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LUCA DIOTALLEVI

Il clero diocesano fra vent’anni:


tempo di politiche ecclesiastiche

Ospitiamo, in queste pagine, una sezione monografica dedicata ai


cambiamenti in atto nella figura del prete in Italia. Lo spunto per la
riflessione è offerto dall’articolo di Luca Diotallevi (docente di So-
ciologia all’Università di RomaTre), che prende le mosse da una
recente ricerca empirica sui sacerdoti diocesani in Italia, per trac-
ciare alcuni scenari che si potrebbero verificare da qui a vent’anni.
Certe tendenze sono risapute (invecchiamento e diminuzione quan-
titativa, ad esempio), altre sono meno note (gli esiti ‘organizzativi’ di
tale diminuzione, i cambiamenti di cultura e mentalità). Un dato è

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sicuro: tra vent’anni la situazione sarà molto diversa rispetto a quel-

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la odierna. Gli anni a venire saranno occasione preziosa per affron-
tare le difficoltà delle mutazioni in fieri, senza dover operare «con
l’acqua alla gola, sotto la pressione di tempi stretti e di necessità La Rivista del Clero Italiano
drammaticamente stringenti». In particolare, l’autore sottolinea l’ur-
genza di politiche vocazionali e formative attive. Il ricorso massiccio
a clero straniero, con cui si cerca di rimediare al problema in alcu-
ne regioni d’Italia, comporta infatti seri problemi. Si pone insomma
una seria questione progettuale, da affrontare con fiducia, intelligen-
za e slancio: ne va del futuro della nostra Chiesa.

Per le edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli è in uscita un


volume, La parabola del clero. Uno sguardo socio-demografico sui sacer-
doti diocesani in Italia1, che raccoglie i principali risultati di una pro-

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Mensile di aggiornamento pastorale e cultura religiosa fondato nel 1918

gramma di ricerca sviluppato dalla Conferenza Episcopale Italiana e


dalla stessa Fondazione. Il programma, avvalendosi principalmente di
metodologie demografiche e sociologiche, si interessa al clero dioce-
sano a servizio delle diocesi afferenti la CEI e si propone l’obiettivo
di individuare in questa ‘popolazione’ le dinamiche di alcuni profili
attuali e di possibili linee evolutive.
Potendo anticipare in questa sede qualche elemento contenuto nel
volume (che si occupa tanto del caso nazionale quanto di quello di cia-
scuna delle sedici regioni pastorali italiane), credo sia necessario precisa-
re il concetto di ‘scenario’, che non va confuso con quello di ‘previsione’.
Il volume non contiene in senso stretto alcuna previsione riguar-
dante il clero diocesano ‘italiano’ fra vent’anni. Piuttosto, esso indivi-
dua alcune variabili chiave, prevalentemente a base demografica e
dotate di una discreta inerzia. A seconda del variare di queste, si
potrebbe attivare una determinata serie di effetti combinati per i
quali, per esempio, la numerosità della popolazione in oggetto alla tal
data risulterebbe x invece che y oppure z.
Un esempio di queste variabili: potrebbe essere sempre più diffici-
le continuare a importare giovane clero straniero (cosa che avviene
con intensità soprattutto in molte diocesi dell’Italia centrale). Sarebbe
possibile continuare a ordinare individui nati in Italia in proporzione
più o meno costante rispetto alla popolazione maschile (però in netto
decremento!). Oppure sarebbe possibile continuare a ordinare co-
munque gli stessi individui che mediamente sono stati ordinati in cia-
scuno degli ultimi dieci o vent’anni… Potrebbero diffondersi ulte-
riormente quelli che appaiono oggi come i modelli più efficaci di
pastorale ‘giovanile’ e di ‘pastorale vocazionale’… e via dicendo.
Considerando variabili di questo tipo è stato possibile elaborare quat-
tro scenari. Il volume ne dà conto dettagliatamente, in generale e per
quanto riguarda ciascuna delle regioni pastorali.
È stato costituito inoltre un osservatorio che consentirà, per far solo
due esempi, di ricavare informazioni per la singola diocesi e di control-
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lare anno per anno lo scostamento degli scenari teorici dai dati reali.
Nell’insieme, quegli scenari ci consentono di individuare alcune
tendenze che appaiono difficilmente arrestabili, altre che appaiono
probabili, altre ancora di cui si intravedono solo alcune condizioni.
Proviamo a dire qualcosa in breve per ciascuno di questi tre gruppi di
risultati.

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Qualcosa di quasi certo


È praticamente certo che nel giro dei prossimi vent’anni la quantità di
clero diocesano attivo nelle diocesi italiane diminuirà sensibilmente,
più o meno di un terzo, in alcune regioni ancor di più.
È altrettanto certo che questo clero diocesano sarà non solo infe-
riore di numero, ma diverso per cultura, mentalità, memoria, rispetto
a quello che conosciamo oggi. Tali differenze potrebbero a volte assu-
mere anche termini drastici, provenendo quel clero in quota non tra-
scurabile da percorsi di vita e di formazione assolutamente diversi da
quelli considerati ‘normali’ per il clero del passato, e a volte persino
da paesi stranieri e tanto diversi per cultura, tradizione religiosa, stili
e livelli di vita. Nel prossimo ventennio assisteremo a un completo
ricambio generazionale, con l’uscita di scena di una generazione
estremamente folta (i 65-85enni di oggi) e il passaggio all’età matura
di una generazione di dimensioni più contenute e composta da sacer-
doti con mentalità ed esperienze molto varie.
Visto il ventaglio di ruoli che nelle organizzazioni ecclesiastiche
cattoliche italiane è stato affidato – e tutto sommato è ancora, di dirit-
to ma assai più spesso di fatto – al clero diocesano, è facile prevedere
che fra vent’anni queste organizzazioni ecclesiastiche (parrocchie,
curie, ecc.) avranno un aspetto e un modo di funzionare, e forse
anche una consistenza numerica, molto diverse da quelli attuali a
causa del calo dei sacerdoti diocesani disponibili (anche a prescinde-
re da tutte le altre trasformazioni qualitative cui è avviata questa par-
ticolare popolazione). Fra vent’anni la Chiesa cattolica in Italia appa-
rirà certamente molto diversa da quella di oggi.
Il clero diocesano fra vent’anni
Come abbiamo detto, questo clero diocesano diminuirà di nume-
ro, ma data la sua particolare composizione vedrà anche una diminu-
zione dell’età media dell’ordine di qualche anno. Ciononostante,
soprattutto in alcune regioni, si registrerà una presenza ancor più
significativa di sacerdoti ultraottantenni, con una presumibile diffu-
sione dei problemi connessi alla loro sempre più ridotta autosuffi-
cienza.
Se, con particolare riguardo al problema del clero diocesano, con-
sideriamo lo stato in cui operano oggi le organizzazioni ecclesiastiche
nei tradizionali ‘paesi cattolici’ dell’Europa centro-occidentale, a
cominciare dalla Spagna e dalla Francia, possiamo osservare che,

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anche secondo il peggiore degli scenari elaborati, le regioni pastorali


italiane, singolarmente e nel loro insieme, si troveranno in situazioni
quantitative simili a quelle odierne di Francia e Spagna solo verso la
fine del ventennio considerato, e a volte neppure allora.
Ciò significa che anche un’altra cosa è certa, come è certo che,
nonostante le difficoltà, le Chiese cattoliche sono in Francia e Spagna
ancor oggi realtà tutt’altro che estinte o agonizzanti. Ovvero: è certo
che la dimensione quantitativa non è, almeno per il momento, la prin-
cipale dimensione della crisi del clero diocesano in Italia. Insomma, è
certo che i prossimi dieci anni costituiscono una finestra temporale
entro cui le organizzazioni ecclesiastiche cattoliche operanti in Italia
potranno affrontare le difficoltà di cui s’è detto ampiamente senza
essere ‘con l’acqua alla gola’, o sotto la pressione di tempi stretti e di
necessità drammaticamente stringenti. Avranno un tempo aggiuntivo,
ma non troppo lungo, per prepararsi a gestire e non semplicemente a
subire novità interne ed esterne notevolissime. Naturalmente questa
opportunità temporale potrebbe però anche trasformarsi in un alibi,
potrebbe indurre cioè a non affrontare attivamente il necessario
‘aggiornamento’ di istituzioni, organizzazioni, strategie e prassi.

Qualcosa di probabile
È probabile che, se non si esporteranno in tempo politiche attive di
reclutamento di successo (secondo la quantità ma anche e soprattut-
to secondo la qualità), le Chiese presenti in Italia si ritroveranno, nel
giro di qualche lustro, con una parte importante del clero diocesano
di origini straniere e, in misura ancora maggiore, con un clero molto
giovane (già oggi è straniera quasi la metà del clero diocesano sotto i
quarant’anni in Umbria e nel Lazio.) Una più diffusa adozione di
determinate politiche attive di reclutamento può rivelarsi una varia-
bile importante: in vent’anni potrebbe ‘produrre’ un numero aggiun-
tivo di sacerdoti diocesani (e di nuovi sacerdoti diocesani) pari al
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numero di sacerdoti diocesani oggi attivi per alcune regioni pastorali


dell’Italia centrale o meridionale. Si tratta, non lo si dimentichi, di
politiche di ‘pastorale giovanile’ e di ‘pastorale vocazionale’ effettiva-
mente esistenti e praticate con relativo successo da molte diocesi, non
di modelli ideali semplicemente auspicati.
Un aumento del clero diocesano straniero inciderà pesantemente

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sulle prestazioni religiose e sociali che da questo ci si possono atten-


dere. Di per sé, inoltre, una sua presenza già rilevante in alcune aree
del paese potrebbe incidere ulteriormente sull’immagine del sacerdo-
te e sul reclutamento di nuovo clero, che dovrebbe fare i conti con
una più diffusa percezione di quella sacerdotale come di una profes-
sione etnicizzata.

Qualcosa di possibile
È possibile attenuare gli impatti negativi delle tendenze in atto nel
clero diocesano sostenendo la ripresa di ordinazioni che già, più o
meno, tutte le regioni ecclesiali hanno conosciuto negli anni ’90 rispet-
to agli anni ’80. Più volte, nel corso del Novecento e anche prima, a fasi
di decremento sono seguite fasi di incremento quantitativo del clero.
Mai però, si badi, ciò si è verificato senza una qualche relazione con
innovazioni nelle politiche ecclesiastiche, e in particolare nelle politi-
che ‘vocazionali’ e ‘formative’. Il fenomeno non è in grado di autoso-
stenersi, tanto meno nelle situazioni socioreligiose della società attuale.
Al contrario, alcuni recentissimi segnali negativi potrebbero in breve
rivelarsi l’inizio di una nuova fase di forte decremento delle ordinazio-
ni. Una speciale attenzione a tali segnali è giustificata anche dalla ridu-
zione dei valori di tutta una serie di altri indicatori di partecipazione
religiosa misurati dall’Istat negli anni successivi al Grande Giubileo del
2000, con particolare riferimento all’universo femminile (che in Italia
ha ancora un ruolo primario nella trasmissione intergenerazionale della
identificazione religiosa e degli stili di partecipazione religiosa). Il clero diocesano fra vent’anni
È possibile attenuare gli effetti negativi della diminuzione del clero
diocesano agendo sulle numerose variabili dipendenti dell’organizza-
zione ecclesiastica: dalle istituzioni della formazione e del tirocinio al
presbiterato, alla forma della rete parrocchiale, allo sviluppo delle
carriere presbiterali, alla riqualificazioni in termini marcatamente
ecclesiali della pastorale giovanile, ecc. Anche in questo caso, basta
rivolgere un veloce sguardo al passato per cogliere come il sistema
religioso abbia conosciuto in Italia significativi riforme istituzionali.
In particolare, la parrocchia e le strutture associative appaiono punti
chiave. Certamente, l’attenzione alla formazione seminaristica è ne-
cessaria, ma pensare che sia sufficiente rappresenterebbe un errore
grossolano.

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In sintesi, analizzando il significato sociologico delle trasformazio-


ni demografiche in atto nella popolazione del clero diocesano attivo,
si coglie che non appaiono inversioni di tendenza o arresti del pro-
cesso di modernizzazione sociale (e dei suoi effetti in termini di ‘seco-
larizzazione’). Ma si può insieme osservare che il significato di tutto
ciò per la religione è tutt’altro che definito una volta per tutte, nel
senso di una drastica crisi quantitativa e qualitativa. Semmai, appare
che il risultato dell’impatto della modernizzazione sulla religione, o
meglio che l’esito del confronto tra i programmi di modernizzazione
religiosa e l’insieme dei processi di modernizzazione sociale dipende
anche dall’adeguatezza degli attori ecclesiastici e dalle loro strategie.
Che queste strategie risultino efficaci nessuno può negarlo in via di
principio, ma neppure garantirlo. In conclusione, mi sembrano
opportune due sottolineature.

L’impatto dei nuovi numeri sulle organizzazioni


I ‘numeri’ che indicano i componenti del clero diocesano assommano
gli individui di una popolazione, ma descrivono anche l’entità dei pre-
sbitèri diocesani, che – dal punto di vista sociologico – si presentano
come organizzazioni religiose. Gli andamenti di tali numeri, dunque,
influenzano in misura importante non solo le dimensioni di queste
organizzazioni ma anche la loro efficacia e la loro efficienza, la loro
forma e la loro struttura, anche se ovviamente da soli non determina-
no mai lo stato di nessuna di queste.
Questa considerazione assume un particolare rilievo, probabilmen-
te non solo dal punto di vista dell’analisi sociale: consideriamo che per
un verso le organizzazioni del clero diocesano costituiscono la parte
stabile del presbitèrio diocesano e quella più direttamente controllabi-
le da parte del vescovo. Per altro verso, invece, i presbitèri diocesani
sono le organizzazioni religiose egemoni nell’ambito del cattolicesimo
religioso moderno e contemporaneo (e, di conseguenza, in Italia), ege-
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moni nel sistema religioso soprattutto sul lato dell’offerta. Quanto,


infine, questo gruppo di organizzazioni sia poi da annoverarsi anche
tra le organizzazioni sociali più influenti e discusse almeno nel nostro
Paese è ormai materia persino di discussione quotidiana.
La domanda sull’influenza dei trend quantitativi della popolazione
del clero diocesano in Italia sulla forma e le funzioni dei presbitèri

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diocesani in questa società non si può eludere. Non si può neppure


esaurire in questa sede, ma si può raccogliere.
Certamente, nei prossimi anni assisteremo a notevoli trasformazioni
strutturali dei presbitèri diocesani, e si tratterà di trasformazioni
ancora maggiori rispetto a quelle cui abbiamo assistito di recente.
Due dinamiche incideranno pesantemente sulla governance e sulla
governabilità delle organizzazioni ecclesiastiche che stiamo conside-
rando. La prima consiste nella crescente anzianità di servizio dei
sacerdoti. La seconda consiste dal combinarsi del processo di ridu-
zione del clero da un lato e dall’altro una per ora immutata struttura-
zione dell’offerta religiosa (a partire dal numero delle parrocchie e da
quello degli uffici). L’effetto che ne risulta, come è facilmente com-
prensibile, è la riduzione dell’‘altezza’ della ‘piramide’ dell’organizza-
zione ecclesiastica. A struttura immutata, la front line, e anzitutto la
rete territoriale-parrocchiale, assorbirebbe una quota di clero rapida-
mente crescente e in molte aree per diverse ragioni già insufficiente.
Dal punto di vista di ogni singolo sacerdote, ciò significa riduzione
delle probabilità di mobilità tanto orizzontale quanto verticale.
Insomma, si riducono le probabilità di ‘carriera’, considerate normal-
mente – almeno dal punto di vista empirico – uno dei principali sti-
moli al miglioramento delle prestazioni individuali e al funzionamen-
to di meccanismi che aiutano il discernimento e la selezione del per-
sonale. Con una piramide ecclesiastica ‘schiacciata’, si tenderà a dive-
nire subito parroci (con dunque un difetto di tirocinio) e molto pro-
babilmente a rimanerlo a lungo, forse per sempre, magari in non più
di uno o due posti per tutta la vita ministeriale. In assenza di altri fat- Il clero diocesano fra vent’anni
tori, il cammino religioso personale, gli stimoli e i riconoscimenti
anche semplicemente pastorali potrebbero essere cercati dal singolo
sacerdote sempre più spesso in altre esperienze ecclesiali. Queste ulti-
me potrebbero essere vissute come la parte viva del proprio ministe-
ro in alternativa pratica alla routine parrocchiale e diocesana. La
variazione delle quantità di clero diocesano disponibile pone seri pro-
blemi di ristrutturazione, o meno, della rete territoriale (orizzontale)
e dell’articolazione gerarchica (staff e servizi) della ‘piramide’ eccle-
siastica. Ovviamente, una volta posta la condizione della copertura
effettiva dei ruoli previsti, il decremento numerico non dice certo il
come, ma altrettanto certamente impone il che (i ruoli previsti venga-
no ridotti).

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La compresenza di due altre dinamiche genera una vera e propria


emergenza per la struttura delle organizzazioni ecclesiastiche.
Abbiamo visto che l’innalzamento dell’età media all’ordinazione, sen-
sibile in generale e decisamente elevato in alcune aree del paese,
esprime la diffusione di pratiche di reclutamento non convenzionali.
Spesso, in questi ultimi anni, intraprendono la preparazione al sacer-
dozio individui con una formazione insufficiente o comunque non
umanistica, quale è quella normalmente supposta dalla fase finale
della formazione al ministero. Per altro verso, la presenza crescente di
clero straniero crea una condizione, almeno in partenza, di estraneità
culturale di questi individui rispetto ai fedeli al servizio dei quali sono
posti. Entrambe le dinamiche pongono alla struttura ecclesiastica del
clero diocesano problemi nuovi (certamente, in linea di principio non
insolubili) in termini di formazione e di addestramento al sacerdozio,
problemi di elevata difficoltà e complessità. A queste nuove e più
recenti emergenze formative andrebbe aggiunta un’altra, più profon-
da e ormai consolidata. Il Concilio Vaticano II aveva riconosciuto e
consacrato ufficialmente la necessità di un ‘aggiornamento’ nella
Chiesa. Con gli anni, la coscienza della portata di questo ‘aggiorna-
mento’ non si è fatta meno lieve, mentre anzi l’accelerazione del pro-
cesso di modernizzazione sociale e culturale conosceva nuove accen-
tuazioni. La Chiesa italiana si trova oggi di fronte a un bivio solo
apparente. Per tutte queste ragioni, o aumenta sensibilmente l’inve-
stimento nella formazione del clero e fatalmente anche nella selezio-
ne dei candidati al presbiterato, oppure si rinuncia a fare ancora del
clero (anche) un gruppo di specialisti nel sapere religioso, capaci di
presiedere sempre nuovamente alla sua trasmissione, ricomprensione
e riformulazione. In discussione non è in questo caso l’accesso di non
sacerdoti al sapere religioso della Chiesa cattolica. Semmai, a essere a
rischio è il fatto che tra gli esperti di questo sapere religioso continui-
no a esserci ancora, in misura non marginale e in forma non casuale,
anche dei preti. Dal punto di vista sociologico si può solo dire che
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questa è una di quelle competenze che concorre in misura non suffi-


ciente ma certamente necessaria a fare di un qualsiasi protagonista
dell’offerta religiosa un sacerdote (e non un mago, ad esempio), e – di
conseguenza – a fare dell’agenzia che promuove questa particolare
offerta religiosa una ‘chiesa’ (e non una sètta o un culto o un movi-
mento).

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Le questioni appena toccate hanno un loro non unico, ma partico-


larmente importante, punto di convergenza in quella che potremo
chiamare la vertenza-parrocchia. La parrocchia italiana, principale isti-
tuzione socioreligiosa del panorama nazionale a partire dal Novecento,
non è sicuramente in imminente pericolo di sparizione. Piuttosto, si
trova nell’impossibilità di permanere quella che è solo per la spinta di
inerzie e automatismi ormai non più attivi. L’istituzione parrocchiale si
dovrà comunque trasformare: sia che a essa si vogliano attribuire
nuove funzioni sia che si vogliano ancora assegnare quelle canoniche.
Semplicemente, non possiamo dire se tale trasformazione porrà capo
a qualcosa di funzionalmente equivalente o ad altro. La questione
merita grande attenzione, e non solo intraecclesiale. Infatti, la parroc-
chia è parte non secondaria anche del tessuto sociale italiano più in
generale, e non solo di una sua più o meno immaginaria ‘porzione reli-
giosa’. Del diffuso apprezzamento da parte degli italiani della presen-
za ecclesiale la parrocchia è la principale ragione, soggettiva e oggetti-
va. Se le autorità ecclesiastiche intendessero sostituire o ridimensiona-
re l’istituzione parrocchiale, come e più di quanto sta di fatto avve-
nendo, a vantaggio di istituzioni non territoriali e meno inclusive,
lasciando più spazio al congregazionalismo, al movimentismo e al bri-
colage religioso ‘intracattolico’, il minimo che c’è da aspettarsi è che
queste stesse autorità si troverebbero di conseguenza nella necessità di
dover rinegoziare anche il ‘patto’ in vigore tra la Chiesa e tutta la
società italiana (opinione pubblica e istituzioni non religiose). Non è
assolutamente certo in anticipo che l’eventuale nuovo patto abbia il
successo che quello novecentesco ha ancora, tanto in termini di con- Il clero diocesano fra vent’anni
corso religioso alla coesione sociale e allo sviluppo sociale e civile,
quanto in termini di larga identificazione religiosa nel cattolicesimo.
Ancora una volta, la necessità che qualcosa cambi è incontrovertibile,
ma questo non dètta la direzione del cambiamento, essa resta ampia-
mente entro la responsabilità di chi vi concorre.

Il crescente rilievo delle politiche di reclutamento


I risultati ottenuti, e in particolare l’innalzamento dell’età media
all’ordinazione, sembrano porre in ulteriore rilievo l’importanza delle
politiche di reclutamento di nuovo clero diocesano (altrimenti dette
‘pastorale vocazionale’, ‘pastorale giovanile’, e affini). La componen-

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te ‘attiva’ di tali politiche appare oggi più importante che in passato,


e forse in qualche caso persino di maggiore successo.
Almeno da un punto di vista sociologico vi è una importante diffe-
renza tra le ‘vocazioni giovanili’ e quelle manifestatesi in età più avan-
zata. Nelle prime è relativamente maggiore l’influenza della socializ-
zazione infantile e adolescenziale, nelle seconde è relativamente mag-
giore il peso di una scelta razionale adulta. Ecco il punto: per defini-
zione, in quest’ultimo caso conta di più il ruolo concretamente gioca-
to dall’offerta, ovvero contano di più le politiche ‘attive’ di pastorale
giovanile e di pastorale vocazionale. Esse – in questo secondo caso –
non sono chiamate al limite semplicemente ad accogliere domande
‘vocazionali’ già semi-formate, ma hanno un ruolo importante nel
farle affiorare e nel sostenerne il riconoscimento e la maturazione.
Non si dimentichi, inoltre, che parlare di politiche attive di reclu-
tamento significa parlare di qualcosa che deve essere almeno in parte
ogni volta ‘inventato’, che può avere molte forme e varie combinazio-
ni tra queste, che entro certi limiti può essere esportato (da una dio-
cesi a un’altra, da una regione pastorale a un’altra), che può essere
oggetto di controllo anche empirico e di correzione. Certamente, que-
sta non è una situazione nuova in Italia. Ovviamente, una condizione
del genere presenta, o meglio accentua, anche fattori di rischio.
Possono apparire di grande successo politiche che, nei tempi medi,
rivelano aver portato poca o nessuna attenzione alla qualità. Possono
cessare di funzionare politiche che per un certo tratto hanno funzio-
nato (almeno in un certo luogo). Per esempio, i dati successivi al 2000
potrebbero mostrare, ma serve un maggiore tempo di verifica, che
una pastorale giovanile, fatta molto, negli ultimi lustri, di ‘eventi’ e di
‘movimenti’, se mai ne ha avuta, abbia cessato di produrre una ‘spin-
ta propulsiva’ anche solo quantitativa sui processi di reclutamento del
clero diocesano in Italia.
Ciò che inoltre risulta chiaro, adesso per una ragione in più, è che
il massiccio ricorso all’importazione di clero, ieri da altre aree
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dell’Italia e oggi dall’estero, comporta in parte non piccola la tenden-


za alla rinuncia preventiva di ricerca e di pratica di politiche attive di
reclutamento. Per questa via, la rinuncia alle politiche di reclutamen-
to e il ricorso all’importazione di clero generano sempre meno sacer-
doti autoctoni e – per effetto della etinicizzazione della professione –
producono un nuovo fattore di deistituzionalizzazione socioculturale

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della figura del sacerdote, e così abbassano ulteriormente le probabi-


lità di opzione per il ministero supportate da processi di prima socia-
lizzazione.
Questa tendenza va sottolineata anche perché costituisce un’ano-
malia. Quasi a compimento del disegno novecentesco che puntava
alla creazione di un cattolicesimo nazionale italiano, capace di supe-
rare il mosaico dei cattolicesimi preunitari, per tanti aspetti possiamo
osservare effettivamente una riduzione almeno relativa delle differen-
ze subnazionali. Tuttavia, una marcata eccezione è costituita proprio
dal caso delle politiche di reclutamento cui le diverse diocesi e le
diverse regioni pastorali ricorrono. L’adozione o il rifiuto di politiche
di importazione del clero distingue ancora molto nettamente un grup-
po di regioni pastorali, soprattutto quelle dell’Italia centrale, dalle
altre. Per le ragioni di cui s’è appena detto, e per altre, ci sono così le
condizioni per cui si formi una frattura subnazionale dai connotati
molto forti e dagli esiti marcati e di lungo periodo.

1 Il nucleo principale del gruppo di ricerca è stato costituito, insieme a chi scrive,

da Stefano Molina della Fondazione Agnelli. Tra i molteplici contributi vanno ricorda-
ti, per lo meno, quello di Marco Demarie, direttore della FGA, e quello di Cesare Testa,
direttore generale dell’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero.

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