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Luigi Pirandello, L'umorismo [1908].

A cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori. Dall'Introduzione di Daniela Marcheschi

Una buona parte - se non l'intera riflessione pirandelliana sul riso e sul sorriso, sul comico
e sull’umorismo, risaliva dunque a diversi anni prima. Per tali motivi il saggio L'umorismo
rappresenta «l'epicentro teorico cui perviene si dipana l’attività narrativa pirandelliana (con
effetti che si prolungano fino al teatro)»: precisamente nell'elaborazione di una poetica
novecentesca capace di mettere in crisi la visione della cultura, secondo cui il rapporto
autentico fra individuo e realtà era un dato immediato, una rivelazione cosmica percepibile
per via intuitiva. Con ciò Pirandello frantumava anche la visione stessa di una Verità
assoluta e sottolineava la trama di menzogna dell'essere umano nelle molteplici ipocrisie e
finzioni della società. Non per nulla l'epigrafe del saggio pirandelliano del 1908 era
costituita dalla dedica a un suo pregnante personaggio: «Alla buon'anima / di / Mattia
Pascal / bibliotecario» - per l'appunto il bibliotecario fuggito da casa, che, vincendo
una somma ingente al casinò ed essendo creduto morto per errore, continua a fingersi
tale. Mattia Pascal, che ha vissuto una vita piena di vicende fortunose, si costruisce così
una nuova identità per scoprire infine quanto sia illusoria quella fuga da sé stesso e dalla
società, al di fuori delle cui convenzioni e dei cui ruoli non è possibile esistere.
Pirandello ribadiva allora quanto i tratti farseschi che connotavano una parte delle
vicende del suo personaggio e l'epilogo beffardo e amaro del romanzo fossero tutti
radicati nell'esemplarità della propria poetica e nella ricchezza spirituale
dell'umorismo. Quest'ultimo era l'approdo di un processo di mediazioni concettuali,
e di consapevole riflessione che, secondo l'autore siciliano, implicava una visione più
complessa e completa dell'oggetto, inducendo a un sorriso di umana indulgenza e di
alta compartecipazione al destino dei propri simili. []
Gli studi sugli aspetti filosofici, letterari e artistici sull'umorismo – inteso però anche
nelle varie declinazioni dell'ironia e del comico - avevano conosciuto una notevole
fioritura nell'Ottocento, grazie alla grande fortuna di Honoré de Balzac, Charles
Baudelaire e del nostro Carlo Lorenzini alias Carlo Collodi. La riflessione sull'ironia
era stata fondamentale per l'elaborazione della filosofia e della poetica romantica; ma,
con il maturare degli eventi politici fra il 1830 e il 1848, il sorriso e il riso erano diventati
ben presto il contrassegno di un rinnovato movimento letterario internazionale o,
piuttosto, della tradizione comico-umoristica. L’umorismo per Pirandello era
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funzionale in modo particolare alle sue tematiche narrative (le umane sofferenze e i
contrasti fra apparenza e realtà, fra costrizioni sociali e verità, fra identità e fuga da sé o
crisi delle certezze) e a un teatro ricco di speculazioni filosofiche, ma anche attento ai
problemi sociali ed etici fin dagli esordi. L'incontro dell'individuo con le «maschere»
proprie e altrui, occasionato magari da un imprevisto qualsiasi, faceva scattare un
processo introspettivo e di analisi che svelava le ipocrisie e le finzioni della vita e della
società. L'ironia fino all'assurdo permetteva quindi a Pirandello di alleggerire l'effetto
delle argomentazioni logiche e, allo stesso tempo, di animare e controbilanciare le varie
situazioni morali messe in scena. L'umorismo e il paradosso erano un mezzo o la via
obbligata per scoprire l'essenza della vita, per smascherarne la trama di menzogna e di
inautentico: per tali motivi, distacco e forza dell'umorismo, scavo analitico, umana pietà,
assurdo, si configurano come elementi strutturali, d'insieme e pertanto non separabili,
dell'opera pirandelliana.
Con gli sviluppi delle scienze, in particolare la fisiologia e la psicologia, la trattatistica
sull'umorismo si arricchì nella seconda metà dell'Ottocento di importanti contributi:
basti per tutti il nome di Sigmund Freud. Anche Pirandello fu, com'è noto,
particolarmente colpito dal volume di Lipps Komik und Humor. Eine psychologisch-
ästhetische Untersuchung, stampato nel 1898. In esso Lipps sosteneva oltre al resto
come Socrate fosse tra gli antichi vero umorista, e di quelle stesse ragioni si faceva
portavoce anche lo scrittore siciliano. Questi teneva a distinguere il filosofo greco da
Aristofane, umorista solo se si intendeva «l'umorismo nell'altro senso molto più largo», e
per lui «improprio, in cui siano compresi la burla, la baia, la facezia, la satira, la caricatura,
tutto il comico insomma nelle sue varie espressioni». A questo punto, comprendiamo
meglio la complessità culturale e di pensiero in cui si radicarono L'umorismo e le scelte sul
piano della poetica e delle ragioni formali, che contrassegnarono le opere del Pirandello
maturo. Egli cercava forse un concetto, per chiarire e definire meglio a sé stesso autore
alcuni termini fondamentali della propria ricerca letteraria.
Pur nella nettezza delle opzioni di Pirandello, L'umorismo lasciava e lascia comunque
aperte tante questioni: ad esempio, quanto il comico e lo stesso umorismo possano
essere condizionati da matrici socioculturali, storiche o antropologiche, da mutamenti di
varia natura insomma, perché la vita, appunto pirandellianamente, non conclude. Lo
dimostra anche la straordinaria moltiplicazione delle opere dedicate all'umorismo
che, insieme a quella dello scrittore siciliano, invitano a riconsiderare un argomento.

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LUIGI PIRANDELLO, L'umorismo [1908-1920]
Parte Seconda

Nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta
invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento; ma gli si pone innanzi; lo
analizza e da questa analisi però, un altro sentimento sorge: quello che potrebbe
chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario. [] Vedo una vecchia
signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta
goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella
vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere.
Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il
comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione,
e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così
come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente
s'inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé
l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come
prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel
primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi
ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico
e l'umoristico. [] A noi preme soltanto accertare che questo sentimento del contrario
nasce, e che nasce da una speciale attività che assume nella concezione di siffatte opere
d'arte la riflessione.

Ogni sentimento, ogni pensiero, si sdoppia subito nel suo contrario: ogni sì in un no,
che viene in fine ad assumere lo stesso valore del sì. Magari può fingere talvolta l'umorista
di tenere soltanto da una parte: dentro intanto gli parla l'altro sentimento che pare non
abbia il coraggio di rivelarsi in prima; gli parla e comincia a muovere ora una timida scusa,
ora un'attenuante, che smorzano il calore del primo sentimento, ora un'arguta riflessione
che ne smonta la serietà e induce a ridere. Così avviene che noi dovremmo tutti provar
disprezzo e indignazione per don Abbondio, per esempio, e stimar ridicolissimo e spesso
un matto da legare Don Quijote; eppure siamo indotti al compatimento, finanche alla
simpatia per quello, e ad ammirare con infinita tenerezza le ridicolaggini di questo,
nobilitate da un ideale così alto e puro. Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o
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nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della
missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco
la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale
astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi, e che le debolezze umane
sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell'ideale astratto,
avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui
odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane.

L'arte, in genere, compone; l'umorismo decompone. [] Per l'umorista le cause, nella vita,
non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d'arte, in cui
tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s'è proposto. []
L'umorista non compone [] ma scompone il carattere nei suoi elementi; e [] si
diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze. [] L'umorista sa che le vicende
ordinarie, i particolari comuni, la materialità della vita insomma, così varia e complessa
costringono ad azioni, ispirano pensieri e sentimenti contrari a tutta quella logica
armoniosa
dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori ordinari. Di qui, nell'umorismo, tutta quella
ricerca dei particolari più intimi e minuti, che possono anche parer volgari e triviali
se si raffrontano con le sintesi idealizzatrici dell'arte in genere, e quella ricerca dei
contrasti e delle contraddizioni, su cui l'opera
sua si fonda, in opposizione alla coerenza cercata dagli altri; di qui quel che di scomposto,
tutte quelle digressioni che si notano nell'opera umoristica, in opposizione al’ordine,
alla composizione dell'opera d'arte in genere. []
Riassumendo: l'umorismo consiste nel sentimento del contrario, provocato dalla speciale
attività della riflessione che non si cela, che non diventa, come ordinariamente
nell'arte, una forma del sentimento, ma il suo contrario, pur seguendo passo passo il
sentimento come l'ombra segue il corpo.

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