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Sentieri 9

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Stampato con fondi di ricerca del
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Salerno.

© 2021 Della Porta Editori

www.dellaportaeditori.com

isbn 978-88-96209-42-4

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Antonio La Penna

La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi
Con una bibliografia
degli scritti dell’autore (1995-2021)

A cura di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Della Porta Editori

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indice

.    11
p Congedo esopico, di Antonio La Penna
15 La via esopica di Antonio La Penna,
di Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini
57 Avvertenza editoriale
61 Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

La favola antica: Esopo e la sapienza degli schiavi

67 1. Origine, sviluppo e funzione della favola esopica


nella cultura antica
1. Origini mesopotamiche della favola esopica, 67  2. La favola
nella letteratura greca da Esiodo ad Aristofane, 70  3. Il romanzo
di Ah.īqār e la nascita del «personaggio Esopo», 72  4. Retorica,
diatriba e formazione delle prime raccolte esopiche, 76  5. Esopo
in latino: Fedro e la poetica della brevitas e dell’urbanitas, 80 
6. Il favolista agghindato: Babrio o della morale senza unghie, 81 
7. La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società, 84

89 2. Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente


1. Culture a contatto, 89  2. Tradizione esopica e favolistica sumero-
babilonese, 90  3. Il romanzo sapienziale di Ah.īqār, 96 
4. Favole in viaggio: dalla Grecia all’India o dall’India
alla Grecia?, 101  5. Favolistica esopica in terra d’Egitto?, 106 
6. Tipologia geografica della favola esopica, 111  Addendum
bibliografico 2009, 114

115 3. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese


1. Una favola di Archiloco e il poemetto di Etana, 115  2. Il romanzo
di Esopo e un dialogo babilonese, 125  3. Un’altra favola esopica di
origine babilonese, 128

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8 Indice

p. 132 4. Il romanzo di Esopo



1. Le redazioni G e W e la ricostruzione della fonte comune, 132 
2. Il nucleo primitivo della Vita e il Volksbuch di Esopo, 141 
3. La sezione babilonese della Vita e il racconto di Ah.īqār, 151 
4. «Bere il mare»: gare di sapienza nelle culture arcaiche, 157 
5. La Vita come biografia sapienziale, 161  6. Lo schiavo portatore
di antisapienza, 165  7. Cultura filosofica alla berlina, 168 
8. L’individualismo rassegnato di una mentalità cinica, 172 
9. Misoginia: la donna e le angustie di un’economia precaria, 175 
10. La Vita come letteratura amena, 177  Appendice Esopo
a Delfi, 179

183 5. Fedro, la voce amara della favola esopica



1. Tracce biografiche, 183  2. Una vita per la poesia: ansia di gloria
ed emarginazione, 193  3. Nel solco della morale esopica: verità
e rassegnazione, 199  4. Le favole di animali: qualificazione
morale e azione dialogata, 204  5. Le strutture narrative: conflitto
e svolgimento dell’azione, 208  6. Il favolista «didattico» e
l’interpretazione del racconto, 216  7. Vie nuove: la rappresentazione
realistica della vita contemporanea, 219  8. Urbanitas: lo stile medio
del realismo comico, 226

236 6. Strutture compositive e leggi narrative della favola esopica


1. Gli azzardi di un approccio strutturalistico, 236  2. Un’analisi
strutturale della recensione Augustana, 241  3. Questioni di storia
della tradizione esopica, 252

257 7. La morale della favola esopica come morale


delle classi subalterne nell’antichità
1. Genere letterario e interpretazione della realtà, 257  2. Sulla via
di una cultura laica popolare, 261  3. Demistificazione: la verità sotto
le apparenze fallaci, 265  4. La legge dell’astuzia e della forza, 274 
5. Giustizia: né da Dio né dagli uomini, 282  6. L’utile ben calcolato
in un mondo senza sorriso, 288  7. Sopravvivere: preveggenza,
prudenza, operosità, 293  8. Empiricità: un pragmatismo senza
prospettive, 301  9. Il potere della Fortuna e l’immutabilità della
società umana, 303  10. La maschera comica di un pessimismo senza
amarezza, 317  11. La favola come voce delle plebi antiche, 322 
12. Il razionalismo empirico delle plebi antiche, 327 
13. Verso una cultura cosmopolitica, 329  14. Favola esopica
e socialismo scientifico, 330  Addendum bibliografico 2009, 332

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Indice 9

Appendici

p. 335 A. Marginalia Aesopica


1. Phaedriana, 335  2. In fabellas Latinas Medii quod dicitur
Aevi, 338  3. In Aesopica Graeca adnotationes tres, 344 
4. In Vitam Aesopi, 345  5. In Vitam Lollinianam, 349

352 B. Minima Aesopica


1. La favola esopica e il suo inventore, 352  2. Mao Tse-tung
come Esopo moderno, 354  3. Attualità della morale esopica, 355 
4. Marchesi ed Esopo, 356  5. Contro la rassegnazione esopica,
il socialismo, 358

359
Indice dei nomi
1. Autori e personaggi storici antichi e medievali, 361  2. Personaggi
mitologico-religiosi, letterari e di incerta storicità, 365  3. Autori
e personaggi storici moderni, 367

373
Indice delle favole

399
Bibliografia degli scritti di Antonio La Penna (1995-2021)

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Congedo esopico 11

Congedo esopico
Antonio La Penna

L’idea e la realizzazione di questa raccolta dei miei scritti sulla favola


esopica è iniziativa personale, di cui sono molto grato, dei miei allievi
Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli. Di alcuni di questi scritti non
ricordavo neppure l’esistenza… In compenso già nei primi anni Cin-
quanta avevo messo in cantiere il progetto, che mi ha accompagnato
per decenni per poi restare senza seguito, di una storia complessiva
della tradizione esopica in Grecia e a Roma.
Come è stato riconosciuto anche da molti altri studiosi, i classici,
benché ormai lontane e logore radici della nostra cultura, ci forniscono
– assieme a tutte le altre fonti della storia – strumenti per affrontare le
sfide e i cambiamenti del nostro tempo. Ho speso la vita a levare la
polvere dai testi dell’antichità per renderli meglio utilizzabili oggi, nel-
la scuola, nell’università, nel circuito della cultura generale. Ho inoltre
insistito più volte, in passato, sul fatto che la storia è contatto attivo e
fecondo, lotta dell’uomo col mondo: il mondo dell’esperienza umana.
Il poeta, lo scrittore, l’intellettuale possono dare voce alla storia se
ascoltano e osservano l’esperienza umana nel corso della sua formazio-
ne – un processo che porta a fertilizzare le stesse esperienze che sono
state il punto di partenza del percorso.
Ora la favola esopica, con i suoi messaggi asciutti, in cui anche gli
dei si trovano a dover fare i conti con l’inesorabile dinamica dei pro-
cessi di causa ed effetto, azione e reazione, vita e morte, ci dice che la
cultura deve spesso, se non sempre, misurarsi con i problemi e le solu-
zioni connesse alla cosiddetta vita materiale. Ci dice che in ultima
analisi sono le questioni cruciali dell’esistenza – vincere o perdere, pen-
sare o agire al momento giusto, saper giocare di forza o di astuzia –
quelle che occupano la mente di coloro che sono obbligati a lavorare.
Come si sa, nelle società antiche questi soggetti erano prevalentemen-
te gli schiavi. Sotto questo riguardo, il titolo della raccolta è quanto

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12 Antonio La Penna

mai azzeccato, indicando con chiarezza l’orientamento e il senso ulti-


mo, anche politico-culturale, della mia ricerca, la quale, senza rinun-
ciare a riprendere su basi nuove il problema delle origini orientali
– mesopotamiche molto più che indiane, come in passato si ipo-
tizzò – della favolistica di stampo esopico, ha avuto il suo perno nella
ricostruzione del sistema di valori e della Weltanschauung, insomma
della «sapienza», degli schiavi: una sapienza che, sebbene priva – per-
fino superfluo ricordarlo – di qualunque connotato rivoluzionario, di
qualunque carica eversiva dell’assetto sociale esistente, e anzi impre-
gnata di un’amara e fatalistica rassegnazione che ha contribuito al con-
solidamento dello stato di subalternità, si impone come «illuministica-
mente» altra rispetto al modello dominante.
In effetti, come avevo evidenziato già nel 1961 nel saggio La morale
della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità, in
questo particolare genere letterario sviluppatosi dall’Oriente al mondo
romano ai margini della cultura alta delle classi superiori si sono accu-
mulate le scintille di un razionalismo empirico-materialistico in cui si
può ravvisare il germe di una ricerca positiva e di un’analisi scientifica
della realtà effettuale. Non a caso in Grecia la prima fioritura della
favola esopica cade tra il VII e il V secolo a. C. ed è quindi coeva alla
grande stagione della scienza ionica. Queste scintille, originate appun-
to dal confronto con un duro stato di necessità, hanno finito poi, nella
maggior parte dei casi, per essere soffocate e spente dall’opposizione di
sacerdoti e intellettuali organici al sistema di potere. Così, negli svi-
luppi successivi della favolistica antica – cioè nella tradizione retorica,
diatribica e scolastica e poi in continuatori senza nerbo come Babrio e
Aviano fino alle raccolte medievali derivate da Fedro e dallo stesso
Babrio –, dell’originaria lezione esopica sono stati ripresi ed elaborati
gli elementi divertenti, o moralmente istruttivi, o tragicomici, funzio-
nali all’esercizio di quell’opera di persuasione che è tipica di tutti i
progetti di egemonia culturale.
Come ho detto, nelle società antiche il lavoro era svolto in preva-
lenza da schiavi e la favola d’impronta esopica fu il luogo in cui si de-
positò la visione del mondo e della vita che essi maturarono lungo i
secoli attraverso questa esperienza. Oggi miliardi di esseri umani de-
privati di storia e identità – braccianti, impiegati, lavoratori addetti alle
macchine – sperimentano, benché in modo totalmente diverso, una
condizione non dissimile. Ma dove si nascondono i messaggi che essi

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Congedo esopico 13

trasmettono ai loro discendenti e all’umanità intera? Qualcosa soprav-


vive sempre ma, come è regola nella storia umana, non basta una vita
intera per scoprire e valorizzare queste tracce disperse. Del resto, si
tratta di un lavoro in cui si mette in gioco solo uno sparuto manipolo
di ricercatori «eretici», spesso costretti a muoversi in un ambiente dif-
ficile se non ostile.
Mi auguro che questa mia raccolta di studi possa, indicando una
direzione e un metodo di indagine, servire da punto di riferimento per
non ripartire da zero in questa impresa titanica e spesso solitaria.

Firenze, agosto 2020

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La via esopica di Antonio La Penna 15

La via esopica di Antonio La Penna


Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini1

1. In casa Einaudi: la fruttuosa gestazione di un’opera incompiuta2

Il 31 gennaio 1952 Carlo Muscetta, direttore della sede Einaudi di


Roma, scrive a Giulio Bollati, destinato di lì a breve a diventare il
braccio destro dell’editore Giulio Einaudi, per caldeggiare una pro-
posta ricevuta «dal nostro amico e compagno La Penna», un saggio
«del più alto interesse» su un «argomento antico e nuovo e sempre
affascinante»3. La lettera non fornisce altri particolari, ma il progetto
allegato soddisfa la nostra legittima curiosità:
L’ANTICA SAPIENZA DEGLI SCHIAVI (circa 200 pagine)
(Breve storia della favola greco-romana)
Parte prima
Interpretazione e storia
i.  Interpretazione della favola esopica
 Cogliere i motivi fondamentali della favola esopica. Il pessimismo nella
natura umana che la ispira. La natura umana messa a nudo come egoismo,

1
  Nell’ambito di una stretta collaborazione, si deve la prima parte a Giovanni Niccoli, la
seconda a Stefano Grazzini.
2
  Per la ricostruzione della vicenda sono stati utilizzati, senza peraltro un’esplorazione siste-
matica, i materiali documentari conservati nell’Archivio storico Einaudi (AE), in deposito
presso l’Archivio di Stato di Torino: a) i verbali dei Consigli editoriali degli anni 1943-1963,
raccolti e pubblicati in I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi, a cura di Tommaso
Munari, prefazione di Luisa Mangoni, 2 voll., Einaudi, Torino 2011 e 2013 (vol. 1, 1943-1952;
vol. 2, 1953-1963); b) la corrispondenza editoriale intercorsa tra La Penna e l’Einaudi e tra i
diversi funzionari e consulenti Einaudi implicati nella vicenda (Giulio Bollati, Cesare Cases,
Carlo Muscetta, Daniele Ponchiroli, Paolo Serini): AE, Autori italiani, cart. 109, fasc. 1645,
intestato a La Penna; ivi, cart. 141.2, fasc. 2134.5, intestato a Muscetta; ivi, cart. 195, fasc. 2795,
intestato a Serini. Ringrazio il presidente della casa editrice Einaudi, Walter Barberis, per
aver autorizzato la consultazione e l’uso della documentazione.
3
  AE, fasc. Muscetta, f. 1371.

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16 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

violenza, prepotenza, ipocrisia, ecc. Il favolista si rassegna al male. Ogni


velleità di ribellione al più forte manca.
ii. La nascita della favola
La favola nasce in quel periodo tra l’VIII e il VI secolo av. Cristo, che
prepara il razionalismo della sofistica. Il periodo in cui una nuova clas-
se politica si sostituisce al feudalesimo di tipo omerico. La favola come
razionalismo popolare. Rapporti con la favola indiana ed egiziana.
iii. Il significato della favola antica
Il notevole significato della favola come razionalismo popolare, conser-
vatosi negli strati umili, di fronte all’idealismo e alla morale eroica del-
la cultura antica greca (da Socrate in poi). La rassegnazione della favo-
la e la rassegnazione cristiana.
iv. La diffusione della favola nella cultura greca
v. La diffusione della favola nella cultura latina
vi. Fedro
vii. Babrio
viii. La favola greca dopo Babrio
ix. La favola latina dopo Fedro
x. Conclusioni. Accenni sui rapporti con la cultura medioevale

Parte seconda
Ricerche particolari
i. La Vita Aesopi
ii. Redazioni retoriche della favola esopica
iii. Tentativi di localizzare le favole
iv. Le favole politiche
v. La favola e la novellistica
vi. La favola e la diatriba filosofica
vii. La favola e la parabola cristiana
viii. Promitio ed epimitio
ix. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola greca
x. Alcune questioni sulle redazioni tarde della favola latina
xi. 
Specchietto raggruppante le favole secondo la loro morale (repertorio
comodo)4

4
  Ivi, ff. 1372-1373.

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La via esopica di Antonio La Penna 17

Malgrado la differenza di età, La Penna e Muscetta, di lui più an-


ziano di quasi quindici anni, erano legati da un’amicizia «nutrita e
cementata dalle comuni origini irpine» (tra l’altro erano stati entrambi
allievi del Liceo classico «Pietro Colletta» di Avellino)5 e soprattutto
dalle «comuni ascendenze desanctisiane» e dalla «condivisione, in linea
di massima, delle stesse posizioni politiche» con militanza attiva nel
Partito comunista6. Del resto, proprio grazie alla mediazione di Mu-
scetta, già nel giugno 1951 La Penna si era visto affidare, per la pubbli-
cazione nell’«Universale», la curatela di un’edizione italiana della
Guerra civile di Cesare7 che vedrà la luce nel 1954, corredata di un
lungo saggio introduttivo – «fatto con molto scrupolo ed intelligenza»
(Bollati) – che riscuoterà il plauso plenario del Consiglio, con tanto di
«rallegramenti» personali da parte dello stesso Einaudi8.

5
  Si veda il caldo ricordo di La Penna della sua esperienza giovanile al «Colletta»: «La
scuola a cui debbo il fondamento decisivo della mia istruzione è il Liceo classico
“Pietro Colletta”, in cui entrai nel 1939. […] Qui ebbi la fortuna di essere allievo di
Enrico Freda, mio professore di italiano e latino. […] Nella mia esperienza Freda si
segnalava in modo particolare, ma anche i suoi colleghi erano tutti all’altezza del loro
compito. Tra gli altri c’era sua moglie, che mi pare si chiamasse Angelina Petrone,
insegnante di filosofia, che era stata allieva di Gentile, cui era rimasta molto legata».
A. La Penna, Io e l’antico, conversazione con Arnaldo Marcone, Della Porta Editori,
Pisa 2019, pp. 22-23 e cfr. p. 28. Su Angelina Petrone e il suo ruolo nell’orientare verso
la Normale di Pisa il giovane La Penna cfr. Stefano Grazzini, Riflessioni e ricordi a
proposito della Conversazione di Antonio La Penna con Arnaldo Marcone, «Athenaeum»,
vol. 108, 2020, n. 1, p. 242.
6
  Tra l’altro La Penna, subito dopo la liberazione, fu segretario della sezione di Bisaccia
del Pci. Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit., pp. 40 e 32; Id., Memorie e discorsi irpini di un in-
tellettuale disorganico, a cura di Nino Gallicchio e Paolo Saggese, introduzione di Salvato-
re Frullone, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2012, pp. 82 e 79.
7
  Consiglio editoriale del 23-24 maggio 1951: «Muscetta ha proposto di affidare, per la
pubblicazione nell’“Universale”, la Guerra civile di Cesare al prof. La Penna. Il Consiglio
è senz’altro favorevole» (I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, pp. 267-268); Ubaldo Scassellati
a La Penna, 18 giugno 1951: «Sono molto contento di comunicarti che, a seguito delle tue
conversazioni con Muscetta, la casa editrice è d’accordo di affidarti la preparazione della
Guerra civile di Cesare per la sua collana “Universale”» (AE, fasc. La Penna, f. 1; Scassel-
lati, arruolato da pochi anni nella redazione Einaudi, era stato allievo della Normale di
Pisa negli stessi anni di La Penna, Bollati e Ponchiroli).
8
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 434 (riunione del 27 agosto 1952). Il saggio, Tendenze
e arte del Bellum civile di Cesare, era già apparso in «Maia», vol. 5, 1952, pp. 191-233 e in-
tendeva proporsi come «frutto di un […] primo approccio alla parte più stimolante dei
Commentari» (A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, Einaudi, Torino 1978, p. 145,
nota 1). Sarà poi ripubblicato in Aspetti, cit., pp. 145-185.

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18 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Non stupisce quindi, con questo precedente, la particolare solle-


citudine con cui Muscetta spinge la proposta relativa a L’antica sa-
pienza degli schiavi, raccomandando a Bollati di scrivere «due righe
di incitamento a La Penna, perché lavori al volume e ci faccia legge-
re presto il suo lavoro compiuto»9. Neppure una settimana più tardi,
nel Consiglio editoriale del 6 febbraio, Paolo Serini, all’epoca consu-
lente della casa editrice, «informa […] della proposta di La Penna di
scrivere per noi una breve storia della favola greco-romana e dà let-
tura del sommario dell’opera». Con la benedizione di Bollati, che
«conosce La Penna da tempo come studioso serio e intelligente»
(i due, come si è detto, erano stati compagni alla Normale), e di Ita-
lo Calvino, che ha letto «qualche suo bell’articolo», il Consiglio, «pur
riservando una decisione al momento in cui il lavoro potrà essere
letto», si dichiara «favorevole alla proposta» e «decide di incoraggia-
re l’autore a mettersi all’opera»10.
Ha inizio così la lunga e travagliata gestazione di un progetto che, nel
mettere a tema, quale suo nucleo costitutivo, una questione squisita-
mente gramsciana come la cultura e la concezione del mondo delle clas-
si subalterne nell’antichità, non solo promette di smuovere le acque degli
studi classici italiani, ma collima con l’orientamento «militante» dell’Ei-
naudi; ma quel progetto, come vedremo, per l’accavallarsi di altri impe-
gni in parte suscitati dal maturare nello studioso di nuovi interessi e
obiettivi, non troverà una sua via verso una conclusione positiva.
Consiglio editoriale del 1° e 3 giugno 1955: Daniele Ponchiroli, per
autori e colleghi «il Redattore», anche lui normalista negli stessi anni
di Bollati e La Penna, informa che quest’ultimo «sta preparando uno

9
  AE, fasc. Muscetta, f. 1371.
10
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 1, p. 350. Cfr. anche la lettera di Serini a Muscetta, in
data 11 febbraio 1952: «Per il saggio del La Penna, che a me sembra molto interessante […],
ti scriverà Bollati» (AE, fasc. Serini, f. 488). Nessuna traccia di questa lettera nel fascicolo
einaudiano intestato a Muscetta. In compenso Bollati, in data 13 febbraio, scriverà a La
Penna con cordialità affettuosa: «Caro Antonio, Muscetta ci ha mandato da Roma l’indi-
ce del tuo lavoro sui favolisti, accompagnandolo con un giudizio molto favorevole. Anche
l’accoglienza dei torinesi è stata buona, ed io ho avuto l’incarico di incoraggiarti a prose-
guire nel lavoro in modo che tu possa inviarcene presto almeno una parte in lettura. La
consuetudine vuole che non si prendano impegni editoriali se non dopo aver visto e toc-
cato il libro, ma già il progetto ha suscitato vivo interesse e credo che tu non abbia a teme-
re un rifiuto. All’incoraggiamento, per così dire, ufficiale unisco il mio privato, invitandoti
anche a far presto» (AE, fasc. La Penna, f. 6).

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La via esopica di Antonio La Penna 19

studio che avrà come titolo Sallustio e la formazione dell’ideologia augu-


stea» e che, «sebbene abbia già trattative per la pubblicazione con l’e-
ditore D’Anna, preferirebbe dare a noi il volume»11. Incaricato dal
Consiglio, Ponchiroli, in data 6 giugno, scrive a La Penna conferman-
do l’interesse della casa editrice per la proposta:

I due saggi che stai preparando (Sallustio e la formazione dell’ideologia augustea


e La favola nell’antichità) ci interessano – come già ti abbiamo detto – mol-
tissimo: Einaudi è senz’altro d’accordo nel pubblicarli entrambi nella collana
«Saggi». Dunque, appena saranno pronti, ti preghiamo di inviarceli senz’altro
e subito. Facci sapere se desideri avere i contratti, o se preferisci aspettare
ancora un po’12.

In realtà – e il dato aiuta a mettere a fuoco la funzione culturale


assegnata all’Einaudi ai progetti di un autore come La Penna – proprio
in quel periodo, lungi dall’essere una partita pacificamente chiusa, la
questione della collocazione nei «Saggi» dei due titoli, e in particolare
del Sallustio, aveva finito per impigliarsi nell’acceso dibattito sorto
all’interno della casa editrice attorno al varo della nuova collana «Studi
e ricerche»: una collana che, nelle intenzioni di Einaudi (ma non di
altri collaboratori come per esempio Delio Cantimori), avrebbe dovu-
to ospitare «alcune opere di giovani studiosi che, per il loro carattere di
ricerca specializzata», non trovavano spazio nelle collezioni esistenti,
«ormai destinate a un largo pubblico»13. Insomma, opere che, come il
saggio di La Penna su Sallustio, espressamente menzionato da Einau-
di in una lettera indirizzata a Cantimori in data 14 luglio 195514, affron-
tassero (così Bollati) «argomenti che ci sembrino rivestire maggiore
interesse per la cultura italiana di oggi», e che in questo modo permet-
tessero di evadere da un lato dalle strettoie di un’editoria di partito,

11
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 211.
12
  AE, fasc. La Penna, f. 15.
13
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 220 (Consiglio editoriale del 28 giugno 1955).
14
  Scrive Einaudi: «Si tratta di libri di giovani, che stanno molto bene insieme e che
dall’essere pubblicati a brevissima distanza di tempo l’uno dall’altro, e con la stessa presen-
tazione, acquistano un maggior risalto editoriale e un più preciso significato culturale;
mentre se uscissero disseminati, e forzatamente a intervalli piuttosto lunghi, nelle collane
esistenti, finirebbero per disperdersi nel mucchio con svantaggio di tutti». AE, fasc. Can-
timori, cit. in Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta
agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 808, nota 724.

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20 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

dall’altro dalla politica accademica dei «prodotti già scientificamente


collaudati»15; in altre parole, opere capaci, con la messa in gioco di te-
matiche culturali vive e l’apertura ad approcci metodologici aggiornati,
di rinnovare dall’interno il panorama, spesso desolante, della produzio-
ne universitaria nei vari campi delle discipline umanistiche.
Almeno stando alla documentazione consultata, per vari anni di
entrambe le proposte lapenniane si perdono le tracce: definitivamente
per il Sallustio, che uscirà da Feltrinelli, con il titolo Sallustio e la «rivo-
luzione» romana, nel 1968 (ma con prefazione datata dicembre 1966);
fino al 1960 per il progetto esopico. Basta però dare un’occhiata alla
bibliografia di La Penna del quinquennio in questione, e il lungo si-
lenzio cessa di stupire: proprio in questo arco di tempo, infatti, cade
tra l’altro l’impegnativo lavoro di preparazione dell’edizione critica,
con ampio saggio introduttivo e commento, dell’Ibis di Ovidio (1957)
e dei relativi scoli (1959). Può forse stupire invece che il progetto di una
storia della tradizione esopica, incentrata sul tema della Sapienza degli
schiavi, si presenti ora in altra veste. Bollati al Consiglio editoriale del
16 novembre 1960: «La Penna, a proposito di Esopo, darebbe: il ro-
manzo di Esopo, le favole, la favolistica da Fedro alla tarda latinità.
Tradurrebbe tutto lui. Farebbe anche uno studio che propone per
“Studi e ricerche”»16. Dunque, oltre al volume non meglio precisato,
un’edizione completa della favolistica esopica greco-latina, dagli inizi
fino alle rielaborazioni delle raccolte medievali; un’edizione, si noti,
comprensiva anche di quella Vita Aesopi che in realtà si colloca ai mar-
gini del vero e proprio genere esopico (si tratta di una tarda biografia
sapienziale fortemente romanzata, modellata in parte su un racconto
di origine assiro-babilonese noto come Storia di Ah.īqār) e su cui La
Penna pubblicherà nel 1962 su «Athenaeum» un memorabile contribu-
to, punto fermo nella storia dell’indagine critica in proposito17.
Con questo, che è ancora solo un progetto, prende l’avvio – per
dispiegarsi lungo l’intero decennio – la prima stagione concretamente

15
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, pp. 110-111 (Consiglio editoriale del 9 giugno 1954).
Sulla «accademizzazione» (e connessi rischi) della casa editrice, «la cui produzione ordi-
naria tendeva sempre più [in questo periodo] a esprimersi nelle consolidate certezze della
cultura accademica, la sola a sfuggire ai veti incrociati, prodotto di conflitti irrisolti», cfr.
Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 806-807.
16
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 433.
17
  Qui, cap. 4.

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La via esopica di Antonio La Penna 21

produttiva della ricerca esopica lapenniana. Nel 1961 appare il grande


saggio complessivo La morale della favola esopica come morale delle clas-
si subalterne nell’antichità che, pur senza «approfondire problemi stori-
ci singoli»18, costituisce con ogni evidenza il nucleo portante di quella
Sapienza degli schiavi che La Penna aveva proposto all’Einaudi nel
1952. Lo studio – e la circostanza ha un suo significato – vede la luce in
«Società»19, la rivista fondata nel 1945 da Ranuccio Bianchi Bandinelli
che, senza essere diretta emanazione del Pci e organo di diffusione dei
suoi orientamenti politico-culturali, dà spazio e voce al confronto e alle
interrogazioni della parte più viva e aperta dell’intellettualità italiana
di estrazione marxista: quella «Società» su cui, nel 1946-1947, un La
Penna poco più che ventenne aveva ripercorso – quasi in un esame di
coscienza capace di sollevarsi a biografia intellettuale di un’intera ge-
nerazione – le tappe del suo «lungo viaggio attraverso il fascismo» ver-
so la democrazia20. Poi, attorno all’asse costituito dal saggio su La mo-
rale della favola esopica, si aggrega una serie di altri contributi intesi a
far luce su aspetti diversi della «questione esopica»: la storia delle reda-
zioni e della diffusione della citata Vita Aesopi (Il romanzo di Esopo,
1962), problemi di critica testuale (Coniectanea e Marginalia Aesopica,
1962-1963)21, la questione delle origini mesopotamiche (Letteratura eso-
pica e letteratura assiro-babilonese, 1964)22, il confronto con un approccio
– quello strutturalistico – alternativo al tradizionale metodo storico-
filologico (recensione a La fable antique di Morten Nøjgaard, 1966)23 e
soprattutto il posto occupato da Fedro nella storia del genere favolisti-
co (Introduzione alle Favole, 1968)24.
Quest’ultimo lavoro, un ritratto a tutto tondo di ben 60 pagine
dell’autore della prima raccolta di favole esopiche in poesia (di qui, tra
l’altro, la sua importanza per lo studio della tradizione esopica nel suo

18
 Cfr. infra, p. 258, nota 3.
19
 Vol. 17, 1961, n. 4 (lug.-ago.), pp. 459-537 (qui, cap. 7).
20
  A. La Penna, I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, «Società», vol. 2, 1946,
nn. 7-8, pp. 678-690 e vol. 3, 1947, n. 3, pp. 380-405, ora ristampato, con scritti di Antonio
Gramsci, Concetto Marchesi, Carlo Morandi e Luigi Russo e con un’esauriente ricostru-
zione della vicenda, in Arnaldo Marcone, Dopo il fascismo. Antonio La Penna e la questione
giovanile, Della Porta Editori, Pisa 2020 (il testo di La Penna alle pp. 43-110, da cui si cita).
21
  Qui, app. A.
22
  Qui, cap. 3.
23
  Qui, cap. 6.
24
  Qui, cap. 5.

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22 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

insieme)25, era stato commissionato a La Penna in occasione di una sua


visita all’Einaudi, collocabile tra gli ultimi mesi del 1965 e l’inizio del
1966. «Io accettai volentieri – scrive La Penna a Ponchiroli in data
17 aprile 1966 –, perché dalla conversazione mi parve di capire che il
lavoro andasse fatto entro l’anno, ma non certo entro giugno», come
pretendeva ora Einaudi26. «Entro giugno, ahimè!, io non potrei asso-
lutamente: ho per le mani un libro su Sallustio27 e vari articoli, recen-
sioni, ecc. Io promisi, mi pare, per la fine di settembre e potrei man-
tenere tale impegno». Ma se la scadenza fosse stata quella voluta
dall’editore, allora al fido Ponchiroli, «mio interprete e […] nume
tutelare presso Einaudi», sarebbe toccato intervenire e scusare («so
quanto buono e benevolo intercessore tu sia»)28. Il Redattore rassicura:
«Quanto alla tua prefazione per le Favole di Fedro, l’editore ha fretta,
ma io penso che la data da te fissata (se puoi fare uno strappo e arriva-
re per settembre-ottobre tanto meglio) vada bene»29. In realtà, ci vorrà
un anno e mezzo abbondante, costellato di continue promesse di pron-
ta consegna, accompagnate da altrettanti rinvii, «dovuti alle solite noie
ed alla solita pigrizia, che cresce con gli anni»30: La Penna chiude a fine
novembre 196731; il finito di stampare del libro reca la data 18 maggio
1968. In compenso il volume esce corredato, oltre che del saggio intro-
duttivo, di un’appendice, Fedro in prosa, in cui sono presentate «a un
pubblico più largo della cerchia degli specialisti» una trentina di favo-

25
  Osservava La Penna in proposito: «In queste pagine su Fedro presuppongo quel saggio
[La morale della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità]: senza tener
conto della tradizione esopica nel suo complesso non si può, ovviamente, interpretare
Fedro. Necessaria sarebbe una discussione sulla tradizione esopica nell’età ellenistica, cioè
sulla tradizione presupposta immediatamente da Fedro» (qui, p. 199, nota 19).
26
  Giulio Einaudi a La Penna, 31 marzo 1966: «Ponchiroli mi fa sapere che Lei sarebbe
disposto a prefare la nuova edizione delle Favole di Fedro nella versione del Richelmy,
destinata a comparire col testo a fronte nella “Nuova Universale”. […] Tenga conto che le
pagine introduttive a noi servirebbero per la fine di giugno: e veda in ogni caso di venirci
incontro» (AE, fasc. La Penna, f. 90).
27
  Come già ricordato (supra, p. 20), la prefazione è datata dicembre 1966.
28
  AE, fasc. La Penna, f. 91.
29
  Ivi, f. 92 (21 aprile 1966).
30
  La Penna a Ponchiroli, 16 maggio 1966 (ivi, f. 94). La lista dei successivi rinvii, sempre
notificati al «benevolo» Ponchiroli, è martellante: 13 gennaio, 10 marzo, 8 maggio, 25 set-
tembre 1967 (ivi, ff. 96, 102, 106, 108).
31
  Ponchiroli a La Penna, 30 novembre 1967: «Ho ricevuto oggi la tua bella prefazione a
Fedro. Te ne ringrazio» (ivi, f. 90).

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La via esopica di Antonio La Penna 23

le fedriane «conservate solo in parafrasi della tarda antichità o dell’alto


Medioevo»32. Operazione che al sicuro interesse culturale associa un
suo valore filologico, poiché il testo latino riprodotto a fronte della
traduzione, senza pretendere di essere un’edizione critica, è però il
frutto di un’accurata revisione della tradizione manoscritta, sfigurata
da errori e lacune: una revisione in cui si riconosce la mano dello stu-
dioso che nei citati Coniectanea e Marginalia Aesopica ha già dato una
serie di notevoli contributi di critica testuale esopica.
Un passo indietro, al 1962, e ritroviamo traccia non solo della
Sapienza degli schiavi – che però, come vedremo, ora ha mutato titolo
in un notarile La favola esopica greca e latina – ma di altro ancora. Nel
Consiglio editoriale del 7 marzo Cesare Cases, anche lui consulente
einaudiano, «a nome di Muscetta propone due lavori di La Penna: un
saggio su Orazio e uno su Esopo, e inoltre un’edizione di Esopo. Il
Consiglio è in linea di massima favorevole»33. Evidentemente piccato
all’idea di essere stato scavalcato nelle sue funzioni di braccio destro
dell’editore, Bollati maschera il suo dispetto nei confronti di La Penna,
giocando la carta dell’ironia: «La tua proposta ha destato qualche sor-
presa perché già nota (per avermi tu parlato direttamente di quei lavo-
ri) e, soprattutto, perché già accettata in linea di massima. Senza gira-
re nuovamente per la via Cases-Muscetta ti comunico ancora una
volta a nome di Einaudi, e col consenso caloroso di tutti i colleghi, che
tutto quello che ci manderai sarà accolto con tutti gli onori»34. Ferma,
non meno che rispettosa, la replica di La Penna in data 17 marzo:

Caro Bollati,
non è che io abbia scelto deliberatamente la via Muscetta-Cases: gli è che,
avendo negli ultimi tempi visto più volte il Muscetta (mio conterraneo ed
amico) a Firenze, gli ho chiesto consiglio e fatto delle proposte. Non dubita-
vo minimamente del tuo appoggio e ti ringrazio del consenso caloroso, che
spero di non raggelare collo scarso interesse dei miei prodotti. Poiché non so
se Cases ti abbia trasmesso i tre progetti dettagliati, te ne mando una copia.

32
  Fedro, Favole, versione di Agostino Richelmy, Einaudi, Torino 1968, p. 319.
33
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 558. Il riferimento al «saggio su Esopo» va ovviamen-
te inteso nel senso di «saggio sulla favola esopica», come risulta da un successivo interven-
to di Franco Venturi al Consiglio del 28 marzo e da una lettera di Bollati a La Penna in
data 17 aprile (cit. infra, p. 29).
34
  AE, fasc. La Penna, f. 26 (lettera del 9 marzo 1962).

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24 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

[…] Se lo credi opportuno, fa’ pure stipulare i contratti. Ritengo superfluo


discutere sulle condizioni: non mi sono mai interessato di tali problemi.
Un affettuoso ringraziamento e saluto dal tuo35

Come annunciato, alla lettera è allegata copia dei tre progetti, la cui
mancata trasmissione a lui in via prioritaria ha indispettito Bollati:

Primo progetto: Orazio e l’ideologia del principato


i. La lirica civile e l’ideologia del principato.
ii. Orazio, Augusto e la questione del teatro latino.
iii. Τίς ἄριστος βίος; Interpretazione della prima ode.
Forse un altro capitolo. Il volume, indici compresi, dovrebbe aggirarsi intor-
no alle 150-200 pagine.
Purtroppo si tratta di saggi già comparsi in riviste specializzate, che dovrei
ritoccare. Mi sono impegnato (e pare che il progetto sia in via di realizzazio-
ne) a pubblicare il volumetto in traduzione tedesca in una collana dell’Acca-
demia di Berlino est36. Il progetto è un po’ vago e non so se la traduzione (di
cui dovrebbe occuparsi coi suoi scolari un certo Piacentini, lettore d’italiano
all’Università Humboldt) sarà soddisfacente. Comunque il funzionario
dell’Accademia che mi ha chiesto la pubblicazione in tedesco, mi assicura che
non v’è nessun ostacolo ad una contemporanea edizione italiana. S’intende
che occorrerebbero trattative ufficiali. Io adotterei alternis annis il libro per i
miei studenti.

Secondo progetto: La favola esopica greca e latina


i. La morale esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità.
ii. Le origini della favola esopica.
iii. La favola esopica nella cultura ionica e attica.
iv. Il romanzo di Esopo.
v. La favola esopica fra diatriba e retorica.
vi. La favola latina prima di Fedro.
vii. Fedro.
viii. Babrio.
ix. La favola nella tarda cultura latina.
x. La favola nella tarda cultura greca.
Appendici su questioni singole e sulla favola latina medievale e umanistica.
Indici, di cui uno delle favole antiche con relative fonti e bibliografia.

35
  AE, fasc. La Penna, f. 27.
36
  In realtà, mai pubblicato.

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La via esopica di Antonio La Penna 25

Il primo capitolo (introduttivo) è uscito in «Società» 1961; il quarto dovrebbe


uscire in una rivista specializzata, il quinto in «Belfagor»37; tutto il resto sarà
inedito. Il volume dovrebbe arrivare a 600 pagine circa e forse più.

Terzo progetto
Una traduzione, con breve introduzione, del romanzo di Esopo e delle rac-
colte antiche di favole esopiche, ordinate in modo da evitare, il più possibile,
i doppioni di singole favole. Penso ad una traduzione senza testo, perché l’e-
dizione dei testi greci e latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non
è richiesta dallo stato attuale degli studi.
Accompagnata da riproduzioni di miniature, la traduzione potrebbe essere
pubblicata in edizione di lusso.
Questo progetto non attira molto me personalmente, ma per la Casa potreb-
be costituire un compenso alla pubblicazione dei due lavori scientifici.

Il primo progetto si può realizzare subito quest’anno: almeno così io spero.


Il secondo lavoro dovrebbe essere pronto tra la fine del 1963 e il principio del ’64.
Il terzo potrebbe essere pronto per la fine del 196538.

Se si prendono le mosse dalla seconda proposta, che è quella per cui


si dà un preciso termine di riferimento39, colpisce anzitutto, nel pas-
saggio dal primo al secondo indice, la dilatazione della mole prevista,
letteralmente triplicata (da «circa 200 pagine» a «600 pagine circa e
forse più») e, alla base di questo dato quantitativo, il drastico muta-
mento di tipologia editoriale, ben rilevato dal cambiamento di titolo:
da L’antica sapienza degli schiavi. Breve storia della favola greco-romana
a La favola esopica greca e latina. Come dire: un volumetto di veloce
introduzione generale e taglio saggistico-divulgativo, che si trasforma
in un ponderoso studio accademico, con tanto di «indici, di cui uno
delle favole antiche con relative fonti e bibliografia» (significativamen-
te nel primo progetto nessun riferimento a indici, ma in compenso,

37
  In realtà, mai pubblicato.
38
  AE, fasc. La Penna, ff. 28-29; ai ff. 30-31, copia dei tre progetti a suo tempo trasmessa a
Cases, sostanzialmente identica, nel contenuto, a quella inviata a Bollati. Uniche varianti:
rispetto al primo progetto, la presenza di una indicazione più precisa circa i tempi di lavo-
razione e consegna («Il libro è pronto: mi occorrono un paio di mesi per i rimaneggiamen-
ti. Conterei di stampare entro l’anno»); rispetto al secondo progetto, un’inversione nell’or-
dine di successione dei capitoli ix-x («ix. La favola nella tarda cultura greca; x. La favola
nella tarda cultura latina»).
39
 Cfr. supra, pp. 15-16.

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26 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

come capitolo xi della Parte seconda, uno «specchietto raggruppante


le favole secondo la loro morale», ben a ragione definito «repertorio
comodo»).
Quanto alla struttura dell’opera, non si colgono mutamenti sostan-
ziali di impianto: in entrambi i progetti (ma i titoli delle parti sono solo
nel primo) la sequenza dei capitoli si snoda secondo un modello orga-
nizzativo a dittico, con una prima sezione di «interpretazione e storia»
seguita da una serie di «ricerche particolari»40. Invariata resta anche, a
quanto si può giudicare dalla catena dei nudi titoli e dalle stringate indi-
cazioni di contenuto allegate nel primo progetto, sia l’interpretazione del
significato fondamentale della favola esopica «come razionalismo popo-
lare, conservatosi negli strati umili» («classi subalterne» nel secondo pro-
getto, con una presa di posizione ideologica più forte), sia la scansione
temporale e concettuale delle varie «stazioni» in cui si articola la ricostru-
zione storica. E si noti: tanto nell’indice del 1952 quanto in quello del
1962 il momento interpretativo – la ricomposizione sistematica della
Weltanschauung che emerge dalla favolistica esopica e l’enucleazione del
suo significato culturale e sociale, anche per l’oggi – precede il momento
storico, quasi a dargli una cornice di senso valoriale. Che si debba rico-
noscere in questa scelta organizzativa, un poco anomala per uno studio-
so come La Penna, sempre rigoroso nell’ancorare saldamente il giudizio
assiologico al lavoro critico di accertamento della «verità» storico-testua-
le; che si debba riconoscere in tale scelta, dicevamo, il segno di un pro-
fondo coinvolgimento personale dell’autore nell’oggetto della sua inda-
gine? Come sia, il modello non sarà replicato nella grande sintesi
Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica (1996)
con cui si chiude la ricerca di La Penna in questo campo: qui, infatti, la
sezione su La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società ri-
sulta collocata al termine del saggio, dopo il quadro storico41, e ne costi-
tuisce per così dire l’epilogo in cui l’autore deposita il succo ideologico-

40
  Il modello sarà sperimentato da La Penna anche in altri volumi, per esempio in Orazio
e l’ideologia del principato, dove il lungo saggio sulla lirica civile, cuore dell’opera, è accom-
pagnato da altri scritti e appendici su temi e questioni connesse, e in L’integrazione diffici-
le (1977), dove il Profilo di Properzio è completato da una rosa di Esplorazioni diagonali,
«brevi ricerche su problemi singoli, che nell’analisi della prima parte, condotta libro per
libro, non potevano essere messi abbastanza a fuoco» (p. vii).
41
 Cfr. infra, pp. 84-88.

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La via esopica di Antonio La Penna 27

esistenziale che a suo parere l’esperienza della tradizione esopica ha


trasmesso alla cultura europea.
Dunque, una robusta linea di continuità tra un progetto e l’altro, sia
nell’assetto organizzativo della trattazione, sia nell’interpretazione del
fenomeno «favola antica». Solo su un paio di punti specifici sembra
darsi un possibile «aggiornamento» di prospettiva e visione da parte
dello studioso, un «aggiornamento» che sarà maturato nel corso di un
decennio di silenziose ricerche preparatorie (tanto il saggio più volte
citato del 1961 su La morale della favola esopica quanto quello dell’anno
successivo su Il romanzo di Esopo presuppongono un enorme lavoro di
scavo con un sistematico esame dell’intera letteratura esopica – fonti
primarie e bibliografia critica). Primo punto: come attestato dalle ri-
cordate chiose esplicative e dal confronto con il saggio appena men-
zionato del 1961, i tre capitoli iniziali dell’indice del 1952 sono per la
massima parte conglobati nel capitolo d’apertura del nuovo progetto,
ma il titolo ora è quello del saggio del 1961, qui formulato, con varia-
zione minima, come La morale esopica come morale delle classi subalterne
nell’antichità: un titolo – quasi una dichiarazione di intenti – che, oltre
a circoscrivere con precisione il campo tematico considerato, esplicita
al futuro lettore, con sicurezza perentoria, l’orizzonte politico-cultura-
le da cui l’indagine è scaturita. Quale differenza di tono rispetto all’a-
nonima e asettica terna di titoli della proposta originale, Interpretazio-
ne della favola esopica, La nascita della favola e Il significato della favola
antica! Di segno opposto – secondo punto – i­l movimento che investe
la questione dei rapporti tra favola esopica e letteratura cristiana antica:
ben rappresentata nel progetto del 1952 con due sezioni (La rassegna-
zione della favola e la rassegnazione cristiana, pt. 1, cap. iii; La favola e
la parabola cristiana, pt. 2, cap. vii), essa, a quanto sembra, scompare
nel progetto del 1962 e non lascia tracce neppure negli scritti editi. Una
cancellazione che porta a interrogarsi, sia perché la forma «favola» ha
una notevole diffusione anche nella letteratura cristiana dei primi se-
coli e in generale il tema delle relazioni di genere con la parabola è una
presenza classica in ogni discussione di teoria letteraria, sia soprattutto
perché il motivo della rassegnazione ha un rilievo strategico nel quadro
interpretativo lapenniano della tradizione esopica e del fondo antropo-
logico che essa esprime.

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28 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Guardando ora al terzo progetto, quello che nel contratto sarà bat-
tezzato Romanzo di Esopo e favole complete, e tenendo l’occhio puntato
alla tipologia editoriale, lo si può pensare come la controparte antologi-
ca di quello saggistico appena considerato: dunque, con i problemi di
interpretazione testuale che vengono in primo piano e sopravanzano
quelli di ricostruzione storica. Aveva riferito Bollati al Consiglio del
16 novembre 1960: «La Penna, a proposito di Esopo, darebbe: il roman-
zo di Esopo, le favole, la favolistica da Fedro alla tarda latinità. Tradur-
rebbe tutto lui»42. Avverte ora cauto La Penna che, come abbiamo visto,43
proprio in questo torno di anni si occupa di critica testuale esopica e ben
conosce lo stato disperante di almeno parte della tradizione manoscritta:
«Penso ad una traduzione senza testo, perché l’edizione dei testi greci e
latini sarebbe troppo faticosa e costosa e perché non è richiesta dallo
stato attuale degli studi». Siamo nel 1962: a questa altezza, oltre che a
edizioni di singoli autori, spesso invecchiate e condotte senza sufficien-
ti preoccupazioni critiche44, La Penna poteva fare riferimento solo agli
Aesopica (1952) di Ben Edwin Perry, che presentano, insieme alla Vita
Aesopi e ad altro materiale documentario, l’intero corpus delle favole
esopiche greche e latine di tradizione antica, tardo-antica, bizantina e
medievale: «opus – sentenzia La Penna – magnae molis non sine auda-
cia inceptum, magna cum constantia et φιλοπονίᾳ perfectum», ma – in
cauda venenum – «il Perry non si è mai distinto per rigore» e «raro
Perryum in corrigendo felicem expertus sum»45. Dunque, stando così le
cose, inevitabile ripiegare su un’edizione divulgativa, con «breve intro-
duzione» e un ordinamento delle favole che permetta di «evitare, il più
possibile, i doppioni»; anzi, «un’edizione di lusso accompagnata da ri-
produzioni di miniature» (un «Millenni»?) che – soggiunge La Penna,
con curiosa sollecitudine per le sorti einaudiane –, pur non attirando

42
 Cfr. supra, p. 20.
43
 Cfr. supra, pp. 21, 23.
44
  Carenti soprattutto l’ed. Westermann della Vita Aesopi (1845), definita dallo stesso La
Penna «non egregia» (qui, p. 96 e cfr. p. 132) e l’ed. Hervieux dei favolisti medievali in
latino (18942), sui cui limiti cfr. infra, p. 338. In ogni caso invecchiata e bisognosa di re-
visione quella di Babrio curata da Crusius (1897); sarà proprio La Penna, in collabora-
zione con Maria Jagoda Luzzatto, a curare nel 1986 la nuova edizione teubneriana dei
Mythiambi.
45
 Cfr. infra, pp. 191 e 340.

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La via esopica di Antonio La Penna 29

molto lui personalmente, possa «costituire per la Casa un compenso alla


pubblicazione dei due lavori scientifici».
Possiamo chiudere qui la diversione e tornare alla cronaca. Nuova-
mente discussi nel successivo Consiglio editoriale del 28 marzo 1962 (il
referente è Franco Venturi, altro consulente einaudiano), i tre proget-
ti lapenniani questa volta sono approvati senza riserve: «Il Consi-
glio è decisamente favorevole a tutte e tre le proposte»46. Così in data
17 aprile un Bollati ora conciliante e perfino affettuoso può annunciare
a La Penna il positivo esito della vicenda:

Caro La Penna,
accettiamo con piacere i tre progetti per i quali ti proponiamo le seguenti
condizioni:
a) Orazio e l’ideologia del principato: anticipo di lire 200 000 a valere su una
percentuale dell’8%;
b) La favola esopica greca e latina: ut supra;
c) Romanzo di Esopo e favole complete: lire 1000 a cartella dattiloscritta di testo
più 400 000 lire per introduzione, eventuali note, indici, eccetera.
Dimmi se sei d’accordo, ed io ti farò mandare i contratti per la firma. […]
Sono molto lieto che si sia finalmente arrivati con te alla fase degli accordi
concreti. Fare gli editori delle opere degli amici è la cosa più piacevole del
nostro lavoro.
Cordialmente47

L’arrivo dei contratti mette però La Penna in allarme: le date di


consegna a suo tempo concordate risultano pericolosamente anticipa-
te e le nuove scadenze «fanno un po’ paura»: «Per Orazio – spiega La
Penna a Bollati – potrò essere pronto entro questa estate; ma per il
volume sulla favola esopica io avevo indicato la fine del 1963 (nel con-
tratto, invece, 30 giugno 1963), per la traduzione degli Aesopica la fine
del 1965 (invece nel contratto 30 giugno 1964!)». E anche sulla corre-
zione delle bozze non c’è da stare tranquilli: «Ritengo che per libri di
questo genere sia indispensabile affidare all’autore la revisione anche
delle seconde bozze»48. Colpi di mano che non stupiscono nessuno che

46
  I verbali del mercoledì, cit., vol. 2, p. 570.
47
  AE, fasc. La Penna, f. 32.
48
  La Penna a Bollati, 29 maggio 1962, ivi, f. 36.

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30 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

abbia una conoscenza, anche solo rapsodica, della pratica di lavoro,


ondivaga e talora «vessatoria», degli editori, sempre alle prese con i
vincoli della programmazione produttiva e commerciale, quando non
con il capestro dei loro capricci. In ogni modo, con un suo pronto in-
tervento Bollati rassicura La Penna su entrambi i fronti49 e la macchi-
na potrebbe rimettersi in moto senza sussulti e raggiungere spedita-
mente la meta prestabilita con la pubblicazione – finalmente, dopo un
tiremmolla decennale! – almeno dell’ormai mitica Sapienza degli schia-
vi o Favola esopica greca e latina, che dir si voglia. Ma così non è.
In realtà l’ansia di La Penna non era immotivata: ma forse, più che
nelle condizioni contrattuali imposte dall’editore o nei gravosi obblighi
connessi all’esercizio del mestiere universitario, la causa si annidava in
una tendenza dell’autore alla moltiplicazione e disseminazione centri-
fuga dei suoi progetti di ricerca, sempre più orientati all’esplorazione
delle aree culturali addentellate al tumultuoso processo di transizione
dall’ormai deflagrato assetto repubblicano al nuovo regime augusteo.
Questa, almeno, è la «diagnosi» che sembra suggerire una semplice
scorsa alla bibliografia dei principali lavori messi in cantiere e pubbli-
cati da La Penna nel corso degli anni Sessanta: quel che si evidenzia,
infatti, è un restringimento della ricerca esopica (ai titoli già indicati
sono da aggiungere solo la recensione a Nøjgaard e l’Introduzione a
Fedro) direttamente proporzionale alla dilatazione degli studi, da un
lato su Sallustio e in generale sulla storiografia dell’età repubblicana
(Storiografia di senatori e storiografia di letterati, 1967), dall’altro sulla
prima stagione poetica augustea, con in testa i fondamentali saggi
Orazio e l’ideologia del principato (1963), Virgilio e la crisi del mondo an-
tico (1966) e Orazio e la morale mondana europea (1968)50.
I rapporti di collaborazione di La Penna con l’Einaudi si mantengono
vivi e produttivi ancora fino ai primi anni Novanta, con libri e contributi
di peso: il saggio Properzio ovvero l’integrazione difficile premesso alle
Elegie tradotte da Gabriella Leto (1970), quindi rifuso nel volume L’inte-
grazione difficile. Un profilo di Properzio (1977); i due contributi alla

49
  Bollati a La Penna, 12 giugno 1962, ivi, f. 37.
50
  Per un elenco completo e relativi dati bibliografici si rimanda alla Bibliografia degli
scritti di Antonio La Penna 1943-1994, in A. La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi,
note, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci e Alessandro Perutelli, Sansoni, Milano
1995, pp. 350 ss.

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La via esopica di Antonio La Penna 31

Storia d’Italia (1973) su La tradizione classica nella cultura italiana e Univer-


sità e istruzione pubblica; le due raccolte Aspetti del pensiero storico latino
(1978) e Fra teatro, poesia e politica romana (1979); i tre contributi alla Storia
di Roma su La cultura letteraria (1989), La cultura letteraria nel secolo degli
Antonini (1992) e Il «lusus» poetico nella tarda antichità (1993)51. Ma, almeno
a giudicare dalla documentazione conservata nell’Archivio Einaudi, i pro-
getti esopici escono dall’orizzonte degli impegni operativi, della casa edi-
trice non meno che dell’autore. Le ultime battute, e sono fuochi fatui che
si accendono lungo l’accidentato percorso di preparazione del saggio in-
troduttivo alle Favole di Fedro, cadono nel 1967, destinatario Ponchiroli:

Fedro. Sono in ritardo […]. Ma conto di darvi l’introduzione in febbraio:


adatterò, eliminando le note e operando qualche taglio, il capitolo su Fedro
che penso di scrivere per il libro sulla favola esopica.
Libro sulla favola esopica. Finito il libro su Sallustio, lavorerò innanzi tutto alla
favola esopica: è il primo progetto che intendo realizzare. In seguito vi preparerò
la traduzione degli Aesopica, che potrà essere un’opera piacevole. [13 gennaio]
Per l’introduzione [a Fedro] userò, come ti scrissi, il capitolo su Fedro del
mio libro sulla favolistica esopica […]. Purtroppo il capitolo è ancora da
scrivere, benché ci stia lavorando da qualche tempo. Quanto al resto, sarà
meglio tener fermo agl’impegni già presi con chiarezza: libro sulla favola
esopica, traduzione degli Aesopica […] [10 marzo]
Ora lavoro innanzi tutto al volume sulla favola esopica: spero di essere pron-
to entro l’anno prossimo. [8 maggio]
In questi giorni a La Spezia ho finito di stendere il capitolo su Fedro che fa
parte dell’opera sulla favola esopica. Il capitolo, adattato, potrebbe servire
come introduzione al lavoro poetico del Richelmy. Si capisce che fra ripuli-
tura, battitura a macchina e adattamento ci vogliono ancora delle settimane.
L’ampiezza è di una cinquantina di cartelle. […] Ora lavoro parecchio alla
favola esopica. [25 settembre]
Io ora sto lavorando per voi sulle favole esopiche. [2 gennaio 1968]52

51
  E inoltre diversi altri progetti, rimasti anche loro sulla carta: un volume di Considerazio-
ni attuali su filologia e storia, forse da identificare con altri due progetti intitolati rispettiva-
mente Considerazioni sulla storia della cultura e Considerazioni sulla storia della cultura clas-
sica e della scuola seguite da due discorsi sull’umanesimo; edizioni delle poesie di Carducci e
delle opere di Cicerone, Cesare e Tacito. Cfr. AE, Inventario, a cura di Sara Anselmo
e altri, 2005, vol. 2, p. 385, ad vocem La Penna.
52
  AE, fasc. La Penna, ff. 96-97, 102, 106, 108, 116.

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32 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Si legge nel testo a stampa dell’introduzione a Fedro che, come


abbiamo ricordato, vede la luce il 18 maggio 1968 ma è stata consegna-
ta all’editore a fine novembre dell’anno precedente53: «Per questo pro-
blema [la tradizione esopica nell’età ellenistica], complicato e di solu-
zione incerta, rimando ad un libro sulla favola greca e latina che sto
preparando per l’editore Einaudi»54. Dopo quest’ultimo fugace cenno,
silenzio tombale tanto sulla Sapienza degli schiavi, di cui dunque pos-
siamo leggere oggi solo il torso del capitolo su Fedro, quanto sul
Romanzo di Esopo e favole complete, che nessuna traccia tangibile ha
lasciato di sé. Nell’immediato, a scompigliare i piani (e le promesse)
dello studioso è la proposta einaudiana, comunicata dal solito Ponchi-
roli in data 17 maggio 1968, di scrivere la citata prefazione alle Elegie di
Properzio55. Ma, più in generale, si può immaginare che lo spostamen-
to degli interessi di La Penna, a partire dagli anni Settanta sempre più
marcato, verso l’esplorazione del problema dei rapporti tra cultura,
modelli etici e prassi politico-sociale in Roma tra II-I secolo a. C. e
I-II d. C., abbia finito per scalzare ed emarginare i vecchi progetti.
Con le parole stesse dell’autore, dettate per la prefazione alla raccolta
Aspetti del pensiero storico latino e riassuntive degli scopi critici di un’in-
tera stagione di indagini: «La ricerca dei modi in cui la classe domi-
nante romana, o questo o quel gruppo politico di essa, elabora la sua
egemonia culturale, è tema dominante di questi scritti»56.
A parte un occasionale ritorno con la pubblicazione nel 1977 delle
brevi voci Esopo e Favola nell’Enciclopedia europea Garzanti57, per
avere una concreta ripresa da parte di La Penna della tematica eso-
pica58 occorrerà attendere la prima metà degli anni Novanta, quando
vedranno la luce, oltre al contributo Un’altra favola esopica di origine
babilonese (1991)59, due saggi di sintesi che ci danno almeno un’idea

53
 Cfr. supra, p. 22.
54
  Fedro, Favole, cit., p. xxvi, nota 1. Il riferimento è stato tagliato nella versione del testo
qui ristampata (cfr. infra, p. 199, nota 19).
55
  AE, fasc. La Penna, f. 129.
56
  La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi.
57
  Qui, pp. 352-354.
58
  Ripresa saggistica, naturalmente: nel 1986, infatti, aveva visto la luce l’importante e già
ricordata edizione teubneriana di Babrio, realizzata in collaborazione con Maria Jagoda
Luzzatto e corredata di amplissimi prolegomeni. Cfr. supra, p. 28, nota 44.
59
  Qui aggregato al vecchio articolo Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (1964),
cfr. infra, pp. 128-131.

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La via esopica di Antonio La Penna 33

del profilo che avrebbe potuto assumere la promessa storia della


Sapienza degli schiavi: Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia
verso occidente (1994), relazione tenuta nel 1992 al Congresso interna-
zionale AICC di St. Vincent, e Origine, sviluppo e funzione della fa-
vola esopica nella cultura antica (1996), ampia introduzione all’edizio-
ne mondadoriana delle Favole di Esopo, curata da Cecilia Benedetti
(1996). Si legge in apertura a Vie: «Per questo mio intervento ho
utilizzato studi già da me pubblicati, ma anche i risultati di ricerche
successive condotte in vista di un progetto, non ancora realizzato, di
una storia della favola esopica nell’antichità greca e latina»60. È l’ul-
timo accenno rintracciato all’antico progetto: vorrebbe essere, con
quel «non ancora», di fiducioso rinvio a tempi migliori, ma è l’an-
nuncio dell’abbandono definitivo.

2. La «morale della favola esopica», tra Gramsci e Marchesi

Quando, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, La


Penna avvia il suo programma di ricerche sulla tradizione della favo-
la esopica, ha sì e no venticinque anni ma è già uno «studioso matu-
ro da ogni punto di vista»61, che può mettere in campo un formi-
dabile bagaglio di strumenti tecnici acquisiti nel corso del suo ap-
prendistato storico-filologico, anzitutto con Giorgio Pasquali alla
Normale di Pisa e poi a Parigi, all’École pratique des hautes études,
con Alfred Ernout, Alphonse Dain e Pierre Courcelle. La spinta
decisiva a orientare l’indagine nella direzione prescelta non sembra
però, almeno in via prioritaria, di tipo accademico-culturale ma po-
litico-ideologico: essa proviene infatti da quello che potremmo chia-
mare il «meridionalismo irpino» di La Penna, radice prima, e vitale,
della sua interpretazione del mondo esopico e del particolare genere
letterario che lo rispecchia.
Nato in una piccola comunità rurale in Alta Irpinia, un grappolo
«di povere case, prive di servizi igienici e di qualsiasi forma di comfort»
dove, se «quasi nessuno pativa la fame», «si viveva a contatto stretto

  Qui, p. 90.
60

  Così, pochi anni più tardi, lo definirà Delio Cantimori in una lettera a Giulio Einaudi
61

del 17 luglio 1955. Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 808.

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34 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

con gli animali», e cresciuto in una famiglia di agricoltori proprietari


della terra che lavoravano – madre analfabeta e padre che, pur lettore
appassionato dei classici europei, non aveva neppure terminato le ele-
mentari –, il giovane La Penna si trova a confrontarsi con la realtà di
«condizioni di vita […] del tutto inimmaginabili ai nostri giorni»62. È
un’esperienza cruciale che segna i suoi anni di formazione e dà fonda-
mento e slancio a un suo «mito», tutto laico, di redenzione terrena:
restituzione alle masse dei diseredati e dei vinti della dignità di sogget-
ti storici titolari di diritti e artefici del proprio destino; rifiuto delle vie
religiose di salvezza oltremondana, in nome di una ragione critica ben
radicata nel terreno della realtà effettuale. Sono, come vedremo, i due
pilastri portanti che sorreggono l’edificio dell’interpretazione lapen-
niana della favola esopica e della sua morale. Il precoce incontro con il
marxismo63 e la conseguente adesione al Pci, già nella prima metà degli
anni Quaranta, forniranno la struttura teorica e organizzativa per tra-
sformare un insieme di generiche aspirazioni di giustizia sociale in un
concreto programma di lotta politica. Ricorda La Penna: «Io aderii
appena potei al Partito comunista, perché mi sembrava indispensabile
trovare un punto di riferimento solido per svolgere un’azione signifi-
cativa sul piano politico e, soprattutto, sociale. Ho sempre avvertito
l’urgenza di misure radicali a sostegno della condizione dei lavoratori,
in particolare di quella dei contadini, che conoscevo per esperienza
diretta»64.
L’osservazione finale ha un rilievo strategico nel quadro del nostro
discorso: una volta di più, infatti, i momenti della riflessione politico-
ideologica e dell’attivo impegno sociale risultano connessi al fondo
originario di esperienza autobiografica che ha alimentato il «mito»
identitario e vocazionale di cui s’è detto, secondo un movimento cir-
colare che include anche, come terzo momento, il lavoro critico di
interpretazione delle produzioni letterarie. La Penna dimostra sempre
una eccezionale e quasi istintiva capacità di introspezione, impastata
insieme di empatia e distacco, nelle rappresentazioni del mondo con-

62
 Cfr. La Penna, Io e l’antico, cit. pp. 19-20 e 83.
63
  Un incontro, però, intriso fin dall’inizio di diffidenza per il marxismo come ideologia e
filosofia della storia, cfr. ivi, p. 34.
64
  Ivi, pp. 23-24 e cfr. pp. 25, 32-34.

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La via esopica di Antonio La Penna 35

tadino antico che si trovano in alcuni testimoni privilegiati, da Esiodo


ai favolisti esopici fino all’anonimo autore del Romanzo di Esopo:

Senza dubbio nella letteratura greca il mondo più vicino a quello esopico
resta quello contadinesco di Esiodo, con la sua preoccupazione del guadagno,
la sua aridità, la sua angustia: solo che al mondo esopico è estranea la vera e
propria problematica della Dike, la sussunzione e la disciplina dell’utile sotto
il segno della Giustizia divina, che fa di Esiodo la base del pensiero greco. La
gioia della bellezza o l’aspirazione alla bellezza sono estinte sul nascere dal
senso dell’utile65.
L’uomo di campagna, come già sappiamo da Esiodo, è tutto chiuso nella sua
economia domestica, tutto preso dalla preoccupazione di crearsi un minimo di
stabilità economica, di alzare un muro contro la miseria sempre incombente.
Su questo terreno non poteva nascere una solidarietà fra gli oppressi: questo
sentimento manca del tutto nella Vita [Aesopi] e quasi del tutto nelle favole:
esso meglio poteva nascere e fiorire, anche se con ben poche conseguenze pra-
tiche per l’ordinamento sociale, nel terreno religioso66.

Quando poi si sale di scala e si guarda all’interpretazione lapennia-


na della favola esopica come fenomeno storico-culturale complessivo,
vi si riconosce, operante sottotraccia, una dialettica tra un momento
analitico-descrittivo e uno ideologico-valutativo, a loro volta correlati
alle due componenti fondamentali della formazione umana e intellet-
tuale dello studioso, la matrice biografica irpina, che per prima ha
acuito il suo sguardo empatico sulla miseria delle plebi della sua terra,
e la «conversione» al marxismo, con l’esigenza di una militanza attiva
in vista della costruzione di una società più giusta e più libera. Sul
primo fronte, semplificando a buon mercato, le spinte in gioco all’in-
terno della Weltanschauung esopica sono, nella prospettiva di La Pen-
na: da un lato, un sia pure elementare razionalismo empirico-materia-
listico che rende possibile un’analisi demistificante dei rapporti sociali,
e la rinuncia alle illusioni salvifiche e provvidenzialistiche di tipo reli-
gioso; dall’altro, uno scetticismo rassegnato che sbarra la strada a qua-
lunque speranza di mutamento delle strutture della società e delle con-
dizioni di vita delle classi subalterne. Dal secondo fronte, quello

  La morale della favola esopica, qui, p. 291.


65

  Il romanzo di Esopo, qui, p. 175.


66

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ideologico-valutativo, proviene però la controspinta che permette di


ridurre il fossato, in apparenza incolmabile, tra le due opposte istanze
del razionalismo e della rassegnazione, ed è la forza del socialismo
scientifico che, grazie a un’indagine appunto scientifica delle leggi del-
la storia e della società, offre lo strumento con cui scardinare l’assetto
sociale esistente e riportare le masse al centro della scena.
Ancora in anni recenti, quando ha dismesso ormai da tempo i pan-
ni del militante per rifugiarsi in quelli dell’«intellettuale disorganico»,
e la ferocia neocapitalista, allargando la forbice delle disuguaglianze,
ha accresciuto il suo pessimismo, La Penna è però restato fedele alle
ragioni del suo «mito» originario e con esse alla sua interpretazione
della favola esopica che in quel «mito» aveva avuto il suo nucleo gene-
ratore. Si legge in un’appendice alla ristampa 2009 dello studio Le vie
della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente (1994) che, insieme
a Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica,
posteriore di due anni, conclude la parabola della sua ricerca in questo
ambito:

Quasi mezzo secolo fa, nel saggio La morale della favola esopica come morale
delle classi subalterne nell’antichità [1961], interpretai la favola esopica antica,
greca e latina, come un’analisi della società e delle forze che la dominano:
violenza, astuzia, frode, accortezza e prudenza del più debole per difendersi
dalla violenza e dall’astuzia e sopravvivere. Il debole, cioè il povero, per lo più
viene sconfitto, oppresso o schiacciato; può riuscire, tuttavia, a sottrarsi alla
violenza e all’inganno: ciò che è impossibile è mutare le regole in cui sono
costretti i rapporti sociali, regole che sono come leggi di natura; quindi l’anali-
si razionale dei rapporti sociali portava a una lucida rassegnazione. La filosofia
della favola esopica antica era un materialismo rudimentale, che riteneva im-
mutabile l’ingiustizia della società. Auspicavo, allora, che il socialismo non uto-
pistico moderno, riprendendo e approfondendo quella concezione materiali-
stica, superasse la rassegnazione e liberasse i ceti subalterni dall’ingiustizia,
dall’oppressione, dalla mistificazione. La storia, per ragioni sulle quali qui non
mi propongo di indagare, ha bloccato e cerca di strozzare quella speranza, che,
tuttavia, non è ancora distrutta; ma la mia interpretazione della favola esopica
antica non ha subito cambiamenti rilevanti e resta sostanzialmente immutata67.

67
  Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358. Cfr. anche La morale della favola
esopica, § 14, Favola esopica e socialismo scientifico (qui, pp. 330-332); Attualità della morale
esopica, qui, pp. 355-356.

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La via esopica di Antonio La Penna 37

Qui il cerchio si chiude: grazie alla convergenza tra l’esperienza


personale dello studioso, le sue opzioni metodologiche e le sue convin-
zioni politico-ideologiche, l’analisi storico-critica delle produzioni let-
terarie, nel nostro caso esopiche, può riportare in vita le voci del pas-
sato perché svelino la verità su di esso e insieme parlino al nostro
presente.

Come si è detto, alcuni degli studi qui riprodotti hanno la loro


gestazione negli anni Cinquanta ed escono all’inizio dei Sessanta: è
dunque almeno un decennio che La Penna studia la favola esopica e la
sintesi a cui arriva in La morale della favola esopica come morale delle
classi subalterne nell’antichità, che è il primo dei suoi saggi esopici e
l’ultimo di questo volume, rimarrà sempre un punto di riferimento
nella sua ricerca in questo campo. Nonostante non sia finora mai stato
ristampato, si tratta di uno degli scritti più fortunati di La Penna, dal
momento che la sua interpretazione del genere è ancora oggi conside-
rata generalmente valida, almeno in Italia, e fornisce le coordinate
fondamentali per la storia e l’evoluzione di uno dei rarissimi esempi di
«letteratura popolare» che l’antichità ci ha trasmesso68.
Osservando la produzione di La Penna dal precocissimo esordio
fino all’inizio degli anni Sessanta si può notare da un lato l’attenzione
ai grandi autori (Properzio, Cesare, Orazio, Catullo, Sallustio), dall’al-
tro il lungo tirocinio filologico di impronta pasqualiana che, come si è
visto, lo portò all’edizione critica dell’Ibis (1957) e dei relativi scoli
(1959). In questo stesso periodo, tuttavia, il giovane studioso dedicò
una parte delle sue letture e delle sue meditazioni alla favola esopica,
che gli offriva un campo privilegiato per l’analisi dello sguardo sul
mondo di classi sociali che non trovano facilmente gli strumenti per
far sentire la loro voce. Le ragioni di questo interesse sono spiegate da
La Penna stesso nel profilo autobiografico scritto in terza persona in
occasione del conferimento del Premio Feltrinelli nel 198769:

Dal marxismo è venuto anche lo stimolo alla reinterpretazione della favola


esopica, vista specialmente come espressione di un rudimentale materialismo
delle classi subalterne, materialismo non rivoluzionario, accompagnato anzi

  Su questo cfr. infra, pp. 41-42.


68

  Lo si può ora leggere in La Penna, Io e l’antico, cit., pp. 90-91.


69

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da sostanziale rassegnazione alla violenza della società. Lo studio della favo-


la esopica ha portato il critico, senza nessuna influenza da parte della storio-
grafia francese contemporanea, a valorizzare tradizioni di mentalità collettiva
e di forme letterarie che si stendono per oltre un millennio.

Può sembrare stonata, o eccessivamente ruvida, l’affermazione sul-


la storiografia francese contemporanea – che dovrebbe essere ovvia-
mente quella delle «Annales» –, ma io credo che si tratti soprattutto
della rivendicazione di un percorso autonomo sviluppatosi nel solco
del pensiero marxista e approdato alla definizione di una «filosofia
popolare» che ha prodotto forme letterarie di lunga durata. Ma partia-
mo dal principio.
Come è consueto nel La Penna, il saggio chiarisce subito il proprio
intento dimostrativo. Molti dei suoi scritti più impegnati esplicitano
nel titolo il loro obiettivo attraverso l’accostamento al nome di un au-
tore di una parola chiave, talvolta connotata, che condensa il tema
della trattazione; in questo caso La Penna dichiara non solo la sua tesi
fondamentale, ma anche le istanze primarie che lo hanno mosso e i
presupposti da cui è partito: non è difficile riconoscere infatti l’allusio-
ne a una figura centrale nel suo percorso intellettuale come Antonio
Gramsci70 e, in misura minore e in modo diverso, a Concetto Marche-

70
  Il pensiero di Gramsci, come è ben noto, ha rappresentato per La Penna un interesse e
un punto di riferimento costanti a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta; ancor
prima dell’uscita dell’edizione Einaudi delle Opere, a cura di Felice Platone e Palmiro
Togliatti (Lettere dal carcere, 1947; Quaderni del carcere, 6 voll., 1948-1951), già nel saggio
I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo (1946-1947, cit. supra, p. 21, nota 20),
La Penna mostra di conoscere il contenuto di alcune analisi gramsciane (si veda in partico-
lare a pp. 98 ss.) su Croce e la cultura borghese italiana: «La lettura e la meditazione di Marx
doveva portare il chiarimento definitivo anche su quella crisi della cultura che noi avvertiva-
mo da lungo tempo e di cui tanto si è discusso recentemente. Gramsci ha messo a fuoco la
cultura crociana come la cultura della borghesia italiana, cultura con prodigiose facoltà di
assimilare e digerire e accomodare nei suoi schemi e smussare tutte le correnti culturali
dell’Ottocento e talvolta del Novecento: la cultura della vecchia borghesia italiana pacifica e
ben educata». Altri cenni nettamente gramsciani sono alle pp. 100-101, ma da p. 107 si capisce
che la conoscenza è ancora solo indiretta (cfr. anche quanto osserva Marcone, Dopo il fasci-
smo, cit., p. 31 e nota 48). Qualcosa tuttavia già allora si sapeva: come ricorda Valentino
Gerratana nella Prefazione all’edizione critica Einaudi dei Quaderni (1975, vol. 1, p. xxxii,
note 1 e 3), una prima descrizione sommaria dei materiali era apparsa in un articolo (non
firmato, ma scritto probabilmente da Togliatti) uscito su «l’Unità» nel 1944, mentre la pri-
ma descrizione analitica si trova nell’intervento di Felice Platone, L’eredità letteraria di
Gramsci. Relazione sui Quaderni del carcere, «Rinascita», a. 2, 1946, n. 4 (a p. 21), pp. 81-90.

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La via esopica di Antonio La Penna 39

si, studioso da lui ammirato, di cui sembra evocare qui il saggio La


morale della favola71, anche se, come vedremo, si tratta di una sugge-
stione esteriore, il punto di partenza di un tragitto destinato ad appro-
dare a nuovi lidi72.
La morale della favola esopica è infatti un saggio fondamentalmente
e dichiaratamente gramsciano giacché con «classi subalterne» – è qua-
si superfluo notarlo – La Penna non indica un vago perimetro sociale,
ma allude a una categoria fondamentale a cui l’autore dei Quaderni del
carcere fa ricorso più volte, intitolando addirittura il 25° Ai margini del-
la storia (Storia dei gruppi sociali subalterni). Nel saggio La Penna fa
riferimento diretto a Gramsci una sola volta, anche se per un concetto
centrale come quello di «letteratura popolare»73, ma il suo titolo ha il
valore di un’insegna, un vero e proprio squillo di tromba per il lettore
di «Società» di quegli anni74.

Inoltre, è più che possibile una diffusione dei contenuti, se non la circolazione degli scritti
prima della loro pubblicazione, all’interno del gruppo dirigente del Pci, di cui faceva parte
Muscetta, legato a La Penna, come abbiamo visto, da uno stretto vincolo di amicizia.
Sull’importanza della lettura di Gramsci si veda anche quanto La Penna scrive nella Prefa-
zione ad Aspetti del pensiero storico latino, cit., p. xi e in Luigi Capogrossi, Andrea Giardina e
Aldo Schiavone (a cura di), Analisi marxista e società antiche, Editori Riuniti – Istituto
Gramsci, Roma 1978, p. 195. Ancora di recente, a più di settant’anni di distanza dal suo primo
contatto con il pensatore sardo, a proposito della validità teoretica del marxismo, La Penna
osserva: «È immaginabile che ci possa essere, anche abbastanza presto, una rivalutazione
delle componenti meno caduche della teoria marxiana della storia. Sotto questo aspetto
credo che una rilettura del pensiero di Gramsci possa essere importante. L’attualità della
lezione di Gramsci mi sembra innegabile» (Io e l’antico, cit., p. 35).
71
  C. Marchesi, La morale della favola, in Id., Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946,
pp. 225-234; il pezzo era uscito in «Mercurio», vol. 2, 1945, nn. 7-8, pp. 91-97 e ancora prima
in «Settegiorni», 9 maggio 1942.
72
  Sullo scritto si veda il giudizio di La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come
scoperta dell’uomo, con un saggio su Tommaso Fiore, La Nuova Italia, Firenze 1980,
pp. 47-48 (qui, pp. 356-358).
73
 Cfr. infra, pp. 41-42.
74
  All’uso dell’aggettivo subalterno e alle diverse sfumature di significato che le espressioni
classi e ceti subalterni assumono negli scritti di Gramsci ha dedicato attenzione Guido
Liguori, Tre accezioni di «subalterno» in Gramsci, «Critica marxista», n. 6, 2011, pp. 33-41;
«Classi subalterne» marginali e «classi subalterne» fondamentali in Gramsci, «Critica marxi-
sta», n. 4, 2015, pp. 41-48; Subalterno e subalterni nei «Quaderni del carcere», «International
Gramsci Journal», vol. 2, 2016, n. 1, pp. 89-125 (http://ro.uow.edu.au/gramsci/vol2/iss1/24):
agli studi di Liguori rimando anche per l’immensa bibliografia sul tema; cfr. inoltre
Gianni Francioni e Fabio Frosini, Quaderno 25 (1934- 1935). Nota introduttiva, in Qua-
derni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, a cura di G. F., Istituto dell’Enciclope-
dia Italiana, Roma – L’Unione Sarda, Cagliari 2009, vol. 18, pp. 203-211.

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40 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Ben al di là, ovviamente, del titolo, il saggio è gramsciano perché


cerca di ricostruire, in un corpus di testi di origine sicuramente po-
polare e nei quali la figura dell’autore è del tutto evanescente, un
pensiero, una morale (intesa come disciplina e pratica di vita), che sia
espressione del mondo che lo ha prodotto. Così facendo La Penna
rispondeva a quella che Gramsci, nelle Osservazioni sul folclore, avver-
tiva come un’urgenza metodologica75; movendo infatti da una recen-
sione di Raffaele Ciampini ai Problemi fondamentali del folklore di Gio-
vanni Crocioni (Bologna 1928), osservava:

Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come
elemento pittoresco […]. Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione
del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati
(determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione
(anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del
mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storica-
mente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo
stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico).
Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popo-
lo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di socie-
tà finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, siste-
matiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur
contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso,
e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno
grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di
frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedu-
te nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trova-
no i superstiti documenti mutili e contaminati76.

75
  Su questo tema, come su tutto ciò che riguarda Gramsci, la bibliografia è nutritissima;
si veda comunque Giovanni Battista Bronzini, Come nacquero le Osservazioni sul fol-
clore di Gramsci, «Lares», vol. 68, 2002, pp. 195-224; Silvia Pieroni, Antonio Gramsci e il
folclore. I contributi gramsciani allo sviluppo dell’antropologia italiana attraverso «Lettere» e
«Quaderni», «Antrocom», vol. 1, 2005, n. 2, pp. 185-190; Neil Novello, Il sentimento del
folclore. La cultura subalterna nei «Quaderni del carcere», «Rivista di studi italiani», vol. 34,
2016, pp. 133-143.
76
  Quaderno 27 (xi), § (1), pp. 2311-2312 (ed. Gerratana, da cui si cita); una prima e ridotta
versione risale alla fine degli anni Venti ed è nel Quaderno 1 (xvi), § 89, pp. 89-90. Tutti
i riferimenti bibliografici si trovano nell’apparato critico di Gerratana, in Gramsci,
Quaderni, cit., vol. 4, p. 3027.

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La via esopica di Antonio La Penna 41

In questa celeberrima pagina, in cui il grande pensatore indica la


necessità di usare un metodo d’indagine che dia al folclore l’inquadra-
mento storico in categorie che aveva acquisito nei suoi studi di lingui-
stica, troviamo delimitati gli ambiti nei quali anche La Penna incardi-
nerà la sua analisi: un’analisi mirata da un lato a individuare nella
favola una forma di letteratura popolare, forse l’unica utilizzabile fra
quelle che l’antichità ci ha trasmesso77, dall’altro a delimitarne, insieme

77
  Sulla peculiarità della favola esopica e sui limiti entro i quali la si può definire popolare
si sofferma La Penna all’inizio del saggio e in vari passaggi successivi (cap. 7, pp. 262-263,
277). Nelle sue parole si avverte l’eco lontana del dibattito sul mito romantico della lette-
ratura popolare come creazione collettiva a cui anche Pasquali si era mostrato fortemente
ostile in varie osservazioni sparse nei suoi scritti. Il suo antiromanticismo, che si era for-
mato soprattutto a partire dalla questione del primitivismo omerico, era ampiamente con-
diviso alla fine degli anni Venti sia in Italia che in Germania, ma aveva la propria radi-
ce nello storicismo tedesco di primo Novecento piuttosto che in Croce (Sebastiano
Timpanaro, Giorgio Pasquali, «Belfagor», vol. 28, 1973, pp. 195-196 e nota 20 = Storicismo di
Pasquali, in Per Giorgio Pasquali. Studi e testimonianze, a cura di Lanfranco Caretti, Nistri-
Lischi, Pisa 1972, pp. 137-138; il passo è già nel profilo Giorgio Pasquali, in I critici. Storia
monografica della filologia e della critica moderna in Italia, diretta da Gianni Grana, vol. 3,
Marzorati, Milano 1970, pp. 1821-1822). Su queste prese di posizione piuttosto radicali di
Pasquali, La Penna aveva espresso notevoli riserve già all’inizio degli anni Cinquanta: «Io
temo che, come tante volte nel nostro secolo, la scoperta di una verità ne abbia annebbia-
ta un’altra. È vero che la poesia è sempre individuale e non collettiva; ma innanzitutto i
rapporti dell’individuo con la massa variano da civiltà a civiltà e da epoca a epoca; in se-
condo luogo l’élite colta, se trasmette la sua cultura ai ceti più bassi, ne assorbe a sua volta
elementi culturali. […] Le relazioni culturali fra élite colta e ceti inferiori non vanno viste
solo come una cascata dall’alto in basso, ma piuttosto come un circolo» (Lo scrittore stra-
vagante, «Atene e Roma», vol. 2, 1952, p. 229; poi in Per Giorgio Pasquali, cit., pp. 77-78). Se
queste riserve riguardano la poesia, pochi dubbi potevano sussistere sull’essenza popolare
di un genere umile e antichissimo come la favola e in questo la distanza dal maestro è
notevole, dal momento che in qualche occasione la concezione antiromantica di Pasquali
aveva investito anche forme d’arte più umili: si vedano in particolare il ritratto di Dome-
nico Comparetti, «Aegyptus», vol. 8, 1927, nn. 1-2, pp. 117-136, poi in Pagine stravaganti di un
filologo, Carabba, Lanciano 1933, pp. 3-42 (= Pagine stravaganti di un filologo, a cura di Car-
lo Ferdinando Russo, Le Lettere, Firenze 1994, vol. 1, pp. 3-25, in particolare pp. 15-16) e
Congresso e crisi del folklore, «Pegaso», vol. 1, giugno 1929, pp. 750-753, poi in Pagine meno
stravaganti, Sansoni, Firenze 1935, pp. 49-56 (= Pagine stravaganti di un filologo, cit., vol. 1,
pp. 276-280). Sui limiti dell’interpretazione «romantica» di Comparetti e sulla prospettiva
neo-idealistica di Pasquali si vedano anche le osservazioni di Timpanaro, assai vicine a
quelle espresse da La Penna, nel ritratto di Domenico Comparetti, in I critici, cit., vol. 1, 1969,
pp. 496-499 (saggio ristampato in S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca,
Nistri-Lischi, Pisa 1980, cap. 9, pp. 349-370); in particolare, a p. 499 si legge: «L’imposta-
zione generale dei rapporti tra popolare e letterario è nel Pasquali, direi, meno soddisfa-
cente che nel Comparetti. Su questo punto […] Pasquali era troppo influenzato dal neo-
idealismo e troppo tendente, quindi, a riconoscere soltanto un processo a senso unico, di

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42 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

all’arco cronologico, i presupposti filosofici (sia pure di filosofia popola-


re) legati al momento in cui si diffonde in Grecia e, soprattutto, il con-
testo sociale nel quale pare svilupparsi la morale che guida il comporta-
mento del debole, inerme di fronte alla prepotenza del più forte. Dalla
ricognizione dei testi si ricavano tendenze di lunga durata nel genere
della favola, che rivelano la visione del mondo di una categoria di sog-
getti sociali che solitamente non ha voce. La Penna dà così una risposta
organica in campo letterario alla domanda che Gramsci riprendeva da
Ciampini: «“E che vuol dire una morale popolare? Come studiarla scien-
tificamente?”», e a cui aveva a sua volta tentato di rispondere:

Così è vero che esiste una «morale del popolo», intesa come un insieme de-
terminato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di
costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente le-
gata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli impe-
rativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della «mo-
rale» ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli
fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e
reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e pro-
gressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in pro-
cesso di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla
morale degli strati dirigenti78.

Come si diceva, La Penna non lascia nel vago la dimensione popo-


lare del genere, ma arriva a identificare nella classe schiavile l’ambito
di riferimento e di sviluppo della favolistica greca. Questa è forse la sua
scommessa più ardita, una scommessa che egli fonda su elementi soli-
di come la condizione servile dei due autori principali, Esopo e Fedro,
e in cui, pur nella consapevolezza dell’aleatorietà di molte notizie an-
tiche, mette la ricostruzione biografica al servizio della comprensione
dell’opera79. Il tema della schiavitù era stato toccato solo tangenzial-

discesa di invenzioni dotte in seno al popolo, e a negare l’altro processo, di utilizzazione di


motivi popolari da parte dei poeti colti».
78
  Quaderno 27 (xi), § (1), p. 2311.
79
  La Penna rivendicherà la sua attenzione per la biografia nel citato profilo autobiografi-
co del 1987: «Negli stessi anni Cinquanta si fece sempre più viva l’esigenza di scavare
nell’opera letteraria, oltre le tradizioni culturali (tematiche, compositive, stilistiche), l’espe-
rienza viva dello scrittore nel suo tempo. Sempre lontano da ogni tentazione di usare l’o-
pera come documento biografico, egli ha ritenuto e ritiene la ricostruzione biografica

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La via esopica di Antonio La Penna 43

mente da Gramsci nell’ambito della storia dei «gruppi subalterni»80,


ma era ovviamente fondamentale nella riflessione marxiana e marxi-
sta sulla società antica ed è naturale che La Penna nell’analisi tenga
ben presente questo dibattito, soprattutto a proposito di quella ten-
denza alla rassegnazione nutrita di pessimismo e per nulla incline alla
ribellione che attraversa questi testi: «A giudicare dalla favola antica
si potrebbe ben accettare la definizione marxiana del proletariato an-
tico come piedistallo immobile della società, sul quale si muove la
lotta di classe. Ma la favola esopica non esprime certo tutta l’anima
del proletariato antico né in tutti i suoi momenti storici»81. La de-
finizione è tratta dalla prefazione alla seconda edizione (1869) del
18 brumaio di Luigi Bonaparte, dove si legge: «Specialmente nell’an-
tica Roma, la lotta di classe si svolgeva soltanto all’interno di una
minoranza privilegiata, tra i ricchi e i poveri che erano liberi cittadi-
ni, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi,
costituiva soltanto il piedistallo passivo dei combattenti»82. In realtà
il riferimento serve a La Penna non solo per precisare l’affermazione
di Marx, ma anche come mossa retorica per non assolutizzare, sul
piano storico, l’atteggiamento morale esopico, giacché la vicenda
delle classi subalterne nell’antichità non fu sempre e solo improntata
a una sottomessa rassegnazione:

Giusta e utile contro chi ammoderna la storia antica, contro chi assimila le
lotte di classe nell’antichità alla lotta del proletariato industriale moderno
contro la borghesia, la riflessione di Marx minaccia di rendere incomprensi-
bile non poca parte della storia antica (del resto essa è implicitamente supe-
rata dalla storiografia sovietica su Roma antica, che anzi sopravvaluta il peso

utile per capire il testo e non nutre per la biografia il disprezzo oggi di moda» (Io e l’an-
tico, cit., p. 89). Sul rapporto fra biografia e letteratura si vedano anche le riflessioni di
La Penna, Introduzione a Tersite censurato e altri studi di letteratura fra antico e moderno,
Nistri Lischi, Pisa 1991, pp. 26-29.
80
  Si vedano le scarne riflessioni sul tema della schiavitù antica nel Quaderno 25 (xxiii),
§ (1), p. 2286, e § (6), p. 2290, su cui cfr. anche Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scrit-
ti di Antonio Gramsci, Edizioni Paguro, Mercato San Severino 2019, pp. 103-112; su un
aspetto specifico cfr. infra, p. 44.
81
  La morale della favola esopica, qui, p. 326.
82
  Cito dall’edizione a cura di Giorgio Giorgetti con traduzione di Palmiro Togliatti, Edi-
tori Riuniti, Roma 2001, p. 40.

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44 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

della struttura schiavistica per la comprensione di certi mutamenti storici)83.


Quel piedistallo della società antica (parlo degli schiavi e ancora più dei pro-
letari liberi delle campagne e delle città) ebbe i suoi sussulti e anche le sue
scosse terribili e i riassestamenti politici della società antica (per esempio la
fondazione del principato romano) furono determinati in parte dagli effetti
di quelle scosse e dalla paura di altre scosse più gravi84.

Il pensiero corre subito, ovviamente, a quei «moti di plebi pastora-


li del sud al tempo del senatusconsultum de Bacchanalibus» e alle «rivol-
te di schiavi da Euno a Spartaco», cui lo stesso La Penna farà esplicito
riferimento l’anno successivo nel suo studio su Il romanzo di Esopo
(1962). Ma non solo di questo si tratta. Anzi, le istanze ideologiche
attive dietro quei moti e quelle rivolte, suscitati da speranze che «non
trovavano alcun appoggio […] nella religione dei dominatori» e ali-
mentati da un «impasto di magia, di superstizione, di religioni miste-
riche e soteriologiche», rappresentano, nella prospettiva di La Penna,
un regresso rispetto alla concezione del mondo e della vita della tradi-
zione esopica85. Qui, tra le costanti di «filosofia popolare» isolate e
analizzate, emerge infatti un duplice nucleo di pensiero critico che
rompe con il sistema di valori di «gran parte della cultura aulica
antica»86. Da un lato, un processo di laicizzazione che sfiora l’irreligio-
sità e rimuove dal proprio orizzonte ogni ancoraggio alla trascendenza
e ogni fede in garanzie provvidenziali:

83
  Pur in assenza di riscontri diretti negli scritti di La Penna si possono ricordare, a titolo
di semplice riferimento, la Storia di Roma [1949] di Sergej I. Kovaliov e il Principato
di Augusto [1949] di Nikolaj A. Maškin, pubblicati entrambi nelle Edizioni Rinascita di
Roma, rispettivamente nel 1953 e nel 1956; dello stesso Maškin nel 1953 era uscita in tradu-
zione tedesca la sua Römische Geschichte [1947] (Volk und Wissen Volkseigener, Berlin).
Certa invece, e databile al più tardi al 1959, la lettura di Der weltanschaulich-politische
Kampf in Rom am Vorabend des Sturzes der Republik [1952] di Sergej L. Utčenko (Akade-
mie-Verlag, Berlin 1956); La Penna ne discute infatti nello studio sulla congiura di Catili-
na, apparso in rivista appunto nel 1959 e quindi rifuso in Sallustio e la «rivoluzione romana»,
cit., pp. 81-82.
84
  La morale della favola esopica, qui, p. 326. Sulla questione della formazione del proletariato
antico, sempre partendo dall’esigenza di puntualizzare l’immagine marxiana del proletariato
come piedistallo immobile della classe dominante, La Penna tornerà molti anni dopo, nel
suo intervento pubblicato in Capogrossi, Giardina e Schiavone (a cura di), Analisi marxista
e società antiche, cit., p. 191 (La Penna discute in questa parte del suo contributo la relazione
di Mario Mazza, Marx sulla schiavitù antica. Note di lettura, ivi, pp. 107-145).
85
  Il romanzo di Esopo, qui, pp. 171-172.
86
  La morale della favola esopica, qui, p. 303.

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La via esopica di Antonio La Penna 45

La favola esopica […] è un passo decisivo nel distacco dalla cultura religiosa
e nell’elaborazione di una cultura laica popolare, […] anzi in questa direzione
essa è, senza dubbio, […] il passo più decisivo prima della sofistica. […] Di
una rivolta antireligiosa, di una critica approfondita della religione e di un
forte soffio illuministico non si può parlare […]. In ogni modo l’interpreta-
zione della realtà umana nelle favole esopiche si pone al di fuori di qualsiasi
interesse religioso: ciò che regola i rapporti umani viene spiegato quasi sem-
pre senza ricorso alla divinità.

Dall’altro lato, una forte spinta in direzione di un razionalismo de-


mistificatore associato a un pragmatico materialismo utilitaristico:

Vi si nota [nella favola esopica] uno spirito consono alla polemica contro il
mito che percorse l’età ionica, alla ricerca positiva che è alle radici della scien-
za europea: non per niente […] la prima fioritura greca della favola cade
nell’età ionica. Si è parlato, per quell’età e per la sofistica, di un illuminismo
greco: e quel termine approssimativo, ma significativo, va mantenuto contro
tendenze recenti a sentire in quei secoli solo un affinamento della teologia.
Di un illuminismo esplicito nella favola non sarebbe giusto parlare; ma, in-
somma, in essa vive un rudimentale razionalismo87.
Demistificazione, scoperta della realtà effettuale, valorizzazione di una prudenza
pragmatica che conta generalmente sulle forze dell’uomo e su effetti limitati con-
figurano una sorta di razionalismo empirico e rudimentale materialismo, che, al
di fuori della letteratura esopica, trova pochi riscontri nella cultura antica88.

Entrambe le tendenze avranno uno sviluppo e un’articolazione ben


più maturi e vigorosi nel pensiero greco dall’atomismo alla sofistica
all’epicureismo, ma vedono la loro manifestazione germinale e il loro
primo radicamento nel terreno della favola esopica: la forza razionale
della sua ricerca positiva e disincantata è un lascito che, «attraverso i
secoli dell’antichità e, si badi, del Medioevo, […] non ha mancato di
agire nel mondo moderno»89:

87
  La morale della favola esopica, qui, pp. 263-265 e 274. Sulle «tendenze recenti» della sto-
riografia sul pensiero ionico qui polemicamente chiamate in causa da La Penna e rappre-
sentate in modo esemplare dall’opera classica di Werner Jaeger, La teologia dei primi
pensatori greci [1953], trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1961, cfr. ivi, qui, p. 328.
88
  Origine, sviluppo e funzione della favola esopica, qui, p. 88.
89
  La morale della favola esopica, qui, p. 328.

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46 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

La letteratura esopica resta uno degli antecedenti non trascurabili dell’utili-


tarismo e del materialismo moderno: e dico questo non nella prospettiva di
una storia ideale, astratta, ma in quella dell’effettiva storia del pensiero euro-
peo. Si deve tener conto dell’importanza che hanno avuta nel corrodere e
demolire la morale ascetica (o religiosa in genere) del Medioevo la letteratu-
ra dei fabliaux e la novellistica90.

Ora – e in questo riconoscimento è una delle intuizioni più inno-


vative e scandalose di quel saggio davvero epocale che è La morale
della favola esopica – questo lascito ci viene non dalla grande tradizione
di pensiero della classe dominante, ma dagli strati più deboli della
popolazione, generalmente visti come portatori di irrazionalità e su-
perstizione: «la favola esopica» – conclude La Penna, con chiaro rife-
rimento a una delle categorie fondamentali della meditazione
gramsciana – «è voce popolare sostanzialmente autonoma, che perdu-
ra per tutti i secoli accanto alla letteratura aulica: già questo basterebbe
a darle un rilievo enorme nella cultura antica»91. La Penna, d’altra par-
te, era ben consapevole del fatto che la condizione schiavile nell’anti-
chità classica non apparteneva necessariamente a una massa indistinta
di soggetti sociali culturalmente omogenei, ma poteva essere straordi-
nariamente varia e multiforme, perché varia e multiforme era l’origine
di chi, nel corso della propria vita, poteva trovarsi a perdere all’improv-
viso la libertà. Il fatto che l’Esopo storico potesse essere un uomo di
cultura elevata ben lontano dalla figura comica e cinicheggiante del
Romanzo non cambia la prospettiva rispetto alla visione del mondo che
emerge da una «struttura profonda» ben più antica come la favola gre-
ca, che mostra chiaramente l’elaborazione di una visione della vita da
parte di chi è costretto a subire la legge del più forte92.

L’altra figura di cui nel saggio lapenniano resta una traccia abba-
stanza visibile è, come abbiamo accennato, quella di Concetto Mar-
chesi, personalità controversa e culturalmente rilevante nell’Italia del
dopoguerra a cui La Penna dedicherà nel 1980 uno dei suoi ritratti

90
  La morale della favola esopica, qui, pp. 292-293.
91
  Ivi, qui, p. 328.
92
  Sulla questione si veda comunque il punto di vista critico di Maria Jagoda Luzzatto,
Plutarco, Socrate e l’Esopo di Delfi, «Illinois Classical Studies», vol. 13, 1988, pp. 427-445,
in particolare pp. 437 ss.

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La via esopica di Antonio La Penna 47

intellettuali più riusciti93. Per Marchesi, traduttore di Esopo94, autore


di un profilo di Fedro95 e cultore appassionato del genere, la favola
rappresentò sempre, oltre che un argomento di studio e di riflessione,
un serbatoio prezioso a cui attingere esempi per gli scritti stravaganti
o di polemica politica96. In certe parti del suo discorso, La Penna sem-
bra avere in mente alcune intuizioni felici, anche se non sistematiche,
di Marchesi, che aveva colto – con disappunto – il rischio che la mo-
rale esopica celasse un atteggiamento di rassegnazione e di pessimi-
smo. Nell’analizzare la morale del re travicello egli osserva infatti:
«L’incertezza e la confusione degli interpreti pure modernissimi di
quest’apologo rivelano il suo difetto di chiarezza e di proprietà. Vuol
dire che ci si deve contentare sempre dello stato presente, qualunque
esso sia, per timore che non abbia a capitare di peggio? Ma questo
sarebbe l’elogio vile e insensato della inerzia e della paralisi»97. L’elogio
dello stato presente non poteva essere facilmente accettato da chi, de-
scrivendo l’inquietudine giovanile che lo aveva portato ad aderire a
idee anarchiche, aveva scritto di sé stesso: «avevo l’animo dell’oppresso
senza averne la rassegnazione»98. E Marchesi prova addirittura, con

93
  La Penna, Concetto Marchesi. La critica letteraria come scoperta dell’uomo, cit.
94
  Favole esopiche, tradotte da Concetto Marchesi, con tutte le xilografie «deltuppiane», For-
miggini, Roma 1930; quindi, con nuova prefazione, Universale economica, Milano 1951
(= Feltrinelli, Milano 19762, 19833): sul significato della ristampa del 1951 cfr. Luciano Can-
fora, Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano, Laterza, Bari-Roma 2019, p. 561.
95
  C. Marchesi, Fedro e la favola latina, Vallecchi, Firenze 1923.
96
  La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48: «Gli scritti di Marchesi sulla favola esopica non
danno un’idea piena dell’amore che egli nutriva per questa letteratura: bisogna tener con-
to dell’uso che ne fa nelle sue riflessioni e nelle sue polemiche: il vecchio Esopo poteva
sempre fornire esempi adatti alla sua ironia e al suo sarcasmo». Un caso celebre dell’uso
retorico e polemico di Esopo è la citazione della favola dell’albero e dell’uomo che vuole
fabbricarsi una scure (Zand. 16), nel celebre discorso tenuto da Marchesi all’8° Congresso
del Pci, del 1956, all’indomani dei fatti d’Ungheria: cfr. Canfora, Il sovversivo, cit.,
pp. 896-899. Un altro esempio celebre è citato anche da La Penna, infra, p. 266.
97
  Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola richiamata è ovviamente Le rane
che chiedevano un re (44 H.).
98
  C. Marchesi, L’animo dell’oppresso, «Vie nuove», vol. 4, 1949, n. 42, p. 12. Può essere
interessante riportare il contesto della citazione: «Nessuno – diceva Catilina ai compa-
gni – può difendere la causa degli oppressi se non sia un oppresso anche lui. Io direi: se
non abbia l’animo dell’oppresso. Io l’avevo, l’animo dell’oppresso, senza averne la rassegna-
zione». Una parte significativa dello scritto, ma senza l’allusione a Catilina, verrà ripresa in
Perché sono comunista, discorso tenuto al Teatro Nuovo di Milano il 5 febbraio 1956 su in-
vito del gruppo milanese «Amici della rivista Rinascita», pubblicato in Id., Umanesimo e
comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 30.

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48 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

risultati dubbi, a reinterpretare la morale della favola: «Se una morale


s’ha da ricavare dall’apologo, potrebbe essere questa: che il sommo
Dio vuole che gli uomini si governino da sé, a loro rischio; e, con que-
sto esempio, dichiara la sua incompetenza nello stabilire i regni sulla
terra»99.
Siamo dunque molto lontani dall’orizzonte ermeneutico di La Pen-
na, che, come abbiamo visto, proprio nel pessimismo rassegnato coglie
una delle costanti del mondo esopico100; ma neppure mancano, come
è ovvio in uno studioso dell’acume critico di Marchesi, bagliori inter-
pretativi che potevano anticipare o favorire l’intuizione del rapporto fra
genere letterario e contesto in cui si è prodotto. Scrive Marchesi con-
nettendo l’origine della favola a uno stato di asservimento – si direbbe
esistenziale – che si manifesta anzitutto sotto forma di costrizione al
silenzio e necessità della dissimulazione:

Fedro esalta la sua origine e il suo talento poetico in un’ora di triste risenti-
mento non già contro gl’invidiosi ma contro i maligni interpreti dell’opera
sua, i quali hanno voluto trovare in essa i profili delle loro persone, mentre il
poeta ha voluto esprimere il profilo dell’umanità: colpa della loro mala co-
scienza. Egli vuole esser creduto: se la favola delle bestie contiene la storia
degli uomini, ciò non avviene per colpa sua, ma per la natura stessa di quel

99
  Marchesi, La morale della favola, cit. p. 227. La favola è richiamata anche da La Penna,
ma con interpretazione virata in senso opposto rispetto a quella suggerita da Marchesi:
«In questa tematica dei rapporti tra il forte e il debole, tra il potente e l’umile l’ispirazione
politica e sociale non lascia dubbi […]. Il convincimento che la propria condizione non
può essere mutata, che il tentativo di mutarla porta, se mai, al peggio si riferisce esplicita-
mente anche al governo. Su tale convincimento si fonda la celebre favola delle rane che
chiedono un re» (La morale della favola esopica, qui, p. 314).
100
  Osserva La Penna, con motto gramsciano, nell’aforisma Attualità della morale esopica:
«La rassegnazione è, come si sa, conclusione frequente ed evidente del rudimentale razio-
nalismo e materialismo esopico: non si può certo affermare che nella favola esopica antica
al pessimismo dell’intelletto si unisca saldamente un ottimismo della volontà» (qui,
p. 355). A chiarimento del contesto, conviene ascoltare la testimonianza di Sebastiano
Timpanaro: «All’inizio degli anni Cinquanta era difficile parlare di pessimismo coi marxisti
italiani, quasi tutti troppo pieni di fiducia storicistica nel progresso umano e troppo ten-
denti, per le loro origini crociane, a disinteressarsi del rapporto uomo-natura. Poche erano le
eccezioni: c’era Antonio La Penna, che, come prima di me era arrivato al marxismo, così
prima di me aveva provato insoddisfazione per un modo troppo generico ed equivoco di
appellarsi allo “storicismo” e all’“umanesimo”» (Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970,
p. xiv). Qui Timpanaro fa riferimento all’«ottimismo storico-sociale» dei tanti marxisti di
allora, convinti del «comunismo come meta ormai sicura della storia umana».

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La via esopica di Antonio La Penna 49

genere letterario che, scattato fuori dall’anima di uomini asserviti e costretti al


silenzio o alla finzione, porta con sé l’indole amara della sua origine. Egli, cultore
della favola, ha dovuto seguirne lo spirito: ma non ha pensato a nessun uomo:
la vita umana per sé stessa ha voluto rappresentare101.

Il critico siciliano non s’interroga sulla ragione dell’asservimento,


un po’ perché tende a vedervi un connotato antropologico più che il
prodotto di una dinamica sociale determinata da uno squilibrio nei
rapporti di forza, ma soprattutto perché considera l’origine popolare
del genere di per sé sufficiente a rappresentare la condizione di quelle
masse umane impotenti e rassegnate. Eppure il tema della servitù e
della libertà si affaccia alla sua mente, sia pure in forma di notazione
aneddotica e non come oggetto di riflessione consapevole, fin dalla
Prefazione a Esopo, un testo risalente al 1929, in cui osserva:

La bestia, anche la più agile, se è lasciata in pace, non fa niente: e quando ha


trovato da mangiare si riposa da quella grande fatica che è l’esser nati. Nel
mondo animale i più agitati e affaccendati sono gli uomini e gl’insetti: ma gli
uomini molto più, perché l’umanità è quasi tutta una enorme servitù, costi-
tuita da servi che si credono padroni e da servi che amano o devono sempli-
cemente servire102.

Marchesi, come è ben noto, dimostrerà sempre, a partire dagli


scritti giovanili e poi nel corso della sua vita, un profondo disprez-
zo nei confronti delle masse. Può sembrare, e forse è, un elemento
paradossale in un uomo capace di grandi slanci emotivi al ricordo
dell’esistenza dura dei giornalieri siciliani103 e curioso della vita del

101
  Marchesi, Fedro e la favola latina, cit., pp. 40-41 (corsivo mio); in termini quasi iden-
tici la riflessione tornerà in La morale della favola, cit., pp. 225-226 e nella Storia della lette-
ratura latina, Principato, Milano 19828, vol. 2, p. 84.
102
  Cito da C. Marchesi, Il libro di Tersite, con una nota di Luciano Canfora, Sellerio,
Palermo 1993, p. 144. Sulla genesi dello scritto, cfr. Canfora, Il sovversivo, cit., p. 317 e nota 23.
103
  È uno dei brani più famosi di Marchesi (citato da Togliatti nell’esordio della celebre
commemorazione tenuta in Parlamento all’indomani della sua morte) pubblicato in L’a-
nimo dell’oppresso, cit., e poi in Perché sono comunista, cit., pp. 29-30 (da cui si cita): «Perché
sono diventato comunista? Altre volte mi è stata fatta questa domanda. È un perché di
anni lontani, che mi riporta alle vendemmie e alle falciature della mia campagna catanese.
Filari e filari di viti dentro un’ampia cerchia di mandorli e di ulivi e un suono di corno che
radunava le vendemmiatrici. Vigilavano i guardiani con mille occhi: ed esse sparivano
curve nel folto dei pampini, da cui rispuntavano colmi canestri ondeggianti su invisibili

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50 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

popolo al punto da dedicare la sua traduzione di Esopo «a Giovan-


ni Sbisà, accalappiacani municipale», facendone l’interlocutore fit-
tizio del suo discorso. Eppure proprio quest’uomo, militante comu-
nista fin dalla fondazione del partito al congresso di Livorno del
1921, era anche intriso di paternalismo professorale e aristocratica
sfiducia nei confronti delle masse, viste come soggetto passivo, pri-
vo di una chiara coscienza di classe e dunque bisognoso della guida
sicura di un ceto intellettuale di alto profilo culturale104. È possibi-
le che a questo atteggiamento, senza dubbio originario e dovuto sia
alla condizione sociale di partenza sia alla temperie culturale tardo-
ottocentesca in cui Marchesi si era formato, avessero contribuito le
esperienze tragiche delle masse festanti sotto certi balconi105, ma è
comunque un fatto che esso impregni di sé e colori l’interpretazio-
ne della favola esopica e della sua morale, orientandola in una di-
rezione che non potrebbe essere più divergente rispetto alla via
seguita da La Penna.

teste. All’Ave Maria l’ultimo suono di corno: e la giornata finiva con un segno di croce. Ma
i piedi scalzi dovevano correre per chilometri prima di giungere a notte in un tugurio dove
era il fumo di un lucignolo e quello di una squallida minestra. Queste cose sapevo e vede-
vo; e a giugno mi accadeva più volte di scorgere uomini coperti di stracci avviarsi verso la
piana desolata con un pezzo di pane nella sacca e una cipolla e la bomboletta di vino
inacidito, destinato, secondo il costume, all’uso dei braccianti. Così negli anni della pueri-
zia cresceva in me un rancore sordo verso l’offesa che sentivo mia, che era fatta a me e
gravava su di me come una insensata mostruosità, perché insensate e mostruose mi pare-
vano le ragioni addotte a giustificarla».
104
  Sull’«atteggiamento aristocratico-elitistico» di Marchesi ha insistito Canfora, Il sov-
versivo, cit., p. 377, dove è richiamata un’osservazione di La Penna, Concetto Marchesi, cit.
p. 43, a proposito di uno scritto oraziano del 1908 (altri cenni nel ritratto di La Penna alle
pp. 51 e 66-67); cfr. anche S. Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, «Belfagor»,
vol. 35, 1980, n. 6, pp. 660-661 (in un profilo complessivo tanto antipatizzante nei confron-
ti di Marchesi quanto benigno era stato quello di La Penna). Bisogna anche considerare,
però, che in uomini come Marchesi l’assenza di ogni accondiscendenza nei confronti del-
le masse era compensata dalla fiducia cieca nell’educazione come forza liberatrice, nella
prospettiva della formazione di una coscienza di classe che riscattasse la situazione di
svantaggio originaria.
105
 Così La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 51: «Il senso aristocratico della distinzione
spirituale potrà stupire chi pensa al comunismo di Marchesi, ma non stupisce chi conosce
le sue opere. Tuttavia va tenuto presente, io credo, il clima in cui il saggio su Arnobio fu
scritto [Il pessimismo di un apologista cristiano (Arnobio), «Pegaso», vol. 2, 1930, pp. 536-550,
ristampato in Voci di antichi, cit., pp. 159-187]: la resistenza morale degli antifascisti isolati
trovava forza talvolta anche nel disprezzo per il gregge asservito, gregge che non si iden-
tificava con la povera gente».

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La via esopica di Antonio La Penna 51

Si legge nella pagina conclusiva del saggio attorno al cui asse si è


dipanato il nostro discorso:

Lo studio della favola esopica oggi non può non risvegliare problemi etico-
politici attuali. La separazione […] tra la lucidità rassegnata e l’aspirazione
utopistica nelle classi subalterne è superata solo dal socialismo, anzi solo dal
socialismo non utopistico […]106. È grande compito del socialismo eliminare
con l’educazione, oltre le illusioni oltremondane, questa sfiducia, portare le
masse a capire che è venuta l’età in cui esse stesse debbono costruire il loro
assetto economico, sociale, politico, in cui esse cessano di subire la storia e ne
diventano protagoniste: solo la partecipazione diretta e non illusoria allo sta-
to può eliminare la sfiducia nello stato. […] La libertà muore, se non sa
estendersi: il che vuol dire, se non sa sostanziarsi di eguaglianza. Ora in que-
sto suo grande compito di educazione il socialismo non può costruire niente
sulle illusioni oltremondane; ma può ricavare qualche cosa dallo scetticismo
rassegnato [della favola esopica], perché in quello scetticismo c’è pur sempre
un nucleo sano di analisi della realtà sociale, una forza della ragione107.

Alla luce di questo appello, che ha i toni vibranti della perorazione


più che quelli dichiarativi di un programma etico-politico, ben si col-
gono anche le ragioni e il senso del giudizio con cui La Penna suggel-
la il suo capitolo su «Marchesi ed Esopo», marcando la distanza, ideo-
logica e culturale, dal suo più anziano compagno di strada: «La sua
inclinazione verso il pessimismo esopico rende più comprensibile, io
credo, la sua indulgenza verso lo stalinismo: l’autogoverno delle masse
è una grande aspirazione di chi ha fiducia nelle masse: chi ha sfiducia
profonda nell’uomo, o nella grande maggioranza degli uomini, può
essere portato facilmente al disprezzo delle masse, che è un presuppo-
sto importante dello stalinismo»108.
Eppure il pessimismo esopico di Marchesi è anche l’aspetto che La
Penna sente come più attuale, almeno nel momento in cui ne traccia

106
  Cfr. anche La morale della favola esopica, qui, p. 327: «Le aspirazioni sociali degli strati
subalterni dell’antichità cercano espressione […] per varie vie utopistiche. La loro menta-
lità presenta così due aspetti inconciliabili: da un lato un’analisi acuta del mondo umano
che porta a un’accettazione passiva dell’oppressione, dall’altra le aspirazioni utopistiche
alla libertà, alla giustizia, all’uguaglianza. L’inesistenza di una prospettiva reale di libera-
zione tenne sempre separati e inconciliabili i due aspetti».
107
  Ivi, pp. 331-332. Cfr. anche l’aforisma Contro la rassegnazione esopica, il socialismo, qui, p. 358.
108
  La Penna, Concetto Marchesi, cit., p. 48 (qui, pp. 357-358).

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52 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

il profilo intellettuale109. Di Esopo Marchesi aveva il pessimismo, ma


non la rassegnazione. Lo si vede chiaramente nell’interpretazio-
ne della favola Il beccaio e i castrati conservata nella tarda raccolta
del Romulus: l’uomo ogni giorno macella un castrato, mentre il re-
sto del gregge osserva il malcapitato di turno pensando che toccherà
sempre a un altro, finché l’ultimo, prima di morire, si lamenta perché,
se si fossero coalizzati quando erano in molti, lo avrebbero fracassato
a testate. Chiosa Marchesi: «Anche Seneca ad ammonimento dei pa-
droni domandava: “E se i servi si contassero?” dimenticando che i ser-
vi non si contano mai da sé; a far questo avrebbero bisogno di un altro,
venuto da fuori, e non servo, ma uomo libero, che insegnasse loro
l’addizione»110. Qui c’è spazio solo per una valutazione elitistica e irri-
tante della massa dei subalterni111, ben lontana dalla lettura storica e
priva di pregiudizi di La Penna, che sottolinea peraltro la coloritura
«antidemocratica» della favola112. Il problema che questa favola lascia
intravedere è tuttavia un punto sensibile della riflessione sull’inerzia,
tendenziale, non assoluta, della classe schiavile nell’antichità: un’iner-
zia a cui aveva contribuito una visione del mondo pessimistica e conser-
vatrice, incoraggiata programmaticamente dalla classe dominante, come
dimostra il passo di Seneca ricordato da Marchesi (De clementia I 24):
Dicta est aliquando a senatu sententia, ut servos a liberis cultus distingueret;
deinde adparuit, quantum periculum inmineret, si servi nostri numerare
nos coepissent 113.

109
 Cfr. ivi, p. 95.
110
  Marchesi, La morale della favola, cit., p. 228; la medesima interpretazione tornerà in
Uomini e bestie nella favola antica, in Id., Divagazioni, Neri Pozza, Venezia 1951, p. 11, un
saggio usato anche, con tagli e una diversa disposizione degli argomenti, come nuova
prefazione alla traduzione di Esopo ripubblicata per i tipi della Colip, Milano 1951 (dal
1976 ristampata nell’Universale economica Feltrinelli).
111
  Sul passo e sulla visione «cesarista» del pensiero politico di Marchesi cfr. Canfora,
Il sovversivo, cit. pp. 317-318.
112
  «In una favola come questa si sarebbe tentati di sentire una tendenza degli oppressi a
unirsi contro gli oppressori; ma un’interpretazione del genere non è sicura né in questo
caso né in altri» (La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 316).
113
  Trad.: «Una volta il Senato deliberò che fosse l’abbigliamento a distinguere gli schiavi
dai liberi; poi risultò chiaro quanto pericoloso fosse se i nostri servi avessero cominciato a
contarci». Viene in mente, anche se i due testi sono ovviamente indipendenti, un appunto
di Gramsci trascritto nel Quaderno 3 (xx), § 99, con il titolo La legge del numero (base psi-
cologica delle manifestazioni pubbliche: processioni, assemblee popolari, ecc.), e quindi ripreso
con aggiunta dell’ultimo periodo nel Quaderno 25 (xxiii), § 6.2, p. 2290, da cui cito:

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La via esopica di Antonio La Penna 53

La lettura di Marchesi può aver fornito qualche altro spunto alla ri-
flessione di La Penna. Il siciliano aveva notato l’assenza dell’amore nel-
la favola, imputandola all’incompatibilità del sentimento con la condi-
zione animalesca: «A proposito di amore. Esso ha scarso rilievo nel
mondo animalesco esopiano: dove manca la passione amorosa»114. La
Penna, cogliendo in prospettiva sociologica l’affinità con il mondo esio-
deo e lo squallore della dimensione lucrativa a cui l’eros viene ridotto,
osserva: «Come il mondo esiodeo, questo esopico non conosce l’amore.
L’amore è una maschera dell’avidità di lucro»115. Marchesi concorre alla
definizione della favola esopica come teatro della lotta per la sopravvi-
venza secondo il principio dell’homo homini lupus: «La favola esopiana
riflette massimamente la lotta dell’uomo contro l’uomo, dell’uno contro
l’uno, in un mondo dove domina l’astuzia e la forza, senza pietà né spe-
ranza: un mondo, dunque, anticristiano e antisociale; dove alla reden-
zione non si giunge né con la fede né con la lotta»116. Una definizione a
cui La Penna dà forma solenne e universale riprendendo a più riprese la
celeberrima metafora animalesca del capitolo xviii del Principe: «La re-
altà effettuale dei rapporti umani così svelata è già per la favola esopica
la realtà della golpe e del lione, dell’astuzia e della forza»; «Questo mon-
do della golpe e del lione non conosce la pietà per il povero e per il de-
bole»; «La favola esopica antica constata con lucidità nella vita umana il
dominio del lione e della golpe, della forza e dell’astuzia»117.

«A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti esteriormente come tali. Quando un
senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato
fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora po-
tessero rendersi conto del loro grande numero (cfr. Seneca, De clem. I 24 e Tacito,
Annali, IV 27). In questo episodio sono contenute le ragioni politico-psicologiche che deter-
minano una serie di manifestazioni pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee
popolari, le parate di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione alle elezioni
di alcuni gruppi) e i plebisciti». L’appunto fa riferimento alla trascrizione di una nota della
Storia economica di Roma di Tenney Frank (Vallecchi, Firenze 1924, p. 147), che si conclude
con i passi citati di Seneca e Tacito. Cfr. Gerratana, Quaderni, cit., vol. 4, Apparato critico,
p. 2910; Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Antonio Gramsci, cit., pp. 110-112.
114
  Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 12.
115
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 291.
116
  Marchesi, Uomini e bestie nella favola antica, cit., p. 15; uno stralcio di questo brano fu
citato fra l’altro da La Penna, Concetto Marchesi, cit. p. 47 (qui, p. 357).
117
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 279 e Attualità della morale esopica,
qui, p. 355.

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54 Giovanni Niccoli e Stefano Grazzini

Come si vede, si tratta nel complesso di semplici spunti e suggestio-


ni sparse che – è da credere per scelta di Marchesi, spesso tentato dal
gusto del lampo definitorio e della battuta lapidaria – vivono di vita
propria nel corpo del testo, senza ambire a sollevarsi a segmenti di un
discorso articolato118. La strategia è opposta a quella adottata da La Pen-
na che, nel raccogliere quelle impressioni e quelle formule felici, le as-
soggetta al governo di una interpretazione sistematica e unificante, pun-
tellata con le categorie di un coerente armamentario concettuale. Sono
categorie eminentemente filosofiche come razionalismo, materialismo,
empirismo, pragmatismo, utilitarismo, demistificazione, irreligiosità,
ecc., ma va subito chiarito che esse sono assunte e messe alla prova nel
lavoro di analisi con una valenza debole, detecnicizzata, che le pone al
riparo da rischi di forzatura, peraltro ben presenti allo stesso La Penna:

Si è parlato, per l’età ionica e per la sofistica, di un illuminismo greco: e quel


termine approssimativo, ma significativo, va mantenuto […]. Di un illumi-
nismo esplicito nella favola non sarebbe giusto parlare; ma, insomma, in essa
vive un rudimentale razionalismo.
Parlare di empirismo e di pragmatismo a proposito della favola esopica è un
modo d’intendersi, i termini sono eccessivi […]. La favola esopica […] igno-
ra i problemi della cultura filosofica ed è quindi inerme di fronte a essa.
La favola esopica […] è un passo decisivo nel distacco dalla cultura religiosa
[…]. Di una rivolta antireligiosa, di una critica approfondita della religione e
di un forte soffio illuministico non si può parlare.119

Dunque, un orizzonte filosofico temperato. In effetti, le categorie


concettuali utilizzate da La Penna per sviluppare la sua interpretazione
della favola esopica come voce – critica e laica – delle classi subalter-
ne120 sono chiamate a operare entro la cornice di un’antropologia so-
ciologica che si propone di inquadrare la visione del mondo e della vita
di quelle classi all’interno delle dinamiche strutturali di lungo periodo
della storia sociale: un terreno su cui Marchesi, l’umanista che inten-

118
  Su questo aspetto del procedere argomentativo di Marchesi cfr. Luciano Canfora,
Il «Marchesi» di La Penna, «Rivista di filologia e di istruzione classica», vol. 109, 1981, p. 236.
119
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, pp. 274, 303, 263 e 265.
120
  Ivi, § 11, La favola come voce delle plebi antiche (qui, pp. 322 ss.).

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La via esopica di Antonio La Penna 55

deva «la critica letteraria come scoperta dell’uomo»121, ed era ostentata-


mente avverso alla filosofia, anche per una sua posa intellettuale, face-
va fatica a scendere e dunque non poteva avere, da questo punto di
vista, influenza sostanziale su uno studioso come La Penna, sempre
attento da un lato a risalire dalle forme letterarie alle strutture del-
la società e ai conflitti che l’attraversano e dall’altro a non cedere alla
tentazione di dedurre le prime dalle seconde122.
C’è forse un ultimo aspetto che unisce, sia pure con filo sottile,
Marchesi e La Penna alla rappresentazione tradizionale di Esopo.
Nella leggenda biografica il favolista viene descritto con tratti carica-
turali che lo accostano alla figura del plebeo omerico Tersite:

La deformazione caricaturale deve essersi fissata presto. Massimo Planude,


nel suo proemio alla Vita [Aesopi], accostava Esopo a Tersite, il plebeo ribel-
le e deforme, la cui deformità è essenziale nel contrasto con l’ideale eroico;
ma già la tradizione popolare può aver fatto dello schiavo portatore della sa-
pienza degli umili un tipo simile a Tersite, l’opposto dell’ideale del καλὸς
κἀγαqός. Il contrasto fra la bruttezza esterna e la saggezza interiore, tra l’ap-
parenza e la forma è troppo essenziale nella mentalità esopica perché sia fa-
cile ammettere una formazione tarda del ritratto di Esopo123.

L’accostamento si trova anche in Vico («e ci fu narrato brutto [Eso-


po] […]; appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere carattere

121
  Così recita il sottotitolo del libro di La Penna a lui dedicato.
122
  Viene in mente quanto osservava Timpanaro, Il «Marchesi» di Antonio La Penna, cit.,
p. 632: «A prima vista, chi conosca Antonio La Penna considererà forse più ovvio e com-
prensibile il distacco nei riguardi di Marchesi che la capacità di adesione e di valutazione
positiva. Gran parte dell’opera di La Penna come studioso della poesia, della cultura, della
società antica nasce da una sintesi (sintesi creativa e originale, non eclettismo né giustap-
posizione) tra la filologia di Wilamowitz, Leo, Norden, Pasquali, mirante a riimmergere
l’opera letteraria nell’ambiente e nella tradizione culturale da cui trasse impulso e alimen-
to, di intendere storicamente, non come pure “illuminazioni” prive di antecedenti, anche i
valori stilistici, formali della poesia, e l’esigenza marxista di collegare i fatti letterario-
culturali e ideologici con la struttura economico-sociale e con le istituzioni e le vicende
politiche (un marxismo, quello del La Penna, tendente a ridurre al minimo l’eredità hege-
liana, ad accentuare l’istanza empirica, senza tuttavia cadere in un empirismo disgregato e
agnosticizzante)». Sul paradosso (l’ennesimo) della coesistenza in Marchesi di una profes-
sione di marxismo militante con l’irrazionalismo di fondo della sua Weltanschauung cfr.
Canfora, Il «Marchesi» di La Penna, cit., pp. 235-236.
123
  La Penna, Il romanzo di Esopo, qui, p. 148; cfr. anche La morale della favola esopica, qui,
p. 323.

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de’ plebei che servivano agli eroi nella guerra troiana»), come segnala
La Penna, che illumina affinità e differenze tra le due figure che con-
dividono lo sguardo lucido e spietato sulla realtà, ma non l’atteggia-
mento verso l’autorità, che in Esopo è guardingo e attento a evitare
l’attrito, nella ricerca delle migliori strategie per la riduzione del dan-
no: «Tersite è, […] come già […] aveva pensato il Vico, “il primo
demagogo”. Esopo non è demagogo affatto, non è un ribelle: egli in-
vita alla prudenza e all’accettazione; pur conoscendo meglio di Ter-
site l’egoismo e l’iniquità dei grandi, egli non avrebbe affrontato i col-
pi di Ulisse, avrebbe cercato di non causare l’ira di Ulisse»124. Nel
fascino e nell’immedesimazione con una figura antieroica, provocato-
ria e demistificatrice come Tersite si può riconoscere un ultimo moti-
vo di affinità tra il futuro «intellettuale disorganico» e l’autore del Libro
di Tersite. La Penna, la cui attenzione per l’eroe omerico potrebbe es-
sere stata accesa da un articolo di Pasquali pubblicato nel 1940, Omero,
il brutto e il ritratto125, scriverà nella prefazione al suo Tersite censurato:
«Il titolo del libro è preso da uno degli studi raccolti; ma il tema di
quello studio è presente anche in altri che lo precedono […]. L’atten-
zione verso personaggi come Eumolpo e Tersite potrebbe spiegarsi
con la mia biografia intellettuale, ma questo è problema trascurabile»126.

124
  La Penna, La morale della favola esopica, qui, p. 325; cfr. p. 323, dove è anche citato il
passo di Vico.
125
  G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, «Critica d’arte», vol. 5, 1940, pp. 25 ss., quindi
in Id., Terze pagine stravaganti, Sansoni, Firenze 1942, pp. 139 ss. (= Pagine stravaganti di
un filologo, cit., vol. 2, pp. 99-118). Lo scritto è citato da La Penna (La morale della favola
esopica, qui, p. 323, nota 118) che rileva come un cenno a Tersite sarebbe stato appropriato;
ma del plebeo dell’Iliade Pasquali aveva dato un giudizio fortemente limitativo nella voce
Omero dell’Enciclopedia italiana: «Già l’attitudine rispetto alla religione basterebbe a mo-
strare che l’Iliade non è un poema popolare. Si può dire anzi che popolo e plebe per l’Ilia-
de non esistono: il solo plebeo, Tersite (e sarà figura inventata dal poeta, non già traman-
data dalla leggenda), è dipinto a colori tra foschi e ridicoli, ed è introdotto, si direbbe, solo
per farlo maltrattare da Ulisse» (G. Pasquali, Rapsodia sul classico. Contributi all’Enciclo-
pedia italiana, a cura di Fritz Bornmann, Giovanni Pascucci, Sebastiano Timpanaro, Isti-
tuto della Enciclopedia italiana, Roma 1986, p. 172).
126
  La Penna, Tersite censurato, cit., p. 9.

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Avvertenza editoriale 57

Avvertenza editoriale

Gli scritti raccolti in questo volume1 non solo si scaglionano su un arco tem-
porale lungo (il nucleo maggiore risale agli anni Sessanta, con una ripresa
nella prima metà dei Novanta e sporadici interventi nei Settanta), ma rispec-
chiano sollecitazioni culturali e istanze metodologiche diverse: dall’analisi
sociologica d’impianto gramsciano del saggio più antico, quello su La morale
della favola esopica come morale delle classi subalterne nell’antichità (1961), all’a-
nalisi filologica e storica dell’indagine su Il romanzo di Esopo (1962), allo stu-
dio folclorico delle origini remote del genere in Letteratura esopica e letteratu-
ra assiro-babilonese (1964), fino alla presa di distanza (peraltro ancora non
aggressiva) dallo strutturalismo nella recensione-saggio di Nøjgaard, La fable
antique (1966). Del resto, non meno marcata è l’eterogeneità di genere dei
vari scritti, che vanno dal contributo di ricerca, come i già ricordati lavori
sulla Vita Aesopi e le origini mesopotamiche della favolistica esopica, a testi
di presentazione generale, come l’ampia introduzione a Fedro (1968), la «ra-
pida sintesi divulgativa» (p. 90) Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia
verso occidente (1994) e il saggio complessivo Origine, sviluppo e funzione della
favola esopica nella cultura antica (1996). Una compresenza di generi che a sua
volta produce inevitabilmente varietà di stili espositivi in funzione dei diver-
si pubblici di destinazione, insieme a un certo numero di (anche estese) so-
vrapposizioni di contenuto e formulazione tra un testo e l’altro. In altre pa-
role, i materiali inclusi nella raccolta fanno sì, nel loro insieme, libro, ma non
quella storia organica della favola esopica greca e latina cui, come abbiamo

1
  In quanto non pertinenti con la tematica esopica vera e propria, sono stati esclusi soltan-
to una breve nota su Virgilio fonte di La Fontaine (in Marginalia, «Maia», vol. 7, 1955,
pp. 142-143) e il contributo Una favola esopica e l’interpretazione di Catullo 96, apparso in
«Studi italiani di filologia classica», ser. 3, vol. 15 (a. 90), n. 2, 1997, pp. 246-249. Escluse per
il loro carattere strettamente filologico anche le sezioni a firma di La Penna incluse nei
prolegomeni all’edizione teubneriana di Babrio (1986) realizzata in collaborazione con
Maria Jagoda Luzzatto (pp. vi-xxii: 1. De Babrii nomine atque aetate, 2. De Babrii fabula-
rum origine et cognationibus).

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58 Avvertenza editoriale

visto, La Penna pensava già nei primissimi anni Cinquanta e a cui tornava a
fare riferimento, alla metà dei Novanta, in Le vie della favola esopica (p. 33).
Così stando le cose, e nell’ovvia impossibilità di mettere mano a un rim-
pasto radicale degli scritti nella pretesa di trasformarli in capitoli di un’opera
unitaria, va da sé che ai curatori non restava che riprodurli nella loro forma
originale, ripetizioni comprese, unicamente con gli indispensabili interventi
di carattere editoriale, atti a dare uniformità e coerenza formale alla trattazio-
ne lungo tutto il corso del libro. Ci si è dunque limitati all’unificazione dei
criteri redazionali dei vari contributi – come detto, disparati per carattere e
provenienza –, alla omogeneizzazione del sistema dei riferimenti bibliografi-
ci (sia delle fonti primarie che della letteratura secondaria) e al completamen-
to di alcune indicazioni date nell’originale in forma sommaria. In particolare,
nei riferimenti alle favole esopiche, ci si è conformati di norma al testo e alla
numerazione del Corpus Fabularum Aesopicarum di Hausrath. Solo nel capi-
tolo 6 (cfr. p. 240, nota 2) e nei rari casi in cui la redazione citata da La Pen-
na non era inclusa nel Corpus, si è rimandato all’edizione Chambry o agli
Aesopica di Perry. A ogni modo, per comodità di riscontro, nell’Indice delle
favole si è data la corrispondenza tra le numerazioni di tutte e tre le edizioni.
Per riparare in qualche misura alla cicatrice della mancata organicità
dell’opera, è parso opportuno evitare di disporre gli scritti in sequenza crono-
logica secondo la data di pubblicazione – una soluzione più adatta a una
raccolta di contributi di argomento eterogeneo e di carattere specialistico – e
attenersi all’ordinamento storico-tematico seguito da La Penna, da un lato
nel saggio di introduzione generale alla favola esopica, con cui si apre il vo-
lume e che segna il punto terminale della sua ricerca in questo campo, e
dall’altro nei due progetti einaudiani già discussi2, in cui, come abbiamo visto,
il discorso si articola secondo una struttura ternaria: interpretazione del signi-
ficato culturale e sociale della favola esopica come «razionalismo popolare» e
«morale delle classi subalterne»; ricostruzione storica delle varie fasi dello
sviluppo del genere esopico dalle sue origini mesopotamiche fino alla tarda
antichità e nel Medioevo; vaglio critico di problemi specifici, marginali ri-
spetto all’asse centrale della trattazione. Certo, basta un’occhiata all’indice
della raccolta per toccare con mano lo stato effettivo dei pieni e dei vuoti. Se
sul fronte dell’analisi critica il momento dell’interpretazione sociologico-an-
tropologica della «filosofia» esopica risulta illuminato di vivida luce ed è al-
meno messa a fuoco la questione della tipologia e delle strutture compositive
della narrazione, ben diversamente stanno le cose all’interno del quadro sto-
rico delineato: qui, di fatto, le uniche presenze oggetto di indagine approfon-

2
 Cfr. supra, pp. 15-16 e 24.

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Avvertenza editoriale 59

dita sono il problema dei rapporti con la favolistica assiro-babilonese, il


romanzo di Esopo e il ruolo di Fedro nella tradizione esopica, mentre
– assunto a termine di riferimento l’indice del secondo progetto einaudiano –
mancano all’appello una serie di capitoli fondamentali che ci sarebbe piaciuto
leggere e a cui purtroppo dobbiamo rinunciare3. E tuttavia, sia pure con queste
lacune e solo per alcune tappe, la mappa disegnata orienta il lettore nel suo
viaggio di esplorazione storico-interpretativa del mondo esopico e rende
meno dolorosa la mancata realizzazione di quella Sapienza degli schiavi che
La Penna aveva progettato già all’inizio degli anni Cinquanta.
Nella stessa logica sono stati fatti alcuni accorpamenti di scritti diversi:
così l’articolo Un’altra favola esopica di origine babilonese (1991) è stato integra-
to come terza sezione in Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese
(1964), la recensione della ricerca di Anton Wiechers Aesop in Delphi (1961) è
stata data in appendice allo studio su Il romanzo di Esopo (1962), il manipolo
di proposte di emendamento In «Vitam Aesopi» e In «Vitam Lollinianam»,
apparse in Coniectanea et marginalia I (1962), è stato aggregato, come quarta
e quinta sezione, a una specifica raccolta di Marginalia Aesopica (1963) e infi-
ne le «due appendici di aggiornamento bibliografico» che corredavano la
stampa 2009 di Vie della favola esopica sono state collocate rispettivamente,
la prima al termine di Vie (p. 114), la seconda in parte al termine del capitolo 7
(p. 332) e in parte nell’appendice B (p. 358). Infine, per rendere esplicita e
immediatamente evidente l’intelaiatura del discorso sviluppato nei singoli
capitoli, l’originaria divisione in paragrafi, scandita dal solo numero, è stata
corredata di titoli esplicativi.
Quanto alla Bibliografia essenziale che accompagnava il saggio d’apertura
Origine, sviluppo e funzione della favola esopica, essa è apparsa troppo selettiva
e invecchiata per risultare ancora funzionale nel nuovo contesto senza un
aggiornamento che non fosse un radicale rifacimento, ed è stata pertanto
soppressa. Per un’informazione completa si rinvia a due recenti bibliografie
sistematiche, accessibili in rete:
ARLIMA (Archives de littérature du Moyen Âge), Fable ésopique: Recueils
de fables; Bibliographie générale, https://www.arlima.net/eh/fable.html.
Niklas Holzberg, Bibliographien zur antiken Literatur: Äsoproman; Babrios;
Antike fiktionale Erzälliteratur, 2. Die antike Fabel, http://www.niklasholz-
berg.com./Homepage/Bibliographien.html.

3
  Precisamente: «la favola esopica nella cultura ionica e attica», «la favola esopica fra dia-
triba e retorica», «la favola latina prima di Fedro», «Babrio», «la favola nella tarda cultura
latina e greca» e «la favola latina medievale e umanistica».

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Edizioni di riferimento. Abbreviazioni 61

Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

Tradizione esopica
Ben Edwin Perry, Aesopica. A series of texts relating to Aesop or ascribed to
him or closely connected with the literary tradition that bears his name, col-
lected and critically edited with a commentary and historical essay, I, Univer-
sity of Illinois Press, Urbana 1952 (abbr.: P.).
Oltre al corpus delle favole esopiche greche e latine di tradizione antica,
tardo-antica, bizantina e medievale (per Esopo viene presentata la recensione
Augustana), l’opera contiene: la Vita Aesopi nelle redazioni W e G (quest’ul-
tima in editio princeps) (Vita); le testimonianze antiche su Esopo e le favole
esopiche (Test.); i detti sentenziosi (Sent.) e i proverbi (Prov.) attribuiti al
medesimo Esopo. In particolare si fa riferimento a questa edizione e alla sua
numerazione per i progymnasmata dei retori (Ermogene, Pseudo-Dositeo,
Aftonio), i tetrastici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori, la rac-
colta di Sintipa, le parafrasi prosastiche fedriane del Romulus e di Ademaro,
le favole latine medievali, nonché per le favole tratte dalle raccolte anonime e
pseudonime e per le narrazioni riprese da diversi autori.

Esopo
Aesopi fabulae, recensuit Aemilius Chambry, I-II, «Collection des Universités
de France», Belles Lettres, Paris 1925-1926, con presentazione di tutte le re-
dazioni di ogni favola (abbr.: Ch.).
Editio minor, con scelta di una sola redazione per ogni favola e numera-
zione leggermente diversa: Ésope, Fables, texte établi et traduit par Émile
Chambry, Les Belles Lettres, Paris 1927 (abbr.: Ch.2).

Corpus Fabularum Aesopicarum, I, fasc. 1-2, Fabulae Aesopicae soluta oratione


conscriptae, edidit Augustus Hausrath, «Bibliotheca scriptorum Graecorum
et Romanorum Teubneriana», Lipsiae 1940, 1956; ed. alteram curavit Herbert
Hunger, fasc. 1, 1970, fasc. 2, 1957 (abbr.: H.).
Sono comprese in questa edizione anche le favole dei retori e di altra
provenienza (Papiro Rylands 493, Pseudo-Dositeo, Tavolette di Assendelft,

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62 Edizioni di riferimento. Abbreviazioni

Aftonio, Sintipa), ma non tutte le diverse redazioni di una stessa favola ripor-
tate nell’ed. Chambry.

Babrio
Babrii Fabulae Aesopeae, recognovit, prolegomenis et indicibus instruxit Otto
Crusius. Accedunt fabularum dactylicarum et iambicarum reliquiae. Ignatii
et aliorum tetrasticha iambica recensita a Carlo Friderico Mueller, «Biblio-
theca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana», Lipsiae 1897.
Si fa riferimento a questa edizione e alla sua numerazione per le favole
dattiliche e giambiche e le parafrasi in prosa (nn. 145-254; abbr.: Crus.) non
comprese nell’ed. Luzzatto – La Penna cit. subito sotto, nonché per i tetra-
stici giambici di Ignazio Diacono e dei suoi imitatori (abbr.: M.).

Babrii Mythiambi Aesopei, ediderunt Maria Jagoda Luzzatto et Antonius La


Penna, «Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubneriana»,
Lipsiae 1986.

Fedro
Babrius and Phaedrus, newly edited and translated into English, together
with an historical introduction and a comprehensive survey of Greek and
Latin fables in the Aesopic tradition by Ben Edwin Perry, «Loeb Classical
Library», Harvard University Press, Cambridge (MA) 1965.

Phaedrus solutus, vel Phaedri fabulae novae xxx, quas fabulas prosarias
Phaedro vindicavit, recensuit metrumque restituit Carolus Zander, «Acta
Societatis humaniorum litterarum Lundensis», Lund 1921 (abbr.: Zand.).

Aviano
Fabulae Aviani, recensuit Antonius Guaglianone, «Corpus scriptorum Lati-
norum Paravianum», Augustae Taurinorum 1958.

Favolisti medievali in latino


Léopold Hervieux, Les fabulistes latins depuis le siècle d’Auguste jusqu’à la fin du
Moyen Âge, 2e éd. entièrement refondue, I-V, Firmin-Didot, Paris 1893-1899
(rist. Franklin, New York 1965) (abbr.: Herv.).
I-II Phèdre et ses anciens imitateurs directs et indirects (1893-1894).
III Avianus et ses anciens imitateurs (1894).
IV Études de Cheriton et ses derivés (1896).
V Jean de Capoue et ses derivés (1899).

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Edizioni di riferimento. Abbreviazioni 63

Altre abbreviazioni
CGL 
Corpus Glossariorum Latinorum, a Gustavo Loewe incohatum
[…] composuit, recensuit, edidit Georgius Goetz, I-VIII, Teubner,
Lipsiae 1888-1923 (rist. anast. Hakkert, Amsterdam 1965), III,
Hermeneumata pseudodositheana…, 1892.
CIL 
Corpus Inscriptionum Latinarum, I-XVII, consilio et auctoritate
Academiae Litterarum Regiae Borussicae edidit Theodorus
Mommsen et alii, Berolini 1863-.
CPG 
Corpus Paroemiographorum Graecorum, ediderunt E. L. a Leutsch
et F. G. Schneidewin, I-II, Vandenhoeck-Ruprecht, Gottingae
1839-1851 (rist. anast. Olms, Hildesheim 1965), I, Zenobius, Dio-
genianus, Plutarchus, Gregorius Cyprius cum Appendice Prover-
biorum, 1839.
DK Hermann Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker. Griechish und
Deutch, sechste verbesserte Auflage herausgegeben von Walther
Kranz, I-III, Weidmann, Berlin 1951-1952.
FGrHist 
Felix Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, I-XVI,
Weidmann, Berlin 1923-1958.
FHG 
Fragmenta Historicorum Graecorum, collegit, disposuit, notis et
prolegomenis illustravit, indicibus instruxit Carolus Mullerus,
I-V, Didot, Parisiis 1841-1873.
PG Patrologiae Graecae cursus completus, Parisiis 1857-1866, XXXVII
3, Gregorii Theologi opera quae extant omnia, accurante denuo et
recognoscente J.-P. Migne, 1862.
RE 
Paulys Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft. Neue
Bearbeitung, herausgegeben von Georg Wissowa und andere,
Metzler-Duckenmüller, Stuttgart 1893-1972.
Rhet. Gr. Spengel  Rhetores Graeci, ex recognitione Leonardi Spengel, I-III,
«Bibliotheca scriptorum Graecorum et Romanorum Teubne-
riana», Lipsiae 1853-1856 (rist. anast. Minerva, Frankfurt am
Main 1966).
Rhet. Gr. Walz  Rhetores Graeci, emendatiores et auctiores edidit, suis
aliorumque annotationibus instruxit indices locupletissimos
Christianus Walz, I-IX, Cotta, Stuttgartiae et Tubingae 1832-
1836 (rist. anast. Zeller, Osnabrück 1968).

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Ringraziamento
Con abnegazione, occhio d’aquila e rilievi sempre puntuali, Daniela Gallo ha
provveduto alla revisione del testo e al completamento degli indici. A lei va il
sentito grazie dell’autore e dei curatori.

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 65

La favola antica
Esopo e la sapienza degli schiavi

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 67

Capitolo 1

Origine, sviluppo e funzione della favola


esopica nella cultura antica1

1. Origini mesopotamiche della favola esopica

Fino a meno di un secolo fa, fino a grandi storici della letteratura e del
pensiero greco come Wilamowitz e Jaeger, rimase vigoroso il culto,
risalente all’antichità, della cultura greca come autoctona, cioè come
nata e sviluppatasi, almeno prima dell’età ellenistica, quasi interamen-
te dalla Grecia stessa, senza influenze significative di altre culture; tale
visione oggi non è rovesciata, ma certo modificata in misura non tra-
scurabile: senza nulla togliere all’originalità della cultura greca, si sa
che anche prima dell’età ellenistica i Greci non poco assorbirono, spe-
cialmente nelle arti figurative e nella religione, da popoli stranieri, so-
prattutto del Vicino Oriente. Proprio la favola esopica, benché prenda
il nome da un «saggio» dell’età ionica, è un genere di letteratura che ha
le sue radici fuori della Grecia.
Ancora un secolo fa al centro dell’attenzione erano i rapporti tra la
favola esopica greca e l’analoga favola indiana, presente specialmente
nella raccolta di racconti intitolata Pañcatantra («I cinque libri»); oggi
la prospettiva è del tutto mutata: è dimostrato che i primi esempi di
quel genere di letteratura la cultura greca li conobbe, nell’età ionica,
dalla cultura dell’Asia Minore e che in quella parte del mondo le ori-
gini risalgono fino alla cultura dei Sumeri, ereditata e continuata dalla
cultura babilonese e assira: quella direzione, del resto, era indicata già
da alcune, sia pur rare, testimonianze antiche2.

1
  [Introduzione a Esopo, Favole, a cura di Cecilia Benedetti, Mondadori, Milano 1996,
pp. vii-xxxv; quindi in La favola antica, a cura di Cecilia Benedetti (Esopo) e Fernando
Solinas (Fedro), «Meridiani (I Classici Collezione)», Mondadori, Milano 2007, pp. 3-31].
2
  Per un primo orientamento su questi problemi mi permetto di rimandare a due miei
studi: Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese (qui, cap. 3); Le vie della favola esopi-
ca dalla Mesopotamia verso occidente (qui, cap. 2); ma soprattutto rimando alla bibliografia

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68 Capitolo primo

I casi di favole che noi collochiamo nel genere esopico sono ormai
numerosi nei testi in scrittura cuneiforme scoperti nella Mesopotamia;
in alcuni di essi si sono trovate favole poi diffuse nella cultura greca.
Da circa mezzo secolo (e forse anche prima) si sa che risale a un rac-
conto babilonese una delle favole esopiche greche più antiche, quella
dell’aquila e della volpe, narrata già da Archiloco. L’aquila e la volpe si
mettono in società; probabilmente il patto viene sancito da un giura-
mento per Zeus. L’aquila, tradendo il patto, rapisce i cuccioli della
volpe e li dà in pasto ai suoi aquilotti. Dai frammenti di Archiloco il
racconto non riesce del tutto chiaro; comunque, con l’aiuto di Zeus, la
volpe riesce a ottenere giustizia: da un altare di Zeus l’aquila ruba un
pezzo di carne, ma alla carne resta attaccata un po’ di brace; il fuoco si
appicca al nido, gli aquilotti cascano giù, e ora è la volpe a cibarsi dei
figli dell’empia nemica. Press’a poco lo stesso racconto, e ancora più
dettagliato, ricorre in un poemetto epico babilonese, in cui si narra
come l’eroe Etana tentò di salire al cielo montato su un’aquila: i con-
tendenti sono qui l’aquila e il serpente, che in Grecia è stato sostituito
dalla volpe; anche qui il serpente si vendica seguendo i consigli di
Shamash, il dio Sole, che tutto vede e garantisce la giustizia. In un’al-
tra favola babilonese la mosca si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratel-
lo, ti ho affaticato con il mio peso? Vicino all’abbeveratoio volerò via!».
Risponde l’elefante: «Che tu ti fossi posata su di me, non m’ero nep-
pure accorto». La stessa favola si ritrova in Babrio (84), solo che alla
mosca viene sostituita la zanzara, all’elefante il toro, animale familiare
nel mondo greco; naturalmente la morale è la stessa, cioè la satira con-
tro chi si dà importanza e in realtà non conta niente. In una favola
sumerica compresa in una collezione «retorica», cioè in una collezione
di testi usati come esercizi nelle scuole babilonesi (un po’ come, fino a
poco tempo fa, Fedro veniva usato nelle nostre scuole per imparare il
latino), troviamo un leone che, acchiappata una capra, si lascia persua-
dere a liberarla, perché la capra gli promette di offrirgli una grassa
pecora; tornata, però, nel suo recinto e messasi al sicuro, non mantiene
la sua promessa e irride la stoltezza del leone. Da questa favola, secon-
do me, deriva una favola greca (Esopo 137 H.): la narrazione è molto

ivi indicata, alla quale aggiungo qui Fr. R. Adrados, El tema del águila de la épica acadia a
Esquilo, «Emerita», vol. 32, 1964, pp. 267-282.

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 69

simile, la morale la stessa, ma personaggi sono il lupo e il cane. La


collezione «retorica» in cui è contenuta questa favola risale fino alla
prima metà del secondo millennio a. C. Come si vede, nelle letteratu-
re dell’area mesopotamica v’erano sia narrazioni dettagliate, condotte
con finezza artistica, come nella favola dell’aquila e del serpente, sia
narrazioni più brevi, talvolta ridotte al dialogo, in cui la battuta finale
enuncia la morale, quasi equivalenti, quindi, a sentenze o proverbi, con
cui, infatti, si trovano mescolate nelle collezioni.
Le nuove scoperte di testi in scrittura cuneiforme nell’Asia Minore
vanno arricchendo le nostre conoscenze di letteratura «esopica» ante-
riore a quella greca: brevi narrazioni con personaggi animali affini a
quelle delle favole esopiche greche, miranti a dimostrare una morale,
ricorrono anche in testi bilingui in hurrita e ittita scoperti negli archi-
vi di Boğazköy (l’antica Hattusa, capitale del regno degli Ittiti)3. Per
esempio, in una di queste favole la capra selvaggia maledice la monta-
gna e questa risponde con altre maledizioni; nel testo si spiega che
questa è un’allegoria: la capra selvaggia è un uomo esiliato, che male-
dice ingiustamente la propria città. In un’altra favola la capra selvaggia
è ammonita da una divinità benigna ad accontentarsi del pascolo che
le è stato accordato, senza cercare di oltrepassarne i confini. Un metal-
lo prezioso si lamenta contro il fabbro che lo lavora: non capisce che
solo grazie ai colpi del fabbro può diventare una coppa di pregio: un
ammonimento contro i figli che si ribellano ai padri. In altri due testi
compaiono un cane e un maiale, che rubano un pezzo di pane e lo
condiscono con olio o grasso: viene spiegato che la bestia è un’allegoria
del governatore ingordo di una città, che si arricchisce estorcendo doni
ai governati.
È possibile che qualche favola, come quella dell’aquila e del serpen-
te, sia passata dall’Asia Minore alla Grecia e, per via inversa, dall’Asia
Minore all’India4. Più tardi alcune favole passarono dalla cultura gre-
ca a quella indiana, ma non si può escludere che in qualche caso il

3
  I testi a cui mi riferisco, scoperti nel 1983 e nel 1985, sono stati pubblicati e interpretati
da Erich Neu, Das Hurritische. Eine altorientalische Sprache in neuem Licht, «Abhandlun-
gen der Mainz Akademie der Wissenschaften und der Literatur», 3, Stuttgart 1988, e
ripubblicati da Heinrich Otten e Christel Rüster, Keilschrifttexte aus Boğazköy,
fasc. 32, Berlin 1990. Ringrazio Ruggero Stefanini per la segnalazione. L’interpretazione
dei testi presenta qua e là difficoltà gravi e non è sempre sicura.
4
  Cfr. il mio studio Le vie della favola esopica, pp. 178-179 ss. (qui, pp. 105-106).

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70 Capitolo primo

passaggio sia inverso. Non bisogna però credere che tutta la favola
«esopica» sia nata nell’area mesopotamica: non solo in India, ma anche
in Cina e in altre parti del mondo, racconti con personaggi animali
possono essere stati usati a fini gnomici: la monogenesi non sarebbe
ipotesi convincente.

2. La favola nella letteratura greca da Esiodo ad Aristofane

Esiodo, prima di Archiloco, ricorse alla favola con personaggi anima-


li per dimostrare efficacemente ciò che accade fra gli uomini. Egli
definisce il breve racconto come αἶνος, e la definizione rimase nella
cultura greca: αἶνος ha la stessa radice di αἴνιγμα, «enigma», e si rife-
risce alla favola in quanto allusione sottile a personaggi e circostanze
del mondo umano, allusione che richiede acume per essere spiegata.
Ecco l’αἶνος di Esiodo (Le opere e i giorni 202-212):

Ora ai re, per quanto saggi essi siano, racconterò una favola. Così lo sparvie-
ro disse all’usignuolo dal collo variopinto, portandolo, dopo averlo ghermito
con i suoi artigli, molto in alto fra le nuvole: quello, trafitto dagli artigli ricur-
vi, gemeva; e a lui lo sparviero parlò con superba violenza: «Sciagurato, perché
gridi? Sei in potere di uno molto più forte di te: tu andrai esattamente dove
io vorrò menarti, anche se sei un cantore; farò di te il mio pasto, se vorrò, o
ti lascerò libero. Stolto chi vuole resistere ai più forti di lui: non ottiene vit-
toria e oltre la vergogna patisce il dolore». Così disse lo sparviero dal rapido
volo, l’uccello dalle lunghe ali spiegate.

L’αἶνος consiglia al debole di non lamentarsi; ma innanzi tutto con-


stata la feroce ingiustizia che domina nella società umana, dopo che è
entrata nell’età del ferro; e tuttavia la constatazione non è accettazione,
anzi è protesta contro la violenza portatrice d’iniquità: infatti seguono
gli ammonimenti di Esiodo al fratello Perse perché ascolti la giustizia
(δίκη) e non coltivi la ὕβρις, cioè la prevaricazione, sostenuta dalla
forza: dunque l’analisi lucida della società umana è ispirata dall’amore
della δίκη e il valore della δίκη è garantito da Zeus. Ora, gli esempi per
dimostrare la verità ed esortare il destinatario non si attingono solo dai
miti degli dei e degli eroi, ma da brevi racconti allegorici diffusi, per
tradizione orale, fra il popolo e portatori di una nuova saggezza popo-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 71

lare. Nel testo di Esiodo troviamo anche la struttura narrativa più co-
mune e più caratteristica della favola «esopica», cioè il contrasto-dialogo
fra due personaggi animali (o anche provenienti dal mondo vegetale), di
cui uno enuncia (esplicitamente o implicitamente) la «morale».
Ha la stessa ispirazione, ma è svolta con arte più fine, la favola
dell’aquila e della volpe in Archiloco (anche qui il termine per indi-
care la favola è αἶνος); ma al grande lirico di Paro la favola serve
anche per irridere la stoltezza degli uomini e per svelare la realtà
sotto le illusioni e la vanagloria. In un epodo di cui conserviamo tre
frammenti (81-83 D.) vediamo la scimmia che si aggira solitaria e,
incontrata la volpe, vanta la nobiltà del proprio casato; «basta guar-
darti le natiche!» risponde la volpe. Dunque l’αἶνος ha, tra le altre
funzioni, quella di demistificare: un compito tra i più caratteristici
della futura favola esopica. È difficile, invece, avere la certezza che
Archiloco narrasse un’altra favola sulla volpe, che troviamo svolta
con ricchezza di dettagli da Babrio (95): la volpe, solleticando la va-
nità del cervo, facendogli credere che il vecchio leone malato voglia
nominarlo suo successore come re degli animali, lo induce ad acco-
starsi al letto del leone, che lo sbrana e lo divora. Comunque al tem-
po di Archiloco, cioè nel VII secolo a. C., la volpe è già il personag-
gio più familiare nel mondo della favola gnomica.
Che la favola venga usata non raramente nella riflessione morale
greca del VII e VI secolo a. C., è dimostrato da accenni di Solone,
Semonide di Amorgo, Teognide. Nel pensiero antico la morale si con-
fonde con la politica, e anche nella lotta politica, fra demos e nobiltà,
fra demos e tirannia, la favola viene usata talvolta come arma opportu-
na: per esempio, sappiamo dalla Retorica di Aristotele (II 20) che il
poeta Stesicoro (104 Page), per ammonire i suoi concittadini di Imera
a non accettare la protezione del tiranno Falaride, raccontò la favola,
divenuta poi famosa, del cavallo, del cervo e dell’uomo: il cavallo, per
cacciare il cervo dal pascolo, si allea con l’uomo, si fa cavalcare e poi
resta schiavo del suo alleato.
Questi usi della favola si ritrovano anche nella cultura attica del
V secolo a. C. Nella tragedia, però, l’uso è molto raro: di favole con
personaggi animali si può segnalare un solo esempio, che ricorre in
un frammento dei Mirmidoni di Eschilo (139 Nauck): l’aquila con-
stata amaramente di essere stata ferita da una freccia fatta con una

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72 Capitolo primo

penna dell’aquila stessa (la stessa morale della favola in cui l’albero
viene tagliato con la scure fatta del suo stesso legno). L’uso politico
della favola si può ricavare, come abbiamo visto, dalla Retorica di
Aristotele, che prende gli esempi da tempi di lui più antichi: nello
stesso passo in cui cita la favola di Stesicoro contro il tiranno, ne cita
un’altra, adattabile a molte epoche, contro i politicanti avidi, che è
meglio sopportare per evitare guai anche peggiori: una volpe, attra-
versando un fiume, è spinta dalla forte corrente in un anfratto diru-
pato, da cui non può tirarsi fuori; le zecche la coprono e le succhiano
il sangue; capita là un riccio e, impietosito, si offre di liberarla dalle
zecche: «Ti prego di no» risponde la volpe. «Queste qui sono già
rimpinzate e succhiano poco; se togli queste, verranno altre ancora
affamate».
In luce diversa, con funzione diversa appare la favola esopica nelle
vive testimonianze del grande poeta comico Aristofane. Egli conosce
favole già narrate da Archiloco, come quella dell’aquila e della vol-
pe (Uccelli 652-654) e quella della volpe e della scimmia vanagloriosa
(Acarnesi 120-121), e accenna anche ad altre: per esempio, alla favola del-
la guerra fra l’aquila e lo scarafaggio, dove lo scarafaggio vola in cielo fino
a Zeus (Pace 127-130), e a una, che forse non ci è conservata, in cui per-
sonaggi erano il topo e la donnola (Vespe 1181-1182). Il commediografo
non narra le favole, ma le richiama per accenni: si tratta, dunque, di
racconti ben noti al pubblico a cui si rivolge; del resto a proposito della
favola del topo e della donnola dice esplicitamente che si tratta di una di
quelle storielle comunemente raccontate nelle case. Nell’uso di Aristo-
fane il sapore ludico prevale nettamente su quello gnomico e c’è ragio-
ne di credere che ciò non sia dovuto solo all’assimilazione da parte del
poeta comico: già nelle case degli ateniesi e negli incontri della gente
fuori di casa le favole si raccontavano per divertimento, mescolate con
altri aneddoti e specialmente con motti di spirito.

3. Il romanzo di Ah.īqār e la nascita del «personaggio Esopo»

Aristofane già cita Esopo considerandolo comunemente noto al pub-


blico: a lui attribuisce la favola dell’aquila e della volpe e quella dell’a-
quila e dello scarafaggio; ma per il poeta comico Esopo non è autore
specifico delle favole che noi chiamiamo esopiche, bensì anche di mot-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 73

ti spiritosi e divertenti, fra cui le favole trovano il loro posto naturale.


Facezie di Esopo ricorrono nelle chiacchiere con cui gli accusati intrat-
tengono un giudice per divertirlo e placare la sua ira (Vespe 566-567); il
favolista compare in un aneddoto come questo, che solo molto appros-
simativamente si potrebbe dire una favola esopica (Vespe 1401-1405):

Mentre Esopo tornava una sera da cena, una cagna sfrontata e ubriaca gli
abbaiò contro. Allora le disse: «Cagna, cagna, se, per Zeus, invece della tua
cattiva lingua, tu comprassi da qualche parte del frumento, credo che saresti
molto più saggia».

Storielle del genere, il cui sale era nelle battute spiritose, si raccon-
tavano per divertimento anche nei conviti (Vespe 1259-1262). Di Esopo
Aristofane conosceva anche vicende biografiche: accenna, infatti,
all’accusa, che gli abitanti di Delfi gli mossero, di aver rubato un vaso
appartenente ad Apollo e al modo in cui Esopo li ammonì, raccontan-
do la favola dell’aquila e dello scarafaggio (Vespe 1446-1448). Da un
altro passo (Uccelli 471 ss.) si è voluto anche ricavare che Aristofane
conoscesse una biografia scritta di Esopo, in cui erano inserite alcune
favole come narrate in determinate occasioni: l’interpretazione non è
assurda ma, tuttavia, la formulazione non è abbastanza chiara da ri-
chiedere il riferimento a opera scritta: a rigore se ne ricava solo la fre-
quente pratica di narrazioni esopiche, che potrebbero anche essere
trasmesse solo oralmente.
Comunque nell’Atene del V secolo a. C. si parlava di Esopo come
di un personaggio realmente esistito. Non ci sono ragioni decisive per
negarne la realtà storica (anche se la negava, per esempio, Vico, che
vedeva in Esopo una figura-simbolo analoga a quella di Omero e a essa
contrapposta: il simbolo, cioè, della saggezza plebea); ma ben presto,
e poi sempre più nei secoli seguenti, gli sono stati attribuiti caratteri e
azioni che non hanno fondamento storico: Esopo, sia o no realmente
esistito, divenne presto un simbolo.
Erodoto, uno dei più importanti mediatori fra la cultura ionica e la
cultura attica, attingendo probabilmente da tradizioni locali dell’isola
di Samo, conosceva Esopo come schiavo, a Samo, di un certo Iadmo-
ne (in altre fonti Idmone) e lo collocava nel tempo di Saffo (cioè dal-
la fine del VII alla prima metà del VI secolo a. C.); un erudito del
III secolo a. C., Eraclide Pontico, indicava Xanto come primo padrone

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74 Capitolo primo

di Esopo, che sarebbe poi stato liberato da Idmone5. Anche se non lo


ricaviamo da Erodoto, è certo che la fama di Esopo nel V secolo a. C.
era dovuta alla sua originale «sapienza» (egli era già uno dei σοφοί
della cultura greca arcaica) ed è probabile che già allora la sapienza
dello schiavo venisse messa in contrasto con la stoltezza del padrone,
cioè che la saggezza del padrone venisse sgonfiata, demistificata. Già
nel V secolo a. C. lo schiavo Esopo veniva rappresentato come defor-
me: su una kylix attica di quell’età, conservata nel Museo Vaticano,
vediamo dipinto un uomo dalla testa grossissima e sporgente in avan-
ti, dai lunghi capelli e lungo pizzo neri, dai mustacchi ben visibili, dal
lungo naso un po’ aquilino, dal ventre prominente, che, seduto, con-
versa con una volpe, anch’essa seduta e con le zampe anteriori gestico-
lanti: è la stessa raffigurazione che troviamo nella biografia di Esopo
di età imperiale e l’identificazione con il favolista è molto probabile. Si
tratterà di una caricatura, dietro la quale non è detto che ci fosse una
realtà storica. Era corrente già nel V secolo a. C., giacché vi accenna,
come abbiamo visto, Aristofane, la tradizione sulla sua morte: entrato
in conflitto con i sacerdoti di Delfi, veniva da essi accusato, condanna-
to e ucciso.
Dal IV secolo a. C. in poi la biografia di Esopo si arricchì di altri
elementi, dietro cui sarebbe vano cercare una realtà storica: egli sog-
giorna per un certo tempo alla corte di Creso, re di Lidia; inoltre viene
messo in contatto con i sette saggi greci: accanto a essi lo troviamo nel
Convito dei sette saggi di Plutarco, ma in una condizione d’inferiorità,
seduto su uno sgabello bassissimo. Il contatto con i sette saggi viene
escluso dall’ampia biografia di età imperiale, forse perché l’autore non
accettava il declassamento di Esopo; in compenso, però, vi è inserito
un pezzo relativamente ampio, che ricalca un racconto di lontana ori-
gine assiro-babilonese, il «romanzo» di Ah.īqār. Il protagonista di que-
sto racconto è un alto funzionario della corte del re di Babilonia, che
nella Vita di Esopo prende il nome greco di Licurgo (oggi è accertata
la sua realtà storica: ci fu effettivamente un ummanu, cioè un alto con-
sigliere, di questo nome alla corte del re assiro Esarhaddon, che regnò

5
  Qui e in seguito, per quanto riguarda la figura di Esopo, attingo dal mio studio
Il romanzo di Esopo (qui, cap. 4); ora si possono vedere gli studi di vari autori raccol-
ti da N. Holzberg in Der Äsop-Roman. Motivgeschichte und Erzählstruktur, Tübin-
gen 1992.

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 75

dal 681 al 669 a. C.). Egli adottò come figlio un suo nipote, ma questi,
di indole malvagia, calunniò il padre adottivo presso il re; Ah.īqār fu
condannato a morte, ma l’ufficiale incaricato dell’esecuzione, ricono-
scente per i benefici ricevuti, gli risparmiò la vita e lo nascose con cura
(motivo, come si sa, diffuso nelle fiabe di molti paesi). Poco dopo il re
di Babilonia si trovò in grave difficoltà, perché ricevette una sfida dal
faraone d’Egitto; la guerra, però, si combatteva senza spargimento di
sangue: consisteva in una gara di indovinelli, al termine della quale il
vinto doveva pagare un tributo al vincitore. Il re di Babilonia è dispe-
rato, ma l’ufficiale gli rivela che il sapiente Ah.īqār è vivo e che può
affrontare tranquillamente la sfida. Il figlio adottivo viene condannato
per la sua calunnia, ma il padre ottiene che egli non venga ucciso. Il
racconto ha, sì, un suo fascino per l’intreccio fantastico, ma ancora più
serve da cornice a due prediche, a due serie di precetti: l’una tenuta
quando il figlio viene introdotto a corte, l’altra, molto aspra, dopo che
il figlio è stato condannato (ma in alcune redazioni le prediche si ridu-
cono a una sola e la collocazione varia); il malvagio calunniatore,
schiacciato dall’ultima predica, muore. Nella serie di precetti compa-
iono, almeno in alcune redazioni, anche favole «esopiche».
Di questo «romanzo» erano note nell’Ottocento varie redazioni,
risalenti al basso Medioevo, in diverse lingue (siriaca, armena, turca,
slava, etiopica), ma gli studiosi congetturarono, anche in base al con-
fronto con la Vita Aesopi, che dovevano esserci redazioni molto anti-
che; frammenti di una di queste, in lingua aramaica, furono scoper-
ti all’inizio del nostro secolo su un papiro in una colonia ebraica di
Elefantina, in Egitto, e pubblicati nel 1907; il papiro viene datato al
V secolo a. C.; è molto probabile, dato il contenuto e l’onomastica, che
la prima redazione fosse in accadico (risalisse, cioè, alla cultura babilo-
nese). Ora, tutta la parte della biografia di Esopo che narra le vicende
del «sapiente» alla corte del re Licurgo si può considerare una redazio-
ne greca del «romanzo» di Ah.īqār.
La Vita Aesopi è, dunque, un conglomerato di vari elementi, alcuni
dei quali risalenti fino al VI secolo a. C., altri aggiunti in età ellenistica,
altri, infine, all’inizio dell’età imperiale romana. Delle varie redazioni
correnti nell’antichità due, molto affini tra loro, ci sono state conser-
vate quasi intere: l’una già nota da secoli e pubblicata nell’Ottocento,
l’altra scoperta in un codice di Grottaferrata, che, dopo essere scom-

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76 Capitolo primo

parso, è riapparso nella Pierpont Morgan Library di New York, e poi


pubblicata nel 1952 da Ben Edwin Perry. La seconda è più vicina all’o-
riginale, redatto, probabilmente, nel I secolo d. C.: in questa vediamo
Esopo protetto dalla dea, di origine egiziana, Iside. Nella prima vedia-
mo Iside sostituita da Tyche (cioè la Fortuna): anche se la dea egiziana
era entrata da secoli nella religione greca e poi romana, il redattore
aveva voluto «ellenizzare» il testo.
Dunque, anche se mutato e molto arricchito, l’Esopo del V secolo a. C.
restava pur sempre nella biografia romanzata corrente negli ultimi
secoli dell’antichità; va però ricordato che nella cultura attica la favola
«esopica», sebbene fosse un elemento di spicco nella saggezza di Eso-
po, non costituiva un elemento separato e che, d’altra parte, non tutta
la favola «esopica» si faceva risalire a lui: Eschilo, per esempio, ritene-
va «libica» la favola da lui citata; alcuni aneddoti sentenziosi affini alle
favole esopiche, ma in cui parlavano gli uomini, rientravano in un ge-
nere proveniente da Sibari e come sibaritici vengono citati da Aristo-
fane; già in età attica o più tardi vediamo citate favole come provenien-
ti da regioni del Vicino Oriente, dalla Lidia, dalla Caria, da Cipro.
L’Asia Minore, vicina alla Mesopotamia, fu certamente l’area attraver-
so cui più spesso la favola «esopica» penetrò nella cultura greca; invece
il genere attecchì raramente nella cultura ebraica (pochissimi sono gli
esempi nella Bibbia) e nell’Egitto, dove i pochi esempi sono quasi
tutti di età ellenistica.

4. Retorica, diatriba e formazione delle prime raccolte esopiche

Aristotele nella Retorica pensava che le favole potessero riuscire utili


agli oratori come παραδείγματα, cioè come esempi di certi comporta-
menti degli uomini; ma la presenza di favole esopiche negli oratori
attici del IV secolo a. C., negli oratori greci delle età seguenti e negli
oratori latini è molto scarsa, irrilevante: questo è un indizio, a cui altri
si aggiungeranno, che già nel IV secolo a. C. la favola esopica è un
genere di letteratura inferiore. Essa però entra, anche se non in larga
misura, in quel genere di filosofia etica divulgativa che noi compren-
diamo sotto il nome di «diatriba» e che a volte è più vicino alla conver-
sazione, a volte più alla predica: ciò si vede dall’uso non tanto raro da
parte di Plutarco, di Luciano, di Massimo Tirio e prima, anche se in

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 77

minor misura, da parte di Dione Crisostomo. Fu attraverso la diatriba


che la favola esopica entrò dapprima nella cultura latina: una, narrata
distesamente, con ricchezza e finezza di dettagli, si trovava già nelle
Saturae di Ennio (noi possiamo leggerla nella parafrasi, abbastanza
vicina all’originale, di Gellio, Noctes Atticae II 29); con arte non mino-
re, e forse con vena comica plautina, era narrata da Lucilio (980 Marx)
la favola del leone malato, da cui la volpe non si lascia ingannare;
poche altre sono narrate, o brevemente richiamate, da Orazio nelle
Satire e nelle Epistole (le più note sono quelle del topo di campagna e
del topo di città e quella della volpe entrata nel granaio che, rimpinza-
tasi, non può uscirne).
Nella retorica la favola esopica troverà una diversa collocazione e
funzione, una funzione tale che poteva essere affidata, già prima della
scuola di retorica, alla scuola del grammatico: essa troverà posto fra i
testi da usare nei προγυμνάσματα, cioè negli esercizi che preparano
alla composizione. Se ne può avere un’idea chiara dall’Institutio oratoria
di Quintiliano (I 9, 2): ecco uno dei consigli che il grande retore dà al
grammatico:

Dunque [i ragazzi] imparino a narrare in stile corretto – che non si innalzi


neppure di un gradino sopra la misura [cioè che non abbia nessuna pretesa di
stile elevato] – le favolette di Esopo [Aesopi fabellas], che vengono subito
dopo le favole delle nutrici, e imparino poi a mantenere per iscritto la stessa
gracilità stilistica: dapprima scioglieranno i versi [cioè disporranno le parole
come se fossero prosa], poi muteranno le parole con altre dello stesso senso,
infine parafraseranno il testo più liberamente, con licenza di abbreviare certe
parti e di ornarne altre, rispettando, però, il pensiero del poeta.

Come già Aristotele, anche Quintiliano (V 11, 19) dà un posto alle


favole esopiche fra gli exempla, ma è evidente che la loro dignità è ri-
dotta al minimo:

Anche quelle favolette che, anche se non hanno avuto origine da Esopo (in-
fatti il primo inventore sembra Esiodo), sono tuttavia note soprattutto sotto
il suo nome, influiscono molto sull’animo specialmente di persone rozze e
ignoranti [praecipue rusticorum et imperitorum], che ascoltano più ingenua-
mente i racconti inventati e che, conquistati dal piacere, si lasciano persuade-
re facilmente da ciò che suscita in loro diletto.

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78 Capitolo primo

E ricorda l’esempio dell’apologo di Menenio Agrippa, così efficace


sulla plebe, e la favola della volpe e del leone malato in Orazio. Anche
al di fuori della scuola del grammatico la favola esopica è letteratura
elementare per gente incolta. Certamente la dottrina di Quintiliano
sulla favola esopica proviene dalla retorica greca: la collocazione fra i
προγυμνάσματα la troviamo in retori greci a partire dall’età di Quin-
tiliano: in Elio Teone, suo contemporaneo, in Ermogene di Tarso,
della seconda metà del II secolo d. C., in Aftonio, del IV secolo d. C.;
ma si può considerare certo che essi continuino una tradizione scola-
stica ellenistica. Nella scuola, se la scelta delle favole esopiche è dovu-
ta soprattutto alla scarsa complessità, alla facile intelligibilità dei testi
e alla semplicità (ἀφέλεια) dello stile, anche la funzione educativa in
senso morale viene messa tuttavia in conto.
Un altro processo, molto più importante per la trasmissione della
favola esopica, ha inizio verso la fine dell’età attica e continua nell’età
ellenistica: la formazione di raccolte di favole che, fossero o no prece-
dute da una biografia di Esopo, erano indipendenti dalla biografia che
noi conosciamo. È attendibile la notizia che una prima raccolta fu re-
datta da Demetrio di Falero, un dotto ed elegante allievo di Teofrasto,
che per una quindicina d’anni (dal 322 al 307 a. C.) governò Atene; ma
non abbiamo nessuna possibilità di ricostruirne alcuna parte; aleatoria
è l’ipotesi che una parte di quella raccolta ci sia conservata in un papi-
ro della collezione di John Rylands (n. 493), scritto probabilmente all’i-
nizio del I secolo d. C., contenente i resti di quattordici favole, di cui
solo cinque o sei leggibili. Riesce anche impossibile scegliere fra le
varie congetture tentate sul carattere della raccolta di Demetrio: se
fosse destinata agli oratori, se avesse funzione etica e parenetica,
se assolvesse solo un compito di ricerca erudita nel campo del folklore.
Le raccolte a noi conservate in codici risalgono all’età imperiale o al
Medioevo bizantino: sono, dunque, tutte posteriori all’età ellenistica.
Lunghe e pazienti ricerche hanno portato a fissare tre redazioni (recen-
siones) diverse:
a) Augustana (prende nome da uno dei codici in cui è conservata,
che appartiene alla biblioteca statale di Monaco di Baviera). Com-
prende 178 favole, di cui una parte si ritrova anche nelle altre due re-
censioni. Le si affianca una recensione I a, cui, però, alcuni studiosi
danno una collocazione diversa;

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 79

b) Vindobonense (da uno dei codici in cui è conservata, che appar-


tiene alla biblioteca statale di Vienna);
c) Accursiana, così detta da Buono Accorso, un umanista pisano,
che la pubblicò per la prima volta a Milano nel 1479; detta anche Pla-
nudea, perché la si ritiene, non senza valide ragioni, compilata dal
dotto bizantino Massimo Planude nel XIV secolo. Al suo interno si
distinguono quattro sottorecensioni.
Oggi non è ancora possibile sapere (forse lo sarà dopo ricerche ap-
profondite sulla lingua e lo stile) quando siano state compilate e redat-
te le recensioni che conserviamo: la datazione oscilla per l’Augustana
dal I-II secolo d. C. al IX (dunque non è neppure sicuro che sia la più
antica, anche se questa è l’opinione prevalente); per la Vindobonense
dal IV-V secolo al IX; per l’Accursiana dal III secolo al IX. Che queste
raccolte ne presuppongano altre, a noi ignote, viene comunemente
ammesso; ed è molto probabile che le favole fossero stese in prosa, non
in versi. Le favole che correvano nel V secolo a. C. sotto il nome di
Esopo, e anche le altre che si facevano derivare da altri paesi, erano
indicate come λόγοι, cioè come racconti in prosa, ed Esopo era un
λογοποιός, uno che componeva in prosa, il più antico, forse, dei pro-
satori greci. Indizi di raccolte ellenistiche di favole in versi (trimetri
giambici e coliambi) sono stati segnalati nelle redazioni in prosa a noi
conservate, ma indizi del genere si possono ricavare, con un po’ di
pazienza e con qualche adattamento, da molte pagine di prosa greca,
dietro le quali sicuramente non c’è alcun testo poetico. Non abbiamo
prove serie per pensare che esistessero raccolte di favole greche in ver-
si prima di Babrio (cioè prima del II secolo d. C.); naturalmente erano
stese in versi le favole inserite in altre opere di poesia.
Quando si parla di tradizione manoscritta di testi come le favole
esopiche è opportuna qualche precisazione. In parte la tradizione è
simile a quella comune dei testi letterari (di Euripide, Platone, Virgi-
lio, Livio), cioè avviene per opera di copisti che si propongono di ri-
produrre fedelmente il loro testo (chiamiamoli copisti-riproduttori).
In parte, però, la tradizione passa per copisti che si ritengono liberi di
modificare il testo, di abbreviarlo, di ampliarlo, di ornarlo (chiamia-
moli copisti-redattori o, addirittura, nuovi autori). In parte la tradizio-
ne delle favole esopiche è quella dei racconti popolari o dei commenti
o di certi manuali: si tratta, cioè, di testi in continua trasformazione.

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80 Capitolo primo

5. Esopo in latino: Fedro e la poetica della brevitas e dell’urbanitas

È nella letteratura latina che troviamo la prima raccolta di favole eso-


piche in poesia. Fedro, l’autore di tale opera, oltre a ricreare in latino
le favole esopiche, attraversò esperienze amare, che quasi ne facevano,
nella vita, un nuovo Esopo. Nelle inscriptiones e subscriptiones dei suoi
libri è indicato come liberto di Augusto: dunque era stato schiavo; c’è
qualche indizio che provenisse dalla Tracia e che, fatto schiavo, fosse
portato a Roma ancora fanciullo. Un liberto a quell’epoca poteva tro-
varsi in buone, e persino ottime, condizioni economiche e aspirare a
una buona carriera in qualche grande casato; ma Fedro, a causa di al-
cune favole scritte, fu perseguitato da Seiano, il potentissimo collabo-
ratore di Tiberio: subì un processo, non sappiamo sotto quale accusa,
e fu condannato. Questa calamitas fu una ferita profonda, che lo umi-
liò per il resto della vita; da alcuni suoi testi lo vediamo alla ricerca
della protezione di liberti che avevano qualche potere. Scrisse la mag-
gior parte dell’opera quando era vicino alla vecchiaia o già vecchio,
stanco, sconfitto; né l’opera valse a consolarlo, anzi si aggiunse l’ama-
rezza per lo scarso successo, dovuto, secondo lui, all’ostilità di alcuni
invidiosi. Non è azzardato supporre che queste esperienze personali
abbiano dato un impulso alla scoperta della favola esopica come voce
degli schiavi oppressi (servitus obnoxia), che, non osando parlare aper-
tamente, ricorrono al velo dell’allegoria (III prol. 33 ss.).
Fedro intende scrivere narrazioni piacevoli, divertenti, ma alla fun-
zione comica unisce strettamente quella etica, che consiste nell’offrire
consigli di prudenza per la vita quotidiana (I prol. 3 ss.): questi debbo-
no servire a salvarsi, se possibile, dalla forza, dalla violenza, dalla frode,
che operano normalmente nella società umana e che, se talvolta appa-
iono ineluttabili e non si possono eliminare, si possono tuttavia per lo
più eludere o addirittura punire. La forte urgenza etica limita l’interes-
se del poeta per la narrazione attenta, minuta, illuminata dalla grazia e
per la fine cesellatura descrittiva e si associa bene con la poetica della
brevitas; il gusto per la brevità e rapidità narrativa è condizionato, però,
e in misura maggiore, da una tendenza retorica sviluppatasi in età el-
lenistica in questo genere di letteratura, tendenza che privilegia la bre-
vità unita con la chiarezza e l’eleganza (un effetto non immediato, e
abbastanza misurato, si può scorgere nella recensio Augustana). La fe-

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 81

deltà alla brevitas, mai rinnegata dal poeta, non è però tale da non
permettere, dopo il primo libro, qualche narrazione più distesa, detta-
gliata, vivace, specialmente in aneddoti con personaggi umani, diversi
dalle favole esopiche vere e proprie. Il ricorso sporadico a tali aneddo-
ti s’inquadra nella tendenza, dichiarata dopo il primo libro, ad accre-
scere la varietà di temi: nel primo libro Fedro dev’essersi servito di una
raccolta di favole esopiche in senso stretto, poi ha cercato di ampliare
l’orizzonte, ricorrendo ad altre fonti e anche ad altri generi di narra-
zione, puntando su una varietà piacevole (II prol. 9 ss.). Comunque le
qualità migliori di Fedro, vivacità e naturalezza nello sviluppo dell’a-
zione, senza interesse accentuato per la descrizione, e particolare feli-
cità nel dialogo, si manifestano già chiaramente nel primo libro.
Con la scelta della brevitas ben si accorda lo stile. Questo coincide
con quello che vediamo operante anche nella favolistica greca in prosa,
cioè con la scelta dello stile semplice (ἀφελής, ἁπλοῦς) e chiaro (σαφής);
ma Fedro deve di più a uno dei filoni stilistici della poesia latina, quel-
lo che va da Terenzio all’Orazio del sermo: lingua e stile sono vicini, sì,
all’uso quotidiano, ma all’uso delle persone colte (vale a dire che c’è una
scelta netta in favore dell’urbanitas); su questo fondo l’arte, ispirata
dalla saggezza e dalla misura, opera per evitare fiacchezza e prolissità
e per tessere una narrazione e un dialogo che si caratterizzino per vi-
vacità mimica, agilità, eleganza.
Fedro, rielaborato stilisticamente con molta libertà, è in Occidente
la fonte principale della favolistica esopica in latino nella tarda antichi-
tà e nel Medioevo, svolta ora in prosa, ora in versi; tuttavia già il
Romulus, una raccolta tardo-antica di favole latine in prosa, contiene
anche materiale non proveniente da Fedro; altro materiale arriverà da
altre fonti nelle raccolte medievali, sino alle favole indiane del Pañca-
tantra, passate attraverso traduzioni arabe. Questa ricca fioritura si
colloca oltre i limiti che ci siamo posti.

6. Il favolista agghindato: Babrio o della morale senza unghie

Nella cultura greca la prima raccolta di favole esopiche in versi che noi
conosciamo è quella scritta da Babrio. Anche se il nome proviene
dall’Italia, Babrio è uomo di cultura interamente greca: sarà stato di-
scendente di una di quelle famiglie trasferitesi dall’Italia in Oriente

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dall’ultimo secolo della Repubblica romana in poi. Visse in Siria, o in


paesi vicini, nel II secolo d. C. (ma altri, non senza importanti indizi,
lo collocano nella seconda metà del I secolo d. C.).
In parte Babrio, che ignora Fedro, batte anche lui la via del favolista
latino, cioè mira a una elegante brevità, il cui succo è nella gnome argu-
tamente espressa dalla battuta finale, con un effetto un po’ simile a quel-
lo degli epigrammi satirici. Ne do, in traduzione, qualche esempio:

L’arabo e il suo cammello (8)


Un arabo, che aveva posto un grave carico sul suo cammello, gli chiese se
preferiva prendere la via in salita o in discesa. E il cammello, non senza ispi-
rata arguzia: «La via diritta è forse preclusa?».
Il gatto e il gallo (17)
Un gatto, appostatosi per acchiappare dei polli domestici, si lasciò penzolare
da certi pioli come un sacco vuoto. Lo vide il gallo dagli adunchi sproni, e
così lo dileggiò con acuta voce: «Molti sacchi ho già visti e conosco, ma nes-
suno, dico a te!, aveva denti!».
L’eunuco e l’indovino (54)
Un eunuco andò da un sacerdote indovino per consultarlo sui figli che voleva
avere. Il sacerdote, disteso il sacro fegato della vittima: «Quando guardo que-
sto fegato, pare che diventerai padre, ma quando guardo il tuo viso, non mi
sembri neppure un uomo».

Anche da qualche punto di queste favole brevi (ne ho contate una


trentina, cioè circa un quinto delle favole conservateci direttamente) si
vede che Babrio punta sull’ornamento letterario. Tale proposito, del
resto, è enunciato alla fine del primo prologo (17-18): egli vuole rende-
re più fiorite, attingendo dalla sua cultura poetica, le favole e deposi-
tare dolce miele, come in un favo, nella mente del suo discepolo; ciò
ben si accorda con il proposito di togliere asprezza, di rendere molli e
gradevoli i suoi coliambi, benché il metro nella tradizione fosse ritenu-
to più adatto a una poesia aggressiva, mordace; e questo secondo pro-
posito viene ribadito alla fine del secondo prologo (13 ss.), collocato
fra 107 e 108.
Ma la tendenza propria di Babrio va verso un’ornamentazione
stilistica che conferisca decoro letterario, e grazia, ancora più che
decoro. Posso dare un’idea del suo Kunstwollen traducendo l’inizio

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 83

della sua lunga favola sul gracchio che si riveste delle penne di vari
altri uccelli (72):

Una volta Iride, purpurea messaggera del cielo, annunziò agli uccelli che era
indetta una gara di bellezza da tenersi nelle dimore degli dei: l’annunzio fu
subito udito da tutti, e tutti furono presi dal desiderio dei premi divini. Una
fonte sgorgava da una roccia che anche per una capra era difficile a raggiun-
gersi, e l’acqua sotto era raccolta, lucente come l’estate e trasparente; e là ar-
rivarono uccelli di ogni specie, e si lavavano la faccia e le gambe, scuotevano
le zampe, si pet­tinavano le chiome. A quella fonte arrivò anche un gracchio...

Un’ornamentazione un po’ più sobria si trova nella favola del topo di


campagna e del topo di città (il cui svolgimento il lettore potrà confron-
tare con quello di Orazio); anche di questa (108) traduco solo l’inizio:

Di due topi l’uno viveva in campagna, l’altro aveva la sua tana nella dispensa
di una ricca famiglia. Decisero di menare vita in comune. Il topo domestico
per primo andò a pranzo nella campagna, che da poco aveva incominciato a
fiorire verdeggiante. Mentre rodeva magre radici di grano, bagnate e mesco-
late con nera zolla, disse: «Tu vivi la vita di una misera formica, mangiando
tenui chicchi nella profondità della terra. Io, invece, ho a disposizione molti
cibi e me ne avanzano: in confronto a te abito nel corno di Amaltea [la dea
dell’abbondanza]. Se venissi con me, scialacquerai come vuoi: lascia che que-
sta terra se la scavino le talpe».

Un vero exploit Babrio ci ha dato nella favola del leone malato,


della volpe e del cervo (95), la più lunga (più di cento versi), accurata
nella descrizione e nel dialogo. La debolezza di Babrio, però, non è
nella prolissità della narrazione (neppure la favola più lunga riesce pro-
lissa), ma piuttosto nella mancanza di vis mimica e di vis comica: le sue
qualità non vanno al di là del garbo letterario. Garbata è anche la sua
morale, priva di profonda amarezza, non aggressiva, tollerante, talvol-
ta venata di scetticismo.
Furono forse il garbo, la misura, la colta urbanitas a procurare alle
favole di Babrio un immediato e largo successo: ce ne parla lui stesso
nel secondo prologo (9 ss.); papiri e tavolette cerate ci hanno restituito
poche favole di Babrio, ma dimostrano la sua fortuna nella scuola. Per
tradizione diretta ci sono conservate 144 favole (123 ne contiene il co-
dice Athous, della prima metà del X secolo, proveniente dalla biblio-

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84 Capitolo primo

teca del Monte Athos, oggi nella biblioteca del British Museum a
Londra): esse costituiscono solo una parte di un’edizione antica ordi-
nata alfabeticamente (secondo la lettera iniziale di ciascuna favola).
Altre si possono ricavare da parafrasi in prosa, talvolta anche in versi
dodecasillabi bizantini: le parafrasi in prosa devono essere state redat-
te nella tarda antichità, fra il IV e il VI secolo. Per una ventina di fa-
vole possiamo ricostruire frammenti del testo babriano; altre derive-
ranno da Babrio nel contenuto, ma distinguerle completamente dalle
favole di origine diversa non è possibile: non tutte le 148 favole del
codice Bodleiano (XIII sec.), il più importante tra quelli che ci tra-
mandano la parafrasi in prosa, risalgono al favolista siriaco6. Da Babrio
derivano quasi tutte le favole svolte in distici elegiaci, con stile un po’
troppo carico, dal tardo poeta latino Aviano, della fine del IV secolo
(solo per quattro di esse l’origine babriana non è dimostrabile)7.

7. La golpe e il lione: la morale esopica come analisi della società

Nel corso di millenni, cioè fin dalle prime manifestazioni che cono-
sciamo nella cultura sumerica e accadica, la favola esopica è stata svol-
ta in forme artistiche molto diverse, che vanno dalla secchezza del
proverbio fino a narrazioni distese e minute, come quelle icasticamen-
te vivide di Archiloco o quelle morbide e piacevoli di La Fontaine;
meno varie sono le strutture di fondo, in cui prevale il contrasto fra due
personaggi, risolto dalla prevalenza dell’uno sull’altro, con la forza o
l’astuzia o la saggezza, attraverso l’azione e il dialogo o uno solo di
questi due svolgimenti; meno comune è la struttura con tre personag-
gi, di cui il terzo interviene come arbitro o a danno degli altri due o di
uno di essi; non mancano, tuttavia, varie modifiche, che qui non è
possibile seguire8. Press’a poco costante è il metodo di confronto: la
favola esopica è un’allegoria indeterminata, cioè rimanda non a deter-

6
  Tutti i problemi relativi alla tradizione di Babrio sono trattati ampiamente e lucidamen-
te nei prolegomeni all’edizione critica teubneriana (1986) da Maria Jagoda Luzzatto.
7
  Sui rapporti fra Aviano e Babrio rimando alla mia trattazione nei prolegomeni della
citata edizione teubneriana di Babrio (pp. vi-xxii).
8
  Una trattazione ampia, e anche troppo minuta, in M. Nøjgaard, La fable antique, 2 voll.,
Copenhague 1964 e 1967. Sul primo volume cfr. la mia recensione in «Athenaeum», 1966
(qui, cap. 6).

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minati personaggi, eventi, situazioni, ma a comportamenti costanti o ge-


nerali di una generica società umana. Tralasciando questi aspetti, che pure
sono fondamentali, aggiungerò solo qualche breve considerazione sul-
la morale che si esprime nella favola esopica antica, greca e latina.
Va premesso che, in quanto semplice struttura letteraria, la favola
esopica può servire a qualunque morale e che, di fatto, orientamenti
morali ben diversi fra loro vi hanno trovato espressione nel corso dei
millenni; tuttavia nella favola esopica antica, greca e latina, vi sono
orientamenti, che implicano interpretazioni della società umana, par-
ticolarmente frequenti, e scarsamente presenti, invece, nelle altre tra-
dizioni della cultura antica; ciò, del resto, è comunemente recepito
nell’idea che si ha della favola esopica. Cercherò di delineare gli orien-
tamenti più comuni9.
Un compito che la favola esopica spesso si attribuisce è quello di
svelare crudamente la realtà sotto l’apparenza, di demistificare: emble-
matica la favola notissima dell’asino che si è coperto della pelle del
leone (Esopo 199 H.; Babrio 139, favola forse proveniente da Cuma, in
Asia Minore); non meno nota la favola del gracchio rivestito delle
penne del pavone o di altri uccelli (Fedro I 3; Babrio 72, di cui ho tra-
dotto poco sopra l’inizio). Smascherati, per esempio, sono i falsi bene-
fattori: la donnola pretende dall’uomo salva la vita, perché, dice, lo ha
beneficato ammazzando topi e lucertole; ma l’uomo le ricorda che
ha ammazzato anche le galline (Babrio 27; cfr. Fedro I 22). Smascherati
i vili che ostentano coraggio quando sono al sicuro: la volpe insulta il
leone prigioniero: «Non tu mi insulti, ma la sciagura che mi ha colpito»
(Sintipa 17 = 409 P.); i cani dilacerano la pelle del leone morto (Sintipa
19 = 406 P.). Smascherata spesso la vanagloria: ho già accennato, a
proposito dell’origine babilonese, alla favola della zanzara e del toro;
simile la favola, tra le migliori di Fedro (III 6), in cui la mosca, seduta
sul timone del carro, vuole far da guida alla mula e la minaccia; a propo-
sito di Archiloco ho ricordato la favola della volpe e della scimmia che
vanta la propria nobiltà (ricorre, modificata, in Babrio 81); il mulo si
vanta di non essere inferiore alla madre nella corsa, ma, non facendoce-
la più, si ferma di botto e rivela così di avere un asino per padre (Ba-
brio 62); crudelmente punita la vanagloria fondata sulla bellezza: baste-

9
  Mi servo qui del mio vecchio saggio La morale della favola esopica (qui, cap. 7).

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86 Capitolo primo

rà ricordare la favola del cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43;
Fedro I 12) e quella della volpe e del corvo (Fedro I 13; Babrio 77).
La demistificazione rivela la realtà effettuale della società umana,
fatta di rapporti fondati generalmente sulla forza e sull’astuzia. A pro-
posito del dominio della forza tutti conoscono la favola del leone che
fa le parti (Babrio 67; Fedro I 5); ne ricorderò altre due meno note,
anche perché sono attestate fuori delle raccolte di cui ho parlato. Ari-
stotele nella Retorica (III 13, 2, 1284 a) riferisce una favola del filosofo
cinico Antistene: le lepri si riuniscono in assemblea per reclamare
uguaglianza politica e sociale con i leoni; e i leoni: «Signori dai piedi
pelosi, i vostri discorsi mancano di unghie e di denti quali noi abbia-
mo». Ecco l’aneddoto che il raffinato Silla raccontò per far capire ai
nemici sconfitti nelle guerre civili che cosa dovevano aspettarsi (Ap-
piano, Bellum civile I 101): i pidocchi pizzicavano un povero bifolco;
due volte egli interruppe il lavoro e si pulì la camicia; la terza volta, per
non avere troppi fastidi, la bruciò. La realtà dei rapporti sociali, oltre a
essere brutale, è anche complicata, perché non sempre la forza si pre-
senta come tale; a volte vuole giustificarsi come diritto: la favola em-
blematica è, a questo proposito, quella del lupo e dell’agnello, che
Fedro scelse come inizio della sua opera. Lo sparviero di Esiodo ucci-
de l’usignuolo proclamando senza mezzi termini la legge del più forte;
in una favola che forse risale a Fedro (è conservata dal favolista medie-
vale Ademaro, 39 = 567 P.) lo sparviero è più sofisticato e perfido: pro-
mette all’usignuolo che lo risparmierà, se canterà bene; ma l’usignuolo
non canterà mai abbastanza bene da convincere lo sparviero.
Quando la forza manca o non basta, si ricorre all’astuzia: così fa il
leone fingendosi malato e invitando gli animali a entrare nella sua
tana. Ma non inganna la volpe (Esopo 147 H.; Babrio 103): l’astuzia, se
a volte sostituisce la forza, più spesso si oppone alla forza e la supera.
Non starò qui a citare le tante favole in cui la volpe inganna gli scioc-
chi, forti o deboli che siano.
Non sempre la frode e la violenza, la golpe e il lione, hanno succes-
so: può anche accadere che a punirle intervenga la divinità; ma nor-
malmente nel mondo esopico, se forza e frode vengono vanificate e
punite, ciò accade per effetto di altra forza o di altra astuzia: nella fa-
vola risalente a Fedro che ho citato poco fa, lo sparviero, mentre ucci-
de l’usignuolo, viene colpito da un cacciatore; il topo ha già fra i denti

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Origine, sviluppo e funzione della favola esopica nella cultura antica 87

l’ostrica, ma l’ostrica lo chiude nella sua morsa e lo ammazza (epigram-


ma di Antifilo, Antologia Palatina IX 86); un gallo, in lite con un altro
gallo, chiede come giudice lo sparviero; mentre arrivano davanti al
giudice, questi ghermisce l’accusatore, che per primo gli cade a porta-
ta di artigli: «Non sono io il colpevole! È quello che scappa!». «Credi
di farla franca, proprio tu che preparavi questa fine al tuo collega?»
(Ademaro 6 = 558 P., da Fedro).
Questi comportamenti si fondano su leggi naturali, cioè su leggi
immutabili; la favola esopica non giunge a questo livello di astrazione
scientifica, ma il concetto è implicito. Zeus sceglie la volpe come re
degli animali e vuol provare se, investita di tale compito, ha perduto la
sua ribalderia: mentre il nuovo re è portato in lettiga, gli fa volare vici-
no uno scarafaggio; il re, senza nessun ritegno, balza su per acchiap-
parlo (Esopo 109 H.). La donnola, innamorata di un giovanotto, viene
mutata da Afrodite in ragazza e lo sposa; la prima notte di nozze vede
un topo e gli salta su per divorarlo (Babrio 32). L’etiope a forza di la-
varsi e strofinarsi può ammalarsi, ma non diventerà mai bianco (Esopo
274 H.). Data l’immutabilità della natura umana non serve a niente
cambiare governo. È agghiacciante, in Fedro (I 15), la favoletta dell’a-
sino e del vecchio pastore: mentre un vecchierello pauroso pascola un
asino, si sentono le grida dei nemici che arrivano: «Scappiamo, ci ac-
chiappano!»; ma l’asino, senza scomporsi: «Perché scappare? Il nuovo
padrone non mi metterà mica due basti!». Non c’è solo l’indifferenza
verso il potere: c’è anche la giustificazione, più o meno rassegnata, del
potere costituito. La morale del famoso apologo di Menenio Agrippa
(attestato in Egitto poco meno di mille anni prima di Cristo) si ritrova
in alcune favole esopiche: per esempio, in una favola già nota a Seno-
fonte (Memorabilia II 7, 13): la pecora si lamenta con il pastore perché
lei che dà tutto è trattata parcamente, il cane, invece, con abbondanza;
e allora il cane le spiega la necessità di avere un esercito (Babrio 128);
l’asino selvatico vanta contro l’asino domestico la propria libertà; arri-
va il leone: l’asino domestico, difeso dal padrone, si salva, l’asino sel-
vatico viene sbranato (Sintipa 30 = 411 P.). In senso contrario, però, si
può citare la favola del lupo e del cane (Fedro III 7), dove il lupo
esalta la propria condizione di libertà.
Nell’opinione comune il mondo della favola esopica appare come un
mondo di lucida rassegnazione; l’opinione è tutt’altro che infondata, ma

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88 Capitolo primo

resta, tuttavia, unilaterale. La volpe conosce e accetta le leggi del mondo


in cui vive, ma con l’astuzia riesce a difendersi contro la forza e a soprav-
vivere in modo più che tollerabile: l’astuzia può servire al debole come
arma contro il forte; è notevole che nella favola dell’aquila e della volpe
secondo Archiloco è Zeus a procurare la vendetta e la giustizia, secondo
la redazione greca in prosa (Esopo 1 H.) sono ancora le maledizio­ni
della volpe ad agire (ma è l’aquila stessa che causa l’incendio), mentre
secondo Fedro (I 28) è la volpe stessa ad appiccare le fiamme. La favola,
insegnando a prevedere il pericolo, è una scuola di prudenza per la so-
pravvivenza: non può, anzi non è degno di sopravvivere il cervo che per
tre volte si fa persuadere a entrare nella tana del leone malato (Ba-
brio 95). La favola è anche una scuola di laboriosità (il termine latino è
industria), di energia, di tenacia, qualità senza cui il povero non può
sopravvivere. Alla notissima favola della cicala e della formica (Babrio
140) è affine quella della formica e dello scarafaggio (Esopo 114 H.): lo
scarafaggio se ne sta tranquillo, mentre la formica lavora sodo; ammira
tanta laboriosità, piglia in giro; con l’inverno lo sterco, nutrimento dello
scarafaggio, si squaglia e lo scarafaggio ricorre alla formica: si può im-
maginare la risposta. La tartaruga può vincere in velocità la lepre, se la
tartaruga, conscia della sua debolezza, cammina senza sosta e la lepre,
sicura di sé, si addormenta al margine della strada (Esopo 254 H.).
Demistificazione, scoperta della realtà effettuale, valorizzazione di
una prudenza pragmatica che conta generalmente sulle forze dell’uomo
e su effetti limitati configurano una sorta di razionalismo empirico e
rudimentale materialismo, che, al di fuori della letteratura esopica, trova
pochi riscontri nella cultura antica: in parte nella prima sofistica, in par-
te nella demistificazione dei cinici. Rispetto alla sofistica, l’elaborazione
della favola esopica è più elementare, molto meno «scientifica», e resta
lontana dalle punte più radicali della sofistica; la rassegnazione non ne
fa un pensiero rivoluzionario. Se nella demistificazione la favola esopica
converge con il cinismo, la soluzione etica resta ben diversa: la filosofia
cinica pone come valore l’autosufficienza (l’αὐτάρκεια) perché crede nel-
la libertà interiore dell’uomo, non asservito al mondo esterno; la pruden-
za esopica, se si contenta di poco, è perché ritiene impossibile rovescia-
re i rapporti sociali o solo modificarli, impossibile instaurare una socie-
tà giusta: consiglia, con pragmatica flessibilità, l’adattamento alla società
ingiusta per arrivare a una tollerabile sopravvivenza.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 89

Capitolo 2

Le vie della favola esopica


dalla Mesopotamia verso occidente1

1. Culture a contatto

Si afferma una banalità, ma una banalità vera e gradita, quando si ri-


corda che la diffusione della cultura ha dato il contributo maggiore a
unire i popoli fra loro o, se non a unirli, a renderli meno estranei l’uno
all’altro; naturalmente la diffusione della cultura è stata favorita, nel
corso di secoli e millenni, dalla formazione di vasti imperi, come quel-
lo persiano, quello di Alessandro Magno, quello, più duraturo, di
Roma; ma, per fortuna, la cultura si è diffusa e si diffonde anche senza
guerre devastatrici e conquiste; d’altra parte l’unità si è dimostrata ef-
fimera quando non è diventata unità di civiltà e di cultura: l’impero di
Alessandro Magno avrebbe avuto poche conseguenze storiche, se non
avesse creato le condizioni per la cultura ellenistica; l’eredità più dura-
tura e più benefica dell’impero romano fu l’unificazione dell’Europa
occidentale nella cultura latina, che era anche cultura greca; ma anche
l’unità culturale del mondo ellenistico fu mantenuta, continuata, favo-
rita e rinsaldata sotto il dominio romano.
Quando, per l’antichità, si parla di diffusione della cultura, in senso
stretto, si pensa innanzi tutto alla diffusione della religione o delle
religioni, della mitologia; in secondo luogo si pensa alla diffusione

1
  [Relazione tenuta al Congresso internazionale AICC (Associazione Italiana di Cultura
Classica), Delegazione valdostana, St. Vincent 17-18 ottobre 1992. Apparsa nei relativi atti:
Vie di comunicazione e incontri di culture dall’antichità al medio evo tra Oriente e Occidente, a
cura di Mariagrazia Vacchina, Assessorato regionale della Pubblica Istruzione, Aosta 1994,
pp. 162-186; quindi in Favolisti latini medievali e umanistici, XIV, a cura di Ferruccio Ber-
tini e Caterina Mordeglia, D.AR.FI.CL.ET., Genova 2009, pp. 9-34, «con ritocchi quasi
solo tipografici» e «due appendici di aggiornamento bibliografico», queste ultime colloca-
te rispettivamente, la prima (Addendum bibliografico 2009) al termine di questo capitolo
(p. 114), la seconda (Postilla 2009) in parte al termine del capitolo 7 (p. 332), in parte
nell’Appendice B (p. 358)].

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90 Capitolo secondo

della letteratura scritta, dei grandi generi letterari come l’epica, il tea-
tro, l’oratoria, la storiografia; ma, rispetto alla diffusione di questa let-
teratura scritta, ha importanza non molto minore la diffusione, più
orale che scritta, di forme varie di narrativa, generalmente in prosa,
più raramente in poesia: fiabe, novelle e altre forme ancora meno de-
finibili. Io darò una breve trattazione sull’origine e la prima diffusione
della favola esopica: ho scelto questo tema perché me ne occupai una
trentina di anni fa e, più sporadicamente, anche in seguito. Per questo
mio intervento ho utilizzato studi già da me pubblicati, ma anche i
risultati di ricerche successive condotte in vista di un progetto, non
ancora realizzato, di una storia della favola esopica nell’antichità greca
e latina. Naturalmente partii da acquisizioni e tentativi anteriori di
altri studiosi, e il debito è riconosciuto nei miei studi; accennerò, ma
senza sistematicità, anche a pubblicazioni più recenti: tutta la mia trat-
tazione vuole avere il carattere di una rapida sintesi divulgativa, non di
un nuovo contributo di ricerca.

2. Tradizione esopica e favolistica sumero-babilonese

Nell’Ottocento gli studiosi che si occuparono dei viaggi del folklore


narrativo fra Oriente e Occidente, batterono soprattutto la via fra Gre-
cia e India: dopo oltre un secolo sono ancora famosi gli studi di Theo-
dor Benfey sul Pañcatantra, la più diffusa raccolta indiana di novelle,
di cui egli pubblicò una delle redazioni più importanti2. Tra le novel-
le di questa raccolta sono comprese non poche di quelle favole che noi
chiamiamo esopiche. Per il Medioevo la via dall’India all’Occidente ha
ancora una sua validità; poiché di questa via non mi occupo, basterà
accennare a un tramite ben noto: dal testo sanscrito di una delle reda-
zioni del Pañcatantra si arrivò, attraverso passaggi intermedi, a un tra-
vestimento arabo, che circolò anche in Spagna; in questo paese, dove
culture varie (araba, ebraica, latina) s’incontrarono nel Medioevo, il

2
  Das Pantschatantra, Leipzig 1859. Una breve trattazione aggiornata sulla favola indiana
di tipo esopico si trova ora nella comunicazione di G. U. Thite nel volume collettaneo
La fable, a cura di Fr. R. Adrados e O. Reverdin, «Entretiens de la Fondation Hardt»,
30 (Vandœuvres-Genève, 22-27 agosto 1983), Vandœuvres-Genève 1984, pp. 33-53 (discus-
sione nelle pp. 54-60).

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 91

testo arabo fu adattato in latino: di qua la diffusione in Italia, attraver-


so adattamenti in latino medievale (Giovanni da Capua) e in volgare
(Agnolo Firenzuola). Ma questa è storia della cultura medievale: per
l’antichità i tramiti sono più incerti, e non è illegittimo seguire, col
Benfey, la via dalla Grecia verso l’India.
Già nell’Ottocento l’attenzione, oltre che all’India, fu rivolta alla
più vicina area del Medio Oriente, in particolare alla cultura assiro-
babilonese; ma ci si fondò su analogie e indizi troppo tenui; per esem-
pio, una favola esopica di tori in guerra col leone (Babrio 44) fu acco-
stata a un bassorilievo assiro, dove due liocorni combattono con un
leone; in un bassorilievo di un obelisco di Salmanassar, dove si rappre-
senta un cervo assalito da un leone, si credette di ritrovare la favola del
cervo alla fonte (Esopo 76 H.; Babrio 43; Fedro I 12); la favola del le-
one e dell’asino che vanno a caccia insieme (Esopo 156 H.; Fedro I 11)
era di origine assira solo perché i re assiri avevano l’abitudine di anda-
re a caccia3.
L’ipotesi dell’origine assiro-babilonese della favola esopica inco-
minciò a poggiare su basi più solide all’inizio del nostro secolo. Un
rapporto concreto fu indicato dapprima in un genere di letteratura che
non coincide con la favola esopica, ma che nelle raccolte greche di
favole esopiche ha una sua presenza: i contrasti verbali, le tenzoni fra
animali o fra piante. Il primo passo fu fatto da un cultore famoso di
filosofia greca, Hermann Diels4. In un nuovo testo di Callimaco sco-
perto in papiri, precisamente in uno dei Giambi (fr. 194 Pf.), si svolge
una tenzone fra l’alloro e l’olivo, che vantano ciascuno i propri meriti:
il Diels giustamente la accostò a tenzoni analoghe fra alberi che erano
state scoperte in testi babilonesi, per esempio una fra il tamerisco e la
palma da datteri, e acutamente indicò che il tramite fra la cultura ba-
bilonese e Callimaco doveva trovarsi in folklore dell’Asia anteriore,
precisamente della Lidia, perché Callimaco riferisce il racconto come
narrato dai Lidi, che ponevano la scena sul monte Tmolo. Io indicai
un’altra analogia fra quel genere di racconti babilonesi e la tenzone

3
  Indicazioni su tali labilissime congetture sono date da M. Marchianò, L’origine della
favola greca e i suoi rapporti con le favole orientali, Trani 1900, da me utilizzato in Letteratu-
ra esopica e letteratura assiro-babilonese, pp. 24-25 (qui, pp. 115-116).
4
  Orientalische Fabeln in griechischem Gewande, «Internationale Wochenschrift für
Wissenschaft Kunst und Technik», vol. 4, 1910, coll. 993-1002.

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92 Capitolo secondo

riferita da Callimaco5. Nel contrasto fra l’alloro e l’olivo interviene


come paciere il rovo, personaggio ridicolo, perché vuole attribuirsi un
ruolo troppo superiore alla sua condizione di plebeo; nelle tenzoni
babilonesi come conciliatore interviene di solito una divinità: dunque
nel racconto dei Lidi, o in un precedente babilonese, il rovo pretende-
va di assumersi il ruolo che spettava a un dio! A questo punto è oppor-
tuno ricordare che da scoperte successive il genere letterario delle ten-
zoni risulta anteriore alla cultura babilonese: rientra tra le forme di
letteratura che i Babilonesi ereditarono dalla cultura sumerica.
Oggi la conoscenza dei testi assiro-babilonesi conservati dalle tavo-
lette cuneiformi è molto più ricca, e molto si è ampliata la disponibi-
lità di testi contenenti brevi racconti di tipo esopico e proverbi: le fa-
vole che noi diciamo esopiche, che servono a dimostrare una morale,
si mescolano a sentenze in cui si allude a brevi racconti, che ai lettori
dovevano essere noti, o a semplici sentenze prive di esempio6. La
presenza di favole di tipo esopico nella letteratura babilonese fu già
messa in rilievo dall’assiriologo tedesco Erich Ebeling, che ben com-
prese l’importanza di quest’area culturale come fonte di quel genere di
letteratura7. Torno a riferire qui alcuni dei testi da lui tradotti e illu-
strati. Un cavallo ardente monta una mula e nella voluttà le mormora
all’orecchio: «Il figlio che avrai sarà focoso come me, non sarà come il
vile asino che porta il giogo». Si sa che la mula non genera: forse irri-
sione delle promesse stolte che si fanno in amore, o, più semplicemen-
te, delle illusioni umane. Una pulce e una mosca litigano fra loro; so-
praggiunge una mosca di un’altra specie per fare da paciere, ma viene
gettata in ceppi dai due litiganti e divorata, a quanto pare, da un topo:
la morale sarà che chi vuol fare da paciere a volte piglia le botte. Il
ragno tende un agguato alla mosca; il camaleonte si adira contro il
ragno: proprio lui (forse questa è riflessione implicita dell’autore) che
è più furfante del ragno! L’Ebeling riuscì anche a indicare con certez-
za un caso di favola esopica greca derivata da una favola babilonese. In

5
 Cfr. Letteratura esopica e letteratura assiro-babilonese, p. 26 (qui, p. 117).
6
  Su questo genere di letteratura indicazioni bibliografiche detti in Letteratura esopica e
letteratura assiro-babilonese, cit.; cfr. ora R. S. Falkowitz, Discrimination and Condensation
on Sacred Categories. The Fable in Early Mesopotamian Literature, in Adrados e Reverdin
(a cura di), La fable, cit., pp. 1-24 (discussione alle pp. 25-32).
7
  Die babylonische Fabel und ihre Bedeutung für die Literaturgeschichte, Leipzig 1927.

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Le vie della favola esopica dalla Mesopotamia verso occidente 93

una di queste favole i personaggi sono la mosca e l’elefante. La mosca


si posa sull’elefante e gli chiede: «Fratello, ti ho affaticato col mio peso?
Vicino all’abbeveratoio volerò via». Risponde l’elefante: «Che tu ti fos-
si posata su di me, non m’ero neppure accorto». La stessa azione, lo
stesso dialogo troviamo in una favola di Babrio (84); naturalmente la
stessa è la morale, cioè la satira contro chi si dà importanza e in realtà
non conta nulla; ma sono diversi i personaggi: la mosca viene sosti-
tuita alla zanzara, il toro, animale più familiare ai Greci, prende il
posto dell’elefante. Babrio, dunque, si atteneva a una tradizione giusta,
quando nel proemio al secondo libro (proemio collocato fra 107 e 108)
affermava che la favola era invenzione degli antichi Siri, vissuti al tem-
po di Nino e di Belo (cioè degli Assiri, non distinti dai Babilonesi);
oggi dobbiamo solo aggiungere che i veri inventori erano stati i Sume-
ri, più antichi degli Assiri e dei Babilonesi.
Di confronti probanti come quello indicato dall’Ebeling oggi non
ne abbiamo molti, ma uno ha particolare importanza, un’importanza
che si potrebbe dire clamorosa. Una delle favole più famose, quella
dell’aquila e della volpe, ci è nota da uno degli epodi di Archiloco, che,
come vediamo dai frammenti (89-95 D.), la narrava con arte finissima,
oltre che con viva passione per la giustizia. Quasi trent’anni fa ho di-
scusso della ricostruzione del testo di Archiloco8, ma qui mi limito a
pochi punti essenziali. La volpe e l’aquila fecero società; probabilmen-
te il patto veniva sancito con un giuramento per Zeus, garante della
giustizia. L’aquila, violando il patto, rapisce i cuccioli della volpe e li
dà in pasto agli aquilotti. La povera volpe protesta, recrimina contro
l’aquila, ma ne riceve in cambio irrisione e disprezzo; vendicarsi non
può, perché il nido dell’aquila è collocato a un’altezza sicura, inacces-
sibile. Allora invoca Zeus, perché trovi lui la via della giustizia e della
vendetta. Zeus esaudisce l’animale debole, ingiustamente ed empia-