Le macchine ottiche La fotografia si è realizzata attraverso una gestazione di un’idea (la memoria dello sguardo) chiamata eliografia e poi fotografia, di cui si intendeva memorizzare gli eventi, conservarne e trasmetterne l’immagine. Gli storici della fotografia propongono Aristotele tra coloro che per primi hanno teorizzato il fenomeno della CAMERA OBSCURA, come è indicato dall’ottico e astronomo Alhazen Ibn Al-Haitham in un’opera in cui descrive il principio di questo strumento per osservare un’eclisse di sole, seguendone le fasi indirettamente nell’immagine proiettati, per non rimanere abbagliati dalla forte luce diretta dell’astro. L’impegno scientifico per i primi sperimentatori di meccanismi ottici era suggerito e stimolato dalla curiosità per i fenomeni naturali. In questo periodo gli studi sulla prospettiva sembrano essere al centro dell’attenzione di architetti e pittori che credono di aver finalmente definito un codice che offre molte garanzie di precisione, tra cui la “verosimiglianza”, da cui traspare già l’idea di fotografia. Nella controversa attribuzione dell’invenzione della camera obscura (che in seguito si chiamerà camera ottica) compare spesso in evidenza il fisico napoletano Giovanni Battista Della Porta che, nel trattato Magiae naturalis riferisce alcune sue osservazioni, si tratta ancora di una stanza e non di uno strumento mobile o comunque facilmente adattabile all’ambiente circostante; è nel secolo successivo che la camera obscura trova finalmente una sua più funzionale e estesa applicazione. Questa “macchina” sta diventando indispensabile per il mestiere di disegnatore, mentre si sviluppano contemporaneamente le tecniche dell’incisione che favoriscono la riproduzione e la moltiplicazione delle immagini, avviando un processo di massificazione iconografica. A Roma, Marco Antonio Cellio progetta addirittura un nuovo strumento “per trasportare qualsiasi figura disegnata in carta, mediante i raggi solari” mentre il matematico e filosofo Athanasius Kircher, occupandosi della camera oscura, aveva ideato modelli mobili e addirittura abitabili; in un’edizione successiva propone un’altra macchina ottica, la lanterna magica. Mentre la camera obscura uno strumento per la riproduzione, la lanterna magica serve allo spettacolo, alla proiezione delle immagini disegnate e dipinte su supporti trasparenti, quindi alla comunicazione. Tra i molti strumenti progettati vi è anche una camera oscura reflex, dove l’immagine viene proiettata su un piano orizzontale mediante uno specchio inclinato a 45°, che è all’interno di una scatola. Anche la camera lucida (o chiara) farà parte del bagaglio di molti viaggiatori, oltre che di artisti e studiosi. Consiste in un prisma di vetro applicato a un’astina metallica agganciata ad una tavoletta, dove viene appoggiato un foglio di carta; il disegnatore, guardando attraverso il prisma, può seguire quasi contemporaneamente, con la coda dell’occhio, l’oggetto da riprodurre che vede virtualmente sul foglio sottostante. Le sostanze fotosensibili L’idea della fotografia si stava concretizzando e ha inizio con l’alchimista olandese Johan Simoonis Van der Beeck, chiamato Torrentius che infine venne condannato per stregoneria, avendo eseguito dipinti così perfetti da sembrare realizzati dal diavolo e che furono quindi dati alle fiamme. Non c’erano ancora stimoli effettivi che portassero ad accomunare le ricerche chimiche a quelle ottiche. George Fabricius aveva osservato e descritto in un suo testo che alcuni materiali contenenti cloruro d’argento si alteravano se esposti alla luce e chiamò questa sostanza LUNA CORNEA (si trattava del solfato di bario). Il chimico svedese Carl wilhelm Scheele, cinquant’anni dopo, ripropose l’argento corneo di Fabricius in studi che ottenne anche tracce di colore sulla carta impregnata di questo cloruro, in variazioni dal violetto al rosso, a seconda del tempo di esposizione. Durante le sue prove constatò anche che la luca violetta è quella più efficace. In questa complessa vicenda di ricercatori si inserisce il fisico Jules-Alexandre Cesar Charlesm il quale, mediante un potente fascio di luce proiettò il profilo di uno dei suoi allievi su un foglio di carta spalmato di cloruro d’argento. La carta cominciò immediatamente a iscurirsi nella regione illuminata, mentre quella in ombra rimase bianca; l’immagine però non era stabile e si scurì dappertutto appena rimosso il soggetto che la proteggeva con la sua ombra (aveva realizzato fotograficamente una silhouette). Le silhouette di Charles, se esistite, sarebbero le prime immagini registrate per effetto della luce, senza alcun intervento manuale, ma non vi sono prove sicure. Mentre si concludeva il secolo dei lumi, l’idea della fotografia finalmente si materializzava, ma di questa prima sua comparsa non è rimasta traccia, se non una breve testimonianza, pubblicata nel “Journal of the Royal Institution” di Londra in cui è descritto un procedimento per copiare disegni su vetro e fare silhouette con l’azione della luce sul nitrato d’argento. L’invenzione della fotografia La carta bianca, o la pelle bianca bagnata con una soluzione di nitrato d’argento, non cambia tinta sino a quando viene conservata nell’oscurità, ma esposta alla luce del giorno esse passano rapidamente al grigio, poi al bruno e quindi pressoché al nero. Questi mutamenti sono tanto più rapidi quanto più la luce è intensa e la luce trasmessa attraverso vetri diversamente colorati agisce con diversi gradi d’intensità; con i raggi rossi hanno poco effetto, i gialli e i verdi sono più efficaci ma i blu e i violetti hanno l’azione più energica. Quando si colloca una superficie bianca, coperta di una soluzione di nitrato d’argento, dietro una pittura su vetro, e si espone tutto ai raggi del sole, i raggi trasmessi producono delle tinte assai intense di bruno e di nero, che differiscono di intensità secondo che esse corrispondono alle parti del quadro più o meno scure; e dove la luce è trasmessa nella sua tonalità, in quei punti il nitrato assume la tinta più cupa. Quando si fa cadere sulla superficie impregnata di nitrato, l’ombra della figura, la parte che essa nasconde rimane bianca e il resto passa prontamente al bruno scuro. Questa tinta è molto permanente e non la si può annullare né con l’acqua né con il sapone. La soluzione si prepara mescolando una parte di nitrato di argento in dieci parti d’acqua. In queste proporzioni, la quantità di sale di cui la carta o la pelle si troveranno impregnate sarà sufficiente a renderle suscettibili di essere colpite dalla luce, senza che la loro composizione o il loro tessuto siano del tutto alterati. INVENZIONI E PERFEZIONAMENTI Dalla litografia all’eliografia Prima che “photography” appaia comunemente nel vocabolario di artisti e scienziati, è stata chiamata ELIOGRAFIA, DAGHERROTIPIA, CALOTIPIA. Pur utilizzando il termine “profiles”, Wedgwood e Davy sono stati i primi a prendere coscienza delle possibilità grafiche della luce, non solo appoggiando oggetti sul materiale fotosensibile, ma in modo più complesso utilizzando il microscopio solare e la camera oscura; è incerto comunque se abbiano eseguito prove soddisfacenti giacché le immagini che essi produssero svanirono a causa della stessa luce che le aveva generate. Come conservare i disegni scritti dalla luce era dunque un problema fondamentale e la litografia di Alois Senefelder riscosse subito un notevole successo. La litografia offriva la possibilità di riprodurre delicatamente anche i mezzi toni e quindi ottenere sfumature di grigio e passaggi di chiaroscuro, avvicinandosi così all’idea primitiva della fotografia. È proprio alla tecnica della litografia che si riferiscono le prime ricerche di Niépce, il quale ha realizzato le più antiche immagini impresse dalla luce, fissandone alcune in modo permanente. Joseph Nicéphore Niépce Era stato avviato alla carriera ecclesiastica, come il fratello Claude, con cui lavorò a molte altre invenzioni, oltreché all’eliografia. In particolare si dedicarono al progetto di una “macchina destinata ad azionare i battelli, senza remi né vele”, il pyréolophore, anticipatore del motore a scoppio, che i due brevettarono nel 1807, ma con il quale non ebbero successo. Al tempo della rivoluzione, insegnava presso la Congregation des Peres de l’Oratoire ad Angers, ma abbandonò ben presto questa occupazione per arruolarsi nell’esercito napoleonico; nel 1792 fu in Italia, a Cagliari, dove pare abbia avviato il suo “sogno” della fotografia. Sposatosi, preferì occuparsi dell’amministrazione delle sue proprietà, dove eseguì anche i primi esperimenti sull’eliografia e si dedicò con Claude alle altre invenzioni. L’idea di migliorare o, perlomeno rendere più semplice la tecnica litografica, sollecitò in un primo tempo i due fratelli a sperimentare la possibilità di utilizzare il metallo anziché la pietra; pensarono inoltre di ottenere con la luce l’impronta di un disegno posto a contatto della lastra metallica. Niépce adoperò anche il vetro e la carta come supporto, impregnandola di cloruro d’argento e acido nitrico. Ma l’impossibilità di fissare l’immagine dissuase i due fratelli dall’insistere in queste prove, di cui esistono solo vaghe indicazioni per adottare un altro materiale fotosensibile, il bitume di Guidea, che si rivelerà miracolosa; questo asfalto era di uso comune a quel tempo e ne era conosciuta l’alterabilità alla luce. Il bitume di Guidea, che indurisce se colpito dalla luce per un lungo periodo, rimane invece solubile nelle altre parti non esposte, se immerso in petrolio, olio di lavanda o di Dippelio, un grasso animale; esso tende anche a schiarire, determinando con lo sfondo della lastra un chiaroscuro che riproduce il disegno dell’immagine; quest’ultima poteva essere ottenuta da un disegno su matrice di carta resa più trasparente con olio e cera e posta a contatto con la lastra biutmata oppure mediante l’uso della camera ottica. Nell’agosto del 1827 fece un viaggio in Inghilterra per visitare il fratello Claude, gravemente ammalato e in quella occasione si incontrò con Bauer. Tornato in Francia, l’anno successivo, continuò la corrispondenza con Bauer fino al 1829, interrompendo questo dialogo probabilmente perché stava concludendo un accordo con Daguerre, inventore del diorama; entrambi speravano di trarre profitto dalle possibilità offerte dalla tecnica eliografica e il contratto tra i due era stato siglato a Chalon-sur-Saone e avrebbe avuto la durata di dieci anni se Niépce non fosse scomparso prima, lasciando però erede il figlio Isidore. Niépce aveva fino ad allora compiuto esperimenti usando tre diversi supporti: il rame, l’argento e il vetro. Il primo veniva trattato, dopo l’esposizione, come l’acquaforte, ottenendo una matrice che, inchiostrata, consentiva di stampare un grande numero di copie. L’argento veniva utilizzato per ottenere una copia unica, positiva, mediante l’annerimento del metallo con i vapori dello iodio. Il vetro doveva essere invece esaminato in trasparenza. Quest’ultima esperienza avrebbe potuto essere decisiva qualora Niépce si fosse reso conto che con queste lastre trasparenti aveva inventato il negativo. Louis-Jacques-Mandé Daguerre Aveva iniziato a fare ricerche sulle sostanze fotosensibili sin dal 1825, dopo essersi occupato di pittura e di scenografia e queste esperienze lo sollecitarono a realizzare von Charles-Marie Bouton, uno spettacolo analogo al “panorama” che egli chiama DIORAMA e con il quale ottenne subito un notevole successo di pubblico. Consisteva nell’allestimento di gigantesche scenografie trompe l’oeil, realizzate con tele semitrasparenti dipinte con prospettive di luoghi e edifici famosi, cercando di ricostruire suggestioni di spazi reali, con artifizi di luce e di effetti ottici. I diorama gli diedero grande notorietà e si diffusero in varie città europee, preannunciando spettacoli visivi, quale sarebbe stato in seguito il cinematografo. L’8 marzo 1839 però, il diorama parigino si incendiò e ogni cosa venne distrutta, mettendo economicamente in crisi Daguerre il quale fu sollecitato, anche da questo incidente, a rendere pubblica l’invenzione, nel frattempo perfezionata, in cambio di un aiuto economico da parte dello Stato francese. Tra un diorama e l’altro si è cimentato nelle ricerche sulle sostanze fotosensibili, in continua corrispondenza con Niépce, per un reciproco scambio di informazioni sui risultati raggiunti. Il 20 agosto 1839 Daguerre diffuse un manuale di 79 pagine, subito ovunque avidamente utilizzato e entro la fine dell’anno ne vennero stampate ben cinque edizioni; la prima edizione italiana uscì a Genova nel 1839 con testo francese. La più antica trascrizione di un dagherrotipo ricopiato manualmente in litografia è stata eseguita a Napoli da parte del litografo G. Forino. Il procedimento è sostanzialmente diviso in cinque fasi, mediante le quali si ottiene l’immagine definitiva: 1. Lucidatura con acido nitrico della lastrina di rame placcato d’argento 2. La lastra viene collocata in una cassetta di legno dove riceve i vapori di iodio (sulla superficie di forma ioduro d’argento, che è fotosensibile) 3. Si introduce la lastra, al buio, nell’apparecchio di ripresa, dove viene esposta per un periodo di tempo che varia da un quarto d’ora a pochi minuti 4. Dopo l’esposizione viene inserita, sempre al buio, in una boite a mercure di legno, con un’inclinazione a 45°, sopra una capsula di metallo che contiene circa un chilogrammo di mercurio, riscaldato a circa 60°, con una lampada a olio o a spirito (10 minuti circa) 5. Si procede al fissaggio in acqua e iposolfito di sodio e a un successivo lavaggio in acqua distillata Nel frattempo veniva presentata un’altra tecnica per eseguire rigorose immagini “senza saper disegnare”; un procedimento che si diffuse egualmente perché più “povero”, considerando che il supporto era carta invece che di rame placcato d’argento. Inventore di questa tecnica di fotografia su carta, o più propriamente del disegno fotogenico, fu l’inglese William Henry Fox Talbot. William Henry Fox Talbot Si era dedicato giovanissimo alle scienze e gli strumenti ottici, soprattutto il microscopio, erano d’uso quotidiano per Talbot. Aveva studiato al Trinity College di Cambridge, laureandosi nel 1821 e in seguito aveva viaggiato in vari paesi europei portando con sé la camera ottica o la camera lucida, per poter schizzare più facilmente scorci e cedute dei luoghi visitati. Nel 1833 a Bellagio sul lago di Como, mentre stava disegnando gli venne l’idea di trovare un modo per fissare il disegno della luce senza l’intervento manuale. Nei primi esperimenti riuscì a conservare le immagini lavandole con ioduro di potassio, ma l’amico Herschel gli propose l’iposolfito di sodio, risolvendo definitivamente il problema per tutti. Preoccupazione di Talbot era che non gli fosse riconosciuta la priorità dell’invenzione, visto che Daguerre aveva presentato per primo il procedimento del dagherrotipo; Talbot non sapeva ancora che la dagherrotipia era un processo diverso e utilizzò quindi tutti gli espedienti per far conoscere le sue ricerche e porre in risalto le date delle sue scoperte. Sembrò essere stimolato dalla polemica sul primato dell’invenzione della fotografia e migliorò in breve tempo il suo procedimento negativo-positivo, che aveva sul dagherrotipo il vantaggio di consentire la stampa di molte copie, rendendo trasparente con cera o glicerina la carta su cui veniva impressa con la camera oscura l’immagine negativa. Talbot brevettò molte sue invenzioni, proibendone l’uso senza il suo consenso, come la CALOTIPIA: stendeva una soluzione di nitrato d’argento su della buona carta da lettere e, dopo averla asciugata, la immergeva in una soluzione di ioduro di potassio; la carta così preparata poteva essere riposta al buio per un periodo abbastanza lungo, una volta che era stata essiccata, utilizzandola al momento opportuno dopo averla di nuovo imbevuta di un liquido composto da due soluzioni A e B: la prima, con nitrato d’argento in cristalli, acqua distillata e un’aggiunta di acido acetico, la seconda, con acido gallico diluito in acqua distillata (le due soluzioni erano mescolate in parti uguali). La carta così trattata permetteva di eseguire le calotipie con un brevissimo tempo di esposizione, facendo apparire l’immagine solo dopo lo sviluppo. Il fissaggio era ottenuto sia con bromuro di potassio, che con iposolfito di sodio. Le calotipie venivano quindi incerate, per renderle più trasparenti e ottenere da questi negativi un numero indefinito di copie positive. Nel 1839 oltre al disegno fotogenico e al dagherrotipo, altri sono i procedimenti sperimentali: quelli di Herschel e di Bayard hanno il vantaggio di essere stati documentati. John Herschel e Hippolyte Bayard tra gli inventori John Herschel fu lo scienziato al quale la fotografia deve l’importante scoperta dell’iposolfito di sodio come agente fissatore e in una sola settimana riuscì a reinventare il procedimento fotografico. Herschel eseguì anche un’immagine negativa su di una lastrina di vetro di forma circolare, riprendendo un traliccio dell’osservatorio astronomico di suo padre (è la più antica lastra fotografica su questo materiale conservata allo Science Museum). A Parigi, un impiegato del ministero delle finanze, Hippolyte Bayard, si inseriva tra i grandi inventori della fotografia, senza avere però allora i riconoscimenti che si sarebbe meritato, in quanto erano tutti affascinati dall’invenzione di Daguerre. Era stato incoraggiato a portare a termine vecchi studi sulle sostanze fotosensibili ed era riuscito in breve tempo a ottenere soddisfacenti risultati; solo un mese dopo era in grado di mostrare alcuni dessins photogénés o images photogénées, come chiamò le sue prove su carta sensibilizzata con ioduro d’argento, direttamente positive. Lo stesso anno si metteva in contatto con Arago e il 24 giugno esponeva circa quaranta immagini nella Salle des Commissaires Priseurs. Dopo queste ricerche che tendevano a ottenere immagini positive sulla carta, Bayard comprese che il negativo su carta poteva consentirgli di moltiplicare il numero delle copie e realizzò quindi un nuovo procedimento. Egli va ricordato non solo come inventore, ma come fotografo, essendo autore di alcune serie di immagini dove sono fissate situazioni di luce e scorci di una singolare vivacità prospettica, favorita senza dubbio dalla sua tecnica. Albumina e collodio Tra il 1839 e il 1851 la fotografia dagherrotipica e calotipica si diffonde, ma al tempo stesso vengono apportati continui miglioramenti. La ricerca procede soprattutto in funzione dei principali difetti impliciti nel dagherrotipo (esemplare unico) o nel calotipo (granulosità delle stampe); si tende inoltre a ottenere una maggiore fotosensibilità e si esplora la possibilità di fissare il colore della realtà, per una maggiore “verosimiglianza”. Louis-Desiré Blanquart-Evard sperimenta una carta salée (papier salée) che ottiene bagnando la carta in acqua e cloruro di sodio al 30% e, dopo averla asciugata, spalmandovi sopra del nitrato d’argento diluito al 20% in acqua distillata; sottopose poi la carta a un altro successivo trattamento, poi chiamato viraggio, con cloruro d’oro al 2 per mille. Il viraggio al cloruro d’oro ha la capacità di stabilizzare maggiormente l’immagine e di attribuirle un’intonazione calda più gradevole. Abel Niépce de Saint-Victor ottenne le prime lastre fotosensibili, stendendo sul vetro un sottile strato di albumina sensibilizzata con aceto-nitrato d’argento. Le uova utilizzate per la preparazione della carta all’albumina dovevano essere preferibilmente fresche e di galline vecchie, perché i risultati fossero eccellenti. Mentre si continuò a utilizzare il procedimento all’albumina soprattutto per le copie positive, la tecnica di ripresa su lastre sensibilizzate con l’emulsione al collodio sostituì in breve tempo ogni altra. Il collodio era usato nell’arte medica per le proprietà che possiede di evaporarsi prontamente lasciando una pellicola solida impermeabile all’aria. Venne preso in considerazione come collante fotografico da Gustave Le Gray nel 1849 e, contemporaneamente, l’architetto inglese Frederick Scott Archer pubblicava a sua volta una nota sull’uso del collodio in fotografia. Il metodo consiste nella preparazione di una soluzione alcolica di ioduro di potassio e di ioduro d’argento, mescolata al collodio e successivamente sensibilizzata con il nitrato d’argento; lo sviluppo avviene in acido pirogallico e il fissaggio con iposolfito di sodio. Questo miscuglio risultava assai più sensibile alla luce se la lastra veniva utilizzata prima che il collodio asciugasse; il collodio umido consentì quindi di ridurre i tempi di esposizione (all’aperto si ottennero fotografie con tempi di frazioni di secondo, consentendo finalmente l’istantanea). In molti si dedicarono alla ricerca sulla tecnica del collodio e Taupenot risolse parzialmente le difficoltà operative del collodio umido proponendo una sua formula di collodio secco, grazie al quale la lastra poteva essere usata anche dopo un certo periodo dalla preparazione, senza che ciò diminuisse la sua iniziale sensibilità. Questo collodio secco venne pure chiamato collodio albuminato, in quanto utilizzava anche l’albumina. La ricerca dei fotografi si indirizzò verso la composizione delle emulsioni sempre più sensibili e armoniche nella registrazione in bianco-nero del colore, mentre gli ottici si impegnarono a migliorare la qualità degli obiettivi, sia inventando nuove formule per i vetri, sia progettando assemblaggi di lenti più sofisticate e funzionali alla ripresa fotografica. I costruttori fecero a gara per realizzare ottiche adatte ai vari usi fotografici, per il ritratto e la veduta soprattutto, mentre gli apparecchi erano costruiti con una migliore meccanica, più leggeri e trasportabili, oppure specificamente per riprese particolare come l’ingegnoso apparecchio panoramico di Frédérich von Martens con il quale realizzò la prima panoramica della Senna vista dal Louvre, con una lastra dagherrotipica ricurva, di cm 12x38, con un obiettivo rotante che copriva un angolo di 150°. Gelatina e gomma Nell’evoluzione della tecnica, il collodio umido e secco trova applicazione per circa trent’anni fino a quando viene sostituito dal procedimento alla gelatina-bromuro d’argento. Il primo sforzo serio per fare una emulsione alla gelatina fu tentato da R. L. Maddox nel 1871 che pubblicò il suo processo nel “The British Journal of Photography” suggerendo un nuovo metodo per ottenere lastre fotosensibili secche, in alternativa al collodio; lava in acqua fredda trenta grani di gelatina di Nelson, poi li scioglie in 3-4 grammi d’acqua addizionata con due gocce d’acqua regia. Aggiunge poi 8 grani di bromuro di Cadmio, agita e vi introduce 15 grani di nitrato d’argento, precedentemente sciolto in mezza dracma d’acqua. Si ottiene così un’emulsione bianca che si stende su lastre di vetro in uno strato sottile che si lascia poi seccare. Lo sviluppo era fatto con l’acido Pyrogallico. Negli anni successivi si provvide a migliorare il procedimento anche in funzione della sensibilità ai colori. Hermann Vogel registrò la sensibilità delle carte fotografiche alle varie radiazioni dello spettro e ottenne inoltre emulsioni ortocromatiche, ossia sensibili a molti colori in precedenza non influenti. Pure il supporto del materiale negativo subì nel frattempo modifiche; dalla carta si passò al vetro e, in seguito, a materiali più elastici e infrangibili, fino alla celluloide. Oltre alle carte albuminate e alla gelatina-bromuro, venne utilizzata a partire dal 1873 una carta al platino, inventata da William Willis e perfezionata da Pizzighelli. Ebbe molto successo assieme ad altre tecniche di stampa utilizzate dai fotografi pittoralisti, che cercavano nuovi effetti creativi. Queste tecniche hanno avuto origine dalle ricerche di Poitevin, ingegnere chimico che aveva iniziato a interessarsi di fotografia realizzando molti procedimenti, spesso però portati a compimento da altri; il brevetto della stampa au charbon di Poitevin è del 1855 e consiste nella stesura su un foglio di carta di un sottile strato di gelatina e bicromato di potassio ì, mescolati ad una polvere colorante. Il foglio viene quindi sottoposto per un certo tempo alla luce del sole, ponendovi sopra una lastra negativa. Lo sviluppo e il fissaggio, avviene in acqua tiepida, che scioglie la gelatina e il colore solo nelle zone non colpite dalla luce. FOTOGRAFIA E SCIENZE Fotomicrografie Nel settore scientifico l’uso della fotografia viene subito acquisito e durante le prime esperienze fotografiche il microscopio e il cannocchiale sono stati strumenti di osservazione e di analisi tra i più usati e li si è applicati quindi subito alla fotografia, per rendere la realtà micro e macro. Anche il dagherrotipo venne subito applicato alla microscopia, e pare che il primo a ottenere immagini in tal modo sia stato John William Draper, professore di chimica dell’università di New York, ma attribuiscono questa gloria al francese Donné. Alfred Donné presentò alcune prove eseguite con il suo microscope-daguerrotype all’Accademia delle scienze di Parigi e fu in grado di pubblicare un’opera in quattro volumi, che è la più antica pubblicazione sulla microfotografia; gli ingrandimenti che Donné ottenne al microscopio sono 200 e anche 400 volte l’oggetto preso in esame. Anche il colore venne utilizzato nelle ricerche fotomicrografiche e nell’ottobre del 1907 vennero presentate le prime diapositive in micro-autocromia di tubercoli, germi malarici ecc. Fotografia astronomica La fotografia si è occupata, fin dalle origini, del cielo e degli astri che ci circondano, al punto che uno dei primi soggetti del fotografo è stato la Luna. La prima immagine fotografica è stata eseguita nel 1839 da Samuel Morse, professore di letteratura e disegno all’università di New York, subito dopo il suo rientro da Parigi dove aveva incontrato Daguerre e appreso i rudimenti della dagherrotipia. Il sole è stato a sua volta un soggetto molto fotografico, soprattutto per la curiosità degli astronomi, che applicarono la nuova tecnica ai telescopi, trasformandoli così in enormi obiettivi fotografici. Lo stesso Arago, che era astronomo, tentò di fotografare il sole al dagherrotipo, con l’aiuto di Gustave Le Gray, ma non c’è traccia di questa immagine. In occasione di ogni eclisse, quando la tecnica fotografica si fa più semplice e offre migliori risultati, si organizzano regolarmente spedizioni in vari punti del globo, dove si suppone sia migliore l’osservazione. Per indagare in modo più preciso sui fenomeni della volta celeste vennero progettati e costruiti strumenti sempre più specifici, come il revolver astronomico, realizzato per consentire di cronofotografare il passaggio del pianeta Venere dinanzi al sole. L’apparecchio venne in seguito mutato e adattato dal Marey, per il suo fucile fotografico, con il quale studiò soprattutto le fasi del volo degli uccelli e il movimento rapido di alcuni animali. La tecnica di ripresa astrofotografica venne ulteriormente migliorata con la utilizzazione delle emulsioni alla gelatina-bromuro d’argento, al punto che si realizzò una carta fotografica del cielo stellato, che registrava be venti milioni di stelle (1887). Applicazioni in medicina Anche la medicina ha utilizzato subito la fotografia come strumento di analisi e documentazione visiva delle conseguenze di molte malattie; i grandi calotipisti inglesi Hill e Adamson pare siano stati i primi a occuparsi di questo settore; si deve a loro quella che viene considerata la prima fotografia “medica” che raffigura una donna anziana, vestita alla moda del tempo che mostra un voluminoso gozzo. In Gran Bretagna viene istituito per la prima volta un laboratorio fotografico in un ospedale, per intervento di Hugh Welch Diamond, medico sovrintendente del manicomio femminile della contea del Surrey. Quattro anni dopo un analogo servizio è istituito a Berlino nello studio dell’ortopedico dr. Berend, che usa la fotografia per documentare l’evoluzione delle malattie che sta curando. Tra le ricerche fotografiche ottocentesche ricordiamo quelle del dottor Guillaume-Benjamin Duchenne de Boulogne relative allo studio della mimica facciale in soggetti catalettici, tramite l’applicazione di elettrodi sui muscoli che in tal modo vengono fatti reagire secondo precisi programmi. Pubblicò anche un album di 17 fotografie, un volume in due tomi e in differenti edizioni. Nei manicomi il rito della fotografia diventò d’obbligo, e dappertutto si composero allucinanti album di immagini, ma la più affascinante applicazione fotografica in campo medico è stata realizzata in seguito alla scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Konrad Rontgen che ha aperto nuove possibilità d’indagine fotografica anche nello spazio invisibile all’occhio umano e alle comuni emulsioni fotosensibili. L’indagine fotografica non ha trascurato nulla nel campo della medicina e dopo lunghe ricerche affidate all’evoluzione della tecnica della fotografia, si riuscì a fotografare ogni cosa: la retina dell’occhio, l’interno dello stomaco umano, persino l’embrione umano durante la sua maturazione nel grembo materno. Fotogrammetrie e panoramiche Tra il “molto piccolo” e il “molto grande” c’è però il nostro quotidiano spazio esistenziale e si affida al codice fotografico il compito di eseguirne la misurazione, per un controllo e un confronto; una parte di queste ricerche rientrano nel settore della fotogrammetria. Questi studi sono stati avviati dal colonnello A. Laussedat dal 1850 con la camera lucida e dal 1854 con la fotografia; la prima esperienza ufficiale con la camera oscura topografica è della primavera del 1861 quando eseguì il rilievo fotogrammetrico del villaggio di Buc. Ma la prima idea di impiegare le vedute del terreno per la costruzione di piante e di carte è dovuta al celebre idrografo francese Beautemps-Beaupré. I primi studi seri fatti in Italia risalirebbero al 1878 per merito dell’Istituto geografico militare, diretto dal colonnello Ferrero, ma il luogotenente Michele Manzi aveva utilizzato la fotografia in alcuni rilievi sul Gran Sasso. Anche la fotografia “panoramica” venne utilizzata nell’800 per eseguire un più suggestivo rilievo del territorio. Vi si impegnarono particolarmente Aimé Civiale e Pierre Moessard. Il primo eseguì giganteschi panorami circolari (vedute dei Pirenei e delle Alpi) componendo una accanto all’altra persino quattordici fotografie in montaggi che raggiungono le dimensioni di cm 51x378. Il secondo progettò un ingegnoso apparecchio chiamato cylindrographe photographique, con cui era in grado di variare l’angolo di ripresa, sino a 170°, con un tempo di posa minimo di 1/ 200 di secondo; con sole due immagini gli era possibile ottenere pressoché una panoramica completa. Nella ricerca della panoramicità si applicò anche Thomas Sutton, costruendo un curioso apparecchio dotato di un obiettivo fisso; è composto di due emisfere in vetro riunite mediante una giuntura stagna, e il cui vuoto interno è riempito d’acqua prima dell’uso; si tratta dunque di una palla d’acqua contenuta in una sfera di vetro i cui centri coincidono. Per queste immagini panoramiche la Kodak mise in commercio nel 1899 una camera a obiettivo mobile, la N°4 Panoram Kodak Camera. Nel 1902 i Lumiere si dedicarono a questo settore della visione panoramica costruendo un complesso apparecchio da proiezione, il photorama. Il concetto di panoramicità coinvolse e comprese quello della veduta “aerea”, ampia, lontana e si utilizzavano i “cervi volanti”, una specie di aquiloni, grandi anche m 2,50x1,80 con i quali si poteva esplorare fotograficamente il territorio anche per fini militari. Stereogrammi e fotografia integrale La stereoscopia consentì rilievi topografici ancora più precisi e venne subito applicata in queste ricerche. La ricerca era stata avviata da sir Charles Wheastone con un semplice apparecchio stereoscopico, ma non ebbe molto successo perché i disegni non consentivano risultati molto efficaci. Fu la fotografia a rilanciare quindi questo strumento, da Duboscq che sostituì il vetro alla carta e le coppie di immagini stereoscopiche poterono così essere osservate, con uno specifico stereoscopio per trasparenza e non solo per riflessione. Da allora vi si dedicarono in molti, sia per la costruzione degli apparecchi da ripresa, sia per quelli relativi alla visione delle immagini; l’ottico e fotografo Carlo Ponti progettò e costruì molti di questi apparecchi per la lettura delle fotografie come l’ateloscopio, il megateloscopio, il grafoscopio che ebbero successo nelle Esposizioni internazionali. La presentazione ufficiale della stereofotografia è avvenuta all’Esposizione di Londra nel 1851 e da allora furono in molti a cercare di perfezionare la tecnica. La stereoscopia consente con il suo codice di controllare con maggiore precisione la dimensione oggettiva degli elementi di cui è composto lo spazio; nei rilievi aerei si impiega oggi la ripresa stereografica, utilizzando l’aerofotogrammetria e la fotogrammetria, con strumenti di avanzata tecnologia, sia della dinamica aerea che della fotografia che della restituzione cartografica. Queste tecniche di rilievo sono state applicate anche in archeologia e con esse l’archeologo Dinu Adamesteanu scoprì l’intero assetto urbano dell’antica città di Spina, in Emilia, utilizzando l’effetto dei raggi infrarossi su speciali emulsioni sensibili alla loro lunghezza d’onda che gli consentirono di distinguere il segno dei muri perimetrali dalle case, ricoperti dal terreno e quindi altrimenti invisibili. Questa tecnica fotografica ai raggi infrarossi venne risolta dalla Kodak nel 1925 quando alcuni ricercatori americani prepararono una pellicola sensibile all’infrarosso, in un intervento di lunghezza d’onda tra i 7000 e i 9000 A°. La luce ultravioletta è stata a sua volta utilizzata in molti settori scientifici e vi si ricorre spesso anche nell’esame delle opere d’arte. L’indagine fotografica non ha avuto soste: nella ripresa subacquea (servendosi della luce al magnesio, che venne accesa in un contenitore impermeabile) e nella registrazione dei fenomeni visivi che si determinano con il movimento dei corpi alle alte velocità. Fotografia criminologica Una applicazione scientifica della fotografia è quella relativa alla segnaletica poliziesca e alla criminologia. Fino dal 1870, in Inghilterra, si fotografarono i criminali, mentre in Francia la polizia si servì della fotografia dal 1868 per documentare i luoghi dove avvenivano delitti, secondo griglie prospettiche determinate dalla lunghezza focale dell’obiettivo; sovrapponendoli all’immagine fotografica, questi schemi grafici consentivano la misurazione delle distanze degli oggetti all’interno del cono visivo. Ricordiamo in questo settore Umberto Ellero che progettò un’ingegnosa macchina per eseguire una fotografia segnaletica di fronte e una di fianco simultaneamente. Le “gemelle Ellero” avevano lo scopo di evitare possibili alterazioni della mimica facciale ed erano un metodo assai più pratico e preciso del consueto uso dello specchio, tenuto in mano dal presunto criminale accanto al viso. L’apparecchio consiste in due camere identiche, applicate a due treppiedi sistemati ai vertici di un triangolo equilatero, istallato in modo che gli assi focali degli obiettivi siano perpendicolari tra di loro e rivolti verso il terzo vertice, dov’è seduto il malcapitato. Gli otturatori di entrambi gli apparecchi scattano assieme, per cui si ottiene una fotografia frontale e una di profilo contemporaneamente. FOTOGRAFIA E ARTE Una rivoluzione nelle arti L’idea della fotografia è stata suggerita dall’esigenza di sostituire all’immagine manuale quella meccanica, più semplice, facile e economica oltre che più precisa e razionale. La fotografia venne però assunta subito “al servizio dell’arte” e nonostante ogni rivendicazione di autonomia, appare una tecnica artigianale, simile alla stampa e alla stenografia, non essendole riconosciuto alcun ruolo, se non una modesta capacità creativa. I fotografi credevano che la specifica qualità della fotografia andava cercata nel vincolo che essa ha con il soggetto, con la sua scelta, che va operata nello spazio reale, ritagliandone un frammento, evidenziando il punto di vista. La fotografia deve molto all’apporto dei pittori che lasciarono il pennello per l’obiettivo. David Octavius Hill, uno dei più illustri protofotografi, dipingeva, e al nuova tecnica gli fu molto d’aiuto quando insieme al giovane Robert Adamson usò la calotipia per realizzare un grande dipinto con i ritratti di 474 sacerdoti della Chiesa scozzese, che sembra essere stata la prima applicazione pratica della fotografia alla pittura. Gustave Le Gray, oltre che inventore di una tecnica al collodio, cercò di utilizzare la fotografia per le sue capacità di fissare gli istanti, come quello del transito di una nuvola in cielo o dell’impennarsi di un’onda del mare. Baldus realizzò nel 1855 un reportage dove era già avvertibile il concetto fotografico della sequenza spazio-temporale, riprendendo un itinerario lungo la ferrovia Paris- Boulogne per un album commissionatogli dal barone de Rothschild, che pubblicò la raccolta di 74 vedute in venticinque esemplari. Di Baldus va ricordato inoltre il famoso album eseguito nel 1875 su “Les Palais du Louvre e des Tuileries” che è una delle prime documentazioni sistematiche di architettura. Modelli fotografici Il modello fotografico offriva indubbi vantaggi ai pittori. Dal punto di vista tecnico, le fotografie offrivano al pittore immagini già trascritte su una superficie bidimensionale. Fu la copia da fotografare che ebbe fortuna, dando al fotografo la convinzione di essere utile, un essere utile che risultava in qualche modo gratificante. Il nudo fu uno dei soggetti più richiesti dagli artisti; a Parigi eccelse nella fotografia di nudo Jean-Louis-Marie Eugène Durieu, ex pittore, operante all’Accademia delle Belle arti di Parigi. Anche in Italia la fotografia è ampiamente utilizzata dai pittori; tra questi Federico Faruffini che passò dalla pittura alla fotografia, ma le scene fotografiche che componeva erano troppo ben composte per essere utili ai colleghi pittori e quindi ebbe in questo settore molte difficoltà ad imporsi. A Parigi, nel frattempo, Corot utilizzava la nuova tecnica per stampare su carta fotosensibile disegni che tracciava su lastre collodionate, chiamate clichés verres. L’idea di questo procedimento nacque quando frequentava l’atelier dell’amico pittore litografo Constant Dutilleux, dove si recava in vacanza; grattando con una punta d’acciaio una lastra ricoperta di nerofumo, ma ancor meglio di collodio, Corot otteneva una matrice dalla quale si potevano ricavare, a contatto, una serie di copie su carta “salata” fotosensibile che oltretutto è opaca come superficie e dà all’immagine l’aspetto di un disegno. Anche Degas scoprì l’istantanea tramite la fotografia, che iniziò ad utilizzare nel 1860, dipingendo cavalli e danzatrici che sono evidenti trascrizioni di rapidi scorci e annotazioni fotografiche: i gesti sono bloccati a mezz’aria, i personaggi sfuggono, escono addirittura dalla cornica e la prospettiva segue le rigorose leggi dell’ottica, mentre la luce ripropone atmosfere quotidiane, meno sublimi del solito. Pure alcuni scultori tentarono di utilizzare la fotografia per la copia del vero, dopo che venne brevettato a Parigi da Francois Willème un sistema per riprodurre volumetricamente, mediante la fotografia, qualsiasi oggetto. Si eseguivano ventiquattro fotografie attorno al soggetto, a distanza di 15° l’una dall’altra, e quindi si riportavano i 24 profili con un pantografo, su un blocco d’argilla, rifinendo a mano i dettagli; il procedimento non ebbe successo. Artisti contemporanei hanno invece preferito ricorrere al calco di gesso, eseguito sul soggetto, anziché a quello fotografico, ottenendo una verosimiglianza che semmai ironizza su se stessa e mette in crisi quella fotografica. Ritratti e cartes de visite Il ritratto è stato, assieme all’architettura e al paesaggio, il soggetto cui i fotografi si sono dedicati maggiormente, con buoni risultati economici. Il processo di massificazione dell’immagine iniziò proprio con la diffusione del ritratto e la clientela era naturalmente quella dell’ambiente borghese e intellettuale. I contadini e i ceti poveri ottennero questo “diritto” soltanto più tardi. I pittori-fotografi provvidero ad alimentare questo rito negli atelier, sotto luminosi lucernari, in soffitte allestite come salotti, dove si accumulano mobili, fondali, tappeti, tendaggi per realizzare effimere ma efficaci scenografie, con lo scopo di dare dignità all’immagine e di connotare la classe sociale del cliente. Il fotografo si travestì da artista perché il titolo gratuito di pittore, accanto a quello di fotografo, sembrava quasi indispensabile per il prestigio professionale; Nadar fu tra i primi a sottrarsi a quest’obbligo. Iniziò tardi questo mestiere, a trentatré anni, aiutato dal fratello nella speranza che la fotografia risolvesse i suoi problemi finanziari. Il lucernario del suo primo studio era orientato a nord come quello di molti pittori e ciò attribuiva ai soggetti un chiaroscuro simile a quello che si potrebbe ottenere all’aperto; i personaggi fotografati da Nadar acquistavano così una vivacità naturale. Eseguì soprattutto ritratti nel cosiddetto “piano americano”, cioè dalle ginocchia in su, con lo sguardo rivolto all’obiettivo; la luce scende dall’alto, l’espressione è intensa, colta in una posa quasi istantanea, per cui qualcuno ha scritto che quelli di Nadar sono “ritratti psicologici”. L’unico in grado di competere fu Antoine Samuel Adam-Salomon che proveniva dalla scultura e aveva iniziato a fotografare. Si dedicò alla ritrattistica con un preciso schema di lavoro, le sue fotografie, formato cm 20x25, furono ottenute con ottiche di lunga focale e lo sfondo usato era semicilindrico e di colore marrone, con tre alti mobili, due ai lati e uno sopra. In concorrenza commerciale fu invece André Adolphe Disderi che proveniva dalla gestione di un negozio di berretti. Aprì un atelier a Brest e una volta a Parigi ottenne molto successo soprattutto per merito di un’invenzione di un apparecchio a obiettivi multipli, con il quale eseguiva ritratti in serie di sei e otto immagini 6x9, in una successione di pose cui venne dato il nome di “carte da visita”, poiché avevano il formato e la funzione di un biglietto da visita. Questo rese la fotografia definitivamente popolare, specialmente per il ritratto, il cui prezzo era alla portata anche di gente modesta. Desderi creava addirittura le scenografie, con mobili e oggetti di prestigio e inoltre “travestiva” le persone, per attribuire un ruolo. Nadar comunque ebbe la meglio e il suo atelier progredì, mentre Desderi fu vittima della sua stessa invenzione, che collaborò al processo di massificazione e di semplificazione tecnica della fotografia e quindi determinò una concorrenza senza pari. La ritrattistica d’arte si sviluppò dappertutto; a New York c’erano 300 atelier nel 1870; a Londa, John Mayall applicava la tecnica carte da visite anche ai ritratti dei reali d’Inghilterra, mentre dilettanti si dedicavano ad una fotografia più creativa. In Italia la ritrattistica ebbe a sua volta autori significativi tra cui Alphonse Bernoud a Napoli che fu addirittura fotografo di corte, dopo aver attraversato letteralmente la penisola, lasciando traccia del suo passaggio in splendidi ritratti al dagherrotipo di dame e gentiluomini. Architetture e opere d’arte I fratelli Alinari nel 1852 avviarono un’attività di ampie dimensioni, nella sede di via Cornina a Firenze, con il progetto di catalogare fotograficamente il patrimonio artistico, io ogni settore, per soddisfare la crescente richiesta di queste immagini sia da parte degli studiosi che da parte dei turisti in continuo aumento; la diffusione delle fotografie della Ditta Fratelli Alinari venne organizzata razionalmente, tramite ricchi cataloghi, costantemente aggiornati, oltre a una rete di distribuzione in tutto il mondo. Gli Alinari progettarono e realizzarono anche un pionieristico apparecchio “basculante” con il quale risolsero tra l’altro il problema di fotografare integralmente il Campanile di Giotto. Ma in generale il monumento appare decisamente isolato dal contesto ed è presentato soprattutto nel suo valore oggettuale, come si trattasse di una scultura gigantesca, in modo del tutto indipendente dall’ambiente urbano circostante. Scultura e pittura venivano a loro volta riprodotte e catalogate in fotografia, favorendo rapidamente un florido commercio; nel contempo andava modificandosi anche la lettura e l’interpretazione dell’opera d’arte, ma essendo la fotografia fedele al vero non vi fu opera d’arte che non venisse fotografata e riprodotta in centinaia di copie; Luigi Sacchi a Milano fotografò per primo l’Ultima cena di Leonardo nel 1857 e la riprodusse in un formato di cm 100x165 allora inconsueto. L’avvento del colore, soprattutto dell’autochrome che i Lumiere mettono in commercio nel 1907, determinò uno sviluppo eccezionale, soprattutto nella riproduzione con lastre a mosaico dei quadri di artisti celebri, antichi e moderni. Negli ultimi decenni del secolo vennero perfezionate anche le tecniche di stampa a inchiostro delle fotografie, specie mediante la fototipia che consentì all’editore veneziano Ferdinando Ongania di realizzare la monumentale opera dedicata alla basilica di S. Marco, “Dettagli di altari, monumenti, sculture, ecc. della Basilica di S. Marco in Venezia” che è tra le prime pubblicazioni d’arte con fotografie stampate a inchiostro. La fotografia artistica Il più spettacolare intervento dei “fotografi artisti” ottocenteschi avvenne attraverso la negazione, persino l’annullamento del dettaglio con la sfocatura, che alcuni teorizzano sostenendo che l’immagine “a fuoco” in tutti i piani non corrisponderebbe al nostro modo di vedere fisiologico, avviando così anche i primi studi sulla percezione visiva dell’occhio umano. Le fotografie “artistiche” di Julia Margareth Cameron suscitarono subito molto interesse perché avevano il fascino del flou, essendo spesso annebbiate, sfocate, a volte mosse; interponeva a volte una lastra di vetro tra la carta positiva e la lastra al collodio, per sfocare maggiormente, oppure adoperava obiettivi imprecisi; ma in altri casi il mosso dell’immagine era inevitabile, specialmente nei ritratti ripresi molto da vicino, nonché a causa della lunga posa, durante la quale risultava difficile al soggetto rimanere immobile. Questo flou attribuiva alle immagini un’atmosfera inconsueta nella fotografia del tempo, dove invece la nitidezza era sinonimo di qualità ed era “diversa” anche dalla pittura; oltre a ritratti in primissimo piano la Cameron realizzò molte composizioni di figure, anche travestendo con i costumi i modelli per definire e interpretare allegorie di gusto vittoriano. La querelle tra i sostenitori della fotografia nitida o sfocata era però nata tempo prima, già nel confronto tra i calotipi e dagherrotipi, per cui nei calotipi si produceva un segno largo, morbido, che però a molti egualmente piacque, specialmente nei paesaggi. Come la Cameron si dilettava a cogliere in evanescenti ritratti i suoi celebri amici, Lewis Carroll, matematico e scrittore si esercitava in gradevoli giochi fotografici riprendendo soprattutto fanciulle in tiepide, delicate immagini, a volte sottilmente erotiche. Le sue immagini rimasero occultate o comunque dimenticate, sino a quando Gernsheim non le riscoprì, assieme a un diario. Sono però nitide, considerate “artistiche” per la posa costruita scenograficamente dei modelli, le espressioni abbandonate alla malinconia, l’allusione a luoghi fiabeschi, tendente persino alla fantascienza; erano nitidi i grandi collages di Rejlander e di Robinson il quale si occupava di scultura e letteratura, ma iniziò a fotografare presto, approfondendo anche una sua teoria sulla “fotografia artistica”. Nel 1858 realizzò una delle sue immagini più famose, Fading Away. A Robinson piacevano i preraffaelliti anche perché le loro opere erano caratterizzate dall’imitazione più minuziosa di quanto si sia mai conosciuto in pittura; questa imitazione minuziosa egli la otteneva con la fotografia, mentre la struttura compositiva era delegata al disegno; dopo aver disegnato con rapidi ed essenziali segni la composizione del quadro fotografico, Robinson e Reylander realizzavano le varie fotografie delle persone e degli elementi dello sfondo, anche in tempi e luoghi diversi; queste immagini venivano in seguito incollate una accanto all’altra, come in un puzzle, e il conseguente tableau vivant era riprodotto e stampato su un unico foglio di grandi dimensioni. Mentre i professionisti insistevano nei vecchi schemi figurativi, aggiornando solo la tecnica, i fotoamatori cercarono di evidenziare l’aspetto artistico della fotografia. Il pittoricismo e le sue tecniche Nel dibattito a Vienna nel 1891, in occasione di un convegno organizzato dal Camera Club locale, si ribadì la distinzione tra fotografia commerciale e quella artistica: si inserì indirettamente un fotografo dilettante propugnatore di una fotografia naturalistica, il medico cubano Peter Henry Emerson che tra l’altro, aveva scritto un saggio molto stimolante, Naturalistic Photography for Students of Art che ebbe larga popolarità e suscitò molto interesse, soprattutto nell’ambiente fotoamatoriale. Emerson aveva abbandonato provvisoriamente la carriera di medico per la fotografia e realizzava soprattutto paesaggi, con una tecnica semplice che gli consentiva di ottenere immagini di un’insolita freschezza naturalistica, mediante la selezione visiva dei piani, attenuati con la sfocatura o sottolineati con la nitidezza della messa a fuoco. La sua proposta di fotografia naturalistica si scontrò con il realismo della fotografia accademica; questi fotografi rifiutano decisamente il flou proposto da Emerson. Si cercò in tutti i modi di rendere la tecnica fotografica più complessa e personale, anche mediante l’applicazione di nuovi procedimenti di stampa, che avevano la prerogativa di far rassomigliare ancor di più la fotografia a un disegno o a un’incisione. Si cercò quindi di convincere il fotografo a intervenire manualmente sull’immagine, in modo da eliminare il più possibile la sua freddezza meccanica; pareva necessario distruggere questa nitidezza, non solo attraverso il flou (si fabbricarono anche appositi obiettivi anacromatici, che “sfocavano” leggermente l’immagine), ma per mezzo di nuove tecniche di stampa, come la gomma bicromata o il charbon-velours che consentono di ottenere immagini vellutate, dall’aspetto di un carboncino o di una sanguigna. A Londra alcuni fotografi pittoralisti si organizzavano nel Linked Ring Brotherhood, un circolo esclusivo, fondato da Alfred Maskell e da “cinque artisti inglesi” solidali tra loro. Il motto del Linked Ring, organizzato come una setta segreta e dove gli associati usavano uno pseudonimo e si riunivano incappucciati, era “Liberty, Loyalty”. Fu il Linked Ring a dare vita a un Photographic Salon internazionale, che fu per vari anni il più prestigioso salon mondiale della fotografia. Alfred Maskell pubblicò nel 1896 un saggio che ebbe molto successo, perché rese pubblico il procedimento della gomma bicromata; era stato proprio Maskell a esporre al Salon di Londra le prime immagini ottenute con questa tecnica, che si basava sulla proprietà del bicromato di potassio, aggiunto a sostanze organiche quali la gelatina o la gomma arabica, di rimanere insolubile nell’acqua se viene illuminato per un determinato tempo dai raggi del sole; al miscuglio viene aggiunto un pigmento che consente, dopo l’esposizione di un foglio di carta reso fotosensibile o collocata sotto un negativo nel torchietto fotografico, di ottenere un’immagine che ha un chiaroscuro proporzionale a quello del negativo utilizzato. Dopo questa prima esposizione, vennero apportati perfezionamenti e modifiche, ma i più diffusi furono i procedimenti al charbon-velours e quello all’olio, o la ozobromia che è una modifica del classico procedimento al carbone. Sublimi risultati mediante il procedimento alla gomma bicromata vennero comunque ottenuti da Robert Demachy e da Emile Joachim Puyo, i quali lavorarono spesso assieme e scrissero anche un libro, Les procedes d’art en photographie. Leondard Misonne fotografava greggi di pecore nella foschia di tramonti piovosi. Richard Polak o Guido Rey proponevano antiche scene fiamminghe o romane ricostruite con modelli travestiti in posa. La detestabile ma accattivante esperienza del pictoralism è stata comunque la maggiore provocazione, quasi una rivoluzione, nel mondo della fotografia alla fine dell’Ottocento e fu un’occasione di dibattito e di esplorazione del suo linguaggio. FOTOGRAFIA E INFORMAZIONE Viaggiatori in Oriente Per convenzione, la prima fotografia di cronaca, venne eseguita ad Amburgo nel maggio del 1842 da Herman Biow e da Carl Stelzner dopo un grande incendio che distrusse un quartiere della città. Il concetto di fotografia come documento sollecitò subito il suo uso nella riproduzione degli eventi di cronaca; la fotografia non inganna, corrisponde senza alcun dubbio al vero, è un ottimo testimone e le fotografie di cronaca risultavano lucide schede all’avvenimento, anche se questo era già compiuto e ne rimaneva soltanto le tracce, come nel caso dell’incendio di Amburgo, del quale i due fotografi raffigurano soltanto le conseguenze, cioè quattro ruderi bruciacchiati. Queste fotografie avevano il pregio di essere mute e di trasmettere all’osservatore la realtà così com’è; la sua capacità documentaria e comunicativa non poté subito essere utilizzata soprattutto per la difficoltà di moltiplicare i suoi esemplari. Subito dopo l’invenzione ci si preoccupò quindi di realizzare una tecnica che consentisse di riprodurre le fotografie, soprattutto i dagherrotipi. Il problema della diffusione delle immagini non era però soltanto tecnico, ma anche politico e socioeconomico, e giungerà a maturazione soltanto quando il sistema di informazione giornalistica sarà potenziato e rivolto ai nuovi strati sociali coinvolti nella vita pubblica. I viaggiatori portarono nel loro bagaglio anche l’attrezzatura per dagherrotipo o calotipie, al posto delle vecchie camere oscure o lucide; stava nascendo il fotografo di viaggi, pronto a immortalare avventure e guerre. Lo scrittore Maxime Du Camp fece subito parte della schiera di questi itineranti e partì per un viaggio esotico assieme a Gustave Flaubert con l’incarico di riprodurre, durante il viaggio in Egitto e Nubia, geroglifici e bassorilievi egiziani; al Cairo incontrò il barone Alexis da Lagrange che gli indicò il metodo analogo di Blanquart-Evrard (del papier ciré) con il quale ottenne risultati ancora migliori, su negativi di carta di formato cm 22x16 o cm 30x44. L’inglese Francis Frith viaggiò a sua volta in Egitto, Palestina, Siria con una camera di cm 40x50 e realizzò le immagini poi raccolte in ben sette volumi. Tra i più conosciuti fotografi-viaggiatori nei paesi del Mediterraneo va ricordato Felix Bonfils il quale pubblicò cinque album, dedicati all’architettura, al paesaggio e al costume, avviando il commercio di immagini sul folklore e i “tipi locali” (diffuse le sue fotografie soprattutto attraverso raccolte di stampe fotografiche originali che i turisti e gli studiosi acquistavano come preziosi souvenirs o opere di studio. Alpinisti e esploratori Anche il reportage fotografico all’aperto richiedeva tempi lunghi di posa ed era necessario progettare in anticipo la ripresa, studiando il punto di vista più favorevole per ottenere un’immagine unica. A questo genere si dedicò con successo l’italiano Vittorio Sella nel corso di molti viaggi sulle Alpi, e di studi antropologici sul Ruwenzori, il circolo polare artico. Eseguì inoltre ampie vedute panoramiche, che fecero conoscere paesaggi allora quasi irraggiungibili. Il francese Desiré Charnay si spinse fino all’America centrale dove fotografò per la prima volta le rovine dei Maya; William Notman preferì a volte ricostruire in studi improvvisati nei villaggi, con fondali e scenografie, le condizioni di vita dei pionieri canadesi, ma riprese anche en plein air. Questi fotografi hanno dato inizio alla grande esplorazione fotografica del territorio americano. Non soltanto il paesaggio naturale e l’architettura vennero compresi nel carnet del fotografo viaggiatore, ma anche la vita animata delle città cominciò ad essere esplorata, non appena le emulsioni si fecero più sensibili e il procedimento al collodio e poi quello alla gelatina si semplificarono. La luce artificiale Fu inevitabile che molti fotografi ricorressero anche alla luce artificiale, per rendersi indipendenti da quella solare. La prime esperienze furono quelle dei fratelli Johann e Joseph Natterer a Vienna, che eseguirono nel 1841 pose notturne di dieci secondi soltanto; Talbot utilizzò la scintilla elettrica per fotografare nel 1851 una rotativa del “Times” in movimento; ma Nadar fu in grado, nel 1860, di illuminare ampi spazi delle catacombe parigine con pile Bunsen e di ottenere nitide immagini con pose dai diciotto ai venti minuti. La luce artificiale venne resa di uso più semplice innanzitutto utilizzando meglio il magnesio e, nel 1925, costruendo speciali lampadine Vacublitz, che contenevano polvere di magnesio e si accendevano con una scintilla elettrica. Il lampo al magnesio fu ampiamente usato specie nella fotografia di cronaca e in quella poliziesca. Jacob-August Riis esplorò un mondo sconosciuto, immerso nell’ombra, nel buio dei precari e delle periferie dove trovavano rifugio una moltitudine di persone giunte dall’Europa; sono immagini “sociologiche” schiette, dal quale le persone a volte rimanevano attonite, nuove anche sotto il profilo estetico grazie all’aggressività del disegno determinato dal flash, con grande contrasto bianco-nero. Il sociologo si fa fotografo Lewis Wickes Hine, autodidatta come fotografo, utilizzò la fotografia per illustrare i suoi articoli sulla vita degli immigrati europei e scoprì che questo messo espressivo gli consentiva di essere assai efficace nel raccontare una vicenda umana triste e quasi improbabile; la fotografia divenne quindi la sua arma preferita e la utilizzò quando iniziò a lavorare per la rivista “Charity and the Commons” come strumento ideale per i reportage che stava realizzando sui minatori di Pittsburgh e soprattutto sullo sfruttamento del lavoro minorile. Per iniziativa di Hine nacque nel 1928 la “Photo-League”, un organismo di fotografi e cineasti tesi alla ricerca sociologica. Anche il fotografo clochard Eugene Atget ha contribuito a un’analisi sociologica dell’ambiente parigino con il suo grande censimento fotografico di Parigi avviato nel 1898 e teso soprattutto a documentare le ultime sopravvivenze architettoniche e ambientali. Nasce il fotogiornalismo L’istantaneità ha occupato un posto determinante nello sviluppo della tecnica e del linguaggio fotografico; essa sembrava un traguardo irraggiungibile, ma Arago ne aveva subito colto l’importanza: due o tre minuti basteranno di certo, sottolineava e ridurre questi tempi di posa divenne un impegno professionale per ogni fotografo. È opportuno indicare l’evoluzione subita dagli apparecchi fotografici: Nel 1862 Leon Vidal aveva progettato un apparecchio a mano, senza treppiede, ma il suo autopoligraphe non ebbe però pratica applicazione a causa della lentezza del collodio che sconsigliava l’abbandono del cavalletto; nel 1855 ebbe più successo con l’en-cas, dotato di telaio doppio per le lastre, che non dovevano essere più cambiate con il sacco nero. In quegli anni sembrano utilizzabili per l’istantanea apparecchi come: il velocigrafo Laverne o l’alpiniste Enjalbert, che utilizzava un caricatore di 12 lastre, pesava due chili e si poteva portare a tracolla come un cannocchiale; il detective Nadar e quello di Steinbeil, a cassetta, simili alla Kodak N°1 (montava all’inizio una pellicola a nastro con supporto di carta, con la quale si ottenevano in negativo 100 fotografie rotonde). Ma il “piccolo formato” era nel destino della fotografia, e pochi anni dopo, Franois Molliè costruiva la cent vues con otturatore a diaframma Compur per riprese sino a 1/300 di secondo; nel 1923 la Leitz di Wetzar era finalmente in grado di produrre trentuno esemplari di un apparecchio minuscolo, chiamato Leica, che montava pellicola cinematografica 35 mm (fu commercializzata solo nella primavera del 1925). L’obiettivo delle prime Leica consentiva tempi di esposizione da 1/25 a 1/500 di secondo e l’apparecchio ebbe un eccezionale fortuna, al punto di divenire quasi il simbolo del moderno fotogiornalismo. La Leica ebbe presto una concorrente nella Contax che utilizzava egualmente pellicola cinematografica, producendo negativi di 24x36 mm, adatti all’ingrandimento, che creavano comunque problemi di qualità nella stampa finale. Nel 1929 si inserì nel mercato la Rolleiflex, una biottica 6x6cm cui fece seguito un modello più economico, la Rolleicord, subito apprezzata e adottata dai fotoamatori. Nell’evoluzione della macchina fotografica, vanno ricordate l’Exacta, che è stata la prima reflex monoculare di piccolo formato, la Primarflex e la Asahiflex con visore a pentaprisma e un esposimetro interno, siglato TTL (Through The Lens) che legge la qualità di luce riflessa dal soggetto attraverso l’obiettivo, intercambiabile. Gli otturatori sono stati via via adeguati ai nuovi apparecchi, come pure le emulsioni fotosensibili, che oltre ad aumentare progressivamente la sensibilità consentirono ingrandimenti giganteschi, senza che l’immagine perdesse nitidezza. Riproduzione e veicolazione della fotografia Quasi parallelamente ai progressi fatti dalla tecnica fotografica si perfezionarono i procedimenti di riproduzione della fotografia mediante la stampa a inchiostro, per giornali e libri illustrati. Quest’idea di riportare l’immagine su carta sollecitò subito le ricerche di vari scienziati; Alfred Donné era riuscito a incidere una lastra dagherrotipica con acido nitrico diluito in acqua e a stampare l’impronta già nel 1839; a questo primo tentativo fece seguito quello di Hippolyte Fizeau con risultati che permisero di utilizzare due dagherrotipi direttamente come clichés da stampa. Questo procedimento si svolgeva in tre fasi: mordenzatura del dagherrotipo, granitura della superficie e stampa a inchiostro con il torchio. Il mordente, acido nitrico e acido cloridrico, veniva versato caldo sul degherrotipo e incideva i neri dell’immagine, ossia le zone non protette dal mercurio; lastra con olio di lino cotto, che penetra nelle parti incise, dove rimane anche dopo una leggera pulitura superficiale. L’olio depositato nell’incisione veniva sciolto con soda caustica; si procedeva a un’altra morsura dell’argento messo a nudo e si rinforzava la lastra con un bagno galvanoplastico. La lastra veniva resinata, ossia spolverata con della resina in polvere, per creare la granulosità sulla superficie. La lastra veniva finalmente stampata come un’acquaforte. I risultati furono però deludenti. Dopo le prove di Donné e Fizeau, un processo di stampa fotolitografica, con matrici al bitume, venne proposto da Zurcher a Parigi e nel 1848 Poitevin segnalò all’accademia delle scienze un suo metodo di fotoincisione; fu in grado di presentare due procedimenti di stampa, uno agli inchiostri grassi, che chiamò photolitographie, l’altro alla gelatina bicromata, l’helioplastie. Nel 1853 anche Talbot aveva inventato un processo alla gelatina e bicromato di potassio e risolse inoltre un altro problema, sostanziale per la stampa delle mezze tinte; era indispensabile suddividere l’immagine in innumerevoli puntini, e vi riuscì, oltre che resinando la lastra, interponendo durante l’esposizione, tra il negativo e la matrice, una leggera stoffa di seta che svolgeva la funzione degli attuali retini tipografici. Anche Niépce da Saint-Victor adoperò le lastre d’acciaio, ma come sostanza sensibile riesaminò il bitume di Giudea; dopo aver seccato al calore l’asfalto disteso sulla piastra, vi poneva sopra un negativo di vetro albuminato, esponeva al sole per un periodo, che andava da un quarto d’ora a un’ora, sviluppava in un bagno di petrolio ed effettuava la morsura della lastra con acido nitrico. Nel 1864 Walter Bentley Woodbury realizzò matrici in rilievo sfruttando i bicromati, con una tecnica che venne chiamata woodburytipia o photogliptia ed era un processo fotomeccanico nel quale si produce su gelatina bicromata un’immagine in rilievo: viene coperta una lamina di piombo, si comprime il tutto con un torchio idraulico finché il piombo abbia preso in incavo la forma dell’immagine in rilievo. Poi si empiono gli incavi della forma di piombo con gelatina pigmentata fluida, e si usa la lamina così preparata per tirare delle stampe; il chiaroscuro di esse risulta dalle leggere differenze di spessore. Contemporaneamente agli studi sulla riproduzione e sulla moltiplicazione delle fotografie mediante la stampa con gli inchiostri, vennero analizzate le possibilità di diffusione delle immagini, anche tramite la loro trasmissione a distanza. La prima immagine di cronaca a essere stata inviata telegraficamente con il sistema Belin, fu l’arrivo a Lione del presidente della Repubblica francese Poincaré nel 1914; la fotografia venne ricevuta da “Le Journal” di Parigi, ma si trattò di un esperimento sporadico perché la belinografia fu adottata soltanto nel 1924. L’illustrazione fotografica All’inizio degli anni Venti del Novecento, i giornali furono in grado di pubblicare fotografie quotidianamente e la fotografia sostituiva l’illustrazione disegnata. In Germania, Alfred Marx e Simon Gutman organizzarono un’agenzia, la Dephot, specializzata nel commissionare a un gruppo di fotografi i reportage d’attualità da fornire ai giornali, nei quali queste immagini assumevano sempre maggiore importanza come mezzo di informazione autonomo e autosufficiente. Eric Salomon affidava soltanto alla fotografia il compito di spiegare, oltre che di informare sugli eventi della società. Tra il 1928 e il 1933 egli fornì ai giornali tedeschi dei reportage fotografici “a luce ambiente”, eseguiti con una tecnica che escludeva la posa in favore dell’istantaneità e che rendeva le immagini ancor più realistiche e i personaggi più credibili e vicini al lettore; riuscì ad ottenere immagini istantanee in qualunque condizione di luce. Egli riuscì a convincere che il valore dell’immagine non dipende dalla nitidezza ma dal soggetto e dall’emozione che riesce a suscitare. In Italia gli esordi del fotogiornalismo furono più difficili e tra i pionieri italiani si qualificò Luca Comerio che ebbe la ventura di riprendere coraggiosamente alcune fasi della tragica repressione del generale Bava Beccaris, durante i suoi moti a Milano; Luigi Barzini, con una Panoram Kodak e una piccola folding 6x9, realizzò, nei primi del Novecento inconsueti racconti di viaggio fotografici, durante la permanenza in Oriente e le sue foto trovarono spesso spazio su “La Lettura” e in volumi di racconti di viaggio. La fotografia è stata utilizzata in Italia, durante il fascismo, dall’Istituto L.U.C.E. (L’Unione del Cinema Educativa, voluta da Mussolini) quale mezzo di persuasione e di celebrazione, oltre che di controllo dell’immagine dei miti del regime. Non sono comunque mancate alcune coraggiose iniziative indipendenti, come quella di Leo Longanesi che fondò “Omnibus” (settimanale di attualità politica e letteraria”), il primo rotocalco italiano, soppresso dopo due anni perché al ministro della Cultura non era piaciuto un articolo di Alberto Savinio se Leopardi. Fotogiornalisti e paparazzi La grande macchina dei mass media si avviò proprio con il giornale d’immagine, dove la fotografia svolge il suo ruolo più congeniale, d’informazione. Un gruppo di fotografi legati tra di loro, oltre che da amicizia, si accordarono per proporre, in piena autonomia, dal loro “punto di vista” la storia del mondo. Una storia costruita di immagini obiettive degli avvenimenti, filtrate dall’occhio sensibile del fotografo, che non intende più essere succube dell’editore, ma esprimere la propria ideologia senza alcun compromesso commerciale o politico. Fondarono un’agenzia strutturata in cooperativa, dove soci sono gli stessi fotografi e la chiamarono Magnum Photos, un marchio d’occasione nato, si dice, dalla bottiglia magnum di birra che avevano sul tavolino del bistrot parigino mentre siglavano questo progetto. I fotografi della Magnum, nel distribuire i più importanti rotocalchi del momento, i loro reportage, hanno in breve tempo caratterizzato con il loro stile il fotogiornalismo mondiale, del quale sono stati tra i massimi esponenti. Un fotogiornalismo più sciatto e meno intellettuale, ma provocatorio per la sua “volgarità” è stato invece quello realizzato da alcuni fotografi soprattutto italiani, a Roma in particolare, dove si pubblicavano alcune tra le prime riviste scandalistiche del dopoguerra; vennero chiamati “paparazzi”, dal nome del personaggio di un fotografo nel film di Fellini “La dolce vita” e la parola paparazzo assunse ben presto un significato dispregiativo. Fotografi improvvisati, anche detestabili, hanno proposto un’efficace alternativa dell’edonismo dei rotocalchi di lusso, in cui la realtà appariva perlopiù levigata e sterilizzata, come se si trattasse di una scenografia. La foto dei paparazzi aprì uno spiraglio nuovo nella giovane fotografia italiana, penetrando nel mondo della borghesia, quindi restituendo l’immagine di un’altra Italia. Fotografi in guerra In una storia del fotogiornalismo, un’ampia parte va riservata alla fotografia di guerra, per ribadire come il fotografo sia spontaneamente, attratto da ogni avvenimento drammatico, dinamico e irripetibile. Anche la guerra, come altre catastrofi, è stata inizialmente rappresentata postuma. È stata la guerra a sollecitare l’interesse dell’editore Danesi, che commissionò uno specifico lavoro al fotografo lombardo Stefano Lecchi. Si tratta di alcune vedute della campagna romana dopo l’assedio della città nel luglio del 1849, che evidenziano le conseguenze della battaglia e dei bombardamenti. Sono dei ruderi di splendide ville romane come apparivano dopo la battaglia. Lecchi non ebbe il riconoscimento che gli spettava a livello mondiale di primo cronista-fotografo di guerra, un primato che invece diede fama all’inglese Roger Fenton, autore del celebre reportage sulla guerra di Crimea del 1855; le fotografie formano un organico corpus di alcune centinaia di pezzi (360, ma parecchie sono disperse tra i collezionisti) e rappresentano campi di battaglia deserti, ripresi dopo l’evento e senza cadaveri, accampamenti con soldati in posa, ufficiali che bevono il tè, ma non vengono mai ritratti dei corpi sui campi di battaglia, che sarebbero stati oltretutto dei soggetto “fotogenici” e adatti alle lunghe pose del collodio. Il suo reportage venne continuato da un altro fotografo, James Robertson e dai suoi cognati, i giovani Antonio e Felice Beato. Insieme formarono un gruppo che operò lungamente assieme, in un itinerario che dopo la Crimea li portò in Egitto, Palestina e India, dove aprirono un atelier a Calcutta. In questo ultimo viaggio, furono al seguito di una spedizione inglese che Felice Beato fotografò dopo gli scontri, riprendendo però anche i cadaveri, in scene di grande drammaticità e queste foto dovevano essere testimonianza della severità della repressione inglese e un monito per ogni ulteriore tentativo di ribellione. Tra gli italiani impegnati anche in queste imprese “militari”, va ricordato il sacerdote Antonio D’Alessandri, che oltre ad essere fotografo pontificio e noto ritrattista, aprì uno studio assieme al fratello a Roma ed eseguì una serie di fotografie sul campo di Mentana, dopo la battaglia del 1867; tutte fotografie di guerra così come quelle che compongono la cosiddetta “serie Migliorato” con i cadaveri dei briganti meridionali. A fotografarli furono anonimi autori che a volte hanno ricostruito finte scenette, dove il macabro si mescola con il cosmico, con i morti che dovrebbero sembrare vivi. Durante la Prima Guerra Mondiale, venne addirittura istituito uno speciale Servizio Fotografico dell’Esercito Italiano, con il compito di documentare le varie situazioni. Accanto a questa schiera di soldati-fotografi d’occasione, che usavano per lo più piccole macchine, operavano al fronte fotografi-specializzati, coloro che venivano inviati dai grandi giornali per alimentare i miti bellici e l’orgoglio per gli eroi. Robert Capa iniziò questo “mestiere” in Spagna nel 1936 assieme alla sua compagna Gerda Taro, che morì proprio in quei giorni travolta da un carro armato. La foto di Capa finirono sulle pagine dei grandi rotocalchi e sostituirono gli esotici paesaggi colorati del tempo di pace. La crudeltà della fotografia di guerra si è rivelata soprattutto in un’immagine di Edward T. Adams che, senza tremare, in 1/250 di secondo ha fissato il tempo che è servito al generale Loan per uccidere a sangue freddo, con la pistola puntata alla tempia del condannato, un povero ragazzo con le mani legate e un’ampia camicia bianca. LA MASSIFICAZIONE DELLA FOTOGRAFIA La Daguerréotypomanie Il 1880 sembrò essere l’anno fatale che segnò una rivoluzione in fotografia, ma si trattò di una rivoluzione preparata a lungo e che sia stata favorita quando Daguerre si preoccupò di diffondere la conoscenza del suo procedimento; chiunque fu in grado di appropriarsene e con essa si suppose di possedere anche una nuova concezione della realtà, poiché questa era così fedelmente rappresentata da ingigantire all’occorrenza con una lente. La fotografia propone anche il problema di una quantificazione di immagini, praticamente all’infinito. Se Talbot fu il primo a “moltiplicare” le immagini mediante il negativo su carta, Desderi coinvolse, con la carte de visite, strati sociali meno ricchi, offrendo le sue sequenze a basso prezzo, per un pubblico medio borghese; una dozzina di queste piccole immagini costava soltanto venti franchi, mentre Nadar ne pretendeva almeno cento per un ritratto in copia unica. Ambrotipi, ferrotipi, stereogrammi Per merito del collodio e dell’albumina si erano inventate altre tecniche fotografiche “povere” come quelle degli ambrotipi, amfitipi e ferrotipi ecc. eseguiti perlopiù da modesti fotografi girovaghi. Di piazza in piazza, questi ambulanti viaggiavano con il loro atelier trasportabile, una camera oscura contenuta in un piccolo carretto- limousine. L’amfitipo consiste in una lastra di vetro albuminato, che, dopo l’esposizione, lo sviluppo, il fissaggio, se applicata su un fondo nero, può apparire di conseguenza, per contrasto con lo sfondo più scuro, positiva, specialmente se osservata in una certa inclinazione. Simile è il procedimento dell’ambrotipia, dove viene sensibilizzata la lastrina di vetro, che diviene, dopo l’esposizione e il solito trattamento sviluppo- fissaggio, un comune negativo; ma se questo è applicato sul velluto nero, si ottiene un effetto di inversione del chiaroscuro e si legge l’immagine in positivo. I ferrotipi furono ancora più popolari, soprattutto perché molto economici; eseguiti direttamente su una lastrina di lamiera verniciata di nero e sensibilizzata al collodio, il loro aspetto risulta positivo, in quanto sfrutta il contrasto tra l’emulsione di colore giallastro del collodio e il nero della vernice, che fa da sfondo; l’immagine nei ferrotipi risulta invertita, come in uno specchio. In Italia il prezzo di un ferrotipo si aggirava tra i 40 e i 50 centesimi, ed anche la povera gente si metteva volentieri in posa, con il vestito della festa, che garantiva a tutti una fotografia da lasciare in eredità. La stereoscopia, dopo l’invenzione del collodio, alimentò molto il mercato fotografico, specialmente quello pornografico, favorendo naturalmente il voyerismo; i cataloghi degli atelier fotografici proposero migliaia di immagini di varie dimensioni, ma la carte de visite e la stereoscopia furono preferite dai turisti soprattutto per il prezzo. “Voi premete il bottone noi facciamo il resto” La “rivoluzione” della gelatina incentivò la produzione e la vendita di fotografie e quindi anche l’attività industriale del settore. L’americano George Eastman, che aveva fondato la Kodak, dimostrò di possedere un grande intuito commerciale creando la moderna industria fotografica. Inizialmente impiegato in banca a Rochester, iniziò a fabbricare e a commerciare lastre secche alla gelatina-bromuro, dopo le ore d’ufficio, in un piccolo magazzino. Questo lavoro veniva fatto con una macchina da lui stesso inventata con la quale veniva steso sul vetro lo strato di emulsione. Le lastre Eastman furono in seguito vendute dalla Ditta Anthony, ma Eastman studiò la possibilità di usare la carta come supporto per la ripresa negativa, e nel 1886 fu in grado di produrre un apparecchio fotografico nel quale era montato un rocchetto di pellicola fotosensibile di gelatina, appoggiata alla carta, con cui si riprendevano quarantotto fotografie di cm 10x12,5. Inventò anche il fortunato slogan “You press the bottom, we do the rest” anche se all’inizio si trattava di “tirare una funicella” che faceva scattare l’otturatore. Nel 1888 lanciò la N°1 Kodak Camera, a cassetta, del peso di 759 gr e delle dimensioni di cm 17x9x8, con un telaio a rullo per cento pose, in immagini circolari di mm 65 di diametro; aveva un obiettivo a fuoco fisso. Nel 1890 produsse la N°4 Folding Kodak Camera, una macchina a soffietto di notevoli prestazioni; tra gli apparecchi più interessanti, realizzati negli anni seguenti vi sono la N°4 Panoram Kodak Camera, la N°2 Stereo Kodak Camera, i modelli Instamatic e un modello poi concorrenziale alla Polaroid, che lo contestò legalmente obbligando l’industria a ritirare il prodotto già distribuito nel mondo. Il fotoamatorismo Gli inconvenienti del “piccolo formato” delle pellicole Kodak vennero risolti da apparecchi ingranditori, a luce solare che venivano applicati su un muro esterno, in modo che la luce, concentrata e riflessa da uno specchio, consentisse la proiezione in camera oscura; si ricorreva però anche alla luce artificiale. L’industria fotografica favorì in ogni modo il fotoamatore, proponendogli macchine e obiettivi sempre più perfezionati e di livello professionale; una gara per diffondere al massimo questo procedimento, attorno al quale si stavano sviluppando molte industrie. Klary, editore del giornale parigino “Le Photogramme” e autore di molti manuali di divulgazione per dilettanti, insegnò anche a eseguire fotografie di nudo dal punto di vista artistico. Anche la pornografia, a volte mascherata da fotografia artistica stava approfittando della massificazione delle immagini; a sua volta, la cartolina illustrata, da “vera fotografia” venne commercializzata dappertutto, ma fu perfezionata solo nel 1900. Essa ha affermato un’immagine della realtà che sembra quella vera perché tende ad essere “sublime”, mediante la decontestualizzazione, un colore tassativo e la lucentezza d’un cristallo, che la rende dolcemente kitsch. La fotografia alla portata di tutti sembrò inizialmente un fatto negativo, ma la massificazione era inevitabile e, ribellarsi a ciò, significava opporsi in modo reazionario alla diffusione di un nuovo linguaggio. Circoli e società fotografiche I fotografi più impegnati e consapevoli dell’importanza culturale della fotografia si organizzarono in associazioni e circoli, spesso corporativi come il Linked Ring Brotherhood di Londra, con lo scopo di dibattere i problemi tecnici e artistici della fotografia e di predisporre un ampio confronto tramite esposizioni e convegni. La più antica associazione di fotografi fu la Societé héliographique, fondata nel 1851 a Parigi con lo scopo di affrettare i perfezionamenti della fotografia, ma non ebbe lunga vita e chiuse nel 1853, non prima di aver fondato una sua rivista “La Lumière”. Sulle spoglie della Societé héliographique nacque la Societé francaise de Photographie che organizzò alcune grandi esposizioni. In Inghilterra nel 1853 alcuni giovani fotografi avevano fondato la Photographic Society of London, ma il cui nome venne ben presto cambiato in quello di Photographic Society of Great Britain. Negli Stati Uniti venne fondata The American Amateur Photographer e dalla fusione di questo organismo con il New York Camera Club nacque nel 1896 il circolo The Camera Club che pubblicò anche una rivista “Camera Notes”; concentrò nel suo organismo soprattutto il pubblico dei dilettanti. Oltre alle grandi associazioni nazionali, tuttora in Italia, sono centinai i circoli amatoriali e si dice che i fotoamatori “evoluti” siano oltre diecimila nel nostro paese. Nei primi anni del Novecento, oltre agli innumerevoli circoli fotoamatoriali, si sono invece distinti organismi come il Group f.64, fondato da Edward Weston nel 1932 assieme ad alcuni compagni di fede nella fotografia “diretta”, affidata quindi a immagini nitide sino all’incredibile, immuni da manipolazioni pittoristiche. Alla diffusione della cultura fotografica hanno contribuito le Esposizioni e i Salons, che hanno conferito alla fotografia l’aura dell’opera d’arte. Esposizioni e Salons La prima esposizione pubblica di fotografie fu quella di Hippolyte Bayard a Parigi nel 1839. Si trattò però di un fatto privato, un’esibizione personale nell’ambito di una mostra per beneficenza. Nel 1849 la fotografia venne ufficialmente presentata all’Esposizione di Parigi e nel 1851 all’Esposizione universale di Londra dove gli espositori americani guadagnarono cinque medaglie, per la perfezione tecnica e la bellezza dei loro dagherrotipi. In Italia la prima esposizione di rilievo nazionale venne organizzata a Firenze nel 1861, ma in ogni città la fotografia era da molto tempo mostrata e premiata nelle varie esposizioni “agrarie, industriali artistiche”; dopo la fondazione della Società fotografica italiana si organizzarono con regolarità esposizioni di fotografia, soprattutto a Firenze e Torino. Alcune tra le innumerevoli manifestazioni fotografiche risultano particolarmente importanti, ad esempio, alla mostra allestita dal Camera Club di Vienna nel 1891, quando si accese il dibattito tra “nettisti” e “flouisti”, ad alcuni fotografi inglesi nacque l’idea di costruire un Club autorevole per lo studio rigoroso della fotografia, il Linked Ring Brotherhood di Londra. Sono molte inoltre le gallerie private che si dedicarono esclusivamente alla fotografia. La prima gallerie europea dedicata esclusivamente alla fotografia è stata il Diaframma, fondata a Milano da Lanfranco Colombo nel 1967. I grandi musei americani hanno istituito specifici dipartimenti per la fotografia, producendo rassegne e custodendo collezioni fondamentali per la conoscenza della storia di quest’arte. Riviste specializzate Nel 1890 si pubblicavano in tutto il mondo 76 riviste specializzate, ma il primo giornale fotografico, nel frattempo scomparso, è stato l’inglese “The Daguerrian Journal” che nel 1853 cambiò nome in “Journal of the Daguerrotype and photographic art”. Tra le più importanti riviste di fotografia ricordiamo: La Lumière, che nacque come periodico della Société héliographique Das photographische journal, in Germania a Berlino Camera Work, negli Stati Uniti, della quale uscirono cinquanta numeri in quattordici anni Fotologia, edita dagli Alinari di Firenze e Fotostorica, dedicata a ricerche filologiche del settore La scuola, che in altri paesi si occupa di fotografia in ogni livello di studi, in Italia è rimasta a lungo quasi assente, emarginando questa disciplina tra le attività artigianali e tecniche. Un attivo e avanzato organismo di ricerca sulla fotografia è il centro studi e archivio della comunicazione presso l’Istituto di Storia dell’arte dell’università di Parma. Oltre a proporsi come museo della fotografia, questa istituzione è un luogo di vivace dibattito e di informazione, che promuove questa arte attraverso mostre e pubblicazioni di estremo rigore scientifico. La prima vera scuola di fotografia venne istituita a Dresda nel 1853, in uno stabilimento fotografico che così preparava i suoi stessi tecnici. Intellettuali e aristocratici Tra gli scrittori, uno tra i più celebri fotografi dilettanti dell’Ottocento è stato Victor Hugo che, soprattutto durante l’esilio nell’isola di Jersey, si dedicò a riprendere semplici vedute e istantanee familiari; anche i suoi figli realizzarono molte fotografie di paesaggio, che raccolsero in un prezioso album. Emile Zola fu a sua volta fotoamatore e ha lasciato un archivio di circa seimila lastre 6x9 e 13x18 che tendono a cogliere in veloci appunti l’ambiente cittadino di Parigi, Roma e Londra. Ma il più grande dilettante dell’Ottocento fotografico è stato il conte Giuseppe Primoli, “Gegé”. Portava sempre con sé l’apparecchio fotografico, con cui ha tracciato un vivace racconto sulla nobiltà romana, oltre che sull’ambiente popolaresco. L’unico cliente di Giuseppe Primoli è stato lui stesso. La Roma umbertina ma anche Parigi o Venezia, vennero documentate nelle frizzanti immagini di Primoli, realizzate secondo schemi prospettici, con primi piani improvvisi e insoliti, da punti di vista spesso troppo bassi e ravvicinati, al punto da creare quelle orribili deformazioni che la manualistica del tempo imponeva di evitare. Tra gli apparecchi usati preferibilmente da Primoli, il kinegraphe, una Reflex 8x9 oppure il Traveller 13x18; presso la fondazione Primoli a Roma sono conservate 12.575 lastre, nei più vari formati che egli solitamente stampava a contatto. Principi e re si sono a loro volta dedicati alla fotografia, mentre si sviluppava la massificazione di questa tecnica. Il principe di Napoli, il futuro Vittorio Emanuele III, fu a sua volta un dilettante di fotografia; al contrario la regina Alessandra D’Inghilterra si dedicò alla fotografia con molto impegno, al punto da essere in grado di pubblicare un libro fotografico dal titolo “Queen Alexandra’s Christmas Gift Book”, strutturato come un brioso album di famiglia, con tutti i componenti della corte, oltre a principi e re, e il reportage di una rilassante crociera nel Mediterraneo. ISTANTANEA, MOVIMENTO, COLORE, SIMULTANEITA’ Verso l’istantanea Due difetti vennero subito riscontrati nella fotografia: l’assenza del colore e l’incapacità di fissare nelle immagini una situazione dinamica. Iniziava una gara per risolvere questi due inconvenienti tecnici, a per assegnare alla fotografia ulteriori capacità di rilievo fisionomico della realtà. La olografia, che è la tecnica più avanzata di riproduzione ottica tridimensionale, sembrava aver portato a soluzione questo anelito. Inventata da Denis Gabor dell’Imperial College di Londra, è stata perfezionata dopo la scoperta del laser. Il concetto di istantaneità si è sviluppato nel tempo, subito dopo che Niépce riuscì a fare la sua prima “istantanea” con una posa di otto, forse dieci o più ore, puntando la camera verso il cortile della casa di Gras. Talbot aveva un tale desiderio di fissare un’azione rapida che mise in posa i suoi modelli come se stessero mimando un gesto veloce ottenendo immagini più disinvolte e apparentemente più reali. L’istantaneità venne concepita come una tecnica che attribuiva più credibilità all’immagine e il collodio umido consentì di raggiungere tempi compatibili con le nuove esigenze di istantaneità, anche nella ripresa en plein air: dai trenta secondi di posa delle prime prove, si arrivò al venticinquesimo di secondo. La visualizzazione del movimento Nel 1853, Franz von Uchatius propose un suo apparecchio da proiezione che, partendo dalla struttura della lanterna magica, consentiva di vedere le immagini in movimento: lo spettacolo consisteva nella proiezione in sequenza di dodici diapositive, corrispondenti ad altrettante fasi di un movimento, mediante un eguale numero di obiettivi. Anche i fotografi si erano inseriti con successo in questa ricerca sulle immagini in movimento, essendo ormai possibile affidarsi a quell’istantaneità tanto desiderata e indispensabile per queste prove. Si può far riferimento alle esperienze dell’astronomo Pierre-Jules-Cesar Janssen che con un fucile fotografico (o revolver astronomico) riprese da un osservatorio in Giappone il passaggio del pianeta Venere dinanzi al Sole, scattando un’immagine ogni settanta secondi su un disco rotante fotosensibile. L’astronomo ottenne in questo modo diciassette silhouettes di Venere, in un’operazione che può essere considerata la prima ripresa cronofotografica. A quel tempo anche il fotografo Eadweard James Muybridge, di origine inglese, faceva ricerche in questo settore ottenendo nel 1877 le prime sequenze di un cavallo al trotto, utilizzando un suo metodo, l’automatic electro-photograph. L’impianto consisteva in una batteria di dodici macchine fotografiche, i cui otturatori erano collegati mediante dei cavetti metallici, che attraversavano la pista e venivano strappati dal cavallo durante il trotto. Tra un apparecchio e l’altro c’era un intervallo di 58 centimetri9 e la ripresa avveniva su lastre al collodio umido, con una velocità molto alta, pare di 1/1000 di secondo, essendo sufficiente fissare soltanto la silhouette nera del cavallo. Le sequenze di Muybridge furono fondamentali per gli studi sulla rappresentazione visiva della realtà dinamica, risolti pochi anni dopo da Edison e soprattutto dai fratelli Lumiere con il cinematographe. Fu Jules-Etienne Marey a occuparsi con impegno di questi studi, dopo essere venuto a conoscenza delle prove di Muybridge. Progettò un fucile fotografico che ricorda il revolver astronomico: uno strumento in cui la canna del fucile, molto grossa, serve da mirino e contiene l’obiettivo, mentre al posto della batteria, una camera oscura cilindrica a meccanismo automatico contiene una lastra sensibile rotonda oppure ottagonale, che gira su sé stessa, e un otturatore rotante comandato da un movimento ad orologeria. Le prime immagini eseguite con questo fucile furono scattate nel tempo di 1/720 di secondo. Per un certo periodo Marey risedette anche in Italia, a Napoli, dove realizzò alcune sequenze cronofotografiche sugli uccelli, usando per la prima volta lastre flessibili e adeguandosi così all’uso di materiali elastici. Nel 1883, con un contributo governativo, costruì a Parigi una “stazione fisiologica” per compiere studi; consisteva anche di due hangar, costruiti perpendicolarmente tra di loro, in modo che le aperture facessero da sfondo buio all’animale o alla persona che vi si trovava di fronte all’aperto, facendo risaltare la silhouette chiara contro il nero. Tra i due hangar c’erano una pista circolare e varie altre apparecchiature, di volta in volta predisposte per gli esperimenti. Ottomar Anschutz eseguì riprese analoghe a quelle di Muybridge e riuscì a proiettare una serie di 24 fotografie con un tachiscopio elettrico, facendo coincidere, al passaggio di ogni diapositiva, il brillio di una scintilla elettrica. Proiettando le immagini in sequenza, otteneva così l’illusione del movimento, proponendo una riproduzione ancor più fedele del mondo reale. Di questo apparecchio ne costruì 78 esemplari. Il pittore americano Thomas Eakins, in contatto con Muybridge realizzò le prime strobofotografie, analizzando il movimento, anziché in sequenza, con un’unica lastra che registra uno dopo l’altro gli spostamenti successivi di un oggetto dinamico. La tecnica consisteva nel far ruotare dinanzi all’obiettivo in posa un disco con quattro fori, che formavano una specie di croce di Malta e lasciavano che la luce pervenisse alla pellicola soltanto quando erano in coincidenza con la lente, “cieca” nelle altre quattro fasi. A seconda della velocità di rotazione del disco si otteneva un’immagine stroboscopica, con un numero maggiore o minore di istantanee dell’oggetto fotografico durante il suo spostamento. La ripresa era eseguita in condizioni di luce particolari, contro uno sfondo nero, affinché il soggetto illuminato potesse scagliarsi chiaramente. Questa tecnica venne in seguito perfezionata usando l’illuminazione elettronica. La celluloide e il cinematografo Durante le ricerche sulla fotografia in movimento si considerò l’opportunità di utilizzare materiali diversi dal vetro; tra i primi a risolvere questo problema furono W. Friese e M. Evans, che nel 1890 registrarono una scena in movimento, mediante una sequenza di istantanee impresse su pellicola fotosensibile con il supporto di celluloide. Sin dal 1887 si erano fatti esperimenti con la celluloide, reinventata e perfezionata da Hannibal Goodwin. La pellicola di celluloide consentì l’invenzione del cinema; l’elasticità e la resistenza del materiale permisero a Edison di eseguire con il kinetographe una serie di istantanee, con una celerità di 46 pose al secondo, sopra un rotolo continuo di pellicola sensibile, dalla larghezza di tre centimetri. A Parigi, i fratelli Lumiere, misero a punto un procedimento che trovò subito applicazione pratica e al quale diedero il nome di cinematographe. I primi film dei Lumiere, che si proiettavano con la velocità di 15 fotogrammi al secondo, hanno una lunghezza da 15 a 18 metri, per complessive 900 immagini di mm 25x20, impresse su pellicola della larghezza di 35 mm. La riproduzione del colore Tra gli inventori della fotografia, anche Talbot aveva compiuto ricerche per registrare i colori. In Italia il primo a occuparsi del colore in fotografia fu Francesco Zantedeschi che riferiva, negli “Annali delle scienze Lombardo-Veneto” di aver ottenuto immagini fotocromatiche dove erano distintissimi il rosso, il verde, il violetto. Nel frattempo, ai fotografi, non rimaneva che colorare a mano le fotografie, imitando anche in questo i miniaturisti. Richard Beard brevettò un procedimento per la “coloritura del dagherrotipo” e Chevalier adottò un’ingegnosa tecnica che dava risultati simili alla miniatura, con in più l’eccezionale fisionomicità della fotografia; spiega in una lettera il suo procedimento e consiste nel dipingere una lastrina di vetro e nel farla poi aderire a un dagherrotipo corrispondente alla coloritura. Il collodio favorì queste tecniche imitative della miniatura, e la carta albuminata, oltre ad essere colorata a mano con aniline e acquarelli, venne spesso anche “vetrificata” cospargendo Sali fusibili sopra l’immagine e ricorrendo poi alla “cottura” come se si trattasse di ceramica. Lo scienziato inglese James Clerk Maxwell riuscì ad ottenere nel 1861 un’immagine a colori naturali, senza però ricorrere a pigmenti o a formule chimiche, masoltanto applicando le teorie della natura dei colori. La più antica fotografia a colori esistente riproduce una coccarda colorata, la cui immagine è però visibile solo tramite la proiezione di tre diapositive in bianco-nero, con appropriati filtri colorati, gli stessi utilizzati per le tre riprese bianco-nero; tre fotografie di un nastro colorato, rispettivamente ripreso attraverso tre soluzioni colorate (rosso, verde, blu) sono introdotte nell’apparecchio. Esse forniscono immagini rappresentanti separatamente gli elementi rossi, verdi e blu. A sovrapposizione compiuta, si vede un’immagine colorata. Soltanto nel 1873 venne perfezionata la sensibilità ai colori nelle emulsioni in bianco- nero per merito di Hermann Vogel, che aggiunse sperimentalmente dei coloranti nell’emulsione, i cosiddetti copulanti cromogeni, rendendo le lastre ortocromartiche. In questo susseguirsi di inventori, i fotografi insistono nella coloritura a mano. Per la fotografia a colori “diretta”, ossia ottenuta con un unico scatto, si dovette attendere. Non fu di alcuna utilità pratica nemmeno il geniale procedimento inventato dal fisico francese Gabriel Lippmann: la cromofotografia interferenziale. Le fotografie a colori interferenziali resistono a qualunque luce e si possono proiettare anche sopra un diaframma, per mezzo di una intensa luce ad arco. Le lastre vanno guardate da una posizione perpendicolare, mentre di sbieco le varie tinte appaiono molto alterate. Per migliorare la leggibilità di queste immagini, i fratelli Lumiere proposero di incollare sullo strato di gelatina della lastra Lippmann una lamina di vetro leggermente prismatica. Il tempo di posa necessario per ottenere un’immagine a colori interferenziale era di pochi minuti, ma era comunque impossibile fare dei ritratti. Nel frattempo venne analizzata la possibilità di utilizzare anziché tre, un solo filtro, frammentandolo con finissimi reticoli incrociati, ottenuti con i tre colori fondamentali. La pratica della fotografia a colori Con un unico filtro, l’irlandese Charles Jasper Joly realizzò un procedimento abbastanza pratico, il processo Joly, ad un solo negativo; egli si servì di un filtro di vetro, dove erano tracciate linee sottilissime, invisibile a occhio nudo, nei tre colori fondamentali, facendolo aderire a una lastra fotosensibile pancromatica e collocando poi il sandwich nella camera fotografica, in modo che il filtro tricromo fosse rivolto verso l’obiettivo. Durante la posa i colori del soggetto vengono quindi filtrati dal reticolo e colpiscono la lastra fotografica retrostante; dal negativo si ricava un diapositivo, naturalmente in bianco-nero, che ha un chiaroscuro condizionato dal filtro. Ora facendo aderire nuovamente il filtro tricromo al diapositivo bianco-nero, in modo che il reticolo abbia lo stesso orientamento che aveva durante la ripresa, se questo viene osservato in trasparenza, si coglie una discreta immagine nei colori naturali del soggetto. I fratelli Lumiere risolsero le difficoltà di fabbricazione e di utilizzazione dello schermo “trilineato” sostituendolo con un miscuglio di finissimi granelli di fecola di patate, colorata in rosso, arancio, verde e viola. Le lastre autochrome Lumiere vennero presentate, per la prima volta, al Congresso fotografico di Nancy nel 1904 e messe in vendita nel 1907. Con le autochrome si ottenevano diapositive a colori naturali, adatte alla selezione tricroma, in caso di riproduzione a stampa per l’illustrazione di giornali e libri; in questi ultimi le tavole venivano spesso applicate su fogli e pagine fuori testo. Il procedimento dei Lumiere ebbe fortuna sino agli anni successivi al primo conflitto mondiale, quando la Kodak riuscì a fabbricare un materiale fotosensibile ai colori, che dava migliori risultati anche sotto il profilo della fedeltà della riproduzione. Nel 1929 venne messa in commercio la pellicola Kodak, utilizzabile anche nel cinema; nell’emulsione era impressa una fittissima rete di elementi sferici, “cellule lenticolari”, che erano simili a minuscole lenti, le quali ricevevano, al momento dello scatto, la luce filtrata da un filtro selettore, colorato in tre bande parallele rosse, verdi e blu; ogni cellula lenticolare proiettava, quindi, sulla superficie sensibile soltanto il colore che l’aveva raggiunta. Pochi anni dopo questa industria americana mise in commercio un nuovo materiale, il Kodachrome, che finalmente consentiva la stampa a colori su carta; i coloranti erano incorporati alle emulsioni fotosensibili e lo sviluppo veniva effettuato direttamente dalla Kodak. Nell’ultimo dopoguerra i progressi tecnici furono rapidi e collegati alle nuove esigenze del fotogiornalismo, dove il colore sostituì quasi del tutto il bianco-nero. Un mondo improbabile sembra essere quello delle immagini di Franco Fontana, dove il colore è essenziale a tal punto da far dimenticare che esista la fotografia bianco-nero, con la quale non si tentano neppure confronti, perché il colore non è un’aggiunta al chiaroscuro, ma diventa un diverso modo di vedere. La diffusione della fotografia Tra i mezzi di comunicazione visiva più congeniali all’immagine fotografica, venne subito preso in considerazione il suo trasferimento a distanza, accontentandosi all’inizio della semplice proiezione dell’immagine da un lato all’altro di una stanza, nella tradizione di lanterne magiche e fantasmagorie. Una prima “leggendaria” proiezione di fotografie sarebbe avvenuta a Venezia nel 1840, per opera di Francesco Malacarne, ma è Jules Duboscq, con l’applicazione dell’illuminazione elettrica alla lanterna magica a incrementare notevolmente le possibilità di proiezione delle fotografie. Essendo allora realizzate su lastre di vetro, esse avevano una trasparenza tale da favorirne l’utilizzazione con l’antico strumento; si cominciava così a farle osservare non solo da singole persone, ma da gruppi, stimolando al dialogo e alla critica collettiva. Ma è dal 1870 che le proiezioni fotografiche illustrano con maggiore frequenza le conferenze, avviando un commercio di diapositive e libretti, con didascalie relative, che trovarono addirittura applicazione anche nella scuola. Agli inizi del secolo di stampava a Parigi addirittura un giornale su questo argomento, “Le Conferencier”. È opportuno ricordare il metodo adottato nel 1870 da Dagron, su sollecitazione di Nadar, quando, con l’aiuto di centinaia di colombi viaggiatori, inviò messaggi miniaturizzati fotograficamente. Le minuscole pellicole flessibili di collodio, del formato di cm 3x5, portate dai piccioni venivano quindi proiettate e ingrandite con una lanterna magica, per leggerne il testo. Nel frattempo si stavano sperimentando e perfezionando tecniche di trasmissione a distanza anche delle immagini, sulla scorta delle entusiasmanti ricerche di Morse (telegrafo), Meucci e Bell (telefono) e Marconi (radio) che riguardavano suoni e parole, cercando di applicarne i principi o di utilizzarne i canali. Il fisico italiano Giovanni Caselli, inventore del pantelegrafo, avrebbe trasmesso addirittura un’immagine a distanza, tramite il telegrafo, tra Londra e Liverpool. Ma è Arthur Korn di Monaco a risolvere concretamente, nel 1904 il problema della “telefotografia”: dopo alcuni anni di prove, egli telegrafa in successione gli elementi di un’immagine considerati come segnali luminosi di intensità variabile. Per la trasmissione a distanza di un ritratto, durante le prime prove, gli servirono 14 ore, in quanto l’immagine veniva divisa in ben 10.000 elementi; per ridurre questo tempo di trasmissione, pensò di usare il selenio, per la sua proprietà di avere una resistenza elettrica variabile con l’intensità della luce incidente. L’immagine, sistemata in un cilindro, viene “letta” da una cellula al selenio, che trasmette impulsi proporzionali ai punti luminosi successivi. Il ricevente applica, su un analogo cilindro, un foglio di carta fotosensibile che viene quindi, a mano a mano, impressionata punto per punto. La prima significativa trasmissione di una fotografia con questa tecnica avvenne nel 1907, utilizzando la linea telefonica Monaco-Norimberga; ci vollero 40 minuti perché l’immagine si ricomponesse, ad oltre 150 chilometri di distanza. Ricerche analoghe faceva, contemporaneamente, il francese Edouard Belin cercando di trasmettere fotografie mediante il telefono. Spiegò il suo procedimento, classificandolo in tre metodi: 1) metodo di trasparenza; 2) metodo di riflessione; 3) metodo di utilizzazione dei rilievi. Le prime due prime categorie fanno appello alla fotoelettricità e la terza a principi più propriamente meccanici. Il documento da trasmettere deve essere considerato come formato da un certo numero di punti; questi punti, che si possono assimilare alle pietre di un edificio, sono trasmessi successivamente, il valore di ognuno d’essi dovendo, alla partenza, essere tradotto in una corrispondente intensità. Il filo e le onde hertziane servono dunque da veicolo a questi fenomeni successivi, che pervengono l’uno dopo l’altro all’arrivo, dove l’edificio sarà costruito pietra su pietra. Nel 1931 Belin trasmise un’immagine tra Sainte-Assise e Buenos Aires, usando le onde corte come veicolo e una cellula al selenio per ottenere gli impulsi coerenti con il chiaroscuro della fotografia. Da allore le fotografie hanno percorso in ogni direzione e coperto ogni distanza, consentendo un’informazione visiva simultanea. LINGUAGGIO E AVANGUARDIE Dal “naturalismo” di Emerson, al “pluralismo” di Stieglitz Sono gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento quando si fece più acuta la diatriba non solo tra fotografi e pittori, ma anche tra fotografi e fotografi. Henry Peach Robinson, esponente dei Preraffaelliti fotografi, sottolineava che i loro sforzi hanno fatto tanto per salvare l’arte fotografica dalla rovina prodotta dalla semplificazione dei procedimenti tecnici, per cui non si riscontrerebbero più grandi differenze di qualità tra il lavoro di un fotografo e quello di qualsiasi altro artigiano. Se chiunque può ora eseguire senza troppa fatica una nitida fotografia, si dissero questi aristocratici studiosi, sembrava opportuno dimostrare l’esistenza anche di un’altra fotografia, quella artistica che necessitava di maggiore impegno tecnico e che complicavano con manipolazioni e interventi insoliti e sofisticati, mentre i fotografi di mestiere e la nuova schiera di fotoamatori rinunciavano ben volentieri a queste nuove difficoltà, soddisfatti dalle semplificazioni di cui godeva la fotografia. Emerson cercò di dimostrare come il flou consentisse di riproporre nella fotografia il modo di vedere dell’occhio umano, evidenziando o annebbiando una parte del quadro, indirizzando la lettura e quindi offrendo un’interpretazione della realtà. Alfred Stieglitz, dopo il rientro a New York entrò nella New York Society of Amateur Photographers, iniziando un’attività editorial per la rivista del club che lo porterà alla direzione della stessa nel 1893. L’anno seguente fu invitato a far parte dell’esclusivo Linked Ring di Londra che dimostrava così di essere un club aperto ai nuovi talenti e alle nuove teorie. Egli suggerisce un uso diretto della tecnica, per ottenere immagini spontanee, affidate a regole tecniche ed estetiche proprie e implicite nel mezzo; è a queste regole che corrispondono le sue vivaci immagini di strada, eseguite i Europa prima del 1890 e poi le straordinarie fotografie di New York sotto la pioggia e la neve; non rifiuta radicalmente il pittoralismo e tende a utilizzare gli elementi validi di queste tecniche ai fini di una più ricca potenzialità espressiva. Nel 1897 fondò e diresse la rivista “Camera Notes” che divenne l’organo ufficiale del Camera Club di New York e nel gennaio del 1903 pubblicò il primo di cinquanta numeri della rivista “Camera Works” cassata nel 1917, quando presentò un portfolio di Paul Strand che influenzò moltissimo la giovane fotografia americana. Lo specifico fotografico Paul Strand si distinse dal fotogiornalismo d’azione di quegli anni per il rifiuto dell’istantaneità e la scelta della “lunga posa” e delle camere lente di grande formato. Le fotografie astratte che Strand esegue utilizzando dettagli di roccia, elementi vegetali, ombre sono caratterizzate da una eccezionale nitidezza dei particolari, che è alla base dell’ideologia del “tutto a fuoco” in contrasto con il morbido flou pittoralista, ma vogliono essere fini a sè stesse senza voler mostrare alcunché, ecco perché vengono definite “astratte”. L’indagine sulla realtà, effettuata da questi fotografi, induce alla scoperta e alla lettura di forme inedite oltre che insolite: dissociate dal contesto acquistano quasi un significato diverso, in quanto viene loro assegnato un concetto innanzitutto con il semplice atto della scelta e quindi per la loro coerente trasposizione nel codice dell’immagine bidimensionale, che diventa l’unico tramite con la realtà della quale la fotografia vuole essere soltanto il simbolo. Strand ha considerato con molta attenzione la struttura compositiva delle sue immagini, quasi sempre frontali o basate su un rigoroso disegno ortogonale, per un cosciente rifiuto anche della prospettiva, come dell’istantanea. Nella fotografia degli anni Venti e Trenta si configurano quindi due grandi filoni: quello della fotografia “dinamica” e quello della fotografia “statica”; la prima si affida a una lettura del reale nelle sue fuggevoli trasformazioni temporali, la seconda all’evidenza della struttura geometrica compositiva, grafica e del dettaglio nei particolari. Rappresentate della fotografia “statica” degli anni Venti, Edward Weston, dopo un’esperienza pittoralista scoprì le immense possibilità estetiche della stright photography, influenzato da una esposizione di opere dei fotografi del circolo di Stieglitz, e da un incontro con Strand e Charles Sheeler, il quale si occupava anche di fotografia e di cinema, oltre che di pittura. Nel 1923 partì per il Messico con l’amica Tina Modotti, un’aspirante attrice italiana; frequentarono lì soprattutto i pittori muralisti locali, assai impegnati anche politicamente, ma Weston fotografò il territorio messicano con distacco, quasi con indifferenza per ogni problematica sociale, in immagini la cui forza espressiva è determinata dall’estraniamento delle forme di elementi naturali. Il Messico fu in quegli anni luogo di scorribande per fotografi e cineasti, una specie di “terra promessa” dell’immagine. Vi si recò anche Strand; una prima volta nel 1926 dove riprese ritratti in primo piano di peones, ma anche architetture locali e nodose radici di alberi e una seconda volta dove fotografò paesaggi con nuvole, mattoni, città morte. Tina Modotti si soffermò sugli aspetti sociali del Messico, pur utilizzando spesso l’aristocratico segno fotografico suggeritole da Weston che, nel 1932 diede vita al Group f.64, esprimendone già nella sigla il programma: ossia una fotografia “nitida” al limite delle possibilità di lettura dell’obiettivo, diaframmato quindi nel valore estremo, f:64, nelle ottiche degli apparecchi di grande formato usati da questi fotografi. Per ottenere la massima nitidezza fotografica dei particolari, adoperò preferibilmente lastre pancromatiche di bassa sensibilità (16 ASA) e di grande formato 8x10 pollici. In Europa il pittoralismo concludeva lentamente il suo percorso, mentre il giornalismo fotografico diffondeva una vivace, inedita immagine del mondo, per una informazione visiva più spontanea e fedele alla nuova ideologia della realtà, nel clima di ripresa economica o culturale negli anni successivi alla Grande Guerra. “Il mondo è bello” è il titolo di un fotolibro di Albert Renger-Patzsch in cui le immagini sono una sfida alla “documentarietà” della tecnica fotografica; alberi, animali, paesaggi, architetture sono esplorati con lo scopo di individuare forme e strutture grafiche e inconsuete. L’esplorazione del linguaggio fotografico gli consentì anche d’individuare nuovi schemi espressivi, con cui esprimere esattamente i significati degli elementi della realtà, ossia i suoi simboli: le figure retoriche sono così chiaramente individuabili nelle sue immagini. Il fermento provocato dai movimenti d’avanguardia fin dai primi anni del Novecento, aveva coinvolto necessariamente la fotografia, nonostante le solite differenze. Le fotografie di August Sander ad esempio, hanno catalogato i personaggi della Germania dell’inizio del secolo in una tipizzazione così aspra da indurre i nazisti a distruggere le lastre e le copie del volume di Sander perché questi tipi germanici non coincidevano con l’idea della razza ariana, com’era intesa da Hitler. Le immagini di Sander, proprio per l’apparente semplicità della ripresa, dimostrano come la fotografia possegga un suo flessibile linguaggio, con il quale l’operatore riesce a esprimere idee e concetti, e non soltanto informazioni. Fotografia e avanguardie storiche La fotografia venne coinvolta anche in uno tra i primi movimenti d’avanguardia europei, il futurismo italiano, presentato a Parigi il 20 febbraio 1909 da Marinetti come l’esaltazione della “velocità”, della “macchina”, di tutto ciò che è simbolo del progresso; in questo contesto si applicarono soprattutto i fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia con una serie di sperimentazioni fotografiche, relative al “fotodinamismo”, inserendosi nella ricerca futurista come corrispettivo fotografico di un’immagine che andava maturando. Bragaglia si preoccupò di precisare che innanzitutto lui e suo fratello non erano dei fotografi, ma anzi erano ben lontani dalla professione di fotografi. Nel saggio in cui Anton Giulio teorizza le ricerche fatte assieme al fratello sono adattati alla fotografia molti concetti del futurismo marinettiano e in particolare di Boccioni sulla pittura; Bragaglia insiste sul fatto che la sintesi richiesta per la rappresentazione del movimento non dovrà essere che sintesi di movimento. Anton Giulio Bragaglia, contraddetto e ostacolato da alcuni amici futuristi, tra cui Boccioni, dopo il 1913 abbandonò questa tecnica per dedicarsi agli studi teatrali e al cinema, come autore di alcuni film d’avanguardia. Solo tra il 1928 e il 1930, questa esperienza d’avanguardia della fotografia venne nuovamente considerata nell’ambito del movimento futurista, quando Marinetti e Tato scrissero un “manifesto” in cui suggeriscono sedici “regole” per ottenere fotografie, in questa occasione specificamente “futuriste”, esplorando alcune facoltà espressive del linguaggio. Durante il regime fascista, il fotomontaggio fu una tecnica abituale, cui si ricorreva per accentuare e enfatizzare la “mistica fascista, facendo largo uso dell’immagine fotografica; singolare il fotomontaggio “la tavola degli orrori” di Pier Maria Bardi, esposto a Roma nella grande mostra del 1932. Ricordiamo anche i fotomontaggi politici dell’artista dadaista John Heartfield che con forbici, colla e aerografo creò una tragica immagine della realtà sociale tedesca all’avvento del nazismo. Le sue immagini sono caricaturali e grottesche, e mirano a sottolineare, emblematicamente, quanto spietati fossero gli assunti dell’ideologia nazista e dei suoi protagonisti principali. L’antimilitarismo fu uno dei temi ricorrenti nel fotomontaggio di Heartfield che non era un fotografo e che usava immagini di repertorio, collegate tra di loro a mosaico, costruendo una figura retorica, d’impatto popolare. Fotogrammi e rayographs La “città industriale” impressionò fortemente l’artista e grafico Laszlo Moholy-Nagy quando giunse a Berlino dall’Ungheria, dopo un breve soggiorno a Vienna; influenzò anche il suo lavoro di fotografo, di grafico e di docente alla Staatliche Bauhaus. Fu nominato nel 1923 direttore del corso preliminare della Bauhaus dove inizialmente insegnò tecniche dei metalli e non la fotografia, e rimase fino al 1928, quando fuggì dal nazismo trasferendosi a Londra e poi a Chicago, dove fondò la New Bauhaus. Durante quegli anni sperimentò tutte le possibilità espressive della fotografia e del cinema; la tecnica di fotomontaggio, che egli chiamò “fotoplastik”, venne utilizzata con intenzioni comunicative meno popolari, spesso espresso tramite una grafica di segno costruttivista, soprattutto geometrie in diagonale. La fotografia alla Bauhaus però venne insegnata istituzionalmente solo a partire dal 1935 da Walter Peterhans. Moholy-Nagy ha sperimentato la ripresa foto-cinematografica di oggetti, progettati per questo scopo, in metallo, vetro, plastica, che egli movimenta e chiama “modulatori di luce”, ma che sono vere e proprie “sculture mobili”, che gli hanno consentito una programmata riproduzione di immagini, nel variare della loro illuminazione e della velocità di spostamento e di rotazione degli oggetti durante le varie fasi della ripresa; queste esperienze sono state riprese negli anni Sessanta dagli artisti optical. La sperimentazione caratterizzò anche l’opera di Man Ray specialmente dopo il 1920, quando giunse a Parigi da New York, dove aveva stretto amicizia con Marcel Duchamp. A New York aveva eseguito alcuni clichè-verres (una tecnica di disegno a graffio, su lastra fotosensibile) oltre a ritratti tradizionali di amici artisti, dei quali riproduceva anche le opere; poi nel 1920 fotografa, come un paesaggio fantastico, il Grande vetro di Duchamp, in un’immagine dal titolo “allevamento di polvere”, considerata la sua prima fotografia creativa. Man Ray inventò, per suo conto, il fotogramma a contatto che chiamò rayograph, chiarendo che questa sua tecnica non aveva nulla a che fare con le prove sperimentali di Moholy-Nagy o Schad, dalle quali si differenziava per la “tridimensionalità” dell’immagine, ottenuta dalle ombre più o meno intense degli oggetti variamente trasparenti, appoggiati sulla carta fotosensibile per creare misteriose prospettive e insolite profondità. Nuove esperienze visive Dopo il 1925 si avvia un’esaustiva e magistrale sperimentazione del fotografo ungherese André Kertész che può essere considerato tra i più significativi maestri della moderna fotografia. In Italia emerge tra gli sperimentatori Luigi Veronesi, presente tra Milano e Parigi. Max Ernst realizzò vari collages con la fotografia, e questa tecnica fu allora una tentazione alla quale era difficile sottrarsi perché consentiva di utilizzare l’immediatezza comunicativa della fotografia, che, innestata nel dipinto, interagisce creando un vortice di significati. Negli anni tra le guerre, molti fotografi si liberarono definitivamente da ogni pregiudizio e con ogni mezzo tesero a stravolgere l’immagine convenzionale della realtà. Da Film und Foto a Subjektive Fotografie Nel 1929 si tenne a Stoccarda l’esposizione “Film und Foto”, organizzata dal Deutcher Werkbund su progetto di Gustav Stotz, che era però influenzato da alcuni articoli di Moholy_Nagy sulla “nuova visione”. Vennero presentate le più avanzate ricerche sperimentali sulla fotografia, a livello mondiale, in una mostra che consentì un confronto e un dibattito proficui per il rinnovamento della fotografia; si evidenziarono alcuni aspetti, come i nuovi messi di “creazione”, forniti da obiettivi, apparecchi e lastre fotosensibili, posti in commercio in quegli anni. Si sviluppò una particolare attenzione per gli oggetti apparentemente irrilevanti, quotidiani, mentre la possibilità di immobilizzare il movimento appariva un problema definitivamente risolto e superato. In Germania Hinrich Hoffmann nel frattempo, metteva in posa Hitler per alimentare la retorica dell’immagine del dittatore; e Mussolini si faceva riprendere dagli anonimi operato dell’istituto LUCE (L’unione cinematografica educativa) mentre, a torso nudo, faceva la pubblicità alla “battaglia del grano” tra sorridenti e ignari contadini. Nell’ambito fotoamatoriale si organizzarono gruppi di fotografi-intellettuali, come quello “degli otto” nel 1942, che faceva capo a Giuseppe Cavalli. L’anno successivo questo gruppo pubblicò un annuario che si configura come una sintesi della moderna fotografia italiana del tempo e un manifesto del suo nuovo corso. Nella fotografia europea il fenomeno venne caratterizzato soprattutto dal gruppo di Subjektive Fotografie, promosso dal medico tedesco Otto Steinert ed ufficializzato con una mostra itinerante e un iniziale volume fotografico. In esso vennero pubblicate opere dei più significativi fotografi del tempo, perlopiù giovani, in favore di immagini che dimostrassero originalità e “soggettività”. Il dopoguerra in Italia In Italia, nel 1947, Cavalli aveva costituito un più modesto cenacolo, il gruppo “La Bussola”. Analogamente al Groupe 30 x 40, organizzato a Parigi da Daniel Masclet, il gruppo italiano tendeva a differenziare la sua fotografia da quella giornalistica o dal “documentario fotografico”. Riaffiorava l’annoso problema della “fotografia artistica” e si riaccendeva un dibattito che si sperava definitivamente risolto. Cavalli trovò un’opposizione, spesso indiretta e implicita nel lavoro professionale, da parte di alcuni giovani fotoreporter, ma anche di fotoamatori. Il dibattito fu comunque fertile, i neorealisti combatterono la loro battaglia chiedendo alle immagini di raccontare, se possibile, la storia “vera” dell’uomo, senza maschere estetiche, ma con semplicità. Nella fotografia italiana del dopoguerra si sono particolarmente avvertite le contraddizioni tra fotografia e cultura umanistica e si è assistito alla crescita del fotogiornalismo, quindi a una rapida massificazione dell’immagine. Si sono posti in luce alcuni fotografi italiani come Ugo Mulas, il quale, mediante una serie di “verifiche” sul linguaggio fotografico, ha sollecitato una salutare meditazione e riflessione metalinguistica, cancellando antiche e sterili diatribe e avviando la fotografia a svolgere un ruolo primario, concettuale, nel differente mondo culturale italiano. Dal realismo al concettualismo Il concettualismo delle verifiche di Mulas riabilitò la fotografia “d’arte”, affidando alla creatività fotografica ogni possibile effervescenza, anche fantastica. Mulas, in un suo saggio ha affermato che ogni attimo è significativo e quindi può essere “sublime”, se racconta efficacemente un frammento del tempo che trascorre, mentre la luce o un gesto si trasformano nello spazio. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, William Klein compone immagini di città, New York, Roma, Tokyo, Mosca. Le sue sequenze sono raffiche di immagini nere e bianche, fortemente contrastate, mosse, sfocate, sgranate, sovra e sottoesposte, deformate dal grandangolo: immagini che scavano dentro l’involucro urbano, alla ricerca di segni drammatici della sua nevrosi. Le immagini, spesso in sequenza, hanno una chiarezza comunicativa autonoma e affidano soltanto alla loro ambiguità, specifica della fotografia, il commento e il giudizio del lettore. La fotografia è ideologia, quindi è l’autore responsabile del risultato; il fotografo sceglie nella realtà, con eccezionali libertà da condizionamenti tecnici ed è una scelta che si compie soprattutto nella cornice dell’apparecchio, nella cosiddetta inquadratura. La realtà viene esaminata nei suoi infiniti particolari, nostri frammenti di vita, che la fotografia insegna a considerare e far conoscere. I frammenti della realtà quotidiana sono stati anche i soggetti delle fotografie di Robert Frank, che tramite questi episodi scandisce il tempo e l’azione della città, proponendo squarci di realtà, apparentemente incompleti, ma in effetti più credibili, in quanto meno stupefacenti. Anche la fotografia professionale ripropose con disinvolture i nuovi stilemi dell’avanguardia, nella pubblicità, nella moda, nell’architettura. Il fotografo, si rifugia, oggi, in un concettualismo in cui l’immagine, invece di essere un valore reale, obiettivo, tende ad assumere il valore di una metafora, la quale, pur sempre testimonianza della capacità creativa della fotografia. Ma c’è ancora chi crede nella possibilità della fotografia di essere testimonianza di situazioni sociali immanenti, e uno dei modi “utili” per rivelare una realtà obsoleta, di cui si dimentica o contesta la verità: per esempio Paolo Gasparini, autore di un convincente volume sul drammatico, caotico contesto sudamericano, “Para Verte Meyor, America Latina.