Negli ultimi decenni dell’Ottocento si aprì una nuova fase storia chiamata Seconda rivoluzione industriale che radicalizzò il cambiamento in ogni aspetto della vita umana. Alla base ci fu la trasformazione tecnologica del processo produttivo, derivata dall’applicazione di nuove scoperte scientifiche alla produzione di beni e servizi e che incise un cambiamento, in modo irreversibile, nella vita quotidiana di gran parte delle popolazioni occidentali mutandone così abitudini e comportamenti. I più importanti cambiamenti furono l’utilizzo su larga scala dell’elettricità, la nascita dell’industria chimica e dell’acciaio e l’invenzione del motore a scoppio e che combinati tra loro diedero avvio a un cambiamento radicale nel settore dell’industria, all’alimentazione, alla medicina e alla vita sociale. L’industria proseguì il suo sviluppo modificando le sue tecniche produttive e mobilitando immense risorse, si hanno quindi anche trasformazioni in ambito economico che coinvolsero anche gli Stati, i quali intervennero nelle politiche industriali, commerciali e finanziarie. Questo cambiamento provocò la crisi del “libero mercato” mettendone in discussione i suoi principi, automaticamente entrò in crisi anche il liberalismo, cioè quella tradizione politica che si era fatta interprete delle cultura economica dell’Ottocento. La cultura liberale aveva concepito e regolato la società sulla base della preminenza dell’individualismo e del potere di ristrette élite, questi principi furono messi in crisi con la nascita della società di massa e l’emergere di nuove forze popolari che insidiavano il tradizionale potere politico. L’avvento della società di massa fu dovuto da un intenso sviluppo demografico, incoraggiato dai progressi della medicina, dal miglioramento delle condizioni igieniche e della crescita dell’industria alimentare ( tra il 1840 e il 1914 la popolazione europea passò da circa 270 a 480 milioni). I processi di formazione della società di massa maturarono, a fine Ottocento, in un’effettiva partecipazione: alla politica, attraverso il suffragio elettorale e la nascita di partiti di massa; alla vita economica con l’avvio della produzione in serie e i primi consumi di massa; alla vita sociale, con la nascita del ceto medio e lo sviluppo dell’urbanizzazione; alla vita culturale, con la rivoluzione delle comunicazione e l’emergere dell’industria del tempo libero. Il riconoscimento del ruolo delle masse nella vita politica portò i diversi governi a estendere il diritto di voto fino ad adottare sistemi elettorali a suffragio universale maschile, anche il nuovo protagonismo politico dei nuovi ceti sociali impose nuove forme di comunicazione e di organizzazione in modo da conservare il consenso popolare. Si affermò così il patito di massa, un’organizzazione politica permanente e diffusa su tutto il territorio, che fu un ottimo strumento per diffondere la partecipazione politica a quelle fasce di popolazione fino ad allora escluse. Le lotte dei ceti popolari spinsero i governi ad introdurre nuove forme di legislazioni sociali per proteggere i lavoratori e le fasce più deboli introducendo così sistemi di assicurazione contro gli infortuni, controlli di sicurezza sul posto di lavoro, la proibizione del lavoro minorile in età scolastica, la riduzione degli orari di lavoro. L’avvento della società di massa favorì anche un altro processo ovvero la “nazionalizzazione” grazie principalmente agli eserciti di massa, cioè il servizio militare obbligatorio, e la scolarizzazione cioè l’istruzione obbligatoria e gratuita. Le nuove esigenze di organizzazione della società industriale e urbana determinarono la nascita e lo sviluppo del settore terziario, cioè quello dei servizi e degli apparati amministrativi, che ampliò il numero dei addetti consolidando così il ruolo del ceto medio. Il ceto medio presto si distinse come l’espressione più rappresentativa della nuova società di massa in primo luogo nella veste di consumatore. Al centro di tutti questi sviluppi vi ero lo sviluppo delle città che si trasformarono in vere e proprie metropoli. I cambiamenti del sistema di produzione modificarono anche i tempi di lavoro che diventarono fissi, mentre una legislazione rivolta al rispetto della vita umane ne ridusse gli orari, così nacque il concetto di tempo libero cioè il tempo dedicato allo svago. Grazie a questo si iniziò a diffondere un consumo culturale di tipo popolare con la diffusione di romanzi d’appendice, romanzi d’amore, best seller e gialli. Si diede avvio ad una vera e propria industria del tempo libero con numerose manifestazioni tipo il teatro, la canzone, la rappresentazione dal vivo, si iniziò a diffondere il concetto di viaggio grazie a nuovi mezzi di trasporto, e si diffusero gli eventi sportivi. Gli effetti della Seconda rivoluzione industriale aumentarono anche la concorrenza economica internazione e le relazioni tra gli Stati assunsero un carattere ostile e aggressivo. Così si entra nell’età dell’imperialismo, quando le potenze industriali reagirono ai problemi di sovrapproduzione e alla concorrenza dando avvio alla colonizzazione di nuovi territori, con il tentativo di garantirsi l’accesso diretto alle materie prime e l’apertura di nuovi mercati. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento le potenze europee si resero protagoniste di una seconda espansione coloniale che nel giro di pochi decenni assoggettò gran parte del mondo. In questo quadro si inseriscono gli Stati Uniti con le loro spinte espansionistiche. Nel 1898 la vittoria nella guerra contro la Spagna portò agli Stati Uniti il controllo di Cuba e di parte del Pacifico, inaugurando così il secolo della loro egemonia nel mondo, fondata principalmente sulla creazione di sfere di influenza politica ed economica e sul controllo del flusso delle materie prime e delle merci. Gli Stati Uniti risultarono i maggiori beneficiari degli effetti della Seconda rivoluzione industriale, tanto che i numerosi tassi di sviluppo lo portarono ad essere il paese con più alta industrializzazione. Il capitalismo statunitense si organizzò in grandi concentrazioni societarie, le corporations, e in assenza di regole, potè svilupparsi in modo più libero e selvaggio e questo grande sviluppo fu anche favorito da una cultura dominante basata sull’esaltazione vitalistica del business. Come in ogni sviluppo non mancarono anche le contraddizioni, in questo caso la popolazione nera, gli immigrati e gli strati sociali più bassi non beneficiarono di questi sviluppi. Se alla fine del XIX l’Europa era al centro del mondo, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale questo ruolo si era spostato assumendolo gli Stati Uniti. Il mondo però era attraversato dalla globalizzazione, cioè da una fitta rete di relazioni tra i vari stati che li rendeva dipendenti l’un dall’altro, e la cultura imperialista egemone e le radicate rivalità del vecchio continente prepararono il terreno per una guerra senza precedenti. IL CINEMA A PARTIRE DA LUMIèRE La data ufficiale della data di nascita del cinema sarebbe il 28 dicembre del 1895 con Louis e Auguste Lumière, imprenditori e inventori francesi, che nel Salon indien del Grand Cafè, sul Boulevard des Capucines a Parigi, i quali tennero il primo spettacolo pubblico a pagamento basato sulle proiezioni di fotografie in movimento realizzate con il cinématoghaphe.Questa data come molte altre data in altri ambiti, rappresenta una convenzione storiografica. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il tentativo di animare le immagini fotografiche fu un fenomeno che coinvolse molti paesi, in particolare quelli più avanzati come la Francia, gli Stati Uniti, la Germania e l’Inghilterra. Nel 1891 negli Stati Uniti Thomas Alva Edison con la collaborazione di William Kennedy-Laurie Dickson messe a punto il kinetoscope. Questo strumento funziona sfruttando una striscia di pellicola in celluloide (già utilizzata nelle fotografie dal 1882) con delle perforazioni laterali su cui agiscono delle griffe (procedimento già sperimentato da Emile Reynaud nel 1888 con il prassinoscopio) garantendo così l’avanzamento della striscia di pellicola e riuscendo a scattare trenta fotografie al secondo. Queste fotografie venivano poi stampate e sviluppate e rese visionabili in appositi apparecchi, chiamati appunto kinetoscopi. In ognuno di essi è contenuta una striscia fotografica di quindi metri di lunghezza e di trentacinque millimetri di larghezza,che vi gira all’interno ad anello. Il singolo spettatore inserendo un gettone, attiva il meccanismo, e attraverso la lente di un mirino può vedere le immagini in movimento. Anche il cinématographe dei Lumière si basa sull’animazione di immagini fotografiche contenute in una striscia di pellicola fotografica, ma con un avanzamento più lento cioè fra i sedici e i diciotto secondi, con notevoli vantaggi sul piano della luminosità e della durata del film. La differenza più importante tra i due strumenti è però la modalità di visione: lo strumento di Edison offre allo spettatore un esperienza individuale, quello dei Lumière propone un’esperienza collettiva grazie alla proiezione su grande schermo. Questo nuovo strumento è, fra il 1895 e il 1897, al centro di numerose presentazioni, dimostrazioni e anche spettacoli. Le proiezioni avvenivano nei principali centri urbani, in cui si trova la maggior concentrazione del pubblico medio o medio- alto borghese a cui sono destinati i primi spettacoli cinematografici (il loro costo era elevato per essere accessibile alle classi più basse). Successivamente alla presentazione pubblica i Lumière formano operatori specializzati e li inviano in giro per il mondo, in modo da aggiornare costantemente un listino di film (o meglio dire “vedute”) che alla fine conterà ben 1.400 titoli. La fortuna di questo apparecchio fu dovuto a due fattori in particolare: al suo peso, in quanto molto più leggera rispetto a quella di Edison; e alla sua capacità di assolvere tutte le funzioni richieste dall’attività cinematografica ossia ripresa, stampa dei positivi e proiezione. Queste condizioni consentivano agli operatori di lavorare in fretta e in autonomia. Una caratteristica delle vedute è la loro brevità: ciascun film è costituito da una sola inquadratura di circa cinquanta secondi, equivalenti a circa diciassette metri di pellicola contenibile in un caricatore della cinepresa Lumière. Tutte le vedute, che mostrano cerimonie ufficiali, paesaggi esotici, cerimonie ufficiali, sono tutte dipendenti l’una dall’altra, quindi lo spettatore dell’epoca andava a vedere un “programma”, inteso come silloge di singole riprese. I programmi non duravano molto, tra i venti e i trenta minuti, e questo era per due ragione: la prima è che il proiettore emette una fastidiosa luce intermittente che alla lunga disturba la vista, la seconda ragione è lo spettatore non richiedeva complessi universi narrativi ma solo piccoli assaggi di fotografie animate. Le vedute dei Lumière sono accomunate da precisi standard compositivi e dotati di certe peculiarità: la cinepresa è sempre immobile o delle volte si sposta su un mezzo di trasporto tipo un treno o una gondola; a dominare è la veduta d’insieme con un’angolazione di ripresa preferibilmente decentrata, per accrescere così l’illusione della profondità spaziale; l’immagine è sempre ben confezionato questo perché la qualità fotografica delle emulsioni dei Lumière consente agli operatori di restituire nelle immagini la gamma sfumata dei grigi e il dinamismo della luce. Dopo il grande successo, tutti i film realizzati dai Lumière e da altre società iniziano a perdere, intorno al 1898, il loro carattere di novità assoluta e quindi a perdere pubblico. Per questi motivi si decide di attuare delle strategie di mercato: abbassamento del prezzo del biglietto d’ingresso, l’ingresso in strati sociali più vasti rispetto a prima, e la variazione dei soggetti da mostrare ala pubblico. Una volta attuate queste condizioni, i luoghi dediti alle proiezioni, specialmente in seguito all’abbassamento del prezzo del biglietto, si spostano in luoghi di vocazione popolare tipo baracche di ambulanti, teatri di varietà e cafés chantants. André Gaudreault e Tom Gunning chiamano questo sistema “cinema delle attrazioni mostative”, in cui la priorità risiede nell’atto di attirare l’interesse percettivo dello spettatore facendo vedere qualcosa, più che raccontandolo. Da qui si spiega la centralità dell’attrazione: inizialmente le prime vedute dei Lumière meravigliavano il pubblico con una semplice riproduzione della vita sullo schermo ma in seguito questo cominciò ad essere assimilato e cominciò l’attrattiva del pubblico per trucchi sorprendenti e eventi fuori dall’ordinario. L’attrazione del cinema delle origini, a quel punto, si avvicina molto all’attrazione del circo e di altri spettacoli che ospitavano i film delle origini all’interno dei vari programmi. Solo a partire dagli anni Novanta al cinema d’attrazione, gradualmente, si affianca un cinema più orientato alla finzione e la graduale emrsione della componente narrativa porrà le basi, dal 1908 in poi, per un nuovo sistema di rappresentazione che Gaudreault e Gunning propongono di chiamare “cinema dell’integrazione narrativa”. Georges Miéliès fu tra i primi a concepire la produzione di film in termini dell’invenzione artistica e del lavoro di messa in scena. Nel 1888 Miéliès ha la gestione del Theatre Robert- Houdin e sul palcoscenico allestisce piccoli sketch in cui mescola giochi di prestigio, danze bizzarre, pirotecnie e gag. Da subito comprende che il cinema può ampliare la potenza dei trucchi illusionistici e avvia, nel 1896, un’imponente attività produttiva e con la sua società, Star Film, realizza ben 500 titoli fin al 1913. Nel giardino di casa sua allestisce il primo teatro di posa moderno, una struttura in vetro per sfruttare la luce solare, dotata di complessi sistemi di tende,argani e specchi. Miéliès inventa un mondo meraviglioso, frequenta tutti i sottogeneri del film a trucchi: dalla scenetta con giochi di prestigio ai viaggi immaginari (celebre Il viaggio sulla luna), dalla fiaba alla farsa astronomica. I procedimenti più utilizzati da Miéliès sono: 1) L’arresto- ripresa cioè l’arresto della ripresa, sostituzione di uno o più elementi della scena, nuovo avvio della ripresa. La continuità apparente della ripresa è ripristinata in sede di montaggio; 2) La sovraimpressione che gli consente di giocare con lo sdoppiamento e la scomposizione del corpo; I suoi film non di rado propongono allo spettatore strutture narrative articolare, l’unità di base dei suoi racconti è sempre la singola scena, quasi mai sezionata in inquadrature e il suo interessa mira alle attrazioni delle singole scene piuttosto che al montaggio serrato di quest’ultime. La fortuna di Miéliès terminerà nei primi anni Dieci e le ragioni sono molteplici: 1) La Star Film strutturalmente è molto debole di fronte alla nuove esigenze di organizzazione della produzione emerse dopo il 1908; 2) I ritmi produttivi sono frenetici e standardizzati, si richiede un apparato industriale che non si concilia con la cura minuziosa di Miéliès; 3) Nel primo decennio del Novecento si registra anche un declino dell’interesse del pubblico nei confronti del trucco fine a sé stessi e den fantastico. Da sempre la storiografia contrappone il cinema dei fratelli Lumière e quello di Miéliès in quanto principalmente le vedute dei Lumière rappresenterebbero la vita colta sul fatto cioè un cinema della realtà non narrativo, invece Miéliès sarebbe il promotore di un cinema più spettacolare, un cinema del trucco e del mondo fantastico inventato dentro gli spazi chiusi dei teatri di posa. Questa antitesi però da tempo viene messa in discussioni, in quanto la rigidità dei confini che separa questi due cinema cadono se pensiamo che la fotografia animata della realtà e il trucco sono due aspetti di uno stesso regime spettacolare che mira a “far vedere”. I film dei primissimi anni del Novecento sono caratterizzati dalla tendenza a non spezzare mai una singola azione in più inquadrature, cioè non vi è un’azione osservata da più punti vista. Ne consegue che il cinema, del periodo 1895- 1908, si costituisce tendenzialmente come un universo di inquadrature unipuntuali, cioè relative a un’azione, a un oggetto o a un panorama osservato da un solo punto di vista. Per definire queste inquadrature del primissimo cinema si utilizza il termine “piano autarchico”, ovvero che rimanda solo a sé stesso, non richiedendo mai il concorso di altre inquadrature. Ogni inquadratura è equivalente alle altre e il rapporto fra di esse si configura come paratattico, cioè come un racconto costruito secondo i nessi “succede questo e poi succede quest’altro, e poi succede quest’altro ancora”. Altra peculiarità del cinema d’origine riguarda il rapporto fra l’azione inquadrata e il fuori campo, cioè tutto ciò che si estende al di là dei bordi del quadro. Per lo spettatore delle origini non esiste la concezione che fra l’azione inquadrata e il fuori campo non vi sono soluzioni di continuità, e una volta uscito di scena il personaggio dei primi film scompare. Ad esempio L’innaffiatore innaffiato dei Lumiere che è un piccolo sketch tutto rinchiuso in un’unica inquadratura, in cui il giardiniere innaffiato, va a riprende il suo antagonista al limite dell’inquadratura, proprio un attimo prima che esso sparisca nel fuori capo, e lo riporta al centro della scena. Questa difficoltà nell’immaginare il fuori campo si comprende meglio se si pensa all’assenza o la rarità del movimento della cinepresa, alcuni film infatti possiedono questa caratteristica. Ben presto gli operatori comprendono i vantaggi, anche “attrazionali”, di una mobilità del punto di vista, e in particolar mondo della panoramica, movimento che la cinepresa compie muovendosi sul suo asse con direzioni rotatoria orizzontale, verticale o addirittura combinata. Pare che il primo a scoprire questi vantaggi fu un operatore dei Lumière, Alexandre Promio che diede avvio così a una serie di sperimentazioni cioè gli operatori posizionavano la cinepresa su veicoli in movimento tipo barche, navi, macchine e treni. Altra caratteristica degli operatori dei primissimi film era quella di riempire in modo ipertrofico il fotogramma, cioè riprendere una scena con più persone e cose contemporaneamente. Questo, in seguito al graduale aumento dei film narrativi, generava molto caos, così nei primi anni del Novecento si diffonde la figura del “lettore”: una persona che racconta, nel modo più appassionate possibile, cosa sta succedendo sullo schermo, così da aiutare il pubblico a identificare e seguire la linea narrativa senza disperdersi nelle troppe attrazioni. L’aspetto attrazionale, nel periodo 1898- 1908, è rafforzato anche da altri elementi, come il colore. Prima del 1922 non vi erano delle pellicole a colori, per questo motivo i produttori- realizzatori dell’epoca erano soliti colorare meccanicamente grandi quantità di pellicola poiché le singole strisce di fotogrammi erano, in origine, tutte in bianco e nero. Venivano dipinte in modo omogeneo o mirato nella fase di postproduzione e la soluzione più semplice era quella di realizzare una colorazione per imbibizione, ovvero immergere la pellicola in una soluzione colorante. Altra soluzione era quella di rivolgersi al viraggio, un procedimento molto più complesso che permetteva di sostituire i Sali d’argento dell’emulsione con un composto chimico equivalente ma colorato. La differenza fra i due metodi era oltre ai costi, la prima costo molto basso e la secondo a costi altissimi, era anche la luminosità che nel secondo caso era pressoché identica a quella della pellicola in bianco e nero e con molti vantaggi da punto di vista del contrasto generale. Esisteva anche un altro metodo, ancora più costoso, che era la colorazione manuale e selettiva, fotogramma per fotogramma, di una parte dell’inquadratura realizzato attraverso la tecnica a pochois, un complesso dispositivo a tampone che consente l’impiego di cinque- sei colori diversi. La colorazione, che mira a presentarsi come naturalistica, è più che altro una colorazione fantastica destinata a colpire lo spettatore (solo nel caso di colorazione delle scene d’incendio o per alternare il giorno e la notte può essere segnalata con valore realista). Inoltre le scenografie del tempo sono per la maggior parte bidimensionali, ovvero, tutti i mobili e gli oggetti che non servono sulla scena sono dipinti sullo sfondo o su quinte posticce e né realisticamente posizionati sulla scena, ma su questo non ricade l’azione dello spettatore a cui interessa l’atmosfera che quella scena rende. Un simile disinteresse nei confronti dell’immagine realistica, a profitto di un gioco delle attrazioni si può rintracciare all’inizio del Novecento e nei primi tentativi di dar vita a un vero e proprio cinema d’attrazione. Il primo a intuire le potenzialità creative e commerciali del cinema d’animazione è stato James Staurt Blackton, autore di fortunati film come The Magic Fountain Pen, dove bizzarri ritratti da lui abilmente disegnati su carta prendono vita e diventano autonomi. In Francia si ha Emile Cohl, realizzatore tra il 1907 e il 1923, di oltre cinquecento film di animazione a corto metraggio. Nelle prime produzioni egli anima situazione stravaganti e surreali, con continui cambi di scenario e continue metamorfosi degli oggetti e dei personaggi, all’interno di uno spazio quasi astratto. Sia Blackton e Cohl utilizzano la tecnica del disegno filmato nelle sue evoluzioni bidimensionali fotogramma per fotogramma; molto più praticata era la tecnica del stop-frame animation che consisteva nella ripresa a scatto singolo di oggetti, modellini o pupazzi mossi in uno spazio tridimensionale e questo consentiva di creare mondi perturbanti. Si ricordi ad esempio Hotel elettrico di Segundo de Chomon, in cui immagina una realtà dove gli oggetti quotidiani prendono vita e quasi si ribellano alle loro funzioni d’uso. A partire dal 1905 il cinema inizia a imporsi nel mercato internazionale dell’intrattenimento collettivo. Il paese con un crescente sviluppo nel settore è la Francia, in cui produttori come Charles Pathé e Léon Gaumont, nell’arco di pochi anni, le loro società dominano il mercato interno e si muovono alla conquista di mercati esteri, in particolare La Pathé si imporrà come azienda cinematografica internazionale. Gli Stati Uniti ha il più appetibile mercato cinematografico del mondo, ma le case di produzione non riescono ancora a soddisfare una domanda interna in forte crescita e questa espansione è frenata dalla “guerra dei brevetti” scatenata da Thomas Alva Edison. Quest’ultimo, presagendo il declino commerciale del suo kinetoscopio, puntò ad acquisire tutti i brevetti legati alla ripresa e alla proiezione su grande schermo, cercando di costituire un monopolio esclusivo e facendo causa a chiunque tentò di essere il suo concorrente negli Stati Uniti. Nel 1908 Edison riuscì a trovare un accordo con le case più solide, quali Biograph e la Vitagraph, per un controllo del mercato interno e per contrastare la crescente importazione di film stranieri. Si costituisce così il trust della MPPC (Motion Picture Patents Company), ma questo non portò la pace nel settore segnato principalmente dall’opposizione di produttori indipendentie dalle iniziative antiprotezionistiche condotta da alcune case straniere. In Italia le prime strutture produttive nascono dopo il 1905, ben dieci anni dopo la Francia e gli Stati Uniti, ma il rapido sviluppo del cinema nazionale colmò questo ritardo mettendo subito in evidenza una peculiarità, ovvero il policentrismo. Il policentrismo era l’esistenza non di una sola capitale del cinema egemonizzata da due o tre cade, ma di più centri produttivi sparsi in tutta la penisola come Milano, Napoli, Sicilia e in particolare Torino che diventerà sede del decollo del cinema italiano. In generale si rilevano importanti novità sul piano organizzativo: il ciclo di produzione dei film è ospitati in appositi stabilimenti, sempre più ampi e funzionali, e si articola in fasi distinte, determinando una specializzazione dei ruoli professionali partendo dallo sceneggiatore all’operatore, dallo scenografo al registra. Si ha anche un perfezionamento dei proiettori, l’abbassamento dei prezzi d’ingresso, la necessità di rinnovare l’offerta dei film e la conseguente evoluzione dei generi e dei soggetti, questi sono tutti i fattori che cambieranno il contesto e il modo di vedere le immagini animate. Si iniziarono a diffondere, a Parigi, New York, Roma delle sale cinematografiche permanente che prima integrarono e poi misero in crisi il settore degli spettacoli ambulanti; ad esempio negli Stati Uniti si diffusero i nicklodeons che erano delle sale con poche pretese per operai e immigrati, con programmi molto variati, con flessibilità d’orario e con biglietti a prezzi molto bassi. Questi cambiamenti coinvolsero anche le modalità della rappresentazione di cui il fenomeno più evidente fu l’elemento narrativo. Tra il 1904 e il 1908 le inquadrature iniziano ad esser composte sempre più in funzione del montaggio e quest’ultimo è ispirato spesso alle logiche del racconto. Un primo tentativo fu fatto alla fine dell’Ottocento con le prime visioni cinematografiche della passione di Cristo, ma in quel caso lo spettatore doveva avvalersi di conoscenze estranee al film e del sostegno orale di un lettore in sala perché il racconto degli eventi sacri era pieno di lacune. Nei primi anni del Novecento esistono due diverse concezioni estetiche dell’inquadratura: 1) Si perfeziona l’estetica dell’inquadratura “autarchica”, scena compiuta che esaurisce al suo interno, senza stacchi, la durata di un evento narrativo. In queste la didascalia si limitavano ad anticipare con un breve testo il contenuto dell’inquadratura stessa; 2) Inizia a svilupparsi un’estetica in cui le inquadrature non sono elementi autonomi ma si integrano nell’unità del racconto, e si raccordano con numerose didascalie. In queste le didascalie svolgono un ruolo importante per situare il racconto nello spazio e nel tempo, sia per dar voce ai personaggi che si muovono nella scena. Le didascalie di questo tipo furono molto utili per far comprendere meglio agli spettatori inquadrature diverse all’interno di uno stesso spazio o addirittura di spazi diversi. Un esempio di più inquadrature è Vita di un pompiere americano di Porter che alla ripresa dall’esterno di un pompiere che entra dalla finestra di un edificio in fiamme per salvare un bambino portandoselo fuori sulle spalle, si fa seguire la ripresa dello stesso pompiere che compie la stessa azione, ma vista dall’interno. Lo sviluppo graduale del racconto cinematografico è un fenomeno internazionale, ma nella fase iniziale di questo tipo di cinema si distingue quello inglese, animato dalle iniziative di piccoli imprenditori- realizzatori, come ad esempio James Williamson o George Albert Smith. La volontà di segmentare un evento narrativo in più inquadrature relative a spazi diversi ma correlati appare in un film di Smith del 1899, Il bacio nel tunnel, qui l’azione si sviluppa attraverso tre inquadrature. I binari della ferrovia filmati da un treno in corsa prossimo a entrare in galleria; l’interno di uno scompartimento con una coppia che si bacia; il treno che esce dalla galleria. La ricerca sulla continuità d’azione tra inquadrature girate in spazi diversi si sviluppa maggiormente negli anni successivi, incoraggiata anche dalla necessità di realizzare film di inseguimento, uno dei generi più fortunati dalle origini del cinema. Un esempio è il film di James Williamson con Stop Thief! In cui viene rappresentato, attraverso la successione di inquadrature di spazi contigui, l’inseguimento di un ladro. Una particolarità che salta all’occhio è l’uscita di scena del ladro dal alto destro, per poi rientrare nell’inquadratura successiva sempre dallo stesso lato, questo raccordo di montaggio sembra un errore ma allora non era considerato come tale. Nei primi anni del cinema il sistema che regolava l’entrate e le uscite di scena dei personaggi in movimento non era ben codificato, e al quale si arriverà gradualmente sperimentando così il raccordo di direzione. Questo possiamo trovarlo in un altro film dello stesso Williamson Al Fuoco, in cui connette due spazi contigui ma questa volta distanti e propone un “uso corretto dei raccordi di direzione. Un’ulteriore forma di rapporto fra le inquadrature elaborata nel primo cinema inglese è il raccordo sull’asse, cioè l’accostamento fra due inquadrature, una più distante e una più vicina, come si può notare nel film di George Albert Smith con L’incidente di Mary Jane, in cui si ha prima un’inquadratura lontana e successivamente una più vicina. Dopo il 1903 l’area produttiva più sensibile sul racconto cinematografico è rappresentata dagli Stati Uniti, in cui si diffondono i film di finzione e di cui il massimo rappresentante fu Edwin S. Potter con il suo celebre film La grande rapina al treno, di ben quattordici inquadrature. Porter racconta la storia di una banda di rapinatori che assalta un treno, il montaggio riesce a garantire una continuità spazio- temporale tra le inquadrature, anche se non riesce ancora a rappresentare la simultaneità delle azioni con un montaggio alternato. Questo film certifica, con la scena in cui il rapinatore punta lo sguardo verso la cinepresa per poi sparare, come il passaggio dal cinema delle attrazioni al cinema dell’integrazione narrativa implichi anche un cambiamento nelle relazioni tra il film e lo spettatore. Lo spettatore è assorbito all’interno del racconto, dove è invitato ad assumere una posizione di centralità con la complicità di una cinepresa ubiqua, per far ciò lo spettatore deve rendersi invisibile quindi non può essere visto da un personaggio che si muove all’interno della scena. Per questo motivo a partire dagli anni Dieci del Novecento i produttori americani vietano agli attori di guardare in macchina verso il pubblico. Un ruolo molto importante lo ricoprì Wark Griffith che tra il 1908 e il 1913 realizzò circa 450 film per la Biograph, sperimentando nuovi tipi di rapporto fra le inquadrature in funzione narrativa. Griffith si concentrerà (1) sulle diverse opzioni di montaggio, (2) sulle risorse della profondità di campo, (3) sull’eloquenza simbolica dei dettagli, (4) sui primi piani e (5) sui contrasti di luce. Una delle più celebri strategie messe a punto da Griffith è il montaggio alternato (già presente in nuce in alcuni film francesi dal 1906), grazie al quale lo spettatore inizia a capire che la successione tra due inquadrature può non solo esprimere un relazione prima e dopo ma anche simultaneità. Il montaggio alternato serve a raccontare in contemporanea due linee narrative appartenenti a un’unica vicenda ma dislocate in spazi distinti, cioè alcune inquadrature dedicate a una linea narrativa sono alternate a inquadrature dedicate all’altra. Un esempio è The Lonely Villa di Griffith che segue un padre allontanatosi da casa per andare in città con alcune inquadrature, con altre la sua famiglia assediata nella propria casa, per poi nel finale far comparire l’uomo che torna a casa con i rinforzi giusto in tempo per salvare la famiglia. Altro codice narrativa che si diffonde sempre grazie a Griffith è il montaggio analitico. Questo montaggio risponde al bisogno di aiutare lo spettatore a disporre all’interno di un ambiente i segmenti di reale visibili nelle inquadrature ravvicinate, questo lo attua attraverso la strategia dell’establishing shot, cioè un’inquadratura totale che contiene i personaggi e gli elementi di sfondi utilizzati nelle successive inquadrature. Nel montaggio analitico è molto ampio l’utilizzo di primi piani o primissimi piani, spesso investiti di una valenza simbolica che eccede la funziona narrativa, per trasformare così il personaggio in emblema di una particolare condizione interiore o sociale. Il cinema di Griffith definisce un vero e proprio sistema di regole e strategie che organizza le inquadrature anche in funziona della materia narrativa, dando a quest’ultima forma e chiarezza, e facilitando così l’assorbimento dello spettatore all’interno del racconto. Nonostante il suo grande contributo non sarebbe corretto definire Griffith un padre fondatore del linguaggio cinematografico, in quanto si ritrova ad operare all’interno di un contesto molto vivace e pieno di reciproche influenze, e la sua oggettiva importanza riguarda la messa a punto delle risorse linguistiche e spettacolari del cinema. Il passaggio dalle singole attrazioni al cinema composto di una trama narrativa coinvolge anche il cinema d’animazione, infatti negli anni Dieci del Novecento inizia a diffondersi con molto successo il fenomeno delle serie di film animati con personaggi fissi, in parte ispirati ai fumetti (che erano delle strisce di vignette) e in parte originali. Nel 1914 viene brevettata una nuova tecnica con l’elemento del rodovetro da parte di Earl Hurd, ancora oggi utilizzata da quei disegnatori che hanno scelto di non lavorare in ambiente digitale. Questo sistema integra fogli semoventi in acetato di cellulosa e tavole fisse di scenografie dipinte, consentendo così di non dover ridisegnare per ogni scatto singolo la parte di sfondo su cui si muovono i personaggi. Questa novità velocizzerà il processo di produzione e orienta gradualmente il cinema d’animazione in direzione di imitazione di cinema dal vero. Successivamente Max Fleischer metterà a punto il rotoscopio, cioè le riprese live action sono proiettate su in pannello di vetro sul quale l’artista ricalca le figure in movimento e l’obiettivo di questo strumento era definire con precisione un movimento realistico e uniforme dell’immagine. Tra il 1908 e la Prima Guerra Mondiale il cinema va assumendo una dimensione sempre più industrializzata nel contesto di una crescente concorrenza internazionale che vede coinvolti in particolar modo la Francia, gli Stati Uniti, la Danimarca e l’Italiana. Solo il conflitto mondiale il cinema hollywoodiano inizia a porre le basi di un’egemonia mondiale che si prolungherà per tutto il Novecento e oltre. Le trasformazioni che vengono messe in atto in questo periodo sono numerose e riguardano principalmente l’organizzazione produttiva, i legami tra questa e la distribuzione, i luoghi dell’esercizio, i soggetti del consumo, i contenuti e le modalità di rappresentazione. Il pubblico inizia a chiedere sempre maggiormente storie e meno un cinema d’attrazione, a questo era dovuto al fatto che gli esercenti non noleggiava i film ma li compravano, in questo modo in sala si aveva la ripetizione continua dei stessi film, e il cambio avveniva solo per l’usura delle pellicole e l’esaurimento delle loro possibilità attrazionali. A partire dal 1909 in reazione a una crisi del settore la distribuzione vive una fase di sofferta ma decisiva riorganizzazione, così si passa dalla vendita al noleggio questo comporterà un crescente protagonismo delle case di produzioni nel continuo rinnovo dell’offerta. I film cominciarono a essere prodotti secondo logiche di crescente standardizzazione, in modo tale da garantire la riconoscibilità del prodotto e il suo continuo ricambio. In queste dinamiche assume un ruolo molto importante quella serie di film comici con un personaggio fisso, inaugurati dalla Francia con André Deed nel 1906 e poi con Max Linder nel 1908. Questo produzione all’inizio degli anni Dieci si svilupperà anche negli Stati Uniti. A partire dal 1910 in poi aumenterà la diversificazione tra il cinema europeo e quello degli Stati Uniti, non solo sul piano organizzativo ma anche sul campo espressivo e stilistico. Il cinema americano predilige la ricerca sul montaggio, sempre più analitico e funzionale al fluido dinamismo del racconto invece in Europa vengono proposti modelli di spettacoli e rappresentazioni “alternativi”, cioè potenziano le risorse espressive dello spazio non sezionato del montaggio, prestando particolare attenzione al lavoro di messa in scena. L’ attenzione alla messa in scena consisteva in tutto ciò che veniva posto davanti alla macchina da presa in funzione della ripresa partendo dalle scenografie all’illuminazione, dai costumi alla recitazione degli attori, le entrate e le uscite di campo ecc. Ma ciò su cui si concentra la produzione Europea è principalmente l’inquadratura, cioè i potere visivi dell’inquadratura presentando così delle caratteristiche peculiari: (1) tendono a esaurire in autonomia un intero nucleo narrativo, e se la scena richiede punti di vista differente si cerca di comprimere tutti i punti di vista in una sola scena invece il cinema degli Stati Uniti opterebbe per una sequenza “pluripuntuale” cioè una serie differenziata di inquadrature; (2) l’organizzazione spaziale all’interno dell’inquadrature è statica e centripeta, nonostante via un ampio ricorso ai movimenti di macchina, tendenzialmente gli attori sono inquadrati per intero e l’angolazione risulta frontale rispetto all’oggetto della ripresa. Da ciò ne consegue che l’attenzione dello spettatore converge sempre verso il centro della scena. Ciò che realmente differenzia il cinema Europeo, cioè della Francia, Italia, Danimarca da quello americano non è il rapporto tra le inquadrature ma quello tra gli elementi interni alla singola inquadratura: dall’equilibrio centripeto europeo si ha quello della raffinata orchestrazione dei rapporti tra pieno e vuoto, destra e sinistra, alto e basso, movimento e stasi e questo produce risultati di grande complessità. Una peculiarità del cinema europeo è rappresentata dai “film d’arte”, sperimentati dal 1908 soprattutto in Francia e in Italia: sono delle produzioni ambiziose e impegnative quasi sempre in costume e caratterizzate da scenografie accurate, da una recitazione di alto livello affinata da celebri interpreti del teatro, con autorevoli contenuti culturali, storici o letterari e con forte valore istruttivo e pedagogico. I film d’arte rispondono alla necessità di cercare nuovi mercati e allargare la base sociale del pubblico, in quanto il declino progressivo dei brevi film fondati principalmente sulla farsa popolare e sui trucchi lasciano spazio film che raccontano storie desunte o modellate sulle forme dei grandi capolavori della letteratura e del teatro puntando principalmente alla legittimazione culturale ed estetica e al coinvolgimento del pubblico più ricco, ovvero la media e alta borghesia. La media e alta borghesia non abbandonarono mai il cinema ma cominciò a risultare un pubblico in forte minoranza a causa del genere proposto considerato volgare, per questo motivo si attuò una nuova strategia: si aprirono, negli anni Dieci, sale cinematografiche molto più capienti, eleganti e confortevoli nell’allestimento, con prezzi di biglietto differenziati in base ai settori, attesta un rientro in gioco come pubblico di questa classe. Questa crescente trasformazione del cinema in un medium di massa attira la crescente attenzione degli osservatori da una parte, ma anche fortissime critiche dall’altra in quanto la vocazione riproduttiva dell’immagine cinematografica è ritenuta pericola perché alimenta la credibilità agli eventi e ai comportamenti degenerati e antisociali che rappresentano. Il cinema diventa, quindi, il capo espiatorio di un’insicurezza più profonda, generata dalla difficoltà di gestire e mediare le trasformazioni della modernità. Moltissimi si impegnarono a sottolineare e individuare le ragioni della presupposta pericolosità del cinematografo, che individuarono nella sua potenza di suggestione. Tutte queste convinzioni alimentarono una pubblicità negativa del cinema e le diverse autorità statali, più volte chiamate in causa dai moralizzatori, intervengono a regolare e disciplinare il settore con gradualità. In Italia ad esempio si introduce la censura di Stato nel 1913. A partire dal 1911 emerge un importante cambiamento del cinema muto, ovvero la graduale affermazione del lungometraggio. Un primo importante segnale di novità arrivò dalla Danimarca e precisamente dalla Kosmorama, una piccola casa di produzione, che nel 1910 tenta di superare la durata standard dei film dell’epoca realizzando, sotto la regia di Urban Gad, il dramma L’abisso lungo ben 750 metri equivalenti circa a 45 minuti di proiezione. Il film, nonostante la sua durata anomala, ottiene un grande successo internazionale, anche grazie all’efficacia interpretative di una delle prime dive della storia del cinema, Asta Nielsen. Il cinema danese contribuisce fortemente allo sviluppo di un cinema fondato sulla centralità della scena e sulla profondità di campo, e non solo, furono molto importanti le varie ricerche sull’illuminazione grazie a Urban Gad, August Blom. Una caratteristica tipica del cinema danese sono le scene della ripresa di sagome di personaggi da un interno scuro con la cinepresa rivolta verso un varco di luce. Il lungometraggio di ambientazione contemporanea alimenta ricerche anche in Svezia, il quale inizia a produrre film significativi a partire dal 1913 grazie all’attività di Mauritz Stiller e Victor Sjostrom. Quest’ultimo dimostra di possedere un’eccezionale abilità nell’uso drammatico della profondità di campo, si pensi alle figure poste in primo piano e giustapposte all’azione che si svolge sullo sfondo. Una caratteristica del cinema muto svedese è il sentimento della natura, cioè l’utilizzazione espressiva del paesaggio come elemento portante dell’azione e specchio delle tensioni interiori. In questo quadro si inserisce anche il cinema russo con importanti aspetti originali, come la specializzazione della produzione nella realizzazione di sofisticati e malinconici melodrammi di sapore decadente di cui la massimo espressione fu Evgenij Bauer. I suoi film sono inconfondibili perché la recitazione è rallentata e piena di pause, la regia privilegia l’inquadratura lunga e statica, il racconto è sempre subordinato alla qualità pittorica del quadro e si concludono sistematicamente con un finale tragico. Il cinema francese invece dopo aver introdotto per primo la formula del “film d’arte” approfondisce la ricerca sulle possibilità espressive del fondale dipinto, realizzando così scenografie con suggestivi effetti tridimensionali. All’affermazione del lungometraggio contribuisce notevolmente anche il cinema italiano, il cui successo nel mondo è garantito dal kolossal storico ambientato nel mondo antico, chiamato peplum. Queste genere esigeva strutture narrative molto più complesse e l’invenzione di uno spazio monumentale ed esteso in linea perfettamente con la diffusione del lungometraggio, di cui la conseguenza fu una dilatazione del potere informativo e seduttivo singole inquadrature. La visione dell’antichità che emerge da queste scene è il prodotto di un’elaborazione immaginaria che mescola le più svariate componenti artigianali e artistiche. Il peplum si avvia nel 1908 con Gli ultimi giorni di Pompei di Luigi Maggi, realizzato da Ambrosio, questo è il primo film storico animato da uno scrupolo culturale e dalla preoccupazione di un’attendibile ricostruzione degli ambienti e dei costumi. La fortuna di questo genere si avvierà, però, solo nel 1911 quando l’Itala Film di Pastrone produce La caduta di Troia, un film di seicento metri corrispondenti a 30 minuti di durata; e raggiungerà l’apice nel 1914 con Cabiria sempre di Pastrone, una storia d’amore e d’avventura ambientata durante la Seconda guerra punica, di quasi tre ore di lunghezza e realizzato con un budget esorbitante. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale il film storico di Cabira, che ottenne un successo eccezionale negli anni precedenti, iniziò a calare a favore di una crescente esportazione di film stranieri, fino ad essere soppiantato definitivamente dal nuovo genere del dramma passionale di ambientazione contemporanea. Il successo internazionale di questi drammi fu dovuto soprattutto al fascino delle attrici protagoniste, perché a partire dal 1908 i nomi degli interpreti iniziarono ad essere indicati in misura crescente nelle pubblicità e all’interno degli stessi film, quindi vi fu la ricorsiva presenza di attori e attrici molto graditi dal pubblico e questo diventò ben presto uno dei principali elementi di attrazione. Siamo agli albori del divismo cinematografico, questo fenomeno coinvolgerà in egual misura il cinema europeo e il cinema nordamericano, e soprattutto grazie ad attrici italiane come Francesca Bertini, Lyda Borelli e Pina Menichelli che il divismo comincia ad assumere una rilevanza strategica nel processo produttivo. Le dive italiane, negli anni di massima affermazione cioè tra il 1915 e il 1920, compongono un variegato alfabeto sensuale del corpo e del gesto e rilanciano alcuni modelli immaginati d’identità femminile, tipo la femme fatale demoniaca, l’innocente sventurata o la donna perduta. Un’influenza particolarmente suggestiva è esercitata dalla cultura letteraria del decadentismo, soprattutto dannunziana, da cui il cinema riprende alcune ossessioni come il nesso tra il piacere e l’arte o il liceità dell’adulterio. La risorsa espressiva principale è il corpo dell’attrice e anche se in presenza di attitudini e modelli comuni, ogni diva propone una personale interpretazione del proprio personaggio. La riconosciuta centralità degli attori e delle attrici è parte del più generale processo che nel corso degli anni Dieci conduce, sia in Europa che negli Stati Uniti, a una più definita specializzazione delle professioni. Nei primi anni della storia del cinema era necessaria una piccola equipe per realizzare un film, negli anni Dieci iniziano a diffondersi processi produttivi più complessi e suddivisi in varie fasi e a prendere sempre maggiore consistenza dal punto di vista tecnico e organizzativo sono: lo sceneggiatore, l’operatore e il direttore di scena. I primi anni Dieci segnano la rapida espansione dell’industria cinematografica americana. L’area dominante si sposta da New York a Los Angeles, e in particolare a Hollywood. La California la quale garantisce ottime condizioni ambientali per le riprese in esterni insieme a un’articolata varietà di paesaggi, diventa la meta privilegiata delle case indipendenti che contrastano la MPPC di Edison. Il lungometraggio che si era diffuso nel cinema europeo, fa difficoltà ad approdare nel cinema degli Stati Uniti in quanto MPPC resta fedele alla formula Two-reels (due rulli), equivalente a circa trenta minuti di proiezione. Questa tendenza però fu invertita da David Wark Griffith, convinto sostenitore del lungometraggio narrativo, che con il film Judith of Bethulia del 1914, passa dal two- reels al four- reels. Saranno anche molto importanti i suoi lungometraggi successivi: La nascita di una nazione, 1915 e Intolerance 1916. In La Nascita di una nazione Griffith attua una narrazione romanzesca, ed è un lungometraggio di durata eccezionale ben 180 minuti di proiezione, in cui mette in scena la ferita ancora aperta della guerra civile americana. La storia e i drammi degli individui si integrano in un complesso equilibrio tra epica e psicologia, esprimendo così anche la sua concezione individualistica della storia ovvero che gli eventi si mettono in moto quando un uomo decide di passare coraggiosamente all’azione. Griffith si ferma su questa base poiché non può e non vuole approfondire un evento molto complesso come la guerra civile americana. Egli mette in scena un ordine- disordine con strategie discorsive molto efficace, inoltre nella seconda parte domina la figura dei neri in un’accezione totalmente negativa, come lo è proprio nel finale quando mette in atto la strategia del salvataggio all’ultimo minuto: la capanna dei veterani dell’Unione dove si sono rifugiati il dottor Cameron e altri bianchi è assediata dai neri, ma i cavalieri del Ku- Klux-Klan riescono ad arrivare prima che accade il peggio. Questo film scatenò numerose critiche e anche violenti tumulti razziali, ma nonostante ciò ebbe un grandissimo successo. Con Intolerance Griffith realizza un film con ambizioni molto più vaste: la struttura è innovativa ed è organizzata come una serie di quattro episodi tratti sia dal passato che dal mondo contemporaneo, ma tutti destinati a convincere lo spettatore dell’inutilità della tolleranza. Ad animare questa tematica apparentemente monocorde è il montaggio, Griffith procede nel racconto alternando fra loro ampie sequenze dedicate a blocchi narrativi dell’uno o dell’altro legate a ogni passaggio da un Leitmotiv che ricorda il tema centrale della tolleranza. Il primo conflitto mondiale rovescia definitivamente i rapporti di forza tra Europa e Stati Uniti, a pieno vantaggio di quest’ultimi, entrati tardivamente in guerra ma questa non fu l’unica ragione del primato americano. Il Cinema statunitense nel corso degli anni Dieci mise a punto un apparato industriale di estrema efficienza: le piccole compagnie di distribuzione tendono a fondersi in aziende più grandi a concentrazione verticale, nascono così la Universal, la Paramount, la Fox Film, universi molto complessi e strutturati in cui il lavoro si svolge secondo i modi della catena di montaggio. Il mondo di produzione si trasforma ponendo al centro non più il regista, responsabile solo delle riprese, ma il produttore responsabile dell’intera lavorazione. Oltre alla diversificazione e della specializzazione dei vari ruoli, si elaborano anche nuove strategie per garantire un’efficace confezione del prodotto e della sua vendibilità e le novità più importanti in questa prospettiva sono lo star system e una politica produttiva pensata sempre più per generi. Il genere che si diffonde maggiormente è quello comico grazie alla figura di Sennett, il quale attraverso numerosi e brevi film one- reels, perfeziona il modello della slapstick comedy, cioè la commedia violenta fatta di sberle, cadute, torte in faccia. Nel 1914 Sennet sperimenta, per la prima volta nel cinema americano, il lungometraggio comico con Il fortunoso romanzo di Tillie, sfidando così la convinzione che il lungometraggio non fosse adatto a quel genere. In questo film reciterà Charlie Chaplin, attore abbastanza noto ma ancora agli esordi della sua carriera. Proprio nelle sue prime apparizione per la Keystone di Sennett perfeziona e caratterizza il suo personaggio: il cappello a bombetta, la canna da passeggio, i baffetti a spazzolino. Nella seconda metà degli anni Dieci Charlie passa attraverso una serie di case di produzione e acquisisce una fama crescente che lo porta ad ottenere nel 196 a compensi eccezionali per l’epoca e addirittura uno studio personale per i suoi film. Chaplin irrompe nell’immaginario cinematografico, ed è tra i primi a imporre una riflessione sul cinema come “arte”, e i suoi film resteranno nella storia influenzando anche quelli successivi, film Il monello, Tempi moderni, Il grande dittatore, La febbre dell’oro. Altra figura di questo genere fu Buster Keaton, che nei primi anni Venti, inizia ad approdare nel cinema e precisamente nel genere comico. Keaton pur rimanendo legato a un preciso tipo comico -cioè la figura di un inetto, dall’espressione imperturbabile che grazie al suo creativo rapporto con la realtà che lo circonda, riesca ad avere ragione dai suoi nemici- non legherà mai la sua immagine a quella di un personaggio. Uno dei suoi film è La guerra, in cui egli è un ferroviere del Sud che per far colpo sulla sua fidanzata vuole arruolarsi fra i ribelli. Ma tutto sembra andare a monte, dopo essere respinto dall’esercito. Il destino però lo mette ben presto in condizioni di catturare un convoglio nemico sia di fare prigioniero un generale nordista, con grande soddisfazione della sua fidanzata che riconosce inaspettatamente in lui un eroe. Il graduale spostamento della produzione da New York, estendendo la geografia dei set ai spazi dell’Ovest, incoraggia il decollo del genere cinematografico americano per eccellenza, il western, incentrato sui racconti della conquista della frontiera da parte dei coloni, della lotta contro i nativi “pellirossa” e della faticosa costruzione di nuove comunità fondate sull’ordine e sul rispetto della legge. Un esponente di questo genere fu Thomas H. Ince, il quale nei propri film valorizza ed esplora il paesaggio grazie ad ampi movimenti di macchina panoramici, diventando così un elemento peculiare del genere. Nei film western i campi lunghi o lunghissimi, dove le figure sono appena percepibili, non rimandano più a un osservazione esaustiva del territorio ma visualizzano, integrate nel complesso di una sequenza con inquadrature di scala differente, le difficoltà che un personaggio deve affrontare. Da questo genere western si può dedurre come il cinema hollywoodiano, strutturato per generi, abbia la sua efficacia e perfeziona la funzione comunicativa del montaggio, si dà importanza ai raccordi basati sulla contiguità, cioè dal raccordo sullo sguardo a quello sul movimento, ma anche alla transizione personaggio da un ambiente all’altro, in particolar tramite l’apertura di una porta. Nel cambiamento di stanza, all’inizio degli anni Dieci, si ripeteva la stessa scena, invece nel cinema hollywoodiano di questo periodo si ha sequenza più complessa: al totale della stanza o della parete con la porta e il personaggio, segue un dettaglio della maniglia e della mano destinata ad aprirla, poi un piano destinato a far vedere dall’altra parte il personaggio che varca la porta. Nell’inquadratura autarchica si aveva un rispetto della linea temporale che significa l’osservazione di tutto momento per momento, ma le regola che s’impone in questo periodo è quella di operare mettendo insieme delle ellissi, integrando le lacune con una didascalia tipo un cambiamento evidente di scenario. Il rispetto della progressione temporale è molto forte in questo periodo, ma questo lascia anche spazio all’affermarsi di alternazione tipo il flshback. Il flashback era presente all’inizio del secolo nella formula della finestra in un angolo dell’inquadratura e che negli anni Dieci si codifica definitivamente ma fu comunque un caso problematico perché se da un punto di vista è necessario alla comunicazione narrativa, dall’altro il suo inserimento rischia di generare confusione nello spettatore. Negli anni Venti infatti questi inserimenti tendono ad essere sottolineati attraverso dei segni di demarcazione come l’effetto flou, la dissolvenza incrociata, il cambio di colorazioni, le didascalie e gli sguardi del personaggio che sta ricordando. I film americani adottando tutte queste novità iniziano ad avere un numero sempre maggiore di inquadrature e a causa del complessa sistema gerarchico che la sequenza impone, il set risulta meno affollato di oggetti e persone. Nel corso degli anni Dieci il cinema americano trasforma i suoi codici di linguaggio e narrazione, orami definiti, in un sistema stabilmente diffuso: un modo di rappresentazione istituzionale. Gli anni Venti furono un periodo di grandi trasformazioni, cambiamenti che porteranno alla fine del decennio a una sorta di unificazione internazione, sia dei codici linguistici sia dei processi di produzione. Nelle sue prime fasi però il panorama cinematografico di quest’anni sembra segnato da profondi fratture e all’origine di queste vi è la guerra totalmente inattesa. Durante la prima guerra mondiale, a causa del consolidarsi dei fronti e delle complicanze generate negli oceani dalla guerra sottomarina, molte vie commerciali risultano impraticabili. Ciò però non intacca l’interesse del pubblico verso il cinema, che anzi cresce esponenzialmente creando così l’esigenza di un sistema produttivo nuovo, diretto al mercato nazionale o a mercati più piccoli. In Francia ad esempio la Pathé e la Gaumont entrano in crisi, ma la salvezza furono i grandi film a episodi che era delle produzioni molto apprezzate in patria che iniziarono ad essere realizzate con continuità. Per seguire questo film, lo spettatore, doveva tornare più volte nello stesso cinema, quindi furono motivi di incasso maggiore dei cinema. Nel cinema francese si mantiene fede alla vecchia tradizione del cinema criminale, legata principalmente al tema sensazionale, campi lunghi o medi fanno spazio repentinamente a dettagli o particolari, che giungono come uno schiaffo allo spettatore. La crescente innovazione del cinema statunitense e la sua concorrenza diedero l’impulso per la nascita di nuove società come l’Albatros Film, fondata nel 1919 da un gruppo di cinematografasti russi già legati alla fazione nazista, uno dei loro film fu: il Fu di Mattia Pascal. L’Albatros si rivolge principalmente a un pubblico colto, capace di comprendere al volo il valore di certe scelte. Negli stessi anni sorgono però anche case più piccole, come la Cinemagraphic Film, fondata da Marcel L’Herbier, i quali insieme alle ditte più grande fanno del cinema francese un ambiente flessibile, e in cui si sviluppa la cinematografi attenta agli sviluppi psicologici del personaggio. In Germania, fino al 1916, il panorama produttivo è caratterizzato da ditte con un capitale molto limitato. La Guerra cancella e rallenta gli scambi con cinematografie molto forti, favorendo così il crescere su nuove basi di un ampia produzione interna, dall’altro lato però deteriora quel poco di esportazione che c’era soprattutto con le regioni dell’Est, da cui principalmente il cinema tedesco dipendeva. Nel 1917 per iniziativa statale si fonda la UFA (Universe Film AG), che era un gruppo nato per fusione di realtà già esistenti e caratterizzato fin dall’origina da un grado di integrazione verticale molto elevato. Il loro fine inizialmente doveva essere la produzione di film a sostegno dello sforzo bellico, quindi film di propaganda e film dedicati alla cultura tedesca. A fine guerra l’UFA mostra la sua capacità duttile, e molti suoi film tra la fine degli anni Dieci e gli inizia anni Venti, hanno moltissimo successo come Madame du Barry o Anna Bolena, film anche esportati all’estero. Altra casa che nasce negli anni Venti in Germania è al Decla, nota non solo per il fortunato film Il gabinetto del dottor Caligari, ma anche per portato al massimo livello la strategia nota come politica dell’Autorefilm, grazie a Erich Pommer. Si tratta di produzioni basate su unità di lavoro che si aggregano intorno alla figura del registra, molto simile al director- unit system della prima Hollywood, ma con un maggiore interesse per l’aspetto dell’autorialità- artisticità del prodotto finale in sé, intesa come elemento promozionale da ostentare al pubblico. Pommer posto a casa dell’Ufa cerca di adattare la sua politica aziendale, e in particolare differenzia la produzione su due linee: i film stilizzati e i Grobfilm. Queste due categorie differiscono soprattutto nel budget: nei film stilizzato vi è un budget moderato, questo porta alla creazione di film di ambiente ispirati alla corrente teatrale del Kammerspiel (Teatro da camera); nel secondo sono al centro produzione estremamente ambiziose, e tecnologicamente innovative tipo L’ultima risata di Murnau, e destinati ad essere proiettate in teatri importanti. Il cinema tedesco di questi anni gode di molta fama e questo porterà il cinema hollywoodiano ad avviare una campagna per portare i migliori produttori ed esponenti del cinema tedesco all’interno del proprio ambiente, come Pommer. Negli Stati Uniti invece abbiamo una situazione totalmente differente, essi si appoggiano a una vastissimo mercato interno capace da solo di sostenere per intero la produzione. Si ha quindi il definitivo sostamento della produzione dai sobborghi di New York a Holluwood e venne avviata una riorganizzazione del sistema produttivo. Gli attori e le attrici vengono viste come un elemento fondamentale per la promozione del film spuntando così contratti molto prestigiosi, inoltre un importante ruolo fu sostenuto dai comici con la diffusione totale della slapstick comedy; ma anche i registri grazie all’Autorenfilm, diffusa in Germania, assumono uno status importante. Tutto ciò favorì così un europeizzazione del cinema americano, che per l’influsso di nuove forze dall’Europa, diventa più internazionale nel suo stile e si diffonde maggiormente grazie alla creazione in loco di agenzie di distribuzione locali dipendenti dalla casa madre. Verso la fine del decennio il convergere di fenomeni in realtà fra loro indipendenti come da un lato le sempre più pressanti proteste, in particolare del mondo cattolico, contro l’influente ma anche immorale stile di vita delle star di Hollywood, e dall’altro lo scarso rendimento o addirittura il fallimento di alcune gradi produzioni, portarono a uno schema produttivo diverso. Si passa da un modo di produzione in cui è il direttore di scena a organizzare intorno a sé l’unità lavoro, facendosi garante egli stesso nei confronti degli investitori della qualità del prodotto con investitori e distributori a uno in cui i set, trovano spazio nel perimetro degli studios e in cui è l’excutive producer, seguendo più film contemporaneamente, a fare da perno all’intera filiera realizzativa del film. In questo nuovo sistema sono molto importanti tre nuovi elementi: (1) il continuità script cioè una sceneggiatura dettagliata approvata preventivamente dal producer, sulla base della quale vengono calcolate tutte le necessità del set; (2) il genere, forma di interazione con il pubblico che sempre di più una precisa immagina della singola ditta a uno specifico modello di film; (3) un nuovo tipo di star, ora legata sempre legata all’immagine dello studio con cui ha firma l’impegno, trovandosi a dover dipendere da questo anche per tutto quello che riguarda la sua vita privata. Nel 1922 per tutelare gli interessi delle più importanti case editrici di Hollywood è nata la MPPDA (Motion Picture Porducers and Distribution of America), organismo in cui queste in blocco afferiscono, e una delle questione da affrontare era la situazione degli organismi di autocensura, che si formarono solo nel 1934 con la cosiddetta Commissione Hays. A rendere efficace il nuovo sistema fu il consolidamento di sistemi societari sempre più basati sull’integrazione verticale.