Tacito nei suoi proemi sottolinea quelli che secondo lui sono i principi fondamentali della
storiografia: la veridicità e l’imparzialità, infatti egli si propone di offrire al lettore una visione
oggettiva degli eventi e dei personaggi che li caratterizzano “senza rancori e senza favore” ovvero
“sine ira et studio” proposito che lo stesso Tacito non sempre riuscì a portare a termine. Lo storico
biasima la parzialità dei suoi predecessori, che hanno trattato il principato mossi da spirito
rancoroso o da volontà di adulazione, e dichiara che il suo intento è quello di narrare gli eventi con
parzialità. Per far sì che ciò accada Tacito riporta molte interpretazioni dello stesso avvenimento
senza prendere un’aperta posizione nei confronti di una o dell’altra, molto spesso però questo
metodo lo porta a privilegiare alcuni aspetti che spingono il lettore ad una ben precisa
interpretazione, venendo così meno al suo obbiettivo. Un esempio lampante è “il discorso di
Calgaco” nell’Agricola, infatti cercando di riportare quello che è un aperto commento del capo dei
Caledoni nei confronti di Roma definendolo un impero corrotto, avido e spietato non fa altro che
evidenziare quelle che erano le evidenti piaghe che affliggevano Roma in quel periodo. Anche nel
proemio delle Historiae è palpabile questo giudizio a sfondo moralistico “In Roma, crudeltà ancora
più feroci: la nobiltà, le ricchezze, le cariche accettate o rifiutate diventarono capi d’imputazione;
le virtù venivano infallibilmente compensate con la morte”. La storiografia di Tacito quindi assume
sembianze marcatamente realistiche, proprio perché a riportarne gli eventi è un uomo che avendo
preso parte alla vita politica di Roma ne consce bene le dinamiche. Tacito ha una visione
pessimistica della storia, soprattutto negli Annales, è evidente la sua disillusione, egli è convinto
che il regime di quel periodo non potesse migliorare in alcun modo, e non ha nemmeno una
grande fiducia nel futuro dell’impero, dato che crede impossibile un ritorno al passato
repubblicano. Nonostante questa visione tragica, lo storico lascia spazio ad un piccolo spiraglio di
luce, ovvero la libertà dell’iniziativa che può sempre ribaltare il percorso della storia. Egli stesso è
però consapevole che la convivenza tra libertà e impero è quasi impossibile, infatti quella che c’era
stata fino a quel momento non poteva essere definita libertà di espressione, gli scrittori dell’epoca
potevano scrivere quello che desideravano, ma dovevano anche fare conto delle conseguenze, di
fatto secondo Tacito chi preferiva la libertà doveva accettarne le battaglie, mentre chi preferiva la
pace doveva subirne la servitù allo stato. Nel tentativo di creare un connubio tra le due arriva alla
conclusione che bisogna trovare un compromesso tra l’essere un fedele servitore dell’impero ma
allo stesso tempo non cadere nella cerchia di aperta adulazione del potere. Questo equilibrio però
non deve essere esercitato solo dal cittadino, anche l’imperatore ha il dovere di agevolare questo
passaggio, ed è proprio per questo che Tacito negli Annales fa un analisi quasi di rimprovero nei
confronti degli imperatori con un presunto moralismo. L’esempio più evidente sono proprio le
pagine dedicate a Nerone, Tacito non si limita a riportare gli eventi storici che lo riguardano,
descrivendolo come un despota, ma ne fa un’attenta analisi psicologia valutando nel complesso
tutti gli aspetti della complessa personalità dell’imperatore. Si può affermare quindi che Tacito
fosse convinto che l’evolversi della storia dipendeva unicamente dalle azioni degli uomini di cui ne
facevano parte e seguendo questo filo logico tenta di effettuare un’attenta indagine del principato
di Roma, prendendone in considerazione i lati positivi e negativi con obbiettività.