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MARZIALE

Marziale afferma l’epigramma come strumento letterario, preceduti da una prefazione in prosa
che spiega la composizione dell’opera. Con gli epigrammi si occupò di parodia, satira, di politica e
di erotismo.

- nel testo “il ricco sempre avaro” l’autore si concentra sulla figura dell’avaro, il quale rinuncia a
godersi la vita per un eccessivo attaccamento al denaro. Parla di questo uomo che, quando non
era ancora cavaliere, parlava della bella vita che avrebbe condotto se gli dei gli avessero dato del
denaro, ma quando questo accadde lui iniziò a vestersi trasandato, a conservare il cibo
mangiando poco e a bere vino scadente.
- nel testo “Matrimonio di interesse” e nel testo “Fabulla” Marziale parla di due donne, offrendo
una prospettiva visiva diversa nei due testi: nel primo ci offre la descrizione di una donna che
viene sfruttata dal suo sposo per l’eredità, essendo considerata un buon partito siccome anziana e
malata; nel secondo testo invece vediamo la figura di Fabulla, una scaltra giovane che per
risultare piu bella si circonda di donne brutte.
Anche nel testo “Marziale e le donne”, composto da 5 epigrammi (di cui uno è “matrimonio di
interesse”), l’autore parla delle donne, ricorrendo a battute di repertorio sulle mogli e all’elogio
dell’amore coniugale: nel primo si ha una battuta riguardo ad una donna che organizza il funerale
a tutte le amiche e il marito di un’altra spera che diventino amiche per far pagare a lei il funerale
della sposa; il terzo sembra un augurio di un matrimonio duraturo; il quarto è dedicato alle
prestazioni di una prostituta, confrontando due donne una piu bella l’altra piu aggressiva,
desiderando che le due caratteristiche appartenessero ad una sola ragazza; nell’ultimo testo
invece si parla della morte della piccola Erotion, con una delicatezza nel linguaggio in disaccordo
con la crudezza del quarto epigramma.
Nel testo “Erotion” l’autore riflette sulla morte precoce della schiava Erotion che dovrà affrontare
gli inferi alla tenera età di 6 anni. Chiede agli spiriti dei propri genitori defunti di accompagnare
la bambina nel regno dei morti, perché non abbia paura, e di giocare con lei. Esorta poi la terra a
non porsi come dura zolla sopra le sue spoglie: la piccola su di essa pesò sì poco!
- nel testo “Il console cliente” l’autore racconta la paradossale condizione di un console che cerca
la protezione dei potenti comportandosi come un clentes. In questo componimento sottolinea la
scarsa dignità del comportamento del console, denunciando sottilmente e in modo divertente
come la società altolocata del tempo fosse realmente. Altri testi in cui parla della figura del
console e del cliente è “La figura del cliente tra miseria e orgoglio”, di esso fanno pare 3 carmi: i
primi due rappresentano l’opposizione tra intellettuali poveri ed arricchiti che vivono nel lusso,
pur non avendo guadagnato in modo onesto le loro ricchezze; nel terzo epigramma l’acrimonia si
estende perché ad essersi arricchito è un clientes, divenuto padrone della casa del suo patrono. In
essi ci sono amare considerazioni sulla misera condizione degli intellettuali, una condizione di
disagio economico e materiale a cui la consapevolezza di superiorità sull’aristocrazia non offre un
giusto risarcimento. Marziale nel secondo carme afferma però che, sebbene sia povero al
contrario di Callistrato, ogni cittadino puo avere la fortuna capitata a lui, quindi diventare ricco,
ma nessun aristocratico potrà mai avere l’intelligenza di Marziale.
Un altro epigramma rivolto al cliente è “Un cliente che proprio non ne può piu”, in questo testo il
poeta esprime il suo disagio nei confronti della società e soprattutto verso quella condizione tanto
discussa prima. I temi trattati sono sempre gli stessi, l’umiliazione della loro vita e il l’invidia dei
colleghi, ma l’aprosdòketon ha una doppia valenza: considerato in se il desiderio di dormire
esprime la volontà di estraniarsi, rifiutando il mondo in continuo decadimento, ma se lo si
confronta con gli altri epigrammi esso assume un senso meno metaforico e piu pratico e reale (il
sonno viene descritto come turbato come se la folla che passeggia per strada fosse ai piedi del
letto)
- nel testo “Senso di solitudine” Marziale afferma che, in seguito ad un invito rifiutato, anche in
mezzo a molte persone ci si puo sentire soli se esse a maggior ragione non sono nostre
conoscenti.
- nel testo “La bellezza di Bilbili” l’autore offre un esempio di come la vita a Roma sia diversa da
quella in Spagna, con la contrapposizione tra città e campagna. La vita cittadina è raccontata dal
punto di vista del poeta Giovenale, mentre svolge la salutatio, una pratica dove si esplicita il
motivo della fatica e della scomodità della toga. Nella seconda parte, sulla vita di campagna, si
riprendono per antitesi i temi della vita di città: il lungo sonno di Marziale si oppone ai doveri
sociali che obbligano Giovenale a dover uscire di casa, come il mancato uso della toga che si
contrappone all’obbligo dell’amico.
La campagna, quindi la Spagna, è un luogo dove non esistono obblighi, ma solo la libertà.
Un altro testo in cui si parla della sua vita in Spagna e del rapporto con questo paese è “Felicità a
portata di mano”, nel quale l’autore esprime la sua idea di felicità e il luogo dove essa poteva
realizzarsi, ovvero la Spagna. L’insofferenza per la condizione di cliente in continuo progresso e la
scarsa considerazione della poesia dagli uomini di potere, lo portò ad amplificare la sua delusione
per la propria condizione, inducendolo ad affrettare il ritorno in Spagna.
Nel testo “Sogno avverato” Marziale, che si rivolge a Giovenale, esprime la massima gioia, che
prende corpo nelle piccole soddisfazioni rurali e le angosce della vita cittadina, del ritorno in
Spagna, anche se li non trovò mai la felicità agognata.
- nel testo “Il profumo dei tuoi baci” l’autore vede l’amore non come semplice desiderio ed
appagamento sessuale, ma come l’emozione che si prova ad essere amati. La richiesta di baci
diventa l’occasione per un elenco di immagini dolci. La climax ascendente ha il compito di
amplificare i pregi del ragazzo.
I profumi che vengono evocati rendono l’atmosfera ancora piu sensuale ma allo stesso tempo
evocano un immagine dolce dei due innamorati.
- nel testo “Auguri ad un amico” Marziale scrive una dedica ad un suo amico, elaborando una
riflessione su quanto la vita gli abbia offerto e su quante occasioni abbia lasciato andare, stretto
dagli affanni e dalle preoccupazioni, invitandolo a sfruttare al meglio i fugaci momenti di gioia e a
viverli senza dilazioni.

L’obiettivo è solo suscitare ilarità, far ridere il più possibile, senza nessun obiettivo
dichiaratamente morale: la morale, in fondo, è insita nella dinamica stessa del comico, che ci
spinge sempre a riflettere. Per questo non c’è intenzione di satira politica rivolta a personaggi
altolocati: parcere personis, dicere de vitiis (X 33, v. 10), sostiene l’autore: «dire il peccato, ma non
il peccatore»

L’aspetto interessante è la duttilità del genere letterario, che si adatta a molteplici aspetti della
realtà, al contrario dell’epos e della tragedia, i generi preferiti al tempo, che con i loro toni seri e i
loro contenuti surreali.

- nel testo “La scelta dell’epigramma” il poeta critica chi fa uso di troppo misticismo nelle opere
scritte, poiché si allontanano dal mondo umano (esempio di Edipo: “che cosa leggiamo se non
racconti di miti?”). Infatti Marziale nelle sue opere parla di esseri umani, in modo tale che
qualsiasi lettore possa rivedersi nella storia.
- nel testo “Libro o libretto” l’autore autorizza il lettore alla lettura di selezionati carmi, così che, se
il libo fosse ritenuto troppo lungo, avrebbero potuto ridurre il tempo di lettura, riducendolo in un
libretto.
Questa scelta può essere avvicinata ad alcune tendenze della critica letteraria del novecento.
GIOVENALE
Propone di trattare della realtà, enfatizzando gli eventi mostrati come casi estremi. Giovenale
tratta dei mores per denunciarli, non per correggerli, attaccando quindi i vizi e non le persone
attraverso l’indignatio.
Il poeta appare sdegnato nella critica e per suscitare la stessa indignazione nel pubblico
generalizza le sue emozioni, cosi da renderle proprie del lettore.
Le prime satire sono quindi l’espressione della visione negativa del poeta, il quale si scaglia contro
la società contemporanea, paragonando i costumi dell’epoca a quelli degli antenati.
L’autore tratta degli effetti che la ricchezza ha nel vivere in comunità, non sul singolo, apparendo
cosi fonte di discriminazione e di ingiustizia. Analizza come Marziale il tema della clientela, ma
lui afferma che il cliente è in grado di garantire armonia tra poveri e ricchi.
- nel testo “Amore mercenario” l’autore sviluppa una vera e propria satira contro le donne, in
particolare prende come esempio il matrimonio di Postumo, che Giovenale non approva. Questa
critica deriva dall’infedeltà delle donne, siccome per il poeta il matrimonio era virtù solo sotto il
regno di Saturno, siccome poi è nato l’adulterio (fa esempi come quello di Messalina).
Si sofferma anche sulla figura della suocera, della gladiatrice e della saccente: la suocera non fa
altro che favorire alla figlia relazioni amorose illecite; la gladiatrice perde la sua dignità
femminile, in quanto assume atteggiamenti mascolini; la saccente pecca invece di superbia ed
arroganza. Quindi le caratteristiche della donna ideale degli antichi costumi vengono meno: la
fedeltà sfocia in lussuria, la dolcezza in prepotenza, l’umiltà in superbia e la femminilità in
mascolinità.
- nel testo “A Roma si vive male: colpa degli stranieri” l’autore parla di Umbricio, un amico che
lascia la città siccome invasa dagli stranieri e dagli orientali, tra i quali ci sono imbroglioni e
speculatori. I poveri non hanno piu una dignità, ma suscitano il divertimento dei ricchi. Umbricio
è letteralmente l’ombra dell’autore, come se fosse un alter ego che realizza il desiderio
irrealizzabile di Giovenale di lasciare Roma. Il poeta non riesce a comprendere ne ad accettare che
l’immigrazione ha portato una rivoluzione sociale e culturale.
- nel testo “Roma by night” Giovenale, attraverso la figura di Umbricio, descrive la vita notturna a
Roma, con tutti i suoi numerosi pericoli: nelle strade infatti si aggiravano malintenzionati,
ubriaconi e bande di giovani. Attraverso una semplice frase “è passare per noncurante delle
disgrazie improvvise recarsi a cena senza aver fatto testamento” fa capire il vero rischio che
comportava la vita notturna a Roma.

Il bisogno di rinnovamento spinge poi l’autore a trattare temi non convenzionali alla satira,
rifiutando una prospettiva totalmente negativa che lo porta a proporre comportamenti corretti
oltre che a denunciare quelli scorretti: diventa cosi importante l’idea che gli unici veri beni sono
quelli interiori, non quelli esteriori come la ricchezza, che diviene un falso bene e non un bene
ricavato dall’ingiustizia, perché essi sono solo apparenza. Dunque non ci sarà piu l’uso
dell’indignatio, ma dell’ironia.
Lo stile assume le movenze dell’epos dell’oratoria, siccome, ricercando nella vita quotidiana i
segni dell’eccedenza, prevale una visione distorta della realtà, che gli permette di scrivere con stile
alto, il quale è sempre stato rifiutato dai satirici.
FEDRO
Fedro ha presentato per la prima volta la favola come genere con regole e facendolo diventare
scritto. Egli non ha inventato le sue opere dal nulla, ma molto lo ha assimilato da Esopo.
La favola serve, attraverso un allegoria, ad evidenziare la morale, cosi le situazioni ed i personaggi
sono inseriti in una struttura ricorrente: due o piu animali si contendono un bene o stringono un
patto. Il tutto si risolve attraverso il dialogo che è il fulcro della favola esopica.
Fedro parla in modo ironico dei comportamenti umani, specialmente dei vizi, rappresentandoli
attraverso animali. La favola è uno dei generi piu antichi ed è servita sempre a veicolare tramite
un linguaggio semplice e metafore comprensibili, insegnamenti morali e quindi verità. Le favole
di Fedro assumono un doppio scopo: quello di divertire il lettore con scene comiche e quello di
insegnarli qualcosa, dando consigli utili da impiegare nella vita quotidiana.

- nella favola “Il lupo e l’agnello” Fedro enuncia la legge del piu forte, associando alla figura
negativa del lupo un prepotente oppressore e alla figura positiva dell’agnello una vittima
innocente, che vista in termini razionali fa riferimento al rapporto tra potenti e umili. Fedro
dichiara apertamente che la favola è dedicata agli uomini che si servono di false accuse per
opprimere gli innocenti: il lupo infatti avanza accuse impossibili contro l’agnello ma lo uccide
ugualmente.
- nella favola “L’asino e il vecchio pastore” l’autore esclude completamente la speranza di un
possibile cambiamento. Essa quindi sembra un invito alla rassegnazione e richiama
l’atteggiamento di chi è convinto che, qualunque sia la situazione politica, la proprie condizioni
non potranno mai cambiare.
- nella favola “La vacca, la capretta, la pecora e il leone” Fedro propone una morale preposta al
testo: allearsi con i potenti non è mai sicuro. La mucca, la capretta e l’agnello si allearono con il
leone per cacciare del cibo, ma alla fine il leone si portò via il cervo e lo mangiò da solo.
- nella favola “La volpe e la cicogna” la morale, che viene anticipata nei primi due versi, viene poi
ribadita: non si deve mai recare danno per primi e se qualcuno ci attacca dobbiamo rendere pan
per focaccia. La volpe ha invitato a cena la cicogna, offrendole un piatto di brudo che non riuscì a
mangiare seppur affamata, per via del becco. Ricambiò poi l’invito della volpe, offrendole del cibo
tritato che mangiò da sola, facendo morire di fame la volpe.
- nella favola “La volpe e l’uva” Fedro ci dice che non possiamo criticare ciò che non riusciamo ad
avere, infatti la volpe dice che l’uva è acerba e che non le piace solo perché non riesce ad
afferrarla.
- nella favola “Tiberio e lo schiavo zelante” Fedro elabora un esempio di varietas con cui rinnova il
genere introducendo altri contenuti. Si narra un episdodio avvenuto nella corte imperiale che il
poeta conosceva. Partendo da una battuta dell’imperatore. Fedro dedica la favola a tutti quei
personaggi che sono sempre di corsa perché vogliono farsi vedere impegnati, ma che in realtà si
occupano nell’ozio. Quando Cesare Tiberio giunse alla villa di Miseno, uno degli uscieri, pensando
che fosse la sua occasione per la libertà e mentre il padrone non c’era, iniziò ad innaffiare il
giardino, ostentando il servizio zelante, poi corse a pulire la polvere, ostentando il suo zelante
servizio. Ma Cesare capendo il suo intento gli disse subito che i suoi sforzi sarebbero stati vani,
siccome non sufficienti.
- nella favola “La vedova e il soldato” un soldato, invaghitosi di una vedova che vedeva sul
sepolcro del marito, si lasciò distrarre e rubarono le spoglie di uno dei tre ladri crocifissi a cui
doveva fare la guardia. La donna per aiutarlo gli suggerisce di sostituire la spoglia rubata quella
del marito. Cosi il peccato successe alla virtù.
- nella favola “Le due bisacce” descrive la severità nel giudicare i difetti degli altri e l’incapacità di
vedere i propri, siccome la bisaccia che li contiene è stata messa da Giove dietro le spalle di
ognuno.
Testi
Il ricco sempre avaro (Epigrammata, I, 103)
'Si dederint superi decies mihi milia centum'
Dicebas nondum, Scaevola, iustus eques,
'Qualiter o vivam, quam large quamque beate!'
Riserunt faciles et tribuere dei.
Sordidior multo post hoc toga, paenula peior,
Calceus est sarta terque quaterque cute:
Deque decem plures semper servantur olivae,
Explicat et cenas unica mensa duas,
Et Veientani bibitur faex crassa rubelli,
Asse cicer tepidum constat et asse Venus.
In ius, o fallax atque infitiator, eamus:
Aut vive aut decies, Scaevola, redde deis.

"Se i celesti mi donassero un milione di sesterzi, " dicevi, o Scevola, quando non eri ancora un
cavaliere, "in che maniera vivrei, quanto riccamente e quanto felicemente!". Gli dèi risero di buon
grado, e lo concessero. Dopo questo fatto, la toga di lui è più sporca, il mantello in una condizione
ancora peggiore, il calzare è stato rappezzato tre e quattro volte con il cuoio; un'unica portata
copre due pasti, e si beve il denso fondo del vino di Veio. Andiamo in giudizio, o bugiardo e
spergiuro: o vivi da signore, o Scevola, oppure restituisci il milione agli dèi!

Matrimonio di interesse (Epigrammata, I, 10)


Petit Gemellus nuptias Maronillae
Et cupit et instat et precatur et donat.
Adeone pulchra est? Immo foedius nil est.
Quid ergo in illa petitur et placet? Tussit.

Gemello desidera sposare Maronilla, e si rode, e preme, e si mette a fare preghiere e doni.
È così bella? No, non esiste niente di più brutto. E allora, cosa in lei lo attira? La tosse.

Fabulla (Epigrammata, VIII, 79)


Omnes aut vetulas habes amicas
aut turpes vetulisque foediores.
has ducis comites trahisque tecum
per convivia , porticus , theatra .
sic formosa , Fabulla , sic puella es.

Tu, o Fabulla, hai come amiche Tutte le donne vecchie, o quelle brutte, o le più brutte tra le
vecchie. Proprio queste prendi come compagne e le porti con te Nei banchetti, nei portici, nei
teatri. Così, o Fabulla, tu sei bella, così tu sei giovane.

Erotion (Epigrammata, V, 34))


Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

A te, papà Frontone, a te, mamma Flaccilla, io affido questa bimba, miei baci e mia delizia; che la
piccola Eròtion non provi terrore delle nere ombre, né delle orribili fauci del cane infernale.
Tra poco avrebbe compiuto il suo sesto freddo inverno, se fosse vissuta per soli altri sei giorni.
Fra i suoi vecchi custodi possa giocare spensierata e con la bocca balbettante cinguetti il mio
nome. Una morbida zolla ricopra le sue tenere ossa e non pesare su di lei, o terra: lei non pesò su
di te.

Il console cliente (Epigrammata, X, 10)


Cum tu, laurigeris annum qui fascibus intras,
mane salutator limina mille teras,
hic ego quid faciam? Quid nobis, Paule, relinquis,
qui de plebe Numae densaque turba sumus?
Qui me respiciet, dominum regemque vocabo?
Hoc tu - sed quanto blandius! - ipse facis.
Lecticam sellamve sequar? Nec ferre recusas,
per medium pugnas et prior ire lutum.
Saepius adsurgam recitanti carmina? Tu stas
et pariter geminas tendis in ora manus.
Quid faciet pauper, cui non licet esse clienti?
Dimisit nostras purpura vestra togas.

Siccome tu, che inizi l’anno con i fasci ornati d’alloro, di mattina, per la visita di saluto, consumi
mille soglie, ora io che farò? Che cosa lasci, Paolo, a noi, che siamo della plebe di Numa e della
fitta folla? Chiamerò padrone e signore chi mi degnerà di uno sguardo? Questo lo fai tu stesso –
ma con quante lusinghe in più! -. Seguirò una lettiga o una portantina? Ma tu non rifiuti di
portarla, e fai di tutto per andare per primo in mezzo al fango. Mi alzerò più spesso davanti ad
uno che legge poesie? Ma tu stai in piedi e tendi insieme entrambe le mani verso il suo volto. Che
farà un povero, a cui non è permesso di essere un cliente? La vostra porpora ha soppiantato le
nostre toghe.

Senso di solitudine (Epigrammata, XI, 35)


Ignotos mihi cum voces trecentos,
quare non veniam vocatus ad te,
miraris quererisque litigasque.
Solus ceno, Fabulle, non libenter.

Tu prima inviti trecento che non conosco, poi ti meravigli, ti lamenti e fai una questione sul
perché io non venga da te pur essendo invitato. Da solo, o Fabullo, non pranzo volentieri.

La bellezza di Bilbili (Epigrammata, XII, 18)


Dum tu forsitan inquietus erras
clamosa, Iuvenalis, in Subura,
aut collem dominae teris Dianae,
dum per limina te potentiorum
sudatrix toga ventilat vagumque
maior Caelius et minor fatigant:
me multos repetita post Decembres
accepit mea rusticumque fecit
auro Bilbilis et superba ferro.
Hic pigri colimus labore dulci
Boterdum Plateamque — Celtiberis
haec sunt nomina crassiora terris — :
ingenti fruor inproboque somno,
quem nec tertia saepe rumpit hora,
et totum mihi nunc repono, quidquid
ter denos vigilaveram per annos. .
Ignota est toga, sed datur petenti
rupta proxima vestis a cathedra.
Surgentem focus excipit superba
vicini strue cultus iliceti,
multa vilica quem coronat olla.
Venator sequitur, sed ille quem tu
secreta cupias habere silva;
dispensat pueris rogatque longos
levis ponere vilicus capillos.
Sic me vivere, sic iuvat perire.

Mentre inquieto forse errando vai nella Suburra piena di schiamazzi o vai su per il colle, o
Giovenale, di Diana regina; mentre per le soglie dei potenti la toga, che pur ti fa sudare, ti ventila
un pochino e aggravan la fatica del cammino il Celio maggiore ed il minore; la mia Bilbili, dove
son tornato, terra superba per le sue miniere d'oro e di ferro, dopo molti dicembri mi ha riavuto
ed ha fatto di me un contadino. Qui con un piacevole lavoro e senza faticare come un tempo, io
me la spasso tra Platea e Boterdo - questi sono i nomi più importanti nelle terre celtibere -: qui
godo di un sonno lungo e duro, spesso non interrotto all'ora terza, così mi rifaccio dell'insonnia a
Roma sopportata per trent'anni. Qui non si fa uso della toga; quando la chiedo, mi si dà una veste
prendendola da una sedia rotta posta vicino al letto; quando mi alzo mi accoglie il camino
alimentato da un mucchio di legname del vicino lecceto. Intorno al camino sono appese molte
pentole rustiche. Poi viene a trovarmi un cacciatore che tu vorresti avere in una selva del tutto
riservata; l'imberbe fattor distribuisce le razioni di vitto e chiede ai servi che i capelli lunghi si
facciano tagliare. Così mi piace vivere e morire.

Auguri ad un amico (Epigrammata, I, 15)


Oh Giulio, se la lunga confidenza e i diritti di una vecchia amicizia
hanno qualche valore, allora tu sei un amico degno di essere ricordato
prima di ogni altro. Ormai il sessantesimo anno di vita ti è quasi vicino,
eppure la tua vita può contare pochi giorni veramente vissuti.
Faresti male a rimandare quei piaceri che, come vedi, ti possono
essere negati; stima tuo solo il piacere che hai già provato.
Le preoccupazioni e i continui affanni li hai sempre addosso;
le gioie non restano ferme, ma fuggono e volano via.
Afferrale con ambedue le mani e con tutta la forza delle tue braccia.
Spesso, anche così strette, esse ci sfuggono,
scivolando lungo il basso seno.
Non è da uomo saggio, credimi, dire: “Godrò”.
Il piacere del domani arriva troppo tardi: godi oggi.

La scelta dell’epigramma (Epigrammata, X, 4)


Quì legis Oèdipodèn caligàntemquè Thyèsten,
Còlchidàs et Scyllàs, quìd nisi mònstra legis?
Quìd tibi ràptus Hỳlas, quid Pàrthenopaèus et Àttis,
quìd tibi dòrmitòr pròderit Èndymion?
Èxutùsve puèr pinnìs labèntibus? Aùt qui
òdit amàtricès Hèrmaphrodìtus aquas?
Quìd te vanà iuvànt miseraè ludìbria chàrtae?
Hòc lege, quòd possìt dìcere vìta "Meum est".
Nòn hic Cèntauròs, non Gòrgonàs Harpyiàsque
ìnveniès: hominèm pàgina nòstra sapit.
Sèd non vìs, Mamùrra, tuòs cognòscere mòres
nèc te scìre: legàs Aètia Càllimachi.

Tu che leggi Edipo e l’oscuro Tieste, Colchidi e Scille, che cosa leggi, se non delitti mostruosi? A
che ti gioverà il rapito Ila, a che Partenopeo e Attis, a che Endimione che dorme? O il ragazzo
spogliato delle penne che scivolano via? O Ermafrodito che odia le acque che lo amano?
A che cosa ti servono le vane illusioni di una misera carta? Leggi questo, di cui la vita possa dire
“È mio”. Né Centauri né Gorgoni né Arpie troverai qui: la nostra pagina ha il sapore dell’uomo.
Ma tu non vuoi, Mamurra, sapere i tuoi costumi né conoscere te stesso: leggi gli Aitia di
Callimaco.

Libro o libretto (Epigrammata, X, 1)


Si nimius videor seraque coronide longus
esse liber, legito pauca: libellus ero.
Terque quaterque mihi finitur carmine parvo
pagina: fac tibi me quam cupis ipse brevem.

Se ti sembro un libro troppo ampio, ove la parola fine / arriva molto tardi, leggi pochi carmi: così
diventerò un libretto. / Molto spesso la mia pagine finisce con un piccolo carme: / rendimi tu
stesso, per tuo uso, corto quanto vuoi.

La vacca, la capretta, la pecora e il leone


Dell’alleanza col potente non ci si può fidare: questo dimostra la favola che segue. La mucca, la
capretta e la pecora rassegnata ai torti si allearono nei boschi col leone. Avendo essi preso un
cervo di gran mole, fece le parti il leone e così disse: “Io mi prendo la prima perché mi chiamo
leone; la seconda me la darete perché sono forte, la terza sarà mia perché sono più potente;
quanto alla quarta, guai a chi la tocca”. Così l’intera preda si portò via da solo quel furfante.

La volpe e la cicogna
Si dice che la volpe abbia invitato per prima a cena la cicogna, e che le abbia servito dentro un
piatto un liquido brodino che quell'altra, pur affamata, non riuscì ad assaggiare in alcun modo.
Ricambiato l'invito ella alla volpe, le pose innanzi un fiasco pieno di cibo tritato: infilandoci il
becco ella si sazia, tormentando l'invitata con la fame. Mentre la volpe leccava invano il collo di
quel fiasco, si narra le abbia detto l'uccello migratore: "Deve ognuno subire di buon grado quello
di cui egli stesso ha dato esempio".

La volpe e l’uva
Fame coacta vulpes alta in vinea uvam adpetebat, summis saliens viribus. Quam tangere ut non
potuit, discedens ait: “Nondum matura es; nolo acerbam sumere.” Qui, facere quae non possunt,
verbis elevant, adscribere hoc debebunt exemplum sibi.

Una volpe spinta dalla fame in una vigna alta cercava di prendere l’uva, saltando con grandi
sforzi. Ma poiché non riuscì a toccarla, andandosene disse:” Non è ancora matura; non voglio
prenderla acerba”.Quelli che sminuiscono a parole le cose che non possono fare, dovranno
attribuire a sé questo esempio.
Tiberio e lo schiavo zelante
A Roma c'è una risma di faccendieri, sempre di corsa, occupati nell'ozio, che s'affannano a vuoto,
impegnati a far nulla, molesti a sè e agli altri insopportabili. Vorrei correggerli, se fosse possibili,
con un racconto vero: val la pena ascoltarlo. Il Cesare Tiberio, andando a Napoli, era giunto alla
sua villa di Miseno, che, posta in cima al monte da Lucullo, guarda da un lato il mare di Sicilia e
dall'altro l'etrusco. Uno degli usceri succinti, con la tunica di lino di Pelusio legata sotto le spalle,
e con le frange che pendevano, mentre il padrone passeggiava nei bei giardini, con un innaffiatoio
di legno prese a spruzzare il terreno riarso, ostentando lo zelante servizio; ma lo deridono.
Allora prende le scorciatoie e corre avanti in un altro viale, a smorzare la polvere. Lo riconosce il
Cesare e capisce. Quello sperava in una ricompensa; "Ehi tu!", disse il padrone. Quello accorre con
un balzo,gongolante per il premio sicuro. Allora così scherzò del grande imperatore la maestà:
"Non molto hai fatto, vana è la tua fatica: gli schiaffi costano assai più cari a casa mia".

La vedova e il soldato
Una donna perse il marito che aveva amato per parecchi anni e ne seppellì il corpo nel sarcofago;
poiché non c'era modo di staccarla dal sepolcro dove trascorreva in lacrime la vita, conseguì
chiara fama di vergine casta. Frattanto alcuni che avevano saccheggiato il tempio di Giove,
pagarono con la crocifissione la loro colpa contro la divinità. Perché nessuno potesse portare via
le loro salme, furono posti dei soldati a guardia dei cadaveri proprio vicino al monumento
sepolcrale dove si era chiusa la donna. Avvenne che una delle guardie, colta dalla sete, nel cuore
della notte andò a chiedere dell'acqua alla servetta, che per l'appunto, in quel momento, accudiva
alla sua padrona in procinto di andare a dormire; aveva infatti tenuto la lucerna accesa e aveva
prolungato la veglia sino a tardi. Dai battenti appena socchiusi il soldato allunga lo sguardo e
vede la donna dolente e di bell'aspetto. Il suo cuore ne è subito rapito, prende fuoco e a poco a
poco arde la sua voglia impudica. Con ingegnoso acume trova mille pretesti per poterla vedere
più spesso. E lei, conquistata da quel rapporto quotidiano, si fece via via più compiacente con
l'estraneo; ben presto un'unione più stretta le avvinse l'animo. Mentre il custode diligente passa
qui le notti, viene a mancare un corpo a una delle croci. Il soldato, sconvolto, espone il fatto alla
donna. E la santa donna dice: «Non hai nulla da temere», e gli consegna il corpo del marito da
affiggere alla croce perché lui non sia punito per la sua negligenza. Così l'infamia subentrò alla
virtù..

Le due bisacce
Giove ci ha imposto due bisacce: dietro la schiena c’è quella piena dei nostri difetti, appesa
al petto c’è la pesante bisaccia dei vizi degli altri. Per questo non possiamo vedere i nostri
difetti, ma facciamo i censori non appena gli altri sbagliano

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