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*
Dipartimento di Studi filosofici ed epistemologici, Università di Roma “La Sapienza”. ste-
fano.velotti@uniroma1.it.
1
Ho tentato di affrontare le due questioni, rispettivamente, in Velotti (2008a e 2008b).
2
Per questo uso di “cosa”, in quanto diversa da “oggetto”, rimando alla ricognizione di
Bodei (2009).
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68 Stefano Velotti
Per cominciare, dunque, propongo tre tesi. Credo che siano tesi note a
tutti, ma frequentemente incomprese, preventivamente accantonate in virtù
di equivoci tenaci:
2.1. per comprendere una “cosa” come opera d’arte è necessario (anche se
non sufficiente) esercitare il proprio gusto, mettere in gioco un giudizio este-
tico. Senza l’attivazione di un giudizio di questo genere non ha senso parlare
di “opera d’arte”, e se lo si continua a fare – per inerzia e “tanto per capirsi”
– la “cosa” risulta preventivamente disinnescata del proprio potenziale di
senso, destituita della sua ragion d’essere più peculiare: magari sarà (ridotta
a) un semplice artefatto (oggetto, strumento, segno, azione, performance etc.)
più o meno divertente, prevedibile, intelligente, noioso o indifferente, ma in
fin dei conti gratuito o insensato, o comunque dispensabile;
2.2. il giudizio estetico non consiste nel formulare un enunciato che misuri
il grado di corrispondenza di una cosa qualsiasi (magari “un’opera d’arte”)
con certi criteri (regole, leggi, norme) già stabiliti. Un giudizio del genere
non è un giudizio estetico, ma un giudizio classificatorio, o la proposta di una
“poetica” particolare o di una «preventive esthetics» in funzione «ammoni-
toria e interdittiva» (Steinberg, 1972, p. 64).
2.3. il giudizio estetico non è riducibile alla formulazione di un enunciato
del tipo “mi piace/non mi piace”, “è bello/è brutto”, o “x è y” (dove x è una
cosa qualsiasi, anche “un’opera d’arte”, e y un “predicato estetico”). Questo,
solitamente, sarà un giudizio che esprime epidermicamente una preferenza
individuale o, nel migliore dei casi, un giudizio estetico “thin” – sottile o privo
di spessore o sostanza –, la formulazione disseccata e convenzionale di un
giudizio estetico che deve poter essere ricco di ben altre “ragioni”, “senti-
menti” e riferimenti.
Queste tesi – molto tradizionali, certamente, ma non per questo meno ric-
che di un potenziale che appare oggi per lo più incompreso o dimenticato –,
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Per un giudizio estetico “thick” 69
Supponiamo che tu incontri qualcuno per strada che ti dice di aver perduto l’amico
più caro, con una voce che esprime intensamente la sua emozione. Potresti dire “Era
straordinariamente bello il suo modo di esprimersi”. Supponendo che tu abbia allora
domandato “Che cosa c’è di simile tra la mia ammirazione per questa persona e il pia-
cere provato mangiando un gelato alla vaniglia?” Istituire un confronto sembra ab-
bastanza disgustoso (Wittgenstein, 1966; trad. it., p. 68).
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Per un giudizio estetico “thick” 71
Per prima cosa, il nome. Hegel tiene, sì, corsi di Estetica, ma solo perché
«come semplice nome è per noi indifferente» ed è entrato nel «linguaggio co-
mune». «Tuttavia il vero e proprio termine per la nostra scienza è “filosofia
dell’arte”». Secondo, il gusto. Per Hegel, già nel 1823, non solo il ruolo del
gusto è diventato ormai insignificante («L’uomo di gusto è stato rimpiazzato
dal conoscitore»), ma noi abbiamo «bisogno di riflettere sull’opera d’arte» e
nel momento in cui «meditiamo su di essa», l’intento conoscitivo si sostitui-
sce alla vita dell’arte, che diventa cosa del passato (Hegel, 2007, pp. 8-9, 19).
Dunque, nella prospettiva che da Hegel arriva a Danto, l’arte ormai è con-
cetto, è filosofia. Quel che può dire e fare l’arte, lo si può dire e fare meglio
usando la nostra “formazione razionale”. Fine della storia (dell’arte)?
Ma gli attacchi al gusto, e al giudizio estetico, non si fermano qui. Il gusto
estetico, come “giusto” atteggiamento di fronte a ciò che piace, e che solo
permetterebbe di distinguere ciò che vale da ciò che non vale, non sarebbe in
fondo motivato dalla smania di distinguersi? È stata questa la citatissima tesi
del sociologo Pierre Bourdieu (1979). La «rottura» con il modo «ordinario»
di esperire e di godere delle cose sarebbe una rottura con «l’“estetica” popo-
lare», che si fonda invece sulla «continuità tra arte e vita, che implica la su-
bordinazione della forma alla funzione o, se preferiamo, sul rifiuto di quel
rifiuto che costituisce il principio stesso dell’estetica colta, di quel taglio che
separa nettamente le attitudini ordinarie dell’atteggiamento estetico in senso
proprio». L’estetica colta (l’estetica «in senso proprio»), messa sotto processo
da Bourdieu, è quella che teorizza il «gusto “puro”». La sua «origine» sa-
rebbe puramente oppositiva, starebbe «nel rifiuto del gusto “impuro” e del-
l’aisthesis, che è la forma semplice e primigenia del piacere sensibile, ridotto
a piacere dei sensi, come in ciò che Kant chiama “il gusto del palato, della lin-
gua e della gola”» (Bourdieu, 1979; trad. it., pp. 28-29, 33-34, 482-89).
Benché opposti, i due schieramenti sembrano trovarsi d’accordo su una
diagnosi: all’origine di tutti i guai portati dal gusto – l’eccesso di sensualità,
il difetto di sensualità – ci sarebbe sempre Kant, il quale, con la Critica della
facoltà di giudizio, ha fornito la più grande riflessione sul giudizio di gusto
(e sul giudizio in genere) di tutti i tempi. Se le cose stanno così, allora si è ten-
tati di sostituire alla categoria del gusto quella del disgusto, illudendosi, per
esempio, che attraverso il disgustoso possa emergere “il reale” (più o meno
in un’accezione lacaniana) inelaborabile e traumatico, che spiazza ogni pre-
tesa simbolica di dargli senso (cfr. Forster, 1996).
A queste argomentazioni – ma l’elenco sarebbe infinito – non è estraneo
il fuoco di fila che dagli anni Settanta arriva ai primi anni Novanta, in cui il
giudizio estetico e il gusto vengono senz’altro ridotti a “mero buon gusto”, e
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3.2. Pro e contro il giudizio classificatorio (ma sempre contro il giudizio estetico)
Mentre le profetizzate “fini della storia” mi pare che abbiano sempre fatto
una grama fine di fronte all’imprevedibilità degli eventi umani, una fine del-
l’arte (in senso estetico moderno) non sarebbe niente di grave. In fondo, l’arte
(come nome collettivo di una serie di pratiche e di prodotti a cui vengono ri-
conosciuti un valore e una densità di senso speciali, quali che siano) è una no-
zione che ha tre quattro secoli e potrebbe “finire” così come è sorta, nel senso
che potrebbe tornare a diluirsi nuovamente nelle pratiche più o meno artigia-
nali o d’intrattenimento o d’altro genere che ci caratterizzano come specie da
diverse decine di migliaia di anni (cfr. Garroni, 1992). Un danzatore potrebbe
non essere diverso da un equilibrista o da un ginnasta o da un tarantolato, un
pittore o uno scultore da un pubblicitario o da un muratore o da un imbian-
chino, un musicista da un intrattenitore, un cineasta da un’illusionista, e così
via. E il “gusto” potrebbe continuare a esercitarsi indistintamente su quadri e
cappelli, tramonti e santini, maniere e vestiti, film e gelati, edifici e romanzi.
I giornalisti, i semiologi o i filosofi potrebbero seguirne le “oscillazioni”, po-
trebbero occuparsi degli arguti modi di significare di pitture e cartoni, clip e
installazioni, o della retorica politica, mentre i cultori di visual studies stu-
dierebbero ogni genere di visibilia, analizzando l’aspetto e i significati di
qualsiasi prodotto dell’artificio umano, dal paleolitico alla computer graphics,
inventariando e interpretando tutto il mondo visibile senza doversi più pre-
occupare della questione tanto seccante, un po’ enfatica e sospetta, del “va-
lore estetico”. L’arte – si va dicendo da più parti – sarebbe innanzitutto un
termine dotato di un senso descrittivo (mi guardo intorno e dico: questa è una
casa, questa una macchina, questa un’opera d’arte ecc.) e non di un senso va-
lutativo, “normativo” (implicito però nella tipica esclamazione: “questa sì
che è arte!”, o nella fatidica domanda: “ma è ancora arte questa?” Nessuno si
chiederebbe, nello stesso senso: “ma è ancora una pettinatura questa?”).
Anche se poi, credo, nessuno si affannerebbe tanto a trovare una definizione
“descrittiva” dell’arte se non si supponesse che le opere d’arte siano dotate di
un “valore speciale”. Tuttavia, dire perché un’opera d’arte sarebbe dotata di
un “valore speciale” sembra un compito ancora più arduo. Alcuni pensano
addirittura che sia roba da reazionari o nostalgici, come di chi vorrebbe re-
staurare certezze e valori (più o meno presuntivamente perduti) dappertutto.
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Per un giudizio estetico “thick” 73
Anche qui però assistiamo a una strana convergenza degli opposti: men-
tre – specie sul versante analitico – si è rifiutata la tradizione kantiana perché
avrebbe mischiato fatti e valori, e si è tentato di arrivare a una nozione de-
scrittiva, classificatoria di arte o opera d’arte, sul versante decostruzionista si
è accusato Kant di proporre, viceversa, proprio un’estetica classificatoria
(“metafisica”). È difficile comprendere come un pensatore della finezza di
Derrida (1978) abbia scambiato i famigerati esempi kantiani (magari poco
felici), con il pensiero di Kant. Che abbia scambiato, cioè, l’esemplarità kan-
tiana (la validità e necessità esemplare del giudizio di gusto, dell’opera
d’arte), con gli esempi nel senso più ordinario (come casi che illustrano una
regola già disponibile). Eppure, è proprio quel che accade nel suo La verità
in pittura. Derrida sa benissimo che Kant sostiene che ciò che chiamiamo
“bello” non è affatto un concetto, un predicato (o una proprietà) alla stregua
di altri predicati oggettivi (come rosso, quadrato, ecc.), ma è solo la verba-
lizzazione più comune di un sentimento (inter)soggettivo che non predica
nulla dell’oggetto (un sentimento senza il quale, però, secondo Kant, non sa-
rebbe possibile neppure la più comune esperienza). Il giudizio estetico è in-
fatti un giudizio riflettente (è dato il particolare, su cui occorre riflettere, non
l’universale, il concetto, la legge, la regola, a cui ricondurlo), ed è inassimi-
labile a un giudizio determinante (in cui invece a essere dato è l’universale,
il concetto, la legge, la regola, che acquisterà significato “determinando” il
particolare che cade sotto di essa). Derrida lo comprende così bene che scrive:
l’esempio (è il punto che qui ci interessa) è già dato prima della legge e permette di
scoprirla nella sua stessa unicità esemplare. Il discorso scientifico o logico usuale
procede per mezzo di giudizi determinanti, gli esempi vengono dopo, per determinare
o, nel caso di un’intenzione pedagogica, per illustrare. Ovunque, secondo Kant, nel-
l’arte e nella vita, noi dobbiamo procedere a dei giudizi riflettenti e ovunque dob-
biamo supporre (in analogia con l’arte […]) una finalità di cui non possediamo il
concetto, l’esempio precede […]: basandomi su questa interruzione riflettente, co-
mincerò la mia lettura della terza Critica con degli esempi (1978; trad. it., p. 53).
Ma questa lettura comincia molto male, perché gli esempi da cui comin-
cia sono usati da Kant solo per facilitare informalmente la comprensione del
suo pensiero, non per illustrarlo rigorosamente. Ed è evidente che non po-
trebbe essere altrimenti: sarebbe assurdo far discendere da un pensiero che
teorizza l’esemplarità (casi singolari che per definizione non possono di-
scendere da una regola, ma solo precederla) degli esempi che lo illustrereb-
bero! L’esempio che precede è dimenticato, ma sembra (data la contiguità
testuale) che quegli esempi (meri esempi possibili e discutibili nella loro sin-
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golarità) possano essere il rigoroso banco di prova della teoria. Solo l’esem-
pio che illustra un giudizio (determinante) può essere impugnato per mettere
in questione il predicato che definisce la classe di cui l’esempio è membro;
ma l’esempio che precede il predicato, il caso singolare da cui bisogna par-
tire per costruire riflessivamente un universale, non si presta a un’operazione
analoga, proprio perché, sotto il profilo della sua esemplarità eventuale, non
è affatto il membro di una classe, né può dunque essere considerato come il-
lustrazione di una regola universale già data.
Sorprendentemente, finiamo per ritrovare in Derrida la vulgata più grezza
sul pensiero kantiano: quella secondo cui “l’estetica kantiana” sarebbe
un’estetica dell’arabesco, della forma, ecc. Quando è evidente che Kant non
può sostenere nessuna “estetica” particolare, che escluda certe cose o certe
forme, non fosse altro perché la quantità logica del giudizio estetico è rigo-
rosamente singolare.
Negli ultimi tre o quattro decenni, i critici hanno cominciato a evitare ogni giu-
dizio, preferendo descrivere o evocare l’arte invece di dire che cosa ne pensano. Nel
2002, un’inchiesta condotta dal Columbia University National Arts Journalism Pro-
gram ha accertato che giudicare l’arte è l’obiettivo meno ambito tra i critici d’arte
americani, mentre il più ambito è, semplicemente, quello di descriverla: è uno strano
capovolgimento, altrettanto sorprendente di un’ipotetica rinuncia dei fisici a com-
prendere l’universo, per limitarsi a valutarlo (p. 8).
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Per un giudizio estetico “thick” 75
quale fine) sembra contare più di ogni altra cosa?3 Chi, dopo Kant, si è accorto
più di ogni altro di questa deprecabile e letale atrofia del giudizio che ha col-
pito le nostre società è stata Hannah Arendt. Senza potermi addentrare nelle
sue lezioni sulla terza Critica kantiana, tenute poco prima di morire, mi limito
a qualche citazione degli anni Cinquanta: «la società moderna, nella sua di-
sperata incapacità di formulare giudizi, è destinata a prendere ogni individuo
per ciò che egli stesso si considera e si professa e a giudicarlo su questa base»
(Arendt, 1951-52; trad. it., p. 92). Il riferimento è qui a Hitler, ma la stessa
cosa vale non solo per altri individui odierni, ma anche per quelle singolarità
che sono le produzioni artistiche: non a caso è ritornata in auge “l’intenzione
dell’autore” (bandita troppo sbrigativamente dal New Criticism e dal forma-
lismo), la quale può avere una sua legittimità, ma che viene per lo più assunta
come un semplice “prendere per buono”, per autorevole, ciò che ogni autore
dice di sé. E così la critica d’arte sembra liquefarsi, oggi, nella pratica del-
l’intervista, dove l’intervistatore può mettersi comunque nella posizione di
colui che non giudica. Ancora Arendt: «In una simile atmosfera diviene pos-
sibile ogni genere di frode poiché non sembra esserci proprio più nessuno a
cui quantomeno interessi la differenza tra frode e autenticità» (ibidem). Di
nuovo: il riferimento è a Hitler, ed è facilmente aggiornabile, ma vale in modo
peculiare per la produzione artistica, dove il rischio della “frode” è consu-
stanziale a qualsiasi autentico tentativo, dato che si tratta pur sempre di spin-
gere le possibilità del senso ai loro limiti estremi, di esplorare e elaborare
zone concettualmente incerte e non già arate, con la possibilità di uscire dal
solco, dalla “lira” dell’aratro e di “delirare”. Cosa che il reazionario e il pa-
ranoico che sonnecchiano in molti di noi non esitano a bollare subito come
“frode”. Non perché la frode non ci sia mai nel campo dell’arte: ma sta a noi
distinguere e giudicare di volta in volta.
Naturalmente, c’è giudizio e giudizio: c’è un giudizio difensivo (quello de-
precato nella tesi 2.2), che corre subito a vedere se “il caso” si inquadri o meno
nei criteri correnti, per includere o escludere. È un giudizio fasullo, che serve
precisamente a non pensare, a non riflettere, ma a tappare al più presto il vuoto
dell’incertezza. Il giudizio in realtà richiede tempo, richiede un indugio (una
“capacità negativa”4), un’ispezione ripetuta, un confronto con il giudizio (vir-
tuale) di ciascun altro. Ecco perché, se è vero quel che di Greenberg racconta
più volte Danto (2003), quei suoi giudizi sono solo una caricatura:
3
Secondo un’ideologia della professionalità che con Leo Steinberg (1972) si potrebbe
chiamare «il formalismo dell’uomo attivo: un valore indipendente dal contenuto» (p. 101).
4
Quella teorizzata da J. Keats e ripresa da W.R. Bion (cfr. Velotti, 2003), mentre di indu-
gio, come si sa, parla Kant nella terza Critica.
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Clement Greenberg si copriva gli occhi quando qualcuno gli sottoponeva un di-
pinto, e quindi li apriva repentinamente, avallando la tesi che ciò che colpisce l’oc-
chio, senza alcun riferimento a un’opinione precedente, è il miglior test per stimare
l’eccellenza di un dipinto. In un certo senso, la metodologia di Greenberg si connette
ad una delle opinioni sulla bellezza di Kant. Kant scrive che “la bellezza è ciò che a
prescindere dai concetti è rappresentata come oggetto di soddisfazione universale”.
E sottolineo “a prescindere dai concetti”. Questo ci dice che la bellezza è il contenuto
non-concettuale di alcune esperienze, che ovviamente possono contribuire a una mag-
giore esperienza dell’opera […] Se la mia tesi è valida, Greenberg tentava di ottenere
un’impressione dell’oggetto prima che un concetto potesse entrare in gioco, e basava
il suo giudizio dell’opera su una “prima apparizione” concettualmente incontaminata
(Danto, 2003; trad. it., p. 128).
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78 Stefano Velotti
falsa, però, era la concezione del giudizio estetico proposta. Rosalind Krauss,
per esempio, nel 1985 – ancora stregata dallo strutturalismo e dai suoi con-
traccolpi – si poneva una domanda (retorica):
È possibile sostenere la tesi che l’interesse di un testo critico consista quasi esclu-
sivamente nel suo metodo? Si può dire che una lettura seria di testi critici seri si debba
interessare non tanto ai giudizi di valore enunciati – “quest’opera è riuscita e impor-
tante”, “questa è brutta e banale” – quanto piuttosto che l’attività critica esige di es-
sere compresa a partire dalla forma dei suoi argomenti, dal modo in cui il suo metodo
mostra, nel processo di costruzione dell’oggetto del suo esercizio, le scelte che pre-
cedono e predeterminano ogni atto di giudizio? (Krauss, 1985; trad. it., p. 5)
Elkins (2003) pensa che questa posizione sia piuttosto strana, in quanto
«relega la critica in un chiarimento delle condizioni dei giudizi degli altri» (p.
45). Dal nostro punto di vista, si potrebbe anche dire così: o l’applicazione di
un metodo permette solo giudizi “determinanti” (tesi 2.2), e allora la singo-
larità dell’opera verrà sacrificata e a venire in luce (e a essere “giudicati”) sa-
ranno solo quegli elementi che una struttura concettuale antecedente permette
di cogliere; oppure, quando Krauss parla di “metodo” allude in realtà a una
molteplicità di strumenti, la cui adeguatezza deve essere verificata di volta in
volta di fronte alla singolarità dell’opera, e allora nessun “metodo” potrà pre-
venire l’elaborazione di un giudizio estetico, “riflettente”. Ma Krauss fa va-
lere senz’altro la prima accezione, la peggiore: Greenberg viene infatti
ricordato e lodato non per il suo gusto personale (e lo credo bene, se il suo
modo di esercitarlo era quello descritto da Danto), quanto per aver creato un
sistema che generava inclusioni ed esclusioni di classi di oggetti, non di sin-
gole “cose”:
Vale a dire: ad essere lodati sono proprio i tratti più arbitrari e dogmatici di
Greenberg: a essere salvata da Krauss è proprio quella che uno dei suoi mae-
stri, Leo Steinberg, aveva chiamato con ironia e distacco preventive esthetics,
vale a dire un’“estetica” aprioristica (una contraddizione in termini), che pre-
clude o previene la possibilità di comprendere ciò che non prevede.
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Per un giudizio estetico “thick” 79
4. Ready-made invertito
Jasper Johns si è servito nel suo lavoro di una classe di oggetti che sembrano ini-
zialmente sottrarsi alla possibilità di essere imitati, e che dunque sembrano logicamente
reali grazie al fatto che qualsiasi cosa sufficientemente simile a essi da essere conside-
rata una loro imitazione diventa immediatamente un membro della classe a cui essi ap-
partengono. Un bersaglio o una bandiera, per esempio, o una cifra, sembrano avere
questa sorprendente caratteristica: che qualsiasi cosa somigli sufficientemente a una
bandiera da essere considerata una sua rappresentazione mimetica diventa immediata-
mente una bandiera; e lo stesso vale per un bersaglio, una cifra o una mappa. (…)
Detto questo, i problemi di ordine logico restano tali e quali a come erano prima
delle sorprendenti sperimentazioni di Johns. Per quanto una figura di qualcosa possa
somigliare a ciò di cui è figura, resta comunque un’entità di un ordine logicamente
diverso, anche se ciò che raffigura è una figura. (…) una figura di una cifra, che ha
la stessa forma di una cifra, non necessariamente è una cifra e, anzi, probabilmente
non lo è; denota una cifra, non c’è dubbio, ma le cifre non denotano cifre, denotano
numeri. Così 2 e II sono codenotazionali quando vengono presi come cifre in due di-
versi sistemi notazionali. Ma una figura di 2 non è una figura di II, né certo somiglia
a II (Danto, 1981; trad. it., p. 94).
Come è noto, il fulcro della riflessione di Danto è che ciò che distingue
un’opera d’arte da un oggetto reale che sia indiscernibile da essa non sono le
proprietà sensibili, ma le proprietà relazionali (il fatto che l’opera, a diffe-
renza dalla sua controparte reale, è “a-proposito-di” – è cioè una rappresen-
tazione –, è frutto di una intenzionalità, ha una specifica storicità, dipende
essenzialmente da un’interpretazione, etc.). E così come Danto ha ipotizzato
tante volte una reale identità materiale tra un’opera d’arte e la sua controparte
reale anche quando l’identità era solo parziale – essendo le differenze, per
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80 Stefano Velotti
ipotesi, irrilevanti – possiamo far valere anche per Johns la stessa cosa: di-
ciamo che un suo bersaglio appare come indiscernibile da un bersaglio reale.
Rispetto alla Brillo Box di Warhol o a Fountain di Duchamp cambierebbe
solo la direzione del processo, non il suo risultato. È il darsi di questa possi-
bilità (con Duchamp prima, con la Pop Art poi) che per Danto avrebbe rive-
lato l’insignificanza dell’estetica per l’arte: se infatti l’estetica si occupa delle
proprietà sensibili delle cose, e se però un’opera d’arte e un oggetto reale
sono sensibilmente indistinguibili, allora non può essere un giudizio estetico
a cogliere la differenza tra arte e realtà.
Ma questo ragionamento non funziona per almeno quattro buoni motivi:
1) Kant non ha mai pensato che il giudizio estetico fosse riservato a certe
“rappresentazioni” – quelle sensibili o materiali, che possono essere colte
percettivamente – e non ad altre: fin dall’inizio della Critica della facoltà di
giudizio (§ 1) spiega che il carattere sensibile (estetico) del giudizio riguarda
il soggetto che giudica, non l’oggetto che è giudicato, il quale può essere
anche razionale (un concetto o un’idea); 2) mentre il giudizio estetico può
dunque essere esercitato riguardo a qualsiasi cosa (naturale o artificiale, sen-
sibile o concettuale), è evidente che non è suo compito distinguere gli arte-
fatti (tra cui le opere d’arte “bella”) dalle cose naturali, e che il
riconoscimento di un’opera dell’arte umana dipende da altri fattori, tra cui
un’intenzionalità; 3) tuttavia, tale intenzionalità non è certo sufficiente a ren-
dere un artefatto un’opera d’arte “bella” (quella che oggi chiamiamo
un’opera d’arte tout court): oltre all’intenzione di produrre qualcosa di de-
terminato (l’oggetto, l’azione, la performance etc.) – che prevede il dar corpo
a concetti determinati – è infatti necessario che l’opera sia al tempo stesso
espressione di idee estetiche, e questa circostanza, diciamo, ha la contin-
genza di un accadimento, vale a dire che non è senz’altro ottenibile come
effetto ricercato intenzionalmente e consapevolmente; 4) un’idea estetica
non è affatto un embodied meaning (come pensa ora Danto nella sua ricon-
siderazione di Kant), ma è uno dei concetti più complessi e fecondi messi a
punto nella fase più matura del pensiero kantiano: rinunciando qui per forza
di cose a un commento testuale (cfr. Velotti, 2003), e riformulando libera-
mente, si potrebbe dire che un’idea estetica è la vita stessa della mente in
quanto rappresentata sensibilmente (è il prodotto dell’immaginazione, cioè
della facoltà sensibile delle immagini indefinite che popolano la nostra vita
mentale); è il nutrimento e il punto di innesto di ogni pensiero determinato
(concetto e significato linguistico); è la totalità evanescente e indetermina-
bile che avvolge ogni esperienza concreta e puntuale; è ciò che resta fuori dai
concetti e dai significati abituali, collaudati, prevedibili e che esercita su di
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Per un giudizio estetico “thick” 81
Sono solo con questa cosa, e sta a me valutarla, in assenza di standard disponi-
bili. Il valore che assegnerò a questo dipinto mette alla prova il mio coraggio perso-
nale. Qui posso scoprire se sono preparato a sostenere la collisione con un’esperienza
nuova. Sto cercando di sfuggirle mediante la mia analiticità eccessiva? Sono stato a
origliare le conversazioni altrui? Cercando di formulare certi significati visti in que-
st’arte – sono congegnati per dimostrare qualcosa di me stesso o costituiscono
un’esperienza autentica?
Sono senza fine, queste domande, e le risposte non sono tenute in serbo in alcun
luogo. Una nuova immagine può gettarti in una sorta di auto-analisi, e per questo le
sono grato. Il dipinto mi lascia in uno stato di incertezza ansiosa, sulla pittura, su me
stesso. E sospetto che sia giusto così. In realtà, non mi fido molto di quelli che, soli-
tamente, quando vengono messi di fronte a opere d’arte nuove, sanno già quel che è
grande e quel che è destinato a durare (Steinberg, 1972, p. 15; corsivi miei).
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È indubbio che sono molti coloro che hanno attinto alle idee di Steinberg,
ma – forse perché estraneo a “metodi” o dottrine generali – molte delle sue
idee circolano senza marchio e senza riconoscimento, spesso amputate della
loro complessità. Mi pare molto probabile, per esempio, che una sua “disce-
pola” come Rosalind Krauss, nel proporre l’idea di “indice” – su cui ha posto
il suo marchio – difficilmente sarebbe risalita a Peirce senza la mediazione
dell’idea di “pianale” (flatbed) introdotta da Steinberg5. Qui mi riferirò (troppo
succintamente) al rapporto di Steinberg con alcune opere di Jasper Johns, così
come è maturato tra il 1960 e il 1963. Per Steinberg, che le opere di Johns ap-
parissero o no come indiscernibili dagli oggetti rappresentati, non pregiudica
in alcun modo la necessità e doverosità di articolare un giudizio di gusto, una
valutazione estetica. Steinberg passa al vaglio tutte le ipotesi, tutte le reazioni,
e le respinge con buone motivazioni una a una, descrivendo però la sua “de-
pressione”, la posizione di chi non riesce a “comprendere” ma sospetta che ci
sia qualcosa di importante da cogliere: «Quando un’opera nuova, e apparen-
temente incomprensibile, appare sulla scena, c’è sempre qualche critico per-
cettivo che la acclama subito come “una nuova realtà”, o il collezionista che
vi riconosce un’ottima occasione per investire. Lasciatemi, però, spendere una
parola per coloro che non sono riusciti a capire (those who didn’t get it)»
(Steinberg, 1972, p. 6).
Tra questi, Steinberg include se stesso, descrivendo il senso di depriva-
zione, desolazione e solitudine che ne deriva. Qualche tempo dopo, avendo
elaborato con successo questo sentimento spaesante, ricorderà (ivi, p. 23) di
aver «descritto il suo senso di allarme confuso al primo impatto con queste
opere» (l’opposto dell’immediatezza di Greenberg):
5
Steinberg (1972), prima ancora che dispiegare tale nozione in relazione a Rauschenberg
nel 1968, la anticipa proprio in relazione a due opere di Johns: «Sia questo quadro [NO] sia
LIAR mi sembrano assegnare un ruolo nuovo al piano pittorico: non una finestra, non un vas-
soio verticale, e neppure un oggetto che proietti effettivamente qualcosa nello spazio; ma una
superficie osservata durante la sua impregnazione, osservata mentre riceve un messaggio o
un’impronta dallo spazio reale» (p. 51).
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Per un giudizio estetico “thick” 83
Se ora passo in rassegna la risposta del mondo dell’arte […], è perché la situazione
di questi quattro anni, 1958-1961, rivela qualcosa della natura essenziale dell’arte.
Un’opera d’arte non si presenta come una “cartolina da un penny”, con il proprio va-
lore stampato su di essa; nonostante tutta la sua oggettualità, si presenta innanzitutto
come una sfida alla vita dell’immaginazione, e modi “corretti” di pensarla o sentirla
semplicemente non esistono. Prima che sia possibile sentire qualcosa di diverso da
un senso di risentimento o disorientamento, occorre scavare i solchi in cui scorre-
ranno infine pensieri e sentimenti. Per molto tempo la direzione della corrente resta
incerta, bloccata da una diga, oppure tracima ovunque, finché, dopo molti tagli ten-
tati da critici avventurosi, si formano dei canali. Alla fine, quell’ampio fiume che po-
tremmo chiamare l’apprezzamento di Johns – benché verrà ancora deviato di qua e
di là – diventa navigabile per tutti (ivi, p. 23).
E poi vidi che tutti i primi quadri di Johns, nella passività dei loro soggetti e nel
loro lento durare nel tempo, implicano un’attesa perpetua – come la tela rivolta verso
il muro che attende di essere girata, o la gruccia a cui non è appeso nulla. Ma è un’at-
tesa che non può essere soddisfatta, poiché gli oggetti, come Johns li presenta, non
riconoscono alcuna presenza vivente; sono esemplari dell’assenza umana in un am-
biente fatto dall’uomo. Restano solo i beni dell’uomo, cresciuti a dismisura con la pit-
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«La mia nozione di pubblico è funzionale» (ivi, p. 5).
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tura come una vegetazione indifferente. Sono oggetti familiari, ma Johns ne ha anti-
cipato l’abbandono (ivi, p. 54).
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