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Breve storia della Fotografia (parte 1)

Quando ci si avvicina alla storia della fotografia, sono essenzialmente due gli aspetti da tenere presenti. Il primo è
di carattere tecnico: fino agli inizi del XX Secolo la storia di quest’arte, infatti, non può disgiungersi dalla storia e
dai progressi delle tecniche e dei materiali in quanto sono assolutamente vincolanti per i risultati, tanto che spesso,
fototipi di epoca ottocentesca sono valutati più per il medium che per l’immagine. Il secondo aspetto è, invece, di
carattere estetico: la fotografia ha sempre avuto un rapporto molto contrastato con la pittura, dal confronto con la
quale non è mai riuscita a liberarsi, sia che la si ritenesse serva sia che la si considerasse forma d’arte superiore,
tanto che è stata spesso, e continua ad esserlo, erroneamente giudicata con gli stessi parametri estetici.

Definizione
 

Volendone dare una definizione, si può dire che la fotografia è qualsiasi sistema che permetta di convertire, in
modo più o meno permanente e visibile, immagini prodotte su supporto con l’azione di radiazioni ultraviolette e
infrarosse. La sostanza chimica che, per le sue doti di fotosensibilità, è stata più usata è l’argento in alcuni suoi
composti come il nitrato d’argento e lo Ioduro d’argento.

La nascita della fotografia


 

La fotografia ha una data di nascita “ufficiale”: 9 luglio 1839 quando al procedimento fotografico di  Louis
Jacque Mandè Daguerre (1787- 1851), scenografo e creatore di diorami, viene concesso il brevetto
dall’Accademia delle Scienze di Parigi. Il suo socio, e vero “scienziato”, Joseph Nicéphore Niepce (1765-1833),
che già negli anni venti aveva prodotto diverse eliografie, muore prima di vedere questo riconoscimento. Nasce
così il Dagherrotipo (1839-1860 ca.): una lastra ricoperta d’argento che, esposta ai vapori dello iodio (ioduro
d’argento), messa in camera oscura e posizionata davanti al soggetto da riprendere, dopo una posa decisamente
lunga e un lavaggio in sale marino e mercurio (per eliminare ogni residuo di ioduro d’argento che potesse
continuare a scurirsi), mostra un’immagine speculare dell’oggetto ripreso.  Di una nitidezza e lucentezza
sconvolgente per l’epoca, questa tecnica rivoluziona il mondo del ritratto, ora alla portata di tutti, e della memoria
familiare e collettiva. Rivela inoltre all’uomo la sua pochezza nell’ osservazione diretta della natura, minando il
suo senso di assoluto. Il dagherrotipo è un unicum, da cui è impossibile ricavare delle copie.

Louis-Jacques-Mandé
Daguerre, Natura morta, 1837, Dagherrotipo
Più o meno negli stessi anni, in Inghilterra, William Henry Fox Talbot (1801-1877) fa esperimenti trattando
fogli di carta con nitrato d’argento e poi applicandoci sopra degli oggetti  (foglie, pizzi, etc.) ed esponendoli alla
luce; ne derivano immagini negative definite  “disegni fotogenici” che vengono lavati in un bagno di fissaggio
con sale da cucina. Questi sono poi usati come negativi, posti a contatto con altri fogli sensibilizzati ed esposti alla
luce anche per un paio d’ore. L’uso protratto, però, li rende illeggibili in breve tempo; si deve allo scienziato  Sir
John F.W. Herschel (1738-1822) l’invenzione del bagno di fissaggio definitivo: l’iposolfito di sodio, usato
ancora oggi. Nel 1841 Talbot perfeziona la sua tecnica lasciando esposti alla luce i fogli per poco tempo e
“sviluppando” poi, con bagni chimici, l’immagine latente  creando i primi negativi su carta: i calotipi , che
vengono usati per creare positivi per contatto. Tutta la stampa del periodo avviene per contatto e non per
proiezione così il positivo ha sempre le stesse dimensioni del negativo.

La stampa fotografica
 

La prima carta su cui viene stampata la fotografia è un foglio imbevuto di soluzione salina, detta “carta salata”.
Questa, nel 1850, viene soppiantata dalla carta all’albumina (1850–1885ca.), inventata da Blanquart-
Evrard (1802-1872) usando le chiare d’uovo. Questa carta ha una finitura lucida e compatta e, una volta
preparata, può essere conservata per molto tempo prima dell’uso.  Sempre nel 1839 lo scozzese Mungo
Ponton (1801-1880) scopre la fotosensibilità del bicromato di potassio e inventa, così, la prima tecnica
fotografica non argentica:  il bicromato, esposto alla luce, diventa insolubile e, una volta lavato, le particelle non
sensibilizzate vengono eliminate dal foglio; tale procedimento si rivelerà fondamentale per la fotoincisione.
Questa scoperta permette, nel 1856, a Alphonse-Louis Poitevin (1819-1882) di inventare sia le stampe al
carbone, estremamente stabili e che possono essere create in diversi colori in base ai pigmenti usati; sia la tecnica
fotomeccanica della collotipia per riprodurre fotografie con inchiostro tipografico.

Nel 1851 L’inglese Frederick Scott Archer (1813-1857) inventa il procedimento al collodio umido,  un metodo
per sensibilizzare lastre di vetro e farne negativi  mescolando i sali d’argento al collodio (fulmicotone). In questo
modo si elimina sia l’unicità e la delicatezza del dagherrotipo sia la brunosità delle stampe ottenute da calotipi a
causa della fibrosità della carta. Il collodio soppianta, così,  tutte le altre tecniche fino agli anni Ottanta
dell’Ottocento.

Immagine realizzata con il procedimento del collodio umido inventato da Frederick Scott Archer nel 1851.
Dalla tecnica del collodio nascono quelli che vengono chiamati i “dagherrotipi dei poveri” : l’ Ambrotipo (1850-
1870 ca.), praticamente un positivo ottenuto mettendo uno sfondo nero alla lastra vetro, sviluppato e fissato e poi
lavato con acido nitrico; il Ferrotipo (o tintype), inventato dall’americano Hamilton Smith (1819-1903) nel
1856 e che usa lo stesso procedimento al collodio ma cambia il supporto passando a delle semplici lastre in ferro
che sono molto più resistenti e possono anche essere spedite.

Le grandi campagne fotografiche dell’Ottocento


 

Alleggeriti i macchinari e i procedimenti, il fotografo inizia a viaggiare sia a seguito di spedizioni scientifiche e
naturalistiche, sia a seguito di campagne belliche. Tra i primi:  Roger Fenton (1829-1869) che seguì la guerra in
Crimea. Sono soprattutto gli americani che vanno alla scoperta del loro territorio: memorabili le foto di Timothy
O’Sullivan (1840-1882) per la Geological  Geographical Survey  (1873)  o quelle di Alexander Gardner 
(1821-1882)per la costruzione di parte della Union Pacific RailRoad.
Alexander Gardner, Leavenworth, Il Ponte Lawrence & Galveston R. R. sul fiume Kansas, 1867. Immagine
stereoscopica realizzata per la campagna “Across the Continent on the Union Pacific Railway, Eastern Division”
Con la nuova tecnologia al collodio si comincia a fotografare in modo sistematico tutto il bacino del  
Mediterraneo e il fotografo occidentale si avventura anche nel mondo orientale; si cominciano a esplorare le città
europee e americane nei loro aspetti più poveri.  La fotografia inizia così a rivestire un’importanza capitale come
documentazione geografica, etnografica e sociologica. Un suo uso massiccio è richiesto dalle amministrazioni
locali per  testimoniare le condizioni di quartieri e popolazioni in un’ottica di risanamento urbanistico.

Migliaia di vedute di monumenti, chiese, palazzi o paesaggi sono scattate col solo scopo della vendita ai turisti.
Tale è la richiesta che si fondano delle vere e proprie società editoriali dove dietro un solo nome famoso lavorano
parecchi  assistenti. In Italia le maggiori industrie del genere sono quella fiorentina dei fratelli Alinari (fondata nel
1852) e quella di Giorgio Sommer (1834-1914) a Napoli.

Fa parte di questa produzione anche la fotografia stereoscopica,  scatti presi da macchine con due obbiettivi che
danno l’illusione della tridimensionalità se visti attraverso uno stereoscopio. Questo tipo di fotografia, che vuole
essere schietta  e di immediata comprensione, è definita “topografica” per distinguerla da quella che, pur avendo
magari gli stessi soggetti, è invece mossa da finalità estetiche e usata come mezzo di espressione personale.

La nascita delle istantanee


 

Nel  1880 il collodio cade in disuso ed è sostituito dall’emulsione alla gelatina al bromuro d’argento   che permette
di preparare le lastre in anticipo e di svilupparle poi in laboratorio; inizia così l’epoca della fotografia moderna: 
nascono le prime macchine fotografiche portatili già con negativi inseriti il cui sviluppo verrà fatto da appositi
laboratori, permettendo così a tutti di scattare fotografie, o meglio “istantanee” (snapshots) per fissare un ricordo,
senza nessuna pretesa artistica.  L’emblema dell’epoca è lo slogan con cui George Eastman, inventore della 
macchina fotografica Kodak, pubblicizza la stessa: “Premete il bottone, noi faremo il resto”. (Interessante sapere
che la prima macchina fotografica Kodak lavorava con negativi circolari). Nel 1891 viene introdotta la celluloide
come supporto per i negativi  e la gelatina sensibilizzata viene applicata sulle carta da sviluppo.
Le prime associazioni fotografiche
Ovunque, in Europa e in America, nascono associazioni fotografiche che indicono concorsi, allestiscono mostre e
premi, sempre però con una sorta di vassallaggio verso le indicazioni delle accademie pittoriche e dei
vari Salon internazionali. Al Camera Club di Londra, Peter Henry Emerson (1856- 1936) tiene la conferenza
“La Fotografia, arte pittorica” (1886) in cui, pur dichiarando la fotografia superiore al disegno e all’incisione per
aderenza alla natura, la sottomette alle regole estetiche della pittura che, per lui, corrisponde alla scuola di
Barbizon, e colonizza tutta Europa con serie di suoi scatti di paesaggi (Naturalistic Photography), sempre
lievemente sfuocati (fluo), in cui la mano del fotografo interviene nella resa estetica del positivo. Emerson,
nonostante abbia successivamente rinnegato il suo lavoro, condiziona potentemente il gusto fotografico dell’epoca
se si pensa che le poche fotografie presenti ai Salon vengono scelte da pittori e che il valore estetico pittorico è la
qualità dominante. Tale caratteristica è esaltata dall’introduzione del procedimento di stampa alla gomma
bicromatata che, con esposizioni successive della carta, permette di sovrapporre colori diversi sullo stesso
positivo, di lavorare la superficie col pennello e di usare carte colorate o di consistenze ruvide, tanto da poter
assimilare alcune stampe ad acquerelli. I fotografi pittorialisti hanno così il mezzo ideale per esprimere la loro
artisticità attraverso lo strumento fotografico.

Il primo numero di Camera Work fondata da Alfred Stieglitz nel 1903


Per capire questo fenomeno basta sfogliare alcune riproduzioni pubblicate nella rivista “Camera Work” fondata
da Alfred Stieglitz (1864-1946) a New York. Anzi, forse, per raccontare quanto succede in Europa e in America a
cavallo dei due secoli bisogna proprio partire dall’esperienza professionale di Stieglitz, il fotografo che più di tutti
ha condizionato il modo di fare fotografia sui due lati dell’Oceano.

Alfred Stieglitz e la nascita della “fotografia diretta”


 

Già tra i più apprezzati partecipanti del Photographic Salon europeo (esemplare The Net Mender del
1894), Alfred Stieglitz (1864-1946) dirige il “Camera Club” di New York, diffonde i principi del pittorialismo
fotografico e, allestendo diverse mostre,  dà visibilità a autori emergenti come Edward Steichen (1879-
1973)e Alvin Langdon Coburn (1882- 1966). Nel 1902 fonda con altri colleghi sia la Photo-Secession, i cui
principale obbiettivo è far progredire la fotografia come arte pittorica, sia la rivista “Camera Work” (1903- 1917).

I membri della Photo-Secession dominano anche la scena europea: nel 1908 al Photographic Salon di Londra
sono esposte per lo più immagini di autori americani ed è evidente lo scarto tra la passività con cui gli europei si
sono adattati allo stile pittorico impressionistico e le nuove strade che percorrono oltre oceano, incarnate nella
fotografia esposta da Coburn Flip-Flap (1908).

L’evoluzione di Photo-Secession porta all’affermazione della fotografia come arte a sé: «La forma si adegua alla
funzione»; cioè si cominciano ad elogiare fotografie che sembrano fotografie, senza le manipolazioni presenti
nelle opere precedenti. Lo scatto fotografico deve essere identificazione di soggetto e forma (Emblematica la
fotografia di Stieglitz del 1907, The Steerage ).

Nasce così la Straight Photography, la “fotografia diretta” che implica una ripresa del soggetto in sé e non come
accessorio dei sentimenti del fotografo. Stieglitz apre la galleria “291” a New York e per primo espone accanto a
fotografie opere di artisti quali Picasso, Picabia, Brancusi, Duchamp. Stieglitz ricerca in modo ossessivo la verità
scevra da ogni condizionamento e la trova, alla fine degli anni Venti, nel fotografare le nuvole, da lui definite
“Equivalents”; in esse lo spettatore riconosce da un lato il soggetto semplice e banale, ma dall’altro anche una
valenza espressiva; la macchina fotografica dota immagini comuni di nuovi significati.
Paul
Strand, Ritratto di Giovane, Francia, 1951

Sono per lo più i fotografi americani che si dedicano alla purezza del mezzo: Edward Steichen, che dal 1920
rinnega tutta la sua produzione precedente ; Paul Strand (1890-1976) che pubblica negli ultimi numeri
di Camera Work e Edward Weston (1886-1958) che rinnega il flou delle sue prime opere per dedicarsi a una
messa a fuoco nitida in ogni punto della stampa, essenzialità di visione e ricchezza di dettaglio. Per Weston 
estetica e tecnica si equivalgono.

L’opera di Weston diviene d’ispirazione per molti e nel 1932 viene fondato il gruppo “f/64”, la cui regola base 
rasenta il dogmatismo più severo: la fotografia deve essere a fuoco in ogni particolare, stampata a contatto su carta
brillante in bianco e nero.

Tra i membri più noti possiamo citare Ansel Adams (1902-1984) che dedica tutta la sua vita all’interpretazione
della natura e a dominare le complessità tecniche della riproduzione fotomeccanica.

Breve storia della Fotografia (parte 2)


Dagli anni Venti del Novecento le avanguardie artistiche, in primis il Dadaismo, iniziano a interessarsi alla
fotografia facendo un uso del mezzo fotografico per lo più evocativo, per cui spesso  l’oggetto ripreso è
trasfigurato, assemblato, rivoluzionato, portato a significare altro.

Nel segno di DaDa


 

E’ Marcel Duchamp (1887-1968) che risemantizza la fotografia in maniera rivoluzionaria, rendendo evidente il


fatto che la fotografia assomigli a un quadro ma in realtà funzioni come un ready-made. In Duchamp troviamo
tutte le spinte artistiche che verranno poi enucleate nel corso del secolo: dalla rappresentazione dell’ambiguità
sessuale (Rrose Selavy – 1920 ca.) all’indifferenza verso la capacità tecnica (molte delle sue fotografie furono
scattate dall’amico Man Ray), alla contaminazione con altri mezzi espressivi attraverso i fotomontaggi che,
diversamente da quelli ottocenteschi che miravano ad un’assoluta verosimiglianza, puntano più sull’associazione
di idee – mescolando fotografie, disegni e stampe tipografiche -, vengono usati soprattutto nelle riviste e a scopi
propagandistici, intrecciandosi così strettamente alla storia politica del primo Novecento.

Europa Vs U.S.A.
 

La pratica fotografica si libera da certe formalità e nascono così le Rayografie di Man Ray (1890- 1976) e
i fotogrammi di Làszlo Moholy Nagy (1895-1946), creati con le tecniche ideate da Talbot nell’Ottocento;
nascono le doppie pose di  (18895- 1956) e i suoi arditi tagli prospettici.
Un Fotogramma di László Moholy-Nagy realizzato
nel 1938 © VG Bild-Kunst, Bonn 2010
Interessante rilevare come gli aspetti più innovativi della fotografia in questo periodo si spostano  di nuovo verso
l’Europa, mentre l’America con Weston e Steiglitz si arrocca su un neopittorialismo che continua a seguire i
parametri dell’estetica pittorica e della perfezione tecnica. La giovane nazione resta ancorata alla ripresa pura del
soggetto forse perché deve ancora finire di conoscere se stessa, il suo territorio. Nasce in quest’ottica il grandioso
progetto della Farm Security  Administration del 1935 che ordina una campagna fotografica sulla condizione della
vita rurale statunientese.  Memorabili i lavori di Walker Evans (1903-1975) e Dorothea Lange (1895-1965) che
sentono fortemente il valore della foto come documento e riescono in questi reportage a trasformare il contingente
in valore assoluto.

Il Surrealismo e l’affermazione come Arte


 

E’ soprattutto la poetica surrealista che, esaltando la capacità di registrare in maniera automatica ciò che propone
il mondo, vede nella macchina fotografica il mezzo ideale per questo fine, portando così la fotografia a essere
riconosciuta arte per quello che è, senza bisogno di manipolazioni manuali, di sovrastrutture estetiche.

In questa nuova ottica assurge a simbolo perfetto del Surrealismo Eugene Atget (1857- 1927) che conobbe una
straordinaria fortuna postuma per le sue fotografie di scorci anonimi di Parigi, trattati come object trouvé  e, non a
caso, la sua fortuna nasce dall’interesse dell’assistente di Man Ray, Berenice Abbott.
Eugène Atget
La Rue Quincampoix, Vue Prise de la rue des Lombards, 4e arrondissement, 1908
George Eastman House collection

Nell’ambito surrealista interessanti sono i lavori di Brassai (1899- 1984), in particolare la schedatura dei graffiti
anonimi lasciati sui muri di Parigi, che anticipa l’aspetto della performance e dell’idea di arte pubblica che sarà
centrale nei decenni seguenti.

Professione Fotoreporter
 

Tra le due guerre si diffonde la professione di fotoreporter e  il fotografo inizia ad essere presente ovunque: dagli
eventi ufficiali, alla cronaca, agli scenari bellici e tutto questo materiale confluisce nelle riviste che si fanno
sempre più numerose e diffuse, una su tutte l’americana Life (1937-) i cui fotografi sono i primi ad essere mandati
al fronte durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il fatto che le fotografie vengano fatte per essere pubblicate fa sì che siano i redattori a scegliere le immagini più
adatte ad illustrare la storia, andando così a formare quello che sarà il gusto del pubblico, la sua attesa; sulla lunga
distanza questo condizionerà una larga parte della fotografia cosiddetta “industriale”: da quella  dei paparazzi a
quella pubblicitaria.

Compagna inseparabile dei fotoreporter è la macchina fotografica automatica che, dagli anni Trenta, è
rappresentata dalla Leica, duttile in ogni situazione, sia sulla scena dello sbarco in Normandia con Robert Capa
(1913-1954), sia nelle istantanee “costruite” di Henri Cartier- Bresson (1908 -2004). Proprio Cartier-Bresson ha la
capacità unica, riconoscibilissima e difficilissima da replicare, di catturare l’istante in cui il soggetto è nel suo
aspetto più significativo, con un’armonia di forme, espressione e contenuto.
Il numer del
magazine Picture Post del 3 Dicembre 1938 con le foto di Robert Capa sulla battaglia del Rio Segre
Robert Capa, Henri Cartier- Bresson e, in maniera ancor più precisa,  Robert Frank (1924 – col libro The
Americans  –  1958), Williem Klein (1928-) e Weegee (1899-1968 – col libro Naked city – 1945), si
contraddistinguono per la loro continua tensione ad essere immersi nel mondo e per cercare sempre la relazione
uomo-mondo; famosa la frase di Capa a riguardo:  «Se una foto non è venuta bene vuol dire che non eri
abbastanza vicino». Questo approccio verso il mondo è lo stesso che caratterizza la corrente
dell’arte Informale che domina Europa e America dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni Sessanta e
che in pittura ha risultati visuali diversissimi, basati sulla macchia, il grumo, la spontaneità del gesto.

Tra arte e pubblicità


 

Si arriva così alle porte degli anni Sessanta e all’esplosione della Pop Art, incarnata senza dubbio dalla figura di
Andy Warhol (1928-1987) e della sua Factory. E’ del 1964 anche il testo rivoluzionario di McLuhan che con il
suo slogan, “il medium è il messaggio”, enuclea finalmente l’importanza del mezzo con cui si vuole comunicare.

La Pop Art estranea oggetti di uso quotidiano dal loro contesto utilitaristico con l’isolamento e l’ingrandimento
(per esempio le scatole “Brillo”), dando loro un rilievo eccezionale, ma  senza esprimere alcun giudizio.  La
fotografia, nei riguardi del mondo, fa le stesse cose:  separa un oggetto dal suo contesto e lo esalta, ma al tempo
stesso non lo giudica. Da sempre la fotografia era stata criticata dall’arte ufficiale per queste sue caratteristiche
inalienabili, con la Pop Art invece troviamo una coincidenza sorprendente: fondante sia la frase di Warhol –
«vorrei essere una macchina» – sia la sua passione per  i ritratti fatti nelle cabine automatiche per le fototessere.
Andy Warhol, Coke, 1984, polaroid, pezzo
unico. © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.
La sospensione del giudizio, la forte voglia di relazionarsi col mondo, non in modo empatico, ma identificandosi
quasi nella macchina fotografica, si trova in tutta l’opera di Diane Arbus (1923-1971), allieva di Lisette Model
(1901-1983), e famosa per le foto di “mostri”: il non-giudizio della Pop Art le permette di avventurarsi in
qualsiasi ambito, con un desiderio di accumulo di più soggetti possibili, fattibile principalmente grazie alla
fotografia. Si apre, così, la strada a una maggior commercializzazione dell’arte: la pubblicità inizia a servirsene e
viceversa, e l’artista comincia a muoversi tra i due mondi senza nessuno “scrupolo”, fino ad arrivare ad oggi dove
un artista come David LaChapelle (1963-) può usare l’identico suo prodotto per una pubblicità e per un museo.

Gli anni Settanta: Narrative Art e Conceptual Art


 

Gli anni Settanta sono caratterizzati da movimenti artistici che si allontanano sempre di più dalla vecchia idea di
immagine e si dedicano alla performance e a modalità artistiche estemporanee: Body Art, Narrative
Art e Conceptual Art.

In tutte e tre la fotografia è stata necessaria per eternare il gesto e il suo uso non è stato meramente funzionale,
bensì strettamente connesso al messaggio dell’artista. Ciò che fa  Arnulf Rainer (1929-), con le sue pose goffe ed
estreme, oppure Urs Luthi (1947-) col suo trasformismo ambiguo o, ancora, Luigi Ontani (1943-) con la sua
divertita e fantastica oniricità, trova il vero mezzo espressivo nella fotografia intesa come specchio in cui inverare
una parte di se e, in quest’ottica, si possono leggere e capire artisti dai risultati del tutto diversi come Gina Pane
(1939-1990) o Francesca Woodman (1958-1981).
Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979-
80
La Narrative Art può essere divisa in due filoni, quello che si richiama a dei fermi immagine di film, congelando
un attimo di un’azione che lascia lo spettatore spaesato e curioso:  impossibile capire cosa è successo prima e cosa
succederà dopo (Cindy Shermann 1954-, Duane Michals  1932-); e quello che si richiama alla tipologia degli
album di famiglia per qualità fotografica e per la presenza a volte di didascalie, come nell’opera di Nan Goldin
(1954-). La sua capacità empatica coi soggetti è disarmante ed allarmante e prevalica qualsiasi aspetto formale
dell’opera per evidenziare la totale fusione con il momento ripreso; non a caso tutta una serie di fotografia
narrativa viene etichettata come “stile Goldin”.

Sia la Narrative Art che la Conceptual Art vanno verso una denigrazione dell’aspetto tecnico-formale della ripresa
e della stampa fotografica, da un lato, per evidenziare il più possibile la natura indicale della fotografia, cioè la sua
imprescindibile relazione col mondo e la sua capacità di evocare emozioni e concetti (in sintesi: il suo valore è più
concettuale che formale); dall’altro, perché sentono di dover combattere ancora contro la dicotomia ottocentesca
dove la capacità tecnica pareva sopperire a un’incapacità artistica.

Gli anni Ottanta e il kitsch


 

Questo aspetto di noncuranza tecnica scompare negli anni Ottanta ad opera di due grandi figure quali Robert
Mapplethorpe (1946-1989) e Helmut Newton (1920-2004) che con la loro opera sintetizzano perfettamente  la
ventata edonistica di libertà ed emancipazione del decennio.

Mapplethorpe, con la sua qualità fotografica alta, pittorica e precisa, ha la capacità limpida, pura ed essenziale di
riportare sulla gelatina scene di atti sessuali espliciti, in cui è spesso partecipe, in una completa fusione tra arte e
vita (i suoi modelli sono amici ed amanti).

Helmut Newton, Ecco vengono II, dalla serie Big Nudes Paris 1981 © Helmut Newton Estate
Newton, invece, parte da una carriera di fotografo di moda per approdare poi a personali e musei; crea un’arte
algida e perfetta, ma lontanissima da una qualche esperienza reale di vita: i suoi nudi sono “troppo”, i suoi
ambienti sono di una ricercatezza stereotipata e solletica l’animo voyeristico dello spettatore che indugia alla
ricerca del dettaglio più lubrico.
Il meccanismo di portare a livelli qualitativamente alti contenuti di “serie B” , quali la pornografia,  infrange del
tutto le barriere tra contenuti “alti” e “bassi” e attua appieno l’ingresso del kitsch nell’arte.  Ingresso che pare
sancito anche dall’abbandono del colore per certi soggetti e l’uso quasi esclusivo del bianco/nero; una
caratterizzazione estetica che a volte può apparire stridente con la forte spinta alla rottura di canoni presente nella
fotografia contemporanea, ma che di fatto connota la maggior parte della produzione artistica del periodo. Solo un
certo tipo di arte, che vuole omologarsi all’uso popolare della macchina fotografica, fa uso del colore, ma spesso
in maniera non calibrata, disattenta, proprio come succede per gli scatti della gente comune. E’ stato William
Eggleston negli anni Settanta a sdoganare un uso del colore calibrato e corretto ed elemento portante del
messaggio (“Triciclo”, 1970).

Gli anni Novanta e la Scuola di Düsseldorf


 

La cura formale nella costruzione dell’immagine di Mapplethorpe e Newton rivela come ormai l’aspetto
concettuale che vive nell’immagine fotografica abbia preso il giusto sopravvento su trite convinzioni pittoriche e
fa sì che fotografi trascurati negli anni Settanta proprio, per le loro capacità, trovino negli anni Novanta un
riscontro e un successo planetario.

Paradigmatica la coppia Becher, Bernahard (1931-2007) e Hilla (1934-), fautori di una fotografia rigorosa ed
oggettiva basata sulla schedatura del mondo; eredi di August Sander (1876- 1964) e del suo grandioso progetto
di Face of our time, osteggiato dal regime nazista; riprendono la sua impostazione asciutta, documentaria per la
catalogazione di “tipi”, nel loro caso non umani ma architettonici (silos, industrie etc.). Insegnanti all’Accademia
di Düsseldorf formano artisti come Candida Hofer (1944-), Thomas Ruff (1958-), Thomas Struth (1954-) e la loro
influenza è evidente nelle opere di tutti e tre.

Thomas Ruff, Portrait (M. Roeser), 1999


Interessante è notare come per questo gruppo sia nodale anche la dimensione e la collocazione della foto
nell’esposizione museale. Nulla è lasciato al caso: la foto è concepita in un punto preciso di una sequenza decisa
dal fotografo ed è inamovibile e inalienabile dalla stessa; le dimensioni, spesso enormi, aumentano, da un lato, il
senso di straniamento (per esempio le “fototessere” di Ruff), dall’altro, agevolano l’immersione totale dello
spettatore nell’immagine ( le “biblioteche” della Hofer).

La fotografia in Italia
 

Nel panorama italiano spicca negli anni Settanta l’opera concettuale di Franco Vaccari (1936-), sia a livello
fotografico che teorico, con la pubblicazione nel 1979 di “La fotografia e l’inconscio tecnologico”, testo in cui
difende il carattere basso della fotografia e ricusa il concetto di autorialità nell’atto fotografico; esemplare in tal
senso la sua esposizione a Venezia del 1972. L’autonomia della macchina fotografica è perfettamente esplicitata
anche nelle opere di Giulio Paolini (1940).

Negli anni ottanta vediamo emergere sul territorio nazionale un movimento nuovo ed originale che si incentra sul
paesaggio visto non in maniera trionfalistica, “da cartolina”, ma come paradigma della precarietà di ciò che siamo;
un paesaggio “debole” sempre al confine tra urbano e rurale, tra uso ed abbandono. Il movimento è caratterizzato
da un’attenta cura formale dello scatto (prospettiva, bilanciamento luci, etc.); immagini belle che non nascono da
un gusto estetico, ma dalla volontà di inverare un’esperienza umana. Alfiere del movimento è Luigi Ghirri (1943-
1992) coi suoi paesaggi dai colori brumosi, dimessi e discreti che, formalmente perfetti, danno una sorta di
tranquillità e di piacere estetico per poi turbarci con il vero messaggio sottostante. Di non meno rilievo l’opera di
Gabriele Basilico (1943) che dichiara esplicitamente di rifarsi all’insegnamento di Walker Evans per la sua
fotografia descrittiva, inverata soprattutto nei paesaggi architettonici. Nei suoi scatti Basilico mira a una
sospensione del giudizio su quanto riprende e a un dialogo continuo col mondo perché: cosa ci condiziona di più
di quello che ci sta intorno?
Luigi
Ghirri, Versailles, 1985, dalla serie “Versailles”
c-print, 24 x 30,5 cm
Sulla stessa linea si muovono Olivo Barbieri (1953-), Guido Guidi (1941-), Mimmo Jodice (1934-) e pochi altri
che hanno fatto grande la fotografia italiana nel mondo; ma all’interno del contesto italiano il loro esempio ha
creato solo epigoni con pochi guizzi di originalità.

L’era digitale
 

Altro spartiacque nella storia della fotografia è l’arrivo della tecnologia digitale che, sovvertendo la modalità di
ripresa dell’immagine, ha creato inizialmente problemi di ordine teorico, di fatto superati e smentiti dall’uso libero
ed entusiasta da parte degli artisti di questa nuova possibilità artistica. Col digitale l’immersione nel mondo è a
360 gradi, 24 ore al giorno e allo stesso tempo la creazioni di mondi onirici e paralleli non ha più limiti. Artisti e
materiali si moltiplicano a dismisura ed è in pratica impossibile seguirne percorsi ed evoluzioni.

Il crescente successo della fotografia ha fatto sì che privati (gallerie, collezionisti) ed istituzioni (musei,
fondazioni) si aprissero anche alla scoperta di artisti non occidentali (soprattutto africani ed orientali) portando
alla pubblicazione e diffusione delle loro opere, ampliando ulteriormente il panorama da analizzare.

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