Belting Il concetto di immagine può essere considerato un concetto antropologico, in quanto l’uomo vive con le immagini, che lo accompagnano dalla nascita alla morte. Questi sono strumenti indispensabili per chiarire, ordina e comprendere il mondo circostante tramite un processo di simbolizzazione personale e collettiva. La storia dell’umanità si sviluppa come un percorso millenario in cui i processi sociali, culturali ed economici hanno trovato riflesso nella volontà dell’uomo di lasciare una testimonianza visiva. Queste tracce iconiche hanno assunto una doppia natura, da una parte sono veicolo di messaggi e informazioni immediate per i riceventi dell’epoca, dall’altra sono documenti importanti per la ricostruzione del passato per gli studiosi dei secoli successivi. I materiali visivi sono, quindi, molto complessi e lo storico delle immagini deve di volta in volta storicizzare a più livelli il materiale in modo da cogliere in modo profondo il valore testimoniale, simbolico e artistico. Le prime testimonianze visive risalgono al Paleolitico ed erano petroglifi e graffiti rupestri, le cui finalità sono ancora oggi discusse, ma nel corso del tempo è emerso il loro significato artistico ed etnografico. Le mandrie di bisonti raffigurate nelle grotte di Altamira in Spagna danno testimonianza della fauna dell’epoca e il ruolo che aveva nelle comunità di Homo sapiens, ma anche il rapporto che aveva l’uomo con le immagini ovvero la tecnica compositiva diveniva il tramite per rappresentare il mondo circostante e in questo modo controllarlo e dominarlo in un rito sciamanico in cui, attraverso il disegno l’uomo diveniva qualcosa di Altro. I geroglifici dell’antico Egitto possono essere compresi a pieno solo se calati nel contesto di riferimento di un sistema politico, sociale e religioso in cui le immagini assumevano un ruolo concettuale. Gli egizi ritraevano un mondo in cui ogni individuo doveva essere rappresentato nel modo più chiaro e tangibile all’interno di un sistema gerarchico, in cui ogni soggetto aveva un preciso ruolo nello spazio e nel tempo. Queste spiega così il mutare di prospettiva, dimensioni e sequenze temporali all’interno della stessa rappresentazione. La svolta portata dall’affermarsi della civiltà greca quindi assume un preciso significato culturale, filosofico e artistico: Ponendo l’uomo al centro del proprio mondo, si rivoluzionava la percezione del reale. Nonostante l’uomo fosse in balia di un Fato capriccioso e oscuro, iniziava a prendere forma la civiltà occidentale, che si affermerà negli anni a venire, con i suoi principi e valori saldamente collegati al ruolo dell’essere umano e trovando nelle conquiste il metro per misurare lo scorrere del tempo. Le immagini così accanto al loro valore documentale e rappresentativo, cominciano ad assumere anche un significato allegorico, metaforico e simbolico. Inizia così una narrazione pubblica iconica di fatti, di personaggi illustri e di concetti come quello di potere, di fede e autorità. Le immagini quindi cominciano ad essere sempre maggiormente degli agenti di storia in quanto non mirano solo alla registrazione di eventi ma sviluppano rappresentazioni con precise finalità politiche, culturali e religiose che veicolano la percezione stessa dei soggetti e degli eventi ritratti degli osservatori a venire. I modelli rappresentativi del potere in epoca imperiale vennero assorbiti dall’arte sacra cristiana influenzando in maniera evidente la percezione della fede e dell’obbedienza dei dogmi che aveva la popolazione e che la stessa autorità religiosa voleva affermare al fine di rafforzare non solo il suo potere spirituale ma anche temporale. Dalla continua esibizione di ritratti e raffigurazioni di monarchi e governanti, nel medioevo ha origine il culto di immagini di Cristo e dei santi in trono. Proprio attraverso le immagini si compì la messa in discussione di istituzioni e gerarchie consolidate durante la riforma luterana, con xilografie e stampe che metteva alla berlina la Chiesa di Roma. Con il Rinascimento la visione del mondo si laicizzò ma non diminuì il potere di attrazione e suggestione delle immagini. Le immagini si resero libere della morale religiosa e misero al centro della scena il potere e il prestigio delle elitè attraverso una rappresentazione che rifletteva la “fisicità” stessa del comando o della ricchezza. Nel XIII secolo, in Italia si diffuse uno sgaurdo sul presente strumentale all’idea di un controllo razionale dell’uomo e del cosmo e di alcuni uomini su altri, mentre nel Nord dell’Europa con l’arte fiamminga, si concentrarono sulla concretezza degli oggetti domestici per celebrare l’affermazione della borghesia quale riflesso del trionfo dei valori mercantili e dell’etica protestante. L’auto-rappresentazione visiva del potere divenne un fatto indispensabile per il suo consolidamento e i ritratti dei potenti divennero così una sorta di rappresentazione sociale per comprende il mutamente delle aspettative, dei valori e delle mentalità. Le immagini quindi svolsero la funzione di strumento del potere, di propaganda religiosa o politica, fungendo addirittura da vero e proprio reagente identitario per gruppi sociali, movimenti politici e nazioni. La necessità di ridefinire il proprio status e le proprie appartenenze alla luce di cambiamenti a lunga durata collegati al progresso tecnologico o a processi culturali, portarono l’uomo a ricorrere al forte simbolismo delle icone (stemmi, bandiere, affreschi e statue) delineando così un fattore di coesione e appartenenza che rafforzava il senso di comunità, di fede, di patria e di classe. Dalla metà del Settecento, le immagini si democratizzarono divenendo sempre più patrimonio collettivo. Si avviò un processo che le rese strumento di rivendicazione sociale e politica, il simbolo stesso del nuovo protagonismo di ceti fino ad allora emarginati. Con la Rivoluzione Francese del 1789 presero forma concetti che saranno alla base del liberalismo come giustizio, diritto e libertà quindi una visuale popolare che si esprimeva attraverso vignette satiriche presenti nei fogli illustrati, verso la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. A seguito delle profonde fratture politiche, culturali ed economiche originatesi nel XIX secolo, l’uomo trova rifugio nell’apparente sicurezza delle immagini. L’uomo scelse come proprio punto di riferimento le immagini, che erano in grado di fissare le scorrere del tempo e dare forza a nuovi miti che, come nel passato, hanno costruito la base delle proprie convinzioni e la chiave interpretativa per il mondo intorno. La nascita della fotografia negli anni Trenta dell’Ottocento e successivamente quella del cinema appaiono come un tentativo dell’essere umano di dare un senso al divenire storico, di controllarne i mutamenti e di capirne i nessi più profondi. Nella società moderna gli individui hanno cercato nelle immagini, frutto della tecnologia e della scienza, lo strumento per cristallizzare la realtà, replicarla all’infinito, ricrearla nel suo movimento illudendosi di poterla possedere e dargli così un nuovo senso e significato. La storia dell’umanità intesa come storia delle civiltà può essere vista e analizzata attraverso la storia d’immagini, i quali incarnano le fondamenta ideali e simboliche delle diverse epoche.
DALLA GROTTA DI CHAUVET AL PRECINEMA PASSANDO PER LA CAVERNA PLATONICA (2 cap)
Il cinema ha sviluppato varie storie e ha proposto percorsi e modalità di rappresentazione che variano in relazione ai diversi periodi storici, alle varie nazionalità, all’ingresso di nuove tecniche e innovazioni tecnologiche; queste storie subiscono variazioni anche in relazione alle prospettive attraverso cui si intende proporle al lettore. Il problema che si pongono molti storici del cinema è: da quale periodo storico iniziare quando si parla di cinema ? Solitamente gli studi storiografici sul cinema hanno proposto la soluzione di rivolgere l’attenzione verso tutte quelle invenzioni e ricerche scientifiche che a partire dai primi risultati ottenuti in campo fotografico, sin dal 1826- 1827 grazie a Joseph Nicèphore Nièppce, Hippolyte Bayard e Louis- Jacques Mandè Daguerre, hanno mirato a rendere viva, cioè in movimento, l’immagine statica sia fotografata sia disegnata. Il susseguirsi di scoperte e macchinari, quindi, si offre come un fondamentale momento di gestazione per la nascita del cinema. Ma non è sufficiente però rivolgere solo l’attenzione alle invenzioni ottocentesche focalizzate sulla resa dell’immagine in movimento attraverso lo sfruttamento del fenomeno Phi (che gioca con l’illusione ottica), poiché allargando il campo di osservazione, il campo di ricerca e interrogando altri linguaggi artistici più classici, come la pittura, il disegno, la scultura, il teatro possiamo andare a ritroso, molto prima dell’Ottocento, e ritrovare una moltitudine di forme che hanno anticipato la nascita del cinema. A questa tematica si dedicarono molti studiosi come Walter Benjamin, Segej Michajlovic, Ejzenstejn, André Bazin, Edgar Morin o ancora Mitchell e Mauro Carbone, sostenendo in linea generale che è molto importante contemplare forme di rappresentazione e periodo storici apparentemente distanti dal linguaggio cinematografico e dal suo secolo di nascita, in quanto sono individuabili esempi, proveniente sin dalle prime forme di rappresentazione dell’arte preistorica, in cui ciò che viene rappresentato dal cinema era già presente in potenza. Questo aspetto della ricerca storica e teorica del cinema nonostante si sia rafforzando sempre più, anche grazie all’affermarsi dei visual culture studies, ha trovato però poche corrispondenze nelle diverse pubblicazioni sulla storia del cinema. In sintesi possiamo avere due approcci: la collocazione della nascita del cinema nell’Ottocento e la nascita del cinema anticipato fin dalle forme preistoriche. SEGUENDO IL SECONDO APPROCCIO: Michajlovic Lotman e Yuri Tsivian avviano una ricerca partendo dal presupposto dell’insufficienza della prassi storica, la quale si arresta a considerare come anticipazioni del cinema solo le invenzioni ottocentesche che mirano alla resa dell’immagine in movimento. Essi evidenziano come già autori quali Ejzenstejn e George Sadoul ritengano esistente un forte legame tra le vecchie arti e il linguaggio cinematografico, e attraverso una loro indagine, intendono dimostrare che se si cercano le anticipazioni storiche del cinema allora è necessario rivolgere le proprie ricerche verso le produzioni artistiche e tecniche, che si svilupparono nel periodo rinascimentale e barocco. Per Ejzenstejn il principio cinematografico è già ravvisabile anche nei linguaggi classici, come la pittura o l’ideogramma, il quale ad esempio pone in relazione l’immagine di una bocca con il simbolo del bambino per creare il significato di strillo, anticipando in questo modo il montaggio filmico. È necessario, quindi, interrogare le forme di rappresentazione più antiche, giungendo addirittura ad analizzare le prime immagini preistoriche, e questo tipo di approccio fu adottato da Bazin (1999). Egli osserva che alla base dell’immagine fotografica e cinematografica risiede quella stessa ricerca di difesa contro il tempo che caratterizza da sempre ogni opera dell’uomo, e che questo si sia cominciato a realizzare sin dai tempi più remoti mediante la salvaguardia dell’apparenza con l’imbalsamazione del cadavere e con la restituzione in immagine dell’esistente. Per Bazin il cinema si lega profondamente ad altre forme di rappresentazione, in quanto esprime, con le specificità del suo linguaggio, un intento e un bisogno fondanti nel pensiero dell’uomo: il creare un doppio del reale, un doppio che permetta l’illusione di salvaguardare le apparenze e di immortalare il soggetto rappresentato. Va, però, sottolineato un aspetto importante: il cinema, prima ancora la fotografia, sono mossi da un bisogno primordiale di resa del doppio, di sostituire il mondo reale con il suo doppio, e riescono meglio in questo intento in quanto offrono una nuova modalità, più esaustiva rispetto a quella realizzabile con i linguaggi artistici “vecchi”, i quali propongono un’immagine più somigliante alla realtà registrata e offrono una rappresentazione che possiede una referenza ontologica con ciò che immortalano; inoltre il doppio che realizza il linguaggio filmico, rispetto a queste forme di rappresentazioni e alla fotografia, riesce a restituire il movimento e la dimensione sonora del fenomeno ripreso, donando, in questo modo, una vera e propria vita alla duplicazione del mondo esterno. Si può quindi parlare di “storia di un bisogno del doppio” che connota tutti i linguaggi artistici e che la fotografia prima e il cinema dopo, soddisfano in termini più esaustivi riuscendo a portare a risultati inediti quella ricerca di duplicazione del mondo. Su questo concetto si sviluppa il pensiero di Morin che, nel Il cinema o l’uomo immaginario, afferma che esista un profondo legame tra il regno dei morti, il regno delle ombre e quello cinema, proprio perché quest’ultimo si dimostra capace di risuscitare il mondo primordiale del doppio. Volgendo lo sguardo sino all’alba dell’Homo sapiens, quindi analizzando i vari momenti storici e le diverse produzioni artistiche partendo dalle prime creazione dell’uomo, possiamo ricercare quel doppio in movimento che il cinema comincerà a proporre alla fine dell’Ottocento. I primi graffiti del Paleolitico si propongono come immagini figurative statiche, ma che possono essere considerata una forma anticipatoria del cinema, accostamento strano ma che ha una sua giustificazione. Su questo accostamento hanno posto l’attenzione non solo alcuni importanti teorici ma anche alcuni registri cinematografici, come Werner Herzog con Cave of Forgoten Dreams: un documentario in cui si può godere delle riprese delle più antiche testimonianze di pittura parietale scoperte dall’uomo, presenti nella grotta di Chauvet e risalenti a 32.000- 30.000 a. C, grazie anche all’uso della ripresa 3D. Proprio attraverso questo documentario possiamo rintracciare quelle forme anticipatorie del cinema: 1) Il luogo La caverna di Chauvet si presenta come una sorte di cinema, un luogo chiuso e buio. La caverna è accessibile solo mediante l’utilizzo di torce creando l’effetto meraviglia e la sensazione in un luogo magico, un luogo altro. Le immagini rappresentate al proprio interno sono: leoni, mammut, bisonti e cavalli che rivestano l’interna parete della caverna e disegnati con grande abilità tecnica. 2) Dimensione immersiva Il fatto che questi disegni ricoprono l’intera parete ci dona la sensazione di immersione all’interno di quel mondo, creando l’illusione di essere a contatto con quegli animali e suscitando un coinvolgimento emotivo dello spettatore. Anche il cinema si orienta a sviluppare una dimensione immersiva dello spettacolo, permettendo di far vivere in noi l’illusione che il doppio del reale abbia una propria vita che sia in movimento. Questa illusione che ci dona il cinema, e che ritroviamo anche in quei graffiti della grotta di Chauvet, è dovuta principalmente a tre fattori, come individua Freedberg: 1) Un’immagine somigliante al reale orienta colui che la vede ad attribuire questa a una sua vita, cioè prova nello spettatore delle sensazioni simili a quelle che proverebbe lo spettatore se avesse realmente davanti il soggetto rappresentato e ad avere l’illusione di percepire, una gamma di caratteristiche che connotano ciò che è rappresentato in immagine (per esempio sentire il ruggito del leone che è rappresentato nella parete); 2) Le diverse immagini visibile nella grotta di Chauvet sembrano restituire la sensazione di movimento, propria del cinema, attraverso una modalità di rappresentazione tipica del fumetto e dall’arte futurista. Il movimento è reso mediante l’accostamento della ripetizione di una stessa parte del corpo disegnato e l’utilizzo della torcia di fuoco, indispensabile per vedere all’interno della grotta, permette di escludere dalla visione il resto della caverna focalizzando così l’attenzione solo sull’immagine. L’utilizzo della torcia permette anche di facilitare l’illusione che quella determinata immagine illuminata sia in movimento, grazie al tremolio della fiamma e ai giochi di luce che questa crea proiettandosi sulla parete dipinta. 3) Si aggiunge anche la componente sonora, tipica caratteristica del cinema, e che all’interno della caverna si realizza attraverso tre canali (suggeriti da Herzog con il suo documentario): il primo è quello che propone l’ambiente delle caverne, un luogo in cui regna il silenzio un silenzio irreale; l’accompagnamento musicale che il documentario ci propone ci suggerisce la possibilità che la visione di queste immagini, nell’epoca preistorica, fosse accompagna dall’esecuzione di suoni vocali o da musiche prodotte da alcuni strumenti musicali; infine il terzo canale si collega direttamente al alla percezione di movimento di quell’immagini, questo ci induce a restituire un suono a ciò che stiamo osservando. Attraverso questa analisi comprendiamo perfettamente che le immagini della caverna di Chauvet si propongono come una forma di protocinema. Riconoscere anche i legami che il cinema stabilisce con gli altri linguaggi e con le produzioni magiche, religiose e ludiche, aiuta a cogliere alcuni desideri e bisogni che dominano l’uomo ma anche a comprendere e rileggere il pensiero che ruota attorno ad altri prodotti culturali e artistici. Possiamo fare l’esempio del mito della caverna di Platone, tale mito intende mettere in luce la fatalità con l’uomo tende a cadere nelle illusioni delle apparenze. Questo mito raccontava che all’interno della caverna, erano legati dei prigionieri, ai quali non era stato mai concesso di vedere il mondo esterno; per questi uomini la realtà risulta quella che percepiscono dalla loro posizione, cioè una realtà distorta, in quanto ciò che possono vedere è solo delle ombre che si proiettano sulla parente della caverna che si offre davanti a loro. Queste ombre , che sono dovute al passaggio di uomini che portano sulle loro spalle attrezzi, statue e altre opere d’arte plastica rappresentanti figure viventi, inducono i prigionieri a reputare attendibile ciò che vedono e a considerare che la realtà sia fatta da oscure immagini in movimento. Questo mito è interessante nell’ambito degli studi sul cinema, per due aspetti in particolare: la posizione dei prigionieri è la stessa che assumono gli spettatori incollati alle poltrone all’interno di una sala cinematografica; l’altro motivo è che questo mito permette di evidenziare alcuni caratteri dello stato psichico fisico del pubblico cinematografico, in quanto gli spettatori in sala proprio come i prigionieri risultano legati allo schermo, vivendo uni stato di sovrapercezione che alimenta la paralisi motoria, orientati a proiettarsi all’interno dello spettacolo, tagliando i ponti con la realtà. Il mito della caverna di Platone è importante anche perché mette in luce la tendenza degli uomini di ritenere reale ciò che viene rappresentato, ovvero nella sala cinematografica come nella caverna del mito, colui che guarda le immagini in movimento tende a fruirle come un fenomeno reale che si sviluppa davanti a lui. Un passaggio dunque da rappresentazione a rappresentazione, creando l’illusione che scompaia il rimando del rappresentante al rappresentato. Questo fenomeno è reso possibile non solo perché si fruisce di un doppio del reale che - duplicando in modo suggestivo e credibile i fenomeni del mondo reale- accentua l’illusione e alimenta così la volontaria sospensione dell’incredulità, ma è anche supportato dalle dimensioni delle immagini che sovrasta lo spettatore e lo proietta al sul interno, permettendo così l’immedesimazione. Una condizione molto simile quindi a quella dei prigionieri della caverna, che si confrontano con le ombre come se fossero delle realtà fisiche viventi e non proiezioni di luci sulla parete, e che gli permette di immedesimarsi in loro, di vivere e fare proprie quelle azioni, che le ombre compiono. Gli spettatori, sia della sale che i prigionieri della caverna, quindi provano un forte coinvolgimento emotivo, grazie alle funzioni specifiche dei neuroni specchio e dell’empatia, sperimentando così quelle azioni che le ombre compiono e vivono le situazioni in cui quest’ultime sono calate. Thompson (1998) parlava di “quasi interazione mediata” quando analizza sia il tipo di esperienza che i prodotti dei mass media offrono al proprio utente, sia la modalità attraverso cui quest’ultimo reagisce con ciò che fruisce. Barthes (1980) sosteneva che l’immagine fotografica coinvolge a tal punto di far vivere un’illusione, ciò permette di dare vita e di vivere ciò che in essa è rappresentato. Con il cinema che propone un’immagine in movimento, lo spettatore anima ciò che già è animato, producendo così un’illusione più profondo rispetto all’immagine statica. Seguendo il pensiero di Barthes quindi anche l’immagine statica offerta dai linguaggi artistici classici consente questo tipo di illusione e animazione, certo è che prima la fotografia e poi il cinema consentono un’illusione più intensa, creando un doppio maggiormente suggestivo e accentuando così la somiglianza dell’immagine al suo referente reale. Il mito della caverna di Platone quindi mette in luce le dinamiche psichiche e fisiche che si sviluppano nella fruizione delle immagine filmiche e nella fruizione di tutte le diverse forme di rappresentazione sia classiche che nuove. Tutte queste orientano verso la nascita di un’illusione tramite la quale si fonde e si confonde la realtà con la finzione, coinvolgendo anche la parte più irrazionale e selvaggia del nostro essere che reputa reale ciò che vede rappresentato. Morin sostiene che la nascita dell’Homo sapiensa, cioè il primo minide in grado di realizzare immagini, coincide con il sorgere dell’Homo demens, cioè quella parte presente nel sapiens che crede alle illusione e vive in un continuo stato d’incertezza tra reale e immaginario, ed è proprio questo lato che vive ancora in noi che ci spinge al coinvolgimento durante una rappresentazione. (esempio il film Palla n. 13 di Buster Keaton). La propensione dell’uomo nel duplicare il mondo esterno e vivere tramite questo doppio un’illusione, che gli permette di accedere a un’altra dimensione ovvero l’Oltremondo, ovvero una nuova realtà con nuove esperienze è proprio un bisogno che vive in tutta la sua produzione artistica. La propensione dell’uomo a rappresentare il mondo, duplicandolo, si sviluppa grazie a una serie di ricerche geometriche- matematiche che conducono alle regole prospettiche. Nel 1415 Brunelleschi disegna su una piccola tavola una veduta del Battistero di San Giovanni osservato dal portale maggiore di Santa Maria del Fiore: al centro di questa tavoletta pratica un foro, attraverso il quale l’occhio scruta la facciata, quella vera del Battistero stesso. Questo strumento venne chiamato prospettoscopio e attraverso esso Brunelleschi tenta di verificare la perfetta corrispondenza fra l’oggetto e la sua rappresentazione. L’osservatore può scegliere se scrutare questa immagine, riflessa verso lo spettatore da uno specchio sostenuto con l’altra mano, o mirare direttamente la facciata di San Giovanni, abbassando semplicemente lo specchio. Queste prime intuizioni sulla prospettiva lineare sono poi codificate da Leon Battisti Alberti nel De Pictura, e da Piero della Francesca nel De prospectiva pingendi. Vengono così create delle tavole di “città ideali”, nelle quali viene esibita l’acquisizione scientifica della Perspectiva artificialis, oggi conservate nei musei di Baltimora, Berlino e Urbino, e il loro carattere modellizzante è fondamentale per la teorizzazione umanistica di derivazione neoplatonica, non solo per la riflessione sull’utopia urbana. Queste tavole hanno un evidente relazione con le rappresentazioni vedutiste a venire, immagini per dispositivi in grado di captare, proiettare, approfondire e allargare l’orizzonte sensoriale della vista. Questo quindi è un desiderio dell’uomo fin dall’antichità che potremmo far partire dall’XI secolo con le ricerche sulla camere oscura dell’arabo Alhazen e successivamente con Leonardo Da Vinci. La Camera oscura di Alhazen Si trattava di una stanza buia in cui la luce entrava da uno spiraglio grande quando una punta di spillo, proiettando su una parete l’immagine capovolta di ciò che trovava fuori. La Camera oscura di Leonardo da Vinci Egli descrisse nel 1515 nel Codice Atlantico, un procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero, che consisteva nel creare una camera oscura nella quale veniva pratico un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente regolabile. Sul lato opposto al foro si appendeva una tela e su questa veniva proiettato il soggetto che stava all’esterno arrivando così sulla tela nelle sue proporzioni naturali. Da qui in poi saranno minimi gli accorgimenti tecnici per accrescere la qualità della visione alla camera oscura, si limitano all’utilizzo di una lente per concentrarne i raggi luminosi, o l’utilizzo di uno specchio per avere l’immagine ribaltata o di una superficie bianca come schermo. Dalla seconda metà del XVI secolo numerose testimonianze documentano l’utilizzo della camera oscura, sia a osservatore interno, cioè una specie di casotto ottico in grado di ospitare il pittore, sia da osservatore esterno, come quella conservata al Museo Correr di Venezia e utilizzata da Canaletto. La camera ottica di Canaletto La camera ottica era una scatola in legno con una lente, all’interno uno specchio rifletteva l’immagine verso un vetro smerigliato a contatto del quale si poneva il foglio di carta su cui tracciare il disegno dell’immagine ottenuta per proiezione. Il passaggio dello “scarabeo” cioè scarabocchio (di Caneletto), realizzato con la camera oscura, al disegno quadrangolare, ottenuto accostando panoramicamente schizzi diversi, sino al disegno finito, si attuava attraverso una rivisitazione degli elementi realistici. Questo “montaggio” consentiva quegli aggiustamenti necessari per eliminare errori nella giustapposizione di rilievi non omogenei, riordina il materiale secondo lo spirito e la fantasia dell’autore e non rinunciava alla rielaborazione creativa e all’intervento diretto dell’autore. Per ingrandire gli schizzi ottenuti con la camera oscura, Ando Gilardi, ricorda l’utilizzo del pantografo, un semplice braccio meccanico normalmente utilizzato per l’esecuzione di quinte e scenografie teatrali. Dai modelli di Canaletto prendono spunto centinaia di altre rappresentazioni per dispositivi ottici: vedute ridotte, sia per dimensione che per qualità, spesso dotate di indicazioni in due o più lingue e dense di informazioni topografiche- architettoniche, per consentirne la visione nei cosiddetti “pantascopi”. Questi “pantascopi” erano spesso decorati come dei palazzi signorili e le loro aperture circolari permettevano l’affaccio dello spettatore verso l’interno della scatola, dove altre facciate, piazze e città si succedevano meccanicamente, attraverso una leva o un anello azionato da un qualcuno di esterno. Altro apparecchio che segna la storia del precinema è la nascita e lo sviluppo della lanterna magica. La lanterna magica di Christiaan Huygens Fu sviluppato a metà del Seicento, ed è la diretta antenata del moderno proiettore cinematografico. Si trattava di un apparecchio dotato di un sistema ottico e di una fonte di luce grazie ai quali ingrandisce e proietta su uno schermo bianco o su una parete immagini raffigurate sul vetro. I primi soggetti furono: inferi, mostruosi animali, anime imprigionate tra le fiamme del purgatorio, apparizione sataniche e sovrannaturali. Col tempo questi soggetti si ampliarono, riprendendo i temi dell’anatomia artistica, o soggetti della Rivoluzione francese e immagini appartenente all’ambito favolistico. All’inizio dell’Ottocento la prevalenza degli originali aspetti magico- taumaturgici della lanterna cede il passo ad un uso illuminista del dispositivo. Fra le varie restituzioni corrette di topografie e romantiche pitture di paesaggio si colloca anche il “paesaggio”. La stesura di queste enormi tele dipinte richiede l’ausilio della camera oscura, ma vista l’impresa della gigantografia, si utilizzò con strumenti speciali come ad esempio la camera oscura che gira a volontà su un perno, senza cambiare orizzonte, illustrata nel 1800 da Leon Dufourny nel suo Rapport sur le panorama. Fra gli anni Dieci e gli anni Venti dell’Ottocento si collocano anche le prime esperienze fotografiche, tra le più importanti abbiamo: 1) Niépce, con la Vista dalla finestra a Les Gras; 2) I successivi brevetti di Daguerre, che concretizza e commercializza la dagherrotipia; 3) William Fox Talbot, che negli anni Trenta, mette a punto la calotipia. Questi sono gli anni in cui la fotografia gode di rapidi perfezionamenti tecnici e di una progressiva diffusione, sia per la rappresentazione di soggetti umani che per la produzione di opere, ambienti e paesaggi. La tecnica fotografica però suscita molti dubbi e diffidenze come in Charles Baudelaire prima e Heinrich Wolfflin dopo, i quali dubitano dell’utilità del mezzo e sull’incontrabile moltiplicazione dei soggetti fotografati. Per Wolfflin il procedimento è ambiguo perché se da un lato consente di ampliare il metodo comparativo della moderna storia dell’arte, dall’altro rischia di banalizzare il lavoro descrittivo e analitico dell’esperto. In questi anni fu inaugurato il dispositivo ottico: Kaiser- panorama, uno speciale tipo stereoscopio, brevettato da August Fuhrmann a Berlino, per poi diffondersi in tutta la Germania, a partire dagli anni Ottanta. Lo stereoscopio era un dispositivo molto in voga in questi anni ed era costituito da una sorta di “binacolino” dotato di lenti che permette di visualizzare una coppia di fotografie riprese alla stessa distanza degli occhi umani o, frequentemente a una distanza maggiore, con due apparecchi fotografici paralleli o una fotocamera bifocale, che se osservate contemporaneamente, ma ognuna con un occhio diverso, permetto di ricostruire l’illusione della visione binoculare, restituendo un’immagine in rilievo. Il Kaiser- panorama di forma circolare era destinato, invece, alla visione collettiva di stereogrammi che davano l’illusione del rilievo e che si susseguivano al suono della campanella. Il principio di sovrapposizione binoculare fu studiato da Charles Wheatstone già negli anni Trenta e da David Brewster negli anni a venire. Un analogo Giro del mondo in Camera viene aperto anche a Torino, in un salone dove possono ammirarsi tutt’oggi vedute delle Indie, di Turchia, Nubia, Spagna, Inghilterra, Francia, Austria, Italia ecc. Proprio nel museo di Torino si ritrovano anche mobili- visori che sembrano proseguire la tradizione del secolo precedente, tipo il castelletto in stile gotico- lombardo realizzato da Domenico Bossi, con l’apparato binoculare per la stereovisione mimetizzato sulla torretta dell’edificio. Nel 1862 si ha la nascita di un altro strumento: megaletoscopio, una scatola ingranditrice in legno progettata e brevettata da Carlo Ponti con le fotografie che ritraevano il Ponte di Rialto e la Serenata sul Canal Grande. Nel 1858 abbiamo Nadar con le sue vedute aeree di Parigi, dalle navicelle di mongolfiere cariche di materiali fotografici, ancora estremamente pesanti e dai lunghi tempi di esposizione. La prospettiva a volo d’uccello, fino ad allora astrazione geometrica del modello rinascimentale, diviene visibile “dal vero”. Importante sotto questa ottica è La Genesi del punto di vista qualunque prospettata da Peter Galassi. Egli analizza l’evoluzione della pittura occidentale, dal Rinascimento fino agli albori del XIX secolo, sostenendo che nel modello prospettico rinascimentale si genererebbe una tensione dello sguardo, molto evidente nei generi non ufficiali come il bozzettismo. Nei primissimi anni dell’Ottocento, tale liberazione costituirebbe l’eresia che condurrebbe all’invenzione della fotografia e la nuova camera permetterebbe la restituzione di questa “liberazione”. Una delle intenzioni di Galassi è quella di sfatare l’idea che l’avvento della fotografia consenta alla pittura di abbandonare la rappresentazione realistica del mondo, permettendole di varcare i territori della mimesis per approdare a quelli dell’indicibile e dell’irrappresentabile. Per Galassi il modello italiano entra in crisi con la Protestant Gothic Church di Emanuel de Witte, dove il posizionamento del punto di fuga, le ombre scure che celano gran parte del pavimento e delle colonne, l’arbitrarietà del punto vista rendono impossibile la ricostruzione globale dello spazio architettonico. L’obiettivo in questo periodo è di realizzare una visione ampia, grazie al montaggio di scatti successivi oppure utilizzando apparecchi speciali in grado di riprendere e restituire un giro completo d’orizzonte. Dopo un primo tentativo effettuato da Eadweard Muybridge con il Panorama di San Francisco, con tredice lastre in vetro di grande formato, realizzate nel 1877, si ha il Panorama di Mosca realizzato Scherer e Nabholz nel 1870. Idee e dispositivi che stimolerà i Lumière stessi alla messa a punto, dopo il brevetto del cinématographe, di una macchina a dodici vedute, il Photorama, in grado di proiettare gigantografie su una superficie circolare. Si diffonde, quindi, il tentativo di scrutare nuove visibilità che si formalizza nei dispositivi, brevettati sempre il suffisso –rama. Oltre al photorama si hanno il ciclo rama, il diorama, il naturorama, cosmorama, cinerama, stereo rama, cinematorama e mareorama tutti brevetti accomunati da bisogno di soddisfare un potente bisogno di vedere al di là del normalmente visibile. Celebre è il caso di Muybridge, nel 1872 chiamato da Leland Stanford, governatore della California, a verificare l’ipotesi secondo la quale durante il galoppo il cavallo alzerebbe tutte e quattro le zampe da terra. Muybridge fotografa dunque un cavallo in corsa utilizzando ventiquattro macchine fotografiche poste parallelamente lungo il tracciato. Ogni macchina è azionata da un filo staccato dagli zoccoli del cavallo, e la sequenza di questi scatti fotografici prenderà il nome di The Horse in Motion. Questa sequenza viene restituita e proiettata con la zoopraxiscopio, il dispositivo a disco rotante messo a punto da Muybridge stesso, che mostra come gli zoccoli sollevino da terra contemporaneamente, ma non nella posizione di completa estensione. Etienne- Jules Marey negli stessi anni concepisce il fucile cronofotografo, un dispositivo che consente di fissare e restituire fotograficamente le fasi di un movimento e con il quale cerca di catturare il dinamismo degli animali e degli uccelli in volo. Esso è costituito come un vero e proprio fucile da caccia, la canna funge da mirino e al premere del grilletto parte la scarica, una serie di lastre fotofiche poste in una piccola camera oscura, sensibili all’impressione del movimento. Tutte i dispotivi realizzati prima del 1895 risultano estremamente ingombranti, progettati senza nessuna preoccupazione di spazio, e appaiono come casse di legno in cui vengono sistemati i vari meccanismi meccanici e questi vengono chiamati apparecchi astratti da Gilbert Simondon. Gli apparecchi concreti avanzano razionalizzando le proprie dimensione, migliorando le prestazione e semplificando i procedimenti di avviamento, utilizzo e manutenzione. Questo è ciò che osserviamo nell’evoluzione dei primi apparecchi realizzati da Thomas Alva Edison, il Kinetograph, il kinetoscope e il kineto- phonograph. Il quale dopo un iniziale periodo di “film in scatola”, girati nel primo teatro di posa cinematografico e visibile singolarmente al kinetoscopio, volge la sua attenzione al riprodurre le immagine nel grande schermo contribuendo così ad ampliare l’esperienza del cinema, si ricordi il film The Kiss che fu il primo bacio della storia del cinema. Nell’Ottocento dall’analisi della “persistenza retinica” si sviluppano filoni di ricerca sulle modalità di visione dell’occhio umano, grazie alle ricerche dello scienziato Joseph Antonine Ferdinand Plateau e alla diffusioni di giochi d’ottica come il phenakistoscopio o zootropio. Tutte queste forme di rappresentazioni precedono la nascita del cinematografo. Gian Piero Brunetta nel Il viaggio dell’icononauta alla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumiere, parte dal riconoscimento di plurisecolari giacimenti del vedere per poi attraversa i territori segnati dall’accostamento di altre discipline -come la geografia, l’antropologia visuale, le arti dello spettacolo- attraversate dal desiderio dell’uomo di nutrirsi di immagini per poi farne spettacolo, scienza e religione. Una storia della visione con apparecchio che prima dell’avvento del cinema struttura culture visuali attraversate dalla figura dell’icononauta, il viaggiatore fra le immagini capace di muoversi nell’iconosfera e diventare un punto di riferimento per qualsiasi processo di secolarizzazione del sapere. I Lumiere definiscono i loro brevi film con il termine “vedute”, che rimanderebbe così a una rappresentazione di paesaggio, anche urbano, topograficamente accurata e distaccata dalla pittura di fantasia. Con questo termine essi si inseriscono nella tradizione del vedutismo cioè nell’acquisizione della prospettiva scientifica, nelle esperienze del quadraturismo e della scenografia teatrale. Topoi da una parte e apparatus dall’altro condensano nell’idea di veduta, una migrazione iconografica costante fra dispositivi differenti, secondo una pratica di i influenze, citazioni e reincontri in grado di inscrivere le origine del cinema. Nel 1889,ancora molto lontani dall’interesse per le immagini in movimento, i fratelli Lumiere vengono premiati all’Esposizione internazionale di Parigi per l’Etiquette Bleue, una lastra fotografica super sensibile messa a punto quattro anni prima. Nello stesso anno Emile Reynaud mette a punto il theatre optique, un dispositivo proiettivo con il quale propone al pubblico uno spettacolo di disegni animati, chiamati pantomime luminose. Si tratta di un vero e proprio cinema d’animazione, in cui una lunga serie di fotogrammi dipinti, uniti da strisce di cuoio e avvolti in due grandi bobine, consente la proiezione di film dotati di sviluppo narrativo, come ad esempio Autour d’une cabine, che si distacca completamente dalle brevi animazioni dei giochi d’ottica ottocenteschi. Fra gli anni Ottanta e Novante dell’Ottocento quando le ricerche sulla cronofotografia paiono concentrarsi in ambiti relativi alla fisiologia, si ha il fondo Marey appartenente alla Station physiologique del Blois de Boulogne ed è costituito da circa 400 pellicole in cui risulta dominante l’analisi del movimento, umano e animale. Le immagini tecniche sorte a partire dal 1826 determinano una profonda rivoluzione nel campo della rappresentazione, e offrono una novità assoluta rispetto a quanto realizzato in passato dall’uomo. Le immagini tecniche rispetto al passato si caratterizzano per delle loro specificità uniche e del tutto inedite, che sono: 1) Instaurare in rapporto ontologico tra referente reale e immagine; 2) Riprodurre il mondo esterno in termini meccanici- chimici- fisici; 3) Escludere le capacità manuali dell’uomo nella ri- creazione del reale, imponendo il contributo rilevante della macchina in una prima fase della realizzazione dell’immagine; 4) Registrare e documentare la realtà attraverso una modalità che fa risultare l’immagine oggettiva e attendibile; 5) Eccedere la verosimiglianza creando un “ doppio” del reale che offre una viva e suggestiva sensazione di realtà. La novità delle immagini tecniche risiede anche nel fatto che grazie alla facilità del loro uso, e ai costi contenuti per la loro realizzazione, produzione e distribuzione, si diffondono capillarmente nei diversi ambienti sociali, cominciando a dar vita a una profonda riconfigurazione dell’uomo e del suo ambiente. Benjamin parla di veri e propri rivolgimenti sociali che le immagini tecniche producono mediante le modifiche che determinano in primo luogo nell’ambito della nostra percezione: il rapporto dell’uomo con il mondo esterno cambia in quanto attraverso l’immagina tecnica si crea un doppio, e questo crea l’illusione nell’uomo di essere vicino al fenomeno rappresentato e anche di poterlo possedere. L’immagine tecnoca è espressione di una volontà di dominio dell’uomo sulla natura e mezzo per soddisfare una pulsione scopica, dentro al quale rientrano la difesa contro il tempo e il piacere dell’illusione del doppio del reale. Thomas Mann nella Montagna Incantata descrive l’emozione che provavano gli spettatori con lo spettacolo offerto dal bioscopio dei fratelli Skladanowsky, attraverso il quale veniva reso la visione di diverse realtà esotiche. Gli spettatori vivevano la sensazione di essere veramente in quella realtà rappresentata, cioè quei paesaggi e quegli uomini ripresi sembravano essere dinanzi agli spettatori in quel preciso momento di fruizione e non in un altro luogo e ripresi in un momento già trascorso, come lo era per le immagini di prima cioè quelle classiche. Il salto di qualità delle immagini tecniche, rispetto a quelle classiche, fu precisamente il rispondere in maniera più esaustiva al bisogno del doppio dell’uomo. Attraverso l’analisi di Mann risaltano altri due aspetti principali: da una parte appare chiaro come l’immagine offre la sensazione di dominio dell’uomo sulla natura, dall’ altro lato appare anche chiaro di come l’immagine del reale cominci a prendere dominio sull’uomo. Quest’ultimo è sempre maggiormente assorbito e catapultato all’interno dell’immagine in maniera sempre più rilevante. Vilèm Flusser osserva come le immagini tecniche, che cominciano a diffondersi a partire dall’Ottocento, risultando sempre più presenti in avri ambienti della società, non solo invitano il pubblico a scambiarle per la realtà vera e propria, ma orientano anche lo spettatore a vivere in loro funzione. Questa dinamica ha sviluppato diverse riflessioni teoriche di particolare importanza nel Novecento con ad esempio Guy Debord, ma già in parte anticipate dalle analisi sul cinema proposte da Luigi Pirandello in Quaderni di Serafino Gubbio operatore. All’interno di questo romanzo Pirandello la macchina da presa appare agli occhi del protagonista come un essere vorace che si nutre del reale per trasformarlo in spettacolo per il pubblico. Da queste riflessione forse, anzi sicuramente prende spunto il film The Big Swallow di James Willamson, in cui il protagonista infastidito dall’essere ripreso si avvicina gradualmente alla macchina da presa, e allargando la bocca fagocita e ingoia il dispositivo e il suo operatore. Questo però legame e rapporto dell’immagine che si nutre del reale può essere visto anche fuori da un’accezione negativa, per cogliere le caratteristiche specifiche proprie del mediascape che in particolare le immagini tecniche realizzano. Mediascape fu un termine coniato da Arjun Appadurai, focalizzato però sulle modifiche messe in atto dai media elettronici- digitali, ma che può essere utilizzato anche per i cambiamenti messi in atto dalle immagini tecniche, in quanto intende evidenziare come queste trasformino la vita quotidiana del singolo, inserendole in una rete di onde mediali, di flussi di immagini e di informazioni che alterano l’ambiente, l’immaginazione e le pratiche del pubblico. Le immagine tecniche a partire dall’Ottocento cominciano a fondersi con altri sistemi di comunicazione e di rappresentazione e si diffondono così nel tessuto della vita dell’uomo, entrando nei suoi spazi pubblici o privati, verificando un cambiamento da un punto di vista sociologico, antropologico, epistemologico. Il diffondersi delle immagini tecniche e dei media che li realizzano e propongono nell’Ottocento, offriranno un importante contributo per la realizzazione di quei mediascapes che si imporranno nel corso degli anni. Casetti afferma che i media creano una forma di mediazione tra uomo e ambiente, i differenti media creano così un mediascape, cioè un ambiente che offre forme di mediazione attraverso la presenza di diversi dispositivi, ed è per questo motivo che l’ambiente diventa un medium esso stesso. Le immagini tecniche pongono in essere un importante cambiamento che successivamente il cinema prima e la televisione dopo con i video e i new media, accentueranno in maniera sempre più rilevante nel corso del Novecento e del Duemila, cioè quello di modificare l’ambiente in cui sono accolti e di far vivere l’uomo nei mondi apparenti delle medialità.