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LETTERATURA LATINA

GIOVENALE
Decimo Giunio Giovenale nacque ad Aquino, nel lazio Meridionale, tra il 50 e il 60 d. C.
Unico autore che citerà Giovenale sarà Marziale, che lo presenta intento nelle faticose e umilianti
occupazioni del cliente e quindi da ciò possiamo desumere che doveva essere di condizione sociale ed
economica non elevata. Ebbe un’ottima formazione retorica e pare che si sia dedicato all’avvocatura e alle
declamazioni. Morì sicuramente dopo il 127.
Egli scrisse sedici satire in esametri (di cui l’ultima incompleta), divise in cinque libri. L’opera fu composta in
un periodo successivo alla morte di Domiziano, dopo gli anni 100 fino a pochi anni dopo il 127.
POETICA
L’attività poetica di Giovenale prosegue la tradizione di Lucilio, Orazio e Persio, che avevano elaborato il
concetto di satira, fissandone le caratteristiche. Giovenale sceglie di operare in un rapporto dialettico con i
suoi predecessori nominandoli anche espressamente, e cita come suoi modelli Lucilio e Orazio nella satira I,
quasi interamente dedicata ad argomenti letterari.
Giovenale riprende quell’atteggiamento, tipico dei suoi predecessori, di critica verso la letteratura moderna
attaccando la cultura contemporanea, partendo dalle recitationes presentate come istituzioni inutili e fatue
e svalutando anche la mitologia di Persio e Marziale.
Il poeta poi (sempre nella satira I) espone e chiarisce le ragioni che lo hanno spinto a scegliere il genere
satirico affermando che “è difficile non scrivere satire quando ci sono delitti, scandali e perversioni da
svelare”.
La realtà appare l’elemento più nuovo nella concezione del poeta. In base alla tradizione satirica il verum
coincide con il quotidiano, ovvero situazioni e personaggi che non hanno nulla di eccezionale e
straordinario; Giovenale invece tende ad enfatizzare gli eventi che riporta tipo il matrimonio di un enuco,
l’ostentazione di ricchezza di un farabutto e la brillante carriera di un’avvelenatrice, assumono una
dimensione grandiosa e perversa e che appunto provocano sdegno.
Nella I satira Giovenale enuncia l’argomento principale della sua poesia, cioè il comportamento umano, ma
visto nel suo aspetto deteriore, dato il livello di corruzione raggiunto a Roma nel suo tempo. La tematica si
avvicina molto a quella di Persio, ma a differenza di quest’ultimo Giovenale non si propone di educare e
correggere ma attribuisce alla sua satira una funzione di denuncia, rivolta contro i vizi e non gli individui. Il
mezzo di cui si serve per affrontare la materia è quello insolito dell’indignatio, invece del tradizionale ludus.
LE SATIRE DELL’INDIGNATIO
La fase del più feroce moralismo di Giovenale è quella dell’indignatio, rappresentata nelle prime sette
satire. Lo sdegno è un atteggiamento scelto dall’autore, non è solo sdegnato ma vuole apparire tale, per
provocare adeguate risposte emotive nei lettori ovvero suscitare indignazione.
L’indignatio insieme alla volontà di scrivere satire costituiscono l’unica caratteristica importante del
personaggio satirico di Giovenale, poiché altri dati come quelli biografici sono molto scarsi.
Le prime sette satire rappresentano un nucleo omogeneo caratterizzato da una concezione negativa della
realtà, in cui l’autore assume come punto di riferimento il mos maiorum cioè il costume degli antichi. Il mos
maiorum viene evocato costantemente attraverso un’allusione, un termine o un nome, ed è il metro
costante secondo cui misura la perversità e la corruzione dei tempi moderni.
Il poeta considera i costumi contemporanei non in relazione alla sfera individuale quanto alle loro
ripercussioni sociale, ossia alle conseguenza che hanno per gli altri. Il caso più significativo è le divitiae, che
non sono l’argomento specifico di una singola satira, ma costituiscono un motivo ricorrente se non centrale
nella poesia di Giovenale. La ricchezza appare rilevante per i comportamenti negativi che induce in chi la
possiede, soprattutto in rapporto con i poveri, e per le difficoltà che causa a questi ultimi: quindi un
elemento di discriminazione iniquo e malvagio.
Assume grande importanza anche il tema della clientela, tema assente nei satirici precedenti ma che aveva
trovato riscontro nell’opera di Marziale, il quale adottando pienamente il punto di vista del cliente aveva
descritto i disagi della sua condizione. Giovenale riprende e rielabora molti temi presenti in Marziale, ma
individua nell’antico istituto del patronato un elemento originario e centrale del mos maiorum, in grado di
garantire l’armonia tra i poveri da una parte e i ricchi e i potenti dall’altra. Nella degenerazione di questo
strumento di concordia civile l’autore individua uno degli effetti più gravi della corruzione moderna.
SATIRA I  Nella Satira I, oltre alle questioni letterarie, vi è un’ampia sezione che descrive la giornate
umiliante e meschina dei clienti.
SATIRA III  Il tema dei clienti viene ripreso nella Satira III, in cui dopo una breve introduzione, cede la
parola a un altro personaggio, l’onesto e povero cliente Umbricio, il quale pronuncia un atto d’accusa verso
l’intera vita di Roma, oramai marcia per la corruzione che vi regna. La sopravvivenza del cliente è insediata
anche dalla concorrenza sleale dei Greci e degli orientali, che sono pronti a ogni bassezza e pretendono di
saper fare tutto. Emerge in questa satira l’avversione dell’autore per i popoli dell’Oriente, una posizione
dettata principalmente dalla convinzione che la cultura ellenica abbia rovinato il mos maiorum.
SATIRA V  La Satira V narra il banchetto offerto dal patrone Virrone, affrontando così uno dei momenti
fondamentali della vita dei clienti, cioè il motivo tradizionale della cena. Il cliente Trebio viene attaccato dal
poeta con violenza per la mancanza di dignità che lo spinge ad accettare ogni umiliazione in cambio di un
invito a cena. Attraverso le fasi successive del banchetto viene poi dimostrata l’indegnità del trattamento
riservato al cliente, al quale sono offerte le vivande peggiori.
SATIRA VII  La Satira VII è complementare alle satire dedicate alla clientela. Qui Giovenale vi denuncia le
intollerabili ristrettezze in cui versano poeti, storici, retori e grammatici.
SATIRA IV  La Satira IV prende di mira la corte imperiale del defunto Domiziano, prendendo spunto da un
aneddoto: il dono fatto all’imperatore di un enorme rompo. Le dimensioni del pesce creano problemi di
cottura e l’imperatore convoca il consilium principis, cioè il gruppo di amici che lo consiglia nelle questioni
delicate. Questo affoga nel ridicolo la corte imperiale.
SATIRA II  La Satira II si scaglia con sdegno infuocato contro l’omosessualità maschile.
SATIRA VI  La Satira VI è la più lunga, ed è una feroce requisitoria contra la donna.
Queste due satire (II e IV) toccano punti importanti dei mores romani.
A partire dalla satira VIII la poesia di Giovenale comincia ad assumere caratteri diversi. Il tratto più
appariscente della nuova maniera è la rinuncia ad una prospettiva totalmente negativa, cioè non vuole solo
denunciare ma vuole anche proporre comportamenti corretti e positivi. Riprende, sempre a modo suo, quel
filone moraleggiante prevalente nell’opere dei suoi predecessori quindi riemergono i motivi e i topoi
diatribici che costituivano il patrimonio comune del moralismo della satira.
Riappare la concezione di fondo della diatriba ovvero l’idea che gli unici veri beni sono quelli interiori, tipo
la virtù, mentre quelli esteriori sono solo apparenza, indifferenti dal punto di vista della felicità. Muta anche
la concezione della ricchezza: in precedenza Giovenale la considerava fonte di un potere ingiusto, adesso
viene considerata un falso bene, desiderabile solo dalla stoltezza umana.
Queste nuove tendenze rendono più pacati i componimenti senza però spegnere la foga che appartiene
all’autore, e che ora non si indirizza più contro il male e i malvagi, ma contro l’errore e gli illusi. Alla
precedente indignatio subentrano anche l’ironia e lo scherno. I contenuti delle satire VIII- XVI sono:
SATIRA VIII  La Satira VIII è un elogio alle virtù, ma è ancora vibrante di indignazione, ma appare
incentrata sull’idea filosofica che l’unica nobiltà è la virtù.
SATIRA IX  La Satira IX tratta di una conversazione tra il satirico e un certo Nèvolo, un cliente corrotto e
deluso, che viene bollato come adultero e amante del ricco e avaro Virrone.
SATIRA X  La Satira X ritorna ad una tematica filosofica, trattando quale debba essere l’oggetto delle
preghiere agli dei e mostrando la stoltezza delle aspirazioni umane.
SATIRA XI  La Satira XI affronta prima il motivo del giusto mezzo in relazione alla ghiottoneria,
successivamente sono esemplificati i principi esposti svolgendo un tema topico, quello della cena infatti
l’autore invita un amico a una cena modesta.
SATIRA XII  La Satira XII presenta nella prima parte il satirico intento a compiere sacrifici per un amico
scampato al naufragio. Nella seconda parte sviluppa lo stereotipo dei cacciatori di eredità.
SATIRA XIII  Questa Satira è rivolta a un amico truffato del denaro che aveva dato in prestito. Il poeta
manifesta molto impeto nei confronti del destinatario, trasformando l’argomentare consolatorio in
sprezzante derisione dell’umana stupidità.
SATIRA XIV  In questa Satira si affronta il problema dell’influenza negativa che i genitori possono avere sui
figli, affermando il principio che al fanciullo si deve il massimo rispetto. Il cattivo esempio viene esaminato
in particolare rapporto con l’avarizia e l’ultima parte del componimento sviluppa il luogo comune della
negatività della ricchezza.
SATIRA XV  La Satira XV ha come centro un’ampia e indignata sezione narrativa che si occupa di un caso
di cannibalismo avvenuto in Egitto.
SATIRA XVI  La Satira XVI è incompleta o incompiuta e quindi di difficile interpretazione. L’inizio della
satira attacca con foga i privilegi dei militari.

La produzione di Giovenale mostra al suo interno una notevole variabilità, che da un momento iniziale,
pieno di tensione e fortemente unitario, passa a una fase successiva più varia ed eterogenea e questo è il
suo vero punto di forza. Le novità di questo poeta sono l’abbandono della satira di puro intrattenimento, la
scelta di un atteggiamento appassionato e concitato, invece quello dimesso e pacato dei predecessori e una
visione iperbolicamente negativa del mondo.

STILE E LINGUA
Il reale, che nella satira I è contrapposto polemicamente alla mitologia, finisce poi con l’essere equiparato
al mito per la sua straordinaria efferatezza. Viene proposta una visione volutamente distorta che interpreta
e rappresenta i comportamenti umani secondo i canoni della negatività, riscrivendo la realtà mediante una
sorta di deformazione espressionistica.
Alla rappresentazione degli aspetti distorti e mostruosi della realtà corrisponde in Giovenale uno stile
fortemente espressionistico e un’enfasi oratoria lontani dalla pacatezza utilizzata ad esempio da Orazio.
L’enfasi e la tensione che sostengono il discorso di Giovenale danno l’impressione di una requisitoria e
determinate a ciò è l’apporto della retorica. Il suo influsso si coglie sia nell’impostazione dei singoli
componimenti o brani sia nello stile, che appare artisticamente molto elaborato e ricco di artifici retorici
(stile nettamente rifiutato dai satirici tradizionali). Notevole importanza hanno poi quei procedimenti che si
propongono di manifestare e di indurre nel pubblico forti emozioni, come le interrogative retoriche, le
esclamazioni e le apostrofi. Grande spicco anche le sententiae, che sono divenute,alcune di loro,
proverbiali.
Anche l’aspetto linguistico è molto complesso. All’inconsueta componente colloquiale, a cui si aggiungono
anche alcuni vocaboli volgari, s’innestano vocaboli e costrutti elevati. Nell’insieme questo stile misto e
composito appare perfettamente idoneo all’impostazione della poesia di Giovenale, perché può cogliere le
bassezze della realtà e nel contempo trascriverle in termini di grandezza.
POETAE NOVELLI
La formula poetae novelli compare per la prima volta in un autore del III secolo, Terenziano Mauro, che lo
utilizza nel senso di “poeti moderni”, per indicare gli scrittori più recenti contrapposti agli antichi. Essi non
corrispondono in una nuova scuola o in una vera e propria corrente letteraria, ma rappresentano
principalmente nuovi orientamenti che affiorano dalla poesia lirica di questo periodo, di cui purtroppo ad
oggi abbiamo scarse tracce.
I poetae novelli mirano a un rinnovamento perseguito con il ritorno ai modelli neoterici e preneoterici. Essi,
come i predecessori, praticano la poesia come lusus colto e raffinato e prediligono le forme della lirica,
dando espressione, in carmi brevi, a sentimenti soggettivi e a momenti di vita vissuta. Con i neoterici e i
preneoterici hanno in comune la tendenza alla sperimentazione metrica e la ricerca dell’espressività
mediante l’uso frequente dei diminutivi e dei vocaboli ed espressioni attinti dalla lingua colloquiale.
Tra i poetae novelli abbiamo anche l’imperatore Adriano, della cui attività poetica c’informa una biografia
compresa nella Historia Augusta (una raccolta di biografie di imperatori e usurpatori romani comprendente
l’arco di tempo che va da Adriano a Numeriano) di un autore sconosciuto.
L’autore della biografia cita anche due brevi carmi, uno dei quali è una sorta di congedo dalla vita, che
l’imperatore avrebbe composto sul letto di morte. Si tratta di una malinconica invocazione o esclamazione
rivolta alla vita che sta abbandonando, ispirata al sentimentalismo artificioso, a una grazia manierata.
All’intento di questo carme si ha un’abbondanza di diminutivi che riferiti all’anima, hanno un valore
affettivo e vezzeggiativo, mentre quelli riferiti all’oltretomba rivelano un atteggiamento di sorridente
armonia, volto a sdrammatizzare la paura dell’Ade.
Il secondo carme invece è di tono completamente diverso, apertamente scherzoso, scritti in risposta a una
breve poesia dell’amico Floro, che affermava di non invidiare la vita dell’imperatore, costretto a lunghi
viaggi in terre lontane.

SVETONIO
Gaio Svetonio Tranquillo nacque attorno al 70 da una famiglia di rango equestre, ignoto è il luogo di nascita,
si presuppone che si Ostia, dove egli ebbe la carica religiosa locale di pontefice di Vulcano.
Per qualche tempo esercitò la professione di avvocato a Roma, intraprese quindi la carriera amministrativa
nella burocrazia imperiale.
Svetonio ricoprì le cariche di sovraintende a studiis degli archivi imperiali, a bibliothecis cioè delle
biblioteche pubbliche di Roma e ab epistulis ovvero della corrispondenza ufficiale dell’imperatore,
precisamente di Adriano nel 121-122. Successivamente Adriano lo destituì dal suo incarico, insieme al
prefetto del pretorio Setticio Claro, con la motivazione che avevano trattato con eccessiva familiarità
l’imperatrice Sabina (probabilmente questo fu un pretesto che non siamo però in grado di ricostruire).
Dopo questo fatto non si hanno più notizie di Svetonio e la sua morte è posta da alcuni studiosi intorno al
126.
Si hanno notizia di molti scritti eruditi, di cui però rimangono scarsi frammenti. Le uniche opere conservate
integralmente sono quelle biografiche: De viris illustribus e il De vita Caesarum.
DE VIRIS ILLUSTRIBUS
L’opera, riprende il titolo della raccolta biografia di Cornelio Nepote, restringe il campo d’interesse al solo
mondo romano e ai soli letterati, suddivisi in cinque categorie: poeti, oratori, storici, filosofi, grammatici e
retori (racchiusi in una sola sezione). Di quest’opera si è conservata solo quest’ultima parte, mutila tra
l’altro nel finale, la quale può darci un’idea di come ciascuna delle cinque parti fosse organizzata al proprio
interno. vi è un indice che elenca gli autori che saranno trattati in ordine cronologico, segue una sezione
introduttiva, che traccia la storia sia della grammatica sia della retorica in ambito romano. Poi seguono i
profili, brevi e delle volte brevissimi, dei maestri “illustri” dell’una e dell’altra disciplina.
Delle restanti parti rimangono solo biografie isolate, giunte fino a noi con le opere di altri autori biografi.
Alla sezione De poetis si assegnano le biografie di Terenzio, Orazio e Lucano e forse anche quella di Virgilio,
la quale però non fu testualmente riprodotta ma premessa da Donato al suo commento alle opere del
poeta.
DE VITA CAESARUM
Le vite dei dodici Cesari, da Giulio Cesare a Domiziano, presentano maggiore ampiezza e articolazione.
Svetonio si propone di far conoscere il personaggio protagonista, illustrandone non solo le azioni pubbliche,
tutte le vicende, il carattere e l’aspetto.
Per ogni imperatore la parte iniziale fornisce notizie relative a famiglia, nascita, educazione, carriera e
vicende fino all’assunzione del potere, disposte in ordine cronologico e con esposizione narrativa. A essa
subentra, nella maggior parte delle vite, la parte descrittiva che è molto più estesa della prima, e che
presenta i tratti salienti della personalità dell’imperatore e le caratteristiche del suo regno per species cioè
per categorie (ad esempio guerre interne ed esterne, provvedimenti di politica interna, vita privata ecc)
senza riguardo alla cronologia. Questo schema però non è applicato in modo rigido e meccanico a tutte le
biografie, esse possono variare notevolmente, adattandosi sia al materiale oggettivamente disponibile per
ciascuna sia al giudizio globale che lo scrittore vuol far emergere per i singoli imperatori.
In alcune vite, come quelle di Caligola e Domiziano, si ha uno schema bipartito cioè si possono individuare
un primo periodo, positivo o non del tutto biasimevole, e un secondo, in cui il principe manifesta vizi e
comportamenti da tiranno.
Esempio è la vita di Caligola suddivisa in un primo periodo da princeps e il secondo da mostrum. Al primo
periodo appartengono i provvedimenti clementi e liberali che arrecarono popolarità al principes, al secondo
periodo del mostrum appartiene la prescrizione ai carnefici, da parte di Caligola, di uccidere lentamente il
condannato affinchè si accorga che sta morendo.
Le varie vite sono accomunate dalla centralità della figura dell’imperatore e dalla tendenza a caratterizzarla
si attraverso eventi storicamente rilevanti sia attraverso fatti di poco conto, come particolari curiosi, futilità
e pettegolezzi. Il grande spazio riservato agli aneddoti curiosi e piccanti, alle battute di spirito e alle frasi
celebri sono da ricondurre ad un’accentuazione di uno dei tratti caratteristi del genere biografico. A questo
ambito si può anche ricondurre la puntuale registrazione delle abitudini stravaganti, come il passatempo di
catturare e infilzare le mosche a cui si dedicava Domiziano, e dei costumi sessuali libertini o perversi. Vi è
una grande propensione anche per il meraviglioso e il romanzesco, che si rivela nella gran quantità di
prodigi e presagi registrati in tutte le vite.
Altri temi invece appaiono peculiari di Svetonio, in linea con le conoscenze di un erudito e di un alto
funzionario statale. Grande attenzione è dedicata agli interessi culturali e all’attività letteraria degli
imperatori. Inoltre registra una grande quantità di informazioni di carattere giuridico, amministrativo,
economico e fiscale, corredandole di cifre che rivelano un vivo interesse per gli aspetti concreti del
funzionamento dello Stato.
Nel complesso i Cesari che Svetonio ritrae appaiono poco coerenti e questo è dovuto a una scelta
deliberata dall’autore stesso: ad egli interessano i fatti e meno gli aspetti psicologici degli imperatori che
comunque inserisce quasi sempre. Un esempio di questo è la figura di Nerone che Svetonio descrive con
una morbosa, patetica, mania di esibirsi in scena.
STILE
Svetonio non ha particolari ambizioni stilistiche e coerentemente al suo interesse per i fatti, scrive in modo
semplice, corretto e chiaro. Egli non evita anzi utilizza in abbondanza termini tecnici e grecismi, non
abbellisce i discorsi e le parole dei suoi personaggi come facevano gli storici, ma li cita con precisione
letterale, così come erano conservati dai documenti di cui fa uso.

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