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www.dellaportaeditori.com
isbn 978-88-96209-42-4
La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi
Con una bibliografia
degli scritti dell’autore (1995-2021)
. 11
p Congedo esopico, di Antonio La Penna
15 La via esopica di Antonio La Penna,
di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini
57 Avvertenza editoriale
61 Edizioni di riferimento. Abbreviazioni
Appendici
359
Indice dei nomi
1. Autori e personaggi storici antichi e medievali, 361 2. Personaggi
mitologico-religiosi, letterari e di incerta storicità, 365 3. Autori
e personaggi storici moderni, 367
373
Indice delle favole
399
Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)
Congedo esopico
Antonio La Penna
1
Nell’ambito di una stretta collaborazione, si deve la prima parte a Giovanni Niccoli, la
seconda a Stefano Grazzini.
2
Per la ricostruzione della vicenda sono stati utilizzati, senza peraltro un’esplorazione siste-
matica, i materiali documentari conservati nell’Archivio storico Einaudi (AE), in deposito
presso l’Archivio di Stato di Torino: a) i verbali dei Consigli editoriali degli anni 1943-1963,
raccolti e pubblicati in I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi, a cura di Tommaso
Munari, prefazione di Luisa Mangoni, 2 voll., Einaudi, Torino 2011 e 2013 (vol. 1, 1943-1952;
vol. 2, 1953-1963); b) la corrispondenza editoriale intercorsa tra La Penna e l’Einaudi e tra i
diversi funzionari e consulenti Einaudi implicati nella vicenda (Giulio Bollati, Cesare Cases,
Carlo Muscetta, Daniele Ponchiroli, Paolo Serini): AE, Autori italiani, cart. 109, fasc. 1645,
intestato a La Penna; ivi, cart. 141.2, fasc. 2134.5, intestato a Muscetta; ivi, cart. 195, fasc. 2795,
intestato a Serini. Ringrazio il presidente della casa editrice Einaudi, Walter Barberis, per
aver autorizzato la consultazione e l’uso della documentazione.
3
AE, fasc. Muscetta, f. 1371.
Parte seconda
Ricerche particolari
i. La Vita Aesopi
ii. Redazioni retoriche della favola esopica
iii. Tentativi di localizzare le favole
iv. Le favole politiche
v. La favola e la novellistica
vi. La favola e la diatriba filosofica
vii. La favola e la parabola cristiana
viii. Promitio ed epimitio
ix. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola greca
x. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola latina
xi.
Specchietto raggruppante le favole secondo la loro morale (repertorio
comodo)4
4
Ivi, ff. 1372-1373.
5
Si veda il caldo ricordo di La Penna della sua esperienza giovanile al «Colletta»: «La
scuola a cui debbo il fondamento decisivo della mia istruzione è il Liceo classico
“Pietro Colletta”, in cui entrai nel 1939. […] Qui ebbi la fortuna di essere allievo di
Enrico Freda, mio professore di italiano e latino. […] Nella mia esperienza Freda si
segnalava in modo particolare, ma anche i suoi colleghi erano tutti all’altezza del loro
compito. Tra gli altri c’era sua moglie, che mi pare si chiamasse Angelina Petrone,
insegnante di filosofia, che era stata allieva di Gentile, cui era rimasta molto legata».
A. La Penna, Io e l’antico, conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Editori,
Pisa 2019, pp. 22-23 e cfr. p. 28. Su Angelina Petrone e il suo ruolo nell’orientare verso
la Normale di Pisa il giovane La Penna cfr. Stefano Grazzini, Riflessioni e ricordi a
proposito della Conversazione di Antonio La Penna con Arnaldo Marcone, «Athenaeum»,
vol. 108, 2020, n. 1, p. 242.
6
Tra l’altro La Penna, subito dopo la liberazione, fu segretario della sezione di Bisaccia
del Pci. Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit., pp. 40 e 32; Id., Memorie e discorsi irpini di un in-
tellettuale disorganico, a cura di Nino Gallicchio e Paolo Saggese, introduzione di Salvato-
re Frullone, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, pp. 82 e 79.
7
Consiglio editoriale del 23-24 maggio 1951: «Muscetta ha proposto di affidare, per la
pubblicazione nell’“Universale”, la Guerra civile di Cesare al prof. La Penna. Il Consiglio
è senz’altro favorevole» (I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, pp. 267-268); Ubaldo Scassellati
a La Penna, 18 giugno 1951: «Sono molto contento di comunicarti che, a seguito delle tue
conversazioni con Muscetta, la casa editrice è d’accordo di affidarti la preparazione della
Guerra civile di Cesare per la sua collana “Universale”» (AE, fasc. La Penna, f. 1; Scassel-
lati, arruolato da pochi anni nella redazione Einaudi, era stato allievo della Normale di
Pisa negli stessi anni di La Penna, Bollati e Ponchiroli).
8
I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 434 (riunione del 27 agosto 1952). Il saggio, Tendenze
e arte del Bellum civile di Cesare, era già apparso in «Maia», vol. 5, 1952, pp. 191-233 e in-
tendeva proporsi come «frutto di un […] primo approccio alla parte più stimolante dei
Commentari» (A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, Einaudi, Torino 1978, p. 145,
nota 1). Sarà poi ripubblicato in Aspetti, cit., pp. 145-185.
9
AE, fasc. Muscetta, f. 1371.
10
I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 350. Cfr. anche la lettera di Serini a Muscetta, in
data 11 febbraio 1952: «Per il saggio del La Penna, che a me sembra molto interessante […],
ti scriverà Bollati» (AE, fasc. Serini, f. 488). Nessuna traccia di questa lettera nel fascicolo
einaudiano intestato a Muscetta. In compenso Bollati, in data 13 febbraio, scriverà a La
Penna con cordialità affettuosa: «Caro Antonio, Muscetta ci ha mandato da Roma l’indi-
ce del tuo lavoro sui favolisti, accompagnandolo con un giudizio molto favorevole. Anche
l’accoglienza dei torinesi è stata buona, ed io ho avuto l’incarico di incoraggiarti a prose-
guire nel lavoro in modo che tu possa inviarcene presto almeno una parte in lettura. La
consuetudine vuole che non si prendano impegni editoriali se non dopo aver visto e toc-
cato il libro, ma già il progetto ha suscitato vivo interesse e credo che tu non abbia a teme-
re un rifiuto. All’incoraggiamento, per così dire, ufficiale unisco il mio privato, invitandoti
anche a far presto» (AE, fasc. La Penna, f. 6).
11
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 211.
12
AE, fasc. La Penna, f. 15.
13
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 220 (Consiglio editoriale del 28 giugno 1955).
14
Scrive Einaudi: «Si tratta di libri di giovani, che stanno molto bene insieme e che
dall’essere pubblicati a brevissima distanza di tempo l’uno dall’altro, e con la stessa presen-
tazione, acquistano un maggior risalto editoriale e un più preciso significato culturale;
mentre se uscissero disseminati, e forzatamente a intervalli piuttosto lunghi, nelle collane
esistenti, finirebbero per disperdersi nel mucchio con svantaggio di tutti». AE, fasc. Can-
timori, cit. in Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta
agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 808, nota 724.
15
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, pp. 110-111 (Consiglio editoriale del 9 giugno 1954).
Sulla «accademizzazione» (e connessi rischi) della casa editrice, «la cui produzione ordi-
naria tendeva sempre più [in questo periodo] a esprimersi nelle consolidate certezze della
cultura accademica, la sola a sfuggire ai veti incrociati, prodotto di conflitti irrisolti», cfr.
Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 806-807.
16
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 433.
17
Qui, cap. 4.
18
Cfr. infra, p. 258, nota 3.
19
Vol. 17, 1961, n. 4 (lug.-ago.), pp. 459-537 (qui, cap. 7).
20
A. La Penna, I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, «Società», vol. 2, 1946,
nn. 7-8, pp. 678-690 e vol. 3, 1947, n. 3, pp. 380-405, ora ristampato, con scritti di Antonio
Gramsci, Concetto Marchesi, Carlo Morandi e Luigi Russo e con un’esauriente ricostru-
zione della vicenda, in Arnaldo Marcone, Dopo il fascismo. Antonio La Penna e la questione
giovanile, Della Porta Editori, Pisa 2020 (il testo di La Penna alle pp. 43-110, da cui si cita).
21
Qui, app. A.
22
Qui, cap. 3.
23
Qui, cap. 6.
24
Qui, cap. 5.
25
Osservava La Penna in proposito: «In queste pagine su Fedro presuppongo quel saggio
[La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità]: senza tener
conto della tradizione esopica nel suo complesso non si può, ovviamente, interpretare
Fedro. Necessaria sarebbe una discussione sulla tradizione esopica nell’età ellenistica, cioè
sulla tradizione presupposta immediatamente da Fedro» (qui, p. 199, nota 19).
26
Giulio Einaudi a La Penna, 31 marzo 1966: «Ponchiroli mi fa sapere che Lei sarebbe
disposto a prefare la nuova edizione delle Favole di Fedro nella versione del Richelmy,
destinata a comparire col testo a fronte nella “Nuova Universale”. […] Tenga conto che le
pagine introduttive a noi servirebbero per la fine di giugno: e veda in ogni caso di venirci
incontro» (AE, fasc. La Penna, f. 90).
27
Come già ricordato (supra, p. 20), la prefazione è datata dicembre 1966.
28
AE, fasc. La Penna, f. 91.
29
Ivi, f. 92 (21 aprile 1966).
30
La Penna a Ponchiroli, 16 maggio 1966 (ivi, f. 94). La lista dei successivi rinvii, sempre
notificati al «benevolo» Ponchiroli, è martellante: 13 gennaio, 10 marzo, 8 maggio, 25 set-
tembre 1967 (ivi, ff. 96, 102, 106, 108).
31
Ponchiroli a La Penna, 30 novembre 1967: «Ho ricevuto oggi la tua bella prefazione a
Fedro. Te ne ringrazio» (ivi, f. 90).
Caro Bollati,
non è che io abbia scelto deliberatamente la via Muscetta-Cases: gli è che,
avendo negli ultimi tempi visto più volte il Muscetta (mio conterraneo ed
amico) a Firenze, gli ho chiesto consiglio e fatto delle proposte. Non dubita-
vo minimamente del tuo appoggio e ti ringrazio del consenso caloroso, che
spero di non raggelare collo scarso interesse dei miei prodotti. Poiché non so
se Cases ti abbia trasmesso i tre progetti dettagliati, te ne mando una copia.
32
Fedro, Favole, versione di Agostino Richelmy, Einaudi, Torino 1968, p. 319.
33
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 558. Il riferimento al «saggio su Esopo» va ovviamen-
te inteso nel senso di «saggio sulla favola esopica», come risulta da un successivo interven-
to di Franco Venturi al Consiglio del 28 marzo e da una lettera di Bollati a La Penna in
data 17 aprile (cit. infra, p. 29).
34
AE, fasc. La Penna, f. 26 (lettera del 9 marzo 1962).
Come annunciato, alla lettera è allegata copia dei tre progetti, la cui
mancata trasmissione a lui in via prioritaria ha indispettito Bollati:
35
AE, fasc. La Penna, f. 27.
36
In realtà, mai pubblicato.
Terzo progetto
Una traduzione, con breve introduzione, del romanzo di Esopo e delle rac-
colte antiche di favole esopiche, ordinate in modo da evitare, il più possibile,
i doppioni di singole favole. Penso ad una traduzione senza testo, perché l’e-
dizione dei testi greci e latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non
è richiesta dallo stato attuale degli studi.
Accompagnata da riproduzioni di miniature, la traduzione potrebbe essere
pubblicata in edizione di lusso.
Questo progetto non attira molto me personalmente, ma per la Casa potreb-
be costituire un compenso alla pubblicazione dei due lavori scientifici.
37
In realtà, mai pubblicato.
38
AE, fasc. La Penna, ff. 28-29; ai ff. 30-31, copia dei tre progetti a suo tempo trasmessa a
Cases, sostanzialmente identica, nel contenuto, a quella inviata a Bollati. Uniche varianti:
rispetto al primo progetto, la presenza di una indicazione più precisa circa i tempi di lavo-
razione e consegna («Il libro è pronto: mi occorrono un paio di mesi per i rimaneggiamen-
ti. Conterei di stampare entro l’anno»); rispetto al secondo progetto, un’inversione nell’or-
dine di successione dei capitoli ix-x («ix. La favola nella tarda cultura greca; x. La favola
nella tarda cultura latina»).
39
Cfr. supra, pp. 15-16.
40
Il modello sarà sperimentato da La Penna anche in altri volumi, per esempio in Orazio
e l’ideologia del principato, dove il lungo saggio sulla lirica civile, cuore dell’opera, è accom-
pagnato da altri scritti e appendici su temi e questioni connesse, e in L’integrazione diffici-
le (1977), dove il Profilo di Properzio è completato da una rosa di Esplorazioni diagonali,
«brevi ricerche su problemi singoli, che nell’analisi della prima parte, condotta libro per
libro, non potevano essere messi abbastanza a fuoco» (p. vii).
41
Cfr. infra, pp. 84-88.
Guardando ora al terzo progetto, quello che nel contratto sarà bat-
tezzato Romanzo di Esopo e favole complete, e tenendo l’occhio puntato
alla tipologia editoriale, lo si può pensare come la controparte antologi-
ca di quello saggistico appena considerato: dunque, con i problemi di
interpretazione testuale che vengono in primo piano e sopravanzano
quelli di ricostruzione storica. Aveva riferito Bollati al Consiglio del
16 novembre 1960: «La Penna, a proposito di Esopo, darebbe: il roman-
zo di Esopo, le favole, la favolistica da Fedro alla tarda latinità. Tradur-
rebbe tutto lui»42. Avverte ora cauto La Penna che, come abbiamo visto,43
proprio in questo torno di anni si occupa di critica testuale esopica e ben
conosce lo stato disperante di almeno parte della tradizione manoscritta:
«Penso ad una traduzione senza testo, perché l’edizione dei testi greci e
latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non è richiesta dallo
stato attuale degli studi». Siamo nel 1962: a questa altezza, oltre che a
edizioni di singoli autori, spesso invecchiate e condotte senza sufficien-
ti preoccupazioni critiche44, La Penna poteva fare riferimento solo agli
Aesopica (1952) di Ben Edwin Perry, che presentano, insieme alla Vita
Aesopi e ad altro materiale documentario, l’intero corpus delle favole
esopiche greche e latine di tradizione antica, tardo-antica, bizantina e
medievale: «opus – sentenzia La Penna – magnae molis non sine auda-
cia inceptum, magna cum constantia et φιλοπονίᾳ perfectum», ma – in
cauda venenum – «il Perry non si è mai distinto per rigore» e «raro
Perryum in corrigendo felicem expertus sum»45. Dunque, stando così le
cose, inevitabile ripiegare su un’edizione divulgativa, con «breve intro-
duzione» e un ordinamento delle favole che permetta di «evitare, il più
possibile, i doppioni»; anzi, «un’edizione di lusso accompagnata da ri-
produzioni di miniature» (un «Millenni»?) che – soggiunge La Penna,
con curiosa sollecitudine per le sorti einaudiane –, pur non attirando
42
Cfr. supra, p. 20.
43
Cfr. supra, pp. 21, 23.
44
Carenti soprattutto l’ed. Westermann della Vita Aesopi (1845), definita dallo stesso La
Penna «non egregia» (qui, p. 96 e cfr. p. 132) e l’ed. Hervieux dei favolisti medievali in
latino (18942), sui cui limiti cfr. infra, p. 338. In ogni caso invecchiata e bisognosa di re-
visione quella di Babrio curata da Crusius (1897); sarà proprio La Penna, in collabora-
zione con Maria Jagoda Luzzatto, a curare nel 1986 la nuova edizione teubneriana dei
Mythiambi.
45
Cfr. infra, pp. 191 e 340.
Caro La Penna,
accettiamo con piacere i tre progetti per i quali ti proponiamo le seguenti
condizioni:
a) Orazio e l’ideologia del principato: anticipo di lire 200 000 a valere su una
percentuale dell’8%;
b) La favola esopica greca e latina: ut supra;
c) Romanzo di Esopo e favole complete: lire 1000 a cartella dattiloscritta di testo
più 400 000 lire per introduzione, eventuali note, indici, eccetera.
Dimmi se sei d’accordo, ed io ti farò mandare i contratti per la firma. […]
Sono molto lieto che si sia finalmente arrivati con te alla fase degli accordi
concreti. Fare gli editori delle opere degli amici è la cosa più piacevole del
nostro lavoro.
Cordialmente47
46
I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 570.
47
AE, fasc. La Penna, f. 32.
48
La Penna a Bollati, 29 maggio 1962, ivi, f. 36.
49
Bollati a La Penna, 12 giugno 1962, ivi, f. 37.
50
Per un elenco completo e relativi dati bibliografici si rimanda alla Bibliografia degli
scritti di Antonio La Penna 1943-1994, in A. La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi,
note, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci e Alessandro Perutelli, Sansoni, Milano
1995, pp. 350 ss.
51
E inoltre diversi altri progetti, rimasti anche loro sulla carta: un volume di Considerazio-
ni attuali su filologia e storia, forse da identificare con altri due progetti intitolati rispettiva-
mente Considerazioni sulla storia della cultura e Considerazioni sulla storia della cultura clas-
sica e della scuola seguite da due discorsi sull’umanesimo; edizioni delle poesie di Carducci e
delle opere di Cicerone, Cesare e Tacito. Cfr. AE, Inventario, a cura di Sara Anselmo
e altri, 2005, vol. 2, p. 385, ad vocem La Penna.
52
AE, fasc. La Penna, ff. 96-97, 102, 106, 108, 116.
53
Cfr. supra, p. 22.
54
Fedro, Favole, cit., p. xxvi, nota 1. Il riferimento è stato tagliato nella versione del testo
qui ristampata (cfr. infra, p. 199, nota 19).
55
AE, fasc. La Penna, f. 129.
56
La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi.
57
Qui, pp. 352-354.
58
Ripresa saggistica, naturalmente: nel 1986, infatti, aveva visto la luce l’importante e già
ricordata edizione teubneriana di Babrio, realizzata in collaborazione con Maria Jagoda
Luzzatto e corredata di amplissimi prolegomeni. Cfr. supra, p. 28, nota 44.
59
Qui aggregato al vecchio articolo Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (1964),
cfr. infra, pp. 128-131.
Qui, p. 90.
60
Così, pochi anni più tardi, lo definirà Delio Cantimori in una lettera a Giulio Einaudi
61
62
Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit. pp. 19-20 e 83.
63
Un incontro, però, intriso fin dall’inizio di diffidenza per il marxismo come ideologia e
filosofia della storia, cfr. ivi, p. 34.
64
Ivi, pp. 23-24 e cfr. pp. 25, 32-34.
Senza dubbio nella letteratura greca il mondo più vicino a quello esopico
resta quello contadinesco di Esiodo, con la sua preoccupazione del guadagno,
la sua aridità, la sua angustia: solo che al mondo esopico è estranea la vera e
propria problematica della Dike, la sussunzione e la disciplina dell’utile sotto
il segno della Giustizia divina, che fa di Esiodo la base del pensiero greco. La
gioia della bellezza o l’aspirazione alla bellezza sono estinte sul nascere dal
senso dell’utile65.
L’uomo di campagna, come già sappiamo da Esiodo, è tutto chiuso nella sua
economia domestica, tutto preso dalla preoccupazione di crearsi un minimo di
stabilità economica, di alzare un muro contro la miseria sempre incombente.
Su questo terreno non poteva nascere una solidarietà fra gli oppressi: questo
sentimento manca del tutto nella Vita [Aesopi] e quasi del tutto nelle favole:
esso meglio poteva nascere e fiorire, anche se con ben poche conseguenze pra-
tiche per l’ordinamento sociale, nel terreno religioso66.
Quasi mezzo secolo fa, nel saggio La morale della favola esopica come morale
delle classi subalterne nell’antichità [1961], interpretai la favola esopica antica,
greca e latina, come un’analisi della società e delle forze che la dominano:
violenza, astuzia, frode, accortezza e prudenza del più debole per difendersi
dalla violenza e dall’astuzia e sopravvivere. Il debole, cioè il povero, per lo più
viene sconfitto, oppresso o schiacciato; può riuscire, tuttavia, a sottrarsi alla
violenza e all’inganno: ciò che è impossibile è mutare le regole in cui sono
costretti i rapporti sociali, regole che sono come leggi di natura; quindi l’anali-
si razionale dei rapporti sociali portava a una lucida rassegnazione. La filosofia
della favola esopica antica era un materialismo rudimentale, che riteneva im-
mutabile l’ingiustizia della società. Auspicavo, allora, che il socialismo non uto-
pistico moderno, riprendendo e approfondendo quella concezione materiali-
stica, superasse la rassegnazione e liberasse i ceti subalterni dall’ingiustizia,
dall’oppressione, dalla mistificazione. La storia, per ragioni sulle quali qui non
mi propongo di indagare, ha bloccato e cerca di strozzare quella speranza, che,
tuttavia, non è ancora distrutta; ma la mia interpretazione della favola esopica
antica non ha subito cambiamenti rilevanti e resta sostanzialmente immutata67.
67
Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358. Cfr. anche La morale della favola
esopica, § 14, Favola esopica e socialismo scientifico (qui, pp. 330-332); Attualità della morale
esopica, qui, pp. 355-356.
70
Il pensiero di Gramsci, come è ben noto, ha rappresentato per La Penna un interesse e
un punto di riferimento costanti a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta; ancor
prima dell’uscita dell’edizione Einaudi delle Opere, a cura di Felice Platone e Palmiro
Togliatti (Lettere dal carcere, 1947; Quaderni del carcere, 6 voll., 1948-1951), già nel saggio
I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo (1946-1947, cit. supra, p. 21, nota 20),
La Penna mostra di conoscere il contenuto di alcune analisi gramsciane (si veda in partico-
lare a pp. 98 ss.) su Croce e la cultura borghese italiana: «La lettura e la meditazione di Marx
doveva portare il chiarimento definitivo anche su quella crisi della cultura che noi avvertiva-
mo da lungo tempo e di cui tanto si è discusso recentemente. Gramsci ha messo a fuoco la
cultura crociana come la cultura della borghesia italiana, cultura con prodigiose facoltà di
assimilare e digerire e accomodare nei suoi schemi e smussare tutte le correnti culturali
dell’Ottocento e talvolta del Novecento: la cultura della vecchia borghesia italiana pacifica e
ben educata». Altri cenni nettamente gramsciani sono alle pp. 100-101, ma da p. 107 si capisce
che la conoscenza è ancora solo indiretta (cfr. anche quanto osserva Marcone, Dopo il fasci-
smo, cit., p. 31 e nota 48). Qualcosa tuttavia già allora si sapeva: come ricorda Valentino
Gerratana nella Prefazione all’edizione critica Einaudi dei Quaderni (1975, vol. 1, p. xxxii,
note 1 e 3), una prima descrizione sommaria dei materiali era apparsa in un articolo (non
firmato, ma scritto probabilmente da Togliatti) uscito su «l’Unità» nel 1944, mentre la pri-
ma descrizione analitica si trova nell’intervento di Felice Platone, L’eredità letteraria di
Gramsci. Relazione sui Quaderni del carcere, «Rinascita», a. 2, 1946, n. 4 (a p. 21), pp. 81-90.
Inoltre, è più che possibile una diffusione dei contenuti, se non la circolazione degli scritti
prima della loro pubblicazione, all’interno del gruppo dirigente del Pci, di cui faceva parte
Muscetta, legato a La Penna, come abbiamo visto, da uno stretto vincolo di amicizia.
Sull’importanza della lettura di Gramsci si veda anche quanto La Penna scrive nella Prefa-
zione ad Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi e in Luigi Capogrossi, Andrea Giardina e
Aldo Schiavone (a cura di), Analisi marxista e società antiche, Editori Riuniti – Istituto
Gramsci, Roma 1978, p. 195. Ancora di recente, a più di settant’anni di distanza dal suo primo
contatto con il pensatore sardo, a proposito della validità teoretica del marxismo, La Penna
osserva: «È immaginabile che ci possa essere, anche abbastanza presto, una rivalutazione
delle componenti meno caduche della teoria marxiana della storia. Sotto questo aspetto
credo che una rilettura del pensiero di Gramsci possa essere importante. L’attualità della
lezione di Gramsci mi sembra innegabile» (Io e l’antico, cit., p. 35).
71
C. Marchesi, La morale della favola, in Id., Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946,
pp. 225-234; il pezzo era uscito in «Mercurio», vol. 2, 1945, nn. 7-8, pp. 91-97 e ancora prima
in «Settegiorni», 9 maggio 1942.
72
Sullo scritto si veda il giudizio di La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come
scoperta dell’uomo, con un saggio su Tommaso Fiore, La Nuova Italia, Firenze 1980,
pp. 47-48 (qui, pp. 356-358).
73
Cfr. infra, pp. 41-42.
74
All’uso dell’aggettivo subalterno e alle diverse sfumature di significato che le espressioni
classi e ceti subalterni assumono negli scritti di Gramsci ha dedicato attenzione Guido
Liguori, Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, «Critica marxista», n. 6, 2011, pp. 33-41;
«Classi subalterne» marginali e «classi subalterne» fondamentali in Gramsci, «Critica marxi-
sta», n. 4, 2015, pp. 41-48; Subalterno e subalterni nei «Quaderni del carcere», «International
Gramsci Journal», vol. 2, 2016, n. 1, pp. 89-125 (http://ro.uow.edu.au/gramsci/vol2/iss1/24):
agli studi di Liguori rimando anche per l’immensa bibliografia sul tema; cfr. inoltre
Gianni Francioni e Fabio Frosini, Quaderno 25 (1934- 1935). Nota introduttiva, in Qua-
derni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. F., Istituto dell’Enciclope-
dia Italiana, Roma – L’Unione Sarda, Cagliari 2009, vol. 18, pp. 203-211.
Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come
elemento pittoresco […]. Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione
del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati
(determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione
(anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del
mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storica-
mente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo
stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico).
Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popo-
lo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di socie-
tà finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, siste-
matiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur
contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso,
e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno
grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di
frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedu-
te nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trova-
no i superstiti documenti mutili e contaminati76.
75
Su questo tema, come su tutto ciò che riguarda Gramsci, la bibliografia è nutritissima;
si veda comunque Giovanni Battista Bronzini, Come nacquero le Osservazioni sul fol-
clore di Gramsci, «Lares», vol. 68, 2002, pp. 195-224; Silvia Pieroni, Antonio Gramsci e il
folclore. I contributi gramsciani allo sviluppo dell’antropologia italiana attraverso «Lettere» e
«Quaderni», «Antrocom», vol. 1, 2005, n. 2, pp. 185-190; Neil Novello, Il sentimento del
folclore. La cultura subalterna nei «Quaderni del carcere», «Rivista di studi italiani», vol. 34,
2016, pp. 133-143.
76
Quaderno 27 (xi), § (1), pp. 2311-2312 (ed. Gerratana, da cui si cita); una prima e ridotta
versione risale alla fine degli anni Venti ed è nel Quaderno 1 (xvi), § 89, pp. 89-90. Tutti
i riferimenti bibliografici si trovano nell’apparato critico di Gerratana, in Gramsci,
Quaderni, cit., vol. 4, p. 3027.
77
Sulla peculiarità della favola esopica e sui limiti entro i quali la si può definire popolare
si sofferma La Penna all’inizio del saggio e in vari passaggi successivi (cap. 7, pp. 262-263,
277). Nelle sue parole si avverte l’eco lontana del dibattito sul mito romantico della lette-
ratura popolare come creazione collettiva a cui anche Pasquali si era mostrato fortemente
ostile in varie osservazioni sparse nei suoi scritti. Il suo antiromanticismo, che si era for-
mato soprattutto a partire dalla questione del primitivismo omerico, era ampiamente con-
diviso alla fine degli anni Venti sia in Italia che in Germania, ma aveva la propria radi-
ce nello storicismo tedesco di primo Novecento piuttosto che in Croce (Sebastiano
Timpanaro, Giorgio Pasquali, «Belfagor», vol. 28, 1973, pp. 195-196 e nota 20 = Storicismo di
Pasquali, in Per Giorgio Pasquali. Studi e testimonianze, a cura di Lanfranco Caretti, Nistri-
Lischi, Pisa 1972, pp. 137-138; il passo è già nel profilo Giorgio Pasquali, in I critici. Storia
monografica della filologia e della critica moderna in Italia, diretta da Gianni Grana, vol. 3,
Marzorati, Milano 1970, pp. 1821-1822). Su queste prese di posizione piuttosto radicali di
Pasquali, La Penna aveva espresso notevoli riserve già all’inizio degli anni Cinquanta: «Io
temo che, come tante volte nel nostro secolo, la scoperta di una verità ne abbia annebbia-
ta un’altra. È vero che la poesia è sempre individuale e non collettiva; ma innanzitutto i
rapporti dell’individuo con la massa variano da civiltà a civiltà e da epoca a epoca; in se-
condo luogo l’élite colta, se trasmette la sua cultura ai ceti più bassi, ne assorbe a sua volta
elementi culturali. […] Le relazioni culturali fra élite colta e ceti inferiori non vanno viste
solo come una cascata dall’alto in basso, ma piuttosto come un circolo» (Lo scrittore stra-
vagante, «Atene e Roma», vol. 2, 1952, p. 229; poi in Per Giorgio Pasquali, cit., pp. 77-78). Se
queste riserve riguardano la poesia, pochi dubbi potevano sussistere sull’essenza popolare
di un genere umile e antichissimo come la favola e in questo la distanza dal maestro è
notevole, dal momento che in qualche occasione la concezione antiromantica di Pasquali
aveva investito anche forme d’arte più umili: si vedano in particolare il ritratto di Dome-
nico Comparetti, «Aegyptus», vol. 8, 1927, nn. 1-2, pp. 117-136, poi in Pagine stravaganti di un
filologo, Carabba, Lanciano 1933, pp. 3-42 (= Pagine stravaganti di un filologo, a cura di Car-
lo Ferdinando Russo, Le Lettere, Firenze 1994, vol. 1, pp. 3-25, in particolare pp. 15-16) e
Congresso e crisi del folklore, «Pegaso», vol. 1, giugno 1929, pp. 750-753, poi in Pagine meno
stravaganti, Sansoni, Firenze 1935, pp. 49-56 (= Pagine stravaganti di un filologo, cit., vol. 1,
pp. 276-280). Sui limiti dell’interpretazione «romantica» di Comparetti e sulla prospettiva
neo-idealistica di Pasquali si vedano anche le osservazioni di Timpanaro, assai vicine a
quelle espresse da La Penna, nel ritratto di Domenico Comparetti, in I critici, cit., vol. 1, 1969,
pp. 496-499 (saggio ristampato in S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca,
Nistri-Lischi, Pisa 1980, cap. 9, pp. 349-370); in particolare, a p. 499 si legge: «L’imposta-
zione generale dei rapporti tra popolare e letterario è nel Pasquali, direi, meno soddisfa-
cente che nel Comparetti. Su questo punto […] Pasquali era troppo influenzato dal neo-
idealismo e troppo tendente, quindi, a riconoscere soltanto un processo a senso unico, di
Così è vero che esiste una «morale del popolo», intesa come un insieme de-
terminato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di
costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente le-
gata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli impe-
rativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della «mo-
rale» ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli
fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e
reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e pro-
gressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in pro-
cesso di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla
morale degli strati dirigenti78.
Giusta e utile contro chi ammoderna la storia antica, contro chi assimila le
lotte di classe nell’antichità alla lotta del proletariato industriale moderno
contro la borghesia, la riflessione di Marx minaccia di rendere incomprensi-
bile non poca parte della storia antica (del resto essa è implicitamente supe-
rata dalla storiografia sovietica su Roma antica, che anzi sopravvaluta il peso
utile per capire il testo e non nutre per la biografia il disprezzo oggi di moda» (Io e l’an-
tico, cit., p. 89). Sul rapporto fra biografia e letteratura si vedano anche le riflessioni di
La Penna, Introduzione a Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno,
Nistri Lischi, Pisa 1991, pp. 26-29.
80
Si vedano le scarne riflessioni sul tema della schiavitù antica nel Quaderno 25 (xxiii),
§ (1), p. 2286, e § (6), p. 2290, su cui cfr. anche Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scrit-
ti di Antonio Gramsci, Edizioni Paguro, Mercato San Severino 2019, pp. 103-112; su un
aspetto specifico cfr. infra, p. 44.
81
La morale della favola esopica, qui, p. 326.
82
Cito dall’edizione a cura di Giorgio Giorgetti con traduzione di Palmiro Togliatti, Edi-
tori Riuniti, Roma 2001, p. 40.
83
Pur in assenza di riscontri diretti negli scritti di La Penna si possono ricordare, a titolo
di semplice riferimento, la Storia di Roma [1949] di Sergej I. Kovaliov e il Principato
di Augusto [1949] di Nikolaj A. Maškin, pubblicati entrambi nelle Edizioni Rinascita di
Roma, rispettivamente nel 1953 e nel 1956; dello stesso Maškin nel 1953 era uscita in tradu-
zione tedesca la sua Römische Geschichte [1947] (Volk und Wissen Volkseigener, Berlin).
Certa invece, e databile al più tardi al 1959, la lettura di Der weltanschaulich-politische
Kampf in Rom am Vorabend des Sturzes der Republik [1952] di Sergej L. Utčenko (Akade-
mie-Verlag, Berlin 1956); La Penna ne discute infatti nello studio sulla congiura di Catili-
na, apparso in rivista appunto nel 1959 e quindi rifuso in Sallustio e la «rivoluzione romana»,
cit., pp. 81-82.
84
La morale della favola esopica, qui, p. 326. Sulla questione della formazione del proletariato
antico, sempre partendo dall’esigenza di puntualizzare l’immagine marxiana del proletariato
come piedistallo immobile della classe dominante, La Penna tornerà molti anni dopo, nel
suo intervento pubblicato in Capogrossi, Giardina e Schiavone (a cura di), Analisi marxista
e società antiche, cit., p. 191 (La Penna discute in questa parte del suo contributo la relazione
di Mario Mazza, Marx sulla schiavitù antica. Note di lettura, ivi, pp. 107-145).
85
Il romanzo di Esopo, qui, pp. 171-172.
86
La morale della favola esopica, qui, p. 303.
La favola esopica […] è un passo decisivo nel distacco dalla cultura religiosa
e nell’elaborazione di una cultura laica popolare, […] anzi in questa direzione
essa è, senza dubbio, […] il passo più decisivo prima della sofistica. […] Di
una rivolta antireligiosa, di una critica approfondita della religione e di un
forte soffio illuministico non si può parlare […]. In ogni modo l’interpreta-
zione della realtà umana nelle favole esopiche si pone al di fuori di qualsiasi
interesse religioso: ciò che regola i rapporti umani viene spiegato quasi sem-
pre senza ricorso alla divinità.
Vi si nota [nella favola esopica] uno spirito consono alla polemica contro il
mito che percorse l’età ionica, alla ricerca positiva che è alle radici della scien-
za europea: non per niente […] la prima fioritura greca della favola cade
nell’età ionica. Si è parlato, per quell’età e per la sofistica, di un illuminismo
greco: e quel termine approssimativo, ma significativo, va mantenuto contro
tendenze recenti a sentire in quei secoli solo un affinamento della teologia.
Di un illuminismo esplicito nella favola non sarebbe giusto parlare; ma, in-
somma, in essa vive un rudimentale razionalismo87.
Demistificazione, scoperta della realtà effettuale, valorizzazione di una prudenza
pragmatica che conta generalmente sulle forze dell’uomo e su effetti limitati con-
figurano una sorta di razionalismo empirico e rudimentale materialismo, che, al
di fuori della letteratura esopica, trova pochi riscontri nella cultura antica88.
87
La morale della favola esopica, qui, pp. 263-265 e 274. Sulle «tendenze recenti» della sto-
riografia sul pensiero ionico qui polemicamente chiamate in causa da La Penna e rappre-
sentate in modo esemplare dall’opera classica di Werner Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci [1953], trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1961, cfr. ivi, qui, p. 328.
88
Origine, sviluppo e funzione della favola esopica, qui, p. 88.
89
La morale della favola esopica, qui, p. 328.
L’altra figura di cui nel saggio lapenniano resta una traccia abba-
stanza visibile è, come abbiamo accennato, quella di Concetto Mar-
chesi, personalità controversa e culturalmente rilevante nell’Italia del
dopoguerra a cui La Penna dedicherà nel 1980 uno dei suoi ritratti
90
La morale della favola esopica, qui, pp. 292-293.
91
Ivi, qui, p. 328.
92
Sulla questione si veda comunque il punto di vista critico di Maria Jagoda Luzzatto,
Plutarco, Socrate e l’Esopo di Delfi, «Illinois Classical Studies», vol. 13, 1988, pp. 427-445,
in particolare pp. 437 ss.
93
La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo, cit.
94
Favole esopiche, tradotte da Concetto Marchesi, con tutte le xilografie «deltuppiane», For-
miggini, Roma 1930; quindi, con nuova prefazione, Universale economica, Milano 1951
(= Feltrinelli, Milano 19762, 19833): sul significato della ristampa del 1951 cfr. Luciano Can-
fora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Laterza, Bari-Roma 2019, p. 561.
95
C. Marchesi, Fedro e la favola latina, Vallecchi, Firenze 1923.
96
La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48: «Gli scritti di Marchesi sulla favola esopica non
danno un’idea piena dell’amore che egli nutriva per questa letteratura: bisogna tener con-
to dell’uso che ne fa nelle sue riflessioni e nelle sue polemiche: il vecchio Esopo poteva
sempre fornire esempi adatti alla sua ironia e al suo sarcasmo». Un caso celebre dell’uso
retorico e polemico di Esopo è la citazione della favola dell’albero e dell’uomo che vuole
fabbricarsi una scure (Zand. 16), nel celebre discorso tenuto da Marchesi all’8° Congresso
del Pci, del 1956, all’indomani dei fatti d’Ungheria: cfr. Canfora, Il sovversivo, cit.,
pp. 896-899. Un altro esempio celebre è citato anche da La Penna, infra, p. 266.
97
Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola richiamata è ovviamente Le rane
che chiedevano un re (44 H.).
98
C. Marchesi, L’animo dell’oppresso, «Vie nuove», vol. 4, 1949, n. 42, p. 12. Può essere
interessante riportare il contesto della citazione: «Nessuno – diceva Catilina ai compa-
gni – può difendere la causa degli oppressi se non sia un oppresso anche lui. Io direi: se
non abbia l’animo dell’oppresso. Io l’avevo, l’animo dell’oppresso, senza averne la rassegna-
zione». Una parte significativa dello scritto, ma senza l’allusione a Catilina, verrà ripresa in
Perché sono comunista, discorso tenuto al Teatro Nuovo di Milano il 5 febbraio 1956 su in-
vito del gruppo milanese «Amici della rivista Rinascita», pubblicato in Id., Umanesimo e
comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 30.
Fedro esalta la sua origine e il suo talento poetico in un’ora di triste risenti-
mento non già contro gl’invidiosi ma contro i maligni interpreti dell’opera
sua, i quali hanno voluto trovare in essa i profili delle loro persone, mentre il
poeta ha voluto esprimere il profilo dell’umanità: colpa della loro mala co-
scienza. Egli vuole esser creduto: se la favola delle bestie contiene la storia
degli uomini, ciò non avviene per colpa sua, ma per la natura stessa di quel
99
Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola è richiamata anche da La Penna,
ma con interpretazione virata in senso opposto rispetto a quella suggerita da Marchesi:
«In questa tematica dei rapporti tra il forte e il debole, tra il potente e l’umile l’ispirazione
politica e sociale non lascia dubbi […]. Il convincimento che la propria condizione non
può essere mutata, che il tentativo di mutarla porta, se mai, al peggio si riferisce esplicita-
mente anche al governo. Su tale convincimento si fonda la celebre favola delle rane che
chiedono un re» (La morale della favola esopica, qui, p. 314).
100
Osserva La Penna, con motto gramsciano, nell’aforisma Attualità della morale esopica:
«La rassegnazione è, come si sa, conclusione frequente ed evidente del rudimentale razio-
nalismo e materialismo esopico: non si può certo affermare che nella favola esopica antica
al pessimismo dell’intelletto si unisca saldamente un ottimismo della volontà» (qui,
p. 355). A chiarimento del contesto, conviene ascoltare la testimonianza di Sebastiano
Timpanaro: «All’inizio degli anni Cinquanta era difficile parlare di pessimismo coi marxisti
italiani, quasi tutti troppo pieni di fiducia storicistica nel progresso umano e troppo ten-
denti, per le loro origini crociane, a disinteressarsi del rapporto uomo-natura. Poche erano le
eccezioni: c’era Antonio La Penna, che, come prima di me era arrivato al marxismo, così
prima di me aveva provato insoddisfazione per un modo troppo generico ed equivoco di
appellarsi allo “storicismo” e all’“umanesimo”» (Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970,
p. xiv). Qui Timpanaro fa riferimento all’«ottimismo storico-sociale» dei tanti marxisti di
allora, convinti del «comunismo come meta ormai sicura della storia umana».
101
Marchesi, Fedro e la favola latina, cit., pp. 40-41 (corsivo mio); in termini quasi iden-
tici la riflessione tornerà in La morale della favola, cit., pp. 225-226 e nella Storia della lette-
ratura latina, Principato, Milano 19828, vol. 2, p. 84.
102
Cito da C. Marchesi, Il libro di Tersite, con una nota di Luciano Canfora, Sellerio,
Palermo 1993, p. 144. Sulla genesi dello scritto, cfr. Canfora, Il sovversivo, cit., p. 317 e nota 23.
103
È uno dei brani più famosi di Marchesi (citato da Togliatti nell’esordio della celebre
commemorazione tenuta in Parlamento all’indomani della sua morte) pubblicato in L’a-
nimo dell’oppresso, cit., e poi in Perché sono comunista, cit., pp. 29-30 (da cui si cita): «Perché
sono diventato comunista? Altre volte mi è stata fatta questa domanda. È un perché di
anni lontani, che mi riporta alle vendemmie e alle falciature della mia campagna catanese.
Filari e filari di viti dentro un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi e un suono di corno che
radunava le vendemmiatrici. Vigilavano i guardiani con mille occhi: ed esse sparivano
curve nel folto dei pampini, da cui rispuntavano colmi canestri ondeggianti su invisibili
teste. All’Ave Maria l’ultimo suono di corno: e la giornata finiva con un segno di croce. Ma
i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove
era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vede-
vo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la
piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino
inacidito, destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della pueri-
zia cresceva in me un rancore sordo verso l’offesa che sentivo mia, che era fatta a me e
gravava su di me come una insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi pare-
vano le ragioni addotte a giustificarla».
104
Sull’«atteggiamento aristocratico-elitistico» di Marchesi ha insistito Canfora, Il sov-
versivo, cit., p. 377, dove è richiamata un’osservazione di La Penna, Concetto Marchesi, cit.
p. 43, a proposito di uno scritto oraziano del 1908 (altri cenni nel ritratto di La Penna alle
pp. 51 e 66-67); cfr. anche S. Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, «Belfagor»,
vol. 35, 1980, n. 6, pp. 660-661 (in un profilo complessivo tanto antipatizzante nei confron-
ti di Marchesi quanto benigno era stato quello di La Penna). Bisogna anche considerare,
però, che in uomini come Marchesi l’assenza di ogni accondiscendenza nei confronti del-
le masse era compensata dalla fiducia cieca nell’educazione come forza liberatrice, nella
prospettiva della formazione di una coscienza di classe che riscattasse la situazione di
svantaggio originaria.
105
Così La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 51: «Il senso aristocratico della distinzione
spirituale potrà stupire chi pensa al comunismo di Marchesi, ma non stupisce chi conosce
le sue opere. Tuttavia va tenuto presente, io credo, il clima in cui il saggio su Arnobio fu
scritto [Il pessimismo di un apologista cristiano (Arnobio), «Pegaso», vol. 2, 1930, pp. 536-550,
ristampato in Voci di antichi, cit., pp. 159-187]: la resistenza morale degli antifascisti isolati
trovava forza talvolta anche nel disprezzo per il gregge asservito, gregge che non si iden-
tificava con la povera gente».
Lo studio della favola esopica oggi non può non risvegliare problemi etico-
politici attuali. La separazione […] tra la lucidità rassegnata e l’aspirazione
utopistica nelle classi subalterne è superata solo dal socialismo, anzi solo dal
socialismo non utopistico […]106. È grande compito del socialismo eliminare
con l’educazione, oltre le illusioni oltremondane, questa sfiducia, portare le
masse a capire che è venuta l’età in cui esse stesse debbono costruire il loro
assetto economico, sociale, politico, in cui esse cessano di subire la storia e ne
diventano protagoniste: solo la partecipazione diretta e non illusoria allo sta-
to può eliminare la sfiducia nello stato. […] La libertà muore, se non sa
estendersi: il che vuol dire, se non sa sostanziarsi di eguaglianza. Ora in que-
sto suo grande compito di educazione il socialismo non può costruire niente
sulle illusioni oltremondane; ma può ricavare qualche cosa dallo scetticismo
rassegnato [della favola esopica], perché in quello scetticismo c’è pur sempre
un nucleo sano di analisi della realtà sociale, una forza della ragione107.
106
Cfr. anche La morale della favola esopica, qui, p. 327: «Le aspirazioni sociali degli strati
subalterni dell’antichità cercano espressione […] per varie vie utopistiche. La loro menta-
lità presenta così due aspetti inconciliabili: da un lato un’analisi acuta del mondo umano
che porta a un’accettazione passiva dell’oppressione, dall’altra le aspirazioni utopistiche
alla libertà, alla giustizia, all’uguaglianza. L’inesistenza di una prospettiva reale di libera-
zione tenne sempre separati e inconciliabili i due aspetti».
107
Ivi, pp. 331-332. Cfr. anche l’aforisma Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358.
108
La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48 (qui, pp. 357-358).
109
Cfr. ivi, p. 95.
110
Marchesi, La morale della favola, cit., p. 228; la medesima interpretazione tornerà in
Uomini e bestie nella favola antica, in Id., Divagazioni, Neri Pozza, Venezia 1951, p. 11, un
saggio usato anche, con tagli e una diversa disposizione degli argomenti, come nuova
prefazione alla traduzione di Esopo ripubblicata per i tipi della Colip, Milano 1951 (dal
1976 ristampata nell’Universale economica Feltrinelli).
111
Sul passo e sulla visione «cesarista» del pensiero politico di Marchesi cfr. Canfora,
Il sovversivo, cit. pp. 317-318.
112
«In una favola come questa si sarebbe tentati di sentire una tendenza degli oppressi a
unirsi contro gli oppressori; ma un’interpretazione del genere non è sicura né in questo
caso né in altri» (La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 316).
113
Trad.: «Una volta il Senato deliberò che fosse l’abbigliamento a distinguere gli schiavi
dai liberi; poi risultò chiaro quanto pericoloso fosse se i nostri servi avessero cominciato a
contarci». Viene in mente, anche se i due testi sono ovviamente indipendenti, un appunto
di Gramsci trascritto nel Quaderno 3 (xx), § 99, con il titolo La legge del numero (base psi-
cologica delle manifestazioni pubbliche: processioni, assemblee popolari, ecc.), e quindi ripreso
con aggiunta dell’ultimo periodo nel Quaderno 25 (xxiii), § 6.2, p. 2290, da cui cito:
La lettura di Marchesi può aver fornito qualche altro spunto alla ri-
flessione di La Penna. Il siciliano aveva notato l’assenza dell’amore nel-
la favola, imputandola all’incompatibilità del sentimento con la condi-
zione animalesca: «A proposito di amore. Esso ha scarso rilievo nel
mondo animalesco esopiano: dove manca la passione amorosa»114. La
Penna, cogliendo in prospettiva sociologica l’affinità con il mondo esio-
deo e lo squallore della dimensione lucrativa a cui l’eros viene ridotto,
osserva: «Come il mondo esiodeo, questo esopico non conosce l’amore.
L’amore è una maschera dell’avidità di lucro»115. Marchesi concorre alla
definizione della favola esopica come teatro della lotta per la sopravvi-
venza secondo il principio dell’homo homini lupus: «La favola esopiana
riflette massimamente la lotta dell’uomo contro l’uomo, dell’uno contro
l’uno, in un mondo dove domina l’astuzia e la forza, senza pietà né spe-
ranza: un mondo, dunque, anticristiano e antisociale; dove alla reden-
zione non si giunge né con la fede né con la lotta»116. Una definizione a
cui La Penna dà forma solenne e universale riprendendo a più riprese la
celeberrima metafora animalesca del capitolo xviii del Principe: «La re-
altà effettuale dei rapporti umani così svelata è già per la favola esopica
la realtà della golpe e del lione, dell’astuzia e della forza»; «Questo mon-
do della golpe e del lione non conosce la pietà per il povero e per il de-
bole»; «La favola esopica antica constata con lucidità nella vita umana il
dominio del lione e della golpe, della forza e dell’astuzia»117.
«A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti esteriormente come tali. Quando un
senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato
fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora po-
tessero rendersi conto del loro grande numero (cfr. Seneca, De clem. I 24 e Tacito,
Annali, IV 27). In questo episodio sono contenute le ragioni politico-psicologiche che deter-
minano una serie di manifestazioni pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee
popolari, le parate di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione alle elezioni
di alcuni gruppi) e i plebisciti». L’appunto fa riferimento alla trascrizione di una nota della
Storia economica di Roma di Tenney Frank (Vallecchi, Firenze 1924, p. 147), che si conclude
con i passi citati di Seneca e Tacito. Cfr. Gerratana, Quaderni, cit., vol. 4, Apparato critico,
p. 2910; Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Antonio Gramsci, cit., pp. 110-112.
114
Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 12.
115
La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 291.
116
Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 15; uno stralcio di questo brano fu
citato fra l’altro da La Penna, Concetto Marchesi, cit. p. 47 (qui, p. 357).
117
La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 279 e Attualità della morale esopica,
qui, p. 355.
118
Su questo aspetto del procedere argomentativo di Marchesi cfr. Luciano Canfora,
Il «Marchesi» di La Penna, «Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 109, 1981, p. 236.
119
La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 303, 263 e 265.
120
Ivi, § 11, La favola come voce delle plebi antiche (qui, pp. 322 ss.).
121
Così recita il sottotitolo del libro di La Penna a lui dedicato.
122
Viene in mente quanto osservava Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, cit.,
p. 632: «A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse più ovvio e com-
prensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione
positiva. Gran parte dell’opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della
società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustap-
posizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere
l’opera letteraria nell’ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimen-
to, di intendere storicamente, non come pure “illuminazioni” prive di antecedenti, anche i
valori stilistici, formali della poesia, e l’esigenza marxista di collegare i fatti letterario-
culturali e ideologici con la struttura economico-sociale e con le istituzioni e le vicende
politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l’eredità hege-
liana, ad accentuare l’istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo disgregato e
agnosticizzante)». Sul paradosso (l’ennesimo) della coesistenza in Marchesi di una profes-
sione di marxismo militante con l’irrazionalismo di fondo della sua Weltanschauung cfr.
Canfora, Il «Marchesi» di La Penna, cit., pp. 235-236.
123
La Penna, Il romanzo di Esopo, qui, p. 148; cfr. anche La morale della favola esopica, qui,
p. 323.
de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana»), come segnala
La Penna, che illumina affinità e differenze tra le due figure che con-
dividono lo sguardo lucido e spietato sulla realtà, ma non l’atteggia-
mento verso l’autorità, che in Esopo è guardingo e attento a evitare
l’attrito, nella ricerca delle migliori strategie per la riduzione del dan-
no: «Tersite è, […] come già […] aveva pensato il Vico, “il primo
demagogo”. Esopo non è demagogo affatto, non è un ribelle: egli in-
vita alla prudenza e all’accettazione; pur conoscendo meglio di Ter-
site l’egoismo e l’iniquità dei grandi, egli non avrebbe affrontato i col-
pi di Ulisse, avrebbe cercato di non causare l’ira di Ulisse»124. Nel
fascino e nell’immedesimazione con una figura antieroica, provocato-
ria e demistificatrice come Tersite si può riconoscere un ultimo moti-
vo di affinità tra il futuro «intellettuale disorganico» e l’autore del Libro
di Tersite. La Penna, la cui attenzione per l’eroe omerico potrebbe es-
sere stata accesa da un articolo di Pasquali pubblicato nel 1940, Omero,
il brutto e il ritratto125, scriverà nella prefazione al suo Tersite censurato:
«Il titolo del libro è preso da uno degli studi raccolti; ma il tema di
quello studio è presente anche in altri che lo precedono […]. L’atten-
zione verso personaggi come Eumolpo e Tersite potrebbe spiegarsi
con la mia biografia intellettuale, ma questo è problema trascurabile»126.
124
La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 325; cfr. p. 323, dove è anche citato il
passo di Vico.
125
G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, «Critica d’arte», vol. 5, 1940, pp. 25 ss., quindi
in Id., Terze pagine stravaganti, Sansoni, Firenze 1942, pp. 139 ss. (= Pagine stravaganti di
un filologo, cit., vol. 2, pp. 99-118). Lo scritto è citato da La Penna (La morale della favola
esopica, qui, p. 323, nota 118) che rileva come un cenno a Tersite sarebbe stato appropriato;
ma del plebeo dell’Iliade Pasquali aveva dato un giudizio fortemente limitativo nella voce
Omero dell’Enciclopedia italiana: «Già l’attitudine rispetto alla religione basterebbe a mo-
strare che l’Iliade non è un poema popolare. Si può dire anzi che popolo e plebe per l’Ilia-
de non esistono: il solo plebeo, Tersite (e sarà figura inventata dal poeta, non già traman-
data dalla leggenda), è dipinto a colori tra foschi e ridicoli, ed è introdotto, si direbbe, solo
per farlo maltrattare da Ulisse» (G. Pasquali, Rapsodia sul classico. Contributi all’Enciclo-
pedia italiana, a cura di Fritz Bornmann, Giovanni Pascucci, Sebastiano Timpanaro, Isti-
tuto della Enciclopedia italiana, Roma 1986, p. 172).
126
La Penna, Tersite censurato, cit., p. 9.
Avvertenza editoriale
Gli scritti raccolti in questo volume1 non solo si scaglionano su un arco tem-
porale lungo (il nucleo maggiore risale agli anni Sessanta, con una ripresa
nella prima metà dei Novanta e sporadici interventi nei Settanta), ma rispec-
chiano sollecitazioni culturali e istanze metodologiche diverse: dall’analisi
sociologica d’impianto gramsciano del saggio più antico, quello su La morale
della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità (1961), all’a-
nalisi filologica e storica dell’indagine su Il romanzo di Esopo (1962), allo stu-
dio folclorico delle origini remote del genere in Letteratura esopica e letteratu-
ra assiro-babilonese (1964), fino alla presa di distanza (peraltro ancora non
aggressiva) dallo strutturalismo nella recensione-saggio di Nøjgaard, La fable
antique (1966). Del resto, non meno marcata è l’eterogeneità di genere dei
vari scritti, che vanno dal contributo di ricerca, come i già ricordati lavori
sulla Vita Aesopi e le origini mesopotamiche della favolistica esopica, a testi
di presentazione generale, come l’ampia introduzione a Fedro (1968), la «ra-
pida sintesi divulgativa» (p. 90) Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia
verso occidente (1994) e il saggio complessivo Origine, sviluppo e funzione della
favola esopica nella cultura antica (1996). Una compresenza di generi che a sua
volta produce inevitabilmente varietà di stili espositivi in funzione dei diver-
si pubblici di destinazione, insieme a un certo numero di (anche estese) so-
vrapposizioni di contenuto e formulazione tra un testo e l’altro. In altre pa-
role, i materiali inclusi nella raccolta fanno sì, nel loro insieme, libro, ma non
quella storia organica della favola esopica greca e latina cui, come abbiamo
1
In quanto non pertinenti con la tematica esopica vera e propria, sono stati esclusi soltan-
to una breve nota su Virgilio fonte di La Fontaine (in Marginalia, «Maia», vol. 7, 1955,
pp. 142-143) e il contributo Una favola esopica e l’interpretazione di Catullo 96, apparso in
«Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2, 1997, pp. 246-249. Escluse per
il loro carattere strettamente filologico anche le sezioni a firma di La Penna incluse nei
prolegomeni all’edizione teubneriana di Babrio (1986) realizzata in collaborazione con
Maria Jagoda Luzzatto (pp. vi-xxii: 1. De Babrii nomine atque aetate, 2. De Babrii fabula-
rum origine et cognationibus).
visto, La Penna pensava già nei primissimi anni Cinquanta e a cui tornava a
fare riferimento, alla metà dei Novanta, in Le vie della favola esopica (p. 33).
Così stando le cose, e nell’ovvia impossibilità di mettere mano a un rim-
pasto radicale degli scritti nella pretesa di trasformarli in capitoli di un’opera
unitaria, va da sé che ai curatori non restava che riprodurli nella loro forma
originale, ripetizioni comprese, unicamente con gli indispensabili interventi
di carattere editoriale, atti a dare uniformità e coerenza formale alla trattazio-
ne lungo tutto il corso del libro. Ci si è dunque limitati all’unificazione dei
criteri redazionali dei vari contributi – come detto, disparati per carattere e
provenienza –, alla omogeneizzazione del sistema dei riferimenti bibliografi-
ci (sia delle fonti primarie che della letteratura secondaria) e al completamen-
to di alcune indicazioni date nell’originale in forma sommaria. In particolare,
nei riferimenti alle favole esopiche, ci si è conformati di norma al testo e alla
numerazione del Corpus Fabularum Aesopicarum di Hausrath. Solo nel capi-
tolo 6 (cfr. p. 240, nota 2) e nei rari casi in cui la redazione citata da La Pen-
na non era inclusa nel Corpus, si è rimandato all’edizione Chambry o agli
Aesopica di Perry. A ogni modo, per comodità di riscontro, nell’Indice delle
favole si è data la corrispondenza tra le numerazioni di tutte e tre le edizioni.
Per riparare in qualche misura alla cicatrice della mancata organicità
dell’opera, è parso opportuno evitare di disporre gli scritti in sequenza crono-
logica secondo la data di pubblicazione – una soluzione più adatta a una
raccolta di contributi di argomento eterogeneo e di carattere specialistico – e
attenersi all’ordinamento storico-tematico seguito da La Penna, da un lato
nel saggio di introduzione generale alla favola esopica, con cui si apre il vo-
lume e che segna il punto terminale della sua ricerca in questo campo, e
dall’altro nei due progetti einaudiani già discussi2, in cui, come abbiamo visto,
il discorso si articola secondo una struttura ternaria: interpretazione del signi-
ficato culturale e sociale della favola esopica come «razionalismo popolare» e
«morale delle classi subalterne»; ricostruzione storica delle varie fasi dello
sviluppo del genere esopico dalle sue origini mesopotamiche fino alla tarda
antichità e nel Medioevo; vaglio critico di problemi specifici, marginali ri-
spetto all’asse centrale della trattazione. Certo, basta un’occhiata all’indice
della raccolta per toccare con mano lo stato effettivo dei pieni e dei vuoti. Se
sul fronte dell’analisi critica il momento dell’interpretazione sociologico-an-
tropologica della «filosofia» esopica risulta illuminato di vivida luce ed è al-
meno messa a fuoco la questione della tipologia e delle strutture compositive
della narrazione, ben diversamente stanno le cose all’interno del quadro sto-
rico delineato: qui, di fatto, le uniche presenze oggetto di indagine approfon-
2
Cfr. supra, pp. 15-16 e 24.
3
Precisamente: «la favola esopica nella cultura ionica e attica», «la favola esopica fra dia-
triba e retorica», «la favola latina prima di Fedro», «Babrio», «la favola nella tarda cultura
latina e greca» e «la favola latina medievale e umanistica».
Tradizione esopica
Ben Edwin Perry, Aesopica. A series of texts relating to Aesop or ascribed to
him or closely connected with the literary tradition that bears his name, col-
lected and critically edited with a commentary and historical essay, I, Univer-
sity of Illinois Press, Urbana 1952 (abbr.: P.).
Oltre al corpus delle favole esopiche greche e latine di tradizione antica,
tardo-antica, bizantina e medievale (per Esopo viene presentata la recensione
Augustana), l’opera contiene: la Vita Aesopi nelle redazioni W e G (quest’ul-
tima in editio princeps) (Vita); le testimonianze antiche su Esopo e le favole
esopiche (Test.); i detti sentenziosi (Sent.) e i proverbi (Prov.) attribuiti al
medesimo Esopo. In particolare si fa riferimento a questa edizione e alla sua
numerazione per i progymnasmata dei retori (Ermogene, Pseudo-Dositeo,
Aftonio), i tetrastici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori, la rac-
colta di Sintipa, le parafrasi prosastiche fedriane del Romulus e di Ademaro,
le favole latine medievali, nonché per le favole tratte dalle raccolte anonime e
pseudonime e per le narrazioni riprese da diversi autori.
Esopo
Aesopi fabulae, recensuit Aemilius Chambry, I-II, «Collection des Universités
de France», Belles Lettres, Paris 1925-1926, con presentazione di tutte le re-
dazioni di ogni favola (abbr.: Ch.).
Editio minor, con scelta di una sola redazione per ogni favola e numera-
zione leggermente diversa: Ésope, Fables, texte établi et traduit par Émile
Chambry, Les Belles Lettres, Paris 1927 (abbr.: Ch.2).
Aftonio, Sintipa), ma non tutte le diverse redazioni di una stessa favola ripor-
tate nell’ed. Chambry.
Babrio
Babrii Fabulae Aesopeae, recognovit, prolegomenis et indicibus instruxit Otto
Crusius. Accedunt fabularum dactylicarum et iambicarum reliquiae. Ignatii
et aliorum tetrasticha iambica recensita a Carlo Friderico Mueller, «Biblio-
theca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana», Lipsiae 1897.
Si fa riferimento a questa edizione e alla sua numerazione per le favole
dattiliche e giambiche e le parafrasi in prosa (nn. 145-254; abbr.: Crus.) non
comprese nell’ed. Luzzatto – La Penna cit. subito sotto, nonché per i tetra-
stici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori (abbr.: M.).
Fedro
Babrius and Phaedrus, newly edited and translated into English, together
with an historical introduction and a comprehensive survey of Greek and
Latin fables in the Aesopic tradition by Ben Edwin Perry, «Loeb Classical
Library», Harvard University Press, Cambridge (MA) 1965.
Phaedrus solutus, vel Phaedri fabulae novae xxx, quas fabulas prosarias
Phaedro vindicavit, recensuit metrumque restituit Carolus Zander, «Acta
Societatis humaniorum litterarum Lundensis», Lund 1921 (abbr.: Zand.).
Aviano
Fabulae Aviani, recensuit Antonius Guaglianone, «Corpus scriptorum Lati-
norum Paravianum», Augustae Taurinorum 1958.
Altre abbreviazioni
CGL
Corpus Glossariorum Latinorum, a Gustavo Loewe incohatum
[…] composuit, recensuit, edidit Georgius Goetz, I-VIII, Teubner,
Lipsiae 1888-1923 (rist. anast. Hakkert, Amsterdam 1965), III,
Hermeneumata pseudodositheana…, 1892.
CIL
Corpus Inscriptionum Latinarum, I-XVII, consilio et auctoritate
Academiae Litterarum Regiae Borussicae edidit Theodorus
Mommsen et alii, Berolini 1863-.
CPG
Corpus Paroemiographorum Graecorum, ediderunt E. L. a Leutsch
et F. G. Schneidewin, I-II, Vandenhoeck-Ruprecht, Gottingae
1839-1851 (rist. anast. Olms, Hildesheim 1965), I, Zenobius, Dio-
genianus, Plutarchus, Gregorius Cyprius cum Appendice Prover-
biorum, 1839.
DK Hermann Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker. Griechish und
Deutch, sechste verbesserte Auflage herausgegeben von Walther
Kranz, I-III, Weidmann, Berlin 1951-1952.
FGrHist
Felix Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, I-XVI,
Weidmann, Berlin 1923-1958.
FHG
Fragmenta Historicorum Graecorum, collegit, disposuit, notis et
prolegomenis illustravit, indicibus instruxit Carolus Mullerus,
I-V, Didot, Parisiis 1841-1873.
PG Patrologiae Graecae cursus completus, Parisiis 1857-1866, XXXVII
3, Gregorii Theologi opera quae extant omnia, accurante denuo et
recognoscente J.-P. Migne, 1862.
RE
Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neue
Bearbeitung, herausgegeben von Georg Wissowa und andere,
Metzler-Duckenmüller, Stuttgart 1893-1972.
Rhet. Gr. Spengel Rhetores Graeci, ex recognitione Leonardi Spengel, I-III,
«Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubne-
riana», Lipsiae 1853-1856 (rist. anast. Minerva, Frankfurt am
Main 1966).
Rhet. Gr. Walz Rhetores Graeci, emendatiores et auctiores edidit, suis
aliorumque annotationibus instruxit indices locupletissimos
Christianus Walz, I-IX, Cotta, Stuttgartiae et Tubingae 1832-
1836 (rist. anast. Zeller, Osnabrück 1968).
La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi
Capitolo 1
Fino a meno di un secolo fa, fino a grandi storici della letteratura e del
pensiero greco come Wilamowitz e Jaeger, rimase vigoroso il culto,
risalente all’antichità, della cultura greca come autoctona, cioè come
nata e sviluppatasi, almeno prima dell’età ellenistica, quasi interamen-
te dalla Grecia stessa, senza influenze significative di altre culture; tale
visione oggi non è rovesciata, ma certo modificata in misura non tra-
scurabile: senza nulla togliere all’originalità della cultura greca, si sa
che anche prima dell’età ellenistica i Greci non poco assorbirono, spe-
cialmente nelle arti figurative e nella religione, da popoli stranieri, so-
prattutto del Vicino Oriente. Proprio la favola esopica, benché prenda
il nome da un «saggio» dell’età ionica, è un genere di letteratura che ha
le sue radici fuori della Grecia.
Ancora un secolo fa al centro dell’attenzione erano i rapporti tra la
favola esopica greca e l’analoga favola indiana, presente specialmente
nella raccolta di racconti intitolata Pañcatantra («I cinque libri»); oggi
la prospettiva è del tutto mutata: è dimostrato che i primi esempi di
quel genere di letteratura la cultura greca li conobbe, nell’età ionica,
dalla cultura dell’Asia Minore e che in quella parte del mondo le ori-
gini risalgono fino alla cultura dei Sumeri, ereditata e continuata dalla
cultura babilonese e assira: quella direzione, del resto, era indicata già
da alcune, sia pur rare, testimonianze antiche2.
1
[Introduzione a Esopo, Favole, a cura di Cecilia Benedetti, Mondadori, Milano 1996,
pp. vii-xxxv; quindi in La favola antica, a cura di Cecilia Benedetti (Esopo) e Fernando
Solinas (Fedro), «Meridiani (I Classici Collezione)», Mondadori, Milano 2007, pp. 3-31].
2
Per un primo orientamento su questi problemi mi permetto di rimandare a due miei
studi: Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (qui, cap. 3); Le vie della favola esopi-
ca dalla Mesopotamia verso occidente (qui, cap. 2); ma soprattutto rimando alla bibliografia
I casi di favole che noi collochiamo nel genere esopico sono ormai
numerosi nei testi in scrittura cuneiforme scoperti nella Mesopotamia;
in alcuni di essi si sono trovate favole poi diffuse nella cultura greca.
Da circa mezzo secolo (e forse anche prima) si sa che risale a un rac-
conto babilonese una delle favole esopiche greche più antiche, quella
dell’aquila e della volpe, narrata già da Archiloco. L’aquila e la volpe si
mettono in società; probabilmente il patto viene sancito da un giura-
mento per Zeus. L’aquila, tradendo il patto, rapisce i cuccioli della
volpe e li dà in pasto ai suoi aquilotti. Dai frammenti di Archiloco il
racconto non riesce del tutto chiaro; comunque, con l’aiuto di Zeus, la
volpe riesce a ottenere giustizia: da un altare di Zeus l’aquila ruba un
pezzo di carne, ma alla carne resta attaccata un po’ di brace; il fuoco si
appicca al nido, gli aquilotti cascano giù, e ora è la volpe a cibarsi dei
figli dell’empia nemica. Press’a poco lo stesso racconto, e ancora più
dettagliato, ricorre in un poemetto epico babilonese, in cui si narra
come l’eroe Etana tentò di salire al cielo montato su un’aquila: i con-
tendenti sono qui l’aquila e il serpente, che in Grecia è stato sostituito
dalla volpe; anche qui il serpente si vendica seguendo i consigli di
Shamash, il dio Sole, che tutto vede e garantisce la giustizia. In un’al-
tra favola babilonese la mosca si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratel-
lo, ti ho affaticato con il mio peso? Vicino all’abbeveratoio volerò via!».
Risponde l’elefante: «Che tu ti fossi posata su di me, non m’ero nep-
pure accorto». La stessa favola si ritrova in Babrio (84), solo che alla
mosca viene sostituita la zanzara, all’elefante il toro, animale familiare
nel mondo greco; naturalmente la morale è la stessa, cioè la satira con-
tro chi si dà importanza e in realtà non conta niente. In una favola
sumerica compresa in una collezione «retorica», cioè in una collezione
di testi usati come esercizi nelle scuole babilonesi (un po’ come, fino a
poco tempo fa, Fedro veniva usato nelle nostre scuole per imparare il
latino), troviamo un leone che, acchiappata una capra, si lascia persua-
dere a liberarla, perché la capra gli promette di offrirgli una grassa
pecora; tornata, però, nel suo recinto e messasi al sicuro, non mantiene
la sua promessa e irride la stoltezza del leone. Da questa favola, secon-
do me, deriva una favola greca (Esopo 137 H.): la narrazione è molto
ivi indicata, alla quale aggiungo qui Fr. R. Adrados, El tema del águila de la épica acadia a
Esquilo, «Emerita», vol. 32, 1964, pp. 267-282.
3
I testi a cui mi riferisco, scoperti nel 1983 e nel 1985, sono stati pubblicati e interpretati
da Erich Neu, Das Hurritische. Eine altorientalische Sprache in neuem Licht, «Abhandlun-
gen der Mainz Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 3, Stuttgart 1988, e
ripubblicati da Heinrich Otten e Christel Rüster, Keilschrifttexte aus Boğazköy,
fasc. 32, Berlin 1990. Ringrazio Ruggero Stefanini per la segnalazione. L’interpretazione
dei testi presenta qua e là difficoltà gravi e non è sempre sicura.
4
Cfr. il mio studio Le vie della favola esopica, pp. 178-179 ss. (qui, pp. 105-106).
passaggio sia inverso. Non bisogna però credere che tutta la favola
«esopica» sia nata nell’area mesopotamica: non solo in India, ma anche
in Cina e in altre parti del mondo, racconti con personaggi animali
possono essere stati usati a fini gnomici: la monogenesi non sarebbe
ipotesi convincente.
Ora ai re, per quanto saggi essi siano, racconterò una favola. Così lo sparvie-
ro disse all’usignuolo dal collo variopinto, portandolo, dopo averlo ghermito
con i suoi artigli, molto in alto fra le nuvole: quello, trafitto dagli artigli ricur-
vi, gemeva; e a lui lo sparviero parlò con superba violenza: «Sciagurato, perché
gridi? Sei in potere di uno molto più forte di te: tu andrai esattamente dove
io vorrò menarti, anche se sei un cantore; farò di te il mio pasto, se vorrò, o
ti lascerò libero. Stolto chi vuole resistere ai più forti di lui: non ottiene vit-
toria e oltre la vergogna patisce il dolore». Così disse lo sparviero dal rapido
volo, l’uccello dalle lunghe ali spiegate.
lare. Nel testo di Esiodo troviamo anche la struttura narrativa più co-
mune e più caratteristica della favola «esopica», cioè il contrasto-dialogo
fra due personaggi animali (o anche provenienti dal mondo vegetale), di
cui uno enuncia (esplicitamente o implicitamente) la «morale».
Ha la stessa ispirazione, ma è svolta con arte più fine, la favola
dell’aquila e della volpe in Archiloco (anche qui il termine per indi-
care la favola è αἶνος); ma al grande lirico di Paro la favola serve
anche per irridere la stoltezza degli uomini e per svelare la realtà
sotto le illusioni e la vanagloria. In un epodo di cui conserviamo tre
frammenti (81-83 D.) vediamo la scimmia che si aggira solitaria e,
incontrata la volpe, vanta la nobiltà del proprio casato; «basta guar-
darti le natiche!» risponde la volpe. Dunque l’αἶνος ha, tra le altre
funzioni, quella di demistificare: un compito tra i più caratteristici
della futura favola esopica. È difficile, invece, avere la certezza che
Archiloco narrasse un’altra favola sulla volpe, che troviamo svolta
con ricchezza di dettagli da Babrio (95): la volpe, solleticando la va-
nità del cervo, facendogli credere che il vecchio leone malato voglia
nominarlo suo successore come re degli animali, lo induce ad acco-
starsi al letto del leone, che lo sbrana e lo divora. Comunque al tem-
po di Archiloco, cioè nel VII secolo a. C., la volpe è già il personag-
gio più familiare nel mondo della favola gnomica.
Che la favola venga usata non raramente nella riflessione morale
greca del VII e VI secolo a. C., è dimostrato da accenni di Solone,
Semonide di Amorgo, Teognide. Nel pensiero antico la morale si con-
fonde con la politica, e anche nella lotta politica, fra demos e nobiltà,
fra demos e tirannia, la favola viene usata talvolta come arma opportu-
na: per esempio, sappiamo dalla Retorica di Aristotele (II 20) che il
poeta Stesicoro (104 Page), per ammonire i suoi concittadini di Imera
a non accettare la protezione del tiranno Falaride, raccontò la favola,
divenuta poi famosa, del cavallo, del cervo e dell’uomo: il cavallo, per
cacciare il cervo dal pascolo, si allea con l’uomo, si fa cavalcare e poi
resta schiavo del suo alleato.
Questi usi della favola si ritrovano anche nella cultura attica del
V secolo a. C. Nella tragedia, però, l’uso è molto raro: di favole con
personaggi animali si può segnalare un solo esempio, che ricorre in
un frammento dei Mirmidoni di Eschilo (139 Nauck): l’aquila con-
stata amaramente di essere stata ferita da una freccia fatta con una
penna dell’aquila stessa (la stessa morale della favola in cui l’albero
viene tagliato con la scure fatta del suo stesso legno). L’uso politico
della favola si può ricavare, come abbiamo visto, dalla Retorica di
Aristotele, che prende gli esempi da tempi di lui più antichi: nello
stesso passo in cui cita la favola di Stesicoro contro il tiranno, ne cita
un’altra, adattabile a molte epoche, contro i politicanti avidi, che è
meglio sopportare per evitare guai anche peggiori: una volpe, attra-
versando un fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto diru-
pato, da cui non può tirarsi fuori; le zecche la coprono e le succhiano
il sangue; capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle
zecche: «Ti prego di no» risponde la volpe. «Queste qui sono già
rimpinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora
affamate».
In luce diversa, con funzione diversa appare la favola esopica nelle
vive testimonianze del grande poeta comico Aristofane. Egli conosce
favole già narrate da Archiloco, come quella dell’aquila e della vol-
pe (Uccelli 652-654) e quella della volpe e della scimmia vanagloriosa
(Acarnesi 120-121), e accenna anche ad altre: per esempio, alla favola del-
la guerra fra l’aquila e lo scarafaggio, dove lo scarafaggio vola in cielo fino
a Zeus (Pace 127-130), e a una, che forse non ci è conservata, in cui per-
sonaggi erano il topo e la donnola (Vespe 1181-1182). Il commediografo
non narra le favole, ma le richiama per accenni: si tratta, dunque, di
racconti ben noti al pubblico a cui si rivolge; del resto a proposito della
favola del topo e della donnola dice esplicitamente che si tratta di una di
quelle storielle comunemente raccontate nelle case. Nell’uso di Aristo-
fane il sapore ludico prevale nettamente su quello gnomico e c’è ragio-
ne di credere che ciò non sia dovuto solo all’assimilazione da parte del
poeta comico: già nelle case degli ateniesi e negli incontri della gente
fuori di casa le favole si raccontavano per divertimento, mescolate con
altri aneddoti e specialmente con motti di spirito.
Mentre Esopo tornava una sera da cena, una cagna sfrontata e ubriaca gli
abbaiò contro. Allora le disse: «Cagna, cagna, se, per Zeus, invece della tua
cattiva lingua, tu comprassi da qualche parte del frumento, credo che saresti
molto più saggia».
Storielle del genere, il cui sale era nelle battute spiritose, si raccon-
tavano per divertimento anche nei conviti (Vespe 1259-1262). Di Esopo
Aristofane conosceva anche vicende biografiche: accenna, infatti,
all’accusa, che gli abitanti di Delfi gli mossero, di aver rubato un vaso
appartenente ad Apollo e al modo in cui Esopo li ammonì, raccontan-
do la favola dell’aquila e dello scarafaggio (Vespe 1446-1448). Da un
altro passo (Uccelli 471 ss.) si è voluto anche ricavare che Aristofane
conoscesse una biografia scritta di Esopo, in cui erano inserite alcune
favole come narrate in determinate occasioni: l’interpretazione non è
assurda ma, tuttavia, la formulazione non è abbastanza chiara da ri-
chiedere il riferimento a opera scritta: a rigore se ne ricava solo la fre-
quente pratica di narrazioni esopiche, che potrebbero anche essere
trasmesse solo oralmente.
Comunque nell’Atene del V secolo a. C. si parlava di Esopo come
di un personaggio realmente esistito. Non ci sono ragioni decisive per
negarne la realtà storica (anche se la negava, per esempio, Vico, che
vedeva in Esopo una figura-simbolo analoga a quella di Omero e a essa
contrapposta: il simbolo, cioè, della saggezza plebea); ma ben presto,
e poi sempre più nei secoli seguenti, gli sono stati attribuiti caratteri e
azioni che non hanno fondamento storico: Esopo, sia o no realmente
esistito, divenne presto un simbolo.
Erodoto, uno dei più importanti mediatori fra la cultura ionica e la
cultura attica, attingendo probabilmente da tradizioni locali dell’isola
di Samo, conosceva Esopo come schiavo, a Samo, di un certo Iadmo-
ne (in altre fonti Idmone) e lo collocava nel tempo di Saffo (cioè dal-
la fine del VII alla prima metà del VI secolo a. C.); un erudito del
III secolo a. C., Eraclide Pontico, indicava Xanto come primo padrone
5
Qui e in seguito, per quanto riguarda la figura di Esopo, attingo dal mio studio
Il romanzo di Esopo (qui, cap. 4); ora si possono vedere gli studi di vari autori raccol-
ti da N. Holzberg in Der Äsop-Roman. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübin-
gen 1992.
dal 681 al 669 a. C.). Egli adottò come figlio un suo nipote, ma questi,
di indole malvagia, calunniò il padre adottivo presso il re; Ah.īqār fu
condannato a morte, ma l’ufficiale incaricato dell’esecuzione, ricono-
scente per i benefici ricevuti, gli risparmiò la vita e lo nascose con cura
(motivo, come si sa, diffuso nelle fiabe di molti paesi). Poco dopo il re
di Babilonia si trovò in grave difficoltà, perché ricevette una sfida dal
faraone d’Egitto; la guerra, però, si combatteva senza spargimento di
sangue: consisteva in una gara di indovinelli, al termine della quale il
vinto doveva pagare un tributo al vincitore. Il re di Babilonia è dispe-
rato, ma l’ufficiale gli rivela che il sapiente Ah.īqār è vivo e che può
affrontare tranquillamente la sfida. Il figlio adottivo viene condannato
per la sua calunnia, ma il padre ottiene che egli non venga ucciso. Il
racconto ha, sì, un suo fascino per l’intreccio fantastico, ma ancora più
serve da cornice a due prediche, a due serie di precetti: l’una tenuta
quando il figlio viene introdotto a corte, l’altra, molto aspra, dopo che
il figlio è stato condannato (ma in alcune redazioni le prediche si ridu-
cono a una sola e la collocazione varia); il malvagio calunniatore,
schiacciato dall’ultima predica, muore. Nella serie di precetti compa-
iono, almeno in alcune redazioni, anche favole «esopiche».
Di questo «romanzo» erano note nell’Ottocento varie redazioni,
risalenti al basso Medioevo, in diverse lingue (siriaca, armena, turca,
slava, etiopica), ma gli studiosi congetturarono, anche in base al con-
fronto con la Vita Aesopi, che dovevano esserci redazioni molto anti-
che; frammenti di una di queste, in lingua aramaica, furono scoper-
ti all’inizio del nostro secolo su un papiro in una colonia ebraica di
Elefantina, in Egitto, e pubblicati nel 1907; il papiro viene datato al
V secolo a. C.; è molto probabile, dato il contenuto e l’onomastica, che
la prima redazione fosse in accadico (risalisse, cioè, alla cultura babilo-
nese). Ora, tutta la parte della biografia di Esopo che narra le vicende
del «sapiente» alla corte del re Licurgo si può considerare una redazio-
ne greca del «romanzo» di Ah.īqār.
La Vita Aesopi è, dunque, un conglomerato di vari elementi, alcuni
dei quali risalenti fino al VI secolo a. C., altri aggiunti in età ellenistica,
altri, infine, all’inizio dell’età imperiale romana. Delle varie redazioni
correnti nell’antichità due, molto affini tra loro, ci sono state conser-
vate quasi intere: l’una già nota da secoli e pubblicata nell’Ottocento,
l’altra scoperta in un codice di Grottaferrata, che, dopo essere scom-
Anche quelle favolette che, anche se non hanno avuto origine da Esopo (in-
fatti il primo inventore sembra Esiodo), sono tuttavia note soprattutto sotto
il suo nome, influiscono molto sull’animo specialmente di persone rozze e
ignoranti [praecipue rusticorum et imperitorum], che ascoltano più ingenua-
mente i racconti inventati e che, conquistati dal piacere, si lasciano persuade-
re facilmente da ciò che suscita in loro diletto.
deltà alla brevitas, mai rinnegata dal poeta, non è però tale da non
permettere, dopo il primo libro, qualche narrazione più distesa, detta-
gliata, vivace, specialmente in aneddoti con personaggi umani, diversi
dalle favole esopiche vere e proprie. Il ricorso sporadico a tali aneddo-
ti s’inquadra nella tendenza, dichiarata dopo il primo libro, ad accre-
scere la varietà di temi: nel primo libro Fedro dev’essersi servito di una
raccolta di favole esopiche in senso stretto, poi ha cercato di ampliare
l’orizzonte, ricorrendo ad altre fonti e anche ad altri generi di narra-
zione, puntando su una varietà piacevole (II prol. 9 ss.). Comunque le
qualità migliori di Fedro, vivacità e naturalezza nello sviluppo dell’a-
zione, senza interesse accentuato per la descrizione, e particolare feli-
cità nel dialogo, si manifestano già chiaramente nel primo libro.
Con la scelta della brevitas ben si accorda lo stile. Questo coincide
con quello che vediamo operante anche nella favolistica greca in prosa,
cioè con la scelta dello stile semplice (ἀφελής, ἁπλοῦς) e chiaro (σαφής);
ma Fedro deve di più a uno dei filoni stilistici della poesia latina, quel-
lo che va da Terenzio all’Orazio del sermo: lingua e stile sono vicini, sì,
all’uso quotidiano, ma all’uso delle persone colte (vale a dire che c’è una
scelta netta in favore dell’urbanitas); su questo fondo l’arte, ispirata
dalla saggezza e dalla misura, opera per evitare fiacchezza e prolissità
e per tessere una narrazione e un dialogo che si caratterizzino per vi-
vacità mimica, agilità, eleganza.
Fedro, rielaborato stilisticamente con molta libertà, è in Occidente
la fonte principale della favolistica esopica in latino nella tarda antichi-
tà e nel Medioevo, svolta ora in prosa, ora in versi; tuttavia già il
Romulus, una raccolta tardo-antica di favole latine in prosa, contiene
anche materiale non proveniente da Fedro; altro materiale arriverà da
altre fonti nelle raccolte medievali, sino alle favole indiane del Pañca-
tantra, passate attraverso traduzioni arabe. Questa ricca fioritura si
colloca oltre i limiti che ci siamo posti.
Nella cultura greca la prima raccolta di favole esopiche in versi che noi
conosciamo è quella scritta da Babrio. Anche se il nome proviene
dall’Italia, Babrio è uomo di cultura interamente greca: sarà stato di-
scendente di una di quelle famiglie trasferitesi dall’Italia in Oriente
della sua lunga favola sul gracchio che si riveste delle penne di vari
altri uccelli (72):
Una volta Iride, purpurea messaggera del cielo, annunziò agli uccelli che era
indetta una gara di bellezza da tenersi nelle dimore degli dei: l’annunzio fu
subito udito da tutti, e tutti furono presi dal desiderio dei premi divini. Una
fonte sgorgava da una roccia che anche per una capra era difficile a raggiun-
gersi, e l’acqua sotto era raccolta, lucente come l’estate e trasparente; e là ar-
rivarono uccelli di ogni specie, e si lavavano la faccia e le gambe, scuotevano
le zampe, si pettinavano le chiome. A quella fonte arrivò anche un gracchio...
Di due topi l’uno viveva in campagna, l’altro aveva la sua tana nella dispensa
di una ricca famiglia. Decisero di menare vita in comune. Il topo domestico
per primo andò a pranzo nella campagna, che da poco aveva incominciato a
fiorire verdeggiante. Mentre rodeva magre radici di grano, bagnate e mesco-
late con nera zolla, disse: «Tu vivi la vita di una misera formica, mangiando
tenui chicchi nella profondità della terra. Io, invece, ho a disposizione molti
cibi e me ne avanzano: in confronto a te abito nel corno di Amaltea [la dea
dell’abbondanza]. Se venissi con me, scialacquerai come vuoi: lascia che que-
sta terra se la scavino le talpe».
teca del Monte Athos, oggi nella biblioteca del British Museum a
Londra): esse costituiscono solo una parte di un’edizione antica ordi-
nata alfabeticamente (secondo la lettera iniziale di ciascuna favola).
Altre si possono ricavare da parafrasi in prosa, talvolta anche in versi
dodecasillabi bizantini: le parafrasi in prosa devono essere state redat-
te nella tarda antichità, fra il IV e il VI secolo. Per una ventina di fa-
vole possiamo ricostruire frammenti del testo babriano; altre derive-
ranno da Babrio nel contenuto, ma distinguerle completamente dalle
favole di origine diversa non è possibile: non tutte le 148 favole del
codice Bodleiano (XIII sec.), il più importante tra quelli che ci tra-
mandano la parafrasi in prosa, risalgono al favolista siriaco6. Da Babrio
derivano quasi tutte le favole svolte in distici elegiaci, con stile un po’
troppo carico, dal tardo poeta latino Aviano, della fine del IV secolo
(solo per quattro di esse l’origine babriana non è dimostrabile)7.
Nel corso di millenni, cioè fin dalle prime manifestazioni che cono-
sciamo nella cultura sumerica e accadica, la favola esopica è stata svol-
ta in forme artistiche molto diverse, che vanno dalla secchezza del
proverbio fino a narrazioni distese e minute, come quelle icasticamen-
te vivide di Archiloco o quelle morbide e piacevoli di La Fontaine;
meno varie sono le strutture di fondo, in cui prevale il contrasto fra due
personaggi, risolto dalla prevalenza dell’uno sull’altro, con la forza o
l’astuzia o la saggezza, attraverso l’azione e il dialogo o uno solo di
questi due svolgimenti; meno comune è la struttura con tre personag-
gi, di cui il terzo interviene come arbitro o a danno degli altri due o di
uno di essi; non mancano, tuttavia, varie modifiche, che qui non è
possibile seguire8. Press’a poco costante è il metodo di confronto: la
favola esopica è un’allegoria indeterminata, cioè rimanda non a deter-
6
Tutti i problemi relativi alla tradizione di Babrio sono trattati ampiamente e lucidamen-
te nei prolegomeni all’edizione critica teubneriana (1986) da Maria Jagoda Luzzatto.
7
Sui rapporti fra Aviano e Babrio rimando alla mia trattazione nei prolegomeni della
citata edizione teubneriana di Babrio (pp. vi-xxii).
8
Una trattazione ampia, e anche troppo minuta, in M. Nøjgaard, La fable antique, 2 voll.,
Copenhague 1964 e 1967. Sul primo volume cfr. la mia recensione in «Athenaeum», 1966
(qui, cap. 6).
9
Mi servo qui del mio vecchio saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7).
rà ricordare la favola del cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43;
Fedro I 12) e quella della volpe e del corvo (Fedro I 13; Babrio 77).
La demistificazione rivela la realtà effettuale della società umana,
fatta di rapporti fondati generalmente sulla forza e sull’astuzia. A pro-
posito del dominio della forza tutti conoscono la favola del leone che
fa le parti (Babrio 67; Fedro I 5); ne ricorderò altre due meno note,
anche perché sono attestate fuori delle raccolte di cui ho parlato. Ari-
stotele nella Retorica (III 13, 2, 1284 a) riferisce una favola del filosofo
cinico Antistene: le lepri si riuniscono in assemblea per reclamare
uguaglianza politica e sociale con i leoni; e i leoni: «Signori dai piedi
pelosi, i vostri discorsi mancano di unghie e di denti quali noi abbia-
mo». Ecco l’aneddoto che il raffinato Silla raccontò per far capire ai
nemici sconfitti nelle guerre civili che cosa dovevano aspettarsi (Ap-
piano, Bellum civile I 101): i pidocchi pizzicavano un povero bifolco;
due volte egli interruppe il lavoro e si pulì la camicia; la terza volta, per
non avere troppi fastidi, la bruciò. La realtà dei rapporti sociali, oltre a
essere brutale, è anche complicata, perché non sempre la forza si pre-
senta come tale; a volte vuole giustificarsi come diritto: la favola em-
blematica è, a questo proposito, quella del lupo e dell’agnello, che
Fedro scelse come inizio della sua opera. Lo sparviero di Esiodo ucci-
de l’usignuolo proclamando senza mezzi termini la legge del più forte;
in una favola che forse risale a Fedro (è conservata dal favolista medie-
vale Ademaro, 39 = 567 P.) lo sparviero è più sofisticato e perfido: pro-
mette all’usignuolo che lo risparmierà, se canterà bene; ma l’usignuolo
non canterà mai abbastanza bene da convincere lo sparviero.
Quando la forza manca o non basta, si ricorre all’astuzia: così fa il
leone fingendosi malato e invitando gli animali a entrare nella sua
tana. Ma non inganna la volpe (Esopo 147 H.; Babrio 103): l’astuzia, se
a volte sostituisce la forza, più spesso si oppone alla forza e la supera.
Non starò qui a citare le tante favole in cui la volpe inganna gli scioc-
chi, forti o deboli che siano.
Non sempre la frode e la violenza, la golpe e il lione, hanno succes-
so: può anche accadere che a punirle intervenga la divinità; ma nor-
malmente nel mondo esopico, se forza e frode vengono vanificate e
punite, ciò accade per effetto di altra forza o di altra astuzia: nella fa-
vola risalente a Fedro che ho citato poco fa, lo sparviero, mentre ucci-
de l’usignuolo, viene colpito da un cacciatore; il topo ha già fra i denti
Capitolo 2
1. Culture a contatto
1
[Relazione tenuta al Congresso internazionale AICC (Associazione Italiana di Cultura
Classica), Delegazione valdostana, St. Vincent 17-18 ottobre 1992. Apparsa nei relativi atti:
Vie di comunicazione e incontri di culture dall’antichità al medio evo tra Oriente e Occidente, a
cura di Mariagrazia Vacchina, Assessorato regionale della Pubblica Istruzione, Aosta 1994,
pp. 162-186; quindi in Favolisti latini medievali e umanistici, XIV, a cura di Ferruccio Ber-
tini e Caterina Mordeglia, D.AR.FI.CL.ET., Genova 2009, pp. 9-34, «con ritocchi quasi
solo tipografici» e «due appendici di aggiornamento bibliografico», queste ultime colloca-
te rispettivamente, la prima (Addendum bibliografico 2009) al termine di questo capitolo
(p. 114), la seconda (Postilla 2009) in parte al termine del capitolo 7 (p. 332), in parte
nell’Appendice B (p. 358)].
della letteratura scritta, dei grandi generi letterari come l’epica, il tea-
tro, l’oratoria, la storiografia; ma, rispetto alla diffusione di questa let-
teratura scritta, ha importanza non molto minore la diffusione, più
orale che scritta, di forme varie di narrativa, generalmente in prosa,
più raramente in poesia: fiabe, novelle e altre forme ancora meno de-
finibili. Io darò una breve trattazione sull’origine e la prima diffusione
della favola esopica: ho scelto questo tema perché me ne occupai una
trentina di anni fa e, più sporadicamente, anche in seguito. Per questo
mio intervento ho utilizzato studi già da me pubblicati, ma anche i
risultati di ricerche successive condotte in vista di un progetto, non
ancora realizzato, di una storia della favola esopica nell’antichità greca
e latina. Naturalmente partii da acquisizioni e tentativi anteriori di
altri studiosi, e il debito è riconosciuto nei miei studi; accennerò, ma
senza sistematicità, anche a pubblicazioni più recenti: tutta la mia trat-
tazione vuole avere il carattere di una rapida sintesi divulgativa, non di
un nuovo contributo di ricerca.
2
Das Pantschatantra, Leipzig 1859. Una breve trattazione aggiornata sulla favola indiana
di tipo esopico si trova ora nella comunicazione di G. U. Thite nel volume collettaneo
La fable, a cura di Fr. R. Adrados e O. Reverdin, «Entretiens de la Fondation Hardt»,
30 (Vandœuvres-Genève, 22-27 agosto 1983), Vandœuvres-Genève 1984, pp. 33-53 (discus-
sione nelle pp. 54-60).
3
Indicazioni su tali labilissime congetture sono date da M. Marchianò, L’origine della
favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali, Trani 1900, da me utilizzato in Letteratu-
ra esopica e letteratura assiro-babilonese, pp. 24-25 (qui, pp. 115-116).
4
Orientalische Fabeln in griechischem Gewande, «Internationale Wochenschrift für
Wissenschaft Kunst und Technik», vol. 4, 1910, coll. 993-1002.
5
Cfr. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese, p. 26 (qui, p. 117).
6
Su questo genere di letteratura indicazioni bibliografiche detti in Letteratura esopica e
letteratura assiro-babilonese, cit.; cfr. ora R. S. Falkowitz, Discrimination and Condensation
on Sacred Categories. The Fable in Early Mesopotamian Literature, in Adrados e Reverdin
(a cura di), La fable, cit., pp. 1-24 (discussione alle pp. 25-32).
7
Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte, Leipzig 1927.
9
Indicazioni bibliografiche ivi, pp. 30 ss. (qui, pp. 120 ss.).
10
Tentai un’interpretazione della morale esopica in un saggio di una trentina d’anni fa: La
morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità (qui, cap. 7). Per
interpretazioni diverse si possono vedere M. Nøjgaard, La fable antique, 2 voll., Copen-
hague 1964 e 1967; Fr. R. Adrados, Historia de la fábula greco-latina, 2 voll., Madrid 1979
e 1985 [nuova ed. rivista, aggiornata e accresciuta dall’autore e da G.-J. van Dijk, History of
the Graeco-Latin Fable, 3 voll., Leiden-Boston-Köln 1999, 2000 e 2003]; S. Jedrkiewicz,
Sapere e paradosso nell’antichità. Esopo e la favola, Roma 1989.
11
Cfr. G. Franzow, Zu der demotischen Fabel vom Geier und der Katze, «Zeitschrift für
Ägyptische Sprache und Altertumskunde», vol. 66, 1930, pp. 46-49. Il Franzow si occupò
di una trasformazione egiziana tarda della favola dell’aquila e della volpe e rimandò già
(p. 48) alla favola babilonese dell’aquila e del serpente.
12
Un’altra favola esopica di origine babilonese (qui, pp. 128-131); naturalmente rimando a
questo articolo anche per la bibliografia. Ho potuto poi vedere alcuni studi da me citati
indirettamente: la coincidenza non mi risulta notata.
Tralascio le indicazioni bibliografiche, che si possono trovare nel mio studio Il romanzo di
13
Esopo, pp. 286 ss. (qui, pp. 153 ss.). Per un’informazione aggiornata rimando a N. Oettinger,
Achikars Weisheitssprüche im Licht älterer Fabeldichtung, in N. Holzberg (a cura di), Der
Äsop-Roman. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübingen 1992, pp. 3-22.
Oltre che allo studio cit. di Oettinger mi riferisco a due contributi recenti: H. Wilsdorf,
14
Der weise Achikaros bei Demokrit und Theophrast. Eine Kommunikationsfrage, «Philologus»,
vol. 135, 1991, pp. 191-206; M. J. Luzzatto, Grecia e Vicino Oriente. Tracce della «Storia di
Ah.iqar» nella cultura greca tra VI e V secolo a. C., «Quaderni di storia», n. 36, 1992, pp. 5-84
(quest’ultimo studio molto ricco e approfondito).
15
Oxyrinchus Papyri, XLVII, Oxford 1980, pp. 53-56; LIII, Oxford 1986, pp. 149-172; l’edi-
zione e il commento sono opera molto accurata di M. W. Haslam.
16
M. Papathomopoulos, Aesopus revisitatus. Recherches sur le texte des vies ésopiques, vol. 1:
La critique textuelle, Ioannina 1989; la nuova edizione della redazione del codice di Grot-
taferrata è uscita a Giannina nel 1990 [M. Papathomopoulos, O Bios του Αισώπου ή
παραλλαγή Γ, Κριτική έκδοση με Εισαγωγή και Μετάφραση, Ioannina 1990].
Poiché nel nostro secolo l’attenzione degli studiosi della favola esopica
si è rivolta, giustamente, verso le culture mesopotamiche, il problema
dei rapporti tra favola esopica greca e favola indiana ha perduto molto
dell’interesse e del fascino che ebbe nell’Ottocento; ma il problema
non è per questo eliminato. In trattazioni di storia culturale di questo
genere si corre il rischio di sopravvalutare il problema delle origini;
bisognerebbe ricordarsi qualche volta che la vita è più importante del-
la nascita: una volta accertato che la prima larga fioritura di favole di
animali si ebbe nella cultura sumerica e babilonese, non sarebbe meno
importante sapere per quali vie precisamente si diffuse e capire a qua-
li interessi, a quali bisogni etici e intellettuali rispondeva, quale conce-
zione della vita sociale voleva esprimere.
Una trentina di anni fa, affrontai in modo molto limitato il proble-
ma partendo dalle ricerche tedesche e italiane svoltesi fino al primo
quarto del nostro secolo17; qui riassumerò drasticamente le opinioni
che allora mi formai; non ho potuto aggiornare la mia informazione,
ma, da alcune letture, ho l’impressione che su questo problema speci-
fico non si siano fatti grandi passi avanti.
Che tra alcune favole esopiche greche e alcune favole indiane ci
siano dei rapporti storici, cioè che in alcuni casi non si possa parlare di
reciproca indipendenza, è una certezza che non si può eliminare. Si sa
che in ricerche di questo genere spesso ci si appiglia ad analogie trop-
po limitate o superficiali e futili; in questo caso, però, anche dopo va-
glio prudente e rigoroso, alcune certezze resistono. Io esaminai 40 casi:
in 19 le analogie sono certe, in 14 meno sicure, ma degne di attenzione;
cito pochissimi esempi dell’una e dell’altra categoria. Incomincerò con
qualche favola famosa. L’asino nella pelle del leone (Esopo 199 H.;
Babrio 139), una favola probabilmente già conosciuta da Platone, si
Molto più che il libro già citato di Marchianò, lavoro di un dilettante, è utile l’opera
17
dell’indianista F. Ribezzo, Nuovi studi sulla origine e la propagazione delle favole indo-elle-
niche, Napoli 1901; una trattazione più succinta in M. Winternitz, Geschichte der indi-
schen Litteratur, vol. 3, Leipzig 1920, pp. 307 ss. La comunicazione, già citata, di G. U. Thite
sulla favola indiana negli Entretiens della Fondation Hardt del 1983 non si occupa dei
rapporti con la favola greca; scarsa è anche la letteratura recente che egli cita sulla favola
indiana. Per la storia del dibattito nell’Ottocento rimando al libro del Ribezzo.
ritrova nel Pañcatantra (IV 7)18, solo che invece della pelle del leone c’è
quella di tigre; è curioso che in un racconto buddista, di quelli compre-
si nella raccolta che va sotto il titolo di Jātaka (189 Cowell), la pelle è
di leone, ma nei versi citati nel corso del racconto si parla di pelle di
tigre e di leopardo. La favola del leone malato e della volpe (Esopo 147
H.; Babrio 103), già nota a Platone, si chiude con la famosa battuta
della volpe: non entro nella spelonca del malato, perché vedo che tutte
le orme di animali portano verso di essa, nessuna in senso contrario (il
leone ha divorato tutti gli animali che gli hanno fatto visita); nel Pañca-
tantra (III 14) la favola è notevolmente variata, ma lo sciacallo, che
sostituisce la volpe, adduce la stessa ragione per rifiutarsi di entrare. In
un’altra favola, forse già narrata da Archiloco e dettagliatamente svolta
da Babrio (95), il leone malato fa venire al suo letto il cervo, fingendo di
voler nominarlo suo erede come re degli animali; il cervo sciocco sfugge
per due volte al tentativo del leone di afferrarlo, ma torna una terza vol-
ta e viene afferrato e sbranato. Il leone agisce dietro consiglio della volpe.
L’ossatura del racconto è la stessa nel Pañcatantra (IV 2), solo che l’astu-
to consigliere è lo sciacallo e l’animale stupido è l’asino. Tutti ricordano
da Fedro (I 13) la favola del corvo appollaiato su un albero con un pezzo
di formaggio in bocca, che la volpe gabba con le sue adulazioni; affine
uno dei racconti della raccolta buddista (Jātaka 214), dove i protagonisti
sono la cornacchia e lo sciacallo (cfr. anche 295, dove i personaggi sono
gli stessi, ma le parti sono invertite).
Aggiungo ora qualcuno dei casi in cui le differenze sono tali da
suscitare dubbi e in cui la reciproca indipendenza è possibile. Anco-
ra da Fedro (I 2) ci viene la famosa favola delle rane che chiedono un
re. In uno dei racconti del Pañcatantra (III 15) vediamo che un ser-
pente, fingendosi inviato dagli dei per servire da veicolo alle rane,
ispira loro piena fiducia, sicché esse gli montano tranquillamente
addosso senza che egli ne mangi nessuna; il re delle rane si commuo-
ve per la sua astinenza e gli permette di mangiare alcune rane della
plebe; il serpente ci prende gusto, e alla fine elimina tutte le rane,
plebee e nobili. Nel racconto indiano non ci sono le rane che chiedo-
no un re; probabilmente abbiamo sviluppi autonomi, in cui di comu-
ne c’è solo il serpente che divora le rane. La massima che l’unione fa
Menenio Agrippa, uno dei più diffusi nel mondo, si trova anche in In-
dia, nel Mahābhārata (XIV 652 ss.); solo che al ventre della versione
greca e latina è sostituito un personaggio molto più nobile, Manas, che
è lo spirito vitale. Non è detto che l’apologo sia arrivato in India dalla
cultura greca: una redazione diversa, con la testa al posto del ventre, è
stata trovata in un testo scolastico egiziano risalente a poco meno di
mille anni a. C. A giudicare dal frammento pervenutoci, che costituisce
solo l’inizio del racconto, la disputa fra la testa e le parti del corpo ribel-
li, era dettagliata e sottile19; naturalmente già in Egitto serviva a dimo-
strare che il governo è necessario e che chi governa è un benefattore dei
governati. Nel corso delle mie ricerche inedite tentai anche di stabilire,
sia pure attraverso rapidi sondaggi, un’analogia con altri elementi cultu-
rali, che vanno dal folklore e dalla religione alle arti figurative, emigrati
probabilmente dall’Asia anteriore non greca e dalla Persia sia verso ovest
sia verso est. Mi limito qui a un esempio. Erodoto (III 119) racconta che
la moglie del satrapo persiano Intaferne, essendole concesso di salvare
uno tra il marito, il figlio e il fratello, condannati a morte, scelse il fra-
tello; l’argomentazione con cui giustificò la scelta fu usata da Sofocle
nell’Antigone (909-910); una trasformazione del racconto si trova nella
collezione buddista (Jātaka 67), e l’argomentazione della donna anche
nel Rāmāyan.a (VI 39, 5-6). La mia opinione è che il racconto sia arriva-
to alla Grecia e all’India direttamente dalla Persia.
nel testo attribuito ad Any, il cui papiro più antico risale alla XIX di-
nastia, vale a dire a tredici secoli a. C., il comportamento di vari ani-
mali, toro, leone, cavallo, cane, scimmia, oca, è evocato per inculcare
la docilità e l’obbedienza (anche bestie feroci e forti riescono ad am-
mansirsi). Ne cito due righe:
20
Ivi, p. 295.
21
Cfr. H. R. Hall, An Egyptian Royal Bookplate. The Ex Libris of Amenophis III and Teie,
«Journal of Egyptian Archaeology», vol. 12, 1926, nn. 1-2, pp. 30-33. Lo Hall sostiene l’ori-
gine egiziana di questo genere di componimenti.
22
Il romanzo di Esopo, pp. 292 ss. (qui, pp. 159 ss.).
23
Eccellentemente pubblicati e illustrati da J. Vandier d’Abbadie, Catalogue des ostraca
figurés de Deir-el-Medineh, Il Cairo, vari fascicoli dal 1936 in poi.
Tiermärchen, «Zeitschrift für ägyptische Sprache und Altertumskunde», vol. 80, 1955,
pp. 12-32, che ha dato una trattazione più breve e divulgativa in Tiermärchen im alten
Ägypten, «Universitas» (Stuttgart), vol. 10, 1955, pp. 1071-1078. Cfr. anche R. Würfel, Die
ägyptische Fabel in Bildkunst und Literatur, «Wissenschaftliche Zeitschrift der Universität
Leipzig», vol. 3, 1952-1953, pp. 63-77 e 153-160.
25
Per questi testi demotici rimando alla traduzione di Bresciani, Letteratura e poesia
dell’antico Egitto, cit., pp. 677-681; della prima favola è dato solo l’inizio, più leggibile
nel testo demotico; quindi bisogna rifarsi alle opere ivi citate di W. Spiegelberg e di
M. Pieper. Sulle affinità fra la leggenda di Tefnut, la storia di Ah.īqār e il romanzo
di Esopo cfr. Rolf Kussl, Achiqar, Tinuphis und Äsop, in Holzberg (a cura di), Der
Äsop-Roman, cit., pp. 23-30, da cui si potrà raccogliere altra bibliografia.
26
Cfr. Franzow, Zu der demotischen Fabel vom Geier und der Katze, cit. Lo Spiegelberg,
confrontando con un disegno su coccio, che rappresenta una scena con gatto, scimmia,
avvoltoio, congetturò che questa favola egiziana risalga all’epoca dei Ramessidi o a epoca
più antica; ma l’interpretazione del disegno è molto aleatoria.
Tralascio le citazioni, rimandando agli Aesopica del Perry, che raccoglie i passi utili nella
27
Per questo problema rimando al mio saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7).
28
Cfr. nella grande collana di Miti e leggende curata dal Pettazzoni, vol. 1, Torino 1948,
29
rara volta viene assunto a dimostrare una morale: in questo senso limi-
tato favole di tipo esopico appaiono anche altrove; ma a questo punto
è prudente non imbarcarsi sull’oceano del folklore mondiale o della
Weltliteratur, un oceano che, si può dire, non ha confini.
Capitolo 3
Letteratura esopica
e letteratura assiro-babilonese1
1
[Le prime due sezioni sono apparse in «Rivista di filologia e di istruzione classica»,
ser. 3, vol. 92, 1964, pp. 24-39; la terza in «Maia», n. s., vol. 43, 1991, pp. 163-165].
2
Les fables ésopiques de Babrios, Paris 1890. Gli argomenti sono largamente riassunti e di-
scussi da M. Marchianò, L’origine della favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali,
Trani 1900, pp. 318 ss.
3
Marchianò, L’origine della favola greca, cit., p. 327.
4
Ivi, p. 328.
5
Ivi, p. 329.
6
Ivi, pp. 330 ss.
7
Ivi, pp. 331-332.
8
G. Smith, The Chaldean Account of Genesis, London 1876, pp. 137 ss.; Fr. Hommel, Storia
di Babilonia e Assiria, trad. it., Milano 1887, p. 508. Contro di loro polemizza, a torto, il
Marchianò, L’origine della favola greca, cit., pp. 345 ss.
9
H. Diels, Orientalische Fabeln in griechischem Gewande, «Internationale Wochenschrift
für Wissenschaft, Kunst und Technik», vol. 4, 1910, coll. 993-1002. Per la tenzone citata cfr.
ora Erich Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte,
Leipzig 1927 («Mitteilungen der altorientalischen Gesellschaft», II 3), pp. 6 ss.
ziosa, perché ci fa scorgere nella Lidia una delle zone attraverso cui
folklore assiro-babilonese si diffonde verso le colonie greche. La cono-
scenza più larga che oggi abbiamo di questa letteratura di tenzoni10,
risalente fino ai Sumeri, permette di illuminare meglio l’ultima parte
della poesia di Callimaco. È noto che nella disputa fra l’alloro e l’olivo,
dopo che le due piante hanno celebrato le loro qualità, interviene qua-
le paciere il rovo, pigliandosi, per questa sua protesta, gli insulti dell’al-
loro (fr. 194, 95 ss.). Ora nelle tenzoni sumerico-assiro-babilonesi,
dopo l’introduzione e la disputa, si ha l’arbitrato di una divinità e una
riconciliazione11. Con questo presupposto si capisce meglio l’interven-
to del rovo come arbitro e, soprattutto, si gusta meglio la satira: la vile
pianta pretende di assumersi la parte che di solito spetta a un dio!
Probabilmente Callimaco non aveva più coscienza del fatto che il vile
rovo sostituisse una divinità (l’alloro si sdegna solo perché il rovo si
considera pari ai due litiganti); ma in qualche fase, o assiro-babilonese
o lidia, della storia della tenzone tale coscienza dev’esserci stata.
Il Diels nel suo articolo lamentava che gli ellenisti s’interessassero
troppo poco di culture orientali, che considerassero ancora troppo au-
toctona la cultura greca. Oggi le cose stanno diversamente. Tuttavia
nel campo della favola esopica i progressi fatti nella conoscenza dei
rapporti con la letteratura assiro-babilonese si debbono a un assiriolo-
go, Erich Ebeling12. Innanzi tutto egli ha dimostrato che in questa
letteratura, oltre che di tenzoni fra animali o piante, oltre che di
Tierepos, i cui personaggi sono il lupo, il cane, il leone, la volpe, si deve
parlare anche di vere e proprie favole esopiche, con un’azione e una
morale o implicita o contenuta nella battuta spiritosa di uno dei per-
sonaggi. Il lupo, che non conosce l’entrata della città, viene inseguito
per le strade dai porci; morale: quando si è in terra nemica meglio
tornare indietro13 oppure non praticare luoghi che non si conoscono o
10
Dopo Ebeling, Die babylonische Fabel, cit., cfr. ora J. J. van Dijk, La sagesse suméro-ac-
cadienne, Leiden 1953 («Commentationes orientales», I), pp. 29 ss.; W. G. Lambert,
Babylonian Wisdom Literature, Oxford 1963, pp. 150 ss. (da vedere, naturalmente, anche per
il Tierepos e per le favole sparse tra i detti popolari e i proverbi). Per una breve informazio-
ne divulgativa cfr. G. Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, Milano 1957,
pp. 99 ss.
11
Cfr. van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., pp. 39-40.
12
Die babylonische Fabel, cit.
13
Ivi, p. 46.
non fare cose di cui non si è pratici. L’uccellatore che non ha pesci non
acchiappa uccelli, ma va a immergere le sue reti nei canali della città;
morale, forse: in caso di bisogno occorre saper adattarsi ad altri mestie-
ri14. Un cavallo ardente monta una mula e nella voluttà le mormora
all’orecchio: «Il figlio che avrai sarà focoso come me, non sarà come il
vile asino che porta il giogo» (si sa che la mula è infeconda): irrisione,
forse, delle promesse stolte che si fanno in amore15. Una pulce e una
mosca litigano tra loro; sopraggiunge una mosca di un’altra specie per
fare da paciere, ma viene gettata in ceppi dai due litiganti e divorata, a
quanto pare, da un topo; morale: chi vuol fare da arbitro a volte piglia
le botte16. Il ragno tende un agguato alla mosca; il camaleonte si adira
contro il ragno17: proprio lui, voleva forse dire il favolista, che è più
furfante del ragno! Esempi del genere confermano quanto già lasciava
chiaramente supporre la redazione aramaica del racconto di Ah.īqār,
scoperta a Elefantina nel 1907: il pezzo sapienziale del racconto faceva
largo uso di favole (dai frammenti di Elefantina l’esistenza di favole già
nella redazione aramaica risulta sicura, benché sia molto difficile rico-
struirle singolarmente); ora personaggi e situazioni fanno ritenere di
origine babilonese il racconto.
L’Ebeling ha potuto anche indicare con precisione una favola babi-
lonese passata nella favolistica greca: si tratta della favola della mosca e
dell’elefante18. La mosca si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratello, ti ho
14
Ivi, p. 45.
15
Ivi, p. 48.
16
Ibid.
17
Ivi, p. 49.
18
Ibid. Dei frammenti fanno sospettare la favola del topo di città e del topo di campagna, ma
la ricostruzione resta incerta (ivi, p. 45). Un’altra favola racconta di un cane arrabbiato che in-
furia contro una città: un lupo gli salta alla gola e sta per strangolarlo. Il cane allora: «Perché
non afferri dei buoi? Io non basterò a saziarti» (ibid.; la fine risulta da un’interpretazione non
sicura). Il cane è un furfante che non si rende conto della sua colpa? O la morale è che non si
lascia una preda già acchiappata per una da acchiappare? In questo secondo caso la favola fa-
rebbe pensare a quella esopica (4 H.; forse in Babrio 212) dello sparviero che, acchiappato
l’usignuolo, non si lascia persuadere a mollarlo per la prospettiva di acchiappare un uccel-
lo più grosso, o a quella analoga del pescatore e del pesciolino (18 H.; Babrio 6). B. E.
Perry, Fable, «Studium generale», vol. 12, 1959, p. 27, mette a confronto una favola della
redazione aramaica del racconto di Ah.īqār (A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth
Century B. C., Oxford 1923, p. 226) con la celebre favola, attribuita a Stesicoro (104 Page),
del cavallo e l’uomo; solo che nella favola del racconto aramaico l’asino selvaggio non si
lascia ingannare dall’uomo.
19
Cfr. fr. 89 ss. D.; ma ora è da vedere, con la dovuta cautela, la ricostruzione di Fr.
Lasserre, Les épodes d’Archiloque, Paris 1950, pp. 38 ss., e soprattutto l’edizione dello stesso
Lasserre (Paris 1958), fr. 168-174, che utilizza i papiri recenti. Il Lasserre utilizza anche tarde
versioni siriache della favola, tradotte da Sœur Bruno Lefèvre, Une version syriaque des
fables d’Ésope, Paris 1941, n. xxv, pp. 36-37, che io non ho potuto vedere.
20
Mi pare che anche dopo la ricostruzione del Lasserre il frammento si possa collocare a
questo punto; il Lasserre preferisce metterlo prima della favola, nelle recriminazioni di
Archiloco contro Licambe. Le due possibilità si equivalgono. Del resto non è neppure
certo che il frammento appartenga all’epodo.
21
È ingegnosa, ma m’ispira poca fiducia la ricostruzione di Lasserre. Egli colloca fr. 92 a D. su-
bito dopo 94, cioè come seguito della preghiera. L’ipotesi di Lasserre offre il vantaggio di con-
servare la lezione κάqηται di Attico-Eusebio (se fosse l’aquila a parlare alla volpe, bisognerebbe
scrivere, con Diehl, κάqημαι); ma, certo, pare assurdo che la volpe dica a Zeus: «l’aquila non fa
nessun conto del tuo assalto»; una μάχη, un assalto di Zeus contro l’aquila, non c’è ancora e
l’affermazione non pare né misurata né riverente. Per conservare κάqηται si può supporre che la
volpe, scomparsi i suoi cuccioli, chieda a un altro animale e questo le indichi il nido dell’aqui-
la; ma di una tale piega del racconto non abbiamo indizio. Perciò l’ipotesi più plausibile mi
pare quella che i tre versi del fr. 92 a D. debbano attribuirsi a Zeus, conservando κάqηται.
22
La conclusione si trova nelle redazioni delle tarde raccolte esopiche (1 H.), ma proba-
bilmente era già in Archiloco. Correggo così una svista in cui sono caduto nel mio saggio
La morale della favola esopica, p. 489 (qui, p. 286), dove resta però vero quanto è scritto di
Fedro e, quindi, la sostanza dell’argomentazione.
23
Seguo la ricostruzione e traduzione di E. A. Speiser in Ancient Near Eastern Texts Re-
lating to the Old Testament, a cura di J. B. Pritchard, Princeton 1950, pp. 114 ss. In italiano
abbiamo una traduzione, con brevissimo commento, di G. Furlani, Poemetti mitologici
babilonesi e assiri, Firenze 1954, pp. 5 ss.
24
Su questa divinità trattazione ampia in G. Furlani, La religione babilonese-assira, Bo-
logna 1928-1929, vol. 1, pp. 162 ss.
25
La preghiera della volpe in Archiloco (fr. 94 D.) mi richiama alla mente un tratto di una
preghiera del re ittita Muwatalli al dio del sole: «O dio del sole del cielo, mio signore,
giornalmente tu siedi a giudizio dell’uomo, del cane, del maiale e delle bestie selvagge dei
campi» (riferita da O. R. Gurney, Gli Ittiti, trad. it., Firenze 1957, p. 185). La protesta do-
veva essere nella favolistica un luogo comune tradizionale sin dall’epoca sumerica: pianto
del lupo presso Utu, dio, come Shamash, del sole e della giustizia, in un proverbio-favola
interpretato da E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs and Fables, «Journal of Cunei-
form Studies», vol. 12, 1958, p. 53.
26
La favola dell’aquila e del serpente venne richiamata dal Lévêque solo per essere messa
a confronto con la similitudine omerica di Il. XII 200 ss., dove viene descritta una lotta
dell’aquila col serpente (cfr. Marchianò, L’origine della favola greca, cit., p. 322): il raffron-
to è insignificante. Per il poemetto di Etana ho considerato, oltre le due traduzioni citate,
Smith, The Chaldean Account of Genesis, cit., pp. 137 ss.; E. T. Harper, Die babylonischen
Legenden von Etana, Zu, Adapa und Dibbarra, «Beiträge zur Assyriologie», vol. 2, 1894,
pp. 391 ss.; Ch.-F. Jean, La littérature des Babyloniens et des Assyriens, Paris 1924, pp. 37,
192 ss.; Furlani, La religione babilonese-assira, cit., vol. 2, pp. 46 ss.; S. Langdon, The
Legend of Etana and the Eagle, «Babyloniaca», vol. 12, 1931, pp. 1 ss.; E. Ebeling, Ein mittel-
assyrisches Bruchstück des Etana-Mythus, «Archiv für Orientforschung», vol. 14, 1941-1944,
pp. 298 ss.; Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., pp. 135 ss.; ho visto
inoltre Chr. Johnston, Assyrian and Babylonian Beast Fables, «American Journal of
Semitic Languages and Literatures», vol. 28, 1911-1912, pp. 81 ss. La mia riserva era giusti-
influsso babilonese già agli inizi della favola esopica greca; probabil-
mente il genere stesso proviene ai Greci dalla cultura assiro-babilo-
nese. Impossibile supporre un rapporto inverso: il poemetto ci è per-
venuto in tre redazioni incomplete, una antico-babilonese, un’altra
medio-assira e una terza neo-assira, ma l’esistenza della favola dell’a-
quila e del serpente è già sicura nella redazione antico-babilonese. La
favola è inserita abbastanza bene nel poemetto; eppure sorge il sospet-
to che in origine essa fosse indipendente e che non provenisse da ispi-
razione puramente narrativa: l’ispirazione gnomica, la fede in una giu-
stizia divina che protegge l’umile contro il potente, la stessa, in fondo,
che ispira l’epodo di Archiloco, pare troppo consustanziale al racconto
per essere nata dopo il racconto stesso e venirvi appiccicata in un se-
condo momento.
Del resto si può ritenere ormai certo che la favola di tipo esopico
era già sorta in età sumerica. Abbiamo testi sumerici di tenzoni27, in
cui i personaggi sono per lo più animali ed esseri inanimati: il bestiame
e il grano, l’ascia e l’aratro, il legno e la canna, il pesce e l’uccello, l’e-
state e l’inverno, un metallo prezioso e il rame. È venuto alla luce an-
che qualche testo sumerico di Tierepos28. Di favole di tipo esopico fino
a pochi anni fa non avevamo testi sumerici certi: il brevissimo testo
sulla volpe dall’orecchio malato e dalla zampa rotta29 potrebbe appar-
ficata: da Perry, Fable, cit., p. 26, che solo recentemente sono riuscito a trovare, ho appre-
so che la derivazione della favola archilochea da quella babilonese fu già scorta alcuni anni
fa da R. J. Williams, The Literary History of a Mesopotamian Fable, «Phoenix», vol. 10, 1956,
pp. 70 ss. Williams richiama anche una redazione egiziana, ma di origine siriaca, della
favola, in cui sono personaggi l’avvoltoio e il gatto. Credo che alla redazione siriaco-egi-
ziana si debba avvicinare Fedro II 4, Aquila, feles et aper, che incomincia appunto dal con-
tubernium dell’aquila e della feles.
27
Enumerati da van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 41.
28
Si veda il testo illustrato da G. Meier, Keilschrifttexte nach Kopien von T. G. Pinches,
«Archiv für Orientforschung», vol. 11, 1936-1937, pp. 363-364, su cui è tornato più recente-
mente E. Ebeling, Ein neuer Beitrag zur Kenntnis der akkadischen Fabelliteratur, «Journal
of Cuneiform Studies», vol. 4, 1950, n. 4, pp. 220 ss. Quest’ultimo articolo di Ebeling, in-
sieme con E. Weidner, Zur Tierfabel-Sammlung aus Assur, «Archiv für Orientforschung»,
vol. 16, 1952-1953, p. 80, completa quanto si sa del Tierepos mesopotamico. Troppi dubbi
restano sul testo che cerca di interpretare J. Nougayrol, Une fable babylonienne?, in
Mélanges Dussaud, vol. 1, Paris 1939, pp. 73-74.
29
Segnalato da V. Scheil, Notes d’épigraphie et d’archéologie assyriennes, «Recueil de tra-
vaux relatifs à la philologie et à l’archéologie égyptiennes et assyriennes», vol. 19, 1897, p. 55,
n. 12, e poi da E. Weidner, Sumerische Apotropaia, «Orientalistische Literaturzeitung»,
vol. 17, 1914, coll. 305 ss.
30
La testa proviene dalla tomba n. 789, detta «del re». Illustrazione di G. Contenau,
Manuel d’archéologie orientale, vol. 3, Paris 1931, pp. 1537-1538.
31
Cfr. bibliografia relativa in van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 13.
32
Il testo illustrato da Ebeling (Ein neuer Beitrag, cit., pp. 215 ss.) e ancora più quello il-
lustrato da Weidner (Zur Tierfabel-Sammlung aus Assur, cit.), dove sembra che il lupo
venga beffato dalla volpe, hanno molto più il tono del divertente Tierepos medievale che
della leggenda religiosa o della fiaba fantastica.
33
Riferito da S. N. Kramer, I Sumeri agli esordi della civiltà (trad. it. di From the Tablets of
Sumer, 1956), Milano 1958, p. 127. Una parte delle raccolte di proverbi e favole è ora inter-
pretata ampiamente da un discepolo del Kramer, E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs
and Fables, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 12, 1958, pp. 3, 10 ss.; Sumerian Proverbs,
Philadelphia 1959, spec. pp. 215 ss.; Sumerian Proverbs, «Journal of the American Oriental
Society», vol. 77, 1957, pp. 73 ss. Dopo la pubblicazione di questa raccolta di proverbi l’esi-
stenza presso i Sumeri di brevi favole di tipo esopico con un’azione che si svolge, con o
senza dialogo, è fuori dubbio. Anche la gnomica dei proverbi trova più volte riscontro in
quella della favola esopica.
34
Forse le tenzoni erano, in origine, delle vere e proprie rappresentazioni mimiche: cfr.
B. Landsberger, Jahreszeiten im Sumerisch-Akkadischen, «Journal of Near Eastern Stud-
ies», vol. 8, 1949, n. 4, p. 296, nota 153; van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, cit., p. 38.
35
Tradotto da B. Meissner, Babylonien und Assyrien, Heidelberg 1925, vol. 2, p. 432.
36
Cfr. Landsberger, Jahreszeiten im Sumerisch-Akkadischen, cit., pp. 295-296. Il tema del-
la crudezza della povertà è importante nei proverbi sumerici pubblicati dal Gordon: cfr.,
per esempio, il vol. Sumerian Proverbs, cit., pp. 188 ss.
37
Cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 468 ss. (qui, pp. 266 ss.).
pp. 432 ss., e in Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., pp. 160 ss., che
a p. 294 dà la bibliografia relativa; traduzione completa e altra bibliografia a opera di
R. H. Pfeiffer in Ancient Near Eastern Texts, cit., pp. 437-438. Da ultimo Lambert,
Babylonian Wisdom Literature, cit., pp. 139 ss.
40
Vale a dire: dopo la morte nessuno distingue più furfanti e galantuomini; quindi a
niente serve far bene.
41
Il Rinaldi, Storia delle letterature dell’antica Mesopotamia, cit., p. 161, attribuisce queste
parole allo schiavo, ma Meissner e Pfeiffer, in modo più persuasivo, le danno al padrone.
42
A. Ungnad, Zur babylonischen Lebensphilosophie, «Archiv für Orientforschung», vol. 15,
1945-1951, p. 75. Dello Ungnad è il richiamo di W. Scott.
43
Cfr., per esempio, Meissner, Babylonien und Assyrien, cit., vol. 2, pp. 432 ss.; Ungnad,
Zur babylonischen Lebensphilosophie, cit., pp. 72-73.
44
E. A. Speiser, The Case of the Obliging Servant, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 8,
1954, n. 3, pp. 98 ss., in particolare 104-105. Allo Speiser ha reagito, ma non senza incertez-
ze, comunque senza convincere nella soluzione delle aporie, il Lambert, Babylonian
Wisdom Literature, cit., p. 141.
45
Cfr. Il romanzo di Esopo, p. 170 (qui, p. 144).
46
Nel mio articolo cit., p. 304, nota 102 (qui, p. 170, nota 104), ho richiamato a confronto
il susseguirsi di un elogio delle donne e di un’invettiva contro le donne nel Dialogo di
Salomone e Marcolfo, di origine orientale.
Sulla favola esopica fu tenuto nel 1983 uno degli Entretiens annuali
della Fondation Hardt. Una delle relazioni fu, giustamente, assegnata
a un assiriologo, Robert Seth Falkowitz, dell’Università di Chicago47.
Nel nostro secolo si sono venute arricchendo le conoscenze sui rappor-
ti tra la favola esopica greca e un tipo di narrazione affine (sia nei
personaggi – per lo più animali, talvolta piante – sia nell’azione e nel
dialogo, sia nella funzione morale), di ampiezza molto varia (talvolta
ridotta alla brevità della massima o del proverbio), diffusa nella cultu-
ra sumerica e babilonese; questa cultura, ormai, si presenta come la
culla più antica di questo genere di letteratura, che di là si diffuse
verso occidente, nel mondo mediterraneo, e forse anche verso oriente,
cioè verso l’India: quando parlo di diffusione mi riferisco al genere,
non alle singole favole, benché talvolta anche di singole favole si siano
rintracciati gli archetipi in tavolette babilonesi48.
Nella sua comunicazione il Falkowitz utilizza una piccola parte del
materiale di cui dispone, contenuto generalmente in collezioni di ta-
volette provenienti da Nippur e da Ur e risalenti alla prima metà del
secondo millennio a. C.; di venticinque collezioni, di cui sei già pub-
blicate prima da altri studiosi, egli viene curando la pubblicazione, dal
1980 in poi, negli Stati Uniti49; si tratta di testi usati nelle scuole babi-
lonesi per imparare il sumerico, un po’ come le favole di Fedro vengo-
no ancora usate per imparare il latino. Purtroppo non ho potuto anco-
ra vedere i testi pubblicati dal Falkowitz: non so, quindi, se alcuni di
essi siano interessanti per la favola greca; per questa breve nota mi ri-
47
Cfr. R. S. Falkowitz, Discrimination and Condensation of Sacred Categories. The Fable
in Early Mesopotamian Literature, in Fr. R. Adrados e O. Reverdin (a cura di), La fable,
«Entretiens de la Fondation Hardt», 30 (Vandœuvres-Genève, 22-27 agosto 1983),
Vandœuvres-Genève 1984, pp. 1-32.
48
Per la questione rimando a un mio vecchio articolo Letteratura esopica e letteratura assi-
ro-babilonese (qui, pp. 115-127); un’informazione aggiornata in Cr. Grottanelli, Aesop in
Babylon, in H. J. Nissen e J. Renger (a cura di), Mesopotamien und seine Nachbarn. Politi-
sche und kulturelle Wechselbeziehungen im alten Vorderasien vom 4. bis 1. Jahrtausend v. Chr.,
Berlin 1987 («Berliner Beiträge zum Vorderen Orient», 1), pp. 555-572.
49
R. S. Falkowitz, The Sumerian Rhetoric Collections, Winona Lake (Indiana), dal 1980
in poi.
Quando il leone prese la debole capra, (la capra disse): «Liberami e io ti conse-
gnerò la mia compagna, la pecora, quando tornerò (all’ovile)». «Se ti rilascio,
dimmi il tuo nome» (disse il leone). La capra rispose al leone: «Non conosci il
mio nome? Il mio nome è Io-ti-renderò-saggio». Quando il leone andò all’o-
vile, disse: «Io ti ho rilasciata!». Essa rispose dalla parte opposta della palizzata:
«In cambio delle varie pecore che qui non ci sono, tu sei diventato saggio!».
50
Tuttavia la favola di cui qui mi occupo, appartenente alla collezione quinta (testo n. 55),
era stata già pubblicata, sempre in traduzione inglese, dal Falkowitz nella sua dissertazio-
ne di dottorato, The Sumerian Rhetoric Collections, University of Pennsylvania 1980
(xerografia ricavata da microfilm), p. 99. Il testo sumerico era stato pubblicato prima da
E. I. Gordon, Sumerian Animal Proverbs and Fables, «Journal of Cuneiform Studies»,
vol. 12, 1958, n. 2, pp. 46-48, all’interno dell’edizione di tutta la collezione quinta (ivi,
pp. 1-21, 43-73); sulla stessa favola anche (citati dal Falkowitz) B. Alster, Paradoxical
Proverbs and Satire in Sumerian Literature, «Journal of Cuneiform Studies», vol. 27, 1975,
pp. 213-214; W. Römer, Sumerische «Königshymnen» der Isin-Zeit, Leiden 1965, p. 243.
Non avendo potuto consultare questi studi, non escludo del tutto che quanto sto per dire
sia già noto.
51
Cfr. Falkowitz, Discrimination and Condensation of Sacred Categories, cit., pp. 6-7.
52
Per questo aspetto e altri rimando al commento del Falkowitz.
dopo pochi giorni tornò e, vistolo accovacciato sulla casa, lo chiamò a sé ri-
cordandogli i patti. L’altro gli rispose: «Ma, lupo, se mi vedi un’altra volta
accovacciato davanti alla fattoria, non stare più ad aspettare le nozze».
Così gli uomini accorti, quando sfuggono a un pericolo che hanno corso,
dopo se ne guardano bene.
Su qualche favola greca e babilonese di morale affine cfr. il mio studio Letteratura esopi-
53
Capitolo 4
Il romanzo di Esopo1
1
[«Athenaeum», n. s., vol. 40, 1962, pp. 264-313. L’appendice Esopo a Delfi è apparsa in
«Helikon», vol. 2, 1962, pp. 697-699, come recensione di Anton Wiechers, Aesop in
Delphi, Meisenheim am Glan 1961 («Beiträge zur klassischen Philologie», 2)].
2
Per la storia del codice cfr. B. E. Perry, Aesopica, I, Urbana 1952, pp. xiv ss. Il volume
contiene l’editio princeps di questa redazione della Vita.
3
La redazione planudea fu edita da A. Eberhard, Fabulae Romanenses Graece conscriptae,
Lipsiae 1872. Le varie redazioni, le loro relazioni, la tradizione manoscritta di ciascuna di
esse sono state studiate dettagliatamente dal Perry, che a queste indagini ha dedicato
sinora la sua vita: cfr. The Text Tradition of the Greek Life of Aesop, «Transactions and
Proceedings of the American Philological Association», vol. 64, 1933, pp. 198-244; Studies
in the Text History of the Life and Fables of Aesop, Haverford 1936; Aesopica, cit., pp. 1 ss.
Westermann4, noi abbiamo a che fare quasi sempre con due redazioni,
quella del codice di Grottaferrata (G del Perry), che originariamente
accompagnava la recensio Augustana delle favole5, e quella Westerman-
niana (W del Perry). In che rapporto sono le due redazioni? Ecco il
problema che si pone per primo a chi ripercorra a ritroso la tradizione
antica della Vita.
A prima vista due caratteri distinguono W da G: da un lato una
certa «correttezza» della lingua, che pare dovuta non proprio a una
pretesa di eleganza letteraria, ma solo alla preoccupazione di evitare
anomalie e volgarismi, dall’altro una leggera riduzione del racconto.
Opporre il linguaggio popolare e un po’ prolisso di G al linguaggio
epurato e più sobrio di W è grosso modo giusto6, anche se qualche
riserva va fatta7, sia perché in G affiora una tendenza maldestra a un
certo preziosismo letterario (il caso più vistoso è il pezzo da sofistica
nuova del capitolo 6, la descrizione idilliaca e leziosa del prato in cui
Esopo si addormenta nell’ora di più violenta calura), come tante volte
avviene nella letteratura popolare, che subisce il fascino di quella dotta
(nel nostro caso, tuttavia, può anche trattarsi di diversità di autori), sia
perché il redattore di W ha proceduto con qualche negligenza e senza
sistematicità nel lavoro di epurazione stilistica8. I tagli hanno in qual-
che caso peggiorato il racconto9, perché certi dettagli non riescono
bene illuminati e giustificati come in G. Per esempio, in 24 Xanto,
rifiutando il consiglio e l’aiuto dei suoi discepoli, non vuol piegarsi a
comprare uno schiavo brutto e ributtante come Esopo: «La mia mo-
gliettina ch’è così linda – dice tra l’altro – non sopporterà di essere
servita da un nanerottolo schifoso!» (così press’a poco in W; G presen-
ta lacuna a questo punto). La battuta ha tutto il suo sapore se si pre-
suppone che la moglie di Xanto ha raccomandato al marito di com-
4
Si veda lo stemma dato dal Perry, Studies, cit., p. 38, e quelli più precisi di Aesopica, cit.,
pp. 22 e 28.
5
Perry, Studies, cit., p. 157.
6
Perry, Aesopica, cit., pp. 14-15.
7
Eccessive sono però le riserve di Fr. R. Adrados, rec. agli Aesopica, «Gnomon», vol. 25,
1953, pp. 324-325.
8
A questa conclusione giusta arriva W. H. Hostetter, A Linguistic Study of the Vulgar
Greek Life of Aesop, Diss. University of Illinois 1955, pp. 129-130 (questa utile dissertazione
è inedita, ma consultabile in microfilm).
9
Perry, Studies, cit., pp. 21-22.
al suo servizio in qualche tempio cfr. Th. Thalheim, s. v. Freigelassene, in RE VII 1, 1910,
coll. 97 ss., e ora l’ampia trattazione di F. Bömer, Untersuchungen über die Religion der
Sklaven in Griechenland und Rom, pt. 2: Die sogenannte sakrale Freilassung in Griechenland
und die (δοῦλοι) ἱερoί, «Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften und der Lite-
ratur in Mainz», Geistes- und sozialwissenschaftliche Klasse, 1960, 1 (una iscrizione del
346/5 a. C. relativa a uno schiavo sacro addetto al tempio di Era in Samo a p. 158).
stesso modo, «dicendo che morto egli avrebbe la morte a velo della
vergogna della sua vita, vivo egli sarà il segno della vittoria della sua
coscienza». W vuol dire la stessa cosa di G, cioè che il rimorso della
coscienza sarà una punizione peggiore della morte, o che il figlio si
infliggerà la morte da sé per il rimorso? Questa seconda interpretazio-
ne pare più aderente al testo, e, poiché effettivamente il figlio si uccide
per il rimorso, può darsi che anche qui la battuta di W sia più vicina a
quella originaria. La predica che Esopo tiene al figlio in 109-110 pare
da G modificata più che da W, specialmente nello spirito: G contiene
una massima come «Se hai buona fortuna, non serbare rancore ai ne-
mici, anzi fa’ loro del bene, perché si pentano ricordando a quale uomo
fecero torto», massima assente in W, che non pare molto in armonia
con la massima precedente «Prega che i nemici siano deboli e poveri,
perché non possano assolutamente nuocerti»11. Un dettaglio di W pro-
babilmente originario è quello della κίδαρις, della tiara persiana che si
mette in testa Nectanebo (112). Dopo queste considerazioni non si può
escludere che certi nomi mancanti in G e presenti in W siano conser-
vati fedelmente da quest’ultima redazione: quello del luogo di nascita
di Esopo in Tracia, Amorio, quello del padre di Xanto, Dexicrate,
quello dell’amico che va a trovare Esopo prigioniero in Delfi, Demea.
Insomma W non serve soltanto a colmare le lacune prodottesi in G,
ma, anche là dove G è integro, non va sempre trascurato per la rico-
struzione della fonte comune.
Ma veniamo alle divergenze più importanti, quelle che implicano
tendenze generali diverse delle due redazioni. Nella redazione G han-
no un posto preminente Iside e le Muse. È per un miracolo di Iside
che Esopo, originariamente muto, acquista la parola (G 4-8). Per lo
schiavo intercede presso la dea una sua sacerdotessa, a cui egli ha indi-
cato la strada e usato molte gentilezze; allo schiavo che dorme appare
in sogno Iside accompagnata dalle Muse e fa che le Muse gli accordi-
no i loro doni; quando si sveglia, Esopo si accorge, stupito, di saper
contro i nemici. Il testo della predica in G è molto corrotto e perciò il Perry lo dà in ap-
parato, seguendo nel testo il Vindobonense, che pare una rielaborazione ancora più lonta-
na dall’origine: il procedimento non è molto giustificabile. Nella massima «Onora Dio»
è difficile dire se il qεόν di G e del Vindobonense sia più antico di τὸ qεῖον di W che ha
sapore di filosofia greca.
12
Per Isis-Tyche cfr. G. Herzog-Hauser, s. v. Tyche, in RE VII A 2, 1948, col. 1682; per
Isis-Fortuna nel Lexicon del Roscher cfr. R. Peter, I 2, coll. 1530 ss.; W. Drexler, I 2, coll.
1549 ss.; II 1, coll. 545-546. In Apuleio (specialmente Met. XI 12: cfr. B. Lavagnini, Studi sul
romanzo greco, Messina-Firenze 1950, pp. 135-136) compare anche un’opposizione di
Iside e Fortuna, ma si tratta probabilmente di costruzione dello scrittore. Forse non per
puro caso la Tyche ricompare in W 89, ma manca nel passo corrispondente di G.
13
Sui latinismi cfr. Hostetter, A Linguistic Study, cit., pp. 118 ss. Forse un calco sul
latino è μελέτη nel senso, mai attestato altrove, di «scuola» (luogo) in G 22: penso infatti a
un calco dal latino ludus.
14
Questa è la conclusione a cui arriva il Perry, Aesopica, cit., p. 5, nota 16; prima, Studies,
cit., p. 25, inclinava piuttosto per il II secolo. La data più opportuna per la nascita della
redazione G (non quale, naturalmente, la conosciamo noi dopo altre interpolazioni) pare
il II secolo d. C. (Perry, Studies, cit., p. 25); la redazione W è, secondo il Perry (Aesopica,
cit., pp. 13-14), presupposta da Libanio e Imerio, quindi anteriore alla metà del IV secolo:
ciò non è improbabile, ma gli argomenti del Perry a questo proposito sono, come vedremo,
deboli.
15
Cfr. Perry, Aesopica, cit., pp. 2 ss. Dubbi sono stati già espressi da qualche recensore; cfr.
per esempio H. J. Rose, «Classical Review», n. s., vol. 3, 1953, p. 154.
16
Iside Μουσαναγωγός a Canopo in Oxyr. Pap. 1380, col. iv, l. 62 (II sec. d. C.); Iside come
prima delle Muse a Hermopolis secondo Plutarco, De Is. et Osir. 3, 352 a-b.
17
Cfr. G. Roeder, s. v. Isis, in RE IX 2, 1916, col. 2101.
18
Cfr. Perry, Studies, cit., p. 25.
19
Prima di κυκλεῦσαι bisogna secondo me supplire κακοπαqῶν dall’altra redazione.
20
Supplemento del Perry da W.
Non c’è dubbio che il redattore del I secolo d. C. aveva dietro di sé una
lunga tradizione e che questa tradizione risaliva fino a un nucleo pri-
mitivo già esistente nel V secolo a. C.: due testimonianze fondamen-
tali, Erodoto II 134-135 (Test. 13 P.) e Aristofane, Vesp. 1446 ss. (Test.
20 P.), eliminano ogni dubbio. Ma quali elementi appartenevano a
questo primitivo nucleo?
Probabilmente, ma non sicuramente, nel nucleo primitivo era già
indicata l’origine frigia dello schiavo22. Vero è che esistono testimo-
nianze più antiche, e anche autorevoli, che indicano origine diversa.
Eraclide Pontico, nel III secolo a. C., in un opuscolo Sulla costituzione
dei Sami (FHG II, pp. 215-216 = Test. 5 P.), riferiva origine trace; e,
poiché il frammento presenta una notevole coincidenza con uno di
Aristotele (573 Rose) tratto da un opuscolo che si occupava anch’esso
Della costituzione dei Sami, molto probabilmente l’origine trace era in-
dicata già da Aristotele. C’è di più: la Suda attesta che un certo storico
Εὐγείτων faceva provenire Esopo dalla città trace di Mesembria; ora
sappiamo che in Aristotele-Eraclide notizie sui Sami provengono da
uno storico samio stesso, un certo Εὐάγων, il cui nome si trova an-
che corrotto in Εὐγαίων oppure in Εὐγείων: non è improbabile che
21
Καὶ πρῶτον μὲν qεὸν σέβου, ὡς δεῖ. Βασιλέα τίμα· τὸ γὰρ κράτος ἰσότιμόν ἐστι
cod. Vindobon.; πρότερον μὲν qεὸν σέβου. Βασιλέα τίμα· τὸν κρατοῦντα ἴσω qεῲ τὸν
υἱὸν ποιούμενος G. Penso sia da leggere: qεῷ ἰσότιμον ποιούμενος (o da eliminare qεῷ
anteriormente scritto su ἰσότιμον come glossa).
22
Tutte le testimonianze su Esopo e la letteratura esopica sono accuratamente ordinate
dal Perry, Aesopica, cit., pp. 209 ss. Le testimonianze sull’origine frigia sono indicate a
p. 215 (Test. 4): le redazioni lunghe della Vita (all’inizio); alcune redazioni brevi (Test. 1 a-b, 2);
Suda, s. v. Αἴσωπος (Test. 3); Fedro III prol. 52; App. 13, 2; Dione Crisostomo, Or. 32, 63;
Gellio II 29, 1 (Test. 99); Luciano, Ver. hist. II 18 (Test. 54); Zenobio V 16 (CPG I,
p. 122 = Test. 37); Massimo di Tiro 32, 1 a (p. 367 Hob.); Eliano, Var. hist. X 5; Libanio,
Socrat. apol. 181 (V, pp. 118-119 F. = Test. 29); Epist. 764 (X, p. 689 F.); Isidoro, Etym. I 40
(Test. 64); Costantino Porfirogenito, De them. I 4 (Corp. Hist. Byz. XI, p. 25 Bekker).
23
Sull’intricata questione cfr. F. Jacoby, s. v. Euagon, in RE VI 1, 1909, coll. 819-820; FGrHist
III B 535, col relativo commento: Jacoby, tuttavia, conserva qualche dubbio, e giustamente,
sull’identificazione di Εὐγείτων con Εὐάγων – Εὐγαίων; più sicuro è il Perry (Test. 6).
Poiché Εὐγαίων si è corrotto anche in Εὐταίων, può darsi che Εὐγείτων provenga da un
Εὐγείων.
24
L’ipotesi è di H. Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, «Aegyptus», vol. 16, 1936,
pp. 225-255, in particolare p. 229, nota 2. L’analisi dello Zeitz è ancora di non poca utilità e
sarà tenuta spesso presente in questa mia indagine.
25
La notizia è riferita anche dalla Suda; lidio è Esopo secondo una delle vite minori (Test.
1 P.) e secondo un passo di Massimo di Tiro (36, 1 a, p. 412 Hob.), che altrove, come abbia-
mo visto, lo ritiene anche lui frigio.
26
Qualche altra prova in A. Hausrath, s. v. Fabel, in RE VI 2, 1909, col. 1707.
27
Samio è Esopo secondo una tradizione riferita dalla Suda, secondo un epigramma dell’Anth.
Plan. IV (AP XVI) 332 (Test. 50 P.) e Giuliano l’Apostata, Or. 7, 207 c (Test. 58 P.).
Oltre che in Eraclide Pontico, di cui dirò subito, Iadmone (Idmone) è menzionato da
28
Fozio, Bibl. cod. 190 (PG CIII, col. 628 = Test. 14 P.), che cita Tolemeo di Efestione; Fozio,
Lex., s. v. Ῥοδώπιδος ἀνάqημα = Suda, sotto la stessa voce (Test. 17 P.); Strabone XVII 1, 33
(Test. 18 P.); Eliano, Var. hist. XIII 33 (Test. 18 P.); Ateneo XIII 596 b-c (Test. 19 P.). Nelle
ultime quattro testimonianze Rodopi è identificata con la Dorica di Saffo, liberata dal
fratello di Saffo, Carasso (su Carasso e Rodopi già Erodoto II 134-135); su Rodopi compa-
gna di schiavitù di Esopo anche Plinio, Nat. hist. XXXVI 12, 82 (Test. 15 P.); Plutarco, De
Pyth. orac. 14, 400 e (Test. 16 P.).
29
Giustamente è stata rifiutata la congettura del Gelenio, poi accolta dal Coraës, σοφοῦ.
30
Così secondo Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., p. 229.
31
Una delle biografie minori (Test. 1 P.) dà come padrone di Esopo, in Atene, un certo
Timarco detto Korasio (?): notizia di origine oscura, ma di scarsa importanza.
32
Le testimonianze (raccolte in Perry, Aesopica, cit., pp. 220 ss.) sono: Aristofane, Vesp.
1446 ss. con relativo scolio (Test. 20-21); Eraclide Pontico, De reb. publ. XXII 2 (Magnetum),
FHG II, p. 219 (Test. 22); Callimaco, fr. 192 Pf., 35 ss. (Test. 23); Plutarco, De sera num. vind.
12, 556 f (Test. 24); Pap. Oxyr. 1800 (ed. Grenfell e Hunt, XV, pp. 139-140 = Test. 25); Schol. ad
Callim., fr. 191 Pf., 26 ss., riportati dal Pfeiffer nell’ed. di Callimaco (I, p. 165 = Test. 26);
Zenobio I 47 (CPG I, p. 18 = Test. 27) e altri paremiografi (cfr. anche la Suda, s. v. Αἰσώπειον
αἷμα e s. v. ἀναβιῶναι = Test. 45); Libanio, De Iuliani vind. 31 (II, p. 528 F. = Test. 28);
Socrat. apol. 181 (V, pp. 118-119 F. = Test. 29); Imerio, Or. 13, 5-6 (Test. 30); Suda, s. v. ἔωσεν
(Test. 31); Luciano, Phalar. 1, 6 con relativo scolio (Test. 32).
33
Plutarco, De sera num. vind. 12, 556 f (Test. 24 P.); Schol. ad Lucian. Phalar. 1, 6.
34
Schol. ad Callim., fr. 191 Pf., 26 ss.
35
Recentemente un’analisi accurata e ingegnosa della parte delfica della Vita è stata con-
dotta da Anton Wiechers, Aesop in Delphi, Meisenheim am Glan 1961 (se ne veda la mia
recensione in «Helikon», vol. 2, 1962, pp. 697-699 [infra, pp. 179-182]). Che il contrasto tra
Esopo e i Delfi sia ricalcato su quello dei Delfi con i Crisei nella prima guerra sacra (ma
nel calco i Delfi prenderebbero il posto dei Crisei) è ipotesi tanto ingegnosa quanto in-
credibile. Qualcosa di vero può esserci nella congettura che l’uccisione di Esopo fosse un
sacrificio di φαρμακός (seguisse, cioè, un rito, abbastanza diffuso nei paesi del Mediterra-
neo orientale e centrale e particolarmente legato alle feste Targelie in onore di Apollo,
consistente nell’immolare un uomo, in genere di condizione vile, lapidandolo o precipitan-
dolo da una rupe o in acqua o sotterrandolo vivo per purificare la comunità): può darsi che
il modo dell’esecuzione rientri in un rito apollineo; ma riesce difficile credere che la morte
di Esopo (così come quella, parallela secondo il Wiechers, di Neottolemo) fosse un αἴτιον
foggiato per spiegare un rito delfico (del resto ignoto) di φαρμακός.
36
Passo citato supra, p. 144, nota 32.
37
Secondo il Wiechers, Aesop in Delphi, cit., pp. 17-18, la battuta satirica di Esopo pre-
supporrebbe le condizioni dei Delfi anteriori alla prima guerra sacra, cioè al 590; ma la
dimostrazione è fragile.
Cfr. anche Ferecide, FGrHist I 3 F 64 a. Callimaco, nel giambo a cui è apposto lo scolio,
38
assimilava i Delfi di ritorno dal sacrificio a sciami di mosche e di vespe. C’era poi un pro-
verbio che diceva: «Se sacrifichi per i Delfi, non ti toccherà un pezzo di carne» (CPG I,
p. 393 [App. Prov. I 95]). I passi sono citati dal Pfeiffer, comm. al giambo cit. di Callima-
co, e dal Wiechers, Aesop in Delphi, cit., pp. 16 ss.
preghiere non si tien conto. Ora, se nel nucleo antico la situazione pre-
supposta dalla favola era la medesima, già in esso vi era una certa con-
trapposizione tra le Muse e Apollo (naturalmente il legame delle Muse
con Iside appartiene a uno degli strati più recenti). Tuttavia si può op-
porre che il rispetto richiesto per queste divinità minori non implica
necessariamente vilipendio del dio maggiore. E la congettura sulla ten-
denza antiapollinea del nucleo primitivo è scossa dal fatto che è un ora-
colo del dio a imporre ai Delfi la riparazione: naturalmente in G l’ora-
colo proviene da Zeus, ma in origine probabilmente proveniva da
Apollo e dallo stesso tempio delfico39. Del resto anche nella sistematica
tendenza antiapollinea di G rimane un’incoerenza: nella maledizione
contro i Delfi (142) Esopo invoca come testimone τὸν προστάτην τῶν
Μουσῶν, cioè Apollo stesso40. Quest’incoerenza non può provenire
che da tradizione anteriore alla comune fonte antiapollinea: anche se
facessimo risalire fino al nucleo antico la tendenza antiapollinea, do-
vremmo poi concludere che essa venisse controbattuta abbastanza pre-
sto dalla tradizione. Pensare, quindi, come fa il Perry41, che le testimo-
nianze di Imerio, Or. 13, 5-6 (Test. 30 P.) e Libanio, Socrat. apol. 181
(V, pp. 118-119 F. = Test. 29 P.) presuppongano W non è necessario:
già prima della fonte comune di GW Apollo poteva apparire come
fautore e vindice di Esopo.
Un elemento importante, che non escluderei facilmente dal nucleo
antico, è il ritratto di Esopo deforme. È vero che letterariamente la
deformità è attestata tardi; ma la fonte comune di GW mostra il pro-
cesso caricaturale arrivato già, nel I secolo d. C., alla sua esasperazione:
dalla testa ai piedi lo schiavo non ha quasi niente che non sia deforma-
to (e tuttavia non compare la gobba); è scuro, con grossi mustacchi; è
quasi muto42 (G vi aggiunge di suo anche la sordità). Un torso statua-
rio di gobbo di Villa Albani (n. 964), databile nel II secolo d. C., dif-
39
Erodoto non lo dice esplicitamente, ma non altro si può ricavare dal contesto; esplicito
riferimento ad Apollo nella biografia del papiro di Ossirinco 1800: cfr. inoltre Imerio,
Or. 13, 6 (Test. 30 P.); Zenobio I 47 (CPG I, p. 18 = Test. 27 P.).
40
Cfr., infatti, 33. Curioso che la redazione filoapollinea di W in 142 menzioni solo gli dei
in generale.
41
Aesopica, cit., pp. 13-14.
42
Κωφός, cioè «muto» – ma la parola può significare anche «sciocco» – è, nella notizia di
Eraclide, Idmone, il padrone di Esopo: che sia avvenuta una confusione? Cfr. supra,
p. 143.
43
Su questa scarsissima iconografia esopica cfr. O. Jahn, Archäologische Beiträge, Berlin
1847, p. 434 e tav. 12, 2; J. J. Bernoulli, Griechische Ikonographie, München 1901, vol. 1,
pp. 54 ss. e tav. 7; K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter, Redner und Denker,
Basel 1943, p. 57; L. Laurenzi, s. v. Esopo, in Enciclopedia dell’arte antica, vol. 3, Roma
1960, p. 443 (la figura vascolare è riprodotta ivi, vol. 2, 1959, p. 343).
44
Presso Diogene Laerzio I 3, 72 (Test. 8 P.).
45
Riprodotta e commentata in FGrHist II 252: la notizia su Esopo è in col. II, ll. 16-18
(Test. 10 P.). Certamente questo pezzo della cronaca presuppone indirettamente una ricer-
ca sulla cronologia dei sette saggi: prima di Esopo ci sono notizie cronologiche su Solone,
Anacarsi, Creso, i sette saggi; segue la data della sconfitta di Creso, poi notizie ateniesi. La
morte di Esopo è posta nell’anno in cui Pisistrato divenne tiranno ad Atene.
46
Chron. II p. 94 Schöne (versione armena) all’anno 1452 di Abramo (= Ol. 54, 1); la data
è riprodotta nella traduzione di Girolamo (Test. 9 P.).
47
Per Creso cfr. biografia della Suda (Test. 5 P.); Plutarco, De sera num. vind. 12, 556 f (Test.
24 P.); Solon 28 (Test. 35 P.), donde Tzetzes, Chil. V 382-383 (Test. 35 P.); Sept. sap. conv. 4,
150 a (Test. 36 P.); Zenobio V 16 (CPG I, p. 122 = Test. 37 P.), il cui proverbio, oltre che ad
altri paremiografi e alla Suda, è noto a Eronda 5, 14 (Test. 37 P.); per Solone cfr. Alessi, fr. 9
K. (Test. 33 P.); i Test. 35 e 36 già cit.; Suda, s.v. μᾶλλον ὁ Φρύξ; per i sette saggi cfr. Diodo-
ro Siculo IX 28 (Test. 34 P.); l’opuscolo di Plutarco, Sept. sap. conv.; per Chilone Diogene
Laerzio I 3, 69 (Sent. 9 P.); per Ibico Gnom. Vat. 366 Stern. (riferito da Perry nell’apparato
a Sent. 24); per Pisistrato Fedro I 2, 1 ss. (Test. 39 P.).
48
Basti qui citare A. Hausrath, s. v. Fabel, in RE VI 2, 1909, col. 1711, dove si troveranno
le indicazioni bibliografiche necessarie.
49
Aesopica, cit., p. 5.
50
Cfr. fra le trattazioni recenti S. Trenkner, The Greek Novella in the Classical Period, Cam-
bridge 1958, pp. 23 ss.; Q. Cataudella, La novella greca, Napoli s.d. (ma 1957), pp. 46 ss.
51
Le favole date come narrate da Esopo sono (cfr. Test. 60 P.), oltre la favola dell’aquila
e dello scarafaggio, Fedro I 2; I 6; IV 16; IV 18; App. 12; Pseudo-Dositeo 15 (Hermen.,
CGL III, pp. 45-46; cfr. 284 P.); Esopo 8 H., data come narrata da Esopo anche in Aristo-
tele, Meteor. II 3; Luciano, Herm. 84 (429 P.); Diogene Laerzio II 5, 42 (424 P.); Plutarco,
Sept. sap. conv. 13, 156 a (453 P.); Aristofane, Av. 471 ss. (447 P.). In altre favole Esopo è il
protagonista (cfr. Test. 61 P.): Aristofane, Vesp. 1401 ss. (423 P.); Fedro II 3; III 3; 5; 14; 19;
IV 5; App. 9; 13; 17; 20.
52
Sono quelle a cui il Perry nella raccolta delle favole dà i numeri da 379 a 388.
53
F. Ribezzo, Nuovi studi sulla origine e la propagazione delle favole indo-elleniche, Napoli
1901, p. 65, trovava in Aristofane, Av. 471 Αἴσωπον πεπάτηκας il riferimento a una raccolta
scritta di favole di Esopo, intendendo «non hai neppure scartabellato Esopo»; ma il rife-
rimento non è sicuro: si può intendere «e non hai pratica di narrazioni esopiche».
Dal nucleo antico vorrei passare al pezzo che nella Vita più immedia-
tamente ed evidentemente si avverte come estraneo, sia per l’estrema
debolezza dei legami narrativi col resto sia, soprattutto, per lo spirito:
cioè al pezzo babilonese (101-123). È noto da lungo tempo che questo
pezzo è un adattamento, con modificazioni non profonde, di un rac-
conto orientale molto fortunato, il racconto di Ah.īqār. Questo raccon-
to era intessuto di alcuni tra i motivi folkloristici più diffusi59. Ah.īqār
era scrivano e consigliere del re assiro Sennacherib60; senza figli, adot-
54
Fedro I 2, 1 ss. (Test. 39 P.); III 14; IV 5; una biografia minore (Test. 1 P.).
55
Diogene Laerzio II 5, 42 (Test. 40 P.); Plutarco, Sept. sap. conv. 4, 150 a (Test. 36 P.;
Periandro, l’ospite, è tiranno di Corinto).
56
Esichio, s. v. Συβαριτικοί λόγοι (Test. 42 P.).
57
Nella prefazione alla traduzione di alcune favole esopiche (1530). Cfr. ed. di Weimar, vol.
50, 1914, p. 452.
58
Una breve illustrazione dei passi vichiani relativi a Esopo nel mio saggio La morale della
favola esopica, pp. 527-528 (qui, pp. 322-323).
59
Per la diffusione di questi motivi nel folklore mondiale bibliografia in S. Thompson,
Motif-Index of Folk-Literature, vol. 4, Copenhagen 1957, p. 473 sotto la sigla K 2101.
60
Nelle varie versioni c’è una certa confusione tra Sennacherib (705-681 a. C.) e il figlio e
successore Assarhaddon (681-669). Originariamente il re del racconto era Assarhaddon
(così la versione aramaica e un codice berlinese della versione siriaca); ma per lo più viene
sostituito da Sennacherib, anzi diventa padre di Sennacherib.
61
Questa è la spiegazione data da R. Smend, Alter und Herkunft des Achikar-Romans und
sein Verhältnis zu Aesop, «Beihefte zur Zeitschrift für die Alttestamentliche Wissenschaft»,
13, Giessen 1908, pp. 98-99.
62
Studio e traduzione inglese delle varie redazioni in The Story of Ah.ikar..., a cura di
F. C. Conybeare, J. Rendel Harris e A. Smith Lewis, London 1898; la seconda edizione
uscì a Cambridge nel 1913, quando era stato già edito il papiro di Elefantina, contenente
frammenti della versione aramaica.
63
Cfr. The Story of Ah.ikar, cit., ed. 1913, pp. lxxiii-lxxiv (Rendel Harris).
64
Ivi, ed. 1913, p. 176 (Conybeare).
65
Ivi, ed. 1898, pp. xii ss., spec. xx (Rendel Harris). L’ipotesi della originaria versione ebrai-
ca è attribuita dallo Harris (p. xviii) a M. Lidzbarski, Zum weisen Achikâr, «Zeitschrift der
Deutschen Morgenländischen Gesellschaft», vol. 48, 1894, pp. 671-675; Smend, Alter und
Herkunft des Achikar-Romans, cit., pp. 65 e 109 ss. (il racconto opera giudaica); F. Nau, Histoi-
re et sagesse d’Ah.ikar l’Assyrien, Paris 1909, pp. 55 ss. e 110 (presupposto l’originale aramaico).
Dopo la pubblicazione del papiro di Elefantina cfr. The Apocrypha and Pseudepigrapha of the
Old Testament, a cura di R. H. Charles, vol. 2, Oxford 1913, pp. 715 ss.
66
Cfr. Smend, Alter und Herkunft des Achikar-Romans, cit., p. 66. Per il passo di Strabone
è generalmente e giustamente accettata la congettura di S. Fraenkel, Βορσιππήνοις per
Βοσπoρηνοῖς, s. v. Borsippa, in RE III 1, 1897, col. 735.
67
Cfr. poi Eusebio, Praep. evang. X 4, 23.
68
Cfr. Nau, Histoire et sagesse d’Ah.ikar l’Assyrien, cit., pp. 39 ss.; contro di lui A. Hausrath,
Achiqar und Aesop. Das Verhältnis der orientalischen zur griechischen Fabeldichtung,
«Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Hi-
storische Klasse», 1918, Abh. 2, pp. 10 ss.
69
Una testimonianza tarda, ma indicativa per la diffusione e la popolarità della figura,
è la presenza quasi certa di Acicarus accanto a Polinnia in un mosaico di Treviri. Cfr.
W. Studemund, Zum Mosaik des Monnus, «Jahrbuch des kaiserlich deutschen archäolo-
gischen Instituts», vol. 5, 1890, pp. 1-5.
70
I papiri furono trovati da O. Rubensohn tra il dicembre 1906 e il febbraio 1907 e pub-
blicati la prima volta da E. Sachau, Drei aramäische Papyrusurkunden aus Elephantine,
73
Notevole mi pare soprattutto la coincidenza nell’ordine delle prove: problema su chi
assomiglino il re e la sua corte, costruzione del castello in aria, problema circa le cavalle di
Babilonia, indovinello dell’anno; nella Vita c’è il problema della cosa mai vista né udita,
che manca nella versione slava; in questa c’è il problema della fune di sabbia, che manca
nella Vita; in ambedue le versioni manca la rivelazione dell’incognito di Ah.īqār. Anche
nella soluzione del primo problema ci sono coincidenze particolari.
74
L’ipotesi ingegnosa è stata costruita da uno studioso molto competente di narrativa
e folklore greco, Q. Cataudella, Aristofane e il cosiddetto «romanzo di Esopo», «Dioniso»,
vol. 4, 1942, pp. 5-14 (per il problema che qui si affronta cfr. pp. 10-11).
75
Ch. Rosenthal, Aristophanis Aves quatenus secundum populi opiniones conformatae sint,
«Eos», vol. 29, 1926, p. 183.
76
Homo ludens, trad. it., Torino 1946, pp. 112 ss., ma spec. 138 ss. Lo Huizinga non è né vuol
essere completo: restano trascurate l’area babilonese e l’area egiziana.
77
Cfr. Rigveda I 157; 158; 164; VIII 29; X 129; ma anche letteratura religiosa più tarda, per
esempio Atharvaveda X 7; 8.
78
Forti tracce di questo procedimento per interrogatorio nell’Avesta e specialmente negli
Yasna, i testi liturgici: l’esposizione dottrinale procede per domande e risposte tra Zarathu-
stra e Ahura Mazdā.
79
Per la diffusione nel folklore mondiale si può ricorrere alla bibliografia in Thompson,
Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, Copenhagen 1956, pp. 423 ss. (H530-H899,
Riddles).
80
Ampia trattazione di K. Ohlert, Rätsel und Rätselspiele der alten Griechen, Berlin 19122;
per un particolare aspetto cfr. Ingrid Waern, Γῆς Ὀστέα. The Kenning in Pre-Christian
Greek Poetry, Uppsala 1951, di cui discute proficuamente Fr. Bornmann, Kenning in gre-
co?, «Athenaeum», n. s., vol. 30, 1952, pp. 85-103.
81
Cfr., per esempio, Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 236-237. Per l’ul-
teriore diffusione nel folklore cfr. bibliografia in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature,
cit., vol. 3, p. 442 sotto la sigla H 696.1.
82
Cfr. Romans et contes égyptiens de l’époque pharaonique, a cura di G. Lefebvre, Paris 1949,
pp. 131 ss.; G. Maspéro, Les contes populaires de l’Égypte ancienne, Paris 19114, pp. 155-156,
163-164.
83
Oltre Maspéro, Les contes populaires, cit., cfr. S. Donadoni, Storia della letteratura egi-
ziana antica, Milano 1957, pp. 320 ss.
84
Un indovinello del pezzo babilonese, quello sulla figura simbolica dell’anno (Vita 120),
si trova già, anche se diversa è la figura simbolica, nel Rigveda I 164, 48 e nell’Atharvaveda
X 8, 4; l’indovinello del giorno e della notte, unito nella Vita con quello dell’anno, nel-
l’Atharvaveda X 7, 6 e 42. Poiché non sappiamo quanto negli indovinelli dell’impresa
egiziana vi sia di babilonese o aramaico, quanto di più recente, non possiamo escludere
origine indiana. Sulla diffusione di questi indovinelli nel folklore indicazioni bibliografi-
che in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, p. 444 sotto le sigle H 721, 722;
per l’indovinello sul re e la corte cfr. sotto H 731; per il castello che non è né in cielo né in
terra p. 461 sotto H 1036; p. 464 sotto H 1077; p. 460 sotto H 1133.2.
85
Per altri paralleli cfr. la bibliografia indicata da Thompson, Motif-Index of Folk-Litera-
ture, cit., vol. 3, pp. 287-288 sotto H 151.4.
86
Sull’argomento già utilmente Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 242 ss.
87
Le testimonianze sui sette saggi sono raccolte e illustrate da B. Snell, Leben und Mei-
nungen der Sieben Weisen, München 1938. Per Talete presso Creso cfr. Erodoto I 75.
88
Così Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., p. 244: «Erodoto […] testimonia
in definitiva anche il legame Esopo-Creso».
89
Cataudella, Aristofane e il cosiddetto «romanzo di Esopo», cit., pp. 9 ss., sente un’eco
della Vita nella parabasi degli Acarnesi di Aristofane: come nella Vita (95-96) Creso chiede
che i Sami gli consegnino Esopo, il loro sagace consigliere, così Aristofane finge (646 ss.) che
i Lacedemoni vogliano sottrarre agli Ateniesi il loro consigliere migliore, cioè il poeta
stesso. A me non sembra che il motivo narrativo sia così singolare da dimostrare deriva-
all’interno del racconto della Vita c’è una coerenza che elimini le per-
plessità: con la favola dei lupi, dei cani e delle pecore Esopo ha con-
vinto i Sami a non consegnarlo a Creso, ma poi parte ugualmente. Mi
viene il sospetto (intendiamoci, non più di un sospetto) che in un
primo momento Esopo salvasse i Sami avvertendoli in tempo del pe-
ricolo e inducendoli a preparare la difesa e solo in un secondo tempo
fosse introdotto il motivo del viaggio presso Creso. Se il sospetto fos-
se giusto, nell’accostamento Esopo-Creso-saggi avremmo tre fasi, di
cui solo le prime due riflesse nella Vita.
Stupisce un po’ che di un motivo già diffuso nel IV secolo quale il
contatto (o contrasto) con i saggi o qualcuno di essi non sia rimasta
traccia nella Vita; eppure è avvenuto lo stesso di un motivo risalen-
te con sicurezza fino al IV secolo, quello, cioè, della resurrezione
(ἀναβίωσις) di Esopo: lo conosceva già il commediografo Platone90, la
Vita lo ignora. Dobbiamo pensare che nel IV secolo si fosse già fissato
un nucleo scritto a cui risale la Vita? Per le ragioni dette prima ci credo
poco: in queste tradizioni popolari la fluidità è consueta: molto viene
aggiunto, qualche cosa viene tralasciata. Comunque questa tradizione
sull’ἀναβίωσις è interessante: la Suda (s. v. ἀναβιῶναι = Test. 45 P.) ac-
costa Esopo a Tindaro, Eracle, Glauco. Il modello dev’essere stato un
altro, Pitagora: dunque ancora influsso di una tradizione relativa, se
non ai sette saggi, a un grande saggio della Grecia su quella esopica.
Esiste persino una tradizione che fa combattere Esopo redivivo alle
Termopili: forse fu ghiribizzo di qualche dotto, forse fu il proletariato
greco che non seppe rassegnarsi alla morte del suo eroe e amò imma-
ginarlo combattente dove si difendesse la libertà, quasi a sottolineare
il contributo che a questa lotta gli umili hanno sempre dato.
Anche per la contaminazione con elementi derivati dalle biografie
dei saggi capita di osservare quanto si è detto per la contaminazione
con il racconto di Ah.īqār: sono stati contaminati elementi che già ave-
vano una somiglianza di fondo; in questo caso, anzi, la somiglianza era
zione. Vero è che spesso negli studi di folklore ci si contenta di analogie ben più labili: vuol
dire che questi studi hanno bisogno di molto maggior rigore.
90
Fr. 68 K. da Schol. in Aristoph. Av. 471 (Test. 45 P.). Le altre testimonianze sono: Ermippo
presso Plutarco, Solon 6 (FHG III, p. 39, fr. 10 = Test. 46 P.), il quale riferisce che un certo
Pataikos, forse un favolista, proclamava di avere in sé l’anima di Esopo; Tolemeo di Efestio-
ne (Chenno) presso Fozio, Bibl. cod. 252 (Test. 47 P.), secondo cui Esopo redivivo avrebbe
combattuto alle Termopili. Molto discutibile Test. 48 P. (Schol. in Aristoph. Vesp. 566).
più notevole. La Vita Aesopi era già nata come una biografia di saggio,
come un’opera tra narrativa e sapienziale. Questa forma di biografia,
dove il racconto è poco più di una cornice ai detti memorabili, è certa-
mente una delle più antiche esistenti, radicata nella religione e nell’e-
tica primitiva. Anche in Grecia essa precede, naturalmente, i tipi di
biografia fissati dalla scuola peripatetica e dalla scuola alessandrina
(comunque si debbano intendere i loro rapporti), si contamina con
essi, vive accanto a essi, fino all’agiografia cristiana: ha una vitalità
soprattutto popolare, ma non solo popolare, dati i servizi che, rielabo-
rata, può rendere alle scuole di retorica. Gli accostamenti con la lette-
ratura sapienziale egiziana, babilonese, giudaica (penso soprattutto al
libro di Giobbe, le cui ascendenze babilonesi sono probabili) sono
ovvi, ma, almeno per lo schema di fondo (per singoli elementi, si ca-
pisce, le cose stanno diversamente), non è certo da pensare a deriva-
zione. E più delle somiglianze contano certe differenze. Nei libri sa-
pienziali egiziani l’elemento narrativo è ridotto per lo più al minimo,
all’indicazione del personaggio che tiene le ammonizioni, del perso-
naggio a cui furono indirizzate, dell’occasione in cui furono tenute:
nelle biografie greche di saggi l’interesse narrativo deve essere stato fin
dalle origini più vivace, anche se è fuori di dubbio che nella nostra Vita
Aesopi lo sviluppo narrativo è fortemente ampliato rispetto alle origini.
Ma più conta un altro aspetto, che senza dubbio, però, compare anche
in una parte della letteratura sapienziale egiziana: questo tipo di bio-
grafia nella cultura greca è portatore di una cultura laica, autonoma
dalla cultura sacerdotale, a volte in contrasto con essa: i sette saggi non
sono profeti o santi, non si propongono di ravvivare la religione tradi-
zionale o di portarne una nuova: sono maestri di vita, esempi e propa-
gandisti di una nuova etica. Né essi somigliano a un tipo di filosofo che
è di là da venire, cioè al tipo del filosofo assorto nella meditazione e
nella contemplazione, indifferente alla vita che intorno a lui si svolge:
i sette saggi assomigliano di più ai fondatori e ordinatori di città91.
Entro certi limiti di cui dirò subito, la biografia esopica porta il segno
di questa tendenza.
91
Naturalmente già nell’antichità le interpretazioni variano né è impossibile trovare spun-
ti per interpretare questo o quel saggio come puro filosofo; ma l’aspetto di cui parlo fu
colto felicemente da Aristotele e Dicearco: cfr. Snell, Leben und Meinungen der Sieben
Weisen, cit., p. 73 e le fonti e la bibliografia ivi citate.
92
Sept. sap. conv. 4, 150 a (315 a P.; Test. 36 P.).
93
Cfr. Romans et contes égyptiens, cit., pp. 41 ss.; cfr. Donadoni, Storia della letteratura
egiziana antica, cit., pp. 95 ss.
94
La lingua è quella della XII dinastia (2000-1785 a. C.).
95
Il passo tradotto in Donadoni, Storia della letteratura egiziana antica, cit., p. 56.
96
Ant. Iud. VIII 5, 3 (da un certo Dios: FGrHist III 785); Contra Apion. I 115-116 (da Me-
nandro di Efeso: FGrHist III 783 F 1). Sulla disputa cfr. Gina Cortese Pagani, Il Bertol-
do di G.C. Croce ed i suoi fonti, «Studi medievali», vol. 3, 1911, pp. 533-602. Per Bertoldo si
credette un tempo ad ascendenze indiane: F. Pullé, Un progenitore indiano di Bertoldo,
Venezia 1888, ritenne di scoprire nei tipi di Mahausadha e di Rohako di narrazioni rife-
rentisi alle vite anteriori di Budda, precisamente nell’Antarakathāsaṃgraha di Rājaśekhara
(tradotta in parte dal Pullé in «Studi italiani di filologia indo-iranica», vol. 1, 1897, pp. 1 ss.;
vol. 2, 1898, pp. 1 ss.); ma questo testo è del XV secolo: il tipo può essere indipendente o
può essere influenzato dalla cultura dell’Asia anteriore. Contro Pullé cfr. M. Winternitz,
Geschichte der indischen Litteratur, vol. 2, Leipzig 1920, p. 326.
Più che il contrasto tra l’astuzia dello schiavo e la sciocchezza del pa-
drone interessa nella Vita il contrasto della rudimentale filosofia dello
schiavo con la filosofia del padrone, cioè con la filosofia aulica tradi-
zionale. Il brano in cui tale contrasto risalta meglio è l’episodio presso
l’ortolano (35 ss.). L’ortolano è tormentato perché non sa spiegarsi
come mai le erbe selvatiche crescano più presto di quelle piantate da
lui, e chiede la spiegazione al filosofo. Xanto non sa risolvere il proble-
ma e se la cava col rispondere: «Tutto è amministrato dalla divina
provvidenza (πρόνοια)». Esopo ride; Xanto, impermalito, chiede se
98
Cfr. soprattutto la protesta di Esopo in Vita 13.
non si faccia beffe di lui. «Non di te, ma del tuo maestro». «Maledetto,
osi bestemmiare contro tutta la Grecia! Ad Atene sono stato a scuola
di filosofi, retori, grammatici: oseresti tu salire sull’Elicona delle Muse?
Si può trovare altra soluzione al problema? I filosofi non possono in-
dagare le cose amministrate dalla divina provvidenza». Rivolgendosi
poi all’ortolano gli dice: «Gentilissimo amico, io che discuto nelle sale
di filosofia non posso discutere ora in un orto: non sarebbe dignitoso!»,
e lascia la soluzione allo schiavo. Xanto, come si vede, cerca di coprire
la propria ignoranza, e ciò lo rende più ridicolo. La spiegazione data
da Esopo, che si ritrova poi nel corpo delle favole (121 H.), è che la
natura è come una donna già sposata, che passa a seconde nozze: i figli
del primo marito li sente come figli propri, ma è matrigna dei figli che
trova già nella casa del secondo marito; la natura è madre delle erbe
selvatiche, matrigna delle erbe piantate dall’uomo (37)99. Non dico che
qui la scienza sostituisce il ricorso alla spiegazione (o non spiegazione)
filosofico-religiosa, ma evidente, efficace è l’irrisione di chi spiega tut-
to ricorrendo alla provvidenza: se non c’è la scienza, c’è un passo im-
portante verso la scienza100.
Non la filosofia aulica in particolare, ma tuttavia una superstizione
che la filosofia aulica, e specialmente la stoica, ha fatta propria, cioè la
mantica, viene derisa in un altro episodio comico (77). Xanto prima di
uscire vuol trarre un auspicio e comanda a Esopo di vedere se dinanzi
all’anticamera c’è qualche uccello di malaugurio; se invece c’è una cop-
pia di cornacchie, segno eccellente di buon augurio, chiami il padrone.
Esopo esce e per caso vede una coppia di cornacchie; va a chiamare il
padrone, ma, quando i due escono, è rimasta una cornacchia sola. Ire
di Xanto, che hanno come conseguenza la flagellazione dello schiavo.
Quando il povero diavolo è ben scuoiato, arriva per Xanto un messag-
gio che lo invita a pranzo: Esopo gli fa notare allora quale buon augu-
rio porta la coppia di cornacchie: lui, Esopo, che le ha viste tutte e due,
99
Nel testo del Perry τὰ γὰρ ἴδια ὡς φύσει φιλεῖ, τὰ δὲ τοῦ ἀνδρὸς ξένα μισεῖ. Nel testo del
Westermann invece di ξένα c’è qέσει, interessante perché risale all’opposizione φύσις/
qέσις. Ma nessuna variante nell’apparato del Perry.
100
Non so se nella sentenza tramandata come esopica da Diogene Laerzio I 3, 69 e Stobeo
IV 41, 61 (Sent. 9 P.) ci sia la ripetizione di un luogo comune esiodeo o l’irrisione della
provvidenza: a Chilone che gli chiede che cosa fa Zeus, Esopo risponde: «Abbassa le cose
alte, innalza quelle basse»: un futile giuoco?
101
Per l’irrisione della mantica nella favola esopica cfr. il mio saggio La morale della favola
esopica, p. 467 (qui, p. 265).
102
Irrisione per lo scarso dominio di sé che Xanto mostra nel convito, in Vita 68.
103
Cfr. Sent. 11 P.: alla domanda qual è la più forte tra le cose umane, Esopo risponde: «il
λόγος» (presso Nicolao Sofista, Rhet. Gr. III, p. 461 Spengel).
104
Nel Dialogo di Salomone e Marcolfo Salomone, dopo un elogio delle donne (cap. 12), è
indotto a un’invettiva contro le stesse (cap. 16): siamo nello stesso genere di trovate. L’in-
dovinello del superlativo (qual è la cosa migliore? quale la peggiore? quale la più antica?
quale la più veloce?, ecc.) è dei più comuni nelle letterature arcaiche di indovinelli: cfr.
bibliografia in Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, pp. 436 ss. sotto la
sigla H 630 (Riddles of the superlative), in particolare p. 440 sotto H 659.18 Quali sono le cose
più maledette?. L’autore sembra ignorare quasi sempre la Vita Aesopi. Si ricordi che Aristo-
fane, Av. 471 ss. attribuisce a Esopo una tradizione secondo cui l’allodola sarebbe il più
antico degli uccelli (la tradizione ha un riscontro in India: cfr. Ribezzo, Nuovi studi sulla
origine e la propagazione delle favole indo-elleniche, cit., pp. 63 ss.). Non paia irriverente ac-
costare a questo indovinello arcaico la ricerca della cosa più antica, dell’ἀρχή, nella filoso-
fia ionica: filosofia e cosmogonia primitiva non sono separate da un taglio netto. Indovi-
nelli dello stesso tipo in Sent. 11-12 P.
105
Una sferzata più chiara contro la retorica in Sent. 22 a P. (da Massimo Confessore): i
retori sono paragonati a rane: queste gracidano nell’acqua, quelli davanti alla clessidra
(sentenza attribuita a diversi personaggi).
106
Un’analogia con le guarigioni miracolose a opera di Asclepio in Epidauro in Zeitz,
Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 227-228. Cfr. anche Thompson, Motif-Index
of Folk-Literature, cit., vol. 3, p. 243 sotto la sigla F 954.
107
Cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 531-532 (qui, pp. 326-327).
108
Ivi, pp. 516 ss. (qui, pp. 312 ss.). La confluenza, come ho creduto di dimostrare, è più
superficiale che sostanziale.
109
Cfr., per esempio, Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 230 ss.
110
Nella vita di Diogene opposizione tra «folla» e «uomini» ancora in Diogene Laerzio VI
2, 60; sui veri «uomini» ancora VI 2, 48.
ricca di quella di G e W111. Xanto organizza uno dei suoi soliti banchet-
ti, ma raccomanda a Esopo di lasciar entrare solo i «sapienti». Lo schia-
vo pone a ognuno la domanda: «che cosa dimena il cane?». Tutti si
credono insultati coll’appellativo «cane», in quanto si ritengono presi per
cinici, per filosofi straccioni, e si rifiutano di entrare; uno solo risponde:
«la coda» e vien lasciato entrare (Vita 77 b). L’episodio vuol essere un’al-
tra irrisione della boria e della sciocchezza dei retori e filosofi.
Una parentela col cinismo, in particolare con il suo disprezzo per la
famiglia, la nobiltà dell’origine, con il suo cosmopolitismo non è esa-
gerato avvertire nel dialogo tra Xanto ed Esopo che precede la compe-
ra dello schiavo. «Donde provieni?». «Dalla carne». «Non dico questo,
ma dove fosti generato». «Nel ventre di mia madre». «Maledetto! Non
ti chiedo questo, ma in quale luogo fosti generato». «Non so se nel
letto o nel triclinio: mia madre non me lo ha detto»112. Le risposte di
Esopo sono messe di proposito in contrasto con quelle pretenziose dei
due schiavi bellissimi che gli sono stati collocati a fianco. Del resto
tutta questa scena della vendita di Esopo (Vita 22-27) presenta analogia
con La vendita di Diogene (come schiavo), un opuscolo perduto di
Menippo (Diogene Laerzio VI 2, 29)113: poiché la scena è nella parte
presamia, cioè in una parte recente, vi sono pochi dubbi sulla priorità
della tradizione intorno a Diogene.
Per l’affinità col cinismo va segnalato, secondo me, anche un lun-
go episodio della parte samia, la ricerca del perfetto ἀπερίεργος (Vita
56-64). Chi è il perfetto ἀπερίεργος? È l’uomo che ha raggiunto l’in-
differenza completa a ciò che si svolge intorno a lui, che ha ucciso
anche la sua curiosità, sino a non chiedere ragione assolutamente di
niente. Xanto, in cerca di pretesti per staffilare Esopo, gli impone
di trovare un tale tipo. Il primo tentativo di Esopo fallisce (57-58, solo
111
Le tracce di questa redazione restano in tre codici della redazione W, precisamente S
(Mosquensis 436, XIV sec.), B (British Museum Add. 17015, XV sec.), P (Vaticanus Graecus
269, XV sec.): su questo ramo della tradizione cfr. Perry, Studies, cit., pp. 35 ss., 174 ss.
112
Somiglianze notevoli, ma non decisive, con un dialogo tra il re e Bertoldo (cap. 4);
meno forti le analogie tra il passo della Vita e quello del Dialogo di Salomone e Marcolfo
(2 b-c) a cui corrisponde il passo del Bertoldo in questione.
113
Cfr. Zeitz, Der Aesoproman und seine Geschichte, cit., pp. 230-231. Risaltava nella vendi-
ta di Diogene il contrasto tra la condizione servile e il valore reale. Forse un’analogia c’è
anche con altri punti della Vita. Diogene dice al banditore: «Annunzia se qualcuno vuol
comprarsi un padrone»; Xanto più volte (per esempio, Vita 28) si lamenta di essersi com-
prato con Esopo un padrone.
in W). Egli crede di aver trovato il tipo che gli conviene in un uomo
che se ne sta tranquillamente seduto a leggere mentre sulla piazza si
svolge una lite. Ma costui, invitato in casa di Xanto, non sa tacere né
quando viene servito per primo (egli obietta che primo dovrebbe esse-
re servito Xanto, poi la signora, poi gli amici) né quando Xanto accusa
ingiustamente questo o quel servo di aver preparato male questo o quel
cibo. Ma la seconda ricerca di Esopo ha pieno successo (59-64): trova
il suo tipo in un campagnolo «rozzo all’aspetto, ma urbano nei modi»,
che mena un carretto carico di legna e conversa con la sua bestia facen-
do i conti di quel che potrà ricavare dalla vendita del carico. Il campa-
gnolo resiste brillantemente a tutte le prove; non si meraviglia mini-
mamente che Xanto gli faccia lavare i piedi dalla moglie (una prova a
cui la signora si assoggetta pur di vincere Esopo e farlo staffilare), non
protesta contro tutte le accuse false che Xanto lancia contro i servi per
le pietanze. L’ultima prova è addirittura un trionfo per il contadino:
quando la colpa per il dolce mal preparato ricade sulla moglie stessa di
Xanto e il filosofo per bruciare viva la moglie fa innalzare una pira, il
contadino non solo non si scompone e continua a versarsi da bere, ma,
rivolgendosi a Xanto, propone: «Signore, giacché hai giudicato così,
aspetta per favore un momentino: corro in campagna, piglio anche mia
moglie e le bruciamo tutte e due insieme».
Mi sono soffermato brevemente su quest’episodio, che nella Vita ha
uno sviluppo considerevole, giacché l’ideale dell’ἀπερίεργος è, per così
dire, la deformazione volgare dell’ideale dell’αὐτάρκεια: si perde ciò
che dell’αὐτάρκεια è essenziale, cioè la fede orgogliosa nella propria
libertà interiore che da nessuna circostanza esterna, da nessun muta-
mento per quanto fortuito può essere violata, ci si riduce a un’aspira-
zione puramente utilitaristica al quieto vivere, alla tranquillità senza
fastidi, al «farsi i fatti propri»114: ma c’è un comune particolare fondo di
ἀπάqεια che lega i due atteggiamenti115: orgoglio della propria autosuf-
114
Infatti il contrario del περίεργος è (Vita 55) l’ἰδιοπράγμων, colui che bada solo ai fatti
propri. Dopo l’episodio delle pietanze a base di lingua (51-55) uno dei filosofi amici di
Xanto inveisce contro Esopo, ed Esopo lo accusa di essere un περίεργος: da ciò l’ordine
di Xanto di trovare il perfetto ἀπερίεργος. Forse ambedue gli episodi (quindi da 51 a 64)
sono frutto di un’aggiunta tardiva.
115
Meno importante, ma non trascurabile, mi pare il legame con motivi folkloristici come
quelli elencati da Thompson, Motif-Index of Folk-Literature, cit., vol. 3, pp. 509-510 sotto
la sigla H 1554 (Test of curiosity).
ficienza e gelosa indifferenza per i fatti altrui sono come due toni diver-
si, a due gradi molto diversi di cultura, di un medesimo impotente e in
fondo rassegnato individualismo. Non è un caso che Esopo trovi
l’ἀπερίεργος perfetto in un contadino piuttosto che in un uomo di città:
l’uomo di città è in genere curioso e loquace, l’uomo di campagna, come
già sappiamo da Esiodo, è tutto chiuso nella sua economia domestica,
tutto preso dalla preoccupazione di crearsi un minimo di stabilità eco-
nomica, di alzare un muro contro la miseria sempre incombente. Su
questo terreno non poteva nascere una solidarietà fra gli oppressi: questo
sentimento manca del tutto nella Vita e quasi del tutto nelle favole: esso
meglio poteva nascere e fiorire, anche se con ben poche conseguenze
pratiche per l’ordinamento sociale, nel terreno religioso.
In chiara armonia sia con la favolistica esopica sia col cinismo è un’altra
ispirazione dominante della Vita, cioè l’ispirazione misogina116. Subito
dopo Esopo e Xanto il personaggio più in vista è la moglie di Xanto.
Quando il marito parte per il mercato, lo prega di comprarle uno schia-
vetto bello e lindo (22). Xanto torna invece con uno spauracchio come
Esopo: sfuriata della signora, che minaccia di tornarsene dai genitori
prendendosi la sua dote. E qui Esopo smaschera la voglia non troppo
segreta della signora: ella vuole uno schiavo bello che l’accompagni al
bagno, che prenda i vestiti quand’ella si spoglia, che al ritorno dal bagno
le metta il cappello e la calzi, che scherzi con lei e l’accenda con gli occhi
e poi col tatto. Mutevole e perfida, la donna è il male più terribile: veri-
tà poco peregrina che viene nobilitata con la citazione di versi famosi di
Euripide (32). A Xanto, che è dominato dalla moglie e crede nel suo
amore, Esopo dimostra che la sua cagna gli vuole molto più bene della
moglie (44-46 col seguito in 49-50)117. Vanitosa, sensuale, impudente118,
116
In qualche misura l’ispirazione misogina della tradizione esopica partecipa del pessimi-
smo e realismo della favola: cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 526-527 (qui,
pp. 321-322).
117
Una certa somiglianza, ma non tale da assicurare la dipendenza, con una favola medie-
vale (Herv. II, p. 315, n. 47 = 719 P.). [Cfr. infra, La morale della favola esopica, p. 292, nota 69].
118
Per l’impudenza cfr. anche l’episodio buffonesco e osceno di Vita 77 a conservato solo in
SBP. Un latinismo come κῶλος (non il latinismo in sé, ma il suo particolare solecismo) mi
sembra indicare origine occidentale (il che dovrebbe valere per la redazione da cui SBP
ricavano le loro aggiunte).
119
L’episodio piccante manca nella redazione G: qualche mano pia e pudica deve avere
strappato un foglio in uno dei codici progenitori di G. È noto che, per non so quali trami-
ti, il racconto è giunto, rimanipolato, in uno dei Contes drolatiques di Balzac (Comment feut
basty le chasteau d’Azay).
120
Aesop in Delphi, cit., p. 9, nota 5.
121
Come c’era da aspettarsi, il misoginismo compare in sentenze attribuite tardi a Esopo
(e già a Diogene e ad altri personaggi): una volta Esopo vede una donna impiccata a un
albero; si ferma ammirato ed esclama: «Portassero tutti gli alberi così bei frutti!» (Sent. 20
P. e apparato). Contro i giovani effeminati e ambigui cfr. Sent. 15 P.
122
Su questo aspetto cfr. il mio saggio La morale della favola esopica, pp. 522 ss. (qui, pp. 317 ss.).
123
Vivacemente illuminata è sotto questo aspetto la vita ateniese del V secolo da
Trenkner, The Greek Novella in the Classical Period, cit., pp. 16 ss.
ne in cui sono date solo le iniziali delle parole, ma, per spaventare
Xanto che vuol pigliarsi tutto lui, cambia un paio di volte l’interpreta-
zione (78-80): la magia di Esopo non ha dommi! La storiella eziologi-
ca sul principe che emise insieme con le feci il proprio cervello (67) è
di una fantasia bizzarra e può essere gustata come una parodia delle
ricerche eziologiche dei filosofi. L’espediente con cui Esopo, in un
viaggio con altri schiavi da un mercato all’altro, sceglie un carico che
sembra dapprima il più pesante, ma si rivela poi il meno fastidioso, dà
luogo a una narrazione alquanto festosa (17-19), ma la forza comica
rimane stentata; e ben altra arte ci vorrebbe per far digerire l’episodio
iniziale, in cui Esopo, ancora muto, accusato perfidamente da due
compagni di schiavitù di aver mangiato dei fichi, riesce a indurre il
padrone a far bere loro dell’acqua calda e farli vomitare (2-3). Non
bisogna farsi della letteratura popolare un idolo sino a negare ciò ch’es-
sa ha d’insulso: nella Vita resta poco sapida la trovata sul piede di
porco (42-43), ma il colmo dell’insulsaggine è toccato da quello scher-
zo che Esopo giuoca al padrone e agli invitati, quando Xanto gli ordi-
na di cuocere φακόν (cioè lenticchie, ma il greco e il latino possono
usare in questo caso il singolare) ed Esopo, fingendo di voler interpre-
tare alla lettera, cuoce e serve una lenticchia sola (39-41)124. Esopo vuol
dare dei punti alla pedanteria degli uomini di scuola? Non pare che
l’autore persegua un tale intento; comunque anche la pedanteria va
combattuta con armi ben più efficaci. Quanto più insipida ancora rie-
sca la parte babilonese, ho già avuto occasione di dire; il redattore
della Vita ha avuto il merito di risparmiarci lunghe filze di precetti, ma
nella breve predica riesce già abbastanza pesante; a confronto riesce più
arguta, nella parte samia (68), la spiegazione sui tre effetti del vino.
Neppure nelle novelle del Boccaccio tutte le trovate sono spiritose,
tutti i detti sono arguti; ma questo diventa trascurabile, quando c’è la
stoffa del narratore. Purtroppo proprio questa stoffa manca nella Vita.
Ci sono qui tipi preconcetti, non personaggi creati, crescenti col rac-
conto stesso; non sono evocati ambienti. In quest’opera composita le
parti si possono togliere e aggiungere a piacere, senza che il resto ne
soffra: il che è proprio delle opere che non sono corpi organici, unita-
Per motivi simili nel folklore cfr. la bibliografia data in Thompson, Motif-Index of Folk-
124
Literature, cit., vol. 4, pp. 215 ss. sotto la sigla J 2461.1; p. 218 sotto la sigla J 2469.
po. Egli non sembra nutrire alcun dubbio sull’esistenza, già nel V secolo, di
un Volksbuch scritto su Esopo: ciò è possibile, ma tutt’altro che certo. Comun-
que nel V secolo, orale o scritta, una biografia di Esopo esisteva, e nel raccon-
to erano incastrate delle favole, che si fingevano narrate ciascuna in una de-
terminata occasione, a un determinato proposito. In qualche caso siamo più
che sicuri: la notissima favola dell’aquila, della lepre e dello scarafaggio (Vita
135-139 = 3 H.) già da Aristofane (Vesp. 1448) era conosciuta come raccontata
da Esopo ai Delfi prima della morte; ma si può essere altrettanto sicuri in
altri casi? Nonostante la certezza del Wiechers (p. 14) io ne dubito. A favore
dell’antichità si può aggiungere, certo, che le inserzioni di favole, frequenti
nell’ultima parte della Vita, cioè nella parte delfica, sono molto più rare nel
resto; ma si ottiene tutt’al più una qualche probabilità.
Anche altri elementi biografici tramandati al di fuori della Vita il Wie-
chers tende ad ancorare a un’antichità remota: per esempio, a proposito della
sferzata di Esopo contro i Delfi trasmessaci da Schol. in Aristoph. Vesp. 1446
egli argomenta (pp. 17-18) che essa presuppone le condizioni del santuario
anteriori alla prima guerra sacra, cioè al 590. Esopo bolla i Delfi perché non
hanno terra da cui trarre il nutrimento lavorando, ma aspettano il nutrimen-
to dal dio. Ora prima del 590 il santuario non aveva che un po’ di terreno
roccioso: solo dopo la prima guerra sacra e la conquista di Crisa la fertile
pianura circostante, fino al mare, fu consacrata al dio. Dopo il 590, argomen-
ta il Wiechers, quando era chiaro a tutti che la pianura consacrata al dio
nutriva i Delfi, l’accusa di Esopo avrebbe sfondato un uscio aperto: dunque
essa presuppone le condizioni anteriori al 590. Quanti resteranno convinti da
un’argomentazione così sottile?
Nel resto del primo capitolo (pp. 18 ss.) il Wiechers tenta di mettere in
rilievo una serie di analogie tra la parte delfica della Vita e la tradizione sulla
prima guerra sacra: simile sarebbe il modo in cui vennero decise dagli Amfi-
zioni l’inchiesta contro i Crisei e quella contro Esopo (p. 21), simili le accuse
dei Delfi contro i Crisei e quelle di Esopo contro i Delfi (pp. 21-22), simili la
maledizione degli Amfizioni contro la terra dei Crisei e quella di Esopo con-
tro i Delfi (p. 24), siccità e profluvium ventris colpiscono i Crisei, una peste
colpisce i Delfi (pp. 23-24), e via di questo passo. Conclusione: la Vita rispec-
chia gli avvenimenti della prima guerra sacra; la tradizione, però, avrebbe
confuso e messo i Delfi al posto dei Crisei. Ma le analogie sono per lo più
forzate; quando effettivamente sussistono, rientrano in motivi tra i più comu-
ni del folklore: che cosa di più comune della peste inflitta da un dio per pu-
nire l’empietà di qualche persona o di qualche popolo? Il motivo non ricorre-
va, per esempio, già nel primo dell’Iliade? Questa è la parte più debole del
libretto del Wiechers.
Vero è che, come ricorda il Wiechers (p. 44, nota 2), anche in Tersite si è sospettato si
126
Capitolo 5
1. Tracce biografiche
Fedro è uno dei tanti scrittori antichi la cui biografia è molto esile. Nel
suo caso ciò si spiega più facilmente che in altri: egli coltivava un genere
letterario umile che né gli uomini del mestiere, i docti, les gens de lettres,
né il pubblico colto prendevano sul serio o a cui si rivolgevano tutt’al
più come a mezzo d’intrattenimento. Dai letterati contemporanei fu
ignorato: è ben noto che Seneca, scrivendo nel 43 o 44 d. C., parlava
della favolistica esopica come di un genere non ancora tentato dai Ro-
mani (Cons. ad Pol. 8, 27)2; lo ignorava ancora probabilmente Quintilia-
no (I 9, 2) anche se già lo conosceva e lo gustava il contemporaneo
Marziale (III 20, 5). I pochi elementi biografici vanno ricavati dall’opera
stessa e dalla tradizione manoscritta (inscriptio dei libri primo e terzo,
subscriptio del terzo e del quinto). Oggi essi vanno isolati da una conge-
rie enorme di ipotesi e di congetture a volte acute, ma fragili3, a volte
costruite con un giuoco d’incredibile futilità4. Ciò che resta di certo o di
probabile è importante per capire l’opera. La tradizione esopica non ri-
1
[Introduzione a Fedro, Favole, versione di Agostino Richelmy, Einaudi, Torino 1968,
pp. vii-lxviii].
2
La spiegazione più semplice e più convincente è pur sempre che egli non conoscesse
l’opera di Fedro (o la parte di essa già pubblicata): ciò s’accorda pienamente sia con le la-
mentele di Fedro sul proprio insuccesso (sulle quali tornerò in seguito) sia col silenzio, più
tardi, di Quintiliano. Non c’è nessuna ragione di supporre silenzio deliberato; e nemmeno
si può dedurre che, quando Seneca scriveva, Fedro non avesse ancora pubblicato nulla di
ciò che aveva scritto (la deduzione è, per esempio, di L. Havet nella sua celebre edizione
Hachette, Paris 1895, pp. 243 ss.).
3
Mi riferisco soprattutto a Havet, ed. cit., pp. 259 ss.
4
Tuttavia non discuterò, perché non mi pare che ne valga la pena, né la costruzione
mirabolante di L. Herrmann, Phèdre et ses fables, Leiden 1930, né quella insulsa di A. De
Lorenzi, Fedro, Firenze 1955. Purtroppo non ci sono ineptiae che non trovino qualche
credito nella dabbenaggine o nel giuoco ozioso di altri: cfr. A. Maiuri, Fedro a Miseno, «La
parola del passato», vol. 11, 1956, pp. 32-37, e persino B. E. Perry, edizione di Babrio e Fe-
dro, London 1965, p. lxxxi.
5
La forma del nome al nominativo non è ricavabile con sicurezza: la tradizione manoscrit-
ta ci dà il genitivo Phaedri, che può presupporre sia Phaeder sia Phaedrus (la forma Phaedrus
è attestata, per il nome del poeta, solo da Aviano nel proemio alle sue favole). Non credo di
poter riprendere con frutto la lunga discussione. Carisio (22, 17 ss. Barw.), che difende per i
nomi di questo tipo provenienti dal greco il nominativo in -er, cita la teoria del grammatico
Aurelio Opilio, che difendeva il nominativo in -us (fr. 25 Fun.). Probabilmente le forme in
-er prevalevano nell’uso, mentre la letteratura (Carisio si faceva forte degli esempi di Virgilio,
Teucrus, Evandrus) tendeva a far prevalere le forme, più vicine al greco, in -us (cfr. anche
F. Della Corte, Favolisti latini [corso universitario], Genova 1958, p. 56). In favore di
Phaeder Havet (ed. cit., pp. 259-260) citò CIL VI 20 181 C. Iulius C. filius Phaeder. Non è una
prova decisiva; ma il nome gentilizio Iulius fa pensare che possa trattarsi di un discendente
del liberto di Augusto e che, quindi, questo si chiamasse effettivamente Phaeder.
gi; figurati come sarai trattato quando ti sarai reso colpevole con la
fuga!». Lo schiavo tali consilio est a fuga deterritus.
Da dove proveniva questo schiavo? Com’era caduto in schiavitù?
Dal prologo del terzo libro, che è quasi l’unica fonte per la biografia di
Fedro, si può ricavare con buona probabilità l’origine tracia. Il prologo
non ha certo la chiarezza desiderabile, sicché le discussioni degl’inter-
preti non si possono dire, in questo caso, oziose. Fedro si proclama
quasi nato nella casa delle Muse (III prol. 17 ss.):
Dunque più vicino alla dotta Grecia di quanto non lo fossero Eso-
po o Anacarsi, ma non più vicino che Lino o Orfeo: la tradizione di
cui Fedro si fa forte è la tradizione che risale a Lino e Orfeo, i poeti
mitici, figli delle divinità del canto; in questo consiste il decus che Fe-
dro considera come quello della propria patria. Se fosse nato ancora
6
Quest’ultimo verso è uno dei tanti di Fedro il cui testo, pur essendo tollerabile, suscita
sospetto di corruzione; naturalmente non solo il rimedio, ma l’esistenza stessa della corru-
zione sono incerti: Phoebi di Havet per paene è attraente, Paeanis di Postgate pare troppo
raffinato (nei codici paene è posto accanto a schola, ma chi conserva la parola accetta gene-
ralmente la trasposizione di Berger).
7
Naturalmente Fedro ignorava la tradizione che considerava trace Esopo, tradizione che
avrebbe accresciuto le sue ragioni di sperare nella gloria.
8
Dione Cassio LIV 34, 6-7; Velleio II 98; Antipatro di Tessalonica, AP VI 335; IX 428;
App. Plan. 184; Floro II 27; Livio, Per. 140; Tacito, Ann. VI 10, 3; Seneca, Epist. 83, 14. La
congettura è stata avanzata da F. Della Corte, Phaedriana, «Rivista di filologia e di
istruzione classica», n. s., vol. 17, 1939, pp. 136 ss. [= Id., Opuscola, IV, Genova 1973, pp. 107
ss.]; Favolisti latini, cit., pp. 53 ss. (ringrazio l’autore per avermi reso possibile la consulta-
zione di questo corso universitario).
9
Ed. cit., pp. 261-262. Havet pensava pure (p. 260) che Fedro conoscesse poco la Tracia: in
III prol. 59 crede, come Virgilio (Aen. I 317), rapido il fiume Ebro che invece è lento. Que-
sto, da sé, non basterebbe a provare che Fedro fosse menato via bambino: poteva aver
abitato a lungo in Tracia, vicino alla Macedonia, senza aver mai visto l’Ebro, così come
molti saranno vissuti in Sicilia senza vedere mai l’Etna.
10
Della Corte (Phaedriana, cit., pp. 141 ss.) ricava le prove dall’erudizione di cui Fedro fareb-
be sfoggio nelle favole, per esempio a proposito di Simonide; ma non riesco proprio a senti-
re lo sfoggio di erudizione. In buona parte gli aneddoti di Fedro relativi a Simonide e Socra-
te provengono da una tradizione diatribica già da tempo imparentata con quella esopica.
11
Dal passo credo si possa ricavare, anche se non con sicurezza, che le favole incriminate
erano tra quelle non ricavate dal primo repertorio esopico, quindi tra quelle del secondo
libro. Se l’epilogo di questo libro, come credo, presuppone già la calamitas, questa si pone
durante la sua composizione: non è difficile ammettere che nell’ambito della casa imperia-
le favole singole circolassero prima di essere raccolte in volume. Una favola incriminabile
poteva essere anche II 5, se lo schiavo zelante era un uomo di Seiano.
12
Altre interpretazioni affacciate convincono meno. Tanto ingegnosa quanto debole è, per
esempio, quella di F. Vollmer, Lesungen und Deutungen III, «Sitzungsberichte der Bayeri-
schen Akademie der Wissenschaften», Abh. 5, 1919, pp. 9 ss., spec. 14-15: Fedro, riferendosi a
una favola, per noi perduta, dei libri precedenti, in cui comparivano sotto vesti animali
un accusatore, un testimone e un giudice, direbbe che essi altro non sono se non Seiano: un
personaggio morto, non un personaggio vivo. Come Giovenale, Fedro sosterrebbe che egli
non attacca personaggi viventi, quindi nessuno deve ritenersi offeso. Il ricorso a una favola
perduta non è certo procedimento da convincere; ma soprattutto Vollmer non riesce a spie-
gare in modo tollerabile in che consistano la calamitas e i tanta mala: per lui si tratta solo
della guerra dei nemici letterari (contro Vollmer già K. Prinz, Zur Chronologie und Deutung
der Fabeln des Phaedrus, «Wiener Studien», vol. 43, 1922-1923, pp. 62-70). Non è una difficol-
tà l’uso di foret per fuisset: si sa che in età classica e più tardi l’imperfetto congiuntivo nel
periodo ipotetico, oltre a esprimere l’irreale del presente, conserva il suo valore primitivo di
potenziale del passato (esempi in A. Ernout - F. Thomas, Syntaxe latine, Paris 19642,
p. 378). Si può anche fare a meno di menzionare la spiegazione di R.C.W. Zimmermann,
Zu Phädrus, «Berliner Philologische Wochenschrift», vol. 54, 1934, coll. 476-480: Seiano
sarebbe dativo; Fedro direbbe che contro Seiano uno solo è stato accusatore, testimone e
giudice, cioè Tiberio; Fedro sarebbe stato implicato nella rovina di Seiano come suo lon-
tano amico e gettato in carcere: qui sarebbe stato composto il terzo libro delle favole. Del
tutto improbabile, ovviamente, l’accusa, sia pure velata, contro Tiberio.
13
Havet (ed. cit., p. 264) suppone furto, fondandosi su I 17 (la pecora condannata di furto
per testimonianza del lupo).
so del prologo, come accade nel quarto libro. L’identificazione di questo Eutico con un
auriga favorito di Caligola (Svetonio, Cal. 55) è improbabile: l’Eutico del prologo di Fedro
è tutto impegnato in negotia amministrativi, che non possono lasciargli tempo per uno
sport a sua volta così impegnativo. Cfr. da ultimo Perry, ed. cit., p. lxxvi.
si possono spostare di alcuni anni più in giù, non potendosi ritenere per
certo che egli diventasse schiavo come prigioniero di guerra. Gli altri
dati cronologici sono molto vaghi; comunque calzano con l’ipotesi cro-
nologica qui data. Una favola del terzo libro (III 10) si riferisce a una
causa criminale giudicata dai centumviri e decisa dietro parere di Augu-
sto: Fedro dà il fatto come avvenuto «a sua memoria» (8). Di Tiberio
ricorda la battuta con cui raggelò lo schiavo troppo zelante (II 5). È
chiaro che Fedro ha vissuto la giovinezza e l’età matura sotto Augusto
e Tiberio15.
L’ultima favola dell’opera (V 10), una delle più belle, esprime con
misura e incisività l’amarezza di un uomo che si sente finito, che si ag-
grappa solo all’orgoglio del suo passato: è il vecchio cane che riesce ad
azzannare la preda, ma se la lascia sfuggire perché i denti sono cariati:
15
All’episodio in cui si rese ridicolo il flautista Principe (V 7) non saprei dare una colloca-
zione cronologica precisa: la collocazione di Havet (ed. cit., p. 117) nel 9 d. C., durante
giuochi dati per celebrare il ritorno di Tiberio dalla campagna di Pannonia, è forse possi-
bile (dubbi mi restano perché non so se con princeps nel 9 d. C. si potesse intendere ine-
quivocabilmente Tiberio, anche se ricevette allora il titolo di imperator), ma non è affatto
l’unica possibile: di ritorni a Roma di Augusto e di Tiberio ce ne sono parecchi nell’ambi-
to di alcuni decenni; né è detto che l’occasione fosse un ritorno: poteva essere anche, per
esempio, una guarigione. Il fatto che il flautista fosse accompagnatore del celebre attore di
pantomime Batillo, la cui fortuna si affermò dal 20 a. C. circa, indurrebbe a non spostare
troppo in giù l’episodio e a preferire Augusto a Tiberio. Ancora più incerto è che Fedro
assistesse personalmente all’episodio: potrebbe anche averlo sentito raccontare (sia per III
10 sia per II 5 è propenso ancora a credere a esperienza diretta Perry, ed. cit., pp. lxxiv-
lxxv; ma il Perry non si è mai distinto per rigore).
imperiale e anche fuori. Si dice che sia solo campano l’uccello chiamato
terraneola dai rustici (App. 32): ammesso che sia vero (ma il nome non ha
nulla di campano), non basta certo questo a dimostrare un soggiorno in
Campania. La favola (App. 21) del glorioso cavallo da corsa che, rubato,
è costretto a girare la macina e piange la sua sorte nel vedere i compagni
di un tempo avviarsi alle gare, sembra avere un sapore autobiografico:
probabilmente Fedro piange l’oscurità e la miseria in cui è ridotto dopo
la calamitas. Ma se ne può dedurre che Fedro avesse vinto, nel 34 o nel
38 o nel 42, i ludi quinquennali di Napoli, istituiti nel 2 a. C.?16
La ricerca di allusioni a vicende personali o a fatti contemporanei
non ha un punto di partenza del tutto arbitrario, giacché il punto di
partenza è nel sapore personale che la favola di Fedro indubbiamente
ha: l’autore preme nell’interpretazione del racconto con i suoi senti-
menti e le sue situazioni; si direbbe che fatica a non scoprirsi. A chi
viene rivolta la favola (III 12) del pollo che trova la perla nel letame?
L’epimitio della favola (III 13) che racconta la disputa fra api e fuchi
sembra riferirla a un’esperienza personale del narratore:
Nel prologo del terzo libro Fedro protesta, come abbiamo visto, che
egli non scrive per colpire questa o quell’altra persona, che l’interpre-
tazione di alcune sue favole come attacchi personali è una calunnia:
forse l’interpretazione non era del tutto infondata; comunque le favole
si prestavano a tali interpretazioni.
16
La congettura è una delle tante di Havet (ed. cit., p. 265).
Tra le lotte di una vita particolarmente difficile Fedro non fece della
poesia un lusus a cui dedicare le ore di ozio, e neppure un compito
marginale; anzi vi cercò il senso e la ragione della sua vita: da essa
sperava la gloria, la ricompensa alle pene e alle ingiustizie sofferte.
Almeno a partire dal secondo libro egli aspira a un compito paragona-
bile a quello dei poeti augustei: questi non hanno solo tradotto o imi-
tato i poeti greci: li hanno emulati; anche il suo atteggiamento di fron-
te a Esopo è di aemulatio (II epil. 7); egli si propone di elaborare in
latino un genere nuovo, che i Latini possano contrapporre al corrispon-
dente greco (8-9):
La fable du loup et du chien, «Revue des études anciennes», vol. 23, 1921, pp. 95-102.
17
Quanto forte sia la suggestione della poesia augustea sul senso che
Fedro ha del proprio compito poetico, non è inutile, credo, sottolineare.
Gli Ateniesi hanno innalzato a Esopo una statua, gli hanno decretato
una gloria eterna: hanno voluto così dimostrare come la via della gloria è
aperta alla virtù, indipendentemente dalla nobiltà (II epil. 1 ss.). L’oscuro
liberto accetterebbe la morte di Socrate, se potesse conquistare la gloria;
accetterebbe la persecuzione dei vivi, se fosse sicuro di essere assolto e
onorato dai posteri (III 9, 3-4): a proposito della gloria il poeta tocca le
punte più alte del suo pathos. È significativo il fascino che hanno avuto su
Fedro gli aneddoti relativi a Simonide (IV 23; 26): egli vi trova la dimo-
strazione dell’onore in cui uomini e dei tengono la cultura e specialmente
la poesia. Ha fiducia nella durata della propria opera e conta di consegna-
re all’eternità il nome del suo protettore Particulone (IV epil. 5-6):
Questo sentimento della gloria non è in contrasto col senso della vita
che Fedro accetta dalla favola esopica? Alla morale esopica il sentimento
della gloria è estraneo: vi domina la rassegnazione, la convinzione che è
vano o ridicolo cercare di uscire dal proprio stato. Io credo che il contrasto
sia innegabile. Ma qui non si tratta, ovviamente, di andare in cerca, ma-
gari con pedanteria ridicola, di contraddizioni logiche: ciò che importa
rilevare è che Fedro non è un rassegnato per vocazione, così come Lucre-
zio, che teorizza l’atarassia epicurea, non è un uomo placato: la rassegna-
zione di Fedro va sentita, io credo, nella sua tensione con la spinta a libe-
rarsi, per la via della gloria, dalla propria vita oscura e penosa.
La brama di gloria si risolse per Fedro in un’altra acuta sofferenza.
Da vari punti della sua opera è chiaro che il successo gli mancò e che
le denigrazioni lo amareggiarono: il carattere sospettoso e tormentato,
che alcune espressioni fanno sentire, lo rendeva ancora più vulnerabile.
Già nel prologo del primo libro si preoccupa che alcuni possano attac-
carlo (calumniari) perché fa parlare non solo gli animali, ma anche le
piante. Nell’epilogo del secondo libro si sente osteggiato da un Livor,
a cui oppone la coscienza incrollabile dei propri meriti (II epil. 10-11):
È sicuro del successo presso uomini dal gusto fine; se il suo doctus
labor finirà nelle mani di gente poco dotata, occupata solo a denigrare
chi è migliore di sé, egli sopporterà con cuore indurito (18-19):
Scopo del genere esopico è correggere gli errori dei mortali, acuirne
la diligens industria; ma per avvincere l’orecchio (capere aurem) occorre
un racconto divertente (narrandi iocus) (II prol. 1 ss.). Nello scopo uti-
litario trova una giustificazione (ma non la sola) la ben nota brevitas:
poiché ciò che importa è ricavare il succo utile alla vita, meglio evitare
lungaggini e fronzoli. La brevitas presuppone senza dubbio un orien-
tamento retorico che ha influenzato la favola esopica già in età elleni-
stica e che si riflette in una certa misura nella recensio Augustana, ma,
paradossalmente, nella brevitas confluisce anche una certa polemica
antiretorica che nella favola esopica aveva trovato una sua espressione.
Neppure in questo caso, però, va dimenticata la personalità di Fedro:
la sua brevitas si spiega anche con la prevalenza dell’interesse morale
all’inizio della sua carriera poetica, con l’interesse per la sentenza inci-
siva, penetrante, a volte lacerante.
Col bisogno del dulce si collega in qualche modo la ricerca della va-
rietas. Fedro la persegue già subito dopo l’esperimento del primo libro:
il prologo del secondo verte sul problema di conciliare nel nuovo libro la
varietas, fonte importante di diletto, con la brevitas18 (la cui accezione è
duplice: brevitas dei singoli racconti, brevitas del libellus). Ed è, in fondo,
lo stesso problema che si presenta, anche se meno acutamente, nell’epi-
logo del quarto: la materia è vasta e varia; ma bisogna contenersi entro
certi limiti, altrimenti si fallisce lo scopo del dulce:
L’interpretazione di questo prologo è difficile e incerta, forse anche per guasti della
18
Alcuni anni fa ho cercato di darne una visione quanto più possibile sistematica nel
19
saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7). In queste pagine su Fedro presuppongo
quel saggio: senza tener conto della tradizione esopica nel suo complesso non si può, ov-
viamente, interpretare Fedro. Necessaria sarebbe una discussione sulla tradizione esopica
nell’età ellenistica, cioè sulla tradizione presupposta immediatamente da Fedro; ma si trat-
ta di un problema complicato e di soluzione incerta.
oltre i veli stesi dalle illusioni, dalla vanagloria, dal diritto che viene usato
per mascherare la forza; interpretazione della vita come fondata sulla for-
za, la violenza e l’astuzia, sul lione e sulla golpe; valorizzazione dell’astuzia,
dell’accortezza, della saggezza che, senza pretendere di mutare le leggi
della vita, adatta l’individuo a quelle leggi e ne rende possibile la sopravvi-
venza e la soddisfazione dei bisogni elementari; un utilitarismo arido; la
rassegnazione alle leggi di una natura senza giustizia e senza pietà; la ras-
segnazione all’immutabilità delle strutture sociali, il disinteresse per i mu-
tamenti politici, che non possono cambiare nulla per gli strati inferiori
della società. Certi temi paiono più insistenti o più marcati: l’irrisio-
ne della vanagloria, la denuncia della forza che vuole giustificarsi col
diritto (non per niente il primo posto è dato alla favola del lupo e dell’a-
gnello); ma anche alla proclamazione brutale, ripugnante della forza è
forse Fedro che ha dato l’espressione più vigorosa e più amara: mi rife-
risco alla favola della cornacchia appollaiata sulla pecora (App. 26, 5-7):
Si sente obiettare che i ladri sono ricchi; ma, ribatte Fedro, ancora di
più sono quelli puniti. Difficile dire quali ragioni particolari abbiano
ispirato questa momentanea e riservata fiducia nella giustizia umana.
Altrove (III 4) reagisce energicamente a una conclusione che porterebbe
a unire costantemente la bellezza e la saggezza. Il macellaio, che ha ap-
peso nella sua bottega una scimmia ammazzata, risponde a chi gli chie-
de che sapore ha quella carne: «Quale la testa, tale il sapore»20. Ma Fedro
obietta, con qualche risentimento, che si tratta solo di uno scherzo:
Naturalmente va tenuto conto del doppio senso del latino sapere: «avere sapore» e
20
«avere senno».
Cfr. La morale della favola esopica, pp. 516 ss. (qui, pp. 312 ss.). Sulle favole d’ispirazione ci-
21
te dopo questo, forse anche in seguito a critiche rivoltegli, che una fonte
d’interesse importante mancava al racconto. Dopo il primo libro la qua-
lificazione morale dell’animale si fa più rara, senza che per questo cresca
la caratterizzazione icastica; ma è l’azione che diviene più dettagliata e
viva, e il movimento è qualche volta caratterizzante. Qualche caso non
trascurabile è già nel primo libro. La favola delle rane che chiedono un
re (2) non è arida. Ranae vagantes liberis paludibus, anche per la scelta
opportuna dei suoni (ricchezza di a), apre un orizzonte spazioso di liber-
tà. La singola rana che tacite profert e stagno caput e, esaminato ben bene
il travicello, chiama tutte le altre, la turba petulans che salta (insilit) sul
travicello, e altri tratti di questo genere, formano un quadro che ha il suo
movimento e la sua grazia. L’asino e il leone a caccia (I 11), Il cervo alla
fonte (I 12), La volpe e la cicogna (I 26), La pantera e i pastori (III 2) sono
narrazioni dove una caratterizzazione icastica sobria ed efficace si unisce
a una grande naturalezza di sviluppo dell’azione e della scena. Tra le
favole con personaggi animali merita una segnalazione quella della gat-
ta selvatica che porta alla rovina l’aquila e la scrofa del cinghiale (II 4):
qui non solo le battute e i passaggi da scena a scena sono condotti con
arte sicura, ma anche la gatta e i suoi movimenti sono rappresentati
con notevole finezza. Dapprima si arrampica fino all’alto nido del-
l’aquila (ad nidum scandit volucris). Dopo aver messo in allarme l’aquila
(terrore offuso et perturbatis sensibus) striscia giù verso la tana della scrofa
(derepit ad cubile setosae suis); quando ha riempito di paura anche questo
luogo, si appiatta insidiosa nel suo buco (dolosa tuto condidit sese cavo). Di
notte esce con passo sospeso e si procura cibo in abbondanza; la gior-
nata intera, fingendo di aver paura, sta a spiare dal suo buco.
particolare alle battute finali, dense ed efficaci che, talora con sarcasmo,
stringono il senso della favola. Naturalmente neppure questo aspetto
della brevitas di Fedro va dimenticato: la battuta della volpe davanti alla
maschera tragica (I 7), la risposta minacciosa della cagna, circondata dai
suoi cuccioli ormai ben armati di denti, alla collega che le ha prestato il
covo e lo reclama (I 19), la risposta del cane al coccodrillo gentile (I 25),
la battuta sprezzante dell’avvoltoio sul cane morto a guardia del tesoro
(I 27), la risposta altrettanto sprezzante del cinghiale all’asino che l’insul-
ta (I 29), la battuta con cui il topo vecchio ed esperto svela l’insidia della
donnola (IV 2), quella della volpe sull’uva non ancora matura (IV 3), la
risposta dell’asino che rifiuta l’orzo del porcello (V 4), quella della scrofa
partoriente che rifiuta l’assistenza del lupo (App. 19), la sentenza con cui
la vespa sgonfia la vanagloria della farfalla (App. 31), sono manifestazio-
ni di un’arguzia tutt’altro che gratuita, la quale affonda le radici da un
lato nella tradizione esopica, dall’altro nell’amarezza di Fedro, portata
molto più al sarcasmo che alla pacata ironia. Ciò che fa sentire meglio la
stoffa del narratore o del poeta comico è il dialogo vivo e naturale fra i
personaggi. Già il dialogo fra il lupo e l’agnello ne è una prova non tra-
scurabile. Un bell’esempio di dialogo breve, naturale, succoso è nella
favola dell’asino che il vecchio pastore cerca d’indurre a fuggire al so-
praggiungere dei nemici (I 15). Il vecchio è atterrito dalle grida; ma la
bestia, senza scomporsi (lentus):
Naturalmente no.
L’invito della volpe alla terraneola (App. 32) si svolge, mellifluo, con
una certa ampiezza; la risposta dell’uccello è più breve e più secca,
colorita di una calma ironia.
Ma Fedro sa sostenere l’azione dialogata con tutto il respiro necessa-
rio, in un vero svolgimento mimico. La favola del cervo rifugiatosi pres-
so i buoi (II 8) sarà povera dal punto di vista descrittivo, ma dialogo e
movimento scenico si svolgono con una naturalezza perfetta. Il capola-
22
Personaggio vale qui anche per gruppo collettivo: per esempio le rane, le pecore, i lupi,
i gatti selvatici, ecc.
23
Per un’analisi minuta e pedantesca delle strutture nella recensio Augustana si può vedere
M. Nøjgaard, La fable antique, vol. 1: La fable grecque avant Phèdre, Copenhague 1964, e
la mia recensione in «Athenaeum», 1966 (qui, cap. 6).
24
Si possono confrontare ancora I 15, 23, 25, 29; III 3, 11; IV 8; V 2, 3, 10; App. 9, 10, 23, 24,
28, 29, 31, 32; Zand. 4, 19, 20, 23, 25, 26, 27.
25
Cfr. ancora I 2, 9, 27; III 15; IV 6, 7, 19; V 7; App. 18; Zand. 3, 5, 7, 8, 11, 16, 18, 21, 24, 28, 29.
gio punito da uno più furbo di lui: così l’aquila punita dalla volpe (I 28),
la volpe punita dalla cicogna (I 26), il serpente costretto a mollare la lu-
certola che ha già in bocca (App. 25). Qualche rara volta lo sciocco non
ha commesso nulla di male, e paga solo la pena della propria sciocchez-
za: è il caso del caprone che la volpe invita a scendere nel pozzo e ve lo
lascia, dopo essersi salvata saltando sulle sue corna (IV 9). Ma non man-
ca neppure il caso del personaggio che paga per la propria bontà ma-
laccorta: è la favola famosa del viandante che si scalda la serpe in seno
(IV 20).
Sono piuttosto rare le favole che riflettono il conflitto più semplice,
quello, cioè, in cui il personaggio più forte sconfigge il più debole e gli
fa riconoscere la legge della forza, come la famosa favola esiodea dello
sparviero e dell’usignolo: questo è un segno della relativa complessità
raggiunta dalla riflessione della favola esopica. Si può far rientrare in
questo gruppo la favola della gru che fa l’operazione nella gola del lupo
e poi chiede la ricompensa promessa: il lupo le fa osservare che è già
molto se ha tirato fuori salvo il collo dalla gola (I 8). La cornacchia si
appollaia sul dorso della pecora e le dichiara brutalmente ch’ella rispet-
ta i forti, opprime i deboli (App. 26). Le colombe si affidano alla custo-
dia del nibbio e vengono divorate a una a una (I 31). La cagna che deve
partorire si fa prestare la dimora da un’altra cagna; quando i cuccioli
sono cresciuti e sono ben armati di denti, si tiene la casa (I 19). Neppure
in queste favole è in giuoco puramente e semplicemente la forza; nella
favola del lupo e della gru è in giuoco anche la dabbenaggine della gru;
in quella della cornacchia e della pecora la cornacchia unisce alla prepo-
tenza l’accortezza, che le fa evitare il conflitto col più forte; in quella
delle colombe e del nibbio l’accento è posto soprattutto sulla stoltez-
za delle colombe; e il nibbio, che si offre come protettore, è non solo
violento, ma anche astuto. Nella favola delle due cagne c’entra un po’
anche l’ingenuità della cagna che presta la sua casa. Nella favola di Eso-
po e dello schiavo fuggitivo (App. 20) il conflitto tra il più forte e il più
debole, cioè tra il padrone e lo schiavo, è solo un antefatto: la narrazione
verte sul confronto del più saggio, Esopo, col meno saggio, lo schiavo,
da cui scaturisce l’ammonimento ad accettare la legge del più forte. Re-
lativamente semplice è la favola dei sacerdoti di Cibele che, dopo aver
ammazzato il loro asino di fatica e di botte, ne utilizzano anche la pelle
per i tamburi: così l’oppressione dura anche dopo la morte (IV 1); qui la
26
Si possono aggiungere I 6 (dove Fedro ha però deformato, probabilmente, la struttura
narrativa originaria: cfr. Marginalia Aesopica, p. 227 [qui, p. 335]), 18; Zand. 22, 25, 30. Nello
Zander si possono segnalare anche due favole (6, Il topo e il leone; 9, Il leone e il pastore) che
svolgono il motivo della gratitudine dell’animale beneficato verso il benefattore.
27
Si possono aggiungere III 17 (Giove loda la saggezza di Minerva, che ha scelto l’albero
più utile), 19 (Esopo che cerca l’uomo con la lanterna).
Le favole a tre personaggi sono senza dubbio più rare, senza che
le si possa, però, considerare eccezionali (naturalmente vanno escluse le
favole in cui un terzo personaggio compare solo nell’antefatto, non
nell’azione vera e propria). Fedro risente di una tendenza, certo già
sviluppatasi prima di lui, ad avvicinare la struttura al conflitto di due
personaggi: un esempio insigne è la favola dell’aquila e della volpe,
dove il terzo personaggio, Giove, è scomparso (I 28). Ne è un segno,
io credo, il fatto che spesso, anche là dove il terzo personaggio è essen-
ziale all’azione, il racconto effettivo lo relega in secondo piano (tra
l’altro è spesso un personaggio muto). Prendiamo, per esempio, la fa-
vola del passero che irride la lepre sopraffatta dall’aquila (I 9): mentre
irride, viene acchiappato e ucciso dallo sparviero; lo sparviero, più che
un personaggio, è lo strumento di punizione dello stolto passero (l’a-
zione sarebbe poco diversa se la causa della morte fosse una forza della
natura). Direi press’a poco lo stesso della favola del topo e della rana
(Zand. 1, probabilmente da Fedro), dove la funzione del nibbio è simi-
le a quella dello sparviero nell’altra favola. Nella favola dei due muli
(II 7), l’uno carico di danaro, l’altro carico d’orzo, l’assalto dei briganti
è necessario all’azione, ma il conflitto si svolge tra i due muli: i brigan-
ti sono un elemento della situazione. Nella favola delle rane che chie-
dono un re (I 2), il conflitto si svolge fra le rane e Giove: il travicello e
la serpe sono solo elementi di due situazioni diverse (è questo uno dei
pochi casi di favola raddoppiata, cioè con due fasi diverse, di cui cia-
scuna comporta una situazione e una scelta). Nella favola delle rane
preoccupate per le battaglie dei tori (I 30), il conflitto che interessa è
quello fra i tori e le rane, fra i potenti e gli umili; ma nella formulazio-
ne narrativa si ha discussione fra due rane, di cui l’una dimostra all’al-
tra i pericoli derivanti agli umili dalle lotte dei potenti. Sembra diverso
il caso della favola della pantera e dei pastori (III 2): qui i personaggi
sono tre, la pantera, i pastori malvagi e i pastori misericordiosi, tutt’e
tre essenziali; eppure nel racconto di Fedro il rapporto di gratitudine,
cioè quello fra la pantera e i pastori misericordiosi, diventa preminen-
te rispetto al rapporto di vendetta (quello fra la pantera e i pastori
malvagi)28.
Considerazioni simili si potrebbero adattare a III 4; IV 12; Zand. 13 (simile a I 9 e Zand. 1);
28
Zand. 16 e 18.
29
Alle favole di questo tipo si può avvicinare I 16 (La pecora, il cervo e il lupo), dove il lupo
vorrebbe fare da garante al cervo in una operazione di prestito.
30
Si possono aggiungere IV 12; App. 5-6. Un caso particolare è App. 11 (Giunone, Venere e
la gallina): qui Venere mette a nudo il vizio della gallina, ma la gallina non c’entra nel
conflitto: essa serve di simbolo a Venere nella sua disputa; quindi la favola rientra piuttosto
in quelle con conflitto di due personaggi, di cui l’uno è più accorto dell’altro.
31
Si possono aggiungere Zand. 13 (lo sparviero sta per ammazzare l’usignolo; promette di
risparmiarlo se canterà bene; ma, naturalmente, il canto non sarà mai giudicato abbastan-
za bello; intanto sopraggiunge un cacciatore e acchiappa lo sparviero), 18, 15. Ma nei primi
due casi l’origine da Fedro è dubbia.
32
Si possono aggiungere Zand. 12, 14 (quest’ultimo caso di dubbia origine fedriana).
33
Quanto al tipo di azione, I 5 è un conflitto in cui il prepotente vince, I 21 un conflitto
che svela la viltà dell’asino, IV 19 un conflitto in cui viene punita la stoltezza dei cani.
34
Cfr. anche l’allegoria delle due bisacce (IV 10). Alle favole allegoriche si possono acco-
stare quelle in cui il comportamento di un animale è preso come prova di una qualche
massima: per esempio, il comportamento dell’orso affamato (App. 22) o quello del castoro
inseguito dai cacciatori (App. 30).
Più che dalle strutture interne del racconto Fedro si sente legato dalle
strutture relative all’interpretazione della favola. Innanzi tutto egli ac-
cetta il principio che l’interpretazione della favola non va lasciata al
lettore, ma che il favolista deve dargliela già interpretata: il favolista si
pone di fronte al suo pubblico come uno che spiega e consiglia; viene
quindi a sparire quell’atteggiamento, tutt’altro che raro nelle figure dei
«sapienti», di chi insegna la verità per allusioni ed enigmi. In qualche
modo il procedimento didattico è in contrasto col principio più antico,
ma ancora sentito da Fedro, per cui la favola è un simbolo che deve
aguzzare l’ingegno.
Le eccezioni, cioè i casi in cui la narrazione è autosufficiente in
quanto contiene già in sé la sua interpretazione (specialmente perché
essa è data nella battuta finale di uno dei personaggi), sono già molto
rare in Fedro; e in qualche caso non si può escludere che il promitio o
l’epimitio sia perduto35. Un eunuco litiga con un insolente, e questi gli
rinfaccia la sua impotenza; l’eunuco gli obietta che la colpa è solo del-
la fortuna, e conclude (III 11, 7):
Naturalmente non si può tener conto delle favole dell’Appendix Perottina, i cui promiti
35
lettori moderni non dispiace affatto) che sia lasciato senza interpreta-
zione il grazioso aneddoto su Menandro e Demetrio (V 1).
All’inizio della sua attività poetica Fedro ricorre più volentieri al
promitio (nel primo libro ben 26 casi su 31): è probabile che questo
fosse il procedimento del suo modello esopico. In seguito il promitio
diviene più raro, ma non sparisce (nel secondo libro 3 casi su 8, nel
terzo 7 su 19). Per lo più contiene una verità generale di utilità pratica
(tipo Numquam est fidelis cum potente societas, I 5, 1) o, più di rado, un
ammonimento (tipo Nulli nocendum, I 26, 1 oppure Ne gloriari libeat
alienis bonis, I 3, 1)36. Invece è molto raro (anche nel primo libro) il
promitio, già in uso in Grecia, «la favola è scritta per questo o per
quello», «la favola si applica a questo o a quello» (I 27, 1-2, Haec res
avaris esse conveniens potest / et qui humiles nati dici locupletes student;
altro caso in IV 8). Anche l’epimitio è spesso sentenzioso: o si enuncia
la verità generale ricavata dal racconto (per esempio, II 3, 7, Successus
improborum plures allicit ; IV 6, 11-13, Quemcumque populum tristis even-
tus premit, / periclitatur magnitudo principum, / minuta plebes facili prae-
sidio latet) o si dà la favola come esempio o come prova di una verità
generale (per esempio, II 4, 25-26, Quantum homo bilinguis saepe con-
cinnet mali, / documentum habere hinc stulta credulitas potest ; II 7, 13-14,
Hoc argumento tuta est hominum tenuitas, / magnae periclo sunt opes ob-
noxiae) o si passa al consiglio o all’ammonimento (per esempio, III 14,
12-13, Sic lusus animo debent aliquando dari, / ad cogitandum melior ut
redeat tibi; III 17, 13, Nihil agere quod non prosit fabella admonet ; III 18,
14-15, Noli adfectare quod tibi non est datum, / delusa ne spes ad querelam
reccidat). Ma nell’epimitio il tipo «la favola si rivolge», «si applica a
questo o a quello» è più frequente che nel promitio, anche se non tan-
to da poter dirsi prevalente (per esempio, I 1, 14-15, Haec propter illos
scripta est homines fabula / qui fictis causis innocentes opprimunt ; I 7, 3-4,
Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam / Fortuna tribuit, sensum
communem abstulit; III 6, 10-11, Hac derideri fabula merito potest / qui
sine virtute vanas exercet minas)37.
36
Credo inutile pedanteria ricorrere a distinzioni più precise; comunque chi ne ha voglia
può vedere la classificazione degli epimiti della recensio Augustana in Nøjgaard, La fable
antique, cit., vol. 1, pp. 359 ss.
37
IV 5 presenta sia il promitio sia l’epimitio. Un caso particolare, su cui tornerò in seguito,
è III 10 (novella), con un promitio e due epimiti.
38
Cfr. supra, pp. 200-201.
39
Cfr. supra, p. 203.
cose fatte, offre la sua opera (V 2), mette in ridicolo quelli che vantano
qualità, mentre non sanno dimostrarle al momento giusto (e questo
senso risulta anche in Fedro dalla battuta del soldato valoroso); ma la
morale che ne ricava Fedro (Illi adsignari debet haec narratio, / qui re
secunda fortis est, dubia fugax), pur non essendo sfasata, è troppo restrit-
tiva. Altre riserve certamente si potrebbero fare indagando più sottil-
mente; ma in generale la morale di Fedro, pur essendo spesso super-
flua, è aderente al racconto.
Tutti i lettori di Fedro sanno come dopo il primo libro egli abbia cerca-
to di arricchire e variare la sua opera, scostandosi da quello che egli rite-
neva l’Esopo autentico e attingendo ad altre raccolte di favole e aneddo-
ti. Nel prologo del secondo libro, però, egli s’impegna a osservare omni
cura morem… senis: la maniera resta quella esopica. Ma proprio nel se-
condo libro (che conserviamo solo in parte) abbiamo il passo avanti
forse più audace sulla via dell’innovazione: il grazioso episodio di Tiberio
e dello schiavo zelante (II 5) non è attinto da libri, bensì dalla viva vita
contemporanea. Nell’epilogo del secondo libro Fedro non si presenta
come rielaboratore di Esopo, ma come il suo emulo latino. L’orgoglio è
salito nel prologo del terzo: del sentiero di Esopo egli ha fatto una via,
ha arricchito molto il repertorio del suo auctor greco. Il concetto torna
nel prologo del quarto (11 ss.): il genere letterario è quello di Esopo, le
res, gli argomenti sono nuovi; le sue favole sono «esopiche» (Aesopiae),
ma non di Esopo. Gl’invidiosi non sanno riconoscere l’arricchimento e
la perfezione che Fedro ha apportati al genere (IV 22); ma
40
Si potrebbe aggiungere Zand. 28, se fosse di origine fedriana.
41
Quot res contineat hoc argumentum utiles / non explicabit alius quam qui repperit: se ne può
concludere con probabilità che Fedro non aveva una fonte scritta.
42
Per la storia di questo motivo cfr. Thiele, Phaedrus-Studien, cit., pp. 577 ss.
In una tradizione retorica che già da secoli (sia pure in una misura da
non sopravvalutare) aveva agito sulla favola, l’esigenza della brevitas fa-
ceva tutt’uno con l’esigenza di uno stile semplice (ἁπλοῦς) e chiaro
(σαφής). Fedro s’è messo decisamente su questa strada; ma la felicità del
risultato non dipende, si capisce, da questa scelta, bensì dalla risponden-
za di questa scelta con la misura e col gusto realistico di Fedro. Del resto
il presupposto culturale che più ha giovato a Fedro per la formazione
dello stile non è la tradizione retorica a cui ho accennato, ma una grande
tradizione latina di stile poetico medio che ha il suo punto di partenza
in Terenzio. Non è per caso che da tempo alcuni critici fini, per esempio
Gian Vincenzo Gravina43, hanno avvertito il livello e il colore terenziano
dello stile di Fedro: è soprattutto la fusione felice della semplicità e chia-
rezza con l’urbanità, l’eleganza, il nitore che induce a richiamare Teren-
zio. E tuttavia il richiamo a Terenzio, da solo, rischia di dare un’im-
magine falsa dello stile di Fedro: il richiamo dello stile satirico, e
specialmente di Orazio, metterebbe meglio a fuoco lo stile poetico me-
dio, ma vario, e non del tutto semplice, del favolista latino.
Il colore di fondo, sì, è dato dallo stile medio: chiaro, succinto,
elegante. Questo narratore, che ha raggiunto tanta naturalezza nel dia-
logo, si tiene ancorato abbastanza saldamente alla lingua viva della
conversazione44. Nelle battute dialogiche questo è più ovvio45; ma l’im-
43
Ragion poetica, I, 25, a cura di P. Emiliani Giudici, Firenze 1857, p. 63 (segnalato da
Della Corte, Favolisti latini, cit., p. 76).
44
La preferenza di Fedro per gli usi comuni, usuali, fu messa bene in rilievo da C.
Causeret, De Phaedri sermone grammaticae observationes, Parisiis 1886. Per la conoscenza
del sermo familiaris di Fedro elementi utili sono raccolti da J. Bertschinger, Volkstümliche
Elemente in der Sprache des Phaedrus, Diss. Bern 1921, che però dà un’interpretazione gene-
rale piuttosto errata dello stile di Fedro: tra l’altro egli crede che certi usi popolari si
spieghino con lo scarso possesso del latino da parte del liberto straniero.
45
Mi limiterò a citare sodes (App. 11, 5), ais (IV 7, 17, ait P.), mehercule (I 25, 7; III 5, 4; V 5,
22), mehercules (III 17, 8; App. 14, 3), e modi ellittici come licet? (App. 10, 20), licetne paucis?
(App. 17, 5), tanto melior (III 5, 3).
46
Attribuirei meno importanza alla discreta presenza di alter (quattordici volte) accanto
ad alius (venticinque volte): essa si deve alla frequenza delle favole con due personaggi.
47
Catullo 22, 21, riferendosi allo stesso proverbio, usa mantica; ma pera doveva essere
nell’uso perché troviamo prima di Fedro il composto sacciperium (Plauto).
48
Meno importanza attribuirei alle forme verbali perifrastiche con fueram o fuero, perché
non si limitano al sermo familiaris (cfr. I 2, 23; IV 4, 1; 5, 45; App. 16, 8).
49
Naturalmente nel verso di Marziale (III 20, 5) è da leggere iocos.
liberto (III 10, 33), ecc.50. C’è tuttavia qualche caso in cui l’astratto per
il concreto contribuisce all’efficacia icastica: la longitudo del collo della
gru (I 8, 8), la longitudo del naso della donna che Mercurio punisce
(App. 4, 16), la tenuitas delle gambe del cervo (I 12, 6), la levitas putris
della farfalla (App. 31, 6), la tanta maiestas di Tiberio (II 5, 23)51.
Questo, naturalmente, non basterebbe a provare una forza espres-
siva e rappresentativa dello stile di Fedro. Ma a un lettore anche non
molto attento non dovrebbero sfuggire quei momenti, tutt’altro che
rari, in cui lo stile semplice e piano di Fedro si fa più pregnante e in-
cisivo, dà un colpo d’ala o scava più a fondo. Qualche caso ho avuto già
occasione di notare52. Guardiamo, per esempio, lo sparviero che affer-
ra il passero (I 9, 6-7):
50
Cfr. ancora I 22, 11; 30, 11; III 5, 9; epil. 17; IV prol. 8; 6, 12; 21, 5; V 7, 3; App. 15, 20.
51
Resta qualche caso difficilmente classificabile: I 3, 16; II 7, 13; III epil. 3; App. 5-6, 20
(in quest’ultimo caso si tratta di metonimia usuale).
52
Cfr. supra, p. 206.
E si potrebbe continuare53.
Anche il metro serve talora sottilmente l’espressione. La ricchezza
di spondei sottolinea (in funzione scherzosa) la maestà di Pompeo e la
statura gigantesca del soldato (App. 10, 1):
e la maestà del leone, piantato sulla preda abbattuta (II 1, 1, con tre
spondei):
o il diletto sublime che può dare la musica della lira (App. 14, 6):
Tralasciando casi di cui tratterò in seguito, vorrei segnalare ancora: I 6, 8; 13, 11; 18, 3;
53
54
Fata (I 9, 10; App. 19, 8; 21, 9, ecc.), fletūs (I 9, 3), auxilia (I 31, 2), freta (IV 7, 19), aquae
(App. 7, 10), frigora (IV 25, 19), praesepia (V 9, 2), freni (III 6, 7), saltūs (I 5, 4), ecc.
55
Faux (I 1, 3; 8, 4), nex (I 1, 13; 2, 25; 22, 1; 31, 4; IV 2, 14, ecc.), daps (II 4, 24; 6, 15), cervix
(II 7, 4), ecc. Un singolare per il plurale è pennae (gen.) in I 31, 4.
56
Cinis «morto» (III 9, 4), calamus «lo scrivere» (IV 2, 2), sudor «fatica» (App. 7, 5), spiritus
«vita» (II 8, 7), caelum «gli dei» (IV 21, 24; 7, 26), ferrum «spada» (II 7, 8; III 10, 33; App. 8, 10),
cornea domus «il guscio della tartaruga» (II 6, 5), ecc. Troppo poco: in verità l’uso di metafore
e metonimie è scarso in Fedro.
57
Per esempio, decurro (IV 1, 2), excedo (III epil. 28), evado (IV 6, 4) costruito con l’accusativo;
l’ablativo semplice di modo: I 25, 6, otio; II 9, 13, arte; IV 5, 37, luxu. Meno importanza ha la
costruzione con l’infinito di verbi come suadeo (I 15, 6), opto (V 3, 10), delector (V 3, 9), quaero
(III prol. 25), capto (IV 8, 6), mereo (III 11, 7) (cfr. anche III prol. 6, causa est con l’infinito), per-
ché questa maggiore libertà sintattica è tanto dello stile aulico quanto della lingua parlata.
58
Per esempio, ferus sostantivato per «fiera» (I 12, 9; 21, 8; II 1, 6; 8, 14; IV 4, 3), senecta (IV 2,
10), ignotus in senso attivo (I 11, 2), liquor «acqua» (I 1, 8: tutto il verso, con il difficile ad meos
haustus, è raffinato), lymphae «acqua» (I 4, 3), sidera (I 6, 4; IV 26, 9), astra (II 6, 12), aevum
«vita» (I 31, 7), caelites (App. 16, 33), superi (IV 21, 19; 26, 3; App. 28, 3), numina (IV 26, 32), pater
deorum (I 2, 13), deorum genitor atque hominum sator (III 17, 10), genitor deorum (IV 19, 22).
59
Forse anche alticinctus (II 5, 11), attestato dal Pithoeanus e accolto nelle loro edizioni
fedriane da Müller e Guaglianone (in Perry alte cinctus).
60
Invece sophus per indicare «il sapiente» Esopo (congettura probabile in III 14, 9; IV 18,
8; App. 13, 2), sebbene attestato prima solo da Lucilio 1236 M., non doveva essere una rari-
tà: erano già introdotti in latino sophia e forse anche l’avverbio σοφῶς «bravo!» (cfr. Marx
nel commento a Lucilio).
61
Nella parafrasi dell’apertura della Medea enniana (IV 7, 6 ss.) l’arcaismo è nettamente
temperato rispetto all’originale.
62
In qualche punto della favola (per esempio nella serie rapida di presenti storici a 20-21)
forse è parodiato lo stile della storiografia o dei poemi storici.
63
Può darsi che sia aulico anche questo imperfetto in -ibam; ma, com’è noto, la forma è
anche popolare.
(da notare le due parole ampie con cui si chiude il secondo senario). A
stile aulico o parlato ricorre la volpe per lusingare la vanità del corvo
(I 13, 6-7); in stile aulico e solenne si vanta la mosca nel suo contrasto
con la formica (IV 25, 6 ss.):
(uno stile aulico che poi la mosca a sua volta canzona, quasi mimicamen-
te: 13, Reges commemoras et matronarum oscula); la Pizia invasata (App. 8,
3 ss.) è descritta con tono che riecheggia Virgilio, Aen. VI 98 ss.
Ma Fedro innalza talvolta lo stile anche senza funzione caricatura-
le: lo fa quasi sempre senza tumor e quasi mai gratuitamente. Per
esempio, si apre con stile patetico e solenne la favola del vecchio leone
morente (I 21, 3 ss.):
64
Per delibare oscula cfr. Virgilio, Aen. XII 434.
65
Per quest’uso metaforico di fulmineus cfr. Virgilio, Aen. IX 441-42; Orazio, Carm. III 16,
10-11; Ovidio, Ars II 374, ecc.
66
Notare i tre spondei in prima sede.
Se entra in scena Augusto, va usato il tono che gli si conviene (III 10,
39 ss.). L’elogio che Giunone fa del pavone, richiede stile alto e forbito
(III 18, 7-8). Altrove è il pathos morale della diatriba che richiede l’innal-
zamento del tono: per esempio, nell’ammonimento che la Religio rivolge
al ladro (IV 11, 5 ss.), nell’ammonimento che il favolista rivolge all’avaro
(IV 21, 16 ss.); un tono meno solenne, ma pur sempre sostenuto, è nello
svolgimento diatribico che costituisce V 2. Particolarmente solenne è
l’apertura della favola che dimostra la dolcezza della libertas (III 7, 1):
In qualche punto del prologo del terzo, nello stile elevato agiscono
reminiscenze virgiliane (cfr. 56 ss. con Buc. 4, 55 ss.). Sono Virgilio ed
Ennio, due poeti di stile sublime, che dominano nella cultura poetica
di Fedro68.
Proloquor non è di uso comune: è arcaico e poetico, estraneo a Cicerone, Cesare, Quintiliano.
67
Oltre paralleli già dati (p. 233) cfr. I 12, 5, ramosa cornua con Buc. 7, 30; III 17, 2 ss. con
68
Buc. 7, 61-62; App. 7, 13-14 con Aen. VI 393 ss.; inoltre Virgilio (Aen. II 77) è citato in III
prol. 27. Di Ennio, Sc. 246 ss. V.2 c’è una parafrasi poetica, com’è noto, in IV 7, 6 ss.; inoltre
Ennio è citato in III epil. 34 (dal Telefo, 331 V.2); probabilmente un’allusione a Ennio
Lo stile medio non era una scelta arbitraria: era lo stile del realismo
comico che corrispondeva al modo di guardare la vita umana da parte
di Fedro. Variarlo non significava affatto tradire il realismo: oltre che
evitare la monotonia, oltre che cercare una sobria eleganza, Fedro ha
voluto una maggiore duttilità del tono. Bisogna leggerlo tenendo l’o-
recchio attento a questa sua ricerca e a questa sua conquista.
(Sc. 321 V.2) è in III prol. 38; forse enniano anche App. 10, 5, cum veste et auro et magno ar-
genti pondere (cfr. Marginalia Aesopica, p. 229 [qui, p. 338]). Non mi pare che siano provate
reminiscenze precise da Orazio (una somiglianza, ma troppo debole, mi pare di scorgere
fra IV 25, 19, mori contractam cum te cogunt frigora e Orazio, Epist. I 7, 10 ss., quodsi bruma
nives Albanis inlinet agris […] vates tuus […] contractus leget; certe non mi sembrano nep-
pure le derivazioni da Carm. II 3 e Sat. II 3 in Fedro IV 21 segnalate da Dora Bieber,
Studien zur Geschichte der Fabel in den ersten Jahrzehnten der Kaiserzeit, Diss. München
1905, p. 51, accettate da A. Hausrath, Zur Arbeitsweise des Phaedrus, «Hermes», vol. 71,
1936, pp. 91-92: le derivazioni da Sat. II 3, che sono le più notevoli, possono anche spiegar-
si con luoghi comuni diatribici). Anche alcune supposte derivazioni da Ovidio (a propo-
sito cfr. soprattutto H. von Sassen, De Phaedri sermone, Diss. Marburg 1911) mi sembrano
dubbie: la scena di III 10, 24 ss. deriverebbe da Fast. II 347 ss.; Fedro III 18, 7 ss. presup-
porrebbe Med. fac. 33-34; Met. I 723; Fedro II 2, 7, capillos […] legere riecheggerebbe Ars II
666; Fedro I 18, 5; III 15, 5 (onus per indicare il feto nel ventre) non sarebbero possibili
senza l’analoga metafora ovidiana (Met. VI 224; X 506; Her. 11, 64, ecc.); persino simula-
crum per indicare l’immagine nell’acqua (Fedro I 4, 3) sarebbe attinto da Ovidio (Met. III
432); e così via. Come si vede, o le analogie sono di contenuto senza reminiscenze for-
mali precise o sono formali, ma vertono su espressioni abbastanza solite. Crederei piut-
tosto a reminiscenza (e parodia) dall’Ibis 387 in IV 6, 10.
69
Elementi utili si ricavano dalla dissertazione citata di von Sassen, di cui mi sono servi-
to in parte delle pagine precedenti.
Capitolo 6
Strutture compositive
e leggi narrative della favola esopica1
Questo volume massiccio è la prima parte di una vasta opera sulla favo-
la esopica greca e latina; il secondo volume abbraccerà Fedro, Babrio,
Aviano. L’opera si presenta come nuova già nell’impostazione generale:
è infatti in gran parte un’analisi strutturale della favola greca, che parte
da metodi già affermatisi nello studio delle letterature popolari (parti-
colare influenza sull’autore hanno avuto le ricerche del danese Axel
Olrik sull’epica). Lo strutturalismo è oggi una moda. Non voglio dire
con questo che sotto la sua etichetta non corrano cose molto serie. Non
essendo questo il momento opportuno per una discussione generale di
teorie e di metodi, dirò solo che proprio lo studio dei generi letterari è
uno dei campi in cui l’analisi strutturale appare più legittima e fruttuosa:
in tanto esiste genere letterario in quanto esiste una tradizione in cui
sono fissati alcuni elementi che le innovazioni individuali, almeno
nell’ambito di una determinata civiltà, utilizzano, tutt’al più modificano,
ma non distruggono. Il rapporto fra innovazione individuale e tradizio-
ne è cambiato notevolmente dal romanticismo in poi, giacché da allora
l’individuo si sente più libero rispetto alla tradizione; e tuttavia siamo
ben lontani dal poter affermare che il genere sia sparito: proprio il frutto
più nuovo del romanticismo, il romanzo, si è affermato come un nuovo
genere o, piuttosto, come una serie di generi, ciascuno con sue proprie
strutture, valide almeno per determinate epoche della narrativa.
Secondo lo strutturalismo la condizione prima per l’analisi struttu-
rale è la sincronicità degli elementi da analizzare in quanto costituisco-
Phèdre, Nyt Nordisk Forlag – Arnold Busck, Copenhague 1964, «Athenaeum», n. s.,
vol. 44, 1966, pp. 354-369. Titolo redazionale].
Cito dall’ed. Chambry (editio maior, 1925-1926) perché è quella usata dal Nøjgaard,
2
poi dal nucleo narrativo: per esempio, la 356 Ch. (= 261 H.) Il pappa-
gallo e la donnola incomincia: «Un tale comprò un pappagallo e lo lasciò
aggirarsi liberamente per la casa»; in seguito il padrone non compare
più (pp. 144-145). Veramente bisognerebbe aggiungere che tutta la di-
scussione dei due animali riguarda l’atteggiamento dei padroni verso
di loro. Ci sono casi in cui l’introduzione ha uno sviluppo troppo am-
pio, casi in cui manca (pp. 145-146). La seconda parte, il nucleo narra-
tivo, consiste in un conflitto di due personaggi, causato dagl’interessi
divergenti (pp. 147-148); anche dove il personaggio è unico, c’è un con-
flitto interiore del personaggio con sé stesso (p. 148). L’azione del nu-
cleo narrativo comporta un’azione di scelta del personaggio più debole:
per esempio, nella favola del corvo e della volpe (166 Ch. = 126 H.) il
corvo «sceglie» di cantare e di aprire la bocca, lasciando cadere inav-
vertitamente il formaggio (pp. 148 ss.). L’azione di scelta è struttural-
mente al centro; ciò non vuol dire che lo sia anche materialmente:
qualche volta si trova al principio o alla fine. La parte finale della fa-
vola contiene la valutazione dell’azione di scelta (pp. 151-152); la va-
lutazione è essenziale alla favola: senza di essa non si ha più favola. La
valutazione è enunciata o indirettamente per mezzo dell’azione stessa
o direttamente ed esplicitamente per mezzo di una replica (pp. 152-
153); e qui ancora distinzioni di azioni finali – per esempio l’azione fi-
nale assoluta, cioè quella che implica la morte di un personaggio, l’a-
zione finale a riassunto, cioè una formula che si limita a riassumere il
corso dell’azione precedente, senza aggiungere nuovi elementi attivi
(pp. 153 ss.) – e di repliche finali – quella precettorale, che indica la na-
tura dell’errore, senza veramente biasimarlo, quella gnomica, che enun-
cia una massima e rompe il corso dell’azione portandoci al di fuori di
essa, quella autocritica, quella in forma di lamento (plaintive) del perso-
naggio sconfitto (pp. 161 ss.) –.
Dentro questo schema non si possono costringere tutte le favole
dell’Augustana: bisogna perciò escogitarne di nuovi. Ci sono favole
senza conflitto, perché il personaggio è uno solo e manca il conflitto
interiore (se c’è conflitto interiore, la favola è assimilabile a quella con
due personaggi): esse vengono poste sotto l’etichetta di favole sempli-
ficate (pp. 170 ss.): per esempio, quella delle mosche che restano impi-
gliate nel miele e vi muoiono, dopo aver lamentato il loro errore (241
Ch. = 82 H.). Ci sono invece altre favole in cui le azioni scelte sono
tà, ma il luogo non cambia più di una sola volta (pp. 203-204). Carat-
terizza la collezione Augustana la tendenza alla brevità; ma il NØjgaard,
convinto delle qualità artistiche del compilatore, vuol mostrare come
l’abbreviazione nell’Augustana non sia meccanizzazione: il compilatore
non ha interesse esclusivo per la morale, in modo da ridurre l’azione a
un’immagine morta, ma conserva all’azione una sua vita interpretan-
dola moralmente e mettendo in rilievo la valutazione (pp. 204 ss., spec.
205). Il tempo della favola non è fissato con dati esterni; il senso del
tempo non viene neppure dato da uno sviluppo psicologico, quasi sem-
pre assente nella favola, bensì dallo sviluppo stesso dell’azione (tempo
d’azione) (pp. 211 ss., spec. 216). Bisogna però considerare che nell’Au-
gustana lo scrittore non mira a raccontarci l’azione nel suo sviluppo e
nei suoi momenti, bensì nel suo complesso, come totalità e continuità
logica (pp. 218-219); dalla mancanza d’interesse per i momenti risulta
un racconto sempre eguale a sé stesso (égalité de l’exposé) (pp. 223-224).
La scarsa importanza delle circostanze esterne, il fatto che l’azione
contenga in sé caratteri e tempo significano un forte predominio
dell’azione: la conseguenza sul piano stilistico è il forte predominio del
verbo (stile verbale) (pp. 225-226). Riferimenti a un tempo esterno all’a-
zione stessa sono rarissimi sia nell’Augustana sia in altre collezioni, più
frequenti in favole citate altrove (pp. 225-226); essi snaturano la favola,
ci portano alla novella o all’aneddoto (pp. 226 ss.). Anche la colloca-
zione dell’azione in luoghi geograficamente determinati è estranea alla
favola, comune, invece, nell’aneddoto (pp. 231 ss.). Nell’Augustana il
senso dello spazio è attenuato: lo spazio ha un colore d’irrealtà, senza
diventare per questo lo spazio fantastico (pp. 234-235); il paesaggio è
ridotto a elementi generici e fissi (pp. 235 ss.), il che rientra nella tec-
nica dell’abbreviazione (p. 242): i rapporti dei personaggi tra loro non
sono rapporti materiali nello spazio, ma rapporti spirituali creati dai
sentimenti reciproci (p. 241) (qui l’autore è infelice sia nel pensiero sia
nei termini: l’azione della favola è collocata nello spazio comunemen-
te noto al lettore, solo che esso è ridotto per lo più, e non sempre, alla
massima genericità possibile).
Le forze che la favola fa agire non seguono le leggi di natura: il
narratore si concede l’arbitrio di dare agli animali attributi umani o
attributi zoologici errati (pp. 246 ss.); tuttavia l’arbitrio non esclude le
leggi naturali: piuttosto mantiene con esse un delicato equilibrio
(pp. 252 ss., spec. 252). Quali sono queste forze? Domina l’interesse
(pp. 256-257); il disinteresse è solo apparente: l’animale che aiuta un
altro non lo fa per carità, ma in vista di un suo vantaggio futuro
(pp. 257 ss.); l’amicizia non è mai sentimentale, è solo comunanza d’in-
teressi (p. 259). L’interesse si serve ora della forza ora dell’astuzia: i
conflitti fondamentali si aprono tra forza e debolezza, tra astuzia e
sciocchezza (pp. 261 ss.), conflitto materiale il primo, spirituale il se-
condo: si ha spiritualizzazione del conflitto quando esso passa dal pri-
mo piano al secondo, in parole povere quando la forza viene sconfitta
dall’astuzia (p. 264); la spiritualizzazione esclude la conclusione me-
diante azione finale (l’azione non può essere che materiale) e richiede
la conclusione mediante replica finale (p. 265). Se le forze agenti nella
favola fossero le leggi naturali col loro carattere di necessità e se la
forza materiale vincesse ineluttabilmente, senza poter essere dominata
dalla forza spirituale dell’astuzia, non ci sarebbe più posto per la liber-
tà di scelta: ma questa viene assicurata dalla posizione arbitraria che il
narratore assume di fronte alle leggi naturali, e dalla possibilità per
l’astuzia di dominare la forza, possibilità che pone i due personaggi in
conflitto su un piano di eguaglianza (pp. 268 ss.).
La forza, materiale o spirituale, agisce come personaggio, e il per-
sonaggio è solo espressione della forza stessa: perciò il favolista non
conosce un cane, ma il cane che s’identifica con tutta la sua specie
(pp. 284 ss., spec. 286-287): la mancanza di articolo davanti al nome
dell’animale o della pianta (l’articolo compare solo a partire da Aristofa-
ne, ma non è usato nell’Augustana) non è una prova in senso contrario,
perché in realtà il nome dell’animale o della pianta è sentito come un
nome proprio (pp. 287 ss.). Tale funzione del personaggio spiega anche
come, tranne in Babrio, esso manchi di ogni carattere individuale. L’Au-
gustana manca di analisi psicologica: abbiamo già visto, infatti, che il
carattere e i sentimenti si manifestano solo nell’azione (pp. 294 ss.). Con-
tro l’opinione comune il Nøjgaard sostiene che i caratteri dei perso-
naggi non sono umanizzati (pp. 296 ss.); ma egli si fonda sull’argo-
mento che l’Augustana non fa riferimenti espliciti ai rapporti sociali
umani; ora, a parte il fatto che riferimenti alla gerarchia sociale non
sono rari, come l’autore stesso riconosce (p. 299), l’opinione comune
parte dalla considerazione che in genere l’attribuzione arbitraria di cer-
ti caratteri ad animali o piante, a cominciare dalla facoltà di parlare, è
gio ai confini fra il tipo e l’individuo (p. 351). L’analisi dello stile non
rientra nei compiti propostisi dall’autore, perché essa «trascinerebbe
troppo lontano dall’analisi strutturale» (p. 355), ma egli caratterizza
brevemente lo stile dell’Augustana dalla sua semplicità (scarsezza di
epiteti, mancanza di figure stilistiche eccetto l’antitesi), dalla sua pre-
cisione, dalla sua trasparenza, che consiste nel tralasciare quanto non
riguarda immediatamente la struttura (pp. 355-356). Lo stile dell’Au-
gustana si distingue anche per l’uso del discorso indiretto all’interno
della narrazione e l’uso del discorso diretto nella replica finale. Il pro-
cedimento è voluto e mira a dar risalto alla funzione particolare di tale
replica (pp. 356-357).
Vengono poi analizzati i vari tipi formali di epimitio (pp. 359 ss.):
parenetico, paradigmatico (introdotto da «così» oppure «la favola dimo-
stra che...»), sarcastico (sotto questa etichetta l’autore mette gli epimiti
introdotti con la formula «La formula si adatta a...» e simili). A pro-
posito degli epimiti, come in altre occasioni, il Nøjgaard nega l’origine
retorica, scolastica dell’Augustana (pp. 363-364). Quanto al suo conte-
nuto, la morale sempre «vise une personne» (p. 366), cioè, direi, un
determinato tipo umano. In genere la morale è rivolta contro il perso-
naggio più debole, cioè contro quello che viene sconfitto con la for-
za o con l’astuzia (pp. 366-367), ma i casi contrari non sono pochi
(pp. 367-368). Nell’Augustana, come nelle altre raccolte, non mancano
epimiti in contraddizione con la morale implicita nella favola: ciò non
basta a dimostrare che essi non risalgano all’autore stesso dell’Augu-
stana (pp. 370 ss.). Tralascio qui la trattazione non breve dei «generi
secondari», cioè dei tipi di narrazione che nell’Augustana, come in
altre raccolte, sono stati utilizzati e assimilati alla favola esopica: aned-
doto (pp. 384 ss.), immagine allegorica (pp. 397 ss.), novella (pp. 400 ss.),
favola eziologica (pp. 402 ss.), mito (pp. 410 ss.), fiaba (pp. 413 ss.).
Tutta la trattazione è condotta con sottigliezza instancabile.
Ho cercato di dare un’idea sommaria di questa lunga analisi dell’Au-
gustana. Data la sottigliezza e la prolissità, anche un riassunto è im-
presa complicata e faticosa; difficilmente restano le forze per discutere
molti dettagli. Anche qui mi limiterò a qualche considerazione riguar-
dante il metodo strutturalistico. Il Nøjgaard nutre per il nuovo metodo
un entusiasmo che può suscitare simpatia, ma che può apparire an-
che ingenuo: «la critica, antica e moderna, non si è proposta o non ha
bilità della natura, che non lascia veramente scelta; e questa inelutta-
bilità la favola vuole dimostrare. Il noce cresciuto accanto alla strada,
preso a sassate dai passanti, lamenta l’ingratitudine di cui è vittima
(153 Ch. = 141 H.; forse il Nøjgaard obietterà che la favola è in pochi
codici della recensio Augustana). Non c’è azione di scelta: solo la con-
statazione del male. I sacerdoti di Cibele che usano l’asino per traspor-
tare i loro strumenti, quando è morto, ne usano la pelle per fare tam-
buri (237 Ch. = 173 H.): non è in questione l’azione di scelta dei
sacerdoti, ma la miseria ineluttabile e senza fine dell’asino. E potrei
continuare, pur non avendo condotto un’analisi sistematica. Ma già
questi pochi casi indicano che la favola non porta necessariamente a
valutare un’azione di scelta: essa porta a constatare un comune compor-
tamento umano; nell’accettare la constatazione il narratore può anche
far sentire il suo pessimismo, e si può allora parlare di una valutazione
implicita, ma la valutazione può anche mancare del tutto.
Se lo schema strutturale viene così allargato, non abbiamo bisogno
di relegare tra le allegorie la favola famosa della volpe e della maschera
tragica (43 Ch. = 27 H.) e quella della volpe che vede il serpente porta-
to dal fiume su un fascio di spine (116 Ch. = 98 H.): nel primo caso la
volpe constata che la bella apparenza copre la stupidità (solo artificio-
samente potremmo andare a cercare un’azione di scelta di chi nascon-
de la propria stupidità), nel secondo che i malvagi sono spesso uniti.
Ci può essere valutazione senza conflitto: i casi sono più comuni
di quanto il Nøjgaard non ammetta. Nella favola della volpe e l’uva
(32 Ch. = 15 a H.) c’è valutazione dell’ipocrisia della volpe; ma mi pare
puro schematismo andare a cercare conflitto tra la volpe e l’uva. I buoi
tirano il carro senza lamentarsi, l’asse, invece, geme forte; «siamo noi a
portare tutto il peso, e tu ti lamenti?», obiettano i buoi (70 Ch. = 45 H.).
C’è valutazione del vano gemere dell’asse, ma dov’è il conflitto? Le
lepri, coscienti della propria viltà, vorrebbero ammazzarsi; vi rinuncia-
no, quando constatano che le rane sono ancora più vigliacche di loro
(192 Ch. = 143 H.). Si può parlare di una valutazione negativa del primo
proposito delle rane, ma non vedo nessun conflitto. La mosca che affo-
ga nel brodo è contenta di morire sazia (240 Ch. = 177 H.): dov’è il con-
flitto? L’asino carico di sale, scivolato nell’acqua, ne esce sollevato, per-
ché il carico si è sciolto; fa lo stesso con un carico di spugne e resta
soffocato sotto il peso (266 Ch. = 191 H.). Si potrebbe escogitare un
Cfr. il mio studio Il romanzo di Esopo, pp. 282 ss. (qui, pp. 149 ss.).
3
5
La morale della favola esopica (qui, cap. 7).
6
Ivi, pp. 508 ss. (qui, pp. 303 ss.).
7
Ivi, pp. 529-530 (qui, pp. 324-325).
Capitolo 7
Ancora vent’anni fa, prima di cominciare una storia della favola esopi-
ca, difficilmente si sarebbe sfuggiti al problema se abbia senso e utilità
la storia di un genere letterario. Oggi un problema di questa sorta non
preoccupa quasi più nessuno: naturalmente nessuno tenterebbe oggi di
ordinare i poeti di un dato genere come momenti di quel genere stesso,
sull’arco che va dalla nascita alla perfezione e dalla perfezione alla de-
cadenza; ma quasi tutti, anche i continuatori più pedissequi dell’este-
tica allora in voga, si son resi conto che il genere letterario è una tradi-
zione culturale che il poeta presuppone, assume in sé, a cui si sente
legato più o meno secondo le civiltà e le epoche letterarie, più prima
del romanticismo, meno dopo, e che questo legame è un momento più
o meno importante per capire strutture e tecniche e anche ispirazioni
e motivi della poesia; ancora più importa rendersi conto che la fioritu-
ra di un genere letterario (e lo stesso si può dire, ovviamente, per le
arti) è condizionata da una determinata forma di civiltà e che il legame
del poeta col genere ci riporta a quello più complesso del poeta con la
cultura e la civiltà che lo hanno nutrito2. Come per tanti altri problemi,
per quello dei generi letterari la nostra cultura dall’inizio del secolo ha
fatto un passo avanti e due indietro.
Nel caso della favola esopica, poi, la continuità del genere va molto
al di là che nel caso, mettiamo, della tragedia o della commedia o del
1
[«Società», vol. 17, 1961, n. 4 (lug.-ago.), pp. 459-537. L’Addendum bibliografico è apparso in
appendice (p. 34) alla stampa 2009 del cap. 2].
2
Su quest’ultimo punto è utile seguire le riflessioni svolte da Antonio Banfi nell’artico-
lo postumo Osservazioni sui generi artistici, «Società», vol. 15, 1959, pp. 1033-1068 [quindi in
Id., Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza,
Reggio Emilia 1988, pp. 273-310].
poema epico: nella favola esopica non solo son fissi i tipi, l’impostazio-
ne allegorica, la struttura, ma abbastanza solido è il nocciolo d’inter-
pretazione della realtà umana che si conserva immutato: in questa in-
terpretazione la differenza è molto più forte, per esempio, tra Eschilo
ed Euripide che non tra le raccolte esopiche e Fedro; ed è quasi super-
fluo notare che la fissità della favola esopica greca e latina è maggiore
che quella della favola esopica moderna: anche tra l’amaro Fedro e
l’agghindato Babrio v’è certo minore differenza che tra La Fontaine
e Lessing. La favola esopica ha una fissità accentuata anche rispetto ad
altri generi che si rivolgono a un largo pubblico e che non richiedono nel
pubblico un livello di cultura particolarmente elevato, per esempio ri-
spetto alla fiaba o alla commedia antica o alla nostra commedia dell’arte
o al romanzo antico o ai romanzi e film polizieschi o western: anche
questi generi si servono di tipi fissi, di situazioni e azioni che ritornano
in quasi tutte le opere; ma è ugualmente chiaro che ciascuna di quelle
opere vuole cucire i pezzi soliti in una trama nuova, giacché è essenziale
lo scopo di tener desta la curiosità del lettore o ascoltatore. Lo sforzo
della varietà e della novità non è mancato, naturalmente, neppure nei
favolisti antichi, o almeno in quelli della cui personalità possiamo farci
un’idea non del tutto incerta, come Fedro o Babrio; ma questa preoccu-
pazione è di gran lunga meno viva che quella di conservare racconti
tramandati: l’arte finissima e semplice, deliziosa e conversevole di La
Fontaine potrà trovare confronto in una o due favole di Orazio e forse
anche in qualche passo di Babrio; ma la mania innovatrice di Houdar de
la Motte è, nella favola esopica greca e latina, inconcepibile: più si scava
alle origini della favola, più indietro si riescono a spostare le prime ma-
nifestazioni di alcuni racconti: una favola di Babrio è stata ritrovata, tra
parecchie altre favole, in tavolette babilonesi3 e una scoperta del genere
induce a sospettare origine remota per gran parte delle favole che con-
serviamo: del resto nessuno ha mai pensato che le favole a noi note at-
traverso Esiodo o Archiloco o Semonide di Amorgo fossero le sole che
si raccontassero al loro tempo. I favolisti antichi si curavano più di tra-
mandare una certa interpretazione della vita e certe massime che di evi-
tare con vari espedienti la noia del lettore.
Cfr. Erich Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte,
3
Leipzig 1927, p. 49. Sia chiaro che in questa introduzione non mi propongo di approfon-
dire problemi storici singoli.
4
Cfr. soprattutto Abhandlungen über die Fabel (1759), in G. E. Lessing, Gesammelte Werke
in zehn Bänden, a cura di P. Rilla, vol. 4, Berlin 1955, pp. 5-85. [trad. it. Trattati sulla favola,
a cura di Lucia Rodler, Roma 2004]. Per la storia di queste discussioni è utile Max Staege,
Die Geschichte der deutschen Fabeltheorie, Bern 1929, pp. 19 ss.
5
Superfluo avvertire che Esopo qui significa solo le tarde raccolte esopiche. In alcuni casi
Babrio è anteriore alla redazione esopica o questa deriva addirittura da Babrio.
6
Parallela è Babrio 53, dove l’agnello è sostituito dalla volpe; ma qui manca il finale della
liberazione; il succo della favola è nell’arguta sincerità della volpe.
7
Cfr. anche Esopo 75 H., dove il delfino che ha salvato la scimmia dal naufragio la fa poi
affogare irato per le sue bugie.
favola esopica greca (diversamente stanno le cose per quella latina) può
dirsi primitiva nel senso che, anche se ebbe la sua fioritura in quel muta-
mento profondo di strutture sociali e politiche, di costumi, di pensiero, di
cultura che la Grecia, e specialmente le colonie ioniche, vissero nei secoli
VII e VI a. C., si può ritenere nata anche prima; e soprattutto nel senso
che in quel mutamento di pensiero e di cultura resta fedele a una certa
elementarità, semplicità di elaborazione razionale: la favola è un esempio
fantasioso, un breve racconto arguto che sostiene una massima, ma man-
ca, anche nell’ambito etico, quel processo di astrazione concettuale per cui
quel movimento di cultura è considerato giustamente come la nascita
dello spirito europeo. Benché di favole dell’età ionica ci siano conserva-
ti troppo scarsi esempi, non è azzardato affermare che anche l’intreccio
narrativo fu povero e semplice, anche rispetto alla novellistica del tempo.
Con riserve analoghe la favola esopica può essere considerata pure
una letteratura popolare. Pochi termini, com’è noto, si prestano quanto
questo a interpretazioni disparate. Poiché qui non è minimamente
possibile condurre una discussione sul concetto di letteratura popolare,
mi riferirò a certe formulazioni essenziali. Si può parlare di letteratura
popolare nel senso che essa, pur essendo elaborata da una élite colta,
ha larga diffusione tra gli strati inferiori in quanto risponde a certi loro
modi di sentire e a certe loro esigenze (è in fondo il concetto gramscia-
no di letteratura nazionale-popolare); o nel senso che nella sua elabo-
razione hanno parte notevole artisti degli strati inferiori che rimango-
no legati alle loro esigenze; o infine nel senso che all’artista della
letteratura popolare mancano la coscienza e il bisogno di esprimere
una sua individualità, che egli si sente, anonimo o no che sia, interpre-
te di sentimenti collettivi o largamente diffusi, il che ha come conse-
guenza lo scarso interesse per la personalità dell’autore, la facile modi-
ficabilità del testo, il peso notevole della tradizione orale (questo è,
credo, quanto resta di valido, ma non è poco, della concezione
romantica)8. La favola esopica può ben dirsi letteratura popolare in
8
Che anche la letteratura popolare sia prodotta da singoli artisti, non dal popolo o dalla
collettività poetante, è obiezione certamente giusta contro il concetto romantico; ma ciò
che importa è vedere se e in che misura l’artista è o si sente interprete di sentimenti col-
lettivi: questo legame, più che la maggiore o minore elaborazione artistica, importa per
definire la letteratura popolare. Anche per questo problema la nostra cultura della prima
metà del secolo ha fatto un passo avanti e due indietro.
ché la favola esopica molto più della novellistica è dominata dal biso-
gno di capire la realtà sociale: anzi in questa direzione essa è, senza
dubbio, anche al di fuori della cultura popolare, il passo più decisivo
prima della sofistica (la quale rimase cultura di élite). Che favole di
tipo esopico siano state usate da predicatori buddistici o nel Medioevo
da predicatori cristiani ha poca importanza, sia perché quest’uso ha
arricchito e modificato poco la tradizione esopica9 sia perché esso in-
dica piuttosto un adattamento del predicatore alla mentalità del suo
pubblico popolare, adattamento che porta talora a interpretazioni for-
zate di favole note, a veri giochi di prestigio. In rari casi, di cui avrò a
parlare in seguito10, la punizione giusta è attribuita alla giustizia divi-
na: la divinità è quasi sempre assente da questo mondo che è fatto di
rapporti di forza, di egoismi, di astuzie, di accortezze. Rari sono pure
i casi in cui l’empietà è punita. C’è una favola in cui gli dei puniscono
con un tranello un poveraccio che, malato, aveva promesso loro un’e-
catombe in cambio della sua salvezza e che, una volta sano, aveva sa-
crificato i cento buoi, ma effigiati in pasta (Esopo 28 H.). Tuttavia
l’episodio rientra in quel processo di ritorsione dell’inganno con l’in-
ganno che è normale nella favola esopica. Altrove compare Horkos, il
Giuramento, che per lo più prende tempo a punire i trasgressori, ma a
volte sa colpire prontamente e inaspettatamente (Esopo 214 H.). Fedro
(I 27) ci racconta del cane che, scavando un tesoro, viola gli dei Mani
e da essi viene punito con la malattia tremenda dell’avarizia: per non
abbandonare un momento il tesoro scoperto muore di fame; ma qui
l’attenzione è posta sulla malattia dell’avarizia e ancora più sull’im-
prontitudine del cane che, trivio conceptus, educatus stercore, ha osato
aspirare d’un tratto a regales opes: la punizione dei Mani pare solo un
espediente narrativo11. Invece non manca il caso che la prodigalità nei
sacrifici sia garbatamente derisa come stoltezza (Esopo 112 H.; un po’
diverso Babrio 63); non manca neppure una beffa alla divinità poco
benevola: un viandante affaticato prega Hermes di fargli trovare qual-
9
L’origine buddistica del Pañcatantra è ipotesi oggi caduta: cfr. M. Winternitz,
Geschichte der indischen Litteratur, vol. 3, Leipzig 1920, p. 282, nota 1.
10
Cfr. infra, pp. 285 ss.
11
Naturalmente non ha nessuna importanza che nel Medioevo sia stato inserito tra le
favole esopiche un aneddoto sulla punizione divina di Giuliano l’Apostata (Herv. IV,
p. 296, n. 81 = 632 P.).
che cosa di buono, promettendo al dio la metà; invece del tesoro trova
una bisaccia con delle mandorle e dei datteri: allora offre al dio le bucce
delle mandorle e i noccioli dei datteri (Esopo 188 H.). Una favola di
Babrio (119) pare quasi un’esaltazione dell’empietà: un tale che possiede
e venera una statua lignea di Hermes, con molte libazioni e sacrifici non
ottiene nulla; alla fine, persa la pazienza, afferra la statua per una gamba
e la butta per terra: dalla testa spaccata esce un tesoro: insensibile alle
preghiere, Hermes ha premiato la violenza. Ancora Babrio (2) ci ha
tramandato la favola del contadino che ha perduto la vanga e va in città
a chiedere aiuto agli dei per scoprire il ladro, ma in città si accorge che
gli dei non sanno scoprire neppure i ladri dei propri arredi. Ancora più
notevoli sono le favole che irridono la magia e la mantica: la maga crede
di saper stornare la morte dagli altri, ma non sa evitare la condanna a
morte per sé (Esopo 56 H.); un indovino sulla piazza predice agli altri il
futuro, mentre gli rubano in casa (Esopo 170 H.); il corvo divinatore non
ha saputo evitare di farsi accecare un occhio (Esopo 227 H.); più avve-
duto e meno imbroglione è un aruspice presso il quale un eunuco si
reca per invocare prole: spiegato il fegato sacro, «quando guardo le
viscere – dice – risulta che tu sarai padre, ma, quando guardo la tua
faccia, non mi sembri neppure uomo» (Babrio 54).
Il contrasto, probabilmente storico, di Esopo con i sacerdoti di
Delfi ha un valore simbolico che le favole giustificano entro una certa
misura: dico entro una certa misura, perché di una rivolta antireligiosa,
di una critica approfondita della religione e di un forte soffio illumini-
stico non si può parlare (e vedremo poi perché): su questa via la sofi-
stica è andata certamente più in là. In ogni modo l’interpretazione
della realtà umana nelle favole esopiche si pone al di fuori di qualsiasi
interesse religioso: ciò che regola i rapporti umani viene spiegato qua-
si sempre senza ricorso alla divinità.
Una classificazione utile e accurata delle favole esopiche greche e latine secondo la
12
morale e i tipi morali è data da W. Wienert, Die Typen der griechisch-römischen Fabel,
14
Cfr. inoltre Il pastore e il cane (Esopo 222 H.); Il lupo e l’agnello rifugiato nel tempio (Eso-
po 168 H.); Il cavallo e lo stalliere (Babrio 83); Il cacciatore e il cane (Sintipa 21 = 403 P.).
15
Cfr. ancora Il cane che insegue il leone, e la volpe (Esopo 135 H.); Il cacciatore vile (Babrio 92);
Il cavallo, il leone e i becchi (Romulus IV 16 = 578 P.); I due soldati e il brigante (Fedro V 2).
16
Cfr. Il millantatore, ispirata all’apoftegma Hic Rhodus, hic salta (Esopo 33 H.); Il serpente,
la biscia d’acqua e le rane (Esopo 92 H.).
È naturale, quindi, che sia deriso chi con molto gridare o molto
affaccendarsi non conclude niente. Sono i buoi a tirare il carro, ma è
l’asse che geme come se la fatica fosse sua (Esopo 45 H.; Babrio 52). Le
rane coi loro tremendi gracidii riescono a impressionare, ma per un
momento, il leone (Esopo 146 H.). Fedro (II 5) ha voluto inserire tra
le sue favole l’episodio dello schiavo giardiniere di Tiberio, che strafà
per meritare l’elogio dell’imperatore e ne ottiene un sarcasmo degno di
ambedue i personaggi. Non ha bisogno di essere ricordata la favoletta
della montagna nelle doglie del parto (Fedro IV 24).
A un vizio del genere si può accostare quello delle facili promesse.
All’asino che gli chiede un po’ d’orzo, il cavallo promette per la sera,
quando saranno tornati alla mangiatoia, un sacchetto di farro; e l’asi-
nello: «Se mi neghi l’orzo, come credere che mi darai il farro, che vale
tanto di più?» (Ademaro 58 = 571 P., probabilmente di origine fedria-
na). Il corvo, preso nella trappola, prega Apollo per la sua salvezza e gli
promette dell’incenso; liberato, se ne scorda; acchiappato una seconda
volta, vorrebbe giocare lo stesso tiro a Hermes, ma il dio gli rinfaccia
la sua menzogna (Babrio 152).
Maschera dell’egoismo e dell’avidità può essere anche la giustizia.
Il lupo stabilisce una legislazione sociale, secondo cui tutti dovrebbero
mettere i beni in comune, perché siano poi distribuiti a ciascuno in
parti eguali; ma l’asino gli domanda come mai abbia nascosto nel suo
giaciglio la preda del giorno avanti (Babrio 154). Il lupo vede sotto una
tenda dei pastori che mangiano una pecora: «Quanto chiasso, se l’aves-
si fatto io!» (Plutarco, Sept. sap. conv. 13, 156 a = 453 P.). Il ladro a ga-
rante delle proprie promesse chiama un altro ladro: così fa il cervo col
lupo, nel chiedere in prestito del grano a una pecora (Fedro I 16).
L’ipocrisia vera e propria, quella di chi indossa l’abito della virtù per
ingannare, appare di rado: forse perché è vizio troppo ovvio. Fedro
(IV 2, 10 ss.) ci conserva la favola della donnola che, vecchia e ormai
incapace di dare la caccia ai topi, si avvolge di farina per attirarli; uno
storico bizantino, Niceforo Gregora (Hist. Byzant. VII 1 = 435 P.), ri-
chiama in una pagina di satira antimonastica una favola della donnola
tintasi di nero. Questo tema sembra più caro ai favolisti medievali17.
Cfr. Il gatto vescovo (Herv. II, p. 646, n. 132 = 692 P.); Il topo, la figlia, il gallo e il gatto
17
(Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.: il gatto eremita è probabilmente di origine indiana). Forse
si può accostare la favola del lupo penitente, che, per mangiare la carne di quaresima, la
battezza pesce (Herv. II, p. 557, n. 14 = 655 P.).
18
Cfr. infra, pp. 308-309.
19
Cfr. inoltre Hermes e il fabbricatore di statue (Esopo 90 H.); Il citaredo (Esopo 123 H.); La
scrofa e la cagna (Esopo 250 H.; forse anche in Babrio 218); La rondine e la cornacchia (Eso-
po 258 H.); Il lume a olio (Babrio 114). Merita di essere ricordata la felicissima favoletta di
Lorenzo Abstemio (16 = 724 P.) sulla mosca, che, stando su una quadriga, nel tumulto
della corsa esclama: Quam magnam vim pulveris excitavi!.
20
Cfr. La volpe e il coccodrillo (Esopo 20 H.); Il pesce di fiume e la phycis marina (Aviano 38).
21
Forse di origine fedriana è anche la favola L’ortolano e il calvo (Ademaro 24 = 560 P.): un
ortolano irride un calvo che passa; il calvo lo trafigge afferrandolo proprio per i capelli.
22
Cfr. anche la favola medievale Pictor et uxor (Herv. II, p. 611, n. 68 = 677 P.).
23
Cfr. La cornacchia e il corvo (Esopo 127 H.); forse accostabile anche Il cacciatore e il lupo
(Sintipa 6 = 404 P.).
24
Nella raccolta esopica la favola si ferma all’intervento del rovo, senza risposta dei liti-
ganti; ma la favola dev’essere monca: l’epimitio corrisponde alla mia interpretazione.
25
Cfr. anche I galletti di Tanagra (Babrio 5).
corti: Zeus ordinò a Hermes di versare in tutti gli uomini una misura
uguale di noûs; nei corti questo si diffonde in tutto il corpo, nei lunghi
no (Esopo 110 H.); ma oltre questo apologo c’è poco, fra tanti attacchi
contro la vanità.
Oltre che di sgonfiare la vanità la favola si preoccupa di spazzare via i
giudizi superficiali e illusori. Da lontano i sarmenti sembrano navi (Esopo
187 H.). Il cane inghiotte una lumaca per uovo e si accorge così che non
tutto ciò ch’è rotondo è uovo (Esopo 265 H.). L’uccellatore, impressiona-
to dallo strepito della cicala, spera una grossa preda e si trova in mano un
povero insetto (favola riportata da Aftonio 4 = 397 P.). Una delle più gra-
ziose novelle di Fedro (V 5) è quella del buffone e del contadino: il buffo-
ne imita così bene il grugnito del porcello che gli spettatori credono
nasconda l’animale sotto il mantello; al contadino, che tiene davvero la
bestia nascosta e la fa grugnire, rinfacciano di non imitare bene; il
contadino allora scopre il porcello: En hic declarat quales sitis iudices26.
Non bisogna fermarsi alla prima esperienza. La prima volta che
vedono il cammello, gli uomini scappano dalla paura; a poco a poco
osano avvicinarglisi e alla fine gli mettono il freno (Esopo 210 H.);
persino col leone, alla volpe l’abitudine toglie la paura (Esopo 10 H.).
Un senso analogo si potrebbe attribuire alla favola medievale (720 P.)
degli uccelli che hanno paura della statua armata d’arco e, dopo che un
passero ha osato avvicinarsi senza che la statua si sia mossa, ne ornano
il viso coi loro escrementi: ma l’epimitio (Sic faciunt subditi prelatis suis
negligentibus) suggerisce piuttosto il senso che, se te ne stai fermo e
non usi la forza, ti copriranno di sterco.
Al bisogno del giudizio chiaro è riconducibile anche la diffidenza
contro l’ambiguità. Il cane da caccia, acchiappata la lepre, ora la morde
ora la lecca; e la lepre: «Basta: voglio sapere se mi sei amico o nemico»
(Esopo 139 H.; Babrio 87); press’a poco lo stesso dice la volpe alla iena,
che ora è maschio ora è femmina (Esopo 241 H.). Nella guerra degli
uccelli e delle fiere lo struzzo vuole farsi passare per uccello e per fiera
nello stesso tempo (tetrastico giambico, I 22 M., p. 272 Crus. = 418 P.)27.
Il satiro diffida dell’amicizia dell’uomo, il quale usa il fiato tanto per
26
A queste favole si può forse accostare La schiava di Afrodite (Babrio 10). Lorenzo Ab-
stemio (5 = 723 P.) ha conservato o inventato la favola del contadino che vuole passare il
fiume e, dove il fiume è calmo, lo trova profondo e pericoloso, dove strepita, guadabile.
27
Analoga la favola medievale Il tasso fra i porci (Herv. II, pp. 639-640, n. 119 = 685 P.).
La realtà effettuale dei rapporti umani così svelata è già per la favola
esopica la realtà della golpe e del lione, dell’astuzia e della forza. Per
28
Si possono accostare Il lupo e la vecchia (Esopo 163 H.); Il contadino e i passeri
(Babrio 33).
29
La polemica sulla teoria della favola nel Settecento si può seguire abbastanza bene at-
traverso Staege, Die Geschichte der deutschen Fabeltheorie, cit., pp. 19 ss.
30
Si veda sin dall’inizio l’introduzione al Reinhart Fuchs, Berlin 1834.
31
Abhandlungen über die Fabel, cit., pp. 26 ss., in polemica contro Breitinger.
anche per il becco, che, visto l’asino mansueto, vuole cavalcarlo: l’asino
lo scaraventa giù e l’ammazza: Si asinus est dominus tuus, ne equites
ipsum (favola medievale in Herv. IV, p. 244, n. 73 = 623 a P.).
Naturalmente chi, per una ragione o per un’altra, si priva delle sue
armi è destinato alla sconfitta. Il leone, innamorato della figlia del
contadino, per essere accettato come sposo si lascia togliere le zanne:
dopo di che viene cacciato a botte (Esopo 145 H.; Babrio 98). Peggio
capita al rinoceronte, che si lascia convincere dal leone a prestargli il
suo unico corno (favola medievale in Herv. IV, pp. 445-446 = 645 P.)32.
Prudente chi riconosce questa legge della forza, disgraziato chi re-
siste o s’illude di essere il più forte. Il leone, l’asino e la volpe vanno a
caccia; il leone ordina all’asino di fare le parti; scontento della sparti-
zione, salta addosso all’asino e lo sbrana; ora la spartizione tocca al-
la volpe: la volpe mette quasi tutto in un grosso mucchio e conserva
per sé qualche pezzetto. «Chi ti ha insegnato a fare le parti così bene?».
«La fine dell’asino» (Esopo 154 H.). Le lepri combattono contro le
aquile, chiamano in aiuto le volpi: «Verremmo, se non sapessimo chi
siete e contro chi combattete» (Esopo 169 H.). Particolarmente peri-
coloso il potente quando è in collera (Il leone infuriato e il cerbiatto:
Babrio 90). Un giovanotto è montato su un cavallo furioso, che si
mette a correre pazzamente: «Dove vai?». «Dove pare a lui», e indica il
cavallo (Luciano, Cynic. 18 = 457 P.). Invece il becco, specchiandosi
nell’acqua, si trova bello e forte e si dichiara pronto a battersi col lupo:
il lupo, che l’ha sentito, non gli perdona questo bel proposito e se lo
mangia (favola medievale in Herv. II, pp. 278-279, n. 32 = 695 P.)33.
È assurdo pretendere dal più forte, come da uno qualsiasi, giustizia
e gratitudine: è già troppo se si salva la pelle (cfr. Il lupo e la gru: Esopo
161 H.; Babrio 94; Fedro I 8); ed è pericoloso chiedergli protezione
(Il nibbio e le colombe: Fedro I 31).
La legge della forza è così dominante che se ne può diventare stru-
menti anche senza volerlo: la parete al dado che gli è scagliato contro:
«Perché mi picchi così? che ti ho fatto?», «Non sono io a picchiarti, ma
chi mi butta» (Esopo 296 H.); e la pentola di bronzo può frantumare
quella di coccio se il fiume gliela butta contro (Babrio 193).
Cfr. pure Il toro ingannato dal leone (nel retore bizantino Niceforo Basilace, Rhet. Gr. I,
33
Molto simile a questa la favola medievale del cuculo e degli uccelli (Herv. II, pp. 553-554,
34
n. 10 = 652 P.).
gustose è quella del giudizio del lupo e dell’asino (anonimo in Rhet. Gr.
I, pp. 597 ss. Walz = 452 P.), dove ogni assassinio del lupo diventa una
cosa da nulla e una mosca scacciata dall’asino diventa un delitto nefan-
do (giudice il lupo, che vuole giustificare l’uccisione dell’asino)35. È
ovvio che il violento si sente vittima dell’ingiustizia, quando uno più
forte gli sottrae la preda (Il lupo e il leone: Babrio 105).
L’astuzia non è disprezzata di fronte alla forza: giacché la forza non è
quasi mai sentita come nobiltà, generosità, eroismo; sentimenti come
quelli del Neottolemo sofocleo sono in genere estranei a questo mondo
esopico. Anzi la frode, in quanto ingegnosità, è spesso ammirata, anche se
nella favola esopica antica molto meno viva è quella gioia della furbizia
come arte indiavolata, quello slancio vitale e comico che ispira l’epopea
medievale di Renardo e richiama piuttosto le trovate degli schiavi nella
commedia antica (in ogni modo vi siamo vicini, per esempio, con una
favola come quella della volpe e del becco nel pozzo: Esopo 9 H.; Babrio
182)36. Neppure il leone disdegna di ricorrere all’astuzia quando non ha più
forze (Esopo 147 H.; Babrio 103); anche il vigoroso e stupido orso trova in
un lampo d’astuzia la risorsa nei casi più disperati: quando tutto manca
nella foresta, corre al mare, si appende a uno scoglio, lascia che i granchi
si appendano ai peli e poi salta a terra: il pasto è pronto (Fedro, App. 22).
Oltre la volpe ha un piccolo posto, già nell’antichità, il gatto: una
volta finge un compleanno e invita le galline a pranzo: chiusele dentro,
se le mangia a una a una (negli Hermeneumata dello Pseudo-Dositeo,
5, CGL III, p. 42 = 389 P.)37.
35
Da questa invenzione deriva quella, anch’essa felice, della confessione della volpe e
dell’asino presso il lupo (Herv. IV, p. 255, n. 81; II, p. 313, n. 39 = 628 P., con un’altra varian-
te, 628 b P.).
36
Inutile dire che, come la leggenda di Renardo presuppone la favola esopica antica, così
la favola esopica medievale è in stretto rapporto con essa: cfr. La volpe e il lupo nel pozzo
(Herv. IV, p. 192, n. 19 = 593 P.); La volpe che confessa i suoi peccati al gallo (Herv. IV, p. 198,
n. 25 = 597 P.); La volpe e le galline (Herv. II, p. 221, n. 50 = 611 P.); Il lupo pescatore (Herv. II,
pp. 282-283, nn. 35 e 35 a = 698 P.).
37
Cfr. nelle favole medievali Il gatto monaco (Herv. IV, p. 188, n. 15 = 592 P.). Nelle favole
medievali qualche parte hanno il riccio (Il riccio, il cervo e il cinghiale: Herv. II, pp. 755-756,
n. 34 = 649 P.; Il lupo e il riccio: Herv. II, p. 608, n. 62 = 675 P.), il corvo (L’aquila e il corvo
medico: Herv. IV, p. 204, n. 29 = 599 P.), la capra (La capra e il lupo: Herv. II, p. 613,
n. 72 = 680 P.), persino l’asino (Il lupo e l’asino: Herv. II, pp. 279-280, n. 33 = 696 P.). Qualche
volta l’animale astuto è l’uomo (La rondine e i passeri: Herv. II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.). In
una novella greca (Il ladro e l’oste: 301 H. = 419 P.) è narrato festivamente un colpo di un
ladro; in novelle medievali inserite tra le favole esopiche si celebra l’astuzia di donne che
mettono le corna ai mariti (Il contadino e la moglie: Herv. II, p. 553, n. 9 = 651 P.; La donna e
l’amante: Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.).
38
Cfr. ancora L’asino che gioca (Babrio 125): ciò ch’è permesso alla scimmia non è permes-
so all’asino; Il lupo e i pastori (già citata, supra, p. 268); L’allodola capelluta (Esopo 271 H.):
basta il furto d’un chicco di grano per condannare a morte un povero diavolo.
vero, oppresso tutta la vita, non riposa neppure morto: l’asino, dopo
avere servito i sacerdoti di Cibele portando in giro i loro arnesi, pic-
chiato in vita, viene picchiato morto, perché fornisce la sua pelle per
i loro tamburi (Esopo 173 H.; Babrio 141; Fedro IV 1): favola di un’ar-
guzia che raggela.
Peggiore la sorte che tocca alla vecchiaia: peggiore, perché la fa più
amara il confronto con la potenza di un tempo. Altro motivo caro a
Fedro: si tratta ora del leone vecchio, sfinito, che deve sopportare an-
che il calcio dell’asino (I 21), ora del vecchio cane da caccia, che, ad-
dentata un’orecchia del cinghiale, si lascia scappare la preda per la carie
dei denti e deve subire i rimbrotti del padrone (V 10), ora del vecchio
cavallo da corsa (App. 21), ora dell’anfora vuota, che conserva qualche
profumo del Falerno di buona marca (III 1).
La conseguenza naturale di questa constatazione è che non bisogna
allearsi col debole. La cicogna si vanta coll’anatra di avere più forza
dello sparviero; l’anatra ci crede, fa alleanza e alla prima battaglia viene
divorata dal nemico (Ademaro 53 = 570 P., forse di origine fedriana).
Rarissima la compassione: ricorderò il caso del povero, che mentre dà
la caccia alle cavallette, acchiappa una cicala: la cicala vanta la sua in-
nocenza e i suoi meriti verso l’uomo e lo convince a lasciarla andare
(Vita Aesopi 99). In ogni modo qui entrano in giuoco anche l’utilità
della cicala e lo scarso vantaggio che darebbe la sua morte: non si può
neppure parlare di pietà pura e semplice.
Del resto questo mondo non conosce neppure il disinteresse dell’a-
micizia: l’amicizia o è impossibile o si spezza al primo urto o è un im-
broglio. Impossibile, per esempio, l’amicizia tra il contadino e il serpen-
te, dopo che il serpente ha ucciso il figlio del contadino e il contadino ha
mancato per poco con la scure il serpente (Esopo 51 H.)39; fidandosi, pur
dopo un’ostinata diffidenza, del serpente, il contadino di una favola me-
dievale paga con la perdita del suo unico figlio (Herv. II, pp. 280-281,
n. 34 = 697 P.)40. Fedro inserisce tra le sue favole una battuta spiritosa
di Socrate sulla rarità degli amici veri (III 9). Alla prima prova l’amicizia
è sopraffatta dall’inganno. Due amici viaggiano insieme. Incappano
39
Una rielaborazione di questa favola pare quella, forse derivata da Fedro, del serpente
allevato in casa (Ademaro 65 = 573 P.).
40
Si possono accostare, sia pure con qualche sforzo, Il carbonaio e lo scardassiere (Esopo 29
H.); Il leone e l’aquila (Babrio 99); Il serpente nel seno dell’uomo (Herv. IV, p. 231, n. 59 = 617 P.).
41
Accostare I viandanti e la scure (Esopo 68 H.); Il drago che affida il tesoro all’uomo
(Herv. II, p. 595, n. 42 = 663 P.); L’eremita che mette il servo alla prova (Herv. II, pp. 595-596,
n. 43 = 664 P.).
42
Cfr. ancora le favole già citate La scrofa nelle doglie del parto e il lupo (Fedro, App. 19);
La terraneola e la volpe (Fedro, App. 32); Il leone e il rinoceronte (Herv. IV, pp. 445-446,
n. 65 = 645 P.); infine Il bacio del lupo e della pecora (Herv. IV, p. 361, n. 1 (35) = 636 P.).
43
Cfr. gli apologhi Momo e Afrodite (presso Elio Aristide, Or. 28, 136 Keil = 455 P.); Il cu-
pido e l’invidioso (Aviano 22); tra le favole medievali Il lupo e il corvo appollaiato sull’ariete
(Herv. II, p. 598, n. 49 = 670 P.); Il cane alla mangiatoia dei buoi (702 P.), quest’ultima par-
visto nei suoi eccessi morbosi invece che nella sua forza di sacrificio e
nella sua grandezza. Una scimmia ha due figli: l’uno è odiato e messo
da parte, l’altro carezzato senza fine; l’uno cresce vigoroso, l’altro muo-
re dalle troppe carezze (Esopo 243 H.). Non è proprio sicuro se sia
considerata con indulgenza o con ironia la cecità della madre che vede
sempre nel figlio il più bello di tutti (La madre dello scimmiotto e Zeus:
Babrio 56; Il rospetto e la sua mamma: Herv. IV, p. 187, n. 14 = 591 P.; in
Babrio probabilmente l’indulgenza c’è)44.
È per lo meno arrischiato credere di poter fondare l’amicizia con la
benevolenza e il beneficio: l’ingratitudine è comunissima in questo mon-
do esopico. Le favole del serpe scaldato in seno (Esopo, 62, 186 H.;
Fedro IV 20) e della gru che fa l’operazione al lupo45 sono solo le più
note. Il cane azzanna l’ortolano che cerca di tirarlo fuori dal pozzo (Eso-
po 122 H.). I viandanti, dopo essersi ristorati all’ombra del platano, gli
rimproverano la sterilità (Esopo 185 H.; forse in Babrio 223); il noce, che
invece è fecondo, poiché è capitato vicino a una via è preso a sassate
(Esopo 141 H.; Babrio 151). Il pastore per cibare le sue pecore scuote le
ghiande da una quercia e per raccoglierle vi stende sotto il suo mantello:
le pecore, che forniscono i vestiti agli altri, mangiano il mantello del loro
benefattore (Esopo 224 H.). Merita di essere ricordata almeno qualcuna
delle favole medievali: quella della volpe che, per ricompensare il noc-
chiero dopo il traghetto del fiume, piscia sulla propria coda e se ne serve
come di aspersorio (Herv. IV, p. 218, n. 46 = 610 P.); o quella della rana
che dà l’acqua al rospo e si vede rifiutare un po’ di terra (Herv. IV,
p. 239, n. 67 = 622 P.); o l’altra della lezione che il lupo dà al traghet-
tatore (Herv. II, pp. 640-641, n. 121 = 687 P.).
ticolarmente felice; ma bisogna tener conto anche di varie favole che richiamerò più in là,
pp. 297 ss.
44
La diffusione di questo motivo nel folklore è stata studiata da O. Dähnhardt, Natur-
sagen, vol. 2, Leipzig-Berlin 1909, pp. 242 ss.
45
Cfr. supra, p. 276.
46
Cfr. A. Marx, Griechische Märchen von dankbaren Tieren und Verwandtes, Stuttgart 1889.
47
Cfr. infra, pp. 313-314.
48
Forse in Fedro penetrò anche la leggenda di Androclo e del leone (Ademaro 35 = 563
P.). Tra le favole medievali si può accostare quella dell’aspide domestico, che punisce il
figlio perché ha avvelenato il padroncino (Herv. IV, p. 363, n. 4 (38) = 637 P.).
49
Con la sostituzione dell’orso la favola è svolta ampiamente da Paolo Diacono (585 P.).
50
Cfr. L’asino col privilegio, la volpe e il lupo (Herv. IV, p. 365, n. 7 (41) = 638 P.); la novellet-
ta Il mercante e la moglie (Herv. II, pp. 379-380, n. 9 = 647 P.); La rondine e i passeri (Herv.
II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.); Il lupo e il riccio (Herv. II, p. 608, n. 62 = 675 P.); Il lupo cascato
nel laccio e il riccio (Herv. II, p. 640, n. 120 = 686 P.).
51
Citata supra, p. 277.
52
Questa favola latina è certamente in relazione col fabliau La housse partie, su cui cfr.
J. Bédier, Les fabliaux, Paris 19113, pp. 201 ss., 463-464.
53
Cfr. ancora Il ladro e Satana (Herv. II, p. 593, n. 39 = 662 P.); Il cane, il lupo e il padrone
avaro (Herv. II, pp. 287-290, n. 39 = 701 P.).
54
Cfr. inoltre Il brigante e il sicomoro (Esopo 157 H.); la novelletta Il medico, il ricco e la figlia
(Herv. II, pp. 635-636, n. 114 = 684 P.).
55
Un lungo racconto sulla punizione dell’ingratitudine è entrato nella favolistica medie-
vale: Il soldato e il serpente (Herv. IV, pp. 381 ss., n. 24 (58) = 640 P.).
raro e resta del tutto marginale nella riflessione esopica: qui l’umanità
quasi mai riesce a instaurare un ordine superiore di rapporti. Certo, in
una delle favole più antiche della letteratura greca, in quella archilochea
dell’aquila e della volpe (fr. 89-95 D.), la giustizia che l’umile ottiene
contro il potente è invocata in una preghiera a Zeus e pare dovuta al suo
favore; ma proprio le elaborazioni successive di questa favola sono istrut-
tive. Nelle elaborazioni greche posteriori (Esopo 1 H.; Babrio 186, ma-
lamente ricostruibile) l’aiuto divino si riduce alla circostanza che la volpe
si procura da un altare il tizzone per mettere l’incendio all’albero dell’a-
quila; in Fedro (I 28), probabilmente anteriore alle raccolte esopiche a
noi note, anche questa circostanza scompare: la volpe si fa giustizia gra-
zie alla sua docilis sollertia, all’energia e all’ingegno che sa escogitare se-
condo le situazioni56. Le favole che si riferiscono alla punizione divina
delle colpe sono ben poche e a malapena si possono dire favole. Due
(Esopo 67 H., 214 H.) si riferiscono alla punizione dello spergiuro, anzi
nella seconda Horkos, il Giuramento, appare di persona. Una favola di
Babrio (127) spiega scherzosamente con la confusione degli ostraka, su
cui sono scritte le sentenze, come mai la giustizia divina arrivi a volte
tardi e a volte presto. Una favola di Fedro (IV 11) contiene una piccola
predica della Religio a un ladro, che ha rubato col lume acceso a un alta-
re di Giove, e gli minaccia la sicura punizione; ma si legga il lungo epi-
mitio di Fedro per vedere quali insegnamenti si debbano trarre da questa
favola poco gustosa. Infine c’è la novelletta di Fedro (App. 16) dei due
pretendenti, l’uno ricco, l’altro povero, dove la misericordia di Venere
favorisce il povero: novelletta più piacevole per la stranezza della vicenda
(da breve romanzo sentimentale) che sapida di riflessione. Naturalmen-
te nella favolistica medievale si è insinuata qualche leggenda religiosa,
che mostra le vie, a volte strane per gli uomini, della giustizia divina57;
ma questo non significa niente per la favola esopica antica e poco, del
resto, anche per quella medievale. Invece è degna di menzione, sempre
a proposito della giustizia divina, una favoletta di Babrio (117), quella di
Hermes e dell’uomo morso dalla formica. Un tale, vedendo una nave
affondare, accusa gli dei: per un empio ch’era sulla nave, quanti innocen-
ti sono periti! Mentre dice così, s’imbatte in un gruppo di formiche; una
I giudizi di Dio mostrati dall’angelo (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115 = 635 P.); L’uomo in
57
barca che si affida a Dio (Herv. II, pp. 645-646, n. 130 = 690 P.).
58
Il leone re e giudice dell’epos di Renardo compare, per esempio, nella favola Le pecore che
si lagnano contro il lupo (Herv. IV, p. 196, n. 23 = 596 P.); analoga la figura dell’aquila nella
favola Il cuculo e gli uccelli (già citata, p. 277, nota 34). Invece una specie di giustizia di po-
polo si ha nella favola La cicogna adultera (Herv. II, p. 312, n. 34 = 713 P.).
59
Cfr. supra, p. 281.
60
Cfr. supra, p. 268.
61
Si possono accostare ancora Il topo e i fabbri (Ignazio Diacono, Tetrast. iamb. I 8 M.,
pp. 266-267 Crus. = 354 P.) e, tra le favole medievali, L’uomo che prega Dio solo per sé
(Herv. II, pp. 596-597, n. 45 = 666 P.).
62
Cfr. ancora La colomba assetata (Esopo 217 H.); Il nibbio che vuole imitare lo sparviero
(Herv. IV, p. 211, n. 38 = 604 P.); Il contadino che chiede a Dio un altro cavallo (Herv. II, p. 596,
n. 44 = 665 P.).
63
La ricerca del lucro causa di menzogna anche nella favola, molto arguta, dell’ateniese
debitore (Esopo 5 H.).
posto come ideale di vita, occorre che la vita stessa sia assicurata nei suoi
bisogni essenziali. Nel mondo esopico il problema, così importante nel-
la filosofia antica, del modo migliore di vita si pone appena, perché
domina ancora il problema di vivere, di non essere eliminati o sopraffat-
ti in questi urti fitti di violenze e di frodi. Oltre il topo cittadino di
Orazio ricordo solo una mosca che ragiona alla maniera dell’epicureismo
volgare: mentre sta per affogare nel brodo, dice a sé stessa: «Ho mangia-
to, ho bevuto, ho fatto il bagno: se devo morire, me ne frego!» (Esopo
177 H.). Perciò questo mondo esopico è senza sorriso di bellezza, arido
e desolato: conosce solo, come vedremo, il sorriso dell’arguzia. Senza
dubbio nella letteratura greca il mondo più vicino a quello esopico resta
quello contadinesco di Esiodo, con la sua preoccupazione del guadagno,
la sua aridità, la sua angustia: solo che al mondo esopico è estranea la
vera e propria problematica della Dike, la sussunzione e la disciplina
dell’utile sotto il segno della Giustizia divina, che fa di Esiodo la base del
pensiero greco. La gioia della bellezza o l’aspirazione alla bellezza sono
estinte sul nascere dal senso dell’utile. Ho già avuto occasione di ricor-
dare la favola del cervo alla fonte, quella dei topi e delle donnole in
guerra64, quella del pavone candidato al trono65; non c’è bisogno di ricor-
dare quella notissima e significativa della cicala e della formica (Babrio
140). A questa si può accostare quella dell’asino e della cicala (Esopo 195
H.; forse in Babrio 224): l’asino è incantato dalle cicale: «Quale nutri-
mento vi dà cotesto canto dolcissimo?». «La rugiada»: l’asino si mette a
mangiare rugiada e muore di fame. Il contadino che sta abbattendo
l’albero sterile non si commuove per le preghiere di cicale e passeri; solo
quando nel tronco trova un alveare, posa l’accetta (Babrio 187)66.
Come il mondo esiodeo, questo esopico non conosce l’amore.
L’amore è una maschera dell’avidità di lucro; tutti ricordano il gra-
zioso racconto di Fedro (II 2) sull’uomo di mezza età che ha due
amanti, l’una vecchia, l’altra giovane: la vecchia gli strappa i capelli
neri, la giovane i bianchi, finché egli non resta calvo (cfr. Esopo 31
H.; Babrio 22)67. L’infedeltà è vizio naturale della donna: puoi dare alla
64
Cfr. supra, p. 270.
65
Cfr. supra, p. 277.
66
Cfr. La rosa e l’amaranto (Babrio 178); Gli alberi sotto la protezione degli dei (Fedro III 17).
67
Nel corpo esopico l’epimitio interpreta la favola diversamente («la diseguaglianza è
dannosa»); ma il misoginismo è indubbio.
gallina tutto il cibo che vuole, essa non potrà fare a meno di andare
razzolando in cerca di altro cibo (Fedro, App. 11). Nella satira misogina
la favola veniva a incontrarsi colla novellistica milesia (cfr. La vedova e
il soldato, cioè la novella della matrona di Efeso, in Fedro, App. 15); ma
la favola pigliava ciò che rispondeva a una sua esigenza remota. La
grazia dell’amore sembra spuntare, tutt’al più, in una favola di Fedro:
dice la meretrice, di provatissima infedeltà, all’amante: «Mi offrano
pure gli altri tutto l’oro del mondo, io pongo te al di sopra di tutto!».
«È un piacere, amor mio, sentirti parlare così: non credo una sillaba,
ma è bello lo stesso» (Fedro, App. 29)68. Probabilmente dal misogini-
smo è ispirata anche la favola della donna insopportabile dagli schiavi:
il marito la manda un po’ dal padre per vedere se là succede la stessa
cosa; al ritorno le chiede come gli schiavi l’hanno accolta; «i bifolchi e
i pastori mi guardavano storto»; «e sono gli schiavi che vanno via di
mattina: figuriamoci quelli che stanno tutto il giorno in casa!» (Esopo
97 H.). Nella favola medievale la satira misogina si attacca anche alla
litigiosità incorreggibile della donna69.
La sofistica e l’epicureismo, e poi un filone importantissimo del
pensiero moderno, partendo dal senso dell’utile hanno cercato di spie-
gare la complessa esperienza etica e politica dell’umanità, senza ricor-
rere a un principio diverso o opposto a quello dell’utile. Alla favola
esopica non bisogna chiedere tanto: il mondo esopico è in una squal-
lida immobilità, senza sviluppo, senza storia, senza dialettica (del resto
anche nella sofistica e nell’epicureismo non si è andati molto avanti e
abbastanza presto il pensiero antico ha ucciso i germi pericolosi): il
favolista non si chiede come al senso dell’utile si colleghino il senso del
giusto, l’organizzazione della società e dello stato, il senso del bello, la
ricerca disinteressata (o che tale si sente e si crede) del vero. Pur con
questi limiti la letteratura esopica resta uno degli antecedenti non tra-
scurabili dell’utilitarismo e del materialismo moderno: e dico questo
non nella prospettiva di una storia ideale, astratta, ma in quella dell’ef-
68
L’interpretazione dell’ultimo verso resta dubbia: est del Perottino non s’impone sicura-
mente di fronte ad es delle parafrasi.
69
Cfr. La moglie litigiosa (Herv. II, p. 614, n. 73 = 681 P.); La donna della contraddizione
(Herv. II, pp. 614-615, n. 74 = 682 P.). Dati i contatti più numerosi della favola con la no-
vellistica l’infedeltà della donna vi è ancora più comune; ricordo qui la favola Il cane che
chiede un osso al padrone (Herv. II, p. 315, n. 47 = 719 P.) perché forse non è indipendente da
Vita Aesopi 45-46.
Cfr. Winternitz, Geschichte der indischen Litteratur, cit., vol. 3, spec. p. 273 (per altri
70
71
Si possono accostare Il contadino e i cani (Esopo 52 H.); Il leone e il toro (Esopo 148 H.;
Babrio 97); La cicala e la volpe (Esopo 245 H.); Il leone e l’arciere (Babrio 1); Il lupo maestro
di scuola e la gallina (tetrastico bizantino, II 28 M., p. 293 Crus. = 417 P.); Le scimmie che
vogliono costruire una città (Ermogene, Progymn. 1, in Rhet. Gr. II, p. 3 Spengel = 464 P.);
L’asino e l’orzo del porcello (Fedro V 4); Il giovenco e il bue anziano (Fedro, App. 12); Le noz-
ze del Sole e le rane (Babrio 24; Fedro I 6); Il leone infuriato e il cerbiatto (Babrio 90); La
terraneola e la volpe (Fedro, App. 32); La nottola, il gatto e il topo (Ademaro 25 = 561 P.);
Il topo ubriaco e il gatto (Herv. IV, p. 227, n. 56 = 615 P.); La scimmia e il mercante (Herv. IV,
p. 410, n. 13 (48) = 643 P.); La volpe e la colomba (Herv. II, p. 599, n. 51 = 671 P.); La cerva che
istruisce il cerbiatto (Herv. II, pp. 611-612, n. 69 = 678 P.); Il topo, la figlia, il gallo e il gatto
(Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.).
Solo una favola medievale ricordo in cui la viltà sia condannata per sé stessa: Il falco e il
73
questo riguardo e forse tra le più antiche, se veramente era già nota ad
Archiloco (96-97 D.), è la favola con tanta ricchezza ricamata da Ba-
brio (95) e dal Pañcatantra (IV 2) del cervo che per ben tre volte si la-
scia gabbare dalla volpe e menare dinanzi al leone, e la terza volta è
sbranato74. La volpe riesce a tirarsi fuori dal pozzo inducendo a scen-
dervi il becco e arrampicandosi sulla schiena e sulle corna; il becco
resta giù e recrimina: «Se avessi tanto cervello quanta barba, non sare-
sti sceso senza prima vedere come tornar su» (Esopo 9 H.; Babrio 182;
Fedro IV 9)75. La rana che vive nelle pozzanghere della strada non cede
agli inviti della rana che vive nella palude: è abituata al posto, le fa fatica
il trasferirsi: fino a che resta sotto la ruota di un carro (Esopo 70 H.).
Una cerva cieca d’un occhio pascola lungo il mare e con l’occhio sano
vigila dal lato della terra; viene invece colpita da certi naviganti di pas-
saggio (Esopo 77 H.). Il serpente, calpestato da parecchi uomini, se ne
lagna con Zeus; e Zeus: «Se il primo lo avessi addentato, il secondo
non si sarebbe azzardato a metterti il piede sopra» (Esopo 213 H.). Ha
avuto fortuna l’aneddoto del ladro che, condannato, mentre viene me-
nato in prigione, con un morso stacca un orecchio alla madre, perché
a suo tempo non ha corretto, anzi ha favorito l’inclinazione del figlio
(Esopo 216 H.). Altro aneddoto fortunato è quello del pastore che,
ingannato dalla serenità del mare, vende le pecore e si dà al commercio
di datteri; con la tempesta perde tutto; torna il sereno: «Che splendido
mare calmo!» dice uno sulla spiaggia; «vuole altri datteri» ribatte il
pastore (Esopo 223 H.). Altrettanto celebre la favola del contadino
che, per vendicarsi della volpe devastatrice, le appicca il fuoco alla
coda: la volpe va a finire nel suo campo e brucia il raccolto (Babrio 11).
Non per puro caso le favole dell’impreveggenza derisa e punita sono
tra le più popolari: esse sono veramente tra le più rappresentative del
mondo esopico76. Tipico dello stolto è non cogliere le differenze da
74
Il particolare della mancanza di cuore nel senso di mancanza di giudizio ricorre in
contesto analogo nella favola di Aviano (30) Il cinghiale senza cuore, che non può essere
indipendente.
75
Simile, specialmente nella battuta finale, la favola della lepre nel pozzo e della volpe
(Sintipa 10 = 408 P.).
76
Cfr. ancora Il tordo nel boschetto di mirti (Esopo 88 H.); I lupi, i cani e il gregge (Esopo 158
H.); Il viandante e la Fortuna (Esopo 184 H.; Babrio 49); Il cane, il gallo e la volpe (Esopo
268 H.); La lepre e la volpe (Esopo 193 Ch.; Babrio 158); Il pastore che ha chiuso il lupo con le
pecore (Babrio 113); Il gatto che invita le galline a pranzo (Pseudo-Dositeo 5, Hermen., CGL
III, p. 42 = 389 P.), sulla quale pare ricalcata Il corvo e gli altri uccelli a pranzo (Romulus IV
11 = 577 P.); Il nibbio e le colombe (Fedro I 31); L’aquila, la gatta e la scrofa del cinghiale (Fedro
II 4); Il gallo portato in lettiga dai gatti (Fedro, App. 18); La gallina, i pulcini e il nibbio (Herv.
IV, p. 208, n. 34 = 601 P.); Il cavallo e il campo di messi (Herv. II, p. 600, n. 53 = 673 P.). Come
nella favola citata del cane, del gallo e della volpe, così in favole medievali la volpe non è
sempre abbastanza preveggente da non lasciarsi gabbare a sua volta: cfr. La pernice e la
volpe (Ademaro 30 = 562 P.), che sviluppa La volpe e il corvo (Fedro I 13); L’asino col privi-
legio, la volpe e il lupo (Herv. IV, p. 365, n. 7 (41) = 638 P.). Come c’era da aspettarsi, nelle
favole medievali, è il lupo, è Isengrino l’animale più spesso gabbato: cfr. Il lupo pescatore e
la volpe (Herv. IV, p. 245, n. 74 = 625 P.); Il lupo infelice, la volpe e il mulo (Herv. II, p. 272,
n. 26 = 693 P.); La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.).
77
Cfr. Il corvo e il serpente (Esopo 130 H.; Babrio 150). Forse si può avvicinare Il montone e
il padrone calvo (Herv. II, p. 311, n. 31 = 711 P.).
Cfr. anche, per l’irrisione della credulità, Filomela e l’arciere (Herv. IV, p. 252, n. 77 = 627
78
P.), una delle più graziose e festose favole medievali, degna di un’antologia.
te sulle braccia dei suoi, capisce che è venuta l’ora di andarsene (un po’
diversamente Babrio 88). Né si fa assegnamento sull’aiuto divino. Un
naufrago ateniese invoca a ogni momento Atena e fa ingenti promesse;
ma un compagno di naufragio: «Con Atena muovi anche le braccia!»
(Esopo 30 H.). Simile la favola del bifolco e di Eracle: cascato il carro
in un fosso, il bifolco se ne sta con le mani in mano e invoca Eracle; e
il dio: «Spingi le ruote, pungola i buoi! Prega gli dei solo se fai qualco-
sa anche te!» (Babrio 20)79. Non si direbbe che, neppure in queste fa-
vole, la provvidenzialità dell’aiuto divino sia sentita vivamente. In ogni
modo, divino o umano, l’aiuto non serve a niente se chi è aiutato non
compie nessuno sforzo. Questo è il succo di una graziosa favola me-
dievale (Herv. IV, p. 209, n. 36 = 603 P.): l’oca prega il corvo di tirarla
in alto perché possa godersi il panorama; il corvo tenta, ma il peso
inerte dell’oca grassa tira in giù e bilancia ogni sforzo.
Ma nella laboriosità dell’uomo che fa assegnamento sulle proprie
forze, la mentalità esopica ha fiducia: di una religione del lavoro, fon-
data sulla religione della Dike, quale sentiamo, alle prime fondazioni
del pensiero greco, in Esiodo, sarebbe errato parlare; ma una fiducia
nel lavoro, un’affinità col mondo esiodeo c’è. È notissimo l’apologo del
contadino che, per indurre i figli a vangare bene la vigna, morendo fa
credere loro che nella vigna è nascosto un tesoro (Esopo 42 H.). Alla
notissima favola della cicala e della formica (Babrio 140) è affine quel-
la della formica e dello scarafaggio (Esopo 114 H.): lo scarafaggio se ne
sta tranquillo, mentre la formica lavora sodo; ammira tanta laboriosità,
piglia in giro; con l’inverno lo sterco, nutrimento dello scarafaggio, si
squaglia e lo scarafaggio ricorre alla formica: si può immaginare la ri-
sposta80. La tartaruga può vincere in velocità la lepre, se la tartaruga,
conscia della sua debolezza, cammina senza sosta e la lepre, sicura di
sé, s’addormenta al margine della strada (Esopo 254 H.; Babrio 177).
Nella favola dei due cani (Esopo 94 H.; forse in Babrio 220), di cui
l’uno va a caccia, l’altro sta in casa e mangia parte della preda, si accen-
79
Forse si può ricordare a questo proposito anche la favola medievale del ladro e di Sata-
na (Herv. II, p. 593, n. 39 = 662 P.): arrivato sulla forca, il ladro deve contare solo sulle sue
forze.
80
Si ricordi anche la favola, a cui accenna Plutarco (Sept. sap. conv. 14, 157 b), del cane che
d’inverno, raggomitolato dal freddo, pensa di costruirsi nell’estate una casa, ma, venuta
l’estate, trova il progetto troppo grosso e faticoso.
na, senza andare troppo in là, al problema dell’ozio che vive di sfrutta-
mento.
Il lavoro paziente, costante, metodico, assolve a volte compiti che
parevano impossibili. La cornacchia assetata non riesce ad attingere
l’acqua da un vaso né a rovesciarlo; allora vi butta dentro, a uno a uno,
tanti sassolini sino a far traboccare l’acqua (Pseudo-Dositeo 8, Hermen.,
CGL III, p. 43 = 390 P.). Non c’è, d’altro lato, un culto fanatico del
lavoro: ozio e gioco devono rilassare le energie umane per conservarle.
Fedro (III 14) attribuisce a Esopo il trito confronto delle energie uma-
ne con l’arco, che, se sempre teso, si spezza. In ogni modo il problema
della misura, nel lavoro come in altre manifestazioni umane, non è
importante per la mentalità esopica: la prudenza esopica differisce da
quella di tanta parte della filosofia antica e anche di tanta parte della
novellistica medievale perché non mira a realizzare, nelle difficoltà del
mondo, un ideale di tranquillità e di decoro, ma, come ho già detto, in
un mondo dove la vita stessa e i bisogni elementari sono minacciati,
vuole assicurare la possibilità di sopravvivere.
81
Cfr. supra, p. 276.
82
Cfr. supra, p. 296.
83
Cfr. supra, p. 294, nota 71.
84
Sulla temerità di chi non ha acquistato esperienza cfr. le favole medievali Il volpacchio
sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296, n. 3 (14) = 704 P.), che presuppone il Roman de
Renart, e L’uomo, il leone e il leoncino (Herv. II, pp. 297-300, n. 5 (16) = 706 P.).
85
La favola presenta qualche somiglianza, che può essere anche casuale, con una del
Pañcatantra, la quale si ritrova, abbreviata, nella favola medievale La topolina che cerca ma-
rito (Herv. IV, p. 234, n. 63 = 619 P.).
86
Cfr. ancora La formica (Esopo 175 H.); Il pastore e il lupo allevato insieme con i cani (Eso-
po 276 H.); Le scimmie danzatrici (Luciano, Pisc. 36 = 463 P.); Giunone, Venere e la gallina
(Fedro, App. 11); Isengrino monaco (Herv. IV, p. 195, n. 22 = 595 P.); Il lupo che si confessa
(Herv. IV, p. 406, n. 2 (37) = 641 P.); Il soldato e il frate (Herv. IV, p. 407, n. 6 (41) = 642 P.);
Il lupo che impara a leggere (Herv. II, p. 642, n. 124 = 688 P.).
87
Simile, e certamente in qualche rapporto con questa, la favola La cicogna e il suo becco
(Herv. IV, p. 185, n. 11 = 590 P.).
88
Si confronti anche Il contadino e il giovenco (Aviano 28); Il vitello e il cervo (Babrio 156):
anche se il cervo si sa più veloce dei cani, a sentirli smarrisce il senno.
19). Abbiamo già visto89 quanto giusta sia riconosciuta la punizione del
cane, che, nato e cresciuto nel letame, ha osato desiderare regales opes
(Fedro I 27). La favolistica medievale irride senza pietà il villano por-
tato fuori del suo ambiente. Un contadino invitato dal padrone a ban-
chetto arriva davanti alla porta assetato, vi trova dell’acqua sporca e la
beve, benché consigliato di astenersene; entrato, non tocca nessuno dei
cibi deliziosi e vomita sulla mensa (Herv. IV, p. 266, n. 3 = 629 P.). Un
altro contadino, venuto in città, sviene per gli odori delle spezie; i me-
dici non sanno come farlo rinvenire: ci riesce solo un tale mettendogli
sotto il naso un po’ di letame (Herv. IV, p. 283, n. 47 = 630 P.).
Invece nel mondo esopico ha debole eco un motivo che si può con-
siderare il più importante, il più diffuso e il più trito della cultura an-
tica, quello della ineluttabilità del fato. E ciò si spiega facilmente: il
ricorso al fato porta in una sfera religiosa che è estranea, come abbiamo
visto, alla mentalità esopica. È penetrata anche tra le favole esopiche
qualche rara fiaba tragica, come quella del bambino che non si riesce a
sottrarre alla profezia secondo la quale egli sarebbe morto a causa di un
corvo (Esopo 171 H.; forse in Babrio 230), e l’altra, molto simile, del
ragazzo che non riesce a evitare la profezia della morte a causa di un
leone (Esopo 279 H.; Babrio 136): troppo poco, e poco esopico.
Posto più importante ha la mutevole Fortuna. I pescatori, dopo lun-
ghe fatiche inutili, siedono scoraggiati nella barca, quando all’improv-
viso un tonno inseguito cade loro a portata di mano (Esopo 21 H.). Un
contadino, scavando, ha trovato dell’oro: ne ringrazia la Terra; ma la
Tyche protesta e lo rimprovera: «Quando le cose vanno bene, ringrazi
la Terra; quando vanno male, te la pigli con la Fortuna!» (Esopo 61 H.).
Delle accuse ingiuste la Fortuna si lagna col viandante, che, stanco, si
è addormentato sull’orlo di un pozzo: «Svegliati! Se fossi cascato, non
avresti accusato la tua infingardaggine, ma la Fortuna!» (Esopo 184
H.). Ma in altri casi la colpa è veramente della Fortuna: per colpa
della Fortuna l’eunuco è quello che è, ed è stolto rinfacciargli la sua
impotenza (Fedro III 11). Il sorriso ironico e maligno della Fortuna
spunta in varie favole di Fedro: il pettine è trovato da due calvi
(V 6), la perla dal pollo (III 12), la lira dall’asino (App. 14). Non è ca-
suale l’insistenza di Fedro su questo motivo.
89
Cfr. supra, p. 264.
90
Cfr. ancora La gara di Zeus e di Apollo (Esopo 106 H.; Babrio 68); Il leone chiuso nella
stalla e il contadino (Esopo 149 H.); la novella dei due adulteri tratta dal cod. Laur. 57, 30
(= 420 P.).
91
Cfr. anche due favole di Aftonio, I nibbi e i cigni (3 = 396 P.); Il corvo e il cigno (40 = 398 P.).
92
Affine, sia pure con sviluppo e conclusione diversa, la favola medievale La lepre che
chiede le corna (Herv. II, pp. 559-560, n. 19 = 658 P.).
93
Cfr. supra, pp. 269 ss.
ognuno nota l’affinità col famoso apologo dello stomaco e delle mem-
bra). Nulla stringe il nibbio che vuole predare con la stessa misura
dello sparviero (favola medievale in Herv. IV, p. 211, n. 38 = 604 P.)94.
Saggio, invece, il cammello che il suo padrone vorrebbe costringere
a ballare: «Come posso essere bello nella danza, se sono brutto an-
che a camminare!» (Esopo 142 H.; Babrio 80).
Certe volte il solo abbandonare il proprio ambiente porta a rovina.
Il granchio abbandona il mare per la spiaggia e finisce fra le mascelle
della volpe (Esopo 118 H.; forse in Babrio 208). Il laro scoppia nella
gola per un pesce inghiottito e casca stecchito sulla spiaggia: «Giusta
morte» commenta il nibbio. «Nato volatile, hai voluto trovare cibo sul
mare!» (Esopo 144 H.)95.
Giacché è assurda la pretesa di assolvere compiti diversi dai propri,
è assurda anche la pretesa di essere trattato come chi assolve compiti
più alti. L’asino invidia il trattamento riservato al cane e si vendica a
calci; ma il padrone lo fa caricare di botte (Esopo 93 H.; Babrio 129).
L’asino protesta perché il mulo riceve razione doppia di cibo; ma un
po’ più avanti nel viaggio l’asino non ce la fa più e il carico va a finire
tutto sul mulo: «Ti pare ora che il mio trattamento sia immeritato?»
(Esopo 204 H.)96.
Oltre a irridere la ribellione la favola esopica cerca talora, in vari
modi, di presentare questo mondo come tollerabile, se non piacevole.
Bene serve a questo intento la riflessione su condizioni peggiori della
propria. È nota la favola delle lepri che, disperate per la loro debolezza
e paura, vorrebbero ammazzarsi, ma ci rinunziano quando constatano
che le rane sono più vili di loro (Esopo 143 H.; Babrio 25). Molto affi-
ne la favola dell’asino e delle rane (Esopo 201 H.). L’asino, carico di
legna, è cascato in uno stagno e, non potendo rialzarsi, geme e piange;
94
Cfr. anche Il leone e il delfino alleati (Esopo 150 H.); La scimmia e i pescatori (Esopo 219 H.;
Babrio 157); L’asino che gioca (Babrio 125); Il lupo infelice, la volpe e il mulo (Herv. II, p. 272,
n. 26 = 693 P.); Il giovane verro (Herv. II, pp. 273-274, n. 27 = 694 P.); Gli infortuni del lupo
(Herv. II, pp. 284 ss., n. 36 = 699 P.); Il volpacchio sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296,
n. 3 (14) = 704 P.). In alcune di queste favole si mette in rilievo anche l’inesperienza.
95
Il racconto parrebbe più logico, se le parti del nibbio e del laro fossero invertite: che il
laro (o il gabbiano) si nutra di pesce, non dovrebbe essere strano. Ma non si può andare al
di là di una supposizione.
96
Cfr. anche La volpe che fa da aiutante al leone (Aftonio 20 = 394 P.); Il pappagallo e la
donnola (Esopo 261 H.).
e le rane: «Per un po’ che resti nello stagno piangi tanto: che avresti
fatto se avessi dovuto restarci quanto noi?». Il leone si lamenta con
Prometeo perché, pur avendolo armato al meglio, l’ha fatto tale da aver
paura del gallo; ma si consola quando constata che l’elefante può mo-
rire per una mosca, se gli si ficca nell’orecchio (Esopo 292 H.). Anche
la pernice prigioniera, maltrattata, picchiata dai galli, si consola quan-
do vede che i galli si picchiano anche tra di loro (Esopo 23 H.; forse di
origine babriana 213). Graziosa è la favola di età carolingia del vitello
che si lagna perché da tre giorni non succhia latte: «Io – dice la cico-
gna – non ne succhio da tre anni». Vero è che il vitello ribatte: «Di che
cibo ti nutri lo dimostrano le tue gambe!» (586 P.). O ci si può consola-
re a vedere il malfattore trascinato con noi nella rovina, come il tonno
che, inseguito dal delfino, lo vede perire insieme con sé (Esopo 115 H.).
Con l’abitudine il male diventa sopportabile. Un ricco, che ha pre-
so casa accanto alla bottega di un calzolaio, non riesce a sopportarne il
puzzo e preme per farlo trasferire; il calzolaio promette e tergiversa:
alla fine il ricco si è abituato al puzzo e non sta più a seccarlo (Esopo
220 H.; Babrio 146).
Il dolore, il male vanno accettati, perché inseparabili dalla gioia e
dal bene. La verità, che già il Socrate platonico (Fedone 60 b) illustra
con una graziosa favola esopica, ritorna poi più volte, quale argomento
consolatorio, nei favolisti (I pescatori che hanno pescato un sasso: Esopo
13 H.; forse da Babrio 209; I beni e i mali: Babrio 184; forse si può av-
vicinare la favola medievale L’uomo che vende il cavallo insieme col capro-
ne: Herv. II, pp. 600-601, n. 54 = 674 P.).
La polemica contro la mempsimoiria, che ha tanta parte nella dia-
triba e nella satira antica, non è comune nella favola esopica, ma non
ne è assente, e ben si accorda con questa tendenza consolatoria. Il
cacciatore e il pescatore si scambiano il mestiere; per un po’ di tempo
va meglio, ma presto l’abitudine fa tornare la noia e ciascuno desidera
il mestiere precedente (Babrio 61). Al pavone che si lagna della sua
sorte e desidera il canto dell’usignuolo Giunone spiega con quanta
giustizia siano distribuiti i pregi tra gli uccelli (Fedro III 18). La famo-
sa storiella dell’uomo dalle due figlie, l’una sposata a un ortolano, l’al-
tra a un vasaio, che dimostra l’inconciliabilità dei desideri degli uomi-
ni, ci proviene dalla favolistica esopica (Esopo 96 H.; forse anche in
Babrio 228, dove c’è la madre al posto del padre). Che i desideri degli
97
Cfr. Bédier, Les fabliaux, cit., pp. 212 ss., 471-472.
98
Cfr. anche L’alcione (Esopo 25 H.; forse in Babrio 225); Il bifolco che ha perduto il vitello,
e il leone (Esopo 49 H.; Babrio 23); Il contadino che chiede a Dio un altro cavallo (Herv. II,
p. 596, n. 44 = 665 P.), alquanto simile alla precedente; I pesci saltati dalla padella nella brace
(Abstemio 20 = 725 P.).
99
Cfr. anche la favola medievale dell’asino e del porco (Herv. IV, p. 207, n. 33 = 600 P.).
100
Cfr. le favole già citate La quercia e la canna (supra, p. 308); I topi e le donnole (supra,
p. 270). Fedro (IV 23) introduce fra le sue favole un aneddoto su Simonide volto a illustra-
re la massima mecum mea sunt cuncta. La punizione dell’orgoglio del ricco è affidata alla
divinità in Sintipa 31 = 413 P. (Il fico e l’olivo).
101
Cfr. anche la favola medievale di origine indiana, già citata (p. 304), della topolina che
cerca marito: il topo è il più forte di tutti, perché buca la montagna. In alcune di queste
favole, s’intende, sono esaltate l’astuzia e l’agilità contro la forza bruta.
102
Oltre alle favole già citate come quella dell’aquila e della volpe (supra, p. 276), dell’aqui-
la e dello scarafaggio (supra, p. 284), della tartaruga e della lepre (supra, p. 300) cfr. Il basi-
ternalismo: non bisogna sentirci (tranne forse agli inizi della favola
greca, in Archiloco, in Semonide di Amorgo) un’affermazione vigoro-
sa dei diritti dell’umile: affiora insomma nella favola esopica, senza
scuotere la fondamentale convinzione che la violenza non può essere
eliminata dal mondo, una certa tendenza a mutare i rapporti di forza
in rapporti paternalistici. Ciò è più chiaro in quelle rare favole dove la
clemenza del potente viene compensata dalla gratitudine dell’umile. Il
leone preso dai cacciatori viene salvato dal topolino a cui un giorno ha
risparmiato la vita (Esopo 155 H.; Babrio 107). Quasi altrettanto nota
è la favola della formica che, salvata dalla colomba mentre stava per
affogare, salva a sua volta la colomba mordendo al piede il cacciatore
che sta per colpirla (Esopo 176 H.).
In questa tematica dei rapporti tra il forte e il debole, tra il potente
e l’umile l’ispirazione politica e sociale non lascia dubbi; ma non ab-
biamo ancora toccato le favole in cui essa è più marcata. Il convinci-
mento che la propria condizione non può essere mutata, che il tenta-
tivo di mutarla porta, se mai, al peggio si riferisce esplicitamente anche
al governo. Su tale convincimento si fonda la celebre favola delle rane
che chiedono un re (Esopo 44 H.; Babrio 174; Fedro I 2). La più inte-
ressante è una citata da Aristotele nella Retorica (II 20). Una volpe,
attraversando un fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto
dirupato, donde non può uscire; le zecche la coprono e le succhiano il
sangue. Capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle
zecche: «Ti prego di no» risponde la volpe: «queste qui sono già rim-
pinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora affa-
mate». Tra le favole che ci fanno sentire l’infinita forza di sopportazio-
ne e l’assenza di ogni speranza delle classi umili antiche ha rilievo
quella fedriana (I 15) dell’asino e del vecchio pastore. Un vecchierello
pauroso pascola un asino. Si sentono le grida dei nemici che arrivano.
«Scappiamo, ci acchiappano!». Ma l’asino, senza scomporsi: «Perché
scappare? Un nuovo padrone non mi metterà mica due basti!». Il servo
sarà sempre oppresso dal padrone: cambiar padrone è, quindi, del tut-
to indifferente. Può accadere, se mai, che delle lotte fra i dominanti
subiscano le conseguenze dolorose gli oppressi (Le rane preoccupate per
lisco sopra l’aquila (Plutarco, Praec. reip. ger. 12, 806 e = 434 P.); La gara dell’aquila e del topo
circa la forza della vista (Herv. IV, pp. 378-379, n. 23 (57) = 639 P.).
le battaglie dei tori: Fedro I 30): ma neppure in questo caso gli oppres-
si possono farci niente.
Sul terreno politico molto più decisamente che nel resto dalla ri-
nunzia alla lotta si passa alla giustificazione dell’ordine costituito: la
giustificazione si fonda soprattutto sul concetto che senza chi governa
o chi difende tutto va in rovina. Le pecore che fanno alleanza coi lupi
e consegnano loro i cani preparano il proprio macello (Esopo 158 H.).
La pecora si lamenta col pastore perché lei che dà tutto è trattata par-
camente, il cane con abbondanza; e allora il cane le spiega la necessità
dell’esercito (Senofonte, Mem. II 7, 13 = 356 a P.; Babrio 128). La volpe
che serve il leone per avvistare o scovare la preda si lagna della disegua-
glianza nella distribuzione delle parti e si mette a cacciare da sé: finisce
presto nelle mani dei cacciatori (Aftonio 20 = 394 P.). L’asino selvati-
co vanta contro l’asino domestico la propria libertà; arriva il leone:
l’asino domestico, difeso dal padrone, si salva, l’asino selvatico viene
sbranato (Sintipa 30 = 411 P.); è la favola contraria a quella fedriana,
ricordata sopra, del lupo e del cane. Al famoso apologo di Menenio
Agrippa, che naturalmente non manca nelle raccolte esopiche (132 H.),
somiglia in tutto tranne che nei personaggi la favola babriana (134) che
racconta la rivolta della coda del serpente contro le membra; e press’a
poco lo stesso significato doveva avere l’apologo che Plutarco (Themi-
st. 18 = 462 P.) attribuisce a Temistocle: il giorno di lavoro si lagna
contro il giorno di festa: «Io sono carico di noie e di fatiche, tu riposi
e mangi quello che io produco»; e il giorno di festa: «È vero; ma, se
non ci fossi stato prima io, non ci saresti neppure te!». L’epimitio spu-
rio di Babrio 40 non sembra interpretare male la favola del cammello
che traversa il fiume. Nel traversare il fiume violento il cammello sca-
rica il peso del ventre e si vede passare avanti i propri escrementi: «Va
male! La mia parte posteriore è diventata anteriore». L’epimitio la ri-
ferisce alle città in cui la feccia è al potere. Un’ispirazione contraria mi
pare di sentire solo nella favoletta medievale del gatto, del topo e del
cacio (Herv. IV, p. 194, n. 21 = 594 P.): un tale vede nella sua dispensa
un topo che mangia il formaggio; allora ci fa entrare il gatto che spaz-
za via topo e formaggio.
In queste favole è implicito che l’uguaglianza è un’assurdità: il che
già sapevamo da favole come L’asino e il mulo, I leoni e le lepri, Il regno
Cfr. ancora Eracle e Atena (Babrio 145), sulla rapida crescita della discordia; Polemos
104
re niente, con una pietra legata a una fune si mette a picchiare l’acqua
per fare scappare i pesci e farli incappare nella rete. Alcuni dei vicini
si lamentano perché egli intorbida il fiume; ma il pescatore: «Se non
turbo a questa maniera le acque, bisogna che io crepi di fame». L’e-
pimitio interpreta la favola (forse senza ragione, ma l’interpretazione
è interessante) come rivolta contro i demagoghi, che per campare
hanno bisogno di mettere sottosopra le città. Anche la favola del
serpente, della donnola e dei topi105 è riferita dall’epimitio ai dema-
goghi, che si lacerano tra loro, ma poi si uniscono per sfruttare il
popolo che li ascolta106.
106
Una polemica contro i tiranni, che favoriscono solo i malvagi, è nella favola medievale
del cappone e dello sparviero (Herv. II, p. 350, n. 61 = 646 P.). Una favola contro i reggito-
ri di Corinto è attribuita da Diogene Laerzio II 5, 42 a Socrate, ma dai due versi introdut-
tivi citati non se ne può arguire l’argomento. Appare qualche volta anche la satira, di
senso ben diverso, contro l’amministrazione inetta o corrotta della giustizia: cfr. La rondi-
ne e il serpente (Esopo 255 H.; Babrio 118); Il processo per l’uccisione della gazza (Herv. II,
p. 597, n. 46 = 667 P.).
107
A queste favole si può contrapporre quella di Zeus, degli animali e degli uomini (Ba-
brio 155), che svolge il banalissimo luogo comune della superiorità dell’uomo, in quanto
provvisto di ragione, sugli animali. Alla superiorità dell’anima sul corpo può far pensare la
favola della volpe e del leopardo (Esopo 12 H.; Babrio 180); ma essa si riferisce più proba-
bilmente alla superiorità della sostanza sull’apparenza.
108
Sulla questione cfr. lo studio esauriente di B. E. Perry, The Origin of the Epimythium,
«Transactions and Proceedings of the American Philological Association», vol. 71, 1940,
pp. 391-419. Cfr. anche Marchesi, La morale della favola, cit., pp. 228 ss.
Lite della scrofa e della cagna. La scrofa giura per Afrodite che, se
la cagna non la smette, la farà a pezzi con le sue zanne. «Che dici? Per
Afrodite?! Ma se la dea vi detesta a tal punto che non fa entrare nel suo
tempio chi ha mangiato carne di scrofa!». «Non lo fa mica per odio,
mia cara! Lo fa perché nessuno mi sacrifichi» (Esopo 250 H.). Dioge-
ne a un calvo che lo insulta: «Io non ti insulto, non sia mai! Lodo solo
i capelli che hanno abbandonato il tuo cranio» (Esopo 65 a H.). La
volpe alla leonessa: «In tutto hai fatto un solo figlio!». «Ma leone!»
risponde la leonessa (Esopo 167 H.). Giusta l’interpretazione dell’epi-
mitio: la qualità conta più della quantità; ma il sapore della favola sta
tutto nella prontezza della risposta azzeccata. Un calvo, mentre caval-
ca, il vento gli porta via la parrucca: la gente intorno ride; e il cavaliere,
fermatosi: «Che c’è di strano se scappano i capelli non miei, quando
m’hanno abbandonato i capelli con cui nacqui?» (Babrio 188). Xanto
una volta chiede al suo schiavo Esopo perché mai, quando scarichiamo
il peso del ventre, siamo intenti a guardare quello che esce. Ed Esopo
risponde con una barzelletta. Nei tempi antichi ci fu un re con un figlio
crapulone, il quale naturalmente sedeva a lungo per questi bisogni. Un
giorno mise fuori anche il cervello: da allora guardiamo per paura di
mettere fuori il cervello anche noi. «Ma tu – aggiunge Esopo – non
preoccuparti: il cervello non ce l’hai» (Vita Aesopi 67). Nella risposta ar-
guta molto più che nella morale è il sapore della favola fedriana (I 18)
sulla donna nelle doglie del parto, che non crede si possa curare il male
là dove è stato concepito. Per non dilungarmi aggiungerò solo un aned-
doto penetrato tra le favole medievali (Herv. IV, p. 242, n. 70 a = 623 P.).
Era costume ad Atene che chi volesse essere considerato filosofo do-
veva sottoporsi a una bastonatura e sopportarla con pazienza. Un tale
si sottopone alla prova, la sopporta bene e alla fine esclama: «Eccomi
veramente degno di essere chiamato filosofo!». Ribatte uno presente:
Frater, si tacuisses, philosophus esses109.
109
Do in nota un elenco, che non pretende di essere completo, di favole il cui senso è solo
o prevalentemente nell’arguzia e nella vis comica: Il leone che ha paura del topolino (Esopo
151 H.; Babrio 82), dove tuttavia ha peso anche la morale che la grandezza non deve tolle-
rare il più piccolo affronto; L’uccellatore e il cardellino (Esopo 207 H.; forse di origine ba-
briana 215); Le volpi che vogliono passare il Meandro (Esopo 231 H.); L’ateniese e il tebano
(Babrio 15); L’arabo e il cammello (Babrio 8); Il cane invitato a pranzo (Babrio 42); Il cane e
il padrone (Babrio 110); Il padrone di casa e i marinai (Pseudo-Dositeo 4, Hermen., CGL III,
pp. 41-42 = 391 P.); Il marinaio e il figlio (novella tratta dal cod. Laur. 57, 30 = 421 P.);
Lo schiavo fuggitivo (Plutarco, Coniug. praec. 41, 144 a = 440 P.); Il cuculo e gli uccelli (Plutar-
co, Arat. 30 = 446 P.); L’asino che si china a guardare dalla porta (Zenobio V 39, CPG I,
p. 137 = 459 P.); L’ombra dell’asino (Plutarco, Vit. X orat. 848 a = 460 P.); Pompeo e il soldato
(Fedro, App. 10); Il viandante e il corvo (Fedro, App. 23); Socrate e lo schiavo farabutto (Fedro,
App. 27); Il re di Grecia e il fratello (Herv. IV, p. 294, n. 75 = 631 P.); La spada e il viandante
(Romulus IV 20 = 579 P.); Il filosofo che sputa sulla barba del re (Herv. II, p. 304, n. 102 = 634
P.); Il contadino che ha venduto il cavallo (Herv. II, pp. 554-555, n. 11 = 653 P.); Il cacciatore e il
bifolco (Herv. II, p. 286, n. 37 = 700 P.); Il soldato e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301,
n. 6 (17) = 707 P.); La volpe e la scimmia malata (Herv. II, p. 312, n. 37 = 715 P.). Il gusto
della oscenità salace appare in Esopo e il contadino (Fedro III 3), nella storiella Il giovanot-
to e la vecchia (Sintipa 54 = 410 P.).
110
Cfr. ancora Il cavallo, il bue, il cane e l’uomo (Esopo 107 H.; Babrio 74); Zeus e la Vergogna
(Esopo 111 H.); Zeus e la tartaruga (Esopo 108 H.); Le api e Zeus (Esopo 172 H.; Babrio
183); Gli asini che mandano l’ambasceria a Zeus (Esopo 196 H.); I sogni (Vita Aesopi 33);
L’aquila e l’uomo (Pseudo-Aristotele, Hist. anim. IX 117 = 422 P.); Apollo, le Muse e le Dria-
di (Imerio, Or. 20, pp. 86-87 Dübner = 432 P.); L’origine del rossore (Gregorio Nazianzeno,
Poem. moral. 29, PG XXXVII 3, col. 898 = 442 P.); Eros tra gli uomini (Imerio, Ecl. 10, 6,
pp. 22-23 Dübner = 444 P.); I cani musici (Dione Crisostomo, Or. 32, 66 de Budé = 448 P.);
L’asino e la dipsade (Eliano, De nat. anim. VI 51 = 458 P.); Il dono toccato al Dolore (Plutarco,
Cons. ad Apoll. 19, 112 a = 462 P.); Poros e Penia (Platone, Conv. 203 b-e = 466 P.); Il satiro e
Non c’è niente in queste favole eziologiche per lasciar supporre una
canzonatura della scienza. Esse si spiegano piuttosto con una certa
curiosità primitiva, che non ha niente a che fare con la magia e la reli-
gione, col gusto primitivo degli indovinelli che è così diffuso nel ro-
manzo di Ah.īqār, di origine babilonese, nel romanzo di Esopo, senza
parlare della letteratura indiana111; in esso si può cogliere persino un
barlume di spirito scientifico: e in ogni modo siamo anche qui nella
tendenza che distacca la cultura primitiva dal sacro. Questo gusto era
ancora diffuso nella cultura greca classica112.
Il gusto per l’arguzia e per la trovata ingegnosa fu certamente una
ragione per l’incontro tra la favolistica e la novellistica di tipo milesio;
ma sarebbe ingiusto non tener conto di una ragione forse più impor-
tante, cioè della tendenza, che v’è anche nella novellistica milesia, a
scavare nella natura umana, a lacerare le apparenze e a mettere a nudo
le vere forze che fanno agire l’uomo, a illuminare le bassezze dell’ani-
mo e i bassifondi della società, insomma del realismo e del pessimismo
che ispirano anche la novellistica milesia e un Petronio e che vanno al
di là del gusto farsesco. Soprattutto in Fedro, e soprattutto in favole
come quella della vedova e del soldato (App. 15: è la novella della ma-
trona di Efeso) o quella molto meno felice del testamento enigmatico
(IV 5), l’incontro s’illumina bene a questa luce113. I favolisti antichi,
il fuoco (Plutarco, De cap. ex inim. util. 2, 86 e-f = 467 P.); Le cicale (Platone, Phaedr.
259 b-c = 470 P.); Prometeo (Fedro IV 15); Prometeo ubriaco (Fedro IV 16); I cani che manda-
no l’ambasceria a Giove (Fedro IV 19); La pulce e la podagra (favola latina dell’età carolingia:
587 P.); L’aquila marina e le colombe (Herv. IV, p. 179, n. 2 = 588 P.); Il gufo e gli altri uccelli
(Herv. IV, p. 226, n. 55 = 614 P.); La cucula e l’aquila (Herv. IV, p. 251, n. 76 = 626 P.).
111
[Cfr. Il romanzo di Esopo, qui, pp. 151 ss.].
112
Alle favole eziologiche avvicinerei per una certa affinità Esopo nell’arsenale (Esopo 8 H.,
già nota ad Aristotele, Meteor. II 3, 356 b) e la favola dell’allodola che, anteriore alla stessa
terra, avrebbe seppellito il proprio padre nella testa (Aristofane, Av. 471 ss. = 447 P., che
cita Esopo). Un altro elemento strutturale che lega notevolmente la favola a letterature
primitive e orientali (specialmente babilonesi: cfr. Ebeling, Die babylonische Fabel und ihre
Bedeutung für die Literaturgeschichte, cit.) è il contrasto. Cito i casi più evidenti: Contrasto
dell’inverno e della primavera (Esopo 297 H.); La rondine che si vanta e la cornacchia (Babrio
148); Apollo, le Muse e le Driadi (Imerio, Or. 20 = 432 P.); L’alloro e l’olivo (Callimaco, fr. 194
Pf. = 439 P.); La formica e la mosca (Fedro IV 25); La pulce e la podagra (favola medievale:
587 P.); Il lupo e la colomba che raccolgono ramoscelli (Herv. IV, p. 644, n. 128 = 689 P.).
113
Come favole dallo sviluppo novellistico segnalo L’adultera e il marito (Babrio 116); La
vedova e il bifolco (Vita Aesopi 129: la novella coincide in parte con quella della matrona di
Efeso); Il ladro e l’oste (nel cod. Laur. 57, 30 = 301 H. = 419 P.); I due adulteri (ibid. = 420 P.);
Il marinaio e il figlio (ibid. = 421 P.); Pompeo e il soldato (Fedro, App. 10); I due proci (Fedro,
però, come ho già detto, non hanno veramente gusto per l’intreccio né
per la coloritura psicologica; in una letteratura formatasi attraverso
secoli e secoli non si vede venir fuori un vero narratore: tra il racconto
lampo che serve a tramandare una risposta bene azzeccata e il raccon-
to che crea delle persone e degli ambienti, la favola antica resta deci-
samente attaccata al primo polo. D’altra parte anche la preoccupazione
gnomica era un ostacolo su questa via: anche nelle favole dalla punta
arguta, a proposito delle quali ho detto che è difficile ricavare una
morale precisa, la preoccupazione gnomica non è sempre assente: essa
è piuttosto rinserrata nella punta conclusiva, come doveva essere gene-
ralmente alle origini della favola (è ovvio che la favola ben riuscita si
spiega da sé, senza bisogno di sbavature didascaliche). Perciò anche il
gusto gratuito della beffa, così potente nella narrativa medievale, man-
ca quasi del tutto, abbiamo già notato, nella favola antica: nella favoli-
stica medievale, nei tempi del Roman de Renart, dei fabliaux, della
grande fioritura di narrativa piacevole, anche il gusto della beffa si fa
sentire non raramente114.
App. 16). Non minore, e forse maggiore, la contaminazione nella favolistica medievale: Il
re di Grecia e il fratello (Herv. IV, p. 294, n. 75 = 631 P.); L’angelo che dimostra la giustizia
divina (Herv. IV, pp. 308-309, n. 115; pp. 376-377, n. 22 (56) = 635, 635 a P.); Il soldato e il
serpente (Herv. IV, pp. 381-384, n. 24 (58) = 640 P.); Il contadino e la moglie (Herv. II, p. 553,
n. 9 = 651 P.); Il ladro e lo scarafaggio (Herv. II, p. 590, n. 35 = 660 P.); La moglie e l’amante
(Herv. II, p. 591, n. 36 = 661 P.); Il medico, il ricco e la figlia (Herv. II, pp. 635-636, n. 114 = 684
P.); I tre figli che debbono spartire l’eredità (Herv. II, pp. 291-292, n. 2 (13) = 703 P.); Il soldato
e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301, n. 6 (17) = 707 P.).
114
Oltre alla novella, già citata nella nota precedente, del contadino e della moglie, cfr. Il
lupo pescatore e la volpe (Herv. IV, p. 245, n. 74 = 625 P.); Il lupo infelice, la volpe e il mulo
(Herv. II, p. 272, n. 26 = 693 P.); Il lupo e la volpe affamata (Herv. II, p. 311, n. 33 = 712 P.);
La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.). Superfluo rilevare la parentela col
Roman de Renart.
115
La scienza nuova I 1, 32 (p. 93 Niccolini). Il Vico rimanda a II 2, 9 (pp. 263 ss. Nicc.)
della propria opera.
116
Il Vico (La scienza nuova, cit., p. 264 Nicc.; cfr. anche II 4, 2, p. 467 Nicc.) sentiva la
denunzia dell’iniquità soprattutto nella favola «della società lionina», dove soci sono «i
plebei […] dell’eroiche città», i quali «venivano a parte delle fatighe e pericoli nelle guerre,
ma non delle prede e delle conquiste». A parte l’ingenuità filologica sui soci, è tutto giusto.
117
Interessante sotto questo riguardo anche la contrapposizione di Esopo e dei sette saggi.
Le testimonianze sono raccolte dal Perry, Aesopica, cit., pp. 223 ss.; cfr. anche Agazia,
Anth. Plan. IV 332 (Test. 50 P.). Di qualche interesse anche le riflessioni di Filostrato, Vita
Apollon. V 14 (Test. 100 P.).
118
Cfr. G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, in Id., Terze pagine stravaganti, Firenze
1942, pp. 139 ss. (già in «Critica d’arte», vol. 5, 1940, pp. 25 ss.), dove un accenno a Esopo
non sarebbe stato fuori luogo.
119
Vico, La scienza nuova, cit., p. 264 Nicc. L’accostamento a Tersite già nel proemio alla
Vita Aesopi composto da Massimo Planude (Test. 2, p. 215 P.): forse di là ha preso la spinta
il Vico.
degli schiavi, della servitus obnoxia, la quale quae volebat non audebat dice-
re e perciò affectus proprios in fabellas transtulit / calumniamque fictis elusit
iocis (III prol., 33 ss.), che nella statua innalzata a Esopo egli sentisse l’o-
nore reso allo schiavo per il suo valore, indipendentemente dal genus
(II 9, 1 ss.). Ancora Giuliano l’Apostata (Or. 7, 207 c = Test. 58 P.) vede in
Esopo lo schiavo «non meno nel deliberato proposito che nella sorte», il
quale adombra quelle verità che la legge non permette di dire aperta-
mente. La favola oraziana dei due topi è narrata fra gente di campagna.
Ci si è spesso meravigliati che Fedro fosse ignoto agli scrittori contem-
poranei. Ci si sarebbe dovuti meravigliare se fosse capitato il contrario:
Fedro è ignoto ai letterati del tempo, perché ormai fra letteratura dotta e
letteratura popolare c’è un diaframma: se Fedro fosse vissuto al tempo di
Plauto, egli non sarebbe stato probabilmente un ignoto. Al tempo di Eso-
po quel distacco non c’era (esso si aprirà nel IV secolo), ed egli era già fa-
moso nel V secolo: la favola esopica era citata da poeti, da filosofi, da
oratori; senza l’uso dell’oratoria non si capirebbe la raccomandazione
nella retorica aristotelica di usare la favola tra gli esempi (Rhet. II 20).
Ma nell’oratoria successiva la favola esopica è assente: essa è relegata
nelle scolette dei retori tra gli esercizi preparatori agli studi di retorica
vera e propria: lo hiatus tra cultura volgare e cultura aulica si è aperto.
Il fatto che la prima fioritura letteraria della favola esopica in Grecia
si sia avuta nei secoli dal VII al V è apparso sempre, e giustamente,
come importante: sono i secoli del primo slancio della ragione, i seco-
li in cui si fondano la scienza, la filosofia, la storia; come la scienza, la
filosofia, la storia, la favola esopica greca è figlia della curiosità ionica,
che poi non è curiosità gratuita, ma quasi sempre sete di analisi razio-
nale della natura e degli uomini. E questo slancio della ragione fa
tutt’uno con il crollo di quel tipo di feudalesimo che conosciamo dai
poemi omerici e con l’ascesa politica di strati sociali inferiori nelle
campagne e nelle città. «Nello stile di Nietzsche – scriveva Otto Cru-
sius – si potrebbe dire: le favole accompagnarono la rivolta contadina
nella morale»120. Per l’età ionica una tale interpretazione potrà anche
120
Nell’introduzione premessa all’antologia di favole (Das Buch der Fabeln) compilata da
C. H. Kleukens, Leipzig 1913, p. ix. Le belle pagine in cui il Crusius, uno dei più impor-
tanti studiosi della favolistica greca, traccia la nascita della favola nell’età ionica, sono no-
tevoli anche per il loro calore democratico, poi attenuatosi e ormai spento nella filologia
classica tedesca.
Ivi, p. xvii.
121
non essere la libertà dal bisogno e dal padrone: ma per il favolista an-
tico questo sarebbe stato un contenuto illusorio.
A giudicare dalla favola antica si potrebbe ben accettare la definizio-
ne marxiana del proletariato antico come piedistallo immobile della so-
cietà, sul quale si muove la lotta di classe. Ma la favola esopica non
esprime certo tutta l’anima del proletariato antico né in tutti i suoi mo-
menti storici. Giusta e utile contro chi ammoderna la storia antica, con-
tro chi assimila le lotte di classe nell’antichità alla lotta del proletariato
industriale moderno contro la borghesia, la riflessione di Marx minaccia
di rendere incomprensibile non poca parte della storia antica (del resto
essa è implicitamente superata dalla storiografia sovietica su Roma anti-
ca, che anzi sopravvaluta il peso della struttura schiavistica per la com-
prensione di certi mutamenti storici). Quel piedistallo della società an-
tica (parlo degli schiavi e ancora più dei proletari liberi delle campagne
e delle città) ebbe i suoi sussulti e anche le sue scosse terribili e i riasse-
stamenti politici della società antica (per esempio la fondazione del prin-
cipato romano) furono determinati in parte dagli effetti di quelle scosse
e dalla paura di altre scosse più gravi. Ma dove si espressero le aspirazio-
ni sociali più o meno confuse degli strati subalterni antichi? Uno sbocco
è già da vedere negli effetti di quelle aspirazioni sulle ideologie delle
classi dominanti che in certi periodi storici, nei loro conflitti reciproci,
sfruttarono l’appoggio degli strati subalterni. Dietro la legislazione agra-
ria e sumptuaria, dietro la rara legislazione contro l’usura si sente la spin-
ta delle masse proletarizzate. L’ideale che viene offerto alle masse prole-
tarizzate è il regime dei modesti, parchi piccoli proprietari, il tempo di
Licurgo per gli Spartani, il tempo dei Fabrizi, dei Curi Dentati, dei
Catoni per i Romani: un ritorno utopistico, ma che aveva la parvenza di
un programma politico-sociale realizzabile, e in ogni modo è la sola
spinta del proletariato che in qualche misura incidesse sulla legislazione.
L’altro grande sbocco è nella religione. Non parlo, naturalmente, della
religione come salvezza dell’anima, come evasione illusoria dal mondo,
ma degli ideali sociali che pure le religioni accolgono, che colorano e
definiscono le prospettive messianiche, che inducono i capi religiosi a
teorizzare nuovi assetti della società e nuovi rapporti tra gli uomini, che
rafforzano decisamente le ideologie dei capi carismatici. I salvatori atte-
si sono innanzi tutto i liberatori dall’oppressione dello straniero e dall’op-
pressione dei ricchi; aspettazioni di giustizia e d’uguaglianza, ideali co-
122
Per lo studio della storia antica e medievale sotto questo riguardo non è senza interes-
se il confronto con le ideologie bizzarramente composite dei popoli coloniali di oggi; cfr.
V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano 1960.
123
Cfr. R. von Pöhlmann, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt,
München 1925, vol. 2, pp. 274 ss., il quale esagera il significato storico di questa letteratura.
Questo grossolano errore guasta il noto libro di B. Farrington, Science and Politics in
124
the Ancient World, London 1939 [trad. it. Scienza e politica nel mondo antico, Milano 1960],
che però giustamente delinea la sconfitta del pensiero scientifico nella civiltà greca e latina.
Invece una favola medievale, Il giovane verro (Herv. II, pp. 273-274, n. 27 = 694 P.), am-
127
monisce di stare coi suoi sia nella buona che nella cattiva fortuna.
128
Per una breve esposizione di questa teoria cfr. G. Cocchiara, Storia del folklore in Eu-
ropa, Torino 1952, pp. 558 ss. Inutile dire che la teoria ha non pochi contatti con Bédier e
con Croce.
129
La favola esopica posteriore al Medioevo è lontana dall’essere tutta espressione delle
classi subalterne. Spiriti illuministici, rivoluzionari l’hanno animata qualche volta nel
Settecento, ma in genere bisogna essere molto cauti nel credere a questo carattere della
favola esopica: poco persuadono le pagine di Saint-Marc Girardin (La Fontaine et les
fabulistes, Paris 18762, vol. 2, pp. 61 ss.) sullo spirito rivoluzionario di La Fontaine (forse
la paura di moderato faceva vedere al critico rivoluzionari dappertutto); e quello che
potremmo chiamare il qualunquismo scettico della mentalità esopica resta, per esempio,
in un Trilussa.
Appendici
Appendice A
Marginalia Aesopica1
1. Phaedriana
I 6, 3 sqq.
xorem quondam Sol cum vellet ducere,
U
clamorem ranae sustulere ad sidera.
Convicio permotus quaerit Iuppiter
causam querellae.
In fabella quae inter Aesopias tradita est (128 Chambry) et apud
Babrium (24) ranae non querentes convicium tollunt, sed laetae festivo
cum clamore nuptias prosequuntur: Aes. 128 Ch. Γάμοι τοῦ Ἡλίου
qέρους ἐγίγνοντο· πάντα δὲ τὰ ζῷα ἔχαιρον ἐπὶ τούτῳ, ἠγάλλοντο δὲ
καὶ οἱ βάτραχοι. Apud Aesopum et Babrium una ex ranis ipsis genus
vecors et clamosum monet neque Iuppiter ullas partes agit. Comicam
Graecae narrationis vim Phaedrus (aut Phaedri auctor) enervavisse
videtur: nam ranarum, quae suo ipsarum malo gaudent, stultitia quanto
facetius in Graeca narratione elucet! Equidem suspicor aut Phaedrum
aut Phaedri auctorem narrationem pristinam non recte intellexisse et
festivum ranarum clamorem pro querentium convicio interpretatum
esse.
[Lanx satura Nicolao Terzaghi oblata. Miscellanea philologica, Istituto di filologia classi-
1
ca e medioevale, Genova 1963, pp. 227-236. La quarta e quinta sezione, In «Vitam Aesopi»
e In «Vitam Lollinianam», sono apparse originariamente in Coniectanea et marginalia I,
«Philologus», vol. 106, 1962, pp. 267-271. Dato il carattere strettamente filologico di
questo contributo, il testo e la numerazione delle favole di Fedro sono conformi all’edi-
zione Bassi («Corpus Paravianum», 1918, 19363), utilizzata da La Penna per l’occasione,
con alcuni scostamenti (qui non segnalati) nella riproduzione dell’apparato. Per como-
dità di riscontro, in caso di discrepanza viene data tra parentesi quadre la corrispon-
denza con la numerazione dell’edizione Perry (P.), di regola citata negli altri scritti del
volume].
I 21, 5
Aper fulmineis venit ad eum (scil. leonem) dentibus
ad eum venit P, venit ad eum D
II prol., 9 sqq.
ed si libuerit aliquid interponere,
S
dictorum sensus ut delectet varietas,
bonas in partes, lector, accipias velim
ita, si rependet illi brevitas gratiam.
12 si Heinsius, sic P Rv illi P Rv, † Illi Havet («possis Tilli, Cilli, Iuli...»),
illam Heinsius. Multa alia conati sunt et editores et viri docti, etiam quod
pertinet ad priorem versus partem, quae adferre supervacaneum puto.
exstiterunt; sed credere licet fata non illi tantum libello membra
amputavisse.
III 6, 9
Ubi sit tardandum (saltandum V) et ultro currendum scio N V, Nam ubi
tricandum et ubi currendum est scio P (tricandum et etiam R)
Olim in initio versus locum aptiorem forsitan habeat: cf. enim III
17, 1 sq. Olim quas vellent esse in tutela sua / divi legerunt arbores; App.
Perott. 5 [5-6 P.], 1 sq. Olim Prometheus... / …fecerat.
Ant.) ἢ χρ. ἐπεμελοῦντο codd. 12, 20, Ant. χρημάτων γὰρ ἀλλ’οὐχὶ (οὐ
35) σοφίας ἐπεμ. (ἐπιμελοῦνται 35) codd. 29, 35 malim σοφίας <ἂν>
4. In Vitam Aesopi
Quam bene de studiis Aesopicis vir doctus Americanus Ben E.
Perryus meritus sit non est quod dicam: nam opus magnae molis
non sine audacia inceptum, magna cum constantia et φιλοπονίᾳ
perfectum2 multi et docti viri satis laudaverunt. Primus Perryus
ignotam, etsi iam notae satis similem, Aesopi Vitam in lucem protulit
ex codice quodam Cryptoferratensi, qui Napoleonis temporibus
surreptus abhinc fere tria decennia ultra Oceanum quasi altera
Arethusa in Americana bibliotheca emersit, scilicet ultimum et
ditissimum dominum secutus3. Textus in codice Cryptoferratensi tam
foede corruptus exstat ut plerumque frustra remedia quaeras; multam
diligentiam multumque acumen Perryus insumpsit, sed hic illic non
satis prudenter coniecturas pro certis in textum recepit, quas in
apparatum inter dubia remedia reicere malis. Incerta cum incertis
commutare ingratus labor: quare incertas coniecturas, quae mihi
legenti multae occurrerunt, cautus omittam; liceat tamen mihi quoque
aliquando prudentiae leges violare et nova remedia exquirere, quae non
certa, sed ne futilia quidem spero.
16 (p. 40)
ἐπεισέρχεται οὖν ὁ Αἴσωπος καὶ qεωρεῖ παίδας καλλίστους, πάν-
τας καqαιρέτους, ὡς Διονύσους καὶ ̓Aπόλλωνας.
καqαιρέτους ] falso, suspicor, pro ἐξαιρέτους
2
B. E. Perry, Aesopica, I, Urbanae (Illinois) 1952. [Fanno riferimento a questa edizione sia
la numerazione dei capitoli, sia le indicazioni di pagina relative tanto alla Vita Aesopi
quanto alla Vita Lolliniana (cfr. infra, § 5)].
3
Codicis fortunas Perryus narravit, ibid., p. xiv sqq.
19 (p. 41)
ἐξελqὼν γὰρ εἰς τὴν ὁδὸν περιπατεῖν τὸν γούργαqον ἐδίδασκεν.
Si contextum inspicis, non γάρ, sed δέ desideras, quod exstat in W;
cum paulo post γάρ bis occurreret, scriba in errorem inductus est.
19 (p. 41)
καὶ κακηγκάκως ἤλqον εἰς πανδοχει̃ον· καί φησιν ὁ <σωματέμπο-
ρος>· [πανδοχεύς· δὸς ἑκάστῳ προσφάγην· ἀσσαρίου ἄρτους γάρ
ἔχομεν] «Aἴσωπε, δὸς ἑκάστῳ ἀνὰ ζεῦγος ἄρτον».
Verbis quae Perryus seclusit, nihil in W respondet: fortasse in Vita
quam et G et W refinxerunt, nondum apparuerant; sed non pro certo
habeo ea ex G pro spuriis reicienda: ex ipso enim auctore, qui primus
Vitam, qualis extat in G, refinxit, induci potuerunt: si πανδοχεύς (vel
πανδοχεῦ), δὸς… scribis, in verbis mercatoris, qui prius cauponem,
postea Aesopum compellat, nihil salebrosum displicet. προσφάγη pro
προσφάγημα in huius Vitae sermone tolerabile; sed utrum lectionem
auctori primo an indocto alicui scribae debeamus diiudicare non ausim.
In qua ἐποχῇ et alibi haereo: in 71 quis diiudicet cui πάντα πεπλήρωνται
(pro πεπλήρωται) debeamus? Quis in 102 ὥστε οὐ μόνον τά βάρβαρα
τών ἐqνῶν6 κατειληφέναι, ἀλλὰ καὶ τὰ πλείονα μέρη ἕως Ἑλλάδος
4
G est codex Cryptoferratensis.
5
W est recensio quam A. Westermann Brunsvigae 1845 edidit.
6
τῶν ἐqνῶν Perryus dubitanter, αὐτῶν G, αὐτόν Perryus in apparatu fortasse recte.
30 (p. 45)
ἄλλη· «ἄλλη πιqανωτέρα λήψεται».
De textu Perryus ipse dubitat et ἄλλη· ἄλλ’ἡ… in apparatu proponit;
fortasse ἄλλη· [ἄλλ] «ἡ πιqανωτέρα...». Comparativum pro superlativo
et alibi occurrit: 18 (p. 41) τὸ πάντων ἐλαφρότερον.
52 (p. 52)
τὸ γὰρ ἁλυκὸν τῷ δριμυτέρῳ συγκέκραται τῆς γλώσσης ἵνα τὸ
εὔστομον καὶ τὸ δάκνον ἐπιδείξῃ.
ἐπιδείξῃ vix tolerabile: ἐπιδέξηται desideras: ἐπιδέξεται W, quod
optimam efficit sententiam. Sed hic fortasse primus ipse sartor Vitae
Cryptoferratensis erravit.
71 (p. 58)
ἀλλ’ ἅπερ παροινῶν ἔqου…
ἀλλαπερι παροινῶν ἔση G (post ἔση aliqua exciderunt). Etsi συνέqου
legitur in W, lectio codicis G ἔqηκας commendare videtur.
76 (p. 59)
ἕως τὰ πρὸς τὸ δεῖπνον γένηται ἐλqὲ σὺν ἐμοὶ ἔξω τῆς πύλης <ἴνα>
διακινήσωμεν.
Equidem ἴνα non desidero: in tali sermone παράταξιν rectius
requiras quam reicias.
77 (p. 59)
νῦν μὲν καὶ νῦν ἥμαρτες.
De textu iure dubitat Perryus, qui νῦν μὲν καινόν, suadente Post,
vel simplicius νῦν μὲν [καὶ νῦν] scribere malit; sed aliud remedium
praesto est: σὺ μὲν καὶ νῦν.
Etsi ἔξω καὶ ἔσω exstat in W, vix dubito quin legendum sit ἔξω
ἔσω: contraria ἀσυνδέτως saepe inter se opposita occurrunt: ἄνω
κάτω, ἄνδρες γύναικες, ἐώqουν ἐωqοῦντο, etc. (cf. E. Schwyzeri
Griechische Grammatik, Monaci in Bavaria, II, 1950, p. 701); nec tantum
apud Graecos hoc pervulgatum.
5. In Vitam Lollinianam
Solitam Perryus diligentiam in Vita Lolliniana edenda remisisse
videtur: nam in hac vasti operis particula modo textum acutis oculis
scrutatur, modo in transcribendo contentus est.
9 (p. 112)
ego pergam antea ad dominum meum et anunciem ei antequam iste
vadat.
Lege ut anunciem; pergam futurum est: cf. enim in textu Graeco
(9 W, p. 82): ἀλλ’ ἐγὼ τῷ δεσπότῃ ἀπαγγελῶ ἅπαντα.
24 (p. 116)
Et discipuli, ut viderent eum separare, dixerunt…
Viderent pro viderunt vix corrigere licet, quia etiam paulo antea
occurrit: ut viderent Esopum ridere; sed ante separare supplendum est se:
cf. enim paulo antea separavit se ab eo.
25 (p. 116)
Cur ego tristor?
e cod., e (enim) malit Perryus; τί γάρ; textus Graecus (25 G, p. 43 = 25 W,
o i
25 (p. 116)
Non <id> dico, sed ubi fuisti natus?
Supplere malim hoc: cf. paulo post: Non ex hoc te interrogo, sed in quo
loco fuisti natus; non hoc dixit mihi mater mea…
43 (p. 120)
porcus qui ambulat per † currē † habet tres (scil. pedes).
cursum Perryus (cursus est, secundum Du Cangium, «pastio seu glandatio
porcorum in silvis, quas pascendo percurrunt»), curtem ego
45 (p. 120)
Clamavit canem et ait «Veni, Linge, et manduca».
Quamquam textus Graecus Λύκαινα canis nomen habet, fortasse
linge non nomen est, sed imperativus modus ex lingere. Mihi excogitanti
etiam lynx occurrit, sed non inducor ut recipiam.
45 (p. 121)
Revertente autem Sancto a cena, ceperunt unus ad alterum interrogare
quomodo sunt littere in omnibus. Esopus stabat retro et dixit: «Si
autem resurgunt mortui et sua propria tollunt, tandem fit littere».
47 W (p. 89, 18 sqq.) ἑνὸς δὲ εἰπόντος «πῶς ἔσται μεγάλη ταραχὴ
ἐν ἀνqρώποις;» Αἴσωπος ὄπισqεν ἑστὼς ἔφη «ἐὰν οἱ νεκροὶ
ἀνιστάμενοι τὰ ἴδια ἀπαιτήσωσι».
53 (p. 122)
pro lingua omnia in mundo laborantur, humiliantur, exaltantur.
In sermonem quamvis barbarum laborantur pro laborant recipere
dubito: voces sequentes scribam in errorem induxerunt.
54 (p. 122)
Ecce lingue peiores sunt nobis apposite quam hesterno die stomachus <et>
palatus noster manducant; disscipatus est et linguas non duramus.
Cum Perryo locum pro desperato habeo; si temptare licet, hoc
proponere ausim: lingue … palatus nostros manducant, stomachus
dissipatus est et linguas non duramus.
55 (p. 123)
Pro lingua inimicicia, superbia, altitudo, homicida, invidia, traditio
civitatis…
Homicida pro homicidia (in Graeca narratione φqόνοι exstat, sed
fortasse ignotus interpres φόνοι legit et verbum invidia pro Graeco
ζηλοτυπίαι posuit) Du Cangio non ignotum; sed vix dubito quin
homicidia restituendum sit. An homicida pro singulari inter singularia
habendum? Credere nequeo.
Appendice B
Minima Aesopica1
1
[La prima sezione (titolo redazionale) è costituita dalle voci Favola ed Esopo redatte per
l’Enciclopedia europea Garzanti, vol. 4, Milano 1977, pp. 785 e 618-619; le successive due,
datate rispettivamente 1969 e 1973, sono estratte da A. La Penna, Aforismi e autoschedia-
smi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005, pp. 68-69 e 123-124; la quarta proviene da
A. La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo, con un saggio
su Tommaso Fiore, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 47-48; la quinta, qui data con titolo
redazionale e il taglio di una breve nota bibliografica riprodotta a p. 332, è apparsa come
Appendice II (p. 34) nella stampa 2009 del cap. 2].
«I cinque libri», secc. II-VI d. C.) e Hitopadesha (cioè «Il buon amma-
estramento», secc. X-XIV d. C.), nonché quella di Kalīlah e Dimnah (il
titolo allude a due sciacalli protagonisti di un racconto), che fu poi tra-
dotta in arabo (sec. VII), ebraico, latino (Giovanni da Capua, sec. XIII)
e si diffuse così nell’intera area mediterranea.
Quanto alla favola esopica, già a partire dal III secolo a. C. circola-
vano raccolte di tali materiali scritte in prosa greca. Un’ampia raccolta
di narrazioni concise e succose fu redatta nel I o II secolo d. C. (recen-
sio Augustana); altre raccolte furono composte in età bizantina: una di
narrazioni meno succinte e più ornate (recensio Vindobonensis) fu mes-
sa insieme forse già nei secoli VI-VII d. C. (secondo altri nell’XI o
XII); un’altra in prosa più letteraria ed elegante (recensio Accursiana)
nel Medioevo, comunque non dopo il XIII secolo. Nella seconda metà
del I secolo d. C. il poeta siriaco Babrio scrisse una raccolta (in tri-
metri giambici scazonti) che influì su posteriori raccolte in prosa. I
Latini conoscevano favole esopiche fin dal tempo di Ennio. Il genere
fu importato ed elaborato in senari giambici da Fedro. Alcune favole
di Babrio furono rielaborate in distici elegiaci da Aviano. Nella tarda
antichità, su Fedro e su raccolte greche, si formò una raccolta latina in
prosa, il cosiddetto Romulus, sfruttato poi in numerose rielaborazioni
medievali.
Nell’oratoria antica a noi nota la favola esopica non ebbe fortuna
(ne ebbe di più nella filosofia popolare); tuttavia i retori antichi, a co-
minciare da Aristotele, se ne occuparono e per secoli le diedero posto
nella formazione retorica, compilando in greco brevi raccolte per uso
delle loro scuole.
La favola esopica dovette molto della sua vitalità alla diffusione fra
gli strati subalterni della società antica (non per caso dei due massimi
autori, Esopo e Fedro, l’uno fu schiavo e l’altro fu ritenuto tale): da essi
questo genere attinge una visione utilitaristica e pessimistica della vita,
la cui conservazione è affidata tutta alla forza, all’astuzia, all’accortezza.
I rapporti umani si fondano su una natura immutabile, che bisogna
accettare: il suo rudimentale razionalismo e materialismo sfociano in
una desolata rassegnazione.
vari secoli prima di lui. In altri tempi si dubitò della sua esistenza
(Lutero, Vico); ma oggi non si nutrono più dubbi in proposito. Nel
V secolo a. C. era diffusa una sua biografia, nota a Erodoto e ad Ari-
stofane, che conteneva notizie attendibili (anche se non è facile sepa-
rarle dalle invenzioni); in essa venivano inoltre inserite alcune favole
come narrate da Esopo in determinate occasioni. È ben credibile che
egli sia stato uno schiavo di origine frigia, vissuto a Samo avendo come
padroni un certo Xanto e un certo Iàdmone; che abbia fatto un viaggio
al santuario di Apollo a Delfi e che lì, inimicatosi con la sua satira i
sacerdoti e gli abitanti del luogo, sia stato da essi ucciso (564?). Entrò
presto nel folklore e nella letteratura come un tipo particolare di sag-
gio, a cui si attribuirono contatti con Creso, Solone, i sette savi, viaggi
ad Atene e in varie parti del mondo greco, poi anche un lungo soggior-
no alla corte di un re di Babilonia. Una parte notevole di queste tradi-
zioni costituisce un’ampia Vita, messa insieme già nel I secolo a. C. e
conservata in due redazioni diverse. Fu immaginato anche zoppo
e deforme. È sicuro che Esopo contribuì a diffondere il tipo di favola
a lui attribuito; ma certamente, senza farne un genere a sé, egli vi me-
scolava sentenze prive di racconto e motti spiritosi. Che l’esperienza di
schiavo fosse alla base della sua morale è probabile; anche lo spirito
«anticlericale» che avrebbe causato la sua morte può essergli plausibil-
mente attribuito.
La morale che più spesso vien fuori dalla favolistica esopica greca e
latina è una morale illuminata da un rudimentale razionalismo e ma-
terialismo, ma nello stesso tempo dominata da un’amara rassegnazio-
ne: nel mondo degli uomini il potere è nelle mani dei più forti, dei più
violenti o dei più astuti, che mirano tutti al loro utile, non dei più
giusti; e questa situazione è immutabile: l’astuzia, l’abilità, l’energia
servono per adattarsi in un mondo siffatto, per sopravviverci, ma è il-
lusoria ogni speranza di mutarne le leggi fondamentali; anzi, guai a chi
disconosce quelle leggi!
Nella favolistica moderna (su cui quella antica ha conservato sem-
pre una forte influenza) si potranno trovare certamente interpretazio-
ni della vita e orientamenti diversi. Il completo superamento, anzi il
La si può leggere, nella fonte più accessibile, tra le Citazioni dalle opere del Presidente Mao
2
4. Marchesi ed Esopo
Nei suoi studi sulla letteratura latina del I secolo dell’impero il Mar-
chesi incontrò Fedro; Esopo e Fedro furono poi autori sempre presen-
ti nel bagaglio di Tersite. Il saggio su Fedro3, anche se ha meno fasci-
no di quelli su Marziale, Giovenale e Petronio, è un profilo elegante,
scritto con amore e nello stesso tempo con giudizio molto misurato;
nella storia della favola latina viene dato, giustamente, un posto d’ono-
re a Orazio, e l’analisi della favola dei due topi è, probabilmente, la
parte più bella del libro. Ma non è la grazia dell’arte che attira Mar-
chesi verso la favola esopica.
Una ragione di attrattiva è nel fatto che in queste favole la natura
permanente dell’uomo appare in chiara luce, nella sua nudità: questo
terreno universale è il loro terreno: perciò il legame con lotte politiche
contingenti è per la favola una condizione sfavorevole: «La protesta
politica uccide la favola. La quale per essere vitale ha bisogno di cose
3
Fedro e la favola latina, Vallecchi, Firenze 1923.
4
Voci di antichi, Leonardo, Roma 1946, p. 226. La morale della favola, da cui il brano è
tratto, prima che in Voci di antichi, uscì in «Settegiorni», 9 maggio 1942 e in «Mercurio»,
vol. 2, 1945, nn. 7-8, pp. 91 ss.
5
Uomini e bestie nella favola antica, in C. Marchesi, Divagazioni, Neri Pozza, Venezia
1951, p. 15.
6
Voci di antichi, cit., p. 231.
Quasi mezzo secolo fa, nel saggio La morale della favola esopica come
morale delle classi subalterne nell’antichità [1961], interpretai la favola
esopica antica, greca e latina, come un’analisi della società e delle for-
ze che la dominano: violenza, astuzia, frode, accortezza e prudenza del
più debole per difendersi dalla violenza e dall’astuzia e sopravvivere. Il
debole, cioè il povero, per lo più viene sconfitto, oppresso o schiaccia-
to; può riuscire, tuttavia, a sottrarsi alla violenza e all’inganno: ciò che
è impossibile è mutare le regole in cui sono costretti i rapporti sociali,
regole che sono come leggi di natura; quindi l’analisi razionale dei
rapporti sociali portava a una lucida rassegnazione. La filosofia della
favola esopica antica era un materialismo rudimentale, che riteneva
immutabile l’ingiustizia della società. Auspicavo, allora, che il sociali-
smo non utopistico moderno, riprendendo e approfondendo quella
concezione materialistica, superasse la rassegnazione e liberasse i ceti
subalterni dall’ingiustizia, dall’oppressione, dalla mistificazione. La
storia, per ragioni sulle quali qui non mi propongo di indagare, ha
bloccato e cerca di strozzare quella speranza, che, tuttavia, non è an-
cora distrutta; ma la mia interpretazione della favola esopica antica
non ha subito cambiamenti rilevanti e resta sostanzialmente immutata.
Abdemon, re di Tiro, 166 Aristotele, 71-72, 76-77, 86, 112, 115, 141-142,
Abstemio, Lorenzo, 269, 273, 311 150, 164, 275, 314, 316, 321, 324, 328, 353
Acheo di Eretria, 145 Arminio, principe germanico, 193
Achille Tazio, 272 Arnobio, 50
Ademaro di Chabannes, 61, 86-87, 260, Assarhaddon, re assiro, 151
268, 271-272, 277, 280, 283-285, 294, Ateneo di Naucrati, 143
297, 338-339 Attico, filosofo platonico, 120
Aftonio, 61-62, 78, 273, 283, 308-309, 312, Augusto, imperatore, 24, 62, 80, 184, 187,
315 191, 202, 223, 234
Agazia Scolastico, 323 Aviano, 12, 62, 84, 184, 236, 263, 269, 281,
Ah.īqār, ummanu assiro, 20, 72, 74-75, 283, 296, 305, 353
96-100, 110, 118, 123, 135, 139-140,
151-157, 160, 163, 166, 321 Babrio, 12, 16, 24, 28, 32, 57, 59, 62, 68, 71, 79,
Alessandro Magno, 89, 139, 156, 158, 254 81-88, 91, 93, 101-104, 111-112, 115-116,
Alessi, commediografo, 149, 162 118-119, 130, 140, 183-184, 214, 236, 241,
Alighieri, Dante, 238 246, 254-255, 258-260, 263-291, 293-294,
Amasi, faraone, 107, 142, 159 296-300, 302, 304-321, 335, 353
Amenophis III, faraone, 107 Batillo, attore, 191
Antifilo di Bisanzio, 87, 284 Biante, 159, 161
Antipatro di Tessalonica, 186 Boccaccio, Giovanni, 178, 342
Antistene, 86, 275
Antonio Monaco, 344-345 Caligola, imperatore, 189
Apopi, faraone, 160 Callimaco, 91-92, 112, 116-117, 142, 144-146,
Appiano, 86, 275 148, 184, 199, 253, 272, 321
Apuleio, 138-139 Carisio, Flavio Sosipatro, 184
Archiloco, 68, 70-72, 84-85, 88, 93-95, 102, Catilina, Lucio Sergio, 44, 47, 222
110, 115, 119-122, 124, 130, 184, 205-206, Catone, Marco Porcio, l’Uticense, 325
253, 258, 271, 286, 296, 314, 317, 325 Catullo, Gaio Valerio, 37, 227
Aristide Retore (Publio Elio Aristide), Cesare, Gaio Giulio, 17, 31, 37, 234
281 Chilone, 149, 169
Aristippo, 312 Cicerone, Marco Tullio, 31, 227, 234, 325,
Aristofane, 70, 72-74, 76, 99, 112-113, 141, 338
144-146, 150, 157, 162, 167, 170, 180, Ciro il Grande, 275
246, 253-254, 290, 301, 321, 354 Claudio, imperatore, 191
Libanio, 138, 141, 144, 147 Plauto, Tito Maccio, 167, 227, 324
Licurgo, 74-75, 134, 152, 326 Plinio il Vecchio, 143
Livio, Tito, 79, 186, 227 Plutarco, 63, 74, 76, 112, 139, 143-145,
Luciano di Samosata, 76, 111, 140-141, 149-151, 159, 161-163, 165, 268, 300,
144, 150, 271, 276, 303-304, 329 314-315, 320-321
Lucilio, Gaio, 77, 205, 231 Pompeo Magno, 221-222, 224, 230, 232
Lucrezio Caro, Tito, 184, 194, 328 Posidonio, 154
Properzio, Sesto, 26, 32, 37
Maria di Francia, 340 Pseudo-Aristotele, 320
Marziale, Marco Valerio, 183, 227-228, 356 Pseudo-Diogeniano, 63, 112
Massimo Confessore, 171, 344 Pseudo-Dositeo, 61, 150, 266, 278, 296,
Massimo di Tiro, 76, 140-142 301, 319
Massimo Planude, 55, 79, 132, 148, 323
Menandro di Efeso, 166, 217, 221, 223-224 Quintiliano, Marco Fabio, 77-78, 183, 234
Menandro, re della Battria, 158
Menenio Agrippa, 78, 87, 106, 109, 113, 315 Rājaśekhara, 166
Menippo di Gadara, 173 Ramses II, faraone, 107, 160
Muwatalli, re ittita, 121
Saffo, 73, 143
Nectanebo, faraone, 99, 136, 139, 156-157 Sallustio Crispo, Gaio, 19, 22, 30-31, 37,
Nerone, imperatore, 191 325, 331
Niceforo Basilace, 276, 285 Salmanassar III, re assiro, 91, 116
Niceforo Gregora, 104, 268 Seiano, Lucio Elio, 80, 188-190, 193
Nicolao Sofista, 170 Semonide di Amorgo, 71, 258, 284, 314, 325
Seneca, Lucio Anneo, 52-53, 183-184, 186,
Odone di Cheriton, 62, 341-342 204
Omero, 55-56, 73, 96, 121, 159, 244, 261, 323 Sennacherib, re assiro, 151-152
Opilio, Aurelio, 184 Senofonte, 87, 315
Orazio Flacco, Quinto, 23-24, 29, 37, Seqenenrê, faraone, 160
77-78, 81, 83, 184, 195-197, 203-206, Shamshi-Addu, re assiro, 123
226, 232-233, 235, 258, 289, 291, 308, Silla, Lucio Cornelio, 86, 222, 275
312, 317, 324, 338, 356 Simonide di Ceo, 112, 187, 194, 203-204,
Ovidio Nasone, Publio, 20, 233, 235, 336 223-224, 234, 283, 295, 313
Sintipa, 61-62, 85, 87, 266-267, 272, 284,
Paolo Diacono, 283 288, 295-296, 313, 315, 320
Pataikos, favolista (?), 163 Socrate, 16, 187, 194, 203, 211, 280, 310, 317
Periandro, tiranno di Corinto, 151, 159 Sofocle, 106, 278
Petronio Arbitro, 222, 225, 321, 356 Solone, 71, 148-149, 161-162, 165, 354
Pindaro, 146 Spartaco, 44, 171
Pisistrato, 149 Stesicoro, 71-72, 115, 118, 316
Pisone Frugi, Lucio Calpurnio, 186, 190 Stobeo, Giovanni, 169
Pitagora, 163 Strabone, 143, 154
Pittaco, 161 Svetonio, 189
Platone, 79, 101-102, 113, 254, 293, 302,
310, 320-321, 328 Tacito, Publio Cornelio, 31, 53, 186
Platone, commediografo, 163 Talete, 161, 302
Ponchiroli, Daniele, 15, 17-19, 22, 31-32 Smith, George, 116, 121
Postgate, John Percival, 185, 336-338 Smith Lewis, Agnes, 153
Prasch, Johann Ludwig, 337 Snell, Bruno, 161, 164
Prinz, Karl, 188 Solinas, Fernando, 67
Pritchard, James B., 120 Speiser, Ephraim A., 120, 127
Pullé, Francesco Lorenzo, 166 Spengel, Leonhard von, 63, 170, 294, 379
Spiegelberg, Wilhelm, 110
Reinhardt, Karl, 328 Staege, Max, 239, 259, 274
Rendel Harris, James, 153-154 Stefanini, Ruggero, 69, 114
Renger, Johannes, 128 Sternbach, Leo, 345
Reverdin, Olivier, 90, 92, 128 Studemund, Wilhelm, 154
Ribezzo, Francesco, 101, 103-104, 150,
170, 239 Terzaghi, Nicola, 203
Richelmy, Agostino, 22-23, 31, 183 Thalheim, Theodor, 135
Rilla, Paul, 259 Thiele, Georg, 203, 220, 239, 338-339
Rinaldi, Giovanni, 117, 121, 125-126 Thite, Ganesh Umakant, 90, 101
Robert, A. C. M., 340 Thomas, François, 188
Rodler, Lucia, 259 Thompson, Stith, 151, 158-161, 170-171,
Roeder, Günther, 139 174, 178
Römer, Willem H. Ph., 129 Timpanaro, Sebastiano, 41, 48, 50, 55-56
Ronconi, Alessandro, 338 Togliatti, Palmiro, 38, 43, 49
Rose, Herbert J., 139 Trenkner, Sophie, 150, 177
Rosenthal, Chaim, 157 Trilussa, 331
Rothwell, Kenneth S., 332
Rousseau, Jean-Jacques, 304 Ungnad, Arthur, 126
Rubensohn, Otto, 154 Usener, Hermann, 181
Rüster, Christel, 69, 114 Utčenko, Sergej L., 44
Russo, Carlo Ferdinando, 41
Russo, Luigi, 21 Vacchina, Mariagrazia, 89
Rylands, John, 78, 254-255 Vandier d’Abbadie, Jacques, 108
Venturi, Franco, 23, 29
Sachau, Eduard, 154-155 Vico, Giambattista, 55-56, 73, 151, 322-323,
Saggese, Paolo, 17 325, 354
Saint-Marc Girardin, 331 Vollmer, Friedrich, 188
Salmasius, Claudius, 337
Sassen, Hans von, 235 Waern, Ingrid, 159
Sbisà, Giovanni, 50 Wagener, Adolf, 103
Scaramuzza, Gabriele, 257 Walz, Christian, 63, 276, 278, 385, 393
Scassellati, Ubaldo, 17 Warnke, Karl, 340
Schefold, Karl, 148 Weidner, Ernst, 122-123
Scheil, Vincent, 122 Westermann, Anton, 28, 96, 132-133, 169,
Schiavone, Aldo, 39, 44 346
Schneidewin, Friedrich Wilhelm, 63 Wiechers, Anton, 59, 132, 144-146, 176,
Schwyzer, Eduard, 348 179-182
Scott, Walter, 126 Wienert, Walter, 265
Serini, Paolo, 15, 18 Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von,
Smend, Rudolf, 153-154 55, 67, 151
Abstemio, Lorenzo
Il contadino che voleva passare il fiume (5 = 723 P.), 273
La mosca sulla quadriga (16 = 724 P.), 269
I pesci saltati dalla padella nella brace (20 = 725 P.), 311
Achille Tazio
La zanzara e il leone (II 22), 272
Ademaro di Chabannes
L’anatra e la cicogna (53 = 570 P.), 280
La chiocciola e lo specchio (8 = 559 P.), 285
I due galli e lo sparviero (6 = 558 P.), 87, 284
Il leone e il pastore (35 = 563 P.), 283
La nottola, il gatto e il topo (25 = 561 P.), 294
L’ortolano e il calvo (24 = 560 P.), 271
La pernice e la volpe (30 = 562 P.), 297
Il pipistrello (38 = 566 P.), 284
La promessa del cavallo all’asino (58 = 571 P.), 268
Lo scimmione re (51 = 569 P.; cfr. Romulus IV 8), 260
Il serpente allevato in casa (65 = 573 P.), 280
L’usignuolo e lo sparviero (39 = 567 P.), 86, 277, 283
La volpe invidiosa e il lupo (40 = 568 P.), 285
La zanzara e il toro (36 = 564 P.), 272
Aftonio
Le api e il pastore (27 = 400 P.), 312
Il corvo e il cigno (40 = 398 P.), 308
I nibbi e i cigni (3 = 396 P.), 308
Il serpente e l’aquila (28 = 395 P.), 283
L’uccellatore e la cicala (4 = 397 P.), 273
La volpe che fa da aiutante al leone (20 = 394 P.), 309, 315
Antifilo di Bisanzio
Il topo e l’ostrica (Anth. Pal. IX 86 = 454 P.), 86-87, 283-284
Antistene
Le lepri e i leoni (fr. 100 Caizzi = Aristotele, Polit. III 13, 2, 1284 a = 450 P.), 86, 275
Appiano
I pidocchi e il bifolco (Bell. civ. I 101 = 471 P.), 86, 275
Archiloco
L’aquila e la volpe (fr. 89-95 D.), 68, 71-72, 88, 93-95, 105, 110, 119-121, 130, 286
Il leone malato, la volpe, il cervo (fr. 96-97 D.), 71, 296
La scimmia e la volpe (fr. 81-83 D.), 71, 85, 271
Aristofane
L’allodola che seppellì il padre (Av. 471-475 = 447 P.), 321
L’aquila e la volpe (Av. 652-654), 72
L’aquila e lo scarafaggio (Vesp. 1446-1448; Pax 127-130), 72-73, 144, 180
Esopo e la cagna ubriaca (Vesp. 1401-1405 = 423 P.), 73, 150, 290
Il sibarita (Vesp. 1427 ss. = 428 P.), 301-302
Il topo e la donnola (Vesp. 1181-1182), 72
La volpe e la scimmia vanagloriosa (Ach. 120-121), 72
Aristotele
Il cavallo, il cervo e l’uomo (Rhet. II 20 = 104 Page = 269 a P.), 71, 316
Esopo nell’arsenale (Meteor. II 3, 356 b), 321
Le lepri e i leoni (Polit. III 13, 2, 1284 a = Antistene, fr. 100 Caizzi = 450 P.), 86, 275
La volpe, le zecche e il riccio (Rhet. II 20, 1393 b - 1394 a = 427 P.), 72, 314, 316, 325, 331
Aviano
Il cinghiale senza cuore (30 = 583 P.), 296
Il contadino e il giovenco (28 = 582 P.), 305
Il cupido e l’invidioso (22 = 580 P.), 281
Il pesce di fiume e la phycis marina (38 = 584 P.), 269
Il ragazzetto furbo e il ladro (25 = 581 P.), 283
Babrio
L’abete e il rovo (64), 271
L’adultera e il marito (116), 321
L’alcione (225), 311
L’allodola e i suoi piccoli (88), 300
L’ape e Zeus (183), 320
L’aquila dalle ali tagliate e la volpe (176), 298
L’aquila e l’arciere (185), 298
Callimaco
L’alloro, l’ulivo e il rovo (Iamb., fr. 194 Pf. = 439 P.), 91-92, 112, 116-117, 253, 272, 321
Democrito
Il cane che attraversava il fiume con la carne in bocca (68 B 224 DK), 289
Dione Crisostomo
I cani musici (Or. 32, 66 de Budé = 448 P.), 320
La civetta e gli altri uccelli (Or. 12, 7-8; 72, 14-15 de Budé = 437 P. [cfr. 437 a]), 294
Gli occhi e la bocca (Or. 33, 16 de Budé = 461 P.), 308
Eliano
L’asino e la dipsade (De nat. anim. VI 51 = 458 P.), 320
Ennio
L’allodola e i suoi piccoli (Var. 21-22 V.2), 299-300
Ermogene di Tarso
Le scimmie che vogliono costruire una città (Progymn. 1, in Rhet. Gr. II, p. 3 Spengel =
464 P.), 294
Erodoto
Il pescatore che suonava il flauto (I 141 = 11 a P.), 275
Eschilo
L’aquila ferita da una freccia (Myrm., fr. 139 Nauck = 276 a P.), 71-72, 112, 298
Esiodo
Lo sparviero e l’usignuolo (Op. 202-212), 70, 86, 210, 275, 277, 283, 285, 302
Esopo
L’alcione (25 H. = 28 Ch. = 25 P.), 311
L’allodola capelluta (271 H. = 170 Ch. = 251 P.), 279
L’apicultore (74 H. = 236 Ch. = 72 P.), 297
Le api e Zeus (172 H. = 235 Ch. = 163 P.), 320
L’aquila e la volpe (1 H. = 3 Ch. = 1 P.), 88, 120, 240, 286
L’aquila e lo scarafaggio (3 H. = 4 Ch. = 3 P.), 150, 180, 284
L’aquila ferita da una freccia (273 H. = 7 Ch. = 276 P.), 298
L’aquila, il gracchio e il pastore (2 H. = 5 Ch. = 2 P.), 308
Gli asini che mandano l’ambasceria a Zeus (196 H. = 263 Ch. = 185 P.), 305, 320
L’asino carico di sale (191 H. = 266 Ch. = 180 P.), 251-252, 297
L’asino che portava la statua di un dio (193 H. = 267 Ch. = 182 P.), 269
L’asino e il cane che facevano la strada insieme (295 H. = 277 Ch. = 264 P.), 288
L’asino e il cavallo da guerra (272 H. = 269 b Ch. = 142 P.), 312
L’asino e il lupo medico (198 H. = 282 Ch. = 187 P.), 308
L’asino e il mulo (192 H. = 142/6 Ch. = 181 P.), 288-289, 315
L’asino e il mulo che portavano lo stesso carico (204 H. = 273 Ch. = 263 P.), 309
L’asino e i sacerdoti di Cibele (173 H. = 237 Ch. = 164 P.), 251, 280
L’asino e le cicale (195 H. = 279 Ch. = 184 P.), 291
L’asino e le rane (201 H. = 272 Ch. = 189 P.), 309-310
L’asino e l’ortolano (190 H. = 274 Ch. = 179 P.), 311
L’asino, il cane e il padrone (93 H. = 276 Ch. = 91 P.), 309
L’asino, il gallo e il leone (84 H. = 270 Ch. = 82 P.), 272
L’asino, la volpe e il leone (203 H. = 271 Ch. = 191 P.), 252
L’asino rivestito della pelle del leone (199 H. = 268 Ch. = 188, cfr. 358 P.), 85, 101, 267, 329
Il leone innamorato della figlia del contadino (145 H. = 199 Ch. = 140 P.), 115, 276
Il leone invecchiato e la volpe (147 H. = 197 Ch. = 142 P.), 86, 102, 278, 293
Il leone, l’asino e la volpe (154 H. = 210 Ch. = 149 P.), 252, 276, 284, 301
Il leone, l’orso e la volpe (152 H. = 201 Ch. = 147 P.), 259
Il leone, Prometeo e l’elefante (292 H. = 211 Ch. = 259 P.), 310
La leonessa e la volpe (167 H. = 195 Ch. = 257 P.), 319
La lepre e la volpe (193 Ch. = 333 P.), 296
Le lepri e le rane (143 H. = 192 Ch. = 138 P.), 251, 309
Le lepri e le volpi (169 H. = 191 Ch. = 256 P.), 276, 313
I lupi, i cani e il gregge (158 H. = 218 Ch. = 153 P.), 252, 281, 296, 315
Il lupo e il cane (137 H. = 185 Ch. = 134 P.), 68-69, 96, 129-130, 244, 302-303
Il lupo e il cavallo (159 H. = 226 Ch. = 154 P.), 266
Il lupo e la capra (162 H. = 221 Ch. = 157 P.), 266
Il lupo e l’agnello (160 H. = 222 Ch. = 155 P.), 252, 277
Il lupo e l’agnello rifugiato nel tempio (168 H. = 223 Ch. = 261 P.), 267
Il lupo e la gru (161 H. = 225 Ch. = 156 P.), 104, 276, 282
Il lupo e la pecora (164 H. = 231 Ch. = 159 P.), 260
Il lupo e la vecchia (163 H. = 224 Ch. = 158 P.), 274
Il lupo ferito e la pecora (166 H. = 232 Ch. = 160 P.), 293-294
La maga (56 H. = 91 Ch. = 56 P.), 265
Il malato e il medico (180 H. = 250 Ch. = 170 P.), 318
Il marito e la moglie bisbetica (97 H. = 49 Ch. = 95 P.), 292
Il medico e il malato (116 H. = 135 Ch. = 114 P.), 267
Il melograno, il melo e il rovo (233 H. = 325 Ch. = 213 P.), 272
Il millantatore (33 H. = 51 Ch. = 33 P.), 240, 267, 271
La moglie e il marito ubriacone (278 H. = 88 Ch. = 246 P.), 304
La mosca (177 H. = 240 Ch. = 167 P.), 251, 291
Le mosche e il miele (82 H. = 241 Ch. = 80 P.), 243, 289
Il naufrago ateniese e Atena (30 H. = 53 Ch. = 30 P.), 300
I naviganti (80 H. = 309 Ch. = 78 P.), 295
I due nemici (69 H. = 115 Ch. = 68 P.), 281
Il noce (141 H. = 153 Ch. = 250 P.), 251, 282
La nottola, il rovo e la folaga (181 H. = 251 Ch. = 171 P.), 320
L’oca dalle uova d’oro (89 H. = 288/4 Ch. = 87 P.), 289
Le oche e le gru (256 H. = 354 Ch. = 228 P.), 313
L’ortolano e gli ortaggi (121 H. = 155 Ch. = 119 P.), 320
L’ortolano e il cane (122 H. = 156 Ch. = 120 P.), 282
Il padre e le figlie (96 H. = 300 Ch. = 94 P.), 310
La padrona e le ancelle (55 H. = 89 Ch. = 55 P.), 311
Il pappagallo e la donnola (261 H. = 356 Ch. = 244 P.), 243, 309
La parete e il dado (296 H. = 337 Ch. = 270 P.), 276
Il pastore che scherzava (226 H. = 319 Ch. = 210 P.), 260
Il pastore e il cane (222 H. = 313 Ch. = 206 P.), 267
Il pastore e il lupo allevato insieme con i cani (276 H. = 315 Ch. = 267 P.), 298, 304
Il pastore e il mare (223 H. = 312 Ch. = 207 P.), 296, 301
Il pastore e i lupatti (225 H. = 314 Ch. = 209, cfr. 366 P.), 297
Favole egiziane
L’avvoltoio e il gatto selvatico, 109-110, 122
Il leone e il topolino, 109
La rondine che vuol prosciugare il mare, 109-110
Il sicomoro e l’olivo, 107
La testa e le membra ribelli, 106, 109
Favole hurrite/ittite
Il cane [o maiale] che ruba un pezzo di pane, 69
La capra selvaggia che maledice la montagna, 69
La capra selvaggia che non si accontenta del suo pascolo, 69
Il metallo prezioso e il fabbro, 69
Favole indiane
Gli alberi deboli e gli alberi forti, 103
L’asino nella pelle della tigre, 102
La canna, la quercia e la corrente del fiume, 104
La cornacchia e lo sciacallo, 102
L’eremita che nutriva una vipera, 103
Il gatto asceta e i topi, 104
Il leone e il picchio, 104
Il leone malato, lo sciacallo e l’asino, 102
Il ragazzo e il serpente che gli regalava ogni giorno una moneta d’oro, 104
Le rane e il serpente, 102
Il serpente, i corvi e lo sciacallo, 105
Il riccio, il cervo e il cinghiale (Herv. II, pp. 755-756, n. 34 = 649 P.), 278
La rondine e i passeri (Herv. II, pp. 557-558, n. 15 = 656 P.), 278, 283
Il rospetto e la sua mamma (Herv. IV, p. 187, n. 14 = 591 P.), 282
Il rospo e la rana (Herv. IV, p. 239, n. 67 = 622 P.), 282
Lo scarafaggio superbo (Herv. II, pp. 551-552, n. 7 = 650 P.), 308
La scimmia e il mercante (Herv. IV, p. 410, n. 13 (48) = 643 P.), 294
Il serpente nel seno dell’uomo (Herv. IV, p. 231, n. 59 = 617 P.), 280
Il soldato e il frate (Herv. IV, p. 407, n. 6 (41) = 642 P.), 304
Il soldato e il serpente (Herv. IV, pp. 381-384, n. 24 (58) = 640 P.), 285, 322
Il soldato e lo scudiero bugiardo (Herv. II, pp. 300-301, n. 6 (17) = 707 P.), 320, 322
La statua armata d’arco e gli uccelli (720 P.), 273
Il tasso fra i porci (Herv. II, pp. 639-640, n. 119 = 685 P.), 273
I topi a consiglio per difendersi dal gatto (Herv. IV, p. 225, n. 54 a = 613 P.), 299
Il topo, la figlia, il gallo e il gatto (Herv. II, p. 313, n. 40 = 716 P.), 268, 294
La topolina che cerca marito (Herv. IV, p. 234, n. 63 = 619 P.), 304, 313
Il topo ubriaco e il gatto (Herv. IV, p. 227, n. 56 = 615 P.), 294
L’uomo che prega Dio solo per sé (Herv. II, pp. 596-597, n. 45 = 666 P.), 288
L’uomo che vende il cavallo insieme col caprone (Herv. II, pp. 600-601, n. 54 = 674 P.), 310
L’uomo, il leone e il leoncino (Herv. II, pp. 297-300, n. 5 (16) = 706 P.), 302
L’uomo in barca che si affida a Dio (Herv. II, pp. 645-646, n. 130 = 690 P.), 286
La vespa e il ragno (Herv. IV, p. 202, n. 28 = 598 P.), 279
Il vitello e la cicogna (586 P.), 310
Il volpacchio sotto la tutela del lupo (Herv. II, pp. 293-296, n. 3 (14) = 704 P.), 302, 309
La volpe che confessa i suoi peccati al gallo (Herv. IV, p. 198, n. 25 = 597 P.), 278
La volpe e il lupo nel pozzo (Herv. IV, p. 192, n. 19 = 593 P.), 278
La volpe e il nocchiero (Herv. IV, p. 218, n. 46 = 610 P.), 282
La volpe e la colomba (Herv. II, p. 599, n. 51 = 671 P.), 294
La volpe e la scimmia malata (Herv. II, p. 312, n. 37 = 715 P.), 320
La volpe e l’asino si confessano al lupo (Herv. IV, p. 255, n. 81; II, p. 313, n. 39 = 628,
628 b P.), 278
La volpe e le galline (Herv. IV, p. 221, n. 50 = 611 P.), 278, 298
La volpe e l’immagine della luna (Herv. II, p. 598, n. 48 = 669 P.), 289
La volpe munifica e il lupo (Herv. II, p. 315, n. 45 = 718 P.), 297, 322
Favole mesopotamiche
(bab. = babilonese; sum. = sumerica)
L’aquila e il serpente (bab.), 68-69, 93-95, 105, 130
Il cane arrabbiato e il lupo (bab.), 118
Il cavallo e il bue (bab.), 115
Il cavallo e la mula (bab.), 92, 118
Il leone ammaliato da Ishtar (bab.), 115
Il leone e la capra (sum.), 68, 95-96, 129-130
Il lupo che piange presso Utu (sum.), 121
Il lupo inseguito dai porci (bab.), 117
La mosca e l’elefante (bab.), 68, 93, 118-119, 130
Fedro
Gli alberi sotto la protezione degli dei (III 17), 211, 217, 291
L’anatra e la cicogna (Zand. 18), 209, 212, 214
Le api e i fuchi davanti al tribunale della vespa (III 13), 192, 213, 302
L’aquila e la cornacchia (II 6), 213-214, 279
L’aquila, la gatta e la scrofa del cinghiale (II 4), 122, 206, 213-214, 217, 297
L’ariete e il macellaio (Zand. 29), 209
L’asino che sfotte il cinghiale (I 29), 207, 209, 307
L’asino e il leone a caccia (I 11), 91, 116, 205-206, 209, 269
L’asino e il vecchio pastore (I 15), 87, 202, 207, 209, 314, 325
L’asino e i sacerdoti di Cibele (IV 1), 210, 280
L’asino e la lira (App. 14), 192, 215, 306
L’asino e l’orzo del porcello (V 4), 201, 207, 211, 287, 294, 301
L’asino vezzoso (Zand. 5), 209
La battaglia dei topi e delle donnole (IV 6), 209, 217
Il bue e l’asinello (Zand. 8), 209
Il buffone e il contadino (V 5), 202, 213, 222-224, 273
La cagna partoriente (I 19), 207, 210, 275
I due calvi (V 6), 211, 306
Il calvo e la mosca (V 3), 209
Il cane che attraversa il fiume col pezzo di carne in bocca (I 4), 205, 215, 289
Il cane e l’agnello (III 15), 186, 203, 209, 330
Il cane fedele (I 23), 209
Il cane, il tesoro e l’avvoltoio (I 27), 187, 207, 209, 217, 264, 306
I cani affamati (I 20), 215, 289
I cani che mandarono l’ambasceria a Giove (IV 19), 209, 215-216, 220, 305-306, 321
I cani e i coccodrilli (I 25), 207, 209, 266
Le capre con la barba (IV 17), 211, 270
Il capretto e il lupo (Zand. 23), 209
I casi degli uomini (IV 18), 150, 216
Il castoro (App. 30), 215, 220
Il cavallo avaro (Zand. 19), 209
Il cavallo da corsa (App. 21), 192, 215, 280
Il cavallo e il cinghiale (IV 4), 205, 209, 316
Il cavallo superbo (Zand. 11), 209
Il cervo alla fonte (I 12), 86, 91, 116, 206, 209, 215, 270, 291
Il cervo e i buoi (II 8), 207, 213, 290
La chiocciola e lo specchio (Zand. 3), 209
Galeno
Lo sciocco e il vaglio (De meth. med. I 9 Kühn = 456 P.), 299
Gregorio Nazianzeno
L’origine del rossore (Poem. moral. 29, PG XXXVII 3, col. 898 = 442 P.), 320
Ignazio Diacono
Il topo e i fabbri (Tetrast. iamb. I 8 M., pp. 266-267 Crus. = 354 P.), 288
Imerio
Apollo, le Muse e le Driadi (Or. 20, pp. 86-87 Dübner = 432 P.), 320-321
Eros tra gli uomini (Ecl. 10, 6, pp. 22-23 Dübner = 444 P.), 320
Luciano
L’asino di Cuma rivestito della pelle del leone (Pseudol. 3), 329
Il giovanotto e il cavallo furioso (Cynic. 18 = 457 P.), 276
Le scimmie danzatrici (Pisc. 36 = 463 P.), 111, 271, 304
L’uomo che contava le onde (Herm. 84 = 429 P.), 303
Niceforo Basilace
Il lupo che indossava una pelle di pecora (Rhet. Gr. I, p. 427 Walz = 451 P.), 285
Il toro ingannato dal leone (Rhet. Gr. I, pp. 423-424 Walz = 469 P.), 276
Niceforo Gregora
La donnola che si tinge di nero (Hist. Byzant. VII 1 = 435 P.), 104, 268
Orazio
La rana e il bue (Sat. II 3, 314-320), 308
Il topo di campagna e il topo di città (Sat. II 6, 79 ss.), 77, 205, 291, 312, 324, 356
La volpe dal ventre gonfio (Epist. I 7, 29 ss.), 77, 289
Paolo Diacono
Il leone malato, la volpe e l’orso (585 P.), 283
Platone
Le cicale (Phaedr. 259 b-c = 470 P.), 321
Il leone invecchiato e la volpe (Alc. I, 123 a), 293
Il piacere e il dolore (Phaed. 60 b = 445 P.), 310
Poros e Penia (Conv. 203 b-e = 466 P.), 320
Plutarco
Il basilisco sopra l’aquila (Praec. reip. ger. 12, 806 e = 434 P.), 313-314
La casa del cane (Sept. sap. conv. 14, 157 b = 449 P.), 300
Il cuculo e gli uccelli (Arat. 30 = 446 P.), 320
Il dono toccato al Dolore (Cons. ad Apoll. 19, 112 a = 462 P.), 320
Il giorno di festa e il giorno di lavoro (Themist. 18 = 441 P.), 315
Il lupo e i pastori (Sept. sap. conv. 13, 156 a = 453 P.), 268
Il mulo (Sept. sap. conv. 4, 150 a-b = 315 P.), 112
L’ombra dell’asino (Vit. X orat. 848 a = 460 P.), 320
Il satiro e il fuoco (De cap. ex inim. util. 2, 86 e-f = 467 P.), 320-321
Lo schiavo fuggitivo (Coniug. praec. 41, 144 a = 440 P.), 320
Pseudo-Aristotele
L’aquila e l’uomo (Hist. anim. IX 117 = 422 P.), 320
Pseudo-Diogeniano
Il pescatore e il polipo (Praef. Paroem., CPG I, p. 179 = 425 P.), 112, 295
Pseudo-Dositeo
L’asino malato e il lupo medico (13, Hermen., CGL III, p. 45 = 392 P.), 266
La cornacchia e l’acqua (8, Hermen., CGL III, p. 43 = 390 P.), 301
Il gatto che invita le galline a pranzo (5, Hermen., CGL III, p. 42 = 389 P.), 278, 296-297
Il padrone di casa e i marinai (4, Hermen., CGL III, pp. 41-42 = 391 P.), 319
L’uomo e il leone compagni di viaggio (15, Hermen., CGL III, pp. 45-46; cfr. 284 P.), 150
Romulus
Il castrone e il macellaio (IV 6 = 575 P.), 52, 316
Il cavallo, il leone e i becchi (IV 16 = 578 P.), 267
Il corvo e gli altri uccelli a pranzo (IV 11 = 577 P.), 297
Lo scimmione re (IV 8 = 569 P.; cfr. Ademaro 51), 260
La spada e il viandante (IV 20 = 579 P.), 320
L’uccellatore e gli uccelli (IV 7 = 576 P.), 294
Semonide di Amorgo
L’aquila e lo scarafaggio (fr. 11 D.), 284
Senofonte
La pecora, il cane e il pastore (Mem. II 7, 13 = 356 a P.), 87, 315
Simonide di Ceo
Il pescatore e il polipo (fr. 514 Page), 112, 295
Sintipa
L’asino selvatico e quello domestico (30 = 411 P.), 87, 315
Il cacciatore e il cane (21 = 403 P.), 267
Il cacciatore e il cavaliere (49 = 402 P.), 266
Il cacciatore e il lupo (6 = 404 P.), 272
Il cane e i fabbri (16 = 415 P.), 288
I cani dilacerano la pelle del leone morto (19 = 406 P.), 85, 267
Il fico e l’olivo (31 = 413 P.), 313
Il giovanotto e la vecchia (54 = 410 P.), 320
Il leone prigioniero e la volpe (17 = 409 P.), 85, 267
La lepre nel pozzo e la volpe (10 = 408 P.), 296
Il puledro (45 = 401 P.), 295
Il toro, la leonessa e il cinghiale (11 = 414 P.), 284
Stesicoro
Il cavallo, il cervo e l’uomo (fr. 104 Page = Aristotele, Rhet. II 20 = 269 a P.), 115, 118, 316
Temistio
Prometeo e gli uomini impastati di lacrime (Or. 32, p. 434 Dind. = 430 P.), 317
Varrone
Il pipistrello (Men. Agath., fr. 13 B.), 307
Vita Aesopi
L’aquila, la lepre e lo scarafaggio (135-139 GW, pp. 76 e 106-107 P.), 137, 144, 146, 150, 180
Le erbe selvatiche e le erbe coltivate (37 W, pp. 87-88 P.), 150, 169, 320
I lupi, i cani e le pecore (97 GW, pp. 65 e 99 P.), 163
Zenobio
L’asino che si china a guardare dalla porta (V 39, CPG I, p. 137 = 459 P.), 320
1
Prosecuzione della bibliografia 1943-1994 data in DLAP, pp. 345-372. Sono esclusi gli
scritti puramente letterari, i libri scolastici e quasi tutti gli articoli pubblicati su giornali.
Sono segnalati con asterisco (*) i lavori inclusi in uno dei volumi elencati nel retro dell’oc-
chiello. Gli indici sono riportati, senza indicazione degli elementi paratestuali, nel caso di
raccolte di scritti vari; dove utile e possibile, sono fornite indicazioni sulla genesi e i con-
tenuti delle opere registrate.
AA
Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli
ultimi cinquant’anni (1958-2004), Società Editrice Fiorentina,
Firenze 2005
DLAP
Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note, Sansoni, Milano 1995
ECV Eros dai cento volti. Modelli etici ed estetici nell’età dei Flavi, Marsilio,
Venezia 2000
FA
La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi, Della Porta Edi-
tori, Pisa 2021
IA
Io e l’antico. Conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Edi-
tori, Pisa 2019
IGS
L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgi-
lio, Laterza, Roma-Bari 2005
MDI
Memorie e discorsi irpini di un intellettuale disorganico, Delta 3, Grot-
taminarda (AV) 2012
SS
Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999
SSO
Saggi e studi su Orazio, Sansoni, Firenze 1993
1995
[1]
Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note, con una bibliografia degli scritti
dell’autore 1943-1994 (pp. 345-372), a cura di Mario Citroni, Emanuele
Narducci e Alessandro Perutelli, Sansoni, Milano 1995, viii + 389 p.
Indice: Noi e l’antico (1993; pp. 1-23) – Il poeta inquieto della ragione (1963;
pp. 24-31) – Gli animali come strumenti di guerra (Lucrezio V 1297-1349) (1994;
pp. 32-48) – L’elegia di Tibullo come meditazione lirica (1986; pp. 49-109) –
L’autorappresentazione e la rappresentazione del poeta come scrittore da Nevio
a Ovidio (1992; pp. 110-160) – Per la storia del catalogo poetico dei temi filo-
sofici (1995; pp. 161-179) – Relativismo e sperimentalismo di Ovidio (1983;
pp. 180-203) – L’ usus contro Apollo e le Muse. Nota a Ovidio, Ars am. 1, 25-30
(1979; pp. 204-218) – La parola translucida di Ovidio (sull’episodio di Ermafro-
dito, Met. IV 285-388) (1983; pp. 219-230) – Le atre faci delle Erinni. Nota a
Ovidio, Her. 11, 103 (105) (1987; pp. 231-235) – Callimaco e i paradossi dell’impe-
ratore Tiberio (Svetonio, Tib. 70, 6; 62, 6) (1987; pp. 236-242) – L’intellettuale
emarginato da Orazio a Petronio (1980; pp. 243-271) – Seiano in una tragedia
di Seneca? (1980; pp. 272-278) – Persio e le vie nuove della satira latina (1979;
pp. 279-343).
[5]
Gli svaghi letterari della nobiltà gallica nella tarda antichità. Il caso di
Sidonio Apollinare, «Maia», n. s., vol. 47, 1995, pp. 3-34.
[6]
Un dubbio su Properzio IV 4, 3, «Maia», n. s., vol. 47, 1995, pp. 35-36.
[7]
Per la storia di exinde ovvero un amore non corrisposto, «Maia», n. s.,
vol. 47, 1995, pp. 89-102.
[8]
Di lucido metallo razionale. Ricordo di Gianfranco Ciabatti, «L’immagi-
nazione», n. 118, febbraio 1995, p. 15.
[9]
Il poeta e retore Lampridio. Un ritratto di Sidonio Apollinare, «Maia», n. s.,
vol. 47, 1995, pp. 211-224.
[10] Fulvus/flavus. Un dubbio su Sidonio Apollinare, Carm. 22, 178, «Maia»,
n. s., vol. 47, 1995, pp. 225-227.
* [11] Katà leptón, «Altofragile», n. 3, luglio 1995, p. 1 (AA).
* [12] Katà leptón, «Altofragile», n. 4, dicembre 1995, p. 1 (AA).
[13]
Il vino di Orazio: nel modus e contro il modus, in In vino veritas, Atti della
conferenza internazionale «Wine and Society in the Ancient World»
(Roma, 19-22 marzo 1991), a cura di Oswyn Murray e Manuela Tecusan,
British School at Rome, London 1995, pp. 266-280 (SSO, pp. 275-297).
Interventi nel corso del convegno: pp. 16-17, 87-88, 104-105.
[14] Intervento sul Progetto Brocca davanti all’assemblea dell’Associazione
Italiana di Cultura Classica (Monza, 7 maggio 1995), «Atene e Roma»,
n. s., vol. 40, 1995, pp. 129-132.
[15]
Su una congettura del Mureto al proemio delle Historiae di Tacito, «Maia»,
n. s., vol. 47, 1995, pp. 405-406.
[16]
Katà leptón, «Il Portolano», n. 4, ottobre-dicembre 1995, pp. 20-21 (AA).
[17]
Una forma di culto delle statue degli dèi in Lucrezio (I 316-318), «Paideia»,
vol. 50, 1995, pp. 247-253.
[18] S
allust (parte su Trecento e Quattrocento), voce in Lexikon des Mittel-
alters, vol. 7, Artemis Verlag, München-Zürich 1995, coll. 1308-1309.
1996
[19] Testimonianze su Cesare Luporini (titolo originario: Una riflessione di Ce-
sare Luporini sulle sue letture giovanili), in Il pensiero di Cesare Luporini,
Atti del convegno dedicato a Luporini dal Dipartimento di Filosofia
[32] Su una croce nel testo di Valerio Flacco (VI 443 s.), «Maia», n. s., vol. 48,
1996, pp. 271-274.
[33] Una nota a Dante e Seneca (Purg. XI 103-108) e una postilla su Par. VI 66,
«Studi italiani», vol. 8, n. 2 (fasc. 16), 1996, pp. 5-7.
[34] Una nuova e feconda analisi letteraria dell’Agamennone di Seneca, prefa-
zione a Silvia Marcucci, Modelli «tragici» e modelli «epici» nell’Aga-
memnon di L. A. Seneca, Prometheus, Milano 1996, pp. 5-8.
[35] La ricerca filologica e storica di Dante Nardo, «Lexis», vol. 14, 1996,
pp. 3-16.
[36] Il viaggio di Terenzio in Asia: un errore della tradizione manoscritta?,
«Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 124, 1996, pp. 282-284.
[37] Mecenate, voce in Enciclopedia oraziana, a cura di Scevola Mariotti e
altri, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 792-802.
[38] Messio Cicirro, voce, ivi, pp. 809-811.
[39] Sarmento, voce, ivi, pp. 888-889.
1997
* [40] I ntervento su Novecento. La storia per decreto, «Il Ponte», vol. 53, n. 3,
marzo 1997, pp. 31-37 (SS, pp. 83-93, con il titolo L’irruzione della storia
del Novecento nelle scuole medie).
[41] Il ritratto rovesciato della bella donna (a proposito di un epigramma di Filode-
mo), «Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 99-106.
[42] Fallit imago. Una polemica di Manilio contro Virgilio e Lucrezio (nota a
Manilio IV 306), «Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 107-108.
[43] Angulus e arces nell’ode di Orazio a Settimio (Carm. II 6): due simboli filo-
sofici?, «Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 1, 1997,
pp. 85-90.
* [44] Katà leptón, «Altofragile», n. 8, ottobre 1997, p. 2 (AA).
[45] Un’eco di Meleagro nei Carmina di Orazio?, «Maia», n. s., vol. 49, 1997,
pp. 255-256.
[46] Per la ricostruzione del testo dell’Alcestis di Barcellona, «Maia», n. s., vol. 49,
1997, pp. 415-420.
[47] Su una croce dell’Aegritudo Perdicae e pochissime altre note al poemetto,
«Maia», n. s., vol. 49, 1997, pp. 421-424.
[48] Una favola esopica e l’interpretazione di Catullo 96, «Studi italiani di filo-
logia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2, 1997, pp. 246-249.
[49] Giovenale 6, 165. Per la storia di uno stilema virgiliano, «Studi italiani di
filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2. 1997, pp. 250-253.
[50] La stanchezza del lungo viaggio (Verg. Aen. 5, 604-679), «Rivista di filo-
logia e di istruzione classica», vol. 125, 1997, pp. 52-69.
[51] L’Anti-Sénèque di La Mettrie e la filosofia antica, in Miscellanea senecana,
a cura di Giuseppe Gilberto Biondi, Paideia, Brescia 1997 («Paideia»,
vol. 52, 1997), pp. 161-189.
1998
[52] Professore cercasi (Titolo originario: Le chiamate nelle Facoltà. Su alcuni
sistemi di cooptazione e di giudizi collegiali), «Il Ponte», vol. 54, n. 1, gen-
naio 1998, pp. 20-31.
[53] La Suburra come allegoria, introduzione a Franco Petroni, Il gladiatore,
Piero Manni, Lecce 1998, pp. 7-14.
[54] Due epistole di Orazio tradotte da Francesco Politi, «Semicerchio», vol. 18,
n. 1, 1998, pp. 36-37.
[55] La letteratura latina di intrattenimento nella tarda antichità, in Storia
della civiltà letteraria greca e latina, diretta da Italo Lana ed Enrico
V. Maltese, vol. 3, Dall’età degli Antonini alla fine del mondo antico, Utet,
Torino 1998, pp. 358-425.
* [56] P
er una scuola aperta ed anticonformista, «Normale» (Bollettino dell’Asso-
ciazione Normalisti), vol. 1, n. 1, giugno 1998, pp. 20-22 (SS, pp. 93-98).
[57] Servio e la σύγκρισις fra l’ Iliade e l’Odissea, «Maia», n. s., vol. 50, 1998,
pp. 147-150.
[58] Il panaziendalismo nell’Università, «Il Ponte», vol. 54, n. 7, luglio 1998,
pp. 30-40.
* [59] R
iforma, anzi fine della scuola media superiore, «Il Ponte», vol. 54, nn. 8-9,
agosto-settembre 1998, pp. 33-38 (rifuso in SS, cap. 5, pp. 101-132,
La crisi della scuola media superiore in Italia con note di aggiornamento a
pp. 132-133).
1999
[69] Sulla scuola, Laterza, Roma-Bari 1999, xi + 160 p.
Indice: i. I moderni e gli antichi (pp. 5-32) – ii. La Commissione dei «Saggi»
ovvero un’orchestra senza maestro (pp. 33-82) – iii. L’irruzione della storia del
Novecento nelle scuole medie (1997; pp. 83-92) – iv. Per una scuola aperta e
2000
[80] E
ros dai cento volti. Modelli etici ed estetici nell’età dei Flavi, Marsilio,
Venezia 2000, 221 p.
Indice: Introduzione. Poesia latina ed eros dall’età augustea all’età dei Flavi
(pp. 13-35) – Tipi e modelli femminili nella poesia dell’epoca dei Flavi (Stazio,
Silio Italico, Valerio Flacco) (1981; pp. 37-65) – I cento volti dell’eros di Mar-
ziale (1992, con il titolo La sublimazione estetica dell’eros in Marziale; pp. 67-133)
– Modelli efebici nella poesia di Stazio (1996; pp. 135-168) – Ila senza anfora
ovvero Ila secondo Valerio Flacco (inedito; pp. 169-182) – Due nomi propri in
Marziale (1994; pp. 185-188) – Un puer delicatus chiamato Galeso. Una pole-
mica giocosa di Marziale con Virgilio (1983; pp. 189-191) – Alcune note sulla
fortuna del mito di Ila (inedito; pp. 193-212).
* [81] A
forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 164, gennaio 2000,
p. 22 (AA).
[82] Le difficoltà restano enormi, ma..., «I Ciompi. Periodico toscano di
Rifondazione comunista», n. 1, febbraio 2000, pp. 33-34.
* [83] Q
uattro riflessioni sull’eros, «Altofragile», n. 12, gennaio 2000, p. 2 (AA,
pp. 285-289).
[84] L’ordine delle raffigurazioni della guerra troiana nel tempio di Cartagine
(Aen. I 469-493), «Maia», n. s., vol. 52, 2000, pp. 1-8 (= ΚΗΠΟΣ. Home-
naje a Eduardo J. Prieto, a cura di Nora Andrade e altri, Paradiso,
Buenos Aires 2000, pp. 21-28).
* [85] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 167, aprile 2000,
pp. 7-8 (AA).
[86] Le Sabinae di Ennio e le Fenicie di Euripide, «Studi italiani di filologia
classica», ser. 3, vol. 18 (a. 93), n. 1, 2000, pp. 53-54.
[87] Leopardi e la lirica antica, in Dall’ateneo alla città. Lezioni su Giacomo
Leopardi, Seminario di studi tenuto all’Università «La Sapienza» di
Roma nel 1998 nell’ambito delle manifestazioni «Roma per Leopardi
1798-1998», a cura di Marco Dondero, Fahrenheit 451, Roma 2000
(20152), pp. 11-31.
[88] La campagna di Curione in Africa. La narrazione e l’interpretazione di Ce-
sare, in L’ultimo Cesare. Scritti riforme progetti poteri congiure, Atti del
convegno internazionale (Cividale del Friuli, 16-18 settembre 1999),
a cura di Giampaolo Urso, Fondazione Niccolò Canussio, L’Erma di
Bretschneider, Roma 2000, pp. 175-210.
* [89] A
forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 172, novembre 2000,
pp. 15-16 (AA).
[90] Quale strada per le scuole d’eccellenza?, intervista di Gabriela Jacomella
(Firenze, 1° maggio 2000), «Athenet», n. 2, settembre 2000, pp. 26-28.
[91] Le Sabinae di Ennio e il tema della concordia nella tragedia arcaica latina,
in Identität und Alterität in der frührömischen Tragödie, Atti del simposio
promosso da Eckard Lefèvre nell’ambito del progetto «Konstitution
2001
[96] Lo straripamento della Chiesa cattolica e l’abdicazione dello Stato laico,
«I Ciompi. Periodico toscano di Rifondazione comunista», n. 1, feb-
braio 2001, pp. 31-34.
[97] Scuole di eccellenza, alcune considerazioni preliminari, «Il Ponte», vol. 57,
n. 2, febbraio 2001, pp. 59-68.
* [98] A
forismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 177, maggio 2001,
pp. 7-9 (AA).
[99] Perché l’antico nella scuola, «Maia», n. s., vol. 53, 2001, pp. 287-291.
[100] Poche note supplementari ad Antonella Angeleri, L’epistola Excusatio
obiectorum a Marsilio Santasofia di Giovanni Conversini da Ravenna,
«Maia», n. s., vol. 53, 2001, pp. 350-351.
* [101] A
gli amici dell’Alta Irpinia per l’inaugurazione del Parco letterario «France-
sco De Sanctis», in Francesco De Sanctis: il critico, l’uomo, il politico, Atti dei
seminari di studi desanctisiani, Cresm Campania, s.l. 2001, pp. 111-114
(MDI, pp. 127-131). Discorso letto da Paolo Saggese in occasione della
tavola rotonda «Serve ancora la lezione di De Sanctis per la politica dei
nostri tempi?» organizzata dal Parco letterario «Francesco De Sanctis»
(Morra De Sanctis, 3 giugno 2000).
* [102]
Il ritorno di Francesco De Sanctis come riformatore intellettuale e morale,
in Francesco De Sanctis: il critico, l’uomo, il politico, Atti dei seminari di
studi desanctisiani, Cresm Campania, s.l. 2001, pp. 253-262 (MDI,
pp. 113-125). Intervento in occasione della cerimonia tenutasi a Mor-
ra l’8 luglio 1989, per l’inaugurazione della casa natale di F. De Sanc-
tis restaurata dopo il terremoto.
* [103]
Nell’Irpinia del ’45, colloquio con Antonio La Penna a cura di Paolo
Saggese, in L’occupazione delle terre in Alta Irpinia 1945-1950, a cura di
Paolo Speranza, Centro stampa CGIL, s.l., s.n. 2001, pp. 38-42.
Riedito parzialmente in L’Irpinia nella seconda guerra mondiale.
Dalla crisi del regime fascista alla liberazione, a cura di Francesco
Barra e Paolo Saggese, Centro di ricerca Guido Dorso, Avellino 2004
(MDI, pp. 75-85).
* [104]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 182, dicembre 2001,
pp. 13-14 (AA).
[105]
Tra Fetonte e Icaro. Ardimento o amore della scienza?, «Maia», n. s.,
vol. 53, 2001, pp. 535-563.
Supplemento sulla σύγκρισις fra la prima e la seconda parte dell’ Eneide,
[106]
«Maia», n. s., vol. 53, 2001, p. 643.
[107]
La rivista «Roma» e l’Istituto di studi romani. Sul culto della romanità
nel periodo fascista, in Antike und Altertumswissenschaft in der Zeit von
Faschismus und Nationalsozialismus, Kolloquium Universität Zürich,
14.-17. Oktober 1998, a cura di Beat Näf e Tim Kammasch, Edition
Cicero, Mandelbachtal-Cambridge 2001, pp. 89-110.
[108]
Marziale sulla riva etrusca, «Semicerchio», voll. 24-25, 2001, pp. 79-80.
* [109]
La provincia come prigione. Alcune riflessioni inconcludenti, «Passaggi.
Mezzogiorno e oltre», vol. 2, n. 2, ottobre 2001, pp. 35-39 (MDI,
pp. 133-139).
2002
[110]
Ricordo di Attilio Marinari, in Letteratura e società. Note e interventi per
Attilio Marinari 1923-2000, a cura di Ugo Piscopo, Edizioni del Centro
Dorso, Avellino 2002, pp. 13-16.
[111]
Ritratti dalle lettere di Cicerone, in Interpretare Cicerone. Percorsi della
critica contemporanea, Atti del II «Symposium Ciceronianum Arpinas»
(Arpino, 18 maggio 2001), a cura di Emanuele Narducci, Le Monnier,
Firenze 2002, pp. 1-23.
* [112]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 186, aprile 2002,
pp. 10-12 (AA).
[113]
L’eredità classica e cristiana e la riforma della scuola, «La voce del
CNADSI» (organo del Comitato nazionale Associazione difesa scuo-
la italiana e del Movimento libertà e riforma università italiana), vol. 39,
n. 7, 1° maggio 2002, pp. 1-3.
* [114]
Il potere, il destino, gli eroi. Introduzione all’Eneide, in Virgilio, Enei-
de, traduzione e note di Riccardo Scarcia, BUR, Milano 2002, pp. 5-222
(riveduto e ampliato in IGS, pt. 3, L’ Eneide: il costo tragico del potere).
[115] Latino e greco nel plurilinguismo dell’ Eros e Priapo di Carlo Emilio Gad-
da, in Per Carlo Muscetta, a cura di Novella Bellucci e Giulio Ferroni,
Bulzoni, Roma 2002, pp. 299-316.
[116] La collana di Armonia e il balteo di Pallante. Una nota su Virgilio e Accio,
«Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 259-262.
[117]
Una guerra dopo l’altra, «I Ciompi. Periodico toscano di Rifondazione
comunista», n. 5, novembre 2002, pp. 32-34.
* [118]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 192, novembre-
dicembre 2002, pp. 11-13 (AA).
[119] I volti di Venere nell’Eneide, in Arma virumque… Studi di poesia e sto-
riografia in onore di Luca Canali, a cura di Emanuele Lelli, Istituti edi-
toriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 2002, pp. 97-107.
[120] Lo studio del mondo antico nell’Antologia del Vieusseux, in Leopardi a
Firenze, Atti del convegno di studi (Firenze, 3-6 giugno 1998), a cura
di Laura Melosi, Olschki, Firenze 2002, pp. 339-379.
[121] Scene e motivi negli Epigoni e nell’Alphesiboea di Accio, in Accius und
seine Zeit, a cura di Stefan Faller e Gesine Manuwald, Ergon Verlag,
Würzburg 2002 («Identitäten und Alteritäten», 13), pp. 173-186.
[122] Omnia tuta timens (nota su Aen. 4.298), «Lexis», vol. 20, 2002,
pp. 87-89.
[123]
Narratori e lettori di storia in suspense. Una nota su Lucano e Livio,
«Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 527-529.
[124]
Note di discussione, in appendice a Maria Salanitro, Testo critico ed
esegesi in Marziale, «Maia», n. s., vol. 54, 2002, p. 576.
[125]
Note di discussione, in appendice ad Antonino Grillone, Precisazioni
sul testo dei Getica di Giordanes, «Maia», n. s., vol. 54, 2002, pp. 586-588.
[126]
Note sulla lingua e lo stile dell’Eneide, «Paideia», vol. 57, 2002,
pp. 192-215.
2003
[127]
Prima lezione di letteratura latina, Laterza, Roma-Bari 2003 (20112),
viii + 171 p.
Indice: 1. Verso l’impero mediterraneo. i (pp. 3-22) – 2. Verso l’impero mediter-
raneo. ii (pp. 23-60) – 3. Riflessioni sulla storia (pp. 61-90) – 4. Il costo tragico
della storia (pp. 91-117) – 5. Il fascino e l’orrore della guerra nell’Eneide (pp. 118-
148) – 6. La solitudine di Didone (pp. 149-169)
[128] I Cartaginesi e i Feaci. Per un’interpretazione del primo libro dell’Eneide, in
Premio Francesco Tramontano, VIII edizione. Convegno nazionale di studi
su Virgilio. VI Certamen Vergilianum (Nocera Inferiore, Liceo «G. B.
Vico», 4-6 aprile 2002), Atti a cura di Antonino Grillo, Sfameni, Mes-
sina 2003, pp. 19-49.
[129] La grande armatura di Mitridate. Note a Sallustio, Hist. II fr. 77
Maurenbrecher, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 1-3.
* [130]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 197, aprile 2003,
pp. 13-16 (AA).
[131]
Qualche problema nell’interpretazione della rassegna storica nel VI del-
l’Eneide, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 231-247.
[132]
Pochissime note all’edizione degli Scholia Veronensia alle Bucoliche di
Virgilio curata da Aldo Lunelli, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 367-369.
[133]
Ennio, Ann. 403 Skutsch: il poeta in azione, «Museum Helveticum»,
vol. 60, n. 3, 2003, pp. 158-160.
[134]
Da Omero a Dante? Secondo supplemento su vidi, «Prometheus», vol. 29,
2003, pp. 228-234.
[135]
Quintiliano, l’impero, le istituzioni, in Intellettuali e potere nel mondo antico,
Atti del convegno nazionale di studi (Torino, 22-24 aprile 2002), a cura di
Renato Uglione, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003, pp. 139-163.
[136]
Selezione e organizzazione nelle due rassegne storiche dell’ Eneide, in
Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Atti del convegno inter-
nazionale di studi (Firenze, 25-26 novembre 2002), a cura di Angelo
Casanova e Paolo Desideri, Università di Firenze, Dipartimento di
scienze dell’antichità «Giorgio Pasquali», Firenze 2003, pp. 143-163.
[137] Lettera a Gianfranco Imperiale (Firenze, 26 luglio 2001), premessa a
G. Imperiale, La Manumorta (La tassa di successione), commedia dia-
lettale in tre atti, Tipolitogr. Velox Print, Avellino 2003, pp. 5-6.
[138] Recensione a Nicholas Horsfall, Virgil, Aeneid 7. A Commentary,
Brill, Leiden-Boston 2000, «Maia», n. s., vol. 55, 2003, pp. 405-415.
2004
[139] I volti di Seneca, in Seneca. Una vicenda testuale, catalogo della mostra
tenutasi a Firenze presso la Biblioteca Medicea Laurenziana (2 aprile -
2 luglio 2004) organizzata, sotto l’alto patronato del Presidente della
Repubblica Italiana, col contributo del Comitato nazionale per le cele-
brazioni del bimillenario della nascita di Lucio Anneo Seneca, a cura di
Teresa De Robertis e Gianvito Resta, Mandragora, Firenze 2004,
pp. 15-46.
[140] Tre passi controversi nelle tragedie di Seneca, «Maia», n. s., vol. 56, 2004,
pp. 1-7.
[141]
Tracce evanescenti di Ennio in poeti italiani (Petrarca, Tasso, Leopardi),
«Maia», n. s., vol. 56, 2004, pp. 139-141.
* [142] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 207, luglio-agosto
2004, pp. 10-12 (AA).
[143] Fasto e povertà nell’Eneide, «Maia», n. s., vol. 56, 2004, pp. 225-248.
* [144] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 209, novembre-
dicembre 2004, pp. 17-18 (AA).
[145]
Una nota su Petrarca e Orazio, «Quaderni petrarcheschi», vol. 11, 2001,
pp. 163-166.
[146] La disputa sul primato della caccia o della pesca nell’antichità. A proposi-
to degli Halieutica pseudo-ovidiani, «Philologus», vol. 148, 2004,
pp. 290-304.
[147] E
ffeta. La sensazione di esaurimento della natura e della storia nella cul-
tura della tarda repubblica romana, in Mathesis e Mneme. Studi in memo-
ria di Marcello Gigante, a cura di Salvatore Cerasuolo, Università di
Napoli, Dipartimento di filologia classica «Francesco Arnaldi», Napoli
2004, vol. 1, pp. 199-205.
[148] I flosculi sallustiani di Aurelio Vittore, «Acta Classica Universitatis
Scientiarum Debreceniensis», voll. 40-41, 2004-2005, pp. 377-384.
[149] Corpusculum e σωμάτιον: qualche nota ed un problema circa Seneca ed
Epitteto, «Paideia», vol. 59, 2004, pp. 235-242.
2005
[150]
Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli
ultimi cinquant’anni (1958-2004), presentazione di Massimo Mugnai
(pp. ix-xix), Società Editrice Fiorentina, Firenze 2005, xix + 300 p.
Raccolta di annotazioni «riguardanti temi posti al di fuori dei miei studi sulle
letterature classiche», già pubblicate sotto il titolo Katà leptón in riviste non
specializzate: «La rassegna pugliese» (1966-1973) di Agostino Caiati; «Altofra-
gile» (1995-2000), foglio volante del poeta Franco Arminio; «Il Portolano»
(1995) di Piergiovanni Permoli. A chiudere, la serie degli Aforismi e autosche-
diasmi ospitati, a partire dal 2000, in «L’ immaginazione».
[151]
L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio,
Laterza, Roma-Bari 2005, xii + 580 p.
«Le parti riguardanti le Bucoliche e le Georgiche furono pubblicate [nel 1983],
per accompagnare la traduzione di Luca Canali, nella Biblioteca Universale
Rizzoli; la parte, molto più ampia, riguardante l’Eneide per circa la metà è
stata pubblicata nella stessa collana per accompagnare la traduzione di Riccar-
do Scarcia, per l’altra metà è nuova. […] Anche la parte già pubblicata della
sezione riguardante l’Eneide, benché risalga a pochi anni fa (è uscita nel 2002),
è stata riveduta e ampliata con alcune aggiunte» (Nota dell’autore, p. xi).
Titoli delle parti: I. Le Bucoliche ovvero l’impossibile Arcadia (pp. 3-66);
II. Le Georgiche: il poema esiodeo e lucreziano del lavoro e della natura (pp. 67-112);
III. L’Eneide: il costo tragico del potere (pp. 113-495); Appendice: Le opere e gli
anni (pp. 497-505)
2006
[156]
Il tormentato amore di Franco Arminio per la sua Irpinia, «L’Irpinia illu-
strata», vol. 6, n. 3 (22), 2006, pp. 24-29.
[157] Alfonso Traina, «Poesie 1992-2003», «L’immaginazione», n. 218, gen-
naio-febbraio 2006, pp. 58-60. Presentazione «cumulativa» delle seguenti
sei raccolte poetiche pubblicate fuori catalogo e fuori commercio presso
l’editore Pàtron di Bologna: Stagioni (1992), In cerca di parole (1994), Le
parole e il tempo (1996), Tra due silenzi (1998), L’attesa (2001), Il mosaico
(2003). Riedita in [169] in combinazione con [168].
2007
[158]
Il «litterato»: un modello etico-estetico di Leon Battista Alberti, in Alberti
e la tradizione. Per lo «smontaggio» dei «mosaici» albertiani, Atti del II
convegno internazionale del comitato nazionale per le celebrazioni del
VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti (Arezzo, 22-25
settembre 2004), a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi,
Polistampa, Firenze 2007, pp. 561-584.
[159] Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 227, gennaio-febbra-
io 2007, pp. 18-19.
[160] Memoria e illusione: l’Andromaca di Virgilio, in Convegno nazionale di
studi su Virgilio. X Certamen Vergilianum. Premio Francesco Tramonta-
no, XII edizione (Nocera Inferiore, Liceo «G. B. Vico», 27-29 aprile
2006), Atti a cura di Cosmo Gerardo La Mura e Patrizia Di Nuzzo,
Duebbigrafica, s.l. [ma Nocera Inferiore] 2007, pp. 13-27.
[161] Lettera a Michele Panno, «Vicum», marzo-giugno 2007, pp. 161-162.
[162]
La filologia in Italia nel Novecento, «Rivista storica italiana», vol. 119,
n. 3, 2007, pp. 1089-1126.
[163] L’Andromaca di Virgilio (e di Baudelaire). I fili del dramma, «La Parola
del Passato», vol. 62, n. 353, 2007, pp. 120-137.
2008
[164]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 236, gennaio-febbraio
2008, pp. 27-29.
[165]
Marcello Gigante e il teatro antico, introduzione a Marcello Gigante,
Scritti sul teatro antico, a cura di Graziano Arrighetti e altri, Fridericia-
na Editrice Universitaria, Napoli 2008, pp. xi-xxv.
Stazio, Theb. 5.355, «Prometheus», vol. 34, 2008, pp. 181-183.
[166]
[167] I danni della pace e il metus hostilis secondo Virgilio e Livio, in Studi of-
ferti ad Alessandro Perutelli, a cura di Paolo Arduini e altri, Aracne
Editrice, Roma 2008, vol. 2, pp. 85-89.
[168] Recensione ad Alfonso Traina, Penombre, Pàtron, Bologna 2005,
«L’immaginazione», n. 239, maggio 2008, pp. 50-51. Riedita nella voce
seguente.
2009
[170] La breve stagione dell’elegia latina d’amore, in Il rinnovamento umanisti-
co della poesia. Epigramma ed elegia, a cura di Roberto Cardini e Dona-
tella Coppini, Polistampa, Firenze 2009, pp. 101-123.
[171]
L’impegno di Cesare Luporini per la scuola e l’Università, in Cesare Lupo-
rini 1909-1993, a cura di Maria Moneti, «Il Ponte», vol. 65, n. 11,
novembre 2009, pp. 205-216.
[172]
Per uno scrittore del Meridione, «L’immaginazione», n. 251, dicembre
2009, pp. 225-227. Su Franco Arminio.
[173]
Lettera a Ugo Piscopo (27-7-2007), «Poesia meridiana», vol. 1, 2009,
p. 102.
[174]
Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente, in Favolisti
latini medievali e umanistici, vol. 14, a cura di Ferruccio Bertini e
Caterina Mordeglia, D.AR.FI.CL.ET., Genova 2009, pp. 9-34 (FA,
pp. 89-114). Già apparso in Vie di comunicazione e incontri di culture
dall’antichità al medio evo tra Oriente e Occidente, Atti del congresso
internazionale AICC – Associazione Italiana di Cultura Classica, De-
legazione valdostana (St. Vincent, 17-18 ottobre 1992), a cura di Maria-
grazia Vacchina, Assessorato regionale della Pubblica Istruzione,
Aosta 1994, pp. 162-186.
[175]
I mali vecchi e nuovi dell’Università, «Il Ponte», vol. 65, n. 12, dicembre
2009, pp. 51-60.
2010
[176]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 256, luglio-agosto
2010, pp. 15-16.
[177] Il terremoto e la poesia irpina, prefazione a Domenico Cipriano, Novem-
bre, Transeuropa, Massa 2010, pp. 3-8.
[178]
Alla ricerca di Androdo, in Gli antichi e i moderni. Studi in onore di Ro-
berto Cardini, a cura di Lucia Bertolini e Donatella Coppini, Polistam-
pa, Firenze 2010, vol. 2, pp. 725-726.
* [179] La mia scuola sotto il regime, in C’ero anch’io! A scuola nel Ventennio. Ricor-
di e riflessioni, a cura di Giovanni Genovesi, Liguori, Napoli 2010,
pp. 67-75 (MDI, pp. 47-58).
2011
[180] Sul nuovo frammento di Lucilio scoperto da Aldo Lunelli, «Maia», n. s.,
vol. 63, 2011, pp. 60-62.
[181]
Il regno dell’Erinni. Un’eco significativa di Ovidio nell’Octavia, «Maia»,
n. s., vol. 63, 2011, pp. 88-89.
[182]
Il locus amoenus, Pasquali e F. R. Curtius, «Maia», n. s., vol. 63, 2011,
pp. 160-161.
[183]
Per un grande storico e un vecchio amico, in Emilio Gabba fra storia e sto-
riografia sul mondo antico, Atti del convegno (Firenze, 15 ottobre 2009)
in occasione della presentazione del volume di Emilio Gabba, Rifles-
sioni storiografiche sul mondo antico, a cura di Paolo Desideri e Maria
Antonietta Giua, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2011, pp. 1-3.
[184] Poche note alle Intercenales di Leon Battista Alberti, «Maia», n. s., vol. 63,
2011, pp. 324-329.
[185] Recensione ad Alfonso Traina, Chiaroscuro. Versi e versioni, a cura
di Ivo Iori, MUP, Parma 2010, «L’immaginazione», n. 261, marzo 2011,
pp. 54-55.
2012
[186]
Per una tipologia sociologica degli scrittori latini, in Letteratura e civitas.
Transizioni dalla repubblica all’impero. In ricordo di Emanuele Narducci,
a cura di Mario Citroni, ETS, Pisa 2012, pp. 405-417.
[187]
Il commento esclamativo del Petrarca alla propria narrazione storica, in
Petrarca, l’umanesimo e la civiltà europea, Atti del convegno internazio-
nale (Firenze, 5-10 dicembre 2004), a cura di Donatella Coppini e
Michele Feo, Le Lettere, Firenze 2012 («Quaderni petrarcheschi»,
voll. 15-16, 2005-2006; 17-18, 2007-2008), vol. 1, pp. 421-441.
[188]
Il Giovenale irpino, prefazione a Giuseppe Iuliano, Vento di fronda.
Poesie, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, pp. 7-22.
[189]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 270, luglio-agosto
2012, pp. 33-35.
[190] Memorie e discorsi irpini di un intellettuale disorganico, a cura di Nino
Gallicchio e Paolo Saggese, introduzione di Salvatore Frullone (pp. 5-6),
Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, 162 p.
[191]
Ammodernamento e ulteriore scadimento dell’Università italiana, «Il Pon-
te», vol. 68, n. 11, novembre 2012, pp. 47-50.
[192]
L’edera devastatrice. Nota a Properzio IV 7, 79-80, «Maia», n. s., vol. 64,
2012, pp. 419-423.
2013
[193] La letteratura latina del primo periodo augusteo (42-15 a. C.), Laterza,
Roma-Bari 2013, vii + 566 p.
[194]
Fausto Giordano nel gran mare della fortuna di Orazio, premessa a Fau-
sto Giordano, Percorsi testuali oraziani. Tra intertestualità critica del
testo ed esegesi, Pàtron, Bologna 2013, pp. 7-10.
2014
[195]
Aforismi e autoschediasmi, «L’immaginazione», n. 283, settembre-otto-
bre 2014, pp. 11-14.
[196]
Giorgio Pasquali, voce in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 81,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2014, pp. 573-580.
2015
[197] C. Sallusti Crispi Historiae, I: Fragmenta 1.1-146, a cura di Antonio La
Penna e Rodolfo Funari, con la collaborazione redazionale di Gerard
Duursma, De Gruyter, Berlin - New York 2015, 387 p.
2018
[198] Ovidio. Relativismo dei valori e innovazione delle forme, Edizioni della
Normale, Pisa 2018, xi + 432 p.
«Questo viaggio attraverso le opere di Ovidio costituisce la prima parte della
Letteratura latina del secondo periodo augusteo (all’incirca 15 a. C. - 18 d. C.) [193].
Data l’ampiezza dell’opera di questo poeta e la sua importanza, egli occupa un
volume a sé; ho aggiunto solo la trattazione dei poeti di questo periodo di cui
ci sono giunti frammenti. […] La raccolta delle testimonianze e la bibliografia
sono opera di Franco Bellandi» (Prefazione, p. ix).
[199] Sallustio e la «rivoluzione» romana, nuova ed. con introduzione di
Arnaldo Marcone (pp. 1-11) e una bibliografia integrativa a cura
di Rodolfo Funari (pp. 499-506), Bruno Mondadori, Milano 2018,
509 p. (rist. anast. dell’ed. 1968, 19733, con immutata numerazione di
pagine).
2019
[200] Io e l’antico. Conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Editori,
Pisa 2019, 212 p.
Indice: Premessa, di Arnaldo Marcone (pp. 9-11) – Conversazione sulla filologia
e sulla storia (pp. 13-80) – Appendici: 1. Premio Feltrinelli (1987; pp. 83-92) –
2. La crisi della scuola media superiore in Italia (1999; pp. 93-149) – 3. Noi e l’an-
tico (1993; pp. 151-190) – Galleria di immagini (pp. 191-210)
2020
[201]
I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, in Arnaldo
Marcone, Dopo il fascismo. Antonio La Penna e la questione giovanile,
Della Porta Editori, Pisa 2020, pp. 43-113. Già apparso in «Società»,
vol. 2, nn. 7-8, 1946, pp. 678-690; vol. 3, n. 3, 1947, pp. 380-405.
2021
[202] La favola antica. Esopo e la sapienza degli schiavi, con una bibliografia
degli scritti dell’autore (1995-2021), a cura di Giovanni Niccoli e Stefa-
no Grazzini, Della Porta Editori, Pisa 2021, 420 p.
Indice: Congedo esopico, di Antonio La Penna (pp. 11-13) – La via esopica di
Antonio La Penna, di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini (pp. 15-56) –
1. Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica (1996;
pp. 67-88) – 2. Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente
(1994; pp. 89-114) – 3. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese