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1Domenica «DEL PARACLITO CHE RESTA», VI di Pasqua A

Gv 14,15-21; At 8,5-8.14-17 (leggi 8,5-25); Sal 65; 1 Pt 3,15-18

Nell’Evangelo di questa domenica la promessa dello Spirito è strettamente unita al tema dell’amore.
Di fatto, lo Spirito che il Signore promette e che viene dal Padre, è Spirito di amore, e di questo i cristiani
sono chiamati a rendere testimonianza. Ma i “pagani” di oggi guardando i cristiani possono davvero dire
«Guardate come si amano» o il comportamento dei cristiani è tale da farli diffidare del cristianesimo e
della sua insistenza sull’amore? Con ogni probabilità, parliamo troppo di amore, ne facciamo quasi un
genere letterario; ma non lo viviamo sinceramente tra noi, divisi come siamo da pregiudizi, settarismi, ghetti
diversi. In ogni epoca la Chiesa è chiamata a dare prova del suo amore. L’evangelizzazione è opera di
amore che spinge ad annunciare a tutti la salvezza di Cristo. Nella prima lettura vediamo attuarsi questo
dinamismo missionario della Chiesa apostolica. L’annuncio dell’Evangelo oltrepassa i confini della Giudea,
giunge in Samaria e si diffonde attraverso la parola e i «segni». Ora l’unico Spirito ricevuto dagli uni e dagli
altri testimonia che tutti sono di Cristo, in comunione di fede e di amore; così la Chiesa cresce in espansione
e in unità, superando tensioni e contrasti. I segni esistenziali che testimoniano tale comunione in mezzo e di
fronte a un mondo ostile, vengono ricordati nella lettera di Pietro: la dolcezza, il rispetto reciproco, la buona
coscienza, il saper soffrire operando il bene piuttosto che il male... (cf seconda lettura, da confrontare con
Gal 5,13-26: «13Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un
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pretesto per la carne; mediante l'amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti
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trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Ma se vi mordete e vi
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divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque:
camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. 17La carne infatti ha
desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a
vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la
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Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria,
stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21invidie, ubriachezze, orge e cose del
genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio.
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Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza,
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dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la
carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo
Spirito. 26Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri.»).
Gli apostoli Pietro e Paolo scrivono degli atteggiamenti che traducono in concreto l’amore di Cristo e
mediante i quali i cristiani possono dare ragione della speranza che è in loro, e rendere credibile la missione

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evangelizzatrice. Mentre lo Spirito Santo, sempre presente nella Chiesa, la guida nella continua ricerca di un
adeguamento della missione alla parola di verità.
Tutta la storia della salvezza è caratterizzata dall’iniziativa di Dio che si manifesta per comunicare la sua
vita all’umanità, unificandola in un popolo che sarà come il suo tempio. Il compimento di questo disegno
avviene con Cristo: la sua umanità è il tempio definitivo nel quale si dà al Padre un culto perfetto. Col
mistero pasquale il luogo del nuovo culto in spirito e verità, il luogo sacro della presenza di Dio in mezzo al
suo popolo si estende da Cristo alla comunità dei credenti fatta suo corpo. Da questo momento il tempio di
pietre ha un valore secondario: il vero tempio di Dio è la Chiesa, in cui abita la presenza interiore e
dinamica dello Spirito santo. L’assemblea eucaristica è la manifestazione di questa prerogativa sacerdotale
del popolo di Dio. Il nostro sacerdozio battesimale non consiste nell’offrire a Dio solo delle cose, ma, a
imitazione di Cristo, offrire a Dio innanzitutto le nostre persone. Nella liturgia che celebriamo noi siamo
liberati e uniti a Cristo nostro capo glorioso, ai santi che sono già con Lui nella casa del Padre e a tutti i
fratelli sparsi sulla terra.

Dall’eucologia:
Antifona d’Ingresso Cf Is 48,20
Con voce di giubilo date il grande annunzio,
fatelo giungere ai confini del mondo:
il Signore ha liberato il suo popolo. Alleluia.

L’Antifona d’ingresso, Is 48,20 (adattato), appartiene al «Secondo Isaia» (Is 40-55) che pronuncia la sua
profezia durante l’esilio babilonese (circa 550 a. C.). Il Profeta, come uno squillo improvviso e inatteso, per
il risveglio del popolo che era prostrato e demoralizzato, fa risuonare la Voce divina dappertutto, per
annunciare nella gioia rinnovata (41,8; 44,21; Lc 1,54) che il Signore ha liberato Giacobbe servo suo, il
popolo suo, verso cui l’alleanza fedele è indefettibile. Il Profeta si serve del passato profetico, che nella
visuale storica vede la realtà annunciata come già avvenuta, in forza della Parola stessa che la proclama.
Così la Voce divina della gioia deve diventare anche voce umana di gioia per la redenzione (v. 5; e 42,1). La
patria è vicina. Così essa risuona anche in questo tempo dopo la Resurrezione, la Fonte unica del Dono dello
Spirito Santo, che è la Redenzione stessa, la Libertà divina donata agli uomini (Gal 5,1; 2 Cor 3,17). Dalla
Libertà dello Spirito è creato il popolo redento e santificato, popolo della divina alleanza fedele. E oggi da
questo popolo esce la voce del giubilo, e lo annuncia al mondo.

Canto all’Evangelo Gv 14,23


Alleluia, alleluia.
Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.
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Alleluia.
Nell’alleluia all’Evangelo (Gv 14,23) quell’amore verso il Signore che è stato tante volte ansiosamente
richiesto da Lui stesso ai suoi discepoli (8,31; 15,10; 21,23; 1 Gv 5,3; 2 Gv 6), porta al segno tangibile:
praticare la Parola da Lui portata e donata ad essi. Solo allora il Padre ama i discepoli così visitati dallo
Spirito Santo, quelli che dallo Spirito Santo vivono la Vita nuova. Questa è la preparazione immediata alla
Venuta del Figlio (Ap 3,20; Ct 5,2), il quale promette che, venendo, porterà con sé il Padre, con il quale
porrà in essi la loro augusta Dimora trasformante. Per questo oggi la chiesa chiede al Signore di vivere con
rinnovato impegno questi giorni di letizia in onore di Cristo risorto, per testimoniare con le opere il
memoriale della pasqua che celebriamo nella fede:

I Colletta:
Dio onnipotente,
fa’ che viviamo con rinnovato impegno
questi giorni di letizia in onore del Cristo risorto,
per testimoniare nelle opere
il memoriale della Pasqua che celebriamo nella fede.
Per il nostro Signore...

«Oggi qui» per i fedeli si realizzano le realtà divine che il Signore promette a chi Lo ama. La
celebrazione deve essere il sigillo della loro osservanza dei comandamenti del Signore, e la forza per
seguitare a osservarli anche dopo. Il Signore in perpetua epiclesi al Padre ottiene ad essi il Paraclito
onnipotente, lo Spirito Santo dell’Amore eterno, che pone la sua Dimora nei fedeli. E li assiste nella prova
terribile della loro esistenza, che è il giudizio continuo a cui sono sottoposti dal Maligno. E questa divina
Dimora dello Spinto Santo, che rende possibile la Venuta del Figlio che in modo indiviso porta il Padre,
prende la forma della Parola che si ascolta e si mangia, dei Divini Misteri del Corpo e della Coppa del
Signore, e della comunione che si deve fare di continuo con la Madre, la Chiesa, la sede della Trinità beata:

Antifona alla Comunione Gv 14,15-16


«Se mi amate,
osservate i miei comandamenti»,
dice il Signore.
«Io pregherò il Padre,
ed egli vi darà un’altro Consolatore,
che rimanga con voi in eterno». Alleluia.

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La nostra condotta quotidiana, perciò, non deve essere altro che una lenta e progressiva estensione della
vittoria di Cristo sulla morte: dev’essere una vittoria pasquale e una vita in cammino verso la risurrezione.
Così, nel Signore risorto, il Padre riporta l’umanità alla speranza eterna:

Dopo la Comunione
Dio grande e misericordioso,
che nel Signore risorto
riporti l’umanità alla speranza eterna,
accresci in noi l’efficacia del mistero pasquale
con la forza di questo sacramento di salvezza.
Per Cristo nostro Signore.

La pericope di questa VI Domenica di Pasqua sta in prosecuzione con quella di Domenica scorsa, con la
quale è bene che sia letta. La rivelazione durante la Cena prosegue sempre più ricca e densa, in
un’atmosfera che si intuisce bene come tesa negli animi.
I discepoli all’inizio si sono visti consacrare dalla lavanda dei piedi; hanno ascoltato la predizione che
Giuda tradirà e Pietro rinnegherà; hanno ricevuto il comandamento nuovo dell’amore; hanno saputo che il
Signore è la Via e la Verità e la Vita, l’unico accesso al Padre; che essi compiranno «opere maggiori» di
quelle del Signore stesso. Ma nulla compresero finora!
II Signore lo sa, per questo ora sta per comunicare una realtà fra le più profonde: il Dono dello Spirito.
Nei discorsi della Cena, la sezione di Gv 14,15 fino a 16,15 contiene le 5 promesse dello Spirito Santo,
che stanno sotto il simbolo della pienezza e della totalità della Pentecoste: 5 = 50 (ovvero 5 x 10).
La pericope di oggi, Gv 14,15-21, contiene solo la 1a promessa dove più che un’attività precisa dello
Spirito si sottolinea la sua intimità al discepolo e la sua relazione con il Cristo. L’elenco è questo:

Gv 14,15-17: «15 Si me amáis, guardaréis mis mandamientos; 16 y yo pediré al Padre y os dará otro
Paráclito, para que esté siempre con vosotros: 17 el Espíritu de la verdad, a quien el mundo no puede
recibir, porque no lo ve ni lo conoce. Pero vosotros lo conocéis, porque mora con vosotros y estará en
vosotros.».
Gv 14,26: «26  Pero el Paráclito, el Espíritu Santo, que el Padre enviará en mi nombre*,
os lo enseñará todo y os recordará todo lo que yo os he dicho. ».
Gv 15,26-27: «26 Cuando venga el Paráclito, que yo os enviaré de junto al Padre, el Espíritu de la verdad,
que procede* del Padre, él dará testimonio de mí. 27 Pero también vosotros daréis testimonio, porque
estáis conmigo desde el principio».
Gv 16,7-12: « 7  Pero yo os digo la verdad: Os conviene que yo me vaya, porque, si no me voy,
no vendrá a vosotros el Paráclito; pero si me voy, os lo enviaré;…
Gv 16,13-15: « 13 Cuando venga él, el Espíritu de la verdad, os guiará hasta la verdad completa; pues no
hablará por su cuenta, sino que hablará lo que oiga y os explicará lo que ha de venir…

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Si può dire che ogni promessa della presenza operante dello Spirito Santo è completa, dunque simile alle
altre, e tuttavia non identica, bensì con significanti variazioni. Ad esempio, solo nella II promessa si dice
che lo Spirito santo farà fare l’anamnesi liturgica. Per cogliere pienamente e al meglio la portata delle
singole promesse è sempre opportuno non isolarle dal contesto dei discorsi della Cena e collegarle alle
domande che i discepoli pongono a Gesù in relazione alla loro sequela, al mistero della sua persona, alle
modalità della rivelazione divina che si attua in lui. I discepoli proprio grazie al dono dello Spirito potranno
superare la loro incomprensione del mistero di Cristo e vivere la loro sequela.

Esaminiamo il brano

v. 15 «Se mi amate osserverete...»: Le 5 promesse stanno tutte e per intero sotto l’unica condizione:
amare Cristo Signore (Gv 14,15a). A sua volta questa condizione si risolve nell’obbedienza d’amore:
osservare i precetti del Signore (Gv 14,15b). E questa condizione sta sotto il “Segno” supremo, posto
significativamente all’inizio della Cena, quasi come suo contenitore: che il Signore «amò i suoi fino al télos,
al culmine» (Gv 13,1). Il verbo téréó, «custodire, osservare, adempiere», al futuro forma qui una inclusione
tra i vv. 15 e 21. All’interno di questa duplice esortazione, Giovanni pone la preghiera per il dono dello
Spirito e la promessa di tornare dai discepoli (vv. 16-20).
«i miei comandamenti»: Qui Gesù parla dei comandamenti al plurale, in contrasto con il
«comandamento nuovo» (singolare) di 13,34. In entrambi i casi, non si tratta dell’adempimento di semplici
precetti morali, ma di tutto un modo di vivere in unione d’amore con lui. I discepoli sanno che i precetti
divini sono diversi, perché abbracciano ogni aspetto della vita redenta. Essi tuttavia per la loro validità
debbono derivare dal «precetto ultimo», il “comandamento nuovo” dell’amore fraterno al quale in fondo
tutti i precetti si riducono: i discepoli si ameranno «come il Signore li amò» (Gv 13,34), in modo totale, per
la vita, dando la vita e perdendola. Solo allora il Signore potrà pregare il Padre per il Dono supremo.
L’osservanza dei comandamenti di Gesù è l’espressione concreta dell’amore; quali siano questi
comandamenti non si dice, ma certamente si conoscevano molto bene nella comunità dei credenti, cui è
rivolto il discorso. Comandamenti che anche noi dovremmo ben conoscere, ormai così assidui nell’ascolto
della Parola. L’amore di cui l’evangelista Giovanni ci parla non è pensato in modo romantico, ma molto
concreto (cfr 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici»).
«amate»: nell’originale greco Giovanni usa agapáō il verbo che nella Scrittura indica l’amore di Dio per
gli uomini. Lo stesso verbo è utilizzato anche in tutto il v. 21 che con il v. 15 forma ancora una inclusione.
La prima promessa appare dunque subito sotto una condizione senza la quale lo Spirito Santo neppure
viene: «se mi amate, custodite i comandamenti miei». Ripetuta al v. 23, anticipata in 8,31 ed insistita in
15,10 (vedi anche 21,23; 1 Gv 5,3; 2 Gv 6) la condizione è usata anche nel responsorio dell’alleluia
all’Evangelo: praticare la Parola da Lui portata e donata a tutti è la preparazione immediata alla Venuta del

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Figlio (Ap 3,20; Ct 5,2) il quale promette che venendo porterà con sè il Padre con il quale porrà in essi la
loro Dimora trasformante.
Osservare i comandamenti del Signore è l’invito che già risuona fin dall’inizio della creazione d’Israele
(lo Shemà Israel di Dt 6,4-17: «4Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il
Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti
stiano fissi nel cuore. 7Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando
camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. 8Te li legherai alla mano come un segno, ti
saranno come un pendaglio tra gli occhi 9e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
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Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà fatto entrare nella terra che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe
aveva giurato di darti, con città grandi e belle che tu non hai edificato, 11case piene di ogni bene che tu non
hai riempito, cisterne scavate ma non da te, vigne e oliveti che tu non hai piantato, quando avrai mangiato
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e ti sarai saziato, guàrdati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla
condizione servile. 13Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome. 14Non seguirete altri
dèi, divinità dei popoli che vi staranno attorno, 15perché il Signore, tuo Dio, che sta in mezzo a te, è un Dio
geloso; altrimenti l'ira del Signore, tuo Dio, si accenderà contro di te e ti farà scomparire dalla faccia della
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terra. Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa. Osserverete diligentemente i
comandi del Signore, vostro Dio, le istruzioni e le leggi che ti ha date»).
La predicazione profetica, la riflessione sapienziale, il canto dei Salmi non sono altro che un continuo
invito ad amare il Signore unico. L’amore deve essere fedele, aderire alla sua Volontà, essere grati che Egli
ama in tutto e che comanda di amare Lui e del medesimo amore amare il proprio prossimo (Lv 19,17-18:
«17Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti
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caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo,
ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore»).
vv. 16-17 Gesù si presenta implicitamente come «Paráclito», egli è il primo (cfr 1 Gv 2,1); lo Spirito che
lo sostituisce o, meglio, che continua la sua opera presso i discepoli è «un altro» Paraclito.
«e io pregherò...»: La preghiera del Signore per i discepoli che formano una comunione d’amore è
rivolta al Padre, e il Padre dona allora «l’altro Paraclito». Quando Giovanni termina il suo Evangelo (verso
il 96-98 d. C.?), ha già inviato la sua I Epistola. Ivi al cap. 2 avverte i suoi discepoli: «noi abbiamo un
Paraclito presso il Padre, Gesù Cristo il Giusto» (1 Gv 2,1).
Alcune versione antiche e poi Lutero tradussero paráklêtos con “consolatore”, per avere la sicurezza
individuale dell’assistenza divina. La versione così porta fuori strada. Il verbo greco parakaléô ha come
significato primario quello di chiamare, invocare in aiuto ad esempio Dio, e quello secondario è confortare
con parole, consolare, parlare benignamente. Il nome sostantivato Paráklêton (la nuova trad. CEI non
traduce ma ripropone il calco dal greco, secondo l’uso ormai consolidato dalla liturgia) significa
primariamente aiuto, difensore, patrono, avvocato. Con “Avvocato” tradussero con precisione le antiche
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versioni Veteres latinae (dalla fine del sec. 2°).
«Consolatore» è traduzione pallida ed errata del termine greco paráklétos il quale tende più verso il
senso di «uno che incoraggia alla testimonianza» (15,26-27). Abbiamo già detto infatti che il nostro termine
non deriva da paráklésis: consolazione che ha poco fondamento nell’Evangelo. Il termine «paráklétos» è
proprio di Giovanni; è un termine giuridico che designa colui che è «chiamato accanto» (cfr lat. ad-vocatus)
ad un accusato per difenderlo ed aiutarlo. In questo senso il termine è riferito da Giovanni a Gesù in 1 Gv
2,1 (Gesù è l’intercessore degli uomini presso il Padre); questo significato non vale nell’Evangelo, dove è
riferito allo Spirito non per indicare la sua funzione di avvocato presso Dio, ma la sua funzione di assistenza
ai credenti.
Assistenza che si rivelerà fruttuosa nella vita di tutti i credenti.
I fedeli di Cristo hanno così presso il Padre due “Paracliti”, Gesù stesso, e lo Spirito Santo. Hanno due
Avvocati invincibili presso il Padre, sia nel giudizio continuo al quale satana sottopone i fedeli, sia nel
giudizio finale.
Ora Cristo Risorto esercita la sua Avvocatura anzitutto ottenendo dal Padre di donare ai suoi fedeli il suo
divino Collega, lo Spirito Santo (Gv 14,15). Così conosciamo che dopo l’Ascensione la Parousía, Presenza
reale e non virtuale, del Risorto tra i suoi fedeli è lo Spirito Santo. Come conosciamo che lo Spirito Santo
precede, accompagna e segue e sostituisce Cristo (cf i Padri): lo Spirito Santo è anche lo Spirito della divina
Verità, Colui che rende efficace questa Verità tra gli uomini.
«Lo Spirito di verità»: in questo testo il Paráclito viene implicitamente identificato con lo Spirito, di cui
si parla spesso nella prima parte dell’Evangelo (cfr 1,32-33; 3,5-8.34; 4,23-24; 6,63; 7,39) e di cui si viene a
parlare nuovamente nel contesto della resurrezione (20,22) in relazione alla missione salvifica degli
apostoli. Sul Paráclito troviamo 5 testi, tutti nei «discorsi di addio», i già citati Gv 14,16-17; 14,26; 15,26-
27; 16,7-11; 16,13-15). È chiamato «Spirito di verità» (14,17; 15,26; 16,13) e «Spirito Santo» (16,26); sono
descritte le sue funzioni, principalmente quelle di insegnare e ricordare (14,26). L’insegnamento è sempre
nel suo nome (non è quindi un concorrente), il ricordo non è la semplice ripetizione di un fatto ma una
comprensione nuova e avanzata.
«il mondo non può ricevere»: lo Spirito viene per i discepoli, ma non per il mondo. C’è una
opposizione tra discepoli e mondo. Gesù si manifesta ai discepoli ma non al mondo (v. 19); così sarà pure
dello Spirito: i discepoli lo possiedono, il mondo no. La manifestazione di Dio opera sempre una «krisis»
(separazione). L’incapacità di accogliere lo Spirito deriva dal fatto che il mondo non vede e non riconosce:
il verbo vedere (theōréō) usato da Giovanni certamente indica uno sguardo attento, interessato; è uno
sguardo rivolto a realtà storiche visibili (per es. la vicenda storica di Gesù), tale da scoprire la realtà
profonda che in essa si nasconde.
Il verbo theōréō sottolinea l’apporto determinante dei sensi nella conoscenza, anche intellettuale. E
siccome il mondo desidera solo ciò che vede, non può vedere il Paraclito che non può essere visto con gli
occhi del corpo. In altre parole Gesù dice che il mondo non riesce a percepire lo Spirito nelle sue
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manifestazioni che pure sono reali, storiche, esteriori. Il motivo è la cattiva volontà e la mancanza di
affinità: il mondo non ha le disposizioni adatte per accogliere lo Spirito. La storia della salvezza (dobbiamo
dolorosamente constatare) è tutto un immenso, corale, continuo e terrificante rifiuto della Presenza operante
dello Spirito del Signore negli uomini. La salvezza come sta rivelando il Signore consiste proprio e solo
nella Dimora dello Spirito della Verità divina:
«presso»: la preposizione usata, pará, è usata spesso in greco con i verbi indicanti ospitalità: non la pura
permanenza in un luogo, ma accoglienza, ospitalità e comunione fra persone.
«in»: la preposizione (la più frequente di tutte, 2713 volte nel NT) denota l’interiorità della presenza
dello Spirito. L’assistenza dello Spirito non è esteriore ma interna ed invisibile (en humin).
Decisamente l’evangelista Giovanni non è per i toni sfumati, ama piuttosto le contrapposizioni; nel suo
modo di vedere il processo della fede, e quindi il comportamento dell’uomo di fronte alla rivelazione
(accettazione o rifiuto), non è attento alla complessità delle realtà umane e della storia (psicologia,
evoluzione, buona fede o altro). È drastico, sottolinea l’assoluta necessità di aprirsi a Dio e il rischio totale e
definitivo del rifiuto.
v. 18 «non vi lascerò orfani»: Gesù si paragona ad un padre, di cui i discepoli sono figli; è un uso
attestato nella tradizione rabbinica. Gesù stesso, nel contesto dell’ultima cena, aveva chiamato i discepoli
«figlioli» (teknia: 13,33).
«ritornerò»: il ritorno, di cui Gesù parla è in primo luogo la Resurrezione, anche se questo fatto è
rimediato alla luce di una presenza continua (l’esperienza delle apparizioni fu temporanea), che toglie per
sempre gli apostoli dallo stato di «orfani».
v. 19 Anche in questo versetto l’evento futuro, cui Gesù fa riferimento è la resurrezione. Il mondo non
potrà vedere Gesù perché non ha fede; egli ha in sè la vita, per questo risorgerà ed è il fondamento della
nuova vita dei discepoli.
v. 20 «In quel giorno »: questa espressione, nella letteratura profetica indica il tempo escatologico (cfr
Am 9,11; Os 2,20; Mt 24,36; ecc.); Giovanni per l’escatologia futura ha una sua propria formula:
«nell’ultimo giorno» (6,39). L’escatologia, futura nei profeti, diventa presente nel Signore Risorto.
«voi saprete (riconoscerete)»: quando avverrà questo, tra poco, si tratta dell’«ultimo giorno», allora lo
Spirito farà conoscere che Cristo sta nel Padre, con cui forma una Realtà Unica (cfr 17, 21.23). E la
reciproca dimora, lo stato finale della beatitudine divina promessa a tutti gli uomini, è resa così possibile.
v. 21 Il discorso è circolare e si chiude tornando all’inizio (cfr v. 15): il Signore ripete sotto altra forma il
rapporto tra comandamenti ed amore verso di lui. È il principio generale della vita cristiana: possedere e
conservare i suoi comandamenti, questi, e solo questo è amare lui (cfr. 1 Gv 5,3). L’amore per il Figlio è
trasformante; chi ama il Figlio diventa come il Figlio ed il Padre li amerà dello stesso amore. Come si è
detto già a proposito del versetto 15, con il quale il v. 21 fa inclusione, c’è un legame tra l’osservanza dei
comandamenti e l’amore. Giovanni non intende dire che l’amore di Dio sia condizionato dall’obbedienza
dell’uomo; egli concentra piuttosto l’attenzione sulla necessità di corrispondere all’amore del Figlio di Dio.
8/9 Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della VI Domenica di Pasqua Anno A
Poiché l’amore spontaneo di Dio si esprime nel dono del Figlio, se ci si allontana dal Figlio si rimane privi
dell’amore di Dio. Al contrario, chi ama il Figlio diviene una sola cosa con lui e sarà perciò oggetto
dell’amore del Padre, e non solo dell’amore del Figlio. Il nostro testo riguarda il presente e il futuro
dell’amore (agapàó ripetuto per 4 volte).
«Colui-che-mi-ama»: (ho agapón me) diviene quasi una nuova definizione del discepolo. Il passaggio
alla terza persona vuol fare dell’esperienza del discepolo un principio generale valido per tutti i cristiani, che
potranno così, vivendo essi stessi dell’amore trinitario, godere di una manifestazione speciale del Figlio.
«emphanízō»: (cfr. Gv 21,1), qui al futuro in parallelo con agapàó, è ben tradotto con «manifestare,
rendere visibile». Tale manifestazione denota pertanto una conoscenza che accompagna l’amore che supera
la sola dimensione fisica, per diventare esperienza globale della relazione interpersonale nella Trinità e nella
Chiesa.

II Colletta:
O Dio, che ci hai redenti nel Cristo tuo Figlio
messo a morte per i nostri peccati
e risuscitato alla vita immortale,
confermaci con il tuo Spirito di verità,
perché nella gioia che viene da te,
siamo pronti a rispondere
a chiunque ci domandi ragione
della speranza che è in noi.
Per il nostro Signore...

Lunedì 11 maggio 2020


Abbazia Santa Maria di Pulsano

Comunità monastica di Pulsano – Lectio divina della VI Domenica di Pasqua Anno A 9/9

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