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isbn 9788874902576

Photobook
L’immagine di un’immagine

Silvia Bordini

Photobook. L’immagine di un’immagine


di Silvia Bordini

© 2020 Postmedia Srl, Milano

Ringraziamenti:
Piero Cavagna
Biblioteca della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma

Design: Alessandra Mancini

www.postmediabooks.it
isbn 9788874902576 postmedia books
Indice

Capitolo 1
7 L’immagine di un’immagine
1.1 Ma dunque cos’è un libro fotografico?
1.2 Fotografi, editori e collezionisti

Capitolo 2
47 Come si gestisce un medium
2.1 Serie e sequenza

Capitolo 3
71 Festival, laboratori, premi e mostre
3.1 Libri visibili e libri intoccabili
3.2 Il libro come pensiero visivo

Capitolo 4
109 Strategie digitali e oggetti immateriali

Capitolo 5
121 Nove libri fotografici

140 Bibliografia

143 Biografia dell’autore


isbn 9788874902576

PHOTOBOOK 7

Capitolo 1
L’immagine di un’immagine

“Per molti decenni è stato il libro il modo più diffuso di mettere in ordine
(di solito miniaturizzandole) le fotografie, garantendo loro in questo modo –
le fotografie sono oggetti fragili che si rompono o si smarriscono con facilità
– se non immortalità, la longevità e insieme un pubblico più vasto. In un
libro la fotografia è, ovviamente, l’immagine di un’immagine. Ma poiché,
già in partenza, è un oggetto liscio e stampato, riprodotta in un libro una
fotografia perde la sua qualità essenziale assai meno di un quadro. Eppure
neanche un libro è del tutto soddisfacente quando si tratta di diffondere una
serie di fotografie. L’ordine nel quale le fotografie devono essere guardate è
proposto dall’impaginazione, ma nulla obbliga i lettori a seguire la sequenza
prescelta né indica il tempo necessario da passare su una fotografia”.1
Così scriveva Susan Sontag nel 1973, facendo riferimento a un rapporto
tra libro e fotografia strettamente legato da un lato alla dimensione
concettuale della riproduzione come “immagine di un’immagine”, dall’altro
a una comune modalità della visione delle fotografie come oggetti. Ma da
allora questa concezione del legame immagine fotografica-libro ha ricevuto
interpretazioni e pratiche diverse. Oggi in generale il libro fotografico non è
considerato semplicemente un contenitore o un supporto ma piuttosto uno
spazio di sperimentazione in cui le immagini prevalgono e in cui convergono
componenti diverse – il fotografo certamente ma anche il designer, l’editore, il
pubblico, il collezionismo, il mercato – nell’orizzonte di una storia articolata
e in divenire. Lo statuto di oggetto fisico e tangibile proprio della fotografia
si è sempre più incorporato nel libro, in parallelo, paradossalmente, con la
sua smaterializzazione nei dispositivi digitali.
Mi riferisco a quel modo specifico di proporre immagini fotografiche
che va sotto il nome di libro fotografico o photobook, come più spesso è
8 Silvia Bordini

denominato in numerosi scritti ed eventi che ne testimoniano la diffusione


nel ventunesimo secolo in un contesto internazionale. Pagine fotografiche o
fotografie in forma di libri; una pratica antica come antico è il rapporto tra
fotografia, carta e stampa, nuova per le modalità e intenzionalità con cui è
oggi pensata, prodotta e diffusa.
Nella storia della fotografia si possono rintracciare innumerevoli esempi
di volumi che pubblicano fotografie in quantità notevole adottando varie
tipologie a seconda delle occasioni – cataloghi di mostre, album personali,
portfolio, book promozionali, storia e saggistica – e si può affermare che
tutti o quasi tutti i grandi fotografi sono stati coinvolti nella stampa di uno
o più libri delle proprie immagini, anche quando il termine photobook
ancora non esisteva; da Avedon
a Berengo Gardin, da Kertesz a
Evans, da Koudelka a Giacomelli,
da Araki a Goldin e tanti altri. Ma
al giorno d’oggi questa modalità
sta acquisendo una dimensione
mentale e una presenza senza
precedenti, configurando un genere
a sé stante, strutturato come un
dispositivo che funziona secondo
una gamma di paradigmi simbolici,
narrativi e concettuali diversi, ideati
e realizzati in una grande varietà
di materiali, editing, dimensioni,
formati, rilegature.
L’identità del libro fotografico e della sua storia è stata gestita in tempi
recentissimi da un agguerrito gruppo di pubblicazioni che hanno conferito
una nuova e prestigiosa visibilità a un medium di larga ma silenziosa
diffusione. Centinaia e centinaia sono i libri di fotografie che sono stati
raccolti, selezionati e pubblicati di recente, la maggior parte nel ventunesimo
secolo, in alcuni grandi volumi di carattere generale. La quantità e qualità
di queste pubblicazioni ha contribuito a dare definizione a un fenomeno
che fino a poco tempo fa sembrava marginale, collocandolo all’interno di Gianni Berengo Gardin, Dentro le case, 1977
un sistema e portando alla ribalta le relative pratiche editoriali, materiali e A sinistra: Mario Giacomelli, Mario Giacomelli,1980
20 Silvia Bordini

1.2 Fotografi, editori e collezionisti

Non a caso anche i più importanti tra gli storici e gli specialisti di
photobook sono generalmente fotografi oltre che collezionisti, editori,
curatori di mostre ed eventi, accorti imprenditori delle proprie curiosità e
passioni. Prins è artista, fotografo, designer, dedito a un particolare impegno
nella conservazione della memoria di avvenimenti del suo paese, l’Olanda.11
Il photobook è uno dei temi di un discorso artistico e culturale sull’immagine
come documento intessuto di storia e di socialità e anche di un intrinseco
valore simbolico. Gli elementi cioè che hanno accompagnato la sua attività
di fotografo in giro per il mondo; infatti Prins ha lavorato successivamente
ad Amsterdam (1945), L’Aia (1946), Parigi (1950), in Italia, dove è stato
un designer industriale per Olivetti (1950). Inoltre a Cuba, a Mosca, in
Giappone, Portogallo, Spagna, Turchia, e Svizzera. Il suo libro Foto in omslag,
con la collaborazione di Michael Boom, è una delle prime pubblicazioni
che hanno modificato la percezione del libro fotografico: un volume di 143
pagine dedicato alla tradizione dei libri di fotografia in Olanda, a partire
dalla fine della guerra mondiale fino al 1990.12
Andrew Roth è un protagonista di primo piano della scena newyorkese:
fotografo, gallerista, collezionista di fotografie e di libri, ma anche di carte,
residui e ricordi. Oltre a curare libri di autori famosi (come Daido Moriyama
e David Wojnarowicz) ha pubblicato diverse raccolte di photobook: il primo è
stato Books on Photography nel 1996, (riedito 1997 e 1999); nel 2001 è uscito
The Book of 101 Books, 320 pagine sui libri di molti grandi fotografi, dal 1907
al 1996, tutti corredati da immagini e informazioni, con saggi di Richard
Benson, May Castleberry, Daido Moriyama, Neville Wakefield, Richard
Princeis, Jeffrey Fraenkel. È stato pubblicato in tre formati diversi, di cui uno
in edizione limitata e firmata sul modello di alcuni prestigiosi photobooks,
e, come questi, diventato rapidamente oggetto di collezionismo. E nel 2004
Roth ha dato alle stampe The Open Book. A history of the photographic book
from 1878 to the present, un volume nato come catalogo di una mostra
all’Hasselblad Center di Goteborg 2004, con saggi di Simon Anderson e Ute
Eskildsen, Philip Aarons, Gerhard Steidl e una postfazione di Hasse Persson),
e nel 2017 Artists who make books.13 Una serie dunque di ampie raccolte dei
libri che ritiene i più rappresentativi della grande diffusione dell’immagine Martin Parr, The Last Resort, 1983-85
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Capitolo 2
Come si inventa un medium

A volersi interrogare sui libri fotografici ci si trova dunque in un labirinto


di volumi, immagini, autori, formati. Si scopre un mondo, e ci si accorge
che è un mondo sapientemente costruito: viene da pensare – a proposito
di definizioni – che il photobook sia davvero un’invenzione. Prima delle
grandi raccolte enciclopediche pubblicate di recente c’era una moltitudine
di libri impostati sulla riproduzione fotografica – le immagini di immagini
di cui parla Sontag – poi c’è stato il photobook: non solo uno spazio o
un supporto cartaceo in cui collocare le fotografie ma piuttosto fotografie
pensate e realizzare per stare in quello spazio e su quel supporto. Un nuovo
medium, in cui la fotografia non è più un singolo evento ma l’ingrediente
fondamentale di un insieme, nella logica del processo di un continuo e
instabile mutamento di forme e metodi della comunicazione, nel contesto
della rivoluzione informatica.
Mentre il libro stampato come forma storicamente configurata conosce
l’obsolescenza o quanto meno la concorrenza provocata dagli e-book e
dalle piattaforme di self-publishing, e mentre le pratiche della fotografia si
confrontano con le tecnologie digitali e con il corollario di immaterialità
ad esse collegate, si riscopre e si rilancia il libro fotografico, con tutto il
suo apparato di materia, tradizione e invenzione. E introducendo inoltre
le implicite mutazioni del rapporto tra il lettore e un testo non più basato
prevalentemente sulla parola ma sull’immagine. Si mette in campo un’identità
culturale costruita su una quantità di ricerche – inventare è innanzi tutto
trovare, scoprire – nutrita dalla passione di un colto collezionismo e anche
da una sapiente imprenditoria, sia culturale sia economica. Come ogni
invenzione il photobook ha un fondamento, costituito dall’imponente
accumulo di fotografie stampate sui libri che attendevano l’iniziativa di uno
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2.1 Serie e sequenza

Il rapporto arte-fotografia sperimentato da Ruscha va comunque ben


oltre la semplice rispondenza tra fotografie, serigrafie e dipinti a olio dello
stesso soggetto, e implica piuttosto una relazione con le tendenze più
radicali dell’arte del suo tempo. L’esperienza diversa della fotografia e del
libro proposta da Ruscha partecipa, in parte anticipandolo, al clima della
cultura artistica dell’epoca, mirata alla ricerca di forme alternative, metodi
e dispositivi collocati intenzionalmente al di fuori dalle aspettative e dai
canoni istituzionali del sistema dell’arte. Un processo in cui la fotografia ha
un ruolo da protagonista, attraverso una varietà di lavori di Bruce Nauman,
John Baldessari, Eleonor Antin e Sigmar Polke, oltre a vari esponenti dell’arte
povera in Italia, quali Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Giovanni Anselmo,
Gilberto Zorio, Alighiero&Boetti e Emilio Prini.
Ruscha, che oggi potremmo definire come non/fotografo o già
postfotografo (per citare una definizione un po’ ambigua ma molto alla
moda), concepisce la fotografia come strumento di acquisizione visiva
collegato alla ripetizione e alla serie, nella logica di un dispositivo costituito
da una totalità di parti non identiche ma simili e assimilabili a un unico
discorso. Ricorre inoltre nelle sue pompe di benzina o nelle facciate degli
edifici lungo il Sunset Boulevard o negli accendini e nelle piscine l’idea di
immagini prelevate dal contesto come se fossero oggetti ordinari trovati e
modificati (secondo un’impronta duchampiana), e disposti come un’icona
ripetuta con poche varianti, secondo un procedimento mentale non dissimile
dai dipinti delle famose Campbell Soup che Andy Warhol espone alla Ferus
Gallery di Los Angeles nel 1962.
Ma con la significativa differenza che Ruscha lavora direttamente con un
medium radicalmente diverso; l’opera non è un dipinto, un unicum, ma è un
oggetto riproducibile, come riproducibile è il libro e come lo è la fotografia.
Egli stesso parla in un’intervista del suo interesse per Duchamp ma prende
anche le distanze dal concettualismo per la sua rigidezza. “Le mie foto non
sono così interessanti, e non lo è neppure l’argomento. – dichiara Ruscha –
Sono semplicemente una raccolta di “fatti”; il mio libro è più simile a una
raccolta di “readymades”.8
Piuttosto, la struttura seriale con cui Ruscha costruisce i suoi libri è in Ed Ruscha, Every Building in Sunset Strip, 1966
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Capitolo 3
Festival, laboratori, premi e mostre

What a book is, è l’incipit di The New Art of Making Books, un saggio
pubblicato da Ulises Carriòn nel 1975, e recentemente inserito nel catalogo
di Documenta 14: Learning from Athens (2017)1. Carriòn è stato un poliedrico
artista, editore e scrittore messicano che ha lavorato in vari paesi europei e si è
stabilito per molti anni ad Amsterdam, dove ha fondato Other Books and So;
uno spazio interamente dedicato ai “non-libri, anti-libri, pseudo-libri, quasi-
libri, libri concreti, libri visuali, libri concettuali, libri strutturali, libri progetto,
libri dichiarazione, libri istruzione”, in sostanza libri oggetto e non libri da
leggere, simboleggiati nella formula Dear reader/ Don’t read di un suo celebre
dittico2. In The New Art of Making Books, il suo scritto più famoso, Carriòn
definisce, concettualizza e mette in discussione il libro d’artista conducendo
un’analisi che tocca lo spazio, il tempo, la sequenza, la forma, la struttura e
la lettura. Un saggio teorico, breve, provocatorio e dissonante, che non fa
riferimento a nessun libro in particolare ma segna una svolta nel modo di
concepire la struttura di un testo a stampa in quanto dispositivo artistico.
La sua presenza in una mostra importante come Documenta conferma
l’interesse per il libro come forma d’arte, riscontrabile in molte delle scelte
che hanno caratterizzato non solo questa manifestazione (sia a Kassel sia ad
Atene) ma anche, parallelamente, la cinquantasettesima Biennale di Venezia.
A Kassel l’elemento più vistoso è stato il monumentale The Parthenon of
books di Marta Minujìn sulla Fiedrichsplatz, più di 100.000 libri usati come
materiale da costruzione e metafora di una versione del Partenone a grandezza
naturale; e non libri qualsiasi ma oltre 170 titoli messi al bando, censurati
e bruciati nel corso dei secoli, da Boccaccio a Einstein, da Machiavelli a
Kafka, da Voltaire a Thomas Mann, da Lewis Carrol a Orwell. Alla Biennale
di Venezia, intitolata Viva Arte Viva, la parte centrale dei Giardini si è
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Abdullah Al Saadi, Al Saadie’s Diaries, 2016


A destra: Daniel Knorr, Βιβλίο Καλλιτέχνη. Materialization, 2017

aperta simbolicamente con il Padiglione degli artisti e dei libri, a conferma


dell’impostazione “umanistica” voluta dalla curatrice Christine Macel per
introdurre alle varie interpretazioni del libro che serpeggiano nella mostra:
i libri cuciti di Maria Lai, la scrittura primordiale delle pagine illeggibili di
Irma Blanc; i libri realizzati in tessuti ricamati e a uncinetto di Katherine
Nuñez & Issay Rodriguez; le installazioni di libri bruciati in dissacranti
performance da John Latham; le pile di copertine coloratissime di Liu Ye; le
scatole metalliche in cui Abdullah Al Saadi conserva ed espone i suoi diari
scritti su fogli piegati a leporello e su rotoli di stoffa. Le lunghe sequenze di
volumi nelle vetrine di Geng Janyi, con le pagine squadernate senza scritte né
parole ma dilavate da inchiostri colorati.
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Capitolo 4
Strategie digitali e oggetti
immateriali

I libri, di qualsiasi tipo e contenuto, dal romanzo al saggio, dalla biografia


alla raccolta di documenti, dal catalogo alla poesia, fino alle varie forme che
assumono i libri d’artista e i photobooks, hanno sempre una consistenza
materiale. C’è sempre il supporto, la carta, l’inchiostro, la rilegatura,
il volume, il peso, la presenza. Il libro è un oggetto: è tridimensionale,
tangibile, ha uno spessore, occupa spazio, è fatto per comunicare qualcosa
attraverso una fruizione mentale legata a una manipolazione fisica che attiva
sequenzialmente la sua struttura. Tanto più nel caso di libri particolari come
i libri fotografici in cui la componente visiva (e simbolica) assume un ruolo
speciale e specifico, implicando una forma di lettura in cui l’immagine
prevale e espunge la parola.
Tuttavia nell’ambito fluido delle forme di comunicazione e dei linguaggi
della nostra epoca globalizzata e interattiva, anche il libro tende ad assumere
inesorabilmente la configurazione di un oggetto immateriale e mutante. Le
“nuove tecnologie” sono ormai fondamentali sia per acquisire e modificare
le immagini sia per la composizione del libro fotografico, dal formato, al
carattere e all’impaginazione, tutte operazioni che riguardano le procedure
non solo del self-publishing ma anche dell’editoria tradizionale. Registrato
e trasmesso in internet il libro diventa un codice; nel formato di e-book i
testi – verbali e visivi – appaiono e si diffondono sui display testimoniando
del cambiamento dei nostri modi di percepire sempre più adattati alla lettura
sulle superfici degli schermi che, come argomenta Giuliana Bruno in un suo
bel saggio, sono diventati “una condizione materiale della nostra esistenza”.1
È vero che il successo di cui il libro fotografico gode negli ultimi anni – tra
pubblicazioni e eventi, collezionismo, laboratori e mostre – sembra in qualche
misura contrastare il dominio immateriale di internet: “Diventato ormai
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Capitolo 5
Nove libri fotografici

Magma
Antonio Biasucci

Case Study Home


Peter Bralobrzeski

Some Windy Trees


Vincent Delbrouck

Multiforms
Giulia Marchi

Adriatic Sea (Staged) Dancing People


Olivo Barbieri

Paesaggi
Alessandro Dandini de Silva

Woman We Have Not Lost Yet


Issa Touma

Transart. A Journey Into Aural Space


Nicolò De Giorgis e Lisa Mazza (a cura di)

Outskirts
Daisuke Yokota
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Peter Bialobrzeski
Case Study Home
Hatje Cantz, Ostfildern, 2009

Un libro fotografico che sembra avere tutti gli ingredienti per apparire
solidamente tradizionale, nel senso che ha al loro posto tutte le componenti
del genere: rilegatura in cartoncino, copertina, titolo, breve prefazione, dedica
finale, editore. Ottanta fotografie a colori, tutte delle stesse dimensioni e
correttamente smarginate, tutte con lo stesso tipo di luce piatta e omogenea:
la ripetizione seriale di una tipologia di oggetti diversi ma uniformati da un
medesimo sguardo. Fotografie molto intense, diverse e meno spettacolari di
altri paesaggi urbani che da tempo
sono il campo di ricerca di Peter
Bialobrzeski, come ad esempio la
serie di megalopoli asiatiche di
Neon Tigers (2000-2002).
Il titolo del libro si riferisce al
programma Case Study House –
avviato nel 1945 dalla rivista Arts
and Architecture con l’obiettivo di
costruire 36 abitazioni unifamiliari
sperimentali a basso costo nel sud ondulato e altri tipi di scarti e residui assemblati in forma di casa, puntellati
della California, su progetto degli su palafitte improvvisate per ripararsi dai movimenti del mare e della sabbia.
architetti Richard Neutra Charles A Baseco vivono circa 70.000 persone – lavoratori migranti dalla campagna
e Ray Eames e Raphael Soriano. delle Filippine – ma nessuna è visibile in queste immagini; Bialobrzeski sceglie
Un progetto considerato all’epoca di rendere silenziosa e deserta questa sterminata e instabile baraccopoli,
come uno dei più significativi proponendo alcuni esempi e senza mai aderire a un approccio pittoresco
nell’architettura post-Seconda Guerra Mondiale. Ma il sogno americano, né a un compassionevole compiacimento. Per questo elimina ogni traccia
così come la tassonomia alla Bernd e Hilla Becher richiamata in questa serie, di vita, donne uomini, bambini e animali sono assenti dalle loro abitazioni
si ribalta nelle immagini di Bialobrzeski e si trasforma in un diverso tipo che così diventano oggetti quasi surreali, forse sculture, forse tracce che
di distacco e insieme di tensione. Le fotografie raccontano le baracche di provengono da un mondo lontano. Un mondo che improvvisamente genera
Baseco, un campo di abitazioni abusive costruite sulla sabbia tra due terminal immagini assurdamente piene di dignità e di rispetto. Perché questa è una
container del porto di Manila; strutture provvisorie ricavate dai più disparati delle caratteristiche del libro fotografico, pagina dopo pagina evocare altre
materiali che la città butta via, pezzi di legno, plastiche, cartone, metallo immagini, creare connessioni, porre domande, provocare interpretazioni.
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Vincent Delbrouck
Some Windy Trees
self-published (Wilderness), 2013
500 copie firmate e numerate

Il libro è un lavoro autoprodotto, esempio significativo del self-publishing


che tanta parte ha nei photobooks, nella loro letteratura e nella divulgazione.
Come fotografo e come editore di se stesso Vincent Delbrouck è accuratis-
simo nella progettazione del suo libro in tutte le componenti, dalla carta
alle dimensioni, alla composizione e alla dichiarazione di intenti. Solo 10
fotografie intervallate da pagine bianche e sulla controcopertina una serie
di brevi dichiarazioni sul concept dell’opera. A cominciare da una citazione
da The Practice of the Wild di Gary Snyder, “Nature is not a place to visit, it
is home”, per proseguire con una frase che localizza il territorio emotivo e
geografico degli scatti di Delbrouck: “These images
were taken in spring 2010 on a high plateau be-
low the Nilgiri Mountain, surrounding the windy
Kali Gandaki valley, in Mustang region (Nepal).
May we preserve the “ordering of impermanence”
of this place, as a sacred part of our nature for the
sake of the whole and for future generations!”.
Some Windy Trees è la seconda parte di The
Himalayan Project una trilogia dedicata all’altopiano
sottostante i monti Nilgiri (Montagne blu), una
catena montuosa alle pendici dell’Himalaya. Le
sue immagini riflettono concezioni estetizzanti e
meditative che si alimentano nella solitudine e nel
silenzio, tra i pianori di un luogo mitico ai piedi
della montagna più alta del mondo, alla ricerca di una purezza zen. È quanto
Delbrouck racconta impaginando le sue fotografie di alberi piegati dal vento,
monumentali e contorti, tra i vuoti delle pagine bianche. Una sequenza
modulata su poche variazioni; alberi che sopravvivono radicati nella terra
delle alte latitudini, metafora evidente e allarmante, oggi in particolar modo,
di una natura incontaminata sempre più rara e preziosa.
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politico e religioso. Negli spazi della galleria, mentre la città veniva distrutta,
Issa Touma ha subito organizzato una sessione fotografica e ha ripreso le
immagini che compongono questo libro. Quindici donne di varie etnie e
religioni, tra il 18 e i 35 anni, raccontano in poche righe la loro storia; vestite
con gli abiti tradizionali che ognuna di loro ha scelto di indossare, in posa,
dignitose, composte, belle. Nessuna concessione all’esibizione e neppure alla
documentazione del dolore, della perdita, della distruzione atroce portata dalla
guerra in Siria. Ma come sempre succede nei libri fotografici, il messaggio
drammatico arriva dalla composizione, dal montaggio, e dall’intenzionalità

Issa Touma
Woman We Have Not Lost Yet
Paradox, Rotterdam, 2015

“Dedicated to: The Aleppo Women for telling their stories so openly and dell’autore: Issa Touma ha diviso in due il corpo di ciascuno di questi ritratti,
courageously, in the hope of changing the future of the city. The members of letteralmente tagliato all’altezza degli occhi, una parte in una pagina, l’altra
Art Camping for their help to opening the eyes of the world to Aleppo’s rich, nella pagina successiva. Le donne di Aleppo non hanno più gli occhi, lo
inclusive past and the importance of preserving it.” sguardo scompare, ognuna di queste fotografie si staglia sul vuoto, le pagine si
“Dedicato alle donne di Aleppo” può evocare un’atmosfera vagamente riempiono di spazi bianchi. Gli occhi tagliati sono una trasparente metafora
esotica ma non è così. Il 26 aprile 2015, quando le forze radicali islamiche della violenza, tanto più efficace in quanto le immagini sono semplici ed
dell’opposizione hanno dato inizio al “Grande Attacco” della città di Aleppo, eleganti, senza effetti visivi aggiunti. Quello che in una rivista di moda
varie persone hanno trovato riparo negli spazi di Le Pont, la galleria d’arte potrebbe essere un espediente glamour si rivela qui drammaticamente come
di Issa Touma, fotografa e fondatrice nel 2011 di Art Camping, un progetto la metafora di un dolore inguardabile. E le parti scritte del libro, limitate a
rivolto a usare l’arte come elemento aggregatore di cittadini e rifugiati contro poche righe con cui le donne di Aleppo riferiscono le loro storie, diventano
gli orrori della guerra e per una resistenza comune contro il fanatismo icone, complemento necessario per la lettura del libro fotografico.
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140 Silvia Bordini PHOTOBOOK 141

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