Sei sulla pagina 1di 10

Diocesi Reggio Emilia Guastalla

UCIIM
Unione Cattolica Italiana Insegnati Medi
Il Libro di Giobbe
Febbraio 1995
Referenti Marcello Copelli e Vittorio Ciani.

Prof. Mons. Luciano Monari

Le interpretazioni del libro di Giobbe


Per orientarsi meglio e per capire le diverse letture che di questo libro sono state offerte dagli
interpreti, la prima cosa da tener presente che il Libro di Giobbe appartiene alla corrente sapienziale.
Questo vuol dire che in esso si pongono problemi concreti riguardo al vivere bene, il vivere con successo,
ma che si pongono questi problemi, non da un punto di vista speculativo-filosofico, ma da un punto di vista
eminentemente pratico. Il problema del dolore pu essere affrontato come problema filosofico, allora si
tratta di interrogarsi sulla esistenza del dolore, del male in tutte le sue espressioni e di cercare di dare una
risposta, che spieghi nel modo migliore tutte le diverse manifestazioni del male.
Ma questo non il vero problema di Giobbe.
Il problema di Giobbe non quello di un filosofo, che cerca di risolvere a tavolino un intricato nodo
della filosofia. Il problema di Giobbe quello di un uomo, che sta vivendo nella sua carne la sofferenza e si
interroga sul modo di viverla; Di viverla umanamente in modo che la sofferenza non diventi distruttiva per
lui, ma diventi elemento del suo cammino di crescita, del suo cammino spirituale di maturazione.
possibile questo? O no? E come? In quale prospettiva?
Il primo elemento fondamentale che Giobbe sa che la sua sofferenza dipende da Dio. Su questo
non ha dubbi: non gli viene mai lidea che la sua sofferenza possa essere inflitta da altri o che sia
semplicemente casuale. Egli la fa dipendere da Dio, ma non sa come n perch. Contesta per questo a Dio
il diritto di manifestarsi a lui in questo modo: proclama che la sofferenza disumana e che, quindi, Dio non
pu servirsi di essa per avvicinarsi alluomo. Questo il presupposto del libro: Dio usa anche la sofferenza
per impostare il suo rapporto con Giobbe, il quale contesta questa scelta di Dio. Quindi il problema
proprio il mistero della presenza di Dio nella sofferenza:
Credere in Dio, naturalmente, vuol dire non solo sapere che Dio esiste, ma sapere che Dio giusto,
affidabile, sapere che Dio propizio nei confronti degli uomini e che, quindi, il suo atteggiamento non n
ostile, n indifferente, ma favorevole. Ma come posso riconoscere la presenza di un Dio cos nella
sofferenza? Non la sofferenza qualcosa che smentisce lamore di Dio e quindi la sua affidabilit? Non
diventa giusto per luomo contestare questo modo di esprimersi di Dio?

Secondo punto. In questa esperienza di sofferenza Giobbe non maledetto da Dio, non c nessuna
maledizione, nessun giudizio di condanna o di distruzione delluomo; su Giobbe rimane sempre la
benedizione di Dio. Ma il dramma questo: mentre un tempo la benedizione di Dio si manifestava nella
felicit materiale, ora si manifesta nella sofferenza:
Dio cera allora e c nello stesso modo adesso; Dio benediceva allora e benedice ancor ama ancora
Giobbe, per, paradossalmente, in un modo opposto. La benedizione presenta sotto lapparenza del suo
contrario.
Lutero ha ragionato su questa manifestazione di Dio nel suo contrario, nella croce: nella croce di Cristo
c la potenza di Dio sub contrario. Si manifesta come potenza, ma in una realt, che appare agli antipodi
della potenza, della bont, della giustizia di Dio. Qualcosa del genere lesperienza di Giobbe: a lui viene
chiesto un atteggiamento eroico, quello mantenere intatta la fede, quando mutata radicalmente la
situazione. Deve continuare fidarsi di Dio, quando tutti i motivi validi esterni sembrano venir meno. Quello
che si pone quindi, non un problema di ortodossia (che cosa debbo pensare della sofferenza, con devo
spiegarla), ma di ortoprassi: come posso, come debbo viverla? Che tipo di risposta sono chiamato a dare
allesperienza paradossale della sofferenza? A un Dio che si dichiara vicino nel momento in cui viene sentito
lontano? A un Dio che si proclama benevolo, amore, nel momento in cui viene sentito estraneo, o
addirittura nemico?
Terzo punto. Giobbe arriva a riconoscere Dio nella sua sofferenza, arriva a proclamare presenza di
Dio ( Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono ); il Giobbe che soffre arriva a vedere
Dio; a vederlo si intende in un atteggiamento che non di visione esterna, ma di fede di percezione della
presenza di Dio nella sua vita. Per questo Giobbe ha ragione, perch in realt questa prova lha vissuta e
lha interiorizzata ed riuscito a riconoscere la presenza di Dio. Ma allinizio del suo cammino voleva far
valere la sua ragione, la sua innocenza, il suo discorso era: Siccome io sono innocente, tu Dio devi
mostrarti a me nel volto della benevolenza E su questo sbagliava, perch stava facendosi forte della sua
innocenza per costringere Dio a presentarsi secondo i suoi desideri, secondo la sua volont. Luomo non
pu rivendicare nessun diritto davanti a Dio; non pu forzare, costringere lamore di Dio, deve invece
imparare ad accoglierlo cos come Egli vuole manifestarsi. Dio, il Dio vero, non solo la risposta ai bisogni
delluomo, non solo il Dio che deve presentarsi secondo una serie di categorie rigide di rivelazione, che
1uomo conosce e delle quali pu farsi forte. Dio di fronte alluomo rimane nella sua libert suprema e
luomo deve imparare ad accettare un Dio libero. Giobbe ha ragione quando dice che innocente, o,
comunque, che non colpevole di qualcosa, che gli meriti la sofferenza, che sta vivendo, ma quando di
questa sofferenza si fa forte per pretendere un Dio, secondo i suoi desideri, Giobbe travalica il suo limite, la
sua condizione umana. Vorrebbe codificare Dio, vorrebbe trasformarlo in un principio filosofico, o fisico, o
in una legge, che deve, naturalmente, manifestarsi sempre nello stesso modo, altrimenti la si pu contestare
come inesatta, non corretta. Ma il Dio della rivelazione un Dio libero.
Pian piano Giobbe arriver a capire che Dio dalla sua parte e che lo ama, ma ci arriver attraverso
un cammino di purificazione della fede. Il vero problema di Giobbe quello della fede, del riuscire ad avere

fede anche nella sofferenza. possibile credere nellamore di Dio quando si soffre? Questo
linterrogativo drammatico e questo il cammino che Giobbe deve fare. Allinizio egli ha una sua idea di
Dio, ma alla fine deve accettare un Dio diverso, davanti al quale non accampa pi diritti n pretese. In
questo si gioca qualcosa di grosso dal punto di vista cristiano, perch dal punto di vista religioso il
cristianesimo appunto questo incontro con Dio, dove Dio viene riconosciuto e affermato nella sua
libert, nella sua trascendenza.
vero che io non riesco nemmeno a capire cosa intendo, quando dico che Dio libero, ma
certamente intendo che Dio non lo posso far entrare dentro ai miei schemi, non lo posso confondere con i
miei desideri e i miei bisogni, che sono importantissimi, dal punto di vista religioso, ma non sono la regola
dei rapporti di fede. La fede diventa matura quando, invece di partire dai bisogni, parte dallaccettazione di
Dio cos com. Naturalmente una fede di questo genere non il punto di partenza, ma il punto di arrivo.
Giobbe ci arriva, ma alla fine, come anche noi quando riusciamo a dire: Sia fatta la tua volont, ma poi
dobbiamo maturarla, interiorizzarla questa espressione, perch diventi parte della nostra struttura di vita, in
funzione della volont di Dio. Quindi questo il problema fondamentale: quello della fede.
Quarto punto: Jahve, il Signore, sembra che prima si nasconda e poi si riveli. In realt, anche quando
si rivela, non risponde veramente ai desideri di Giobbe, alle sue contestazioni. Anzi, quando si manifesta
per invitare Giobbe alla fede. Il Signore parla a Giobbe con un tono ironico, che non di derisione, ma
affermazione della propria libert. Non si costringe Dio dentro gli schemi di Giobbe, al punto che Egli parla
di tutto fuorch di ci che Giobbe vorrebbe. Ma proprio questo Dio che Giobbe deve imparare ad
accettare: Dio creatore, salvatore, libero cos come si manifesta, come vuole manifestarsi.
proprio per questo, alla fine del libro, gli amici vengono proclamati mentitori, non hanno detto cose
giuste di Dio, come invece il suo servo Giobbe.
Cap. 42, 7: [7]Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita:
La mia ira si accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perch non avete detto di me cose rette come
il mio servo Giobbe.
Non hanno detto cose vere. Questo uno degli elementi strani del libro, perch gli argomenti, che gli
amici portano nei loro interventi sono argomenti buoni e sono presi dalla Sapienza biblica. La dottrina, che
gli amici difendono, cosiddetta della retribuzione, secondo la quale Dio retribuisce il bene o il male, il
comportamento giusto o ingiusto degli uomini in questa vita, una dottrina tradizionale, che si trova nel
Deuteronomio e praticamente in tutta la tradizione biblica. Lopera storica deuteronomistica, cio
quellopera che comprende i libri di Giosu, dei Giudici, di Samuele, dei Re costruita su questo schema
teologico: quando Israele; si comporta bene, il Signore lo benedice, quando Israele si comporta male il
Signore lo punisce e lo lascia in balia dei suoi avversari.
Quindi le opinioni degli amici sono teologicamente fondate, quello che essi dicono che c armonia
tra lordine cosmico e lordine etico, dove trionfa lordine etico, trionfa anche un benessere sociale, umano,
cosmico. Ma allora perch alla fine del libro vengono considerati dei mentitori? Perch sulla base della
tradizione teologica sono convinti di poter conoscere e prevedere latteggiamento di Dio in ogni caso
particolare. Ma questo vuol dire esattamente quello che ricordavamo prisma: fare di Dio un destino, una

legge immutabile, Ma Dio non cos, le verit teologiche sono importanti, ma non tolgono la libert di Dio e
luomo deve imparare ad accogliere Dio cos come si vuole liberamente manifestare. In fondo gli amici di
Giobbe si sentono dalla parte di Dio, persone che hanno compreso il suo mistero e lo possono usare
secondo il proprio ragionamento. Invece di essere giudicati, di lasciarsi esaminare da Dio, usano la loro
conoscenza di Dio per giudicare ed esaminare. In fondo hanno reso Dio un loro possesso: invece di essere
al servizio di Dio, si servono della conoscenza che ne hanno per collocarsi di fronte agli altri, nel nostro
caso per giudicare Giobbe. E in questo modo aboliscono la storia e la libert di Dio, perch fanno della
sofferenza di Giobbe un caso da risolvere secondo principi prefissati. In vece il caso di Giobbe unico,
perch lesperienza che egli fa della presenza di Dio, che deve essere colta nella sua unicit.
C un testo di Gabriel Marcel, che parla di questo atteggiamento nei confronti della sofferenza e che,
credo, possa essere illuminante:
Ecco un malato immobilizzato da anni e che non vede altro che la morte al termine
delle sue sofferenze. Un sacerdote, con le migliori intenzioni del mondo, gli dice:
Ringrazia Dio per la grazia che ti concede: le sofferenze ti sono state mandate per darti
loccasione di meritarti la beatitudine celeste. Si deve temere assai che, cos presentate,
queste assicurazioni facciano nascere uno spirito di rivolta e di negazione. Dimentichiamo,
per un momento, che si tratti di qualcun altro, mettiamoci dentro la coscienza del malato:
che cos questo Dio che mi tortura nel mio proprio interesse? Con quale diritto? E tu,
quale prerogativa hai per fare da interprete ad un tale Dio crudele, ipocrita? Lo fai, perch
non immagini neppure la sofferenza, perch non la tua; non avresti diritto di dirmi queste
parole altro che se tu soffrissi con me.

Il filosofo dovrebbe qui simpatizzare abbastanza profondamente con il malato, per divenire il malato.
Bisognerebbe simpatizzare con chi soffre, per divenire colui che soffre. Questi dovrebbe intendere le sue
parole, le parole del consolatore, come se uscissero dal profondo della sua stessa coscienza. Qui il
pensiero non pu prendere la forma personale, la forma della meditazione. Di fronte alla sofferenza, il
pensiero non pu prendere la forma astratta della dottrina, dei principi e delle conclusioni dai principi.
Questo pu andare bene in teologia, ma di fronte ad un malato il problema non teologico, esistenziale,
cio di esperienza. Allora la riflessione, il pensiero deve prendere una forma diversa, non quella della
teologia astratta, ma quella della meditazione, cio della assimilazione personale dellesperienza.
Io posso abbandonarmi senza riserve alla sofferenza, confondermi con essa e c anche in questo una
terribile tentazione: io posso stabilizzarmi nella sofferenza proclamandola come un non-essere assoluto. Il
che, tradotto, vuole dire: di fronte alla sofferenza nasce la tentazione di considerarla tutta la realt, io la vivo
cos, perch dal momento che io soffro, le altre cose mi toccano e mi coinvolgono poco, quindi sono
portato a considerarla come lunica realt del mondo. Sono tentato di rinchiudermi in essa, cos come
appare, senza senso, ma essa tutto per me e allora tutto diventa senza senso. La sofferenza che io sto
vivendo proclama il non-senso del mondo: io la proclamo cos. Questo il rischio, la tentazione, ma non ,
necessariamente, sempre, latteggiamento prodotto dalla situazione di sofferenza: essa pu portare una
persona a rinchiudersi in se stessa, ma pu anche renderla pi sensibile, pi aperta agli altri. qui che deve
essere fatta la scelta e deve essere fatta dallinterno. la persona che soffre ad essere posta di fronte a
questa alternativa e a dover scegliere, a dover porre un atto di significato, a riconoscere il significato del
mondo o, che lo stesso, a proclamare, creare, affermare il significato della sua sofferenza.
questo il cammino corretto, quindi un cammino, che non pu essere imposto speculativamente

dallesterno, ma devessere recuperato esistenzialmente dallinterno. Quello che dallesterno pu essere


fatto, quello che possono fare gli amici la condivisione, il soffrire insieme con il malato, tanto da vivere la
sua prova come propria e quindi da offrire la propria risposta come sua. in questo scambio di
comunione, che pu realizzarsi la vera consolazione e il vero aiuto nel rispondere correttamente alla
sofferenza. quello per cui Giobbe rimprovera gli amici. Egli dice: Avessi anche peccato, avrei bisogno di
gente, che mi stesse vicino e che condividesse la mia sofferenza; vi sento come dei giudici, non come degli
amici: in questo modo non mi aiutate a recuperare, a dare un senso a quello, che sto vivendo!
Continua ancora Gabriel Marcel:
Io non posso, a rigore, constatare, che la mia sofferenza non ha significato. Un senso,
un significato non si constata, unassenza di significato, neppure; un senso, un significato
si crea con un atto dello spirito. luomo che deve porre, lui, un atto di libert, che affermi il
valore dellesistenza, il valore dellamore di Dio dentro la sofferenza. Questo non dato
prima, non un presupposto, ma una conquista, una creazione; ciascuno deve creare la
sua risposta personale alla sofferenza, che sta vivendo e crearla nellottica della fede, in
positivo, in modo che la sofferenza diventi non il non-senso del mondo proclamato, ma di,
laffermazione dellamore di Dio dentro e nonostante la sofferenza . Quello che qui in
questione una interpretazione creatrice: io posso ancora una volta rifiutare di considerare
la mia sofferenza come prova, di sottomettere la mia realt alla prova della sofferenza, lo
posso; ma a quale prezzo? In questo rifiuto io affermo me stesso, ma con quali attributi? Io
affermo me stesso come un mero focolaio di rivendicazioni di fronte ad un mondo assurdo e
feroce. Ma la riflessione mi mostra, che anche la situazione assurda: ogni rivendicazione
presuppone una forza, che sostiene, una difesa alla quale si rivolga. Qui la difesa
impensabile e, immediatamente, la rivendicazione si riduce a nulla. Cos esattamente come
viene meno la protesta di colui che credeva di parlare a qualcuno e si accorge di essere
solo.

Vuole dire: la protesta ci sta bene, ma richiede come presupposto lesistenza di qualcuno al quale
proclamare, di fronte al quale affermare la protesta. Allora non diventa lultima parola diventa un momento
di crescita, diventa un momento di conflitto, ma per qualche cosa di pi; altrimenti, se non c la resistenza
dellaltro, che mi si oppone, la mia protesta un parlare a vuoto, quindi si perde, non ha nessun senso, non
ha nessun valore e nessuna efficacia. Insomma, quello che vuole dire che la sofferenza radicalmente
prova e, tentazione. Prova e tentazione perch si colloca al livello dellesperienza e costringe luomo ad
affrontare il senso della vita in un modo pi profondo, pi autentico di quanto lo potesse fare in precedenza,
o costringe luomo a rifiutare ogni senso alla vita, a fare della sua protesta lunica realt esistente. una
scelta da porre, da vivere nella libert, non c un ragionamento a priori, che dica quale strada percorrere.
C invece la presenza di Dio davanti a Giobbe, che spinge Giobbe stesso a dare una risposta
positiva, a riconoscere questo valore della benedizione di Dio, dentro e nonostante la sofferenza.
A questo discorso fondamentale aggiungo brevemente altre ipotesi di lettura.
Lo studioso ebreo Tsewat aggiunge a questo discorso la sua opinione, secondo la quale lo scopo del
libro di Giobbe mostrare che il mondo materiale amorale e quindi non giusto che Giobbe cerchi una
moralit in esso. Le cose della natura vanno avanti per conto proprio, si muovono e crescono secondo una
legge, che appartiene a loro e che non una legge di giustizia o ingiustizia, di bont o di cattiveria. Non
una legge morale, ma una legge chimica, biologica, fisica e bisogna accettare questo salto tra il mondo della
moralit e il mondo materiale; bisogna riconoscere che quellarmonia, di cui abbiamo bisogno, larmonia tra
il cosmo, il bene, la verit, in realt non esiste. Il mondo da accettare in tutta la sua rudezza, in tutta la sua

opacit. Se vuoi, trovare lesperienza di bene la puoi trovare non nel cosmo, non nella natura, ma nelle
scelte libere delluomo. Dio normalmente non far dei miracoli per proteggere luomo; Dio non far un
miracolo per fermare lalta marea, perch c un bambino sulla spiaggia. Il miracolo pu avvenire come
manifestazione di Dio, ma non e non diventa una legge di natura. Giobbe viene portato a questa
maturazione, ad imparare ad accettare che il mondo non sia misurato secondo i desideri e nemmeno
secondo le realizzazioni buone o cattive delluomo, deve imparate la virt nonostante il cosmo non la
esprima sempre. Deve imparare il bene, la fede, nonostante che questi non gli garantiscano un successo
mondano e cosmico.
Credo che questa affermazione sia un po troppo moderna e sia una visione che anticipa la
secolarizzazione, per tanti aspetti, per, corretto che si debba accettare e riconoscere questa dimensione
di opacit del mondo. Il mondo creazione e rivelazione di Dio, non c dubbio, ma anche vero che il
mondo nasconde anche Dio, non una rivelazione chiara ed univoca. In un certo senso aveva ragione
Leopardi, quando parlava di una natura madre e matrigna, che fa del bene, ma non lo fa per amore e a
volte fa del male, ma non per cattiveria. Lo fa semplicemente, perch in un altro ordine rispetto alluomo,
perch si muove in un livello, che non quello delletica in senso proprio. Questo non un discorso, che si
possa portare fino allestremo, ma ha una sua correttezza, che da tener presente.
Ci sono accanto a questa tutta una serie di altre letture appena pi problematiche e suggestive, sotto
certi aspetti, alle quali accenno semplicemente.
La prima di Kirkegaard (1813-1815), che sul Libro di Giobbe ha riflettuto pi di una volta. Non
solo ne parla frequentemente nel suo Diario, ma anche in quel libro intitolato La ripresa (o La
ripetizione) Dice Kirkegaard:
Oggi si pensa, che la giusta espressione di dolore, il disperato linguaggio della
passione siano da lasciarsi ai poeti, i quali, come avvocati in prima istanza, sostengono la
causa del dolore davanti al tribunale della compassione. Nessuno osa di pi. Parla tu,
allora, o Giobbe indimenticabile! Ripeti quel che hai detto, o potente intercessore, che ti
presenti al tribunale dellAltissimo, impavido come un leone ruggente! Forza nelle tue
parole, timore di Dio nel tuo cuore, anche quando tu ti lamenti, anche quando difendi la tua
disperazione dalle inani dei tuoi amici, che, come briganti, ti assalgono con i loro discorsi,
anche quando ru. Provocato, calpesti la loro saggezza e disprezzi la difesa che essi fanno
di Dio, come un --miserabile astuzia di vecchi cortigiani o di abili ministri. Ho bisogno di te,
ho bisogno di uomo, che sappia querelarsi con Dio a voce cos alta. che risuoni nel cielo,
ove E-. congiura con Satana contro un solo uomo. Protesta! Dio non ha paura, Dio pu
difender t Ma come potrebbe difendersi se nessuno osasse levare la voce per chiedere un.~
migliore? Parla, alza la voce, parla forte! Dio pu sempre parlare pi forte di noi! Di tuono.
Anche il tuono una risposta, una spiegazione plausibile, esatta, autenti: risposta, che
viene direttamente da Dio. Anche se la sua voce stritola un uomo, oh, meglio questo di tinte
le chiacchiere e le voci sulla giustizia della Provvidenza, inventate dalla saggezza umana e
diffuse dalle donnette e dai mezzi uomini.

C tutta la passione di Kirkegaard, ma quello che conta in questa affermazione, quello a cui facevo
riferimento prima, cio il rapporto con Dio vissuto essenzialmente come esperienza, non solo come
dottrina. Noi abbiamo una dottrina, che ci insegna molte cose su Dio e a questa dottrina dobbiamo
rimanere fedeli, ma il rapporto con Dio non riducibile alla dottrina, non fatto di conoscenza esatta,
frutto di esperienza. E una persona deve essere capace di giocare, nel rapporto con Dio, tutto quello che
vive giorno per giorno, quindi anche la sofferenza, anche langoscia. Non pu dire: questa la teniamo da

parte, questa non centra nel rapporto con Dio, perch non entra negli schemi esatti della giustizia, della
retribuzione e cos via; no, centra anche la sofferenza, che diventa angoscia, che diventa grido, che diventa
contestazione, ma diventa contestazione davanti a Dio! Kirkegaard ha ragione nel dire che la crisi della fede
si esprime, non nella contestazione di Dio, ma nella indifferenza davanti a Dio. Quando la sofferenza non mi
fa pi dire niente a Dio, quando, perci, in qualche modo ho girato le spalle e ci sono solo io con il mio
mondo, allora sono di fronte al problema grosso della fede. Ma fino a che Dio presente in quello che sto
vivendo, anche se quello che sto vivendo una contestazione, quasi una bestemmia, il rapporto con Dio
c. Non dico che sia un rapporto perfetto, un rapporto, che avr bisogno di maturare, come quello di
Giobbe, ma la maturazione possibile quando c questa libert del dire tutto davanti a Dio, del contestare
il modo in cui Egli si manifesta, che non riesco a comprendere e che debbo arrivare a capire solo attraverso
una conversione profonda del mio modo di essere, una accettazione della libert di Dio.
Ancora Kirkegaard, nel suo Diario, riporta alcune osservazioni, che mi sembrano preziose:
Dal punto di vista umano, la moglie di Giobbe, in un certo senso, aveva ragione, poich per luomo
un peso davvero molto grande dover soffrire tanto, eppure seguitare a credere, che Dio, nondimeno,
amore. cosa da far perdere la ragione e per un uomo molto pi facile disperare, fare il punto e basta.
Disperare, fare il punto-e-basta, significa togliere, di fronte alla sofferenza, quel polo della mia esperienza,
che Dio. Dopo di che ci sono solo io e la mia sofferenza, che sofferenza angosciante finch si vuole, ma
la tensione non c pi. La tensione c fino a che io debbo tenere insieme le due cose: il fatto che soffro e il
fatto che Dio mi vuole bene. Sono due cose che daccordo non vanno, non riesco a percepirle in sintonia,
ma proprio perch non vanno daccordo, creano una tensione, obbligano ad andare in profondit. Andare
in profondit vuol dire andare oltre limmagine, che noi abbiamo di Dio.
Quando S. Tommaso, alla fine della sua vita, voleva bruciare le sue opere, perch le riconosceva
paglia, voleva dire questo: S:Tommaso ha detto di Dio cose stupende e grandissime, ma Dio non tutto
l; Dio non si risolve in un pensiero, per quanto bello, su Dio; Dio non corrisponde alle nostre
immaginazioni. Il Padre De Lubac, il Cardinale, diceva che il 95% delle idee. che noi ci facciamo di Dio
sono superstizione e non c di che meravigliarsi, perch siamo della povera gente, quindi quello che
possiamo immaginare di Dio fatto secondo le nostre misure. Il vecchio Senofane diceva che se i cavalli
avessero un dio gli darebbero la forma di un cavallo, inevitabile. inevitabile che noi ci facciamo un Dio
secondo le nostre misure, ma questo non vuol dire che il cammino della fede sbagliato, vuole dire che
deve maturare e lesperienza ci mette davanti un Dio diverso da quello, che avevamo pensato. Il Dio vero
lo incontreremo solo al di l, ma il cammino un cammino di purificazione delle nostre idee, che. cedono di
fronte alla progressiva rivelazione di Dio, che si manifesta nella nostra esperienza, nel modo in cui viviamo e
sperimentiamo la sua benedizione, il suo amore nei nostri confronti.
Sempre Kirkegaard afferma:
Quando si predica su Giobbe non si vede lora di giungere alla conclusione, quando
egli riebbe tutti i suoi beni raddoppiati. Ma a me sembra strano che si debba insistere su
questo. E poi non vero. Una volta che tu abbia ricuperato il perduto, puoi facilmente
cavartela da solo, accettando la nuova sorte. Ecco, per questo io preferisco insistere sul
tempo di prima, quello della prova.

E vuol dire: la soluzione del Libro di Giobbe non tanto nella conclusione, quando Giobbe riebbe il

doppio; quando ci avviene, Giobbe pu anche fare a meno di Dio, in quanto diventa autonomo,
autosufficiente, invece il dramma di prima, quello vero della fede, quello in cui Giobbe costretto a
collocarsi umanamente, liberamente e con il massimo di trasparenza davanti a Dio.
Credo che pochi, come Kirkegaard, abbiano capito Giobbe in questo senso e pochi altri abbiano
contribuito ad interpretarlo correttamente.
Tra gli altri tipi di lettura ne richiamo soltanto uno, eterodosso, non cristiano, ed la lettura di Ernst
Bloch (1885-1977) in quel libro Ateismo del cristianesimo. Bloch era un filosofo marxista, molto
importante dal punto di vista della storia della filosofia moderna, che ha centrato la sua concezione di uomo
sulla speranza e sulla utopia, distinguendo utopia da ideologia: lutopia quella forza di apertura al futuro,
che spinge luomo al superamento continuo delle sue realizzazioni, che, quindi; impedisce alluomo di
fermarsi allo statu quo, allequilibrio raggiunto. Secondo Bloch la Bibbia contiene unutopia valida, un
messaggio rivoluzionario, che capace di sostenere luomo nella sua storia, quello che egli chiama una
specie di filo rosso. Non che in tutta la Bibbia ci sia questo messaggio, per c questo filo che il
messaggio messianico-apocalittico. Messianico significa aperto verso il futuro del Messia; apocalittico
significa aperto verso una rivelazione ancora pi nel futuro, quella che proietta luomo sempre al di l di se
stesso, verso quel Dio, che (Bloch naturalmente ateo) non altro che luomo nuovo, la prefigurazione
delluomo nuovo.
Allora nella Bibbia, secondo Bloch, c un processo di umanizzazione di Jahve, che da Dio cosmico,
Dio della creazione, tende a diventare un Dio umano e quindi a diventare il progetto, lo scopo, il traguardo
dellevoluzione umana. Lo spirito religioso si purifica man mano, abbandonando gli aspetti di trascendenza
e mettendo invece al centro il valore delluomo. Luomo non quello che , ma quello che diventa; quindi,
luomo, in realt, non esiste, ma sta ancora di fronte a s: quelluomo, che luomo ha di fronte e che il
traguardo della sua vita, esattamente Dio (con Dio si intende il futuro delluomo). la piena realizzazione
di questo itinerario di evoluzione e di emancipazione.
Secondo Bloch, dunque, il Libro di Giobbe una tappa di questo processo di liberazione dal Dio
trascendente. Quelli che vi hanno visto un esempio di pazienza, ne hanno completamente travisato il
significato. Al contrario, Giobbe un esempio di ribellione a Dio e tutto quello che sa di resa, non fa parte
del libro, o meglio, una di quelle coperture, che lautore ha dato al libro, perch esso potesse passare,
perch, in regime di censura, non si possono dire cose troppo rivoluzionarie, bisogna coprirle in modo che
non facciano troppo scandalo, allora si trovano questi testi in cui Giobbe si arrende a Dio. Ma non sono il
vero messaggio. Invece ogni speranza e resta fondata sulla buona coscienza di Giobbe e sulla ribellione,
che cerca un vendicatore, per cui il comportamento di Giobbe un esodo. Lesodo il paradigma
fondamentale della Bibbia, secondo Bloch: Giobbe abbandona un Dio tiranno, incontestabile, che gli rende
giustizia, perch accettare questa idea sarebbe una consacrazione dello statu quo, fermerebbe le cose e
chiuderebbe ogni cammino di crescita, di emancipazione delluomo. Certamente Giobbe religioso, ma
crede nel Dio dellesodo, nel Dio della speranza e proprio per questo deve rifiutarsi di credere al Dio della
creazione, della maest naturale.
Bloch afferma:
Il Dio di cui si parla in Giobbe, conosciuto dai suoi frutti, domina e schiaccia col suo
strapotere e la sua grandezza e lo fronteggia dal cielo solo come un faraone. Tuttavia

Giobbe religioso proprio perch non crede; non crede in nulla meno che nellesodo e nel
fatto che, umanamente, lultima parola non stata ancora pronunciata da colui che viene
per vendicare il sangue e per fermarlo; in breve, dal figlio delluomo stesso invece che dal
gran Signore. una parola da cui non vi pi esodo, ma che introduce senza alcun terrore,
nellalto negato e conservato.

Il senso, per Bloch, questo: il punto di arrivo della rivelazione biblica il figlio delluomo, Ges
Cristo. Ges Cristo Dio fatto uomo, quindi Dio non c pi, c luomo ma luomo portato alla pienezza
della sua umanit. E Giobbe in cammino verso questo uomo. Per questo contesta Dio, contesta il Dio
della giustizia: non esiste questo Dio.
In realt Giobbe proclama l sua emancipazione dalla soggezione a Dio e va in direzione del
riconoscimento delluomo come lAssoluto, come il punto di arrivo vero della storia umana. Questo
pensiero di Bloch importante, perch quella che noi chiamiamo la teologia della speranza, viene da
teologi, che hanno accolto da Bloch questa provocazione a collocare il centro della vita umana nel futuro,
nella speranza. Naturalmente questa lettura del Libro di Giobbe deve cancellare il 90 % del testo e deve
evidenziare alcuni testi di contestazione, togliendo per tutto quello in cui la contestazione fa appello a Dio,
che invece il proprio del Libro di Giobbe e che ci che tiene viva la tensione: questa tensione esiste
nel testo fino a che si tengono insieme Dio e la sofferenza, togliere Dio vuol dire semplificare, certamente, i
dati del problema, ma vuol dire anche togliere la tensione e quindi tutto il dramma di crescita, che Giobbe
deve, in realt, percorrere.
A questo punto dellanalisi restano da esaminare quei testi egiziani e mesopotamici, che potrebbero
avvicinarsi al Libro di Giobbe e aiutarci a comprendere il contesto culturale, in cui il Libro nato. Sarebbe
prezioso andare a cercarli, ad esempio Lepopea di Gilgamesh oppure, nella letteratura egiziana, Il
dialogo del disperato con la sua anima, di quelluomo, cio, che deve decidere il suicidio: vi sono momenti
di crisi nella cultura egiziana, i cosiddetti periodi intermedi, che hanno dato origine ad una letteratura
problematica, sotto questo profilo.
Si noterebbe che vi sono somiglianze con il Libro di Giobbe, ma ad una distanza infinita.
Il vero problema di Giobbe in questi testi non c, probabilmente perch il suo vero problema nasce
dalla sua fede radicale nel Dio vivo di Israele. solo questo, che rende il dramma cos violento e cos
profondo. Dove la concezione di Dio meno personale e meno viva, anche il dramma perde qualche cosa
della sua vivacit e della sua profondit.

la forma personale, la forma della meditazione. Di fronte alla sofferenza, il -, ~, , -_n(~n pu


prendere la forma astratta della dottrina, dei principi e delle conclusioni
711
-y-_z~c _pi. Questo pu andare bene in teologia, ma di fronte ad un malato il problema
non esistenziale, cio di esperienza. Allora la riflessione, il pensiero deve prendere a diversa, non quella
della teologia astratta, ma quella della meditazione, cio della azione personale dellesperienza.
_ _
co abbandonarmi senza riserve alla sofferenza, confondermi con essa e c anche in Z
~wCs1o una terribile tentazione: io posso stabilizzarmi nella sofferenza proclamandola come, n non-essere
assoluto. Il che, tradotto, vuol dire: di fronte alla sofferenza nasce la tentazione di considerarla tutta la
realt, io la vivo cos, perch dal momento che io soffro, le altre cose mi toccano e mi coinvolgono poco,

quindi sono portato a considerarla come lunica realt del mondo. Sono tentato di rinchiudermi in essa, cos
come appare, senza senso, ma essa tutto per me e allora tutto diventa senza senso. La sofferenza che io
sto vivendo proclama il non-senso del mondo: io la proclamo cos. Questo il rischio, la tentazione, ma non
, necessariamente, sempre, latteggiamento prodotto dalla situazione di sofferenza: essa pu portare una
persona a rinchiudersi in se stessa, ma pu anche renderla pi sensibile, pi aperta agli altri. E qui che deve
essere fatta la scelta e deve essere fatta dallinterno. E la persona che soffre ad essere posta di fronte a
questa alternativa e a dover scegliere, a dover porre un atto di significato, a riconoscere il significato del
mondo o, che lo stesso, a proclamare, creare, affermare il significato della sua sofferenza.
E questo il cammino corretto, quindi un cammino, che non pu essere imposto speculativamente
dallesterno, ma devessere recuperato esistenzialmente dallinterno. Quello che dallesterno pu essere
fatto, quello che possono fare gli amici la condivisione, il soffrire insieme con il malato, tanto da vivere la
sua prova come propria e quindi da offrire la propria risposta come sua. E in questo scambio di
comunione, che pu realizzarsi la vera consolazione e il vero aiuto nel rispondere correttamente alla
sofferenza. E quello per cui Giobbe rimprovera gli amici. Egli dice: Avessi anche peccato, avrei bisogno
di gente, che mi stesse vicino e che condividesse la mia sofferenza; vi sento come dei giudici, non come
degli amici: in questo modo non mi aiutate a recuperare, a dare un senso a quello, che sto vivendo!
Continua ancora Gabriel Marcel:
Io non posso, a rigore, constatare, che la mia sofferenza non ha significato. Un
senso, un significato non si constata, unassenza di significato, neppure; un senso, un
significato si crea con un atto dello spirito. E luomo che deve porre, lui, un atto di libert,
che affermi il valore dellesistenza, il valore dellamore di Dio dentro la sofferenza. Questo
non dato prima, non un presupposto, ma una conquista, una creazione; ciascuno deve
creare la sua risposta personale alla sofferenza, che sta vivendo e crearla nellottica della
fede, in positivo,
* Cv. Documento rilevato come amanuense dal registratore, ma non rivisto dallautore.

Potrebbero piacerti anche