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FILOLOGIA

&
CRITICA
rivista quadrimestrale
pubblicata sotto gli auspici del centro pio rajna
direzione: bruno basile, renzo bragantini, roberto fedi,
enrico malato (dir. resp.), matteo palumbo

Per Mario Martelli

ANNO XL

fascicolo ii-iii
maggio-dicembre 2015

SALERNO EDITRICE
ROMA
FILOLOGIA
&
CRITICA
Anno xl, fascicolo ii-iii
maggio-dicembre 2015

SOMMARIO
Enrico Malato, Per Mario Martelli . . . . . . . . . . . . . . 169
Francesco Bausi, Martelli filologo . . . . . . . . . . . . . . . 174
Daniela Delcorno Branca, Il Poliziano di Martelli . . . . . . . 198
Elisabetta Guerrieri, Mario Martelli e ‘Il filtro degli anni Sessanta’ . . 210
Paolo Orvieto, Martelli, De Sanctis e la storiografia antiumanistica dell’Ot-
tocento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219
Enrico Malato, La memoria di Dante . . . . . . . . . . . . . 238
Stefano Carrai, Esercizio di restauro su un sonetto di Boccaccio . . . . 257
Bruno Basile, Inserti autobiografici nei ‘Commentarii in Asinum Aureum’
di Filippo Beroaldo il Vecchio . . . . . . . . . . . . . . . . . 261
Simona Mercuri, Genesi, storia e tradizione del ‘Tadeus vel de locis persianis’
di Bartolomeo Fonzio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269
Franco Tomasi, Marco Mantova Benavides commentatore di Petrarca . . 279
Paola Ventrone, Il doppio prologo della ‘Mandragola’ e la scena di città . 300
Ester Pietrobon, « Come unita in un sol corpo »: la sezione lirica del salterio
di Giulio Cesare Pascali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 317
Claudia Bonsi, Il pittore e l’ape: Ariosto e Caro nel pensiero linguistico di
Vincenzo Monti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 346
Gianni A. Papini, Carducci, le ragioni del grande artiere . . . . . . . . 378
Giovanni Barberi Squarotti, Pascoli 1910-1911: Risorgimento neoclassico 385
Giovanni Bardazzi, Lettura di ‘Portami il girasole’ (Montale, ‘Ossi di sep-
pia’) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 407
Arnaldo Bruni, ‘A e’ mi paéṣ’: la poesia dialettale di Giuseppe Bellosi . . 428
Roberto Fedi, La nostalgia prima della nostalgia . . . . . . . . . . 444
Indici analitici delle annate xxxvi-xl (2011-2015), a cura di Giorgio Leo-
nardi (Indice degli Autori, Indice dei libri recensiti o schedati, Indice dei manoscritti
citati, Indice analitico generale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 453

I n d i c e d e l l ’ a nnata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 00

La rivista adotta le seguenti sigle per abbreviazione: DBI = Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Ist.
della Enciclopedia Italiana, 1960-; F.eC. = « Filologia e Critica »; G.S.L.I. = « Giornale Storico della Lettera-
tura Italiana »; L.I. = « Lettere Italiane »; L.N. = « Lingua Nostra »; M.R. = « Medioevo Romanzo »; R.L.I. =
« La Rassegna della Letteratura Italiana »; R.S.D. = « Rivista di Studi Danteschi »; S.F.I. = « Studi di Filologia
Italiana »; S.L.I. = « Studi Linguistici Italiani »; S.P.C.T. = « Studi e Problemi di Critica Testuale ».
MARTELLI FILOLOGO

Anche per parlare di Martelli filologo (cosí come di Martelli critico, sto-
rico della letteratura, intellettuale e, soprattutto, uomo) conviene prendere
le mosse dal suo ultimo libro pubblicato in vita, lo Zapping di varia letteratura,
uscito nel 2007: una sorta di “zibaldone” che in settecento pagine raccoglie
263 schede (per lo piú brevi, talora brevissime) redatte a partire dalla metà
degli anni ’90 e contenenti osservazioni di vario genere – in prevalenza filo-
logico-erudite, ma non di rado anche critiche ed estetiche – su una larghis-
sima messe di testi e di autori, da Omero a Lalla Romano, senza tralasciare
le letterature straniere, e neppure, occasionalmente, la filosofia, la musica e
la pittura, qualora da simili discipline potesse venire un ausilio alla retta com-
prensione di un verso o di un passo. Libro nel quale Martelli, dall’alto dei
suoi ottant’anni, fa posto anche ad acuminate, brillanti e talora irriverenti
sortite polemiche contro le sue abituali teste di turco: l’estetica di Croce e dei
crociani, lo strutturalismo, la psicanalisi, Barthes, Lacan, e – per giungere al
tema che ci interessa – il metodo lachmanniano1 e i suoi odierni cultori.
Scorrendo la bibliografia di Martelli,2 è agevole constatare come il nucleo
piú corposo dei suoi contributi specificamente filologici si concentri soprat-
tutto all’inizio (anni ’60-primi anni ’70 del secolo scorso) e alla fine (dagli
ultimi anni ’90 alla morte) della sua carriera di studioso. Ciò dipese almeno
in parte da ragioni contingenti: in gioventú, lo stretto legame, di collabora-
zione e insieme di discepolato, con Roberto Ridolfi, che spronò Martelli ad
assidui studi eruditi e filologici su Lorenzo, Savonarola e Machiavelli; in
vecchiaia, le lunghe cure prestate all’Edizione Nazionale delle opere ma-
chiavelliane (varata nel 1993) e l’impegno in un corposo progetto albertiano,
solo in parte realizzato.3 Diversamente, la fase centrale della sua attività vide

1. In queste pagine, per comodità, adotto l’espressione « metodo di Lachmann » come si­
nonimo di ‘metodo stemmatico’, o ‘degli errori comuni’, o ‘ricostruttivo’ o ‘genealogico’, ben-
ché sia ormai acclarato che solo in parte tale metodo, come oggi comunemente lo si intende,
possa effettivamente ricondursi al filologo tedesco, e meglio sarebbe forse parlare di « metodo
di Maas » (cfr. G. Fiesoli, La genesi del lachmannismo, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo,
2000).
2. Vedila in F. Bausi, « Interpres » senza Mario Martelli, in « Interpres », a. xxvi 2007, pp. 7-35,
alle pp. 12-35; e in N. Marcelli, Mario Martelli (1925-2007), in « Albertiana », a. x 2007, pp. 3-30,
alle pp. 9-30.
3. Il progetto comprendeva l’edizione di alcune operette volgari (Deifira, Risposta fatta a uno
singulare amico [ossia la versione-rimaneggiamento della Dissuasio Valerii di Walter Map], Eca­
tonfilea [o, come preferiva chiamarla Martelli, Ecatonfila], De amore, Sophrona e Sentenzie pitago­

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martelli filologo

il prevalere di interessi critici e storiografici, in parziale coincidenza con il


suo piú che trentennale magistero presso l’Università di Firenze (1967-2000),
dove egli sempre insegnò Letteratura italiana, aprendosi spesso – nella di-
dattica come nella ricerca – anche a interessi otto-novecenteschi.
Non stupisce, quindi, che nel senile Zapping svolgano un ruolo importan-
te le riflessioni filologiche, e che un manipolo di schede sia espressamente
dedicato a questioni di ecdotica.4 Muovendo, come sempre, da casi concre­
ti (niente di piú alieno da Martelli, infatti, della filologia da tavolino o da la­
boratorio, che si balocca con formule, diagrammi e disquisizioni teoriche),
queste schede fanno posto a osservazioni di carattere generale che, nel loro
insieme, configurano il “metodo”, o meglio il “non-metodo” di Martelli fi-
lologo, fedele anche in questo a una delle sue massime favorite, quella se-
condo cui gli studiosi si dividono in due categorie, quelli che studiano dav-
vero e quelli che applicano un metodo. La filologia martelliana, in effetti, si
potrebbe riassumere in questi termini: rifiuto di qualunque metodologia
precostituita, costante adattamento del “metodo” all’oggetto, e, soprattut­
to, diffidenza verso le procedure meccaniche che pretendano di abolire lo
spazio dello iudicium e della responsabilità individuale del filologo. Come si
legge nella Premessa della Guida alla filologia italiana scritta nel 1984 insieme a
Rossella Bessi, e sulla quale fra breve torneremo, « il vero filologo non ritie-
ne mai acquisito risultato alcuno; egli – con il solo e irrinunciabile ausilio di
una scienza, che tale non è ove non si coniughi con una capacità inventiva
che solo il contatto con i dati della realtà testuale può suscitare – sempre e
costantemente tutto verifica e tutto rimette in discussione ».5
Le schede dello Zapping sopra elencate si incaricano di mettere appunto

riche) ed era destinato a confluire in un volume degli Opera omnia albertiani pubblicati presso
le « Belles Lettres » di Parigi. Videro la luce, separatamente e anticipatamente, solo la Risposta
(in « Interpres », a. xxii 2003, pp. 184-222) e il dittico De amore - Sophrona (ed. critica e commen-
to a cura di M. Martelli, trad. francese di S. Stolf, in « Albertiana », a. vii 2004, pp. 147-235).
4. In particolare, mi riferisco alle seguenti schede: xv. Endecasillabo: accento di quinta; xxxvii.
Divinatio ope ingenii; lviii. Errori d’autore; lxiv. Riportazione e autografo; ci. Errori separativi; cii.
Impossibilità dell’archetipo?; clxxxii. Zeugmata semanticamente complicati; cxcvi. Difficilius mendum;
ccxiii. Un restauro guittoniano; cclvi. Una nota filologica. Non prendo in considerazione, invece,
le numerosissime schede in cui Martelli si limita a proporre una nuova lettura o una nuova
emendazione di un verso o di un passo.
5. R. Bessi-M. Martelli, Guida alla filologia italiana, Firenze, Sansoni, 1984, p. i. Questo
agile manualetto, vuoi per la chiusura della Sansoni, vuoi per il profluvio di manuali di filolo-
gia italiana usciti nei decenni successivi, non ha avuto la fortuna che meritava ed è stato presto
dimenticato; né la casa editrice Le Lettere, erede del catalogo sansoniano, ha mai ritenuto
opportuno ristamparlo. Al suo scarso successo contribuí probabilmente anche certa stringa-
tezza argomentativa, nonché la decisione degli autori di illustrare le problematiche filologi-

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francesco bausi

in discussione alcuni dei fondamenti del metodo lachmanniano, a partire


dall’idea di poter costruire lo stemma sugli errori comuni e dalla stessa no-
zione di errore separativo. È il caso di leggere parte della scheda ci:
L’illogicità di un metodo classificatorio delle testimonianze fondato piú sugli errori
che sulle lezioni buone si torna a constatare ad ogni momento; e fa meraviglia che i
filologi ritengano un tale metodo affidabile. In questo senso, una delle persone piú
ligie al metodo che mai si siano potute trovare fu indubbiamente Franca Brambilla
Ageno; e basterà aprire a caso il suo manuale: dove, ad esempio, prendendo in esa-
me il caso della canzone del Notaio Madonna, dir vo voglio, trasmessa da 4 mss.: Vat.
Lat. 3793 (V); Laur. Red. 9 (L); Pal. 418, ora Banco Rari 217, della BNCF (P); Memo-
riali bolognesi (Mem), cosí argomenta: « Un’omissione al v. 24 unisce i mss. VPMem
contro L (errore congiuntivo per i primi tre, separativo per L rispetto ai rimanen-
ti) ».6 Ecco la sirma della stanza in cui si verifica, da parte di VPMem, l’omissione di
un presunto al cor :

Lo meo ’namoramento
Non pò parire in detto,
Ma sí com’eo lo sento
Cor no lo penseria né diria lingua;
E zo ch’eo dico è nente
Inver ch’eo son distretto
Tanto coralemente,
Foc’aio al cor, non credo mai si stingua.

Ora, come un tale errore possa considerarsi separativo di L dagli altri tre mss., io non
so davvero nonché vedere, ma neppure immaginare. Chi mai può darci una qualche
assicurazione che al cor non sia integrazione congetturale di L? Il punto fondamen-
tale è, infatti, questo: chi mai può darci un qualche pur pallido indizio che al cor sia
la lezione autentica? Se, infatti, le due parolette fossero state supplite da un L abba-
stanza sensibile alla ipometria del verso e tanto da non poterla tollerare, dovremo
concludere che la lacuna si trovava in un capostipite comune a tutta la tradizione
e, quindi, in quello che si chiama archetipo. La cosa è del tutto verosimile, ed anzi, al­
meno altrettanto probabile di quanto non sia l’altra, che sia stato, cioè, un antigrafo
comune agli altri tre mss. a perpetrare un’omissione. Chi, dunque, può dirci che al
cor sia la lezione autentica? Chi ci dice che il Notaio non avesse scritto il verso in altra
forma e, ad esempio, in questa: « Foc’aio sí, non credo mai si stingua »? Chi ci dice che
la lezione autentica non fosse, e tale da modificare l’interpunzione del passo, que­

che ricorrendo esclusivamente ad exempla ficta: due caratteristiche che lo renderebbero ostico
agli studenti dell’università di oggi.
6. Cfr. F. Brambilla Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Padova, Antenore, 1975, p. 80
[nota di Martelli; del manuale la Ageno pubblicò una seconda ed. nel 1984. Poco sopra, nella
citazione, la sigla BNCF designa ovviamente la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze].

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martelli filologo

st’altra: « E zo ch’eo dico è nente / Inver ch’eo son distretto / Tanto coralemente, /
Che foc’aio non credo mai si stingua »? Ciò che, per dichiarare congiunti in omissio-
ne PVMem, dovrebbe essere dimostrato è che al cor sia la lezione, non solo buona,
ma anche autentica; e invece – ed è, ahimè, la solita petizione di principio – è ciò che
si deve dimostrare che viene preso come prova che PVMem sono congiunti in
omissione.
La cosa è cosí evidente, che stupisce vedere come un Contini, nella nota al testo
dei Poeti del Duecento, cit., ragionasse proprio come ragiona l’Ageno.7 Ed è un ragio-
nare, nella sua geometrica ed astratta razionalità, del tutto irrazionale. […] In gene-
re, la critica del testo, pur parlando di errori separativi, non ne tiene poi, giunta al­
l’applicazione pratica, il minimo conto. Nel suo già ricordato manuale, l’Ageno cosí
definisce l’errore separativo: « La indipendenza di un testimone B da un altro A si
dimostra per mezzo di un errore di A contro B che sia di tal natura che, per quanto
ci è dato sapere riguardo allo stato della critica congetturale nel tempo intercorso fra
A e B, non può essere stato eliminato per congettura da un copista ». Questo è quan-
to viene affermato, con essenziale ed indubitabile precisione, a p. 57. Ma l’Ageno
doveva o non essere convinta di quello che aveva scritto o non averne capito il signi-
ficato: passano, infatti, ventitré pagine e, a p. 80, giudica, come abbiamo visto, l’o-
missione di al cor, pur emendabilissima per congettura se mai lo fu un’omissione, se­
parativa di VPMem da L.8

La successiva scheda cii torna a insistere sul medesimo argomento, muo-


vendo da un passo del Principe (viii 21 4-5) in merito al quale Giorgio Inglese
aveva polemizzato con Martelli;9 queste le conclusioni:
Nel caso che un’opera sia trasmessa anche da copie contemporanee e compaesane
alla sua composizione, la situazione che si determina è questa: o l’errore è talmente
plateale, talmente marchiano, che se non tutti i copisti, almeno qualcuno di loro non
potrà non intervenire emendando ope ingenii – nel qual caso l’errore d’archetipo
sparisce per non essere condiviso dall’intera tradizione –; o esso, non cosí marchiano
ed evidente, verrà lasciato a testo da tutti i copisti: nel qual altro caso, il fatto che i
copisti non abbiano emendato costituisce un’attendibile prova che l’espressione
non è erronea e che quindi l’archetipo non può essere individuato. In altre parole:
un errore non può essere condiviso da tutta la tradizione, perché la sua evidenza e la
sua certezza induce inevitabilmente uno o piú copisti alla sua emendazione; men-
tre, se tutta la tradizione lo condivide, esso non è un errore. Il che esclude, nelle
condizioni sopra descritte, la possibilità d’individuare l’archetipo.

7. G. Contini, Nota ai testi in calce a Poeti del Duecento, a cura di G.C., Milano-Napoli, Ric-
ciardi, 1960, p. 802 (nota mia).
8. M. Martelli, Zapping di varia letteratura. Verifica filologica. Definizione critica. Teoria estetica,
Prato, Gli Ori, 2007, pp. 288-90.
9. G. Inglese, Il ‘Principe’ e i filologi, in « La Cultura », a. xxxviii 2000, pp. 161-66.

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francesco bausi

Né credo che l’osservazione dell’Inglese – come sempre molto acuto nel vedere
i punti dolenti di un metodo, di un passo, di una voce, anche se poi irrimediabilmen-
te restio a trarne tutte le conseguenze – possa limitarsi al caso di copisti sia compa-
trioti che contemporanei dell’autore la cui opera vanno trascrivendo. In realtà, la
cosa si verifica sempre, quando si tratti di un’opera scritta nella lingua madre di co-
loro che la trascrivono; i quali, in un numero maggiore o minore, emendano inevi-
tabilmente tutto ciò che si dichiari come evidente e grossolano errore, tale da non
poter sfuggire, per quanto ottusi e distratti essi siano, o alla loro intelligenza o alla
loro attenzione, e lasciano intatto solo ciò che permetta un margine di dubbio sulla
sua erroneità o la cui erroneità non sia immediatamente evidente. Solo se uno tra-
scriva da una lingua diversa dalla sua, la cui comprensione non sia per lui immedia-
ta ed indubitabile, le cose andranno in maniera diversa. Non per niente il tedesco
che inventò il metodo lo applicò ad opere sempre trascritte da copisti che parlavano
una lingua diversa da quelle dell’opera da essi trascritta. Piú volte, anche in questo
libro, sono tornato sulla riflessione che qui, nelle righe immediatamente preceden-
ti a queste, ho riproposto all’attenzione del lettore. Ciascuno di noi, in effetti, lo
esperimenta: trascrivendo da un antigrafo contenente un testo composto nella no-
stra stessa lingua e di cui siamo convinti di afferrare il senso, correggiamo un errore,
vero o presunto che sia, sostituiamo, spesso inavvertitamente, un sinonimo alla voce
che dovremmo copiare, invertiamo, non dando importanza alla cosa, l’ordine delle
parole, ampliamo se una notizia in nostro possesso ci sembra piú o meno importan-
te, sopprimiamo inconsapevoli un frammento di testo se il senso non ne risente: la
trascrizione, insomma, di cui, per essere il testo nella nostra stessa lingua, capiamo,
o crediamo di capire, il messaggio, è una trascrizione, anche se piú o meno, pur
sempre attiva ed innovatrice.10

Si tratta, in effetti, del punto fondamentale della filologia di Martelli, alme-


no a partire da quando, negli anni ’80 del secolo scorso, egli andò maturan­
do una sfiducia pressoché assoluta nei presupposti del metodo stemmatico,
che gli appariva destituito di qualunque oggettività e scientificità. La chiara
enunciazione di tale scetticismo si trova infatti già nella poc’anzi ricordata
Guida alla filologia italiana: poiché le « condizioni di omofonia tra testo e co-
pista » (normali nelle letterature volgari moderne) « sono di per sé le meno
adatte a favorire la meccanicità della trascrizione », il copista sarà indotto
all’inevitabile tentazione di correggere, sostituendo « quello che è effettiva-
mente scritto nel suo modello con quello che egli crede o si aspetta esservi
scritto »; ne consegue che la tradizione dei testi volgari, come scrive Alberto
Varvaro, è tendenzialmente “attiva”,11 e nelle tradizioni attive « l’innovazio-

10. Martelli, Zapping, cit., pp. 291-92.


11. A. Varvaro, Critica dei testi classica e romanza. Problemi comuni ed esperienze diverse, in « Ren-

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martelli filologo

ne manifestamente erronea, proprio per le sue caratteristiche di “evidenza”,


è destinata a perpetuarsi meno di ogni altra ». Poiché dunque « piú esposti
alla correzione congetturale saranno proprio quegli errori manifesti, evi-
denti, determinabili a priori, che stanno alla base della classificazione di tipo
lachmanniano », scarsi sono in genere nei testi volgari gli errori davvero si-
gnificativi, e soprattutto quelli separativi.12
Da ciò consegue che « ce que l’on appelle une bonne leçon peut fort bien
n’être qu’une correction heureuse » (Henry Quentin) e che « la tradition est
souvent conjecturale » (Louis Havet).13 In altre parole, è sbagliato identi­fi­
care lezione buona e lezione autentica, perché la bontà di una lezione può
quasi sempre risalire non all’originale, ma alla congettura di un copista: con­
gettura non riconoscibile come tale nella maggior parte dei casi, se solo la
lezione attestata fornisca un senso accettabile. Donde la lapidaria conclusio­
ne:
Un editore potrà di norma, sul fondamento del judicium, dimostrare la maggiore o
minore probabilità che una lezione corretta sia anche autentica; ma, indipendente-
mente dal judicium, dimostrare che essa non possa essere stata ottenuta per conget-
tura, assai raramente o quasi mai.

Ossia: per il filologo italiano è di norma indimostrabile che « gli errori da lui
individuati come separativi di un testimone o di un gruppo di testimoni non
possono in alcun modo essere stati corretti per congettura ».14 Il corollario è
lampante: gli stemmi su cui si fonda la maggior parte delle moderne edizio-
ni critiche sono sbagliati, o, comunque, malsicuri.
Sulla base di un simile convincimento, Martelli si applica, nello stesso an­

diconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli », a. xlv 1970, pp. 73-117,
alle pp. 86-87 (cit. da Bessi-Martelli).
12. Bessi-Martelli, Guida alla filologia italiana, cit., pp. 18-21. Alla base sta ovviamente G.
Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 19522; rist. con premessa di
D. Pieraccioni, Firenze, Le Lettere, 1988, in partic. p. xi: « una ricetta universale per l’edizio-
ne critica […], dove la tradizione non è puramente meccanica, dovunque l’amanuense […] ha
creduto d’intendere, non è possibile, non esiste » (analogamente a p. xvii).
13. Entrambe le citazioni in Bessi-Martelli, Guida alla filologia italiana, cit., p. 22.
14. Le citazioni ancora ivi, p. 23. Parlo di « filologo italiano » perché tale fu, essenzialmente,
Martelli, il quale, pur avendo dato contributi fondamentali anche nel campo della letteratura
e della filologia umanistica (basti ricordare i saggi sulla seconda centuria dei Miscellanea e sul­
l’epistolario del Poliziano, rispettivamente del 1973 e del 1978, poi raccolti in M. Martelli,
Angelo Poliziano. Storia e metastoria, Lecce, Conte, 1995, pp. 267-328 e 206-65), non pubblicò edi­
zioni critiche di testi latini, nonostante avesse progettato e in parte allestito quella delle Seni­
les petrarchesche.

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francesco bausi

no della Guida, a studiare il caso delle Stanze di Angelo Poliziano.15 Il con­


tributo, propriamente, intende analizzare il ruolo della contaminazione nel-
la tradizione dei testi volgari, ma di fatto si configura come una applicazione
e una conferma della tesi esposta nella Guida a proposito della parte attiva
svolta dai copisti nell’emendazione congetturale e in genere nella trasmis-
sione testuale.16 Esaminando l’edizione critica del poemetto polizianesco
curata nel 1954 da Vincenzo Pernicone, Martelli constata che il presupposto
su cui essa si fonda è da ritenersi erroneo, giacché a suo parere le lacune ri-
scontrabili nel libro secondo delle Stanze (in corrispondenza delle ottave ii
12 4-8 e ii 14 2-8) in tutti i testimoni tranne la princeps bolognese dell’agosto
1494 (= B) potrebbero benissimo essere state colmate dal curatore editoria­
le Alessandro Sarti, e dunque non costituiscono errore significativo, per­
ché mancano del requisito della separatività; tenendo conto che Sarti corre-
dò il secondo libro di didascalie manifestamente apocrife, che proprio per
questo egli è fortemente sospetto di tendenza all’interpolazione e all’inte-
grazione, che i versi con cui la prima stampa rimedia alle due lacune non
contengono niente di cui egli non poteva essere a conoscenza, e che gli stam­
patori – per esigenze commerciali – erano interessati a mettere in circola-
zione (anche a costo di procedere a interventi arbitrarî) testi quanto piú pos­
sibile completi: tenendo insomma conto di tutto questo, Martelli non solo
ritiene impossibile escludere che sia stato il Sarti a sanare le due lacune, ma
anzi considera questa eventualità come la piú verosimile. Dunque le lacune
risalgono all’archetipo, e non è su di esse che possiamo basarci per ricostrui­
re la storia della tradizione delle Stanze e le modalità della trasmissione del
testo.

15. M. Martelli, Considerazioni intorno alla contaminazione nella tradizione dei testi volgari, in La
critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre
1984, Roma, Salerno Editrice, 1985, pp. 127-49. Pochi anni prima, lo stesso Martelli aveva pub-
blicato un’edizione non critica del poemetto (A. Poliziano, Stanze, a cura di M.M., Alpigna-
no, Tallone, 1979), riprendendo il testo fissato da Pernicone, ma apportandovi alcuni impor-
tanti ritocchi di lezione e di punteggiatura (vd. la Nota al testo, pp. 127-31). Per quanto segue cfr.
anche l’Introduzione all’ed. critica da me curata di A. Poliziano, Stanze per la giostra, Messina,
Centro interdipartimentale di studi umanistici, i.c.s.
16. Cfr. Martelli, Considerazioni, cit., p. 134, dove si afferma che la contaminazione « do-
vrebbe essere riconosciuta per quello che spesso essa è in realtà: un sintomo, e decisamente tra
i piú allarmanti, della inattendibilità dello stemma ». Il tema è fra i piú cari a Martelli, che ac-
cusava i filologi neo-lachmanniani – scherzosamente definiti da lui « i nipotini di nonno Lach­
mann » – di invocare l’aiuto della « santa Contaminazione » (richiedendola di servigi « a volte
decisamente inverecondi ») ogni volta che fosse necessario « assestare e risolvere tutto quanto
non torna » nei loro stemmi (cfr. M. Martelli, Machiavelli tra politica e retorica. Il capitolo ‘De in­
gratitudine’ a Giovanni Folchi, in « Interpres », a. xxv 2006, pp. 169-224, a p. 214).

180
martelli filologo

Individuato un unico errore davvero congiuntivo e separativo (la succes-


sione invertita delle ottave i 45-46 del primo libro), Martelli raggruppa i co­
dici che lo presentano nella famiglia α, escludendo da essa i due testimoni
che ne sono immuni (B e il ms. M1) e ipotizzando massicci interventi ester-
ni sul testo, tali da rendere ragione delle « non poche lezioni corrette, disse-
minate qua e là nel poemetto, da accreditare alla capacità congetturale o
divinatoria di α ».17 Secondo lui, infatti, nel testo attuale delle Stanze molto
dobbiamo attribuire non all’autore, bensí all’iniziativa dei copisti e del pri-
mo editore: a quest’ultimo (ossia a B e dunque al Sarti) le didascalie del libro
secondo e la riparazione delle due lacune del medesimo libro; ad α, il titolo,
le didascalie del libro primo, la divisione in due libri e la notizia finale rela-
tiva alla imperfezione del poemetto.
L’abituale procedura ecdotica viene quindi ribaltata da Martelli: le con-
cordanze in errori e varianti fra M1 e C P (di fronte, negli stessi casi, all’ac-
cordo di R1 R2 B) vengono spiegate non come indizi di congiuntività, bensí
come relitti dell’archetipo, cancellati negli altri testimoni « mediante inno-
vazioni piú o meno preterintenzionali o mediante concieri ». E poiché è im­
possibile che due copisti (quelli di R1 R2) « abbiano innovato o corretto, e nel­-
lo stesso modo, i medesimi luoghi, questo equivale alla identificazione di un
loro capostipite comune ».18 Già nel 1986, dunque, Martelli era persuaso del-
la « illogicità di un metodo classificatorio delle testimonianze fondato piú su-­
gli errori che sulle lezioni buone »;19 tanto che, in conclusione, ribadiva que-­
sto punto di vista, ponendo, e ponendosi, una precisa domanda:
l’interrogativo dal quale l’editore di testi volgari piú di quello di testi classici non può
prescindere è un interrogativo disgiuntivo: è stato l’errore ad essere introdotto in un
testo precedentemente corretto? o è stato esso ad essere corretto ed eliminato da un
testo precedentemente guasto? Il che equivale a chiedersi ogni volta: sono i testimo-
ni che condividono l’errore ad essere riuniti in famiglia? o non sono piuttosto quel-
li che non lo condividono?

17. Martelli, Considerazioni, cit., p. 144. Per Martelli, α è il capostipite comune a tutti i te-
stimoni, tranne B e M1. Le sigle corrispondono ai seguenti testimoni: B = Cose vulgare del Poli­
tiano, Bologna, Platone de’ Benedetti, 9 agosto 1494; C = London, British Library, Additional
16439; M1 = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, II X 54; P = Paris, Bibliothèque Nationa-
le, Ital. 1543; R1 = Firenze, Biblioteca Riccardiana, 1576; R2 = Firenze, Biblioteca Riccardiana,
2723.
18. Martelli, Considerazioni, cit., p. 142.
19. Vd. sopra, p. 176. Convinzione, questa, ribadita piú volte da Martelli, ad es. anche nel
saggio 72 restauri preliminari (+ 1) al testo del ‘Canzoniere’ laurenziano, in « Interpres », a. xi 1991, pp.
182-294, a p. 183: « assai piú spesso di quanto non si suppone, sono piuttosto le lezioni corrette
ad imparentare i testimoni che non gli errori »; e nello Zapping, cit., p. 639.

181
francesco bausi

La risposta è fornita dalla seguente considerazione:


quando si tratti di testi volgari, di errori congiuntivi se ne trovano, e non necessaria-
mente pochi; di separativi, invece – per il semplice fatto che un errore, proprio in
quanto tale, è normalmente individuabile e, quindi, eliminabile per congettura –, ce
ne sono pochissimi o, forse, nessuno. In generale, infatti, io penso che mai (o quasi
mai) si possa dire con assoluta certezza: questo errore non poteva essere notato né,
una volta notato, eliminato; possiamo bensí pronunciarci sulla maggiore o minore
probabilità che la cosa si sia verificata o no, dandosi l’eventualità, anche se molto ra­
ramente, che l’improbabilità sia massima.20

Da tutto ciò scaturisce un’importante conseguenza operativa, ossia la scelta


del testimone-base su cui esemplare una futura, nuova edizione critica del-
le Stanze: perché alla fine, pur ricostruendo i rapporti fra i testimoni e pur
disegnando uno stemma, l’opzione fondamentale di Martelli resta (e non
potrebbe essere diversamente, viste le premesse) quella bédieriana. Ebbe-
ne, nell’opinione di Martelli, il testimone migliore, quello cioè piú fedele
nel trasmettere le Stanze nella loro struttura autentica e nella forma in cui
Poliziano le lasciò, dovrebbe essere M1, che non presenta né titolo, né divi-
sione in libri, né didascalie, né soscrizione finale, e che lo studioso accredita
di alcune lezioni singolari « a volte risolutive, a volte decisamente interes-
santi ».21
Gorni, nella sua replica al contributo martelliano (1986), osservava che
questa scelta porta in realtà a privilegiare il testimone di gran lunga peggio-
re, costellato com’è di errori numerosi e spesso marchiani;22 e dissente viva-
mente dall’affermazione di Martelli secondo cui esso « emerge dal novero
degli altri testimoni per la sua forza ecdotica ».23 Ma pare evidente che tale
« forza ecdotica » risieda per Martelli proprio nella sua scorrettezza, o meglio
nel fatto che il copista di M1, probabilmente a causa della sua cattiva cono-
scenza della lingua toscana, trascriva in modo meccanico, prescindendo dal
significato delle parole, ed evitando qualunque intervento autonomo sul te­
sto (divisione in libri, inserimento di titolo, didascalie e notizia finale): cosa
che, agli occhi dello studioso, rende questo manoscritto meno sospettabile
di quelle innovazioni e “migliorie” congetturali cui la gran parte dei copisti
– non esclusi quelli delle Stanze – è a suo parere incline.

20. Le due citazioni da Martelli, Considerazioni, cit., risp. pp. 148 e 137.
21. Ivi, p. 146.
22. G. Gorni, Le gloriose pompe (e i fieri ludi) della filologia italiana oggi, in « Rivista di letteratu-
ra italiana », a. iv 1986, fasc. 2 pp. 391-412, a p. 404.
23. Martelli, Considerazioni, cit., p. 131.

182
martelli filologo

Non diversamente, com’è noto, la pensava il Poliziano, che per la stessa


ragione preferiva i codici vetusti, anche se mendosissimi, alle corrette ma spes­
so interpolate copie umanistiche;24 e il medesimo Martelli, fedele a questa
impostazione, si comportò in modo analogo nella sua edizione critica del
Principe, adottando quale testimone-base lo scorretto manoscritto di Car-
pentras (trascurato da tutti i precedenti editori dell’opuscolo), le cui lezioni
erronee gli appaiono tali da consentire non di rado il recupero delle lezioni
autentiche, obliterate nel resto della tradizione, a suo avviso, in seguito agli
arbitrari ritocchi con i quali certi copisti tentarono di porre rimedio allo
stato precario e caotico dell’originale, oppure di regolarizzare una lingua e
uno stile che cominciavano ad apparire, tra il secondo e il terzo decennio del
XVI secolo, poco sorvegliati.25
Le riserve di Martelli nei confronti del metodo lachmanniano, del resto,
già emergono in lavori giovanili quali le edizioni critiche delle Poesie di Gi-
rolamo Savonarola (1968) e, ancor piú, del Simposio di Lorenzo de’ Medici
(1966). Nella prima, fra le recensiones e le ricostruzioni stemmatiche metico-
losamente eseguite per ciascun componimento, si insinuano perplessità di
fondo che conducono a una professione di scetticismo radicale, quando, di
fronte alla complessa tradizione della lauda Iesú, sommo conforto (ricca di fe-
nomeni che si resta incerti se attribuire alla contaminazione, alla presenza di
varianti d’autore o alla discendenza di parte dei testimoni da una seconda
copia savonaroliana), Martelli osserva:
Interrogativi, com’è chiaro, destinati a restare senza una risposta definitiva e paci­
ficante e che qui si avanzano solo per far toccare con mano l’impossibilità assoluta

24. Cfr. F. Bausi, La filologia, in Storia della civiltà toscana, ii. Il Rinascimento, a cura di M. Cili-
berto, Firenze, Le Monnier, 2001, pp. 293-312, alle pp. 302-3. Ma si tratta di un principio ri­
conosciuto anche dai filologi moderni: cfr. ad es. Pasquali, Storia della tradizione, cit., p. 32, e
d’A.S. Avalle, Fenomenologia ecdotica del Medioevo romanzo [1972], in Id., La doppia verità. Fenome­
nologia ecdotica e lingua letteraria del Medioevo romanzo, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 2002, pp.
125-53, a p. 147.
25. Il codice in questione è il ms. 303 della Bibliothèque Inguimbertine di Carpentras, si-
glato A dagli editori del trattato (vedine la dettagliata descrizione autoptica di N. Marcelli,
Descrizione dei testimoni, in N. Machiavelli, Il Principe, a cura di M. Martelli, corredo filolo-
gico a cura di N. Marcelli, Roma, Salerno Editrice, 2006, pp. 325-39, alle pp. 325-29). Come
scrive Martelli (Dai testimoni al ‘Principe’, ivi, pp. 339-507, a p. 354), « grazie soltanto all’ignoranza
e all’indifferenza di questo copista, che, incurante di una sintassi che non tornava, di parole che
non davano senso, di un latino non mai esistito, trascrisse quello che leggeva o che pensava
doversi leggere – ma io ritengo che da chi gli aveva commissionato il lavoro fosse stato anche
diffidato dal correggere, interpretare, cambiare –, abbiamo conservato non poco che ci aiuta
a ricostruire in parte l’originario trattato ».

183
francesco bausi

nella quale ci si trova di ricostruire uno stemma che definisca con precisione lo svi-
lupparsi della tradizione della lirica savonaroliana.26

Non stupisce pertanto che, in sede di costituzione del testo, Martelli decida
di attenersi a un testimone-base (la stampa ottocentesca curata da Cesare
Guasti e Carlo Capponi),27 anche se nella Aggiunta finale, di fronte alla tardi-
va scoperta di un nuovo testimone (il manoscritto XIV IV 284 dell’Archivum
Generale Ordinis Praedicatorum di Roma, venuto alla luce quando l’edizio-
ne era già impaginata), Martelli giunge a revocare in dubbio anche questa
scelta, giacché l’esame del codice lo spinge a dubitare dell’autografia del per-
duto manoscritto S – sul quale si erano fondati Guasti e Capponi – e dunque
a mettere in discussione i fondamenti stessi della sua procedura ecdotica.28
Martelli, sulla scorta di Bédier, soleva ripetere che la pseudo-scientifici­-
tà del metodo ricostruttivo emerge con tutta evidenza quando, una volta ap-
prontata l’edizione di un testo, viene alla luce un nuovo manoscritto: 29 que-
sto, infatti, nella maggior parte dei casi crea gravi imbarazzi al filologo, che si
scontra con la difficoltà o l’impossibilità di inserirlo nello stemma da lui pre­
disposto. Ebbene, ciò accadde anche a Martelli con le poesie di Savonarola,
perché il recupero del codice domenicano lo indusse (quasi « goccia che fac-
cia traboccare il vaso ») a dar corpo e voce ai sospetti, da lui già in preceden-
za nutriti ma tenuti fin lí a bada, in merito all’autografia di S, fino a conclu-
dere che essa debba ritenersi « estremamente improbabile »;30 e se alla fine
decise comunque di seguire la stampa Guasti-Capponi, è perché quand’an-
che si fosse potuto dimostrare S non autografo, le concrete ricadute testuali
di una simile conclusione sarebbero state, a suo avviso, comunque limitate.
Anche nel Simposio Martelli adotta le consuete procedure neo-lachman-
niane, individua famiglie di codici, ricostruisce la genesi della tradizione e la

26. M. Martelli, Nota critica a G. Savonarola, Poesie, a cura di M.M., Roma, Belardetti,
1968, pp. 57-269, a p. 194.
27. G. Savonarola, Poesie, tratte dall’autografo, Firenze, Antonio Cecchi, 1862.
28. Infatti, come scrive Martelli, Nota critica, cit., p. 266, negare l’autografia di S (un codi-
cetto già conservato presso l’Archivio Borromeo dell’Isola Bella [Verbania] e probabilmente
andato perduto durante i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale) porterebbe « alla
revisione stessa dei criteri sui quali mi sono fondato per fissare il testo critico della poesia sa-
vonaroliana ».
29. Cfr. in merito G. Contini, Filologia (1977), a cura di L. Leonardi, Bologna, Il Mulino,
2014, p. 39, dove questa indubbia « instabilità dello stemma » evidenziata da Bédier viene tut-
tavia interpretata come una qualità positiva, giacché favorirebbe la « marcia di avvicinamento
alla verità » (una verità intesa come « diminuzione di errore »).
30. Martelli, Nota critica, cit., p. 268.

184
martelli filologo

formalizza non in uno, ma addirittura in due stemmi estremamente artico-


lati31 (di quelli sui quali, in seguito, avrebbe piú volte esercitato la sua iro­
nia);32 ma, giunto al termine, fa posto a considerazioni che intendono ri­di­
mensionare l’efficacia di qualunque metodo meccanico e aprire il maggiore
spazio possibile alla distinzione caso per caso, fondata sullo iudicium dell’o-
peratore, giacché a suo avviso il poemetto fu oggetto sia di rielaborazione da
parte del suo autore, sia di rimaneggiamento da parte di copisti e di membri
della cerchia medicea (responsabili di un’alacre attività collatoria, contami-
natoria e correttoria). Tutte circostanze, come si sa, non favorevoli alla paci-
fica applicazione del metodo ricostruttivo.
Cosí dunque scriveva, in conclusione, Martelli, dopo aver affermato che
il doppio stemma da lui disegnato lo avrebbe guidato nella definizione del
testo critico dell’opera: « Ma questa guida non potrà essere che generica o,
per meglio dire, essa non potrà servirci che nell’adozione di un metodo fon­
damentale, che tuttavia, di volta in volta, dovrà piegarsi ad esigenze ed a sug­
gerimenti particolari dei singoli luoghi ». Infatti, « il particolare modo in cui
si sviluppò la tradizione del Simposio, i frequenti e molteplici contatti fra i
testimoni, la presenza alle origini di varianti alternative, rendono possibile la
sopravvivenza anche in un testimonio isolato e relativamente tardo di una
lezione autentica, che, caduta in tutti gli altri, sia restata solo in quello ».33 An­
che l’interesse nei confronti delle varianti singolari – detto per inciso – è ca­
ratteristico della filologia martelliana;34 e vengono in mente, a questo propo-
sito, le parole di Edward Schwartz (« bisogna essere sempre preparati a sco-
prire in un angolo riposto una buona variante ») riferite da Pasquali, che da
parte sua suggeriva cautela nella eliminatio lectionum singularium, laddove entri
in gioco la contaminazione o qualche copista congetturi per conto pro­prio.35

31. M. Martelli, Introduzione a Lorenzo de’ Medici, Simposio, ed. critica a cura di M.M.,
Firenze, Olschki, 1966, pp. 3-96 (gli stemmi si trovano in calce al volume, in due fogli piegati
e non numerati: il primo si riferisce ai capp. i-vi del poemetto laurenziano, il secondo ai capp.
vii-viii, giacché a parere di Martelli questi due blocchi del testo ebbero tradizioni separate).
32. Vd. ad es. quanto Martelli scriverà molti anni dopo in 72 restauri preliminari (+ 1) al testo
del ‘Canzoniere’ laurenziano, cit., pp. 182-83, dove, a proposito degli elaboratissimi stemmi trac-
ciati da Tiziano Zanato nella sua edizione (Lorenzo de’ Medici, Canzoniere, a cura di T.Z.,
Firenze, Olschki, 1991), dichiara di voler « lasciare l’allestimento di tanto complessi ed inquie-
tanti grafici a chi nutre maggiore fiducia di me nella possibilità di giungere, sul fondamento
dei soli errori, ad una attendibile classificazione della documentazione tradizionale e, quindi,
al disegno di uno stemma effettivamente funzionale alla costituzione del testo ».
33. Martelli, Introduzione a Lorenzo de’ Medici, Simposio, cit., p. 93.
34. Vd. qui anche pp. 182 e 187-88.
35. Pasquali, Storia della tradizione, cit., pp. 136 (per la citaz. di Schwartz) e 112-13.

185
francesco bausi

Tornando al Simposio, questi e altri elementi (soprattutto, il fatto che il


poemetto abbia avuto una doppia tradizione, quella dei capp. i-vi prima, e
quella dei capp. vii-viii poi, come già detto)

non permettono una risposta traducibile in una modificazione dello stemma da noi
costruito. Essi (e qui ci sembra che risieda il punto fondamentale) varranno soltanto
a metterci in guardia di fronte ad una rigida o, vogliam dire, meccanica applicazione
dei suggerimenti e delle indicazioni ricavate da un metodo che, nel caso del Sim­
posio, è valido solo entro certi limiti ed a certe condizioni. D’altronde, sempre piú
spesso ci si accorge come per la filologia romanza e, massime, per quella umanistica,
sia impossibile assumere sic et simpliciter sistemi di lavoro che hanno in altri tempi e
per altre discipline svolto una funzione utile e positiva.36 Nel caso particolare dell’o-
pera laurenziana, poi, e del Simposio non è chi non veda che una tradizione svilup-
patasi nel breve arco di pochissimi decenni e, in gran parte, entro le mura di una
città, se non addirittura di una casa, non può non proporre problemi e soluzioni del
tutto diversi da una tradizione che occupi di sé lo spazio di secoli e si dirami fin nei
paesi piú lontani dall’epicentro.37

Per tutte queste ragioni, l’apparato allestito nell’occasione da Martelli risul­


ta quanto mai complesso, strutturandosi in due fasce (sul modello della Vita
nuova barbiana): la prima, essenziale e sintetica, è riservata all’elencazione di
varianti ed errori; la seconda, ben piú ampia e discorsiva, è invece occupata
da analitiche discussioni di singole lezioni, e si configura spesso come un ve­
ro e proprio commento, condotto talora in dialogo con i precedenti editori
e interpreti del poemetto laurenziano.38

36. Si tratta, com’è evidente, di un riferimento alle riserve espresse in merito al metodo
lachmanniano da Pasquali, Storia della tradizione, cit., recuperate e sviluppate con larghezza da
Martelli e Bessi anche nel manuale del 1984 (Bessi-Martelli, Guida alla filologia italiana, cit.,
in partic. pp. 18-19 e 31; vd. qui sopra, n. 12).
37. Martelli, Introduzione a Lorenzo de’ Medici, Simposio, cit., p. 95. Nella sua ricchissima
recensione all’ed. Martelli (apparsa sul G.S.L.I., a. cxliv 1967, fasc. 445 pp. 116-34), Emilio Pa-
squini – che appena due anni prima aveva pubblicato l’iper-lachmanniana edizione del Sa-
viozzo, corredata da un mastodontico stemma disteso su un foglio fuori testo ripiegato in sei
parti: Simone Serdini da Siena detto il Saviozzo, Rime, ed. critica a cura di E.P., Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1965 – manifestò perplessità a questo proposito (« sarei tut-
tavia scettico sulle possibilità di una sopravvivenza della lezione autentica in un testimone
isolato e tardo ») e affermò che le contraddizioni riscontrabili nella tradizione del poemetto
non « devono indurre a sfiducia nella metodologia lachmanniana e al ricorso a spiegazioni cosí
eversive e in fondo poco stringenti » (p. 125, con allusione all’ipotesi martelliana della presenza
di doppie lezioni nell’archetipo o addirittura nell’autografo).
38. Allo stesso modo si presenta l’apparato nella coeva ediz. critica dell’anonima Caccia di
Belfiore (M. Martelli, Un recupero quattrocentesco: ‘La Caccia di Belfiore’, in « La Bibliofilia », a.

186
martelli filologo

La centralità dello iudicium nell’attività ecdotica, come già anticipato, è


in effetti il tratto distintivo della filologia di Martelli, che anche in questo
recupera la lezione di Barbi e di Pasquali.39 A tal proposito, pagine di grande
chiarezza ed efficacia si leggono ancora nella Guida del 1984, dove, prenden-
do spunto dalla nozione di lectio difficilior, gli autori osservano come « l’intro-
duzione di un criterio di questa natura in un contesto che pur dà la possibi-
lità di una scelta non iudiciale come è quello di una configurazione stemma-
tica che consenta una scelta di maggioranza, equivale ad ammettere che il
filologo accetta (e può accettare) come vincolanti le indicazioni dello stem-
ma solo quando non esistano motivi speciali per fargliele disattendere ».40 Donde una
professione di totale sfiducia nelle risorse “meccaniche” del metodo lach­
manniano:
una volta ammesso, infatti, che anche una sola variante, pur essendo attestata mino-
ritariamente, ha la concreta possibilità di essere la lezione autentica, non potendosi
sapere a priori quale sia questa variante, l’operatore sarà tenuto a discutere, sul fon-
damento del judicium, tutte le varianti trasmesse dalla tradizione, e non soltanto
quelle che eventualmente egli decida di assumere a testo contro le indicazioni dello
stemma. E in realtà si deve presupporre che una tale discussione, sia pure non espli-
citamente prodotta, abbia sempre preceduto la scelta operata dall’editore: il quale,
avendo pensato di potersi sottrarre alle indicazioni dello stemma in altri casi, am-
mette implicitamente che, per rifiutare o accogliere una qualsiasi variante, ragioni
stemmatiche non sono sufficienti. Il che equivale a dire che ragioni stemmatiche
non possono di per sé dare la certezza che una variante isolata corrisponda a una
innovazione tradizionale, se niente può dare la certezza che non siano stati al con-

lxviii 1966, pp. 109-63), dove, parimenti, l’efficacia operativa dello stemma bipartito tracciato
da Martelli a norma lachmanniana viene subito ridimensionata dalla constatazione della
presenza di varianti d’autore (il cui mescolarsi nella tradizione lo porta a credere che essa
discenda da un archetipo contenente due redazioni sincroniche del poemetto) e rimaneggia-
menti di copisti; cosicché, per fissare il testo, egli decide di attenersi a uno solo dei due rami
(β), correggendone gli errori sulla base dell’altro, e, nuovamente, accogliendo talora anche
certe singulares, quando gli appaiano poziori e verosimilmente risalenti all’autore (ivi, pp. 111-
15).
39. M. Barbi, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante a Manzoni, pres. di V.
Branca, Firenze, Le Lettere, 1994 (19381), p. xxiii: « non dobbiamo aver paura del soggettivo,
che non è di necessità l’arbitrario: al contrario quanto piú si desiderano procedimenti obietti-
vi, tanto piú va portata in prima linea la ragione come principale fattore in ogni operazione
che giovi a un’edizione veramente critica. […] non è da dubitare della ragione, ma del cattivo
uso di essa »; Pasquali, Storia della tradizione, cit., p. xi: « a ricostruire di sui manoscritti il testo
originario di uno scrittore antico occorre fin da principio esercitare il giudizio e […] questa
facoltà non può essere sostituita da alcuna regola meccanica ».
40. Bessi-Martelli, Guida, cit., p. 30 (corsivo degli autori).

187
francesco bausi

trario gli altri copisti a introdurre, indipendentemente, quella in cui essi concorda-
no.41

Qui sta la radice prima delle aspre polemiche che Martelli ingaggiò con fi-
lologi di stretta osservanza neo-lachmanniana, fra i quali, soprattutto, Tizia-
no Zanato (in merito al Canzoniere di Lorenzo)42 e Giorgio Inglese (relativa-
mente al Principe). Quest’ultima diatriba, in particolare, occupò buona parte
delle energie di Martelli nella fase finale della sua vita e della sua attività, e
trovò espressione in due momenti fondamentali: il Saggio sul ‘Principe’, del
1999,43 e la già ricordata edizione critica dell’opuscolo machiavelliano, che,
condotta in collaborazione con Nicoletta Marcelli e uscita nel 2006, costi­
tuisce la sua ultima grande prova filologica.
Nel caso del Principe, il rifiuto della ricostruzione di Inglese nasce dalla
difficoltà di distinguere, nella tradizione dell’opuscolo, tra variante (o erro-
re) di copia, variante (o errore) d’autore, e ritocco di postumi revisori impe-
gnati a rassettare un testo lasciato da Machiavelli in condizioni di precarietà
e provvisorietà sia formale che sostanziale. Il nesso di interpretazione e filo-
logia – sempre operante in lui, e caratteristico del suo metodo di lavoro –
spinge Martelli a sottolineare fortemente tale provvisorietà, vedendovi la
cifra peculiare del trattato, e considerando spesso le lezioni “migliori” reca­
te da alcuni codici (D e G)44 come altrettanti tentativi, messi in opera da co­
pisti e revisori, di sanare le aporie e le imperfezioni dell’autentico e sovente
approssimativo dettato machiavelliano (piú fedelmente riprodotto, a suo

41. Ivi, p. 31. Considerazioni in tutto analoghe, ispirate da Pasquali (Storia della tradizione, cit.,
p. 112), si trovano in una lettera di Sebastiano Timpanaro a Franca Ageno del 7 gennaio 1975:
« laddove una lezione si impone per il suo intrinseco valore, essa va, in linea di massima, accol-
ta nel testo anche contro lo stemma (può sempre trattarsi di una lezione migliore penetrata, ma-
gari, in un unico codice per collazione; oppure la contaminazione può, a dispetto dei rappor-
ti genealogici “verticali”, aver diffuso una lezione peggiore in tutti i mss. tranne in uno) » [ag-
giunta sul margine sinistro: « anche in una tradizione che, nell’insieme, si presenta come non
contaminata, non possiamo mai essere sicuri che occasionalmente non vi sia stata contamina-
zione: anzi quasi sempre c’è stata »]. La lettera è pubblicata da A. Canova, Dal laboratorio di
Franca Brambilla Ageno. Annotazioni per il metodo e una corrispondenza con Sebastiano Timpanaro, in
Tra filologia e storia della lingua italiana. Per Franca Brambilla Ageno, a cura di A.C., Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 2015, pp. 77-109, a p. 107; il corsivo è dell’autore.
42. Vd. il saggio di Martelli qui cit. alla n. 32, con la replica dell’interlocutore: T. Zanato, ‘n’
controrestauri al ‘Canzoniere’ laurenziano, in « Rivista di letteratura italiana », a. xi 1993, fasc. 3 pp.
453-533.
43. M. Martelli, Saggio sul ‘Principe’, Roma, Salerno Editrice, 1999.
44. Si tratta, rispettivamente, del ms. München, Universitätsbibliothek, 4°-787, e del ms.
Gotha, Forschungsbibliothek, chart. B 70.

188
martelli filologo

parere, dagli altri testimoni, raggruppati nella famiglia y), mentre Inglese vi
scorgeva le tracce di una seconda redazione d’autore.
Nel Saggio, Martelli sostenne la dipendenza di tutta la tradizione (y, D, G:
i tre rami dello stemma tracciato da Inglese nella sua edizione critica del
1994)45 da un archetipo variamente corrotto, negando pertanto che i testi-
moni a noi pervenuti conservino tracce di una rielaborazione del testo da
parte di Machiavelli.46 Martelli provò inoltre la parentela (in numerosi er-
rori) di D G, che discendono dunque da un comune capostipite z; e tracciò
uno stemma a due rami (y x), rami che spesso, tuttavia, si confondono e si
sovrappongono.47 Alcuni anni dopo, in occasione della sua edizione critica
del trattato, pensò piuttosto a un archetipo in movimento, dal quale nel
corso degli anni sarebbero derivati diversi gruppi di codici; ma si trattereb-
be sempre di un “movimento” non redazionale, dovuto a successivi inter-
venti di sistemazione e correzione dell’opera eseguiti da persone diverse
dall’autore. Per questo, Martelli fonda il suo testo su quello della famiglia y,
scegliendo al suo interno, come già abbiamo ricordato, il manoscritto A,
l’unico che a suo avviso rifletta fedelmente – come dimostrerebbero i mol-
ti e gravi errori da cui è macchiato – la veste originaria dell’archetipo (risa-
lente per lui al 1518, quando Machiavelli avrebbe tentato di pubblicare l’o-
puscolo a supporto dell’azione politica di Lorenzo de’ Medici il Giovane),
prima che altri cercasse in vari modi e tempi di limarlo e di rivederlo (e
quella di D G, per Martelli, è solo l’ultima fase di questo lungo lavoro di siste­
mazione).48
La filologia di Martelli, come altri settori della sua poliedrica attività di
studioso, ha suscitato talvolta perplessità e riserve, anche per il suo modo

45. N. Machiavelli, De principatibus, testo critico a cura di G. Inglese, Roma, Istituto


Storico Italiano per il Medio Evo, 1994, p. 152.
46. Tipica di Martelli era la diffidenza verso l’inclinazione di certi filologi a scorgere va-
rianti d’autore dietro lezioni che possono spiegarsi piú economicamente come accidenti di
tradizione o come interventi volontari di copisti, revisori e stampatori (cfr. ancora Pasquali,
Storia della tradizione, cit., pp. 419-20: « le “varianti d’autore” sono l’ultima ratio della critica te-
stuale, e non è lecito ricorrere a esse, finché le divergenze si possano spiegare in qualsiasi altro
modo »); per questo, egli negava la pluriredazionalità, da molti sostenuta, di opere quali le
Stanze del Poliziano (vd. il saggio qui sopra cit. alla n. 15) e il De amore dell’Alberti (cfr. M.
Martelli, Nota ai testi, in Alberti, De amore - Sophrona, cit., pp. 149-58, alle pp. 150-57), nonché
di alcuni sonetti della Vita nuova (vd. M. Martelli, Proposte per le ‘Rime’ di Dante, in « Studi
danteschi », a. lxix 2004, pp. 247-88, alle pp. 282-86).
47. Martelli, Saggio sul ‘Principe’, cit., p. 253.
48. M. Martelli, Dai testimoni al ‘Principe’, in Machiavelli, Il principe, ed. Martelli cit., pp.
423-26 (lo stemma è a p. 424).

189
francesco bausi

spesso colorito e polemico di argomentare, cosí distante dal freddo grigiore


imperante nella nostra accademia, e soprattutto tra i filologi. In Italia, poi, la
quasi unanime fedeltà al lachmannismo (almeno nelle edizioni di testi vol-
gari e umanistici) ha certo contribuito ad alimentare la diffidenza e le criti-
che, e pochi – anche perché pochi sono stati i suoi allievi – si sono mossi sul­-
le sue orme. Tra questi, è doveroso ricordare (anche per umana pietas, ri­
correndo in questo anno 2015 il quindicesimo anniversario della sua morte)
la prediletta Rossella Bessi, cui si devono le due limpide edizioni neo-bédie-
riane della laurenziana Ambra (1986) e della novella Della origine della guerra
tra Franciosi e Inghilesi di Jacopo Bracciolini (2000);49 nonché l’edizione, pari-
menti non lachmanniana, della Nencia da Barberino (1982), per la quale la stu­
diosa rinunciava sia a « formulare […] articolate ipotesi cronologiche » e a « sta­
bilire classifiche per i testi in nostro possesso », sia a operare una « scelta tra
varianti alternative della cui successione a fatica, e solo saltuariamente, ci ren­
diamo conto ».50
E mette conto ricordare come questi lavori, benché opera di una studiosa
da tutti stimata e aliena dalle polemiche, siano stati giudicati piuttosto seve-
ramente da parte di recensori di stretta ortodossia lachmanniana:51 a dimo-

49. In questo volume spicca la distanza metodologica fra l’edizione ricostruttiva del De
origine inter Gallos ac Britannos belli historia di Bartolomeo Facio, curata da Gabriella Albanese,
e l’edizione braccioliniana della Bessi, che sottolinea invece come « l’operazione di restitutio
textus non potrà […] svolgersi seguendo le ragioni di uno stemma periclitante in piú punti […]
ma dovrà invece orientarsi verso un’opzione di tipo neo-bédieriano, scegliendo il codice-base
nell’àmbito dei testimoni portatori di un testo corretto e il piú possibile stabile » (scelta che
cade sul Magliab. XXIII 42 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze). Infatti, « l’alterna-
tiva sarebbe un testo ricostruito valutando caso per caso le varianti attestate dai testimoni piú
prossimi all’archetipo e comunque sospettabili di conservare lezioni d’autore: un’operazione
scomoda, non esente da rischi – non ultimo quello della contaminazione tra filoni tradiziona-
li di incerti confini – e da delegare in toto a criteri iudiciali che, stante l’assoluta adiaforia della
maggior parte delle varianti, solo in pochi casi risulterebbero oggettivamente fondati » (le ci-
tazioni dalla Nota al testo della Bessi alla novella del Bracciolini: All’origine della guerra dei cento
anni: una novella latina di Bartolomeo Facio e il volgarizzamento di Jacopo di Poggio Bracciolini, a cura
di G. Albanese e R. Bessi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, pp. 295-376, a p. 372).
50. R. Bessi, Introduzione a La Nencia da Barberino, a cura di R.B., Roma, Salerno Editrice,
1982, pp. 13-119, a p. 119.
51. In merito all’Ambra, Tiziano Zanato (Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato,
Torino, Einaudi, 1992, p. 527) giudica discutibili i criteri ecdotici seguiti dalla Bessi, « in quanto,
denunciata l’impossibilità di pervenire a uno stemma, la curatrice finisce con l’avallare un’o-
perazione neobédieriana di fedeltà a un unico testimone ». Relativamente invece alla Nencia,
la condotta della Bessi fu criticata da Paolo Trovato (nella sua ampia recensione all’edizione,
in « Rivista di letteratura italiana », a. i 1983, fasc. 3 pp. 635-49), il quale osserva, fra l’altro, che le
argomentazioni della curatrice « prescindono del tutto, inspiegabilmente, dalla ricerca e indi-

190
martelli filologo

strazione dell’ostilità cui vanno incontro, da noi, le edizioni non confeziona-


te in base al metodo stemmatico, anche quando, come nel caso della Bessi e
di Martelli, sia la scelta del testimone-base, sia la decisione di rifiutarne certe
lezioni ritenute erronee o deteriori (ricorrendo dunque alle corrispondenti
lezioni di altri testimoni) scaturiscano da un’accurata analisi dell’intera tradi-
zione e dall’attento esame dei passi difficili e delle lezioni dubbie. Lo stesso
Martelli fu accusato da Zanato di nutrire una colpevole « sfiducia, piú o me-
no preconcetta, verso il metodo lachmanniano e la sua “pretesa” di ricostrui­
re l’originale tramite il confronto tra copie piú tarde e corrotte », sfiducia die­
tro la quale egli scorgeva con raccapriccio « una sorta di nostalgia, se non ad­
dirittura una scelta di campo, per Joseph Bédier e il suo bon manuscrit ».52 Co­
me se non fosse vero che in filologia ciò che conta non sono i mezzi, ma il
risultato: edizioni ottime o pessime si possono dare qualunque sia il “meto-
do” adottato, giacché – lo si ammetta o no – ogni scelta si fonda sullo iudicium
e su un empirico pragmatismo “artigianale”, e dunque tutto dipende, in ul-
tima analisi, da cultura, intelligenza e buon senso dell’operatore.
In realtà, il “metodo” filologico martelliano non si lascia definire facilmen­
te: volendo semplificare, potremmo parlare per il Martelli giovane di un neo-
lachmannismo problematico, che dalla meditazione dei principî ispi­ratori
della filologia pasqualiana deriva una forte diffidenza, anche men­tre le appli-
ca, verso l’adozione di procedure meccaniche in sede di recensio e di constitu­
tio textus; per il Martelli maturo, di un originale neo-bédierismo coniuga­to
con il largo studio dei modi della tradizione e con lo scrutinio ampio e at-
tento della varia lectio. Da un lato, insomma, un lachmannismo tanto consa-
pevole dei suoi limiti da condurre alle soglie del bédierismo; dall’altra, un bé­
dierismo che sa di dover ricorrere al lachmannismo per sottrarsi al cie­co os-
sequio nei confronti del testimone-base. A conferma della renitenza mar­
telliana a far interamente suo qualunque metodo, rimediando alle sue ine-
vitabili rigidità con robuste dosi di scetticismo e di senso storico, che si tra-
ducono, all’atto pratico, nell’attribuzione di un ruolo centrale allo iudicium
nelle scelte ecdotiche concrete.

viduazione di errori guida, che soli consentirebbero […] di avvicinarsi a una soluzione » (p.
643) e – quand’anche una recensio non fosse praticabile – almeno di ricostruire la storia della
tradizione. Posizione condivisa da Zanato, che elogia Trovato per avere « riportato la questio-
ne nei corretti termini lachmanniani » (Lorenzo de’ Medici, Opere, cit., p. 160).
52. Zanato, ‘n’ controrestauri al ‘Canzoniere’ laurenziano, cit., p. 521. Ultimamente, gli attacchi
piú decisi al neobédierismo sono venuti da L. Leonardi, Il testo come ipotesi (critica del manoscrit­
to-base), in M.R., a. xxxv 2011, pp. 5-34 (che però guarda alla filologia romanza, dove prevalgo-
no le edizioni fondate sul metodo di Bédier).

191
francesco bausi

D’altronde Martelli, formalmente allievo di Attilio Momigliano, era soli-


to dire di non aver avuto maestri e di essere in sostanza un “autodidatta”: di
fatto, i suoi veri maestri, come egli stesso riconosceva, furono Luigi Russo,
Roberto Ridolfi e Vittore Branca, e questi ultimi due certo gli furono a loro
volta esempi di una filologia non dogmatica e non astratta, avversa agli ec-
cessi del tecnicismo, mai disgiunta dalla critica e dall’interpretazione, e sem-
pre ancorata, piú che alle risorse del “metodo”, alle ragioni “interne” del te­
sto e ai conforti della storia e dell’erudizione.53
In tal modo, la filologia martelliana veniva a collocarsi nell’alveo della
grande tradizione di Barbi e di Pasquali. Né devono trascurarsi certi eviden-
ti punti di contatto con le posizioni di Sebastiano Timpanaro, il quale pa­
rimenti approdò negli anni a un crescente scetticismo nei riguardi del meto­
do lachmanniano e maasiano, insistendo – per dimostrare la fallacia di molti
stemmi – sui cosiddetti fattori di « perturbazione » della tradizione: la conta-
minazione, l’attività congetturatrice dei copisti e la poligenesi delle innova-
zioni.54 Siamo, come si vede, su una linea molto vicina a quella di Martelli,
soprattutto quando Timpanaro – anch’egli muovendo da Pasquali – sottoli-
nea che « spesso è difficile porre limiti precisi all’acume congetturale di co-
pisti ed “editori” », o che un copista può aver risanato errori anche « collazio-
nando un codice di un ramo o di una tradizione del tutto diversa, andato poi
perduto », o che scarsa è l’efficacia dei « rimedi » escogitati dai filologi contro
la contaminazione; e quando, da tutto ciò, desume la convinzione – piena-

53. Di Branca, in particolare, deve ricordarsi la Prefazione al suo Tradizione delle opere di Gio­
vanni Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1958, pp. ix-xxxix, alle pp. xxiv-xxv,
dove si sottolinea « l’esigenza di allargare la ricerca filologica oltre il canonico cerchio della
descrizione e della classificazione delle testimonianze, di avanzarla oltre la consueta meta di
delineare uno stemma: di indirizzarla cioè a una ricostruzione piú comprensiva, che dalla
storia del momento vivo e dinamico della tradizione tragga elementi decisivi per giungere piú
sicuramente a quegli insostituibili esiti testuali », e si ribadisce che il metodo di Lachmann « è
solo un mezzo ausiliario di ricostruzione storica » (e qui torna alla mente la vecchia definizio-
ne della filologia, della codicologia e della paleografia quali “scienze ausiliarie”, che Martelli,
suscitando la disapprovazione di certi colleghi, era solito provocatoriamente ripetere). Branca
fu anche, non a caso, partecipe prefatore all’ultima ristampa, nel 1994, del capitale volume
barbiano: cfr. V. Branca, Michele Barbi e la nuova filologia, presentaz. a Barbi, La nuova filologia,
cit., pp. 5-19, dove spicca fra l’altro l’abbondanza di citazioni – dallo stesso Barbi, e da Bédier,
Parodi, Housman – relative al ruolo centrale dello iudicium in ecdotica (ivi, pp. 11-12).
54. Vd. al riguardo l’Appendice C che chiude il volume di S. Timpanaro, La genesi del metodo
del Lachmann (1963), rielaborata fino all’ed. del 1985 (Padova, Liviana), e che qui cito dall’ed.
postuma curata da Elio Montanari (Torino, Utet, 2003, pp. 129-60). Ma già in un suo vecchio
articolo (Ancora su stemmi bipartiti e contaminazione, in « Maia », a. xvii 1965, pp. 393-99) Timpa-
naro aveva proposto considerazioni di questo genere.

192
martelli filologo

mente condivisa da Martelli – che spesso la tradizione manoscritta si svilup-


pi in modi assai piú intricati e meno lineari di quanto sia possibile al filologo
immaginare e formalizzare in uno stemma. Donde in molti casi, per Tim-
panaro, la necessità di « scegliere le varianti secondo criteri interni, senza ri­
nunciare a dare una valutazione complessiva di ciascun codice », e – si è vi­
sto – l’opportunità di non rifiutare a priori alcuna lezione, se intrinsecamen-
te valida, anche contro le indicazioni dello stemma.55
Anche sui descripti Martelli non si discosta da Pasquali e Timpanaro, che
non solo raccomandano prudenza nell’eliminarli, ma non escludono nem-
meno che essi possano essere portatori di lezioni buone.56 Penso qui alla sche­
da clxxxii di Zapping – intitolata Zeugmata semanticamente complicati –, do­
ve, relativamente all’Ambra laurenziana, si prende in esame una variante sin­
golare del manoscritto L = Laurenziano Pluteo xli 25 (xliv 1: « Cosí lo dio
ferma la voce e l’orma »), che dovrebbe essere respinta perché questo codice è
certamente descritto del ms. LA = Laurenziano Acquisti e Doni 264, dove
nel luogo corrispondente si legge: « Cosí lo dio ferma la veloce orma ».57 Mar-
telli sa bene che, a norma di metodo, la variante di L non potrebbe essere
promossa a testo; ma poiché essa gli appare migliore sulla base del senso e
del contesto, non si dichiara disposto ad abdicare al proprio iudicium per con­
formarsi a criteri meccanici:

Eppure, nella testa continua a ronzarmi quello che ebbe a dire Richard Bentley
nella sua edizione delle Odi d’Orazio (Cambridge, 1701), che a lui cioè « et ratio et
res ipsa centum codicibus potiores sunt », e che io trovo citato da Sebastiano Timpa-
naro nel suo La genesi del metodo del Lachmann (Torino, Utet, 20033, p. 25); sí, il Bentley
lo diceva in tema di congetture; ma io sono sicuro di non discostarmi dal suo modo
di pensare e di sentire affermando che, quando una lezione sa perentoriamente

55. Vd. qui sopra, n. 41.


56. S. Timpanaro, “Recentiores” e “deteriores”, “codices descripti” e “codices inutiles”, in FeC, a. x 1985
fasc. 2-3 (Omaggio a Lanfranco Caretti) pp. 164-92, alle pp. 165-78.
57. La respinge infatti Rossella Bessi nella sua cit. ed. dell’Ambra (p. 108), dove LA è assunto
quale testimone-base. La Bessi medesima, peraltro, aveva altrove dichiarato la variante di L
« pienamente legittimata dal contesto », e tale che, « qualora il quadro tradizionale si presentas-
se in modo diverso da questo, e non esistessero prove certe della natura innovativa della lezio-
ne », un editore non avrebbe ragione di rifiutarla: cfr. R. Bessi, Riflessioni sul problema ecdotico
dell’ ‘Ambra’ laurenziana. I codici Laurenziani Pluteo xli 25 e Acquisti e Doni 264, in La critica del testo.
Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno di Lecce, 22-26 ottobre 1984, Roma,
Salerno Editrice, 1985, pp. 493-503, alle pp. 497-98. Il che dimostra, sia detto per inciso, come il
bédierismo di Rossella fosse ben piú “integrale” di quello del suo maestro (vd. qui sopra, a
conferma, la n. 49).

193
francesco bausi

d’autenticità, non c’è barba di stemma che possa indurmi a rifiutarla. Il che mi acca-
de anche di fronte a questo verso dell’Ambra.58

In conclusione, è indubbio che alcune delle ricostruzioni filologiche di


Martelli, benché sempre acute, innovative e stimolanti, non appaiano in
tutte le loro parti condivisibili, e che, proprio per il suo intento polemico nei
riguardi del procedimento lachmanniano, la pars destruens di tali lavori mar-
telliani si riveli – come d’altronde gli accadeva non di rado, e non solo in
àmbito ecdotico – piú convincente di quella construens. Nondimeno, anche
in filologia il tempo è galantuomo, e a gioco lungo le proposte di Martelli
hanno mostrato tutta la loro vitalità e la loro fecondità. Basti pensare alle
Stanze, dove molti dei suggerimenti avanzati e discussi nella Nota al testo del­
la sua edizione (non critica) del 1979 sono senz’altro da accogliere, perché mi­
gliorano non di poco la lezione e l’intelligenza del poemetto; o a opere lau­
renziane quali il Simposio, il Corinto e l’Uccellagione di starne, i cui testi sono
stati editi piú di recente da altri studiosi sul fondamento degli studi ecdotici
martelliani degli anni ’60 e ’70;59 e si pensi, ancor piú, al Principe, intorno al
cui testo, e al metodo da seguire per ricostruirlo criticamente, una lunga po­
lemica – come già ricordato – oppose Martelli a Giorgio Inglese.
Ora Inglese, nelle sue nuove edizioni dell’opera,60 è stato indotto, dalla
piú riposata meditazione degli studi di Martelli, a far propri alcuni dei risul-
tati cui quest’ultimo era pervenuto, riconsiderando di conseguenza la storia
della tradizione del Principe e modificando il testo fissato nell’edizione criti-
ca del 1994: egli approda infatti a uno stemma bipartito, concede maggior
credito alla testimonianza del ramo y (di cui recupera la lezione, contro quel­
la di D e G, in oltre trenta luoghi)61 e arriva persino a riconoscere tracce di

58. Martelli, Zapping, cit., p. 489.


59. Per le ultime due operette citate, in particolare, uno studioso non certo tenero nei
confronti di Martelli come Tiziano Zanato (nell’ed. da lui curata di Lorenzo de’ Medici,
Opere, cit., pp. 139-40 e 232-33) ha accolto pressoché in toto le sue conclusioni (cfr. M. Martel-
li, La tradizione manoscritta dell’ ‘Uccellagione di starne’, in « Rinascimento », s. ii, a. v 1965, pp. 51-85,
con ediz. del testo alle pp. 71-85; Id., Per la storia redazionale del ‘Corinto’, in S.F.I., a. xxxiii 1975,
pp. 221-40).
60. N. Machiavelli, Il Principe, nuova ed. a cura di G. Inglese, con un saggio di F. Chabod,
Torino, Einaudi, 2013; Id., Il Principe, a cura di G. Inglese, in N. Machiavelli, Il Principe. Testo
e saggi, a cura di G. Inglese, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2013, pp. 69-151.
61. Vd. la tavola completa di tali lezioni in G. Inglese, Ragione del testo, in Machiavelli, Il
Principe, ed. Ist. della Enciclopedia Italiana, cit., pp. 153-74, alle pp. 171-73 (e p. 168 per la propo-
sta di uno stemma bipartito, già peraltro avanzata dal medesimo studioso alcuni anni prima:
Lo stemma del ‘Principe’. Nuove riflessioni, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro
Sasso, a cura di M. Herling e M. Reale, Napoli, Bibliopolis, 1999, pp. 191-201). Anche Raffae­

194
martelli filologo

“diacronia” – vale a dire, la presenza di aggiunte machiavelliane che talora


sono causa probabile di sconnessioni logiche e sintattiche – all’interno di un
capitolo dell’opuscolo.62 Quel che nel 2013 ha scritto Inglese a proposito del­
le sue dispute con Martelli merita di essere qui riportato, perché documen-
ta quanto profonda sia stata nel tempo l’influenza del magistero filologico
martelliano su una materia tanto controversa:
Con Mario Martelli ho discusso pressoché ininterrottamente, su vari argomenti ma­
chiavelliani, dal 1982 alla scomparsa dello studioso, nel 2007. Il dialogo, quasi sempre
animato, mai animoso, con Martelli costituisce gran parte della mia stessa formazio-
ne di filologo: e ciò « convien che si scerna » anche nelle note di questa Introduzione
e di questo commento.63

E la medesima “attualità” deve essere riconosciuta alle fatiche filologiche


dedicate da Martelli ad altri autori, non solo rinascimentali (Lorenzo de’
Medici e Luigi Pulci, in primis), ma anche moderni, come Ugo Foscolo: non
per caso, l’importanza del denso saggio martelliano sulla storia redazionale
ed editoriale dell’Ortis (1970), a lungo trascurato dai critici, è stata di recente
sottolineata e dimostrata da Maria Antonietta Terzoli ed Enzo Neppi.64
Al di là di tutto ciò, verrebbe da dire che l’intera produzione martelliana
è, in ogni pagina, intimamente filologica, se per filologia intendiamo – co-
me dovremmo – non solo l’ecdotica, ma piú latamente ogni studio stori­
camente impostato della letteratura, e in particolare ogni studio attento in
primo luogo ai dati concreti e “duri” dei testi: cronologia, lingua, metrica,
retorica, modelli e fonti, struttura, elaborazione redazionale, attribuzione,

le Ruggiero (Nota al testo a N. Machiavelli, Il principe, a cura di R.R., Milano, Rizzoli, 2008,
pp. 39-42, a p. 42) ritiene che la tradizione del Principe sia schematizzabile in uno stemma bi-
partito, benché poi, come Inglese, egli attribuisca maggior credito alla lezione di D G.
62. G. Inglese, Introduzione a Machiavelli, Il Principe, ed. Einaudi cit., p. xxxiii. Pur non
accogliendone del tutto i risultati, anche Raffaele Ruggiero considera « prezioso » il contribu-
to fornito da Martelli con la sua ed. del Principe, invitando a fare « tesoro della sua riflessione
come dei sentieri, talora impervi, che egli ha percorso » (R. Ruggiero, Ecdotica machiavelliana,
in « Ecdotica », a. v 2008, pp. 279-308, a p. 292).
63. Inglese, Introduzione a Machiavelli, Il Principe, ed. Einaudi cit., p. xxxiii.
64. Cfr. M. Martelli, La parte del Sassoli, in S.F.I., a. xxviii 1970, pp. 177-251; E. Neppi, Mar­
telli, Ortis e la parte del Sassoli, in Per Mario Martelli. L’uomo, il maestro e lo studioso, a cura di P. Or-
vieto, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 67-72 (dove si sottolinea come quel lavoro martelliano abbia
dovuto attendere quasi trentacinque anni per essere debitamente valorizzato; con riferimen-
to ai contributi di M.A. Terzoli, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale tra politica e
censura, Roma, Salerno Editrice, 2004, e dello stesso E. Neppi, La “parte del Sassoli” fra giallo edito­
riale e iperboli foscoliane di vita e di morte, in G.S.L.I., a. clxxxiii 2006, fasc. 603 pp. 418-34).

195
francesco bausi

biografia e cultura dell’autore. La passione di Martelli per simili ordini di


problemi (soprattutto la cronologia, la metrica e la retorica, che costituisco-
no il filo rosso di gran parte dei suoi lavori)65 è il segno di una filologia “in-
tegrale” dispiegata come antidoto non solo a una critica da lui spesso vista
come il dominio di un arbitrio esegetico talora sconfinante nella chiacchie-
ra dilettantistica e disinformata, ma anche a una filologia puramente mec-
canica e formale, paga di procedure astratte ancor piú astrattamente appli-
cate. Una critica e una filologia, insomma, poco o punto attente a ciò che
invece a Martelli piú premeva: capire i testi, parola per parola, senza nulla
lasciare a zone d’ombra o ad ambiguità che non fossero spiegabili o come
accidenti della tradizione, o come imperfezioni espressive e formali degli
autori.66
Per lo spirito libero e anticonvenzionale che lo caratterizzava, Martelli
non poteva non essere in prima istanza, e in ogni circostanza, filologo; e in
virtú di tale spirito, egli senza dubbio incarnava la vera e profonda essenza
della filologia, vale a dire l’attitudine a praticare l’esercizio perenne del
dubbio, a non iurare in verba magistri, a sottoporre tutto alla verifica dei docu-
menti e del ragionamento. Esemplare in questo senso, fin dalla sua struttu-
ra anarchica e desultoria, è il già ricordato Zapping di varia letteratura; esem-
plare, allo stesso modo, il saggio I dettagli della filologia, uno dei “testamenti”
intellettuali di Martelli, apparso nel 2003, in cui emerge con forza la sua
capacità di far leva su minimi particolari “fattuali” (il mutamento di una
cronologia, la diversa lettura di una parola in un codice, la presenza di una
certa forma linguistica in un testo, la scoperta di una nuova fonte o di un
nuovo autografo) per costruire su di essi nuove e piú solide ricostruzioni, al
tempo stesso smontando pezzo per pezzo le interpretazioni correnti e, in
particolare, le “mitologie” cosí spesso circolanti anche fra gli studiosi in
merito ad alcuni autori e ai loro scritti.67 Tanto che mi pare opportuno, e mi

65. Ma anche le questioni attributive lo occuparono a lungo: basti pensare alla polemica che
egli ingaggiò con Paolo Trovato e Ornella Castellani Pollidori in merito al Discorso o dialogo
intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli (ma, per Martelli, sicuramente apocrifo).
66. Benché i due non si amassero affatto, Martelli avrebbe certo approvato quanto scrisse
Carlo Dionisotti in una lettera a Giovanni Pozzi del 2 agosto 1965: « Mai piantare lí i testi, se di
edizioni si tratta che invitino veramente a leggere i testi, a commentarli. Siamo stanchi e sazi
di apparati stratosferici, di stemmi fasulli, di araldica filologica, di quisquilie grafiche, ma sia-
mo affamati di commenti » (C. Dionisotti-G. Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi.
Carteggio 1957-1997, a cura di O. Besomi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, p. 84).
67. M. Martelli, I dettagli della filologia, in « Interpres », a. xx 2001 [ma 2003], pp. 212-71; poi
in Id., Tra filologia e storia. Otto studi machiavelliani, a cura di F. Bausi, Roma, Salerno Editrice,
2009, pp. 278-335.

196
martelli filologo

piace, concludere con l’esclamazione che suggella quel memorabile saggio,


tutto condotto in polemica contro chi aveva affermato la filologia occupar-
si solo di precisare “dettagli” sostanzialmente ininfluenti sulla nostra capa-
cità di cogliere la vera “sostanza” di un’opera (nella fattispecie, e ancora una
volta, Il Principe):
Oh, benedetti dettagli della filologia, se essi – uno dopo l’altro facendoci conoscere
un non equivocabile Machiavelli mediceo, un Machiavelli dalla cultura fondamen-
talmente volgare, un Machiavelli politico e non filosofo, un Machiavelli innamora-
to delle regole che mai non fallano piú che della spassionata indagine storica, un
Machiavelli scrittore approssimativo piú che incisivo – o, per dir meglio, incisivo, al
di là delle sue intenzioni, perché approssimativo, – oh, santi dettagli della filologia
se prima o poi riuscissero, con la forza della verità, a strappar di mano questo povero
Machiavelli a chi vuol farne quello che piú gli piacerebbe che fosse stato e che meno
fu in realtà! 68

Francesco Bausi

Il saggio prende in esame la produzione filologica di Martelli, guardando sia alle sue
edizioni critiche, sia ai suoi contributi di carattere metodologico. Ne emerge il profilo di
un filologo antidogmatico, che nella sua lunga carriera ha sempre fuggito le rigidità dei
“metodi”, rivendicando il ruolo centrale dello iudicium nell’ecdotica. Infine, si valuta la
fortuna, negli anni successivi, delle proposte e delle ricostruzioni filologiche martelliane,
che hanno portato contributi fondamentali riguardo ai testi di autori quali Lorenzo de’
Medici, Poliziano, Machiavelli e Foscolo.

The paper reviews the philological production of Martelli, considering both his critical editions, and
his contributions concerning methodological aspects. It outlines then a profile of an anti-dogmatic
philologist, always distant, through his long career, from the rigidity of the methods, and always claim­
ing the central role of the iudicium in textual criticism. Lastly, the paper assesses the fortune through
the years of Martelli’s philological proposals and hypotheses, bringing a crucial contribution with re­
spect to the works of authors as Lorenzo de’ Medici, Poliziano, Machiavelli, and Foscolo.

68. Ivi, p. 335. Destinatario della polemica era Gennaro Sasso, in riferimento alle afferma-
zioni antifilologiche contenute nel suo contributo In margine al quinto centenario della nascita di
Niccolò Machiavelli (1972), ora in G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, iv, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1997, pp. 365-449; un saggio a proposito del quale lo stesso Sasso ha recentemente
affermato che oggi non lo riscriverebbe (Prefazione a Id., Su Machiavelli. Ultimi studi, Roma,
Carocci, 2015, pp. 9-12, a p. 10).

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