FAMIGLIA E CHIESA
VERSO UNA TEOLOGIA DELLA FAMIGLIA
A PARTIRE DAL MAGISTERO
DEL CONCILIO VATICANO II.
A vent’anni di distanza dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II,
l’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II “Familiaris Consortio” attirò sulla
famiglia l’attenzione della Chiesa universale e di tutti gli osservatori attenti alla
realtà del mondo di oggi. Essa venne indicata come uno degli aspetti più
fondamentali per il futuro della società civile ed ecclesiale. L’autorevole
documento pontificio si presenta ricchissimo dal punto di vista dottrinale,
profondo e originale, e intende collocarsi nell’alveo dell’ “aggiornamento” della
Chiesa promosso dal Concilio Vaticano II, per una sua progressiva attuazione a
tutti i livelli.
A questo punto è sorta spontanea una domanda: cosa hanno detto i Padri e i
documenti conciliari sulla famiglia? Quanto di ciò che si legge nella “Familiaris
Consortio” è frutto di una riflessione nuova e originale, e quanto è invece
soltanto un’esplicitazione del magistero precedente? Questo è stato lo stimolo
che ha avviato la ricerca. Ben presto ci siamo resi conto che la teologia della
famiglia nel Vaticano II era più ricca di quanto si potesse supporre: essa era
purtroppo frammentata in vari testi e comparve a più riprese nei dibattiti sinodali
a lunghi intervalli di tempo; eppure essa era tutta pervasa da una nota
caratteristica fondamentale, quella ecclesiologica.
Da questa osservazione è scaturita l’idea di arricchire lo studio riguardante
l’insegnamento del Vaticano II sulla famiglia cristiana presentata come “Chiesa
domestica”, con una seconda parte concernente la Chiesa, che i Padri conciliari
ripetutamente e da diverse prospettive presentano come una vera e propria
famiglia, in cui tutti i figli dell’unico Padre sono riuniti da un amore
scambievole. Questa realtà nella Chiesa è un dato ontologico, ma molto spesso
anche un compito, che provoca la responsabilità e la creatività dei Pastori e di
tutti i fedeli, ma soprattutto delle famiglie cristiane, che sentendosi
profondamente partecipi della vita ecclesiale le trasfondono progressivamente
uno stile genuinamente familiare.
Non tutto il ricchissimo materiale raccolto ha potuto essere qui
adeguatamente illustrato. Auspichiamo comunque che questo studio contribuisca
ad illuminare di luce nuova ciò che sulla famiglia e sui compiti ad essa spettanti
nel mondo contemporaneo affermano i documenti dell’ultima assise conciliare,
nel loro immutato ed attualissimo valore del Magistero solenne ed universale.
Goffredo Sciubba
La tematica della famiglia, e tutte le questioni ad essa collegate, occupa una
grande parte della produzione teologica attuale, sia a livello specialistico, sia
pure a livello divulgativo e catechistico. In effetti, già il magistero del Concilio
Vaticano II vi aveva dedicato un posto di rilievo, come apparirà molto
chiaramente nelle pagine che seguono. Eppure sembra che questi insegnamenti e
questi valori stentino a trovare pratica attuazione nella programmazione
pastorale ordinaria e nella mentalità comune dei cristiani, soprattutto nei Paesi
occidentali, economicamente avanzati.
La Chiesa postconciliare ha fatto e sta facendo un grande sforzo per una
promozione corretta e integrale della famiglia cristiana. Basti pensare al Sinodo
dei Vescovi, che nel 1980 ha dedicato i suoi lavori al teme de “I compiti della
famiglia cristiana nel mondo contemporaneo”, e all’Esortazione Apostolica che
ne è seguita, la “Familiaris Consortio”. Anche le varie Conferenze Episcopali
nazionali hanno costituito molto spesso delle Commissioni specifiche ed hanno
rivolto la loro attenzione a questo argomento, emanando documenti ufficiali (si
pensi ai documenti della CEI “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” e
“Comunione e comunità nella Chiesa domestica”), organizzando convegni e
favorendo studi e sperimentazioni. Rimane però vero che una pastorale accorta e
incisiva ha bisogno della riflessione teologica che la illumini, ne espliciti gli
scopi e le motivazioni, la giustifichi. Allora essa sarà in grado di fare le scelte
più adeguate, di individuare le modalità operative preferibili e di attuare di fatto
tutto questo, avendo ben chiara la linea di fondo da seguire, e guidata dalla
profonda convinzione della validità delle motivazioni che la muovono.
La teologia della famiglia è una ramificazione molto giovane delle scienze
sacre; o per lo meno si può dire che solo in tempi molto recenti essa ha subito un
rapido processo di maturazione e sviluppo. Nel postconcilio la famiglia è stata
fatta oggetto di studio da parte di molte discipline scientifiche, dalla psicologia
alla sociologia, dal diritto alla morale, ma quasi per nulla di essa si è occupata la
teologia dogmatica. In un contributo apparso in un volume del 1954, padre de
Lestapis, sintetizzando le linee di tendenza osservate nel Magistero occidentale
sulla famiglia fino a quell’epoca, scrisse:
“S’il fallait d’une phrase suggérer l’évolution accomplie depuis deux cents
ans par la pensée exprimée de l’Eglise Catholique en matière familiale, on
pourrait certainement caractériser la chose par ces mots: de la défense de la
famille à sa promotion; de l’apologétique à la spiritualità; de la morale à la
mystique; de la religion du devoir familial à la religion de l’amour conjugal; de
la famille société d’autorité à la famille communauté d’amour; de l’épouse
“mineure” à l’épouse “égale en dignité”; de la procreation instinctive à la
“régulation de naissances” à base de charité et de voeux créateur; bref, de la
famille chose à la famille ouverte”.
In realtà, fino ad un periodo che storicamente possiamo far coincidere
approssimativamente con l’inizio del Concilio Vaticano II, con il termine di
famiglia si designava una realtà molto diversa da ciò che si intende oggi. Questa
trasformazione di significato venne determinata anche dalla stessa evoluzione
culturale verificatasi nella società, particolarmente nella seconda metà degli anni
’60. Così la teologia della famiglia si limitava a considerare la coppia dei
coniugi, la nuova realtà giuridica e morale scaturita dal sacramento del
matrimonio, i diritti che ad essa spettano di fronte allo Stato civile, i doveri cui
deve rimanere fedele in ossequio alla volontà di Cristo. Questa problematica è
quindi affrontata in stretta dipendenza dalla sacramentaria e dalla dottrina
classica “De matrimonio”.
Alla riflessione teologica si presenta dunque oggi un compito nuovo, quello
di approfondire e chiarificare maggiormente e di presentare in modo più
articolato, nel quadro ampio della verità cristiana, la realtà della famiglia
composta di genitori e figli, presenti responsabilmente e attivamente alla vita
della Chiesa in quanto comunità cristiana unitaria e irripetibile nel corpo
ecclesiale.
Questa nuova coscienza della straordinaria dignità ecclesiale di cui gode la
famiglia cristiana e dei compiti importantissimi che le competono, è venuta
emergendo in modo determinante nel corso dell’ultimo Concilio Ecumenico. Esso
può essere considerato quasi uno spartiacque fra due diverse “culture” della
famiglia, due diversi modi di intenderne l’importanza e il ruolo.
Conviene ora accostare direttamente le fonti, a partire dai documenti del
periodo ante preparatorio, e condurre un lavoro di analisi, storica ed esegetica a
un tempo, per arrivare a conoscere da vicino la dottrina conciliare sulla famiglia,
tenendo presente anche le varie fasi del suo non sempre lineare sviluppo.
Uno dei più importanto documenti conciliari che trattano con maggiore
approfondimento e attenzione il tema del matrimonio e della famiglia è la
Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. L’elaborazione
di questo testo è stata particolarmente contrastata da vicende complesse e dalla
stessa vastità dei problemi affrontati. Noi ci limiteremo qui a richiamare gli
eventi più determinanti, ponendo nelle note frequenti richiami a fonti dettagliate
e autorevoli; inoltre avremo sempre presente nell’intenzionalità non tutto il
capitolo primo della seconda parte, ma solo i punti in cui più direttamente si
parla della famiglia dal punto di vista teologico e particolarmente di essa in
stretta connessione con la Chiesa.
Risalendo alle origini della “Gaudium et Spes”, è possibile rintracciare un
lontano antecedente sin fra gli schemi elaborati dalle Commissioni preparatorie
del Concilio. Lo schema “De Castitate, Matrimonio, Familia, Virginitate”, più
che alla storia, appartiene alla preistoria della nostra Costituzione, ma è
significativo per comprendere il tenore di una teologia del matrimonio, quale
veniva comunemente condivisa dagli studiosi negli anni preconciliari. Esso fu
preparato dalla Commissione teologica fondendo insieme il capitolo “De
Castitate et Pudicitia Christiana” appartenente alla Costituzione “De Ordine
Morali” con lo schema “De Matrimonio et Familia”, secondo quanto desiderava
la Commissione Centrale preparatoria. Questa, approvato il testo il 13 luglio
1962, lo inviò ai Padri in vista di un dibattito in Aula, che però non avrà mai
luogo. Questo schema di Costituzione era composto di due parti, di cui la
seconda era dedicata al matrimonio e alla famiglia. Vala però la pena di leggere
anche il proemio, che, anche se in forma incerta e non priva di contraddizioni,
vuole mettere in stretto rapporto la Chiesa, la comunità familiare e la verginità
abbracciata per il Regno dei Cieli.
“Cum Ecclesia Catholica magna sit familia, ex virginali simul
et sponsali cun Iesu Christo unione orta: numquam enim
Salvator sponsam suam sanguinem acquisitam, castissime
foecundam reddere desinit verbo vitae et gratia Spiritus
Sancti: idcirco S.Synodus in una eademque Constitutione
dogmatica nobilitatem extollere tuerique decreti tam castae
continentiae eiusque floris pulcherrimi, virginitatis sacrae,
quam casti connubii eiusque fructus celesti, familiae
christianae”.
Il matrimonio, istituito da Dio per la moltiplicazione del genere umano, è
buono per sua natura, ma, elevato da Gesù Cristo alla dignità di sacramento,
diventa strumento di santificazione, e i coniugi cristiani sono l’uno per l’altro
cooperatori della grazia. Ne conseghe che pur non essendo uno stato di
perfezione evangelica, il matrimonio esige, per essere vissuto secondo la
vocazione divina, una “sua perfezione”. Il terzo capitolo si apre con un
interessante paragrafo sull’”origine e la dignità della famiglia cristiana”.
“Familia ex ipso ordine divino parentibus et prole
constituitur, et quidem, ex legitimo matrimonio, quo
deficiente per se neque dari potest, coram Deo et Ecclesia,
aliqua legitima familia. (…) Origine, natura sua et fine
familia, sicut matrimonium est sacra et pro christianis sancta,
qua sanctitate familia christiana prae aliis splendescit.
Secundum igitur ordinem divinum, in ipsa regnare debent
gratia et virtutes, atque in primi caritas, in imitazione illius
sanctissimae nazarethanae familiae, quae est omnis familiae
christianae perfectissimum exemplar”.
Il carattere piuttosto giuridico di questo documento esige che la trattazione
sulla famiglia si fondi su di una definizione. Il limite che subito balza agli occhi
qui, è la continua confusione che nasce dal non distinguere fra la dimensione
naturale e antropologica della famiglia e la sua santificazione operata dal
sacramento istituito da Cristo.
Il quarto capitolo, rispetto al precedente, tratta della dimensione giuridica e
morale che inerisce alla famiglia in forza della sua stessa struttura ontologica. I
problemi qui accennati saranno poi oggetto di vivaci discussioni fra i Padri
conciliari fino alla chiusura dei lavori, e fra i teologi ancora più oltre per molto
tempo; e sono: la procreazione responsabile, la decisione sul numero dei figli in
relazione ai problemi demografici, i diritti e i doveri dei figli, e i rapporti fra la
famiglia da una parte e la società civile, la scuola e la Chiesa dall’altra. Più
interessante dal nostro punto di vista è il paragrafo 31 che parla dei diritti e dei
doveri dei genitori per ciò che riguarda l’educazione dei figli.
“Parentum officium grave et divinitus sancitum est,
praesertim verbo et exemplo prolem propriam educare non
solum quoad naturalia et terrena, sed prae aliis quoad
supernaturalia et aeterna. Unde in primis ipsi parentes, etiam
ex debito erga ipsam prolem, curare debent ut non tantum
neonati quam primum fieri potest in vita supernaturali
renascantur, sed etiam ut iam a prima aetate religiose
educentur praesertim quoad elementa religionis christianae
rectamque observantiam legis evangelicae. Ipsum enim
matrimonium et familia eo quoque tendit, ut crescat corpus
Ecclesiae”.
I vari temi affrontati qui entreranno a far parte successivamente di schemi
diversi; tuttavia questo documento del 1962 costituisce in qualche modo il punto
di partenza da cui si svilupperà il capitolo della “Gaudium et Spes” “De
dignitate matrimonii et familiae fovenda”.
Un momento determinante nella genesi della Costituzione pastorale è nel
gennaio 1963, quando la Commissione di Coordinamento per volontà del Santo
Padre riscrisse l’elenco degli schemi da discutere in Concilio armonizzandolo
con l’idea centrale della Chiesa “lumen gentium”, e stabilì che la seconda parte
dello schema “De Castitate, Matrimonio, Familia, Virginitate” – rimasto
accantonato durante il primo periodo dei lavori conciliari - fosse utilizzata per
la redazione di un nuovo documento, posto al numero 17 dell’elenco, e quindi
soprannominato “Schema 17”. In base alle direttive già espresse da Giovanni
XXIII nei suoi radiomessaggi, esso doveva esporre i principi che regolavano i
rapporti della Chiesa con il mondo e la società civile. La Commissione di
Coordinamento intitolò il nuovo schema “De Ecclesiae principiis et actione ad
bonum societatis”, stabiliva che esso sarebbe stato composto di una parte
teoretica e dottrinale e di una più pastorale, e ne affidava la stesura ad una
Commissione Mista composta da membri della Commissione dottrinale e di
quella dell’Apostolato dei Fedeli. Un gruppo di periti appositamente incaricato
redasse una prima proposta di schema, intitolata “De Ecclesiae presentia et
actione in mundo hodierno”, che dedicava al matrimonio, alla famiglia e al
problema demografico il terzo capitolo. Emendato secondo alcuni pareri espressi
da vescovi, esperti e laici interpellati, il testo venne proposto all’esame della
Commissione Mista nel mese di maggio del 1963. Questa propose di apportare
modifiche profonde per rendere l’esposizione più concreta e adatta a rispondere
ai gravi problemi sui quali l’umanità attende dal Concilio una parola
illuminante; ma espresse pure un parere sostanzialmente positivo, cosicchè il
testo, benché ancora immaturo, fu trasmesso alla Commissione di
Coordinamento nel luglio 1963, e da essa respinto. Si stabiliva invece che i
principi direttivi, che dovevano guidare i rapporti Chiesa-mondo, avrebbero
dovuto essere esposti in generale e succintamente, per indicare il compito della
Chiesa nella promozione del bene della società, mentre i problemi particolari
avrebbero dovuto essere deferiti allo studio di speciali commissioni coadiuvate
da esperti, e non avrebbero fatto parte della Costituzione conciliare vera e
propria. Da questo momento lo schema viene come spaccato in due tronconi, e
mentre la redazione di quella che diventerà la prima parte della “Gaudium et
Spes” procede per suo conto, la sezione riguardante il matrimonio, la famiglia e
gli altri temi scottanti rimane – come si suol dire – nel cassetto.
Un’altra fase decisiva nella formazione del nostro testo si apre nell’estate del
1963 quando all’interno della Commissione Mista si avverte l’esigenza di
costituire un gruppo ristretto che si assuma l’incarico di curare con maggiore
libertà e speditezza, i problemi redazionali. Esso fu composto di tre membri
della Commissione dottrinale e altrettanti di quella per l’Apostolato dei Fedeli, e
fu presto denominata Sottocommissione centrale. Fin dalle sue prime riunioni,
tenute nel dicembre 1963, essa trovò nella dignità della persona umana creata ad
immagine di Dio uno dei cardini attorno a cui doveva ruotare tutta l’esposizione.
Questo permetteva di reintrodurre nello schema, con una prospettiva ben
definita, i principi-chiave per la soluzione dei problemi particolari di cui parlava
lo schema precedente: una trattazione più vasta sarebbe stata poi collocata in una
serie di testi aggiuntivi, annessi a quello conciliare quasi come appendice, a
scopo esplicativo. Nei primi tre giorni del febbraio 1964 la Sottocommissione
Centrale riunita a Zurigo esaminò il nuovo testo preparato sulla base di questi
criteri, e suggerì nuove correzioni tenendo presente la finalità squisitamente
pastorale di questa Costituzione, il che esigeva la scelta di un linguaggio
accessibile a tutti e un’interpretazione teologica della situazione del mondo
moderno, che lasciasse peraltro un’analisi più particolareggiata agli “Adnexa”.
Nella riunione del marzo 1964 questa Commissione chiese soprattutto un
rifacimento del quarto capitolo, in cui i singoli problemi affrontati fossero
trattati in paragrafi diversi. In una seconda riunione plenaria tenuta ai primi di
giugno, ai membri della Commissione Mista furono consegnati due degli
“Adnexa” già messi a punto, fra cui quello sul matrimonio e la famiglia. Essi
seguirono la sorte del documento conciliare che, su proposta di Mons. Guano, fu
trasmesso alla Commissione di Coordinamento, da questa approvato, e, per
volontà del Santo Padre, distribuito ai Padri per la discussione il 3 luglio 1964.
Il capitolo quarto dello schema, intitolato “De praecipuis muneribus a
christianis nostrae aetatis implendis”, affrontava i problemi riguardanti il
matrimonio e la famiglia nel paragrafo 21, “Dignitas matrimonii et familiae”.
Dopo aver parlato dei pericoli che nel mondo di oggi minacciano questa dignità
voluta dal Creatore, si passa a trattare della natura sacra della famiglia, che la
fede cristiana illumina pienamente, in quanto la finalizza non solo alla
procreazione e al mutuo aiuto dei coniugi, ma anche alla loro santificazione e
alla glorificazione di Dio.
“Sed cum familia christiana sit imago et participatio foederis
amoris Christi et Ecclesiae (cf. Eph. 5,32), coniugum amore,
generosa fecunditate, unitate atque fidelitate mundo
innotescat viva Salvatoris praesentia in mundo atque sincera
Ecclesia natura”.
E nella frase successiva, con un’espressione icastica, si parla di “sanctuarium
familiae”. E’ interessante notare come questo paragrafo – come pure tutta la
Costituzione – verrà in seguito più volte totalmente rifuso, ma la frase che qui
stiamo esaminando resterà pressoché immutata fino alla fine. Ciò significa che
la lezione della “Lumen Gentium” e dei documenti successivi era stata
rapidamente assimilata e veniva sviluppata nelle sue conseguenze teoriche e
pratiche in questa seconda Costituzione sulla Chiesa che dalla prima voleva
essere in stretta dipendenza e in continuità con essa.
Vale però la pena di esaminare anche l’”Adnexum II” dedicato al
matrimonio e alla famiglia, perché di quel testo esso viene presentato alla
discussione conciliare come una spiegazione e uno sviluppo più approfondito. In
realtà esso ha un valore teologico-pastorale molto superiore, e lo si può rilevare
dalla lettura anche solo del paragrafo terzo. In esso si rivendica il carattere sacro
del matrimonio, per origine, per natura e per finalità. Questo senso e fine sacro
che risale ai primordi della creazione, Dio l’ha conservato anche dopo la caduta
del genere umano, in modo che la famiglia, quando di essa fossero rispettate
tutte le esigenze etiche e morali, diventasse il luogo più comune di
santificazione per l’uomo, anche prima dell’incarnazione e della nuova
economia di salvezza. Nostro Signore Gesù Cristo poi, restaurati i primitivi
caratteri di unità e di indissolubilità del matrimonio, lo elevò alla dignità di
sacramento, così che tra i battezzati non vi può essere un vero legame
matrimoniale che non sia per ciò stesso un sacramento.
“Matrimonium inter christianos contractum non est igitur
sacrum tantum, sed etiam signum rei sacrae quatenus
sanctificat homines. Sponsi per validum consensum exterius
rite manifestatum coniunctim Christo se tradunt, et a Christo
sibi invicem iuguntur, ut mutua et libera suorum ipsorum
donatione gratiae sacramenti participes – inquantum obicem
non ponunt – tota matrimoniali vita novum et aeternum
foedus Christi cum Ecclesia testentur et collaudent. Sponsi
ergo hoc sacro vinculo iuncti vocantur et devinciuntur ad
christianam sanctitatem novo titulo et quidem unitis viribus
prosequendam”.
Questo testo prosegue affermando con lucidità e con forza che gli sposi
cristiani sono chiamati ed obbligati a tendere con tutte le loro forze alla santità,
non solo in forza del dono battesimale, ma anche in forza della grazia specifica
ricevuta nel matrimonio, che li unisce con un vincolo sacro. E’ proprio in questo
modo, unendo insieme le proprie forze, che essi faranno fruttificare
meravigliosamente il loro amore e il carisma loro affidato.
“Iidem, secundum hanc legem ipsa gratia sibi impositam, in
Spiritu Sancto se invicem amando et in via sanctitatis alter
alterius onus speciali modo portando (cf. Gal. 6,2),
purissimam et fecundissimam Christi cum Ecclesia unionem
vere repraesentant et participant, et Salvatoris caritatem sibi
invicem et filiis aliisque testantur”.
Appare qui definitivamente chiarificata la differenza che esiste fra lo statuto
del matrimonio prima di Cristo, caratterizzato da valori tipicamente umani, e
quello che esso assume quando viene elevato a sacramento, strumento di
santificazione. Sul matrimonio cristiano è fondata la famiglia cristiana, e solo
essa è e deve divenire immagine e parte viva del patto d’amore che unisce Cristo
e la Chiesa. Se il creatore ha voluto fare del matrimonio e della famiglia un
sacrario, Cristo vuole servirsene per santificare gli uomini. Non viene ancora
affermato esplicitamente che la comunità coniugale, fatta “nuova” dallo Spirito
Santo, è costituita come cellula viva della Chiesa; ma alla famiglia cristiana
vengono affidati compiti eminenti, come se si trattasse di una vera “Chiesa
domestica”. I genitori sono invitati a diventare cooperatori del Divino Pastore,
prendendosi cura della anime proprie e dei figli. Riecheggiando le parole di
S.Paolo, i Padri conciliari stimolano i coniugi e tutti i membri della famiglia
cristiana ad intrattenersi “a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando
e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente
grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo,
restando sottomessi gli uni agli altri nel timore del Signore (Ef. 5, 18-20).
I genitori cristiani hanno un triplice compito da espletare, per essere fedeli
alla vocazione e alla missione ricevute. Il compito dell’annuncio: avendo
presentato i bambini alla fonte della rigenerazione battesimale, devono
alimentare la loro fede con la testimonianza della parola e della vita, traducendo
in modo facilmente comprensibile la Buona Novella di Gesù; il compito
sacerdotale: dovranno ordinare tutta l’educazione dei figli in modo da porre al
centro della vita e del culto cristiano il sacramento eucaristico, e così faranno in
modo che la convivenza e la comunità familiare mostrino pienamente il loro
senso e valore sacri e la loro forza santificante; il compito di guida: dovranno
educare discretamente e gradualmente i figli a vivere castamente, stimando
giustamente la santità del matrimonio e il mistero della verginità. Così essi
aprono il loro cuore e la loro intelligenza a comprendere la vocazione alla quale
Dio li chiama.
“Familia christiana, quae, nazarethanam illam sanctissimam
imitata, communi conatu religiosum suum munus adimplet,
immaculatam sese servabit ab hoc saeculo, et erit in mundo
sanctitatis fermentum”.
Anche nel quarto paragrafo si allude alla dimensione ecclesiale della
famiglia cristiana, quando si afferma che in essa fiorisce non solo il più puro
amore umano, ma la stessa carità effusa dallo Spirito Santo, e attraverso questa
esperienza di amore l’uomo è condotto ad amare Dio e in Lui tutti gli uomini.
“Deus, qui caritas est, ita instituit matrimonium indeque
familiam, ut propagatio generis humani fiat in intima
personarum communitate, qua mirabiliter amor humanus
mascitur et crescit, permanans totam vitam, immo florescit
caritas christiana, quae, Spiritus Sancti donum, in coniugum
corda abundanter diffunditur”.
Ancora prima che, a partire dal 20 ottobre, prendesse avvio la discussione in
aula dello schema “De Ecclesia in mundo huius temporis”, fu sollevato il
problema sul senso degli “Annessi”. Ai Padri fu detto che essi non facevano
parte del documento conciliare e perciò non dovevano essere discussi, ma erano
stati comunque distribuiti per una maggiore comprensione del testo. Molti
presuli però espressero da una parte il timore che questi documenti non ufficiali,
sì, ma pur sempre frutto del Concilio, fossero male interpretati dall’opinione
pubblica, e dall’altra parte il desiderio che molti punti, essendo trattati meglio
negli “Adnexa”, entrassero a far parte della nuova redazione emendata.
Il paragrafo 21 “De Matrimonio et Familia” fu discusso in Aula il 29 e 30
ottobre 1964, dopo una relazione introduttiva di Mons. Dearden, arcivescovo di
Detroit. Dei diciannove interventi pronunciati al microfono, è degno
particolarmente di essere menzionato quello del Card. Ruffini, arcivescovo di
Palermo, il quale lamenta la mancanza di una più solida dottrina sul matrimonio
cristiano. Egli si dichiara innanzi tutto sorpreso che il documento in esame
sorvoli quasi del tutto sulla nobilissima natura del matrimonio cristiano. Esso è
stato elevato da Cristo Signore alla sublimità di sacramento, e diventa quindi un
segno efficace e meraviglioso del legame misterioso che unisce nell’amore
Cristo e la Chiesa. E’ proprio da questo vincolo mistico che derivano le proprietà
essenziali del matrimonio cristiano, cioè l’unità e l’indissolubilità. Infatti, a
parere del porporato italiano, la “res” sacra significata nel sacramento del
matrimonio consiste in un solo Cristo e una sola Chiesa uniti fra loro in
perpetuo.
“Etenim si sponsus est figura Christi, ipse tenetur diligere
uxorem sicut Christus dirigi sponsam suam, quae est
Ecclesia. En verba S.Pauli: “Viri diligite uxores vestras, sicut
Christus dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea”.
Vicissim fundamentum solidissumum exhibetur amori quo
uxor virum suum prosequi debet; nam Ecclesia, cuius uxor
est figura, amorem erga sponsum suum, Christum, ab origine
per saecula praeclare demonstravit et continuo demonstrat”.
Giustamente l’arcivescovo di Palermo richiede che la teologia sacramentale
espressa nella parte ufficiale da presentare in Concilio venga maggiormente
sviluppata, affinchè sia capace di dare organicità a tutta l’esposizione; ma dalle
sue parole risalta ugualmente con chiarezza che la prospettiva feconda adottata
nell’”Adnexum” faticava ad essere compresa pienamente e fatta propria da
molti. La partecipazione all’amore e all’unione di Cristo e della Chiesa viene
concepita un po’ meccanicamente, e in funzione apologetica. La stessa
esclamazione paolina di Ef. 5,23 viene forzata per ricavarne un’immagine di
famiglia cristiana fortemente marcata da una cultura datata. In ogni modo,
l’impegno della Sottocommissione centrale prima – che lavorò durante il
febbraio 1965 in coordinamento con le varie Sottocommissioni in una casa
religiosa ad Ariccia - e della Commissione Mista poi, fu di ampliare il testo del 3
luglio 1964 inserendovi ampi stralci degli “Adnexa”, per renderlo più aderente
alla situazione reale del mondo contemporaneo, e più organico nella trattazione.
In questo senso si decise che i paragrafi del quarto capitolo, che trattavano di
alcuni problemi attuali più urgenti, sarebbero dovuti diventare altrettanti capitoli
della seconda parte dello schema, la parte cioè più prettamente pastorale che
doveva illuminare con la luce del Vangelo i diversi aspetti dell’attività umana.
Nella riunione tenuta a Roma dal 29 Marzo al 7 Aprile, la Commissione discusse
il testo nella sua nuova redazione, e diede indicazioni perché fosse emendato
almeno nei punti più controversi (e uno di questi argomenti più aspramente
dibattuti fu proprio il paragrafo sul matrimonio e la famiglia) secondo i pareri
espressi nel corso dei lavori. All’inizio di maggio i due cardinali presidenti
presentarono il nuovo schema alla Commissione di Coordinamento, la quale,
avendolo esaminato e pienamente approvato l’11 maggio, lo trasmise ai Padri su
autorizzazione del Santo Padre in data 28 maggio 1965.
Il primo capitolo della seconda parte, dedicata ad alcuni problemi più
urgenti, riguardava la dignità del matrimonio e della famiglia, e rispetto allo
schema dell’anno prima era notevolmente ampliato, tanto da comprendere 5
paragrafi.
Il numero 61, dopo aver esordito lumeggiando i valori umani, che devono
animare la società coniugale istituita dal Creatore, si sofferma sul matrimonio
cristiano.
“Christus Dominus hanc multiformem dilectionem, e divino
caritatis fonte esorta et ad exemplar suae cum Ecclesia
unionis constitutam, benigne et abundanter benedixit. Sicut
enim Deus olim foedere dilectionis et fidelitatis populo suo
occorri, ita nunc Salvator hominum Ecclesiaeque Sponsus, in
sacramento matrimonii fidelibus coniugibus obviam venit.
Manet porro cum eis, ut quemadmodum Ipse dilexit
Ecclesiam et semetipsum pro ea tradidit ita et coniuges,
mutua deditione, se invicem perpetuo diligunt”.
In questo testo, che rimarrà inalterato fino alla promulgazione della
“Gaudium et Spes”, nonostante tre piccole correzioni grammaticali, il
matrimonio cristiano è messo in rapporto non soltanto con la positiva istituzione
voluta da Cristo, ma anche con l’alleanza stretta da Jahvè con il popolo
d’Israele. Questa prefigurazione vetero-testamentaria sottolinea come l’azione
salvifica di Dio si snodi ininterrottamente, fino a realizzarsi pienamente nel
Nuovo Testamente e nel matrimonio cristiano. Se la frase conclusiva rivela il
senso di tutto il ragionamento, che è di fornire una solida base teologica alla
dottrina sull’indissolubilità, ciò non toglie che la pericope possa essere letta
altrimenti: Cristo ama la famiglia cristiana allo stesso modo in cui ama la Chiesa
e si dona per essa; da ciò scaturisce un amore profondissimo e soprannaturale fra
i membri della comunità familiare; ne consegue che una tale famiglia diventa
esemplare anche dell’amore fedele con cui la Chiesa ama il suo Signore.
Qualche riga più avanti leggiamo quest’altro passo, che si collega
direttamente a quello già citato dello schema del luglio 1964.
“Familia proinde christiana, cum ex matrimonio ut imagine et
participatione foederis dilectionis Christi et Ecclesiae
exoriatur, vivam Salvatoris in mundo praesentiam atque
germanam Ecclesiae naturam omnibus patefaciat, tum
coniugum amore, generosa fecunditate, unitate atque
fidelitate, tum omnium membrorum suorum amabili
cooperatione”.
I mutamenti apportati sono pochi ma significativi e indicano che si è voluto
dare maggior rilievo al fondamento sacramentale su cui si basa la famiglia
cristiana, all’aspetto oblativo e gratuito dell’amore con cui Cristo ama la Chiesa
e che gli sposi devono far proprio (“amor Christi et Ecclesiae” è sostituito con
“dilectio Christi et Ecclesiae”), e al compito che spetta alla famiglia cristiana di
rendere manifesta a tutti la presenza di Cristo e la natura della Chiesa. Tra gli
esempi concreti che descrivono in che modo questa testimonianza va data, viene
aggiunta la cooperazione amorevole fra tutti i suoi membri che non ruguarda più
soltanto i due sposi ma coinvolge tutta la famiglia, anche i figli. Questo testo
rimarrà praticamente immutato fino alla conclusione del Concilio. La
Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo passerà ancora
attraverso vicende difficili, aspri dibattiti e mutamenti considerevoli, ma le parti
che qui ci interessano, nell’esame di ciò che la “Gaudium et Spes” dice sulla
famiglia considerata come Chiesa domestica, hanno già a questo stadio
sostanzialmente la stessa configurazione che verrà solennemente e
definitivamente promulgata dal Concilio il 7 dicembre 1965, durante la nona
Sessione Pubblica.
Nei paragrafi iniziali della “Lumen Gentium” il Vaticano II cerca di dare una
definizione generale di Chiesa, e a questo scopo utilizza le ricche immagini
bibliche cui abbiamo accennato fin qui. Le parti in cui si parla di famiglia e di
matrimonio sono collocate in questo contesto allegorico. Ma addentrandosi più a
fondo nel mistero della Chiesa, diviene pian piano chiaro come il parallelismo
Chiesa-famiglia è particolarmente ricco di significato e illuminante per vari
aspetti. Le somiglianze fra le due comunità sacramentali appaiono a questo
livello di tito analogico, ma si tratta di un’analogia assai stretta, nel senso che i
punti di contatto hanno carattere sostanziale, mentre le dissomiglianze
riguardano aspetti più marginali. La Chiesa è una famiglia perché i vescovi, i
sacerdoti, tutti i fedeli cristiani partecipano realmente al mistero di paternità,
figliolanza e mutuo amore. La dimensiona familiare della comunità ecclesiale
non è solo una metafora sentimentalistica, ma una realtà soprannaturale che
tocca il cuore di un mistero d’amore vissuto in modi diversi e a livelli diversi,
ma precisamente determinata nella sua verità fondamentale.
Questa presa di coscienza emerge di fatto entro i complessi lavori del
Concilio ecumenico, fin dalla prima discussione plenaria sullo schema “De
Ecclesia” tenuta nel dicembre del 1962. Riferendosi al testo redatto dalla
Commissione Teologica preparatoria, l’arcivescovo di Cambrai, Mons. Guerry,
difende con convinzione e con solide argomentazioni la necessità di introdurre
una congrua esposizione sulla funzione paterna in riferimento al ministero
episcopale. Nello schema in esame compare sì la parola “patres”, per definire
quale tipo di rapporti il vescovo deve mantenere verso i fedeli, ma è solo un
fugace accenno privo di mordente a livello di conseguenze pratiche. La proposta
fatta dall’oratore di emendare il paragrafo del “De Ecclesia” intitolato “De
Episcopatu ut sacramento” nel senso indicato, si fonda su un’intima
convinzione: non si tratta solo di qualche immagine, o di un concetto
sentimentale, ma della vera e profonda realtà della Chiesa cattolica, come è stata
voluta da Dio.
La richiesta è motivata dall’arcivescovo francese con grande lucidità e in
modo convincente, ricorrendo a tre ordini di motivi. Innanzi tutto, viene fatto
rilevare, la concezione della paternità del vescovo poggia sulle solide
fondamenta della Scrittura e della Tradizione. S.Paolo scrive: “Quand’anche voi
aveste migliaia di pedagoghi in Cristo, non avreste tuttavia molti Padri; perché
sono io che vi ho generati in Cristo Gesù mediante il Vangelo” (1 Cor. 4,15).
Con queste parole l’Apostolato intende per padre – che distingue dal pedagogo –
colui che genera, cioè comunica la vera vita in Cristo Gesù, la vita divina dello
Spirito Santo, della grazia e della fede. In questo senso, il vescovo, successore
degli apostoli, è padre per mezzo di tutto il suo ministero. Molte sono anche le
testimonianze dell’autentica Tradizione cattolica, ma viene ricordato solo
S.Ignazio d’Antiochia, il quale chiama il vescovo immagine del Padre, e
dichiara che la sottomissione dei fedeli non si dirige a lui, vescovo, ma al Padre
di Gesù Cristo.
Secondariamente il presule francese sottolinea come la paternità del vescovo
sia connessa con una concezione vitale della religione e della Chiesa. Il nome di
padre dato al vescovo evoca in modo chiarissimo l’idea della vita, ed il
frequente richiamo a questa realtà, anche nella catechesi, nella predicazione e
nella teologia, porta ad allontanare una concezione troppo giuridicista della
Chiesa. In questo modo all’enumerazione dei poteri e dei diritti è anteposta la
missione, la funzione spirituale, il servizio, il dono del Padre ai figli. Gesù
Cristo è venuto per rilevare il Padre suo agli uomini e stabilire con coloro ai
quali diede “il potere di diventare figli di Dio” rapporti vivi e familiari. La
comunità dei cristiani, la Chiesa, entra nel vivo di questo mistero, diventa
partecipe qui sulla terra della paternità divina, in modo visibile, soprattutto nella
gerarchia apostolica.
Vi è infine un terzo motivo. Questa concezione della paternità del vescovo
può avere ripercussioni di grande importanza nel governo della diocesi. Essa
richiama alla memoria del vescovo la promessa fatta il giorno della propria
consacrazione episcopale di donarsi ai figli sacerdoti e al suo popolo, al servizio
dell’altissima carità che consiste nel salvare gli uomini nella Chiesa.
Queste indicazioni verranno attentamente studiate dalla Commissione
Teologica in sede di revisione del testo e il senso della proposta verrà accettato
ed espresso nello schema del 1963.
Sulla stessa linea tracciata da Mons. Guerry, si pone anche Mons. Noser,
vicario apostolico di Alexishafen (Papua Nuova Guinea), il quale, in una
relazione scritta, afferma la paternità non solo dei vescovi ma anche dei
presbiteri. Il documento uscito dalla fase preparatoria parlava dei presbiteri solo
come di “pastori”, ma altrove si legge che “in essi è trasfusa come l’abbondanza
della pienezza paterna” dei vescovi. Questa realtà andrebbe ribadita con più
forza ed espressa con maggiore chiarezza.
“Presbyteri vere dant vitam spiritualem fidelibus per
praedicationem Evangelii et administrationem
sacramentorum. Pastor utique vigilat et curam habet de
ovibus suis, sed presbite insuper fidelibus vitam dat, non
tantum maximam curam exercet. Ipse potest dicere cum
S.Paulo: “Si decem milia paedagogorum habeatis in Christo:
sed non multos patres. Nam in Christo Iesu per Evangelium
ego vos genui” (1 Cor. 4,15). Vel etiam: “Filioli mei, quos
iterum parturio, donec formetur Christus in vobis” (Gal.
4,19).
Sarebbe molto utile che i presbiteri meditassero frequentemente e con
profondità su questa paternità spirituale e sugli obblighi che essa comporta nei
riguardi dei propri figli e figlie spirituali nella vita quotidiana – sulla vigilanza,
la pazienza, l’amore veramente paterno, ecc. Dall’altra parte i fedeli, sentendo
che il presbitero è veramente un padre spirituale, sono spinti ad offrirgli amore e
fiducia filiale.
Queste affermazioni, paragonate a quelle di Mons. Guerry, non sono né
vogliono essere in contrasto o in alternativa rispetto ad esse, ma ne
rappresentano una conferma e un approfondimento. Purtroppo in ambedue
questi interventi si scorge un certo spirito, definibile forse come integralismo
ecclesiale o clericalismo – che per altro era allora molto più diffuso di oggi: la
paternità è predicata univocamente dai vescovi e per partecipazione dai
presbiteri, la figliolanza unicamente dai fedeli laici. Tuttavia è positivo lo sforzo
di scandagliare le diverse applicazioni e tutti i risvolti di queste affermazioni,
che a certe orecchie suonavano nuove.
Anche Mons. Noser propone un emendamento del testo, mediante una
duplice inserzione: nel paragrafo 12 “De Presbyteris” delle parole: “…
sacerdotes et veri patres spirituales fidelium”; nel primo paragrafo del capitolo
sui laici, della frase: “Fideles vero, scientes pastores vere esse patres spirituales
suos, erga eos manifestent fiduciam et amorem vere filialem”.
Anche queste indicazioni furono prese seriamente in esame di Commissione,
tanto che il nuovo schema di Costituzione, ampiamente rimaneggiato, presenta
nuovi accenni e nuove parti, interessanti dal nostro punto di vista. Il paragrafo
11, che nello schema del 1962 esponeva la dottrina sull’episcopato come
sacramento, dopo il dibattito in aula viene ampliato e suddiviso in più numeri. A
questo stadio, la materia ivi trattata si colloca nel terzo capitolo intitolato: “De
Constitutione Hierachica Ecclesiae et in specie de Episcopatu”. Al numero 14 si
legge di un “paterno munere” proprio dei vescovi; è interessante soprattutto la
nota correlativa, in cui si forniscono alcuni dati biblici, patristici e desunti dalla
Tradizione della Chiesa orientale e occidentale, per sostenere l’affermazione e
spiegare il senso in cui deve essere intesa. Alla trattazione sull’episcopato come
sacramento, seguono tre paragrafi in cui viene specificato l’ufficio episcopale a
partire dalla classica tripartizione cristologica dei “munera docendi,
sanctificandi et regendi”. Al numero 21, dopo un accenno in cui i fedeli vengono
chiamati “veri figli” in rapporto al vescovo, si legge tra l’altro:
“Fideles autem Episcopo adhaerere debent sicut Ecclesia Iesu
Christo, et sicut Iesus Christus Patri, ut omnia er unitatem
consentiam”.
Questa breve frase, ispirata alla lettera di S.Ignazio d’Antiochia agli Efesini,
assume un’eloquenza particolare nell’ottica che abbiamo assunto in questo
lavoro. Ritorna qui una frase già usata da S.Paolo per esortare i coniugi cristiani
ad imitare fedelmente il loro modello supremo. Come il matrimonio cristiano è
immagine e partecipazione dell’amore che unisce Cristo e la Chiesa, così entro
la comunità cristiana locale, fra vescovo e fedeli esiste lo stesso rapporto.
Questo parallelismo strettissimo evidenzia luminosamente che quando si parla
della famiglia cristiana come di una Chiesa domestica, si intende riferirsi in
modo particolare alla Chiesa locale piuttosto che a quella universale. E’ al
vincolo d’amore che lega questa comunità cristiana, determinata nel qui ed ora,
e il Cristo morto risorto e glorioso, che i coniugi credenti guardano come al
modello loro proposto. ;a è anche vero che la stessa assemblea dei fedeli, la
Chiesa, santa e sempre bisognosa di purificazione, riceve dalle famiglie cristiane
autentiche un forte esempio e uno stimolo a vivere com amore più fedele il suo
rapporto sponsale con Dio.
Un altro punto estremamente interessante si trova al paragrafo 23, che
appartiene al capitolo terzo “De Populo Dei et speciatim De Laicis” e si intitola
“De membrorum in Ecclesia Christi aequalitate et inaequalitate”. Si tratta di un
argomento storicamente molto delicato, in quel momento particolare della vita
della Chiesa; si veniva infatti affermando una ecclesiologia non più verticistica e
apologetica, ma aperta piuttosto alle istanze della comunione, della missione e
del servizio.
“Fideles autem sicut ex dignatione divina fratrum habent
Christum, qui cum sit Dominus omnium, venit tamen non
ministrari sed ministrare, itas etiam fratres habent eos qui, in
sacro ministerio positi, auctoritate Christi et docent et
sanctificant et pascunt, ut mandatum novum caritatis ab
omnibus impleatur. Quocirca pulcherrime dicit S.Augustinus:
“Ubi me terret, quod vobis sum, ibi me consolatur quod
vobiscum sum. Vobis enim sum episcopus, // vobiscum sum
christianus. Illud est nomen suscepti officii, hoc gratiae; illud
periculi est, hoc salutis”.
Viene qui definitivamente superata quella concezione che, peccando di
eccessivo paternalismo, attribuiva la partecipazione alla paternità spirituale di
Cristo esclusivamente ai pastori, membri della Gerarchia. L’autorità viene ora
intesa alla luce del Vangelo con maggiore equilibrio: non è tanto un potere
assoluto, ma la capacità di amare con spirito di servizio, ad imitazione di Cristo.
Se la qualifica di padre si addice meglio al dono concesso sacramentalmente da
Dio ai pastori per partecipazione, la qualifica di fratelli sottolinea invece la
chiamata, comune ai pastori e ai laici, ad amarsi come Cristo ha insegnato. Ciò
che la paternità potrebbe distinguere, la fraternità riconcilia.
Questa idea non è stata facilmente accettata subito di tutti, e trovò
opposizione soprattutto in chi aveva una formazione e una mentalità
prevalentemente giuridica. Così il Card. Ruffini, arcivescovo di Palermo,
pretende di vedere fra pastori e fedeli non una vera uguaglianza, ma una
superiorità dei primi almeno quanto all’ufficio loro proprio, se non anche quanto
alla dignità e all’azione. Invece Mons. Person, Vicario Apostolico di Harar in
Etiopia, rivolge le sue critiche al testo partendo da un altro punto di vista. Egli
ha davanti agli occhi la realtà africana e per rendere più efficace
l’evangelizzazione di quei popoli preferirebbe un richiamo all’amicizia dei
cristiani con Cristo. Nel vangelo di S.Giovanni infatti si legge che Cristo non ci
ha chiamati fratelli ma amici. La parola “fratello” applicata a Cristo perciò non
sembra corrispondere all’uso della Scrittura.
Ciò nonostante le righe sopra citate si ritrovano di nuovo nel testo emendato,
datato 3 luglio 1964. Le modifiche non sono sostanziali e riguardano la
sostituzione del termine “fideles” con “laici”, l’inserimento nel testo della
citazione biblica, e l’aggiunta del complemento oggetto “familiam Dei”, riferito
all’autorità magisteriale sacerdotale e regale di Cristo partecipata ai sacri pastori.
“Laici igitur sicut ex divina dignatione fratrem habent
Christum, qui cum sit Dominus omnium, venit tamen non
ministrari sed ministrare (cf. Mt. 20,28), ita etiam fratres
habent eos, qui in sacro ministerio positi, auctoritate Christi
docendo et santificando familiam Dei ita pascunt, ut
mandatum novum caritatis ab omnibus impleatur”.
Questo brano viene ritoccato un’ultima volta prima dell’approvazione
definitiva, e per cadenzare più ritmicamente i tre “munera episcoporum” alla
frase “auctoritate Christi docendo et santificando familiam Dei” viene aggiunto
“et regendo”.
Si viene così finalmente delineando quanto il Vaticano II ha
autoritativamente insegnato parlando della Chiesa come di una famiglia.
Leggiamo al terzo capoverso del numero 27 queste espressioni vivide e toccanti:
“Episcopus, missus a Patre familias ad gubernandam
familiam suam, ante oculos teneat exemplum Boni Pastoris.
(…) Subditos, quos ut veros filios suos fovet et ad alacriter
secum cooperandum exhortatur, audire ne renuat. (…) Fideles
autem Episcopo adhaerere debent sicut Ecclesia Iesu Christo,
et sicut Iesus Christus Patri”.
Il lungo paragrafo 28 affronta il problema delle relazioni tra vescovo e
presbiteri. Per meglio comprendere ciò che qui vien detto, conviene menzionare
uno scritto di Mons. Planas Muntaner, vescovo di Ibiza (Spagna), risalente alla
seconda sessione di lavori, in cui si domanda un discorso sui sacerdoti più esteso
e più ricco.
L’argomentazione del presule spagnolo si svolge nei termini seguenti:
giustamente si afferma che il vescovo è “pater fidelium”, in quanto nella Chiesa
gli viene conferita un’autorità di guida nei confronti dei fedeli; ma se si
considera la rigenerazione degli uomini operata durante il battesimo e la nascita
al corpo ecclesiale di nuovi membri, risalta piuttosto il contributo primario dei
presbiteri che generalmente amministrano concretamente il battesimo: non è
possibile sottacere o sminuire la loro paternità spirituale.
“Nam regeneratio spiritualis proprie loquendo est ipsa
administratio baptismatis, iuxta illa verba Domini nostri:
“Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest
introire in Regnum Dei”.
Melius fortasse res exprimitur in n.19, pag.29, linn.20-21, ubi
dicitur episcopos, utpote praedicatores fidei, novos discipulos
ad Christum adducere. Regeneratio enim spiritualis sensu
totali comprehendere potest etiam praedicationem fidei, sed
novus christianus proprie non habetur nisi baptismate recepto.
Praedicatio fidei est velut initium fidei, sed non est adhuc
proprie regeneratio spiritualis.
Presbyteri ergo sunt a fortiori patres fidelium, quia
communiter baptismum administrant, in quo novi filii
ecclesiae nascuntur et nova membra Corporis mystici
constituuntur. Populus christianus etiam, non solum
episcopos sed etiam simplices sacerdotes patres vocat”.
Al di là dei limiti teologici evidenti in questa riflessione, il suggerimento
positivo, cioè di marcare maggiormente e specificare più diffusamente in che
senso i presbiteri vengano detti “padri”, viene accolto nelle successive redazioni
del “De Ecclesia”. Nel testo approvato leggiamo queste espressioni, che si
riferiscono anche ai rapporti tra vescovo e sacerdoti, dove il peso di un
paternalismo eccessivo viene radicalmente mitigato dall’accenno alle parole di
Cristo che chiama amici i suoi apostoli.
“Propter hanc in sacerdotio et missione participationem,
Presbyteri Episcopum vere ut patrem suum agnoscant eique
reverenter oboediant. Episcopus vero Sacerdotes cooperatores
suos ut // filios et amicos consideret, sicut Christus discipulos
suos iam non servos, sed amicos vocat (cf. Io. 15,15). (…)
[Presbyteri] Fidelium vero, quos spiritualiter baptismate et
doctrina genuerunt (cf. 1 Cor. 4,15; 1 Pt. 1,23), curam
tamquam patres in Christo agant. (…)
Quia genus humanum hodie magis magisque in unitatem
civilem, oeconomicam et socialem coalescit, eo magis oportet
ut Sacerdotes, coniuncta cura e tope sub ductu Episcoporum
et Summi Pontificis, omnem rationem dispersionis elidant, ut
in unitatem familiae Dei totum genus humanum adducatur”.
Non mi soffermo su queste ultime frasi veramente stupende che
meriterebbero una riflessione prolungata. Mi limito a fare rilevare la potenziale
ricchezza di un’ecclesiologia incardinata attorno alla categoria di famiglia. Se la
Chiesa, come afferma LG 1, è sacramento, ossia segno e strumento dell’unione
non solo fra Dio e gli uomini ma anche dell’umanità in se stessa, essa deve
sentire l’urgente bisogno di crescere nell’amore per diventare realmente una
famiglia. Solo allora essa diventerà ciò che è – e deve essere – e porterà il
genere umano a realizzare in se stesso quel progetto che Dio ha voluto fin
dall’inizio quando creò uomo e donna perché fossero una sola carne. Quella era
la prima realizzazione di umana società, quella era la prima, germinale
immagine di Chiesa.
Infine rimane da analizzare il paragrafo 37, collocato nel quarto capitolo,
dedicato ai laici. Un contributo fondamentale alla messa a punto
dell’insegnamento lì contenuto l’aveva dato in uno scritto Mons. Pailloux,
vescovo di Fort Rosebery, in aggiunta a quanto era stato detto in aula negli
ultimi mesi del 1963. Questo vescovo missionario nello Zambia esprime a chiare
lettere opposizione per una definizione della Chiesa intesa come società
gerarchica e giuridica, e si dichiara invece favorevole a una sua presentazione
sul modello della famiglia riunita, in cui i reciproci rapporti fra i membri e la
loro diversità vengono vissuti nell’amore e nel rispetto di ciascuno verso tutti.
Non è solo una questione banalmente terminologica, non sono da auspicare
trasformazioni epidermiche, ma è un nuovo stile di essere Chiesa che deve
essere assimilato, mediante un profondo convincimento interiore e una
conversione nell’agire.
“Sed displicet hic parallelismus, ut ita dicam, quo populus
Dei sub duabus distinctis et quasi oppositis categoriis semper
repraesentatur, nempe hierarchica ex una parte et fideles ex
altera. Certe talis oppositio ad naturam Ecclesiae recte
intelligendam minime inservit. Forsitan, haec omnia melius
dicerentur et reciperentur si Ecclesia, non tam ut societas
hierarchica et iuridica, quam ut familia inter se coadunata ac
mutua affectione et reverentia // roborata ante oculos omnium
poneretur”.
Proprio da suggerimenti e indicazioni di questo tipo, che sarenne
inopportuno in questa sede rintracciare più dettagliatamente, viene prendendo
forma un’ecclesiologia di comunione che si ispira anche al tipo particolare della
comunione domestica. Ne traiamo un esempio eloquente dal paragrafo 37 della
“Lumen Gentium”, dove si descrive lo spirito che deve animare i rapporti
“familiari” tra pastori e laici.
“Laici, sicut omnes christifideles, ius habent ex spiritualibus
Ecclesiae bonis, verbi Dei praesertim et sacramentorum
adiumenta a sacris Pastoribus abundanter accipiendi, hisque
necessitates et optata sua ea libertate et fiducia, quae filios
Dei et fratres in Christo decet, patefaciant. Pro scientia,
competentia et praestantia quibus pollent, facultatem, immo
aliquando et officium habent suam sententiam de iis quae
bonum Ecclesiae respiciunt declarandi. Hoc fiat, si casus
ferat, per instituta ad hoc ab Ecclesia stabilita, et semper in
veracitate, fortitudine et prudentia, cum reverentia et caritate
erga illos, qui ratione sacri sui muneris personam Christi
gerunt. (…)
Sacri vero Pastores laicorum dignitatem et responsabilitatem
in Ecclesia agnoscant et promoveant; libenter eorum prudenti
consilio utantur, cum confidentia eis in servitium Ecclesiae
officia committant et eis agendi libertatem et spatium
relinquant, immo animun eis addant, ut etiam sua sponte
opera aggrediantur. (…) Ex hoc familiari commercio inter
Laicos et Pastores permulta bona Ecclesiae exspectanda
sunt”.
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dotto ai punti più essenziali. Il 27 aprile 1964 Paolo VI approva il nuovo schema
di Proposizioni, che era stato rapidamente elaborato in sede di Commissione nei
mesi di febbraio e marzo. Questo nuovo documento fu ricevuto con disappunto
dai padri conciliari per la sua eccessiva stringatezza, che sembrava relegare in
una posizione di secondo piano i primi collaboratori dei vescovi. Solo una
cinquantina di essi inviò il proprio parere, probabilmente perché la maggioranza
preferiva esprimere le proprie critiche in modo pubblico, durante l’attesa
discussione in aula. Alcune correzioni furono tuttavia apportate già prima, sulla
base delle “Animadversiones scriptae”; soprattutto furono aggiunte due nuove
proposizioni alle dieci precedenti, e il titolo fu modificato in “De Vita et
Ministerio Presbyterorum”. Proprio nel paragrafo iniziale introdotto “ex novo”
su richiesta dei vescovi tedeschi e scandinavi che auspicavano un più stretto
rapporto fra presbiteri e laici, troviamo in germe alcune espressioni che fanno
trasparire un’ecclesiologia di comunione, ricca di spunti e sottolineature vivaci.
“Novi Testamenti sacerdos, Sacramenti Ordinis ratione, (…)
pro Populo Dei munus patris et magistri exercens (…) Sit
ergo libenter etiam frater inter fratres // (cf. Mt. 23,8) utpote
cum iisdem membrum unius Christi Corporis”.
E’ molto interessante la “Relatio de Singulis Propositionibus”, che spiega più
diffusamente il senso di queste scarne parole: il sacerdote, ma in primo luogo il
sacerdote diocesano, non può espletare correttamente e fruttuosamente questo
ministero se non in una debita consuetudine di vita e comunione con i fedeli
laici. La peculiare missione di padre e di maestro della comunità cristiana, per la
quale è stato consacrato richiede anche che il sacerdote si comporti come fratello
tra fratelli, perché senza dubbio tutti i fedeli, insigniti del sacerdozio regale,
collaborino attivamente all’edificazione del Corpo di Cristo.
L’idea centrale è così ormai messa in chiara luce, e non resterà che
svilupparla adeguatamente. Il compito del presbitero non è solo
l’amministrazione quasi giuridica di una parrocchia, comunque intesa come una
suddivisione della Chiesa cattolica; egli non è un delegato incaricato di
distribuire gli strumenti di grazia necessari per la salvezza. Quella del sacerdote
è piuttosto una missione che, ponendolo in continuità con la Redenzione operata
da Cristo, lo rende partecipe di
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dei rapporti fra i sacerdoti, introduce due nuovi frasi, con cui si propone a
modello di questi stessi rapporti la carità fraterna.
“Cum alii ergo membris huiusce presbyteratus specialibus
ministerii et fraternitatis nexibus coniunguntur. (…) Caritas
ergo fraternitatis maneat in omnibus Presbyteris; (…) Ita
fraterno spiritu uniti maneant”.
Quanto era precedentemente detto sulla comunione di vita fra presbiteri e
laici viene ora ripreso, rafforzato e ampliato.
“Presbyteri ergo semper memores sint se cum Christifidelibus
esse fratres inter fratres (cf. Mt. 23,8). “caritate fraternitatis
invicem diligentes, honore invicem praevenientis” (Rom.
12,10), utpote cum iisdem membra unius Christi Corporis,
cuius aedificatio omnibus in fonte baptismi regeneratis et
sacro chrismate signatis, secundum mensuram gratiae et
donum quod singulis datur (cf. Rom. 12,6; Eph. 4,7)
demandata est”.
La carità fraterna con questo testo non è più solamente raccomandata,
facendo appello quasi alla buona volontà del singolo, ma è presentata coe una
realtà oggettiva, di cui il sacerdote deve avere coscienza, e che deve tradurre
nella vita quotidiana, in quanto essa affonda le sue radici non solo e non tanto su
presunte esigenze od opzioni di tipo pastorale, necessariamente contingenti, ma
nel terreno della partola di Dio e nella realtà più profonda della Chiesa, che è
comunione.
Il numero 15 rifonde in gran parte l’argomento della castità sacerdotale e dei
consigli evangelici, adottando di preferenza le categorie paternità e famiglia
cristiana per esprimere in termini percepibili come più positivi della cultura
contemporanea una realtà difficile e delicata come quella del celibato dei
sacerdoti, che in molti sembrava aver smarrito il suo significato e il suo valore
evangelico e pastorale. Si fa riferimento alla Chiesa come alla famiglia di Dio,
in cui il presbitero, in forza della sua consacrazione verginale, è abilitato ad
esercitare e vivere una paternità più grande; e come alla Sposa casta di Cristo, di
cui la verginità cristiana è segno manifesto nella luce escatologica.
“Presbyteris ergo convenit ut, consilium Pauli Apostoli in
mentem fidelium revocantes, viam subditis vivendo
denuntient, ita ut Dei familiae liberius ministrent,
paternitatem in Christo plenius acquirant et expeditiores in
dies fiant ad servitium Regni Dei. (…) In servitium Ecclesiae,
Sponsae Christi, atque omnium illorum quos volunt
despondrere “uni viro, virginem castam exhibere Christo” (2
Cor. 11,2), suum faciunt gaudium Praecursoris qui, ut amicis
Sponsi, “gaudio gaudet propter vocem sponsi” (Io. 3,29)”.
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Ecclesiae extenduntur”
Viene inoltre aggiunta al numero quattro un’intera frase, posta all’inizio e
ispirata all’ecclesiologia della “Lumen Gentium”, come spiega la stessa “Relatio
de Singulis Numeris”: “Datur notio generalis muneris regendi vel pascendi iuxta
doctrinam espressa in Constitutionis “De Ecclesia”.
“Munus Christi Pastoris et Capitis pro sua parte auctoritatis
exercentes, Presbyteri, ducentibus Episcopis, familiam Dei, ut
fraternitatem in unum animatam, colligunt, et per Christum in
Spiritu ad Deum Patrem adducunt”.
Si tratta di un’aggiunta particolarmente significativa, sia perché si ricollega
ad una Costituzione dogmatica che occupa un ruolo centrale di riferimento per
tutto il Concilio, sia perché proprio alla luce di questo rapporto intende definire
la missione pastorale dei presbiteri. Tutta la pericope è marcatamente
caratterizzata da una prospettiva trinitaria da una parte, e cristologica dall’altra.
Il ministero presbiterale è chiaramente presentato come un servizio da rendere
alla famiglia dei figli di Dio, in forza della partecipazione all’autorità stessa di
Cristo. Sembra quindi di primaria importanza, da un punto di vista pastorale, che
il presbitero sia dotato di tutte quelle virtù umane atte a suscitare un clima di
comunione familiare fra i cristiani in mezzo ai quali presta la sua opera.
L’autorità che viene qui attribuita ai presbiteri è quella di Cristo, finalizzata
perciò di per se stessa alla costruzione e al rafforzamento di
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porato francese alla luce del concetto di paternità, che si avvicina
straordinariamente e virtualmente si fonde con quello della maternità della
Chiesa nei confronti di tutti quelli che sono rinati nel battesimo, con la forza
dello Spirito, alla vita soprannaturale. La parte terminale del lungo discorso
esalta l’eccellenza del celibato consacrato a Dio per il Regno rispetto allo stesso
sacramento coniugale. Osservando uno per uno i diversi aspetti del matrimonio,
appare che in nulla il sacerdote risulti menomato o carente a motivo del suo
celibato. La comunità di vita è vissuta nella famiglia che è la Chiesa, la
generazione della vita si celebra a livello spirituale, l’amore riceve la massima
espansione nella carità di Cristo, l’azione temporale per un’efficace
trasformazione del mondo è incoraggiata e irrobustita con gli strumenti della
grazia. Coloro che rinunziano al matrimonio, in nessun modo disprezzano la
dignità del matrimonio cristiano; ma considerano molto maggiore la loro unione
con Cristo, nella Chiesa, per offrire alla Chiesa nuove membra, cresciute in
Cristo mediante la Sua grazia, e per radunare nel Corpo mistico tutta la famiglia
umana. Mentre i presbiteri rinunziano a un qualche amore coniugale, tendono a
un amore più vasto e più pieno, e cioè a rispondere al sommo amore di Cristo
che offre se stesso per tutti sulla croce, e per ciascuno per mezzo dell’Eucarestia;
dimostrano un sommo amore con il fatto di donare se stessi a Cristo e in Cristo a
tutti coloro che Cristo amò fino alla morte.
“Dum paternitati secundum carnem renuntiant presbiteri,
generare intendunt, in Ecclesia et per gratiam Spiritus Sancti,
filios Dei, qui ex Christo in Christo vivant, ut in ipsis et per
ipsos, opus salutis mundi permaneat et amplificetur.
Dum actioni quoad temporalia exercendae plerumque
renuntiant, non intendant ut illa quolibet modo spernant,
quorum momentum agnoscunt, sed ut ex celsius ascendant”.
Complessivamente quindi il giudizio sullo schema era positivo, ma
sembrava in più punti da rivedere, correggere e integrare, per renderlo più
equilibrato e completo.
La Commissione sulla Disciplina del Clero e del Popolo Cristiano suddivise
il lavoro di revisione fra sei Sottocommissioni, che espletarono il loro compito
in un tempo relativamente breve, e a una Sottocommissione centrale fu dato
l’incarico di coordinare e guidare la stesura. Negli ultimi giorni di ottobre lo
schema, approvato dalle istanze competenti, fu trasmesso ai Padri in vista di una
prima votazione.
L’argomento della comunione di vita dei sacerdoti con i laici viene
modificato profondamente in base ad una prospettiva teologica più approfondita
e biblicamente radicata.
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A parte quest’ultimo, però, gli altri passi studiati hanno già raggiunto a
questo punto la loro configurazione definitiva, e non verranno modificati
nemmeno nei dettagli stilistici. Anche i Modi si concentrarono massicciamente
su questi stessi paragrafi: 762 riguardavano il numero 8, 1331 il numero 16.
Tuttavia va rilevato che, eccettuato sempre questo ultimo caso, e cioè il celibato,
l’attenzione dei più era puntata non tanto su quei punti in cui compaiono le
nozioni di fraternità sacerdotale, paternità spirituale, sponsalità verginale della
Chiesa e di Cristo. Chè anzi, se qualche emendamento fu avanzato a questo
proposito, come già abbiamo visto esso si collocava nel senso di percorrere più
radicalmente la via già tracciata, evidenziandone con chiarezza tutte le
conseguenze.
Inizia da questo momento per la Commissione “De Disciplina Cleri et
Populi Christiani” l’ultima fase del lavoro redazionale, consistente nel passare al
vaglio le migliaia di proposte di modifica, per coglierne e valutarne senso e
portata, ed eventualmente nel trasferirle poi nel testo, per altro già globalmente
approvato dal Concilio. Esso fu affidato a una speciale Sottocommissione
presieduta dal segretario della Commissione conciliare, Mons. Alvaro del
Portillo. Il 30 novembre 1965 il testo, ritoccato per l’ultima volta, venne
distribuito ai Padri per l’approvazione finale.
La storia del decreto conciliare sul ministero e la vita dei presbiteri si
conclude con la Relazione esplicativa generale circa l’”expensio Modorum”,
presentata in aula da Mons. Marty il 2 dicembre 1965; la soddisfazione dei Padri
per il lavoro svolto dalla Commissione “De Disciplina Cleri et Populi
Christiani” fu manifestata nella votazione che ebbe luogo subito dopo, e nella
quale lo schema venne approvato quasi all’unanimità, con pochissime eccezioni.
Il 7 dicembre il Santo Padre Paolo VI promulgò ufficialmente la “Presbyterorum
Ordinis”, nel corso della Sessione pubblica conclusiva dello stesso Concilio
Vaticano II.
CONCLUSIONE
1. Terminologia.
3. Famiglia e Chiesa.
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INDICE GENERALE
PREFAZIONE pag. 3
INTRODUZIONE pag. 4