzini, Giovanni Battista, 40
Brunner-Traut, Emma, 109 Dähnhardt, Oskar, 282
Bücheler, Franz, 338 Dain, Alphonse, 33
Burckhardt, Jacob, 159 Degani, Enzo, 114
Della Corte, Francesco, 184, 186-187, 226
Calvino, Italo, 18 De Lorenzi, Attilio, 183
Canfora, Luciano, 47, 49-50, 52, 54-55 Demandt, Alexander, 332

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368 Indice dei nomi

Desbillons, François-Joseph Terrasse, 337 Grottanelli, Cristiano, 128


Diehl, Ernst, 120 Gruter, Isaac, 337
Diels, Hermann, 63, 91, 116-117 Guaglianone, Antonio, 62, 231
Dijk, Gert-Jahn van, 95 Gurney, Oliver R., 121
Dijk, Johannes J. A. van, 117, 122-124
Donadoni, Sergio, 160, 165 Hall, Henry R., 107
Drexler, Wilhelm, 138 Harper, Edward T., 121
Du Cange, Charles du Fresne, sieur, Haslam, Michael W., 100
341-342, 349, 351 Hausrath, August, 58, 61, 129, 142, 149,
154, 203, 235, 240
Ebeling, Erich, 92-93, 116-118, 121-124, 258 Havet, Louis, 183-185, 187-188, 191-193,
Eberhard, Alfred, 132 336-338
Einaudi, Giulio, 15, 17-19, 21-23, 30, 32-33 Heinsius, Nicolaus, 336-337
Emiliani Giudici, Paolo, 226 Herder, Johann Gottfried, 274
Ernout, Alfred, 33, 188 Herrmann, Léon, 183
Hervieux, Léopold, 28, 62, 338-344
Falkowitz, Robert Seth, 92, 128-129 Herzog-Hauser, Gertrud, 138
Farrington, Benjamin, 328 Hofmann, Erich, 239
Ferrari, Franco, 114 Holzberg, Niklas, 59, 74, 97, 110, 114
Fiore, Tommaso, 39 Hommel, Fritz, 116
Firenzuola, Agnolo, 91 Hostetter, Winifred Hager, 133, 138
Fonzo, Erminio, 43, 53 Huizinga, Johan, 157
Fraenkel, Siegmund, 154 Hunger, Herbert, 61
Francioni, Gianni, 39
Frank, Tenney, 53 Iannelli, Cataldo, 337-338
Franzow, G., 95, 110
Freda, Enrico, 17 Jacoby, Felix, 63, 142
Frosini, Fabio, 39 Jaeger, Werner, 45, 67, 328
Frullone, Salvatore, 17 Jahn, Otto, 148
Furlani, Giuseppe, 120-121 Jean, Charles F., 121
Jedrkiewicz, Stefano, 95
Gallicchio, Nino, 17 Johnston, Christopher, 121
Gelenius, Sigismund, 143
Gentile, Giovanni, 17 Keller, Otto, 103
Gerratana, Valentino, 38, 40, 53 Kleukens, Christian Heinrich, 324
Giardina, Andrea, 39, 44 Kovaliov, Sergej I., 44
Giorgetti, Giorgio, 43 Kramer, Samuel N., 123
Goetz, Georg, 63 Kranz, Walther, 63
Gomperz, Theodor, 328 Kussl, Rolf, 110
Gordon, Edmund I., 121, 123-124, 129
Gramsci, Antonio, 21, 33, 38-40, 42-43, La Fontaine, Jean de, 57, 84, 258, 304,
46, 48, 52, 262 313, 331
Grana, Gianni, 41 Lambert, Wilfred G., 117, 125, 127
Gravina, Gian Vincenzo, 226 La Motte-Houdar, Antoine, 237, 258
Grazzini, Stefano, 17 Landsberger, Benno, 124
Grimm, Jacob, 274 Langdon, Stephen, 121

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Indice dei nomi 369

Lanternari, Vittorio, 327 Morandi, Carlo, 21


La Penna, Antonio, 15, 17-44, 46-48, 50-59, Mordeglia, Caterina, 89
62, 67, 69, 74, 84-85, 91, 95, 97, 113-114, Müller, Carl Friedrich, 62
120, 124, 127-128, 131, 144, 151, 170, 172, Müller, Karl Wilhelm, 63
175, 177, 198-199, 208, 253, 332, 335, 352 Müller, Luciano, 231, 338
Lasserre, François, 119-120 Munari, Tommaso, 15
Laurenzi, Luciano, 148 Muscetta, Carlo, 15, 17-18, 23, 39
Lavagnini, Bruno, 138
Lefebvre, Gustave, 160 Narducci, Emanuele, 30
Lefèvre, Bruno, 119 Nau, François, 154
Leo, Friedrich, 55 Neu, Erich, 69, 114
Leopardi, Giacomo, 287 Nietzsche, Friedrich, 318, 324
Lessing, Gotthold Ephraim, 237-239, Nissen, Hans Jorg, 128
258-259, 274 Nøjgaard, Morten, 21, 30, 57, 84, 95, 208,
Leto, Gabriella, 30 217, 236-242, 245-255
Leutsch, Ernst Ludwig von, 63 Norden, Eduard, 55
Lévêque, Eugène, 115, 121 Nougayrol, Jean, 122
Lidzbarski, Mark, 154 Novello, Neil, 40
Liguori, Guido, 39
Loewe, Gustav, 63 Oettinger, Norbert, 97-98
Luigi XI, re di Francia, 126 Ohlert, Conrad, 159
Lutero, Martin, 151, 354 Olrik, Axel, 236, 244
Luzzatto, Maria Jagoda, 28, 32, 46, 57, 62, Orelli, Johann Kaspar von, 338
84, 98-99 Otten, Heinrich, 69, 114

Maiuri, Amedeo, 183 Papadimitriou, Ioannis Theophanis A., 114


Mangoni, Luisa, 15, 19-20, 33 Papathomopoulos, Manolis, 100
Mao Tse-tung, 354-355 Pascucci, Giovanni, 56
Marchesi, Concetto, 21, 33, 38-39, 46-55, Pasquali, Giorgio, 33, 37, 41, 55-56, 323
255, 266, 318, 356-357 Pérez Jiménez, Aurelio, 114
Marchianò, Michele, 91, 101, 115-116, 121 Perotti, Niccolò, 292, 336
Marcone, Arnaldo, 17, 21, 38 Perry, Ben Edwin, 28, 58, 61-62, 76, 100,
Marx, August, 282 112, 118, 122, 132-134, 136, 138-142, 144,
Marx, Friedrich, 231 147, 149-150, 155, 169, 173, 183, 189, 191,
Marx, Karl, 38, 43, 326 231, 237, 240, 253-255, 318, 323, 335,
Maškin, Nikolaj A., 44 339-340, 344-350
Maspéro, Gaston, 160 Perutelli, Alessandro, 30
Mattioli, Emilio, 257 Peter, Rudolf, 138
Mazza, Mario, 44 Petrone, Angelina, 17
Meier, Gerhard, 122 Pettazzoni, Raffaele, 113
Meier, John, 330 Pfeiffer, Robert H., 125-126
Meissner, Bruno, 124-126 Pfeiffer, Rudolf, 144, 146
Meyer, Eduard, 98, 155 Pieper, Max, 110
Migne, Jacques-Paul, 63 Pieroni, Silvia, 40
Mommsen, Theodor, 63 Platone, Felice, 38
Montesquieu, 325, 331 Pöhlmann, Robert von, 327

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370 Indice dei nomi

Ponchiroli, Daniele, 15, 17-19, 22, 31-32 Smith, George, 116, 121
Postgate, John Percival, 185, 336-338 Smith Lewis, Agnes, 153
Prasch, Johann Ludwig, 337 Snell, Bruno, 161, 164
Prinz, Karl, 188 Solinas, Fernando, 67
Pritchard, James B., 120 Speiser, Ephraim A., 120, 127
Pullé, Francesco Lorenzo, 166 Spengel, Leonhard von, 63, 170, 294, 379
Spiegelberg, Wilhelm, 110
Reinhardt, Karl, 328 Staege, Max, 239, 259, 274
Rendel Harris, James, 153-154 Stefanini, Ruggero, 69, 114
Renger, Johannes, 128 Sternbach, Leo, 345
Reverdin, Olivier, 90, 92, 128 Studemund, Wilhelm, 154
Ribezzo, Francesco, 101, 103-104, 150,
170, 239 Terzaghi, Nicola, 203
Richelmy, Agostino, 22-23, 31, 183 Thalheim, Theodor, 135
Rilla, Paul, 259 Thiele, Georg, 203, 220, 239, 338-339
Rinaldi, Giovanni, 117, 121, 125-126 Thite, Ganesh Umakant, 90, 101
Robert, A. C. M., 340 Thomas, François, 188
Rodler, Lucia, 259 Thompson, Stith, 151, 158-161, 170-171,
Roeder, Günther, 139 174, 178
Römer, Willem H. Ph., 129 Timpanaro, Sebastiano, 41, 48, 50, 55-56
Ronconi, Alessandro, 338 Togliatti, Palmiro, 38, 43, 49
Rose, Herbert J., 139 Trenkner, Sophie, 150, 177
Rosenthal, Chaim, 157 Trilussa, 331
Rothwell, Kenneth S., 332
Rousseau, Jean-Jacques, 304 Ungnad, Arthur, 126
Rubensohn, Otto, 154 Usener, Hermann, 181
Rüster, Christel, 69, 114 Utčenko, Sergej L., 44
Russo, Carlo Ferdinando, 41
Russo, Luigi, 21 Vacchina, Mariagrazia, 89
Rylands, John, 78, 254-255 Vandier d’Abbadie, Jacques, 108
Venturi, Franco, 23, 29
Sachau, Eduard, 154-155 Vico, Giambattista, 55-56, 73, 151, 322-323,
Saggese, Paolo, 17 325, 354
Saint-Marc Girardin, 331 Vollmer, Friedrich, 188
Salmasius, Claudius, 337
Sassen, Hans von, 235 Waern, Ingrid, 159
Sbisà, Giovanni, 50 Wagener, Adolf, 103
Scaramuzza, Gabriele, 257 Walz, Christian, 63, 276, 278, 385, 393
Scassellati, Ubaldo, 17 Warnke, Karl, 340
Schefold, Karl, 148 Weidner, Ernst, 122-123
Scheil, Vincent, 122 Westermann, Anton, 28, 96, 132-133, 169,
Schiavone, Aldo, 39, 44 346
Schneidewin, Friedrich Wilhelm, 63 Wiechers, Anton, 59, 132, 144-146, 176,
Schwyzer, Eduard, 348 179-182
Scott, Walter, 126 Wienert, Walter, 265
Serini, Paolo, 15, 18 Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von,
Smend, Rudolf, 153-154 55, 67, 151

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Indice dei nomi 371

Williams, Ronald J., 122 Zafiropulos, Christos A., 332


Wilsdorf, Helmut, 98 Zander, Carl Magnus, 62, 211
Winternitz, Moriz, 101, 166, 264 Zeitz, Heinrich, 142-144, 159, 161-162,
Wissowa, Georg, 63 171-173
Würfel, Reingart, 109 Zimmermann, Rudolf Chr. W., 188

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Autori e personaggi storici moderni 373

Indice delle favole

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Avvertenza
Oltre alle favole esopiche propriamente dette sono registrate nel presente
Indice altre tipologie di testi – novelle, leggende, aneddoti, apologhi, para-
bole, prediche, contrasti e tenzoni, enigmi e indovinelli, sentenze e proverbi,
facezie, ecc. – che, pur appartenendo a generi letterari diversi, si apparentano
alla «forma semplice» favola per una stretta affinità di funzione e struttura
narrativa.
L’ordinamento è alfabetico in base alla prima parola significativa, senza con-
siderazione di articoli, preposizioni e numerali.

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Indice delle favole 375

Indice delle favole

Abstemio, Lorenzo
Il contadino che voleva passare il fiume (5 = 723 P.), 273
La mosca sulla quadriga (16 = 724 P.), 269
I pesci saltati dalla padella nella brace (20 = 725 P.), 311

Achille Tazio
La zanzara e il leone (II 22), 272

Ademaro di Chabannes
L’anatra e la cicogna (53 = 570 P.), 280
La chiocciola e lo specchio (8 = 559 P.), 285
I due galli e lo sparviero (6 = 558 P.), 87, 284
Il leone e il pastore (35 = 563 P.), 283
La nottola, il gatto e il topo (25 = 561 P.), 294
L’ortolano e il calvo (24 = 560 P.), 271
La pernice e la volpe (30 = 562 P.), 297
Il pipistrello (38 = 566 P.), 284
La promessa del cavallo all’asino (58 = 571 P.), 268
Lo scimmione re (51 = 569 P.; cfr. Romulus IV 8), 260
Il serpente allevato in casa (65 = 573 P.), 280
L’usignuolo e lo sparviero (39 = 567 P.), 86, 277, 283
La volpe invidiosa e il lupo (40 = 568 P.), 285
La zanzara e il toro (36 = 564 P.), 272

Aftonio
Le api e il pastore (27 = 400 P.), 312
Il corvo e il cigno (40 = 398 P.), 308
I nibbi e i cigni (3 = 396 P.), 308
Il serpente e l’aquila (28 = 395 P.), 283
L’uccellatore e la cicala (4 = 397 P.), 273
La volpe che fa da aiutante al leone (20 = 394 P.), 309, 315

Antifilo di Bisanzio
Il topo e l’ostrica (Anth. Pal. IX 86 = 454 P.), 86-87, 283-284

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376 Indice delle favole

Antistene
Le lepri e i leoni (fr. 100 Caizzi = Aristotele, Polit. III 13, 2, 1284 a = 450 P.), 86, 275

Appiano
I pidocchi e il bifolco (Bell. civ. I 101 = 471 P.), 86, 275

Archiloco
L’aquila e la volpe (fr. 89-95 D.), 68, 71-72, 88, 93-95, 105, 110, 119-121, 130, 286
Il leone malato, la volpe, il cervo (fr. 96-97 D.), 71, 296
La scimmia e la volpe (fr. 81-83 D.), 71, 85, 271

Aristide Retore (Publio Elio Aristide)


Momo e Afrodite (Or. 28, 136 Keil = 455 P.), 281

Aristofane
L’allodola che seppellì il padre (Av. 471-475 = 447 P.), 321
L’aquila e la volpe (Av. 652-654), 72
L’aquila e lo scarafaggio (Vesp. 1446-1448; Pax 127-130), 72-73, 144, 180
Esopo e la cagna ubriaca (Vesp. 1401-1405 = 423 P.), 73, 150, 290
Il sibarita (Vesp. 1427 ss. = 428 P.), 301-302
Il topo e la donnola (Vesp. 1181-1182), 72
La volpe e la scimmia vanagloriosa (Ach. 120-121), 72

Aristotele
Il cavallo, il cervo e l’uomo (Rhet. II 20 = 104 Page = 269 a P.), 71, 316
Esopo nell’arsenale (Meteor. II 3, 356 b), 321
Le lepri e i leoni (Polit. III 13, 2, 1284 a = Antistene, fr. 100 Caizzi = 450 P.), 86, 275
La volpe, le zecche e il riccio (Rhet. II 20, 1393 b - 1394 a = 427 P.), 72, 314, 316, 325, 331

Aviano
Il cinghiale senza cuore (30 = 583 P.), 296
Il contadino e il giovenco (28 = 582 P.), 305
Il cupido e l’invidioso (22 = 580 P.), 281
Il pesce di fiume e la phycis marina (38 = 584 P.), 269
Il ragazzetto furbo e il ladro (25 = 581 P.), 283

Babrio
L’abete e il rovo (64), 271
L’adultera e il marito (116), 321
L’alcione (225), 311
L’allodola e i suoi piccoli (88), 300
L’ape e Zeus (183), 320
L’aquila dalle ali tagliate e la volpe (176), 298
L’aquila e l’arciere (185), 298

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Indice delle favole 377

L’aquila e la volpe (186), 286


L’arabo e il cammello (8), 319
L’asino carico di sale (111), 297
L’asino che gioca (125), 279, 309
L’asino che mangiava le marruche e la volpe (133), 279
L’asino che trasportava la statua di un dio (163), 269
L’asino e il cagnolino (129), 309
L’asino e il cavallo (7), 312
L’asino e i sacerdoti di Cibele (141), 280
L’asino e l’ortolano (201), 311
L’asino ferito da una spina e il leone (122), 308
L’asino incantato dalle cicale (224), 291
L’asino, la volpe e il leone (222), 284
L’asino rivestito della pelle del leone (139), 85, 101, 267
L’asino testardo e l’asinaio (162), 305
L’ateniese e il tebano (15), 319
Il bambino e il corvo (230), 306
I beni e i mali (184), 310
Le due bisacce (66), 271
Borea e il Sole (18), 279
Il bovaro che ha perduto il toro (23), 311
Il bovaro ed Eracle (20), 300
I buoi e i macellai (21), 311
Il cacciatore e il pescatore (61), 310
Il cacciatore vile (92), 267
Il cammello ballerino (80), 309
Il cammello che attraversava il fiume (40), 315
Il cammello e Zeus (161), 308
Il cane che attraversava il fiume con la carne in bocca (79), 289
Il cane che porta un campanello (104), 270
Il cane da caccia e gli altri cani (153), 312
Il cane da caccia e la lepre (87), 273
Il cane e il padrone (110), 319
Il cane invitato a pranzo (42), 319
I due cani (220), 300-301
I cani affamati e le pelli nel fiume (226), 289
La canna e la quercia (36), 104, 308
La capra invidiosa e l’asino (142 Crus.), 285
Il carro di Hermes e gli Arabi (57), 320
Il carro e i buoi (52), 268
Il cavaliere calvo (188), 319
Il cavallo e il soldato (76), 288
Il cavallo e lo stalliere (83), 267
Il cavallo, il bue, il cane e l’uomo (74), 320
Il cervo alla fonte e i cacciatori (43), 86, 91, 116, 270, 291
Il cervo e la tana del leone (210), 311

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378 Indice delle favole

Il cervo e la vigna (203), 285


Il cervo malato e gli animali (46), 281
La cicala e la formica (140), 88, 291, 300
La coda e le membra del serpente (134), 315
Il contadino che ha perduto la zappa (2), 265
Il contadino che libera l’aquila (144 Crus.), 283
Il contadino e i passeri (33), 274
Il contadino e i suoi figli (47), 103
Il contadino e l’albero sterile (187), 291
Il contadino e la volpe (11), 296
Il contadino e le gru (26), 294
Il corvo, Apollo e Hermes (152), 268
La donnola catturata dall’uomo (27), 85, 266
La donnola e Afrodite (32), 87, 111, 304
Eracle e Atena (145), 316
L’eunuco e il sacrificatore (54), 265
Il fiume e il pezzo di cuoio (172), 276
I galletti di Tanagra (5), 272
La gallina malata e il gatto (121), 266
Il gatto e il gallo (17), 277
Il gatto e i topi (p. 241 Crus.), 293
Il giovane scialacquatore e la rondine (131), 302
Il giovenco ozioso e il bue (37), 271
Il gracchio che vuol predare come l’aquila (137), 308
Il gracchio, Zeus e gli altri uccelli (72), 85, 271
Il granchio e la madre (109), 271
Il granchio e la volpe (208), 309
La guerra tra i cani e i lupi (85), 316
La guerra tra le donnole e i topi (31), 270, 291
Hermes e il ciabattino (221), 320
Il lavoratore e la Fortuna (49), 296
Il leone e il topo riconoscente (107), 314
Il leone e il toro (97), 294
Il leone e l’aquila (99), 280
Il leone e l’arciere (1), 294
Il leone, il cinghiale e gli avvoltoi (149), 259
Il leone infuriato e il cerbiatto (90), 276, 294
Il leone innamorato della figlia del contadino (98), 276
Il leone invecchiato e la volpe (103), 86, 102, 278, 293
Il leone, la scimmia e la volpe (106), 290
Il leone, l’orso e la volpe (244), 259
Il leone malato, la volpe, il cervo (95), 71, 88, 102, 296
Il leone spaventato dal topolino e la volpe (82), 319
La lepre e la volpe (158), 296
Le lepri e le rane (25), 309
La lucertola e il serpente (41), 308

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Indice delle favole 379

Il lume a olio (114), 269


I lupi e i cani riconciliati (159), 281
Il lupo e il cane (100), 312
Il lupo e il leone (105), 278
Il lupo e l’agnello (89), 277
Il lupo e l’airone (94), 104, 276
Il lupo e l’asino (154), 268, 288
Il lupo, il leone e la volpe (101), 271
La madre dello scimmiotto e Zeus (56), 282
La madre e le figlie (228), 310
Il medico incapace (75), 267
Il mulo (62), 85, 112, 269
Il nibbio e il serpente (150), 297
Il noce e i viandanti (151), 282
Le nozze del Sole e le rane (24), 294, 335
Le oche e le gru (196), 313
L’onagro e il leone (67), 86, 214, 267, 325
L’orso e la volpe (14), 266-267
Il paiolo di bronzo, la pentola di coccio e il fiume (193), 276
Il pastore che alleva il lupo (175), 297
Il pastore che ha chiuso il lupo con le pecore (113), 296
Il pavone e la gru (65), 270
La pecora, il cane e il pastore (128), 87, 315
La pernice e i galli che si azzuffano tra loro (213), 310
Il pescatore che batteva l’acqua (219), 316-317
Il pescatore e il pesciolino (6), 118, 302
Il pescatore e i pesci (4), 313
I pescatori che hanno pescato un sasso (209), 310
Il pino e i boscaioli (38), 298
Polemos marito di Hybris (70), 316
La pulce e l’uomo soccorso da Eracle (216), 313
Le querce e Zeus (142 = 143 Crus.), 298
Il ragazzo che vomita le viscere (34), 289
Il ragazzo e il leone dipinto (136), 306
La rana e il bue (28), 308
Le rane che chiedono un re (174), 314
Il regno del leone (102), 287, 315-316
Il ricco e il calzolaio (146), 310
La rondine che si vanta e la cornacchia (148), 269, 321
La rondine e il serpente (118), 317
La rosa e l’amaranto (178), 291
Il satiro e l’uomo (192), 273-274
La schiava di Afrodite (10), 273
La scimmia e i pescatori (157), 309
La scimmia e la volpe (81), 85, 269
La scrofa e la cagna (218), 269

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380 Indice delle favole

Il serpente e le marruche (173), 299


Lo sparviero e l’usignuolo (212), 118, 302
La statua di Hermes e il cane (48), 267
La statua lignea di Hermes e l’uomo (119), 265
La talpa e la mamma (170), 269
La tartaruga e la lepre (177), 300
La tartaruga e l’aquila (115), 308
Il topo di campagna e il topo di città (108), 83, 312
I tre tori e il leone (44), 91, 115-116, 316
Il toro e il topo (112), 313
L’uccellatore e l’allodola (215), 319
L’uccellatore e l’aspide (214), 297
L’uccellatore, la pernice e il galletto (124), 290
L’uomo di mezza età e le sue due amanti (22), 291
L’uomo e il leone che viaggiavano insieme (194), 270
L’uomo morso da una formica e Hermes (117), 286-287
L’uomo pio e l’eroe (63), 264
Il viandante e la Verità (126), 259
I viandanti e il platano (223), 282
I viandanti e l’orso (195), 281
Il vitello e il cervo (156), 305
La volpe dal ventre gonfio (86), 289
La volpe e il becco nel pozzo (182), 278, 296
La volpe e il boscaiolo (50), 266
La volpe e il corvo (77), 86, 270
La volpe e il leopardo (180), 318
La volpe e il lupo (53; 130), 260, 281
La volpe e il rovo (202), 307
La volpe e l’uva (19), 267
La zanzara e il toro (84), 68, 85, 93, 119, 130, 269
Zeus e Apollo (68), 307
Zeus e il serpente (197), 298
Zeus giudice e Hermes (127), 286
Zeus, gli animali e gli uomini (155), 318
Zeus, la speranza e gli uomini (58), 317

Callimaco
L’alloro, l’ulivo e il rovo (Iamb., fr. 194 Pf. = 439 P.), 91-92, 112, 116-117, 253, 272, 321

Democrito
Il cane che attraversava il fiume con la carne in bocca (68 B 224 DK), 289

Dione Crisostomo
I cani musici (Or. 32, 66 de Budé = 448 P.), 320
La civetta e gli altri uccelli (Or. 12, 7-8; 72, 14-15 de Budé = 437 P. [cfr. 437 a]), 294
Gli occhi e la bocca (Or. 33, 16 de Budé = 461 P.), 308

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Indice delle favole 381

Eliano
L’asino e la dipsade (De nat. anim. VI 51 = 458 P.), 320

Ennio
L’allodola e i suoi piccoli (Var. 21-22 V.2), 299-300

Ermogene di Tarso
Le scimmie che vogliono costruire una città (Progymn. 1, in Rhet. Gr. II, p. 3 Spengel = 
464 P.), 294

Erodoto
Il pescatore che suonava il flauto (I 141 = 11 a P.), 275

Eschilo
L’aquila ferita da una freccia (Myrm., fr. 139 Nauck = 276 a P.), 71-72, 112, 298

Esiodo
Lo sparviero e l’usignuolo (Op. 202-212), 70, 86, 210, 275, 277, 283, 285, 302

Esopo
L’alcione (25 H. = 28 Ch. = 25 P.), 311
L’allodola capelluta (271 H. = 170 Ch. = 251 P.), 279
L’apicultore (74 H. = 236 Ch. = 72 P.), 297
Le api e Zeus (172 H. = 235 Ch. = 163 P.), 320
L’aquila e la volpe (1 H. = 3 Ch. = 1 P.), 88, 120, 240, 286
L’aquila e lo scarafaggio (3 H. = 4 Ch. = 3 P.), 150, 180, 284
L’aquila ferita da una freccia (273 H. = 7 Ch. = 276 P.), 298
L’aquila, il gracchio e il pastore (2 H. = 5 Ch. = 2 P.), 308
Gli asini che mandano l’ambasceria a Zeus (196 H. = 263 Ch. = 185 P.), 305, 320
L’asino carico di sale (191 H. = 266 Ch. = 180 P.), 251-252, 297
L’asino che portava la statua di un dio (193 H. = 267 Ch. = 182 P.), 269
L’asino e il cane che facevano la strada insieme (295 H. = 277 Ch. = 264 P.), 288
L’asino e il cavallo da guerra (272 H. = 269 b Ch. = 142 P.), 312
L’asino e il lupo medico (198 H. = 282 Ch. = 187 P.), 308
L’asino e il mulo (192 H. = 142/6 Ch. = 181 P.), 288-289, 315
L’asino e il mulo che portavano lo stesso carico (204 H. = 273 Ch. = 263 P.), 309
L’asino e i sacerdoti di Cibele (173 H. = 237 Ch. = 164 P.), 251, 280
L’asino e le cicale (195 H. = 279 Ch. = 184 P.), 291
L’asino e le rane (201 H. = 272 Ch. = 189 P.), 309-310
L’asino e l’ortolano (190 H. = 274 Ch. = 179 P.), 311
L’asino, il cane e il padrone (93 H. = 276 Ch. = 91 P.), 309
L’asino, il gallo e il leone (84 H. = 270 Ch. = 82 P.), 272
L’asino, la volpe e il leone (203 H. = 271 Ch. = 191 P.), 252
L’asino rivestito della pelle del leone (199 H. = 268 Ch. = 188, cfr. 358 P.), 85, 101, 267, 329

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382 Indice delle favole

L’asino selvatico e l’asino domestico (194 H. = 265 Ch. = 183 P.), 312


L’asino testardo e l’asinaio (197 H. = 278 Ch. = 186 P.), 305
L’astronomo (40 H. = 65 Ch. = 40 P.), 302
L’ateniese debitore (5 H. = 10 Ch. = 5 P.), 289
L’avaro (253 H. = 345 Ch. = 225 P.), 289-290
Il bambino e il corvo (171 H. = 295 Ch. = 162 P.), 306
Il bifolco che ha perduto il vitello, e il leone (49 H. = 74 Ch. = 49 P.), 311
Il bifolco e il lupo (38 H. = 64 Ch. = 38 P.), 266
Le due bisacce (229 H. = 304 Ch. = 266 P.), 271
Borea e il Sole (46 H. = 73 Ch. = 46 P.), 279
I boscaioli e la quercia (262 H. = 100 Ch.), 298
Il brigante e il sicomoro (157 H. = 215 Ch. = 152 P.), 285
I buoi e l’asse del carro (45 H. = 70 Ch. = 45 P.), 251, 268
Il cammello ballerino (142 H. = 148 Ch. = 249 P.), 309
Il cammello e Zeus (119 H. = 147 Ch. = 117 P.), 308
Il cammello, l’elefante e la scimmia (246 H. = 146 Ch. = 220 P.), 313
Il cammello visto per la prima volta (210 H. = 149 Ch. = 195 P.), 273
Il cane che attraversava il fiume con la carne in bocca (136 H. = 186 Ch. = 133 P.), 289
Il cane che insegue il leone, e la volpe (135 H. = 188 Ch. = 132 P.), 267
Il cane da caccia e gli altri cani (180 Ch.; cfr. 329 P.), 312
Il cane e il macellaio (134 H. = 184 Ch. = 254 P.), 301
Il cane e la lepre (139 H. = 183 Ch. = 136 P.), 273
Il cane e la lumaca (265 H. = 182 Ch. = 253 P.), 273
Il cane, il gallo e la volpe (268 H. = 181 Ch. = 252 P.), 283, 296
I due cani (94 H. = 176 Ch. = 92 P.), 300-301
I cani affamati (138 H. = 177 Ch. = 135 P.), 289
Il capretto e il lupo che suonava il flauto (99 H. = 108 Ch. = 97 P.), 308
Il capretto sul tetto della stalla e il lupo (100 H. = 107 Ch. = 98 P.), 267
Il carbonaio e lo scardassiere (29 H. = 56 Ch. = 29 P.), 280
Il castoro (120 H. = 154 Ch. = 118 P.), 295
Il cavallo, il bue, il cane e l’uomo (107 H. = 140 Ch. = 105 P.), 320
La cerva cieca da un occhio (77 H. = 106 Ch. = 75 P.), 296
Il cervo alla fonte e il leone (76 H. = 103 Ch. = 74 P.), 86, 91, 116, 270
Il cervo e la tana del leone (78 H. = 105 Ch. = 76 P.), 311
Il cervo e la vigna (79 H. = 104 Ch. = 77 P.), 116, 285
La cicala e la volpe (245 H. = 335 Ch. = 241 P.), 294, 301
Il cigno e il suo padrone (247 H. = 175 Ch. = 233 P.), 277
Il cinghiale e la volpe (252 H. = 328 Ch. = 224 P.), 294
Il cinghiale, il cavallo e il cacciatore (238 H. = 329 Ch. = 269 P.), 316
Il citaredo (123 H. = 157 Ch. = 121 P.), 269
La colomba assetata (217 H. = 302 Ch. = 201 P.), 289
La colomba e la cornacchia (218 H. = 303 Ch. = 202 P.), 270
Il contadino e i cani (52 H. = 80 Ch. = 52 P.), 294
Il contadino e il serpente (51 H. = 82 Ch. = 51 P.), 104, 280
Il contadino e i suoi figli (42 H. = 83 Ch. = 42 P.), 300
Il contadino e la Fortuna (61 H. = 84 Ch. = 61 P.), 306

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Indice delle favole 383

Il contadino e l’aquila (79 Ch.), 283


Contrasto dell’inverno e della primavera (297 H. = 347 Ch. = 271 P.), 321
La cornacchia e il corvo (127 H. = 171 Ch. = 125 P.), 272
Il corvo e il serpente (130 H. = 168 Ch. = 128 P.), 297
I delfini, le balene e il gobbio (73 H. = 95 Ch. = 62 P.), 272
Il delfino e la scimmia (75 H. = 306 Ch. = 73 P.), 260
Il depositario e il Giuramento (214 H. = 299 Ch. = 239 P.), 264, 286
Diogene viandante (65 H. = 98 Ch. = 247 P.), 266, 319
La donna e la gallina (58 H. = 90 Ch. = 58 P.), 289
La donnola e Afrodite (50 H. = 76 Ch. = 50 P.), 111, 304
La donnola e la lima (59 H. = 77 Ch. = 59 P.), 307
L’eroe (112 H. = 132 Ch. = 110 P.), 264
Esopo nell’arsenale (8 H. = 19 Ch. = 8 P.), 150, 321
L’etiope (274 H. = 11 Ch. = 393 P.), 87, 304
I figli del contadino (53 H. = 86 Ch. = 53 P.), 103, 316
I figli della scimmia (243 H. = 308 Ch. = 218 P.), 282
La formica (175 H. = 242 Ch. = 166 P.), 304
La formica e la colomba (176 H. = 244 Ch. = 235 P.), 314
La formica e lo scarafaggio (114 H. = 243 Ch. = 112 P.), 88, 300
I galli e la pernice (23 H. = 21 Ch. = 23 P.), 310
La gallina e la rondine (206 H. = 287 Ch. = 192 P.), 252, 298
Il gatto e il gallo (16 H. = 12 Ch. = 16 P.), 277
Il gatto e i topi (81 H. = 13 Ch. = 79 P.), 293
Il gatto medico e le galline (7 H. = 14 Ch. = 7 P.), 266
Il giovane scialacquatore e la rondine (179 H. = 249 Ch. = 169 P.), 302
Il gracchio e gli uccelli (103 H. = 163 Ch. = 101 P.), 271
Il gracchio e i corvi (125 H. = 162 Ch. = 123 P.), 271
Il gracchio e la volpe (128 H. = 161 Ch. = 126 P.), 303
Il gracchio e le colombe (131 H. = 164 Ch. = 129 P.), 308
Il gracchio fuggito (133 H. = 165 Ch. = 131 P.), 311
Il granchio e la volpe (118 H. = 151 Ch. = 116 P.), 309
Hermes e gli artigiani (105 H. = 112 Ch. = 103 P.), 320
Hermes e il fabbricatore di statue (90 H. = 109 Ch. = 88 P.), 269
La iena e la volpe (241 H. = 341 Ch. = 242 P.), 273
Le iene (240 H. = 340 Ch. = 243 P.), 295
L’indovino (170 H. = 234 Ch. = 161 P.), 265
Il laro e il nibbio (144 H. = 194 Ch. = 139 P.), 309
Il leone che ha paura del topolino (151 H. = 214 Ch. = 146 P.), 319
Il leone chiuso nella stalla e il contadino (149 H. = 198 Ch. = 144 P.), 307
Il leone e il delfino alleati (150 H. = 203 Ch. = 145 P.), 309
Il leone e il topolino (155 H. = 207 Ch. = 150 P.), 314
Il leone e il toro (148 H. = 212 Ch. = 143 P.), 294
Il leone e la lepre (153 H. = 205 Ch. = 148 P.), 303, 315
Il leone e la rana (146 H. = 202 Ch. = 141 P.), 268
Il leone e l’asino a caccia insieme (156 H. = 209 Ch. = 151 P.), 91, 116, 269
Il leone, il lupo e la volpe (269 H. = 206 Ch. = 258 P.), 283

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384 Indice delle favole

Il leone innamorato della figlia del contadino (145 H. = 199 Ch. = 140 P.), 115, 276
Il leone invecchiato e la volpe (147 H. = 197 Ch. = 142 P.), 86, 102, 278, 293
Il leone, l’asino e la volpe (154 H. = 210 Ch. = 149 P.), 252, 276, 284, 301
Il leone, l’orso e la volpe (152 H. = 201 Ch. = 147 P.), 259
Il leone, Prometeo e l’elefante (292 H. = 211 Ch. = 259 P.), 310
La leonessa e la volpe (167 H. = 195 Ch. = 257 P.), 319
La lepre e la volpe (193 Ch. = 333 P.), 296
Le lepri e le rane (143 H. = 192 Ch. = 138 P.), 251, 309
Le lepri e le volpi (169 H. = 191 Ch. = 256 P.), 276, 313
I lupi, i cani e il gregge (158 H. = 218 Ch. = 153 P.), 252, 281, 296, 315
Il lupo e il cane (137 H. = 185 Ch. = 134 P.), 68-69, 96, 129-130, 244, 302-303
Il lupo e il cavallo (159 H. = 226 Ch. = 154 P.), 266
Il lupo e la capra (162 H. = 221 Ch. = 157 P.), 266
Il lupo e l’agnello (160 H. = 222 Ch. = 155 P.), 252, 277
Il lupo e l’agnello rifugiato nel tempio (168 H. = 223 Ch. = 261 P.), 267
Il lupo e la gru (161 H. = 225 Ch. = 156 P.), 104, 276, 282
Il lupo e la pecora (164 H. = 231 Ch. = 159 P.), 260
Il lupo e la vecchia (163 H. = 224 Ch. = 158 P.), 274
Il lupo ferito e la pecora (166 H. = 232 Ch. = 160 P.), 293-294
La maga (56 H. = 91 Ch. = 56 P.), 265
Il malato e il medico (180 H. = 250 Ch. = 170 P.), 318
Il marito e la moglie bisbetica (97 H. = 49 Ch. = 95 P.), 292
Il medico e il malato (116 H. = 135 Ch. = 114 P.), 267
Il melograno, il melo e il rovo (233 H. = 325 Ch. = 213 P.), 272
Il millantatore (33 H. = 51 Ch. = 33 P.), 240, 267, 271
La moglie e il marito ubriacone (278 H. = 88 Ch. = 246 P.), 304
La mosca (177 H. = 240 Ch. = 167 P.), 251, 291
Le mosche e il miele (82 H. = 241 Ch. = 80 P.), 243, 289
Il naufrago ateniese e Atena (30 H. = 53 Ch. = 30 P.), 300
I naviganti (80 H. = 309 Ch. = 78 P.), 295
I due nemici (69 H. = 115 Ch. = 68 P.), 281
Il noce (141 H. = 153 Ch. = 250 P.), 251, 282
La nottola, il rovo e la folaga (181 H. = 251 Ch. = 171 P.), 320
L’oca dalle uova d’oro (89 H. = 288/4 Ch. = 87 P.), 289
Le oche e le gru (256 H. = 354 Ch. = 228 P.), 313
L’ortolano e gli ortaggi (121 H. = 155 Ch. = 119 P.), 320
L’ortolano e il cane (122 H. = 156 Ch. = 120 P.), 282
Il padre e le figlie (96 H. = 300 Ch. = 94 P.), 310
La padrona e le ancelle (55 H. = 89 Ch. = 55 P.), 311
Il pappagallo e la donnola (261 H. = 356 Ch. = 244 P.), 243, 309
La parete e il dado (296 H. = 337 Ch. = 270 P.), 276
Il pastore che scherzava (226 H. = 319 Ch. = 210 P.), 260
Il pastore e il cane (222 H. = 313 Ch. = 206 P.), 267
Il pastore e il lupo allevato insieme con i cani (276 H. = 315 Ch. = 267 P.), 298, 304
Il pastore e il mare (223 H. = 312 Ch. = 207 P.), 296, 301
Il pastore e i lupatti (225 H. = 314 Ch. = 209, cfr. 366 P.), 297

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Indice delle favole 385

Il pastore e le pecore (224 H. = 317 Ch. = 208 P.), 282


Il pavone e il gracchio (244 H. = 334 Ch. = 219 P.), 277, 291
La pecora tosata (232 H. = 322 Ch. = 212 P.), 302
Il pescatore che batteva l’acqua (26 H. = 27 Ch. = 26 P.), 316-317
Il pescatore che suonava il flauto (11 H. = 24 Ch. = 11, cfr. 11 a P.), 275
Il pescatore e il pesciolino (18 H. = 26 Ch. = 18 P.), 118, 302
I pescatori che hanno pescato un sasso (13 H. = 23 Ch. = 13 P.), 310
I pescatori e il tonno (21 H. = 22 Ch. = 21 P.), 250, 306
Il pipistrello e le donnole (182 H. = 252 Ch. = 172 P.), 307
Prometeo e gli uomini (228 H. = 323 Ch. = 240 P.), 304
La pulce e il bue (359 Ch. = 273 P.), 344
La pulce e l’atleta (260 H. = 357 Ch. = 231 P.), 313
Le querce e Zeus (99 Ch.), 298
La quercia e la canna (71 H. = 101 Ch. = 70 P.), 104, 308, 313
I ragazzi e il macellaio (67 H. = 248 Ch. = 66 P.), 286
Il ragazzo che faceva il bagno (230 H. = 298 Ch. = 211 P.), 297
Il ragazzo che vomita le viscere (47 H. = 293 Ch. = 47 P.), 289
Il ragazzo e il leone dipinto (279 H. = 296 b Ch. = 363 P.), 306
Il ragazzo ladro e sua madre (216 H. = 297 Ch. = 200 P.), 296
Le rane che chiedevano un re (44 H. = 66 Ch. = 44 P.), 47-48, 314
Le rane dello stagno (43 H. = 68 Ch. = 43 P.), 294-295
Le rane vicine di casa (70 H. = 67 Ch. = 69 P.), 296
Il ricco e il calzolaio (220 H. = 310 Ch. = 204 P.), 310
Il ricco e le prefiche (221 H. = 311 Ch. = 205 P.), 266
La rondine e il serpente (255 H. = 348 Ch. = 227 P.), 317
La rondine e la cornacchia (258 H. = 349 Ch. = 229 P.), 269
Il satiro e l’uomo (35 H. = 60 Ch. = 35 P.), 273-274
I due scarafaggi (86 H. = 150 Ch. = 84 P.), 281
La scimmia e il cammello (85 H. = 307 Ch. = 83 P.), 308
La scimmia e i pescatori (219 H. = 305 Ch. = 203 P.), 309
La scrofa e la cagna (250 H. = 242 Ch. = 222 P.), 269, 319
La serpe e il contadino (62 H. = 82 Ch.), 103, 282, 298
Il serpente calpestato e Zeus (213 H. = 292 Ch. = 198 P.), 296
Il serpente e il granchio (211 H. = 291 Ch. = 196 P.), 305
Il serpente e la volpe (98 H. = 116 Ch. = 96 P.), 251, 299
Il serpente, la biscia d’acqua e le rane (92 H. = 118 Ch. = 90 P.), 267
Il serpente, la donnola e i topi (212 H. = 290 Ch. = 197 P.), 259-260, 317
Il Sole e le rane (128 Ch. = 314 P.), 335
Lo sparviero e l’usignuolo (4 H. = 8 Ch. = 4 P.), 118, 302
Il taglialegna e Hermes (183 H. = 254 Ch. = 173 P.), 289
La talpa e la mamma (234 H. = 327 Ch. = 214 P.), 269
La tartaruga e la lepre (254 H. = 353 Ch. = 226 P.), 88, 300, 344
La tartaruga e l’aquila (259 H. = 352 Ch. = 230 P.), 308
Il tonno e il delfino (115 H. = 133 Ch. = 113 P.), 310
I topi e le donnole (174 H. = 239 Ch. = 165 P.), 270, 291, 313
Il topo di campagna e il topo di città (245 Ch.), 77, 312

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386 Indice delle favole

Il tordo nel boschetto di mirti (88 H. = 158 Ch. = 86 P.), 296


I tre tori e il leone (321 H.), 316
Il toro e le capre selvatiche (242 H. = 332 Ch. = 217 P.), 267
L’uccellatore e il cardellino (207 H. = 284 Ch. = 193 P.), 319
L’uccellatore e la cicogna (208 H. = 285 Ch. = 194 P.), 299
L’uccellatore e la pernice (205 H. = 286 Ch. = 265 P.), 285
L’uccellatore e l’aspide (117 H. = 138 Ch. = 115 P.), 297
L’uccellatore e le colombe (209 H. = 283 Ch. = 238 P.), 330
L’uomo che comprò un asino (200 H. = 264 Ch. = 237 P.), 299
L’uomo che prometteva l’impossibile (28 H. = 55 Ch. = 28 P.), 264
L’uomo che trovò un leone d’oro (72 H. = 62 Ch.), 290
L’uomo di mezza età e le sue due amanti (31 H. = 52 Ch. = 31 P.), 240, 291
L’uomo morso da un cane (64 H. = 178 Ch. = 64 P.), 298
L’usignolo e la nottola (48 H. = 75 Ch. = 48 P.), 297
La vecchia e il medico (57 H. = 87 Ch. = 57 P.), 318
Il ventre e i piedi (132 H. = 160 Ch. = 130 P.), 315
Il verme e il serpente (237 H. = 33 Ch. = 268 P.), 308
La vespa e il serpente (236 H. = 331 Ch. = 216 P.), 281
Le vespe, le pernici e il contadino (235 H. = 330 Ch. = 215 P.), 266
Il viandante e Hermes (188 H. = 261 Ch. = 178 P.), 264-265
Il viandante e la Fortuna (184 H. = 262 Ch. = 174 P.), 296, 306
Il viandante e la vipera (186 H. = 82/2 Ch. = 176 P.), 103, 282, 298
I viandanti e il corvo (227 H. = 256 Ch. = 236 P.), 265
I viandanti e il platano (185 H. = 258 Ch. = 175 P.), 282
I viandanti e i sarmenti (187 H. = 259 Ch. = 177 P.), 273
I viandanti e la scure (68 H. = 257 Ch. = 67 P.), 281
I viandanti e l’orso (66 H. = 255 Ch. = 65 P.), 252, 281
La vipera e la lima (95 H. = 117 Ch. = 93 P.), 307
La volpe che bacia l’agnello, e il cane (41 H. = 36 Ch. = 41 P.), 266
La volpe che non aveva mai visto un leone (10 H. = 42 Ch. = 10 P.), 250, 273
La volpe dal ventre gonfio (24 H. = 30 Ch. = 24 P.), 289
La volpe e il becco nel pozzo (9 H. = 40 Ch. = 9 P.), 278, 296
La volpe e il boscaiolo (22 H. = 34 Ch. = 22 P.), 266
La volpe e il coccodrillo (20 H. = 35 Ch. = 20 P.), 269
La volpe e il corvo (126 H. = 166 Ch. = 124 P.), 243, 270
La volpe e il leopardo (12 H. = 37 Ch. = 12 P.), 318
La volpe e il rovo (19 H. = 31 Ch. = 19 P.), 307
La volpe e la maschera tragica (27 H. = 43 Ch. = 27 P.), 251, 266
La volpe e la scimmia che disputavano della loro nobiltà (14 H. = 39 Ch. = 14 P.), 269
La volpe e la scimmia eletta re (83 H. = 38 Ch. = 81 P.), 271
La volpe e l’uva (15 H. = 32 Ch. = 15 P.), 251, 267
Le volpi che vogliono passare il Meandro (231 H. = 29 Ch. = 232 P.), 271, 319, 329
La zanzara e il leone (267 H. = 189 Ch. = 255 P.), 272
La zanzara e il toro (140 H. = 190 Ch. = 137 P.), 269
Zeus e Apollo (106 H. = 122 Ch. = 104 P.), 307
Zeus e gli uomini (110 H. = 121 Ch. = 108 P.), 272-273

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Indice delle favole 387

Zeus e il serpente (248 H. = 123 Ch. = 221 P.), 298


Zeus e la tartaruga (108 H. = 126 Ch. = 106 P.), 320
Zeus e la Vergogna (111 H. = 119 Ch. = 109 P.), 320
Zeus e la volpe (109 H. = 120 Ch. = 107 P.), 87, 250-251, 304

Favole egiziane
L’avvoltoio e il gatto selvatico, 109-110, 122
Il leone e il topolino, 109
La rondine che vuol prosciugare il mare, 109-110
Il sicomoro e l’olivo, 107
La testa e le membra ribelli, 106, 109

Favole greche anonime


I due adulteri (cod. Laur. 57, 30 = 420 P.), 307, 321
Il giudizio del lupo e dell’asino (Rhet. Gr. I, pp. 597 ss. Walz = 452 P.), 278
Il ladro e l’oste (cod. Laur. 57, 30 = 301 H. = 419 P.), 278, 321
Il lupo maestro di scuola e la gallina (Tetrast. iamb. II 28 M., p. 293 Crus. = 417 P.), 294
Il lupo orgoglioso e il leone (favola giambica, p. 236 Crus. = 260 P.), 272
Il marinaio e il figlio (cod. Laur. 57, 30 = 421 P.), 319, 321
L’orso, il leone e la volpe a caccia (Tetrast. iamb. II 7 M., p. 288 Crus. = 416 P.), 267
Lo struzzo (Tetrast. iamb. I 22 M., p. 272 Crus. = 418 P.), 273
La volpe e il contadino (cod. Branc., p. 507 P.), 266

Favole hurrite/ittite
Il cane [o maiale] che ruba un pezzo di pane, 69
La capra selvaggia che maledice la montagna, 69
La capra selvaggia che non si accontenta del suo pascolo, 69
Il metallo prezioso e il fabbro, 69

Favole indiane
Gli alberi deboli e gli alberi forti, 103
L’asino nella pelle della tigre, 102
La canna, la quercia e la corrente del fiume, 104
La cornacchia e lo sciacallo, 102
L’eremita che nutriva una vipera, 103
Il gatto asceta e i topi, 104
Il leone e il picchio, 104
Il leone malato, lo sciacallo e l’asino, 102
Il ragazzo e il serpente che gli regalava ogni giorno una moneta d’oro, 104
Le rane e il serpente, 102
Il serpente, i corvi e lo sciacallo, 105

Favole medievali latine


L’ammonimento del serpente (Herv. II, pp. 280-281, n. 34 = 697 P.), 280
L’angelo che dimostra la giustizia divina (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115; pp. 376-377,
n. 22 (56) = 635, 635 a P.), 286, 322

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388 Indice delle favole

L’aquila e il corvo medico (Herv. IV, p. 204, n. 29 = 599 P.), 278


L’aquila, lo sparviero e la gru (Herv. II, p. 556, n. 13 = 654 P.), 305
L’aquila, lo sparviero e le colombe (Herv. II, p. 600, n. 52 = 672 P.), 277
L’aquila marina e le colombe (Herv. IV, p. 179, n. 2 = 588 P.), 321
L’asino col privilegio, la volpe e il lupo (Herv. IV, p. 365, n. 7 (41) = 638 P.), 283, 297
L’asino e il porco (Herv. IV, p. 207, n. 33 = 600 P.), 312
L’aspide domestico (Herv. IV, p. 363, n. 4 (38) = 637 P.), 283
L’avvoltoio e l’aquilotto (Herv. II, pp. 395-396, n. 7 = 648 P.), 271
Il bacio del lupo e della pecora (Herv. IV, p. 361, n. 1 (35) = 636 P.), 281
Il becco che vuole cavalcare l’asino (Herv. IV, p. 244, n. 73 = 623 a P.), 276
Il becco e il lupo (Herv. II, pp. 278-279, n. 32 = 695 P.), 276
Il bozzagro e lo sparviero (Herv. IV, pp. 437-438, n. 51 = 644 P.), 304
I buoi costretti a portare il letame fuori della stalla (Herv. II, p. 559, n. 18 = 657 P.), 287
Il cacciatore e il bifolco (Herv. II, pp. 286-287, n. 37 = 700 P.), 320
Il cane alla mangiatoia dei buoi (702 P.), 281
Il cane che chiede un osso al padrone (Herv. II, p. 315, n. 47 = 719 P.), 175, 292
Il cane che fa i bisogni sui giunchi (Herv. IV, p. 217, n. 44 = 608 P.), 295
Il cane e il bambino caduto nel fiume (Herv. II, p. 311, n. 29 = 710 P.), 283
Il cane e il padrone ucciso (Herv. II, p. 310, n. 28 = 709 P.), 283
Il cane, il lupo e il padrone avaro (Herv. II, pp. 287-290, n. 39 = 701 P.), 284
Il cane, il lupo e l’ariete (Herv. II, pp. 296-297, n. 5 (15) = 705 P.), 272
Il cappone e lo sparviero (Herv. II, p. 350, n. 61 = 646 P.), 317
La capra e il lupo (Herv. II, p. 613, n. 72 = 680 P.), 278
Il cavallo e il campo di messi (Herv. II, p. 600, n. 53 = 673 P.), 297
La cerva che istruisce il cerbiatto (Herv. II, pp. 611-612, n. 69 = 678 P.), 294
La cicogna adultera (Herv. II, p. 312, n. 34 = 713 P.), 287
La cicogna e il suo becco (Herv. IV, p. 185, n. 11 = 590 P.), 305
Il contadino che chiede a Dio un altro cavallo (Herv. II, p. 596, n. 44 = 665 P.), 289, 311
Il contadino che ha venduto il cavallo (Herv. II, pp. 554-555, n. 11 = 653 P.), 320
Il contadino cresciuto nel letame della stalla (Herv. IV, p. 283, n. 47 = 630 P.), 306
Il contadino e la moglie (Herv. II, p. 553, n. 9 = 651 P.), 278-279, 322
Il contadino invitato a banchetto (Herv. IV, p. 266, n. 3 = 629 P.), 306
Il corvo ammaestra i suoi piccoli (Herv. II, p. 612, n. 70 = 679 P.), 294
Il corvo e il piccolo della colomba (Herv. IV, p. 213, n. 40 = 606 P.), 277
La cucula e l’aquila (Herv. IV, p. 251, n. 76 = 626 P.), 272, 321
Il cuculo e gli uccelli (Herv. II, pp. 553-554, n. 10 = 652 P.), 277, 287
I tre desideri (Herv. II, pp. 597-598, n. 47 = 668 P.), 311
La donna della contraddizione (Herv. II, pp. 614-615, n. 74 = 682 P.), 292
La donna e l’amante (Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.), 279
Il drago che affida il tesoro all’uomo (Herv. II, p. 595, n. 42 = 663 P.), 281
L’eremita che mette il servo alla prova (Herv. II, pp. 595-596, n. 43 = 664 P.), 281
Il falco e il nibbio (Herv. IV, p. 225, n. 54 = 612 P.), 295
I tre figli che debbono spartire l’eredità (Herv. II, pp. 291-292, n. 2 (13) = 703 P.), 322
Filomela e l’arciere (Herv. IV, p. 252, n. 77 = 627 P.), 299
Il filosofo ateniese (Herv. IV, p. 242, n. 70 a = 623 P.), 319
Il filosofo che sputa sulla barba del re (Herv. II, p. 304, n. 102 = 634 P.), 320

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Indice delle favole 389

Il funerale del lupo (Herv. IV, p. 216, n. 43 = 607 P.), 288


La gallina, i pulcini e il nibbio (Herv. IV, p. 208, n. 34 = 601 P.), 297
La gara dell’aquila e del topo circa la forza della vista (Herv. IV, pp. 378-379, n. 23
(57) = 639 P.), 314
Il gatto, il topo e il cacio (Herv. IV, p. 194, n. 21 = 594 P.), 315
Il gatto monaco (Herv. IV, p. 188, n. 15 = 592 P.), 278
Il gatto vescovo (Herv. II, p. 646, n. 132 = 692 P.), 268
Il giovane verro (Herv. II, pp. 273-274, n. 27 = 694 P.), 309, 330
I giudizi di Dio mostrati dall’angelo (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115 = 635 P.), 286, 322
Il gufo e gli altri uccelli (Herv. IV, p. 226, n. 55 = 614 P.), 321
Gli infortuni del lupo (Herv. II, pp. 284-286, n. 36 = 699 P.), 309
Isengrino monaco (Herv. IV, p. 195, n. 22 = 595 P.), 304
Il ladro e lo scarafaggio (Herv. II, p. 590, n. 35 = 660 P.), 322
Il ladro e Satana (Herv. II, p. 593, n. 39 = 662 P.), 284, 300
Il leone e il rinoceronte (Herv. IV, pp. 445-446, n. 65 = 645 P.), 276, 281
La lepre che chiede le corna (Herv. II, pp. 559-560, n. 19 = 658 P.), 308
I lupi benevoli (Herv. II, p. 610, n. 65 = 676 P.), 298
Il lupo cascato nel laccio e il riccio (Herv. II, p. 640, n. 120 = 686 P.), 283
Il lupo che dà una lezione al traghettatore (Herv. II, pp. 640-641, n. 121 = 687 P.), 282
Il lupo che impara a leggere (Herv. II, p. 642, n. 124 = 688 P.), 304
Il lupo che si confessa (Herv. IV, p. 406, n. 2 (37) = 641 P.), 304
Il lupo e il corvo appollaiato sull’ariete (Herv. II, p. 598, n. 49 = 670 P.), 281
Il lupo e il riccio (Herv. II, p. 608, n. 62 = 675 P.), 278, 283
Il lupo e la colomba che raccolgono ramoscelli (Herv. IV, p. 644, n. 128 = 689 P.), 321
Il lupo e l’asino (Herv. II, pp. 279-280, n. 33 = 696 P.), 278, 284
Il lupo e la volpe affamata (Herv. II, p. 311, n. 33 = 712 P.), 322
Il lupo e lo scarafaggio (Herv. II, p. 560, n. 20 = 659 P.), 313
Il lupo infelice, la volpe e il mulo (Herv. II, p. 272, n. 26 = 693 P.), 297, 309, 322
Il lupo penitente e il montone (Herv. II, p. 557, n. 14 = 655 P.), 268
Il lupo pescatore (Herv. II, pp. 282-283, n. 35, 35 a = 698 P.), 278
Il lupo pescatore e la volpe (Herv. IV, p. 245, n. 74 = 625 P.), 297, 322
Il medico, il ricco e la figlia (Herv. II, pp. 635-636, n. 114 = 684 P.), 285, 322
Il mercante e la moglie (Herv. II, pp. 379-380, n. 9 = 647 P.), 283
La moglie e l’amante (Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.), 322
La moglie litigiosa (Herv. II, p. 614, n. 73 = 681 P.), 292
Il montone e il lupo (Herv. II, p. 312, n. 36 = 714 P.), 307
Il montone e il padrone calvo (Herv. II, p. 311, n. 31 = 711 P.), 297
Il nibbio che vuole imitare lo sparviero (Herv. IV, p. 211, n. 38 = 604 P.), 289, 309
L’oca e il corvo (Herv. IV, p. 209, n. 36 = 603 P.), 300
Il padre vecchio e il figlio crudele (Herv. IV, p. 245, n. 73 b = 624 P.), 284
Il pavone senza più penne (Herv. IV, p. 238, n. 66 = 621 P.), 290
Le pecore che si lagnano contro il lupo (Herv. IV, p. 196, n. 23 = 596 P.), 287
Il pittore e la moglie (Herv. II, p. 611, n. 68 = 677 P.), 271
Il processo per l’uccisione della gazza (Herv. II, p. 597, n. 46 = 667 P.), 317
La pulce e la podagra (587 P.), 321
Il re di Grecia e il fratello (Herv. IV, p. 294, n. 75 = 631 P.), 320, 322

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390 Indice delle favole

Il riccio, il cervo e il cinghiale (Herv. II, pp. 755-756, n. 34 = 649 P.), 278
La rondine e i passeri (Herv. II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.), 278, 283
Il rospetto e la sua mamma (Herv. IV, p. 187, n. 14 = 591 P.), 282
Il rospo e la rana (Herv. IV, p. 239, n. 67 = 622 P.), 282
Lo scarafaggio superbo (Herv. II, pp. 551-552, n. 7 = 650 P.), 308
La scimmia e il mercante (Herv. IV, p. 410, n. 13 (48) = 643 P.), 294
Il serpente nel seno dell’uomo (Herv. IV, p. 231, n. 59 = 617 P.), 280
Il soldato e il frate (Herv. IV, p. 407, n. 6 (41) = 642 P.), 304
Il soldato e il serpente (Herv. IV, pp. 381-384, n. 24 (58) = 640 P.), 285, 322
Il soldato e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301, n. 6 (17) = 707 P.), 320, 322
La statua armata d’arco e gli uccelli (720 P.), 273
Il tasso fra i porci (Herv. II, pp. 639-640, n. 119 = 685 P.), 273
I topi a consiglio per difendersi dal gatto (Herv. IV, p. 225, n. 54 a = 613 P.), 299
Il topo, la figlia, il gallo e il gatto (Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.), 268, 294
La topolina che cerca marito (Herv. IV, p. 234, n. 63 = 619 P.), 304, 313
Il topo ubriaco e il gatto (Herv. IV, p. 227, n. 56 = 615 P.), 294
L’uomo che prega Dio solo per sé (Herv. II, pp. 596-597, n. 45 = 666 P.), 288
L’uomo che vende il cavallo insieme col caprone (Herv. II, pp. 600-601, n. 54 = 674 P.), 310
L’uomo, il leone e il leoncino (Herv. II, pp. 297-300, n. 5 (16) = 706 P.), 302
L’uomo in barca che si affida a Dio (Herv. II, pp. 645-646, n. 130 = 690 P.), 286
La vespa e il ragno (Herv. IV, p. 202, n. 28 = 598 P.), 279
Il vitello e la cicogna (586 P.), 310
Il volpacchio sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296, n. 3 (14) = 704 P.), 302, 309
La volpe che confessa i suoi peccati al gallo (Herv. IV, p. 198, n. 25 = 597 P.), 278
La volpe e il lupo nel pozzo (Herv. IV, p. 192, n. 19 = 593 P.), 278
La volpe e il nocchiero (Herv. IV, p. 218, n. 46 = 610 P.), 282
La volpe e la colomba (Herv. II, p. 599, n. 51 = 671 P.), 294
La volpe e la scimmia malata (Herv. II, p. 312, n. 37 = 715 P.), 320
La volpe e l’asino si confessano al lupo (Herv. IV, p. 255, n. 81; II, p. 313, n. 39 = 628,
628 b P.), 278
La volpe e le galline (Herv. IV, p. 221, n. 50 = 611 P.), 278, 298
La volpe e l’immagine della luna (Herv. II, p. 598, n. 48 = 669 P.), 289
La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.), 297, 322

Favole mesopotamiche
(bab. = babilonese; sum. = sumerica)
L’aquila e il serpente (bab.), 68-69, 93-95, 105, 130
Il cane arrabbiato e il lupo (bab.), 118
Il cavallo e il bue (bab.), 115
Il cavallo e la mula (bab.), 92, 118
Il leone ammaliato da Ishtar (bab.), 115
Il leone e la capra (sum.), 68, 95-96, 129-130
Il lupo che piange presso Utu (sum.), 121
Il lupo inseguito dai porci (bab.), 117
La mosca e l’elefante (bab.), 68, 93, 118-119, 130

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Indice delle favole 391

La pulce e la mosca (bab.), 92, 118


Il ragno, la mosca e il camaleonte (bab.), 92, 118
Lo schiavo e il suo padrone (bab.), 125-127
Il tamerisco e la palma da datteri (bab.), 116
L’uccellatore che immergeva le sue reti nei canali (bab.), 118
La volpe dall’orecchio malato e dalla zampa rotta (sum.), 122

Fedro
Gli alberi sotto la protezione degli dei (III 17), 211, 217, 291
L’anatra e la cicogna (Zand. 18), 209, 212, 214
Le api e i fuchi davanti al tribunale della vespa (III 13), 192, 213, 302
L’aquila e la cornacchia (II 6), 213-214, 279
L’aquila, la gatta e la scrofa del cinghiale (II 4), 122, 206, 213-214, 217, 297
L’ariete e il macellaio (Zand. 29), 209
L’asino che sfotte il cinghiale (I 29), 207, 209, 307
L’asino e il leone a caccia (I 11), 91, 116, 205-206, 209, 269
L’asino e il vecchio pastore (I 15), 87, 202, 207, 209, 314, 325
L’asino e i sacerdoti di Cibele (IV 1), 210, 280
L’asino e la lira (App. 14), 192, 215, 306
L’asino e l’orzo del porcello (V 4), 201, 207, 211, 287, 294, 301
L’asino vezzoso (Zand. 5), 209
La battaglia dei topi e delle donnole (IV 6), 209, 217
Il bue e l’asinello (Zand. 8), 209
Il buffone e il contadino (V 5), 202, 213, 222-224, 273
La cagna partoriente (I 19), 207, 210, 275
I due calvi (V 6), 211, 306
Il calvo e la mosca (V 3), 209
Il cane che attraversa il fiume col pezzo di carne in bocca (I 4), 205, 215, 289
Il cane e l’agnello (III 15), 186, 203, 209, 330
Il cane fedele (I 23), 209
Il cane, il tesoro e l’avvoltoio (I 27), 187, 207, 209, 217, 264, 306
I cani affamati (I 20), 215, 289
I cani che mandarono l’ambasceria a Giove (IV 19), 209, 215-216, 220, 305-306, 321
I cani e i coccodrilli (I 25), 207, 209, 266
Le capre con la barba (IV 17), 211, 270
Il capretto e il lupo (Zand. 23), 209
I casi degli uomini (IV 18), 150, 216
Il castoro (App. 30), 215, 220
Il cavallo avaro (Zand. 19), 209
Il cavallo da corsa (App. 21), 192, 215, 280
Il cavallo e il cinghiale (IV 4), 205, 209, 316
Il cavallo superbo (Zand. 11), 209
Il cervo alla fonte (I 12), 86, 91, 116, 206, 209, 215, 270, 291
Il cervo e i buoi (II 8), 207, 213, 290
La chiocciola e lo specchio (Zand. 3), 209

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392 Indice delle favole

Il ciabattino medico (I 14), 202, 209, 267


La cicala e la civetta (III 16), 208-209
La cornacchia e la pecora (App. 26), 200, 205, 210, 279
Credere e non credere (III 10), 191, 217, 223-224, 299
La donna partoriente (I 18), 211, 319
La donnola e i topi (IV 2), 207, 209, 218, 268
La donnola e l’uomo (I 22), 85, 209, 266
Le doti degli animali (App. 3), 202, 204
Esopo a un linguacciuto (III 19), 150, 172, 203, 211, 218, 317
Esopo e il contadino (III 3), 150, 209, 211, 320
Esopo e il successo dei malvagi (II 3), 150, 217, 298
Esopo e il testamento enigmatico (IV 5), 150-151, 217-218, 224, 304, 321
Esopo e la padrona (App. 17), 150, 197, 209, 260
Esopo e l’atleta vincitore (App. 13), 150, 209, 270
Esopo e l’insolente (III 5), 150, 279
Esopo e lo schiavo fuggitivo (App. 20), 150, 184, 210, 311
Esopo e lo scrittore (App. 9), 150, 209, 269
L’eunuco e l’insolente (III 11), 209, 216, 306
La farfalla e la vespa (App. 31), 203, 207, 209, 270
Fedro (IV 7), 209
Il flautista Principe (V 7), 191, 209, 214, 222, 224, 272
La formica e la mosca (IV 25), 209, 270-271, 321
Il fratello e la sorella (III 8), 213
I due galli litiganti e lo sparviero (Zand. 2), 87, 213
Il gallo portato in lettiga dai gatti (App. 18), 205, 209, 275, 297
Il giovenco e il bue anziano (App. 12), 150, 214, 294
Il giovenco, il leone e il brigante (II 1), 200, 214, 287
Giunone, Venere e la gallina (App. 11), 213, 291-292, 304
Il gracchio vanaglorioso e il pavone (I 3), 85, 205, 209, 217, 271
L’imperatore Tiberio e l’atriario (II 5), 191, 209, 219, 221, 225, 268
Il ladro e la lucerna (IV 11), 204, 214, 220, 286, 298
Il leone e il pastore (Zand. 9), 211
Il leone medico (Zand. 24), 209
Il leone vecchio, il cinghiale, il toro e l’asino (I 21), 214-215, 280, 336
La lepre e il bifolco (App. 28), 208-209
Le lepri e le rane (Zand. 22), 211
Il lupo e il cane (III 7), 87, 202, 208-209, 312, 315
Il lupo e l’agnello (I 1), 86, 200, 205, 207, 211, 217, 277, 325
Il lupo e la gru (I 8), 104, 210, 276, 282
Il lupo e la volpe davanti al tribunale della scimmia (I 10), 213, 285
Il macellaio e la scimmia (III 4), 201, 212
Le membra e il ventre (Zand. 7), 209
Mercurio e le due donne (App. 4), 213, 311, 337
La meretrice e il giovane (App. 29), 209, 292
La montagna nelle doglie del parto (IV 24), 268
La mosca e la mula (III 6), 85, 209, 217, 269, 337

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Indice delle favole 393

I due muli e i briganti (II 7), 212-213, 217, 313


Il nibbio e le colombe (I 31), 210, 276, 297
Il nibbio malato (Zand. 27), 209
L’orso affamato (App. 22), 202, 215, 220, 278
La pace fra le pecore e i lupi (Zand. 15), 214
La pantera e i pastori (III 2), 206, 212, 214, 283
Il passero che dà consigli alla lepre (I 9), 209, 212, 285, 297
Il pastore e la capra (App. 24), 209
Il pavone da Giunone per la propria voce (III 18), 204, 211, 215, 217, 310
La pecora, il cane, il lupo (I 17), 188, 213-214, 285
La pecora, il cervo e il lupo (I 16), 213, 268
Le pene infernali (App. 7), 216, 220
Il pipistrello nella guerra degli animali (Zand. 12), 214
Il pollastrello e la perla (III 12), 192, 211, 306
Pompeo e il soldato (App. 10), 209, 221-222, 224, 320-321, 338
La predica della Pizia di Delfi (App. 8), 200, 203-204, 216, 220, 330
I due proci (App. 16), 223, 286, 321
Prometeo (IV 15), 321
Prometeo e l’Inganno (App. 5-6), 213, 259
Prometeo ubriaco (IV 16), 150, 215-216, 220, 321
La rana che scoppia e il bue (I 24), 213, 308
Le rane che chiesero un re (I 2), 102, 150-151, 202, 206, 209, 212, 314
Le rane e il Sole (I 6), 150, 211, 294, 335
Le rane preoccupate per le battaglie dei tori (I 30), 202, 212, 279, 314-315, 325
Il re delle scimmie (Zand. 17), 197
Il regno del leone (IV 14), 277
Le ricchezze sono cattive (IV 12), 203, 212-213
La scimmia alla corte del leone (Zand. 25), 209, 211
La scimmia e la volpe (App. 1), 211, 288
Lo scimmione re (IV 13), 197, 201, 214, 260
La scrofa nelle doglie del parto e il lupo (App. 19), 207, 209, 266, 281
La scure e gli alberi (Zand. 16), 47, 72, 209, 212
La serpe e la pietà dannosa (IV 20), 103, 210, 282, 298
La serpe nella bottega del fabbro ferraio (IV 8), 209, 217, 307
Il serpente che frequentava la casa del povero (Zand. 21), 209
Il serpente e la lucertola (App. 25), 210, 279
Simonide (IV 23), 194, 203-204, 224, 313
Simonide salvato dai Dioscuri (IV 26), 194, 223, 283
Socrate agli amici (III 9), 194, 211, 280-281
Socrate e lo schiavo farabutto (App. 27), 320
I due soldati e il brigante (V 2), 209, 218-219, 267
La spada e il viandante (Zand. 30), 211
Svago e serietà (III 14), 150-151, 217, 301
Il tempo (V 8), 215, 220, 307
La terraneola e la volpe (App. 32), 205, 207, 209, 267, 281, 294
Il tiranno Demetrio e il poeta Menandro (V 1), 217, 221, 223-225

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394 Indice delle favole

Il topo di campagna e il topo di città (Zand. 4), 209


Il topo e il leone (Zand. 6), 211
Il topo e la rana (Zand. 1), 212-213
Il toro e il vitello (V 9), 209, 302
Gli uccelli e la rondine (Zand. 28), 209, 220
L’uomo che aveva due amanti, l’una vecchia, l’altra giovane (II 2), 213, 240, 291
L’usignuolo e lo sparviero (Zand. 13), 86, 212-213
La vacca, la capretta, l’agnello e il leone (I 5), 86, 214-215, 217, 275, 325
La vecchia e l’anfora (III 1), 190, 220, 280
Il vecchio cane e il cacciatore (V 10), 191, 209, 280
La vedova e il soldato (App. 15), 223-225, 292, 321
Il viandante e il corvo (App. 23), 209, 320
I vizi umani (IV 10), 215
La volpe e il becco nel pozzo (IV 9), 210, 296
La volpe e il corvo (I 13), 86, 102, 205, 209, 270, 297
La volpe e il drago (IV 21), 203, 218, 290
La volpe e la cicogna (I 26), 206, 210, 217
La volpe e la maschera tragica (I 7), 207, 209, 215, 217, 266
La volpe e l’aquila (I 28), 88, 202, 210, 212, 286
La volpe e l’uva (IV 3), 207, 215, 267
La volpe invidiosa (Zand. 14), 214
La volpe mutata in donna (Zand. 26), 209
La zanzara e il cammello (Zand. 20), 209
La zanzara e il toro (Zand. 10), 209

Galeno
Lo sciocco e il vaglio (De meth. med. I 9 Kühn = 456 P.), 299

Gregorio Nazianzeno
L’origine del rossore (Poem. moral. 29, PG  XXXVII 3, col. 898 = 442 P.), 320

Ignazio Diacono
Il topo e i fabbri (Tetrast. iamb. I 8 M., pp. 266-267 Crus. = 354 P.), 288

Imerio
Apollo, le Muse e le Driadi (Or. 20, pp. 86-87 Dübner = 432 P.), 320-321
Eros tra gli uomini (Ecl. 10, 6, pp. 22-23 Dübner = 444 P.), 320

Luciano
L’asino di Cuma rivestito della pelle del leone (Pseudol. 3), 329
Il giovanotto e il cavallo furioso (Cynic. 18 = 457 P.), 276
Le scimmie danzatrici (Pisc. 36 = 463 P.), 111, 271, 304
L’uomo che contava le onde (Herm. 84 = 429 P.), 303

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Indice delle favole 395

Niceforo Basilace
Il lupo che indossava una pelle di pecora (Rhet. Gr. I, p. 427 Walz = 451 P.), 285
Il toro ingannato dal leone (Rhet. Gr. I, pp. 423-424 Walz = 469 P.), 276

Niceforo Gregora
La donnola che si tinge di nero (Hist. Byzant. VII 1 = 435 P.), 104, 268

Orazio
La rana e il bue (Sat. II 3, 314-320), 308
Il topo di campagna e il topo di città (Sat. II 6, 79 ss.), 77, 205, 291, 312, 324, 356
La volpe dal ventre gonfio (Epist. I 7, 29 ss.), 77, 289

Paolo Diacono
Il leone malato, la volpe e l’orso (585 P.), 283

Platone
Le cicale (Phaedr. 259 b-c = 470 P.), 321
Il leone invecchiato e la volpe (Alc. I, 123 a), 293
Il piacere e il dolore (Phaed. 60 b = 445 P.), 310
Poros e Penia (Conv. 203 b-e = 466 P.), 320

Plutarco
Il basilisco sopra l’aquila (Praec. reip. ger. 12, 806 e = 434 P.), 313-314
La casa del cane (Sept. sap. conv. 14, 157 b = 449 P.), 300
Il cuculo e gli uccelli (Arat. 30 = 446 P.), 320
Il dono toccato al Dolore (Cons. ad Apoll. 19, 112 a = 462 P.), 320
Il giorno di festa e il giorno di lavoro (Themist. 18 = 441 P.), 315
Il lupo e i pastori (Sept. sap. conv. 13, 156 a = 453 P.), 268
Il mulo (Sept. sap. conv. 4, 150 a-b = 315 P.), 112
L’ombra dell’asino (Vit. X orat. 848 a = 460 P.), 320
Il satiro e il fuoco (De cap. ex inim. util. 2, 86 e-f = 467 P.), 320-321
Lo schiavo fuggitivo (Coniug. praec. 41, 144 a = 440 P.), 320

Pseudo-Aristotele
L’aquila e l’uomo (Hist. anim. IX 117 = 422 P.), 320

Pseudo-Diogeniano
Il pescatore e il polipo (Praef. Paroem., CPG I, p. 179 = 425 P.), 112, 295

Pseudo-Dositeo
L’asino malato e il lupo medico (13, Hermen., CGL III, p. 45 = 392 P.), 266
La cornacchia e l’acqua (8, Hermen., CGL III, p. 43 = 390 P.), 301
Il gatto che invita le galline a pranzo (5, Hermen., CGL III, p. 42 = 389 P.), 278, 296-297
Il padrone di casa e i marinai (4, Hermen., CGL III, pp. 41-42 = 391 P.), 319
L’uomo e il leone compagni di viaggio (15, Hermen., CGL III, pp. 45-46; cfr. 284 P.), 150

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396 Indice delle favole

Romulus
Il castrone e il macellaio (IV 6 = 575 P.), 52, 316
Il cavallo, il leone e i becchi (IV 16 = 578 P.), 267
Il corvo e gli altri uccelli a pranzo (IV 11 = 577 P.), 297
Lo scimmione re (IV 8 = 569 P.; cfr. Ademaro 51), 260
La spada e il viandante (IV 20 = 579 P.), 320
L’uccellatore e gli uccelli (IV 7 = 576 P.), 294

Semonide di Amorgo
L’aquila e lo scarafaggio (fr. 11 D.), 284

Senofonte
La pecora, il cane e il pastore (Mem. II 7, 13 = 356 a P.), 87, 315

Simonide di Ceo
Il pescatore e il polipo (fr. 514 Page), 112, 295

Sintipa
L’asino selvatico e quello domestico (30 = 411 P.), 87, 315
Il cacciatore e il cane (21 = 403 P.), 267
Il cacciatore e il cavaliere (49 = 402 P.), 266
Il cacciatore e il lupo (6 = 404 P.), 272
Il cane e i fabbri (16 = 415 P.), 288
I cani dilacerano la pelle del leone morto (19 = 406 P.), 85, 267
Il fico e l’olivo (31 = 413 P.), 313
Il giovanotto e la vecchia (54 = 410 P.), 320
Il leone prigioniero e la volpe (17 = 409 P.), 85, 267
La lepre nel pozzo e la volpe (10 = 408 P.), 296
Il puledro (45 = 401 P.), 295
Il toro, la leonessa e il cinghiale (11 = 414 P.), 284

Stesicoro
Il cavallo, il cervo e l’uomo (fr. 104 Page = Aristotele, Rhet. II 20 = 269 a P.), 115, 118, 316

Temistio
Prometeo e gli uomini impastati di lacrime (Or. 32, p. 434 Dind. = 430 P.), 317

Varrone
Il pipistrello (Men. Agath., fr. 13 B.), 307

Vita Aesopi
L’aquila, la lepre e lo scarafaggio (135-139 GW, pp. 76 e 106-107 P.), 137, 144, 146, 150, 180
Le erbe selvatiche e le erbe coltivate (37 W, pp. 87-88 P.), 150, 169, 320
I lupi, i cani e le pecore (97 GW, pp. 65 e 99 P.), 163

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Indice delle favole 397

Il povero a caccia di cavallette e la cicala (99 W, pp. 99-100 P.), 280


La ragazza sciocca e la madre (131 GW, pp. 75 e 105-106 P.), 176, 182
I sogni (33 G, p. 47 P.), 320
L’uomo che defecò il senno (67 GW, pp. 56 e 93 P.), 178, 319
La vedova e il bifolco (129 GW, pp. 74-75 e 105 P.), 176, 321

Zenobio
L’asino che si china a guardare dalla porta (V 39, CPG I, p. 137 = 459 P.), 320

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Indice delle favole 399

Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna


(1995-2021)1

1
  Prosecuzione della bibliografia 1943-1994 data in DLAP, pp. 345-372. Sono esclusi gli
scritti puramente letterari, i libri scolastici e quasi tutti gli articoli pubblicati su giornali.
Sono segnalati con asterisco (*) i lavori inclusi in uno dei volumi elencati nel retro dell’oc-
chiello. Gli indici sono riportati, senza indicazione degli elementi paratestuali, nel caso di
raccolte di scritti vari; dove utile e possibile, sono fornite indicazioni sulla genesi e i con-
tenuti delle opere registrate.

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Opere di Antonio La Penna citate in forma abbreviata

AA 
Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli
ultimi cinquant’anni (1958-2004), Società Editrice Fiorentina,
Firenze 2005
DLAP 
Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note, Sansoni, Milano 1995
ECV Eros dai cento volti. Modelli etici ed estetici nell’età dei Flavi, Marsilio,
Venezia 2000
FA 
La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi, Della Porta Edi-
tori, Pisa 2021
IA 
Io e l’antico. Conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Edi-
tori, Pisa 2019
IGS 
L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgi-
lio, Laterza, Roma-Bari 2005
MDI 
Memorie e discorsi irpini di un intellettuale disorganico, Delta 3, Grot-
taminarda (AV) 2012
SS 
Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999
SSO 
Saggi e studi su Orazio, Sansoni, Firenze 1993

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 401

Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

1995
[1] 
Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note, con una bibliografia degli scritti
dell’autore 1943-1994 (pp. 345-372), a cura di Mario Citroni, Emanuele
Narducci e Alessandro Perutelli, Sansoni, Milano 1995, viii + 389 p.
Indice: Noi e l’antico (1993; pp. 1-23) – Il poeta inquieto della ragione (1963;
pp. 24-31) – Gli animali come strumenti di guerra (Lucrezio V 1297-1349) (1994;
pp. 32-48) – L’elegia di Tibullo come meditazione lirica (1986; pp. 49-109) –
L’autorappresentazione e la rappresentazione del poeta come scrittore da Nevio
a Ovidio (1992; pp. 110-160) – Per la storia del catalogo poetico dei temi filo-
sofici (1995; pp. 161-179) – Relativismo e sperimentalismo di Ovidio (1983;
pp. 180-203) – L’ usus contro Apollo e le Muse. Nota a Ovidio, Ars am. 1, 25-30
(1979; pp. 204-218) – La parola translucida di Ovidio (sull’episodio di Ermafro-
dito, Met. IV 285-388) (1983; pp. 219-230) – Le atre faci delle Erinni. Nota a
Ovidio, Her. 11, 103 (105) (1987; pp. 231-235) – Callimaco e i paradossi dell’impe-
ratore Tiberio (Svetonio, Tib. 70, 6; 62, 6) (1987; pp. 236-242) – L’intellettuale
emarginato da Orazio a Petronio (1980; pp. 243-271) – Seiano in una tragedia
di Seneca? (1980; pp. 272-278) – Persio e le vie nuove della satira latina (1979;
pp. 279-343).

* [2] Towards a History of the Poetic Catalogue of Philosophical Themes, in Homage


to Horace. A Bimillenary Celebration, a cura di S. J. Harrison, Clarendon
Press, Oxford 1995, pp. 314-328 (DLAP, pp. 161-179, con il titolo Per la
storia del catalogo poetico dei temi filosofici).
[3] 
Aspetti della presenza di Ovidio nella Gerusalemme Liberata, in Aetates Ovi-
dianae. Lettori di Ovidio dall’Antichità al Rinascimento, a cura di Italo
Gallo e Luciano Nicastri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995,
pp. 293-321. Già apparso in «Semicerchio», vol. 9, n. 1, 1993, pp. 43-55.
[4] Sperimentazione di teatro antico nelle scuole medie superiori, presentazione
di L’Anfitrione ovvero la modernità di Plauto, a cura di Anna Castellani,
Le Monnier, Firenze 1995, pp. 13-21.

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402 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

[5] 
Gli svaghi letterari della nobiltà gallica nella tarda antichità. Il caso di
Sidonio Apollinare, «Maia», n. s., vol. 47, 1995, pp. 3-34.
[6] 
Un dubbio su Properzio IV 4, 3, «Maia», n. s., vol. 47, 1995, pp. 35-36.
[7] 
Per la storia di exinde ovvero un amore non corrisposto, «Maia», n. s.,
vol. 47, 1995, pp. 89-102.
[8] 
Di lucido metallo razionale. Ricordo di Gianfranco Ciabatti, «L’immagi-
nazione», n. 118, febbraio 1995, p. 15.
[9] 
Il poeta e retore Lampridio. Un ritratto di Sidonio Apollinare, «Maia», n. s.,
vol. 47, 1995, pp. 211-224.
[10] Fulvus/flavus. Un dubbio su Sidonio Apollinare, Carm. 22, 178, «Maia»,
n. s., vol. 47, 1995, pp. 225-227.
* [11] Katà leptón, «Altofragile», n. 3, luglio 1995, p. 1 (AA).
* [12] Katà leptón, «Altofragile», n. 4, dicembre 1995, p. 1 (AA).
[13] 
Il vino di Orazio: nel modus e contro il modus, in In vino veritas, Atti della
conferenza internazionale «Wine and Society in the Ancient World»
(Roma, 19-22 marzo 1991), a cura di Oswyn Murray e Manuela Tecusan,
British School at Rome, London 1995, pp. 266-280 (SSO, pp. 275-297).
Interventi nel corso del convegno: pp. 16-17, 87-88, 104-105.
[14] Intervento sul Progetto Brocca davanti all’assemblea dell’Associazione
Italiana di Cultura Classica (Monza, 7 maggio 1995), «Atene e Roma»,
n. s., vol. 40, 1995, pp. 129-132.
[15] 
Su una congettura del Mureto al proemio delle Historiae di Tacito, «Maia»,
n. s., vol. 47, 1995, pp. 405-406.
[16] 
Katà leptón, «Il Portolano», n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 20-21 (AA).
[17] 
Una forma di culto delle statue degli dèi in Lucrezio (I 316-318), «Paideia»,
vol. 50, 1995, pp. 247-253.
[18] S
 allust (parte su Trecento e Quattrocento), voce in Lexikon des Mittel-
alters, vol. 7, Artemis Verlag, München-Zürich 1995, coll. 1308-1309.

1996
[19] Testimonianze su Cesare Luporini (titolo originario: Una riflessione di Ce-
sare Luporini sulle sue letture giovanili), in Il pensiero di Cesare Luporini,
Atti del convegno dedicato a Luporini dal Dipartimento di Filosofia

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 403

dell’Università di Firenze (13-14 maggio 1994), Feltrinelli, Milano 1996,


pp. 14-19.
* [20] I ricordi che mi legano a Dante Della Terza, in Dagli Appennini alle Montagne
Rocciose (e ritorno). Testimonianze e rimembranze per Dante Della Terza, a cura
di Vittorio Russo, Bibliopolis, Napoli 1996, pp. 47-59 (MDI, pp. 59-74).
[21] La scoperta comica della città nella novellistica italiana, in La novella e il
comico. Da Boccaccio a Brancati, a cura di Nicola Merola e Nuccio Ordi-
ne, Liguori, Napoli 1996, pp. 27-54.
[22] Su una croce del De republica di Cicerone, «Studi italiani di filologia clas-
sica», ser. 3, vol. 14 (a. 89), n. 1, 1996, pp. 99-101.
[23] L’arrivo di Enea alla foce del Tevere (Aen. VII 25-36). Saggio di analisi
letteraria dell’Eneide, «Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 14
(a. 89), n. 1, 1996, pp. 102-122.
[24] Il punto fra due infiniti, in ΟΔΟΙ ΔΙΖΗΣΙΟΣ. Le vie della ricerca. Studi in
onore di Francesco Adorno, a cura di Maria Serena Funghi, Olschki,
Firenze 1996, pp. 265-276.
[25] Poche note a Optaziano Porfirio, «Maia», n. s., vol. 48, 1996, pp. 51-55.
[26] Gli studi di Carlo Pascal fra letteratura e religioni antiche, in Per Enrica
Malcovati, Atti del convegno di studi nel centenario della nascita (Pavia,
21-22 ottobre 1994), Edizioni New Press, Como 1996, pp. 19-89.
[27] Enzio Cetrangolo: le traduzioni di scrittori latini, in Enzio Cetrangolo
poeta e traduttore, a cura di Francesco D’Episcopo e Antonio De Vita,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996, pp. 89-111.
[28] Il liceo classico, in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, a
cura di Mario Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 1996 (20102), pp. 197-213.
* [29] Katà leptón, «Altofragile», n. 6, novembre 1996, p. 2 (AA).
* [30] Modelli efebici nella poesia di Stazio, in Epicedion. Hommage à Papinius
Statius, a cura di Fernand Delarue, Sophia Georgacopolou, Pierre Lau-
rens e Anne-Marie Taisne, La Licorne, Poitiers 1996, pp. 161-184 (ECV,
pp. 135-168).
* [31] O
 rigine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica, introdu-
zione a Esopo, Favole, a cura di Cecilia Benedetti, Mondadori, Milano
1996, pp. vii-xxxv; quindi in La favola antica, a cura di Cecilia Benedetti
(Esopo) e Fernando Solinas (Fedro), «Meridiani (I Classici Collezione)»,
Mondadori, Milano 2007, pp. 3-31 (FA, pp. 67-88).

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404 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

[32] Su una croce nel testo di Valerio Flacco (VI 443 s.), «Maia», n. s., vol. 48,
1996, pp. 271-274.
[33] Una nota a Dante e Seneca (Purg. XI 103-108) e una postilla su Par. VI 66,
«Studi italiani», vol. 8, n. 2 (fasc. 16), 1996, pp. 5-7.
[34] Una nuova e feconda analisi letteraria dell’Agamennone di Seneca, prefa-
zione a Silvia Marcucci, Modelli «tragici» e modelli «epici» nell’Aga-
memnon di L. A. Seneca, Prometheus, Milano 1996, pp. 5-8.
[35] La ricerca filologica e storica di Dante Nardo, «Lexis», vol. 14, 1996,
pp. 3-16.
[36] Il viaggio di Terenzio in Asia: un errore della tradizione manoscritta?,
«Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 124, 1996, pp. 282-284.
[37] Mecenate, voce in Enciclopedia oraziana, a cura di Scevola Mariotti e
altri, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 792-802.
[38] Messio Cicirro, voce, ivi, pp. 809-811.
[39] Sarmento, voce, ivi, pp. 888-889.

1997
* [40] I ntervento su Novecento. La storia per decreto, «Il Ponte», vol. 53, n. 3,
marzo 1997, pp. 31-37 (SS, pp. 83-93, con il titolo L’irruzione della storia
del Novecento nelle scuole medie).
[41] Il ritratto rovesciato della bella donna (a proposito di un epigramma di Filode-
mo), «Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 99-106.
[42] Fallit imago. Una polemica di Manilio contro Virgilio e Lucrezio (nota a
Manilio IV 306), «Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 107-108.
[43] Angulus e arces nell’ode di Orazio a Settimio (Carm. II 6): due simboli filo-
sofici?, «Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 1, 1997,
pp. 85-90.
* [44] Katà leptón, «Altofragile», n. 8, ottobre 1997, p. 2 (AA).
[45] Un’eco di Meleagro nei Carmina di Orazio?, «Maia», n. s., vol. 49, 1997,
pp. 255-256.
[46] Per la ricostruzione del testo dell’Alcestis di Barcellona, «Maia», n. s., vol. 49,
1997, pp. 415-420.

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 405

[47] Su una croce dell’Aegritudo Perdicae e pochissime altre note al poemetto,
«Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 421-424.
[48] Una favola esopica e l’interpretazione di Catullo 96, «Studi italiani di filo-
logia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2, 1997, pp. 246-249.
[49] Giovenale 6, 165. Per la storia di uno stilema virgiliano, «Studi italiani di
filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2. 1997, pp. 250-253.
[50] La stanchezza del lungo viaggio (Verg. Aen. 5, 604-679), «Rivista di filo-
logia e di istruzione classica», vol. 125, 1997, pp. 52-69.
[51] L’Anti-Sénèque di La Mettrie e la filosofia antica, in Miscellanea senecana,
a cura di Giuseppe Gilberto Biondi, Paideia, Brescia 1997 («Paideia»,
vol. 52, 1997), pp. 161-189.

1998
[52] Professore cercasi (Titolo originario: Le chiamate nelle Facoltà. Su alcuni
sistemi di cooptazione e di giudizi collegiali), «Il Ponte», vol. 54, n. 1, gen-
naio 1998, pp. 20-31.
[53] La Suburra come allegoria, introduzione a Franco Petroni, Il gladiatore,
Piero Manni, Lecce 1998, pp. 7-14.
[54] Due epistole di Orazio tradotte da Francesco Politi, «Semicerchio», vol. 18,
n. 1, 1998, pp. 36-37.
[55] La letteratura latina di intrattenimento nella tarda antichità, in Storia
della civiltà letteraria greca e latina, diretta da Italo Lana ed Enrico
V. Maltese, vol. 3, Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Utet,
Torino 1998, pp. 358-425.
* [56] P
 er una scuola aperta ed anticonformista, «Normale» (Bollettino dell’Asso-
ciazione Normalisti), vol. 1, n. 1, giugno 1998, pp. 20-22 (SS, pp. 93-98).
[57] Servio e la σύγκρισις fra l’ Iliade e l’Odissea, «Maia», n. s., vol. 50, 1998,
pp. 147-150.
[58] Il panaziendalismo nell’Università, «Il Ponte», vol. 54, n. 7, luglio 1998,
pp. 30-40.
* [59] R
 iforma, anzi fine della scuola media superiore, «Il Ponte», vol. 54, nn. 8-9,
agosto-settembre 1998, pp. 33-38 (rifuso in SS, cap. 5, pp. 101-132,
La crisi della scuola media superiore in Italia con note di aggiornamento a
pp. 132-133).

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406 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

[60] Lettera a Luciano Anceschi (Bisaccia 11-4-1998), in Il laboratorio di


Luciano Anceschi. Pagine, carte, memorie, a cura di Maria Giovanna
Anceschi, Antonella Campagna e Duccio Colombo, Libri Scheiwiller,
Milano 1998, p. 373.
[61] « Rara traluce la notturna lampa» e altre due note sui Canti di Leopardi,
«Studi italiani», vol. 10, n. 1 (fasc. 19), 1998, pp. 115-119.
[62] I miei anni di scuola e di Università, «Annali di storia dell’educazione e
delle istituzioni scolastiche», vol. 5, 1998, pp. 261-278.
[63] La formazione degli insegnanti per le scuole medie. Vecchi tentativi e nuove
proposte, in Oltre lo «Stato». Da Aristotele ai postmoderni, Atti del congres-
so nazionale AICC – Associazione Italiana di Cultura Classica, Dele-
gazione valdostana (Saint-Vincent, 27-28 aprile 1996), a cura di Maria
Grazia Vacchina, Aosta 1998, pp. 115-127.
[64] Ai lettori (I direttori), «Maia», n. s., vol. 50, 1998, pp. iii-vi.
[65] S
 u un tenace errore di stampa nelle edizioni correnti della Scienza Nuova,
«Rivista di storia della filosofia», n. s., vol. 53, n. 2, 1998, pp. 351-352.
* [66] La memoria e la scienza, «Password», vol. 1, 1998. Già apparso in Politica e
cultura per la ricostruzione del Mezzogiorno, Atti del convegno organizzato
dall’Istituto Gramsci in collaborazione con il CRS e il CESPE (Avellino,
15-16 gennaio 1981), a cura di Francesco Grelle e Francesca Gandolfo,
Editori Riuniti, Roma 1981, pp. 67-74. Riedito in Paolo Speranza (a cura
di), 19.35. Scritti dalle macerie, prefazione di Antonio Zollo, Edizioni
Laceno, Atripalda (AV) 2006, pp. 105-116. (MDI, pp. 103-111, con il ti-
tolo Il ruolo della scienza e della cultura per la salvezza del Mezzogiorno).
[67] Fosforescenza lirica, recensione a Franco Arminio, Homo timens, Selli-
no e Barra Editori, Serra Pratola (AV) 1997, «L’immaginazione», n. 145,
marzo 1998, pp. 25-27.
[68] Recensione a Peter White, Promised Verse. Poets in the Society of
Augustan Rome, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1993,
«Maia», n. s., vol. 50, 1998, pp. 527-538.

1999
[69] Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999, xi + 160 p.
Indice: i. I moderni e gli antichi (pp. 5-32) – ii. La Commissione dei «Saggi»
ovvero un’orchestra senza maestro (pp. 33-82) – iii. L’irruzione della storia del
Novecento nelle scuole medie (1997; pp. 83-92) – iv. Per una scuola aperta e

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 407

anticonformista (1998; pp. 93-98) – v. La crisi della scuola media superiore


in Italia (1999; pp. 101-133) – vi. La democrazia possibile e utile nella scuola
(pp. 134-148).
[70] O
 vidio e la fortuna di Cesare, in Ovid: Werk und Wirkung. Festgabe für
Michael von Albrecht zum 65. Geburtstag, a cura di Werner Schubert,
Peter Lang, Frankfurt am Main 1999, vol. 2, pp. 635-646.
[71] La scuola e l’Università nel pensiero e nell’attività di Giacomo Devoto, in
Giacomo Devoto nel centenario della nascita, Atti del convegno «Giacomo
Devoto e le istituzioni» (Firenze, 24-25 ottobre 1997), a cura di Carlo Al-
berto Mastrelli e Alessandro Parenti, Olschki, Firenze 1999, pp. 123-150.
[72] «Io vi esorto alle concordanze», «Maia», n. s., vol. 51, 1999, pp. 17-22.
* [73] L
 a crisi della scuola media superiore. Alcune proposte di riforma, in La rifor-
ma della scuola secondaria, Atti del convegno (Pisa, Palazzo dei Congres-
si, 6-7 novembre 1997), a cura di Guido Paduano, Pacini, Pisa 1999,
pp. 12-35 (SS, pp. 101-133; IA, pp. 93-149).
[74] Immortale Falernum. Il vino di Marziale e dei poeti latini del suo tempo,
«Maia», n. s., vol. 51, 1999, pp. 163-181.
[75] C
 esare secondo Cesare, introduzione a Giulio Cesare, La guerra civile,
a cura di Antonio La Penna, Marsilio, Venezia 1999, p. 7-19.
[76] L
 a scuola la fanno i maestri non i ministri, intervista a cura di Lidia
Marchiani, «Chichibìo», vol. 1, n. 4, settembre-ottobre 1999, p. 3.
[77] 
Il finanziamento pubblico delle scuole private. La svendita di un’eredità libe-
rale, «Ricerche pedagogiche», vol. 33, nn. 132-133, luglio-dicembre 1999,
pp. 75-78.
[78] Il culto della romanità nel periodo fascista. La rivista «Roma» e l’Istituto di
studi romani, «Italia contemporanea», n. 217, dicembre 1999, pp. 605-630.
[79] Recensione a Karl Galinsky, Augustan Culture. An Interpretive In-
troduction, Princeton University Press, Princeton 1996, «Athenaeum»,
vol. 87, 1999, pp. 330-340.

2000
[80] E
 ros dai cento volti. Modelli etici ed estetici nell’età dei Flavi, Marsilio,
Venezia 2000, 221 p.
Indice: Introduzione. Poesia latina ed eros dall’età augustea all’età dei Flavi
(pp. 13-35) – Tipi e modelli femminili nella poesia dell’epoca dei Flavi (Stazio,

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408 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

Silio Italico, Valerio Flacco) (1981; pp. 37-65) – I cento volti dell’eros di Mar-
ziale (1992, con il titolo La sublimazione estetica dell’eros in Marziale; pp. 67-133)
– Modelli efebici nella poesia di Stazio (1996; pp. 135-168) – Ila senza anfora
ovvero Ila secondo Valerio Flacco (inedito; pp. 169-182) – Due nomi propri in
Marziale (1994; pp. 185-188) – Un puer delicatus chiamato Galeso. Una pole-
mica giocosa di Marziale con Virgilio (1983; pp. 189-191) – Alcune note sulla
fortuna del mito di Ila (inedito; pp. 193-212).
* [81] A
 forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 164, gennaio 2000,
p. 22 (AA).
[82] Le difficoltà restano enormi, ma..., «I Ciompi. Periodico toscano di
Rifondazione comunista», n. 1, febbraio 2000, pp. 33-34.
* [83] Q
 uattro riflessioni sull’eros, «Altofragile», n. 12, gennaio 2000, p. 2 (AA,
pp. 285-289).
[84] L’ordine delle raffigurazioni della guerra troiana nel tempio di Cartagine
(Aen. I 469-493), «Maia», n. s., vol. 52, 2000, pp. 1-8 (= ΚΗΠΟΣ. Home-
naje a Eduardo J. Prieto, a cura di Nora Andrade e altri, Paradiso,
Buenos Aires 2000, pp. 21-28).
* [85] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 167, aprile 2000,
pp. 7-8 (AA).
[86] Le Sabinae di Ennio e le Fenicie di Euripide, «Studi italiani di filologia
classica», ser. 3, vol. 18 (a. 93), n. 1, 2000, pp. 53-54.
[87] Leopardi e la lirica antica, in Dall’ateneo alla città. Lezioni su Giacomo
Leopardi, Seminario di studi tenuto all’Università «La Sapienza» di
Roma nel 1998 nell’ambito delle manifestazioni «Roma per Leopardi
1798-1998», a cura di Marco Dondero, Fahrenheit 451, Roma 2000
(20152), pp. 11-31.
[88] La campagna di Curione in Africa. La narrazione e l’interpretazione di Ce-
sare, in L’ultimo Cesare. Scritti riforme progetti poteri congiure, Atti del
convegno internazionale (Cividale del Friuli, 16-18 settembre 1999),
a cura di Giampaolo Urso, Fondazione Niccolò Canussio, L’Erma di
Bretschneider, Roma 2000, pp. 175-210.
* [89] A
 forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 172, novembre 2000,
pp. 15-16 (AA).
[90] Quale strada per le scuole d’eccellenza?, intervista di Gabriela Jacomella
(Firenze, 1° maggio 2000), «Athenet», n. 2, settembre 2000, pp. 26-28.
[91] Le Sabinae di Ennio e il tema della concordia nella tragedia arcaica latina,
in Identität und Alterität in der frührömischen Tragödie, Atti del simposio
promosso da Eckard Lefèvre nell’ambito del progetto «Konstitution

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 409

und Konstruktion von Identität und Alterität in der Tragödie der


Römischen Republik» (Freiburg, 17-19 novembre 1999), a cura di
Gesine Manuwald, Ergon Verlag, Würzburg 2000 («Identitäten und
Alteritäten», 3), pp. 241-254. Schlusswort (in latino), p. 363.
[92] Ricordo di Ernesto Sestan, in Ernesto Sestan 1898-1998, Atti delle gior-
nate di studio nel centenario della nascita (Firenze, 13-14 novembre
1998), a cura di Emilio Cristiani e Giuliano Pinto, Olschki, Firenze
2000, pp. 213-218.
[93] Supplemento su vidi, «Acta Classica Universitatis Scientiarum Debre-
ceniensis», vol. 36, 2000, pp. 51-55.
[94] Un passo dimenticato di Virgilio. Nota di commento a Georg. III 525-530
(e a Lucano IV 799-804), «Studi italiani di filologia classica», ser. 3,
vol. 18 (a. 93), n. 2, 2000, pp. 230-234.
[95] 
Recensione a David A. Traill, La verità perduta di Troia. Il mistero, la
gloria e gl’inganni di Heinrich Schliemann, il grande archeologo scopritore
della mitica città omerica, Newton Compton, Roma 1999, «Passato e pre-
sente», vol. 18, n. 49, gennaio-aprile 2000, pp. 146-150 = «Maia», n. s.,
vol. 52, 2000, pp. 353-358.

2001
[96] Lo straripamento della Chiesa cattolica e l’abdicazione dello Stato laico,
«I Ciompi. Periodico toscano di Rifondazione comunista», n. 1, feb-
braio 2001, pp. 31-34.
[97] Scuole di eccellenza, alcune considerazioni preliminari, «Il Ponte», vol. 57,
n. 2, febbraio 2001, pp. 59-68.
* [98] A
 forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 177, maggio 2001,
pp. 7-9 (AA).
[99] Perché l’antico nella scuola, «Maia», n. s., vol. 53, 2001, pp. 287-291.
[100] Poche note supplementari ad Antonella Angeleri, L’epistola Excusatio
obiectorum a Marsilio Santasofia di Giovanni Conversini da Ravenna,
«Maia», n. s., vol. 53, 2001, pp. 350-351.
* [101] A
 gli amici dell’Alta Irpinia per l’inaugurazione del Parco letterario «France-
sco De Sanctis», in Francesco De Sanctis: il critico, l’uomo, il politico, Atti dei
seminari di studi desanctisiani, Cresm Campania, s.l. 2001, pp. 111-114
(MDI, pp. 127-131). Discorso letto da Paolo Saggese in occasione della
tavola rotonda «Serve ancora la lezione di De Sanctis per la politica dei
nostri tempi?» organizzata dal Parco letterario «Francesco De Sanctis»
(Morra De Sanctis, 3 giugno 2000).

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410 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

* [102] 
Il ritorno di Francesco De Sanctis come riformatore intellettuale e morale,
in Francesco De Sanctis: il critico, l’uomo, il politico, Atti dei seminari di
studi desanctisiani, Cresm Campania, s.l. 2001, pp. 253-262 (MDI,
pp. 113-125). Intervento in occasione della cerimonia tenutasi a Mor-
ra l’8 luglio 1989, per l’inaugurazione della casa natale di F. De Sanc-
tis restaurata dopo il terremoto.
* [103] 
Nell’Irpinia del ’45, colloquio con Antonio La Penna a cura di Paolo
Saggese, in L’occupazione delle terre in Alta Irpinia 1945-1950, a cura di
Paolo Speranza, Centro stampa CGIL, s.l., s.n. 2001, pp. 38-42.
Riedito parzialmente in L’Irpinia nella seconda guerra mondiale.
Dalla crisi del regime fascista alla liberazione, a cura di Francesco
Barra e Paolo Saggese, Centro di ricerca Guido Dorso, Avellino 2004
(MDI, pp. 75-85).
* [104] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 182, dicembre 2001,
pp. 13-14 (AA).
[105] 
Tra Fetonte e Icaro. Ardimento o amore della scienza?, «Maia», n. s.,
vol. 53, 2001, pp. 535-563.
Supplemento sulla σύγκρισις fra la prima e la seconda parte dell’ Eneide,
[106] 
«Maia», n. s., vol. 53, 2001, p. 643.
[107] 
La rivista «Roma» e l’Istituto di studi romani. Sul culto della romanità
nel periodo fascista, in Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von
Faschismus und Nationalsozialismus, Kolloquium Universität Zürich,
14.-17. Oktober 1998, a cura di Beat Näf e Tim Kammasch, Edition
Cicero, Mandelbachtal-Cambridge 2001, pp. 89-110.
[108] 
Marziale sulla riva etrusca, «Semicerchio», voll. 24-25, 2001, pp. 79-80.
* [109] 
La provincia come prigione. Alcune riflessioni inconcludenti, «Passaggi.
Mezzogiorno e oltre», vol. 2, n. 2, ottobre 2001, pp. 35-39 (MDI,
pp. 133-139).

2002
[110] 
Ricordo di Attilio Marinari, in Letteratura e società. Note e interventi per
Attilio Marinari 1923-2000, a cura di Ugo Piscopo, Edizioni del Centro
Dorso, Avellino 2002, pp. 13-16.
[111] 
Ritratti dalle lettere di Cicerone, in Interpretare Cicerone. Percorsi della
critica contemporanea, Atti del II «Symposium Ciceronianum Arpinas»
(Arpino, 18 maggio 2001), a cura di Emanuele Narducci, Le Monnier,
Firenze 2002, pp. 1-23.

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 411

* [112] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 186, aprile 2002,
pp. 10-12 (AA).
[113] 
L’eredità classica e cristiana e la riforma della scuola, «La voce del
CNADSI» (organo del Comitato nazionale Associazione difesa scuo-
la italiana e del Movimento libertà e riforma università italiana), vol. 39,
n. 7, 1° maggio 2002, pp. 1-3.
* [114] 
Il potere, il destino, gli eroi. Introduzione all’Eneide, in Virgilio, Enei-
de, traduzione e note di Riccardo Scarcia, BUR, Milano 2002, pp. 5-222
(riveduto e ampliato in IGS, pt. 3, L’ Eneide: il costo tragico del potere).
[115] Latino e greco nel plurilinguismo dell’ Eros e Priapo di Carlo Emilio Gad-
da, in Per Carlo Muscetta, a cura di Novella Bellucci e Giulio Ferroni,
Bulzoni, Roma 2002, pp. 299-316.
[116] La collana di Armonia e il balteo di Pallante. Una nota su Virgilio e Accio,
«Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 259-262.
[117] 
Una guerra dopo l’altra, «I Ciompi. Periodico toscano di Rifondazione
comunista», n. 5, novembre 2002, pp. 32-34.
* [118] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 192, novembre-
dicembre 2002, pp. 11-13 (AA).
[119] I volti di Venere nell’Eneide, in Arma virumque… Studi di poesia e sto-
riografia in onore di Luca Canali, a cura di Emanuele Lelli, Istituti edi-
toriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 2002, pp. 97-107.
[120] Lo studio del mondo antico nell’Antologia del Vieusseux, in Leopardi a
Firenze, Atti del convegno di studi (Firenze, 3-6 giugno 1998), a cura
di Laura Melosi, Olschki, Firenze 2002, pp. 339-379.
[121] Scene e motivi negli Epigoni e nell’Alphesiboea di Accio, in Accius und
seine Zeit, a cura di Stefan Faller e Gesine Manuwald, Ergon Verlag,
Würzburg 2002 («Identitäten und Alteritäten», 13), pp. 173-186.
[122] Omnia tuta timens (nota su Aen. 4.298), «Lexis», vol. 20, 2002,
pp. 87-89.
[123] 
Narratori e lettori di storia in suspense. Una nota su Lucano e Livio,
«Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 527-529.
[124] 
Note di discussione, in appendice a Maria Salanitro, Testo critico ed
esegesi in Marziale, «Maia», n. s., vol. 54, 2002, p. 576.
[125] 
Note di discussione, in appendice ad Antonino Grillone, Precisazioni
sul testo dei Getica di Giordanes, «Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 586-588.
[126] 
Note sulla lingua e lo stile dell’Eneide, «Paideia», vol. 57, 2002,
pp. 192-215.

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412 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

2003
[127] 
Prima lezione di letteratura latina, Laterza, Roma-Bari 2003 (20112),
viii + 171 p.
Indice: 1. Verso l’impero mediterraneo. i (pp. 3-22) – 2. Verso l’impero mediter-
raneo. ii (pp. 23-60) – 3. Riflessioni sulla storia (pp. 61-90) – 4. Il costo tragico
della storia (pp. 91-117) – 5. Il fascino e l’orrore della guerra nell’Eneide (pp. 118-
148) – 6. La solitudine di Didone (pp. 149-169)
[128] I Cartaginesi e i Feaci. Per un’interpretazione del primo libro dell’Eneide, in
Premio Francesco Tramontano, VIII edizione. Convegno nazionale di studi
su Virgilio. VI Certamen Vergilianum (Nocera Inferiore, Liceo «G. B.
Vico», 4-6 aprile 2002), Atti a cura di Antonino Grillo, Sfameni, Mes-
sina 2003, pp. 19-49.
[129] La grande armatura di Mitridate. Note a Sallustio, Hist. II fr. 77
Maurenbrecher, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 1-3.
* [130] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 197, aprile 2003,
pp. 13-16 (AA).
[131] 
Qualche problema nell’interpretazione della rassegna storica nel VI del-
l’Eneide, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 231-247.
[132] 
Pochissime note all’edizione degli Scholia Veronensia alle Bucoliche di
Virgilio curata da Aldo Lunelli, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 367-369.
[133] 
Ennio, Ann. 403 Skutsch: il poeta in azione, «Museum Helveticum»,
vol. 60, n. 3, 2003, pp. 158-160.
[134] 
Da Omero a Dante? Secondo supplemento su vidi, «Prometheus», vol. 29,
2003, pp. 228-234.
[135] 
Quintiliano, l’impero, le istituzioni, in Intellettuali e potere nel mondo antico,
Atti del convegno nazionale di studi (Torino, 22-24 aprile 2002), a cura di
Renato Uglione, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003, pp. 139-163.
[136] 
Selezione e organizzazione nelle due rassegne storiche dell’ Eneide, in
Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Atti del convegno inter-
nazionale di studi (Firenze, 25-26 novembre 2002), a cura di Angelo
Casanova e Paolo Desideri, Università di Firenze, Dipartimento di
scienze dell’antichità «Giorgio Pasquali», Firenze 2003, pp. 143-163.
[137] Lettera a Gianfranco Imperiale (Firenze, 26 luglio 2001), premessa a
G. Imperiale, La Manumorta (La tassa di successione), commedia dia-
lettale in tre atti, Tipolitogr. Velox Print, Avellino 2003, pp. 5-6.
[138] Recensione a Nicholas Horsfall, Virgil, Aeneid 7. A Commentary,
Brill, Leiden-Boston 2000, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 405-415.

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 413

2004
[139] I volti di Seneca, in Seneca. Una vicenda testuale, catalogo della mostra
tenutasi a Firenze presso la Biblioteca Medicea Laurenziana (2 aprile -
2 luglio 2004) organizzata, sotto l’alto patronato del Presidente della
Repubblica Italiana, col contributo del Comitato nazionale per le cele-
brazioni del bimillenario della nascita di Lucio Anneo Seneca, a cura di
Teresa De Robertis e Gianvito Resta, Mandragora, Firenze 2004,
pp. 15-46.
[140] Tre passi controversi nelle tragedie di Seneca, «Maia», n. s., vol. 56, 2004,
pp. 1-7.
[141] 
Tracce evanescenti di Ennio in poeti italiani (Petrarca, Tasso, Leopardi),
«Maia», n. s., vol. 56, 2004, pp. 139-141.
* [142] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 207, luglio-agosto
2004, pp. 10-12 (AA).
[143] Fasto e povertà nell’Eneide, «Maia», n. s., vol. 56, 2004, pp. 225-248.
* [144] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 209, novembre-
dicembre 2004, pp. 17-18 (AA).
[145] 
Una nota su Petrarca e Orazio, «Quaderni petrarcheschi», vol. 11, 2001,
pp. 163-166.
[146] La disputa sul primato della caccia o della pesca nell’antichità. A proposi-
to degli Halieutica pseudo-ovidiani, «Philologus», vol. 148, 2004,
pp. 290-304.
[147] E
 ffeta. La sensazione di esaurimento della natura e della storia nella cul-
tura della tarda repubblica romana, in Mathesis e Mneme. Studi in memo-
ria di Marcello Gigante, a cura di Salvatore Cerasuolo, Università di
Napoli, Dipartimento di filologia classica «Francesco Arnaldi», Napoli
2004, vol. 1, pp. 199-205.
[148] I flosculi sallustiani di Aurelio Vittore, «Acta Classica Universitatis
Scientiarum Debreceniensis», voll. 40-41, 2004-2005, pp. 377-384.
[149] Corpusculum e σωμάτιον: qualche nota ed un problema circa Seneca ed
Epitteto, «Paideia», vol. 59, 2004, pp. 235-242.

2005
[150] 
Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli
ultimi cinquant’anni (1958-2004), presentazione di Massimo Mugnai
(pp. ix-xix), Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005, xix + 300 p.

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414 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

Raccolta di annotazioni «riguardanti temi posti al di fuori dei miei studi sulle
letterature classiche», già pubblicate sotto il titolo Katà leptón in riviste non
specializzate: «La rassegna pugliese» (1966-1973) di Agostino Caiati; «Altofra-
gile» (1995-2000), foglio volante del poeta Franco Arminio; «Il Portolano»
(1995) di Piergiovanni Permoli. A chiudere, la serie degli Aforismi e autosche-
diasmi ospitati, a partire dal 2000, in «L’ immaginazione».

[151] 
L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio,
Laterza, Roma-Bari 2005, xii + 580 p.
«Le parti riguardanti le Bucoliche e le Georgiche furono pubblicate [nel 1983],
per accompagnare la traduzione di Luca Canali, nella Biblioteca Universale
Rizzoli; la parte, molto più ampia, riguardante l’Eneide per circa la metà è
stata pubblicata nella stessa collana per accompagnare la traduzione di Riccar-
do Scarcia, per l’altra metà è nuova. […] Anche la parte già pubblicata della
sezione riguardante l’Eneide, benché risalga a pochi anni fa (è uscita nel 2002),
è stata riveduta e ampliata con alcune aggiunte» (Nota dell’autore, p. xi).
Titoli delle parti: I. Le Bucoliche ovvero l’impossibile Arcadia (pp. 3-66);
II. Le Georgiche: il poema esiodeo e lucreziano del lavoro e della natura (pp. 67-112);
III. L’Eneide: il costo tragico del potere (pp. 113-495); Appendice: Le opere e gli
anni (pp. 497-505)

[152] Apologie moderne di Nerone, in Aspetti della fortuna dell’antico nella


cultura europea, Atti della seconda giornata di studi (Sestri Levante,
11-12 marzo 2005), a cura di Emanuele Narducci, Sergio Audano e
Luca Fezzi, ETS, Pisa 2005, pp. 65-80.
[153] 
Preziosismo macabro. Un calco di Apuleio in Masuccio Salernitano?, «Moder-
ni e antichi», voll. 2-3, 2004-2005, pp. 455-458.
[154] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 217, novembre 2005,
pp. 23-25.
[155] Recensione a Emanuele Narducci, La gallina Cicerone. Carlo Emilio
Gadda e gli scrittori antichi, Olschki, Firenze 2003 («Studi dell’Accade-
mia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», 210), «Maia», n. s.,
vol. 57, 2005, pp. 165-168.

2006
[156] 
Il tormentato amore di Franco Arminio per la sua Irpinia, «L’Irpinia illu-
strata», vol. 6, n. 3 (22), 2006, pp. 24-29.
[157] Alfonso Traina, «Poesie 1992-2003», «L’immaginazione», n. 218, gen-
naio-febbraio 2006, pp. 58-60. Presentazione «cumulativa» delle seguenti
sei raccolte poetiche pubblicate fuori catalogo e fuori commercio presso
l’editore Pàtron di Bologna: Stagioni (1992), In cerca di parole (1994), Le

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 415

parole e il tempo (1996), Tra due silenzi (1998), L’attesa (2001), Il mosaico
(2003). Riedita in [169] in combinazione con [168].

2007
[158] 
Il «litterato»: un modello etico-estetico di Leon Battista Alberti, in Alberti
e la tradizione. Per lo «smontaggio» dei «mosaici» albertiani, Atti del II
convegno internazionale del comitato nazionale per le celebrazioni del
VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti (Arezzo, 22-25
settembre 2004), a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi,
Polistampa, Firenze 2007, pp. 561-584.
[159] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 227, gennaio-febbra-
io 2007, pp. 18-19.
[160] Memoria e illusione: l’Andromaca di Virgilio, in Convegno nazionale di
studi su Virgilio. X Certamen Vergilianum. Premio Francesco Tramonta-
no, XII edizione (Nocera Inferiore, Liceo «G. B. Vico», 27-29 aprile
2006), Atti a cura di Cosmo Gerardo La Mura e Patrizia Di Nuzzo,
Duebbigrafica, s.l. [ma Nocera Inferiore] 2007, pp. 13-27.
[161] Lettera a Michele Panno, «Vicum», marzo-giugno 2007, pp. 161-162.
[162] 
La filologia in Italia nel Novecento, «Rivista storica italiana», vol. 119,
n. 3, 2007, pp. 1089-1126.
[163] L’Andromaca di Virgilio (e di Baudelaire). I fili del dramma, «La Parola
del Passato», vol. 62, n. 353, 2007, pp. 120-137.

2008
[164] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 236, gennaio-febbraio
2008, pp. 27-29.
[165] 
Marcello Gigante e il teatro antico, introduzione a Marcello Gigante,
Scritti sul teatro antico, a cura di Graziano Arrighetti e altri, Fridericia-
na Editrice Universitaria, Napoli 2008, pp. xi-xxv.
Stazio, Theb. 5.355, «Prometheus», vol. 34, 2008, pp. 181-183.
[166] 
[167] I danni della pace e il metus hostilis secondo Virgilio e Livio, in Studi of-
ferti ad Alessandro Perutelli, a cura di Paolo Arduini e altri, Aracne
Editrice, Roma 2008, vol. 2, pp. 85-89.
[168] Recensione ad Alfonso Traina, Penombre, Pàtron, Bologna 2005,
«L’immaginazione», n. 239, maggio 2008, pp. 50-51. Riedita nella voce
seguente.

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416 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

[169] Il nichilismo relativo di Alfonso Traina, introduzione ad Alfonso Traina,


Versi del mattino e della sera, premessa di Giorgio Bernardi Perini, in-
troduzione di Antonio La Penna, Tre Lune Edizioni, Mantova 2008,
pp. xv-xxi (rifusione di [168] con [157]).

2009
[170] La breve stagione dell’elegia latina d’amore, in Il rinnovamento umanisti-
co della poesia. Epigramma ed elegia, a cura di Roberto Cardini e Dona-
tella Coppini, Polistampa, Firenze 2009, pp. 101-123.
 [171] 
L’impegno di Cesare Luporini per la scuola e l’Università, in Cesare Lupo-
rini 1909-1993, a cura di Maria Moneti, «Il Ponte», vol. 65, n. 11,
novembre 2009, pp. 205-216.
[172] 
Per uno scrittore del Meridione, «L’immaginazione», n. 251, dicembre
2009, pp. 225-227. Su Franco Arminio.
[173] 
Lettera a Ugo Piscopo (27-7-2007), «Poesia meridiana», vol. 1, 2009,
p. 102.
[174] 
Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente, in Favolisti
latini medievali e umanistici, vol. 14, a cura di Ferruccio Bertini e
Caterina Mordeglia, D.AR.FI.CL.ET., Genova 2009, pp. 9-34 (FA,
pp. 89-114). Già apparso in Vie di comunicazione e incontri di culture
dall’antichità al medio evo tra Oriente e Occidente, Atti del congresso
internazionale AICC – Associazione Italiana di Cultura Classica, De-
legazione valdostana (St. Vincent, 17-18 ottobre 1992), a cura di Maria-
grazia Vacchina, Assessorato regionale della Pubblica Istruzione,
Aosta 1994, pp. 162-186.
[175] 
I mali vecchi e nuovi dell’Università, «Il Ponte», vol. 65, n. 12, dicembre
2009, pp. 51-60.

2010
[176] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 256, luglio-agosto
2010, pp. 15-16.
[177] Il terremoto e la poesia irpina, prefazione a Domenico Cipriano, Novem-
bre, Transeuropa, Massa 2010, pp. 3-8.
[178] 
Alla ricerca di Androdo, in Gli antichi e i moderni. Studi in onore di Ro-
berto Cardini, a cura di Lucia Bertolini e Donatella Coppini, Polistam-
pa, Firenze 2010, vol. 2, pp. 725-726.

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 417

* [179] La mia scuola sotto il regime, in C’ero anch’io! A scuola nel Ventennio. Ricor-
di e riflessioni, a cura di Giovanni Genovesi, Liguori, Napoli 2010,
pp. 67-75 (MDI, pp. 47-58).

2011
[180] Sul nuovo frammento di Lucilio scoperto da Aldo Lunelli, «Maia», n. s.,
vol. 63, 2011, pp. 60-62.
[181] 
Il regno dell’Erinni. Un’eco significativa di Ovidio nell’Octavia, «Maia»,
n. s., vol. 63, 2011, pp. 88-89.
[182] 
Il locus amoenus, Pasquali e F. R. Curtius, «Maia», n. s., vol. 63, 2011,
pp. 160-161.
[183] 
Per un grande storico e un vecchio amico, in Emilio Gabba fra storia e sto-
riografia sul mondo antico, Atti del convegno (Firenze, 15 ottobre 2009)
in occasione della presentazione del volume di Emilio Gabba, Rifles-
sioni storiografiche sul mondo antico, a cura di Paolo Desideri e Maria
Antonietta Giua, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011, pp. 1-3.
[184] Poche note alle Intercenales di Leon Battista Alberti, «Maia», n. s., vol. 63,
2011, pp. 324-329.
[185] Recensione ad Alfonso Traina, Chiaroscuro. Versi e versioni, a cura
di Ivo Iori, MUP, Parma 2010, «L’immaginazione», n. 261, marzo 2011,
pp. 54-55.

2012
[186] 
Per una tipologia sociologica degli scrittori latini, in Letteratura e civitas.
Transizioni dalla repubblica all’impero. In ricordo di Emanuele Narducci,
a cura di Mario Citroni, ETS, Pisa 2012, pp. 405-417.
[187] 
Il commento esclamativo del Petrarca alla propria narrazione storica, in
Petrarca, l’umanesimo e la civiltà europea, Atti del convegno internazio-
nale (Firenze, 5-10 dicembre 2004), a cura di Donatella Coppini e
Michele Feo, Le Lettere, Firenze 2012 («Quaderni petrarcheschi»,
voll. 15-16, 2005-2006; 17-18, 2007-2008), vol. 1, pp. 421-441.
[188] 
Il Giovenale irpino, prefazione a Giuseppe Iuliano, Vento di fronda.
Poesie, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, pp. 7-22.
[189] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 270, luglio-agosto
2012, pp. 33-35.
[190] Memorie e discorsi irpini di un intellettuale disorganico, a cura di Nino
Gallicchio e Paolo Saggese, introduzione di Salvatore Frullone (pp. 5-6),
Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, 162 p.

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418 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

Indice: Ottant’anni d’Irpinia secondo un intellettuale disorganico, di Paolo Sag-


gese (pp. 11-29) – Sui sentieri dell’Irpinia. Memorie e discorsi di Antonio La Pen-
na, di Nino Gallicchio (pp. 31-44) – La mia scuola sotto il regime (2010;
pp. 47-58) – I ricordi che mi legano a Dante Della Terza (1996; pp. 59-74) –
Nell’Irpinia del ’45. Colloquio con Antonio La Penna, a cura di Paolo Saggese
(2001; pp. 75-85) – Grande storia e cronaca paesana. Irpinia 1943-1946 (1980;
pp. 87-93) – La «malattia» dei «partiti personali» (1972; pp. 95-101) – Il ruolo
della scienza e della cultura per la salvezza del Mezzogiorno (1981; pp. 103-111) –
Il ritorno di Francesco De Sanctis come riformatore intellettuale e morale (2001;
pp. 113-125) – Agli amici dell’Alta Irpinia per l’inaugurazione del Parco letterario
«Francesco De Sanctis» (2001; pp. 127-131) – La provincia come prigione. Alcune
riflessioni inconcludenti (2001; pp. 133-139) – Discorso di ringraziamento per la
cittadinanza onoraria conferitami dal Comune di Bisaccia il 20 maggio 2010 (ine-
dito; pp. 141-153) – Appendice: due lettere di Antonio La Penna al sindaco di Bi-
saccia Salvatore Frullone (2001; pp. 157 e 159)

[191] 
Ammodernamento e ulteriore scadimento dell’Università italiana, «Il Pon-
te», vol. 68, n. 11, novembre 2012, pp. 47-50.
[192] 
L’edera devastatrice. Nota a Properzio IV 7, 79-80, «Maia», n. s., vol. 64,
2012, pp. 419-423.

2013
[193] La letteratura latina del primo periodo augusteo (42-15 a. C.), Laterza,
Roma-Bari 2013, vii + 566 p.
[194] 
Fausto Giordano nel gran mare della fortuna di Orazio, premessa a Fau-
sto Giordano, Percorsi testuali oraziani. Tra intertestualità critica del
testo ed esegesi, Pàtron, Bologna 2013, pp. 7-10.

2014
[195] 
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 283, settembre-otto-
bre 2014, pp. 11-14.
[196] 
Giorgio Pasquali, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 81,
Istituto della  Enciclopedia Italiana, Roma 2014, pp. 573-580.

2015
[197] C. Sallusti Crispi Historiae, I: Fragmenta 1.1-146, a cura di Antonio La
Penna e Rodolfo Funari, con la collaborazione redazionale di Gerard
Duursma, De Gruyter, Berlin - New York 2015, 387 p.

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Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021) 419

2018
[198] Ovidio. Relativismo dei valori e innovazione delle forme, Edizioni della
Normale, Pisa 2018, xi + 432 p.
«Questo viaggio attraverso le opere di Ovidio costituisce la prima parte della
Letteratura latina del secondo periodo augusteo (all’incirca 15 a. C. - 18 d. C.) [193].
Data l’ampiezza dell’opera di questo poeta e la sua importanza, egli occupa un
volume a sé; ho aggiunto solo la trattazione dei poeti di questo periodo di cui
ci sono giunti frammenti. […] La raccolta delle testimonianze e la bibliografia
sono opera di Franco Bellandi» (Prefazione, p. ix).
[199] Sallustio e la «rivoluzione» romana, nuova ed. con introduzione di
Arnaldo Marcone (pp. 1-11) e una bibliografia integrativa a cura
di Rodolfo Funari (pp. 499-506), Bruno Mondadori, Milano 2018,
509 p. (rist. anast. dell’ed. 1968, 19733, con immutata numerazione di
pagine).

2019
[200] Io e l’antico. Conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Editori,
Pisa 2019, 212 p.
Indice: Premessa, di Arnaldo Marcone (pp. 9-11) – Conversazione sulla filologia
e sulla storia (pp. 13-80) – Appendici: 1. Premio Feltrinelli (1987; pp. 83-92) –
2. La crisi della scuola media superiore in Italia (1999; pp. 93-149) – 3. Noi e l’an-
tico (1993; pp. 151-190) – Galleria di immagini (pp. 191-210)

2020
[201] 
I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, in Arnaldo
Marcone, Dopo il fascismo. Antonio La Penna e la questione giovanile,
Della Porta Editori, Pisa 2020, pp. 43-113. Già apparso in «Società»,
vol. 2, nn. 7-8, 1946, pp. 678-690; vol. 3, n. 3, 1947, pp. 380-405.

2021
[202] La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi, con una bibliografia
degli scritti dell’autore (1995-2021), a cura di Giovanni Niccoli e Stefa-
no Grazzini, Della Porta Editori, Pisa 2021, 420 p.
Indice: Congedo esopico, di Antonio La Penna (pp. 11-13) – La via esopica di
Antonio La Penna, di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini (pp. 15-56) –
1. Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica (1996;
pp. 67-88) – 2. Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente
(1994; pp. 89-114) – 3. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese

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420 Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

(1964 e 1991; pp. 115-131) – 4. Il romanzo di Esopo (1962; pp. 132-182) –


5. Fedro, la voce amara della favola esopica (1968; pp. 183-235) – 6. Strutture
compositive e leggi narrative della favola esopica (1966; pp. 236-256) – 7. La
morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità
(1961; pp. 257-332) – Appendici: A. Marginalia Aesopica (1963 e 1962; pp. 335-351);
B. Minima Aesopica (1977 e 2009; pp. 352-358)

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nella stessa collana

1. Ettore Cinnella: 1905. La vera rivoluzione russa.


2. Ettore Cinnella: 1917. La Russia verso l’abisso.
3. Carlo Marcaccini: Atene sovietica.
4. Franco Andreucci: Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del Pci.
5. Fabio Galvano: Tre funerali al Cremlino.
6. Ettore Cinnella: Ucraina. Il genocidio dimenticato 1932-1933.
7. Giorgio Petracchi: 1915. L’Italia entra in guerra.
8. Allan Massie: Gli Stuart. Re, regine e martiri.
9. Antonio La Penna: La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi.

Della Porta Editori

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