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GOFFREDO SCIUBBA

FAMIGLIA E CHIESA
VERSO UNA TEOLOGIA DELLA FAMIGLIA
A PARTIRE DAL MAGISTERO
DEL CONCILIO VATICANO II.
A vent’anni di distanza dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II,
l’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II “Familiaris Consortio” attirò sulla
famiglia l’attenzione della Chiesa universale e di tutti gli osservatori attenti alla
realtà del mondo di oggi. Essa venne indicata come uno degli aspetti più
fondamentali per il futuro della società civile ed ecclesiale. L’autorevole
documento pontificio si presenta ricchissimo dal punto di vista dottrinale,
profondo e originale, e intende collocarsi nell’alveo dell’ “aggiornamento” della
Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II, per una sua progressiva attuazione a
tutti i livelli.
A questo punto è sorta spontanea una domanda: cosa hanno detto i Padri e i
documenti conciliari sulla famiglia? Quanto di ciò che si legge nella “Familiaris
Consortio” è frutto di una riflessione nuova e originale, e quanto è invece
soltanto un’esplicitazione del magistero precedente? Questo è stato lo stimolo
che ha avviato la ricerca. Ben presto ci siamo resi conto che la teologia della
famiglia nel Vaticano II era più ricca di quanto si potesse supporre: essa era
purtroppo frammentata in vari testi e comparve a più riprese nei dibattiti sinodali
a lunghi intervalli di tempo; eppure essa era tutta pervasa da una nota
caratteristica fondamentale, quella ecclesiologica.
Da questa osservazione è scaturita l’idea di arricchire lo studio riguardante
l’insegnamento del Vaticano II sulla famiglia cristiana presentata come “Chiesa
domestica”, con una seconda parte concernente la Chiesa, che i Padri conciliari
ripetutamente e da diverse prospettive presentano come una vera e propria
famiglia, in cui tutti i figli dell’unico Padre sono riuniti da un amore
scambievole. Questa realtà nella Chiesa è un dato ontologico, ma molto spesso
anche un compito, che provoca la responsabilità e la creatività dei Pastori e di
tutti i fedeli, ma soprattutto delle famiglie cristiane, che sentendosi
profondamente partecipi della vita ecclesiale le trasfondono progressivamente
uno stile genuinamente familiare.
Non tutto il ricchissimo materiale raccolto ha potuto essere qui
adeguatamente illustrato. Auspichiamo comunque che questo studio contribuisca
ad illuminare di luce nuova ciò che sulla famiglia e sui compiti ad essa spettanti
nel mondo contemporaneo affermano i documenti dell’ultima assise conciliare,
nel loro immutato ed attualissimo valore del Magistero solenne ed universale.

Goffredo Sciubba
La tematica della famiglia, e tutte le questioni ad essa collegate, occupa una
grande parte della produzione teologica attuale, sia a livello specialistico, sia
pure a livello divulgativo e catechistico. In effetti, già il magistero del Concilio
Vaticano II vi aveva dedicato un posto di rilievo, come apparirà molto
chiaramente nelle pagine che seguono. Eppure sembra che questi insegnamenti e
questi valori stentino a trovare pratica attuazione nella programmazione
pastorale ordinaria e nella mentalità comune dei cristiani, soprattutto nei Paesi
occidentali, economicamente avanzati.
La Chiesa postconciliare ha fatto e sta facendo un grande sforzo per una
promozione corretta e integrale della famiglia cristiana. Basti pensare al Sinodo
dei Vescovi, che nel 1980 ha dedicato i suoi lavori al teme de “I compiti della
famiglia cristiana nel mondo contemporaneo”, e all’Esortazione Apostolica che
ne è seguita, la “Familiaris Consortio”. Anche le varie Conferenze Episcopali
nazionali hanno costituito molto spesso delle Commissioni specifiche ed hanno
rivolto la loro attenzione a questo argomento, emanando documenti ufficiali (si
pensi ai documenti della CEI “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” e
“Comunione e comunità nella Chiesa domestica”), organizzando convegni e
favorendo studi e sperimentazioni. Rimane però vero che una pastorale accorta e
incisiva ha bisogno della riflessione teologica che la illumini, ne espliciti gli
scopi e le motivazioni, la giustifichi. Allora essa sarà in grado di fare le scelte
più adeguate, di individuare le modalità operative preferibili e di attuare di fatto
tutto questo, avendo ben chiara la linea di fondo da seguire, e guidata dalla
profonda convinzione della validità delle motivazioni che la muovono.
La teologia della famiglia è una ramificazione molto giovane delle scienze
sacre; o per lo meno si può dire che solo in tempi molto recenti essa ha subito un
rapido processo di maturazione e sviluppo. Nel postconcilio la famiglia è stata
fatta oggetto di studio da parte di molte discipline scientifiche, dalla psicologia
alla sociologia, dal diritto alla morale, ma quasi per nulla di essa si è occupata la
teologia dogmatica. In un contributo apparso in un volume del 1954, padre de
Lestapis, sintetizzando le linee di tendenza osservate nel Magistero occidentale
sulla famiglia fino a quell’epoca, scrisse:
“S’il fallait d’une phrase suggérer l’évolution accomplie depuis deux cents
ans par la pensée exprimée de l’Eglise Catholique en matière familiale, on
pourrait certainement caractériser la chose par ces mots: de la défense de la
famille à sa promotion; de l’apologétique à la spiritualità; de la morale à la
mystique; de la religion du devoir familial à la religion de l’amour conjugal; de
la famille société d’autorité à la famille communauté d’amour; de l’épouse
“mineure” à l’épouse “égale en dignité”; de la procreation instinctive à la
“régulation de naissances” à base de charité et de voeux créateur; bref, de la
famille chose à la famille ouverte”.
In realtà, fino ad un periodo che storicamente possiamo far coincidere
approssimativamente con l’inizio del Concilio Vaticano II, con il termine di
famiglia si designava una realtà molto diversa da ciò che si intende oggi. Questa
trasformazione di significato venne determinata anche dalla stessa evoluzione
culturale verificatasi nella società, particolarmente nella seconda metà degli anni
’60. Così la teologia della famiglia si limitava a considerare la coppia dei
coniugi, la nuova realtà giuridica e morale scaturita dal sacramento del
matrimonio, i diritti che ad essa spettano di fronte allo Stato civile, i doveri cui
deve rimanere fedele in ossequio alla volontà di Cristo. Questa problematica è
quindi affrontata in stretta dipendenza dalla sacramentaria e dalla dottrina
classica “De matrimonio”.
Alla riflessione teologica si presenta dunque oggi un compito nuovo, quello
di approfondire e chiarificare maggiormente e di presentare in modo più
articolato, nel quadro ampio della verità cristiana, la realtà della famiglia
composta di genitori e figli, presenti responsabilmente e attivamente alla vita
della Chiesa in quanto comunità cristiana unitaria e irripetibile nel corpo
ecclesiale.
Questa nuova coscienza della straordinaria dignità ecclesiale di cui gode la
famiglia cristiana e dei compiti importantissimi che le competono, è venuta
emergendo in modo determinante nel corso dell’ultimo Concilio Ecumenico. Esso
può essere considerato quasi uno spartiacque fra due diverse “culture” della
famiglia, due diversi modi di intenderne l’importanza e il ruolo.
Conviene ora accostare direttamente le fonti, a partire dai documenti del
periodo ante preparatorio, e condurre un lavoro di analisi, storica ed esegetica a
un tempo, per arrivare a conoscere da vicino la dottrina conciliare sulla famiglia,
tenendo presente anche le varie fasi del suo non sempre lineare sviluppo.

Il periodo ante preparatorio del Concilio Vaticano II.

Il solenne annuncio dato dal Santo Padre Giovanni XXIII il 25 dicembre


1961 nella basilica di S. Paolo fuori le Mura di indire un nuovo Concilio della
Chiesa universale, metteva in moto una gigantesca macchina organizzativa. Per
volere del papa stesso, il Cardinale Segretario di Stato inviò ai vescovi di tutto il
mondo, residenziali e titolari, ai Superiori Maggiori dei più importanti Ordini e
Congregazioni religiose e alle Università Cattoliche, una lettera, in cui si
chiedevano indicazioni circa gli argomenti che si sarebbe desiderato affrontare
nel corso delle Congregazioni Generali in Vaticano. Da parte degli organi
centrali fu lasciata la massima libertà ad ognuno, e ciò accresce il nostro
interesse per questa ingente mole di scritti, che fu pubblicata dall’editrice
Poliglotta Vaticana in 15 volumi, più di 7500 pagine in tutto. Il valore dei singoli
contributi e il loro tenore sono estremamente vari, e per lo più essi rispecchiano
da una parte la formazione teologico-spirituale del loro autore (e dei suoi
collaboratori), dall’altra parte fanno trasparire le diverse situazioni sociali,
politiche, ecclesiali, culturali, proprie delle varie aree del mondo, in quel
particolare momento storico.
In questa ampia raccolta di interventi, sono 37 quelli che hanno almeno un
fugace accenno ai problemi della famiglia e del matrimonio. Di questi, una
fortissima maggioranza (trenta) è di origine europea: 11 sono di presuli italiani,
4 tedeschi, 6 spagnoli…Solo cinque arrivano da Oltre Oceano (quattro
dall’America Latina) e uno dall’Africa. Questo fatto, sorprendente sulle prime,
data la forte crisi che l’istituto familiare soffre, come tutti riconoscono,
soprattutto nei Paesi più ricchi e tecnologicamente avanzati, può essere almeno
in parte giustificato. E’ proprio la crisi della famiglia che rende i vescovi europei
sensibili a questo problema e desiderosi di trovarvi un rimedio efficace. Nei
Paesi cosiddetti del Terzo Mondo poi, sembra risentirsi anche in seno alla Chiesa
una certa dipendenza culturale dall’Europa, una minore creatività, forse un
sentimento psicologico di inferiorità. Solo i vescovi latino-americani, di fronte
all’impellente necessità di consolidare le fondamenta della Chiesa sviluppata in
modo tanto promettente, si sentono incoraggiati a proporre il tema del
matrimonio e famiglia e della loro promozione come uno dei più fondamentali.
Un primo gruppo di interventi, piuttosto consistente, affronta i problemi
morali. Si tratta di un punto scottante, sentito con urgenza dagli uomini del
nostro secolo, che spesso vediamo entrare in conflitto con la Chiesa proprio su
questo terreno. Su tutto questo il Concilio doveva lungamente rivolgere la sua
attenzione, soprattutto nelle fasi di elaborazione della Costituzione Pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Il vescovo ausiliare di Barcellona
Mons. Jubany Arnau ritiene che a motivo della fondamentale importanza della
famiglia ai nostri giorni, sarebbe molto opportuno esporre la dottrina sugli
obblighi morali che devono ordinare e difendere la vita coniugale e familiare.
Parole simili usano anche Mons. Vanni, vescovo di Soana e Pitiliano , e
Mons. Russo, vescovo di Acireale, il quale chiede che vengano discussi e
autorevolmente risolti i problemi odierni concernenti il matrimonio, come quelli
della sua santità e del suo fine, e anche della generazione ed educazione dei figli.
Ci sembra che qui trovi espressione un disagio diffuso, una situazione di
crisi che sfida la Chiesa; non c’è ancora lo sforzo di tracciare una possibile pista
di lavoro in vista di scelte concrete e positive in senso pastorale; non c’è ancora
lo sforzo di risalire alle cause remote, per cui sembrerebbe sufficiente ribadire
nuovamente con chiarezza e forza l’insegnamento morale tradizionale della
Chiesa cattolica.
Anche la santità specifica della vita matrimoniale è intesa da alcuni, in
questo periodo ibero rumatorio, in senso prevalentemente moralistico. Uno dei
temi che veniva già sentito come molto importante era quello dei diversi fini del
matrimonio. Così scrive l’arcivescovo portoghese di Coimbra, Mons. Sena de
Oliveira:
“ Velim ut in re morali accuratim studeretur et forsitan
definiretur quod, praeter finem primarium seu specificum
matrimonii, id est procreationem, sunt alii fines, qui
matrimonium iustificant, dummodo ne excludatur finis
specificus. Nam, ut constat, ita est magna confusio in
mentibus, odierni temporibus, ut quidam censeant ut senes et
steriles matrimonium vetandum esset, quod idem est ac
asserere Ecclesiam hactenus erravisse in tali ac tam gravi
materia”.
Anche Mons. Ferrari, vescovo di Monopoli, dà rilievo nel suo intervento a
questo tipo di problematica. Egli ritiene opportuno che venga chiarito il senso
profondo della fecondità umana e soprannaturale , anche in riferimento alla
dottrina sui diversi fini del matrimonio, per favorire il più largamente possibile
una maturazione piena, una crescita integrale della vita spirituale dei coniugi
cristiani.
“ Fine primario et novissimo procreationis ibero rum ac
educationis in tuto posito, quid in fine immediato et
secondario adiumento sit ad coniugum humanam, spiritualem
et supernaturalem formationem in lucem proferre bonum
videtur, imprimis ob amoris aequa mente comprehensi et
supernaturaliter elevati virtutem ad homines liberandos ab
immoderato amore sui, ad animi magnitudinem inculcandam,
ad eosdem in vitae comunione et in humana spiritualique
delectatione locupletandos”.
Alcuni ambienti, in seno alla Chiesa cattolica stessa, mettevano in dubbio la
dottrina tradizionale che affermava per il matrimonio cristiano un fine primario,
la procreazione dei figli e la loro conseguente educazione per la continua
crescita del Corpo Mistico di Cristo, e altri fini secondari e subordinati, come il
rimedio alla concupiscenza della carne, il mutuo aiuto dei coniugi e la
maturazione di un profondo amore coniugale e unitivo. Mons. Novoa Fuente,
ausiliare del vescovo di Santiago de Compostela , Mons. Minerva e altri
chiedono una solenne definizione che confermi il perenne insegnamento
cattolico. Mons. Alfrink, futuro cardinale, arcivescovo di Utrecht, si collocò in
una posizione intermedia, dichiarandosi favorevole a una riflessione
sull’argomento che tenesse conto anche dell’esigenza di aggiornamento, ossia di
adattamento alla mutata mentalità odierna.
“ Deliberetur in Concilio, an matrimonii fines ali bus verbis
exprimi posint, quae magis rationem habeant eorum quae
psychologia nostro tempore docet, qua eque melius congruant
cum mente fidelium hodierna”.
Di fronte alla situazione indubitabilmente difficile che l’istituto familiare e la
vita morale coniugale attraversa nelle attuali circostanze storiche, vi è chi non si
limita ad invocare un Magistero più definito e incisivo, ma crede nella efficacia
di metodi più punitivi e di carattere censorio.
Non manca però chi si rende conto che il problema fondamentale si colloca a
livello dogmatico, nel senso che prima di imporre un comportamento specifico,
accompagnandolo magari con minacce e castighi in caso di violazione, è
necessario che la Chiesa stessa si interroghi sui fondamenti teologici, dottrinali,
del proprio insegnamento morale, per purificarlo da eventuali sedimentazioni
spurie dovute a contingenze storiche, e per riesprimerlo in una forma più
consona alle mutate condizioni di cita e di pensiero.
“ Doctrinam circa sacramentum matrimonii complentes,
reiciantur modernae doctrinae quae sive eius
indissolubilitatem, sive eius sanctitatem, sive eius finem
directe vel indirecte infitiantur”.
In questa stessa linea si collocano non pochi vescovi: l’arcivescovo
dell’Aquila Mons. Stella , il vescovo di Verona Mons. Carraro ; Mons. Drzazga,
ausiliare del Primate di Polonia, il quale pensa al gran numero di divorzi dovuti
ad un’insufficiente catechesi; e Mons. Bolte, vescovo tedesco di Fulda, che
sottolinea il valore dell’Enciclica “Casti Connubii”.
Avvicinandoci progressivamente alla prospettiva che caratterizza la nostra
ricerca, vediamo spuntare qua e là, timidamente sulle prime, l’esigenza di
approfondire anche a livello teoretico i rapporti tra Chiesa e famiglia. Il
contributo di Mons. Allorio, vescovo di Pavia, è di carattere pastorale, ma
sottende una riflessione anche teologica:
“Curet Concilium:
1. Ecclesiam resentare:
(…) c) quoad suas relations necessaria set essentiales circa
momenta omnia vitae individuae, vitae familiari set vitae
socialis (respublica, schola, oeconomia familiaris).
(…) 3. Doctrinam circa matrimonium severius enuntire et
enucleare, // intuit profundioris spiritualitatis in vita familiari
adquirenda et fruenda”.
Solo apparentemente secondario è il problema suscitato da Mons. Ferrari,
vescovo di Monopoli; il concetto di santità del matrimonio cristiano è qui
strettamente connesso con la grazia sacramentale, e quindi perde quella
connotazione fortemente moralistica che abbiamo visto così comune negli
interventi precedenti. In considerazione delle attuali necessità – afferma il
presule -, sembra di non poca importanza dire in modo semplice e chiaro se gli
sposi sono ministri della grazia sacramentale solo nella celebrazione del
matrimonio, o per tutta la durata della vita coniugale, cioè, ad esempio, ogni
volta che viene rinnovato il consenso con un atto di unione e di mutua
donazione. Posto così, il problema della santità del matrimonio non è più solo
confinato all’osservanza di alcune “regole” o all’”opus operatus”, che culmina
ma allo stesso tempo si esaurisce nella celebrazione liturgica. Ci si domanda
invece qual è il ruolo e l’importanza dell’”opus operantis”, e viene così chiamata
in causa la pastorale familiare, la formazione spirituale delle famiglie cristiane, e
anche l’intera vita familiare in tutto il suo arco di sviluppo. Se il sacramento del
matrimonio riguarda non solo il momento delle nozze ma tutta la vita dei
coniugi, esso li interpella anche nel loro essere genitori e quindi educatori.
In alcuni Padri sembra già affacciarsi, fin da questo momento, una
distinzione che si rivelerà sempre più fondamentale, quella fra famiglia, intesa in
senso ampio e generale, e famiglia cristiana. Interessanti in questo senso sono
soprattutto gli interventi di due vescovi polacchi. Con parole assai simili, essi
collocano il tema della promozione della famiglia cristiana al primo posto fra le
“Questioni sociali”. Mons. Blecharczyk, ausiliare del vescovo di Tarnόw,
desidera che la famiglia cristiana fondata soprannaturalmente sul sacramento del
matrimonio, ottenga un posto più preciso e di maggior onore, e nel Codice di
Diritto Canonico e nella vita ecclesiale in generale. Questa richiesta è
giustificata dalla constatazione che la famiglia cristiana, fonte della vita sociale e
religiosa, subisce un preoccupante processo di degradazione e di lenta
distruzione, in molte parti del mondo, ma soprattutto nei Paesi ricchi o sottoposti
a un regime di rigido controllo economico centralizzato. Il legame interno della
famiglia, i costumi tradizionali, l’importanza e il valore della vita familiare
diminuiscono sempre più e talvolta si dissolvono. I genitori che spessissimo
lavorano ambedue negli uffici pubblici o nelle fabbriche, vivono per lo più al di
fuori della famiglia, non possono dedicarsi ai figli, e quindi li affidano, per le
cure e per l’educazione, ad altre persone o istituti pubblici. Il lavoro, che
dovrebbe portare alla famiglia una benedizione, spesso le apporta un grave
danno e una perdita irreparabile, che conseguentemente ridonda in modo
negativo sulla vita di tutta la società, creando cioè non uomini e donne dotati di
una personalità matura, ma quasi degli “uomini-macchina”.
“Catholica doctrina de officiis familiae christianae iam
quidem satis nota, a Concilio Oecumenico denuo solemniter
in memoriam revocari debet; parentibusque gravitas
responsabilitatis pro suis filiis, pro futuro statu societatis
humanae necnon Ecclesiae Catholicae serio inculcetur.
Familia cristiana odierni temporibus – ut patet – spiritu ac
vigore apostolico imbuatur necesse est”.
Assume qui già un considerevole grado di esplicitazione la connessione
esistente fra la vita della famiglia autenticamente cristiana e il mistero di grazia
soggiacente, e la realtà della Chiesa. La crisi della famiglia, così grave
nell’attuale momento storico, viene attentamente considerata e studiata: essa
sfida la Chiesa ad una presenza attiva e forte in difesa di questa che non è solo
un’istituzione sociale, ma una comunità-cardine, di primaria importanza per la
stessa vita ecclesiale. Questo non toglie che la famiglia, per poter essere
veramente se stessa, debba crescere nella sua capacità di dono. Ciò che vale per
ogni singolo cristiano, vale anche per la famiglia: la coscienza della propria fede
come un dono grande fatto da Dio alla nostra umanità caduta, apre alla
riconoscenza verso Dio stesso e alla comunicazione-condivisione con gli altri.
Non si tratta di voci isolate. In alcuni contributi dei vescovi, l’esigenza della
formazione e della responsabile collaborazione delle famiglie cristiane
all’azione apostolica della Chiesa balza in primo piano. Così scrive Mons.
Théas, vescovo di Tarbes e Lourdes, a riguardo dei laici:
“Votis expetitur ut Concilium Oecumenicum operam det
quaestionibus quae circa domesticam familiam oriuntur, circa
eius rationem spiritual iter vivendi, et circa modum vitam
Christianam extra limina diffunfendi”.
L’estrema concisione di questi documenti non consente purtroppo ai singoli
autori di esprimere più diffusamente e chiaramente il loro pensiero. Tuttavia è
possibile scorgere anche in queste parole del presule francese i presupposti di
una trattazione più attenta e approfondita sui rapporti famiglia cristiana-Chiesa.
Solo per la sua partecipazione alla fede comune e al mistero di salvezza di cui la
Chiesa è oggetto e depositaria, la famiglia cristiana è abilitata ad una missione
apostolica sempre in armonia con l’autorità costituita da Cristo stesso.
Mons. Piérard, Vicari Apostolico di Beni (Congo Belga), auspica che una
maggiore efficacia apostolica sia raggiunta attraverso la costituzione di
associazioni, di carattere anche familiare, in cui l’emulazione spinge all’attività
concreta, ma anche ad un più intenso sforzo verso la perfezione cristiana.
Uno degli interventi più interessanti di questo periodo antepreparatorio, dal
punto di vista di questa ricerca, è quello del vescovo spagnolo di León, Mons.
Almarcha Hernández. Egli afferma che la famiglia cristiana è un autentico
“organo” del Corpo Mistico. Siamo ancora ben lontani dal calibrare le parole, in
base all’esigenza di specificarne il più possibile il contenuto teologico.
Nondimeno, la verità espressa qui chiaramente rimane.
“Momentum familiae ut fondamentale organum Corporis
Mystici in ordine ad communicationem, conservationem et
propagationem vitae christianae quam maxime extollere,
eiusdem defensionem contra doctrinas et motus hodiernus,
qui institutionem familiarem dissolvere conantur, procurare”.
La sottolineatura circa l’importanza della famiglia per la trasmissione della
vita cristiana, e l’invito ad essa rivolto di collaborare attivamente e
responsabilmente nell’attività apostolica, trovano la loro più immediata e
fondamentale applicazione nel dovere dei genitori di educare i proprio figli,
ossia di svilupparne l’umanità in senso integrale. Mons. Pohlschneider, vescovo
di Aquisgrana, chiede che il prossimo Concilio Ecumenico riprenda e ribadisca
l’insegnamento della Chiesa cattolica circa l’obbligo divino spettante ai genitori
di educare cristianamente i figli, proprio in forza del sacramento del matrimonio.
Egli condensa in due righe una verità profondissima: il dovere educativo dei
genitori non è solo di diritto naturale e di interesse meramente sociale, ma
affonda le radici per i cristiani fin nel terreno sacramentale. Non si tratta dunque
di un precetto semplicemente morale, ma radicato nella fede cristiana e nella
dottrina della Chiesa: la grazia del matrimonio abilita misteriosamente i genitori
ad agire, nei confronti dei figli, quali membri qualificati della comunità
ecclesiale, ad annunciare loro il Vangelo, a comunicare la fede con le parole e
con l’esempio di tutta la loro vita.
Mons. Shvoy, vescovo ungherese di Székesfehérvàr, in base alla difficile e
dolorosa situazione del suo Paese, ritiene assolutamente necessario che il
prossimo Concilio affermi con forza l’esigenza imprescindibile dell’educazione
cristiana dei figli da parte dei loro genitori, e rivendichi solennemente il diritto e
la libertà della Chiesa nell’espletamento della missione ricevuta dal suo Divino
Fondatore. Questa missione la si svolge anche, nel caso specifico, formando le
coscienze dei giovani e dei fanciulli cristianamente, radicandoli nella fede
cattolica e nella carità, e servendosi per questo delle scuole, statali e cattoliche, e
dei legittimi movimenti ecclesiali. L’educazione cristiana dei piccoli è non solo
un obbligo, ma anche un diritto irrinunciabile, sia per la famiglia – che dona
innanzi tutto la vita fisica, e la vita soprannaturale in quanto partecipe della
fecondità della Chiesa – sia per la comunità ecclesiale più vasta, in forza della
sua maternità spirituale, dalla quale vengono castamente generati a Dio sempre
nuovi figli.
Un ultimo gruppo di contributi si colloca su un versante più decisamente
pastorale. Ovviamente l’intento pastorale era sempre presente nella mente dei
vescovi almeno come orizzonte ultimo. Talvolta però assume la forma anche di
proposte concrete come nel caso di Mons. Gremigni, vescovo di Novara. Egli è
del parere che la dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio – come unico
e stabile fondamento della famiglia cristiana – è quasi ignorata dalla
maggioranza dei fedeli, cosicchè serpeggiano opinioni errate – soprattutto a
riguardo del divorzio - , che sovvertono dalle fondamenta la società domestica.
“Quare perutile, immo necessarium, ducitur condere
“Summulam familiae christianae” quae munus parentum
maxime circa fidem sacramenti servandam atque filiorum
procreationem atque educationem declaret et com//mendet,
qua eque a parochis in ecclesia statutis temporibus et a
sacerdoti bus ad hoc deputatis in congregationibus sodalium
Associationum ab Actione Catholica vel aliarum piarum
societatum frequenter et diligenter explanentur, ita ut de
doctrina illa in processiculo a parocho conficiendo, antequam
matrimonium contrahatur, interrogari valeant” .
Mons. Motolese, Amministratore Apostolico di Taranto, individua, dal canto
suo, i tre punti più scottanti per un’efficace azione pastorale per la promozione
della famiglia: la difesa della sua santità contro ogni tentativo di introdurre uno
stile di vita profano e antievangelico; la riaffermazione dell’esigenza dell’unità e
dell’indissolubilità del matrimonio cristiano; la fedeltà dei genitori al loro
dovere educativo e la rivendicazione del loro diritto ad una libera scelta della
scuola e del tipo di educazione da impartire ai propri figli.
Ma il contributo senz’altro più consistente e articolato sull’argomento che
stiamo esaminando, è quello del vescovo ausiliare di Monaco di Baviera, Mons.
Neuhäusler. Egli individua tre ambiti di maggior interesse: la pastorale, la
spiritualità, la dottrina morale delle famiglie e dei coniugi cristiani; su questi
punti soprattutto si attendono dal Concilio Ecumenico indicazioni chiare e piste
di lavoro: in senso dottrinale e pastorale, nel campo dell’ascetica e del Diritto
Canonico. La poliedrica realtà del matrimonio e della famiglia cristiana
richiedono interventi diversificati ma complementari e interrelati. Viene quindi
affermata una verità che deve rimanere fondamentale in questo ambito.
“Sacramento matrimonii, cuius in dispensatione et receptione
sponsus et sponsa sibi invicem instrumentum gratiae divinae
fiunt, conubium//et familiae unitatis sive communio redditur,
quae etiam a cura pastorali respiciatur. In familia princeps
campus apostolatus laico rum situs est”.
A questo punto Mons. Neuhäusler elenca cinque punti che egli ritiene come
maggiormente significativi e quindi meritevoli di essere esplicitati e studiati
nell’ambito dei lavori conciliari. Innanzi tutto la famiglia va riconosciuta come
un’autentica comunità della Chiesa, e quindi bisogna restituirle tutte le funzioni
che essa può espletare, in forza del cosiddetto principio di sussidiarietà.
Secondariamente non bisogna trascurare di prendere in considerazione i
profondi mutamenti cui sono soggetti nell’attuale momento storico la famiglia e
il matrimonio, anche tra i battezzati. Così vengono espressi il terzo e il quarto
punto, di carattere rispettivamente dottrinale e pastorale.
“c) Expresse doceri debebit matrimonii mysterium magnum
scilicet “in Christo et in Ecclesia” (cf. Eph 5,32) pure
scnctaeque comprehendi non posse, nisi etiam mysterium
virginitatis Dei sacrae permagni perpensum et praedicatione
propagatum sit;
d) Praecepta dentur de sponsis ad futurum matrimonium
aliqua forma catechumenatus (sive seminario qui dicitur sive
exercitiis spiritualibus sive doctrina parochiali) instituendis” .
Da ultimo il vescovo tedesco desidera richiamare i pastori ad usare tanta
attenzione e sollecitudine ma anche grande carità e prudenza verso le famiglie
che si trovano in difficoltà o nella prova, come quelle povere e prive di
un’abitazione propria, e quelle turbate dall’opinione di chi amplifica i pericoli di
un’incombente esplosione demografica di dimensioni planetarie e predica la
legittimità di pratiche illecite miranti alla limitazione delle nascite.
Questo intervento assume già in larga parte il tenore che sarà proprio dei
dibattiti in Concilio. Già qui compaiono molti dei temi toccati nella “Gaudium et
Spes” e in altri documenti. Merita di essere rilevato soprattutto come un tema
così delicato venga intenzionalmente trattato nella sezione dedicata alla teologia
pastorale, in conformità al desiderio stesso di Giovanni XXIII che aveva voluto
dare all’assise ecumenica uno scopo precipuamente pastorale. Ciò non toglie che
vi siano espresse considerazioni di valore dogmatico, spunti veramente vivaci,
anche se non si riesce a stabilire fra di esse una connessione solida. Un’idea che
verrà fatta propria da tutti i Padri del Concilio è la fondazione sacramentale della
famiglia cristiana come Chiesa domestica. Omettiamo, per ragioni di brevità,
ulteriori commenti a questo contributo di Mons. Neuhäusler, in quanto il suo
senso e la sua importanza diverranno progressivamente chiari man mano che
procede la nostra ricerca.
Estremamente interessante è l’ultimo gruppo di quattro interventi, che ci
resta da analizzare. Fin dal periodo antepreparatorio del Concilio Vaticano II si
parla della famiglia non solo per esaltarne il ruolo e le possibilità apostoliche o
per lamentarne la decadenza morale, ma anche quale modello di vita ecclesiale.
Se da una parte la famiglia ha bisogno dell’aiuto della Chiesa per poter rimanere
fedele al progetto di Dio nei suoi confronti, e deve essere difesa dai molteplici
errori e dalle forze disgregatrici che attentano alla sua dignità, dall’altra essa è in
grado di esercitare un autentico influsso sulla Chiesa stessa, sul suo stile di vita,
sulla comprensione del suo msitero.
Mons. Arguirre Garcìa, vescovo di Culiacàn, nel Messico, stabilisce un
paragone illuminante tra la parrocchia e una vera famiglia cristiana, e tra il
parroco e il buon padre di famiglia.
“Concilium, rogamus urgeat ut renovetur et foveatur inter
fideles spiritus familiae in paroeciis; nempe ut omnes
agnoscant paroeciam, ut propriam domum et parochum, ut
patrem communem omnium.
Rationes:
a)In hodiernis paroeciis conceptus “familiae” in dies paulatim
evanescit cum magno detrimento apostolatus et disciplinae
paroecialis.
b) In paroeciis ruralibus spes magna affulget hunc effectum
facile obtinendi”.
Si assiste oggi a un progressivo processo di estraneazione, per cui i fedeli
tendono a sentire e vedere la Chiesa, i suoi rappresentanti ufficiali, i luoghi sacri,
come qualcosa di lontano, di sconosciuto, che desta sentimenti di indifferenza o
di alienazione. Questa situazione esige che il dinamismo della comunità
ecclesiale cristiana venga ravvivato, rivitalizzato, e a ciò può portare un
contributo validissimo ogni famiglia che si sforzi di vivere nella fedeltà al suo
carisma specifico, alle esigenze evangeliche, e si apra generosamente alla
collaborazione ecclesiale e ai problemi del mondo contemporaneo.
Sulla stessa linea del vescovo messicano si pone Mons. Franciolini, di
Cortona.
“Ad Cleri et fidelium disciplinam magis fovendam Paroeciae
natura et vita, ut spiritualis familiae, commendetur”.
La Chiesa oggi è sfidata a far proprio lo stile comunitario di vita, l’intimo
rapporto di amore e la sincera spontaneità che brillano in ogni famiglia unita e
credente.
L’influsso benefico di una famiglia cristiana fedele alla sua verità e alla sua
missione, raggiunge, secondo Mons. Vaz Das Neves, le dimensioni dell’umanità.
Secondo il vescovo portoghese di Braganza, oggi si va sempre più diffondendo
un funesto spirito egoistico che spinge gli uomini a preoccuparsi esclusivamente
dei propri interessi anche a danno di quelli altrui. E così il mondo, soggetto a un
influsso satanico, è diviso e lacerato: le singole persone competono fra loro, le
nazioni vanno d’accordo con difficoltà, le famiglie sono spezzate. Perfino entro
la Chiesa penetra questo spirito di contestazione, dovuto senza dubbio alla
mancanza di fede in Dio e di carità.
“Mihi igitur videtur digna quae studeatur planeque
pertractetur doctrina unionis. “Ut sint unum”, optime ab
Evangelista Santo Ianne proposita ita ut doctrina haec
evangelica in omnium cordibus perfectius invalescat, scilicet
Episcopis cum Romano Pontefice, sacerdotibus cum
Episcopis, fidelibus cum paro//chis, subditis cum superioribus
filiisque cum parentibus plene consentientibus”.
Ancora una volta viene autorevolmente espressa la convinzione che
l’apporto della famiglia cristiana alla soluzione o per lo meno al miglioramento
dei problemi che affliggono l’umanità contemporanea può essere determinante.
In conclusione sembra di poter dire che il quadro teologico ed ecclesiale,
sociologico e politico, che i Padri del Concilio Vaticano II si trovano davanti
prima dell’inizio dei lavori preparatori, è un quadro estremamente vario e
diversificato. Nella società umana, accanto ad elementi di speranza, sembrano in
aumento i fattori disgregatori della famiglia: opinioni opposte all’integrale verità
del matrimonio cristiano e all’insegnamento evangelico, profonde
trasformazioni dei tradizionali rapporti sociali e soprattutto dei vincoli familiari
e dei valori su cui essi erano costruiti, e il diffondersi di legislazioni sociali
permissive e di costumi di vita rivoluzionari rispetto alle consuetudini acquisite.
Anche in campo teologico vi è un’ampia gradazione di posizioni. La dottrina
cattolica era stata ripetutamente esposta dai Sommi Pontefici in documenti e
allocuzioni più o meno importanti, ma talvolta faticava ad essere assimilata alla
base. Ciò che preoccupava soprattutto era l’aspetto morale della vita coniugale,
strettamente connesso con la pratica pastorale. Si finiva così spesso per chiudersi
nello stretto cerchio di una sterile ripetizione della dottrina tradizionale, che a
stento poteva trovare giustificazioni evidenti sul piano scritturistico, ma doveva
fare appello a considerazioni antropologiche e alla Tradizione perenne della
Chiesa. Così tra i contributi offerti dai vescovi, dai superiori generali delle
principali congregazioni religiose e dalle Università Teologiche e Cattoliche, in
molti casi il problema del matrimonio e della famiglia non comparve nemmeno.
In alcuni era sentito solo moralisticamente o giuridicamente. Solo in casi
abbastanza sporadici sembrava manifestarsi la coscienza che una più elaborata e
fondata teologia del matrimonio e della famiglia può arricchire l’azione
pastorale della Chiesa. Si era senz’altro ancora lontanissimi dal rendersi conto
che la riflessione dogmatica, biblica, patristica, pastorale sul matrimonio e sulla
famiglia avrebbe rappresentato una grande ricchezza anche per una più acuta
auto-percezione della Chiesa, per una coscienza più penetrante del mistero
stesso del Corpo Mistico di Cristo.
PARTE PRIMA –
FAMIGLIA, CHIESA DOMESTICA

Un primo ambito del Magistero del Concilio Vaticano II a proposito della


famiglia cristiana, potrebbe essere sintetizzato – con tutto ciò che di positivo e di
limitativo comporta di per sé ogni sintesi – sotto il titolo “Famiglia, Chiesa
domestica”. Si tratta certamente di operare una scelta arbitraria, in quanto
durante l’ultima assise ecumenica i diversi temi e problemi attuali concernenti la
famiglia non vennero affrontati esclusivamente nel primo capitolo della seconda
parte della Costituzione Pastorale “Gaudium et Spes”. In quasi tutti i documenti
finali si riscontrano accenni più o meno diretti all’argomento oggetto della
nostra riflessione. Ci dobbiamo quindi necessariamente limitare a prendere in
esame un aspetto parziale, entro un contesto più vasto, e cioè specificatamente e
prioritariamente le affermazioni dottrinali, che definiscono la famiglia in ciò che
è, e solo secondariamente ne determinano i criteri d’azione. In base a questa
scelta è sembrato che una più esplicita connessione fra Chiesa e famiglia fosse
espressa in quei testi, soprattutto, in cui quest’ultima veniva definita “velut
Ecclesia domestica”.
Per esigenze di spazio, e per tentare un’analisi non superficiale dei
documenti, e della dottrina in essi contenuta, concentreremo lo studio sui quattro
di essi che ne parlano più esplicitamente e approfonditamente: “Lumen
Gentium”, “Gravissimum Educationis”, “Apostolicam Actuositatem” e
“Gaudium et Spes”.
Un’ultima premessa riguarda la metodologia che seguiremo. Di ogni
documento verranno individuati il paragrafo e le frasi maggiormente
significative, e di esse si cercherà di tracciare un profilo storico attraverso le
varie fasi redazionali dello schema, e gli interventi dei Padri che riguardavano
quel punto specifico. Questo sguardo diacronico sui documenti del Concilio
Vaticano II, permetterà di individuare il progressivo sviluppo delle idee
fondamentali del Magistero conciliare sulla famiglia. In una seconda fase
dell’analisi, verrà preso in esame specificatamente il testo definitivo per
enuclearne il significato a livello dogmatico e pastorale.
CAPITOLO 1

LA FAMIGLIA CRISTIANA, CELLULA DELLA CHIESA

a) Le fasi di sviluppo della dottrina sulla famiglia nella


Costituzione dogmatica sulla Chiesa.
Seguendo l’ordine cronologico, il primo documento che parla della famiglia
come di una Chiesa domestica è la Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen
Gentium”, ai numeri 11 e 41.
Il vasto materiale raccolto a seguito della consultazione dell’episcopato
mondiale condotta nella fase antepreparatoria del Concilio Ecumenico, fu
affidato ad alcune commissioni preparatorie, con il compito di redigere degli
schemi di lavoro da sottoporre alla discussione dei Padri conciliari. Il testo “De
Ecclesia” fu affidato alla Commissione Teologica, presieduta dal Card.
Ottaviani, prefetto della S. Congregazione del Sant’Uffizio.
La prima stesura, opera di una sottocommissione, non si riferisce alla
famiglia come ad un organo promotore di apostolato o di vita ecclesiale, ma
parla piuttosto di uomini e donne che esercitano il loro apostolato, singolarmente
o in forma associata. La famiglia entra nel discorso come uno dei vari campi in
cui si esercita l’apostolato laicale. Dopo l’approvazione della Commissione
Teologica in sede plenaria, la proposta di schema fu sottoposta all’esame della
Commissione Centrale preparatoria, nel primo semestre del 1962. Non vi fu
approvazione incondizionata, ma anzi la Commissione Teologica fu invitata a
correggere il testo in alcuni punti, secondo indicazioni precise. E’ a questo punto
che fu inserita nel capitolo sesto “De Laicis” una pericope di fondamentale
importanza, in cui si afferma che i laici non sono deputati esclusivamente agli
affari temporali, ma esercitano nella Chiesa un’opera preziosissima. Anche essi,
a loro modo, si dedicano al servizio dell’evangelizzazione e della santificazione.
Nell’eventualità che venissero a mancare i sacerdoti o sotto un regime di
persecuzione, essi possono eseguire i sacri uffici secondo le loro facoltà; molti
di loro, rinunziando a tutto per il regno di Dio, consacrano le loro forze all’opera
apostolica; ognuno insomma deve cooperare all’aumento estensivo ed intensivo
dell’intero Corpo di Cristo.
“Quod praeprimis faciunt coniuges qui se invicem in vita cristiana ex virtute
sacramenti sanctificant, parentes et educatores catholici necnon cuiusvis generis
catechistae, qui ad fidem et gratiam proli vel fratribus suis impertiendam eximio
fructu adlaborant”.
Il titolo stesso del paragrafo, il n. 24, “De vita salutifera Ecclesiae a laicis
active partecipata”, spiega il contesto in cui si colloca questo breve ma
significativo accenno ai coniugi-genitori, cioè il servizio di santificazione
proprio della comunità ecclesiale, partecipato attivamente da tutti i fedeli laici.
Un commento ufficiale destinato ad accompagnare il testo in forma piuttosto
lapidaria spiega che una certa cooperazione incombe a tutti come dovere per la
diffusione della fede e della grazia, secondo le situazioni, e in particolare ai
genitori e agli educatori.
Fin dall’inizio della storia del “De Ecclesia” si respinge una visione
“clericalista” della Chiesa, che relega i laici, e quindi anche la famiglia, ad
essere semplici destinatari della pastorale. La famiglia cristiana beneficia qui
indirettamente della nuova visione ecclesiologica, che, ponendo in primo piano
non più l’ufficio gerarchico ma la comune appartenenza al Popolo di Dio,
evidenzia il posto dei laici nella Chiesa e la loro missione specifica, che si
estende anche all’ufficio di santificazione. E’ da notare come venga messa già
chiaramente in luce, e proprio in un contesto ecclesiologico, la grazia propria del
sacramento del matrimonio, in forza della quale i coniugi si santificano
reciprocamente.
Questo schema fu dato alle stampe il 10 novembre 1962 e fu subito
distribuito in aula ai Padri conciliari il 23 seguente. La discussione si protrasse
dal 1° al 7 dicembre e al termine apparve chiaro che, pur non essendo state
rivolte critiche di sostanza, tuttavia per porre rimedio ad alcune carenze non
sarebbero bastati pochi ritocchi. E fu auspicata una nuova elaborazione.
Fra gli interventi pronunciati in Aula o consegnati per iscritto, citiamo
soltanto quello di Mons. Fiordelli, vescovo di Prato, perché è proprio qui che
compare in Concilio per la prima volta in modo esplicito non solo un tentativo di
vera e propria teologia della famiglia, ma anche l’espressione “famiglia-Chiesa
domestica”. La premessa da cui parte Mons. Fiordelli è che lo stato sacramentale
del matrimonio occupa un posto speciale entro le compagnie del Corpo Mistico
di Cristo, distinto non solamente dall’episcopato, dal presbiterato e dallo stato di
perfezione religiosa, ma anche dallo stesso stato laicale, proprio in forza
dell’elevazione del matrimonio al livello sacramentale per opera di Cristo.
“Sponsi cristiani sunt laici, sed laici costituti in statu omnino
speciali in mystico Corpore Christi, et quidem ex iure divino,
nam Christus ipse instituit statum matrimonialem.
Dominus autem cur matrimonium sacramentum fecit?
Praecise quod status matrimonialis in mente sua divina,
summum habebat momentum ad incrementum quantitativum
et qualitativum mystici sui Corporis”.
Il punto di vista da cui il presule prende in considerazione la famiglia mi
sembra duplice: da una parte essa è vista principalmente nel suo fondamento
sacramentale, come stato di grazia e via di santificazione voluta e istituita dallo
stesso Cristo; dall’altra parte viene sottolineato il posto proprio che la famiglia
occupa nella Chiesa. Dalla peculiarità sacramentale dello stato matrimoniale, si
passa così alla considerazione ecclesiologica della famiglia che da esso
scaturisce.
“Generaliter constitutio Ecclesiae ita proponitur: Ecclesia catholica, quae
dividitur in dioeceses. Dioecesis, quae dividitur in paroecias. In paroecia sub
sacerdote parocho massa laicorum.
Sed, meo humili iudicio, hoc non est neque verum neque bonum. (…) Nunc
autem: estne paroecia ultima divisio Ecclesiae? Non.
Paroecia ulterius dividitur in tot cellulas sanctas, quae sunt
familiae christianae, quas vocare possumus, exemplum
Sanctorum Patrum secuti, velut minusculas Ecclesias, quibus
praesunt ex mandato divino sponsus et sponsa, pater et mater.
S. Iaonnes Chrysostomus dicebat: “Domum tuam ecclesiam
fac” (In Gen. cap. 6, par. 2: P.G. 54, 607).
Et S. Augustinus scribebat: “Domum enim vestram non
parvam Christi ecclesiam deputamus” (Ep. 188, 3: P.L. 33,
849). Et alibi “cum tota domestica vestra ecclesia” (P.L. 40,
450).
Ultima divisio Ecclesiae, seu melius ultima ex cellulis sanctis quibus
componitur Ecclesia, non est paroecia, sed familia christiana”.
Col conforto di precise e autorevoli citazioni patristiche, Mons. Fiordelli
esprime una particolare teologia del Corpo Mistico, secondo la quale esso
sarebbe composto di livelli concentrici e complementari, ma dotati di una
propria autonomia e di una base ontologica propria. Il più basilare di questi
livelli è la famiglia cristiana, che è come la cellula più fondamentale che entra a
comporre il Corpo della Chiesa. Come la cellula non è una realtà diversa
dall’organismo biologico che compone, ma non è nemmeno del tutto
identificabile con esso, trattandosi di una struttura propria, autonoma, specifica,
così ugualmente la famiglia. Essa è parte viva e integrante del corpo ecclesiale,
ma in un modo proprio. Questo è vero non dal punto di vista dell'organizzazione
ecclesiastica, come è il caso della parrocchia, ma per volontà dello stesso Cristo,
che rese santa, anzi sacramentale, l’istituzione familiare. Per cui nel corso dei
tempi la parrocchia potrà essere mutata, essendo di diritto ecclesiastico, la
famiglia mai, essendo di diritto divino. Non senza motivo S. Paolo, secondo il
vescovo di Prato, nel mistero del matrimonio cristiano vide una comunicazione
del mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa. La riflessione si fa acuta e
rigorosa quando affronta ancor più da vicino i rapporti fra parrocchia e famiglia.
La comunità parrocchiale non è solo un’aggregazione numerica di tante
famiglie, perché lo stato matrimoniale gode, rispetto ad essa, di un primato
sacramentale, essendo portatore di una grazia peculiare, che va ad arricchire
positivamente quella comunità.
“In schemate (cap. 6, n. 25) ubi sermo est de laicis actionis catholicae,
dicitur quod Ecclesia eis donat “mandatum et veram canonicam missionem”.
Sed si haec vera sunt, multo altiore ratione, venerabiles Patres, habent
mandatum et missionem non tantum canonicam, sed immo divinam sponsi
christiani”.
A sostegno e coronamento dell’argomentazione condotta intorno al valore
ecclesiologico della famiglia, viene portato anche un motivo di natura pastorale.
Una famiglia formata in spirito autenticamente cristiano è un grandissimo aiuto
contro i pericoli di indifferentismo, di secolarismo, e talvolta di materialismo
pratico che affliggono soprattutto i Paesi industrializzati. Laddove vige invece
un regime di persecuzione religiosa, essa opera in difesa dei valori religiosi,
curandone la pratica quotidiana nella vita concreta e la trasmissione alle nuove
generazioni. E infine nei territori di missione, essa costituisce una prima
fondamentale struttura per la “plantatio Ecclesiae” e un forte motivo di speranza
per la crescita e la diffusione della fede cristiana.
“Iustissime ponantur, ante omnia, capita de episcopatu, de sacerdotio, de
statibus perfectionis, postea autem addatur humile utique et breve caput, sed
espresse dedicatum in schemate statui matrimoniali christiano. Non est licitum
relinquere indiscriminatim inter laicos illos, quibus ipse Christus specialissimum
locum in Corpore suo Mystico reservavit”.
La nuova redazione dello schema, compilata da una Sottocommissione
Teologica, fu approvata dalla Commissione dottrinale plenaria in due diverse
sessioni, per cui apparve divisa in due parti di due capitoli ciascuna. Così lo
schema “De Ecclesia” fu esaminato e approvato anche dalla Commissione di
Coordinamento il 28 Marzo e il 4 Luglio 1963, e così esso fu trasmesso ai Padri
per la discussione in Aula, stampato in due fascicoli. I due passi che ci
interessano sono collocati ambedue nel secondo fascicolo, distribuito durante la
prima intersessione dei lavori conciliari, e appartengono al terzo e quarto
capitolo. Già da una scorsa superficiale balza in evidenza come si sia scelto di
operare un rimaneggiamento profondo. Un primo brano conserva il numero 24,
che ora è però intitolato “De sacerdotio universali, necnon de sensu fidei et de
charimatibus christifidelium”.
“Coniuges christiani ex virtute sacramenti, quo repraesentatur mysterium
unitatis et amoris inter Christum et Ecclesiam (cf. Eph. 5, 32), se invicem in vita
coniugali et prolis educatione sanctificant, atque adeo in suo vitae statu et ordine
habent proprium suum in Ecclesia donum (cf. 1 Cor. 7,7). Ex casto enim
connubio procedit familia, ubi nascuntur novi societatis humanae cives, qui sub
gratia Spiritus Sancti, ad perpetuandum saeculorum decursu Corpus Christi, in
filios Dei constituuntur. In hac velut Ecclesia domestica, parentes saepe sunt
primi fidei praecones, quasi munus episcopale, ut ait Augustinus, exercent, et
sacras etiam vocationes Deo dante fovent”.
Questo testo è così ora molto più vicino alla redazione definitiva che non
allo schema precedente. Vengono accolte le idee espresse da Mons. Fiordelli.
Viene infatti sottolineata con forza l’importanza della grazia sacramentale del
matrimonio, che è santificazione reciproca per i coniugi e per tutti i membri
della famiglia, ma è anche apportatrice di una ricchezza nuova, specifica, per
tutta la comunità che è la Chiesa. Vengono accolte anche alcune citazioni
patristiche che accentuano ancor più la valenza ecclesiologica della famiglia,
avvalorandola con l’apporto della Tradizione cristiana. A questo scopo si ritiene
soprattutto necessaria una ponderosa nota, estremamente ricca di riferimenti
patristici, quasi tutti volti a spiegare il tipo di interconnessione esistente fra
Chiesa e famiglia. Sono degne di rilievo soprattutto le citazioni: di S.Giovanni
Crisostomo, dove indica alle famiglie cristiane la comunità ecclesiale come
modello da imitare; quelle numerosissime che si riferiscono al posto occupato
specificatamente dai coniugi nell’ambito della Chiesa, e definiscono lo stato
matrimoniale di volta in volta come “officium”, “gradus”, “ordo” o altrimenti; le
citazioni che parlano del matrimonio come portatore di un “ìdion chàrisma”,
sulla base di 1 Cor. 7,7.
Il secondo testo è altrettanto nuovo, ed è collocato nel quarto ed ultimo
capitolo dello schema, “De vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”. Il paragrafo
30, che s’intitola eloquentemente “De multiformi unius sanctitatis exercitio”,
contiene un caloroso invito dei Padri conciliari ai coniugi e ai genitori, affinchè
con amore fedele si sostengano a vicenda nella vita della grazia, ed educhino i
figli ad una mentalità cristiana e alle virtù evangeliche. I vescovi si dichiarano
convinti che in questo modo essi offrono a tutti l’esempio di un amore fedele e
generoso, edificano una comunità fraterna basata sulla carità e divengono
testimoni e cooperatori della Chiesa, segno dell’amore oblativo con cui Cristo
amò la sua Sposa e offrì la vita per la sua salvezza.
Anche a questo passo viene aggiunta una cospicua nota esplicativa, secondo
la quale i coniugi e i genitori sono considerati qui sotto l’aspetto della santità e
non dell’apostolato loro specifico. E’ interessante notare come proprio in questo
ambito venga citato un brano dell’enciclica Casti Connubii di Pio XI, in cui il
matrimonio è visto non solo come “institutum ad prolem rite procreandam
educandamque”, ma anche, e in senso più ampio, come “totius vitae communio,
consuetudo, societas”.
Il nuovo schema sulla Chiesa viene collocato nell’agenda del Concilio al
primo posto, alla ripresa dei lavori nella seconda Sessione. Si era consci ormai
che si trattava di un documento fondamentale, che dava senso e ordine a tutte le
discussioni conciliari, e questa convinzione diffusa venne autorevolmente
confermata dallo stesso nuovo papa, Paolo VI, nel discorso di apertura del
secondo ciclo di lavori. La discussione pubblica sul “De Ecclesia” si protrasse
dal 30 Settembre al 31 Ottobre 1963. Già prima della sessione in Aula erano
pervenute osservazioni scritte da parte di alcuni Padri sul tema della Chiesa. Fra
queste vorrei menzionare l’intervento di Mons. Fiordelli in cui vengono
ripensate e riespresse con maggior rigore e maggiore approfondimento, le idee
già espresse nel corso della 34° Congregazione Generale. Nella prima parte si
ribadisce come lo stato matrimoniale cristiano goda di una particolare dignità in
forza del sacramento istituito da Cristo stesso. Si sottolinea però soprattutto
l’esigenza che vangano prese in considerazione nella Chiesa non solo le singole
persone, ma anche le comunità che la formano, e fra queste la famiglia cristiana,
che può essere legittimamente considerata una piccola cellula vitale della Chiesa
santa e feconda, “presieduta” dai due coniugi cristiani, sposi e genitori.
“Huiusmodi cellulam Christus Dominus, elevans matrimonium ad
dignitatem sacramenti, directe sanctificavit, electam portionem Ecclesiae fecit,
fontem gratiae divinae constituit, eidem sublimem in corpore suo mystico
praestitit functionem, magnum assignavit finem, congruentem gratiam largitus
est.
Unde, exemplum Sanctorum Patrum secuti, veluti minusculam ecclesiam
familiam christianam vocare possumus, in se habentem communicationem
ipsius mysterii unionis Christi cum Ecclesia.
Sponsi vero christiana ex sanctitate sui coniugii sancti facti sunt et veluti
consecrati ad exsequendum mandatum et divinam missionem attingendi
sublimem illum finem, quem Christus familiae christianae assignavit in
aedificationem mystici sui Corporis”.
L’autonomia, l’autoconsistenza della famiglia cristiana entro la compagine
della Chiesa vengono riconosciute esplicitamente. La santificazione, frutto della
grazia sacramentale, non si riversa soltanto sull’uomo e la donna che si uniscono
in matrimonio, ma per loro tramite si diffonde anche sui figli e sull’intero Corpo
Mistico, perché questo dono di grazia è stato conferito ai coniugi in vista anche
di una missione che riguarda tutta la Chiesa: l’edificazione (quantitativa e
qualitativa) del Corpo Mistico di Cristo.
Passiamo ora al dibattito vero e proprio che ha visto succedersi, nell’ampia
Aula conciliare, l’intervento di numerosi Padri, che hanno disaminato tutto lo
schema per un mese intero, come abbiamo già detto. Accenniamo in questa sede
unicamente a due discorsi, che si riferiscono più da vicino alla problematica
specifica di cui ci stiamo occupando. Il primo è quello di Mons. Vairo, vescovo
di Gravina e Irsina, nel quale si sottolinea con forza che la santificazione
reciproca dei coniugi assume quasi le forme, soprattutto nella celebrazione del
matrimonio, di un “ministero sacerdotale tipico dei laici”, che fa della famiglia
una sorgente di grazia, attivamente partecipe della salvezza di cui la Chiesa è
depositaria.
Ma, di nuovo, la relazione più ricca e interessante è quella di Mons.
Fiordelli, che merita di essere citata perché, pur muovendosi lungo le linee che
già ci sono note, prende spunto dal testo del 1963 per stimolare un ulteriore
sviluppo verso acquisizioni nuove e teologicamente più chiare.
“E contra minus placet quod schema verba faciat de coniugibus christianis,
agens de ipsa constitutione dogmatica Ecclesiae…
E contra minus placet quod schema nostrum loquatur tantummodo “de
coniugibus christianis” et nihil dicat de “statu” coniugum christianorum scil. de
familia cristiana. Sed in Ecclesia, mystico Corpore Christi, praeter membra,
etiam organa et communitates considerari debent.
Est defectus, qui etiam in praecedentibus capitibus invenitur.
(…) Dolet quod de communitate dioecesana, sicut etiam de
communitate paroeciali, et hic de communitate familiari nihil
dicatur in schemate”.
Questo rilievo di carattere generale, che vuole sottolineare un’ecclesiologia
di comunione che è vissuta in comunità ben determinate e tra loro armonizzate,
conduce il presule ad una precisazione non soltanto lessicale. La famiglia nella
Chiesa ha non soltanto un suo dono ma un suo “stato”, anche secondo la
concezione dei Padri, che chiamarono il matrimonio grado, ordine, ufficio,
genere di vita, professione. Segue una precisazione, con cui lo stato
matrimoniale viene collocato entro la gerarchia degli altri “stati” ecclesiali, in
armonia con essi: esso è senza dubbio inferiore al sacerdozio e alla verginità
consacrata, ma fra le diverse vocazioni laicali è la più alta. Il termine “status”
connota una realtà stabilmente radicata nella Chiesa, dotata di carismi propri, in
vista di una missione specifica. La preferenza per questa qualifica più autorevole
è fondata sulla stessa volontà di Cristo che ha istituito il sacramento del
matrimonio.
“[Matrimonii sacramentum] dicendum quod non solum est repraesentatio
sed et communicatio mysterii unitatis et amoris inter Christum et Ecclesiam”.
Il sacramento del matrimonio non è, come si legge nello schema che i Padri
stanno esaminando, soltanto “repraesentatio” del mistero di unione e di amore
tra Cristo e la Chiesa, ma comunica ai coniugi una vera “partecipazione” ad
esso, che si specifica in modo conforme al loro “stato”. E’ evidente come con
questi rilievi si voglia dar corpo alla dimensione ecclesiale della famiglia, perché
l’espressione “famiglia-Chiesa domestica” non risulti una formula vuota, ma
venga colta nello spessore della sua verità. E anzi, proprio a questo scopo Mons.
Fiordelli propone la sostituzione di questa aggettivazione di origine paolina, con
una più consona alle istanze culturali del mondo di oggi, più attinente
all’argomento del matrimonio di cui qui si tratta, e più in linea anche con il
pensiero patristico, che preferiva utilizzare l’espressione di “piccola Chiesa”.
Un’altra modifica è richiesta per la locuzione tratta da S.Agostino, secondo cui i
genitori esercitano un ufficio sacerdotale in seno alla famiglia. Si fa rilevare
come un simile modo di parlare, che si riferisce all’etimologia del nome
“vescovo”, mentre suonava bene nella fraseologia familiare di S.Agostino che
rivolge il suo discorso ai padri di famiglia, sembra suonare male nel testo
conciliare. Anche quest’ultimo rilievo verrà poi accolto nella nuova redazione
della costituzione dogmatica.
Oltre agli interventi orali pronunciati in Aula, dobbiamo considerare le
“Animadversiones scripto exhibitae”, fra cui sono comprese le relazioni di
coloro che hanno rinunciato alla parola in sede di discussione pubblica, e di
coloro che erano iscritti a parlare quando fu deciso di sospendere la discussione
stessa. Da più parti vengono espressi consensi a quanto abbiamo visto già
emergere fin qui. Si verifica soprattutto una notevole convergenza attorno alla
tesi dell’ecclesialità della famiglia, fondata sulla grazia sacramentale. A questo
proposito nello scritto di Mons. Ferrari, vescovo di Monopoli, si legge:
“Coniuges christiani in statu quodam constituuntur in quo instant et eminent
iura et munera populi Dei ad apostolatum exercendum, prophetica, scil.,
sacerdotalia et regia. Nam, educando, rudimenta christianae fidei proli praebent;
actioni sanctificanti sacramentorum filios afferunt, eorum vitam orationis
instruunt et in disciplina vitae christianae eos dirigunt. Quae omnia eis ex officio
et iure naturali proveniunt et quidem peculiari titulo gratiae sacramentalis”.
Un concetto importante, anche se enunciato lapidariamente e non
ulteriormente articolato, è contenuto nel contributo di Mons. Del Pino Gòmez,
vescovo spagnolo di Lérida.
“Appareat imponderabile officium familiae christianae in promotione
sanctitatis in omnibus Ecclesiae liminibus”.
Certamente si afferma che il contributo della famiglia alla costruzione e
all’apostolato della Chiesa si estende a tutta l’ampiezza del Corpo di Cristo; non
si specifica meglio però in che cosa consista questo contributo, concretamente,
né vengono indicate proposte pastorali atte ad incrementare o qualificare la
presenza delle famiglie nella Chiesa e il loro apostolato.
L’arcivescovo di Barcellona Mons. Modrego y Casaus, dal canto suo, ritiene
opportuna la menzione del valore formativo dell’obbedienza, come pure
dell’obbligo a cui sono tenuti i genitori di esercitare la loro autorità non a
piacimento, ma con la chiara coscienza di compiere la funzione di strumenti
della volontà del Padre che è nei cieli. L’autorità dei genitori, in forza della
grazia che proviene loro dal matrimonio, diventa strumento per i figli della
stessa autorità divina, e l’obbedienza ai genitori può dunque essere vissuta come
obbedienza a Dio e può acquistare un valore strettamente religioso e salvifico. A
riguardo della santificazione che il sacramento del matrimonio porta come
frutto, due sono fondamentalmente le precisazioni volute da Mons. Nezic,
vescovo delle diocesi iugoslave di Porec e Pola. Sembra eccessiva al relatore la
dottrina espressa nello schema in esame sulla reciproca santificazione dei
coniugi, soprattutto perché manca un esplicito riferimento alla potenza di Dio,
senza la quale per l’uomo non è possibile alcuna santificazione. E’ preferibile e
più realistico affermare che gli sposi cristiani si aiutano a vicenda a ricercare e
raggiungere la santità nello stile di vita loro proprio. Solo Dio, il Santo, può
santificare l’uomo, e questi può collaborare con la grazia per la propria
santificazione, ma non può assolutamente, nemmeno se ministro ordinato,
santificare un’altra persona.
Mons. Mazur, ausiliare del vescovo di Lublino (Polonia), parla della
famiglia, dal punto di vista della propria situazione, come di una comunità
capace di garantire una sufficiente educazione cristiana e una vita ecclesiale
anche se minima, persino dove e quando le strutture della Chiesa vengono a
mancare o sono deformate dalla persecuzione religiosa. I Padri conciliari
dovrebbero rivolgere una calda esortazione agli sposi cristiani perché si
sostengano vicendevolmente nella grazia e sappiano educare i figli ad una fede
matura e a uno stile di vita evangelico, sia insegnando ai piccoli con un
linguaggio comprensibile e adatto, sia dando essi stessi l’esempio nell’osservare
i comandamenti di Dio. La famiglia, nell’ambito della pastorale e
dell’”aggiornamento” ecclesiale perseguito dal Concilio, occupa un posto di
primaria importanza.
“Sacrum Concilium coaevam vitam christianam restaurare desiderans a
principiis, id est, a familia et prole incipere debeat. Propterea concientiam
omnium parentum, praesertim negligentium, concutere et viam mostrare debet.
(…) Praeterea in nonnullis regionibus parentes unici magistri doctrinae
christianae esse possunt et sollicitudo erga instructionem religiosam puerorum
optima praeparatio ad talem tristem necessitudinem est”.
Un’attenzione tutta particolare richiede l’intervento di Mons. Von Streng,
vescovo di Basilea e Lugano. Esso s’incentra attorno all’espressione paolina di
Ef. 5, 32 che viene letta attraverso le categorie sacramentologiche di grazia
santificante speciale e di grazie attuali.
“In quo consistat status gratiae specialis huius sacramenti et hoc auxilium
gratiae, demonstratur per verbum S.Pauli ad Eph. 5,32, ubi loquitur de aliqua
relatione Christum inter et Ecclesiam, quae in contextu cap. 5 clare et distincte
tamquam matrimonium spirituale Christi cum Ecclesia apparet: Christus
Sponsus, Ecclesia Sponsa. Exhortatur nempe Paulus: ”Viri, diligite uxores
vestras sicut et Christus dilexit Ecclesiam” et “Mulieres viris suis subditae sint
sicut Domino” (Eph. 5,25.22)" .
Poichè questa relazione dei coniugi cristiani con l’alleanza di Cristo con la
Chiesa si determina e si manifesta come profonda e reale, il sacramento del
matrimonio causa l’incorporazione dei coniugi cristiani in questa medesima
alleanza. Da ciò consegue che i coniugi, diventati quasi “una sola carne” in forza
dell’amore coniugale, partecipano in un certo qual modo nuovo e speciale alla
dignità e santità di Cristo come Sposo della Chiesa, e alla dignità e santità della
Chiesa come Sposa di Cristo. La famiglia allora diventa ed è veramente una
piccola Chiesa, in quanto la partecipazione al mistero d’amore che unisce Cristo
e la Chiesa ha un carattere specificamente diverso nel caso che si realizzi
attraverso il sacramento del battesimo o attraverso il matrimonio che fa dei due
coniugi una carne sola. La famiglia è una Chiesa, ma con una specificazione
propria, è Chiesa “domestica”. E’ una sottolineatura diversa da quella fatta da
Mons. Fiordelli, secondo il quale la famiglia è una comunità ecclesiale come le
altre, ma di dimensioni più ridotte.
Ancora una volta dalla discussione condotta in Aula emerse l’esigenza di
una rielaborazione profonda di tutto lo schema sulla Chiesa. Come già aveva
suggerito la Commissione di Coordinamento, anche i Padri conciliari giunsero
alla decisione di suddividere il capitolo terzo, ricavandone uno sul Popolo di Dio
da collocare come secondo, e uno sui laici in specie, che diventerebbe allora il
quarto. Fu deciso anche di dedicare un capitolo a parte ai religiosi, di rivedere
completamente quello riguardante la vocazione di tutti alla santità, e di
aggiungere in fondo altri due capitoli, sulla relazione tra Chiesa pellegrinante e
Chiesa celeste e sulla Beata Vergine Maria. Si prospettò dunque un lavoro
imponente, che la Commissione dottrinale, ristrutturata nel suo organico,
affrontò costituendo una Sottocommissione centrale “De Ecclesia” e otto
Sottocommissioni particolari, a ciascuna delle quali fu affidata la revisione di un
capitolo o parte di capitolo. Bisognava tener presenti le indicazioni date dal
Sommo Pontefice a tutte le Commissioni e l’enorme mole di proposte fatte dai
Padri oralmente o per iscritto. Il risultato di tutto questo lavoro sarebbe dovuto
passare all’approvazione prima della Sottocommissione centrale, poi della
Commissione dottrinale plenaria e infine della Commissione di Coordinamento,
prima di poter essere introdotto nuovamente all’esame dell’assemblea dei Padri
in Concilio. Questi passaggi successivi ebbero luogo rispettivamente il 31
Gennaio 1964, l’8 Giugno e il 26 Giugno 1964. Il nuovo testo, dato subito alle
stampe e distribuito sollecitamente ai Padri, porta la data del 3 Luglio. I due
punti che ci interessano in questa sede hanno subito non pochi mutamenti, come
d’altra parte pure tutto lo schema nel suo insieme, come abbiamo visto. Il brano
che precedentemente faceva parte del capitolo quarto, è ora trasferito al secondo,
dove si parla del Popolo di Dio, e reca il numero 11 , in tutto corrispondente alla
redazione della Costituzione dogmatica approvata definitivamente dal Concilio.
Viene accolto il suggerimento di Mons. Fiordelli, per significare che il
matrimonio non solo “rappresenta”, ossia manifesta l’unione Cristo – Chiesa,
ma ne rende anche partecipi i coniugi. Più oltre viene aggiunto un accenno alla
accettazione della prole come dono di Dio, che diventa un mezzo di
santificazione, non solo per i figli ma anche per gli sposi stessi. Vengono
sostituite con “Populus Dei” una volta l’espressione “Ecclesia” e una volta
“Corpus Mysticum”, in ossequio al contesto generale del capitolo, senza che
questo comporti una diversa prospettiva teologica.
L’ultima fase vede mutati i verbi dall’indicativo al congiuntivo, per
esprimere con maggior forza un richiamo agli obblighi spettanti ai genitori,
secondo quanto desiderato da non pochi Padri. Anche il titolo del paragrafo è
espresso con più concisione e con espressioni più sobrie e precise: “De exercitio
Sacerdotii communis in Sacramentis”. Nel complesso quindi si tende a precisare
il rapporto che lega la famiglia e la Chiesa, a partire soprattutto da una
concezione di Chiesa come comunione o popolo di Dio, e da una comprensione
più ampia del sacramento del matrimonio, visto come fondamento di una
comunità santa e santificante, e non più solo come garante di una generazione
umana conforme ai disegni divini.
Il nostro secondo testo, collocato nel capitolo sulla universale vocazione alla
santità nella Chiesa, passa dal n.30 al n.41, mentre il titolo del paragrafo rimane
invariato.
“Coniuges autem parentesque christiani oportet ut proprium iter sequentes,
amore fideli, totius vitae decursu se invicem in gratia sustineant, et prolem
amanter a Deo acceptam christianis doctrinis et evangelicis virtutibus imbuant.
Ita enim exemplum indefessi et generosi amoris omnibus praebent, fraternitatem
caritatis aedificant, et foecunditatis Matris Ecclesiae testes et cooperatores
exsistunt, in signum illius dilectionis, qua Christus Sponsam suam dilexit Seque
pro ea tradidit”.
La relazione esplicativa che accompagna il testo emendato, ne evidenzia e ne
giustifica le variazioni apportate. Nella prima fase vengono aggiunti due tipi di
precisazioni: “proprium iter sequentes”, per sottolineare come la santità cui sono
chiamati i coniugi – genitori cristiani prospetta uno stile di vita proprio, distinto
da quello dei religiosi e dei ministri ordinati; “amore fideli, totius vitae decursu”,
con cui si dà importanza al valore santificante, educativo e di testimonianza di
un amore coniugale fedele e indissolubile, proprio perché sia segno e frutto della
partecipazione all’amore con cui Cristo ama la Chiesa. Al termine della prima
frase, infine, l’espressione un po’ vaga “christiana mente”, posta a qualificare il
modo di educare i figli ad uno spirito di fede, viene resa più chiara e concreta:
“christianis doctrinis”. Non si tratta dunque di modifiche sostanziali, come è
facile vedere, ma più che altro di piccole precisazioni e ritocchi, differentemente
da quanto avvenne per lo Schema nel suo complesso, che fu profondamente
rimaneggiato e ampliato.
Il 14 Settembre 1964, nel discorso di apertura della terza Sessione del
Concilio, papa Paolo IV sollecitò i Padri a rivolgere le loro attenzioni e a
dedicare il loro sollecito lavoro al perfezionamento definitivo dello schema sulla
Chiesa. Gran parte del lavoro che rimaneva da svolgere riguardava gli ultimi
capitoli, che dovevano ancora essere discussi in Aula.
Il 16 Settembre si diede però subito inizio alle operazioni di votazione, che
vennero svolte capitolo per capitolo, e talvolta, per i passaggi più controversi,
anche parti di singoli capitoli. I “modi”, consegnati contestualmente alle
operazioni di voto, furono sottoposti all’esame della Commissione dottrinale al
completo, la quale si attenne però a due norme fondamentali: non sarebbero
state accolte le modifiche riguardanti la sostanza del testo, praticamente ormai
approvato nelle sue linee di fondo, e neppure le modifiche riguardanti un testo
che avesse riportato il “placet” della maggioranza dei votanti. Mentre il
paragrafo n. 11 non subì ulteriori modifiche e rimase così definitivamente
approvato, per il numero 41 furono ammesse due modifiche. Tre Padri avevano
chiesto che il brano riguardante i coniugi cristiani fosse ampliato; ma la
Commissione esaminatrice ritenne che quanto era detto nello schema fosse
sufficiente. Un altro presule invece sostenne la necessità di sottolineare con
maggior forza e chiarezza l’importanza del sacramento del matrimonio nella vita
dei coniugi, e propose alcuni emendamenti: al posto di “proprium iter” si dica
che i coniugi cristiani hanno da Dio sacramentalmente un “proprium donum” o
“propriam vacationem”; la dottrina sul matrimonio come “signum” del mistero
di amore che unisce Cristo e la Chiesa venga completata con l’aggiunta del
termine “et participationem”; venga evidenziata maggiormente l’importanza
fondamentale della celebrazione del matrimonio, in cui i coniugi si santificano
reciprocamente; l’amore coniugale, definito nel testo “indefesso” venga
piuttosto qualificato come “supernaturalis”. Di queste proposte, la Commissione
dottrinale approvò solo le prime due, preferendo però la dizione “propriam viam
sequentes” alle altre indicate nella proposta di emendamento.
In conclusione possiamo rilevare come le lunghe e complesse vicende che
hanno dato origine ai due paragrafi della Costituzione dogmatica “Lumen
Gentium” che parlano della famiglia come di una Chiesa domestica si siano
sviluppate su una linea che mette in stretto rapporto la comunità familiare che
scaturisce dal matrimonio cristiano con la realtà della Chiesa. Questo rapporto,
man mano che si chiarifica, viene progressivamente sempre più
approfondendosi, perché la grazia del matrimonio mutuata dalla Chiesa i coniugi
se la comunicano per una santificazione vicendevole, diventando così partecipi
in un modo proprio e in quanto soggetti responsabilmente attivi del mistero di
amore che unisce Cristo e la Chiesa.

b) Commento ai paragrafi 11/b e 41/e della “Lumen Gentium”.


Dall’articolata e importantissima riflessione condotta attorno al mistero della
Chiesa venne pian piano ma sempre più decisamente emergendo il tema della
famiglia cristiana, come una realtà organicamente connessa a quella della
comunità più vasta. “Là dove i Padri conciliari, assistiti nel loro lavoro dallo
Spirito Santo, si sono trovati d’accordo nel delineare gli aspetti più fecondi e più
divini ed umani insieme del mistero della Chiesa, si sono spontaneamente
incontrati con il posto del matrimonio e della famiglia nel piano della salvezza”.
Dei due testi più significativi in questo senso, il primo si colloca nel capitolo
secondo, dedicato al Popolo di Dio e al sacerdozio comune dei fedeli. Il
paragrafo 11, che stiamo qui analizzando, si intitola “L’esercizio del sacerdozio
comune nei sacramenti” e inizia così: “Indoles sacra et organice extructa
communitatis sacerdotalis et per sacramenta et per virtutes ad actum deducitur”.
L’enumerazione dei singoli sacramenti in rapporto al modo tipico di
esplicitazione del sacerdozio comune si conclude con il matrimonio. Si tratta di
un testo ricchissimo, in cui ogni parola è stata attentamente soppesata e voluta.
“Tandem coniuges christiani, virtute matrimonii sacramenti, quo mysterium
unitatis et fecundi amoris inter Christum et Ecclesiam significant atque
participant (cf. Eph. 5,32), se invicem in vita coniugali necnon prolis
susceptione et educatione ad sanctitatem adiuvant, adeoque in suo vitae statu et
ordine proprium suum in Populo Dei donum habent. Ex hoc enim connubio
procedit familia, in qua nascuntur novi societatis humanae cives, qui per Spiritus
Sancti gratiam, ad Populum Dei saeculorum decursu perpetuandum, baptismo in
filios Dei constituuntur. In hac velut Ecclesia domestica parentes verbo et
exemplo sint pro filiis suis primi fidei praecones, et vocationem unicuique
propriam, sacram vero peculiari cura, fovent oportet”.
“Un primo elemento, che risulta fondamentale per il costituirsi della famiglia
come Chiesa domestica, è il sacramento del matrimonio. Esso rappresenta come
il fondamento di Grazia su cui tutto l’edificio si erge, ricevendone un’impronta
peculiare e irripetibile. Dal matrimonio cristiano nasce una comunità inserita e
radicata nella comunità delle comunità che è la Chiesa, la famiglia di tutti i
salvati dal sangue di Cristo. La famiglia cristiana allora si diversifica da ogni
altra, per la sua sacramentalità costitutiva, e per la caratteristica di ecclesialità
che da essa scaturisce naturalmente. Proprio in forza di questa sacramentalità il
matrimonio e la famiglia cristiani diventano segno del “mistero di unità e di
fecondo amore che intercorre fra Cristo e la Chiesa”. Non si tratta di una
affermazione teorica per cultori di ecclesiologia, ma in questo rapporto
sacramentale il Concilio vede addirittura il “proprium” del matrimonio; i
coniugi, essendo segno di quel mistero d’amore, non possono non esserne anche
intimamente partecipi. E’ significativo rilevare come il Vaticano II prenda
coscienza che la specificità dello “stato coniugale”, entro il più grande “segno”
dell’unità fra Dio e gli uomini che è la Chiesa, è dotata di un particolare
“carisma”, di un dono che si estende oltre le pareti domestiche per interessare la
grande comunità ecclesiale. Sulla base del sacramento del matrimonio, esso è
funzionalizzato all’edificazione del Popolo di Dio. In questo testo della
Costituzione “Lumen Gentium” – fa rilevare con acutezza don Tettamanzi –
“l’interpretazione ecclesiale della famiglia si situa immediatamente, non su di un
piano ontologico-essenziale (…), quanto piuttosto su di un piano dinamico
esistenziale: è per la missione profetica dei genitori verso i figli (…) che la
famiglia è simile alla Chiesa. (…) Ci si può però domandare se la dimensione
ecclesiale si debba interpretare solo a livello dinamico-esistenziale e non invece
a maggior profondità, in rapporto cioè allo stesso essere soprannaturale
specificato nei coniugi dalla grazia del sacramento del matrimonio”. “I vincoli
profondi della Chiesa-famiglia cristiana sono vincoli ontologici soprannaturali,
radicati cioè nell’essere nuovo della famiglia che il sacramento del matrimonio
costituisce come Chiesa domestica”. Su questa espressione così interessante e
pregnante ci soffermeremo più diffusamente e analiticamente nelle
considerazioni conclusive di tutta la ricerca.
Il secondo testo che vogliamo qui commentare brevemente, fa parte del
capitolo quinto “De universali vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”; è tratto dal
paragrafo 41, che si riferisce al multiforme esercizio dell’unica santità.
“Coniuges autem parentesque christiani oportet ut propriam viam sequentes,
amore fideli, totius vitae decursu, se invicem in gratia sustineant, et prolem
amanter a Deo acceptam christianis doctrinis et evangelicis virtutibus imbuant.
Ita enim exemplum indefessi et generosi amoris omnibus praebent, fraternitatem
caritatis aedificant, et foecunditatis Matris Ecclesiae testes et cooperatores
exsistunt, in signum et partecipationem illius dilectionis, qua Christus Sponsam
suam dilexit Seque pro ea tradidit".
L’idea di fondo che viene sviluppata è che nella Chiesa tutti sono chiamati
ad un’unica santità, secondo il genere di vita e le responsabilità di ciascuno,
perchè Cristo, il solo “Santo”, ha amato tutta la Chiesa come sua Sposa e l’ha
unita a sé con un vincolo d’amore indissolubile. Nel testo sembra di poter
scorgere come un duplice livello, ciascuno dei quali è però costantemente
intrecciato con l’altro: da una parte i due coniugi, che vicendevolmente si
sostengono nella vita di grazia, e che quindi sono continuamente l’uno per
l’altro sorgente che alimenta la fede la speranza la carità; dall’altra parte la
comunità familiare, genitori e figli, nei quali si realizza misteriosamente e
realmente la fecondità soprannaturale della Chiesa, quando si cresce nella
dimensione della santità, e la Chiesa è arricchita di nuovi figli e di nuove
vocazioni. Mentre troppo spesso vi è chi attribuisce alla famiglia il compito
generativo a un livello semplicemente materiale e biologico, e riferisce la
fecondità spirituale che genera nuovi figli di Dio esclusivamente alla Chiesa,
con queste succinte ma dense righe il Concilio insegna che la famiglia educa alla
fede in cooperazione con la Chiesa, e quindi è parte viva della Chiesa stessa, in
una dimensione a lei propria, in una dimensione domestica.
In questo testo si fa esplicito riferimento non soltanto alla coppia dei
coniugi, come era usuale nella teologia comune fino ad allora, ma alla famiglia
nella sua globalità. Inoltre viene rapidamente delineato il rapporto che lega la
famiglia cristiana e la Chiesa: “La famiglia nella sua dimensione procreativa
(generazione ed educazione) si connette con la 'foecunditas Matris Ecclesiae' e
vi si connette ad un duplice titolo, di significazione e di partecipazione: i
genitori sono, infatti, 'testes et cooperatores' della fecondità materna della
Chiesa; più precisamente questa significazione-partecipazione rimanda alla sua
primordiale origine, e cioè all’amore sponsale donante di Cristo verso la Chiesa,
al quale col sacramento i coniugi partecipano”.
Questo della “Lumen Gentium” è il primo e, a nostro giudizio, più ricco
contributo offerto dal Concilio Vaticano II per una teologia della famiglia che si
collochi in un quadro ecclesiologico e pastorale. Se vogliamo paragonare
l’insieme di questa dottrina a un mosaico, ciò che abbiamo visto finora è come
una tessera, una grossa tessera, ma da accostare ad altre, perché ne possa uscire
una raffigurazione completa, in funzione della quale ogni singola parte ha un
significato particolare.
CAPITOLO 2

LA FAMIGLIA CRISTIANA COME LUOGO DELLA PRIMA


ESPERIENZA DI CHIESA.

a) La Costituzione “De Scholis Catholicis” nel periodo preparatorio

Un secondo testo che dobbiamo esaminare è collocato nella breve


Dichiarazione sull’Educazione Cristiana.
Le vicende che dalla fase ante preparatoria del Concilio hanno portato alla
promulgazione della “Gravissimum Educationis” sono piuttosto complesse; qui
le riportiamo solo sommariamente, in quanto accenni più o meno espliciti alla
famiglia considerata nella sua dimensione ecclesiale appaiono solo negli schemi
primitivi e in quelli più recenti.
La consultazione condotta per volontà del Santo Padre nel periodo
antepreparatorio raccolse 81 risposte concernenti l’educazione e la scuola, che
furono raccolte insieme e consegnate, insieme ad altro materiale, alla
Commissione preparatoria Studi e Seminari, istituita da Giovanni XXIII nel
1960. Nell’opuscolo “Quaestiones Commissionibus Preparatoriis Concilii
Oecumenici Vaticani II positae” il papa propose a questa Commissione, con la
massima libertà, sei argomenti, e di questi l’ultimo, sulle scuole cattoliche,
comprendeva anche un’esposizione “de iuribus parentum eligendi scholas pro
filiis”. La Commissione Studi e Seminari si mise alacremente al lavoro e il testo
dello schema “De scholis Catholicis”, approvato dalla plenaria il 10 Marzo, fu
sottoposto all’esame della Commissione Centrale il 13 Giugno 1962. Dopo un
breve proemio, nella prima parte intitolata “De praecipua educationis principia”
troviamo al numero 3 queste parole:
“Munus vero educationis impertiendae prae ceteris omnibus
ex iure naturali familiae competere, quae verum
germanumque educationis sacrarium constituit. Sancta
Synodus apertis gravibusque verbis confirmat. Parentes enim,
vi muneris ipsis proprii, prolem educandi et gravissima
obligatione tenentur et inviolabili iure gaudent”.
Dopo queste prime righe, il paragrafo citato prosegue parlando del diritto
all’educazione che spetta per la loro parte e secondo i fini propri, anche alla
Chiesa e alla società civile, e si conclude con un’esortazione alla collaborazione
fra queste tre comunità umane che, seppur distinte, sono fra loro intimamente
connesse. Non sembra dunque, per lo meno a questo stadio, che le espressioni
concernenti la famiglia e sopra riportate abbiano un legame strettissimo con
quanto viene detto più sotto della Chiesa. Questo forse è frutto anche della
mentalità accentuatamente giuridica che pervade il testo, e che porta più a
rivendicare i diritti di ciascuno che non a riflettere sulla natura dell’educazione e
sul servizio che ogni realtà sociale in essa impegnata è chiamata a svolgere.
Rimane comunque fondamentale l’affermazione del diritto primario e
inalienabile della famiglia all’educazione dei propri figli. Durante la discussione
condotta in seno alla Commissione Centrale, il Card. Liénart parlò proprio su
questo punto dello schema, e chiese una fusione più armonica fra i compiti della
famiglia e quelli della Chiesa in rapporto all’educazione. Tre sono le sfere di
autorità che rivendicano una competenza propria nel campo educativo: la
famiglia, la Chiesa e lo Stato. Ognuna di esse ha dei diritti e dei doveri precisi in
rapporto alla sua natura e alla missione affidata da Dio; ma tutte e tre devono
collaborare, ciascuna nel proprio ambito e nel rispetto di quello altrui.
“1) Familiae attinet responsabilitas primaria, sicut dicitur in
textu, quia officium incumbit his qui vitam dederunt
perficiendi munus suum per educationem integram suorum
puerorum et ius habent parentes eligendi scholam et
magistero cum seipsis consentaneos.
2) Ecclesiae attinet officium et ius scholas instituendi ut, non
solum dona naturalia, sed etiam supernaturalia Baptismi in
pueris christianis excolantur, ut adiumentum familiis
christianis praestetur et etiam aliis familiis quae formationem
naturalem, moralem et religiosam pro pueris suis desiderant”.
Anche allo Stato Civile poi spetta di fondare scuole perché tutti i giovani
possano ricevere una istruzione e un’educazione appropriate, ma ha pure il
dovere di sostenere economicamente le istituzioni educative private ed
ecclesiali, per non discriminare fra i cittadini e per dare a ciascun ragazzo la
possibilità di accedere a una scuola cattolica, soprattutto se questo è
l’orientamento voluto dai genitori. Si nota ancora un tono piuttosto
paternalistico, quando si parla del servizio che la Chiesa intende offrire alle
famiglie per aiutarle nel loro compito educativo. E’ particolarmente labile la
base teologica che giustifica l’intervento in campo scolastico ed educativo sia
della Chiesa – si accenna allo sviluppo dei doni soprannaturali – sia della
famiglia in quanto cristiana. Viene condiviso da tutti, in ogni modo, quanto basta
per costruire una valida piattaforma di partenza per enunciazioni più mature.

b)Una difficile gestazione.

Purtroppo però lo schema sull’educazione cristiana deve attraversare una


fase molto difficile, a partire da quando la Commissione di Coordinamento,
appena istituita per snellire e rendere più organici i lavori conciliari, emana
istruzioni intese a collegare tutto al nucleo del “De Ecclesia”. Alla Commissione
“De Studiis et Seminariis” fu chiesto di redigere un testo più essenziale,
demandando le norme pratiche a una serie di “Istruzioni” da pubblicare nel
periodo post-conciliare, ed espungendo anche quanto poteva servire per un
aggiornamento del Codice di Diritto Canonico. Nei primi giorni di marzo la
Commissione stilò un nuovo documento che, opportunamente corretto secondo
le indicazioni fornite dalla Commissione Centrale, fu approvato da Giovanni
XXIII il 22 Aprile 1963 e inviato ai Padri.
Lo schema di Costituzione “De Scholis Catholicis” è articolato in tre parti,
precedute da un proemio piuttosto consistente. La prima parte tratta
dell’educazione, considerata nei suoi principi generali e soprattutto per quanto
riguarda i diritti e i doveri di ciascuno; la seconda parte affronta il tema delle
scuole cattoliche in generale, parlando prima dei principi ispiratori di ogni
istituzione di questo tipo, e poi delle norme che devono guidarne concretamente
il cammino. La terza parte si riferisce specificamente alle Università Cattoliche.
A questo documento sono annesse tre Appendici, in cui è raccolto il materiale
stralciato dagli schemi precedenti, più ricchi.
Il brano dal nostro punto di vista il più importante si colloca nella sezione
“De Educatione”, là dove si parla dei diritti e dei doveri della famiglia, della
Chiesa e dello Stato nel campo dell’educazione. E’ il paragrafo 7: “Quibus
munus educationis incumbat”.
“a) Munus educationis impertiendae, prae ceteris omnibus ex
iure naturali Familiae competit, quae verum germanumque
educationis sacrarium efficit. Parentes enim, vi muneris ipsis
proprii, prolem educandi et gravissima obligatione tenentur et
inviolabili iure fruuntur. (…) Quod si parentes, quamvis ob
causam, prolis educandae munus aliis delegaverint, gravi
tamen obligatione semper tenentur universum opus
educationis vigilanti cura probandi necnon assiduo iuvandi
concursu. (…)
d) Cum autem haec triplicis ordinis munera ad idem
subiectum referantur, Familia, Ecclesia, et Civitas, in
educatione impertienda cooperentur oportet”.
Rispetto alla versione precedente non si è operato qui né in senso
riduzionistico né nel senso di uno sviluppo contenutistico. L’intento ci sembra
quello di scuotere le famiglie per sensibilizzarle adeguatamente sul ruolo
centrale che devono ricoprire nell’opera educativa dei loro figli,
corrispondentemente alla missione ricevuta da Dio e a quello che è
semplicemente un diritto naturale.
La storia del nostro documento procede a piccoli passi. Infatti alcuni Padri
espressero per iscritto, nel corso della seconda Sessione, il desiderio che venisse
utilizzato un linguaggio meno giuridico e più pastorale, secondo le finalità del
Concilio stesso, e che venissero reintrodotti alcuni punti già presenti nello
schema del 1962. Nel dicembre del 1963 la Commissione aveva già preparato
un testo corretto, quando ricevette una lettera da parte della Commissione di
Coordinamento, in cui si stabiliva che “lo Schema De Scholis Catholicis fosse
ridotto ad un “voto”, il quale sottolineasse l’importanza dell’educazione
cattolica e della scuola, indicasse i principi fondamentali ai quali l’educazione e
l’insegnamento devono ispirarsi; e, quindi, auspicasse un’adeguata legislazione
nella prossima revisione del Codice”. La Commissione “De Studiis et
Seminariis”, costretta a un nuovo lavoro di correzione, decise però di includere
quel testo del dicembre ’63 nella relazione del 1964 in cui si faceva un po’ la
storia del documento.
“Prae ceteris omnibus hoc munus ex lege naturali Familiae
competit, quae verum germanumque educationis sacrarium
efficit. Parentes enim, qui vi naturalis fecunditatis vitam filiis
contulerunt, vi auctoritatis ex procreatione consequentis
prolem educandi et gravissima obligatione tenentur et
inviolabili ac inalienabili iure fruuntur”.
Il paragrafo 5 continua sottolineando decisamente l’importanza di questa
educazione, che dev’essere impartita in seno alla famiglia dai genitori, tanto che,
dove essa viene a mancare, a stento può essere supplita in altro modo. Perciò se i
genitori, per giusti motivi, avranno affidato ad altri il compito di formare la
prole, devono comunque ricordare che a loro spetta l’intero compito di educare i
figli, e che essi sono sempre tenuti dal grave obbligo di esaminare con
attenzione l’intera opera dell’educazione e di aiutarla collaborandovi
attivamente. Inoltre, continua il documento conciliare, in modo singolare questo
compito spetta alla Chiesa, a cui sono affidati per positiva istituzione divina, una
sublime funzione di maternità spirituale e di magistero infallibile e universale.
In questo brano della parte prima (“De educazione”) sono state apportate
alcune modifiche interessanti. Innanzitutto si cerca di fondare con maggiore
chiarezza il diritto dei genitori all’educazione dei figli, che scaturisce dal fatto
stesso della trasmissione della vita. Questa resterà un’acquisizione di
fondamentale valore fino alla promulgazione della Dichiarazione “Gravissimum
Educationis”, e diremmo, per tutto il Concilio. Poi, facendo tesoro anche delle
indicazioni offerte dalle scienze umane, come la psicologia e la pedagogia, si
afferma che l’educazione non può essere “delegata” dai genitori, ma è “affidata”
ad altri “per giusti motivi” (il testo precedente diceva:”quamvis ob causam”).
Svanisce in queste righe quel senso di paternalismo che sembrava respirare fin
qui: nemmeno la Chiesa può sostituirsi alla famiglia in questo compito,
richiamandosi magari ad un fine spirituale ad essa specifico. La collaborazione
auspicata si pone su un piano più paritetico, si fa appello alla responsabilità, e ci
si avvicina progressivamente ad una concezione della famiglia come di una
comunità capace di vivere la vita ecclesiale in termini domestici.
Purtroppo lo schema sulle scuole cattoliche dovette sottostare a una nuova
operazione di riduzione. La Commissione di Coordinamento infatti, riunitasi il
16 e 17 Aprile 1964, ne decretò una diminuzione nella mole e nella rilevanza
teologica trasformando da Costituzione a semplici “Propositiones”. Inviate ai
Padri per ordine di Paolo VI in data 27 Aprile 1964, apparvero ridotte
dall’urgenza della brevità più a uno scheletro che a un documento degno di un
Concilio ecumenico. Nella parte dedicata ai “Principi”, viene detto soltanto che
spetta innanzi tutto ai genitori il diritto e il dovere, dato dalla natura, di educare i
figli, mentre nella parte successiva “De Scholis Catholicis in genere” al numero
9 il Concilio richiama ai genitori cristiani i doveri che loro incombono per ciò
che riguarda l’educazione. Presa visione di questo brevissimo testo, da giugno a
settembre i Padri conciliari inviarono alla Commissione le loro
“Animadversiones”, chiedendo di ridefinire tutto il discorso sulle scuole
cattoliche a partire da una prospettiva più ampia, quella dell’educazione
cristiana, per dare spazio anche al problema dell’educazione ai valori umani e a
quello delle scuole non cattoliche. Per questo fu redatto e distribuito un nuovo
schema, datato 17 novembre e intitolato “De educazione cristiana”. Benchè si
tratti questa volta di una proposta di Dichiarazione, il nostro tema è solo
fugacemente accennato nella prima parte, che espone i principi fondamentali
sull’educazione e la scuola, al numero 4: “De scholae momento et de parentum
iuribus”.
“Cum vero inter omnis educationis in strumenta peculiare
momentum habeat schola, Ecclesia libenter collaborationem
iugiter praebet parentibus. His enim primum et inalienabile
officium et ius est filios educandi ideoque scholas libere
condendi et eligendi”.
Sulla base di questo testo si tenne la discussione pubblica nei giorni 17, 18 e
19 novembre, proprio al termine della terza Sessione del Concilio . Nella
Relazione introduttiva Mons. Daem evidenziò tra l’altro la sincera volontà della
Chiesa di entrare nel mondo dell’educazione con un atteggiamento di servizio
nei confronti dei popoli e delle loro culture, dei genitori e della società civile. I
non molti interventi letti in aula o comunicati per iscritto concordarono tutti
sull’esigenza che lo striminzito documento venisse rimpolpato con quanto era
già contenuto in precedenti redazioni, e mirava a difendere la libertà sia della
famiglia sia della Chiesa per un’educazione cristiana. Il Card. Ritter,
arcivescovo di Saint Louis negli Stati Uniti, fece un rilievo sull’importanza dello
spirito di servizio che deve animare sia i genitori sia gli operatori scolastici
cattolici; Mons. Malone, ausiliare del vescovo statunitense di Youngstown,
Ohio, ritenne che i rapporti che devono stabilirsi fra Famiglia, Stato e Chiesa nel
campo dell’educazione sono un po’ semplicisticamente descritti; Mons. Okoye,
Vescovo di Port Harcourt (Nigeria), sostenne la necessità di rivendicare con
maggior forza il diritto naturale dei genitori a dare ai figli un’educazione anche
religiosa corrispondente alle proprie convinzioni, e questo per garantire proprio
la libertà religiosa; e sulla stessa linea si mosse anche il vescovo di Liverpool,
Mons. Beck. Venne richiesto dunque un documento più corposo, più conforme
alla dottrina contenuta negli altri schemi all’esame dell’episcopato mondiale, più
pastorale e più stimolante. L’ultimo giorno di discussione venne proposta una
votazione, in base alla quale venne approvato lo “Schema Declarationis” del
novembre 1964 come punto di partenza per ulteriori perfezionamenti. Nei giorni
23-30 Marzo la Commissione prese in esame gli interventi orali e scritti, e
redasse un “textus iuxta Modos recognitus”, che fu distribuito il 6 Ottobre 1965
e votato punto per punto il 13 successivo, nel corso della 148° Congregazione
Generale.
I paragrafi 3-4-5 del precedente testo furono rifusi e riordinati secondo le
indicazioni fornite dai “Modi”. In essi risalta con vigore l’esigenza e l’urgenza
di comprendere come specifico della famiglia il primato in campo educativo.
Questo lavoro fu svolto tenendo presente anche il rilievo fatto da un Padre,
secondo cui nello schema precedente non venivano rispettate le legittime
priorità: si parlava prima dei mezzi minori dell’educazione, come gli strumenti
della comunicazione sociale o i vari gruppi giovanili, e solo dopo della famiglia
e della scuola.
La redazione del 1965 ha, globalmente, una mole sei volte maggiore di
quella del novembre ’64: il testo così strutturato non doveva subire più alcuna
modifica: approvato dal Concilio, entrò a far parte della Dichiarazione
sull’educazione cristiana, promulgata ufficialmente da Paolo VI nella Sessione
Pubblica del 28 ottobre 1965.

c) Dignità e compiti della famiglia cristiana secondo “Gravissimum


Educationis” n. 3.

Il paragrafo della dichiarazione conciliare sull’educazione cristiana che si


riferisce più esplicitamente alla famiglia ponendola in rapporto alla Chiesa è il
numero 3. In esso si parla dei responsabili dell’educazione, dei diritti e dei
doveri che li riguardano e dei compiti che essi devono adempiere. Innanzi tutto
si fa menzione dei genitori, perché a loro spetta questa funzione
importantissima, in modo primordiale e primario.
“Parentes, cum vita filiis contulerint, prolem educandi
gravissima obligatione tenentur et ideo primi et praecipui
eorum educatoresmagnoscendi sunt. Quod munus educationis
tanti ponderis est ut, ubi desit, aegre suppleri possit. Parentum
enim est talem familiae ambitum amore, pietate erga Deum et
hominess animatum creare qui integrae filiorum educationi
personali et sociali faveat. Familia proinde est prima schola
virtutum socialium quibus indigent omnes societates. Maxime
vero in cristiana familia, matrimonii sacramenti gratia et
officio ditata, filii iam a prima aetate secundum fidem in
baptismo receptam Deum percipere et colere atque proximum
diligere doceantur oportet; ibidem primam inveniunt
experientiam et sanae societatis humanae et Ecclesiae; per
familiam denique in civilem hominum consortionem et in
populum Dei sensim introducuntur. Persentiant igitur parentes
quanti momenti sit familia vere christiana pro vita et
progressu ipsius populi Dei”.
Il paragrafo prosegue dopo queste parole, affermando che questo compito
irrinunciabile dei genitori esige un sostegno da parte della più vasta comunità
civile, in quanto esso ridonda anche a suo vantaggio, ed inoltre è dovere della
medesima comunità provvedere quanto necessario per il raggiungimento del
bene comune temporale. Il diritto e il corrispondente dovere all’educazione degli
uomini spetta a un titolo del tutto speciale anche alla Chiesa, in quanto essa ha
ricevuto da Dio la missione di annunciare a tutto il mondo la salvezza
soprannaturale di Cristo e di comunicarla effettivamente a ciascuna persona
umana. La comunità ecclesiale svolge quindi un ruolo che è di autentica
maternità nello spirito, e in questo senso non le si può negare di comunicare a
tutti i suoi figli lo spirito di Cristo; oltre a ciò la Chiesa offre un preziosissimo
contributo anche al di là dei propri confini per un’educazione e una maturazione
integrale dell’uomo, per il bene della società terrena e per l’edificazione di un
mondo migliore.
“Come si vede, il Concilio interpreta la famiglia cristiana in chiave
profondamente ecclesiale: essa ha una grande importanza (quanti momenti) per
il Popolo di Dio, cioè per la sua vita e il suo sviluppo (pro vita et progressu); e i
figli, tramite l’opera dei genitori, vengono introdotti gradualmente nel Popolo di
Dio, e così fanno la prima esperienza della Chiesa, oltre che della società umana.
L’apporto ecclesiale dei genitori è indicato nella loro opera educativa, in quanto
ordinata a aiutare i figli a Deum percipere (missione profetica) et colere
(missione sacerdotale) atque proximum diligere (missione regale).All’origine di
questa dimensione ecclesiale della famiglia cristiana sta il sacramento del
matrimonio: è questo che l’arricchisce di una gratia e di un officium, grazie e
missione da intendere dunque come dono e compito nel e per il Popolo di Dio”.
Il concetto di educazione, soprattutto in quanto viene qualificata come cristiana,
ha qui un’ampiezza di contenuto molto estesa, più di quanto comunemente si
intenda con questo termine. E’ formazione dell’uomo nell’integralità della sua
essenza, è sviluppo di tutte le virtualità insite in lui, implica il riconoscimento
che anche la sfera più intima e più alta, quella spirituale, richiede di essere
scoperta, promossa, arricchita sempre più.
Il contributo che i genitori, e i genitori attenti alle esigenze della fede in
modo del tutto singolare, possono dare in questa direzione è della massima
importanza, senz’altro superiore a quanto può fare la stessa scuola. L’educazione
impartita dai genitori sa toccare anche le corde dell’affettività, e si sviluppa in
un ambiente di intimità particolare di rapporti umani. Ma soprattutto essa,
quando diventa educazione autenticamente cristiana, si estende fino a quegli
interrogativi più profondi e fondamentali che ben presto nascono nell’animo di
ogni persona umana, sanno darvi una risposta esauriente e condivisa con altri
(genitori, fratelli, altri parenti e amici). La comunicazione dei valori evangelici e
ancor più la loro personale accettazione fanno della casa il primo luogo
dell’apostolato, una piccola Chiesa dove si vive l’amore verso Dio e la carità
verso i fratelli. L’educazione cristiana non si accontenta di perseguire solamente
una opera di trasmissione dei modelli e dei valori umani e sociali, ma vuol fare
della famiglia una comunità feconda in cui vengono formati uomini maturi,
cittadini onesti e cristiano responsabili. Nella famiglia cristiana si rende già
visibile il Popolo di Dio, perché i coniugi, uniti non solo dall’affetto umano ma
anche dall’unica fede e dall’unica grazia di Cristo, formano già un’”assemblea”,
un’”ecclesia” che vive tutta la propria vita, nelle situazioni che le si offrono, alla
luce dell’alleanza d’amore di Dio. E chi entra a far parte di questa famiglia,
sperimenta che si tratta non solo di un’aggregazione sociale, ma di una comunità
di chiamati in dialogo con il Dio d’amore.
CAPITOLO 3

IL DINAMISMO APOSTOLICO DELLA CHIESA


DOMESTICA

a) Genesi della dottrina sull’apostolato della famiglia.

Passiamo ora ad analizzare il decreto del Vaticano II sull’apostolato dei laici,


per vedere in che seno venga ripresa qui, in un contesto particolare la
definizione della famiglia cristiana come Chiesa domestica. In questo primo
momento vediamo innanzi tutto le vicende che hanno portato alla stesura
definitiva del documento “Apostolicam Actuositatem”, e le idee emerse nel
corso dei lunghi dibattiti: quelle che hanno guidato l’elaborazione del testo e
quelle di volta in volta accantonate.
Il 4 Giugno 1960 fu costituita una Commissione preparatoria per
l’Apostolato dei laici, presieduta dal card. Cento e formata da 58 membri e
consultori che le conferivano un carattere spiccatamente internazionale. Fin
dall’inizio dei lavori, che per diversi motivi presero il via solo in autunno, si fece
sentire prepotente l’esigenza che anche i laici fossero coinvolti direttamente
nella discussione di problemi che li riguardavano da vicino. Questa esigenza fu
espressa da ambedue le parti: da parte laicale, soprattutto per opera del
COPECIAL (Comité permanent des Congrès internationaux pour l’apostolat des
laïcs) e della Conferenza delle Organizzazioni Internazionali Cattoliche, e da
parte della Commissione conciliare, che chiese ripetutamente il consenso degli
organi superiori per una partecipazione viva e attiva dei laici stessi alla
riflessione dei vescovi, finchè si arrivò, molto più tardi però, alla nomina
ufficiale degli uditori. Fin dal momento dell’apertura dei lavori della
Commissione il presidente propose, con l’approvazione generale, la costituzione
di tre sottocommissioni, incaricate della riflessione sui principi generali
dell’apostolato dei laici, dell’azione sociale e dell’azione caritativa. Dal
novembre 1960 all’aprile 1962 si lavorò alacremente sulla base dei “vota”
espressi dai vescovi durante la consultazione generale antepreparatoria, del
Magistero pontificio sull’argomento, e dell’esperienza personale dei membri e
dei consultori della Commissione. Ne uscì uno “Schema di Costituzione
sull’Apostolato dei Laici”, che fu approvato l’8 aprile, e fu stampato in quattro
fascicoli secondo le quattro parti che lo componevano: in tutto 166 pagine.
Prima di poter essere distribuito ai Padri per la discussione in Aula, però, dovette
essere sottoposto all’approvazione della Commissione Centrale, che diede il suo
beneplacito senza difficoltà, ma fece solo rilevare l’eccessiva lunghezza del
documento e alcuni ritocchi necessari.
Questo schema affronta il tema della famiglia in vari punti, in modo
particolarmente significativo e consistente nella prima, nella seconda e nella
terza parte. La prospettiva che ci interessa qui più particolarmente è quella
adottata nel capitolo sesto della prima parte, intitolato “De familia ut subiecto
apostolatus”.
“Per matrimonium constituitur familia christiana, quae inde
subiectum apostolatus efficitur, immo et eiusdem apostolatus
pro omnibus membris suis schola. Apostolica autem haec
societatis familiaris actio peculiare hodie momentum obtinet,
cum efficacia familiae in ipsam Ecclesiam aedificandam
plenius agnoscatur”.
Il capitolo che vogliamo analizzare con attenzione è composto di otto
paragrafi preceduti da un preambolo. Il brano qui sopra riportato è tratto appunto
dal preambolo, che inizia con espressioni molto pregnanti e forti, che pur nella
loro stringatezza già inquadrano ciò che verrà poi esposto più diffusamente. Nei
primi due paragrafi, il 37 e il 38, si afferma molto opportunamente l’importanza
fondamentale del sacramento matrimoniale. La propagazione del Regno di
Cristo esige che le stesse famiglie non solo ricevano i benefici dell’azione
apostolica della Chiesa, ma anche che diventino, in modo a loro proprio,
collaboratrici attive di questo stesso apostolato e strumenti di redenzione.
“Coniugalis societas, ad propagationem generis humani
instituta, per matrimonii sacramentum qua talis Ecclesiae
inseritur et de plenitudine eius vitae vivit, propria ratione ad
aedificationem Corporis Christi ordinatur et gratiis ad hoc
congruentibus luculenter ditatur. Amoris et unionis Christi
cum Ecclesia, iam ab initio per unionem viri et muliebri
praefiguratae, vivam imagine in se coram Deo et hominibus
matrimonium christianum praebet, quod, testante Apostolo,
est “sacramentum magnum” in Christo et in Ecclesia”.
Sorprende come certe verità siano state affermate esplicitamente e
coscientemente già nel periodo preparatorio del Concilio Vaticano II. La
famiglia cristiana non può essere considerata esclusivamente come oggetto
passivo dell’apostolato della Chiesa. Essa ha un suo contributo da portare per
l’edificazione del Corpo Mistico di Cristo ed è quindi suo dovere portarlo perchè
fa parte della missione che Cristo le ha affidato nell’economia universale della
Redenzione. Il rapporto Chiesa-famiglia cristiana non è dunque opzionale o
secondario, ma è oggettivamente un rapporto strettissimo, che poi,
soggettivamente, è nell’interesse di ciascuna delle due parti vivere nel modo più
profondo e fecondo possibile. Il sacramento del matrimonio conferisce una
grazia particolare nel senso che inserisce in un modo particolare e nuovo nella
compagine ecclesiale i due coniugi, i quali – giova ricordarlo – sono già due
battezzati. La famiglia cristiana ha allora nella Chiesa un suo posto specifico.
Il sacramento del matrimonio rende la famiglia partecipe dell’azione
santificatrice della Chiesa, fin dal momento della stessa celebrazione, in cui I
coniugi sono reciprocamente ministri della grazia. In forza di questo sacramento
l’uno e l’altro coniuge ha l’incarico e il dovere di essere cooperatore della grazia
a beneficio dell’altro, e testimone della carità di Cristo e della Chiesa.
“Ad mutuam conformationem, ad assiduum se invicem
perficiendi studium coniuges sese impendant praesertim
propria in sacrario familiae munera adimplendo”.
La reciproca santificazione dei coniugi e la loro vita di amore fedele non
sono intese solo come frutto dell’azione della Chiesa, ma come “causa
efficiente” dell’edificazione della Chiesa: la nascita di una nuova famiglia
cristiana comporta una crescita nel Corpo Mistico. Proprio da questo sguardo
sulla famiglia dal punto di vista della sua santificazione emerge la bellissima
definizione di “sacrario”, luogo sacro, che allude, a nostro avviso, alla stessa
presenza santificante di Dio in seno alla comunità familiare.
Lo schema del 1962 continua affermando al numero 40 che i coniugi
cooperano all’edificazione della Chiesa con la propagazione della vita umana
secondo la volontà inviolabile di Dio. Questo non solamente a livello biologico
ma anche, e prioritariamente, a livello soprannaturale: con la sollecita
presentazione dei figli al Battesimo, l’educazione umana e cristiana,
trasmettendo ad essi la Parola di Dio e formandoli allo spirito e alle opere
dell’apostolato. E’ anche dovere dei genitori aiutare i figli a ricercare
attentamente ed accogliere volentieri la voce con la quale Dio li chiama a
partecipare da vicino all’opera del suo amore, sia formando una nuova famiglia
profondamente impregnata di fede e di spirito evangelico, sia dedicandosi
totalmente al servizio di Cristo nella vita sacerdotale o religiosa. Dal dono
proprio che i coniugi ricevono in forza del sacramento, deriva il compito
apostolico che essi sono chiamati ad espletare in maniera conforma al loro stato.
Come ogni apostolato anche quello familiare è finalizzato all’edificazione della
Chiesa, ma la famiglia è invitata innanzi tutto a costruire se stessa – con la
generazione di nuove vite umane e la loro formazione cristiana -, perché deve
costruirsi proprio come Chiesa. Il primo e fondamentale apostolato che i coniugi
esercitano è allora quello che essi si scambiano reciprocamente e che esercitano
entro i confini della propria famiglia.
“Familiae christianae communio et proinde eius apostolica
efficacia quam plurium fovetur per eius membrorum vitam
spiritualem et coniunctam orazione, qua vita familiaris magis
magisque particeps fit in cultu Corporis Mystici orantis et
sese Deo offerentis. (…) Inter diversas apostolatus familiaris
formas haec eminet: effusa caritate advenas et ospite,
praesertim temporalibus et spiritualibus bonis carentes, tecto
recipere, sicque Christi praesentiam in hac “Ecclesiae cellula”
quae est domus christiana apertam reddere”.
Non solo i coniugi, ma tutta la famiglia è invitata a farsi carico
dell’apostolato nella sua dimensione domestica e nella sua dimensione
ecclesiale. Questo impegno non è qualcosa di supererogatorio per chi voglia fare
del suo cristianesimo una realtà vissuta, perché esso permette alla famiglia di
essere realmente ciò che essa è, una “cellula di Chiesa”, una Chiesa domestica;
inerisce allo stesso fatto cristiani il dovere dell’apostolato, al battezzato in una
forma che è condivisa e fatta propria da tutti i laici, ai ministri ordinati in modo
loro proprio, alla famiglia conformemente alla sua vocazione specifica e allo
“status” che essa ha nella Chiesa.
La dimensione ecclesiale della famiglia è avvalorata, estrinsecamente, anche
dal fatto che l’apostolato che ha il dovere di esercitare secondo il carisma
affidatole, non si restringe al suo interno, ma si estende a tutta la società umana,
ai bisogni materiali e a quelli spirituali. Con una carità spinta più lontano, dice il
nostro schema, l’operosità apostolica della comunità coniugale e familiare si
diffonde dalla casa in ogni ambito della sua vita e della vita sociale. In modo
particolare essa è adatta all’esercizio di alcune attività apostoliche, come innanzi
tutto: preparare i fidanzati al matrimonio, portare aiuto ai coniugi e alle famiglie
che si trovano nella sofferenza morale o materiale, o a coloro che sono privi
della famiglia.
Una notazione particolarmente significativa si trova al numero 45, l’ultimo
del capitolo, che parla di alcune particolari circostanze in cui l’apostolato svolto
per mezzo della famiglia assume un’importanza speciale.
“Ad regiones quod attinet, in quibus propter persecutionem
actio pastoralis impeditur institutionesque ecclesiasticae
auferuntur vel deformantur, familiae christianae manent
ultima Corporis Mystici munimenta. Illic enim, quum alia
Sacramenta non iam possint conferri, parentes, tamquam
Traditionis et Ecclesiae tramites, liberis provident essentialia
salutis media: baptismum et fidei traditionem. Praeterea, per
Matrimonii sacramentum novae familiae constituuntur, quae
Ecclesiae communitatem continuent. Ita, in illis familiis,
quasi in catacombali perfugio, Ecclesia vitam degit
circumscriptam sane, sed pulcherrimorum sanctitatis
fructuum capacem, in qua Christus novum gratiae vernale
praeparat tempus”.
Laddove viene a mancare della Chiesa l’aspetto istituzionale e visibile e la
possibilità di una vita apostolica, si manifesta con tutta evidenza l’ecclesialità
della famiglia, la quale è l’ultima, la più piccola ma anche la più fondamentale
comunità costitutiva del corpo ecclesiale. In queste circostante il “munus
sanctificandi” della famiglia si esprime in un modo pieno, addirittura
sacramentale, con il conferimento del battesimo.
Questo testo estremamente ricco e accuratamente preparato si pone nella
linea del Magistero pontificio precedente, similmente a quanto aveva fatto anche
lo Schema “De Ecclesia”. Simili sono le affermazioni contenute nei due schemi,
ma questo “De Apostolatu laicorum” raggiunge una lucidità di esposizione e uno
sviluppo di analisi molto maggiori, tanto che da qui si prenderà spunto per una
trattazione più approfondita del tema della famiglia nello schema “De Ecclesia
in Mundo Huius Temporis”.
Il 16 Ottobre 1962 l’assemblea conciliare elesse i componenti della nuova
Commissione conciliare “De Apostolatu Fidelium”, composta di 16 membri, più
nove di nomina pontificia. Poiché un buon numero tra di essi non aveva
partecipato ai lavori preparatori, fu necessario riprendere pazientemente la
discussione, per formare una base sufficientemente ampia di consenso. Il
compito più importante che si presentò fin dalle prime riunioni fu quello di
abbreviare convenientemente il lungo testo del 1962, senza stravolgerne il senso,
approvato da tutti. Le prime proposte elaborate furono però improvvisamente
sconvolte da una serie di direttive, pubblicate su un libretto distribuito verso la
fine della prima sessione del Segretariato Generale; l’elenco abbreviato degli
schemi da discutere in Concilio dava al dodicesimo di essi un nuovo assetto.
Questi ne sarebbero stai i contenuti: “Principi generali concernenti: a)
l’apostolato dei laici in vista del Regno di Dio da promuovere direttamente; b)
l’apostolato dei laici nell’azione caritativa e sociale; c) le associazioni dei
fedeli”. La nostra Commissione fece però rilevare alla Commissione di
Coordinamento, di nuova costituzione, come fosse preferibile conservare la
struttura quadripartita elaborata in fase preparatoria.
La risposta, del 30 novembre, conteneva tre importanti decisioni: 1) studiare
la questione delle associazioni dei fedeli attraverso una commissione mista con
quella della disciplina del clero e dei fedeli, al fine di elaborare un testo adatto
da aggiungere allo schem; 2) prendere contatto con la Commissione dottrinale
per collaborare ad una formulazione riveduta del capitolo sui laici dello schema
“De Ecclesia”, più fondata teologicamente; 3) costituire una Commissione mista
permanente con quella dottrinale, con lo scopo di preparare un nuovo schema
“De Ecclesiae principiis et actione ad bonum societatis”, che diventerà dopo
lunghe vicende la “Gaudium et Spes”. Questa notevole mole di lavoro messa
sulle spalle della Commissione per l’apostolato dei fedeli ne condizionò tutti i
lavori fino al termine del Concilio; e soprattutto il capitolo sesto,
precedentemente analizzato, che fu trasferito per entrare a far parte del nuovo
“Schema XVII”.
La Commissione di Coordinamento diede inoltre il suo benestare a che il
nostro documento mantenesse la sua divisione in quattro parti, ma ribadì la
necessità di uno snellimento della mole. In particolare la prima parte avrebbe
dovuto esporre i principi generali in forma più organica, in ordine non solo alla
evangelizzazione, ma anche all’azione caritativa e sociale, cosicchè le parti 2 e 3
avrebbero potuto essere sintetizzate maggiormente. Dal 14 al 19 Gennaio 1963
in una riunione ristretta, la Commissione riscrisse la prima parte. Il testo sulla
famiglia che ci interessa qui più specificatamente è il primo capitolo del terzo
titolo: “De apostolatu laicorum iuxta varias vitae condiciones”: “De familia”. In
esso si esprime nuovamente il convincimento che ogni famiglia è chiamata ad
una partecipazione attiva alla costruzione e allo sviluppo del Regno di Crist: non
è sufficiente che esse ricevano i benefici dell’azione apostolica della Chiesa, ma
bisogna anche che, in modo a loro proprio, ne divengano collaboratrici e veri
strumenti di redenzione.
“Vi ipsius matrimonii sacramenti uterque coniux munus et
officium habet ut erga alterum gratiae sit cooperator, necnon
caritatis Christi et Ecclesiae testis: et ambo munus habent
christianae educandi filios, ipsos adiuvandi in vocatione Dei
circa eos dignoscenda et genere vitae libere eligendo, et in eis
spiritum apostolatus fovendi. // Tota insuper christiana familia
particeps est apostolatus Ecclesiae”.
La materia che nel 1962 costituiva un capitolo a sé, è ora condensata nel solo
numero 30, che contiene per altro alcune importanti sottolineature sul valore
ecclesiale della famiglia: il dovere di esercitare un apostolato attivo e di fungere
da strumento di salvezza, sia al suo interno, sia nell’ambito più vasto della
società umana; l’importanza della grazia sacramentale del matrimonio che i
coniugi si donano reciprocamente santificandosi; il dovere di operare con spirito
ecclesiale per l’educazione cristiana dei figli, per l’animazione spirituale e
comunitaria della Chiesa locale, e per un’adeguata promozione umana nel
proprio ambiente di vita.
La Commissione di coordinamento presentò lo schema sull’apostolato dei
laici al Santo Padre Giovanni XXIII, e questi il 22 aprile decise che fosse
introdotto per la discussione in Aula. All’apertura della seconda sessione del
Concilio lo schema del decreto era stato inscritto nell’agenda dei lavori, e tutto
era pronto almeno per una breve presentazione. Nel frattempo però i progressi
realizzati dagli schemi sulla Chiesa (il cui capitolo riguardante i laici fu a lungo
dibattuto) e sull’ecumenismo avevano mostrato con chiarezza alcune lacune cui
bisognava porre rimedio nel nostro documento. Così il relatore della
Commissione, Mons. Hengsbach, invitato in Aula il 2 dicembre 1963, lesse una
relazione di presentazione del decreto e chiese ai Padri di inviare per iscritto
indicazioni tali da guidare il lavoro di revisione.
Questo fu portato avanti da un gruppo ristretto, e condotto a termine la prima
settimana di gennaio, con la stesura di un testo piuttosto rimaneggiato. Ma il 25
gennaio le nuove direttive diramate dalla Commissione di coordinamento resero
necessaria una nuova riunione plenaria della Commissione “De Apostolatu
Fidelium”, in cui fu approvata una radicale riorganizzazione dello schema
proposta da P.Tucci. Questo testo, approvato dalla Commissione di
coordinamento, fu edito con la data del 27 aprile 1964 per essere distribuito ai
Padri conciliari. La parte sulla famiglia è collocata nel secondo capitolo e
presenta rispetto al testo precedente solo pochi ritocchi, nel senso soprattutto di
tendere a una formulazione più essenziale. Viene purtroppo espunto quasi tutto il
capoverso che trattava della partecipazione di tutta la famiglia all’apostolato
della Chiesa, ed esemplificava citando alcune categorie di persone
particolarmente bisognose di attenzione.
La discussione pubblica ebbe luogo nell’aula conciliare durante la terza
sessione del Concilio, dal 6 al 13 ottobre 1964. Gli interventi, scritti e orali
furono molto numerosi, e furono toccate varie questioni nodali. L’argomento
della famiglia invece rimase piuttosto emarginato, in questa sede, molto
probabilmente perché l’attenzione e l’impegno dei Padri erano assorbiti dalla
stesura dello schema XIII, che comprendeva esplicitamente una parte tutta
dedicata a questo tema.
Solo Mons. Kozlowiezcki, arcivescovo di Lusaka, accenna alla vita
familiare, polemizzando contro una concezione troppo ristretta dell’apostolato,
che lo identifica con la predicazione del Vangelo. Se il concetto di apostolato
viene inteso più correttamente, egli afferma, allora anche tutta la vita
matrimoniale e familiare autenticamente cristiana, l’istruzione religiosa
impartita dai genitori e dai parenti acquistano un valore e un senso apostolici.
Allora si può dire veramente che anche la famiglia cristiana aiuta la Chiesa nello
svolgimento della sua missione, perché l’apostolato comprende tutto quanto
contribuisce a sviluppare e perfezionare la vita della Chiesa.
Il vescovo indiano ausiliare di Delhi Mons. Fernandes fa un rilievo che ci
sembra, almeno da un punto di vista metodologico, fecondissimo. Le famiglie
veramente cristiane influiscono più per ciò che sono che per ciò che fanno mossi
da un esplicito motivo apostolico. La loro testimonianza è molto maggiore e più
eloquente quando dimostrano concretamente uno spirito evangelico di reciproco
amore fraterno, anche se non dev’essere affatto esclusa o sottovalutata la
diffusione della fede mediante la predicazione e la parola in genere. Questo
apostolato importantissimo, qualunque forma prenda di fatto, dev’essere portato
avanti, nell’opinione del presule asiatico, dai due coniugi congiuntamente, e in
questa loro unione risiede una condizione particolare di efficacia.
Se sembrerebbe a prima vista scontato parlare del primato del piano
ontologico su quello pastorale, diventa significativa e fondamentale
l’applicazione di questo principio alla riflessione sull’ecclesialità della famiglia.
La Chiesa non può limitarsi a proclamare le lodi della famiglia cristiana per un
motivo strumentale, quasi per voler incoraggiare questa comunità a un apporto
più incisivo ed efficace sul terreno di un apostolato monopolizzato. La Chiesa
deve invece prendere coscienza che la forza della testimonianza cristiana della
famiglia sarà tanto maggiore quanto più questa diventerà ciò che “è”. La crescita
della famiglia nella sua qualifica cristiana e come cellula di Chiesa comporta di
fatto anche una crescita della Chiesa e un suo consolidamento. La conclusione di
Mons. Fernandes scende anche al livello pratico-pastorale: la famiglia cristiana
deve avere nella comunità ecclesiale un suo posto proprio, individuato dalla sua
struttura ontologica-sacramentale, e deve avere uno stile apostolico, che è
tipicamente coniugale e familiare.
Anche l’intervento di Mons. De Vito, vescovo di Lucknow (India), presenta
spunti originali. Egli sottolinea come i fedeli, ricevendo il battesimo, non solo
diventano membra del Corpo Mistico ma prendono anche parte al sacerdozio di
Cristo. Si desidera quindi che nello schema venga detto chiaramente che i fedeli
sono ministri ordinari, propri ed esclusivi del sacramento del matrimonio: lo
sposo conferisce il sacramento alla sposa e a sua volta la sposa conferisce il
sacramento allo sposo. Essi, in quanto partecipi del sacerdozio comune dei
fedeli, attivamente e reciprocamente conferiscono al compagno la grazia
santificante sacramentale, allo stesso modo che i sacerdoti gerarchici
conferiscono la grazia santificante con l’amministrazione di altri sacramenti.
Viene esplicitamente enucleato un concetto che abbiamo visto già presente fra le
righe in altri interventi dei Padri ed anche nei vari schemi proposti. Ricorrendo
ad un paragone fra la grazia santificante propria del Battesimo e quella conferita
dal matrimonio, il presule afferma che il sacerdozio comune dei fedeli, almeno
nella sua capacità di santificare, viene determinato dal quinto sacramento in
modo originale. Questo assume un’importanza particolare quando si considera la
funzione mediatrice della Chiesa per la santificazione dell’uomo: lo sposo e la
sposa vivono nel matrimonio questa mediazione in modo così particolare, da
fare di essi e della comunità cui la loro unione dà origine una Chiesa a
dimensioni domestiche.
I problemi suscitati dalla discussione nell’aula conciliare stimolarono molti
presuli ad esprimere il loro pensiero anche in seguito, in forma scritta. Il tenore
dei discorsi e la prospettiva da cui ognuno si pone sono molto vari. C’è chi,
come il vescovo di Vicenza Mons. Zinato, si limita ad auspicare una revisione
del testo tale che venga messa in maggiore evidenza l’importanza della famiglia
nella vita dell’uomo, della società e della Chiesa; c’è invece chi, come il Card
Léger, lamenta un uso esagerato del termine apostolato, come quando viene
applicato all’amore coniugale e all’educazione della prole, e denuncia il rischio
di svuotarne il profondo significato; e infine Mons. Gouyon, arcivescovo di
Rennes, manifesta il timore – a nostro vedere piuttosto curioso – che i figli
formati in una famiglia attivamente impegnata nell’apostolato finiscano per
svalutare la missione del sacerdote, che è invece il vero sostegno di ogni azione
apostolica dei laici.
Il canadese Mons. Coderre, vescovo di Saint John, dal canto suo, esprime
perplessità a proposito del termine “apostolatus adiutrices”, applicato alle
famiglie cristiane in riferimento alla Chiesa e all’azione apostolica della
Gerarchia in particolare. Se con tale espressione si intende “agenti di apostolato”
essa è accettabile, ma se s’intende che la famiglia è soltanto “ausiliare”
all’apostolato, è preferibile una frase più chiara, in quanto la famiglia è
veramente uno dei campi d’apostolato, e non solo di singoli individui, ma di una
coppia. L’espressione “campo di apostolato” è utilizzata per designare non tanto
il termine verso cui si dirige l’apostolato della Chiesa, ma piuttosto l’ambiente
in cui questo stesso apostolato si concretizza e da cui si irradia. Il presule
americano ribadisce nuovamente l’autonomia della famiglia nel campo
apostolico, che dev’essere vissuta non come antagonismo, ma come
cooperazione responsabile su moduli propri di azione, caratterizzati, tra l’altro,
anche per il fatto che hanno per soggetto non un individuo o una società di
individui, ma una coppia, un “foyer”.
Due interventi molto significativi sono quelli dei vescovi indiani Mons.
D’Rosario e Mons. Trevor Picachy. Il primo, vescovo di Dibrugarh, attento alla
dimensione pastorale del problema, fa eco, in certo modo, ad alcune delle idee
espresse da Mons. Fiordelli nel corso della discussione sullo schema “De
Ecclesia”.
La famiglia è per la società e per la Chiesa una cellula, il più piccolo
componente di un organismo armonico, ma un componente estremamente vitale.
Questa realtà non ha origine a partire dalla fede cristiana, ma trova conferma
anche in altre religioni come l’ebraismo e l’islamismo, in cui la dimensione
religiosa, culturale, oltre che sociale ed educativa, della famiglia è molto viva e
feconda di bene.
“I propose that Father and Mother be spoken of in glowing
terms in this schema and that we recognise the great mission
entrusted to them in sharing the universal priesthood. Father
and Mother should be urged to be also the dispensers of
religious knowledge and followers-up of its living in their
children.
(…) The Church could enrich this mission by indulgences.
Father may be allowed to exercise blessings as sacramentals,
blessing of the table, blessing of children, and sacred objects,
etc. The baptism of children could be performed in the homes
and Father may be allowed to carry the Holy Eucharist to the
sick of the family whem the minister is not available. I feel
that if the Father of the family is made to share in the
priesthood in such practical ways, our Catholic children will
know, love and live their Faith, through peaceful days and
through persecution when the priest may not be available at
all.
Viene qui espressa di nuovo con forza l’esigenza che la famiglia sia sul
piano della vita vissuta un’autentica comunità ecclesiale.
Mons. Trevor Picachy, vescovo di Jamshedpur, parla a nome della
Conferenza Episcopale Indiana, per ribadire quanto sia importante soprattutto
oggi, in una situazione di crisi e di sfaldamento per molte famiglie, che
l’apostolato familiare venga assunto dai cristiani responsabilmente e
attivamente. In un modo suo proprio la famiglia cristiana può – e quindi deve –
contribuire al superamento di questa situazione dolorosa, e deve farlo operando
in quanto comunità familiare. Tutto questo fa della famiglia cristiana un membro
vivo della Chiesa, partecipe dei doni e della missione che essa ha ricevuto da
Dio in Cristo.
“Necesse ergo est ut apostolatus familiae qua talis foveatur.
Laudandus est apostolatus qui fit per associationes separatim
pro viris, pro mulieribus, pro iuvenibus, pueris, puellis,
opificibus et aliis; sed prima et naturalis associatio est
familia. Apostolatus familiaris qua talis debet habere
prioritatem super alias formas. Apostolatus iste iam viget in
non paucis nationibus; sed quo magis extenditur et
consolidator, eo maiores erunt fructus pro tota Ecclesia. (…)
Discant ergo coniuges simul adlaborare ut viciniores vel
eiusdem condicionis familiae meliorem et pleniorem vitam
christianam agant et sine dubio ipsorum vita sanctior evadet,
ut experiential docet”.
Si fa rilevare però, nell’intervento, che tutto questo suppone una cura
pastorale assidua da parte dei sacerdoti verso ogni singola famiglia, per
stimolarne la crescita nella fede, nell’apostolato e nella partecipazione alla vita
della comunità locale. In conclusione viene espresso il desiderio che l’apostolato
familiare venga raccomandato dal Concilio più calorosamente, ed anche ai
pastori venga inculcata maggiormente la sua importanza.
Le indicazioni emerse nel corso del dibattito in aula, e dalle comunicazioni
pervenute per iscritto, vennero riprese verso la fine della terza sessione, in una
riunione plenaria della Commissione dell’Apostolato dei Fedeli, tenuta dal 25 al
30 gennaio 1965 allo scopo di correggere ulteriormente il testo dello schema
dell’anno precedente. Questa redazione, dopo essere stata rivista anche nella
forma latina, fu data alle stampe con la data del 28 maggio 1965 per essere
discussa nella quarta sessione del Concilio.
Il paragrafo 11 inizia sottolineando innanzi tutto la singolare importanza
della comunità coniugale-familiare, sia per la società civile, sia per la Chiesa: lo
stesso Creatore di tutte le cose l’ha costituita principio e fondamento della vita
sociale umana, e con la sua grazia l’ha resa un grande sacramento in Cristo e
nella Chiesa. Da queste caratteristiche essenziali consegue, per la medesima
comunità, il dovere apostolico, proprio dei coniugi e delle famiglie cristiane, di
testimoniare la fede, fra i suoi stessi membri e al di fuori di se stessa.
“Coniuges christiani sibi invicem, filiis suis ceterisque
familiaribus, gratiae cooperatores sunt et fidei testes. Filiis
suis ipsi sunt primi fidei praecones et educators, verbo et
exemplo eos ad vitam christianam et apostolicam formantes;
in eorum vocatione seligenda prudente eos adiuvantes et
vacationem sacram, in eis forte detectam, omni cura
foventes”.
A questo punto i Padri conciliari fanno rilevare che è sempre stato dovere dei
coniugi, tra l’altro, vivere generosamente, dandone l’esempio con la propria
condotta quotidiana di vita, l’indissolubilità e la santità del vincolo
matrimoniale, affermare ed esercitare il diritto-dovere, spettante ai genitori, di
educare cristianamente i propri figli e difendere la dignità intrinseca e
l’autonomia della famiglia da ogni potere esterno che pretenda di esautorarla e
sfigurarla. Questa è oggi, afferma il nostro schema, la parte principale
dell’apostolato familiare. E’ necessario quindi che gli interessati cooperino fra
loro, vigilando che tali diritti siano riconosciuti dalla legislazione civile, e
operando attivamente perché anche nella vita sociale le esigenze di una sana vita
familiare siano tenute nella debita considerazione, soprattutto per quanto
riguarda l’abitazione, le condizioni di lavoro, la sicurezza sociale e gli oneri
fiscali.
“Familia ipsa, utpote vitalis et fundamentalis cellula
societatis, suam divinitus acceptam missionem adimplebit si:
per mutuam pietatem membrorum et communem orazione,
tamquam sanctuarium et extensio Ecclesiae esista; cultu
religioso publico et cultu humano societatem aedificet in
utroque ordine; caritate sua et hospitalitate suam beneficam
vim quoquoversus diffundat”.
Dopo aver elencato, a mo’ di esempio, alcune opere di apostolato
particolarmente indicate alle famiglie, il paragrafo che stiamo esaminando
prende in considerazione le situazioni di difficoltà in cui, dove è impedita o è
agli inizi l’attività organizzata e pubblica della Chiesa, la famiglia cristiana può
portare un contributo di primaria importanza. E conclude con un invito a
potenziare le associazioni di apostolato familiare, che sono incoraggiate e lodate,
e in cui tutte le famiglie sono invitate a convogliare e unire le loro forze.
“In regionibus in quibus prima Evangelii sparguntur semina,
vel Ecclesia in suis primordiis exsistit, vel in aliquo gravi
discrimine versatur, familiae christianae, tota vita sua
Evangelio cohaerentes ac matrimonii christiani exemplum
praebentes, pretiosissimum Christi testimonium mundo
perhibent”.
E’ difficile raffrontare le singole frasi di questo brano con quello
corrispondente del 1964, per le numerose modificazioni apportate: esso si
avvicina molto più dappresso al testo dell’”Apostolicam Actuositatem”. Anche
per quanto riguarda il contenuto è stato preferito un ordine espositivo diverso. In
precedenza il discorso prendeva inizio da considerazioni sull’importanza
dell’apostolato familiare nella difficile situazione attuale e per un’efficace
propagazione del Regno di Dio, passava poi al fondamento di questo stesso
apostolato che è la grazia sacramentale del matrimonio, per concludere con una
breve esemplificazione concreta e con un incoraggiamento alle associazioni
apostoliche delle famiglie. Ora invece il “textus emendatus” parla nel primo
capoverso del “coniugale consortium” che il Creatore volle elevare con la sua
grazia a “sacramentum magnum”. Sulla base di quanto affermato nella “Lumen
Gentium”, nel secondo capoverso si parla del dovere dei genitori di fare della
propria casa una Chiesa, nella santificazione ed edificazione vicendevole. Molto
più numerose sono le opere portate ad esempio di un apostolato familiare
autentico ed indicate ai coniugi per l’espletamento della loro missione. Esse si
estendono dal campo dell’evangelizzazione e della catechesi a quello della
promozione umana. Ogni singolo paragrafo è accompagnato da una relazione in
cui la Commissione conciliare dà ragione delle modifiche apportate e delle
richieste che sono state invece respinte. Così si fa rilevare come nelle prime
righe traspaia la preminenza della dimensione ontologica della famiglia su
quella apostolica, nel senso della comunità domestica può influire sul suo
ambiente – e anche al suo interno – più per ciò che è, che per ciò che fa. Da
questo presupposto diventa chiaro che il primo dovere apostolico della famiglia
cristiana è la procreazione e l’educazione dei figli, perché così essa diventa ciò
che “è”, secondo la missione ricevuta da Dio. Per ovviare a una certa mancanza
di realismo, notata da alcuni Padri, il testo prosegue elencando una serie di
attività, religiose e sociali, tendenti a fare della famiglia una vera comunità
cristiana aperta all’incontro e al dialogo con Dio da una parte, e al soccorso
caritatevole dei bisogni umani dall’altra: adottare come figli i bambini
abbandonati, accogliere con benevolenza i forestieri, dare il proprio contributo
nella direzione di scuole, aiutare gli adolescenti con il consiglio e con mezzi
economici, preparare i fidanzati al matrimonio, sostenere i coniugi e le famiglie
che si trovano in difficoltà materiale e morale, prendersi cura delle persone
anziane e dei vecchi. Vale la pena di osservare come la famiglia riunita per la
preghiera comune viene qui definita “tamquam sanctuarium et extensio
Ecclesiae”, il che porta a supporre che anche quando nel Decreto conciliare il
secondo sostantivo verrà abbandonato, rimane esclusa l’attribuzione
dell’avverbio “tamquam” di un valore soltanto metaforico.
All’inizio della quarta sessione del Concilio, dal 23 al 27 settembre, dopo la
relazione di Mons. Hengsbach, ebbero luogo le votazioni per “placet”, “non
placet”, “placet iuxta Modum”. Per tutto lo schema furono espresse circa 4000
richieste di emendamento, che furono trasmesse per l’esamea sei
Sottocommissioni “De Apostolatu Fidelium” corrispondenti ai sei capitoli dello
schema.
Il 28 ottobre 1965 fu dato alle stampe il testo corretto accompagnato dalla
“expensio Modorum” approvata dalla Commissione in seduta plenaria. Gli
emendamenti accettati furono anche qui quelli che non avrebbero intaccato la
sostanza del testo, che dalla votazione era uscito approvato a larghissima
maggioranza (i “no” non erano stati mai più di dieci!). Sei Padri proposero che
la frase su cui abbiamo più sopra richiamato l’attenzione e nella quale si
definiva la famiglia “extensio Ecclesiae”, fosse completata nel modo seguente,
conformemente a quanto contenuto nella “Lumen Gentium”: “et extensio quasi
domestica Ecclesiae”. Il parere negativo espresso dalla Commissione, e
purtroppo non motivato, non toglie che si trattasse di una proposta che avrebbe
meritato più attenta considerazione, anche se aveva indebitamente il difetto di
considerare la famiglia cristiana non come una cellula della stessa Chiesa, ma
quasi come un suo prolungamento esterno. Per evitare ulteriori problemi, tutto
l’inciso fu espunto e rimase la frase “tamquam domesticum sanctuarium
Ecclesiae”. Con questa immagine biblica del tempio, casa in cui Dio abita, si
apre sulla famiglia cristiana un orizzonte amplissimo, spalancato su tutta la
storia della salvezza e della Redenzione dell’uomo. La grazia divina che fa di
ogni uomo credente un tempio vivo è comunicata alla singola persona attraverso
la mediazione della Chiesa, e la famiglia cristiana è in questo senso un
“santuario della Chiesa” per ciascuno dei suoi membri e per tutta la comunità.
Dell’intero numero la grande maggioranza dei “Modi” riguarda proprio queste
righe.
“67 – (…) 279 Patres proponunt textum sequentem: “Eam
familia ipsa missionem divinitus accepit ut sit vitali set
fundamentalis cellula societatis. Quam missionem adimplebit
si tamquam domesticum sanctuarium Ecclesiae per mutuam
membrorum pietatem et orationem in communi Deo factam
existat; si ex hoc sanctuario prodiens tota familia in cultum
liturgicum Ecclesiae se inserat; si denique, vi caritatis et
orationis domesticate, familia actuosam hospitalitatem
praestet, iustitiam aliaque bona opera in servitium fratrum
omnium necessitate laborantium promoveat”.
R. – Admittitur quasi ad verbum.
68. – (…) 65 Patres proponunt: “Familia ipsa, utpote vitalis et
fundamentalis cellula societatis suam divinitus acceptam
missionem adimplet mutua membrorum et communi oratione,
testimonio fidei et cultu humano pro aedificatione et profectu
hominum et societatis, caritate sua et hospitalitate suam
beneficam vim quoquo versus diffondente. (…)
6 – Pag. 32, linn. 15-32: Substituatur verbis prioris textus (2
Patres). (…) 70 – (…) 1 Pater: dicatur: “missionem adimplet
per mutuam pietatem…sanctuarium et Ecclesia domestica;
per cultum religiosum publicum et cultum humanum
societatem aedificans in utroque ordine; per caritatem suam
beneficam vim diffundens”.
R. – Vide supra ad M. 67” .
Il “textus recognitus” presentato in aula il 10 novembre per una votazione
complessiva, fu approvato definitivamente con solo due voti contrari, e fu
promulgato da Paolo VI nella Sessione Pubblica del 18 novembre 1965.

b) “Apostolicam Actuositatem” n. 11: famiglia cristiana, testimone


al mondo della realtà ecclesiale.

Passiamo ora ad analizzare il decreto conciliare sull’apostolato dei laici, per


vedere in che senso venga ripresa qui, in un contesto particolare, la definizione
della famiglia cristiana come Chiesa domestica. Il punto in cui ci si accosta a
questo tema in modo più diretto è il quarto capoverso del paragrafo 11.
“Hanc familia ipsa missionem divinitus accepit ut sit prima et
vitalis cellula societatis. Quam missionem adimplebit, si per
mutuam membrorum pietatem et oratione in communi Deo
factam, tamquam domesticum sanctuarium Ecclesiae se
exhibeat; si tota familia in cultum liturgicum Ecclesiae se
inserat; si denique, familia acquosa hospitalitatem praestet,
iustitiam aliaque bona opera in servitium omnium fratrum
necessitate laborantium promoveat. Inter varia opera
apostolatus familiaris sequentia enumerare licet: infantes
derelictos in filios adoptare, advenas benigne excipere,
scholis moderandis adiutricem operam navare, adolescentibus
consilio et opibus adesse, sponsos ut melius sese ad
matrimonium praeparent adiuvare, ad catechesim operam
praestare coniuges et familias in discrimine materiali vel
morali versantes sustentare, senibus non solum necessaria
providere sed etiam progressus economici aequos fructus
procurare.
Semper et ubique, sed peculiari modo in regionibus in quibus
pima Evangelii sparguntur semina, vel Ecclesia in suis
primordiis exsistit, vel in aliquo gravi discrimine versatur
familiae christianae, tota vita sua Evangelio cohaerentes ac
matrimonii christiani exemplum praebentes, pretiosissimum
Christi testimonium mundo perhibent”.
Questo testo si colloca nel terzo capitolo, intitolato “De variis apostolatus
campis”, e preceduto da un’esposizione sulla “vocazione dei laici all’apostolato”
e sui fini da perseguire in questo ambito. Può essere opportuno dare uno sguardo
a tutto il numero 11, che è dedicato proprio all’apostolato della famiglia e tra le
famiglie. Si esordisce mettendo in risalto la fondamentale importanza che la
famiglia in quanto tale, riveste sia per la Chiesa sia per la società umana. Si
asserisce che essa è stata voluta da Dio stesso come fondamento della società
civile, ma, avendola poi dotata di un carisma soprannaturale mediante la grazia
matrimoniale, l’ha provveduta di una dignità e di una missione particolari anche
in seno alla Chiesa. In armonia con quanto affermato dalla “Lumen Gentium”, si
ribadisce anche qui che i coniugi cristiani sono cooperatori della grazia e
testimoni della fede reciprocamente e nei confronti dei figli e degli altri
familiari. Essi sono per i loro figli i primi araldi della fede ed educatori; li
formano alla vita cristiana e apostolica con la parola e con l’esempio.
Il terzo capoverso parla ampiamente dei doveri dell’apostolato familiare in
campo civile, per una giusta tutela della famiglia, dei suoi diritti e dei suoi
valori. Il capoverso che consideriamo qui più da vicino, invece, si sofferma
sull’apostolato della famiglia cristiana entro la Chiesa.
“L’interpretazione ecclesiale della famiglia è fatta, almeno in modo diretto,
in chiave dinamico-operativa: in forma più precisa in rapporto ad una vita di
reciproco affetto e di preghiera comune. Se il testo precedente [LG 11] legava la
tematica della Ecclesia domestica direttamente alla missione profetica dei
genitori, questo prende in considerazione l’ambito liturgico e caritativo-
pastorale: in questa linea, come potrà emergere da altri testi, non sarà difficile
interpretare la missione ecclesiale della famiglia cristiana sullo schema del
triplex munus di Cristo e della Chiesa: il sacerdozio, il profetismo e la regalità o
carità pastorale”. Questa dimensione ecclesiale della famiglia non crea alcuna
dicotomia al suo interno, né la spinge a un impegno così totale in seno alla
comunità cristiana da distrarla dai doveri che essa deve assolvere in campo
civile e sociale. Anzi non vi è nemmeno contraddizione fra vita ecclesiale e vita
civile-politica. Quest’ultima sarà vissuta dalla famiglia cristiana con tanto
maggior impegno e senso di responsabilità quanto più essa si mostri veramente
al suo interno come un santuario domestico, in cui vige una profonda unità di
affetti e di intenti che supera e compone le stesse diversità, in cui l’orazione
comune crea un’autentica comunità cristiana. Ci sembra però ingannevole
fermarsi qui, come se ci trovassimo al centro del nostro tema. La frase più forte
e l’espressione più radicale della “Apostolicam Actuosistatem” a proposito della
famiglia intesa come piccola Chiesa non è quella in cui compare più
esplicitamente questa parola. Infatti non basta la preghiera per fare di una
comunità umana una Chiesa. Se teniamo fissa l’attenzione sul senso vero e
profondo di questa realtà – famiglia, Chiesa domestica – troviamo nelle righe
successive una dottrina più ricca. La struttura di questo brano sembra procedere
come per sovrapposizione di strati complementari, che si arricchiscono e si
chiarificano a vicenda. In particolare la descrizione della dimensione ecclesiale
dell’apostolato familiare sembra avere un ritmo ternario: la preghiera, il culto
liturgico, la giustizia e la carità. Tutti questi aspetti sono presi insieme, e stanno
ad indicare la molteplicità dei modi in cui la comunità scaturita dal matrimonio
cristiano può esplicitare e vivere la sua appartenenza ecclesiale. Anche qui il
punto di vista da assumere per una corretta lettura del documento è quello
ecclesiologico, in quanto è questo il fulcro, il cardine attorno al quale ruota
intenzionalmente tutta la complessa realtà del Concilio Vaticano II. L’orazione,
che unisce l’uomo a Dio in un misterioso dialogo d’amore, la liturgia che
esprime questo dialogo in una dimensione comunitaria, e la giustizia-carità che
oltre ad essere l’unico “comandamento” cristiano è anche il segno distintivo dei
seguaci di Gesù, sono tre criteri discriminanti per individuare l’esistenza di una
comunità cristiana, e di una “Chiesa”. L’individuare questi tre criteri nella
famiglia autenticamente cristiana e il proporli come compito assegnatole da Dio
stesso, equivale a nostro giudizio all’affermazione che la famiglia cristiana è in
qualche modo misteriosamente una Chiesa domestica. Per questo nella seconda
parte del capoverso vengono indicate mete concrete dell’apostolato familiare.
Mentre il capoverso precedente, muovendo da considerazioni di tipo sociale
indicava degli impegni per sé assumibili da ogni famiglia, anche se non
strettamente cristiana, e di riferiva quindi più specificatamente alla dimensione
“umana” propria di ogni famiglia, le opere dell’apostolato familiare indicate qui
sono connotate in modo più radicalmente cristiano.
“La fede familiare non può limitarsi ad una contemplazione astratta della verità
cristiana, deve trasformarsi in azione, perché essa implica l’amore e
l’espressione dell’amore è l’azione”.
CAPITOLO 4

IMPORTANZA DI UNA FAMIGLIA CRISTIANA


PRESENTE AL MONDO CONTEMPORANEO.

a) Lo sviluppo del tema dell’ecclesialità della famiglia cristiana


nella “Gaudium et Spes”.

Uno dei più importanto documenti conciliari che trattano con maggiore
approfondimento e attenzione il tema del matrimonio e della famiglia è la
Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. L’elaborazione
di questo testo è stata particolarmente contrastata da vicende complesse e dalla
stessa vastità dei problemi affrontati. Noi ci limiteremo qui a richiamare gli
eventi più determinanti, ponendo nelle note frequenti richiami a fonti dettagliate
e autorevoli; inoltre avremo sempre presente nell’intenzionalità non tutto il
capitolo primo della seconda parte, ma solo i punti in cui più direttamente si
parla della famiglia dal punto di vista teologico e particolarmente di essa in
stretta connessione con la Chiesa.
Risalendo alle origini della “Gaudium et Spes”, è possibile rintracciare un
lontano antecedente sin fra gli schemi elaborati dalle Commissioni preparatorie
del Concilio. Lo schema “De Castitate, Matrimonio, Familia, Virginitate”, più
che alla storia, appartiene alla preistoria della nostra Costituzione, ma è
significativo per comprendere il tenore di una teologia del matrimonio, quale
veniva comunemente condivisa dagli studiosi negli anni preconciliari. Esso fu
preparato dalla Commissione teologica fondendo insieme il capitolo “De
Castitate et Pudicitia Christiana” appartenente alla Costituzione “De Ordine
Morali” con lo schema “De Matrimonio et Familia”, secondo quanto desiderava
la Commissione Centrale preparatoria. Questa, approvato il testo il 13 luglio
1962, lo inviò ai Padri in vista di un dibattito in Aula, che però non avrà mai
luogo. Questo schema di Costituzione era composto di due parti, di cui la
seconda era dedicata al matrimonio e alla famiglia. Vala però la pena di leggere
anche il proemio, che, anche se in forma incerta e non priva di contraddizioni,
vuole mettere in stretto rapporto la Chiesa, la comunità familiare e la verginità
abbracciata per il Regno dei Cieli.
“Cum Ecclesia Catholica magna sit familia, ex virginali simul
et sponsali cun Iesu Christo unione orta: numquam enim
Salvator sponsam suam sanguinem acquisitam, castissime
foecundam reddere desinit verbo vitae et gratia Spiritus
Sancti: idcirco S.Synodus in una eademque Constitutione
dogmatica nobilitatem extollere tuerique decreti tam castae
continentiae eiusque floris pulcherrimi, virginitatis sacrae,
quam casti connubii eiusque fructus celesti, familiae
christianae”.
Il matrimonio, istituito da Dio per la moltiplicazione del genere umano, è
buono per sua natura, ma, elevato da Gesù Cristo alla dignità di sacramento,
diventa strumento di santificazione, e i coniugi cristiani sono l’uno per l’altro
cooperatori della grazia. Ne conseghe che pur non essendo uno stato di
perfezione evangelica, il matrimonio esige, per essere vissuto secondo la
vocazione divina, una “sua perfezione”. Il terzo capitolo si apre con un
interessante paragrafo sull’”origine e la dignità della famiglia cristiana”.
“Familia ex ipso ordine divino parentibus et prole
constituitur, et quidem, ex legitimo matrimonio, quo
deficiente per se neque dari potest, coram Deo et Ecclesia,
aliqua legitima familia. (…) Origine, natura sua et fine
familia, sicut matrimonium est sacra et pro christianis sancta,
qua sanctitate familia christiana prae aliis splendescit.
Secundum igitur ordinem divinum, in ipsa regnare debent
gratia et virtutes, atque in primi caritas, in imitazione illius
sanctissimae nazarethanae familiae, quae est omnis familiae
christianae perfectissimum exemplar”.
Il carattere piuttosto giuridico di questo documento esige che la trattazione
sulla famiglia si fondi su di una definizione. Il limite che subito balza agli occhi
qui, è la continua confusione che nasce dal non distinguere fra la dimensione
naturale e antropologica della famiglia e la sua santificazione operata dal
sacramento istituito da Cristo.
Il quarto capitolo, rispetto al precedente, tratta della dimensione giuridica e
morale che inerisce alla famiglia in forza della sua stessa struttura ontologica. I
problemi qui accennati saranno poi oggetto di vivaci discussioni fra i Padri
conciliari fino alla chiusura dei lavori, e fra i teologi ancora più oltre per molto
tempo; e sono: la procreazione responsabile, la decisione sul numero dei figli in
relazione ai problemi demografici, i diritti e i doveri dei figli, e i rapporti fra la
famiglia da una parte e la società civile, la scuola e la Chiesa dall’altra. Più
interessante dal nostro punto di vista è il paragrafo 31 che parla dei diritti e dei
doveri dei genitori per ciò che riguarda l’educazione dei figli.
“Parentum officium grave et divinitus sancitum est,
praesertim verbo et exemplo prolem propriam educare non
solum quoad naturalia et terrena, sed prae aliis quoad
supernaturalia et aeterna. Unde in primis ipsi parentes, etiam
ex debito erga ipsam prolem, curare debent ut non tantum
neonati quam primum fieri potest in vita supernaturali
renascantur, sed etiam ut iam a prima aetate religiose
educentur praesertim quoad elementa religionis christianae
rectamque observantiam legis evangelicae. Ipsum enim
matrimonium et familia eo quoque tendit, ut crescat corpus
Ecclesiae”.
I vari temi affrontati qui entreranno a far parte successivamente di schemi
diversi; tuttavia questo documento del 1962 costituisce in qualche modo il punto
di partenza da cui si svilupperà il capitolo della “Gaudium et Spes” “De
dignitate matrimonii et familiae fovenda”.
Un momento determinante nella genesi della Costituzione pastorale è nel
gennaio 1963, quando la Commissione di Coordinamento per volontà del Santo
Padre riscrisse l’elenco degli schemi da discutere in Concilio armonizzandolo
con l’idea centrale della Chiesa “lumen gentium”, e stabilì che la seconda parte
dello schema “De Castitate, Matrimonio, Familia, Virginitate” – rimasto
accantonato durante il primo periodo dei lavori conciliari - fosse utilizzata per
la redazione di un nuovo documento, posto al numero 17 dell’elenco, e quindi
soprannominato “Schema 17”. In base alle direttive già espresse da Giovanni
XXIII nei suoi radiomessaggi, esso doveva esporre i principi che regolavano i
rapporti della Chiesa con il mondo e la società civile. La Commissione di
Coordinamento intitolò il nuovo schema “De Ecclesiae principiis et actione ad
bonum societatis”, stabiliva che esso sarebbe stato composto di una parte
teoretica e dottrinale e di una più pastorale, e ne affidava la stesura ad una
Commissione Mista composta da membri della Commissione dottrinale e di
quella dell’Apostolato dei Fedeli. Un gruppo di periti appositamente incaricato
redasse una prima proposta di schema, intitolata “De Ecclesiae presentia et
actione in mundo hodierno”, che dedicava al matrimonio, alla famiglia e al
problema demografico il terzo capitolo. Emendato secondo alcuni pareri espressi
da vescovi, esperti e laici interpellati, il testo venne proposto all’esame della
Commissione Mista nel mese di maggio del 1963. Questa propose di apportare
modifiche profonde per rendere l’esposizione più concreta e adatta a rispondere
ai gravi problemi sui quali l’umanità attende dal Concilio una parola
illuminante; ma espresse pure un parere sostanzialmente positivo, cosicchè il
testo, benché ancora immaturo, fu trasmesso alla Commissione di
Coordinamento nel luglio 1963, e da essa respinto. Si stabiliva invece che i
principi direttivi, che dovevano guidare i rapporti Chiesa-mondo, avrebbero
dovuto essere esposti in generale e succintamente, per indicare il compito della
Chiesa nella promozione del bene della società, mentre i problemi particolari
avrebbero dovuto essere deferiti allo studio di speciali commissioni coadiuvate
da esperti, e non avrebbero fatto parte della Costituzione conciliare vera e
propria. Da questo momento lo schema viene come spaccato in due tronconi, e
mentre la redazione di quella che diventerà la prima parte della “Gaudium et
Spes” procede per suo conto, la sezione riguardante il matrimonio, la famiglia e
gli altri temi scottanti rimane – come si suol dire – nel cassetto.
Un’altra fase decisiva nella formazione del nostro testo si apre nell’estate del
1963 quando all’interno della Commissione Mista si avverte l’esigenza di
costituire un gruppo ristretto che si assuma l’incarico di curare con maggiore
libertà e speditezza, i problemi redazionali. Esso fu composto di tre membri
della Commissione dottrinale e altrettanti di quella per l’Apostolato dei Fedeli, e
fu presto denominata Sottocommissione centrale. Fin dalle sue prime riunioni,
tenute nel dicembre 1963, essa trovò nella dignità della persona umana creata ad
immagine di Dio uno dei cardini attorno a cui doveva ruotare tutta l’esposizione.
Questo permetteva di reintrodurre nello schema, con una prospettiva ben
definita, i principi-chiave per la soluzione dei problemi particolari di cui parlava
lo schema precedente: una trattazione più vasta sarebbe stata poi collocata in una
serie di testi aggiuntivi, annessi a quello conciliare quasi come appendice, a
scopo esplicativo. Nei primi tre giorni del febbraio 1964 la Sottocommissione
Centrale riunita a Zurigo esaminò il nuovo testo preparato sulla base di questi
criteri, e suggerì nuove correzioni tenendo presente la finalità squisitamente
pastorale di questa Costituzione, il che esigeva la scelta di un linguaggio
accessibile a tutti e un’interpretazione teologica della situazione del mondo
moderno, che lasciasse peraltro un’analisi più particolareggiata agli “Adnexa”.
Nella riunione del marzo 1964 questa Commissione chiese soprattutto un
rifacimento del quarto capitolo, in cui i singoli problemi affrontati fossero
trattati in paragrafi diversi. In una seconda riunione plenaria tenuta ai primi di
giugno, ai membri della Commissione Mista furono consegnati due degli
“Adnexa” già messi a punto, fra cui quello sul matrimonio e la famiglia. Essi
seguirono la sorte del documento conciliare che, su proposta di Mons. Guano, fu
trasmesso alla Commissione di Coordinamento, da questa approvato, e, per
volontà del Santo Padre, distribuito ai Padri per la discussione il 3 luglio 1964.
Il capitolo quarto dello schema, intitolato “De praecipuis muneribus a
christianis nostrae aetatis implendis”, affrontava i problemi riguardanti il
matrimonio e la famiglia nel paragrafo 21, “Dignitas matrimonii et familiae”.
Dopo aver parlato dei pericoli che nel mondo di oggi minacciano questa dignità
voluta dal Creatore, si passa a trattare della natura sacra della famiglia, che la
fede cristiana illumina pienamente, in quanto la finalizza non solo alla
procreazione e al mutuo aiuto dei coniugi, ma anche alla loro santificazione e
alla glorificazione di Dio.
“Sed cum familia christiana sit imago et participatio foederis
amoris Christi et Ecclesiae (cf. Eph. 5,32), coniugum amore,
generosa fecunditate, unitate atque fidelitate mundo
innotescat viva Salvatoris praesentia in mundo atque sincera
Ecclesia natura”.
E nella frase successiva, con un’espressione icastica, si parla di “sanctuarium
familiae”. E’ interessante notare come questo paragrafo – come pure tutta la
Costituzione – verrà in seguito più volte totalmente rifuso, ma la frase che qui
stiamo esaminando resterà pressoché immutata fino alla fine. Ciò significa che
la lezione della “Lumen Gentium” e dei documenti successivi era stata
rapidamente assimilata e veniva sviluppata nelle sue conseguenze teoriche e
pratiche in questa seconda Costituzione sulla Chiesa che dalla prima voleva
essere in stretta dipendenza e in continuità con essa.
Vale però la pena di esaminare anche l’”Adnexum II” dedicato al
matrimonio e alla famiglia, perché di quel testo esso viene presentato alla
discussione conciliare come una spiegazione e uno sviluppo più approfondito. In
realtà esso ha un valore teologico-pastorale molto superiore, e lo si può rilevare
dalla lettura anche solo del paragrafo terzo. In esso si rivendica il carattere sacro
del matrimonio, per origine, per natura e per finalità. Questo senso e fine sacro
che risale ai primordi della creazione, Dio l’ha conservato anche dopo la caduta
del genere umano, in modo che la famiglia, quando di essa fossero rispettate
tutte le esigenze etiche e morali, diventasse il luogo più comune di
santificazione per l’uomo, anche prima dell’incarnazione e della nuova
economia di salvezza. Nostro Signore Gesù Cristo poi, restaurati i primitivi
caratteri di unità e di indissolubilità del matrimonio, lo elevò alla dignità di
sacramento, così che tra i battezzati non vi può essere un vero legame
matrimoniale che non sia per ciò stesso un sacramento.
“Matrimonium inter christianos contractum non est igitur
sacrum tantum, sed etiam signum rei sacrae quatenus
sanctificat homines. Sponsi per validum consensum exterius
rite manifestatum coniunctim Christo se tradunt, et a Christo
sibi invicem iuguntur, ut mutua et libera suorum ipsorum
donatione gratiae sacramenti participes – inquantum obicem
non ponunt – tota matrimoniali vita novum et aeternum
foedus Christi cum Ecclesia testentur et collaudent. Sponsi
ergo hoc sacro vinculo iuncti vocantur et devinciuntur ad
christianam sanctitatem novo titulo et quidem unitis viribus
prosequendam”.
Questo testo prosegue affermando con lucidità e con forza che gli sposi
cristiani sono chiamati ed obbligati a tendere con tutte le loro forze alla santità,
non solo in forza del dono battesimale, ma anche in forza della grazia specifica
ricevuta nel matrimonio, che li unisce con un vincolo sacro. E’ proprio in questo
modo, unendo insieme le proprie forze, che essi faranno fruttificare
meravigliosamente il loro amore e il carisma loro affidato.
“Iidem, secundum hanc legem ipsa gratia sibi impositam, in
Spiritu Sancto se invicem amando et in via sanctitatis alter
alterius onus speciali modo portando (cf. Gal. 6,2),
purissimam et fecundissimam Christi cum Ecclesia unionem
vere repraesentant et participant, et Salvatoris caritatem sibi
invicem et filiis aliisque testantur”.
Appare qui definitivamente chiarificata la differenza che esiste fra lo statuto
del matrimonio prima di Cristo, caratterizzato da valori tipicamente umani, e
quello che esso assume quando viene elevato a sacramento, strumento di
santificazione. Sul matrimonio cristiano è fondata la famiglia cristiana, e solo
essa è e deve divenire immagine e parte viva del patto d’amore che unisce Cristo
e la Chiesa. Se il creatore ha voluto fare del matrimonio e della famiglia un
sacrario, Cristo vuole servirsene per santificare gli uomini. Non viene ancora
affermato esplicitamente che la comunità coniugale, fatta “nuova” dallo Spirito
Santo, è costituita come cellula viva della Chiesa; ma alla famiglia cristiana
vengono affidati compiti eminenti, come se si trattasse di una vera “Chiesa
domestica”. I genitori sono invitati a diventare cooperatori del Divino Pastore,
prendendosi cura della anime proprie e dei figli. Riecheggiando le parole di
S.Paolo, i Padri conciliari stimolano i coniugi e tutti i membri della famiglia
cristiana ad intrattenersi “a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando
e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente
grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo,
restando sottomessi gli uni agli altri nel timore del Signore (Ef. 5, 18-20).
I genitori cristiani hanno un triplice compito da espletare, per essere fedeli
alla vocazione e alla missione ricevute. Il compito dell’annuncio: avendo
presentato i bambini alla fonte della rigenerazione battesimale, devono
alimentare la loro fede con la testimonianza della parola e della vita, traducendo
in modo facilmente comprensibile la Buona Novella di Gesù; il compito
sacerdotale: dovranno ordinare tutta l’educazione dei figli in modo da porre al
centro della vita e del culto cristiano il sacramento eucaristico, e così faranno in
modo che la convivenza e la comunità familiare mostrino pienamente il loro
senso e valore sacri e la loro forza santificante; il compito di guida: dovranno
educare discretamente e gradualmente i figli a vivere castamente, stimando
giustamente la santità del matrimonio e il mistero della verginità. Così essi
aprono il loro cuore e la loro intelligenza a comprendere la vocazione alla quale
Dio li chiama.
“Familia christiana, quae, nazarethanam illam sanctissimam
imitata, communi conatu religiosum suum munus adimplet,
immaculatam sese servabit ab hoc saeculo, et erit in mundo
sanctitatis fermentum”.
Anche nel quarto paragrafo si allude alla dimensione ecclesiale della
famiglia cristiana, quando si afferma che in essa fiorisce non solo il più puro
amore umano, ma la stessa carità effusa dallo Spirito Santo, e attraverso questa
esperienza di amore l’uomo è condotto ad amare Dio e in Lui tutti gli uomini.
“Deus, qui caritas est, ita instituit matrimonium indeque
familiam, ut propagatio generis humani fiat in intima
personarum communitate, qua mirabiliter amor humanus
mascitur et crescit, permanans totam vitam, immo florescit
caritas christiana, quae, Spiritus Sancti donum, in coniugum
corda abundanter diffunditur”.
Ancora prima che, a partire dal 20 ottobre, prendesse avvio la discussione in
aula dello schema “De Ecclesia in mundo huius temporis”, fu sollevato il
problema sul senso degli “Annessi”. Ai Padri fu detto che essi non facevano
parte del documento conciliare e perciò non dovevano essere discussi, ma erano
stati comunque distribuiti per una maggiore comprensione del testo. Molti
presuli però espressero da una parte il timore che questi documenti non ufficiali,
sì, ma pur sempre frutto del Concilio, fossero male interpretati dall’opinione
pubblica, e dall’altra parte il desiderio che molti punti, essendo trattati meglio
negli “Adnexa”, entrassero a far parte della nuova redazione emendata.
Il paragrafo 21 “De Matrimonio et Familia” fu discusso in Aula il 29 e 30
ottobre 1964, dopo una relazione introduttiva di Mons. Dearden, arcivescovo di
Detroit. Dei diciannove interventi pronunciati al microfono, è degno
particolarmente di essere menzionato quello del Card. Ruffini, arcivescovo di
Palermo, il quale lamenta la mancanza di una più solida dottrina sul matrimonio
cristiano. Egli si dichiara innanzi tutto sorpreso che il documento in esame
sorvoli quasi del tutto sulla nobilissima natura del matrimonio cristiano. Esso è
stato elevato da Cristo Signore alla sublimità di sacramento, e diventa quindi un
segno efficace e meraviglioso del legame misterioso che unisce nell’amore
Cristo e la Chiesa. E’ proprio da questo vincolo mistico che derivano le proprietà
essenziali del matrimonio cristiano, cioè l’unità e l’indissolubilità. Infatti, a
parere del porporato italiano, la “res” sacra significata nel sacramento del
matrimonio consiste in un solo Cristo e una sola Chiesa uniti fra loro in
perpetuo.
“Etenim si sponsus est figura Christi, ipse tenetur diligere
uxorem sicut Christus dirigi sponsam suam, quae est
Ecclesia. En verba S.Pauli: “Viri diligite uxores vestras, sicut
Christus dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea”.
Vicissim fundamentum solidissumum exhibetur amori quo
uxor virum suum prosequi debet; nam Ecclesia, cuius uxor
est figura, amorem erga sponsum suum, Christum, ab origine
per saecula praeclare demonstravit et continuo demonstrat”.
Giustamente l’arcivescovo di Palermo richiede che la teologia sacramentale
espressa nella parte ufficiale da presentare in Concilio venga maggiormente
sviluppata, affinchè sia capace di dare organicità a tutta l’esposizione; ma dalle
sue parole risalta ugualmente con chiarezza che la prospettiva feconda adottata
nell’”Adnexum” faticava ad essere compresa pienamente e fatta propria da
molti. La partecipazione all’amore e all’unione di Cristo e della Chiesa viene
concepita un po’ meccanicamente, e in funzione apologetica. La stessa
esclamazione paolina di Ef. 5,23 viene forzata per ricavarne un’immagine di
famiglia cristiana fortemente marcata da una cultura datata. In ogni modo,
l’impegno della Sottocommissione centrale prima – che lavorò durante il
febbraio 1965 in coordinamento con le varie Sottocommissioni in una casa
religiosa ad Ariccia - e della Commissione Mista poi, fu di ampliare il testo del 3
luglio 1964 inserendovi ampi stralci degli “Adnexa”, per renderlo più aderente
alla situazione reale del mondo contemporaneo, e più organico nella trattazione.
In questo senso si decise che i paragrafi del quarto capitolo, che trattavano di
alcuni problemi attuali più urgenti, sarebbero dovuti diventare altrettanti capitoli
della seconda parte dello schema, la parte cioè più prettamente pastorale che
doveva illuminare con la luce del Vangelo i diversi aspetti dell’attività umana.
Nella riunione tenuta a Roma dal 29 Marzo al 7 Aprile, la Commissione discusse
il testo nella sua nuova redazione, e diede indicazioni perché fosse emendato
almeno nei punti più controversi (e uno di questi argomenti più aspramente
dibattuti fu proprio il paragrafo sul matrimonio e la famiglia) secondo i pareri
espressi nel corso dei lavori. All’inizio di maggio i due cardinali presidenti
presentarono il nuovo schema alla Commissione di Coordinamento, la quale,
avendolo esaminato e pienamente approvato l’11 maggio, lo trasmise ai Padri su
autorizzazione del Santo Padre in data 28 maggio 1965.
Il primo capitolo della seconda parte, dedicata ad alcuni problemi più
urgenti, riguardava la dignità del matrimonio e della famiglia, e rispetto allo
schema dell’anno prima era notevolmente ampliato, tanto da comprendere 5
paragrafi.
Il numero 61, dopo aver esordito lumeggiando i valori umani, che devono
animare la società coniugale istituita dal Creatore, si sofferma sul matrimonio
cristiano.
“Christus Dominus hanc multiformem dilectionem, e divino
caritatis fonte esorta et ad exemplar suae cum Ecclesia
unionis constitutam, benigne et abundanter benedixit. Sicut
enim Deus olim foedere dilectionis et fidelitatis populo suo
occorri, ita nunc Salvator hominum Ecclesiaeque Sponsus, in
sacramento matrimonii fidelibus coniugibus obviam venit.
Manet porro cum eis, ut quemadmodum Ipse dilexit
Ecclesiam et semetipsum pro ea tradidit ita et coniuges,
mutua deditione, se invicem perpetuo diligunt”.
In questo testo, che rimarrà inalterato fino alla promulgazione della
“Gaudium et Spes”, nonostante tre piccole correzioni grammaticali, il
matrimonio cristiano è messo in rapporto non soltanto con la positiva istituzione
voluta da Cristo, ma anche con l’alleanza stretta da Jahvè con il popolo
d’Israele. Questa prefigurazione vetero-testamentaria sottolinea come l’azione
salvifica di Dio si snodi ininterrottamente, fino a realizzarsi pienamente nel
Nuovo Testamente e nel matrimonio cristiano. Se la frase conclusiva rivela il
senso di tutto il ragionamento, che è di fornire una solida base teologica alla
dottrina sull’indissolubilità, ciò non toglie che la pericope possa essere letta
altrimenti: Cristo ama la famiglia cristiana allo stesso modo in cui ama la Chiesa
e si dona per essa; da ciò scaturisce un amore profondissimo e soprannaturale fra
i membri della comunità familiare; ne consegue che una tale famiglia diventa
esemplare anche dell’amore fedele con cui la Chiesa ama il suo Signore.
Qualche riga più avanti leggiamo quest’altro passo, che si collega
direttamente a quello già citato dello schema del luglio 1964.
“Familia proinde christiana, cum ex matrimonio ut imagine et
participatione foederis dilectionis Christi et Ecclesiae
exoriatur, vivam Salvatoris in mundo praesentiam atque
germanam Ecclesiae naturam omnibus patefaciat, tum
coniugum amore, generosa fecunditate, unitate atque
fidelitate, tum omnium membrorum suorum amabili
cooperatione”.
I mutamenti apportati sono pochi ma significativi e indicano che si è voluto
dare maggior rilievo al fondamento sacramentale su cui si basa la famiglia
cristiana, all’aspetto oblativo e gratuito dell’amore con cui Cristo ama la Chiesa
e che gli sposi devono far proprio (“amor Christi et Ecclesiae” è sostituito con
“dilectio Christi et Ecclesiae”), e al compito che spetta alla famiglia cristiana di
rendere manifesta a tutti la presenza di Cristo e la natura della Chiesa. Tra gli
esempi concreti che descrivono in che modo questa testimonianza va data, viene
aggiunta la cooperazione amorevole fra tutti i suoi membri che non ruguarda più
soltanto i due sposi ma coinvolge tutta la famiglia, anche i figli. Questo testo
rimarrà praticamente immutato fino alla conclusione del Concilio. La
Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo passerà ancora
attraverso vicende difficili, aspri dibattiti e mutamenti considerevoli, ma le parti
che qui ci interessano, nell’esame di ciò che la “Gaudium et Spes” dice sulla
famiglia considerata come Chiesa domestica, hanno già a questo stadio
sostanzialmente la stessa configurazione che verrà solennemente e
definitivamente promulgata dal Concilio il 7 dicembre 1965, durante la nona
Sessione Pubblica.

b) Dignità e compiti della Chiesa domestica nel mondo di oggi.

La Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo dedica alla


famiglia, all’analisi della sua realtà, della situazione odierna, di alcuni problemi
scottanti, il primo capitolo della parte seconda. Noi prenderemo però in esame
soltanto il numero 48, che tratta della santità del matrimonio e della famiglia.
Innanzi tutto viene affermato il carattere sacro del matrimonio in quanto esso è
stato istituito da Dio e da Lui è stato dotato di stabilità e di leggi proprie. Esso è
dotato di molteplici valori e fini, tutti egualmente importanti per il bene del
genere umano e degli stessi membri della famiglia. Soprattutto l’unione
coniugale è finalizzata alla generazione di nuove vite e ad una crescita sempre
più completa nell’amore reciproco degli sposi. Ambedue queste esigenze
postulano e richiedono l’unità e l’indissolubilità del vincolo matrimoniale.
“Christus Dominus huic multiformi dilectioni, e divino
caritatis fonte exortae et ad exemplar suae cum Ecclesia
unionis constitutae, abundanter benedixit. Sicut enim Deus
olim foedere dilectionis et fidelitatis popolo suo occorri ita
nunc hominum Salvator Ecclesiaeque Sponsus, per
sacramentum matrimonii christifidelibus coniugibus obviam
venit. Manet porro cum eis ut quemadmodum Ipse dilexit
Ecclesiam et Semetipsum pro ea tradidit //, ita et coniuges,
mutua deditione, se invicem perpetua fidelitate diligant.
Germanus amor coniugalis in divinum amorem assumitur
atque virtute redemptiva Christi et salvifica actione Ecclesiae
regitur ac ditatur, ut coniuges efficaciter ad Deum ducantur
atque in sublimi munere patris et matris adiuventur et
confortentur”.
Per poter assolvere fedelmente e adeguatamente questa loro alta missione, i
coniugi cristiani sono dunque quasi consacrati da uno speciale sacramento, che
Cristo istituì nell’economia della nuova Alleanza. “Per i coniugi il sacramento
del matrimonio è fonte di perfezione e di santificazione: esso permette loro di
compiere la loro missione coniugale e familiare in modo che possano sempre più
perfezionarsi personalmente e santificarsi mutuamente. Già il matrimonio in se
stesso, come istituzione naturale, è fonte di perfezionamento umano per gli
sposi. (…) Tutti questi valori umani del matrimonio sono assunti, purificati ed
elevati dal sacramento e da esso fatti servire non solo al perfezionamento umano
degli sposi ma anche alla loro cristiana santificazione.
“Cosicchè gli sposi cristiani, per santificarsi, non hanno bisogno di uscire dal
proprio stato: essi si santificano non solo nella vita matrimoniale, ma mediante il
matrimonio, trovando in esso tutto ciò di cui hanno bisogno per santificarsi. Ad
una condizione però: che il loro matrimonio sia vissuto nello spirito di Cristo”.
Il terzo capoverso, più breve, parla dei doveri dei genitori verso i figli, per
sottolineare come la forza benefica e santificatrice proveniente dal sacramento
non riguarda solo il marito e la moglie, ma si estende anche ai figli e a tutti i
componenti della famiglia. L’esempio di un’autentica e profonda vita cristiana
dato dai genitori pone le premesse più favorevoli perché anche i figli crescano
come uomini e come cristiani. Quanto più questo si realizza, tanto più i figli
imparano a portare un loro attivo contributo al positivo sviluppo della famiglia,
cooperando efficacemente alla santificazione dei genitori.
Infine, nell’ultimo capoverso del numero 48, i Padri conciliari rivolgono un
invito alle famiglie cristiane perché siano famiglie “aperte”, pronte a comunicare
le proprie ricchezze spirituali agli altri, soprattutto alle altre famiglie e a quelle
spiritualmente più bisognose.
“Familia suas divinitas spirituales cum aliis quoque familiis
generose communicabit. Proinde familia christiana, cum e
matrimonio, quod est imago et participatio foederis
dilectionis Christi et Ecclesiae, exoriatur, vivam Salvatoris in
mundo praesentiam atque germanam Ecclesiae naturam
omnibus patefaciet, tum comiugum amore, generosa
fecunditate, unitate atque fidelitate, tum amabili omnium
membrorum cooperatione”.
“Se la famiglia cristiana è contrassegnata dalla permanente presenza di
Cristo, questa presenza non può non suscitare un movimento di carità, di
apertura agli altri, spesso di un vero e proprio apostolato “familiare”, cioè della
famiglia in quanto tale. (…) La stessa educazione dei figli dovrà essere
impregnata di questa “apertura” agli altri, alle loro necessità fisiche e spirituali.
(…) La famiglia, sforzandosi di divenire sempre più profondamente “cristiana”,
diviene vivente testimonianza di Cristo e della Chiesa, dell’amore di Cristo per
gli uomini e della vera natura della Chiesa, che è comunità di carità di tutti i figli
di Dio”.
I testi citati sono particolarmente ricchi di significato, come si vede. Non
compare esplicitamente l’espressione “famiglia Chiesa domestica”, eppure vi si
dice che il matrimonio fa della famiglia cristiana un’immagine, e anzi molto di
più, un soggetto attivo del “patto di amore di Cristo e della Chiesa”. Mediante il
sacramento, questo amore unitivo non resta più per nulla un fatto estraneo ai
coniugi e a tutta la famiglia, ma viene loro comunicato e da essi fatto proprio in
modo irripetibile. Questa grazia sacramentale genera una nuova situazione, un
“nuovo” essere, ma naturalmente ciò comporta un conseguente impegno morale
a rimanervi fedeli. La dimensione dell’essere è costitutivamente prioritaria
rispetto a quella morale, ma ad essa strettamente unita. E’ grazie a quest’ultima
però che attraverso la famiglia autenticamente cristiana diventa più
comprensibile a tutti la “presenza del Salvatore nel mondo e la genuina natura
della Chiesa”.
“Il rapporto famiglia-Chiesa è qui indicato in termini di significazione o di
rivelazione: ma ciò è da intendersi in senso sacramentale e quindi di
partecipazione vera e propria (dal momento che la famiglia cristiana nasce
dall’imago et participatio dell’amore di Cristo-Chiesa), e cioè in tanto la
famiglia cristiana può rivelare al mondo il mistero della Chiesa di Cristo in
quanto ne è, in qualche modo, partecipe”.
Questo testo della “Gaudium et Spes” si pone in diretta continuità con la
Costituzione dogmatica sulla Chiesa e con quanto essa aveva solennemente e
autoritativamente insegnato sulla famiglia e sulla sua ecclesialità, in quanto dato
ontologico costitutivo e in quanto “compito”. Nell’attuale situazione, nel mondo
di oggi, alla famiglia sono lanciate sfide nuove e gravi, che minacciano di
distruggerla al suo interno, minandola in quanto comunità di vita e di amore, in
quanto primo agente educativo e in quanto cellula fondamentale della società. A
tutto ciò la Chiesa risponde predicando la dottrina ricevuta dal suo Signore in
modo adattato e comprensibile all’uomo contemporaneo, e soprattutto
prendendo coscienza dell’importanza insostituibile che la famiglia
autenticamente cristiana riveste sia per la vita civile sia per la comunità
ecclesiale. Bisogna difendere la famiglia e rinsaldarla nello spirito ad essa
proprio dell’unità e dell’indissolubilità; ma è soprattutto necessario promuovere
famiglie che maturino sempre più come cellule vive e responsabili della Chiesa,
attive nell’apostolato laicale e impegnate in una profonda vita spirituale. A tutto
questo invita, a queste alte mete sprona il Concilio Vaticano II nei documenti
che siamo venuti fin qui esaminando.
PARTE SECONDA
LA CHIESA, FAMIGLIA DEI FIGLI DI
DIO

Il Concilio Vaticano II non parla soltanto della famiglia definendola una


piccola Chiesa a dimensioni domestiche, o per esortare i pastori a prestarle tutti i
servizi pastorali necessari a sviluppare in essa una profonda vita cristiana, o per
stimolare gli stessi coniugi cristiani a portare attivamente il loro generoso
contributo per la diffusione del Vangelo nel mondo e per la costruzione di una
comunità pienamente cristiana. In tutti questi casi la famiglia assume a modello
della propria vita la Chiesa, e da essa riceve tutti gli aiuti che le sono necessari
per essere se stessa, cioè per essere sempre più fedele al disegno del Creatore e
del Redentore. Ripetutamente i documenti conciliari parlano anche della Chiesa
come di una grande famiglia, in cui si riuniscono tutti i figli di Dio. In questo
senso la famiglia sembra diventare essa stessa un modello ispiratore e una figura
della Chiesa. E’ intrinseca alla natura della Chiesa una dimensione familiare, che
la spinge a crescere secondo uno stile particolare, che si oppone a tutto ciò che è
burocratico, eccessivamente istituzionalizzato e formale. Come vedremo, molti
aspetti di questa particolare ecclesiologia conciliare fanno parte del tesoro più
antico della Tradizione cattolica; ciò che di nuovo ha operato il Vaticano II è
stato di riscoprire questa verità come particolarmente adatta per una
presentazione pastoralmente efficace della realtà della Chiesa agli uomini nostri
contemporanei.
I documenti in cui appare con maggiore incisività e organicità questa
dimensione familiare della Chiesa sono la “Lumen Gentium” e la
“Presbyterorum Ordinis”.
Anche in questa seconda parte ci muoveremo, da un punto di vista
metodologico, su un doppio binario: cercheremo innanzi tutto di delineare le
diverse fasi attraverso cui è passata l’elaborazione della dottrina conciliare sulla
Chiesa in quei punti specifici in cui si fa riferimento, mediatamente o
direttamente, alla realtà matrimoniale e familiare; appuntando poi l’attenzione
più specificatamente sui documenti conciliari veri e propri, ne esamineremo i
contenuti, facendo ricorso anche ai contributi scientifici già esistenti, e ne
faremo un bilancio critico.
CAPITOLO 1

CHIESA DI CRISTO, FAMIGLIA DI FRATELLI

All’interno di questa fondamentale Costituzione dogmatica sulla Chiesa


intendiamo distinguere tre tipi di argomentazioni, o tre ambiti, che sviluppano
l’unico tema da angolazioni differenti e con diverse prospettive. Non si tratta di
realtà totalmente impermeabili l’una all’altra, ovviamente, ma di modi diversi di
esprimere la stessa verità, che, a nostro parere, non hanno ancora raggiunto un
profondo livello di organicità e armonizzazione. Si tratta di spunti vivaci, ma
ancora disarticolati, che potrebbero costituire come le pietre con cui costruire un
quadro teologico stimolante, che avvicini l’ecclesiologia alla pastorale e
consolidi la vita apostolica della Chiesa su basi più ampie.
Di questo capitolo sarà particolarmente essenziale e sobria la parte storica, in
quanto la genesi della “Lumen Gentium”, e particolarmente dei passi in cui si
tratta della famiglia, è stata descritta già sufficientemente nella prima parte di
questo lavoro. Rimandiamo quindi a quelle pagine per un quadro più preciso dei
lavori conciliari.

a) Lettura ecclesiologica dell’immagine biblica della famiglia.

Il primo filone che seguiremo scaturisce dall’ampia discussione che si viene


progressivamente sviluppando attorno al problema della natura della Chiesa, e
particolarmente a partire da una piccola frase che nello schema di costituzione
del 1962 faceva menzione di alcune immagini bibliche, lette dalla Tradizione
cristiana in chiave ecclesiologica. Nel primo capitolo intitolato “De Ecclesiae
militantis natura”, il paragrafo terzo ricordava che la Chiesa era spesso
raffigurata come la casa di Dio e la Sposa di Cristo, mentre il paragrafo quinto
affermava che essa è anche Madre.
Già nella discussione pubblica tenuta durante il primo periodo conciliare dal
1° al 7 dicembre 1962 fu avanzata da più parti la richiesta di sviluppare
maggiormente queste figure bibliche. Il vescovo di Namur, Mons. Charue, in
una nota scritta consegnata alla Segreteria Generale, chiede che vengano più
accuratamente sviluppate le principali immagini ecclesiologiche: soprattutto
l’immagine del corpo, ma anche le immagini della famiglia di Dio, della casa di
Dio e della sposa di Cristo.
“Mystica unio Christi cum Ecclesia talis est ut efformetur
unum corpus et ut vita Christi in membris sicut in capite
diffundatur, ferveat et fructum in aeternum afferat. Haec est
illa celesti // Ierusalem, quae est Sponsa Christi, sanctorum
civica quae fit in terris tabernaculum Dei cum hominibus.
Haec est Sponsa Agni gloriosi, signum in Gentibus elevatum,
quae inter omnimodas vexationes et seductiones tuta
invictaque pergit. Haec est Mater Ecclesia, mater nostra, quae
in Virgine Maria singulariter fulget sicuti in suo praecellenti
membro, in sua Regina, in sua imagine seu icon”.
L’allora arcivescovo di Zagabria, Mons. Šeper, dal canto suo, propone una
precisazione molto acuta delle varie immagini con cui viene raffigurata la
Chiesa.
“Inquantum (…) Ecclesia in omnibus et singulis membris
vario modo Christo cooperatur, adiutorium praestat, in
subiectione et oboendentia plena amore Ecclesia intelligitur
praecipue et cognoscitur in figura sponsae.
Quatenus longe intimius et spiritualis coniuncta est cum
Christo, immo ad ipsius imaginem formata, quam
quaecumque alia sponsa, ita ut esista quaedam quasi
identificatio mystica, Ecclesia intelligitur sub figura corporis.
Quatenus tali ratione Ecclesia cooperatur et aliquid contribuit,
ut novi filii et filiae Dei nascantur, Ecclesia intelligitur sub
figura matris. Scribit S.Augustinus: Mater quomodo, nisi quia
ipse Christus est in christianis, quos christianos per
baptismum quotidie parit Ecclesia? Ergo in quibus intelligis
coniugem, in illis matrem, in illis filios (Enarr. In PS.
CXXVII, 12). Agitur de variis respectibus eiusdem realitatis
supernaturalis et ineffabilis qui tamen varias consequentias
morales insinuant”.
L’arcivescovo jugoslavo prosegue lamentando nello schema una impressione
di eccessivo clericalismo. Talvolta sembra che la funzione materna riferita alla
Chiesa venga posta in rapporto diretto solo con la Gerarchia ecclesiastica.
Questa visione scorretta produce l’errata convinzione che i fedeli laici si
collochino nell’ambito ecclesiale a un livello inferiore di dipendenza e di
recezione passiva. In realtà l’immagine della madre non è disgiungibile da
quella della sposa. La Chiesa non è detta madre in quanto amministra i
sacramenti, offre il sacrificio eucaristico o fa altre cose di questo tipo. In queste
circostanze essa fa le veci di Cristo. Tutta la Chiesa invece è detta sposa in
quanto è distinta da Cristo e da Lui riceve la vita e la grazia soprannaturale.
Perciò non è corretta l’interpretazione secondo cui il ruolo materno viene
attribuito esclusivamente alla Gerarchia, e in ciò essa è distinta dai fedeli. Madre
sono tutti i fedeli in quanto con la loro collaborazione attiva o passiva
contribuiscono in certo modo a favorire la vita soprannaturale degli altri. E’
evidente che anche il Papa, i Vescovi, i sacerdoti sono madre, ma non in quanto
conferiscono i sacramenti “ex opere operato”, bensì per ciò che chiamiamo
“opus operandi”. Poiché la gerarchia si occupa relativamente di più della
salvezza altrui che non degli altri fedeli, conclude Mons. Šeper, si comprende
facilmente perché la funzione di Madre in essa si manifesta più chiaramente:
poiché ordinariamente si suppone anche maggiore l’”opus operandi”.
Questo ricco intervento ci aiuta a comprendere come ogni singola “figura”
abbia senso solo in quanto mette in evidenza un particolare aspetto della
multiforme realtà ecclesiale. Avendo colto poi il significao centrale che dà ad
ogni “figura” la sua forza particolare, è necessario tenere presenti i molteplici
rapporti che le legano una all’altra rendendole complementari, nel tentativo di
svelare parzialmente il mistero della Chiesa. E’ interessante rilevare come il
rifiuto di un’ecclesiologia troppo semplicisticamente “clericalista” si estende fin
dall’inizio anche a questi particolari che potrebbero sembrare, superficialmente,
secondari. L’attribuzione della maternità a tutti i fedeli e anche al papa, ai
vescovi e ai sacerdoti si carica di forza, perché mette in primo piano la fatica
della gestazione, la cooperazione piena d’amore e l’intimità di vita che unisce la
Chiesa ai figli di Dio che essa fa nascere alla luce della fede e della grazia.
Merita di chiarire come l’affermazione di questa “maternità” ecclesiale, non si
pone in contraddizione con una visione “familiare” della comunità ecclesiale,
ma anzi la conferma.
Il nuovo testo del “De Ecclesia”, corretto secondo le indicazioni fornite dai
Padri conciliari oralmente o per iscritto fu approvato dalla Commissione di
Coordinamento in due parti distinte, il 28 Marzo e il 4 Luglio 1963. Vengono
apportate modifiche di rilievo: il primo capitolo, abbandonando locuzioni
giudicate trionfalistiche, si intitola ora più semplicemente “De Ecclesiae
mysterio”; un intero paragrafo, il numero sei, è dedicato alle “altre immagini
della Chiesa”, che seguono la trattazione sul Corpo Mistico; le singole immagini
non vengono unicamente elencate, ma anche sinteticamente spiegate e
commentate.
“Variis insuper aliis et profundis imaginibus nobis intima
Ecclesiae natura innotescit, quarum praecipua evocamus. (…)
Est Dei familia, eiusque templum et domus quae, in lapideis
sanctuariis repraesentata, a sanctis Patribus laudatur, in qua
Deus in Spiritu et veritate adoretur (cf. Io. 4,23). (…) Haec
est sponsa Christi vel Agni immolati (cf. Apoc. 20,9), quam ut
novam Evam novus Adam in vere viventium, et quam
mundatam Sibi voluit coniuctam et in dilectione ac fidelitate
subditam (cf. Eph. 5,22 ss.), quam tandem bonis caelestibus
in aeternum cumulavit, ut Dei et Christi erga nos caritatem
quae omnem scientiam superat, comprehendamus (cf. Eph.
3,19) .
Lo stesso titolo del paragrafo rivela come a questo stadio sia ancora
prevalente sulle “altre” l’immagine del Corpo. Si riconosce però di questa
l’insufficienza e l’incompletezza, che postula il ricorso ad altre pagine bibliche
da cui il mistero della Chiesa è illuminato con chiarezza e forza. Cos’ si esprime
una nota esplicativa redatta dalla Commissione Teologica.
“Imago Corporis Christi aliis figuris scripturisticis complenda
est, quas afferentur comparationes de Pastore et grege, de
templo Spiritus Sancti, de Civitate caelesti, et praesertim de
Sponso et Sponsa, qua imagine clare exprimitur Ecclesiam
cum Christo non simpliciter identificari, sed permanenter ab
Eo distingui, quippe qui eam, coram Se positam et subditam,
ex amore Sibi unit”.
Se questo “commentarius” sembra manifestare una preferenza, essa va a
quelle pagine della Sacra Scrittura e della Tradizione che fanno della Chiesa la
Sposa di Cristo, a lui unita da un amore indissolubile. Desta stupore il fatto chen
vanga passato sotto silenzio in questo luogo il carattere materno e fecondo che è
direttamente connesso con la realtà sponsale, e tanto più pertinente alla piena
verità sulla Comunità fondata da Cristo. Questo aspetto poi non è affatto
dimenticato nella redazione dello schema, benché quest’immagine sponsale –
letta attraverso le categorie paoline del nuovo Adamo e della nuova Eva, madre
di tutti i viventi – sia a nostro vedere ancora poco limpida, troppo biblicistica e
astrusa per riuscire viva e convincente. Inoltre è da notare che il paragone con la
famiglia è di fatto semplicemente menzionato e stranamente collocato nella frase
che parla della Chiesa come del tempio in cui si adora Dio. Non è ancora chiara
alla mente dei Padri la grande ricchezza di valori umani e soprannaturali che
caratterizzano la famiglia e soprattutto quella cristiana. L’immagine della
famiglia, invece di essere accostata a quella dello sposalizio, del matrimonio,
con cui conosciamo più facilmente l’amore di Dio e di Cristo per l’umanità, è
accostata, per un evidente influsso biblico, a quella della casa e della
costruzione.
Questo schema, messo a punto nella prima intersessione dei lavori conciliari,
venne inviato ai Padri nei mesi estivi, cosicchè già prima del nuovo inizio delle
sedute pervennero alla Segreteria Generale i pareri scritti di alcuni vescovi.
Fra di essi merita un’attenzione particolare l’intervento di Mons. Nguyen
Van Hien, vescovo di Dalat nel Vietnam. Questo è solo il primo di una serie di
suoi interventi, che sembrano quasi dar voce ai desideri di molti presuli
appartenenti al Terzo Mondo. Essi sentono più fortemente il bisogno di adattare
non solo la catechesi e l’annuncio cristiano, ma la stessa teologia, alle culture e
alle mentalità dei popoli lontani dal mondo occidentale e dalle sue categorie di
pensiero latine e greche. In questa linea si pone la critica espressa dal vescovo
vietnamita all’eccessivo rilievo attribuito nello schema del 1963 all’immagine
paolina del corpo mistico. Se essa poteva essere particolarmente eloquente ed
efficace per gli ascoltatori e i lettori a cui si rivolgeva concretamente l’apostolo
Paolo, i nuovi successori degli apostoli devono oggi cercare altri modi di
esprimere l’immutata e immutabile verità di fede, che siano adatti per gli uomini
di oggi, viventi in tutti i continenti ed educati con diversissime culture. Alcuni
Padri hanno ricordato come si possa parlare della Chiesa come di un popolo, il
nuovo Israele scelto e amato da Dio. Tuttavia l’immagine della famiglia dei figli
adottivi di Dio sembra essere preferibile per le sue caratteristiche: è fondata
saldamente sulle Sacre Scritture, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento; è
stata fatta propria dall’ininterrotta Tradizione della Chiesa; è facilmente
riconoscibile da tutti nella varie componenti dell’organismo ecclesiale; è l’unica
immagine perfettamente adattata a tutte le culture e a tutti i popoli.
Nel tentativo di dimostrare la validità e la profondità di una simile immagine
per illuminare efficacemente il mistero della Chiesa, Mons. Nguyen Van Hien
ripercorre la grandi tappe della storia della salvezza da questo peculiare punto di
vista, e raggiunge un’intensità espressiva particolarmente avvincente cucendo
fra loro numerose frasi bibliche.
“Familia humana, prius in Adam instaurata – magnum iam
sacramentum in Christum et in Ecclesiam (Eph. 5,32) - , per
Adae lapsum a Deo separata est et in seipsa divisa. Sed en
consilium Dei miserentis: “Ubi venit plenitudo temporis,
misit… Filium suum, factum ex muliere” (Gal. 4,4), qui, ut
novus Adam (Rom. 5,14 sp.; 1 Cor. 15,22.45…), sua morte
“filios Dei, qui erant dispersi, congregaret in unum” (Io.
11,52); familiam initio mirabiliter conditam, mirabilius denuo
reformaret. (…) “videte qualem caritatem dedit nobis Pater,
ut filii nominemur et simus…; carissimi, nunc filii Dei
sumus” (1 Io. 2,24), “quotiamo Filium suum Unigenitum
misit Deus…, ut vivamus per eum” (1 Io. 3,49). (…) En
realitatem concretam, unice profondam, Dei Patris Consilii,
per Filium in Spiritu adimpleti; realitatem totam Ecclesiam
permeantem. Quomodo vero eam appellabimus, nisi
denominando Ecclesiam Familiam, Familiam nempe filiorum
Dei in Christo”.
L’argomentazione del presule vietnamita prosegue sul terreno biblico
neotestamentario, accennando alla particolare frequenza con cui di fatto il
Regno di Dio viene presentato da Cristo con un linguaggio denotativo delle
realtà familiari. Questa caratterizzazione della Buona Novella è penetrata così
profondamente anche nella mente degli apostoli e dei loro discepoli, che non
solo gli scritti apostolici del Nuovo Testamento ne sono abbondantemente
pervasi, ma anche i pagani hanno colto nell’amore fraterno una caratteristica
importante della fede cristiana. La liturgia stessa poi si fa eco di questo modo
espressivo. L’autore riporta le preghiere più significative, ricavandole soprattutto
dai libri liturgici più antichi.
Una maggiore valorizzazione dell’aspetto familiare della Chiesa gioverebbe
anche ad illuminare in modo corretto e attraente le varie verità dogmatiche e
teologiche. La considerazione della realtà ecclesiale alla luce delle categorie di
famiglia e di matrimonio, si sostiene, quasi trasfigurando tutta la Chiesa
dall’interno, risponde ai principi fondamentali della dottrina rivelata. Questo
tipo di riflessione teologica avrebbe benefici influssi, nel senso di una più viva e
attualizzata percezione, ad esempio, dell’effetto della giustificazione in Cristo,
della filiazione adottiva; del sacramento del battesimo, per mezzo del quale i
fedeli non solo sono incorporati nella Chiesa come membri, ma nello stesso
tempo in essa sono introdotti come figli del Padre nell’Unigenito Figlio Gesù e
mutuamente uniti come fratelli, alla stessa mensa familiare, nutriti del Corpo e
Sangue di Cristo, in pegno della resurrezione futura. E non bisogna trascurare di
introdurre il medesimo senso nella terminologia ufficiale quando si affrontano i
problemi concerneti l’Ecumenismo: se i cristiani divisi devono essere chiamati
fratelli separati, ugualmente in senso correlativo i cattolici devono essere
considerati fratelli radunati nella famiglia divino-umana che è la Chiesa.
“Crederem hunc prospectum tam profundum simul ac
traditionalem, quo indoles Ecclesiae et indoles relationum
fidelium cum ad Christum tum inter se tantopere illuminatur,
n e d i c a m t r a s n f i g u r a t u r, n o n e s s e i n s c h e m a t e
praetermittendum. Eo minus quod singulariter respondet
scopo primario Concilii, doctrinali quidem, sed sub angulo
magis directe pastorali, nempe sic indolem Ecclesiae
exponere, secundum divinam veritatem, ut omnes ad eam
quasi sponte attrahantur”.
Ho riportato tanto ampiamente questo luogo scritto da Mons. Nguyen Van
Hien perché mi sembra rivestire una particolare importanza, nel senso che in
esso emerge per la prima volta una vera e propria teologia della famiglia, in
forma cosciente, voluta e sistematica. La linea proposta in questo intervento sarà
quella che andrà via via sempre più affermandosi sia all’interno del Concilio, sia
nel periodo successivo in tutta la Chiesa. Ed è importante notare come essa sia
scaturita da una parte in perfetta sintonia con le indicazioni più volte espresse da
Papa Giovanni XXIII a riguardo delle finalità e delle modalità di lavoro del
Concilio (l’”aggiornamento”), e dall’altra parte come voce delle istanze sentite
come più vive dai vescovi dei Paesi poveri.
Alla ripresa dei lavori conciliari lo schema sulla Chiesa occupava il primo
posto e dal 30 settembre al 31 ottobre 1963 ebbe luogo il dibattito in aula, che
vide l’intervento di molti Padri. Anzitutto il Card. Ritter, arcivescovo di Saint
Louis, tenne a precisare metodologicamente il valore delle immagini con cui
veniva definita o descritta la natura della Chiesa. Esprime l’opinione secondo
cui esse hanno un senso analogico e non possono pretendere di definire
esaustivamente il mistero della Chiesa; sono piuttosto reciprocamente
complementari in quanto ciascuna sottolinea dell’unica realtà multiforme un
aspetto diverso.
“Ecclesia Christi est grex, est vinea et ager Dei, est Dei
familia et populus, est Sponsa Christi. Venera sunt haec
omnia; nihilominus non univoce sed analogice dicuntur.
Utrum haec ve illa imago, seu analogia, maioris sit momenti
quam aliae non possumus dicere. Certissime possumus
negare allam per seipsam, etiamsi sit mystici-Corporis, posse
Ecclesiam totaliter explicare. Unde omnes imagines, utpote
scripturisticae, sunt magni momenti et non parvipendendae”.
A determinazioni più concrete scende l’intervento di Mons. De Proença
Sigaud, vescovo brasiliano di Diamantina. Tutte le immagini con cui la Sacra
Scrittura adombra la realtà della Chiesa – gregge, vigna, campo di Dio, tempio
di Dio, casa, tabernacolo, e altre – tutte sono utili, e non devono intendersi come
metafore. Quando soprattutto si parla della Chiesa come di una famiglia, anzi “la
Famiglia di Dio”, allora ci troviamo di fronte a una dolce realtà, che può essere
accettata come definizione formale, per quanto un mistero possa essere catturato
e costretto entro gli angusti limiti dei concetti teologici.
“Reapse in Ecclesia Deus, Christus, fideles, veram – sensu
proprio – efformant familiam. Deus est vere “Pater Noster qui
in caelis” est. Christus est vere, non metaphorice, frater
noster, “primogenitus intes multos fratres”; Maria Virgo est
vera, et non metaphorica, Mater nostra; nos sumus, per
baptismum, ad invicem fratres. In nobis est vere, quamvis
participative, natura Patris, qua “filii Dei nominamur et
sumus”; gratia sanctificante sumus “divinae consortes
naturae”. Spiritus Sanctus est anima, vinculum, vita, amor
huius familiae, orans in nobis “gemitibus inenarrabilibus”, “in
quo clamamus Abba, Pater”. (…) Schema mihi videretur
mancum, si conceptus Ecclesiae uti Familiae Dei tamquam
metaphora tractaretur, vel figurae et furtive, quasi per
transennam declararetur”.
Il ritornello “vera et non metaphorica” scandisce le varie verità dottrinali, ed
esse vengono illuminate da luce nuova mediante una comprensione della Chiesa
nella sua essenza profonda come una famiglia di tutti i figli di Dio in Cristo.
Dappertutto nella Chiesa vengono scoperte le tracce di questa caratteristica
familiare fondamentale: nella Santissima Trinità, nella Vergine Maria, nei
sacramenti, nella grazia che ci salva, nell’orazione cristiana, nelle virtù.
Prese la parola in aula anche Mons. Nguyen Van Hien, riprendendo quasi
alla lettera il precedente intervento scritto, che già abbiamo analizzato. Il
discorso pronunciato però, più sintetico ed essenziale di quello redatto per
iscritto, raggiunse un’incisività particolare, soprattutto nella parte in cui si
giustifica la proposta di adottare la categoria di famiglia come particolarmente
significativa accanto a quella del Corpo Mistico, ai fini di un’ecclesiologia
“inculturata”.
“1. Respondet enim scopo principali Concilii, doctrinali
quidem, sed et directe pastorali, ita ut omnes ad eam quasi
sponte attrahantur, cuiusvis gentis et culturae; talis aspectus
hodierne aspirazioni ad authenticam // ac solidam pacem
revere aptatur, clarificans ea quae in Corporis mystici figura
obscuriora remaneant.
2.Cum Ecclesia debitrix sit omnibus cuiusvis aetatis et
conditionis, doctrina de Ecclesia Dei familia directe omnibus
accessibilis est, non tantum doctis sed et redibus, non solum
senibus et adultis sed etiam catechumenis et paganis.
3. Dicere auderem quod in toto oriente ubi familia adhuc est
in magno honore, talis propositio altius in intellectum
ascendit et in cor profundis descendit.
4. Denique, sensus familialis non parum luminis in totam
vitam liturgicam et socialem fidelium transfundit, ea filiali
pietate erga Patrem communem erga Filium unigenitum et
Primogenitum, erga Spiritum Sanctum ex Patre Filioque
procedentem, erga B.Mariam Virginem Primogeniti et
aliorum filiorum adoptivorum Matrem; erga sanctos ut
nostros fratres iam glorificatos, et cum nota respective
conducente, erga superiores, aequales et inferiores, omnes
authentice fratres in Domino”.
In conclusione si propone l’aggiunta di un nuovo paragrafo in cui la Chiesa
venga definita come famiglia dei figli di Dio in Cristo per mezzo dello Spirito
Santo; già iniziata in terra sotto il ministero pastorale dei successori degli
Apostoli guidati dal Vicario di Cristo, alla fine essa sarà pienamente realizzata
nel mondo escatologico, nella casa del Padre.
Merita di essere menzionata anche l’opinione di Mons. Enciso Viana,
vescovo di Mallorca (Spagna), secondo cui la funzione dell’immagine della
Sposa, accanto a quella del corpo, ha un carattere completamente e
maggiormente illuminante. Dopo aver lamentato che tutta la vita della Chiesa
viene descritta a partire da quel paragone paolino, egli domanda che si arrivi a
un’elaborazione più completa del significato delle altre immagini bibliche, e
sviluppa così quella della Sposa-Madre.
“Sponsa enim, postquam desponsata sit, filios parturit, nutrit,
fovet, eis prandim Eucharistiae parat – recordamini epitaphii
Abercii – eos doctrina instituit, ad labores et virtutes exercit,
eisque mandata, maternalia quidem, imponit; et, si quis
filiorum in longiquam regionem abeat, eum exspectat, vocat,
desiderat, quadri, et in domum paternam cum amore trahit.
Haec dilectio sponsae erga filios vix exprimi potest per ideam
Corporis.
Sponsa dirigi sponsum, eique placere studet, eumque colit.
Sed quia haec idea non consideremus in liturgia tantum
cultum quem Ecclesia cum capite tribuit Patri, et non cultum
quo Ecclesia adorat Christum Sponsum in Eucharistia
praesentem et in coelo regnantem post redemptionem in
cruce.
Sponsa denique diligitur a sponso, et ab eo accipit
nutrimentum, monilia, vestimenta saluti set fecunditatem”.
Il panorama delle idee espresse dai Padri conciliari in occasione di questa
discussione pubblica va completato con le “Animadversiones scripto exhibitae”,
in cui sono raccolti anche gli interventi di coloro che erano iscritti a parlare dopo
che su richiesta della Segreteria Generale era stata approvata a maggioranza la
sospensione del dibattito.
Mons. Hervàs y Benet cercò di sviluppare brevemente alcune delle immagini
bibliche più importanti, fra quelle nominate nello schema.
“Illa “plebs adunata”, nempe Ecclesia, voluntate divina est
familia Dei ad quam omnes homines vocantur, ut in ea partem
habeant, Deus est Pater noster; Christus, frater noster;
homines vera fraterni tate ad invicem copulantur, et
cohaeredes fiunt gloriae, quam Christus nobis meruit. (Haec
omnia verbis S.Scripturae et SS.Patrum illustrari possent)”.
La Chiesa è casa di Dio, nella quale tutti gli uomini hanno “un posto
preparato”, al di là delle distinzioni di stirpe o nazione, affinchè tutti abitino
nella casa del Padre. Dio è il Padre di famiglia, che governa la casa; Cristo è il
Figlio Primogenito di una moltitudine di fratelli; lo Spirito Santo testimonia che
noi siamo figli di Dio, e da molti ci rende una sola famiglia. La Chiesa è anche
madre di tutti gli uomini. Tutti ella chiama e accoglie nel suo seno con amore
veramente materno. Arricchita dallo Sposo divino di tutti i tesori della grazia,
distribuisce agli uomini i suoi doni; insegna loro la legge dell’amore come il
primo grande comandamento, e cioè l’amore di Dio e di Cristo verso gli uomini,
l’amore dell’uomo verso Dio, l’amore fraterno tra gli uomini.
Lo stile sobrio, la citazione delle figure più significative e l’individuazione
essenziale dei vari ruoli e delle relazioni esistenti fra essi, fanno di questo
contributo uno dei frutti più stimolanti e maturi di una certa teologia, destinata a
fiorire sempre più nel periodo post-Concilio. Certo, non si può dimenticare che
le ricchezze in essa contenute sono qui ancora allo stato larvato, e ancor oggi,
dopo la “Familiaris Consortio”, si fatica ad estrarne le cose migliori; tuttavia la
linea qui abbozzata sembra quella vincente, la più carica di futuro, di equilibrio
e di profondità teologica.
In questo stadio germinale, in cui una teologia della famiglia viene pian
piano formandosi, lo scritto di Mons. Grotti, Praelatus “nullius” di Acre e Purus
nel Brasile, ha un suo valore positivo, ma la chiarezza che lodavamo prima qui
si sbiadisce in un intreccio a volte stracarico di paragoni familiari. Il Prelato
brasiliano propone una nuova redazione dello schema, in cui lo sviluppo della
Chiesa viene rintracciato a partire dai suci primi inizi nel Paradiso terrestre.
“Est enim Ecclesia, indi a primi Adae innocentis tempore, qui
fuit “forma futuri”, hominum cum Deo et inter se adunatio,
Dei familia et regnum: qua in societate, Deus pater exstat et
sponsus, caput et rex, magister atque salvator; humanitas vero
filia et sponsa, corpus et subditum, discipula atque salvanda,
sed ad cooperationem vocata, uti mater et magistra, in
omnium procuranda salute; Spiritus autem gratia est vita,
spiramen et vinculum, quo ipsa Ecclesia, familia et regnum,
pluribus fit unum”.
Si snodano poi, attraverso circonvolute locuzioni latine, le grandi linee della
storia della salvezza, in cui vengono ricorrentemente messe in evidenza le
relazioni di paternità – maternità, sponsalità, filiazione, fraternità ed educazione.
Ne risulta un’immagine di Chiesa talvolta trionfalistica, fatta a immagine e
somiglianza di Dio, da lui arricchita di ogni grazia e dono soprannaturale,
cosichhè sfuggono, in alcuni punti, accenti di clericalismo, che vede nei vescovi
e nei presbiteri i padri e i maestri, e nei fedeli i figli e i discepoli.
I vescovi del Venezuela presentano un intervento comune, a nome della
Conferenza Episcopale, in cui viene recepito il senso della teologia della Chiesa
come famiglia. E’ proposto un emendamento al testo dello schema, in cui si
parla dell’unicità della Chiesa di Cristo in forza dell’unico mediatore fra Dio e
gli uomini, e per rafforzare questa dipendenza si ricorre alla figura della Sposa.
Viene citata molto a proposito una nota frase di S.Cipriano, tratta dal “De unitate
Ecclesiae”: “Habere iam non possit Deum Patrem, qui Ecclesiam non habet
matrem”. Tutta la pericope è permeata e illuminata dall’idea della mediazione
salvifica, la Redenzione, in cui Cristo si associa la Chiesa come Sposa dopo
averla amata totalmente e fedelmente. A questo amore che salva, la Chiesa
corrisponde generando alla grazia nuovi figli di Dio con la sua collaborazione
responsabile, che si esprime anche attraverso l’educazione. Anche in questo
intervento il limite più grave è rappresentato da un’idealizzazione senz’altro
stimolante, ma eccessiva perché non tiene conto della realtà del peccato.
Tutte queste indicazioni e proposte portarono, come già abbiamo visto, allo
schema approvato da Paolo VI in data 31 luglio 1964. Il testo precedente ne esce
fortemente rimaneggiato, nel senso soprattutto che viene chiarificato, ordinato,
ampliato, perché ogni immagine biblica venga adeguatamente commentata e
compresa nei suoi rapporti con le altre. Anche il titolo subisce un’opportuna
correzione: ora è “De variis Ecclesiae imaginibus”, e non più “De aliis…”,
rispettando l’opinione di chi voleva tutte le immagini collocate a pari livello
d’importanza. Ecco il testo:
“Saepius quoque Ecclesia dicitur AEDIFICATIO Dei (Cor,
3,9). (…) Quae constructio variis appellationibus decoratur:
domus Dei, in qua nempe habitat eius FAMILIA (…) //
Ecclesia etiam “quae sursum est Ierusalem” et “mater nostra”
appellatur (Gal. 4,26; cf. Apoc. 12,17), describitur ut
SPONSA immaculata Agni immaculati (Apoc. 19,7; 21,2 et 9;
22,17), quam Christus “dilexit”, et seipsum tradidit pro ea, ut
illam sanctificaret” (Eph. 5,26), quam sibi foedere
indissolubili sociavit et indesinenter “nutrite t fovet” (Eph.
5,29), et quam mundatum sibi voluit coniunctam et in
dilectione ac fidelitate subditam (cf. Eph. 5,24), quam tandem
bonis caelestibus in aeternum cumulavit, ut Dei et Christi
erga nos caritatem, quae omnem scientiam superat
comprehendamus (cf. Eph. 3,19)”.
Nella prima parte di questo brano, è evidente come si vogliano mettere in
rilievo le immagini dell’edificio e della famiglia, ma rimane una sottolineatura
semplicemente tipografica, in quanto il contenuto resta involuto, inarticolato.
Molto migliore è invece la seconda parte della nostra citazione, che rimarrà
invariata fino all’approvazione definitiva. La figura della Sposa è qui finalmente
accostata esplicitamente a quella della madre. Il riferimento alla realtà
matrimoniale è ulteriormente approfondito, rispetto al testo precedente,
mediante il cenno all’alleanza indissolubile che lega Cristo e la Chiesa
nell’amore. La realtà ecclesiale e la realtà coniugale si illuminano qui
reciprocamente, e ambedue escono arricchite da un confronto così fecondo. Una
pericope conclusiva poi, che segue il brano citato, aggiunge un elemento
prezioso, e cioè la dimensione escatologica, in cui risulta chiaro come la vita
terrena è anche per la comunità cristiana un pellegrinaggio difficile e non privo
di errori, mentre solo nel mondo rinnovato l’unione di intimo amore fra Cristo e
la Chiesa si rivelerà nella sua perfezione, senza venire mai più meno.
La sottolineatura dell’aspetto “familiare” della Chiesa viene ripresa,
conformemente a quanto richiesto da non pochi Padri, anche nel paragrafo 7 che
parla del Corpo Mistico di Cristo. E’ una frase un po’ lapidaria, inserita “ex
novo”, per significare, attraverso l’immagine sponsale, la profondità dell’amore
con cui Cristo ama la sua Chiesa, e l’atteggiamento di obbedienza e fiducia che
essa deve mantenere nei confronti di Lui, in segno di fedeltà e gratitudine.
“Christus vero diligit Ecclesiam ut sponsam suam, sicut vir
diligens uxorem suam diligit corpus suum (cf. Eph. 5,25-28);
ipsa vero Ecclesia subiecta est capiti suo (ibid. 23-23)”.
Questo spunto viene ampiamente ripreso e più adeguatamente espresso nella
redazione definitiva della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Per evitare ogni
spiacevole malinteso in una materia tanto delicata, tuttavia, si preferisce
precisare che l’amore che Cristo dimostra alla Chiesa non è paragonabile ad
alcunché, e anzi diventa esso stesso modello per i coniugi che intendano porre la
loro vita coniugale alla luce di Dio e del Vangelo.
“Christus vero diligit Ecclesiam ut sponsam suam, exemplar
factus viri diligentis uxorem suam ut corpus suum (cf. Eph.
5,25-28); ipsa vero Ecclesia subiecta est Capiti suo (ib.
23-24). “Quia in Ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis
corporaliter” (Col. 2,9), Ecclesiam, quae corpus et plenitudo
Eius est, divinis suis donis replet (cf. Eph. 1,22-23), ut ipsa
protendat et perveniat ad omnem plenitudinem Dei (cf. Eph.
3,19)”.
Complessivamente dall’esame della genesi di questi due paragrafi posti
all’inizio della Costituzione dogmatica si può ricavare una prima idea di quel
movimento progressivo che vede affermarsi tra i Padri del Concilio una
immagine di Chiesa sempre più lontana da un formalismo eccessivamente
giuridicista e verticista. Le esigenze pastorali, le istanze ecumeniche, il desiderio
di un’aderenza più radicale allo stile di vita di Cristo, portano in primo piano la
comunionalità, il servizio, la fedeltà e la totalità dell’amore. Proprio a tali
esigenze emergenti risponde quell’ecclesiologia che si richiama al mistero
nuziale per illuminare di luce nuova il mistero inesauribile della Chiesa.

b) La Chiesa nei suoi rapporti di paternità, figliolanza e amore


fraterno.

Nei paragrafi iniziali della “Lumen Gentium” il Vaticano II cerca di dare una
definizione generale di Chiesa, e a questo scopo utilizza le ricche immagini
bibliche cui abbiamo accennato fin qui. Le parti in cui si parla di famiglia e di
matrimonio sono collocate in questo contesto allegorico. Ma addentrandosi più a
fondo nel mistero della Chiesa, diviene pian piano chiaro come il parallelismo
Chiesa-famiglia è particolarmente ricco di significato e illuminante per vari
aspetti. Le somiglianze fra le due comunità sacramentali appaiono a questo
livello di tito analogico, ma si tratta di un’analogia assai stretta, nel senso che i
punti di contatto hanno carattere sostanziale, mentre le dissomiglianze
riguardano aspetti più marginali. La Chiesa è una famiglia perché i vescovi, i
sacerdoti, tutti i fedeli cristiani partecipano realmente al mistero di paternità,
figliolanza e mutuo amore. La dimensiona familiare della comunità ecclesiale
non è solo una metafora sentimentalistica, ma una realtà soprannaturale che
tocca il cuore di un mistero d’amore vissuto in modi diversi e a livelli diversi,
ma precisamente determinata nella sua verità fondamentale.
Questa presa di coscienza emerge di fatto entro i complessi lavori del
Concilio ecumenico, fin dalla prima discussione plenaria sullo schema “De
Ecclesia” tenuta nel dicembre del 1962. Riferendosi al testo redatto dalla
Commissione Teologica preparatoria, l’arcivescovo di Cambrai, Mons. Guerry,
difende con convinzione e con solide argomentazioni la necessità di introdurre
una congrua esposizione sulla funzione paterna in riferimento al ministero
episcopale. Nello schema in esame compare sì la parola “patres”, per definire
quale tipo di rapporti il vescovo deve mantenere verso i fedeli, ma è solo un
fugace accenno privo di mordente a livello di conseguenze pratiche. La proposta
fatta dall’oratore di emendare il paragrafo del “De Ecclesia” intitolato “De
Episcopatu ut sacramento” nel senso indicato, si fonda su un’intima
convinzione: non si tratta solo di qualche immagine, o di un concetto
sentimentale, ma della vera e profonda realtà della Chiesa cattolica, come è stata
voluta da Dio.
La richiesta è motivata dall’arcivescovo francese con grande lucidità e in
modo convincente, ricorrendo a tre ordini di motivi. Innanzi tutto, viene fatto
rilevare, la concezione della paternità del vescovo poggia sulle solide
fondamenta della Scrittura e della Tradizione. S.Paolo scrive: “Quand’anche voi
aveste migliaia di pedagoghi in Cristo, non avreste tuttavia molti Padri; perché
sono io che vi ho generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1 Cor. 4,15).
Con queste parole l’Apostolato intende per padre – che distingue dal pedagogo –
colui che genera, cioè comunica la vera vita in Cristo Gesù, la vita divina dello
Spirito Santo, della grazia e della fede. In questo senso, il vescovo, successore
degli apostoli, è padre per mezzo di tutto il suo ministero. Molte sono anche le
testimonianze dell’autentica Tradizione cattolica, ma viene ricordato solo
S.Ignazio d’Antiochia, il quale chiama il vescovo immagine del Padre, e
dichiara che la sottomissione dei fedeli non si dirige a lui, vescovo, ma al Padre
di Gesù Cristo.
Secondariamente il presule francese sottolinea come la paternità del vescovo
sia connessa con una concezione vitale della religione e della Chiesa. Il nome di
padre dato al vescovo evoca in modo chiarissimo l’idea della vita, ed il
frequente richiamo a questa realtà, anche nella catechesi, nella predicazione e
nella teologia, porta ad allontanare una concezione troppo giuridicista della
Chiesa. In questo modo all’enumerazione dei poteri e dei diritti è anteposta la
missione, la funzione spirituale, il servizio, il dono del Padre ai figli. Gesù
Cristo è venuto per rilevare il Padre suo agli uomini e stabilire con coloro ai
quali diede “il potere di diventare figli di Dio” rapporti vivi e familiari. La
comunità dei cristiani, la Chiesa, entra nel vivo di questo mistero, diventa
partecipe qui sulla terra della paternità divina, in modo visibile, soprattutto nella
gerarchia apostolica.
Vi è infine un terzo motivo. Questa concezione della paternità del vescovo
può avere ripercussioni di grande importanza nel governo della diocesi. Essa
richiama alla memoria del vescovo la promessa fatta il giorno della propria
consacrazione episcopale di donarsi ai figli sacerdoti e al suo popolo, al servizio
dell’altissima carità che consiste nel salvare gli uomini nella Chiesa.
Queste indicazioni verranno attentamente studiate dalla Commissione
Teologica in sede di revisione del testo e il senso della proposta verrà accettato
ed espresso nello schema del 1963.
Sulla stessa linea tracciata da Mons. Guerry, si pone anche Mons. Noser,
vicario apostolico di Alexishafen (Papua Nuova Guinea), il quale, in una
relazione scritta, afferma la paternità non solo dei vescovi ma anche dei
presbiteri. Il documento uscito dalla fase preparatoria parlava dei presbiteri solo
come di “pastori”, ma altrove si legge che “in essi è trasfusa come l’abbondanza
della pienezza paterna” dei vescovi. Questa realtà andrebbe ribadita con più
forza ed espressa con maggiore chiarezza.
“Presbyteri vere dant vitam spiritualem fidelibus per
praedicationem Evangelii et administrationem
sacramentorum. Pastor utique vigilat et curam habet de
ovibus suis, sed presbite insuper fidelibus vitam dat, non
tantum maximam curam exercet. Ipse potest dicere cum
S.Paulo: “Si decem milia paedagogorum habeatis in Christo:
sed non multos patres. Nam in Christo Iesu per Evangelium
ego vos genui” (1 Cor. 4,15). Vel etiam: “Filioli mei, quos
iterum parturio, donec formetur Christus in vobis” (Gal.
4,19).
Sarebbe molto utile che i presbiteri meditassero frequentemente e con
profondità su questa paternità spirituale e sugli obblighi che essa comporta nei
riguardi dei propri figli e figlie spirituali nella vita quotidiana – sulla vigilanza,
la pazienza, l’amore veramente paterno, ecc. Dall’altra parte i fedeli, sentendo
che il presbitero è veramente un padre spirituale, sono spinti ad offrirgli amore e
fiducia filiale.
Queste affermazioni, paragonate a quelle di Mons. Guerry, non sono né
vogliono essere in contrasto o in alternativa rispetto ad esse, ma ne
rappresentano una conferma e un approfondimento. Purtroppo in ambedue
questi interventi si scorge un certo spirito, definibile forse come integralismo
ecclesiale o clericalismo – che per altro era allora molto più diffuso di oggi: la
paternità è predicata univocamente dai vescovi e per partecipazione dai
presbiteri, la figliolanza unicamente dai fedeli laici. Tuttavia è positivo lo sforzo
di scandagliare le diverse applicazioni e tutti i risvolti di queste affermazioni,
che a certe orecchie suonavano nuove.
Anche Mons. Noser propone un emendamento del testo, mediante una
duplice inserzione: nel paragrafo 12 “De Presbyteris” delle parole: “…
sacerdotes et veri patres spirituales fidelium”; nel primo paragrafo del capitolo
sui laici, della frase: “Fideles vero, scientes pastores vere esse patres spirituales
suos, erga eos manifestent fiduciam et amorem vere filialem”.
Anche queste indicazioni furono prese seriamente in esame di Commissione,
tanto che il nuovo schema di Costituzione, ampiamente rimaneggiato, presenta
nuovi accenni e nuove parti, interessanti dal nostro punto di vista. Il paragrafo
11, che nello schema del 1962 esponeva la dottrina sull’episcopato come
sacramento, dopo il dibattito in aula viene ampliato e suddiviso in più numeri. A
questo stadio, la materia ivi trattata si colloca nel terzo capitolo intitolato: “De
Constitutione Hierachica Ecclesiae et in specie de Episcopatu”. Al numero 14 si
legge di un “paterno munere” proprio dei vescovi; è interessante soprattutto la
nota correlativa, in cui si forniscono alcuni dati biblici, patristici e desunti dalla
Tradizione della Chiesa orientale e occidentale, per sostenere l’affermazione e
spiegare il senso in cui deve essere intesa. Alla trattazione sull’episcopato come
sacramento, seguono tre paragrafi in cui viene specificato l’ufficio episcopale a
partire dalla classica tripartizione cristologica dei “munera docendi,
sanctificandi et regendi”. Al numero 21, dopo un accenno in cui i fedeli vengono
chiamati “veri figli” in rapporto al vescovo, si legge tra l’altro:
“Fideles autem Episcopo adhaerere debent sicut Ecclesia Iesu
Christo, et sicut Iesus Christus Patri, ut omnia er unitatem
consentiam”.
Questa breve frase, ispirata alla lettera di S.Ignazio d’Antiochia agli Efesini,
assume un’eloquenza particolare nell’ottica che abbiamo assunto in questo
lavoro. Ritorna qui una frase già usata da S.Paolo per esortare i coniugi cristiani
ad imitare fedelmente il loro modello supremo. Come il matrimonio cristiano è
immagine e partecipazione dell’amore che unisce Cristo e la Chiesa, così entro
la comunità cristiana locale, fra vescovo e fedeli esiste lo stesso rapporto.
Questo parallelismo strettissimo evidenzia luminosamente che quando si parla
della famiglia cristiana come di una Chiesa domestica, si intende riferirsi in
modo particolare alla Chiesa locale piuttosto che a quella universale. E’ al
vincolo d’amore che lega questa comunità cristiana, determinata nel qui ed ora,
e il Cristo morto risorto e glorioso, che i coniugi credenti guardano come al
modello loro proposto. ;a è anche vero che la stessa assemblea dei fedeli, la
Chiesa, santa e sempre bisognosa di purificazione, riceve dalle famiglie cristiane
autentiche un forte esempio e uno stimolo a vivere com amore più fedele il suo
rapporto sponsale con Dio.
Un altro punto estremamente interessante si trova al paragrafo 23, che
appartiene al capitolo terzo “De Populo Dei et speciatim De Laicis” e si intitola
“De membrorum in Ecclesia Christi aequalitate et inaequalitate”. Si tratta di un
argomento storicamente molto delicato, in quel momento particolare della vita
della Chiesa; si veniva infatti affermando una ecclesiologia non più verticistica e
apologetica, ma aperta piuttosto alle istanze della comunione, della missione e
del servizio.
“Fideles autem sicut ex dignatione divina fratrum habent
Christum, qui cum sit Dominus omnium, venit tamen non
ministrari sed ministrare, itas etiam fratres habent eos qui, in
sacro ministerio positi, auctoritate Christi et docent et
sanctificant et pascunt, ut mandatum novum caritatis ab
omnibus impleatur. Quocirca pulcherrime dicit S.Augustinus:
“Ubi me terret, quod vobis sum, ibi me consolatur quod
vobiscum sum. Vobis enim sum episcopus, // vobiscum sum
christianus. Illud est nomen suscepti officii, hoc gratiae; illud
periculi est, hoc salutis”.
Viene qui definitivamente superata quella concezione che, peccando di
eccessivo paternalismo, attribuiva la partecipazione alla paternità spirituale di
Cristo esclusivamente ai pastori, membri della Gerarchia. L’autorità viene ora
intesa alla luce del Vangelo con maggiore equilibrio: non è tanto un potere
assoluto, ma la capacità di amare con spirito di servizio, ad imitazione di Cristo.
Se la qualifica di padre si addice meglio al dono concesso sacramentalmente da
Dio ai pastori per partecipazione, la qualifica di fratelli sottolinea invece la
chiamata, comune ai pastori e ai laici, ad amarsi come Cristo ha insegnato. Ciò
che la paternità potrebbe distinguere, la fraternità riconcilia.
Questa idea non è stata facilmente accettata subito di tutti, e trovò
opposizione soprattutto in chi aveva una formazione e una mentalità
prevalentemente giuridica. Così il Card. Ruffini, arcivescovo di Palermo,
pretende di vedere fra pastori e fedeli non una vera uguaglianza, ma una
superiorità dei primi almeno quanto all’ufficio loro proprio, se non anche quanto
alla dignità e all’azione. Invece Mons. Person, Vicario Apostolico di Harar in
Etiopia, rivolge le sue critiche al testo partendo da un altro punto di vista. Egli
ha davanti agli occhi la realtà africana e per rendere più efficace
l’evangelizzazione di quei popoli preferirebbe un richiamo all’amicizia dei
cristiani con Cristo. Nel vangelo di S.Giovanni infatti si legge che Cristo non ci
ha chiamati fratelli ma amici. La parola “fratello” applicata a Cristo perciò non
sembra corrispondere all’uso della Scrittura.
Ciò nonostante le righe sopra citate si ritrovano di nuovo nel testo emendato,
datato 3 luglio 1964. Le modifiche non sono sostanziali e riguardano la
sostituzione del termine “fideles” con “laici”, l’inserimento nel testo della
citazione biblica, e l’aggiunta del complemento oggetto “familiam Dei”, riferito
all’autorità magisteriale sacerdotale e regale di Cristo partecipata ai sacri pastori.
“Laici igitur sicut ex divina dignatione fratrem habent
Christum, qui cum sit Dominus omnium, venit tamen non
ministrari sed ministrare (cf. Mt. 20,28), ita etiam fratres
habent eos, qui in sacro ministerio positi, auctoritate Christi
docendo et santificando familiam Dei ita pascunt, ut
mandatum novum caritatis ab omnibus impleatur”.
Questo brano viene ritoccato un’ultima volta prima dell’approvazione
definitiva, e per cadenzare più ritmicamente i tre “munera episcoporum” alla
frase “auctoritate Christi docendo et santificando familiam Dei” viene aggiunto
“et regendo”.
Si viene così finalmente delineando quanto il Vaticano II ha
autoritativamente insegnato parlando della Chiesa come di una famiglia.
Leggiamo al terzo capoverso del numero 27 queste espressioni vivide e toccanti:
“Episcopus, missus a Patre familias ad gubernandam
familiam suam, ante oculos teneat exemplum Boni Pastoris.
(…) Subditos, quos ut veros filios suos fovet et ad alacriter
secum cooperandum exhortatur, audire ne renuat. (…) Fideles
autem Episcopo adhaerere debent sicut Ecclesia Iesu Christo,
et sicut Iesus Christus Patri”.
Il lungo paragrafo 28 affronta il problema delle relazioni tra vescovo e
presbiteri. Per meglio comprendere ciò che qui vien detto, conviene menzionare
uno scritto di Mons. Planas Muntaner, vescovo di Ibiza (Spagna), risalente alla
seconda sessione di lavori, in cui si domanda un discorso sui sacerdoti più esteso
e più ricco.
L’argomentazione del presule spagnolo si svolge nei termini seguenti:
giustamente si afferma che il vescovo è “pater fidelium”, in quanto nella Chiesa
gli viene conferita un’autorità di guida nei confronti dei fedeli; ma se si
considera la rigenerazione degli uomini operata durante il battesimo e la nascita
al corpo ecclesiale di nuovi membri, risalta piuttosto il contributo primario dei
presbiteri che generalmente amministrano concretamente il battesimo: non è
possibile sottacere o sminuire la loro paternità spirituale.
“Nam regeneratio spiritualis proprie loquendo est ipsa
administratio baptismatis, iuxta illa verba Domini nostri:
“Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest
introire in Regnum Dei”.
Melius fortasse res exprimitur in n.19, pag.29, linn.20-21, ubi
dicitur episcopos, utpote praedicatores fidei, novos discipulos
ad Christum adducere. Regeneratio enim spiritualis sensu
totali comprehendere potest etiam praedicationem fidei, sed
novus christianus proprie non habetur nisi baptismate recepto.
Praedicatio fidei est velut initium fidei, sed non est adhuc
proprie regeneratio spiritualis.
Presbyteri ergo sunt a fortiori patres fidelium, quia
communiter baptismum administrant, in quo novi filii
ecclesiae nascuntur et nova membra Corporis mystici
constituuntur. Populus christianus etiam, non solum
episcopos sed etiam simplices sacerdotes patres vocat”.
Al di là dei limiti teologici evidenti in questa riflessione, il suggerimento
positivo, cioè di marcare maggiormente e specificare più diffusamente in che
senso i presbiteri vengano detti “padri”, viene accolto nelle successive redazioni
del “De Ecclesia”. Nel testo approvato leggiamo queste espressioni, che si
riferiscono anche ai rapporti tra vescovo e sacerdoti, dove il peso di un
paternalismo eccessivo viene radicalmente mitigato dall’accenno alle parole di
Cristo che chiama amici i suoi apostoli.
“Propter hanc in sacerdotio et missione participationem,
Presbyteri Episcopum vere ut patrem suum agnoscant eique
reverenter oboediant. Episcopus vero Sacerdotes cooperatores
suos ut // filios et amicos consideret, sicut Christus discipulos
suos iam non servos, sed amicos vocat (cf. Io. 15,15). (…)
[Presbyteri] Fidelium vero, quos spiritualiter baptismate et
doctrina genuerunt (cf. 1 Cor. 4,15; 1 Pt. 1,23), curam
tamquam patres in Christo agant. (…)
Quia genus humanum hodie magis magisque in unitatem
civilem, oeconomicam et socialem coalescit, eo magis oportet
ut Sacerdotes, coniuncta cura e tope sub ductu Episcoporum
et Summi Pontificis, omnem rationem dispersionis elidant, ut
in unitatem familiae Dei totum genus humanum adducatur”.
Non mi soffermo su queste ultime frasi veramente stupende che
meriterebbero una riflessione prolungata. Mi limito a fare rilevare la potenziale
ricchezza di un’ecclesiologia incardinata attorno alla categoria di famiglia. Se la
Chiesa, come afferma LG 1, è sacramento, ossia segno e strumento dell’unione
non solo fra Dio e gli uomini ma anche dell’umanità in se stessa, essa deve
sentire l’urgente bisogno di crescere nell’amore per diventare realmente una
famiglia. Solo allora essa diventerà ciò che è – e deve essere – e porterà il
genere umano a realizzare in se stesso quel progetto che Dio ha voluto fin
dall’inizio quando creò uomo e donna perché fossero una sola carne. Quella era
la prima realizzazione di umana società, quella era la prima, germinale
immagine di Chiesa.
Infine rimane da analizzare il paragrafo 37, collocato nel quarto capitolo,
dedicato ai laici. Un contributo fondamentale alla messa a punto
dell’insegnamento lì contenuto l’aveva dato in uno scritto Mons. Pailloux,
vescovo di Fort Rosebery, in aggiunta a quanto era stato detto in aula negli
ultimi mesi del 1963. Questo vescovo missionario nello Zambia esprime a chiare
lettere opposizione per una definizione della Chiesa intesa come società
gerarchica e giuridica, e si dichiara invece favorevole a una sua presentazione
sul modello della famiglia riunita, in cui i reciproci rapporti fra i membri e la
loro diversità vengono vissuti nell’amore e nel rispetto di ciascuno verso tutti.
Non è solo una questione banalmente terminologica, non sono da auspicare
trasformazioni epidermiche, ma è un nuovo stile di essere Chiesa che deve
essere assimilato, mediante un profondo convincimento interiore e una
conversione nell’agire.
“Sed displicet hic parallelismus, ut ita dicam, quo populus
Dei sub duabus distinctis et quasi oppositis categoriis semper
repraesentatur, nempe hierarchica ex una parte et fideles ex
altera. Certe talis oppositio ad naturam Ecclesiae recte
intelligendam minime inservit. Forsitan, haec omnia melius
dicerentur et reciperentur si Ecclesia, non tam ut societas
hierarchica et iuridica, quam ut familia inter se coadunata ac
mutua affectione et reverentia // roborata ante oculos omnium
poneretur”.
Proprio da suggerimenti e indicazioni di questo tipo, che sarenne
inopportuno in questa sede rintracciare più dettagliatamente, viene prendendo
forma un’ecclesiologia di comunione che si ispira anche al tipo particolare della
comunione domestica. Ne traiamo un esempio eloquente dal paragrafo 37 della
“Lumen Gentium”, dove si descrive lo spirito che deve animare i rapporti
“familiari” tra pastori e laici.
“Laici, sicut omnes christifideles, ius habent ex spiritualibus
Ecclesiae bonis, verbi Dei praesertim et sacramentorum
adiumenta a sacris Pastoribus abundanter accipiendi, hisque
necessitates et optata sua ea libertate et fiducia, quae filios
Dei et fratres in Christo decet, patefaciant. Pro scientia,
competentia et praestantia quibus pollent, facultatem, immo
aliquando et officium habent suam sententiam de iis quae
bonum Ecclesiae respiciunt declarandi. Hoc fiat, si casus
ferat, per instituta ad hoc ab Ecclesia stabilita, et semper in
veracitate, fortitudine et prudentia, cum reverentia et caritate
erga illos, qui ratione sacri sui muneris personam Christi
gerunt. (…)
Sacri vero Pastores laicorum dignitatem et responsabilitatem
in Ecclesia agnoscant et promoveant; libenter eorum prudenti
consilio utantur, cum confidentia eis in servitium Ecclesiae
officia committant et eis agendi libertatem et spatium
relinquant, immo animun eis addant, ut etiam sua sponte
opera aggrediantur. (…) Ex hoc familiari commercio inter
Laicos et Pastores permulta bona Ecclesiae exspectanda
sunt”.

b) Chiesa, famiglia di santi.

Un altro gruppo di indicazioni sul carattere “familiare” della Chiesa, è contenuto


nella “Lumen Gentium”, soprattutto nel capitolo settimo, che presenta l’indole
escatologica della comunità dei redenti, la quale solo al termine della storia
realizzerà pienamente la sua vocazione divina e soprannaturale.
Scrive in questo senso Mons. Nguyen Van Hien, che abbiamo già incontrato
precedentemente. Il presule vietnamita, commentando lo schema del 1962,
lamenta l’eccessiva importanza ivi attribuita alla figura paolina del Corpo
Mistico. Se, come accade, la realtà della Chiesa può essere presentata e descritta
in modi diversi, più o meno perfetti, forse sarà bene ritornare alla stessa sorgente
della verità che è Cristo e adottare il suo modo di esprimersi, il suo linguaggio.
Egli spesso, parlando della Chiesa, la dipinse come una grande famiglia divino-
umana. “Uno solo è il vostro Padre, quello che è nei cieli…Uno solo è il vostro
Maestro, Cristo…voi siete tutti fratelli…” (Mt. 23,9-10). “Pregherete così: Padre
nostro…” (Mt. 6,9). Da queste e altre testimonianze dirette l’apostolo Giovanni
potè riassumere in queste parole lapidarie il proposito di Cristo sulla sua Chiesa:
“Ma a quanti lo accolsero, diede il potere di diventare figli di Dio” (Gv. 1,12).
Cristo, poi, “affinchè fossimo chiamati figli di Dio e lo fossimo realmente”, ci
ha resi suoi consanguinei e familiari, donandoci la sua carne come cibo e il suo
sangue come bevanda: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in
me e io in lui…, egli vivrà per me…vivrà in eterno” (Gv. 6,57-59); grazie a
questa partecipazione al corpo e sangue di Cristo, l’uomo diviene partecipe della
natura divina e membro della famiglia di Dio, non certo in modo naturale come
il Figlio Unigenito, ma per adozione.
Proprio a partire da queste parole di Cristo qui abbondantemente citate, è
possibile approfondire teologicamente il mistero della Chiesa in connessione
con quello della famiglia. Il quadro teologico di riferimento che viene
spontaneamente delineandosi qui per la prima volta in Concilio, è quello
trinitario. Cristo, il Figlio unigenito, ci ha rivelato il Padre, e attraverso la sua
offerta pasquale, continuamente attualizzantesi nel tempo mediante i sacramenti
del Battesimo e dell’Eucarestia, ci dà la possibilità di diventare figli. E’ lo
Spirito Santo, lasciato da Cristo ai discepoli come garanzia di unità con Lui e tra
di loro che opera questo prodigio: in Esso gridiamo “Abbà”. I motivi che
giustificano una più fedele aderenza allo stesso modo di parlare di Cristo, dopo
quasi venti secoli, sono di natura teologica e biblica, pastorale e antropologica.
“Haec conversio ad praedicationem et modum loquendi ipsius
Christi, meo humili iudicio, multas utilitates nobis affert:
1. Haec conceptio Ecclesiae tamquam Familiae divinae mihi
videtur omnino conformis cum doctrina Christi qui non
solum comparavit figurative Ecclesiam ut familiam: Simile
est regnum caelorum patrifamilias, in parabola filii prodigi,
etc. sed eam esse talem clare, fuse, plus quam ad satietatem
affirmavit, ut supra.
2. Talis doctrina et praesentatio omnibus familiaris est: munus
nostrum est omnes homines alloqui de Christo et Ecclesia
sua”.
Dopo qualche altra considerazione mirante ad evidenziare la coerenza di
questa particolare ottica ecclesiologica con la teologia dogmatica e morale e con
la liturgia, il presule vietnamita propone un’interessante definizione.
“His attentis, mihi videtur Ecclesiam Dei ita definiri posse:
Ecclesia Dei ad quam omnes homines sine exceptione
invitantur, est Familia divino-humana in qua membra, sub
communi Patri caelesti, ex meritis Salvatoris Christi, sub
impulsu Spiritus Amoris, adoptivi filii Dei in Filio efficiuntur
– inchoative quidem iam in terris sub apostolorum ministerio,
duce Petro (Ecclesia militans) – ac definitive in caelis, in
domo Patris in qua mansiones multae sunt (Io. 14,2) (Ecclesia
triumphans)”.
Si tratta di un testo stimolante, forse ancora rudimentale, ma ricco di idee
estremamente feconde e valide, come la sottolineatura escatologica, la
dimensione fortemente trinitaria, un’ecclesiologia equilibratamente giuridica e
“carismatica”. Il valore di questo e di altri interventi di Mons. Nguyen Van Hien
risalta anche dalla riflessione acuta che egli conduce sulle possibili conseguenze
e i riflessi pratici della sua proposta. In questo caso, l’ultimo degli emendamenti
richiesti per lo schema del 1962 riguarda il problema ecumenico del
ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani. A parere del vescovo vietnamita la
situazione dei fratelli separati si comprende meglio a partire dalla dottrina sulla
famiglia divino-umana, poiché essi, consapevoli o no della loro separazione,
appartengono sempre alla famiglia di Cristo, benché siano lontani dalla vera
Madre e Maestra, che è la Chiesa cattolica.
Altre due “Animadversiones Scriptae” del primo periodo conciliare sono da
menzionare perché dimostrano che fin dall’inizio le esigenze sentite da varie
parti di dare ossigeno all’ecclesiologia, dolorosamente costratta entro la camicia
di forza giuridica, trovarono che le feconde somiglianze esistenti fra il mistero
della Chiesa e quello della famiglia potevano rappresentare un punto-chiave di
rinnovamento, anche per una maggiore armonizzazione dei vari trattati classici
della teologia. Mons. Woytila, allora vicario capitolare di Cracovia, fin dalle
prime battute della controversa questione sul posto da riservare alla dottrina
mariologica, si dichiara per una esplicita connessione con il tema ecclesiologico.
Oltre alla considerazione agostiniana sulla maternità della Vergine Maria che si
estende al capo e alle membra del Corpo Mistico, è da tenere presente la vera
funzione materna affidata alla Chiesa, che la Beata Vergine ha fisicamente e
perfettamente realizzato in sé.
“Cum schemate De Ecclesia in unum coalescit schema da B.
Virgine Maria. Cuius coalescentia sensus talis esse videtur: in
hoc, quod Maria Beatissima sit in Ecclesia – Corpore Christi
Mystico tamquam Mater Capiti set Mater omnium
membrorum et cellularum Corporis, ostendatur insimul
Maternitas ipsius Ecclesiae, quae in schemate magis ut
Magistra (societas docens) quam ut mater presentata est
nobis. Oportet autem ut credatur et confiteatur tamquam
mater spiritualis animarum omnium”.
La stessa sottolineatura a riguardo della maternità della Chiesa nei confronti
di tutti gli uomini è fatta anche all’arcivescovo di Taranto Mons. Motolese.
“Omnes Ecclesiam agnoscant oportet non solum veritatis
magistram mentibus hominum propendae, sed etiam matrem
ad filios suos semper intentam, quibus illud Christi Domini
repetit “Misereor super turbam”. Ita Ecclesia omnibus
clarescet et in dispendandis bonis spiritualibus a Domino
commissis et in fovendis bonis temporalibus per acquosa
filiorum suorum caritatem”.
Già da questi primi interventi si può vedere come ci si orienti decisamente
verso una interpretazione realistica di quella che nei primi paragrafi della
Costituzione sulla Chiesa era chiamata una “immagine”: la famiglia ecclesiale
dei figli di Dio.
Nonostante i notevoli mutamenti cui fu sottoposto lo schema “De Ecclesia”
prima dell’inizio della seconda sessione dei lavori conciliari, la nozione di
Chiesa come madre, famiglia e fraternità rimase ancora emarginata, forse per le
incertezze teologiche cui poteva prestare il fianco, dato il suo scarso
approfondimento teorico. Questo fatto però suscitò altre insistenti richieste da
parte dei Padri. Fra questi ricordiamo il vescovo di Grenoble, Mons. Fougerat, il
quale sottolinea come siano rimasti eccessivamente in ombra soprattutto due
aspetti: la nozione dei figli di Dio generati, nutriti e riuniti in un’unica famiglia;
e la piena fraternità cristana. La nozione della Chiesa come famiglia è qui
strettamente connessa con l’aspetto della maternità spirituale.
“Ex voluntate Christi Ecclesia, in nomine Domini et per
gratiam suam, est Mater christianorum. “Nemo potest habere
Deum Patrem qui non habeat Ecclesiam Matrem”. Ecclesia
regnerat seu ad vitam novam generat pueros suos. Postea
congregat, convocat ac coadunat eos: non tamen ut advenas
externos, sed ut filios, qui iam sunt familiae suae. Nutrit et
roborat eos, non tamquam hospites unius diei, sed ut filios,
domus familialis et commensales mensae domesticae”.
La Chiesa non sarebbe una società, una comunità, un popolo, se prima non
fosse famiglia di Dio. Volentieri molti oggi parlano di popolo di Dio e fanno
bene. E’ un nome grande e nobile che abbraccia tutta l’ampiezza del mondo e
tutta la serie dei secoli. Esso arricchisce il mondo di oggi e la cultura
contemporanea anche laica di un nuovo elemento dell’eredità biblica e di una
grande speranza. Tuttavia il concetto di popolo di Dio esige, a detta del vescovo
francese, maggiore chiarezza e un afflato umano più forte. Egli intende il popolo
di Dio come una realtà più vasta e più informe rispetto al concetto di Corpo
Mistico. Quello dipende da questo, ne è generato e da qui trae il suo vigore.
Affinchè il popolo di Dio possa portare agli uomini tutti i benefici di cui è
capace, è necessario che in esso cresca sempre lo “spirito di famiglia”. Chi non
ama la Chiesa come madre e famiglia sua, e tutti i cristiani come fratelli, che
non edifica la Chiesa come sua propria casa, non ha il diritto di affermare di
appartenere a pieno titolo al popolo di Dio.
“Hoc est mysterium Ecclesiae (…): plus crescit verus populus
Dei et plus sensus familialis christianus floret. Quo amplior
fit, eo intimior evenit: “Vocabo non plebem meam plebem
meam, et non dilectam dilectam…In loco ubi dictum est eis:
non plebs mea vos, ibi vocabuntur filii Dei vivi…” (Rom.
9,25-26). Et sic populus Dei nascitur, quia familia Dei
crescit”.
Questi mi sembrano pensieri molto forti e profondi. Arriviamo qui forse a
cogliere a un livello iniziale il senso di quella somiglianza che avvicina Chiesa e
famiglia cristiana, rendendo possibile applicare all’una le proprietà più intime
che caratterizzano l’essere dell’altra. Fra le due comunità esiste come una
osmosi “spirituale”: quando nella Chiesa soffia lo “spirito familiare”, quel
particolare stile di amore, il battezzato si trova fra i cristiani come a casa propria,
è a suo agio, sperimenta la spontaneità dell’accettazione e del dono reciproci;
quando nella famiglia soffia lo “spirito ecclesiale” essa dilata le frontiere della
sua comunità d’amore fino agli ultimi estremi della terra e più in alto dei cieli.
La famiglia non può essere autenticamente se stessa finchè resta chiusa fra le
mura del suo egoismo; e la Chiesa realizza fedelmente la volontà del suo Dio
solo quando rinuncia a reclamare troppi diritti e s’incammina sulla via della
carità disinteressata e dell’accoglienza fraterna. Proprio questo della fraternità è
il secondo aspetto sottolineato da Mons. Fougerat. Stupisce che mentre in tutto il
Nuovo Testamento, e soprattutto negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, i
cristiani sono chiamati fratelli e questa nuova fraternità è menzionata tanto
frequentemente e tanto meravigliosamente, nello schema proposto essa è quasi
totalmente assente. Il mondo di oggi parla con speranza e fervore della giustizia
e della fraternità, ma solo la Chiesa possiede pienamente la ricchezza della vera
e totale fraternità, solo il popolo di Dio è il popolo dei fratelli che si amano oltre
ogni frontiera e oltre ogni egoismo con tutta sincerità. L’apostolato dei cristiani è
sufficientemente alimentato, si domanda il presule francese, da quelle verità e da
quegli aiuti spirituali che sono contenuti nel “Nuovo Comandamento” di Cristo,
che è il segno dei veri discepoli?
“Ergo, votum a nobis emittitur, ut redactio in maiorem lucem
ponat illam fraternitatem communem ab omnibus impletam,
tum a pastoribus erga oves, tum ab ovibus erga pastores. Hoc
est enim fondamentale principium unionis”.
Si colloca su questa stessa linea anche l’intervento di Mons. Lamont,
vescovo di Umtali (Rhodesia). Giustamente lo schema “De Ecclesia” usa la
parabola evangelica del gregge e del pastore, che descrive con immediatezza
immaginifica la consuetudine amorevole di vita che s’instaura fra l’uomo e le
sue pecore.
“Termini pastoris et ovis non satis congrue adhibentur ad
significandum onus et privilegium evangelizandi, ad quod
fideles vocantur, sed non oves, quae certe evangelii praecones
fieri non possent. Haec omnia magis clare et laicorum
dignitate aptiore modo dicuntur, si adhibeatur notio familiae,
in qua laici, uti spirituales episcopi filii, eum sequi, illum
audire, ipsum adiuvare et possunt et debent.
(…) Clima quoddam familiae instauremus ut patres inter
filios moveamur, vivamus, et agnoscamur. (…) Episcopi
problema non est ut honoretur sed ut ametur: amari est patris,
honorificari est domini”.
Oggi i laici sono più dotti di un tempo e sono più degni e adatti ad essere
chiamati all’opera di evangelizzazione; ma non sono attratti a ciò dall’esercizio
non sempre sufficientemente pastorale del vescovo, che pasce il suo gregge da
lontano mediante lettere che scrive una volta all’anno ai fedeli senza quasi
essere da loro conosciuto. Questa distanza o divisione non attrae i laici, ma
piuttosto li tenta nella fede.
I laici non sono chiamati a sostituire il sacerdozio gerarchico anche nelle sue
incombenze sacre, ma a collaborare con esso con spirito di figli. Ciò esige una
fiducia reciproca, fatta di rispetto e di carità. Soprattutto però dai vescovi si
esige uno spirito di servizio, di ascolto nei confronti delle richieste dei fedeli, di
apertura nel responsabilizzare tutti ai problemi della Chiesa.
Il vescovo ausiliare di Taubaté in Brasile, Mons. Bueno Couto, dal canto
suo, sviluppa una riflessione sulla santità, il cui dato rilevante, dal nostro punto
di vista, è che sia il genere umano nell’era pre-cristiana, sia la Chiesa, vengono
denominati “famiglie”.
Due interventi di matrice africana, quello di Mons. Grauls, arcivescovo
burundese di Kitega, e quello della Conferenza Episcopale del Burundi e
Rwanda, insistono, quasi con le stesse parole, sull’esigenza di inculturare
l’annuncio evangelico, ossia di adattarne la forma alla mentalità propria di ogni
singolo popolo perché possa penetrarne la cultura fino in fondo ed illuminarne la
vita quotidiana. I vescovi burundesi e ruandesi affermano che come il Verbo di
Dio, Redentore di tutti, aveva voluto inserirsi, per mezzo della Incarnazione, in
una certa nazione e stirpe, dotata di tradizioni, di una cultura e di particolari
modi di pensare, così la Chiesa, Madre di tutti i fedeli, è tenuta ad accogliere e
favorire la diversità dei doni nella “casa di Dio”, in modo che così venga
prestato fedele ossequio alla volontà di Dio. Da ciò rifulge la sua cattolicità, per
mezzo della quale i doni naturali e soprannatuli dello Spirito Santo sono condotti
ad una piena perfezione.
“Cum haec Dei familia, quae est Ecclesia, nata sit ut omnes
Dei filios in unum congreget, natura sua in id tendit ut in vita
sua unitatem in diversitate diversitatem in unitate quam
perfectissime ostendat”.
All’apertura della seconda sessione dei lavori conciliari la discussione sullo
schema di Costituzione “De Ecclesia” vide i Padri impegnati ad affrontare
questioni disparate e complesse. Noi vogliamo qui ricordare soltanto quanto
disse il Card. Jaeger, arcivescovo di Paderborn.
“In hac reali Ecclesia datur coniunctio seu solidarietas inter
membra sicut datur, in faustis et in adversis, solidarietas in
una familia. Populus Dei est vere familia Patris in qua omnes
filii et fratres alii ab aliis dependent, alii in alios verum
influxum exercent, sive quando peccando a recta via
deficiunt”.
Con espressioni succinte ma precise, l’arcivescovo tedesco tocca il punto
nodale del nostro argomento. Quello che da un altro presule era stato
precedentemente chiamato “spiritus familiaris” viene ora compreso ed espresso
come reciproca solidarietà, intima comunione di vita.
Era ormai evidente che andava sempre più affermandosi tra i Padri
conciliari, soprattutto tra le personalità più influenti e aperte, un’adesione
crescente ad un rinnovamento intraecclesiale che portasse alla costituzione di
un’autentica Chiesa-famiglia. Solo da queste premesse era possibile, per altro,
promuovere quello spirito ecumenico, missionario ed evangelico che era il senso
stesso dell’assise ecumenica, il suo scopo, ed era anche un’esigenza percepita
sempre più chiaramente ed urgentemente.
Nello schema “De Ecclesia” del 1964 viene introdotto “ex novo” il seguente
periodo, collocato nel proemio al quinto capitolo, intitolato “De universali
vocatione ad sanctitatem in Ecclesia”.
“Christus enim, Dei filius, (…) Ecclesiam tamquam sponsam
suam dilexit, Seipsum tradens pro ea, ut illam sanctificaret
(cf. Eph. 5,25-26), eamque Sibi ut corpus suum coniunxit
atque Spiritus Sancti dono cumulavit, ad gloriam Dei”.
Questo testo, rimasto del tutto invariato fino all’approvazione definitive,
racchiude una verità preziosa. La differenza in un primo tempo ritenuta
irriducibile fra un’ecclesiologia che si rifaceva al paragone paolino del Corpo
Mistico e una che preferisce invece ricorrere a categorie linguistiche e logiche di
estrazione familiare, viene qui composta in modo mirabile. La Chiesa è Corpo di
Cristo perché Egli l’ha sposata nell’amore e nella fedeltà, l’ha fatta sua Sposa
per sempre. Su questa mistica unione si fonda la Chiesa, la comunità dei redenti
che ha ricevuto il dono dello Spirito e da esso è santificata. Questa stessa mistica
unione è il modello radicale per ogni famiglia umana, ma per la famiglia
veramente cristiana è qualcosa di più che un semplice ideale cui ispirarsi. E’ il
fondamento della sua stessa vita, la sorgente della grazia santificante mediata
dalla comunità ecclesiale, la forza della carità, ossia del dono disinteressato di sé
che diventa la regola di vita in ogni casa cristiana. Famiglia e Chiesa vivono
attingendo alla stessa fonte di amore soprannaturale, ma ciascuna delle due è
chiamata a tradurre questo dono in un contesto specifico e con modalità proprie.
Solo la comunità locale dei credenti possiede la pienezza degli strumenti di
salvezza, i sacramenti, essa è chiamata a prolungare l’opera di Cristo nella sua
integralità; in questo senso è inevitabile che anche la famiglia cristiana si trovi in
un rapporto subordinato rispetto ad essa, come è subordinato ai genitori il figlio
che da essi ha ricevuto la vita. Ma la dipendenza della famiglia cristiana dalla
Chiesa non è una dipendenza assoluta: è una dipendenza di grazia e di salvezza,
quella di chi riceve un servizio vitale. Ma su questi problemi torneremo altrove.
Le indicazioni che abbiamo viste espresse dai Padri nelle relazioni scritte o
negli interventi orali vengono sostanzialmente accolte dalla Commissione
dottrinale incaricata della messa a apunto finale, e ene esce il testo seguente, che
fa parte del paragrafo 51.
“Nam omnes qui filii Dei sumus et unam familiam in Christo
constituimus (cf. Hebr. 3,6), dum in mutua caritate et una
sanctissimae Trinitatis laude invicem communicamus,
intimae Ecclesiae vocationi correspondemus et consummatae
gloriae liturgiam pregustando participamus”.
Questi insegnamenti vanno ormai molto al di là di una vaga “immagine”.
Mentre nei primi numeri della Costituzione dogmatica si parla della Chiesa
come di un mistero, (questa, per un certo verso, è la definizione più propria) e si
cerca di diradarne le tenebre ricoorendo a figure bibliche e allusioni diverse,
nell’ultimo capitolo della “Lumen Gentium” risplende in pienezza la realtà
escatologica. Solo su questo piano non stride l’affermazione che la Chiesa è una
grande famiglia in cui sono radunati tutti i santi figli di Dio e in cui regna
l’amore scambievole. Lungo il suo pellegrinaggio nel tempo questa realtà è per
la Chiesa tutt’al più un imperativo etico e soprannaturale, un’esigenza da
realizzare, ma sempre ostacolata dalla natura umana decaduta.
“Il popolo di Dio non è tale per una formalità giuridica, o per discendenza
fisica; né è da concepire come una semplice società spirituale, sulla quale Dio
esercita il suo influsso e il suo dominio. Esso è un popolo in cui i membri
componenti sono elevati alla dignità di figli di Dio e quindi di fratelli fra di loro;
è un popolo che vive nella più intima comunione col Signore che costituisce
perciò una famiglia: la famiglia di cui è Padre il Padre dei cieli. // (…)
Che meraviglia: Dio si è imparentato con noi per imparentarci con sé! Fa
parte della nostra famiglia e noi siamo “domestici Dei”, facciamo parte cioè
della sua famiglia!”.
CAPITOLO 2

DAL GIURIDICISMO AL PERSONALISMO: VERSO UNA


CHIESA PIU’ EVANGELICA.

La storia del decreto conciliare “Presbyterorum Ordinis” sul ministero e la


vita dei sacerdoti è sintomatica del progressivo esplicitarsi e concretizzarsi nelle
sue pratiche conseguenze di una concezione più familiare della Chiesa. I testi
maggiormente significativi in questo senso si trovano infatti nelle ultime
redazioni dello schema, mentre agli inizi dei lavori prevale una concezione più
giuridica e formale del ministero sacerdotale.
Il problema del clero emerse già fin nella fase antepreparatoria del Concilio
indetto da Giovanni XXIII, perché fra le proposte dell’episcopato cattolico circa
gli argomenti da trattare nel corso dell’assise ecumenica, 768 si riferivano ai
sacerdoti. Il Santo Padre affidò quindi tutto questo materiale ad una
Commissione preparatoria “De Disciplina Cleri et Populi Christiani”, la quale
suddivise l’ampio spettro di tematiche fra venti Sottocommissioni. Furono così
elaborati 17 schemi di decreti dall’indole più diversa: spirituale, giuridica,
pastorale, disciplinare. La Commissione Centrale incaricata di coordinare i
complessi lavori conciliari e i vari schemi dello studio, decise di operare drastici
tagli nella lussureggiante foresta di documenti; e di tutto quanto riguardava il
clero, destinò parte a un futuro “Manuale Parochorum”, parte alla Commissione
per la Revisione del Codice, parte allo schema sui Vescovi e il governo della
Diocesi, e una parte fu addirittura del tutto cancellata, perché ritenuta
eccessivamente marginale. Sopravvissero soltanto tre documenti, che vennero
approvati e distribuiti ai Padri per essere esaminati durante i lavori veri e propri:
“De Clericorum Vitae Sanctitate”, “De Distributione Cleri”, “De Officiis et
Beneficiis Ecclesiasticis deque Bonorum Ecclesiasticorum Administratione”.

-- 115 --

In questa fase predomina uno stile prevalentemente esortativo e giuridico,


che molti presuli lamenteranno, per la sua eccessiva aridità e categoricità.
Nel corso della prima Sessione del Concilio, comunque, venne
manifestandosi la necessità di sussumere i vari problemi sotto poche idee
centrali, tanto che la Commissione decise di fondere i tre schemi preparatori in
unità, con il titolo “De Clericis”.
Il nuovo elenco di 17 schemi conciliari, stilato dalla Commissione di
Coordinamento nel gennaio 1963 e le direttive da essa emanate per ciascuna
Commissione, portarono alla redazione di un “textus emendatus” che, approvato
dagli organi direttivi, ottenne il beneplacito anche del Santo Padre, il 22 aprile
1963. Ancora non compaiono accenni significativi alla paternità spirituale o alla
fraternità che deve vigere nella Chiesa, ma vengono introdotti richiami e
considerazioni teologiche che fungono da pilastri portanti dell’intero
documento, e ci si viene progressivamente sganciando da un’ottica troppo
canonistica e tecnica.
In base alle numerose osservazioni scritte pervenute dai Padri, la
Commissione sulla disciplina del clero e del popolo cristiano provvide a
correggere lo schema “De Clericis”, modificandone anche il titolo in “De
Sacerdotibus”, perché più adatto all’argomento trattato. Era un testo
praticamente nuovo, formato da un proemio, tre capitoli e un’esortazione finale.
Fra i criteri che hanno guidato il lavoro di revisione, è anche quello che tiene
conto della concreta situazione pastorale in cui operano i sacerdoti, delle sfide e
delle esigenze che vi emergono, e dei tratti caratteristici della cultura
contemporanea, che stimolano la Chiesa a uno stile di presenza maggiormente
adattato.
La speranza di poter presto concludere il Concilio e la vasta mole di
argomenti rimasti ancora inconclusi, spinsero la Commissione di
Coordinamento ad ulteriori interventi in senso riduzionistico. Anche il nostro
schema avrebbe dovuto essere ri-

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dotto ai punti più essenziali. Il 27 aprile 1964 Paolo VI approva il nuovo schema
di Proposizioni, che era stato rapidamente elaborato in sede di Commissione nei
mesi di febbraio e marzo. Questo nuovo documento fu ricevuto con disappunto
dai padri conciliari per la sua eccessiva stringatezza, che sembrava relegare in
una posizione di secondo piano i primi collaboratori dei vescovi. Solo una
cinquantina di essi inviò il proprio parere, probabilmente perché la maggioranza
preferiva esprimere le proprie critiche in modo pubblico, durante l’attesa
discussione in aula. Alcune correzioni furono tuttavia apportate già prima, sulla
base delle “Animadversiones scriptae”; soprattutto furono aggiunte due nuove
proposizioni alle dieci precedenti, e il titolo fu modificato in “De Vita et
Ministerio Presbyterorum”. Proprio nel paragrafo iniziale introdotto “ex novo”
su richiesta dei vescovi tedeschi e scandinavi che auspicavano un più stretto
rapporto fra presbiteri e laici, troviamo in germe alcune espressioni che fanno
trasparire un’ecclesiologia di comunione, ricca di spunti e sottolineature vivaci.
“Novi Testamenti sacerdos, Sacramenti Ordinis ratione, (…)
pro Populo Dei munus patris et magistri exercens (…) Sit
ergo libenter etiam frater inter fratres // (cf. Mt. 23,8) utpote
cum iisdem membrum unius Christi Corporis”.
E’ molto interessante la “Relatio de Singulis Propositionibus”, che spiega più
diffusamente il senso di queste scarne parole: il sacerdote, ma in primo luogo il
sacerdote diocesano, non può espletare correttamente e fruttuosamente questo
ministero se non in una debita consuetudine di vita e comunione con i fedeli
laici. La peculiare missione di padre e di maestro della comunità cristiana, per la
quale è stato consacrato richiede anche che il sacerdote si comporti come fratello
tra fratelli, perché senza dubbio tutti i fedeli, insigniti del sacerdozio regale,
collaborino attivamente all’edificazione del Corpo di Cristo.
L’idea centrale è così ormai messa in chiara luce, e non resterà che
svilupparla adeguatamente. Il compito del presbitero non è solo
l’amministrazione quasi giuridica di una parrocchia, comunque intesa come una
suddivisione della Chiesa cattolica; egli non è un delegato incaricato di
distribuire gli strumenti di grazia necessari per la salvezza. Quella del sacerdote
è piuttosto una missione che, ponendolo in continuità con la Redenzione operata
da Cristo, lo rende partecipe di

-- 117 --

un mistero di amore, di intercomunione spirituale, che si avvicina piuttosto a una


vera e propria paternità dello spirito. Unico è il popolo di Dio e la paternità
presbiterale abbraccia tutti, ma si esercita concretamente in una situazione
determinata. Anche lo spirito con cui sembra che il sacerdote debba ora
esercitare il suo ministero profuma di nuovo. Non può più essere accetato, dagli
uomini contemporanei, uno stile distaccato e paternalistico, ma bisogna
rivitalizzare nella Chiesa lo spirito di fraternità, anche fra sacerdoti e laici, sulla
base del sacerdozio comune conferito dal Battesimo.
Questi stessi concetti furono ribaditi il 13 ottobre 1964 durante la centesima
Congregazione Generale, nella relazione introduttiva allo schema sui presbiteri,
letta da Mons. Marty. La discussione pubblica che ne seguì vide la maggioranza
dei Padri esprimere la propria insoddisfazione, e la richiesta che venisse
praparato un nuovo schema più teologicamente fondato, più ricco anche quanto
alla spiritualità sacerdotale, più positivo nell’approccio dei problemi. Per
soddisfare queste esigenze si dovettero consultare gli organi direttivi del
Concilio, i quali diedero il consenso a che il decreto venisse elaborato in forma
più estesa e più rigorosa. Dal lavoro intenso e coordinato della Commissione
conciliare uscì un nuovo schema di decreto, intitolato “De ministerio et vita
Presbyterorum”. La trasformazione del titolo portò le sue conseguenze anche
nell’ordinamento generale della materia, in base all’idea che tutti i sacerdoti,
direttamente o indirettamente, esercitano un “servizio” a favore del popolo di
Dio. In questa nuova redazione, ovviamente di molto accresciuta rispetto alle
scarne “Propositiones” precedenti, vi sono numerosi paragrafi nuovi. Il quinto,
parlando dei sacerdoti come guide del popolo di Dio, accenna all’importanza di
curare la formazione dei giovani e dei coniugi-genitori, e alla funzione materna
che la Chiesa esercita quando riconduce gli uomini a Cristo e li fa rinascere nella
Grazia. Il numero 8, affrontando il tema

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dei rapporti fra i sacerdoti, introduce due nuovi frasi, con cui si propone a
modello di questi stessi rapporti la carità fraterna.
“Cum alii ergo membris huiusce presbyteratus specialibus
ministerii et fraternitatis nexibus coniunguntur. (…) Caritas
ergo fraternitatis maneat in omnibus Presbyteris; (…) Ita
fraterno spiritu uniti maneant”.
Quanto era precedentemente detto sulla comunione di vita fra presbiteri e
laici viene ora ripreso, rafforzato e ampliato.
“Presbyteri ergo semper memores sint se cum Christifidelibus
esse fratres inter fratres (cf. Mt. 23,8). “caritate fraternitatis
invicem diligentes, honore invicem praevenientis” (Rom.
12,10), utpote cum iisdem membra unius Christi Corporis,
cuius aedificatio omnibus in fonte baptismi regeneratis et
sacro chrismate signatis, secundum mensuram gratiae et
donum quod singulis datur (cf. Rom. 12,6; Eph. 4,7)
demandata est”.
La carità fraterna con questo testo non è più solamente raccomandata,
facendo appello quasi alla buona volontà del singolo, ma è presentata coe una
realtà oggettiva, di cui il sacerdote deve avere coscienza, e che deve tradurre
nella vita quotidiana, in quanto essa affonda le sue radici non solo e non tanto su
presunte esigenze od opzioni di tipo pastorale, necessariamente contingenti, ma
nel terreno della partola di Dio e nella realtà più profonda della Chiesa, che è
comunione.
Il numero 15 rifonde in gran parte l’argomento della castità sacerdotale e dei
consigli evangelici, adottando di preferenza le categorie paternità e famiglia
cristiana per esprimere in termini percepibili come più positivi della cultura
contemporanea una realtà difficile e delicata come quella del celibato dei
sacerdoti, che in molti sembrava aver smarrito il suo significato e il suo valore
evangelico e pastorale. Si fa riferimento alla Chiesa come alla famiglia di Dio,
in cui il presbitero, in forza della sua consacrazione verginale, è abilitato ad
esercitare e vivere una paternità più grande; e come alla Sposa casta di Cristo, di
cui la verginità cristiana è segno manifesto nella luce escatologica.
“Presbyteris ergo convenit ut, consilium Pauli Apostoli in
mentem fidelium revocantes, viam subditis vivendo
denuntient, ita ut Dei familiae liberius ministrent,
paternitatem in Christo plenius acquirant et expeditiores in
dies fiant ad servitium Regni Dei. (…) In servitium Ecclesiae,
Sponsae Christi, atque omnium illorum quos volunt
despondrere “uni viro, virginem castam exhibere Christo” (2
Cor. 11,2), suum faciunt gaudium Praecursoris qui, ut amicis
Sponsi, “gaudio gaudet propter vocem sponsi” (Io. 3,29)”.
-- 119 --

Questo nuovo schema “De ministerio et vita Presbyterorum” fu presentato in


Aula il 20 novembre 1964, con la raccomandazione ai Padri di inviare i propri
giudizi e desideri entro il gennaio successivo. L’interesse suscitato da questo
documento però fece affluire un numero inaspettatamente alto di
“animadversiones”, anche oltre il limite fissato. Tutto questo materiale fu
passato al vaglio da una speciale Sottocommissione, che provvide a stilare una
serie di proposte di emendamento, da sottoporre poi all’esame della
Commissione plenaria “De Disciplina Cleri et Populi Christiani” in vista della
redazione di un “textus recognitus”. Questo fu preparato e diffuso nell’aprile del
1965, e presenta rispetto al precedente una più accurata organizzazione e
strutturazione della dottrina sul presbiterato, in base anche a quanto era già
venuto emergendo dai lavori conciliari durante la discussione sulla “Lumen
Gentium”.
Diamo ora uno sguardo da vicino a questo testo che è ormai piuttosto simile
al decreto conciliare definitivo. La descrizione dell’ufficio pastorale dei
presbiteri è condotta in base alla tripartizione della funzione profetica,
sacerdotale, regale di Cristo. Ma più interessante dal nostro punto di vista è il
terzo aspetto di cui si parla nel numero quattro del nostro schema: “Presyteri,
populi Dei rectores”. Il testo del 1964, cui abbiamo rinviato alla nota 14, rimane
sostanzialmente immutato con l’introduzione del concetto di “comunità”
ecclesiale, in sostituzione dell’espressione “congregatio”.
“Insuper, erga animas ad Christum adducendas caritate sua,
oratione, exemplo, poenitentiaeque operibus, verma
maternitatem exercet ecclesilis communitas. Ipsa simum
instrumentum efficax constituit quo excitantur, aluntur
roboranturque debiliores ad pugnam spiritualem pro Christo,
quo denique nondum credentes ad Christum alliciuntur, et
fines

-- 120 --

Ecclesiae extenduntur”
Viene inoltre aggiunta al numero quattro un’intera frase, posta all’inizio e
ispirata all’ecclesiologia della “Lumen Gentium”, come spiega la stessa “Relatio
de Singulis Numeris”: “Datur notio generalis muneris regendi vel pascendi iuxta
doctrinam espressa in Constitutionis “De Ecclesia”.
“Munus Christi Pastoris et Capitis pro sua parte auctoritatis
exercentes, Presbyteri, ducentibus Episcopis, familiam Dei, ut
fraternitatem in unum animatam, colligunt, et per Christum in
Spiritu ad Deum Patrem adducunt”.
Si tratta di un’aggiunta particolarmente significativa, sia perché si ricollega
ad una Costituzione dogmatica che occupa un ruolo centrale di riferimento per
tutto il Concilio, sia perché proprio alla luce di questo rapporto intende definire
la missione pastorale dei presbiteri. Tutta la pericope è marcatamente
caratterizzata da una prospettiva trinitaria da una parte, e cristologica dall’altra.
Il ministero presbiterale è chiaramente presentato come un servizio da rendere
alla famiglia dei figli di Dio, in forza della partecipazione all’autorità stessa di
Cristo. Sembra quindi di primaria importanza, da un punto di vista pastorale, che
il presbitero sia dotato di tutte quelle virtù umane atte a suscitare un clima di
comunione familiare fra i cristiani in mezzo ai quali presta la sua opera.
L’autorità che viene qui attribuita ai presbiteri è quella di Cristo, finalizzata
perciò di per se stessa alla costruzione e al rafforzamento di
-- 121 --

una fraternità che, essendo animata dallo Spirito di Cristo, conduce ad un


rapporto intimo con l’unico Padre. Anche questo passo rimarrà praticamente
invariato fino
all’approvazione definitiva e alla promulgazione della “Presbyterorum Ordinis”.
Proseguendo nell’esame dei punti in cui il nostro schema evidenzia
l’affermarsi di un nuovo stile di essere Chiesa, desunto dalla vita familiare,
ritroviamo al numero 7 alcuni brevi accenni allo spirito di autentica fraternità
che deve animare i reciproci rapporti fra i pesbiteri. Il titolo stesso del paragrafo
è stato mutato in “Fraterna coniunctio et cooperatio inter Presbyteros”.
“[Presbyteri] qui sunt provectioris aetatis, iuniores vere ut
fratres suscipiant (…)
(…) Spiritu fraterno ducti, Presbyteri hospitalitatem ne
obliviscantur”.
Il passo più sopra riportato e riguardante la comunione di vita dei sacerdoti
con i laici, si trova ora nel paragrafo 8. Pur rimanendo sostanzialmente invariato
nel suo contenuto di fondo, esso è stato leggermente emendato nel senso di una
maggiore essenzialità.
“Presbyteri ergo semper memores sint se cum christifidelis
esse fratres inter fratres (cf. Mt. 23,8), “caritate fraternitatis
invicem diligentes, honore invicem praevenientes” (Rom.
12,10), utpote membra unius eiusdemque Christi Corporis
cuius aedificatio omnibus demandata est (cf. Eph. 4,7-16)”.
Infine il paragrafo concernente i consigli evangelici nella vita del presbitero,
e soprattutto il celibato, fu ampiamente rivisto. Attorno a questo tema delicato si
venivano scatenando vaste discussioni e polemiche, attizzate queste ultime
anche da alcuni organi di stampa interessati a propagare notizie tendenziose per
manipolare l’opinione pubblica ed influire così indirettamente anche sui Padri
del Concilio. A noi qui interessa però soltanto accostare i testi, da cui risalta che
il valore e l’attualità del celibato ecclesiastico diventano significativi nel
contesto attuale soprattutto per il fatto che esso rappresenta una facilitazione per
acquisire una paternità più grande e più profonda.
“Presbyteri ergo per coelibatum missionem Christi qui in
Ecclesia genus humanum arcano connubio sibi coniunxit,
coram mundo aperte testificantur sicque signum vivum
efficiuntur illius mundi futuri, per gratiam et fidem iam
praesentis, in quo filii resurrectionis neque nubent neque
ducent uxores (cf. Lc. 20,36).
-- 122 --
Quapropter per coelibatum aptiores fiunt muneri sibi
commisso despondendi fideles uni viro illosque exhibendi
virginem castam Christo (cf. 2 Cor. 11,2)”.
Il celibato dei sacerdoti, visto qui alla luce dei consigli evangelici, da un lato
assume una forte carica escatologica, che sembra relativizzare il matrimonio
quasi in una dimensione temporale e caduca, dall’altro lato è messo a confronto,
più che con lo stato coniugale di molti, con quella verginità spirituale che unisce
l’intera Chiesa – ma pure ogni singola anima personale – a Cristo Sposo.
Lo schema “De ministerio et vita Presbyterorum” fu presentato in aula dal
relatore della Commissione, Mons. Marty, durante la 148° Congregazione
Generale. Quindi si diede immediatamente inizio alla discussione che occupò i
Padri per quattro giorni, fino alla 153° Congregazione Generale; ma dopo
l’interruzione del dibattito votata dall’assemblea a maggioranza, venne letto
ancora qualche intervento sottoscritto da almeno 70 presuli, a norma del
regolamento . Soprattutto due mi sembrano gli interventi maggiormente
significativi per noi.
L’arcivescovo di Westminster, Card. Heenan, tenne a precisare l’importanza
che il Concilio affermasse la funzione paterna specifica dei sacerdoti. Anche se
siamo nell’epoca dell’apostolato dei laici, le iniziative dei laici non procedono
quasi mai favorevolmente se non sono guidate da sacerdoti pieni di zelo.
Giustamente lo schema dice che i presbiteri devono essere con i fedeli fratelli,
occorrono anche padri e guide.
Ancora la paternità spirituale dei sacerdoti è l’oggetto delle parole rivolte
all’assemblea generale del Card. Lefèbvre, arcivescovo di Bourges. Nel suo
intervento considera un concetto talvolta trascurato o sottovalutato,
esaminandolo con occhio critico e rigore scientifico. Lo schema esaminato
descrive con espressioni classiche le varie forme di attività che il ministero
presbiterale riveste: la funzione docente, la funzione santificante per mezzo
dell’Eucarestia e dei sacramenti, e la funzione di guida; ma non viene definito
sufficientemente quanto alla sua essenza e alla sua finalità . Più di qualunque
altra cosa, il ministero sacerdotale è ordinato nella Chiesa di Cristo, secondo
quanto scrive Paolo nella lettera agli Efesini: “…all’edificazione del Corpo di
Cristo, finchè arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di
Dio, alla statua dell’uomo perfetto, alla pienezza di Cristo”. Il ministero
sacerdotale viene disanimato dal por-

-- 123 --
porato francese alla luce del concetto di paternità, che si avvicina
straordinariamente e virtualmente si fonde con quello della maternità della
Chiesa nei confronti di tutti quelli che sono rinati nel battesimo, con la forza
dello Spirito, alla vita soprannaturale. La parte terminale del lungo discorso
esalta l’eccellenza del celibato consacrato a Dio per il Regno rispetto allo stesso
sacramento coniugale. Osservando uno per uno i diversi aspetti del matrimonio,
appare che in nulla il sacerdote risulti menomato o carente a motivo del suo
celibato. La comunità di vita è vissuta nella famiglia che è la Chiesa, la
generazione della vita si celebra a livello spirituale, l’amore riceve la massima
espansione nella carità di Cristo, l’azione temporale per un’efficace
trasformazione del mondo è incoraggiata e irrobustita con gli strumenti della
grazia. Coloro che rinunziano al matrimonio, in nessun modo disprezzano la
dignità del matrimonio cristiano; ma considerano molto maggiore la loro unione
con Cristo, nella Chiesa, per offrire alla Chiesa nuove membra, cresciute in
Cristo mediante la Sua grazia, e per radunare nel Corpo mistico tutta la famiglia
umana. Mentre i presbiteri rinunziano a un qualche amore coniugale, tendono a
un amore più vasto e più pieno, e cioè a rispondere al sommo amore di Cristo
che offre se stesso per tutti sulla croce, e per ciascuno per mezzo dell’Eucarestia;
dimostrano un sommo amore con il fatto di donare se stessi a Cristo e in Cristo a
tutti coloro che Cristo amò fino alla morte.
“Dum paternitati secundum carnem renuntiant presbiteri,
generare intendunt, in Ecclesia et per gratiam Spiritus Sancti,
filios Dei, qui ex Christo in Christo vivant, ut in ipsis et per
ipsos, opus salutis mundi permaneat et amplificetur.
Dum actioni quoad temporalia exercendae plerumque
renuntiant, non intendant ut illa quolibet modo spernant,
quorum momentum agnoscunt, sed ut ex celsius ascendant”.
Complessivamente quindi il giudizio sullo schema era positivo, ma
sembrava in più punti da rivedere, correggere e integrare, per renderlo più
equilibrato e completo.
La Commissione sulla Disciplina del Clero e del Popolo Cristiano suddivise
il lavoro di revisione fra sei Sottocommissioni, che espletarono il loro compito
in un tempo relativamente breve, e a una Sottocommissione centrale fu dato
l’incarico di coordinare e guidare la stesura. Negli ultimi giorni di ottobre lo
schema, approvato dalle istanze competenti, fu trasmesso ai Padri in vista di una
prima votazione.
L’argomento della comunione di vita dei sacerdoti con i laici viene
modificato profondamente in base ad una prospettiva teologica più approfondita
e biblicamente radicata.
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“Cum omnibus enim in fonte baptismi regeneratis Presbyteri


sunt fratres inter fratres (cf. Mt. 23,8), utpote membra unius
eiusdemque Christi Corporis, cuius aedificatio omnibus
demandata est (cf. Eph. 4,7-16)”.
Questa frase del paragrafo 9 sembra, aprma vista, decurtata rispetto alla
redazione precedente. E’ stata omessa la citazione della lettera ai Romani
“caritate” Sposa di Cristo.
“Presbyteri ergo per coelibatum missionem Christi, qui in
Ecclesia genus humanum arcano connubio sibi coniunxit,
coram mundo aperte testificantur atque testi // monium
sociale reddunt muneris sibi comissi, fideles scilicet
despondendi uni viro illosque exhibendi virginem casta
Christo (cf. 2 Cor. 11,2)”.
E’ interessante osservare come qui lo stesso “munus” affidato divinamente al
sacerdote sia descritto con i caratteri propri di una festa di nozze. Mi sembra che
in questo contesto soprattutto l’immagine del fidanzamento celebrato (dal
presbitero) fra Cristo e i fedeli cristiani assuma un valore metaforico molto forte.
Non è accettabile, se non da un punto di vista molto particolare, l’idea che il
ministro sacro non prenda parte a questo “arcanum connubium” se non
dall’esterno. Un altro limite evidente in questo brano è l’assenza di ogni
riferimento alla paternità sacerdotale nello spirito, che verrà giustamente ripresa
e sottolineata nell’ultima redazione.
Lo schema dell’ottobre 1965 venne presentato in aula nel corso della 159°
Congregazione Generale, evidenziando in modo particolare il principale sforzo
redazionale compiuto, quello cioè di dare al testo una maggiore coesione e
unitarietà. Tutto era stato centrato attorno ad un’idea-forza, ossia la
considerazione che i presbiteri sono sacramentalmente costituiti e ordinati per
essere ministri di Cristo-capo nella Chiesa, a servizio del popolo di Dio, per
continuare nelle diverse situazioni storico-geografiche l’opera redentrice del
Figlio di Dio. Si procedette quindi alla votazione paragrafo per paragrafo o per
gruppi di paragrafi. I voti negativi furono estremamente contenuti, mentre quelli
espressi nella forma “placet iuxta Modum” in numero di quasi 2.200, diedero la
possibilità ai Padri conciliari di proporre una certa quantità di piccole modifiche
chiarificatrici. Un esame più dettagliato dei risultati fa emergere però la
spiacevole constatazione che il numero più alto di dissensi riguarda proprio i
paragrafi da noi presi in considerazione: quello sull’unione e fraterna
collaborazione fra i presbiteri, quello sulla comunione di vita fra laici e
sacerdoti, quello sul celibato.
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A parte quest’ultimo, però, gli altri passi studiati hanno già raggiunto a
questo punto la loro configurazione definitiva, e non verranno modificati
nemmeno nei dettagli stilistici. Anche i Modi si concentrarono massicciamente
su questi stessi paragrafi: 762 riguardavano il numero 8, 1331 il numero 16.
Tuttavia va rilevato che, eccettuato sempre questo ultimo caso, e cioè il celibato,
l’attenzione dei più era puntata non tanto su quei punti in cui compaiono le
nozioni di fraternità sacerdotale, paternità spirituale, sponsalità verginale della
Chiesa e di Cristo. Chè anzi, se qualche emendamento fu avanzato a questo
proposito, come già abbiamo visto esso si collocava nel senso di percorrere più
radicalmente la via già tracciata, evidenziandone con chiarezza tutte le
conseguenze.
Inizia da questo momento per la Commissione “De Disciplina Cleri et
Populi Christiani” l’ultima fase del lavoro redazionale, consistente nel passare al
vaglio le migliaia di proposte di modifica, per coglierne e valutarne senso e
portata, ed eventualmente nel trasferirle poi nel testo, per altro già globalmente
approvato dal Concilio. Esso fu affidato a una speciale Sottocommissione
presieduta dal segretario della Commissione conciliare, Mons. Alvaro del
Portillo. Il 30 novembre 1965 il testo, ritoccato per l’ultima volta, venne
distribuito ai Padri per l’approvazione finale.
La storia del decreto conciliare sul ministero e la vita dei presbiteri si
conclude con la Relazione esplicativa generale circa l’”expensio Modorum”,
presentata in aula da Mons. Marty il 2 dicembre 1965; la soddisfazione dei Padri
per il lavoro svolto dalla Commissione “De Disciplina Cleri et Populi
Christiani” fu manifestata nella votazione che ebbe luogo subito dopo, e nella
quale lo schema venne approvato quasi all’unanimità, con pochissime eccezioni.
Il 7 dicembre il Santo Padre Paolo VI promulgò ufficialmente la “Presbyterorum
Ordinis”, nel corso della Sessione pubblica conclusiva dello stesso Concilio
Vaticano II.

CONCLUSIONE

Mentre le parti precedenti hanno voluto avere un carattere analitico, questo è


il luogo e il momento per trarre le necessarie conclusioni, cercando di
sintetizzare e ordinare il ricco bagaglio concettuale che abbiamo visto espresso
dal Concilio Vaticano II sulla famiglia nel suo aspetto ecclesiale. Non è possibile
ovviamente prescindere dai risultati cui sono già pervenuti la riflessione e
l’impegno degli studiosi. Ma cercheremo anche, e soprattutto, in questa sede, di
comunicare i frutti del nostro lavoro personale.

1. Terminologia.

La letteratura sui problemi della famiglia nel mondo d’oggi è estremamente


vasta e abbraccia prospettive diversissime. Molte sono anche le discipline
scientifiche che studiano la famiglia umana con gli strumenti razionali a loro
disposizione. Da qui nasce, a nostro parere, una certa confusione, dovuta
soprattutto al fatto che tutti utilizzano, più o meno, lo stesso vocabolario per
affrontare problematiche diverse e aspetti differenti della realtà. Un’eccessiva
uniformità lessicale tende, di fatto, a condizionare il pensiero: tende da una parte
a “semplificare”, a snaturare la specificità tipica dei problemi familiari e
matrimoniali che deve affrontare il teologo, e dall’altra crea alla scienza sacra
non piccole difficoltà di chiarezza, a livello proprio anche linguistico, in quanto
una plurivocità di significato troppo estesa provoca facilmente ambiguità e
malintesi. E’ un problema metodologico questo, ma solo apparentemente banale,
in quanto ha, a nostro modo di vedere, conseguenze non indifferenti anche a
livello teologico e pastorale.
Nell’Introduzione abbiamo accennato al fatto che nella teologia
preconciliare il termine “famiglia”, per altro di uso non molto frequente, era
correntemente utilizzato per designare esclusivamente la coppia dei coniugi. Se
oggi il significato di questa parola, spesso così carica di emotività, si è esteso e
approfondito, vediamo dunque quali accezioni le attribuiamo oggi noi e quali
invece essa abbia avuto nel contesto dei documenti del Vaticano II.
Da un punto di vista teologico ci sembra fondamentale e primaria la
distinzione fra la cosiddetta famiglia naturale e la famiglia cristiana. Mentre la
famiglia cristiana si basa sul sacramento del matrimonio e quindi si innesta nella
grande realtà della Chiesa e riceve la vita divina della grazia, si parla
propriamente di famiglia naturale, quando al di fuori del sacramento si
costituisce, mediante un patto, tacito o esplicito, libero o liberamente accettato,
socialmente riconosciuto, fra un uomo e una donna, di vivere insieme tutta la
vita, senza escludere, dai fini che ci si prefigge, di procreare nuovi membri alla
famiglia stessa e alla società degli uomini. E’ evidente che tutti gli elementi
caratteristici della seconda appartengono anche alla prima, ma non bastano a
definirla. La famiglia cristiana non toglie nulla a quella naturale, ha qualcosa in
più. Ciò si traduce anche a livello etico-morale: tutti i doveri della famiglia
naturale – e tutti i diritti – sono obbliganti anche per quella cristiana;
quest’ultima, anzi, ne possiede di nuovi, corrispondentemente alla sua più ricca
realtà ontologica.
Appartiene piuttosto all’ambito sociologico la distinzione ormai nota fra
famiglia patriarcale e famiglia nucleare.Questi termini potrebbero tutt’al più
essere presi in prestito dalla teologia, per tutto ciò che può interessare
specificatamente un’indagine sociologica. Invece l’espressione simile di “nucleo
familiare”, utilizzato ad esempio dalla statistica, potrebbe, a nostro parere, essere
usato utilmente dalla pastorale.
Un altro tipo di distinzione estremamente importante –perché senza di essa
sorgerebbero confusioni che sono per altro oggi abbastanza comuni – è quella
fra la comunità coniugale, la famiglia ristretta “di genitori e figli”, e la famiglia
vasta “di parenti”. E’ evidente la validità di questa precisazione e la sua
necessità, se si tiene conto del fondamento sacramentale su cui è costruita la
famiglia cristiana. Ognuno dei tre ambiti sopra menzionati hanno riferimento al
matrimonio, ma è un riferimento particolare e diverso, più o meno diretto. La
sacra mentalità del matrimonio ha una connessione immediata con i coniugi-
ministri reciprocamente, la famiglia di genitori e figli è illuminata da questo
sacramento, lo espande e rende fecondo, la famiglia di parenti vi è connessa più
indirettamente e da lontano.
Capita a volte di ascoltare o di leggere espressioni costruite in modo tale da
ingenerare l’idea che il termine “famiglia” si contrappone a coppia senza figli o
prescindendo dai figli. Successivamente cercheremo di mostrare in modo più
articolato come a nostro vedere non bisogna rescindere la famiglia dal
sacramento matrimoniale, nel senso che dovunque vi è il sacramento, lì vi è una
famiglia. Questo vale anche per le famiglie spezzate, o cosiddette incomplete,
che non perdono la loro configurazione specifica, umana e soprannaturale, solo
per l’infedeltà di un coniuge, quando tutti gli altri vogliono perseverare in
comunione con la Chiesa e nell’obbedienza al dono di grazia ricevuto.
Queste notazioni di carattere terminologico sembrano necessarie, tenendo
presente che un’adeguata crescita della teologia della famiglia non può
verificarsi in assenza anche di strumenti linguistici specifici. E’ necessaria
chiarezza, per non correre il rischio di confondere la teologia con la sociologia,
l’antropologia culturale, la biologiaa o altro; benché non sia possibile
disconoscere la validità e anzi la necessità degli apporti propri di queste
discipline scientifiche.

2. Esiste una teologia della famiglia?

In un articolo di alcuni anni fa intitolato “La dimensione ecclesiale della


famiglia cristiana”, pubblicato su “Presenza Pastorale”, don Dionigi Tettamanzi
rileva la mancanza di una vera e propria teologia della famiglia, nel senso che
fino a tempi molto recenti la scienza sacra sembrava più attenta al sacramento
del matrimonio che non alla comunità che da esso scaturisce e si genera. Si
trattava essenzialmente di una sacramentologia. Ma se la mutata situazione
sociale e religiosa nei nostri Paesi europei occidentali acuisce la necessità di una
più capillare ed efficace pastorale familiare, essa ha bisogno del sostegno di una
solida riflessione teologica che la illumini e la indirizzi. Secondo il teologo
milanese non basta porre al centro dell’attenzione la coppia cristiana, prima e
dopo il matrimonio, con le sue esigenze, i suoi limiti e i suoi doni, le potenzialità
da sviluppare, ma bisogna allargare lo sguardo alla famiglia “di genitori e figli”,
che in quanto tale, nela sua completezza, è beneficiaria della grazia sacramentale
e segno dell’unione d’amore di Cristo e della Chiesa.
Il voler sottolineare questa istanza, che corrisponde senza dubbio a ciò che il
mondo di oggi richiede e si attende sempre più dalla Chiesa, significa far
compiere alla teologia della famiglia un decisivo passo in avanti. Fu proprio il
Concilio Vaticano II a sancire solennemente e a sollecitare un graduale ma
irreversibile processo di apertura e di sviluppo della teologia classica del
matrimonio. Quest’ultima, diffusa pressoché universalmente nella Chiesa,
insisteva quasi esclusivamente su considerazioni di ordine morale e giuridico. Si
sforzava di cogliere la specificità della grazia conferita dal quinto sacramento,
sottolineava la necessaria connessione di questo dono di grazia con il fedele
espletamento dei doveri coniugali e familiari, considerati innanzi tutto sotto
l’aspetto morale-sessuale, procreativo ed educativo. Tutti questi accenti non
sono affatto scomparsi nei documenti dell’ultimo Concilio, ma anzi sono stati
riaffermati, precisati e contestualizzati in modo nuovo. In questo senso il
Vaticano II non ha insegnato nessuna nuova dottrina in questo campo, non vi è
stata nessuna sorpresa clamorosa o rivoluzionaria. Eppure è stata aperta la porta
che conduce a notevolissimi sviluppi della teologia classica del matrimonio, a un
modo nuovo di affrontare i problemi scottanti che la vita pastorale nel mondo di
oggi presenta continuamente ai pastori d’anime. Non si accetta più soltanto il
discorso assiomatico-deduttivo, ma si cerca il più possibile di risalire ai principi
della morale partendo dalle esigenze evidenziate dall’esperienza e
dall’antropologia. Lo sforzo è quello di garantire giustificazioni razionali
accettabili dall’uomo di oggi, su indicazione della teologia pastorale. La grande
diffusione delle scoperte scientifiche e tecnologiche anche a livello di massa, e il
conseguente prestigio del metodo scientifico-matematico, rendono ostico per chi
vive in un ambiente impregnato da questa cultura il linguaggio biblico che
propone la verità divina in base al principio d’autorità. Come ha affermato
Giovanni Paolo II, la via della Chiesa è l’uomo; esso deve essere accompagnato
passo passo verso Dio, come suggerisce il principio pastorale della gradualità,
rispettando il suo modo d’essere. Tutto questo ha insegnato il primo grande
Concilio pastorale, anche nell’ambito della famiglia.

3. Famiglia e Chiesa.

Ma il Concilio Vaticano II ha provocato un’altra e più decisiva apertura della


tradizionale teologia del matrimonio. Le sfide pastorali raccolte dai Padri
conciliari e la scelta dell’ecclesiologia come prospettiva di fondo che doveva
armonizzare e finalizzare tutti i lavori dell’assise ecumenica, hanno fatto sì che
nuove e più ampie prospettive si aprissero anche nell’ambito di cui ci
occupiamo. Da una parte dunque la famiglia è presa a bersaglio da parte di forze
laiciste e pseudo-progressiste che mirano alla sua definitiva disgregazione e
scomparsa, in nome di falsi concetti di libertà, di amore e di naturalità. Dall’altra
parte la stessa riflessione teologica sulla Chiesa, autonomamente, subisce uno
spostamento di visuale, e passa da un’ecclesiologia verticista e centralizzata,
quale si era venuta affermando dopo il Vaticano I, a un’ecclesiologia di
comunione che valorizza anche i ministeri laicali, oltre alla posizione teologico-
giuridico-pastorale del vescovo, che viene ad assumere un rilievo del tutto
particolare. La Chiesa non è più vista come una piramide organizzativa, ma
come una grande famiglia che riunisce tutti i figli di Dio, affidando a ciascuno
compiti diversi, secondo i diversi carismi dello Spirito Santo.
In questo contesto apparve allora particolarmente urgente imprimere uno
slancio vigoroso alla famiglia cristiana. Non si trattò soltanto di un’azione
difensiva e di tutela, ma di una azione promozionale. Tutta una prospettiva
rimasta per lunghi secoli implicita e inespressa veniva scoperta, fatta propria,
esplicitata. E’ la dimensione ecclesiologica della famiglia cristiana: una Chiesa
domestica. Della realrà ecclesiale tutti fanno parte allo stesso titolo (in forza
della grazia battesimale), anche se con carismi differenti. Ciascuno ha il suo
dono. Anche la famiglia cristiana è una realtà vitale in questa compagine. Ad
essa il Concilio Vaticano II riconosce un dono particolare, per l’edificazione
della Casa comune, in quanto è segno e strumento dell’amore che unisce Cristo
e la Comunità di coloro che hanno creduto e sono salvati “nell’acqua e nello
Spirito Santo”.
Si può affermare che il Concilio Vaticano II ha segnato per la teologia del
matrimonio una vera e propria rivoluzione copernicana, facendola passare da
una prospettiva incentrata sulla coppia dei coniugi e sul sacramento che li
riguarda, a una prospettiva vasta quanto si estende il mistero della Chiesa. E’
questo innanzi tutto un mistero di grazia, ricevuto gratuitamente da Dio, in forza
del quale i coniugi sono chiamati ad imitare la santità stessa di Dio. Essi hanno
dunque anche nella Chiesa un posto loro proprio, che non è “concesso” dagli
uomini, ma è “riconosciuto”, corrispondentemente al carisma di cui lo Spirito
Santo li fa portatori. A tutto questo, che è l’aspetto piuttosto passivo, corrisponde
tutta una dimensione attiva. Ogni carisma infatti è per il bene della comunità e
non vi è santità senza carità, così come non è possibile partecipare ai benefici
della Chiesa senza condividerne anche la missione. Ogni famiglia dunque è
oggetto dell’apostolato della Chiesa, ma la famiglia cristiana ne è allo stesso
tempo anche soggetto responsabilmente collaborante.

4. Sacramentalità della famiglia cristiana.

La profondità dell’aggiornamento promosso dal Concilio Vaticano II in seno


alla teologia del matrimonio e della famiglia appare in modo significativo, a
nostro parere, dalla considerazione dell’aspetto sacramentale che caratterizza la
famiglia cristiana. Già la teologia precedente vedeva in questa dottrina un punto
fondamentale. Ciò che è mutato è il punto di vista da cui ci si pone e la vastità di
orizzonti su cui essa si proietta. La teologia scolastica, col suo tipico modo di
procedere analitico e classificatorio, guardava al matrimonio nel contesto dei
sette sacramenti, intesi come strumenti efficaci della grazia, e cercava di
coglierne la specificità entro le caratteristiche comuni. Ci si accorge ora però che
l’estrema chiarezza logica di certe definizioni rischia di schematizzare in modo
riduttivo relatà soprannaturali che per natura propria sfuggono a una piena
comprensione razionale. E si fa rilevare che la nozione di sacramento deve
essere riferita e applicata innanzi tutto a Cristo, il quale, mediante la sua
Incarnazione e la sua Offerta, è diventato il primo e fondamentale strumento di
unione fra Dio e l’umanità. E’ sulla sua realtà teandrica che poggia la possibilità
di ogni altra mediazione fra la Realtà divina e la situazione peccatrice
dell’uomo. Cristo è divenuto, in forza della sua missione salvifica, sacramento di
Dio nel mondo, e sacramento dell’uomo presso il Padre. In Lui la sacramentalità
raggiunge un’efficacia immediata, senza essere velata o inceppata dalle
imperfezioni e dai limiti che fanno invece parte della nostra quotidiana
esperienza di “viatori”. E’ in dipendenza e sul modello di questo Sacramento
primordiale e fondamentale che la Chiesa viene colta come sacramento
universale di salvezza per ogni uomo e in ogni tempo. Essa partecipa alla
missione del Figlio di essere unica mediatrice di grazia e di salvezza, unita come
è strettamente al suo Capo, in quanto Corpo Mistico, e strettamente unita
all’umanità in tutti i suoi membri. Ogni azione propria della Chiesa deve quindi
obbedire al principio generale dell’Incarnazione per poter essere redentrice, e si
sviluppa concretamente nella forma sacramentale in modo del tutto speciale nei
sette “sacramenti” canonizzati solennemente dal Concilio di Trento. E’ in questo
contesto che il Vaticano II, parlando della famiglia cristiana, afferma
chiaramente che essa è fondata sul sacramento del matrimonio e da qui trae la
sua origine. La famiglia cristiana allora è una “comunità di vita e di amore”,
unita non soltanto da vincoli sentimentali, naturali e di sangue o di altro tipo, ma
soprattutto e fondamentalmente da un vincolo sacramentale. Sul terreno di tutto
ciò che costituisce la realtà umana dell’amore, dell’attrattiva, delle speranze, dei
progetti, Cristo e la Chiesa gettano un seme di vita soprannaturale. Ambedue
questi poli, quello umano e quello divino, sono indispensabili perché vi sia
sacramento ì, ed è necessario tenerli presenti tutti e due per comprendere in
profondità la natura della famiglia cristiana. Ad essa viene affidato un carisma,
che è per il bene della comunità, e questo carisma è calato e vissuto di fatto in
una istituzione, pubblicamente riconosciuta e stabile per definizione, in forza
della sua unicità e indissolubilità. Tutte le tre note che individuano un autentico
carisma sono presenti nella famiglia fondata sul sacramento cristiano del
matrimonio. I Padri del Vaticano II riconoscono in questa comunità costituita
entro il grande “mysterion” della Chiesa l’azione dello Spirito Santo, il quale fa
di essa una vera comunità salvifica: basta qui pensare che sono gli stessi coniugi
l’uno per l’altro i ministri della grazia sacramentale, e che insieme essi sono per
i propri figli gli evangelizzatori e gli educatori nella fede. La famiglia cristiana,
dunque, partecipa alla natura stessa della Chiesa, è strumento di redenzione, è
arricchita di doni soprannaturali calati in una dimensione umana, da una parte è
cellula viva della Chiesa e dall’altra è profondamente partecipe della vita della
città degli uomini. Da questo insieme di considerazioni e dalle affermazioni
della “Lumen Gentium” e della “Gaudium et Spes” circa la capacità della
famiglia cristiana autentica di manifestare la genuina natura della Chiesa in
quanto essa stessa Chiesa domestica, sembra di poter concludere che fra le due
comunità, quella familiare e quella ecclesiale, vi sono rapporti di partecipazione,
di mediazione e di sacra mentalità simili a quelli che esistono fra Cristo e il
Padre, e fra la Chiesa e Cristo. La Chiesa domestica rende leggibile e presente
sia il mistero sia l’attività della Famiglia dei credenti nelle situazioni quotidiane
della vita del mondo. Oggi più che mai è possibile e necessario che questi figli
della Chiesa siano formati e siano resi responsabilmente compartecipi della vita
della Comunità cristiana in modo tale che tutti, vedendoli, esclamino
spontaneamente come al tempo degli Apostoli: “Guardate come si amano!”
Come la Chiesa partecipa alla sacramentalità universale di Cristo e diventa
segno e strumento di grazia per tutti gli uomini, altrettanto la famiglia cristiana
che si impegni a vivere pienamente in conformità con la sua realtà profonda
diventa sacramento della Chiesa, partecipando alla sua missione
subordinatamente ad essa. Se questo è – come pensiamo – il carisma proprio
della famiglia cristiana, l’affermazione di cui sopra dev’essere intesa in senso
diverso se riferita ai soli coniugi o alla comunità di genitori e figli. Infatti solo i
primi ricevono il sacramento, e in forza di ciò diventano segno e strumento
dell’intima unione d’amore che esiste tra Cristo e la Chiesa. E questo innanzi
tutto deve realizzarsi reciprocamente tra i coniugi, vivendo e testimoniando
l’uno all’altro l’amore preveniente e gratuito che tutto dona e nello stesso tempo
la risposta piena di gratitudine e fiducia. Ma anche i figli e i parenti partecipano
più o meno strettamente alla sacra mentalità familiare, e la fitta rete di rapporti
intrecciata in questa comunità di persone diventa altrettanto trasparente rispetto
alla realtà della Chiesa. Una famiglia cristiana unita in se stessa e
dinamicamente attiva nella comunità ecclesiale e civile è un’icona della Chiesa,
nel senso che la rende anche presente.
Questa affermazione sulla sacramentalità della famiglia suggerisce tutta una
serie di considerazioni conseguenti, in quanto si tratta di una realtà polivalente e
molteplice. Come abbiamo già accennato, essa ha un significato nei rapporti
vicendevoli fra i coniugi, dove ciascuno è per l’altro di volta in volta icona di
Cristo e icona della Chiesa. Ha un significato diverso poi nei rapporti fra
genitori e figli e, viceversa, anche nei rapporti fra figli e genitori. Ma si può
credere pure che questa forza di essere segno efficace sia conservata alla
famiglia impregnata di fede, in modo estremamente convincente. Il culto dei
morti fa della famiglia il luogo in cui si vive profondamente l’unione che lega la
Chiesa pellegrinante a quella purgante o già gloriosa. Lo spezzarsi dei rapporti
umani non distrugge la sacramentalità spirituale. Qualcosa di simile si può
credere anche per le famiglie spezzate dall’infedeltà di uno dei suoi membri, sia
esso un coniuge o, seppur in misura minore, un figlio. Se la parte ingiustamente
tradita persevera in un atteggiamento di amore che attende fiducioso, sorretto
dalla fede, essa diventa segno luminosissimo della misericordia paziente di
Cristo e della Chiesa, che attendono i lontani, li invitano a conversione, pregano
e soffrono per essi con spirito di attiva carità. Anche qui la sacramentalità non è
offuscata, ma acquista nuova forza e nuovo significato a partire dalla concreta
situazione esistenziale in cui è vissuta.
Dalle considerazioni condotte fin qui appare che la comunità domestica che
vive in coerenza e con impegno la sua fede si fa testimonianza vivente del
primato dello spirituale sulle realtà terrene, diventa un appello al soprannaturale,
strumento di santificazione per i suoi stessi componenti e per l’ambiente che la
circonda, scuola di elevazione spirituale e di donazione generosa di sé in senso
evangelico. Si può dunque concludere affermando che questa sacramentalità
caratteristica della famiglia cristiana permette di considerare quest’ultima non
più soltanto da un punto di vista pastorale o semplicemente sociologico, ma di
penetrarne l’essenza teologica profonda con lo sguardo della fede. E’ un salto di
qualità, che non nega assolutamente la rigorosità dell’indagine scientifica, ma
che penetra, superandole, l’aridità statistica e la valutazione delle strategie, per
arrivare a scorgere il mistero della Chiesa, che è mistero soprannaturale di
salvezza. La comunità domestica diventa soggetto della fede della Chiesa, in
ciascuno dei suoi membri credenti e battezzati, ma nello stesso tempo di quella
stessa fede anche oggetto.

5. Vocazione e missione della famiglia cristiana.

Quanto abbiamo precedentemente detto circa lo specifico carisma di cui la


Chiesa domestica è depositaria, ci conduce a qualche altra riflessione.
Innanzi tutto, in questo ambito come altrove, va ribadita la non-opposizione
fra il dono gratuito dello Spirito e l’istituzione, che tende a regolarne l’esercizio
sociale. Non si può mai parlare legittimamente di carisma al di fuori di un
esplicito riconoscimento da parte della Chiesa gerarchica. Anche la famiglia
cristiana quindi non può assumersi autonomamente l’autorità di gestire e di
interpretare i doni ricevuti. D’altra parte è un dovere per i Pastori, che
possiedono la responsabilità del discernimento degli spiriti, promuovere e
favorire l’esplicazione dei carismi di ciascuno nel pieno rispetto delle loro
caratteristiche peculiari.
Una seconda osservazione riguarda il duplice rapporto che il carisma
intrattiene da una parte con il mistero della chiamata divina e dall’altra con
l’invio per l’apostolato. Il dono affidato gratuitamente ad ogni famiglia cristiana
di essere segno e strumento della Chiesa nel suo mistero di unione fra Dio e
l’uomo, si connette immediatamente con l’invito che il Signore rivolge
singolarmente ad ogni nucleo domestico perché voglia cooperare
responsabilemte alla costruzione del Corpo. Parlare di vocazione implica sempre
rispetto del suo contenuto, ascolto della voce di Dio nel concreto contesto
esistenziale in cui essa si colloca.
I documenti del Concilio Vaticano II che abbiamo analizzato parlano
ripetutamente ed esplicitamente dell’apostolato che la famiglia cristiana è
chiamata a svolgere. E’ questo uno degli aspetti più importanti, come si è visto,
del magistero conciliare su questo particolare settore della vita ecclesiale. La
Chiesa domestica deve svolgere entro la comunità dei credenti e nella società
degli uomini una missione che spetta solo ad essa, per le modalità specifiche con
cui dev’essere condotta e per i doni soprannaturali di cui può usufruire.
L’”Apostolicam Actuositatem” parla a questo proposito di aiuto per la
preparazione dei fidanzati al matrimonio cristiano, di adozione dei bimbi orfani,
di ospitalità nei confronti degli stranieri, di collaborazione nella direzione delle
scuole, di carità verso gli adolescenti mediante il consiglio e l’opera concreta, e
di altre iniziative molteplici. Ma viene indicata come parte della missione
propria della famiglia cristiana anche la partecipazione piena al culto liturgico
della Chiesa, e la testimonianza aperta a tutti del “mysterion” profondo che la
caratterizza come cellula vitale del corpo ecclesiale. Si fa così implicitamente
accenno alla classica tripartizione che schematizza le dimensioni della missione
del Figlio di Dio: quella profetica, quella sacerdotale e quella regale. Anche la
Chiesa, afferma il Concilio, in continuità con la missione del Cristo, opera
secondo linee che conducono in quella triplice dimensione. E’ consequenziale
individuare anche nell’apostolato cui la realtà domestica è chiamata in forza
della grazia sacramentale un senso sacerdotale, profetico e regale, in quanto si
tratta propriamente di una partecipazione alla missione della Chiesa, che è poi
l’estensione di quella di Cristo alla totalità degli uomini, dei tempi e delle
dimensioni geografiche. E’ questa una prospettiva teologica nuova, che ci
sembra ricca in potenza di sviluppi fruttuosi, da determinarsi però in altra sede
nelle loro concretizzazioni pratiche. Ciò che soprattutto ha bisogno di maggiore
approfondimento ci sembra l’individuazione più precisa degli spazi che
competono alla famiglia cristiana entro la compagine della Chiesa e le modalità
“familiari” dell’apostolato in conformità con il carisma specifico conferito dal
matrimonio.

6. Teologia della famiglia ed ecclesiologia.

Teologia dogmatica e teologia pastorale sono ovviamente interconnesse tra


loro, e in modo molto stretto: l’una individua i valori e le mete, l’altra le priorità
storiche e le strategie. In questo senso l’una ha bisogno dell’altra per poter
dispiegare tutta la forza delle sue affermazioni. Per questo le varie osservazioni
fatte finora hanno sempre un duplice orientamento, dogmatico e pastorale.
Una teologia della famiglia che faccia perno sulla comunità delle persone e
non solamente sulle conseguenze giuridico-morali del sacramento, spinge la
comunità ecclesiale a una nuova coscienza di sé. La Chiesa familiare che viva
con pienezza il suo mistero diventa un elemento tutt’altro che secondario nella
riflessione ecclesiologica, proprio per la capacità che ha ricevuto di manifestare
con vigore la genuina natura del Corpo di Cristo. Ovviamente sono queste
conclusioni operate dal teologo, che un’esegesi rigorosamente critica dei testi
non permette di attribuire all’intenzione dei Padri del Vaticano II. Ciò non
sminuisce la loro importanza in vista di quell’”aggiornamento” di cui papa
Giovanni XXIII aveva parlato così significativamente e che costituì come la
dimensione di fondo dei lavori conciliari. La concezione di una Chiesa
rigorosamente gerarchica e strutturata secondo ruoli e modelli rigidi, che
tendono a differenziare in modo netto i suoi membri dagli altri, si evolve verso
una progressiva personalizzazione e nello stesso tempo spiritualizzazione del
senso di appartenenza. La Chiesa costruita su un modello di tipo familiare
guadagna in umanità, i rapporti interni divengono più spontanei e meno
burocratici, si accentua il senso di tolleranza e di comunione a danno del
dogmatismo rigorista. Si estende la partecipazione a tutti i livelli, e
l’appartenenza al corpo sociale si fa sempre meno formale. Queste sono alcune
delle più significative conseguenze di una maggiore presa di coscienza della
sacramentalità ecclesiale della famiglia cristiana sulla teologia della Chiesa.
Ma esistono anche influssi in senso inverso, dalla comunità ecclesiale verso
quella domestica. Questi sono più evidenti e i più studiati della teologia. Il
rapporto primordiale e più radicale in questo senso è di tipo genetico, dato che
non potrebbe esistere matrimonio cristiano senza la Chiesa. Quest’ultima, in
forza del potere ricevuto da Cristo, conferisce alla realtà umana del connubio e
dell’amore quel “di più” soprannaturale che la fa Chiesa domestica. Non solo. E’
proprio mediante una profonda comunione con tutti i credenti che la famiglia
cristiana può essere ciò che è essenzialmente: di qui riceve una progressiva
formazione spirituale che la fa penetrare gradualmente fin nelle profondità dei
misteri della fede, qui matura il senso dell’apostolato aperto ai più vasti
orizzonti, qui trova il luogo adatto e riceve lo slancio per vivere una carità
veramente santificante. La famiglia cristiana se vuole essere evangelizzante,
deve lasciarsi prima evangelizzare; se vuole sentirsi parte attiva della Chiesa di
Cristo, deve lasciarsi penetrare prima fino in fondo dal suo mistero d’amore e di
comunione.
Il Concilio Vaticano II, in conclusione, è stato ancora lontano dal poter
esplicitare chiaramente tutti i concetti che abbiamo cercato di esprimere fin qui.
I Padri conciliari avevano davanti agli occhi problemi pastorali più urgenti che
un determinato momento storico poneva con urgenza. E’ in questa luce che
dobbiamo leggere i documenti promulgati. Eppure appare particolarmente
illuminante esaminare attentamente i criteri che essi hanno adottato, le scelte che
hanno fatto, il punto di vista da cui si sono collocati per leggere i segni dei tempi
in conformità con le esigenze del Vangelo. E’ proprio su questo piano l’apporto
più determinante del Concilio, la novità più significativa, anche nell’ambito del
soggetto di cui abbiamo trattato in questa tesi. E’ ora compito della riflessione
teologica enucleare criticamente e scientificamente la dottrina espressa nei suoi
principi, determinarne i molteplici riflessi nei diversi ambiti di sua competenza e
condurre quindi la coscienza della Chiesa, delle famiglie cristianamente
impegnate e degli operatori pastorali, verso ulteriori acquisizioni, per una
presenza cristiana più incisiva e più pura nelle sue dimensioni costitutive.

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INDICE GENERALE
PREFAZIONE pag. 3

INTRODUZIONE pag. 4

- Il periodo antepreparatorio del Concilio Vaticano II pag. 6

PARTE PRIMA – FAMIGLIA CHIESA DOMESTICA pag. 19

Capitolo 1 – La famiglia cristiana, cellula della Chiesa. pag. 21


a) Le fasi di sviluppo della dottrina sulla famiglia nella
Costituzione dogmatica sulla Chiesa. pag. 21
b) Commento ai paragrafi 11/b e 41/a della “Lumen Gentium” pag. 36

Capitolo 2 - La famiglia cristiana come luogo della prima esperienza


di Chiesa. pag. 39
a) La Costituzione “De Scholis Catholicis” nel periodo
preparatorio. pag. 39
b) Una difficile gestazione. pag. 41
c) Dignità e compiti della famiglia cristiana secondo
“Gravissimum Educationis” n. 3. pag. 46

Capitolo 3 – Il dinamismo apostolico della Chiesa domestica. pag. 49


a) Genesi della dottrina sull’apostolato della famiglia. pag. 49
b) “Apostolicam Actuositatem” n. 11: famiglia cristiana,
testimone al mondo della realtà ecclesiale. pag. 66

Capitolo 4 – Importanza di una famiglia cristiana presente al mondo


Contemporaneo. pag. 69
a) Lo sviluppo del tema dell’ecclesialità della famiglia
cristiana nella “Gaudium et Spes”. pag. 69
b) Dignità e compiti della Chiesa domestica nel mondo di
oggi. pag. 80

PARTE SECONDA – LA CHIESA, FAMIGLIA DEI FIGLI DI DIO pag. 84

Capitolo 1 – Chiesa di Cristo, famiglia di fratelli. pag. 86


a) Lettura ecclesiologica dell’immagine biblica della famiglia pag. 86
b) La Chiesa nei suoi rapporti di paternità, figliolanza e amore
fraterno. pag. 98
c) Chiesa, famiglia di santi. pag. 106

Capitolo 2 – Dal giuridicismo al personaliso: verso una Chiesa più


evangelica. pag. 114

CONCLUSIONE pag. 126

BIBLIOGRAFIA pag. 137

INDICE GENERALE pag. 140

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