Sei sulla pagina 1di 21

Pasqua di morte e vita

27 marzo 2005

A pochi mesi di distanza dalla tragedia dello Tsunami che ha causato decine di migliaia di vittime
Martini si interroga sulla presenza di Dio nella storia degli uomini e sui cataclismi.

Nella coscienza di molti le feste di Pasqua e di Natale si richiamano a vicenda: l'una, quella di
Natale, viene sentita come festa della nascita e della vita, l'altra, quella di Pasqua, come festa
della vittoria sulla morte.
Quest'anno per c' un motivo particolare per richiamare l'ultimo Natale, quello del 2004. Mentre
infatti erano ancora nell'aria gli echi dell'augurio di pace , proprio il giorno dopo Natale, il 26
dicembre scorso, si diffuse la notizia di un terribile maremoto, chiamato col nome giapponese di
tsunami, che con l'avanzare di un'enorme onda marina mieteva centinaia di migliaia di vittime in
diversi Paesi del continente asiatico. Le immagini di quei giorni sono ancora vive nella nostra
memoria: valanghe di acqua che si rovesciano per le strade trascinando ogni cosa e uccidendo
innumerevoli persone, feriti abbandonati a se stessi, genitori affranti che cercano invano i figli
scomparsi, bambini rimasti soli vittime della fame e della sete, persone private di ogni mezzo di
sostentamento, pericolo del diffondersi di epidemie. come se alla luce del Natale fossero
succedute improvvisamente tenebre orrende.
Dove era Dio? Se esiste, come ha permesso questo? Si sono chiesti molti a mano a mano che le
notizie della catastrofe ce ne mostravano un'immagine sempre pi distruttiva e crudele. Non
soltanto non c' stata in quella occasione una vittoria della vita, ma piuttosto lo spettacolo
tremendo di uno strapotere della morte. Tutti, credenti e non credenti, ci siamo sentiti interiormente
scossi e sconvolti. Le nostre certezze ci sono apparse fragili, dubbio e disperazione ci hanno
attanagliato lo spirito. L'urgenza di dare un aiuto a tanta povera gente priva di tutto ha per un po'
tacitato gli interrogativi pi profondi. Ma essi erano destinati a riemergere, perch il pensare e non
solo il fare la nostra condizione di vita.

Dove era dunque Dio? E se esiste, come pu permettere cose simili?


Le inevitabili domande di senso riguardo a tali eventi, e in particolare la domanda fatta a Dio o su
Dio, sono legittime. La Bibbia non ha neppure timore, in casi limite (vedi il libro di Giobbe e i Salmi)
di muovere accuse a Dio. Ma le nostre domande sono ben poste? Esse presuppongono di fatto
una visione del mondo radicata da millenni nel cuore dell'uomo e che si trova spesso anche
nell'inconscio di chi dice di non credere pi in Dio. la visione di un cosmo ordinato, sul quale il
Creatore veglia come un buon padre sui suoi figli per fa s che la natura riveli qualcosa della sua
bont. Se le cose non vanno in questo senso, un Dio cos posto in questione.
Ma oggi noi sappiamo, per scienza e per esperienza, che le cose non vanno cos. Tutto ci che
conosciamo del carattere evolutivo del cosmo contraddice a questo quadro idilliaco. Catastrofi e
cataclismi di ogni genere hanno caratterizzato lo sviluppo dell'universo fin dal primo momento.
L'evoluzione porter anche all'affermarsi di organismi sempre pi complessi, ma il prezzo pagato
alto. solo il fatto che noi siamo abituati a ragionare su tempi molto brevi che ci impedisce di
rifarci spontaneamente a una visione pi realistica dell'universo, dominato da forze gigantesche
che operano nei tempi lunghi e che non hanno sentimenti n di compassione n di piet.
Di qui si vede che il concetto di Dio che di solito ci facciamo con un ragionamento che parta dalla
considerazione dei tempi brevi della natura non adeguato alla complessit e ai tempi dello
sviluppo del cosmo.
piuttosto in un'altra direzione che ci invitano a cercare eventi come quello dello tsunami, tenendo
presente anche il fatto che un evento del genere, che pur ci appare catastrofico, non raggiunge la
drammaticit per esempio dei 6 milioni di bambini che muoiono ogni anno per fame. Se poi
pensiamo a tutta la malvagit che si rovescia sulla terra a opera della crudelt, della stupidit e
della perversione umana, c' da essere atterriti.
La soluzione pi semplice di fronte a tutto ci certamente quella di affermare che Dio non c'.
la lectio facilior, quella che sembra risolvere alla radice il problema, ma che lascia senza risposta
tante altre domande di senso.

Anche il credente scosso da simili eventi, ma spinto a cercare nel senso della lectio difficilior,
invertendo la rotta di una considerazione che parta dal cosmo o dalla cattiveria umana per una
considerazione che parta dalla verit profonda del cuore dell'uomo e dalla compassione che lo
muove. In questo si appoggia alla parola di uno dei primi discepoli di Ges che diceva: (I Lettera di
Giovanni, 4,12).

Il credente si domanda in particolare come si spiega quella tenace, coraggiosa, instancabile


resistenza al male e quella invincibile volont di vita che gli uomini hanno sempre espresso
durante la loro lunga storia sulla terra, e che anche in occasione dello tsunami ha suscitato
ovunque gesti straordinari di vicinanza e di bont, al di l di ogni etnia o religione. Nei viventi vale
certo l'istinto di sopravvivenza, ma nel vivente pensante che l'uomo tale principio si esprime
anche come speranza, come fiducia nella vita malgrado tutto. In esso il credente vede il sigillo
dello Spirito di Dio. Due parole caratterizzano questo atteggiamento. Sono quelle che danno il
titolo alla raccolta delle ultime lettere di Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel 1945. Esse sono
(nel tedesco ). Resistere al male fino alla fine, lottare contro il male con tutte le forze, come ha fatto
Ges nella sua vita pubblica. Ma insieme sapersi nelle mani di un Dio che ci ama, sapere che se
noi ci abbandoniamo a lui egli non ci abbandona. l'atteggiamento di Ges nella sua passione,
come abbiamo ricordato in questi giorni: (Luca, capp. 22 e 23).

Certamente va accettato, ed duro accettarlo, che anche l'immagine di un Dio amore non
incompatibile con la sofferenza e la morte. La presenza del male, sia di quello connesso con
l'evoluzione del cosmo, sia quello ancora pi drammatico della violenza scatenata dagli uomini,
non sono incompatibili con una immagine di Dio che ama l'uomo e lo chiama ad affidarsi a lui e ad
amare il prossimo come se stesso.

proprio ci che afferma la Pasqua che celebriamo in questi giorni: che la morte ignominiosa e
crudele di Ges addirittura la morte del figlio, di colui che sommamente amato dal Padre suo:
ma il mistero di Pasqua ci dice che questa morte non l'ultima parola. Essa culmina in una parola
di vita e di vittoria sulle forze della distruzione e del male.

Dunque il grido che caratterizza la Pasqua cristiana, l'annuncio (quello che i nostri fratelli ortodossi
si scambiano come augurio nel tempo di Pasqua, rispondendo ), anche l'ultima parola sulla
storia impietosa del cosmo e su tutte le tragiche vicende imposte dalla crudelt dell'uomo. Allora
anche le catastrofi naturali ci spingono a far s che la violenza che nel cuore dell'uomo sia vinta
da un senso pi forte di compassione e di piet.

Non pi violenza, non pi sopraffazione di un essere umano contro un altro essere umano.
questa la lezione che ci viene anche dal nuovo Museo della Sho, inaugurato pochi giorni fa a
Gerusalemme. il messaggio, tra molti, che ci giunge da una bambina ebrea di Milano, deportata
ad Auschwitz quando aveva tredici anni. Dopo avere sofferto umiliazioni e privazioni di ogni tipo,
nel momento in cui, al termine della prigionia, sarebbe stato facile vendicarsi uccidendo il
comandante del campo, ha gridato dentro di s: .
Benedetto il testimone della fede
22 maggio 2005

Con questo articolo il cardinale Martini saluta lelezione al soglio pontificio di Papa Joseph
Ratzinger avvenuta il 19 aprile 2005

La mia prima conoscenza con l'opera del cardinale Joseph Ratzinger rimonta alla fine degli anni
Sessanta. Erano anni di grandi turbolenze spirituali e culturali. Mi trovavo in ritiro in una casa
ospitale nella Selva Nera e cercavo di preparare una conversazione che avrei dovuto tenere in
Italia a un gruppo di sacerdoti. Mi aspettavo, come era d'uso a quel tempo, molte domande,
contestazioni, difficolt. Ero alla ricerca di un qualche libro che mi aiutasse a mettere gi le idee in
modo chiaro e sereno. Fu cos che ebbi tra le mani il testo tedesco della Introduzione al
Cristianesimo di Joseph Ratzinger, uscita poco prima (1968).
Ricordo ancora oggi il gusto con cui lessi quelle pagine. Mi aiutavano a chiarire le idee, a
pacificare il cuore, a uscire dalla confusione. Sentivo che venivano da qualcuno che aveva a lungo
meditato sul messaggio cristiano e lo esponeva con sapienza e dolcezza. Conservo ancora oggi
quegli appunti. Fu in particolare da quella lettura che ritenni il tema del forse vero con cui si
interroga l'incredulo, e che mi guid poi per realizzare la Cattedra dei non credenti.
In quel decennio avevo avuto un'altra occasione di incontrarmi, questa volta in maniera pi
personale, con l'allora professor Ratzinger. Mi trovavo a Mnster per una ricerca sulla critica
testuale, e partecipavo saltuariamente ad alcune altre lezioni nell'Universit. Fu cos che, alla
vigilia della festa del Corpus Domini, andai ad ascoltare una lezione del professor Ratzinger.
Aveva proprio come tema l'Eucaristia e l'adorazione eucaristica, e fece dei riferimenti alla grande
processione cittadina che si sarebbe tenuta il giorno seguente. Mi colp la pertinenza, la
delicatezza, la chiarezza e il coraggio delle sue asserzioni. Avevo davanti a me un grande
cattedratico che non temeva di fare dei riferimenti alla vita concreta e agli eventi di una Chiesa
locale.

Un terzo momento di conoscenza pi diretta fu durante il Sinodo sulla famiglia del 1980, di cui il
cardinale Ratzinger fu il relatore. Per un mese intero potei osservarlo nel l'aula sinodale, vedere
con quanta attenzione ascoltava i discorsi che si facevano e con quanta pertinenza interveniva e
rispondeva. Mi colp il fatto che, in un momento particolarmente delicato dei lavori sinodali,
confess con semplicit che, avendo lavorato fin tardi nella notte seguente, non era riuscito di fatto
a mettere insieme il testo che ci si aspettava, e cos chiedeva di rimandare il suo intervento. Non
sapevo se ammirare di pi la sua saggezza o la sua sincerit. Era stato molto prudente nel non
affrettare le conclusioni su un problema difficile e insieme aveva avuto il coraggio di riconoscere
che il gruppo di lavoro non era ancora riuscito a terminare il suo compito.

Quando egli divenne prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ebbi pi frequenti
occasioni sia di leggere i suoi scritti sia di frequentarlo nelle sessioni ordinarie della
Congregazione.
Potei cos ammirare maggiormente questo mio confratello nel l'episcopato che svolge un servizio
dottrinale e pastorale di grande rilievo accanto al Successore di Pietro. Egli impegnato a servire il
ministero di unit nella Chiesa universale in campo dottrinale. Un compito difficile, perch occorre
da una parte accettare e accogliere la molteplicit dei contributi in campo dottrinale che
pervengono dalle diverse aree del pensiero e della cultura: non si tratta infatti di ricondurre tutto a
un pensiero uniforme, ma di valorizzare le diversit. Dal l'altra occorre difendere la fede dalle sue
contraffazioni e mettere in guardia di fronte ai pericoli.

Si tratta di un compito arduo e difficile, a cui si pu rispondere solo con la riflessione, la preghiera,
la pazienza e l'ascolto. Bisogna anche accettare di dare tempo al tempo. Vi sono cose poco chiare
che si chiariranno, vi sono intenzioni recondite che verranno svelate. La Chiesa confida nella forza
dello Spirito Santo che sorregge i pastori e guida il senso di fede dei fedeli.

Il cardinale Ratzinger ha portato a esecuzione, come prefetto, il cambiamento intercorso nel


compito della Congregazione per la dottrina della fede, da un ruolo meramente difensivo a un ruolo
pi propositivo, voluto dalle norme di Paolo VI del 1965. Ci si trova cos di fronte a grandi sfide:
come articolare pluralismo e unit nella fede? Come garantire la promozione dell'inculturazione del
messaggio e al tempo stesso la comunione e la comunicazione fra i linguaggi in cui esso si
esprime? Qual il confine fra le esigenze della custodia del "depositum" e quelle
dell'incoraggiamento e della promozione, finalizzata a rendere l'annuncio percepibile nei diversi
orizzonti ermeneutici? Come aiutare i teologi senza dar loro l'impressione di sentirsi sotto tutela o
censura?

Mi sembra che la collocazione del cardinale Joseph Ratzinger di fronte al problema di questa
nostra svolta epocale dipenda anzitutto dalla sua fede e dalla sua rettitudine, in secondo luogo
dalla sua perizia teologica e dalla sua straordinaria capacit dialettica e infine anche, come per
ciascuno di noi, dalla sua biografia. Egli ha sperimentato, nelle universit tedesche degli anni
Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta, le conseguenze di atteggiamenti troppo disinvolti e facili,
in particolare degli studenti, verso le ricchezze della tradizione. Ha sentito personalmente la
durezza di una contestazione che partiva da premesse anche valide, come la riconduzione del
cristianesimo alla sua primitiva semplicit e povert e la preoccupazione per la giustizia, ma
rischiava di lasciarsi irretire da una parte dalla politica e dall'altra da un oblio e quasi da un
risentimento verso il cammino della grande tradizione e verso la sua saggezza.
Sono le preoccupazioni che ho letto con interesse e con attenzione critica soprattutto nei suoi libri,
diciamo cos, "di battaglia" o "di missione", derivanti da prediche o da interviste, dove esprime con
calore le sue convinzioni al di l dei complicati rivestimenti del linguaggio scientifico. Mi riferisco in
particolare al notissimo libro Rapporto sulla fede uscito nella prima met degli anni Ottanta.
Ricordo bene che ebbi occasione di rifletterci in particolare durante un viaggio in Africa, ripensando
ai diversi modi di dire il Vangelo nelle diverse culture e riflettendo, nel quadro di un corso di
esercizi spirituali che predicavo ai missionari, sui modi di parlare di Dio oggi, confrontati col
linguaggio parabolico di Ges.

Il tema della diversit dei linguaggi e del loro rapporto reciproco attraversa infatti tutta la storia
della Chiesa e richiede una continua attenzione per valutare, nei casi difficili, la continuit
dell'unica tradizione.
Il cammino della Chiesa lungo i secoli sempre stato percorso da fremiti dottrinali, da convulsioni
e insieme da aperture feconde, da slanci e da orizzonti nuovi. Ciascuno di noi cerca di capire e di
discernere per distinguere il vero dal falso, l'oro dalle scorie, e di servire cos la verit al meglio
delle proprie forze e della propria intelligenza, affidandosi infine al mistero di Dio che sempre pi
grande del nostro cuore e della nostra capacit di esprimerlo.

In questo contesto, la passione per la verit che Joseph Ratzinger ha testimoniato coerentemente
in tutti questi anni, va intesa come risposta al "debolismo" della post-modernit. significativa la
stima di cui Joseph Ratzinger gode anche fra uomini di cultura non credenti. Nello stesso tempo
non ci si pu aspettare che un'opera cos delicata riceva facilmente il plauso di tutti n che
vengano evitati casi dolorosi. Vi sono sempre stati casi difficili nella storia della Chiesa, e talora il
senno di poi ha mostrato che forse si sarebbe potuto procedere in altro modo. Ma il senno di poi
ato ai posteri, mentre ai contemporanei si richiede di agire ciascuno nel massimo della buona
coscienza e della competenza. In queste cose Joseph Ratzinger ci i modello e di stimolo.
Gerusalemme, oh cara
6 agosto 2006

Dopo le dimissioni da arcivescovo di Milano nel 2002 Martini si trasferisce Gerusallemme dove
resta fino al 2007 per i suoi amati studi biblici. Questo articolo una dichiarazione damore per
questa citt con la sua storia e i suoi contrasti

Considero Gerusalemme come il centro della storia umana, il centro del mondo. Non la considero
citt del conflitto - cos la vede spesso l'opinione pubblica - ma piuttosto citt della preghiera. Qui si
prega molto: al venerd pregano i musulmani, al sabato pregano molto gli ebrei e lo vivono
intensamente, la domenica pregano i cristiani. E ci sono poi tutte le altre festivit. pure citt del
dialogo, perch vi si dialoga molto, nonostante le apparenze di conflitto; citt dell'amore, perch
ci sono tanti gesti di amore e di attenzione reciproca. Quando un uomo ascolta la parola di Dio
diviene soggetto libero e operante, capace di grandi progetti e di abbracciare l'universo. Qui si
avverato questo miracolo attraverso tante grandi figure, come Davide, Isaia, Geremia; in questi
luoghi la Parola di Dio risuonata e si sono svolte vicende provvidenziali, volute da Dio, per la
riabilitazione e la liberazione completa dell'uomo. Naturalmente c' anche la realt del conflitto. (...)
Nel 1959 ho fatto il primissimo viaggio in Terra Santa, in Israele, ancora con l'occhio
dell'archeologo, cio cercando le rovine antiche. Ed ebbi in quell'occasione un'esperienza che mi
rimase molto impressa.
Stavamo visitando, non lontano da Gerusalemme, i grandi pozzi di El Gib, che sembra siano stati
scavati al tempo del re Salomone, pozzi profondi decine di metri. Erano stati riscavati dagli
archeologi, i quali vi avevano ammassato attorno un grande cumulo di terra, ricavato appunto dal
pozzo. Noi passammo lungo questo cumulo, facendo le fotografie. Ero l'ultimo e, probabilmente a
causa del peso degli altri, quando arrivai la terra cominci a franare e mi sentii rotolare dentro il
pozzo. Ebbi allora un pensiero molto chiaro: come bello morire qui in Terra Santa!
Questo pensiero mi diede una grande calma.
Senza agitarmi, misi le mani tranquillamente dentro la terra e a un certo punto rimasi fermo, al
limite dal cadere nel pozzo. Potei essere salvato da alcuni arabi che erano l vicino. Ricordo che la
macchina fotografica che portavo fu sbalzata via e l'orologio and a finire in mezzo alla strada.
Uscii dal pozzo quasi incolume e con l'idea che questa la mia terra. Ebbi un'intuizione molto
forte, quella stessa espressa nel 1986: ciascuno nato a Gerusalemme.

L'intuizione si rinnov nei viaggi successivi a Gerusalemme e ricordo che, contemplando dal
terrazzo di questa casa, alla sera, le mura della citt vecchia, mi dicevo: la mia citt, e qui verr
un giorno a vivere. Perci crebbe l'amore per questi luoghi e l'interesse anche per tutti i problemi
riguardanti la gente.

Fui mandato a Roma per studiare pi specificatamente e insegnare la Scrittura al Pontificio Istituto
Biblico e mi innamorai di quell'aspetto particolare del testo biblico che la storia dei manoscritti,
degli antichi papiri. Ancora oggi il mio lavoro, che ho ripreso dopo anni e anni di interruzione.
Quando sono davanti a un testo greco o ebraico, rimango completamente immerso e perdo il
senso del tempo. Mi pare che, pi ancora che attraverso le pietre, con i documenti risaliamo
indietro di 1700-2000 anni di storia e tocchiamo direttamente con mano le origini di quelle
comunit, le origini della fede cristiana. Sono tanti gli eventi di quel tempo, e ne ricordo due
riguardanti lo studio.

Il primo. Diventato rettore del Pontificio Istituto Biblico, venni pi spesso a Gerusalemme, cominciai
a tessere rapporti con l'Universit ebraica e incontrai allora personalit di grande rilievo; penso al
rettore, al professor Shemariau Talmon che ancora oggi mi onora della sua amicizia, al professor
Verbiowsky e molti altri. Definimmo insieme un programma secondo cui i nostri studenti di Roma,
preti in gran parte, religiosi e religiose, potevano venire a frequentare un semestre all'Universit di
Gerusalemme, con corsi validi per loro. Mi era sembrato il modo migliore per far conoscere il
mondo ebraico, la cultura, le tradizioni, anche il mondo scientifico.

Difatti quel programma dopo trent'anni funziona ancora e anche oggi partecipano al corso
numerosi studenti.
Il secondo evento interessante di essere stato chiamato, proprio in quegli anni, a far parte di un
comitato ristretto di cinque persone che - con la collaborazione di specialisti di critica testuale, di
filologia greca, di filologia aramaica, di storia delle traduzioni - si incaricava di una nuova edizione
critica del Nuovo Testamento greco, la quale avrebbe dovuto essere la base per le traduzioni in
800 lingue. Ero l'unico italiano e l'unico cattolico. Fu davvero bella quella collaborazione, perch,
pur essendo di diverse confessioni cristiane, ci ritrovavamo di fronte allo stesso testo praticamente
come se non esistessero differenze. Il lavoro cominciava al mattino, secondo l'uso protestante con
una preghiera su un testo biblico di circa mezz'ora, guidata a turno da uno di noi. Poi si
prendevano in considerazione le singole parole del Nuovo Testamento, una per una, e si discuteva
su ciascuna per un quarto d'ora, venti minuti, mezz'ora, un ora, fino a che ci trovavamo d'accordo
su quale forma delle varianti doveva essere scelta. Questo dur settimane e settimane, per cui
ebbi modo di imparare molto in quella compagnia e di constatare che le differenze confessionali
non contano di fronte al testo biblico. (...)

Fra i legami che mi congiungono con Gerusalemme non affatto da sottovalutare quello
dell'esperienza di sant'Ignazio. Come gesuita, avevo letto fin dal noviziato la Vita del santo, dove
racconta il suo proposito di vivere a Gerusalemme.

Stando qui, sento di obbedire a un impulso interiore, lo stesso di cui parla san Paolo nel suo
discorso agli anziani di Efeso: Avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ci che
l mi accadr. Ma avverto pure la continuit con sant'Ignazio che nel 1500 venne qui e
desiderava fortemente fermarsi in questa citt, proprio per amore del Signore Ges e dei misteri
della sua Passione, morte e risurrezione, che voleva venerare da vicino. Il suo sogno si avverato
almeno per me e per la piccola comunit di gesuiti che vive a Gerusalemme.
Io, Welby e la morte
21 gennaio 2007

Piergiorgio Welby affetto di distrofia muscolare progressiva Nel settembre 2006 invia una lettera
aperta al presidente della Repubblica chiedendo il riconoscimento del diritto allEutanasia. La sua
vicenda diventa un caso mediatico. Il 20 dicembre 2006 dopo lultimo saluto a parenti e amici,
viene staccato il respiratore che lo tiene in vita, secondo la sua volont. Il vicariato di Roma non
concede il permesso per i funerali secondo il rito religioso. Questa la posizione del cardinale
Martini su questa delicata e toccante vicenda.

Ripubblichiamo questo articolo che il cardinale Carlo Maria Martini aveva scritto sulle pagine della
Domenica del Sole 24 Ore durante il caso Welby

Con la festa dell'Epifania 2007 sono entrato nel ventisettesimo anno di episcopato e sto per
entrare, a Dio piacendo, anche nell'ottantesimo anno di et. Pur essendo vissuto in un periodo
storico tanto travagliato (si pensi alla Seconda guerra mondiale, al Concilio e postconcilio, al
terrorismo eccetera), non posso non guardare con gratitudine a tutti questi anni e a quanti mi
hanno aiutato a viverli con sufficiente serenit e fiducia. Tra di essi debbo annoverare anche i
medici e gli infermieri di cui, soprattutto a partire da un certo tempo, ho avuto bisogno per reggere
alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti. Di questi medici e infermieri ho sempre
apprezzato la dedizione, la competenza e lo spirito di sacrificio.
Mi rendo conto per, con qualche vergogna e imbarazzo, che non a tutti stata concessa la
stessa prontezza e completezza nelle cure. Mentre si parla giustamente di evitare ogni forma di
"accanimento terapeutico" , mi pare che in Italia siamo ancora non di rado al contrario, cio una
sorta di "negligenza terapeutica " e di "troppo lunga attesa terapeutica". Si tratta in particolare di
quei casi in cui le persone devono attendere troppo a lungo prima di avere un esame che pure
sarebbe necessario o abbastanza urgente, oppure di altri casi in cui le persone non vengono
accolte negli ospedali per mancanza di posto o vengono comunque trascurate. un aspetto
specifico di quella che viene talvolta definita come "malasanit" e che segnala una discriminazione
nell'accesso ai servizi sanitari che per legge devono essere a disposizione di tutti allo stesso
modo.
Poich, come ho detto sopra, infermieri e medici fanno spesso il loro dovere con grande dedizione
e cortesia, si tratta perci probabilmente di problemi di struttura e di sistemi organizzativi. Sarebbe
quindi importante trovare assetti anche istituzionali, svincolati dalle sole dinamiche del mercato,
che spingono la sanit a privilegiare gli interventi medici pi remunerativi e non quelli pi necessari
per i pazienti, che consentano di accelerare le azioni terapeutiche come pure l'esecuzione degli
esami necessari.
Tutto questo ci aiuta a orientarci rispetto a recenti casi di cronaca che hanno attirato la nostra
attenzione sulla crescente difficolt che accompagna le decisioni da prendere al termine di una
malattia grave. Il recente caso di P.G. Welby, che con lucidit ha chiesto la sospensione delle
terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un
ventilatore automatico, senza alcuna possibilit di miglioramento, ha avuto una particolare
risonanza. Questo in particolare per l'evidente intenzione di alcune parti politiche di esercitare una
pressione in vista di una legge a favore dell'eutanasia. Ma situazioni simili saranno sempre pi
frequenti e la Chiesa stessa dovr darvi pi attenta considerazione anche pastorale.
La crescente capacit terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un
tempo impensabili. Senz'altro il progresso medico assai positivo. Ma nello stesso tempo le nuove
tecnologie che permettono interventi sempre pi efficaci sul corpo umano richiedono un
supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano pi alla
persona.
di grandissima importanza in questo contesto distinguere tra eutanasia e astensione
dall'accanimento terapeutico, due termini spesso confusi. La prima si riferisce a un gesto che
intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte; la seconda consiste nella rinuncia ...
all'utilizzo di procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo
(Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico non
si vuole ... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire (Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 2.278) assumendo cos i limiti propri della condizione umana mortale.
Il punto delicato che per stabilire se un intervento medico appropriato non ci si pu richiamare
a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre
un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei
soggetti coinvolti. In particolare non pu essere trascurata la volont del malato, in quanto a lui
compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure
che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravit, sono effettivamente proporzionate.
Del resto questo non deve equivalere a lasciare il malato in condizione di isolamento nelle sue
valutazioni e nelle sue decisioni, secondo una concezione del principio di autonomia che tende
erroneamente a considerarla come assoluta. Anzi responsabilit di tutti accompagnare chi soffre,
soprattutto quando il momento della morte si avvicina. Forse sarebbe pi corretto parlare non di
sospensione dei trattamenti (e ancor meno di staccare la spina), ma di limitazione dei
trattamenti. Risulterebbe cos pi chiaro che l'assistenza deve continuare, commisurandosi alle
effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure
infermieristiche. Proprio in questa linea si muove la medicina palliativa, che riveste quindi una
grande importanza.
Dal punto di vista giuridico, rimane aperta l'esigenza di elaborare una normativa che, da una parte,
consenta di riconoscere la possibilit del rifiuto (informato) delle cure - in quanto ritenute
sproporzionate dal paziente - , dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (come omicidio del
consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione
dell'eutanasia. Un'impresa difficile, ma non impossibile: mi dicono che ad esempio la recente legge
francese in questa materia sembri aver trovato un equilibrio se non perfetto, almeno capace di
realizzare un sufficiente consenso in una societ pluralista.
L'insistenza sull'accanimento da evitare e su temi affini (che hanno un alto impatto emotivo anche
perch riguardano la grande questione di come vivere in modo umano la morte) non deve per
lasciare nell'ombra il primo problema che ho voluto sottolineare, anche in riferimento alla mia
personale esperienza. soltanto guardando pi in alto e pi oltre che possibile valutare l'insieme
della nostra esistenza e di giudicarla alla luce non di criteri puramente terreni, bens sotto il mistero
della misericordia di Dio e della promessa della vita eterna.
L'identit che nasce dalla terra
14 febbraio 2007

Terra santa e spazio creato da Dio per luomo. Le riflessioni di Martini in quessto articolo si
spostano dalle citazione bibliche ai tempi nostri e al senso della vita

Chi va acquistando una certa familiarit con la Bibbia si rende presto conto dell'importanza che in
essa viene attribuita alla terra. Questa parola designa, in senso generale, lo spazio creato da Dio
per l'uomo, e in senso particolare la striscia di terra abitata un tempo dai Cananei, promessa poi
ad Abramo al momento della sua chiamata, divenuta in seguito dopo lunghi secoli il luogo di
residenza e la patria degli Ebrei, e infine l'oggetto di conquiste successive a opera di vari popoli.
Questa porzione di terra, chiamata anche Terra Santa, o Palestina, o Israele, una
presenza stabile lungo l'intera narrazione biblica.
Si comincia dai primi capitoli della Genesi, con la creazione e l'organizzazione della terra abitata
dall'uomo. Ma soprattutto a partire dalla vocazione di Abramo che il tema diventa di interesse
preminente. Dio promette al patriarca una terra da abitare, per lui e per la sua discendenza. Ci si
deve mettere pazientemente all'ascolto dei libri sacri, per tentare di percepire il filo rosso che
indica il significato dello spazio in cui Dio pone l'uomo, e in particolare dello spazio in cui pone il
popolo eletto. Cos, per esempio, si pu constatare come negli ultimi libri storici il tema terra perda
la sua importanza, a vantaggio della citt di Gerusalemme, che dopo l'Esilio babilonese viene
proposta come centro del culto.
In effetti l'Esilio costituisce un grande periodo di prova, durante il quale si elabora una sensibilit
rinnovata nei confronti del significato della terra. Questa sensibilit si esprime con originalit in un
nuovo modo di concepire la vita come fedelt alla Torah. Questa maniera di definirsi rester viva
ed efficace nella memoria e nella prassi del popolo ebraico fino al giorno d'oggi. La missione del
popolo diventa cos di giorno in giorno pi chiaramente quella di rendere testimonianza dinanzi alle
nazioni. A partire dall'Esilio, la centralit della terra, con la sua sovranit e con frontiere ben
delimitate, non pi percepita allo stesso modo di prima.

Nei libri dei Maccabei compare appunto qualcosa di simile. L'accento viene messo piuttosto sulla
pratica e la purezza del culto che sulla sovranit e le frontiere di Israele. Altri libri, come Ester e
Tobia, descrivono un modo di vivere in terra straniera, lontano dalla patria e dal tempio, che
tuttavia rimane fedele alla Torah e alle pratiche religiose ebraiche.

Marchadour e Neuhaus non passano sotto silenzio i testi problematici, che si trovano soprattutto
nei libri storici, e che esprimono una violenza estrema contro i popoli conquistati. In alcuni di questi
passaggi Dio stesso che sembra richiedere questi atti violenti. Il libro sottolinea l'importanza
dell'approccio storico-critico, letterario e teologico, allo scopo di disinnescare la violenza potenziale
dei testi e di impedirne l'utilizzazione come giustificazione della violenza ai nostri giorni.
Nei libri sapienziali l'accento viene posto sull'universale piuttosto che sul particolare. A differenza
dei libri storici, che trattano delle vicende contingenti di Israele, la letteratura sapienziale si
interessa all'esperienza umana, valida in tutti i tempi e in tutti i Paesi. La terra naturalmente
presente in questi scritti, come spazio in cui l'uomo vive e rispetta la Legge e i precetti della
ragione e del senso comune. Qui il particolare cede il posto all'universale. Il libro di Giobbe parla di
un uomo che certamente non un figlio di Israele, e lo pone in relazione diretta con Dio e di fronte
al problema del male, senza nessun rapporto con la questione particolare della terra.

Nella ricca diversit dei Salmi si trova un riflesso della specificit della terra in cui sono stati
composti. Ma ci che appare ancor pi importante la dimensione globale della norma divina e, in
prospettiva, la vocazione di Gerusalemme e del tempio a promuovere l'universalit della legge di
Dio. Qui si manifesta inoltre una svalutazione del tema della sovranit politica, in favore della
pratica del culto e della Legge, nonch della centralit di Gerusalemme e del tempio.
Anche nel messaggio dei profeti appare qualcosa di simile: in particolare gli ultimi profeti
dell'elenco canonico, Aggeo, Zaccaria e Malachia, che scrivono dopo l'Esilio babilonese,
concentrano le loro profezie su Gerusalemme, chiamata a diventare una citt della fedelt e un
monte santo (Zc 8,3). Le promesse della restaurazione della terra prendono allora proporzioni
cosmiche: non si tratta pi semplicemente di uno spazio geografico da ristabilire, ma di una vera e
propria nuova creazione, che rinnova la creazione primitiva. Allora, l'intera superficie della terra
diviene per la persona umana uno spazio privilegiato per la relazione intima con Dio.

Il dinamismo presente nei vari libri si apre a tutta l'umanit, di cui Israele in un certo senso il
rappresentante. L'intero genere umano viene di fatto chiamato a vivere la filiazione divina, e l'intera
terra diviene lo spazio concesso per vivere questo rapporto filiale. Ma rimane intatta la fedelt
divina alle promesse antiche, nelle quali si assegnava uno spazio geografico ben preciso al popolo
ebraico, anche se quest'ultimo non rimane legato strettamente alle proprie frontiere.

I problemi attuali dipendono dall'interpretazione di questi antichi passaggi, alla luce degli sviluppi
posteriori: si tratta solamente di un orizzonte spirituale pi ampio concesso a uno spazio
geografico che rimane per ben determinato? O invece questi sviluppi permettono una nuova
attribuzione di significato a quello spazio geografico? Intorno a questo dilemma, molte violenze si
sono scatenate, molte ingiustizie sono state commesse, molte ferite restano ancora aperte, tanto
profonde da sembrare quasi inguaribili.

Non si parla qui dello Stato d'Israele, con la sua legittimit ad esistere, n del diritto del popolo
palestinese a possedere la propria terra e ad avere una propria patria. Ci che in gioco
l'interpretazione di questi fatti, e dunque la proporzione di sacralit o di laicit con la quale
possono essere presi in considerazione.

Nel Nuovo Testamento, assieme alla continuit con il passato, appaiono anche elementi di novit,
tendenti a una maggiore spiritualizzazione della terra. la resurrezione di Ges che costituisce il
punto decisivo della Storia. La vittoria di Ges sulla morte conferisce un nuovo significato alla terra
d'Israele. La apre a una dimensione universale, nella quale tutte le nazioni sparse sulla superficie
del globo vengono chiamate a diventare a loro volta Terra Santa. Ancora meglio, per i cristiani
Ges assume nella sua persona tutta la storia sacra, e dunque anche la relazione tra terra e
alleanza. La terra dell'alleanza si concretizza nel regno di Cristo, che si estende al di l di tutte le
frontiere: Beati i miti, perch erediteranno la terra (Mt 5,5).
La Pasqua, un segno di speranza anche per chi non crede
5 aprile 2007

Per la Pasqua del 2007 Martini scrive questo articolo in cui incita e invita ad aprire il cuore alla
speranza tutte le persone curvate dal peso della vita.

Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di
salute) nella vita, la Pasqua collegata con rappresentazioni pi complesse. una vita passata
attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta. Perci se il
Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera
di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero pi nascosto e difficile.
Ma la nostra esistenza, al di l di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno
dell'oscuro e del difficile. Penso soprattutto in questo momento ai malati, a coloro che soffrono
sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e
anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile senectus ipsa morbus
(la vecchiaia per natura sua gi una malattia). Penso insomma a tutti coloro che sentono nella
carne o nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e fragilit umana: essi sono
probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo.
Mi appare significativo il fatto che Ges nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei
malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunit di Efeso ricordi il dovere di soccorrere i
deboli.
Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche
per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per
tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che (ingannevolmente) quella dello "star
bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che
vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori. Vorrei che il
saluto e il grido che i nostri fratelli dell'Oriente si scambiano in questi giorni Cristo risorto,
Cristo veramente risorto percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati,
nelle celle delle prigioni, vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche nelle persone che si
trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso
si incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita
interiormente.
La domanda che mi faccio : che cosa dice oggi a me anziano, un po' debilitato nelle forze, ormai
in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, questa Pasqua 2007? E che cosa potrebbe dire
anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza?
Anzitutto questa Pasqua dice a me che le sofferenze del momento presente non sono
paragonabili alla gloria futura che dovr essere rivelata in noi (San Paolo, Lettera ai Romani,
8,18).

Queste sofferenze sono anzitutto quelle del Cristo nella sua passione, per cui sarebbe difficile
trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche
tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull'umanit, causate o dalla cecit della
natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini. Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la
resistenza interiore, che non c' proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con
fiducia.

In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai
Corinti: Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo,
quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra
tribolazione ci procura una quantit smisurata ed eterna di gloria, perch noi non fissiamo lo
sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle
invisibili sono eterne. (2Corinti 4,16-18).
cos che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a gemiti della
creazione, come a doglie del parto (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo pi bello e
definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione
di speranza. Perch, come dice ancora san Paolo nella speranza noi siamo salvati. Ora, ci che
si spera, se visto, non pi speranza (ivi, 8,24). Sperare cos pu essere difficile, ma mi pare
questa la via che ci permette di non rimanere schiacciati dai mali di questo mondo. Ed una via
tracciata da Dio stesso che vuole stare dalla nostra parte e che promette all'uomo la vita per
sempre.

Pi difficile per per me l'esprimere che cosa pu dire la Pasqua a chi non partecipa della mia
fede ed curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in
cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la
sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ci che seguir. Vedo cos che c'
dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama speranza contro ogni speranza (ivi,
4,17), cio una volont e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si capito il
senso di quanto avvenuto. cos che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacit di
ripresa che ha del miracoloso.

Si pensi a tutto quanto stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due
anni fa o dopo l'inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal
nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole della ventottenne Etty Hillesum, scritte il 3
luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: Io guardavo in faccia la nostra
distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava gi in molti
momenti ordinari della nostra vita quotidiana. questa possibilit che io ho incorporato nella
percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia
vitalit... La possibilit della morte una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ci la mia
vita ha acquistato una nuova dimensione.

Uomini e donne cos richiamano l'immagine del Salmo: Nell'andare se ne va e piange, / portando
la semente da gettare, /ma nel tornare viene con giubilo, / portando i suoi covoni (Sal 126,6).
Per queste cose non ci si pu affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento
tecnico. Ma al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni, anche se il suo
impegno pu testimoniare quella solidariet umana che l'auspicabile orizzonte di tutto il suo
dinamismo.

L'interrogativo pi radicale invece sul senso di quanto sta avvenendo e pi ancora sull'amore che
dato di cogliere anche in tali frangenti. C' qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno
di vita anche nella debolezza, che mi dice, io sono la vita, la vita per sempre? O almeno c'
qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto?
cos che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei
malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze
che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra pi forte della
morte ed cos che tutti ci auguriamo di coglierla.
Amo il latino, per...
29 luglio 2007

Un articolo sul Concilio Vaticano II e la messa in latino, denso di ricordi con una chiusa che sa di
testamento

Avendo raggiunto il traguardo degli ottant'anni, posso dire di avere vissuto per almeno
trentacinque anni l'antica liturgia, quella in uso prima del Concilio Vaticano II, tutta rigorosamente
in latino, con i suoi cinquantadue brani di Vangelo domenicali che si ripetevano ogni anno, dando
occasione a una predica per lo pi non molto diversa da quella dell'anno precedente.
L'antico rito stato quindi quello della mia Prima Comunione, delle incipienti esperienze di
chierichetto, dei contatti con la Parola di Dio offerta dalla liturgia. stato il rito della mia
ordinazione sacerdotale, delle mie Messe, dei sacramenti ricevuti. nel quadro di questo rito che
iniziato e si sviluppato quel contatto col divino che porta a riconoscere in Colui che chiamiamo
Dio il mistero ineffabile e indisponibile, quello che ci sovrasta da ogni parte, ci avvolge, ci penetra,
ci vivifica e ci fa presentire una santa vicinanza.
Anche il latino non mi ha mai fatto problema. Da bambini, soprattutto nelle risposte della Messa e
in quei canti che tutta la gente conosceva, lo storpiavamo con naturalezza e con disinvoltura
(come ricordava in uno scritto dell'epoca monsignor Francesco Olgiati, uno dei fondatori della
Universit Cattolica del Sacro Cuore, citando la storpiatura di un conosciutissimo canto che diceva
Procedenti ab utroque compar sit laudatio cos: Accidenti come trotta il caval del sor Laudazio).
Ma ben presto cominciai a imparare questa lingua e a scoprire con gioia i significati reconditi di
quanto cantavamo con fervore: perch ce la mettevamo tutta e l'entusiasmo e la gioia non
mancavano! L'insieme di tali celebrazioni aveva una qualit che non derivava tanto dai testi, che la
gente non capiva, ma dalla dedizione personale e gratuita di chi vi partecipava.
Il latino divenne poi, nei giorni dell'adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche
di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficolt a predicare in questa lingua. A Milano, nella
Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festivit. Perci ho visto con rammarico il
decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello
ardente e un po' ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum Sapientia
per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di
Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano.
Avrei quindi le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la
Messa con l'antico rito. Ma non lo far, e questo per tre motivi.
Primo, perch ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la
comprensione della liturgia e della sua capacit di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura
molto pi abbondante rispetto a prima.
Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell'esercizio pratico della liturgia rinnovata, ma non mi
pare tanti presso di noi. Del resto, lo dir per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum.
Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di
ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale.
In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dal l'insieme di quel
tipo di vita cristiana cos come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di
libert e di responsabilit da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5,
1-17. Sono assai grato al Concilio Vaticano II perch ha aperto porte e finestre per una vita
cristiana pi lieta e umanamente pi vivibile. Certo, c'erano anche allora dei santi, e ne ho
conosciuti. Ma l'insieme dell'esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che d
un sapore in pi alla quotidianit, di cui si potrebbe fare anche a meno ma che d pi colore e vita
alle cose.
In terzo luogo, pur ammirando l'immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno
di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l'importanza di una comunione
anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l'adesione di tutti al
mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprender
come il vescovo fa gi fatica a provvedere a tutti l'Eucaristia e non pu facilmente moltiplicare le
celebrazioni n suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei
singoli.
Ricavo come valido contributo del Motu proprio la disponibilit ecumenica a venire incontro a tutti,
che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero.
Ma siamo diventati un popolo di razzisti?
11 novembre 2007

Qui Martini recensisce il libro della giornalista scrittrice Rula Jebreal L'Italia vista con gli occhi dei
suoi immigrati

Ho sempre pensato come italiano di appartenere a uno dei popoli meno razzisti della terra e
questo per motivi storici, culturali, religiosi, eccetera. Questo non vuol dire che quando accade un
episodio gravissimo di violenza, soprattutto da parte di immigrati irregolari, non si alzi un coro di
voci per deprecare quanto avvenuto e per invocare pi rigorose misure di sicurezza. Come dice il
Salmo, siamo ben convinti che nei momenti di transizione, quando non sono tenuti saldamente in
mano, emergono i peggiori tra gli uomini (Sal 12,9). Ma nell'insieme abbiamo una visione degli
altri popoli che non avrei esitato a qualificare come non razzista.
Ora tuttavia la mia sicurezza si incrinata leggendo le interessanti interviste di Rula Jebreal
pubblicate sotto il titolo signficativo Divieto di soggiorno. Ecco quanto afferma per esempio un
immigrato che pure si pu considerare un caso riuscito di integrazione, essendo oggi impegnato
in politica e con un insegnamento universitario: Gli italiani provano indifferenza verso tutto ci che
diverso, hanno una sorta di pigrizia mentale, una mancanza di volont di comprendere
l'immaginario altrui.
Come pu questo giudizio andare d'accordo con la scontata affermazione di un altro immigrato
riuscito: Gli italiani sono brava gente. I media, la televisione, continuano a parlare di conflitto tra
stranieri e italiani, ma la realt di tutti i giorni diversa. Quando hanno a che fare con te
direttamente, nel rapporto faccia a faccia, gli italiani si comportano bene, come con un loro pari?
Probabilmente c' un po' di verit in entrambi i giudizi. Ma tutto ci mette in luce la gravit e
l'urgenza del problema affrontato nel libro di Rula Jebreal, cio quello dell'integrazione ben
regolata di milioni di immigrati, oggi e tanto pi nel futuro.
Possiamo infatti parlare di un problema minaccioso che si sta affacciando ai confini dell'Europa e
rischia di causare una forte divisione, una spaccatura di animi e di intenti. Non v' luogo, per
quanto piccolo e nascosto, che potr venir risparmiato da questa prova. Essa consister nella
nostra capacit di vivere insieme come diversi, non solo di lingua, di cultura, di abitudini, di
religione, ma anche differenti nelle sensibilit inconsce, nelle simpatie o antipatie, nel modo di
concepire la giornata e la vita
Qualcosa di simile si sempre avuto nella storia dell'umanit, ma lo stare gomito a gomito con un
numero crescente di "diversi" sta diventando un fatto che sempre pi condizioner la nostra vita
quotidiana e il nostro lavoro.

Ad esso si pu reagire in vari modi: o deprecando il fatto che non sia ormai possibile fare a meno
di chi viene a turbare la nostra quiete e preoccupandosi di stabilirgli delle zone in cui egli ci utile
o addirittura necessario e altre in cui vogliamo essere lasciati in pace; o demonizzando la sua
cultura e le sue tradizioni, curando di lasciar entrare tra noi il meno possibile della identit di
queste persone. In ogni caso anche un atteggiamento che possa essere definito "buonista", ma
nasca da uno spirito seccato e un po' malmostoso, tende a chiudere queste persone in ghetti che
a lungo andare diventano pericolosi focolai di malumore e di ribellione. Si prospetta cos il
fantasma di un "clash of civilations" (scontro di civilt) che alcuni ritengono far parte di un
inevitabile futuro del mondo europeo.

Eppure sono convinto che non solo possibile e doveroso fare di tutto per evitare questo "scontro
di civilt" , ma che occorre dimostrare che noi cresciamo e maturiamo proprio nel "confronto col
diverso". Ci avviene quando esso visto non soltanto come accettazione necessaria di un fatto
inevitabile e neppure come semplice tolleranza e rispetto per le abitudini altrui, purch non siano
offensive del bene comune, e neppure come volont di assimilazione o di conversione. C' al di
sotto di tutto un dovere reciproco di vivificarci e stimolarci a vicenda vivendo quegli atteggiamenti
di rispetto, di gratuit, di non preoccupazione del proprio tornaconto o della propria fama, di
accoglienza e perdono, che caratterizzano ad esempio il discorso della montagna di Ges (Matteo
capitoli 5-7) e che sono capiti da tutti e utili a tutti.

C' poi un discorso ancora preliminare a questo, e il libro di Rula Jebreal ci aiuta a entrare nella
dimensione giusta: quella di non giudicare e di non condannare subito, ma anzitutto di ascoltare
con simpatia e cercare di comprendere con oggettivit l'esperienza e la storia dell'altro.
Questo libro presenta una dozzina di interviste a persone straniere venute in Italia per i pi diversi
motivi. Alcune sono riuscite a inserirsi con soddisfazione nel nostro tessuto sociale, altre invece
hanno fallito. Particolarmente commovente la storia della piccola prostituta Olga, che non vede
l'ora di ritornare a casa dopo aver sfruttato la situazione e essersi lasciata sfruttare fino alla perdita
di ogni senso della dignit umana.

Rula Jebreal scrive come una vera giornalista, che sa raccontare e coinvolgere ma senza inserire
le proprie emozioni o forzando il discorso. Ci insegna che occorre soprattutto cercare di capire,
ascoltare, comprendere le motivazioni e le situazioni: solo dopo possibile vedere il da farsi. Ci
auguriamo di essere in molti a capire questa lezione di giornalismo e di vita, cos che il peso di
questa inevitabile transizione verso una nuova societ, quasi un nuovo "meticciato", diventi non
solo pi sopportabile per tutti, ma sia fonte di nuove scoperte sulla ricchezza della nostra umanit.
Preghiere per l'autenticit
2008

Martini commenta un libro di fotografie e parla di induismo, di cristianesimo e di pace interiore per
chi percorre con autenticit lesperienza religiosa

Nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondit dei
miti e con i penetranti tentativi della filosofia; essi cercano la liberazione dalle angosce della nostra
condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in
Dio con amore e confidenza (Nostra Aetate). Chi percorre questa via con autenticit e vera
rinuncia a s e anche ai frutti della propria azione pu provare un po' di quella pace interiore e
quella serenit che parecchie delle immagini di questo libro lasciano traspirare e in qualche modo
trasmettono a chi le contempla.
Nel buddismo viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna
una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di
liberazione perfetta o di intervenire allo stato d'illuminazione suprema sia per mezzo dei propri
sforzi sia con l'aiuto venuto dall'alto (NA). Il contatto che ho avuto nel lontano Oriente con
persone che sinceramente hanno percorso questa via mi ha fatto sentire come, pur nella diversit
di linguaggio, ci fosse in noi qualcosa di comune che toccava le profondit della persona.
I musulmani adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del
cielo della terra, che ha parlato gli uomini. Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai
segreti nascosti di Dio, come si sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si
riferisce (NA, 3). bello incontrare credenti islamici devoti, leali e sinceri servitori della pace e
della mutua intesa. La loro vita lascia trasparire una sottomissione a Dio che edifica e incoraggia.
(...)
Ritornando alla considerazione di tutte le religioni in generale, riconosciamo come esse si
sforzano di superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cio delle
dottrine, nei precetti di vita e dei riti sacri (NA 2). Perci la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto
vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire di vivere,
quei precetti quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscono da quando essa stessa
crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verit che illumina tutti gli
uomini (NA, 2). Anche se essa annuncia ed tenuta ad annunciare incessantemente Cristo che
la via la verit e la vita, in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha
riconciliato a s tutte le cose (NA, 2) tuttavia essa riconosce il sincero sforzo di tutti coloro che
camminano nella via dell'autenticit.
Di conseguenza ci sentiamo chiamati a riconoscere, conservare e a far progredire ovunque i beni
spirituali e morali e i valori socio-culturali che si trovano nelle varie espressioni religiose. E non
possiamo non invocare Dio come Colui che vuole essere il Padre di tutti e per questo dobbiamo
comportarci da fratelli verso tutti gli uomini che sono creati a immagine di Dio. Viene perci tolto il
fondamento a ogni teoria o prassi che introduce tra uomo a uomo, tra poco e popolo,
discriminazioni in ci che riguarda la dignit umana e i diritti che ne promanano.(...) Tra i valori
propri a ogni religione ve n' uno che espresso in molte delle immagini di questo libro e a cui
abbiamo gi accennato parlando della Bibbia, ed "la preghiera". Tale atteggiamento, che pu
andare dal raccoglimento personale e dall'estasi solitaria fino alle liturgie intensamente partecipare
e alle grandi celebrazioni di massa, tipico di ogni religione, pur nella estrema variet delle sue
manifestazioni.
L'uomo religioso prega, prega ovunque e sempre, anche se la preghiera rimane un grande
mistero. Infatti con la preghiera si parla a qualcuno che non si vede e non si sente, di cui non si
percepisce per lo pi la risposta.
Per questo chi non conosce il mistero della preghiera la vede come un parlare nel vuoto, come di
fronte a un muro. Ma chi mosso interiormente dallo Spirito (anch'esso grande mistero) sa che la
sua parola ascoltata e riceve in qualche modo una risposta. Per questo la preghiera spesso
procura beatitudine e gioia, come appare dal volto di numerosi oranti in queste fotografie. Ma la
preghiera pu anche essere lotta, aridit, agonia, combattimento. Essa trova allora la sua
immagine nell'episodio di Giacobbe al guado del torrente Yabbok, dove un uomo lott con lui fino
allo spuntare dell'aurora e si sent dire da quest'uomo misterioso: Non ti chiamerai pi
Giacobbe, ma Israele, perch hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto (Genesi 32, 25-
29).
La preghiera dunque la caratteristica di ogni uomo religioso. Essa consiste nell'invocare con
fiducia il nome di Dio, nell'innalzare la mente a Lui. La letteratura religiosa di ogni tempo piena di
splendide preghiere alla divinit, preghiere che invitano al raccoglimento e alla pace interiore e
comunitaria.(...)

Perci, ritornando al contenuto in queste fotografie, vediamo come la pace deriva direttamente da
ogni vera religiosit. Le religioni possono fare molto per la pace e per questo debbono conoscersi,
aiutarsi, fermentarsi a vicenda per scoprire sempre meglio il grande mistero che nascosto nel
cuore dell'uomo da Colui che lo ha fatto a sua immagine. Anche se il cristianesimo riconosce in
Cristo la pienezza della rivelazione di Dio, esso sa che tale rivelazione in qualche modo presente
in ogni cuore, perch Dio vuole la salvezza di tutti e conduce tutti, mediante un cammino di
purificazione, al superamento di s verso una piena autenticit.
Scoppio di luce sul mondo
12 aprile 2009

Un altro scritto per la Pasqua, festa della cristianit ma anche annuncio di speranza per il mondo
intero

Che cosa essenziale alla Pasqua? Dove sta il fatto originario che celebrano i credenti?
Chi entrato in questi giorni nelle chiese cristiane, e ha assistito a come in esse sono state
celebrate le funzioni liturgiche nei diversi giorni della Settimana Santa, pu avere avuto
l'impressione di un succedersi di gesti, di riti, di preghiere, in cui risultava difficile precisare il tema
fondamentale, capire dove stava la loro unit. Molti infatti sono gli eventi richiamati in quei giorni, in
cui si ripercorso il cammino dell'ultima settimana di Ges a Gerusalemme, dal solenne ingresso
nella citt, rivissuto nella "domenica delle Palme", fino alla sua cattura, alla passione e morte, alla
scoperta del sepolcro vuoto e alle sue apparizioni ai discepoli.
Di fronte a questa ricchezza di eventi, letti anche alla luce di una lunga serie di altre letture
bibliche, ci si domanda: quale il fatto centrale, originario, quello nel quale tutto questo trova
insieme la sua origine e la sua spiegazione?
Questo fatto non descritto da nessuno, non stato visto da nessuno. La liturgia romana ci dice,
nel canto solenne che precede le funzioni della notte di Pasqua: O notte beata, tu sola hai
meritato di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo risorto dagli inferi. Che cosa avvenuto in
quell'ora sconosciuta, nell'oscurit nella tomba di Ges? Possiamo comprendere qualcosa di
questo evento guardando gli effetti di questo mistero con gli occhi della fede.
Lo Spirito Santo sceso con tutta la sua potenza divina sul cadavere di Ges. Lo ha reso spirito
vivificante (cfr Lettera di san Paolo ai Romani 1,4), gli ha dato la capacit di trovarsi presente
dovunque, in qualunque luogo e in qualunque tempo della storia.
stato come uno scoppio di luce, di gioia, di vita. L dove c'era un corpo morto e una tomba
senza speranza iniziata un'illuminazione del mondo che dura ancora fino a oggi.
Quando Ges diceva, alla fine del Vangelo secondo Matteo: Io sar con voi tutti i giorni, fino alla
fine del mondo intendeva questa presenza di risorto, di quella forza di Dio operante in Ges che
ciascuno pu sentire dentro di s, purch apra gli occhi del cuore. Questo spirito non si manifesta
con parsimonia, ma con ampiezza e liberalit.

Oggi, riproponendo il grido della Pasqua, la Chiesa rivolge al mondo un annuncio di speranza.
Questo annuncio riguarda tutti, tocca i singoli, le comunit, le societ. Ogni uomo, ogni donna di
questa terra pu vedere il Risorto, se acconsente a cercarlo e a lasciarsi cercare. Comincia da qui
la storia della Chiesa, che storia anzitutto delle conseguenze di questo dono. Gli uomini possono
magari utilizzare male questo dono o anche opporsi a esso, ma in realt esso fa il suo cammino
nella storia, crea le moltitudini di Santi, sia conosciuti che sconosciuti. D, a ciascuno che lo
desidera sinceramente, di entrare nelle intenzioni di Cristo, nel suo amore ai poveri, nella sua lotta
per la giustizia, nella sua dedizione per ogni persona, nel suo spirito di libert, di umilt, di
adorazione e di preghiera. Chi guarda al mondo di oggi con gli occhi della fede, ne riconosce tutte
le brutture e le distorsioni, ma vede anche lo Spirito operante per salvare questo mondo.
Ma chi riconosce oggi il cambiamento che avvenuto nella storia? Chi sente la presenza del
Risorto che ci accompagna?
Chi ha una fede piena in Ges, chi si volge a Dio con tutto il cuore, chi si libera dalla schiavit del
successo e del denaro, chi si converte dalla tristezza e dalla meschinit a una visione larga
dell'universo, aperta sul l'eternit. Dobbiamo accettare che l'amore di Dio dissolve la paura, che la
grazia rimette il peccato, che l'iniziativa di Dio viene prima di ogni nostro sforzo e ci rianima, ci
rimette in piedi da ogni caduta. La fede nella risurrezione, non fuga dal mondo, al contrario, ci fa
amare il tempo presente e la terra, capacit di vivere la fedelt alla terra e al tempo presente
nella fedelt al cielo e al mondo che deve venire.
Vi sono tempi in cui questo riconoscimento particolarmente difficile: sono i tempi delle grandi
sventure, delle catastrofi che toccano molta gente, in particolare i bambini. Ma anche qui, per chi
sa leggere con gli occhi della fede, non manca una presenza del Risorto.
Proprio ora ricevo dalle zone terremotate dell'Abruzzo un messaggio che suona cos: Dalla
tendopoli ... i pi cari auguri. Il Signore venuto a curare le ferite dei cuori spezzati ci ha scelti
perch lo aiutassimo. Sia questa la nostra vera gioia. Un fraterno abbraccio.

Potrebbero piacerti anche